La guerra nella cultura e nella società italiana dal Novecento ai nostri giorni Giovedì 17 Settembre Sala Fellini, Istituto Italiano di Cultura Budapest, Bródy Sándor u. 8. 9.30-11.20 Lorenzo Mango, Università di Napoli, Guerra come realtà e guerra come metafora nel teatro italiano del Novecento Il teatro italiano del Novecento si trova ad incrociare il motivo della guerra in momenti e secondo modalità profondamente diverse. Più che oggetto di rappresentazione diretta e descrittiva essa è, infatti, un motore di riflessione linguistica e al tempo stesso un’occasione metaforica. Il primo termine di riferimento è, chiaramente, Marinetti. Il suo interventismo, infatti, carico di valenze ideologiche e politiche riflette un atteggiamento di aggressione alla scrittura ed ai codici dell’arte. La valenza “purificatrice” della guerra esprime un’istanza di rifondazione che è, in primo luogo, cancellazione, azzeramento. Questo motivo – che caratterizza l’estetica marinettiana nel suo complesso – ha ricadute specifiche nel teatro, sia in quello scritto che in quello agìto. Da un lato, ad esempio, le “sintesi” di immediato argomento bellico, con precise caratteristiche propagandistiche si legano ad altre in cui il motivo dell’interventismo è espresso attraverso “lo schiaffo e il pugno” che la modernità dà, grazie ad un gioco di personaggi metaforici, alla sensibilità “passatista”. Dall’altro le “serate futuriste”, momento eclatante di un teatro di pura azione scenica basato sull’estetica di relazione tra attori e spettatori, diventano il contenitore perfetto per caricare l’interventismo artistico di valenze di natura politica. La guerra, dunque, va letta, nel teatro di Marinetti e del futurismo, non come sola applicazione dei codici dell’innovazione linguistica ad una ragione di fatto – promuovere l’entrata in guerra dell’Italia – ma anche come istanza metaforica, cioè come un modo di vedere il mondo e di proiettarlo in una nuova dimensione estetica. Completamente ribaltato, il motivo della contaminazione tra dato di fatto storico e determinazione metaforica lo troviamo riproposto in anni più recenti. Non c’è, stavolta, un’estetica programmatica. Si tratta, invece, di due casi particolari in cui la guerra, nello specifico quella dei Balcani, entra nell’operazione teatrale come motore di riflessione sul teatro, inteso come linguaggio e come valore etico: Teatri di guerra, di Mario Martone (film che rielabora per la pellicola la messa in scena, realmente eseguita, de I sette a Tebe di Eschilo) e La guerra di Pippo Delbono. Più che occasione rappresentativa, anche in questo caso, la guerra funge da specchio che riflette l’immagine dell’arte e del mondo. Da una prospettiva radicalmente ribaltata rispetto a quella di Marinetti: non “sola igiene del mondo” ma vortice abissale, luogo della perdita della speranza e del tentativo disperato di salvarla. Due accezioni opposte che rappresentano bene l’aprirsi e il chiudersi del Novecento. Gerardo Guccini, Università di Bologna, La nera "Turandot". Postumi della guerra e avvisaglie di totalitarismo nel processo compositivo dell'ultima opera di Puccini La "Turandot" di Puccini resta un enigma. E ciò a causa di due fondamentali ragioni. La prima consiste nelle lacune musicali e drammaturgiche che fanno della "Turandot" un'opera involontariamente aperta, che si completa nelle letture, nelle analisi, nelle interpretazioni di artisti e studiosi. Puccini avrebbe voluto chiuderla, ma fu impedito, prima ancora che dalla malattia e dalla morte, dal fatto di non riuscire a individuare, dopo aver radicalmente cambiato il personaggio gozziano di Turandot, un meccanismo drammatico che ne spiegasse coerentemente la finale conversione all'amore. La Turandot intellettuale e gelosa della propria indipendenza di Gozzi poteva cedere all'insorgere del sentimento amoroso, non cosí la patologica Turandot pucciniana, afflita da rimozioni, transfert e da un'invincibile saldatura fra sessuofobia e volontà d'assoluto potere. L'altra ragione che fa della "Turandot" un'opera aperta sono le infiltrazioni del contesto storico nel processo compositivo. Erano anni agitati da scioperi, attentati, conflitti sociali, e Puccini, che avrebbe reso omaggio a Mussolini Duce degli italiani, includeva il fascismo fra le brutture del dopoguerra. Così come la "malattia mortale" che si spargeva in Italia (l'espressione è di Puccini) impediva la riproduzione dell'opera naturalistica, le caratteristiche di questa stessa "malattia" (il suo immaginario, la sua conflittualità, le sue patologie sociali) si prestavano a suggerire e ad alimentare, per via subliminale e interna, la ricerca d'una alternativa espressiva e formale. Lo studio esamina sulla base degli epistolari, delle coeve soluzioni operistiche, dei rapporti con i librettisti (Simoni e Adami), delle radicali variazioni apportate a Gozzi, delle soluzioni che si stratificano il libretto (di fatto, Puccini morì senza esser riuscito a capire come sciogliere il gelo di Turandot) e, naturalmente, dei fatti storici, gli apporti del contesto epocale all'ultima opera del grande repertorio lirico. Concetta Lo Iacono, Università d. Studi Roma 3, Dolorosa rêverie. Danze macabre in salotti borghesi (1900-1918) A cosa allude la danza macabra interpretata dall’Oscurantismo nel Ballo Excelsior? Progresso e Cosmopolitismo continueranno il loro galop alla fine della belle époque e delle guerre coloniali? Dal 1900 al 1918, in Italia la danza vive ai margini della cultura “alta” e dinamizza il nascente teatro leggero, trovando riferimenti nei romanzi d’appendice, o in generi nazionalpopolari, capaci di risolvere emotivamente i conflitti sociali e regionali tra Nord e Sud (si pensi al romanzo La ballerina di Matilde Serao, alle parodie teatrali o ai “racconti dal vero” ispirati al sottobosco del Teatro alla Scala, scritti da Nicola Guerra, maestro e coreografo dal 1902 al 1915 al Teatro dell'Opera di Budapest). In una Milano agiata e decadente è ambientato il dramma borghese L’Ondina di Marco Praga, lavoro “pleonastico” e “di vita effimera” secondo Gramsci; a Torino, in salotti colmi di soprammobili e stampe - “le buone cose di pessimo gusto” - Guido Gozzano mette in scena, con la nostalgia per un mondo scomparso, il declino delle dive del balletto tardo-romantico. L’inno alla pace e al progresso dell’Excelsior (il ballo stigmatizzato da N. Guerra per i suoi eccessi scenici, per la povertà poetica e per i molti epigoni) verrà coperto dai fragori del conflitto mondiale mentre dovunque si diffonderanno immagini di Totentanz . La danza della morte, una tradizione pittorica diffusa anche nell’Italia del Nord, troverà la sua espressione più potente e corrosiva nelle cartoline incise dall’artista Alberto Martini contro la grande guerra: un’epopea di dissoluzione, consunzione e morte di speranze, individui e società. 11.20-11.40 Pausa 11.40-13.10 Giulia Taddeo, Università di Bologna, “L’ora di Dalila”: danza e società post-bellica nel giornalismo italiano degli Anni Venti Le danze di società e quelle ospitate nella cornice del cosiddetto “spettacolo leggero” (vale a dire all’interno di cabaret, caffè-concerto, riviste o tabarin) costituiscono un ambito in cui il Primo Conflitto Mondiale ha generato effetti particolarmente vistosi, non solo in termini di pratiche, gusti e tendenze, ma anche rispetto a una ben più ampia dinamica di confronto interculturale. Sia attraverso il grande successo dei balli jazz di matrice afro-americana, sia in seguito alla massiccia presenza, sui palcoscenici di varietà, di danzatrici tedesche (o comunque di provenienza mitteleuropea), l’Italia degli Anni Venti si trova dinanzi a inedite modalità di concepire la danza e il corpo danzante, le quali, nella percezione collettiva, appaiono sovente come una sorta di “minaccia” proveniente dall’estero, quasi che lo “straniero”, indipendentemente dal fatto di aver vinto la guerra o meno, si servisse della danza per esercitare una forma di dominio culturale al di fuori dei propri confini geografici. Di tutto questo è possibile trovare riscontro sulle pagine di quotidiani e periodici italiani grazie ai contributi di autori che, soprattutto negli anni successivi all’affermazione del regime fascista, si sono dedicati alla questione ravvisandovi non poche implicazioni sociali e politiche. L’intervento intende tratteggiare i caratteri di un simile fenomeno dedicando un’attenzione privilegiata agli articoli che, sul finire degli Anni Venti, lo scrittore e giornalista Marco Ramperti ha riservato al tema della danza nei suoi rapporti con gli esiti della Prima Guerra Mondiale. Adriana Vignazia, Università di Graz, Rappresentazioni satiriche dell'Italia nelle riviste di ligua tedesca durante il conflitto mondiale Con lo sviluppo della stampa nella seconda metà dell’Ottocento si affermano nella monarchia austro-ungarica anche le riviste satiriche il cui Witz, in perenne lotta con la censura, accompagna la vita politica contribuendo alla formazione dell’opinione pubblica. In alcune la critica politica e sociale è in primo piano, altre sono invece più semplicemente umoristiche; alcune hanno una breve vita, altre sopravvivono alla monarchia per essere definitivamente messe a tacere con l’avvento del nazionalsocialismo. Che la satira possa “servire diversi padroni”, contribuire a formare il consenso o stimolare la riflessione offrendo contemporaneamente una valvola di sfogo è proprio dell’ambiguità del genere e dipende dagli attanti sociali che se ne servono. Nel periodo scelto – la Grande Guerra – la satira è in funzione del potere e ne sostiene le scelte militariste banalizzando il pericolo costituito dal nemico, e nel caso specifico dall’entrata in guerra dell’Italia. Nel mio contributo ho preso in visione quattro riviste viennesi, di diverso orientamento politico e tradizione (Der Figaro, Kikeriki, Die Bombe e Die Muskete), per analizzare e confrontare il modo in cui si rappresentano l’Italia e gli Italiani commentando gli eventi bellici. Renate Lunzer, Università di Vienna, Il memoriale del grande capitano. Emilio Lussu tra prima e seconda guerra mondiale Il memoriale “Un anno sull’Altipiano” racconta il periodo tra il giugno 1916 e il luglio 1917 trascorso dalla Brigata Sassari sull'Altipiano di Asiago; è il capolavoro di un esiliato, Lussu, scritto su invito di un altro grande esiliato, Salvemini, nel 1936-1937, durante il riposo forzato in un sanatorio svizzero dove l’autore curava finalmente una grave malattia contratta nelle carceri fasciste. Uscito con grande successo nel 1938 a Parigi fu presto tradotto in diverse lingue, ma non riuscì mai a raggiungere la notorietà di “Le feu” di Barbusse o “Im Westen nichts Neues” di Remarque oppure “A Farewell to Arms” di Hemingway, anche se non è per niente inferiore, anzi per molti riguardi supera questi e altri testi chiave sulla Grande Guerra. Dopo una disamina della tipologia del libro nel contesto di altri esempi della memorialistica bellica italiana verrà chiesto se e in quanto regga la sorprendente dichiarazione di Lussu contenuta nella brevissima premessa del 1937: “Non esistono, in Italia, come in Francia, in Germania o in Inghilterra, libri sulla guerra”. Il progetto radicale dell’autore - si può desumere da questa e da altre sue dichiarazioni – era quindi quello di scrivere il libro italiano, quello che mostri la vera natura della guerra combattuta dagli italiani. Qual’ è dunque la vera natura della guerra italiana e qual’è il messaggio che Lussu, interventista democratico, valoroso combattente in piena solidarietà con i soldati-contadini sardi a lui affidati, pluridecorato e promosso al grado di capitano, manda al lettore? La maggior parte degli studiosi ci vede un’aperta condanna della condotta della guerra e lo smantellamento degli ideali per i quali Lussu e i suoi compagni si erano arruolati volontari. Qual’ è dunque il rapporto tra il Lussu ufficiale del 1916-1917 e il Lussu politico-scrittore del 1936-1937? Si tenterà di rispondere in base al famoso capitolo XXV del libro. Inoltre si affronterà su due livelli, quello ideologico e quello narratologico, il quesito costituito dalla scelta di raccontare solo un segmento della guerra, che l’autore aveva pur vissuto per intero. Non si dovrebbe infine trascurare il fascino estetico eccezionale di questo capolavoro: la sua tanto sovrana quanto amara ironia, il suo “umorismo politico” (L. Russo) che ne fa – nonostante tutti gli orrori e tutte le nefandezze raccontate – una lettura – diciamo lo pure senza esitare – immensamente godibile. 13.10-14.10 Pausa 14.10-15.40 Simona Cigliana, Roma, La mistica della guerra nella produzione intellettuale dal 1900 al 1918 Sin dai primi anni del secolo, a solo un trentennio dal compimento del processo risorgimentale, l’insofferenza per il regime parlamentare, il disprezzo per la cosiddetta “mediocrità democratica”, il ruolo marginale del nuovo Stato unitario sullo scacchiere internazionale inducono molti intellettuali italiani ad invocare «un’ascensione» eroica che conduca ad «opere e monumenti della nostra grandezza» e al «nostro trionfo». I giovani «nati dopo il ‘70», in particolare - che soffrono di non poter rivestire, come fu per i loro padri, un ruolo storico rilevante nei confronti della coscienza nazionale-, rispondono alla propria condizione di disorientamento con un agguerrito interventismo culturale e politico e una inquieta ricerca di nuovi orizzonti di gloria. Si diffondono così in Italia, già dalle pagine di alcune riviste primo novecentesche, come “Il Regno” ed “Hermes”, parole d’ordine ispirate ad una indeterminata e perniciosa filosofia dell'azione, impregnata di vitalismo e di velleitario titanismo, che troverà nell’esaltazione della guerra “igiene del mondo” il proprio cavallo di battaglia. Sarà nella polemica attorno alla Guerra di Libia e poi alla vigilia della Primo conflitto mondiale, nel violento confronto tra interventisti e neutralisti, che questi atteggiamenti assumeranno toni di esaltazione mistica, inneggianti al sacrificio, alla purificazione di “un caldo lavacro di sangue”, indispensabile alla rigenerazione morale del Paese. Da Enrico Corradini a Giuseppe Antonio Borgese, da Giovanni Papini a F.T.Marinetti, da Giovanni Pascoli a Gabriele D’Annunzio la celebrazione della guerra diviene così un tratto peculiare di tanta produzione letteraria del periodo. Antonella Capra, Université de Toulouse, I racconti di guerra di Federico De Roberto: finzione e testimonianza? Federico De Roberto scrisse 9 racconti di guerra tra il 1919 e il 1923, pubblicati all’epoca in riviste e una raccolta. De Roberto, già in età matura durante gli anni del conflitto mondiale, non partecipò alla guerra di cui seguì, lontano dal fronte, gli avvenimenti dalla sua casa catanese. Lo scrittore, in bilico tra verismo e idealismo, sostenitore del relativismo („Il segno interrogativo è il grande simbolo del pensiero umano” affermava) ci aveva abituato, con i lunghi romanzi, a un’analisi scientifica della realtà sociale, studiando le difficoltà dei rapporti umani, sondando i sentimenti e gli egoisimi che impediscono l’armonia delle relazioni civili e soprattutto non lasciano alcuna illusione sull’esistenza di una sola verità. Dopo la Grande Guerra, egli sembra ritornare al verismo delle prime prove letterarie, con racconti che ritraggono, attraverso momenti e elementi centrali, la dura esperienza del soldato : i turni di vedetta, la distribuzione della posta, il rancio, l’onore e la diserzione, l’affetto e la nostalgia delle famiglie lontane... La paura, La retata, Il rifugio, L’ultimo voto, La posta... sono racconti di un forte realismo, dove la lingua dialettale, molto presente, serve a „dare la parola” alla comunità dei soldati, ai loro sentimenti e alle loro paure; dove la descrizone dei paesaggi sta tra il ritratto fedele e la celebrazione romantica di una natura potente; dove il discorso patriottico postbellico e la sua retorica sono controbilanciati dalla verità dei personaggi descritti. Federico De Roberto testimonia, dunque, a modo suo, e da lontano, della grande esperienza umana che ha sconvolto l’inizio del XX secolo. Ma fino a che punto, per racconti di finzione, si può veramente parlare di testimonianza? E quanto peso ha questo punto di vista – dichiaratamente „relativo” – nell’immaginario letterario. E infine : un’opera di finzione può essere una testimonianza? In occasione del centenario della Grande Guerra, Antonio Di Grado ha curato l’edizione di 4 racconti per le edizioni E/O (2014). È stata l’occasione per il pubblico di riscoprire una parte meno nota della produzione dello scrittore siciliano. E mi sembra l’occasione – grazie a questo convegno di Budapest – di studiare in modo più approfondito la posizione di De Roberto e la sua „testimonianza”. Donatella Cherubini, Università di Siena, Pacifismo e patriottismo: la scelta di „Coenobium” (1911-1918) Fondata a Lugano nel 1906 dal socialista Enrico Bignami, dal repubblicano Arcangelo Ghisleri e dal filosofo Giuseppe Rensi, la rivista «Coenobium» aveva contenuti filosoficopolitici, identità italo-svizzera, carattere internazionale, fermenti di spiritualità e utopia. Prestigioso riferimento per intellettuali di tutta l’Europa, costituisce una significativa testimonianza della frattura che dal luglio 1914 si verificò nelle organizzazioni fino allora in prima fila contro la guerra. Rispetto ai pacifisti e antimilitaristi rimasti fedeli all’antibellicismo, molti sposarono la causa della patria e dunque dello scontro armato – pur senza approdare al nazionalismo. Gli stessi Ghisleri e Rensi videro nello schieramento italiano con la Francia e la Gran Bretagna il compimento della guerra giusta di Giuseppe Mazzini e lasciarono la rivista. Animato da un pacifismo etico, Bignami avrebbe proseguito la sua Guerra alla guerra! insieme ad autorevoli collaboratori come lo scrittore britannico Norman Angell. Michela Sacco, Université de Nantes, La prima guerra mondiale e la naja delle mondine Il termine mondina designa oggi una figura emblematica di donna lavoratrice e combattiva. Nonostante la loro superiorità numerica, queste donne, agli inizi del Novecento erano inglobate nella “promiscuità” e nella generalità dei termini braccianti e mondarisi. Saranno le battaglie sindacali ma anche i due conflitti mondiali a dare forma, visibilità e valenza politica al « corpo » delle mondine. La guerra del ’15-‘18, rappresenta un punto fondamentale della loro parabola in quanto, portando la visibilità alle donne lavoratrici, ha permesso a queste braccianti di apparire come soggetti autonomi dal punto di vista economico e semantico. Inizialmente rappresentate dall’iconografia senza volto, queste lavoratrici hanno costruito la propria consapevolezza di corpo tramite la lunga battaglia per le otto ore, vinta localmente nel vercellese già nel 1906, usando istintivamente e con spirito indipendente lo strumento politico che offerto dalle leghe sindacali. Pronte alla rivoluzione ma pacifiste, manodopera esperta e necessaria, la loro “resistenza” si esprimerà tramite il rifiuto a sostituire gli uomini, la protesta contro il conflitto e l’appoggio ai prigionieri di guerra. Otterranno un miglioramento delle condizioni di lavoro e l’ampio riconoscimento di genere. I termini femminilizzati prima e femminili poi, sostituiranno definitivamente il generico maschile “mondarisi” e la monda assumerà sempre più le caratteristiche di naja femminile in cui la caserma è rappresentata dalla cascina. Venerdì 18 Settembre Eötvös Loránd Tudományegyetem, Sala del Consiglio (Tanácsterem) Budapest, Múzeum krt. 4. 9.00-11.00 Silvia Contarini, Université Paris Ouest Nanterre La Défense, Scrivere e riscrivere la guerra d'Etiopia: eroismi coloniali e postcoloniali Nel mio intervento, mi soffermerò su alcuni aspetti della rappresentazione delle guerre coloniali, per riflettere a come vengano elaborati, in ambito coloniale o postcoloniale, alcuni topoi consustanziali a ogni guerra e alla relativa retorica, in particolare l'eroismo, la creazione e la funzione di eroi collettivi. Una certa retorica bellicista, la glorificazione del valore guerriero e l'esaltazione dell'eroismo si ritrovano in autori italiani dell'epoca coloniale, come pure in autori postcoloniali originari del Corno d'Africa. In altri termini, là dove ci si aspetterebbe un'opposizione a logiche bellicistiche e un rigetto dell'enfasi che riallaccia l'eroismo in battaglia alla coesione nazionale, si ritrovano stereotipi e mitologie guerriere che fungono da elementi consolidanti di popoli e culture. Le modalità, le ragioni e le conseguenze di tali rappresentazioni saranno l'oggetto della mia riflessione, che restringerà il campo d'indagine all'Etiopia e si baserà su un corpus ibrido, sebbene ogni testo si presenti come "veritiero": per il periodo coloniale, analizzerò i reportage e le cronache di Malaparte e Buzzati, inviati del Corriere della Sera nel 1939, nonché il libro di Montanelli, XX Battaglione eritreo (1936); per la letteratura postcoloniale, mi concentrerò su Regina di fiori e di perle (2007), romanzo storico di Gabriella Ghermandi, e Memorie di una principessa etiope (2004), autobiografia di Martha Nasibù1, che ritraccia le vicende della sua nobile famiglia, prima e dopo l'esilio del 1936. Per concludere, sfrutterò Appunti per una canzonetta, parte diaristica dell'esperienza di guerra di Flaiano in Etiopia. Eleonora Conti, Università di Bologna, La Storia sulle spalle: strategie infantili per affrontare la catastrofe Il fine di questa ricerca è tentare una piccola ricognizione di casi significativi di personaggi bambini che, di fronte alle tragedie della Storia, riescono a farsene carico ricorrendo a strategie creative, alla propria inventiva e immaginazione. I romanzi in questione risultano poi 1 Martha Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Vicenza, Neri Pozza, 2005 (edizione ebook 2015) influenzati da tali strategie anche nella loro costruzione. Se lo sguardo del cinema neorealista sulla tragedia dei bambini di guerra si rispecchia negli occhi impassibili di Edmund Koehler, nella Berlino devastata dai bombardamenti, e nel suo tragico salto nel vuoto (Rossellini, Germania anno zero, 1948), in molti scrittori che praticano altri generi e altri modi narrativi lo scenario di guerra è guardato con occhi di bambini che ne fanno una sorta di teatro di avventure e scorribande, un mondo ricreato a loro misura, una riserva di fantasia per far fronte a una tragedia troppo grande per poter essere affrontata con gli occhi della razionalità. Se la catastrofe si traduce per loro in poverta, distruzione, solitudine, soprusi, gli occhi "della visione" potranno forse cercare un senso a ciò che sfugge alla comprensione razionale. L'utopia dell'avventura, la rinarrazione del mondo, la sua scomposizione in puzzles, la ricerca trasformata in caccia al tesoro sono solo alcune strategie messe in atto dai bambini per far fronte alla catastrofe (guerra, terrorismo). Numerosi esempi italiani e stranieri (da Il tamburo di latta di Günther Grass a L'isola in via degli uccelli di Uri Orlev a Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, da Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise a Il piccolo naviglio di Antonio Tabucchi) concorrono a guardare la Storia da un punto di vista eccentrico, capace di rimettere in prospettiva e indurre a un profondo esame di coscienza. Tenendo conto dell'accesa discussione sul romanzo storico degli ultimi anni si cercherà di tracciare una sorta di mappa della narrazione storica con protagonisti i bambini attraverso le molteplici forme e istanze che la attraversano. Antonella Ottai, Roma „La Sapienza”, La guerra nel Teatro di Eduardo 1945-50: un racconto inascoltato, un presagio simulato. Matteo Brera, Università di Utrecht, Cinema di guerra e "guerra" al cinema. Le politiche cinematografiche della Santa Sede e la Trilogia della guerra fascista di Roberto Rossellini. Tra il 1941 e il 1943 il Partito Nazionale Fascista commissionò a un esordiente Roberto Rossellini una serie di tre film con l’evidente intento di propagandare, a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, la potenza bellica e l’eroismo delle armi italiane. Mentre La nave bianca (1941) e Un pilota ritorna (1942) sono tentativi di magnificare, rispettivamente, la marina e l’aviazione, L’uomo dalla croce (1943) è un film di propaganda nel quale sembrano idealmente insinuarsi le parole pronunciate dal pontefice Pio XI in quella che fu la prima enciclica della Chiesa cattolica sul cinema. In Vigilanti Cura (1936) il papa ammonì sui danni arrecati alla morale e, più in generale, al comune sentimento cattolico da parte del cinematografo ponendo però, allo stesso tempo, un forte accento sulle potenzialità moralizzanti e propagandistiche del mezzo cinematografico. In questo senso Rossellini, da ‘buon cattolico’ inserì nel contesto ideologico fascistizzante de L’uomo dalla croce accenti di forte spiritualismo, nel tentativo di diffondere, insieme con l’esaltazione della guerra fascista, un chiaro messaggio ecumenico cristiano. Questo contributo si propone di studiare, attraverso l’analisi filmica e retorica della Trilogia della guerra fascista, i possibili punti di contatto (e di contrasto) tra le politiche cinematografiche della Chiesa e quelle del fascismo. Il fine ultimo è quello di mostrare come, sul finire della seconda guerra mondiale – e agli albori della corrente neorealista – il cinema divenne un importante strumento di propaganda cattolica, nei mesi in cui Pio XI tentava di ristabilire, in special modo in Italia, il cattolicesimo come ideologia dominante. 11.00-11.20 Pausa 11.20-12.50 Michela Nacci, Università de L'Aquila, Curzio Malaparte: Come la guerra ha trasformato il mondo La prima guerra mondiale mette fine a un mondo e dà avvio a un mondo nuovo. Un mondo non migliore, solo radicalmente diverso da quello precedente. Si trasformano gli ingranaggi che tengono in piedi la società: e il modo di fare politica deve adeguarsi. Nei saggi politici che scrive dal 1921 al 1931, raccolti sotto il titolo L’Europa vivente, e nello straordinario testo Tecnica del colpo di stato, del 1931, Curzio Malaparte prende la grande guerra come punto di partenza di una trasformazione del mondo che non lascia niente com’era. E’ in questo mondo retto dalla tecnica e dagli esperti che Malaparte colloca la sua rivoluzione antiborghese. Marie-José Tramuta, Université de Caen, Montale da Finisterre alla Bufera. Un poeta in guerra L'opera di Eugenio Montale, anche per motivi strettamente biografici, è ispirata o profondamente segnata dalle guerre mondiali, la prima e la seconda; non solo nelle raccolte più note legate a questa esperienza come Finisterre o La bufera ma anche fin dai Motetti in cui guerra, morte, e amore si intrecciano nel ricordo di Valmorbia e nel rivolgersi a Irma diventata poi Clizia: stessi temi e termini si ritroveranno poi anche in alcune prose della Farfalla di Dinard e condizioneranno anche il pensiero civile del poeta Montale. Giuliana Katz Sanguinetti, Università di Toronto, Natalia Ginzburg e i suoi scritti sulla seconda guerra mondiale In questa relazione intendo mettere in evidenza come la scrittrice si difenda dalle sue memorie di guerra troppo laceranti (il marito ucciso in carcere dai nazisti, lei stessa costretta a nascondersi con i bambini per non fare la stessa fine) o non menzionando affatto le sue esperienze, o presentandole dal punto di vista di una persona ingenua e immatura, che subisce quello che succede senza capirne completamente il significato. Solo nei saggi o in alcune parti dei romanzi appare tutta l’angoscia provata durante la guerra, il dolore per la morte del marito e la paura di essere scoperta con i suoi tre figli e deportata in un campo di concentramento in quanto ebrea. In un’intervista condotta da Walter Mauro la Ginzburg spiega che nel romanzo Tutti i nostri ieri voleva raccontare la guerra e la Resistenza “con gli occhi di una persona che non prendeva parte a tutte le cose ma che ne vedeva solo dei brandelli”. Quello che vediamo è infatti l’intrecciarsi di avvenimenti famigliari comici, tragici e drammatici presentati tutti sullo stesso livello di cronaca di un passato abbastanza lontano, dove il comportamento dei personaggi è spesso inspiegabile cosí come inspiegabili sono le vicende storiche che li travolgono. Solo in alcune scene l’emozione erompe e il passato si fa presente sotto i nostri occhi, come nel caso della descrizione della morte dell’eroico Cenzo Rena e dell’amico Franz, uccisi dai tedeschi. 12.50-14.15 Pausa 14.15-18.00 14.15-15.45 Ilona Fried, Università Eötvös Loránd, Budapest, L'italianistica sotto controllo negli anni della guerra fredda in Ungheria Anna Szirmai, Università Eötvös Loránd, Budapest „Linguaggio è guerra” di Fabio Mauri Fabio Mauri (1926-2009), protagonista delle avanguardie artistiche italiane si ispira tra l’altro dalle esperienze vissute negli anni del Fascismo e durante la seconda guerra mondiale come soldato. Negli anni Sessanta l’artista comincia la ricerca artistica attorno all’aspetto della guerra come frutto di svolte ideologiche. L’interesse di Mauri verso la „demitizzazione” della brutalità si manifesta tra i vari generi artistici anche nella serie „Linguaggio è guerra” (1975). Libro d’artista da un lato, installazione fotografica dall’altro: montaggio di fotografie della seconda guerra mondiale tratte da riviste tedeschi e inglesi. Le immagini dopo la ricomposizione vengono stampati con il timbro al margine: „Language is war”. Il metodo di ritocco crea una atmosfera da documento ufficiale, privo di ogni senso patetico. Nel mio futuro intervento vorrei analizzare „Linguaggio è guerra” come fenomeno particolare dal punto di vista dell’uso di didascalie interne nel contesto dell’opera di Fabio Mauri. Ugo Fracassa, Università d. Studi Roma 3, Chiudere un occhio. Quattro storie di cecchini Con Sniper e Caduta libera – romanzi editi rispettivamente nel 2001 e 2009 in Francia e in Italia – Pavel Hak e Nicolai Lilin ci presentano la vicenda di un cecchino, narrata in prima persona. Fin dallo sfondo bellico, però, le scelte descrittive divergono nei due autori translingui, da una parte verso una precisa individuazione storico-geografica - la Cecenia dall’altra verso un indistinto teatro dello scontro, compatibile del resto, nella sua indeterminatezza, sia con le guerre balcaniche che col conflitto ceceno stesso. A fare la differenza tra le due narrazioni è innanzitutto la posizione assunta dall’autore rispetto alla materia del racconto. Tra la retorica dell’ “io c’ero”, dispositivo di veridizione che presiede ad ogni operazione editoriale di Lilin, e la deliberata “finzionalitŕ” delle scelte narrative di Hak, è la seconda opzione a comportare, con la responsabilitŕ del gesto letterario, il maggiore potenziale eticopolitico (Sniper è il primo titolo di Hak tradotto in Italia, nel 2014 per Transeuropa). Secondo studi recenti, infatti, la rappresentazione di eventi bellici attraverso il filtro di media artistici (narrativa, fotografia, cinema), con il corredo di ferocia e crudeltà che tale rappresentazione comporta, puň indurre nel lettore una risposta emotiva ed etico-politica (R. Bleiker, The Aesthetic Turn in International Political Theory, 2001). L’analisi comparativa dei due romanzi verrà dispiegata sullo sfondo del più ampio panorama delle narratives ispirate allo sniper (in particolare un libro e un film tratti da memorie di militari statunitensi), figura emblematica della natura asimmetrica dei nuovi conflitti. 15.45-16.10 Pausa 16.10-18.00 Monica Jansen, Università di Utrecht, Il realismo onirico di un conflitto inedito: il post 11 settembre narrato da Giorgio Taschini con la guerra in Iraq Il romanzo d’esordio di Giorgio Taschini (1968), La scatola del signor Hulford (Il Saggiatore 2014), nasce da un lato dall’ossessione dell’autore con l’11 settembre e dall’altro da uno scabroso fatto di cronaca accaduto durante la guerra in Iraq, ovvero la pratica dello scambio di materiale pornografico amatoriale per immagini di esplosioni e di morti scattate dai soldati durante il conflitto (cfr. Fucked Up, a cura di Gianluigi Ricuperati, Bur 2006). Il romanzo è stato salutato dal Sole 24 Ore come un riuscito esempio di “realismo onirico”, vista la frequenza di sogni, incubi e visioni che danno forma, a livello incosciente, alle esperienze traumatiche dei personaggi iracheni e americani le cui vicende si intrecciano e si dividono tra Baghdad e il West Virginia. Ciò permette di leggere il romanzo, che si focalizza sulle conseguenze umane del conflitto inedito, come un prodotto post-11 settembre che corrisponde a modelli di realismo sviluppati a partire dalla e oltre la condizione culturale del postmodernismo. L’affollarsi di morti e fantasmi e l’artificio della scatola del signor Hulford con i suoi poteri taumaturgici per chi soffre di traumi di guerra, ne fanno anche una delicata opera di postmemoria, distinta dai romanzi sulla guerra in Afghanistan di Melania Mazzucco e di Paolo Giordano per la sua impostazione postnazionale. Giuliana Pias, Université Paris Ouest Nanterre La Défense Scritture della guerra nella letteratura sarda contemporanea (Dessì, Marrocu, Fois, Angioni) Il mio intervento prenderà in esame alcuni romanzi che trattano del tema della guerra nella letteratura sarda contemporanea. Da Il disertore (1961) di Giuseppe Dessì che, dopo Un anno sull'altipiano (1938), il capolavoro di Lussu, racconta di nuovo l'esperienza della prima guerra mondiale, a La pelle intera (2007) e Doppio cielo (2010) di Giulio Angioni, che parlano della seconda guerra mondiale, passando per Debrà Libanòs (2000) di Luciano Marrocu e Memoria del vuoto (2006) di Marcello Fois, che narrano alcune guerre coloniali, mi propongo di analizzare la scrittura della guerra tra storia, memoria e mitopoiesi. La mia indagine si concentrerà sulle modalità di narrazione e sulle strategie retoriche adottate nei diversi romanzi per scrivere (o riscrivere) le guerre al fine di far emergere una prospettiva critica rispetto al discorso storiografico. Questi romanzi, in effetti, forniscono "integrazioni" all'indagine storiografica, cioè aggiunte di eventi dimenticati o omessi, o forniscono addirittura delle contro-narrazioni dando la parola a dei soggetti subalterni della storia che, tuttavia, vi hanno preso parte. In ultima istanza, si tratterà di verificare se queste scritture della guerra si prestano a servire il discorso postcoloniale contemporaneo. Maria Bonaria Urban, Università di Amsterdam, Guerra partigiana e sguardo femminile in Dove finisce Roma (2012) di Paola Soriga Negli ultimi anni si e assistito a un moltiplicarsi di narrazioni che, rivendicando la potenza della parola, scelgono di raccontare il presente recuperando una memoria critica, uno sguardo "politico" sul passato (Wu Ming 2009). Come interpretare allora il rifiorire dell'interesse fra gli scrittori dell'ultima generazione per la Resistenza, per quella "guerra civile" (Pavone 1991) che suscita ancora oggi sentimenti cosi forti e continua a dividere l'opinione pubblica? Come si posizionano i nuovi romanzi sulla lotta partigiana rispetto all'attuale dibattito storiografico? E, soprattutto, che dialogo si instaura fra di essi e la produzione letteraria e cinematografica "classica" sulla Resistenza? Il contributo si prefigge di rispondere a tali domande affrontando l'analisi testuale di Dove finisce Roma (2012), opera prima di Paola Soriga. Ci si soffermera in particolare sul rapporto fra le forme di rappresentazione della Resistenza e il discorso di genere, mettendo a confronto il romanzo con alcuni classici della cultura italiana: Roma citta aperta, L'Agnese va a morire e La Storia. Dove finisce Roma ci riporta infatti all'ambientazione del film di Rossellini e del romanzo della Morante, inoltre la protagonista Ida, una giovanissima staffetta partigiana, si presta a un confronto con le protagoniste dei due romanzi citati. In tal modo si desidera riflettere su una delle guerre piu emblematiche nell'immaginario italiano novecentesco.