La guerra nella cultura e nella società italiana dal Novecento ai nostri giorni
Giovedì 17 Settembre
Sala Fellini, Istituto Italiano di Cultura
Budapest, Bródy Sándor u. 8.
9.30-11.20
Lorenzo Mango, Università di Napoli,
Guerra come realtà e guerra come metafora nel teatro italiano del Novecento
Il teatro italiano del Novecento si trova ad incrociare il motivo della guerra in momenti e
secondo modalità profondamente diverse. Più che oggetto di rappresentazione diretta e
descrittiva essa è, infatti, un motore di riflessione linguistica e al tempo stesso un’occasione
metaforica.
Il primo termine di riferimento è, chiaramente, Marinetti. Il suo interventismo, infatti,
carico di valenze ideologiche e politiche riflette un atteggiamento di aggressione alla scrittura
ed ai codici dell’arte. La valenza “purificatrice” della guerra esprime un’istanza di
rifondazione che è, in primo luogo, cancellazione, azzeramento. Questo motivo – che
caratterizza l’estetica marinettiana nel suo complesso – ha ricadute specifiche nel teatro, sia in
quello scritto che in quello agìto. Da un lato, ad esempio, le “sintesi” di immediato argomento
bellico, con precise caratteristiche propagandistiche si legano ad altre in cui il motivo
dell’interventismo è espresso attraverso “lo schiaffo e il pugno” che la modernità dà, grazie ad
un gioco di personaggi metaforici, alla sensibilità “passatista”. Dall’altro le “serate futuriste”,
momento eclatante di un teatro di pura azione scenica basato sull’estetica di relazione tra
attori e spettatori, diventano il contenitore perfetto per caricare l’interventismo artistico di
valenze di natura politica. La guerra, dunque, va letta, nel teatro di Marinetti e del futurismo,
non come sola applicazione dei codici dell’innovazione linguistica ad una ragione di fatto –
promuovere l’entrata in guerra dell’Italia – ma anche come istanza metaforica, cioè come un
modo di vedere il mondo e di proiettarlo in una nuova dimensione estetica.
Completamente ribaltato, il motivo della contaminazione tra dato di fatto storico e
determinazione metaforica lo troviamo riproposto in anni più recenti. Non c’è, stavolta,
un’estetica programmatica. Si tratta, invece, di due casi particolari in cui la guerra, nello
specifico quella dei Balcani, entra nell’operazione teatrale come motore di riflessione sul
teatro, inteso come linguaggio e come valore etico: Teatri di guerra, di Mario Martone (film
che rielabora per la pellicola la messa in scena, realmente eseguita, de I sette a Tebe di
Eschilo) e La guerra di Pippo Delbono. Più che occasione rappresentativa, anche in questo
caso, la guerra funge da specchio che riflette l’immagine dell’arte e del mondo. Da una
prospettiva radicalmente ribaltata rispetto a quella di Marinetti: non “sola igiene del mondo”
ma vortice abissale, luogo della perdita della speranza e del tentativo disperato di salvarla.
Due accezioni opposte che rappresentano bene l’aprirsi e il chiudersi del Novecento.
Gerardo Guccini, Università di Bologna,
La nera "Turandot". Postumi della guerra e avvisaglie di totalitarismo nel processo
compositivo dell'ultima opera di Puccini
La "Turandot" di Puccini resta un enigma. E ciò a causa di due fondamentali ragioni. La
prima consiste nelle lacune musicali e drammaturgiche che fanno della "Turandot" un'opera
involontariamente aperta, che si completa nelle letture, nelle analisi, nelle interpretazioni di
artisti e studiosi. Puccini avrebbe voluto chiuderla, ma fu impedito, prima ancora che dalla
malattia e dalla morte, dal fatto di non riuscire a individuare, dopo aver radicalmente
cambiato il personaggio gozziano di Turandot, un meccanismo drammatico che ne spiegasse
coerentemente la finale conversione all'amore. La Turandot intellettuale e gelosa della propria
indipendenza di Gozzi poteva cedere all'insorgere del sentimento amoroso, non cosí la
patologica Turandot pucciniana, afflita da rimozioni, transfert e da un'invincibile saldatura fra
sessuofobia e volontà d'assoluto potere. L'altra ragione che fa della "Turandot" un'opera
aperta sono le infiltrazioni del contesto storico nel processo compositivo. Erano anni agitati da
scioperi, attentati, conflitti sociali, e Puccini, che avrebbe reso omaggio a Mussolini Duce
degli italiani, includeva il fascismo fra le brutture del dopoguerra. Così come la "malattia
mortale" che si spargeva in Italia (l'espressione è di Puccini) impediva la riproduzione
dell'opera naturalistica, le caratteristiche di questa stessa "malattia" (il suo immaginario, la sua
conflittualità, le sue patologie sociali) si prestavano a suggerire e ad alimentare, per via
subliminale e interna, la ricerca d'una alternativa espressiva e formale. Lo studio esamina
sulla base degli epistolari, delle coeve soluzioni operistiche, dei rapporti con i librettisti
(Simoni e Adami), delle radicali variazioni apportate a Gozzi, delle soluzioni che si
stratificano il libretto (di fatto, Puccini morì senza esser riuscito a capire come sciogliere il
gelo di Turandot) e, naturalmente, dei fatti storici, gli apporti del contesto epocale all'ultima
opera del grande repertorio lirico.
Concetta Lo Iacono, Università d. Studi Roma 3, Dolorosa rêverie. Danze macabre in salotti
borghesi (1900-1918)
A cosa allude la danza macabra interpretata dall’Oscurantismo nel Ballo Excelsior?
Progresso e Cosmopolitismo continueranno il loro galop alla fine della belle époque e delle
guerre coloniali?
Dal 1900 al 1918, in Italia la danza vive ai margini della cultura “alta” e dinamizza il
nascente teatro leggero, trovando riferimenti nei romanzi d’appendice, o in generi
nazionalpopolari, capaci di risolvere emotivamente i conflitti sociali e regionali tra Nord e
Sud (si pensi al romanzo La ballerina di Matilde Serao, alle parodie teatrali o ai “racconti dal
vero” ispirati al sottobosco del Teatro alla Scala, scritti da Nicola Guerra, maestro e
coreografo dal 1902 al 1915 al Teatro dell'Opera di Budapest). In una Milano agiata e
decadente è ambientato il dramma borghese L’Ondina di Marco Praga, lavoro “pleonastico” e
“di vita effimera” secondo Gramsci; a Torino, in salotti colmi di soprammobili e stampe - “le
buone cose di pessimo gusto” - Guido Gozzano mette in scena, con la nostalgia per un mondo
scomparso, il declino delle dive del balletto tardo-romantico.
L’inno alla pace e al progresso dell’Excelsior (il ballo stigmatizzato da N. Guerra per
i suoi eccessi scenici, per la povertà poetica e per i molti epigoni) verrà coperto dai fragori del
conflitto mondiale mentre dovunque si diffonderanno immagini di Totentanz . La danza della
morte, una tradizione pittorica diffusa anche nell’Italia del Nord, troverà la sua espressione
più potente e corrosiva nelle cartoline incise dall’artista Alberto Martini contro la grande
guerra: un’epopea di dissoluzione, consunzione e morte di speranze, individui e società.
11.20-11.40 Pausa
11.40-13.10
Giulia Taddeo, Università di Bologna,
“L’ora di Dalila”: danza e società post-bellica nel giornalismo italiano degli Anni Venti
Le danze di società e quelle ospitate nella cornice del cosiddetto “spettacolo leggero” (vale a
dire all’interno di cabaret, caffè-concerto, riviste o tabarin) costituiscono un ambito in cui il
Primo Conflitto Mondiale ha generato effetti particolarmente vistosi, non solo in termini di
pratiche, gusti e tendenze, ma anche rispetto a una ben più ampia dinamica di confronto
interculturale.
Sia attraverso il grande successo dei balli jazz di matrice afro-americana, sia in seguito
alla massiccia presenza, sui palcoscenici di varietà, di danzatrici tedesche (o comunque di
provenienza mitteleuropea), l’Italia degli Anni Venti si trova dinanzi a inedite modalità di
concepire la danza e il corpo danzante, le quali, nella percezione collettiva, appaiono sovente
come una sorta di “minaccia” proveniente dall’estero, quasi che lo “straniero”,
indipendentemente dal fatto di aver vinto la guerra o meno, si servisse della danza per
esercitare una forma di dominio culturale al di fuori dei propri confini geografici.
Di tutto questo è possibile trovare riscontro sulle pagine di quotidiani e periodici italiani
grazie ai contributi di autori che, soprattutto negli anni successivi all’affermazione del regime
fascista, si sono dedicati alla questione ravvisandovi non poche implicazioni sociali e
politiche.
L’intervento intende tratteggiare i caratteri di un simile fenomeno dedicando
un’attenzione privilegiata agli articoli che, sul finire degli Anni Venti, lo scrittore e giornalista
Marco Ramperti ha riservato al tema della danza nei suoi rapporti con gli esiti della Prima
Guerra Mondiale.
Adriana Vignazia, Università di Graz, Rappresentazioni satiriche dell'Italia nelle riviste di
ligua tedesca durante il conflitto mondiale
Con lo sviluppo della stampa nella seconda metà dell’Ottocento si affermano nella monarchia
austro-ungarica anche le riviste satiriche il cui Witz, in perenne lotta con la censura,
accompagna la vita politica contribuendo alla formazione dell’opinione pubblica. In alcune la
critica politica e sociale è in primo piano, altre sono invece più semplicemente umoristiche;
alcune hanno una breve vita, altre sopravvivono alla monarchia per essere definitivamente
messe a tacere con l’avvento del nazionalsocialismo. Che la satira possa “servire diversi
padroni”, contribuire a formare il consenso o stimolare la riflessione offrendo
contemporaneamente una valvola di sfogo è proprio dell’ambiguità del genere e dipende dagli
attanti sociali che se ne servono. Nel periodo scelto – la Grande Guerra – la satira è in
funzione del potere e ne sostiene le scelte militariste banalizzando il pericolo costituito dal
nemico, e nel caso specifico dall’entrata in guerra dell’Italia. Nel mio contributo ho preso in
visione quattro riviste viennesi, di diverso orientamento politico e tradizione (Der Figaro,
Kikeriki, Die Bombe e Die Muskete), per analizzare e confrontare il modo in cui si
rappresentano l’Italia e gli Italiani commentando gli eventi bellici.
Renate Lunzer, Università di Vienna,
Il memoriale del grande capitano. Emilio Lussu tra prima e seconda guerra mondiale
Il memoriale “Un anno sull’Altipiano” racconta il periodo tra il giugno 1916 e il luglio 1917
trascorso dalla Brigata Sassari sull'Altipiano di Asiago; è il capolavoro di un esiliato, Lussu,
scritto su invito di un altro grande esiliato, Salvemini, nel 1936-1937, durante il riposo forzato
in un sanatorio svizzero dove l’autore curava finalmente una grave malattia contratta nelle
carceri fasciste. Uscito con grande successo nel 1938 a Parigi fu presto tradotto in diverse
lingue, ma non riuscì mai a raggiungere la notorietà di “Le feu” di Barbusse o “Im Westen
nichts Neues” di Remarque oppure “A Farewell to Arms” di Hemingway, anche se non è per
niente inferiore, anzi per molti riguardi supera questi e altri testi chiave sulla Grande Guerra.
Dopo una disamina della tipologia del libro nel contesto di altri esempi della
memorialistica bellica italiana verrà chiesto se e in quanto regga la sorprendente dichiarazione
di Lussu contenuta nella brevissima premessa del 1937: “Non esistono, in Italia, come in
Francia, in Germania o in Inghilterra, libri sulla guerra”. Il progetto radicale dell’autore - si
può desumere da questa e da altre sue dichiarazioni – era quindi quello di scrivere il libro
italiano, quello che mostri la vera natura della guerra combattuta dagli italiani. Qual’ è
dunque la vera natura della guerra italiana e qual’è il messaggio che Lussu, interventista
democratico, valoroso combattente in piena solidarietà con i soldati-contadini sardi a lui
affidati, pluridecorato e promosso al grado di capitano, manda al lettore? La maggior parte
degli studiosi ci vede un’aperta condanna della condotta della guerra e lo smantellamento
degli ideali per i quali Lussu e i suoi compagni si erano arruolati volontari. Qual’ è dunque il
rapporto tra il Lussu ufficiale del 1916-1917 e il Lussu politico-scrittore del 1936-1937? Si
tenterà di rispondere in base al famoso capitolo XXV del libro.
Inoltre si affronterà su due livelli, quello ideologico e quello narratologico, il quesito
costituito dalla scelta di raccontare solo un segmento della guerra, che l’autore aveva pur
vissuto per intero. Non si dovrebbe infine trascurare il fascino estetico eccezionale di questo
capolavoro: la sua tanto sovrana quanto amara ironia, il suo “umorismo politico” (L. Russo)
che ne fa – nonostante tutti gli orrori e tutte le nefandezze raccontate – una lettura – diciamo
lo pure senza esitare – immensamente godibile.
13.10-14.10
Pausa
14.10-15.40
Simona Cigliana, Roma,
La mistica della guerra nella produzione intellettuale dal 1900 al 1918
Sin dai primi anni del secolo, a solo un trentennio dal compimento del processo
risorgimentale, l’insofferenza per il regime parlamentare, il disprezzo per la cosiddetta
“mediocrità democratica”, il ruolo marginale del nuovo Stato unitario sullo scacchiere
internazionale inducono molti intellettuali italiani ad invocare «un’ascensione» eroica che
conduca ad «opere e monumenti della nostra grandezza» e al «nostro trionfo». I giovani
«nati dopo il ‘70», in particolare - che soffrono di non poter rivestire, come fu per i loro padri,
un ruolo storico rilevante nei confronti della coscienza nazionale-, rispondono alla propria
condizione di disorientamento con un agguerrito interventismo culturale e politico e una
inquieta ricerca di nuovi orizzonti di gloria. Si diffondono così in Italia, già dalle pagine di
alcune riviste primo novecentesche, come “Il Regno” ed “Hermes”, parole d’ordine ispirate
ad una indeterminata e perniciosa filosofia dell'azione, impregnata di vitalismo e di velleitario
titanismo, che troverà nell’esaltazione della guerra “igiene del mondo” il proprio cavallo di
battaglia. Sarà nella polemica attorno alla Guerra di Libia e poi alla vigilia della Primo
conflitto mondiale, nel violento confronto tra interventisti e neutralisti, che questi
atteggiamenti assumeranno toni di esaltazione mistica, inneggianti al sacrificio, alla
purificazione di “un caldo lavacro di sangue”, indispensabile alla rigenerazione morale del
Paese. Da Enrico Corradini a Giuseppe Antonio Borgese, da Giovanni Papini a F.T.Marinetti,
da Giovanni Pascoli a Gabriele D’Annunzio la celebrazione della guerra diviene così un tratto
peculiare di tanta produzione letteraria del periodo.
Antonella Capra, Université de Toulouse,
I racconti di guerra di Federico De Roberto: finzione e testimonianza?
Federico De Roberto scrisse 9 racconti di guerra tra il 1919 e il 1923, pubblicati all’epoca in
riviste e una raccolta. De Roberto, già in età matura durante gli anni del conflitto mondiale,
non partecipò alla guerra di cui seguì, lontano dal fronte, gli avvenimenti dalla sua casa
catanese.
Lo scrittore, in bilico tra verismo e idealismo, sostenitore del relativismo („Il segno
interrogativo è il grande simbolo del pensiero umano” affermava) ci aveva abituato, con i
lunghi romanzi, a un’analisi scientifica della realtà sociale, studiando le difficoltà dei rapporti
umani, sondando i sentimenti e gli egoisimi che impediscono l’armonia delle relazioni civili e
soprattutto non lasciano alcuna illusione sull’esistenza di una sola verità. Dopo la Grande
Guerra, egli sembra ritornare al verismo delle prime prove letterarie, con racconti che
ritraggono, attraverso momenti e elementi centrali, la dura esperienza del soldato : i turni di
vedetta, la distribuzione della posta, il rancio, l’onore e la diserzione, l’affetto e la nostalgia
delle famiglie lontane...
La paura, La retata, Il rifugio, L’ultimo voto, La posta... sono racconti di un forte
realismo, dove la lingua dialettale, molto presente, serve a „dare la parola” alla comunità dei
soldati, ai loro sentimenti e alle loro paure; dove la descrizone dei paesaggi sta tra il ritratto
fedele e la celebrazione romantica di una natura potente; dove il discorso patriottico postbellico e la sua retorica sono controbilanciati dalla verità dei personaggi descritti.
Federico De Roberto testimonia, dunque, a modo suo, e da lontano, della grande
esperienza umana che ha sconvolto l’inizio del XX secolo. Ma fino a che punto, per racconti
di finzione, si può veramente parlare di testimonianza? E quanto peso ha questo punto di vista
– dichiaratamente „relativo” – nell’immaginario letterario. E infine : un’opera di finzione può
essere una testimonianza?
In occasione del centenario della Grande Guerra, Antonio Di Grado ha curato l’edizione di 4
racconti per le edizioni E/O (2014). È stata l’occasione per il pubblico di riscoprire una parte
meno nota della produzione dello scrittore siciliano. E mi sembra l’occasione – grazie a
questo convegno di Budapest – di studiare in modo più approfondito la posizione di De
Roberto e la sua „testimonianza”.
Donatella Cherubini, Università di Siena,
Pacifismo e patriottismo: la scelta di „Coenobium” (1911-1918)
Fondata a Lugano nel 1906 dal socialista Enrico Bignami, dal repubblicano Arcangelo
Ghisleri e dal filosofo Giuseppe Rensi, la rivista «Coenobium» aveva contenuti filosoficopolitici, identità italo-svizzera, carattere internazionale, fermenti di spiritualità e utopia.
Prestigioso riferimento per intellettuali di tutta l’Europa, costituisce una significativa
testimonianza della frattura che dal luglio 1914 si verificò nelle organizzazioni fino allora in
prima fila contro la guerra. Rispetto ai pacifisti e antimilitaristi rimasti fedeli all’antibellicismo, molti sposarono la causa della patria e dunque dello scontro armato – pur senza
approdare al nazionalismo. Gli stessi Ghisleri e Rensi videro nello schieramento italiano con
la Francia e la Gran Bretagna il compimento della guerra giusta di Giuseppe Mazzini e
lasciarono la rivista. Animato da un pacifismo etico, Bignami avrebbe proseguito la sua
Guerra alla guerra! insieme ad autorevoli collaboratori come lo scrittore britannico Norman
Angell.
Michela Sacco, Université de Nantes,
La prima guerra mondiale e la naja delle mondine
Il termine mondina designa oggi una figura emblematica di donna lavoratrice e combattiva.
Nonostante la loro superiorità numerica, queste donne, agli inizi del Novecento erano
inglobate nella “promiscuità” e nella generalità dei termini braccianti e mondarisi. Saranno le
battaglie sindacali ma anche i due conflitti mondiali a dare forma, visibilità e valenza politica
al « corpo » delle mondine. La guerra del ’15-‘18, rappresenta un punto fondamentale della
loro parabola in quanto, portando la visibilità alle donne lavoratrici, ha permesso a queste
braccianti di apparire come soggetti autonomi dal punto di vista economico e semantico.
Inizialmente rappresentate dall’iconografia senza volto, queste lavoratrici hanno
costruito la propria consapevolezza di corpo tramite la lunga battaglia per le otto ore, vinta
localmente nel vercellese già nel 1906, usando istintivamente e con spirito indipendente lo
strumento politico che offerto dalle leghe sindacali.
Pronte alla rivoluzione ma pacifiste, manodopera esperta e necessaria, la loro
“resistenza” si esprimerà tramite il rifiuto a sostituire gli uomini, la protesta contro il conflitto
e l’appoggio ai prigionieri di guerra. Otterranno un miglioramento delle condizioni di lavoro e
l’ampio riconoscimento di genere. I termini femminilizzati prima e femminili poi,
sostituiranno definitivamente il generico maschile “mondarisi” e la monda assumerà sempre
più le caratteristiche di naja femminile in cui la caserma è rappresentata dalla cascina.
Venerdì 18 Settembre
Eötvös Loránd Tudományegyetem, Sala del Consiglio (Tanácsterem)
Budapest, Múzeum krt. 4.
9.00-11.00
Silvia Contarini, Université Paris Ouest Nanterre La Défense,
Scrivere e riscrivere la guerra d'Etiopia: eroismi coloniali e postcoloniali
Nel mio intervento, mi soffermerò su alcuni aspetti della rappresentazione delle guerre
coloniali, per riflettere a come vengano elaborati, in ambito coloniale o postcoloniale, alcuni
topoi consustanziali a ogni guerra e alla relativa retorica, in particolare l'eroismo, la creazione
e la funzione di eroi collettivi. Una certa retorica bellicista, la glorificazione del valore
guerriero e l'esaltazione dell'eroismo si ritrovano in autori italiani dell'epoca coloniale, come
pure in autori postcoloniali originari del Corno d'Africa. In altri termini, là dove ci si
aspetterebbe un'opposizione a logiche bellicistiche e un rigetto dell'enfasi che riallaccia
l'eroismo in battaglia alla coesione nazionale, si ritrovano stereotipi e mitologie guerriere che
fungono da elementi consolidanti di popoli e culture. Le modalità, le ragioni e le conseguenze
di tali rappresentazioni saranno l'oggetto della mia riflessione, che restringerà il campo
d'indagine all'Etiopia e si baserà su un corpus ibrido, sebbene ogni testo si presenti come
"veritiero": per il periodo coloniale, analizzerò i reportage e le cronache di Malaparte e
Buzzati, inviati del Corriere della Sera nel 1939, nonché il libro di Montanelli, XX
Battaglione eritreo (1936); per la letteratura postcoloniale, mi concentrerò su Regina di fiori e
di perle (2007), romanzo storico di Gabriella Ghermandi, e Memorie di una principessa
etiope (2004), autobiografia di Martha Nasibù1, che ritraccia le vicende della sua nobile
famiglia, prima e dopo l'esilio del 1936. Per concludere, sfrutterò Appunti per una canzonetta,
parte diaristica dell'esperienza di guerra di Flaiano in Etiopia.
Eleonora Conti, Università di Bologna,
La Storia sulle spalle: strategie infantili per affrontare la catastrofe
Il fine di questa ricerca è tentare una piccola ricognizione di casi significativi di personaggi
bambini che, di fronte alle tragedie della Storia, riescono a farsene carico ricorrendo a
strategie creative, alla propria inventiva e immaginazione. I romanzi in questione risultano poi
1
Martha Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Vicenza, Neri Pozza, 2005 (edizione ebook 2015)
influenzati da tali strategie anche nella loro costruzione. Se lo sguardo del cinema neorealista
sulla tragedia dei bambini di guerra si rispecchia negli occhi impassibili di Edmund Koehler,
nella Berlino devastata dai bombardamenti, e nel suo tragico salto nel vuoto (Rossellini,
Germania anno zero, 1948), in molti scrittori che praticano altri generi e altri modi narrativi
lo scenario di guerra è guardato con occhi di bambini che ne fanno una sorta di teatro di
avventure e scorribande, un mondo ricreato a loro misura, una riserva di fantasia per far fronte
a una tragedia troppo grande per poter essere affrontata con gli occhi della razionalità. Se la
catastrofe si traduce per loro in poverta, distruzione, solitudine, soprusi, gli occhi "della
visione" potranno forse cercare un senso a ciò che sfugge alla comprensione razionale.
L'utopia dell'avventura, la rinarrazione del mondo, la sua scomposizione in puzzles, la ricerca
trasformata in caccia al tesoro sono solo alcune strategie messe in atto dai bambini per far
fronte alla catastrofe (guerra, terrorismo). Numerosi esempi italiani e stranieri (da Il tamburo
di latta di Günther Grass a L'isola in via degli uccelli di Uri Orlev a Molto forte,
incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, da Il ragazzo morto e le comete di Goffredo
Parise a Il piccolo naviglio di Antonio Tabucchi) concorrono a guardare la Storia da un punto
di vista eccentrico, capace di rimettere in prospettiva e indurre a un profondo esame di
coscienza.
Tenendo conto dell'accesa discussione sul romanzo storico degli ultimi anni si
cercherà di tracciare una sorta di mappa della narrazione storica con protagonisti i bambini
attraverso le molteplici forme e istanze che la attraversano.
Antonella Ottai, Roma „La Sapienza”,
La guerra nel Teatro di Eduardo 1945-50: un racconto inascoltato, un presagio simulato.
Matteo Brera, Università di Utrecht,
Cinema di guerra e "guerra" al cinema. Le politiche cinematografiche della Santa Sede e la
Trilogia della guerra fascista di Roberto Rossellini.
Tra il 1941 e il 1943 il Partito Nazionale Fascista commissionò a un esordiente Roberto
Rossellini una serie di tre film con l’evidente intento di propagandare, a pochi mesi
dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, la potenza bellica e l’eroismo delle
armi italiane. Mentre La nave bianca (1941) e Un pilota ritorna (1942) sono tentativi di
magnificare, rispettivamente, la marina e l’aviazione, L’uomo dalla croce (1943) è un film di
propaganda nel quale sembrano idealmente insinuarsi le parole pronunciate dal pontefice Pio
XI in quella che fu la prima enciclica della Chiesa cattolica sul cinema. In Vigilanti Cura
(1936) il papa ammonì sui danni arrecati alla morale e, più in generale, al comune sentimento
cattolico da parte del cinematografo ponendo però, allo stesso tempo, un forte accento sulle
potenzialità moralizzanti e propagandistiche del mezzo cinematografico. In questo senso
Rossellini, da ‘buon cattolico’ inserì nel contesto ideologico fascistizzante de L’uomo dalla
croce accenti di forte spiritualismo, nel tentativo di diffondere, insieme con l’esaltazione della
guerra fascista, un chiaro messaggio ecumenico cristiano.
Questo contributo si propone di studiare, attraverso l’analisi filmica e retorica della
Trilogia della guerra fascista, i possibili punti di contatto (e di contrasto) tra le politiche
cinematografiche della Chiesa e quelle del fascismo. Il fine ultimo è quello di mostrare come,
sul finire della seconda guerra mondiale – e agli albori della corrente neorealista – il cinema
divenne un importante strumento di propaganda cattolica, nei mesi in cui Pio XI tentava di
ristabilire, in special modo in Italia, il cattolicesimo come ideologia dominante.
11.00-11.20
Pausa
11.20-12.50
Michela Nacci, Università de L'Aquila,
Curzio Malaparte: Come la guerra ha trasformato il mondo
La prima guerra mondiale mette fine a un mondo e dà avvio a un mondo nuovo. Un mondo
non migliore, solo radicalmente diverso da quello precedente. Si trasformano gli ingranaggi
che tengono in piedi la società: e il modo di fare politica deve adeguarsi. Nei saggi politici che
scrive dal 1921 al 1931, raccolti sotto il titolo L’Europa vivente, e nello straordinario testo
Tecnica del colpo di stato, del 1931, Curzio Malaparte prende la grande guerra come punto di
partenza di una trasformazione del mondo che non lascia niente com’era. E’ in questo mondo
retto dalla tecnica e dagli esperti che Malaparte colloca la sua rivoluzione antiborghese.
Marie-José Tramuta, Université de Caen,
Montale da Finisterre alla Bufera. Un poeta in guerra
L'opera di Eugenio Montale, anche per motivi strettamente biografici, è ispirata o
profondamente segnata dalle guerre mondiali, la prima e la seconda; non solo nelle raccolte
più note legate a questa esperienza come Finisterre o La bufera ma anche fin dai Motetti in
cui guerra, morte, e amore si intrecciano nel ricordo di Valmorbia e nel rivolgersi a Irma
diventata poi Clizia: stessi temi e termini si ritroveranno poi anche in alcune prose
della Farfalla di Dinard e condizioneranno anche il pensiero civile del poeta Montale.
Giuliana Katz Sanguinetti, Università di Toronto, Natalia Ginzburg e i suoi scritti sulla
seconda guerra mondiale
In questa relazione intendo mettere in evidenza come la scrittrice si difenda dalle sue memorie
di guerra troppo laceranti (il marito ucciso in carcere dai nazisti, lei stessa costretta a
nascondersi con i bambini per non fare la stessa fine) o non menzionando affatto le sue
esperienze, o presentandole dal punto di vista di una persona ingenua e immatura, che subisce
quello che succede senza capirne completamente il significato. Solo nei saggi o in alcune parti
dei romanzi appare tutta l’angoscia provata durante la guerra, il dolore per la morte del marito
e la paura di essere scoperta con i suoi tre figli e deportata in un campo di concentramento in
quanto ebrea.
In un’intervista condotta da Walter Mauro la Ginzburg spiega che nel romanzo Tutti i
nostri ieri voleva raccontare la guerra e la Resistenza “con gli occhi di una persona che non
prendeva parte a tutte le cose ma che ne vedeva solo dei brandelli”. Quello che vediamo è
infatti l’intrecciarsi di avvenimenti famigliari comici, tragici e drammatici presentati tutti
sullo stesso livello di cronaca di un passato abbastanza lontano, dove il comportamento dei
personaggi è spesso inspiegabile cosí come inspiegabili sono le vicende storiche che li
travolgono. Solo in alcune scene l’emozione erompe e il passato si fa presente sotto i nostri
occhi, come nel caso della descrizione della morte dell’eroico Cenzo Rena e dell’amico Franz,
uccisi dai tedeschi.
12.50-14.15
Pausa
14.15-18.00
14.15-15.45
Ilona Fried, Università Eötvös Loránd, Budapest, L'italianistica sotto controllo negli anni
della guerra fredda in Ungheria
Anna Szirmai, Università Eötvös Loránd, Budapest
„Linguaggio è guerra” di Fabio Mauri
Fabio Mauri (1926-2009), protagonista delle avanguardie artistiche italiane si ispira tra l’altro
dalle esperienze vissute negli anni del Fascismo e durante la seconda guerra mondiale come
soldato. Negli anni Sessanta l’artista comincia la ricerca artistica attorno all’aspetto della
guerra come frutto di svolte ideologiche. L’interesse di Mauri verso la „demitizzazione” della
brutalità si manifesta tra i vari generi artistici anche nella serie „Linguaggio è guerra” (1975).
Libro d’artista da un lato, installazione fotografica dall’altro: montaggio di fotografie della
seconda guerra mondiale tratte da riviste tedeschi e inglesi. Le immagini dopo la
ricomposizione vengono stampati con il timbro al margine: „Language is war”. Il metodo di
ritocco crea una atmosfera da documento ufficiale, privo di ogni senso patetico. Nel mio
futuro intervento vorrei analizzare „Linguaggio è guerra” come fenomeno particolare dal
punto di vista dell’uso di didascalie interne nel contesto dell’opera di Fabio Mauri.
Ugo Fracassa, Università d. Studi Roma 3, Chiudere un occhio. Quattro storie di cecchini
Con Sniper e Caduta libera – romanzi editi rispettivamente nel 2001 e 2009 in Francia e in
Italia – Pavel Hak e Nicolai Lilin ci presentano la vicenda di un cecchino, narrata in prima
persona. Fin dallo sfondo bellico, però, le scelte descrittive divergono nei due autori
translingui, da una parte verso una precisa individuazione storico-geografica - la Cecenia dall’altra verso un indistinto teatro dello scontro, compatibile del resto, nella sua
indeterminatezza, sia con le guerre balcaniche che col conflitto ceceno stesso. A fare la
differenza tra le due narrazioni è innanzitutto la posizione assunta dall’autore rispetto alla
materia del racconto. Tra la retorica dell’ “io c’ero”, dispositivo di veridizione che presiede ad
ogni operazione editoriale di Lilin, e la deliberata “finzionalitŕ” delle scelte narrative di Hak, è
la seconda opzione a comportare, con la responsabilitŕ del gesto letterario, il maggiore
potenziale eticopolitico (Sniper è il primo titolo di Hak tradotto in Italia, nel 2014 per
Transeuropa). Secondo studi recenti, infatti, la rappresentazione di eventi bellici attraverso il
filtro di media artistici (narrativa, fotografia, cinema), con il corredo di ferocia e crudeltà che
tale rappresentazione comporta, puň indurre nel lettore una risposta emotiva ed etico-politica
(R. Bleiker, The Aesthetic Turn in International Political Theory, 2001). L’analisi
comparativa dei due romanzi verrà dispiegata sullo sfondo del più ampio panorama delle
narratives ispirate allo sniper (in particolare un libro e un film tratti da memorie di militari
statunitensi), figura emblematica della natura asimmetrica dei nuovi conflitti.
15.45-16.10
Pausa
16.10-18.00
Monica Jansen, Università di Utrecht,
Il realismo onirico di un conflitto inedito: il post 11 settembre narrato da Giorgio Taschini
con la guerra in Iraq
Il romanzo d’esordio di Giorgio Taschini (1968), La scatola del signor Hulford (Il Saggiatore
2014), nasce da un lato dall’ossessione dell’autore con l’11 settembre e dall’altro da uno
scabroso fatto di cronaca accaduto durante la guerra in Iraq, ovvero la pratica dello scambio di
materiale pornografico amatoriale per immagini di esplosioni e di morti scattate dai soldati
durante il conflitto (cfr. Fucked Up, a cura di Gianluigi Ricuperati, Bur 2006). Il romanzo è
stato salutato dal Sole 24 Ore come un riuscito esempio di “realismo onirico”, vista la
frequenza di sogni, incubi e visioni che danno forma, a livello incosciente, alle esperienze
traumatiche dei personaggi iracheni e americani le cui vicende si intrecciano e si dividono tra
Baghdad e il West Virginia. Ciò permette di leggere il romanzo, che si focalizza sulle
conseguenze umane del conflitto inedito, come un prodotto post-11 settembre che corrisponde
a modelli di realismo sviluppati a partire dalla e oltre la condizione culturale del
postmodernismo. L’affollarsi di morti e fantasmi e l’artificio della scatola del signor Hulford
con i suoi poteri taumaturgici per chi soffre di traumi di guerra, ne fanno anche una delicata
opera di postmemoria, distinta dai romanzi sulla guerra in Afghanistan di Melania Mazzucco
e di Paolo Giordano per la sua impostazione postnazionale.
Giuliana Pias, Université Paris Ouest Nanterre La Défense
Scritture della guerra nella letteratura sarda contemporanea (Dessì, Marrocu, Fois, Angioni)
Il mio intervento prenderà in esame alcuni romanzi che trattano del tema della guerra nella
letteratura sarda contemporanea. Da Il disertore (1961) di Giuseppe Dessì che, dopo Un anno
sull'altipiano (1938), il capolavoro di Lussu, racconta di nuovo l'esperienza della prima guerra
mondiale, a La pelle intera (2007) e Doppio cielo (2010) di Giulio Angioni, che parlano della
seconda guerra mondiale, passando per Debrà Libanòs (2000) di Luciano Marrocu e Memoria
del vuoto (2006) di Marcello Fois, che narrano alcune guerre coloniali, mi propongo di
analizzare la scrittura della guerra tra storia, memoria e mitopoiesi. La mia indagine si
concentrerà sulle modalità di narrazione e sulle strategie retoriche adottate nei diversi romanzi
per scrivere (o riscrivere) le guerre al fine di far emergere una prospettiva critica rispetto al
discorso storiografico. Questi romanzi, in effetti, forniscono "integrazioni" all'indagine
storiografica, cioè aggiunte di eventi dimenticati o omessi, o forniscono addirittura delle
contro-narrazioni dando la parola a dei soggetti subalterni della storia che, tuttavia, vi hanno
preso parte. In ultima istanza, si tratterà di verificare se queste scritture della guerra si
prestano a servire il discorso postcoloniale contemporaneo.
Maria Bonaria Urban, Università di Amsterdam, Guerra partigiana e sguardo femminile in
Dove finisce Roma (2012) di Paola Soriga
Negli ultimi anni si e assistito a un moltiplicarsi di narrazioni che, rivendicando la potenza
della parola, scelgono di raccontare il presente recuperando una memoria critica, uno sguardo
"politico" sul passato (Wu Ming 2009). Come interpretare allora il rifiorire dell'interesse fra
gli scrittori dell'ultima generazione per la Resistenza, per quella "guerra civile" (Pavone 1991)
che suscita ancora oggi sentimenti cosi forti e continua a dividere l'opinione pubblica? Come
si posizionano i nuovi romanzi sulla lotta partigiana rispetto all'attuale dibattito storiografico?
E, soprattutto, che dialogo si instaura fra di essi e la produzione letteraria e cinematografica
"classica" sulla Resistenza? Il contributo si prefigge di rispondere a tali domande affrontando
l'analisi testuale di Dove finisce Roma (2012), opera prima di Paola Soriga. Ci si soffermera
in particolare sul rapporto fra le forme di rappresentazione della Resistenza e il discorso di
genere, mettendo a confronto il romanzo con alcuni classici della cultura italiana: Roma citta
aperta, L'Agnese va a morire e La Storia. Dove finisce Roma ci riporta infatti
all'ambientazione del film di Rossellini e del romanzo della Morante, inoltre la protagonista
Ida, una giovanissima staffetta partigiana, si presta a un confronto con le protagoniste dei due
romanzi citati. In tal modo si desidera riflettere su una delle guerre piu emblematiche
nell'immaginario italiano novecentesco.
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Abstracts del convegno