La storia costruita Storie di tabacchine grike a Sternatia nel Dopoguerra a cura di Gianni De Santis • Giorgio Vincenzo Filieri • Eugenio Imbriani Introduzione di Patrizia Villani Ricerca di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Daniela Gemma, Mariangela Giannuzzi, Antonella Marti, Luigina Mastrolia Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832.801577 www.kurumuny.it • [email protected] ISBN 978-88-95161-32-7 In copertina foto di Centro Studi Chora-ma. In quarta foto di Arnaldo Macchitelli. Progetto CUIS. “Per la documentazione della memoria orale di una comunità griko-salentina”. © Edizioni Kurumuny – 2009 Indice 9 Introduzione Patrizia Villani 11 Il tabacco griko. La lavorazione del tabacco e la condizione delle tabacchine a Sternatia Giorgio Vincenzo Filieri 24 Combinare le storie Premessa Tabacchine Un archivio per le storie Eugenio Imbriani 31 181 La ricerca Un sindaco Conchiglia, la Turupìnta in fiamme e quel giorno che piovve locuste... Gianni De Santis 186 Appendice 205 Ringraziamenti A tutte le ex tabacchine di Sternatia che, con il loro lavoro e con grande tenacia, hanno scritto un pezzo di storia importante per la nostra bella Chora. Introduzione Patrizia Villani* Il presente volume è stato realizzato nell’ambito del Progetto per la documentazione della memoria orale di una comunità griko-salentina presentato dal Comune di Sternatia di concerto con le Edizioni Kurumuny ed in collaborazione con il Prof. Eugenio Imbriani dell’Università del Salento, Dipartimento di Scienza dei sistemi sociali e della comunicazione finanziato dal CUIS Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino. La storia ricostruita attraverso il ricordo delle tabacchine del nostro paese, dirette protagoniste che mediante tanti piccoli tasselli di vita quotidiana ci raccontano le condizioni della donna in quegli anni. A Sternatia erano presenti diverse “fabbriche di tabacco” in cui lavoravano centinaia di giovani donne, spesso mogli e madri. Le condizioni di lavoro erano dure “si lavorava dalla sette alle dodici ore” poi una breve pausa “ma non riuscivi neanche a mangiare se avevi figli”. Durante le ore di lavoro non era consentito parlare o cantare altrimenti si veniva rimproverate aspramente dalle mesce incaricate dai padroni di distribuire il lavoro e di controllare le operaie. La storia delle tabacchine di Sternatia è simile alla storia delle operaie dell’industria del tabacco dell’intero Salento. Anche a Sternatia giungono gli echi della contestazione e della lotta sindacale per l’aumento dei salari, la rivendicazione dei diritti, la precarietà del lavoro stagionale negli opifici dei concessionari di tabacco. Con questa ricerca si è voluto porre l’accento sul ruolo della donna nel lavoro agricolo e, in particolare, delle tabacchine che hanno lottato, a partire dagli anni Trenta, non solo per un desiderio di emancipazione ma anche per una necessità economica. Il canto di protesta delle tabacchine, un tempo soffocato, ritorna più intenso che mai e si fa parola, narrazione; nel segno della storia. Generazioni diverse di donne si ritrovano e si raccontano e si ascoltano e parlano ad altre donne perché l’emancipazione femminile, non ancora compiuta, si nutre di memoria e utopia. 9 La memoria femminile di una comunità, si racconta e trova come interlocutrici privilegiate sei giovani donne. Antonella, Daniela, Desiré, Luigina, Mariangela, Maria Lucia, giovani laureate, hanno raccolto e restituito alla collettività, le testimonianze di un passato impastato di sudore, speranze, fatica, libertà, pane e dignità La presente pubblicazione è un ulteriore contributo che questa Amministrazione ha inteso dare, nell’ambito delle politiche di genere e delle politiche culturali, alla costruzione di una identità della comunità che si basa sui volti e sulle storie di ciascuno: il volto giovane di sei donne laureate che hanno messo a servizio della comunità le proprie competenze e professionalità e il volto maturo delle donne anziane di Sternatia che hanno accettato di dare voce al passato. Rivolgo un caloroso e sincero ringraziamento alle donne di Sternatia che hanno accettato di raccontarsi, alle borsiste del progetto CUIS, ai coordinatori del progetto, Luigi Chiriatti, Gianni De Santis, Giorgio Filieri, Prof. Eugenio Imbriani e a Cristina Manco Assessore alla Cultura e alle pari opportunità del Comune di Sternatia. Un ringraziamento particolare a Massimo Manera, già vicesindaco di Sternatia, che ha reso possibile la realizzazione del progetto coordinandolo in prima persona con passione e dedizione. Sternatia, 1 maggio 2009 * Sindaco di Sternatia 10 Il tabacco griko. La lavorazione del tabacco e la condizione delle tabacchine a Sternatia Giorgio Vincenzo Filieri … Nde, e’ ssòzamo milìsi makà! Ce nde na fame ce tìpoti. Iche na kustì manechà o rushio atse tabbàkko… na polemìsome. … No, non potevamo parlare affatto! Né mangiare, né niente. Si doveva sentire soltanto il fruscio del tabacco… cioè lavorare. (Dall’intervista di Clelia Giuseppa Reale) «Ivò polèmigga si’ ffràbbika atse tabbàkko …» (“io lavoravo nella fabbrica del tabacco …”), così esordì un’anziana tabacchina mentre si accingeva a rispondermi alle domande che, alcuni anni addietro, le feci per raccogliere documentazione orale riguardante la situazione delle operaie impiegate nelle fabbriche del tabacco. In realtà, il verbo polemò (polemώ) che in greco salentino significa esclusivamente «lavorare», in greco moderno, come del resto anche in greco classico, significa “combattere”, “fare la guerra”, “lottare”. Quindi la frase grika e neogreca «pao na polemìso» (pάw na polemίsw) in greco salentino ha il significato di “vado a lavorare”, mentre in greco moderno di “vado a fare la guerra”.1 1 Cfr. AA.VV. Dizionario Greco moderno – Italiano, a cura del Comitato di redazione dello ISSBI, p. 807, Roma 1993. In greco moderno il verbo lavorare è doulέuo (leggi dulèvo), inesistente nel greco salentino. 11 Premesso ciò, possiamo affermare che, nella difficile condizione in cui si trovavano le tabacchine, il significato di «combattere» e «lottare» sembra rendere meglio l’idea della situazione che giornalmente queste operaie dovevano affrontare «combattendo» contro il duro lavoro, appesantito dai tanti problemi materiali; esse «lottavano» con forza e determinazione anche per assicurare i propri diritti e ottenere un qualche miglioramento di vita. Le caratteristiche fonetiche della frase grika introduttiva ci fanno comprendere che ci troviamo a Sternatia, anzi, per essere più precisi, ci troviamo nella Chora Sternatia (Cώra Sternatίa),2 il centro considerato da sempre il cuore dell’area grecofona, oggi, conosciuta come Grecìa Salentina.3 In questi ultimi decenni, Sternatia, nel contesto della Grecìa Salentina, ha assunto il ruolo importante di paese modello e centro di riferimento, grazie alla detenzione del primato di maggiore percentuale di parlanti greco salentino4 e grazie anche all’impegno di istituzioni, associazioni e singoli individui che a vari livelli hanno contribuito a portare la Chora al centro dell’attenzione culturale.5 Sternatia è diventata terra di ricerca linguistica, antropologica ed etnomusicologica, ma, nonostante ciò, si può stranamente affermare che pochissime sono le pubblicazioni dedicate alla storia e alla cultura di questo paese. Per i motivi appena esposti, questa ricerca, voluta dall’Amministrazione Comunale, ed effettuata grazie alla disponibilità delle ex tabacchine 2 Così è chiamato in alcuni vecchi atti notarili scritti in greco. I suoi abitanti la chiamano semplicemente Chora, es. «pame si’ Chora» (“andiamo a Sternatia”). 3 Sulla denominazione dell’area grecofona del Salento vedi: G. V. Filieri, Grecìa Salentina. Genesi di un nome improprio, in «Nuova Messapia», dicembre 2002, p. 9; vedi anche: G. V. Filieri, Ta Chorìa Grika, ossia il vero nome dell’area greca del Salento, in «Grecìa, Ta nea-ma», a. II, n. 03, agosto 2004, pp. 3-4. 4 Cfr. B. Spano, La grecità bizantina e i suoi riflessi geografici nell’Italia meridionale e insulare, Pisa, 1965, pp. 162-163. 5 Sternatia, oltre ad essere stato il comune capofila dell’Unione dei Paesi della Grecìa Salentina, è sempre stato storicamente un importante paese: fu centro fortificato; divenne quartiere generale delle truppe aragonesi che liberarono Otranto nel 1481; presso l’abbazia di san Zaccaria si copiavano codici greci; i suoi feudatari furono alcune importanti famiglie come gli Acquaviva, i Cicala, i Granafei; nel contesto della grecità, gia nel ‘500 era citato come centro di sola lingua e rito greco. 12 di Sternatia, ci permette di scrivere un pezzo di storia importante di questo paese che, fino ad ora, è rimasto vivo solo nella memoria di tante operaie e coltivatrici di tabacco. Questa pubblicazione è un doveroso omaggio dedicato a tutte le ex tabacchine e nasce dall’intento di tenere vivo il ricordo del loro grande impegno, del loro disagio, delle loro gioie e delle loro «guerre». Le donne di Sternatia hanno vissuto il terrore delle guerre mondiali e con esso anche la paura di subire un bombardamento, di essere colpite dalle schegge delle bombe; spesso hanno sentito lo spavento causato dal suono della sirena del vicino aeroporto di Galatina. Queste donne hanno vissuto periodi di ansia per i loro figli, mariti o padri che erano stati chiamati a fare la guerra; alcune di loro hanno passato momenti drammatici per aver ricevuto la notizia che un loro caro era morto combattendo per la patria. Attraverso la lettura accurata delle interviste e dei racconti delle tabacchine, dal recupero di vecchie fotografie, documenti personali e documenti d’archivio, si vuole cercare di ricostruire una parte delle vicende storiche locali, con l’intento di rendere noti e attuali i fatti passati. Dai racconti si evince quanto, oggi, il mondo sia cambiato e quanto l’impegno e la lotta delle tabacchine abbiano contribuito al miglioramento delle condizioni di vita dell’odierna società. Questo lavoro ha dato la possibilità alle nonne di Sternatia di assumere un ruolo diverso da quello avuto sino ad oggi nei confronti della ricerca linguistica e antropologica. Infatti, queste signore hanno per lo più avuto quasi sempre a che fare con ricercatori che venivano a registrare discorsi in greco salentino, canti d’amore, lamenti funebri, oppure racconti nei quali i protagonisti erano i folletti, le streghe e gli spiriti; ora, invece, a loro è stato chiesto di raccontare storie in cui le protagoniste erano esse stesse, in cui era necessario parlare della loro vita, della loro condizione di donne, dei disagi e delle lotte che hanno dovuto combattere in tempi assai duri. Il diventare protagoniste e quindi «raccontarsi» piuttosto che «raccontare», ha rappresentato per loro una novità; dopo la titubanza del primo impatto con l’intervistatrice, è venuta fuori la voglia di parlare, di esporre fatti e situazioni; in certi casi si nota il timore di dire o di aver detto qualcosa di fronte a una telecamera o un registratore che potesse poi urtare la suscettibilità di qualcuno. 13 È normale che, in tanti anni di lavoro, avendo a che fare con datori di lavoro, mescie (maestre) e colleghe, non siano mancati i litigi e le antipatie tra le tabacchine. Il rapporto lavorativo era difficile soprattutto con alcune mescie che, cercando di fare gli interessi del padrone, assumevano un atteggiamento severo con le operaie. La coltivazione del tabacco è testimoniata già nel XIX secolo. Giacomo Arditi nella seconda metà del 1800 a proposito di Sternatia scrive: «Gli abitanti in gran parte la fanno da agricoltori, parlano il volgare e il greco corrotto… Nel territorio varia la qualità del sottosuolo, ma in generale è sassoso, fertile in olio, frumento, tabacco, e altro…»6. La coltivazione del tabacco è stata per diversi anni alla base dell’economia sternatese. Si racconta che una volta, dopo un annata andata bene, l’anno successivo ci fu la corsa per piantare tabacco tanto che, esagerando, si disse che qualcuno sradicò i gerani colorati che abbellivano le avlèddhe (cortili) e i giardini e usò i vasi per piantare tabacco, oppure si diceva che in quel anno anche il prete aveva piantato il tabacco, proprio per far capire quanto diffusa fosse diventata la coltivazione di questa pianta. Furono gli anni in cui diminuì la produzione di frumento e legumi e le campagne del feudo di Sternatia sembravano un’enorme distesa verde di piante di tabacco. L’intero paese era diventato un’enorme fabbrica in cui tutti erano impegnati alla coltivazione e alla lavorazione di questa pianta. Il lavoro iniziava a febbraio quando, cioè, si doveva seminare lo sporo (la semenza) nelle arùddhe (semenzai), che dovevano essere di tanto in tanto innaffiate e curate. A fine aprile, quando la kiantìme (le piantine da trapiantare) era pronta, si “tiravano” gli avlàcia o surchi (solchi) con lo nsinàri (zappa); poi venivano dapprima buttate le piantine nel solco e in seguito piantate per mezzo di un palo (una specie di cavicchio di legno) che serviva per fare i fori al centro del solco dove dovevano essere messe a dimora le piantine a una distanza di 20-25 centimetri, a seconda della varietà del tabacco. Fatto ciò, bisognava aspettare che le piante raggiungessero la maturazione industriale, che non coincideva con quella fisiologica, per evitare 6 Cfr. G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1879 – 1885, pp. 573-574. 14 che una maturazione troppo avanzata producesse delle foglie più fragili e di scarsa qualità. Intanto oltre al lavoro di sarchiatura, non rimaneva che pregare e sperare che la siccità, la grandine o il maltempo in genere non mandassero in fumo (e parlando di tabacco e proprio il caso di dirlo) tutto il lavoro. Il senso del timore di perdere tutta la fatica fatta lo troviamo in qualche strofa del canto tradizionale Fimmene, fimmene in cui si dice: «ci vu la dice cu chiantati lu tabaccu? Lu sule è forte e ve lu sicca tuttu». La speranza e la preghiera diventavano gli unici mezzi per avere la forza di andare avanti, tanto che di questa situazione ne approfittavano i cantori de lu santu Lazzaru 7 che per toccare la sensibilità dei coltivatori di tabacco, durante le loro esibizioni canore nel periodo della settimana santa, a un certo punto intonavano questa strofa: «nui pregàmu santu Marcu cu vascia bonu lu tabbaccu»; lo stesso facevano a capodanno i cantori della strina 8 che, con il loro canto, benedivano i campi e auguravano buoni raccolti, ma nel momento in cui i massai e i contadini non offrivano una buona offerta, i cantori trasformavano le benedizioni in invettive e maledizioni. Quando le foglie del tabacco arrivavano a maturazione iniziava la raccolta. Si facevano in tutto quattro ccote (raccolte) dette: fronzùna, terza ccota, seconda ccota e prima ccota. Le foglie appena raccolte erano trasportate per essere infilate per mezzo delle akucèddhe (grossi aghi di circa trenta centimetri) nei resistenti fili di spago, formando così le nserte (filze); queste ultime erano appese ai tiraletti (telai di forma rettangolare) per l’essiccazione al sole. Ogni tiraletto poteva contenere venti nserte. Le nserte sistemate nei tiraletti il primo giorno dovevano stare al sole, il secondo all’ombra e poi sempre al sole, per ottenere una buona colorazione. Sternatia diventava un tappeto di tiraletti pieni di tabacco sistemati sui marciapiedi, nelle strade più larghe e persino in piazza. Sicuramente anche i più giovani possono ancora ricordare quando Piazza Castello sino a una trentina di anni addietro era piena di tiraletti che, a una certa 7 Tradizionale canto salentino del periodo pasquale. Canto augurale di capodanno molto simile ai kàlanda che si cantano in Grecia e alle colìnde in Romanìa e in molti altri paesi dei Balcani e del Mediterraneo. 8 15 ora della giornata, con il calare dell’ombra, dovevano essere spostati sul lato opposto della piazza per rimanere quanto più tempo possibile al sole; durante qualche acquazzone estivo, si vedeva il fuggi fuggi dei proprietari che si affrettavano a ritirare al coperto i tiraletti. Il tabacco, con la sua costante presenza, entrava a far parte della vita quotidiana della gente. Vittorio Bodini, nella poesia Cocumola, descrive esattamente questa realtà: «… Il tabacco è a seccare, / e la vita cocumola fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo…». Il Bodini ci fa riflettere sul valore politico del tabacco, dai suoi versi emerge la volontà di rifiutare l’imposizione di un potere oppressivo e ingiusto: «…Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca / sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia…».9 Il colmo era che, pur vivendo in mezzo al tabacco, la gente non lo poteva utilizzare per fumare, era proibito a causa del monopolio di stato. I finanzieri giravano nei paesi e nelle campagne cercando di acciuffare qualche trasgressore che furbescamente avesse nascosto in casa o nei muretti a secco delle campagne un po’ del proprio tabacco. Ancora oggi è facile trovare tra le pietre dei muri di campagna qualche buatta (barattolo di rame) piena di tabacco, dimenticata dal proprio nonno. Sono interessanti i tanti racconti conosciuti dagli anziani come quello di un certo Jorgi (Giorgio) che pur di non accompagnare i finanzieri presso la sua abitazione dove c’era il tabacco nascosto, mentendo, disse loro che abitava a Martignano con la speranza di incontrare sulla strada qualche compare sternatese e dirgli in griko, lingua estranea a quei finanzieri, di correre a Sternatia e avvertire la moglie affinché facesse sparire il tabacco da casa. Purtroppo Jorgi non avendo incontrato nessuno, dopo aver girato inutilmente tutte le strade di Martignano, si vide costretto a dire la verità, meritandosi una salatissima multa. Il fratello di Jorgi, invece, Pantaleo, un omaccione forte e con la testa calda, avvertì i finanzieri, mentre perquisivano la sua casa, che, se avessero frugato sotto la legna sistemata in una stanzetta che stava sul terrazzo senza trovarvi il tabacco, avrebbero poi dovuto risistemare per bene tutti 9 Versi tratti dalla poesia Xanti-Yaca. 16 quei grossi taccari (pezzi di legno) che lui con tanta fatica aveva aggiustato. I finanzieri insospettiti che proprio lì potesse esservi nascosto il tabacco, spostarono fino all’ultimo pezzo di legno e non trovando niente fecero per scendere senza risistemare i pesanti taccari. Il maresciallo, però, quando vide che Pantaleo, andando su tutte le furie, voleva buttare i finanzieri dalla finestra, cercò di calmare le acque facendo risistemare per bene tutta la legna.10 Spesso i fumatori passando davanti ai tiraletti allungavano una mano per arraffare un po’ di tabacco che veniva all’istante sbriciolato e sistemato nell’apposita cartina per essere fumato. Una volta che il tabacco era essiccato, si staccavano le nserte dai tiraletti e con dieci di queste si facevano i pùpuli o kiùppi che venivano appesi per la stagionatura non solo nei soffitti delle stalle o delle vecchie stanze, ma persino nelle volte della cucina e della camera da letto, cosa questa che può essere testimoniata sia dalla memoria della gente, che dai tanti ganci di ferro rimasti ancora oggi sulle volte di alcune case del centro storico di Sternatia. Nel mese di novembre, finita la stagionatura i pupuli erano sistemati negli sporti o casce (casse di legno) e trasportati nelle fabbriche dove venivano sistemate in attesa di essere lavorate. A questo punto iniziava il lavoro delle tabacchine che durava circa quattro mesi. La maggior parte delle nostre intervistate ha iniziato a lavorare all’età di quattordici anni, ma non sono mancate quelle che hanno affermato di aver iniziato addirittura prima. Diversi erano i ruoli che si potevano avere nella fabbrica, c’era la mescia (maestra) che aveva il ruolo di controllore, poi potevano esserci una o più sottomescie e infine le operaie con il ruolo di imballatrice, cernitrice o spianatrice. La mescia era scelta, per amicizia, parentela o simpatia, direttamente dal datore di lavoro, per cui era portata a fare gli interessi del proprietario. A Sternatia non mancavano gli scioperi: “si scioperava per il lavoro duro e faticoso, per le marche che non venivano versate. Il lavoro di tabacchina era pericoloso, si andava con le mascherine in fabbrica per 10 Questi racconti sono tratti da una registrazione privata del 1997. 17 l’odore del tabacco e con un camice comune”.11 Gli scioperi erano più sentiti specialmente quando, con l’arrivo delle macchine e della tecnologia, il lavoro diventava sempre più scarso e i concessionari iniziavano a licenziare le operaie. Il problema dei licenziamenti diventava sempre più complesso perché, con il passare degli anni, la coltivazione del tabacco diminuiva drasticamente di anno in anno con la conseguente chiusura delle fabbriche. Intorno alla coltivazione del tabacco e al lavoro delle tabacchine sono nati tanti racconti, soprattutto ad opera di quelle donne, per così dire, più adatte a raccontare storie vere, a inventare delle nuove e molto spesso a fondere i fatti reali con la fantasia. Si racconta, per esempio, che durante il periodo estivo, quando i coltivatori del tabacco dormivano in campagna erano soliti fare degli scherzi. Si prendeva una zucca con una candela accesa all’interno, simile a quella che si prepara per la notte di Halloween, e veniva appoggiata su un muretto a secco con il fine di spaventare un amico o qualcuno che dormiva nelle campagne vicine. La paura dell’oscurità e i lugubri versi delle civette diventavano complici di coloro che si divertivano a organizzare gli scherzi. Era così che nascevano i racconti degli spiriti e dei fantasmi che comparivano nottetempo tra i lunghi filari del tabacco. Il tema del tabacco è presente in qualche componimento tradizionale in lingua grika già nel XIX secolo quando, sembra, che tra i greci del Salento ci fosse il vizio di tabaccare, cioè di fiutare la polvere di tabacco per “tenersi sempre all’erta”. Queste poesie pubblicate per la prima volta nel 1978 e in seguito nel 1999, facevano parte di una copiosa raccolta di componimenti e canti in griko trascritti su un “quaderno” a Corigliano d’Otranto. Il “quaderno”, che apparteneva a un certo signor Fiorentino di Corigliano nel 1866 fu dato da N. Marti a Vito Domenico Palumbo di Calimera che ricopiò tutti i canti sui suoi quaderni sotto il titolo di Raccolta di poesie greche di Corigliano d’Otranto. 11 Da un’intervista. Cfr. S. Sicuro, Itela na su pò… Canti popolari della Grecìa Salentina, Calimèra 1999, p. 283. Crf. anche V. D. Palumbo, Canti grecanici di Corigliano D’Otranto, a cura di S. Sicuro, Galatina, 1978, p. 122. 12 18 La poesia è riportata con il titolo Ringraziamento del Tabacco:12 Arte ivò inghìzi na se rengraziètso jatì sìmmeri isciàletsa ton dabbàkko ka motte chàtiza na refiskètso, itabbàkketsa ce anoìamo strakko. Kumandètsò-mme, a’ tteli na se dulètso, jatì isa’ kkalò, ce ipa ti è’ ffiàkko, Imèna fani chlorò ambrò so’ llinno, tuo ti è’ bbrao pu su fei ton inno. Massimamènte an ise matimèno, ka tuo se kratènni panta i’ rresvìjio ce ikànni filìa puru m’o jeno motte ifènete ciso mea ijo. Arte ancignò ce to klinno is bisbìjo. Kumandètsò-mme, t’ivò isèna meno, ce a teli na se dulètso finka ime io, da-mmu addhi’ mmia pijàta t’ ìsane alìo. Adesso mi tocca ringraziarti perché oggi ho scialato il tabacco e mentre sedevo per riposarmi, ho tabaccato e mi sentivo stanco. Comandami, se vuoi che io ti serva perché era buono e dissi che era cattivo. Mi sembrò verde davanti alla lucerna, codesto è buono che ti toglie il sonno. Massimamente se ci sei abituato, che codesto ti tiene sempre all’erta e fai perfino amicizia con la gente quando appare quel grande sole. Adesso comincio a concludere in bisbiglio. Comandami, ché io attendo te, E se vuoi che ti serva finché vivo, dammene un’altra presa, ché era poco. 19 Dalla stessa fonte proviene quest’altra poesia dedicata alle caratteristiche di alcune persone e, al primo posto, spicca quella del tabaccoso che cerca sempre di scroccare a tutti un po’ di tabacco. Il titolo è Caratteristiche varie di taluni:13 O Tabbakkùso na su piài tabbàkko, o mèsciu Ginu na su pi to krasì, o Kurciulùna na fortòsi to’ ssakko, pane ja nnominàta oli ce tri. ... Il Tabaccoso a scroccarti il tabacco, mastro Gino a berti il vino, Curciolone a caricare il sacco, sono rinomati tutti e tre. … Il tabacco da fiuto e anche quello da fumo veniva conservato nella tabacchiera, piccola scatoletta di metallo (ma poteva essere anche di altro materiale), che ritroviamo in questa breve filastrocca in dialetto leccese:14 piri piri Mari Dunata, cazza cazza la tabacchiera e me dai na pizzicata, piri piri Maria Dunata. Infine, un’altra curiosità: le tabacchine di Sternatia per paura di contrarre la tubercolosi, alla quale potevano essere soggette per l’aria che si respirava nelle fabbriche di tabacco, nominarono come loro santo patrono san Luigi Conzaga, protettore della gioventù, morto a Roma nel 1591 curando gli ammalati. Ogni due settimane, nel giorno di paga, tutte 13 14 Cfr. S. Sicuro, Itela nasu po’…, cit, p. 283. La filastrocca è tratta da archivio privato. 20 le tabacchine versavano un obolo volontario che serviva per la festa che, secondo il calendario liturgico cattolico, si tiene il 21 di giugno. La festa consisteva in una celebrazione eucaristica con panegirico, la processione che seguiva il tradizionale tragitto intra ed extra moenia; era poi assicurata la musica della banda e ovviamente non potevano mancare i fuochi pirotecnici fabbricati dai famosi fochisti di Sternatia. Dai racconti di alcuni anziani si evince che la stessa statua di san Luigi, oggi sistemata in una nicchia della chiesa madre, fu fatta costruire nel 1955 dai maestri cartapestai leccesi su iniziativa di tutte le tabacchine di Sternatia. Sempre gli anziani, dicono che, secondo la tradizione, la statua, quando fu trasportata dalle botteghe di Lecce a Sternatia, doveva sostare presso la prima casa che si incontrava arrivando all’ingresso del paese per essere benedetta. Qui sorse una disputa tra il proprietario della prima casa da una parte e il prete e il sindaco dall’altra. Questi ultimi non volevano che la statua si fermasse in quella casa perché il proprietario era comunista e, di conseguenza, il suo colore politico non era indicato per accogliere santi e benedizioni. Alla fine però sindaco e prete dovettero cedere alle insistenze del proprietario di quella casa il quale, sentendo venir meno un suo diritto proveniente dalle antiche tradizioni degli antenati e sostenendo che il partito politico nulla aveva a che fare con la religione e la devozione ai santi, si impuntò talmente tanto da riuscire ad averla vinta e ospitò la bellissima statua di san Luigi per la cerimonia civile di accoglienza e religiosa di benedizione. Sono tante ancora le storie che le nostre tabacchine potrebbero raccontare; si auspica che questo primo lavoro possa stimolare nuove ricerche che arricchiscano l’aneddotica e approfondiscano il contesto socio-economico e le tensioni politiche e sindacali che hanno caratterizzato quel periodo. 21 Polemònta si’ ffràbbika a’tse tabbàkko Giorgio Vincenzo Filieri I ghinèke askònnatto so pornò ipìane i’ ttotsu na nòsone alè, ce prakalònta panta to’ Tteò jurèane afitìa ja tikanè. Poddhà pensèria vastùane so mialò, ti si’ ffrabbika ìnghize na pane, ce en ìchane makà poddhì’ ccero manku tos pedàcio na dòkone na fane. Proti ppiri na simàni i ora ittà, ìnghize na statùne ambrò so’ pportùna, an ‘de e tes kànnano n’àmbone makà, me to’ llicenziamènto a’tto’ ppatrùna. Poddhì’ llavoro iche i tabbakkìna, polemònta ton dabbàkko me ti’ chèra, to Santujàka ce ti’ Zagovìna, ti Perustìtsa, j’oli tin imèra. En ìsoze kantètsi, nde milìsi, en ìsoze fai na’ spri tsomì, en ìsoze pai na katùrisi, a’tto’ llavòro en ìsoze sistì. Na refiatètsi en iche to’ ccerò, jatì ‘o polemìsi isa’ ppoddhì ce manèchà to’ rrushio, to’ pprikò, a’tton dabbàkko, iche na kustì. Ta pedàcia pu tèlane to gala, vizànnane si’ mmana fretta e fùria, ce itu cina jèttisa poi mala, me sakrifìciu a’tse ola ta kulùria. Tuse ghinèke pu isa’ ttabbakkìne, poddhì ipolemìsan’ si’ zoì, ja tuo arrikordàte panta ine, me oli ti’ kkardìa ce ti’ tsichì. 22 Lavorando nella fabbrica del tabacco Le donne si alzavano di buon mattino, andavano in campagna a raccogliere olive, e pregando sempre il Buon Dio, a lui chiedevano aiuto per ogni cosa. Nella loro mente avevano molti pensieri, perché poi dovevano andare in fabbrica, e non avevano per niente molto tempo neanche per dar da mangiare ai figli piccoli. Ancora prima che suonassero le sette, dovevano trovarsi davanti al portone, altrimenti non sarebbero più potute entrare e le avrebbe licenziate anche il padrone. Molto lavoro faceva la tabacchina, lavorando il tabacco con le mani: lo Xanti-Jaca, la Zagovina e la Peristizza, per tutto il giorno. Non si poteva cantare, né parlare, non si poteva mangiare un po’ di pane, non si poteva andare in bagno, e dal lavoro non ci si poteva spostare. Non c’era tempo neanche per respirare, perché il lavoro era tanto duro, ma si doveva sentire soltanto l’amaro fruscio del tabacco. I bambini che avevano bisogno del latte ciucciavano alla mamma in fretta e furia, e così questi sono cresciuti, tra i sacrifici di diversa entità. Tutte queste donne, ex tabacchine, hanno lavorato tanto nella loro vita, per questo saranno sempre ricordate con tutto il nostro cuore e con tutta l’anima. 23 Combinare le storie Eugenio Imbriani 1. Premessa Per mesi aleggiava nell’aria l’odore del tabacco, che diventava tenue nei luoghi più lontani dagli opifici, “le fabbriche”, ma si avvertiva forte se le operaie tabacchine, in pratica tutte le donne abili del paese, ad eccezione di sarte, ricamatrici, filatrici, ti passavano accanto, specialmente al ritorno dal lavoro. Non dico che fosse un profumo, ma non era il più sgradevole tra gli odori che si diffondevano e si mescolavano nei mesi invernali: fumo, carbonella, i forni la mattina, zaffate di sentina dai frantoi sul permanente e più soffuso sentore della sansa, il letame, gli animali domestici allevati nei piccoli cortili e nelle stalle, nel bel mezzo dell’abitato. D’estate la coltivazione, la raccolta, l’essiccazione del tabacco si svolgono all’aperto, la sua lavorazione iniziale non costringono foglie, balle e persone, a tonnellate e a centinaia in un durevole abbraccio in ambienti chiusi, sebbene ampi. Mi riferisco a un periodo che copre l’ultima parte degli anni ’60 e il decennio successivo e a un’esperienza comune a quanti vivevano in un minuscolo paese della provincia di Lecce; mi fa una qualche impressione riscoprirmi testimone. Posso anche aggiungere che indispensabile elemento della mia formazione è stato l’essermi trovato, nei primissimi anni ’80, tra novembre e gennaio, subito dopo la laurea (in filosofia) a lavorare in Abruzzo per conto di una ditta che acquistava tabacco dai coltivatori; facevo l’aiuto ragioniere, figurarsi. Stavamo tutto il giorno, in un capannone tra le colline, da quando albeggiava, a valutare (c’era il perito agrario, ovviamente), pesare, pagare il tabacco e caricarlo sui camion, ma l’impresa più ardua era far quadrare i conti la sera; imparai solo allora a conoscere le varietà del tabacco levantino, distinguibili per le dimensioni delle foglie e per altre caratteristiche che mi sono restate misteriose, e a conoscerne i rispettivi nomi (perustitza, erzegovina, xanthi, soluk) non alterati dalle innumerevoli forme verbali con cui sono indicate dai con24 tadini, di cui, tra l’altro, le interviste che seguono forniscono numerosi esempi. 2. Tabacchine L’intera produzione del tabacco orientale nella Puglia meridionale assume la sua massima espansione negli anni del fascismo, durante i quali si moltiplica il numero delle concessioni; si trasforma, in qualche misura, il paesaggio agrario locale, e tuttavia permangono aree poco o mal coltivate, zone macchiose e acquitrinose. Il clima e la qualità del terreno consentivano l’introduzione e la coltivazione con successo delle varietà di tabacco diffuse sull’altra sponda dell’Adriatico, che conservavano nei nomi la testimonianza della loro provenienza. Il massiccio impiego di manodopera stagionale femminile consentirà la costituzione di un corpo di lavoratrici molto solidale e coeso; subito dopo la guerra, anzi, già nel 1944 il movimento contadino comincia a organizzarsi introno ad alcuni temi e a rivendicazioni che negli anni successivi esploderanno nell’occupazione delle terre e nella lotta per i diritti dei lavoratori salariati. Il loro malcontento è già maturo e rilevabile successivamente all’armistizio; la povertà e il disagio sociale diffusi, particolarmente, nell’Italia meridionale, richiedono risposte concrete e efficaci, la tensione sociale tende a crescere, e le tabacchine in questi frangenti assumono un ruolo di avanguardia e riescono a fornire una formidabile prova di forza in occasione dello sciopero iniziato il 12 novembre 1947 e proseguito per giorni tra scontri molto duri, che hanno prodotto feriti e arresti. Le conseguenze delle agitazioni ricadono all’interno degli stesi opifici, perché le tabacchine sindacalizzate e più attive si ritrovano a dover subire le ritorsioni dei padroni, spesso con il soccorse delle famigerate “mesce”, tra cui, però, non mancavano le persone perbene. Comunque, complessivamente, si registrano dei risultati confortanti: «La storia sociale del Salento», scrive Remigio Morelli, «tra il ’45 e la fine degli anni ’50 è contrassegnata dal protagonismo di questa categoria che, grazie alla sua determinazione e alle dure lotte, riesce ad ottenere, nell’arco di pochi anni, risultati considerevoli: ripetuti adeguamenti dei salari al costo della vita, concessione del sussidio di disoccupazione e copertura previdenziale per tutti i sei mesi non lavorativi, assegni fami- 25 liari. Inoltre, contratti collettivi, in verità mai completamente applicati in provincia di Lecce, che garantiscono condizioni di lavoro e di tutela sociale sostanzialmente dignitose: mense, pause per l’allattamento, migliori condizioni igieniche».1 Non sarà casuale, quindi, che proprio a Lecce si svolga il primo congresso nazionale delle tabacchine. Sono anni gravidi di vicende politiche e di lotte sindacali, la questione meridionale è tema centrale nelle strategie del governo nato nel 1948 e delle opposizioni, sono periodi di grande aggregazione e partecipazione popolare, nel 1949 si riuniscono le Assise per il Mezzogiorno, alla fine dell’anno ha luogo il massiccio movimento di occupazione delle terre, che proseguirà nei mesi successivi, nel 1950 viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno. Ma non andiamo molto oltre. In fabbrica la vita era dura, anche se progressivamente si noteranno dei cambiamenti positivi; quando ancora il rispetto dei diritti era di là da venire poteva capitare un caso come il seguente, «raccontatomi da una oggi vecchia tabacchina: una donna partorì su un letto di tele di tabacco che essa stessa sin dalla mattina si era preparato in un angolo della fabbrica. Sapeva di essere al nono mese, ma si recò lo stesso al lavoro. Dopo che aveva partorito, assistita dalle compagne più esperte, mandò a chiamare il suo uomo con il quale viveva senza essere sposata, il quale venne con un carrettino da lui stesso trainato. Caricò puerpera e bambino sul carrettino e se li portò via. Erano gli anni Trenta e il caso non era da considerarsi eccezionale».2 Non proprio così cruda, ma certamente consonante è la voce di Carmela De Santis nell’intervista che troverete più oltre: si lavorava dalle sette alle dodici, poi una breve pausa, ma «non riuscivi neanche a mangiare, se avevi bam- 1 R. Morelli, Il movimento delle tabacchine in provincia di Lecce nel secondo dopoguerra (1944-1952), in Politica e conflitti sociali nel Salento post-fascista, a cura di Mario Spedicato, Lecce, Conte, 1988, pp. 67-83: 74; su questo stesso tema cfr. anche il film documentario di Luigi Del Prete Le tabacchine. Salento 1944-1954, 2003, 52 min. Per una ricostruzione delle vicende legate alla coltivazione del tabacco nel Salento cfr. in part. Rossella Barletta, Tabacchi, tabaccari e tabacchine nel Salento: vicende storiche, economiche e sociali, Fasano, Schena, 1994. Per il XIX secolo, vedi, inoltre, Franco A. Mastrolia, Agricoltura, innovazione e imprenditorialità in Terra d’Otranto nell’Ottocento, Napoli, ESI, 1996. 2 Giovanni De Blasi, Vita tradizionale a San Donato nel Salento, Lecce, Edizioni del Grifo, 1996, pp. 36-37. 26 bini, la famiglia. Perché allora quando avevamo bambini, non è che ti davano i mesi di maternità. No, tu andavi incinta quando sentivi che avevi dolori, andavi a casa, compravi il bambino, quando ti stabilivi, che passavano quei 7, 8, 10 giorni cominciavi a lavorare, avevamo pure le mamme che ci tenevano i bambini, le sorelle più grandi, dipendeva poi dalle famiglie, no. E così all’una dovevi rientrare di nuovo, preciso l’una e si usciva poi alle tre e mezzo alla sera». Non si può generalizzare, ovviamente, perché nel paese c’erano tre opifici e, come abbiamo visto, nel tempo qualcosa poteva cambiare sia nella gestione di essi che nella legislazione;3 «C’era l’allattamento nelle fabbriche», racconta Iolanda Mastrolia, «oppure si usciva per mezz’ora/un’ora per andare a casa ad allattare i bambini. Uscivano, oltre alla mezz’ora di pausa, e andavano a casa per un’ora». Le “mesce” erano rigide, distribuivano le mansioni – spianatrici, cernitrici, imballatrici – secondo il loro capriccio, volavano rimproveri e minacce, per niente si poteva perdere una giornata di lavoro, «facevano gli interessi del principale», si faceva l’appello all’entrata, trovare il portone ormai chiuso significava una decurtazione della paga; un usciere faceva l’appello, e poi poche chiacchiere, «non scherzavamo, si lavorava e basta. Se cantavi, erano storie». È un elemento, questo, ricorrente; lo notava anche Alessandro Portelli, presentando la ricerca sulle tabacchine di Tricase: «C’è una indicazione molto chiara nei racconti: in campagna si canta, si raccontano storie, si parla; in fabbrica si può essere punite per una parola o anche solo per aver morso le labbra».4 Un’anziana signora, Santa, ora ottantaquattrenne, che vive in una frazione all’estrema periferia di Lecce, possiede un repertorio molto ampio di fiabe e di storie di santi, e mi racconta di averle apprese dalla madre che gliele raccontava per tenerla sveglia quando andavano prestissimo a raccogliere il tabacco e mentre sedevano a infilare le foglie nelle corde che poi avrebbero legato sui telai. La pervasiva presenza del canto, come è noto, spinse de Martino a invitare il musicologo Diego Carpitella nelle sue spedizioni 3 Un esempio è il seguente, nell’efficacissima sintesi di Pantalea (cfr. infra): «Poi vessiu la legge e quandu stavi alli sei mesi potivi lassare e te diane lu stessu li sordi». 4 Alessandro Portelli, Storia orale per un Salento storico, in Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, a cura di S. Torsello e V. Santoro, Lecce, Manni, 2002, pp. 9-18: 15. 27 nell’Italia meridionale: non so com’è, ma quando sono lì va finire sempre che si canta… Uccio Aloisi aveva chiesto a una certa signora Uccia De Donatis di andare a raccogliere il tabacco con le sue sorelle; così fecero, quindi «pijara le cusceddhe e zicca quista Uccia, no? [presero gli aghi per infilare le foglie di tabacco e questa Uccia comincia a cantare]: È arrivata la barca di Roma accompagnata con due barchette mi sento dire da tutta la gente il primo amore è partito per mar».5 Uccio Bandello, in un’intervista rilasciata a Luigi Chiriatti nel giugno 1997, e più volte riproposta, spiegava: «quandu, andavane alla campagna, per dire, faciane lu tabaccu, no? […] Sciane fore, se mentiane la sera cu chiantane lu tabaccu e allora cantavane, de sdegnu, unu cu l’addhu, se rispundiane uno co un altro, tutti due, due, a due; poi se sedevanu, per dire, al fresco, all’estate, quandu… e cantavane ntorna, a coru, no?»6. Naturalmente, poi, la percezione di questi avvenimenti, della stessa dicotomia dei comportamenti tenuti in fabbrica e in campagna, può essere completamente ribaltata; i punti di vista condizionano i ricordi. Così Maria Teresa Migliore, figlia dei titolari dell’opificio Rossi, riferisce di un’atmosfera molto rilassata tra le lavoratrici: «nei miei ricordi ci sono queste donne che giravano in queste camere, nella zona di lavoro del Castello. Addirittura ricordo che a Sternatia, c’era una zona, qui di fronte il castello, dove c’era la Kalìzoi, una stanza adibita alle mamme operaie, voluta dal Dottore Specchia, dove le donne con bambine piccole si rifugiavano per allattare i bambini. Grande rispetto per l’essere donna e lavoratrice, anche con neonati a carico. Le fabbriche erano ambienti abbastanza festosi, perché vedevi queste donne lavorare sempre can- 5 Uccio Aloisi, I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, a cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro, Sergio Torsello, Lecce, Aramirè, 2004, pp. 22-23. 6 Intervista a Uccio Bandello, in Antonio Aloisi, Antonio Bandello, Bonasera a quista casa. Pizziche, stornelli, canti salentini, Lecce, Aramirè, 1999, pp. 33-37: 33. 28 tando, con il sorriso sulla bocca. Il ricordo si è poi perpetrato negli anni e ogni volta che le incontravamo a lavorare il tabacco, vedevamo donne con aria di festa, non fatica»; Annamaria: «cantavane certe vote, quando era in fine lu lavoru cantavane»; invece Annunziata: «Se potia cantare? No…gnenti»; nemmeno parlare, aggiunge Vita. Angiulina ricorda che si recitava il rosario. E il lavoro nei campi non era così allegro, anche se poteva esser sollevato dal ritmo dei canti, dalle conversazioni, dalle preghiere; le parole di Angiulina sono molto chiare e dirette: «cu li genitori mei faciame centu are de tabaccu, ca prima lu sarchiava lu nonnu, lu sire miu, cu la zappa, lu sarchiava cu la zappa, ca moi tutti cu lu trattore, cu li mezzi svierti, ma tandu eri buttare lu velenu». 3. Un archivio per le storie La ricostruzione memoriale del passato dipende dal momento in cui avviene, dai motivi che la sostengono, e quindi dal vissuto dei testimoni. Più che la adesione a una fedeltà storica, pure onestamente perseguita, essa riflette una condizione attuale della persona chiamata a recuperare informazioni, il più delle volte frantumate e vaghe, e a organizzarle in un racconto che abbia un suo sviluppo. Questa prassi ha luogo più facilmente se gli stimoli vengono attivati con il ricorso alla conversazione, al dialogo, al reciproco confronto: non casualmente, molte delle interviste registrate in vista della preparazione di questo volume sono festosamente sonore, polifoniche, le voci si sovrappongono, talvolta, corrono in soccorso le une alle altre. Chi cerca storie o documenti di tradizione orale sa bene quanto sia efficace la presenza di più informatori che si sostengono e correggono a vicenda, o di parenti e amici che li hanno già sentiti narrare; quante volte le notizie risultano confuse e quante la loro esattezza è il risultato di un accordo. A me è capitato, per esempio, di assistere, presso un gruppo di anziani cantori, alla fissazione del testo di un vecchio canto, composto grazie a numerosi interventi e negoziazioni, sulla base di un faticoso compromesso; i più sottili filologi, mutatis mutandis, agiscono molto diversamente? Esiste, poi, una ampia serie di materiali memoriali messi per iscritto da autori che hanno una limitata dimestichezza con la scrittura; in casi 29 del genere, lo strumento favorisce la riflessione sull’accaduto, il trasferimento sulla carta dei pensieri e dei ricordi ne provoca la messa in un ordine, che sia tematico o narrativo, e il foglio si converte in una sorta di finestra che si apre su uno scenario in cui i personaggi recitano le loro azioni e gli oggetti trovano collocazione. La presente ricerca non ha recuperato testi autobiografici o etnografici manoscritti o lettere, perché orientata al reperimento di narrazioni orali; suppliscono le fotografie, in qualche misura, che solleticano il nostro abituale voyeurismo e costituiscono a loro volta stimoli per ripensare e rimembrare. Ma secondo me è possibile continuare a pensare il presente lavoro così come era nei voti che lo hanno promosso, e cioè l’avvio di un progetto più ampio che preveda la costituzione di un archivio in cui trovino posto i documenti che riguardano la storia sociale della comunità: scritti, orali, filmati, registrati, cioè quanto gli abitanti del luogo hanno prodotto nello svolgersi delle loro vite e i tentativi di interpretarle. Le vite sono storie spesso non raccontate, le vite sono storie da raccontare. Ogni atto, ogni gesto, ogni situazione gode di uno stato di prenarratività; poi li si può raccontare o meno, farne cenni o una ricostruzione sistematica, o lasciar galleggiare nel bagaglio di esperienze, o, meno impegnativamente, dimenticarsene. L’oblio è il destino della maggior parte di quel che facciamo, subiamo, diciamo, pensiamo; è il motivo per cui bisogna intendere la memoria come uno strumento selettivo, che produce, costruisce delle configurazioni di eventi trascorsi e ne elabora i significati: sono operazioni che si svolgono nel presente, e i ricordi non stanno indietro nel tempo, ma appartengono all’attuale esperienza del ricordare; le storie di vita ci mettono in contatto con la varietà delle vicende e delle sensibilità, aiutano a riflettere sulla collocazione dei “nostri” modelli culturali in panorami più vasti, a vigilare sull’uso strumentale che del passato fanno le politiche (per demonizzare l’avversario, per rivendicare primati e linee di continuità con avvenimenti ritenuti particolarmente significativi, per costruire identità locali definite da proporre all’attenzione di un vasto pubblico). 30 La ricerca 31 - La trascrizione rispecchia fedelmente i dialoghi; pertanto i testi risultano talvolta poco logici o contraddittori o anche sgrammaticati. - I puntini di sospensione sono puramente evocativi, cioè non stanno ad indicare omissioni di parole. 32 Elenco intervistati LUCIA CALDARARO; NICOLETTA CENTONZE; MARIA IOLANDA CHIRIACÒ; PANTALEA CHIRIACÒ; ELEONORA CONTE; CARMELA DE SANTIS; ROSARIA FRANTELLI; ANGELA GRASSO; COSTANTINA GRASSO; MARIA ITALIA GRASSO; MARIANGELA LINCIANO; LORETA LEO; CONCETTA MAGGIORE; LUCIA MARTI; MARGHERITA MARTI; COSTANTINA MATTEO; IOLANDA MASTROLIA; VITA MASTROLIA; MARIA TERESA MIGLIORE; LEONARDA GIUSEPPA PELLEGRINO; CLELIA GIUSEPPA REALE; ANNAMARIA SCARPA; MARIA SCORDARI; ANGELA SIMEONE; GRAZIA SIMEONE; CLEONICE SPAGNA; GIUSEPPE SPAGNA; GRAZIA SPAGNA; ORAZIO TARANTINO; RAFFAELLA TARANTINO; ADDOLORATA VERGINE; VINCENZA ANTONIA VILLANI. 33 Intervista a Maria Italia Grasso Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Maria Italia Grasso; Luogo e data di nascita: Sternatia il 01/05/1922; Residenza: Sternatia; Professione: ex tabacchina; Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi. D.: Sei emigrata all’estero? R.: No D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Nel 1935, quando avevo tredici anni. D.: Per quanto tempo? R.: Fino al 1966, quindi per trentuno anni. D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare? R.: Si iniziava alle sette e si usciva alle dodici per mangiare qualcosa; poi si rientrava in fabbrica dall’una fino alle quattro. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Allora… una su lu cumentu, una dove adesso c’è il supermercato Dì per Dì, una alla stazione, una allu castieddhu e una alla chiazza. D.: Chi erano i proprietari? R.: Quiddha de la chiazza, ddu nc’ete la farmacia, era de lu Mastrolia; quiddha de lu castieddhu e de la stazione erane de tre soci: lu Grecu, lu Rossi e lu don Angiulinu Ancora; quiddha de lu cumentu era de don Antoni. D.: In quale fabbrica hai lavorato? R.: Aggiu faticatu pe tutti, tranne ca pe don Antoni. D.: Quante donne lavoravano in fabbrica? R.: Una cinquantina circa. D.: Facevi delle pause per mangiare qualcosa? R.: no no... mangiavame na friseddha scuse sutta llu bancu mentre faticavame. 34 D.: Tu cosa facevi nella fabbrica? R.: La “imballatrice”, la cernitrice e la spianatrice. D.: C’era qualcuno che ti dava gli ordini? R.: Le mesce. D.: Chi erano la tue “mesce”? R.: Allu Mastrolia l’Angiulina de lu Inzi, allu Specchia l’Assunta Marti, poi nc’era la Peppina de lu Cazzeddha e poi n’cera la Ndata de lu Carlinu ca facìa la “sottomescia”. D.: Com’era il rapporto con le “mesce”? R.: Certe fiate erane bone, certe fiate no....comu li nchianava. D.: Vi trattavano male? R.: Nc’è quiddhe ca te trattavane male percè no spicciavi le ‘nserte... erane severe. D.: Ma vi picchiavano pure? R.: No no... sulu parole cu ci sbrigamu cu faticamu. D.: In quali mesi si lavorava in fabbrica? R.: Dicembre, gennaio. D.: Chi era la donna lavoratrice un tempo? R.: Na fiata vessiame de la fabbrica e sciame a casa cu facimu de mangiare... e poi non c’era la televisione; nui faciame lu puntu giornu, lu ricamu... Li tempi su cangiati! D.: Quanti tipi di tabacco esistevano prima? R.: Quattro scelte... da quella più verde a quella più marrone; lu fronzone è la prima scelta. A seconda della qualità de quandu chianti lu tabaccu nc’era la santujaca (quiddha ca resta vascia vascia), lu pidistizza (cu le fojazze lisce) e la zaguina (cu le fojazze grosse). D.: C’era gente di fuori paese che veniva a lavorare a Sternatia? R.: Sine, de Martignanu. D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre? R.: Sine, cu no’ rrubbane lu tabbaccu... ca era a contrabbandu... D.: Quanti soldi ti davano al giorno? R.: Centocinquanta lire. D.: Ogni quanto ti pagavano? R.: Ogni quindici giorni. D.: Ti mettevano i contributi? R.: Si si… ma nc’era ci te dicìa sì e poi no te mintìa nienti. D.: Ma a tie l’hannu misi tutti sti anni ca faticasti? 35 R.: None fija mia... era bonu... Se me l’erane misi tutti, moi tenìa na paga chiù alta. D.: Facevate li scioperi? R.: Si, faciame tanti... e poi ni ridussera li orari: trasìame alle sette e menza, vessiame a menzatia, tornavame all’una e vessiame alle tre e menza. D.: Ti ricordi qualche sciopero? Alla chiazza? R.: None, no me ricordu. D.: Quanti giorni durava uno sciopero? R.: Uno o massimo due giorni. D.: Le mesce... Come si faceva a diventare “mesce”? R.: Sapianu la qualità de lu tabaccu. D.: Ah, sulu pe quiddhu? No percè teniane canuscenze? R.: No no, quali amicizie! La prima mescia era zziama Assunta (Grasso). D.: Indossavate una divisa? R.: Allu Specchia mintiame nu camisu marroncinu. Però prima cu ni pijavane, ni faciane fare na visita medica, cu no tenimu la bronchite, la tubercolosi, lu custipu... D.: C’erano anche uomini in fabbrica? R.: No no... c’era solo un maschio che apriva la porta... D.: Appena arrivavate in fabbrica qualcuno faceva l’appello? R.: Sine, ogni giurnu. D.: Chi lo faceva l’appello? R.: Lu Dunatu Chiriacò, lu stessu ca stia alla porta. Certe fiate lu facìa puru don Cici Specchia. D.: Potevate cantare in fabbrica? R.: None... sulu l’urtimu giurnu… D.: Come paralavate tra voi, in griko o dialetto? R.: Sempre in griko. D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il motivo? R.: Percé no facìane chiùi tabbaccu... no se vindìa... D.: Ti ricordi qualche tabacchina di Sternatia ancora in vita? R.: La Loigia de lu Nardu, la Rita e la Lucia de le Tomene ecc. 36 Intervista ad Addolorata Vergine Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Addolorata Vergine; Luogo e data di nascita: Sternatia il 04/03/1921; Residenza: Sternatia; Professione: ex tabacchina, poi barista; Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi. D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Nel 1935, quando avevo quattordici anni. D.: Per quanti anni hai lavorato? R.: Fino al 1950. D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare? R.: Si iniziava alle sette d’estate e alle sette e trenta d’inverno, e si usciva alle 12 per mangiare qualcosa; poi si rientrava in fabbrica dall’una fino alle quattro. D.: Facevi delle pause per mangiare qualcosa? R.: Si alle otto al mattino… e poi alle dodici a pranzo. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Quattro! Due al castello, una in piazza (dove ora c’è la farmacia) e una al convento. D.: Chi erano i proprietari? R.: Non me li ricordo… c’erano dei soci… mi ricordo un certo Moschettini, ma non so… D.: In quale fabbrica hai lavorato? R.: Io ho lavorato prima nella fabbrica del castello dove c’era il Dott. Specchia e poi in quella della piazza. D.: Tu cosa facevi nella fabbrica? R.: Di tutto… facevo anche la mescia e a volte facevo anche l’appello, se non c’era il ragioniere. D.: Chi era il ragioniere? 37 R.: Uno di Zollino. D.: Quindi eri una “sottomescia”? R.: Si, ma insieme ad altre due… ci dividevamo i ruoli e controllavamo tutto. D.: Le tabacchine cosa facevano invece? R.: Facevano le spianatrici, sfilavano le foglie una per volta e poi le “imballatrici” le mettevano in una scatola. D.: Com’era il rapporto con le “mesce”? R.: Andavo d’accordo con tutte! Le rispettavo e mi rispettavano, perché sapevo fare tutto. D.: In quali mesi si lavorava in fabbrica? R.: Da Novembre fino a Marzo o Aprile. Ma l’estate lavoravo in un’altra fabbrica, per “avvolgere” le foglie di tabacco. D.: Chi era la tua mescia? R.: Assunta Marti… non c’è più. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano prima? R.: Tutti uguali. C’era la “santujaca”, con la pianta più alta e le foglie più piccole, e la “zavoina”, che invece era bassa con le foglie più grandi. D.: C’era gente di fuori paese che veniva a lavorare a Sternatia? R.: No, perché già qui c’erano molte operaie. D.: In ogni magazzino quante donne lavoravano? R.: Beh, per esempio al castello erano in 100 circa. Ci andavano anche donne incinte. D.: Ma c’era un asilo per i bambini? R.: Sì sì, lì sotto il castello c’era uno. D.: Come si faceva ad allattare i bambini? R.: Si portavano in fabbrica e si prendeva una piccola pausa intorno alle dieci. D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre? R.: Si, perché qualcuno poteva rubare il tabacco e, in tempo di guerra, costava tanto… era un bene prezioso. D.: Quanti soldi ti davano al giorno? R.: Pagavano diversamente a seconda delle categorie; c’era una differenza tra la mescia, le seconda mescia, le imballatrici ricevevano cinque o sei lire, le spianatrici quattro lire, le due lavoratrici che avevano più compiti prendevano fino a tredici lire al giorno, D.: Ogni quanto ti pagavano? 38 R.: Ogni quindici giorni, il sabato. D.: Ti mettevano i contributi? R.: Sì sì, sempre. A volte venivano i finanzieri a fare i controlli. All’inizio ti prendevano a lavorare senza contributi, infatti io ho iniziato a lavorare a otto anni… poi però ho dovuto smettere per un anno e ricominciare a quattordici, cioè da quando era legale. D.: Facevate gli scioperi? R.: No, io no… Le tabacchine si; scioperavano perché non avevano lavoro, dopo la chiusura di una fabbrica. D.: Ci hanno raccontato di uno sciopero in piazza, in cui c’erano le forze dell’ordine… Te lo ricordi? R.: Sì, ma non c’entra con le tabacchine. Era una protesta dei comunisti. D.: Le mesce... Come si faceva a diventare “mesce”? R.: Grazie alle conoscenze… D.: Indossavate una divisa? R.: No, solo il “mantile”. Poi noi che facevamo lavori diversi ci cucivamo un grembiule nero con il collo bianco. D.: C’erano anche uomini nelle fabbriche? R.: In genere no. Solo nella fabbrica del castello c’erano due o tre. D.: Potevate cantare in fabbrica? R.: No, solo a “fine campagna”, perché eravamo contente. D.: Come paralavate tra voi? In griko o dialetto? R.: Sempre in griko. D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il motivo? R.: Perché non si coltivava più tabacco. D.: Ma tu hai qualche fotografia di quel periodo? R.: No, nulla… ho solo delle foto fasciste, come appartenente al fascio. 39 Intervista a Lucia Caldararo Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Lucia Caldararo; Luogo e data di nascita: Sternatia il 3/04/1927; Residenza: Stenatia; Professione: tabacchina e bidella; Intervista di: Maria Lucia Conte e Desiré Maria Delos; Altre note: presenti all’intervista la figlia dell’intervistata Giuseppina Mattia. D: Domanda. R. Risposta. F: Figlia. D.: Quando hai iniziato a fare la tabacchina, Lucia? R.: Era de sedici anni, quindici? D.: A 16 anni allora? Per quanto tempo l’hai fatta? R.: Mo non sacciu cu te dicu lu tiempu F.: Ricordi per quanto tempo sei andata in fabbrica? R.: Ca me ricordu moi… fin quandu spicciau, de quandu scii. F.: E tu non puoi dire più o meno? D.: Finu all’anni ’50 più o menu? F.: No, no, no all’anni ’50 è nata la… quando è nata la Cristina tu facevi già la tabacchina? R.: Sì F.: E quando hai iniziato? R.: Citta nu picca. Allora, tandu ccuminciai ieu, stia arretu… addai ddu stia la zia Carmela. Sacciu moi… F.: Devi dire una data. D.: Più o meno, anni cinquanta? R.: None cinquanta, ca allu cinquanta ccattai la Cristina e stia in corsu già alla fabbrica. 40 F.: E aveva… R.: E già stia sutta ca lavorava. F.: Quindi quarantacinque? R.: Forzi. F.: La Cristina avevi quando tu hai iniziato? R.: Appena sposata tu facevi la contadina? F.: Si, appena sposata faceva la contadina. D.: Va bene, facciamo i calcoli noi. F.: Ti conviene. R.: Allu cinquantunu me sposai. F.: Nel cinquantuno coniugata. D.: A che ora incominciavi e a che ora finivi di lavorare? R.: Alle sette sciame alla matina. D.: Alle sette di mattina incominciavi, allora? R.: Sì. D.: E poi finivi? R.: Alla sera, all’una faciame lu ponte. D.: La sosta, la sosta pranzu? R.: Alle dodici, e poi all’una toccava cu ni trovamu addai. Vessiame nui alle quattru. D.: L’uscita era alle quattru. Ti ricordi? R.: Tie non vidi l’adde quandu hannu ccuminciatu? O quando vessiane? Ave quidde ca stiane puru a dodici anni alla fabbrica. F.: Però tie eri sposata. R.: None era signorina. Era de 16 anni quandu scii ieu. D.: E quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Allora c’era: Peppinu Rossi. Le fabbriche soltantu, però li padruni concessionari no? F.: Tie devi dire la fabbrica comprendente concessionari. R.: Citta! C’era Peppinu Rossi; Don Angiulinu, Angelo Ancora. C’erano due soci. D.: Queste due solamente, Lucia? R.: Queste. C’era poi, la guardia, la finanza, ddai, lu papà de lu Donato… C’era lu Ciccia de Sulitu, ma ieu no’ ssacciu ce cognome… quidda ca stae precata addai. F.: Ah Bonatesta... Francesco Bonatesta. Era la guardia forestale. D.: Mmm. La guardia. Quante donne ci stavano che lavoravano, più 41 o meno? Sì, aspetta nu picca, perché ci sono due stanze. F.: Cameroni? R.: Ca stiravame e poi c’erane le mballatrici, lu mballaggiu. Intra alla stanza mia c’erano due e due mballaggi e in più c’era nu bancu, due e tre, tre banchi ca stiame sedute. D.: Una cinquantina de persone? R.: A nui mo, addintra a nui… A nui c’era n’ adda stanza chiù doppia, vui iti trovare, ntorna poi, quidde ca stiane intra all’addha stanza. F.: Hai detto che c’erano tre di queste stanze? Formate da quante operaie? R.: Me c’era! F.: Una cinquantina ogni camera? R.: No, c’era chiui de cinquanta! F.: Una sessantina? R.: Percé erane lunghi li banchi e c’era na fila quai, na filera addhai, comunque pote essere na ventina, ogni bancu, e faci venti, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta; c’era quasi, non dicu ottanta persone, ma c’erane. D.: Ottanta persone, mamma mia, facevate delle pause durante il lavoro? Si faceva? R.: Alle dodici vessiame quando sunava mezzatia, dalle dodici in poi teniame canza, all’una n’erame presentare a casa, mangiavame, se tenivi piccinni pensavame cu ‘llattane. F.: Devi dire poi che era concesso, come adesso, l’allattamento; davano anche questa possibilità e queste durante lu periudu della gravidanza non veniane adibite a lavori pesanti, come adesso, c’era chi controllava. R.: Me sia me, ste cose non c’entranu. F.: Qualsiasi cosa, loro stanno confrontando tra il lavoro di adesso… R.: Io tandu comprai la Cristina mia perché la legge ca vessiu propriu quandu iu scia ‘ncinta della Cristina. Però dissi ca non scia, ancora lu principu era. Ma le persone ca stavane sedute c’erane chiui de cinque mesi. F.: Usufruiane delle…stavane a casa, usufruivano del periodo? R.: Stavane a casa, però quelli prendevano lo stesso. F.: Usufruivane de lu stipendiu? R.: Stipendiu nu lu pijavi, però facevi la domanda e tenivi lu premiu. F.: La disoccupazione, la cosiddetta disoccupazione? R.: None lu premiu teniame. 42 F.: Ma adesso corrisponde alla disoccupazione. D.: Senti Lucia, che cosa facevate voi nella fabbrica? C’erano... R.: Li dischi, c’era li dischi, no? Stiravame lu tabbaccu, faciame li mazzi e poi ddi mazzi li mittiame, li cconzavame a stu dischiu ca l’era pijare l’amballaggiu; quiddu ca l’amballaggiava la ziccava e facia la striscia ddai perché era tuttu stiratu. Nui erame spianatrice… D.: Tu eri la spianatrice? R.: La mamma Lucia, defriscu aggia, la mamma, la nonna toa... D.: Quidda facia la imballatrice? F.: E tu a che cosa stavi? R.: Alla spianatrice. Perché iu spianava, quidda senza lu miu lavoru no potia fare la mballatrice. D.: Senti, Lucia, ci te dicia «tie a fare na cosa…?» F.: La mescia? R.: E tutte poi. La mescia propri era la mescia Minerva, Emma …Poi c’era la suttumescia… te l’aggiu dire? E bbera… na citta nu picca. Percè alla fabbrica mia c’era la Custantina, Ancora Custantina ca era la sottomescia. D.: Ho capito. Erano di Sternatia? R.: Sì D.: Ho capito. Ma, quanti mesi dell’anno lavoravate, tutto l’anno? R.: No, secondu lu lavoru ca c’era, faciame doi, tre mesi, quattru. F.: Mah andavano verso Natale e finivano ad aprile. R.: L’erame stirare percè nc’era la cantina ca scindiame e addhai se morbidava lu tabbaccu e quiddhe poi tantu lu stiravame, lu cconzavame, bellu, ca era bessire… ca veniane ogni tantu gl’ispettori, vidiane le balle… D.: Chi erano questi? De fore veniane? R.: Sì, sì. D.: Ho capito. Tipo il controllo della finanza? R.: No, no, veniane cu bisciane lu tabaccu perché l’eranu dare chiù nnanti, l’eranu vindìre. E allora veniane, tiravane na fujazza e vidiane. F.: Gli ispettori erano quelli. D.: La mescia stia addhai ’nnanzi F.: Poi devi cantare, cantare la canzone “Fimmine ca chiantati allu tabaccu” R.: Citta, tandu la cantava, moi… D.: Senti Lucia, ma sta canzone la cantavate quando lavoravate? 43 R.: No… Sai ce sì, quandu rrivava Pasqua, la Settimana Santa, poi diciane lu Rosariu alla sera, ogni giurnu lu Rosariu, quandu sciame alla parte della sera, dopu menzatia, all’una, versu le due, due e un quartu, s’azzava na persona ca dicia lu Rosariu. F.: Erano molto devote. R.: Poi dopu, ‘ntorna, quandu era la Passione, lu Giorginu Seddhone, Matteo, ca quiddhu pure era… F.: Giorgio Matteo, verso Pasqua. R.: Chiamava all’appello e poi quiddhu alla settimana santa leggia, trasia alle due porte cu sentimi…, e leggia poi tutta la passione de lu Signore. F.: Vi davano qualche regalo oltre allo stipendio? R.: No. F.: Il pagamento come avveniva? R.: Ogni quindici giurni. D.: Ma tu prendevi un po’ di meno rispetto, cioè? R.: No durante… le spianatrici erane tuttu nu prezzu e le imballatrici erane naddhu prezzu. D.: Chi prendeva di più, voi o loro, Lucia? R.: Loro. D.: E poi c’eranu le mesce… R.: E me, e lu stipendiu loru ci lu sapia? D.: Ma senti, com’era ca una diventava mescia, era...? R.: Quiddha era già chiù grande de nui. D.: In base all’anzianità, alla... R.: Ca c’era tante sai, ca poi dopu forsi ca quiste eranu chiù pratiche, era mintere una quiddhu? D.: Senti e li padruni veniane mai cu ve controllanu? R.: Sì. R.: Com’era lu padrunu? R.: No, erano bravi, percè aggiu dire. Venia don Pippi Rossi. F.: E la Giuseppina Rossi, dell’attuale Mariaté. R.: «Buongiorno ragazze… andate piano, andate piano, non vi preoccupate tanto di lavorare». D.: Forse erane chiu cattive le mesce no, ca... R.: Ca lu Giorginu! “Non è ladru chi va cu ruba, è ladru quiddhu ca rruba lu lavoru”, percè quasi faciane cu te sbrighi: “mena, mena, mena”. D.: Quiddhe forse cu se fannu belle ‘nnanzi alli padruni… 44 R.: Sì, percé quandu venia lu padrunu alla mescia se rivolgia. D.: Quanti tipi de tabbaccu c’erane allora? R.: Tutte quasi contadine erame… D.: La Santujaca? R.: No, a nui era la piristizza. D.: La piristizza, comu era stu tabbaccu? Te lu ricordi? R.: Na, cusì era! R.: Menzanu, dicimu le foglie menzanètte. D.: Quandu sci all’ultima fabbrica però no c’era… erane fuiazze cusì… lu fici add’addha a don Ronzu, de quiddu de Caprarica. Donna Anna, la sai, de Don Cici? L.: La nipote sapimu, la Bernardette. F.: Ca nui imu fattu tabbaccu, presso Don Oronzu, presso privati, poi il raccolto si divideva a metà, perché noi proprio abbiamo fatto tabbaccu pressu privati, no? R.: Ficime trentacinque quintali, lu tabbaccu cusine, la crambuzza cusine… F.: Devi dire poi, la perdita di queste fabbriche … R.: Beh pianu, pianu, l’ultimi anni faciame na quindicina, secondo, e poi pian piano. D.: Niente. R.: Poi vinne la Conchiglia. F.: Ah la Conchiglia di Gallipoli. R.: Di Gallipoli. F.: Un sindaco era, un politico, una donna-politica che si è dedicata alla politica. R.: Alla politica, e puru alli lavuri. Allora vinne a qua’ parte e fice na bella spiega: «Voi, contadini, dovete fare, quasi, sciopero che si perde questo lavoro…». Scia agitata quiddha, quasi cu no’ se perde sta fabbrica. D.: Na sindacalista? F.: Na sindacalista! R.: Tutte nui faticavame a quai. F.: Poi la mamma ha trovato lavoro nella scuola perché il tabacco si è perso. Poi di quelle marche percepisce pure… D.: Venivano messi i contributi? R.: Si, quandu pijava ieu tre misi primu e doi misi dopu de lu partu potia scire cu faticu e allora me mintiane puru li contributi. D.: Ho capito. Veniva gente di fuori a lavorare qua o solo signore di Sternatia? 45 R.: No no locali. D.: Solo signore de Sternatia. I.: La fabbrica una era quiddha de Don Cici, poi c’era quidda de lu Piertiempu. L.: A quiddha de la stazione ci erane li padruni? R.: Mah, iu no’ me ricordu poi de quiddha fabbrica. D.: Quiddha era la prima, è stata la più vecchia. F.: Ma la mamma non ha lavorato mai là. R.: No, no, io solamente al castello. D.: Ah solo al castello? R.: E puru nu picca de tiempu susu alla Comune. D.: Li scioperi poi vui l’iti fatti? R.: E sì, li faciame alli urtimi anni. D.: Percè vui non volivive cu chiude? R.: No cu chiude… percè lu tabaccu ccuminciava cu se perde e allora diciane: «a ddhu hannu scire tutte?» ca nc’era tuttu Sternatia… D.: Ma dovevate fare delle visite mediche prima di entrare in queste fabbriche? R.: Allora, senti quai, durante ca faticavame, no! Poi vessiu ca erame passare la visita pe’ la rugna. F.: Quando andavamo al tabacco dovevamo coprirci perché si formava la resina. R.: La resìna pizzicava, e allora poi, passava sta visita cu visciane nussìa… Perché era na malatìa ca se ncoddhava e allora poi cinca portava nienti rimania a casa. F.: Per guarire…, non è che veniva espulso del tutto. R.: No, no. D.: E c’erane sbarre alle finestre? R.: Li fierri. D.: Intra alle fabbriche, c’erane sbarre, te ricordi? R.: Iu moi non tantu, ma me ricordu ca nc’era li finestri a strisce. F.: Poi vi veniva distribuito un po’ di latte, perché, per l’odore o no? R.: No, ce latte, tenia lu piccinnu cu ‘llatta. F.: Ah quindi lo portavate? D.: Non c’era qualche struttura ca vui potivive scire? R.: Si, nc’era la stanza dell’allattamentu ca potiame trasire addh’ intru cu lu piccinnu cu llatta. 46 D.: Indossavate qualche divisa? R.: Iu lu grembiule lu portava; ci volia lu portava. D.: De ce colore era, te ricordi? R.: Lu grembiule miu? Blu, blu era. D.: Qualche cuffietta? R.: No, no. F.: Per i capelli portavi qualche fazzoletto? R.: None, nienti portavame. E lu grembiule de blu se facia neru de polvere; ca iu quandu tenia lu piccinnu facia cusine e lu scostava, dici ca facia cu llatta supra quiddhu? D.: Come parlavate tra di voi? R.: Sempre in grecu. F.: La mescia… R.: «…Ancora?» Buum e te tiravane F.: Caspita usavane violenza! R.: Iu certe fiate tenia cchiu picca fojazze de coste, cusì zziccava de l’addhe cu no dica la mescia: «Quidda sta spiccia e tie le teni tutte». D.: Cu ce vi tiravane? R.: Cu le ‘nzerte. Faciane susu alla banca, no… non è ca ne tiravane. Poi allu giurnu quandu era la pasqua: «Minti sensi, minti sensi». … D.: C’erane masculi intra le fabbriche? R.: None. F.: Ah, quindi era dedicata solamente a voi donne, era prettamente femminile? R.: Addhai allu tabbaccu avia le grue, addhai ca se calava lu tabbaccu, addhassutta e poi aviane le grue puru ca lu saliane, e poi saliane li sforti dicimu nui. F.: Erano adibiti ad altri lavori gli uomini, ma c’erano anche, no? R.: C’erane quandu l’erane consegnare… D.: Come veniva visto il fatto che voi andavate a lavorare ed eravate donnea? Com’era il rapporto con i mariti, con gli uomini in quel periodo, Lucia? R.: Lu periudu era ca piacia a tutti cu faticami. F.: Bisogna tenere presente che mia madre è stata una rivoluzionaria, che ha cambiato il sistema perché mio padre non voleva che lavorasse. Essendo stata una delle prime donne a contestare perché mio padre non voleva che lavorasse, era geloso. Erano dieci anni di differenza, mo noi 47 eravamo tanti e così ci ha dato la possibilità di andare a scuola, altrimenti come si poteva fare? Mio padre voleva che rimanesse a casa ad accudire la famiglia. R.: Ah, ah, comu facia? Tenia nove fiji de quisti. F.: E quindi è stata una delle donne contestatrici a quell’epoca: «na quella va lavorare, na quella va a lavorare», venia vista con… dalle altre donne. R.: Percene tandu cu la cenere faciame lu bucatu. D.: Lu cofanu. R.: Lu cofanu e li disinfettavame li panni. Alla matina prestu prima cu vau alla fabbrica salia e le spandia percè erane già fatte… F.: Chiudendo le fabbriche e avendo i figli… R.: Dissi: «quisti addhu li portu, a mezzu alla strada?». F.: Poi aprì la scuola, lei alle 5 già faceva una prima giornata in campagna, poi alle sette e mezzo andava a scuola per ritornare a casa alle 4, ecco perché dico che non è stato semplice per lei. R.: Aggiu fattu na vita, ca cu quistu ca non tenia nisciunu. F.: Pure per noi, andare prima in campagna, poi… Rappresentò un pilastro importante secondo me nella storia di Sternatia perché ha contribuito all’emancipazione, a quella che poi sarebbe diventata l’emancipazione femminile… 48 Intervista a Carmela De Santis Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Carmela De Santis; Luogo e data di nascita: Sternatia il 15/09/1932; Residenza: Stenatia; Professione: contadina e tabacchina; Intervista di: Desiré Maria Delos. Altre note: presente all’intervista il marito; Emigrata: no. D: Domanda. R: Risposta. M: Orazio Tarantino, marito della signora Carmela. D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Su per giù le date verso il millenovecento… D.: Quanti anni avevi? R.: A trdici anni e mezzo, la regola era che dovevi andare a lavorare a 14 anni, poi ho insistito perché avevo piacere quando vedevo lavorare le altre e avevo tredici anni e mezzo che incominciai ad andare alla fabbrica. D.: Ok, poi facciamo il calcolo noi. E per quanto tempo l’hai fatto? R.: In tutto… perché poi hannu cambiatu le lavorazioni? D.: Sì. R.: E in tutto dobbiamo dire una trentina d’anni. D: Sempre a Sternatia? R.: No, dopo quando ero ragazzina… sono usciti altri tipi di lavorazione, poi a Sternatia i magazzini hanno dovuto smettere e allora poi si è formata una cooperativa; una decina di contadini che facevano il tabacco, ci siamo messi d’accordo con altre persone di Martignano e si è fatta la cooperativa la “Magna Grecia” e lì ho lavorato per quindici anni. Qui a Sternatia diciotto, diciannove anni, poi le fabbriche sono venute a 49 mancare… perché non lo so un po’ per la lavorazione, un po’ i padroni. E allora non c’era… e allora noi avevamo bisogno, che magari senza fare qualche giornata alla fabbrica, non avevamo diritto né alle medicine, né alle visite mediche, niente e allora: che facciamo? Eravamo tutte giovani all’epoca. E allora ci siamo messi d’accordo… si sono messi pure le persone avanti che hanno formato questa cooperativa. Prima siamo andati a Melpignano per un paio d’anni, sette-otto famiglie di Sternatia. D.: In una fabbrica? R.: In una fabbrica. Poi questa cooperativa è stata costruita in un locale tra Martignano e Calimera e sono andata per ben 15 anni, lì, poi… Che poi io ho dovuto smettere per motivi di salute, ho dovuto smettere, però è continuato per quattro-cinque anni altri in questa cooperativa, che poi anche la cooperativa è finita. D.: E quindi questa cooperativa è nata a Sternatia! R.: A Martignano, con dei soci di Sternatia, una decina di famiglie che si sono… D.: Questo negli anni settanta? I.: Negli anni settanta, precisamente negli anni settanta. D.: Si chiamava Magna Grecia. R.: Allora si coltivava il tabacco, si portava il tabacco essiccato lì, allora lo lavoravamo, quelli che lo coltivavano, e avevamo l’occasione per mettere sti santi contributi e sia un po’ per motivi di salute, sia per il fatto delle pensioni, quando poi ci si faceva grandi. D.: Ma tu, la tua famiglia avevate tabacco, lavoravate il tabacco proprio voi? R.: Si, si, avevo comprato il terreno verso il sessantanove-settanata, però avevo fatto pure altri anni, però dal settanata in poi coltivavo nel terreno mio, insomma. E si portava questo tabacco nelle cooperative, anzi era come una cooperativa che magari non venivamo neanche pagate come regola, perché quasi sia ca era comu na cosa nostra, si faceva qualche ora in più, mentre quandu c’erane le fabbriche quai a Sternatia, era na cosa comu statale. Poi su cambiate i tipi di lavorazione… D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Allora, la fabbrica che andavo io era la Giuseppe Rossi, Don Angiolino Ancora che stava sotto il castello, contemporaneamente sotto il castello c’era ancora un’altra che era di Don Cici Specchia e sono due. D.: Dove c’è adesso il Centro Studi? 50 R.: Dove c’è adesso il Centro Chora-ma. Un’altra stava nella stazione. D.: Al Dì per Dì. R.: E l’altra, Don Antonio Mastrolia, dove c’è la farmacia. Infatti erano una, due, tre, quattro. D.: Non ti ricordi quella che stava sopra a Maurizio Leone? Dicono che c’era una fabbrica sopra. R.: Si, quella è stata una delle prime , se non la prima; solo qualche persona più grande se la ricorda. Mi hanno detto, ma non mi ricordo, eppure mi giravo verso il Calvario quando ero piccola, infatti dicono che lì c’era una fabbrica, ma chissà quanti anni prima. D.: A che ora iniziavi e finivi di lavorare? R.: Quando lavoravo a Sternatia, c’era un orario, alle sette ci dovevamo trovare lì… alle sette o alle sette e mezzo, non mi ricordo… alle sette e mezzo; se qualcheduna non riusciva a venire, si chiudeva la porta e non entravi più, se ti trovavi lì per lì, se no c’era un orario preciso. Si usciva alle dodici, si faceva un ora, si veniva a casa, perchè poi il paese questo è, scappavamo tutte a casa per fare qualche cosa in quell’ora. D.: Pure a mangiare. R.: Non riuscivi neanche a mangiare, se avevi bambini, la famiglia. Perché allora quando avevamo bambini, non è che ti davano i mesi di maternità. No, tu andavi incinta quando sentivi che avevi dolori, andavi a casa, compravi il bambino, quando ti stabilivi, che passavano quei setteotto, dieci giorni, cominciavi a lavorare; avevamo pure le mamme che ci tenevano i bambini, le sorelle più grandi, dipendeva poi dalle famiglie. E così all’una dovevi rientrare di nuovo, preciso l’una e si usciva poi alle tre e mezzo alla sera D.: Lavoravate da quale mese, non tutto l’anno. R.: No, perché all’estate si coltivava il tabacco, poi si consegnava verso ottobre, le fine ottobre, le fine novembre cominciavano ad andare le operaie più specializzate che dovevano mettere apposto tutto, poi è cambiata tutta la lavorazione, con le stufe si dovevano mettere le ballette una sopra all’altra, si dovevano riscaldare per non andare a male ad ammuffire il tabacco, perché il tabacco era soggetto ad andare a muffa se c’era umidità. E quindi agli inizi, a fine ottobre andavano le operaie più specializzate a sistemare le cose. Poi, verso novembre, fine ottobre, primi novembre si cominciava ad andare a lavorare e allora qualcuna, tutte quasi incontravano i datori di lavoro, vedi se mettiamo qualche giorno 51 primo, perché alla miseria stava a terra verso il quarantotto, quarantanove, cinquanta cinquantuno, c’era una miseria… allora tu… allora l’intento era di tenere a buon grado quelle che dovevano assumere le operaie, dicevano: «guarda, se mi puoi chiamare qualche giorno prima». «Ma adesso si stanno facendo dei lavori pesanti», «ma non ti preoccupare, faccio tutto», pur di fare qualche giorno in più. E poi incominciavi a fare la lavorazione. Incominciamo a dire come era la lavorazione? Si stava sedute. D.: tu cosa hai fatto? Come ruolo? R.: Io come ruolo, prima in genere le operaie se chiamavane spulardatrici, spolardatrici: le nserte si dovevano rompere, si prendevano le foglie e si dovevano stirare foglia foglia, siccome io poi eravamo le ragazzine di quindici-sedici anni, le sceglieva la maestra, diceva: «tu fai la imballatrice». Ci sceglieva. In un secondo tempo io facevo la imballatrice. Le imballatrici erano queste persone che facevano… le mettevamo sulle tavole. Tu imballatrice, poi, dovevi fare la balla. Prima ti mettevano a fare le categorie più scadenti perché dovevi imparare le imballatrici, perché le balle buone, quelle con le foglie più belle, color oro era una lavorazione che se la dovevi fare adesso forse non gli conveniva proprio. Una imballatrice per fare una balla buona doveva andare quattro-cinque giorni, per fare una balletta di quaranta-cinquanta chili… Dovevi poi spezzare il tabacco, da quel tabacco dovevi poi cacciare la foglia rossa, la foglia verde e mettere sul ginocchio le foglie più belle per fare queste balle buone. Di nuovo dovevi… le foglie strappate le dovevi aggiustare, facevi le balle con le foglie strappate, era un tipo di lavorazione che voleva un sacco di fastidio. Poi io dopo due-tre anni, quando avevo quattordici-quindici anni, la maestra mi ha scelta per fare la “ballatrice”. Dopo poco tempo si è iniziato a fare un altro tipo di lavorazione, non si faceva più sul ginocchio foglia foglia, ma sono usciti i torchi; dicevamo allora, si buttava il tabacco là sopra, poi c’era una cosa la ventola che, con i macchinari che erano usciti allora, poi usciva la balletta senza molta lavorazione. Poi verso il cinquantotto-cinquantanove queste fabbriche, con questi macchinari, il lavoro si finiva subito, tutte quelle operaie che dovevano fare, lì bastavano una ventina, noi eravamo in duecento nella fabbrica mia, tra anziane, infatti le anziane dovevano scendere a cinquantacinque anni. Addirittura i primi anni ho lavorato pure con la mamma mia. Insomma con queste macchine che facevano le ballette in pochi minuti, forse facevano una quarantina di balle al giorno, voleva poco mano d’opera. 52 D.: Hanno iniziato a licenziare? R.: Sì hanno iniziato a licenziare, però senza licenziarle tutte hanno iniziato a fare i turni, un mese ciascuno. Infatti tra sorelle se avevi bambini piccoli, tu tenevi il mio, l’altra sorella teneva l’altro, perché facevamo i turni e non potevamo stare tutte, che cosa dovevano fare con tutta quella gente. Così poi le fabbriche di Sternatia hanno chiuso tutte e si è formata questa cooperativa, che è stata una salvezza per la gente. Si coltivava il tabacco, più tabacco avevi, più giornate facevi, non è che facevi quante volevi tu. Destinavano sette-otto giornate a quintale di tabacco; più quintali di tabacco portavi, più giornate facevi insomma. Si è andato avanti così fino al novanta, poi anche questa cooperativa ha chiuso. D.: Poi sono nate le fabbriche di sigarette. R.: Sì, ma prima a Sternatia le persone non sapevano più dove metterlo il tabacco, non so se tu ti ricordi? D: Sì, mi ricordo i tiraletti. R.: E i tiraletti; poi qui non pioveva molto e le persone avevano messo i pozzi artesiani, per innaffiare, io non avevo il pozzo e chiedevo al vicino se mi poteva innaffiare questo tabacco, perché, prima, più piccola era la foglia, più pregiata era la qualità, invece dopo chi più grande portava la foglia meglio era, l’importante che facevi tanti quintali. Era una risorsa molto importante, infatti prima a Sternatia c’era tanta coltivazione di tabacco; adesso se vai in giro non c’è più una pianta, perché poi l’hanno proibito. D.: E sì con il monopolio dello stato. R.: Sì, era una risorsa, infatti mio marito un anno mi ha detto: «Hai guadagnato più tu con il tabacco, che io con il mio lavoro». D.: Ti ricordi qualche sciopero che c’è stato? R.: Sì che c’è stato. Più di uno. D.: Quando iniziarono pian piano a non assumere più? R.: Sì, perché con l’arrivo delle macchine i padroni non assumevano più, perché non ne avevano bisogno. Si è fatto più di uno sciopero. Che poi una volta il padrone ha chiamato i carabinieri. D.: Sì un’altra signora si è ricordata dello sciopero, le altre no. R.: Ah, che per noi come un divertimento era. Poi c’erano quelle più grandi di noi, tipo la Nzina de lu Liri, la mamma della Rosalba, della Stella, quella era una tipa tosta, noi eravamo più ragazzine e ci mettevano in fondo, più nascoste, lei o la mamma del colonnello Maniglio, la Nzina 53 de lu Russu, andavano avanti con la bandiera rossa e cantavano “bandiera rossa, bandiera rossa”, poi hanno passato un periodo adesso che la bandiera rossa non la potevano più vedere. E insomma una decina di queste andavano tutte avanti e noi dietro che le seguivamo. Io ero piccola avevo quattordici-quindici anni quando c’erano gli scioperi; poi il padrone voleva che entravamo a lavorare e mi ricordo che una volta il figlio di don Angiolino ci ha prese a parolacce. Poi dopo questi scioperi le fabbriche hanno chiuso. D.: Ti ricordi una sindacalista, la Conchiglia? R.: Sì, sì la Conchiglia difendeva tutte le contadine… D.: Di Corigliano? R.: Sì, veniva e diceva «è vero o non è vero che vi trattavano così i padroni?», quando faceva i comizi sempre contro i padroni andava e difendeva tutte le contadine. Io quando sono andata al magazzino ero contadina-tabacchina; i nostri genitori ci iscrivevano all’ufficio anagrafico, si chiamava così, come contadine e praticamente ti pagavano i contributi senza che andavi a lavorare da nessuna parte. Quando poi arrivavi all’età di quattordici anni, entravi nella fabbrica come tabacchina. Quando poi abbiamo fatto queste cooperative, sono ritornata di nuovo contadina-tabacchina. Poi mi sono pensionata come contadina. D.: E delle mescie, cosa mi dici? R.: E, le mescie ci dicevano tante parole però erano delle brave persone. D.: Tu chi avevi come mescia? R.: La mamma de lu James, la mescia Emma, quella aveva battezzato un fratello mio, infatti quando sono arrivata mi ha messa subito alle balle, perché le ballatrici prendevano una cosetta in più rispetto alle operaie normali; se la mescia aveva simpatia per qualcuna, quando ti rimproverava non lo faceva davanti a tutti, ti prendeva una foglia di tabacco e te le buttava e poi ti diceva di stare zitta, invece ad altre sai come le riempiva di parole e tu non dovevi rispondere dovevi stare zitta e se le dicevi che non eri tu, lei ti rispondeva che l’indomani saresti rimasta a casa. Chi tornava poi a casa a dire ai genitori che la maestra ti aveva gridata e che il giorno dopo non andavi a lavorare? Allora poi quelle volevano che all’uscita dicevi «Me mescia no perduni mo?», poi le anziane dicevano di perdonarci, ci aiutavano, ma se tu ti ribellavi, ti facevano rimanere due giorni a casa. Poi le operaie quando venivano sospese andavano dal sindacato a ribellarsi, si erano un po’ svegliate. 54 D.: E andavano al sindacato di Sternatia? R.: Sì, qui c’era il collocatore. D.: L’ufficio di collocamento? R.: Sì dovevamo essere scritte regolarmente, dovevamo avere il libretto del lavoro, dovevamo avere il tesserino, e quando non lavoravamo dovevamo andare a timbrare questo tesserino. E poi c’era il collocatore che ci garantiva qualcosa. Insomma le maestre erano un po’ severe. Poi c’era lu Giorginu de lu Seddhone, non so se tu te lo ricordi. D.: No, però mi hanno detto che era una specie di guardiano. R.: Sì, lui faceva come un tutore, stava seduto anche lui ci riprendeva, ci sgridava in griko e ci diceva «Amàte apà sta a Litarà, animaja». D.: E voi in griko parlavate? R.: Sì, tutte parlavamo in griko, «senza edukaziùna!» e nui citte, quando ni scornava, poi non faceva mai un rimprovero singolarmente, ma generale, perché eravamo sedute ai tavoloni, una ventina da un lato e una ventina dall’altro e dovevamo mettere il lavoro sullo stesso banco e come facevi a non parlare, tutto il giorno poi. D.: Come facevi a stare zitta tutte quelle ore. R.: C’erano quelle che avevano i capelli lunghi che si nascondevano per parlare, però la mescia si accorgeva, era sveglia, ci diceva «Datevi da fare». D.: E le mescie come venivano scelte? R.: Le mescie venivano scelte dal padrone, sicuramente avevano amicizia, poi la mescia, la sorella della mescia era sottomescia e quella era più severa della mescia. Poi quelle più toste le dicevano non basta la mescia, pure tu ci devi sgridare. D.: Invece i padroni com’erano, venivano nelle fabbriche? R.: Ogni tanto venivano, poi la fabbrica di don Angiulino Ancora è passata direttamente a donna Giuseppina Rossi. Lei era molto brava, però sfruttava la situazione, allora quando si facevano le dodici che dovevamo andare in pausa a casa quella iniziava a recitare Padre Nostri e noi ci scocciavamo perché dovevamo andare a casa. (Entra il Marito della signora Uccia). D.: Volevamo sapere come voi uomini consideravate le donne che andavano a lavorare. M.: Normale, perché cinquanta anni fa avevamo bisogno di lavorare, noi uomini andavamo in campagna e le donne andavano alle fabbriche. D.: Quindi era proprio una necessità e non c’era il tempo di essere gelosi di questo. 55 M.: Alla fabbrica di tabacco qui andavano tutte. R.: Dì invece che i giovanotti guardavano se la donna era operaia normale o imballatrice, perché guadagnava qualche soldo in più. M.: Non è vero queste erano fesserie. Comunque non c’erano gelosie perché tutte lavoravano, i mariti o i padri coltivavano il tabacco e le figlie o le mogli andavano nelle fabbriche. Prima lo lavoravano con una certa delicatezza poi dopo con la macchina passava di tutto. D.: Mi dici le varie qualità di tabacco? Ci hanno detto che c’era la santijaca… R.: Sì, allora lu santujaca, la perustizza e la zaguvina. D.: E qual era la differenza? M.: La differenza era che la zaguvina aveva le foglie più grandi, ma è anche vero che la pianta toglieva meno foglie, mentre la santujaca faceva le foglie più piccole, una quarantina per ogni pianta. R.: Era anche più cara più pregiata. M.: Infatti quando lo portavi alle fabbriche te lo pagavano in base alla qualità; per esempio la zaguvina a dieci mila lire, mentre la santujaca a quindici mila lire. R.: Le ho raccontato quando avete aperto la cooperativa. D.: Anche lui ne faceva parte? R.: E sì, loro erano i firmatari e noi andavamo a lavorare, non ti ricordi? M.: Sì, mi ricordo che è stata aperta verso gli anni settanta. D.: Quindi è stato difficile per voi quando le donne hanno perso il lavoro con la chiusura delle fabbriche? M.: Sì, praticamente la fabbrica è stata aperta perché all’epoca i capi del lavoro e i partiti avevano preso il sopravvento e incominciarono a formare queste cooperative, che per la maggior parte aderivano al partito comunista, ai sindacati come la cgil. D.: È stato un modo per dare da lavorare, non a tutte però. M.: Sì, perché poi con queste cooperative si guadagnava di più… D.: Ma lavoravi di più? M.: Sì, ma le donne lavoravano di più, perché era interesse loro. D.: Perché più lavoravi e più guadagnavi. R.: Poi il prezzo era diverso. M.: Perché quando c’erano le fabbriche, i padroni davano poco alle donne tabacchine. Mentre con le cooperative era diverso, perché il ta- 56 bacco te lo pagavano di più e le donne lavoravano di più per incrementare la cooperativa. R.: Quando poi mi sono sposata per un po’ non ho lavorato, dopo un po’ di anni però abbiamo comprato un pezzetto di terra e coltivavamo il tabacco e quando rientravo dalla fabbrica, lui (il marito), era pronto che mi aspettava per andare a raccogliere il tabacco. Non entravo neanche a casa, andavo direttamente. Tutto questo per trovarti la giornata assicurata il giorno dopo. Poi quando rientravo a casa stanca, nessuno mi aiutava, perché prima i maschi comandavano, non aiutavano le mogli. D.: Ma prima era così, per l’uomo era una vergogna aiutare la moglie in casa. Adesso per fortuna non è più così. M.: Le donne hanno preso il sopravvento. R.: Meno male, meglio adesso. D.: Grazie a loro che hanno lottato a quei tempi, siamo riuscite a raggiungere i risultati di adesso. Infatti prima quando ti ho nominato la Conchiglia… R.: Come si chiamava il marito della Conchiglia? M.: Giuseppe Calasso. Quello sai cosa faceva? Quando c’era uno sciopero, lo andavano a chiamare e veniva subito a fare un comizio. Mentre la Conchiglia era di Brindisi. Aveva appena la quinta elementare, poi si istruì talmente tanto, che a Lecce ormai comandava lei. Poi mi ricordo che si era candidata anche come sindaco di Sternatia, i primi tempi e mi ricordo che abbiamo perso per poco. 57 Intervista a Iolanda Mastrolia Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Iolanda Mastrolia; Luogo e data di nascita: Sternatia il 30/12/1935; Residenza: Stenatia; Professione: tabacchina, contadina, artigiana; Emigrata: no. Intervista di: Mariangela Giannuzzi. D.: In quale anno hai iniziato a svolgere l’attività di tabacchina? R.: Dunque, io sono nata nel dicembre 1935, ho iniziato quando avevo quattordici anni, ovvero nel 1949. D.: Per quanti anni hai svolto questa attività? R.: Diciamo per una decina di anni, anche se è stato a due riprese. Quando è nato il primo figlio, nel 1963, facevo ancora la tabacchina in un’altra fabbrica. Insomma, fino a inizio anni sessanta. D.: A che ora si iniziava e si terminava di lavorare? R.: Alla mattina si andava alle sette e mezzo, si iniziava alle otto. Alle dodici e mezzo ci si fermava per una mezz’ora di pausa, e si riprendeva alle tredici, fino alle sedici. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Cinque. Don Cici Specchia, la fabbrica sotto il castello; Don Antonio Mastrolia dove c’è ora la farmacia; Don Angiulino Ancora sotto il castello, e poi alla stazione, dove c’era l’A&O. Quindi, quattro fabbriche. D.: Chi erano i datori di lavoro? R.: Don Cici Specchia, però don Antonio Mastrolia era quello che aveva più fabbriche, aveva il titolo di perito agrario, ed era cognato di don Cici che non sapeva bene “quelle cose”. Però, quando rientrava quello, (don Antonio), erano tutti…(impauriti). Era, quindi, proprietario di più fabbriche, forse erano tutti soci. D.: Perché li chiamavate don? 58 R.: Per rispetto, prima era una forma di rispetto. D.: Quante donne lavoravano in fabbrica? R.: Eravamo un centinaio, anche più. D.: Facevate delle pause durante l’orario di lavoro? R.: No, noi si iniziava e si finiva all’ora stabilita. Alle dodici si faceva mezz’ora. D.: E come facevano le donne che avevano figli? R.: C’era l’allattamento nelle fabbriche, oppure si usciva per mezz’ora o un’ora per andare a casa ad allattare i bambini. Uscivano, oltre alla mezz’ora di pausa, e andavano a casa per un’ora. D.: Quanti compiti/mansioni c’erano in fabbrica? R.: C’era l’imballatrice, che erano le lavoratrici di prima classe; poi noi eravamo cernitici, scocchiavàmo, sceglievamo le parti migliori del tabacco, però dovevamo scegliere le diverse classi quello bruciato, quello chiaro, quello scuro, quello a “vi”. Insomma tutte queste classi, le qualità di tabacco, i diversi colori. E poi c’erano quelle che lo stiravano, si stendeva foglia foglia, e lo aggiustavano a dischi, lo mettevano “mazzetti mazzetti”, si pressavano e si otteneva la “balletta” D.: E chi assegnava i compiti in fabbrica? R.: C’era la mescia, c’erano più di una, ora sono morte. Facevano gli interessi del principale. D.: Abbiamo intervistato qualche sottomescia, la Ndata, quella che abita sopra l’A&O, è stata sottomescia a Don Antoni; poi la Luigia de la Nardu, ha fatto la sottomescia a Don Cici. Quale era la tua mescia? R.: La Peppina de lu Panzetta. Però quella proprio mescia, che metteva tutte a tacere in fabbrica, era l’Assunta de lu Panzetta, l’Assunta Maniglio. C’era anche la Emma, lavorava nella fabbrica sotto il castello. D.: Ma sono vive? R.: No, sono morte. D.: Come si comportavano le mescie nelle fabbriche? R.: Beh, diciamo bene. Erano fedeli alla proprietà, severe. Facevano gli interessi del principale, del padrone. Erano raccomandate. C’era la Antonietta, la mamma e la figlia, la Luce de lu Panzetta, la figlia lavorava con la mamma, abita vicino al Dottor Murri nelle vicinanze del Castello. D.: In quali mesi si lavorava il tabacco? R.: C’erano tre-quattro mesi di forte lavoro, si iniziava d’inverno quando si consegnava il tabacco, verso dicembre-gennaio e poi si lavo- 59 rava maggiormente per tre mesi, febbraio e marzo erano i mesi di più forte lavoro. Ci mettevano una “marca” alla settimana, un contributo. D.: Qual era lo stato della donna in quegli anni? Donna di casa o lavoratrice? R.: Beh, non tutte lavoravano. Quell’anno, quando avevo quattordici anni, Don Cici prese me e altre quindici ragazze. In fabbrica lavoravano solo donne di Sternatia, non di altri paesi. D.: Si facevano le visite mediche? R.: No, non c’erano a quei tempi. D.: C’erano uomini in fabbrica? R.: No, nemmeno… D.: Mi hanno parlato di un certo usciere, uomo in fabbrica, ragioniere di Zollino... R.: Ah si, quello stava nella fabbrica di Don Antoni e faceva una “specie di perito”. Don Ninì Foddhea. L’usciere faceva anche l’appello. D.: Mi hanno raccontato che c’erano le sbarre fuori i tabacchifici; è vero? R.: Si c’erano le sbarre e c’era anche la guardia di finanza, come i carabinieri, perché le tabacchine usavano fare scioperi. Si scioperava per il lavoro duro e faticoso, per le marche che non venivano versate. Il lavoro di tabacchina era pericoloso, si andava con le mascherine in fabbrica per l’odore del tabacco e con un camice comune. D.: C’è stato in quegli anni uno sciopero nella piazza di Sternatia, molto partecipato e sentito dalle tabacchine e lavoratori, tanto da richiedere l’intervento delle guardie armate... R.: Sì io mi ricordo, in piazza, vicino la fabbrica di Don Antoni, lì lavorava la mamma mia. C’erano tante donne e lavoratori, il maresciallo Caramella, perché si arrivò alle mani. Fu uno sciopero molto sentito, intervennero i carabinieri per mettere ordine tra i protestanti. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? E quali erano le caratteristiche? R.: C’era la perustizza, la santilliaca e la zagovina. La differenza era nel tipo di foglia. La perustizza aveva le foglie numerose, piccole e appuntite. La zagovina teneva meno foglie ma più grosse. La santilliaca aveva sempre meno foglie ma di qualità ottima, era la migliore. D.: Qual era la paga in fabbrica? R.: Ci pagavano ogni quindici giorni, cento lire più o meno, duecento, dipende. Prima a lire ci pagavano. Se ci fosse stata la Rosetta de lu Fiore, che veniva con noi in fabbrica, operaia come me, pure la Grazia di sotto 60 il Castello… sono vive ancora, le puoi intervistare. D.: Venivano messi i contributi? R.: Sì, una “marca” alla settimana. D.: Quindi, uomini non c’erano… R.: No, solo donne. Quelle che prendevano le balle erano le più robuste. D.: Si faceva l’appello all’entrata? Giocavate, scherzavate, cantavate? R.: Sì l’appello sempre all’entrata. No, non scherzavamo, si lavorava e basta. Se cantavi, erano storie. D.: Come parlavate in fabbrica? R.: C’erano tabacchine che parlavano in griko e altre in dialetto. Si parlava, comunque, di più il griko. D.: A un certo punto sono state chiuse le fabbriche a Sternatia. Ti ricordi il perché? R.: Hanno chiuso perché non hanno preso più tabacco, ed è finito tutto. Poi io ho lavorato tanti anni nella fabbrica di Gallipoli, di un certo Donato di Sternatia, il papà di Andrea morto nell’incidente stradale sulla Sternatia-Martignano. 61 Intervista a Giuseppe Spagna Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Giuseppe Spagna; Luogo e data da nascita: Sternatia il 02/07/1933; Residenza: Sternatia; Professione: Tabacchino, contadino; Emigrato all’estero: no. Intervista di: Mariangela Giannuzzi. D.: Hai da raccontarmi qualcosa di diverso rispetto a quanto mi ha raccontato tua moglie? R.: Del lavoro di tabacchina, il suo lavoro, ne capisco poco. Io posso raccontarti qualcosa della piantagione di tabacco. D.: Fino a quando hai piantato il tabacco con la famiglia? R.: A diciannove anni sono partito per il militare, sono del trentatrè, quindi fino agli anni cinquanta si può dire che ho piantato tabacco. D.: A che età hai iniziato? R.: Da bambino, lavoravo sempre in campagna. Andavo a scuola, avevo sette anni, e già piantavo tabacco o guardavo le filare. Fino ai diciannove anni la vita si svolgeva in campagna, perché poi sono partito al militare. Quando uscivo da scuola, andavo a piantare tabacco. Allora il sindaco di Sternatia era Don Pippi Liaci, zio della Signorina Rita. D.: Sì, allora raccontami un po’… R.: Si faceva prima la ruddha verso Natale, la semenza. Veniva piantato il seme del tabacco nel terreno, innaffiato a gennaio, febbraio per arrivare poi a marzo, aprile con le piante cresciute, ettari di tabacco. Bisogna fare domanda scritta per quante are di tabacco piantare, fare richiesta a Nardò, al titolare della fabbrica e stabiliva, per esempio, trenta are, quaranta are da piantare. Lo stabiliva in base alla legge vigente in quegli anni sulla piantagione di tabacco, non potevi piantare di più altrimenti era “a contrabbando”. Tu dovevi piantare quaranta are, per esem62 pio, allora andavi al cosiddetto capo-zona a Calimera. Dichiaravi tutto, non scappava niente. Prima della raccolta, mandavano per i controlli il personale addetto, tutta gente invalida di guerra, pensionati per misurare il tabacco e controllare se avevi piantato in più o in meno. Poi iniziava la raccolta foglia foglia, e poi lo mettevi a seccare nelle cassette, si lasciava essiccare. E poi il tabacco appeso in casa, avevamo li tuppi. Quando arrivavano i tempi di ottobre-novembre, ti dava venti, dieci “ballette” (recipienti per mettere il tabacco dentro, sacche di tela), lo consegnavi alle ditte, però doveva essere umido altrimenti il tabbaco si screpolava. Si consegnava ai proprietari dei tabacchifici, che “facevano i loro comodi”, ecco perché subentrava il perito agrario, portatore degli interessi del padrone. I proprietari delle fabbriche sceglievano le classi di qualità, che poi corrispondono ai diversi tipi di tabacco prima citati. Ad esempio, un quintale di tabacco prima classe, secondo altro prezzo e il restante da scarto non a pagamento. C’era una “mafia” in questa scelta perché il perito non faceva mai gli interessi del contadino, coltivatore. Tra l’altro a Sternatia tutti piantavano il tabacco, lo coltivavi ma non lo potevi fumare. La restante parte di scarto di tabacco non potevi fumarla, neanche questa. Pensa che se ti trovava la finanza con il tabacco in casa, ti faceva il verbale, la finanza ti arrivava in casa all’improvviso e ti spiava in tutti gli angoli. D.: Non c’erano i “clandestini furbi” che fumavano il tabacco? R.: No, c’erano le regole, era proibito. Nelle campagne se lo nascondevano, ma era rischioso. Allora ti racconto un fatto: mio nonno che era un primo fumatore accanito, Tarantino Giorgio, che era padre di mia mamma, andava in campagna dietro la ferrovia, mi portava con sè, e mi faceva nascondere il tabacco sotto le pietre, un po’ qua, un po’ là. Lui si dimenticava, ma io ricordavo i nostri nascondigli. Un giorno è successo un bel fatto: lì passa la ferrovia, alle spalle del cimitero, due finanzieri a piedi sono arrivati; io guardavo le pecore, e mio nonno era sempre con la pipa in bocca, senza mai fumare il tabacco di nostra produzione. I finanzieri con aria diffidente e dura, senza salutare o dir nulla, mi hanno messo le mani in tasca e hanno messo il tabacco nella tasca della giacca del nonno. Ero ancora piccolo, ho iniziato a gridare aiuto al nonno perché sapevo dell’ingiustizia e del sorpruso fatto nei nostri confronti dai finanzieri ma, mio nonno non mi ha dato ascolto e mi ha gridato: ««zitto tu, senò perdiamo le filare!», sapeva che i finanzieri erano lì per control- 63 larci il tabacco coltivato. Alla fine ci è stata fatta una multa salata, ci hanno tolto le are di tabacco che dovevamo fare l’anno nuovo. Poi mio padre è andato a Don Angelino Ancora, un gran personaggio di Sternatia di forte spessore, allora sindaco di Galatina, per chiederee aiuto, ma l’anno successivo abbiamo coltivato poco tabacco. D.: Allora i coltivatori di tabacco dovevano temere i finanzieri? R.: Certo, loro erano pagati apposta. Facevano gli interessi del governo. D.: Perché è subentrato poi il monopolio? R.: Anche prima negli anni cinquanta si vendeva il tabacco, le sigarette nei tabacchini, ma comunque i coltivatori non potevano fumarlo. Il prodotto era proibito, “la legge balorda”... Lei, mia moglie, tabacchina era stanca, faceva il lavoro anche con me e in casa. Poi ha lavorato otto anni nella fabbrica a Gallipoli, una cooperativa. Mia moglie si alzava alle cinque e poi quando rientrava, lavorava con me per la raccolta delle filare. Erano anni difficili, sacrifici. 64 Intervista a Maria Teresa Migliore Luogo e data: Sternatia, novembre 2008; Nome dell’intervistata: Maria Teresa Migliore; Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/05/1955; Residenza: Sternatia; Professione: insegnante; figlia di proprietaria tabacchificio; Emigrati all’estero: no; Intervista di: Mariangela Giannuzzi. D.: Come si chiamava tua mamma? R.: Giuseppina Rossi Bernaducci Rives. D.: In quale anno tua madre ha iniziato a svolgere l’attività di tabacchina? R.: Negli anni cinquanta-sessanta, per circa una decina d’anni, un’attività che lei ha continuato anche dopo la morte del padre, titolare della concessione, perché il padre era difatti il titolare della concessione del tabacchificio, nel Castello Granafei, in un capannone, al primo piano di questo palazzo, dove veniva lavorato il tabacco, stirato, imballato e nel piano sovrastante dove veniva lasciato essiccare. D.: Ti ricordi quanti tabacchifici c’erano a Sternatia? R.: Fabbriche, credo due, ovvero una, di cui titolare era Dei Rossi Barducci Rives Giuseppe, e una dei Mastrolia. Mio padre si chiamava Dei Rossi Barducci Rives e in seguito morto nel 1957, ha continuato questa attività mia madre, che sovrintendeva al lavoro delle operaie e si avvaleva del lavoro di quest’agronomo di Lecce, che svolgeva mansioni di supporto a mia madre e di verifica del lavoro. D.: Aveva delle mescie? R.: Erano tutte di Sternatia le operaie che lavoravano nella fabbrica dei Rossi, a cominciare dalla Nzina Marti che poi è stata la donna che ci ha cresciuto e accudiva casa nostra, faceva parte della nostra famiglia. È stata la nostra tata, perché la mamma era comunque impegnata in fabbrica. Noi in famiglia eravamo diverse sorelle, ci aiutavamo a vicenda, io sono la più piccola della casa, ricordo che la tata ci guardava mentre giocavamo in giardino. 65 D.: Ricordi che tua mamma lavorava molto? R.: Non tanto, certo il lavoro più intenso era quando erano previste le consegne del tabacco, ma grosso modo il suo lavoro era seguito dalle mescie e dal perito. Per il resto c’erano le tabacchine, alla mattina si andava alle sette e mezzo, si iniziava alle otto. Alle dodici e trenta ci si fermava per una mezz’ora di pausa, e si riprendeva alle tredici fino alle sedici circa. D.: Ti ricordi quali mesi si lavorava di più in fabbrica? R.: Onestamente, no. La raccolta veniva fatta a inizio estate, il tempo permettendo, si metteva ad essiccare il tabacco e una volta essiccato si iniziava il lavoro vero e proprio in fabbrica. Quindi presumo, durante l’inverno, i mesi di maggiore lavoro. D.: La fabbrica era circondata di sbarre, perché? R.: Si, qui c’erano, ma il perché mi sfugge. Più che sbarre, specialmente in quest’appartamento-capannone del Castello, dove il tabacco veniva essiccato, di proprietà della famiglia Rossi, c’erano su tutte le porte interne e infissi tanti giornali che venivano messi per sigillare bene l’area e evitavano l’ingresso di aria o di altro, per proteggere il tabacco che era lì ad essiccare, quindi tutti giornali intorno alle finestre e porte. Il lavoro delle tabacchine veniva poi svolto al primo piano, dove le donne operaie erano impegnate a cernirlo, stiralo, pressarlo e facevano queste balle. D.: A chi veniva venduto? R.: Alle manifatture di tabacco, venivano delle persone per acquistare il tabacco. Erano giornate intense dove il lavoro era molto più intenso soprattutto per mia madre, il cui coinvolgimento era maggiore per la consegna-operazione. D.: Ti ricordi che le donne usavano dei camici particolari, delle tenute o mascherine al volto? R.: Non credo, nei miei ricordi ci sono queste donne che giravano in queste camere, nella zona di lavoro del Castello. Addirittura ricordo che a Sternatia, c’era una zona, qui di fronte il castello, dove c’era la Kalì Zoi, una stanza adibita alle mamme operaie, voluta dal Dottore Specchia, dove le donne con bambine piccole si rifugiavano per allattare i bambini. Grande rispetto per l’essere donna e lavoratrice, anche con neonati a carico. Le fabbriche erano ambienti abbastanza festosi, perché vedevi queste donne lavorare sempre cantando, con il sorriso sulla bocca. Il ricordo si è poi perpetrato negli anni e ogni volta che le incontra- 66 vamo a lavorare il tabacco, vedevamo donne con aria di festa, non fatica. D.: Come chiamavano tua mamma? R.: La mia mamma la chiamavano “La signura”. D.: Chi era la mescia? R.: La mescia era la Nina della Speranza, la mamma di Borrisi, oramai morta. D.: Ti ricordi qualcosa degli scioperi delle tabacchine che venivano fatti in piazza? R.: No, nulla. D.: Che lingua parlavano le operaie? R.: Parlavano il griko, sopratutto. D.: E poi perché sono state chiuse le fabbriche? R.: Perché la situazione è iniziata ad essere più difficile e negli anni, nel sessantacique credo, la mamma non si è sentita di continuare l’attività e ha poi venduto la concessione. E poi stata affittata questa fabbrica ai Signori Monosi di Castrignano de Greci. I Monosi per un certo periodo affittavano il locale qui da noi per lavorare il loro tabacco, quindi fu poi continuato il lavoro ma con nuovi titolari di concessione, non più mia madre. Certamente i Monosi avevano bisogno di locali dove coltivare il tabacco, quindi furono affittati i locali, ma non fu ceduta la concessione, perché avevano già per fatti loro a Castrignano. D.: Come avveniva il passaggio di concessione? Come le licenze dei tabacchini di oggi? R.: Non lo so, immagino di sì. D.: Quindi tu hai vissuto qui in quegli anni, di nuova gestione della fabbrica del Castello? R.: Salivamo su, perché noi abitavamo a quei tempi al piano terra, perché la zona di giù era adiacente al giardino, dove c’era la fabbrica. D.: Quindi ricordi un clima sereno nella fabbrica dei Rossi? R.: Si, certamente, si parlava, c’era la pausa pranzo, si lavorava fino alle tre, perché poi facendo il grosso d’inverno le giornate si accorciavano e intorno alle quattro era già terminato il lavoro delle donne. 67 Intervista a Simeone Angela Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008. Nome dell’intervistato: Simeone Angela Luogo e data da nascita: Sternatia il 05/04/26; Residenza: Sternatia; Professione: Tabacchina; Emigrati all’estero: no. Intervista di: Desiré Maria Delos, Daniela Gemma, Antonella Marti. D.: Te ricordi quali anni hai faticatu a Sternatia? R.: Senti cu fazzu li cunti de quandu faticava… allora ieu tenia quindici anni e finca a ventidoi anni lavorava alla Stazione, poi la Stazione vinne distrutta percé mancava lu bagnu, non era perfettu e scimme a Galatina cu faticamu. D.: Aspetta n’attimu Angiulina, ma tie de ce annu sinti? R.: Ieu de lu ventisei, fanne lu cuntu de lu ventisei… D.: Ventisei più quindici nel 1941, quindici anni e finu a venti anni hai faticatu a Sternatia… e te ricordi comu se chiamava la fabbrica? O de ci era? R.: Don Angiulinu Ancora, tanti anni fa. D.: Ma de Sternatia era? R.: Si de Sternatia era e diciame quista ete la fabbrica de don Angiulinu Ancora. Cu la signorina Rita no me ricordu cce bbera… La maestra Lucia era mescia de scola… insomma no me ricordu, ma su nativi de quai. D.: Su nativi de quai… e comu se facia lu tabaccu? C’erano… cioè tu lavoravi solo nella fabbrica, non lo raccoglievi pure in campagna? R.: Prima ccojiame lu tabbaccu. D.: E tie lu ccojivi. R.: Cu li genitori mei faciame centu are de tabbaccu, ca prima lu sarchiava lu nonnu, lu sire miu, cu la zappa, lu sarchiava cu la zappa, ca moi tutti cu lu trattore, cu li mezzi svierti, ma tandu eri buttare lu velenu, nui lu chiantavame de retu, poi se facia grande, lu zappava lu nonnu, ca addhai scia puru ieu, e poi ccojiame le foiazze, lu siccavame, però no lu portavame nui alla fabbrica, venia lu cosu, comu aggiu dire… nui cco68 jiame le cose… e lu mintiame intru alle casce e poi quandu era l’ura ca l’erame portare intru la fabbrica e venia cu da cosa intru… D.: Cu lu camion? R.: No… lu portavane cu lu camion, però lu pisavame insieme cu lu padrunu, lu… comu aggiu dire, lu mintiame intru le cascette grandi e poi dopu ni lu pagava don Angiulinu. D.: Perché la campagna non era vostra era de don Angiulinu? R.: No, e puru lu fondu era de don Angiulinu. D.: Ecco… ma nc’erane puru di cristiani ca teniane la campagna... R.: E lu chiantavane pe fatti loru. D.: E poi lu portavane alla fabbrica. R.: E faciane cusì. Diciame cusì alla fabbrica allu magazzinu. D.: E ti ricordi quante cristiane nc’erane? R.: Centucinquanta erame. D.: Ma centocinquanta solo alla fabbrica della Stazione? R.: Sì sì sì sulu alla fabbrica della Stazione ca poi nui… quandu sciame alla stazione a Galatina diciane ca erame mute. D.: Ma poi centucinquanta tutte femmine o c’erane masculi? R.: No tutte fimmene erame. D.: È vero che c’erano gli asili nido pe’ li piccinni? Se una tenia li piccinni li portava alla fabbrica e nc’era na stanza sulu pe li piccinni? R.: No, iu, per esempiu, la zia Franca la ccattai susu alle case qua subra allu quarantasette e poi la fabbrica stia alla Stazione no, allora la zia Franca nasciu quindici giurni, venti giurni, ca no me paria quandu mai cu la battezzu prima cu ncigna la fabbrica, allora ca tandu cu lu nonnu ce passai mmmh, non volia cu vau alla fabbrica cu no’ lassu la piccinna, ca se tene nienti la piccinna, li dissi: «no’ te preoccupare ca alla piccinna aggiu pensare ieu…». La mamma mia abitava ddha parte allu Vitantoni, tandu ncera... teniame n’ura de... D.: De pausa... R.: De riposu alle dieci cu damu de llattare alla piccinna; poi la piccinna li la lassava alla mamma mia e scia allu magazzinu, alla matina sulamente teniame stu cosu quai, a mezzogiorno sciame in generale tutte, e poi tornavame all’una, a ddhu frammezzu dia mangiare alla piccinna e poi tornava allu magazzinu e alle quattru spicciavame. D.: E la mattina a che ora andavate? R.: Alla matina era alle sette e menza se no me sbaju. 69 D.: Quindi dalle sette e mezza alle quattro. R.: Sine, no me ricordu quante ure faciame. D.: Ma quello era un lavoro, lo facevate tutto l’anno o sulu in primavera, l’estate? R.: No, iniziavame… per esempiu, lu consegnavame a novembre me sembra; lu tabaccu lu portavame alla fabbrica e in base allu tabbaccu ca nc’era faciame quattru, cinque misi de fabbrica. D.: Ma l’ora ca tenivi alle dieci, la diane solamente a ci tenia le fije o era pe tutte l’ura de pausa delle dieci? R.: No sulu quiddhe ca teniane le fije ca allattavane. Teniame nsomma ddh’ura de permessu cu llattane le piccinne. D.: Poi nonna tie te ricordi quandu faciane li scioperi a Sternatia, ficera li scioperi ca no’ voliane cu trasene alla fabbrica, ca vinnera li carri armati, la polizia. R.: Me ricordu, ma non è ca me ricordu tantu. D.: Dopu era negli anni Sessanta più o meno. R.: No, forsi no sciame mancu a quai sciame a Galatina. D.: Scivive a Galatina. R.: Sciame a Galatina percé la fabbrica nostra vinne distrutta pe’ ddhu motivu, no pe lavoro, ca non c’era lu rubinettu de l’acqua ca ni mintiane na cosu, ogni tantu me ricordu na cosa, vessiane doi persone inchiane le menze de acqua e le nduciane alla fabbrica, e cu la menza d’acqua biviame tutte quante, allora da cosa no scia giusta percè era bire li rubinetti e ognunu de nui era scire cu li bicchieri, invece biviame cu la menza ca ni la passavame, bivia ieu e se tenia a tie de coste bivivi tie allora… D.: Per igiene diciane, per igiene la chiusera. R.: Tandu poi vinne la finanza vitte la situazione e vinne distrutta. D.: E quindi comu lu lavoravi lu tabbaccu, dividivi le foije... R.: Allora, all’iniziu ni diane nu cerchiu tantu, comu nu tischiu tantu, e ni diane le nserte ca faciame nui ca zziccavame cu nfilamu lu tabbaccu zziccavame le nserte… D.: Le nserte quindi erane le foje ca stiane nfilate? R.: Nui pijavame la nserta e tiravame ca stia nfilatu cu lu spagu e pijavame le fojazze e fasciame, teniame n’addha cascetta de coste cu tanti cataletti e faciame biondo scuro, lu spianavame e pijavame le foijazze chiare, le mintiame tutte a na parte no; biondo scuro, li colori l’erame mintire de parte e faciame nu tischiu tuttu de biondo chiaro per esempiu 70 no, poi quandu spicciavame mintiame li mazzi de coste unu cu l’addhu. Quandu poi spicciavame le nserte, quiddhe le pijavane la maestra e la sottomaestra e le portavane alle ballatrici, ca poi ntorna nc’erane quiddhe ca lu mintiane intru le balle ca le chiamavame ballatrici. Quiddhe le mballavane, ggiustavane li mazzi e li mintiane intru nna cosa comu na… nui diciame ca spianavame lu tabbaccu, poi dopu ntorna tutte de fojazze ca faciane, passavane laddhe, pijavane quiddhu ca cerniame nui, ni diane lu tischiu per esempiu a tie, poi tie pijavi le fojazze ca faciame nui e facivi tuttu lu tischiu de biondo scuro per esmpiu; quiddhe non erane cernire, se propriu pe qualche cosa ca sbajavame nui la levavane ddha fojazza, seno poi quiddhe faciane nu tischiu de quistu de biondo scuro. D.: Ma le biondo scuro le cchiu bone erane, quiddhe le fojazze biondo? R.: No, quiddhe era tuttu na cosa. D.: Nc’erane tanti tipi biondo scuro e biondo chiaro? R.: No quiddhe erane cu no se mmischia, lu chiaru diciane ca ete quiddhu ca faciane le sigarette, ca poi lu portavane alle manifatture; lu chiaru lu chiamavane Nazionale. Per esempiu le meju sigarette quali suntu moi? Lu verde era lu alfa, le sigarette ca fumava lu nonnu ca iu dicia: «eh le cchiù fiacche» e quiddhu dicia a mie «quiste me piacene», quiddha sostanza ddhu odore, lu cchiù fiaccu era quiddhu, alfa lu diciame. D.: Ma poi Angiulina ve pagavane o vi mintiane… R.: No, ni pagavane ogni quindici giurni. D.: Te ricordi quantu? R.: Mmm… ca tandu ce me ricordu quante erane doi lire l’ora, forsi cinque lire alla quindicina. D.: Cinque lire alla quindicina, quindi allu mese dieci lire? R.: Cusì me ricordu. D.: Le mescie erane severe? R.: Erane severe, iu la verità de Diu, l’Angiulina ca suntu, una scornata non l’aggiu avuta mai, percè era furba, faticava e cuntava sempre, e diciane: «ma l’Angiulina percé no la scorni mai», «quiddha non vole scornata percé la visciu ca fatica…». D.: Però oltre cu ve rimproveravane, vi diane punizioni o, ce sacciu, vi diciane tie crai non venire? 71 R.: Qualcheduna ca poi vidia qualche pecura zoppa ca no scia a orariu li dicia tie crai no vieni. Poi quiddha scia a ddhai allu segretariu, comu l’aggiu chiamare lu capusquadra nostru, mo no sacciu comu l’aggiu chiamare, era lu Giorginu, ca mo su morti tutti; sciane: «nunnu Giorginu guarda ca pe dieci minuti ca fici ritardu me licenziau cu vau crai». Poi quiddhu dicia: «vau iu e parlu cu la mescia Peppina però tie no’ fare cchiui ritardu, vanne in orariu, percé lu lavoru è cusì». Ma tandu, la maestra stia a nnanti llu portone e vidia ci trase a orariu e ci no trase. D.: Le puniane… ma azzavane mai le mani? R.: No no, le mani no. Na fiata vinne don Angiulinu Ancora, allora nc’era na vecchiareddha, mo ca vi la dicu no la sapiti, allora se dia sempre de fare ma cuntava sempre li fatti de l’addhe. Iu cu dicu la verità sentia ma no me interessava, tenia... D.: Tenivi addhi pensieri pe’ la capu? R.: Mo se ne vene. Allora vitte ca sta cuntava stu fattu, trasiu don Agiulinu Ancora – quistu me lu portu a ncoddhu finchè moru – comu trase e sente ddha cristiana ca dicia lu cuntu cu stamu citte, la mescia li dicia Loredana, cusì se chiamava, mo vi li dicu in griku, «pestu na kuntàci» dilli nu cunticeddhu a quiste cu stannu citte nu picca, allora ddha cristiana ni dicia lu cuntu «però iti stare citte» ni dicia, invece avia quiddhe ca diciane «dinne ce dicisti moi?» cu diane precisu no, va trase don Angiulinu Ancora: «Mescia Peppina veni quai», disse «ce cumandi don Angiulinu», disse «ma ce bete quai, faci cu fannu li cunti a quai, hai fattu li cunti a centucinquanta persone», disse «basta nu nnudu», disse «suntu diciannove centesimi» , allora poi sciu quiddhu alla mescia Peppina, nsoma la rimproverara tandu: «mo la spicciati cu sti cunti» strolecava ntorna, ca poi quiddha era la responsabile, ca poi teniane ragione percè poi alla fine sapia quiddha quante balle ca trasene, erane rispundere alli cunti ca era pagare lu padrunu no. D.: Ma se potia cantare qualche canzone o nella fabbrica no se cantava? R.: Senti qualcheduna ca sapia quandu se regulava la cosa, la cantava qualcheduna ca cantava bona, però orari ca no venia lu padrunu, però era severa la cosa e a Galatina era cchiu severa ancora. D.: Cu lu trenu scivi a Galatina? R.: Cu lu trenu scia, ca poi tandu quandu scia a Galatina sai quanti tenia la Franca piccicca, lu ziu Pantalucciu picciccu e lu Nicolinu ca nasciu allu ventinove ottobre e la fabbrica cuminciau a fine gennaiu e las- 72 sava tre fiji a casa; poi sciame cu lu trenu alla matina e ni trovavame giuste allu trenu, e allu lavoru spettavame dieci minuti ddha ffore però, alla sira venia alle sei lu trenu, nui vessiame alle quattru, pijavame la strada comu ddhe pecure smarrite, comu aggiu dire de pecure ca scappane fucendu e veniame a piedi. D.: Da Galatina? R.: De Galatina veniame a piedi a quai veniame, poi tante fiate alla strada trovavame qualche bonu cristianu ca era de Sternatia ca, per esempiu lu Lezzi ncera li operai ca sciane cu consegnane pali a ddha parte, comu aggiu dire, e se trovavane giusti, e quandu passavane e quiddhi ca nc’era postu doi tre de nui e diciane «ci vole cu trasa», e una cu l’addha «cu vascia l’Angiulina ca tene tre piccinni piccicchi», puru cu rrivamu n’ura prima menz’ura prima; ca moi vui siti privilegiate fije mie, addhu e tantu, ca percè vi cuntamu ste cose. 73 Intervista a Concetta Maggiore e Rosaria Frantelli (Rosetta) Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Concetta Maggiore; Luogo e data da nascita: Sternatia il 15/04/1937; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrata all’estero: no; Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Frantelli Rosaria (Rosetta); Luogo e data da nascita: Lecce il 23/08/1930; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrata all’estero: no; Intervista di: Desiré Maria Delos, Daniela Gemma, Antonella Marti. Altre note: D: Desirè. D*: Daniela. A: Antonella. C: Concettina Maggiore. R: Rosaria Frantelli (Rosetta). D.: Concettina in quali anni hai lavorato al tabacco? C.: Eh aspetta, allora a sedici anni incominciai io perché le apprendiste tandu a 16 anni me pare ca sciane. D.: E de ce annu sinti Concettina? R.: Io sono del trentasette, mo fanne lu cuntu: trentasette, quarantasette poi mitti sei anni addhi. D.: Quindi intorno al cinquantatrè-cinquantaquattro? C.: Sì. 74 D.: E quanti anni hai Lavorato? R.: Quiddha faticau mutu, iu faticai picca. C.: No… perché mi sono pensionata, ecco però mi sono pensionata prima no, all’età giusta ecco. D.: Na decina d’anni? C.: No di più, sì 20 anni. D.: A Sternatia? C.: No, un anno solo a Sternatia. A 19 anni tra Galatina e Maglie. D.: Ah, quindi hai ncigniatu a Sternatia e poi scisti a Galatina. C.: A Galatina, perché il magazzino qua era privato, mi sembra che era Ancora in quel periodo alla stazione. R.: No, Ancora-Rossi. C.: Uguali com’era lu Castellu. R.: Comu lu Rossi, perché Rossi-Ancora era. C.: Rossi-Ancora, e puru la stazione. R.: C’era mutu lavoru. C.: La stazione, dove c’era… R.: E se trasferira a n’addha stanza. C.: La mamma mia ha lavorato sul comune, quel viale grande in centro, nc’ete a ddhai la cosa antica. R.: A ddhu nc’ete l’orologiu, tuttu du viale, stia tuttu chiusu. Sulla comune dove c’è il sindaco adesso perché la comune era trasferita dall’altro lato dove c’è la Cosimina. C.: Quella parte facevano… D.: Quindi a ddhu nc’è la stanza de lu sindacu tutta frescata. C.: A ddhai facianu lu tabbaccu. C.: Tuttu lu corridoiu poi l’hannu toltu, che c’era la porta che si entrava. Ma questo prima di andare iu però. Allora, è bene cominciare dalla stazione. D.: Ok, e quiddhu della chiazza comu se chiamava? C.: Mastrolia. R.: Mastrolia, Don Antonio Mastrolia. D.: E sti cristiani erane tutti de Sternatia? C.: Sì. D.: Su morti però sti cristiani? C.: Sì. R.: Ce qualchedunu ancora... 75 C.: Le fije. Per esempio lì vicino dopo la fioraia, no?, La prima, comu se chiama, la Paola, dopu la Paola c’è un’altra casa poi c’è la casa ca era delli Mastrolia che li abita la fija, la nipote di questo Don Antonio ca teniva il magazzino. D.: Ah. C.: E tutto il locale della piazza dove c’è il barbiere, la farmacia, e “Kika”. D.: Sì sì. C.: Quello era tutto magazzinu. D.: Puru lu “Puntu e virgola”? C.: No, no. R.: Il “Punto e virgola” no. C.: A ddhai diciane lu “mesciuddhi”. R.: C’era lu macellaru. C.: Era na casa privata quella. R.: La macelleria, tandu la macelleria picca picca de stanzinu era, ca non è ca suntu come le macellerie de moi, ci cattava carne tandu? D.: Quanti cristiani te ricordi ca faticavane prima alla stazione? più o menu? R.: Nui erame 120 quassusu. C.: Vui, allora alla stazione fai ca erame na settantina. R.: Allu Specchia erame novanta. C.: E alla stazione c’era na settantina, perché quandu scimme de quai la Peppina della Lice ci ccumpagnau alla stazione, ca quiddha poi sciu in pensione e non vinne, sai, comu quandu la maestre della scola ccumpagna li alunni per esempiu, no? Ecco, ci ha accompagnate tutte dietro alla stazione, sutta la raccomandazione: «cercate cu siti brave», perché noi poi quai era privatu e invece poi noi siamo passate allo Stato. D.: Monopolio? C.: Era governativo dove lavoravamo a Galatina. Poi ci siamo trasferite a Maglie…. No noi, loro ci hanno trasferito, sempre governativo. D*.: ma quindi c’era più di una a Sternatia? C.: Sì, a Sternatia c’era dove sono andata io il primo anno che era Ancora e Rossi. Ancora era nu ziu della Signorina Rita. D*.: Tutta na fabbrica era? C.: E poi del castello, dove andava lei Ancora e Rossi. R.: Doi stessi patruni, teniane doi magazzini. D*.: E questo era quello della stazione? R.: Sì, insomma, a ddhai era lu magazzinu grande, e ddhai chiù picciccu. 76 C.: Na settantina de persone. D*.: E poi quali erane li altri? R.: Dunca nc’ete lu Centru Studi. C.: E poi alla “Kalì Zoì”. D*.: E comu se chiamavane quiste? R.: Specchia. D*.: Quindi erane Specchia, Ancora e Rossi C.: Ancora e Rossi tenevano due magazzini, uno più grande e uno più piccolo, e Mastrolia in piazza… Quindi c’erane quattro magazzini a Sternatia. D.: Ma sti cristiani, li patruni, teniane puru le campagne? C.: No. Il tabacco loro lo ricevevano da me, per esempio, che ero contadina, dalla Rosetta, da n’altra signora ca era contadina. Allora, mo poi dire tu ca sai meglio. Si semina con la seme le piantine. R.: Le piantine, poi l’erame tirare. Insomma cuminciavame de gennaio ed arrivavame ad aprile, dopu lu piantavame l’erame sciaccare cu nu bessane l’erbe e poi alla fine maggio cominciavame a raccoglierlo. De fine maggio sina alla fine de settembre, prime ottobre ccojiame sempre tabbaccu. C.: Si tirava, no con le macchine come adesso. E poi, c’erane… R.: Li tiraletti, ca li tengu sulla loggia e a ddhai ppendiame lu tabbaccu percè l’erame infilare. È... C.: È comu lu stendibiancheria, per esempiu. E poi si mettevano con un filo di spago. D.: Fino agli anni ottanta faciane… Iu me ricordu qualche cosa, cchiui alle campagne, quando c’era lu tabaccu. R.: Poi l’erame portare a casa, cu lu nfilamu e cu lu siccàmu annanzi allu castellu allu sole. C.: Poi si raccoglievano tutti a un gruppu, come le ciliegie e si pendevano al chiodo, è vero Rosetta? R.: A certi anni se facia intra a casa per quantu tabbaccu teniame, ca poi, na, tantu sta lampadina e tuttu lu cielu era cupertu de tabbaccu. D*.: Ma voi lu ppendivive intra a casa dupu ca l’erave siccatu? R.: Sì sì dopu ca l’erame siccatu lu ppendiame. C.: A ottobre-novembre poi i padroni apriane, per esempio a novembre, il cinque, aprìa già Mastrolia o Specchia o Ancora. R.: Poi l’erame scindìre, l’erame cacciare cu lu mintimu intra lle casce 77 e poi lu consegnavame. Quiddhu ca voliane pijavane e se no: «quiddhu non vale, allu focu, quistu nu vale, allu focu». Faciame dieci quintali e non ni pagavane mancu cinque. Quiddhi diciane ca non bbale e nui poverieddhi… D.: Cioè non ve pagavane in base alle sciurnate? C.: No no questo è un conto, io ti porto dieci quintali di tabbaccu, allora la maestra tiene due persone, due operaie ca fannu la cernita ca in questa cassa, comu la cassa ca tenimu le rrobbe, scavavane sotto, perché nui erame furbe, … De Martignanu, mintiane quiddhu ca era cchiu bruttu, cchiu fiaccu, nu sai… scundianu, quelle tiravano su invece e tiravane quiddha fiacca. C.: Allora se valeva cinquantamila lire a quintale, te lo facevano quaranta chili a cinquanta e trenta chili… R.: O te diane la menza fila. C.: E lo prendeva il padrone, poi lo portavano sotto la cantina. R.: Cu remoddha. C.: Sì, se no si faceva. R.: Se no, quandu lu faticavame se friculava tuttu e se no cu le sigarette comu faciane? C.: Poi quando se apriva il lavoro c’era come un tavolo lungo lungo così, operaie di qua e operaie di là, e ti davano a na volta cinquanta-sessanta di queste nserte, nfilze si chiamavano proprio e ti dovevi anche sbrigare se no ti dicevano puru parole le maestre. R.: Schiave erame tandu, te sgridavane. D.: Non è rimasta nuddha mescia? R.: None none, su morte tutte D.: Ma le mescie erane cristiane ca faticavane meju de l’addhe? C.: E meju! D.: Perché diventavane mescie. C.: Cu trasene de sutta lu padrunu. C.: Na fiata iu sta faticava a Galatina, lì non ci davane a nfilze, ci davane a chili una cassetta più piccola, dieci chili per esempiu, e io mi dovevo sbrigare per finire insieme alle altre, guardavo la cascetta de l’altre se stia chiu sutta, stia chiu ssusu cu me sbrigu perché non tuttu era uguale, è vero Rosetta? Questa può dire la verità, allora se dieci chili a te si trovava bello così grosso con la foglia fiacca, ce dovevi aprire, iu rimania a rretu per dire. 78 R.: E quiddha scia annanzi? C.: Venia quiddha da disgraziata de la mescia ca quiddha ha spicciatu e tie no. A.: E ce pause facianu? C.: Pause, dalle dodici all’una. R.: Alle sette e menza trasiame, alle dodici vessiame, all’una erame trasire, alle tre e mezza vessiame. C.: Allora a Galatina se faceva così, arrivavo col treno, partivo di qua alle sette meno un quartu, arrivavo lì alle sette e venti, alle sette e mezzo dovevo timbrare il cartellino. R.: Quiddhe timbraane, nui no. D*.: A Sternatia no. C.: No, allora come entravi prendevi il numero tuo dieci, dodici; timbravi e lì usciva tutto ora e minuto e poi lo portavi al posto poi si andava allu spoglaitoiu te spoiavi e mettevi il camice. R.: Nui quai non teniame niente. C.: Cu la cuffietta bianca. R.: Niente. C.: In testa e sonava la campanella scappando alle sette e mezzo al lavoro e facevamo, questo tavolo c’era tanti cassettini divisi. R.: Quiste erane diverse de nui. C.: Quai si mettevano pasta verde, russa che dava un certo colore, quelli che si assomigliavano di più li mettevi qua; qua mettevi foglia chiara foglia scura e tenevo quattro-cinque di queste cassettine io, come pure tu, stavamo lontane e le mettevamu… Allora a Galatina erane gelose di noi, e dicevano che noi li avevamo portavo via il lavoro loro e invece non era vero perché noi siamo andate le operaie con tutto il quintalaggio de tabaccu ca consegnavane lì. R.: Sì, consegnavane a Galatina. C.: Quindi noi a loro non abbiamo tolto niente, soltanto erane gelose. Allora erane di quelle di Galatina queste che prendevano il tabacco. (Ad Antonella) La nonna tua veniva con me a Galatina e a Maglie. Allora passavane no, e diciane pasta verde, russa e nui mintiane certe belle fojazze susu cu facimu cchiù figura, perché poi mpari la malizia a quiddha lu pijavane, ah se lu ziccavane e lu mintiane ddintru, se era una nu picca pizzicchiusa girava, trovava le foje e ti diceva le parole: «queste non vanno qua, queste vanno qua». 79 R.: Sì, ca poi no capiane mancu cchiù quiddhe... Tandu era lu periodu ca l’erame scocchiare. C.: con queste foje ca me davi tu per metterle qua a questo cestino, io le nascondevo suttu lu… col camice. Quando passavi di nuovo quelle foglie che mi avevi dato tu, io le mettevo sopra e poi niente te decia e tie cacciavi propriu quiddhe foje. Allora tie capisci più pocu de mie. Però dovevi lavorare e dovevi ingoiare. R.: Ca la mescia Emma, ce cumbinau. C.: Invece la Peppina no, era brava la Peppina! R.: Sì, ca la Custantina della Maria Grazia puru era brava ddha cristiana, ma nc’era la Ndata cu la mescia Emma, focu de Santa Ntoni. D.: Erane triste. D*.: Ce ve faciane? R.: Martire comu, ne sospendiane. C.: No a noi no. R.: Alla fabbrica nostra ne sospendiane. C.: Alla stazione non sospendiane. R.: Na fiata sai perché me suspendira? Allora alla Rosina de lu Strambulisciatu, stia de coste a mie ca sta faticava, li pijara lu pane, de sutta lu bancu, cu glielu scundanu, e lu pijara a da parte du cera l’Assunta dellu Lici. C.: L’avvucatu. R.: Quiddhu era l’avvucatu. Allora ce fice? La Rosina poriccia disse: «Mescia, m’hannu pijatu du picca de pane ca era nduttu», «e a ddhu stae?» disse «lu pane nu porta piedi», disse «Rosetta tie rimani a casa». «Rimangu a casa?» dissi iu. E invece erane quiddhi de ddha parte ca l’erane pijatu de sutta llu bancu. C.: E intantu tie stivi già licenziata pe du giurnu. R.: Pe du giurnu stia licenziata, quandu vessì dalla fabbrica. voiu te dicu, sai quanta gente suspendia da mescia Emma? C: Sì quiddha sì, e imu fattu stu lavoru de sti colori: quarta russa, quarta verde-russa, quarta chiara, quarta scura; quattru cinque gradazioni e lu scocchiavame. Poi è uscita la macchina e invece loro non si son trovate alla macchina. R.: Allu cernire? Alla machina cu lu nastru? Si me trovai, la ficime a quai sutta. Allora c’era na macchina grande, poteva tenere dieci operaie. Lì dovevi stare sempre in piedi, io ho lavorato pure in quel punto lì. Stavi in piedi qua, e qua dietro avevi la cassa, cassa no più a chili, cassa quanto an- 80 dava andava, per chi era più svelta. Si tagliava il filo e lo sfogliavi così dentro a questo cassetto. Questa era na macchina che lo sfogliava, era attaccatu. R.: E tie poi eri trovare le foije? C.: No, iu no. R.: Nui erame cojire le fojazze. C.: No, io non facevo questo lavoro, queste quattro-cinque, dieci operaie; dieci di qua e dieci di là. La polvere sì che volava. Questo nastro poi faceva così e girava. Qui c’era nu corridoiu, nu corridoiu cu na banca lunga che camminava. Ecco lì dovevano stare attente le operaie a scegliere le cose… Poi erane cuminciatu che non davano tanto peso proprio, come facevano tanti colori, perché quello camminava, c’era tiempu?, toglievano soltanto le foije cchiù fiacche. R.: Cchiù fiacche, le cchiù sane cacciavame nui. C.: No, nui cacciavame sulu le chiu brutte e camminava. E poi non si facevano più le balle come na volta, quiste de quarta, quiste de quinta. R.: No’ li faciane allu torchiu. C.: Allu torchiu mischiavane, faciane nu picca cusì alla bona. D.: Le imballatrici, quiddhe non c’erane cchiui? D*.: Quando vessia sta machina non c’erano chiui le imballatrici? C.: Sì sì c’erane sempre, però no più come na volta, che si doveva stirare bello, si faceva un mazzo così sul ginocchio. Si prendevano, c’era na cassetta… non era na cassetta? R.: Na cassetta, iu lu tengu lu torchiu a casa mia C.: Na cassetta cusì e mettevano qua dentro. Poi c’era una manovella che giravano. R.: Cuncettina ca tuttu du periudu cu ncasciu lu tabaccu, a ddhai a Lecce lu ncasciava ca tenia lu torchiu. Li ultimi anni così se facia. C.: E così se faciane le balle. Queste balle poi si mettevano nel forno, c’era un grande forno. R.: Nui puru teniame le stanze delle stufe. C.: Delle stufe. Se mintia ddintru e restava ventiquattro-quarantotto ore, quantu decidiane poi le capu loru, la maestra, lu dirigente. Perché nui teniame lu dirigente. Nun era chiui... Era governativo. E poi le cacciavane. Toglievi la tavola, toglievi tutto, mettevi il telo, si ricucia. R.: Allu ‘state se ricucia. C.: No, a nui c’era nu gruppu ca facia tuttu contemporaneamente, c’era nu gruppu ca facia na cosa…. 81 R.: Allu ‘state se divertia lu tadbaccu. C.: Questo era il lavoro nostro. D*.: E a ce ura spicciavi? C.: All’una c’era soltanto l’ora di pranzo. D*.: Ca rimanivi ddhai, no’ tornavi de Galatina. C.: No, de fore paese. Si portava un panino, prima ognuno portava nu paninu. Poi abbiamo migliorato, siccome era dello Stato e hanno portato come un frigorifero, scaldabevande, però non frigorifero, scaldabevande quantu du muru, tutto ripiani, e allora poi potevi portare un po’ di verdura un po’ qualche cosa. C’erano i tavoli, le sedie, ti sedevi, mettevi lo strofinaccio tuo e poi mettevi un segno a questi pentolini con il manichino che si chiudevano come il bollilatte. Ognuno prendeva il suo poi si mangiava. Poi a noi ci hanno messo la mensa. D.: E a Sternatia com’era la mensa? R.: Mm a Sternatia… C.: Quai mangiavane cu le mani sporche. D.: A Sternatia… Tie tornavi all’una, alle dodici cu mangi? R.: Sì a casa. D.: A casa. Non mangiavi alla fabbrica? R.: No, no’ mangiavame a ddhai. D.: Quindi tornavi a casa e poi… R.: Nui a contrabbandu, la matina, lu portavame lu pane, lu mintiame sutta lla banca, cu le mani sporche tutte polvere e stiame tutti boni tandu… moi no voju cu te dicu. C.: È veru! R.: Moi no’ voju cu te dicu. D.: Senza lu grembiule. R.: «Tie voi nu picca de peperussu, tieni tieni cu non te viscia la mescia». E mintivi nu picca de peperussu sullu pane. C.: Ce ha fare? Stusciavi nu picca de pane. R.: «Tie voi nu picca de paparina? na». Iu poi ca stia vicina, ca su stata sempre vicina diciane: «Rosetta cucina le foje, nducile, cucina le paparine tie». Poi era mintire lu piatticeddhu qua sutta e scappava cu vau a ddhai. Ah, de cose l’aggiu fatte ieu. D.: Quindi non tenivi grembiule. R.: No. C.: No, nui stiame tutte in divisa. 82 R.: No, na mantila a nnanti cusì semplice, comu lu tenivi, lu tenivi blu biancu… Na suttaveste la facivi nu mantile. C.: No, noi andavamo tutte uguali. R.: Sì quiddhe. D.: E a Sternatia fino a che annu ai faticatu? R.: Iu finu allu sessantasette, finu all’ottnta? Perché alla Santina… C.: Mo ti dico l’ultimo anno che ho lavorato io, sul libretto di pensione sta scritto. D.: Sino allu sessantasette? R.: No qiddha dellu quarantaquattru, percè quattordici anni scii iu alla fabbrica. D.: de lu quarantaquattru finu…? R.: All’ottanta. D.: Ah, a Sternatia finu all’ottanta, sempre a ddhai allu castellu? è possibile? R.: Allu settantatrè ccattai ieu l’Annarita e iu pijai lu premiu, allu sessantatrè, allu sessantasette puru faticai ca cattai la Santina, e puru stia lu magazzinu apertu. D.: Quindi finu all’ottanta hai faticatu? R.: Finu all’ottanata è statu sempre lu magazzinu apertu. D*.: E quale magazzinu? R.: Sempre Rossi. C.: Ancora e Rossi. R.: Ancora e Rossi, iu nu cangiai mai magazzinu. C.: Vidi quai ce annu (Al libretto della pensione). D.: 1983 D*.: Allu quarantaquattru tenivi quattordici anni. R: Fanne lu cuntu. D*: De lu trentaquattru? No de lu trenta. R.: Ah mo sciamu d’accordu. D.: Vui de Sternatia puru iti pijatu la pensione? Ve mintiane li contributi? R.: Sì, ma iu bisognau cu vau a campagna cu mintu li contributi. C.: Quella l’ha presa poi come tabacchina e come contadina. R.: E ce me dannu, seicentu euro. D.: La minima forse. C.: Sì la minima, ma pure io. D.: Ma li rispettavane li contributi o li mintiane quandu voliane? 83 R.: A ci voliane li mintiane. D.: Eh quiddhu era lu problema! R.: Ma sai quante fiate te li mintia a tie e a mie me li cacciava. Percè no’ teniame de quiddhe ca tenimu osci, sciame cu contrullamu li contributi, cu vidimu ce ne misera. D*.: Non c’erano i sindacati. C.: Non c’erano i sindacati, lu collocatore c’era solamente. D*.: E alle sette e mezza scivi, delle sette e mezza a mezzatia e poi dell’una alle tre e mezza. D*.: E quandu tenivi piccinni, ca erane piccicchi, li eri lassare? R.: E iu per esempiu delle nove e mezza alle dieci tenia mezz’ura de tiempu ca era vessire ca era allattare li fiji. D*.: Ah, quindi te diane sta mezz’ura de tiempu cu va llatti li fiji. R.: E poi all’ultimu tiempu me lu nduciane allu magazzinu, ma sempre mezz’ura l’era allattare. D.: Alla fabbrica della stazione vui sutta o supra... No dellu castello? R.: Sopra. Poi allu ’60 ficera poi lu capannone ca poi vinne puru, ca c’era lu nastru ddhai, le machine. C.: Allu Rossi, allu Ancora e Rossi vinne puru lu nastru? R.: Sì. Ca poi tandu qiuddhu lu vindiu e lu pijau lu Monosi… E poi se chiuse da fabbrica. D*.: E quando invece, me pare c’è statu nu scioperu me dissera. C.: Ah sì sì, allu Mastrolia. R.: No puru a nui ficime scioperu… Tandu stia ncinta dellu Luigi e stia qua fore allu friscu e l’addhe fiera sciperu. D*.: E percè scioperastive? C.: Ah mo te dicu. Lo sciopero era così perché volevano entrare le ragazzine a lavorare di quindici-sedici anni, che primu non è ca sciane tutte alla scola comu moi. R.: Nisciunu scia alla scola. C.: L’unica risorsa per le ragazze era il magazzinu e non le pijavane, perché l’ultimu annu che pijara le apprendiste, cioè il primo anno che si lavorava ero io e poi non hanno preso più. Allora dopo tre-quattro anni tutte ste ragazze hanno fatto scioperu. E lo sciopero intendevano che le persone adulte non potevano entrare a lavorare. Sbarravano il portone, la porta d’entrata. R.: Eh sciane a ddha rretu e non trasiane… 84 C.: «Perché dobbiamo lavorare anche noi». R.: Perché iu scia ncinta e nu ccappai a ddhu periodu, però le guardava ca iu a qua nanti abitu sempre. C.: A fianco a me dall’altro angolo e allora poi sono venuti i carabinieri. Perché le maestre che comandavano volevano togliere le nuove generazioni... Le nuove generazioni si erano imbestialite, perché c’era il sindacato. R.: C’era lu collocatore tandu. C.: L’ufficio de collocamento. D.: A Sternatia? C.: Sì, sotto il Comune, sai dove stava, dove c’è l’ufficio della guardia adesso. R.: None prima stia a ddha ssutta, poi venne trasferito alla guardia medica. C.: Me no, io non me lo ricordo, perché io sono andata… ma tenevo sempre bisogno de lu collocatore, perché io, finito il lavoro dovevo andare che ero disoccupata. R.: E li diane la quiddha… C.: No, non ci davano niente! R.: Perché a vui vi pagavane bonu. C.: No perché cu te dannu la disoccupazione dovevi tenere se non sbaglio tanti contributi, noi lavoravamo stagionali, non erame affettive… e non raggiungiame li giurni necessari cu tenimu lu sussidiu D*.: E comu vi pagavane? R.: Ogni quindici giurni ni pagavane. D*.: E quantu era lu stipendiu? R.: Quattrucentu lire. C.: Quando loro prendevano quattrocentoquaranta lire, per esempio, lì abbiamo avuto un’altra fregatura dello stato. Mò vedi che dici che è vero. Quando loro prendevano quattrocento lire io prendevo settecentosettecentocinquanta. D*.: A Galatina? C.: E ti davano lo stipendio come la manifattura di Lecce. Perché loro erano affettive nui stagionate; iu lavoravo due mesi, tre mesi, massimo quattro. Allora non rientravo a certe spese e me li davano a soldi, capito, prendevo quasi il doppio delle giornate loro. In più la fregatura che abbiamo avuto io e tutte e sessanta operaie di Sternatia che ogni mese tenevamo due giorni di riposo se ti ricordi. 85 R.: Sì. C.: Due giorni di riposo significa che durante il mese le potevo prendere quando volevo, dal primo al 31, due giorni stavo a casa e mi pagavano la giornata . Però quella giornata l’abbiamo pianta poi, pianto, sai quando non ci hanno dato la pensione giusta come lu stipendio, adeguata allo stipendio. R.: Quindi erane furbi per quistu lassavane doi giurni a casa. C.: Ce l’hanno data di previdenza sociale, no dello Stato. Quella non è la pensione dello Stato. Mi pagavano statale ma a titolo di pensione non era statale, perché poi iu pure se facevo quattro mesi all’anno, quelle due giornate di riposo sai cosa significavano? Che ho finito di lavorare, all’altro mese nuova assunzione e non scattavo mai… D*.: Quindi de gennaiu a maggiu facivive coltivazione e... C.: Piantazione. D*.: Piantazione e coltivazione. C.: E poi si raccoglie. D*.: E la raccolta? R.: No, da maggio fino a ottobre è la raccolta. D*.: E poi alla fabbrica faticavate de ottobre. C.: Me verso novembre incominciavame. R.: Se nc’era mutu tabbaccu tiravame puru finu a maggio ma se non c’era tabaccu puru quaranta giurni faticavame. D*.: Senti e a Sternatia a differenza soa, comu facivive, comu faticavate la cernita? C.: La stessa cosa, si lavorava, se stirava. R.: E noi l’erame mintere sulla gamba cu lu stiramu. C.: Poi c’era comu stu tavulu rotondu un cerchio poco più piccolo, così. D*.: Comu se chiamava stu cerchiu? R.: Aspetta lu torchiu. C.: No, lu dischiu… ed rea rotondo, questi mazzi poi ca se stiravane belli comu sia se era nu libru. R.: Li mintia qua sutta poi c’era quiddha adatta ca l’era pijare. Poi quistu dischiu lu diame a l’imballatrice C.: Sì sì e si chiudeva, poi questu dischiu diventava così bello alto. R.: Ca certe fite cadìa, ca lu tabbaccu era picciccu picciccu e se scjiàva. C: Allora la maestra poi questo dischiu lo pijàva, tirava lu mazzu, perché stava con lo stelo tutto da una parte… e diceva: «questa è quarta». 86 R.: Seconda, prima. C.: Significava ca era na foglia buona e lo dava alla ballatrice che sapeva lavorare quella balla. Prima era cchiù rigoroso. Quiddha facia la seconda, quiddha facia la prima, qiuddha poi facia lu fronzone. D*.: Quindi le ballatrici se distinguia puru a qualità de tabaccu. C.: Erane comu i confessionili, na se non sbaglio, perché io una volta li ho visti qua… Allora si sedevano loro, tenevano stu serviziu quai cusì tantu largu e mettevano lu tabbaccu, toglievano qualche foglia che non gli andava che non gli piaceva. Poi queste foglie se non andavano in quel dischiu, le mostravane alla mescia, la mescia subito andava al punto dove l’avevo preso e diceva: «quista ce bete» (Gridando). R.: Na fiata ncingau cu fazza: «Rosetta quistu ce bete, Rosetta quistu ce bete, Rosetta quistu ce bete»; vinne lu Giorginu «Rosetta sciati cu portati le cascie allu Cumentu». R.: Rengraziamu Diu. Ce bete, “ce bete, ce bete”, sulu la Rosetta… Percè non chiami l’addhi? C.: A fiate poi la prendevano con una, per esempio chi aggiustava il disco. R.: No a tie... Ma scornavi sempre a mie. Poi lu Giorginu: «Rosetta vieni sciati cu carisciàti le casce», se era scocciatu puru quiddhu ca facia: «Rosetta quista ce bete, Rosetta quista ce bete» D.: Tutte fimmene comunque, no? R.: Sì. C.: Allora mo vi racconto una cosa però non capitata a me, capitata alla mamma mia, sempre di tabbacco. D.: Ca faticava quai a Sternatia. C.: Alla stazione. La mamma mia giustava quai stu discu. R.: Quiddha alle ballatrici stia? C.: No allu discu, anzi mazzi mintia ddha ssutta, tie facivi lu mazzu e glielu divi alla mamma mia, perché non tutte le mani mettevano sotto, c’era sempre una in questo gruppo. Allora una volta diceva Ancora, Don Angiolinu. R.: Quiddu era bruttu! C: Spetta. «Al prossimo pagamento vi aumento…», perché faciane le cernitici. R.: E le spianatrici. C.: E le spianatrici. Dicia «al prossimo pagamento vi aumento la giornata». Rrivava lu pagamèntu, mille lire, sempre mille lire eranu, per dire. La mamma mia se stizzau, allora disse: «era na bella balla». 87 C.: Era bellu lu tabbaccu. Disse «mintiti tuttu dintru, biancu, russu, verde, tuttu». E così ficera tutte ste quattro-cinque quai. Disse mescia Peppina , non me ricordu moi, se era la Maria Scordari, perché quiddha faticava a ddhai. Insomma la ballatrice cchiù bona ca era fare quiddha balla disse: «sciati a ddhai allu gruppu della nonna Tina e pijati ddhu discu ca sacciu bellu». Quiddha cristiana ccuminciau cu fazza le balle, disse «Mescia me dicisti ca è bellu ma quai ave mammata, ave lu sire, lu nonnu, ave tuttu». La Peppina mai s’era stizzata, disse: «ce vi meritati moi, mo se stivive allu castellu mescia Emma tutte a casa ve lassava, comunque iu a casa non ve lassu però l’iti cernire ntorna e cu llevati tutti li colori». Allora hannu rispustu quiste, ste quattro-cinque: « a nui, nunnu Angiulinu n’ha promessu ca ne paga meju, allora ave tante fiate ca ne pija per fessa… no non cernimu, mintimu tuttu comu face l’Angiulina de lu Furiànu». R.: A quiddha li diane sempre lu fronzone. C.: Se azza quiddha: «Ce nc’ete cu l’Angiulina de lu Furianu?», si è risentita. Disse la mescia Peppina: «Ssettate tie statte citta». Sciu lu Giorginu Seddhone cu fazza l’appellu, disse: «quiste veramente no’ se meritane la giornata, percè fìcera tuttu de nu colore». R.: Lu Giorginu. C.: No la mescia Peppina, percè lu Giorginu ce sapia, e le spompau. «Me va bene, mo ca vene mesciu Angiulinu parlu iu cu visciu quiddhu ce dice». Quandu vinne don Angiulinu cu porta li sordi, li mandava sempre cu… R.: Sì, c’era unu ca venia. C.: Non me ricordu comu se chiamava; ddha fiata vinne quiddhu percé era successu quiddhu ca era successu. Disse: «me, cangiati manu, perché Giorginu cu parlu iu poi cu don Angiulinu» E don Angiulinu: «tie sinti ca facisti tuttu nu colore, tie sinti, tie sinti?». E le altre hannu pijatu paura. Dissera: «mo le caccia, mo le caccia quiste». R.: Sì, ca poi se mpauravane e cacciava sempre una. C.: «Allora mo le caccia e perdono il lavoro». «È meju picca ca nienti» diciane le persone. R.: E stiane tutte citte. C.: Non è come adesso ca stamu tutte… grazie a Diu. Dese la busta disse: «allu prossimu». Allu prossimu pagamento dese la busta chiusa a quiste, e invece a quiddhe li dese li sordi contanti. E l’addhe cuminciara cu dicane: «e percé a quiddhe la busta chiusa?». Allora hannu male pen- 88 satu ca li misera de cchiui. Vedi quantu si doveva discutere prima R.: Per cinque lire, per dieci. C.: Sacrifici cu mangi, cu le mani sporche. E poi a Sternatia nc’era naddha abitudine che con la menza dell’acqua, questo lo potete dire mo, la menza ca piji l’acqua alla funtana, quando non teniame fontana sciame cu la menza cu pijavamu l’acqua de la funtàna. R.: Centuventi persone erame bivire intra ddha menza; zziccavame l’acqua e biviame, ziccavame l’acqua e biviame. E quandu rimania de lu sabatu allu lunidia puru biviame ca no’ potiane scindire cu pijamu acqua. C.: Ca chiuvia o facia friddu. E invece noi poi a Galatina… R.: E invece quiddhe stiane sempre pulite. C.: Nui portavame la bottiglina piccola si riempia allu rubinettu, perché tandu non è ca c’era acqua. R.: Non teniame lu rubinettu nui. C.: Ecco e la purtavame nanti allu postu. R.: Menu male ca teniame la funtana qua nanti. D.: Vabbè ma ste cose fino all’ottanta? C.: Poi hanno cambiato. D.: Negli anni settanta-ottanta. R.: Si ca ficera li rubinetti quintru. Dopu lu sessanta ficera li rubinetti. D.: Allu bagnu se putia scire quando volivi? R.: Me sì, allu bagnu sine, e caspita. D.: Dopu ficera lu bagnu e invece prima non c’era mancu lu bagnu. R.: Sì lu n’cera unu. C.: Unu pe tutte. R.: Unu pe tutte, unu pe centuventi. C.: No invece noi a Galatina c’era comu quando… R.: No ca nui poi ne ficera na decina, non te ricordi? C.: No. R.: Tie non faticasti va bene. E quandu fìcera lu capandone quai, poi no’ fìcera cinque bagni? A ddhai nc’era li bagni, a ddhai nc’erane li rubinetti. C.: Ma spetta na cosa, iu quistu no’ lu sacciu, de lu Giuseppe. R.: Lu capandone de lu Giuseppe, quiddha era la fabbrica. C.: De quai all’Indinu, al Centru Studi Chora-ma cu lu capandone “Kalì Zoì”, quiddhu comuniacava? R.: Sì se aprìa. C.: Infatti te l’ho detto. Io no l’ho visto mai comunicante però. 89 D.: E comu facìa cu comunica? Poi non c’è la scala della dottoressa Specchia a nu puntu? R.: None de ddha intra sciame addhintru. D*.: No... Ca moi stae tuttu chiusu, ca lu Centru Studi poi dietro ha delle stanze. R.: Non c’ete lu tavulu dai allu Centru Studi, non cete lu stanzinu ca trasi intru, de ddhai poi nc’era la porta aperta ca sciane, a ddhunca face le visite lu professore c’era la cantina ddha ssutta e bèrame scindere lu tabbaccu. C.: Sai ce bellu ddha ssutta, sono scesa una volta. R.: Poi quandu misera li nastri ca fice lu locale alla “Kalì Zoì” tandu poi vinnera trasferite a ddha parte, e a qua parte teniane depositu. Invece tutte de stanze finu supra addhune moi dormiane li fiji della Grazia, va bene, se trase de la cucina e se vae a ddhintru, a ddha parte c’erane doi stanze addhe ca era depositu, ca poi de sta scala stritta stritta, e invece poi quando sera salire ca la giustara la scala se largau tantu, e quiddhe cu salene de casce a ddha susu erane crepare. C.: No, non era cumu moi cu l’ascensore. No, noi a Galatina e a Maglie era più organizzatu. R.: Na fiata poi sequestrara na partita de tabbaccu ca le casce sciane centuventi chili, va portale ddhai alla Mariatè all’ultima stanza. C.: Alli cinque cambarini. R.: Alli cinque cambarini, ca nui erame portare sempre alli cinque cambarini. D.: Quiddhi supra supra. R.: Supra supra a ddhu stae la Mariatè. C.: Lu papà miu faticava a ddhai però, come invalido di guerra, ogni tante operaie ci doveva essere una persona invalida. R.: La guardia diciame nui. C.: No, una persona invalida. Mio padre poi era falegname perché dovevano fare qualche cosa, giustava le casce quando se rumpiane, facia dei lavori. R.: Ca quiddhu poi, era la stanza soa addintru allu garage a ddunca mintia la machina primu cu la mintu a casa mia, sutta allu castieddhu. D*.: E quai alle fabbriche de Sternatia le fimmene ca faticavane erane sulu quiddhe ca portàvane lu tabbaccu. C.: No no. 90 D*.: Non faciane sta differenza. R.: Anche se tenivi lu tabbaccu te lassava a casa e tie te raccomandava e scivi. D.: Ma se potia cantare intra alla fabbrica? R.: Erame stare citte. C.: All’ultimu giurnu. R.: Quandu se spicciava lu tabbaccu ca nn’ sciame cchiui, tandu si ca cantavame. D.: E ce se cantava. C.: Cose della Quaresima, se poteva dire il Rosario. R.: Me, ca lu giurnu se dicia sempre lu Rosariu. C.: No nui no. D.: La mattina la preghiera no? C.: La preghiera del mattino. D.: E te ricordi qualche cantu ca se facia? R.: Non sacciu de cantare. D*.: E delle ballatrici non ave nisciuna viva? R.: No tutte morte. D.: La Maria Scordari era ballatrice. C.: Forse ca rimase quiddha sula. D.: La mamma di Giorgio Filieri. R.: A nui nn’ rimase nisciuna percé la Nzina dellu Liri, la Nzina Panzetta, la Lea Speranza, le Tomene, le Cesarine, quiddhe erane tutte, la Lucia, la Cesarina. C.: Forse dellu gruppu miu c’è sulamente la Maria Scordari e non me ricordu nisciun’addha. D.: Ma per esempiu alli padruni c’erane cristiane ca portavane qualche cosa delle campagne? R.: Sine nc’erane. C.: No aspetta, quiddhe delle campagne, va bene, se teniane li fondi loru, portavane; se no, non portavane, però tutte le operaie, è vero, se c’era una che organizzava, e diceva: «me arriva Pasqua». R.: L’erame portare l’ovu. Tantu allu Giorginu tantu alla mescia. R.: Nui per esempiu rrivava la fiera, nui operaie, allu bancu nostru, mintiame cinque sordi a petunu e cattavame nu chilu de castagne e poi quante te spettavane, una l’era misurare sutta allu bancu dieci a tie, dieci a tie, dieci a tie. 91 C.: De nascostu della mescia queste cose. R.: Sempre de nascostu della mescia. C.: Oppure se calavi doi quiddha facia finta ca non vide e calava. R.: E scia ntorna all’addhu gruppu e pijàva l’addhe e scia sempre mangiandu castagne. C.: Poi quando le cose sono migliorate non era più l’ovu. R.: Ce bera? C.: Portavame le cose chiu meju. R.: No nui. C.: Sempre ove portastive vui? R.: Sempre ove. C.: Nui a Galatina… R.: Vui erive diverse de nui. C.: Nu pocu de liquori, nu bellu vassoiu de dolci, erame ccuminciatu ca le cose erane diverse. R.: Ah nui ste cose non le teniame. C.: Nui quandu spicciamme? D.: All’ottantatrè. C.: Rivamme cu facimu li regali meju, oppuru quandu lu dirigente, comprava il bambino la moglie, faciame lu regalu, cinquemila lire petunu. C.: C’erane quiddhe ca teniane cchiu mute caddhine e portavane doitre ove. D.: Verdura no, per esempiu? C.: No, quelle erane poi cose personali. D.: C’era quiddha chiu ruffiana? C.: Mm, brava. R.: Na fiata iu, ca tenia la campagna marituma, me fici li cardi cu vessane bianchi, me li cofinau cu la terra, certi cardi belli cusine, na fiata dissi a marituma: «me Fiore tre chiante li le portamu alla mescia Emma, ca tutti portane e nui non portàmu nienti». Quando li li portai ce fice quiddha: «di cardi non baliane e iu li minai». «Li minasti?», mai cchiui li portai nienti, ca se ficime tanta fatia cu vessane bianchi, percè tandu non c’erane li cardi ca li pregavane cu bessane bianchi. C.: Una volta al mese ci davano una stecca di dieci pacchetti di sigarette. Quando ebbi, aspetta comu se chiamavane mo…. R.: Nazionale? C.: Nazionale. Quandu invece era Pasqua e Natale ce le diane de quiddhe cchiù bone. Non me ricordu mo le cchiù bone comu se chiamane. 92 D.: Le Alfa? C.: Iti chiedere mo... D.: Vabbè le Marlboro non c’entrano. D*.: No, le Marlboro non suntu americane. R.: None, le marlboro non le c’era. A.: MMS. D.: O le Alfa o le MMS. C.: Le MMS erane quiddhe cchiù economiche ca ni diane na stecca allu mese, non me ricordu cchiui. R.: Alfa erane, le sigarette Alfa. D.: Certu sape intra a la fabbrica ce odore de tabaccu… C.: Sì ma però fatta l’abitudine non te lo sentivi più. A: Ma questo succedeva a Galatina e a Maglie, a Sternatia no? C.: A Galatina e a Maglie tutte e due. R.: A Sternatia none, invece nui erame schiave nui sempre nu teniame suffraggiu de nienti… Na fiata la mescia ccuminciau cu fazza gridi gridi, rispunde lu Peppinu dellu... La finestra stia aperta disse: «e non basta mo quantu ave? no’ su cristiane comu a tie?, chiuditi la finestra!» (la mescia). D.: Ma sta Emma era sposata? R.: Cine quista? Quista sì, ci era la socra della Lucia Longu. C.: la Liliana la conosci? D.: Longu? C.: Sì, ca tiene per maritu lu… R.: Lecce. C.: Comu se chiama quiddhu. R.: Michelangelo. D.: Ah Michelangelo. C.: Ca tiene na bambina piccola pure. D.: Sì. R.: La nonna di questa. D.: Quindi era sposata tenia fiji. R: Sine tenia li fiji. D.: E venia pagata de chiui sta cristiana C.: Sì era mescia. D.: Non faticava però? C.: No ordini. D*.: Ah ordinava e basta 93 D.: Non minava le mani? D*.: Guardava e basta? R.: Sì stia ssettata, cu vascia e vegna. D.: Ma vi alzava mai le mani. R.: No sulle mani mai. D.: Gridi ve facia. R.: Gridi ca minava… comu pezze de piede ni facia. Ca iu no’ suntu una ca gestimu, ma quiddha sai comu gestimava? C.: La Ndata era de cchiù cosu. R.: None la mescia Emma te facia cu piji velenu… C.: No la Peppina no. La Peppina mo sai chi era? La Graziella quella che gli ho morto il marito adesso. R.: Ca morse lu Pippi. C.: Di fronte alla Zia Concettina. R.: Annanzi alla stazione. Reale che tiene due figlie la... e la Enza. D.: Che la Enza è maestra di Samuele. C.: Di Samuele. La nonna sua, ete la maestra de Ancora. R.: La mamma de mammasa. C.: Sì la nonna sua. D.: Era diversa. C.: Sì quella non licenziau mai persone. R.: Sì ca nc’era l’Assunta de lu Panzetta o la Peppina de lu Panzetta, quiddhe non licenziara mai. La mescia Emma sulamente con la Ndata era... 94 Intervista a Margherita Marti Luogo e data: ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Margherita Marti; Luogo e data da nascita: Sternatia il 29/05/1930; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrata all’estero: no; Intervista di: Desiré Maria Delos, Daniela Gemma; Antonella Marti. D.: Margherita, hai faticatu a Sternatia? R.: Sì! D.: : Allu Ancora? R.: Don Angiulinu Ancora. D.: Ma a quale? A quiddha della stazione? R.: No, allu castieddhu! D.: : Ma addhai, sutta erane le fabbriche? R.: Prima erane susu, stìame susu! poi nc’erane cinque camerini ca stìane ancora cchiù susu de lu lavoru ca facìame nui. Addhassusu mintìame tutte le mballe: dopu lavorate, le ncatastavame su li cavalletti susu alli cinque camerini (cusì li chiamavanu) e nui poi allu periudu d’estate, dopu ca erame spicciatu tutta la lavorazione ca facìame, scìame ddhassusu cu le facimu scindere percè quiddhe se llentavane poi, percè standu l’una susu all’addha se formavane, no? Percè quiddhe stiane fatte cu nu stozzu de pezza… e nc’era propriu lu cosu ca le mballava cu lla balla… Nui fimmene, tante fimmene, lavoravame lu tabaccu, mintiame lu biancu cu lu biancu, lu colaratu cu lu coloratu! Facìame la cernita e poi lu facìame a mazzettini mazzettini. E nc’era sta mballatrice, dicìame nui, e lu cconzavanu intru stu cosu quai, lu ttaccavanu forte e lu portavane ddhassutta ddhunca faticavame nui. Poi all’estate nui scìame cu nducimu le balle; dopu ca erame fattu tuttu lu lavoru, nc’era quiddhe chiù giovani, chiù forti, quiddhe ca cumandavanu, cu pponnu dividere le balle e poi le ncatastavane ntorna. 95 D.: A quali anni hai faticatu a Sternatia, te ricordi? R.: Iu finu allu cinquantunu sicuru, poi nu ssacciu! percè rrivai cu cattu ddoi fiji, perché tandu ne li portavanu ddhassusu cu llattanu. Tandu pe’ l’allattamentu ne diane menz’ura: ne portavane li piccinni ddhassusu allu magazzinu e li facìame llattare na menz’ura. D.: Versu la matina? R.: Sì, alla matina, percè all’una vessìame. Allu pomeriggiu poi erane chiù picca le ure ca facìame, percè fina alle tre e menza faticavame: scìame all’una e vessìame alle tre e menza, allora li piccinni nun ce li portavane. Alla matina, quandu erane le dieci e menza, ne li portavane! D.: Alla matina a ce ora scivi? R.: Alle sette e menza! D.: Dellu lunedì allu sabatu? R.: Sì! D.: La pausa pranzo? R.: Pausa pranzo nun c’era! mentre faticavi, mozzicavi nu picca de pane de sutta lu mantile ca portavi. D.: No tornavi a casa? R.: No no, alla menzatìa sulamente! alla menzatìa precisa vessivi e poi all’una precisa t’eri trovare allu lavoru. Faciame na cursa dellu castieddhu cu rrivi a casa, finchè davi cu llatta allu piccinnu e poi eri scappare antorna allu lavoru. D.: De ce annu sinti tie Margherita? R.: De lu trenta! D.: Quindi hai ncignatu a quindici anni? allu quarantacinque? R.: Sì! D.: Finu allu cinquantunu? R.: No, allu cinquantunu tenìa lu Dunatu, poi l’addhu piccinnu, poi vinne la Gabriella allu cinquantacinque, ca stia sempre cu mmie allu lavoru. D.: Ma hai faticatu a addhi paesi? R.: No, sempre allu castieddhu! Prima stìame susu, poi ficera nu locale addhunca dicìane ca lu barone cicala futtia li cristiani... ddhannanzi allu portone nc’ete nu bucu, e nui faticavame intra llu landrone. D.: E la fabbrica finu agli anni Settanta era aperta? o puru prima chiuse? R.: chiuse prima. Prima de lu settanta te lassavane a casa, prima doi giurni poi doi giurni...insomma... 96 D.: E te ricordi gli scioperi? com’erane? R.: Sì sì, cu li manganieddhi ne secutavane. D.: E perché si scioperava? R.: Se scioperava percè no tenìame lavoru, percè volìane cu chiudene lu magazzinu... propriu precisu nu me ricordu! D.: Mmm... e vinnera li poliziotti cu li manganieddhi... R.: Sì cu li manganieddhi, cu no trasimu intra llu magazzinu, percè facìane scioperu e allora erame stare o tutti fore o intra lu magazzinu; e nui ni mintìame nnanti llu castieddhu... e la paura tandu.... non c’erane pistole, c’erane addhe cose; cu li manganieddhi tandu... portavane li manganiedddhi... Ma nui tandu erame giovani e scappavame... D.: Tutte fimmene erivu vui allu tabaccu? non c’erane masculi? R.: C’era sulu lu Giorginu Seddhone, ca era lu capusquadra. D.: E poi nc’erane le mescie... R.: Sì, la mescia Emma, la mescia Ndata... D.: Ma le mescie erane percè erane fije de padruni, percè? R.: No no, li padruni sapiane ca quiste se erane comportate bonu allu lavoru, capìane qualche cosa de cchiui de l’addhe e le mintìane comu mescie. D.: Quindi erane le cchiù capaci, le cchiù brave potimu dire? R.: Sì sì. D.: Erane severe? R.: Beh sì, a ci volìanu! D.: Perché nc’era a ci sgridavane de cchiui e a ci de menu? R.: Eh! per esempiu se li portavi nu carciofu o qualche cosa addha, te portava n’cielu! ma se na cristiana no tenìa, era faticare; eppuru se faticava cchiui de l’addhe, sempre rimproverata venìa. D.: Te ricordi quantu ve pagavane? R.: Qualche lira... D.: Ma ogni mese o ogni settimana? R.: Ogni quindicina, ma non me ricordu quantu ni dìane; non era na somma mutu alta, però insomma... tandu erane sordi. D.: Ma vi mintìane puru li contribbuti? R.: Non ce li mintìane ogni giurnu, ma ogni settimana o ogni quindici. Pe tutta la fatìa ca imu fattu, non vase la pena… D.: E faticavi de novembre a...? chiù o menu quanti mesi? R.: Guarda c’era nu perìudu ca ccuminciavame versu settembre, ca 97 consegnavame lu vecchiu e poi ni dìane lu novu e faticavame allu novu. Comunque le fisse, quiddhe ca faticavane sempre, cuminciavane a settembre-ottobre, ca cojìane lu tabbaccu, finu a marzu-aprile se nc’era lavoru, se no se stìane ferme puru nu paru de misi. D.: Quante erane cchiù o menu allu castieddhu? chiui de centu? R.: Ma, no sacciu... me ricordu ca erame mute; poi c’erane certe ca faticavane sulu cu carìsciane lu tabbaccu de sutta a susu, ddhai a nui cu lu faticamu. Erane quattru. D.: Allu castieddhu c’era don Angiulinu Áncora, e alla stazione puru? R.: No no, alla stazione era n’addhu... mo non me ricordu, percè poi se trasferìra a Maglie quiddhi... Poi c’era lu Mastrolia ca tenìa n’addha fabbrica. D.: E quale ete quista? quiddha de la chiazza? R.: Sine, quiddha! D.: Ma quiddha era cchiù grande de quiddha de lu castieddhu? R.: No, quiddha de lu castieddhu era cchiù grande! Allu castieddhu erame cchiù mute de tutte le fabbriche ca nc’eranu. D.: quandu li piccinni ciriscìane, nc’era na stanza ddhai ddhu potiane sciocare? R.: No no, nienti. D.: Vi trattavane bone allu lavoru? usavane maniere forti? erane severi? R.: Eh bone, quiddhu era lu lavoru, non c’era addhu. No, maniere forti no! L’unica cosa, la mescia cu se fazza bella magari nnanti allu padrunu ni gridava: «sbrigativu, qquai no se perde tempu!». D.: Senti Margherita, ma se potìa cantare qualche canzone? R.: No, sulu la preghiera alla matina. Una ccuminciava e poi l’addhe rispundìane gridandu. D.: Quindi non cantatavivu? R.: No’ te facìane, percè facìane mutu remore, rimbombavane! D.: Alle campagne invece se potìa canatare, no? R.: Si, ma no quandu cojìvi lu tabbaccu, ca tandu eri stare ngucciata e no te vessìa filu la voce, comu facivi? quandu tiravi l’erbe de menzu lu granu cantavi... D.: E cu le addhe operaie scivi d’accordu? R.: Sì sì, tutte amiche! percè poi stìame a gruppi gruppi. C’era nu tavulu lungu lungu, ma stìame divise: nu gruppu tenìa tante nserte de tabaccu ca le scocchiavame cu le nfilamu, n’addhu gruppu tenìa addhe 98 nserte... Me ricordu una sulamente ca me tenìa sempre le difese; iu era sposata e sta ccattava lu Donatu. Allora nc’era una nnanzi a mie, ca no stae quai a Sternatia moi, e me facìa sempre schiattu, ogni fiata ca mangiava me facìa schiattu; mangiava cardi cu lu pane e facìa «ah, ce su bbelli sti cardi!!!». Fice sta cristiana: «tie n’addha fiata quandu voi cu mangi, vanne intru lu bagnu e mangia, filu ca voi cu faci schiattu! e tie, Margherita, mo ci vai, vanne allu sciardinu de darretu casa toa, ca nc’ete na chianta de cardu, tira na chianta e cucinala, e dinne alla faccia soa!». Me tenìa le difese quasi, sta cristiana quai era vecchiareddha. D.: Ma capitava ca per esempiu faticava la fija, la mamma, chiù generazioni? R.: No no, anzi a sta cristiana sì, nc’era puru le fije ca faticavane! C’era la Nzina, la soru della Maria, la Peppina e la Maria... faticavame tutte insieme, erame vicine de casa e allora scìame tutte de paru. D.: Ma de nvernu facìa friddhu? R.: Sine, facìa friddhu, ma scìame sempre nude, filu comu a moi ca mintimu cappotti; iu tenìa sempre na veste de cotone scollata, e scìa alla fabbrica cu le mani retu llu culu cu me scarfa quandu vessìa... senza cappottu, senza scialle, senza giacche, cussì era. Allu periudu de guerra scìame daveru senza scarpe... D.: Beh, meju moi, no? R.: Quandu a tornare addhe epuche, è meju cu no tornamu propriu! 99 Intervista a Pantalea Chiriacò Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008; Nome dell’intervistata: Pantalea Chiriacò; Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/05/1927; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrati all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi. D.: Motte jenniti? R.:: Primo Maggio, 1927 D.: Ipù? Si’ Chora? R.: Umme! D.: Ti èkanne motte isone plo’ ggiòveni? R.: Tikanè! D.: Ma echi puru polemimmèna so’ ttabbàcco? R.: Capoca! D.: Hai faticatu fore dell’Italia? R.: None. D.: Quandu ccuminciasti cu fatichi alla fabbrica? R.: A quindici anni (1942 forse!) D.: Pe’quantu tempu? R.: Finu allu settantatrè-settantaquattru. D.: A ce ura scivi e a ce ura lassavi? R.: Dalle sette e mezza a menzatia e poi dall’una menu nu quartu sciame ntorna e alle tre e menza veniame. D.: Quante fabbriche avìa a Sternatia? R.: Cinque. Alla chiazza nc’era quiddha de don Antoniu, sutta lu castieddhu nc’era li Specchia, poi nc’era don Angiulinu Ancora ca stia a Galatina, poi nc’era alla stazione e allu conventu. D.: A quale fabbrica faticasti? 100 R.: Allu don Antoniu Mastrolia. D.: Quante fimmene erive? R.: Prima erame na cinquantina, poi no pijavane mancu cchiui. D.: Facivive pause? R.: None, ce dici. D.: Tie ce facivi alla fabbrica? La spianatrice? Lu mballavi? R.: Sine, stirava lu tabaccu... le mballature erane addhe. D.: Nc’erane le mescie? R.: Sine, moi una è morta e l’addha no vale nienti. D.: Scivivu d’accordu cu le mescie? R.: Poca! Avìa le cchiu triste puru... per esempiu quiddha de sutta lu castieddhu, la mescia Emma la cuntavane trista. D.: Comu veniane scelte le mescie? R.: Avia quiddhe ca facìane la prova e quiddhe ca invece se giravanu nnanzi llu padrunu... e puru se non erane bone cu fannu nienti, diventavane mesce... D.: Nc’erane bagni? intru o fore? R.: Sine, intru nc’era na stozza! All’ultimu l’erane fattu bonu. D.: Incinte scivivu cu faticati? R.: Poca! Poi vessiu la legge e, quandu stivi alli sei mesi, potivi lassare e te diane lu stessu li sordi. D.: Quante razze de tabaccu nc’erane? R.: La santujaca, la verustizza. D.: Nc’erane forestiere ca faticavane? R.: None, pijavane sulu quiddhe de quai. D.: Ogni quantu vi pagavane? R.: Lu don Angiulinu ni pagava ogni quindici giurni, lu don Antoni invece no se capìa... quandu volìa quiddhu. D.: Vi mintiane li contributi? R.: Quiddhi ca voliane... D.: Nc’erane sbarre alle finestre? R.: None, non c’era nienti... forsi sulu alli magazzini, se no rubavane. D.: Mintivivu qualche grembiule? R.: Na stozza de mantile nnanzi. D.: Ma tie hai sciperatu? Percè? R.: Sine, allora... percè voliane cu dannu picca o no’ pijavane cristiane. D.: Ci facìa l’appellu? 101 R.: Avia unu de Zollinu allu don Antoni ca lu facia de matina; se non c’era lu facia la mescia. D.: Potivivu cantare e scherzare intru alle fabbriche? R.: Nsomma... cu lu don Angiulinu nu picca, ma cu lu don Antoni none, quiddhu era chiù tristu. D.: Parlavivu a griku tra vui? R.: Sine. D.: Nc’erane masculi intra alle fabbriche? R.: Sine, nc’era qualchedunu ca era carisciare le casce pisanti, se no lu faciane le fimmene chiù grosse. D.: Perché chiusera le fabbriche? R.: Perchè nu se chiantava cchiui tabbaccu. D.: Facivivu visite allu dottore prima cu trasiti alla fabbrica? R.: None visite... sulu quandu sciame incinta cu pijamu la carta, se no nu ci diane li sordi. 102 Intervista a Annamaria Scarpa Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Annamaria Scarpa; Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/04/1932; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrati all’estero: no. Intervista di: Desiré Maria Delos. D.: Sei mai stata all’estero? R.: No no, soltanto a Lecce ho lavorato per undici anni quando hanno chiuso la fabbrica di Maglie. D.: Alla manifattura? R.: No, stavo proprio in direzione, vicino a porta Rudiae. D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Prima ho lavorato qui a Sternatia perché la mamma mia faceva la maestra e poi era parente de lu proprietariu de lu magazzinu. A tredici anni sono andata a lavorare ero piccolina. D.: Quindi negli anni quaranta più o meno. E per quanto tempo hai lavorato? R.: Quanti anni faticai a Sternatia no me ricordu percè era vagnona, però lu governu chiuse le fabbriche de Sternatia e prima ni portara a Galatina e poi a Maglie e su stata più o meno na trentina d’anni a Maglie. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia, quale ti ricordi? R.: Me ricordu quiddha de don Cici, quiddha de don Antoni e quiddha de don Angiulinu Ancora. D.: E tu in quale hai lavorato in quella di don Angiolino Ancora? R.: Sì, ho lavorato sempre lì perché erano cugini con la mamma mia. D.: Ti ricordi più o meno quante eravate nella fabbrica? R.: Uh ca erame tante mo no me ricordu lu numeru precisu, però erame parecchie. D.: Tutte di Sternatia? 103 R.: Sì. D.: Quali erano gli orari di lavoro, a che ora iniziavi? R.: Alle sette e menza eri stare già intru la fabbrica ca se no chiudiane le porte. E poi finu alle tre e menza. D.: E facevate la pausa a pranzo? R.: A menzatia vessiame nu pocu sciame a casa e poi all’una tornavame. D.: Che ruolo avevi tu? R.: Quando era vagnona stia alla cernita a filze, poi aggiu passatu all’imballaggiu, ca tandu se usava lu mballaggiu due cassette lunghe e lavoravame a file, le balle le giustavame intru a la cascetta, dopo si è dissusata questa cosa e faciame le balle de torchiu e abbiamo continuato sempre così puru quandu stiame a Maglie. Poi sono passata a Lecce alla direzione, stia allu telefonu a ddhe cose. Poi a Maglie passai alla cernita a filze dove scocchiavame lu tabbaccu e poi lu diame alle operaie cu lu sfilane sullu nastru. D.: Com’era il rapporto con il capo, con il datore di lavoro? R.: Per me era buonissimo, sai percè, ca iu era la prima delle classifiche, de quiddhe ca classificavane. D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica? R.: Ogni annu non era uguale a l’addhu. Na fiata fice ottu sciurnate, n’addhu annu quaranta giurni, n’addhu ancora nu mese, poi quando sono passata alla direzione, ho lavorato tutto l’anno. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano ti ricordi? R.: Lu santijaca, lu salluccu, la peristuzza, la zagovina. D.: Qual era la più pregiata? R.: Le cchiu bone erane la zagovinaa e la santijaca. D.: Te ricordi se c’erane le sbarre alle finestre? R.: Sì sì. D.: E perché mettevano le sbarre? R.: Cu no trasene cu rubane no. D.: Ti ricordi quanto prendevi al giorno? R.: No’ me ricordu ca ormai su passati tanti anni. D.: Comunque in base al ruolo che svolgevate prendevate di più o di meno. R.: L’imballaggiu teniane lu cchiu mutu e l’addhe teniane lu cchiu picca. D.: E vi mettevano i contributi? R.: Sì sì. 104 D.: Ti ricordi qualche sciopero? R.: Sì, anzi quando scia a Lecce certe fiate li facia li scioperi certe fiate no. D.: E qua a Sternatia hai mai partecipato a qualche sciopero? R.: No. D.: E mi hai detto che la mamma tua era mescia? R.: Sottomescia. D.: E come si chiamava la mamma tua? R.: Ancora Vincenza e lu padrunu era Ancora Angelo perché erano cugini. D.: Qundi diciamo che per parentele venivano scelte le maestre o le sotto maestre? R.: A, no me ricordu. D.: Indossavate una divisa? R.: A quai no, ma quando sciame a Maglie o a Lecce indossavame lu camice, ca ancora lu tengu. D.: C’erano degli uomini all’interno della fabbrica? R.: Certo certo, a Maglie sì. D.: A Sternatia? R.: A Sternatia nc’era solamente lu guardianu. D.: Ci hanno detto nu certu Giorgio.. R.: Lu Giorginu Matteo diciame nui, ma quello non era un operaio, era comu na specie de ragioniere ca facia l’appellu tutte le matine, facia tutte ste cose. D.: Si poteva cantare nella fabbrica? R.: A, cantavane certe vote, quando era in fine lu lavoru cantavane. D.: Come parlavate tra di voi in griko? R.: In griko, ma iu parlava lu dialettu percè sirema era de Sulitu e parlava in dialettu. D.: Ti ricordi perché venne chiusa la fabbrica? R.: Percè li pijau tuttu lu statu e toccamme cu sciamu. D.: E tu avevi i figli, li portavi ad allattare? R.: No non c’era ste cose, quandu fici li fiji sci poche fiate alla fabbrica fici poche sciurnate. 105 Intervista a Vincenza Antonia Villani Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Vincenza Antonia Villani; Luogo e data da nascita: Sternatia il 23/11/1927; Residenza: Sternatia; Professione: sarta in pensione; Emigrati all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte, Desirée Maria Delos. D.: Che cosa ti ricordi tu del tabacco o delle fabbriche di tabacco? R.: Io non mi ricordo molto, l’unica cosa che mi ricordo è che c’erano queste fabbriche… Anche mia madre andava e mi ricordo che lei veniva ad allattare i miei fratelli più piccoli; sai da dove veniva? dal castello, ecco lì c’era il magazzino. Io portavo i miei fratelli da mia madre che li allattava e una volta mi sono permessa di dire «posso salire a vedere la sopra?» e allora mi ha detto «se la maestra non ti vede, puoi salire». Alcune volte capitava che certe persone volevano salire per intervistare o per vedere le tabacchine che lavoravano, ma le maestre non volevano perché le operaie perdevano tempo e dovevano lavorare. Una fabbrica era di don Angiolino Ancora. Prima per rispetto nei confronti dei ricchi si usava chiamarli don Antonio, anche per le maestre donna Lucia, donna Ines. D.: Questi ricchi, i proprietari delle fabbriche erano di Sternatia? R.: Sì, sì. D.: Ce n’era uno che era proprietario di una casa dove abita la nipote, quella ragazza che abita vicino al fioraio, che ha due bambine. R.: La Bernardetta. D.: Il nonno di questa ragazza era proprietario della fabbrica quella lì vicino? R.: Si della fabbrica dove adesso c’è la farmacia, la banca, però lì era magazzino prima che lavoravano il tabacco, dove c’erano le tabacchine. 106 Poi sai cosa succedeva che chiamavano le ragazze per lavorare e alla fine non le facevano lavorare e allora scioperavano. D.: Ecco raccontaci un po’ di questo sciopero. R.: Quando hanno fatto questo sciopero sai chi era sindaco il nonno della Deborah, della Elsa, Chiga Giovanni. D.: E questo in quali anni, negli anni sessanta? R.: Me questo non ce lo ricordiamo. In pratica i concessionari, i padroni delle fabbriche, quando le tabacchine più grandi andavano in pensione, non assumevano più le apprendiste e queste scioperavano. E quando cercavano di entrare nelle fabbriche, non le faciane trasire. E quiddhe se tiravane, comu fannu moi alle manifestazioni. D.: E c’erano carabinieri o polizia? R.: Sì. E quando arrivava l’età ca s’erane congedare la mamma mia me ricordu dicia don Pippi Rossi… sai dove c’era un magazzino dove c’è la Kalì Zoì e anche sai dove al Centro Studi Chora-ma, anche c’era un magazzino. E alla Kalì Zoì andava mia sorella quella che abita a Caprarica e poi c’era la fabbrica de don Cici. D.: E delle mescie te ricordi qualche cosa? R.: Allora quiddha de lu don Angiulinu Ancora era la mescia Emma no. D.: La mamma di Giorgio Longo? R.: No, la mamma di James, poi c’era la sorella di donna Emma, mescia Ndata. D.: Ma queste erano persone benestanti, come mai venivano scelte? R.: Venivano scelte perché capivano un po’ di più di tabacco o come fiducia del padrone. Una zia mia pure ha fatto la maestra nella fabbrica dove prima abitava Maurizio Leone. D.: A, lì pure c’era una fabbrica? R.: Sì, che le stanze sopra sono rimaste come erano. D.: Ma quella era una delle prime? R.: Sì, che io me la ricordo perché me lo raccontava la mamma mia. D.: Senti mescia Nzina, tu che eri la sarta di uno dei padroni, ti parlavi con lui avevi un rapporto confidenziale? R.: Insomma, io andavo da don Cici e dal nonno della Bernardetta. D.: Quindi cu quiddhu no parlavi no te cuntava della fabbrica? R.: Solo quando andavo a don Cici c’erano delle signore che mi facevano delle domande; mi chiedevano dove avevo imparato a cucire. E una cognata di don Cici che si chiamava donna Luisa, voleva sapere 107 come facevo a cucire la seta, io le rispondevo che cucivo a mano e non con la macchina a punto turco. Me faciane tutte ste domande comu se era fare n’esame. D.: E lui com’era? R.: Era un bravo dottore che faceva tutto. D.: Era un medico di famiglia? R.: Era un bravo dottore, faceva anche l’oculista. Io andavo da lui a farmi visitare gli occhi. D.: Ma la sarta la facevi anche a don Cici e a don Pippi Rossi? R.: No, a don Cici e alla nonna della Bernardetta cucivo. I Rossi erano in società con don Angiolino Ancora. D.: Quindi erano nobili? R.: Sì erano nobili. D.: Cioè avevano dei titoli? R.: Dei titoli non lo so però erano delle famiglie benestanti, ricche ed erano istruite, andavano a scuola. D.: Penso che queste fabbriche le avevano ereditate da qualcuno? R.: Sì, sicuramente. Loro avevano la metà del castello, la parte restaurata; l’altra che non era restaurata era di un altro padrone lu Martena dicevano, quello che aveva i fondi da quella parte alla Madonna degli Angeli. In pratica in questa parte non restaurata mettevano il tabacco, lo appendevano dopo che lo avevano raccolto. D.: E qui sul municipio vi ricordate qualcosa? Qualcuno ci ha detto anche del Municipio. R.: No, sopra al Municipio non mi ricordo, io mi ricordo che parlavano della fabbrica della Stazione. D.: E vi ricordate se c’era un asilo qualche struttura dove portavano i bambini quando le tabacchine dovevano allattare i figli? R.: Don Cici nella fabbrica aveva messo a disposizione delle stanze, un nido, dove le tabacchine andavano ad allattare. Ecco lì. D.: Ma poi i vestiti che gli cucivi a don Cici glieli facevi a casa oppure c’era una struttura dove andavi a cucire. R.: No li portavo a casa e li cucivo a casa, poi andavo e glieli facevo provare. D.: Prima non c’erano le macchine, vi ricordate queste donne con che cosa andavano a lavorare? R.: Con i traini. Che mi piaceva la mattina sentire i cavalli che passavano. 108 D.: E i mariti e i papà come vedevano questa cosa che le donne andavano a lavorare? R.: Bene perché andavano a lavorare per necessità. E siccome un lavoro non bastava andavano anche in campagna. 109 Intervista a Maria Scordari Luogo e data: Sternatia, 31 Ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Maria Scordari; Luogo e data da nascita: Sternatia il 26/08/1923; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina e sarta; Emigrata all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi. D.: Sei emigrata all’estero? R.: No D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Nel 1935, quando avevo dodici anni. D.: Per quanto tempo? R.: Fino a cinquantacinque anni. D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare? R.: Si iniziava alle sette e si usciva alle dodici per mangiare qualcosa; poi si rientrava in fabbrica all’una fino alle quattro. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Allora… una dove adesso c’è il supermercato dìperdì, un’altra in piazza dove ora c’è la farmacia e un’altra sotto il castello dove c’è il centro “Chora-ma” D.: Chi erano i proprietari? R.: Uno era don Angiulinu Ancora, un altro don Antonio Mastrolia e un altro era il Dottore Luigi Specchia. D.: In quale fabbrica hai lavorato? R.: In quella dove ora c’è il supermercato dìperdì. D.: Quante donne lavoravano in fabbrica? R.: Una cinquantina circa. D.: C’erano anche uomini? R.: Solo la guardia di finanza che stava fuori e poi un uomo che faceva 110 l’appello tutti i giorni. Invece a Maglie c’era un sorvegliante e due altri uomini che stavano nella camera – detta “stufa”– in cui si faceva seccare il tabacco. D.: Chi lo faceva l’appello? R.: Si chiamava Giorgio Matteo, era di Sternatia. D.: E la guardia di finanza a cosa serviva? R.: Controllava che qualcuno non portasse via delle foglie di tabacco… in verità erano le nostre mescie a guardare nelle nostre tasche prima di uscire. È D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre? R.: Sì sì. D.: Facevate delle pause per mangiare qualcosa? R.: No niente… nelle fabbriche di Sternatia. Poi quando sono state chiuse, ci hanno trasferite a Maglie e poi a Galatina, dove facevamo il medesimo lavoro. D.: Quando sono state chiuse le fabbriche di Sternatia? R.: Dunque… io mi sono sposata nel 1959 ed erano chiuse da poco… Ma l’anno preciso non me lo ricordo. D.: E che facevate mentre lavoravate? Cantavate? Parlavate? R.: Beh, si faceva qualcosa… si parlava. Le operaie mettevano le foglie di tabacco sul tavolo e facevano due chiacchiere. D.: Tu cosa facevi di preciso? R.: La “imballatrice”, cioè mettevo insieme le foglie e le comprimevo tramite un aggeggio. D.: Ma fare la “imballatrice” era più importante che fare la semplice tabacchina? R.: Eh sì… D.: Come si chiamavano i diversi tipi di tabacco? R.: La “santujaca” e la “verustizza”. D.: Ma ti pagavano di più rispetto alle tabacchine semplici? Quanti soldi ti davano al giorno? R.: Due lire. Ma era già tanto, perché le altre tabacchine normali prendevano trenta centesimi. D.: Ogni quanto ti pagavano? R.: Ogni quindici giorni. D.: Ti mettevano i contributi? R.: Sì sì. 111 D.: Che contratto avevi? R.: Lavoravo a giornata. D.: Chi era la tua mescia? R.: Giuseppa Medagli, ma non c’è più. D.: Ti ricordi qualche altro nome di mescie? R.: La Emma Minerva e la Assunta Marti. D.: Com’era il rapporto con le mescie? R.: Beh, abbastanza buono, si comportavano bene, ma dovevi saper fare il tuo lavoro. D.: Come venivano scelte le mescie? R.: Beh, la sceglieva il proprietario. D.: Ti ricordi qualche sciopero? R.: No, non li facevamo… Forse una volta quando lavoravo a Maglie, ma qui a Sternatia non ricordo. D.: Ma veniva gente da fuori a lavorare qui? R.: No no, tutte di Sernatia. D.: Indossavate una divisa? R.: A Sternatia no! A Maglie invece ci davano un camice e una cuffia. D.: Prima di iniziare a lavorare facevate visite mediche? R.: Qui a Sternatia, no. A Maglie invece si: dovevi fare la visita e anche le analisi. D.: E chi aveva figli come faceva ad andare a lavorare? R.: A Sternatia non si aveva nessun tipo di agevolazione; o i bambini venivano portati in fabbrica per poterli allattare, oppure c’era qualcuno a casa (una balia) che se ne prendeva cura. A Galatina, invece, fino a quando tuo figlio compiva un anno, potevi uscire un’ora prima dal lavoro. L’ora in meno veniva comunque retribuita. D.: Come andavi a Galatina? In treno? R.: Sì, prima in treno, poi in macchina. C’era qualcuno che ti accompagnava (es. Pippi Gira). D.: Come paralavate tra voi? in griko o dialetto? R.: Come si preferiva. Io per esempio parlavo in dialetto, le persone adulte solo in griko. D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il motivo? R.: Beh, non conosco il motivo preciso… Poi alla fine sono venuti a mancare tutti i proprietari... 112 Intervista a Costantina Grasso Luogo e data: Sternatia 4 novembre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Costantina Grasso; Data di nascita: 27/1/32; Luogo di nascita: Sternatia; Residenza: via Matteotti 13 Sternatia; Professione: Tabacchina pensionata; Emigrata: no; Intervista di Luigina Mastrolia. D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: A quattordici anni, nel 1946 o 1947. D.: Per quanto tempo? R.: Pochi anni, non mi ricordo, fino 1966 al massimo. D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare? R.: Alle sette e mezzo dovevamo stare lì, e si usciva alle dodici, poi si rientrava all’una e si usciva alle tre e mezzo. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: A Sternatia, il Castello con la Rossi, Don Angiolino Ancora, Don Cici Specchia, Don Antonio Mastrolia e poi mi ricordo che c’era una sul Convento, ma non so di chi era, e una vicino la stazione. D.: In quale fabbrica ha lavorato? R.: Da Don Cici Specchia. D.: Chi erano i datori di lavoro? R.: Don Cici Specchia. D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica? R.: Non lo so, non mi ricordo, forse sessanta o settanta donne. D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano? R.: No, portavamo un po’ di pane ma lo mangiavamo di nascosto non potevi mangiare né fare pause. D.: Quante mansioni erano previste in una fabbrica? 113 R.: Il lavoro era: ti portavano venti anserte, ti facevano vicino una catasta e ti dovevi sbrigare a spezzarle foglia per foglia e le “cernivi”, dividendo le classi, rosso scuro, rosso chiaro, quarta verde, foglia nera, quarta scura, malatia, non me le ricordo tutte; facevamo tante piccole cataste e passava poi una più esperta di noi con un cestino e chiamava la classe per esempio rosso chiaro, poi passava di nuovo per quarta scura e gliela davi. Poi la portava in una cassa, e quando la riempivano la prendeva una ballatrice per fare una balla. Poi c’era il verde nero, il peggiore e con questo facevamo le balle al torchio, mentre le altre classi le mettevamo nella stufa, ma non so per quanti giorni. D.: E tu cosa eri cernitrice? R.: Ero spianatrice, ma anche cernitrice, perché era arrivata una macchina con il nastro che camminava, e le donne si mettevano a varie distanze l’una dal’altra, io ero vicino alla cassa dove doveva cadere il tabacco, nel caso in cui c’era qualche foglia diversa, la dovevo togliere subito. D.: Chi affidava le mansioni in fabbrica? R.: Mi ha messo la mescia la Peppina Pansetta, Marti Giuseppa. D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica? R.: Dopo la consegna del tabacco, a metà novembre, e finivi a seconda della quantità del tabacco che c’era, alcune volte a marzo, altre a gennaio, un mese e mezzo alcune volte altre due mesi. D.: Sei andata in altri paesi a lavorare? R.: No. Sempre a Sternatia e sempre da Don Cici Specchia. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Mi ricordo la zaguvina, pristizzo. D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove venivano? R.: No. D.: Perché c’erano la sbarre alle finestre? R.: Si sempre una protezione, ci sono ancora. Il portone si chiudeva per bene. D.: C’era un guardiano fuori? R.: No, non c’era, l’unico era Ferruccio che gestiva il tutto, entrava in fabbrica, si sedeva al tavolino, e faceva l’appello. D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera? R.: No, non mi ricordo, una fesseria. 114 D.: Venivano messi i contributi? R.: Sì. D.: Si ricorda di qualche sciopero? R.: Mi ricordo, perché quando dovevamo entrare c’erano tante apprendiste che volevano lavorare, ma il padrone non ne aveva bisogno, perché c’era poco lavoro, e si faceva sciopero. Una volta è venuta la Celere con le bombe lacrimogene, una volta è venuta qui al Castello, e un’altra da Don Antonio Mastrolia, forse negli anni 59-60. D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie? La prima mescia assunta non so come è stata scelta, la seconda aveva legami familiari, perché il fratello era quello che gestiva il tutto. Com’era il rapporto con le mescie? R.: La Peppina mi voleva un sacco di bene, perché sapevo fare bene il mio lavoro, sapevo aggiustare i dischi. Mi davano per esempio quattro classi, prendevo e le aggiustavo in mazzetti, facevo il disco. Peppina mi lodava per il modo di scegliere i colori, di fare il disco che non cadeva mai. D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate? R.: Un grembiule nocciola chiaro. D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica? R.: No solo Ferruccio che faceva l’appello, ci sgridava se parlavamo. D.: Veniva fatto l’appello? Da chi? R.: Sì, da Ferruccio. D.: Si poteva cantare? R.: No, si poteva cantare solo uno o due giorni dalla fine, si raccontavano delle storie o preghiere. Non si poteva parlare però tra di noi, io ho avuto una sgridata da Ferruccio e poi sono stata difesa dalla Nzina Carcai. D.: Quale lingua usavate per comunicare? R.: Griko, dialetto a seconda della persona. D.: Perché venne chiusa la fabbrica? R.: Quando è morta mia madre, intorno al sessantasei-sassantasette perché il lavoro era calato, prima si lavorava uno o due mesi. D.: Ti ricordi se c’era qualche asilo nido? R.: Si c’era nel Castello, una stanza con le cullette e tante sedie all’ingresso, per le donne che dovevano allattare; prima si lavavano le mani ai lavandini e poi prendevano in braccio il bambino. D.: C’era qualcuno che badava ai bambini in assenza delle madri? R.: Mi pare di sì, ma non ricordo chi. 115 D.: C’era qualche mensa? R.: No. Andavo a casa, ma se non riuscivo a tornare in tempo, cioè all’una, si chiudeva il portone e perdevi la giornata. Ognuna di noi andava a casa, non mangiavamo tutte assieme. D.: Spiegami cosa mangiavi. R.: Tornavo a casa e non sempre trovavo qualcosa di cucinato, prendevo una frisella, la bagnavo la aggiustavo con il pomodoro, se c’era peperone sottaceto, olio e sale o prendevo una manciata di olive. Poi in fabbrica portavamo fichi secchi in tasca ogni tanto ne mettevamo uno in bocca con le mani tutte sporche, non potevamo alzarci per lavarle, e mangiavo di nascosto. Per esempio si portava il pane incartato e quando arrivava una certa ora ci passavamo parola una con l’altra, anche per sapere cosa si mangiava, se una mangiava della verdure offriva alla vicina. Poi c’erano dei giorni in cui ci accordavamo per comprare delle castagne, una si incaricava di raccogliere i soldi e comprare per esempio un chilo di castagne, dieci soldi ciascuno. Poi di nascosto sotto il tavolo le contavamo per dividercele, all’inizio cominciavamo con dieci ciascuno poi se rimanevano le dividevamo ancora. Le castagne le compravamo in piazza e le mangiavamo crude. Quando facevamo pane arrostivamo le fave e le portavamo in fabbrica. D.: Mi racconti qualche altra cosa? R.: Ogni tanto la Peppina ci chiamava a me, a Loreta e Lucia de lu Muzza per portare le balle alla stufa, le prendevamo e le portavamo in una stanza molto calda dove c’era la stufa dove restavano per alcuni giorni. Ti dovevi sbrigare a fare le nzerte e ti guardavi attorno per vedere se qualcuna finiva prima di te ti aiutava a fare le tue, senza essere viste da Ferruccio o dalla Peppina., perché si doveva finire tutte assieme. La Nzina de lu Carcai era velocissima e mi aiutava sempre a fare le mie. Ogni tanto la Consilia Spacca, la Luchetta che ci raccontavano le storie di chiesa per farci stare zitte, e raccontavano lavorando. Il padrone ogni tanto veniva, Don Cici ma non capiva tanto di tabacco, quello che veniva più spesso era Don Antonio, il cognato di Don Cici, e lui passava a vedere le classi e ti avvertiva se avevi sbagliato qualcosa. 116 Intervista a Mariangela Linciano Luogo e data: Sternatia, Novembre 2008; Nome dell’intervistato: Mariangela Linciano; Luogo e data da nascita: Sternatia il 14/03/1924; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrata all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte. D.: Signoria a ddhù si nata e quandu? R.: Su nata lu quattordici marzu 1924 a Sternatia. D.: Professione? R.: Tabacchina, alla fabbrica scia. D.: Si’ mai emigrata? R.: None. D.: A ce annu cuminciasti cu fatichi? R.: A dodici anni D.: E come mai così piccola? R.: Tandu spicciavi la scola, la quinta elementare, e scivi alla frabbica, poi rrivava la finanza e te cacciava percè non potivi stare D.: E a tie puru te cacciara? R.: Sine, rrivau la finanza e me cacciau. D.: Scusa, ma la quinta non se spiccia a undici anni? R.: Sine, iu era ripetente de n’annu. D.: E pe’ quantu tiempu? R.: Ma, non me ricordu, ma comunque pe’ pocu tiempu. Iu scia allu cumentu: quai però scii pe’ picca tiempu. Poi scii a ddhai allu don Antoni, cu nonnata stia. Stia allu torchiu, cu nonnata, e moi piju la pensione de tabacchina. D.: A ce ura cuminciavive cu faticati e quandu spicciavive? R.: Dalle sette e menza alle dodici, poi stiame tre quarti d’ura a casa, poi rientravame e stiame finu alle tre e menza. 117 D.: Te ricordi quante fabbriche nc’erane a Sternatia? R.: Allora… nc’era una alla stazione e lu patrunu era don Angiulinu Ancora, a ddhu avia lu dì per dì. Una sutta lu cumentu. Una de ndon Antoni, a ddhu ave moi la banca, la farmacia e una de don Cici Specchia sutta allu castieddhu. D.: Nc’erane parecchie cristiane ca faticavane? R.: Non me ricordu. D.: Nc’erane pause ? R.: None. D.: Ci vi dicia, tie ha fare sta cosa, tie ha fare staddha? R.: Le mescie: allu cumentu era la Ndata Litanìa. A ddhai a don Cici era l’Assunta. D.: Quindi era la mescia ca vi dicia ce berivu fare. Ma una comu ete ca diventava mescia? R.: Era ca capìa meju lu tabbaccu, non è ca tenìa scola. D.: Li proprietari erane bravi? R.: Sine, erane bravi. A ddhu scìa iu nc’era lu Mimmu de lu Foddhea ca facia comu na specie de ragioniere. D.: Quanti misi scivive? R.: Zziccava lu primu dell’annu finu a marzu-aprile: intra stu periudu sciame sempre, ma non tuttu l’annu. D.: Quanti tipi de tabbaccu esistiane? R.: La piristizza, la zagovina, lu fronzone quandu lu cojìane, la terza. D.: Ogni tipu de tabaccu tenìa lu nome sou…. Signorìa ce facivi? R.: Iu stia allu torchiu cu nonnata ca faciame le balle ( imballatrice). Eri fare ottu balle allu giurnu e ogni balla pisava venti chili. Tie misuravi venti chili de tabbaccu e facivi la balla. D.: Quante cristiane nc’erane? R.: La Nzina Marcellinu, cuginama la Peppina, iu, nonnata. D.: Più o menu cinque-sei cristiane... Ma ve pagava de cchiui ca stivive allu torchiu? R.: No, tutte uguali sia ca stivi alla cernita, allu torchiu o facivi la stiratrice. D.: Comu era la paga? E li contributi? R.: Ogni quindici giurni, certe fiate ogni mese, non mberane fissi; tandu non era comu a moi ca l’hannu mintire sicuri. D.: Nc’erane le sbarre alle finestre? 118 R.: Sì, cu non rrubbane. D.: Te ricordi de qualche scioperu? R.: Na vota sì, perché voliane cu fatiane e non le pijavane e poi le pijara pe forza. Iu non sacciu percè iu stia addintra: erane quiddhe ca stiane a ddhaffore ca faciane scioperu. D.: Nc’era qualche divisa cu sciati alla fabbrica? R.: None, comu stiame a casa nostra, nu grembiule, nu camice. D.: Potivive parlare tra de vui? R.: Quandu non c’era lu patrunu, ma comunque eri faticare percè eri fare ottu balle. D.: Parlavive in grecu? R.: Sine, a grecu. D.: Faciane n’appellu? R.: La mescia lu facia alla sira! Ma se mancava qualcheduna se sapia già percè ognuna tenìa lu postu sou, e ci no se presentava se sapìa. D.: Cerane masculi a ddhintra? R.: Quiddhu ca aprìa la porta e lu Foddhea D.: E poi percè chiusera le fabbriche? R.: Spicciau lu tabbaccu e chiusera tuttu. D.: Li mariti comu vidiane lu fattu ca scivive alla fabbrica? R.: Erane cuttenti, percè portavame li sordi a casa ca pe’ quistu pijamu la pensione. D.: Comu erane li turni intra lla famija? R.: Ognunu facìa lu lavoru sou. D.: Li fiji a ddhintra li potivive portare? R.: Potiame vessire cu li portamu a casa cu llattane. Una scìa finca a sei misi poi tenìa lu sussidiu, non scìa finca alla fine (della gravidanza), ma pijava lo stessu li sordi puru ca non scìa. 119 Intervista a Loreta Leo Luogo e data: Sternatia, 14/11/2008; Nome dell’intervistato: Loreta Leo; Luogo e data da nascita: Sternatia il 21/09/1940; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina e contadina; Emigrata all’estero: no. Altre note: L’intervistata è emigrata un anno a Legnano (Milano) appena sposata. Intervista di: Maria Lucia Conte. D.: In quale anno hai cominciato a svolgere l’attività di tabacchina? R.: A diciotto anni, ma non è che so di preciso. D.: Per quanto tempo? R.: Fino al 1969, dopo che mi sono sposata ho fatto un anno e poi mi sono ritirata. D.: A che ora cominciavi? R.: Dalle sette e mezza fino alle dodici poi si spezzava, poi dall’una fino alle tre e mezza, era l’uscita. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Allora, la prima era quella di Luigi Specchia, sopra il castello. Poi nc’era l’Angiulinu ancora, un’ altra alla stazione. Pensu ca puru a quai era titolare don Angiulinu Ancora, e poi quella di Antonio Mastrolia, dove c’è la farmacia adesso tutti i locali erano di fabbrica, che io andavo qualche giorno e lavaoravo a periodi a cottimo: cucivo i panni. D.: Erano previste pause durante il lavoro? R.: Non durante l’orario di lavoro, alle dodici quando si usciva per la pausa e basta. Luigi Specchia dato che era il direttore del reparto maternità a Lecce dove lui era pediatra, aveva creato il nido. Lì dove c’è la “Kalì Zoì” quella era tutta fabbrica fino al Centro Studi: in quelle stanzette appena entri di fronte a sinistra (della “Kalì Zoì”) c’era il nido. Qui c’erano delle ragazze di Sternatia che tenevano i bambini delle tabacchine, e li 120 accudivano. Noi eravamo all’avanguardia rispetto le altre fabbriche. Portavamo tutte il grembiule color tabacco con la cuffietta: ci teneva all’igiene. Luigi Specchia aveva portato i nastri, non lavoravamo più foglia-foglia. Le altre due fabbriche sono andate perdute e sono rimasti i due cognati: don Gigi Specchia e don Antonio Mastrolia. Io stavo alla cernita con la maestra, dapprima. Poi siccome diceva che ero svelta, dopo che si è ritirata mia suocera, sono diventata imballatrice: quindi facevo il doppio turno (imballatrice e cernitrice). D.: Chi vi affidava le mansioni in fabbrica? R.: Le mescie, una era l’Assunta, la suocera della Nzina, la Vicenzi Pia, a ddhai allu Mastrolia era la Ndata, la Citrena. D.: Ma sono tutte morte? R.: Sì sono tutte morte. D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica? R.: Si lavorava dicembre e gennaio: non tutti i mesi e non per tutto l’anno. Prima si lavorava di più, che poi hanno preso solo quell’anno e poi non hanno preso piu’ ragazze. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Allora, c’era la zagovina, la piristizza ca era a foglia fina, lu fronzone era lu sutta delle foglie. Poi c’era la terza, la seconda che erano le qualità migliori. Dopo alcuni giorni dovevi prendere le foglie mature, la terza, la seconda. D.: Ma sta seconda, sta terza erano chiamate in base all’altezza dalla pianta? R.: Sì, in pratica a terra c’era lu fronzone, poi la seconda, poi la terza che erano le qualità migliori. Poi in alto c’era la puntarola, che era la qualità più scarta. D.: C’erano forestiere? R.: No, eravamo tutte di Sternatia. D.: C’erano le sbarre alle finestre? R.: Sì c’erano le sbarre che sono state messe con la costruzione del nido. D.: C’era differenza di paga a seconda delle mansioni? R.: Sì, per esempio quelle della cernita prendevano qualcosa in meno. Poi veniva la perizia che controllava, le balle venivano riposte in una stanza per farle seccare. D.: Ma vi mettevano i contributi? R.: A volte sì a volte no. Allora non è che eravamo attente come oggi. A me per esempio mancavano. 121 D.: Chi vi pagava? R.: Don Cici, veniva ogni mese per pagarci: si sedeva all’entrata del “Kalì Zoì” dove c’era la scrivania. Qui si sedevano pure per fare le perizie. D.: Ti ricordi per caso di qualche sciopero? R.: Sì, una volta quando hanno preso il gruppo mio perchè volevano entrare le altre ragazze. Sono venuti i carabinieri e si sono date botte, volevano il lavoro perchè era l’ultimo anno. D.: Come avveniva la scelta delle mescie? R.: Non lo so… penso a fiducia. D.: E se una capitava incinta, come funzionava? R.: Ai sette mesi non andava più fino al quarantesimo giorno dopo la nascita del bambino. Quando è nato Vincenzo, sono andata a Lequile e ho preso la maternità. D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica? R.: C’era il marito della Grazia, lu Ferrucciu, che faceva come una specie di fiduciario: apriva, controllava, collaborava con i dottori agrari. D.: Ma chi vi pagava? R.: Don Cici, che era pure l’unico che lasciava la busta paga. D.: Il rapporto con le mescie, con i proprietari era buono? R.: A seconda di come ti comportavi, io non ho avuto nessun rimprovero, ma se una eri un po’ lenta, ti dicevano: «Ehi, tie sta dormi?». D.: Si faceva l’appello? R.: Sì, si faceva. D.: In quale lingua comunicavate? R.: Noi in griko, le mescie e don Cici in dialetto o in italiano, poiché erano un po’ più acculturati. D.: Sai per caso perché hano chiuso le fabbriche? R.: Non so… forse perché cominciavano a ribassare i prezzi del tabacco. Le leggi erano cominciate ad essere più severe: se la legge diceva che dovevi avere tre are di tabacco, e ti trovavano cinque are, ti facevano togliere le piante in più, anche se erano cresciute. D.: Dovevi sottoporti a visita medica? R.: A don Cici sì; dovevi fare le visite (raggi, se avevi i polmoni sani). Io infatti ero raffreddata ed ero preoccupata che non mi prendessero. 122 Intervista a Nicoletta Centonze Luogo e data: Sternatia, 12/11/08; Nome dell’intervistato: Nicoletta Centonze; Luogo e data da nascita: Caprarica il 25/09/1930; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrata all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte; D.: Quando hai cominciato a lavorare? R.: Allora, de lu quarantasette allu sessantaquattru me pare. D.: A ce ura ccuminciavive e a ce ura spicciavive de faticare? R.: Sciame alle sette e menza, poi spicciavame alle dodici, ccuminciavame all’una finca alle tre, tre e menza. D.: A Sternatia quante frabbiche nc’erane? R.: Nc’erane quattru frabbiche. D.: Te ricordi comu se chiamavane? R.: A quai nc’era: quiddha della signora Rossi, poi l’addha de don Antoni Mastrolia, poi a ddhai allu cumentu era lu cosu… comu se chiamava quiddhu de Galatina? D.: Don Angiulinu Ancora? R.: Sì, Don Angiulinu Ancora ca stia sia allu cumentu ca alla stazione, erane tutti e doi quiddhi era tutta na… Sempre de Galatina. D.: Tu dove hai lavorato? R.: Allu cumentu e alla stazione e poi un anno allo stato a Galatina. D.: L’ultimo anno? R.: No, poi sono tornata allu don Antoni Mastrolia, fici cinque-sei anni me pare, non me ricordu, non sacciu bonu. D.: Te ricordi quante erive a ddhintra? R.: No, nc’erane abbastanza, ma lu numeru no, non me lu ricordu. D.: Nc’erane pause? 123 R.: No, sulu a menzadia, na menz’oretta, no durante l’orariu de lavoru. D.: Quante mansioni nc’erane intra alla frabbica? R.: Mansioni? Ce significa? D.: Ce facivive a ddhintra? R.: Nui faciame la cernita delle casse de tabbaccu, scocchiavame le casse, lu bonu cu lu fiaccu, faciame la cernita, cacciavame lu verde chiaru de lu verde scuru, lu neru, lu cosu, tutte ste cose a quai no’ ssai? Nui erame cernitrici in pratica, poi nc’erane le imballatrici ca imballavane. D.: Ci era ca vi dicia tie ha fare na cosa, tie ha fare n’addha? R.: C’erane le maestre, le mescie. D.: Comu era lu rapportu cu lu datore de lavoru? Te ricordi? R.: No, normale, non erane cattivi. D.: Tuttu l’annu faticavive? R.: Secondu l’anni… Avia anni ca faticavame puru all’estate perché tandu nc’era tabbaccu, poi chianu chianu spicciau. Cuminciavi tandu versu Natale. Iu me ricordu tandu ca era estate, alla matina prestu, quandu stiame alla massaria de lu formaggiu, sciame primu a campagna, faciame nu pocu de metitura, tandu faciame l’orzu. Alle sette menu nu quartu stiame ancora a campagna. Alle sette stiame a Sternatia, nu quartu d’ura mintia. La massaria stia susu allu pal… Comu se chiama a ddhai? A ddhai ca ave moi… D.: Allu palumbaru? R.: Allu palumbu! A ddhai a du’ passa moi lu ponte, a ddhai nc’era la massaria! E mintiame nu quartu d’ura cu rrivamu de dai a Sternatia. La mescia Ndata de lu Litanìa, ca stia allu cumentu, dicia all’addhe perché rrivavane in ritardu: «quista ha partire de ddhassusu all’ampete cu venga a quai e quandu rrivu iu la trovu a retu a lu portone! Vui invece ca abitati a quai…» le scornava. D.: Ti ricordi quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Me ricordu ca nc’era lu santujaca, diciame tandu, la piristizza, la zagovina, se nc’ete qualchedunu addhu poi non me ricordu! Nc’era n’addha razza, quiddhu grossu ca de ddhai faciane li sigari, certu tabaccu grande però non sacciu comu se chiamava ca qua parte nui non lu teniame. D.: Nc’erane forestiere? R.: No tutte de Sternatia erame. D.: Nc’erane sbarre alle finestre? R.: Sì de ferru. Me non sacciu però perché le teniane. Forsi cu non rubbane. 124 D.: Ti pagavano a giornata? R.: A quindicina. D.: Quanto ti davano? R.: Tandu a lire, ci se ricorda. D.: Dipendeva per caso da quello che facevate? R.: Nui pijavame na cosa de menu rispettu a quiddhe ca stiane alle balle, quiddhe ca stiane tise ca coijane lu materiale e ca lu portavane allu depositu li dia na cosa de chiui. Nui settate stiame cu controllamu, cu cernimu la qualità, lu verde, lu neru. D.: Li contributi te li mintiane? R.: Sì. D.: Te ricordi per casu de qualche scioperu? R.: Na fiata me ricordu tandu la bonanima della… ca quiddha era cumandante, era comunista: a nanti alla chiazza, allu bonanima de l’Alfredu, propriu a nanti alla chiazza stia. Nc’era na specie de cabina, ca poi scijara ntorna, a ddhu nc’era l’ufficiu de collocamentu a ddhu nc’erane li sindacati. A ddhai era a ddhunca ni erame cojire cu facimu lu scioperu, ma lu motivu no lu sacciu… Vagnona puru era non me ricordu. Ca se era lu quaranta erame già de quindici-sedici anni e già faticavame… D.: Ti ricordi come venivano scelte le mescie? perché una diventava mescia e una no? R.: Non lo so perché… Non me ricordu… Tandu nc’era la mescia e la sottomescia: erane doi. La mescia era quiddha ca cumandava, per esempiu, lu tabbaccu comu l’erame pijare, a ddhu l’erane ccocchiare, comu l’erane sestimare e poi quiddha ca venia ca te portava lu tabbaccu cu lavori. Te portavane annanti cinque, dieci chili de tabbaccu. Tie l’eri fare intra na giornata, na menza giornata, a secondu poi lu spicciavi e te portavane l’addhu. La mescia cumandava a seconda… D.: La mescia toa te ricordi comu se chiamava? R.: A quai a don Antoni era la Citrena... La Ndata però lu cognome non me lu ricordu... Annunziata, quiddha stia cu maritusa insieme tutti e doi era Ncarra, Carra. Lu nome non me lu ricordu... La ngiuria era Citri... Lu Giorginu de lu Citri. A quai allu cumentu a ddhu scia ieu era la Ndata de lu Litanìa quiddha ca tene lu Ntonucciu. Sì, sì, quiddha ca non tenia fiji, ca quiddhu (suo marito) cantava puru alla chiesa . D.: Sono tutte morte, no? R.: Sì, sì. 125 D.: Erane brave, o erane severe? R.: Sì erane brave, ca poi ni jutavane, ca se vidiane per esempiu ca una no riuscia, te diane na manu cu spicciavame tutte ncote. Poi nc’erane quiddhe ca spicciavane, e chiamavane tabbaccu, spicciavane, e chiamavane tabaccu… e li lu portavane, no? Nui tandu paesane... Perché nc’erane le forestiere tandu ca stiane tise ca faciane comu na specie de ispezione. D.: Questo succedeva al monopolio, quando stavate a Galatina? R.: Sì, nc’erane quattru-cinque ssettate cussine. Ca poi iu no’ sacciu mancu lu motivu, no’ sacciu ci era tandu o l’Angiulina Saponina o la Nzina de la Riposa ca li disse: «cercati cu jutati l’addhe cu spiccamu tutte ncote...» Non è ca era na parola fiacca. D.: Dovevate fare il libretto? R.: Sì, lu librettu de lavoru. D.: Facevate visite mediche? R.: Tandu no, non ni chiamavane a visita, ni chiamavane allu lavoru e basta e poi quandu rrivava ogni annu cu pijamu la dessoccupazione, e sciame pe tantu tempu ca lu firmavavame, ca poi ni diane la dessoccupazione. Ca tandu l’ufficiu de collocamentu allu cosu stia… a ddhu nc’era la guardia medica moi… A ddhai sciame... però tante cose non me le ricordu. D.: Indossavate qualche divisa? R.: No, comu stiame a casa, comu sciame cussì rimaniame. D.: Nc’erane masculi? R.: No, nc’era sulamente lu guardianu... Lu rappresentante per esempiu… D.: Comu n’usciere? R.: No, non era l’usciere... Era unu ca se te servia qualche documentu, se volivi qualche cosa, parlava cull’insegnante ca stia addintra, comu aggiu dire, la mescia tandu se rrivava lu pagamentu nc’era quiddhu e don Antoni tandu ca se settavane insieme, comu na specie de ragioniere ca portava li cunti. D.: E se qualcheduna ccappava incinta? R.: Intra alli tanti mesi potivi faticare, poi non sacciu tanti misi dopu rimanivi a casa. D.: E li riscuotevi lo stesso i soldi? R.: No, poi quandu nascia lu piccinnu facivi la domanda per esempiu e te mandavane li sordi, lu premiu poi. Iu per esempiu pijai lu premiu 126 alla grande mia, iu tandu scia allu cumentu e nc’era lu bonanima de lu Giorginu. Quiddhu portava annanzi tutte ste cose, siccomu ca tandu alla stazione cominciava ca era tuttu nu patrunu, però poi perché alla stazione cuminciava qualche annu prima ehm… Qualche mese primu de lu lavoru e ddhu cristianu me disse : «forsi tie non faci a tiempu». E alllu postu de lu cumentu vinni a quai alla stazione: iu scii nu paru d’anni alla stazione. Iu scia incinta de la piccinna mia, de la grande, de la Rita, cu fazzu a tiempu cu rrivu lu tiempu cu me fermu. Quandu passavane nu mese, nu paru de misi, dopu ca parturivi, potivi scire cu fatichi a ntorna. Tandu però intra lli doi misi eri assente e te diane lu premiu. Iu tandu lu pijai de quiddha e de la Livia mia, de doi comunque. D.: E ci tenia piccinni piccicchi, comu facia? R.: Se tenivi la mamma, li lassavi alla mamma, iu per esempiu le doi piccinne piccicche, le mandava all’asilu. D.: E a ddhu stia st’asilu? R.: Sutta allu comune, le mandava a ddhai. Lu Luigi miu era picciccu, de misi, intru alle fasce lu tenia, e li lu portava alla cummare Marta. E certe fiate poi quandu lu piccinnu stia raffreddatu o certe fiate tenia la free, venia quiddha a casa: passava quiddha a casa e lu tenia D.: Facivive l’appellu quandu trasivive? R.: Certu eri dire se eri presente. D.: E ci lu facia poi st’appellu? R.: La maestra lu facia, chiamava, ci eri presente. D.: Se potia cantare? R.: No… Niente. D.: Mancu na parola cu scambiavive? R.: No, na parola cittu cittu, puru ca na fiata la Lucia Carrareddha quiddha de lu Picciuli ca parlava sempre, allora la mescia Ndata la chiamava e dicia: «Luciaaaa!!!». Quidda parlava cu la capu ncapuzzata e facia cu ridimu, ni cuntava barzellette, era curiosa quiddha. E nui vidiame ca era quiddha e la mescia la chiamava: «Luciaaaa!!!». Quidda citta citta: «Ca iu non sta parlu mancu!», e nui ridiame per le parole ca dicia. Diciame qualche parola cussì, la scambiavame, no chiui de tantu però. D.: In griko parlavate? R.: Cinca sapia lu grecu, parlava a grecu, iu sapia parlare l’italianu perché lu grecu non lu sapia cu lu parlu! Però lu capia. D.: Te ricordi perché chiusera le fabbriche? 127 R.: Perché tandu spicciau lu tabbaccu. Perché de quai allu cumentu, alla stazione chiusera e ni pijara a Galatina, ma lu motivu perché chiusera non lu sacciu. Invece a quai alla Rossi faticara ancora, allu don Antoni puru faticara. 128 Album Fotografico Pasquale Delos. Foto di Arnaldo Macchitelli Carmela De Santis Matrimonio di Addolorata Delos, fine anni ’50. Angela Simeone (quarta da destra) Lucia Caldararo Da sinistra Gina Conte e Vincenza Villani Addolorata Vergine con figlie Bar Carlino, da destra, Antonio Carlino, marito di Addolorata Vergine Bar Carlino, da sinistra, Addolorata Vergine Tiraletti di tabacco. Foto di Arnaldo Macchitelli Telai per la semenza. Foto di Arnaldo Macchitelli Tiraletti di tabacco. Foto di Arnaldo Macchitelli La raccolta del tabacco. Foto archivio Centro Studi Chora-ma Le filze (nserte). Foto archivio Centro Studi Chora-ma Le filze (nserte) inserite nei tiraletti. Foto archivio Centro Studi Chora-ma La raccolta del tabacco. Foto archivio Centro Studi Chora-ma Lucia Villani. Foto di Arnaldo Macchitelli Carmela De Santis Foto Archivio Carmela De Santis Sig. Angelo Ancora, proprietario di una fabbrica di tabacco Rosa Matteo, madre sig. Angelo Ancora Gruppo di amici in Piazza Umberto I Foto Archivio Carmela De Santis. Gruppo della scuola serale. Al centro la maestra, Sig. ra Anna Macchitelli Prima fila da dietro, terzo da sinistra, Orazio Tarantino, marito di Carmela De Santis In primo piano seduta Carmela De Santis Da sininistra, Giovanna Tarantino, Lucia De Santis, Vittorio Villani, Lucia Villani Da destra in piedi Carmela De Santis Attrezzo per imballare il tabacco conservato presso il Centro Studi Chora-ma. Foto di Giorgio Vincenzo Filieri La statua di san Luigi realizzata con i contributi delle tabacchine di Sternatia nel 1955. Foto di Giorgio Vincenzo Filieri Intervista a Raffaella Tarantino Luogo e data: Sternatia, 14/11/08; Nome dell’intervistato: Raffaella Tarantino; Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/11/1928; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Emigrata all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte. D.: In quale anno hai cominciato a fare la tabacchina, Uccia? R.: Era de quindici anni. D.: Per quanto tempo l’hai fatto? R.: Meh, la fici quasi grande, finu ca scii puru alla cooperativa. D.: A quale cooperativa? R.: A Martignanu scii, me mintiane le sciurnate, portava lu tabbaccu a ddhai ca lu facia iu e me mintiane le sciurnate de contadina. D.: Ti ricordi fino a quando sei stata qua? R.: Me, comunque era quasi ventitré-ventiquattru anni, forsi puru venticinque no ssai? poi no scii cchiui perché marituma cadiu malatu e no scii cchiui. D.: Quindi una decina d’anni… R.: Una decina d’anni, sì. D.: A che ora incominciavi e a che ora finivi di lavorare? R.: Veramente sciame alle sette e alle tre stiame a casa. D.: Tuttu nu tiru? R.: Sì, tuttu nu tiru faciame. D.: Ti ricordi quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Avia lu castellu, lu cumentu quassusu ca dopu lu castellu poi non faticara cchiui e scera quassusu allu conventu nu picca. Le chiù grandi però no’ ssai. D.: Solo queste due c’erano? 145 R.: No, poi avia lu dottore Specchia, ma quiddhu la fice dopu. Iu sulamente susu allu castellu scii. D.: Ah, tu solo sopra il castello? R.: Don Antoni Mastrolia… Ieu sulamente a ddhai (sopra castello) scii, e a Martignanu ca scii na decina d’anni cu me minte li contributi ca facia tabbaccu. Iu la pensione de li contributi de quiddha, e puru de quiddha ca tenia a quai sempre… le unira… le unira tutte e doi. D.: Chi erano i proprietari, Uccia? R.: Avia la quista… Quiddha ca ni mostrava? ca ni insegnava? D.: Sì, la maestra... R.: Quidda era... avia la mescia Emma. D.: Al castello? R.: Sì, al castello. Poi la Costantina Ancora, ca quiddha facia la sottomescia a ddhassusu… Costantina… Cini tos piolo. La mamma soa… La mamma della Scarpa puru, la Nzina puru stianu a ddhassusu quidde D.: Ce cognome facia quiddha? R.: Ancora era quiddha. D.: Qua, sopra il castello, i Rossi erano i datori di lavoro? R.: Sì, de la Rossi erane. Non avia cchiui Don Angiulinu, ca quiddhu a d’ epuche quandu scia la mamma mia: tandu era quiddhu, no? D.: Quante femmine eravate che lavoravate? R.: Avia quasi, no fazzu esagerazione, settanta, ottanta erame. Ca nui erane li banchi grandi cusì grande (indica il suo tavolo) . Allora avia quasi na decina de qua parte e na decina de da parte ca faticavame. D.: Facevate pause? durante il lavoro. R.: No tuttu nu tiru... Portavame na friseddha e la mangiavame cusì prestu prestu, scusu scusu puru. D.: Senti, e cosa facevate poi in fabbrica? R.: Allora pijavame, nduciane le nserte, nserte le diciame tandu, le facìane, le ttaccavane e le nduciane cu le faticamu, li llevavame la fronda verde, la fronda chiara, la fronda scura e diciame: «quistu è verde, quista è quarta, quista è quinta», la chiù chiara era la quinta, la fronda chiù bella era la quinta. D.: La quinta ce significava? R.: Ca faciane le balle de ddhai, no? Ca era la meju, valutava lu meju tabbaccu. D.: Tie ce facivi a ddhintra? 146 R.: Iu non era mballatrice, non era nienti… Operaia cusì ca facia, ca legavame lu verde, comu sta te dicu, legavame le fronde. D.: La cernitrice? R.: Cernitrice... Cu cernimu per esempiu a quai cu mintimu la fronda fiacca, a quai cu mintimu la fronda cchiu bella, a quai… ecco quistu faciame, tutte quiste cose. D.: Ci vi dicia ce berivu fare a d’intra? R.: La mescia Emma. D.: Era brava o era severa? R.: No, era brava... specialmente cu mmie, perché iu, filu ca lu vantu, iu cu faticu era addunca vau vau… D.: Ti ricordi se lavoravate tutto l’anno? R.: Sì, quandu avia tabbaccu faticavame tuttu l’annu... A mie me chiamavane cchiu mutu, ca iu quantu suntu moi de lunga, cusì era a quindici anni, cusì piena. Allora me chiamavane quandu nc’era le balle cu le giramu, allora «chiamati la Uccia!». D.: Te ricordi quanti tipi di tabacco nc’erane tandu? R.: Avia la prima, avia la seconda, avia la terza e avia la quarta. D.: Te ricordi lu salluccu, o la zagovina. R.: Sì, faciame zagovina, faciame piristizza, faciame santujiaca. Santuijaca era picciccu quiddhu, la piristizza puru era nu picca cchiu lunga de la santujaca, però la zagovina era la grande. D.: Lu salluccu, lu santujaca, la piristizza, e lu fronzone? Ce bera tandu? R.: Lu fronzone era quiddhu de sutta, lu fronzone, poi pijavame la terza, la seconda, manu manu ca li faciame… Era la seconda, lu susu era la prima. D.: Nc’erane forestiere ca veniane a Sternatia? R.: Forestiere non me ricordu. D.: C’erano le sbarre alle finestre? R.: Sì. D.: Perché? R.: Per cautela, propriu cu no’ rrubbane lu tabbaccu, le balle. D.: Te ricordi quantu ve pagavane? R.: No, de sordi propriu non me ricordu. D.: Ogni quantu tiempu ve pagavane? R.: Ogni quindici giurni, ogni venti giurni, a seconda dell’occasione. D.: Vi chiamavano loro, come funzionava? R.: Sì, sì, ni chiamavane a ddhai e sciame cu ni pagamu. 147 D.: Lu proprietariu era ca vu pagava? R.: Lu Giorginu de lu Seddone... Sai c’era bravu puru quiddhu… D.: Vi mintiane le cose giuste o mbroiavane? R.: Sì, ca iu li tenia, quisti de quai e quiddhi de ddhai e pijai… D.: Te ricordi per casu de qualche scioperu? R.: Avia ogni tantu qualche picca de scioperu, però menza sciurnata, n’ura, poi ni chiamava quiddhu stessu e sciame. Lu Giorginu dicia: «Vieni Uccia!» cu facimu cusì stu rivolgimentu, faciame n’addha cosa poi sempre. D.: Perché nc’erane sti scioperi? R.: Sempre per li contributi, avia una per li sordi… fija mia, no sempre pe’ ste cose quai. D.: Annanzi alla chiazza? R.: None, a darretu allu castellu stessu. A darretu venia unu e dicia: «osci imu fare scioperu ca no se lavora, osci imu fare cusì ca no se lavora», lu stessu comu a moi, ca moi ce fannu? ce cumbinane addintru? (indica la tv). D.: Indossavte qualche camicia o altro una divisa? R.: No, a quai no, lu mantile mintiame a quai. Quandu sciame a Martignanu poi ni desera lu camisu. D.: C’erano uomini in fabbrica? R.: No, sulamente lu Giorginu Seddhone, e nisciunu addhu. E quiddhu ca stia a nanti alla porta. D.: Di dov’era, di Sternatia? R.: No... me pare ca non era de Sternatia... era de Martignanu, lu Rizzuddhi. D.: Tutte fimmene erivu? R.: Sì, tutte fimmene, anzomma, sulu lu Seddhone nc’era. D.: Quandu trasivive la matina, faciane l’appellu? R.: Sì, sì. D.: Ci lu facia? R.: Lu Seddhone. D.: Vi pagava allora, facia tuttu… R.: Sì, facia tuttu quiddhu… D.: Na specie de ragioniere era a ddintra? R.: Sì, sì. D.: Potevate scherzare a ddintru? R.: Eh no… Puru ca allu bancu nostru nc’erane le Russene, quiddhe 148 erane curiose cu cuntane, avia puru la ‘Ndaticchia de lu Russu... Ni crepavame de risi... E ni chiamava delinquente. D.: Delinquente? R.: «È un banco de delinquente!». In grecu: «o banco a’tton delinkuènte echi ìcimpì!» E allora sai ce erane curiose?!? La Dunata de lu Pezzaffronte sai ce era brava, sai ce era lesta cu fatica! E nui erame tutte vagnoneddhe, e allora ni chiamava delinquente addarretu! D.: Ci era ca vi chiamava cusì? R.: Lu Giorginu de lu Seddhone... Perché ridiame, perché non pensavame cu… «To’ bbanco atton delinquente!». D.: A griku parlavive poi? R.: Sì, tandu a grecu. D.: Perché poi tandu chiusera? R.: Me non sacciu, vidi… D: Quando andavate a fare le tabacchine, dovevate presentare un libretto? R.: Sì, teniame nu librettu ca ni mintiane li contributi, no? D.: Facevate qualche visita medica prima di entrare? R.: No, no non faciame nienti. D.: Puru ca circolava qualche malatìa? R.: Iu non fici nienti e non firmai nienti tenia sulu lu librettu e basta. 149 Intervista a Angela Grasso Luogo e data: Sternatia, Ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Angela Grasso; Luogo e data da nascita: Sternatia il 20/04/1937; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina e contadina; Emigrata all’estero: no. Intervista di: Daniela Gemma. D.: A ce annu ncignasti cu fatichi alla fabbrica? R.: Allu cinquantadue. D.: A ce fabbrica, comu se chiamava la fabbrica? R.: Alla fabbrica de Mastrolia Leonardo Antonio. D.: Quindi allu cinquantadue tenivi quindici anni… E hai cuminciatu cu fatichi a quindici anni? R.: Sì. D.: Hai faticatu sulu alla fabbrica de lu Mastrolia? R.: Sì, però poi faticai comu contadina. D.: Allora hai fattu sia la contadina ca la tabacchina, e comu tabacchina pe’ quanti anni hai faticatu? R.: Finu allu sessantadue-sessantatrè, perché allu sessantunu me sposai e poi scii pe doi-tre anni addhi. D.: Ce funzione tenivi intra la fabbrica? R.: La spianatrice, no imballatrice o addhu, perché poi c’erane addhe funzioni. D.: E in che cosa consisteva il tuo lavoro? R.: C’erane le filze de tabaccu no, se rumpiane e poi se facia la divisione de li colori, perché pariane tutte uguali le foje, però c’era la categoria cchiù bona, c’era la verde, c’era la quarta, cioè veniane chiamate cusì le foje; prima le cernivi cu le faci a classi e poi facivi li mazzetti, poi le mintivi su li scenucchi e le aprivi, eccu percè se chiamava spianatrice. 150 Poi na vota fatti li mazzetti, li sistemavi susu a certi cosi ca se chiamavane dischi, erane certe cose rotonde ca faciane cu stannu meju conzate le foje; e poi passavane alle ballatrici, ca faciane le balle a manu, li primi anni, poi cu lu passare de l’anni le balle delle ballatrici no’ le faciane cchiui a manu ma cu lu torchiu e allora cerniame sulamente no’ spianavame, percè no servia, servia scijatu lu tabaccu; l’erame sempre cernire de qualità: quista è la bona, quista è la verde, quista è la fiacca. D.: Te ricordi comu se chiamavane le razze, lu tipu de lu tabaccu, perché iu sacciu lu santujaca, lu salluzzu? R.: Me iu no sacciu perché me pare ca lu santujaca pe l’epoca mia era na qualità cchiu vecchia, iu sentìa la mamma mia; quandu nc’era iu erane la zaguvina e la piristizza. D.: A ce ura scivi cu fatichi? R.: Alla fabbrica trasiame alle sette e menza de la matina, poi vessiame alle dodici, tornavame all’una e vessiame ntorna alle tre e menza. D.: Quindi un’ora di pausa? R.: Sì un’ora dalle dodici all’una, scivi a casa. D.: E la fabbrica de lu Mastrolia qual’ete quiddha de la chiazza? R.: Sì quidda a du ave moi la banca, la farmacia, quiddhu ca vinde rrobe, era tutta fabbrica de lu Mastrolia. D.: Te ricordi quante fabbriche nc’erane? R.: Allora nc’era quiddha de lu Mastrolia, poi nc’era quiddha de lu Ancora e poi nc’era quiddha de lu dottore Specchia, ca lu diciane don Cici. D: Comu scivive vestute? R.: Fija mia comu potiame, tantu teniame picchi veste. Ma vo sai comu sciame vestute intru la fabbrica? D.: Sì. R.: No, alla fabbrica sciame vestite normali, teniame sulu nu mantile giustu pe’ quandu erame cernire e spianre lu tabbaccu. D.: No’ tenivive mancu nu fazzolettu an capu? R.: No, ognuna venia vestuta de casa e cu nu mantile diversu, non erame vestite uguali. D.: E lu padrunu comu sapia ca vui stivive a ddhai cu faticati, faciane n’appellu? R.: Sì, li primi anni ca scia iu, l’appellu lu facia nu cristianu ca aspetta cu me ricordu comu facia de cognome, de Zuddhinu era, però no me ricordu comu se chiamava. 151 D.: Era nu masculu ca facia l’appellu no na fimmena? R.: No, no, nu masculu. D.: E poi quandu vessivive facia ntorna n’addhu appellu? R.: No l’appellu lu facia na vota lu giurnu, la matina appena trasiame. D.: Quindi per esempiu quandu tornavive de la pausa no controllava ci nc’era e ci no? R.: No, però de solitu lu facia de pomeriggiu, no’ sempre, a fiate. D.: La mescia de la fabbrica toa ci era? R.: A nui erane doi l’Angiulina de la Frascalora, la diciane cusì era Chiriacò Carmela e la Ndata de lu Citri, se chiamava Lezzi de cognome. D.: E de mescie ave qualcheduna viva? R.: Sì l’Angiulina, ma non ragiona chiui è malata. D.: De le ballatrici te ricordi se ave qualcheduna viva? R.: De quiddhe ca faciane le balle a manu me pare ca su tutte morte, ma quiddhe cu lu torchiu ave qualcheduna viva. D.: E cu lu padrunu ce rapportu tenivive? R.: Nienti, quiddhu trasia, alli giurni, mancu tutti li giurni facia a nanti e a retu pe li banchi a du nui faticavame, se vidia quarche imperfezione, perché quiddhu era nu dottore in agraria e lu tabaccu lu capia pe cuntu sou, voju cu dicu, mentre tie sta cernivi sta sfilza ca tenivi a nanzi, se nc’era na foja ca no scia e ca quiddhu canuscia, no te gridava però te dicia quistu no vae bonu. D.: Te chiamava all’ordine se n’cera quarche cosa ca no scia? R.: Sì sì ma nienti addhu. D.: Le mescie in base a cosa veniane scelte comu mescie? R.: Ti dirò ca sta cosa comu veniane scelte no lu sacciu, perché quandu cuminciai cu faticu ste doi mescie stiane già a ddhai. D.: E comu sordi comu vi pagavane? R.: A quindicina ni pagavane, ogni quindici giurni. D.: E quantu vi diane ogni quindici giurni? R.: A fija mia, forsi ni diane menu de dieci mila lire, però de precisu propriu no me ricordu. Me ricordu ca erane meno de dieci mila lire percè quando rivavane le fere a lu padrunu li calava cu no paga e allora ni dicia ca se n’cera qualcheduna ca volia na cosa de sordi poi ni la scuntava alla quindici quandu poi ni pagava; e me ricordu ca pijava menu de dieci mila lire. Le ballatrici pijavane na cosa de chiui e puru le mescie. D.: Quindi le figure ca nc’erane intra la fabbrica erane le mescie… 152 R.: Sì le mescie e stu cristianu ca era de Zuddhinu, don Mimmi lu diciane. D.: E lu cristianu ca facia l’appellu rimania cu vui tutte de ure o scia? R.: None, poi quiddhu scrivia, facia, mancava poche ure. D.: Quindi stia cu vui? R.: Sì sì, scrivia portava li cunti de la fabbrica… Tondi era de cognome. D.: Quindi comu figure ca faticavane nc’erane le ballatrici e vui ca facivive le spianatrici. R.: Sì, poi le ballatrici erane divise in categorie, quiddhe de prima, quiddhe de seconda, in base alla qualità de lu tabbaccu. D.: Ma vi regalavane stecche de sigarette? R.: None fija mia no se facia nuddhu regalu, ca ci le capia le sigarette, li masculi prima le faciane cu le foje de lu tabbaccu. D.: E c’erane cristiane forestiere o erive tutte de Sternatia? R.: No tutte de Sternatia, quarcheduna emigrata, ca s’era sposata cu unu de Sternatia dicimu, faticava cu nui pe stu motivu; per esempiu la Luce de lu Bombetta, quiddha era de Zuddhinu ed era sposata cu lu Peppinu ca era de Sternatia, poi c’era la Maria de Caprarica ca era sposata cu lu Roccu Frucularu, la Lucia ca tene lu Ntonucciu Cazzunaru era de Zuddhinu però lu maritu era de Sternatia. D.: E te ricordi quarche scioperu quandu faticavi tie? R.: Ieu quando scia no, me li ricordu quando era piccicca ca sciane a nanti lu fregu, lu fasciu, però era troppu piccicca. Sacciu ca alla fabbrica su trasuta sempre. D.: Senti Angiulina e ci era ca vi dia li compiti, cioè ca vi dicia tie faci la ballatrice tie la spianatrice? R.: Dicimu ca tutte partiane comu spianatrici, poi in base all’anni d’esperienza potivi fare la ballatrice, ca poi oltre a sti dischi ca diame nui alle ballatrici, quiddhe ancora cerniane de ddha intru. Quindi le ballatrici erane chiu brave, teniane chiu esperienza. D.: E comu vidiane li masculi sta cosa ca le fimmine sciane cu faticane e no stiane a casa per esempiu? R.: Nienzi, era normale perché faticavane tutte, poi tandu non c’era muta fatia o eri mescia de scola o scivi alle fabbriche de tabbaccu o alle volie. Iu alle volie no’ sci mai, l’unicu lavoru ca fici era quistu. D.: E cu le mescie ce rapporti tenivi, erane fiacche? R.: Me no, fiacche no de cristiane, certu quandu faticavame erame stare citte, però vistu ca la lingua la portavame na parola ogni tantu la diciame e quiddhe tandu ni diciane cu stamu citte. 153 D.: E preghiere? R.: Nc’era lu rosariu tutti li pomeriggi, cera l’addetta propriu ca lu dicia. D.: Quindi a parte lu rosariu e na parola ogni tantu de scusu, erive stare citte. R.: Sine, ca poi quiddhe quandu se accorgiane ca parlavame faciane finta de nienzi, ca erane de carne puru quiddhe. Poi certe fiate erane cchiu severe e stiane ddhai mpizzate cu le fannu stare citte. A seconda puru de la sciurnata, se magari era passatu lu padrunu e l’era rimproverate e allora poi ni scuntavane a nui cu potimu faticare e cu ni cojimu prestu. D.: E durante l’annu quantu tiempu faticavi? R.: Ma, doi, tre misi. D.: E te ricordi quali misi? R.: Sì, ncignavame subitu dopu la Befana e poi finu a marzu, aprile. D.: Sai perché nc’erane le sbarre alle finestre? R.: Ma, forsi era na cautela pe quiddhi, c’era anche la retina oltre alle sbarre, casomai rubavane. D.: Te ricordi se nc’era quarchedunu ca vi facia quarche fotu? R.: No, quando faticavame no venia nisciunu. D.: Te ricordi se nc’era lu bagnu e se potivi scire quandu volivi? R.: Sì c’era e quandu te esigia, scivi senza problemi. Però me ricordu ca iu scia poche fiate. 154 Intervista a Vita Mastrolia Luogo e data: Sternatia, novembre 2008; Nome dell’intervistato: Vita Mastrolia; Luogo e data da nascita: Sternatia il 23/12/1933; Residenza: Sternatia; Professione: tabacchina; Intervista di: Desiré Maria Delos. D.: Sei mai stata all’estero? R.: No, mai. D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: A 1quattordici-quindici anni. D.: Per quanto tempo l’hai fatto? R.: Fino al settantuno. D.: Sempre a Sternatia? R.: Sì, non mi ricordo solo l’ultimo anno forse ho fatto a Martano. D.: In quale fabbrica hai lavorato di Sternatia? R.: Alla Rossi. D.: Quella del castello? R.: Sì. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: La Rossi e poi non mi ricordo. D.: A noi risultano la Rossi, quella in piazza e un’altra alla stazione. R.: Non mi ricordo bene. D.: Ti ricordi quante eravate al castello? R.: Più o meno una cinquantina. D.: Gli orari di lavoro quali erano, da che ora a che ora? R.: Dalle sette e mezza fino alle dodici, poi andavamo a mangiare e ritornavamo all’una. D.: Quali mansioni, che facevi? R.: Spianavo soltanto. 155 D.: E c’era una differenza di pagamento, quelle che spianavano venivano pagate di meno rispetto alle imballatrici? R.: Penso di no, ma forse sì. Non mi ricordo. D.: I padroni, i capi come si comportavano con le tabacchine? R.: Erano bravi. D.: Non sgridavano… R.: Gridavano quando c’era la maestra. D.: Ti ricordi qual era la tua maestra, come si chiamava? R.: Addolorata mi sembra, noi la chiamavamo Ndata. D.: In quali mesi dell’anno lavoravi? R.: Penso in inverno. D.: Il fatto che andavi a lavorare come veniva vista dall’uomo, dal marito? R.: Normale perché era una necessità, poi quando è nato l’ultimo figlio nel settantuno ho smesso. D.: Venivano donne di fuori paese a lavorare a Sternatia? R.: No. D.: Ti ricordi perché c’erano le sbarre alle finestre? R.: Per non rubare. D.: Ti pagavano i contributi? R.: Certo sì, non erano contributi forti, erano leggeri. D.: Ti ricordi qualche sciopero? R.: Sciopero non mi ricordo mai. D.: Le mescie come venivano scelte, erano parenti dei padroni? R.: Sì, per esempio c’era la Longo… D.: La mescia Emma? R.: Sì, e l’Addolorata che ti ho detto prima era la sorella. D.: Quindi diciamo erano scelte perché parenti? R.: Si quelle due erano parenti. D.: Indossavate una divisa? R.: Si avevamo un grembiule che facevamo noi. D.: Lo portavate da casa, non ve lo dava la fabbrica? R.: No, lo facevamo noi. D.: Dovevano essere tutti uguali? R.: Si tutti blu. D.: Quindi sotto vi vestitivate come volevate voi e poi indossavate il grembiule. E c’erano uomini che lavoravano con voi? R.: C’era uno che ci seguiva come la Emma e l’Addolorata. 156 D.: Un guardiano, quello che faceva anche l’appello? R.: Sì. D.: E potevate cantare? R.: No, nemmeno parlare. D.: E che cosa succedeva se qualcuna di voi parlava? R.: Che la mescia ci gridava. D.: Ma è vero che sospendevano? R.: No, sospendevano no, ma ci gridavano. D.: Ma parlavate in greco? R.: C’era chi parlava greco e chi dialetto. D.: Ti ricordi perché sono state chiuse le fabbriche? R.: No. D.: Ti ricordi se c’era il bagno? R.: No. D.: Ci hanno raccontato che bevevate tutte la stessa acqua. R.: Sì, tutte dallo stesso contenitore di rame. La prima che beveva andava meglio. D.: E avevate un posto fisso o cambiavate ogni volta? R.: No avevamo il posto fisso. D.: Quindi la prima andava sempre meglio per bere. R.: No, dipende da dove capitava la brocca. 157 Intervista a Clelia Giuseppa Reale Luogo e data: Sternatia, 19 aprile 2009; Nome e cognome dell’intervistata: Clelia Giuseppa Reale; Luogo e data di nascita: Sternatia il 01/07/1934; Residenza: Sternatia; Professione: contadina, tabacchina; Emigrata all’estero: no. Intervista, trascrizione e traduzione di: Giorgio Vincenzo Filieri. D.: Pos kui? R.: Reàle Klèlia Giusèppa ce me fonàzone Pina. D.: Pota jennìti? R.: Primo, sette, 1934. D.: Ipù jennìti? R.: Si’ Chora. D.: Ipù polèmigghe? R.: Ipolèmigga kontadìna ce tabbakkìna. D.: Is plea fràbbika polèmigghe? R.: So’… don Antòni to’ llèane, Mastrolìa Leonardo Antonio. D.: Ti chrono atsìkkose na polemìsi si’ ffràbbika? R.: Ma… pistèo versu lu cinquanta… lu cinquanta. D.: Ce possus chronu polèmise? R.: Dekapènte, dekàtse, ‘en eo stennù kalà. D.: Posses fràbbike iche si’ Chora? R.: Iche: cini tu don Antòni ka polèmigga ivò; tu don Cici, so kastèddhi; ce cimpì si’ stansiùna, tu don Angiulìnu Ànkora. D.: Isù is plea fràbbika polèmigghe? R.: I’ ccini tu don Antòni Mastrolìa. D.: Ti fatìa èkanne icèssu si’ ffràbbika isù? R.: Ivò èkanna ti’ spianatrìce. D.: Ce ti èkanne i spianatrìce? Spièga na sprì. 158 R.: I spianatrìce ìsane… ispetsìggamo tes ansèrte, tes vàddhamo apànu so mantìli ce kànnamo ta fiddha… ta fiddha plo’ kkajo, ta fiddha plo’ ffiàkka; ta spianèamo apànu so kòtano. D.: Iche divèrses kualìtà atse tabbàkko? R.: Iche poddhes kualità… ce kànnamo tes katastèddhe apànu so’ bbanko ce poi ijàvenne i mèscia ka ta èpianne ce ta èperne tos ballatrìce. D.: Ti addhi’ ffatìa kànnane i addhe icèssu? R.: Iche tes ballatrìce de prima, poi iche cine pu kànnane to’ ttòrkio. So’ ttòrkio ìsane plo frantùma na valone icèssu, balle plo’ ssekondàrie; ma i ballatrìce de prima poi kànnane ta fiddha plo’ ssòtsia, te’ bballe plo’ kkajo. D.: I kajo fatìa i ballatrìce ìsane? R.: I ballatrìce ìsane i kajo, sì! D.: Ce, i mèscia? R.: Poi iche ti’ mmèscia, ti’ ssottomèscia… ka kumandèane. Iche tèssare’-ppente addhe pu stèane tise, ikualùa’ ttes ansèrte, ikualùa’ tta fiddha, iskarikèane tes kasce na doko’ ttes ansèrte; ikànnane divèrsu’ llavòru. D.: I mèscia ti èkanne? R.: I mèscia ìstigghe icèssu na kumandètsi ce… ikontròllegghe; ijàvenne, an iche fiddha smimmèna elle: «tuo ‘e’ ppai ittù», se kontròllegghe! D.: Iche àntrepu? R.: Àntrepu ka polemùane iche to’ pportinàjo k’ ànigghe to’ pportùna, ìklinne; ce addhon ena icèssu p’ èkanne tus kuntu poi…, ‘en iche poddhù ka polemùane. D.: Tis tin ghiàddhegghe ti’ mmèscia? R.: Ti’ mmèscia tin ghiàddhegghe o patrùna, jatì ia’ pplo’ bbrava na cernètsi ton dabbàkko, n’ anoìsi kajo; anòigghe kajo ti’ kkualità atse tabbàkko. D.: Isane plon espèrta? R.: Ia’ pplon espèrta, sì! Plo’ bbrava na kumandètsi ce plon espèrta son dabbàkko. D.: Is esà tis sas èpianne si’ ffatìa, i mèscia oppùru o patrùna? R.: Iche na pai panta so’ ppatrùna. Imèna m’ èpike o patrùna direttamènte, ipe ka me piànni cino; ipìrte o ciùri-mu na tu milìsi ce ipe: «na mi’ ppensètsi ti’ kkiatèra-su ti’ ppiànno ivò» ce m’ èpike cino, m’ avvìsetse na pao. D.: Ti età iche isù motte ancìgnase na polemìsi? R.: Dekatèssarus chronò! 159 D.: Iche na kami na’ kkontràtto? T’ iche na kami me to’ ppatruna? R.: Nde, en iche na kami tìpoti kontràttu. D.: Manechà itu? R.: Ipie c’elle a’ sse ìsoze piài si’ ffràbbika… A’ sse ìsoze piài, s’ èpianne; imèna m’ èpike direttamènte o patrùna. D.: Posses ore polemùato? R.: Ore kànnamo: imbènnamo alle sette e menza so pornò, igghènnamo alle dodici, all’una ijurìzamo mapàle, alle tre e menza igghènnamo. D.: Posses operàie ìsosto isì, si’ ffràbbika pu polèmmigghe isù? R.: Più o menu pettìnta, pettintapènte, atsìnta; tuo ìane o tutso ka iche. D.: Isòzato milìsi icèssu si’ ffràbbika motte polemùato? R.: Nde, e’ ssòzamo milìsi makà! Ce nde na fame ce tìpoti. Iche na kustì manechà o rushio atse tabbàkko…, na polemìsome. D.: Isòzato pi kammìa’ ppreghièra, kanè pprama? Ti kànnato, isòzato kantètsi? E’ ssòzato kami tìpoti? R.: Ma, kammìa fforà pròpria iche mia p’ èkanne… p’ elle to’ rrosàrio; atse addho en ìsoze milìsi, ia’ ssevèro o prama. D.: Possus minu polemùato? R.: Atsikkònnamo a gennàio… a ssekùndu tabbàkko iche: tri, tèssarus minu; a ssekùndu tabbàkko konsegnèane i christianì. D.: Érkato mai i finànza na kontrollètsi icèssu si’ ffrabbika? R.: Me, kuài forè èrkato, sì! Ikontròllegghe akkartamèntu ka iche, pràmata tu patrùna; ispeziùnegghe puru is emà; reggìstru… ispeziùnegghe ta pràmata tu patrùna. D.: Ma ilèone ka i finànza ikontròllegghe puru a’ ffumèane i christianì! R.: Puru! E’ ssòzane fumètsi. Ifumèane is kontrabbàndo… ìchane ton dabbàkko essu ce manku isòzane fumètsi, de’ pposso o ciùri-mu… ìchamo tosson dabbàkko imì k’ amfilèamo, kremammèno, tiralèttu, tikanè, ce ìnghize na kratèsi na sprin dabbàkko ce to krìpinne sa sikkiùddhia, i’ ttotsu, sus tichu; poi, mia fforà, igòmose nan òrio’ mmenzunàci ce to ìpire i’ ttotsu, poi ton avvisètsane ka ìdane na’ christianò ka vàstigghe nan menzunàci so kòkkalo asciopammèno; motte ìkuse itu, o ciùrimu ipìrte i’ ttotsu na torìsi pu àfike to stangateddhùtsi… ti’ mmenzèddha… ikràtenne poddhà pramatùddhia, ce ‘en iche tìpoti. Si vede ka tuso christianò tu to vèntetse, ipìrte, to èpike ce to ìpire ja cino. D.: Ce iklèttane tabbàkko puru a’ttus tiralèttu? R.: Puru is emà ka stèamo amèsa si’ mmesi, ce oli kalèatto icì simùd- 160 dhia to frikulèane ce kànnane ti’ ssikarètta; vastùa’ ttes kartìne… puru ansèrte mas piànnane kuài forè… però panta is kontrabbàndo, e’ tto sòzane echi a ppùbbliku. D.: I christianì to kripìnnane puru icèssu essu ton dabbàkko? R.: Puru icèssu essu to kripìnnane. Puru o ciùri-mu to krìpinne icèssu essu. D.: Kuàsi, ikànnane mia’ ttripi? R.: Ikànnane… to vàddhane akà’ tse na’ pprama, t’ asciopànnane, akà’ tse na’ mmattùna… to kripìnnane. Ce imì ìchamo ti’ kkàmbara gomàti pùpulu atse tabbàkko ce o ciùri-mu ìnghize na to kripìsi na sozi fumètsi. D.: Ce poi jatì iklìsane i fràbbike? R.: Iklìsane jatì atsikkòsane mi’ kkàmone pleo tabbàkko ce ia’ pplon alìo, is pri ’s pri, is pri ’s pri ce ichàti pròpria i piantatsiùna tu tabbàkku. D.: Si’ Chora posses fràbbike iche? R.: Tri eo stennu ivò. D.: Ipu stèano? R.: Mia amèsa si’ mmesi, icì ka echi ti’ ffarmacìa; i addhi akà’ so kastèddhi tu don Cici, ka poi frabbìketse… prima ìstigghe akà’ so kastèddhi pròpria, poi frabbìketse de fore ce tin ìpire ’cì ti’ ffràbbika; ce i addhi ìstigge ampì si’ stansiùna. D.: Va bene! Grazie. R.: Niente. Traduzione D.:Come ti chiami? R.: Reale Clelia Giuseppa detta Pina. D.: Quando sei nata? R.: Il primo, sette, 1934. D.: Dove sei nata? R.: A Sternatia. D.: Dove lavoravi? R.: Lavoravo come contadina e tabacchina. D.: In quale fabbrica lavoravi? R.: In quella di Mastrolia Leonardo Antonio detto don Antoni. 161 D.: In che anno hai iniziato a lavorare in fabbrica? R.: Ma… penso intorno agli anni cinquanta. D.: E per quanti anni hai lavorato? R.: Quindici o sedici, non ricordo esattamente. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: C’era: quella di don Antonio presso la quale lavoravo io; quella di don Cici, ubicata presso il castello; e quella presso la stazione di don Angiolino Ancora. D.: Tu in quale lavoravi? R.: In quella di don Antonio Mastrolia. D.: Quale era la tua mansione nella fabbrica? R.: Io facevo la spianatrice. D.: E, cosa faceva la spianatrice? Spiega un po’. R.: La spianatrice era… spezzavamo le filze, le mettevamo sul grembiule e facevamo le foglie… le foglie migliori, le foglie peggiori; le spianavamo sul ginocchio. D.: C’erano diverse qualità di tabacco? R.: C’erano molte qualità… facevamo delle piccole cataste sul banco, poi passava la maestra che le prendeva e le portava alle imballatrici. D.: Quale tipo di mansione svolgevano le altre? R.: C’erano le imballatrici cosiddette “di prima”, poi c’erano quelle che facevano il torchio. Al torchio c’era più robaccia da mettere dentro, balle più secondarie; ma le imballatrici “di prima” invece avevano a che fare con foglie più regolari, le balle migliori. D.: Il lavoro migliore era quello d’imballatrice? R.: Quello d’imballatrice era il migliore, si! D.: E quello di maestra? R.: Poi c’era la maestra, la vicemaestra… che comandavano. C’erano anche quattro o cinque altre che stavano in piedi, trasportavano le filze, trasportavano le foglie, scaricavano le casse per dare le filze; svolgevano diversi compiti. D.: La maestra che cosa faceva? R.: La maestra stava lì dentro per comandare e… controllava; passava, se c’erano foglie mischiate diceva: «questa non va qui», ti controllava! D.: C’erano uomini? R.: Gli uomini che lavoravano erano: il portinaio che apriva il portone e lo chiudeva, e un altro che teneva la contabilità…, non c’erano molti 162 che lavoravano. D.: Chi sceglieva la maestra? R.: La maestra la sceglieva il padrone, perché era più brava a vagliare il tabacco, a capire meglio; s’intendeva della qualità del tabacco. D.: Era più esperta? R.: Era più esperta, si! Più brava a comandare e più esperta per il tabacco. D.: Chi vi assumeva a lavorare, la maestra oppure il padrone? R.: Bisognava andare sempre dal padrone. Io sono stata assunta dal padrone direttamente, disse che mi avrebbe assunta lui; mio padre andò a parlargli e lui gli disse: «non ti preoccupare tua figlia l’assumo io» e mi assunse lui, mi avvisò di andare. D.: Quanti anni avevi quando hai iniziato a lavorare? R.: Quattordici anni! D.: Bisognava fare un contratto? Che cosa era necessario fare con il padrone? R.: No, non bisognava fare nessun contratto. D.: Semplicemente così…? R.: Andavi e chiedevi se ti poteva assumere nella fabbrica… Se ti poteva assumere ti assumeva; io sono stata assunta direttamente dal padrone. D.: Quante ore lavoravate? R.: Facevamo quest’orario: entravamo alle sette e mezzo di mattina, uscivamo alle dodici, all’una ritornavamo, alle tre e mezzo uscivamo. D.: Quante operaie eravate nella fabbrica presso la quale lavoravi? R.: Più o meno cinquanta, cinquantacinque o sessanta; questo era il numero. D.: Potevate parlare dentro la fabbrica, durante il lavoro? R.: No, non potevamo parlare affatto! Né mangiare né niente. Si doveva sentire soltanto il fruscio del tabacco… cioè lavorare. D.: Potevate dire qualche preghiera, qualcosa del genere? Che cosa facevate, potevate cantare? Non potevate fare niente? R.: Ma, qualche volta raramente c’era una che faceva… che diceva il rosario; di altro non potevi parlare, era severa la cosa. D.: Quanti mesi lavoravate? R.: Iniziavamo a gennaio… dipendeva dal tabacco che c’era: tre, quattro mesi; a seconda del tabacco che consegnavano le persone. 163 D.: Veniva mai la finanza per controllare dentro la fabbrica? R.: Beh, qualche volta veniva, sì! Controllava gli incartamenti che c’erano, cose del padrone; ispezionava anche noi; registri… ispezionava le cose del padrone. D.: Ma dicono che la finanza controllava anche se fumassero le persone? R.: Anche! Non potevano fumare. Fumavano a contrabbando… avevano il tabacco in casa e neanche potevano fumare, tanto che mio padre… avevamo tanto tabacco noi che infilavamo, appendevamo, tiraletti, ecc., e doveva tenere da parte un po’ di tabacco da nascondere nei secchielli, in campagna, nei muri; poi, una volta, riempì un bel contenitore di creta e lo portò in campagna, poi lo avvisarono che avevano visto una persona che teneva un contenitore in testa coperto; quando sentì così, mio padre andò in campagna per vedere dove aveva lasciato il piccolo vaso… il contenitore… aveva molte di queste cosette, e non c’era più niente. Si vede che questa persona, avendolo scoperto, lo prese e lo portò per lui. D.: Rubavano tabacco anche dai tiraletti? R.: Anche a noi che abitavamo in piazza, tutti si avvicinavano lì vicino lo fregavano e facevano la sigaretta; avevano le cartine… anche le filze ci prendevano alcune volte… però sempre a contrabbando, non lo potevano avere pubblicamente. D.: Le persone lo nascondevano anche dentro casa il tabacco? R.: Anche dentro casa lo nascondevano. Anche mio padre lo nascondeva in casa. D.: Cioè, facevano una buca? R.: Facevano… lo mettevano sotto una cosa, lo coprivano, sotto un mattone… lo nascondevano. E noi avevamo una stanza piena pùpuli di tabacco e mio padre lo doveva nascondere per poter fumare. D.: E poi perché chiusero le fabbriche? R.: Chiusero perché iniziarono a non fare più tabacco ed era poco, un po’ alla volta terminò del tutto la coltivazione del tabacco. D.: A Sternatia quante fabbriche c’erano? R.: Io mi ricordo tre. D.: Dove stavano? R.: Una in piazza, lì dove c’è la farmacia; sotto il castello di don Cici, che poi costruì… dapprima stava proprio sotto il castello, poi costruì 164 fuori e la portò lì la fabbrica; e l’altra stava dietro la stazione. D.: Va bene! Grazie. R.: Niente. 165 Intervista a Maria Iolanda Chiriacò Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Chiriacò Maria Iolanda; Data di nascita: anno 1924; Luogo di nascita: Sternatia; Residenza: via Giorgio Orlandi, Sternatia; Professione: tabacchina pensionata; Emigrata: no. Intervista di: Luigina Mastrolia. D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Quando avevo quindici anni, chi andava a scuola veniva presa prima, ho cominciato verso il quaranta. D.: Per quanto tempo? R.: Poco, al Castello eravamo tante operaie e il lavoro era poco. D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare? R.: Alle sette cominciavi e uscivi alle tre e mezzo. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: C’era il Castello, Don Cici, Don Antonio, e la stazione. D.: In quale fabbrica ha lavorato? R.: Al Castello . D.: Chi erano i datori di lavoro? R.: Don Angiolino Ancora . D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica? R.: Eravamo centocinquanta. D.: Erano previste delle pause? Se sì, quanto duravano? R.: No. D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica? R: Cernitrice. Dopo le spianatrici prendevamo i dischi e dovevamo tirar fuori i colori, il pallido il rosso chiaro, il marrone, il verde, il quarto chiaro, il quarto scuro, tutte le classi. E poi passava alle ballatrici. 166 D.: In quali mesi del’anno si lavorava in fabbrica? R.: A Natale si cominciava e a marzo si finiva. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Perustizza, Zagovina. D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se sì, da dove venivano? R.: No. D.: Perché c’erano le sbarre alle finestre? R.: Si c’erano le sbarre. D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera? R.: No… non me lo ricordo. Dato che avevo quindici anni mi pagavano però come un’operaia grande e non come un’apprendista. D.: Venivano messi i contributi? R.: Sì. D.: Si ricorda di qualche sciopero? R.: Si sono venuti anche i Carabinieri, ed è durato parecchi giorni, c’era chi lavorava sempre e chi come me lavorava solo alcune settimane, una ciascuno, e facevamo sciopero per avere il lavoro. D.: In base a quale criterio venivano scelte le mesce? R.: C’era la mescia Emma, mia sorella la Ndata, la Uccia, la Nzina de lu Minerva, e le sceglieva il padrone, prendevano le ruffiane. D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate? R.: Un grembiule, e a Don Cici davano un camice scuro . D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica? R.: No, solo Giorgino per fare l’appello. D.: C’era una mensa? R.: Quando suonava mezzogiorno potevamo venire a casa a mangiare e la Nicoletta de lu Scordari cucinava per le donne incinte o che allattavano, e c’era anche un asilo nido mi pare sotto il Convento. D.: Si poteva cantare? R.: Si poche parole, ma non potevamo parlare o venivamo sgridate. Una volta un gruppo di noi che stava parlando eravamo sette o otto siamo state sospese per cinque giorni; una certa Costantina che andava ad allattare ha riferito alla mescia che noi giocavamo con dei fazzoletti. D.: Ti ricordi qualche altra cosa? R.: L’ultimo giorno di lavoro si faceva un pranzo tutte assieme, si metteva una quota ciascuno, si chiamavano le mescie e Giorgino Seddhone, e ogni anno era così. 167 D.: Come era la giornata lavorativa? R.: Dovevi sbrigarti a mangiare nell’ora di pausa e se non ti sbrigavi ti chiudevano fuori. E quando tornavi a casa avevi da portare avanti le faccende di casa. Se avevi la mamma le chiedevi di cuocerti una pignata, mia sorella Michela lasciava i figli a mia madre, mio figlio lo lasciavo da mia zia, e quando avevano tre anni si mandavano all’asilo, e quando uscivano li prendevano le nonne. D.: Piantavate tabacco? R.: Si, uscivamo a mezzogiorno per innaffiare le rudde e quando non lavoravo in fabbrica lavoravo in campagna e se pioveva il tabacco cresceva altrimenti. 168 Intervista a Eleonora Conte Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Conte Eleonora; Data di nascita: 08/06/1918; Luogo di nascita: Sternatia; Residenza: via Giorgio Orlandi Sternatia; Professione: Tabacchina pensionata; Emigrata: no. Intervista di: Mastrolia Luigina. D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Negli anni trenta quando ero ragazzina.. D.: Per quanto tempo? R.: Per tanti anni, anche dopo sposata.. D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare? R.: Alle sette ti dovevi trovare lì, alle dodici uscivi per mangiare, rientravi alle tredici e poi uscivi alle sedici. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Il Castello, Don Antonio, Don Cici, e quella della stazione. D.: In quale fabbrica ha lavorato? R.: Al Castello. D.: Chi erano i datori di lavoro? R.: Don Angiolino Ancora. D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica? R.: Tante una cinquantina. D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano? R.: No, solo per andare in bagno e bisognava chiedere il permesso alla mescia. D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica? R.: Spianatrice. D.: Quante mansioni erano previste in fabbrica? 169 R.: C’erano le ballatrici, quelle che stavano al torchio e quelle che mettevano foglia per foglia nelle cassette. D.: Chi affidava le mansioni in fabbrica? R.: Le mescie, la mia era la mescia Emma. Le mescie ti mostravano come dovevi portare avanti il lavoro, poi dovevi cavartela da sola; quando per esempio dovevi stirarlo foglia per foglia e facevi i dischi mazzo per mazzo, giro giro, poi c’era il torchio dove andava messo il tabacco peggiore e poi le ballatrici. D.: Come era il rapporto con il datore di lavoro? R.: Buono. D.: In quali mesi del’anno si lavorava in fabbrica? R.: Non tutto l’anno, quando finiva il tabacco non andavamo più, lavoravamo due o tre mesi. D.: Venivano messi i contributi? R.: Si, tutti. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Perustizza, Zagovina. Quella lunga e grande, la prima, la seconda, la terza e la quarta classe quella peggiore, le foglie rovinate, strappate che andavano al torchio, le altre andavano alla ballatrice. D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove venivano? R.: No. D.: Perché c’erano le sbarre alle finestre? R.: C’era una rete, e quando uscivamo chiudevano con una sbarra, e sotto c’era una guardia che apriva la porta quando la mattina entravamo, Ciccio di Soleto, e chiudeva la sera, e nella pausa pranzo e ogni volta ci controllava addosso se portavamo il tabacco a casa. D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera? R.: Tre lire, cinque lire, le ballatrici erano pagate di più. D.: Si ricorda di qualche sciopero? R.: Ogni tanto facevamo sciopero, le apprendiste volevano lavorare e non le prendevano a lavorare, perché eravamo in tante sul Castello. D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie? R.: C’era la mescia Emma, e Ndata la sottomescia. La mescia non faceva nessun lavoro, camminava, girava intorno ai tavoli e se parlavi ti riprendeva, controllava come lavoravi, se sceglievi bene i colori. D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate? 170 R.: Un grembiule, o un mantile per non sporcarsi. D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica? R.: No, solo la guardia del portone e Giorgino Seddhone che ci controllava e se parlavi ti sgridava. D.: Veniva fatto l’appello? Da chi? R.: Si da Giorgino Seddhone, aveva un registro e faceva l’appello e segnava le assenze e se non ti presentavi non ti pagava la giornata. D.: Si poteva cantare? R.: No, dovevi stare zitta. Solo negli ultimi giorni si raccontavano delle storie, delle preghiere e si diceva il rosario. D.: Quale lingua usavate per comunicare? R.: Griko, dialetto con quelle che non parlavano in griko, e con la mescia e Giorgino solo in dialetto. D.: Perché venne chiusa la fabbrica? R.: Perché non c’era più tabacco, dopo la vendita dell’altro tabacco veniva aperta la fabbrica, ma solo dopo che le fabbriche ricevevano il tabacco apriva. D.: Ti ricordi se esisteva un asilo nido? R.: No, c’era una stanza dove scendevano le donne che dovevano allattare, lasciavano una mezzoretta di lavorare. D.: Ti stancava la giornata lavorativa? R.: No, stavi sempre seduta, non era faticoso, dovevi solo sbrigarti a finire le nzerte. 171 Intervista a Grazia Spagna Luogo e data: Sternatia, 31 Ottobre 2008; Nome dell’intervistato: Grazia Spagna; Luogo e data da nascita: Sternatia il 10/09/1928; Residenza: Sternatia; Professione: pensionata; Emigrata all’estero: no. Intervista di: Maria Lucia Conte, Desirée Maria Delos, Mariangela Giannuzzi. D.: Cosa ti ricordi? R.: Andavano a lavorare tutte le mie sorelle nel magazzino, e delle mattine veniva la perizia, erano i capi che controllavano la qualità del tabacco, venivano tre o quattro di loro che controllavano foglia per foglia. Poi si chiudeva il magazzino già controllato, e venivano con i camion per prenderlo con le guardie come Donato Guluso, Ciccio Bonatesta, c’erano anche dei forestieri, da Don Antonio c’era Rocco Meu. D.: La fabbrica del castello fino a quando è stata aperta? R.: Non mi ricordo, perché non stavo dentro, stavo qui da don Cici, che era un pediatra. D.: Ti ricordi se c’era un asilo nido? R.: Da don Cici Specchia, c’erano le cullette e un’operaia dove adesso c’è la palestra. Grazie a don Cici avevano la maternità, allattavano e mangiavano a pranzo, la Nicoletta Scordari cucinava per tutte, dove c’è la casa de lu Peppino Marti, vicino a Rubini. D.: Ti ricordi qualche sciopero? R.: No, ero una bambina, mi pare che dicevano che qualche volta ci sono stati. D.: Tuo marito cosa faceva? R.: Quando hanno mandato via le guardie di vigilanza e ognuno ha messo le guardie che voleva a guardia della stufa e a fare l’appello. Dove c’è adesso la Mariatè, nei cinque camerini lavoravano il tabacco, e sotto 172 dove c’è la Inda c’era il tabacco. Non potevano neanche portare da mangiare, nascondevano la frisella sotto la sciarpa, mettevano le paparine e mangiavano con le mani. D.: C’erano le sbarre alle finestre? R.: C’erano i giornali alle finestre ma solo quando mettevano il solfuro, un disinfettante per il tabacco, e mettevano le carte alle fessure delle porte per non fare uscire l’odore, venivano anche i carabinieri quando lo mettevano. D.: Come era don Cici? R.: Una brava persona, si arrabbiava quando vedeva le cose che non andavano, tutto doveva essere pulito. D.: Di chi era il castello? R.: Di don Cici, ereditato dallo zio Donato che l’aveva comprato dal Barone Cicala che lo aveva venduto a pezzi. D.: Le mescie come erano scelte? R.: Le più brave credo, quelle che capivano il tabacco. D.: La moglie di don Cici come era? Scendeva in fabbrica? R.: Era molto bella e affabile era di Roma, No non scendeva mai anche perché è morta nel trentasei a trentatrè anni. D.: Venivano pagate qui le tabacchine? R.: Sì qui sopra, solo ultimamente, però, quando il dottore non poteva ascendere per il male alla gamba, se no venivano pagate sotto, il sabato. D.: Quante erano? R.: Non me lo ricordo ero troppo giovane. 173 Intervista a Giuseppa Leonarda Pellegrino Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Giuseppa Leonarda Pellegrino; Data di nascita: 09/02/22; Luogo di nascita: Sternatia; Residenza: via Giorgio Orlandi, Sternatia; Professione: Tabacchina, pensionata; Emigrata: no. Intervista di Luigina Mastrolia. D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Io non sono andata a scuola, mia sorella invece è andata a scuola ed è stata presa prima a dodici anni, io ho dovuto aspettare i quattordici anni. D.: Per quanto tempo? R.: Cominciai a quattordici anni e ho finito quando ha chiuso la fabbrica, o meglio il lavoro che svolgevo io non era più richiesto, solo qualche volta mi hanno chiamato per i colori, ma non per le balle, perché io facevo la ballatrice. D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare? R.: Alle sette meno un quarto ti dovevi trovare lì, alle dodici uscivi per mangiare, rientravi alle tredici e poi uscivi alle quindici e trenta. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: Il castello, il convento, la stazione, Don Antonio, Don Cici. D.: In quale fabbrica ha lavorato? R.: Al Castello con la Rossi.. D.: Chi erano i datori di lavoro? R.: La Rossi. D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica? R.: Dove stavo io eravamo quasi duecento. D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano? 174 R.: Solo quando dovevo allattare uscivo dieci minuti, il tempo di uscire e tornare subito. D.: C’erano mense? R.: No, si tornava a casa a mangiare, o ti portavi un po’ di pane e lo mangiavi di nascosto. D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica? R.: Prima davano le anserte, spezzavi l’anserta aprivi le foglie morbide e toglievi il colore, il verde, il macchiato, verde scuro, verde chiaro, verde rosso, e il colorito era quello di cui si doveva fare la balla e i dischi. Dovevo iniziare la balla, prendevo le foglie una ad una, una sull’altra, precise, se c’era qualche fuoriuscita si spezzava, tutto doveva essere preciso; quando si riempiva lo mettevo nella cassetta dove c’era la balla. Quando si arrivava ad un certo livello la cassa veniva presa, mettevamo le stecche per premerla per fare uscire il tutto, dopo la toglievamo, la stendevamo per terra e la cucivamo con le corde. D.: In quali mesi del’anno si lavorava in fabbrica? R.: Si iniziava a novembre sino ad aprile, se c’era molto lavoro sino a maggio, il padrone e la mescia sceglievano le più brave e allora si sistemavano tutte le balle e le portavamo dove c’era la stufa, dopo tre giorni le toglievamo e le portavamo in una stanza dove c’erano tante cataste. D.: Sei andata in altri paesi a lavorare? R.: Si, quando qui il lavoro finiva prima, sono andata a Zollino in un fabbrica vicino alla stazione, dato che mio padre conosceva il padrone gli ha chiesto se io e mia sorella potevamo lavorare da lui, e che io ero una ballatrice, perché erano rare e ricercate, era un lavoro specializzato. D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera? R.: Appena sono entrata venticinque soldi come apprendista, e sono arrivata a sette lire. Ero ballatrice di prima, ma non c’era un’altra pagata più di me. Ma eravamo in poche, io, la Grazia della Fideleddha, le due Marinette, la Giorgina e la Lucia, la Nzina de lu Liri era di terza e poi la Cesarina de la Tomena. Di ballatrici c’erano di prima, di seconda, e di terza categoria e anche di quarta. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Perustizza, Zagovina, Santujaca. D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove venivano? R.: All’inizio prima che cominciassi io a lavorare, c’erano cinque o sei 175 donne del Casello di Galugnano, una certa Chicchina, e non tornavano a casa a, mangiare ma mangiavano qui in fabbrica perché non avrebbero fatto in tempo a tornare. D.: C’era qualche mensa? R.: No, ti dovevi portare tu da mangiare, con una menza bevevamo cento persone. D.: Si poteva cantare? R.: No, nessuno doveva parlare, se entrava la mescia era silenzio assoluto, si raccontavano storie, si recitava il rosario, durante il periodo dei morti, e durante la settima santa, e il primo venerdì di ogni mese una signora recitava trentatrè credi, con un po’ di strofetta e allora si lavorava in pieno. D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie? R.: I padroni le mettevano in prova, una volta la Marina de lu Scarcione, faceva la mescia da Don Antonio, poi il marito ha avuto un posto di lavoro fuori e se n’è andata, allora non sapevano chi mettere per mescia, e Don Antonio scelse la Nzina de lu Squizzari de lu Novellu. Entrarono nella fabbrica il padrone e la Nzina e Don Antonio ci disse: ragazze da oggi in avanti la mescia è la Nzina, allora si è alzata l’Angiulina e chiese a Don Antonio di parlargli in privato, e andarono nelle stanze dietro. Quando uscirono Don Antonio ci disse: ragazze ho sbagliato la mescia non è la Nzina ma l’Angiulina. D.: Ma perché ha cambiato idea? R.: Ha cambiato, “lu lisciau nu picca e cangiau”. Ma poi ce n’erano delle altre che facevano da sottomescie, la Nzina Zoppa, la Ndata de lu Citri. D.: Venivano messi i contributi? R.: Sì. D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate? R.: Un grembiule. D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica? R.: No, venivano solo quando c’era da consegnare il tabacco nelle casse per aiutare le donne. D.: Veniva fatto l’appello? Da chi? R.: Si da Giorgino Seddhone. D.: Quale lingua usavate per comunicare? R.: Griko. D.: Perché venne chiusa la fabbrica? 176 R.: No, non mi ricordo l’anno, solo che si diceva che doveva venire quello che avrebbe chiuso la fabbrica. D.: Si ricorda di qualche sciopero? R.: Si una volta, per avere l’aumento della paga. Abbiamo chiuso il portone e ci siamo prese per mano, tutte quante strette e abbiamo girato tutto il paese, tutto in un giorno e non ci hanno dato neanche l’aumento. Comandavano i padroni, non c’erano i sindacati per aiutarci. Non ricordo in che anno, mi ricordo che c’erano le Tomene in prima fila. D.: Ti stancava la giornata lavorativa? R.: Si certo. Carica le balle di venti-trenta chili tutto il giorno e dovevi salire la scala del comune, lì ho lavorato per due o tre anni, e c’era la Lucia della Speranza che era al mescia. Sali lì sopra con le casse piene di tabacco, quattro di noi due davanti e due dietro e salivamo sul Comune e poi scendevamo le balle vuote per fare i dischi. Quella era di Don Angiolino Ancora sul Comune. 177 Intervista a Cleonice Spagna Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008; Nome e cognome dell’intervistata: Cleonice Spagna; Data di nascita: 26/10/21; Luogo di nascita: Sternatia; Residenza: via Giorgio Orlandi, Sternatia; Professione: Tabacchina, pensionata; Emigrata: no. Intervista di Luigina Mastrolia. D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina? R.: Quando avevo quattordici anni, nel 1936 o ’37. D.: Per quanto tempo? R.: Non me lo ricordo, ho cominciato da signorina, ma poi non sono andata più quando ho avuto i figli.. D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare? R.: Alle sette ti dovevi trovare lì, alle dodici uscivi per mangiare, rientravi alle tredici e poi uscivi alle quindici e trenta. D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia? R.: C’era Rossi, Specchia, convento, la stazione. D.: In quale fabbrica ha lavorato? R.: Al Castello . D.: Chi erano i datori di lavoro? R.: Don Angiolino Ancora e Donna Giuseppina Rossi. D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica? R.: Tante più di una cinquantina. D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano? R.: Se dovevi andare al bagno si, ma non potevi fare pause, dovevi lavorare sempre. D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica? R.: Spianatrice. 178 D.: Quante mansioni erano previste in fabbrica? R.: C’erano le ballatrici, spianatrici, e cernitrici. D.: Chi affidava le mansioni in fabbrica? R.: La mescia Emma. D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica? R.: Fino a che c’era lavoro, finivamo a marzo, aprile, e si cominciava a novembre. D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? R.: Perustizza, Zagovina, Santujaca con le foglie piccole e appuntite. D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove venivano? R.: No, si diceva… ma chissà quando. D.: Perché c’erano le sbarre alle finestre? R.: Ma, non ricordo. D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera? R.: Due lire e mezzo tre. D.: Venivano messi i contributi? R.: Sì. D.: Si ricorda di qualche sciopero? R.: No, non me lo ricordo. D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie? R.: Le sceglieva il padrone. D.: Com’era il rapporto con le mescie? R.: C’erano di tutte le persone, erano brave, se parlavi ti sgridavano, ti misuravano le nzerte. Non ti potevi portare il pane in fabbrica perché dicevano che perdevi tempo a mangiare, però lo portavamo lo stesso, lo nascondevamo sotto il grembiule. D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate? R.: Un grembiule. D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica? R.: No, solo la guardia Ciccio, e Giorgino per pagarci per controllare le presenze. D.: Si poteva cantare? R.: Sì poco, si diceva il rosario, le preghiere, c’era la Consilia, la Maria Rosa, la Uccia Minerva, la Grazia della Fideleddha. D.: Quale lingua usavate per comunicare? R.: Griko, dialetto dipende. 179 D.: Ti ricordi se esisteva un asilo nido? R.: No, i miei figli li teneva mio marito quando era a casa, o mia sorella o ti arrangiavi… C’era solo una mensa per chi allattava, e la Nicoletta de lu Scordari che cucinava, e stava vicino la macelleria de lu Rubini, e quando eravamo incinte di sei mesi ci licenziavano. 180 Un sindaco Conchiglia, la Turupìnta in fiamme e quel giorno che piovve locuste... Gianni De Santis Quel vento sottile e penetrante ti spezzava le ossa! Faceva buio presto, quelle sere d’autunno. Fra le strade del centro storico non si incontrava già nessuno. Dai vetri delle case filtrava la luce fioca delle lampadine accese e da ogni porta chiusa spifferavano voci e rumori soffusi, odori e tepori di un’intimità quasi sacrale. Il centro storico di Sternatia è una grande croce distesa fra le case e le corti di calce, racchiusa in un perimetro delimitato da stradine strette e pregne di storia. Al centro della grande croce, dove si fondono via Santo Stefano e via Platea, proprio dove si erge il maestoso campanile della bella chiesa intitolata alla Madonna dell’Assunta, c’è sempre vento (… che noi da bambini, in quel punto, chiudevamo gli occhi e aprivamo le braccia immaginando di volare!...): quello era anche il punto più freddo e il più difficile da attraversare; allora si affrettava il passo e dopo aver lasciato un brivido al vento, in pochi secondi si era sotto Porta Filìa. Da lì poi, io correvo a perdifiato verso casa, evitando di guardare le campagne buie piene di fantasmi seduti sugli orli delle cisterne: “Se sìrnone i crokki…!”, ci dicevano i più anziani, per non farci avvicinare a quei baratri dalle pance colme d’acqua. In prossimità di San Martino, come ogni anno, mia madre aveva già ripreso a lavorare alla manifattura del tabacco. Quello era un periodo particolare per le famiglie di Sternatia e per noi bambini, che dovevamo arrangiarci da soli per molte cose, perché le nostre madri, per tutta la mattina fino alle quattro del pomeriggio erano assenti. Però era anche bello, perché si respirava un clima diverso. Ricordo che mia madre era sempre di buon umore, quando tornava dalla fabbrica con l’odore amaro di tabacco impregnato nei vestiti e nell’alito, nonostante il gran da fare e il poco tempo che le rimaneva per le faccende di casa e per accudire cinque, sei di noi nati a poca distanza l’uno dall’altro. In effetti, dalle testimonianze raccolte fra le ex tabacchine intervistate, 181 si evince che al di là del sacrificio che dovevano sopportare durante il periodo della fabbrica, le nostre donne ricordano con una certa nostalgia quel periodo . Il fatto di trovarsi a dover combattere insieme per i diritti di lavoratrici e madri, di donne del sud spesso sole coi propri figli perché i mariti erano costretti a emigrare, favoriva la loro emancipazione e accresceva la presa di coscienza della forza che poteva scaturire da questa coesione. Le tabacchine, queste donne straordinarie, come le mondine al nord, hanno saputo difendere i propri diritti e i diritti delle proprie famiglie: fiere, senza mezzi termini e con gli sguardi dritti in faccia alla maestra o al padrone, hanno saputo raggiungere importanti obiettivi sindacali, senza mai esagerare, senza trascendere, col sorriso sulle labbra di rossetto e l’ironia che ha sempre distinto le donne salentine: “Lu sangu vile vile! La sciurnàta de tre lire!...”, un piede sulla soglia dell’opificio e uno fuori sul marciapiedi, per significare che lo sciopero è fortemente motivato e idealizzato ma il posto di lavoro non lo si abbandonava: “…viva la lega, abbasso la società!...”, dove “lega” stava per sindacato. La “società” era la proprietà, compresa la “maestra”, e il guardiano, che la mattina apriva la fabbrica. Gli stessi coi quali poi, a fine anno, verso maggio, si festeggiava, si cantava e si scherzava per salutarsi e darsi appuntamento al prossimo autunno. Abbiamo ascoltato con grande interesse e con un pizzico di commozione le nostre madri, le zie, le nunne che tutti conosciamo, dalla più anziana: la zia Grazia Simeone, un monumento alla vita (classe 1909, cento anni il 25 giugno!), alla più giovane: Lucia Marti, che ci ricorda che la festa di San Luigi era finanziata dalle tabacchine. Abbiamo ascoltato la Costantina; chiacchierando è venuta fuori la storia del bombardamento della “Turupìnta”: – Era il due luglio del ’43- , ci dice: –…Pasqua era venuta alta, quell’anno, e quel giorno si festeggiava il Sacro Cuore di Gesù. Noi eravamo in giro per le varie cappelle con i cuori di pezza appuntati sul petto… poi dei tuoni lontani, via via sempre più forti, come se qualcuno stesse pensando di onorare nostro Signore coi fuochi. Alla sirena che annunciava il disastro seguirono pianti e grida di paura e di sconforto da parte 182 di tutti i cittadini, e un fuggi fuggi generale verso i più disparati nascondigli: chi sotto il trappeto, chi in campagna, chi nelle chiese e nelle cappelle. Il bombardamento durò tutta la notte, finché l’aeroporto non fù raso al suolo…– Costantina ci racconta anche di quel giorno quando piovve locuste… si si, avete capito bene! Era l’estate del 1948, e io del suo racconto ne ho voluto fare una poesia che più avanti troverete. Zia Grazia invece ci stupisce, ci lascia senza fiato per la sua lucidità. Le tengo le mani per tutta la durata dell’intervista: lei è la zia preferita di mia madre, mi parlava sempre di lei e di zio Gaetano, fratello della nonna Loredana. Zia Grazia ha una memoria eccezionale! Si ricorda tutte le date di nascita dei suoi figli. Non ci sente tanto bene e bisogna alzare la voce, per farsi capire; per il resto è strabiliante. Lei è anche pro-zia di Desiré, sorella di sua nonna l’Angiolina. Con noi c’è anche Maria Lucia Conte, che se la cava piuttosto bene col griko, malgrado la sua giovane età. Quando andiamo via lo facciamo con fatica; non vogliamo insistere troppo per non farla stancare ma zia Grazia è un fiume in piena. Ci parla della Conchiglia, di quella bella signora del sindacato: – Volevano farla sindaco…ma ci pensi? Una conchiglia per sindaco!... Si, si; ci informava sui nostri diritti…ma io…– dice: –…non partecipavo agli scioperi, perché erano le più giovani a protestare per farsi assumere anche se non avevano ancora quattordici anni…–. Ancora un bacio: – Salutami la mamma… – – Sarà servita… si dice così?... – domando, cercando con lo sguardo il consenso di una delle sue figlie presenti. Poi le lascio la mano: – Hai visto quante rughe sulla pelle? – mi dice, come se si volesse scusare… Usciamo. Ci guardiamo in faccia tutti e tre, io e le mie due giovani compagne, abbiamo l’espressione felice che ci ha lasciato l’incontro con la persona più anziana del paese. Si va da Lucia. Poi di fronte al Municipio, a casa di Costantina: – Guarda un po’ cosa ci ha raccontato! Ma tu ci credi? Una pioggia di locuste! – Si dai; merita di essere ricordata da una poesia, quella giornata… 183 I mera pu evrezze zzuzzuviu Iche cerò pu mènamo na stàson ta nnerà en èvreche, Maddònna-mu, a’tto sarantattà! Ivò ìmon kiaterèddha ce cànnamo puntina mes àddhes àtta isa-mu s’in mescia Cuccettìna. Ipiànni, mian imèra, ste’ p’ìpia s’o ciampì: torò mavvron ajèra, san nitta scotinì, i cataratte anìstisa: “ ivrèchi zzuzzuvìu!..” ipa fonè; ce o ciùri-mu, ap’èssu: “Citta, piu!...”. “…Umme Tata, canòscion, ègga ittumbrò me mena, ine mia quantitàta p’en ècho mai domèna!...” igghìcan oli ap’èssu-mu…(ett’allimonò mai! )… o ciùri-mu angotànise…ttechò (refrisconnài!). pan rìmma vrùculu èpette apànu s’o spermèno rucànize pan chorto, pan prama ìpie chamèno! Echo st’ennù tin nanna-mu pu azzìccose na clazzi, ce ancàrize: “ zzichòrison Teè-mmu, min me sfàzzi!...” Ce pale o Tata: “ Citta, sin de se sfazo ivò!...” Ce cini: “Scanzallìbera, ti diàvalon cerò!...” Ja mere mas culùtise so cardo tu castìu: tis ìsoze ammantèzzi ti vrèchi zzuzzuvìu?!! Poi o As Vicenzi (*) isìsti ce varti cino amèsa, mas ècame tin chàri, ce mìnano ciumèsa mian pitamìn carfìa ce zzuzzuvìu mian pìchi, sia ti ècame calàzzi ce pian ghiomàti i tichi ! Pu tota en ìta plèo nan prama itu stravò: anàtti o ìjo o vrèchi, ce an vrèzzi ene nnerò! Sìmmeri en to pistèi, su fènotte stiammèna ‘tta pràmata palèa pu vò ècho javommèna. Forè, motte cuntèo ambrò sus anizzìu, mu lèone: “Ma pos ècanne na vrèzzi zzuzzuvìu?!!”. (*) As Vicenzi, si riferisce al Beato Vincenzo Maria Morelli, morto e venerato a Sternatia. 184 Il giorno che piovve locuste Era da tempo che aspettavamo l’acqua… Non pioveva, Madonna mia, dal quarantasette! Io ero ragazzina e si ricamava Con le altre della mia età, dalla maestra Concettina. Un giorno mentre andavo alla latrina in giardino vidi annerire il cielo come una notte oscura! Si aprirono le cataratte: “Piovono locuste…”, dissi gridando. Rispose mio padre da casa: “Zitta, credulona!...” “…si papà, guarda, vieni fuori con me, sono una quantità mai vista! “ Uscirono tutti da casa…(non potrò mai dimenticarlo!) …mio padre s’inginocchiò, poverino…(riposi in pace)… Ogni sciame di insetti che cadeva sul seminato rosicchiava tutto e il raccolto andava perduto! Ricordo che mia nonna cominciò a piangere e ragliava: “Perdono mio Dio, non mi uccidere!...” e di nuovo mio padre: “Zitta, se no ti ammazzo io!...” e lei: “ Scansa e libera, che diavolo di tempo!...” Per giorni continuò quel castigo di tempo, chi poteva mai prevedere una pioggia di locuste?!! Poi si mosse San Vincenzo e volle intercedere per noi, ci fece la grazia e a terra rimasero un palmo di ciarpame e un braccio di locuste come se avesse fatto grandine e se ne fossero riempiti i muri! Da allora non mi è più capitato di vedere una cosa tanto strana, risplende il sole o piove, e se piove è acqua pura! Oggi non ci crederesti, ti sembrano invenzioni queste cose antiche che io ho vissuto. A volte, quando le racconto di fronte ai miei nipoti mi dicono: “Ma com’è possibile che piovve locuste?!!”. 185 Appendice 186 Elezioni Comunali del 27/10/1946 ELETTORI 1368; VOTANTI 1099. SINDACO: WILSON MOSCHETTINI ELETTI COGNOME NOME VOTI 1 MOSCHETTINI WILSON 573 2 GRECO GIORGIO 570 3 MASTROLIA LEONARDO A. 569 4 CHIRIACÒ VINCENZO 567 5 MASTROLIA DOMENICO 566 6 DE SANTIS VINCENZO 565 7 TARANTINO ANTONIO 565 8 MARTI PANTALEO 563 9 SPECCHIA OTTORINO 560 10 MARTI FIORENTINO 559 11 MARTINA GIORGIO 557 12 ANCORA ANGELO R. 542 13 CERBINO GIORGIO 499 14 CONTE ROCCO 377 15 LEZZI VINCENZO 374 NOME LISTA: ELMO E ARATRO COGNOME NOME VOTI 1 MOSCHETTINI WILSON 573 2 GRECO GIORGIO 570 3 MASTROLIA LEONARDO A. 569 4 CHIRIACÒ VINCENZO 567 5 MASTROLIA DOMENICO 566 6 DE SANTIS VINCENZO 565 7 TARANTINO ANTONIO 565 8 MARTI PANTALEO 563 9 SPECCHIA OTTORINO 560 10 MARTI FIORENTINO 559 11 MARTINA GIORGIO 557 12 ANCORA ANGELO R. 542 13 CERBINO GIORGIO 499 14 CONTE ROCCO 377 15 LEZZI VINCENZO 374 NOME LISTA: OROLOGIO COGNOME NOME VOTI 1 MOSCHETTINI WILSON 573 2 GRECO GIORGIO 570 3 MASTROLIA LEONARDO A. 569 4 CHIRIACÒ VINCENZO 567 5 MASTROLIA DOMENICO 566 6 DE SANTIS VINCENZO 565 7 TARANTINO ANTONIO 565 8 MARTI PANTALEO 563 9 SPECCHIA OTTORINO 560 10 MARTI FIORENTINO 559 11 MARTINA GIORGIO 557 12 ANCORA ANGELO R. 542 13 CERBINO GIORGIO 499 14 CONTE ROCCO 377 15 LEZZI VINCENZO 374 Elezioni Comunali del 10/06/1951 ELETTORI 1527; VOTANTI 1430. SINDACO: WILSON MOSCHETTINI ELETTI COGNOME NOME VOTI 1 GEMMA PAOLO 645 2 SPECCHIA ANGELO 644 3 MASTROLIA GIUSEPPE 642 4 GRECO GIORGIO 641 5 LEZZI ANGELO 639 6 SCORDARI FERRUCCIO 638 7 MOSCHETTINI WILSON 638 8 MONTINARO TOMMASO 636 9 VILLANI GIORGIO R. 635 10 GRASSO ANTONIO 634 11 CHIRIACÒ DONATO 631 12 VILLANI GIORGIO R. 630 13 SPAGNA VINCENZO 629 14 PELLEGRINO GIUSEPPE 627 15 DE BENE MEDICO 617 LISTA 1; Voti lista 604 COGNOME NOME VOTI 1 CONCHIGLIA CRISTINA 615 2 RIZZO GAETANO 615 3 DE BENE MEDICO 617 4 GEMMA ROCCO 613 5 VILLANI GIORGIO 616 6 VILLANI SANTO 613 7 MEGHA SALVATORE 617 8 VILLANI GIORGIO R. 635 9 SPAGNA VINCENZO 629 10 REALE GIORGIO G. 616 11 GIANNUZZI GIUSEPPE T. 616 12 PELLEGRINO GIUSEPPE 627 LISTA 2; Voti lista 559 COGNOME NOME VOTI 1 MOSCHETTINI WILSON 638 2 SPECCHIA ANGELO 644 3 GRECO GIORGIO 641 4 DE FRANCISCIS PANTALEO 615 5 MASTROLIA GIUSEPPE 642 6 SCORDARI FERRUCCIO 638 7 GEMMA PAOLO 645 8 LEZZI ANGELO 639 9 MONTINARO TOMMASO 636 10 VILLANI GIORGIO ROCCO 630 11 CHIRIACÒ DONATO 631 12 GRASSO ANTONIO 634 Elezioni Comunali del 27/05/1956 ELETTORI 1562; VOTANTI 1433. SINDACO: ANTONIO DELL’ANNA sino al 08/09/1957 GIOVANNI CHIGA dal 09/09/1957 ELETTI COGNOME NOME VOTI 1 TARANTINO GIOVANNI 593 2 GEMMA PAOLO 591 3 CHIGA GIOVANNI 590 4 DELL'ANNA ANTONIO 590 5 MASTROLIA ANTONIO 590 6 SPAGNA PANTALEO 585 7 TARANTINO SALVATORE 585 8 LONGO GIUSEPPE 582 9 DE SANTIS VITTORIO 577 10 GRASSO GIUSEPPE 577 11 BORRISI COSIMO 569 12 MARTI ROSARIO 565 13 MATTEO GIUSEPPE 464 14 GRASSO ANTONIO 462 15 GEMMA ROCCO 456 LISTA 1 COGNOME NOME VOTI 1 BORRISI COSIMO 569 2 CHIGA GIOVANNI 590 3 DELL'ANNA ANTONIO 590 4 DE SANTIS VITTORIO 577 5 GEMMA PAOLO 591 6 GRASSO GIUSEPPE 577 7 LONGO GIUSEPPE 582 8 MARTI ROSARIO 565 9 MASTROLIA ANTONIO 590 10 SPAGNA PANTALEO 585 11 TARANTINO GIOVANNI 593 12 TARANTINO SALVATORE 585 LISTA 2 COGNOME NOME VOTI 1 CALDARARO GIORGIO 286 2 CERBINO DONATO 281 3 CHIRIACÒ VINCENZO 328 4 DE SANTIS VINCENZO 297 5 FILONI VINCENZO 298 6 LEONE ORONZO 308 7 LEZZI ROMOLO 306 8 MARTI PANTALEO 294 9 MARTINA COSIMO 324 10 MARTINA GIORGIO 328 11 PELLEGRINO VINCENZO 309 12 SPECCHIA SALVATORE 326 LISTA 3 COGNOME NOME VOTI 1 POSO PASQUALE 445 2 DE BENE MEDICO 436 3 GEMMA ROCCO 456 4 VILLANI SANTO 449 5 MATTEO GIUSEPPE 464 6 GEMMA FRANCESCO 450 7 MEGHA SALVATORE 442 8 VERDOSCIA VITO 436 9 LEONE VINCENZO 452 10 MARTI PANTALEO 438 11 GRASSO ANTONIO 462 12 CONZI ARMANDO 447 Elezioni Comunali del 05/11/1960 ELETTORI 1638; VOTANTI 1457. SINDACO: GIOVANNI CHIGA ELETTI COGNOME NOME VOTI 1 CHIGA GIOVANNI 786 2 GEMMA PAOLO 763 3 SPECCHIA SALVATORE 759 4 SPECCHIA VINCENZO 753 5 GRASSO GIUSEPPE 750 6 SPAGNA PANTALEO 750 7 MARTI ROSARIO 749 8 MANERA ANTONIO 746 9 TARANTINO SALVATORE 741 10 BORRISI COSIMO 741 11 MASTROLIA ANTONIO 739 12 VILLANI GIUSEPPE 736 13 CONTE ANGELO 444 14 GEMMA ROCCO 420 15 MARTINA AGOSTINO 411 LISTA 1 COGNOME NOME VOTI 1 CHIGA GIOVANNI 786 2 GEMMA PAOLO 763 3 SPECCHIA SALVATORE 759 4 SPECCHIA VINCENZO 753 5 GRASSO GIUSEPPE 750 6 SPAGNA PANTALEO 750 7 MARTI ROSARIO 749 8 MANERA ANTONIO 746 9 TARANTINO SALVATORE 741 10 BORRISI COSIMO 741 11 MASTROLIA ANTONIO 739 12 VILLANI GIUSEPPE 736 LISTA 2 COGNOME NOME VOTI 1 CONTE ANGELO 444 2 GEMMA ROCCO 420 3 MARTINA AGOSTINO 411 4 LEONE VINCENZO 408 5 MATTEO GIUSEPPE 400 6 TARANTINO ORAZIO 392 7 MATTEO GIORGIO 385 8 SIMEONE VINCENZO 385 9 VILLANI GIORGIO 380 10 PELLEGRINO ANTONIO 380 11 FILONI ANTONIO 377 12 DE SANTIS VITTORIO 353 LISTA 3 NOME COGNOME VOTI 1 MOSCHETTINI WILSON 279 2 DELL'ANNA ANTONIO 262 3 LEZZI MICHELE 249 4 LEZZI VINCENZO 242 5 CONTE ORONZO 241 6 DE FRANCISCIS PANTALEO 236 7 PELLEGRINO VINCENZO 231 8 TARANTINO VITO 227 9 VILLANI VINCENZO 224 10 ROSSI BERARDUCCI VIVES GIUSEPPINA 222 11 LINCIANO LUIGI 220 12 VILLANI GIUSEPPE 213 Matrimoni dal 1945 al 1960 ANNO NUMERO MATRIMONI 1945 21 1946 22 1947 31 1948 38 1949 22 1950 15 1951 27 1952 20 1953 21 1954 25 1955 27 1956 24 1957 27 1958 26 1959 35 1960 19 Nascite dal 1945 al 1960 ANNO NUMERO NATI NATI ALTROVE 1945 55 2 1946 65 3 1947 63 1 1948 88 1 1949 63 5 1950 66 1951 62 1952 45 1953 74 1954 58 1955 69 1956 56 1957 60 1958 62 1959 49 1960 65 2 Morti dal 1945 al 1960 ANNO NUMERO MORTI 1945 45 1946 25 1947 43 1948 31 1949 21 1950 35 1951 38 1952 26 1953 23 1954 27 1955 26 1956 36 1957 26 1958 21 1959 19 1960 24 I zoì-mmu Possa echo javommèna is tuttìn zoì ca en ta echo pomèna mais is tinò, Itu I zoìmmu icatalìsti Afinnonta-mmu tin cardìa poddhìn prikì. Ton foriamo motte tu trèmagghe o lemò ce molle “amo apu ‘ttù en se telo plèo”, ma ivò èmbenna me ola ta pòtìmmata n’u po’ ca ivò cino manechà agapò. Manechà isù me sozi anoìsi motte me tòrigghe mon pròsepo pricò, ti mancu tota ìsoza jelàsi jatì canèn prama ìpie stravò. Ahi! Pos èrcamo allimonimmèni ivò ca ìtela panta jeno ambrò ‘ssemèna, s’an kiàmta zzerì èrcamo ambeiammèni sia tin en iche àddhin chiru pìri ‘mèna. Min ise pricò motte en m’echi plèo ivò ime cherùmeti ca to èmena già, anzi poddhin cerò ei javommèna ca azze tuo charìzo ton Cristò. Puru so campusantu manechìmmu ‘steo ca tispo èrkete na me vriki cammiàn forà na min kitèzzi min echi pensièri na me cunsulèzzi èekete o Teò. An icammìan forà torì canèn jermàno ampoggiàto apà’ ‘nan fiddho chlorò, pensa ‘ssemmèna ca ivò istèo icisumà ce ti puru attòn àddhon cosmo s’agapò. La mia vita Quanto ho sofferto in questa vita e non mi sono mai sfogata con nessuno, così la mia gioventù è finita lasciandomi nel petto un cuore duro. Pendevo dalle sue labbra un po’ pesanti quando mi diceva, (… ormai è finita), ma io lottavo per andare avanti perché lui era l’uomo della mia vita. Forse soltanto tu mi potevi capire quando triste vedevi il mio volto, ma neanche allora potevo gioire perché qualche cosa andava storto. Ahi! Come sono stata trascurata io che volevo gente a me vicino, come una pianta secca ero trattata come se non fossi niente nella vita. Non essere triste per la mia dipartita io son felice perché me l’aspettavo, anzi credevo che mi succedesse prima e di questo ringrazio il Signore. Anche sola starò nel cimitero perché nessuno mi verrà a trovare, ma non ti preoccupare, non darti pensiero perché c’è il buon Dio che mi viene a consolare. Se qualche volta vedi un passerottino per caso posarsi sopra un verde ramo, ricordati che io sono lì vicino e anche dall’aldilà per sempre ti amo. Carmela De Santis. Sternatia, luglio 2008. (Traduzione di Giglio Pellegrino). Ringraziamenti Lucia Caldararo, Nicoletta Centone, Maria Iolanda Chiriacò, Pantalea Chiriacò, Eleonora Conte, Carmela De Santis, Rosaria Frantelli, Angela Grasso, Costantina Grasso, Maria Italia Grasso, Mariangela Linciano, Loreta Leo, Concetta Maggiore, Lucia Marti, Margherita Marti, Costantina Matteo, Iolanda Mastrolia, Vita Mastrolia, Maria Teresa Migliore, Leonarda Giuseppa Pellegrino, Clelia Giuseppa Reale, Annamaria Scarpa, Maria Scordari, Angela Simeone, Grazia Simeone, Cleonice Spagna, Giuseppe Spagna; Grazia Spagna, Orazio Tarantino, Raffaella Tarantino, Addolorata Vergine, Vincenza Antonia Villani. Rita Greco, Augusto Linciano; Arnaldo Macchitelli, Giovanni Manera. Centro Studi Chora-ma, Università del Salento. Stampato presso Arti Grafiche Panico – Galatina (Le) 2009