La storia costruita
Storie di tabacchine grike
a Sternatia nel Dopoguerra
a cura di
Gianni De Santis • Giorgio Vincenzo Filieri • Eugenio Imbriani
Introduzione di
Patrizia Villani
Ricerca di:
Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Daniela Gemma,
Mariangela Giannuzzi, Antonella Marti, Luigina Mastrolia
Edizioni Kurumuny
Sede legale
Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)
Sede operativa
Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)
Tel. e Fax 0832.801577
www.kurumuny.it • [email protected]
ISBN 978-88-95161-32-7
In copertina foto di Centro Studi Chora-ma.
In quarta foto di Arnaldo Macchitelli.
Progetto CUIS.
“Per la documentazione della memoria orale di una comunità griko-salentina”.
© Edizioni Kurumuny – 2009
Indice
9
Introduzione
Patrizia Villani
11
Il tabacco griko.
La lavorazione del tabacco
e la condizione delle tabacchine a Sternatia
Giorgio Vincenzo Filieri
24
Combinare le storie
Premessa
Tabacchine
Un archivio per le storie
Eugenio Imbriani
31
181
La ricerca
Un sindaco Conchiglia, la Turupìnta in fiamme
e quel giorno che piovve locuste...
Gianni De Santis
186
Appendice
205
Ringraziamenti
A tutte le ex tabacchine di Sternatia
che, con il loro lavoro e con grande tenacia,
hanno scritto un pezzo di storia importante
per la nostra bella Chora.
Introduzione
Patrizia Villani*
Il presente volume è stato realizzato nell’ambito del Progetto per la
documentazione della memoria orale di una comunità griko-salentina
presentato dal Comune di Sternatia di concerto con le Edizioni Kurumuny
ed in collaborazione con il Prof. Eugenio Imbriani dell’Università del Salento, Dipartimento di Scienza dei sistemi sociali e della comunicazione
finanziato dal CUIS Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino.
La storia ricostruita attraverso il ricordo delle tabacchine del nostro
paese, dirette protagoniste che mediante tanti piccoli tasselli di vita quotidiana ci raccontano le condizioni della donna in quegli anni.
A Sternatia erano presenti diverse “fabbriche di tabacco” in cui lavoravano centinaia di giovani donne, spesso mogli e madri. Le condizioni
di lavoro erano dure “si lavorava dalla sette alle dodici ore” poi una breve
pausa “ma non riuscivi neanche a mangiare se avevi figli”. Durante le
ore di lavoro non era consentito parlare o cantare altrimenti si veniva
rimproverate aspramente dalle mesce incaricate dai padroni di distribuire
il lavoro e di controllare le operaie.
La storia delle tabacchine di Sternatia è simile alla storia delle operaie
dell’industria del tabacco dell’intero Salento. Anche a Sternatia giungono
gli echi della contestazione e della lotta sindacale per l’aumento dei salari,
la rivendicazione dei diritti, la precarietà del lavoro stagionale negli opifici
dei concessionari di tabacco.
Con questa ricerca si è voluto porre l’accento sul ruolo della donna
nel lavoro agricolo e, in particolare, delle tabacchine che hanno lottato,
a partire dagli anni Trenta, non solo per un desiderio di emancipazione
ma anche per una necessità economica.
Il canto di protesta delle tabacchine, un tempo soffocato, ritorna più
intenso che mai e si fa parola, narrazione; nel segno della storia.
Generazioni diverse di donne si ritrovano e si raccontano e si ascoltano e parlano ad altre donne perché l’emancipazione femminile, non
ancora compiuta, si nutre di memoria e utopia.
9
La memoria femminile di una comunità, si racconta e trova come interlocutrici privilegiate sei giovani donne.
Antonella, Daniela, Desiré, Luigina, Mariangela, Maria Lucia, giovani
laureate, hanno raccolto e restituito alla collettività, le testimonianze di
un passato impastato di sudore, speranze, fatica, libertà, pane e dignità
La presente pubblicazione è un ulteriore contributo che questa Amministrazione ha inteso dare, nell’ambito delle politiche di genere e delle
politiche culturali, alla costruzione di una identità della comunità che si
basa sui volti e sulle storie di ciascuno: il volto giovane di sei donne laureate che hanno messo a servizio della comunità le proprie competenze
e professionalità e il volto maturo delle donne anziane di Sternatia che
hanno accettato di dare voce al passato.
Rivolgo un caloroso e sincero ringraziamento alle donne di Sternatia
che hanno accettato di raccontarsi, alle borsiste del progetto CUIS, ai coordinatori del progetto, Luigi Chiriatti, Gianni De Santis, Giorgio Filieri,
Prof. Eugenio Imbriani e a Cristina Manco Assessore alla Cultura e alle
pari opportunità del Comune di Sternatia.
Un ringraziamento particolare a Massimo Manera, già vicesindaco di
Sternatia, che ha reso possibile la realizzazione del progetto coordinandolo in prima persona con passione e dedizione.
Sternatia, 1 maggio 2009
* Sindaco di Sternatia
10
Il tabacco griko.
La lavorazione del tabacco e la condizione
delle tabacchine a Sternatia
Giorgio Vincenzo Filieri
… Nde, e’ ssòzamo milìsi makà!
Ce nde na fame ce tìpoti.
Iche na kustì manechà o rushio atse tabbàkko…
na polemìsome.
… No, non potevamo parlare affatto!
Né mangiare, né niente.
Si doveva sentire soltanto il fruscio del tabacco…
cioè lavorare.
(Dall’intervista di Clelia Giuseppa Reale)
«Ivò polèmigga si’ ffràbbika atse tabbàkko …» (“io lavoravo nella fabbrica del tabacco …”), così esordì un’anziana tabacchina mentre si accingeva a rispondermi alle domande che, alcuni anni addietro, le feci
per raccogliere documentazione orale riguardante la situazione delle operaie impiegate nelle fabbriche del tabacco.
In realtà, il verbo polemò (polemώ) che in greco salentino significa
esclusivamente «lavorare», in greco moderno, come del resto anche in
greco classico, significa “combattere”, “fare la guerra”, “lottare”. Quindi
la frase grika e neogreca «pao na polemìso» (pάw na polemίsw) in greco
salentino ha il significato di “vado a lavorare”, mentre in greco moderno
di “vado a fare la guerra”.1
1
Cfr. AA.VV. Dizionario Greco moderno – Italiano, a cura del Comitato di redazione
dello ISSBI, p. 807, Roma 1993. In greco moderno il verbo lavorare è doulέuo (leggi dulèvo), inesistente nel greco salentino.
11
Premesso ciò, possiamo affermare che, nella difficile condizione in cui si
trovavano le tabacchine, il significato di «combattere» e «lottare» sembra rendere meglio l’idea della situazione che giornalmente queste operaie dovevano affrontare «combattendo» contro il duro lavoro, appesantito dai tanti
problemi materiali; esse «lottavano» con forza e determinazione anche per
assicurare i propri diritti e ottenere un qualche miglioramento di vita.
Le caratteristiche fonetiche della frase grika introduttiva ci fanno comprendere che ci troviamo a Sternatia, anzi, per essere più precisi, ci troviamo
nella Chora Sternatia (Cώra Sternatίa),2 il centro considerato da sempre
il cuore dell’area grecofona, oggi, conosciuta come Grecìa Salentina.3
In questi ultimi decenni, Sternatia, nel contesto della Grecìa Salentina,
ha assunto il ruolo importante di paese modello e centro di riferimento,
grazie alla detenzione del primato di maggiore percentuale di parlanti
greco salentino4 e grazie anche all’impegno di istituzioni, associazioni e
singoli individui che a vari livelli hanno contribuito a portare la Chora al
centro dell’attenzione culturale.5
Sternatia è diventata terra di ricerca linguistica, antropologica ed etnomusicologica, ma, nonostante ciò, si può stranamente affermare che
pochissime sono le pubblicazioni dedicate alla storia e alla cultura di
questo paese.
Per i motivi appena esposti, questa ricerca, voluta dall’Amministrazione Comunale, ed effettuata grazie alla disponibilità delle ex tabacchine
2
Così è chiamato in alcuni vecchi atti notarili scritti in greco. I suoi abitanti la chiamano
semplicemente Chora, es. «pame si’ Chora» (“andiamo a Sternatia”).
3 Sulla denominazione dell’area grecofona del Salento vedi: G. V. Filieri, Grecìa Salentina.
Genesi di un nome improprio, in «Nuova Messapia», dicembre 2002, p. 9; vedi anche: G.
V. Filieri, Ta Chorìa Grika, ossia il vero nome dell’area greca del Salento, in «Grecìa, Ta
nea-ma», a. II, n. 03, agosto 2004, pp. 3-4.
4 Cfr. B. Spano, La grecità bizantina e i suoi riflessi geografici nell’Italia meridionale e
insulare, Pisa, 1965, pp. 162-163.
5 Sternatia, oltre ad essere stato il comune capofila dell’Unione dei Paesi della Grecìa Salentina, è sempre stato storicamente un importante paese: fu centro fortificato; divenne
quartiere generale delle truppe aragonesi che liberarono Otranto nel 1481; presso l’abbazia di san Zaccaria si copiavano codici greci; i suoi feudatari furono alcune importanti
famiglie come gli Acquaviva, i Cicala, i Granafei; nel contesto della grecità, gia nel ‘500
era citato come centro di sola lingua e rito greco.
12
di Sternatia, ci permette di scrivere un pezzo di storia importante di questo paese che, fino ad ora, è rimasto vivo solo nella memoria di tante
operaie e coltivatrici di tabacco.
Questa pubblicazione è un doveroso omaggio dedicato a tutte le ex
tabacchine e nasce dall’intento di tenere vivo il ricordo del loro grande
impegno, del loro disagio, delle loro gioie e delle loro «guerre».
Le donne di Sternatia hanno vissuto il terrore delle guerre mondiali e
con esso anche la paura di subire un bombardamento, di essere colpite
dalle schegge delle bombe; spesso hanno sentito lo spavento causato dal
suono della sirena del vicino aeroporto di Galatina.
Queste donne hanno vissuto periodi di ansia per i loro figli, mariti o
padri che erano stati chiamati a fare la guerra; alcune di loro hanno passato momenti drammatici per aver ricevuto la notizia che un loro caro
era morto combattendo per la patria.
Attraverso la lettura accurata delle interviste e dei racconti delle tabacchine, dal recupero di vecchie fotografie, documenti personali e documenti d’archivio, si vuole cercare di ricostruire una parte delle vicende
storiche locali, con l’intento di rendere noti e attuali i fatti passati.
Dai racconti si evince quanto, oggi, il mondo sia cambiato e quanto
l’impegno e la lotta delle tabacchine abbiano contribuito al miglioramento
delle condizioni di vita dell’odierna società.
Questo lavoro ha dato la possibilità alle nonne di Sternatia di assumere un ruolo diverso da quello avuto sino ad oggi nei confronti della
ricerca linguistica e antropologica. Infatti, queste signore hanno per lo
più avuto quasi sempre a che fare con ricercatori che venivano a registrare discorsi in greco salentino, canti d’amore, lamenti funebri, oppure
racconti nei quali i protagonisti erano i folletti, le streghe e gli spiriti; ora,
invece, a loro è stato chiesto di raccontare storie in cui le protagoniste
erano esse stesse, in cui era necessario parlare della loro vita, della loro
condizione di donne, dei disagi e delle lotte che hanno dovuto combattere in tempi assai duri.
Il diventare protagoniste e quindi «raccontarsi» piuttosto che «raccontare», ha rappresentato per loro una novità; dopo la titubanza del primo
impatto con l’intervistatrice, è venuta fuori la voglia di parlare, di esporre
fatti e situazioni; in certi casi si nota il timore di dire o di aver detto qualcosa di fronte a una telecamera o un registratore che potesse poi urtare
la suscettibilità di qualcuno.
13
È normale che, in tanti anni di lavoro, avendo a che fare con datori
di lavoro, mescie (maestre) e colleghe, non siano mancati i litigi e le antipatie tra le tabacchine. Il rapporto lavorativo era difficile soprattutto con
alcune mescie che, cercando di fare gli interessi del padrone, assumevano
un atteggiamento severo con le operaie.
La coltivazione del tabacco è testimoniata già nel XIX secolo.
Giacomo Arditi nella seconda metà del 1800 a proposito di Sternatia
scrive: «Gli abitanti in gran parte la fanno da agricoltori, parlano il volgare
e il greco corrotto… Nel territorio varia la qualità del sottosuolo, ma in
generale è sassoso, fertile in olio, frumento, tabacco, e altro…»6.
La coltivazione del tabacco è stata per diversi anni alla base dell’economia sternatese. Si racconta che una volta, dopo un annata andata bene,
l’anno successivo ci fu la corsa per piantare tabacco tanto che, esagerando,
si disse che qualcuno sradicò i gerani colorati che abbellivano le avlèddhe
(cortili) e i giardini e usò i vasi per piantare tabacco, oppure si diceva che
in quel anno anche il prete aveva piantato il tabacco, proprio per far capire
quanto diffusa fosse diventata la coltivazione di questa pianta.
Furono gli anni in cui diminuì la produzione di frumento e legumi e le
campagne del feudo di Sternatia sembravano un’enorme distesa verde di
piante di tabacco. L’intero paese era diventato un’enorme fabbrica in cui
tutti erano impegnati alla coltivazione e alla lavorazione di questa pianta.
Il lavoro iniziava a febbraio quando, cioè, si doveva seminare lo sporo
(la semenza) nelle arùddhe (semenzai), che dovevano essere di tanto in
tanto innaffiate e curate. A fine aprile, quando la kiantìme (le piantine
da trapiantare) era pronta, si “tiravano” gli avlàcia o surchi (solchi) con
lo nsinàri (zappa); poi venivano dapprima buttate le piantine nel solco
e in seguito piantate per mezzo di un palo (una specie di cavicchio di
legno) che serviva per fare i fori al centro del solco dove dovevano essere
messe a dimora le piantine a una distanza di 20-25 centimetri, a seconda
della varietà del tabacco.
Fatto ciò, bisognava aspettare che le piante raggiungessero la maturazione industriale, che non coincideva con quella fisiologica, per evitare
6
Cfr. G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce
1879 – 1885, pp. 573-574.
14
che una maturazione troppo avanzata producesse delle foglie più fragili
e di scarsa qualità.
Intanto oltre al lavoro di sarchiatura, non rimaneva che pregare e sperare che la siccità, la grandine o il maltempo in genere non mandassero
in fumo (e parlando di tabacco e proprio il caso di dirlo) tutto il lavoro.
Il senso del timore di perdere tutta la fatica fatta lo troviamo in qualche
strofa del canto tradizionale Fimmene, fimmene in cui si dice: «ci vu la
dice cu chiantati lu tabaccu? Lu sule è forte e ve lu sicca tuttu».
La speranza e la preghiera diventavano gli unici mezzi per avere la
forza di andare avanti, tanto che di questa situazione ne approfittavano
i cantori de lu santu Lazzaru 7 che per toccare la sensibilità dei coltivatori
di tabacco, durante le loro esibizioni canore nel periodo della settimana
santa, a un certo punto intonavano questa strofa: «nui pregàmu santu
Marcu cu vascia bonu lu tabbaccu»; lo stesso facevano a capodanno i
cantori della strina 8 che, con il loro canto, benedivano i campi e auguravano buoni raccolti, ma nel momento in cui i massai e i contadini non
offrivano una buona offerta, i cantori trasformavano le benedizioni in invettive e maledizioni.
Quando le foglie del tabacco arrivavano a maturazione iniziava la raccolta. Si facevano in tutto quattro ccote (raccolte) dette: fronzùna, terza
ccota, seconda ccota e prima ccota.
Le foglie appena raccolte erano trasportate per essere infilate per
mezzo delle akucèddhe (grossi aghi di circa trenta centimetri) nei resistenti fili di spago, formando così le nserte (filze); queste ultime erano
appese ai tiraletti (telai di forma rettangolare) per l’essiccazione al sole.
Ogni tiraletto poteva contenere venti nserte.
Le nserte sistemate nei tiraletti il primo giorno dovevano stare al sole, il
secondo all’ombra e poi sempre al sole, per ottenere una buona colorazione.
Sternatia diventava un tappeto di tiraletti pieni di tabacco sistemati
sui marciapiedi, nelle strade più larghe e persino in piazza. Sicuramente
anche i più giovani possono ancora ricordare quando Piazza Castello
sino a una trentina di anni addietro era piena di tiraletti che, a una certa
7
Tradizionale canto salentino del periodo pasquale.
Canto augurale di capodanno molto simile ai kàlanda che si cantano in Grecia e alle
colìnde in Romanìa e in molti altri paesi dei Balcani e del Mediterraneo.
8
15
ora della giornata, con il calare dell’ombra, dovevano essere spostati sul
lato opposto della piazza per rimanere quanto più tempo possibile al
sole; durante qualche acquazzone estivo, si vedeva il fuggi fuggi dei proprietari che si affrettavano a ritirare al coperto i tiraletti.
Il tabacco, con la sua costante presenza, entrava a far parte della vita
quotidiana della gente. Vittorio Bodini, nella poesia Cocumola, descrive
esattamente questa realtà: «… Il tabacco è a seccare, / e la vita cocumola
fra le pentole / dove donne pennute assaggiano il brodo…».
Il Bodini ci fa riflettere sul valore politico del tabacco, dai suoi versi
emerge la volontà di rifiutare l’imposizione di un potere oppressivo e ingiusto: «…Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca / sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le
febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i
denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia…».9
Il colmo era che, pur vivendo in mezzo al tabacco, la gente non lo
poteva utilizzare per fumare, era proibito a causa del monopolio di stato.
I finanzieri giravano nei paesi e nelle campagne cercando di acciuffare
qualche trasgressore che furbescamente avesse nascosto in casa o nei
muretti a secco delle campagne un po’ del proprio tabacco. Ancora oggi
è facile trovare tra le pietre dei muri di campagna qualche buatta (barattolo di rame) piena di tabacco, dimenticata dal proprio nonno.
Sono interessanti i tanti racconti conosciuti dagli anziani come quello
di un certo Jorgi (Giorgio) che pur di non accompagnare i finanzieri
presso la sua abitazione dove c’era il tabacco nascosto, mentendo, disse
loro che abitava a Martignano con la speranza di incontrare sulla strada
qualche compare sternatese e dirgli in griko, lingua estranea a quei finanzieri, di correre a Sternatia e avvertire la moglie affinché facesse sparire il tabacco da casa. Purtroppo Jorgi non avendo incontrato nessuno,
dopo aver girato inutilmente tutte le strade di Martignano, si vide costretto a dire la verità, meritandosi una salatissima multa.
Il fratello di Jorgi, invece, Pantaleo, un omaccione forte e con la testa
calda, avvertì i finanzieri, mentre perquisivano la sua casa, che, se avessero frugato sotto la legna sistemata in una stanzetta che stava sul terrazzo
senza trovarvi il tabacco, avrebbero poi dovuto risistemare per bene tutti
9
Versi tratti dalla poesia Xanti-Yaca.
16
quei grossi taccari (pezzi di legno) che lui con tanta fatica aveva aggiustato. I finanzieri insospettiti che proprio lì potesse esservi nascosto il tabacco, spostarono fino all’ultimo pezzo di legno e non trovando niente
fecero per scendere senza risistemare i pesanti taccari. Il maresciallo,
però, quando vide che Pantaleo, andando su tutte le furie, voleva buttare
i finanzieri dalla finestra, cercò di calmare le acque facendo risistemare
per bene tutta la legna.10
Spesso i fumatori passando davanti ai tiraletti allungavano una mano
per arraffare un po’ di tabacco che veniva all’istante sbriciolato e sistemato nell’apposita cartina per essere fumato.
Una volta che il tabacco era essiccato, si staccavano le nserte dai tiraletti e con dieci di queste si facevano i pùpuli o kiùppi che venivano appesi per la stagionatura non solo nei soffitti delle stalle o delle vecchie
stanze, ma persino nelle volte della cucina e della camera da letto, cosa
questa che può essere testimoniata sia dalla memoria della gente, che
dai tanti ganci di ferro rimasti ancora oggi sulle volte di alcune case del
centro storico di Sternatia.
Nel mese di novembre, finita la stagionatura i pupuli erano sistemati
negli sporti o casce (casse di legno) e trasportati nelle fabbriche dove venivano sistemate in attesa di essere lavorate.
A questo punto iniziava il lavoro delle tabacchine che durava circa
quattro mesi.
La maggior parte delle nostre intervistate ha iniziato a lavorare all’età
di quattordici anni, ma non sono mancate quelle che hanno affermato di
aver iniziato addirittura prima.
Diversi erano i ruoli che si potevano avere nella fabbrica, c’era la mescia (maestra) che aveva il ruolo di controllore, poi potevano esserci una
o più sottomescie e infine le operaie con il ruolo di imballatrice, cernitrice o spianatrice.
La mescia era scelta, per amicizia, parentela o simpatia, direttamente dal
datore di lavoro, per cui era portata a fare gli interessi del proprietario.
A Sternatia non mancavano gli scioperi: “si scioperava per il lavoro
duro e faticoso, per le marche che non venivano versate. Il lavoro di tabacchina era pericoloso, si andava con le mascherine in fabbrica per
10
Questi racconti sono tratti da una registrazione privata del 1997.
17
l’odore del tabacco e con un camice comune”.11
Gli scioperi erano più sentiti specialmente quando, con l’arrivo delle
macchine e della tecnologia, il lavoro diventava sempre più scarso e i
concessionari iniziavano a licenziare le operaie.
Il problema dei licenziamenti diventava sempre più complesso perché,
con il passare degli anni, la coltivazione del tabacco diminuiva drasticamente di anno in anno con la conseguente chiusura delle fabbriche.
Intorno alla coltivazione del tabacco e al lavoro delle tabacchine sono
nati tanti racconti, soprattutto ad opera di quelle donne, per così dire,
più adatte a raccontare storie vere, a inventare delle nuove e molto
spesso a fondere i fatti reali con la fantasia.
Si racconta, per esempio, che durante il periodo estivo, quando i coltivatori del tabacco dormivano in campagna erano soliti fare degli scherzi.
Si prendeva una zucca con una candela accesa all’interno, simile a quella
che si prepara per la notte di Halloween, e veniva appoggiata su un muretto a secco con il fine di spaventare un amico o qualcuno che dormiva
nelle campagne vicine. La paura dell’oscurità e i lugubri versi delle civette
diventavano complici di coloro che si divertivano a organizzare gli
scherzi. Era così che nascevano i racconti degli spiriti e dei fantasmi che
comparivano nottetempo tra i lunghi filari del tabacco.
Il tema del tabacco è presente in qualche componimento tradizionale
in lingua grika già nel XIX secolo quando, sembra, che tra i greci del Salento ci fosse il vizio di tabaccare, cioè di fiutare la polvere di tabacco
per “tenersi sempre all’erta”. Queste poesie pubblicate per la prima volta
nel 1978 e in seguito nel 1999, facevano parte di una copiosa raccolta di
componimenti e canti in griko trascritti su un “quaderno” a Corigliano
d’Otranto. Il “quaderno”, che apparteneva a un certo signor Fiorentino
di Corigliano nel 1866 fu dato da N. Marti a Vito Domenico Palumbo di
Calimera che ricopiò tutti i canti sui suoi quaderni sotto il titolo di Raccolta di poesie greche di Corigliano d’Otranto.
11
Da un’intervista.
Cfr. S. Sicuro, Itela na su pò… Canti popolari della Grecìa Salentina, Calimèra 1999,
p. 283. Crf. anche V. D. Palumbo, Canti grecanici di Corigliano D’Otranto, a cura di S.
Sicuro, Galatina, 1978, p. 122.
12
18
La poesia è riportata con il titolo Ringraziamento del Tabacco:12
Arte ivò inghìzi na se rengraziètso
jatì sìmmeri isciàletsa ton dabbàkko
ka motte chàtiza na refiskètso,
itabbàkketsa ce anoìamo strakko.
Kumandètsò-mme, a’ tteli na se dulètso,
jatì isa’ kkalò, ce ipa ti è’ ffiàkko,
Imèna fani chlorò ambrò so’ llinno,
tuo ti è’ bbrao pu su fei ton inno.
Massimamènte an ise matimèno,
ka tuo se kratènni panta i’ rresvìjio
ce ikànni filìa puru m’o jeno
motte ifènete ciso mea ijo.
Arte ancignò ce to klinno is bisbìjo.
Kumandètsò-mme, t’ivò isèna meno,
ce a teli na se dulètso finka ime io,
da-mmu addhi’ mmia pijàta t’ ìsane alìo.
Adesso mi tocca ringraziarti
perché oggi ho scialato il tabacco
e mentre sedevo per riposarmi,
ho tabaccato e mi sentivo stanco.
Comandami, se vuoi che io ti serva
perché era buono e dissi che era cattivo.
Mi sembrò verde davanti alla lucerna,
codesto è buono che ti toglie il sonno.
Massimamente se ci sei abituato,
che codesto ti tiene sempre all’erta
e fai perfino amicizia con la gente
quando appare quel grande sole.
Adesso comincio a concludere in bisbiglio.
Comandami, ché io attendo te,
E se vuoi che ti serva finché vivo,
dammene un’altra presa, ché era poco.
19
Dalla stessa fonte proviene quest’altra poesia dedicata alle caratteristiche di alcune persone e, al primo posto, spicca quella del tabaccoso
che cerca sempre di scroccare a tutti un po’ di tabacco. Il titolo è Caratteristiche varie di taluni:13
O Tabbakkùso na su piài tabbàkko,
o mèsciu Ginu na su pi to krasì,
o Kurciulùna na fortòsi to’ ssakko,
pane ja nnominàta oli ce tri.
...
Il Tabaccoso a scroccarti il tabacco,
mastro Gino a berti il vino,
Curciolone a caricare il sacco,
sono rinomati tutti e tre.
…
Il tabacco da fiuto e anche quello da fumo veniva conservato nella
tabacchiera, piccola scatoletta di metallo (ma poteva essere anche di altro
materiale), che ritroviamo in questa breve filastrocca in dialetto leccese:14
piri piri Mari Dunata,
cazza cazza la tabacchiera
e me dai na pizzicata,
piri piri Maria Dunata.
Infine, un’altra curiosità: le tabacchine di Sternatia per paura di contrarre la tubercolosi, alla quale potevano essere soggette per l’aria che si
respirava nelle fabbriche di tabacco, nominarono come loro santo patrono san Luigi Conzaga, protettore della gioventù, morto a Roma nel
1591 curando gli ammalati. Ogni due settimane, nel giorno di paga, tutte
13
14
Cfr. S. Sicuro, Itela nasu po’…, cit, p. 283.
La filastrocca è tratta da archivio privato.
20
le tabacchine versavano un obolo volontario che serviva per la festa che,
secondo il calendario liturgico cattolico, si tiene il 21 di giugno. La festa
consisteva in una celebrazione eucaristica con panegirico, la processione
che seguiva il tradizionale tragitto intra ed extra moenia; era poi assicurata la musica della banda e ovviamente non potevano mancare i fuochi
pirotecnici fabbricati dai famosi fochisti di Sternatia.
Dai racconti di alcuni anziani si evince che la stessa statua di san Luigi,
oggi sistemata in una nicchia della chiesa madre, fu fatta costruire nel
1955 dai maestri cartapestai leccesi su iniziativa di tutte le tabacchine di
Sternatia. Sempre gli anziani, dicono che, secondo la tradizione, la statua,
quando fu trasportata dalle botteghe di Lecce a Sternatia, doveva sostare
presso la prima casa che si incontrava arrivando all’ingresso del paese
per essere benedetta. Qui sorse una disputa tra il proprietario della prima
casa da una parte e il prete e il sindaco dall’altra. Questi ultimi non volevano che la statua si fermasse in quella casa perché il proprietario era
comunista e, di conseguenza, il suo colore politico non era indicato per
accogliere santi e benedizioni. Alla fine però sindaco e prete dovettero
cedere alle insistenze del proprietario di quella casa il quale, sentendo
venir meno un suo diritto proveniente dalle antiche tradizioni degli antenati e sostenendo che il partito politico nulla aveva a che fare con la
religione e la devozione ai santi, si impuntò talmente tanto da riuscire
ad averla vinta e ospitò la bellissima statua di san Luigi per la cerimonia
civile di accoglienza e religiosa di benedizione.
Sono tante ancora le storie che le nostre tabacchine potrebbero raccontare; si auspica che questo primo lavoro possa stimolare nuove ricerche che arricchiscano l’aneddotica e approfondiscano il contesto
socio-economico e le tensioni politiche e sindacali che hanno caratterizzato quel periodo.
21
Polemònta si’ ffràbbika a’tse tabbàkko
Giorgio Vincenzo Filieri
I ghinèke askònnatto so pornò
ipìane i’ ttotsu na nòsone alè,
ce prakalònta panta to’ Tteò
jurèane afitìa ja tikanè.
Poddhà pensèria vastùane so mialò,
ti si’ ffrabbika ìnghize na pane,
ce en ìchane makà poddhì’ ccero
manku tos pedàcio na dòkone na fane.
Proti ppiri na simàni i ora ittà,
ìnghize na statùne ambrò so’ pportùna,
an ‘de e tes kànnano n’àmbone makà,
me to’ llicenziamènto a’tto’ ppatrùna.
Poddhì’ llavoro iche i tabbakkìna,
polemònta ton dabbàkko me ti’ chèra,
to Santujàka ce ti’ Zagovìna,
ti Perustìtsa, j’oli tin imèra.
En ìsoze kantètsi, nde milìsi,
en ìsoze fai na’ spri tsomì,
en ìsoze pai na katùrisi,
a’tto’ llavòro en ìsoze sistì.
Na refiatètsi en iche to’ ccerò,
jatì ‘o polemìsi isa’ ppoddhì
ce manèchà to’ rrushio, to’ pprikò,
a’tton dabbàkko, iche na kustì.
Ta pedàcia pu tèlane to gala,
vizànnane si’ mmana fretta e fùria,
ce itu cina jèttisa poi mala,
me sakrifìciu a’tse ola ta kulùria.
Tuse ghinèke pu isa’ ttabbakkìne,
poddhì ipolemìsan’ si’ zoì,
ja tuo arrikordàte panta ine,
me oli ti’ kkardìa ce ti’ tsichì.
22
Lavorando nella fabbrica del tabacco
Le donne si alzavano di buon mattino,
andavano in campagna a raccogliere olive,
e pregando sempre il Buon Dio,
a lui chiedevano aiuto per ogni cosa.
Nella loro mente avevano molti pensieri,
perché poi dovevano andare in fabbrica,
e non avevano per niente molto tempo
neanche per dar da mangiare ai figli piccoli.
Ancora prima che suonassero le sette,
dovevano trovarsi davanti al portone,
altrimenti non sarebbero più potute entrare
e le avrebbe licenziate anche il padrone.
Molto lavoro faceva la tabacchina,
lavorando il tabacco con le mani:
lo Xanti-Jaca, la Zagovina
e la Peristizza, per tutto il giorno.
Non si poteva cantare, né parlare,
non si poteva mangiare un po’ di pane,
non si poteva andare in bagno,
e dal lavoro non ci si poteva spostare.
Non c’era tempo neanche per respirare,
perché il lavoro era tanto duro,
ma si doveva sentire soltanto
l’amaro fruscio del tabacco.
I bambini che avevano bisogno del latte
ciucciavano alla mamma in fretta e furia,
e così questi sono cresciuti,
tra i sacrifici di diversa entità.
Tutte queste donne, ex tabacchine,
hanno lavorato tanto nella loro vita,
per questo saranno sempre ricordate
con tutto il nostro cuore e con tutta l’anima.
23
Combinare le storie
Eugenio Imbriani
1. Premessa
Per mesi aleggiava nell’aria l’odore del tabacco, che diventava tenue
nei luoghi più lontani dagli opifici, “le fabbriche”, ma si avvertiva forte
se le operaie tabacchine, in pratica tutte le donne abili del paese, ad eccezione di sarte, ricamatrici, filatrici, ti passavano accanto, specialmente
al ritorno dal lavoro. Non dico che fosse un profumo, ma non era il più
sgradevole tra gli odori che si diffondevano e si mescolavano nei mesi
invernali: fumo, carbonella, i forni la mattina, zaffate di sentina dai frantoi
sul permanente e più soffuso sentore della sansa, il letame, gli animali
domestici allevati nei piccoli cortili e nelle stalle, nel bel mezzo dell’abitato. D’estate la coltivazione, la raccolta, l’essiccazione del tabacco si svolgono all’aperto, la sua lavorazione iniziale non costringono foglie, balle
e persone, a tonnellate e a centinaia in un durevole abbraccio in ambienti
chiusi, sebbene ampi.
Mi riferisco a un periodo che copre l’ultima parte degli anni ’60 e il
decennio successivo e a un’esperienza comune a quanti vivevano in un
minuscolo paese della provincia di Lecce; mi fa una qualche impressione
riscoprirmi testimone. Posso anche aggiungere che indispensabile elemento della mia formazione è stato l’essermi trovato, nei primissimi anni
’80, tra novembre e gennaio, subito dopo la laurea (in filosofia) a lavorare
in Abruzzo per conto di una ditta che acquistava tabacco dai coltivatori;
facevo l’aiuto ragioniere, figurarsi. Stavamo tutto il giorno, in un capannone tra le colline, da quando albeggiava, a valutare (c’era il perito agrario, ovviamente), pesare, pagare il tabacco e caricarlo sui camion, ma
l’impresa più ardua era far quadrare i conti la sera; imparai solo allora a
conoscere le varietà del tabacco levantino, distinguibili per le dimensioni
delle foglie e per altre caratteristiche che mi sono restate misteriose, e a
conoscerne i rispettivi nomi (perustitza, erzegovina, xanthi, soluk) non
alterati dalle innumerevoli forme verbali con cui sono indicate dai con24
tadini, di cui, tra l’altro, le interviste che seguono forniscono numerosi
esempi.
2. Tabacchine
L’intera produzione del tabacco orientale nella Puglia meridionale assume la sua massima espansione negli anni del fascismo, durante i quali
si moltiplica il numero delle concessioni; si trasforma, in qualche misura,
il paesaggio agrario locale, e tuttavia permangono aree poco o mal coltivate, zone macchiose e acquitrinose.
Il clima e la qualità del terreno consentivano l’introduzione e la coltivazione con successo delle varietà di tabacco diffuse sull’altra sponda
dell’Adriatico, che conservavano nei nomi la testimonianza della loro provenienza. Il massiccio impiego di manodopera stagionale femminile consentirà la costituzione di un corpo di lavoratrici molto solidale e coeso;
subito dopo la guerra, anzi, già nel 1944 il movimento contadino comincia a organizzarsi introno ad alcuni temi e a rivendicazioni che negli anni
successivi esploderanno nell’occupazione delle terre e nella lotta per i
diritti dei lavoratori salariati. Il loro malcontento è già maturo e rilevabile
successivamente all’armistizio; la povertà e il disagio sociale diffusi, particolarmente, nell’Italia meridionale, richiedono risposte concrete e efficaci, la tensione sociale tende a crescere, e le tabacchine in questi
frangenti assumono un ruolo di avanguardia e riescono a fornire una formidabile prova di forza in occasione dello sciopero iniziato il 12 novembre 1947 e proseguito per giorni tra scontri molto duri, che hanno
prodotto feriti e arresti. Le conseguenze delle agitazioni ricadono all’interno degli stesi opifici, perché le tabacchine sindacalizzate e più attive
si ritrovano a dover subire le ritorsioni dei padroni, spesso con il soccorse
delle famigerate “mesce”, tra cui, però, non mancavano le persone perbene. Comunque, complessivamente, si registrano dei risultati confortanti: «La storia sociale del Salento», scrive Remigio Morelli, «tra il ’45 e la
fine degli anni ’50 è contrassegnata dal protagonismo di questa categoria
che, grazie alla sua determinazione e alle dure lotte, riesce ad ottenere,
nell’arco di pochi anni, risultati considerevoli: ripetuti adeguamenti dei
salari al costo della vita, concessione del sussidio di disoccupazione e
copertura previdenziale per tutti i sei mesi non lavorativi, assegni fami-
25
liari. Inoltre, contratti collettivi, in verità mai completamente applicati in
provincia di Lecce, che garantiscono condizioni di lavoro e di tutela sociale sostanzialmente dignitose: mense, pause per l’allattamento, migliori
condizioni igieniche».1 Non sarà casuale, quindi, che proprio a Lecce si
svolga il primo congresso nazionale delle tabacchine. Sono anni gravidi
di vicende politiche e di lotte sindacali, la questione meridionale è tema
centrale nelle strategie del governo nato nel 1948 e delle opposizioni,
sono periodi di grande aggregazione e partecipazione popolare, nel 1949
si riuniscono le Assise per il Mezzogiorno, alla fine dell’anno ha luogo il
massiccio movimento di occupazione delle terre, che proseguirà nei mesi
successivi, nel 1950 viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno.
Ma non andiamo molto oltre. In fabbrica la vita era dura, anche se
progressivamente si noteranno dei cambiamenti positivi; quando ancora
il rispetto dei diritti era di là da venire poteva capitare un caso come il
seguente, «raccontatomi da una oggi vecchia tabacchina: una donna partorì su un letto di tele di tabacco che essa stessa sin dalla mattina si era
preparato in un angolo della fabbrica. Sapeva di essere al nono mese,
ma si recò lo stesso al lavoro. Dopo che aveva partorito, assistita dalle
compagne più esperte, mandò a chiamare il suo uomo con il quale viveva senza essere sposata, il quale venne con un carrettino da lui stesso
trainato. Caricò puerpera e bambino sul carrettino e se li portò via. Erano
gli anni Trenta e il caso non era da considerarsi eccezionale».2 Non proprio così cruda, ma certamente consonante è la voce di Carmela De Santis nell’intervista che troverete più oltre: si lavorava dalle sette alle dodici,
poi una breve pausa, ma «non riuscivi neanche a mangiare, se avevi bam-
1
R. Morelli, Il movimento delle tabacchine in provincia di Lecce nel secondo dopoguerra
(1944-1952), in Politica e conflitti sociali nel Salento post-fascista, a cura di Mario Spedicato, Lecce, Conte, 1988, pp. 67-83: 74; su questo stesso tema cfr. anche il film documentario di Luigi Del Prete Le tabacchine. Salento 1944-1954, 2003, 52 min. Per una
ricostruzione delle vicende legate alla coltivazione del tabacco nel Salento cfr. in part.
Rossella Barletta, Tabacchi, tabaccari e tabacchine nel Salento: vicende storiche, economiche e sociali, Fasano, Schena, 1994. Per il XIX secolo, vedi, inoltre, Franco A. Mastrolia,
Agricoltura, innovazione e imprenditorialità in Terra d’Otranto nell’Ottocento, Napoli,
ESI, 1996.
2
Giovanni De Blasi, Vita tradizionale a San Donato nel Salento, Lecce, Edizioni del
Grifo, 1996, pp. 36-37.
26
bini, la famiglia. Perché allora quando avevamo bambini, non è che ti
davano i mesi di maternità. No, tu andavi incinta quando sentivi che
avevi dolori, andavi a casa, compravi il bambino, quando ti stabilivi, che
passavano quei 7, 8, 10 giorni cominciavi a lavorare, avevamo pure le
mamme che ci tenevano i bambini, le sorelle più grandi, dipendeva poi
dalle famiglie, no. E così all’una dovevi rientrare di nuovo, preciso l’una
e si usciva poi alle tre e mezzo alla sera». Non si può generalizzare, ovviamente, perché nel paese c’erano tre opifici e, come abbiamo visto,
nel tempo qualcosa poteva cambiare sia nella gestione di essi che nella
legislazione;3 «C’era l’allattamento nelle fabbriche», racconta Iolanda Mastrolia, «oppure si usciva per mezz’ora/un’ora per andare a casa ad allattare i bambini. Uscivano, oltre alla mezz’ora di pausa, e andavano a casa
per un’ora». Le “mesce” erano rigide, distribuivano le mansioni – spianatrici, cernitrici, imballatrici – secondo il loro capriccio, volavano rimproveri e minacce, per niente si poteva perdere una giornata di lavoro,
«facevano gli interessi del principale», si faceva l’appello all’entrata, trovare il portone ormai chiuso significava una decurtazione della paga; un
usciere faceva l’appello, e poi poche chiacchiere, «non scherzavamo, si
lavorava e basta. Se cantavi, erano storie». È un elemento, questo, ricorrente; lo notava anche Alessandro Portelli, presentando la ricerca sulle
tabacchine di Tricase: «C’è una indicazione molto chiara nei racconti: in
campagna si canta, si raccontano storie, si parla; in fabbrica si può essere
punite per una parola o anche solo per aver morso le labbra».4 Un’anziana
signora, Santa, ora ottantaquattrenne, che vive in una frazione all’estrema
periferia di Lecce, possiede un repertorio molto ampio di fiabe e di storie
di santi, e mi racconta di averle apprese dalla madre che gliele raccontava
per tenerla sveglia quando andavano prestissimo a raccogliere il tabacco
e mentre sedevano a infilare le foglie nelle corde che poi avrebbero legato sui telai. La pervasiva presenza del canto, come è noto, spinse de
Martino a invitare il musicologo Diego Carpitella nelle sue spedizioni
3
Un esempio è il seguente, nell’efficacissima sintesi di Pantalea (cfr. infra): «Poi vessiu
la legge e quandu stavi alli sei mesi potivi lassare e te diane lu stessu li sordi».
4
Alessandro Portelli, Storia orale per un Salento storico, in Tabacco e tabacchine
nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, a cura
di S. Torsello e V. Santoro, Lecce, Manni, 2002, pp. 9-18: 15.
27
nell’Italia meridionale: non so com’è, ma quando sono lì va finire sempre
che si canta… Uccio Aloisi aveva chiesto a una certa signora Uccia De
Donatis di andare a raccogliere il tabacco con le sue sorelle; così fecero,
quindi «pijara le cusceddhe e zicca quista Uccia, no? [presero gli aghi per
infilare le foglie di tabacco e questa Uccia comincia a cantare]:
È arrivata la barca di Roma
accompagnata con due barchette
mi sento dire da tutta la gente
il primo amore è partito per mar».5
Uccio Bandello, in un’intervista rilasciata a Luigi Chiriatti nel giugno
1997, e più volte riproposta, spiegava: «quandu, andavane alla campagna,
per dire, faciane lu tabaccu, no? […] Sciane fore, se mentiane la sera cu
chiantane lu tabaccu e allora cantavane, de sdegnu, unu cu l’addhu, se
rispundiane uno co un altro, tutti due, due, a due; poi se sedevanu, per
dire, al fresco, all’estate, quandu… e cantavane ntorna, a coru, no?»6.
Naturalmente, poi, la percezione di questi avvenimenti, della stessa
dicotomia dei comportamenti tenuti in fabbrica e in campagna, può essere completamente ribaltata; i punti di vista condizionano i ricordi. Così
Maria Teresa Migliore, figlia dei titolari dell’opificio Rossi, riferisce di
un’atmosfera molto rilassata tra le lavoratrici: «nei miei ricordi ci sono
queste donne che giravano in queste camere, nella zona di lavoro del
Castello. Addirittura ricordo che a Sternatia, c’era una zona, qui di fronte
il castello, dove c’era la Kalìzoi, una stanza adibita alle mamme operaie,
voluta dal Dottore Specchia, dove le donne con bambine piccole si rifugiavano per allattare i bambini. Grande rispetto per l’essere donna e lavoratrice, anche con neonati a carico. Le fabbriche erano ambienti
abbastanza festosi, perché vedevi queste donne lavorare sempre can-
5
Uccio Aloisi, I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, a
cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro, Sergio Torsello, Lecce, Aramirè, 2004,
pp. 22-23.
6
Intervista a Uccio Bandello, in Antonio Aloisi, Antonio Bandello, Bonasera a
quista casa. Pizziche, stornelli, canti salentini, Lecce, Aramirè, 1999, pp. 33-37:
33.
28
tando, con il sorriso sulla bocca. Il ricordo si è poi perpetrato negli anni
e ogni volta che le incontravamo a lavorare il tabacco, vedevamo donne
con aria di festa, non fatica»; Annamaria: «cantavane certe vote, quando
era in fine lu lavoru cantavane»; invece Annunziata: «Se potia cantare?
No…gnenti»; nemmeno parlare, aggiunge Vita. Angiulina ricorda che si
recitava il rosario.
E il lavoro nei campi non era così allegro, anche se poteva esser sollevato dal ritmo dei canti, dalle conversazioni, dalle preghiere; le parole
di Angiulina sono molto chiare e dirette: «cu li genitori mei faciame centu
are de tabaccu, ca prima lu sarchiava lu nonnu, lu sire miu, cu la zappa,
lu sarchiava cu la zappa, ca moi tutti cu lu trattore, cu li mezzi svierti,
ma tandu eri buttare lu velenu».
3. Un archivio per le storie
La ricostruzione memoriale del passato dipende dal momento in cui
avviene, dai motivi che la sostengono, e quindi dal vissuto dei testimoni.
Più che la adesione a una fedeltà storica, pure onestamente perseguita,
essa riflette una condizione attuale della persona chiamata a recuperare
informazioni, il più delle volte frantumate e vaghe, e a organizzarle in
un racconto che abbia un suo sviluppo. Questa prassi ha luogo più facilmente se gli stimoli vengono attivati con il ricorso alla conversazione,
al dialogo, al reciproco confronto: non casualmente, molte delle interviste
registrate in vista della preparazione di questo volume sono festosamente
sonore, polifoniche, le voci si sovrappongono, talvolta, corrono in soccorso le une alle altre. Chi cerca storie o documenti di tradizione orale
sa bene quanto sia efficace la presenza di più informatori che si sostengono e correggono a vicenda, o di parenti e amici che li hanno già sentiti
narrare; quante volte le notizie risultano confuse e quante la loro esattezza è il risultato di un accordo. A me è capitato, per esempio, di assistere, presso un gruppo di anziani cantori, alla fissazione del testo di un
vecchio canto, composto grazie a numerosi interventi e negoziazioni,
sulla base di un faticoso compromesso; i più sottili filologi, mutatis mutandis, agiscono molto diversamente?
Esiste, poi, una ampia serie di materiali memoriali messi per iscritto
da autori che hanno una limitata dimestichezza con la scrittura; in casi
29
del genere, lo strumento favorisce la riflessione sull’accaduto, il trasferimento sulla carta dei pensieri e dei ricordi ne provoca la messa in un ordine, che sia tematico o narrativo, e il foglio si converte in una sorta di
finestra che si apre su uno scenario in cui i personaggi recitano le loro
azioni e gli oggetti trovano collocazione. La presente ricerca non ha recuperato testi autobiografici o etnografici manoscritti o lettere, perché
orientata al reperimento di narrazioni orali; suppliscono le fotografie, in
qualche misura, che solleticano il nostro abituale voyeurismo e costituiscono a loro volta stimoli per ripensare e rimembrare. Ma secondo me è
possibile continuare a pensare il presente lavoro così come era nei voti
che lo hanno promosso, e cioè l’avvio di un progetto più ampio che preveda la costituzione di un archivio in cui trovino posto i documenti che
riguardano la storia sociale della comunità: scritti, orali, filmati, registrati,
cioè quanto gli abitanti del luogo hanno prodotto nello svolgersi delle
loro vite e i tentativi di interpretarle.
Le vite sono storie spesso non raccontate, le vite sono storie da raccontare. Ogni atto, ogni gesto, ogni situazione gode di uno stato di prenarratività; poi li si può raccontare o meno, farne cenni o una
ricostruzione sistematica, o lasciar galleggiare nel bagaglio di esperienze,
o, meno impegnativamente, dimenticarsene. L’oblio è il destino della
maggior parte di quel che facciamo, subiamo, diciamo, pensiamo; è il
motivo per cui bisogna intendere la memoria come uno strumento selettivo, che produce, costruisce delle configurazioni di eventi trascorsi e ne
elabora i significati: sono operazioni che si svolgono nel presente, e i ricordi non stanno indietro nel tempo, ma appartengono all’attuale esperienza del ricordare; le storie di vita ci mettono in contatto con la varietà
delle vicende e delle sensibilità, aiutano a riflettere sulla collocazione dei
“nostri” modelli culturali in panorami più vasti, a vigilare sull’uso strumentale che del passato fanno le politiche (per demonizzare l’avversario,
per rivendicare primati e linee di continuità con avvenimenti ritenuti particolarmente significativi, per costruire identità locali definite da proporre
all’attenzione di un vasto pubblico).
30
La ricerca
31
- La trascrizione rispecchia fedelmente i dialoghi; pertanto i testi risultano talvolta poco logici o contraddittori o anche sgrammaticati.
- I puntini di sospensione sono puramente evocativi, cioè non stanno
ad indicare omissioni di parole.
32
Elenco intervistati
LUCIA CALDARARO;
NICOLETTA CENTONZE;
MARIA IOLANDA CHIRIACÒ;
PANTALEA CHIRIACÒ;
ELEONORA CONTE;
CARMELA DE SANTIS;
ROSARIA FRANTELLI;
ANGELA GRASSO;
COSTANTINA GRASSO;
MARIA ITALIA GRASSO;
MARIANGELA LINCIANO;
LORETA LEO;
CONCETTA MAGGIORE;
LUCIA MARTI;
MARGHERITA MARTI;
COSTANTINA MATTEO;
IOLANDA MASTROLIA;
VITA MASTROLIA;
MARIA TERESA MIGLIORE;
LEONARDA GIUSEPPA PELLEGRINO;
CLELIA GIUSEPPA REALE;
ANNAMARIA SCARPA;
MARIA SCORDARI;
ANGELA SIMEONE;
GRAZIA SIMEONE;
CLEONICE SPAGNA;
GIUSEPPE SPAGNA;
GRAZIA SPAGNA;
ORAZIO TARANTINO;
RAFFAELLA TARANTINO;
ADDOLORATA VERGINE;
VINCENZA ANTONIA VILLANI.
33
Intervista a Maria Italia Grasso
Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Maria Italia Grasso;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 01/05/1922;
Residenza: Sternatia;
Professione: ex tabacchina;
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi.
D.: Sei emigrata all’estero?
R.: No
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Nel 1935, quando avevo tredici anni.
D.: Per quanto tempo?
R.: Fino al 1966, quindi per trentuno anni.
D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare?
R.: Si iniziava alle sette e si usciva alle dodici per mangiare qualcosa;
poi si rientrava in fabbrica dall’una fino alle quattro.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Allora… una su lu cumentu, una dove adesso c’è il supermercato
Dì per Dì, una alla stazione, una allu castieddhu e una alla chiazza.
D.: Chi erano i proprietari?
R.: Quiddha de la chiazza, ddu nc’ete la farmacia, era de lu Mastrolia;
quiddha de lu castieddhu e de la stazione erane de tre soci: lu Grecu, lu Rossi
e lu don Angiulinu Ancora; quiddha de lu cumentu era de don Antoni.
D.: In quale fabbrica hai lavorato?
R.: Aggiu faticatu pe tutti, tranne ca pe don Antoni.
D.: Quante donne lavoravano in fabbrica?
R.: Una cinquantina circa.
D.: Facevi delle pause per mangiare qualcosa?
R.: no no... mangiavame na friseddha scuse sutta llu bancu mentre faticavame.
34
D.: Tu cosa facevi nella fabbrica?
R.: La “imballatrice”, la cernitrice e la spianatrice.
D.: C’era qualcuno che ti dava gli ordini?
R.: Le mesce.
D.: Chi erano la tue “mesce”?
R.: Allu Mastrolia l’Angiulina de lu Inzi, allu Specchia l’Assunta Marti,
poi nc’era la Peppina de lu Cazzeddha e poi n’cera la Ndata de lu Carlinu
ca facìa la “sottomescia”.
D.: Com’era il rapporto con le “mesce”?
R.: Certe fiate erane bone, certe fiate no....comu li nchianava.
D.: Vi trattavano male?
R.: Nc’è quiddhe ca te trattavane male percè no spicciavi le ‘nserte...
erane severe.
D.: Ma vi picchiavano pure?
R.: No no... sulu parole cu ci sbrigamu cu faticamu.
D.: In quali mesi si lavorava in fabbrica?
R.: Dicembre, gennaio.
D.: Chi era la donna lavoratrice un tempo?
R.: Na fiata vessiame de la fabbrica e sciame a casa cu facimu de mangiare... e poi non c’era la televisione; nui faciame lu puntu giornu, lu ricamu... Li tempi su cangiati!
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano prima?
R.: Quattro scelte... da quella più verde a quella più marrone; lu fronzone è la prima scelta. A seconda della qualità de quandu chianti lu tabaccu nc’era la santujaca (quiddha ca resta vascia vascia), lu pidistizza
(cu le fojazze lisce) e la zaguina (cu le fojazze grosse).
D.: C’era gente di fuori paese che veniva a lavorare a Sternatia?
R.: Sine, de Martignanu.
D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Sine, cu no’ rrubbane lu tabbaccu... ca era a contrabbandu...
D.: Quanti soldi ti davano al giorno?
R.: Centocinquanta lire.
D.: Ogni quanto ti pagavano?
R.: Ogni quindici giorni.
D.: Ti mettevano i contributi?
R.: Si si… ma nc’era ci te dicìa sì e poi no te mintìa nienti.
D.: Ma a tie l’hannu misi tutti sti anni ca faticasti?
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R.: None fija mia... era bonu... Se me l’erane misi tutti, moi tenìa na
paga chiù alta.
D.: Facevate li scioperi?
R.: Si, faciame tanti... e poi ni ridussera li orari: trasìame alle sette e
menza, vessiame a menzatia, tornavame all’una e vessiame alle tre e menza.
D.: Ti ricordi qualche sciopero? Alla chiazza?
R.: None, no me ricordu.
D.: Quanti giorni durava uno sciopero?
R.: Uno o massimo due giorni.
D.: Le mesce... Come si faceva a diventare “mesce”?
R.: Sapianu la qualità de lu tabaccu.
D.: Ah, sulu pe quiddhu? No percè teniane canuscenze?
R.: No no, quali amicizie! La prima mescia era zziama Assunta
(Grasso).
D.: Indossavate una divisa?
R.: Allu Specchia mintiame nu camisu marroncinu. Però prima cu ni
pijavane, ni faciane fare na visita medica, cu no tenimu la bronchite, la
tubercolosi, lu custipu...
D.: C’erano anche uomini in fabbrica?
R.: No no... c’era solo un maschio che apriva la porta...
D.: Appena arrivavate in fabbrica qualcuno faceva l’appello?
R.: Sine, ogni giurnu.
D.: Chi lo faceva l’appello?
R.: Lu Dunatu Chiriacò, lu stessu ca stia alla porta. Certe fiate lu facìa
puru don Cici Specchia.
D.: Potevate cantare in fabbrica?
R.: None... sulu l’urtimu giurnu…
D.: Come paralavate tra voi, in griko o dialetto?
R.: Sempre in griko.
D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il
motivo?
R.: Percé no facìane chiùi tabbaccu... no se vindìa...
D.: Ti ricordi qualche tabacchina di Sternatia ancora in vita?
R.: La Loigia de lu Nardu, la Rita e la Lucia de le Tomene ecc.
36
Intervista ad Addolorata Vergine
Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Addolorata Vergine;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 04/03/1921;
Residenza: Sternatia;
Professione: ex tabacchina, poi barista;
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi.
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Nel 1935, quando avevo quattordici anni.
D.: Per quanti anni hai lavorato?
R.: Fino al 1950.
D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare?
R.: Si iniziava alle sette d’estate e alle sette e trenta d’inverno, e si
usciva alle 12 per mangiare qualcosa; poi si rientrava in fabbrica dall’una
fino alle quattro.
D.: Facevi delle pause per mangiare qualcosa?
R.: Si alle otto al mattino… e poi alle dodici a pranzo.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Quattro! Due al castello, una in piazza (dove ora c’è la farmacia)
e una al convento.
D.: Chi erano i proprietari?
R.: Non me li ricordo… c’erano dei soci… mi ricordo un certo Moschettini, ma non so…
D.: In quale fabbrica hai lavorato?
R.: Io ho lavorato prima nella fabbrica del castello dove c’era il Dott.
Specchia e poi in quella della piazza.
D.: Tu cosa facevi nella fabbrica?
R.: Di tutto… facevo anche la mescia e a volte facevo anche l’appello,
se non c’era il ragioniere.
D.: Chi era il ragioniere?
37
R.: Uno di Zollino.
D.: Quindi eri una “sottomescia”?
R.: Si, ma insieme ad altre due… ci dividevamo i ruoli e controllavamo
tutto.
D.: Le tabacchine cosa facevano invece?
R.: Facevano le spianatrici, sfilavano le foglie una per volta e poi le
“imballatrici” le mettevano in una scatola.
D.: Com’era il rapporto con le “mesce”?
R.: Andavo d’accordo con tutte! Le rispettavo e mi rispettavano, perché
sapevo fare tutto.
D.: In quali mesi si lavorava in fabbrica?
R.: Da Novembre fino a Marzo o Aprile. Ma l’estate lavoravo in un’altra
fabbrica, per “avvolgere” le foglie di tabacco.
D.: Chi era la tua mescia?
R.: Assunta Marti… non c’è più.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano prima?
R.: Tutti uguali. C’era la “santujaca”, con la pianta più alta e le foglie
più piccole, e la “zavoina”, che invece era bassa con le foglie più grandi.
D.: C’era gente di fuori paese che veniva a lavorare a Sternatia?
R.: No, perché già qui c’erano molte operaie.
D.: In ogni magazzino quante donne lavoravano?
R.: Beh, per esempio al castello erano in 100 circa. Ci andavano anche
donne incinte.
D.: Ma c’era un asilo per i bambini?
R.: Sì sì, lì sotto il castello c’era uno.
D.: Come si faceva ad allattare i bambini?
R.: Si portavano in fabbrica e si prendeva una piccola pausa intorno
alle dieci.
D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Si, perché qualcuno poteva rubare il tabacco e, in tempo di guerra,
costava tanto… era un bene prezioso.
D.: Quanti soldi ti davano al giorno?
R.: Pagavano diversamente a seconda delle categorie; c’era una differenza tra la mescia, le seconda mescia, le imballatrici ricevevano cinque
o sei lire, le spianatrici quattro lire, le due lavoratrici che avevano più
compiti prendevano fino a tredici lire al giorno,
D.: Ogni quanto ti pagavano?
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R.: Ogni quindici giorni, il sabato.
D.: Ti mettevano i contributi?
R.: Sì sì, sempre. A volte venivano i finanzieri a fare i controlli. All’inizio ti prendevano a lavorare senza contributi, infatti io ho iniziato a lavorare a otto anni… poi però ho dovuto smettere per un anno e
ricominciare a quattordici, cioè da quando era legale.
D.: Facevate gli scioperi?
R.: No, io no… Le tabacchine si; scioperavano perché non avevano
lavoro, dopo la chiusura di una fabbrica.
D.: Ci hanno raccontato di uno sciopero in piazza, in cui c’erano le
forze dell’ordine… Te lo ricordi?
R.: Sì, ma non c’entra con le tabacchine. Era una protesta dei comunisti.
D.: Le mesce... Come si faceva a diventare “mesce”?
R.: Grazie alle conoscenze…
D.: Indossavate una divisa?
R.: No, solo il “mantile”. Poi noi che facevamo lavori diversi ci cucivamo un grembiule nero con il collo bianco.
D.: C’erano anche uomini nelle fabbriche?
R.: In genere no. Solo nella fabbrica del castello c’erano due o tre.
D.: Potevate cantare in fabbrica?
R.: No, solo a “fine campagna”, perché eravamo contente.
D.: Come paralavate tra voi? In griko o dialetto?
R.: Sempre in griko.
D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il
motivo?
R.: Perché non si coltivava più tabacco.
D.: Ma tu hai qualche fotografia di quel periodo?
R.: No, nulla… ho solo delle foto fasciste, come appartenente al fascio.
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Intervista a Lucia Caldararo
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Lucia Caldararo;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 3/04/1927;
Residenza: Stenatia;
Professione: tabacchina e bidella;
Intervista di: Maria Lucia Conte e Desiré Maria Delos;
Altre note: presenti all’intervista la figlia dell’intervistata Giuseppina Mattia.
D: Domanda.
R. Risposta.
F: Figlia.
D.: Quando hai iniziato a fare la tabacchina, Lucia?
R.: Era de sedici anni, quindici?
D.: A 16 anni allora? Per quanto tempo l’hai fatta?
R.: Mo non sacciu cu te dicu lu tiempu
F.: Ricordi per quanto tempo sei andata in fabbrica?
R.: Ca me ricordu moi… fin quandu spicciau, de quandu scii.
F.: E tu non puoi dire più o meno?
D.: Finu all’anni ’50 più o menu?
F.: No, no, no all’anni ’50 è nata la… quando è nata la Cristina tu
facevi già la tabacchina?
R.: Sì
F.: E quando hai iniziato?
R.: Citta nu picca. Allora, tandu ccuminciai ieu, stia arretu… addai ddu
stia la zia Carmela. Sacciu moi…
F.: Devi dire una data.
D.: Più o meno, anni cinquanta?
R.: None cinquanta, ca allu cinquanta ccattai la Cristina e stia in corsu
già alla fabbrica.
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F.: E aveva…
R.: E già stia sutta ca lavorava.
F.: Quindi quarantacinque?
R.: Forzi.
F.: La Cristina avevi quando tu hai iniziato?
R.: Appena sposata tu facevi la contadina?
F.: Si, appena sposata faceva la contadina.
D.: Va bene, facciamo i calcoli noi.
F.: Ti conviene.
R.: Allu cinquantunu me sposai.
F.: Nel cinquantuno coniugata.
D.: A che ora incominciavi e a che ora finivi di lavorare?
R.: Alle sette sciame alla matina.
D.: Alle sette di mattina incominciavi, allora?
R.: Sì.
D.: E poi finivi?
R.: Alla sera, all’una faciame lu ponte.
D.: La sosta, la sosta pranzu?
R.: Alle dodici, e poi all’una toccava cu ni trovamu addai. Vessiame
nui alle quattru.
D.: L’uscita era alle quattru. Ti ricordi?
R.: Tie non vidi l’adde quandu hannu ccuminciatu? O quando vessiane? Ave quidde ca stiane puru a dodici anni alla fabbrica.
F.: Però tie eri sposata.
R.: None era signorina. Era de 16 anni quandu scii ieu.
D.: E quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Allora c’era: Peppinu Rossi. Le fabbriche soltantu, però li padruni
concessionari no?
F.: Tie devi dire la fabbrica comprendente concessionari.
R.: Citta! C’era Peppinu Rossi; Don Angiulinu, Angelo Ancora. C’erano
due soci.
D.: Queste due solamente, Lucia?
R.: Queste. C’era poi, la guardia, la finanza, ddai, lu papà de lu Donato… C’era lu Ciccia de Sulitu, ma ieu no’ ssacciu ce cognome… quidda
ca stae precata addai.
F.: Ah Bonatesta... Francesco Bonatesta. Era la guardia forestale.
D.: Mmm. La guardia. Quante donne ci stavano che lavoravano, più
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o meno? Sì, aspetta nu picca, perché ci sono due stanze.
F.: Cameroni?
R.: Ca stiravame e poi c’erane le mballatrici, lu mballaggiu. Intra alla
stanza mia c’erano due e due mballaggi e in più c’era nu bancu, due e
tre, tre banchi ca stiame sedute.
D.: Una cinquantina de persone?
R.: A nui mo, addintra a nui… A nui c’era n’ adda stanza chiù doppia,
vui iti trovare, ntorna poi, quidde ca stiane intra all’addha stanza.
F.: Hai detto che c’erano tre di queste stanze? Formate da quante operaie?
R.: Me c’era!
F.: Una cinquantina ogni camera?
R.: No, c’era chiui de cinquanta!
F.: Una sessantina?
R.: Percé erane lunghi li banchi e c’era na fila quai, na filera addhai,
comunque pote essere na ventina, ogni bancu, e faci venti, quaranta,
cinquanta, sessanta, settanta; c’era quasi, non dicu ottanta persone, ma
c’erane.
D.: Ottanta persone, mamma mia, facevate delle pause durante il lavoro? Si faceva?
R.: Alle dodici vessiame quando sunava mezzatia, dalle dodici in poi
teniame canza, all’una n’erame presentare a casa, mangiavame, se tenivi
piccinni pensavame cu ‘llattane.
F.: Devi dire poi che era concesso, come adesso, l’allattamento; davano
anche questa possibilità e queste durante lu periudu della gravidanza non
veniane adibite a lavori pesanti, come adesso, c’era chi controllava.
R.: Me sia me, ste cose non c’entranu.
F.: Qualsiasi cosa, loro stanno confrontando tra il lavoro di adesso…
R.: Io tandu comprai la Cristina mia perché la legge ca vessiu propriu
quandu iu scia ‘ncinta della Cristina. Però dissi ca non scia, ancora lu
principu era. Ma le persone ca stavane sedute c’erane chiui de cinque
mesi.
F.: Usufruiane delle…stavane a casa, usufruivano del periodo?
R.: Stavane a casa, però quelli prendevano lo stesso.
F.: Usufruivane de lu stipendiu?
R.: Stipendiu nu lu pijavi, però facevi la domanda e tenivi lu premiu.
F.: La disoccupazione, la cosiddetta disoccupazione?
R.: None lu premiu teniame.
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F.: Ma adesso corrisponde alla disoccupazione.
D.: Senti Lucia, che cosa facevate voi nella fabbrica? C’erano...
R.: Li dischi, c’era li dischi, no? Stiravame lu tabbaccu, faciame li mazzi
e poi ddi mazzi li mittiame, li cconzavame a stu dischiu ca l’era pijare
l’amballaggiu; quiddu ca l’amballaggiava la ziccava e facia la striscia ddai
perché era tuttu stiratu. Nui erame spianatrice…
D.: Tu eri la spianatrice?
R.: La mamma Lucia, defriscu aggia, la mamma, la nonna toa...
D.: Quidda facia la imballatrice?
F.: E tu a che cosa stavi?
R.: Alla spianatrice. Perché iu spianava, quidda senza lu miu lavoru
no potia fare la mballatrice.
D.: Senti, Lucia, ci te dicia «tie a fare na cosa…?»
F.: La mescia?
R.: E tutte poi. La mescia propri era la mescia Minerva, Emma …Poi
c’era la suttumescia… te l’aggiu dire? E bbera… na citta nu picca. Percè
alla fabbrica mia c’era la Custantina, Ancora Custantina ca era la sottomescia.
D.: Ho capito. Erano di Sternatia?
R.: Sì
D.: Ho capito. Ma, quanti mesi dell’anno lavoravate, tutto l’anno?
R.: No, secondu lu lavoru ca c’era, faciame doi, tre mesi, quattru.
F.: Mah andavano verso Natale e finivano ad aprile.
R.: L’erame stirare percè nc’era la cantina ca scindiame e addhai se
morbidava lu tabbaccu e quiddhe poi tantu lu stiravame, lu cconzavame,
bellu, ca era bessire… ca veniane ogni tantu gl’ispettori, vidiane le
balle…
D.: Chi erano questi? De fore veniane?
R.: Sì, sì.
D.: Ho capito. Tipo il controllo della finanza?
R.: No, no, veniane cu bisciane lu tabaccu perché l’eranu dare chiù
nnanti, l’eranu vindìre. E allora veniane, tiravane na fujazza e vidiane.
F.: Gli ispettori erano quelli.
D.: La mescia stia addhai ’nnanzi
F.: Poi devi cantare, cantare la canzone “Fimmine ca chiantati allu tabaccu”
R.: Citta, tandu la cantava, moi…
D.: Senti Lucia, ma sta canzone la cantavate quando lavoravate?
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R.: No… Sai ce sì, quandu rrivava Pasqua, la Settimana Santa, poi diciane lu Rosariu alla sera, ogni giurnu lu Rosariu, quandu sciame alla
parte della sera, dopu menzatia, all’una, versu le due, due e un quartu,
s’azzava na persona ca dicia lu Rosariu.
F.: Erano molto devote.
R.: Poi dopu, ‘ntorna, quandu era la Passione, lu Giorginu Seddhone,
Matteo, ca quiddhu pure era…
F.: Giorgio Matteo, verso Pasqua.
R.: Chiamava all’appello e poi quiddhu alla settimana santa leggia, trasia
alle due porte cu sentimi…, e leggia poi tutta la passione de lu Signore.
F.: Vi davano qualche regalo oltre allo stipendio?
R.: No.
F.: Il pagamento come avveniva?
R.: Ogni quindici giurni.
D.: Ma tu prendevi un po’ di meno rispetto, cioè?
R.: No durante… le spianatrici erane tuttu nu prezzu e le imballatrici
erane naddhu prezzu.
D.: Chi prendeva di più, voi o loro, Lucia?
R.: Loro.
D.: E poi c’eranu le mesce…
R.: E me, e lu stipendiu loru ci lu sapia?
D.: Ma senti, com’era ca una diventava mescia, era...?
R.: Quiddha era già chiù grande de nui.
D.: In base all’anzianità, alla...
R.: Ca c’era tante sai, ca poi dopu forsi ca quiste eranu chiù pratiche,
era mintere una quiddhu?
D.: Senti e li padruni veniane mai cu ve controllanu?
R.: Sì.
R.: Com’era lu padrunu?
R.: No, erano bravi, percè aggiu dire. Venia don Pippi Rossi.
F.: E la Giuseppina Rossi, dell’attuale Mariaté.
R.: «Buongiorno ragazze… andate piano, andate piano, non vi preoccupate tanto di lavorare».
D.: Forse erane chiu cattive le mesce no, ca...
R.: Ca lu Giorginu! “Non è ladru chi va cu ruba, è ladru quiddhu ca
rruba lu lavoru”, percè quasi faciane cu te sbrighi: “mena, mena, mena”.
D.: Quiddhe forse cu se fannu belle ‘nnanzi alli padruni…
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R.: Sì, percé quandu venia lu padrunu alla mescia se rivolgia.
D.: Quanti tipi de tabbaccu c’erane allora?
R.: Tutte quasi contadine erame…
D.: La Santujaca?
R.: No, a nui era la piristizza.
D.: La piristizza, comu era stu tabbaccu? Te lu ricordi?
R.: Na, cusì era!
R.: Menzanu, dicimu le foglie menzanètte.
D.: Quandu sci all’ultima fabbrica però no c’era… erane fuiazze cusì…
lu fici add’addha a don Ronzu, de quiddu de Caprarica. Donna Anna, la
sai, de Don Cici?
L.: La nipote sapimu, la Bernardette.
F.: Ca nui imu fattu tabbaccu, presso Don Oronzu, presso privati, poi
il raccolto si divideva a metà, perché noi proprio abbiamo fatto tabbaccu
pressu privati, no?
R.: Ficime trentacinque quintali, lu tabbaccu cusine, la crambuzza cusine…
F.: Devi dire poi, la perdita di queste fabbriche …
R.: Beh pianu, pianu, l’ultimi anni faciame na quindicina, secondo, e
poi pian piano.
D.: Niente.
R.: Poi vinne la Conchiglia.
F.: Ah la Conchiglia di Gallipoli.
R.: Di Gallipoli.
F.: Un sindaco era, un politico, una donna-politica che si è dedicata
alla politica.
R.: Alla politica, e puru alli lavuri. Allora vinne a qua’ parte e fice na
bella spiega: «Voi, contadini, dovete fare, quasi, sciopero che si perde
questo lavoro…». Scia agitata quiddha, quasi cu no’ se perde sta fabbrica.
D.: Na sindacalista?
F.: Na sindacalista!
R.: Tutte nui faticavame a quai.
F.: Poi la mamma ha trovato lavoro nella scuola perché il tabacco si è
perso. Poi di quelle marche percepisce pure…
D.: Venivano messi i contributi?
R.: Si, quandu pijava ieu tre misi primu e doi misi dopu de lu partu
potia scire cu faticu e allora me mintiane puru li contributi.
D.: Ho capito. Veniva gente di fuori a lavorare qua o solo signore di
Sternatia?
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R.: No no locali.
D.: Solo signore de Sternatia.
I.: La fabbrica una era quiddha de Don Cici, poi c’era quidda de lu
Piertiempu.
L.: A quiddha de la stazione ci erane li padruni?
R.: Mah, iu no’ me ricordu poi de quiddha fabbrica.
D.: Quiddha era la prima, è stata la più vecchia.
F.: Ma la mamma non ha lavorato mai là.
R.: No, no, io solamente al castello.
D.: Ah solo al castello?
R.: E puru nu picca de tiempu susu alla Comune.
D.: Li scioperi poi vui l’iti fatti?
R.: E sì, li faciame alli urtimi anni.
D.: Percè vui non volivive cu chiude?
R.: No cu chiude… percè lu tabaccu ccuminciava cu se perde e allora
diciane: «a ddhu hannu scire tutte?» ca nc’era tuttu Sternatia…
D.: Ma dovevate fare delle visite mediche prima di entrare in queste
fabbriche?
R.: Allora, senti quai, durante ca faticavame, no! Poi vessiu ca erame
passare la visita pe’ la rugna.
F.: Quando andavamo al tabacco dovevamo coprirci perché si formava
la resina.
R.: La resìna pizzicava, e allora poi, passava sta visita cu visciane nussìa… Perché era na malatìa ca se ncoddhava e allora poi cinca portava
nienti rimania a casa.
F.: Per guarire…, non è che veniva espulso del tutto.
R.: No, no.
D.: E c’erane sbarre alle finestre?
R.: Li fierri.
D.: Intra alle fabbriche, c’erane sbarre, te ricordi?
R.: Iu moi non tantu, ma me ricordu ca nc’era li finestri a strisce.
F.: Poi vi veniva distribuito un po’ di latte, perché, per l’odore o no?
R.: No, ce latte, tenia lu piccinnu cu ‘llatta.
F.: Ah quindi lo portavate?
D.: Non c’era qualche struttura ca vui potivive scire?
R.: Si, nc’era la stanza dell’allattamentu ca potiame trasire addh’ intru
cu lu piccinnu cu llatta.
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D.: Indossavate qualche divisa?
R.: Iu lu grembiule lu portava; ci volia lu portava.
D.: De ce colore era, te ricordi?
R.: Lu grembiule miu? Blu, blu era.
D.: Qualche cuffietta?
R.: No, no.
F.: Per i capelli portavi qualche fazzoletto?
R.: None, nienti portavame. E lu grembiule de blu se facia neru de
polvere; ca iu quandu tenia lu piccinnu facia cusine e lu scostava, dici
ca facia cu llatta supra quiddhu?
D.: Come parlavate tra di voi?
R.: Sempre in grecu.
F.: La mescia…
R.: «…Ancora?» Buum e te tiravane
F.: Caspita usavane violenza!
R.: Iu certe fiate tenia cchiu picca fojazze de coste, cusì zziccava de
l’addhe cu no dica la mescia: «Quidda sta spiccia e tie le teni tutte».
D.: Cu ce vi tiravane?
R.: Cu le ‘nzerte. Faciane susu alla banca, no… non è ca ne tiravane.
Poi allu giurnu quandu era la pasqua: «Minti sensi, minti sensi».
…
D.: C’erane masculi intra le fabbriche?
R.: None.
F.: Ah, quindi era dedicata solamente a voi donne, era prettamente
femminile?
R.: Addhai allu tabbaccu avia le grue, addhai ca se calava lu tabbaccu,
addhassutta e poi aviane le grue puru ca lu saliane, e poi saliane li sforti
dicimu nui.
F.: Erano adibiti ad altri lavori gli uomini, ma c’erano anche, no?
R.: C’erane quandu l’erane consegnare…
D.: Come veniva visto il fatto che voi andavate a lavorare ed eravate donnea? Com’era il rapporto con i mariti, con gli uomini in quel periodo, Lucia?
R.: Lu periudu era ca piacia a tutti cu faticami.
F.: Bisogna tenere presente che mia madre è stata una rivoluzionaria,
che ha cambiato il sistema perché mio padre non voleva che lavorasse.
Essendo stata una delle prime donne a contestare perché mio padre non
voleva che lavorasse, era geloso. Erano dieci anni di differenza, mo noi
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eravamo tanti e così ci ha dato la possibilità di andare a scuola, altrimenti
come si poteva fare? Mio padre voleva che rimanesse a casa ad accudire
la famiglia.
R.: Ah, ah, comu facia? Tenia nove fiji de quisti.
F.: E quindi è stata una delle donne contestatrici a quell’epoca: «na
quella va lavorare, na quella va a lavorare», venia vista con… dalle altre
donne.
R.: Percene tandu cu la cenere faciame lu bucatu.
D.: Lu cofanu.
R.: Lu cofanu e li disinfettavame li panni. Alla matina prestu prima cu
vau alla fabbrica salia e le spandia percè erane già fatte…
F.: Chiudendo le fabbriche e avendo i figli…
R.: Dissi: «quisti addhu li portu, a mezzu alla strada?».
F.: Poi aprì la scuola, lei alle 5 già faceva una prima giornata in campagna, poi alle sette e mezzo andava a scuola per ritornare a casa alle 4,
ecco perché dico che non è stato semplice per lei.
R.: Aggiu fattu na vita, ca cu quistu ca non tenia nisciunu.
F.: Pure per noi, andare prima in campagna, poi… Rappresentò un
pilastro importante secondo me nella storia di Sternatia perché ha contribuito all’emancipazione, a quella che poi sarebbe diventata l’emancipazione femminile…
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Intervista a Carmela De Santis
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Carmela De Santis;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 15/09/1932;
Residenza: Stenatia;
Professione: contadina e tabacchina;
Intervista di: Desiré Maria Delos.
Altre note: presente all’intervista il marito;
Emigrata: no.
D: Domanda.
R: Risposta.
M: Orazio Tarantino, marito della signora Carmela.
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Su per giù le date verso il millenovecento…
D.: Quanti anni avevi?
R.: A trdici anni e mezzo, la regola era che dovevi andare a lavorare a
14 anni, poi ho insistito perché avevo piacere quando vedevo lavorare le
altre e avevo tredici anni e mezzo che incominciai ad andare alla fabbrica.
D.: Ok, poi facciamo il calcolo noi. E per quanto tempo l’hai fatto?
R.: In tutto… perché poi hannu cambiatu le lavorazioni?
D.: Sì.
R.: E in tutto dobbiamo dire una trentina d’anni.
D: Sempre a Sternatia?
R.: No, dopo quando ero ragazzina… sono usciti altri tipi di lavorazione, poi a Sternatia i magazzini hanno dovuto smettere e allora poi si
è formata una cooperativa; una decina di contadini che facevano il tabacco, ci siamo messi d’accordo con altre persone di Martignano e si è
fatta la cooperativa la “Magna Grecia” e lì ho lavorato per quindici anni.
Qui a Sternatia diciotto, diciannove anni, poi le fabbriche sono venute a
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mancare… perché non lo so un po’ per la lavorazione, un po’ i padroni.
E allora non c’era… e allora noi avevamo bisogno, che magari senza fare
qualche giornata alla fabbrica, non avevamo diritto né alle medicine, né
alle visite mediche, niente e allora: che facciamo? Eravamo tutte giovani
all’epoca. E allora ci siamo messi d’accordo… si sono messi pure le persone avanti che hanno formato questa cooperativa. Prima siamo andati
a Melpignano per un paio d’anni, sette-otto famiglie di Sternatia.
D.: In una fabbrica?
R.: In una fabbrica. Poi questa cooperativa è stata costruita in un locale
tra Martignano e Calimera e sono andata per ben 15 anni, lì, poi… Che
poi io ho dovuto smettere per motivi di salute, ho dovuto smettere, però
è continuato per quattro-cinque anni altri in questa cooperativa, che poi
anche la cooperativa è finita.
D.: E quindi questa cooperativa è nata a Sternatia!
R.: A Martignano, con dei soci di Sternatia, una decina di famiglie che
si sono…
D.: Questo negli anni settanta?
I.: Negli anni settanta, precisamente negli anni settanta.
D.: Si chiamava Magna Grecia.
R.: Allora si coltivava il tabacco, si portava il tabacco essiccato lì, allora
lo lavoravamo, quelli che lo coltivavano, e avevamo l’occasione per mettere sti santi contributi e sia un po’ per motivi di salute, sia per il fatto
delle pensioni, quando poi ci si faceva grandi.
D.: Ma tu, la tua famiglia avevate tabacco, lavoravate il tabacco proprio
voi?
R.: Si, si, avevo comprato il terreno verso il sessantanove-settanata,
però avevo fatto pure altri anni, però dal settanata in poi coltivavo nel
terreno mio, insomma. E si portava questo tabacco nelle cooperative,
anzi era come una cooperativa che magari non venivamo neanche pagate
come regola, perché quasi sia ca era comu na cosa nostra, si faceva qualche ora in più, mentre quandu c’erane le fabbriche quai a Sternatia, era
na cosa comu statale. Poi su cambiate i tipi di lavorazione…
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Allora, la fabbrica che andavo io era la Giuseppe Rossi, Don Angiolino Ancora che stava sotto il castello, contemporaneamente sotto il
castello c’era ancora un’altra che era di Don Cici Specchia e sono due.
D.: Dove c’è adesso il Centro Studi?
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R.: Dove c’è adesso il Centro Chora-ma. Un’altra stava nella stazione.
D.: Al Dì per Dì.
R.: E l’altra, Don Antonio Mastrolia, dove c’è la farmacia. Infatti erano
una, due, tre, quattro.
D.: Non ti ricordi quella che stava sopra a Maurizio Leone? Dicono
che c’era una fabbrica sopra.
R.: Si, quella è stata una delle prime , se non la prima; solo qualche
persona più grande se la ricorda. Mi hanno detto, ma non mi ricordo,
eppure mi giravo verso il Calvario quando ero piccola, infatti dicono che
lì c’era una fabbrica, ma chissà quanti anni prima.
D.: A che ora iniziavi e finivi di lavorare?
R.: Quando lavoravo a Sternatia, c’era un orario, alle sette ci dovevamo
trovare lì… alle sette o alle sette e mezzo, non mi ricordo… alle sette e
mezzo; se qualcheduna non riusciva a venire, si chiudeva la porta e non
entravi più, se ti trovavi lì per lì, se no c’era un orario preciso. Si usciva
alle dodici, si faceva un ora, si veniva a casa, perchè poi il paese questo
è, scappavamo tutte a casa per fare qualche cosa in quell’ora.
D.: Pure a mangiare.
R.: Non riuscivi neanche a mangiare, se avevi bambini, la famiglia.
Perché allora quando avevamo bambini, non è che ti davano i mesi di
maternità. No, tu andavi incinta quando sentivi che avevi dolori, andavi
a casa, compravi il bambino, quando ti stabilivi, che passavano quei setteotto, dieci giorni, cominciavi a lavorare; avevamo pure le mamme che ci
tenevano i bambini, le sorelle più grandi, dipendeva poi dalle famiglie.
E così all’una dovevi rientrare di nuovo, preciso l’una e si usciva poi alle
tre e mezzo alla sera
D.: Lavoravate da quale mese, non tutto l’anno.
R.: No, perché all’estate si coltivava il tabacco, poi si consegnava verso
ottobre, le fine ottobre, le fine novembre cominciavano ad andare le operaie più specializzate che dovevano mettere apposto tutto, poi è cambiata
tutta la lavorazione, con le stufe si dovevano mettere le ballette una sopra
all’altra, si dovevano riscaldare per non andare a male ad ammuffire il
tabacco, perché il tabacco era soggetto ad andare a muffa se c’era umidità. E quindi agli inizi, a fine ottobre andavano le operaie più specializzate a sistemare le cose. Poi, verso novembre, fine ottobre, primi
novembre si cominciava ad andare a lavorare e allora qualcuna, tutte
quasi incontravano i datori di lavoro, vedi se mettiamo qualche giorno
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primo, perché alla miseria stava a terra verso il quarantotto, quarantanove,
cinquanta cinquantuno, c’era una miseria… allora tu… allora l’intento era
di tenere a buon grado quelle che dovevano assumere le operaie, dicevano: «guarda, se mi puoi chiamare qualche giorno prima». «Ma adesso si
stanno facendo dei lavori pesanti», «ma non ti preoccupare, faccio tutto»,
pur di fare qualche giorno in più. E poi incominciavi a fare la lavorazione.
Incominciamo a dire come era la lavorazione? Si stava sedute.
D.: tu cosa hai fatto? Come ruolo?
R.: Io come ruolo, prima in genere le operaie se chiamavane spulardatrici, spolardatrici: le nserte si dovevano rompere, si prendevano le foglie e si dovevano stirare foglia foglia, siccome io poi eravamo le
ragazzine di quindici-sedici anni, le sceglieva la maestra, diceva: «tu fai la
imballatrice». Ci sceglieva. In un secondo tempo io facevo la imballatrice.
Le imballatrici erano queste persone che facevano… le mettevamo sulle
tavole. Tu imballatrice, poi, dovevi fare la balla. Prima ti mettevano a fare
le categorie più scadenti perché dovevi imparare le imballatrici, perché
le balle buone, quelle con le foglie più belle, color oro era una lavorazione che se la dovevi fare adesso forse non gli conveniva proprio. Una
imballatrice per fare una balla buona doveva andare quattro-cinque giorni,
per fare una balletta di quaranta-cinquanta chili… Dovevi poi spezzare il
tabacco, da quel tabacco dovevi poi cacciare la foglia rossa, la foglia verde
e mettere sul ginocchio le foglie più belle per fare queste balle buone. Di
nuovo dovevi… le foglie strappate le dovevi aggiustare, facevi le balle
con le foglie strappate, era un tipo di lavorazione che voleva un sacco di
fastidio. Poi io dopo due-tre anni, quando avevo quattordici-quindici anni,
la maestra mi ha scelta per fare la “ballatrice”. Dopo poco tempo si è iniziato a fare un altro tipo di lavorazione, non si faceva più sul ginocchio
foglia foglia, ma sono usciti i torchi; dicevamo allora, si buttava il tabacco
là sopra, poi c’era una cosa la ventola che, con i macchinari che erano
usciti allora, poi usciva la balletta senza molta lavorazione. Poi verso il
cinquantotto-cinquantanove queste fabbriche, con questi macchinari, il
lavoro si finiva subito, tutte quelle operaie che dovevano fare, lì bastavano
una ventina, noi eravamo in duecento nella fabbrica mia, tra anziane, infatti le anziane dovevano scendere a cinquantacinque anni. Addirittura i
primi anni ho lavorato pure con la mamma mia. Insomma con queste
macchine che facevano le ballette in pochi minuti, forse facevano una
quarantina di balle al giorno, voleva poco mano d’opera.
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D.: Hanno iniziato a licenziare?
R.: Sì hanno iniziato a licenziare, però senza licenziarle tutte hanno
iniziato a fare i turni, un mese ciascuno. Infatti tra sorelle se avevi bambini piccoli, tu tenevi il mio, l’altra sorella teneva l’altro, perché facevamo
i turni e non potevamo stare tutte, che cosa dovevano fare con tutta
quella gente. Così poi le fabbriche di Sternatia hanno chiuso tutte e si è
formata questa cooperativa, che è stata una salvezza per la gente. Si coltivava il tabacco, più tabacco avevi, più giornate facevi, non è che facevi
quante volevi tu. Destinavano sette-otto giornate a quintale di tabacco;
più quintali di tabacco portavi, più giornate facevi insomma. Si è andato
avanti così fino al novanta, poi anche questa cooperativa ha chiuso.
D.: Poi sono nate le fabbriche di sigarette.
R.: Sì, ma prima a Sternatia le persone non sapevano più dove metterlo il tabacco, non so se tu ti ricordi?
D: Sì, mi ricordo i tiraletti.
R.: E i tiraletti; poi qui non pioveva molto e le persone avevano messo
i pozzi artesiani, per innaffiare, io non avevo il pozzo e chiedevo al vicino
se mi poteva innaffiare questo tabacco, perché, prima, più piccola era la
foglia, più pregiata era la qualità, invece dopo chi più grande portava la
foglia meglio era, l’importante che facevi tanti quintali. Era una risorsa
molto importante, infatti prima a Sternatia c’era tanta coltivazione di tabacco; adesso se vai in giro non c’è più una pianta, perché poi l’hanno
proibito.
D.: E sì con il monopolio dello stato.
R.: Sì, era una risorsa, infatti mio marito un anno mi ha detto: «Hai
guadagnato più tu con il tabacco, che io con il mio lavoro».
D.: Ti ricordi qualche sciopero che c’è stato?
R.: Sì che c’è stato. Più di uno.
D.: Quando iniziarono pian piano a non assumere più?
R.: Sì, perché con l’arrivo delle macchine i padroni non assumevano
più, perché non ne avevano bisogno. Si è fatto più di uno sciopero. Che
poi una volta il padrone ha chiamato i carabinieri.
D.: Sì un’altra signora si è ricordata dello sciopero, le altre no.
R.: Ah, che per noi come un divertimento era. Poi c’erano quelle più
grandi di noi, tipo la Nzina de lu Liri, la mamma della Rosalba, della
Stella, quella era una tipa tosta, noi eravamo più ragazzine e ci mettevano
in fondo, più nascoste, lei o la mamma del colonnello Maniglio, la Nzina
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de lu Russu, andavano avanti con la bandiera rossa e cantavano “bandiera rossa, bandiera rossa”, poi hanno passato un periodo adesso che
la bandiera rossa non la potevano più vedere. E insomma una decina di
queste andavano tutte avanti e noi dietro che le seguivamo. Io ero piccola
avevo quattordici-quindici anni quando c’erano gli scioperi; poi il padrone voleva che entravamo a lavorare e mi ricordo che una volta il figlio
di don Angiolino ci ha prese a parolacce. Poi dopo questi scioperi le fabbriche hanno chiuso.
D.: Ti ricordi una sindacalista, la Conchiglia?
R.: Sì, sì la Conchiglia difendeva tutte le contadine…
D.: Di Corigliano?
R.: Sì, veniva e diceva «è vero o non è vero che vi trattavano così i padroni?», quando faceva i comizi sempre contro i padroni andava e difendeva tutte le contadine. Io quando sono andata al magazzino ero
contadina-tabacchina; i nostri genitori ci iscrivevano all’ufficio anagrafico,
si chiamava così, come contadine e praticamente ti pagavano i contributi
senza che andavi a lavorare da nessuna parte. Quando poi arrivavi all’età
di quattordici anni, entravi nella fabbrica come tabacchina. Quando poi
abbiamo fatto queste cooperative, sono ritornata di nuovo contadina-tabacchina. Poi mi sono pensionata come contadina.
D.: E delle mescie, cosa mi dici?
R.: E, le mescie ci dicevano tante parole però erano delle brave persone.
D.: Tu chi avevi come mescia?
R.: La mamma de lu James, la mescia Emma, quella aveva battezzato
un fratello mio, infatti quando sono arrivata mi ha messa subito alle balle,
perché le ballatrici prendevano una cosetta in più rispetto alle operaie
normali; se la mescia aveva simpatia per qualcuna, quando ti rimproverava non lo faceva davanti a tutti, ti prendeva una foglia di tabacco e te
le buttava e poi ti diceva di stare zitta, invece ad altre sai come le riempiva di parole e tu non dovevi rispondere dovevi stare zitta e se le dicevi
che non eri tu, lei ti rispondeva che l’indomani saresti rimasta a casa. Chi
tornava poi a casa a dire ai genitori che la maestra ti aveva gridata e che
il giorno dopo non andavi a lavorare? Allora poi quelle volevano che all’uscita dicevi «Me mescia no perduni mo?», poi le anziane dicevano di
perdonarci, ci aiutavano, ma se tu ti ribellavi, ti facevano rimanere due
giorni a casa. Poi le operaie quando venivano sospese andavano dal sindacato a ribellarsi, si erano un po’ svegliate.
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D.: E andavano al sindacato di Sternatia?
R.: Sì, qui c’era il collocatore.
D.: L’ufficio di collocamento?
R.: Sì dovevamo essere scritte regolarmente, dovevamo avere il libretto
del lavoro, dovevamo avere il tesserino, e quando non lavoravamo dovevamo andare a timbrare questo tesserino. E poi c’era il collocatore che
ci garantiva qualcosa. Insomma le maestre erano un po’ severe. Poi c’era
lu Giorginu de lu Seddhone, non so se tu te lo ricordi.
D.: No, però mi hanno detto che era una specie di guardiano.
R.: Sì, lui faceva come un tutore, stava seduto anche lui ci riprendeva,
ci sgridava in griko e ci diceva «Amàte apà sta a Litarà, animaja».
D.: E voi in griko parlavate?
R.: Sì, tutte parlavamo in griko, «senza edukaziùna!» e nui citte, quando
ni scornava, poi non faceva mai un rimprovero singolarmente, ma generale, perché eravamo sedute ai tavoloni, una ventina da un lato e una
ventina dall’altro e dovevamo mettere il lavoro sullo stesso banco e come
facevi a non parlare, tutto il giorno poi.
D.: Come facevi a stare zitta tutte quelle ore.
R.: C’erano quelle che avevano i capelli lunghi che si nascondevano per
parlare, però la mescia si accorgeva, era sveglia, ci diceva «Datevi da fare».
D.: E le mescie come venivano scelte?
R.: Le mescie venivano scelte dal padrone, sicuramente avevano amicizia, poi la mescia, la sorella della mescia era sottomescia e quella era
più severa della mescia. Poi quelle più toste le dicevano non basta la
mescia, pure tu ci devi sgridare.
D.: Invece i padroni com’erano, venivano nelle fabbriche?
R.: Ogni tanto venivano, poi la fabbrica di don Angiulino Ancora è
passata direttamente a donna Giuseppina Rossi. Lei era molto brava, però
sfruttava la situazione, allora quando si facevano le dodici che dovevamo
andare in pausa a casa quella iniziava a recitare Padre Nostri e noi ci
scocciavamo perché dovevamo andare a casa.
(Entra il Marito della signora Uccia).
D.: Volevamo sapere come voi uomini consideravate le donne che
andavano a lavorare.
M.: Normale, perché cinquanta anni fa avevamo bisogno di lavorare,
noi uomini andavamo in campagna e le donne andavano alle fabbriche.
D.: Quindi era proprio una necessità e non c’era il tempo di essere
gelosi di questo.
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M.: Alla fabbrica di tabacco qui andavano tutte.
R.: Dì invece che i giovanotti guardavano se la donna era operaia normale o imballatrice, perché guadagnava qualche soldo in più.
M.: Non è vero queste erano fesserie. Comunque non c’erano gelosie
perché tutte lavoravano, i mariti o i padri coltivavano il tabacco e le figlie
o le mogli andavano nelle fabbriche. Prima lo lavoravano con una certa
delicatezza poi dopo con la macchina passava di tutto.
D.: Mi dici le varie qualità di tabacco? Ci hanno detto che c’era la santijaca…
R.: Sì, allora lu santujaca, la perustizza e la zaguvina.
D.: E qual era la differenza?
M.: La differenza era che la zaguvina aveva le foglie più grandi, ma è
anche vero che la pianta toglieva meno foglie, mentre la santujaca faceva
le foglie più piccole, una quarantina per ogni pianta.
R.: Era anche più cara più pregiata.
M.: Infatti quando lo portavi alle fabbriche te lo pagavano in base alla
qualità; per esempio la zaguvina a dieci mila lire, mentre la santujaca a
quindici mila lire.
R.: Le ho raccontato quando avete aperto la cooperativa.
D.: Anche lui ne faceva parte?
R.: E sì, loro erano i firmatari e noi andavamo a lavorare, non ti ricordi?
M.: Sì, mi ricordo che è stata aperta verso gli anni settanta.
D.: Quindi è stato difficile per voi quando le donne hanno perso il lavoro con la chiusura delle fabbriche?
M.: Sì, praticamente la fabbrica è stata aperta perché all’epoca i capi
del lavoro e i partiti avevano preso il sopravvento e incominciarono a
formare queste cooperative, che per la maggior parte aderivano al partito
comunista, ai sindacati come la cgil.
D.: È stato un modo per dare da lavorare, non a tutte però.
M.: Sì, perché poi con queste cooperative si guadagnava di più…
D.: Ma lavoravi di più?
M.: Sì, ma le donne lavoravano di più, perché era interesse loro.
D.: Perché più lavoravi e più guadagnavi.
R.: Poi il prezzo era diverso.
M.: Perché quando c’erano le fabbriche, i padroni davano poco alle
donne tabacchine. Mentre con le cooperative era diverso, perché il ta-
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bacco te lo pagavano di più e le donne lavoravano di più per incrementare la cooperativa.
R.: Quando poi mi sono sposata per un po’ non ho lavorato, dopo un
po’ di anni però abbiamo comprato un pezzetto di terra e coltivavamo il
tabacco e quando rientravo dalla fabbrica, lui (il marito), era pronto che
mi aspettava per andare a raccogliere il tabacco. Non entravo neanche a
casa, andavo direttamente. Tutto questo per trovarti la giornata assicurata
il giorno dopo. Poi quando rientravo a casa stanca, nessuno mi aiutava,
perché prima i maschi comandavano, non aiutavano le mogli.
D.: Ma prima era così, per l’uomo era una vergogna aiutare la moglie
in casa. Adesso per fortuna non è più così.
M.: Le donne hanno preso il sopravvento.
R.: Meno male, meglio adesso.
D.: Grazie a loro che hanno lottato a quei tempi, siamo riuscite a raggiungere i risultati di adesso. Infatti prima quando ti ho nominato la Conchiglia…
R.: Come si chiamava il marito della Conchiglia?
M.: Giuseppe Calasso. Quello sai cosa faceva? Quando c’era uno sciopero, lo andavano a chiamare e veniva subito a fare un comizio. Mentre
la Conchiglia era di Brindisi. Aveva appena la quinta elementare, poi si
istruì talmente tanto, che a Lecce ormai comandava lei. Poi mi ricordo
che si era candidata anche come sindaco di Sternatia, i primi tempi e mi
ricordo che abbiamo perso per poco.
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Intervista a Iolanda Mastrolia
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Iolanda Mastrolia;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 30/12/1935;
Residenza: Stenatia;
Professione: tabacchina, contadina, artigiana;
Emigrata: no.
Intervista di: Mariangela Giannuzzi.
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere l’attività di tabacchina?
R.: Dunque, io sono nata nel dicembre 1935, ho iniziato quando avevo
quattordici anni, ovvero nel 1949.
D.: Per quanti anni hai svolto questa attività?
R.: Diciamo per una decina di anni, anche se è stato a due riprese.
Quando è nato il primo figlio, nel 1963, facevo ancora la tabacchina in
un’altra fabbrica. Insomma, fino a inizio anni sessanta.
D.: A che ora si iniziava e si terminava di lavorare?
R.: Alla mattina si andava alle sette e mezzo, si iniziava alle otto. Alle
dodici e mezzo ci si fermava per una mezz’ora di pausa, e si riprendeva
alle tredici, fino alle sedici.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Cinque. Don Cici Specchia, la fabbrica sotto il castello; Don Antonio Mastrolia dove c’è ora la farmacia; Don Angiulino Ancora sotto il castello, e poi alla stazione, dove c’era l’A&O. Quindi, quattro fabbriche.
D.: Chi erano i datori di lavoro?
R.: Don Cici Specchia, però don Antonio Mastrolia era quello che
aveva più fabbriche, aveva il titolo di perito agrario, ed era cognato di
don Cici che non sapeva bene “quelle cose”. Però, quando rientrava
quello, (don Antonio), erano tutti…(impauriti). Era, quindi, proprietario
di più fabbriche, forse erano tutti soci.
D.: Perché li chiamavate don?
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R.: Per rispetto, prima era una forma di rispetto.
D.: Quante donne lavoravano in fabbrica?
R.: Eravamo un centinaio, anche più.
D.: Facevate delle pause durante l’orario di lavoro?
R.: No, noi si iniziava e si finiva all’ora stabilita. Alle dodici si faceva
mezz’ora.
D.: E come facevano le donne che avevano figli?
R.: C’era l’allattamento nelle fabbriche, oppure si usciva per mezz’ora
o un’ora per andare a casa ad allattare i bambini. Uscivano, oltre alla
mezz’ora di pausa, e andavano a casa per un’ora.
D.: Quanti compiti/mansioni c’erano in fabbrica?
R.: C’era l’imballatrice, che erano le lavoratrici di prima classe; poi noi
eravamo cernitici, scocchiavàmo, sceglievamo le parti migliori del tabacco, però dovevamo scegliere le diverse classi quello bruciato, quello
chiaro, quello scuro, quello a “vi”. Insomma tutte queste classi, le qualità
di tabacco, i diversi colori. E poi c’erano quelle che lo stiravano, si stendeva foglia foglia, e lo aggiustavano a dischi, lo mettevano “mazzetti mazzetti”, si pressavano e si otteneva la “balletta”
D.: E chi assegnava i compiti in fabbrica?
R.: C’era la mescia, c’erano più di una, ora sono morte. Facevano gli
interessi del principale.
D.: Abbiamo intervistato qualche sottomescia, la Ndata, quella che
abita sopra l’A&O, è stata sottomescia a Don Antoni; poi la Luigia de la
Nardu, ha fatto la sottomescia a Don Cici. Quale era la tua mescia?
R.: La Peppina de lu Panzetta. Però quella proprio mescia, che metteva
tutte a tacere in fabbrica, era l’Assunta de lu Panzetta, l’Assunta Maniglio.
C’era anche la Emma, lavorava nella fabbrica sotto il castello.
D.: Ma sono vive?
R.: No, sono morte.
D.: Come si comportavano le mescie nelle fabbriche?
R.: Beh, diciamo bene. Erano fedeli alla proprietà, severe. Facevano
gli interessi del principale, del padrone. Erano raccomandate. C’era la
Antonietta, la mamma e la figlia, la Luce de lu Panzetta, la figlia lavorava
con la mamma, abita vicino al Dottor Murri nelle vicinanze del Castello.
D.: In quali mesi si lavorava il tabacco?
R.: C’erano tre-quattro mesi di forte lavoro, si iniziava d’inverno
quando si consegnava il tabacco, verso dicembre-gennaio e poi si lavo-
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rava maggiormente per tre mesi, febbraio e marzo erano i mesi di più
forte lavoro. Ci mettevano una “marca” alla settimana, un contributo.
D.: Qual era lo stato della donna in quegli anni? Donna di casa o lavoratrice?
R.: Beh, non tutte lavoravano. Quell’anno, quando avevo quattordici
anni, Don Cici prese me e altre quindici ragazze. In fabbrica lavoravano
solo donne di Sternatia, non di altri paesi.
D.: Si facevano le visite mediche?
R.: No, non c’erano a quei tempi.
D.: C’erano uomini in fabbrica?
R.: No, nemmeno…
D.: Mi hanno parlato di un certo usciere, uomo in fabbrica, ragioniere
di Zollino...
R.: Ah si, quello stava nella fabbrica di Don Antoni e faceva una “specie di perito”. Don Ninì Foddhea. L’usciere faceva anche l’appello.
D.: Mi hanno raccontato che c’erano le sbarre fuori i tabacchifici; è vero?
R.: Si c’erano le sbarre e c’era anche la guardia di finanza, come i carabinieri, perché le tabacchine usavano fare scioperi. Si scioperava per il
lavoro duro e faticoso, per le marche che non venivano versate. Il lavoro
di tabacchina era pericoloso, si andava con le mascherine in fabbrica per
l’odore del tabacco e con un camice comune.
D.: C’è stato in quegli anni uno sciopero nella piazza di Sternatia,
molto partecipato e sentito dalle tabacchine e lavoratori, tanto da richiedere l’intervento delle guardie armate...
R.: Sì io mi ricordo, in piazza, vicino la fabbrica di Don Antoni, lì lavorava la mamma mia. C’erano tante donne e lavoratori, il maresciallo
Caramella, perché si arrivò alle mani. Fu uno sciopero molto sentito, intervennero i carabinieri per mettere ordine tra i protestanti.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano? E quali erano le caratteristiche?
R.: C’era la perustizza, la santilliaca e la zagovina. La differenza era
nel tipo di foglia. La perustizza aveva le foglie numerose, piccole e appuntite. La zagovina teneva meno foglie ma più grosse. La santilliaca
aveva sempre meno foglie ma di qualità ottima, era la migliore.
D.: Qual era la paga in fabbrica?
R.: Ci pagavano ogni quindici giorni, cento lire più o meno, duecento,
dipende. Prima a lire ci pagavano. Se ci fosse stata la Rosetta de lu Fiore,
che veniva con noi in fabbrica, operaia come me, pure la Grazia di sotto
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il Castello… sono vive ancora, le puoi intervistare.
D.: Venivano messi i contributi?
R.: Sì, una “marca” alla settimana.
D.: Quindi, uomini non c’erano…
R.: No, solo donne. Quelle che prendevano le balle erano le più robuste.
D.: Si faceva l’appello all’entrata? Giocavate, scherzavate, cantavate?
R.: Sì l’appello sempre all’entrata. No, non scherzavamo, si lavorava e
basta. Se cantavi, erano storie.
D.: Come parlavate in fabbrica?
R.: C’erano tabacchine che parlavano in griko e altre in dialetto. Si
parlava, comunque, di più il griko.
D.: A un certo punto sono state chiuse le fabbriche a Sternatia. Ti ricordi il perché?
R.: Hanno chiuso perché non hanno preso più tabacco, ed è finito
tutto. Poi io ho lavorato tanti anni nella fabbrica di Gallipoli, di un certo
Donato di Sternatia, il papà di Andrea morto nell’incidente stradale sulla
Sternatia-Martignano.
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Intervista a Giuseppe Spagna
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Giuseppe Spagna;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 02/07/1933;
Residenza: Sternatia;
Professione: Tabacchino, contadino;
Emigrato all’estero: no.
Intervista di: Mariangela Giannuzzi.
D.: Hai da raccontarmi qualcosa di diverso rispetto a quanto mi ha
raccontato tua moglie?
R.: Del lavoro di tabacchina, il suo lavoro, ne capisco poco. Io posso
raccontarti qualcosa della piantagione di tabacco.
D.: Fino a quando hai piantato il tabacco con la famiglia?
R.: A diciannove anni sono partito per il militare, sono del trentatrè,
quindi fino agli anni cinquanta si può dire che ho piantato tabacco.
D.: A che età hai iniziato?
R.: Da bambino, lavoravo sempre in campagna. Andavo a scuola,
avevo sette anni, e già piantavo tabacco o guardavo le filare. Fino ai diciannove anni la vita si svolgeva in campagna, perché poi sono partito
al militare. Quando uscivo da scuola, andavo a piantare tabacco. Allora
il sindaco di Sternatia era Don Pippi Liaci, zio della Signorina Rita.
D.: Sì, allora raccontami un po’…
R.: Si faceva prima la ruddha verso Natale, la semenza. Veniva piantato il seme del tabacco nel terreno, innaffiato a gennaio, febbraio per
arrivare poi a marzo, aprile con le piante cresciute, ettari di tabacco. Bisogna fare domanda scritta per quante are di tabacco piantare, fare richiesta a Nardò, al titolare della fabbrica e stabiliva, per esempio, trenta
are, quaranta are da piantare. Lo stabiliva in base alla legge vigente in
quegli anni sulla piantagione di tabacco, non potevi piantare di più altrimenti era “a contrabbando”. Tu dovevi piantare quaranta are, per esem62
pio, allora andavi al cosiddetto capo-zona a Calimera. Dichiaravi tutto,
non scappava niente. Prima della raccolta, mandavano per i controlli il
personale addetto, tutta gente invalida di guerra, pensionati per misurare
il tabacco e controllare se avevi piantato in più o in meno. Poi iniziava
la raccolta foglia foglia, e poi lo mettevi a seccare nelle cassette, si lasciava essiccare. E poi il tabacco appeso in casa, avevamo li tuppi.
Quando arrivavano i tempi di ottobre-novembre, ti dava venti, dieci “ballette” (recipienti per mettere il tabacco dentro, sacche di tela), lo consegnavi alle ditte, però doveva essere umido altrimenti il tabbaco si
screpolava. Si consegnava ai proprietari dei tabacchifici, che “facevano i
loro comodi”, ecco perché subentrava il perito agrario, portatore degli
interessi del padrone. I proprietari delle fabbriche sceglievano le classi
di qualità, che poi corrispondono ai diversi tipi di tabacco prima citati.
Ad esempio, un quintale di tabacco prima classe, secondo altro prezzo
e il restante da scarto non a pagamento. C’era una “mafia” in questa scelta
perché il perito non faceva mai gli interessi del contadino, coltivatore.
Tra l’altro a Sternatia tutti piantavano il tabacco, lo coltivavi ma non lo
potevi fumare. La restante parte di scarto di tabacco non potevi fumarla,
neanche questa. Pensa che se ti trovava la finanza con il tabacco in casa,
ti faceva il verbale, la finanza ti arrivava in casa all’improvviso e ti spiava
in tutti gli angoli.
D.: Non c’erano i “clandestini furbi” che fumavano il tabacco?
R.: No, c’erano le regole, era proibito. Nelle campagne se lo nascondevano, ma era rischioso. Allora ti racconto un fatto: mio nonno che era
un primo fumatore accanito, Tarantino Giorgio, che era padre di mia
mamma, andava in campagna dietro la ferrovia, mi portava con sè, e mi
faceva nascondere il tabacco sotto le pietre, un po’ qua, un po’ là. Lui si
dimenticava, ma io ricordavo i nostri nascondigli. Un giorno è successo
un bel fatto: lì passa la ferrovia, alle spalle del cimitero, due finanzieri a
piedi sono arrivati; io guardavo le pecore, e mio nonno era sempre con
la pipa in bocca, senza mai fumare il tabacco di nostra produzione. I finanzieri con aria diffidente e dura, senza salutare o dir nulla, mi hanno
messo le mani in tasca e hanno messo il tabacco nella tasca della giacca
del nonno. Ero ancora piccolo, ho iniziato a gridare aiuto al nonno perché sapevo dell’ingiustizia e del sorpruso fatto nei nostri confronti dai finanzieri ma, mio nonno non mi ha dato ascolto e mi ha gridato: ««zitto
tu, senò perdiamo le filare!», sapeva che i finanzieri erano lì per control-
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larci il tabacco coltivato. Alla fine ci è stata fatta una multa salata, ci hanno
tolto le are di tabacco che dovevamo fare l’anno nuovo. Poi mio padre
è andato a Don Angelino Ancora, un gran personaggio di Sternatia di
forte spessore, allora sindaco di Galatina, per chiederee aiuto, ma l’anno
successivo abbiamo coltivato poco tabacco.
D.: Allora i coltivatori di tabacco dovevano temere i finanzieri?
R.: Certo, loro erano pagati apposta. Facevano gli interessi del governo.
D.: Perché è subentrato poi il monopolio?
R.: Anche prima negli anni cinquanta si vendeva il tabacco, le sigarette
nei tabacchini, ma comunque i coltivatori non potevano fumarlo. Il prodotto era proibito, “la legge balorda”... Lei, mia moglie, tabacchina era
stanca, faceva il lavoro anche con me e in casa. Poi ha lavorato otto anni
nella fabbrica a Gallipoli, una cooperativa. Mia moglie si alzava alle cinque e poi quando rientrava, lavorava con me per la raccolta delle filare.
Erano anni difficili, sacrifici.
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Intervista a Maria Teresa Migliore
Luogo e data: Sternatia, novembre 2008;
Nome dell’intervistata: Maria Teresa Migliore;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/05/1955;
Residenza: Sternatia;
Professione: insegnante; figlia di proprietaria tabacchificio;
Emigrati all’estero: no;
Intervista di: Mariangela Giannuzzi.
D.: Come si chiamava tua mamma?
R.: Giuseppina Rossi Bernaducci Rives.
D.: In quale anno tua madre ha iniziato a svolgere l’attività di tabacchina?
R.: Negli anni cinquanta-sessanta, per circa una decina d’anni, un’attività che lei ha continuato anche dopo la morte del padre, titolare della
concessione, perché il padre era difatti il titolare della concessione del
tabacchificio, nel Castello Granafei, in un capannone, al primo piano di
questo palazzo, dove veniva lavorato il tabacco, stirato, imballato e nel
piano sovrastante dove veniva lasciato essiccare.
D.: Ti ricordi quanti tabacchifici c’erano a Sternatia?
R.: Fabbriche, credo due, ovvero una, di cui titolare era Dei Rossi Barducci Rives Giuseppe, e una dei Mastrolia. Mio padre si chiamava Dei
Rossi Barducci Rives e in seguito morto nel 1957, ha continuato questa
attività mia madre, che sovrintendeva al lavoro delle operaie e si avvaleva
del lavoro di quest’agronomo di Lecce, che svolgeva mansioni di supporto a mia madre e di verifica del lavoro.
D.: Aveva delle mescie?
R.: Erano tutte di Sternatia le operaie che lavoravano nella fabbrica dei
Rossi, a cominciare dalla Nzina Marti che poi è stata la donna che ci ha cresciuto e accudiva casa nostra, faceva parte della nostra famiglia. È stata la nostra tata, perché la mamma era comunque impegnata in fabbrica. Noi in
famiglia eravamo diverse sorelle, ci aiutavamo a vicenda, io sono la più piccola della casa, ricordo che la tata ci guardava mentre giocavamo in giardino.
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D.: Ricordi che tua mamma lavorava molto?
R.: Non tanto, certo il lavoro più intenso era quando erano previste le
consegne del tabacco, ma grosso modo il suo lavoro era seguito dalle
mescie e dal perito. Per il resto c’erano le tabacchine, alla mattina si andava alle sette e mezzo, si iniziava alle otto. Alle dodici e trenta ci si fermava per una mezz’ora di pausa, e si riprendeva alle tredici fino alle
sedici circa.
D.: Ti ricordi quali mesi si lavorava di più in fabbrica?
R.: Onestamente, no. La raccolta veniva fatta a inizio estate, il tempo
permettendo, si metteva ad essiccare il tabacco e una volta essiccato si
iniziava il lavoro vero e proprio in fabbrica. Quindi presumo, durante
l’inverno, i mesi di maggiore lavoro.
D.: La fabbrica era circondata di sbarre, perché?
R.: Si, qui c’erano, ma il perché mi sfugge. Più che sbarre, specialmente in quest’appartamento-capannone del Castello, dove il tabacco
veniva essiccato, di proprietà della famiglia Rossi, c’erano su tutte le porte
interne e infissi tanti giornali che venivano messi per sigillare bene l’area
e evitavano l’ingresso di aria o di altro, per proteggere il tabacco che era
lì ad essiccare, quindi tutti giornali intorno alle finestre e porte. Il lavoro
delle tabacchine veniva poi svolto al primo piano, dove le donne operaie
erano impegnate a cernirlo, stiralo, pressarlo e facevano queste balle.
D.: A chi veniva venduto?
R.: Alle manifatture di tabacco, venivano delle persone per acquistare
il tabacco. Erano giornate intense dove il lavoro era molto più intenso
soprattutto per mia madre, il cui coinvolgimento era maggiore per la consegna-operazione.
D.: Ti ricordi che le donne usavano dei camici particolari, delle tenute
o mascherine al volto?
R.: Non credo, nei miei ricordi ci sono queste donne che giravano in
queste camere, nella zona di lavoro del Castello. Addirittura ricordo che a
Sternatia, c’era una zona, qui di fronte il castello, dove c’era la Kalì Zoi, una
stanza adibita alle mamme operaie, voluta dal Dottore Specchia, dove le
donne con bambine piccole si rifugiavano per allattare i bambini. Grande
rispetto per l’essere donna e lavoratrice, anche con neonati a carico.
Le fabbriche erano ambienti abbastanza festosi, perché vedevi queste
donne lavorare sempre cantando, con il sorriso sulla bocca.
Il ricordo si è poi perpetrato negli anni e ogni volta che le incontra-
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vamo a lavorare il tabacco, vedevamo donne con aria di festa, non fatica.
D.: Come chiamavano tua mamma?
R.: La mia mamma la chiamavano “La signura”.
D.: Chi era la mescia?
R.: La mescia era la Nina della Speranza, la mamma di Borrisi, oramai
morta.
D.: Ti ricordi qualcosa degli scioperi delle tabacchine che venivano
fatti in piazza?
R.: No, nulla.
D.: Che lingua parlavano le operaie?
R.: Parlavano il griko, sopratutto.
D.: E poi perché sono state chiuse le fabbriche?
R.: Perché la situazione è iniziata ad essere più difficile e negli anni,
nel sessantacique credo, la mamma non si è sentita di continuare l’attività
e ha poi venduto la concessione.
E poi stata affittata questa fabbrica ai Signori Monosi di Castrignano
de Greci. I Monosi per un certo periodo affittavano il locale qui da noi
per lavorare il loro tabacco, quindi fu poi continuato il lavoro ma con
nuovi titolari di concessione, non più mia madre.
Certamente i Monosi avevano bisogno di locali dove coltivare il tabacco, quindi furono affittati i locali, ma non fu ceduta la concessione,
perché avevano già per fatti loro a Castrignano.
D.: Come avveniva il passaggio di concessione? Come le licenze dei
tabacchini di oggi?
R.: Non lo so, immagino di sì.
D.: Quindi tu hai vissuto qui in quegli anni, di nuova gestione della
fabbrica del Castello?
R.: Salivamo su, perché noi abitavamo a quei tempi al piano terra,
perché la zona di giù era adiacente al giardino, dove c’era la fabbrica.
D.: Quindi ricordi un clima sereno nella fabbrica dei Rossi?
R.: Si, certamente, si parlava, c’era la pausa pranzo, si lavorava fino
alle tre, perché poi facendo il grosso d’inverno le giornate si accorciavano
e intorno alle quattro era già terminato il lavoro delle donne.
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Intervista a Simeone Angela
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008.
Nome dell’intervistato: Simeone Angela
Luogo e data da nascita: Sternatia il 05/04/26;
Residenza: Sternatia;
Professione: Tabacchina;
Emigrati all’estero: no.
Intervista di: Desiré Maria Delos, Daniela Gemma, Antonella Marti.
D.: Te ricordi quali anni hai faticatu a Sternatia?
R.: Senti cu fazzu li cunti de quandu faticava… allora ieu tenia quindici
anni e finca a ventidoi anni lavorava alla Stazione, poi la Stazione vinne
distrutta percé mancava lu bagnu, non era perfettu e scimme a Galatina
cu faticamu.
D.: Aspetta n’attimu Angiulina, ma tie de ce annu sinti?
R.: Ieu de lu ventisei, fanne lu cuntu de lu ventisei…
D.: Ventisei più quindici nel 1941, quindici anni e finu a venti anni
hai faticatu a Sternatia… e te ricordi comu se chiamava la fabbrica? O de
ci era?
R.: Don Angiulinu Ancora, tanti anni fa.
D.: Ma de Sternatia era?
R.: Si de Sternatia era e diciame quista ete la fabbrica de don Angiulinu
Ancora. Cu la signorina Rita no me ricordu cce bbera… La maestra Lucia
era mescia de scola… insomma no me ricordu, ma su nativi de quai.
D.: Su nativi de quai… e comu se facia lu tabaccu? C’erano… cioè tu
lavoravi solo nella fabbrica, non lo raccoglievi pure in campagna?
R.: Prima ccojiame lu tabbaccu.
D.: E tie lu ccojivi.
R.: Cu li genitori mei faciame centu are de tabbaccu, ca prima lu sarchiava lu nonnu, lu sire miu, cu la zappa, lu sarchiava cu la zappa, ca
moi tutti cu lu trattore, cu li mezzi svierti, ma tandu eri buttare lu velenu,
nui lu chiantavame de retu, poi se facia grande, lu zappava lu nonnu, ca
addhai scia puru ieu, e poi ccojiame le foiazze, lu siccavame, però no lu
portavame nui alla fabbrica, venia lu cosu, comu aggiu dire… nui cco68
jiame le cose… e lu mintiame intru alle casce e poi quandu era l’ura ca
l’erame portare intru la fabbrica e venia cu da cosa intru…
D.: Cu lu camion?
R.: No… lu portavane cu lu camion, però lu pisavame insieme cu lu
padrunu, lu… comu aggiu dire, lu mintiame intru le cascette grandi e
poi dopu ni lu pagava don Angiulinu.
D.: Perché la campagna non era vostra era de don Angiulinu?
R.: No, e puru lu fondu era de don Angiulinu.
D.: Ecco… ma nc’erane puru di cristiani ca teniane la campagna...
R.: E lu chiantavane pe fatti loru.
D.: E poi lu portavane alla fabbrica.
R.: E faciane cusì. Diciame cusì alla fabbrica allu magazzinu.
D.: E ti ricordi quante cristiane nc’erane?
R.: Centucinquanta erame.
D.: Ma centocinquanta solo alla fabbrica della Stazione?
R.: Sì sì sì sulu alla fabbrica della Stazione ca poi nui… quandu sciame
alla stazione a Galatina diciane ca erame mute.
D.: Ma poi centucinquanta tutte femmine o c’erane masculi?
R.: No tutte fimmene erame.
D.: È vero che c’erano gli asili nido pe’ li piccinni? Se una tenia li piccinni li portava alla fabbrica e nc’era na stanza sulu pe li piccinni?
R.: No, iu, per esempiu, la zia Franca la ccattai susu alle case qua
subra allu quarantasette e poi la fabbrica stia alla Stazione no, allora la
zia Franca nasciu quindici giurni, venti giurni, ca no me paria quandu
mai cu la battezzu prima cu ncigna la fabbrica, allora ca tandu cu lu
nonnu ce passai mmmh, non volia cu vau alla fabbrica cu no’ lassu la
piccinna, ca se tene nienti la piccinna, li dissi: «no’ te preoccupare ca alla
piccinna aggiu pensare ieu…». La mamma mia abitava ddha parte allu
Vitantoni, tandu ncera... teniame n’ura de...
D.: De pausa...
R.: De riposu alle dieci cu damu de llattare alla piccinna; poi la piccinna li la lassava alla mamma mia e scia allu magazzinu, alla matina sulamente teniame stu cosu quai, a mezzogiorno sciame in generale tutte,
e poi tornavame all’una, a ddhu frammezzu dia mangiare alla piccinna e
poi tornava allu magazzinu e alle quattru spicciavame.
D.: E la mattina a che ora andavate?
R.: Alla matina era alle sette e menza se no me sbaju.
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D.: Quindi dalle sette e mezza alle quattro.
R.: Sine, no me ricordu quante ure faciame.
D.: Ma quello era un lavoro, lo facevate tutto l’anno o sulu in primavera, l’estate?
R.: No, iniziavame… per esempiu, lu consegnavame a novembre me
sembra; lu tabaccu lu portavame alla fabbrica e in base allu tabbaccu ca
nc’era faciame quattru, cinque misi de fabbrica.
D.: Ma l’ora ca tenivi alle dieci, la diane solamente a ci tenia le fije o
era pe tutte l’ura de pausa delle dieci?
R.: No sulu quiddhe ca teniane le fije ca allattavane. Teniame nsomma
ddh’ura de permessu cu llattane le piccinne.
D.: Poi nonna tie te ricordi quandu faciane li scioperi a Sternatia, ficera
li scioperi ca no’ voliane cu trasene alla fabbrica, ca vinnera li carri armati,
la polizia.
R.: Me ricordu, ma non è ca me ricordu tantu.
D.: Dopu era negli anni Sessanta più o meno.
R.: No, forsi no sciame mancu a quai sciame a Galatina.
D.: Scivive a Galatina.
R.: Sciame a Galatina percé la fabbrica nostra vinne distrutta pe’ ddhu
motivu, no pe lavoro, ca non c’era lu rubinettu de l’acqua ca ni mintiane
na cosu, ogni tantu me ricordu na cosa, vessiane doi persone inchiane
le menze de acqua e le nduciane alla fabbrica, e cu la menza d’acqua biviame tutte quante, allora da cosa no scia giusta percè era bire li rubinetti
e ognunu de nui era scire cu li bicchieri, invece biviame cu la menza ca
ni la passavame, bivia ieu e se tenia a tie de coste bivivi tie allora…
D.: Per igiene diciane, per igiene la chiusera.
R.: Tandu poi vinne la finanza vitte la situazione e vinne distrutta.
D.: E quindi comu lu lavoravi lu tabbaccu, dividivi le foije...
R.: Allora, all’iniziu ni diane nu cerchiu tantu, comu nu tischiu tantu,
e ni diane le nserte ca faciame nui ca zziccavame cu nfilamu lu tabbaccu
zziccavame le nserte…
D.: Le nserte quindi erane le foje ca stiane nfilate?
R.: Nui pijavame la nserta e tiravame ca stia nfilatu cu lu spagu e pijavame le fojazze e fasciame, teniame n’addha cascetta de coste cu tanti
cataletti e faciame biondo scuro, lu spianavame e pijavame le foijazze
chiare, le mintiame tutte a na parte no; biondo scuro, li colori l’erame
mintire de parte e faciame nu tischiu tuttu de biondo chiaro per esempiu
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no, poi quandu spicciavame mintiame li mazzi de coste unu cu l’addhu.
Quandu poi spicciavame le nserte, quiddhe le pijavane la maestra e la
sottomaestra e le portavane alle ballatrici, ca poi ntorna nc’erane quiddhe
ca lu mintiane intru le balle ca le chiamavame ballatrici.
Quiddhe le mballavane, ggiustavane li mazzi e li mintiane intru nna
cosa comu na… nui diciame ca spianavame lu tabbaccu, poi dopu ntorna
tutte de fojazze ca faciane, passavane laddhe, pijavane quiddhu ca cerniame nui, ni diane lu tischiu per esempiu a tie, poi tie pijavi le fojazze
ca faciame nui e facivi tuttu lu tischiu de biondo scuro per esmpiu; quiddhe non erane cernire, se propriu pe qualche cosa ca sbajavame nui la
levavane ddha fojazza, seno poi quiddhe faciane nu tischiu de quistu de
biondo scuro.
D.: Ma le biondo scuro le cchiu bone erane, quiddhe le fojazze
biondo?
R.: No, quiddhe era tuttu na cosa.
D.: Nc’erane tanti tipi biondo scuro e biondo chiaro?
R.: No quiddhe erane cu no se mmischia, lu chiaru diciane ca ete
quiddhu ca faciane le sigarette, ca poi lu portavane alle manifatture; lu
chiaru lu chiamavane Nazionale. Per esempiu le meju sigarette quali
suntu moi? Lu verde era lu alfa, le sigarette ca fumava lu nonnu ca iu
dicia: «eh le cchiù fiacche» e quiddhu dicia a mie «quiste me piacene»,
quiddha sostanza ddhu odore, lu cchiù fiaccu era quiddhu, alfa lu diciame.
D.: Ma poi Angiulina ve pagavane o vi mintiane…
R.: No, ni pagavane ogni quindici giurni.
D.: Te ricordi quantu?
R.: Mmm… ca tandu ce me ricordu quante erane doi lire l’ora, forsi
cinque lire alla quindicina.
D.: Cinque lire alla quindicina, quindi allu mese dieci lire?
R.: Cusì me ricordu.
D.: Le mescie erane severe?
R.: Erane severe, iu la verità de Diu, l’Angiulina ca suntu, una scornata
non l’aggiu avuta mai, percè era furba, faticava e cuntava sempre, e diciane: «ma l’Angiulina percé no la scorni mai», «quiddha non vole scornata
percé la visciu ca fatica…».
D.: Però oltre cu ve rimproveravane, vi diane punizioni o, ce sacciu,
vi diciane tie crai non venire?
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R.: Qualcheduna ca poi vidia qualche pecura zoppa ca no scia a orariu
li dicia tie crai no vieni. Poi quiddha scia a ddhai allu segretariu, comu
l’aggiu chiamare lu capusquadra nostru, mo no sacciu comu l’aggiu chiamare, era lu Giorginu, ca mo su morti tutti; sciane: «nunnu Giorginu
guarda ca pe dieci minuti ca fici ritardu me licenziau cu vau crai». Poi
quiddhu dicia: «vau iu e parlu cu la mescia Peppina però tie no’ fare
cchiui ritardu, vanne in orariu, percé lu lavoru è cusì». Ma tandu, la maestra stia a nnanti llu portone e vidia ci trase a orariu e ci no trase.
D.: Le puniane… ma azzavane mai le mani?
R.: No no, le mani no. Na fiata vinne don Angiulinu Ancora, allora
nc’era na vecchiareddha, mo ca vi la dicu no la sapiti, allora se dia sempre de fare ma cuntava sempre li fatti de l’addhe. Iu cu dicu la verità
sentia ma no me interessava, tenia...
D.: Tenivi addhi pensieri pe’ la capu?
R.: Mo se ne vene. Allora vitte ca sta cuntava stu fattu, trasiu don Agiulinu Ancora – quistu me lu portu a ncoddhu finchè moru – comu trase e
sente ddha cristiana ca dicia lu cuntu cu stamu citte, la mescia li dicia
Loredana, cusì se chiamava, mo vi li dicu in griku, «pestu na kuntàci» dilli nu cunticeddhu a quiste cu stannu citte nu picca, allora ddha cristiana ni dicia lu cuntu «però iti stare citte» ni dicia, invece avia quiddhe
ca diciane «dinne ce dicisti moi?» cu diane precisu no, va trase don Angiulinu Ancora: «Mescia Peppina veni quai», disse «ce cumandi don Angiulinu», disse «ma ce bete quai, faci cu fannu li cunti a quai, hai fattu li
cunti a centucinquanta persone», disse «basta nu nnudu», disse «suntu diciannove centesimi» , allora poi sciu quiddhu alla mescia Peppina, nsoma
la rimproverara tandu: «mo la spicciati cu sti cunti» strolecava ntorna, ca
poi quiddha era la responsabile, ca poi teniane ragione percè poi alla
fine sapia quiddha quante balle ca trasene, erane rispundere alli cunti ca
era pagare lu padrunu no.
D.: Ma se potia cantare qualche canzone o nella fabbrica no se cantava?
R.: Senti qualcheduna ca sapia quandu se regulava la cosa, la cantava
qualcheduna ca cantava bona, però orari ca no venia lu padrunu, però
era severa la cosa e a Galatina era cchiu severa ancora.
D.: Cu lu trenu scivi a Galatina?
R.: Cu lu trenu scia, ca poi tandu quandu scia a Galatina sai quanti
tenia la Franca piccicca, lu ziu Pantalucciu picciccu e lu Nicolinu ca nasciu allu ventinove ottobre e la fabbrica cuminciau a fine gennaiu e las-
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sava tre fiji a casa; poi sciame cu lu trenu alla matina e ni trovavame giuste allu trenu, e allu lavoru spettavame dieci minuti ddha ffore però, alla
sira venia alle sei lu trenu, nui vessiame alle quattru, pijavame la strada
comu ddhe pecure smarrite, comu aggiu dire de pecure ca scappane fucendu e veniame a piedi.
D.: Da Galatina?
R.: De Galatina veniame a piedi a quai veniame, poi tante fiate alla
strada trovavame qualche bonu cristianu ca era de Sternatia ca, per esempiu lu Lezzi ncera li operai ca sciane cu consegnane pali a ddha parte,
comu aggiu dire, e se trovavane giusti, e quandu passavane e quiddhi
ca nc’era postu doi tre de nui e diciane «ci vole cu trasa», e una cu l’addha
«cu vascia l’Angiulina ca tene tre piccinni piccicchi», puru cu rrivamu n’ura
prima menz’ura prima; ca moi vui siti privilegiate fije mie, addhu e tantu,
ca percè vi cuntamu ste cose.
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Intervista a Concetta Maggiore e Rosaria Frantelli (Rosetta)
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Concetta Maggiore;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 15/04/1937;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrata all’estero: no;
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Frantelli Rosaria (Rosetta);
Luogo e data da nascita: Lecce il 23/08/1930;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrata all’estero: no;
Intervista di: Desiré Maria Delos, Daniela Gemma, Antonella Marti.
Altre note:
D: Desirè.
D*: Daniela.
A: Antonella.
C: Concettina Maggiore.
R: Rosaria Frantelli (Rosetta).
D.: Concettina in quali anni hai lavorato al tabacco?
C.: Eh aspetta, allora a sedici anni incominciai io perché le apprendiste
tandu a 16 anni me pare ca sciane.
D.: E de ce annu sinti Concettina?
R.: Io sono del trentasette, mo fanne lu cuntu: trentasette, quarantasette poi mitti sei anni addhi.
D.: Quindi intorno al cinquantatrè-cinquantaquattro?
C.: Sì.
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D.: E quanti anni hai Lavorato?
R.: Quiddha faticau mutu, iu faticai picca.
C.: No… perché mi sono pensionata, ecco però mi sono pensionata
prima no, all’età giusta ecco.
D.: Na decina d’anni?
C.: No di più, sì 20 anni.
D.: A Sternatia?
C.: No, un anno solo a Sternatia. A 19 anni tra Galatina e Maglie.
D.: Ah, quindi hai ncigniatu a Sternatia e poi scisti a Galatina.
C.: A Galatina, perché il magazzino qua era privato, mi sembra che
era Ancora in quel periodo alla stazione.
R.: No, Ancora-Rossi.
C.: Uguali com’era lu Castellu.
R.: Comu lu Rossi, perché Rossi-Ancora era.
C.: Rossi-Ancora, e puru la stazione.
R.: C’era mutu lavoru.
C.: La stazione, dove c’era…
R.: E se trasferira a n’addha stanza.
C.: La mamma mia ha lavorato sul comune, quel viale grande in centro, nc’ete a ddhai la cosa antica.
R.: A ddhu nc’ete l’orologiu, tuttu du viale, stia tuttu chiusu. Sulla comune dove c’è il sindaco adesso perché la comune era trasferita dall’altro
lato dove c’è la Cosimina.
C.: Quella parte facevano…
D.: Quindi a ddhu nc’è la stanza de lu sindacu tutta frescata.
C.: A ddhai facianu lu tabbaccu.
C.: Tuttu lu corridoiu poi l’hannu toltu, che c’era la porta che si entrava. Ma questo prima di andare iu però. Allora, è bene cominciare dalla
stazione.
D.: Ok, e quiddhu della chiazza comu se chiamava?
C.: Mastrolia.
R.: Mastrolia, Don Antonio Mastrolia.
D.: E sti cristiani erane tutti de Sternatia?
C.: Sì.
D.: Su morti però sti cristiani?
C.: Sì.
R.: Ce qualchedunu ancora...
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C.: Le fije. Per esempio lì vicino dopo la fioraia, no?, La prima, comu
se chiama, la Paola, dopu la Paola c’è un’altra casa poi c’è la casa ca era
delli Mastrolia che li abita la fija, la nipote di questo Don Antonio ca teniva il magazzino.
D.: Ah.
C.: E tutto il locale della piazza dove c’è il barbiere, la farmacia, e “Kika”.
D.: Sì sì.
C.: Quello era tutto magazzinu.
D.: Puru lu “Puntu e virgola”?
C.: No, no.
R.: Il “Punto e virgola” no.
C.: A ddhai diciane lu “mesciuddhi”.
R.: C’era lu macellaru.
C.: Era na casa privata quella.
R.: La macelleria, tandu la macelleria picca picca de stanzinu era, ca
non è ca suntu come le macellerie de moi, ci cattava carne tandu?
D.: Quanti cristiani te ricordi ca faticavane prima alla stazione? più o menu?
R.: Nui erame 120 quassusu.
C.: Vui, allora alla stazione fai ca erame na settantina.
R.: Allu Specchia erame novanta.
C.: E alla stazione c’era na settantina, perché quandu scimme de quai
la Peppina della Lice ci ccumpagnau alla stazione, ca quiddha poi sciu
in pensione e non vinne, sai, comu quandu la maestre della scola ccumpagna li alunni per esempiu, no? Ecco, ci ha accompagnate tutte dietro
alla stazione, sutta la raccomandazione: «cercate cu siti brave», perché noi
poi quai era privatu e invece poi noi siamo passate allo Stato.
D.: Monopolio?
C.: Era governativo dove lavoravamo a Galatina. Poi ci siamo trasferite
a Maglie…. No noi, loro ci hanno trasferito, sempre governativo.
D*.: ma quindi c’era più di una a Sternatia?
C.: Sì, a Sternatia c’era dove sono andata io il primo anno che era Ancora e Rossi. Ancora era nu ziu della Signorina Rita.
D*.: Tutta na fabbrica era?
C.: E poi del castello, dove andava lei Ancora e Rossi.
R.: Doi stessi patruni, teniane doi magazzini.
D*.: E questo era quello della stazione?
R.: Sì, insomma, a ddhai era lu magazzinu grande, e ddhai chiù picciccu.
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C.: Na settantina de persone.
D*.: E poi quali erane li altri?
R.: Dunca nc’ete lu Centru Studi.
C.: E poi alla “Kalì Zoì”.
D*.: E comu se chiamavane quiste?
R.: Specchia.
D*.: Quindi erane Specchia, Ancora e Rossi
C.: Ancora e Rossi tenevano due magazzini, uno più grande e uno
più piccolo, e Mastrolia in piazza… Quindi c’erane quattro magazzini a
Sternatia.
D.: Ma sti cristiani, li patruni, teniane puru le campagne?
C.: No. Il tabacco loro lo ricevevano da me, per esempio, che ero contadina, dalla Rosetta, da n’altra signora ca era contadina. Allora, mo poi
dire tu ca sai meglio. Si semina con la seme le piantine.
R.: Le piantine, poi l’erame tirare. Insomma cuminciavame de gennaio
ed arrivavame ad aprile, dopu lu piantavame l’erame sciaccare cu nu
bessane l’erbe e poi alla fine maggio cominciavame a raccoglierlo. De
fine maggio sina alla fine de settembre, prime ottobre ccojiame sempre
tabbaccu.
C.: Si tirava, no con le macchine come adesso. E poi, c’erane…
R.: Li tiraletti, ca li tengu sulla loggia e a ddhai ppendiame lu tabbaccu
percè l’erame infilare. È...
C.: È comu lu stendibiancheria, per esempiu. E poi si mettevano con
un filo di spago.
D.: Fino agli anni ottanta faciane… Iu me ricordu qualche cosa, cchiui
alle campagne, quando c’era lu tabaccu.
R.: Poi l’erame portare a casa, cu lu nfilamu e cu lu siccàmu annanzi
allu castellu allu sole.
C.: Poi si raccoglievano tutti a un gruppu, come le ciliegie e si pendevano al chiodo, è vero Rosetta?
R.: A certi anni se facia intra a casa per quantu tabbaccu teniame, ca
poi, na, tantu sta lampadina e tuttu lu cielu era cupertu de tabbaccu.
D*.: Ma voi lu ppendivive intra a casa dupu ca l’erave siccatu?
R.: Sì sì dopu ca l’erame siccatu lu ppendiame.
C.: A ottobre-novembre poi i padroni apriane, per esempio a novembre, il cinque, aprìa già Mastrolia o Specchia o Ancora.
R.: Poi l’erame scindìre, l’erame cacciare cu lu mintimu intra lle casce
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e poi lu consegnavame. Quiddhu ca voliane pijavane e se no: «quiddhu
non vale, allu focu, quistu nu vale, allu focu». Faciame dieci quintali e
non ni pagavane mancu cinque. Quiddhi diciane ca non bbale e nui poverieddhi…
D.: Cioè non ve pagavane in base alle sciurnate?
C.: No no questo è un conto, io ti porto dieci quintali di tabbaccu, allora la maestra tiene due persone, due operaie ca fannu la cernita ca in
questa cassa, comu la cassa ca tenimu le rrobbe, scavavane sotto, perché
nui erame furbe, … De Martignanu, mintiane quiddhu ca era cchiu
bruttu, cchiu fiaccu, nu sai… scundianu, quelle tiravano su invece e tiravane quiddha fiacca.
C.: Allora se valeva cinquantamila lire a quintale, te lo facevano quaranta chili a cinquanta e trenta chili…
R.: O te diane la menza fila.
C.: E lo prendeva il padrone, poi lo portavano sotto la cantina.
R.: Cu remoddha.
C.: Sì, se no si faceva.
R.: Se no, quandu lu faticavame se friculava tuttu e se no cu le sigarette comu faciane?
C.: Poi quando se apriva il lavoro c’era come un tavolo lungo lungo
così, operaie di qua e operaie di là, e ti davano a na volta cinquanta-sessanta di queste nserte, nfilze si chiamavano proprio e ti dovevi anche
sbrigare se no ti dicevano puru parole le maestre.
R.: Schiave erame tandu, te sgridavane.
D.: Non è rimasta nuddha mescia?
R.: None none, su morte tutte
D.: Ma le mescie erane cristiane ca faticavane meju de l’addhe?
C.: E meju!
D.: Perché diventavane mescie.
C.: Cu trasene de sutta lu padrunu.
C.: Na fiata iu sta faticava a Galatina, lì non ci davane a nfilze, ci davane a chili una cassetta più piccola, dieci chili per esempiu, e io mi dovevo sbrigare per finire insieme alle altre, guardavo la cascetta de l’altre
se stia chiu sutta, stia chiu ssusu cu me sbrigu perché non tuttu era
uguale, è vero Rosetta? Questa può dire la verità, allora se dieci chili a te
si trovava bello così grosso con la foglia fiacca, ce dovevi aprire, iu rimania a rretu per dire.
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R.: E quiddha scia annanzi?
C.: Venia quiddha da disgraziata de la mescia ca quiddha ha spicciatu
e tie no.
A.: E ce pause facianu?
C.: Pause, dalle dodici all’una.
R.: Alle sette e menza trasiame, alle dodici vessiame, all’una erame
trasire, alle tre e mezza vessiame.
C.: Allora a Galatina se faceva così, arrivavo col treno, partivo di qua
alle sette meno un quartu, arrivavo lì alle sette e venti, alle sette e mezzo
dovevo timbrare il cartellino.
R.: Quiddhe timbraane, nui no.
D*.: A Sternatia no.
C.: No, allora come entravi prendevi il numero tuo dieci, dodici; timbravi e lì usciva tutto ora e minuto e poi lo portavi al posto poi si andava
allu spoglaitoiu te spoiavi e mettevi il camice.
R.: Nui quai non teniame niente.
C.: Cu la cuffietta bianca.
R.: Niente.
C.: In testa e sonava la campanella scappando alle sette e mezzo al
lavoro e facevamo, questo tavolo c’era tanti cassettini divisi.
R.: Quiste erane diverse de nui.
C.: Quai si mettevano pasta verde, russa che dava un certo colore,
quelli che si assomigliavano di più li mettevi qua; qua mettevi foglia
chiara foglia scura e tenevo quattro-cinque di queste cassettine io, come
pure tu, stavamo lontane e le mettevamu… Allora a Galatina erane gelose
di noi, e dicevano che noi li avevamo portavo via il lavoro loro e invece
non era vero perché noi siamo andate le operaie con tutto il quintalaggio
de tabaccu ca consegnavane lì.
R.: Sì, consegnavane a Galatina.
C.: Quindi noi a loro non abbiamo tolto niente, soltanto erane gelose.
Allora erane di quelle di Galatina queste che prendevano il tabacco. (Ad
Antonella) La nonna tua veniva con me a Galatina e a Maglie. Allora passavane no, e diciane pasta verde, russa e nui mintiane certe belle fojazze
susu cu facimu cchiù figura, perché poi mpari la malizia a quiddha lu pijavane, ah se lu ziccavane e lu mintiane ddintru, se era una nu picca pizzicchiusa girava, trovava le foje e ti diceva le parole: «queste non vanno
qua, queste vanno qua».
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R.: Sì, ca poi no capiane mancu cchiù quiddhe... Tandu era lu periodu
ca l’erame scocchiare.
C.: con queste foje ca me davi tu per metterle qua a questo cestino,
io le nascondevo suttu lu… col camice. Quando passavi di nuovo quelle
foglie che mi avevi dato tu, io le mettevo sopra e poi niente te decia e
tie cacciavi propriu quiddhe foje. Allora tie capisci più pocu de mie. Però
dovevi lavorare e dovevi ingoiare.
R.: Ca la mescia Emma, ce cumbinau.
C.: Invece la Peppina no, era brava la Peppina!
R.: Sì, ca la Custantina della Maria Grazia puru era brava ddha cristiana, ma nc’era la Ndata cu la mescia Emma, focu de Santa Ntoni.
D.: Erane triste.
D*.: Ce ve faciane?
R.: Martire comu, ne sospendiane.
C.: No a noi no.
R.: Alla fabbrica nostra ne sospendiane.
C.: Alla stazione non sospendiane.
R.: Na fiata sai perché me suspendira? Allora alla Rosina de lu Strambulisciatu, stia de coste a mie ca sta faticava, li pijara lu pane, de sutta lu bancu,
cu glielu scundanu, e lu pijara a da parte du cera l’Assunta dellu Lici.
C.: L’avvucatu.
R.: Quiddhu era l’avvucatu. Allora ce fice? La Rosina poriccia disse:
«Mescia, m’hannu pijatu du picca de pane ca era nduttu», «e a ddhu stae?»
disse «lu pane nu porta piedi», disse «Rosetta tie rimani a casa». «Rimangu
a casa?» dissi iu. E invece erane quiddhi de ddha parte ca l’erane pijatu
de sutta llu bancu.
C.: E intantu tie stivi già licenziata pe du giurnu.
R.: Pe du giurnu stia licenziata, quandu vessì dalla fabbrica.
voiu te dicu, sai quanta gente suspendia da mescia Emma?
C: Sì quiddha sì, e imu fattu stu lavoru de sti colori: quarta russa,
quarta verde-russa, quarta chiara, quarta scura; quattru cinque gradazioni
e lu scocchiavame. Poi è uscita la macchina e invece loro non si son trovate alla macchina.
R.: Allu cernire? Alla machina cu lu nastru? Si me trovai, la ficime a quai
sutta. Allora c’era na macchina grande, poteva tenere dieci operaie. Lì dovevi stare sempre in piedi, io ho lavorato pure in quel punto lì. Stavi in
piedi qua, e qua dietro avevi la cassa, cassa no più a chili, cassa quanto an-
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dava andava, per chi era più svelta. Si tagliava il filo e lo sfogliavi così dentro
a questo cassetto. Questa era na macchina che lo sfogliava, era attaccatu.
R.: E tie poi eri trovare le foije?
C.: No, iu no.
R.: Nui erame cojire le fojazze.
C.: No, io non facevo questo lavoro, queste quattro-cinque, dieci operaie; dieci di qua e dieci di là. La polvere sì che volava. Questo nastro
poi faceva così e girava. Qui c’era nu corridoiu, nu corridoiu cu na banca
lunga che camminava. Ecco lì dovevano stare attente le operaie a scegliere le cose… Poi erane cuminciatu che non davano tanto peso proprio,
come facevano tanti colori, perché quello camminava, c’era tiempu?, toglievano soltanto le foije cchiù fiacche.
R.: Cchiù fiacche, le cchiù sane cacciavame nui.
C.: No, nui cacciavame sulu le chiu brutte e camminava. E poi non si
facevano più le balle come na volta, quiste de quarta, quiste de quinta.
R.: No’ li faciane allu torchiu.
C.: Allu torchiu mischiavane, faciane nu picca cusì alla bona.
D.: Le imballatrici, quiddhe non c’erane cchiui?
D*.: Quando vessia sta machina non c’erano chiui le imballatrici?
C.: Sì sì c’erane sempre, però no più come na volta, che si doveva stirare bello, si faceva un mazzo così sul ginocchio. Si prendevano, c’era
na cassetta… non era na cassetta?
R.: Na cassetta, iu lu tengu lu torchiu a casa mia
C.: Na cassetta cusì e mettevano qua dentro. Poi c’era una manovella
che giravano.
R.: Cuncettina ca tuttu du periudu cu ncasciu lu tabaccu, a ddhai a
Lecce lu ncasciava ca tenia lu torchiu. Li ultimi anni così se facia.
C.: E così se faciane le balle. Queste balle poi si mettevano nel forno,
c’era un grande forno.
R.: Nui puru teniame le stanze delle stufe.
C.: Delle stufe. Se mintia ddintru e restava ventiquattro-quarantotto
ore, quantu decidiane poi le capu loru, la maestra, lu dirigente. Perché
nui teniame lu dirigente. Nun era chiui... Era governativo. E poi le cacciavane. Toglievi la tavola, toglievi tutto, mettevi il telo, si ricucia.
R.: Allu ‘state se ricucia.
C.: No, a nui c’era nu gruppu ca facia tuttu contemporaneamente,
c’era nu gruppu ca facia na cosa….
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R.: Allu ‘state se divertia lu tadbaccu.
C.: Questo era il lavoro nostro.
D*.: E a ce ura spicciavi?
C.: All’una c’era soltanto l’ora di pranzo.
D*.: Ca rimanivi ddhai, no’ tornavi de Galatina.
C.: No, de fore paese. Si portava un panino, prima ognuno portava
nu paninu. Poi abbiamo migliorato, siccome era dello Stato e hanno portato come un frigorifero, scaldabevande, però non frigorifero, scaldabevande quantu du muru, tutto ripiani, e allora poi potevi portare un po’
di verdura un po’ qualche cosa. C’erano i tavoli, le sedie, ti sedevi, mettevi lo strofinaccio tuo e poi mettevi un segno a questi pentolini con il
manichino che si chiudevano come il bollilatte. Ognuno prendeva il suo
poi si mangiava. Poi a noi ci hanno messo la mensa.
D.: E a Sternatia com’era la mensa?
R.: Mm a Sternatia…
C.: Quai mangiavane cu le mani sporche.
D.: A Sternatia… Tie tornavi all’una, alle dodici cu mangi?
R.: Sì a casa.
D.: A casa. Non mangiavi alla fabbrica?
R.: No, no’ mangiavame a ddhai.
D.: Quindi tornavi a casa e poi…
R.: Nui a contrabbandu, la matina, lu portavame lu pane, lu mintiame
sutta lla banca, cu le mani sporche tutte polvere e stiame tutti boni
tandu… moi no voju cu te dicu.
C.: È veru!
R.: Moi no’ voju cu te dicu.
D.: Senza lu grembiule.
R.: «Tie voi nu picca de peperussu, tieni tieni cu non te viscia la mescia». E mintivi nu picca de peperussu sullu pane.
C.: Ce ha fare? Stusciavi nu picca de pane.
R.: «Tie voi nu picca de paparina? na». Iu poi ca stia vicina, ca su stata
sempre vicina diciane: «Rosetta cucina le foje, nducile, cucina le paparine
tie». Poi era mintire lu piatticeddhu qua sutta e scappava cu vau a ddhai.
Ah, de cose l’aggiu fatte ieu.
D.: Quindi non tenivi grembiule.
R.: No.
C.: No, nui stiame tutte in divisa.
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R.: No, na mantila a nnanti cusì semplice, comu lu tenivi, lu tenivi blu
biancu… Na suttaveste la facivi nu mantile.
C.: No, noi andavamo tutte uguali.
R.: Sì quiddhe.
D.: E a Sternatia fino a che annu ai faticatu?
R.: Iu finu allu sessantasette, finu all’ottnta? Perché alla Santina…
C.: Mo ti dico l’ultimo anno che ho lavorato io, sul libretto di pensione
sta scritto.
D.: Sino allu sessantasette?
R.: No qiddha dellu quarantaquattru, percè quattordici anni scii iu alla
fabbrica.
D.: de lu quarantaquattru finu…?
R.: All’ottanta.
D.: Ah, a Sternatia finu all’ottanta, sempre a ddhai allu castellu? è possibile?
R.: Allu settantatrè ccattai ieu l’Annarita e iu pijai lu premiu, allu sessantatrè, allu sessantasette puru faticai ca cattai la Santina, e puru stia lu
magazzinu apertu.
D.: Quindi finu all’ottanta hai faticatu?
R.: Finu all’ottanata è statu sempre lu magazzinu apertu.
D*.: E quale magazzinu?
R.: Sempre Rossi.
C.: Ancora e Rossi.
R.: Ancora e Rossi, iu nu cangiai mai magazzinu.
C.: Vidi quai ce annu (Al libretto della pensione).
D.: 1983
D*.: Allu quarantaquattru tenivi quattordici anni.
R: Fanne lu cuntu.
D*: De lu trentaquattru? No de lu trenta.
R.: Ah mo sciamu d’accordu.
D.: Vui de Sternatia puru iti pijatu la pensione? Ve mintiane li contributi?
R.: Sì, ma iu bisognau cu vau a campagna cu mintu li contributi.
C.: Quella l’ha presa poi come tabacchina e come contadina.
R.: E ce me dannu, seicentu euro.
D.: La minima forse.
C.: Sì la minima, ma pure io.
D.: Ma li rispettavane li contributi o li mintiane quandu voliane?
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R.: A ci voliane li mintiane.
D.: Eh quiddhu era lu problema!
R.: Ma sai quante fiate te li mintia a tie e a mie me li cacciava. Percè
no’ teniame de quiddhe ca tenimu osci, sciame cu contrullamu li contributi, cu vidimu ce ne misera.
D*.: Non c’erano i sindacati.
C.: Non c’erano i sindacati, lu collocatore c’era solamente.
D*.: E alle sette e mezza scivi, delle sette e mezza a mezzatia e poi
dell’una alle tre e mezza.
D*.: E quandu tenivi piccinni, ca erane piccicchi, li eri lassare?
R.: E iu per esempiu delle nove e mezza alle dieci tenia mezz’ura de
tiempu ca era vessire ca era allattare li fiji.
D*.: Ah, quindi te diane sta mezz’ura de tiempu cu va llatti li fiji.
R.: E poi all’ultimu tiempu me lu nduciane allu magazzinu, ma sempre
mezz’ura l’era allattare.
D.: Alla fabbrica della stazione vui sutta o supra... No dellu castello?
R.: Sopra. Poi allu ’60 ficera poi lu capannone ca poi vinne puru, ca
c’era lu nastru ddhai, le machine.
C.: Allu Rossi, allu Ancora e Rossi vinne puru lu nastru?
R.: Sì. Ca poi tandu qiuddhu lu vindiu e lu pijau lu Monosi… E poi se
chiuse da fabbrica.
D*.: E quando invece, me pare c’è statu nu scioperu me dissera.
C.: Ah sì sì, allu Mastrolia.
R.: No puru a nui ficime scioperu… Tandu stia ncinta dellu Luigi e
stia qua fore allu friscu e l’addhe fiera sciperu.
D*.: E percè scioperastive?
C.: Ah mo te dicu. Lo sciopero era così perché volevano entrare le ragazzine a lavorare di quindici-sedici anni, che primu non è ca sciane
tutte alla scola comu moi.
R.: Nisciunu scia alla scola.
C.: L’unica risorsa per le ragazze era il magazzinu e non le pijavane,
perché l’ultimu annu che pijara le apprendiste, cioè il primo anno che si
lavorava ero io e poi non hanno preso più. Allora dopo tre-quattro anni
tutte ste ragazze hanno fatto scioperu. E lo sciopero intendevano che le
persone adulte non potevano entrare a lavorare. Sbarravano il portone,
la porta d’entrata.
R.: Eh sciane a ddha rretu e non trasiane…
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C.: «Perché dobbiamo lavorare anche noi».
R.: Perché iu scia ncinta e nu ccappai a ddhu periodu, però le guardava ca iu a qua nanti abitu sempre.
C.: A fianco a me dall’altro angolo e allora poi sono venuti i carabinieri.
Perché le maestre che comandavano volevano togliere le nuove generazioni... Le nuove generazioni si erano imbestialite, perché c’era il sindacato.
R.: C’era lu collocatore tandu.
C.: L’ufficio de collocamento.
D.: A Sternatia?
C.: Sì, sotto il Comune, sai dove stava, dove c’è l’ufficio della guardia
adesso.
R.: None prima stia a ddha ssutta, poi venne trasferito alla guardia
medica.
C.: Me no, io non me lo ricordo, perché io sono andata… ma tenevo
sempre bisogno de lu collocatore, perché io, finito il lavoro dovevo andare che ero disoccupata.
R.: E li diane la quiddha…
C.: No, non ci davano niente!
R.: Perché a vui vi pagavane bonu.
C.: No perché cu te dannu la disoccupazione dovevi tenere se non
sbaglio tanti contributi, noi lavoravamo stagionali, non erame affettive…
e non raggiungiame li giurni necessari cu tenimu lu sussidiu
D*.: E comu vi pagavane?
R.: Ogni quindici giurni ni pagavane.
D*.: E quantu era lu stipendiu?
R.: Quattrucentu lire.
C.: Quando loro prendevano quattrocentoquaranta lire, per esempio,
lì abbiamo avuto un’altra fregatura dello stato. Mò vedi che dici che è
vero. Quando loro prendevano quattrocento lire io prendevo settecentosettecentocinquanta.
D*.: A Galatina?
C.: E ti davano lo stipendio come la manifattura di Lecce. Perché loro
erano affettive nui stagionate; iu lavoravo due mesi, tre mesi, massimo
quattro. Allora non rientravo a certe spese e me li davano a soldi, capito,
prendevo quasi il doppio delle giornate loro. In più la fregatura che abbiamo avuto io e tutte e sessanta operaie di Sternatia che ogni mese tenevamo due giorni di riposo se ti ricordi.
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R.: Sì.
C.: Due giorni di riposo significa che durante il mese le potevo prendere quando volevo, dal primo al 31, due giorni stavo a casa e mi pagavano la giornata . Però quella giornata l’abbiamo pianta poi, pianto, sai
quando non ci hanno dato la pensione giusta come lu stipendio, adeguata allo stipendio.
R.: Quindi erane furbi per quistu lassavane doi giurni a casa.
C.: Ce l’hanno data di previdenza sociale, no dello Stato. Quella non
è la pensione dello Stato. Mi pagavano statale ma a titolo di pensione
non era statale, perché poi iu pure se facevo quattro mesi all’anno, quelle
due giornate di riposo sai cosa significavano? Che ho finito di lavorare,
all’altro mese nuova assunzione e non scattavo mai…
D*.: Quindi de gennaiu a maggiu facivive coltivazione e...
C.: Piantazione.
D*.: Piantazione e coltivazione.
C.: E poi si raccoglie.
D*.: E la raccolta?
R.: No, da maggio fino a ottobre è la raccolta.
D*.: E poi alla fabbrica faticavate de ottobre.
C.: Me verso novembre incominciavame.
R.: Se nc’era mutu tabbaccu tiravame puru finu a maggio ma se non
c’era tabaccu puru quaranta giurni faticavame.
D*.: Senti e a Sternatia a differenza soa, comu facivive, comu faticavate
la cernita?
C.: La stessa cosa, si lavorava, se stirava.
R.: E noi l’erame mintere sulla gamba cu lu stiramu.
C.: Poi c’era comu stu tavulu rotondu un cerchio poco più piccolo, così.
D*.: Comu se chiamava stu cerchiu?
R.: Aspetta lu torchiu.
C.: No, lu dischiu… ed rea rotondo, questi mazzi poi ca se stiravane
belli comu sia se era nu libru.
R.: Li mintia qua sutta poi c’era quiddha adatta ca l’era pijare. Poi quistu dischiu lu diame a l’imballatrice
C.: Sì sì e si chiudeva, poi questu dischiu diventava così bello alto.
R.: Ca certe fite cadìa, ca lu tabbaccu era picciccu picciccu e se scjiàva.
C: Allora la maestra poi questo dischiu lo pijàva, tirava lu mazzu, perché stava con lo stelo tutto da una parte… e diceva: «questa è quarta».
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R.: Seconda, prima.
C.: Significava ca era na foglia buona e lo dava alla ballatrice che sapeva lavorare quella balla. Prima era cchiù rigoroso. Quiddha facia la seconda, quiddha facia la prima, qiuddha poi facia lu fronzone.
D*.: Quindi le ballatrici se distinguia puru a qualità de tabaccu.
C.: Erane comu i confessionili, na se non sbaglio, perché io una volta
li ho visti qua… Allora si sedevano loro, tenevano stu serviziu quai cusì
tantu largu e mettevano lu tabbaccu, toglievano qualche foglia che non
gli andava che non gli piaceva. Poi queste foglie se non andavano in
quel dischiu, le mostravane alla mescia, la mescia subito andava al punto
dove l’avevo preso e diceva: «quista ce bete» (Gridando).
R.: Na fiata ncingau cu fazza: «Rosetta quistu ce bete, Rosetta quistu
ce bete, Rosetta quistu ce bete»; vinne lu Giorginu «Rosetta sciati cu portati
le cascie allu Cumentu».
R.: Rengraziamu Diu. Ce bete, “ce bete, ce bete”, sulu la Rosetta…
Percè non chiami l’addhi?
C.: A fiate poi la prendevano con una, per esempio chi aggiustava il disco.
R.: No a tie... Ma scornavi sempre a mie. Poi lu Giorginu: «Rosetta
vieni sciati cu carisciàti le casce», se era scocciatu puru quiddhu ca facia:
«Rosetta quista ce bete, Rosetta quista ce bete»
D.: Tutte fimmene comunque, no?
R.: Sì.
C.: Allora mo vi racconto una cosa però non capitata a me, capitata
alla mamma mia, sempre di tabbacco.
D.: Ca faticava quai a Sternatia.
C.: Alla stazione. La mamma mia giustava quai stu discu.
R.: Quiddha alle ballatrici stia?
C.: No allu discu, anzi mazzi mintia ddha ssutta, tie facivi lu mazzu e glielu
divi alla mamma mia, perché non tutte le mani mettevano sotto, c’era sempre
una in questo gruppo. Allora una volta diceva Ancora, Don Angiolinu.
R.: Quiddu era bruttu!
C: Spetta. «Al prossimo pagamento vi aumento…», perché faciane le
cernitici.
R.: E le spianatrici.
C.: E le spianatrici. Dicia «al prossimo pagamento vi aumento la giornata». Rrivava lu pagamèntu, mille lire, sempre mille lire eranu, per dire.
La mamma mia se stizzau, allora disse: «era na bella balla».
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C.: Era bellu lu tabbaccu. Disse «mintiti tuttu dintru, biancu, russu,
verde, tuttu». E così ficera tutte ste quattro-cinque quai. Disse mescia Peppina , non me ricordu moi, se era la Maria Scordari, perché quiddha faticava a ddhai. Insomma la ballatrice cchiù bona ca era fare quiddha balla
disse: «sciati a ddhai allu gruppu della nonna Tina e pijati ddhu discu ca
sacciu bellu». Quiddha cristiana ccuminciau cu fazza le balle, disse «Mescia me dicisti ca è bellu ma quai ave mammata, ave lu sire, lu nonnu,
ave tuttu». La Peppina mai s’era stizzata, disse: «ce vi meritati moi, mo se
stivive allu castellu mescia Emma tutte a casa ve lassava, comunque iu a
casa non ve lassu però l’iti cernire ntorna e cu llevati tutti li colori». Allora
hannu rispustu quiste, ste quattro-cinque: « a nui, nunnu Angiulinu n’ha
promessu ca ne paga meju, allora ave tante fiate ca ne pija per fessa…
no non cernimu, mintimu tuttu comu face l’Angiulina de lu Furiànu».
R.: A quiddha li diane sempre lu fronzone.
C.: Se azza quiddha: «Ce nc’ete cu l’Angiulina de lu Furianu?», si è risentita. Disse la mescia Peppina: «Ssettate tie statte citta». Sciu lu Giorginu
Seddhone cu fazza l’appellu, disse: «quiste veramente no’ se meritane la
giornata, percè fìcera tuttu de nu colore».
R.: Lu Giorginu.
C.: No la mescia Peppina, percè lu Giorginu ce sapia, e le spompau.
«Me va bene, mo ca vene mesciu Angiulinu parlu iu cu visciu quiddhu
ce dice». Quandu vinne don Angiulinu cu porta li sordi, li mandava sempre cu…
R.: Sì, c’era unu ca venia.
C.: Non me ricordu comu se chiamava; ddha fiata vinne quiddhu
percé era successu quiddhu ca era successu. Disse: «me, cangiati manu,
perché Giorginu cu parlu iu poi cu don Angiulinu» E don Angiulinu: «tie
sinti ca facisti tuttu nu colore, tie sinti, tie sinti?». E le altre hannu pijatu
paura. Dissera: «mo le caccia, mo le caccia quiste».
R.: Sì, ca poi se mpauravane e cacciava sempre una.
C.: «Allora mo le caccia e perdono il lavoro». «È meju picca ca nienti»
diciane le persone.
R.: E stiane tutte citte.
C.: Non è come adesso ca stamu tutte… grazie a Diu. Dese la busta
disse: «allu prossimu». Allu prossimu pagamento dese la busta chiusa a
quiste, e invece a quiddhe li dese li sordi contanti. E l’addhe cuminciara
cu dicane: «e percé a quiddhe la busta chiusa?». Allora hannu male pen-
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satu ca li misera de cchiui. Vedi quantu si doveva discutere prima
R.: Per cinque lire, per dieci.
C.: Sacrifici cu mangi, cu le mani sporche. E poi a Sternatia nc’era
naddha abitudine che con la menza dell’acqua, questo lo potete dire mo,
la menza ca piji l’acqua alla funtana, quando non teniame fontana sciame
cu la menza cu pijavamu l’acqua de la funtàna.
R.: Centuventi persone erame bivire intra ddha menza; zziccavame
l’acqua e biviame, ziccavame l’acqua e biviame. E quandu rimania de lu
sabatu allu lunidia puru biviame ca no’ potiane scindire cu pijamu acqua.
C.: Ca chiuvia o facia friddu. E invece noi poi a Galatina…
R.: E invece quiddhe stiane sempre pulite.
C.: Nui portavame la bottiglina piccola si riempia allu rubinettu, perché
tandu non è ca c’era acqua.
R.: Non teniame lu rubinettu nui.
C.: Ecco e la purtavame nanti allu postu.
R.: Menu male ca teniame la funtana qua nanti.
D.: Vabbè ma ste cose fino all’ottanta?
C.: Poi hanno cambiato.
D.: Negli anni settanta-ottanta.
R.: Si ca ficera li rubinetti quintru. Dopu lu sessanta ficera li rubinetti.
D.: Allu bagnu se putia scire quando volivi?
R.: Me sì, allu bagnu sine, e caspita.
D.: Dopu ficera lu bagnu e invece prima non c’era mancu lu bagnu.
R.: Sì lu n’cera unu.
C.: Unu pe tutte.
R.: Unu pe tutte, unu pe centuventi.
C.: No invece noi a Galatina c’era comu quando…
R.: No ca nui poi ne ficera na decina, non te ricordi?
C.: No.
R.: Tie non faticasti va bene. E quandu fìcera lu capandone quai, poi no’
fìcera cinque bagni? A ddhai nc’era li bagni, a ddhai nc’erane li rubinetti.
C.: Ma spetta na cosa, iu quistu no’ lu sacciu, de lu Giuseppe.
R.: Lu capandone de lu Giuseppe, quiddha era la fabbrica.
C.: De quai all’Indinu, al Centru Studi Chora-ma cu lu capandone “Kalì
Zoì”, quiddhu comuniacava?
R.: Sì se aprìa.
C.: Infatti te l’ho detto. Io no l’ho visto mai comunicante però.
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D.: E comu facìa cu comunica? Poi non c’è la scala della dottoressa
Specchia a nu puntu?
R.: None de ddha intra sciame addhintru.
D*.: No... Ca moi stae tuttu chiusu, ca lu Centru Studi poi dietro ha
delle stanze.
R.: Non c’ete lu tavulu dai allu Centru Studi, non cete lu stanzinu ca
trasi intru, de ddhai poi nc’era la porta aperta ca sciane, a ddhunca face
le visite lu professore c’era la cantina ddha ssutta e bèrame scindere lu
tabbaccu.
C.: Sai ce bellu ddha ssutta, sono scesa una volta.
R.: Poi quandu misera li nastri ca fice lu locale alla “Kalì Zoì” tandu
poi vinnera trasferite a ddha parte, e a qua parte teniane depositu. Invece
tutte de stanze finu supra addhune moi dormiane li fiji della Grazia, va
bene, se trase de la cucina e se vae a ddhintru, a ddha parte c’erane doi
stanze addhe ca era depositu, ca poi de sta scala stritta stritta, e invece
poi quando sera salire ca la giustara la scala se largau tantu, e quiddhe
cu salene de casce a ddha susu erane crepare.
C.: No, non era cumu moi cu l’ascensore. No, noi a Galatina e a Maglie
era più organizzatu.
R.: Na fiata poi sequestrara na partita de tabbaccu ca le casce sciane
centuventi chili, va portale ddhai alla Mariatè all’ultima stanza.
C.: Alli cinque cambarini.
R.: Alli cinque cambarini, ca nui erame portare sempre alli cinque
cambarini.
D.: Quiddhi supra supra.
R.: Supra supra a ddhu stae la Mariatè.
C.: Lu papà miu faticava a ddhai però, come invalido di guerra, ogni
tante operaie ci doveva essere una persona invalida.
R.: La guardia diciame nui.
C.: No, una persona invalida. Mio padre poi era falegname perché dovevano fare qualche cosa, giustava le casce quando se rumpiane, facia
dei lavori.
R.: Ca quiddhu poi, era la stanza soa addintru allu garage a ddunca
mintia la machina primu cu la mintu a casa mia, sutta allu castieddhu.
D*.: E quai alle fabbriche de Sternatia le fimmene ca faticavane erane
sulu quiddhe ca portàvane lu tabbaccu.
C.: No no.
90
D*.: Non faciane sta differenza.
R.: Anche se tenivi lu tabbaccu te lassava a casa e tie te raccomandava
e scivi.
D.: Ma se potia cantare intra alla fabbrica?
R.: Erame stare citte.
C.: All’ultimu giurnu.
R.: Quandu se spicciava lu tabbaccu ca nn’ sciame cchiui, tandu si ca
cantavame.
D.: E ce se cantava.
C.: Cose della Quaresima, se poteva dire il Rosario.
R.: Me, ca lu giurnu se dicia sempre lu Rosariu.
C.: No nui no.
D.: La mattina la preghiera no?
C.: La preghiera del mattino.
D.: E te ricordi qualche cantu ca se facia?
R.: Non sacciu de cantare.
D*.: E delle ballatrici non ave nisciuna viva?
R.: No tutte morte.
D.: La Maria Scordari era ballatrice.
C.: Forse ca rimase quiddha sula.
D.: La mamma di Giorgio Filieri.
R.: A nui nn’ rimase nisciuna percé la Nzina dellu Liri, la Nzina Panzetta, la Lea Speranza, le Tomene, le Cesarine, quiddhe erane tutte, la
Lucia, la Cesarina.
C.: Forse dellu gruppu miu c’è sulamente la Maria Scordari e non me
ricordu nisciun’addha.
D.: Ma per esempiu alli padruni c’erane cristiane ca portavane qualche
cosa delle campagne?
R.: Sine nc’erane.
C.: No aspetta, quiddhe delle campagne, va bene, se teniane li fondi
loru, portavane; se no, non portavane, però tutte le operaie, è vero, se
c’era una che organizzava, e diceva: «me arriva Pasqua».
R.: L’erame portare l’ovu. Tantu allu Giorginu tantu alla mescia.
R.: Nui per esempiu rrivava la fiera, nui operaie, allu bancu nostru,
mintiame cinque sordi a petunu e cattavame nu chilu de castagne e poi
quante te spettavane, una l’era misurare sutta allu bancu dieci a tie, dieci
a tie, dieci a tie.
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C.: De nascostu della mescia queste cose.
R.: Sempre de nascostu della mescia.
C.: Oppure se calavi doi quiddha facia finta ca non vide e calava.
R.: E scia ntorna all’addhu gruppu e pijàva l’addhe e scia sempre mangiandu castagne.
C.: Poi quando le cose sono migliorate non era più l’ovu.
R.: Ce bera?
C.: Portavame le cose chiu meju.
R.: No nui.
C.: Sempre ove portastive vui?
R.: Sempre ove.
C.: Nui a Galatina…
R.: Vui erive diverse de nui.
C.: Nu pocu de liquori, nu bellu vassoiu de dolci, erame ccuminciatu
ca le cose erane diverse.
R.: Ah nui ste cose non le teniame.
C.: Nui quandu spicciamme?
D.: All’ottantatrè.
C.: Rivamme cu facimu li regali meju, oppuru quandu lu dirigente, comprava il bambino la moglie, faciame lu regalu, cinquemila lire petunu.
C.: C’erane quiddhe ca teniane cchiu mute caddhine e portavane doitre ove.
D.: Verdura no, per esempiu?
C.: No, quelle erane poi cose personali.
D.: C’era quiddha chiu ruffiana?
C.: Mm, brava.
R.: Na fiata iu, ca tenia la campagna marituma, me fici li cardi cu vessane bianchi, me li cofinau cu la terra, certi cardi belli cusine, na fiata
dissi a marituma: «me Fiore tre chiante li le portamu alla mescia Emma,
ca tutti portane e nui non portàmu nienti». Quando li li portai ce fice
quiddha: «di cardi non baliane e iu li minai». «Li minasti?», mai cchiui li
portai nienti, ca se ficime tanta fatia cu vessane bianchi, percè tandu non
c’erane li cardi ca li pregavane cu bessane bianchi.
C.: Una volta al mese ci davano una stecca di dieci pacchetti di sigarette. Quando ebbi, aspetta comu se chiamavane mo….
R.: Nazionale?
C.: Nazionale. Quandu invece era Pasqua e Natale ce le diane de quiddhe cchiù bone. Non me ricordu mo le cchiù bone comu se chiamane.
92
D.: Le Alfa?
C.: Iti chiedere mo...
D.: Vabbè le Marlboro non c’entrano.
D*.: No, le Marlboro non suntu americane.
R.: None, le marlboro non le c’era.
A.: MMS.
D.: O le Alfa o le MMS.
C.: Le MMS erane quiddhe cchiù economiche ca ni diane na stecca
allu mese, non me ricordu cchiui.
R.: Alfa erane, le sigarette Alfa.
D.: Certu sape intra a la fabbrica ce odore de tabaccu…
C.: Sì ma però fatta l’abitudine non te lo sentivi più.
A: Ma questo succedeva a Galatina e a Maglie, a Sternatia no?
C.: A Galatina e a Maglie tutte e due.
R.: A Sternatia none, invece nui erame schiave nui sempre nu teniame
suffraggiu de nienti… Na fiata la mescia ccuminciau cu fazza gridi gridi,
rispunde lu Peppinu dellu... La finestra stia aperta disse: «e non basta mo
quantu ave? no’ su cristiane comu a tie?, chiuditi la finestra!» (la mescia).
D.: Ma sta Emma era sposata?
R.: Cine quista? Quista sì, ci era la socra della Lucia Longu.
C.: la Liliana la conosci?
D.: Longu?
C.: Sì, ca tiene per maritu lu…
R.: Lecce.
C.: Comu se chiama quiddhu.
R.: Michelangelo.
D.: Ah Michelangelo.
C.: Ca tiene na bambina piccola pure.
D.: Sì.
R.: La nonna di questa.
D.: Quindi era sposata tenia fiji.
R: Sine tenia li fiji.
D.: E venia pagata de chiui sta cristiana
C.: Sì era mescia.
D.: Non faticava però?
C.: No ordini.
D*.: Ah ordinava e basta
93
D.: Non minava le mani?
D*.: Guardava e basta?
R.: Sì stia ssettata, cu vascia e vegna.
D.: Ma vi alzava mai le mani.
R.: No sulle mani mai.
D.: Gridi ve facia.
R.: Gridi ca minava… comu pezze de piede ni facia. Ca iu no’ suntu
una ca gestimu, ma quiddha sai comu gestimava?
C.: La Ndata era de cchiù cosu.
R.: None la mescia Emma te facia cu piji velenu…
C.: No la Peppina no. La Peppina mo sai chi era? La Graziella quella
che gli ho morto il marito adesso.
R.: Ca morse lu Pippi.
C.: Di fronte alla Zia Concettina.
R.: Annanzi alla stazione. Reale che tiene due figlie la... e la Enza.
D.: Che la Enza è maestra di Samuele.
C.: Di Samuele. La nonna sua, ete la maestra de Ancora.
R.: La mamma de mammasa.
C.: Sì la nonna sua.
D.: Era diversa.
C.: Sì quella non licenziau mai persone.
R.: Sì ca nc’era l’Assunta de lu Panzetta o la Peppina de lu Panzetta,
quiddhe non licenziara mai. La mescia Emma sulamente con la Ndata
era...
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Intervista a Margherita Marti
Luogo e data: ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Margherita Marti;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 29/05/1930;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrata all’estero: no;
Intervista di: Desiré Maria Delos, Daniela Gemma; Antonella Marti.
D.: Margherita, hai faticatu a Sternatia?
R.: Sì!
D.: : Allu Ancora?
R.: Don Angiulinu Ancora.
D.: Ma a quale? A quiddha della stazione?
R.: No, allu castieddhu!
D.: : Ma addhai, sutta erane le fabbriche?
R.: Prima erane susu, stìame susu! poi nc’erane cinque camerini ca
stìane ancora cchiù susu de lu lavoru ca facìame nui. Addhassusu mintìame
tutte le mballe: dopu lavorate, le ncatastavame su li cavalletti susu alli cinque camerini (cusì li chiamavanu) e nui poi allu periudu d’estate, dopu ca
erame spicciatu tutta la lavorazione ca facìame, scìame ddhassusu cu le
facimu scindere percè quiddhe se llentavane poi, percè standu l’una susu
all’addha se formavane, no? Percè quiddhe stiane fatte cu nu stozzu de
pezza… e nc’era propriu lu cosu ca le mballava cu lla balla… Nui fimmene,
tante fimmene, lavoravame lu tabaccu, mintiame lu biancu cu lu biancu,
lu colaratu cu lu coloratu! Facìame la cernita e poi lu facìame a mazzettini
mazzettini. E nc’era sta mballatrice, dicìame nui, e lu cconzavanu intru stu
cosu quai, lu ttaccavanu forte e lu portavane ddhassutta ddhunca faticavame nui. Poi all’estate nui scìame cu nducimu le balle; dopu ca erame
fattu tuttu lu lavoru, nc’era quiddhe chiù giovani, chiù forti, quiddhe ca
cumandavanu, cu pponnu dividere le balle e poi le ncatastavane ntorna.
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D.: A quali anni hai faticatu a Sternatia, te ricordi?
R.: Iu finu allu cinquantunu sicuru, poi nu ssacciu! percè rrivai cu cattu
ddoi fiji, perché tandu ne li portavanu ddhassusu cu llattanu. Tandu pe’
l’allattamentu ne diane menz’ura: ne portavane li piccinni ddhassusu allu
magazzinu e li facìame llattare na menz’ura.
D.: Versu la matina?
R.: Sì, alla matina, percè all’una vessìame. Allu pomeriggiu poi erane
chiù picca le ure ca facìame, percè fina alle tre e menza faticavame:
scìame all’una e vessìame alle tre e menza, allora li piccinni nun ce li
portavane. Alla matina, quandu erane le dieci e menza, ne li portavane!
D.: Alla matina a ce ora scivi?
R.: Alle sette e menza!
D.: Dellu lunedì allu sabatu?
R.: Sì!
D.: La pausa pranzo?
R.: Pausa pranzo nun c’era! mentre faticavi, mozzicavi nu picca de
pane de sutta lu mantile ca portavi.
D.: No tornavi a casa?
R.: No no, alla menzatìa sulamente! alla menzatìa precisa vessivi e poi
all’una precisa t’eri trovare allu lavoru. Faciame na cursa dellu castieddhu
cu rrivi a casa, finchè davi cu llatta allu piccinnu e poi eri scappare antorna allu lavoru.
D.: De ce annu sinti tie Margherita?
R.: De lu trenta!
D.: Quindi hai ncignatu a quindici anni? allu quarantacinque?
R.: Sì!
D.: Finu allu cinquantunu?
R.: No, allu cinquantunu tenìa lu Dunatu, poi l’addhu piccinnu, poi
vinne la Gabriella allu cinquantacinque, ca stia sempre cu mmie allu lavoru.
D.: Ma hai faticatu a addhi paesi?
R.: No, sempre allu castieddhu! Prima stìame susu, poi ficera nu locale
addhunca dicìane ca lu barone cicala futtia li cristiani... ddhannanzi allu
portone nc’ete nu bucu, e nui faticavame intra llu landrone.
D.: E la fabbrica finu agli anni Settanta era aperta? o puru prima chiuse?
R.: chiuse prima. Prima de lu settanta te lassavane a casa, prima doi
giurni poi doi giurni...insomma...
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D.: E te ricordi gli scioperi? com’erane?
R.: Sì sì, cu li manganieddhi ne secutavane.
D.: E perché si scioperava?
R.: Se scioperava percè no tenìame lavoru, percè volìane cu chiudene
lu magazzinu... propriu precisu nu me ricordu!
D.: Mmm... e vinnera li poliziotti cu li manganieddhi...
R.: Sì cu li manganieddhi, cu no trasimu intra llu magazzinu, percè facìane scioperu e allora erame stare o tutti fore o intra lu magazzinu; e
nui ni mintìame nnanti llu castieddhu... e la paura tandu.... non c’erane
pistole, c’erane addhe cose; cu li manganieddhi tandu... portavane li manganiedddhi... Ma nui tandu erame giovani e scappavame...
D.: Tutte fimmene erivu vui allu tabaccu? non c’erane masculi?
R.: C’era sulu lu Giorginu Seddhone, ca era lu capusquadra.
D.: E poi nc’erane le mescie...
R.: Sì, la mescia Emma, la mescia Ndata...
D.: Ma le mescie erane percè erane fije de padruni, percè?
R.: No no, li padruni sapiane ca quiste se erane comportate bonu allu
lavoru, capìane qualche cosa de cchiui de l’addhe e le mintìane comu
mescie.
D.: Quindi erane le cchiù capaci, le cchiù brave potimu dire?
R.: Sì sì.
D.: Erane severe?
R.: Beh sì, a ci volìanu!
D.: Perché nc’era a ci sgridavane de cchiui e a ci de menu?
R.: Eh! per esempiu se li portavi nu carciofu o qualche cosa addha, te
portava n’cielu! ma se na cristiana no tenìa, era faticare; eppuru se faticava cchiui de l’addhe, sempre rimproverata venìa.
D.: Te ricordi quantu ve pagavane?
R.: Qualche lira...
D.: Ma ogni mese o ogni settimana?
R.: Ogni quindicina, ma non me ricordu quantu ni dìane; non era na
somma mutu alta, però insomma... tandu erane sordi.
D.: Ma vi mintìane puru li contribbuti?
R.: Non ce li mintìane ogni giurnu, ma ogni settimana o ogni quindici.
Pe tutta la fatìa ca imu fattu, non vase la pena…
D.: E faticavi de novembre a...? chiù o menu quanti mesi?
R.: Guarda c’era nu perìudu ca ccuminciavame versu settembre, ca
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consegnavame lu vecchiu e poi ni dìane lu novu e faticavame allu novu.
Comunque le fisse, quiddhe ca faticavane sempre, cuminciavane a settembre-ottobre, ca cojìane lu tabbaccu, finu a marzu-aprile se nc’era lavoru, se no se stìane ferme puru nu paru de misi.
D.: Quante erane cchiù o menu allu castieddhu? chiui de centu?
R.: Ma, no sacciu... me ricordu ca erame mute; poi c’erane certe ca
faticavane sulu cu carìsciane lu tabbaccu de sutta a susu, ddhai a nui cu
lu faticamu. Erane quattru.
D.: Allu castieddhu c’era don Angiulinu Áncora, e alla stazione puru?
R.: No no, alla stazione era n’addhu... mo non me ricordu, percè poi
se trasferìra a Maglie quiddhi... Poi c’era lu Mastrolia ca tenìa n’addha
fabbrica.
D.: E quale ete quista? quiddha de la chiazza?
R.: Sine, quiddha!
D.: Ma quiddha era cchiù grande de quiddha de lu castieddhu?
R.: No, quiddha de lu castieddhu era cchiù grande! Allu castieddhu
erame cchiù mute de tutte le fabbriche ca nc’eranu.
D.: quandu li piccinni ciriscìane, nc’era na stanza ddhai ddhu potiane
sciocare?
R.: No no, nienti.
D.: Vi trattavane bone allu lavoru? usavane maniere forti? erane severi?
R.: Eh bone, quiddhu era lu lavoru, non c’era addhu. No, maniere
forti no! L’unica cosa, la mescia cu se fazza bella magari nnanti allu padrunu ni gridava: «sbrigativu, qquai no se perde tempu!».
D.: Senti Margherita, ma se potìa cantare qualche canzone?
R.: No, sulu la preghiera alla matina. Una ccuminciava e poi l’addhe
rispundìane gridandu.
D.: Quindi non cantatavivu?
R.: No’ te facìane, percè facìane mutu remore, rimbombavane!
D.: Alle campagne invece se potìa canatare, no?
R.: Si, ma no quandu cojìvi lu tabbaccu, ca tandu eri stare ngucciata
e no te vessìa filu la voce, comu facivi? quandu tiravi l’erbe de menzu lu
granu cantavi...
D.: E cu le addhe operaie scivi d’accordu?
R.: Sì sì, tutte amiche! percè poi stìame a gruppi gruppi. C’era nu tavulu lungu lungu, ma stìame divise: nu gruppu tenìa tante nserte de tabaccu ca le scocchiavame cu le nfilamu, n’addhu gruppu tenìa addhe
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nserte... Me ricordu una sulamente ca me tenìa sempre le difese; iu era
sposata e sta ccattava lu Donatu. Allora nc’era una nnanzi a mie, ca no
stae quai a Sternatia moi, e me facìa sempre schiattu, ogni fiata ca mangiava me facìa schiattu; mangiava cardi cu lu pane e facìa «ah, ce su bbelli
sti cardi!!!». Fice sta cristiana: «tie n’addha fiata quandu voi cu mangi,
vanne intru lu bagnu e mangia, filu ca voi cu faci schiattu! e tie, Margherita, mo ci vai, vanne allu sciardinu de darretu casa toa, ca nc’ete na
chianta de cardu, tira na chianta e cucinala, e dinne alla faccia soa!». Me
tenìa le difese quasi, sta cristiana quai era vecchiareddha.
D.: Ma capitava ca per esempiu faticava la fija, la mamma, chiù generazioni?
R.: No no, anzi a sta cristiana sì, nc’era puru le fije ca faticavane! C’era
la Nzina, la soru della Maria, la Peppina e la Maria... faticavame tutte insieme, erame vicine de casa e allora scìame tutte de paru.
D.: Ma de nvernu facìa friddhu?
R.: Sine, facìa friddhu, ma scìame sempre nude, filu comu a moi ca
mintimu cappotti; iu tenìa sempre na veste de cotone scollata, e scìa alla
fabbrica cu le mani retu llu culu cu me scarfa quandu vessìa... senza cappottu, senza scialle, senza giacche, cussì era. Allu periudu de guerra
scìame daveru senza scarpe...
D.: Beh, meju moi, no?
R.: Quandu a tornare addhe epuche, è meju cu no tornamu propriu!
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Intervista a Pantalea Chiriacò
Luogo e data: Sternatia, 23 Ottobre 2008;
Nome dell’intervistata: Pantalea Chiriacò;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/05/1927;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrati all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi.
D.: Motte jenniti?
R.:: Primo Maggio, 1927
D.: Ipù? Si’ Chora?
R.: Umme!
D.: Ti èkanne motte isone plo’ ggiòveni?
R.: Tikanè!
D.: Ma echi puru polemimmèna so’ ttabbàcco?
R.: Capoca!
D.: Hai faticatu fore dell’Italia?
R.: None.
D.: Quandu ccuminciasti cu fatichi alla fabbrica?
R.: A quindici anni (1942 forse!)
D.: Pe’quantu tempu?
R.: Finu allu settantatrè-settantaquattru.
D.: A ce ura scivi e a ce ura lassavi?
R.: Dalle sette e mezza a menzatia e poi dall’una menu nu quartu
sciame ntorna e alle tre e menza veniame.
D.: Quante fabbriche avìa a Sternatia?
R.: Cinque. Alla chiazza nc’era quiddha de don Antoniu, sutta lu castieddhu nc’era li Specchia, poi nc’era don Angiulinu Ancora ca stia a
Galatina, poi nc’era alla stazione e allu conventu.
D.: A quale fabbrica faticasti?
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R.: Allu don Antoniu Mastrolia.
D.: Quante fimmene erive?
R.: Prima erame na cinquantina, poi no pijavane mancu cchiui.
D.: Facivive pause?
R.: None, ce dici.
D.: Tie ce facivi alla fabbrica? La spianatrice? Lu mballavi?
R.: Sine, stirava lu tabaccu... le mballature erane addhe.
D.: Nc’erane le mescie?
R.: Sine, moi una è morta e l’addha no vale nienti.
D.: Scivivu d’accordu cu le mescie?
R.: Poca! Avìa le cchiu triste puru... per esempiu quiddha de sutta lu
castieddhu, la mescia Emma la cuntavane trista.
D.: Comu veniane scelte le mescie?
R.: Avia quiddhe ca facìane la prova e quiddhe ca invece se giravanu
nnanzi llu padrunu... e puru se non erane bone cu fannu nienti, diventavane mesce...
D.: Nc’erane bagni? intru o fore?
R.: Sine, intru nc’era na stozza! All’ultimu l’erane fattu bonu.
D.: Incinte scivivu cu faticati?
R.: Poca! Poi vessiu la legge e, quandu stivi alli sei mesi, potivi lassare
e te diane lu stessu li sordi.
D.: Quante razze de tabaccu nc’erane?
R.: La santujaca, la verustizza.
D.: Nc’erane forestiere ca faticavane?
R.: None, pijavane sulu quiddhe de quai.
D.: Ogni quantu vi pagavane?
R.: Lu don Angiulinu ni pagava ogni quindici giurni, lu don Antoni
invece no se capìa... quandu volìa quiddhu.
D.: Vi mintiane li contributi?
R.: Quiddhi ca voliane...
D.: Nc’erane sbarre alle finestre?
R.: None, non c’era nienti... forsi sulu alli magazzini, se no rubavane.
D.: Mintivivu qualche grembiule?
R.: Na stozza de mantile nnanzi.
D.: Ma tie hai sciperatu? Percè?
R.: Sine, allora... percè voliane cu dannu picca o no’ pijavane cristiane.
D.: Ci facìa l’appellu?
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R.: Avia unu de Zollinu allu don Antoni ca lu facia de matina; se non
c’era lu facia la mescia.
D.: Potivivu cantare e scherzare intru alle fabbriche?
R.: Nsomma... cu lu don Angiulinu nu picca, ma cu lu don Antoni
none, quiddhu era chiù tristu.
D.: Parlavivu a griku tra vui?
R.: Sine.
D.: Nc’erane masculi intra alle fabbriche?
R.: Sine, nc’era qualchedunu ca era carisciare le casce pisanti, se no
lu faciane le fimmene chiù grosse.
D.: Perché chiusera le fabbriche?
R.: Perchè nu se chiantava cchiui tabbaccu.
D.: Facivivu visite allu dottore prima cu trasiti alla fabbrica?
R.: None visite... sulu quandu sciame incinta cu pijamu la carta, se no
nu ci diane li sordi.
102
Intervista a Annamaria Scarpa
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Annamaria Scarpa;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/04/1932;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrati all’estero: no.
Intervista di: Desiré Maria Delos.
D.: Sei mai stata all’estero?
R.: No no, soltanto a Lecce ho lavorato per undici anni quando hanno
chiuso la fabbrica di Maglie.
D.: Alla manifattura?
R.: No, stavo proprio in direzione, vicino a porta Rudiae.
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Prima ho lavorato qui a Sternatia perché la mamma mia faceva la
maestra e poi era parente de lu proprietariu de lu magazzinu. A tredici
anni sono andata a lavorare ero piccolina.
D.: Quindi negli anni quaranta più o meno. E per quanto tempo hai
lavorato?
R.: Quanti anni faticai a Sternatia no me ricordu percè era vagnona,
però lu governu chiuse le fabbriche de Sternatia e prima ni portara a Galatina e poi a Maglie e su stata più o meno na trentina d’anni a Maglie.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia, quale ti ricordi?
R.: Me ricordu quiddha de don Cici, quiddha de don Antoni e quiddha
de don Angiulinu Ancora.
D.: E tu in quale hai lavorato in quella di don Angiolino Ancora?
R.: Sì, ho lavorato sempre lì perché erano cugini con la mamma mia.
D.: Ti ricordi più o meno quante eravate nella fabbrica?
R.: Uh ca erame tante mo no me ricordu lu numeru precisu, però
erame parecchie.
D.: Tutte di Sternatia?
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R.: Sì.
D.: Quali erano gli orari di lavoro, a che ora iniziavi?
R.: Alle sette e menza eri stare già intru la fabbrica ca se no chiudiane
le porte. E poi finu alle tre e menza.
D.: E facevate la pausa a pranzo?
R.: A menzatia vessiame nu pocu sciame a casa e poi all’una tornavame.
D.: Che ruolo avevi tu?
R.: Quando era vagnona stia alla cernita a filze, poi aggiu passatu all’imballaggiu, ca tandu se usava lu mballaggiu due cassette lunghe e lavoravame a file, le balle le giustavame intru a la cascetta, dopo si è
dissusata questa cosa e faciame le balle de torchiu e abbiamo continuato
sempre così puru quandu stiame a Maglie. Poi sono passata a Lecce alla
direzione, stia allu telefonu a ddhe cose. Poi a Maglie passai alla cernita
a filze dove scocchiavame lu tabbaccu e poi lu diame alle operaie cu lu
sfilane sullu nastru.
D.: Com’era il rapporto con il capo, con il datore di lavoro?
R.: Per me era buonissimo, sai percè, ca iu era la prima delle classifiche, de quiddhe ca classificavane.
D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica?
R.: Ogni annu non era uguale a l’addhu. Na fiata fice ottu sciurnate,
n’addhu annu quaranta giurni, n’addhu ancora nu mese, poi quando
sono passata alla direzione, ho lavorato tutto l’anno.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano ti ricordi?
R.: Lu santijaca, lu salluccu, la peristuzza, la zagovina.
D.: Qual era la più pregiata?
R.: Le cchiu bone erane la zagovinaa e la santijaca.
D.: Te ricordi se c’erane le sbarre alle finestre?
R.: Sì sì.
D.: E perché mettevano le sbarre?
R.: Cu no trasene cu rubane no.
D.: Ti ricordi quanto prendevi al giorno?
R.: No’ me ricordu ca ormai su passati tanti anni.
D.: Comunque in base al ruolo che svolgevate prendevate di più o di
meno.
R.: L’imballaggiu teniane lu cchiu mutu e l’addhe teniane lu cchiu picca.
D.: E vi mettevano i contributi?
R.: Sì sì.
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D.: Ti ricordi qualche sciopero?
R.: Sì, anzi quando scia a Lecce certe fiate li facia li scioperi certe fiate no.
D.: E qua a Sternatia hai mai partecipato a qualche sciopero?
R.: No.
D.: E mi hai detto che la mamma tua era mescia?
R.: Sottomescia.
D.: E come si chiamava la mamma tua?
R.: Ancora Vincenza e lu padrunu era Ancora Angelo perché erano
cugini.
D.: Qundi diciamo che per parentele venivano scelte le maestre o le
sotto maestre?
R.: A, no me ricordu.
D.: Indossavate una divisa?
R.: A quai no, ma quando sciame a Maglie o a Lecce indossavame lu
camice, ca ancora lu tengu.
D.: C’erano degli uomini all’interno della fabbrica?
R.: Certo certo, a Maglie sì.
D.: A Sternatia?
R.: A Sternatia nc’era solamente lu guardianu.
D.: Ci hanno detto nu certu Giorgio..
R.: Lu Giorginu Matteo diciame nui, ma quello non era un operaio,
era comu na specie de ragioniere ca facia l’appellu tutte le matine, facia
tutte ste cose.
D.: Si poteva cantare nella fabbrica?
R.: A, cantavane certe vote, quando era in fine lu lavoru cantavane.
D.: Come parlavate tra di voi in griko?
R.: In griko, ma iu parlava lu dialettu percè sirema era de Sulitu e parlava in dialettu.
D.: Ti ricordi perché venne chiusa la fabbrica?
R.: Percè li pijau tuttu lu statu e toccamme cu sciamu.
D.: E tu avevi i figli, li portavi ad allattare?
R.: No non c’era ste cose, quandu fici li fiji sci poche fiate alla fabbrica
fici poche sciurnate.
105
Intervista a Vincenza Antonia Villani
Luogo e data: Sternatia, ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Vincenza Antonia Villani;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 23/11/1927;
Residenza: Sternatia;
Professione: sarta in pensione;
Emigrati all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desirée Maria Delos.
D.: Che cosa ti ricordi tu del tabacco o delle fabbriche di tabacco?
R.: Io non mi ricordo molto, l’unica cosa che mi ricordo è che c’erano
queste fabbriche… Anche mia madre andava e mi ricordo che lei veniva
ad allattare i miei fratelli più piccoli; sai da dove veniva? dal castello,
ecco lì c’era il magazzino. Io portavo i miei fratelli da mia madre che li
allattava e una volta mi sono permessa di dire «posso salire a vedere la
sopra?» e allora mi ha detto «se la maestra non ti vede, puoi salire». Alcune
volte capitava che certe persone volevano salire per intervistare o per
vedere le tabacchine che lavoravano, ma le maestre non volevano perché
le operaie perdevano tempo e dovevano lavorare.
Una fabbrica era di don Angiolino Ancora. Prima per rispetto nei confronti dei ricchi si usava chiamarli don Antonio, anche per le maestre
donna Lucia, donna Ines.
D.: Questi ricchi, i proprietari delle fabbriche erano di Sternatia?
R.: Sì, sì.
D.: Ce n’era uno che era proprietario di una casa dove abita la nipote,
quella ragazza che abita vicino al fioraio, che ha due bambine.
R.: La Bernardetta.
D.: Il nonno di questa ragazza era proprietario della fabbrica quella lì
vicino?
R.: Si della fabbrica dove adesso c’è la farmacia, la banca, però lì era
magazzino prima che lavoravano il tabacco, dove c’erano le tabacchine.
106
Poi sai cosa succedeva che chiamavano le ragazze per lavorare e alla
fine non le facevano lavorare e allora scioperavano.
D.: Ecco raccontaci un po’ di questo sciopero.
R.: Quando hanno fatto questo sciopero sai chi era sindaco il nonno
della Deborah, della Elsa, Chiga Giovanni.
D.: E questo in quali anni, negli anni sessanta?
R.: Me questo non ce lo ricordiamo. In pratica i concessionari, i padroni delle fabbriche, quando le tabacchine più grandi andavano in pensione, non assumevano più le apprendiste e queste scioperavano. E
quando cercavano di entrare nelle fabbriche, non le faciane trasire. E
quiddhe se tiravane, comu fannu moi alle manifestazioni.
D.: E c’erano carabinieri o polizia?
R.: Sì. E quando arrivava l’età ca s’erane congedare la mamma mia
me ricordu dicia don Pippi Rossi… sai dove c’era un magazzino dove
c’è la Kalì Zoì e anche sai dove al Centro Studi Chora-ma, anche c’era
un magazzino. E alla Kalì Zoì andava mia sorella quella che abita a Caprarica e poi c’era la fabbrica de don Cici.
D.: E delle mescie te ricordi qualche cosa?
R.: Allora quiddha de lu don Angiulinu Ancora era la mescia Emma no.
D.: La mamma di Giorgio Longo?
R.: No, la mamma di James, poi c’era la sorella di donna Emma, mescia Ndata.
D.: Ma queste erano persone benestanti, come mai venivano scelte?
R.: Venivano scelte perché capivano un po’ di più di tabacco o come
fiducia del padrone. Una zia mia pure ha fatto la maestra nella fabbrica
dove prima abitava Maurizio Leone.
D.: A, lì pure c’era una fabbrica?
R.: Sì, che le stanze sopra sono rimaste come erano.
D.: Ma quella era una delle prime?
R.: Sì, che io me la ricordo perché me lo raccontava la mamma mia.
D.: Senti mescia Nzina, tu che eri la sarta di uno dei padroni, ti parlavi
con lui avevi un rapporto confidenziale?
R.: Insomma, io andavo da don Cici e dal nonno della Bernardetta.
D.: Quindi cu quiddhu no parlavi no te cuntava della fabbrica?
R.: Solo quando andavo a don Cici c’erano delle signore che mi facevano delle domande; mi chiedevano dove avevo imparato a cucire. E
una cognata di don Cici che si chiamava donna Luisa, voleva sapere
107
come facevo a cucire la seta, io le rispondevo che cucivo a mano e non
con la macchina a punto turco. Me faciane tutte ste domande comu se
era fare n’esame.
D.: E lui com’era?
R.: Era un bravo dottore che faceva tutto.
D.: Era un medico di famiglia?
R.: Era un bravo dottore, faceva anche l’oculista. Io andavo da lui a
farmi visitare gli occhi.
D.: Ma la sarta la facevi anche a don Cici e a don Pippi Rossi?
R.: No, a don Cici e alla nonna della Bernardetta cucivo. I Rossi erano
in società con don Angiolino Ancora.
D.: Quindi erano nobili?
R.: Sì erano nobili.
D.: Cioè avevano dei titoli?
R.: Dei titoli non lo so però erano delle famiglie benestanti, ricche ed
erano istruite, andavano a scuola.
D.: Penso che queste fabbriche le avevano ereditate da qualcuno?
R.: Sì, sicuramente. Loro avevano la metà del castello, la parte restaurata; l’altra che non era restaurata era di un altro padrone lu Martena dicevano, quello che aveva i fondi da quella parte alla Madonna degli
Angeli. In pratica in questa parte non restaurata mettevano il tabacco, lo
appendevano dopo che lo avevano raccolto.
D.: E qui sul municipio vi ricordate qualcosa? Qualcuno ci ha detto
anche del Municipio.
R.: No, sopra al Municipio non mi ricordo, io mi ricordo che parlavano
della fabbrica della Stazione.
D.: E vi ricordate se c’era un asilo qualche struttura dove portavano i
bambini quando le tabacchine dovevano allattare i figli?
R.: Don Cici nella fabbrica aveva messo a disposizione delle stanze,
un nido, dove le tabacchine andavano ad allattare. Ecco lì.
D.: Ma poi i vestiti che gli cucivi a don Cici glieli facevi a casa oppure
c’era una struttura dove andavi a cucire.
R.: No li portavo a casa e li cucivo a casa, poi andavo e glieli facevo
provare.
D.: Prima non c’erano le macchine, vi ricordate queste donne con che
cosa andavano a lavorare?
R.: Con i traini. Che mi piaceva la mattina sentire i cavalli che passavano.
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D.: E i mariti e i papà come vedevano questa cosa che le donne andavano a lavorare?
R.: Bene perché andavano a lavorare per necessità. E siccome un lavoro non bastava andavano anche in campagna.
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Intervista a Maria Scordari
Luogo e data: Sternatia, 31 Ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Maria Scordari;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 26/08/1923;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina e sarta;
Emigrata all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desiré Maria Delos, Mariangela Giannuzzi.
D.: Sei emigrata all’estero?
R.: No
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Nel 1935, quando avevo dodici anni.
D.: Per quanto tempo?
R.: Fino a cinquantacinque anni.
D.: A che ora iniziavi e a che ora finivi di lavorare?
R.: Si iniziava alle sette e si usciva alle dodici per mangiare qualcosa;
poi si rientrava in fabbrica all’una fino alle quattro.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Allora… una dove adesso c’è il supermercato dìperdì, un’altra in
piazza dove ora c’è la farmacia e un’altra sotto il castello dove c’è il centro
“Chora-ma”
D.: Chi erano i proprietari?
R.: Uno era don Angiulinu Ancora, un altro don Antonio Mastrolia e
un altro era il Dottore Luigi Specchia.
D.: In quale fabbrica hai lavorato?
R.: In quella dove ora c’è il supermercato dìperdì.
D.: Quante donne lavoravano in fabbrica?
R.: Una cinquantina circa.
D.: C’erano anche uomini?
R.: Solo la guardia di finanza che stava fuori e poi un uomo che faceva
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l’appello tutti i giorni. Invece a Maglie c’era un sorvegliante e due altri
uomini che stavano nella camera – detta “stufa”– in cui si faceva seccare
il tabacco.
D.: Chi lo faceva l’appello?
R.: Si chiamava Giorgio Matteo, era di Sternatia.
D.: E la guardia di finanza a cosa serviva?
R.: Controllava che qualcuno non portasse via delle foglie di tabacco… in verità erano le nostre mescie a guardare nelle nostre tasche
prima di uscire. È
D.: È vero che c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Sì sì.
D.: Facevate delle pause per mangiare qualcosa?
R.: No niente… nelle fabbriche di Sternatia. Poi quando sono state
chiuse, ci hanno trasferite a Maglie e poi a Galatina, dove facevamo il
medesimo lavoro.
D.: Quando sono state chiuse le fabbriche di Sternatia?
R.: Dunque… io mi sono sposata nel 1959 ed erano chiuse da poco…
Ma l’anno preciso non me lo ricordo.
D.: E che facevate mentre lavoravate? Cantavate? Parlavate?
R.: Beh, si faceva qualcosa… si parlava. Le operaie mettevano le foglie
di tabacco sul tavolo e facevano due chiacchiere.
D.: Tu cosa facevi di preciso?
R.: La “imballatrice”, cioè mettevo insieme le foglie e le comprimevo
tramite un aggeggio.
D.: Ma fare la “imballatrice” era più importante che fare la semplice
tabacchina?
R.: Eh sì…
D.: Come si chiamavano i diversi tipi di tabacco?
R.: La “santujaca” e la “verustizza”.
D.: Ma ti pagavano di più rispetto alle tabacchine semplici? Quanti
soldi ti davano al giorno?
R.: Due lire. Ma era già tanto, perché le altre tabacchine normali prendevano trenta centesimi.
D.: Ogni quanto ti pagavano?
R.: Ogni quindici giorni.
D.: Ti mettevano i contributi?
R.: Sì sì.
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D.: Che contratto avevi?
R.: Lavoravo a giornata.
D.: Chi era la tua mescia?
R.: Giuseppa Medagli, ma non c’è più.
D.: Ti ricordi qualche altro nome di mescie?
R.: La Emma Minerva e la Assunta Marti.
D.: Com’era il rapporto con le mescie?
R.: Beh, abbastanza buono, si comportavano bene, ma dovevi saper
fare il tuo lavoro.
D.: Come venivano scelte le mescie?
R.: Beh, la sceglieva il proprietario.
D.: Ti ricordi qualche sciopero?
R.: No, non li facevamo… Forse una volta quando lavoravo a Maglie,
ma qui a Sternatia non ricordo.
D.: Ma veniva gente da fuori a lavorare qui?
R.: No no, tutte di Sernatia.
D.: Indossavate una divisa?
R.: A Sternatia no! A Maglie invece ci davano un camice e una cuffia.
D.: Prima di iniziare a lavorare facevate visite mediche?
R.: Qui a Sternatia, no. A Maglie invece si: dovevi fare la visita e anche
le analisi.
D.: E chi aveva figli come faceva ad andare a lavorare?
R.: A Sternatia non si aveva nessun tipo di agevolazione; o i bambini
venivano portati in fabbrica per poterli allattare, oppure c’era qualcuno
a casa (una balia) che se ne prendeva cura. A Galatina, invece, fino a
quando tuo figlio compiva un anno, potevi uscire un’ora prima dal lavoro. L’ora in meno veniva comunque retribuita.
D.: Come andavi a Galatina? In treno?
R.: Sì, prima in treno, poi in macchina. C’era qualcuno che ti accompagnava (es. Pippi Gira).
D.: Come paralavate tra voi? in griko o dialetto?
R.: Come si preferiva. Io per esempio parlavo in dialetto, le persone
adulte solo in griko.
D.: E quindi alla fine le fabbriche sono state chiuse. Ti sai spiegare il
motivo?
R.: Beh, non conosco il motivo preciso… Poi alla fine sono venuti a
mancare tutti i proprietari...
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Intervista a Costantina Grasso
Luogo e data: Sternatia 4 novembre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Costantina Grasso;
Data di nascita: 27/1/32;
Luogo di nascita: Sternatia;
Residenza: via Matteotti 13 Sternatia;
Professione: Tabacchina pensionata;
Emigrata: no;
Intervista di Luigina Mastrolia.
D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: A quattordici anni, nel 1946 o 1947.
D.: Per quanto tempo?
R.: Pochi anni, non mi ricordo, fino 1966 al massimo.
D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare?
R.: Alle sette e mezzo dovevamo stare lì, e si usciva alle dodici, poi si
rientrava all’una e si usciva alle tre e mezzo.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: A Sternatia, il Castello con la Rossi, Don Angiolino Ancora, Don
Cici Specchia, Don Antonio Mastrolia e poi mi ricordo che c’era una sul
Convento, ma non so di chi era, e una vicino la stazione.
D.: In quale fabbrica ha lavorato?
R.: Da Don Cici Specchia.
D.: Chi erano i datori di lavoro?
R.: Don Cici Specchia.
D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica?
R.: Non lo so, non mi ricordo, forse sessanta o settanta donne.
D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano?
R.: No, portavamo un po’ di pane ma lo mangiavamo di nascosto non
potevi mangiare né fare pause.
D.: Quante mansioni erano previste in una fabbrica?
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R.: Il lavoro era: ti portavano venti anserte, ti facevano vicino una catasta e ti dovevi sbrigare a spezzarle foglia per foglia e le “cernivi”, dividendo le classi, rosso scuro, rosso chiaro, quarta verde, foglia nera, quarta
scura, malatia, non me le ricordo tutte; facevamo tante piccole cataste e
passava poi una più esperta di noi con un cestino e chiamava la classe
per esempio rosso chiaro, poi passava di nuovo per quarta scura e gliela
davi. Poi la portava in una cassa, e quando la riempivano la prendeva
una ballatrice per fare una balla. Poi c’era il verde nero, il peggiore e
con questo facevamo le balle al torchio, mentre le altre classi le mettevamo nella stufa, ma non so per quanti giorni.
D.: E tu cosa eri cernitrice?
R.: Ero spianatrice, ma anche cernitrice, perché era arrivata una macchina con il nastro che camminava, e le donne si mettevano a varie distanze l’una dal’altra, io ero vicino alla cassa dove doveva cadere il
tabacco, nel caso in cui c’era qualche foglia diversa, la dovevo togliere
subito.
D.: Chi affidava le mansioni in fabbrica?
R.: Mi ha messo la mescia la Peppina Pansetta, Marti Giuseppa.
D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica?
R.: Dopo la consegna del tabacco, a metà novembre, e finivi a seconda della quantità del tabacco che c’era, alcune volte a marzo, altre a
gennaio, un mese e mezzo alcune volte altre due mesi.
D.: Sei andata in altri paesi a lavorare?
R.: No. Sempre a Sternatia e sempre da Don Cici Specchia.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Mi ricordo la zaguvina, pristizzo.
D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove
venivano?
R.: No.
D.: Perché c’erano la sbarre alle finestre?
R.: Si sempre una protezione, ci sono ancora. Il portone si chiudeva
per bene.
D.: C’era un guardiano fuori?
R.: No, non c’era, l’unico era Ferruccio che gestiva il tutto, entrava in
fabbrica, si sedeva al tavolino, e faceva l’appello.
D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera?
R.: No, non mi ricordo, una fesseria.
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D.: Venivano messi i contributi?
R.: Sì.
D.: Si ricorda di qualche sciopero?
R.: Mi ricordo, perché quando dovevamo entrare c’erano tante apprendiste che volevano lavorare, ma il padrone non ne aveva bisogno,
perché c’era poco lavoro, e si faceva sciopero. Una volta è venuta la Celere con le bombe lacrimogene, una volta è venuta qui al Castello, e
un’altra da Don Antonio Mastrolia, forse negli anni 59-60.
D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie?
La prima mescia assunta non so come è stata scelta, la seconda aveva
legami familiari, perché il fratello era quello che gestiva il tutto.
Com’era il rapporto con le mescie?
R.: La Peppina mi voleva un sacco di bene, perché sapevo fare bene il
mio lavoro, sapevo aggiustare i dischi. Mi davano per esempio quattro
classi, prendevo e le aggiustavo in mazzetti, facevo il disco. Peppina mi lodava per il modo di scegliere i colori, di fare il disco che non cadeva mai.
D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate?
R.: Un grembiule nocciola chiaro.
D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica?
R.: No solo Ferruccio che faceva l’appello, ci sgridava se parlavamo.
D.: Veniva fatto l’appello? Da chi?
R.: Sì, da Ferruccio.
D.: Si poteva cantare?
R.: No, si poteva cantare solo uno o due giorni dalla fine, si raccontavano delle storie o preghiere. Non si poteva parlare però tra di noi, io ho
avuto una sgridata da Ferruccio e poi sono stata difesa dalla Nzina Carcai.
D.: Quale lingua usavate per comunicare?
R.: Griko, dialetto a seconda della persona.
D.: Perché venne chiusa la fabbrica?
R.: Quando è morta mia madre, intorno al sessantasei-sassantasette
perché il lavoro era calato, prima si lavorava uno o due mesi.
D.: Ti ricordi se c’era qualche asilo nido?
R.: Si c’era nel Castello, una stanza con le cullette e tante sedie all’ingresso, per le donne che dovevano allattare; prima si lavavano le mani
ai lavandini e poi prendevano in braccio il bambino.
D.: C’era qualcuno che badava ai bambini in assenza delle madri?
R.: Mi pare di sì, ma non ricordo chi.
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D.: C’era qualche mensa?
R.: No. Andavo a casa, ma se non riuscivo a tornare in tempo, cioè
all’una, si chiudeva il portone e perdevi la giornata. Ognuna di noi andava a casa, non mangiavamo tutte assieme.
D.: Spiegami cosa mangiavi.
R.: Tornavo a casa e non sempre trovavo qualcosa di cucinato, prendevo una frisella, la bagnavo la aggiustavo con il pomodoro, se c’era peperone sottaceto, olio e sale o prendevo una manciata di olive. Poi in
fabbrica portavamo fichi secchi in tasca ogni tanto ne mettevamo uno in
bocca con le mani tutte sporche, non potevamo alzarci per lavarle, e
mangiavo di nascosto. Per esempio si portava il pane incartato e quando
arrivava una certa ora ci passavamo parola una con l’altra, anche per sapere cosa si mangiava, se una mangiava della verdure offriva alla vicina.
Poi c’erano dei giorni in cui ci accordavamo per comprare delle castagne,
una si incaricava di raccogliere i soldi e comprare per esempio un chilo
di castagne, dieci soldi ciascuno. Poi di nascosto sotto il tavolo le contavamo per dividercele, all’inizio cominciavamo con dieci ciascuno poi se
rimanevano le dividevamo ancora. Le castagne le compravamo in piazza
e le mangiavamo crude.
Quando facevamo pane arrostivamo le fave e le portavamo in fabbrica.
D.: Mi racconti qualche altra cosa?
R.: Ogni tanto la Peppina ci chiamava a me, a Loreta e Lucia de lu
Muzza per portare le balle alla stufa, le prendevamo e le portavamo in
una stanza molto calda dove c’era la stufa dove restavano per alcuni
giorni. Ti dovevi sbrigare a fare le nzerte e ti guardavi attorno per vedere
se qualcuna finiva prima di te ti aiutava a fare le tue, senza essere viste
da Ferruccio o dalla Peppina., perché si doveva finire tutte assieme. La
Nzina de lu Carcai era velocissima e mi aiutava sempre a fare le mie.
Ogni tanto la Consilia Spacca, la Luchetta che ci raccontavano le storie
di chiesa per farci stare zitte, e raccontavano lavorando. Il padrone ogni
tanto veniva, Don Cici ma non capiva tanto di tabacco, quello che veniva
più spesso era Don Antonio, il cognato di Don Cici, e lui passava a vedere le classi e ti avvertiva se avevi sbagliato qualcosa.
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Intervista a Mariangela Linciano
Luogo e data: Sternatia, Novembre 2008;
Nome dell’intervistato: Mariangela Linciano;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 14/03/1924;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrata all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte.
D.: Signoria a ddhù si nata e quandu?
R.: Su nata lu quattordici marzu 1924 a Sternatia.
D.: Professione?
R.: Tabacchina, alla fabbrica scia.
D.: Si’ mai emigrata?
R.: None.
D.: A ce annu cuminciasti cu fatichi?
R.: A dodici anni
D.: E come mai così piccola?
R.: Tandu spicciavi la scola, la quinta elementare, e scivi alla frabbica,
poi rrivava la finanza e te cacciava percè non potivi stare
D.: E a tie puru te cacciara?
R.: Sine, rrivau la finanza e me cacciau.
D.: Scusa, ma la quinta non se spiccia a undici anni?
R.: Sine, iu era ripetente de n’annu.
D.: E pe’ quantu tiempu?
R.: Ma, non me ricordu, ma comunque pe’ pocu tiempu. Iu scia allu cumentu: quai però scii pe’ picca tiempu. Poi scii a ddhai allu don Antoni, cu
nonnata stia. Stia allu torchiu, cu nonnata, e moi piju la pensione de tabacchina.
D.: A ce ura cuminciavive cu faticati e quandu spicciavive?
R.: Dalle sette e menza alle dodici, poi stiame tre quarti d’ura a casa,
poi rientravame e stiame finu alle tre e menza.
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D.: Te ricordi quante fabbriche nc’erane a Sternatia?
R.: Allora… nc’era una alla stazione e lu patrunu era don Angiulinu
Ancora, a ddhu avia lu dì per dì. Una sutta lu cumentu. Una de ndon
Antoni, a ddhu ave moi la banca, la farmacia e una de don Cici Specchia
sutta allu castieddhu.
D.: Nc’erane parecchie cristiane ca faticavane?
R.: Non me ricordu.
D.: Nc’erane pause ?
R.: None.
D.: Ci vi dicia, tie ha fare sta cosa, tie ha fare staddha?
R.: Le mescie: allu cumentu era la Ndata Litanìa. A ddhai a don Cici
era l’Assunta.
D.: Quindi era la mescia ca vi dicia ce berivu fare. Ma una comu ete
ca diventava mescia?
R.: Era ca capìa meju lu tabbaccu, non è ca tenìa scola.
D.: Li proprietari erane bravi?
R.: Sine, erane bravi. A ddhu scìa iu nc’era lu Mimmu de lu Foddhea
ca facia comu na specie de ragioniere.
D.: Quanti misi scivive?
R.: Zziccava lu primu dell’annu finu a marzu-aprile: intra stu periudu
sciame sempre, ma non tuttu l’annu.
D.: Quanti tipi de tabbaccu esistiane?
R.: La piristizza, la zagovina, lu fronzone quandu lu cojìane, la terza.
D.: Ogni tipu de tabaccu tenìa lu nome sou…. Signorìa ce facivi?
R.: Iu stia allu torchiu cu nonnata ca faciame le balle ( imballatrice).
Eri fare ottu balle allu giurnu e ogni balla pisava venti chili. Tie misuravi
venti chili de tabbaccu e facivi la balla.
D.: Quante cristiane nc’erane?
R.: La Nzina Marcellinu, cuginama la Peppina, iu, nonnata.
D.: Più o menu cinque-sei cristiane... Ma ve pagava de cchiui ca stivive
allu torchiu?
R.: No, tutte uguali sia ca stivi alla cernita, allu torchiu o facivi la stiratrice.
D.: Comu era la paga? E li contributi?
R.: Ogni quindici giurni, certe fiate ogni mese, non mberane fissi;
tandu non era comu a moi ca l’hannu mintire sicuri.
D.: Nc’erane le sbarre alle finestre?
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R.: Sì, cu non rrubbane.
D.: Te ricordi de qualche scioperu?
R.: Na vota sì, perché voliane cu fatiane e non le pijavane e poi le pijara pe forza. Iu non sacciu percè iu stia addintra: erane quiddhe ca stiane
a ddhaffore ca faciane scioperu.
D.: Nc’era qualche divisa cu sciati alla fabbrica?
R.: None, comu stiame a casa nostra, nu grembiule, nu camice.
D.: Potivive parlare tra de vui?
R.: Quandu non c’era lu patrunu, ma comunque eri faticare percè eri
fare ottu balle.
D.: Parlavive in grecu?
R.: Sine, a grecu.
D.: Faciane n’appellu?
R.: La mescia lu facia alla sira! Ma se mancava qualcheduna se sapia
già percè ognuna tenìa lu postu sou, e ci no se presentava se sapìa.
D.: Cerane masculi a ddhintra?
R.: Quiddhu ca aprìa la porta e lu Foddhea
D.: E poi percè chiusera le fabbriche?
R.: Spicciau lu tabbaccu e chiusera tuttu.
D.: Li mariti comu vidiane lu fattu ca scivive alla fabbrica?
R.: Erane cuttenti, percè portavame li sordi a casa ca pe’ quistu pijamu
la pensione.
D.: Comu erane li turni intra lla famija?
R.: Ognunu facìa lu lavoru sou.
D.: Li fiji a ddhintra li potivive portare?
R.: Potiame vessire cu li portamu a casa cu llattane. Una scìa finca a
sei misi poi tenìa lu sussidiu, non scìa finca alla fine (della gravidanza),
ma pijava lo stessu li sordi puru ca non scìa.
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Intervista a Loreta Leo
Luogo e data: Sternatia, 14/11/2008;
Nome dell’intervistato: Loreta Leo;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 21/09/1940;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina e contadina;
Emigrata all’estero: no.
Altre note: L’intervistata è emigrata un anno a Legnano (Milano) appena sposata.
Intervista di: Maria Lucia Conte.
D.: In quale anno hai cominciato a svolgere l’attività di tabacchina?
R.: A diciotto anni, ma non è che so di preciso.
D.: Per quanto tempo?
R.: Fino al 1969, dopo che mi sono sposata ho fatto un anno e poi mi
sono ritirata.
D.: A che ora cominciavi?
R.: Dalle sette e mezza fino alle dodici poi si spezzava, poi dall’una
fino alle tre e mezza, era l’uscita.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Allora, la prima era quella di Luigi Specchia, sopra il castello. Poi
nc’era l’Angiulinu ancora, un’ altra alla stazione. Pensu ca puru a quai
era titolare don Angiulinu Ancora, e poi quella di Antonio Mastrolia, dove
c’è la farmacia adesso tutti i locali erano di fabbrica, che io andavo qualche giorno e lavaoravo a periodi a cottimo: cucivo i panni.
D.: Erano previste pause durante il lavoro?
R.: Non durante l’orario di lavoro, alle dodici quando si usciva per la
pausa e basta. Luigi Specchia dato che era il direttore del reparto maternità a Lecce dove lui era pediatra, aveva creato il nido. Lì dove c’è la
“Kalì Zoì” quella era tutta fabbrica fino al Centro Studi: in quelle stanzette
appena entri di fronte a sinistra (della “Kalì Zoì”) c’era il nido. Qui c’erano
delle ragazze di Sternatia che tenevano i bambini delle tabacchine, e li
120
accudivano. Noi eravamo all’avanguardia rispetto le altre fabbriche. Portavamo tutte il grembiule color tabacco con la cuffietta: ci teneva all’igiene. Luigi Specchia aveva portato i nastri, non lavoravamo più
foglia-foglia. Le altre due fabbriche sono andate perdute e sono rimasti
i due cognati: don Gigi Specchia e don Antonio Mastrolia. Io stavo alla
cernita con la maestra, dapprima. Poi siccome diceva che ero svelta,
dopo che si è ritirata mia suocera, sono diventata imballatrice: quindi facevo il doppio turno (imballatrice e cernitrice).
D.: Chi vi affidava le mansioni in fabbrica?
R.: Le mescie, una era l’Assunta, la suocera della Nzina, la Vicenzi Pia,
a ddhai allu Mastrolia era la Ndata, la Citrena.
D.: Ma sono tutte morte?
R.: Sì sono tutte morte.
D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica?
R.: Si lavorava dicembre e gennaio: non tutti i mesi e non per tutto
l’anno. Prima si lavorava di più, che poi hanno preso solo quell’anno e
poi non hanno preso piu’ ragazze.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Allora, c’era la zagovina, la piristizza ca era a foglia fina, lu fronzone era lu sutta delle foglie. Poi c’era la terza, la seconda che erano le
qualità migliori. Dopo alcuni giorni dovevi prendere le foglie mature, la
terza, la seconda.
D.: Ma sta seconda, sta terza erano chiamate in base all’altezza dalla pianta?
R.: Sì, in pratica a terra c’era lu fronzone, poi la seconda, poi la terza
che erano le qualità migliori. Poi in alto c’era la puntarola, che era la
qualità più scarta.
D.: C’erano forestiere?
R.: No, eravamo tutte di Sternatia.
D.: C’erano le sbarre alle finestre?
R.: Sì c’erano le sbarre che sono state messe con la costruzione del nido.
D.: C’era differenza di paga a seconda delle mansioni?
R.: Sì, per esempio quelle della cernita prendevano qualcosa in meno.
Poi veniva la perizia che controllava, le balle venivano riposte in una
stanza per farle seccare.
D.: Ma vi mettevano i contributi?
R.: A volte sì a volte no. Allora non è che eravamo attente come oggi.
A me per esempio mancavano.
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D.: Chi vi pagava?
R.: Don Cici, veniva ogni mese per pagarci: si sedeva all’entrata del
“Kalì Zoì” dove c’era la scrivania. Qui si sedevano pure per fare le perizie.
D.: Ti ricordi per caso di qualche sciopero?
R.: Sì, una volta quando hanno preso il gruppo mio perchè volevano
entrare le altre ragazze. Sono venuti i carabinieri e si sono date botte,
volevano il lavoro perchè era l’ultimo anno.
D.: Come avveniva la scelta delle mescie?
R.: Non lo so… penso a fiducia.
D.: E se una capitava incinta, come funzionava?
R.: Ai sette mesi non andava più fino al quarantesimo giorno dopo la
nascita del bambino. Quando è nato Vincenzo, sono andata a Lequile e
ho preso la maternità.
D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica?
R.: C’era il marito della Grazia, lu Ferrucciu, che faceva come una specie di fiduciario: apriva, controllava, collaborava con i dottori agrari.
D.: Ma chi vi pagava?
R.: Don Cici, che era pure l’unico che lasciava la busta paga.
D.: Il rapporto con le mescie, con i proprietari era buono?
R.: A seconda di come ti comportavi, io non ho avuto nessun rimprovero, ma se una eri un po’ lenta, ti dicevano: «Ehi, tie sta dormi?».
D.: Si faceva l’appello?
R.: Sì, si faceva.
D.: In quale lingua comunicavate?
R.: Noi in griko, le mescie e don Cici in dialetto o in italiano, poiché
erano un po’ più acculturati.
D.: Sai per caso perché hano chiuso le fabbriche?
R.: Non so… forse perché cominciavano a ribassare i prezzi del tabacco. Le leggi erano cominciate ad essere più severe: se la legge diceva
che dovevi avere tre are di tabacco, e ti trovavano cinque are, ti facevano
togliere le piante in più, anche se erano cresciute.
D.: Dovevi sottoporti a visita medica?
R.: A don Cici sì; dovevi fare le visite (raggi, se avevi i polmoni sani).
Io infatti ero raffreddata ed ero preoccupata che non mi prendessero.
122
Intervista a Nicoletta Centonze
Luogo e data: Sternatia, 12/11/08;
Nome dell’intervistato: Nicoletta Centonze;
Luogo e data da nascita: Caprarica il 25/09/1930;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrata all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte;
D.: Quando hai cominciato a lavorare?
R.: Allora, de lu quarantasette allu sessantaquattru me pare.
D.: A ce ura ccuminciavive e a ce ura spicciavive de faticare?
R.: Sciame alle sette e menza, poi spicciavame alle dodici, ccuminciavame all’una finca alle tre, tre e menza.
D.: A Sternatia quante frabbiche nc’erane?
R.: Nc’erane quattru frabbiche.
D.: Te ricordi comu se chiamavane?
R.: A quai nc’era: quiddha della signora Rossi, poi l’addha de don Antoni Mastrolia, poi a ddhai allu cumentu era lu cosu… comu se chiamava
quiddhu de Galatina?
D.: Don Angiulinu Ancora?
R.: Sì, Don Angiulinu Ancora ca stia sia allu cumentu ca alla stazione,
erane tutti e doi quiddhi era tutta na… Sempre de Galatina.
D.: Tu dove hai lavorato?
R.: Allu cumentu e alla stazione e poi un anno allo stato a Galatina.
D.: L’ultimo anno?
R.: No, poi sono tornata allu don Antoni Mastrolia, fici cinque-sei anni
me pare, non me ricordu, non sacciu bonu.
D.: Te ricordi quante erive a ddhintra?
R.: No, nc’erane abbastanza, ma lu numeru no, non me lu ricordu.
D.: Nc’erane pause?
123
R.: No, sulu a menzadia, na menz’oretta, no durante l’orariu de lavoru.
D.: Quante mansioni nc’erane intra alla frabbica?
R.: Mansioni? Ce significa?
D.: Ce facivive a ddhintra?
R.: Nui faciame la cernita delle casse de tabbaccu, scocchiavame le
casse, lu bonu cu lu fiaccu, faciame la cernita, cacciavame lu verde chiaru
de lu verde scuru, lu neru, lu cosu, tutte ste cose a quai no’ ssai? Nui
erame cernitrici in pratica, poi nc’erane le imballatrici ca imballavane.
D.: Ci era ca vi dicia tie ha fare na cosa, tie ha fare n’addha?
R.: C’erane le maestre, le mescie.
D.: Comu era lu rapportu cu lu datore de lavoru? Te ricordi?
R.: No, normale, non erane cattivi.
D.: Tuttu l’annu faticavive?
R.: Secondu l’anni… Avia anni ca faticavame puru all’estate perché
tandu nc’era tabbaccu, poi chianu chianu spicciau. Cuminciavi tandu
versu Natale. Iu me ricordu tandu ca era estate, alla matina prestu,
quandu stiame alla massaria de lu formaggiu, sciame primu a campagna,
faciame nu pocu de metitura, tandu faciame l’orzu. Alle sette menu nu
quartu stiame ancora a campagna. Alle sette stiame a Sternatia, nu quartu
d’ura mintia. La massaria stia susu allu pal… Comu se chiama a ddhai? A
ddhai ca ave moi…
D.: Allu palumbaru?
R.: Allu palumbu! A ddhai a du’ passa moi lu ponte, a ddhai nc’era la
massaria! E mintiame nu quartu d’ura cu rrivamu de dai a Sternatia. La
mescia Ndata de lu Litanìa, ca stia allu cumentu, dicia all’addhe perché
rrivavane in ritardu: «quista ha partire de ddhassusu all’ampete cu venga
a quai e quandu rrivu iu la trovu a retu a lu portone! Vui invece ca abitati
a quai…» le scornava.
D.: Ti ricordi quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Me ricordu ca nc’era lu santujaca, diciame tandu, la piristizza, la zagovina, se nc’ete qualchedunu addhu poi non me ricordu! Nc’era n’addha
razza, quiddhu grossu ca de ddhai faciane li sigari, certu tabaccu grande
però non sacciu comu se chiamava ca qua parte nui non lu teniame.
D.: Nc’erane forestiere?
R.: No tutte de Sternatia erame.
D.: Nc’erane sbarre alle finestre?
R.: Sì de ferru. Me non sacciu però perché le teniane. Forsi cu non
rubbane.
124
D.: Ti pagavano a giornata?
R.: A quindicina.
D.: Quanto ti davano?
R.: Tandu a lire, ci se ricorda.
D.: Dipendeva per caso da quello che facevate?
R.: Nui pijavame na cosa de menu rispettu a quiddhe ca stiane alle
balle, quiddhe ca stiane tise ca coijane lu materiale e ca lu portavane allu
depositu li dia na cosa de chiui. Nui settate stiame cu controllamu, cu
cernimu la qualità, lu verde, lu neru.
D.: Li contributi te li mintiane?
R.: Sì.
D.: Te ricordi per casu de qualche scioperu?
R.: Na fiata me ricordu tandu la bonanima della… ca quiddha era cumandante, era comunista: a nanti alla chiazza, allu bonanima de l’Alfredu,
propriu a nanti alla chiazza stia. Nc’era na specie de cabina, ca poi scijara
ntorna, a ddhu nc’era l’ufficiu de collocamentu a ddhu nc’erane li sindacati. A ddhai era a ddhunca ni erame cojire cu facimu lu scioperu, ma lu
motivu no lu sacciu… Vagnona puru era non me ricordu. Ca se era lu
quaranta erame già de quindici-sedici anni e già faticavame…
D.: Ti ricordi come venivano scelte le mescie? perché una diventava
mescia e una no?
R.: Non lo so perché… Non me ricordu… Tandu nc’era la mescia e
la sottomescia: erane doi. La mescia era quiddha ca cumandava, per
esempiu, lu tabbaccu comu l’erame pijare, a ddhu l’erane ccocchiare,
comu l’erane sestimare e poi quiddha ca venia ca te portava lu tabbaccu
cu lavori. Te portavane annanti cinque, dieci chili de tabbaccu. Tie l’eri
fare intra na giornata, na menza giornata, a secondu poi lu spicciavi e te
portavane l’addhu. La mescia cumandava a seconda…
D.: La mescia toa te ricordi comu se chiamava?
R.: A quai a don Antoni era la Citrena... La Ndata però lu cognome
non me lu ricordu... Annunziata, quiddha stia cu maritusa insieme tutti e
doi era Ncarra, Carra. Lu nome non me lu ricordu... La ngiuria era Citri...
Lu Giorginu de lu Citri. A quai allu cumentu a ddhu scia ieu era la Ndata
de lu Litanìa quiddha ca tene lu Ntonucciu. Sì, sì, quiddha ca non tenia
fiji, ca quiddhu (suo marito) cantava puru alla chiesa .
D.: Sono tutte morte, no?
R.: Sì, sì.
125
D.: Erane brave, o erane severe?
R.: Sì erane brave, ca poi ni jutavane, ca se vidiane per esempiu ca
una no riuscia, te diane na manu cu spicciavame tutte ncote. Poi nc’erane
quiddhe ca spicciavane, e chiamavane tabbaccu, spicciavane, e chiamavane tabaccu… e li lu portavane, no? Nui tandu paesane... Perché
nc’erane le forestiere tandu ca stiane tise ca faciane comu na specie de
ispezione.
D.: Questo succedeva al monopolio, quando stavate a Galatina?
R.: Sì, nc’erane quattru-cinque ssettate cussine. Ca poi iu no’ sacciu
mancu lu motivu, no’ sacciu ci era tandu o l’Angiulina Saponina o la
Nzina de la Riposa ca li disse: «cercati cu jutati l’addhe cu spiccamu tutte
ncote...» Non è ca era na parola fiacca.
D.: Dovevate fare il libretto?
R.: Sì, lu librettu de lavoru.
D.: Facevate visite mediche?
R.: Tandu no, non ni chiamavane a visita, ni chiamavane allu lavoru
e basta e poi quandu rrivava ogni annu cu pijamu la dessoccupazione,
e sciame pe tantu tempu ca lu firmavavame, ca poi ni diane la dessoccupazione. Ca tandu l’ufficiu de collocamentu allu cosu stia… a ddhu
nc’era la guardia medica moi… A ddhai sciame... però tante cose non
me le ricordu.
D.: Indossavate qualche divisa?
R.: No, comu stiame a casa, comu sciame cussì rimaniame.
D.: Nc’erane masculi?
R.: No, nc’era sulamente lu guardianu... Lu rappresentante per esempiu…
D.: Comu n’usciere?
R.: No, non era l’usciere... Era unu ca se te servia qualche documentu,
se volivi qualche cosa, parlava cull’insegnante ca stia addintra, comu
aggiu dire, la mescia tandu se rrivava lu pagamentu nc’era quiddhu e
don Antoni tandu ca se settavane insieme, comu na specie de ragioniere
ca portava li cunti.
D.: E se qualcheduna ccappava incinta?
R.: Intra alli tanti mesi potivi faticare, poi non sacciu tanti misi dopu
rimanivi a casa.
D.: E li riscuotevi lo stesso i soldi?
R.: No, poi quandu nascia lu piccinnu facivi la domanda per esempiu
e te mandavane li sordi, lu premiu poi. Iu per esempiu pijai lu premiu
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alla grande mia, iu tandu scia allu cumentu e nc’era lu bonanima de lu
Giorginu. Quiddhu portava annanzi tutte ste cose, siccomu ca tandu alla
stazione cominciava ca era tuttu nu patrunu, però poi perché alla stazione cuminciava qualche annu prima ehm… Qualche mese primu de
lu lavoru e ddhu cristianu me disse : «forsi tie non faci a tiempu». E alllu
postu de lu cumentu vinni a quai alla stazione: iu scii nu paru d’anni alla
stazione. Iu scia incinta de la piccinna mia, de la grande, de la Rita, cu
fazzu a tiempu cu rrivu lu tiempu cu me fermu. Quandu passavane nu
mese, nu paru de misi, dopu ca parturivi, potivi scire cu fatichi a ntorna.
Tandu però intra lli doi misi eri assente e te diane lu premiu. Iu tandu lu
pijai de quiddha e de la Livia mia, de doi comunque.
D.: E ci tenia piccinni piccicchi, comu facia?
R.: Se tenivi la mamma, li lassavi alla mamma, iu per esempiu le doi
piccinne piccicche, le mandava all’asilu.
D.: E a ddhu stia st’asilu?
R.: Sutta allu comune, le mandava a ddhai. Lu Luigi miu era picciccu,
de misi, intru alle fasce lu tenia, e li lu portava alla cummare Marta. E
certe fiate poi quandu lu piccinnu stia raffreddatu o certe fiate tenia la
free, venia quiddha a casa: passava quiddha a casa e lu tenia
D.: Facivive l’appellu quandu trasivive?
R.: Certu eri dire se eri presente.
D.: E ci lu facia poi st’appellu?
R.: La maestra lu facia, chiamava, ci eri presente.
D.: Se potia cantare?
R.: No… Niente.
D.: Mancu na parola cu scambiavive?
R.: No, na parola cittu cittu, puru ca na fiata la Lucia Carrareddha quiddha de lu Picciuli ca parlava sempre, allora la mescia Ndata la chiamava
e dicia: «Luciaaaa!!!». Quidda parlava cu la capu ncapuzzata e facia cu ridimu, ni cuntava barzellette, era curiosa quiddha. E nui vidiame ca era
quiddha e la mescia la chiamava: «Luciaaaa!!!». Quidda citta citta: «Ca iu
non sta parlu mancu!», e nui ridiame per le parole ca dicia. Diciame qualche parola cussì, la scambiavame, no chiui de tantu però.
D.: In griko parlavate?
R.: Cinca sapia lu grecu, parlava a grecu, iu sapia parlare l’italianu
perché lu grecu non lu sapia cu lu parlu! Però lu capia.
D.: Te ricordi perché chiusera le fabbriche?
127
R.: Perché tandu spicciau lu tabbaccu. Perché de quai allu cumentu,
alla stazione chiusera e ni pijara a Galatina, ma lu motivu perché chiusera
non lu sacciu. Invece a quai alla Rossi faticara ancora, allu don Antoni
puru faticara.
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Album Fotografico
Pasquale Delos.
Foto di Arnaldo Macchitelli
Carmela De Santis
Matrimonio di Addolorata Delos, fine anni ’50. Angela Simeone (quarta da destra)
Lucia Caldararo
Da sinistra Gina Conte
e Vincenza Villani
Addolorata Vergine con figlie
Bar Carlino, da destra, Antonio Carlino, marito di Addolorata Vergine
Bar Carlino, da sinistra, Addolorata Vergine
Tiraletti di tabacco. Foto di Arnaldo Macchitelli
Telai per la semenza. Foto di Arnaldo Macchitelli
Tiraletti di tabacco. Foto di Arnaldo Macchitelli
La raccolta del tabacco. Foto archivio Centro Studi Chora-ma
Le filze (nserte). Foto archivio Centro Studi Chora-ma
Le filze (nserte) inserite nei tiraletti. Foto archivio Centro Studi Chora-ma
La raccolta del tabacco. Foto archivio Centro Studi Chora-ma
Lucia Villani.
Foto di Arnaldo Macchitelli
Carmela De Santis
Foto Archivio Carmela De Santis
Sig. Angelo Ancora, proprietario di
una fabbrica di tabacco
Rosa Matteo, madre
sig. Angelo Ancora
Gruppo di amici in Piazza Umberto I
Foto Archivio Carmela De Santis. Gruppo della scuola serale.
Al centro la maestra, Sig. ra Anna Macchitelli
Prima fila da dietro, terzo da sinistra, Orazio Tarantino, marito di Carmela De Santis
In primo piano seduta Carmela De Santis
Da sininistra, Giovanna Tarantino, Lucia De Santis, Vittorio Villani, Lucia Villani
Da destra in piedi Carmela De Santis
Attrezzo per imballare il tabacco conservato presso il Centro Studi Chora-ma.
Foto di Giorgio Vincenzo Filieri
La statua di san Luigi realizzata con i contributi delle tabacchine di Sternatia
nel 1955. Foto di Giorgio Vincenzo Filieri
Intervista a Raffaella Tarantino
Luogo e data: Sternatia, 14/11/08;
Nome dell’intervistato: Raffaella Tarantino;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 01/11/1928;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Emigrata all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte.
D.: In quale anno hai cominciato a fare la tabacchina, Uccia?
R.: Era de quindici anni.
D.: Per quanto tempo l’hai fatto?
R.: Meh, la fici quasi grande, finu ca scii puru alla cooperativa.
D.: A quale cooperativa?
R.: A Martignanu scii, me mintiane le sciurnate, portava lu tabbaccu a
ddhai ca lu facia iu e me mintiane le sciurnate de contadina.
D.: Ti ricordi fino a quando sei stata qua?
R.: Me, comunque era quasi ventitré-ventiquattru anni, forsi puru venticinque no ssai? poi no scii cchiui perché marituma cadiu malatu e no
scii cchiui.
D.: Quindi una decina d’anni…
R.: Una decina d’anni, sì.
D.: A che ora incominciavi e a che ora finivi di lavorare?
R.: Veramente sciame alle sette e alle tre stiame a casa.
D.: Tuttu nu tiru?
R.: Sì, tuttu nu tiru faciame.
D.: Ti ricordi quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Avia lu castellu, lu cumentu quassusu ca dopu lu castellu poi non
faticara cchiui e scera quassusu allu conventu nu picca. Le chiù grandi
però no’ ssai.
D.: Solo queste due c’erano?
145
R.: No, poi avia lu dottore Specchia, ma quiddhu la fice dopu. Iu sulamente susu allu castellu scii.
D.: Ah, tu solo sopra il castello?
R.: Don Antoni Mastrolia… Ieu sulamente a ddhai (sopra castello) scii,
e a Martignanu ca scii na decina d’anni cu me minte li contributi ca facia
tabbaccu. Iu la pensione de li contributi de quiddha, e puru de quiddha
ca tenia a quai sempre… le unira… le unira tutte e doi.
D.: Chi erano i proprietari, Uccia?
R.: Avia la quista… Quiddha ca ni mostrava? ca ni insegnava?
D.: Sì, la maestra...
R.: Quidda era... avia la mescia Emma.
D.: Al castello?
R.: Sì, al castello. Poi la Costantina Ancora, ca quiddha facia la sottomescia a ddhassusu… Costantina… Cini tos piolo. La mamma soa… La
mamma della Scarpa puru, la Nzina puru stianu a ddhassusu quidde
D.: Ce cognome facia quiddha?
R.: Ancora era quiddha.
D.: Qua, sopra il castello, i Rossi erano i datori di lavoro?
R.: Sì, de la Rossi erane. Non avia cchiui Don Angiulinu, ca quiddhu
a d’ epuche quandu scia la mamma mia: tandu era quiddhu, no?
D.: Quante femmine eravate che lavoravate?
R.: Avia quasi, no fazzu esagerazione, settanta, ottanta erame. Ca nui
erane li banchi grandi cusì grande (indica il suo tavolo) . Allora avia quasi
na decina de qua parte e na decina de da parte ca faticavame.
D.: Facevate pause? durante il lavoro.
R.: No tuttu nu tiru... Portavame na friseddha e la mangiavame cusì
prestu prestu, scusu scusu puru.
D.: Senti, e cosa facevate poi in fabbrica?
R.: Allora pijavame, nduciane le nserte, nserte le diciame tandu, le facìane, le ttaccavane e le nduciane cu le faticamu, li llevavame la fronda
verde, la fronda chiara, la fronda scura e diciame: «quistu è verde, quista
è quarta, quista è quinta», la chiù chiara era la quinta, la fronda chiù bella
era la quinta.
D.: La quinta ce significava?
R.: Ca faciane le balle de ddhai, no? Ca era la meju, valutava lu meju
tabbaccu.
D.: Tie ce facivi a ddhintra?
146
R.: Iu non era mballatrice, non era nienti… Operaia cusì ca facia, ca
legavame lu verde, comu sta te dicu, legavame le fronde.
D.: La cernitrice?
R.: Cernitrice... Cu cernimu per esempiu a quai cu mintimu la fronda
fiacca, a quai cu mintimu la fronda cchiu bella, a quai… ecco quistu faciame, tutte quiste cose.
D.: Ci vi dicia ce berivu fare a d’intra?
R.: La mescia Emma.
D.: Era brava o era severa?
R.: No, era brava... specialmente cu mmie, perché iu, filu ca lu vantu,
iu cu faticu era addunca vau vau…
D.: Ti ricordi se lavoravate tutto l’anno?
R.: Sì, quandu avia tabbaccu faticavame tuttu l’annu... A mie me chiamavane cchiu mutu, ca iu quantu suntu moi de lunga, cusì era a quindici
anni, cusì piena. Allora me chiamavane quandu nc’era le balle cu le giramu, allora «chiamati la Uccia!».
D.: Te ricordi quanti tipi di tabacco nc’erane tandu?
R.: Avia la prima, avia la seconda, avia la terza e avia la quarta.
D.: Te ricordi lu salluccu, o la zagovina.
R.: Sì, faciame zagovina, faciame piristizza, faciame santujiaca. Santuijaca era picciccu quiddhu, la piristizza puru era nu picca cchiu lunga de
la santujaca, però la zagovina era la grande.
D.: Lu salluccu, lu santujaca, la piristizza, e lu fronzone? Ce bera tandu?
R.: Lu fronzone era quiddhu de sutta, lu fronzone, poi pijavame la terza,
la seconda, manu manu ca li faciame… Era la seconda, lu susu era la prima.
D.: Nc’erane forestiere ca veniane a Sternatia?
R.: Forestiere non me ricordu.
D.: C’erano le sbarre alle finestre?
R.: Sì.
D.: Perché?
R.: Per cautela, propriu cu no’ rrubbane lu tabbaccu, le balle.
D.: Te ricordi quantu ve pagavane?
R.: No, de sordi propriu non me ricordu.
D.: Ogni quantu tiempu ve pagavane?
R.: Ogni quindici giurni, ogni venti giurni, a seconda dell’occasione.
D.: Vi chiamavano loro, come funzionava?
R.: Sì, sì, ni chiamavane a ddhai e sciame cu ni pagamu.
147
D.: Lu proprietariu era ca vu pagava?
R.: Lu Giorginu de lu Seddone... Sai c’era bravu puru quiddhu…
D.: Vi mintiane le cose giuste o mbroiavane?
R.: Sì, ca iu li tenia, quisti de quai e quiddhi de ddhai e pijai…
D.: Te ricordi per casu de qualche scioperu?
R.: Avia ogni tantu qualche picca de scioperu, però menza sciurnata,
n’ura, poi ni chiamava quiddhu stessu e sciame. Lu Giorginu dicia: «Vieni
Uccia!» cu facimu cusì stu rivolgimentu, faciame n’addha cosa poi sempre.
D.: Perché nc’erane sti scioperi?
R.: Sempre per li contributi, avia una per li sordi… fija mia, no sempre
pe’ ste cose quai.
D.: Annanzi alla chiazza?
R.: None, a darretu allu castellu stessu. A darretu venia unu e dicia:
«osci imu fare scioperu ca no se lavora, osci imu fare cusì ca no se lavora»,
lu stessu comu a moi, ca moi ce fannu? ce cumbinane addintru? (indica
la tv).
D.: Indossavte qualche camicia o altro una divisa?
R.: No, a quai no, lu mantile mintiame a quai. Quandu sciame a Martignanu poi ni desera lu camisu.
D.: C’erano uomini in fabbrica?
R.: No, sulamente lu Giorginu Seddhone, e nisciunu addhu. E quiddhu
ca stia a nanti alla porta.
D.: Di dov’era, di Sternatia?
R.: No... me pare ca non era de Sternatia... era de Martignanu, lu Rizzuddhi.
D.: Tutte fimmene erivu?
R.: Sì, tutte fimmene, anzomma, sulu lu Seddhone nc’era.
D.: Quandu trasivive la matina, faciane l’appellu?
R.: Sì, sì.
D.: Ci lu facia?
R.: Lu Seddhone.
D.: Vi pagava allora, facia tuttu…
R.: Sì, facia tuttu quiddhu…
D.: Na specie de ragioniere era a ddintra?
R.: Sì, sì.
D.: Potevate scherzare a ddintru?
R.: Eh no… Puru ca allu bancu nostru nc’erane le Russene, quiddhe
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erane curiose cu cuntane, avia puru la ‘Ndaticchia de lu Russu... Ni crepavame de risi... E ni chiamava delinquente.
D.: Delinquente?
R.: «È un banco de delinquente!». In grecu: «o banco a’tton delinkuènte
echi ìcimpì!» E allora sai ce erane curiose?!? La Dunata de lu Pezzaffronte
sai ce era brava, sai ce era lesta cu fatica! E nui erame tutte vagnoneddhe,
e allora ni chiamava delinquente addarretu!
D.: Ci era ca vi chiamava cusì?
R.: Lu Giorginu de lu Seddhone... Perché ridiame, perché non pensavame cu… «To’ bbanco atton delinquente!».
D.: A griku parlavive poi?
R.: Sì, tandu a grecu.
D.: Perché poi tandu chiusera?
R.: Me non sacciu, vidi…
D: Quando andavate a fare le tabacchine, dovevate presentare un libretto?
R.: Sì, teniame nu librettu ca ni mintiane li contributi, no?
D.: Facevate qualche visita medica prima di entrare?
R.: No, no non faciame nienti.
D.: Puru ca circolava qualche malatìa?
R.: Iu non fici nienti e non firmai nienti tenia sulu lu librettu e basta.
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Intervista a Angela Grasso
Luogo e data: Sternatia, Ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Angela Grasso;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 20/04/1937;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina e contadina;
Emigrata all’estero: no.
Intervista di: Daniela Gemma.
D.: A ce annu ncignasti cu fatichi alla fabbrica?
R.: Allu cinquantadue.
D.: A ce fabbrica, comu se chiamava la fabbrica?
R.: Alla fabbrica de Mastrolia Leonardo Antonio.
D.: Quindi allu cinquantadue tenivi quindici anni… E hai cuminciatu
cu fatichi a quindici anni?
R.: Sì.
D.: Hai faticatu sulu alla fabbrica de lu Mastrolia?
R.: Sì, però poi faticai comu contadina.
D.: Allora hai fattu sia la contadina ca la tabacchina, e comu tabacchina pe’ quanti anni hai faticatu?
R.: Finu allu sessantadue-sessantatrè, perché allu sessantunu me sposai
e poi scii pe doi-tre anni addhi.
D.: Ce funzione tenivi intra la fabbrica?
R.: La spianatrice, no imballatrice o addhu, perché poi c’erane addhe
funzioni.
D.: E in che cosa consisteva il tuo lavoro?
R.: C’erane le filze de tabaccu no, se rumpiane e poi se facia la divisione de li colori, perché pariane tutte uguali le foje, però c’era la categoria cchiù bona, c’era la verde, c’era la quarta, cioè veniane chiamate
cusì le foje; prima le cernivi cu le faci a classi e poi facivi li mazzetti, poi
le mintivi su li scenucchi e le aprivi, eccu percè se chiamava spianatrice.
150
Poi na vota fatti li mazzetti, li sistemavi susu a certi cosi ca se chiamavane
dischi, erane certe cose rotonde ca faciane cu stannu meju conzate le
foje; e poi passavane alle ballatrici, ca faciane le balle a manu, li primi
anni, poi cu lu passare de l’anni le balle delle ballatrici no’ le faciane
cchiui a manu ma cu lu torchiu e allora cerniame sulamente no’ spianavame, percè no servia, servia scijatu lu tabaccu; l’erame sempre cernire
de qualità: quista è la bona, quista è la verde, quista è la fiacca.
D.: Te ricordi comu se chiamavane le razze, lu tipu de lu tabaccu,
perché iu sacciu lu santujaca, lu salluzzu?
R.: Me iu no sacciu perché me pare ca lu santujaca pe l’epoca mia era
na qualità cchiu vecchia, iu sentìa la mamma mia; quandu nc’era iu erane
la zaguvina e la piristizza.
D.: A ce ura scivi cu fatichi?
R.: Alla fabbrica trasiame alle sette e menza de la matina, poi vessiame
alle dodici, tornavame all’una e vessiame ntorna alle tre e menza.
D.: Quindi un’ora di pausa?
R.: Sì un’ora dalle dodici all’una, scivi a casa.
D.: E la fabbrica de lu Mastrolia qual’ete quiddha de la chiazza?
R.: Sì quidda a du ave moi la banca, la farmacia, quiddhu ca vinde
rrobe, era tutta fabbrica de lu Mastrolia.
D.: Te ricordi quante fabbriche nc’erane?
R.: Allora nc’era quiddha de lu Mastrolia, poi nc’era quiddha de lu Ancora e poi nc’era quiddha de lu dottore Specchia, ca lu diciane don Cici.
D: Comu scivive vestute?
R.: Fija mia comu potiame, tantu teniame picchi veste. Ma vo sai comu
sciame vestute intru la fabbrica?
D.: Sì.
R.: No, alla fabbrica sciame vestite normali, teniame sulu nu mantile
giustu pe’ quandu erame cernire e spianre lu tabbaccu.
D.: No’ tenivive mancu nu fazzolettu an capu?
R.: No, ognuna venia vestuta de casa e cu nu mantile diversu, non
erame vestite uguali.
D.: E lu padrunu comu sapia ca vui stivive a ddhai cu faticati, faciane
n’appellu?
R.: Sì, li primi anni ca scia iu, l’appellu lu facia nu cristianu ca aspetta
cu me ricordu comu facia de cognome, de Zuddhinu era, però no me ricordu comu se chiamava.
151
D.: Era nu masculu ca facia l’appellu no na fimmena?
R.: No, no, nu masculu.
D.: E poi quandu vessivive facia ntorna n’addhu appellu?
R.: No l’appellu lu facia na vota lu giurnu, la matina appena trasiame.
D.: Quindi per esempiu quandu tornavive de la pausa no controllava
ci nc’era e ci no?
R.: No, però de solitu lu facia de pomeriggiu, no’ sempre, a fiate.
D.: La mescia de la fabbrica toa ci era?
R.: A nui erane doi l’Angiulina de la Frascalora, la diciane cusì era
Chiriacò Carmela e la Ndata de lu Citri, se chiamava Lezzi de cognome.
D.: E de mescie ave qualcheduna viva?
R.: Sì l’Angiulina, ma non ragiona chiui è malata.
D.: De le ballatrici te ricordi se ave qualcheduna viva?
R.: De quiddhe ca faciane le balle a manu me pare ca su tutte morte,
ma quiddhe cu lu torchiu ave qualcheduna viva.
D.: E cu lu padrunu ce rapportu tenivive?
R.: Nienti, quiddhu trasia, alli giurni, mancu tutti li giurni facia a nanti
e a retu pe li banchi a du nui faticavame, se vidia quarche imperfezione,
perché quiddhu era nu dottore in agraria e lu tabaccu lu capia pe cuntu
sou, voju cu dicu, mentre tie sta cernivi sta sfilza ca tenivi a nanzi, se
nc’era na foja ca no scia e ca quiddhu canuscia, no te gridava però te
dicia quistu no vae bonu.
D.: Te chiamava all’ordine se n’cera quarche cosa ca no scia?
R.: Sì sì ma nienti addhu.
D.: Le mescie in base a cosa veniane scelte comu mescie?
R.: Ti dirò ca sta cosa comu veniane scelte no lu sacciu, perché
quandu cuminciai cu faticu ste doi mescie stiane già a ddhai.
D.: E comu sordi comu vi pagavane?
R.: A quindicina ni pagavane, ogni quindici giurni.
D.: E quantu vi diane ogni quindici giurni?
R.: A fija mia, forsi ni diane menu de dieci mila lire, però de precisu
propriu no me ricordu. Me ricordu ca erane meno de dieci mila lire percè
quando rivavane le fere a lu padrunu li calava cu no paga e allora ni
dicia ca se n’cera qualcheduna ca volia na cosa de sordi poi ni la scuntava
alla quindici quandu poi ni pagava; e me ricordu ca pijava menu de dieci
mila lire. Le ballatrici pijavane na cosa de chiui e puru le mescie.
D.: Quindi le figure ca nc’erane intra la fabbrica erane le mescie…
152
R.: Sì le mescie e stu cristianu ca era de Zuddhinu, don Mimmi lu diciane.
D.: E lu cristianu ca facia l’appellu rimania cu vui tutte de ure o scia?
R.: None, poi quiddhu scrivia, facia, mancava poche ure.
D.: Quindi stia cu vui?
R.: Sì sì, scrivia portava li cunti de la fabbrica… Tondi era de cognome.
D.: Quindi comu figure ca faticavane nc’erane le ballatrici e vui ca facivive le spianatrici.
R.: Sì, poi le ballatrici erane divise in categorie, quiddhe de prima,
quiddhe de seconda, in base alla qualità de lu tabbaccu.
D.: Ma vi regalavane stecche de sigarette?
R.: None fija mia no se facia nuddhu regalu, ca ci le capia le sigarette,
li masculi prima le faciane cu le foje de lu tabbaccu.
D.: E c’erane cristiane forestiere o erive tutte de Sternatia?
R.: No tutte de Sternatia, quarcheduna emigrata, ca s’era sposata cu
unu de Sternatia dicimu, faticava cu nui pe stu motivu; per esempiu la
Luce de lu Bombetta, quiddha era de Zuddhinu ed era sposata cu lu Peppinu ca era de Sternatia, poi c’era la Maria de Caprarica ca era sposata
cu lu Roccu Frucularu, la Lucia ca tene lu Ntonucciu Cazzunaru era de
Zuddhinu però lu maritu era de Sternatia.
D.: E te ricordi quarche scioperu quandu faticavi tie?
R.: Ieu quando scia no, me li ricordu quando era piccicca ca sciane a
nanti lu fregu, lu fasciu, però era troppu piccicca. Sacciu ca alla fabbrica
su trasuta sempre.
D.: Senti Angiulina e ci era ca vi dia li compiti, cioè ca vi dicia tie faci
la ballatrice tie la spianatrice?
R.: Dicimu ca tutte partiane comu spianatrici, poi in base all’anni
d’esperienza potivi fare la ballatrice, ca poi oltre a sti dischi ca diame nui
alle ballatrici, quiddhe ancora cerniane de ddha intru. Quindi le ballatrici
erane chiu brave, teniane chiu esperienza.
D.: E comu vidiane li masculi sta cosa ca le fimmine sciane cu faticane
e no stiane a casa per esempiu?
R.: Nienzi, era normale perché faticavane tutte, poi tandu non c’era
muta fatia o eri mescia de scola o scivi alle fabbriche de tabbaccu o alle
volie. Iu alle volie no’ sci mai, l’unicu lavoru ca fici era quistu.
D.: E cu le mescie ce rapporti tenivi, erane fiacche?
R.: Me no, fiacche no de cristiane, certu quandu faticavame erame
stare citte, però vistu ca la lingua la portavame na parola ogni tantu la
diciame e quiddhe tandu ni diciane cu stamu citte.
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D.: E preghiere?
R.: Nc’era lu rosariu tutti li pomeriggi, cera l’addetta propriu ca lu
dicia.
D.: Quindi a parte lu rosariu e na parola ogni tantu de scusu, erive
stare citte.
R.: Sine, ca poi quiddhe quandu se accorgiane ca parlavame faciane
finta de nienzi, ca erane de carne puru quiddhe. Poi certe fiate erane
cchiu severe e stiane ddhai mpizzate cu le fannu stare citte. A seconda
puru de la sciurnata, se magari era passatu lu padrunu e l’era rimproverate e allora poi ni scuntavane a nui cu potimu faticare e cu ni cojimu
prestu.
D.: E durante l’annu quantu tiempu faticavi?
R.: Ma, doi, tre misi.
D.: E te ricordi quali misi?
R.: Sì, ncignavame subitu dopu la Befana e poi finu a marzu, aprile.
D.: Sai perché nc’erane le sbarre alle finestre?
R.: Ma, forsi era na cautela pe quiddhi, c’era anche la retina oltre alle
sbarre, casomai rubavane.
D.: Te ricordi se nc’era quarchedunu ca vi facia quarche fotu?
R.: No, quando faticavame no venia nisciunu.
D.: Te ricordi se nc’era lu bagnu e se potivi scire quandu volivi?
R.: Sì c’era e quandu te esigia, scivi senza problemi. Però me ricordu
ca iu scia poche fiate.
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Intervista a Vita Mastrolia
Luogo e data: Sternatia, novembre 2008;
Nome dell’intervistato: Vita Mastrolia;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 23/12/1933;
Residenza: Sternatia;
Professione: tabacchina;
Intervista di: Desiré Maria Delos.
D.: Sei mai stata all’estero?
R.: No, mai.
D.: In quale anno hai iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: A 1quattordici-quindici anni.
D.: Per quanto tempo l’hai fatto?
R.: Fino al settantuno.
D.: Sempre a Sternatia?
R.: Sì, non mi ricordo solo l’ultimo anno forse ho fatto a Martano.
D.: In quale fabbrica hai lavorato di Sternatia?
R.: Alla Rossi.
D.: Quella del castello?
R.: Sì.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: La Rossi e poi non mi ricordo.
D.: A noi risultano la Rossi, quella in piazza e un’altra alla stazione.
R.: Non mi ricordo bene.
D.: Ti ricordi quante eravate al castello?
R.: Più o meno una cinquantina.
D.: Gli orari di lavoro quali erano, da che ora a che ora?
R.: Dalle sette e mezza fino alle dodici, poi andavamo a mangiare e
ritornavamo all’una.
D.: Quali mansioni, che facevi?
R.: Spianavo soltanto.
155
D.: E c’era una differenza di pagamento, quelle che spianavano venivano pagate di meno rispetto alle imballatrici?
R.: Penso di no, ma forse sì. Non mi ricordo.
D.: I padroni, i capi come si comportavano con le tabacchine?
R.: Erano bravi.
D.: Non sgridavano…
R.: Gridavano quando c’era la maestra.
D.: Ti ricordi qual era la tua maestra, come si chiamava?
R.: Addolorata mi sembra, noi la chiamavamo Ndata.
D.: In quali mesi dell’anno lavoravi?
R.: Penso in inverno.
D.: Il fatto che andavi a lavorare come veniva vista dall’uomo, dal marito?
R.: Normale perché era una necessità, poi quando è nato l’ultimo figlio
nel settantuno ho smesso.
D.: Venivano donne di fuori paese a lavorare a Sternatia?
R.: No.
D.: Ti ricordi perché c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Per non rubare.
D.: Ti pagavano i contributi?
R.: Certo sì, non erano contributi forti, erano leggeri.
D.: Ti ricordi qualche sciopero?
R.: Sciopero non mi ricordo mai.
D.: Le mescie come venivano scelte, erano parenti dei padroni?
R.: Sì, per esempio c’era la Longo…
D.: La mescia Emma?
R.: Sì, e l’Addolorata che ti ho detto prima era la sorella.
D.: Quindi diciamo erano scelte perché parenti?
R.: Si quelle due erano parenti.
D.: Indossavate una divisa?
R.: Si avevamo un grembiule che facevamo noi.
D.: Lo portavate da casa, non ve lo dava la fabbrica?
R.: No, lo facevamo noi.
D.: Dovevano essere tutti uguali?
R.: Si tutti blu.
D.: Quindi sotto vi vestitivate come volevate voi e poi indossavate il
grembiule. E c’erano uomini che lavoravano con voi?
R.: C’era uno che ci seguiva come la Emma e l’Addolorata.
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D.: Un guardiano, quello che faceva anche l’appello?
R.: Sì.
D.: E potevate cantare?
R.: No, nemmeno parlare.
D.: E che cosa succedeva se qualcuna di voi parlava?
R.: Che la mescia ci gridava.
D.: Ma è vero che sospendevano?
R.: No, sospendevano no, ma ci gridavano.
D.: Ma parlavate in greco?
R.: C’era chi parlava greco e chi dialetto.
D.: Ti ricordi perché sono state chiuse le fabbriche?
R.: No.
D.: Ti ricordi se c’era il bagno?
R.: No.
D.: Ci hanno raccontato che bevevate tutte la stessa acqua.
R.: Sì, tutte dallo stesso contenitore di rame. La prima che beveva andava meglio.
D.: E avevate un posto fisso o cambiavate ogni volta?
R.: No avevamo il posto fisso.
D.: Quindi la prima andava sempre meglio per bere.
R.: No, dipende da dove capitava la brocca.
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Intervista a Clelia Giuseppa Reale
Luogo e data: Sternatia, 19 aprile 2009;
Nome e cognome dell’intervistata: Clelia Giuseppa Reale;
Luogo e data di nascita: Sternatia il 01/07/1934;
Residenza: Sternatia;
Professione: contadina, tabacchina;
Emigrata all’estero: no.
Intervista, trascrizione e traduzione di: Giorgio Vincenzo Filieri.
D.: Pos kui?
R.: Reàle Klèlia Giusèppa ce me fonàzone Pina.
D.: Pota jennìti?
R.: Primo, sette, 1934.
D.: Ipù jennìti?
R.: Si’ Chora.
D.: Ipù polèmigghe?
R.: Ipolèmigga kontadìna ce tabbakkìna.
D.: Is plea fràbbika polèmigghe?
R.: So’… don Antòni to’ llèane, Mastrolìa Leonardo Antonio.
D.: Ti chrono atsìkkose na polemìsi si’ ffràbbika?
R.: Ma… pistèo versu lu cinquanta… lu cinquanta.
D.: Ce possus chronu polèmise?
R.: Dekapènte, dekàtse, ‘en eo stennù kalà.
D.: Posses fràbbike iche si’ Chora?
R.: Iche: cini tu don Antòni ka polèmigga ivò; tu don Cici, so kastèddhi; ce cimpì si’ stansiùna, tu don Angiulìnu Ànkora.
D.: Isù is plea fràbbika polèmigghe?
R.: I’ ccini tu don Antòni Mastrolìa.
D.: Ti fatìa èkanne icèssu si’ ffràbbika isù?
R.: Ivò èkanna ti’ spianatrìce.
D.: Ce ti èkanne i spianatrìce? Spièga na sprì.
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R.: I spianatrìce ìsane… ispetsìggamo tes ansèrte, tes vàddhamo apànu
so mantìli ce kànnamo ta fiddha… ta fiddha plo’ kkajo, ta fiddha plo’
ffiàkka; ta spianèamo apànu so kòtano.
D.: Iche divèrses kualìtà atse tabbàkko?
R.: Iche poddhes kualità… ce kànnamo tes katastèddhe apànu so’
bbanko ce poi ijàvenne i mèscia ka ta èpianne ce ta èperne tos ballatrìce.
D.: Ti addhi’ ffatìa kànnane i addhe icèssu?
R.: Iche tes ballatrìce de prima, poi iche cine pu kànnane to’ ttòrkio. So’
ttòrkio ìsane plo frantùma na valone icèssu, balle plo’ ssekondàrie; ma i
ballatrìce de prima poi kànnane ta fiddha plo’ ssòtsia, te’ bballe plo’ kkajo.
D.: I kajo fatìa i ballatrìce ìsane?
R.: I ballatrìce ìsane i kajo, sì!
D.: Ce, i mèscia?
R.: Poi iche ti’ mmèscia, ti’ ssottomèscia… ka kumandèane. Iche tèssare’-ppente addhe pu stèane tise, ikualùa’ ttes ansèrte, ikualùa’ tta fiddha, iskarikèane tes kasce na doko’ ttes ansèrte; ikànnane divèrsu’
llavòru.
D.: I mèscia ti èkanne?
R.: I mèscia ìstigghe icèssu na kumandètsi ce… ikontròllegghe; ijàvenne, an iche fiddha smimmèna elle: «tuo ‘e’ ppai ittù», se kontròllegghe!
D.: Iche àntrepu?
R.: Àntrepu ka polemùane iche to’ pportinàjo k’ ànigghe to’ pportùna,
ìklinne; ce addhon ena icèssu p’ èkanne tus kuntu poi…, ‘en iche poddhù ka polemùane.
D.: Tis tin ghiàddhegghe ti’ mmèscia?
R.: Ti’ mmèscia tin ghiàddhegghe o patrùna, jatì ia’ pplo’ bbrava na cernètsi ton dabbàkko, n’ anoìsi kajo; anòigghe kajo ti’ kkualità atse tabbàkko.
D.: Isane plon espèrta?
R.: Ia’ pplon espèrta, sì! Plo’ bbrava na kumandètsi ce plon espèrta
son dabbàkko.
D.: Is esà tis sas èpianne si’ ffatìa, i mèscia oppùru o patrùna?
R.: Iche na pai panta so’ ppatrùna. Imèna m’ èpike o patrùna direttamènte, ipe ka me piànni cino; ipìrte o ciùri-mu na tu milìsi ce ipe: «na
mi’ ppensètsi ti’ kkiatèra-su ti’ ppiànno ivò» ce m’ èpike cino, m’ avvìsetse
na pao.
D.: Ti età iche isù motte ancìgnase na polemìsi?
R.: Dekatèssarus chronò!
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D.: Iche na kami na’ kkontràtto? T’ iche na kami me to’ ppatruna?
R.: Nde, en iche na kami tìpoti kontràttu.
D.: Manechà itu?
R.: Ipie c’elle a’ sse ìsoze piài si’ ffràbbika… A’ sse ìsoze piài, s’
èpianne; imèna m’ èpike direttamènte o patrùna.
D.: Posses ore polemùato?
R.: Ore kànnamo: imbènnamo alle sette e menza so pornò, igghènnamo alle dodici, all’una ijurìzamo mapàle, alle tre e menza igghènnamo.
D.: Posses operàie ìsosto isì, si’ ffràbbika pu polèmmigghe isù?
R.: Più o menu pettìnta, pettintapènte, atsìnta; tuo ìane o tutso ka iche.
D.: Isòzato milìsi icèssu si’ ffràbbika motte polemùato?
R.: Nde, e’ ssòzamo milìsi makà! Ce nde na fame ce tìpoti. Iche na
kustì manechà o rushio atse tabbàkko…, na polemìsome.
D.: Isòzato pi kammìa’ ppreghièra, kanè pprama? Ti kànnato, isòzato
kantètsi? E’ ssòzato kami tìpoti?
R.: Ma, kammìa fforà pròpria iche mia p’ èkanne… p’ elle to’ rrosàrio;
atse addho en ìsoze milìsi, ia’ ssevèro o prama.
D.: Possus minu polemùato?
R.: Atsikkònnamo a gennàio… a ssekùndu tabbàkko iche: tri, tèssarus
minu; a ssekùndu tabbàkko konsegnèane i christianì.
D.: Érkato mai i finànza na kontrollètsi icèssu si’ ffrabbika?
R.: Me, kuài forè èrkato, sì! Ikontròllegghe akkartamèntu ka iche, pràmata tu patrùna; ispeziùnegghe puru is emà; reggìstru… ispeziùnegghe
ta pràmata tu patrùna.
D.: Ma ilèone ka i finànza ikontròllegghe puru a’ ffumèane i christianì!
R.: Puru! E’ ssòzane fumètsi. Ifumèane is kontrabbàndo… ìchane ton
dabbàkko essu ce manku isòzane fumètsi, de’ pposso o ciùri-mu…
ìchamo tosson dabbàkko imì k’ amfilèamo, kremammèno, tiralèttu, tikanè, ce ìnghize na kratèsi na sprin dabbàkko ce to krìpinne sa sikkiùddhia, i’ ttotsu, sus tichu; poi, mia fforà, igòmose nan òrio’ mmenzunàci
ce to ìpire i’ ttotsu, poi ton avvisètsane ka ìdane na’ christianò ka vàstigghe nan menzunàci so kòkkalo asciopammèno; motte ìkuse itu, o ciùrimu ipìrte i’ ttotsu na torìsi pu àfike to stangateddhùtsi… ti’
mmenzèddha… ikràtenne poddhà pramatùddhia, ce ‘en iche tìpoti. Si
vede ka tuso christianò tu to vèntetse, ipìrte, to èpike ce to ìpire ja cino.
D.: Ce iklèttane tabbàkko puru a’ttus tiralèttu?
R.: Puru is emà ka stèamo amèsa si’ mmesi, ce oli kalèatto icì simùd-
160
dhia to frikulèane ce kànnane ti’ ssikarètta; vastùa’ ttes kartìne… puru
ansèrte mas piànnane kuài forè… però panta is kontrabbàndo, e’ tto sòzane echi a ppùbbliku.
D.: I christianì to kripìnnane puru icèssu essu ton dabbàkko?
R.: Puru icèssu essu to kripìnnane. Puru o ciùri-mu to krìpinne icèssu essu.
D.: Kuàsi, ikànnane mia’ ttripi?
R.: Ikànnane… to vàddhane akà’ tse na’ pprama, t’ asciopànnane, akà’
tse na’ mmattùna… to kripìnnane. Ce imì ìchamo ti’ kkàmbara gomàti
pùpulu atse tabbàkko ce o ciùri-mu ìnghize na to kripìsi na sozi fumètsi.
D.: Ce poi jatì iklìsane i fràbbike?
R.: Iklìsane jatì atsikkòsane mi’ kkàmone pleo tabbàkko ce ia’ pplon
alìo, is pri ’s pri, is pri ’s pri ce ichàti pròpria i piantatsiùna tu tabbàkku.
D.: Si’ Chora posses fràbbike iche?
R.: Tri eo stennu ivò.
D.: Ipu stèano?
R.: Mia amèsa si’ mmesi, icì ka echi ti’ ffarmacìa; i addhi akà’ so kastèddhi tu don Cici, ka poi frabbìketse… prima ìstigghe akà’ so kastèddhi
pròpria, poi frabbìketse de fore ce tin ìpire ’cì ti’ ffràbbika; ce i addhi
ìstigge ampì si’ stansiùna.
D.: Va bene! Grazie.
R.: Niente.
Traduzione
D.:Come ti chiami?
R.: Reale Clelia Giuseppa detta Pina.
D.: Quando sei nata?
R.: Il primo, sette, 1934.
D.: Dove sei nata?
R.: A Sternatia.
D.: Dove lavoravi?
R.: Lavoravo come contadina e tabacchina.
D.: In quale fabbrica lavoravi?
R.: In quella di Mastrolia Leonardo Antonio detto don Antoni.
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D.: In che anno hai iniziato a lavorare in fabbrica?
R.: Ma… penso intorno agli anni cinquanta.
D.: E per quanti anni hai lavorato?
R.: Quindici o sedici, non ricordo esattamente.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: C’era: quella di don Antonio presso la quale lavoravo io; quella di
don Cici, ubicata presso il castello; e quella presso la stazione di don Angiolino Ancora.
D.: Tu in quale lavoravi?
R.: In quella di don Antonio Mastrolia.
D.: Quale era la tua mansione nella fabbrica?
R.: Io facevo la spianatrice.
D.: E, cosa faceva la spianatrice? Spiega un po’.
R.: La spianatrice era… spezzavamo le filze, le mettevamo sul grembiule e facevamo le foglie… le foglie migliori, le foglie peggiori; le spianavamo sul ginocchio.
D.: C’erano diverse qualità di tabacco?
R.: C’erano molte qualità… facevamo delle piccole cataste sul banco,
poi passava la maestra che le prendeva e le portava alle imballatrici.
D.: Quale tipo di mansione svolgevano le altre?
R.: C’erano le imballatrici cosiddette “di prima”, poi c’erano quelle che
facevano il torchio. Al torchio c’era più robaccia da mettere dentro, balle
più secondarie; ma le imballatrici “di prima” invece avevano a che fare
con foglie più regolari, le balle migliori.
D.: Il lavoro migliore era quello d’imballatrice?
R.: Quello d’imballatrice era il migliore, si!
D.: E quello di maestra?
R.: Poi c’era la maestra, la vicemaestra… che comandavano. C’erano
anche quattro o cinque altre che stavano in piedi, trasportavano le filze,
trasportavano le foglie, scaricavano le casse per dare le filze; svolgevano
diversi compiti.
D.: La maestra che cosa faceva?
R.: La maestra stava lì dentro per comandare e… controllava; passava,
se c’erano foglie mischiate diceva: «questa non va qui», ti controllava!
D.: C’erano uomini?
R.: Gli uomini che lavoravano erano: il portinaio che apriva il portone
e lo chiudeva, e un altro che teneva la contabilità…, non c’erano molti
162
che lavoravano.
D.: Chi sceglieva la maestra?
R.: La maestra la sceglieva il padrone, perché era più brava a vagliare
il tabacco, a capire meglio; s’intendeva della qualità del tabacco.
D.: Era più esperta?
R.: Era più esperta, si! Più brava a comandare e più esperta per il tabacco.
D.: Chi vi assumeva a lavorare, la maestra oppure il padrone?
R.: Bisognava andare sempre dal padrone. Io sono stata assunta dal
padrone direttamente, disse che mi avrebbe assunta lui; mio padre andò
a parlargli e lui gli disse: «non ti preoccupare tua figlia l’assumo io» e mi
assunse lui, mi avvisò di andare.
D.: Quanti anni avevi quando hai iniziato a lavorare?
R.: Quattordici anni!
D.: Bisognava fare un contratto? Che cosa era necessario fare con il
padrone?
R.: No, non bisognava fare nessun contratto.
D.: Semplicemente così…?
R.: Andavi e chiedevi se ti poteva assumere nella fabbrica… Se ti poteva assumere ti assumeva; io sono stata assunta direttamente dal padrone.
D.: Quante ore lavoravate?
R.: Facevamo quest’orario: entravamo alle sette e mezzo di mattina,
uscivamo alle dodici, all’una ritornavamo, alle tre e mezzo uscivamo.
D.: Quante operaie eravate nella fabbrica presso la quale lavoravi?
R.: Più o meno cinquanta, cinquantacinque o sessanta; questo era il
numero.
D.: Potevate parlare dentro la fabbrica, durante il lavoro?
R.: No, non potevamo parlare affatto! Né mangiare né niente. Si doveva sentire soltanto il fruscio del tabacco… cioè lavorare.
D.: Potevate dire qualche preghiera, qualcosa del genere? Che cosa
facevate, potevate cantare? Non potevate fare niente?
R.: Ma, qualche volta raramente c’era una che faceva… che diceva il
rosario; di altro non potevi parlare, era severa la cosa.
D.: Quanti mesi lavoravate?
R.: Iniziavamo a gennaio… dipendeva dal tabacco che c’era: tre, quattro mesi; a seconda del tabacco che consegnavano le persone.
163
D.: Veniva mai la finanza per controllare dentro la fabbrica?
R.: Beh, qualche volta veniva, sì! Controllava gli incartamenti che
c’erano, cose del padrone; ispezionava anche noi; registri… ispezionava
le cose del padrone.
D.: Ma dicono che la finanza controllava anche se fumassero le persone?
R.: Anche! Non potevano fumare. Fumavano a contrabbando… avevano il tabacco in casa e neanche potevano fumare, tanto che mio
padre… avevamo tanto tabacco noi che infilavamo, appendevamo, tiraletti, ecc., e doveva tenere da parte un po’ di tabacco da nascondere nei
secchielli, in campagna, nei muri; poi, una volta, riempì un bel contenitore di creta e lo portò in campagna, poi lo avvisarono che avevano visto
una persona che teneva un contenitore in testa coperto; quando sentì
così, mio padre andò in campagna per vedere dove aveva lasciato il piccolo vaso… il contenitore… aveva molte di queste cosette, e non c’era
più niente. Si vede che questa persona, avendolo scoperto, lo prese e lo
portò per lui.
D.: Rubavano tabacco anche dai tiraletti?
R.: Anche a noi che abitavamo in piazza, tutti si avvicinavano lì vicino
lo fregavano e facevano la sigaretta; avevano le cartine… anche le filze
ci prendevano alcune volte… però sempre a contrabbando, non lo potevano avere pubblicamente.
D.: Le persone lo nascondevano anche dentro casa il tabacco?
R.: Anche dentro casa lo nascondevano. Anche mio padre lo nascondeva in casa.
D.: Cioè, facevano una buca?
R.: Facevano… lo mettevano sotto una cosa, lo coprivano, sotto un
mattone… lo nascondevano. E noi avevamo una stanza piena pùpuli di
tabacco e mio padre lo doveva nascondere per poter fumare.
D.: E poi perché chiusero le fabbriche?
R.: Chiusero perché iniziarono a non fare più tabacco ed era poco,
un po’ alla volta terminò del tutto la coltivazione del tabacco.
D.: A Sternatia quante fabbriche c’erano?
R.: Io mi ricordo tre.
D.: Dove stavano?
R.: Una in piazza, lì dove c’è la farmacia; sotto il castello di don Cici,
che poi costruì… dapprima stava proprio sotto il castello, poi costruì
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fuori e la portò lì la fabbrica; e l’altra stava dietro la stazione.
D.: Va bene! Grazie.
R.: Niente.
165
Intervista a Maria Iolanda Chiriacò
Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Chiriacò Maria Iolanda;
Data di nascita: anno 1924;
Luogo di nascita: Sternatia;
Residenza: via Giorgio Orlandi, Sternatia;
Professione: tabacchina pensionata;
Emigrata: no.
Intervista di: Luigina Mastrolia.
D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Quando avevo quindici anni, chi andava a scuola veniva presa
prima, ho cominciato verso il quaranta.
D.: Per quanto tempo?
R.: Poco, al Castello eravamo tante operaie e il lavoro era poco.
D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare?
R.: Alle sette cominciavi e uscivi alle tre e mezzo.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: C’era il Castello, Don Cici, Don Antonio, e la stazione.
D.: In quale fabbrica ha lavorato?
R.: Al Castello .
D.: Chi erano i datori di lavoro?
R.: Don Angiolino Ancora .
D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica?
R.: Eravamo centocinquanta.
D.: Erano previste delle pause? Se sì, quanto duravano?
R.: No.
D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica?
R: Cernitrice. Dopo le spianatrici prendevamo i dischi e dovevamo
tirar fuori i colori, il pallido il rosso chiaro, il marrone, il verde, il quarto
chiaro, il quarto scuro, tutte le classi. E poi passava alle ballatrici.
166
D.: In quali mesi del’anno si lavorava in fabbrica?
R.: A Natale si cominciava e a marzo si finiva.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Perustizza, Zagovina.
D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se sì, da dove
venivano?
R.: No.
D.: Perché c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Si c’erano le sbarre.
D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera?
R.: No… non me lo ricordo. Dato che avevo quindici anni mi pagavano però come un’operaia grande e non come un’apprendista.
D.: Venivano messi i contributi?
R.: Sì.
D.: Si ricorda di qualche sciopero?
R.: Si sono venuti anche i Carabinieri, ed è durato parecchi giorni,
c’era chi lavorava sempre e chi come me lavorava solo alcune settimane,
una ciascuno, e facevamo sciopero per avere il lavoro.
D.: In base a quale criterio venivano scelte le mesce?
R.: C’era la mescia Emma, mia sorella la Ndata, la Uccia, la Nzina de
lu Minerva, e le sceglieva il padrone, prendevano le ruffiane.
D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate?
R.: Un grembiule, e a Don Cici davano un camice scuro .
D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica?
R.: No, solo Giorgino per fare l’appello.
D.: C’era una mensa?
R.: Quando suonava mezzogiorno potevamo venire a casa a mangiare
e la Nicoletta de lu Scordari cucinava per le donne incinte o che allattavano, e c’era anche un asilo nido mi pare sotto il Convento.
D.: Si poteva cantare?
R.: Si poche parole, ma non potevamo parlare o venivamo sgridate.
Una volta un gruppo di noi che stava parlando eravamo sette o otto
siamo state sospese per cinque giorni; una certa Costantina che andava
ad allattare ha riferito alla mescia che noi giocavamo con dei fazzoletti.
D.: Ti ricordi qualche altra cosa?
R.: L’ultimo giorno di lavoro si faceva un pranzo tutte assieme, si metteva una quota ciascuno, si chiamavano le mescie e Giorgino Seddhone,
e ogni anno era così.
167
D.: Come era la giornata lavorativa?
R.: Dovevi sbrigarti a mangiare nell’ora di pausa e se non ti sbrigavi
ti chiudevano fuori. E quando tornavi a casa avevi da portare avanti le
faccende di casa. Se avevi la mamma le chiedevi di cuocerti una pignata,
mia sorella Michela lasciava i figli a mia madre, mio figlio lo lasciavo da
mia zia, e quando avevano tre anni si mandavano all’asilo, e quando
uscivano li prendevano le nonne.
D.: Piantavate tabacco?
R.: Si, uscivamo a mezzogiorno per innaffiare le rudde e quando non
lavoravo in fabbrica lavoravo in campagna e se pioveva il tabacco cresceva altrimenti.
168
Intervista a Eleonora Conte
Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Conte Eleonora;
Data di nascita: 08/06/1918;
Luogo di nascita: Sternatia;
Residenza: via Giorgio Orlandi Sternatia;
Professione: Tabacchina pensionata;
Emigrata: no.
Intervista di: Mastrolia Luigina.
D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Negli anni trenta quando ero ragazzina..
D.: Per quanto tempo?
R.: Per tanti anni, anche dopo sposata..
D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare?
R.: Alle sette ti dovevi trovare lì, alle dodici uscivi per mangiare, rientravi alle tredici e poi uscivi alle sedici.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Il Castello, Don Antonio, Don Cici, e quella della stazione.
D.: In quale fabbrica ha lavorato?
R.: Al Castello.
D.: Chi erano i datori di lavoro?
R.: Don Angiolino Ancora.
D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica?
R.: Tante una cinquantina.
D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano?
R.: No, solo per andare in bagno e bisognava chiedere il permesso
alla mescia.
D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica?
R.: Spianatrice.
D.: Quante mansioni erano previste in fabbrica?
169
R.: C’erano le ballatrici, quelle che stavano al torchio e quelle che mettevano foglia per foglia nelle cassette.
D.: Chi affidava le mansioni in fabbrica?
R.: Le mescie, la mia era la mescia Emma. Le mescie ti mostravano
come dovevi portare avanti il lavoro, poi dovevi cavartela da sola;
quando per esempio dovevi stirarlo foglia per foglia e facevi i dischi
mazzo per mazzo, giro giro, poi c’era il torchio dove andava messo il tabacco peggiore e poi le ballatrici.
D.: Come era il rapporto con il datore di lavoro?
R.: Buono.
D.: In quali mesi del’anno si lavorava in fabbrica?
R.: Non tutto l’anno, quando finiva il tabacco non andavamo più, lavoravamo due o tre mesi.
D.: Venivano messi i contributi?
R.: Si, tutti.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Perustizza, Zagovina. Quella lunga e grande, la prima, la seconda,
la terza e la quarta classe quella peggiore, le foglie rovinate, strappate
che andavano al torchio, le altre andavano alla ballatrice.
D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove
venivano?
R.: No.
D.: Perché c’erano le sbarre alle finestre?
R.: C’era una rete, e quando uscivamo chiudevano con una sbarra, e
sotto c’era una guardia che apriva la porta quando la mattina entravamo,
Ciccio di Soleto, e chiudeva la sera, e nella pausa pranzo e ogni volta ci
controllava addosso se portavamo il tabacco a casa.
D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera?
R.: Tre lire, cinque lire, le ballatrici erano pagate di più.
D.: Si ricorda di qualche sciopero?
R.: Ogni tanto facevamo sciopero, le apprendiste volevano lavorare e
non le prendevano a lavorare, perché eravamo in tante sul Castello.
D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie?
R.: C’era la mescia Emma, e Ndata la sottomescia. La mescia non faceva nessun lavoro, camminava, girava intorno ai tavoli e se parlavi ti riprendeva, controllava come lavoravi, se sceglievi bene i colori.
D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate?
170
R.: Un grembiule, o un mantile per non sporcarsi.
D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica?
R.: No, solo la guardia del portone e Giorgino Seddhone che ci controllava e se parlavi ti sgridava.
D.: Veniva fatto l’appello? Da chi?
R.: Si da Giorgino Seddhone, aveva un registro e faceva l’appello e
segnava le assenze e se non ti presentavi non ti pagava la giornata.
D.: Si poteva cantare?
R.: No, dovevi stare zitta. Solo negli ultimi giorni si raccontavano delle
storie, delle preghiere e si diceva il rosario.
D.: Quale lingua usavate per comunicare?
R.: Griko, dialetto con quelle che non parlavano in griko, e con la mescia e Giorgino solo in dialetto.
D.: Perché venne chiusa la fabbrica?
R.: Perché non c’era più tabacco, dopo la vendita dell’altro tabacco
veniva aperta la fabbrica, ma solo dopo che le fabbriche ricevevano il
tabacco apriva.
D.: Ti ricordi se esisteva un asilo nido?
R.: No, c’era una stanza dove scendevano le donne che dovevano allattare, lasciavano una mezzoretta di lavorare.
D.: Ti stancava la giornata lavorativa?
R.: No, stavi sempre seduta, non era faticoso, dovevi solo sbrigarti a
finire le nzerte.
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Intervista a Grazia Spagna
Luogo e data: Sternatia, 31 Ottobre 2008;
Nome dell’intervistato: Grazia Spagna;
Luogo e data da nascita: Sternatia il 10/09/1928;
Residenza: Sternatia;
Professione: pensionata;
Emigrata all’estero: no.
Intervista di: Maria Lucia Conte, Desirée Maria Delos, Mariangela Giannuzzi.
D.: Cosa ti ricordi?
R.: Andavano a lavorare tutte le mie sorelle nel magazzino, e delle
mattine veniva la perizia, erano i capi che controllavano la qualità del
tabacco, venivano tre o quattro di loro che controllavano foglia per foglia.
Poi si chiudeva il magazzino già controllato, e venivano con i camion
per prenderlo con le guardie come Donato Guluso, Ciccio Bonatesta,
c’erano anche dei forestieri, da Don Antonio c’era Rocco Meu.
D.: La fabbrica del castello fino a quando è stata aperta?
R.: Non mi ricordo, perché non stavo dentro, stavo qui da don Cici,
che era un pediatra.
D.: Ti ricordi se c’era un asilo nido?
R.: Da don Cici Specchia, c’erano le cullette e un’operaia dove adesso
c’è la palestra. Grazie a don Cici avevano la maternità, allattavano e mangiavano a pranzo, la Nicoletta Scordari cucinava per tutte, dove c’è la
casa de lu Peppino Marti, vicino a Rubini.
D.: Ti ricordi qualche sciopero?
R.: No, ero una bambina, mi pare che dicevano che qualche volta ci
sono stati.
D.: Tuo marito cosa faceva?
R.: Quando hanno mandato via le guardie di vigilanza e ognuno ha
messo le guardie che voleva a guardia della stufa e a fare l’appello. Dove
c’è adesso la Mariatè, nei cinque camerini lavoravano il tabacco, e sotto
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dove c’è la Inda c’era il tabacco. Non potevano neanche portare da mangiare, nascondevano la frisella sotto la sciarpa, mettevano le paparine e
mangiavano con le mani.
D.: C’erano le sbarre alle finestre?
R.: C’erano i giornali alle finestre ma solo quando mettevano il solfuro,
un disinfettante per il tabacco, e mettevano le carte alle fessure delle
porte per non fare uscire l’odore, venivano anche i carabinieri quando
lo mettevano.
D.: Come era don Cici?
R.: Una brava persona, si arrabbiava quando vedeva le cose che non
andavano, tutto doveva essere pulito.
D.: Di chi era il castello?
R.: Di don Cici, ereditato dallo zio Donato che l’aveva comprato dal
Barone Cicala che lo aveva venduto a pezzi.
D.: Le mescie come erano scelte?
R.: Le più brave credo, quelle che capivano il tabacco.
D.: La moglie di don Cici come era? Scendeva in fabbrica?
R.: Era molto bella e affabile era di Roma, No non scendeva mai anche
perché è morta nel trentasei a trentatrè anni.
D.: Venivano pagate qui le tabacchine?
R.: Sì qui sopra, solo ultimamente, però, quando il dottore non poteva
ascendere per il male alla gamba, se no venivano pagate sotto, il sabato.
D.: Quante erano?
R.: Non me lo ricordo ero troppo giovane.
173
Intervista a Giuseppa Leonarda Pellegrino
Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Giuseppa Leonarda Pellegrino;
Data di nascita: 09/02/22;
Luogo di nascita: Sternatia;
Residenza: via Giorgio Orlandi, Sternatia;
Professione: Tabacchina, pensionata;
Emigrata: no.
Intervista di Luigina Mastrolia.
D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Io non sono andata a scuola, mia sorella invece è andata a scuola
ed è stata presa prima a dodici anni, io ho dovuto aspettare i quattordici
anni.
D.: Per quanto tempo?
R.: Cominciai a quattordici anni e ho finito quando ha chiuso la fabbrica, o meglio il lavoro che svolgevo io non era più richiesto, solo qualche volta mi hanno chiamato per i colori, ma non per le balle, perché io
facevo la ballatrice.
D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare?
R.: Alle sette meno un quarto ti dovevi trovare lì, alle dodici uscivi
per mangiare, rientravi alle tredici e poi uscivi alle quindici e trenta.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: Il castello, il convento, la stazione, Don Antonio, Don Cici.
D.: In quale fabbrica ha lavorato?
R.: Al Castello con la Rossi..
D.: Chi erano i datori di lavoro?
R.: La Rossi.
D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica?
R.: Dove stavo io eravamo quasi duecento.
D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano?
174
R.: Solo quando dovevo allattare uscivo dieci minuti, il tempo di uscire
e tornare subito.
D.: C’erano mense?
R.: No, si tornava a casa a mangiare, o ti portavi un po’ di pane e lo
mangiavi di nascosto.
D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica?
R.: Prima davano le anserte, spezzavi l’anserta aprivi le foglie morbide
e toglievi il colore, il verde, il macchiato, verde scuro, verde chiaro, verde
rosso, e il colorito era quello di cui si doveva fare la balla e i dischi. Dovevo iniziare la balla, prendevo le foglie una ad una, una sull’altra, precise, se c’era qualche fuoriuscita si spezzava, tutto doveva essere preciso;
quando si riempiva lo mettevo nella cassetta dove c’era la balla. Quando
si arrivava ad un certo livello la cassa veniva presa, mettevamo le stecche
per premerla per fare uscire il tutto, dopo la toglievamo, la stendevamo
per terra e la cucivamo con le corde.
D.: In quali mesi del’anno si lavorava in fabbrica?
R.: Si iniziava a novembre sino ad aprile, se c’era molto lavoro sino a
maggio, il padrone e la mescia sceglievano le più brave e allora si sistemavano tutte le balle e le portavamo dove c’era la stufa, dopo tre giorni
le toglievamo e le portavamo in una stanza dove c’erano tante cataste.
D.: Sei andata in altri paesi a lavorare?
R.: Si, quando qui il lavoro finiva prima, sono andata a Zollino in un
fabbrica vicino alla stazione, dato che mio padre conosceva il padrone
gli ha chiesto se io e mia sorella potevamo lavorare da lui, e che io ero
una ballatrice, perché erano rare e ricercate, era un lavoro specializzato.
D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera?
R.: Appena sono entrata venticinque soldi come apprendista, e sono
arrivata a sette lire. Ero ballatrice di prima, ma non c’era un’altra pagata
più di me. Ma eravamo in poche, io, la Grazia della Fideleddha, le due
Marinette, la Giorgina e la Lucia, la Nzina de lu Liri era di terza e poi la
Cesarina de la Tomena. Di ballatrici c’erano di prima, di seconda, e di
terza categoria e anche di quarta.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Perustizza, Zagovina, Santujaca.
D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove
venivano?
R.: All’inizio prima che cominciassi io a lavorare, c’erano cinque o sei
175
donne del Casello di Galugnano, una certa Chicchina, e non tornavano
a casa a, mangiare ma mangiavano qui in fabbrica perché non avrebbero
fatto in tempo a tornare.
D.: C’era qualche mensa?
R.: No, ti dovevi portare tu da mangiare, con una menza bevevamo
cento persone.
D.: Si poteva cantare?
R.: No, nessuno doveva parlare, se entrava la mescia era silenzio assoluto, si raccontavano storie, si recitava il rosario, durante il periodo dei
morti, e durante la settima santa, e il primo venerdì di ogni mese una signora recitava trentatrè credi, con un po’ di strofetta e allora si lavorava
in pieno.
D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie?
R.: I padroni le mettevano in prova, una volta la Marina de lu Scarcione, faceva la mescia da Don Antonio, poi il marito ha avuto un posto
di lavoro fuori e se n’è andata, allora non sapevano chi mettere per mescia, e Don Antonio scelse la Nzina de lu Squizzari de lu Novellu. Entrarono nella fabbrica il padrone e la Nzina e Don Antonio ci disse: ragazze
da oggi in avanti la mescia è la Nzina, allora si è alzata l’Angiulina e
chiese a Don Antonio di parlargli in privato, e andarono nelle stanze dietro. Quando uscirono Don Antonio ci disse: ragazze ho sbagliato la mescia non è la Nzina ma l’Angiulina.
D.: Ma perché ha cambiato idea?
R.: Ha cambiato, “lu lisciau nu picca e cangiau”. Ma poi ce n’erano delle
altre che facevano da sottomescie, la Nzina Zoppa, la Ndata de lu Citri.
D.: Venivano messi i contributi?
R.: Sì.
D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate?
R.: Un grembiule.
D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica?
R.: No, venivano solo quando c’era da consegnare il tabacco nelle
casse per aiutare le donne.
D.: Veniva fatto l’appello? Da chi?
R.: Si da Giorgino Seddhone.
D.: Quale lingua usavate per comunicare?
R.: Griko.
D.: Perché venne chiusa la fabbrica?
176
R.: No, non mi ricordo l’anno, solo che si diceva che doveva venire
quello che avrebbe chiuso la fabbrica.
D.: Si ricorda di qualche sciopero?
R.: Si una volta, per avere l’aumento della paga. Abbiamo chiuso il
portone e ci siamo prese per mano, tutte quante strette e abbiamo girato
tutto il paese, tutto in un giorno e non ci hanno dato neanche l’aumento.
Comandavano i padroni, non c’erano i sindacati per aiutarci. Non ricordo
in che anno, mi ricordo che c’erano le Tomene in prima fila.
D.: Ti stancava la giornata lavorativa?
R.: Si certo. Carica le balle di venti-trenta chili tutto il giorno e dovevi
salire la scala del comune, lì ho lavorato per due o tre anni, e c’era la
Lucia della Speranza che era al mescia. Sali lì sopra con le casse piene
di tabacco, quattro di noi due davanti e due dietro e salivamo sul Comune e poi scendevamo le balle vuote per fare i dischi. Quella era di
Don Angiolino Ancora sul Comune.
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Intervista a Cleonice Spagna
Luogo e data: Sternatia 3 novembre 2008;
Nome e cognome dell’intervistata: Cleonice Spagna;
Data di nascita: 26/10/21;
Luogo di nascita: Sternatia;
Residenza: via Giorgio Orlandi, Sternatia;
Professione: Tabacchina, pensionata;
Emigrata: no.
Intervista di Luigina Mastrolia.
D.: In quale anno ha iniziato a svolgere il lavoro di tabacchina?
R.: Quando avevo quattordici anni, nel 1936 o ’37.
D.: Per quanto tempo?
R.: Non me lo ricordo, ho cominciato da signorina, ma poi non sono
andata più quando ho avuto i figli..
D.: A che ora iniziava e finiva di lavorare?
R.: Alle sette ti dovevi trovare lì, alle dodici uscivi per mangiare, rientravi alle tredici e poi uscivi alle quindici e trenta.
D.: Quante fabbriche c’erano a Sternatia?
R.: C’era Rossi, Specchia, convento, la stazione.
D.: In quale fabbrica ha lavorato?
R.: Al Castello .
D.: Chi erano i datori di lavoro?
R.: Don Angiolino Ancora e Donna Giuseppina Rossi.
D.: Quante donne lavoravano nella fabbrica?
R.: Tante più di una cinquantina.
D.: Erano previste delle pause? Se si, quanto duravano?
R.: Se dovevi andare al bagno si, ma non potevi fare pause, dovevi
lavorare sempre.
D.: Che tipo di mansione svolgevi in fabbrica?
R.: Spianatrice.
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D.: Quante mansioni erano previste in fabbrica?
R.: C’erano le ballatrici, spianatrici, e cernitrici.
D.: Chi affidava le mansioni in fabbrica?
R.: La mescia Emma.
D.: In quali mesi dell’anno si lavorava in fabbrica?
R.: Fino a che c’era lavoro, finivamo a marzo, aprile, e si cominciava
a novembre.
D.: Quanti tipi di tabacco esistevano?
R.: Perustizza, Zagovina, Santujaca con le foglie piccole e appuntite.
D.: C’erano donne forestiere che lavoravano a Sternatia? Se si, da dove
venivano?
R.: No, si diceva… ma chissà quando.
D.: Perché c’erano le sbarre alle finestre?
R.: Ma, non ricordo.
D.: Qual’era la paga mensile e giornaliera?
R.: Due lire e mezzo tre.
D.: Venivano messi i contributi?
R.: Sì.
D.: Si ricorda di qualche sciopero?
R.: No, non me lo ricordo.
D.: In base a quale criterio venivano scelte le mescie?
R.: Le sceglieva il padrone.
D.: Com’era il rapporto con le mescie?
R.: C’erano di tutte le persone, erano brave, se parlavi ti sgridavano,
ti misuravano le nzerte. Non ti potevi portare il pane in fabbrica perché
dicevano che perdevi tempo a mangiare, però lo portavamo lo stesso, lo
nascondevamo sotto il grembiule.
D.: Indossavate una divisa? Se si come era fatta? Se no, cosa indossavate?
R.: Un grembiule.
D.: C’erano uomini all’interno della fabbrica?
R.: No, solo la guardia Ciccio, e Giorgino per pagarci per controllare
le presenze.
D.: Si poteva cantare?
R.: Sì poco, si diceva il rosario, le preghiere, c’era la Consilia, la Maria
Rosa, la Uccia Minerva, la Grazia della Fideleddha.
D.: Quale lingua usavate per comunicare?
R.: Griko, dialetto dipende.
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D.: Ti ricordi se esisteva un asilo nido?
R.: No, i miei figli li teneva mio marito quando era a casa, o mia sorella
o ti arrangiavi… C’era solo una mensa per chi allattava, e la Nicoletta de
lu Scordari che cucinava, e stava vicino la macelleria de lu Rubini, e
quando eravamo incinte di sei mesi ci licenziavano.
180
Un sindaco Conchiglia, la Turupìnta in fiamme
e quel giorno che piovve locuste...
Gianni De Santis
Quel vento sottile e penetrante ti spezzava le ossa! Faceva buio presto,
quelle sere d’autunno. Fra le strade del centro storico non si incontrava
già nessuno. Dai vetri delle case filtrava la luce fioca delle lampadine accese e da ogni porta chiusa spifferavano voci e rumori soffusi, odori e
tepori di un’intimità quasi sacrale.
Il centro storico di Sternatia è una grande croce distesa fra le case e
le corti di calce, racchiusa in un perimetro delimitato da stradine strette
e pregne di storia. Al centro della grande croce, dove si fondono via
Santo Stefano e via Platea, proprio dove si erge il maestoso campanile
della bella chiesa intitolata alla Madonna dell’Assunta, c’è sempre vento
(… che noi da bambini, in quel punto, chiudevamo gli occhi e aprivamo
le braccia immaginando di volare!...): quello era anche il punto più
freddo e il più difficile da attraversare; allora si affrettava il passo e dopo
aver lasciato un brivido al vento, in pochi secondi si era sotto Porta Filìa.
Da lì poi, io correvo a perdifiato verso casa, evitando di guardare le campagne buie piene di fantasmi seduti sugli orli delle cisterne: “Se sìrnone
i crokki…!”, ci dicevano i più anziani, per non farci avvicinare a quei baratri dalle pance colme d’acqua.
In prossimità di San Martino, come ogni anno, mia madre aveva già
ripreso a lavorare alla manifattura del tabacco. Quello era un periodo
particolare per le famiglie di Sternatia e per noi bambini, che dovevamo
arrangiarci da soli per molte cose, perché le nostre madri, per tutta la
mattina fino alle quattro del pomeriggio erano assenti. Però era anche
bello, perché si respirava un clima diverso. Ricordo che mia madre era
sempre di buon umore, quando tornava dalla fabbrica con l’odore amaro
di tabacco impregnato nei vestiti e nell’alito, nonostante il gran da fare e
il poco tempo che le rimaneva per le faccende di casa e per accudire
cinque, sei di noi nati a poca distanza l’uno dall’altro.
In effetti, dalle testimonianze raccolte fra le ex tabacchine intervistate,
181
si evince che al di là del sacrificio che dovevano sopportare durante il
periodo della fabbrica, le nostre donne ricordano con una certa nostalgia
quel periodo . Il fatto di trovarsi a dover combattere insieme per i diritti
di lavoratrici e madri, di donne del sud spesso sole coi propri figli perché
i mariti erano costretti a emigrare, favoriva la loro emancipazione e accresceva la presa di coscienza della forza che poteva scaturire da questa
coesione. Le tabacchine, queste donne straordinarie, come le mondine
al nord, hanno saputo difendere i propri diritti e i diritti delle proprie famiglie: fiere, senza mezzi termini e con gli sguardi dritti in faccia alla
maestra o al padrone, hanno saputo raggiungere importanti obiettivi sindacali, senza mai esagerare, senza trascendere, col sorriso sulle labbra di
rossetto e l’ironia che ha sempre distinto le donne salentine:
“Lu sangu vile vile! La sciurnàta de tre lire!...”,
un piede sulla soglia dell’opificio e uno fuori sul marciapiedi, per significare che lo sciopero è fortemente motivato e idealizzato ma il posto
di lavoro non lo si abbandonava:
“…viva la lega, abbasso la società!...”, dove “lega” stava per sindacato.
La “società” era la proprietà, compresa la “maestra”, e il guardiano,
che la mattina apriva la fabbrica. Gli stessi coi quali poi, a fine anno,
verso maggio, si festeggiava, si cantava e si scherzava per salutarsi e darsi
appuntamento al prossimo autunno.
Abbiamo ascoltato con grande interesse e con un pizzico di commozione le nostre madri, le zie, le nunne che tutti conosciamo, dalla più
anziana: la zia Grazia Simeone, un monumento alla vita (classe 1909,
cento anni il 25 giugno!), alla più giovane: Lucia Marti, che ci ricorda che
la festa di San Luigi era finanziata dalle tabacchine. Abbiamo ascoltato la
Costantina; chiacchierando è venuta fuori la storia del bombardamento
della “Turupìnta”:
– Era il due luglio del ’43- , ci dice: –…Pasqua era venuta alta, quell’anno, e quel giorno si festeggiava il Sacro Cuore di Gesù. Noi eravamo
in giro per le varie cappelle con i cuori di pezza appuntati sul petto…
poi dei tuoni lontani, via via sempre più forti, come se qualcuno stesse
pensando di onorare nostro Signore coi fuochi. Alla sirena che annunciava il disastro seguirono pianti e grida di paura e di sconforto da parte
182
di tutti i cittadini, e un fuggi fuggi generale verso i più disparati nascondigli: chi sotto il trappeto, chi in campagna, chi nelle chiese e nelle cappelle. Il bombardamento durò tutta la notte, finché l’aeroporto non fù
raso al suolo…–
Costantina ci racconta anche di quel giorno quando piovve locuste…
si si, avete capito bene! Era l’estate del 1948, e io del suo racconto ne ho
voluto fare una poesia che più avanti troverete.
Zia Grazia invece ci stupisce, ci lascia senza fiato per la sua lucidità.
Le tengo le mani per tutta la durata dell’intervista: lei è la zia preferita di
mia madre, mi parlava sempre di lei e di zio Gaetano, fratello della nonna
Loredana. Zia Grazia ha una memoria eccezionale! Si ricorda tutte le date
di nascita dei suoi figli. Non ci sente tanto bene e bisogna alzare la voce,
per farsi capire; per il resto è strabiliante. Lei è anche pro-zia di Desiré,
sorella di sua nonna l’Angiolina.
Con noi c’è anche Maria Lucia Conte, che se la cava piuttosto bene
col griko, malgrado la sua giovane età.
Quando andiamo via lo facciamo con fatica; non vogliamo insistere
troppo per non farla stancare ma zia Grazia è un fiume in piena. Ci parla
della Conchiglia, di quella bella signora del sindacato: – Volevano farla
sindaco…ma ci pensi? Una conchiglia per sindaco!... Si, si; ci informava
sui nostri diritti…ma io…– dice: –…non partecipavo agli scioperi, perché
erano le più giovani a protestare per farsi assumere anche se non avevano ancora quattordici anni…–.
Ancora un bacio:
– Salutami la mamma… –
– Sarà servita… si dice così?... – domando, cercando con lo sguardo
il consenso di una delle sue figlie presenti. Poi le lascio la mano:
– Hai visto quante rughe sulla pelle? – mi dice, come se si volesse
scusare…
Usciamo. Ci guardiamo in faccia tutti e tre, io e le mie due giovani
compagne, abbiamo l’espressione felice che ci ha lasciato l’incontro con
la persona più anziana del paese.
Si va da Lucia. Poi di fronte al Municipio, a casa di Costantina: –
Guarda un po’ cosa ci ha raccontato! Ma tu ci credi? Una pioggia di locuste! –
Si dai; merita di essere ricordata da una poesia, quella giornata…
183
I mera pu evrezze zzuzzuviu
Iche cerò pu mènamo na stàson ta nnerà
en èvreche, Maddònna-mu, a’tto sarantattà!
Ivò ìmon kiaterèddha ce cànnamo puntina
mes àddhes àtta isa-mu s’in mescia Cuccettìna.
Ipiànni, mian imèra, ste’ p’ìpia s’o ciampì:
torò mavvron ajèra, san nitta scotinì,
i cataratte anìstisa: “ ivrèchi zzuzzuvìu!..”
ipa fonè; ce o ciùri-mu, ap’èssu: “Citta, piu!...”.
“…Umme Tata, canòscion, ègga ittumbrò me mena,
ine mia quantitàta p’en ècho mai domèna!...”
igghìcan oli ap’èssu-mu…(ett’allimonò mai! )…
o ciùri-mu angotànise…ttechò (refrisconnài!).
pan rìmma vrùculu èpette apànu s’o spermèno
rucànize pan chorto, pan prama ìpie chamèno!
Echo st’ennù tin nanna-mu pu azzìccose na clazzi,
ce ancàrize: “ zzichòrison Teè-mmu, min me sfàzzi!...”
Ce pale o Tata: “ Citta, sin de se sfazo ivò!...”
Ce cini: “Scanzallìbera, ti diàvalon cerò!...”
Ja mere mas culùtise so cardo tu castìu:
tis ìsoze ammantèzzi ti vrèchi zzuzzuvìu?!!
Poi o As Vicenzi (*) isìsti ce varti cino amèsa,
mas ècame tin chàri, ce mìnano ciumèsa
mian pitamìn carfìa ce zzuzzuvìu mian pìchi,
sia ti ècame calàzzi ce pian ghiomàti i tichi !
Pu tota en ìta plèo nan prama itu stravò:
anàtti o ìjo o vrèchi, ce an vrèzzi ene nnerò!
Sìmmeri en to pistèi, su fènotte stiammèna
‘tta pràmata palèa pu vò ècho javommèna.
Forè, motte cuntèo ambrò sus anizzìu,
mu lèone: “Ma pos ècanne na vrèzzi zzuzzuvìu?!!”.
(*) As Vicenzi, si riferisce al Beato Vincenzo Maria Morelli, morto e venerato
a Sternatia.
184
Il giorno che piovve locuste
Era da tempo che aspettavamo l’acqua…
Non pioveva, Madonna mia, dal quarantasette!
Io ero ragazzina e si ricamava
Con le altre della mia età, dalla maestra Concettina.
Un giorno mentre andavo alla latrina in giardino
vidi annerire il cielo come una notte oscura!
Si aprirono le cataratte: “Piovono locuste…”,
dissi gridando. Rispose mio padre da casa: “Zitta, credulona!...”
“…si papà, guarda, vieni fuori con me,
sono una quantità mai vista! “
Uscirono tutti da casa…(non potrò mai dimenticarlo!)
…mio padre s’inginocchiò, poverino…(riposi in pace)…
Ogni sciame di insetti che cadeva sul seminato
rosicchiava tutto e il raccolto andava perduto!
Ricordo che mia nonna cominciò a piangere
e ragliava: “Perdono mio Dio, non mi uccidere!...”
e di nuovo mio padre: “Zitta, se no ti ammazzo io!...”
e lei: “ Scansa e libera, che diavolo di tempo!...”
Per giorni continuò quel castigo di tempo,
chi poteva mai prevedere una pioggia di locuste?!!
Poi si mosse San Vincenzo e volle intercedere per noi,
ci fece la grazia e a terra rimasero
un palmo di ciarpame e un braccio di locuste
come se avesse fatto grandine e se ne fossero riempiti i muri!
Da allora non mi è più capitato di vedere una cosa tanto strana,
risplende il sole o piove, e se piove è acqua pura!
Oggi non ci crederesti, ti sembrano invenzioni
queste cose antiche che io ho vissuto.
A volte, quando le racconto di fronte ai miei nipoti
mi dicono: “Ma com’è possibile che piovve locuste?!!”.
185
Appendice
186
Elezioni Comunali del 27/10/1946
ELETTORI 1368; VOTANTI 1099.
SINDACO: WILSON MOSCHETTINI
ELETTI
COGNOME
NOME
VOTI
1
MOSCHETTINI
WILSON
573
2
GRECO
GIORGIO
570
3
MASTROLIA
LEONARDO A.
569
4
CHIRIACÒ
VINCENZO
567
5
MASTROLIA
DOMENICO
566
6
DE SANTIS
VINCENZO
565
7
TARANTINO
ANTONIO
565
8
MARTI
PANTALEO
563
9
SPECCHIA
OTTORINO
560
10
MARTI
FIORENTINO
559
11
MARTINA
GIORGIO
557
12
ANCORA
ANGELO R.
542
13
CERBINO
GIORGIO
499
14
CONTE
ROCCO
377
15
LEZZI
VINCENZO
374
NOME LISTA: ELMO E ARATRO
COGNOME
NOME
VOTI
1
MOSCHETTINI
WILSON
573
2
GRECO
GIORGIO
570
3
MASTROLIA
LEONARDO A.
569
4
CHIRIACÒ
VINCENZO
567
5
MASTROLIA
DOMENICO
566
6
DE SANTIS
VINCENZO
565
7
TARANTINO
ANTONIO
565
8
MARTI
PANTALEO
563
9
SPECCHIA
OTTORINO
560
10
MARTI
FIORENTINO
559
11
MARTINA
GIORGIO
557
12
ANCORA
ANGELO R.
542
13
CERBINO
GIORGIO
499
14
CONTE
ROCCO
377
15
LEZZI
VINCENZO
374
NOME LISTA: OROLOGIO
COGNOME
NOME
VOTI
1
MOSCHETTINI
WILSON
573
2
GRECO
GIORGIO
570
3
MASTROLIA
LEONARDO A.
569
4
CHIRIACÒ
VINCENZO
567
5
MASTROLIA
DOMENICO
566
6
DE SANTIS
VINCENZO
565
7
TARANTINO
ANTONIO
565
8
MARTI
PANTALEO
563
9
SPECCHIA
OTTORINO
560
10
MARTI
FIORENTINO
559
11
MARTINA
GIORGIO
557
12
ANCORA
ANGELO R.
542
13
CERBINO
GIORGIO
499
14
CONTE
ROCCO
377
15
LEZZI
VINCENZO
374
Elezioni Comunali del 10/06/1951
ELETTORI 1527; VOTANTI 1430.
SINDACO: WILSON MOSCHETTINI
ELETTI
COGNOME
NOME
VOTI
1
GEMMA
PAOLO
645
2
SPECCHIA
ANGELO
644
3
MASTROLIA
GIUSEPPE
642
4
GRECO
GIORGIO
641
5
LEZZI
ANGELO
639
6
SCORDARI
FERRUCCIO
638
7
MOSCHETTINI
WILSON
638
8
MONTINARO
TOMMASO
636
9
VILLANI
GIORGIO R.
635
10
GRASSO
ANTONIO
634
11
CHIRIACÒ
DONATO
631
12
VILLANI
GIORGIO R.
630
13
SPAGNA
VINCENZO
629
14
PELLEGRINO
GIUSEPPE
627
15
DE BENE
MEDICO
617
LISTA 1; Voti lista 604
COGNOME
NOME
VOTI
1
CONCHIGLIA
CRISTINA
615
2
RIZZO
GAETANO
615
3
DE BENE
MEDICO
617
4
GEMMA
ROCCO
613
5
VILLANI
GIORGIO
616
6
VILLANI
SANTO
613
7
MEGHA
SALVATORE
617
8
VILLANI
GIORGIO R.
635
9
SPAGNA
VINCENZO
629
10
REALE
GIORGIO G.
616
11
GIANNUZZI
GIUSEPPE T.
616
12
PELLEGRINO
GIUSEPPE
627
LISTA 2; Voti lista 559
COGNOME
NOME
VOTI
1
MOSCHETTINI
WILSON
638
2
SPECCHIA
ANGELO
644
3
GRECO
GIORGIO
641
4
DE FRANCISCIS
PANTALEO
615
5
MASTROLIA
GIUSEPPE
642
6
SCORDARI
FERRUCCIO
638
7
GEMMA
PAOLO
645
8
LEZZI
ANGELO
639
9
MONTINARO
TOMMASO
636
10
VILLANI
GIORGIO ROCCO
630
11
CHIRIACÒ
DONATO
631
12
GRASSO
ANTONIO
634
Elezioni Comunali del 27/05/1956
ELETTORI 1562; VOTANTI 1433.
SINDACO: ANTONIO DELL’ANNA sino al 08/09/1957
GIOVANNI CHIGA dal 09/09/1957
ELETTI
COGNOME
NOME
VOTI
1
TARANTINO
GIOVANNI
593
2
GEMMA
PAOLO
591
3
CHIGA
GIOVANNI
590
4
DELL'ANNA
ANTONIO
590
5
MASTROLIA
ANTONIO
590
6
SPAGNA
PANTALEO
585
7
TARANTINO
SALVATORE
585
8
LONGO
GIUSEPPE
582
9
DE SANTIS
VITTORIO
577
10
GRASSO
GIUSEPPE
577
11
BORRISI
COSIMO
569
12
MARTI
ROSARIO
565
13
MATTEO
GIUSEPPE
464
14
GRASSO
ANTONIO
462
15
GEMMA
ROCCO
456
LISTA 1
COGNOME
NOME
VOTI
1
BORRISI
COSIMO
569
2
CHIGA
GIOVANNI
590
3
DELL'ANNA
ANTONIO
590
4
DE SANTIS
VITTORIO
577
5
GEMMA
PAOLO
591
6
GRASSO
GIUSEPPE
577
7
LONGO
GIUSEPPE
582
8
MARTI
ROSARIO
565
9
MASTROLIA
ANTONIO
590
10
SPAGNA
PANTALEO
585
11
TARANTINO
GIOVANNI
593
12
TARANTINO
SALVATORE
585
LISTA 2
COGNOME
NOME
VOTI
1
CALDARARO
GIORGIO
286
2
CERBINO
DONATO
281
3
CHIRIACÒ
VINCENZO
328
4
DE SANTIS
VINCENZO
297
5
FILONI
VINCENZO
298
6
LEONE
ORONZO
308
7
LEZZI
ROMOLO
306
8
MARTI
PANTALEO
294
9
MARTINA
COSIMO
324
10
MARTINA
GIORGIO
328
11
PELLEGRINO
VINCENZO
309
12
SPECCHIA
SALVATORE
326
LISTA 3
COGNOME
NOME
VOTI
1
POSO
PASQUALE
445
2
DE BENE
MEDICO
436
3
GEMMA
ROCCO
456
4
VILLANI
SANTO
449
5
MATTEO
GIUSEPPE
464
6
GEMMA
FRANCESCO
450
7
MEGHA
SALVATORE
442
8
VERDOSCIA
VITO
436
9
LEONE
VINCENZO
452
10
MARTI
PANTALEO
438
11
GRASSO
ANTONIO
462
12
CONZI
ARMANDO
447
Elezioni Comunali del 05/11/1960
ELETTORI 1638; VOTANTI 1457.
SINDACO: GIOVANNI CHIGA
ELETTI
COGNOME
NOME
VOTI
1
CHIGA
GIOVANNI
786
2
GEMMA
PAOLO
763
3
SPECCHIA
SALVATORE
759
4
SPECCHIA
VINCENZO
753
5
GRASSO
GIUSEPPE
750
6
SPAGNA
PANTALEO
750
7
MARTI
ROSARIO
749
8
MANERA
ANTONIO
746
9
TARANTINO
SALVATORE
741
10
BORRISI
COSIMO
741
11
MASTROLIA
ANTONIO
739
12
VILLANI
GIUSEPPE
736
13
CONTE
ANGELO
444
14
GEMMA
ROCCO
420
15
MARTINA
AGOSTINO
411
LISTA 1
COGNOME
NOME
VOTI
1
CHIGA
GIOVANNI
786
2
GEMMA
PAOLO
763
3
SPECCHIA
SALVATORE
759
4
SPECCHIA
VINCENZO
753
5
GRASSO
GIUSEPPE
750
6
SPAGNA
PANTALEO
750
7
MARTI
ROSARIO
749
8
MANERA
ANTONIO
746
9
TARANTINO
SALVATORE
741
10
BORRISI
COSIMO
741
11
MASTROLIA
ANTONIO
739
12
VILLANI
GIUSEPPE
736
LISTA 2
COGNOME
NOME
VOTI
1
CONTE
ANGELO
444
2
GEMMA
ROCCO
420
3
MARTINA
AGOSTINO
411
4
LEONE
VINCENZO
408
5
MATTEO
GIUSEPPE
400
6
TARANTINO
ORAZIO
392
7
MATTEO
GIORGIO
385
8
SIMEONE
VINCENZO
385
9
VILLANI
GIORGIO
380
10
PELLEGRINO
ANTONIO
380
11
FILONI
ANTONIO
377
12
DE SANTIS
VITTORIO
353
LISTA 3
NOME
COGNOME
VOTI
1
MOSCHETTINI
WILSON
279
2
DELL'ANNA
ANTONIO
262
3
LEZZI
MICHELE
249
4
LEZZI
VINCENZO
242
5
CONTE
ORONZO
241
6
DE FRANCISCIS
PANTALEO
236
7
PELLEGRINO
VINCENZO
231
8
TARANTINO
VITO
227
9
VILLANI
VINCENZO
224
10
ROSSI BERARDUCCI VIVES
GIUSEPPINA
222
11
LINCIANO
LUIGI
220
12
VILLANI
GIUSEPPE
213
Matrimoni dal 1945 al 1960
ANNO
NUMERO MATRIMONI
1945
21
1946
22
1947
31
1948
38
1949
22
1950
15
1951
27
1952
20
1953
21
1954
25
1955
27
1956
24
1957
27
1958
26
1959
35
1960
19
Nascite dal 1945 al 1960
ANNO
NUMERO NATI
NATI ALTROVE
1945
55
2
1946
65
3
1947
63
1
1948
88
1
1949
63
5
1950
66
1951
62
1952
45
1953
74
1954
58
1955
69
1956
56
1957
60
1958
62
1959
49
1960
65
2
Morti dal 1945 al 1960
ANNO
NUMERO MORTI
1945
45
1946
25
1947
43
1948
31
1949
21
1950
35
1951
38
1952
26
1953
23
1954
27
1955
26
1956
36
1957
26
1958
21
1959
19
1960
24
I zoì-mmu
Possa echo javommèna is tuttìn zoì
ca en ta echo pomèna mais is tinò,
Itu I zoìmmu icatalìsti
Afinnonta-mmu tin cardìa poddhìn prikì.
Ton foriamo motte tu trèmagghe o lemò
ce molle “amo apu ‘ttù en se telo plèo”,
ma ivò èmbenna me ola ta pòtìmmata
n’u po’ ca ivò cino manechà agapò.
Manechà isù me sozi anoìsi
motte me tòrigghe mon pròsepo pricò,
ti mancu tota ìsoza jelàsi
jatì canèn prama ìpie stravò.
Ahi! Pos èrcamo allimonimmèni
ivò ca ìtela panta jeno ambrò ‘ssemèna,
s’an kiàmta zzerì èrcamo ambeiammèni
sia tin en iche àddhin chiru pìri ‘mèna.
Min ise pricò motte en m’echi plèo
ivò ime cherùmeti ca to èmena già,
anzi poddhin cerò ei javommèna
ca azze tuo charìzo ton Cristò.
Puru so campusantu manechìmmu ‘steo
ca tispo èrkete na me vriki cammiàn forà
na min kitèzzi min echi pensièri
na me cunsulèzzi èekete o Teò.
An icammìan forà torì canèn jermàno
ampoggiàto apà’ ‘nan fiddho chlorò,
pensa ‘ssemmèna ca ivò istèo icisumà
ce ti puru attòn àddhon cosmo s’agapò.
La mia vita
Quanto ho sofferto in questa vita
e non mi sono mai sfogata con nessuno,
così la mia gioventù è finita
lasciandomi nel petto un cuore duro.
Pendevo dalle sue labbra un po’ pesanti
quando mi diceva, (… ormai è finita),
ma io lottavo per andare avanti
perché lui era l’uomo della mia vita.
Forse soltanto tu mi potevi capire
quando triste vedevi il mio volto,
ma neanche allora potevo gioire
perché qualche cosa andava storto.
Ahi! Come sono stata trascurata
io che volevo gente a me vicino,
come una pianta secca ero trattata
come se non fossi niente nella vita.
Non essere triste per la mia dipartita
io son felice perché me l’aspettavo,
anzi credevo che mi succedesse prima
e di questo ringrazio il Signore.
Anche sola starò nel cimitero
perché nessuno mi verrà a trovare,
ma non ti preoccupare, non darti pensiero
perché c’è il buon Dio che mi viene a consolare.
Se qualche volta vedi un passerottino
per caso posarsi sopra un verde ramo,
ricordati che io sono lì vicino
e anche dall’aldilà per sempre ti amo.
Carmela De Santis.
Sternatia, luglio 2008.
(Traduzione di Giglio Pellegrino).
Ringraziamenti
Lucia Caldararo, Nicoletta Centone, Maria Iolanda Chiriacò, Pantalea
Chiriacò, Eleonora Conte, Carmela De Santis, Rosaria Frantelli, Angela
Grasso, Costantina Grasso, Maria Italia Grasso, Mariangela Linciano, Loreta Leo, Concetta Maggiore, Lucia Marti, Margherita Marti, Costantina
Matteo, Iolanda Mastrolia, Vita Mastrolia, Maria Teresa Migliore, Leonarda Giuseppa Pellegrino, Clelia Giuseppa Reale, Annamaria Scarpa,
Maria Scordari, Angela Simeone, Grazia Simeone, Cleonice Spagna,
Giuseppe Spagna; Grazia Spagna, Orazio Tarantino, Raffaella Tarantino, Addolorata Vergine, Vincenza Antonia Villani.
Rita Greco, Augusto Linciano; Arnaldo Macchitelli, Giovanni Manera.
Centro Studi Chora-ma, Università del Salento.
Stampato presso
Arti Grafiche Panico – Galatina (Le)
2009
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