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1. Paesaggio familiare
Un bambinetto
Era una sera del 1904, al Valle. Una sera fra mille, quando
per la prima volta salì in scena un attore di appena quattro
anni di età...
Stretto fra il Pantheon e piazza Navona, nel cuore della
città barocca disegnata dal Bernini, il teatro Valle era uno
dei più importanti di Roma. Aveva (e ha ancora) una bella
platea elegante e raccolta, il grande lampadario di cristallo, cinque giri di palchetti dalle cornici dorate. L’alto sipario di velluto pesante quella sera si apriva per la parodia di
un’operetta famosa, La Geisha. Ma non ne troveremo traccia nelle storie del teatro. Forse era una storiella esotico-romantica, condita di musica e sicuramente di travolgenti effetti comici. La star della serata era infatti Eduardo Scarpetta, che più che un attore era una forza della natura, capace di spremere risate anche dai sassi.
Un piccolo debutto come quello, naturalmente, era una
festa per i familiari e per i compagni d’arte, che facevano
uscire in scena quel figliolo. Com’era allora? Era sorpreso
e curioso? Forse intimorito, o contento di quel gioco nuovo del quale probabilmente non capiva tutto il significato,
ma che pure costituiva qualcosa di noto, di quotidiano fin
da quando aveva aperto gli occhi. Anzi da prima, da prima
che nascesse.
Il piccolissimo attore, che forse aspettava con la mamma e la sorellina più grande in camerino, a un certo punto
fu preso in braccio da Gennaro Della Rossa, che interpretava la parte di Mon Ci. Prima di uscire, forse, si sarà guardato allo specchio e avrà visto un giapponesino piccolo pic17
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colo, un soldo di cacio vestito di seta colorata, con un cappellino a pagoda sopra due occhi sgranati. Poi sarà rimasto
qualche tempo nella penombra dietro le quinte, ad ascoltare la musica che veniva dal palcoscenico. Avrà seguito con
la mente una canzoncina già sentita la mattina, o il giorno
prima durante le prove. Avrà riconosciuto le voci degli attori, soprattutto quella forte e allegra di zio Eduardo, che
– quando finiva di parlare – provocava risate e battimani.
Poi sarà venuto il suo turno: un passo e via, sul palcoscenico in braccio a Gennaro, che lo teneva stretto. Eppure era
come sospeso in uno strano vuoto pieno di luce, davanti a
una caverna buia e affollata di teste e di occhi. In quinta
c’era la mamma, che sorrideva e incoraggiava. Ma lui non
poteva tornare indietro e darle la mano. Doveva stare lì
buono, in braccio a Gennaro, davanti a tutte le teste sedute nell’ombra.
L’emozione di quella sera non la scorderà mai.
Improvvisamente si sentì afferrare e sollevare in alto,
mentre la luce dei riflettori lo abbagliava e lo isolava dalla
ressa. Chissà perché si mise a battere le piccole mani. Il
pubblico rispose con un fragoroso applauso.
Il primo applauso di una vita fatta di applausi.
«Sembra impossibile che io ricordi una cosa tanto lontana, è vero?» chiederà tantissimi anni più tardi agli studenti, professori e intellettuali che all’università di Roma gli offrivano la laurea ad honorem. «Settantasei anni fa! Eppure,
non solo il ricordo, ma quella emozione, quell’eccitamento, quella paura mista a gioia esultante, io le provo ancora
oggi, identiche, ad ogni prima rappresentazione, quando
entro in scena».1
Così arrivò sulla scena della vita e del teatro Eduardo De
Filippo, attore e drammaturgo, voce di Napoli e spirito universale. Dietro le rughe della sua grande vecchiaia è difficile scorgere quegli occhi smarriti sotto il cappellino a pagoda. Se raccontare la vita di un adulto è difficile, ricostruirne l’infanzia è addirittura una scommessa col mistero
del bambino; un processo indiziario nel quale «il delitto» è
proprio il crescere, seppellendo le tracce di sé, cancellando
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inconsapevolmente la strada percorsa per diventare grandi. Si può solo tentare mettendo assieme pochi frammenti,
un po’ di paesaggio familiare, e l’atmosfera del tempo.
Quella manciata di parole sul primo debutto, nella compagnia di Scarpetta, è del resto quasi l’unico ricordo di
Eduardo bambino, uno dei pochi appigli per il biografo
che, non volendo farsi romanziere, deve frenare la fantasia
e raccontare la storia di un uomo che diceva di sé: «È la memoria a scegliere, e mi dà solo quello che le piace di ricondurre al presente. Bussare alla sua porta è inutile: non viene ad aprire».2
Eduardo non amava le date. Aveva sempre lavorato così intensamente che il passato non gli riusciva di rappresentarselo come un insieme ordinato di eventi. Per lui la vita era
piuttosto «una faticosa scalinata, i cui gradini era stato necessario scendere uno per uno, scavando sempre più in
profondità nel suo mondo interiore e cercando di capire
quello esteriore in cui viveva fino a raggiungere una sublimazione, una essenzialità artistica quale l’aveva desiderata
fin dalla giovinezza».3 Non amava neanche le biografie,
perché aveva spesso il sospetto che l’autore volesse parlare
più di se stesso che del personaggio al quale si dedicava.
Scoraggiò sempre coloro, e furono parecchi, che gli espressero l’intenzione di scrivere la sua vita. Lui stesso non volle stendere un’autobiografia, come fecero molti attori anche meno grandi di lui; anzi rifiutò varie sollecitazioni a
scriverla. Non teneva un diario, come molti scrittori del suo
tempo; e fu anche piuttosto parsimonioso di annotazioni
autobiografiche nei vari scritti, prefazioni e conferenze della sua vita.
Quel che aveva da dire lo diceva in palcoscenico. Quel
che voleva che rimanesse di sé, lo aveva messo nelle sue
commedie. E il resto poteva pure essere silenzio.
Da vecchio, tuttavia, aveva cominciato a raccogliere appunti e documenti. Avrebbe voluto rettificare le inesattezze
partigiane dell’autobiografia del fratello. Ma non c’era mai
tempo sufficiente per quel lavoro, al quale si dedicava a in19
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termittenza. Poi Peppino era morto e quel lavoro s’era fermato di nuovo. Ma il giorno del suo ottantaquattresimo
compleanno aveva detto alla moglie Isabella: «Ci dovremmo occupare di quel libretto. Comunque, promettimi che
te ne occuperai tu, se...»4 E lei, fedele alla promessa, se ne
occupò quasi subito, con una bellissima raccolta di pagine
inedite, foto e documenti. Ma una biografia no, quella –
dopo trent’anni di vita insieme e d’amore – non se l’era
sentita di scriverla. Così rimangono solo tracce sparse,
qualche pagina di Eduardo, molti aneddoti riferiti da altri
e spesso pieni di retorica. Che peccato che l’attore non abbia dato seguito almeno al progetto abbozzato in un breve
appunto dei suoi ultimi anni, intitolato Libro sul teatro. Su
un foglio aveva scritto a mano solo queste poche righe: «Il
racconto deve approfondire soltanto quali furono i contatti che io ebbi con il teatro nei primi anni del Novecento;
quali le impressioni negative nei confronti delle ditte capocomicali di allora; quali le abitudini dei complessi; i diritti
e i doveri dei comici; il servilismo di costoro nei confronti
del pubblico...»
La famiglia difficile
Eduardo nacque a Napoli, il 24 maggio 1900. La sorella Titina, diminutivo di Annunziata, aveva due anni di più, essendo nata il 27 marzo 1898. Peppino, nato il 24 agosto
1903, era il terzo figlio di quella che lui stesso definirà «una
famiglia difficile»; una famiglia sulla quale solo quando i
fratelli erano già famosi da quarant’anni si alzò il velo di
mistero e di ritegno che l’aveva sempre avvolta. Fu Peppino, nel 1972, a dire per la prima volta esplicitamente quello che fra gli attori e i giornalisti s’era sempre saputo, ma
che nessuno aveva mai osato scrivere fino ad allora: che i
De Filippo erano figli naturali di Eduardo Scarpetta, il più
grande autore-attore-capocomico napoletano del suo tempo; anzi, che essi erano la sua consolidata seconda famiglia
conosciuta e riconosciuta da sempre nella Napoli teatrale,
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accettata dai parenti e dai compagni di lavoro fin dall’inizio, anche se inevitabilmente oggetto di pettegolezzo, come
uno dei molti lussi di un artista ammirato quanto invidiato.
Quella «famiglia difficile» la vediamo immortalata nella
foto di copertina dell’autobiografia di Peppino. Siamo più
o meno nel 1908: in piedi a destra, il più giovane dei De
Filippo è ancora un bambinetto con un giubbottino da marinaio; dietro di lui, Titina gli tiene la mano sinistra sulla
spalla, mentre alza l’altra sulla spalla di papà Scarpetta.
L’uomo è in piedi, al centro della foto, elegantemente vestito di scuro. A sinistra è seduta la madre, Luisa De Filippo, con un abito molto ricco e i capelli a crocchia con la
scriminatura al centro. Vicino a lei, all’estrema sinistra della foto, Eduardo bambino, con un bel completino da Giamburrasca di stoffa a quadri grandi, guarnito con un fioccone a mo’ di cravatta, calzoni alla zuava, calze lunghe e polacchini allacciati fin oltre la caviglia.
Basterebbe questa composta immagine di decoro borghese e i molti particolari che indicano cura negli abiti a
sfatare la favola cattiva di chi parlò di un’infanzia misera,
leggendo in senso autobiografico certi suoi scritti, come la
poesia intitolata «Tre piccirille». Ma lo stesso Eduardo disse che non aveva voluto alludere ai fratelli nello scrivere
«duie bruttulille», né a se stesso dicendo «chillu cchiù bello, cchiù strappatiello». Per fortuna, aggiungeva, «non siamo mai andati sperduti per Napoli, né sotto la pioggia, né
sotto il sole [...] con le scarpe rotte, “ch’ ’e pertuselle”, non
ci siamo mai andati...»5
Con la zazzera tagliata corta e dritta, lungo la fronte
spaziosa e pulita, Eduardo ha ancora i lineamenti sfuggenti di un bambino dagli occhi venati di malinconia. Ha l’aria
un poco smarrita, come del resto tanti volti nei ritratti del
primo Novecento. Davanti al fotografo nessuno sorride.
Scarpetta, il re delle risate in palcoscenico, qui si concede
appena un’increspatura attorno alle labbra. Gli altri sono
seri seri mentre consegnano inconsapevolmente alla storia
l’immagine di una dinastia teatrale.
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«La paternità dei figli legittimi è sempre dubbia. Quella degli illegittimi, al contrario, viene accertata col consenso popolare e diventa realtà sacrosanta. La mia paternità è indiscutibile!» scriverà Eduardo, con un arguto e orgoglioso paradosso, nel 1973.6 Questa «diversità» sarà fra le molle del
suo slancio vitale e della sua creatività. Ma certo pesò dolorosamente sulla sua infanzia e su quella dei fratelli. Fra
questi, tuttavia, fu forse il minore a conservare più aperte
certe lontane ferite, a giudicare dal tono risentito delle sue
memorie. Le notizie che egli ci fornisce, le riflessioni, perfino le voci malevole sono preziose per capire l’ambiente
familiare dei De Filippo. Noi cercheremo di trarne il maggior partito, sapendo però che quel che dice è sempre velato dai suoi particolari sentimenti: da quella commiserazione mista a un po’ di stizza, che fu il suo modo di ricordare la madre; dall’astio dichiarato, o addirittura dall’odio,
verso un padre che fu costretto a chiamare «zio»; e anche
dalla rivalità verso il fratello maggiore, uno dei temi dominanti della sua vita. Quanto pesa sulla sua formazione e sui
suoi sentimenti l’essere entrato nella sua «famiglia difficile» solo dopo aver passato i primi cinque anni a balia, nel
paesino di Caivano? Ancora in fasce fu affidato infatti a
Consiglia Del Gaudio, che aveva appena dato alla luce un
figlio morto. Era la moglie di Giorgio, un modesto imprenditore edile. La coppia aveva già tre figli, nonostante Consiglia avesse appena vent’anni. Vivevano serenamente, dividendo senza pregiudizi il loro affetto fra tutti i bambini
di casa. Quella, infatti, resterà per sempre nel cuore di Peppino il luogo più bello, la sorgente gioiosa degli affetti:
«Quella casa è stata mia ed io l’ho amata, e desiderata poi,
e tenuta saldamente e costantemente nel mio ricordo per
lungo tempo» scriverà con passione. E non esiterà a dare
esplicitamente la chiave del suo sentimento affermando:
«Forse avrei voluto ricordare mia madre come la mia balia,
porgere alle mie labbra il suo seno opulento da cui attingevo vita e calore. Benedetti quegli attimi in cui una vita si riversa in un’altra per alimentarla». 7
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I nonni
I nonni materni si chiamavano Luca De Filippo e Concetta
Termini. In gioventù avevano avuto una botteguccia di carbone, in un vicolo di via Toledo: poca cosa per assicurare
una posizione o almeno un’istruzione alle tre figlie femmine, Luisa, Rosa e Anna. Nel ricordo del nipote Peppino, Luca era «alto, spalle larghe e quadrate, occhi grigi, fronte
aperta, viso ovale e regolare, colorito roseo come quello di
un giovinetto in buona salute, un bel paio di baffi folti e ben
separati con punte all’insù come quelli di re Umberto i, e
un sorriso bonario compiacente e nobile sotto il quale faceva sfoggio una dentatura smagliante e perfetta». La natura
gli aveva dato l’aspetto di un uomo elegante, autorevole, signorile perfino. E con questo lo aveva forse più beffato che
risarcito di un’indole sempliciotta e di una completa ignoranza. Da piccolo non aveva frequentato nemmeno l’asilo
infantile e difatti non sapeva né leggere, né scrivere. La moglie Concetta era proprio l’opposto: piccola di statura e
bruna, dai lineamenti delicati e dal carattere mite; ignorante anche lei, ma sveglia, dotata di intuito e scaltrezza, abile
nell’affrontare i grandi e piccoli problemi della vita di tutti
i giorni, riusciva quasi sempre, rimettendoci non poche
preoccupazioni e rinunce, a ricondurre in porto la barca
quando sembrava che fatalmente stesse per affondare.
Luca e Concetta erano insomma molto simili ai protagonisti di Natale in casa Cupiello, o almeno sembrano davvero
così, quando Peppino scrive di loro: «Ad ogni alba, mentre
Luca gironzolava in pantofole o addirittura scalzo per casa
con mezzo toscano tra le labbra, fantasticando pigramente
nella sua ignoranza, si affacciava un problema per lei: un
debito da saldare, un prestito da dover chiedere a qualcuno,
una lite in famiglia da risolvere, un saggio consiglio da dare a qualche figlia e infine la spesa giornaliera: questa era
sempre un dubbio, poterla fare o no...»
Con nonna Concetta Eduardo passava gran parte del
suo tempo da piccolo. La ricorderà – in una lettera scritta
a ottant’anni – come una donna «eccezionale, che sapeva
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far fruttare una lira al massimo del suo rendimento; cultura niente, analfabeta, ma intelligentissima e piena di fantasia. Mi raccontava tante favole, che a volte mi deliziavano,
altre mi spaventavano. Ricordo Petrosinella, una delle mie
favorite; l’Uccello Grifone, la tremenda storia di un giovane che uccide suo fratello per impadronirsi del Grifone
dalle penne d’oro; e la storia del “marioncello” che passa il
Natale in carcere per avere rubacchiato qua e là».8
Nonno Luca e nonna Concetta resteranno per sempre
nella memoria di quel bambino. Li ritroveremo trasfigurati, ma riconoscibili, nei protagonisti di Natale in casa Cupiello; i tratti di lui saranno visibili nella filigrana di tanti uomini buoni e semplici del teatro di Eduardo; da quelli di lei
discenderanno, modificate dalle esigenze narrative, cambiate dai tempi e arricchite dalle esperienze della vita, tante energiche donne napoletane. E anche le sue favole, prima o poi, si trasformeranno in teatro.
Il nonno paterno, Domenico Scarpetta, era ufficiale di prima classe agli affari ecclesiastici al ministero, un posto abbastanza importante a quel tempo. La moglie si chiamava
Emilia Rendina, e il figlio la descriverà nella sua autobiografia come «calma e rassegnata, preparata eroicamente ad
ogni sacrifizio, ad ogni dolore, ad ogni disillusione della vita, proprio l’opposto di mio padre nervoso, impressionabile e talvolta anche un pochino ruvido con la famiglia». Abitavano all’ultimo piano di un palazzo attiguo all’hotel Vittoria, che era in fondo alla via Santa Brigida, scendendo
giù da via Toledo. Quell’edificio, che era al numero 75, oggi non c’è più, poiché è stato abbattuto insieme ad altri per
far posto alla nuova Galleria. Lì nacque Eduardo Scarpetta la sera del 13 marzo 1854, accolto da tre o quattrocento
mortaretti sparati sotto casa per una qualche festa che si celebrava nella vicina chiesa di Santa Brigida.
Pochi mesi dopo, però, a sconvolgere il modesto ma decoroso andamento della famiglia giunse una lunga malattia del signor Domenico, che, per un favo ribelle ad ogni
cura, restò a letto nove mesi fra la vita e la morte. Quando
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guarì si ritrovò coperto di debiti. I sette ducati al mese per
la casa di via Santa Brigida erano oramai troppi. Mise su
un carrettino i mobili, la moglie e i figli, e cercò una casa
più a buon mercato. La trovò in via della Salute, in un palazzo grande come una caserma; una casa enorme, dieci,
dodici stanzoni grandissimi, che costavano incredibilmente poco. I pochi mobili della famiglia bastavano ad arredare sì e no due o tre stanze, nelle altre i bambini potevano
scorrazzare liberamente; e in una abitò per qualche tempo
il noto attore Luigi Marchionni, che portò con sé un tavolo, un lettino, due sedie di paglia e due bauli di vestiti. Ma
il più felice di tutti era il proprietario dell’appartamento
che aveva affittato a un prezzo bassissimo. Come mai?
Donna Emilia lo scoprì presto, quando la moglie del falegname della porta accanto le chiese: «Neh, signurì, ma
vuie sentite niente ’a notte?»
«E che cosa dovrei sentire?»
«Comme!... ’O munaciello!... Giesù!... Vuie nun sapite
ancora ca dint’ ’a casa vosta nce sta ’o munaciello?»
La donna non lo sapeva, ma il marito, incurante di quel
che diceva la gente, aveva preso in affitto un appartamento notoriamente abitato dagli spiriti. E il suo contratto era
infatti più o meno quello che il personaggio di Pasquale
Lojacono stipulerà in Questi fantasmi!: condizioni d’affitto
di favore, ma obbligo di dimostrare che quella bella casa,
che nessuno voleva, era libera da presenze misteriose.
Eduardo De Filippo, novant’anni dopo, su questa storia ci
avrebbe scritto una delle sue più divertenti commedie. Ma
per i suoi nonni fu la rovina nella rovina. Dal giorno della
scoperta la signora Scarpetta non ebbe più pace. Sbattere
di porte, rumori di piatti, scricchiolii di mobili, passi misteriosi nelle camere vuote, voci dal soffitto, tocchi bussati alle pareti e alle porte: un inferno. Dopo cinque mesi convinse il marito a traslocare di nuovo. Girarono altre due o tre
abitazioni, sempre peggiori. Alla fine si restrinsero in una
triste cameretta senza luce, al vico Nocelle 62, dove il pover’uomo rese l’anima a Dio il 15 ottobre 1868.
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Scarpetta
Per Eduardo Scarpetta, sveglio e di bell’aspetto, il padre
avrebbe voluto una carriera di studi. Ma la vocazione teatrale gli era esplosa e s’era nutrita degli spettacoli del San
Carlino, dove furoreggiava Antonio Petito, che era amico di
famiglia. Così quest’ultimo, visti gli scarsi risultati scolastici
e le insistenze del ragazzo, gli permise di tentare la via
dell’arte. Il suo primo contratto, conseguito dopo varie disillusioni, porta la data del 22 ottobre 1868, a quindici anni.
Sette giorni prima Eduardo aveva perso il padre; ora era
scritturato come «generico», il gradino più basso della rigida scala gerarchica del teatro di quei tempi: gli si imponeva
l’obbligo di ballare, tingersi il volto e lasciarsi sospendere in
aria, se qualche spettacolo lo prevedesse; come pure di cantare in coro o da solo nei vaudeville.
Ma non passarono due anni che cominciò a farsi notare. Abile e ambizioso, alla morte di Petito preferì andarsene dal suo teatro, piuttosto che recitare sotto altri capocomici meno importanti. Corse allora, a vent’anni, l’alea della fame sui palcoscenici di Roma e Milano, fin quando poté tornare da conquistatore al San Carlino, nel 1878. Nel
settembre 1880, rischiando l’osso del collo e una piccola
fortuna presa in prestito, lo ristrutturò completamente.
Nel gennaio successivo con Lo scarfalietto consacrò la sua fama, arricchendola sempre più, fino alla sua opera ancora
oggi più famosa, Miseria e nobiltà, dove lo scrivano pubblico don Felice, per guadagnare una minestra, accetta di fare la parte di un ricchissimo nobile, con un travolgente risultato comico.
Il personaggio di don Felice Sciosciammocca, che gli
avrebbe conquistato un posto nella storia del teatro, lo aveva creato al San Carlino, quando aveva appena diciassette
anni. Nei panni di un maestrino di musica, scarpe enormi,
tubino in testa e in mano il bastoncino di bambù apparve
un po’ in sordina, per la prima volta, in Lu curaggio de ’nu
pumpiere napulitane. Poi crebbe di importanza, prendendo
il posto di Pulcinella nel cuore dei napoletani, e divenne
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una maschera famosa. Il suo abitino a quadretti striminzito, le scarpine da ballo e il cappello dalle falde strettissime
connotavano il nuovo personaggio del «mamo», cioè del figlio di papà e cocco di mamma, piccolo borghese con manie signorili, sfaticato, un po’ tonto, e con una parlata a scilinguagnolo. Se, anziché su un palcoscenico, fosse nato su
uno schermo napoletano oggi ci sembrerebbe piuttosto simile a Charlot, del quale possiamo comunque considerarlo un antenato.
A Sciosciammocca Scarpetta affidò la realizzazione del
programma artistico, che andava precisando già dalla giovinezza: emancipare il teatro napoletano dalla tradizione
popolana del Pulcinella, e introdurre un tipo di commedia
borghese, più moderna e realistica: «Una riforma, una riforma è necessaria» dirà rievocando quegli anni. «S’abbia
anche Napoli il suo buon teatro in dialetto, con libri scritti, con scene distese per intero. Bisogna far della verità e
non giochi di prestigio. Si vuol esser uomini e non pupattoli».9 Così comprava una dopo l’altra le più fortunate commedie francesi dal famoso agente teatrale Re Riccardi. Le
faceva tradurre e vi metteva in mezzo il suo prediletto Sciosciammocca, facendone una creazione tutta napoletana.
Intanto innovava molte altre cose. Aboliva piano piano i
«dialoghi inutili», cioè tutte quelle battute all’inizio della
commedia che non servivano ad altro che a dar tempo al
pubblico di accomodarsi in sala. Gli spettatori erano del resto, allora, molto distratti e il grande attore, dopo essersi
fatto desiderare un po’, compariva solo nella seconda o terza scena, avvertendo della sua presenza con qualche colpo
di tosse da dietro le quinte. Entrato in scena, cominciava
subito un colloquio col pubblico per riassumere l’argomento, che spesso non era stato seguito con attenzione. Lo stesso avveniva prima del terzo atto, quando gli spettatori tornavano rumorosamente dal buffet, con la bocca piena di
pasticcini.
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