GIURISPRUDENZA E PARERI DEL C.N.F. E DEL CONSIGLIO a cura di Remo Danovi Tenuta albi - Condotta specchiatissima e illibata. Il requisito della condotta specchiatissima e illibata, necessario per l'iscrizione all'albo professionale, non è di per sé da escludere per la sola presenza della pendenza di un procedimento penale a carico dell'interessato. Deve essere dunque compiuta una valutazione autonoma e discrezionale da parte del C.d.O. tenuto anche conto dei fatti eventualmente accertati nei giudizi penali. (Nella specie è stata ritenuta legittima l'iscrizione all'albo del professionista a carico del quale pendeva un procedimento penale, conclusosi peraltro con l'assoluzione per mancanza dell'elemento materiale e psicologico del reato contestato). (Consiglio naz. forense, 21 febbraio 2003, n. 4). Tenuta albi - Elenco speciale. La ratio dell'art. 3, ultimo comma, lett. b) della legge professionale forense, che stabilisce in linea generale l'incompatibilità della professione forense con attività dipendenti, va individuata nell'esigenza di tutelare l'indipendenza di detta professione e l'autonomia di giudizio e di iniziativa degli avvocati nella difesa e patrocinio degli interessi del cliente. La mancanza di detti requisiti, infatti, incide negativamente sulla libertà di determinazione del professionista. Eccezione a tale divieto è prevista per il rapporto di impiego pubblico in ragione degli scopi dell'ente e della condizione di maggior autonomia nella quale avvocati e procuratori degli uffici legali di enti pubblici esplicano tale loro attività. Il dipendente pubblico, abilitato all'esercizio della professione forense, per ottenere l'iscrizione nell'elenco speciale annesso all'albo professionale, deve dimostrare che: _ presso l'ente da cui egli dipende sia stato istituito un ufficio staccato e autonomo, con specifica trattazione degli affari dell'ente; _ che a detto ufficio egli sia adibito, occupandosi in via esclusiva degli affari legali dell'ente. (Nella specie è stato cancellato il professionista dipendente della direzione provinciale del lavoro che non svolgeva attività legale in via esclusiva). (Consiglio naz. forense, 21 febbraio 2003, n. 5). Tenuta albi - Domicilio e residenza. Per effetto della l. 21 dicembre 1999, n. 526, che ai fini dell'iscrizione agli albi, elenchi e registri, ha equiparato il domicilio alla residenza, deve ritenersi necessaria, per l'iscrizione all'albo degli avvocati, la sussistenza alternativa del requisito della residenza o del domicilio; per domicilio deve intendersi la sede dove il professionista esercita in maniera stabile e continuativa la propria attività, mentre per residenza deve intendersi l'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo caratterizzata dall'elemento obiettivo della permanenza in tal luogo e nell'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, da rilevare attraverso la constatazione delle consuetudini di vita e dello svolgimento delle normali relazioni sociali. (Nella specie è stato cancellato il professionista che aveva il domicilio in altra regione e che, pur avendo mantenuto la residenza anagrafica nel distretto del C.d.O. in cui era iscritto, in realtà viveva la maggior parte del suo tempo in altra regione insieme con la sua famiglia). (Consiglio naz. forense, 29 marzo 2003, n. 39). Procedimento disciplinare - Norme deontologiche. Non costituisce nullità della decisione il riferimento a norme del codice deontologico forense, approvate successivamente alla commissione del fatto disciplinarmente perseguito, poiché i precetti ivi codificati erano già riconducibili ai principi generali di correttezza, dignità e decoro dettati dalla legge professionale forense e costantemente riconosciuti e applicati dalla giurisprudenza disciplinare. (Consiglio naz. forense, 29 marzo 2003, n. 44). Procedimento disciplinare - Norme e particolari. Il procedimento disciplinare che si svolge davanti al C.d.O. ha natura amministrativa e non giurisdizionale e pertanto deve escludersi l'applicabilità dei principi e delle garanzie riservati alla sola fase giurisdizionale, e deve ritenersi infondata la questione concernente il contrasto tra la normativa interna, in materia di ordini professionali, e quella comunitaria, posto che l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo attiene ai soli procedimenti aventi carattere giurisdizionale. Non costituisce violazione del diritto di difesa ed è legittimo il rinvio d'udienza comunicato all'interessato a mezzo fax e a mezzo telegramma inviato lo stesso giorno. Nel procedimento disciplinare davanti al C.d.O. non sussiste l'obbligo di pubblicità delle udienze. Nella fase delle indagini preliminari al procedimento disciplinare la comunicazione e l'audizione dell'interessato sono auspicabili ma non obbligatori, non essendo previsti da alcune disposizione normativa. (Consiglio naz. forense, 20 febbraio 2003, n. 2). Procedimento disciplinare - Convocazione dei Consiglieri. In assenza di una previsione normativa specifica, la comunicazione della convocazione del C.d.O. quale mera manifestazione di scienza ricettiva, posta a tutela del diritto d'intervento dei soggetti componenti l'organo, può essere effettuata con qualsiasi mezzo idoneo al raggiungimento dello scopo e non è necessaria, ai fini della valida costituzione del collegio, la precostituzione della prova dell'avvenuta convocazione di tutti i suoi membri (quando peraltro la legge si limiti a stabilire la partecipazione di un limitato numero di componenti, numero legale, per la validità della seduta). L'eccezione di mancanza della prova della regolare comunicazione della convocazione del C.d.O. relativamente ad un procedimento disciplinare deve essere posta dall'interessato assoggettato al procedimento disciplinare in limine, o comunque prima che sia assunta la decisione, affinché l'organo disciplinare sia posto in condizione di dimostrare immediatamente l'intervenuta convocazione di tutti i suoi componenti ovvero di fissare una diversa seduta nella quale la rinnovata convocazione della totalità dei componenti possa essere documentata. La delibera di apertura del procedimento disciplinare, con cui il C.d.O., verificato che i fatti segnalati potrebbero avere rilevanza disciplinare, enuncia sommariamente i fatti dei quali il professionista sarà chiamato a risponde dandone comunicazione all'interessato e al P.M., pur concorrendo al procedimento che si conclude con la decisione, non è atto del procedimento disciplinare, e come tale non determina le nullità previste dall'art. 158 c.p.c. in tema di vizi relativi alla costituzione del giudice e all'intervento del P.M. Il consiglio dell'ordine, quale portatore di interessi collettivi omogenei, è organo collegiale di tipo non assembleare e pertanto l'irregolare convocazione del medesimo, non regolata normativamente e richiesta solo per la partecipazione del singolo membro a garanzia della funzionalità dell'organo medesimo, non configura un'ipotesi di inesistenza della delibera assunta ma dà luogo ad un vizio di annullabilità, eccepibile tra i motivi di gravame e per il quale il C.N.F., ove annullasse l'atto impugnato, dovrebbe ritenere la causa per la decisione del merito. (Consiglio naz. forense, 29 marzo 2003, n. 40). Procedimento disciplinare - Impedimento. L'impedimento del professionista a comparire dinanzi al C.d.O. nell'ambito di un procedimento disciplinare non può ritenersi sussistente qualora sia sorretto da un certificato medico che non contenga l'affermazione di una patologia e l'impossibilità di spostarsi e partecipare al dibattimento, ma faccia riferimento alla generica necessità di esami e controlli medici. (Consiglio naz. forense, 25 marzo 2003, n. 23). Procedimento disciplinare - Prescrizione. Il procedimento disciplinare è autonomo rispetto al procedimento penale, sicché la sussistenza di un procedimento penale non obbliga alla sospensione del procedimento disciplinare istauratosi per lo stesso fatto, né impedisce il decorso del termine di prescrizione quinquennale dell'illecito disciplinare. Gli atti interruttivi della prescrizione verificatisi durante la fase amministrativa, davanti al C.d.O., producono soltanto effetti istantanei e dal verificarsi degli stessi comincia a decorrere un nuovo termine quinquennale di prescrizione. (Sono atti interruttivi ad effetti istantanei: la notifica della delibera di apertura del procedimento disciplinare, la notifica del capo di incolpazione completo, la notifica del decreto di citazione per il dibattimento e la notifica della decisione). (Nella specie è stata dichiarata la prescrizione perché, dopo la delibera di apertura del procedimento disciplinare, erano trascorsi più di cinque anni senza che nessun atto interruttivo fosse stato posto in essere dal C.d.O., non essendo il termine prescrizionale automaticamente sospeso dalla presenza di un procedimento penale aperto per lo stesso fatto). L'azione disciplinare si prescrive nel termine di cinque anni dalla commissione del fatto disciplinarmente rilevante, a nulla rilevando, per il principio dell'autonomia dei due procedimenti, l'eventuale apertura, nel predetto termine, del procedimento penale, ove non sia stato aperto e concluso il procedimento disciplinare. L'azione disciplinare si prescrive in cinque anni dalla commissione del fatto se questo integra una violazione deontologica di carattere istantaneo, che si consuma e si esaurisce nel momento in cui la stessa viene posta in essere. Ove invece la violazione deontologica risulti integrata da una condotta protrattasi nel tempo, la decorrenza del termine ha inizio dalla data di cessazione della condotta medesima. (Tale deve essere considerata la latitanza il cui stato permane, come disposto dall'art. 296 c.p.p., fino a che il provvedimento che vi ha dato causa sia revocato, perda efficacia, ovvero si siano estinti il reato o la pena per cui il provvedimento era stato emesso, o ancora l'estradato sia consegnato all'autorità richiedente). (Consiglio naz. forense, 21 febbraio 2003, n. 8). Procedimento disciplinare - Sospensione cautelare. La sospensione cautelare non ha natura di mera sanzione disciplinare ma è un provvedimento precauzionale e per la sua applicazione non è necessario che il C.d.O. valuti la fondatezza delle incolpazioni o delle imputazioni penali, ma solo la gravità delle stesse e l'opportunità della sospensione ove ritenga possa configurarsi a causa del comportamento del professionista una situazione di allarme per il decoro e la dignità dell'intera classe forense. (Consiglio naz. forense, 29 marzo 2003, n. 45). Norme deontologiche. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme deontologiche forensi per l'asserito contrasto con l'art. 25 Cost. relativo al principio di legalità. Infatti, come ribadito dalla costante giurisprudenza, l'ampiezza delle formule generalmente usate dal legislatore per indicare le azioni e le omissioni disciplinarmente rilevanti, risponde all'esigenza di evitare un'elencazione tassativa dei singoli divieti o doveri, mentre è demandato agli organi forensi di emanare le regole di deontologia vincolanti per i propri iscritti, quale espressione di autogoverno della professione e di autodisciplina dei comportamenti dei professionisti. Ai fini della responsabilità disciplinare dell'avvocato è sufficiente che il comportamento posto in essere dallo stesso sia riconducibile ai doveri di dignità e decoro deontologicamente tutelati dal c.d.f.; infatti i canoni complementari contenuti nel codice deontologico adempiono alla funzione di tipizzare, nella misura del possibile, comportamenti deontologicamente rilevanti desunti dall'esperienza di settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare, e sono comunque esplicitazioni delle regole generali inidonei quindi ad esaurire la tipologia delle condotte punibili, ex art. 60 c.d.f. (Consiglio naz. forense, 11 aprile 2003, n. 65). Dovere di probità. Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di probità e decoro propri della classe forense l'avvocato che in una conversazione telefonica offra ad un carabiniere un indebito compenso al fine di garantire la permanenza dei propri assistiti nella unità abitativa dalla quale erano stati sfrattati. (Nella specie la sanzione della sospensione per mesi due è stata sostituita con la più lieve sanzione della censura). (Consiglio naz. forense, 25 marzo 2003, n. 25). Rapporti con il C.d.O. Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l'avvocato che alla richiesta di chiarimenti relativi ad un esposto risponda al C.d.O. irrisoriamente con una poesia satirica mettendo così in discussione la serietà della procedura e dell'organo emanante. (Nella specie la sanzione della censura è stata sostituita dalla più lieve sanzione dell'avvertimento). (Consiglio naz. forense, 12 marzo 2003, n. 15). Rapporti con i praticanti. Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l'avvocato che assuma solo formalmente incarichi professionali delegandoli poi per la gestione e lo svolgimento al praticante non abilitato al patrocinio, consentendogli pertanto l'esercizio di attività non consentita e la consequenziale emissione di fatture. (Nella specie è stata confermata la sanzione della sospensione per mesi due). (Consiglio naz. forense, 29 aprile 2003, n. 72). Dovere di indipendenza - Divieto di accaparramento. Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché in contrasto con il dovere di indipendenza e probità propri della classe forense, l'avvocato che, sottoscrivendo una convenzione con l'associazione «giudici arbitrali», si obblighi a utilizzare per l'ufficio la denominazione «forum arbitrale», a rispettare l'esclusiva dell'attività con detta associazione, a fornire consulenza obbligatoria, indistintamente, a tutti gli utenti dell'associazione e, da ultimo, consenta alla pubblicità dell'attività attraverso il volantinaggio, così ponendo in essere una forma di accaparramento di clientela e di pubblicità vietata. (Nella specie, in considerazione del ravvedimento e della buona fede, la sanzione della censura e stata sostituita dalla più lieve sanzione dell'avvertimento). (Consiglio naz. forense, 11 aprile 2003, n. 60). Espressioni offensive verso il collega. Pone in essere un comportamento disciplinarmente corretto l'avvocato che usi in una lettera espressioni forti verso un collega se dall'analisi delle stesse e del contesto in cui erano state poste, debbano considerarsi espressioni di stile, perciò carenti di portata offensiva. (Nella specie il professionista in una lettera-esposto al C.d.O. aveva dichiarato che il collega non era «meritevole di alcuna considerazione alla luce dei suoi pregressi molteplici comportamenti capziosi e vessatori», ma lo aveva fatto in risposta ad una precedente lettera-esposto del collega nella quale si usava espressioni oltremodo forti quali: «... il comportamento estremamente scorretto e oltremodo vessatorio ai loro danni che non giova all'immagine e al decoro della categoria forense...»). (Consiglio naz. forense, 12 marzo 2003, n. 13). Obbligo di colleganza. Il rapporto di colleganza che impone la collaborazione fra colleghi deve essere sempre improntato a condizioni di reciprocità; pertanto pone in essere un comportamento deontologicamente corretto l'avvocato che, dopo una lunga e inutile attesa, rifiuti di riaprire il verbale di udienza ormai chiuso, se il collega arrivando con notevole ritardo non presenti le proprie scuse e la parte da lui assistita chieda categoricamente di non accedere a nessuna cortesia verso la controparte medesima. (Nella specie è stato assolto l'avvocato a cui era stata inflitta la sanzione dell'avvertimento). (Consiglio naz. forense, 29 marzo 2003, n. 38). Rapporti con i colleghi - Giudizio sull'attività svolta. È sempre consentito all'avvocato esprimere un parere sulla difesa svolta da altro collega suo predecessore, se tale giudizio sia espresso non al fine di distogliere l'altrui clientela, ma al fine di realizzare il diritto del cliente di vedere verificata in qualunque momento la sua aspettativa di essere ben difeso dal legale prescelto. (Nella specie è stato assolto il professionista che, subentrando ad altro collega nella difesa, aveva verificato l'operato del suo predecessore e lo aveva contattato per proporre una transazione avendo rilevato l'esistenza di irregolarità nel suo operato). (Consiglio naz. forense, 11 aprile 2003, n. 47). Rapporti con i colleghi - Dovere di riservatezza. È deontologicamente corretto il comportamento dell'avvocato che al fine di rappresentare la propria amarezza a fronte di infamanti accuse mossegli da alcuni colleghi in relazione al suo comportamento quale presidente di un lodo arbitrale, invii al giudice istruttore della causa di impugnazione del lodo e al procuratore del tribunale la copia dell'esposto presentato al consiglio dell'ordine nei confronti dei predetti colleghi e denunciante il comportamento scorretto degli stessi. È evidente, infatti, come la ragione di tale comportamento non sia stata la malafede ma la preoccupazione di difendere la propria onorabilità agli occhi dei magistrati innanzi ai quali riteneva di essere stato ingiustamente denigrato. (Nella specie è stato assolto l'avvocato a cui era stata inflitta la sanzione dell'avvertimento). (Consiglio naz. forense, 29 marzo 2003, n. 34). Dovere e correttezza - Rapporti con la controparte. Pone in esser un comportamento deontologicamente rilevante l'avvocato che, senza le prescritte autorizzazioni e senza averne dato preventivamente atto a verbale, asporti dal fascicolo di controparte un libretto di risparmio al portatore intestato al proprio cliente e depositato in garanzia, a nulla rilevando la destinazione delle somme medesime al suo cliente e l'eventualità che egli non abbia agito direttamente ma si sia limitato a partecipare all'operazione. (Nella specie è stata confermata la sanzione della censura). (Consiglio naz. forense, 28 marzo 2003, n. 28). Rapporti con i testimoni. Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante, perché lesivo del dovere di correttezza e colleganza, l'avvocato che inviti presso il proprio studio i testimoni di parte avversa al fine di informarli di una denuncia già presentata contro di loro per falsa testimonianza (così ponendo in essere un'ingiusta pressione). (Nella specie è stata confermata la sanzione della censura). (Consiglio naz. forense, 29 aprile 2003, n. 76). *** LETTERE RISERVATE AL COLLEGA Occorre anzitutto trascrivere integralmente l'art. 28 del codice deontologico: ART. 28. (Divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega). _ Non possono essere prodotte o riferite in giudizio le lettere qualificate riservate e comunque la corrispondenza contenente proposte transattive scambiate con i colleghi. I. È producibile la corrispondenza intercorsa tra colleghi quando sia stato perfezionato un accordo, di cui la stessa corrispondenza costituisca attuazione. II. È producibile la corrispondenza dell'avvocato che assicuri l'adempimento delle prestazioni richieste. III. L'avvocato non deve consegnare all'assistito la corrispondenza riservata tra colleghi, ma può, qualora venga meno il mandato professionale, consegnarla al professionista che gli succede, il quale è tenuto ad osservare i medesimi criteri di riservatezza. IV. L'interruzione delle trattative stragiudiziali, nella prospettiva di dare inizio ad azioni giudiziarie, deve essere comunicata al collega avversario. Sul tema, a richiesta di un collega, il C. di O. (26 giugno 2003) ha emesso il seguente parere: «il Consiglio ha ritenuto che, senza eccezioni, tutte le lettere qualificate ``riservate al collega'', inviate da un avvocato non possono essere né prodotte in giudizio né consegnate al cliente e ciò anche se nella corrispondenza ``riservata'' è contenuta l'assicurazione dell'adempimento delle prestazioni richieste». Enrico Biagi solleva un legittimo dubbio, con riferimento al titolo e sottotitolo dell'art. 28. Con esso si vuol forse significare che tutta la corrispondenza fra colleghi, ove non espressamente qualificata come «riservata al collega» (salvo il caso di proposta transattiva) può essere prodotta o riferita in giudizio? Tale interrogativo può ritenersi risolto dalla riconosciuta facoltà di «blindare» o meno esplicitamente le comunicazioni fra colleghi, così che la mancanza della «riserva» possa legittimarne l'utilizzo in giudizio? In realtà (specie per chi non ha mai amato la codificazione della morale con la propensione di una minuziosa casistica fonte di equivoci) sembra doversi ritenere che titolo e sottotitolo dell'art. 28 abbiano compromesso la necessaria chiarezza di un principio non derogabile se non a fronte di specifiche ed eccezionali condizioni. Il principio è quello dell'assoluta inutilizzabilità in giudizio di qualsiasi corrispondenza, scritta o orale, intercorsa fra colleghi. Negare questo principio significa infliggere una ferita gravissima all'identità stessa dell'avvocato, della quale è elemento essenziale la libertà di interloquire col collega di controparte senza timore di un'utilizzazione probatoria in giudizio che ridurrebbe o addirittura precluderebbe la stessa possibilità di un chiarimento eventualmente risolutore, di una diversa valutazione dei fatti, di una definizione stragiudiziale ovvero di una rinuncia ad un procedimento in corso: il tutto nell'interesse stesso delle parti e del doveroso concorso ad un corretto esercizio della giurisdizione medesima. Ferme restando, ovviamente, le regole dettate ai commi III e IV. (è l'opinione di GIORGIO FREDAS)