VOLUME XCV PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE 2012 FASC. 1 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE) ISSN 0035-6158 R I V I S TA DI DIRITTO INTERNAZIONALE SOMMARIO pag. P. FOIS, prof. a contratto Univ. Sassari. — Sulle pretese novità del regionalismo internazionale contemporaneo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 F. SALERNO, prof. ord. Univ. Ferrara. — L’affermazione del positivismo giuridico nella scuola internazionalista italiana: il ruolo di Anzilotti e Perassi . . . 29 A. TANZI, prof. ord. Univ. Bologna. — Sull’insolvenza degli Stati nel diritto internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 Note e commenti S. POLI, prof. ass. Univ. Pisa. — La base giuridica delle misure dell’UE di congelamento dei capitali nei confronti di persone fisiche o giuridiche o entità non statali che appoggiano il terrorismo . . . . . . . . . . . . . . . 89 M. DEL CHICCA, dott. giur. — La pirateria marittima di fronte ai giudici di Stati membri dell’Unione Europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 Necrologio P. GAETA, prof. ord. Univ. Ginevra. — Antonio Cassese . . . . . . . . . . . . . 120 Panorama L’incerto destino dell’eccezione di non adempimento dell’accordo (A. Gianelli) . 151 Protezione diplomatica e interesse legittimo dell’individuo (P. Pustorino) . . . . 156 In tema di litispendenza e connessione tra procedimenti penali internazionali e nazionali (E. Bonomo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159 Giurisprudenza GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE Giurisdizione della Corte e ricevibilità della domanda - Accordo provvisorio tra ex Repubblica iugoslava di Macedonia e Grecia del 13 settembre 1995, art. 21, par. 2 - Oggetto della controversia - Diritti ed obblighi di soggetti non parti della controversia - Idoneità della sentenza a produrre effetti concreti — II — - Negoziati in corso tra le parti - Accordo provvisorio, articoli 5, 7, 11 e 22 - Interpretazione - Convenzione di Vienna del 27 maggio 1969 sul diritto dei trattati, articoli 31 e 32 - Pretese violazioni dell’Accordo da parte dello Stato attore - Cause di giustificazione dell’illecito dello Stato convenuto Nesso con le pretese violazioni dello Stato attore - Responsabilità internazionale - Riparazione - Corte internazionale di giustizia, 5 dicembre 2011 Sentenza nell’affare dell’ applicazione dell’Accordo provvisorio del 13 settembre 1995 (ex Repubblica iugoslava di Macedonia c. Grecia) . . . . . . . GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA Art. 6 TUE - Art. 80 TFUE - Carta dei diritti fondamentali - Protocollo n. 30 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali alla Polonia e al Regno Unito - Regolamento (CE) n. 343/2003 - Attuazione del diritto dell’Unione - Divieto di trattamenti inumani o degradanti - Sistema europeo comune di asilo - Potere di uno Stato membro di esaminare una domanda di asilo quando non ne è competente in base al regolamento - Trasferimento di un richiedente asilo verso lo Stato membro competente - Presunzione relativa di rispetto, da parte di tale Stato membro, dei diritti fondamentali - Corte di giustizia (grande sezione), 21 dicembre 2011 - N.S. c. Secretary of State for the Home Department e altri (cause riunite C-411/10 e C-493/10) . . GIURISPRUDENZA 167 208 ITALIANA Straniero - Indennità di frequenza per mutilati ed invalidi civili minorenni - L. 23 dicembre 2000 n. 388, art. 80, 19° comma - Requisito della carta di soggiorno - Art. 117, 1° comma, Cost. - Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 14 - Principio di non discriminazione - Corte costituzionale, 16 dicembre 2011 n. 329 - M.A.S.M. c. INPS . . . . . . . . . . . . . . . . 231 Reato di favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina - D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, art. 12, comma 4-bis - Custodia cautelare in carcere - Articoli 13, 1° comma, e 27, 2° comma, Cost. - Inviolabilità della libertà personale Presunzione di non colpevolezza - Corte costituzionale, 16 dicembre 2011 n. 331 - Interv. Presidente del Consiglio dei ministri . . . . . . . . . . . . 239 Indennità di espropriazione - D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504, art. 16 - Riduzione dell’indennità in relazione al valore dichiarato ai fini ICI - Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 1 - Art. 117, 1° comma, Cost. - Violazione di obblighi internazionali - Corte costituzionale, 22 dicembre 2011 n. 338 - A.C. c. Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale Sassari-Porto Torres-Alghero s.p.a.; interv. Presidente del Consiglio dei ministri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246 Protezione diplomatica - Reciprocità - Danni per la marina mercantile nazionale - L. 3 marzo 1987 n. 69 - Tutela giurisdizionale - Corte di cassazione (sez. un. civ.), 19 ottobre 2011 n. 21581 - Il Tuo Viaggio s.r.l. c. Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Ministero degli affari esteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 258 — III — Accordi internazionali Italia - Comunicati del Ministero degli affari esteri pubblicati nel 2011 e relativi alla vigenza di atti internazionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262 — 270 Atti internazionali resi esecutivi con provvedimenti pubblicati nel 2011 . Organizzazioni internazionali NAZIONI UNITE Consiglio di sicurezza - Risoluzione 2014 (2011), adottata il 21 ottobre 2011, sulla situazione in Yemen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . — 275 Risoluzione 2015 (2011), adottata il 24 ottobre 2011, relativa alla modifica delle legislazioni nazionali e alla istituzione di tribunali speciali in Somalia e nei Paesi della Regione competenti a giudicare i responsabili degli atti di pirateria commessi al largo delle coste della Somalia e i loro complici . . 278 Risoluzione 2016 (2011), adottata il 27 ottobre 2011, con cui si mette fine ad alcune delle misure adottate a carico della Libia . . . . . . . . . . . . . 282 Risoluzione 2017 (2011), adottata il 31 ottobre 2011, con cui si chiede alla Libia di adottare misure per impedire la proliferazione delle armi . . . . 284 — Risoluzione 2018 (2011), adottata il 31 ottobre 2011, sulla repressione degli atti di pirateria e di rapina a mano armata compiuti nel Golfo di Guinea . 286 — Risoluzione 2020 (2011), adottata il 22 novembre 2011, con cui si proroga l’autorizzazione data agli Stati ad usare tutti i mezzi necessari per reprimere gli atti di pirateria e di rapina a mano armata nelle acque al largo della Somalia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 288 — Risoluzione 2022 (2011), adottata il 2 dicembre 2011, con cui si proroga ed amplia il mandato della Missione d’appoggio delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 296 — Risoluzione 2023 (2011), adottata il 5 dicembre 2011, con cui si condanna l’Eritrea per l’adozione di una serie di comportamenti diretti a destabilizzare gli Stati della Regione e si decide di prendere ulteriori misure a suo carico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297 — — Legislazione LEGISLAZIONE ITALIANA Decreto legislativo 3 febbraio 2011 n. 71: « Ordinamento e funzioni degli uffici consolari, ai sensi dell’articolo 14, 18° comma, della legge 28 novembre 2005 n. 246 » . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Legge 2 agosto 2011 n. 130: « Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 luglio 2011 n. 107, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia 302 — IV — e disposizioni per l’attuazione delle risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Misure urgenti antipirateria » . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 326 Decreto-legge 29 dicembre 2011 n. 216: « Proroga di termini previsti da disposizioni legislative » . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 328 SUMMARY P. FOIS. — The Claimed Novelties of Contemporary International Regionalism . page 5 F. SALERNO. — The Role of Anzilotti and Perassi in the Prevailing of Legal Positivism in the Italian School of International Law . . . . . . . . . . . . 29 A. TANZI. — On State Insolvency under International Law . . . . . . . . . . . 66 Notes and Comments S. POLI. — The Legal Basis of EU Measures for the Freezing of Assets against Natural or Legal Persons or Non-State Entities Supporting International Terrorism . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 M. DEL CHICCA. — Maritime Piracy before National Courts of EU Member States . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 Obituary P. GAETA. — Antonio Cassese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 Panorama The Uncertain Destiny of the Exception of Non-Performance of a Treaty (A. Gianelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 Diplomatic Protection and the Legal Position of Individuals (P. Pustorino) . . . 156 On Lis Pendens and Connection between National and International Criminal Proceedings (E. Bonomo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159 Cases INTERNATIONAL DECISIONS Jurisdiction of the Court and Admissibility of the Application - Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord between the former Yugoslav Republic of Macedonia and Greece of 13 September 1995 - Subject-Matter of the Dispute - Third Parties’ Rights and Obligations - Judgment having concrete effect - Ongoing negotiations between the parties - Articles 5, 7, 11 — VI — and 22 of the Interim Accord - Interpretation - Articles 31 and 32 of the Vienna Convention of 27 May 1969 on the Law of Treaties - Alleged failure to comply with the Accord by the Applicant - Circumstances invoked by the Respondent for justifying its wrongful act - Connection with the alleged breaches by the Applicant - International responsibility - Reparation International Court of Justice, 5 December 2011 - Judgment in the case concerning the Application of the Interim Accord of 13 September 1995 (the former Yugoslav Republic of Macedonia v. Greece) [text in English] . . . 167 EU JUDICIAL DECISIONS Article 6 of the Treaty of the European Union - Article 80 of the Treaty on the Functioning of the European Union - Charter of Fundamental Rights Protocol No. 30 on the application of the Charter of Fundamental Rights to Poland and the United Kingdom - Regulation EC No. 343/2003 Implementation of European Union law - Prohibition of inhuman or degrading treatment - Common European Asylum System - Power of a member State to examine a claim for asylum which is not its responsibility under the Regulation - Transfer of an asylum seeker to the member State responsible - Rebuttable presumption of compliance, by that member State, with fundamental rights - Court of Justice (Grand Chamber), 21 December 2011 - N.S. v. Secretary of State for the Home Department et al. (Joint Cases C-411/10 and C-493/10) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 208 ITALIAN JUDICIAL DECISIONS Alien - Attendance allowance for disabled minors - Article 80, paragraph 19, of Law of 23 December 2000 No. 388 - Requirement of a residence permit Article 117, paragraph 1, of the Constitution - Article 14 of the European Convention of Human Rights - Principle of non-discrimination - Constitutional Court, 16 December 2011 No. 329 - M.A.S.M. v. INPS . . . . . . 231 Crime of aiding and abetting illegal immigration - Article 12, paragraph 4-bis, of Legislative Decree of 25 July 1998 No. 286 - Preventive detention Articles 13, paragraph 1, and 27, paragraph 2, of the Constitution Inviolability of personal liberty - Presumption of innocence - Constitutional Court, 16 December 2011 No. 331 - Intervenor Presidente del Consiglio dei ministri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239 Compensation for expropriation - Article 16 of Legislative Decree of 30 December 1992 No. 504 - Reduction in the compensation in relation to the declared value for the purpose of a municipal property tax - Article 1 of the Additional Protocol to the European Convention on Human Rights Article 117, paragraph 1, of the Constitution - Breach of international obligations - Constitutional Court, 22 December 2011 No. 338 - A.C. v. Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale Sassari-Porto Torres-Alghero s.p.a.; intervenor Presidente del Consiglio dei ministri . . . . . . . . . . . . 246 Diplomatic protection - Reciprocity - Harm caused to the national merchant fleet - Law No. 69 of 3 March 1987 - Judicial remedies - Court of Cassation (First Civil Division), 19 October 2011 No. 21581 - Il Tuo Viaggio s.r.l. v. — VII — Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti and Ministero degli affari esteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 258 Treaties Italy - Notices published by the Ministry of Foreign Affairs in 2011, concerning the entry into force of treaties . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262 — 270 Treaties implemented through legislation published in 2011 . . . . . . . . International Organizations UNITED NATIONS Security Council - Resolution 2014 (2011), adopted on 21 October 2011, on the situation in Yemen [text in English] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . — — — — — — — 275 Resolution 2015 (2011), adopted on 24 October 2011, concerning amendments to national laws and the establishment of specialized courts in Somalia and other States of the region for the repression of acts of piracy off the coast of Somalia [text in English] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278 Resolution 2016 (2011), adopted on 27 October 2011, which terminates some of the measures taken against Libya [text in English] . . . . . . . . 282 Resolution 2017 (2011), adopted on 31 October 2011, which demands that Libya adopts measures against arms proliferation [text in English] . . . . 284 Resolution 2018 (2011), adopted on 31 October 2011, on the repression of piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea [text in English] . 286 Resolution 2020 (2011), adopted on 22 November 2011, which extends the authorization to States to use all necessary means to repress piracy and armed robbery off the coast of Somalia [text in English] . . . . . . . . . 288 Resolution 2022 (2011), adopted on 2 December 2011, which extends the time and scope of the mandate of the United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) [text in English] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 296 Resolution 2023 (2011), adopted on 5 December 2011, which condemns Eritrea for committing acts aiming at undermining peace and reconciliation in Somalia and the region, and adopts further measures against Eritrea [text in English] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297 Legislation ITALIAN LEGISLATION Legislative Decree of 3 February 2011 No. 71: “Status and functions of consular offices under Article 14, paragraph 18, of Law of 28 November 2005 No. 246” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302 — VIII — Law of 2 August 2011 No. 130: “Conversion into law, with amendments, of Law-Decree of 12 July 2011 No. 107, concerning the extension of interventions for development cooperation and support to peace and stabilization processes as well as to international military and police forces operations, and provisions for the implementation of Resolutions 1970 (2011) and 1973 (2011) adopted by the Security Council of the United Nations. Urgent measures against piracy” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 326 Law-Decree of 29 December 2011 No. 216: “Extension of time-limits provided by laws” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 328 DIREZIONE GAETANO ARANGIO-RUIZ - BENEDETTO CONFORTI LUIGI FERRARI BRAVO - GIORGIO GAJA - PIERO ZICCARDI REDAZIONE MARINA SPINEDI ADELINA ADINOLFI - MARIA LUISA ALAIMO - ANNALISA CIAMPI PAOLO PALCHETTI - LUIGI SBOLCI R I V I S TA DI DIRITTO INTERNAZIONALE VOLUME XCV (2012) SULLE PRETESE NOVITÀ DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE CONTEMPORANEO SOMMARIO: 1. I cambiamenti prodottisi nell’ambito del regionalismo internazionale contemporaneo, secondo orientamenti dottrinali recenti: il « nuovo regionalismo ». — 2. Segue: il regionalismo e gli « international regimes ». — 3. Segue: il regionalismo e la « mondializzazione del diritto ». — 4. Segue: il regionalismo e la « frammentazione » dell’ordinamento internazionale. — 5. Segue: il regionalismo e i « valori fondamentali » dell’ordinamento internazionale. — 6. Richiamo dei caratteri del regionalismo nelle fasi precedenti la fine della guerra fredda: il regionalismo americano. — 7. Segue: il regionalismo all’epoca della Società delle Nazioni. — 8. Segue: il regionalismo nella Carta delle Nazioni Unite e nella prassi successiva. — 9. Osservazioni critiche circa i caratteri di novità attribuiti al regionalismo contemporaneo dagli orientamenti dottrinali in precedenza esaminati. — 10. Dalle pretese novità del regionalismo contemporaneo alle reali novità dell’universalismo. 1. Gli approfonditi studi che, nel corso del Novecento, la dottrina ha dedicato al regionalismo internazionale sono stati caratterizzati, da un lato, dalla sottolineatura dell’importanza rivestita da tale fenomeno (1) e, dall’altro, dal rilievo dato al rapporto esistente fra il regionalismo e l’universalismo nel diritto internazionale: fra le norme, cioè, vigenti nell’ambito di un circoscritto numero di soggetti internazionali e quelle indirizzantisi alla Comunità internazionale nel suo insieme. Al tempo stesso, con il moltiplicarsi delle organizzazioni internazionali, a livello sia universale che regionale, si è molto insistito sulle relazioni intercorrenti fra organizzazioni universali e regionali, con particolare attenzione a quelle che, sulla base del capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite, si stabiliscono fra il Consiglio di sicurezza e le organizzazioni regionali. (1) Sulla nozione di regionalismo internazionale, si vedano GAUTRON, Le fait régional dans la société internationale, in Société française pour le droit international, Régionalisme et universalisme dans le droit international contemporain. Colloque de Bordeaux, Paris, 1977, p. 9 ss.; VIRALLY, Les relations entre organisations régionales et organisations universelles, ivi, p. 152 ss.; BARBERIS, Les règles spécifiques du droit international en Amérique Latine, in Recueil des cours, 1992, IV, vol. 235, p. 120 ss. SCHINDLER, Regional International Law, in Encyclopedia of Public International Law, IV, Amsterdam, 2000, p. 161 ss. Rivista di diritto internazionale - 1/2012 6 SULLE PRETESE NOVITÀ È soltanto sul finire del secolo che in tema di regionalismo si delineano alcuni indirizzi dottrinali che si differenziano, per alcuni aspetti, dai precedenti orientamenti in materia. Va posto l’accento, in primo luogo, sulla tendenza di numerosi autori a puntare sulla discontinuità, ricorrendo all’espressione « nuovo regionalismo » per indicare l’emergere di un fenomeno che avrebbe trovato nella fine della guerra fredda e nell’intensificarsi del processo di globalizzazione i fattori fondamentali del suo progressivo affermarsi (2). Entrambi questi fattori avrebbero favorito una regionalizzazione sempre più diffusa: da un lato, il dissolversi dei blocchi prima contrapposti avrebbe agevolato il sorgere, o l’ampliarsi, del campo di applicazione di accordi ed organizzazioni regionali (3); dall’altro, il processo di globalizzazione avrebbe spinto verso lo svolgimento di attività economiche in ambiti sempre più vasti (4). Cause specifiche sarebbero all’origine di una particolare diffusione del fenomeno del nuovo regionalismo in America Latina (5), con un elevato numero di organizzazioni a carattere prevalentemente economico costituite, o sottoposte a revisione, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Il nuovo regionalismo sarebbe caratterizzato da un rapporto di compatibilità con le regole in vigore a livello globale (6); sviluppatosi (2) Sul « nuovo regionalismo », si vedano: IBAÑEZ, El nuevo regionalismo latinoamericano en los años noventa, Revista electrónica de Estudios internacionales, 2000, n. 1, p. 1 ss.; HETTNE, INOTAI, SUNKEL, Globalism and the new Regionalism, New York, 2002; MANSFIELD, MILNER, The New Wave of Regionalism, in The Politics of Global Governance. International Organizations in an Interdependent World (a cura di Diehl), Boulder, London, 2001, p. 313 ss.; MATHIS, Regional Trade Agreements in the GATT/WTO, The Hague, 2002, p. 127 ss. Alla nascita di « una nuova generazione del regionalismo », ovvero ad una « terza generazione » del regionalismo fa riferimento PENNETTA, Organizzazioni internazionali regionali, in Enciclopedia del diritto, Milano, 2011, pp. 855 e 858. Per una diversa accezione dell’espressione « nuovo regionalismo » vedi PANEBIANCO, Diritto internazionale pubblico3, Napoli, 2011, p. 129, con riferimento a « processi di rimodulazione di nuove aree regionali diversamente orientate rispetto a quelle tradizionali ». (3) Mette l’accento su uno « substantial increase in the regionally based institutionalized co-operation among states during the 1990s » CHRISTIANSEN, European and regional integration, in The Globalization of World Politics (a cura di Baylis e Smith), Oxford 2001, p. 513. (4) Sulla diffusione del fenomeno della globalizzazione economica dopo la fine della guerra fredda vedi CLARK, Globalizzazione e frammentazione, Bologna, 2001, p. 316 ss. (5) In questo senso: IBAÑEZ, El nuevo regionalismo, cit., p. 6 ss.; PENNETTA, Integrazione europea ed integrazioni latino-americane e caraibiche: modelli e rapporti, Bari, 2009, spec. p. 22 ss. (6) PENNETTA, Organizzazioni internazionali regionali, cit., p. 855 ss.; CEPAL, El regionalismo abierto en America Latina y el Caribe: la integración económica al servicio de la transformación productiva con equitad, Santiago de Chile, 1994, p. 10. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 7 soprattutto nel settore dell’economia, si sarebbe gradualmente esteso ad altri settori, e segnatamente a quello politico. 2. Un secondo indirizzo dottrinale che in questa sede conviene richiamare, in considerazione dei caratteri di novità che lo stesso presenta, è quello che dalla metà degli anni ’80 si è sviluppato intorno alla nozione di « international regime ». Secondo una definizione generalmente accettata dalla dottrina, per « international regime » è da intendersi un insieme « of implicit or explicit principles, norms, rules, and decision-making procedures around which actors’ expectations converge in a given area of international relations » (7). Secondo la Commissione del diritto internazionale, che nel quadro dei suoi lavori sulla « frammentazione » del diritto internazionale ha riservato una particolare attenzione alla questione dei « regimi autonomi » (8), si tratterebbe di regimi specializzati che in virtù di propri principi, regole, istituti, prassi, disciplinano settori in precedenza retti dal solo diritto internazionale generale, dando vita a sistemi « relativamente » autonomi. Il diritto del commercio internazionale, il sistema dei diritti dell’uomo, il diritto dell’ambiente, il diritto del mare, lo stesso diritto europeo, sono dalla Commissione indicati come esempi di regimi siffatti (9). Sostanzialmente nello stesso senso, con riferimento ad esempi simili (10), alcuni autori hanno tenuto a sottolineare che questi regimi si presentano come vere e proprie « isole » nell’ambito dell’ordinamento (7) Così KRASNER, Structural Causes and Regime Consequences: Regimes as Intervening Variables, in International Regimes (a cura di Krasner), Ithaca, 1983, p. 2. Per una valutazione critica della « regime theory » vedi però ZEMANEK, The Structure of the International Law System, in Divenire sociale e adeguamento del diritto. Studi in onore di Francesco Capotorti, I, Milano, 1999, p. 638, che preferisce parlare di « special regimes », caratterizzati da « some degree of institutionalisation » e da « sectional rules which regulate the conduct of participating states in a defined area ». (8) Rapport de la Commission du droit international, cinquante-huitième session, 2006, paragrafi 233 e 234. (9) Ibidem, par. 243. Con specifico riferimento al diritto del commercio internazionale, va ricordato il pensiero di SACERDOTI, La disciplina del commercio internazionale e la protezione dell’ambiente, in Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto internazionale ed europeo dell’ambiente (a cura di Fois), Napoli, 2007, pp. 64-65: « il diritto OMC, che è al centro del diritto del commercio internazionale », non può considerarsi « in isolamento dal contesto generale delle relazioni internazionali disciplinate dal diritto internazionale » e, quindi, un regime « autonomo » ed « impermeabile ». Nello stesso senso vedi ODDENINO, Soluzione delle controversie nell’OMC e valori non commerciali, in Neoliberismo internazionale e Global Economic Governance (a cura di Comba), Torino, 2008, p. 171. (10) LITTLE, International Regimes, in The Globalization of World Politics, cit., p. 304 ss. 8 SULLE PRETESE NOVITÀ internazionale, dotate di una disciplina del tutto autonoma, caratterizzata dall’esistenza di regole sia « primarie » che « secondarie » (11). Rispetto agli studiosi del fenomeno dell’organizzazione internazionale, gli autori ora in discorso si caratterizzano sotto due diversi profili. Da un lato, è da sottolineare la scelta di innovare riguardo alla terminologia tradizionale, mettendo l’accento non più sulle organizzazioni internazionali ma sugli « international regimes » (12). D’altro lato, gli studiosi di detti regimi mettono l’accento su un punto spesso trascurato nelle indagini sul fenomeno dell’organizzazione internazionale: l’esistenza di principi, norme, regole, decisioni che concorrono a definire « il regime », e che possono essere adottati — mediante atti vincolanti o non vincolanti — anche in assenza di un’organizzazione internazionale (13). Ai fini della presente indagine — volta, come si è puntualizzato, ad accertare le reali novità del regionalismo contemporaneo — interessa precisare che in ogni caso per la dottrina in questione non sarebbe affatto il regionalismo, con i caratteri che lo stesso oggi presenta, l’unica causa della frammentazione dell’ordinamento internazionale. Gli « international regimes » in precedenza elencati sono infatti, in massima parte, regimi specifici diretti a disciplinare determinati settori a livello mondiale, e non già a livello regionale (14). A questo secondo livello, sarebbe soltanto « il diritto europeo » il sistema che, stando all’elenco sopra riportato (15), rischierebbe di favorire il fenomeno della frammentazione per effetto del regionalismo. (11) CASANOVAS, Unity and Pluralism in Public International Law, The Hague/ New York/London, 2001, p. 57 ss. (12) Va comunque tenuto presente che la dottrina, quando illustra il campo di applicazione degli « international regimes » propone classificazioni (« security regimes »; « environmental regimes »; « communication regimes »; « economic regimes »: cfr. LITTLE, International Regimes, cit., p. 304 ss.) che richiamano, di tutta evidenza, le note classificazioni utilizzate per le organizzazioni internazionali. Del resto, lo stesso LITTLE (ivi, p. 302) riconosce che trattando degli « international regimes » si finisce per introdurre « new terminology to characterize the familiar idea of an international organization ». (13) Cfr. International Regimes, cit., pp. 302-303. (14) Vedi in proposito CASANOVAS, Unity and Pluralism, cit., p. 60, che distingue fra « universal treaties, which establish regulations of universal application, and others, which establish rules on a regional basis ». (15) Supra, nota 9. La circostanza che una specifica menzione sia stata riservata al « diritto europeo » solleva la questione della possibilità o meno di ricondurre il diritto dell’Unione Europea nell’ambito del regionalismo internazionale. Si tratta, evidentemente, di una questione molto dibattuta: da un lato, stando alla posizione della Corte di giustizia (per la quale il diritto comunitario — ora dell’Unione — è un ordinamento giuridico di nuovo genere, distinto sia dal diritto interno che dal diritto internazionale) una siffatta appartenenza sarebbe da escludere; dall’altro, ad una risposta affermativa indurrebbe la tesi secondo cui il diritto dell’Unione andrebbe DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 9 3. È parimenti dalla interdipendenza crescente e dalle trasformazioni in atto nella Comunità internazionale che prendono le mosse gli studiosi che insistono particolarmente sulla « mondializzazione » (o « globalizzazione ») del diritto. Si tratta di studiosi in prevalenza orientati a vedere tale fenomeno all’origine di un « nuovo diritto internazionale » (16), di un « nuovo ordine mondiale » o « globale » (17), che andrebbe a sostituire il precedente modello westfaliano, basato fondamentalmente su un sistema di relazioni fra Stati sovrani ed indipendenti (18). I caratteri di novità propri del « nuovo diritto » sono messi in luce dalle espressioni alle quali gli autori in parola fanno abitualmente ricorso: « mondo senza frontiere », « villaggio globale », « interdipendenza », « nuovi attori nelle relazioni internazionali », con un particolare ruolo riconosciuto, fra questi attori, alle imprese multinazionali ed alle organizzazioni internazionali. Ai fini della presente indagine, interessa soprattutto sottolineare la tendenza di molti studiosi della mondializzazione ad ignorare pressoché totalmente, nell’illustrazione del nuovo diritto internazionale, il fenomeno del regionalismo. Come se fenomeni come l’abbattimento delle frontiere, la crescente interdipendenza, il ridimensionamento della sovranità statale, l’emergere di nuovi attori sulla scena internazionale non si manifestino, se ben si osserva, anche in ambiti più ristretti rispetto a quello mondiale. Particolarmente indicativo di una simile tendenza può essere considerato il pensiero di chi (19) riconosce alle sole organizzazioni internazionali a livello mondiale (tanto le organizzazioni governative quanto quelle non governative) un ruolo qualificato come « ordinamento giuridico particolare », al quale i principi del diritto internazionale sarebbero pienamente applicabili. (per questa tesi, vedi fra i tanti il nostro scritto Presentazione del Convegno, in I caratteri del diritto dell’Unione Europea (a cura di Fois e Clerici), Padova, 2007, p. 11 ss. In ogni caso, qualunque sia la posizione che si assuma al riguardo, è indubbio che, rispetto alla generalità dei sistemi regionali, il diritto dell’Unione Europea presenti peculiarità assai marcate, in considerazione dei suoi principi ispiratori, dei procedimenti di produzione giuridica, della funzione svolta dagli organi giudiziari dell’Unione. (16) Vedi KOHEN, Internationalisme et mondialisation, in Le droit saisi par la mondialisation (a cura di Morand), Bruxelles, 2001, pp. 111-112 e 118. (17) ZICCARDI CAPALDO, Diritto globale. Il nuovo diritto internazionale, Milano, 2010, pp. 5 e 151. (18) In questo senso: KOHEN, Internationalisme et mondialisation, cit., p. 121; SALEM, Le rôle de l’OCDE dans la mondialisation de l’économie. Aspects juridiques, in La mondialisation du droit (a cura di Kessedjan & Loquin), Paris, 2000, p. 331; ZICCARDI CAPALDO, Diritto globale, cit., p. 27 ss. (19) IRIYE, Global Community, The Role of International Organizations in the Making of the Contemporary World, Berkeley/Los Angeles, 2004. 10 SULLE PRETESE NOVITÀ fondamentale nella costruzione delle relazioni internazionali del mondo contemporaneo. È nello straordinario aumento del numero di queste organizzazioni a partire dal 1945, ma soprattutto dagli ultimi anni del Novecento, che andrebbero ricercati i caratteri di un « new internationalism » (20), finalizzato alla riunificazione del mondo (21). Le organizzazioni a livello mondiale, in definitiva, concorrerebbero in maniera determinante a promuovere una vera e propria « rivoluzione » nelle relazioni internazionali, orientando finalmente il mondo « into a civilized community » (22). Ignorato dalla maggior parte degli studiosi della mondializzazione del diritto, il tema del regionalismo è ad ogni modo evocato in un certo numero di scritti dedicati a questo fenomeno ed aperti alla tradizionale questione del rapporto fra universalismo e regionalismo (23). Numerosi gli interrogativi sollevati, e non sempre univoche le risposte formulate al riguardo. Alla tesi secondo cui la « régionalisation » sarebbe une « défense contre la mondialisation » si accompagna quella in base alla quale la regionalizzazione sarebbe da vedere piuttosto come « un relais de la mondialisation » (24), « une étape de la mondialisation » (25). Una regionalizzazione, cioè, che, lungi dall’entrare in conflitto con la mondializzazione, sarebbe compatibile, complementare rispetto a quest’ultima (26), creando quindi le condizioni per una costante evoluzione della mondializzazione stessa (27). 4. Diversamente orientata, ma parimenti scarsamente interessata al regionalismo, appare la dottrina che, sempre a partire dalla fine del secolo scorso, si è lungamente soffermata sul fenomeno della « frammentazione » del diritto internazionale, che dalla situazione attuale potrebbe essere favorita. Pur non trattandosi, come avremo cura di sottolineare nel prosieguo (28), di un fenomeno del tutto nuovo, è infatti innegabile che, nelle indagini degli ultimi vent’anni, alla questione è (20) ID., op. cit., p. 37 (21) ID., op. cit., p. 41. (22) ID., op. cit., spec. pp. 193 e 202. (23) Sugli sviluppi della « régionalisation », particolarmente evidenti nel campo dell’economia, vedi DUTHEIL DE LA ROCHÈRE, Mondialisation et régionalisation, in La mondialisation du droit, cit., pp. 436-437. (24) Così LEBEN, Discussion, ivi, p. 456. (25) LOQUIN, ibidem. (26) COSNARD e KESSEDJAN, Discussion, ivi, pp. 458-459. (27) RUIZ-FABRI, Discussion, ivi, p. 459. Nel senso che la sperimentazione condotta a livello regionale può favorire l’adozione di misure analoghe a livello universale vedi DUTHEIL DE LA ROCHÈRE, Mondialisation et régionalisation, cit., p. 445. (28) Infra, par. 9. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 11 stata attribuita dalla dottrina un particolare rilievo (29): il rischio di una frammentazione diverrebbe reale in presenza di « legal subsystems », di « international regimes » che disciplinano settori determinati, quali il diritto internazionale dell’ambiente, il diritto internazionale economico e il diritto del mare (30). La tesi in discorso, secondo la quale la causa dell’attuale frammentazione dell’ordinamento internazionale andrebbe ricercata nello sviluppo degli « international material regimes » non è accettata da quegli studiosi che la riconducono alla « molteplicità » di organi giudiziari internazionali, istituiti a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, a livello sia mondiale che regionale. Il termine « frammentazione » è stato espressamente richiamato per evidenziare i rischi che possono derivare dalle pronunce di differenti tribunali (31), e gli stessi giudici della Corte internazionale di giustizia hanno ritenuto « regrettable » il fatto che su una specifica questione giudici differenti possano assumere posizioni divergenti (32). Il fenomeno della frammentazione viene evocato anche da quella parte della dottrina che, nel soffermarsi sugli effetti che la globalizzazione esercita sulla società internazionale, tiene a puntualizzare che, simultaneamente, si svilupperebbero dei processi di frammentazione, da spiegare come « una risposta dialettica alla globalizzazione » (33). Ci (29) Sui « risques que pose la fragmentation du droit international » si è lungamente soffermata la stessa Commissione del diritto internazionale, sviluppando un programma di lavoro a lungo termine avviato nel 2000, nella sua 52ª sessione (vedi al riguardo il Rapport de la Commission du droit international, cinquante-septième session, 2005, par. 439 ss.). La stessa Commissione, nel suo rapporto sui lavori della 58ª sessione (2006), ha posto l’accento (par. 247) sul fatto che la frammentazione dovuta all’« apparition de nouveaux types particuliers de règles, dits “régimes autonomes”...pose des problèmes de cohérence en droit international ». (30) CASANOVAS, Unity and Pluralism, cit., p. 1; SACERDOTI, La disciplina del commercio internazionale, cit., p. 68 ss. Vedi altresì il Rapport de la Commission du droit international, 2006, citato alla precedente nota 29. (31) È interessante notare come sia stata considerata un precedente che « met en jeu l’homogénéité du droit international » la sentenza arbitrale del 24 maggio 2005 (Belgio c. Paesi Bassi) relativa al caso Rhin de Fer: in proposito vedi BARRAL, L’affaire du chemin de fer du « Rhin de fer », entre fragmentation et unité du droit international, in La circulation des concepts juridiques: le droit international de l’environnement entre mondialisation et fragmentation (a cura di Ruiz-Fabri e Gradoni), Paris, 2009, p. 356. Sottolinea come differenti conclusioni di una varietà di tribunali possano « damage the coherence » dell’ordinamento internazionale CHARNEY, Is International Law Threatened by Multiple International Tribunals, in Recueil des cours, vol. 271, 1998, p. 134. (32) Così il giudice GUILLAUME, The Future of International Judicial Institutions, Int. and Comparative Law Quarterly, 1995, p. 864. (33) Vedi DEL VECCHIO, Giurisdizione internazionale e globalizzazione. I tribunali internazionali tra globalizzazione e frammentazione, Milano, 2003, p. 21; ID., I tribunali internazionali tra globalizzazione e localismi, Bari, 2009, p. 25. 12 SULLE PRETESE NOVITÀ si troverebbe allora davanti a due « opposti dinamismi », volti, da un lato, alla « costituzione di nuove forme di aggregazione e di integrazione nella vita sociale ed economica a livello mondiale e regionale » e, dall’altro, « verso forme di parcellizzazione e di frammentazione degli assetti di governo » (34). La frammentazione, comunque, non sempre è vista come un prodotto del regionalismo. Vi sono autori secondo i quali, a differenza della « frammentazione nazionalista », il regionalismo presenterebbe un certo grado di multilateralismo, favorendo la formazione di « blocchi regionali », che possono favorire e al tempo stesso intralciare il processo di globalizzazione (35). 5. Conviene, da ultimo, richiamare un indirizzo dottrinale che, se da un lato omette di prendere espressamente posizione sul regionalismo internazionale, formula d’altro lato principi che sui caratteri e l’ampiezza di tale fenomeno non manca di esercitare un’influenza particolarmente profonda. Ancora una volta, è sulle trasformazioni recentemente prodottesi in seno alla Comunità internazionale che viene posto l’accento. Il « nuovo ordine internazionale », che nell’ultimo periodo si sarebbe progressivamente affermato (36) per effetto di siffatte trasformazioni, si concreterebbe in un ordinamento contrassegnato da una crescente interdipendenza fra i suoi soggetti ed ispirato a principi di natura solidaristica, finalizzati al perseguimento del bene comune dell’umanità. Si tratterebbe di principi fondamentali, assoluti, inderogabili, prevalenti su qualsiasi altra norma internazionale che con gli stessi dovesse risultare in contrasto (37). La prevalenza di detti principi equivarrebbe alla « nullità » delle altre norme, in conformità alla regola codificata negli (34) Così DEL VECCHIO, I tribunali internazionali, cit., p. 154. Secondo PANEDiritto internazionale pubblico, cit., p. 113, sarebbe comunque da escludere che la paventata frammentazione conduca a « una vera e propria disintegrazione in ordinamenti giuridici particolari », trattandosi piuttosto di un fenomeno connesso alla complessità del sistema internazionale, senza costituire « un indebolimento, ovvero un pericolo » dello stesso. (35) È questo il pensiero di CLARK, Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, cit., p. 60. (36) Sulla genesi di questa espressione vedi GLASER, Le nouvel ordre international, Paris, 1998, p. 7 ss. (37) In questo senso, vedi in particolare: CHARNEY, Universal International Law, American Journal of Int. Law, 1993, p. 529 ss.; PASTOR RIDUEJO, Le droit international à la veille du vingt-et-unième siècle: normes, faits et valeurs, in Recueil des cours, vol. 274, p. 39 ss.; IOVANE, La tutela dei valori fondamentali nel diritto internazionale, Napoli, 2000, p. 17 ss.; ZICCARDI CAPALDO, Diritto globale, cit., pp. 24-25. BIANCO, DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 13 articoli 53 e 64 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, secondo cui è nullo qualsiasi trattato che è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. Nella tesi in discorso riveste un’importanza centrale la distinzione, nell’ambito dell’ordinamento internazionale, fra norme « imperative » o « cogenti » (da ricavare dai principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite) e le norme internazionali « particolari », poste in essere cioè mediante trattati. Tutte le norme internazionali particolari risulterebbero nulle in caso di conflitto con le prime, incluse — quindi — quelle poste in essere a livello regionale. La circostanza che nessuna deroga venga prevista nei confronti di queste ultime (non sono eccettuate neppure le norme contenute negli atti istitutivi di organizzazioni regionali) autorizza a concludere in questo senso (38). 6. Gli orientamenti dottrinali succintamente esposti nei paragrafi che precedono prendono in considerazione le regole sul regionalismo e sulle organizzazioni regionali senza il più delle volte precisare a quale fase del regionalismo le varie affermazioni si riferiscano. Tenuto conto delle differenze che il fenomeno oggetto della presente indagine presenta nelle diverse fasi, si rende a questo punto opportuno procedere ad un pur sommario richiamo dell’evoluzione registratasi a partire dalla sua origine, al fine di favorire un più convincente raffronto con la fase attuale, per quanto attiene soprattutto al rapporto fra universalismo e regionalismo. Le origini del regionalismo internazionale vengono generalmente fatte risalire ai primi decenni del XIX secolo, quando nel continente americano, con la fine della dominazione coloniale, fra gli Stati che avevano conquistato l’indipendenza si prese coscienza di una « comunità d’interessi » (39), che doveva progressivamente tradursi in un complesso di regole, tradizioni, prassi, istituzioni particolari (40). Tale fenomeno doveva mettere in crisi quell’unità e universalità del diritto (38) Ritiene che il rapporto fra norme universali e norme regionali, che in linea generale « is not a hierarchical one », subisca delle eccezioni nel caso dell’art. 103 della Carta e dello jus cogens SCHINDLER, Regional International Law, cit., p. 163. (39) Su questo concetto vedi BARBERIS, Les règles spécifiques, cit., p. 225. (40) Sulla definizione di « diritto internazionale americano » vedi ancora, specie per i riferimenti bibliografici, BARBERIS, Les règles spécifiques, cit., p. 96; ID., International Law, American, in Encyclopedia of Public International Law, II, Amsterdam, 1995, p. 1179. 14 SULLE PRETESE NOVITÀ internazionale, alla cui formazione gli Stati del Vecchio Continente avevano contribuito in modo determinante (41). Considerata la specifica finalità del presente studio, esula evidentemente dal nostro campo d’indagine una puntuale ricostruzione dei caratteri del regionalismo americano, che numerosi approfonditi studi hanno in precedenza delineato (42). Interessa invece sottolineare come lo stesso si sia concretato vuoi nell’istituzione, nel corso delle Conferenze panamericane, di un’organizzazione internazionale, l’« Unione panamericana », vuoi in un complesso di regole specificamente applicabili agli Stati della regione. Mentre però l’Unione panamericana (43) annovera fra i suoi membri la generalità degli Stati del Continente americano, una importante distinzione si delinea fin dal periodo iniziale relativamente alle regole applicabili, a seconda che le stesse si indirizzino alla generalità degli Stati americani (44), ovvero unicamente alla « sub-regione » latino-americana (45). Non potrebbe quindi essere riferita al periodo iniziale del regionalismo americano, ma ad una fase successiva, la tesi secondo cui « l’expression droit international américain est effectivement vide de contenu si l’on se réfère à des normes régionales valables pour l’ensemble du territoire américain. Par contre, cette expression prend tout son sens si l’on utilise pour désigner les normes régionales latino-américaines » (46). Nel periodo iniziale del regionalismo americano, oggetto del presente paragrafo, non avrebbe senso porre il problema del rapporto fra (41) In proposito: ALVAREZ, Le droit international nouveau, Paris, 1960, pp. 69-70; GAUTRON, Le fait régional dans la société internationale, cit., p. 5. Sul concetto di un ordinamento internazionale « euro-centred » fino all’affermarsi del regionalismo americano vedi ROSENNE, The Perplexities of Modern International Law. General Course on Public International Law, in Recueil des cours, vol. 291, 2001, pp. 39-41. (42) ALVAREZ, Le droit international américain, Paris, 1910; YEPES, Les accords régionaux et le droit international, in Recueil des cours, vol. 71, 1947-II, p. 290 ss.; BARBERIS, Les règles spécifiques, cit., p. 93 ss. (43) L’Unione panamericana trae le sue origini dalle Conferenze panamericane iniziate negli anni 1889-90 a Washington; viene poi formalmente proclamata nel corso della IV Conferenza, svoltasi a Buenos Aires nel 1910. Per ulteriori dettagli si rinvia a YEPES, Les accords régionaux, cit., p. 290 ss. (l’Unione panamericana è definita da questo autore « l’accord régional le plus ancien de l’histoire »). (44) Numerose sono le convenzioni internazionali concluse nell’ambito dell’Unione panamericana: vedi AGO, Comunità internazionale universale e Comunità internazionali particolari, in Contributi allo studio dell’organizzazione internazionale, Padova, 1967, p. 33; YEPES, Les accords régionaux, cit., p. 294; ZANGHÌ, Diritto delle Organizzazioni internazionali, Torino, 2007, p. 8. (45) È limitatamente a questi paesi, infatti, che a partire dalla prima metà del XIX secolo si sono affermati gli istituti dell’uti possidetis e dell’asilo diplomatico; vedi BARBERIS, Les règles spécifiques, cit., pp. 140 ss. e 168 ss. (46) Così BARBERIS, Les règles spécifiques, cit., p. 226. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 15 universalismo e regionalismo sotto il profilo del rapporto fra organizzazioni universali e regionali. È soltanto con la creazione della Società delle Nazioni, la prima organizzazione a livello universale a competenza generale, che il tipo di relazioni intercorrente fra quest’ultima e l’Unione panamericana sarebbe stato affrontato dalla dottrina (47). Sono molte invece, anche se non del tutto convergenti, le indicazioni che possono trarsi circa il rapporto fra il diritto internazionale preesistente (ritenuto generalmente applicabile dagli Stati europei) e le norme che si sono andate via via formando nel Continente americano. Prevalente è sicuramente il convincimento che tali norme sarebbero applicabili indipendentemente dalla loro conformità (o meno) al diritto internazionale preesistente. Se ben si osserva, la stessa dottrina di Monroe (qualificata dai più come principio politico, piuttosto che come intesa regionale) (48) è indicativa della determinazione degli Stati Uniti (49) di considerare inapplicabili, nel Nuovo Continente, le regole di cui fino a quel momento gli Stati europei avevano ritenuto di potersi avvalere per intervenire militarmente nelle colonie latino-americane in lotta per l’indipendenza. Così come, del resto, gli istituti dell’uti possidetis e dell’asilo diplomatico, pur considerati delle « eccezioni » rispetto al diritto internazionale preesistente, erano comunque eccezioni che i paesi latino-americani avevano convenuto di applicare nei loro reciproci rapporti, rivendicando il loro diritto di « repousser les principes qui étaient contraires à leur développement et d’en proclamer d’autres à leur place » (50). Ciò chiarito per quanto riguarda i caratteri del diritto regionale americano sul piano normativo, conviene precisare che rispetto al piano istituzionale tali caratteri sono contrassegnati da una sostanziale continuità, riscontrabile nell’elevato numero di organizzazioni internazionali create, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, specialmente (anche se non esclusivamente) nell’area latino-americana. Si tratta di (47) Cfr. DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme dans l’organisation internationale, in Recueil des cours, vol. 53, 1935-III, p. 25. (48) In questo senso: DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 27. Cfr. MONACO, La fase attuale del regionalismo internazionale, in Contributi allo studio della organizzazione internazionale, cit., pp. 200-201. Sembra orientato a considerare detta dottrina come un atto unilaterale degli Stati Uniti, escludendo che possa dar vita ad obblighi per i Paesi latino-americani BARCIA TRELLES, La doctrine de Monroe dans son développement historique, in Recueil des cours, 1930, II, p. 459 ss. (49) Sulla condivisione del principio da parte degli altri Stati americani, le opinioni dottrinali divergono. Si veda, in vario senso: ALVAREZ, Le droit international nouveau, cit., p. 70. (50) Così ALVAREZ, Le droit international nouveau, ibidem. 16 SULLE PRETESE NOVITÀ organizzazioni che, in massima parte, sono da qualificare « sub-regionali », in quanto istituite da paesi latino-americani appartenenti ad una limitata parte di quel sub-continente (51). 7. Alla formulazione dell’art. 21 del Patto della Società delle Nazioni si pervenne nel 1919, quando già il regionalismo si era affermato nel Continente americano, giungendo fino a prevedere esplicitamente, nella Conferenza di Buenos Aires, la costituzione di un’organizzazione regionale, l’Unione panamericana (52). All’inserimento dell’art. 21 — che sancisce, come è noto, il principio della « non incompatibilità » delle intese regionali rispetto alle disposizioni del Patto — si pervenne a seguito di un emendamento presentato dagli Stati Uniti per tentare di ottenere la ratifica del Patto da parte del Senato. Per effetto di detto articolo, al principio universalista, che lo stesso Presidente Wilson aveva posto a fondamento dell’intero Patto, veniva ad affiancarsi quello regionalista, finalizzato a realizzare « l’unité du droit international dans sa diversité » (53) attraverso il riconoscimento della necessità di regole particolari, modellate sulla base di interessi comuni propri degli Stati di una determinata regione. Negli anni successivi alla sua istituzione, le tendenze regionaliste in seno alla Società delle Nazioni avrebbero fatto registrare significativi sviluppi. Da un lato, di fronte al diffuso convincimento che si trattasse in realtà, secondo il giudizio di Alvarez, di una « Société des Nations européenne » (54), e nient’affatto universale, nel Continente americano si ricorse con sempre maggiore frequenza alla codificazione del diritto internazionale americano (o latino-americano), con la conclusione di numerose convenzioni internazionali o l’adozione di atti non vincolanti contenenti regole particolari soprattutto nei settori della responsabilità degli Stati, della protezione diplomatica, del ricorso alla forza armata (55). Tendenze regionaliste dovevano manifestarsi anche in Europa. La dottrina (56) menziona una serie di intese regionali in materia di mantenimento della pace e di sicurezza, concluse dopo il 1919 fra Stati (51) Per un dettagliato elenco di tali organizzazioni vedi PENNETTA, Organizzazioni internazionali regionali, cit., pp. 856 e 870. (52) Supra, par. 6. (53) Così l’Union juridique internationale, nella risoluzione approvata alla sessione del 1926: vedi DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 12. (54) Si veda in proposito DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 17. (55) In proposito si rinvia, per ulteriori dettagli, a BARBERIS, Les règles spécifiques, cit., spec. p. 188 ss. (56) DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 56 ss. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 17 europei: la « Piccola Intesa » (Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania); l’« Unione baltica » (Germania, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Polonia); il « Patto a Quattro » (Francia, Germania, Inghilterra, Italia). Carattere regionale presentavano altresì gli accordi sulla protezione delle minoranze, conclusi alla fine del primo conflitto mondiale (57). È parimenti espressione delle tendenze regionaliste sviluppatesi in seno alla Società delle Nazioni il Trattato di Locarno, concluso nell’ottobre 1925 fra Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia (58): vi si stabilisce l’obbligo di fornire — « individualmente e collettivamente » — assistenza immediata in ambito regionale alle Parti contraenti che fossero oggetto di un attacco armato. Il punto che qui interessa evidenziare è che i paesi firmatari del Trattato convengono sulla necessità di assicurare a livello regionale « garanzie complementari » rispetto a quanto previsto dal Patto della Società delle Nazioni. Il principio posto alla base di detti accordi è che i paesi appartenenti ad una stessa regione sono i più direttamente interessati al mantenimento della pace in quella regione. Il Patto della Società delle Nazioni per quanto riguarda il mantenimento della pace non operava peraltro alcuna distinzione sulla base di un criterio regionale, stabilendo all’art. 10 che « i Membri della Società si impegnano a rispettare e a proteggere contro ogni aggressione esterna l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti i membri della Società ». 8. Sui caratteri del regionalismo internazionale quale è delineato nella Carta delle Nazioni Unite la dottrina è in prevalenza orientata ad evidenziare i seguenti aspetti: a) l’ottica dalla quale si guarda al regionalismo viene correttamente ritenuta « parziale » (59): l’art. 52, par. 1, fissa infatti il principio secondo cui gli « accordi ed organizzazioni regionali » devono essere « conformi ai fini e ai principi delle Nazioni Unite », per quanto (57) Vedi DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 53. Vedi altresì FOIS, Il principio di « non assimilazione » e la protezione delle minoranze nel diritto internazionale, in Divenire sociale e adeguamento del diritto. Studi in onore di Francesco Capotorti, cit., p. 188 ss. (riferimenti bibliografici in nota). (58) A questo riguardo vedi DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 47. Più in generale, sulle tendenze regionaliste, vedi SCHÜCKING, Le développement du Pacte de la Société des Nations, in Recueil des cours, vol. 20, 1927, spec. p. 440 ss.. (59) In questo senso: MONACO, La fase attuale del regionalismo, cit., pp. 202-204; MENZEI, Regionale Abkommen, in Wörterbuch des Völkerrechts (a cura di Strupp e Schlochauer), vol. III, Berlin, 1962, p. 91; COMBACAU, SUR, Droit international public, Paris, 2010, p. 665. 18 SULLE PRETESE NOVITÀ riguarda lo specifico settore del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; b) il rapporto fra universalismo e regionalismo è visto essenzialmente nell’ottica delle organizzazioni internazionali e del rapporto fra le stesse: l’ONU (con specifico riferimento al Consiglio di sicurezza) da un lato, e le organizzazioni regionali, dall’altro. Relativamente al mantenimento della pace ed alla soluzione pacifica delle controversie, queste ultime sono poste in un rapporto di subordinazione rispetto al Consiglio (60), che le « utilizza...per azioni coercitive sotto la sua direzione » (art. 53, par. 1), come anche « per lo sviluppo della soluzione pacifica delle controversie di carattere locale » (art. 52, par. 3). Una priorità temporale deve comunque essere riconosciuta alle organizzazioni regionali per quanto riguarda la soluzione pacifica delle controversie (61); c) la concezione « accentratrice » della Carta per quanto riguarda il rapporto fra universalismo e regionalismo si ripropone anche sul piano normativo (62). L’art. 13, par. 1, prende in considerazione « lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione » unicamente a livello mondiale, attribuendo all’Assemblea generale la funzione di intraprendere studi e di adottare raccomandazioni al riguardo; d) l’art. 103 della Carta, d’altra parte, ribadisce una simile concezione, stabilendo che « gli obblighi derivanti dalla presente Carta » prevarranno sugli obblighi assunti dagli Stati membri « in base a qualsiasi altro accordo internazionale » (63). Trattasi di un principio che trova ampie conferme negli statuti di numerose organizzazioni regionali risalenti allo stesso periodo post-bellico, ispirati alla regola della prevalenza dei principi della Carta. Possono citarsi al riguardo: il Trattato di Bruxelles (1948), preambolo e articoli 4 e 5; la Carta di Bogotà, istitutiva dell’Organizzazione degli Stati Americani (1948), art. 131; la Convenzione di cooperazione economica, istitutiva dell’Organizzazione (60) Vedi MONACO, La fase attuale del regionalismo, cit., pp. 204-205; CONFORTI, Universalismo e regionalismo nel cinquantenario della Carta di San Francisco, in Il regionalismo internazionale mediterraneo nel 50º anniversario delle Nazioni Unite (Atti del Convegno di Cagliari del 6/7 ottobre 1995), Cagliari, 1997, p. 23; MARCHISIO, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2000, p. 283. (61) Vedi MARCHISIO, op. cit., pp. 288-289. (62) In proposito vedi CONFORTI, Universalismo e regionalismo, cit., p. 24. Secondo AGO, Considerazioni su alcuni sviluppi dell’organizzazione internazionale, in Contributi allo studio dell’organizzazione internazionale, cit., p. 67 s., la funzione normativa delle organizzazioni internazionali consiste essenzialmente (con le dovute eccezioni, va oggi precisato, individuabili soprattutto nel diritto dell’Unione Europea) nella promozione della stipulazione di convenzioni internazionali, a livello sia universale che regionale. (63) Corsivo aggiunto. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 19 europea di cooperazione economica (1948), preambolo; il Trattato del Nord Atlantico (1949), preambolo e art. 1; il Trattato istitutivo della CEE (1957), preambolo. Rispetto ai principi ricavabili dal testo della Carta, significativi cambiamenti si sono prodotti per effetto di una prassi progressivamente delineatasi ed affermatasi negli anni della guerra fredda. La paralisi che ha a lungo bloccato il Consiglio di sicurezza (all’incirca, dal 1946 al 1989), ha come è noto impedito il funzionamento del sistema di sicurezza collettiva su cui la Carta è fondata (64). La già ricordata norma dell’art. 53, par. 1, secondo cui « nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base a accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza », non ha trovato applicazione in una serie di casi, relativi ad azioni coercitive che sono state intraprese esclusivamente sulla base di decisioni adottate da organizzazioni regionali (65). Non sarebbe corretto, quindi, parlare di « subordinazione » di queste ultime nei confronti del Consiglio (66). L’autonomia delle organizzazioni regionali per quanto riguarda le azioni coercitive è comunque soltanto un aspetto di un fenomeno più ampio, che negli anni della guerra fredda ha segnato profondamente il rapporto fra universalismo e regionalismo. Come a suo tempo abbiamo già tenuto a sottolineare (67), in questa fase si registra la costituzione e lo sviluppo di una serie di ordinamenti internazionali particolari contrassegnati da principi fondamentali propri e da specifici procedimenti di produzione delle norme giuridiche e di garanzia delle stesse; principi e procedimenti che, mentre da un lato assicurano la coerenza di un sistema regionale, dall’altro risultano sovente in contrasto con quei (64) A tale riguardo si fa rinvio a CONFORTI, Le Nazioni Unite7, Padova, 2005, pp. 239-240. Vedi altresì YOUNES, Universalismo e regionalismo nella prassi delle Nazioni Unite, in Il regionalismo internazionale mediterraneo, cit., p. 32; SCHINDLER, Regional International Law, cit., p. 162. Nel rapporto « Renewing the United Nations: A Programme for Reform », trasmesso nel luglio 1997 dal Segretario generale Kofi Annan all’Assemblea generale, si sottolineava espressamente che « the cold war and its concomitant system of bloc politics made it extremely difficult and in some cases impossible for the Organization to implement the Charter conceptions of its many roles, especially in the area of peace and security » (vedi il testo in Reforming the United Nations. The Quiet Revolution (a cura di Müller), The Hague/London/Boston, 2001, p. 367. (65) Per i precedenti della prassi internazionale in questo senso vedi CONFORTI, Le Nazioni Unite, cit., p. 239 ss. (66) Più in generale, per un giudizio critico nei confronti di quei « fenomeni regionali che, invece di cooperare fra loro anche al fine che siano raggiunti gli scopi generali della comunità internazionale, vengono ad ostacolare il perseguimento di questi ultimi » vedi MONACO, Diritto internazionale pubblico, Torino, 1971, p. 27. (67) Nel nostro studio su Universalismo e regionalismo nelle organizzazioni internazionali, cit., pp. 162-164. 20 SULLE PRETESE NOVITÀ principi e procedimenti che caratterizzano gli ordinamenti in vigore a livello universale (68). 9. Il sintetico quadro in precedenza delineato della dottrina che si è occupata degli sviluppi del regionalismo internazionale nelle sue diverse fasi permette a questo punto di procedere ad una più accurata valutazione delle correnti di pensiero che, in epoca recente, hanno inteso evidenziare i caratteri di novità che, rispetto al passato, il regionalismo contemporaneo presenterebbe. Benché, come in precedenza accennato, la tesi che parla esplicitamente di « nuovo » regionalismo non sia certo l’unica a ravvisare simili caratteri (69), è da questa che ci proponiamo di avviare le nostre considerazioni critiche. In proposito si ricorderà come i sostenitori del « nuovo » regionalismo, mentre da un lato tendono ad ignorare il regionalismo nel suo insieme, si soffermano quasi esclusivamente sul regionalismo economico, presentato quale aspetto che caratterizzerebbe l’intero fenomeno negli anni successivi alla guerra fredda. Insistono quindi, come si è in precedenza ricordato (70), sul rilevante aumento del numero delle sole organizzazioni economiche e sul proliferare di accordi regionali limitati a questo settore, nel quadro di un crescente « interregionalismo » (71). Nella loro azione, le organizzazioni regionali economiche si ispirerebbero al principio di una costante collaborazione con gli enti operanti a livello universale, ed in particolare con l’Organizzazione mondiale del commercio (72). A nostro giudizio, la tendenza a circoscrivere oggi il fenomeno del regionalismo al campo economico non può essere condivisa. Anche in tempi recenti, invero, l’aumento delle organizzazioni regionali ha riguardato svariati settori (73), con numerose organizzazioni regionali (68) Secondo CRAWFORD, Universalism and Regionalism from the Perspective of the Work of the International Law Commission, in International Law in the Eve of the Twenty-first Century, New York, 1997, p. 101, « the underlying diversity of nations and the tendency of regionalism even in respect of areas, such as human rights, where universal values would appear to be at stake, raises significant tensions for international law and may even call in question its claim for universality ». (69) Supra, par. 2 ss. (70) Supra, par. 1. (71) Sull’interregionalismo vedi autori citati infra, nota 92. (72) Una collaborazione, peraltro, che incontra taluni limiti: sulla « difficile coesistenza » fra il diritto dell’Unione Europea e il sistema GATT/OMC vedi CANTONI, L’Organizzazione mondiale del commercio: profili istituzionali, in Neoliberismo internazionale e Global Economic Governance (a cura di Comba), Torino, 2008, p. 101. (73) Si vedano DOMINICÉ, Coordination between Universal and Regional Organizations, e SCHERMERS, Final Remarks, in Proliferation in Internationals Organizations. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 21 chiamate anche oggi a svolgere un ruolo di particolare rilievo (74). Quanto ai rapporti di collaborazione fra organizzazioni universali e regionali (che non si risolvono, in ogni caso, in una subordinazione del livello regionale a quello mondiale), è assai dubbio che gli stessi intercorrano unicamente fra enti di carattere economico (75). La prassi delineatasi nell’ambito delle Nazioni Unite durante la guerra fredda (76) ha profondamente innovato rispetto al quadro risultante da un’interpretazione letterale degli articoli 52 e 53 dello Statuto, fino a mettere in discussione — sia pure in casi determinati — l’esistenza di un rapporto di effettiva subordinazione degli enti regionali rispetto alle Nazioni Unite (77). Passando a valutare la già ricordata (78) corrente di pensiero che pone al centro delle sue riflessioni la definizione del rapporto che dovrebbe intercorrere fra i principi (o valori) fondamentali e le norme internazionali ordinarie, si è rilevato come la stessa sia incentrata sull’affermazione di una subordinazione delle seconde rispetto alle prime; in caso di conflitto, le norme internazionali ordinarie andrebbero considerate nulle. Quel che interessa in questa sede sottolineare è che la tesi in questione, delineatasi con particolare chiarezza dopo la fine della guerra fredda, non porrebbe in ogni caso in termini nuovi il rapporto fra universalismo e regionalismo. È vero che durante la guerra fredda tali valori non si erano ancora pienamente affermati, e — soprattutto — che il livello regionale si era sviluppato in piena autonomia, giungendo a mettere in discussione il principio della superiorità Legal Issues (a cura di Blokker e Schermers), The Hague/London/Boston, 2001, pp. 65 ss. e 549 ss. (74) PENNETTA, Organizzazioni internazionali regionali, cit., p. 852, sottolinea l’importanza delle organizzazioni regionali di carattere politico-giuridico, con particolare riferimento al Consiglio d’Europa. Rigetta l’idea di un’economia, in via di globalizzazione, « totalmente autonoma rispetto ad ogni forma di politica e di controllo strutturale » CLARK, Globalizzazione e frammentazione, cit., p. 326. (75) Significativi riconoscimenti del ruolo delle organizzazioni regionali anche per quanto attiene al mantenimento della pace e della sicurezza si possono riscontrare in risoluzioni recentemente adottate dal Consiglio di sicurezza. Nella risoluzione 1631 (2005), adottata dal Consiglio il 17 ottobre 2005, se da un lato si ribadisce che l’azione delle organizzazioni regionali deve essere « consistent » con il capitolo VIII della Carta, dall’altro si sottolinea la « growing contribution » di tali organizzazioni in questo campo, manifestando al tempo stesso la determinazione di « take appropriate steps to the further development of cooperation » con le Nazioni Unite. (76) Supra, par. 8. (77) In proposito si rinvia, anche per riferimenti bibliografici, a FOIS, Il nuovo ordine internazionale, il regionalismo e la soluzione pacifica delle controversie, in Studi di diritto internazionale in onore di Gaetano Arangio-Ruiz, II, Napoli, 2004, spec. p. 1007 ss. e p. 1017. (78) Supra, par. 5. 22 SULLE PRETESE NOVITÀ della Carta delle Nazioni Unite, proclamato dalla stessa Carta ed accolto da numerosi trattati istitutivi di organizzazioni regionali, conclusi nel periodo immediatamente successivo alla sua entrata in vigore (79). Ciò non autorizza però a ritenere che un cambiamento si sia effettivamente prodotto, e che ci si trovi quindi in presenza di una situazione del tutto nuova. Conviene in proposito tener presente che i valori fondamentali non si sono affermati esclusivamente sulla base di una prassi formatasi a livello mondiale. Molti sistemi regionali sono da lunga data ispirati a questi valori, ed una simile circostanza ha anzi contribuito alla progressiva affermazione dei valori stessi a livello mondiale. Mancano d’altra parte, anche nel periodo successivo alla fine della guerra fredda, casi concreti di conflitti fra valori universali e norme regionali, risolti con decisioni giudiziarie che abbiano dichiarato la nullità delle norme regionali in contrasto con tali valori (80). Un ulteriore carattere di novità proprio del regionalismo sviluppatosi nell’ultimo ventennio potrebbe essere ricondotto alla corrente di pensiero che mette l’accento sulla « frammentazione » attuale del diritto internazionale. Come si è visto, sono molti gli studiosi che sottolineano l’esistenza di questo fenomeno, pur con differenze anche sensibili in merito alle cause ed alla valutazione dello stesso. Malgrado il particolare interesse manifestato negli anni recenti dalla dottrina nei confronti della frammentazione, è da escludere che della stessa si possa oggi parlare in termini di novità assoluta (81). Da molto tempo ormai, nel corso del Novecento, la dottrina ha evidenziato l’esistenza di questo fenomeno, anche se con toni meno allarmistici di quelli cui la dottrina odierna con una certa frequenza ricorre (82). Ritroviamo questo termine, in particolare, negli studi dedicati al regionalismo, tanto all’epoca della Società delle Nazioni (nel contesto di un dibattito dottrinale che ondeggia, per così dire, fra una netta preferenza per l’unità e l’universalità del diritto internazionale e una appassionata rivendicazione delle ragioni a favore di ordinamenti particolari, meglio aderenti alle specificità che determinate regioni presentano sul piano culturale, politico, (79) Vedi supra, par. 8. (80) Nel suo rapporto del 2005 sui lavori della 57ª sessione, in precedenza citato, la Commissione del diritto internazionale sottolineava l’intendimento (par. 489) di « ne pas chercher à dresser le catalogue des normes de jus cogens », nell’attesa che « la pratique des Etats et la jurisprudence des tribunaux internationaux mettent au point la pleine teneur de ces règles ». (81) In questo senso vedi il citato Rapport de la Commission du droit international (2006), paragrafi 246 e 248. (82) Sottolinea come il fenomeno della frammentazione si sia manifestato nel corso dell’intero Novecento CLARK, Globalizzazione e frammentazione, cit., p. 63 ss. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 23 geografico, economico (83)) quanto negli anni della guerra fredda (84). Indubbiamente, sul fenomeno della frammentazione potrebbe influire il costituirsi degli « international regimes », un istituto i cui tratti essenziali sono stati delineati nel precedente par. 2. Va tuttavia tenuto presente che non sempre l’ipotizzata frammentazione consiste nel formarsi di sistemi regionali che si differenziano, in modo più o meno netto, rispetto alle regole esistenti a livello universale: la dottrina ha infatti sottolineato come una frammentazione possa constatarsi anche nell’ambito delle norme universali, nel caso ad esempio di organizzazioni universali i cui statuti si ispirino a principi differenti e prevedano l’istituzione di organi giudiziari propri (85). Quanto alla frammentazione dovuta al proliferare di sistemi regionali, la stessa non potrebbe comunque essere considerata un fenomeno del tutto nuovo. È da molto tempo, infatti, che si sviluppano in ambito regionale (soprattutto in Europa e in America Latina) ordinamenti particolari, dotati di propri organi giudiziari e caratterizzati da principi divergenti rispetto a quelli applicabili nell’ambito dell’intera Comunità internazionale (86). Il tema delle novità che si cerca di cogliere nel regionalismo contemporaneo suggerisce, infine, alcune considerazioni in merito alla tesi (87) che si è soffermata sul fenomeno della mondializzazione (o globalizzazione) del diritto. Da una pur sommaria analisi della dottrina, appare chiaro che la questione su cui si pone l’accento non è più quella di un « nuovo regionalismo » che sarebbe succeduto a quello tradizionale. La posizione della maggioranza degli studiosi che si sono occupati del fenomeno è, a ben guardare, ben più radicale: con la mondializzazione, la novità sarebbe da cogliere non già nei nuovi caratteri del regionalismo, ma più esattamente nell’inarrestabile declino, nel tramonto di tale fenomeno. Del regionalismo, in definitiva, non avrebbe più senso continuare ad occuparsi. Anche quegli studiosi della mondializzazione che fanno riferimento al regionalismo, finiscono del resto (83) Il rischio che « groupements distincts d’Etats », retti « par des règles qui leur sont propres », potessero « fractionner l’unité du droit international, essentiellement universel » veniva evocato da DE ORUE, ARREGUI, Le régionalisme, cit., p. 17. (84) Secondo GOLSONG, Le développement du droit international régional, in Régionalisme et universalisme, cit., p. 223, da un ordinamento internazionale sempre più basato su regole pattizie potrebbe derivare « une fragmentation du droit international qui engendrerait nécessairement une multitude d’engagements internationaux qui ne se trouveraient liés par aucun système hiérarchique de normes ». (85) In proposito vedi CASANOVAS, Unity and Pluralism, cit., p. 246 ss. (86) In proposito si rinvia a FOIS, Universalismo e regionalismo, cit., p. 161 ss. (87) Supra, par. 3. 24 SULLE PRETESE NOVITÀ per ritenerlo come un fenomeno passeggero: una mera « tappa » della mondializzazione, come in precedenza (88) ricordato. A giudizio di chi scrive, considerare il regionalismo alla stregua di un fenomeno ormai tramontato è una posizione che è lungi dal convincere. Sull’attualità del regionalismo come fenomeno che continua a caratterizzare l’ordinamento internazionale, sussiste infatti, come in precedenza rilevato, un’ampia convergenza di vedute (89). Oltre al persistente fenomeno di una diffusa proliferazione delle organizzazioni regionali, è in atto un elevato livello di regionalizzazione del diritto internazionale, che continua ad affiancare i processi di codificazione che si sviluppano a livello mondiale. Oggi come ieri, le norme particolari poste in essere nell’ambito delle organizzazioni regionali coesistono con quelle di applicazione a livello universale (90). 10. Le critiche appena mosse alle tesi che ravvisano (o lasciano intravedere) nel regionalismo contemporaneo significativi elementi di novità potrebbero alimentare il convincimento che il rapporto con le precedenti fasi del regionalismo sia da vedere piuttosto nel senso di una sostanziale continuità. Che elementi di continuità effettivamente sussistano, e che siano rilevanti, nessuno pensa certo di contestarlo. Da quando, all’inizio del secolo scorso, la IV Conferenza panamericana di Buenos Aires del 1910 decise di istituzionalizzare l’Unione panamericana (91), il regionalismo internazionale si è sviluppato, con ritmi più o meno intensi, su due piani strettamente connessi: il piano istituzionale, con il proliferare di organizzazioni regionali chiamate a svolgere le azioni previste dall’atto istitutivo o fondate sulla prassi (92); quello normativo, con la produ(88) Supra, par. 3. (89) Dall’esame dei più recenti scritti dedicati al regionalismo, richiamati nel presente studio a partire dal par. 1, emerge invero la prevalente tendenza a sottolineare le novità di un fenomeno in continuo sviluppo, e non certo il declino dello stesso. (90) Sulla « regionalizzazione » del diritto internazionale, e in particolare sull’apporto che quest’ultimo può dare allo sviluppo del diritto internazionale a livello mondiale vedi, per la precedente fase del regionalismo, GOLSONG, Le développement du droit régional, cit., p. 222 ss. Sostanzialmente nello stesso senso, per quel che concerne il regionalismo contemporaneo, vedi PANEBIANCO, Diritto internazionale, cit., p. 128. (91) Supra, par. 6. Vedi altresì YEPES, Les accords régionaux, cit., p. 290 ss. (92) È sul piano istituzionale che potrebbe forse essere individuata una novità — quella dell’interregionalismo — da mettere in relazione, per l’appunto, con il fenomeno della proliferazione delle organizzazioni internazionali (in questo senso vedi PANEBIANCO, Diritto internazionale, cit., p. 125; PENNETTA, Organizzazioni internazionali regionali, cit., p. 894). Sicuramente nuova, per le sue dimensioni, è la rete intessuta da questi rapporti, più numerosi ed intensi nel caso delle organizzazioni regionali (i cd. rapporti « orizzontali ») rispetto a quelli che si stabiliscono fra organizzazioni regionali DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 25 zione di norme internazionali a livello regionale, norme non sempre collegate all’esistenza, e al funzionamento, di una data organizzazione regionale. Si tratta di una tendenza costante, che caratterizza l’evoluzione dell’intero ordinamento internazionale per tutto il corso del Novecento. Ciò precisato, è bene chiarire subito che le critiche mosse alle asserite novità del regionalismo contemporaneo non sono di ostacolo alla ricerca di altri elementi, suscettibili di differenziarlo rispetto al periodo precedente, Tali elementi possono essere agevolmente individuati, a condizione che la ricerca venga concentrata sugli attuali caratteri dell’universalismo, e non — come invece la maggior parte della dottrina sembra ritenere — su quelli del regionalismo. Occorre, in altri termini, stabilire se e quanto la « cornice universale » abbia assunto oggi una fisionomia diversa, accertando quindi in quale misura i cambiamenti eventualmente constatati su questo piano finiscano per riflettersi sul livello regionale (93). La nostra opinione è che siffatti cambiamenti si siano realmente prodotti, in proporzioni di particolare rilievo ove si metta a raffronto il quadro attuale con quello esistente nel periodo 1946-1989. Come si è accennato, infatti, negli anni della guerra fredda si è assistito, sul piano istituzionale, alla progressiva paralisi del sistema di sicurezza collettiva imperniato secondo la Carta sul Consiglio di sicurezza. Una paralisi alla quale si è accompagnato il progressivo rafforzamento delle organizzazioni regionali operanti sul piano politico-militare, che da un lato hanno sviluppato azioni in modo del tutto autonomo, dall’altro, hanno finito per indebolire ulteriormente il sistema delle Nazioni Unite. Quanto al piano normativo, la situazione si presenta sicuramente più complessa. Da un lato, è innegabile che proprio fino al 1989, grazie e organizzazioni universali (i cd. rapporti « verticali »). Per ampi riferimenti al riguardo vedi PENNETTA, ivi, p. 895 ss.. Sulla collaborazione fra Nazioni Unite e organizzazioni regionali vedi VILLANI, Il ruolo delle organizzazioni regionali per il mantenimento della pace nel sistema dell’ONU, in Divenire sociale e adeguamento del diritto, cit., p. 621 ss. Si tratta, ad ogni modo, di una novità di carattere essenzialmente quantitativo. Se si considera la particolare importanza rivestita dai rapporti dell’Unione Europea con altre organizzazioni regionali (PENNETTA, op. loc. cit., p. 897, considera « un modello » la politica dell’Unione al riguardo), non si può invero fare a meno di constatare che rapporti di questo tipo venivano intrattenuti in anni lontani dall’allora Comunità economica europea, il cui Trattato istitutivo (firmato a Roma il 25 marzo 1957) dedicava a questa materia numerose disposizioni (vedi gli articoli 229, 230, 231 e 238). (93) La tesi, alquanto diffusa, che vede nel recente aumento delle organizzazioni regionali, specie economiche, e nell’azione dalle stesse svolta, una manifestazione della volontà di « lutter contre la mondialisation » (così GLASER, Le nouvel ordre international, cit., p. 18) può essere vista in questa luce: il fatto nuovo, cioè, è la globalizzazione, mentre il regionalismo altro non sarebbe che una reazione — da alcuni giudicata temporanea — alla globalizzazione. 26 SULLE PRETESE NOVITÀ anche alla preziosa opera della Commissione del diritto internazionale, un elevato numero di convenzioni di codificazione siano state aperte alla firma nell’ambito delle Nazioni Unite (94). Dall’altro lato, tuttavia, molte di queste convenzioni non sono entrate in vigore o hanno fatto registrare un numero piuttosto limitato di parti, mentre le preesistenti norme consuetudinarie sono cadute in desuetudine, specie per l’opposizione degli Stati di nuova formazione. Considerata anche la continua crescita, nel periodo in discorso, degli enti dotati di soggettività internazionale (Stati ed organizzazioni), non appare adeguato alle esigenze attuali il quadro normativo in vigore a livello mondiale. Non certo tale, in ogni caso, da condizionare in misura sensibile quella codificazione del diritto internazionale regionale che nello stesso periodo ha fatto registrare un notevole sviluppo (95). Ben diverso, a ben guardare, è il quadro che si prospetta ove i caratteri dell’universalismo nel periodo attuale vengano posti a raffronto con quelli che detto fenomeno ha presentato nella precedente fase degli anni della guerra fredda. Come si accennava, infatti, mentre in quegli anni la cornice universale risultava, per così dire, alquanto sfumata (96), attualmente tale cornice appare notevolmente rafforzata, creando quindi le condizioni per un differente rapporto fra universalismo e regionalismo. In particolare, per quanto riguarda il piano istituzionale, va ricordato il progressivo rafforzamento delle organizzazioni universali: in materia di mantenimento della pace, con il ruolo sempre più incisivo svolto dal Consiglio di sicurezza in seno alle Nazioni Unite; nel settore economico, con la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio e la funzione di coordinamento ad essa conferita in tema di liberalizzazione degli scambi internazionali (97). Fondamentale, ai fini della ricostituzione di una ben definita cornice universale, è risultata l’azione degli Stati, che anche all’interno delle relative organizzazioni regionali di appartenenza hanno notevolmente contribuito al delinearsi di questa nuova situazione. Il clima di maggiore collaborazione fra gli (94) Sulla tendenza della Commissione, in conformità al suo Statuto ed al suo mandato, a lavorare « entirely on the assumption of the universalism », trascurando invece i sistemi e i valori regionali, vedi CRAWFORD, Universalism and Regionalism, cit., pp. 103-113. (95) Si veda al riguardo: GAUTRON, Le fait régional, cit., p. 32 ss. (96) Cfr. VIRALLY, Les relations entre organisations, cit., p. 148. (97) Sul « buon funzionamento dell’OMC per assicurare il rispetto delle regole concordate » vedi SACERDOTI, Il sistema di soluzione delle controversie dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a dieci anni dalla sua istituzione, Comunità int., 2005, p. 435 ss. DEL REGIONALISMO INTERNAZIONALE 27 enti operanti ai due diversi livelli (98) è anch’esso da porre in relazione con le posizioni assunte dagli Stati membri in seno a tali enti, posizioni che hanno di regola favorito decisioni condivise, la cui adozione a livello mondiale è stata spesso favorita dal coinvolgimento, anche ai fini della loro attuazione, delle organizzazioni regionali (99). Per quanto riguarda il piano normativo, se da un lato si rileva un certo rallentamento nel processo di formazione di nuove convenzioni di codificazione (100), va d’altro lato constatato che il quadro complessivo della normativa vigente a livello universale ha comunque compiuto sensibili progressi, tenuto conto sia delle ulteriori adesioni alle convenzioni di codificazione aperte alla firma in epoca precedente, sia del passaggio dallo stadio di soft law a quello di diritto giuridicamente vincolante di molte norme che inizialmente erano oggetto di mere dichiarazioni e di altri atti non vincolanti. Il settore dell’ambiente è particolarmente indicativo a questo riguardo: nelle cosiddette « convenzioni globali », concluse ed entrate in vigore, in massima parte, nell’ultimo decennio del secolo scorso, sono codificati principi e regole che, in precedenza, figuravano unicamente in atti non vincolanti (101). Le considerazioni che precedono permettono, a nostro giudizio, di concludere nel senso che è a livello universale che si sono prodotti, nell’ultimo ventennio, i cambiamenti di rilievo maggiore: la cornice universale si è rafforzata, con un crescente numero di norme, in prevalenza di natura pattizia (102), generalmente accettate; il principio (98) Sul contributo di un’organizzazione economica regionale come l’OCSE al fenomeno della mondializzazione dell’economia vedi SALEM, Du rôle de l’OCDE dans la mondialisation de l’économie, cit., p. 332 ss. (99) Significative indicazioni al riguardo possono essere tratte, di recente, dalla nota risoluzione del Consiglio di sicurezza 1973 (2011), del 17 marzo 2011, riguardante la Libia: dopo aver richiamato la posizione della Lega degli Stati Arabi, dell’Unione Africana e del Segretario generale dell’Organizzazione della Conferenza islamica, il Consiglio ha autorizzato gli Stati membri ad intervenire anche « attraverso organizzazioni o accordi regionali », sottolineando « l’importante ruolo della Lega degli Stati Arabi nelle materie attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale nella regione ». (100) In questo senso vedi CONFORTI, Diritto internazionale8, Napoli, 2010, pp. 54-55: TREVES, Diritto internazionale. Problemi fondamentali, Milano, 2005, pp. 302304. (101) In proposito vedi MARCHISIO, Il diritto internazionale ambientale da Rio a Johannesburg, in Il diritto internazionale dell’ambiente da Rio a Johannesburg (a cura di Del Vecchio e Dal Ri Junior), Napoli, 2005, p. 189 ss.; ID., Il diritto internazionale dell’ambiente, in Diritto ambientale. Profili internazionali europei e comparati (a cura di Cordini, Fois, Marchisio), Torino, 2008, p. 20 ss. (102) « A l’heure actuelle », « l’universalité du droit international est devenue une réalité » (così WEIL, Le droit international en quête de son identité. Cours général de droit international public, in Recueil des cours, vol. 237, 1992, VI, p. 86). 28 SULLE PRETESE NOVITÀ della prevalenza di principi fondamentali dell’ordinamento ha ricevuto ulteriori, diffuse conferme; le organizzazioni universali sono state in grado di svolgere quel ruolo centrale che in precedenza alle stesse era stato invece precluso. Tenuto conto della loro rilevanza, simili riflessi hanno esercitato innegabili riflessi sul rapporto che, nel periodo precedente, si era stabilito fra universalismo e regionalismo. Si è detto che negli anni della guerra fredda tale rapporto si era concretato in uno sviluppo del regionalismo in termini di sostanziale autonomia dall’universalismo: nel senso, segnatamente, che i sistemi regionali perseguivano finalità proprie, che prescindevano da quelle perseguite a livello universale (103). Il dato oggi prevalente è per contro quello di una sostanziale convergenza fra i principi che si affermano a livello tanto universale quanto regionale, con una conseguente, sensibile riduzione dei casi di conflitto fra i due diversi sistemi (104). PAOLO FOIS (103) È questa, almeno, la tesi di ALVAREZ, secondo il quale gli Stati del Nuovo Mondo ritenevano « qu’ils avaient le droit de repousser les principes qui étaient contraires à leur développement et d’en proclamer d’autres à leur place » (Le droit international nouveau, cit., p. 70). (104) Relativamente ai settori nei quali è più marcata la convergenza, nei principi ispiratori, fra il livello universale e quello regionale, il diritto ambientale e quello dei diritti umani meritano un cenno particolare. Si vedano in questo senso, per quanto riguarda il diritto ambientale: PRIEUR, Mondialisation et droit de l’environnement, in Le droit saisi par la mondialisation, cit., p. 397 ss.; FOIS, La protezione dell’ambiente nei sistemi regionali, in Il diritto internazionale dell’ambiente dopo il Vertice di Johannesburg, cit., p. 251 ss. Quanto al settore dei diritti dell’uomo, va ricordato il pensiero di CASSESE (I diritti umani oggi, Bari, 2007, p. 70 ss.), secondo il quale può individuarsi « un nucleo ristretto di valori e criteri universalmente accettati da tutti gli Stati », con significativi « punti di convergenza », che sussistono malgrado divergenze anche profonde circa i diritti riconosciuti ed i sistemi di protezione degli stessi. L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA: IL RUOLO DI ANZILOTTI E PERASSI SOMMARIO: I. La continuità con la scienza giuridica italiana precedente e coeva. 1. Premessa. — 2. Identità della « cultura » giuridica nazionale. — 3. Il contributo degli internazionalisti all’affermazione e alla crescita della « Nazione ». — 4. Il ruolo di Santi Romano. — II. L’approccio positivista di Anzilotti. 5. La norma giuridica internazionale come volontà dichiarata ma autonoma dagli Stati. — 6. Il ruolo del diritto obiettivo nella teoria della responsabilità internazionale degli Stati. — 7. Lo svolgimento dualista dei rapporti tra ordinamenti. — III. La teoria dommatica di Perassi. 8. Il contributo di Perassi all’unità ordinatoria del diritto internazionale. — 9. La funzione auto-genetica della norma pacta sunt servanda. — 10. La prospettiva « minimalista » di Perassi e la sua influenza sulla scienza internazionalista italiana. — IV. Conclusioni. 11. Il c.d. formalismo della scuola positivista italiana. I. La continuità con la scienza giuridica italiana precedente e coeva 1. La moderna scuola positivista italiana di diritto internazionale sorge con Anzilotti (1867-1950) alla fine dell’Ottocento, in rottura con la preesistente scuola manciniana. Il segno determinante di questa discontinuità è l’impiego da parte del « fondatore » di metodi e categorie giuridiche della scuola positivista germanica, in particolare del suo (quasi) coetaneo Triepel (1868-1949). Anzilotti utilizza questo modello culturale, riplasmandolo in una chiave per molti aspetti originale che risente del percorso proprio della cultura giuridica italiana (1). Lo stesso può dirsi a proposito di Perassi, che dette un’impronta dommatica alla scuola positivista italiana di diritto internazionale. Anche in questo caso è forte l’influenza germanica, ma adattata e integrata da elementi propri della cultura giuridica nazionale (2). Versione riveduta della relazione svolta nel convegno organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università « Roma Tre » il 25 maggio 2011 sul tema: « Riflessioni sulla evoluzione del diritto internazionale in Italia a margine dei 150 anni dell’Unità Nazionale ». (1) Sulla connotazione culturale « primarily » nazionale di Anzilotti: PORTMANN, Legal Personality in International Law, Cambridge, 2010, p. 49. (2) Vedi anche infra, nota 162. Rivista di diritto internazionale - 1/2012 30 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO Entrambi, oltretutto, avessero avuto Maestri — rispettivamente Gabba (3) e Ghisleri (4) — che erano stati esponenti accademici di primo piano di quella cultura. Del resto, questa influenza « domestica » venne rinvigorita dal dialogo costante che Anzilotti e Perassi ebbero con altri studiosi della giuspubblicistica italiana. Significativamente il confronto ebbe luogo non con la componente schiettamente « pangermanica » (Vittorio Emanuele Orlando), bensì con Donato Donati e soprattutto con Santi Romano che seguivano nel diritto pubblico un percorso culturale autonomo, con ricadute rilevanti nel campo del diritto internazionale (5). Scopo di questo scritto è recuperare, proprio nella logica dei centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, i tratti distintivi della scuola positivista italiana di diritto internazionale reperendoli nella continuità e fertilità della cultura giuridica nazionale anche in presenza di forti influenze esterne. 2. La forza identitaria della dottrina italiana di diritto internazionale era apparsa chiaramente nel processo di formazione dell’unità nazionale, divenendone essa stessa interprete se non fattore costitutivo. L’atteggiamento militante dei gius-internazionalisti della metà dell’Ottocento — e non solo del più noto Mancini — si collegava alla tradizione storicistica italiana e condivideva — nello specifico — l’idea di Nazione che aveva attraversato la cultura italiana fin dal Medio Evo (Dante), per poi riproporsi nel Rinascimento (Machiavelli) e nei secoli seguenti (Vico, Cuoco) fino al Risorgimento (Mazzini e Gioberti) (6). Mancini dette — come è noto — un contributo determinante all’affermazione dell’idea di Nazione. Pur rifacendosi al pensiero illuminista (7), egli plasmò all’uopo le categorie logiche e normative di diritto (3) Va però notato che nel Comitato dell’Università di Pisa che organizzò nel 1910 le onoranze a Gabba figurano — tra gli altri — Fiore, Romano, Fusinato, Scialoja, ma non Anzilotti (cfr. Onoranze a C.F. Gabba, Pisa, 1910). (4) Cfr. MALINTOPPI, Tomaso Perassi, Costituente repubblicano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, vol. I, Firenze, 1969, p. 306 e infra, par. 8. (5) Sull’identità culturale nazionale di Santi Romano, vedi ROMANO (A.), Santi Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi e l’ordinamento giuridico, Riv. trim. dir. pubbl., 2011, p. 336 s. (6) ESPOSITO (R.), Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Torino, 2010, p. 20; più in generale BRUNI, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, 2011. (7) Per i legami di Mancini con il pensiero di Rousseau, cfr. GREPPI, Il diritto internazionale in Italia nel periodo risorgimentale e post-unitario, con particolare riferimento alla figura di Pasquale Stanislao Mancini, relazione presentata nel convegno di Roma del maggio 2010, par. 2 e nota 58, in corso di pubblicazione. Sull’idea di Nazione nel pensiero illuminista, PORTILLO VALDÉS J., Politica, in L’Illuminismo. Dizionario storico (a cura di Ferrone e Roche), Roma-Bari, 1997, p. 127. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 31 internazionale e si adoperò per la formulazione di leggi nazionali che le attestassero (8). Era un atteggiamento comune a larga parte della cultura giuridica italiana impegnata a determinare i contorni identitari del nuovo Stato, anche insistendo sull’afflato « nazionale » della codificazione unitaria del 1865 o manipolandola all’occorrenza (9). Questa dimensione ricostruttiva si ripropone alla fine dell’Ottocento quando Anzilotti avverte l’esigenza di rileggere il diritto internazionale alla luce del positivismo giuridico ma sviluppando una propria « progettualità ». Lo favoriva l’indiscussa influenza del Savigny che avvalorava la scienza giuridica come « fonte » di diritto (10). La familiarità dei giuristi italiani con il Maestro tedesco e la pandettistica germanica non spiega però da sola la straordinaria capacità manipolativa della moderna dottrina internazionalista italiana nell’utilizzare gli strumenti della tecnica giuridica, dando progressivamente luogo ad una scuola positivista del diritto che non è stata né « statalista » né « esegeta » (11). La funzione storicamente costitutiva della scienza giuridica internazionalista era favorita dal suo spiccato interesse per questioni di carattere teorico che confinavano con — e spesso sconfinavano in — tematiche generali di filosofia del diritto. Lo stesso Anzilotti, ricalcando l’esperienza di Gabba, impartì per molti anni corsi di Filosofia del diritto. Questa sensibilità gli permise di entrare in contatto con i maggiori esponenti della tradizione filosofica italiana (Bruno, Campanella, Vico), attingendone due caratteristiche ben precise. Per effetto dei loro studi, la filosofia italiana aveva assunto un’impronta in larga parte « universalistica », poco idonea a plasmare una specifica identità culturale nazionale come invece era avvenuto in altri paesi europei con Cartesio, Locke o Hegel (12). Per un altro, la filosofia italiana manifestava, soprattutto per merito di Vico, la tendenza ad essere « estroflessa ... nel mondo della vita storica e politica » (13): se ciò la sviava dal (8) (9) Infra, par. 3 e nota 24. Cfr. CAZZETTA, Codice civile e identità giuridica nazionale, Torino, 2011, p. 30 ss. (10) PASSERO, Dionisio Anzilotti e la dottrina internazionalistica tra Otto e Novecento, Milano, 2010, p. 323. (11) Infra, par. 11. (12) Cfr. SPAVENTA, Della nazionalità nella filosofia, in Opere (a cura di Gentile), vol. II, Firenze, 1972, p. 446 ss. Per ESPOSITO (R.), op. cit., p. 22 s. « è proprio l’assenza di una profonda vocazione nazionale e, fino alla metà dell’Ottocento, dello stesso Stato unitario, a conferire alla filosofia italiana qualcosa in più, o almeno di diverso, rispetto ad altre tradizioni filosofiche che hanno sperimentato un’identificazione più diretta tra territorio e nazione ». (13) ESPOSITO (R.), op. cit., p. 12. 32 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO terreno della conoscenza pura che caratterizzava alcuni filoni filosofici europei (Leibniz, Kant), rendeva la stessa incline ad un approccio verso il « reale », permettendole di leggerlo e di interpretarlo nella sua dimensione globale senza avvertire una condizione di sudditanza « valoriale ». Da qui l’inclinazione anche sociologica negli studi del diritto, di cui lo stesso Anzilotti si fece interprete sotto l’influenza di Icilio Vanni, anch’egli intriso di letture vichiane (14). Nella voce Filosofia del diritto, Anzilotti sottolinea l’esigenza di integrare l’analisi positiva delle singole regole con « l’insieme delle cose in quanto formano un tutto, di conoscere il particolare nei suoi rapporti con l’universale, di trovare nelle leggi di questo la spiegazione di quello e di cogliere così la correlazione delle molteplici parti della realtà e di tutte le scienze che la studiano » (15). E ciò anche se il « valore » di raffronto fosse costituito dalla figura dello Stato unitario e del suo diritto. La scienza giuridica internazionalista, proprio perché considera come propri i valori dell’unità nazionale, li percepisce e li modula in modo autonomo cercando di adattare il dato formale ad essi. Questo approccio ricostruttivo era indirettamente favorito dal tipo di percorso che aveva portato all’unità nazionale e da cui si evince il limitato parallelismo con l’esperienza germanica. Simili nell’esperienza unitaria italiana sono i fattori di unità linguistica ed in parte anche quelli economici che favorirono l’unificazione della Germania. Ma sul piano propriamente culturale l’unificazione tedesca apparve la storicizzazione dello « spirito della nazione » vaticinato da Hegel nella già possente organizzazione statale e militare della Prussia. La doppia vittoria della Prussia prima con l’Austria e poi con la Francia non lascia dubbi sul fatto che è essa l’artefice principale dell’unificazione tedesca attraverso un processo di annessione degli Stati minori di cui si discettarono per molto tempo i « residui » di soggettività internazionale. In Italia la situazione è diversa. Una Potenza straniera, la Francia, fu decisiva prima per la vittoria militare del Regno di Sardegna sull’Impero austro-ungarico e poi per appoggiare diplomaticamente la sua espansione in altre zone dell’Italia centrale e meridionale senza che ciò suscitasse una reale minaccia all’equilibrio europeo (16). (14) Cfr. D’AMELIO, Positivismo, storicismo, materialismo storico in Icilio Vanni, in Quaderni fiorentini, 1974-1975, nn. 3-4, p. 432. (15) In Digesto italiano, vol. XI, t. II, Torino, 1892-1898, p. 334. (16) Cfr. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Bari, 1971, p. 110. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 33 Dal punto di vista del diritto internazionale, il Regno d’Italia era la continuità del Regno di Sardegna (17) come lo era la Germania in relazione alla Prussia. Ma la tradizione universalistica della cultura filosofica italiana non favoriva la preminenza di un pensiero giuridico che, come in Germania, coltivasse il valore centrale ed assorbente dello Stato o, meglio, che condizionasse il giurista — ancorché positivista — ad una concezione compiutamente statalista del diritto (18). Del resto, lo Stato unitario italiano mantenne l’assetto centralizzato, ma rinunciando fin da subito all’idea di una amministrazione « forte » perché costretto a mediare con le assai variegate realtà locali (19). 3. Nel campo del diritto internazionale vi è un altro, e rilevantissimo, elemento di distinzione tra la cultura giuridica tedesca e quella italiana. Le prime cattedre di diritto internazionale vengono istituite in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento (20), mentre in Germania bisogna attendere il 1914 (21). Questa differenza è solo in parte legata alla diversa tradizione accademica dei due paesi, dal momento che in Germania l’insegnamento del diritto internazionale privato era impartito da studiosi di diritto romano o di diritto privato, là dove invece in Italia la disciplina era — ed è — assorbita dal diritto internazionale. Il ritardo della Germania nell’attivare l’insegnamento autonomo del diritto internazionale trova ragione nell’originaria ma(17) BONFILS, Manuel de droit international public3, Paris, 1901, p. 117; ROMANO (S.), I caratteri giuridici della formazione del regno d’Italia, Rivista, 1912, p. 345 ss.; in senso contrario, nello stesso volume della Rivista, ANZILOTTI, La formazione del regno d’Italia nei riguardi del diritto internazionale, ivi, p. 1 ss., ed anche in Opere, vol. II, t. 1, Padova, 1956, p. 631 ss., il quale propende per la formazione di un nuovo Stato unitario risultante dalla fusione dei preesistenti Stati italiani minori (i testi della querelle tra i due giuristi italiani sono anche riportati da ZAMUNER, La formazione dello Stato italiano. I - Il Risorgimento, Torino, 2002, rispettivamente pp. 297 ss. e 251 ss.). Sulla continuità in senso costituzionale tra Regno di Sardegna e Regno d’Italia, vedi di recente: SANDULLI, VESPERINI, L’organizzazione dello Stato unitario, Riv. trim. dir. pubbl., 2011, p. 47. (18) Secondo ESPOSITO (R.), op. cit., pp. 26 e 22, Gramsci contestava « l’identificazione hegeliana di politica e Stato » ma a suo giudizio, più in generale, la tradizione di pensiero nazionale « pensa la politica nella sua dimensione prestatale e anche, a volte, di resistenza allo Stato ». (19) Cfr. MELIS, La nascita dell’amministrazione nell’Italia unita, Riv. trim. dir. pubbl., 2010, p. 451 ss.; SANDULLI, VESPERINI, op. cit., pp. 63, 73, 93; CASSESE (S.), L’Italia: una società senza Stato?, Bologna, 2011. (20) GREPPI, Il diritto internazionale in Italia nel periodo risorgimentale e postunitario, cit., paragrafi 1 e 3; ID., La dottrina europea del diritto internazionale. Percorsi della scienza giuridica dal Cinquecento all’Ottocento, in Securitas et tranquillitas Europae (a cura dell’Archivio di Stato di Torino), Torino, 1996, p.160 s. (21) JOUIN, Le droit international allemand dans l’entre-deux-guerres. La fuite dans l’histoire, Revue générale de droit int. public, 2010, p. 539. 34 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO trice costituzionalistica che questa disciplina vi assume, come del resto testimoniano i maggiori studiosi tedeschi della seconda metà dell’Ottocento. Per questo motivo essi non solo riportano nel diritto internazionale concetti e istituti propri del diritto pubblico ma « modulano » il primo in funzione del secondo, tanto da apparire ideologicamente « souverainistes » (22). E di conseguenza le esigenze « gius-pubblicistiche » della sovranità dello Stato hanno la preminenza su quelle di autonomia ordinatoria del diritto internazionale (23). La dottrina internazionalista italiana partiva da diverse premesse. Per sostenere le aspirazioni unitarie, Mancini e la sua scuola facevano frequente richiamo alla comunità delle « nazioni civili » ed ai principi di civiltà giuridica europea. Il preteso sostegno del diritto internazionale all’unità nazionale induceva a sostenere scelte normative interne che nel contempo attestassero la piena fiducia del nuovo Stato verso il diritto internazionale e soluzioni legislative particolarmente favorevoli verso lo straniero. Riallacciandosi alla Rivoluzione francese, il codice di procedura civile unitario non enunciava la vessatoria condizione della cautio judicatum solvi a carico dello straniero che intendesse esercitare il diritto d’azione dinanzi ai tribunali civili (24), condizione che invece rimase (e permane) in Germania. Il ruolo, insieme « identitario » e « promozionale », della dottrina internazionalista accompagna l’attività dello Stato unitario quando in piena età giolittiana, nel 1906, la Direzione della Rivista di diritto internazionale ne presenta il primo fascicolo rivendicando la continuità con il ruolo storico dalla scuola italiana di diritto internazionale (25) e qualifica la stessa Rivista come « organo del pensiero e della vita nazionale » (26). L’incoraggiamento (o la sollecitazione) di Scialoja ad avviare questa iniziativa editoriale ne conferma l’intendimento progettuale di accompagnare con gli strumenti del diritto internazionale la presenza italiana nella scena internazionale, compresa anche la sua espansione coloniale (27). L’aggancio della politica estera alle regole del (22) JOUIN, op. cit., p. 535. (23) Infra. (24) Cfr. ANZILOTTI, Corsi di diritto internazionale privato e processuale (a cura di Salerno), Padova, 1996, pp. 72 e 473 s. (25) Ivi, p. 5. (26) Ivi, p. 7. (27) Meno successo ebbe — a parere di Gaja — l’intendimento espresso nell’editoriale del 1906 — di creare un fattivo dialogo con le riviste straniere di settore a causa della « scarsa diffusione della lingua italiana » (ID., Le prime annate della « Rivista di diritto internazionale » ed il rinnovamento del metodo, Quaderni fiorentini, vol. 16, Riviste giuridiche italiane (1865-1945), Milano, 1987, p. 487); vedi anche infra, par. 11 e nota 175. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 35 diritto internazionale ne legittimava il rafforzamento « obiettivo ». In altri termini, mantenendo l’approccio seguito nella fase di costituzione dello Stato unitario, l’aspirazione ad affermarne il ruolo di Potenza (ed i relativi interessi) doveva avvenire nella cornice delle regole di diritto internazionale (28). Pertanto, pur essendo Anzilotti (e per molto tempo anche Scialoja) tra i più decisi sostenitori del dialogo con la dottrina internazionalista tedesca, le due scuole mantennero la rispettiva identità culturale che si radicalizzò nel corso del primo conflitto mondiale e dopo la sua conclusione per l’atteggiamento dei giuristi italiani maggiormente sensibile a valorizzare l’autonomia ordinatoria del diritto internazionale ed in particolare, nel caso di Anzilotti, gli strumenti pacifici di soluzione delle controversie (29). È principalmente attraverso la Rivista di diritto internazionale che si manifesta questa capacità propositiva della scienza giuridica internazionalista, ormai affinata dagli strumenti della dottrina positivista. La Rivista non solo segue con attenzione le scelte di politica estera dell’età giolittiana, l’iniziale neutralità italiana nel 1914 e poi l’entrata in guerra nel 1915 ma decide anche di impegnarsi direttamente nella « rottura » con la prevalente dottrina internazionalista germanica. Particolare rilievo al riguardo assume la pubblicazione nel 1917 dello scritto di Perassi sulla Teoria dommatica delle fonti di norme giuridiche in diritto internazionale. Come si vedrà (30), questo studio riveste un ruolo decisivo nell’evoluzione della dottrina positivista italiana in specie per il rilievo che vi assume la norma pacta sunt servanda quale norma-base dell’ordinamento internazionale. Il contributo rafforzava la stabilità dei trattati contrapponendosi a quella dottrina revisionista tedesca che invece considerava la regola rebus sic stantibus a fondamento del diritto internazionale perché meglio adatta ad assorbire le logiche diplomatiche delle politiche di potenza (31). Nel corso del conflitto Scialoja, che (28) Vedi anche GAJA, op. ult. cit., p. 491. (29) Vedi anche infra, par. 10 e nota 156. (30) Infra, paragrafi 8 e 9. (31) KAUFMANN, Das Wesen des Völkerrechts und die Clausola rebus sic stantibus, Tübingen, 1911; sull’argomento già era intervenuto criticamente SALVIOLI, Sulla clausola « rebus sic stantibus » nei trattati internazionali, Rivista, 1914, p. 264 ss.; per una ricostruzione storica della clausola cfr. BEDERMAN, The 1871 London Declaration, Rebus sic Stantibus and a Primitivist View of the Law of Nations, American Journal of Int. Law, 1988, p. 1 ss. La tesi di Kaufmann trovava adesione nell’analisi marxista di Pashukanis, che concepiva il diritto internazionale come relazioni di scambio tra Stati di natura privatistica e dunque subordinava la stessa credibilità del diritto internazionale ad una reale « balance of forces »: ID., International Law (1925-1926), in PASHUKANIS, Selected Writings on Marxism and Law (a cura di Beirne e Sharlet, trad. a cura di Maggs), London, 1980, p. 179. 36 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO pur aveva in passato largamente favorito il dialogo con la scuola germanica, si adoperò per sviluppare un intenso legame culturale con l’alleato francese, per un’iniziativa congiunta post-bellica tesa a rilanciare la definizione di un comune quadro normativo a livello internazionale (32). Perciò la divergenza tra le due scuole si radicalizzò dopo il Trattato di Versailles e la costituzione della Società delle Nazioni cui l’Italia fu attivamente partecipe. La presenza di Scialoja e Anzilotti nei negoziati ne qualificava il contributo e rappresentava, talora con suggerimenti assai avanzati (33), il punto di arrivo del progetto politicoculturale avviato con la Rivista cui ormai si contrapponeva l’atteggiamento dichiaratamente revisionista della maggior parte degli internazionalisti tedeschi. La nomina di Anzilotti nel 1921 a giudice della Corte permanente di giustizia internazionale (34) rafforzava la posizione dell’Italia come partecipe all’affermazione di regole internazionali, rispettate anche attraverso i meccanismi di garanzia che la Società delle Nazioni aveva costituito. Ed invero, se si esclude il caso Tellini su cui si tornerà tra poco, il regime fascista mantiene fino all’avventura etiopica una relativa continuità con la politica estera precedente tesa a far emergere il ruolo di Potenza dell’Italia, ma operando nei limiti del possibile nel rispetto della legalità internazionale. Nel 1934 il barone Aloisi, delegato italiano all’Assemblea della Società delle Nazioni, criticava la decisione della Polonia di recedere unilateralmente dagli obblighi internazionali a tutela delle minoranze: « Il mio paese ... è stato il primo ad avanzare l’idea che occorre adattare i trattati alle mutevoli esigenze dei tempi ... Ma nello stesso tempo abbiamo sempre affermato che questo adatta- (32) Il risultato più significativo di questa svolta politico-culturale di Scialoja fu il progetto di codice unico delle obbligazioni approntato nel 1927 da un gruppo di lavoro italo-francese, da lui presieduto. (33) Cfr. in proposito lo « Schema di Atto Generale per costituire la Società delle Nazioni », proposto il 28 novembre 1918 da Anzilotti all’interno di un gruppo di lavoro designato dal Governo italiano: in forza di questo « Schema », la guerra sarebbe stata « in ogni caso un atto contrario al diritto » (in La prassi italiana di diritto internazionale, Terza serie, 1919-1925, vol. III, Roma, 1995, p. 1331 ss., p. 1336); sull’argomento cfr. anche: FERRAJOLO, Il contributo di Dionisio Anzilotti al progetto italiano del Patto della Società delle Nazioni, http://www.prassi.cnr.it/prassi/docs/Anzilotti.pdf; BOSCO, Dionisio Anzilotti. L’attività diplomatica e giurisdizionale, Milano, 2006, pp. 45 e 47. (34) Anzilotti ebbe due mandati quale giudice della Corte permanente (19211930 e 1930-1939), restando in carica — formalmente — fino al 1946 quando il collegio dei giudici superstiti della Corte decise di cessare le attività: RUDA, The Opinions of Judge Dionisio Anzilotti at the Permanent Court of International Justice, European Journal of Int. Law, 1992, p. 100. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 37 mento deve operarsi nella legalità » (35). Si tratta di espressioni che quasi all’unisono si ritrovano nell’opinione individuale di Anzilotti relative alla sentenza della Corte permanente di giustizia internazionale sul caso Oscar Chinn (12 dicembre 1934), quando egli esprime il proprio convincimento « que le droit international ne serait plus qu’un vain nom s’il suffisait à un État d’invoquer l’intérêt public pour se soustraire au devoir d’accomplir les obligations contractées » (36). In effetti, talune scelte della politica estera fascista manifestavano l’interesse a rispettare il diritto internazionale ed i suoi strumenti di soluzione pacifica delle controversie. Nel 1932 l’Italia aveva espresso la dichiarazione prevista dall’art. 36, par. 2, dello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale, anche se per un periodo limitato di cinque anni al termine del quale la dichiarazione non venne rinnovata (37). La determinazione, di per sé assai significativa se raffrontata con l’assenza di analoga determinazione da parte dell’Italia repubblicana, avveniva però nel solco di una prassi poco sensibile a riconoscere il valore prioritario dei mezzi di soluzione pacifica delle controversie. Le ambiguità di questa politica estera erano già emerse nel 1923 a proposito della rappresaglia armata italiana nei confronti della Grecia per il caso Tellini (38). Per quanto il Consiglio della Società delle Nazioni avesse in definitiva avallato la decisione italiana, Anzilotti ne dissentì sia pure in forma riservata (39). Il distacco di Anzilotti dal regime era del resto confermato dal rifiuto di iscriversi al Partito nazionale fascista e ciò impedirà la sua nomina a professore emerito dell’Università di Roma (40). (35) (DEI) SABELLI, La Polonia e la protezione internazionale delle minoranze, Rivista di studi politici internazionali, 1934, n. 3, p. 311. (36) C.P.J.I. Publications, Série A/B, n. 63, p. 112. (37) Rivista, 1932, p. 127 e P.C.I.J. Publications, Series E, n. 16, p. 50. (38) Cfr. al riguardo Il caso Tellini. Dall’eccidio di Jannina all’occupazione di Corfù (a cura di Ferrajolo), Milano, 2005. (39) Ivi, p. 154 s. (40) La Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma avviò nel 1937 — al momento del collocamento a riposo di Anzilotti — la procedura per la sua nomina a professore emerito. Con questa qualifica egli appare già sul frontespizio della Rivista di diritto internazionale nelle annate 1938-1943. In verità la procedura non ebbe esito per la sua mancata iscrizione al Partito nazionale fascista (senza evidentemente aver riguardo all’imparzialità richiesta dalle sue funzioni di giudice internazionale). Anzilotti aveva peraltro adempiuto il 4 gennaio 1932 al « giuramento ». L’iter per la nomina a professore emerito fu ripreso dalla stessa Facoltà nel 1950 ma inutilmente perché sopraggiunse la morte di Anzilotti. Le notizie al riguardo sono tratte dal fascicolo personale del professore reperito presso l’Archivio Centrale di Stato, serie archivistica del Ministero della pubblica istruzione, Direzione generale istruzione superiore, 2º versamento, 2ª serie, busta 4. Da osservare che Anzilotti, già membro dell’Accademia dei Lincei (1926), venne chiamato a far parte della Reale Accademia d’Italia (1929); 38 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO Per quanto restasse indiscussa l’autorità scientifica di Anzilotti, gli internazionalisti italiani non sembrano sfuggire alle suggestioni revisioniste della politica estera fascista quale poi culminerà con l’impresa etiopica. In questa logica si spiega la nascita di alcune riviste nella metà degli anni Trenta, più sensibili a considerare se non ad affiancare le esigenze espansive della politica estera fascista (Diritto internazionale, Rivista di studi politici internazionali, la stessa « Jus gentium »). Dirigono queste riviste o vi collaborano anche internazionalisti che — come Bosco, allievo di Perassi — afferiscono senz’altro alla scuola romana. La « diarchia » culturale tra le riviste internazionaliste coinvolgeva talora le stesse persone. La figura di Perassi rappresenta emblematicamente l’ambiguità dell’accademia di quel periodo. Perassi, oltre a ricoprire un ruolo di primo piano nell’ufficio del Contenzioso diplomatico del Ministero degli esteri, non poteva non essere coinvolto nella nascita di riviste alternative di settore dirette da suoi allievi o ufficialmente sostenute dal Ministero. Lo stesso Perassi è però il dominus effettivo della Rivista di diritto internazionale, anche se Anzilotti ne resta il direttore. Ebbene la Rivista reagisce alla fioritura delle pubblicazioni di settore accentuando la propria linea editoriale pubblicando prevalentemente scritti caratterizzati da pura analisi scientifica, stabilendo l’indirizzo che tuttora la caratterizza (41). Pertanto, diversamente da quanto era avvenuto in passato, la Rivista volse scarsa attenzione verso iniziative di politica estera — l’aggressione dell’Etiopia, le conseguenti sanzioni della Società delle Nazioni, il secondo conflitto mondiale — chiaramente in dissonanza con l’iniziale progetto che ne aveva animato la nascita. Al contempo, la Rivista, forte della propria indipendenza scientifica, testimoniava la « purezza » della scienza giuridica internazionalista saldandosi con quella parte, piuttosto ampia, della cultura giuridica italiana che, nell’ambito dell’autonomia che il fascismo riconosceva alla dimensione tecnica del diritto, continuava a coltivare l’idea di « Stato di diritto » (42). Per gli internazionalisti questa seconda istituzione fu voluta dal regime fascista e — come ricorda Ago — Anzilotti apprese con poco entusiasmo la notizia della sua nomina a membro della stessa (AGO, Rencontres avec Anzilotti, European Journal of Int. Law, 1992, p. 93). (41) Infra, anche par. 11. (42) Vedi in proposito AGO, Lezioni di diritto internazionale, Milano, 1943, p. 118; per l’approccio culturale cui si fa riferimento nel testo, cfr.: MELIS, Il Consiglio di Stato ai tempi di Santi Romano, in La giustizia amministrativa ai tempi di Santi Romano presidente del Consiglio di Stato, Torino, 2004, pp. 44 e 47; MAZZAROLLI, La protezione del cittadino, ivi, p. 261 ss.; BIN, Stato di diritto, in Enciclopedia del diritto, Annali IV, Milano, 2011, p. 1155 ss. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 39 italiani, come per buona parte di pubblicisti e processualcivilisti, la « mitizzazione ... della tecnica » si sperimenta già in questi anni (43). 4. L’impronta nazionale della dottrina internazionalista positivista è altresì accentuata dall’influenza di Santi Romano (1875-1947). La sua dottrina istituzionale (che egli chiamava « istituzionistica ») aveva trovato piena « sistematizzazione » nella pubblicazione di Ordinamento giuridico nel 1918 (ristampato in una seconda edizione nel 1946 con una cospicua integrazione delle note (44)), ma l’opera costituisce il punto d’arrivo del ragguardevole percorso culturale fino ad allora compiuto dal giurista siciliano. Romano sviluppa, come è noto, la dottrina istituzionale del francese Maurice Hauriou ma valorizzando quella che Capograssi chiama la « visione vichiana del diritto » (45), e cioè la percezione insieme unitaria e « plurale » della realtà. Pertanto Romano configura il diritto come una forma peculiare di organizzazione sociale in quanto regolata da un ordinamento. Da qui sia la preminenza dell’ordinamento sulla norma, sia la « pluralità » di ordinamenti giuridici che regolano varie tipologie autonome di organizzazione sociale. La dottrina istituzionale di Santi Romano fa emergere il connotato « obiettivo » del diritto sganciandolo dalla volontà del soggetto agente e originario « costitutore » della norma giuridica (il c.d. ius involontarium). Al tempo stesso, però, « il diritto non è o non è soltanto la norma che così si pone, ma l’entità stessa che pone tale norma » (46). Assorbendo nel diritto obiettivo la norma giuridica e soprattutto l’agente costitutore della norma, Romano supera l’indirizzo tanto normativista che statalista (47) senza compromettere il carattere positivista della propria dottrina. Santi Romano è sì positivista, ma non statalista in quanto lo stesso Stato — « vero principio di vita » — resta pur (43) L’espressione è di CAZZETTA, op. cit., p. 89, ancorché riferita ai civilisti del secondo dopoguerra. È nella combinazione di questi elementi che si spiega anche l’apporto alla stesura finale del codice di procedura civile da parte di Calamandrei; per una unilaterale rivisitazione critica del suo ruolo cfr. MONTELEONE, L’apporto di Piero Calamandrei al Progetto definitivo Solmi del codice di procedura civile, Il giusto processo civile, 2011, p. 429 ss. (44) Cui sono seguite ulteriori ristampe: i riferimenti nel testo sono all’edizione di Firenze del 1977. (45) CAPOGRASSI, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, Studi Sassaresi, 1936, ora in Opere, vol. IV, Milano, 1959, p. 188. (46) ROMANO (S.), L’ordinamento giuridico, Firenze, 1977, p. 19. (47) AGNELLI, L’istituzionalismo italiano dal 1945 ai giorni nostri, Annuario bibliografico di filosofia del diritto, 1965, p. 267 ss., spec. p. 267; vedi anche CAPOGRASSI, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, cit., p. 190 s. 40 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO sempre una « creazione del diritto » (48). Partendo da queste premesse, Romano svolge i propri concetti anche riguardo al diritto internazionale pubblicando tra il 1926 e il 1939 quattro edizioni del suo Corso di diritto internazionale. Per Santi Romano, « il diritto internazionale appare veramente diritto solo in quanto vincola e domina la volontà statale, cioè in quanto la trascende e si afferma come entità a sé, che, secondo noi, è l’ordinamento della comunità internazionale, cui i singoli Stati sono, sia pure limitatamente, subordinati » (49). La funzione ordinante e stabilizzante del diritto fa emergere una serie di principi costituzionali dell’ordinamento che prescindono dall’elemento volontaristico, ma sono ineludibili per permettere all’ordinamento di svolgere dinamicamente il proprio « ordinarsi » (50). L’impostazione di Romano, per quanto permeata da influenze straniere, rappresenta un’originale sintesi tra diversi filoni della cultura nazionale: l’incalzante positivismo giuridico, il tradizionale indirizzo storicistico e la stessa componente etica. Perciò nell’afflato ordinatorio di Romano si ritroveranno, almeno in parte, esponenti sia della dottrina propriamente positivista (significativamente Quadri e Ziccardi) come di quella giusnaturalista (Salvioli) (51). I fondatori della scuola internazionalista italiana — benché non aderiscano alla dottrina istituzionale — non la possono neppure ignorare. E ciò spiega il dialogo intenso tra Anzilotti e Romano (52) e l’influenza che quest’ultimo ebbe anche su Perassi benché i due internazionalisti fossero stati « contagiati » soprattutto dalla cultura germanica. L’incontro tra il pensiero positivista di Romano e quello della scuola romana del diritto internazionale resta possibile perché avviene sul terreno delle comuni radici storicistiche e della condivisa aspirazione a rafforzare la funzione « obiettiva » del diritto pubblico. (48) ROMANO (S.), Lo stato moderno e la sua crisi (1909), ora in Scritti minori, vol. I, Diritto costituzionale, Milano, 1990, p. 382. GROSSI, Santi Romano: un messaggio da ripensare nell’odierna crisi delle fonti, Milano, 2005, ora in Nobiltà del diritto, Milano, 2008, pp. 675 e 677, sottolinea che Romano supera la concezione del positivismo come « statalismo legalistico ». La distinzione tra lo Stato e il « suo » ordinamento è ripresa anche da AGO, Lezioni di diritto internazionale, cit., p. 18. (49) ROMANO (S.), L’ordinamento giuridico, cit., p. 115. (50) La sensibilità di Romano verso il profilo dinamico dell’ordinamento lo avvicina all’approccio « attualista » della filosofia gentiliana, ma se ne differenzia perché la sua concezione resta pur sempre collegata non alla figura del soggetto agente bensì al dato oggettivo dell’ordinamento. (51) Cfr. SALVIOLI, Principi generali di diritto internazionale (A proposito del Corso di diritto internazionale di D. Anzilotti), Rivista, 1928, p. 571 ss. (52) Anzilotti è l’autore più citato da Romano nelle note aggiunte alla seconda edizione del 1946 di Ordinamento giuridico. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 41 II. L’approccio positivista di Anzilotti 5. Il percorso positivista della nuova scuola internazionalista italiana venne avviato alla fine dell’Ottocento da Anzilotti. Il suo è un indirizzo gius-positivista via via più netto (53), ma mai esasperatamente statalista. È proprio questo equilibrio che permette di individuare una linea continua nel suo pensiero e di raffrontarla sia con Triepel cui si ispirava, sia con quella successiva di Perassi a cui egli stesso finì col richiamarsi. Il punto di partenza è lo Stato quale compiuta entità sovrana su un determinato territorio. Senza porsi la questione se tale sovranità dipenda (come nell’analisi weberiana) dal monopolio sull’uso legittimo della forza, Anzilotti rileva che — dal punto di vista del diritto internazionale — « la delimitazione territoriale degli Stati... è ... la premessa su cui riposano ed il punto di partenza da cui si svolgono le loro relazioni » (54). Invece di configurare regole generali al riguardo (55), Anzilotti ritiene che i rapporti tra Stati siano regolati essenzialmente da accordi volontari, nell’assunto — rigorosamente positivista — che « norma giuridica è volontà dichiarata » (56): su tale base, egli apprezza la norma come espressione di un comando, dunque « imposta ». In comune con Triepel (57), Anzilotti riteneva che fondamento « positivo » del diritto internazionale fosse la volontà collettiva degli Stati come « volontà normativa » originaria non regolata giuridicamente (58). Partendo da questa premessa, si contrappose a quanti della (53) La differenza è netta rispetto a DIENA (Diritto internazionale pubblico, vol. I, Torino, 1914, p. 8) il quale, pur attestandosi sul terreno dell’analisi giuridica, opta per un metodo « eclettico » rispetto a quello strettamente positivo incentrato sull’analisi della norma, perché il primo consente di poterla « integrare » attraverso i principi desunti dalla scienza giuridica; vedi anche infra, nota 129. (54) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, vol. I, Roma, 1928, p. VI. (55) Vedi invece DIENA, op. cit., p. 200 s. (56) ANZILOTTI, Gli organi comuni nelle società di Stati, Rivista, 1914, p. 161, anche in Opere, vol. II, t. 1, cit., p. 603 ss. (57) Vedi in particolare TRIEPEL, Völkerrecht und Landesrecht, Leipzig, 1899, tradotto in italiano a cura di Buzzati, Diritto internazionale e diritto interno, Torino, 1913. (58) Per Anzilotti, « l’obbligatorietà del diritto è piuttosto un concetto morale, che un principio giuridico » (ID., Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, Firenze, 1902, in Opere di Dionisio Anzilotti, vol. II, t. 1, cit., p. 57). Anzilotti, in uno scritto del 1913 (Sugli effetti dell’inadempienza di obbligazioni internazionali aventi per oggetto una somma di denaro, Rivista, 1913, p. 64, ora anche in Opere, vol. II, t. 2, Padova, 1957, p. 31 ss.) aveva respinto il fondamento consuetudinario della norma pacta sunt servanda: a suo parere « la norma stessa pacta sunt 42 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO perdurante scuola manciniana insistevano su un approccio giusnaturalista ed idealista nel diritto internazionale (59). Anzilotti accentuò la propria posizione volontarista, ritenendo che la consuetudine internazionale non fosse altro che « una forma particolare in cui si manifesta l’accordo » (60) e di tale avviso resterà in seguito senza cedere alla tesi romaniana di considerare la consuetudine essenzialmente come fatto normativo in quanto la convinzione di osservarla, a parere di Romano, « non è atto di volontà, ma qualche cosa che domina e vincola la volontà » (61). Vi era però una differenza fondamentale tra la concezione di Anzilotti e quella di Triepel. Triepel — plausibilmente condizionato dal modello hegeliano — considerava il diritto internazionale articolato in una serie di accordi distinti gli uni dagli altri, senza un « ordinamento » unitario ed autonomo di riferimento. Anzilotti invece ritiene che la singola regola giuridica resti parte di un « tutto »: « Ogni ordine giuridico consta di un sistema di norme regolatrici di rapporti concreti. ... onde in tanto può esistere un ordine giuridico autonomo in quanto esiste una volontà capace di porre le norme che lo costituiscono » (62). La matrice positivista della norma internazionale risiede nella volontà collettiva che le attribuisce quella valenza e nella quale si ritrova l’identità giuridica del sistema di diritto internazionale cui la prima afferisce. Fino a quando Anzilotti non accoglierà la teoria dommatica di Perassi, egli ritiene che la condivisione diffusa nella comunità internazionale intorno al comune « valore » della volontà collettiva giustifichi da sola la sua idoneità a determinare effetti vincolanti. Questa conclusione distingue radicalmente Anzilotti da Triepel, perché il primo contrapponeva una propria idea di « unità » del sistema giuridico internazionale ad una costruzione dottrinaria che invece lo parcellizzava in una serie di accordi. Anzilotti si poneva quindi l’impegnativo compito di conciliare la propria dottrina sistemica con i servanda non da altro che dalla volontà collettiva degli Stati desume il suo valore obbligatorio ». (59) ANZILOTTI, Trattati generali di diritto internazionale pubblico, Rivista, 1906, p. 34 ss., riprodotto in Opere, vol. II, t. 1, cit., p. 246 ss. (60) ANZILOTTI, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, cit., p. 56. (61) ROMANO (S.), Corso di diritto internazionale, Padova, 1926, p. 29; l’affermazione è reiterata da ROMANO (S.), Corso di diritto internazionale4, Padova, 1939, p. 34. La tesi di Romano viene nella sostanza ripresa da BOBBIO, La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942, il quale sottolinea che l’opinio juris « non concorre alla formazione della norma ma ne garantisce l’efficacia » (ivi, p. 56). (62) ANZILOTTI, Gli organi comuni nelle società di Stati, cit., p. 161. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 43 presupposti volontaristici ed etici che ne erano all’origine (63). È proprio attraverso questa ricerca che avviene la graduale definizione della dottrina positivista di Anzilotti fino a completarsi accogliendo le indicazioni « dommatiche » di Tomaso Perassi (64). Ma, prima di questo definitivo passaggio, alcune tappe del suo percorso fanno meglio percepire sia l’influenza della cultura giuridica nazionale che soprattutto le peculiarità del suo pensiero positivista rispetto a quello del Triepel. Per Anzilotti la volontà collettiva, pur non figurando quale fonte in senso formale, ha ugualmente un valore deontico autonomo nel diritto internazionale, perché trascende ed assorbe le originarie singole volontà degli Stati « costitutori » della norma (65). In essa si svela il carattere giuridico della norma come « dover essere » (66), a valenza « coattiva » (67). Pertanto Anzilotti congegna una serie di indicazioni interpretative attraverso le quali ricava il significato oggettivo della volontà collettiva. La sua ottica, mai esegetica, diventa via via ordinatoria, per la consapevolezza, che derivava dall’insegnamento di Gabba e dall’influenza di Romano, del carattere sociale progressivamente assunto dal diritto internazionale (68), senza però accogliere l’idea, per lui di natura giusnaturalista ma comune agli altri due giuristi (oltre che al Diena), secondo cui l’ordine della convivenza civile (internazionale) fosse basato sulla necessità sociale (69). Il diritto obiettivo di Anzilotti non assume un’esclusiva connotazione statalista, poiché la volontà collettiva degli Stati resta pur sempre parte di un « tutto »: « dal momento che un ordinamento giuridico esiste, qualunque ne sia il grado di sviluppo, esso riguarda tutta l’attività dei subietti. Nel senso che ogni loro attività diviene giuridicamente valutabile, sia pure con un giudizio negativo, escludente cioè ogni limitazione » (70). Infatti Anzilotti, alla stessa stregua di Donati, non ritiene che esistano lacune nell’ordinamento poiché, al di fuori dei comandi che richiedono (63) Supra, nota 58; vedi anche infra, nota 127 a proposito di questa perdurante impostazione ad opera di Cavaglieri. (64) Infra, par. 8 e nota 134. (65) ANZILOTTI, Teoria generale, cit., p. 59; ID., Il concetto moderno dello Stato e il diritto internazionale, Roma, 1914, ora in Opere, vol. II, t. 1, cit., p. 627. (66) ANZILOTTI, Sunti di filosofia del diritto (anno accademico 1917-18), Roma 1918, p. 4. (67) Ivi, p. 25. (68) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 13; vedi anche GABBA, L’elemento giuridico e l’elemento ideale della società umana, in ID., Intorno ad alcuni più generali problemi della scienza sociale. Conferenze, Seconda serie, Firenze, 1881, p. 131 ss. (69) GABBA, op. ult. cit., p. 148; ROMANO (S.), L’ordinamento giuridico, cit., p. 24; DIENA, Diritto internazionale pubblico, cit., p. 7. (70) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 455. 44 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO specifici comportamenti, qualunque comportamento di un soggetto di diritto internazionale che non sia puntualmente vietato o prescritto è riconducibile al regime generale di libertà garantito dall’ordinamento giuridico (71). Il costante richiamo al diritto obiettivo gli consente anche di superare la dottrina dei diritti « inerenti » (o assoluti) allo Stato, in discontinuità con la scuola manciniana ed in polemica con le ricorrenti tentazioni giusnaturalistiche. In quanto espressione di un « comando », anche la volontà collettiva sottesa ad un accordo è norma « obiettiva » rispetto alle Parti contraenti. In forza del proprio convincimento, Anzilotti considera la volontà collettiva idonea a fungere non solo come fonte di rapporti ordinati ma anche come fonte essa stessa « ordinante », come traspare dalla sua tesi, mai modificata, in tema di soggettività internazionale degli Stati. La sovranità dello Stato, nel suo significato sociologico di ente reale, non era un fatto storico sufficiente a farne soggetto di diritto internazionale; asserirlo era addirittura per Anzilotti « una delle manifestazioni della persistente tradizione del diritto naturale, perché desume, con un processo meramente logico e suriettivo, un principio giuridico da un puro dato di fatto » (72). Se occorreva che lo stesso ordinamento ne predisponesse la costituzione con proprie regole, l’unico percorso che Anzilotti considerava come possibile era l’accordo bilaterale di un altro Stato con lo Stato di nuova formazione per mezzo del quale avveniva il riconoscimento di natura costitutiva del secondo: la volontà collettiva era pertanto anche lo strumento attraverso cui il diritto internazionale dilatava la sua stessa base sociale (73). La forza « ordinante » della volontà collettiva ha formalmente lo stesso valore quale che sia il modo in cui essa si manifesti (74), ma non impedisce che un determinato trattato possa auto-qualificarsi in termini di « diritto cogente » rispetto ad altri accordi che vincolano le medesime parti (75). La gerarchia è in questi termini « interna » alla stessa volontà collettiva. Su tali basi Anzilotti asserisce che la volontà pattizia non può conside(71) Cfr. DONATI, Il problema delle lacune, Milano, 1910, p. 223. (72) ANZILOTTI, Trattati generali, cit., p. 172. (73) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 148 s. La dottrina pregressa aveva ugualmente insistito sull’esigenza di un riconoscimento perché il nuovo Stato fosse dotato di personalità giuridica internazionale per inserirsi nel concerto di relazioni tra Stati « civili » regolato dal diritto internazionale, ma l’acquisita soggettività veniva valutata come espressione di un giudizio collettivo sul grado di civiltà del medesimo Stato (BONFILS, op. cit., p. 114; vedi anche ANGHIE, Imperialism, Sovereignty and the Making of International Law, Cambridge, 2004, p. 98 ss.). (74) ANZILOTTI, Trattati generali, cit., p. 46 s. (75) ANZILOTTI, Intorno agli effetti delle modificazioni del corso di un fiume sul confine fra due Stati, Rivista, 1914, p. 78. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 45 rarsi validamente posta nel diritto internazionale se diretta a conseguire una « cosa vietata dal diritto », richiamando al riguardo l’art. 20, par. 1, del Patto relativo alla Società delle Nazioni, contenente una disposizione simile, ma più incisiva, dell’attuale art. 103 della Carta dell’ONU (76). 6. La dottrina della volontà collettiva, per quanto valorizzasse a fini ordinatori lo strumento dell’accordo, attirò la critica di Santi Romano, per il quale la costruzione di Anzilotti, ispirata a Triepel, evidenziava la scarsa valenza del diritto internazionale come sistema giuridico unitario: « non il diritto internazionale esiste, ma tanti diritti internazionali quanto sono gli accordi » (77). Anzilotti modificherà in tal senso la sua dottrina accogliendo, come pure si vedrà in seguito, la Teoria dommatica esposta da Perassi, in forza della quale la fonte di produzione del diritto costituita dalla singola volontà collettiva era contemplata dall’unica norma-base dell’ordinamento internazionale, la norma pacta sunt servanda (78). Tuttavia una più ampia considerazione degli scritti di Anzilotti permette di ridimensionare l’obiezione sollevata da Romano, ritrovando nella dottrina del primo non pochi punti di contatto con l’afflato « ordinatorio » che animava il secondo: in questo modo anche la successiva svolta in chiave perassiana di Anzilotti assume un significato coerente con l’evoluzione della sua iniziale dottrina, per vari aspetti originale rispetto a quella di Triepel. Si è già osservato che Anzilotti ebbe sempre presente l’esigenza di valorizzare la norma giuridica come parte di un « tutto ». È ad esempio in questa prospettiva che egli richiama il principio dell’unica verità, in forza del quale due testi pattizi vanno interpretati in modo da armonizzare nei limiti del possibile il loro contenuto apparentemente poco coerente (79). Ma il terreno su cui Anzilotti marca in maniera decisiva la sua distanza dalla dottrina della volontà collettiva di Triepel è quello della responsabilità internazionale. In Teoria generale della responsabi(76) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 306. (77) ROMANO (S.), L’ordinamento giuridico, cit., p. 57. Obiezione ripresa sia da MONACO, Solidarismo e teoria dell’istituzione nella dottrina di diritto internazionale, Archivio giuridico, 1932, p. 226, che da QUADRI, per il quale la dottrina positivista iniziale frantumava « la comunità in una serie di binomi costituiti da singoli accordi » (ID., Stato, in Nuovo Digesto italiano, vol. XXII, t. 1, Torino, 1940, p. 817). (78) Infra, par. 8 e nota 134. (79) Opinione dissidente relativa alla sent. 4 aprile 1939 della Corte permanente di giustizia internazionale, Electricity Company of Sofia and Bulgaria, in P.C.I.J. Publications, Series A/B n. 77, p. 90. 46 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO lità dello Stato nel diritto internazionale, pubblicata nel 1902 (80), Anzilotti configura un insieme di regole internazionali che, pur senza seguire percorsi formalmente « tipicizzati » per l’attribuzione dell’illecito (81), ne dispongono obiettivamente le conseguenze. In questa maniera Anzilotti superava il presupposto « positivista » nella volontà collettiva come fonte esclusiva di norme giuridiche perché in ogni caso era l’ordinamento giuridico internazionale a valutare e garantire il rispetto di quelle (82). Per giungere a tale conclusione, egli osserva che i trattati creano non solo diritti ma anche obblighi e limitano di conseguenza la libertà degli Stati. Si flette così l’idea di una preminenza assoluta dello Stato, perché il diritto internazionale, prendendo atto dei risultati concreti attraverso cui si dipana la volontà collettiva, deve garantire l’interesse di altri Stati a vantaggio dei quali quei limiti siano posti (83). Santi Romano, per quanto non condivida la rigorosa struttura sinallagmatica della reciprocità sottesa alla « coppia » diritti-obblighi elaborata da Anzilotti (84), ne apprezza l’affermazione del c.d. « diritto oggettivo » (85), anche condividendo lo scarso peso dato da Anzilotti alla colpa dello Stato tra gli elementi costitutivi dell’illecito internazionale (86). 7. Partendo dalla premessa positivista per cui la norma giuridica è « volontà dichiarata » (87), Anzilotti giunge alla determinazione, già acquisita da Triepel, di configurare in modo autonomo il diritto statale ed il diritto internazionale, perché, pur trovando entrambi origine nell’azione dello Stato, diverse ne sono sia le « volontà » all’origine (80) Ora in Opere, vol. II, t. 1, cit., p. 1 ss. (81) Cfr. SALERNO, Genesi e usi della nozione di organo nella dottrina internazionalista italiana, Rivista, 2009, p. 933 ss.; lo schema di Anzilotti è stato ripreso da ARANGIO-RUIZ, La persona internazionale dello Stato, Torino, 2008, p. 88 ss. (82) Vedi anche AGO, Third report on State responsibility, in Yearbook of the Int. Law Commission, 1971, II, 1, p. 205, par. 31 e nota 15. (83) Per Anzilotti, il diritto internazionale « muove, ... non dalla supremazia dei subietti, ma dalla loro sottoposizione ad un principio superiore » (ID., Corso di diritto internazionale3, cit., p. 145). (84) Cfr. ROMANO (S.), L’ordinamento giuridico, cit., p. 94. (85) ROMANO (S.), Recensione, in Archivio giuridico, 1903, p. 373 ss.; in specie Romano osserva che Anzilotti « combatte l’opinione che da ogni trattato internazionale derivi un diritto soggettivo degli Stati, venendo, com’è naturale, ad ammettere la tesi delicatissima ... che possa esistere un diritto oggettivo che non arrivi a assoggettarsi » (ivi, p. 373). Circa l’influenza esercitata da Romano nella dottrina di Anzilotti, ZICCARDI, Note sull’opera scientifica di Dionisio Anzilotti, Comunicazioni e studi, vol. III, 1950, p. 25. (86) ROMANO (S.), op. ult. cit., p. 377. Vedi peraltro PISILLO MAZZESCHI, « Due diligence » e responsabilità internazionale degli Stati, Milano, 1989, p. 61 ss. (87) Supra, nota 56. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 47 delle rispettive norme sia i destinatari delle stesse. Da queste premesse, che Donati riproponeva nel campo nel diritto costituzionale (88), si dipana la nota tesi dualista con riferimento ai rapporti tra i due ordinamenti cui è rimasta nella sostanza fedele la dottrina italiana. In base a questa tesi, la volontà positivamente imposta nell’ordinamento internazionale non suscita pertanto effetti giuridici in un ordinamento statale a meno che non sia questo stesso a volerlo. Ma il carattere originario e indipendente dei due ordinamenti non esclude per Anzilotti il loro coordinamento in termini di continuità. Una simile prospettiva, per quanto maggiormente presente nella prima fase del pensiero di Anzilotti, si ritrova costantemente a proposito del rilievo che egli assegna ai principi generali di diritto (89). La loro rilevazione resta ancorata al dato « positivo » dei vari sistemi giuridici. Tuttavia Anzilotti, in polemica con l’approccio tardo-illuministico della scuola manciniana, esclude che la « teoria generale del diritto si possa fondare esclusivamente sulla astrazione dei sistemi giuridici più progrediti » (90). Proprio perché il dato che accomuna « universalmente » il fenomeno del diritto è quello formale, la sua delimitazione in base all’esperienza concreta del diritto positivo potrebbe anche essere diversa (91). È verosimilmente con questo approccio — pluralista e universalista al tempo stesso tanto da avvicinarlo a Santi Romano (92) — che Anzilotti giustifica il richiamo ai principi generali di diritto riconosciuti dalle « nazioni civili » contenuto nell’originario art. 38 dello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale alla cui stesura egli stesso collaborò e che poi è stato ripreso quasi alla lettera dall’omologa disposizione dello Statuto della Corte internazionale di giustizia (93). La prospettiva di continuità nei rapporti tra ordinamenti sovviene anche in relazione alla funzione che Anzilotti riconosce inizialmente (88) DONATI, I trattati internazionali nel diritto costituzionale, Torino,1906. (89) Opinione dissidente relativa alla sent. 16 dicembre 1927 della Corte permanente di giustizia internazionale, Interpretation of Judgments Nos. 7 and 8 (Factory at Chorzów), in P.C.I.J., Publications, Series A, n. 13, p. 27; opinione dissidente relativa alla sent. 28 giugno 1937 della stessa Corte, The Diversion of Water from the Meuse, ivi, Series A/B, n. 70, p. 50. (90) ANZILOTTI, Sunti di filosofia del diritto, cit., p. 23. (91) Ibidem. (92) Cfr. in proposito ZICCARDI, Il diritto internazionale, in Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di Santi Romano (a cura di Biscaretti di Ruffia), Milano, 1977, p. 160. (93) Sulla ricorrente attualità di questa dimensione pluralista, cfr. SALERNO, Principi generali di diritto, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. XI, Torino, 1996, p. 533 ss. 48 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO alle norme comuni di diritto internazionale privato. A suo avviso, queste norme vanno considerate come autonome dall’ordinamento giuridico statale perché deputate a svolgere una funzione « internazionalista », vale a dire quella di delimitare sia pure in modo unilaterale la sfera di sovranità legislativa degli Stati in assenza di norme internazionali a ciò preposte. In armonia con Diena — per il quale le norme nazionali erano un « complemento » di quelle internazionali (94) — Anzilotti giustifica la loro osmosi interpretativa con le norme uniformi di diritto internazionale privato contenute nella codificazione internazionale (95). Ma la prospettiva di continuità traspare soprattutto nell’originaria concezione dualista di Anzilotti relativa ai rapporti tra diritto statale e diritto internazionale. Acquisita l’autonomia del diritto internazionale dal diritto interno, Anzilotti indica la subordinazione funzionale del secondo al primo. In un brano dello studio Il diritto internazionale nei giudizi interni (1905) (96), Anzilotti così si esprime: « è certamente ragionevole presumere [salva espressa indicazione contraria del legislatore] che lo Stato voglia ed agisca in modo conforme a ciò che gli è imposto dai suoi doveri internazionali » (97). Anzilotti sembra perciò ignorare l’assioma dualista « puro », secondo cui, nel presupposto dell’autonomia del diritto interno dal diritto internazionale, gli organi dello Stato non sarebbero « vincolati dalle norme giuridiche internazionali » (98). A suo dire, « tale conseguenza non è logicamente contenuta nelle premesse, ma le eccede e le sorpassa » (99). Egli configurava piuttosto una situazione di continuità: « coloro che sono sottoposti all’autorità della norma sono quei medesimi che la creano » (100). In quanto la condotta conforme dello Stato dipende dai suoi organi, « i diritti ed i doveri internazionali sono esercitati o adempiuti da vari organi dello Stato nella misura della competenza attribuita a ciascuno dal diritto interno: dentro questi limiti, però, gli organi possono essere (94) Cfr. in proposito PASSERO, op. cit., p. 217 s. (95) Cfr. SALERNO, Premessa, in ANZILOTTI, Corsi di diritto internazionale privato e processuale, cit., p. XV. (96) Anche ora in Opere, vol. II, t. 1, cit., p. 281 ss. (97) Ivi, p. 459. (98) Così lo stesso ANZILOTTI, ivi, p. 430. Nel senso da lui criticato vedi però successivamente: DONATI, I trattati internazionali nel diritto costituzionale, cit., p. 294 ss.; MARINONI, La responsabilità degli Stati per gli atti dei loro rappresentanti secondo il diritto internazionale, Roma, 1913, p. 156; ESPOSITO (C.), Organo, ufficio e soggettività dell’ufficio, in Annali dell’Università di Camerino, vol. VI (sezione giuridica), 1932, p. 323. (99) ANZILOTTI, Il diritto internazionale nei giudizi interni, cit., p. 430. (100) Ivi, p. 502. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 49 direttamente in contatto col diritto internazionale, perché gli organi sono lo Stato ... » (101). Entro questa linea di continuità, si traduceva la rilevanza costituzionale del rispetto di obblighi internazionali nell’ambito delle funzioni svolte da singoli organi dello Stato, così da ammettere, come egli stesso scrive, « un rapporto di subordinazione del diritto interno al diritto internazionale » (102), che discendeva « dallo stesso rapporto di subordinazione dello Stato al diritto internazionale » (103). Tale vincolo, che Donati mai riconobbe (104), si rifletteva sull’interprete perché obbligava l’autorità giudiziaria a seguire il criterio della presunzione di conformità della legge ordinaria agli obblighi internazionali. La « subordinazione » di cui parla Anzilotti non può però essere accostata alla successiva impostazione monista configurata da Kelsen. Essa denota piuttosto l’idoneità del diritto internazionale di esprimere valutazioni sul modo d’essere del diritto interno e dunque la necessità logica che questo vi si fletta in senso conforme, senza però mai perdere la sua indipendenza ed originarietà. Il modo in cui Anzilotti configura il limite alla funzione legislativa dello Stato resta tutto interno alla sua sovranità costituzionale perché è lo stesso ordinamento statale che annovera il rispetto degli obblighi internazionali tra i suoi principi, ma lascia impregiudicata la sua libertà costituzionale di legiferare in violazione del diritto internazionale. Se ne evince una soluzione che assume la coerenza del diritto interno al diritto internazionale quale regola generale dell’ordinamento statale e un’eccezione, solo costituzionalmente consentita, la sua « contraddizione » purché volutamente espressa dagli organi depositari della sovranità costituzionale dello Stato (105). Ancor prima di Santi Romano, Anzilotti mostra dunque la capacità di vedere e valorizzare la medesima natura « giuridica » dei fenomeni posti a raffronto nell’ambito della sua costruzione dualista. Così, in forza del principio iura novit curia il giudice nazionale deve richiamarsi (101) Ivi, p. 430; corsivo aggiunto. (102) Ivi, p. 448. (103) Ivi, p. 517. Ne consegue, per Anzilotti, che « i doveri internazionali dello Stato costituiscono ... un complesso di limiti giuridici della funzione legislativa, nel senso che lo Stato, essendo giuridicamente tenuto verso gli altri Stati ad una determinata condotta, non può emanare norme giuridiche contrarie a ciò che il diritto internazionale esige da lui » (ivi, p. 446). (104) Vedi TOSATO, Presentazione, a DONATI, Scritti di diritto pubblico, vol. I, Padova, 1966, p. XVII. (105) AGO, Lezioni di diritto internazionale, cit., p. 47. Il modo d’essere dell’ordinamento interno — ancorché imposto da un determinato parametro costituzionale — non può d’altronde costituire una condizione esimente dell’illecito nel diritto internazionale; vedi però al riguardo la tesi di Conforti, infra, par. 10 e nota 161. 50 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO direttamente al diritto internazionale per la soluzione di questioni pregiudiziali o incidentali inerenti all’applicazione di leggi nazionali: egli ritiene che in ogni caso il legislatore nazionale abbia volutamente assunto la norma internazionale quale presupposto della norma interna (106). La circostanza che il legislatore abbia omesso di farvi espressamente richiamo è di per sé ininfluente, se appare evidente in relazione al contenuto della legge nazionale. Il sistema giuridico internazionale è — per così dire — obiettivamente immanente al presupposto della ratio legis nazionale, nel senso che il legislatore ritiene che « spetti al diritto internazionale stabilire quei criteri, ordinare quei rapporti, di cui [il legislatore] vuol tener conto nel regolamento di fatti o rapporti, che sono l’oggetto immediato della norma giuridica interna » (107). Nei casi in cui il giudice nazionale debba riferirsi al diritto internazionale per la soluzione della questione pregiudiziale o incidentale della legge interna, la norma internazionale viene in giuoco nella sua originaria ed autentica connotazione « interstatale », dal momento che era stata logicamente presupposta dal legislatore nazionale. La caratteristica fondamentale di questa impostazione era di riconoscere l’autonomia ordinatoria del diritto internazionale nello stabilire la disciplina sulle « proprie » questioni e nel conseguente assetto dell’ordinamento interno a vincolare l’interprete a tenerne conto nei giudizi interni. III. La teoria dommatica di Perassi 8. I risultati raggiunti da Anzilotti nella configurazione unitaria dell’ordinamento giuridico internazionale mancavano tuttavia di un formale — cioè « positivo » — criterio ordinante e coordinante le varie espressioni normative della volontà collettiva. A colmare questa limitazione sovviene la Teoria dommatica delle fonti di norme giuridiche in diritto internazionale, che Perassi pubblica sulla Rivista di diritto internazionale del 1917 (108). Benché la sua elaborazione fosse stata influenzata da Kelsen, la dottrina perassiana resta anch’essa tributaria della storia culturale nazionale. Anzitutto perché Perassi era un mazziniano ed un repubblicano convinto, fortemente intriso dell’esperienza risorgimentale. Con questi sentimenti affronta gli studi di diritto a Pavia ed in particolare i corsi del costituzionalista e repubblicano (106) (107) (108) ANZILOTTI, Il diritto internazionale nei giudizi interni, cit., p. 422. Ivi, p. 426; vedi anche ivi, p. 476. Rivista, 1917, p. 195 ss. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 51 Ghisleri. Questi ne resterà fortemente impressionato tanto da scrivere la presentazione al volume del giovane Perassi Le attuali istituzioni e la bancarotta del parlamentarismo (109), in cui si ricercavano rimedi al degrado della democrazia parlamentare che meglio consentissero la governabilità dello Stato. Prendendo ispirazione dalla dottrina germanica, Perassi estende il suo interesse verso lo Stato politicamente decentrato su base territoriale (110). In questo modo viene a contatto con la dottrina che Kelsen aveva elaborato a proposito della normabase che regge l’ordinamento federale (111) e per primo introduce in Italia la dottrina kelseniana. Nella Teoria dommatica Perassi utilizza questo modello per fissare la norma pacta sunt servanda come unica norma-base del diritto internazionale che funge quale regola primaria sulla produzione giuridica e rende così qualunque trattato idoneo ad operare quale « fonte » di produzione giuridica (112). La configurazione unitaria dell’ordinamento giuridico internazionale mutua la costruzione « per gradi » del diritto elaborata da Kelsen, senza mai spingersi ad accettare la formula monista della dottrina pura. Lo precludeva il senso di aderenza al dato storico e sociale (113), ma anche la sua matrice costituzionalista assolutamente restia ad abbandonare il carattere di ente (costituzionalmente) sovrano dello Stato. Nel contempo, Perassi non si pone sul piano dei giuristi tedeschi « souverainistes » poiché resta legato all’insegnamento di Anzilotti quando afferma che il diritto internazionale regola le relazioni tra Stati (114). Perassi è pure condizionato dal pensiero di Santi Romano sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici. Proprio in ragione della diversa base sociale, Perassi distingue — dommaticamente — il diritto internazionale dal diritto interno ritrovando entrambi come autonomi ed originari con una propria rispettiva norma-base. Infine, attingendo alla tradizione storicistica italiana, Perassi coniuga l’interazione tra dato formale e dato (109) Pavia, 1907, ristampato a Roma nel 1946 con il titolo Il Parlamentarismo e la democrazia, in relazione ai lavori dell’Assemblea costituente e richiamato ancora di recente da ELIA, La « stabilizzazione » del governo dalla Costituente ad oggi, in Accademia Nazionale dei Lincei, Convegno La Costituzione ieri e oggi, Roma, 9-10 gennaio 2008, http://www.astrid-online.it. (110) PERASSI, Confederazione di Stati e Stato federale: profili giuridici, Manoppello, 1910. (111) KELSEN, Hauptprobleme der Staatrechtslehre, Tübingen, 1911. (112) MORELLI, Tomaso Perassi, Rivista, 1962, p. 10, sottolinea il carattere esclusivo che, secondo la Teoria dommatica, assume la norma-base nell’ordinamento internazionale. (113) Rilevato giustamente da MORTATI, L’opera di Tomaso Perassi, Rivista, 1962, p. 208 s. (114) PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, Roma, 1937, p. 2. 52 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO reale in una prospettiva evoluzionistica, in specie quando evidenzia la funzione promozionale del diritto e la c.d. sanzione premiale (115). Tali ed altri aspetti della dottrina di Perassi denotano il suo riferimento piuttosto selettivo alla dottrina di Kelsen, per quanto sia difficilmente controvertibile l’incidenza degli scritti « giovanili » del giurista austriaco nel determinare l’approccio costruttivistico di Perassi (116) e — attraverso questi — della scuola romana di diritto internazionale (117). L’influenza del « primo » Kelsen si manifesta anche nella stessa nozione della norma giuridica da lui intesa come giudizio ipotetico, dando un’indicazione che « realizza il superamento polemico delle posizioni imperativistiche » (118). E Perassi ne riprende nella Teoria dommatica quasi alla lettera il concetto: « La norma giuridica, dal punto di vista dommatico, non può essere considerata un comando perché non può essere considerata una volontà: essa è un canone, da cui sono date le valutazioni giuridiche » (119); di conseguenza, « l’ordinamento giuridico è il sistema dei canoni dei valori giuridici » (120). Nella misura in cui la dommatica giuridica si allontana dal positivismo statalistico, si allarga la sfera di azione dell’interprete e del giudice in particolare. La stessa dottrina internazionalista italiana degli anni Cinquanta sul c.d. diritto spontaneo (Ago, Giuliano, Barile) trova spunti anticipatori nella Teoria dommatica. Quella dottrina ritiene che le regole internazionali (generali) di natura consuetudinaria hanno fondamento nella coscienza giuridica degli Stati in forza di uno specifico giudizio di valore circa appunto il loro « valore » giuridico (121). Ebbene nella Teoria dommatica Perassi aveva ritenuto che la norma esprimesse un canone di valore giuridico, spettando al giudice valutarlo obiettivamente (122). Vero è che Perassi, coerente con il proprio schema costruttivistico, dà per acquisita — anzi « prodotta » — la norma, mentre per i fautori del diritto spontaneo la norma va rilevata dall’in(115) Difficilmente conciliabile la funzione premiale della sanzione con la dottrina pura, che invece riconduce la sanzione all’interno della stessa nozione di norma giuridica: RICCOBONO, La dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, in Prospettive di filosofia del diritto del nostro tempo, Torino, 2010, p. 242. (116) MALINTOPPI, op. cit., p. 311. (117) Sul connotato perassiano della scuola romana: MORELLI, Tomaso Perassi, cit., p. 13. (118) RICCOBONO, op. cit., p. 224. (119) PERASSI, Teoria dommatica, cit., p. 293. (120) Ibidem. (121) Cfr. in proposito le considerazioni di BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1972, p. 27. (122) Lo stesso AGO, Tomaso Perassi. Lo studioso, l’uomo, il cittadino, Comunità int., 1962, p. 6, riconosce che Perassi avvia, con la Teoria dommatica, « la revisione critica delle concezioni rigidamente positivistiche ». NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 53 terprete al di fuori di quello schema (123). Ma non cambia l’essenza del carattere precettivo rappresentato dal « giudizio di valore », tanto che Perassi ritiene che la sentenza internazionale, pur essendo vincolante tra le parti della controversia, sia una « manifestazione di pensiero » del giudice (124) e non invece — come sostiene Morelli — una sua manifestazione di volontà (125). La distanza della dommatica giuridica dall’originario positivismo « volontaristico » di stampo statalista avviene con un’originale combinazione della dottrina pura e della dottrina istituzionale (126). Dalla prima Perassi assume il carattere necessariamente indimostrabile della norma pacta sunt servanda quale norma-base del diritto internazionale, di modo che il suo fondamento viene definitivamente sganciato dalla volontà collettiva degli Stati sia pure senza accogliere il fondamento consuetudinario della stessa regola (127). Nel momento in cui Perassi rafforza l’autonomia deontica delle regole internazionali, egli fa propria anche una visione ordinamentale che manca in Kelsen. Ciò emerge successivamente alla pubblicazione della Teoria dommatica quando Perassi sembra accogliere l’idea di Santi Romano circa l’esistenza di principi di portata generale che prescindono dalla volontà di singoli soggetti (128): ad avviso di Perassi, i principi « imprimono e manten(123) Sulla concezione « anticostruttivistica » di Ago, cfr. BOBBIO, Commemorazione del Prof. Roberto Ago, Comunità int., 1995, p. 27. (124) PERASSI, Recensione, Rivista, 1931, p. 598. (125) Infra, nota 133. Sulle perplessità di Morelli rispetto alla dottrina del « diritto spontaneo », infra, nota 172. (126) Eppure Ziccardi rileva la distanza concettuale di Romano da Kelsen: ZICCARDI, Il diritto internazionale, cit., p. 150. (127) L’accezione dommatica della norma pacta sunt servanda quale norma-base meramente supposta ed indimostrabile non trovò largo consenso. Cavaglieri mantenne l’impostazione originaria di Anzilotti, di modo che l’obbligatorietà dei trattati continuava a poggiare su considerazioni etiche (CAVAGLIERI, Corso di diritto internazionale3, Napoli, 1938, p. 50). Anche ROMANO (S.) (Corso di diritto internazionale, Padova, 1926, cit., p. 20 e Corso di diritto internazionale4, Padova, 1939, cit., p. 21) criticava la regola pacta sunt servanda assunta come postulato perché così si ricadeva « in una concezione del tutto naturalistica...: se esso è giuridico, occorre provarne la giuridicità; altrimenti non si può assumere a fondamento di un ordinamento giuridico »; a suo avviso la regola in questione rientrava tra i principi « istituzionali » dell’ordinamento internazionale di natura però non consuetudinaria, perché comunque preesistente alla stessa formazione di una consuetudine. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale7, Padova, 1967, p. 32, perviene invece all’accezione consuetudinaria della norma pacta sunt servanda, ma non in quanto norma-base dell’ordinamento internazionale. AGO, Lezioni di diritto internazionale, cit., p. 104, aveva peraltro attribuito alla consuetudine la natura di fonte di primo grado, dandole una rilevanza maggiore del trattato nel sistema delle fonti di diritto internazionale. (128) PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, cit., p. 8; ID., Lezioni di diritto internazionale, I, Padova, 1961, p. 11: nei richiami successivi si farà riferimento alla 54 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO gono all’ordinamento giuridico il carattere di un sistema » (129). La valenza obiettiva del diritto internazionale permette a Perassi di coniare per il giudice internazionale la definizione di « organo di funzioni » dell’ordinamento internazionale, riferita a meccanismi internazionalmente regolati la cui attività non sia riconducibile ad un soggetto internazionale pur producendo effetti nei confronti di due o più soggetti internazionali (130). Al di là del suo significato tautologico, la definizione aveva il pregio di scindere l’individuo dalla « funzione internazionale », in specie attagliandole la garanzia del diritto obiettivo. Applicato al giudice internazionale che già si era qualificato « organo del diritto internazionale » (131), ne formalizzava la posizione di « terzietà » rispetto alla volontà degli Stati che avevano voluto quel determinato meccanismo di accertamento del diritto. Perassi, che così offriva una sintesi unitaria alle diverse tesi di Anzilotti e Morelli (132), restava però dell’avviso che il giudice non crea norme giuridiche, ma le accerta. La differenza ancora una volta sta nel modo selettivo con cui Perassi abbraccia la dottrina di Kelsen, ripresa invece in termini più ampi da Morelli per il quale — come anche si vedrà più avanti — la sentenza internazionale ha la natura di fatto giuridico in senso stretto, perché comunque espressiva di una dichiarazione di volontà, fino a configurarla costitutiva di effetti giuridici per la determinazione del contenuto della riparazione (133). prima inserendo tra parentesi il riscontro nell’ultima. Per una critica sui limiti della concezione positivista secondo la costruzione dommatica, SALVIOLI, Principî generali di diritto internazionale, Rivista, 1928, p. 575. Sul rilievo dei principi nel pensiero di Perassi anche infra, par. 11. (129) PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, Napoli, 1922 (rist. Padova, 1967), p. 32. Già Diena (supra, nota 53) aveva asserito il ricorso ad un metodo eclettico che valorizzasse i principi ma solo in funzione integrativa delle norme. (130) PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, cit., p. 151 (p. 172). (131) Corte permanente di giustizia internazionale, sent. 25 maggio 1926, Certain German Interests in Polish Upper Silesia. Merits, P.C.I.J. Publications, Series A, n. 7, p. 19. (132) Per Anzilotti il giudice internazionale era un organo collettivo di Stati (ID., Le questioni di diritto sollevate dagli incidenti del « Carthage » e del « Manouba », Rivista, 1913, p. 51 s., ora anche in Opere, vol. II, t. 2, cit., p. 333 ss.; ID., Corso di diritto internazionale3, cit. p. 276 ss.), mentre per Morelli occorreva configurare in proposito la figura di « istituto collettivo » (ID., La sentenza internazionale, Padova, 1931, p. 96 ss.): quest’ultimo comunque ritiene compatibile la nozione perassiana con la propria costruzione (MORELLI, La théorie générale du procès international, in Recueil des Cours, vol. 61 (1937), p. 280 s.). In una posizione minoritaria, e non assorbita dalla nozione di Perassi, era chi (di ispirazione romaniana) considerava la Corte permanente di giustizia internazionale organo della Società delle Nazioni (SALVIOLI, La Corte permanente di giustizia internazionale, Rivista, 1923, p. 23 ss.). (133) MORELLI, La sentenza internazionale, cit., pp. 69 ss. e 292 s. Secondo Kelsen, « la determinazione della norma individuale nel procedimento esecutivo della legge è NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 55 9. La dottrina di Perassi ha esercitato una forte influenza sulla scuola italiana di diritto internazionale, compreso lo stesso Anzilotti che fino a pochi anni prima aveva decisamente respinto l’idea della norma pacta sunt servanda come norma sulla produzione giuridica (134). Questo profilo costruttivistico della Teoria dommatica diventa ancora più netto in Morelli che eleva ulteriormente la norma-base al di sopra della norma pacta sunt servanda e si richiama alle norme derivate dal trattato come fonti di « terzo grado » (135). Ma la Teoria dommatica costituisce una sorta di « mantello » per una concezione « obiettiva » del diritto internazionale che si sgancia dall’originaria ispirazione kelseniana per meglio conciliare il dato formale con quello dell’effettività. È in questa prospettiva che Perassi, riecheggiando Santi Romano, lega la vitalità dell’ordinamento giuridico alla sua capacità di regolare i conflitti di interessi (136) e, più in generale, alla « sua disposizione ad adattarsi al variare delle esigenze sociali » (137). Sul solco di Romano che sottolineava il dinamico « auto-ordinarsi » di un ordinamento, Perassi configura vari livelli di reciproca interazione tra dato giuridico e dato reale. Lo fa in tema di soggettività dello Stato contestando l’idea di Anzilotti sul riconoscimento degli Stati come accordo bilaterale con effetto costitutivo della personalità giuridica internazionale perché ritiene che questi enti già sono destinatari della norma pacta sunt una funzione della volontà in quanto con questa viene riempito lo schema della norma generale » (ID., Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 1967, p. 123). Con riferimento a questa dottrina di Kelsen, cfr.: TREVES, Prefazione, ivi, p. 17; RICCOBONO, op. cit., p. 232. (134) Cfr. ANZILOTTI, Corso, cit., p. 65. Nella prima fase del suo pensiero Anzilotti aveva ritenuto che « la norma stessa pacta sunt servanda non da altro che dalla volontà collettiva degli Stati desume il suo valore obbligatorio » (ID., Sugli effetti dell’inadempienza di obbligazioni internazionali aventi per oggetto una somma di denaro, Rivista, 1913, p. 64). Dopo la pubblicazione della Teoria dommatica, questa linea venne mantenuta per qualche tempo da Cavaglieri, manifestando la « repulsione dal sistema giuridico di ogni elemento, che non porti l’impronta della volontà interstatale storicamente manifestata » (ID., Su recenti indirizzi della dottrina in diritto internazionale, Archivio giuridico, 1921, p. 109). In tempi meno lontani le originarie posizioni di Anzilotti hanno trovato riscontro nella dottrina di G. Barile, decisamente restia ad accettare l’esistenza di regole (o principi) generali sulla produzione giuridica dei trattati (ID., Lezioni di diritto internazionale2, Padova, 1983, p. 102). (135) Cfr. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale7, cit., p. 37 ss. Il « declassamento » della norma pacta sunt servanda si spiega con il convincimento di Morelli che, nel sistema delle fonti internazionali, la consuetudine non è omologabile al trattato (ivi, p. 14). (136) PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 21. (137) PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, cit., p. 21 (p. 30); l’affermazione è ripresa da un allievo di Perassi, SERENI, Bilancio del diritto internazionale, in Annali Università di Ferrara, Anno accademico 1957-58, p. 410. 56 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO servanda — e dunque soggetti di diritto internazionale — se rispondono ai requisiti posti dall’ordinamento internazionale (138). Ed è sempre la norma pacta sunt servanda che, secondo Perassi, spiega l’idoneità del trattato a generare sistemi particolari di diritto internazionale sotto forma di accordo-quadro o anche istitutivi di una determinata organizzazione internazionale: in entrambi i casi sovviene l’autonoma capacità ordinatoria dei principi di coordinare un « sistema » parziale di diritto internazionale (139). In L’ordinamento della Società delle Nazioni, pubblicato nel 1920 (140), Perassi, senza scalfire la teoria della soggettività internazionale dell’Unione di Stati già acquisita da Anzilotti (141), applica le categorie romaniane alla Società delle Nazioni, evidenziando nel suo ambito il dispiegarsi di un « ordinamento interno » (142). Poiché la norma pacta sunt servanda non pone limitazioni quanto al contenuto del Patto istitutivo della Società, erano pienamente legittime le disposizioni del Patto a favore solo di determinati Stati membri, anche se si presentano come « deviazioni più o meno audaci » da regole e principi dell’ordinamento giuridico internazionale cui in ogni caso afferiscono (143). Perassi, che dopo trent’anni riproporrà quasi alla lettera il suo originario ragionamento rispetto all’ONU (144), ritiene che anche le funzioni dell’organo di un’Unione di Stati non siano identiche per tutti gli Stati come nel caso della Corte permanente di giustizia internazionale: questo « organo internazionale » (di funzioni) aveva una competenza giurisdizionale differente per gli Stati che aderivano al relativo Statuto (145). È uno schema che va apprezzato per il modo in cui « eleva » la funzione ordinatoria del trattato rispetto ad una determinata comunità di Stati, anche se Perassi (diversamente da Quadri, maggiormente vicino alla teoria istituzionale di Romano), non individua nell’organizzazione internazionale l’ente rappresentativo o gestore di interessi propri della Comunità interna(138) PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, cit., p. 40 ss. (p. 57 ss.). La tesi era stata già sviluppata da DIENA (Diritto internazionale pubblico, cit., p. 99, e da SALVIOLI, Il riconoscimento degli Stati, Rivista, 1926, p. 349, nota 1. (139) PERASSI, Il trattato di lavoro fra l’Italia e la Francia (1919-1920), Rivista, 1919-1920, p. 415 ss., ora anche in Scritti giuridici, vol. II, Milano, 1958, p. 81 ss. (140) In La vita italiana, 1920, e poi in PERASSI, Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1958, p. 305 ss. (141) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 143 ss. (142) L’indicazione peraltro è ripresa dallo stesso ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 180 ss. (143) PERASSI, Scritti giuridici, vol. I, cit., p. 308 s. (144) PERASSI, L’ordinamento delle Nazioni Unite (rist.), Padova, 1962, p. 16, anche in ID., Scritti giuridici, vol. I, cit., p. 346. (145) ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale3, cit., p. 268. In senso analogo PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, cit., p. 155 (p. 177 s.). NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 57 zionale (146). Tuttavia il ragionamento di Perassi non preclude le potenzialità « promozionali » del trattato di ingenerare modifiche di natura generale del diritto internazionale. In L’ordinamento della Società delle Nazioni egli configura l’eventualità che una tale « sovrastruttura giuridica », espressione di una « speciale società tra ... Stati », possa « operare, lentamente, una trasformazione profonda nella struttura dell’ordinamento » (147). 10. La Teoria dommatica di Perassi rappresenta una sintesi — o se si preferisce una mediazione — tra diverse dottrine (Anzilotti, Kelsen, Romano). Ognuna cede qualcosa all’altra: la volontà collettiva perde il suo valore di comando e deve adattarsi all’unità « autogenetica » dell’ordinamento giuridico internazionale, la dottrina pura deve riconoscere lo Stato come ente reale e non « comunità giuridica organizzata », la teoria istituzionale fermarsi dinanzi all’assetto interindividuale della base sociale. Da qui ulteriori combinazioni « mediatorie » con soluzioni peculiari — e intrisecamente coerenti — dello schema perassiano. Emblematica la soluzione data da Perassi ai rapporti tra ordinamenti. Si acquisisce il dato romaniano della pluralità degli ordinamenti giuridici in contrapposizione alla concezione monista di Kelsen, ma resta l’esigenza sottesa alla dottrina pura di un pieno inquadramento formale delle regole di diritto estraneo applicate in un dato ordinamento giuridico (148): da qui l’insistenza di una regola (espressa o tacita) di « adeguamento » che riproducesse e trasformasse nell’ordinamento interno la norma internazionale. È una logica che riprende il modello dualista di Anzilotti e Donati in contrapposizione alla tecnica del rinvio mobile di Romano (149), per assicurare non solo il monopolio normativo dell’ordinamento statale al suo interno ma la stessa natura delle sue regole rivolte ad una base sociale assolutamente diversa da quella dell’ordinamento internazionale. (146) Vedi appunto QUADRI, La tutela penale degli interessi stranieri e internazionali, Rivista, 1942, p. 161 ss., spec. p. 167. (147) Cit. supra, nota 144, p. 309. (148) Nella stessa logica di inquadramento formale si spiega la costruzione dommatica del diritto internazionale privato cui si allinea anche Anzilotti e che troverà poi in Ago la sua massima espressione. Ma è significativo che Anzilotti, pur abbandonando la sua originaria concezione sulla funzione « internazionale » delle norme comuni di diritto internazionale privato, ritenga di dover osservare — proprio alla luce del nuovo approccio dommatico — il rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero richiamato dalla legge italiana, dal momento che questa avrebbe rimesso alla prima la soluzione della legge applicabile: cfr. LUZZATTO, Introduzione, in ANZILOTTI, Corsi di diritto internazionale privato e processuale, cit., p. XX ss. (149) ROMANO (S.), L’ordinamento giuridico, cit., p. 174 ss. 58 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO Dalla soluzione che Perassi prospetta nei rapporti tra ordinamenti si coglie anche il limite della sua dottrina: la Teoria dommatica, da un lato, rafforza l’unità del diritto internazionale, dall’altro ne limita la profondità regolatoria. Un’efficace rappresentazione di queste ambiguità si ritrova a proposito della sentenza internazionale che, come già ricordato, Perassi considera una « manifestazione di pensiero » del giudice o dell’arbitro in contrapposizione alla soluzione data da Morelli che invece considerava la sentenza una manifestazione di volontà (150). La definizione perassiana preservava l’autonomia di rilevazione da parte del giudice quanto al diritto applicabile, ma era chiaramente riduttiva per ciò che concerne gli effetti della sentenza nel presumibile intento di preservare il ruolo di dominus alle parti della controversia. Si ha in altri termini l’impressione che Perassi si sforzi di mantenere complessivamente a livelli « minimi » l’unità ordinatoria del diritto internazionale lasciandolo aperto agli sviluppi più svariati. Il risultato di tale minimalismo è che Perassi, oltre a non occuparsi di responsabilità internazionale, propugna talora in altri campi soluzioni meno avanzate di quelle che Anzilotti aveva precedentemente delineato. Ancora una volta è emblematica la sistemazione dei rapporti tra ordinamenti. Mentre Anzilotti aveva inizialmente individuato un principio di coerenza dell’ordinamento interno per il rispetto degli obblighi internazionali, Perassi lo elude e preferisce formalizzare, in forza della Teoria dommatica, il riferimento a norme specifiche di adattamento volute dallo stesso ordinamento interno (151). La più rigorosa autonomia dei due sistemi accentua la possibilità della doppia verità nei due distinti ordinamenti. In un breve commento al Trattato di arbitrato e di conciliazione fra la Germania e la Svizzera (152), Perassi asserisce che lo Stato, autore di un illecito per mezzo di una sentenza pronunciata dal giudice nazionale, « non potrebbe, senza turbare profondamente i principi dell’ordinamento giuridico interno, di cui è portatore, annullare quella sentenza passata in giudicato » (153). Si tratta di un’impostazione che ha fortemente condizionato in Italia gli sviluppi giurisprudenziali e dottrinari per tutto il Novecento ed è stata solo in parte (150) Supra, par. 8. (151) Lo Stato però non monopolizza l’ordinamento. Ne è solo « gestore »: questa espressione di PERASSI (Lezioni di diritto internazionale, II, Roma, 1938, p. 9) riflette la concezione romaniana dello Stato quale garante unitario della realtà ordinativa di una possibile pluralità di sistemi. (152) PERASSI, Il trattato di arbitrato e conciliazione fra la Germania e la Svizzera, Rivista, 1921-1922, p. 155 ss., anche in Scritti giuridici, vol. II, cit., p. 31 ss. (153) Ivi, p. 39. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 59 rimossa con la revisione costituzionale dell’art. 117, 1º comma, Cost. (154). L’approccio « minimalista » di Perassi lasciava peraltro ampi margini per valutazioni di ordine diverso volte ora ad approfondire ora ad alleggerire (ulteriormente) l’autonomia ordinatoria del diritto internazionale. La sintesi concettuale di Perassi era talmente astratta che permetteva di comprendervi più opzioni valutative ed applicative. La duratura credibilità di Perassi nel Ministero degli esteri sia durante il regime fascista che dopo la sua caduta trova risposta nella duttilità del suo modello culturale di plasmare il diritto internazionale in funzione delle diverse fasi della politica estera italiana. Lo schema « minimalista » della dottrina perassiana ha però ugualmente condizionato la scuola internazionalista italiana ed in particolare la scuola romana. Così si accantonava la prospettiva di giustizia cosmopolitica che aveva animato, sia pure con ottiche diverse, Kant, Kelsen, esponenti autorevoli del Risorgimento italiano (155) e lo stesso contributo di Anzilotti alla Società delle Nazioni ed alla Corte permanente di giustizia internazionale (156). Anzi quella scuola, acquisita una concezione giuridica della guerra come fattore dinamico di ricambio delle norme (157), la traduce in un « fatto » di produzione giuridica (158). La separatezza dommatica tra diritto internazionale e diritto interno induce Perassi e la scuola romana a privilegiare lo Stato quale potestà di fatto e dunque « ente reale » (159), in modo da (154) Vedi SALERNO, La garanzia costituzionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Rivista, 2010, p. 654 ss. (155) Cfr. il programma (specialmente il punto 2) presentato da Garibaldi al Congresso per la pace e la libertà tenutosi a Ginevra nel 1867, in Il libretto rosso di Garibaldi (a cura di P. P. Di Mino e M. Di Mino), Bracigliano, 2011, p. 40. Sul movimento pacifista dell’Ottocento negli Stati Uniti, cfr. JANIS, America and the Law of Nations, 1776-1939, Oxford, 2010, p. 73 ss. (156) Cfr. al riguardo le considerazioni che ANZILOTTI svolge in Corso di diritto internazionale3, cit., p. 275, a proposito del ruolo avuto dal movimento pacifista nella predisposizione di tali strumenti. Si deve però considerare che, diversamente da Kelsen, il modello di giustizia cosmopolitica di Kant non comprometteva l’indipendenza degli Stati e dunque trovava un punto di incontro con quella dottrina internazionalista italiana (Anzilotti) che perseguiva l’ideale di relazioni pacifiche tra gli Stati sia pure preservando il convincimento — di matrice liberale — che la libertà di uno Stato fosse da custodire come garanzia per la libertà di tutti gli Stati. (157) AGO, Lezioni di diritto internazionale, Milano, 1943, p. 102 s. (158) Cfr. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale7, cit., p. 50 s. (159) PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, I, Roma, 1937, cit., p. 41; la più rigorosa applicazione di questa dottrina si deve comunque agli studi successivi di ARANGIO-RUIZ, di cui vedi — tra gli altri — Gli enti soggetti dell’ordinamento internazionale, Milano, 1951 e, più di recente, La persona internazionale dello Stato, cit., spec. p. 29 ss. 60 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO escludere che — ai sensi del diritto internazionale e diversamente dalla formulazione kelseniana — lo Stato figurasse quale comunità giuridicamente organizzata e tanto meno quale « organo » della società internazionale (160). Ed è sempre partendo dalla rigorosa concezione dualista di Perassi che si accentua la sfera di autonomia costituzionale dello Stato nell’assunzione di obblighi internazionali e soprattutto nella loro attuazione, di modo che la dottrina positivista italiana piuttosto che evidenziare il principio di coerenza tra ordinamenti quale configurato dal « primo » Anzilotti si è ritrovata, anche dopo la caduta del fascismo, a convergere non poche volte con la tradizione « souverainiste » della dottrina germanica fino a legittimare, addirittura dal punto di vista del diritto internazionale, la violazione di obblighi internazionali se conseguenti a pronunce della Corte costituzionale (161). IV. Conclusioni. 11. L’analisi della Teoria dommatica ha mostrato quanto siano state rilevanti le varianti apportate da Perassi rispetto al pensiero di Kelsen (162), ribadendo il « sincretismo » precedente operato da Anzilotti nei confronti di Triepel. Se ne evince che tanto Anzilotti quanto Perassi hanno operato una costante mediazione tra l’influenza germanica e la tradizione culturale italiana, ma facendo in modo che fosse la seconda a dettare i termini della sintesi. Pertanto è all’interno del risultato « nazionale » di questa mediazione che si aprono vari filoni della successiva dottrina positivista italiana di diritto internazionale. Si tratta di varianti che, proprio per il comune quadro originario, non condizionano la sostanziale continuità della dottrina tanto da non compromettere neppure la figura dominante di Perassi, come pure emerse in seno alla Costituente dove riuscì a far prevalere la propria tradizionale concezione dualista rispetto alla soluzione proposta da (160) KELSEN, Contribution à la théorie du traité international, Revue int. de la théorie du droit, 1936, p. 261 s. Peraltro, pur senza seguire tale approccio, Picone ha sostenuto l’idoneità degli Stati ad operare uti universi: ID., Comunità internazionale e obblighi « erga omnes », Napoli, 2006. (161) CONFORTI, Diritto internazionale8, Napoli, 2010, p. 371. (162) Ziccardi riconosce che Perassi, pur ispirandosi alla dottrina pura, la affianca con « altri metodi integrativi » (ZICCARDI, Commemorazione del Prof. Roberto Ago, Comunità int., 1995, p. 30). NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 61 Morelli e Ago, pur sempre di stampo dualista ma meno lontana dal modello kelseniano (163). La ricordata divergenza tra Perassi e Morelli mette in luce una varietà di posizioni all’interno della stessa scuola positivista romana. Invero il percorso della dottrina internazionalista del Novecento è stato riassunto da Antonio Cassese riconducendo ad Anzilotti due distinti filoni. L’indirizzo « formalista » della scuola romana, ricondotto a Perassi e Morelli nonché focalizzato intorno alla Rivista di diritto internazionale che Cassese definisce « principale strumento della più rigorosa dottrina italiana » (164). A parere di Cassese, questa componente avrebbe perseguito « una formalizzazione sempre più radicale della scienza giuridica ... pervenendo ad una sistemazione concettuologica talmente rarefatta che si avverte spesso la sensazione di essere lontani dalla realtà attuale della società internazionale » (165). L’altro indirizzo, cui Cassese riconduce Ago, Giuliano e Quadri (ma vi andrebbe aggiunto G. Barile), avrebbe invece mostrato un « acuto senso della realtà ... per la costante adesione ad una visione concreta e puntuale dei rapporti internazionali » (166). La matrice almeno in parte kelseniana della scuola romana di diritto internazionale le ha certamente conferito un connotato formalista ed astratto. In una valutazione retrospettiva, va tenuto presente che l’affermazione di quel formalismo avviene in un periodo storico — tra la fine dell’Ottocento e le prime due decadi del Novecento — in cui la dottrina italiana avvertiva fortemente l’esigenza di contrastare le tendenze giusnaturalistiche quali allora ancora espresse nelle manife(163) Cfr. SALERNO, Il neo-dualismo della Corte costituzionale nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, Rivista, 2006, p. 343 s. Sul ruolo di Perassi in Assemblea costituente, cfr. MALINTOPPI, op. cit., p. 305 ss. (164) CASSESE (A.), Diritto internazionale, in Guida alla Facoltà di Giurisprudenza (a cura di S. Cassese), Bologna, 1978, p. 130. L’affermazione è stata ribadita anche nella terza edizione della Guida (Bologna, 1984, p. 139). Gaja ha osservato che questa Rivista « ha svolto un ruolo importante per far prevalere in Italia un metodo di studio del diritto internazionale pubblico ... tendente a ricostruire le norme attraverso una rigorosa analisi dei dati offerti dalla prassi internazionale » (ID., Testimonianze, in La « cultura » delle riviste giuridiche italiane. Atti del Primo incontro di Studio - Firenze 15/16 aprile 1983, Milano, 1984, p. 63). (165) CASSESE (A.), Diritto internazionale, cit., p. 130. (166) Ibidem. Cassese fa discendere da questo elevato grado di astrazione anche la « miopia » della dottrina perassiana e morelliana verso la giurisprudenza. Invero, le opzioni giurisprudenziali appaiono ininfluenti ai fini di una ricostruzione « dommatica » (se non per correggerle), ma dal punto di vista sistematico è stato senz’altro considerevole il contributo che Perassi e soprattutto Morelli hanno dato alla valorizzazione della funzione giudiziaria internazionale. 62 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO stazioni tardo-illuministiche e romantiche dalla scuola manciniana (167). È attraverso il metodo formalista che la dottrina internazionalista italiana supera — sia pure con l’ausilio decisivo della dottrina germanica — la fase culturale propriamente risorgimentale sviluppando la moderna concezione « positiva » del diritto internazionale. Le coordinate di quella concezione erano tuttavia relativamente flessibili e consentivano un dialogo con il dato reale anche in coerenza con la tradizione storicistica della cultura italiana di teoria generale del diritto. Il formalismo perassiano cela in vario modo il nesso tra diritto e dato reale: lo attestano la sensibilità di Perassi sia sulla soggettività internazionale degli Stati sganciata dal preteso effetto costitutivo del riconoscimento, sia sulla funzione promozionale del diritto (di straordinaria attualità peraltro nel diritto internazionale contemporaneo (168)). L’approccio « avalutativo » proprio della Teoria dommatica — coerente del resto con la dottrina pura cui Perassi si ispira — era in contrapposizione al giusnaturalismo che ricercava una definizione del diritto « giusto » ma non alla percezione del diritto come fenomeno in sé « reale » (169). Lo stesso « dover essere » del diritto può anche non riscontrarsi nella realtà, ma non annulla il dato normativo come parametro obiettivo di « validità ». E non vi è dubbio che questa impostazione, al di là della sua impronta formalista, abbia rafforzato il carattere precettivo del diritto internazionale. Più spesso però il formalismo della scuola positivista internazionalista esprimeva categorie logiche e concettuali che reggevano il sistema nella sua unità. Tuttavia l’indirizzo della scuola era abbastanza articolato al suo interno da rendere necessaria una valutazione meno schematica dei suoi rappresentanti più autorevoli. Per « formalismo » si intende sovente il « purismo giuridico » attraverso cui si sviluppa, secondo l’insegnamento di Kelsen, « una conoscenza del diritto non influenzata da giudizi di valore » (170). È seguendo (167) Ne erano una indiretta conferma le critiche che venivano indirizzate dall’esterno o dall’interno della scuola positivista verso soluzioni che avevano un connotato giusnaturalistico. Si vedano in proposito: la critica di Romano alla regola pacta sunt servanda intesa quale postulato (supra, nota 127), la posizione di Anzilotti sulla soggettività internazionale dello Stato (supra, par. 5 e nota 72), le critiche che lo stesso Anzilotti rivolge alla dottrina dei diritti « inerenti » degli Stati o all’idea che l’ordine giuridico internazionale fosse fondato sulla necessità sociale (supra, par. 5). (168) Cfr. SALERNO, Diritto internazionale. Principi e norme2, Padova, 2011, p. 18. (169) RICCOBONO, op. cit., p. 223. Per Kelsen, la scienza del diritto ha come scopo solo « di conoscere il diritto esistente, il diritto valido, senza proporsi lo scopo di legittimarlo come giusto o di squalificarlo come ingiusto in base ad una determinata ideologia » (TREVES, Prefazione, cit., p. 16). (170) RICCOBONO, op. cit., p. 221. NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 63 questo approccio che l’attenzione del giurista si concentra solo sull’analisi della norma e specialmente sulla sua formazione (171). È un metodo seguito soprattutto da Morelli peraltro coniugato con la rigorosa analisi della prassi (dunque del dato « reale ») per ricercare il riscontro effettivo della pretesa asserzione di una norma consuetudinaria. Diversamente, l’indirizzo « dommatico » di Perassi era decisamente condizionato da Santi Romano. Coniugando dottrina pura e dottrina istituzionale, Perassi giunge ad una configurazione unitaria dell’ordinamento giuridico internazionale facendo coesistere la norma-base della prima con i principi ordinatori della seconda rilevati autonomamente dall’interprete sia pure sulla base del dato positivo. Proprio queste radici (anche) romaniane del pensiero di Perassi non consentono di ritenere che egli percepisca l’indagine giuridica come « sola deduzione da premesse ricevute non da essa stessa poste e definite » (172). Una seconda possibilità è di considerare il formalismo della scuola romana come supina espressione del c.d. positivismo statalistico. Si è già visto che tale approccio, già estraneo ad Anzilotti, lo è pure alla Teoria dommatica di Perassi: questa infatti si fonda su una norma-base postulata, che incrina quella concezione e piuttosto privilegia la logica « auto-genetica » dell’ordinamento giuridico. Altri aspetti del pensiero di Perassi mostrano l’autonomia del fenomeno giuridico internazionalistico dalla volontà degli Stati: si pensi alla nozione di « organo di funzioni » tuttora attagliata alla Corte internazionale di giustizia da una parte della dottrina italiana contemporanea nonostante sia ormai superata dal dato positivo che qualifica la stessa Corte quale organo giudiziario principale dell’ONU (art. 92 della Carta) (173). Del resto, anche sul piano dell’interpretazione la scuola romana rifugge da un approccio strettamente esegetico. Non era certo un esegeta Anzilotti per il quale l’interpretazione di un trattato riflette « un’idea » delle Parti contraenti (174), lasciando molto spazio all’interpretazione teleo(171) DE NOVA, Rassegna di diritto internazionale pubblico, Jus, 1940, p. 607. (172) ZICCARDI, Commemorazione del Prof. Roberto Ago, cit., p. 30. E non è casuale che Morelli, pur mostrando « la più attenta considerazione » verso la dottrina favorevole ad asserire l’esistenza di principi o norme « costituzionali », si domanda « se la certezza non venga per avventura compromessa dalla moltiplicazione delle norme prive di fonte e dalla conseguente svalutazione del concetto stesso di fonte » (MORELLI, Tomaso Perassi, cit., p. 11). Va da sé che la perplessità di Morelli investiva anche i fautori del diritto spontaneo (MORELLI, Nozioni di diritto internazionale7, cit., p. 23 s.). (173) Cfr. SCISO, L’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione dopo la conversione del decreto-legge 28 aprile 2010 n. 63, Rivista, 2010, p. 807. (174) ANZILOTTI, op. diss., Corte permanente di giustizia internazionale, sent. 17 agosto 1923, S.S. « Wimbledon », P.C.I.J. Publications, Series A, n. 1, p. 36. La critica al metodo letterale preferito dalla maggioranza dei giudici dell’allora Corte permanente 64 L’AFFERMAZIONE DEL POSITIVISMO GIURIDICO logica. Riallacciandosi a Kelsen non lo furono neppure Perassi e tanto meno Morelli: quest’ultimo anzi abbracciò, come si è già osservato, la dottrina kelseniana della sentenza internazionale come manifestazione di volontà anche concretamente « produttiva » di diritto (175). Un’ulteriore critica al formalismo della scuola romana sta nella « purezza dei concetti » che condizionava l’interprete e rendeva oltretutto difficile il dialogo con le culture giuridiche straniere (176). Questo sforzo di astrazione, in cui primeggiò particolarmente Perassi (177), era diffusamente presente nella dottrina gius-pubblicistica e processualcivilistica di quel periodo desiderosa di esprimere la propria autorevolezza proprio mostrando la coerenza del sistema giuridico e delle espressioni che vi si attagliavano (178). Anzi, quanto più la costruzione del sistema sconfinava nell’astrazione di un modello « universale » di teoria generale del diritto tanto più la conoscenza dello stesso passava attraverso categorie formali di portata virtualmente universale. Era un’eredità della cultura giuridica pandettistica elaborare concetti giuridici « senza tempo e senza spazio », vale a dire di presentarli come « invarianti » in qualunque ordinamento giuridico (179). Ed opportunamente è stato segnalato (e meno opportunamente criticato) che Santi Romano, « pluralista e relativista quanto agli ordinamenti giuridici, ... non è stato pluralista e relativista quanto ai concetti... » (180). La capacità di mettere in luce un’« unica verità » sul piano dell’astrazione formale superando possibili antinomie (181) denotava l’importanza della di giustizia internazionale venne sollevata da Anzilotti in altre opinioni dissidenti (ivi, A/B, n. 41, p. 630; n. 50, p. 655; n. 53, p. 672; n. 70, pp. 740 e 745). (175) Specialmente supra, par. 10. (176) Vedi in proposito i rilievi di ITZCOVICH, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, p. 255. (177) Esemplare questa affermazione di Perassi: « La nozione di un istituto giuridico non è che la sintesi dei momenti discretivi che tra essa e le figure, che sembrano confinanti, l’analisi disvela » (ID., Il referendum. La dottrina giuridica, Roma, 1911, p. 18; corsivo aggiunto). (178) Cfr. ESPOSITO (C.), Organo, ufficio e soggettività dell’ufficio, cit., p. 251 s. (179) GIANNINI, Diritto amministrativo2, vol. I, Milano 1988, p. 41. La crisi di quell’approccio culturale si riscontra nell’atteggiamento « conservatore » della scuola positivista italiana. Alcuni tra i suoi maggiori esponenti hanno pubblicato nel secondo dopoguerra nuove edizioni di testi già editi negli anni Trenta, lasciando inalterato l’impianto concettuale ed in larga parte anche la formulazione testuale. La considerazione vale, tra gli altri, per le Lezioni di PERASSI (supra, nota 128) o il suo L’ordinamento delle Nazioni Unite (supra, nota 144), per il Diritto processuale civile internazionale di MORELLI (Padova, 1938 e 1954), per La guerra e Diritto bellico di BALLADORE PALLIERI, (Padova, 1935 e 1954). (180) SCARPELLI, L’etica senza verità, Bologna, 1982, p. 323. (181) Pur seguendo un approccio costruttivistico, la scuola romana del diritto internazionale non si pose la questione di « validità » delle norme dal punto del diritto NELLA SCUOLA INTERNAZIONALISTA ITALIANA 65 componente giuridica e quindi rafforzava — se si vuole « ideologicamente » — la certezza obiettiva del diritto piuttosto che una nozione di diritto fondata sul « comando » (182). E fu difatti la forza di quei concetti a preservare una notevole capacità di resistenza della dottrina internazionalista alle suggestioni del regime fascista (183). Certamente la capacità di elaborazione concettuale della scuola positivista romana era favorita dal sistema giuridico internazionale della prima parte del Novecento, molto meno composito e differenziato di quello attuale. Ma questo genere di difficoltà non dovrebbe indurre i giuristi contemporanei a privilegiare un relativismo concettuale che indebolisce la forza precettiva complessiva dell’ordinamento giuridico internazionale (184). FRANCESCO SALERNO internazionale generale, date le « illimitate » potenzialità della norma pacta sunt servanda (MORELLI, La sentenza internazionale, cit., p. 26; vedi anche AGO, Lezioni di diritto internazionale, cit., p. 89 e ivi la nota). Perciò non sussisteva nemmeno l’esigenza, propria dell’approccio kelseniano, di espungere dal sistema una delle proposizioni normative perché « invalida »: cfr. al riguardo GUASTINI, Garantismo e dottrina pura del diritto, in Assiomatica del normativo. Filosofia del diritto in Luigi Ferrajoli (a cura di Di Lucia), Milano, 2011, p. 117. (182) Cfr. su ciò ZICCARDI, Il contributo di Morelli alla dottrina del processo internazionale, in Il ruolo del giudice internazionale nell’evoluzione del diritto internazionale e comunitario (a cura di Salerno), Padova, 1995, p. 27 s. (183) Ancora nel 1938 GHIRON (Il diritto e il diritto internazionale, Rivista, 1938, p. 39) scriveva che il principio di soluzione pacifica delle controversie fosse di portata « costituzionale » nell’ordinamento internazionale. In generale sulla funzione di argine alle derive ideologiche del regime fascista che ebbe la concezione positivista per la dottrina internazionalista italiana SERENI, The Italian Conception of International Law, New York, 1943, p. 275. (184) Una parte della dottrina contemporanea ritiene che proprio il rapporto tra diritto e la « frammentazione » del dato « reale » giustificherebbe un certo relativismo concettuale. Per un’analisi: International Law Commission, Report of the Study Group on Fragmentation of International Law: Difficulties Arising from the Diversification and Expansion of International Law, 28 July 2004, UN Doc. A/CN.4/ L.663/rev. 1. SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. L’assenza di una regolamentazione internazionale unitaria in materia. — 3. L’esigibilità di obblighi finanziari internazionali dello Stato ed eventuali eccezioni. — 4. Segue: lo « stato di necessità ». — 5. Segue: conseguenze in tema di risarcimento o indennizzo. — 6. L’immunità degli Stati. — 7. Strumenti non giurisdizionali o arbitrali in materia. — 8. Segue: fori negoziali internazionali per la ristrutturazione del debito. — 9. Considerazioni conclusive. 1. Se lo scopo dell’analisi giuridica è quello di perseguire un maggiore tasso di prevedibilità del fenomeno di volta in volta oggetto dell’analisi, il tema in esame costituisce una durissima prova. L’obiettivo principale del presente contributo è quello di delineare i parametri giuridici di orientamento per gli attori interessati all’interno di un contesto complesso. Tali attori sono gli stessi Stati insolventi e i loro creditori distribuiti fra Stati prestatori, istituti di credito, pubblici e privati, e sottoscrittori privati di titoli di Stato. Si tratta di titoli obbligazionari rispetto ai quali lo Stato che li emette assume contrattualmente l’obbligo di restituire il capitale ricevuto alla data di scadenza del titolo e di corrispondere periodicamente gli interessi pattuiti in favore dei detentori del titolo. Sulla tematica in esame risalta in modo determinante l’assenza di centralità istituzionale nel diritto della comunità degli Stati sovrani (1). Il presente lavoro illustrerà la frammentazione degli strumenti di accertamento giudiziale e arbitrale dell’insolvenza di uno Stato, con le relative incognite relative ai contenuti del diritto applicabile. Con riferimento agli strumenti negoziali di tutela, tanto dello Stato insolvente, quanto dei creditori, verrà messo in evidenza come, a fronte di una pluralità di sforzi di centralizzazione istituzionale della gestione del debito sovrano, abbia prevalso la tendenza verso la regionalizzazione. Ciò non porta necessariamente ad escludere l’opportunità, o la neces(1) Si veda in generale OLIVARES-CAMINAL, Legal Aspects of Sovereign Debt Restructuring, London, 2010. Rivista di diritto internazionale - 1/2012 NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 67 sità, di un rinnovato orientamento centralistico nel caso in cui l’attuale crisi economico-finanziaria europea dovesse ulteriormente aggravarsi. Verrà altresì rilevato come la prassi relativa alle imponenti attività negoziali concertate sia di tali fori all’interno di diversi fori istituzionali, a dimensione globale e regionale, sia tra di loro, non abbia derogato, ad oggi, alla competenza giurisdizionale, o comunque, all’ammissibilità di azioni in giudizio davanti ai giudici interni o a tribunali arbitrali, particolarmente in ambito ICSID (2). Verrà peraltro evidenziato come la disomogeneità e la mancanza di coordinamento caratteristiche di simili mezzi di ricorso, unitamente agli ostacoli derivanti dalle regole generali sull’immunità dall’esecuzione dei beni degli Stati esteri, aumentino l’imprevedibilità circa le possibilità di recupero dei crediti nei riguardi degli Stati di fatto insolventi. 2. Il principio della sovrana eguaglianza degli Stati e la mancanza, ad oggi, di un diverso orientamento sul tema in esame da parte della generalità degli Stati (3) hanno prodotto l’assenza di una normativa di diritto internazionale applicabile all’insolvenza degli Stati. In primo luogo, si pone l’ostacolo pregiudiziale alla stessa possibilità giuridica di dichiarazione di insolvenza dello Stato, collegato alla continuità della sua personalità giuridica. In questo senso si ricorda la sentenza della Corte suprema olandese nella causa Oltmans v. Republiek Suriname del 28 settembre 1990, la quale affermò l’impossibilità, per il giudice nazionale, di decretare il fallimento di uno Stato terzo, poiché la conseguente procedura di liquidazione avrebbe costituito una interferenza nella sovranità di un Paese straniero internazionalmente illecita (4). Per questo, nella prassi giurisprudenziale, interna e internazionale, si parla raramente di « insolvenza di Stato », e a maggior ragione (2) In proposito cfr. WAIBEL, Sovereign Defaults before International Courts and Tribunals, Cambridge, 2011. (3) TANZI, Remarks on Sovereignty in the Evolving Constitutional Features of the International Community, in Looking to the Future: Essays on International Law in Honor of W. M. Reisman (a cura di Arsanjani et al.), Leiden/Boston, 2011, pp. 299-322. (4) In particolare, la Corte olandese considera che « [a]cceptance of jurisdiction would imply that a trustee in bankruptcy with extensive powers would have to undertake the management and the liquidation of the assets of a foreign power under the supervision of a Dutch public office », affermando che « [a]ll this would make an inadmissible encroachment under international law upon the sovereignty of the foreign State concerned » (trad. inglese in MAAS GEESTERANUS, Can Foreign States Be Declared Bankrupt? The Case of Zaire, in Law and Reality - Essays on National and International Procedural Law in Honour of Cornelis Carel Albert Voskuil (a cura di Sumampo et al.), The Hague, 1992, pp. 215-226). 68 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI di fallimento, o bankruptcy, anche se si rileva eccezionalmente, e impropriamente utilizzata, l’espressione « State bankruptcy ». In assenza di una dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza sovrana da parte di un Paese terzo sulla base del principio del divieto di intervento negli affari interni di Stati esteri, o, comunque, in assenza di una efficacia universale di simile eventuale accertamento, e tenuto conto dell’assenza di una giurisdizione internazionale universalmente obbligatoria, si è assistito in passato a forme di auto-accertamento da parte dello Stato direttamente interessato. Recentemente, questo fenomeno si è verificato nella crisi del debito argentino, anche se poi, come vedremo, i diversi fori giudiziali nazionali e arbitrali spesso investiti da creditori privati nella vicenda in questione, di volta in volta, hanno svolto accertamenti disomogenei. D’altro canto, le agenzie internazionali di rating possono incidere in modo significativo sulla determinazione di una situazione di default, ma non in termini giuridicamente efficaci. Certamente, il Fondo monetario internazionale (FMI) può operare una segnalazione di necessità di ristrutturazione del debito nell’ambito del suo monitoraggio di routine delle condizioni di salute finanziarie degli Stati e può richiedere agli Stati l’adozione di misure di politica economica e finanziaria, ma non siamo in presenza di un vero e proprio accertamento di stato d’insolvenza giuridicamente inteso. Ne deriva l’assenza di un regime internazionale uniforme sul quale possano contare i creditori dello Stato che si trova di fatto in default, con un ragionevole grado di prevedibilità in ordine al contenuto dei loro crediti, ai tempi e alle procedure di recupero, con particolare riferimento ai fori competenti. In sostanza, manca un meccanismo giurisdizionale internazionale di cognizione centralizzato operante per tutti i creditori che abbia la competenza di emanare una sentenza dichiarativa del default, così come i necessari meccanismi di esecuzione. Non si rinvengono, infatti, in alcun modo nell’ordinamento internazionale i presupposti per la realizzazione di una procedura di espropriazione forzata che sono presenti nella disciplina del fallimento negli ordinamenti interni (5). Ne deriva (5) Naturalmente, azioni coercitive implicanti l’uso della forza nell’intervento in protezione diplomatica da parte degli Stati di nazionalità dei creditori sono oggi vietate. Anche in epoca in cui non vigeva il divieto dell’uso della forza, l’impiego o la minaccia della stessa a fini espropriativi o di esecuzione forzata di obbligazioni finanziarie contratte da uno Stato estero nei riguardi di cittadini mancava ovviamente del requisito dell’eteronomia, dell’imparzialità e indipendenza del procedimento fallimentare degli ordinamenti interni. Si ricorderà la c.d. gun-boat diplomacy, che ha caratterizzato le reazioni ai debiti sovrani sino alla prima Guerra mondiale, tra cui il famoso blocco navale imposto al Venezuela da Germania, Gran Bretagna ed Italia nel 1902 (cfr. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 69 che sullo scenario internazionale il problema principale è quello della mancanza della concorsualità come strumento di tutela della par condicio creditorum. In teoria, nulla vieta che la generalità degli Stati esercitino la propria sovranità, principalmente in via pattizia, proponendo ed accettando meccanismi centralizzati e vincolanti di accertamento e regolamentazione della gestione del debito degli Stati insolventi. In pratica, in assenza, ad oggi, della realizzazione di simili meccanismi, le situazioni di insolvenza di Stato risultano gestite caso per caso, in via negoziale, da un lato, o in via giudiziale o arbitrale su piani disomogenei, dall’altro. In dottrina sono state avanzate proposte di istituzione di una Corte fallimentare internazionale con l’applicazione di un diritto fallimentare ispirato al US Bankruptcy Code (6), ma non si tratta di prospettive attualmente realistiche. 3. L’assenza di una regolamentazione internazionale unitaria delle situazioni di insolvenza di Stato non significa l’assenza di regole di diritto internazionale rilevanti in materia. Si tratta di regole internazionali suscettibili di applicazione a livello inter-statuale, tra Stati e organizzazioni intergovernative, ma anche a livello di rapporti tra Stati ed enti sub-statali e tra Stati e privati, sia di tipo negoziale che giudiziale e arbitrale, interno e internazionale. Questa pluralità di piani di tutela dei creditori aggiunge ad alcune incertezze relative al contenuto delle regole in questione quelle derivanti dalle divergenze interpretative delle stesse tra i diversi fori di riferimento. Pregiudiziale sul punto è la questione problematica della stessa efficacia degli obblighi pecuniari, e della loro esigibilità, nei riguardi di uno Stato estero in ragione, appunto, della sua natura sovrana nell’ordinamento internazionale. Il precedente giurisprudenziale di riferimento in materia è costituito dalla nota sentenza arbitrale del 1912 tra Russia e Turchia in ordine al pagamento di interessi moratori, pretesi dalla Russia, su un debito estinto (7). La sentenza in questione viene TRACHTMAN. Foreign Investment, Regulation and Expropriation: A Debtor’s Jubilee?, Proceedings of the Annual Meeting of the American Society of International Law, 1995, pp. 103-117). (6) Vedi, tra gli altri, KRUEGER, A New Approach to Sovereign Debt Restructuring, IMF, Washington D.C., April 2002; ROGOFF, ZETTELMEYER, Early Ideas on Sovereign Bankruptcy Reorganization: A Survey, IMF Working Paper No. 02/57, March 2002; SEAVEY, The Anomalous Lack of an International Bankruptcy Court, Berkeley Journal of Int. Law, 2006, pp. 499-520. (7) Russian Indemnity Case (Russia v. Turkey), sentenza dell’11 novembre 1912, Reports of International Arbitration Awards, vol. XI, pp. 421-447. Per un commento su 70 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI frequentemente citata a favore della tesi dell’applicabilità del principio dello stato di necessità (8) come esimente rispetto all’esecuzione degli obblighi finanziari in capo agli Stati in difficoltà economica. Ai fini del presente lavoro essa rileva in relazione all’affermazione del principio per cui il carattere pubblicistico dell’ente Stato debitore non lo sottrae internazionalmente ai propri obblighi pecuniari, anche nei momenti di grave difficoltà economica, prioritariamente e separatamente rispetto all’accertamento della portata dell’eventuale esimente che può comportare una tale situazione di grave difficoltà. La ratio principale della sentenza in esame è, infatti, proprio relativa all’affermazione dell’applicabilità della responsabilità internazionale degli Stati per mancata esecuzione di obblighi pecuniari. La Turchia, infatti, sosteneva che uno Stato non può essere considerato debitore alla stessa stregua di un soggetto privato, né debitore in misura superiore rispetto alla sua volontà, poiché « en lui imposant des obligations qu’il n’a pas stipulé, par exemple les responsabilités d’un débiteur privé, on risquerait de compromettre ses finances et même son existence politique » (9). Il tribunale arbitrale ha invece deliberato nel senso che la Turchia, essendo generalmente soggetta al principio della responsabilità degli Stati, nel caso specifico « n’est pas fondée à demander une exception à cette responsibilité en matière de dettes d’argent, en invoquant sa qualité de Puissance publique et les conséquences politiques et financières de cette responsabilité » (10). 4. Il precedente in parola è, poi, certamente restrittivo, come la tale sentenza, cfr. ANZILOTTI, Sugli effetti dell’inadempimento di obbligazioni internazionali aventi per oggetto una somma di denaro, Rivista, 1913, pp. 318-330. (8) Si vedano, tra gli altri, in generale, PILLITU, Lo stato di necessità nel diritto internazionale, Perugia, 1981; BOED, State of Necessity as a Justification for Internationally Wrongful Conduct, Yale Human Rights and Development Law Journal, 2000, pp. 1-43; SCALESE, La definitiva affermazione del principio di necessità nel diritto internazionale, Napoli, 2004; PUSTORINO, Lo stato di necessità alla luce della prassi recente, Rivista, 2009, pp. 411-442; TANZI, State of Necessity, in corso di pubblicazione in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, Oxford, 2012. Va peraltro osservato come la sentenza in questione si riferisca allo stato di forza maggiore in termini equivalenti allo stato di necessità come prevalentemente è avvenuto nella prassi sino alla distinzione operata dalla Commissione del diritto internazionale nei suoi lavori sulla responsabilità internazionale degli Stati. Sul rapporto tra le due cause escludenti l’illiceità, con particolare riferimento al trattamento degli investimenti stranieri, si veda, tra gli altri, BJORKLUND, Emergency Exceptions: State of Necessity and Force Majeure, in The Oxford Handbook of International Investment Law (a cura di Muchlinski et al.), Oxford, 2008, p. 459 ss. (9) Russian Indemnity Case, cit., p. 441. (10) Ibid., p. 442. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 71 gran parte della prassi internazionale in materia sino ad oggi, sull’eccezione dello « stato di necessità », che la sentenza arbitrale indica in termini di « forza maggiore » (11), come rilevato dalla Commissione del diritto internazionale nel commento all’art. 25 del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati, dedicato, appunto, alla causa di esclusione dell’illiceità in questione (12). Infatti, secondo il tribunale arbitrale, solo nel caso in cui la responsabilità dello Stato riguardo ai debiti contratti dovesse « mett[r]e en péril l’existence de l’Etat » (13), simile circostanza avrebbe determinato l’operatività, nei riguardi dello Stato alla stessa stregua di un debitore privato, dell’esimente della « forza maggiore » (14). Ciò che pare essere stato spesso trascurato nei riferimenti dottrinali al caso in esame riguarda il fatto che nella vicenda in questione l’impatto restrittivo del principio dello stato di necessità alla fattispecie in questione pare essere derivato anche dall’atteggiamento delle parti in lite, ciò che ai fini del presente lavoro rileva maggiormente. Infatti, ambedue le parti in lite avevano riconosciuto che il debito pecuniario principale fosse dovuto, tanto che esso era stato pagato, mentre l’oggetto del contendere era l’illiceità del ritardo del pagamento e, quindi, l’obbligo di corrispondere o meno gli interessi moratori. La portata (11) Ibid. Sul punto vedi anche SLOANE, On the Use and Abuse of Necessity in the Law of State Responsibility, Boston University School of Law Working Paper No. 11-16, May 2011, p. 22. (12) In particolare, citando nel commento alla disposizione in parola la sentenza arbitrale sul caso Russian Indemnity, la Commissione osservò che « [...] the Government of the Ottoman Empire, to justify its delay in paying its debt to the Russian Government, invoked among other reasons the fact that it had been in an extremely difficult financial situation, which it described as “force majeure” but which was more like a state of necessity. The arbitral tribunal accepted the plea in principle: “[t]he exception of force majeure, invoked in the first place, is arguable in international public law, as well as in private law; international law must adapt itself to political exigencies. The Imperial Russian Government expressly admits [...] that the obligation for a State to execute treaties may be weakened ‘if the very existence of the State is endangered, if observation of the international duty is ... self-destructive’”. It considered, however, that: “[i]t would be a manifest exaggeration to admit that the payment (or the contracting of a loan for the payment) of the relatively small sum of 6 million francs due to the Russian claimants would have imperiled the existence of the Ottoman Empire or seriously endangered its internal or external situation”. In its view, compliance with an international obligation must be “self-destructive” for the wrongfulness of the conduct not in conformity with the obligation to be precluded » (Commentaries to the Draft Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts Adopted by the International Law Commission at its Fifty-Third Session, Document A/56/10, in Yearbook of the Int. Law Commission, 2001, vol. II, Part Two, p. 81). (13) Ibid. (14) « Pour peu d’ailleurs que la responsabilité mette en péril l’existence de l’Etat, elle constituerait un cas de force majeure qui pourrait être invoquée en droit international public aussi bien que par un débiteur privé » (ibid.). 72 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI eventuale dell’esimente dello « stato di necessità » sarebbe stata solo transitoria avendo ad oggetto solamente, appunto, l’illiceità o meno del ritardo. Il tribunale rigettò la tesi della « forza maggiore-stato di necessità », ovviamente negando che il pagamento della somma degli interessi moratori « aurait mis en péril l’existence de l’Empire Ottoman ou gravement compromis la situation intérieure ou extérieure » (15). Il tema dell’esimente in questione relativamente alle crisi finanziarie degli Stati è stato abbondantemente ripreso, anche se in modo controverso, nella più recente crisi finanziaria dell’Argentina, che ha offerto numerosi spunti di prassi per la rivisitazione delle regole internazionali in materia. Tra le vicende giurisprudenziali sicuramente più controverse in proposito si segnala la sentenza del maggio 2007 della Corte costituzionale tedesca in cui venne affermato che a livello consuetudinario l’esimente dello stato di necessità non opererebbe come tale nel caso in cui i creditori dello Stato siano di natura privata (16). La distinzione tra creditori pubblici e creditori privati rispetto alla regola consuetudinaria in questione ha lasciato perplessi, tanto all’esterno del processo decisionale (17), quanto all’interno del Bundesverfassungsgericht. Infatti, il giudice Lübbe-Wolf nella sua opinione dissenziente ha sostenuto, sulla base di un ampio esame della prassi, che gli Stati possono invocare lo stato di necessità anche per giustificare la mancata osservanza dei loro obblighi di soggetti emittenti di titoli pubblici verso privati, poiché « the purpose and meaning of the legal principle of necessity do not suggest that it offers less protection to the debtor state as against a private, foreign creditor than against a foreign country » (18). Mentre può in effetti risultare difficile immaginare una distinzione all’interno della regola consuetudinaria in materia nel senso di prevedere uno specifico contro-limite in ordine ai rapporti tra Stati e privati, anche in assenza di prassi significativa in materia, si possono comprendere le perplessità circa l’applicazione della norma consuetudinaria internazionale in questione ai rapporti contrattuali in parola. Il pro(15) Ibid., p. 443. (16) Bundesverfassungsgericht, sent. 8 maggio 2007, 2 BvM 1-5/03, 1, 2/06, disponibile in lingua inglese nel sito http://www.bundesverfassungsgericht.de/ entscheidungen/ms20070508_2bvm000103en.html. (17) Cfr. PUSTORINO, Bonds argentini, stato di necessità e diritti individuali nella giurisprudenza costituzionale tedesca, Diritti umani e diritto int., 2008, pp. 142-145; RUDOLF, HUFKEN, Joined Case Nos. 2 BvM 1-5/03& 2 BvM 1-2/06 - German Federal Constitutional Court Decision on Defense of Necessity in Case by Private Creditors against a Foreign State, American Journal of Int. Law, 2007, pp. 857-864. (18) Sent. 8 maggio 2007, ibid., par. 90. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 73 blema non si pone con riguardo alla soggettività delle parti del rapporto controverso, bensì in relazione alla determinazione dell’ordinamento giuridico di derivazione del rapporto stesso (19). La sottoscrizione di titoli pubblici, infatti, avviene di regola mediante contratti di diritto interno, spesso dotati, come si vedrà tra breve, di clausola giurisdizionale e di designazione del diritto nazionale applicabile. Per questo, il problema ha minore ragione di essere sollevato in sede di arbitrati sugli investimenti, nell’ambito dei quali lo stato di necessità è stato ripetutamente sollevato in relazione a presunti casi di insolvenza dello Stato convenuto, poiché il diritto applicabile a simili controversie è generalmente costituito da un trattato bilaterale sugli investimenti tra lo Stato di investimento e quello di nazionalità dell’investitore. In tale contesto, infatti, l’applicazione del principio consuetudinario in questione può essere fondato sull’art. 31, par. 3, lett. c), della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, ai sensi del quale un trattato va interpretato tenendo conto di « ogni regola pertinente di diritto internazionale applicabile ai rapporti tra le parti ». Resta interamente davanti ai giudici nazionali la problematica relativa alla possibilità di applicazione del diritto internazionale consuetudinario a un contratto di natura sostanzialmente interna. Rispetto alla specifica norma in questione, la sua applicazione potrebbe essere fondata sulla sua coincidenza con i principi generali del diritto, compresi quelli riconosciuti dall’ordinamento che regola il contratto. Come anticipato, l’eccezione dello stato di necessità è stata affrontata in una cospicua serie di sentenze arbitrali relative alla vicenda argentina del 2001-2003 (20). Infatti, la decisione da parte delle autorità argentine di sospendere il meccanismo di aggiustamento delle tariffe di gas, acqua ed elettricità, congiuntamente alla svalutazione del peso argentino e alla conversione delle obbligazioni determinate in dollari al tasso di cambio artificiale di 1 peso per 1 dollaro comportarono perdite significative per numerose società che avevano investito nel settore dei servizi pubblici in Argentina. Secondo il Governo argentino l’illiceità di tali misure doveva essere esclusa poiché la crisi economica avrebbe (19) Con riferimento alla « derivazione da ordinamento interno » delle disposizioni pattizie, anche concluse in sede internazionale, quando hanno ad oggetto rapporti di natura privatistica, vedi BERNARDINI, Accordo e contratti di sede fra Italia e FAO, Rivista, 1963, pp. 26-40. Più in generale, vedi, tra gli altri, JENNINGS, State Contracts in International Law, The British Yearbook of Int. Law, 1961, pp. 156-182 e, più recentemente, FOIS, Il principio « pacta sunt servanda » e i contratti fra Stati e privati stranieri, Rivista, 1993, pp. 633-660. (20) Si veda, tra gli altri, VALENTI, Lo stato di necessità nei procedimenti arbitrali ICSID contro l’Argentina: due soluzioni contrapposte, Rivista, 2008, pp. 114-135. 74 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI integrato l’ipotesi dello stato di necessità. Le ormai famose sentenze arbitrali nei casi CMS Gas Transmission Company (21), LG&E Energy Corp. (22), Enron Corporation (23), Sempra Energy International (24) e Continental Casualty Company (25) convergono sulla determinazione dell’illiceità di gran parte delle misure regolamentari controverse (26). Esse concordano altresì nel rilevare che la regola consuetudinaria in materia è stata adeguatamente codificata nell’art. 25 del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati (27). Come noto, si è trattato di una codificazione in termini alquanto restrittivi, ai sensi dei quali occorre che sia identificabile un interesse essenziale dello Stato, per la cui salvaguardia le misure interne che si intendono giustificare devono risultare come l’unico mezzo adatto a difesa da un pericolo che sia grave ed imminente e, infine, che lo Stato che invoca le circostanze escludenti l’illiceità non abbia contribuito alla situazione dello stato di necessità invocato (28). (21) CMS Gas Transmission Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/8. (22) LG&E Energy Corp., LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/1, Decision on Liability, 3 ottobre 2006. (23) Enron Corporation and Ponderosa Assets L.P. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/3. (24) Sempra Energy International v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/16. (25) Continental Casualty Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/03/09. (26) Treaty between the United States of America and the Argentine Republic Concerning the Reciprocal Encouragement and Protection of Investment, firmato il 14 novembre 1991 ed entrato in vigore il 20 ottobre 1994, Int. Legal Materials, 1992, p. 124. (27) Sent. 12 maggio 2005, CMS Gas Transmission Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/8, par. 315; sent. 3 ottobre 2006, LG&E Energy Corp,. LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/1, Decision on Liability, par. 245; sent. 22 maggio 2007, Enron Corporation and Ponderosa Assets L.P. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/3, par. 303; sent. 28 settembre 2007, Sempra Energy International v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/16, par. 344; sent. 5 settembre 2008, Continental Casualty Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/03/09, par. 168. (28) L’art. 25 del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 2001 stabilisce: « 1. Necessity may not be invoked by a State as a ground for precluding the wrongfulness of an act not in conformity with an international obligation of that State unless the act: (a) Is the only way for the State to safeguard an essential interest against a grave and imminent peril; and (b) Does not seriously impair an essential interest of the State or States towards which the obligation exists, or of the international community as a whole. — 2. In any case, necessity may not be invoked by a State as a ground for precluding wrongfulness if: (a) The international obligation in question excludes the possibility of invoking necessity; or (b) The State has contributed to the situation of necessity ». Cfr. HEATHCOTE, Circumstances Precluding Wronfgulness in the ILC Articles on State Responsibility: Necessity, in The Law of International Responsibility (a cura di Crawford, Pellet e Olleson), Oxford, 2010, pp. 491-501. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 75 Se i lodi ICSID concordano, in diritto, sulla natura consuetudinaria del principio in esame nei termini appena indicati, essi divergono in punto di fatto circa la riconducibilità a tale causa di esclusione dell’illiceità delle misure adottate dall’Argentina nelle circostanze della crisi. Colpisce la valutazione diametralmente opposta dei fatti operata nei casi CMS Gas Transmission Company ed Enron Corporation, da un lato, e LG&E Energy Corp., dall’altro. Mentre i collegi arbitrali investiti delle cause CMS Gas Transmission Company ed Enron Corporation hanno convenuto sul fatto che la crisi argentina « was indeed severe » (29), essi hanno poi sbrigativamente respinto l’argomentazione dello Stato convenuto sostenendo che la reazione argentina non rappresentava l’unico modo per fronteggiare il difficile quadro economico, al cui verificarsi, a loro avviso, la stessa Argentina aveva contribuito in modo « significativo » (30). In senso opposto, nella sentenza arbitrale LG&E Energy Corp., il tribunale ha concluso che, nel dicembre 2001, gli interessi essenziali dell’Argentina fossero gravemente minacciati. Lo Stato convenuto, secondo gli arbitri, « faced an extremely serious threat to its existence, its political and economic survival, to the possibility of maintaining its essential services in operation, and to the preservation of its internal peace » (31). Secondo il lodo in esame, nel periodo tra il 1º dicembre 2001, quando il Governo argentino adottò le misure che limitavano i prelievi bancari e vietavano i trasferimenti all’estero, alle quali seguirono altri noti provvedimenti finanziari (32), e il 26 aprile 2003 l’Argentina non avrebbe in alcun modo contribuito alla crisi economica, mentre il pacchetto di misure adottato avrebbe costituito l’unico modo per reagire alla crisi (33). Pertanto, i requisiti posti dalla regola consuetudinaria sullo stato di necessità sarebbero stati soddisfatti (34). (29) Sent. 22 maggio 2007, CMS Gas Transmission Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/8, par. 320; sent. 22 maggio 2005, Enron Corporation and Ponderosa Assets L.P. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/3, par. 306. (30) Sent. 12 maggio 2005, CMS Gas Transmission Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/8, par. 329. (31) Sent. 3 ottobre 2006, LG&E Energy Corp., LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/1, Decision on Liability, par. 257. (32) Cfr. inter alia la legge sull’emergenza pubblica e il sistema di cambio estero 6 gennaio 2002 n. 25.561, il decreto presidenziale 3 febbraio 2002 n. 214, e il decreto n. 293/02, illustrati nella sent. 3 ottobre 2006, LG&E Energy Corp., LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/1, Decision on Liability, paragrafi 64-67. (33) Ibid., par. 257. (34) Ibid., par. 267. 76 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI Esiti così contrastanti alimentano in pratica incertezza e imprevedibilità, tanto per gli Stati debitori, quanto per i loro creditori (35). Tuttavia, ai fini della presente analisi, merita osservare come i lodi in questione abbiano affermato il principio secondo il quale l’esistenza funzionale di uno Stato possa essere minacciata anche dalla mancata continuità del proprio sistema economico-finanziario e, quindi, dalla incapacità di garantire, per usare le parole dell’ottavo rapporto alla Commissione del diritto internazionale del relatore speciale Roberto Ago, « the continued functioning of its essential services, the maintenance of internal peace, the survival of a sector of its population, the preservation of the environment of its territory » (36). 5. La questione della durata dell’efficacia della causa di esclusione dell’illiceità in questione, già emersa in relazione al lodo relativo alla causa tra Russia e Turchia di cui sopra (37), è di particolare rilievo pratico in relazione all’inosservanza di obbligazioni finanziarie da parte dello Stato, specialmente con riferimento all’obbligo di restituzione delle somme dovute e al calcolo degli interessi. Anche sul punto in questione la codificazione da parte della Commissione del diritto internazionale è restrittiva, prevedendo in termini generali all’art. 27, lett. a), del progetto di articoli il carattere meramente temporaneo dell’operatività della causa di esclusione dell’illiceità, facendo salva la vigenza dell’obbligo di adempimento dell’obbligo primario « if and to the extent that the circumstance precluding wrongfulness no longer exists ». Con specifico riferimento al tema oggetto della presente analisi merita rilevare come la giurisprudenza arbitrale sia sostanzialmente univoca nel confermare questo orientamento restrittivo, nel senso che « [e]ven if the plea of necessity were accepted, compliance with the obligation would reemerge as soon as the circumstances precluding wrongfulness no longer existed, which is the case at present » (38). (35) Vedi ALVAREZ-JIMÉNEZ, Foreign Investment Protection and Regulatory Failures as States’ Contribution to the State of Necessity under Customary International Law: A New Approach Based on the Complexity of Argentina’s 2001 Crisis, Journal of Int. Arbitration, 2010, pp. 141-177; KASENETZ, Desperate Times Call for Desperate Measures: the Aftermath of Argentina’s State of Necessity and the Current Fight in the ICSID, The George Washington Int. Law Review, 2010, pp. 709-747. (36) Addendum to the Eighth Report on State Responsibility, by Mr. Roberto Ago: The Internationally Wrongful Act of the State, Source of International Responsibility (Part 1) - Chapter V, Circumstances Precluding Wrongfulness, Yearbook of the Int. Law Commission, 1980, Vol. II, Part I, p. 14. (37) Supra, nota 7. (38) Sent. 12 maggio 2005, CMS Gas Transmission Company v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/01/8, par. 382. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 77 La questione dell’impatto sull’obbligo di risarcimento, o restituzione, derivante dall’applicazione temporanea della causa escludente l’illiceità presenta elementi di particolare problematicità, specialmente con riferimento alla violazione di obblighi finanziari internazionali. Da un lato, il diritto applicabile sembra presentare una situazione di chiarezza. Infatti, l’art. 27, lett. b), del progetto di articoli ha considerato il punto in questione indicando che l’invocazione della causa di esclusione dell’illiceità di un comportamento « is without prejudice to [...] the question of compensation for any material loss for the act in question ». Dall’altro, ancora una volta si registrano divergenze tra le diverse sentenze arbitrali in materia. Nel caso CMS Gas Transmission Company v. Argentina, il collegio arbitrale sostenne che « the plea of state of necessity may preclude the wrongfulness of an act, but it does not exclude the duty to compensate the owner of the right which had to be sacrified » (39). Nel caso LG&E Energy Corp., il tribunale ha invece concluso nel senso che, per il periodo nel quale esso aveva riconosciuto che la crisi economica dell’Argentina fosse qualificabile come « stato di necessità » sarebbero stati gli investitori a dover sopportare i danni subiti a causa della legislazione di emergenza contestata (40). In particolare, il collegio arbitrale ha osservato che l’art. 27 non precisa quale tipo di perdita subìta a causa delle misure adottate da un Paese durante uno stato di necessità dovrebbe essere risarcita, richiamando le considerazioni del relatore speciale Crawford sulla disposizione in oggetto, secondo cui l’art. 27 « does not attempt to specify in what circumstances compensation would be payable » (41), per poi affermare che la regola in questione « does not specify if compensation is payable during the state of necessity or whether the State should reassume its obligations » (42). Sulla base di tale presunta incertezza della regola consuetudinaria, il tribunale si è rivolto all’art. XI dell’Accordo sugli investimenti fra Stati Uniti e Argentina, che contempla una causa di giustificazione per il mantenimento dell’ordine pubblico, della pace e sicurezza internazionali, e per la tutela degli (39) Ibid., par. 388. (40) Sent. 3 ottobre 2006, LG&E Energy Corp,. LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/1, Decision on Liability, par. 264. (41) CRAWFORD, The International Law Commission’s Articles on State Responsibility: Introduction, Text and Commentaries, cit., p. 190. (42) Sent. 3 ottobre 2006, LG&E Energy Corp, LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, cit., par. 260. 78 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI interessi essenziali nazionali (43), decidendo nel senso dell’assenza di un obbligo di risarcimento da parte dell’Argentina (44). All’incertezza che emerge sulla interpretazione delle regole internazionali applicabili al tema in esame, si aggiungono gli aspetti di incertezza relativi alla possibilità di convenire in giudizio lo Stato debitore davanti ai giudici interni di Stati terzi e ai limiti relativi alla possibilità di dare esecuzione ad eventuali sentenze di condanna nei riguardi dello Stato estero. 6. La prassi mostra altresì numerosi casi in cui creditori di Stati esteri si sono rivolti alle istanze giudiziali interne per ottenere il pagamento del credito anche indipendentemente dalle clausole giurisdizionali contenute negli stessi regolamenti di emissione dei bonds in questione di cui si dirà più avanti. Con riferimento alla esemplificativa vicenda argentina, a fronte dell’accettazione da parte dei creditori titolari di quasi il 75% del valore di scambio delle obbligazioni esistenti dell’offerta argentina di ristrutturazione del debito per un ammontare equivalente al 30% del valore delle obbligazioni dichiarate in default, diversi titolari del credito pubblico argentino « resistenti » si sono rivolti alle magistrature nazionali. Si pone a questo proposito il problema dell’immunità dalla giurisdizione dello Stato estero, di cognizione, prima, ed esecutiva, poi (45). Per quanto attiene all’immunità dalla giurisdizione di cognizione, posto oramai il pieno consolidamento della regola dell’immunità ristretta, quindi, limitatamente agli atti di natura pubblicistica, si è trattato di determinare se l’emissione di titoli di Stato e le obbligazioni che derivano dai contratti di sottoscrizione siano da ritenere attinenti a (43) « The Treaty shall not preclude the application by either Parties of measures necessary for the maintenance of the public order, the fulfilment of its obligations with respect to the maintenance or restoration of international peace or security, or the protection of its own essential interests » (Treaty between the United States of America and the Argentine Republic Concerning the Reciprocal Encouragement and Protection of Investment, cit.). (44) « [T]he Tribunal considers that Article XI establishes the state of necessity as a ground for exclusion from wrongfulness of an act of the State, and therefore, the State is exempted from liability. This exception is appropriate only in emergency situations; and once the situation has been overcome, i.e. certain degree of stability has been recovered, the State is no longer exempted from responsibility for any violation of its obligations under the international law and shall reassume them immediately ». Sent. 3 ottobre 2006, LG&E Energy Corp., LG&E Capital Corp. and LG&E International Inc. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/02/1, Decision on Liability, par. 261. (45) Vedi, per tutti, STOLL, State Immunity, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, 2011. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 79 tale categoria di atti, oppure se, in ragione della loro dimensione contrattuale, debbano essere valutati come aventi natura privatistica. La Convenzione delle Nazioni Unite sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati e dei loro beni del 2004 costituisce autorevole parametro di riferimento per l’individuazione dello stato del diritto consuetudinario in materia, indipendentemente dalla sua entrata in vigore (46). Sul tema oggetto della presente trattazione, essa recepisce gli sviluppi oramai prevalenti di diverse giurisprudenze nazionali, compresa quella italiana, che considerano l’emissione di titoli obbligazionari statali come una mera attività commerciale, quindi, non protetta da immunità dalla giurisdizione (47). Resta, tuttavia, un alto tasso di imprevedibilità nelle soluzioni applicative da parte dei giudici nazionali dei diversi Paesi di volta in volta aditi. Emblematica di tale imprevedibilità nella giurisprudenza italiana è l’ordinanza della Corte di cassazione del 2005 nel caso Borri (48). Questa accolse l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano sollevata dall’Argentina, pur confermando in linea di principio l’orientamento oramai incontrastato che qualifica nell’ambito delle attività di natura privatistica la collocazione sul mercato internazionale di titoli di debito pubblico da parte di uno Stato (49). Il giudice italiano, infatti, ha considerato come atti jure imperii i successivi provvedimenti di moratoria adottati dallo Stato argentino giungendo alla conclusione che « [l]a preminenza assoluta degli interessi della collettività organizzata a Stato, che con i provvedimenti indicati si è inteso tutelare, esclude [...] la valutabilità degli stessi sotto il profilo della eventuale violazione del regime giuridico di atti negoziali posti in essere “iure privatorum”. Il che, appunto, comporta il riconoscimento della immunità dalla giurisdizione della Repubblica argentina, in rela(46) United Nations Convention on Jurisdictional Immunities of States and Their Property. Cfr. General Assembly Resolution 59/38, annex, Official Records of the General Assembly, Fifty-ninth Session, Supplement No. 49 (A/59/49). (47) L’art. 2, par. 1, lett. c), dispone che « commercial transaction means [... ] any contract for a loan or other transaction of a financial nature, including any obligation of guarantee or of indemnity in respect of any such loan or transaction ». (48) Cassazione (sez. un.), ord. 21 aprile 2005 n. 11225, Luca Borri c. Repubblica argentina, Rivista, 2005, p. 856 ss., riprodotta anche, con nota introduttiva, in Giudici e diritto internazionale (a cura di Baroncini), Bologna, 2011, p. 119 ss. Per una analisi complessiva delle vicende processuali nazionali relative ai titoli di debito argentini dinanzi ai tribunali nazionali si rinvia a BORDONI, Bonds argentini, immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile e stato di necessità: orientamenti giurisprudenziali a confronto, Comunicazioni e studi, vol. XXIII, 2007, pp. 139-204. (49) Luca Borri c. Repubblica argentina, cit., par. 4. 80 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI zione alle pretese nei suoi confronti azionate dal Borri nel giudizio a quo » (50). Sul punto in questione è significativo il ruolo della giurisprudenza statunitense in virtù delle clausole di conferimento di giurisdizione contenute nei buoni di Stato in questione. A questo proposito, il 30 giugno 2008 la US Court of Appeals for the Second Circuit confermò i giudizi a favore dei circa 800 creditori da parte della US District Court di New York, nel senso del pieno recupero del controvalore nominale dei buoni argentini, oltre al pagamento degli interessi (51). Tuttavia, la vicenda giudiziale americana è paradigmatica di come nelle azioni in giudizio per il recupero del credito nei riguardi di Stato estero possano incontrarsi notevoli difficoltà nei procedimenti esecutivi avviati sulla base delle sentenze di cognizione dichiarative della responsabilità dello Stato, così come in quelli di richiesta di sequestro cautelare. Come noto, infatti, sulla base della norma sull’immunità dalla giurisdizione di esecuzione, non possono essere aggrediti beni dello Stato destinati ad usi di natura pubblicistica. Di regola, infatti, gli Stati in genere e quelli debitori, in particolare, mantengono all’estero beni attinenti a questa tipologia, con speciale riguardo ai beni immobiliari destinati alle sedi diplomatiche, o consolari, o a conti correnti destinati al funzionamento delle stesse sedi e alle attività relative (52). Il medesimo limite all’aggredibilità di beni sovrani vale per il patrimonio delle banche centrali di Stati esteri, come tali ritenute preposte ad attività funzionali all’esercizio della politica economica e finanziaria dello Stato in questione. A questo proposito, si segnala come diversi creditori di titoli di Stato argentini dichiarati in default, dopo aver ottenuto una sentenza ad essi favorevole in sede di cognizione, hanno cercato di aggredire le riserve della Banca centrale argentina detenute presso la Federal Reserve Bank di New York. Tuttavia, nel 2011 la Court of Appeals per il secondo distretto ha respinto l’istanza di sequestro presentata da NML Capital e EM Ltd, hedge funds che avevano acquistato titoli argentini successivamente alla dichiarazione di (50) Ibid., par. 5. La Cassazione ha ricordato come, indipendentemente da quanto sopra, i giudici italiani non avessero comunque competenza a sindacare dei global bonds detenuti dal Borri poiché l’art. 22 del Fiscal Agency Agreement, il regolamento di tale prestito obbligazionario stipulato il 19 ottobre 1994 fra la Repubblica argentina e la Bankers Trust Company aveva attribuito la giurisdizione ai giudici delle corti dello Stato di New York o delle corti federali che si trovano nel Distretto di Manhattan, New York (ibid.). Sul Fiscal Agency Agreement v. anche Tribunale di Roma, 22 marzo 2005, Ragionieri c. Repubblica argentina, Foro it., 2005, p. 1582 ss. (51) Jorge Marcelo Mazzini et al. v. Republic of Argentina. (52) Vedi STOLL, op. cit., par. 49 ss. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 81 insolvenza (53). La decisione di rigetto è stata raggiunta dal giudice americano allineandosi agli amicus briefs presentati dalla stessa Federal Reserve Bank e dal Governo statunitense, sulla base di quanto disposto dal Foreign State Immunity Act, che stabilisce espressamente l’immunità per i beni delle banche centrali detenuti nell’esercizio delle loro funzioni (54). Merita rilevare come, parallelamente alla richiesta di sequestro dei fondi della Banca centrale argentina negli Stati Uniti, NML Capital Ltd. avesse presentato istanza di riconoscimento nel Regno Unito del summary judgment del 2006 con il quale la Corte federale di New York aveva disposto a favore del hedge fund il pagamento di più di 284 milioni di dollari da parte dell’Argentina. Nel luglio 2011, la Corte suprema del Regno Unito ha deciso di riconoscere la sentenza statunitense, dichiarando che lo Stato argentino non potesse avvalersi dell’immunità dalla giurisdizione in virtù della natura commerciale dell’attività di prestito internazionale, e della verosimile rinuncia all’immunità dalla giurisdizione operata dalla stessa attraverso l’Accordo da essa stipulato relativamente alla disciplina dei titoli obbligazionari (55). Resta ora da vedere se il ricorrente riuscirà ad individuare beni argentini aggredibili sul territorio britannico che possano essere ritenuti esclusi dall’immunità dalla giurisdizione esecutiva. 7. A fronte del fenomeno frammentato delle soluzioni arbitrali internazionali e giurisdizionali nazionali, la prassi presenta un fronte preponderante, ma anch’esso non compatto, di gestione negoziale di situazioni di default di Stato. Si tratta di una prassi variegata che, per questo, ad oggi, non si può dire che abbia dato origine ad alcuna regola consuetudinaria, talvolta invocata, nel senso che la strada negoziale debba essere l’unica via internazionalmente ammissibile. Simile pretesa consuetudine si porrebbe nel senso della esclusione dell’ammissibilità di ricorsi giudiziali o arbitrali in materia. È questa una pretesa che risponde all’esigenza di evitare di indebolire la persuasività delle offerte di ristrutturazione del debito, la cui accettazione verrebbe disincentivata dalla prospettiva di un eventuale recupero del valore nominale dei titoli di Stato in sede contenziosa. Essa, peraltro, non pare suffragata da sufficienti elementi di opinio iuris e prassi in tal (53) Sent. 5 luglio 2011, NML Capital Ltd. v. Banco Central de la República Argentina, No. 10-1487- cv(L). (54) Ibid., parte IV, p. 35. (55) NML Capital Limited (Appellant) v. Republic of Argentina (Respondent), [2011] UKSC 31. 82 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI senso. Piuttosto, essa è stata smentita dalla significativa prassi arbitrale e giudiziale sopra riportata, oltre che dalla significativa posizione del Governo degli Stati Uniti che ha impedito la realizzazione del c.d. Sovereign Debt Restructuring Mechanism proprio in ossequio al principio dell’ammissibilità della tutela giurisdizionale dei diritti economici dei creditori (56). Va, inoltre, ricordata l’esplicita dichiarazione in tal senso da parte del Governo americano in un amicus curiae brief in un procedimento del 1985 relativo al default della Costa Rica, nel caso Allied Bank International v. Banco Crédito Agrícola de Cartago e accolto dal giudice del procedimento (57). In tale controversia, snodatasi su più interventi dei giudici statunitensi, la Fidelity Trust Company of New Jersey, rappresentata dalla parte attrice in giudizio, Allied Bank, era l’unico membro del sindacato di creditori ad aver rifiutato l’accordo di rifinanziamento proposto dal Paese latino-americano durante le prolungate fasi processuali. Inizialmente, la Court of Appeals per il secondo circuito considerò la domanda inammissibile per poi, on rehearing, accogliere la domanda dando seguito alle osservazioni compiute dal Dipartimento della giustizia nel suo amicus curiae brief. Il Governo americano, infatti, aveva osservato che, « while parties may agree to renegotiate conditions of payment, the underlying obligations to pay nevertheless remain valid and enforceable. Costa Rica’s attempted unilateral restructuring of private obligations, the United States contends, was inconsistent with this system [i.e. the debt resolution procedure under the auspices of the International Monetary Fund] of international cooperation and negotiation » (58). Simile orientamento è ulteriormente confermato, sebbene a contrariis, dalla diffusa prassi delle c.d. collective action clauses spesso inserite nei contratti di acquisto di titoli di Stato attraverso i quali il sottoscrittore si impegna, in caso di situazione di insolvenza, ad accettare la ristrutturazione concertata del credito (59). Quando il numero degli Stati che emettono bonds con simili clausole costituirà la quasitotalità, si potrà parlare di un ribaltamento dell’attuale assenza di una consuetudine preclusiva dell’ammissibilità di domande giudiziali per il recupero del credito basato su titoli di Stato. (56) Vedi infra, par. 8. (57) Allied Bank International v. Banco Crédito Agrícola de Cartago, 757 F.2d, 516 (2nd Circuit, 1985), pubblicata anche in Int. Legal Materials, 1985, p. 767 ss. (58) Loc. cit. (59) Vedi infra, par. 8. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 83 8. Guardando alla prassi rilevante in materia a partire dalla fine della seconda Guerra mondiale le diverse modalità di gestione negoziale del debito di Stato a rischio di default, o in default, registrano tendenze comuni, ma difficili da codificare in un modello regolamentare unitario e giuridicamente obbligatorio. Tali tendenze si rinvengono nel tentativo concertato degli Stati creditori di giungere alla ristrutturazione, riduzione, rimodulazione del debito dello Stato in difficoltà in via condizionata al rispetto delle misure di politica economica concordate con lo Stato debitore. La finalità principale di simili negoziati è quella di avvicinarsi il più possibile ad una concorsualità che possa garantire la par condicio creditorum. In linea con quanto appena indicato, si registra, a partire dagli anni ’50, il meccanismo di ristrutturazione del debito del c.d. Club di Parigi, tentativo in buona parte riuscito di formalizzare un consorzio predeterminato di Stati creditori e una procedura di rinegoziazione del debito basato sul principio secondo il quale tutti gli Stati appartenenti al Club si impegnano ad accettare le condizioni concordate collettivamente in tale sede, evitando che creditori « resistenti » godano di condizioni preferenziali (60). Ad esso si è aggiunto il principio della condizionalità, nel senso della subordinazione della ristrutturazione del debito ad un programma di riforme economiche cui si impegna lo Stato debitore attraverso una « letter of intent », la cui congruità viene determinata caso per caso dal Fondo monetario internazionale (« condition precedent »), indispensabile alla conclusione del negoziato (61). Il Club di Parigi, altrimenti efficace nei rapporti tra Stati, creditori e debitori, si è trovato in difficoltà rispetto a crisi caratterizzate da un alto tasso di creditori rappresentati da banche private. Si ricordano tra la fine degli anni ’70 e i primi degli anni ’80 i casi dei debiti di Perù, Zaire, Sudan, Turchia e Polonia. Da ciò nacque il Club di Londra che tradusse i principi del Club di Parigi con riferimento ai rapporti tra Stato debitore e banche private straniere (62). Va peraltro rilevato come i creditori che non aderiscono al regime negoziato restano liberi di agire in giudizio nei fori nazionali. (60) Sul Club di Parigi, nato il 16 maggio 1956 per far fronte al debito estero argentino successivamente al colpo di stato militare del 1955, cfr. CASSESE, Il Club di Parigi, Diritto del commercio int., 2002, pp. 591-605; COSIO-PASCAL, The Emerging of A Multilateral Forum for Debt Restructuring: The Paris Club, UNCTAD/OSG/ DP/2008/7. (61) Ibid. (62) Cfr. International Monetary Fund, A Guide to Committees, Groups and Clubs: A Factsheet, 31 August 2011, disponibile sul sito http://www.imf.org/external/np/exr/facts/groups.htm. 84 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI Fu attraverso questi meccanismi di negoziazioni concertate, assistite dal FMI, che vennero gestite le crisi di insolvenza del Perù della fine degli anni ’80, della Tailandia e altri Paesi asiatici, della Russia del 1998 e dell’Ecuador del 1995. Il relativo successo di tali negoziati fu reso possibile dal fatto che i creditori degli Stati in questione fossero in larga misura banche, quando non si trattava di altri Stati (63). La crisi argentina si è differenziata rispetto alla gran parte dei precedenti casi di insolvenza di Stato citati caratterizzandosi per un alto tasso di frammentazione del fronte dei creditori, comprensivo di un significativo numero di creditori privati. Da qui, le maggiori difficoltà di gestione concertata della vicenda. Infatti, i numerosi creditori privati dei buoni di Stato argentini, acquistati, ora sul mercato primario, ora sul mercato secondario, non erano, in quanto privati, riconducibili ai meccanismi del Club di Parigi o di Londra. Ne è seguita una politica selettiva del FMI, esclusivamente finalizzata alla tutela dei creditori sovrani ed istituzionali, compreso lo stesso FMI, come « creditori privilegiati » nel processo di ristrutturazione del debito, lasciando libero il Governo argentino di scegliere come gestire i propri rapporti con i creditori privati. Allo stesso tempo, preoccupato per gli ostacoli ai processi di rinegoziazione rappresentati da azioni giudiziarie promosse da creditori resistenti e speculatori (64), il FMI, nel 2002, nel (63) Vedi OLIVARES-CAMINAL, Legal Aspects of Sovereign Debt Restructuring, cit. Circa l’iniziativa di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Club di Parigi per la ristrutturazione del debito dei paesi poveri fortemente indebitati (Heavily Indebted Poor Countries, HIPC), avviata nel 1996 e successivamente rivista nel 1999 cfr. ALBY, LETILLY, Cancelling the Debts for Poor Countries: For What Results?, Conjoncture, PNB Paribas, March 2006; CALLAGHY, Innovation in the Sovereign Debt Regime: From the Paris Club to Enhanced HIPC and Beyond, The World Bank, Washington, D.C., 2004; WALKER, FAYE, Sovereign Debt Renegotiation: Restructuring the Commercial Debt of HIPC Debtor Countries, Law and Contemporary Problems, 2010, pp. 317-324. (64) Emblematica in tal senso è stata la vicenda del c.d. vulture fund Elliott Associates L.P.. Nel 1996 questa società aveva acquistato sul mercato secondario titoli di stato peruviani in default ad un prezzo molto basso — 11,4 milioni di dollari USA — rispetto al loro valore nominale di 20,7 milioni di dollari USA. Successivamente, Elliott Associates intraprese diverse azioni giudiziarie contro il Perù e la sua Banca centrale, ottenendo, in una prima fase, dalla Court of Appeals per il secondo distretto, il riconoscimento del diritto al pagamento dei titoli posseduti. Quindi, i giudici di vari Stati emanarono provvedimenti che impedivano al Perù di procedere al pagamento degli interessi dei nuovi titoli emessi a seguito degli accordi di ristrutturazione prima del pagamento dei bonds detenuti da Elliott Associates, sulla base della c.d. clausola pari passu che prescrive il pari trattamento tra creditori, e, dunque, stabilisce che tutti i creditori dello Stato emittente debbano poter ottenere una quota, proporzionale al proprio credito, di ogni pagamento effettuato dal debitore. Analogo esito ebbe il ricorso introdotto dalla Elliott Associates L.P. dinanzi alla Cour d’appel di Bruxelles, per sospendere il pagamento dei debiti ristrutturati da parte delle banche agenti per il NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 85 pieno della crisi argentina, ha cercato di elaborare una soluzione per riprodurre a livello internazionale i meccanismi nazionali di gestione dell’insolvenza degli Stati, con particolare riguardo al modello americano dei Chapters 9 e 11 del Bankruptcy Code, e specifica attenzione alle formule di protezione dei creditori di enti pubblici insolventi (65). Il progetto in questione, c.d. Sovereign Debt Restructuring Mechanism, concepiva un obbligo in capo a tutti i creditori di negoziare la ristrutturazione del debito impedendo loro di intraprendere azioni in giudizio che avrebbero inevitabilmente interferito sull’esito del negoziato. Inizialmente, il progetto prevedeva una moratoria alla esigibilità dei crediti, presto rientrata. Una volta raggiunto il consenso della maggioranza dei creditori sulla ristrutturazione del debito, d’accordo con lo Stato debitore, tale consenso avrebbe dovuto vincolare la totalità dei creditori (66). Il problema giuridico principale relativamente alla realizzazione di questo progetto è stato quello della base giuridica della obbligatorietà per i terzi di un accordo raggiunto dalla maggioranza dei creditori con lo Stato di volta in volta debitore. Tale base avrebbe dovuto essere costituita da un accordo internazionale o da un emendamento all’Accordo istitutivo del FMI. Ambedue le ipotesi non hanno potuto realizzarsi per la mancanza di una volontà politica generalizzata in tal senso. In particolare, questa è stata la già ricordata posizione degli stessi Stati Uniti, legati comunque al principio del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti di credito individuali. Va peraltro segnalata la tendenza recente ad includere clausole contrattuali relative alla sottoscrizione dei buoni di Stato miranti a Perù in Belgio. Nel settembre 2000, per evitare una nuova dichiarazione di insolvenza, il Perù, in cambio del ritiro di tutte le azioni giudiziarie, concluse un accordo con Elliott Associates per la cifra complessiva di 58,45 milioni di dollari USA, consentendo al Fondo di realizzare un profitto del 400% rispetto all’investimento effettuato per acquisire i titoli peruviani in default (Elliott Associates L.P. v. Republic of Peru and Banco de la Nación del Peru, 194 F. 3d 363. Sulla vicenda in questione, vedi BRATTON, Pari Passu and a Distressed Sovereign’s Rational Choices, Emory Law Journal, 2004, pp. 823-922; OLIVARES-CAMINAL, Understanding the Pari Passu Clause in Sovereign Debt Instruments: A Complex Quest, The Int. Lawyer, 2009, pp. 1217-1236. (65) Title 11, U.S. Code. (66) Sulla proposta per un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano del Fondo monetario internazionale cfr. EULISS, The Feasibility of the IMF’s Sovereign Debt Restructuring Mechanism: An Alternative Statutory Approach to Mollify American Reservations, American University Int. Law Review, 2003, pp. 107-151; KJELLBERG, The IMF’s Proposal for a Sovereign Debt Restructuring Mechanism, Griffin’s View on Int. and Comparative Law, 2003, pp. 26-34; OLIVARES-CAMINAL, Legal Aspects of Sovereign Debt Restructuring, cit., pp. 152 ss.; PAULUS, What Constitutes A Debt in the Sovereign Debt Restructuring Context?, in Problemi e tendenze del diritto internazionale dell’economia, Liber amicorum in onore di Paolo Picone (a cura di Ligustro, Sacerdoti), Napoli, 2011, pp. 231-248. Nello stesso volume si veda anche MALAGUTI, Se a fallire sono gli Stati, ibidem, pp. 213-230. 86 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI perseguire, seppure in termini non centralizzati, le finalità del Sovereign Debt Restructuring Mechanism di contenere, se non escludere, ricorsi individuali da parte di una minoranza di creditori che possano inficiare o, comunque, interferire negativamente sui procedimenti negoziali di ristrutturazione del debito. Si tratta delle collective action clauses (67), cui è stato fatto riferimento sopra, in uso a partire dal 2003 nei contratti di vendita dei titoli di Stato, tra gli altri, dei seguenti Stati: Italia, Turchia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, Costa Rica, Filippine, Messico, Panama, Ungheria, Uruguay, Venezuela, Sud Africa. Questa riedizione di una vecchia clausola contrattuale mutuata dal diritto inglese era stata originariamente avversata a livello internazionale. Essa, infatti, prevede l’accettazione da parte del sottoscrittore delle eventuali rimodulazioni dei termini di pagamento negoziate da una maggioranza ivi indicata. Generalmente si tratta del 75% dei bond holders di una specifica emissione. Chiaramente, siamo in presenza di clausole che funzionano di volta in volta e caso per caso, mentre l’effettività delle stesse dipende dalla loro efficacia negli ordinamenti interni, e dal fatto, quindi, che tali ordinamenti non ne sanciscano la nullità. Si è registrato un crescente consenso su simili formule dichiarato da FMI (68), dall’ECOFIN (69) e dal Ministero del tesoro statunitense (70). La validità ed efficacia delle clausole contrattuali in questione si può presumere negli Stati la cui legge è indicata come regolatrice del contratto. Ad esempio, i buoni italiani, come quelli di altre banche centrali, indicano generalmente come diritto applicabile la legge dello (67) Vedi, tra gli altri, GRAY, Collective Action Clauses: Theory and Practice, Georgetown Journal of Int. Law, 2004, pp. 693-711; GALVIS, SAABD, Collective Action Clauses: Recent Progress and Challenges Ahead, ivi, pp. 713-729; GUGIATTI, RICHARDS, The Use of Collective Action Clauses in New York Law Bonds of Sovereign Borrowers, ivi, pp. 815-835; KOCH, Collective Action Clauses: The Way Forward, ivi, pp. 665-692. (68) International Monetary Fund, Collective Action Clauses in Sovereign Bond Contracts - Encouraging Greater Use, 6 June 2002; International Monetary Fund, The Design and Effectiveness of Collective Action Clauses, 6 June 2002. Entrambi i documenti sono reperibili nel sito http://www.imf.org. (69) EU Economic and Financial Council, Common Understanding on Implementing the EU Commitment Regarding the Use of Collective Action Clauses (CACs), EFC-ECFIN/343/03 fin., 12 April 2003, disponibile nel sito http://europa.eu/ efc/sub_committee/documents/index_en.htm. Su tale intesa, vedi KOCH, Challenges at the Bank for International Settlements - An Economist (Re)View, Berlin/Heidelberg/New York, 2007, p. 66 ss. (70) Sul forte sostegno del Governo statunitense alla formula dei CACs cfr. TAYLOR, Sovereign Debt Restructuring: A US Perspective, Remarks at the Institute for International Economics, 2 April 2002, disponibile nel sito http://www.iie.com/publications/papers/paper.cfm?ResearchID=455; GELPERN, GULATI, Public Symbol in Private Contract: A Case Study, Washington University Law Review, 2006, pp. 1627-1715. NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 87 Stato di New York (71). Simili formule possono sicuramente sostenere le finalità delle grandi concertazioni internazionali sulla ristrutturazione del debito di uno Stato, ma non possono sostituirsi ad esse. 9. In conclusione, anche alla luce dell’acuirsi e della diffusione delle difficoltà finanziarie di numerosi Stati sovrani nel 2011, sembra si possa rilevare un’attenuazione, se non una rinuncia, rispetto ai tentativi di costruzione di un regime giuridico internazionalmente obbligatorio e unitario in materia di insolvenza degli Stati che ricalchi modelli di diritto interno, eventualmente rivolti a situazioni d’insolvenza di enti pubblici. Simile tendenza sembra rilevabile persino rispetto a meccanismi negoziali di compensazione e ristrutturazione del debito di tipo centralizzato. A fronte di tale situazione di decentramento e frammentazione, la prassi ha mostrato una pluralità di rimedi giudiziari nazionali ed arbitrali internazionali disponibili per i creditori di Stati insolventi. La disponibilità degli stessi è risultata confermata nonostante l’avversione di una parte significativa di attori internazionali in quanto disincentivante rispetto all’accettazione di ristrutturazioni del debito internazionalmente concordate. Nell’ambito di tale prassi giurisprudenziale variegata ha ricevuto conferma, in diritto e in fatto, l’applicabilità alla situazione di insolvenza degli Stati di regole e principi generali di diritto internazionale, con particolare riguardo all’esigibilità nei riguardi dello Stato delle obbligazioni finanziarie, superando, altresì, i limiti relativi all’immunità dalla giurisdizione di cognizione e allo stato di necessità. Si tratta di una tendenza favorevole ai diritti dei creditori che si realizza nella fase di accertamento, ma che si scontra verosimilmente nella fase di esecuzione forzata contro l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione esecutiva, salva l’esistenza, caso per caso, nello Stato del foro di beni dello Stato debitore che siano aggredibili in quanto non strumentali a funzioni pubblicistiche. Sotto il profilo del trattamento negoziale delle crisi finanziarie degli Stati, di fronte alle difficoltà di realizzazione di meccanismi codificati di gestione concertata universalmente vincolanti, si sono registrate significative tendenze pragmatiche in materia a livello regionale. Si tratta di formule e meccanismi che si segnalano per una tendenziale autonomia (71) Cfr. Ministero dell’economia e delle finanze, Global Bond: introdotte le Clausole di Azione Collettiva, 16 giugno 2003, http://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/?idc=1981. 88 SULL’INSOLVENZA DEGLI STATI finanziaria dal FMI, ma che si pongono come complementari alle sue funzioni di sostegno. In ordine di tempo, si segnala nell’area sud-americana il Fondo Latinoamericano de Reservas (FLAR), costituito nel 1988, rilanciato con l’ingresso della Costa Rica nel 2000 e con l’incremento dei fondi derivanti dalle risorse petrolifere venezuelane. Ne sono membri Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela e Costa Rica, con la significativa assenza di Argentina e Brasile (72). A livello del continente asiatico si registra la Chiang Mai Initiative del 2000. Costruita al fine di prevenire il ripetersi della crisi finanziaria asiatica del 1997, essa ha portato alla costituzione di un fondo di compensazione monetaria per contrastare le aggressioni speculative contro le monete degli Stati aderenti. Questi comprendono, oltre ai Paesi membri dell’ASEAN, la Cina, unitamente alla Regione amministrativa speciale di Hong Kong, il Giappone e la Corea del Sud (73). A conferma di questo orientamento verso la regionalizzazione dei meccanismi di gestione del debito pubblico ed eventuale default, si registrano le risposte degli ultimi mesi alla crisi del debito sovrano nell’area europea attraverso lo European Financial Stability Facility (ESFS). Il tema richiederebbe una trattazione specifica, anche per le problematiche di compatibilità con i Trattati istitutivi dell’Unione Europea. Va peraltro osservato come la dimensione fino a pochi mesi fa impensabile dell’aggravarsi della crisi finanziaria in Europa e l’interdipendenza a livello globale dei meccanismi finanziari ed economici regionali potranno nuovamente rilanciare iniziative relative a meccanismi centralizzati, perlomeno di concertazione, delle crisi, solo inizialmente di portata regionale. ATTILA TANZI (72) Vedi GAVIRIA-CADAVID, Moneda, Banca y Teoría Monetaria, Bogotá, 2006, p. 222 ss.; NOUEL, Nuevos Temas de Derecho Internacional - Ensayos sobre los nuevos principios y conceptos que rigen las relaciones internacionales, Caracas, 2006, p. 61 ss. (73) A conferma del consolidamento di questo fenomeno regionale, si segnala come, ad oggi, il suo Fondo di compensazione sia cresciuto a US$ 120 mld. Vedi SUSSANGKARN, The Chiang Mai Initiative Multilateralization: Origin, Development and Outlook, Asian Development Bank Institute, ADBI Working Paper Series No. 230, July 2010; RANDALL HENNING, The Future of the Chiang Mai Initiative: An Asian Monetary Fund?, Peterson Institute for International Economics, Policy Brief 09-5, February 2009. NOTE E COMMENTI LA BASE GIURIDICA DELLE MISURE DELL’UE DI CONGELAMENTO DEI CAPITALI NEI CONFRONTI DI PERSONE FISICHE O GIURIDICHE O ENTITÀ NON STATALI CHE APPOGGIANO IL TERRORISMO SOMMARIO: 1. La scelta della base giuridica tra gli articoli 75 e 215, par. 2, TFUE. — 2. L’art. 75 TFUE come base giuridica corretta delle misure dell’UE di congelamento dei capitali nei confronti di entità non statali che supportano il terrorismo. — 3. Questioni giuridiche sollevate dal ricorso di annullamento nella causa C-130/2010, Parlamento c. Consiglio. 1. Il Trattato di Lisbona contiene due disposizioni che potrebbero legittimare l’adozione di misure di congelamento dei capitali nei confronti di persone fisiche o giuridiche, gruppi o entità non statali che supportano attività terroristiche. Si tratta degli articoli 75 e 215, par. 2, TFUE. Il primo dispone: « Qualora sia necessario per conseguire gli obiettivi di cui all’art. 67 [TFUE], per quanto riguarda la prevenzione e la lotta contro il terrorismo e le attività connesse, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, definiscono un insieme di misure amministrative concernenti i movimenti di capitali e i pagamenti, quali il congelamento dei capitali, dei beni finanziari o dei proventi economici appartenenti, posseduti o detenuti da persone fisiche o giuridiche, da gruppi o da entità non statali » (il corsivo è aggiunto). Il 2º comma di tale disposizione prevede che il Consiglio adotti misure di attuazione, su proposta della Commissione: ciò in deroga a quanto previsto dall’art. 291, par. 2, che conferisce il potere di attuazione alla Commissione, tranne in specifici casi (1). Quanto all’art. 215, par. 2, TFUE, esso concerne l’interruzione parziale o totale delle relazioni economiche e finanziarie con uno o più Paesi terzi (par. 1) ovvero l’adozione di misure restrittive, non meglio (1) MIGLIORINI, La continuità degli atti comunitari e del terzo pilastro dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, Rivista, 2010, p. 433. 90 NOTE E COMMENTI precisate, nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali (par. 2). L’articolo in questione afferma: « 1. Quando una decisione adottata conformemente al capo 2 del titolo V del Trattato sull’Unione Europea prevede l’interruzione o la riduzione, totale o parziale, delle relazioni economiche e finanziarie con uno o più paesi terzi, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta congiunta dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e della Commissione, adotta le misure necessarie. Esso ne informa il Parlamento europeo. — 2. Quando una decisione adottata conformemente al capo 2 del titolo V del Trattato sull’Unione Europea lo prevede, il Consiglio può adottare, secondo la procedura di cui al par. 1, misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali ». La condizione per l’adozione di tali misure restrittive è che esse siano previste da una decisione adottata nel quadro della PESC. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata su proposta congiunta dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e della Commissione e il Parlamento è meramente informato dal Consiglio. Con riguardo alle misure di attuazione delle misure restrittive, si ritiene che esse debbano essere adottate dal Consiglio, sulla base dell’art. 291, par. 2, TFUE. Sia l’art. 75 che l’art. 215 contemplano un’identica previsione per cui gli atti adottati sulla base di tali articoli « contengono le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche » (2). Si tratta di un timido riconoscimento della necessità che le misure restrittive di carattere economico — siano esse finalizzate alla lotta contro il terrorismo o ad altri tipi di esigenze (3) — devono essere adottate rispettando i diritti umani laddove i destinatari siano degli individui. Risulta chiaro che entrambe le disposizioni del TFUE consentono l’adozione di misure legislative che stabiliscono restrizioni di carattere economico nei confronti di entità non statali. Infatti, l’art. 75 parla di « misure concernenti i movimenti di capitali e i pagamenti » e a titolo esemplificativo menziona il congelamento dei capitali, mentre l’art. 215 si riferisce alle misure restrittive nei confronti di individui nel contesto delle interruzioni delle relazioni economiche con Stati terzi. Non è tuttavia agevole comprendere il rispettivo campo di applicazione delle (2) Art. 75, 3º comma, e art. 215, par. 3. (3) Per una rassegna di queste esigenze vedi CAMERON, Respecting Human Rights and Fundamental Freedoms and EU/UN Sanctions: the State of Play, 2008, pp. 12-15, pubblicato nel sito http://www.europarl.europa.eu/activities/expert/eStudies.do ?languageEN. NOTE E COMMENTI 91 due disposizioni. In particolare, a quali dei due articoli sono riconducibili le misure dell’UE che stabiliscono il congelamento dei capitali nei confronti di enti non statali che appoggiano il terrorismo? Come è noto, già prima del Trattato di Lisbona tali misure, che si possono distinguere in misure riguardanti terroristi interni all’UE ovvero dirette contro terroristi non aventi un collegamento con il territorio dell’UE, avevano costituito oggetto di numerosi ricorsi di fronte alla Corte di giustizia i più rilevanti dei quali sono rispettivamente quelli promossi dalla Segi (relativa alla prima tipologia di presunti terroristi) (4) e da Kadi (riguardante la seconda categoria di presunti terroristi) (5). Dalla lettura degli articoli 75 e 215 non si comprende se le due basi giuridiche consentono di congelare le risorse economiche rispettivamente della prima e della seconda categoria di terroristi ovvero se tali misure debbano essere attuate utilizzando il solo art. 75 o il solo art. 215, par. 2. Capire quale deve essere il fondamento dell’azione dell’UE è importante (6) considerando che le due disposizioni di cui sopra prevedono procedure decisionali diverse. Il collegamento con il secondo pilastro costituisce il primo elemento di differenziazione. Il nesso con la PESC è previsto solo nel quadro dell’art. 215, par. 2 (7), in quanto l’adozione delle misure di interruzione delle relazioni economiche con i Paesi terzi e delle misure restrittive nei confronti di enti non statali è subordinata all’adozione di una decisione in tal senso nell’ambito della PESC. Con riguardo al coinvolgimento del Parlamento europeo, l’art. 75 offre a tale istituzione il ruolo di co-legislatore, essendo esperibile la procedura legislativa ordinaria (8) mentre nell’am(4) C-355/04 P, Segi, Araitz Zubimendi Izaga e Aritza Galarraga c. Consiglio dell’Unione Europea, Raccolta, 2007, p. I-1657. (5) C-402/05 P, Kadi and Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, Raccolta, 2008, p. I-6351. (6) Peraltro, l’esigenza che le decisioni che sottopongono una persona o un’entità [non statale] a misure restrittive, debbano essere basate su criteri chiari e distinti, al fine di garantire il rispetto e l’osservanza dei diritti di « due process », nonché una revisione giudiziaria esauriente di tali decisioni è stata sottolineata anche in una dichiarazione della Conferenza intergovernativa di Lisbona. Vedi dichiarazione n. 25 relativa agli articoli 75 e 215 del TFUE. (7) Non differiscono invece con riguardo al sindacato giurisdizionale poiché sia le une che le altre sono soggette al controllo della Corte di giustizia. Per le misure ex art. 215 si applica l’art. 275 TFUE. (8) Art. 294 TFUE. Ciò nonostante il fatto che l’art. 75 sembra autorizzare un quadro di « misure amministrative » concernenti i movimenti di capitali. Infatti, il significato di « misure amministrative » nel diritto dell’UE non equivale a quello di « misure non legislative » come si potrebbe pensare se assumessimo un’ottica di diritto interno. Infatti, le misure di cui all’art. 75 sono legislative per il fatto di essere adottate 92 NOTE E COMMENTI bito dell’art. 215, par. 2, il Parlamento è meramente consultato (9). Quanto al Consiglio, esso vota a maggioranza qualificata nel primo e nel secondo caso, anche se il presupposto dell’adozione di una misura restrittiva nell’ambito dell’art. 215, par. 2, è l’adozione di una decisione PESC, adottata generalmente all’unanimità (10). Inoltre, la Commissione detiene il pieno potere di proposta nell’ambito dell’art. 75 mentre condivide tale potere con l’alto rappresentante nel quadro dell’art. 215. Ulteriori elementi di differenziazione delle due disposizioni si individuano nella potenziale estensione geografica delle misure suscettibili di essere adottate: l’art. 75 ricade nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e quindi è oggetto di opt-out, mentre l’art. 215, par. 2, non lo è. Per poter definire il rispettivo campo di applicazione personale delle due basi giuridiche occorre in primo luogo esaminare le ragioni che hanno portato all’inserimento dei due articoli nel Trattato di Lisbona. In occasione della revisione dei Trattati, già a partire dai lavori della Convenzione che ha dato vita al progetto di Costituzione per l’Europa, fu ritenuto opportuno inserire basi giuridiche specifiche, a giustificazione di misure dell’UE che impongono il congelamento dei capitali nei confronti di individui, poiché la competenza della CE in materia era dubbia. Infatti, il Trattato di Maastricht aveva predisposto due basi giuridiche specifiche, gli articoli 60 e 301 TCE, per le misure di interruzione delle relazioni economiche da esperirsi nei confronti di Stati terzi. Il primo prevedeva la possibilità di adottare « le misure urgenti necessarie in materia di movimenti di capitali e di pagamenti » qualora, nei casi previsti all’art. 301, fosse ritenuta necessaria un’azione della Comunità. Il secondo concerneva la possibilità di interrompere o ridurre parzialmente o totalmente le relazioni economiche con uno o più paesi terzi, quando una posizione comune o un’azione comune, adottata in virtù delle disposizioni del Trattato sull’Unione Europea relative alla PESC, prevedessero un’azione della Comunità a questo scopo. Nessuna delle due disposizioni si preoccupava di legittimare le misure di congelamento dei capitali nei confronti di individui poiché nel 1991 tali strumenti non erano stati ancora utilizzati come strumento di lotta contro il terrorismo. Al massimo, le misure di cui sopra avevano riguardato le persone fisiche o giuridiche o le entità non statali legate sulla base della procedura decisionale ordinaria. Sul significato dell’espressione « misure amministrative » vedi infra. (9) Si tratta di una applicazione della procedura legislativa speciale. (10) Art. 24, par. 1, 2º comma, TUE. NOTE E COMMENTI 93 all’apparato governativo di uno Stato terzo (11). Per questo motivo, la prima volta che è stato necessario adottare misure di congelamento di capitali nei confronti di individui, che non erano collegati con l’apparato di uno Stato ed erano stati identificati sulla base di liste adottate dal Comitato delle sanzioni operante sotto la autorità del Consiglio di sicurezza, le istituzioni comunitarie hanno ritenuto opportuno associare agli articoli 60 e 301 anche l’art. 308 a supporto del regolamento n. 881/2002 (12), impugnato nella prima causa Kadi (13). Come è noto, tale regolamento conteneva misure di congelamento dei fondi di entità non statali associate ad Osama Bin Laden e ad Al Qaida e dava attuazione alla posizione comune n. 2002/402/PESC. Peraltro, il ragionamento con il quale era stata riconosciuta una competenza in capo alla CE ad adottare il regolamento n. 881/2002 nelle decisioni del Tribunale e della Corte nella causa Kadi, era stato considerato da più parti come particolarmente forzato per la oggettiva difficoltà di riconoscere una competenza in capo alla Comunità ad adottare provvedimenti restrittivi nei confronti di individui laddove nessuna delle disposizioni del TCE o del TUE prevedesse che persone fisiche o giuridiche potessero essere destinatarie di misure così penalizzanti (14). I problemi appena esposti non si ponevano rispetto alle misure di congelamento dei capitali adottate nei confronti di « home terrorists » non aventi legami esterni all’UE. Infatti, tali misure erano previste da posizioni comuni adottate sulla base del secondo/terzo pilastro (15). In questo caso, erano gli Stati membri ad identificare i terroristi, in attuazione di risoluzioni del Consiglio di sicurezza (16) ma quest’ultimo organismo non assumeva alcun ruolo nell’individuazione delle persone elencate. Dunque, il problema della mancanza di competenza della CE ad adottare misure di congelamento dei capitali non si poneva con (11) Per un esempio vedi CREMONA, EC Competence, Smart Sanctions and the Kadi Case, in CREMONA, FRANCIONI, POLI, Challenging the EU-counter-terrorism Measures through the Courts, EUI working paper n. 10/2010, pp. 77-78. (12) Regolamento (CE) n. 881/2002 del Consiglio, del 27 maggio 2002, che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone ed entità associate alla rete Al-Qaeda, G.U.U.E 2002 L 139, p. 9. (13) Nella causa C-402/05 P, cit. (14) Mi si permetta di rinviare su questo punto a POLI, TZANOU, The Kadi Rulings: a Survey of the Literature, Yearbook of European Law, 2009, p. 545. Al contrario, l’avvocato generale Maduro nelle conclusioni relative alla causa Kadi aveva sostenuto che gli articoli 60 e 301 TCE fossero sufficienti a legittimare misure di congelamento dei beni nei confronti di individui. Vedi Raccolta, 2008, p. I-6351. (15) Si veda, ad esempio, la posizione comune n. 2001/931/PESC impugnata nella causa Segi. (16) Si pensi alla risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1373 (2001) di cui alla causa Segi. 94 NOTE E COMMENTI riguardo a questa seconda categoria di atti poiché non era richiesta l’adozione di alcuna misura di attuazione comunitaria ma solo di atti dell’Unione. L’assenza di una previsione ad hoc per imporre restrizioni finanziarie nei confronti di individui sopra identificati ha portato alla modifica degli articoli 60 e 301 TCE. Essi sono stati sostituiti rispettivamente dagli articoli 75 e 215, par. 2, TFUE. Il testo dell’art. 75 è stato completamente riscritto e ricollocato nel Trattato, come vedremo oltre. Le nuove disposizioni, a differenza di quelle originarie, prevedono esplicitamente che persone fisiche e giuridiche possano essere destinatarie rispettivamente di misure concernenti i movimenti di capitali (art. 75) da un lato, e di misure restrittive (art. 215, par. 2), dall’altro. 2. Essendo incerto il rapporto tra le misure potenzialmente adottabili ex articoli 75 e 215, è stato ipotizzato che la scelta della base giuridica dipenda dall’origine della lista di sospetti terroristi: la prima disposizione costituirebbe il fondamento delle misure di congelamento di capitali nei confronti di « home terrorists », individuati sulla base di liste autonome dell’UE; al contrario, la seconda rappresenterebbe una lex specialis per le misure finanziarie contro persone identificate sulla base di liste delle Nazioni Unite, indipendentemente dal se le persone sulla lista siano terroristi interni o esterni all’UE (17). Questa interpretazione consentirebbe di evitare il problema della carenza di una tutela giurisdizionale effettiva a cui è andata incontro la Segi nell’omonima causa (18). Questa ricostruzione è criticabile sotto vari profili. In primo luogo, appare molto discutibile dare rilievo all’origine « interna » o « esterna » delle liste dei terroristi, assegnando due basi giuridiche diverse alle misure anti-terrorismo che le riguardano. Infatti, i terroristi sia « interni » che « esterni » sono individui e non Stati; pertanto sarebbe necessario adottare misure restrittive solo se queste sono circondate da opportune garanzie non solo giuridiche ma anche democratiche. L’art. 75 è la disposizione che meglio si attaglia a costituire la base giuridica per le sanzioni individuali in virtù del massimo coinvolgimento di cui gode il Parlamento europeo nella (17) ECKES, EU Counter-terrorist Policies and Fundamental Rights, Oxford, 2009, p. 123. Nello stesso senso, vedi il parere del Comitato affari giuridici del Parlamento europeo del 4 dicembre 2009, JURI_AL(2009)43091, p. 8. (18) Per un commento approfondito cfr. LAZZERINI, La tutela giurisdizionale degli individui rispetto agli atti PESC nella prospettiva del Trattato di Lisbona, Rivista, 2009, p. 1087 ss. NOTE E COMMENTI 95 determinazione delle misure di congelamento dei capitali. Ciò non tanto perché le disposizioni che valorizzano il ruolo del Parlamento hanno di per se stesse maggior forza normativa di altre (19). Il motivo non è neppure legato al fatto che l’art. 75 disponga di garanzie giuridiche per gli individui più ampie rispetto a quelle dell’art. 215 (20). Piuttosto, si ritiene necessario che decisioni che comprimono in modo così rilevante i diritti individuali, come avviene nel caso degli atti in questione, siano approvate con la piena partecipazione del Parlamento europeo e non siano il mero frutto di decisioni riconducibili al quadro della PESC che ha per oggetto i rapporti tra l’Unione e Stati terzi. Occorre assicurare il pieno coinvolgimento del Parlamento ogni volta che si debba decidere di imporre sanzioni individuali consistenti nel congelamento dei capitali e a prescindere dal fatto che sia un organismo nazionale o internazionale ad inserire le persone nella lista dei destinatari dei provvedimenti restrittivi. In secondo luogo, dal punto di vista squisitamente giuridico, ci sembra che l’art. 75 costituisca una lex specialis rispetto all’art. 215, par. 2, come lo stesso Comitato per gli affari giuridici del Parlamento europeo sottolinea (21). Infatti, a differenza dell’art. 215, par. 2, che menziona generiche « misure restrittive », esso permette l’adozione di misure specifiche come il congelamento dei capitali. Inoltre, non è posto alcun limite all’assunzione di tali misure nei confronti di un qualsiasi individuo o ente non statale, e neppure assume rilievo l’origine nazionale o internazionale dell’ente che stila le liste. Viceversa, il coinvolgimento esclusivo del Consiglio è opportuno per misure di interruzione delle relazioni economiche destinate agli Stati terzi. Ci sembrerebbe che l’art. 215, anche per la sua collocazione nell’ambito dell’azione esterna dell’UE, dovrebbe essere utilizzato principalmente per esperire misure di carattere commerciale nei confronti di Stati terzi (come prevede il suo par. 1). È vero che il par. 2 prevede la possibilità di adottare misure restrittive nei confronti di individui. Posto che è criticabile che l’art. 215 permetta di adottare sanzioni (19) BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, Il Diritto dell’Unione Europea, 2011, p. 297. (20) Infatti, il rispetto di tali garanzie è previsto nell’ambito sia dell’una che dell’altra disposizione. Inoltre, come già precisato, le persone fisiche e giuridiche destinatarie di misure restrittive possono inoltrare ricorsi di fronte alla Corte di giustizia, ex art. 275 TFUE, allo stesso modo di coloro che sono soggetti al congelamento dei capitali ex art. 75. (21) Parere del Comitato affari giuridici del Parlamento europeo del 4 dicembre 2009, cit., p. 8. 96 NOTE E COMMENTI statali e individuali sulla base dello stesso meccanismo decisionale (22), si potrebbe sostenere che in virtù della genericità del termine « misure restrittive », eventualmente il par. 2 potrebbe essere utilizzato come base per tutte quelle restrizioni che esulano dal congelamento dei capitali e sono dirette a limitare la libertà di circolazione delle persone iscritte nella lista (come ad esempio il divieto di rilascio dei visti di ingresso). Tale ricostruzione si presta alla seguente obiezione: anche tali misure dovrebbero essere soggette ad un controllo democratico dato che sono tali da incidere sui diritti umani. È vero, però, che le misure restrittive a carattere « non economico » vengono prese nei confronti di persone collegate all’apparato governativo dello Stato assoggettato alle sanzioni o ai membri delle loro famiglie. Pertanto, in questo caso, in virtù delle funzioni esercitate, tali individui fanno parte della leadership politica dello Stato e come tali, essi non possono automaticamente beneficiare degli stessi diritti/garanzie di cui godono le persone nella loro qualità di individui (23). Laddove, invece, le misure non economiche siano adottate nei confronti di persone che sono vicine agli apparati governativi ma per cui è difficile provare la connessione con tali apparati, esse dovrebbero essere oggetto di atti adottati sulla base dell’art. 75 e ad esse si dovrebbero estendere tutti i diritti di cui beneficiano gli individui e le entità non statali iscritte nelle liste di presunti terroristi (24). C’è da chiedersi se il fatto che l’art. 75 legittimi l’adozione di un insieme di misure amministrative concernenti i movimenti di capitali sia (22) Questa equiparazione non pare opportuna poiché gli individui colpiti da sanzioni hanno bisogno di avere maggiori garanzie giuridiche rispetto agli Stati destinatari delle sanzioni statali. (23) Peraltro, una conferma di questo principio si trova nella sent. 19 maggio 2010, T-181/08, Tay Za c. Consiglio dell’Unione Europea, non ancora pubblicata in Raccolta. La sentenza verte sul regolamento (CE) del Consiglio 25 febbraio 2008 n. 194, che proroga e intensifica le misure restrittive nei confronti della Birmania/Myanmar e abroga il regolamento (CE) n. 817/2006 (G.U.U.E. 2008 L 66, p. 1). Tale atto congela tutti i fondi e le risorse economiche delle persone appartenenti al regime di detto Stato, nonché a persone ad esse collegate. Tra queste il Tribunale include il ricorrente, figlio di un importante uomo d’affari che il Consiglio ritiene abbia beneficiato del regime militare birmano. Il regolamento è considerato valido dal Tribunale nonostante che i collegamenti tra il ricorrente e il regime birmano siano labili. Il giudice comunitario presume che ci siano legami tra il ricorrente e i dirigenti del regime essendo egli azionista di una società del padre, a sua volta dirigente di un’impresa che aveva tratto profitto dalle politiche economiche del Paese e non essendosi il ricorrente dissociato dal padre (paragrafi 66-69). Per un commento (critico) cfr. PANTALEO, Sanzioni « mirate » dell’Unione Europea contro uno Stato terzo e tutela dei diritti fondamentali degli individui, Rivista, 2010, p. 1143. La sentenza del Tribunale è stata impugnata il 27 luglio 2010. Cfr. causa C-376/10 P, Tay Za c. Consiglio, Commissione e Regno Unito, pendente. (24) Si rimanda al commento di PANTALEO, cit. NOTE E COMMENTI 97 in qualche modo suscettibile di indebolire la tesi qui proposta per cui tale disposizione sorregge le misure di congelamento dei capitali nei confronti di individui. Si potrebbe pensare, infatti, che il legislatore abbia voluto aggiungere l’aggettivo « amministrative », che nel progetto di Costituzione per l’Europa era assente (25), al fine di limitare il novero di misure concernenti i movimenti di capitali che possano essere adottate sulla base dell’art. 75. Ad esempio, si potrebbe pensare che il congelamento dei capitali, in virtù della severità della restrizione che pone in essere, non possa essere qualificato come una misura amministrativa ma come una misura penale (26) che, come tale, esula dall’ambito di applicazione dell’art. 75. In realtà, la specificazione sulla natura amministrativa della restrizione di cui all’art. 75 appare superflua dato che tale disposizione è inserita nell’ambito del capo I sulle disposizioni generali dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e non nel capo 4 del titolo V del TFUE, dedicato alla cooperazione penale. Inoltre, se l’introduzione dell’aggettivo « amministrative » servisse a sottrarre il congelamento dei capitali dall’ambito di applicazione dell’art. 75 tale disposizione perderebbe ogni effetto utile. È possibile che la precisazione sulla natura amministrativa delle misure di congelamento di cui all’art. 75 sia intesa a scongiurare che ad esse si applichino le garanzie dell’art. 6 della CEDU (27) in relazione a « criminal charges ». Infine, occorre considerare se l’utilizzo dell’art. 75 al posto dell’art. 215, par. 2, possa configurare una violazione dell’art. 40 TUE, violazione che la Corte di giustizia sarebbe competente ad esaminare. Come è noto, il 1º comma della disposizione da ultimo citata salvaguarda l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni delle istituzioni previste dai trattati per l’esercizio delle competenze dell’Unione disciplinate dal TFUE. Reciprocamente, sulla base del (25) Nel progetto di Costituzione non c’era alcun riferimento alle misure amministrative ma si parlava genericamente di un « quadro per misure concernenti i movimenti di capitali e i pagamenti ». Il termine « misure amministrative » è stato introdotto durante la Conferenza intergovernativa del 2004 che ha portato al Trattato che adotta la Costituzione per l’Europa. La disposizione che conteneva questa espressione era situata nell’ambito della libera circolazione dei capitali. Con la Conferenza intergovernativa del 2007 è avvenuto lo spostamento della disposizione in questione nell’ambito della cooperazione amministrativa. (26) Si è discusso a lungo sul se le misure in questione possano essere ritenute « a carattere penale » in considerazione dei loro effetti. Vedi LUGATO, Gli obblighi degli Stati membri fra primato della Carta e primato dei diritti umani, in Sanzioni ‘individuali’ del Consiglio di sicurezza e garanzie processuali fondamentali (a cura di Salerno), Milano, 2010, pp. 153-157. Per un’opinione favorevole vedi ECKES, op. cit., p. 165. (27) A questo proposito vedi VAN DEN BROEK, HAZELHORST, DE ZANGER, Asset Freezing: Smart Sanctions or Criminal Charge?, Utrecht Journal of Int. and European Law, 2010, p. 18 ss., spec. pp. 24-26. 98 NOTE E COMMENTI principio « separate but equal » il 2º comma tutela l’applicazione delle procedure nell’ambito della PESC e, come nel 1º comma, il principio dell’equilibrio istituzionale nell’esercizio delle competenze dell’Unione in tale settore. In linea di principio, il problema della violazione dell’art. 40 TUE non sembrerebbe porsi con riguardo alla scelta della base giuridica fra gli articoli 75 e 215, par. 2, poiché nessuna delle due disposizioni è relativa alla PESC. D’altra parte, è anche vero che l’art. 215, par. 2, presenta un legame molto stretto con le disposizioni relative alla PESC dato che l’adozione di una misura restrittiva deve essere preceduta da una decisione adottata conformemente al capo 2 del titolo V del TUE e pertanto riguarda « una procedura della PESC ». Quindi, qualora l’art. 215, par. 2, fosse escluso come base giuridica delle misure di congelamento dei capitali nei confronti di individui e gli si preferisse l’art. 75 si potrebbe pensare ad una violazione dell’art. 40, 2º comma, TUE poiché l’applicazione delle procedure previste nell’ambito della PESC sarebbe pregiudicata. Non solo, ma anche il potere legislativo del Consiglio potrebbe dirsi compromesso a causa del fatto che nell’ambito dell’art. 75 tale potere è condiviso. In realtà, si ritiene che il pregiudizio all’art. 40 TUE sia più apparente che reale. Infatti, il rapporto tra gli articoli 215 e 75 si risolve sulla base del rapporto lex generalis/lex specialis (28). Poiché il primo configura una competenza generale dell’UE ad adottare restrizioni nei confronti di Stati ed individui per fini di politica estera mentre il secondo permette specificamente di imporre restrizioni ai movimenti di capitali al fine di contrastare il fenomeno del terrorismo, le misure di congelamento debbono essere adottate sulla base dell’art. 75 (29). L’art. 40 TUE entrerebbe in gioco solo se lo scopo dell’azione dell’UE potesse essere raggiunto utilizzando l’una o l’altra base giuridica indifferentemente e fosse quindi causa di interferenza tra le componenti dell’Unione (30). Invece, così non è nella situazione in esame. 3. Si deve rilevare che, dopo l’entrata in vigore del Trattato di (28) Questo criterio è stato proposto per risolvere un eventuale conflitto tra basi giuridiche relative all’azione esterna dell’UE e alla PESC. Vedi CREMONA, Defining Competence in EU External Relations: Lessons from the Treaty Reform Process, in Law and Practice of EU External Relations (a cura di Dashwood, Maresceau), Cambridge, 2008, p. 46. (29) Per un’applicazione giurisprudenziale di questo principio vedi sent. 29 aprile 2004, causa C-338/01 Commissione c. Consiglio, Raccolta, 2004, p. I-4829, par. 60. (30) PALADINI, I conflitti tra i pilastri dell’Unione e le prospettive del Trattato di Lisbona, Il diritto dell’Unione Europea, 2010, p. 105. NOTE E COMMENTI 99 Lisbona, è stato adottato un numero cospicuo di regolamenti che hanno istituito misure restrittive nei confronti di Stati terzi (puramente statali), ovvero ibride in quanto dirette a Stati ed ad individui collegati agli apparati governativi o ancora indirizzate ad individui che non presentano alcun collegamento con lo Stato (misure puramente individuali). La base giuridica adottata è l’art. 215 (31) per la prima e la seconda categoria di misure ovvero il solo art. 215, par. 2, per il terzo gruppo (32). In quest’ultimo gruppo rientra il regolamento che individua misure restrittive nei confronti di enti non statali affiliati ad Al Qaida (33) e che è stato modificato per dare attuazione a quanto (31) Si veda il regolamento (UE) del Consiglio n. 356/2010 del 26 aprile 2010 che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone fisiche o giuridiche, entità od organismi in considerazione della situazione in Somalia, G.U.U.E. 2010 L 105, p. 1; regolamento (UE) del Consiglio n. 330/2011 del 6 aprile 2011 n. 330, recante modifica del regolamento (CE) n. 560/2005 che istituisce misure restrittive specifiche nei confronti di determinate persone ed entità per tener conto della situazione in Costa d’Avorio (G.U.U.E. 2011 L 93, p. 10), parzialmente annullato con la sentenza del Tribunale del 16 settembre 2011, T-316/11, Mathieu Kadio Morokro c. Consiglio dell’Unione Europea, non ancora pubblicata in Raccolta; regolamento (UE) n. 1083/2011 del Consiglio, del 27 ottobre 2011, recante modifica del regolamento (CE) n. 194/2008 che proroga e intensifica le misure restrittive nei confronti della Birmania/Myanmar, G.U.U.E. 2011 L 281, p. 1; regolamento (UE) n. 1048/2011 del Consiglio, del 20 ottobre 2011, che abroga il regolamento (CE) n. 1763/2004 che istituisce alcune misure restrittive a sostegno dell’attuazione effettiva del mandato del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), G.U.U.E. 2011 L 276, p. 1; regolamento (UE) n. 1011/2011 del Consiglio, del 13 ottobre 2011, che modifica il regolamento (UE) n. 442/2011 concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Siria, G.U.U.E. 2011 L 269, p. 18; regolamento (UE) n. 965/2011 del Consiglio, del 28 settembre 2011, che modifica il regolamento (UE) n. 204/2011 concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Libia, G.U.U.E. 2011 L 253, p. 8; regolamento (UE) n. 588/2011 del Consiglio, del 20 giugno 2011, che modifica il regolamento (CE) n. 765/2006 relativo a misure restrittive nei confronti del presidente Lukashenko e di determinati funzionari della Bielorussia, G.U.U.E. 2011 L 161, p. 1; regolamento (UE) n. 269/2011 del Consiglio, del 21 marzo 2011, recante modifica del regolamento (UE) n. 1284/2009 che istituisce determinate misure restrittive specifiche nei confronti della Repubblica di Guinea, G.U.U.E. 2011 L 76, p. 1. (32) Regolamento (UE) n. 753/2011 del Consiglio, del 1º agosto 2011, concernente misure restrittive nei confronti di determinate persone, gruppi, imprese e entità in considerazione della situazione in Afghanistan, G.U.U.E. 2011 L 199, p. 1; regolamento (UE) n. 359/2011 del Consiglio, del 12 aprile 2011, concernente misure restrittive nei confronti di determinate persone, entità e organismi in considerazione della situazione in Iran, G.U.U.E. 2011 L 100, p. 1; regolamento (UE) n. 270/2011 del Consiglio, del 21 marzo 2011, concernente misure restrittive nei confronti di determinate persone, entità e organismi in considerazione della situazione in Egitto, G.U.U.E. 2011 L 76, p. 4; regolamento (UE) n. 101/2011 del Consiglio, del 4 febbraio 2011, concernente misure restrittive nei confronti di determinate persone, entità e organismi in considerazione della situazione in Tunisia, G.U.U.E. 2011 L 31, p. 1. (33) Regolamento n. 1286/2009, G.U.U.E. 2009 L 346, p. 42. 100 NOTE E COMMENTI stabilito dalla Corte di giustizia nella causa Kadi (34). Tale atto è stato impugnato dal Parlamento europeo in un ricorso ancora pendente (35). Viceversa, altri regolamenti che riguardano essenzialmente Stati terzi e non hanno come obiettivo la lotta al terrorismo non sono stati impugnati (36). Nel ricorso di cui sopra il Parlamento chiede l’annullamento del regolamento per difetto della base giuridica appropriata. Tale istituzione sostiene che la disposizione più idonea a fondare l’azione dell’UE, in particolare il regolamento che sostituisce il n. 881/2002 relativo alle misure restrittive adottate nei confronti di Osama Bin Laden e degli enti non statali associati con i talebani, sia l’art. 75. Tale articolo non è mai stato utilizzato fino ad oggi (37). In alternativa a tale motivo di ricorso, il Parlamento solleva due argomenti ulteriori. In primo luogo, anche qualora l’art. 215, par. 2, fosse considerato la base giuridica corretta del regolamento impugnato, quest’ultimo non è stato adottato validamente poiché manca una valida proposta della Commissione. In particolare, nel periodo compreso tra il termine del mandato della Commissione in carica (31 ottobre 2009) e l’inizio del mandato della nuova Commissione (10 febbraio 2010) essa non poteva sottoporre una nuova proposta ovvero riproporre la proposta che essa aveva formulato nel corso del 2009 sulla base degli articoli 60, 301 e 308 TCE. In secondo luogo, il regolamento impugnato non è stato adottato sulla base di una decisione PESC, come richiesto dall’art. 215, par. 2, TFUE ma sulla base della posizione comune PESC n. 2002/402. Il motivo del ricorso che più interessa per i nostri fini è quello attinente alla base giuridica inappropriata. Come è noto, sulla base di una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, per designare il fondamento di un atto comunitario occorre verificare lo scopo e (34) Vedi documento del Servizio giuridico del Consiglio n. 9748 del 12 maggio 2010. (35) Causa C-130/2010, Parlamento c. Consiglio, pendente. (36) Si veda, ad esempio, il regolamento (UE) del Consiglio n. 356/2010 che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone fisiche o giuridiche, entità od organismi in considerazione della situazione in Somalia, cit. Vedi VAN ELSUWEGE, EU External Action after the Collapse of the Pillar Structure. In Search of a New Balance between Delimitation and Consistency, Common Market Law Review, 2010, p. 1012. (37) Di recente, la Commissione ha annunciato che nel corso del 2011 potrebbe adottare un quadro di misure amministrative proprio sulla base di tale articolo. Vedi The EU Internal Security Strategy in Action: Five Steps towards a More Secure Europe, COM (2010) 673, p. 8. NOTE E COMMENTI 101 l’oggetto dell’atto che si intende adottare (38). L’esame di entrambi gli elementi porta ad individuare nell’art. 75 la base giuridica appropriata. Infatti, le misure adottate sulla base di tale disposizione perseguono « gli obiettivi di cui all’art. 67, per quanto riguarda la prevenzione e la lotta contro il terrorismo e le attività connesse ». In realtà l’art. 67 non esplicita né quali siano gli obiettivi generali dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, né tanto meno quelli relativi alla prevenzione e alla lotta contro il terrorismo. Risulta chiaro tuttavia che l’art. 75 è rivolto specificamente a sostenere azioni dell’UE che contrastano il fenomeno del terrorismo. Al contrario, l’art. 215, par. 2, non si pone questo specifico obiettivo. Pertanto, è da escludersi che l’azione dell’UE possa essere diretta a combattere questo fenomeno, se promossa sulla base di quest’ultima disposizione. Ora, scopo del regolamento n. 881/2002 è prevenire i crimini terroristici, compreso il finanziamento del terrorismo (39) come recita il considerando n. 21 di tale regolamento e come conferma il considerando n. 2 del regolamento impugnato. Quest’ultimo intende stabilire le garanzie procedurali che devono essere assicurate quando sia adottata una decisione sul congelamento dei capitali delle persone fisiche e giuridiche che figurano negli allegati del regolamento. Pertanto, l’art. 75 sembrerebbe la base giuridica più idonea a sostenere l’atto contestato, alla luce del suo scopo. Occorre notare che le restrizioni imposte dal regolamento n. 1286/2009 non sono solo di carattere economico. Infatti, l’art. 1, punto 5, afferma: « Fatte salve le competenze degli Stati membri nell’esercizio della rispettiva pubblica autorità, è vietato fornire, direttamente o indirettamente, consulenze tecniche, assistenza o formazione connesse ad attività militari, comprese in particolare la formazione e l’assistenza connesse alla produzione, alla manutenzione e all’impiego di armi e materiale connesso di qualsiasi tipo, a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità, organismo o gruppo di cui all’elenco dell’allegato I » (corsivo aggiunto). Poiché l’art. 215, par. 2, prevede che si possa adottare una categoria ampia di misure genericamente dette « restrittive », tra esse potrebbero astrattamente rientrare anche i divieti di fornire consulenze di varia natura, di cui sopra. Ci sembra tuttavia che l’oggetto principale del regolamento sia costituito dalle misure di congelamento dei capitali. (38) Causa C-45/86, Commissione c. Consiglio (Generalised Tariff Preferences), Raccolta, 1987, p. 1439. (39) Anche se tale obiettivo è collegato alla salvaguardia della pace e della sicurezza a livello internazionale, obiettivi propri sia dell’azione esterna dell’UE che della PESC. 102 NOTE E COMMENTI Le altre restrizioni sono meramente ancillari a quelle di carattere economico. Di conseguenza, il fatto che il regolamento contempli anche misure diverse dal congelamento di capitali non ostacola l’utilizzazione dell’art. 75 quale sua base giuridica. C’è da chiedersi se sia ammissibile il ricorso ad entrambe le basi giuridiche nelle circostanze eccezionali descritte dalla sentenza Biossido di titanio (40), cioè se la Corte di giustizia ritenesse che il centro di gravità del regolamento impugnato sia equamente ripartito tra le due menzionate basi giuridiche e non ci sono incompatibilità procedurali. Nell’opinione di chi scrive i presupposti per l’applicazione della giurisprudenza sul cumulo di basi giuridiche non esistono nel caso in questione dato che il regolamento non persegue più obiettivi tra loro inscindibili, come richiesto dalla giurisprudenza di cui sopra, ma un unico obiettivo che è quello di combattere il fenomeno terroristico. Inoltre, se anche la Corte ritenesse che gli obiettivi perseguiti sono vari, tra loro inscindibili e tutti ugualmente importanti, il ricorso a basi giuridiche plurime sarebbe escluso in quanto le relative procedure decisionali sono incompatibili. È questa anche l’opinione espressa nel parere del Comitato sugli affari giuridici del Parlamento europeo (41). In effetti, si riscontra incompatibilità nelle procedure decisionali degli articoli in questione. Essa non risiederebbe tanto nel diverso ruolo assegnato al Parlamento che è consultato nell’ambito dell’art. 215, par. 2, mentre co-legifera con il Consiglio nel quadro dell’art. 75. Infatti, queste circostanze, sulla scorta della causa Parlamento c. Consiglio (42), che prefigurava una situazione identica quanto al ruolo del Parlamento, anche se in relazione ad articoli tra loro strettamente interdipendenti, come gli articoli 179 e 181A TCE, non sono sufficienti ad identificare una incompatibilità decisionale (43). Piuttosto, l’inconciliabilità del procedimento decisionale è dovuta al fatto che nel caso dell’art. 215, par. 2, per l’adozione di una misura restrittiva occorre una decisione PESC, che è adottata all’unanimità. Inoltre, il Consiglio delibera alla (40) Sent. 11 giugno 1991, causa C-300/89, Commissione c. Consiglio, Raccolta, 1991, p. I-2867, paragrafi 17-21; sent. 25 febbraio 1999, cause riunite C-164/97 e C-165/97, Parlamento c. Consiglio, Raccolta, 1999, p. I-1139, par. 14. (41) Parere del Comitato affari giuridici del Parlamento europeo del 4 dicembre 2009, cit., p. 10. (42) Sent. 6 novembre 2008, causa C-155/07, Parlamento c. Consiglio, Raccolta, 2008, p. I-8103; cfr. RANDAZZO, nota pubblicata in Common Market Law Review, 2009, p. 1277. (43) Sentenza ult. cit., par. 83. L’avvocato generale Kokott aveva invece suggerito alla Corte di considerare le procedure decisionali incompatibili e di scegliere la base giuridica che prevede il maggior coinvolgimento del Parlamento, cioè, nel caso in questione l’art. 179 TCE. Vedi conclusioni del 26 giugno 2008, par. 90. NOTE E COMMENTI 103 maggioranza qualificata e la fase della proposta prevede il coinvolgimento dell’alto rappresentante e della Commissione. Al contrario, l’art. 75 non contempla la previa adozione di decisioni PESC e prevede che la proposta provenga dalla sola Commissione (44). Non ci sarebbe, invece, incompatibilità per ciò che riguarda la procedura di voto del Consiglio dato che in entrambi i casi esso delibererebbe a maggioranza qualificata. Dunque, la Corte di giustizia dovrebbe scegliere tra l’una e l’altra base giuridica. Vale la pena segnalare che nel ricorso in esame essa si potrebbe trovare ad esaminare un punto di diritto dell’UE mai venuto in rilievo fino ad oggi. Si tratta della scelta della base giuridica qualora tra le disposizioni possibili c’è ne sia una oggetto di un opt-out. Questo è il caso dell’art. 75 TFUE che è compreso nella parte terza, titolo V TFUE (45). Ci si chiede se in questa situazione la Corte di giustizia dovrebbe preferire la disposizione che non è oggetto di un opt-out, cioè nel caso in questione l’art. 215, par. 2. Una simile scelta non configurerebbe l’intrusione di elementi soggettivi nella scelta della base giuridica, il cui rilievo è stato sempre escluso dalla Corte di giustizia. Piuttosto, la valorizzazione della disposizione che trova un’applicazione geografica quanto più ampia possibile negli Stati dell’UE sarebbe rivolta a sviluppare il processo di integrazione europea, e quindi sarebbe del tutto in linea con i fini che questa organizzazione si pone. In ogni caso, anche se la Corte di giustizia optasse per un’interpretazione integrazionista nella scelta della base giuridica, ciò non porterebbe necessariamente a privilegiare l’art. 215, par. 2. Infatti, il Regno Unito e l’Irlanda del Nord hanno dichiarato che intendono esercitare l’opt-in previsto dall’art. 3 del Protocollo n. 21 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda in relazione allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, partecipando all’adozione di tutte le proposte fondate sull’art. 75 TFUE (46). Pertanto, ammesso che la Corte di giustizia decida di privilegiare una base giuridica che non sia oggetto di opt-outs, ciò non ostacolerebbe l’uso dell’art. 75 al posto dell’art. 215, par. 2, in queste circostanze. Sembra politicamente difficile che il Regno Unito si discosti dalla volontà espressa nella dichiarazione di cui sopra, nonostante la natura non giuridicamente vincolante di tale atto. SARA POLI (44) A favore della conciliabilità delle procedure decisionali previste dagli articoli 75 e 215, par. 2, TFUE si pronuncia VAN ELSUWEGE, op. cit., p. 1011. (45) Vedi art. 1 del Protocollo n. 21 sulla posizione dell’Irlanda e del Regno Unito rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. (46) Dichiarazione n. 65 del Regno Unito e dell’Irlanda del Nord sull’art. 75 TFUE. LA PIRATERIA MARITTIMA DI FRONTE AI GIUDICI DI STATI MEMBRI DELL’UNIONE EUROPEA SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. La questione della competenza giurisdizionale. — 3. La completezza dell’adeguamento delle norme di diritto penale interno con le norme di diritto internazionale in materia di pirateria. — 4. La pretesa violazione dell’art. 5, par. 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. — 5. Considerazioni conclusive. 1. La recrudescenza della pirateria marittima nell’Oceano Indiano (in particolare nel golfo di Aden) ha assunto dimensioni ampie e preoccupanti, non soltanto perché costituisce una minaccia alla libera e sicura circolazione delle navi in tale cruciale zona marittima, ma anche per l’entità degli interessi colpiti e dei danni già inflitti agli Stati (1). È da osservare che anche navi italiane hanno subito — negli ultimi anni — numerosi attacchi da parte dei pirati somali (2). Preoccupa che a fronte di questo aumento consistente del fenomeno si verifichi il cosiddetto « catch and release », cioè il rilascio dei pirati catturati senza l’attivazione di alcun procedimento penale a loro carico. Si può anche comprendere che in alcune situazioni lo Stato sia spinto a ricercare una soluzione transattiva, al fine di realizzare una sicura e rapida liberazione degli ostaggi catturati dai pirati, ma una diversa politica criminale — consistente invece nella repressione giudiziale, già adottata in alcuni ordinamenti statali interni a proposito di (1) Il fenomeno dei cosiddetti « pirati somali » è stato descritto dettagliatamente in molti documenti. Si veda, per tutti, il rapporto effettuato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in data 25 gennaio 2011, da Lang, Special Adviser to the Secretary-General on Legal Issues Related to Piracy off the Coast of Somalia: SC/10164, Security Council 6473rd Meeting (AM). Per uno studio delle conseguenze economiche cfr. SHORTLAND, Piraterie in Somalia: Ein gutes Geschäft für Viele, DIW Wochenbericht, 2010, p. 2 ss. (2) Cfr. d. l. 11 luglio 2011 n. 207, G.U. 12 luglio 2011 n. 160. Uno degli attacchi più recenti è avvenuto ai danni della petroliera Enrico Ievoli, mercantile dell’armatore napoletano Marnavi, assaltata al largo delle coste dell’Oman, di cui si è dato notizia anche nei principali quotidiani italiani. Cfr., ad esempio, CATALANO e MARCECA, Nave italiana sequestrata in Oman, La Repubblica, 28 dicembre 2011. NOTE E COMMENTI 105 analoghe fattispecie di reato (3) — ha offerto in passato risultati più efficaci, come deterrente per la reiterazione del crimine. Anche sul piano internazionale il Consiglio di sicurezza ha reiterato le sue condanne per la pratica in questione, confermando le scelte repressive del legislatore interno (4). In materia di pirateria marittima il « catch and release » ha dimostrato di agevolare una soluzione più immediata nel caso singolo, ma ha incentivato altresì la convinzione della proficuità del comportamento criminoso, determinando un ampliamento del fenomeno nella sua manifestazione generale, fino a ledere interessi sempre più rilevanti della comunità internazionale (5). Pertanto, non si può che prendere atto con compiacimento di un primo nucleo di sentenze pronunciate in materia dalle corti di due Stati dell’Unione Europea (Paesi Bassi (6) e Spagna (7)) dal momento che lasciano intravedere una valida alternativa al « catch and release ». Tale propensione ad una soluzione giudiziale sembra allinearsi non solo alla politica criminale adottata per i reati interni, ma anche alle manifestazioni giurisprudenziali espresse da altri Stati in relazione al crimine (3) Basti ricordare, in questa sede, la legge 15 marzo 1991 n. 82, pubblicata nella G.U. 16 marzo 1991 n. 64, nella quale è prevista la norma che dichiara « nulli i negozi giuridici posti in essere al fine di far conseguire agli autori del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione il prezzo della liberazione della vittima ». (4) La prima denuncia di questa prassi è stata fatta dal Consiglio di sicurezza nella risoluzione n. 1851 (2008); la più recente è contenuta nella risoluzione n. 2015 (2011), nella quale il Consiglio di sicurezza espressamente dichiara: « Reiterating its concern over a large number of persons suspected of piracy having to be released without facing justice, reaffirming that the failure to prosecute persons responsible for acts of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia undermines anti-piracy efforts of the international community and being determined to create conditions to ensure that pirates are held accountable ». (5) Cfr. a tal proposito SC/9541, Security Council 6046rd Meeting (PM) e il relativo commento rilasciato da RICE, Combating the Scourge of Piracy, US State Department Press, New York, 16 dicembre 2008. Cfr. anche BRITTEN, Navy Regularly Releases Somali Pirates, Even When Caught in the Act, The Telegraph, 29 novembre 2009. Tra le numerose dichiarazioni politiche che denunciano l’inefficacia e la perniciosità del « catch and release » cfr. quella del Ministro olandese degli affari esteri in VERHAGEN, Speech at the Clingendael Institute, Pioneering for solutions against piracy focusing, 8 luglio 2009; e quella rilasciata da CLINTON, Releasing Pirates Sends “Wrong signal”, in Labott, CNN State Department, 20 aprile 2009. (6) Sentenza n. 10/600012-09, LJN: BM8116, del 17 giugno 2010, e sentenze n. 10/960248-10, LJN: BR4930 e n. 10/960256-10, LJN: BR4931 del 12 agosto 2011; tutte e tre le sentenze sono state emesse dalla Rechtbank di Rotterdam e sono rinvenibili anche presso il sito web del sistema giudiziario olandese: http://www. rechtspraak.nl/Pages/default.aspx. (7) Sentenza n. 10/2011, causa 93/09, emessa il 3 maggio 2011 dalla sección cuarta, sala de lo penal, della Audiencia Nacional de Madrid. Il testo della sentenza è reperibile anche all’indirizzo http://www.elpais.com/elpaismedia/ultimahora/ media/201105/03/espana/20110503elpepunac-2-Pes-PDF.pdf. 106 NOTE E COMMENTI internazionale di pirateria. Sotto questo profilo sono da richiamare due sentenze — entrambe pronunciate, anch’esse di recente, dalla Corte federale di Norfolk, Virginia — con le quali la Corte statunitense ha inflitto agli imputati, in un primo caso, la massima sanzione applicabile (la detenzione a vita), e in un secondo caso una pena detentiva pari a trenta anni di reclusione (8). Gli Stati Uniti si sono spesso mostrati sensibili ai crimini lesivi degli interessi della comunità internazionale nel suo insieme (9) e, come grande potenza marittima, si sono opportunamente dotati di una normativa specifica interna che definisce e punisce il reato di pirateria (10). Comunque, il comportamento statunitense esprime pur sempre l’orientamento di uno Stato singolo, per quanto rilevante. Le sentenze emanate dalle corti europee presentano, invece, un interesse aggiuntivo perché evidenziano una scelta di orientamento posta in essere da un gruppo di Stati legati da un particolare vincolo di cooperazione regionale, che imprime una forza espansiva più coinvolgente della scelta singola, anche se attuata dalla potenza marittima più significativa. In effetti, l’operazione Atalanta, lanciata e attuata dall’Unione Europea per reprimere la pirateria nell’Oceano Indiano (11), ha finito per indurre anche Paesi — come l’Italia — inizialmente propensi alla trattativa con i pirati, a preferire la sottoposizione a giudizio dei pirati catturati nel golfo di Aden (12). Purtroppo, per (8) Cfr. sentenze 24 novembre 2010, US v. Modin Hasan et al., caso n. 2:10-cr00056-MSD-FBS, e 29 novembre 2010 US v. Cali Saciid et al., caso n. 2:10-cr-00057RAJ-FBS. Entrambe le sentenze sono state pronunciate dalla District Court for the Eastern District of Virginia, Norfolk Division, e sono rinvenibili presso US Attorney’s Office, Norfolk Division Press, 14 marzo 2011. (9) Basti pensare, anche solo limitatamente al crimine di pirateria marittima, ai seguenti casi: United States v. Smith, 18 U.S. 153, 5 Wheat. 153 (1820); United States v. Furlong, 18 U.S. 184, 197 (1820); United States v. Libellants & Claimants of the Schooner Amistad, 40 U.S. 518, 586 (1841); United States v. Baker, 24 F. Cas. 962, 965 (C.C.S.D.N.Y. 1861); United States v. Barnhart, 22 F. 285, 288 (C.C.D. Or. 1884); United States v. Madera-Lopez, 190 Fed. Appx. 832, 836 (11th Cir. 2006); Taveras v. Taveras, 477 F.3d 767, 772 n. 2 (6th Cir. 2007); United States v. Shi, 525 F.3d 709, 721 (9th Cir. 2008). (10) Cfr. United States Code, Title 18, Sections 1651, 3238 e 2. (11) Cfr. G.U.U.E. 12 novembre 2009 L 301, pp. 33-37. Per un’analisi dell’operazione Atalanta cfr., ex multis, DE GUTTRY, Fighting Piracy and Armed Robbery in the XXI Century: Some Legal Issues Surrounding the EU Military Operation Atalanta, Studi sull’integrazione europea, 2010, pp. 325-350; e ASHLEY ROACH, Agora: Piracy Prosecutions, Countering Piracy off Somalia: International Law and International Institutions, The American Journal of Int. Law, 2010, pp. 397-416. (12) La Procura di Roma ha infatti avviato un procedimento penale a carico degli undici pirati che avevano attaccato il mercantile italiano Montecristo e che erano stati catturati dalle truppe speciali della marina britannica e statunitense. Ne è stata data notizia anche da GAIANI, È riuscito il blitz militare sulla nave Montecristo in mano ai pirati somali: italiani liberati, Il Sole-24 Ore, 11 ottobre 2011. NOTE E COMMENTI 107 quanto riguarda l’Italia, risulta ancora largamente prevalente il numero dei casi in cui non si è proceduto a cattura e sottoposizione a giudizio; e ciò non solo e non soltanto a causa della pratica del « catch and release » in senso proprio (13) o della propensione alla trattativa segreta, quanto per il reiterato ricorso all’allontanamento degli aggressori non seguito dal tentativo di cattura (14). Può essere utile, dunque, esaminare se l’approccio seguito da questo primo nucleo di sentenze sia adeguato e possa pertanto essere apprezzato come un esempio da tener presente per eventuali procedimenti futuri, ovvero se la direzione intrapresa dalle corti europee necessiti di alcuni correttivi. Dalla lettura delle sentenze in commento sono individuabili tre profili che meritano un approfondimento. Un primo tema rilevante è rappresentato dalla questione relativa all’universalità della giurisdizione e alla competenza a ius dicere. A tal proposito emerge un duplice riferimento: alla norma consuetudinaria, e alle norme convenzionali in materia (in particolare all’art. 105 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (15) e all’art. 6, paragrafi 1, 2 e 5, della Convenzione di Roma per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima del 1988 (16)), senza tuttavia una piena consapevolezza dei diversi effetti prodotti da tali norme. (13) Secondo una dichiarazione rilasciata in occasione di un convegno scientifico — Nuovi scenari in materia di contrasto alla Pirateria Marittima. Problematiche connesse alla difesa attiva e relativi profili giuridici, svoltosi a Roma il 2 dicembre 2011 — per il Ministero della difesa italiano sarebbe registrabile un solo caso di rilascio dei pirati catturati (non è stato precisato di quale caso si tratti). D’altro canto, la riservatezza di cui il Ministero ha circondato gli esiti delle varie vicende di pirateria ai danni di mercantili italiani non consente di tracciare un bilancio numerico dei vari tipi di comportamenti governativi. (14) Per l’episodio più recente in tal senso vedi il caso della nave militare italiana Grecale, di cui si è dato notizia anche in: PIERINI, Nave Grecale sventa attacco di pirati alla motonave Valdarno, Italnews, 17 gennaio 2012. (15) L’art. 105 della Convenzione di Montego Bay stabilisce: « Nell’alto mare o in qualunque altro luogo fuori della giurisdizione di qualunque Stato, ogni Stato può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o aeromobile catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il sequestro hanno il potere di decidere la pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi, aeromobili o beni, nel rispetto dei diritti dei terzi in buona fede ». (16) L’art. 6, par. 1, della Convenzione di Roma recita testualmente: « Each State Party shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction over the offences set forth in article 3 when the offence is committed: 1. against or on board a ship flying the flag of the State at the time the offence is committed; or 2. in the territory of that State, including its territorial sea; or 3. by a national of that State ». L’art. 6, par. 2, dispone invece: « A State Party may also establish its jurisdiction over any such offence when: 1. it is committed by a stateless person whose habitual residence is in that State; or 2. during its commission a national of that State is seized, 108 NOTE E COMMENTI Un’ulteriore questione, comune a questo primo nucleo di pronunce, è costituita dal grado di adeguamento del diritto interno degli Stati al diritto internazionale, sia per quanto attiene alle norme sostanziali di determinazione della fattispecie del reato, sia per quanto riguarda le norme processuali e l’entità delle pene previste e irrogate. Infine, un terzo campo di indagine è rappresentato dalla necessità di conciliare le esigenze repressive con la tutela dei diritti umani degli imputati, eventualmente violati. 2. Il primo caso, a quanto risulta, in cui il giudice di uno Stato membro dell’Unione Europea condanna ad una pena detentiva individui che hanno commesso atti di pirateria marittima è rappresentato dalla sentenza pronunciata dalla Rechtbank di Rotterdam in data 17 giugno 2010: la Corte olandese — nella sua sentenza — anzitutto afferma la propria competenza giurisdizionale, richiamando sia la vigenza, nel proprio ordinamento interno, di una norma statale che punisce il reato di pirateria (17), sia la conformità di tale norma, ex art. 94 della Costituzione olandese (18), ai trattati dei quali i Paesi Bassi sono Stato contraente, con particolare riferimento all’art. 6, paragrafi 1, threatened, injured or killed; or 3. it is committed in an attempt to compel that State to do or abstain from doing any act ». L’art. 6, par. 5, precisa infine: « This Convention does not exclude any criminal jurisdiction exercised in accordance with national law ». (17) E la individua nell’art. 381 del Wetboek olandese, il quale punisce il reato di pirateria e fissa i limiti edittali di pena: « 1. Se colpevole di pirateria marittima verrà punito: 1° con una pena detentiva non eccedente i dodici anni di reclusione o una sanzione della quinta categoria, nel caso in cui, rivestendo la qualifica di capitano o di membro dell’equipaggio di una nave, abbia intenzione di commettere, o effettivamente compia, atti di violenza in alto mare contro l’equipaggio della stessa nave o contro altre navi, soggetti o beni, senza che una forza belligerante lo autorizzi a compiere tali atti, ovvero appartenga ad un potere legittimato a condurre una guerra navale; 2° con una pena detentiva non eccedente i nove anni di reclusione o una sanzione della quinta categoria, nel caso in cui, in qualità di membro dell’equipaggio, sia consapevole dello scopo o dell’uso che si fa della suddetta nave, ma resti comunque membro dell’equipaggio anche dopo esser venuto a conoscenza di tale scopo od uso. 2. Sprovvisto della dovuta autorizzazione sarà considerato come un soggetto eccedente l’autorità e i permessi accordatigli dalle forze belligeranti. 3. Non si applica l’art. 81. 4. I commi precedenti, relativi al capitano e al membro dell’equipaggio di una nave, si applicano analogamente anche al capitano e al membro dell’equipaggio di un aeromobile. » (traduzione dell’autore dal testo olandese). (18) Per l’adattamento al diritto internazionale pubblico del diritto interno olandese cfr., recentemente: FLEUREN, The Application of Public International Law by Dutch Courts, Netherlands Int. Law Review, 2010, pp. 245-266. NOTE E COMMENTI 109 2 e 5, della Convenzione di Roma per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima del 1988, e all’art. 105 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. L’interpretazione, che la Rechtbank di Rotterdam offre su quest’ultimo punto, si traduce nell’affermazione della libertà dell’esercizio della giurisdizione. A ben guardare, invece, le norme richiamate di diritto internazionale pattizio — più precisamente, quelle contenute nella Convenzione di Roma e applicabili alla fattispecie in esame — non si limitano ad attribuire una mera libertà di esercitare la giurisdizione, ma — in presenza di certi presupposti, ricorrenti nella fattispecie — impongono un vero e proprio obbligo agli Stati parti. Da un lato, infatti, l’art. 6, par. 1, della Convenzione di Roma precisa testualmente: « Each State Party shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction over the offences set forth in article 3 » (corsivo aggiunto), in presenza di certi presupposti reperibili nel caso di specie, che integra appunto la prima delle ipotesi enunciate dalla norma (quella, cioè, di cui all’art. 6, par. 1, lett. a), poiché l’illecito risulta commesso « against or on board a ship flying the flag of the State at the time the offence is committed ») (19). Dall’altro lato, poi, l’art. 10 della Convenzione di Roma precisa che lo Stato contraente, ove realizzi la detenzione del reo ed escluda il ricorso all’estradizione nei casi ex art. 6, « shall be obliged, without exception whatsoever and whether or not the offence was committed in its territory, to submit the case without delay to its competent authorities for the purpose of prosecution, through proceedings in accordance with the laws of that State » (corsivo aggiunto). Dunque, dal momento in cui i Paesi Bassi hanno realizzato la detenzione del reo, sono tenuti ad adempiere tale obbligo, dal quale possono liberarsi solo attraverso l’alternativa dell’estradizione dell’imputato ad un altro Stato parte della Convenzione, che ne faccia richiesta in base a titolo idoneo (20). Si tratta di un’evidente applicazione del principio « aut dedere aut iudicare » (21), esplicitato chiaramente dal(19) La Samanyolu, la nave mercantile oggetto dell’attacco piratesco, batteva la bandiera delle Antille olandesi, che — al momento dei fatti — erano Territori d’oltremare del Regno dei Paesi Bassi. (20) Come aveva fatto appunto, nel caso in esame, la Danimarca nei confronti dei Paesi Bassi. La cattura dei pirati, infatti, era stata realizzata da un elicottero della marina militare danese; la Danimarca aveva successivamente soddisfatto la richiesta di consegna inoltratagli dai Paesi Bassi, in virtù di un mandato d’arresto europeo, dal momento che la nave oggetto dell’attacco batteva la bandiera delle Antille olandesi. (21) Il principio « aut dedere aut iudicare », al di là delle differenti formulazioni testuali con le quali è stato espresso, è richiamato sopratutto per i casi di terrorismo 110 NOTE E COMMENTI l’art. 6, par. 4, della Convenzione di Roma (22). Proprio quest’ultimo precetto, peraltro, evidenzia come i Paesi Bassi, avendo utilizzato il mandato d’arresto europeo, non dispongano più dell’alternativa dell’estradizione; il loro obbligo, pertanto, si configura come ineludibile. Non sembra, inoltre, condivisibile (né necessario) l’ulteriore argomento addotto dalla Rechtbank di Rotterdam nel 2010 quando cita a sostegno della propria competenza a ius dicere il par. 5 dell’art. 6 della Convenzione di Roma (23). Tale norma, infatti, è stata posta a chiusura del citato art. 6, per chiarire che le disposizioni della Convenzione non pregiudicano l’operatività del principio consuetudinario dell’universalità della giurisdizione, che risulta quindi invocabile anche dagli Stati non contraenti; ogni giudice statale, cioè, può dichiararsi competente, senza che dalla Convenzione sia deducibile un criterio di priorità. Ciò che premeva stabilire convenzionalmente era, infatti, l’obbligo di giudicare in presenza delle condizioni ex art. 6, ferma restando — negli altri casi — la libertà dell’esercizio della giurisdizione. In presenza di tali presupposti, dunque, non possono considerarsi compatibili eventuali norme statali, suscettibili di condizionare l’adempimento dell’obbligo internazionale. La Rechtbank di Rotterdam, invece, presupponendo una mera libertà di ius dicere, e non un dovere, prende in considerazione anche l’operatività di limitazioni, presenti nell’ordinamento giuridico olandese, che potrebbero precludere l’esercizio della giurisdizione. In particolare, esamina la condizione scaturente da un principio generale di diritto processuale, quello cioè del due process, che sarebbe violato in caso di assenza di un legittimo interesse a ius dicere. Al riguardo val la pena di ricordare che nessun limite può esser dedotto dal diritto interno degli Stati per giustificare l’inadempimento di un obbligo derivante da una fonte di diritto internazionale pattizio. A fortiori è da escludere l’applicabilità del principio del due process citato, ove si consideri che esso, se rettamente internazionale: cfr. PANZERA, Attività terroristiche e diritto internazionale, Napoli, 1978, pp. 145-148. Cfr. anche, più recentemente, BASSIOUNI, WISE, Aut Dedere Aut Iudicare: The Duty to Extradite or Prosecute in International Law, Dordrecht, Boston, London, 1995. (22) L’art. 6, par. 4, della Convenzione di Roma, infatti, precisa: « Each State Party shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction over the offences set forth in article 3 in cases where the alleged offender is present in its territory and it does not extradite him to any of the States Parties which have established their jurisdiction in accordance with paragraphs 1 and 2 of this article » (corsivo aggiunto). (23) L’art. 6, par. 5, della Convenzione di Roma dispone, come già ricordato: « This Convention does not exclude any criminal jurisdiction exercised in accordance with national law ». NOTE E COMMENTI 111 inteso, appare ultroneo nel caso di specie. La regola che enuncia, infatti, considera improprio l’esercizio della giurisdizione in assenza di un legittimo interesse; ma nella fattispecie tale interesse è deducibile dalla Convenzione di Roma: il citato art. 10 — immesso nell’ordinamento olandese — impone, infatti, l’obbligo di ius dicere. La seconda pronuncia rilevante in materia è costituita dalla sentenza emessa dalla sección cuarta della sala de lo penal della Audiencia Nacional di Madrid in data 3 maggio 2011: anche la corte spagnola, come aveva già fatto precedentemente quella olandese, in primis dichiara la propria competenza a ius dicere sul caso di specie, citando a sostegno gli articoli 23 e 65 della ley orgánica del poder judicial (24), l’art. 105 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, gli articoli 3 e 6 della Convenzione di Roma e infine — nell’ambito dell’Unione Europea — l’art. 12 dell’azione comune 2008/851/PESC, adottata dal Consiglio il 10 novembre 2008 (25). La corte spagnola, a differenza di quella olandese, non affronta la questione della libertà o doverosità (in base al diritto internazionale) dell’esercizio del potere giurisdizionale, dando per scontato l’esistenza di una libertà di ius dicere. Preme rilevare che anche la Audiencia Nacional di Madrid, come aveva precedentemente fatto la Rechtbank di Rotterdam nel 2010, richiama l’art. 105 della Convenzione di Montego Bay, il quale riprende il principio consuetudinario dell’universalità della giurisdizione: tale richiamo è da ritenere non appropriato, dal momento che la norma specificamente applicabile ai casi in esame è quella che stabilisce la doverosità dell’esercizio del potere giurisdizionale, in base all’obbligo che discende dalla Convenzione di Roma. Anche il giudice spagnolo, dunque, non dà prova di corretta interpretazione delle norme internazionali rilevanti nel caso di specie. 3. La stessa Convenzione di Roma obbliga gli Stati parti — per poter esercitare la giurisdizione compiutamente ed efficacemente — a (24) Gli articoli 23 e 65 della ley orgánica del poder judicial attribuiscono alle corti spagnole la competenza a ius dicere — al verificarsi di determinate condizioni, proprie anche del caso in esame — su alcuni illeciti commessi al di fuori del territorio iberico, tra cui la pirateria. (25) L’azione comune 2008/851/PESC dà inizio all’operazione militare Atalanta, intrapresa dall’Unione Europea per combattere la pirateria nel golfo di Aden. L’art. 12, in particolare, disciplina — come recita testualmente la rubrica stessa dell’articolo — il « Trasferimento delle persone arrestate e fermate in vista dell’esercizio delle competenze giurisdizionali ». 112 NOTE E COMMENTI definire nel proprio ordinamento interno la norma materiale (26) e le sanzioni applicabili, le quali devono necessariamente tenere conto della grave natura dell’illecito (27). Preme rilevare che anche numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza hanno più volte esortato gli Stati a prevedere nel proprio ordinamento adeguate norme penali incriminatrici per l’illecito di pirateria marittima (28). Pertanto c’è da chiedersi quanto le sentenze in esame evidenzino un soddisfacente adeguamento del diritto interno sotto questo profilo. Ora, la sentenza — da ultimo considerata — dell’Audiencia Nacional di Madrid, pur richiamando le norme dei trattati che disciplinano la fattispecie della pirateria per fondare la propria competenza, non imputa ai rei l’illecito di pirateria marittima, non risultando questo previsto nel codice penale spagnolo nel momento in cui i fatti si sono svolti. La corte spagnola, peraltro, fa ricorso ad un complesso di fattispecie penali incriminanti (29) che — sebbene certamente ravvisabili nella condotta materiale realizzatasi nei casi di specie — non individuano il reato di pirateria marittima in modo conforme alle norme del diritto internazionale pattizio (30). L’inesistenza di norme penali interne che determinino il reato di pirateria (26) In particolare all’art. 6, paragrafi 1 e 4, dove si precisa: « Each State Party shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction over the offences set forth in article 3 » (corsivo aggiunto), dettando poi — nel resto del disposto normativo — le condizioni in base alle quali si configura l’obbligo. (27) L’art. 5 della Convenzione di Roma stabilisce infatti: « Each State Party shall make the offences set forth in article 3 punishable by appropriate penalties which take into account the grave nature of those offences » (corsivo aggiunto). (28) Cfr. risoluzioni del Consiglio di sicurezza n. 1846 (2008), n. 1851 (2008), n. 1897 (2009), n. 1918 (2010), n. 1950 (2010), n. 1976 (2011) e n. 2015 (2011). (29) L’Audencia Nacional di Madrid ha infatti attribuito agli imputati i reati — previsti nel codice penale spagnolo — di associazione illecita (ex art. 515, 1° comma, del codice penale spagnolo), sequestro di persona (art. 163, 3°comma), furto con violenza (art. 242, 1° e 2° comma) e illeciti contro l’integrità morale (art. 171, 1° comma); ha assolto invece gli imputati per i reati di terrorismo, tortura, appartenenza ad una banda armata e lesioni. (30) Com’è noto, la pirateria marittima viene definita all’art. 101 della Convenzione di Montego Bay, la cui rubrica recita appunto « Definizione di pirateria », e il cui testo normativo stabilisce: « Si intende per pirateria uno qualsiasi degli atti seguenti: a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, od ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti: i) nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; ii) contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato; b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata; NOTE E COMMENTI 113 marittima, e il sostitutivo ricorso a succedanee fattispecie criminose, ha comunque consentito — nel caso in esame — l’irrogazione di gravi sanzioni (31), ma non può considerarsi soluzione corretta e adeguata. In eventuali procedimenti futuri, infatti, il richiamo ad altre fattispecie di reato potrebbe risultare inadeguato, perché — mentre la giurisdizione viene affermata sulla base della pirateria — la colpevolezza e la sanzione vengono dichiarate e irrogate sulla base di titoli di reato diversi, rispetto ai quali gli elementi della pirateria come crimen iuris gentium potrebbero non sussistere (ad esempio, l’animus furandi nella cattura di una nave da parte di insorti). Né potrebbe risultare sempre assicurabile una sanzione adeguata alla gravità attribuita dal diritto internazionale al crimine di pirateria. Un adeguamento più completo al diritto internazionale è, invece, ravvisabile nel Wetboek olandese, perché è presente un’apposita norma incriminatrice della pirateria, contenente altresì la determinazione di un limite edittale massimo di pena piuttosto elevato (32). Questo non impedisce, peraltro, alla Rechtbank di Rotterdam — nella sentenza del 2010 — di irrogare una sanzione molto più lieve, anche rispetto a quanto richiesto dal pubblico ministero (33). Per giustificare tale risultato, il giudice ammette l’operatività di una serie di attenuanti discutibili nella sostanza e, comunque, inconciliabili con la ratio e la portata precettiva dell’obbligo convenzionalmente assunto. Si allude, anzitutto, alla menzione che i pirati siano stati costretti a commettere l’illecito a causa della grave situazione politica ed economica nella quale versa, da anni, la Somalia: un dato che si configura come una circostanza materiale tanto evidente, quanto poco pertinente alla responsabilità individuale degli imputati. Un’altra attenuante ammessa dalla Rechtbank di Rotterdam è il fatto che gli accusati non appartenessero ad un’organizzazione piratesca di vasta scala: tale circostanza, invece di un’attenuante, può valutarsi, piuttosto, come un elemento di fatto che ha impedito ai rei di sferrare un attacco contro una nave di dimensioni maggiori rispetto al mercantile abbordato; infatti, l’associazione per delinquere — sia pure di piccole dimensioni — sussiste pur sempre. Il c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b). » (31) La Audiencia Nacional di Madrid ha infatti inflitto a carico di ciascuno dei due rei — sulla base dell’ordinamento interno spagnolo — una pena detentiva pari a quattrocentotrentanove anni di reclusione. (32) Pari a nove anni di reclusione, elevato a dodici anni nel caso in cui il reo sia anche il capitano della nave pirata. (33) La Rechtbank di Rotterdam ha infatti inflitto a carico di ciascuno degli imputati una pena detentiva pari a cinque anni di reclusione. 114 NOTE E COMMENTI giudice olandese, infine, ha anche considerato che — seppur in senso marginale (34) — per altri casi analoghi di pirateria, verificatisi nel golfo di Aden, la prassi è stata spesso quella di rilasciare gli accusati, senza neppure instaurare un procedimento penale a loro carico (35). Quest’ultimo punto, in particolare, non è certamente una circostanza attenuante, ma è invece — come già ricordato — una pratica deleteria e addirittura illegittima per il diritto internazionale convenzionale, perché contraria all’art. 6, par. 4, della Convenzione di Roma. Le considerazioni fin qui esposte evidenziano come il giudice olandese, nella pronuncia del 2010, non abbia applicato l’art. 381 del Wetboek in modo pienamente conforme agli obblighi internazionali che i Paesi Bassi si sono assunti ratificando la Convenzione di Roma. È invece da apprezzare la sentenza della Rechtbank di Rotterdam del 2011, la quale non solo ha inflitto agli imputati una pena di maggiore entità (36) (conformemente a quanto il diritto internazionale convenzionale prescrive), non richiamando le attenuanti considerate nella sentenza del 2010, ma ha anche operato un attento riscontro dell’animus furandi degli imputati, valutando se questi fossero o meno considerabili come insorti. Se fossero infatti riconoscibili come tali, sarebbe senz’altro da escludere la fattispecie della pirateria ex iure gentium. 4. Infine, è opportuno affrontare l’esame delle sentenze citate, sotto il profilo della valutazione in esse operata dei diritti umani eventualmente violati. In effetti, gli accordi stipulati in passato da alcuni Stati con Kenya e Seychelles (37) erano ispirati essenzialmente (34) La Corte di Rotterdam mette proprio in rilievo che si tratta di una considerazione marginale: « zij het slechts in marginale zin ». (35) Si allude al cosidetto « catch and release »; cfr. supra, par. 1. (36) La decisione della Rechtbank di Rotterdam del 2011 ha infatti inflitto ai due imputati una pena detentiva pari, rispettivamente, a sette e quattro anni di reclusione, sempre sulla base dell’art. 381 del Wetboek olandese. (37) Si fa riferimento, in particolare, agli accordi conclusi tra Unione Europea e Kenya, Stati Uniti e Kenya, Unione Europea e Seychelles, Stati Uniti e Seychelles, aventi ad oggetto la sottoposizione dei pirati catturati dalle navi militari europee o statunitensi — presenti nel golfo di Aden a seguito, rispettivamente, dell’operazione Atalanta e della Combined Task Force 150 — ad un giudizio presso le corti di questi due Stati africani, geograficamente prossimi al locus commissi delicti. Tali accordi si sono estinti per il mancato rinnovo degli stessi, una volta sopraggiunti i termini temporali finali della loro efficacia. Cfr. G.U.U.E. 25 marzo 2009 L 79, pp. 49-59, con particolare riferimento all’art. 3, lettere b) e c); G.U.U.E. 21 febbraio 2009 L 315, pp. 37-43; MORGAN, Kenya Agrees to Prosecute U.S. Held Pirates, Reuters, 29 gennaio 2009; Seychelles and the USA Sign Piracy Agreement, African Press Organization, 14 luglio 2010; GATHII, Jurisdiction to Prosecute Non-National Pirates Captured By Third States Under Kenyan and International Law, Nairobi, 2009, p. 2 ss. NOTE E COMMENTI 115 dalla consapevolezza della necessità di ottemperare al requisito della tempestività dell’intervento giudiziale, così come prescritto dall’art. 5, par. 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (38). Per quanto singolare, la stessa pratica del « catch and release » è stata talvolta utilizzata, in luogo della doverosa sottoposizione a giudizio, anche per evitare il rischio di violazione dell’art. 5, par. 3, citato. È dunque evidente che la consapevolezza della necessità di rispettare i diritti umani dei pirati è stata sempre presente negli operatori di giustizia. Non sorprende perciò che nel giudizio svoltosi nel 2010 presso la Rechtbank di Rotterdam, su eccezione della difesa degli imputati, il giudice olandese ha ammesso la violazione della Convenzione europea, argomentando sul fatto che fossero trascorsi quaranta giorni dal momento dell’arresto a quello in cui gli imputati sono stati tradotti di fronte al magistrato. Secondo la Corte olandese, infatti, un periodo di quaranta giorni costituirebbe una inosservanza della « promptness » imposta dall’art. 5, par. 3, citato, anche perché — come dimostrerebbe una lettera inviata dal Ministero della giustizia al Ministero della difesa olandese (39) — alcune navi della flotta militare olandese, dispiegate nel golfo di Aden, possedevano sistemi avanzati di video-tele-conferenza, che avrebbero consentito l’instaurazione del procedimento in tempi più brevi rispetto ai quaranta giorni trascorsi. Sembra peraltro necessario osservare che l’art. 5, par. 3, della Convenzione europea richiede solo una « promptness », vox media che deve essere poi specificata alla luce delle circostanze concrete: non viene infatti predeterminato, nel disposto convenzionale, un limite temporale tassativo, oltre il quale si realizza una violazione della norma in esame (40). A tal proposito è ovvio che — nella fattispecie della pirateria — la cattura avviene in alto mare (come, infatti, è accaduto anche nel caso in esame), quindi in circostanze materiali che spesso rendono estremamente ardua l’instaurazione di un giudizio in tempi (38) L’art. 5, par. 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo precisa: « Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal par. 1, lett. c), del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza » (corsivo aggiunto). (39) Lettera inviata in data 29 marzo 2009; cfr., negli atti del procedimento in esame, Papers II 29 251 No. 95. (40) Come in parte osservato anche in: FISCHER-LESCANO, KRECK, Piracy and Human Rights: Legal Issues in the Fight against Piracy within the Context of the European “Operation Atalanta”, German Yearbook of Int. Law, 2009, p. 542. 116 NOTE E COMMENTI relativamente brevi (41). La tempestività richiesta dalla norma, quindi, dovrebbe forse essere interpretata (nei casi che qui interessano) « in negativo », valutando cioè la presenza di eventuali dilazioni temporali, conseguenti a dolo o colpa grave, poste in essere dallo Stato che esercita la giurisdizione. 5. In definitiva, le statuizioni esaminate sono senza dubbio da accogliere, nel loro complesso, con soddisfazione, in quanto suscettibili di aprire nuove prospettive, per eliminare la politica del « catch and release » e per superare le reticenze — non rare nel comportamento degli Stati — a sottoporre a giudizio i pirati catturati. Rispondendo, peraltro, al quesito inizialmente proposto (se, cioè, l’impostazione adottata dai giudici europei sia pienamente adeguata e corretta), non sembra che la direzione intrapresa dalla giurisprudenza in commento risulti del tutto appagante. In primis c’è da osservare che la Rechtbank di Rotterdam, nel 2010, affronta in modo analitico la questione dell’universalità della giurisdizione, ma — come abbiamo osservato — con risultati non pienamente soddisfacenti, dal momento che conclude per una libertà di esercizio del potere giurisdizionale; analogamente, la sentenza spagnola dà per scontato l’esistenza di una libertà di ius dicere. A tal proposito è opportuno osservare che, alle sue origini, l’universalità della giurisdizione era comunemente qualificata come una libertà (42), ma era tale per una non espressa convinzione, cioè che gli Stati sarebbero intervenuti giudizialmente nella lotta contro la pirateria. Non a caso tale principio veniva condizionato dalla detenzione del reo: la detenzione dell’autore dell’illecito era un criterio che, infatti, risolveva eventuali conflitti positivi di giurisdizione (43). C’è da chiedersi se, nella fase attuale, sia sempre coerente tale impostazione, dal momento che la prassi recente ha evidenziato una diffusa reticenza degli Stati a sotto(41) La giurisprudenza di riferimento per quanto attiene alla possibile violazione della promptness nei casi di detenzione a bordo di una nave è costituita principalmente dalle seguenti pronunce: Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 10 luglio 2008, Medvedyev et al. v. France, ricorso n. 3394/03; decisione 12 gennaio 1999, Rigopoulos v. Spain, ricorso n. 37388/97. (42) Cfr. Case No. 1. In re Piracy Jure Gentium, The British Yearbook of Int. Law, 1935, pp. 199-201; DONNEDIEU DE VABRES, Le système de la répression universelle, Revue de droit int. privé et de droit pénal int., 1922-1923, pp. 533-564; ID., De la piraterie au génocide - Les nouvelles modalités de la répression universelle, in Mélanges Ripert, Paris, 1950, p. 226 ss. (43) Cfr. CASSESE, When May Senior State Officials Be Tried for International Crimes? Some Comments on the Congo v. Belgium Case, European Journal of Int. Law, 2002, p. 858. NOTE E COMMENTI 117 porre a giudizio i pirati catturati, nonostante gli obblighi discendenti dal diritto internazionale convenzionale e i numerosi appelli del Consiglio di sicurezza. È altresì opportuno rilevare che l’interesse leso dalla pirateria non è, forse, più un interesse solo dello Stato cattore (e dunque disponibile) — come avveniva in passato — ma un interesse proprio dell’intera comunità internazionale nel suo insieme; pertanto l’esercizio della giurisdizione potrebbe essere valutato piuttosto come una funzione doverosa (44). Al di là del possibile sviluppo del diritto consuetudinario sul punto, questione che certamente eccede i limiti propri della presente trattazione, l’obbligatorietà di ius dicere è comunque rilevabile su base convenzionale, in virtù delle norme previste nella Convenzione di Roma. I giudici europei, tuttavia, non pare abbiano avuto, nelle occasioni esaminate, questa consapevolezza: pur richiamando la Convenzione di Roma, infatti, la citano come riconoscimento del loro potere di giudicare, non come costitutiva di un dovere. La stessa Convenzione di Roma fa anche obbligo agli Stati parti di prevedere norme interne incriminanti e sanzionatorie, ed è importante sottolineare, a tal proposito, come tale obbligo di adattamento prescriva tre elementi, la cui presenza — all’interno dell’ordinamento statale — risulta fondamentale. Innanzitutto la previsione di una norma sulla giurisdizione, che sia conforme al diritto internazionale consuetudinario e pattizio, e la cui corretta definizione può portare all’obbligatorietà dell’esercizio della giurisdizione. In secondo luogo, una norma materiale incriminatrice della condotta: la medesima condotta, infatti, può non costituire pira(44) Si segnala solo un accenno della dottrina più sensibile, la quale richiama l’esistenza di un dovere di ius dicere per tutti gli illeciti che vanno a ledere interessi propri di tutta la comunità internazionale: cfr., in particolare, ZAPPALÀ, L’universalità della giurisdizione e la Corte penale internazionale, in Problemi attuali della giustizia penale internazionale (a cura di Cassese, Chiavario, De Francesco), Torino, 2005, pp. 549 ss. Per quanto attiene specificamente alla pirateria cfr. LACHS, The Development and General Trends of International Law in Our Time, Recueil des cours, 1980-IV, p. 205, nel quale l’autore prospetta persino la possibilità di introdurre il divieto di pirateria marittima nell’ambito dello ius cogens; ed anche, più recentemente, MORITA, Piracy Jure Gentium Revisited, Japanese Yearbook of Int. Law, 2008, pp. 76-97. Per una visione della dottrina tradizionale, inerente l’universalità della giurisdizione, cfr. invece: DE LA PRADELLE, La compétence universelle, in Droit international pénal (a cura di Ascensio, Decaux, Pellet), Paris, 2000, pp. 905-918. La giurisprudenza di riferimento, che si fonda sulla concezione tradizionale dell’esercizio della giurisdizione penale basato sul principio di universalità, è costituita principalmente da due decisioni ben note, rese rispettivamente nel caso Lotus, P.C.I.J. Publications, Series A, no. 10, sent. 7 settembre 1927, p. 2 ss., e nel caso Tadić, Bundesgerichtshof, sent. 13 febbraio 1994, p. 2 ss. 118 NOTE E COMMENTI teria ex iure gentium in presenza di altre circostanze (si pensi, ad esempio, all’eventuale qualifica di insorti degli imputati) (45). Infine, la previsione di una sanzione ad hoc, la quale — se costituisce corretto adattamento del diritto interno — non può che essere adeguata alla riconosciuta gravità del crimine. Sotto questo profilo non appare del tutto appagante la volontà — espressa dalla sentenza spagnola — di raggiungere un risultato punitivo adeguato, nonostante la mancanza di norme penali interne in materia di pirateria. Analogamente, le attenuanti proposte nella sentenza olandese del 2010, che hanno condotto la Rechtbank di Rotterdam ad infliggere pene di modesta entità, appaiono non solo di dubbia fondatezza, ma anche di discutibile conformità al diritto internazionale, che qualifica la pirateria come « grave crimine ». È da apprezzare, infine, la sensibilità del giudice per l’osservanza dei diritti umani anche di fronte a crimini così odiosi: questo fa della giustizia, così come applicata in Europa, un esempio di vera giustizia e non di vendetta, improntata a garanzia non solo della vittima, ma anche dell’autore dell’illecito. Tuttavia sarebbe forse auspicabile una maggiore elasticità nell’interpretare la garanzia, adattandola alla specificità dei caratteri (e, quindi, anche del luogo e dei tempi) del crimine. Può darsi ad esempio che, in taluni casi, la nave che ha proceduto alla cattura o (come nella fattispecie considerata dal giudice di Rotterdam nel 2010) altre navi battenti la stessa bandiera, presenti nella zona, dispongano di apparecchiature per videoconferenza. Poiché l’uso di tali apparecchiature è ritenuto consono con le esigenze di giustizia processuale anche nei procedimenti circoscritti all’ambito territoriale dello Stato (limitandoci all’Italia, la partecipazione a distanza è ammessa — per taluni reati — quando « risulti necessaria ad evitare ritardi », o allo spostamento del detenuto ostino « ragioni di sicurezza (45) L’esigenza di una verifica della correttezza dell’adeguamento appare evidente nel Memorandum Opinion and Order del 17 agosto 2010, emesso nel caso US v. Cali Saciid et al. (cfr. supra, nota 8), con il quale il giudice statunitense R.A. Jackson ha prosciolto gli imputati per il reato di pirateria marittima, basando tale convincimento sul fatto che sussista una difformità tra il crimine di pirateria, così come stabilito nel diritto internazionale, e il reato di pirateria previsto nell’ordinamento giuridico statunitense. La Corte di Norfolk ha comunque conservato — a carico dei soggetti sottoposti a giudizio — i seguenti capi di imputazione: aggressione finalizzata al saccheggio di un’imbarcazione, atti di violenza a danno di soggetti a bordo di un’imbarcazione, aggressione a mano armata contro agenti federali, utilizzo di armi da fuoco per commettere un reato di violenza, associazione a delinquere finalizzata a compiere sia atti di violenza ai danni di soggetti a bordo di un’imbarcazione, sia reati di violenza. NOTE E COMMENTI 119 o di ordine pubblico » (46)), l’adattamento nel senso indicato potrebbe essere considerato perfettamente adeguato alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. MATTEO DEL CHICCA (46) Art. 146-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del cod. proc. pen. italiano (articolo introdotto con legge 7 gennaio 1998 n. 11, pubblicata nella G.U. 6 febbraio 1998 n. 30). È interessante notare come, fra i delitti per i quali il legislatore ha ammesso la partecipazione a distanza al dibattimento, o all’udienza nel procedimento in camera di consiglio (cfr. art. 45-bis delle norme di attuazione citate), viene annoverato il sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 cod. pen.), che ricorre non di rado nella fattispecie complessiva del crimine di pirateria marittima. La richiamata legge 7 gennaio 1998 n. 11, inoltre, precisa espressamente che il « collegamento audiovisivo » costituisce condizione necessaria e sufficiente per la partecipazione a distanza. NECROLOGIO ANTONIO CASSESE 1. È sempre difficile scrivere di una persona cara dopo la sua morte, soprattutto a pochi mesi di distanza. L’assenza fisica, le cose che si sarebbero potute dire e fare e non si sono dette e fatte in tempo, la vita che continua a scorrere comunque, e tutto il vuoto che simili perdite comportano non sono stati ancora elaborati, e non si possiede la serenità d’animo che si vorrebbe per accingersi al compito, di per sé già arduo. Si è sopraffatti dalle emozioni e dai ricordi e si ha la sensazione che sia impossibile parlare dello scomparso, perché le parole mai potrebbero dire tutto quello che egli era e rappresentava nella vita affettiva ed emozionale di chi gli stava vicino e gli sopravvive e che all’improvviso viene messo in luce dalla morte. Il compito appare ancora più difficile quando la commemorazione si deve fare sulle pagine di una rivista scientifica, prestigiosa come la Rivista, dovendosi dunque parlare anche e soprattutto del contributo scientifico ad una certa disciplina della persona scomparsa, in questo caso del contributo scientifico di uno studioso della levatura di Antonio Cassese alla scienza giuridica internazionale. Come si può parlare dello studioso e della sua importanza quando invece ciò che si avverte più immediatamente è la mancanza dell’uomo? 2. Antonio Cassese è morto nella notte tra il 21 e 22 ottobre 2011, mentre dormiva nella sua casa fiorentina dopo una lunga lotta con la sua malattia (una leucemia cronica, entrata in fase acuta da qualche anno). Si tratta di una lotta che egli stesso ha narrato scrivendo un breve racconto, condiviso anche con alcuni amici e allievi, dal titolo L’isola dei bianconi. Attraverso la metafora dell’esistenza di strani e misteriosi esseri, i bianconi appunto, che « emanano un effetto malefico » e sono « capaci di inviare oltre la loro isola come dei vapori venefici perché molte persone che vivono in isole vicine per ragioni misteriose spesso deperiscono e si consumano fino a morire », egli ha melanconicamente descritto la sua ultima battaglia, utilizzando con NECROLOGIO 121 grande garbo anche concetti propri del giurista. Il racconto si conclude con la chiara consapevolezza che la battaglia è perduta e che i bianconi sono esseri misteriosamente invincibili. Accettata l’ineluttabilità della sconfitta, l’amara constatazione finale dell’autore è che « forse i veleni dei bianconi erano parte di una qualche logica metafisica dell’universo; o erano il risultato di un’equazione delle stelle. I bianconi costituivano uno dei misteri con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni: quello degli astri e delle costellazioni; il mistero del perché nasciamo, e perché, una volta nati, soffriamo tanto o di perché siamo sempre insoddisfatti, sempre alla ricerca di qualche cosa che ci sfugge; il mistero della necessità di passare metà della vita a dormire; il mistero dei cataclismi naturali; il mistero della nascita dei geni, di tanto in tanto, frammezzo ad una moltitudine di uomini e donne insignificanti; il mistero del grande piacere che proviamo ad uccidere i nostri simili. I bianconi erano semplicemente un altro mistero. Bisognava acconciarsi dunque alla loro esistenza, e rassegnarsi a soffrire dei loro fiati nefasti ». 3. Penso di non esagerare se dico che la morte di Antonio Cassese ha lasciato sgomente migliaia di persone ovunque nel mondo. Egli è stato, oltre che un eccellente studioso, un uomo di battaglie e di grande impegno civile, che ha fatto della causa dei diritti umani il punto di riferimento di gran parte della sua vita e che ha ispirato l’impegno e l’attività di molti di coloro che, a diverso titolo e con varie competenze, hanno condiviso e condividono tale causa. Antonio Cassese aveva tra l’altro consolidato la propria notorietà presso l’opinione pubblica italiana ed internazionale collaborando con varie testate giornalistiche nazionali (Il Messaggero, La Stampa e La Repubblica) (1), rilasciando numerose interviste sulla stampa nazionale e straniera, intervenendo sovente in trasmissioni radiofoniche e televisive in Italia e all’estero. A questa presenza nei mass media si era aggiunta la pubblicazione di libri (scritti e tradotti in varie lingue) sulle questioni giuridiche e morali a lui più care, libri che egli intendeva indirizzare ad un pubblico più vasto di quello degli studiosi del diritto internazionale. Il suo obiettivo era consentire ai non specialisti della materia di riflettere, in maniera più informata, sul ruolo e i limiti del diritto internazionale nel prevenire, ridurre e sanzionare le violenze di varia natura così diffuse nel mondo, nonché — più ambiziosamente — cercare di « risvegliare le coscienze » (1) Ho curato la ripubblicazione per temi di una selezione degli interventi di Antonio Cassese su tali testate in un volume dal titolo Il sogno dei diritti umani, Milano, 2008, con prefazione di A. Tabucchi. 122 NECROLOGIO — secondo un insegnamento che suo padre, Leopoldo, ha trasmesso a lui e a suo fratello Sabino (2). 4. Il primo fra questi libri è Violenza e diritto nell’era nucleare (Laterza, 1986, tradotto in inglese e francese), nella cui introduzione, parafrasando Madame de Staël, egli spiega di essersi chiesto più di una volta « se non esistesse non dico una “via reale”, ma almeno un modo di portare alcuni problemi internazionali dalle remote aule universitarie e dalle dispute tra accademici ai circoli più ampi di coloro che si appassionano alle vicende delle relazioni internazionali » (3). E precisa di avere deciso di effettuare il tentativo dopo avere scoperto, nel 1979, per merito di Arnaldo Momigliano, l’opera di Moses I. Finley, precisando che « [n]on si tratta di fare opera di divulgazione; si tratta di far partecipare il grande pubblico al dibattito che purtroppo troppo spesso avviene solo tra pochi specialisti » (4). Il libro è molto interessante e tratta di temi che sono ancora (purtroppo) di attualità, a testimonianza che le domande che Antonio Cassese si poneva erano e sono domande cruciali: è legittimo e consentito il ricorso ad armi micidiali come l’arma atomica? Si può porre un freno alla violenza bellica? Perché gli uomini, in certe circostanze, si trasformano in ciechi esecutori di ordini e commettono le più inaudite atrocità? Si può sanzionare il ricorso illecito all’uso della forza armata da parte degli Stati? Qual è il ruolo del diritto e dei giudici rispetto a tali problemi? Cosa si può fare per limitare le violenze così diffuse nel mondo? Si tratta di un libro in cui, più che fornire delle risposte definitive, Antonio Cassese pone i termini del dibattito, e lo affronta in modo schietto e sincero, « senza peli sulla lingua », come era solito fare, mettendo in rilievo lungo tutto il volume la tensione esistente nella comunità internazionale tra i due poli della « forza » e del « diritto ». In questo libro, egli non arriva mai a concludere che il primo polo prevalga sempre sul secondo, nella logica a mio avviso semplificata e semplicistica della c.d. Realpolitik. Al contrario, il compito che Antonio Cassese si era dato in questo libro, e che in realtà ha svolto pervicacemente per gran parte della sua vita, era individuare il modo in cui il giurista civilmente impegnato può cercare di influenzare il polo della (2) CASSESE, Ricordo di mio padre Leopoldo Cassese, in Leopoldo Cassese. Archivista e organizzatore di cultura. Seminari di studio in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa (a cura di De Negri, Pennella, Rossi), Roma, 2011, p. 307 ss., p. 313. (3) Violenza e diritto nell’era nucleare, Roma-Bari, 1986, pp. VII-VIII. (4) Ibidem. NECROLOGIO 123 forza per garantire la prevalenza del diritto, per spingere verso un’interpretazione ed evoluzione delle norme e istituti giuridici esistenti in un senso più conforme ai valori di giustizia e ai precetti umanitari, in cui credeva profondamente. 5. Anche gli altri libri che Antonio Cassese ha scritto per un pubblico più vasto di quello degli specialisti del diritto internazionale sono preziosi, pieni di intuizioni e profondità (5). In ciascuno di essi egli ha continuato ad affrontare le questioni cruciali innanzi menzionate, a volte sotto specifiche angolature, ma sempre con l’obiettivo prioritario di comprendere e svelare le ragioni e le forze, più o meno occulte, che talvolta impediscono la piena applicazione del diritto internazionale o il suo sviluppo progressivo, e di suscitare un dibattito attento ed informato. Egli credeva infatti fermamente nel ruolo che l’opinione pubblica e la società civile internazionale possono svolgere per contribuire a colmare, almeno in parte, l’inefficacia a volte plateale dei meccanismi internazionali di attuazione coercitiva del diritto, e ciò attraverso quanto meno la condanna morale e l’indignazione collettiva. Non si è mai stancato di ripetere quanto ciò fosse importante, spesso richiamando le osservazioni dell’insigne giurista britannico, J. L. Brierly, sul presunto paradosso circa il ruolo dell’opinione pubblica internazionale — che è da un lato intrinsecamente più debole di quella operante negli ordinamenti interni, ma dall’altro più efficace come sanzione giuridica (6). Di recente egli aveva manifestato scetticismo circa il fatto che i suoi libri « per i non specialisti » avessero raggiunto almeno in minima parte gli obiettivi sperati, ma si sbagliava. Sono libri che hanno ispirato e continuano ad ispirare una moltitudine di individui, soprattutto di giovani, e non sono pochi gli studenti che ho incontrato che mi hanno rivelato di avere deciso di approfondire lo studio del diritto internazionale dopo averne letto uno! Ciò non mi ha mai sorpreso, giacché nell’affrontare con passione e semplicità le questioni morali, giuridiche e teoriche più complesse, Antonio Cassese era davvero ineguagliabile. (5) Si tratta principalmente di I diritti umani nel mondo contemporaneo, oggetto di più edizioni, poi divenuto I diritti umani oggi, Il caso Achille Lauro: terrorismo, politica e diritto nella comunità internazionale, Umano-Disumano. Commissariati e prigioni nell’Europa d’oggi, Voci contro le barbarie e più recentemente L’esperienza del male. Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra. Conversazione con Giorgio Acquaviva, pubblicato venti giorni prima della sua scomparsa. (6) Si veda ad esempio, la citazione in International Law in a Divided World, Oxford, 1986, p. 250, riportata anche nella traduzione italiana del volume, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, 1984, p. 279. 124 NECROLOGIO Questi scritti sono ricchi di riferimenti culturali ampi, dalla letteratura alla filosofia, dalla sociologia alla storiografia, e però mai difficili da leggere o da comprendere; e quando si termina di leggere uno di questi libri si ha la sensazione di avere fatto come Alice un viaggio nel paese delle meraviglie, e di avere finalmente acquisito gli strumenti per capire il significato profondo delle cose. 6. Antonio Cassese era infatti, prima che un giurista, un uomo di cultura e un umanista, e lo studio del diritto non gli è mai parso sufficiente per comprendere le questioni che lo interessavano e arrovellavano sin dalla gioventù. Come lui stesso raccontava ai suoi amici ed allievi, e di recente ha spiegato in uno scritto autobiografico, egli aveva deciso di frequentare la Facoltà di Giurisprudenza di Pisa (1954-1958), nel c.d. Collegio medico-giuridico della Scuola Normale di Pisa, perché spinto da suo padre Leopoldo e suo fratello Sabino, che gli avevano consigliato di intraprendere studi che gli garantissero un futuro professionale, date le condizioni di povertà in cui versava la sua regione di provenienza, la Campania (7). Egli avrebbe invece voluto studiare filosofia o sociologia o letteratura, e sempre coltivò — parallelamente al diritto internazionale — la passione per queste e altre discipline quali la storia e la psicologia (basti pensare che di recente aveva anche scritto un articolo sull’opera di Franz Kafka) (8). Fu per questo, ad esempio, che subito dopo la laurea egli approfittò di un soggiorno di studio in Germania, a Francoforte (1958-1959), per seguire le lezioni di due illustri sociologi (Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer), invece che corsi di diritto. Ci raccontava che per lui gli anni di Pisa furono dunque difficili, perché dovette piegarsi all’apprendimento della « rigida disciplina del diritto » secondo il metodo positivista, nonché al discernimento della logica e dogmatica giuridica (9), studiando materie che egli percepiva come distanti e astratte. Quegli anni furono però assai importanti per la sua formazione personale e culturale, poiché egli poté beneficiare del vivace clima intellettuale del Collegio (oggi la Scuola di studi superiori Sant’Anna), frequentare (7) Soliloquy, in The Human Dimension of International Law. Selected Papers (a cura di Gaeta e Zappalà), Oxford, 2008, p. lix. V. anche L’esperienza del male, cit., p. 221, nonché WEILER, Nino - In His Own Words, European Journal of Int. Law, 2011, pp. 933-934. (8) « La giustizia » (Gerechtigkeit) contro « le leggi dell’autorità » (Disziplin). Kafka e il desiderio di aiutare gli altri, in LEA, Letterature d’Europa e d’America, disponibile sul sito dell’Università di Firenze all’indirizzo <http://www.unifi.it/rivlea/ CMpro-v-p-17.html> (9) Soliloquy, cit., p. lix; L’esperienza del male, cit., p. 221. NECROLOGIO 125 anche i corsi della Scuola Normale e stringere amicizie solide e durature con persone che, come lui, hanno assunto posizioni di rilievo nella vita culturale e istituzionale del paese. Alla Facoltà di Giurisprudenza fu naturale, per un giovane che aveva in qualche modo soffocato le proprie inclinazioni, appassionarsi a materie quali il diritto costituzionale e il diritto internazionale, come egli stesso ci spiega, piuttosto che al diritto privato o commerciale, perché si trattava di « materie che avevano un rapporto stretto con la realtà sociale e politica » e dunque più rispondenti ai suoi interessi intellettuali. Alla fine egli optò per il diritto internazionale e decise di scrivere la tesi di laurea sotto la direzione di Giuseppe Sperduti, che lo avviò alla carriera accademica. Egli fu professore prima nell’Università di Pisa (1972-1975) e poi a Firenze (dal 1975 al 2008), alla Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri, ma si assentò dall’Università italiana per lunghi periodi di aspettativa, prima per svolgere attività di insegnamento e ricerca all’Istituto universitario europeo (1987-1993), poi per ricoprire il ruolo di giudice del Tribunale penale per la ex Iugoslavia (1993-2000), rivestendo anche la carica di presidente del Tribunale per due mandati consecutivi (1993-1997). 7. Antonio Cassese è stato uno studioso prolifico, come dimostra la lista straordinaria delle sue pubblicazioni. Egli aveva una capacità di lavoro davvero fuori dal comune. Determinato, costante, ma soprattutto appassionato, egli semplicemente non si fermava mai, e grazie al dono della facilità di scrittura, alla curiosità intellettuale e alla chiarezza delle idee, era sempre impegnato in un nuovo articolo o libro da pubblicare. Nei primissimi anni della sua carriera, i suoi lavori dimostrano una certa varietà di interessi (vi figurano anche scritti in materia di diritto internazionale privato) e includono il suo primo lavoro monografico, di contenuto assai tecnico (Il diritto interno nel processo internazionale). Si tratta di pubblicazioni in cui egli, in qualche modo, mostra di essersi fatto le ossa e di avere totalmente assimilato il metodo positivista di indagine giuridica, quasi a voler dimostrare (forse ancora prima che ad altri, a se stesso) che gli anni da lui avvertiti come difficili nella Facoltà di Giurisprudenza non erano passati invano. Egli stesso confessa candidamente che, dopo avere ottenuto la cattedra all’Università di Pisa, poté finalmente occuparsi delle questioni che più gli stavano a cuore, e sempre allo scopo di proporre interpretazioni giuridiche innovative e far progredire il diritto nella direzione della difesa dei più deboli, fossero questi i paesi in via di sviluppo, i popoli oppressi o gli individui lesi nella loro dignità e integrità. 126 NECROLOGIO In effetti, non vi è dubbio che la produzione scientifica di Antonio Cassese più ricca e importante è quella che ruota attorno ad alcuni filoni principali, che egli ha seguito nel corso di tutta la sua attività: la protezione internazionale della persona umana, il diritto dei conflitti armati, l’autodeterminazione dei popoli e, da ultimo, il diritto internazionale penale. A questi occorre poi aggiungere l’uso della forza armata e il terrorismo internazionale, tematiche cui egli si è dedicato in certe fasi, nonché la costante attenzione per i meccanismi internazionali di garanzia e per i rapporti tra diritto internazionale e ordinamenti giuridici interni. Si tratta, come è chiaro, di settori di indagine in cui la tensione sempre esistente tra politica e diritto è più marcata, o di settori in cui il problema dell’attuazione del diritto internazionale è al centro dell’analisi, a indicare che erano gli aspetti più « evanescenti » del diritto internazionale che gli interessavano e a cui egli intendeva contribuire a dare peso e sostanza, affinché fossero infine più visibili e certi. 8. Antonio Cassese non era però solo uno studioso, che amava rinchiudersi nel suo studio per riflettere e scrivere, ma era anche un uomo di azione. Riprendendo una bell’immagine del Piccolo principe utilizzata dal fratello, egli ci spiega di avere avvertito ad un certo punto il bisogno di fare l’ « esploratore », dopo essere stato per molti anni un « geografo », e dunque di toccare con mano la realtà che egli fino ad allora aveva studiato a casa, con « libri, carteggi, documenti e trattati che si riferivano a tanti eventi accaduti in tutto il mondo » (10). Anche come esploratore, Antonio Cassese è stato instancabile, e gli incarichi che ha svolto, sempre con passione e dedizione assoluta, hanno indelebilmente segnato il suo percorso umano e scientifico. Dopo alcune esperienze internazionali importanti (fu membro della delegazione italiana alla Commissione dei diritti umani (1972-75), all’Assemblea generale dell’ONU (1974, 1975, 1978) e alla Conferenza diplomatica di Ginevra sul diritto umanitario (1974-1977)), egli ricevette un incarico prestigioso come membro, eletto poi presidente, del neo istituito Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (1989-1993). Si trattava, come è noto, di un organismo innovatore, alla cui istituzione egli stesso aveva contribuito in qualità di membro e presidente del Comitato direttivo sui diritti umani del Consiglio d’Europa (1984-88). L’idea fu quella di creare (ispirandosi in parte all’attività del CICR) un comitato di esperti internazionali di varie (10) L’esperienza del male, cit., pp. 235-236. NECROLOGIO 127 discipline e con diverse professionalità, che dovevano visitare (senza preavviso) i luoghi di detenzione dei paesi del Consiglio d’Europa e redigere un rapporto confidenziale alle autorità competenti del paese, denunciando le violazioni riscontrate. Si trattava di un incarico oneroso, che Antonio Cassese svolse con la consueta dedizione e passione, segnando il percorso — assieme al medico danese Bent Sørensen e allo psichiatra svizzero Jacques Bernheim — che il Comitato avrebbe poi continuato a seguire (ad esempio, sotto la sua presidenza si inaugurò la prassi di cercare di ottenere dal governo interessato la rinuncia alla confidenzialità del rapporto). Quando terminò quest’esperienza, che per inciso non comportava alcuna remunerazione, egli era emotivamente molto provato, al punto di sentire l’urgenza di raccontarla in un libro, Umano-Disumano (Roma-Bari, 1994). Nel cercare di spiegare perché aveva accettato quell’incarico, che lo portò a prendere conoscenza diretta delle torture e maltrattamenti subíti nei centri di detenzione da numerosi uomini e donne, egli si rispose con le seguenti parole, che trovo molto toccanti: « Forse c’era il bisogno di togliersi “un po’ di grasso dall’anima”; dopo tanti anni passati a decifrare la realtà attraverso libri e conferenze diplomatiche, volevo toccarla con mano, la realtà ». « Prendendo a prestito una bell’immagine da un grande scrittore [avvertivo] il desiderio di non limitarmi ad aprire una finestra e guardare giù, quando si sente nella notte un grido che viene da una “cava di pietra abbandonata e triste” » dove K sta per essere ucciso per delle colpe a lui ignote, « ma scendere per aiutare quella possibile vittima a liberarsi dall’aggressione » (11). Il secondo prestigioso incarico, che costituì un vero punto di svolta nella sua vita professionale, fu l’elezione a giudice (1993-2000) e primo presidente (1993-1997) del Tribunale penale internazionale ad hoc per la ex Iugoslavia. Antonio Cassese arrivò all’Aja non solo con l’anima ben ripulita dal grasso, ma anche portando in dote un formidabile bagaglio culturale ed intellettuale. Egli riuscì con autorevolezza, passione e determinazione a porre solide basi per il consolidamento del Tribunale come istituzione e per lo sviluppo del moderno diritto internazionale penale. La sua attività come presidente e giudice, anche in questo caso, fu instancabile. Mentre nella comunità scientifica si discuteva della legalità della creazione del Tribunale secondo la Carta delle Nazioni Unite, egli predisponeva il testo del regolamento di procedura e prova, trovava la disponibilità di una sede, reclutava lo staff, protestava a New York per ottenere un budget regolare dal (11) Umano-Disumano, cit., p. 141. 128 NECROLOGIO Consiglio di sicurezza, promuoveva la stipulazione di accordi di cooperazione giudiziaria degli Stati con il Tribunale, organizzava seminari interni e discussioni sulle più svariate questioni giuridiche, e molto, molto altro ancora. Mentre nella comunità scientifica ci si interrogava, e a dire il vero ci si interroga tuttora, sulla possibilità di ricorrere al diritto internazionale consuetudinario per individuare gli elementi costitutivi dei crimini internazionali, egli svolgeva ponderose ricerche negli archivi di Stato e nelle biblioteche di una moltitudine di paesi, e raccoglieva la giurisprudenza e la legislazione rilevante cui il Tribunale avrebbe fatto riferimento nelle sue sentenze per dimostrare l’esistenza di un certo principio generale, o di una certa norma consuetudinaria. Se ora il Tribunale internazionale può celebrare venti anni di attività, con una produzione giurisprudenziale talvolta criticabile, ma di cui certamente ogni studioso della materia non può non tenere conto, molto si deve all’attività e alla determinazione del suo presidente, nei primi e cruciali anni di vita del Tribunale. All’incarico presso il Tribunale internazionale per la ex Iugoslavia seguì poi il mandato conferitogli dal Segretario generale come membro della Commissione internazionale di inchiesta delle Nazioni Unite per il Darfur (2004-2005), che Antonio Cassese presiedette. Nel rapporto finale, la Commissione stabilì che le atrocità commesse in questa martoriata regione del pianeta, pur non costituendo a prima vista atti di genocidio, non erano per questo meno gravi poiché rientravano tra i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. È per questo che, raccolti i possibili elementi di prova, la Commissione d’inchiesta stilò la lista dei potenziali responsabili, ivi incluse le alte gerarchie politiche e militari del Sudan, e la passò sigillata al procuratore della Corte penale internazionale, sollecitando pubblicamente e per vie diplomatiche il Consiglio di sicurezza a deferire la situazione nel Darfur alla Corte penale. In questa occasione Antonio Cassese riuscì a compiere qualcosa di inimmaginabile: convinse il Consiglio di sicurezza, e soprattutto i membri permanenti che non erano parte allo Statuto della Corte penale internazionale ad astenersi e a non bloccare la risoluzione di deferimento della situazione del Darfur alla Corte. Si aprì così la strada alle indagini penali del procuratore della Corte penale internazionale in Darfur, al controverso mandato di cattura internazionale contro Al Bashir, ma anche alla più recente decisione del Consiglio di sicurezza, questa volta con il voto favorevole di tutti i membri permanenti, di deferire alla Corte i crimini contro l’umanità commessi in Libia dal febbraio 2011. NECROLOGIO 129 Dopo la Commissione di inchiesta sul Darfur, Antonio Cassese continuò a svolgere alcuni incarichi internazionali importanti (nel 2006 fu esperto indipendente del Segretario generale per monitorare l’efficienza della Corte speciale per la Sierra Leone, nonché, nel 2008-2009, co-presidente del gruppo di esperti sulla giurisdizione universale, istituito dall’Unione Europea e dall’Unione Africana) fino a che arrivò il suo ultimo incarico, quello di giudice e primo presidente del neo istituito Tribunale speciale per il Libano (2009-2011). Taluni si sono chiesti perché una persona dello spessore e autorevolezza di Antonio Cassese abbia accettato tale incarico, data la forte interferenza della politica e dei « potenti » nel Consiglio di sicurezza nella decisione di istituire un tribunale a composizione mista con giurisdizione materiale davvero limitata e sui generis. A me la risposta è parsa sempre assai semplice: Antonio Cassese credeva fermamente al diritto di ogni vittima, senza distinzione alcuna, di non cadere nell’oblio e di ottenere giustizia, e riteneva di conseguenza che tale diritto spettasse anche alle decine di vittime dell’attentato all’ex Primo ministro libanese Hariri, quali che fossero le ragioni politiche dell’istituzione del Tribunale e la selettività della sua giurisdizione (giacché la giustizia, anche quella parzialmente dispensata, non è perciò meno auspicabile). Ecco perché, anche in questo caso, egli ha svolto il suo compito con energia e straordinaria determinazione, e lo ha fatto con convinzione fino a che ne ha avuto la forza, dimettendosi dall’incarico di presidente meno di un paio di settimane prima di morire per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. 9. Di fronte a questa vita accademica e professionale così operosa ed incisiva, che gli valse l’elezione a membro dell’Institut de droit international (1995) e che più volte è stata celebrata con il conferimento di premi prestigiosi e lauree honoris causa, è davvero difficile dare conto del contributo di Antonio Cassese alla scienza giuridica internazionale senza omettere qualche cosa di importante. Per quanto concerne i suoi lavori scientifici, e volendo limitarmi soltanto ad alcuni di essi, credo di non sbagliare se anzitutto includo nella lista il suo secondo lavoro monografico, Il controllo internazionale (Milano, 1971), con cui egli ottenne la cattedra di diritto internazionale. Si tratta di un’opera di notevole pregio e di grande intelligenza. In questa monografia Antonio Cassese riesce infatti ad inquadrare una varietà di meccanismi di controllo dell’applicazione delle norme internazionali (rapporti periodici, ispezioni e via dicendo) sistematizzandoli 130 NECROLOGIO in un unico istituto, il controllo internazionale, che a suo avviso costituisce un vero e proprio fatto di garanzia del diritto internazionale. L’analisi è puntuale e la capacità di sistematizzazione davvero esemplare ed il libro certamente costituisce ancora un punto di riferimento importante per coloro che vogliono approfondire lo studio dei meccanismi internazionali di garanzia. Nemmeno credo di sbagliare nel menzionare un’altra sua opera monografica, Self-Determination of Peoples (Cambridge, 1995, che ottenne l’anno seguente il Certificate of Merit dell’American Society of International Law). In quest’opera Antonio Cassese ha offerto un contributo dottrinale indiscutibile allo studio del principio dell’autodeterminazione, ad esempio identificando l’esistenza di non uno, ma ben due principi in materia, l’uno di natura convenzionale (più specificamente rinvenibile nell’art. 1 comune ai due Patti sui diritti umani del 1966), l’altro di origine consuetudinaria, e dimostrando che i due principi hanno diverso contenuto normativo. Tra l’altro non è assente nel libro la sua impostazione tipica, volta a mettere in rilievo l’interazione tra politica e diritto, impostazione che conferisce all’analisi un respiro e una dimensione ampi, che vanno ben al di là della sola indagine giuridica. E certamente non posso esimermi dal ricordare il suo primo manuale di diritto internazionale, pubblicato in inglese e apparso nella traduzione italiana di Rosario Sapienza con il titolo Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo (Bologna, 1984), che egli dedicò a Bert Röling , « il miglior fabbro ». L’incontro con Bert Röling fu infatti decisivo, giacché egli rimase molto affascinato dalla personalità del giurista olandese. Bert Röling fu per lui quasi un maestro, certamente un modello da seguire, ed è per questo che il suo manuale del 1984 voleva costituire un’ideale continuazione del libro di Röling International Law in an Expanded World. In questo libro, Röling poneva il diritto internazionale in una dimensione storica e sosteneva che, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati potevano guadagnarsi la propria ammissione nella comunità internazionale solo perseguendo l’ideale della pace. Tra l’altro Röling esaminava il diritto internazionale anche dal punto di vista dei paesi economicamente svantaggiati e proponeva una visione del diritto internazionale che tenesse conto dei loro bisogni e interessi e che costituisse « il diritto naturale dell’era nucleare ». Chiunque abbia letto Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo di Antonio Cassese può dunque facilmente comprendere perché egli lo abbia dedicato a Bert Röling. Si tratta di un manuale scritto in un NECROLOGIO 131 linguaggio assai accessibile (tra l’altro pensato per studenti non iscritti alle facoltà di giurisprudenza), in cui si spiega l’evoluzione del diritto internazionale dal punto di vista storico, continuando e sviluppando la periodizzazione proposta in parte da Röling. Inoltre, i vari istituti di diritto internazionale vengono esaminati sempre spiegando le ragioni storiche e politiche della loro origine e sempre cercando di mostrare se e fino a che punto il diritto internazionale moderno (sviluppatosi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, secondo gli ideali « kantiani ») abbia modificato il diritto internazionale tradizionale, di impostazione westfaliana. Una particolare attenzione è poi dedicata alla categoria dei paesi in via di sviluppo, ai loro bisogni e alle loro rivendicazioni, e al tentativo da questi effettuato di affrancarsi dalla dipendenza dai paesi economicamente più avanzati. Antonio Cassese pubblicò poi nel 2001 una versione aggiornata e sostanzialmente riveduta del manuale (International Law, Oxford, seconda ed. 2005, di cui ho curato la pubblicazione nelle diverse edizioni italiane per i tipi del Mulino), anche alla luce dei mutati assetti della comunità internazionale alla fine del bipolarismo est-ovest. Nella nuova versione del manuale egli ovviamente approfondisce e sviluppa le riflessioni già presenti nella versione del 1984, e lo arricchisce affrontando tematiche prima assenti o soltanto accennate (penso, fra gli altri, al capitolo sullo jus cogens, sul terrorismo internazionale e alle proposte relative alla « responsabilità aggravata » degli Stati in caso di violazione grave di norme di jus cogens). Ciononostante, pur se la nuova versione contribuisce ad elucidare il pensiero di Antonio Cassese su numerosi aspetti controversi o incerti del diritto internazionale, fornendo un sicuro apporto dottrinale alla disciplina, la prima versione ha una coerenza e un’armonia che rendono il manuale davvero unico nel suo genere. Si tratta a mio avviso di un’opera che, per quanto in taluni punti datata (ad esempio, a causa della scomparsa del c.d. gruppo dei paesi socialisti, e al frammentarsi del gruppo dei paesi in via di sviluppo, all’epoca più omogeneo, gruppi cui il manuale fa costante riferimento), dovrebbe essere letta da tutti coloro che intendano comprendere il funzionamento del diritto internazionale e delle sue dinamiche profonde. 10. Vi sono poi i numerosi scritti minori, e qui la scelta è davvero difficile. Per gli studiosi dei rapporti tra diritto internazionale e ordinamenti giuridici interni, il suo corso all’Aja del 1985 su Modern Constitutions and International Law costituisce una sicura fonte di 132 NECROLOGIO ispirazione. Lungi dall’effettuare uno studio comparato delle disposizioni internazionalistiche contenute nei testi costituzionali contemporanei, ciò che nel corso Antonio Cassese ci offre è una disamina originalissima, volta a misurare il grado di internazionalità di un paese sulla base di alcuni parametri (garanzia di adeguamento alle norme di diritto internazionale; accettazione di limitazioni di sovranità necessarie alla partecipazione ad organizzazioni internazionali; adesione al valore della pace e predisposizione di meccanismi costituzionali per realizzarlo). Per quanto concerne il diritto internazionale e l’ordinamento italiano, credo che non ci si possa esimere dallo studiare i suoi commenti alle disposizioni internazionalistiche della nostra legge fondamentale raccolti nel Commentario a cura di G. Branca. Si trattata di contributi assolutamente illuminanti, sia per gli ampi riferimenti ai lavori dell’Assemblea costituente, sia ancora per le interpretazioni innovatrici proposte e che sono state anche seguite (non senza oscillazioni) dalla nostra Corte di cassazione (penso, ad esempio, alla nozione di delitto politico ai fini dell’estradizione, ai sensi dell’art. 10 Cost., nozione che Antonio Cassese riteneva autonoma e svincolata rispetto all’art. 8 cod. pen.). In materia di diritto internazionale umanitario, egli ha contribuito in maniera considerevole alla chiarificazione e interpretazione di molti principi e istituti quali, ad esempio, il divieto di utilizzazione delle armi che causano mali superflui, lo statuto dei ribelli nel II Protocollo addizionale, o la clausola Martens; ma i suoi contributi in questo settore sono così importanti che davvero meriterebbero di essere menzionati tutti. Antonio Cassese aveva però particolarmente a cuore le guerre civili interne, ritenendo irragionevole e miope la politica di quegli Stati volti ad ostacolare lo sviluppo convenzionale delle nome sui conflitti armati non internazionali. Ecco perché ritengo di dover qui almeno menzionare il suo articolo La guerre civile et le droit international, un piccolo capolavoro, in cui egli spiega bene le ragioni di questo stato di cose e lo critica in maniera convincente, osservando peraltro come esso si riveli controproducente: in fondo, egli nota, il rifiuto di riconoscere ai ribelli lo status di combattente opera come un incentivo per questi ultimi a non rispettare la popolazione civile e a rendere la guerra ancora più disumana di quanto essa non lo sia già di per sé. In più occasioni poi Antonio Cassese ha affrontato il tema del terrorismo internazionale, seguendo il filo di una riflessione che è andata sviluppandosi nel tempo con una serie di lavori che affrontano molteplici aspetti del fenomeno e delle sue conseguenze per il diritto NECROLOGIO 133 internazionale (ad esempio, in materia di ricorso all’uso della forza da parte degli Stati in risposta ad attacchi terroristici, o dei rapporti tra terrorismo e diritti umani). L’apporto maggiore è però costituito senza dubbio dagli articoli in cui egli tenta di rilevare una definizione comunemente accettata di terrorismo internazionale sul piano del diritto internazionale consuetudinario, tentativo che è poi sfociato, da ultimo, nella decisione del Tribunale penale speciale per il Libano del 16 febbraio 2011 sul diritto applicabile dal Tribunale, alla cui redazione egli ha dato un contributo sostanziale. Nonostante le critiche che sono state sollevate a riguardo, questa decisione appare fondamentale perlomeno nell’ottica di una disamina dello sviluppo del concetto di terrorismo come minaccia alla pace e alla sicurezza, che, perciò, merita la definizione di crimine internazionale. 11. Vi è poi il diritto internazionale penale, e su questo ci sarebbe molto, anzi, moltissimo da dire. Antonio Cassese è stato definito dal Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon « il gigante del diritto internazionale penale », ed è davvero così. Nessuno che si occupi di diritto internazionale penale ignora o può permettersi di ignorare chi era Antonio Cassese e il suo straordinario contributo allo sviluppo e al consolidamento di questo settore del diritto internazionale. Come giudice della Camera d’appello del Tribunale penale internazionale, è noto il suo contributo decisivo alla redazione di talune decisioni « storiche » del Tribunale, prima fra tutte la decisione sulla giurisdizione del 2 ottobre 1995 nel caso Tadić. Si sostenne infatti che i fatti criminosi contestati all’imputato non rientravano nella competenza materiale del Tribunale per il tramite della disposizione statutaria sulle infrazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra del 1949 (come invece aveva sostenuto la Camera di prima istanza). Ciò perché quella disposizione necessariamente rinviava al requisito di applicabilità delle Convenzioni stesse, ossia la sussistenza di un conflitto armato a carattere internazionale, requisito non apparentemente riscontrabile nel caso di specie. La Camera d’appello ritenne però che fosse applicabile un’altra norma dello Statuto del Tribunale, l’art. 3, che concerne i crimini di guerra diversi dalle infrazioni gravi e consistenti in altre violazioni gravi delle norme e consuetudini di guerra. È noto che nel diritto internazionale tradizionale si riteneva che tali violazioni fossero suscettibili di dar luogo alla responsabilità personale per crimini di guerra dei loro autori solo nel contesto di conflitti armati internazionali; la Camera d’appello invece tracciò l’evoluzione del diritto consuetudi- 134 NECROLOGIO nario in materia e arrivò a dimostrare l’applicabilità dell’art. 3 dello Statuto anche in caso di violazioni gravi commesse nel contesto di conflitti armati non internazionali. Si trattava di un’affermazione a dir poco rivoluzionaria, che ha aperto la strada non solo alla c.d. global legacy della giurisprudenza del Tribunale anche per quanto concerne la rilevazione e interpretazione delle norme applicabili ai conflitti armati interni, ma che allo stesso tempo seguiva un’impostazione metodologica importante. Fondando la propria decisione sul diritto internazionale consuetudinario, la Camera d’appello dimostrò di non temere di fare riferimento a tale fonte per affermare l’esistenza di condotte penalmente rilevanti, e dunque implicitamente sposò la tesi che il principio di legalità nel diritto internazionale penale non risponda agli stessi rigidi requisiti richiesti degli ordinamenti giuridici nazionali di civil law. Antonio Cassese ha certamente svolto un ruolo decisivo affinché il Tribunale seguisse questa strada e non esitasse a fare opera di rilevamento delle norme consuetudinarie eventualmente operanti in materia di repressione di crimini internazionali. E parimenti grande è stato il suo ruolo nella redazione di altre decisioni e sentenze del Tribunale che al diritto internazionale consuetudinario hanno fatto ampiamente ricorso. Un esempio fra tutte è la sentenza in cui la Camera d’appello identifica l’esistenza di una norma consuetudinaria sulla c.d. joint criminal enterprise, una forma di responsabilità che alcuni hanno ritenuto non rispondente al principio di responsabilità personale del moderno diritto penale, soprattutto per quanto concerne la terza variante, ma che è stata comunque recepita negli statuti e nella giurisprudenza di altri tribunali penali internazionali o a carattere misto. Fondamentale è stato altresì il suo apporto ad un’altra sentenza, sempre nel caso Tadić, in cui la Camera d’appello ha dimostrato che, ai fini della qualificazione di un conflitto come internazionale, il criterio di attribuzione di condotte di gruppi armati non statali operanti all’interno di uno Stato ad uno Stato straniero sia quello del c.d. controllo globale (overall control); in tal modo essa ha ampliato notevolmente le possibilità di applicazione delle Convenzioni di Ginevra e del sistema delle infrazioni gravi, estendendole anche a conflitti apparentemente non internazionali. E potrei continuare ancora, menzionando il suo contributo alla sentenza Furundžija in materia di stupro e di tortura, senza naturalmente poter tralasciare la decisione resa nel caso Blaškić, in relazione all’eventuale potere del Tribunale di emanare atti muniti di forza coercitiva (i c.d. subpoenae duces tecum) nei confronti degli Stati NECROLOGIO 135 o degli organi dello Stato a livello governativo, o la profonda riflessione contenuta nella sua opinione dissenziente nel caso Erdemović, per quanto concerne la possibilità di invocare il costringimento psichico come esimente di responsabilità in caso di uccisione di civili innocenti. Il contributo di Antonio Cassese al diritto internazionale penale non è però venuto solo dalla sua attività come presidente e giudice del Tribunale, ma anche dalla sua opera di studioso. Egli ha anzitutto sistematizzato gli istituti e norme del diritto internazionale penale in un manuale, diffusissimo in molte università in cui è impartito l’insegnamento della materia (International Criminal Law, di cui è prossima la terza edizione riveduta su cui egli ha lavorato, questa volta con alcuni collaboratori, fino a poche settimane prima della sua scomparsa); ha fondato e diretto il Journal of International Criminal Justice (mettendo a frutto l’esperienza già acquisita come co-fondatore, assieme a Joseph Weiler e Bruno Simma, dell’European Journal of International Law); assieme ad alcuni amici e collaboratori, ha curato la pubblicazione di un commentario allo Statuto della Corte penale internazionale di ampio respiro, di un voluminoso Companion to International Criminal Justice e di un Casebook di diritto internazionale penale; ha pubblicato numerosi articoli e commenti su molteplici aspetti del diritto internazionale penale; ma soprattutto egli ha promosso la creazione di una comunità di specialisti di diritto internazionale penale, pronta a svolgere il compito — per lui essenziale — di dare contorni sempre più chiari e certi alla disciplina: ed ecco che così egli promuoveva simposia su questa o quella tematica, attraverso le pagine del Journal, commissionava articoli, organizzava incontri e seminari, e dedicava moltissimo tempo alla revisione puntigliosa dei contributi che il Journal riceveva o sollecitava. 12. Il suo canto del cigno è andato alle stampe appena qualche giorno dopo la sua scomparsa e sarà pubblicato a breve da Oxford University Press. Si tratta di un’opera voluminosa da lui curata, dal titolo Realizing Utopia. The Future of International Law, che si è posta l’obiettivo di verificare quali progressi « utopistici » si possono pensare per far avanzare il diritto internazionale nel medio periodo. Ecco perché egli ha voluto che gli autori da lui invitati a contribuire all’opera dessero prova di immaginazione, e fuoriuscendo dalla logica del rigido positivismo facessero un serio esercizio de iure condendo, per proporre soluzioni praticabili atte a rimediare alle lacune e ai difetti più evidenti dell’ordinamento giuridico internazionale. Il risultato è impressionante. 136 NECROLOGIO Il volume raccoglie quarantasette contributi sui più svariati aspetti del diritto internazionale ed è ricco di « soluzioni utopistiche realizzabili » (secondo l’ossimoro voluto da Antonio Cassese), in un’attività collettiva degli autori di imaginative thinking, sotto la guida di un magistrale direttore di orchestra. Il volume si conclude poi con un assolo, quello di Antonio Cassese, in cui, lungi dal riassumere i principali contenuti dei contributi raccolti nel volume, egli ci guida nel mondo della sua utopia realizzabile per il diritto internazionale. 13. A conclusione di questo ricordo di Antonio Cassese (di Nino, come amava essere chiamato) vorrei spendere qualche parola per dire qualcosa di lui come maestro, anche a nome di tutti gli allievi che egli ha guidato e ispirato, in vario modo e in vari momenti della vita. Quella di Antonio Cassese era una scuola cosmopolita, che non si è formata soltanto nelle aule universitarie italiane, ma è nata e si è diffusa un po’ ovunque, un po’ come il vento può fare con il polline dei fiori. Quando Nino incontrava un giovane, a una conferenza o un seminario, all’università o al tribunale, a casa di amici o conoscenti, subito lo interrogava e cercava di capire se ci « fosse della stoffa ». E se la trovava, dall’incontro nasceva qualcosa. Magari si accendevano delle scintille negli occhi di quel giovane, come a riflettere un po’ della luce che brillava nello sguardo di Nino quando parlava di cose che lo appassionavano; oppure Nino faceva di più, e incitava il giovane a sottoporgli una proposta di tesi di dottorato, o di scrivere una nota ad una sentenza, o si offriva di darsi da fare per trovare una possibilità di internship, o discutere di un possibile argomento di tesi di laurea. Da questi incontri anche casuali potevano dunque nascere e sono nate forme di collaborazione, con Nino che supervisionava, incitava, pungolava, e incoraggiava a scrivere questo o quell’articolo, a sviluppare le idee in questo o in quel modo. Sono molti i giovani e gli studiosi che sono stati « cassesiani » almeno per un po’, perché hanno lavorato con lui e sotto la sua guida su un articolo, una nota a sentenza, un progetto di tesi di dottorato; ma questi giovani e questi studiosi sono rimasti poi « cassesiani » per sempre, anche se magari hanno seguito percorsi professionali diversi dalla carriera accademica e non sono stati a contatto con lui nella forma tradizionale, forse tutta italiana, di maestro-allievo. Perché prima di tutto la scuola di Antonio Cassese è stata ed è una vera scuola delle idee; e le idee, si sa, non hanno confini e per fortuna non muoiono mai. PAOLA GAETA NECROLOGIO 137 PUBBLICAZIONI DI ANTONIO CASSESE (12) Sul soggiorno del rifugiato politico in Italia, Rivista, 1959, pp. 653-661. L’accordo europeo del 1959 sull’abolizione dei visti per i rifugiati, Rivista, 1960, pp. 492-497. L’esercizio di funzioni giurisdizionali da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, Rivista, 1961, pp. 398-403. Il diritto interno nel processo internazionale, Padova, 1962. In tema di legge regolatrice del contratto di trasporto marittimo, Rivista, 1963, pp. 274-277. La decisione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nei casi Ofner e Hopfinger, Rivista, 1963, pp. 401-403. Le norme sulle cause di nullità del matrimonio e l’ordine pubblico, Rivista, 1963, pp. 658-673. Limiti probatori in materia matrimoniale e ordine pubblico, Rivista, 1963, pp. 460-469. L’articolo 10 della Costituzione italiana e l’incostituzionalità degli atti normativi contrari a norme interne di adattamento al diritto internazionale generale, Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1964, pp. 349-382. Per la determinazione dello « statuto personale » del rifugiato e dell’apolide, Rivista, 1964, pp. 50-60. Sull’interpretazione dell’art. 4, par. 1, del cap. V della Convenzione sul regolamento delle questioni derivanti dalla guerra e dall’occupazione della Germania del 26 maggio 1952, Rivista, 1964, pp. 279-294. La giurisdizione civile italiana e la Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 sullo status delle Forze armate della NATO, Rivista, 1965, pp. 643-655. Sovereignty within the Law in Italy, in Sovereignty within the Law (a cura di Larson e Jenks), Dobbs Ferry, 1965, pp. 60-78. Su alcune questioni di procedura sorte dinanzi alla Commissione dei diritti dell’uomo nell’affare di Fundres, Rivista, 1965, pp. 106-130. Il controllo internazionale sul rispetto della libertà sindacale nel quadro delle attuali tendenze in materia di protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Comunicazioni e studi, vol. XII, Milano, 1966, pp. 289-414. Il sistema di garanzia della Convenzione dell’ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, Rivista, 1967, pp. 270-336. Una nuova clausola sulle riserve, Rivista, 1967, pp. 584-631. A New Reservation Clause (Art. 20 of the United Nations Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination), in Recueil d’études de droit international en hommage à Paul Guggenheim, Genève, 1968, pp. 266-304. La Conferenza internazionale di Teheran sui diritti dell’uomo, Rivista, 1968, pp. 669-686. (12) L’elenco delle pubblicazioni è stato curato da Valentina Spiga. 138 NECROLOGIO Su alcune riserve alla Convenzione sui diritti politici della donna, Rivista, 1968, pp. 294-314. L’efficacia delle norme italiane di adattamento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1969, pp. 918-938. Sull’entrata in vigore della Convenzione dell’ONU sulla discriminazione razziale, Rivista, 1969, pp. 531-537. L’azione delle Nazioni Unite contro l’apartheid, La Comunità internazionale, 1970, pp. 3-29. Il controllo internazionale: contributo alla teoria delle funzioni di organizzazione dell’ordinamento internazionale, Milano, 1971. Individuo (diritto internazionale), in Enciclopedia del diritto, vol. XXI, Milano, 1971, pp. 184-224. The Admissibility of Communications to the U.N. on Human Rights Violations, Human Rights Journal, 1972, pp. 375-397. Il diritto internazionale bellico moderno. Testi e documenti (a cura di Cassese), Pisa, 1973. La giurisprudenza di diritto amministrativo e tributario internazionale (in collaborazione con Barsotti et al.), Napoli, 1973. La giurisprudenza di diritto internazionale privato (in collaborazione con Barsotti et al.), Napoli, 1973. Current Trends in the Development of the Law of Armed Conflict, Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1974, pp. 1407-1422. Le droit de recours individuel devant la Commission européenne des droits de l’homme, in Les clauses facultatives de la Convention européenne des droits de l’homme: actes de la table ronde, Bari, 1974, pp. 45-68. Sul funzionamento del sistema dei ricorsi individuali alla Commissione europea dei diritti dell’uomo, Rivista, 1974, pp. 548-566. Lo Stato e la comunità internazionale (gli ideali internazionalistici del costituente), in Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali (artt. 1-12) (a cura di Branca), vol. I, Bologna-Roma, 1975, pp. 461-484. Art. 10, in Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali (artt. 1-12) (a cura di Branca), vol. I, cit., pp. 485-564. Art. 11, in Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali (artt. 1-12) (a cura di Branca), vol. I, cit., pp. 565-588. Art. 12, in Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali (artt. 1-12) (a cura di Branca), vol. I, cit., pp. 589-591. The Concept of « Legal Dispute » in the Jurisprudence of the International Court of Justice, in Studi in onore di Gaetano Morelli, Comunicazioni e studi, vol. XIV, Milano, 1975, pp. 173-200. Consensus and Some of Its Pitfalls, Rivista, 1975, pp. 754-761. Current Problems of International Law: Essays on U.N. Law and on the Law of Armed Conflict (a cura di Cassese), Milano, 1975. International Protection of the Right to Leave and to Return, in Studi in onore di Manlio Udina, vol. I, Milano, 1975, pp. 219-229. NECROLOGIO 139 The New U.N. Procedure for Handling Gross Violations of Human Rights, La Comunità internazionale, 1975, pp. 49-61. The Non Extradition of Foreigners for Political Offences in the Italian Constitution, Italian Yearbook of International Law, 1975, pp. 173-178. The Spanish Civil War and the Development of Customary Law Concerning Internal Armed Conflicts, in Essays on U.N. Law and on the Law of Armed Conflict (a cura di Cassese), Milano, 1975, pp. 287-318 (poi in The Human Dimension of International Law: Selected Papers (a cura di Gaeta e Zappalá), Oxford, 2008, pp. 128-147). Weapons Causing Unnecessary Sufferings: Are They Prohibited?, Rivista, 1975, pp. 12-42 (poi in The Human Dimension of International Law: Selected Papers, cit., pp. 192-217). Legal Services in Italy for Deprived Persons, in Council of Europe, Legal Services for Deprived Persons, Particularly in Urban Areas, Proceedings of the Sixth Colloquy on European Law (University of Leiden, 11-13 May 1976), Strasbourg, 1976, p. 37 ss. Parliamentary Control of Treaty-Making in Italy, Italian Yearbook of International Law, 1976, pp. 165-177. 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Foreign Economic Assistance and Respect for Civil and Political Rights: Chile A Case Study, Texas International Law Journal, 1979, pp. 251-263 (poi in The Human Dimension of International Law: Selected Papers, cit., pp. 375-386). How Could Nongovernmental Organisations Use U.N. Bodies More Effectively?, Universal Human Rights, 1979, pp. 73-80. Marxismo, democrazia e diritto dei popoli: Scritti in onore di Lelio Basso (con Amato, Basso e Echeverría), Milano, 1979. Means of Warfare: The Traditional and the New Law, in The New Humanitarian Law of Armed Conflict, vol. I (a cura di Cassese), Napoli, 1979, pp. 161-197 (poi in The Human Dimension of International Law: Selected Papers, cit., pp. 218-249). The New Humanitarian Law of Armed Conflict (a cura di Cassese), 2 voll., Napoli, 1979-1980. 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PANORAMA L’incerto destino dell’eccezione di non adempimento dell’accordo. — La controversia su Application of the Interim Accord of 13 September 1995 (Former Yugoslav Republic of Macedonia v. Greece), sottoposta alla Corte internazionale di giustizia e da essa decisa con sentenza del 5 dicembre 2011 (infra, p. 167 ss.), costituisce una preziosa occasione per tornare ad interrogarsi sulla natura ed il contenuto dell’exceptio inadimpleti contractus (tractatus) nel diritto internazionale e sul suo rapporto con la sospensione di norme convenzionali e con le contromisure. Occasione sprecata, secondo i giudici Simma e Bennouna, perché la Corte si limita a constatare la mancanza dei presupposti considerati dalla stessa Grecia necessari per invocare l’applicazione di quella regola internazionale — violazione di un obbligo convenzionale e conseguenzialità della reazione a tale illecito — e non si pronuncia circa l’esistenza della regola. Occasione comunque utile, ci si permette qui di osservare, perché le posizioni che gli Stati hanno assunto sul punto costituiscono in ogni caso elementi di prassi, in una materia in cui è raro riuscire a ricostruire con precisione il punto di vista statale. Non è la prima volta che, in tempi recenti, l’eccezione viene evocata innanzi alla Corte internazionale di giustizia. Il concetto, se non il nomen, era stato richiamato dagli Stati Uniti nella controversia sulle Oil Platforms che li contrapponeva all’Iran (udienza del 5 marzo 2003, plaidoirie dell’agente per gli Stati Uniti Mathias, reperibile sul sito www.icj-cij.org), tuttavia in maniera abbastanza generica; la Corte non aveva poi affrontato il punto. Anni prima, aveva fatto appello all’eccezione il giudice de Castro nella sua opinione individuale nella sentenza Appeal Relating to the Jurisdiction of the ICAO Council (I.C.J. Reports, 1972, p. 128, nota 1). La condotta tenuta dalla Grecia non sembra aver trovato fondamento, nel momento in cui è stata adottata, in una ponderata valutazione delle norme applicabili e pertanto è da condividere l’osservazione del giudice Simma, secondo cui le difese invocate costituirebbero piuttosto delle « foglie di fico giuridiche » per tentare di giustificare un’altrimenti chiara violazione di obblighi convenzionali (par. 3 dell’opinione individuale, disponibile sul sito della Corte internazionale). Rileva tuttavia che gli Stati abbiano discusso davanti alla Corte in maniera approfondita circa l’esistenza, la natura giuridica dell’eccezione ed il suo rapporto con la sospensione di norme convenzionali e la contromisura. L’exceptio non è stata disciplinata dalla Commissione del diritto internazionale nei lavori di codificazione del diritto dei trattati né in quelli della responsabilità degli Stati per fatto illecito, e da più parti si sostiene che essa non ha una propria autonomia rispetto alla contromisura oppure alla sospensione. Il giudice Simma è ora di quest’ultima opinione, argomentando principalmente sulla base dell’esito negativo della proposta avanzata dall’ultimo 152 PANORAMA relatore speciale sulla responsabilità, Crawford, di inserire nel testo dell’articolato una disposizione in proposito (art. 30-bis, in Yearbook of the Int. Law Commission, 1999, vol. II, Part One, p. 78 ss.; dibattito in Commissione ivi, vol. II, Part Two, p. 78 ss.). La proposta di Crawford non era il frutto di un qualche tardivo ed improvviso ripensamento. L’exceptio come rimedio autonomo a seguito di un inadempimento di obblighi reciproci/sinallagmatici — espressioni non del tutto coincidenti ma che qui si usano indistintamente per semplicità — a quelli a sua volta violati da altro Stato era stata attentamente considerata sia dal relatore speciale sul diritto dei trattati sir Gerald Fitzmaurice, sia dal relatore Riphagen sulla responsabilità, in entrambi i casi anche con riguardo ad obblighi non convenzionali. Riphagen in particolare aveva individuato un tipo di contromisure « reciproche » nell’art. 8 della seconda parte dell’articolato da lui proposto (Yearbook of the Int. Law Commission, 1984, vol. II, Part One, p. 3). Sulla scia delle osservazioni del relatore speciale Arangio-Ruiz, la Commissione aveva poi deciso contro la configurazione di una speciale categoria di contromisure reciproche (rispettivamente, Third Report, Yearbook of the Int. Law Commission, 1991, vol. II, Part One, p. 14, e Yearbook of the Int. law Commission, 1992, vol. II, Part Two, p. 23). Seguendo la ricostruzione dell’eccezione proposta dal relatore speciale Crawford, l’utilità pratica dell’exceptio risiede, tra l’altro, nel fatto che essa consisterebbe in un non-adempimento sottratto ai presupposti richiesti per la sospensione dal diritto dei trattati: una violazione sostanziale, secondo l’art. 60 della Convenzione di Vienna, norma riconosciuta corrispondente al diritto consuetudinario dalla Corte internazionale di giustizia (parere sulla Namibia del 21 giugno 1971, I.C.J. Reports, 1971, p. 47, e sentenza GabčíkovoNagymaros Project, 25 settembre 1997, I.C.J. Reports, 1997, p. 38); il soddisfacimento di requisiti procedurali previsti dalla Convenzione di Vienna. L’eccezione perseguirebbe inoltre una finalità diversa dalla contromisura e non sarebbe soggetta nemmeno agli adempimenti preventivi al ricorso alla misura di autotutela. È perciò chiaro come l’exceptio possa costituire un agile rimedio alla violazione di taluni obblighi principalmente convenzionali, invocabile per legittimare il mancato adempimento anche ex post, ciò che è appunto avvenuto nella controversia FYROM c. Grecia. Considerazioni di questo tipo ed in particolare l’elusione dei requisiti richiesti per l’adozione di contromisure sembrano aver costituito la ragione principale della decisione della Commissione del diritto internazionale di escludere l’exceptio dalla codificazione della responsabilità. La mancata accettazione della proposta di Crawford è forse anche derivata dal nesso causale tra violazione di un obbligo e impossibilità di eseguire l’obbligo sinallagmatico da parte dello Stato che invoca l’eccezione, richiesto nella disposizione proposta dal relatore speciale. Il nesso ha fatto ritenere ad alcuni membri della Commissione trattarsi piuttosto di un’ipotesi di forza maggiore. Un tale nesso è in effetti equivoco, soprattutto in relazione all’impossibilità, e sembra estraneo all’eccezione concepita come difesa rispetto al non adempimento di un obbligo sinallagmatico, la cui esecuzione non è voluta ma rimane possibile. Soprattutto, però, l’eccezione appare essere caduta vittima di una perdurante incertezza circa la diversa natura giuridica di sospensione e contromisura, quando entrambe fanno seguito alla violazione di un obbligo convenzionale. Concludendo i lavori sulla responsabilità, la Commissione ha affermato in termini chiari che mentre la sospensione incide sull’efficacia delle norme pattizie, le quali rimangono valide PANORAMA 153 ma non producono effetti fino a quando non cessa la causa di sospensione, la contromisura non sospende gli effetti del trattato, ma costituisce una causa di esclusione dell’illiceità dell’inadempimento di un obbligo in vigore. La sospensione concerne dunque il piano delle norme primarie, la contromisura attiene al contenuto di quelle secondarie (Third Report del relatore speciale Crawford, in Yearbook of the Int. Law Commission, 2000, vol. II, Part One, pp. 86-87; commento all’art. 22, Yearbook of the Int. Law Commission, 2001, vol. II, Part Two, pp. 75 e 128). Si potrebbe aggiungere che la sospensione impedisce il verificarsi dell’inadempimento/violazione, mentre la contromisura consiste al contrario nel mancato adempimento di un obbligo perfettamente efficace. Peraltro la distinzione sopra ricordata è stata raggiunta dalla Commissione attraverso un processo di affinamento dei concetti che parte dai lavori preparatori della Convenzione di Vienna e che non ha avuto un percorso lineare. Il già ricordato art. 60 è stato, ad es., criticato perché impreciso, ove fa riferimento alla sospensione dell’operatività del trattato anziché dell’obbligo o degli obblighi convenzionali (MORELLI, Annuaire de l’Institut de Droit Int., 1967, vol. I, p. 291, con riguardo alla versione francese). La stessa Commissione aveva poi affermato nel commento all’art. 30 dell’articolato sulla responsabilità adottato in prima lettura nel 1979, dedicato alla contromisura, che « there is no wrongfulness because, in the case in point, application of the obligation is set aside, and hence the obligation is not breached » (Yearbook of the Int. Law Commission, 1979, vol. II, Part Two, p. 116), il contrario di quanto sosterrà nel 2001. La contromisura veniva inoltre variamente definita, nelle successive tappe, come suspension of performance, non-compliance, per arrivare al non-performance di un obbligo internazionale nell’attuale art. 49; ma la suspension of performance sopravvive nel commentario (ad es., Yearbook of the Int. Law Commission, 2001, vol. II, Part Two, p. 129). Alla luce di una certa difficoltà della stessa Commissione, nonché di varia dottrina, ad identificare precisamente la distinzione tra sospensione e contromisura, non è allora incomprensibile come la figura dell’exceptio sia risultata tanto più dubbia. Lo stesso Crawford ha sostenuto che « the exception of non-performance is to be seen either as a circumstance precluding wrongfulness in respect of a certain class of (synallagmatic) obligations, or as limited to an implied term in certain treaties » (Third Report, cit., p. 95). La conclusione della Commissione sul punto è in effetti ambigua; essa afferma che « the exception of non-performance (exceptio inadimpleti contractus) is best seen as a specific feature of certain mutual or synallagmatic obligations and not a circumstance precluding wrongfulness » (Yearbook of the Int. Law Commission, 2001, vol. II, Part Two, p. 72; cfr. anche p. 129). Con il che si dice però non che l’eccezione non esiste, quanto piuttosto che non si tratta di circostanza di esclusione dell’illiceità. Sulla base delle osservazioni del relatore, è possibile che con ciò la Commissione abbia voluto indicare che l’adempimento di determinati obblighi può essere interpretato come reciprocamente condizionato; ma ciò non risulta chiaramente dal commentario. L’incertezza circa il sussistere dell’exceptio nonostante la mancanza di apposita norma nell’articolato è confermata dallo stesso Crawford (CRAWFORD, OLLESON, The Exception of Non-performance: Links between the Law of Treaties and the Law of State Responsibility, Australian Yerbook of Int. Law, v. 21, 2000, p. 56). Analoga conclusione circa la possibile sopravvivenza dell’eccezione — ma questa volta, al contrario, piuttosto nel quadro del diritto della responsabilità 154 PANORAMA — si potrebbe forse trarre dall’affermazione resa dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza Gabčíkovo-Nagymaros Project, quando essa, dopo aver dichiarato che solo la violazione sostanziale dello stesso accordo legittima la parte lesa alla risoluzione, osserva che « (t)he violation of other treaty rules or of rules of general international law may justify the taking of certain measures, including countermeasures, by the injured State, but it does not constitute a ground for termination under the law of treaties » (I.C.J. Reports, 1997, p. 65; corsivo aggiunto). Nella prassi, non è affatto facile riuscire a qualificare le condotte che gli Stati adottano in seguito alla violazione di obblighi convenzionali — la gran parte degli obblighi internazionali contemporanei — come sospensione di accordi o loro parti od invece come contromisure, e questo per la genericità delle dichiarazioni rese al momento di adozione di quelle condotte. Gli Stati sono nella gran parte dei casi interessati a sottolineare l’esistenza di una precedente violazione, piuttosto che l’inquadramento giuridico della loro reazione, e del resto dal punto di vista materiale la sospensione di un accordo o la contromisura possono risultare indistinguibili. Le posizioni divengono più precise solo nel momento in cui l’insorta controversia è sottoposta a procedimento arbitrale o giudiziario, come dimostrano gli affari Air Services Agreement (Francia c. Stati Uniti, 1978, in Int. Law Reports, vol. 54, p. 304 ss.) e Gabčíkovo-Nagymaros Project. Tanto meno riesce agevole ricostruire una prassi in tema di exceptio. I commenti degli Stati alla disposizione proposta dal relatore Crawford indicano un’ampia disparità di vedute (A/CN.4/504, 8 febbraio 2000, p. 16). Per tutti questi motivi il contraddittorio intercorso tra Grecia e FYROM è comunque interessante. Tra le parti non vi è concordanza circa l’esistenza stessa dell’exceptio: la Grecia richiama un principio generale di reciprocità quale sua fonte (Countermemorial, p. 164 ss., reperibile sul sito www.icjcij.org), posizione sostenuta anche dal giudice ad hoc Roucounas (opinione dissenziente, disponibile sul sito cit., par. 66); la FYROM (Reply, p. 147 ss., sito cit.) nega invece radicalmente che l’eccezione abbia una propria rilevanza autonoma, poiché il regime della sospensione di cui all’art. 60 della Convenzione di Vienna e la disciplina delle contromisure, nel quadro della responsabilità, esaurirebbero i rimedi disponibili alla parte lesa dalla violazione di obblighi convenzionali. La FYROM ha buon gioco nel sottolineare che la Grecia non riesce ad invocare alcuna decisione che applichi l’eccezione nel diritto internazionale, e ricorda sia il carattere tassativo delle cause di sospensione ed estinzione previsti nella Convenzione di Vienna (art. 42, par. 2), sia l’esito negativo del tentativo di codificazione proposto da Crawford. Circa il contenuto della regola, la Grecia, riprendendo alcuni punti della posizione di Crawford, ritiene trattarsi di mera difesa a fronte dell’accusa di inadempimento di un obbligo convenzionale, che, a differenza della sospensione disciplinata dall’art. 60, permette alla parte lesa di giustificare la propria non esecuzione di un obbligo reciproco a quello violato. L’eccezione costituirebbe, secondo la Grecia, una prima difesa a disposizione dello Stato leso interessato ad ottenere l’esecuzione degli obblighi convenzionali da parte dello Stato autore dell’inadempimento, e non ancora intenzionato, ove ne ricorrano le condizioni, a sospendere l’efficacia dell’accordo, o di una sua parte, per entrambi gli Stati. Sempre secondo la Grecia, l’exceptio costituirebbe rimedio da ricondursi alla responsabilità per fatto illecito e non al diritto dei trattati. PANORAMA 155 Essa non realizzerebbe una forma di contromisura, essendo piuttosto basata sul concetto di reciprocità; l’eccezione quale rimedio autonomo sarebbe fatta salva dall’art. 56 dell’articolato (cfr. anche Rejoinder, sito cit., p. 187 ss.). Di fronte ad argomentazioni dettagliate dei due Stati, sarebbe stato effettivamente opportuno, come auspicato dai giudici Simma e Bennouna, che la Corte internazionale avesse fornito lumi circa la sorte dell’eccezione. La Corte, invece, non prendendo posizione sul punto, lascia al lettore il dubbio che l’eccezione, sebbene non applicabile nel caso concreto, possa avere una sua rilevanza nel diritto internazionale: dubbio risolto dagli stessi giudici della Corte da ultimo ricordati in maniera diversa, Simma, come già notato, considerando assorbita nell’art. 60 ogni reazione all’inadempimento di norme convenzionali sul piano delle norme primarie, Bennouna ritenendo invece che l’eccezione abbia un suo ambito di applicazione nel diritto internazionale generale con riguardo ad obblighi sinallagmatici (dichiarazione unita alla sentenza del 5 dicembre, disponibile sul sito www.icj-cij.org). Un elemento determinante nella valutazione dovrebbe essere la presenza di una prassi rilevante; la discussione della regola viene tuttavia condotta generalmente sul diverso piano dell’esistenza di un principio generale di diritto. Anche una tale esistenza peraltro è posta in dubbio da vari autori. È allora forse di nuovo alla luce della natura giuridica dei diversi rimedi che va ricercata se non la soluzione sul punto, l’impostazione della questione. L’espressione exceptio inadimpleti contractus può assumere un significato molto generale, equivalente all’inadimplenti non est adimplendum che il giudice Anzilotti riteneva essere un principio generale di diritto rientrante tra quelli di cui all’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto dell’allora Corte permanente di giustizia internazionale (Diversion of Water from the Meuse, Olanda c. Belgio, P.C.I.J., Publications, Series A/B n. 70, p. 50), oppure un contenuto più specifico che sia il relatore Crawford, che la Grecia davanti alla Corte internazionale di giustizia hanno richiamato, anche se non esattamente nello stesso senso. In un significato più ristretto, conforme a quello che essa assume in alcuni sistemi di diritto privato continentali, l’eccezione costituisce una mera difesa cui lo Stato leso da un inadempimento può ricorrere se richiesto dell’esecuzione della propria prestazione. Non vi è dunque, in questa accezione, alcuna sospensione dell’accordo o di sua parte, come la dottrina italiana ha più volte sottolineato (CAMPIGLIO, Il principio di reciprocità nel diritto dei trattati, Padova, 1995, p. 282 ss.; PIETROBON, Il sinallagma negli accordi internazionali, Padova, 1999, p. 356 ss.; FORLATI, Diritto dei trattati e responsabilità internazionale, Milano, 2005, p. 69 ss.), ma lo Stato leso si limita a giustificare il mancato adempimento a seguito di una richiesta dell’altro Stato. Poiché il trattato rimane perfettamente efficace per entrambe le parti, si può pensare — come ritiene la Grecia nel caso FYROM — che l’eccezione sia allora apparentata alla contromisura o comunque disciplinata da una regola secondaria. Il carattere eventuale e meramente difensivo dell’eccezione sembrerebbe effettivamente non richiedere alcun adempimento preventivo. La preoccupazione per i possibili abusi da ciò derivanti dovrebbe essere ridotta, se si considera che la difesa è sempre stata evocata solo a proposito di obblighi sinallagmatici/reciproci. La riconduzione dell’eccezione ad obblighi convenzionali che in base all’interpretazione risultino reciprocamente subordinati, come forse suggerito 156 PANORAMA dalla Commissione oltre che da parte della dottrina e come indicato anche dal giudice Bennouna, sembra piuttosto rinviare al piano delle norme primarie. In questa prospettiva gli adempimenti sono reciprocamente dipendenti, nel senso che l’adempimento dell’obbligo sarebbe condizionato all’effettiva esecuzione dell’obbligo corrispondente da parte dell’altro Stato. Questa ipotesi finisce per riguardare principalmente prestazioni simultanee; ed infatti i casi individuati da Crawford riguardano lo scambio di prigionieri o il finanziamento di un progetto comune. In questa visione non vi sarebbe formalmente elusione della tassatività delle cause di sospensione ed estinzione e della loro disciplina previste dalla Convenzione di Vienna, perché l’adempimento della controparte perfezionerebbe un obbligo altrimenti non ancora esigibile, definendone così il contenuto stesso. Peraltro in una tale ricostruzione l’eccezione non dovrebbe più intendersi come mera difesa, ma dovrebbe anche comprendere la disponibilità ad adempiere al proprio obbligo, se la controparte facesse lo stesso. Ciò comporterebbe che l’eccezione potrebbe essere impiegata solo rispetto a prestazioni, oltre che sinallagmatiche, ancora eseguibili e che lo Stato che la invocasse dovrebbe dare prova dell’intenzione e della capacità di adempiere il proprio obbligo. Tutto questo presenterebbe il vantaggio di limitare significativamente l’ambito di applicazione dell’eccezione, riducendo così, per altra via, le preoccupazioni ricordate. Come peraltro risulta dalla stessa controversia FYROM c. Grecia, possibilità di abusi rimangono nella misura in cui si invochi il carattere sinallagmatico di obblighi che tali non sono (per altri esempi, non recenti, in cui la nozione di obblighi reciprocamente condizionati è stata problematicamente applicata a rotture di armistizio, si veda il Second Report del relatore Crawford, cit., p. 82). In conclusione, si può convenire con i giudici Simma e Bennouna che l’ambiguità della Corte circa il ruolo dell’eccezione non contribuisce a chiarire un dibattito complesso, aggiungendo che tanto meno sembra chiuderlo. È probabile che la difesa verrà ancora evocata da Stati in difficoltà nel giustificare le proprie condotte sulla base di altre norme internazionali. È pertanto auspicabile uno sforzo di attenzione, soprattutto giurisprudenziale, che chiarisca questa zona ancora grigia del diritto internazionale, rimasta negli interstizi di due codificazioni. (Alessandra Gianelli) Protezione diplomatica e interesse legittimo dell’individuo. — Con sentenza del 19 ottobre 2011 n. 21581 (v. infra, p. 258 ss.), la Cassazione, a sezioni unite, accoglie il ricorso di una società privata, che svolgeva attività di collegamento marittimo fra l’Italia ed il Marocco in base ad un accordo internazionale concluso fra i due Paesi il 15 aprile 1982 (legge di esecuzione 24 luglio 1985 n. 433), ritenendo sussistente l’interesse legittimo di tale società a contestare in sede giurisdizionale la legittimità del contegno omissivo tenuto dal Governo italiano a seguito della mancata autorizzazione dell’amministrazione marocchina a continuare l’attività commerciale in oggetto. Per tale motivo, la Cassazione annulla la decisione del Consiglio di Stato (Rivista, 2010, p. 1280 ss.) impugnata dalla ricorrente e rinvia nuovamente gli atti al giudice amministrativo per un nuovo giudizio. La decisione della Cassazione, la quale dimostra di conoscere sia il progetto della Commissione del diritto internazionale sulla protezione diplomatica, sia la giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia in materia PANORAMA 157 (par. 4.2 della sentenza, che richiama la sentenza della Corte sulle eccezioni preliminari del 24 maggio 2007 resa nell’affare Ahmadou Sadio Diallo, Repubblica di Guinea c. Repubblica democratica del Congo), costituisce uno sviluppo di un certo rilievo in tema di protezione diplomatica, con particolare riferimento alla possibilità per l’individuo di contestare l’eventuale inerzia dello Stato nazionale a tutelare le situazioni giuridiche individuali lese all’estero. Fino a questo momento, infatti, sia la giurisprudenza amministrativa, sia quella della stessa Cassazione, deponevano in senso negativo circa la possibilità di sindacare l’operato del Governo in tema di protezione diplomatica (si veda in proposito la giurisprudenza richiamata nella decisione del Consiglio di Stato sopra riportata: par. 6 della sentenza), salva l’esistenza al riguardo di norme speciali. La rilevanza di questa decisione è tuttavia ridimensionata dall’affermazione, contenuta nella sentenza, secondo cui il caso di specie non rientrerebbe nell’ambito di applicazione dell’istituto della protezione diplomatica, bensì troverebbe unicamente la sua disciplina nella legge 3 marzo 1987 n. 69 (« Disposizioni per la difesa della Marina mercantile italiana »). Nonostante questa inopportuna precisazione, frutto di un’evidente confusione fra l’operatività a livello internazionale della protezione diplomatica e la previsione a livello nazionale di strumenti atti a verificare la legittimità dei contegni governativi assunti a fronte di una richiesta individuale di tutela, il nuovo orientamento della Cassazione merita alcune considerazioni. Un primo punto è costituito dal fondamento giuridico delle argomentazioni utilizzate dalla Cassazione, che è costituito esclusivamente dal diritto interno italiano, ed in particolare dalla già citata legge n. 1987/69. Essa prevede (articoli 2 e 3) l’istituzione di una commissione, composta prevalentemente da rappresentanti ministeriali, avente da un lato il compito di accertare eventuali lesioni agli interessi della marina mercantile italiana, dall’altro di proporre al Governo misure di tutela a favore delle persone fisiche e giuridiche vittime di tali lesioni. Per quanto poco efficace, il meccanismo di protezione appena descritto è stato talvolta attivato con successo, dando luogo all’adozione, da parte del Governo italiano, su proposta della commissione anzidetta, di misure restrittive nei confronti di navi di proprietà o noleggiate da società marocchine di navigazione a seguito di violazioni dell’accordo del 1982 ad opera del Marocco (sul punto si veda, ad esempio, Ministero dei trasporti e della navigazione, decreto 3 settembre 1999, adottato a seguito della violazione dei diritti di una società di navigazione genovese che effettuava un servizio marittimo di linea fra Italia e Marocco). In proposito, va peraltro precisato che la commissione istituita dalla legge 1987/69 non si pronuncia su richiesta dei privati e, in ogni caso, non è dotata di poteri vincolanti, limitandosi a raccomandare al Governo le misure da prendere a difesa degli interessi commerciali degli operatori marittimi. L’esecutivo può quindi ignorare del tutto quanto proposto dalla commissione e decidere di non intervenire, oppure assumere comportamenti diversi da quelli raccomandati dalla commissione. È, in sintesi, il Governo italiano che può discrezionalmente agire sulla base della legislazione italiana in questione in linea con quanto previsto dal diritto internazionale in tema di protezione diplomatica. Il richiamo della sola legislazione italiana quale fondamento della tutela di interessi individuali di soggetti vittime di lesioni all’estero conferma che è proprio sulla base del diritto interno che è possibile far emergere diritti o interessi individuali finalizzati ad attenuare la discrezionalità dello Stato 158 PANORAMA nazionale in materia di protezione diplomatica. Questo obiettivo può essere perseguito sia con la previsione, negli ordinamenti giuridici nazionali, di disposizioni normative di rango costituzionale che prevedano l’obbligo dello Stato di agire in protezione diplomatica (per un’ampia rassegna al riguardo si veda il primo rapporto sulla protezione diplomatica presentato dal relatore speciale Dugard alla Commissione del diritto internazionale, in particolare il commentario all’art. 4 del relativo progetto, che enuncia, a certe condizioni, un obbligo di intervento in protezione diplomatica per violazione di norme di jus cogens: paragrafi 75-93 del rapporto, doc. A/CN.4/506 del 7 marzo 2000. Per un’analisi di questa disposizione si veda PAPA, Protezione diplomatica, diritti umani e obblighi erga omnes, Rivista, 2008, p. 719 ss.), sia con l’inserimento di disposizioni di rango normativo inferiore, come avvenuto nel caso di specie attraverso norme di legislazione ordinaria. Ovviamente, le norme interne risultano di maggiore efficacia, in relazione alla finalità di proteggere in modo effettivo gli individui i cui diritti siano stati lesi, qualora vengano interpretate in senso conforme al regime normativo internazionale sui diritti umani, come dimostrato, ad esempio, dai casi Abbasi (Court of Appeal (Civil Division), 6 novembre 2002, Abbasi v. Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, Int. Legal Materials, 2003, p. 355 ss.) e Kaunda (Corte costituzionale del Sud Africa, 4 agosto 2004, ivi, 2004, p. 173 ss). Per ulteriori esempi si vedano PUSTORINO, Recenti sviluppi in tema di protezione diplomatica, Rivista, 2006, p. 86 ss.; BASSU, La rilevanza dell’interesse individuale nell’istituto della protezione diplomatica. Sviluppi recenti, Milano, 2008, p. 80 ss. Veniamo adesso allo specifico strumento giuridico utilizzato dalla Cassazione per consentire all’individuo di contestare l’inazione governativa nel caso in esame. È da notare che il ricorso all’interesse legittimo, al fine di tutelare la posizione di privati in relazione all’applicazione di norme internazionali che coinvolgono diritti o interessi individuali, era già stato prospettato in dottrina (SPERDUTI, L’individuo nel diritto internazionale, Milano, 1950, p. 97 ss.). Premesso che la teoria dell’interesse legittimo non appare « esportabile » in altri ordinamenti nazionali, trattandosi di un’affermazione frutto di tradizioni ed esperienze giuridiche maturate esclusivamente nel nostro Paese, ci sembra tuttavia che le conseguenze derivanti dall’applicazione di questa teoria nell’ordinamento italiano siano in sostanza analoghe a quelle ricavabili dalla giurisprudenza nazionale di altri Paesi che, negli ultimi anni, ha cercato di ridimensionare l’ampio margine di discrezionalità riconosciuto allo Stato in materia di protezione diplomatica. Si tratta, in particolare, dell’obbligo di motivazione del provvedimento di diniego circa l’intervento in protezione diplomatica, dei caratteri della ragionevolezza e della non arbitrarietà della decisione adottata, della proporzionalità delle misure concretamente adottate rispetto alla violazione individuale subita ecc. Interpretata alla luce degli orientamenti giurisprudenziali di altri Stati, la sentenza della Cassazione rivela per un verso le sue potenzialità di sviluppo nella stessa giurisprudenza italiana, una volta che (si spera) vengano superate le incertezze di qualificazione della fattispecie riscontrabili in questa decisione; per altro verso, essa può contribuire a consolidare una communis opinio nella giurisprudenza nazionale finalizzata ad affermare la convinzione che lo Stato nazionale non sia più totalmente libero di agire in tema di protezione diplomatica, bensì debba tenere in considerazione la natura e la gravità della violazione individuale nonché motivare in modo adeguato il contegno che PANORAMA 159 intende assumere a livello internazionale secondo i parametri della ragionevolezza e della proporzionalità. La sentenza in esame potrebbe ulteriormente leggersi come effetto dell’invito formulato agli Stati, in forma di pratica raccomandata, dalla Commissione del diritto internazionale di tenere in considerazione la possibilità di agire in protezione diplomatica, almeno con riguardo ai casi riguardanti lesioni significative subite da privati (art. 19 del già richiamato progetto di articoli sulla protezione diplomatica). Un’ultima considerazione merita di essere formulata. Si tratta del rispetto, nel caso di specie, della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. La sentenza della Cassazione non si pone il problema in esame, il che appare in qualche misura coerente con l’impostazione erronea da essa seguita circa l’estraneità della vicenda in questione rispetto all’istituto della protezione diplomatica. Il problema era stato invece sviluppato dal Consiglio di Stato nella sentenza annullata dalla Cassazione, il quale aveva aderito alla tesi della natura sostanziale della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, affermando che « finché tali rimedi esistono, e quindi lo Stato ha la possibilità di eliminare l’azione illecita o di fornire allo straniero leso una adeguata riparazione, le norme sul trattamento dello straniero non possono nemmeno ritenersi violate » (par. 7 della sentenza). Per le diverse ricostruzioni dottrinali in tema di natura della regola anzidetta, si veda PISILLO MAZZESCHI, Esaurimento dei ricorsi interni e diritti umani, Torino, 2004, p. 57 ss. A nostro avviso, per affrontare la questione in esame occorre partire dalla considerazione che, nell’accordo fra Italia e Marocco prima citato, è prevista una norma in materia di risoluzione delle controversie relative all’interpretazione ed all’applicazione dell’accordo (art. 19). Essa prevede a questo scopo l’istituzione di una « commissione mista permanente » e stabilisce che, qualora la controversia non possa risolversi attraverso le misure proposte da tale commissione, le parti contraenti « si riservano la possibilità di adire, di comune accordo, un arbitro, che abbia il gradimento di ambedue ». Potrebbe quindi ritenersi che i mezzi interstatali di risoluzione delle controversie previsti dall’accordo siano esclusivi, nel senso appunto di escludere altri strumenti interni o internazionali di risoluzione della controversia concreta. Tuttavia questa ricostruzione, oltre a non trovare adeguato fondamento nella norma pattizia appena analizzata, che non si occupa di protezione diplomatica, non convince in quanto priverebbe l’individuo leso dell’unica possibilità che si trova a sua diretta disposizione, e cioè l’esaurimento dei mezzi interni di ricorso previsti dai rispettivi ordinamenti giuridici. Ne consegue che, ferma restando la possibilità per il Governo italiano di attivare gli strumenti interstatali di risoluzione della controversia concreta previsti dall’art. 19 sopra analizzato, ogni intervento o misura inquadrabile nella protezione diplomatica dovrebbe essere preceduto dall’esaurimento dei ricorsi interni ad opera della società lesa nei suoi interessi commerciali. (Pietro Pustorino) In tema di litispendenza e connessione tra procedimenti penali internazionali e nazionali. — Trascorsi nove anni dall’entrata in vigore dello Statuto della Corte penale internazionale, l’Italia non ha ancora provveduto ad adottare le norme interne volte ad assicurarne l’attuazione nel proprio ordinamento. L’8 giugno 2011 è stata approvata dalla Camera dei deputati, in 160 PANORAMA prima lettura, una proposta di legge diretta a questo scopo (2 luglio 2008, Camera dei deputati, n. 1439), attualmente all’esame del Senato come disegno di legge n. 2769: a differenza di altre proposte di legge esaminate dalla Camera (il riferimento è, in particolare, alla proposta della deputato Bernardini n. 2445), il disegno n. 2769, oltre ad essere composto da un numero esiguo di articoli (ventitré, a fronte dei centodiciotto della proposta n. 2445) non disciplina il rapporto fra il procedimento internazionale e i procedimenti penali interni che si trovino in una relazione di litispendenza o connessione con il primo. Con una formula ereditata dalle leggi di attuazione degli Statuti dei Tribunali penali internazionali ad hoc, la proposta n. 2445 prevede, all’art. 18, che, quando la Corte penale internazionale, « pronunciando su una questione di competenza o di ammissibilità, afferm[i] la propria competenza o l’ammissibilità dell’affare », il giudice interno debba « dichiara[re] con sentenza che non può ulteriormente procedersi per l’esistenza della competenza della Corte stessa ». Il testo approvato da ultimo, per contro, si concentra quasi esclusivamente sulla disciplina relativa alla cooperazione giudiziaria con la Corte dell’Aja e all’esecuzione delle sentenze da essa emanate. Nel nuovo disegno manca inoltre qualsiasi previsione in tema di rapporti tra giudicati: l’art. 20 della proposta precedente, al contrario, stabiliva il divieto di un nuovo giudizio, una volta intervenuta la sentenza internazionale, imponendo al giudice di emettere una sentenza di non luogo a procedere. Nell’ambito della incompleta normativa prefigurata dal disegno di legge n. 2769, rimangono aperte diverse questioni, per la cui soluzione non risultano sufficienti né il richiamo delle norme comuni dello Statuto, né l’applicazione delle disposizioni processuali dell’ordinamento italiano esistenti. Ciò vale, in particolare, per la mancanza di una disciplina relativa alla contemporanea pendenza di procedimenti identici o connessi, e ai rapporti fra processo internazionale e processo civile nazionale volto ad ottenere il risarcimento dei danni alla vittime. In relazione ai due Tribunali penali internazionali ad hoc, tali situazioni non risultano essere problematiche: in armonia col primato della giurisdizione di questi Tribunali rispetto alle giurisdizioni nazionali, è previsto il dovere, per gli Stati a cui ne venga fatta richiesta, di rinunciare al proprio potere giurisdizionale sul caso a favore del foro internazionale. Ciò emerge non solo dalla rule 9 delle Rules of Procedure and Evidence del Tribunale per l’ex Jugoslavia, in cui viene attribuito alla Camera preliminare il potere di chiedere allo Stato il deferimento della competenza sul caso secondo i criteri ivi indicati (in particolare qualora « what is in issue is closely related to, or otherwise involves, significant factual or legal questions which may have implications for investigations or prosecutions before the Tribunal »), ma anche nella giurisprudenza. Ad esempio, nella Decision on the defence motion on the principle of non-bis in idem del 14 novembre 1995, relativa al caso Tadić (pubblicata sul sito www.icty.org/sections/LegalLibrary), la Camera di primo grado del Tribunale, facendo proprie le parole della legge tedesca di attuazione dello Statuto in merito alle situazioni di litispendenza, ha affermato che « [c]riminal proceedings may no longer be conducted against a person against whom the Tribunal has taken or is taking action for a crime within its jurisdiction if a request has been submitted » (par. 14). L’ordinamento italiano ha accolto tale principio nell’art. 3 della legge n. 120 del 14 febbraio 1994 (« Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 1993, n. 544, recante PANORAMA 161 disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia ») il quale prevede che, in caso di richiesta di deferimento da parte del Tribunale, il giudice debba dichiarare con sentenza di non potersi ulteriormente procedere. L’estinzione del procedimento non ne impedisce tuttavia la riapertura, disciplinata nell’art. 4 della medesima legge, per il caso di mancata formulazione o conferma dell’accusa e di dichiarazione di incompetenza del Tribunale. Solamente in presenza di una sentenza definitiva, qualora venga iniziato o proseguito un procedimento penale in violazione del principio ne bis in idem verrà emessa una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere (art. 6). Le medesime questioni non sono disciplinate dal disegno n. 2769. Per risolvere tale lacuna occorre innanzitutto considerare il principio di complementarietà che, in base all’art. 17 dello Statuto della Corte penale internazionale, detta le regole di coordinamento fra giurisdizione penale internazionale e giurisdizione penale nazionale. Secondo il Procuratore tale principio riflette l’idea per cui « the effectiveness of the International Criminal Court should not be measured only by the number of cases that reach the Court. On the contrary, the absence of trials by the ICC, as a consequence of the effective functioning of national systems, would be a major success » (Office of the Prosecutor, Paper on some policy issues before the Office of the Prosecutor, www.icc-cpi.org, settembre 2003, p. 3). La complementarietà ha infatti come scopo quello di incoraggiare gli Stati interessati ad indagare e perseguire i c.d. « international core crimes » (« proactive complementarity »), tanto che i procedimenti internazionali dovrebbero costituire una sorta di extrema ratio. Questo concetto è espresso sia nella lettera dello Statuto sia nella politica adottata dal Procuratore nel corso di questi primi anni di vita della Corte, e comporta diverse conseguenze dal punto di vista del rapporto che si instaura con gli eventuali procedimenti interni che siano in rapporto di litispendenza o connessione con quello internazionale. Innanzitutto, il preambolo dello Statuto di Roma afferma che « it is the duty of every State to exercise its criminal jurisdiction over those responsible for international crimes ». Ciò significa che la Corte dovrebbe agire solo nei casi più gravi (art. 1) in cui lo Stato che ha giurisdizione sui relativi crimini non intenda o non sia in grado di perseguirne i responsabili. Analogo a ciò è quanto emerge dalle dichiarazioni del Procuratore (Paper on some policy issues before the Office of the Prosecutor, cit., p. 3): « [a]s a general rule, the policy of the Office of the Prosecutor will be to undertake investigations only where there is a clear case of failure to act by the State or States concerned ». Le regole della complementarietà, lette alla luce di quanto precede, risultano essere piuttosto rigide e comportano che l’azione da parte della Corte penale internazionale debba essere intrapresa solo quando non vi sia alcuna possibilità di un efficace processo penale nazionale, sia a causa della mancata volontà da parte dello Stato, sia per un’incapacità derivante da un « total or substantial collapse » del sistema giudiziario interno (art. 17, par. 3, dello Statuto della Corte). Per le ragioni che di seguito verranno esposte, si deve ritenere che, sulla base delle disposizioni dello Statuto di Roma, l’unico caso in cui lo Stato debba procedere ad una dichiarazione di estinzione del processo nazionale sia riconducibile alla disciplina del ne bis in idem prevista dall’art. 20, par. 2: in 162 PANORAMA base a tale disposizione, l’imputato non può essere giudicato da una diversa giurisdizione per un crimine di competenza della Corte, qualora quest’ultima abbia emesso una sentenza definitiva (e non anche una decisione di rito) di condanna o assoluzione. Secondo la concezione « dinamica » della complementarietà, gli Stati parti hanno accettato che la Corte eserciti la propria giurisdizione su una determinata fattispecie in presenza delle condizioni previste dallo Statuto, senza che ciò implichi una rinuncia definitiva all’esercizio della giurisdizione nazionale penale sul caso (OLÁSOLO, The Triggering Procedure of the International Criminal Court, Procedural Treatment of the Principle of Complementarity and the Role of the Prosecutor, Int. Criminal Law Review, 2005, p. 138). Alla luce di ciò, lo Statuto non contiene alcuna disposizione che imponga allo Stato, ovvero alle sue autorità giudiziarie, di estinguere o sospendere provvisoriamente il procedimento nazionale in corso, a favore di quello internazionale avente il medesimo oggetto e gli stessi imputati. Anzi, l’art. 18 dispone che sia il Procuratore a dover sospendere le indagini, qualora lo Stato che sta procedendo nei confronti del medesimo soggetto e per fatti rientranti nei crimini indicati nell’art. 5 dello Statuto ne faccia richiesta. Non è dunque la giurisdizione dello Stato ad essere cedevole nei confronti della Corte, ma casomai è quest’ultima a dover dare la precedenza ai procedimenti pendenti in sede statale. Ciò non equivale ad una primazia dell’ordinamento nazionale: qualora, infatti, la Camera preliminare ne dia l’autorizzazione, il Procuratore potrebbe disattendere la richiesta di sospensione e procedere. Vi sono infine nello Statuto disposizioni il cui presupposto applicativo è dato dalla possibilità che un procedimento nazionale si svolga parallelamente a quello internazionale: l’art. 18, par. 7, prevede la possibilità per lo Stato di impugnare la decisione sulla ricevibilità del caso, emessa dalla Camera preliminare ai sensi dell’art. 19, sulla base di fatti nuovi o di un rilevante mutamento di circostanze, in cui dovrebbe rientrare l’inizio di procedimenti penali indipendenti e corretti (cfr. NTANDA NSEREKO, Article 18, in Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court (a cura di Triffterer), Baden-Baden, 2008, p. 636). Analogamente, successivamente all’apertura del procedimento, la Corte può prendere in esame nuove eccezioni sulla ricevibilità, qualora ricorrano circostanze eccezionali fondate sull’art. 17, par. 1, lett. c). Tali eccezioni si devono basare sull’esistenza di una sentenza definitiva nazionale nei confronti del medesimo soggetto e vertente sulle stesse condotte all’esame della Corte, qualora non sussistano le circostanze che consentano una deroga al principio ne bis in idem, ai sensi dell’art. 20, par. 3. Per quanto riguarda il regolamento della litispendenza, quando a procedere sia la Corte penale internazionale, appare evidente il vuoto normativo che deriva dalla combinazione della lettera dello Statuto di Roma con la normativa interna attualmente in vigore e quella prevista nel disegno di legge n. 2769. Nell’ambito dell’ordinamento italiano, non appare possibile ricondurre i casi in questione a quelli relativi alla litispendenza esclusivamente « interna »: questi ultimi, infatti, sono disciplinati dall’art. 28 ss. cod. proc. pen., dedicati al conflitto di giurisdizione e competenza. Orbene, proprio alla luce del fatto che la giurisdizione italiana e quella della Corte dell’Aja sono complementari e dunque, come si deduce dell’analisi sulle disposizioni dello Statuto sopra richiamate, mai in conflitto, non appare possibile applicare tali disposizioni alla situazione in questione. Ciò significa, inoltre, che allorché il giudice PANORAMA 163 nazionale investito della causa venisse a conoscenza dell’esistenza del procedimento internazionale, non potrebbe sospendere il procedimento in corso di fronte a lui fino a che non intervenga una sentenza internazionale: il codice di procedura penale (art. 3) prevede cause di sospensione del processo penale che hanno carattere tassativo; esse di conseguenza non sono suscettibili di un’interpretazione estensiva nella situazione predetta. Ancora, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), non conoscendo eccezioni, non permetterebbe al pubblico ministero, una volta ricevuta la notitia criminis, di esimersi dalle attività di sua competenza a causa dell’esistenza di un procedimento internazionale. Ulteriori problematiche, che verranno qui di seguito esposte, sono strettamente connesse all’efficacia delle sentenze penali internazionali rispetto agli ordinamenti nazionali. Le peculiarità della questione, in particolare dal punto di vista processuale, derivano dal fatto che, alla luce della natura internazionale dell’organo emanante la sentenza, non è possibile applicare la disciplina prevista in materia di effetti delle sentenze penali straniere (articoli 730-741 cod. proc. pen.). La questione del possibile riconoscimento o meno dell’efficacia di giudicato della sentenza internazionale rispetto agli ordinamenti interni è controversa (al riguardo v. PALOMBINO, Gli effetti della sentenza internazionale nei giudizi interni, Napoli, 2008, specie pp. 1-21): il punto fondamentale su cui ruota la questione risiede nella circostanza per cui non appare, negli Statuti dei Tribunali penali internazionali, alcun obbligo di riconoscimento della sentenza da parte degli Stati, i quali sono solo tenuti a darne esecuzione qualora abbiano espresso la propria disponibilità in tal senso (LATTANZI, Recognition and Enforcement of Judgments and Sentences of the Court, in The International Criminal Court. Comments on the Draft Statute (a cura di Lattanzi), Napoli, 1998, p. 367). L’efficacia diretta sarebbe dunque limitata al solo dispositivo delle sentenze di condanna e solamente nei confronti degli Stati deputati all’esecuzione delle stesse. Questa teoria non tiene però conto della lettera dell’art. 105 dello Statuto, secondo cui « the sentence of imprisonment shall be binding on the States Parties, which shall in no case modify it ». Tale disposizione, che vincola tutti gli Stati parti e non solamente quelli scelti per l’esecuzione, è sì limitata alle sentenze di condanna, ma va coordinata con la previsione dell’art. 20 (MORI, Istituzionalizzazione della giurisdizione penale internazionale, Torino, 2001, p. 272), relativa al principio ne bis in idem, grazie alla quale è possibile sostenere che la sentenza internazionale abbia, rispetto all’ordinamento interno, efficacia di giudicato (CASTELLANETA, La cooperazione fra Stati e Tribunali penali internazionali, Bari, 2002, p. 372). A tal proposito tuttavia si osservi come attualmente il disegno di legge n. 2769 non indichi quali siano, dal punto di vista processuale, le conseguenze che derivano da tale efficacia: del tutto mancante è infatti una disposizione, che, similmente a quanto stabilito dall’art. 6 della legge di attuazione dello Statuto del Tribunale per l’ex-Jugoslavia, obblighi il giudice italiano a non procedere in violazione del principio ne bis in idem internazionale. Oltre ai casi di litispendenza, è possibile riscontrare situazioni di connessione, ovvero di simultanea presenza — dinanzi alla Corte penale internazionale ed al giudice nazionale — di procedimenti a carico del medesimo imputato per condotte diverse, tra loro legate per ragioni di carattere oggettivo. Il caso Lubanga Dyilo, che concerne un cittadino congolese, mostra due problemi derivanti dalla connessione, relativi all’interpretazione del concetto 164 PANORAMA di complementarietà e alle conseguenze derivanti dalla connessione di procedimenti. A seguito dell’apertura delle indagini, su deferimento da parte dello stesso Congo, è emerso che Lubanga Dyilo risulta sottoposto a procedimento penale da parte delle autorità congolesi per genocidio e crimini contro l’umanità. I capi di imputazione emessi dalla Corte dell’Aja, invece, riguardano i crimini di guerra, con riferimento, in particolare, all’arruolamento e all’uso nel corso di combattimenti di soggetti minori di quindici anni (tale crimine rientra nella giurisdizione della Corte ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. b), xxvi). La prassi di una divisione del lavoro tra la Corte e i tribunali nazionali si presta ad una critica rispetto all’interpretazione così data al principio di complementarietà, e in particolare ai concetti di « unwillingness » e « inability » delle autorità nazionali di agire in modo leale e corretto secondo i principi riconosciuti dal diritto internazionale. Dalla lettera dell’art. 17 dello Statuto, l’« unwillingness » e l’« inability » appaiono essere semplicemente delle circostanze che escludono l’operatività delle cause di inammissibilità di un caso. Tuttavia, la lettura del predetto articolo alla luce dei lavori preparatori e del preambolo smentisce questa interpretazione restrittiva dei due concetti, ed esclude l’esistenza di casi di c.d. « uncontested admissibility », in quanto contraria al principio per cui la Corte dovrebbe operare solo quando manchi la prospettiva di un corretto processo nei confronti dell’asserito criminale (Draft Statute of the International Criminal Court, Yearbook of the Int. Law Commission, 1994, vol. 2, II, p. 27). Senonché, le scelte adottate nel caso Lubanga Dyilo disattendono tale interpretazione del principio di complementarietà: lo Stato congolese, nonostante le dichiarazioni del Presidente Kabila contenute nella lettera di deferimento della situazione nazionale alla Corte, si dimostra non solo volenteroso a procedere contro i maggiori responsabili dei crimini internazionali rientranti nella giurisdizione della Corte, ma anche in grado di svolgere seriamente (« genuinely ») i relativi procedimenti secondo la lettera dell’art. 17 dello Statuto. I tribunali nazionali hanno infatti proceduto contro Lubanga Dyilo per i crimini ritenuti più gravi dal diritto internazionale e dallo stesso Statuto di Roma, ovvero il genocidio e i crimini contro l’umanità, mentre alla Corte è stata « lasciata » l’accusa di crimini di guerra. La scelta di procedere contemporaneamente per crimini internazionali differenti, oltre che essere di dubbia compatibilità con il principio di complementarietà, comporta dei problemi di coordinamento delle procedure e di valutazione delle prove, con la possibilità di esiti tra loro incompatibili. Come accade per la litispendenza, la mancanza di una disciplina statutaria riconduce il problema al rapporto intercorrente fra la Corte dell’Aja e gli ordinamenti nazionali. Questo rischio di procedimenti penali paralleli sul piano internazionale e nazionale è maggiormente plausibile in relazione alla Corte penale internazionale di quanto non lo sia per i Tribunali penali internazionale ad hoc. Infatti, la rule 9, sulle procedure relative al Tribunale per la ex-Yugoslavia, prevede che il Procuratore possa chiedere il deferimento del caso da parte dei tribunali nazionali anche qualora questo verta su fatti che risultino collegati alle indagini o ai procedimenti internazionali in corso. La soluzione statutaria non pare inficiata dall’introduzione, nel 1997, della rule 11-bis, che prevede la possibilità che il Tribunale deferisca il caso ai tribunali nazionali che garantiscano lo svolgimento di un giusto processo. L’ambito generale in cui viene effettuato tale rinvio rimane, infatti, sempre quello di un Tribunale penale PANORAMA 165 internazionale avente una giurisdizione prevalente rispetto a quella nazionale, e quindi sarà sempre possibile che il Procuratore, agendo ai sensi della rule 9, avochi a sé il caso che risulti connesso con un procedimento internazionale in corso. In assenza di regole in argomento nello Statuto della Corte penale internazionale, il coordinamento tra cause connesse a livello internazionale e nazionale è disciplinato secondo le disposizioni del diritto nazionale. Ma anche in questo caso il disegno di legge n. 2769 manca di disposizioni espresse. Non risulta peraltro possibile applicare l’art. 3 cod. proc. pen. concernente la sospensione, in quanto, come si è visto, si tratta di indicazioni che il legislatore ha previsto in modo tassativo. Pertanto, alla luce del diritto processuale penale vigente nell’ordinamento italiano non può essere sospeso il procedimento connesso con quello in corso di fronte alla Corte. Si può solo valutare l’eventualità che il giudice nazionale tenga conto, nel corso del procedimento, della sentenza penale internazionale già emessa. Viene qui in rilievo innanzitutto l’art. 238-bis cod. proc. pen., secondo il quale « le sentenze irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli articoli 187 e 192, 3º comma ». Il richiamo a tali due disposizioni ha delle implicazioni evidenti: non solo infatti le sentenze sono oggetto della libera valutazione da parte del giudice, ma il loro contenuto deve essere valutato unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità. Inoltre, proprio il fatto che si parli di una facoltà comporta che non vi sia alcuna acquisizione automatica della sentenza nel processo. Il principio della libera valutazione delle prove legittimamente acquisite non appare dunque superabile neppure dalle sentenze internazionali, poiché viene sempre fatto salvo il diritto dell’imputato a far valere una prova contraria. Rimane tuttavia aperta la possibilità che siano introdotte delle disposizioni ad hoc che creino un vincolo nel processo di valutazione delle prove: una parte importante della dottrina ritiene infatti che le prove legali non siano contrarie alla Costituzione e che quindi sia da ritenere legittima l’introduzione di siffatta disposizione normativa (NOBILI, Storie d’una illustre formula: il « libero convincimento » negli ultimi trent’anni, Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 79). Una tale soluzione è stata adottata dalla legge austriaca del 1º giugno 1996 di attuazione dello Statuto del Tribunale per l’ex-Jugoslavia, nel prevedere che le sentenze internazionali definitive costituiscano piena prova di quanto in esse accertato. Si deve infine prendere in considerazione la questione relativa al rapporto fra il processo penale internazionale e l’eventuale procedimento civile interno volto al soddisfacimento del diritto delle vittime (o dei loro aventi diritto) al risarcimento del danno subìto come conseguenza delle stesse fattispecie criminose imputabili al soggetto sottoposto al giudizio internazionale. Nell’ambito dei due Tribunali penali internazionali ad hoc, la rule 106 (la disposizione porta la stessa numerazione per entrambi) non dà una disciplina completa sul punto: essa afferma, al par. c), che « For the purposes of a claim [...] the judgement of the Tribunal shall be final and binding as to the criminal responsibility of the convicted person for such injury ». L’utilizzo di tale formula, seppur vincoli al rispetto del giudicato anche in caso di assoluzione dell’imputato, lascia impregiudicati i casi in cui il giudizio civile sia giunto a termine prima della conclusione del giudizio penale internazionale e dunque resta aperta la possibilità di un conflitto di giudicati. Si noti come il problema 166 PANORAMA non sia solo teorico: si considerino, ad esempio, i procedimenti per il risarcimento alle vittime o agli aventi diritto svoltisi negli Stati Uniti durante la latitanza di Karadzić, i quali si sono conclusi prima dell’accertamento della responsabilità di quest’ultimo (VAN SHAAK, In Defense of Civil Redress: The Domestic Enforcement of Human Rights Norms in the Context of the Proposed Hague Judgments Convention, Harvard Int. Law Journal, 2001, p. 141 ss.). Lo Statuto di Roma, a differenza di quelli relativi ai Tribunali penali internazionali ad hoc, contiene delle disposizioni disciplinanti il procedimento per la riparazione a favore delle vittime. Quest’ultimo si incardina nel procedimento penale su iniziativa delle parti e solo eccezionalmente (art. 75 dello Statuto) su iniziativa d’ufficio. Qualora si instauri tale procedimento, la rule 219 crea un vincolo per gli ordinamenti nazionali, che non hanno la possibilità di modificare la riparazione. Tuttavia, proprio il fatto che un tale procedimento possa non essere instaurato crea alcune situazioni problematiche: gli aventi diritto, come è avvenuto in passato rispetto ai crimini di competenza del Tribunale per l’ex Jugoslavia, potrebbero promuovere un procedimento civile prima dell’inizio di quello penale internazionale, oppure potrebbero, anche dopo l’attivazione della Corte, procedere per la tutela dei propri diritti nella sede civile, specie al fine di ottenere una decisione in tempi più rapidi. Nell’ambito dell’ordinamento italiano, nel rapporto fra procedimenti civili e penali si prevede la possibilità di uno svolgimento reciprocamente indipendente e autonomo. Non si ritiene infatti che l’art. 295 cod. proc. civ., nel prevedere la sospensione necessaria del processo civile qualora sussista una situazione di pregiudizialità, sia ispirato ad un principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale su quello civile: di conseguenza, il giudice civile deve poter procedere all’accertamento dei fatti in modo autonomo (TRISORIO LIUZZI, Riforma del processo penale e sospensione del processo civile, Riv. dir. proc., 1990, p. 533). Tuttavia, ai sensi dell’art. 651 cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia anche nel giudizio civile in corso per quanto riguarda l’accertamento dell’illiceità penale del fatto e della responsabilità dell’imputato. Poiché, come si è già osservato, alla sentenza penale internazionale deve essere riconosciuto il valore di giudicato rispetto agli ordinamenti nazionali, si può affermare che, qualora la Corte giungesse ad una sentenza definitiva prima del termine del processo civile interno, quanto statuito sarebbe vincolante in riferimento alll’esistenza del fatto e alll’accertamento della responsabilità, con conseguente dovere di conformarsi al contenuto da parte del giudice civile nazionale. (Elisabetta Bonomo) GIURISPRUDENZA GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE Giurisdizione della Corte e ricevibilità della domanda - Accordo provvisorio tra ex Repubblica iugoslava di Macedonia e Grecia del 13 settembre 1995, art. 21, par. 2 - Oggetto della controversia - Diritti ed obblighi di soggetti non parti della controversia - Idoneità della sentenza a produrre effetti concreti - Negoziati in corso tra le parti - Accordo provvisorio, articoli 5, 7, 11 e 22 - Interpretazione Convenzione di Vienna del 27 maggio 1969 sul diritto dei trattati, articoli 31 e 32 - Pretese violazioni dell’Accordo da parte dello Stato attore - Cause di giustificazione dell’illecito dello Stato convenuto - Nesso con le pretese violazioni dello Stato attore - Responsabilità internazionale - Riparazione. L’art. 21, par. 2, dell’Accordo provvisorio del 13 settembre 1995 tra ex Repubblica iugoslava di Macedonia e Grecia, se interpretato alla luce del significato ordinario del testo nonché dello scopo dell’Accordo, attribuisce competenza alla Corte con la sola eccezione della controversia tra le parti concernente il nome definitivo dello Stato attore. Non sono escluse dalla competenza le controversie relative all’obbligo, imposto allo Stato convenuto dall’art. 11, par. 1, dell’Accordo, di non fare obiezione all’ammissione dello Stato attore in organizzazioni internazionali. Poiché il ricorso ha ad oggetto la posizione tenuta dallo Stato convenuto in relazione alla domanda di ammissione alla NATO presentata dallo Stato attore, e non la decisione presa dalla NATO nel rinviare la decisione su tale domanda, non risulta fondata l’obiezione fondata sul principio sviluppato nella sentenza sull’Oro monetario: i diritti e gli obblighi della NATO e dei suoi Stati membri non costituiscono l’oggetto della controversia né l’accertamento della loro responsabilità costituisce una condizione necessaria per la determinazione della responsabilità dello Stato convenuto. Come la Corte ha rilevato nella sentenza resa nel caso del Camerun settentrionale, costituisce un elemento essenziale per il corretto esercizio della funzione giurisdizionale della Corte il fatto che le sue sentenze « debbano avere conseguenze pratiche, nel senso che esse possano incidere su diritti ed obblighi giuridici esistenti per le parti, rimuovendo così l’incertezza dai loro rapporti giuridici ». Tuttavia, la Corte ha precisato altresì che essa « può, in circostanze idonee, rendere una sentenza 168 GIURISPRUDENZA dichiarativa ». Come affermato dalla Corte permanente di giustizia internazionale nella sentenza nel caso della Fabbrica di Chorzów, lo scopo delle sentenze dichiarative è quello « di far riconoscere una situazione di diritto una volta per tutte e con forza vincolante per le parti, in modo che la posizione giuridica così accertata non possa successivamente essere messa in discussione in relazione agli effetti giuridici che ne discendono ». Nel caso di specie, la domanda è ricevibile poiché le pretese dello Stato attore concernono la condotta dello Stato convenuto e non la condotta della NATO o dei suoi Stati membri ed è irrilevante che la sentenza della Corte non avrebbe l’effetto di rovesciare la decisione della NATO o di cambiare le condizioni per l’ammissione a tale organizzazione. Come la Corte ha già avuto modo di osservare, il fatto che durante un procedimento pendente davanti alla Corte le parti siano contemporaneamente impegnate in un negoziato diretto non costituisce un ostacolo giuridico all’esercizio da parte della Corte delle sue funzioni giurisdizionali. Non può essere accolta la tesi secondo la quale regole speciali di interpretazione si applicherebbero a trattati che limitano un diritto di cui una parte sarebbe altrimenti titolare. Spetta alla parte che allega certi fatti provare l’esistenza di tali fatti. Nel caso di specie, la corrispondenza diplomatica ufficiale e le dichiarazioni rese da dirigenti dello Stato convenuto indicano chiaramente che per tale Stato, prima, durante e dopo il summit di Bucarest della NATO, la soluzione della controversia sul nome costituiva la condizione decisiva per poter accettare l’ammissione dello Stato attore alla NATO. La seconda clausola contenuta nell’art. 11, par. 1, dell’Accordo provvisorio deve essere interpretata in conformità degli articoli 31 e 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati di cui i due Stati sono parti. Il testo, considerato nel suo contesto — rappresentato, nel caso di specie, dalle altre disposizioni dell’Accordo e da un trattato concluso contestualmente alla conclusione dell’Accordo — e alla luce dell’oggetto e dello scopo dell’Accordo, non può essere interpretato nel senso di consentire allo Stato convenuto di obiettare all’ingresso dello Stato attore in organizzazioni internazionali allorquando vi sia la possibilità che all’interno dell’organizzazione lo Stato attore si riferisca a sé stesso usando il nome, indicato nella propria costituzione, di Repubblica di Macedonia. Anche la prassi successiva delle parti relativa all’applicazione della disposizione in questione corrobora questa interpretazione. Alla luce di questi elementi non è necessario procedere all’esame delle prove relative ai lavori preparatori dell’Accordo. GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 169 L’art. 22 dell’Accordo del 1995, nel prevedere che l’Accordo non incide su diritti e obblighi derivanti da accordi bilaterali e multilaterali conclusi in precedenza dalle parti con altri Stati o organizzazioni internazionali, non può essere interpretato nel senso che i diritti spettanti allo Stato convenuto in base ad un precedente accordo prevalgano sull’obbligo per lo stesso Stato, previsto dall’art. 11, par. 1, dell’Accordo, di non obiettare all’ammissione dello Stato attore in una organizzazione internazionale. Siffatta interpretazione è inaccettabile in quanto priverebbe di significato l’obbligo in questione. Sebbene l’art. 5, par. 1, dell’Accordo, nel prevedere che le parti continuino a negoziare, non stabilisca espressamente che le parti negozino in buona fede, un tale obbligo è implicito nella disposizione. Come è stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte e, prima ancora, della Corte permanente di giustizia internazionale, l’obbligo di negoziare comporta non solo l’obbligo di avviare negoziati ma anche, per quanto possibile, di portarli avanti con l’obiettivo di concludere un accordo. Ciò non implica un obbligo di concludere un accordo né la necessità di condurre lunghi negoziati. Tuttavia gli Stati debbono comportarsi in modo che i negoziati abbiano un senso. Una tale condizione non è soddisfatta se, per esempio, ciascuna parte insista nella propria posizione senza contemplare la possibilità di modificarla, o se essa ostacoli i negoziati interrompendo le comunicazioni o causando ritardi ingiustificati o non tenendo conto delle procedure convenute. Ciascuna parte dovrebbe tenere ragionevolmente conto degli interessi dell’altra parte. Quanto alla prova della mala fede di una parte — condizione, questa, che giustificherebbe la pretesa dell’altra parte a ritenersi esentata dall’obbligo di negoziare — il semplice fallimento dei negoziati non costituisce un elemento sufficiente. Tale prova potrebbe essere fornita tramite elementi indiretti, ma dovrebbe essere corroborata non da deduzioni contestabili ma da prove chiare e convincenti che impongono una tale conclusione. La violazione dell’obbligo di non usare in alcun modo e in alcuna forma il simbolo che figura nella bandiera nazionale, previsto dall’art. 7, par. 2, dell’Accordo, non costituisce una violazione sostanziale ai sensi dell’art. 60 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. Né lo Stato convenuto può giustificare la sua condotta illecita sostenendo di aver agito a titolo di exceptio non adimpleti contractus oppure di contromisura, dal momento che non è stato dimostrato che l’obiezione all’ammissione dello Stato attore alla NATO fosse fatta in risposta ad una violazione dell’art. 7, par. 2, dell’Accordo commessa da tale Stato o, rispettivamente, avesse lo scopo di far cessare tale violazione. 170 GIURISPRUDENZA Poiché, come regola generale, non c’è motivo per supporre che uno Stato la cui condotta è stata dichiarata illecita dalla Corte ripeterà tale condotta in futuro, dovendosi presumere la sua buona fede, non è necessario che la Corte ordini allo Stato responsabile di un fatto illecito di astenersi in futuro da ogni comportamento contrario all’obbligo violato. Nel caso di specie, l’accertamento da parte della Corte dell’illecito commesso dallo Stato convenuto costituisce una idonea forma di soddisfazione. CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA, 5 dicembre 2011 - Pres. OWADA; vice-pres. TOMKA; giudici KOROMA, SIMMA, ABRAHAM, KEITH, SEPÚLVEDA-AMOR, BENNOUNA, SKOTNIKOV, CANÇADO TRINDADE, YUSUF, GREENWOOD, XUE, DONOGHUE; giudici ad hoc ROUCONAS, VUKAS Sentenza nell’affare dell’applicazione dell’Accordo provvisorio del 13 settembre 1995 (ex Repubblica iugoslava di Macedonia c. Grecia) (1). 1. On 17 November 2008, the former Yugoslav Republic of Macedonia (hereinafter the “Applicant”) filed in the Registry of the Court an Application instituting proceedings against the Hellenic Republic (hereinafter the “Respondent”) in respect of a dispute concerning the interpretation and implementation of the Interim Accord signed by the Parties on 13 September 1995, which entered into force on 13 October 1995 (hereinafter the “Interim Accord”). In particular, the Applicant sought “to establish the violation by the Respondent of its legal obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord and to ensure that the Respondent abides by its obligations under Article 11 of the Interim Accord in relation to invitations or applications that might be made to or by the Applicant for membership of NATO or any other international, multilateral or regional organization or institution of which the Respondent is a member”. 2. In its Application, the Applicant, referring to Article 36, paragraph 1, of the Statute, relied on Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord to found the jurisdiction of the Court. 3. Pursuant to Article 40, paragraph 2, of the Statute, the Application was communicated forthwith to the Government of the Respondent by the Registrar; and, in accordance with paragraph 3 of that Article, all States entitled to appear before the Court were notified of the Application. (1) La sentenza è accompagnata dalle dichiarazioni del giudice Bennouna e del giudice ad hoc Vukas, dalla opinione individuale del giudice Simma e dalle opinioni dissidenti del giudice Xue e del giudice ad hoc Roucounas. Si veda in argomento supra, p. 151 ss., lo scritto di GIANELLI. GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 171 4. Since the Court included upon the Bench no judge of the nationality of either of the Parties, each Party proceeded to exercise its right conferred by Article 31, paragraph 3, of the Statute to choose a judge ad hoc to sit in the case. The Applicant chose Mr. Budislav Vukas and the Respondent Mr. Emmanuel Roucounas. 5. By an Order dated 20 January 2009, the Court fixed 20 July 2009 and 20 January 2010, respectively, as the time-limits for the filing of the Memorial of the Applicant and the Counter-Memorial of the Respondent. The Memorial of the Applicant was duly filed within the time-limit so prescribed. 6. By a letter dated 5 August 2009, the Respondent stated that, in its view, “the Court manifestly lacks jurisdiction to rule on the claims of the Applicant in this case”, but informed the Court that, rather than raising preliminary objections under Article 79 of the Rules of the Court, it would be addressing “issues of jurisdiction together with those on the merits”. The Registrar immediately communicated a copy of that letter to the Applicant. The Counter-Memorial of the Respondent, which addressed issues relating to jurisdiction and admissibility as well as to the merits of the case, was duly filed within the time-limit prescribed by the Court in its Order of 20 January 2009. 7. At a meeting held by the President of the Court with the representatives of the Parties on 9 March 2010, the Co-Agent of the Applicant indicated that his Government wished to be able to respond to the Counter-Memorial of the Respondent, including the objections to jurisdiction and admissibility contained in it by means of a Reply. At the same meeting, the Agent of the Respondent stated that her Government had no objection to the granting of this request, in so far as the Respondent could in turn submit a Rejoinder. 8. By an Order of 12 March 2010, the Court authorized the submission of a Reply by the Applicant and a Rejoinder by the Respondent, and fixed 9 June 2010 and 27 October 2010 as the respective time-limits for the filing of those pleadings. The Reply and the Rejoinder were duly filed within the time-limits so prescribed. 9. In accordance with Article 53, paragraph 2, of the Rules of Court, the Court, after ascertaining the views of the Parties, decided that copies of the pleadings and documents annexed would be made accessible to the public on the opening of the oral proceedings. 10. Public hearings were held between 21 and 30 March 2011, at which the Court heard the oral arguments and replies of: For the Applicant: Mr. Antonio Miloshoski, Mr. Philippe Sands, Mr. Sean Murphy, Mr. Pierre Klein, Ms Geneviève Bastid-Burdeau, Mr. Nikola Dimitrov. For the Respondent: Ms Maria Telalian, Mr. Georges Savvaides, Mr. Georges Abi-Saab, Mr. Michael Reisman, Mr. Alain Pellet, Mr. James Crawford. 11. At the hearings, a Member of the Court put a question to the Respondent, to which a reply was given in writing, within the time-limit fixed by the President in accordance with Article 61, paragraph 4, of the Rules of Court. Pursuant to Article 72 172 GIURISPRUDENZA of the Rules of Court, the Applicant submitted comments on the written reply provided by the Respondent. 12. In the Application, the following requests were made by the Applicant: “The Applicant requests the Court: (i) to adjudge and declare that the Respondent, through its State organs and agents, has violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord; (ii) to order that the Respondent immediately take all necessary steps to comply with its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, and to cease and desist from objecting in any way, whether directly or indirectly, to the Applicant’s membership of the North Atlantic Treaty Organization and/or of any other ‘international, multilateral and regional organizations and institutions’ of which the Respondent is a member, in circumstances where the Applicant is to be referred to in such organizations or institutions by the designation provided for in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993).” 13. In the written proceedings, the following submissions were presented by the Parties: On behalf of the Government of the Applicant, in the Memorial: “On the basis of the evidence and legal arguments presented in this Memorial, the Applicant Requests the Court: (i) to adjudge and declare that the Respondent, through its State organs and agents, has violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord; and (ii) to order that the Respondent immediately take all necessary steps to comply with its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, and to cease and desist from objecting in any way, whether directly or indirectly, to the Applicant’s membership of the North Atlantic Treaty Organization and/or of any other ‘international, multilateral and regional organizations and institutions’ of which the Respondent is a member, in circumstances where the Applicant is to be referred to in such organization or institution by the designation provided for in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993).” in the Reply: “On the basis of the evidence and legal arguments presented in this Reply, the Applicant Requests the Court: (i) to reject the Respondent’s objections as to the jurisdiction of the Court and the admissibility of the Applicant’s claims; GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 173 (ii) to adjudge and declare that the Respondent, through its State organs and agents, has violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord; and (iii) to order that the Respondent immediately take all necessary steps to comply with its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, and to cease and desist from objecting in any way, whether directly or indirectly, to the Applicant’s membership of the North Atlantic Treaty Organization and/or of any other ‘international, multilateral and regional organizations and institutions’ of which the Respondent is a member, in circumstances where the Applicant is to be referred to in such organization or institution by the designation provided for in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993).” On behalf of the Government of the Respondent, in the Counter-Memorial and in the Rejoinder: “On the basis of the preceding evidence and legal arguments, the Respondent, the Hellenic Republic, requests the Court to adjudge and declare: (i) that the case brought by the FYROM (1) before the Court does not fall within the jurisdiction of the Court and that the FYROM’s claims are inadmissible; (ii) in the event that the Court finds that it has jurisdiction and that the claims are admissible, that the FYROM’s claims are unfounded.” 14. At the oral proceedings, the following submissions were presented by the Parties: On behalf of the Government of the Applicant, at the hearing of 28 March 2011: “On the basis of the evidence and legal arguments presented in its written and oral pleadings, the Applicant requests the Court: (i) to reject the Respondent’s objections as to the jurisdiction of the Court and the admissibility of the Applicant’s claims; (ii) to adjudge and declare that the Respondent, through its State organs and agents, has violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord; and (iii) to order that the Respondent immediately take all necessary steps to comply with its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, and to cease and desist from objecting in any way, whether directly or indirectly, to the Applicant’s membership of the North Atlantic Treaty Organization and/or of any other ‘international, multilateral and regional organizations and institutions’ of which the Respondent is a member, in circumstances where the Applicant is to be referred to in such organization or institution by the designation provided for in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993).” (1) The acronym “FYROM” is used by Respondent to refer to the Applicant. 174 GIURISPRUDENZA On behalf of the Government of the Respondent, at the hearing of 30 March 2011: “On the basis of the preceding evidence and legal arguments presented in its written and oral pleadings, the Respondent, the Hellenic Republic, requests the Court to adjudge and declare: (i) that the case brought by the Applicant before the Court does not fall within the jurisdiction of the Court and that the Applicant’s claims are inadmissible; (ii) in the event that the Court finds that it has jurisdiction and that the claims are admissible, that the Applicant’s claims are unfounded.” I. INTRODUCTION 15. Before 1991, the Socialist Federal Republic of Yugoslavia comprised six constituent republics, including the “Socialist Republic of Macedonia”. In the course of the break-up of Yugoslavia, the Assembly of the Socialist Republic of Macedonia adopted (on 25 January 1991) the “Declaration on the Sovereignty of the Socialist Republic of Macedonia”, which asserted sovereignty and the right of self-determination. On 7 June 1991, the Assembly of the Socialist Republic of Macedonia enacted a constitutional amendment, changing the name “Socialist Republic of Macedonia” to the “Republic of Macedonia”. The Assembly then adopted a declaration asserting the sovereignty and independence of the new State and sought international recognition. 16. On 30 July 1992, the Applicant submitted an application for membership in the United Nations. The Respondent stated on 25 January 1993 that it objected to the Applicant’s admission on the basis of the Applicant’s adoption of the name “Republic of Macedonia”, among other factors. The Respondent explained that its opposition was based inter alia on its view that the term “Macedonia” referred to a geographical region in south-east Europe that included an important part of the territory and population of the Respondent and of certain third States. The Respondent further indicated that once a settlement had been reached on these issues, it would no longer oppose the Applicant’s admission to the United Nations. The Respondent had also expressed opposition on similar grounds to the Applicant’s recognition by the member States of the European Community. 17. On 7 April 1993, in accordance with Article 4, paragraph 2, of the Charter, the Security Council adopted resolution 817 (1993), concerning the “application for admission to the United Nations” of the Applicant. In that resolution, noting that “a difference has arisen over the name of the [Applicant], which needs to be resolved in the interest of the maintenance of peaceful and good-neighbourly relations in the region”, the Security Council: “1. Urge[d] the parties to continue to cooperate with the Co-Chairmen of the Steering Committee of the International Conference on the Former Yugoslavia in order to arrive at a speedy settlement of their difference; 2. Recommend[ed] to the General Assembly that the State whose application is contained in document S/25147 be admitted to membership in the United Nations, this State being provisionally referred to for all purposes within the United Nations as ‘the former Yugoslav Republic of Macedonia’ GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 175 pending settlement of the difference that has arisen over the name of the State; 3. Request[ed] the Secretary-General to report to the Council on the outcome of the initiative taken by the Co-Chairmen of the Steering Committee of the International Conference on the Former Yugoslavia.” 18. On 8 April 1993, the Applicant was admitted to the United Nations, following the adoption by the General Assembly, on the recommendation of the Security Council, of resolution A/RES/47/225. On 18 June 1993, in light of the continuing absence of a settlement of the difference over the name, the Security Council adopted resolution 845 (1993) urging the Parties “to continue their efforts under the auspices of the Secretary-General to arrive at a speedy settlement of the remaining issues between them”. While the Parties have engaged in negotiations to that end, these negotiations have not yet led to a mutually acceptable solution to the name issue. 19. Following its admission to the United Nations, the Applicant became a member of various specialized agencies of the United Nations system. However, its efforts to join several other non-United Nations affiliated international institutions and organizations, of which the Respondent was already a member, were not successful. On 16 February 1994, the Respondent instituted trade-related restrictions against the Applicant. 20. Against this backdrop, on 13 September 1995, the Parties signed the Interim Accord, providing for the establishment of diplomatic relations between them and addressing other related issues. The Interim Accord refers to the Applicant as “Party of the Second Part” and to the Respondent as “Party of the First Part”, so as to avoid using any contentious name. Under its Article 5, the Parties “agree[d] to continue negotiations under the auspices of the SecretaryGeneral of the United Nations pursuant to Security Council resolution 845 (1993) with a view to reaching agreement on the difference described in that resolution and in Security Council resolution 817 (1993)”. 21. In the Interim Accord, the Parties also addressed the admission of, and membership by, the Applicant in international organizations and institutions of which the Respondent was a member. In this regard, Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord provides: “Upon entry into force of this Interim Accord, the Party of the First Part agrees not to object to the application by or the membership of the Party of the Second Part in international, multilateral and regional organizations and institutions of which the Party of the First Part is a member; however, the Party of the First Part reserves the right to object to any membership referred to above if and to the extent (2) the Party of the Second Part is to be referred to in such organization or institution differently than (2) In the French version of the Interim Accord published in the United Nations Treaty Series the expression “if and to the extent” has been rendered by the sole conjunction “si”. For the purposes of this Judgement, the Court will however use, in the French text, the expression “si et dans la mesure où,” which is a more literal translation of the original English version. 176 GIURISPRUDENZA in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993).” (United Nations Treaty Series (UNTS), Vol. 1891, p. 7; original English) 22. In the period following the adoption of the Interim Accord, the Applicant was granted membership in a number of international organizations of which the Respondent was already a member. On the invitation of the North Atlantic Treaty Organization, the Applicant in 1995 joined the Organization’s Partnership for Peace (a programme that promotes co-operation between NATO and partner countries) and, in 1999, the Organization’s Membership Action Plan (which assists prospective NATO members). The Applicant’s NATO candidacy was considered in a meeting of NATO member States in Bucharest (hereinafter the “Bucharest Summit”) on 2 and 3 April 2008 but the Applicant was not invited to begin talks on accession to the Organization. The communiqué issued at the end of the Summit stated that an invitation would be extended to the Applicant “as soon as a mutually acceptable solution to the name issue has been reached”. II. JURISDICTION OF THE COURT AND ADMISSIBILITY OF THE APPLICATION 23. In the present case, the Applicant maintains that the Respondent failed to comply with Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. The Respondent disagrees with this contention both in terms of the facts and of the law, that is, in regard to the meaning, scope and effect of certain provisions of the Interim Accord. In the view of the Court, this is the dispute the Applicant brought before the Court, and thus the dispute in respect of which the Court’s jurisdiction falls to be determined. 24. The Applicant invokes as a basis for the Court’s jurisdiction Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord, which reads as follows: “Any difference or dispute that arises between the Parties concerning the interpretation or implementation of this Interim Accord may be submitted by either of them to the International Court of Justice, except for the difference referred to in Article 5, paragraph 1.” 25. As already noted (see paragraph 6 above), the Respondent advised the Court that, rather than raising objections under Article 79 of the Rules of Court, it would be addressing issues of jurisdiction and admissibility along with the merits of the present case. The Court addresses these issues at the outset of this Judgment. 26. The Respondent claims that the Court has no jurisdiction to entertain the present case and that the Application is inadmissible based on the following reasons. First, the Respondent submits that the dispute concerns the difference over the name of the Applicant referred to in Article 5, paragraph 1, of the Interim Accord and that, consequently, it is excluded from the Court’s jurisdiction by virtue of the exception provided in Article 21, paragraph 2. Secondly, the Respondent alleges that the dispute concerns conduct attributable to NATO and its member States, which is not subject to the Court’s jurisdiction in the present case. Thirdly, the Respondent claims that the Court’s Judgment in the present case would be incapable of effective application because it could not effect the Applicant’s admission to NATO or other international, multilateral and regional organizations or institutions. Fourthly, the Respondent submits that the exercise of jurisdiction by the Court would interfere with ongoing GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 177 diplomatic negotiations mandated by the Security Council concerning the difference over the name and thus would be incompatible with the Court’s judicial function. 27. Moreover, the Respondent initially claimed that its action cannot fall within the jurisdiction of the Court since it did not violate any provision of the Interim Accord by operation of Article 22 thereof, which, according to the Respondent, superordinates the obligations which either party to the Interim Accord may have under bilateral or multilateral agreements with other States or international organizations. Therefore, in the Respondent’s view, its alleged conduct could not be a source of any dispute between the Parties. The Court notes, however, that as the proceedings progressed, the Respondent focused its arguments on Article 22 in its defence on the merits. Accordingly, the Court will address Article 22 if and when it turns to the merits of the case. 1. Whether the dispute is excluded from the Court’s jurisdiction under the terms of Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord, read in conjunction with Article 5, paragraph 1 28. Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord (see paragraph 24 above) sets out that any “difference or dispute” as to the “interpretation or implementation” of the Interim Accord falls within the jurisdiction of the Court, with the exception of the “difference” referred to in Article 5, paragraph 1, of the Interim Accord, which reads as follows: “The Parties agree to continue negotiations under the auspices of the Secretary-General of the United Nations pursuant to Security Council resolution 845 (1993) with a view to reaching agreement on the difference described in that resolution and in Security Council resolution 817 (1993).” 29. With regard to this difference, as stated above, Security Council resolution 817, in its preambular paragraph 3, refers to “a difference [that] has arisen over the name of the State, which needs to be resolved in the interest of the maintenance of peaceful and good-neighbourly relations in the region”. This resolution “[u]rges the parties to continue to co-operate with the Co-Chairman of the Steering Committee of the International Conference on the Former Yugoslavia in order to arrive at a speedy settlement of their difference” (operative paragraph 1). 30. Following this resolution, the Security Council adopted resolution 845 of 18 June 1993 which, recalling resolution 817 (1993), also “[u]rges the parties to continue their efforts under the auspices of the Secretary-General to arrive at a speedy settlement of the remaining issues between them”. *** 31. According to the Respondent’s first objection to the Court’s jurisdiction, the dispute between the Parties concerns the difference over the Applicant’s name which is excluded from the Court’s jurisdiction by virtue of Article 21, paragraph 2, read in conjunction with Article 5, paragraph 1. The Respondent contends that this exception is broad in scope and excludes from the Court’s jurisdiction not only any dispute regarding the final resolution of the name difference, but also “any dispute the 178 GIURISPRUDENZA settlement of which would prejudge, directly or by implication, the difference over the name”. 32. The Respondent maintains that the Court cannot address the Applicant’s claims without pronouncing on the question of the non-resolution of the name difference since this would be the only reason upon which the Respondent would have objected to the Applicant’s admission to NATO. The Respondent also claims that the Court cannot rule upon the question of the Respondent’s alleged violation of Article 11, paragraph 1, without effectively deciding on the name difference as it would be “putting an end to any incentive the Applicant might have had to negotiate resolution of the difference as required by the Interim Accord and the Security Council”. Finally, the Respondent maintains that the actual terms of the Bucharest Summit Declaration and subsequent NATO statements demonstrate that the main reason for NATO’s decision to defer the Applicant’s accession procedure was the name difference. Therefore, in the Respondent’s submission, the exception provided for in Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord applies. 33. The Applicant, for its part, argues that the subject of the present dispute does not concern — either directly or indirectly — the difference referred to in Article 5, paragraph 1, of the Interim Accord. The Applicant disagrees with the broad interpretation of the exception contained in Article 21, paragraph 2, proposed by the Respondent, submitting that it would run contrary to the very purpose of the Interim Accord, and that Article 11, paragraph 1, would be undermined if the Respondent’s argument were upheld. The Applicant maintains that the present dispute does not require the Court to resolve or to express any view on the difference over the name referred to in Article 5, paragraph 1, and is consequently not excluded by Article 21, paragraph 2. The Applicant also claims that the statement by NATO after the Bucharest Summit indicating that membership would be extended to the Applicant when a solution to the name issue has been reached does not transform the dispute before the Court into one about the name. *** 34. The Court considers that the Respondent’s broad interpretation of the exception contained in Article 21, paragraph 2, cannot be upheld. That provision excludes from the jurisdiction of the Court only one kind of dispute, namely one regarding the difference referred to in Article 5, paragraph 1. Since Article 5, paragraph 1, identifies the nature of that difference by referring back to Security Council resolutions 817 and 845 (1993), it is to those resolutions that one must turn in order to ascertain what the Parties intended to exclude from the jurisdiction of the Court. 35. Resolutions 817 and 845 (1993) distinguished between the name of the Applicant, in respect of which they recognized the existence of a difference between the Parties who were urged to resolve that difference by negotiation (hereinafter the “definitive name”), and the provisional designation by which the Applicant was to be referred to for all purposes within the United Nations pending settlement of that difference. The Interim Accord adopts the same approach and extends it to the Applicant’s application to, and membership in, other international organizations. Thus Article 5, paragraph 1, of the Interim Accord requires the Parties to negotiate regarding GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 179 the difference over the Applicant’s definitive name, while Article 11, paragraph 1, imposes upon the Respondent the obligation not to object to the Applicant’s application to, and membership in, international organizations, unless the Applicant is to be referred to in the organization in question differently than in resolution 817 (1993). The Court considers it to be clear from the text of Article 21, paragraph 2, and of Article 5, paragraph 1, of the Interim Accord, that the “difference” referred to therein and which the Parties intended to exclude from the jurisdiction of the Court is the difference over the definitive name of the Applicant and not disputes regarding the Respondent’s obligation under Article 11, paragraph 1. If the Parties had intended to entrust to the Court only the limited jurisdiction suggested by the Respondent, they could have expressly excluded the subject-matter of Article 11, paragraph 1, from the grant of jurisdiction in Article 21, paragraph 2. 36. Not only does the plain meaning of the text of Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord afford no support to the broad interpretation advanced by the Respondent, the purpose of the Interim Accord as a whole also points away from such an interpretation. In the Court’s view, one of the main objectives underpinning the Interim Accord was to stabilize the relations between the Parties pending the resolution of the name difference. The broad interpretation of the exception under Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord suggested by the Respondent would result in the Court being unable to entertain many disputes relating to the interpretation or implementation of the Interim Accord itself. As such, the name difference may be related, to some extent, to disputes the Parties may eventually have as to the interpretation or implementation of the Interim Accord. 37. The fact that there is a relationship between the dispute submitted to the Court and the name difference does not suffice to remove that dispute from the Court’s jurisdiction. The question of the alleged violation of the obligation set out in Article 11, paragraph 1, is distinct from the issue of which name should be agreed upon at the end of the negotiations between the Parties under the auspices of the United Nations. Only if the Court were called upon to resolve specifically the name difference, or to express any views on this particular matter, would the exception under Article 21, paragraph 2, come into play. This is not the situation facing the Court in the present case. The exception contained in Article 21, paragraph 2, consequently does not apply to the present dispute between the Parties which concerns the Applicant’s allegation that the Respondent breached its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, as well as the Respondent’s justifications. 38. Accordingly, the Respondent’s objection to the Court’s jurisdiction based on the exception contained in Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord cannot be upheld. 2. Whether the dispute relates to the conduct of NATO or its member States and whether the Court’s decision could affect their rights and obligations 39. By way of objection to the Court’s jurisdiction in the present case and the admissibility of the Application, the Respondent claims that the object of the Application relates to the conduct of NATO and its other member States, because the decision to defer the invitation to the Applicant to join the Organization was a collective decision taken by NATO “unanimously” at the Bucharest Summit, and not 180 GIURISPRUDENZA an individual or autonomous decision by the Respondent. Thus, it is argued that the act complained of is attributable to NATO as a whole and not to the Respondent alone. Moreover, in the view of the Respondent, even if the decision to defer the Applicant’s admission to NATO could be attributed to the Respondent, the Court could not decide on this point without also deciding on the responsibility of NATO or its other members, over whom it has no jurisdiction. Accordingly, the Respondent argues that the interests of a third party would form the subject-matter of any decision the Court may take. The Respondent further contends that, in accordance with the Monetary Gold case law, the Court “will not exercise jurisdiction where the legal interests of an absent third party form ‘the very subject matter’ of the jurisdiction”. 40. The Applicant, for its part, argues that its Application is directed solely at the Respondent’s conduct and not at a decision by NATO or actions of other NATO member States. The Applicant claims that the Respondent’s conduct is distinct from any decision of NATO. It contends that the Court does not need to express any view on the legality of NATO’s decision to defer an invitation to the Applicant to join the Alliance. *** 41. In order to examine the Respondent’s objection, the Court has to consider the specific object of the Application. The Applicant claims that “the Respondent, through its State organs and agents, has violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord” and requests the Court to make a declaration to this effect and to order the Respondent to “take all necessary steps to comply with its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord”. 42. By the terms of the Application, the Applicant’s claim is solely based on the allegation that the Respondent has violated its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, which refers specifically to the Respondent’s conduct, irrespective of the consequences it may have on the actual final decision of a given organization as to the Applicant’s membership. The Court notes that the Applicant is challenging the Respondent’s conduct in the period prior to the taking of the decision at the end of the Bucharest Summit and not the decision itself. The issue before the Court is thus not whether NATO’s decision may be attributed to the Respondent, but rather whether the Respondent violated the Interim Accord as a result of its own conduct. Nothing in the Application before the Court can be interpreted as requesting the Court to pronounce on whether NATO acted legally in deferring the Applicant’s invitation for membership in NATO. Therefore, the dispute does not concern, as contended by the Respondent, the conduct of NATO or the member States of NATO, but rather solely the conduct of the Respondent. 43. Similarly, the Court does not need to determine the responsibility of NATO or of its member States in order to assess the conduct of the Respondent. In this respect, the Respondent’s argument that the rights and interests of a third party (which it identifies as NATO and/or the member States of NATO) would form the subjectmatter of any decision which the Court might take, with the result that the Court should decline to hear the case under the principle developed in the case of the Monetary Gold Removed from Rome in 1943, is misplaced. The present case can be distinguished from the Monetary Gold case since the Respondent’s conduct can be GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 181 assessed independently of NATO’s decision, and the rights and obligations of NATO and its member States other than Greece do not form the subject-matter of the decision of the Court on the merits of the case (Monetary Gold Removed from Rome in 1943 (Italy v. France; United Kingdom and United States of America) Preliminary Question, Judgment, I.C.J. Reports 1954, p. 19; East Timor (Portugal v. Australia), Judgment, I.C.J. Reports 1995, p. 105, para. 34); nor would the assessment of their responsibility be a “prerequisite for the determination of the responsibility” of the Respondent (Certain Phosphate Lands in Nauru (Nauru v. Australia), Preliminary Objections, Judgment, I.C.J. Reports 1992, p. 261, para. 55). Therefore, the Court considers that the conduct forming the object of the Application is the Respondent’s alleged objection to the Applicant’s admission to NATO, and that, on the merits, the Court will only have to determine whether or not that conduct demonstrates that the Respondent failed to comply with its obligations under the Interim Accord, irrespective of NATO’s final decision on the Applicant’s membership application. 44. The Court accordingly finds that the Respondent’s objection based on the argument that the dispute relates to conduct attributable to NATO and its member States or that NATO and its member States are indispensable third parties not before the Court cannot be upheld. 3. Whether the Court’s Judgment would be incapable of effective application 45. The Respondent argues that a Court ruling in the present case would be devoid of any effect because the Court’s Judgment would not be able to annul or amend NATO’s decision or change the conditions of admission contained therein. It further contends that even if the Court were to find in the Applicant’s favour, its Judgment would have no practical effect concerning the Applicant’s admission to NATO. Accordingly, the Respondent claims that the Court should refuse to exercise its jurisdiction in order to preserve the integrity of its judicial function. 46. The Applicant, for its part, submits that it is seeking a declaration by the Court that the Respondent’s conduct violated the Interim Accord, which in its view represents a legitimate request in a judicial procedure. The Applicant argues that it is “only by misrepresenting the object of the Application that the respondent State can claim that a judgment of the Court would have no concrete effect”. By contrast, the Applicant claims that a judgment of the Court would have a concrete legal effect, and in particular, it “would result in the applicant State once more being placed in the position of candidate for NATO membership without running the risk of once again being blocked by an objection on grounds not covered in the Interim Accord” (emphasis in the original). *** 47. As established in the Court’s case law, an essential element for the proper discharge of the Court’s judicial function is that its judgments “must have some practical consequence in the sense that [they] can affect existing legal rights or obligations of the parties, thus removing uncertainty from their legal relations” (Northern Cameroons (Cameroon v. United Kingdom), Preliminary Objections, Judgment, I.C.J. Reports 1963, p. 34). 182 GIURISPRUDENZA 48. In the present case, the Court recalls that, in its final submissions, the Applicant requests the Court, “(i) to reject the Respondent’s objections as to the jurisdiction of the Court and the admissibility of the Applicant’s claims; (ii) to adjudge and declare that the Respondent, through its State organs and agents, has violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord; and (iii) to order that the Respondent immediately take all necessary steps to comply with its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, and to cease and desist from objecting in any way, whether directly or indirectly, to the Applicant’s membership of the North Atlantic Treaty Organization and/or of any other ‘international, multilateral and regional organizations and institutions’ of which the Respondent is a member, in circumstances where the Applicant is to be referred to in such organization or institution by the designation provided for in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993).” 49. In its request, the Applicant asks the Court to make a declaration that the Respondent violated its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. It is clear in the jurisprudence of the Court and its predecessor that “the Court may, in an appropriate case, make a declaratory judgment” (Northern Cameroons (Cameroon v. United Kingdom), Preliminary Objections, Judgment, I.C.J. Reports 1963, p. 37). The purpose of such declaratory judgment “is to ensure recognition of a situation at law, once and for all and with binding force as between the Parties; so that the legal position thus established cannot again be called in question in so far as the legal effects ensuing therefrom are concerned” (Interpretation of Judgments Nos. 7 and 8 (Factory at Chorzów), Judgment No. 11, 1927, P.C.I.J., Series A, No. 13, p. 20). 50. While the Respondent is correct that a ruling from the Court could not modify NATO’s decision in the Bucharest Summit or create any rights for the Applicant vis-à-vis NATO, such are not the requests of the Applicant. It is clear that at the heart of the Applicant’s claims lies the Respondent’s conduct, and not conduct attributable to NATO or its member States. The Applicant is not requesting the Court to reverse NATO’s decision in the Bucharest Summit or to modify the conditions for membership in the Alliance. Therefore, the Respondent’s argument that the Court’s Judgment in the present case would not have any practical effect because the Court cannot reverse NATO’s decision or change the conditions of admission to NATO is not persuasive. 51. The Northern Cameroons case is to be distinguished from the present case. The Court recalls that, in the former case, Cameroon, in its Application, asked the Court to “adjudge and declare . . . that the United Kingdom has, in the application of the Trusteeship Agreement of 13 December 1946, failed to respect certain obligations directly or indirectly flowing therefrom”, and that, by the time the case was argued and decided in 1963, the Agreement had already been terminated. By contrast, in the present case, Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord remains binding; the obligation stated therein is a continuing one and the Applicant’s NATO membership application remains in place. A judgment by the Court would have “continuing applicability” for there is an “opportunity for a future act of interpretation or application of that treaty in accordance with any judgment the Court may render” GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 183 (Northern Cameroons (Cameroon v. United Kingdom), Preliminary Objections, Judgment, I.C.J. Reports 1963, pp. 37-38). 52. Similarly, the Respondent’s reliance on the Nuclear Tests cases does not support its position. In these cases, the Court interpreted the Applications instituting proceedings before it, filed by Australia and New Zealand, as concerning future testing by France of nuclear weapons in the atmosphere. On the basis of statements by France which the Court considered to constitute an undertaking possessing legal effect not to test nuclear weapons in the atmosphere, the Court held that there was no longer a dispute about that matter and that the Applicants’ objective had in effect been accomplished; thus no further judicial action was required (Nuclear Tests (Australia v. France), Judgment, I.C.J. Reports 1974, p. 271, para. 56; Nuclear Tests (New Zealand v. France), Judgment, I.C.J. Reports 1974, p. 476, para. 59). 53. The present dispute is clearly different from the latter cases: the Respondent has not taken any action which could be seen as settling the dispute over the alleged violation of Article 11, paragraph 1. Furthermore, a judgment of the Court in the present case would not be without object because it would affect existing rights and obligations of the Parties under the Interim Accord and would be capable of being applied effectively by them. 54. The Court accordingly finds that the Respondent’s objection to the admissibility of the Application based on the alleged lack of effect of the Court’s Judgment cannot be upheld. 4. Whether the Court’s Judgment would interfere with ongoing diplomatic negotiations 55. The Respondent contends that if the Court were to exercise its jurisdiction, it would interfere with the diplomatic process envisaged by the Security Council in resolution 817 (1993) and this would be contrary to the Court’s judicial function. It argues that a judgment by the Court in favour of the Applicant “would judicially seal a unilateral practice of imposing a disputed name and would thus run contrary to Security Council resolutions 817 (1993) and 845 (1993), requiring the Parties to reach a negotiated solution on this difference”. The Respondent thus submits that, on the basis of judicial propriety, the Court should decline to exercise its jurisdiction. 56. In response, the Applicant argues that the Court, in determining the scope of Security Council resolution 817 (1993) and of the Interim Accord, would in no way settle the dispute over the name, or impose a conclusion on the ongoing negotiation process between the Parties on this subject since the object of its claim in the present case and the object of the negotiation process are different. The Applicant contends that the Respondent’s argument is premised on a confused understanding of the object of the Applicant’s claim. The Applicant contends that the existence of negotiations does not preclude the Court from exercising its judicial function. 57. Regarding the issue of whether the judicial settlement of disputes by the Court is incompatible with ongoing diplomatic negotiations, the Court has made clear that “the fact that negotiations are being actively pursued during the present proceedings is not, legally, any obstacle to the exercise by the Court of its judicial function” (Aegean 184 GIURISPRUDENZA Sea Continental Shelf (Greece v. Turkey), Judgment, I.C.J. Reports 1978, p. 12, para. 29; see also United States Diplomatic and Consular Staff in Tehran (United States of America v. Iran), Judgment, I.C.J. Reports 1980, p. 20, para. 37). 58. As a judicial organ, the Court has to establish “first, that the dispute before it is a legal dispute, in the sense of a dispute capable of being settled by the application of principles and rules of international law, and secondly, that the Court has jurisdiction to deal with it, and that that jurisdiction is not fettered by any circumstance rendering the application inadmissible” (Border and Transborder Armed Actions (Nicaragua v. Honduras), Jurisdiction and Admissibility, Judgment, I.C.J. Reports 1988, p. 91, para. 52). The question put before the Court, namely, whether the Respondent’s conduct is a breach of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, is a legal question pertaining to the interpretation and implementation of a provision of that Accord. As stated above, the disagreement between the Parties amounts to a legal dispute which is not excluded from the Court’s jurisdiction. Therefore, by deciding on the interpretation and implementation of a provision of the Interim Accord, a task which the Parties agreed to submit to the Court’s jurisdiction under Article 21, paragraph 2, the Court would be faithfully discharging its judicial function. 59. The Parties included a provision conferring jurisdiction on the Court (Art. 21) in an agreement that also required them to continue negotiations on the dispute over the name of the Applicant (Art. 5, para. 1). Had the Parties considered that a future ruling by the Court would interfere with diplomatic negotiations mandated by the Security Council, they would not have agreed to refer to it disputes concerning the interpretation or implementation of the Interim Accord. 60. Accordingly, the Respondent’s objection to the admissibility of the Application based on the alleged interference of the Court’s Judgment with ongoing diplomatic negotiations mandated by the Security Council cannot be upheld. 5. Conclusion concerning the jurisdiction of the Court over the present dispute and the admissibility of the Application 61. In conclusion, the Court finds that it has jurisdiction over the legal dispute submitted to it by the Applicant. There is no reason for the Court to decline to exercise its jurisdiction. The Court finds the Application admissible. III. WHETHER THE RESPONDENT FAILED TO COMPLY WITH ARTICLE 11, PARAGRAPH 1, OF THE INTERIM ACCORD THE OBLIGATION UNDER 62. The Court turns now to the merits of the case. Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord provides: “the Party of the First Part [the Respondent] agrees not to object to the application by or the membership of the Party of the Second Part [the Applicant] in international, multilateral and regional organizations and institutions of which the Party of the First Part is a member; however, the Party of the First Part reserves the right to object to any membership GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 185 referred to above if and to the extent the Party of the Second Part is to be referred to in such organization or institution differently than in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993)”. The Parties agree that this provision imposes on the Respondent an obligation not to object to the admission of the Applicant to international organizations of which the Respondent is a member, including NATO, subject to the exception in the second clause of paragraph 1. 63. The Applicant contends that the Respondent, prior to, and during, the Bucharest Summit, failed to comply with the obligation not to object contained in the first clause of Article 11, paragraph 1. 64. The Respondent maintains that it did not object to the Applicant’s admission to NATO. As an alternative, the Respondent argues that any objection attributable to it at the Bucharest Summit does not violate Article 11, paragraph 1, because it would fall within the second clause of Article 11, paragraph 1. In support of this position, the Respondent asserts that the Applicant would have been referred to in NATO “differently than in” paragraph 2 of resolution 817. In addition, the Respondent argues that, even if it is found to have objected within the meaning of Article 11, paragraph 1, such an objection would not have been inconsistent with the Interim Accord because of the operation of Article 22 of the Interim Accord. 65. The Applicant counters with the view that the Respondent’s objection does not fall within the scope of the second clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord and that the obligation not to object is not obviated by Article 22. 66. The Court will first address the two clauses of Article 11, paragraph 1, and then will consider the effect of Article 22. 1. The Respondent’s obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord not to object to the Applicant’s admission to NATO A. The meaning of the first clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord 67. The first clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord obliges the Respondent not to object to “the application by or membership of” the Applicant in NATO. The Court notes that the Parties agree that the obligation “not to object” does not require the Respondent actively to support the Applicant’s admission to international organizations. In addition, the Parties agree that the obligation “not to object” is not an obligation of result, but rather one of conduct. 68. The interpretations advanced by the Parties diverge, however, in significant respects. The Applicant asserts that in its ordinary meaning, interpreted in light of the object and purpose of the Interim Accord, the phrase “not to object” should be read broadly to encompass any implicit or explicit act or expression of disapproval or opposition, in word or deed, to the Applicant’s application to or membership in an organization or institution. In the Applicant’s view, the act of objecting is not limited to casting a negative vote. Rather, it could include any act or omission designed to oppose or to prevent a consensus decision at an international organization (where such consensus is necessary for the Applicant to secure membership) or to inform other 186 GIURISPRUDENZA members of an international organization or institution that the Respondent will not permit such a consensus decision to be reached. In particular, the Applicant notes that NATO members are admitted on the basis of unanimity of NATO member States, in accordance with Article 10 of the North Atlantic Treaty. That provision states, in relevant part, as follows: “The Parties may, by unanimous agreement, invite any other European State in a position to further the principles of this Treaty and to contribute to the security of the North Atlantic area to accede to this Treaty.” (North Atlantic Treaty, 4 April 1949, Art. 10, UNTS, Vol. 34, p. 248.) 69. The Respondent interprets the obligation “not to object” more narrowly. In its view, an objection requires a specific, negative act, such as casting a vote or exercising a veto against the Applicant’s admission to or membership in an organization or institution. An objection does not, under the Respondent’s interpretation, include abstention or the withholding of support in a consensus process. As a general matter, the Respondent argues that the phrase “not to object” should be interpreted narrowly because it imposes a limitation on a right to object that the Respondent would otherwise possess. 70. The Court does not accept the general proposition advanced by the Respondent that special rules of interpretation should apply when the Court is examining a treaty that limits a right that a party would otherwise have. Turning to the Respondent’s specific arguments in regard to the first clause of Article 11, paragraph 1, the Court observes that nothing in the text of that clause limits the Respondent’s obligation not to object to organizations that use a voting procedure to decide on the admission of new members. There is no indication that the Parties intended to exclude from Article 11, paragraph 1, organizations like NATO that follow procedures that do not require a vote. Moreover, the question before the Court is not whether the decision taken by NATO at the Bucharest Summit with respect to the Applicant’s candidacy was due exclusively, principally, or marginally to the Respondent’s objection. As the Parties agree, the obligation under the first clause of Article 11, paragraph 1, is one of conduct, not of result. Thus, the question before the Court is whether the Respondent, by its own conduct, did not comply with the obligation not to object contained in Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. 71. The Court also observes that the Respondent did not take the position that any objection by it at the Bucharest Summit was based on grounds unrelated to the difference over the name. Therefore, the Court need not decide whether the Respondent retains a right to object to the Applicant’s admission to international organizations on such other grounds. B. Whether the Respondent “objected” to the Applicant’s admission to NATO 72. The Court now turns to the evidence submitted to it by the Parties, in order to decide whether the record supports the Applicant’s contention that the Respondent objected to the Applicant’s membership in NATO. In this regard, the Court recalls that, in general, it is the duty of the party that asserts certain facts to establish the existence of such facts (Pulp Mills on the River Uruguay (Argentina v. Uruguay), Judgment of 20 April 2010, para. 162; Maritime Delimitation in the Black Sea (Romania v. Ukraine), Judgment, I.C.J. Reports 2009, p. 86, para. 68). Thus, the Applicant bears GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 187 the burden of establishing the facts that support its allegation that the Respondent failed to comply with its obligation under the Interim Accord. 73. To support the position that the Respondent objected to its admission to NATO, the Applicant refers the Court to diplomatic correspondence of the Respondent before and after the Bucharest Summit and to statements by senior officials of the Respondent during the same period. The Respondent does not dispute the authenticity of these statements. The Court will examine these statements as evidence of the Respondent’s conduct in connection with the Bucharest Summit, in light of its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. 74. The Applicant referred to diplomatic correspondence from the Respondent to other NATO member States exchanged prior to the Bucharest Summit. An aidemémoire circulated by the Respondent to its fellow NATO member States in 2007 points to the ongoing negotiations between the Parties pursuant to resolution 817 and states that “[t]he satisfactory conclusion of the said negotiations is a sine qua non, in order to enable Greece to continue to support the Euro-atlantic aspirations of Skopje”. The aide-mémoire further states that the resolution of the name issue “is going to be the decisive criterion for Greece to accept an invitation to FYROM to start NATO accession negotiations”. 75. The Applicant also introduced evidence showing that, during the same period, the Respondent’s Prime Minister and Foreign Minister stated publicly on a number of occasions that the Respondent would oppose the extension of an invitation to the Applicant to join NATO at the Bucharest Summit unless the name issue was resolved. On 22 February 2008, the Respondent’s Prime Minister, speaking at a session of the Respondent’s Parliament, made the following statement with regard to the difference between the Parties over the name: “[W]ithout a mutually acceptable solution allied relations cannot be established, there cannot be an invitation to the neighbouring country to join the Alliance. No solution means — no invitation.” The record indicates that the Prime Minister reiterated this position publicly on at least three occasions in March 2008. 76. The Respondent’s Foreign Minister also explained her Government’s position prior to the Bucharest Summit. On 17 March 2008, she declared, referring to the Applicant, that “[i]f there is no compromise, we will block their accession”. Ten days later, on 27 March 2008, in a speech to the governing party’s Parliamentary Group, she stated that until a solution is reached, “we cannot, of course, consent to addressing an invitation to our neighbouring state to join NATO. No solution — no invitation. We said it, we mean it, and everyone knows it.” 77. The Applicant also points to the statement of the Respondent’s Prime Minister, made on 3 April 2008 at the close of the Bucharest Summit in a message directed to the Greek people: “It was unanimously decided that Albania and Croatia will accede to NATO. Due to Greece’s veto, FYROM is not joining NATO. I had said to everyone — in every possible tone and in every direction — that ‘a failure to solve the name issue will impede their invitation’ to join the Alliance. And that is what I did. Skopje will be able to become a member of NATO only after the name issue has been resolved.” 188 GIURISPRUDENZA The Applicant notes that this characterization of events at the Summit is corroborated by other contemporaneous statements, including that of a NATO spokesperson. 78. In addition, the Applicant relies on diplomatic correspondence from the Respondent after the Bucharest Summit, in which the Respondent characterizes its position at the Summit. In particular, the Applicant introduced a letter, dated 14 April 2008, from the Respondent’s Permanent Representative to the United Nations to the Permanent Representative of Costa Rica to the United Nations that included the following statement: “At the recent NATO Summit Meeting in Bucharest and in view of the failure to reach a viable and definitive solution to the name issue, Greece was not able to consent to the Former Yugoslav Republic of Macedonia being invited to join the North Atlantic Alliance.” The Applicant asserts that the Respondent sent similar letters to all other Members of the United Nations Security Council and to the United Nations Secretary-General. The Respondent does not refute this contention. 79. On 1 June 2008, in an aide-mémoire sent by the Respondent to the Organization of American States and its member States, the Respondent made the following statement: “At the NATO’s Summit in Bucharest in April 2008, allied leaders, upon Greece’s proposal, agreed to postpone an invitation to FYROM to join the Alliance, until a mutually acceptable solution to the name issue is reached.” 80. The Respondent stresses the absence of a formal voting mechanism within NATO. For that reason, the Respondent asserts that, irrespective of the statements by its government officials, there is no means by which a NATO member State can exercise a “veto” over NATO decisions. The Respondent further maintains that its obligation under Article 11, paragraph 1, does not prevent it from expressing its views, whether negative or positive, regarding the Applicant’s eligibility for admission to an organization, and characterizes the statements by its government officials as speaking to whether the Applicant had satisfied the organization’s eligibility requirements, not as setting forth a formal objection. The Respondent further contends that it was “unanimously” decided at the Bucharest Summit that the Applicant would not yet be invited to join NATO, and thus that it cannot be determined whether a particular State “objected” to the Applicant’s membership. According to the Respondent, “Greece did not veto the FYROM’s accession to NATO . . . It was a collective decision made on behalf of the Alliance as a whole.” (Emphasis in the original). *** 81. In the view of the Court, the evidence submitted to it demonstrates that through formal diplomatic correspondence and through statements of its senior officials, the Respondent made clear before, during and after the Bucharest Summit that the resolution of the difference over the name was the “decisive criterion” for the Respondent to accept the Applicant’s admission to NATO. The Respondent manifested its objection to the Applicant’s admission to NATO at the Bucharest Summit, citing the fact that the difference regarding the Applicant’s name remained unresolved. GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 189 82. Moreover, the Court cannot accept that the Respondent’s statements regarding the admission of the Applicant were not objections, but were merely observations aimed at calling the attention of other NATO member States to concerns about the Applicant’s eligibility to join NATO. The record makes abundantly clear that the Respondent went beyond such observations to oppose the Applicant’s admission to NATO on the ground that the difference over the name had not been resolved. 83. The Court therefore concludes that the Respondent objected to the Applicant’s admission to NATO, within the meaning of the first clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. 2. The effect of the second clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord 84. The Court turns now to the question whether the Respondent’s objection to the Applicant’s admission to NATO at the Bucharest Summit fell within the exception contained in the second clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. 85. In this clause, the Parties agree that the Respondent “reserves the right to object to any membership” by the Applicant in an international, multilateral or regional organization or institution of which the Respondent is a member “if and to the extent the [Applicant] is to be referred to in such organization or institution differently than in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993)”. The Court recalls that paragraph 2 of resolution 817 recommends that the Applicant be admitted to membership in the United Nations, being “provisionally referred to for all purposes within the United Nations as ‘the former Yugoslav Republic of Macedonia’ pending settlement of the difference that has arisen over the name of the State”. 86. The Applicant maintains that the exception in the second clause of Article 11, paragraph 1, applies only if the Applicant is to be referred to by the organization itself as something other than “the former Yugoslav Republic of Macedonia”. In its view, resolution 817 contemplated that the Applicant would refer to itself by its constitutional name (“Republic of Macedonia”) within the United Nations. The Applicant asserts that this has been its consistent practice since resolution 817 was adopted and that the Parties incorporated this practice into the second clause of Article 11, paragraph 1. The Applicant also cites evidence contemporaneous with the adoption of resolution 817 indicating, in its view, that it was understood by States involved in the drafting of that resolution that the resolution would neither require the Applicant to refer to itself by the provisional designation within the United Nations nor direct third States to use any particular name or designation when referring to the Applicant. On this basis, it is the Applicant’s position that the Respondent’s right to object pursuant to Article 11, paragraph 1, does not apply to the Applicant’s admission to NATO because the same practice would be followed in NATO that has been followed in the United Nations. The Applicant asserts that the reference to how it will be referred to “in” an organization means, with respect to an organization such as NATO, inter alia: the way that it will be listed by NATO as a member of the organization; the way that representatives of the Applicant will be accredited by NATO; and the way that NATO will refer to the Applicant in all official NATO documents. 87. The Respondent is of the view that the Applicant’s intention to refer to itself in NATO by its constitutional name, as well as the possibility that third States may refer 190 GIURISPRUDENZA to the Applicant by its constitutional name, triggers the exception in the second clause of Article 11, paragraph 1, and thus permitted the Respondent to object to the Applicant’s admission to NATO. In the Respondent’s view, resolution 817 requires the Applicant to refer to itself as the “former Yugoslav Republic of Macedonia” within the United Nations. The Respondent does not dispute the Applicant’s claim of consistent practice within the United Nations, but contends that the Respondent engaged in a “general practice of protests” in regard to use of the Applicant’s constitutional name, before and after the conclusion of the Interim Accord. To support this assertion, the Respondent submits evidence of eight instances during the period between the adoption of resolution 817 and the conclusion of the Interim Accord in which the Respondent claimed that the Applicant’s reference to itself by the name “Republic of Macedonia” within the United Nations was inconsistent with resolution 817. 88. With respect to the text of Article 11, paragraph 1, the Respondent points out that the second clause of that Article applies when the Applicant is to be referred to “in” an organization, not only when the Applicant is to be referred to “by” the organization in a particular way. Moreover, the Respondent argues that the phrase “if and to the extent that” in the second clause means that Article 11, paragraph 1, is not merely an “on/off switch”. Instead, in the Respondent’s view, the phrase “to the extent” makes clear that the Respondent may object in response to a limited or occasional use of a name other than the provisional designation (such as when the Applicant “instigates the use” of a different name by the officers of an organization or by other member States of the organization). In support of this interpretation the Respondent asserts that the phrase “if and to the extent that” would lack effet utile if it were not interpreted as the Respondent suggests, because this would render the words “to the extent that” without legal content. 89. The Court notes that the Parties agree on the interpretation of the second clause of Article 11, paragraph 1, in one circumstance: the exception contained in the second clause permits the Respondent to object to the Applicant’s admission to an organization if the Applicant is to be referred to by the organization itself other than by the provisional designation. The Respondent also asserts that it has the right to object in two other circumstances: first, if the Applicant will refer to itself in the organization using its constitutional name and, secondly, if third States will refer to the Applicant in the organization by its constitutional name. The Applicant disagrees with both of these assertions. 90. Although the Parties articulate divergent views on the interpretation of the clause, i.e., whether the Respondent may object if third States will refer to the Applicant using its constitutional name, the Respondent does not pursue, as a factual matter, the position that any objection at the Bucharest Summit was made in response to the prospect that third States would refer to the Applicant in NATO using its constitutional name. Thus, in the present case, the Court need not decide whether the second clause would permit an objection based on the prospect that third States would use the Applicant’s constitutional name in NATO. On the other hand, the Parties agree that the Applicant intended to refer to itself within NATO, once admitted, by its constitutional name, not by the provisional designation set forth in resolution 817. Thus, the Court must decide whether the second clause of Article 11, paragraph 1, permitted the Respondent to object in that circumstance. GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 191 91. The Court will interpret the second clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, in accordance with Articles 31 and 32 of the Vienna Convention on the Law of Treaties of 1969 (hereinafter the “1969 Vienna Convention”), to which both the Applicant and the Respondent are parties. The Court will therefore begin by considering the ordinary meaning to be given to the terms of the treaty in their context and in light of its object and purpose. 92. The Court observes that the Parties formulated the second clause using the passive voice: “if and to the extent the [Applicant] is to be referred to ... differently than in” paragraph 2 of resolution 817. The use of the passive voice is difficult to reconcile with the Respondent’s view that the clause covers not only how the organization is to refer to the Applicant but also the way that the Applicant is to refer to itself. As to the inclusion of the phrase “to the extent”, the Court recalls the Respondent’s contention that the phrase lacks legal effect (“effet utile”) unless it is interpreted to mean that the Respondent’s right to object is triggered not only by the anticipated practice of the organization, but also by the use of the constitutional name by others. The Court cannot agree that the phrase would have legal effect only if interpreted as the Respondent suggests. The phrase would still have a legal significance, for example, if it were interpreted to mean that the Respondent has a right to object for so long as the organization refers to the Applicant by the constitutional name. Accordingly, the Court rejects the Respondent’s contention that the phrase “to the extent” is without legal effect unless the second clause of Article 11, paragraph 1, permits the Respondent to object to admission to an organization if the Applicant is to refer to itself in the organization by its constitutional name. 93. As for the phrase “to be referred to ... differently than in paragraph 2 of United Nations Security Council resolution 817 (1993)”, it will be recalled that the relevant text of that resolution recommends that the Applicant be admitted to membership in the United Nations, being “provisionally referred to for all purposes within the United Nations as ‘the former Yugoslav Republic of Macedonia’” pending settlement of the difference over the name. Thus, a central question for the Court is whether the prospect that the Applicant would refer to itself in NATO by its constitutional name means that the Applicant is “to be referred to ... differently than in paragraph 2 of Security Council resolution 817 (1993)”. The Court therefore examines the text of resolution 817 in relation to the second clause of Article 11, paragraph 1. That resolution was adopted pursuant to Article 4, paragraph 2, of the Charter of the United Nations, which states that admission of a State to membership in the Organization is effected by a decision of the General Assembly upon the recommendation of the Security Council. Thus, it could be argued that paragraph 2 of resolution 817 is directed primarily to another organ of the United Nations, namely the General Assembly, rather than to individual Member States. On the other hand, the wording of paragraph 2 of resolution 817 is broad — “for all purposes” — and thus could be read to extend to the conduct of Member States, including the Applicant, within the United Nations. 94. Bearing in mind these observations regarding the text of the second clause of Article 11, paragraph 1, and of resolution 817, the Court will now proceed to ascertain the ordinary meaning of the second clause of Article 11, paragraph 1, in its context and in light of the treaty’s object and purpose. To this end, the Court will examine other 192 GIURISPRUDENZA provisions of the treaty and a related and contemporaneous agreement between the Parties. 95. Article 1, paragraph 1, of the Interim Accord, provides that the Respondent will recognize the Applicant as an “independent and sovereign state” and that the Respondent will refer to it by a provisional designation (as “the former Yugoslav Republic of Macedonia”). Nowhere, however, does the Interim Accord require the Applicant to use the provisional designation in its dealings with the Respondent. On the contrary, the “Memorandum on ‘Practical Measures’ Related to the Interim Accord”, concluded by the Parties contemporaneously with the entry into force of the Interim Accord, expressly envisages that the Applicant will refer to itself as the “Republic of Macedonia” in its dealings with the Respondent. Thus, as of the entry into force of the Interim Accord, the Respondent did not insist that the Applicant forbear from the use of its constitutional name in all circumstances. 96. The Court also contrasts the wording of the second clause of Article 11, paragraph 1, to other provisions of the treaty that impose express limitations on the Applicant or on both Parties. In Article 7, paragraph 2, for example, the Applicant agrees to “cease” the use of the symbol that it had previously used on its flag. This provision thus contains a requirement that the Applicant change its existing conduct. Additional provisions under the general heading of “friendly relations and confidencebuilding measures” — namely, the three paragraphs of Article 6 — are also framed entirely as commitments by the Applicant. By contrast, although the Parties were aware of the Applicant’s consistent use of its constitutional name in the United Nations, the Parties drafted the second clause of Article 11, paragraph 1, without using language that calls for a change in the Applicant’s conduct. If the Parties had wanted the Interim Accord to mandate a change in the Applicant’s use of its constitutional name in international organizations, they could have included an explicit obligation to that effect as they did with the corresponding obligations in Article 6 and Article 7, paragraph 2. 97. The significance of this comparison between the second clause of Article 11, paragraph 1, and other provisions of the Interim Accord is underscored by consideration of the overall structure of the treaty and the treaty’s object and purpose. While each Party emphasizes different aspects of the treaty in describing its object and purpose, they appear to hold a common view that the treaty was a comprehensive exchange with the overall object and purpose of: first, providing for the normalization of the Parties’ relations (bilaterally and in international organizations); secondly, requiring good-faith negotiations regarding the difference over the name; and, thirdly, agreeing on what the Respondent called “assurances related to particular circumstances”, e.g., provisions governing the use of certain symbols and requiring effective measures to prohibit political interference, hostile activities and negative propaganda. Viewed together, the two clauses of Article 11, paragraph 1, advance the first of these objects by specifying the conditions under which the Respondent is required to end its practice of blocking the Applicant’s admission to organizations. Another component of the exchange — the provisions containing assurances, including those that impose obligations on the Applicant to change its conduct — appears elsewhere in the treaty. In light of the structure and the object and purpose of the treaty, it appears to the Court that the Parties would not have imposed a significant new constraint on the Applicant — that is, to constrain its consistent practice of calling itself by its constitutional name GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 193 — by mere implication in Article 11, paragraph 1. Thus, the Court concludes that the structure and the object and purpose of the treaty support the position taken by the Applicant. 98. Taken together, therefore, the text of the second clause of Article 11, paragraph 1, when read in context and in light of the object and purpose of the treaty, cannot be interpreted to permit the Respondent to object to the Applicant’s admission to or membership in an organization because of the prospect that the Applicant would refer to itself in that organization using its constitutional name. 99. The Court next examines the subsequent practice of the Parties in the application of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, in accordance with Article 31, paragraph 3 (b), of the 1969 Vienna Convention. The Applicant asserts that between the conclusion of the Interim Accord and the Bucharest Summit, it joined at least 15 international organizations of which the Respondent was also a member. In each case, the Applicant was admitted under the provisional designation prescribed by paragraph 2 of resolution 817 and has been referred to in the organization by that name. However, the Applicant has continued to refer to itself by its constitutional name in its relations with and dealings within those international organizations and institutions. The Court notes, in particular, the Applicant’s assertion that the Respondent did not object to its admission to any of these 15 organizations. This point went unchallenged by the Respondent. Although there is no evidence that the Respondent ever objected to admission or membership based on the prospect that the Applicant would use its constitutional name in such organizations, the Respondent does identify one instance in which it complained about the Applicant’s use of its constitutional name in the Council of Europe after the Applicant had already joined that organization. The Respondent apparently raised its concerns for the first time only in December 2004, more than nine years after the Applicant’s admission, returning to the subject once again in 2007. 100. The Court also refers to evidence of the Parties’ practice in respect of NATO prior to the Bucharest Summit. For several years leading up to the Bucharest Summit, the Applicant consistently used its constitutional name in its dealings with NATO, as a participant in the NATO Partnership for Peace and the NATO Membership Action Plan. Despite the Applicant’s practice of using its constitutional name in its dealings with NATO, as it did in all other organizations, there is no evidence that the Respondent, in the period leading up to the Bucharest Summit, ever expressed concerns about the Applicant’s use of the constitutional name in its dealings with NATO or that the Respondent indicated that it would object to the Applicant’s admission to NATO based on the Applicant’s past or future use of its constitutional name. Instead, as detailed above, the evidence makes clear that the Respondent objected to the Applicant’s admission to NATO in view of the failure to reach a final settlement of the difference over the name. 101. Based on the foregoing analysis, the Court concludes that the practice of the Parties in implementing the Interim Accord supports the Court’s prior conclusions (see paragraph 98) and thus that the second clause of Article 11, paragraph 1, does not permit the Respondent to object to the Applicant’s admission to an organization based on the prospect that the Applicant is to refer to itself in such organization with its constitutional name. 194 GIURISPRUDENZA 102. The Court recalls that the Parties introduced extensive evidence related to the travaux préparatoires of the Interim Accord and of resolution 817. In view of the conclusions stated above (see paragraphs 98 and 101), however, the Court considers that it is not necessary to address this additional evidence. The Court also recalls that each Party referred to additional evidence regarding the use of the Applicant’s constitutional name, beyond the evidence related to the subsequent practice under the Interim Accord, which is analysed above. This evidence does not bear directly on the question whether the Interim Accord permits the Respondent to object to the Applicant’s admission to or membership in an organization based on the Applicant’s self-reference by its constitutional name, and accordingly the Court does not address it. 103. In view of the preceding analysis, the Court concludes that the Applicant’s intention to refer to itself in an international organization by its constitutional name did not mean that it was “to be referred to” in such organization “differently than in” paragraph 2 of resolution 817. Accordingly, the exception set forth in the second clause of Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord did not entitle the Respondent to object to the Applicant’s admission to NATO. 3. Article 22 of the Interim Accord 104. Article 22 of the Interim Accord provides: “This Interim Accord is not directed against any other State or entity and it does not infringe on the rights and duties resulting from bilateral or multilateral agreements already in force that the Parties have concluded with other States or international organizations.” 105. The Applicant maintains that Article 22 “is simply a factual statement”. It “does not address the rights and duties of the Respondent: it merely declares that the Interim Accord as a whole does not infringe on the rights and duties of third States or other entities”. According to the Applicant, Article 22 expresses “the rule set forth in Article 34 of the 1969 Vienna Convention . . . that ‘[a] treaty does not create either obligations or rights for a third State without its consent’”. The Applicant notes that the Respondent’s interpretation would render Article 11, paragraph 1, meaningless by allowing the Respondent to object simply by invoking an alleged right or duty under another agreement. 106. The Respondent takes the position that, even assuming that the Court were to conclude that the Respondent had objected to the Applicant’s admission to NATO, in contravention of Article 11, paragraph 1, such objection would not breach the Interim Accord, because of the effect of Article 22. In the written proceedings, the Respondent construed Article 22 to mean that both the rights and the duties of a party to the Interim Accord under a prior agreement prevail over that party’s obligations in the Interim Accord. In particular, the Respondent argued that it was free to object to the Applicant’s admission to NATO because “any rights of Greece under NATO, and any obligations owed to NATO or to the other NATO member States must prevail in case of a conflict” with the restriction on the Respondent’s right to object under Article 11, paragraph 1. The Respondent relied on its right under Article 10 of the North Atlantic Treaty to consent (or not) to the admission of a State to NATO and its “duty to engage actively and promptly in discussions of concern to the Organization”. The GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 195 Respondent argues that Article 22 “is a legal provision” (emphasis in the original) and not “simply a factual statement” and that the Applicant’s interpretation of Article 22 — that it restates the rule in Article 34 of the [1969 Vienna Convention] — “would render Article 22 essentially an exercise in redundancy”. 107. In the course of the oral proceedings, however, the Respondent appears to have narrowed its interpretation of Article 22, stating that it has a right to object “if, and only if, the rules and criteria of those organizations require objection in the light of the circumstances of the application for admission” (emphasis added). From the fact that NATO is a “limited-membership organization” with the specific objective of mutual defence, the Respondent also infers a duty “to exercise plenary judgment in each membership decision”. In the Respondent’s view, each member State thus has not only a right but also a duty to raise its concerns if it believes that an applicant does not fulfil the organization’s accession criteria. With respect to the content of those accession criteria as they relate to the Applicant, the Respondent relies principally on a NATO press release entitled “Membership Action Plan (MAP)”, adopted at the close of the Washington, D.C. NATO Summit on 24 April 1999, stating that aspiring members would be expected, inter alia, “to settle ethnic disputes or external territorial disputes including irredentist claims . . . by peaceful means” and “to pursue good neighbourly relations”. 108. The Court first observes that if Article 22 of the Interim Accord is interpreted as a purely declaratory provision, as the Applicant suggests, that Article could under no circumstances provide a basis for the Respondent’s objection. 109. Turning to the Respondent’s interpretation of Article 22, the Court notes the breadth of the Respondent’s original contention that its “rights” under a prior agreement (in addition to its “duties”) take precedence over its obligation not to object to admission by the Applicant to an organization within the terms of Article 11, paragraph 1. That interpretation of Article 22, if accepted, would vitiate that obligation, because the Respondent normally can be expected to have a “right” under prior agreements with third States to express a view on membership decisions. The Court, considering that the Parties did not intend Article 22 to render meaningless the first clause of Article 11, paragraph 1, is therefore unable to accept the broad interpretation originally advanced by the Respondent. In this regard, the Court notes that the Court of Justice of the European Communities has rejected a similar argument. In particular, that court has interpreted a provision of the Treaty establishing the European Economic Community which states that “rights and obligations” under prior agreements “shall not be affected by” the provisions of the treaty. The European Court has concluded that this language refers to the “rights” of third countries and the “obligations” of treaty parties, respectively (see Case 10/61 Commission v. Italy [1962] ECR, p. 10; see also Case C-249/06 Commission v. Sweden [2009] ECR I-1348, para. 34). 110. The Court thus turns to the Respondent’s narrower interpretation of Article 22, i.e., that “duties” under a prior treaty would take precedence over obligations in the Interim Accord. Accepting, arguendo, that narrower interpretation, the next step in the Court’s analysis would be to evaluate whether the Respondent has duties under the North Atlantic Treaty with which it cannot comply without being in breach of its obligation not to object to the Applicant’s admission to NATO. Thus, to evaluate the effect of Article 22, if interpreted in the manner suggested by the Respondent in the 196 GIURISPRUDENZA narrower and later version of its argument, the Court must also examine whether the Respondent has established that the North Atlantic Treaty imposed a duty on it to object to the Applicant’s admission to NATO. 111. The Respondent offers no persuasive argument that any provision of the North Atlantic Treaty required it to object to the Applicant’s membership. Instead the Respondent attempts to convert a general “right” to take a position on membership decisions into a “duty” by asserting a “duty” to exercise judgment as to membership decisions that frees the Respondent from its obligation not to object to the Applicant’s admission to an organization. This argument suffers from the same deficiency as the broader interpretation of Article 22 initially advanced by the Respondent, namely, that it would erase the value of the first clause of Article 11, paragraph 1. Thus, the Court concludes that the Respondent has not demonstrated that a requirement under the North Atlantic Treaty compelled it to object to the admission of the Applicant to NATO. 112. As a result of the foregoing analysis, the Court concludes that the Respondent’s attempt to rely on Article 22 is unsuccessful. Accordingly, the Court need not decide which of the two Parties’ interpretations is the correct one. 4. Conclusion concerning whether the Respondent failed to comply with Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord 113. Thus, the Court concludes that the Respondent failed to comply with its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord by objecting to the Applicant’s admission to NATO at the Bucharest Summit. The prospect that the Applicant would refer to itself in NATO using its constitutional name did not render that objection lawful under the exception contained in the second clause of Article 11, paragraph 1. In the circumstances of the present case, Article 22 of the Interim Accord does not provide a basis for the Respondent to make an objection that is inconsistent with Article 11, paragraph 1. IV. ADDITIONAL JUSTIFICATIONS INVOKED BY THE RESPONDENT 114. As an alternative to its main argument that the Respondent complied with its obligations under the Interim Accord, the Respondent contends that the wrongfulness of any objection to the admission of the Applicant to NATO is precluded by the doctrine of exceptio non adimpleti contractus. The Respondent also suggests that any failure to comply with its obligations under the Interim Accord could be justified both as a response to a material breach of a treaty and as a countermeasure under the law of State responsibility. The Court will begin by summarizing the Parties’ arguments with respect to those three additional justifications. 1. The Parties’ arguments with regard to the Respondent’s additional justifications A. The Parties’ arguments with regard to the exceptio non adimpleti contractus 115. The Respondent states that the exceptio non adimpleti contractus is a general principle of international law that permits the Respondent “to withhold the execution of its own obligations which are reciprocal to those not performed by [the Applicant]”. According to the Respondent, the exceptio would apply in respect of the failure of one GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 197 party to perform a “fundamental provision” of the Interim Accord. In the view of the Respondent, the exceptio permits a State suffering breaches of treaty commitments by another State to respond by unilaterally suspending or terminating its own corresponding obligations. In particular, the Respondent contends that its obligation not to object (under Article 11, paragraph 1) is linked in a synallagmatic relationship with the obligations of the Applicant in Articles 5, 6, 7 and 11 of the Interim Accord, and thus that under the exceptio, breaches by the Applicant of these obligations preclude the wrongfulness of any non-performance by the Respondent of its obligation not to object to the Applicant’s admission to NATO. 116. The Respondent also states that “the conditions triggering the exception of non-performance are different from and less rigid than the conditions for suspending a treaty or precluding wrongfulness by way of countermeasures”. According to the Respondent, the exceptio “does not have to be notified or proven beforehand ... There are simply no procedural requirements to the exercise of the staying of the performance through the mechanism of the exceptio.” The Respondent also points to several situations in which it maintains that it complained to the Applicant about the Applicant’s alleged failure to comply with its obligations under the Interim Accord. 117. The Applicant asserts that the Respondent has failed to demonstrate that the exceptio is a general principle of international law. The Applicant also argues that Article 60 of the 1969 Vienna Convention provides a complete set of rules and procedures governing responses to material breaches under the law of treaties and that the exceptio is not recognized as justifying non-performance under the law of State responsibility. The Applicant further disputes the Respondent’s contention that the Applicant’s obligations under Articles 5, 6 and 7 of the Interim Accord are synallagmatic with the Respondent’s obligation not to object in Article 11, paragraph 1. The Applicant also takes the position that the Respondent did not raise the breaches upon which it now relies until after the Respondent objected to the Applicant’s admission to NATO. B. The Parties’ arguments with regard to a response to material breach 118. The Respondent maintains that any disregard of its obligations under the Interim Accord could be justified as a response to a material breach of a treaty. The Respondent initially stated that it was not seeking to suspend the Interim Accord in whole or in part pursuant to the 1969 Vienna Convention, but later took the position that partial suspension of the Interim Accord is “justified” under Article 60 of the 1969 Vienna Convention (to which both the Applicant and Respondent are parties) because the Applicant’s breaches were material. The Respondent took note of the procedural requirements contained in Article 65 of the 1969 Vienna Convention, but asserted that, if a State is suspending part of a treaty “in answer to another party ... alleging its violation”, ex ante notice is not required. 119. The Applicant contends that the Respondent never alerted the Applicant to any alleged material breach of the Interim Accord and never sought to invoke a right of suspension under Article 60 of the 1969 Vienna Convention. The Applicant notes that the Respondent confirmed its non-reliance on Article 60 in the Counter-Memorial. In addition, the Applicant calls attention to the “specific and detailed” procedural requirements of Article 65 of the 1969 Vienna Convention and asserts that the 198 GIURISPRUDENZA Respondent has not met those. The Applicant further contends that prior to the Bucharest Summit, the Respondent never notified the Applicant of any ground for suspension of the Interim Accord, of its view that the Applicant had breached the Interim Accord or that the Respondent was suspending the Interim Accord. C. The Parties’ arguments with regard to countermeasures 120. The Respondent also argues that any failure to comply with its obligations under the Interim Accord could be justified as a countermeasure. As with the Respondent’s argument regarding suspension in response to a material breach, the Respondent’s position on countermeasures evolved during the proceedings. Initially, the Respondent stated that it did not claim that any objection to the Applicant’s admission to NATO was justified as a countermeasure. Later, the Respondent stated that its “supposed objection would fulfil the requirements for countermeasures”. The Respondent described the defence as “doubly subsidiary”, meaning that it would play a role only if the Court found the Respondent to be in breach of the Interim Accord and if it concluded that the exceptio did not preclude the wrongfulness of the Respondent’s conduct. 121. The Respondent discusses countermeasures with reference to the requirements reflected in the International Law Commission Articles on State Responsibility (Annex to General Assembly resolution 56/83, 12 December 2001, hereinafter referred to as “the ILC Articles on State Responsibility”). It asserts that the Applicant’s violations were serious and that the Respondent’s responses were consistent with the conditions reflected in the ILC Articles on State Responsibility, which it describes as requiring that countermeasures be proportionate, be taken for the purpose of achieving cessation of the wrongful act and be confined to the temporary non-performance of the Respondent’s obligation not to object. The Respondent also states that the Applicant was repeatedly informed of the Respondent’s positions. 122. The Applicant calls attention to the requirements in the ILC Articles on State Responsibility that countermeasures must be taken in response to a breach by the other State, must be proportionate to those breaches and must be taken only after notice to the other State. In the view of the Applicant, none of these requirements were met. The Applicant further states its view that the requirements for the imposition of countermeasures contained in the ILC Articles on State Responsibility reflect “general international law”. 2. The Respondent’s allegations that the Applicant failed to comply with its obligations under the Interim Accord 123. The Court observes that while the Respondent presents separate arguments relating to the exceptio, partial suspension under Article 60 of the 1969 Vienna Convention, and countermeasures, it advances certain minimum conditions that are common to all three arguments. First, the Respondent bases each argument on the allegation that the Applicant breached several provisions of the Interim Accord prior to the Respondent’s objection to the Applicant’s admission to NATO. Secondly, each argument, as framed by the Respondent, requires the Respondent to show that its objection to the Applicant’s admission to NATO was made in response to the alleged breach or breaches by the Applicant, in other words, to demonstrate a connection GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 199 between any breach by the Applicant and any objection by the Respondent. With these conditions in mind, the Court turns to the evidence regarding the alleged breaches by the Applicant. As previously noted (see paragraph 72), it is in principle the duty of the party that asserts certain facts to establish the existence of such facts. A. Alleged breach by the Applicant of the second clause of Article 11, paragraph 1 124. The Court begins with the Respondent’s claim that the second clause of Article 11, paragraph 1, imposes an obligation on the Applicant not to be referred to in an international organization or institution by any reference other than the provisional designation (as “the former Yugoslav Republic of Macedonia”). The Respondent alleges that the Applicant has failed to comply with such an obligation. 125. The Applicant, for its part, asserts that the second clause of Article 11, paragraph 1, does not impose an obligation on the Applicant, but instead specifies the single circumstance under which the Respondent may object to admission. 126. The Court notes that on its face, the text of the second clause of Article 11, paragraph 1, does not impose an obligation upon the Applicant. The Court further notes that, just as other provisions of the Interim Accord impose obligations only on the Applicant, Article 11, paragraph 1, imposes an obligation only on the Respondent. The second clause contains an important exception to this obligation, but that does not transform it into an obligation upon the Applicant. Accordingly, the Court finds no breach by the Applicant of this provision. B. Alleged breach by the Applicant of Article 5, paragraph 1 127. The Court next considers the Respondent’s allegation that the Applicant breached its obligation to negotiate in good faith. It will be recalled that Article 5, paragraph 1, of the Interim Accord provides: “The Parties agree to continue negotiations under the auspices of the Secretary-General of the United Nations pursuant to Security Council resolution 845 (1993) with a view to reaching agreement on the difference described in that resolution and in Security Council resolution 817 (1993).” 128. The Respondent asserts that the Parties understood that the negotiations pursuant to Article 5, paragraph 1, have always been meant to reach agreement on a single name that would be used for all purposes. The Respondent contends that the Applicant has departed from this understanding by pressing for a “dual formula” whereby the negotiations are “limited solely to finding a name for use in the bilateral relations of the Parties” and thus has attempted “unilaterally to redefine the object and purpose of [the] negotiations”. The Respondent further contends that the Applicant’s continuous use of its constitutional name to refer to itself and its policy of securing third-State recognition under that name deprives the negotiations of their object and purpose. The Respondent also makes the more general allegation that the Applicant has adopted an intransigent and inflexible stance during the negotiations over the name. 129. The Applicant, on the other hand, is of the view that it “gave no undertaking under resolution 817, the Interim Accord or otherwise to call itself by the provisional reference” (emphasis in the original) and maintains that its efforts to build third-State 200 GIURISPRUDENZA support for its constitutional name do not violate its obligation to negotiate in good faith, as required by Article 5, paragraph 1. The Applicant contends that the Interim Accord did not prejudge the outcome of the negotiations required by Article 5, paragraph 1, by prescribing that those negotiations result in a single name to be used for all purposes. In addition, the Applicant argues that it showed openness to compromises and that it was the Respondent that was intransigent. 130. The Court observes that it is within the jurisdiction of the Court to examine the question raised by the Respondent of whether the Parties were engaged in good faith negotiations pursuant to Article 5, paragraph 1, without addressing the substance of, or expressing any views on, the name difference itself, which is excluded from the Court’s jurisdiction under Article 21, paragraph 2, of the Interim Accord (see paragraphs 28 to 38 above). 131. At the outset, the Court notes that although Article 5, paragraph 1, contains no express requirement that the Parties negotiate in good faith, such obligation is implicit under this provision (see 1969 Vienna Convention, Article 26; see also Delimitation of the Maritime Boundary in the Gulf of Maine Area (Canada/United States of America), Judgment, I.C.J. Reports 1984, p. 292, para. 87; Fisheries Jurisdiction (United Kingdom v. Iceland), Judgment, I.C.J. Reports 1974, pp. 33-34, paras. 78-79; Fisheries Jurisdiction (Federal Republic of Germany v. Iceland), Merits, Judgment, I.C.J. Reports 1974, p. 202, para. 69; Nuclear Tests (Australia v. France), Judgment, I.C.J. Reports 1974, p. 268, para. 46; Nuclear Tests (New Zealand v. France), Judgment, I.C.J. Reports 1974, p. 473, para. 49; North Sea Continental Shelf (Federal Republic of Germany/Denmark; Federal Republic of Germany/Netherlands), Judgment, I.C.J. Reports 1969, pp. 46-47, para. 85). 132. The Court notes that the meaning of negotiations for the purposes of dispute settlement, or the obligation to negotiate, has been clarified through the jurisprudence of the Court and that of its predecessor, as well as arbitral awards. As the Permanent Court of International Justice already stated in 1931 in the case concerning Railway Traffic between Lithuania and Poland, the obligation to negotiate is first of all “not only to enter into negotiations, but also to pursue them as far as possible, with a view to concluding agreements”. No doubt this does not imply “an obligation to reach an agreement” (Railway Traffic between Lithuania and Poland, Advisory Opinion, 1931, P.C.I.J., Series A/B, No. 42, p. 116; see also Pulp Mills on the River Uruguay (Argentina v. Uruguay), Judgment of 20 April 2010, para. 150), or that lengthy negotiations must be pursued of necessity (Mavrommatis Palestine Concessions, Judgment No. 2, 1924, P.C.I.J., Series A, No. 2, p. 13). However, States must conduct themselves so that the “negotiations are meaningful”. This requirement is not satisfied, for example, where either of the parties “insists upon its own position without contemplating any modification of it” (North Sea Continental Shelf (Federal Republic of Germany/Denmark; Federal Republic of Germany/Netherlands), Judgment, I.C.J. Reports 1969, p. 47, para. 85; see also Pulp Mills on the River Uruguay (Argentina v. Uruguay), Judgment of 20 April 2010, para. 146) or where they obstruct negotiations, for example, by interrupting communications or causing delays in an unjustified manner or disregarding the procedures agreed upon (Lake Lanoux Arbitration (Spain/France) (1957), United Nations, Reports of International Arbitral Awards (RIAA), Vol. XII , p. 307). Negotiations with a view to reaching an agreement also imply that the parties should pay reasonable regard to the interests of the other (Fisheries Jurisdiction (United Kingdom GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 201 v. Iceland), Merits, Judgment, I.C.J. Reports 1974, p. 33, para. 78). As for the proof required for finding of the existence of bad faith (a circumstance which would justify either Party in claiming to be discharged from performance), “something more must appear than the failure of particular negotiations” (Arbitration on the Tacna-Arica question (Chile/Peru) (1925), RIAA, Vol. II, p. 930). It could be provided by circumstantial evidence but should be supported “not by disputable inferences but by clear and convincing evidence which compels such a conclusion” (ibid.). 133. The Court turns to examine whether the obligation to negotiate in good faith was met in the present case in light of the standards set out above. 134. The Court observes that the failure of the Parties to reach agreement, 16 years after the conclusion of the Interim Accord, does not itself establish that either Party has breached its obligation to negotiate in good faith. Whether the obligation has been undertaken in good faith cannot be measured by the result obtained. Rather, the Court must consider whether the Parties conducted themselves in such a way that negotiations may be meaningful. 135. The record indicates that, during the course of the negotiations pursuant to Article 5, paragraph 1, the Applicant had resisted suggestions that it depart from its constitutional name and that the Respondent had opposed the use of “Macedonia” in the name of the Applicant. In addition, the record reveals that political leaders of both Parties at times made public statements that suggested an inflexible position as to the name difference, including in the months prior to the Bucharest Summit. Although such statements raise concerns, there is also evidence that the United Nations mediator presented the Parties with a range of proposals over the years and, in particular, expressed the view that, in the time period prior to the Bucharest Summit, the Parties were negotiating in earnest. Taken as a whole, the evidence from this period indicates that the Applicant showed a degree of openness to proposals that differed from either the sole use of its constitutional name or the “dual formula”, while the Respondent, for its part, apparently changed its initial position and in September 2007 declared that it would agree to the word “Macedonia” being included in the Applicant’s name as part of a compound formulation. 136. In particular, in March 2008, the United Nations mediator proposed that the Applicant adopt the name “Republic of Macedonia (Skopje)” for all purposes. According to the record before the Court, the Applicant expressed a willingness to put this name to a referendum. The record also indicates that it was the Respondent who rejected this proposed name. 137. The Court also notes that the United Nations mediator made comments during the period January-March 2008 that characterized the negotiations in positive terms, noting the Parties’ obvious desire to settle their differences. 138. Thus, the Court concludes that the Respondent has not met its burden of demonstrating that the Applicant breached its obligation to negotiate in good faith. C. Alleged breach by the Applicant of Article 6, paragraph 2 139. Article 6, paragraph 2, provides: 202 GIURISPRUDENZA “The Party of the Second Part hereby solemnly declares that nothing in its Constitution, and in particular in Article 49 as amended, can or should be interpreted as constituting or will ever constitute the basis for the Party of the Second Part to interfere in the internal affairs of another State in order to protect the status and rights of any persons in other States who are not citizens of the Party to the Second Part.” 140. The Respondent’s allegations under this heading relate principally to the Applicant’s efforts to support or to advocate on behalf of persons now resident in the Applicant’s territory (who are also, in some cases, the Applicant’s nationals) who left or were expelled from the Respondent’s territory in connection with its civil war in the 1940s (or who are the descendants of such persons) and who assert claims in relation to, among other things, abandoned property in the Respondent’s territory. Some allegations on which the Respondent relies refer to events subsequent to the Bucharest Summit. Thus, the objection at the Summit could not have been a response to them. The Respondent also complains about the Applicant’s alleged efforts to support a “Macedonian minority” in the Respondent’s territory made up of persons who are also the Respondent’s nationals. 141. For its part, the Applicant asserts that its concern for the human rights of minority groups in the Respondent’s territory and for the human rights of its own citizens cannot reasonably be viewed as constituting interference in the Respondent’s internal affairs. 142. The Court finds that the allegations on which the Respondent relies appear to be divorced from the text of Article 6, paragraph 2, which addresses only the Applicant’s interpretation of its Constitution. The Respondent has presented no convincing evidence to suggest that the Applicant has interpreted its Constitution as providing a right to interfere in the Respondent’s internal affairs on behalf of persons not citizens of the Applicant. The Court therefore does not find that the Applicant breached Article 6, paragraph 2, prior to the Bucharest Summit. D. Alleged breach by the Applicant of Article 7, paragraph 1 143. Article 7, paragraph 1, provides: “Each Party shall promptly take effective measures to prohibit hostile activities or propaganda by State-controlled agencies and to discourage acts by private entities likely to incite violence, hatred or hostility against each other.” 144. The Respondent alleges that the Applicant breached this provision based on its failure to take effective measures to prohibit hostile activities by State-controlled agencies, citing, for example, allegations relating to the content of school textbooks. In that respect, the Respondent refers to history textbooks used in the Applicant’s schools that depict a historic “Greater Macedonia” and that present certain historical figures as the ancestors of the Applicant’s current population. According to the Respondent, these and other examples demonstrate that the Applicant has taken no measures to prohibit hostile activities directed against the Respondent and has actively engaged in such propaganda. GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 203 145. The Respondent also alleges that the Applicant breached a second obligation set forth in Article 7, paragraph 1: the obligation to discourage acts by private entities likely to incite violence, hatred or hostility against the Respondent. In particular, the Respondent cites an incident on 29 March 2008 (in the days prior to the Bucharest Summit) in which several outdoor billboards in Skopje depicted an altered image of the Respondent’s flag. In addition, the Respondent alleges a consistent failure by the Applicant to protect the premises and personnel of the Respondent’s Liaison Office in Skopje. 146. For its part, the Applicant asserts that the school textbooks reflect differences concerning the history of the region. It further claims that the billboards in Skopje in March 2008 were erected by private individuals and that it acted promptly to have them removed. The Applicant denies the allegations regarding the Respondent’s diplomatic staff and premises and refers the Court to documents relating to its efforts to provide adequate protection to those diplomatic staff and premises and to investigate the incidents alleged by the Respondent. 147. Based on its review of the Parties’ arguments and the extensive documentation submitted in relation to these allegations, the Court finds that the evidence cannot sustain a finding that the Applicant committed a breach of Article 7, paragraph 1, prior to the Bucharest Summit. The textbook content described above does not provide a basis to conclude that the Applicant has failed to prohibit “hostile activities or propaganda”. Furthermore, the Respondent has not demonstrated convincingly that the Applicant failed “to discourage” acts by private entities likely to incite violence, hatred or hostility towards the Respondent. The Applicant’s assertion that it took prompt action in response to the March 2008 billboards was not challenged by the Respondent, and the evidence shows that, at a minimum, the Applicant issued a statement seeking to distance itself from the billboards. The Court notes the obligation to protect the premises of the diplomatic mission and to protect any disturbance of the peace or impairment of its dignity contained in Article 22 of the Vienna Convention on Diplomatic Relations, and observes that any incident in which there is damage to diplomatic property is to be regretted. Nonetheless, such incidents do not ipso facto demonstrate a breach by the Applicant of its obligation under Article 7, paragraph 1, “to discourage” certain acts by private entities. Moreover, the Applicant introduced evidence demonstrating its efforts to provide adequate protection to the Respondent’s diplomatic staff and premises. E. Alleged breach by the Applicant of Article 7, paragraph 2 148. Article 7, paragraph 2, provides: “Upon entry into force of this Interim Accord, the Party of the Second Part shall cease to use in any way the symbol in all its forms displayed on its national flag prior to such entry into force.” 149. The Respondent asserts that the Applicant has used the symbol described in Article 7, paragraph 2, in various ways since the Interim Accord entered into force, thus violating this provision. 150. The Respondent does not dispute that the Applicant has changed its flag, as required. The Respondent’s allegations relate to the use of the symbol in other 204 GIURISPRUDENZA contexts, including an alleged use by a regiment of the Applicant’s army depicted in a publication of the Applicant’s Ministry of Defence in 2004. The record indicates that the Respondent raised its concerns to the Applicant about that use of the symbol at that time and the Applicant does not refute the claim that the regiment did use the symbol. 151. The Applicant asserts that the regiment in question was disbanded in 2004 (an assertion left unchallenged by the Respondent), and there is no allegation by the Respondent that the symbol continued to be used in that way after 2004. 152. The Respondent also introduces evidence with respect to fewer than ten additional instances in which the symbol has been used in the territory of the Applicant in various ways, mainly in connection with either publications or public displays. 153. The Court observes that these allegations relate either to the activities of private persons or were not communicated to the Applicant until after the Bucharest Summit. Nevertheless, as previously noted, the record does support the conclusion that there was at least one instance in which the Applicant’s army used the symbol prohibited by Article 7, paragraph 2, of the Interim Accord. F. Alleged breach by the Applicant of Article 7, paragraph 3 154. Article 7, paragraph 3, provides: “If either Party believes one or more symbols constituting part of its historic or cultural patrimony is being used by the other Party, it shall bring such alleged use to the attention of the other Party, and the other Party shall take appropriate corrective action or indicate why it does not consider it necessary to do so.” 155. The Respondent asserts that Article 7, paragraph 3, means that each party should abstain from using the symbols referred to therein because such conduct could undermine the objectives of the Interim Accord. The Respondent further asserts that the Applicant has violated this provision in a variety of ways, including by issuing stamps, erecting statues and renaming the airport of the capital. 156. The Court notes that in contrast to Article 7, paragraph 2, the text of Article 7, paragraph 3, does not expressly prohibit the Applicant from using the symbols that it describes. Rather, it establishes a procedure for situations in which one Party believes the other Party to be using its historical or cultural symbols. 157. Because Article 7, paragraph 3, does not contain any prohibition on the use of particular symbols, the renaming of an airport could not itself constitute a breach. The threshold question is thus whether the Respondent brought its concern “to the attention” of the Applicant prior to the Bucharest Summit. The Respondent introduced evidence showing that in December 2006, the Respondent’s Foreign Minister described the Applicant’s conduct as “not consistent with the obligations concerning good neighbourly relations that emanate from the Interim Agreement” and as not serving “Skopje’s Euro-Atlantic aspirations”, without, however, referring expressly to the renaming of the airport. During a parliamentary meeting in February 2007, the Respondent’s Foreign Minister expressly characterized the Applicant’s renaming of the GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 205 airport as a breach of the Interim Accord. There is no evidence of communication to the Applicant on this matter. 158. Although it does not appear that the Respondent brought its concern to the attention of the Applicant in a manner contemplated by Article 7, paragraph 3, the Applicant was aware of the Respondent’s concern, and the Applicant’s Foreign Minister explained the rationale behind the renaming of the airport in a January 2007 interview to a Greek newspaper. 159. On the basis of this record, the Court concludes that the Respondent has not discharged its burden to demonstrate a breach of Article 7, paragraph 3, by the Applicant. *** 160. In light of this analysis of the Respondent’s allegations that the Applicant breached several of its obligations under the Interim Accord, the Court concludes that the Respondent has established only one such breach. Namely, the Respondent has demonstrated that the Applicant used the symbol prohibited by Article 7, paragraph 2, of the Interim Accord in 2004. After the Respondent raised the matter with the Applicant in 2004, the use of the symbol was discontinued during that same year. With these conclusions in mind, the Court will next state its findings regarding each of the three justifications advanced by the Respondent. 3. Conclusions concerning the Respondent’s additional justifications A. Conclusion concerning the exceptio non adimpleti contractus 161. Having reviewed the Respondent’s allegations of breaches by the Applicant, the Court returns to the Respondent’s contention that the exceptio, as it is defined by the Respondent, precludes the Court from finding that the Respondent breached its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. The Court recalls that in all but one instance (the use of the symbol prohibited by Article 7, paragraph 2 (see paragraph 153)), the Respondent failed to establish any breach of the Interim Accord by the Applicant. In addition, the Respondent has failed to show a connection between the Applicant’s use of the symbol in 2004 and the Respondent’s objection in 2008 — that is, evidence that when the Respondent raised its objection to the Applicant’s admission to NATO, it did so in response to the apparent violation of Article 7, paragraph 2, or, more broadly, on the basis of any belief that the exceptio precluded the wrongfulness of its objection. The Respondent has thus failed to establish that the conditions which it has itself asserted would be necessary for the application of the exceptio have been satisfied in this case. It is, therefore, unnecessary for the Court to determine whether that doctrine forms part of contemporary international law. B. Conclusion concerning a response to material breach 162. As described above (see paragraph 118), the Respondent also suggested that its objection to the Applicant’s admission to NATO could have been regarded as a response, within Article 60 of the 1969 Vienna Convention, to material breaches of the Interim Accord allegedly committed by the Applicant. Article 60, paragraph 3 (b), of 206 GIURISPRUDENZA the 1969 Vienna Convention provides that a material breach consists in “the violation of a provision essential to the accomplishment of the object or purpose of the treaty”. 163. The Court recalls its analysis of the Respondent’s allegations of breach at paragraphs 124 to 159 above and its conclusion that the only breach which has been established is the display of a symbol in breach of Article 7, paragraph 2, of the Interim Accord, a situation which ended in 2004. The Court considers that this incident cannot be regarded as a material breach within the meaning of Article 60 of the 1969 Vienna Convention. Moreover, the Court considers that the Respondent has failed to establish that the action which it took in 2008 in connection with the Applicant’s application to NATO was a response to the breach of Article 7, paragraph 2, approximately four years earlier. Accordingly, the Court does not accept that the Respondent’s action was capable of falling within Article 60 of the 1969 Vienna Convention. C. Conclusion concerning countermeasures 164. As described above (see paragraphs 120 and 121), the Respondent also argues that its objection to the Applicant’s admission to NATO could be justified as a proportionate countermeasure in response to breaches of the Interim Accord by the Applicant. As the Court has already made clear, the only breach which has been established by the Respondent is the Applicant’s use in 2004 of the symbol prohibited by Article 7, paragraph 2, of the Interim Accord. Having reached that conclusion and in the light of its analysis at paragraphs 72 to 83 concerning the reasons given by the Respondent for its objection to the Applicant’s admission to NATO, the Court is not persuaded that the Respondent’s objection to the Applicant’s admission was taken for the purpose of achieving the cessation of the Applicant’s use of the symbol prohibited by Article 7, paragraph 2. As the Court noted above, the use of the symbol that supports the finding of a breach of Article 7, paragraph 2, by the Applicant had ceased as of 2004. Thus, the Court rejects the Respondent’s claim that its objection could be justified as a countermeasure precluding the wrongfulness of the Respondent’s objection to the Applicant’s admission to NATO. Accordingly, there is no reason for the Court to consider any of the additional arguments advanced by the Parties with respect to the law governing countermeasures. 165. For the foregoing reasons, the additional justifications submitted by the Respondent fail. *** 166. Lastly, the Court emphasizes that the 1995 Interim Accord places the Parties under a duty to negotiate in good faith under the auspices of the Secretary-General of the United Nations pursuant to the pertinent Security Council resolutions with a view to reaching agreement on the difference described in those resolutions. *** V. REMEDIES 167. The Court recalls that, in its final submissions pertaining to the merits of the present case, the Applicant seeks two remedies which it regarded as constituting appropriate redress for claimed violations of the Interim Accord by the Respondent. First, the Applicant seeks relief in the form of a declaration of the Court that the GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE 207 Respondent has acted illegally, and secondly, it requests relief in the form of an order of the Court that the Respondent henceforth refrain from any action that violates its obligations under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. 168. As elaborated above, the Court has found a violation by the Respondent of its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. As to possible remedies for such a violation, the Court finds that a declaration that the Respondent violated its obligation not to object to the Applicant’s admission to or membership in NATO is warranted. Moreover, the Court does not consider it necessary to order the Respondent, as the Applicant requests, to refrain from any future conduct that violates its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord. As the Court previously explained, “[a]s a general rule, there is no reason to suppose that a State whose act or conduct has been declared wrongful by the Court will repeat that act or conduct in the future, since its good faith must be presumed” (Navigational and Related Rights (Costa Rica v. Nicaragua), Judgment, I.C.J. Reports 2009, p. 267, para. 150). 169. The Court accordingly determines that its finding that the Respondent has violated its obligation to the Applicant under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord, constitutes appropriate satisfaction. *** 170. For these reasons, THE COURT, (1) By fourteen votes to two, Finds that it has jurisdiction to entertain the Application filed by the former Yugoslav Republic of Macedonia on 17 November 2008 and that this Application is admissible; IN FAVOUR: President Owada; Vice-President Tomka; Judges Koroma, Simma, Abraham, Keith, Sepúlveda-Amor, Bennouna, Skotnikov, Cançado Trindade, Yusuf, Greenwood, Donoghue; Judge ad hoc Vukas; AGAINST: Judge Xue; Judge ad hoc Roucounas; (2) By fifteen votes to one, Finds that the Hellenic Republic, by objecting to the admission of the former Yugoslav Republic of Macedonia to NATO, has breached its obligation under Article 11, paragraph 1, of the Interim Accord of 13 September 1995; IN FAVOUR: President Owada; Vice-President Tomka; Judges Koroma, Simma, Abraham, Keith, Sepúlveda-Amor, Bennouna, Skotnikov, Cançado Trindade, Yusuf, Greenwood, Xue, Donoghue; Judge ad hoc Vukas; AGAINST: Judge ad hoc Roucounas; (3) By fifteen votes to one, Rejects all other submissions made by the former Yugoslav Republic of Macedonia. IN FAVOUR: President Owada; Vice-President Tomka; Judges Koroma, Simma, Abraham, Keith, Sepúlveda-Amor, Bennouna, Skotnikov, Cançado Trindade, Yusuf, Greenwood, Xue, Donoghue; Judge ad hoc Roucounas; AGAINST: Judge ad hoc Vukas. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA Art. 6 TUE - Art. 80 TFUE - Carta dei diritti fondamentali - Protocollo n. 30 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali alla Polonia e al Regno Unito - Regolamento (CE) n. 343/2003 - Attuazione del diritto dell’Unione Divieto di trattamenti inumani o degradanti - Sistema europeo comune di asilo - Potere di uno Stato membro di esaminare una domanda di asilo quando non ne è competente in base al regolamento - Trasferimento di un richiedente asilo verso lo Stato membro competente - Presunzione relativa di rispetto, da parte di tale Stato membro, dei diritti fondamentali. Le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. L’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 sulla determinazione dello Stato competente all’esame delle domande di asilo riconosce ad uno Stato membro il potere discrezionale di esaminare una domanda allorché non ne sarebbe competente in base ai criteri enunciati dal regolamento. Tuttavia, tale potere discrezionale deve essere esercitato nel rispetto delle altre disposizioni dello stesso regolamento. Pertanto, la decisione di uno Stato membro di esaminare una domanda dà attuazione al diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 6 TUE o dell’art. 51 della Carta. Il sistema europeo d’asilo è fondato sull’applicazione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e sul principio di non refoulement. Inoltre, le normative pertinenti nelle cause principali riguardanti il trattamento dei richiedenti asilo e l’esame delle domande richiedono che siano osservati i diritti fondamentali e i principi enunciati dalla Carta. Gli Stati membri sono tenuti non solo ad interpretare il loro diritto nazionale conformemente al diritto dell’Unione, ma anche a non accogliere un’interpretazione di norme di diritto derivato che entri in conflitto con i diritti fondamentali o con gli altri principi generali del diritto dell’Unione. Il sistema europeo comune di asilo è fondato su un principio di reciproca fiducia e si basa sulla presunzione che il trattamento riservato ai richiedenti asilo in ciascuno degli Stati membri sia conforme a quanto prescritto dalla Carta, dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 209 Non si può escludere, tuttavia, che tale sistema possa incontrare in pratica gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, con il rischio che un richiedente asilo sia trattato, in caso di trasferimento verso tale Stato, in modo incompatibile con i suoi diritti fondamentali. Non per questo, però, qualunque violazione di un diritto fondamentale da parte dello Stato membro competente incide sugli obblighi degli altri Stati membri di rispettare le disposizioni del regolamento n. 343/2003. Non sarebbe compatibile con gli obiettivi e il sistema del regolamento che la minima violazione delle direttive rilevanti sia sufficiente per impedire qualunque trasferimento di un richiedente verso lo Stato competente. Per contro nell’ipotesi in cui si abbia motivo di temere seriamente che sussistano, nello Stato competente, carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti che implichino un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta, tale trasferimento sarebbe incompatibile con detta disposizione. Gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro competente ai sensi del regolamento quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta. L’impossibilità di trasferire il richiedente verso lo Stato membro competente impone allo Stato nel quale il richiedente si trova di verificare se uno dei criteri ulteriori previsti dal regolamento permetta di identificare un altro Stato membro come competente ad esaminare la domanda d’asilo. All’occorrenza lo Stato in cui il richiedente si trova è tenuto ad esaminare esso stesso la domanda in modo da non aggravare una situazione di violazione dei diritti fondamentali del richiedente a motivo di un procedimento di determinazione dello Stato competente che abbia durata irragionevole. Il Protocollo n. 30 non rimette in questione l’applicabilità della Carta al Regno Unito o alla Polonia, come risulta dal preambolo dello stesso Protocollo. Occorre altresì considerare che la Carta si limita a ribadire i diritti, libertà e principi già riconosciuti nell’Unione senza creare nuovi diritti o principi. Tale Protocollo non ha per oggetto di esonerare la Repubblica di Polonia e il Regno Unito dall’obbligo di rispettare le disposizioni della 210 GIURISPRUDENZA Carta né di impedire ad un giudice di uno di questi Stati membri di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni. Poiché i diritti in discussione nei procedimenti principali non fanno parte del titolo IV della Carta non vi è motivo di pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 1, par. 2, del Protocollo. CORTE DI GIUSTIZIA (grande sezione), 21 dicembre 2011 - Pres. SKOURIS, avv. gen. TRSTENJAK - N.S. c. Secretary of State for the Home Department e altri (cause riunite C-411/10 e C-493/10) (1). 1. Le due domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione, in primo luogo, dell’art. 3, par. 2, del regolamento (CE) del Consiglio 18 febbraio 2003 n. 343, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (G.U.U.E. L 50, p. 1); in secondo luogo, dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, compresi i diritti enunciati agli articoli 1, 4, 18, 19, n. 2, e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (in prosieguo: la « Carta »), e, in terzo luogo, del Protocollo (n. 30) sull’applicazione della Carta alla Polonia e al Regno Unito [(G.U.U.E. 2010 C 83, p. 313); in prosieguo: il « Protocollo (n. 30) »]. 2. Dette domande sono state sollevate nell’ambito di una serie di controversie tra richiedenti asilo da rinviare in Grecia in applicazione del regolamento n. 343/2003 e le autorità, rispettivamente, del Regno Unito e irlandesi. Contesto normativo Il diritto internazionale 3. La Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations Unies vol. 189, p. 150, n. 2545 (1954) (in prosieguo: la « Convenzione di Ginevra »)], è entrata in vigore il 22 aprile 1954 ed è stata completata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati del 31 gennaio 1967 (in prosieguo: il « Protocollo del 1967 »), entrato in vigore il 4 ottobre 1967. 4. Tutti gli Stati membri sono parti contraenti della Convenzione di Ginevra e del Protocollo del 1967, così come la Repubblica d’Islanda, il Regno di Norvegia, la Confederazione svizzera e il Principato del Liechtenstein. L’Unione non è parte contraente della Convenzione di Ginevra e neppure del Protocollo del 1967, ma l’art. 78 TFUE e l’art. 18 della Carta prevedono che il diritto di asilo sia garantito, in particolare, nel rispetto di detta Convenzione e di detto Protocollo. (1) Le sentenze 2 marzo 2010, cause riunite C-175/08, C-176/08, C-178/08 e C-179/08 (Salahadin Abdulla e a.), 17 giugno 2010, causa C-31/09 (Bolbol), 5 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU (McB.), citate nella motivazione, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 2010, pp. 870 ss. e 888 ss., e 2011, p. 237 ss. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 211 5. L’art. 33 della Convenzione di Ginevra, rubricato « Divieto di espulsione e di rinvio al confine », stabilisce, al suo par. 1, quanto segue: « Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. » Il sistema europeo comune di asilo 6. Al fine di realizzare l’obiettivo, fissato dal Consiglio europeo di Strasburgo dell’8 e 9 dicembre 1989, di un’armonizzazione delle loro politiche di asilo, gli Stati membri hanno firmato a Dublino, il 15 giugno 1990, la Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee (G.U.U.E. 1997 C 254, p. 1; in prosieguo: la « Convenzione di Dublino »). Detta Convenzione è entrata in vigore il 1º settembre 1997 per i dodici Stati firmatari iniziali, il 1º ottobre 1997 per la Repubblica d’Austria e il Regno di Svezia e il 1º gennaio 1998 per la Repubblica di Finlandia. 7. Le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 prevedevano, in particolare, l’istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, basato sull’applicazione, in ogni sua componente, della Convenzione di Ginevra, in modo da garantire che nessuno sarebbe stato rinviato in un luogo in cui rischiava di essere nuovamente perseguitato, in ottemperanza al principio di non respingimento. 8. Il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 ha introdotto l’art. 63 nel Trattato CE, che dava competenza alla Comunità europea per adottare le misure raccomandate dal Consiglio europeo di Tampere. Questo Trattato ha altresì accluso al Trattato CE il Protocollo (n. 24) sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea (G.U.U.E 2010 C 83, p. 305), a termini del quale tali Stati si considerano reciprocamente paesi di origine sicuri a tutti i fini giuridici e pratici connessi a questioni inerenti l’asilo. 9. L’adozione dell’art. 63 CE ha permesso, in particolare, di sostituire, tra gli Stati membri eccetto il Regno di Danimarca, la Convenzione di Dublino con il regolamento n. 343/2003, il quale è entrato in vigore il 17 marzo 2003. Su questo fondamento giuridico sono state adottate altresì le direttive applicabili ai procedimenti principali, finalizzate all’istituzione del regime europeo comune in materia di asilo previsto dalle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere. 10. In seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona le disposizioni pertinenti in materia di asilo sono gli articoli 78 TFUE, che prevede l’istituzione di un sistema europeo comune di asilo, e 80 TFUE, che ricorda il principio di solidarietà e di ripartizione equa delle responsabilità tra gli Stati membri. 11. La normativa dell’Unione rilevante per i procedimenti principali comprende: — il regolamento n. 343/2003; — la direttiva del Consiglio 27 gennaio 2003, 2003/9/CE, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (G.U.U.E. L 31, p. 18); 212 GIURISPRUDENZA — la direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (G.U.U.E. L 304, p. 12; rettifica in G.U.U.E. 2005 L 204, p. 24); — la direttiva del Consiglio 1º dicembre 2005, 2005/85/CE, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (G.U.U.E. L 326, p. 13; rettifica in G.U.U.E. 2006 L 236, p. 36) 12. Occorre menzionare, inoltre, la direttiva del Consiglio 20 luglio 2001, 2001/55/CE, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi (G.U.U.E. 2001 L 212, p. 12). Come risulta dal suo ventesimo « considerando », uno degli obiettivi di detta direttiva è prevedere un sistema di solidarietà inteso a promuovere l’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi in caso di afflusso massiccio. 13. La registrazione dei dati relativi alle impronte digitali degli stranieri che attraversano illegalmente una frontiera esterna dell’Unione permette di determinare lo Stato membro competente per una domanda di asilo. Tale registrazione è stata introdotta con il regolamento (CE) del Consiglio 11 dicembre 2000 n. 2725, che istituisce l’« Eurodac » per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione della Convenzione di Dublino (G.U.U.E. 2000 L 316, p. 1). 14. Il regolamento n. 343/2003 e le direttive nn. 2003/9, 2004/83 e 2005/85 fanno riferimento, rispettivamente al primo « considerando », al fatto che una politica comune nel settore dell’asilo, che preveda un regime europeo comune in materia di asilo, costituisce un elemento fondamentale dell’obiettivo dell’Unione di istituire progressivamente uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nella Comunità. Essi fanno altresì riferimento, rispettivamente al secondo « considerando », alle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere. 15. Ciascuno di tali testi indica di rispettare i diritti fondamentali e di osservare i principi che sono riconosciuti, segnatamente, dalla Carta. In particolare, il quindicesimo « considerando » del regolamento n. 343/2003 precisa che esso mira ad assicurare la piena osservanza del diritto di asilo garantito all’art. 18 della Carta; il quinto « considerando » della direttiva n. 2003/9 enuncia che, in particolare, questa direttiva mira a garantire il pieno rispetto della dignità umana e a favorire l’applicazione degli articoli 1 e 18 della Carta, e il decimo « considerando » della direttiva n. 2004/83 precisa che essa mira segnatamente ad assicurare il pieno rispetto della dignità umana e il diritto di asilo dei richiedenti asilo nonché dei familiari al loro seguito. 16. A termini del suo art. 1, il regolamento n. 343/2003 stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo. 17. L’art. 3, paragrafi 1 e 2, di detto regolamento prevede quanto segue: GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 213 « 1. Gli Stati membri esaminano la domanda di asilo di un cittadino di un paese terzo presentata alla frontiera o nel rispettivo territorio. Una domanda d’asilo è esaminata da un solo Stato membro, che è quello individuato come Stato competente in base ai criteri enunciati al capo III. 2. In deroga al par. 1, ciascuno Stato membro può esaminare una domanda d’asilo presentata da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento. In tale ipotesi, detto Stato membro diventa lo Stato membro competente ai sensi del presente regolamento e assume gli obblighi connessi a tale competenza. Eventualmente, esso ne informa lo Stato membro anteriormente competente, lo Stato membro che ha in corso la procedura volta a determinare lo Stato membro competente o quello al quale è stato chiesto di prendere o riprendere in carico il richiedente asilo. » 18. Al fine di permettere di determinare lo « Stato membro competente » ai sensi dell’art. 3, par. 1, del regolamento n. 343/2003, il capo III di quest’ultimo enuncia una serie di criteri obiettivi, elencati in ordine gerarchico, relativi ai minori non accompagnati, al nucleo familiare, al rilascio di un permesso di soggiorno o di un visto, all’ingresso illegale o al soggiorno illegale in uno Stato membro, all’ingresso legale in uno Stato membro e alle domande presentate in un’area di transito internazionale di un aeroporto. 19. L’art. 13 del medesimo regolamento dispone che, ove nessuno Stato membro possa essere designato sulla base della gerarchia dei criteri, competente a esaminare la domanda di asilo è, per difetto, il primo Stato membro in cui la domanda è stata presentata. 20. Conformemente all’art. 17 del regolamento n. 343/2003, lo Stato membro che ha ricevuto una domanda d’asilo e ritiene che un altro Stato membro sia competente per l’esame della stessa può interpellare tale Stato membro affinché prenda in carico il richiedente asilo nel più breve termine possibile. 21. L’art. 18, par. 7, di detto regolamento stabilisce che la mancata risposta, da parte dello Stato membro richiesto, entro il termine di due mesi, o di un mese se è invocata l’urgenza, equivale all’accettazione della richiesta e comporta l’obbligo, per tale Stato membro, di prendere in carico la persona interessata, comprese le disposizioni appropriate all’arrivo della stessa. 22. L’art. 19 del regolamento n. 343/2003 così recita: « 1. Quando lo Stato membro richiesto accetta di prendere in carico il richiedente asilo, lo Stato membro nel quale la domanda d’asilo è stata presentata notifica al richiedente asilo la decisione di non esaminare la domanda e l’obbligo del trasferimento del richiedente verso lo Stato membro competente. 2. La decisione menzionata al par. 1 è motivata. Essa è corredata dei termini relativi all’esecuzione del trasferimento e contiene, se necessario, le informazioni relative al luogo e alla data in cui il richiedente deve presentarsi, nel caso si rechi nello Stato membro competente con i propri mezzi. La decisione può formare oggetto di ricorso o revisione. Il ricorso o la revisione della decisione non ha effetto sospensivo ai fini dell’esecuzione del trasferi- 214 GIURISPRUDENZA mento eccetto quando il giudice o l’organo giurisdizionale competente decida in tal senso caso per caso se la legislazione nazionale lo consente. (...) 4. Se il trasferimento non avviene entro sei mesi, la competenza ricade sullo Stato membro nel quale è stata presentata la domanda d’asilo. Questo termine può essere prorogato fino a un massimo di un anno se non è stato possibile effettuare il trasferimento a causa della detenzione del richiedente asilo, o fino a un massimo di diciotto mesi qualora il richiedente asilo si sia reso irreperibile. (...). » 23. Il Regno Unito partecipa all’applicazione dei regolamenti e di ciascuna delle quattro direttive menzionate ai punti 11-13 della presente sentenza. L’Irlanda, al contrario, partecipa all’applicazione dei regolamenti e delle direttive nn. 2004/83, 2005/85 e 2001/55, ma non della direttiva n. 2003/9. 24. Il Regno di Danimarca è vincolato dall’accordo che ha concluso con la Comunità europea il quale estende alla Danimarca le disposizioni del regolamento n. 343/2003 e del regolamento n. 2725/2000, approvato con la decisione del Consiglio 21 febbraio 2006, 2006/188/CE (G.U.U.E. 2006 L 66, p. 37) Non è vincolato dalle direttive citate al punto 11 della presente sentenza. 25. La Comunità ha concluso altresì un accordo con la Repubblica d’Islanda e il Regno di Norvegia sui criteri e i meccanismi per determinare lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno Stato membro, in Islanda o in Norvegia, approvato con la decisione del Consiglio 15 marzo 2001, 2001/258/CE (G.U.U.E. 2001 L 93, p. 38). 26. La Comunità ha del pari concluso un accordo con la Confederazione svizzera relativo ai criteri e ai meccanismi che permettono di determinare lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo introdotta in uno degli Stati membri o in Svizzera, approvato con la decisione del Consiglio 28 gennaio 2008, 2008/147/CE (G.U.U.E. 2008 L 53, p. 3), nonché il Protocollo, con la Confederazione svizzera e il Principato del Liechtenstein, all’accordo tra la Comunità europea e la Confederazione svizzera relativo ai criteri e ai meccanismi che permettono di determinare lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo introdotta in uno degli Stati membri o in Svizzera, approvato con la decisione del Consiglio 24 ottobre 2008, 2009/487/CE (G.U.U.E. 2009 L 161, p. 6). 27. La direttiva n. 2003/9 stabilisce norme minime in materia di accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. Dette norme concernono, in particolare, gli obblighi relativi alle informazioni da fornire ai richiedenti asilo nonché alla documentazione che deve essere loro rimessa, le decisioni che possono essere adottate dagli Stati membri in merito al soggiorno e alla circolazione dei richiedenti asilo sul loro territorio, i nuclei familiari, gli esami medici, la scolarizzazione e l’istruzione dei minori, il lavoro dei richiedenti asilo e il loro accesso alla formazione professionale, le disposizioni generali relative alle condizioni materiali di accoglienza e all’assistenza sanitaria dei richiedenti, le modalità relative alle condizioni di accoglienza e l’assistenza sanitaria che devono essere accordate ai richiedenti asilo. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 215 28. Detta direttiva introduce altresì l’obbligo di controllare il livello delle condizioni di accoglienza nonché la possibilità di esercitare un ricorso in ordine alle materie e alle decisioni rientranti nella direttiva medesima. Essa contiene, inoltre, regole sulla formazione delle autorità e sulle risorse necessarie per l’applicazione delle disposizioni nazionali adottate in sua attuazione. 29. La direttiva n. 2004/83 stabilisce norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o ad apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. Il suo capo II contiene diverse disposizioni che indicano come valutare le domande. Il capo III elenca i requisiti per essere considerato rifugiato. Il capo IV è relativo allo status di rifugiato. I capi V e VI trattano dei requisiti per poter beneficiare della protezione sussidiaria e dello status da essa conferito. Il capo VII comprende diverse disposizioni che definiscono il contenuto della protezione internazionale. A termini dell’art. 20, par. 1, di detta direttiva, le disposizioni di quest’ultimo capo non pregiudicano i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra. 30. La direttiva n. 2005/85 precisa i diritti dei richiedenti asilo e le procedure di esame delle domande. 31. L’art. 36 della direttiva n. 2005/85, rubricato « Concetto di paesi terzi europei sicuri », enuncia al suo par. 1 quanto segue: « Gli Stati membri possono prevedere che l’esame della domanda di asilo e della sicurezza del richiedente stesso relativamente alle sue condizioni specifiche, secondo quanto prescritto al capo II, non abbia luogo o non sia condotto esaurientemente nei casi in cui un’autorità competente abbia stabilito, in base agli elementi disponibili, che il richiedente asilo sta cercando di entrare o è entrato illegalmente nel suo territorio da un paese terzo sicuro a norma del paragrafo 2. » 32. Le condizioni previste in detto par. 2 riguardano, in particolare: — la ratifica della Convenzione di Ginevra e il rispetto delle sue disposizioni; — l’esistenza di una procedura di asilo prescritta per legge; — la ratifica della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la « CEDU »), e l’osservanza delle sue disposizioni, comprese le norme riguardanti i rimedi effettivi. 33. L’art. 39 della direttiva n. 2005/85 indica in quali casi vi è il diritto a un mezzo di impugnazione efficace dinanzi ai giudici degli Stati membri. Il suo par. 1, lett. a), iii), menziona le decisioni di non procedere ad un esame a norma dell’art. 36 della medesima direttiva. Procedimenti principali e questioni pregiudiziali La causa C-411/10 34. N.S., ricorrente nel procedimento principale, è un cittadino afgano giunto nel Regno Unito transitando, in particolare, per la Grecia. In tale ultimo Stato egli è stato 216 GIURISPRUDENZA oggetto di una misura di arresto il 24 settembre 2008, ma non ha presentato domanda di asilo. 35. A suo dire, le autorità greche lo avevano messo in detenzione per quattro giorni e, al momento del rilascio, gli avevano notificato un ordine di lasciare il territorio greco entro 30 giorni. Mentre cercava di lasciare la Grecia, egli sarebbe stato arrestato dalla polizia e respinto in Turchia, dove sarebbe stato detenuto, per due mesi, in condizioni penose. Sarebbe indi evaso dal suo luogo di detenzione in Turchia e, a partire da tale Stato, sarebbe arrivato nel Regno Unito, il 12 gennaio 2009, presentandovi il giorno stesso domanda di asilo. 36. Il 1º aprile 2009 il Secretary of State for the Home Department (in prosieguo: il « Secretary of State ») chiedeva alla Repubblica ellenica, in base a quanto previsto dall’art. 17 del regolamento n. 343/2003, di prendere in carico il ricorrente nel procedimento principale per l’esame della sua domanda di asilo. La Repubblica ellenica non rispondeva alla richiesta entro il termine fissato all’art. 18, par. 7, di detto regolamento, cosicché, ai sensi di questa stessa disposizione, il suo silenzio veniva equiparato al riconoscimento da parte sua, il 18 giugno 2009, della propria competenza per l’esame della domanda del ricorrente. 37. Il 30 luglio 2009 il Secretary of State informava il ricorrente nel procedimento principale che erano state impartite istruzioni circa il suo trasferimento in Grecia il 6 agosto 2009. 38. Il 31 luglio 2009 il Secretary of State comunicava al ricorrente nel procedimento principale una decisione nella quale si attestava che, conformemente all’allegato 3, parte 2, punto 5, n. 4, della legge del 2004 sull’asilo e l’immigrazione (trattamento dei richiedenti e altri aspetti) [Asylum and Immigration (Treatment of Claimants, ecc.) Act 2004; in prosieguo: la « legge del 2004 sull’asilo »], la sua denuncia secondo la quale il suo trasferimento in Grecia avrebbe comportato una violazione dei diritti garantitigli dalla CEDU era manifestamente infondata, essendo la Repubblica ellenica iscritta nell’« elenco dei paesi sicuri » di cui alla parte 2 dell’allegato 3 alla legge del 2004 sull’asilo. 39. Tale decisione di attestazione aveva come conseguenza, ai sensi del punto 5, n. 4, della parte 2 dell’allegato 3 alla legge del 2004 sull’asilo, che il ricorrente nel procedimento principale non aveva la possibilità di proporre nel Regno Unito un ricorso in materia di immigrazione (« immigration appeal »), con effetto sospensivo, contro la decisione del suo trasferimento in Grecia, possibilità che gli sarebbe spettata in assenza di tale decisione di attestazione. 40. Il 31 luglio 2009 il ricorrente nel procedimento principale chiedeva al Secretary of State di assumere la competenza per l’esame della sua domanda d’asilo ai sensi dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003, con l’argomento che un suo rinvio in Grecia rischiava di compromettere i suoi diritti fondamentali garantiti dal diritto dell’Unione, dalla CEDU e/o dalla Convenzione di Ginevra. Con lettera del 4 agosto 2009 il Secretary of State confermava sia la decisione di trasferimento in Grecia del ricorrente nel procedimento principale sia la decisione con cui la sua denuncia basata sulla CEDU era stata ritenuta manifestamente infondata. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 217 41. Il 6 agosto 2009 il ricorrente nel procedimento principale chiedeva di essere ammesso a presentare ricorso giurisdizionale (« judicial review ») contro le decisioni del Secretary of State. Quest’ultimo annullava, di conseguenza, le disposizioni impartite per il suo trasferimento. Il 14 ottobre 2009 il ricorrente veniva ammesso a proporre detto ricorso. 42. Il ricorso veniva esaminato dalla High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court), dal 24 al 26 febbraio 2010. Con sentenza 31 marzo 2010 il giudice Cranston lo respingeva, ma autorizzava il ricorrente nel procedimento principale a interporre appello dinanzi alla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division). 43. Il ricorrente nel procedimento principale proponeva impugnazione dinanzi a quest’ultimo organo giurisdizionale il 21 aprile 2010. 44. Risulta dalla decisione di rinvio, nella quale detto giudice fa riferimento alla sentenza della High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court), che: — le procedure di asilo in Grecia presenterebbero gravi carenze: i richiedenti incontrerebbero numerose difficoltà per adempiere le formalità necessarie, non riceverebbero informazioni e assistenza sufficienti e le loro domande non sarebbero esaminate con attenzione; — i casi di concessione di asilo in Grecia sarebbero rarissimi; — i mezzi di ricorso giurisdizionale sarebbero ivi insufficienti e di difficilissimo accesso; — le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo sarebbero ivi inappropriate: o i richiedenti sarebbero detenuti in condizioni inadeguate o vivrebbero in miseria all’addiaccio, senza tetto e senza cibo. 45. La High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court) ha considerato che i rischi di respingimento dalla Grecia verso l’Afghanistan e la Turchia non sono dimostrati per quanto riguarda le persone rinviate ai sensi del regolamento n. 343/2003, ma il ricorrente nel procedimento principale ha contestato tale valutazione dinanzi al giudice a quo. 46. Dinanzi alla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) il Secretary of State ha ammesso che « i diritti fondamentali enunciati nella Carta po[tevano] essere invocati contro il Regno Unito e (…) che l’Administrative Court ha commesso un errore dichiarando il contrario ». La Carta semplicemente riaffermerebbe diritti che già costituiscono parte integrante del diritto dell’Unione e non creerebbe diritti nuovi. Tuttavia, la High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court) avrebbe a torto statuito che il Secretary of State aveva l’obbligo di prendere in considerazione i diritti fondamentali dell’Unione allorché esercita il potere discrezionale che gli attribuisce l’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003. Secondo il Secretary of State, tale potere discrezionale non rientrerebbe nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. 47. In subordine, il Secretary of State ha sostenuto che l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali dell’Unione non esige che esso prenda in considerazione gli elementi volti a provare che, in caso di rinvio in Grecia, il ricorrente rischierebbe 218 GIURISPRUDENZA seriamente di subire una violazione dei diritti fondamentali garantitigli dall’Unione. Ciò perché l’economia del regolamento n. 343/2003 gli conferirebbe la facoltà di muovere dalla presunzione assoluta che la Grecia (o qualunque altro Stato membro) adempierà gli obblighi ad essa imposti dal diritto dell’Unione. 48. Infine, il ricorrente nel procedimento principale ha asserito, dinanzi al giudice del rinvio, che la tutela conferita dalla Carta era superiore e più ampia, in particolare, di quella garantita dall’art. 3 della CEDU, ciò che potrebbe condurre ad un diverso esito della presente controversia. 49. Nell’udienza del 12 luglio 2010 il giudice del rinvio ha statuito che, per poter decidere sull’appello, era necessario prendere posizione su talune questioni di diritto dell’Unione. 50. La Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) ha perciò deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: « 1) Se la decisione adottata da uno Stato membro ai sensi dell’art. 3, par. 2, del regolamento (…) n. 343/2003 di esaminare o meno una domanda di asilo benché tale esame non gli competa in base ai criteri stabiliti nel capo III del regolamento rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea ai fini dell’art. 6 [TUE] e/o dell’art. 51 della [Carta]. In caso di soluzione positiva della prima questione: 2) Se l’obbligo di uno Stato membro di osservare i diritti fondamentali dell’Unione Europea (inclusi i diritti stabiliti agli articoli 1, 4, 18, 19, par. 2, e 47 della Carta) sia assolto allorché tale Stato invii il richiedente asilo nello Stato membro che l’art. 3, par. 1, [del regolamento n. 343/2003] designa come lo Stato competente conformemente ai criteri stabiliti nel capo III del [medesimo] regolamento, indipendentemente dalla situazione in tale Stato competente. 3) In particolare, se l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali dell’Unione osti all’applicazione di una presunzione assoluta nel senso che lo Stato competente osserverà i) i diritti fondamentali del richiedente asilo ai sensi del diritto dell’Unione e/o ii) le norme minime imposte dalle direttive nn. 2003/9 (...), 2004/83 (...) e/o 2005/85 (...). 4) In subordine, se uno Stato membro sia obbligato dal diritto dell’Unione e, in caso di soluzione affermativa, in quali circostanze, ad esercitare la facoltà prevista all’art. 3, par. 2, del regolamento [n. 343/2003] assumendo la competenza per l’esame di una domanda di asilo, allorché il trasferimento allo Stato responsabile esporrebbe il richiedente asilo ad un rischio di violazione dei suoi diritti fondamentali, in particolare dei diritti stabiliti agli articoli 1, 4, 18, 19, par. 2, e/o 47 della Carta, e/o al rischio che non gli siano applicate le norme minime stabilite nelle direttive [nn. 2003/9, 2004/83 e 2005/85]. 5) Se l’ambito della protezione attribuita, ad una persona alla quale è applicabile il regolamento [n. 343/2003], dai principi generali del diritto dell’Unione e, in particolare, dai diritti stabiliti agli articoli 1, 18 e 47 della Carta sia più ampio della protezione attribuita dall’art. 3 della [CEDU]. 6) Se sia compatibile con i diritti stabiliti all’art. 47 della Carta che una disposizione di diritto nazionale imponga ad un organo giurisdizionale, al GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 219 fine di determinare se una persona possa essere legalmente espulsa verso un altro Stato membro in conformità del regolamento [n. 343/2003], di considerare detto Stato membro come uno Stato dal quale la persona non sarà inviata in un altro Stato in violazione dei suoi diritti scaturenti dalla CEDU o dalla Convenzione [di Ginevra] e dal Protocollo del 1967 (...). 7) Per la parte in cui le precedenti questioni concernono obblighi del Regno Unito, se le soluzioni delle questioni seconda-sesta debbano comunque tener conto del Protocollo (n. 30) (...). » La causa C-493/10 51. Il procedimento principale concerne cinque ricorrenti, senza legami reciproci, originari dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Algeria. Ciascuno di loro è transitato per il territorio greco e vi è stato arrestato per ingresso illegale. Essi si sono successivamente recati in Irlanda, dove hanno chiesto asilo. Tre di loro hanno presentato tale domanda senza rivelare la loro previa presenza sul territorio greco, mentre i restanti due hanno ammesso la loro precedente presenza in Grecia. Il sistema Eurodac ha confermato che tutti i cinque ricorrenti erano precedentemente entrati nel territorio greco, ma che nessuno di loro vi aveva presentato domanda di asilo. 52. Nessuno dei ricorrenti nel procedimento principale intende ritornare in Grecia. Come risulta dalla decisione di rinvio, non è stato invocato il fatto che il loro trasferimento in Grecia ai sensi del regolamento n. 343/2003 violerebbe l’art. 3 della CEDU a causa di un potenziale respingimento, di respingimenti a catena, di maltrattamenti o di domande di asilo interrotte. Non è stato nemmeno allegato che tale trasferimento violerebbe altri articoli della CEDU. I ricorrenti nel procedimento principale hanno asserito che in Grecia le procedure e le condizioni per i richiedenti asilo sono inadeguate e che, pertanto, l’Irlanda sarebbe tenuta a esercitare la facoltà conferitale dall’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 di accettare la competenza a esaminare e di pronunciarsi in merito alle loro domande di asilo. 53. La High Court ha perciò deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: « 1) Se lo Stato membro che provvede al trasferimento ai sensi del regolamento (...) n. 343/2003 sia tenuto ad accertare il rispetto, da parte dello Stato ricevente, dell’art. 18 della [Carta], delle direttive 2003/9 (...), 2004/83 (...) e 2005/85 (...) nonché del regolamento (...) n. 343/2003. 2) In caso di soluzione affermativa, ove lo Stato membro ricevente risulti non attenersi a una o più di tali disposizioni, se lo Stato membro che provvede al trasferimento sia obbligato ad accettare la competenza ad esaminare la domanda di cui all’art. 3, par. 2, del regolamento (...) n. 343/2003. » 54. Con ordinanza del presidente della Corte 16 maggio 2011, le cause C-411/10 e C-493/10 sono state riunite ai fini della fase orale e della sentenza. Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione nella causa C-411/10 220 GIURISPRUDENZA 55. Con la prima questione nella causa C-411/10 la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) chiede, in sostanza, se la decisione adottata da uno Stato membro sul fondamento dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 di esaminare o meno una domanda di asilo rispetto alla quale non è competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto regolamento rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione ai fini dell’art. 6 TUE e/o dell’art. 51 della Carta. Osservazioni presentate alla Corte 56. N.S., l’Equality and Human Rights Commission (EHRC), Amnesty International Ltd and the AIRE Centre (Advice on Individual Rights in Europe) (UK), lo United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), i Governi francese, olandese, austriaco e finlandese nonché la Commissione europea sono dell’avviso che una decisione adottata sul fondamento dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. 57. N.S. sottolinea, al riguardo, che l’esercizio della facoltà prevista da detta disposizione non sarà necessariamente più favorevole al richiedente, il che spiega perché, nella sua relazione del 6 giugno 2007 sulla valutazione del sistema di Dublino [COM(2007) 299 def.], la Commissione abbia proposto che il ricorso alla facoltà conferita dall’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 sia subordinato all’accordo del richiedente asilo. 58. Secondo Amnesty International Ltd and the AIRE Centre (Advice on Individual Rights in Europe) (UK) e il Governo francese, in particolare, la possibilità prevista all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 è giustificata dal fatto che questo regolamento ha l’obiettivo di tutelare i diritti fondamentali e che potrebbe rivelarsi necessario esercitare la facoltà conferita da detta disposizione. 59. Il Governo finlandese ricorda che il regolamento n. 343/2003 fa parte di un insieme di norme che istituiscono un sistema. 60. Secondo la Commissione, quando un regolamento conferisce un potere discrezionale ad uno Stato membro, quest’ultimo deve esercitare tale potere nel rispetto del diritto dell’Unione (sentenze 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Raccolta, p. 2609; 4 marzo 2010, causa C-578/08, Chakroun, Raccolta, p. I-1839, e 5 ottobre 2010, causa C-400/10 PPU, McB., non ancora pubblicata nella Raccolta). Essa sottolinea che una decisione adottata da uno Stato membro sul fondamento dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 comporta conseguenze per tale Stato, il quale sarà vincolato agli obblighi procedurali dell’Unione e alle direttive. 61. L’Irlanda, il Regno Unito, il Governo belga e il Governo italiano ritengono, per contro, che una tale decisione non rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Gli argomenti invocati sono la chiarezza del testo, a termini del quale si tratta di una facoltà, il riferimento a una clausola « di sovranità » ovvero a una « clausola discrezionale » nei documenti della Commissione, la ragion d’essere di una tale clausola, ossia i motivi umanitari, nonché, infine, la logica del sistema istituito dal regolamento n. 343/2003. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 221 62. Il Regno Unito sottolinea che una clausola di sovranità non costituisce una deroga nel senso della sentenza 18 giugno 1991, causa C-260/89, ERT (Raccolta, p. I-2925, punto 43). Esso indica altresì che il fatto che il ricorso a tale clausola non costituisca un’attuazione del diritto dell’Unione non vuol dire che gli Stati membri ignorino i diritti fondamentali, poiché essi sono tenuti al rispetto della Convenzione di Ginevra e della CEDU. Il Governo belga rimarca, tuttavia, che l’esecuzione della decisione di trasferire il richiedente asilo comporta l’attuazione del regolamento n. 343/2003 e, pertanto, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 6 TUE e della Carta. 63. Per il Governo ceco, la decisione di uno Stato membro rientra nel diritto dell’Unione quando tale Stato esercita la clausola di sovranità, ma non quando esso non si avvale di detta facoltà. Risposta della Corte 64. A termini dell’art. 51, par. 1, della Carta, le disposizioni della medesima si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. 65. L’esame dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 mostra che esso riconosce agli Stati membri un potere discrezionale che fa parte integrante del sistema europeo comune di asilo previsto dal TFUE ed elaborato dal legislatore dell’Unione. 66. Come ha ricordato la Commissione, questo potere discrezionale deve essere esercitato dagli Stati membri nel rispetto delle altre disposizioni di detto regolamento. 67. Inoltre, l’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 indica che la deroga al principio enunciato al par. 1 del medesimo articolo comporta conseguenze precise previste da tale regolamento. Lo Stato membro che prende la decisione di esaminare esso stesso una domanda di asilo diventa, infatti, lo Stato membro competente ai sensi del regolamento n. 343/2003 e deve, all’occorrenza, informare l’altro o gli altri Stati membri interessati dalla domanda di asilo. 68. Tali elementi corroborano l’interpretazione secondo la quale il potere discrezionale conferito agli Stati membri dall’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 fa parte dei meccanismi di determinazione dello Stato membro competente a trattare una domanda di asilo previsti da detto regolamento e, di conseguenza, costituisce solo un elemento del sistema europeo comune di asilo. Pertanto, uno Stato membro che esercita tale potere discrezionale deve essere ritenuto attuare il diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta. 69. La prima questione nella causa C-411/10 deve, quindi, essere risolta dichiarando che la decisione adottata da uno Stato membro sul fondamento dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003 di esaminare o meno una domanda di asilo rispetto alla quale esso non è competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto regolamento dà attuazione al diritto dell’Unione ai fini dell’art. 6 TUE e/o dell’art. 51 della Carta. Sulle questioni da seconda a quarta e sesta nella causa C-411/10 e sulle due questioni nella causa C-493/10 222 GIURISPRUDENZA 70. Con la seconda questione nella causa C-411/10 e con la prima nella causa C-493/10 i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se lo Stato membro che deve effettuare il trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro che l’art. 3, par. 1, del regolamento n. 343/2003 designa come competente sia tenuto a verificare il rispetto, da parte di quest’ultimo Stato membro, dei diritti fondamentali dell’Unione, delle direttive nn. 2003/9, 2004/83 e 2005/85 nonché del regolamento n. 343/2003. 71. Con la terza questione nella causa C-411/10 la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) chiede, in sostanza, se l’obbligo, per lo Stato membro che deve effettuare il trasferimento del richiedente asilo, di rispettare i diritti fondamentali osti all’applicazione di una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato competente rispetta i diritti fondamentali che il diritto dell’Unione conferisce al richiedente e/o le norme minime risultanti dalle direttive summenzionate. 72. Con la quarta questione nella causa C-411/10 e con la seconda nella causa C-493/10 i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se, quando è constatato che lo Stato membro competente non rispetta i diritti fondamentali, lo Stato membro che deve effettuare il trasferimento del richiedente asilo sia tenuto ad accettare la competenza ad esaminare esso medesimo la domanda di asilo ai sensi dell’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003. 73. Infine, con la sesta questione nella causa C-411/10, la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) chiede, in sostanza, se una disposizione di diritto nazionale che obbliga gli organi giurisdizionali, allorché devono stabilire se una persona possa essere legalmente espulsa verso un altro Stato membro ai sensi del regolamento n. 343/2003, a considerare tale Stato membro come uno « Stato sicuro » sia conforme ai diritti enunciati all’art. 47 della Carta. 74. Occorre esaminare queste questioni congiuntamente. 75. Il sistema europeo comune di asilo è fondato sull’applicazione in ogni sua componente della Convenzione di Ginevra e sulla garanzia che nessuno sarà rispedito in un luogo in cui rischia di essere nuovamente perseguitato. Il rispetto della Convenzione di Ginevra e del Protocollo del 1967 è previsto all’art. 18 della Carta e all’art. 78 TFUE (v. sentenze 2 marzo 2010, cause riunite C-175/08, C-176/08, C-178/08 e C-179/08, Salahadin Abdulla e a., Raccolta, 2010, p. I-1493, punto 53, nonché 17 giugno 2010, causa C-31/09, Bolbol, Raccolta, 2010, p. I-5539, punto 38). 76. Come è stato rilevato al punto 15 della presente sentenza, i diversi regolamenti e direttive pertinenti ai fini dei procedimenti principali prevedono di osservare i diritti fondamentali e i principi che sono riconosciuti dalla Carta. 77. Occorre rilevare altresì che, secondo una giurisprudenza costante, gli Stati membri sono tenuti non solo a interpretare il loro diritto nazionale conformemente al diritto dell’Unione, ma anche a fare in modo di non basarsi su un’interpretazione di norme di diritto derivato che entri in conflitto con i diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico dell’Unione o con gli altri principi generali del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze 6 novembre 2003, causa C-101/01, Lindqvist, Raccolta, 2003, p. I-12971, punto 87, e 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a., Raccolta, 2007, p. I-5305, punto 28). GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 223 78. Risulta dall’esame dei testi che istituiscono il sistema europeo comune di asilo che quest’ultimo è stato concepito in un contesto che permette di supporre che l’insieme degli Stati partecipanti, siano essi Stati membri o paesi terzi, rispetti i diritti fondamentali, compresi i diritti che trovano fondamento nella Convenzione di Ginevra e nel Protocollo del 1967, nonché nella CEDU, e che gli Stati membri possono fidarsi reciprocamente a tale riguardo. 79. È proprio in ragione di tale principio di reciproca fiducia che il legislatore dell’Unione ha adottato il regolamento n. 343/2003 e le convenzioni menzionate ai punti 24-26 della presente sentenza, al fine di razionalizzare il trattamento delle domande di asilo e di evitare la saturazione del sistema con l’obbligo, per le autorità nazionali, di trattare domande multiple introdotte da uno stesso richiedente, di accrescere la certezza del diritto quanto alla determinazione dello Stato competente a trattare la domanda di asilo e, così facendo, di evitare il forum shopping; tutto ciò con l’obiettivo principale di accelerare il trattamento delle domande nell’interesse tanto dei richiedenti asilo quanto degli Stati partecipanti. 80. In tali circostanze si deve presumere che il trattamento riservato ai richiedenti asilo in ciascuno Stato membro sia conforme a quanto prescritto dalla Carta, dalla Convenzione di Ginevra e dalla CEDU. 81. Tuttavia, non si può escludere che tale sistema incontri, in pratica, gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, cosicché sussiste un rischio serio che un richiedente asilo sia, in caso di trasferimento verso detto Stato membro, trattato in modo incompatibile con i suoi diritti fondamentali. 82. Non per questo, però, se ne può concludere che qualunque violazione di un diritto fondamentale da parte dello Stato membro competente si riverberi sugli obblighi degli altri Stati membri di rispettare le disposizioni del regolamento n. 343/2003. 83. Ne va, infatti, della ragion d’essere dell’Unione e della realizzazione dello spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia e, più in particolare, del sistema europeo comune di asilo, fondato sulla fiducia reciproca e su una presunzione di osservanza, da parte degli altri Stati membri, del diritto dell’Unione, segnatamente dei diritti fondamentali. 84. Inoltre, non sarebbe compatibile con gli obiettivi e con il sistema del regolamento n. 343/2003 che la minima violazione delle direttive nn. 2003/9, 2004/83 o 2005/85 sia sufficiente per impedire qualunque trasferimento di un richiedente asilo verso lo Stato membro di regola competente. Infatti, il regolamento n. 343/2003, presumendo che i diritti fondamentali del richiedente asilo saranno rispettati nello Stato membro di regola competente a conoscere della sua domanda, intende instaurare, come risulta in particolare dai paragrafi 124 e 125 delle conclusioni nella causa C-411/10, un metodo chiaro e operativo che permetta di determinare rapidamente lo Stato membro competente a conoscere di una domanda di asilo. A tal fine il regolamento n. 343/2003 prevede che un unico Stato membro, designato sulla base di criteri oggettivi, sia competente a conoscere di una domanda di asilo introdotta in uno dei paesi dell’Unione. 224 GIURISPRUDENZA 85. Ora, se ogni violazione delle singole disposizioni delle direttive nn. 2003/9, 2004/83 o 2005/85 da parte dello Stato membro competente dovesse avere la conseguenza che lo Stato membro in cui è stata presentata una domanda di asilo non possa trasferire il richiedente in tale primo Stato, ciò avrebbe l’effetto di aggiungere ai criteri di determinazione dello Stato membro competente enunciati nel capo III del regolamento n. 343/2003 un criterio supplementare di esclusione in base al quale violazioni minime delle regole delle direttive summenzionate commesse in un determinato Stato membro potrebbero avere l’effetto di esonerare quest’ultimo dagli obblighi che derivano da detto regolamento. Una tale conseguenza svuoterebbe detti obblighi del loro contenuto e comprometterebbe la realizzazione dell’obiettivo di designare rapidamente lo Stato membro competente a conoscere di una domanda di asilo presentata nell’Unione. 86. Per contro, nell’ipotesi in cui si abbia motivo di temere seriamente che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo nello Stato membro competente, che implichino un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’art. 4 della Carta, dei richiedenti asilo trasferiti nel territorio di questo Stato membro, tale trasferimento sarebbe incompatibile con detta disposizione. 87. Quanto alla situazione della Grecia, è pacifico tra le parti che hanno presentato osservazioni alla Corte che detto Stato membro era, nel 2010, il punto di ingresso nell’Unione del 90% circa dei migranti clandestini, di modo che l’onere sopportato da detto Stato membro in ragione di tale afflusso è sproporzionato rispetto a quello sopportato dagli altri Stati membri e che le autorità greche sono materialmente incapaci di farvi fronte. La Repubblica ellenica ha fatto presente che gli Stati membri non avevano accettato la proposta della Commissione di sospendere l’applicazione del regolamento n. 343/2003 e di modificarlo attenuando il criterio del primo ingresso. 88. In una situazione analoga a quelle oggetto dei procedimenti principali, ossia il trasferimento, nel giugno 2009, di un richiedente asilo verso la Grecia, Stato membro competente ai sensi del regolamento n. 343/2003, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, in particolare, che il Regno del Belgio aveva violato l’art. 3 della CEDU esponendo il richiedente asilo, da un lato, ai rischi risultanti dalle carenze della procedura di asilo in Grecia, atteso che le autorità belghe sapevano o dovevano sapere che non vi era alcuna garanzia che la sua domanda di asilo sarebbe stata esaminata seriamente dalle autorità greche, e, dall’altro lato, e con piena cognizione di causa, a condizioni detentive ed esistenziali costitutive di trattamenti degradanti (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia del 21 gennaio 2011, non ancora pubblicata nel Recueil des arrêts et décisions, §§ 358, 360 e 367). 89. Il livello di lesione dei diritti fondamentali descritto in tale sentenza attesta che sussisteva in Grecia, all’epoca del trasferimento del richiedente M.S.S., una carenza sistemica nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo. 90. Per giudicare che i rischi corsi dal richiedente erano sufficientemente fondati, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha preso in considerazione i rapporti regolari e concordanti di organizzazioni non governative internazionali che davano atto delle difficoltà pratiche poste dall’applicazione del sistema europeo comune di asilo in Grecia, la corrispondenza inviata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 225 rifugiati (UNHCR) al ministro belga competente, ma anche le relazioni della Commissione sulla valutazione del sistema di Dublino e le proposte di rifusione del regolamento n. 343/2003 volte a rafforzare l’efficacia di tale sistema e la tutela effettiva dei diritti fondamentali (sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia, cit., §§ 347-350). 91. Infatti, e contrariamente a quanto sostengono i Governi belga, italiano e polacco, secondo i quali gli Stati membri non dispongono degli strumenti adeguati per valutare il rispetto dei diritti fondamentali da parte dello Stato membro competente e, pertanto, i rischi realmente corsi da un richiedente asilo nel caso in cui venga trasferito verso tale Stato membro, informazioni come quelle citate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sono idonee a permettere agli Stati membri di valutare il funzionamento del sistema di asilo nello Stato membro competente, che renderà possibile la stima di tali rischi. 92. Occorre sottolineare la pertinenza delle relazioni e delle proposte di modifica del regolamento n. 343/2003 provenienti dalla Commissione, delle quali lo Stato membro che deve procedere al trasferimento non può ignorare l’esistenza, visto che ha partecipato ai lavori del Consiglio dell’Unione Europea, il quale è uno dei destinatari di tali documenti. 93. Peraltro, l’art. 80 TFUE prevede che la politica dell’asilo e la sua attuazione siano regolate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. La direttiva n. 2001/55 costituisce un esempio di tale solidarietà ma, come è stato indicato in udienza, i meccanismi di solidarietà che essa contiene sarebbero limitati a situazioni del tutto eccezionali rientranti nell’ambito di applicazione di tale direttiva, ossia l’afflusso massiccio di sfollati. 94. Discende da quanto sopra che, in situazioni come quelle oggetto dei procedimenti principali, al fine di permettere all’Unione e ai suoi Stati membri di rispettare i loro obblighi di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo « Stato membro competente » ai sensi del regolamento n. 343/2003 quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta. 95. Riguardo alla questione se lo Stato membro che non può effettuare il trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro identificato come « competente » conformemente al regolamento n. 343/2003 sia tenuto ad esaminare esso stesso la domanda, occorre ricordare che il capo III di tale regolamento enuncia un certo numero di criteri e che, ai sensi dell’art. 5, par. 1, di detto regolamento, tali criteri si applicano nell’ordine in cui sono esposti in detto capo. 96. Ferma restando la facoltà, di cui all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003, di esaminare esso stesso la domanda, l’impossibilità di trasferire un richiedente asilo verso la Grecia, quando tale Stato risulti essere lo Stato membro competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto regolamento, impone allo Stato membro che doveva effettuare tale trasferimento di proseguire l’esame dei criteri di cui al medesimo 226 GIURISPRUDENZA capo, per verificare se uno dei criteri ulteriori permetta di identificare un altro Stato membro come competente all’esame della domanda di asilo. 97. Conformemente all’art. 13 del regolamento n. 343/2003, quando lo Stato membro competente per l’esame della domanda d’asilo non può essere designato sulla base dei criteri enumerati in detto regolamento, è competente a tale esame il primo Stato membro nel quale la domanda è stata presentata. 98. È necessario, tuttavia, che lo Stato membro in cui si trova il richiedente asilo badi a non aggravare una situazione di violazione dei diritti fondamentali di tale richiedente con una procedura di determinazione dello Stato membro competente che abbia durata irragionevole. All’occorrenza, detto Stato è tenuto a esaminare esso stesso la domanda conformemente alle modalità previste all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003. 99. Risulta dall’insieme delle considerazioni precedenti, come ha osservato l’avvocato generale al par. 131 delle sue conclusioni nella causa C-411/10, che un’applicazione del regolamento n. 343/2003 sulla base di una presunzione assoluta che i diritti fondamentali del richiedente asilo saranno rispettati nello Stato membro di regola competente a conoscere della sua domanda è incompatibile con l’obbligo degli Stati membri di interpretare e di applicare il regolamento n. 343/2003 in conformità ai diritti fondamentali. 100. Inoltre, come ha sottolineato N.S., se il regolamento n. 343/2003 imponesse una presunzione assoluta di rispetto dei diritti fondamentali, esso stesso potrebbe essere considerato rimettere in causa le garanzie di tutela e di rispetto dei diritti fondamentali da parte dell’Unione e dei suoi Stati membri. 101. È quanto avverrebbe, in particolare, nel caso di una disposizione che prevedesse che taluni Stati sono « Stati sicuri » quanto al rispetto dei diritti fondamentali, se siffatta disposizione dovesse essere interpretata nel senso di costituire una presunzione assoluta, che non ammette prova contraria. 102. Al riguardo si deve rilevare che l’art. 36 della direttiva n. 2005/85, relativo al concetto di paese terzo europeo sicuro, dispone, al par. 2, lettere a) e c), che un paese terzo può essere considerato « paese terzo sicuro » solo se, oltre ad aver ratificato la Convenzione di Ginevra e la CEDU, ne rispetta le disposizioni. 103. Una tale formulazione indica che la mera ratifica delle convenzioni da parte di uno Stato non può comportare l’applicazione di una presunzione assoluta che esso rispetti tali convenzioni. Il medesimo principio è applicabile tanto agli Stati membri quanto agli Stati terzi. 104. Pertanto, la presunzione, di cui al punto 80 della presente sentenza, sottesa alla normativa in materia, che i richiedenti asilo saranno trattati in maniera conforme ai diritti dell’uomo deve essere considerata relativa. 105. Tutto ciò considerato, occorre risolvere le questioni sollevate dichiarando che il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato membro che l’art. 3, par. 1, del regolamento n. 343/2003 designa come competente rispetta i diritti fondamentali dell’Unione. GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 227 106. L’art. 4 della Carta deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo « Stato membro competente » ai sensi del regolamento n. 343/2003 quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione. 107. Ferma restando la facoltà, di cui all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003, di esaminare esso stesso la domanda, l’impossibilità di trasferire un richiedente asilo verso un altro Stato membro dell’Unione che risulti essere lo Stato membro competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto regolamento impone allo Stato membro che doveva effettuare tale trasferimento di proseguire l’esame dei criteri di cui al medesimo capo, per verificare se uno dei criteri ulteriori permetta di identificare un altro Stato membro come competente a esaminare la domanda di asilo. 108. È necessario, tuttavia, che lo Stato membro in cui si trova il richiedente asilo badi a non aggravare una situazione di violazione dei diritti fondamentali di tale richiedente con una procedura di determinazione dello Stato membro competente che abbia durata irragionevole. All’occorrenza, detto Stato è tenuto a esaminare esso stesso la domanda conformemente alle modalità previste all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003. Sulla quinta questione nella causa C-411/10 109. Con la quinta questione nella causa C-411/10 la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) chiede, in sostanza, se la portata della tutela attribuita ad una persona cui si applica il regolamento n. 343/2003 dai principi generali del diritto dell’Unione, in particolare dagli articoli 1, relativo alla dignità umana, 18, sul diritto di asilo, e 47, relativo al diritto a un ricorso effettivo, della Carta, sia più ampia di quella della tutela conferita dall’art. 3 della CEDU. 110. Secondo la Commissione, la risposta a tale questione deve permettere di identificare le disposizioni della Carta la cui violazione da parte dello Stato membro competente implicherà una responsabilità sussidiaria in capo allo Stato membro che deve decidere del trasferimento. 111. Infatti, anche se la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) non ha espressamente spiegato, nella decisione di rinvio, perché la risposta a tale questione le fosse necessaria per emettere sentenza, la lettura di detta decisione lascia nondimeno pensare che la questione si giustifichi alla luce della decisione del 2 dicembre 2008, K. R.S. c. Regno Unito, non ancora pubblicata nel Recueil des arrêts et décisions, in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato irricevibile la denuncia per violazione degli articoli 3 e 13 della CEDU in caso di trasferimento del ricorrente dal Regno Unito in Grecia. Dinanzi alla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) talune parti hanno fatto valere che la tutela dei diritti fondamentali risultante dalla Carta era più ampia di quella risultante dalla CEDU e che l’applicazione della Carta doveva comportare l’accoglimento della loro richiesta di non trasferire il ricorrente nel procedimento principale verso la Grecia. 228 GIURISPRUDENZA 112. Dopo la pronuncia della decisione di rinvio la Corte europea dei diritti dell’uomo è ritornata sulla sua posizione alla luce di nuovi elementi probatori e ha statuito, nella succitata sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia, non solo che la Repubblica ellenica aveva violato l’art. 3 della CEDU a causa delle condizioni detentive ed esistenziali del ricorrente sul suo territorio, nonché l’art. 13 della CEDU, in combinato disposto con detto art. 3, in ragione delle carenze nella procedura di asilo seguita per il ricorrente, ma pure che il Regno del Belgio aveva violato l’art. 3 della CEDU esponendo il ricorrente a rischi connessi alle carenze della procedura di asilo in Grecia e a condizioni detentive ed esistenziali in Grecia contrarie a detto articolo. 113. Come risulta dal punto 106 della presente sentenza, uno Stato membro violerebbe l’art. 4 della Carta se trasferisse un richiedente asilo verso lo Stato membro competente ai sensi del regolamento n. 343/2003 in circostanze come quelle descritte al precedente punto 94. 114. Non risulta che gli articoli 1, 18 e 47 della Carta possano comportare una risposta differente da quella data alle questioni da seconda a quarta e sesta nella causa C-411/10 nonché alle due questioni nella causa C-493/10. 115. Di conseguenza, si deve risolvere la quinta questione sollevata nella causa C-411/10 dichiarando che gli articoli 1, 18 e 47 della Carta non comportano una risposta differente da quella data alle questioni da seconda a quarta e sesta nella causa C-411/10 nonché alle due questioni nella causa C-493/10. Sulla settima questione nella causa C-411/10 116. Con la settima questione nella causa C-411/10 la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) chiede, in sostanza, se, nella misura in cui le questioni precedenti concernono obblighi incombenti al Regno Unito, prendere in considerazione il Protocollo (n. 30) abbia una qualche incidenza sulle risposte apportate alle questioni da seconda a sesta. 117. Come ha ricordato l’EHRC, tale questione trae origine dalla posizione del Secretary of State dinanzi alla High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court), secondo la quale le disposizioni della Carta non sono applicabili nel Regno Unito. 118. Anche se il Secretary of State non ha più sostenuto questa posizione dinanzi alla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division), si deve ricordare che il Protocollo (n. 30) enuncia, all’art. 1, par. 1, che la Carta non estende la competenza della Corte di giustizia o di qualunque altro organo giurisdizionale della Polonia o del Regno Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti o le disposizioni, le pratiche o l’azione amministrativa della Polonia o del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali che essa riafferma. 119. Risulta dalla formulazione di tale disposizione che, come ha osservato l’avvocato generale in particolare ai paragrafi 169 e 170 delle conclusioni nella causa C-411/10, il Protocollo (n. 30) non rimette in questione l’applicabilità della Carta al Regno Unito o alla Polonia; lo conferma il suo stesso preambolo. Infatti, ai sensi del terzo « considerando » del Protocollo (n. 30), l’art. 6 TUE dispone che la Carta deve GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA 229 essere applicata e interpretata dagli organi giurisdizionali della Polonia e del Regno Unito rigorosamente in conformità con le spiegazioni di cui a detto articolo. Peraltro, secondo il sesto « considerando » del medesimo Protocollo, la Carta ribadisce i diritti, le libertà e i principi riconosciuti nell’Unione e li rende più visibili, ma non crea nuovi diritti o principi. 120. Ciò considerato, l’art. 1, par. 1, del Protocollo (n. 30) esplicita l’art. 51 della Carta, relativo all’ambito di applicazione di quest’ultima, e non ha per oggetto di esonerare la Repubblica di Polonia e il Regno Unito dall’obbligo di rispettare le disposizioni della Carta, né di impedire ad un giudice di uno di questi Stati membri di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni. 121. Poiché i diritti in discussione nei procedimenti principali non fanno parte del titolo IV della Carta, non vi è motivo di pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 1, par. 2, del Protocollo (n. 30). 122. La settima questione nella causa C-411/10 deve, pertanto, essere risolta dichiarando che, nella misura in cui le questioni che precedono concernono obblighi incombenti al Regno Unito, prendere in considerazione il Protocollo (n. 30) non ha incidenza sulle risposte apportate alle questioni da seconda a sesta deferite nella causa C-411/10. Sulle spese 123. Nei confronti delle parti nei procedimenti principali il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi ai giudici nazionali, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (grande sezione) dichiara: 1) La decisione adottata da uno Stato membro sul fondamento dell’art. 3, par. 2, del regolamento (CE) del Consiglio 18 febbraio 2003 n. 343, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, di esaminare o meno una domanda di asilo rispetto alla quale esso non è competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto regolamento dà attuazione al diritto dell’Unione ai fini dell’art. 6 TUE e/o dell’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 2) Il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato membro che l’art. 3, par. 1, del regolamento n. 343/2003 designa come competente rispetta i diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo « Stato membro competente » ai sensi del regolamento n. 343/2003 quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere 230 GIURISPRUDENZA che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione. Ferma restando la facoltà, di cui all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003, di esaminare esso stesso la domanda, l’impossibilità di trasferire un richiedente asilo verso un altro Stato membro dell’Unione Europea che risulti essere lo Stato membro competente in base ai criteri enunciati nel capo III di detto regolamento impone allo Stato membro che doveva effettuare tale trasferimento di proseguire l’esame dei criteri di cui al medesimo capo, per verificare se uno dei criteri ulteriori permetta di identificare un altro Stato membro come competente a esaminare la domanda di asilo. È necessario, tuttavia, che lo Stato membro nel quale si trova il richiedente asilo badi a non aggravare una situazione di violazione dei diritti fondamentali di tale richiedente con una procedura di determinazione dello Stato membro competente che abbia durata irragionevole. All’occorrenza, detto Stato è tenuto a esaminare esso stesso la domanda conformemente alle modalità previste all’art. 3, par. 2, del regolamento n. 343/2003. 3) Gli articoli 1, 18 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non comportano una risposta differente. 4) Nella misura in cui le questioni che precedono concernono obblighi incombenti al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, prendere in considerazione il Protocollo (n. 30) sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea alla Polonia e al Regno Unito non ha incidenza sulle risposte apportate alle questioni da seconda a sesta deferite nella causa C-411/10. GIURISPRUDENZA ITALIANA Straniero - Indennità di frequenza per mutilati ed invalidi civili minorenni - L. 23 dicembre 2000 n. 388, art. 80, 19º comma - Requisito della carta di soggiorno Art. 117, 1º comma, Cost. - Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 14 Principio di non discriminazione. L’indennità di frequenza, prevista dall’art. 1 della l. 11 ottobre 1990 n. 289 per i mutilati ed invalidi civili minorenni per consentire il ricorso a trattamenti riabilitativi o terapeutici oppure per frequentare scuole o centri di formazione o di addestramento professionale, ha una finalità direttamente riconducibile alle esigenze di cura e di assistenza di minorenni portatori di patologie significative ed invalidanti e, come tale, è direttamente inquadrabile nell’ambito di quegli interventi di natura solidaristica che l’ordinamento è chiamato ad approntare. L’art. 80, 19º comma, della l. 23 dicembre 2000 n. 388, nella parte in cui subordina alla titolarità della carta di soggiorno la concessione dell’indennità di frequenza ai minori stranieri extracomunitari, legalmente soggiornanti in Italia, determina una sostanziale vanificazione del beneficio, incompatibile con le esigenze di effettività e di soddisfacimento che i diritti fondamentali presuppongono. Tale disposizione risulta quindi in contrasto con l’art. 117, 1º comma, Cost. in riferimento al principio di non discriminazione, enunciato nell’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per come interpretato dalla Corte europea. CORTE COSTITUZIONALE, 16 dicembre 2011 n. 329 - Pres. QUARANTA, red. GROSSI - M.A.S.M. c. INPS (1). Ritenuto in fatto. — 1. La Corte d’appello di Genova solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32, 34, 38 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del « coordinato disposto » degli articoli 1 della legge 11 ottobre 1990 n. 289 (Modifiche alla disciplina delle indennità di accompagnamento di cui alla legge 21 novembre 1988 n. 508, recante norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti e istituzione di un’indennità di (1) La sentenza della Corte costituzionale 28 maggio 2010 n. 187, citata nella motivazione, è riprodotta in Rivista, 2010, p. 1243 ss. 232 GIURISPRUDENZA frequenza per i minori invalidi) e 80, 19º comma, della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina l’erogazione dell’indennità di frequenza per il cittadino minore extracomunitario alla titolarità della carta di soggiorno. Premette la Corte rimettente di essere stata investita dall’appello proposto dalla madre di un minore avverso la decisione che aveva respinto la richiesta di riconoscimento del beneficio dell’indennità di frequenza di cui alla legge n. 289 del 1990: pur essendo stata riconosciuta la sussistenza dei requisiti sanitari e delle altre condizioni previste dalla legge, la provvidenza era stata tuttavia negata per la mancanza della carta di soggiorno, avendo l’appellante richiesto il primo permesso di soggiorno nel 2006 e, perciò, non trovandosi nel territorio nazionale da almeno cinque anni, come richiesto ai fini del rilascio di quel documento. Dopo essersi soffermata sulle condizioni del minore cui si riferisce la domanda negata dal primo giudice per la ragione anzidetta e aver analizzato natura e funzione della provvidenza in questione, il giudice rimettente — nello scrutinare la non manifesta infondatezza della eccezione di legittimità costituzionale dedotta in sede di gravame — ripercorre il panorama della giurisprudenza di questa Corte, tanto in ordine al sindacato di conformità della normativa interna ai princìpi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quanto in merito alla portata preclusiva della disposizione censurata nei confronti dei cittadini extracomunitari. Rammentati, in particolare, i princìpi enunciati nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 in ordine alla possibilità di dedurre la violazione dell’art. 117 Cost. nell’ipotesi di un contrasto tra la norma interna e la CEDU, il giudice a quo segnala i precedenti offerti dalle sentenze n. 306 del 2008, in tema di indennità di accompagnamento, n. 11 del 2009, in tema di pensione di inabilità, e, specialmente, n. 187 del 2010, con la quale venne dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 80, 19º comma, qui denunciato, nella parte in cui subordinava al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell’assegno mensile di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971 n. 118 (Conversione in legge del d.l. 30 gennaio 1971 n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili). Su tale pronuncia la Corte rimettente si sofferma con particolare attenzione, insistendo sulla analogia tra la provvidenza di cui al giudizio a quo e quelle di cui alle richiamate pronunce, sotto il profilo dei requisiti richiesti. A proposito del requisito della permanenza in Italia, si sottolinea come solo con la legge n. 388 del 2000 siano state introdotte previsioni sensibilmente restrittive nei confronti dei cittadini extracomunitari: il che non potrebbe reputarsi consentito, al lume degli orientamenti di questa Corte, ove la permanenza legale dello straniero non sia episodica né di breve durata e vengano in discorso limitazioni per il godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti, invece, ai cittadini. Nella specie — sottolinea il giudice a quo — l’appellante ha presentato domanda volta ad ottenere l’indennità di frequenza per il figlio minore nel 2007 e la sua presenza in Italia — con un primo permesso di soggiorno rilasciato nel 2003, non nel 2006, come affermato nella sentenza impugnata — non potrebbe certo ritenersi episodica o di breve durata. D’altra parte, per un minore bisognevole di programmi terapeutici e di frequenza della scuola, l’attesa del compiersi di un periodo di cinque anni di permanenza sul territorio italiano potrebbe finire per comprimere le esigenze di cura e di assistenza che l’ordinamento dovrebbe invece tutelare (richiamandosi, in proposito, anche la sentenza n. 467 del 2002, che estese proprio l’istituto della indennità di frequenza ai bambini che frequentano gli asilo nido). GIURISPRUDENZA ITALIANA 233 Ne conseguirebbe, da un lato, la violazione del principio di uguaglianza e dei parametri che assicurano la protezione di diritti primari dell’individuo (quali l’istruzione, art. 34; la salute, art. 32; e l’assistenza sociale, art. 38), nonché dei doveri di solidarietà economica e sociale (art. 2); dall’altro lato, la violazione del dovere di esercitare la potestà legislativa nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117), essendosi introdotto un regime discriminatorio nei confronti di cittadini stranieri incompatibile anche con i princìpi affermati da questa Corte. Si richiama, a tal proposito, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con la legge 3 marzo 2009 n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), e richiamata da questa Corte nella ordinanza n. 285 del 2009, proprio in tema di indennità di frequenza. 2. Ha depositato memoria di costituzione la parte privata del giudizio a quo, nella qualità di genitore del minore cui si riferisce la richiesta di riconoscimento del beneficio, chiedendo che la Corte accolga la devoluta questione di legittimità costituzionale. Richiamati i termini della controversia, e la rilevanza della questione, la memoria analizza natura e funzione dell’indennità di frequenza, sottolineando come tale provvidenza sia destinata ad assicurare la tutela di diritti fondamentali del minore, alla luce di diffusi rilievi della giurisprudenza costituzionale sul punto (e segnatamente della sentenza n. 187 del 2010, ampiamente riprodotta, a sostegno dell’incostituzionalità, a maggior ragione, della previsione di requisiti ostativi imposti dalle norme denunciate). L’equiparazione ai cittadini e la non discriminazione degli stranieri, il cui regolare soggiorno abbia « carattere non episodico e di non breve durata », sarebbe, infatti, il principio cardine cui attenersi, almeno quanto alle specifiche provvidenze concernenti il godimento dei diritti fondamentali della persona. Nel non distinguere la specificità di ciascuna provvidenza e nel trascurare il risalto proprio rispetto a questi diritti, le norme denunciate si porrebbero in contrasto con la Costituzione. 3. Nel giudizio si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. A parere dell’Istituto, non sarebbe sindacabile la scelta del legislatore di differenziare le prestazioni e di stabilire che quelle più rilevanti possano essere concesse solo a quegli stranieri che risiedano in Italia da più tempo e con maggiore stabilità, trattandosi, nella specie, non di diritti previdenziali, ma di provvidenze di natura assistenziale in materia di servizi sociali. Una tendenza, questa, evidenziata anche dall’art. 20, 10º comma, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), in tema di requisiti per ottenere l’assegno sociale di cui all’art. 3, 6º comma, della legge 8 agosto 1995 n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare). Né sussisterebbe contrasto con l’ordinamento comunitario e con gli obblighi internazionali, alla stregua dei regolamenti comunitari in materia, né violazione dei princìpi della CEDU, posto che la condizione giuridica dello straniero è regolata dall’art. 10, 1º comma, Cost., il quale risulta nella specie rispettato, « in quanto le diverse prestazioni di assistenza sociale, riconosciute ai possessori di carta di soggiorno rispetto ai possessori di permesso di soggiorno, appaiono ispirate al principio di 234 GIURISPRUDENZA ragionevolezza e di rispetto della condizione dello straniero ». La disciplina censurata, peraltro, si iscriverebbe in un quadro (legge finanziaria del 2001) che doveva tenere presenti le risorse finanziarie disponibili a fini di assistenza sociale e tali da condizionare le stesse provvidenze anche nei confronti dei cittadini italiani ed equiparati. Quanto, poi, alla Convenzione ONU sulle persone con disabilità, la stessa non richiederebbe ai Paesi di attuare misure al di là delle loro capacità economiche, limitandosi a sancire l’obbligo di interventi volti ad agevolare i disabili nella loro vita di relazione. Nella specie, la norma censurata non discriminerebbe il disabile straniero da quello italiano, giacché come al disabile cittadino si richiede una residenza stabile nello Stato, in egual modo si richiede lo stesso requisito anche allo straniero equiparato. 4. In una memoria depositata in prossimità dell’udienza, la parte privata ha ribadito la richiesta di accoglimento della questione, ulteriormente evidenziando come i diritti protetti anche dalle disposizioni costituzionali evocate a parametro, e dei quali l’indennità di frequenza sarebbe presidio, rientrino tra quelli fondamentali e inviolabili di cui all’art. 2 Cost.: ciò varrebbe ad attestare l’intrinseca limitazione della discrezionalità legislativa, come riconosciuto dalle numerose pronunce che hanno censurato scelte legislative nella materia, escludendo l’ammissibilità di qualsiasi discriminazione tra cittadini e non cittadini soprattutto quando la misura della protezione risultasse non ragionevole o non proporzionata. Ciò che, per l’appunto, si verificherebbe nella situazione di specie, considerato il carattere « essenziale », oltre che « urgente » e « indilazionabile », della provvidenza in discorso, in mancanza della quale « non solo si toglierebbe l’aiuto proprio a chi è in condizione di più acuto bisogno in ragione dell’essere minore », ma « si pregiudicherebbe [...] l’architettura dell’intero sistema » disegnato dalla relativa disciplina, anche alla luce della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. La disposizione denunciata risulterebbe, peraltro, « avulsa dal corpo normativo attinente alla immigrazione extra-comunitaria » e ne disintegrerebbe i « principi portanti »: la « limitazione particolare » da essa imposta al solo straniero per l’accesso a una prestazione sociale concernente diritti fondamentali non si limiterebbe a restringere il campo di applicazione dell’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), ma lo eroderebbe « pressoché compiutamente ». La carta e il permesso di soggiorno, infatti, non sarebbero affatto « preordinati a dare criteri per la selezione preclusiva di diritti, soprattutto fondamentali », ma servirebbero, « ai loro titolari, per accedere, oltre che ad agevolazioni nella libera circolazione europea e internazionale, a diritti o prestazioni aggiuntivi rispetto a quelli dovuti a chi sia solo regolarmente o stabilmente soggiornante come straniero »: e « ciò che dovrebbe essere veicolo di accesso a tutele e diritti rafforzati » non potrebbe tramutarsi, attraverso « un’operazione ulteriormente arbitraria », « nel suo opposto, e cioè nel veicolo di discriminazione ingiustificata degli stranieri nell’accesso a diritti anche fondamentali ». 5. Anche l’INPS ha poi depositato una memoria illustrativa nella quale ha segnalato come alla luce dei precedenti di questa Corte — in particolare, le sentenze n. 306 del 2008 e n. 187 del 2010 — emerga che, mentre si è ritenuto irragionevole, ai fini della concessione del beneficio assistenziale, subordinare il rilascio della carta di soggiorno (necessaria per la fruizione della provvidenza) al possesso di un determinato livello di reddito, non altrettanto sembra si possa dire riguardo al requisito relativo alla GIURISPRUDENZA ITALIANA 235 permanenza in Italia per almeno cinque anni, avendo le citate pronunce fatto riferimento alla necessità che la presenza dello straniero in Italia non abbia carattere « episodico » né sia di « breve durata ». La normativa impugnata si sottrarrebbe, pertanto, a rilievi di costituzionalità, avendo il legislatore « correttamente previsto che l’attribuzione dei benefici assistenziali di natura economica sia riconosciuta solo agli stranieri che risultino stabilmente inseriti nel contesto nazionale, così da poter usufruire degli stessi vantaggi dei cittadini in ragione del loro assoggettamento agli oneri — economici e non — ai quali questi ultimi sono soggetti ». Considerato in diritto. — 1. La Corte d’appello di Genova solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32, 34, 38 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del « coordinato disposto » degli articoli 1 della legge 11 ottobre 1990 n. 289 (Modifiche alla disciplina delle indennità di accompagnamento di cui alla legge 21 novembre 1988 n. 508, recante norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti e istituzione di un’indennità di frequenza per i minori invalidi) e 80, 19º comma, della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina l’erogazione dell’indennità di frequenza per il cittadino minore extracomunitario alla titolarità della carta di soggiorno. Deve precisarsi che la questione, ancorché formalmente rivolta, nella prospettazione del giudice rimettente, al « coordinato disposto » delle due disposizioni indicate, va propriamente riferita alla norma di cui all’art. 80, 19º comma, della legge n. 388 del 2000, in quanto essa, per l’identificazione della specifica provvidenza economica in esame, implichi il rinvio all’art. 1 della legge n. 289 del 1990. Il giudice a quo pone a fulcro delle proprie censure i princìpi che questa Corte ha avuto modo di affermare, proprio sul versante della normativa impugnata, nelle sentenze n. 306 del 2008, in tema di indennità di accompagnamento, n. 11 del 2009, in tema di pensione di inabilità, e, specialmente, n. 187 del 2010, con la quale venne dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 80, 19º comma, qui nuovamente denunciato, nella parte in cui subordinava al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell’assegno mensile di invalidità, di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971 n. 118 (Conversione in legge del d.l. 30 gennaio 1971 n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), e successive modificazioni. Messa in luce l’analogia che è dato cogliere tra la provvidenza di cui al giudizio a quo e quelle di cui alle richiamate pronunce, sotto il profilo dei requisiti richiesti — provvidenze accomunate, in particolare, dal fatto di essere misure rivolte a garantire prestazioni assistenziali a persone afflitte da patologie di vario genere ed in disagiate condizioni economiche, nella specie acuite dalla circostanza di dirigersi a persone disabili minorenni — si osserva che la limitazione connessa ad una presenza nel territorio dello Stato di un periodo minimo di cinque anni, come richiesto per la concessione della carta di soggiorno, determinerebbe l’insorgenza di una nutrita gamma di censure sul piano della relativa compatibilità costituzionale. A parere del giudice rimettente, infatti, dalla previsione oggetto di impugnativa deriverebbe, da un lato, la violazione del principio di uguaglianza e dei parametri costituzionali che assicurano la protezione di diritti primari dell’individuo (quali l’istruzione, art. 34; la salute, art. 32; e l’assistenza sociale, art. 38), nonché dei doveri di solidarietà economica e sociale (art. 2); dall’altro, la violazione del dovere di esercitare la potestà legislativa nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.), essen- 236 GIURISPRUDENZA dosi introdotto un regime discriminatorio nei confronti di cittadini stranieri incompatibile pure con i princìpi affermati da questa Corte anche in riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con la legge 3 marzo 2009 n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità). 2. Si sono costituiti in giudizio — e hanno poi, in prossimità dell’udienza pubblica, depositato memorie illustrative — sia la parte privata del giudizio a quo, nella qualità di genitore del minore interessato alla provvidenza, sia l’INPS, sviluppando gli argomenti qui esposti in narrativa. 3. La questione è fondata. 4. Come ha correttamente posto in evidenza l’ordinanza di rimessione, la questione rinviene un precedente specifico nei princìpi posti a base della sentenza n. 187 del 2010, nella quale si osservò che la provvidenza presa allora in esame, per i requisiti che ne condizionavano il riconoscimento, rappresentava una erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito in relazione alle condizioni soggettive e alle diminuite capacità di guadagno, ma a fornire alla persona un minimo di sostentamento: in linea, evidentemente, con i princìpi di inderogabile solidarietà sociale, assunti quale valore fondante degli stessi diritti inalienabili dell’individuo, che non ammettono distinzioni di sorta in dipendenza di qualsiasi tipo di qualità o posizione soggettiva e, dunque, anche in ragione del diverso status di cittadino o di straniero. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo — si rilevò — ha più volte avuto modo di sottolineare che, ove si versi — come era nel caso — in tema di provvidenze destinate a far fronte al sostentamento della persona, qualsiasi distinzione di regime che venisse introdotta fra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato finirebbe per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, la normativa allora oggetto di censura, nell’intervenire direttamente e restrittivamente sui presupposti di legittimazione al conseguimento delle provvidenze assistenziali dirette a soddisfare esigenze fondamentali della persona, fu ritenuta contrastante con i limiti derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali, imposto dall’art. 117, 1º comma, Cost., proprio perché introduttiva di un regime irragionevolmente discriminatorio nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, per quanto attiene al godimento di diritti da riconoscere ed assicurare a tutti ed in egual misura. 5. Tali princìpi valgono, eo magis, con specifico riferimento all’istituto assistenziale oggetto dell’attuale quesito di legittimità costituzionale, giacché dalla disamina dei relativi presupposti e finalità emerge con chiarezza una gamma di esigenze di tutela della persona ancor più estesa di quella coinvolta dai diversi — ancorché finitimi — beneficii di carattere assistenziale sin qui scrutinati, sotto lo specifico aspetto della peculiare e restrittiva disciplina per gli stranieri, introdotta dall’art. 80, 19º comma, della legge n. 388 del 2000. Come questa Corte ha avuto modo di sottolineare nella richiamata sentenza n. 187 del 2010, ciò che assume valore dirimente agli effetti del sindacato ad essa riservato, non è la denominazione o l’inquadramento formale della singola provvidenza, quanto, GIURISPRUDENZA ITALIANA 237 piuttosto, il concreto atteggiarsi di questa nel panorama delle varie misure e dei beneficii di ordine economico che il legislatore ha predisposto quali strumenti di ausilio ed assistenza in favore di categorie « deboli ». Per la compatibilità costituzionale delle scelte legislative occorre, infatti, verificare se, « alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale », la misura presa in considerazione « integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento di “bisogni primari” inerenti alla sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare... ». In tale quadro di riferimento è agevole avvedersi di come il riconoscimento della indennità di frequenza si iscriva nel novero delle provvidenze, per così dire, « polifunzionali », giacché i bisogni che attraverso di essa si intendono soddisfare non si concentrano soltanto sul versante della salute e della connessa perdita o diminuzione della capacità di guadagno, ma, anche, su quello delle esigenze formative e di assistenza di minori colpiti da patologie invalidanti e appartenenti a nuclei familiari che versino in disagiate condizioni economiche. Stabilisce, infatti, l’art. 1 della legge 11 ottobre 1990 n. 289 che la indennità di frequenza — di importo pari all’assegno mensile riconosciuto agli invalidi civili dall’art. 13 della legge n. 118 del 1971 — viene riconosciuta ai mutilati ed invalidi civili minorenni, che presentino « difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della propria età » o siano portatori di un determinato grado di ipoacusia, al fine di consentire « il ricorso continuo o anche periodico a trattamenti riabilitativi o terapeutici a seguito della loro minorazione ». L’indennità in questione è altresì concessa ai mutilati e invalidi civili minorenni, che si trovino nelle condizioni anzidette, e « che frequentano scuole, pubbliche o private, di ogni ordine e grado, a partire dalla scuola materna, nonché centri di formazione o di addestramento professionale finalizzati al reinserimento sociale dei soggetti stessi ». L’indennità in questione, infine, è erogata alle medesime condizioni reddituali stabilite per l’assegno mensile di invalidità di cui al citato art. 13 della legge n. 118 del 1971, ed è assoggettata al medesimo meccanismo di perequazione automatica. Un quadro di riferimento, dunque, dal quale traspare, soprattutto, una finalità direttamente riconducibile alla salvaguardia delle esigenze di cura e di assistenza di persone minorenni portatrici di patologie significative ed invalidanti e, come tali, direttamente inquadrabili nell’ambito di quegli interventi di natura solidaristica che l’ordinamento è chiamato ad approntare; e ciò, come è ovvio, tanto sul versante specifico della salute, che su quello del relativo inserimento sociale, con l’attenzione rivolta a fornire il necessario ausilio, anche economico, per le relative famiglie, specie nei casi in cui — come i limiti di reddito cui è subordinato il beneficio ineluttabilmente attestano — versino in condizioni disagiate. Come questa Corte non ha mancato di sottolineare, la tutela della salute psicofisica della persona disabile — che costituisce la finalità perseguita dalla legge 5 febbraio 1992 n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) — postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie, il cui ruolo resta fondamentale (sentenza n. 233 del 2005). Accanto a ciò, assume un risalto del tutto peculiare, proprio nella prospettiva di agevolare l’inserimento sociale del minore portatore di infermità che ne ledano la socialità, la relativa frequenza a centri specializzati nel trattamento terapeutico e riabilitativo e « nel recupero di persone portatrici di handicap » ovvero a « centri di formazione o di addestramento professionale finalizzati al reinserimento sociale dei soggetti stessi », come recita l’art. 1 della legge n. 289 del 1990. Il tutto, d’altra parte — come segnalato nella ordinanza n. 285 del 2009 — in linea con i princìpi affermati 238 GIURISPRUDENZA anche nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dalla Assemblea generale il 13 dicembre 2006 e ratificata con la legge n. 18 del 2009, ove vengono, fra l’altro, sottolineati, oltre che l’esigenza di assicurare il pieno rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali con particolare riguardo ai bambini con disabilità (art. 7), anche l’impegno a sviluppare le misure tese a soddisfare le esigenze educative e rieducative dei soggetti portatori di disabilità, quelle connesse alla salute e al lavoro nonché quelle tese a garantire un adeguato livello di vita e di protezione sociale. Il contesto in cui si iscrive la indennità di frequenza è, dunque, quanto mai composito e costellato di finalità sociali che coinvolgono beni e valori, tutti, di primario risalto nel quadro dei diritti fondamentali della persona. Si va, infatti, dalla tutela della infanzia e della salute alle garanzie che devono essere assicurate, in situazioni di parità, ai portatori di handicap, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il minore disabile si trova inserito, coinvolgendo al tempo stesso l’esigenza di agevolare il futuro ingresso del minore nel mondo del lavoro e la partecipazione attiva alla vita sociale. Ebbene, a fronte di tutto ciò, il condizionamento che viene imposto ai fini del riconoscimento del beneficio in questione per i minori stranieri, pur regolarmente presenti nel territorio dello Stato, rappresentato dalla titolarità della carta di soggiorno, finisce per determinare, per un periodo minimo di cinque anni — quello richiesto per il rilascio della carta — una sostanziale vanificazione, incompatibile non soltanto con le esigenze di « effettività » e di soddisfacimento che i diritti fondamentali naturalmente presuppongono, ma anche con la stessa specifica funzione della indennità di frequenza, posto che — come ha puntualmente messo in luce il giudice rimettente — l’attesa del compimento del termine di cinque anni di permanenza nel territorio nazionale potrebbe « comprimere sensibilmente le esigenze di cura ed assistenza di soggetti che l’ordinamento dovrebbe invece tutelare », se non, addirittura, vanificarle in toto. La normativa di cui qui si discute risulta, dunque, in contrasto, non solo con l’art. 117, 1º comma, Cost., in riferimento all’art. 14 della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo, ma anche con i restanti parametri evocati dal giudice a quo, posto che il trattamento irragionevolmente differenziato che essa impone — basato sulla semplice condizione di straniero regolarmente soggiornante sul territorio dello Stato, ma non ancora in possesso dei requisiti di permanenza utili per conseguire la carta di soggiorno — vìola, ad un tempo, il principio di uguaglianza e i diritti alla istruzione, alla salute ed al lavoro, tanto più gravemente in quanto essi si riferiscano a minori in condizione di disabilità. Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, 19º comma, della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione ai minori extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della indennità di frequenza di cui all’art. 1 della legge 11 ottobre 1990 n. 289 (Modifiche alla disciplina delle indennità di accompagnamento di cui alla legge 21 novembre 1988 n. 508, recante norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti e istituzione di un’indennità di frequenza per i minori invalidi). GIURISPRUDENZA ITALIANA 239 Reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, art. 12, comma 4-bis - Custodia cautelare in carcere - Articoli 13, 1º comma, e 27, 2º comma, Cost. - Inviolabilità della libertà personale - Presunzione di non colpevolezza. L’eterogeneità delle fattispecie concrete relative al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non consente di enucleare una regola generale secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari in presenza di gravi indizi di colpevolezza, come è stabilito dall’art. 12, comma 4-bis, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286. La disposizione è costituzionalmente illegittima in relazione al principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, 1º comma) e alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, 2º comma) in quanto non fa salva l’ipotesi in cui sono acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. CORTE COSTITUZIONALE, 16 dicembre 2011 n. 331 - Pres. QUARANTA, red. FRIGO - Interv. Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto. — 1. Con ordinanza depositata il 27 aprile 2011, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 13, 1º comma, e 27, 2º comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, 26º comma, lett. f), della legge 15 luglio 2009 n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui — nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal 3º comma del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari — non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La Corte rimettente riferisce che, con ordinanza del 3 novembre 2010, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice distrettuale del riesame, aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina nei confronti di cinque cittadini egiziani, da tempo residenti in Italia. Agli indagati era contestato il delitto di cui all’art. 12, 3º comma, lettere a), b) e d), del d.lgs. n. 286 del 1998, per aver compiuto, tra il 3 e il 4 ottobre 2010, atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato di alcuni stranieri, giunti con un peschereccio davanti alla costa di Borgo Grappa, trasportandoli a terra con un gommone e conducendoli presso un’abitazione sita in Anzio. Si trattava, cioè, « della ipotesi autonoma del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravata in relazione al numero dei migranti trasportati, alle condizioni di pericolo in cui si è svolto il trasporto e al numero dei concorrenti nel reato ». 240 GIURISPRUDENZA Ravvisati, a carico degli indagati, i gravi indizi di colpevolezza, il Tribunale del riesame rilevava come — non essendo stati acquisiti elementi dai quali evincere l’insussistenza di esigenze cautelari — risultasse operante, nella specie, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, stabilita dall’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, che privava il giudice di ogni discrezionalità nella scelta della misura cautelare applicabile. Avverso la decisione proponevano ricorso per cassazione gli indagati, reiterando l’eccezione di illegittimità costituzionale del citato art. 12, comma 4-bis, già disattesa dal Tribunale. I ricorrenti formulavano, altresì, motivi volti a denunciare un preteso profilo di nullità dell’ordinanza impugnata, nonché la carenza di motivazione della medesima in ordine alla sussistenza delle condizioni di cui agli articoli 273 e 274 del codice di procedura penale. Ad avviso della Corte rimettente, mentre i motivi da ultimo indicati non potrebbero essere accolti, la questione di legittimità costituzionale risulterebbe rilevante e non manifestamente infondata. Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva come, nei motivi di ricorso, si sostenga — « non senza fondamento » — che il fatto non è stato commesso nell’ambito di una struttura criminale organizzata avente caratteristiche di stampo mafioso: circostanza che emergerebbe, in effetti, dallo stesso provvedimento impugnato, nel quale si riconosce come « la rudimentale organizzazione delle attività di collaborazione poste in essere da ciascuno degli indagati deponga per una condotta episodica e, in sostanza, di non peculiare gravità ». D’altra parte, fin dall’inizio del procedimento, lo stesso pubblico ministero aveva ritenuto di dover distinguere la posizione di almeno uno degli indagati, chiedendo che al medesimo fosse applicata la misura degli arresti domiciliari: istanza non accolta dal giudice — che pure, di regola, non può disporre una misura più afflittiva di quella richiesta dal pubblico ministero — solo in ragione della previsione limitativa contenuta nella norma denunciata. Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 13, 1º comma, e 27, 2º comma, Cost., dell’art. 275, 3º comma, cod. proc. pen., nella parte in cui — nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, 1º comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari — non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni poste a base di tale pronuncia — sinteticamente ripercorse nell’ordinanza di rimessione — varrebbero anche in rapporto all’omologa previsione della norma censurata. In particolare, allo stesso modo dei delitti a sfondo sessuale oggetto della citata sentenza n. 265 del 2010, neppure i delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina potrebbero essere assimilati, sotto il profilo che interessa, ai delitti di mafia, in rapporto ai quali questa Corte (con l’ordinanza n. 450 del 1995) ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina — consistente nel compimento di atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato — è, infatti, un delitto che, pure nelle ipotesi aggravate, può essere compiuto anche occasionalmente, con condotte individuali fortemente differenziate tra loro e al di fuori di una struttura criminale organizzata. GIURISPRUDENZA ITALIANA 241 In questa prospettiva, la norma censurata violerebbe sia l’art. 3 Cost., sottoponendo irrazionalmente i delitti in questione al medesimo trattamento cautelare previsto per i delitti di mafia; sia l’art. 13, 1º comma, Cost., introducendo una deroga al regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale senza una adeguata ragione giustificatrice; sia, infine, l’art. 27, 2º comma, Cost., attribuendo alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato prima della condanna definitiva. 2. È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. La difesa dello Stato rileva che è ben vero che questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittima, con riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale, l’analoga disposizione dell’art. 275, 3º comma, cod. proc. pen.: declaratoria di illegittimità costituzionale successivamente estesa dalla sentenza n. 164 del 2011 anche al delitto di omicidio volontario (art. 575 cod. pen.). In precedenza, tuttavia, la Corte, con l’ordinanza n. 450 del 1995, aveva escluso che la presunzione sancita dal citato art. 275, 3º comma, cod. proc. pen. potesse ritenersi costituzionalmente illegittima in riferimento ai delitti di mafia, tenuto conto della specificità degli stessi, caratterizzati dalla permanenza e dalla « vischiosità » del rapporto del reo con il sodalizio criminoso di appartenenza. Nell’occasione, la Corte aveva specificamente affermato che, mentre l’apprezzamento delle esigenze cautelari (« l’an della cautela ») deve essere lasciato al giudice, l’individuazione del tipo di misura cautelare (« il quomodo ») può bene essere operata, in termini generali, dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori coinvolti. La giurisprudenza costituzionale avrebbe valutato, quindi, diversamente le presunzioni di adeguatezza della sola custodia cautelare, a seconda della natura dei reati e della pericolosità sociale degli indiziati. A questo riguardo, andrebbe tenuto conto del fatto che le citate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011 hanno riguardato figure criminose — quali i reati sessuali e l’omicidio volontario — che, nella maggior parte dei casi, si pongono al di fuori di un contesto di criminalità organizzata. Di contro, le fattispecie delittuose previste dall’art. 12, 3º comma, del d.lgs. n. 286 del 1998 — se pure non costituiscono, di per sé, reati a concorso necessario — colpirebbero condotte poste in essere, nella generalità delle ipotesi concrete, da soggetti inseriti in organizzazioni criminali stabilmente dedite a promuovere o a favorire l’ingresso clandestino di cittadini extracomunitari nel territorio dello Stato. Come comprovato anche dall’esperienza giudiziaria, i reati in discorso richiederebbero, infatti, una adeguata predisposizione di mezzi e l’impiego di uomini specificamente « addestrati per il traffico di esseri umani ». Di conseguenza, essi risulterebbero assimilabili più ai delitti di criminalità organizzata indicati nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., che non a quelli oggetto delle richiamate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011. Così come in rapporto ai delitti di mafia in senso lato, non potrebbe ritenersi, dunque, irragionevole che il legislatore abbia individuato nella custodia in carcere l’unica misura idonea a fronteggiare le esigenze cautelari in rapporto alle figure criminose di cui si discute. Ciò, sia in considerazione della necessità di interrompere il vincolo che lega il singolo soggetto al gruppo criminale di appartenenza, obiettivo che le misure cautelari più lievi risulterebbero inidonee a realizzare; sia in ragione 242 GIURISPRUDENZA dell’« alto coefficiente di pericolosità per la sicurezza collettiva connaturato alle suddette fattispecie di reato, anche in relazione alla recrudescenza del fenomeno ». Considerato in diritto. — 1. La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, 26º comma, lett. f), della legge 15 luglio 2009 n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia cautelare in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsti dal 3º comma del medesimo art. 12. Il giudice a quo reputa estensibili ai procedimenti relativi a detti reati le ragioni che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima l’analoga presunzione prevista dall’art. 275, 3º comma, del codice di procedura penale in riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale (articoli 600-bis, 1º comma, 609-bis e 609-quater del codice penale). Al pari di tali delitti, neanche le fattispecie di cui all’art. 12, 3º comma, del d.lgs. n. 286 del 1998 potrebbero essere, infatti, assimilate, sotto il profilo in esame, ai delitti di mafia, relativamente ai quali questa Corte ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina potrebbe essere infatti realizzato, anche nelle ipotesi aggravate cui la norma censurata fa riferimento, con condotte profondamente diverse tra loro, indipendenti da una struttura criminale organizzata, e tali, dunque, da proporre esigenze cautelari affrontabili anche con misure diverse dalla custodia carceraria. La presunzione censurata verrebbe, di conseguenza, a porsi in contrasto — conformemente a quanto deciso dalla citata sentenza n. 265 del 2010 — con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà personale (art. 13, 1º comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, 2º comma, Cost.). 2. La questione è fondata. 3. La norma denunciata assoggetta i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da essa considerati a uno speciale e più severo regime cautelare, omologo a quello prefigurato, in rapporto a un complesso di altre figure delittuose, dall’art. 275, 3º comma, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, 1º comma, lettere a) e a-bis), del decreto-legge 23 febbraio 2009 n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009 n. 38. Si tratta di un regime che fa perno su una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata — ove la presunzione relativa non risulti vinta — unicamente la custodia cautelare in carcere. 3.1. Come ricorda il giudice a quo, questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, ha già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma del codice di cui quella censurata replica le cadenze, nella parte in cui configura una presunzione assoluta di GIURISPRUDENZA ITALIANA 243 adeguatezza della sola misura carceraria nei confronti degli indiziati di taluni delitti a sfondo sessuale (induzione o sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenne). Ad analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale la Corte è altresì pervenuta, successivamente all’ordinanza di rimessione, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui rende operante la predetta presunzione assoluta anche nei procedimenti per i delitti di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011) e di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011). 3.2. Nelle decisioni ora citate, questa Corte ha rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento — segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, 1º comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, 2º comma, Cost.) — la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del « minore sacrificio necessario »: la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della « pluralità graduata », predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare criteri per scelte « individualizzanti » del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. Canoni ai quali non contraddice la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un « ventaglio » di misure di gravità crescente (articoli 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di « adeguatezza » (art. 275, 1º comma), al lume del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura « massima » (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, 3º comma, primo periodo). 3.3. Discostandosi in modo marcato da tale regime, il novellato art. 275, 3º comma, cod. proc. pen. — e, sulla sua falsariga, la norma oggi sottoposta a scrutinio — sottraggono, per converso, al giudice ogni potere di scelta, vincolandolo a disporre la misura maggiormente rigorosa, senza alcuna possibile alternativa, allorché la gravità indiziaria attenga a determinate fattispecie di reato. Questa soluzione normativa si traduce in una valutazione legale di idoneità della sola custodia carceraria a fronteggiare le esigenze cautelari (presunte, a loro volta, iuris tantum). A tale proposito, questa Corte ha, peraltro, ribadito che « le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa » (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010). L’evenienza ora indicata era puntualmente riscontrabile in rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte in cui risultava riferita, tra gli altri, tanto ai delitti a sfondo sessuale dianzi indicati (sentenza n. 265 del 2010), quanto all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011), quanto, ancora, all’associazione finalizzata al narcotraffico (sentenza n. 231 del 2011). A tali figure delittuose non poteva, infatti, estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata dalla Corte in rapporto ai delitti di mafia (i soli considerati dall’art. 275, 3º comma, cod. proc. pen. 244 GIURISPRUDENZA anteriormente alla novella legislativa del 2009) (ordinanza n. 450 del 1995): ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche — legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice — deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure « minori » sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità). Connotazioni analoghe non erano infatti riscontrabili in rapporto alle figure criminose sopra elencate. Pur nella loro indubbia gravità e riprovevolezza — destinata a pesare opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza — i suddetti delitti abbracciano, infatti, ipotesi concrete marcatamente eterogenee tra loro e suscettibili soprattutto di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria. Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l’art. 275, 3º comma, cod. proc. pen. violasse, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, 1º comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, 2º comma, Cost., per essere attribuiti alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. 4. Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche in rapporto alle figure di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, cui il regime cautelare speciale è esteso dal censurato art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. Si tratta, in specie, delle ipotesi previste dal 3º comma del medesimo articolo (oggetto, a sua volta, di profonda modifica ad opera della legge n. 94 del 2009), nelle quali il fatto di favoreggiamento — identificato in quello di chi, in violazione del testo unico sull’immigrazione, « promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente » — viene configurato come fattispecie distinta e più severamente punita di quella di cui al 1º comma, per il concorso di elementi che accrescono, nella valutazione legislativa, il disvalore dell’illecito. Tali elementi attengono, alternativamente, al numero degli stranieri agevolati (lett. a) o dei concorrenti nel reato (lett. d), prima parte); alle modalità del fatto (che espongano a pericolo la vita o l’incolumità del trasportato o lo sottopongano a trattamento inumano o degradante: lettere b) e c); ai mezzi utilizzati (servizi internazionali di trasporto o documentazione alterata, contraffatta o comunque illegalmente ottenuta: lett. d), seconda parte); alla disponibilità, infine, di armi o materie esplodenti da parte degli autori del fatto (lett. e)). Anche in ragione dell’alternatività delle ipotesi ora indicate, la figura delittuosa viene, peraltro, a ricomprendere fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro, sotto il profilo che qui rileva. Il delitto in discorso costituisce, infatti, un reato a consumazione anticipata, che si perfeziona con il solo compimento di « atti diretti a procurare » l’ingresso illegale di GIURISPRUDENZA ITALIANA 245 stranieri « nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente ». Il verbo « procurare » conferisce, altresì, alla fattispecie un’ampia latitudine applicativa, abbracciando qualunque apporto efficiente e causalmente orientato a produrre il risultato finale, ivi comprese — secondo una corrente lettura giurisprudenziale — talune attività immediatamente successive all’arrivo in Italia degli stranieri, che agevolino l’esito dell’operazione. Dal paradigma legale tipico esula, in ogni caso, il necessario collegamento dell’agente con una struttura associativa permanente. Il reato può bene costituire frutto di iniziativa meramente individuale: la presenza di un numero di concorrenti pari o superiore a tre è, infatti — come accennato — solo una delle ipotesi alternativamente considerata dalla citata norma. D’altra parte, quando pure risulti ascrivibile a una pluralità di persone, il fatto può comunque mantenere un carattere puramente episodico od occasionale e basarsi su una organizzazione rudimentale di mezzi: evenienza, questa, che — stando a quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione — si sarebbe, del resto, verificata nel caso oggetto del giudizio a quo. Ciò, indipendentemente dal rilievo che, secondo quanto già chiarito da questa Corte in rapporto al delitto di associazione finalizzata al narcotraffico, neppure la natura associativa del reato basterebbe, di per sé sola, a legittimare la presunzione in parola, ove non accompagnata da una particolare « qualità » del vincolo fra gli associati, come nell’ipotesi dell’associazione mafiosa (sentenza n. 231 del 2011). In sostanza, dunque, le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante (comma 3-bis, lett. b), dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998). L’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto non consente, dunque, di enucleare una regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le « connotazioni criminologiche » del fenomeno, secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. La presunzione assoluta censurata non può neppure rinvenire la sua base di legittimazione costituzionale nella gravità astratta del reato di favoreggiamento dell’immigrazione, né nell’esigenza di eliminare o ridurre le situazioni di allarme sociale correlate all’incremento del fenomeno della migrazione clandestina. Va, infatti, ribadito quanto già affermato al riguardo da questa Corte: e, cioè, che la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell’interesse protetto, è significativa ai fini della determinazione della sanzione, ma inidonea a fungere da elemento preclusivo alla verifica del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte; mentre il rimedio all’allarme sociale causato dal reato non può essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010). 5. Ciò che vulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al 246 GIURISPRUDENZA principio del « minore sacrificio necessario ». Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria — atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario — non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010). Il comma 4-bis dall’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui — nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal 3º comma, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari — non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Per questi motivi la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, 26º comma, lett. f), della legge 15 luglio 2009 n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui — nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal 3º comma del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari — non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Indennità di espropriazione - D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504, art. 16 - Riduzione dell’indennità in relazione al valore dichiarato ai fini ICI - Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 1 - Art. 117, 1º comma, Cost. - Violazione di obblighi internazionali. L’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, interpretato alla luce dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea, attribuisce ampia discrezionalità ai legislatori nazionali nel definire le proprie politiche fiscali e, tuttavia, non consente di ritenere legittime misure di prevenzione e dissuasione fiscale qualora esse non siano prevedibili o pretendano dal soggetto dichiarante un eccessivo onere o, infine, comportino una eccessiva conseguenza sanzionatoria. Secondo l’interpretazione delle sezioni unite della Cassazione l’esigenza, stabilita dall’art. 16 d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504, di tener conto del valore dichiarato o denunciato ai fini ICI nella determinazione dell’indennità di espropriazione di un immobile si applica anche al caso di evasore totale. GIURISPRUDENZA ITALIANA 247 Tale disposizione, così interpretata, viola sia l’art. 42, 3º comma, Cost. sia l’art. 117, 1º comma, Cost. in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea. Infatti essa non è compatibile con il nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, in quanto non contempla alcun meccanismo che, in caso di omessa dichiarazione ICI, consenta di porre un limite alla totale elisione dell’indennità di espropriazione, garantendo comunque un ragionevole rapporto tra il valore venale dell’immobile espropriato e l’ammontare dell’indennità. Lo stesso vale per il caso di dichiarazione o denuncia di valori che potrebbero comunque condurre ad eludere il necessario vincolo di ragionevolezza e proporzionalità fra il comportamento tributario illecito e la sanzione. CORTE COSTITUZIONALE, 22 dicembre 2011 n. 338 - Pres. QUARANTA, red. TESAURO - A.C. c. Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale Sassari-Porto Torres-Alghero s.p.a.; interv. Presidente del Consiglio dei ministri (1). Ritenuto in fatto. — 1. La Corte di cassazione a sezioni unite, con due ordinanze del 14 aprile 2011, iscritte al reg. ord. n. 158 e n. 159 del 2011, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, 1º comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della l. 23 ottobre 1992 n. 421) — norma abrogata dall’art. 58, 1º comma, n. 134, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001 n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), come modificato dal decreto legislativo 27 dicembre 2002 n. 302 (Modifiche ed integrazioni al d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, recante testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) a decorrere dal 30 giugno 2003, in virtù dell’art. 3 del decreto-legge 20 giugno 2002 n. 122 (Disposizioni concernenti proroghe in materia di sfratti, di edilizia e di espropriazione), convertito con modificazioni, dall’art. 1, 1º comma, della legge 1º agosto 2002 n. 185 — oggi riversata nell’art. 37, 7º comma, del citato d.P.R. n. 327 del 2001, in riferimento agli articoli 42, 3º comma, e 117, 1º comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 ed all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 1.1. Con la prima ordinanza il giudice a quo premette in fatto che L.M.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Catania, che aveva rideterminato l’indennità dovutale dal Comune di Caltagirone per l’esproprio di terreni di sua proprietà, siti nel predetto Comune, destinati alla realizzazione di alloggi per scopi sociali. A sostegno del ricorso, venivano prospettati due motivi. Con il primo si denunciava la violazione di legge per avere la sentenza fatto applicazione dell’art. 5-bis della legge 8 agosto 1992 n. 359 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 11 luglio 1992 n. 333, recante misure urgenti per il risanamento della (1) La sentenza della Corte costituzionale 24 ottobre 2007 n. 348, citata nella motivazione, è riprodotta in Rivista, 2008, p. 197 ss. 248 GIURISPRUDENZA finanza pubblica), di cui si sosteneva la illegittimità costituzionale. Con il secondo motivo si denunciava la violazione dell’art. 24 della legge 13 giugno 1942 n. 794 (Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile), per avere liquidato le spese processuali violando i minimi tariffari. Il Comune di Caltagirone resisteva con controricorso e proponeva a sua volta ricorso incidentale denunciando la mancata decurtazione della indennità, nella misura del 40%, a norma del citato art. 5-bis, non avendo l’espropriata accettato la somma offertale. Con il secondo motivo veniva poi denunciata la violazione dell’art. 16 del decreto-legislativo 30 dicembre 1992 n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992 n. 421), in quanto all’espropriata non avrebbe dovuto essere liquidato nulla, a titolo di indennità, avendo omesso di presentare la dichiarazione ICI. 1.2. Con la seconda ordinanza la Corte rimettente premette che A.C., comproprietario pro indiviso di un terreno situato nel Comune di Sassari, interessato da un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, aveva proposto opposizione alla stima, dinanzi alla Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, ai sensi dell’art. 19 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942 n. 1150; 18 aprile 1962 n. 167; 29 settembre 1964 n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), nei confronti del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (A.S.I.) Sassari-Porto Torres-Alghero. Il Consorzio A.S.I. aveva chiesto nel merito il rigetto dell’opposizione e la riduzione dell’indennità entro i limiti dei valori dichiarati ai fini ICI, ovvero l’esclusione del diritto all’indennità in caso di omessa dichiarazione, in forza dell’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992. La Astaldi s.p.a., chiamata in causa dal Consorzio A.S.I., aveva eccepito, a sua volta, il difetto di legittimazione aderendo nel resto alle difese del Consorzio. La Corte di appello adita aveva proceduto alla determinazione della indennità di esproprio e di occupazione dell’area ritenuta edificabile. Quanto alla richiesta di riduzione dell’indennità entro i limiti dei valori dichiarati ai fini ICI, ovvero di totale rigetto della domanda di A.C., per la perdita del diritto alla indennità, in caso di omessa dichiarazione, la Corte di appello aveva escluso che nella specie potesse trovare applicazione il disposto dell’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992. Ciò, in quanto la norma sarebbe stata applicabile soltanto nel caso di presentazione della dichiarazione ICI, nel mentre A.C. « [aveva] dichiarato di non avere mai presentato alcuna dichiarazione ICI in relazione ai terreni di cui è causa, di talché incombeva al Consorzio A.S.I., che ha domandato la riduzione dell’indennità di esproprio, dimostrare sia che tale dichiarazione era stata, invece, presentata [...], sia che il valore dichiarato era inferiore all’indennità calcolata ex art. 5-bis, legge n. 359 del 1992) ». Avverso tale decisione proponeva ricorso il Consorzio, per ottenere la cassazione della sentenza della Corte di merito. In particolare, con il settimo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992, il Consorzio ribadiva la tesi che, in forza della citata disposizione di legge, l’espropriato, avendo omesso di presentare la dichiarazione ICI, relativa ai terreni in questione, non avrebbe potuto vantare alcun diritto alle indennità di esproprio. A giudizio del ricorrente, laddove l’art. 16 fosse applicabile soltanto al caso di denuncia infedele e non anche al caso di omessa dichiarazione, il sistema sarebbe irrazionalmente sbilanciato a favore degli evasori GIURISPRUDENZA ITALIANA 249 totali, il cui trattamento sanzionatorio sarebbe paradossalmente migliore di quello riservato agli evasori parziali. In questo senso il Consorzio ha eccepito l’incostituzionalità di una simile interpretazione della norma, con riferimento all’art. 3 Cost. 1.3. In entrambi i giudizi la prima sezione civile della Corte di cassazione, alla quale i ricorsi erano stati originariamente assegnati, con ordinanze rispettivamente n. 880 e n. 15317 del 2010, dopo avere rilevato che la giurisprudenza di legittimità si era conformata all’indirizzo interpretativo fornito dal giudice delle leggi, secondo il quale il pagamento dell’indennità di esproprio deve essere subordinato, in ogni caso, alla regolarizzazione degli obblighi fiscali, relativi all’ICI, evidenziava problemi applicativi di non facile soluzione. In particolare veniva esaminato il condizionamento reciproco delle procedure, sul piano della pregiudizialità incrociata delle questioni, con il correlato rischio di conflitti di giudicati e di cumulo dei tempi delle due procedure, difficilmente compatibile con la ragionevole durata dei processi. Trattandosi di questione di massima di particolare importanza, le cause erano state rimesse al Primo Presidente, il quale le aveva poi assegnate alle sezioni unite. 1.4. Le sezioni unite civili hanno quindi sollevato, con le ordinanze in epigrafe, la questione di legittimità costituzionale con identica motivazione in diritto, partendo da una approfondita ricostruzione della interpretazione dell’art. 16, 1º comma, del d.lgs. n. 504 del 1992, nella parte in cui impone la riduzione della indennità di espropriazione delle aree fabbricabili, in relazione all’obbligo di dichiarazione (iniziale) o denuncia (per le variazioni) ICI (art. 10 del d.lgs. n. 504 del 1992, vigente ratione temporis). La Corte di cassazione muove dall’interpretazione che della norma è stata fornita dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 351 del 2000, che a suo giudizio avrebbe escluso che la apparente incompletezza della disciplina dettata dall’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992 (circoscritta alla sola ipotesi della dichiarazione infedele) fosse in contrasto con l’art. 3 Cost., ipotizzando che anche il contribuente evasore totale (al pari del contribuente infedele) dovesse regolarizzare la propria posizione fiscale, prima di ottenere il pagamento dell’indennità di esproprio. Tale tesi interpretativa, pur seguita anche dagli stessi giudici di legittimità, tuttavia, non troverebbe il conforto del tenore letterale della norma, specie alla luce della costituzionalizzazione del principio del giusto processo e della sua ragionevole durata. L’interpretazione seguita dalla sentenza n. 351 del 2000, infatti, pur avendo il merito di evidenziare che la norma impugnata debba esplicare i suoi effetti anche sull’evasore totale, non sarebbe condivisibile perché finirebbe per introdurre una « inedita procedura di necessitata conciliazione fiscale, che assurge a condizione di pagamento dell’indennità di esproprio », laddove specifica che « l’evasore totale non viene affatto avvantaggiato, in quanto è destinato a subire in ogni caso le sanzioni per la omessa dichiarazione, nonché l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di evadere; inoltre, la erogazione dell’indennità di espropriazione non può intervenire, se non dopo la verifica che non superi il tetto massimo ragguagliato al “valore” denunciato per l’ICI, e, quindi, solo dopo la presentazione della denuncia ICI e la conseguente regolarizzazione della posizione tributaria, con concreto avvio del recupero dell’imposta e delle sanzioni. Il che presuppone in ogni caso che si tratti di area fabbricabile (tale al momento della dichiarazione) e che il soggetto espropriato, fosse, alla data di riferimento dell’indennità, tenuto all’ICI ». A giudizio della Corte rimettente una simile interpretazione non potrebbe in questi termini essere seguita, in primo luogo perché la collocazione sistematica (a ridosso degli articoli 14 e 15 che disciplinano le sanzioni ed il contenzioso ICI) ed il tenore letterale della norma in esame ne evidenzierebbero la chiara connotazione 250 GIURISPRUDENZA sanzionatoria, collegata al comportamento tenuto dal soggetto. L’effetto sanzionatorio atipico ed indiretto, costituito dalla misura extratributaria della riduzione dell’indennità di esproprio, si aggiunge alle sanzioni tributarie dirette previste dal precedente art. 14, nel caso in cui l’area edificabile venga interessata da una procedura di esproprio (sanzione eventuale). All’apparato sanzionatorio tipico del sistema tributario si aggiungerebbe quindi una sanzione accessoria, atipica, della « confisca » parziale o totale della indennità o del suolo. Inoltre, l’effetto dell’art. 16, 1º comma, del d.lgs. n. 504 del 1992, opererebbe come sanzione che non incide sui criteri primari di determinazione dell’indennità di esproprio ed il contenzioso tributario sviluppatosi a seguito della rettifica, da parte dell’ufficio, della dichiarazione o della denuncia presentata dal contribuente, o dell’accertamento in caso di omessa dichiarazione o denuncia, non rileverebbe ai fini dell’ammontare della eventuale riduzione da praticare sulla indennità. Il « fatto illecito » sanzionato dalla norma in esame sarebbe costituito, a giudizio della Corte di cassazione, dalla presentazione della dichiarazione infedele o dalla omessa presentazione della stessa. Tutto quanto segue andrebbe considerato un post factum irrilevante, non in grado di vanificare o sanare l’illecito già consumato e perfezionato, a pena del totale svuotamento della forza cogente della norma. I rimettenti ritengono, poi, che neppure potrebbe venire in rilievo l’emendabilità della dichiarazione, non potendo farsene applicazione in un caso in cui la modificazione sia giustificata dal solo fine della convenienza di eludere la riduzione dell’indennità. Infatti, laddove si spostasse « il baricentro dell’art. 16 dal momento formale dell’assolvimento degli obblighi fiscali (dichiarazione denuncia) a quello delle procedure di verifica dell’ammontare della obbligazione tributaria e del relativo assolvimento », verrebbe vanificata la funzione, evidenziata pure dalla Corte costituzionale, di « incentivare fedeli autodichiarazioni di valore delle aree fabbricabili ai fini ICI ». 1.4.1. Ciò posto, la Corte rimettente procede ad una ricognizione dei propri precedenti ed in particolare quello che aveva seguito l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale. A giudizio delle sezioni unite civili, per le ragioni innanzi esposte, tale orientamento andrebbe rivisto, dal momento che renderebbe del tutto irrilevante il comportamento del contribuente contrariamente ad ogni interpretazione letterale o sistematica, determinando peraltro un vulnus al principio della ragionevole durata del processo. Sulla base di tutte queste considerazioni, la Corte rimettente ritiene che l’art. 16, la cui ratio è quella di rafforzare l’obbligo di dichiarare fedelmente il valore delle aree fabbricabili, sia basato sul rapporto sinallagmatico tra valore dichiarato ai fini dell’ICI ed indennità di esproprio erogabile al contribuente espropriato. Il contribuente evasore totale, quindi, non potrebbe pretendere una indennità di esproprio, in quanto la omessa dichiarazione dovrebbe essere equivalente alla dichiarazione a valore irrisorio e le conseguenze non potrebbero essere dissimili. Tanto più che il comportamento dell’evasore parziale appare certamente meno grave, avendo perlomeno l’effetto di esporlo al controllo della dichiarazione. Conclusivamente, la Corte afferma che l’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992, oggi art. 37 del testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità, deve essere interpretato nel senso che la « sanzione » della riduzione dell’indennità di esproprio, in caso di dichiarazione infedele debba trovare applicazione, con riferimento all’ultima dichiarazione o denuncia presentata, prima della determinazione formale dell’indennità, restando irrilevanti eventuali successivi atti di ravvedimento o di autorettifiche. GIURISPRUDENZA ITALIANA 251 Tale disciplina, inoltre, riguarda anche le ipotesi di omessa dichiarazione/denuncia ICI, con la conseguenza che, in caso di omessa dichiarazione ICI, al contribuente fiscalmente inadempiente, espropriato, non spetti alcuna indennità. 1.5. Tale conclusione, tuttavia, a giudizio della Corte rimettente appare a sua volta porsi in contrasto con altri parametri costituzionali, in ragione, per un verso del mutato quadro normativo (con riferimento all’art. 117, 1º comma, Cost., come sostituito dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in relazione all’art. 42, 3º comma, Cost.), per l’altro dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale. Secondo tale giurisprudenza, infatti, le norme che non prevedono un « serio ristoro » del danno subito per effetto dell’occupazione o dell’espropriazione di aree edificabili, si pongono in contrasto con l’art. 42, 3º comma, Cost., e con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, 1º comma, Cost. (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007). Il giudice a quo, inoltre, esclusa ogni possibilità di un’interpretazione che possa condurre ad individuare una sorta di « valore minimo garantito », anche in caso di omessa dichiarazione o di dichiarazione di valore irrisorio, ritiene che la norma in questione alteri il rapporto diretto tra l’entità della sanzione e la gravità della violazione. Pertanto, la disciplina censurata, condizionando, sulla base di elementi e circostanze che nulla hanno a che vedere con il danno conseguente all’esproprio e con i criteri che attengono alla congruità della indennità dovuta all’espropriato, sarebbe per ciò stesso incostituzionale, potendo determinare persino la vanificazione del ristoro. E ciò, anche prendendo in considerazione la giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui l’art. 42, 3º comma, Cost., pur non imponendo al legislatore il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato, attesa la « funzione sociale » della proprietà, necessita comunque che sia conservato un « ragionevole legame » con il valore venale, a garanzia di un « serio ristoro ». 1.6. La Corte rimettente ha chiesto quindi di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, 1º comma, del d.lgs. n. 504 del 1992 (oggi art. 37, 7º comma, d.P.R. n. 327 del 2001), nella parte in cui, in caso di omessa dichiarazione/denuncia ICI o di dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori, non stabilisce un limite alla riduzione dell’indennità di esproprio, idoneo ad impedire la totale elisione di qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare della indennità, pregiudicando in tal modo anche il diritto ad un serio ristoro, spettante all’espropriato. 2. In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con atti di identico contenuto depositati il 28 luglio 2011, chiedendo che la questione proposta sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. Secondo l’Avvocatura dello Stato l’interpretazione seguita dalla Corte di cassazione, che esclude la possibilità del cosiddetto pentimento premiale, condurrebbe a conclusioni paradossali. Nel caso di omessa dichiarazione, infatti, la mancanza di una indicazione circa il valore dell’immobile, utile come parametro per la determinazione dell’indennità di esproprio, comporterebbe, alternativamente, o il mancato riconoscimento di un’indennità di espropriazione o il riconoscimento di un trattamento più favorevole rispetto al dichiarante infedele. Ciò in quanto, alla luce dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, il quale prevede che l’indennità di esproprio sia determinata in misura pari al valore venale del bene, colui che abbia omesso la dichiarazione ICI potrebbe 252 GIURISPRUDENZA vedersi comunque riconoscere, nonostante un comportamento obiettivamente non conforme agli obblighi di legge, un’indennità di esproprio pari addirittura al valore venale del bene immobile. In alternativa alla soluzione prospettata dal rimettente, dunque, proprio il ravvedimento operoso ben potrebbe fungere da elemento equilibratore della posizione dei contribuenti che abbiano adempiuto all’obbligazione tributaria e dei contribuenti lato sensu infedeli. In conclusione, il Presidente del Consiglio dei ministri non ritiene che vi siano sufficienti ragioni per discostarsi dall’interpretazione che della norma censurata ha già offerto la Corte costituzionale, sicché, essendo possibile procedere a tale lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata, la questione sarebbe inammissibile. Inoltre, l’Avvocatura dello Stato osserva che la disposizione di cui al 7º comma dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001 andrebbe letta in combinato con il successivo 8º comma, il quale dispone il rimborso dell’imposta maggiore pagata negli ultimi cinque anni dall’espropriato rispetto all’indennità di esproprio liquidata, in quanto la ratio legis delle due disposizioni consiste nel rendere coerente il carico fiscale sull’immobile espropriato con l’indennità di esproprio liquidata, nel primo caso (7º comma) coordinando le conseguenti obbligazioni, nel secondo caso (8º comma) « correggendo automaticamente violazioni al principio della capacità contributiva che si rendano evidenti in occasione dell’esproprio ». Anche in quest’ottica, dunque, l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale sul punto consentirebbe di rispettare i principi della Costituzione e della CEDU, con la conseguenza che la censura prospettata sarebbe nel merito comunque infondata. 3. Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2011, si è costituito il Consorzio industriale e provinciale di Sassari (già Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Sassari-Porto Torres-Alghero), con atto depositato il 2 agosto 2011. Secondo la difesa consortile l’interpretazione della norma censurata non potrebbe non tener conto del fatto che essa incide in realtà sulla determinazione del valore di mercato del bene, attraverso una parziale considerazione della dichiarazione resa dal proprietario ai fini dell’adempimento del proprio obbligo tributario. In altri termini l’attenzione dell’interprete dovrebbe spostarsi dall’ipotesi di una sanzione atipica e aggiuntiva, a quella dell’accertamento del valore del bene ai fini della determinazione dell’indennità espropriativa. La stessa Corte costituzionale, nell’ordinanza (recte: sentenza) n. 351 del 2000 ha infatti affermato che « non è estranea all’ordinamento giuridico la utilizzazione, in base a legge, di un valore dichiarato anche ad altri fini e persino al di fuori del rapporto intersoggettivo in cui è reso, soprattutto quando il valore prezzo assuma la funzione di corrispettivo per trasferimenti a carattere coattivo. Sarebbe sufficiente, a tal fine, il richiamo esemplificativo alle ipotesi di prelazione legale e riscatto sia nel campo dei fondi rustici per lo sviluppo della proprietà coltivatrice (legge 26 maggio 1965 n. 590), sia per gli immobili urbani in locazione (legge 27 luglio 1978 n. 392, art. 39), sia nell’ambito delle aree protette a favore dell’ente parco (legge 6 dicembre 1991 n. 394) ed infine alla prelazione dello Stato ai sensi della legge 1º giugno 1939 n. 1089, in caso di alienazione di bene storico-artistico vincolato (sentenza n. 269 del 1995) (v. ora d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490) ». Conseguentemente, trattandosi di determinazione del valore del bene ablato effettuata anche tenendo conto della dichiarazione a sé sfavorevole (di carattere confessorio) resa dal proprietario, sarebbe insussistente la dedotta illegittimità costituzionale. GIURISPRUDENZA ITALIANA 253 4. Nel medesimo giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2011, si è costituita anche la Astaldi s.p.a., con atto depositato il 20 luglio 2011, concludendo per l’infondatezza della questione. La parte costituita ritiene che tra i limiti alla proprietà privata finalizzati a garantirne la funzione sociale vi sarebbe anche quello introdotto dall’art. 16, 1º omma, del d.lgs. n. 504 del 1992, poi ribadito dall’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, e che la legittimità della disposizione non potrebbe essere revocata in dubbio dal richiamo all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale norma, infatti, nel garantire il libero esercizio del diritto di proprietà, espressamente dispone che « Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende ». In siffatto contesto, la « totale vanificazione dell’indennità » di espropriazione, che le sezioni unite della Corte di cassazione mirano a scongiurare, discenderebbe da un comportamento imputabile in via esclusiva al proprietario dell’immobile oggetto della procedura ablativa che abbia omesso l’essenziale adempimento in discussione, violando il « principio secondo cui il soggetto privato, nei rapporti con la pubblica amministrazione, necessariamente improntati a lealtà, correttezza e collaborazione, in quanto siano in gioco gli obblighi di solidarietà, economici e sociali (art. 2 della Costituzione), tra i quali quelli in materia tributaria, non può sottrarsi alle conseguenze di una sua dichiarazione » (sentenza n. 351 del 2000). Tale meccanismo risulterebbe, al contrario, incrinato da un’eventuale pronuncia di illegittimità delle norme impugnate, con ingiusto vantaggio per il soggetto che si è sottratto ai propri doveri di leale collaborazione con l’Amministrazione. 5. In prossimità dell’udienza, hanno presentato memorie il Presidente del Consiglio dei ministri e la Astaldi s.p.a.. Considerato in diritto. — 1. Le sezioni unite civili della Corte di cassazione, con due ordinanze di contenuto in larga parte identico (reg. ord. n. 158 e n. 159 del 2011) — la seconda trattata all’udienza pubblica dell’8 novembre 2011 e la prima nella camera di consiglio del successivo 9 novembre — hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, 1º comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della l. 23 ottobre 1992 n. 421), successivamente, a decorrere dal 30 giugno 2003, riversato con analoga formulazione nell’art. 37, 7º comma, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001 n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), in riferimento agli articoli 42, 3º comma, e 117, 1º comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 ed all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui, in caso di omessa dichiarazione/denuncia ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) o di dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori, non stabilisce un limite alla riduzione dell’indennità di esproprio, idoneo ad impedire la totale elisione di qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare della indennità, pregiudicando il diritto ad un serio ristoro, spettante all’espropriato. 254 GIURISPRUDENZA 1.1. In virtù dell’identità delle questioni sollevate va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia. 2. Secondo entrambe le ordinanze di rimessione, l’interpretazione della norma censurata offerta da questa Corte, con la sentenza n. 351 del 2000, non potrebbe essere seguita, nella parte in cui detta pronuncia ha ritenuto che l’indennità di espropriazione, nel caso di omessa dichiarazione ICI, potrebbe essere corrisposta soltanto dopo la regolarizzazione della posizione tributaria. Tale esegesi non sarebbe, infatti, consentita dalla lettera della disposizione e dall’interpretazione sistematica, anche perché renderebbe irrilevante l’originaria condotta del contribuente, recando altresì un vulnus al principio della ragionevole durata del processo. 2.1. I giudici a quibus, dopo avere analiticamente esaminato gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente alla citata sentenza, ritengono che l’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992 debba essere interpretato nel senso che la « sanzione » della riduzione dell’indennità di esproprio, in caso di dichiarazione infedele, trovi applicazione, con riferimento all’ultima dichiarazione o denuncia presentata, prima della determinazione formale dell’indennità, restando irrilevanti eventuali successivi atti di ravvedimento o di spontanee rettifiche e che tale disciplina debba necessariamente riguardare anche le ipotesi di omessa dichiarazione/denuncia ICI, con la conseguenza che, in questa fattispecie, al contribuente fiscalmente del tutto inadempiente non spetterebbe alcuna indennità di esproprio. 2.2. Secondo le sezioni unite civili, siffatta interpretazione della norma censurata, assunta come la sola possibile, violerebbe, tuttavia, i parametri costituzionali evocati, in ragione sia della loro parziale modifica — quanto all’art. 117, 1º comma, Cost., come sostituito dall’art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), in relazione all’art. 42, 3º comma, Cost. —, sia dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale. Secondo tale giurisprudenza, infatti, le norme che non prevedono un « serio ristoro » del danno subito per effetto dell’occupazione o dell’espropriazione di aree edificabili, si pongono in contrasto con l’art. 42, 3º comma, Cost., e con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che il legislatore è tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, 1º comma, della Costituzione. I giudici a quibus, esclusa ogni possibilità di un’interpretazione della norma censurata che consenta di individuare una sorta di « valore minimo garantito » anche in caso di omessa dichiarazione o di dichiarazione di valore irrisorio, ritengono che essa altererebbe il rapporto tra l’entità della sanzione e la gravità della violazione. Pertanto, il citato art. 16, stabilendo l’indennità di esproprio in base ad elementi e circostanze in alcun modo correlati al danno conseguente all’esproprio ed ai criteri che attengono alla congruità della indennità dovuta all’espropriato, sarebbe costituzionalmente illegittimo, potendo determinare persino la vanificazione del ristoro. 3. Preliminarmente, con riferimento al giudizio relativo all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 158 del 2011, va rilevato che il rimettente si limita, in fatto, a ricordare che il giudizio principale è stato promosso con ricorso per la cassazione della sentenza n. 928 del 5 ottobre 2004 della Corte di appello di Catania, senza specificare la data dell’espropriazione e della liquidazione dell’indennità, rilevante ai fini di stabilire GIURISPRUDENZA ITALIANA 255 l’applicabilità ratione temporis della norma impugnata, sostituita dall’art. 37, 7º comma, del d.P.R. n. 327 del 2001. La questione è, quindi, manifestamente inammissibile, in quanto, come più volte precisato dalla giurisprudenza di questa Corte, l’omessa o insufficiente descrizione della fattispecie, non emendabile mediante la diretta lettura degli atti, impedita dal principio di autosufficienza dell’atto di rimessione, preclude il necessario controllo in punto di rilevanza (ex plurimis: ordinanze nn. 6 e 3 del 2011; nn. 343, 318 e 85 del 2010; nn. 211, 201 e 191 del 2009). 4. Nel merito la questione sollevata dall’ordinanza reg. ord. n. 159 del 2011 è fondata. 5. Il rimettente, nel prospettare la questione di legittimità costituzionale, muove da un’esegesi del citato art. 16, da lui ritenuta la sola possibile. A suo avviso, la lettera della medesima e gli ordinari criteri ermeneutici non consentirebbero, infatti, un’interpretazione costituzionalmente orientata di detta norma. Siffatta premessa richiede, quindi, un preliminare esame della giurisprudenza formatasi sull’applicabilità della norma alle ipotesi di omessa dichiarazione/denuncia a fini ICI del valore di terreni edificabili. 5.1. L’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992, rubricato « indennità di espropriazione », al 1º comma così disponeva: « In caso di espropriazione di area fabbricabile l’indennità è ridotta ad un importo pari al valore indicato nell’ultima dichiarazione o denuncia presentata dall’espropriato ai fini dell’applicazione dell’imposta qualora il valore dichiarato risulti inferiore all’indennità di espropriazione determinata secondo i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti » — articolo poi abrogato dall’art. 58, 1º comma, n. 134, del d.P.R. n. 327 del 2001, come modificato dal decreto legislativo 27 dicembre 2002 n. 302 a decorrere dal 30 giugno 2003 (in virtù dell’art. 3 del decreto-legge 20 giugno 2002 n. 122, convertito con modificazioni, dall’art. 1, 1º comma, della legge 1º agosto 2002 n. 185). La norma prevedeva dunque, per le sole aree fabbricabili, una riduzione della indennità di espropriazione, quando il valore venale, dichiarato o denunciato dall’espropriato ai fini ICI, risultasse inferiore all’indennità. Quale effetto ulteriore era prevista (senza una distinzione tra aree fabbricabili e altri immobili) una maggiorazione della indennità, pari alla differenza (con l’aggiunta degli interessi) tra l’importo della imposta (ICI) pagata dall’espropriato o dal suo avente causa per il medesimo bene, negli ultimi cinque anni, e quello risultante dal computo dell’imposta sulla base della indennità liquidata. 5.2. Questa Corte ha preso in esame la disciplina stabilita dal citato art. 16 censurato, tra l’altro, in riferimento all’art. 3 Cost., con la sentenza n. 351 del 2000 e con le ordinanze n. 401 del 2002, n. 539 del 2000 e n. 333 del 1999. Secondo tali pronunce, nell’interpretazione di detta norma, sarebbe irrilevante accertare se essa prevedesse o no una misura sanzionatoria, ovvero se presupposto della stessa fosse una dolosa evasione d’imposta o un errore. Siffatta disposizione costituiva, infatti, « ragionevole applicazione del principio secondo cui il soggetto privato, nei rapporti con la pubblica amministrazione, necessariamente improntati a lealtà, correttezza e collaborazione, in quanto siano in gioco gli obblighi di solidarietà politici, economici e sociali (art. 2 della Costituzione), tra i quali quelli in materia tributaria, non può sottrarsi alle conseguenze di una sua dichiarazione ». 256 GIURISPRUDENZA In particolare, individuata la finalità della norma nel recupero dell’evasione fiscale e nella sua disincentivazione, si è affermato che « il fatto che questa evasione sia totale o parziale, ovvero dipendente o meno da volontà consapevole o da mero errore nella dichiarazione, poco interessa ai fini della legittimità costituzionale », sicché le « varie ipotesi di evasore totale o parziale formulate nelle ordinanze di rimessione sono tutte erronee nei presupposti ». La norma avrebbe dovuto, quindi, essere correttamente interpretata nel senso che « l’evasore totale non viene affatto avvantaggiato, in quanto è destinato a subire in ogni caso le sanzioni per la omessa dichiarazione, nonché l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di evadere ». Soprattutto, per quanto qui rileva, la determinazione dell’indennità di espropriazione non avrebbe potuto essere effettuata se non dopo avere verificato che questa non eccedeva il tetto massimo ragguagliato al « valore » denunciato per l’ICI, e, quindi, solo dopo la presentazione della relativa denuncia ICI e la conseguente regolarizzazione della posizione tributaria, con l’effettivo avvio del recupero dell’imposta e delle sanzioni. In ogni caso, ciò presupponeva che si trattasse di area fabbricabile (e tale al momento della dichiarazione) e che il soggetto espropriato, fosse, alla data della liquidazione dell’indennità, tenuto al pagamento dell’ICI. 5.3. La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza interpretativa di rigetto n. 351 del 2000 di questa Corte ha tenuto conto in vario modo delle argomentazioni nella stessa sviluppate, dando vita a molteplici orientamenti, diversi soprattutto quanto alle modalità applicative del meccanismo correttivo elaborato da questa Corte. Le sezioni unite civili, con l’ordinanza di rimessione, hanno provveduto ad un’analitica ricognizione di tali indirizzi, ricordando in primo luogo quello coevo alla citata sentenza, orientato a negare l’applicabilità del citato art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992 all’ipotesi di omessa presentazione della denuncia o della dichiarazione ai fini dell’ICI. Inoltre, esse hanno dato atto che la successiva giurisprudenza di legittimità, dopo aver ribadito la pregressa esegesi della norma, anche alla luce della pronuncia della Corte costituzionale, ha prevalentemente seguito l’interpretazione fornita da questa Corte, nel senso che l’evasore totale non perde il suo diritto all’indennizzo espropriativo, ma è unicamente destinato a subire le sanzioni per l’omessa dichiarazione e l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di evadere, potendo l’erogazione dell’indennità di espropriazione intervenire solo dopo la verifica che essa non superi il tetto massimo ragguagliato al valore accertato per l’ICI, a seguito della regolarizzazione della posizione tributaria. 6. Le sezioni unite civili, investite « della questione di massima di particolare importanza, vertente sul tema dei rapporti tra liquidazione dell’indennità di esproprio e soggezione all’ICI », con l’ordinanza di rimessione ritengono, quindi, che proprio tale orientamento debba essere rivisto, nel senso che la lettera e la ratio della norma impongono di ritenere che essa si applichi all’evasore totale, senza alcuna possibilità di evitare il vulnus ai parametri costituzionali evocati. Pertanto, in presenza di un orientamento non univoco, le sezioni unite civili della Corte di cassazione, hanno ritenuto, nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, di cui questa Corte deve tenere conto, di superare in tal modo il contrasto. Siffatta interpretazione costituisce, pertanto, « diritto vivente », del quale si deve accertare la compatibilità con i parametri costituzionali evocati. GIURISPRUDENZA ITALIANA 257 7. Posta tale premessa, e ritenuta applicabile la norma sia ai casi di omessa dichiarazione a fini ICI, sia al caso di una dichiarazione per un valore irrisorio, il rimettente ha concluso che l’originario comportamento tenuto a fini fiscali influisce necessariamente sulla quantificazione dell’indennità di espropriazione. 7.1. Nel delibare le censure prospettate dal rimettente, giova ricordare che sia la giurisprudenza di questa Corte che quella della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno individuato in materia di indennità di espropriazione un nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, garantito dall’art. 42, 3º comma, Cost., e dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU, in virtù del quale l’indennità di espropriazione non può ignorare « ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene », né può eludere un « ragionevole legame » con il valore di mercato (da ultimo sentenza n. 181 del 2011 e, prima ancora, sentenza n. 348 del 2007). In applicazione di tale principio, l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve realizzare, in primo luogo, un « giusto equilibrio » tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In secondo luogo, nonostante che al legislatore ordinario spetti un ampio margine, l’acquisizione di beni senza il pagamento di indennizzo in ragionevole rapporto con il loro valore costituisce normalmente un’ingerenza sproporzionata. Il legislatore, quindi, sebbene non abbia il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato, non può sottrarsi al « giusto equilibrio » tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui. Tale principio conserva validità anche con riferimento alle misure che lo Stato adotta in questa materia al fine di « assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende » di cui al capoverso dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU. Questa norma, interpretata anche alla luce dell’orientamento della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, attribuisce ampia discrezionalità ai legislatori nazionali nel definire le proprie politiche fiscali e, tuttavia, non consente di ritenere legittime misure di prevenzione e dissuasione fiscale qualora non siano prevedibili (ovvero siano meramente eventuali) o pretendano dal soggetto dichiarante un eccessivo onere o, infine, comportino una eccessiva conseguenza sanzionatoria, come nel caso in cui possano giungere ad una sostanziale espropriazione senza indennizzo (sent. 22 settembre 1994 n. 13616188, Hentrich c. Francia). Nel quadro di tali principi, la norma censurata, nell’interpretazione offerta dalle sezioni unite civili, viola sia l’art. 42, 3º comma, Cost., sia l’art. 117, 1º comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU. La disciplina stabilita dall’art. 16 non è, infatti, compatibile con il citato nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, in quanto non contempla alcun meccanismo che, in caso di omessa dichiarazione/denuncia ICI, consenta di porre un limite alla totale elisione di tale indennità, garantendo comunque un ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare della indennità. Peraltro, tale vulnus si determina anche per il caso di dichiarazione/denuncia di valori irrisori, o di valori che potrebbero condurre comunque ad elidere il necessario vincolo di ragionevolezza e proporzionalità fra il comportamento tributario illecito e la sanzione, e quindi la pronuncia di illegittimità costituzionale deve necessariamente riguardare anche siffatto profilo della disciplina. Resta ferma la discrezionalità del legislatore di stabilire sanzioni che, eventualmente, incidano anche sull’indennità di espropriazione, purché non realizzino una sostanziale confisca del bene, sacrificando illegittimamente il diritto di proprietà all’esclusivo interesse finanziario leso dal contribuente, tenuto conto della diversità di procedimenti 258 GIURISPRUDENZA e di garanzie che sovrintendono all’accertamento tributario ed alle relative sanzioni, peraltro già autonomamente previste dal d.lgs. n. 504 del 1992. 8. In definitiva, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, 1º comma, del d.lgs. n. 504 del 1992. 9. Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, anche dell’art. 37, 7º comma, del d.P.R. n. 327 del 2001, che disciplina la riduzione dell’indennità a decorrere dal 30 giugno 2003. Tale norma, infatti, contiene una disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza. Per questi motivi la Corte costituzionale, riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, 1º comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della l. 23 ottobre 1992 n. 421); 2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 37, 7º comma, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001 n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità); 3) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, 1º comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della l. 23 ottobre 1992 n. 421), sollevata dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza del 14 aprile 2011 (reg. ord. n. 158 del 2011), in riferimento agli articoli 42, 3º comma, e 117, 1º comma, della Costituzione. Protezione diplomatica - Reciprocità - Danni per la marina mercantile nazionale - L. 3 marzo 1987 n. 69 - Tutela giurisdizionale. Il mancato esercizio da parte del Governo del potere di attivare i principi di reciprocità a difesa della marina mercantile nazionale, previsti dalla l. 3 marzo 1987 n. 69 ed esercitabili su proposta di una commissione tecnica per la tutela dell’interesse nazionale, non costituisce una incensurabile attività di politica estera, come tale sottratta integralmente al vaglio della giurisdizione. In ordine al mancato esercizio di tale potere sussistono inalienabili posizioni soggettive di interesse legittimo, la cui tutela è devoluta all’autorità giudiziaria. GIURISPRUDENZA ITALIANA 259 CASSAZIONE (sez. un. civ.), 19 ottobre 2011 n. 21581 - Il Tuo Viaggio s.r.l. c. Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Ministero degli affari esteri (1). Ritenuto in fatto e in diritto. — 1. La s.r.l. « Il Tuo Viaggio » contesta alla Presidenza del Consiglio dei ministri ed al Ministero degli affari esteri la mancata attivazione dell’istituto della protezione diplomatica volta a sostenere le richieste dell’istante, che svolgeva attività di collegamento marittimo tra l’Italia e il Marocco, all’esito del rigetto dell’autorizzazione all’esercizio (o al suo mantenimento) della linea gestita ai sensi della legge n. 433 del 1985. 1.1. L’odierna ricorrente espone che, adito il T.a.r. Lazio per ottenere la convocazione della commissione italo-marocchina e il risarcimento dei danni per l’inerzia dello Stato italiano nel non attivare i principi di reciprocità e difesa della marina mercantile nazionale, si vide rigettare il ricorso per mancanza di nesso eziologico tra la condotta omissiva italiana e il danno lamentato, con sentenza confermata dal Consiglio di Stato che, nel dicembre 2009, ritenne, in via pregiudiziale, che il mancato esercizio della protezione diplomatica non potesse costituire, ipso facto, fonte di danno, attesa la non obbligatorietà ex lege del suo esercizio (attingendo il suo più intimo contenuto ai rapporti tra Stati in guisa di incensurabile atto politico), confermando poi, nel merito, la già riconosciuta (in prime cure) impredicabilità di un nesso di causalità giuridicamente rilevante tra condotta omissiva ed evento di danno. 2. La sentenza del Consiglio di Stato è stata impugnata dalla società di navigazione con ricorso per cassazione sorretto da un unico, complesso motivo di gravame illustrato da memoria. 2.1. Resistono con controricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e quello degli affari esteri. 3. Lamenta la ricorrente la violazione, per falsa e mancata applicazione, degli articoli 24, 111, 113 Cost.; della legge 25 luglio 1985 n. 433; della legge 3 marzo 1987 n. 69 recante disposizioni per la difesa della marina mercantile italiana, in relazione al decreto 3 settembre 1999 dell’allora Ministero dei trasporti e della navigazione, ora Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. 3.1. Il motivo è fondato. 3.1.1. La fondatezza della censura emerge dal sinergico esame del motivo di ricorso e delle ragioni addotte dalla difesa erariale per contrastarlo. 3.2. In limine, va osservato come, sia dalla motivazione della decisione oggi impugnata sia dalle obiezioni mosse a ricorso dall’avvocatura oggi resistente, emerga che l’esclusione della giurisdizione in ordine all’adozione o meno degli atti prospettati quale fonte di danno sia ricondotta in via consequenziale alla interpretazione dell’isti(1) La decisione del Consiglio di Stato, 24 dicembre 2009, oggetto di impugnazione nel procedimento che ha dato luogo alla sentenza qui riprodotta, può leggersi in Rivista, 2010, p. 1280 ss. Si veda a proposito diquesta sentenza, supra, p. 156 ss., lo scritto di PUSTORINO. 260 GIURISPRUDENZA tuto della c.d. « protezione diplomatica » in termini di atto politico, come tale sottratto tout court a qualsivoglia sindacato giurisdizionale, sia ordinario che amministrativo — salvo poi l’adozione, da parte del giudice amministrativo, di un decisum (anche) di merito sotto il profilo della causalità (ritenuta nella specie insussistente) tra condotta ed evento di danno. 4. L’accertamento compiuto in via pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato è avvenuto, peraltro, non in via incidentale ma principale, non avendo gli atti oggetto del presente giudizio valenza autoritativa stricto sensu (onde, di essi, non sarebbe risultato legittimo l’annullamento, se richiesto), mentre il rigetto della domanda risarcitoria motivato dal difetto di giurisdizione per la pretesa natura politica dell’attività lesiva — a cospetto di una espressa previsione costituzionale (art. 113 Cost.) che non consente tale declinatoria tout court — si risolve, nella sostanza, nel diniego, in astratto, di qualsivoglia posizione giuridica azionabile dal privato, id est nel sostanziale rifiuto da parte del giudice amministrativo di esercitare, secondo dettato costituzionale, la propria giurisdizione. 4.1. Correttamente e condivisibilmente evidenzia, pertanto, il ricorrente come il diniego assoluto di giurisdizione in subiecta materia si risolva nell’illegittimo diniego della sussistenza tout court di qualsivoglia posizione soggettiva giuridicamente tutelata rispetto al mancato esercizio dei poteri attribuiti alle Amministrazioni dello Stato dalla legge n. 433 del 1985 e dalla legge n. 69 del 1987: onde la irredimibile violazione degli articoli 24 e 113 della Carta fondamentale. 4.2. Censurabile risulta dunque la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto di qualificare la posizione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente con riferimento all’istituto della protezione diplomatica — che, secondo la definizione contenuta nell’art. 1 del relativo progetto adottato dalla Commissione del diritto internazionale (e fatta propria dalla Corte internazionale di giustizia con la sentenza 24 maggio 2007, Sadio Diallo), consiste nella contestazione da parte di uno Stato (attraverso un’attività diplomatica o altri mezzi di risoluzione delle controversie) della responsabilità di altro Stato per un danno causato da un fatto illecito (sul piano internazionale) ad una persona fisica o giuridica che abbia la nazionalità del primo Stato al fine di attivare consequenzialmente tale responsabilità — opinando che l’esercizio dei poteri di cui alla legge. n. 69 del 1987, art. 1 potesse ascriversi ad una incensurabile attività di politica estera sottratta integralmente al vaglio della giurisdizione: così omettendo del tutto di considerare che i poteri in discorso (dapprima attribuiti al Ministero della marina mercantile, poi trasferiti a quello delle infrastrutture e dei trasporti) sono esercitati, su proposta (non di un organo politico, bensì) di una commissione tecnica al fine di difendere la marina mercantile nazionale e di disciplinare i traffici commerciali marittimi per la tutela dell’interesse nazionale, poteri il cui contenuto esula del tutto dal novero degli atti politici stricto sensu, trattandosi viceversa di atti di (alta) amministrazione rientranti nell’esercizio di una più specifica politica marittimo-mercantile nazionale. 5. In ordine all’illegittimo esercizio — ovvero, come nella specie, al mancato esercizio di tali poteri — sussistono, pertanto, inalienabili posizioni soggettive di interesse legittimo (assimilabili alle legitimate expectations previste e tutelate in common law in ordine all’esercizio di poteri derivanti, come nella specie, dal diritto internazionale consuetudinario), rispetto alle quali si pone al di fuori dei limiti (negativi) della GIURISPRUDENZA ITALIANA 261 potestas iudicandi dell’organo di giustizia amministrativa il diniego assoluto di tutela giurisdizionale che, viceversa, attesa la già rilevata consistenza giuridica delle predette posizioni, deve ritenersi devoluta a quell’autorità giudiziaria. 6. Gli ulteriori argomenti spesi in sentenza (in ordine alla causalità e al danno) non possono costituirne, nel caso di specie, idonea e autosufficiente ratio decidendi, degradando piuttosto, ipso facto, a rango di meri obiter dicta, attesa la pregiudiziale declinatoria assoluta di potestas iudicandi da parte del giudice adito. Il ricorso è pertanto accolto, con conseguente cassazione della sentenza oggi impugnata. Va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo. La causa deve, pertanto, essere rinviata dinanzi al Consiglio di Stato. Alla disciplina delle spese del giudizio di cassazione provvederà il giudice dinanzi al quale il processo è rinviato. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Consiglio di Stato. ACCORDI INTERNAZIONALI ITALIA Comunicati del Ministero degli affari esteri pubblicati nel 2011 e relativi alla vigenza di atti internazionali (1) ACCORDI MULTILATERALI Trattato di collaborazione in materia economica, sociale e culturale e di legittima difesa collettiva (« Trattato di Bruxelles ») - Bruxelles, 17 marzo 1948 Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 20 dicembre 2011 n. 295). Protocolli n. I, n. II, n. III e n. IV del Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948 (istitutivo dell’U.E.O.): il primo di modifica e completamento; il secondo relativo alle forze dell’Unione dell’Europa Occidentale; il terzo relativo al controllo degli armamenti e annessi; il quarto relativo all’Agenzia dell’Unione dell’Europa Occidentale per il controllo degli armamenti - Parigi, 23 ottobre 1954 - Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 20 dicembre 2011 n. 295). Convenzione sullo Statuto dell’Unione dell’Europa Occidentale, dei rappresentanti nazionali e del personale internazionale - Parigi, 11 maggio 1955 Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 22 dicembre 2011 n. 297). Convenzione concernente le misure da prendere da parte degli Stati membri dell’Unione dell’Europa Occidentale per permettere all’Agenzia per il controllo degli armamenti di esercitare efficacemente il proprio controllo e stabilire la garanzia d’ordine giurisdizionale prevista dal Protocollo n. IV del Trattato di Bruxelles modificato dai Protocolli firmati a Parigi il 23 ottobre 1954 - Parigi, 14 dicembre 1957 - Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 22 dicembre 2011 n. 297). Accordo concluso in esecuzione dell’art. V del Protocollo n. II del Trattato di Bruxelles, modificato dai Protocolli firmati a Parigi il 23 ottobre 1954 - Parigi, 14 dicembre 1957 - Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 20 dicembre 2011 n. 295). Convenzione riguardante l’abolizione della legalizzazione di atti pubblici (1) Sono qui elencati i comunicati relativi sia all’entrata in vigore che alla cessazione di efficacia per l’Italia di accordi internazionali stipulati nel 2011 o negli anni precedenti. ACCORDI INTERNAZIONALI 263 stranieri - L’Aja, 5 ottobre 1961 - In vigore fra Italia e Albania dal 26 maggio 2011 (G.U. 18 luglio 2011 n. 165). Convenzione relativa alla soppressione della legalizzazione di atti negli Stati membri delle Comunità europee - Bruxelles, 25 maggio 1987 - In vigore tra Italia, Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda e Lettonia dal 31 ottobre 2010 (G.U. 6 settembre 2011 n. 207). Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli animali da compagnia - Strasburgo,13 novembre 1987 - In vigore dal 1º novembre 2011 (G.U. 29 novembre 2011 n. 278). Protocollo di adesione del Regno di Spagna e della Repubblica portoghese al Trattato di collaborazione in materia economica, sociale e culturale e di legittima difesa collettiva, firmato a Bruxelles il 17 marzo 1948, modificato dal Protocollo che modifica e completa il Trattato di Bruxelles, firmato a Parigi il 23 ottobre 1954 - Londra, 14 novembre 1988 - Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 22 dicembre 2011 n. 297). Protocollo di adesione della Repubblica ellenica al Trattato di collaborazione in materia economica, sociale e culturale e di legittima difesa collettiva, firmato a Bruxelles il 17 marzo 1948, modificato e integrato dal Protocollo firmato a Parigi il 23 ottobre 1954 e degli altri Protocolli e annessi che fanno parte integrante di tale documento - Roma, 20 novembre 1992 - Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 22 dicembre 2011 n. 297). Trattato sul diritto dei marchi e Regolamento di esecuzione - Ginevra, 27 ottobre 1994 - In vigore dal 26 aprile 2011 (G.U. 21 maggio 2011 n. 117). Accordo di sicurezza dell’Unione dell’Europa Occidentale (U.E.O.) - Bruxelles, 28 marzo 1995 - Cessazione degli effetti dal 30 giugno 2011 (G.U. 22 dicembre 2011 n. 297). Accordo fra le Parti al Trattato Nord Atlantico per la sicurezza delle informazioni - Bruxelles, 6 marzo 1997 - In vigore dal 15 giugno 2008 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). Convenzione internazionale sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da combustibile delle navi - Londra, 23 marzo 2001 - In vigore dal 18 febbraio 2011 (G.U. 18 marzo 2011 n. 63). Accordi GATS sulle modifiche e sugli adeguamenti compensativi ai sensi dell’articolo XXI del GATS conclusi tra la Comunità europea e i suoi Stati membri e 17 Paesi dell’OMC in seguito all’allargamento dell’UE da 15 a 25 Stati membri - Bruxelles, 15 dicembre 2006 - In vigore dal 17 gennaio 2011 (G.U. 4 marzo 2011 n. 52). Fondo monetario internazionale, emendamenti allo Statuto adottati con le risoluzioni del Consiglio dei governatori n. 63-3 del 5 maggio 2008 il Quinto - in vigore dal 18 febbraio 2011 - e n. 63-2 del 28 aprile 2008 il Sesto - In vigore dal 3 marzo 2011 (G.U. 11 aprile 2011 n. 83). Accordo di stabilizzazione e associazione tra le Comunità europee e la Repubblica di Serbia - Lussemburgo, 29 aprile 2008 - In vigore dal 1º marzo 2011 (G.U. 16 febbraio 2011 n. 32). 264 ACCORDI INTERNAZIONALI ACCORDI BILATERALI ITALIA - AFGHANISTAN Accordo per l’iniziativa « finanziamento allo sviluppo dei programmi sanitari nazionali nelle provincie di Kabul e Herat » - Kabul, 25 settembre 2010 - In vigore dal 25 agosto 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). Accordo quadro di cooperazione allo sviluppo - Roma, 19 ottobre 2010 - In vigore dal 12 settembre 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - ALBANIA Accordo aggiuntivo alla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 ed alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, ed inteso a facilitarne l’applicazione - Tirana, 3 dicembre 2007 - con Scambio di note integrativo - Tirana, 18/19 settembre 2008 - In vigore dal 1º agosto 2011 (G.U. 22 settembre 2011 n. 221). ITALIA - ARMENIA Accordo in materia di cooperazione di polizia - Roma, 23 aprile 2010 - In vigore dal 25 ottobre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). ITALIA - AZERBAIJAN Accordo sull’esenzione dall’obbligo di visto per i titolari di passaporti diplomatici e di servizio - Baku, 7 dicembre 2010 - In vigore dal 13 agosto 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - BIELORUSSIA Accordo sulla cooperazione e la mutua assistenza amministrativa in materia doganale, con allegato - Minsk, 18 aprile 2003 - In vigore dal 1º luglio 2011 (G.U. 22 settembre 2011 n. 221). ITALIA - BRASILE Accordo in materia di cooperazione nel settore della difesa - Roma, 11 novembre 2008 - In vigore dal 16 giugno 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel settore sportivo - San Paolo, 29 giugno 2010 - In vigore dal 28 settembre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). ACCORDI INTERNAZIONALI 265 ITALIA - CANADA Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo d’intesa - Ottawa, 3 giugno 2002 - In vigore dal 25 novembre 2011 (G.U. 20 dicembre 2011 n. 295). ITALIA - CILE Trattato per l’assistenza giudiziaria in materia penale - Roma, 27 febbraio 2002 - In vigore dal 1º maggio 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). ITALIA - CINA Scambio di note per il reciproco esonero delle imposte derivanti dal traffico aereo - Pechino, 22 maggio/8 giugno 2007 - In vigore dal 20 dicembre 2010 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). ITALIA - CIPRO Protocollo aggiuntivo alla Convenzione per evitare le doppie imposizioni e per prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito del 24 aprile 1974 - Nicosia, 4 giugno 2009 - In vigore dal 23 novembre 2010 (G.U. 3 marzo 2011 n. 51). ITALIA - CONGO Accordo sulla cancellazione del debito della Repubblica democratica del Congo - Kinshasa, 31 maggio 2011 - In vigore dal 31 maggio 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - COMUNITÀ CARAIBICA (CARICOM) Memorandum d’intesa sulla cooperazione - Georgetown, 7 aprile 2011 - In vigore dal 7 aprile 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - ETIOPIA Accordo per l’implementazione del Programma « Contributo italiano al Programma di sviluppo del settore sanitario (HSDP) 2010-2012 » - Addis Abeba, 10 novembre 2010 - In vigore dal 19 maggio 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). 266 ACCORDI INTERNAZIONALI ITALIA - INIZIATIVA CENTRO EUROPEA (INCE) Accordo sull’istituzione del Segretariato esecutivo InCE a Trieste - Vienna, 29 maggio 2009 - In vigore dal 2 agosto 2011 (G.U. 7 settembre 2011 n. 208). ITALIA - KAZAKISTAN Trattato sul partenariato strategico - Roma, 5 novembre 2009 - In vigore dal 1º luglio 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - KOSOVO Accordo per il programma « Sostegno al sistema sanitario del Kosovo » Pristina, 21 maggio 2010 - In vigore dal 10 novembre 2010 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). ITALIA - KUWAIT Accordo per la costituzione di una commissione congiunta di cooperazione Roma, 26 novembre 2009 - In vigore dall’8 aprile 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). ITALIA - LIBANO Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo aggiuntivo - Beirut, 22 novembre 2000 - In vigore dal 21 novembre 2011 (G.U. 20 dicembre 2011 n. 295). Accordo per il « Programma di sostegno al decentramento. Fondo di sviluppo locale » - Beirut, 18 giugno 2009 - In vigore dal 21 aprile 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). Accordo per l’iniziativa « supporto alle politiche nazionali in materia di prevenzione antincendio: fornitura di mezzi di formazione » - Beirut, 10 maggio 2010 - In vigore dal 2 agosto 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). Accordo relativo all’iniziativa « Capacity Building in Public Procurement Program » - Beirut, 3 maggio 2010 - In vigore dal 12 maggio 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). Accordo in materia di gestione integrata dei rifiuti nella Caza di Baalbek Beirut, 9 luglio 2010 - In vigore dal 8 novembre 2010 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). Accordo per il miglioramento della qualità dell’olio d’oliva ed azioni di contrasto alla diffusione del citoplasma delle Drupacee - Beirut, 26 novembre 2010 - In vigore dall’11 maggio 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). ACCORDI INTERNAZIONALI 267 ITALIA - MALTA Protocollo all’Accordo per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali - Roma, 13 marzo 2009 - In vigore dal 24 novembre 2010 (G.U. 9 febbraio 2011 n. 32). ITALIA - MOLDOVA Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo aggiuntivo - Roma, 3 luglio 2002 - In vigore dal 14 luglio 2011 (G.U. 22 settembre 2011 n. 221). Accordo per l’assistenza giudiziaria e per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze in materia civile - Roma, 7 dicembre 2006 - In vigore dal 1º febbraio 2011 (G.U. 22 settembre 2011 n. 221). Accordo sulla collaborazione nel settore del turismo - Roma, 7 dicembre 2006 - In vigore dal 15 ottobre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). Scambio di note per la modifica degli allegati tecnici dell’Accordo di Roma del 27 novembre 2003 sulla conversione di patenti di guida - Roma, 14/26 gennaio 2011 - In vigore dal 12 settembre 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - MOZAMBICO Accordo per l’esecuzione del « Progetto di cooperazione tecnica trilaterale: appoggio di riqualificazione del Barrio Chamanculo C nel quadro della strategia globale di riordino ed urbanizzazione degli insediamenti informali del Municipio di Maputo » - Maputo, 2 settembre 2010 - In vigore dal 2 settembre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). Accordo per l’esecuzione di una iniziativa denominata « Sostegno al fondo comune dell’educazione (FASE) » - Maputo, 2 settembre 2010 - In vigore dal 2 settembre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). ITALIA - NIGERIA Accordo in materia migratoria - Roma, 12 settembre 2000 - In vigore dal 12 giugno 2011 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). ITALIA - NUOVA ZELANDA Accordo riguardante lo svolgimento di attività lavorativa da parte dei familiari conviventi del personale diplomatico, consolare e tecnico-amministrativo - Roma, 4 dicembre 2003 - con Scambio di note integrativo - Roma, 2/7 novembre 2006 In vigore dal 1º settembre 2010 (G.U. 22 settembre 2011 n. 221). 268 ACCORDI INTERNAZIONALI ITALIA - ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE PER L’ALIMENTAZIONE E L’AGRICOLTURA (FAO) Scambio di lettere relativo alla concessione di un immobile in Roma come sede per la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (CGPM) - Roma, 19 gennaio/24 marzo 2006 - In vigore dal 14 settembre 2011 (G.U. 10 novembre 2011 n. 262). ITALIA - ORGANIZZAZIONE PER LA COOPERAZIONE E LO SVILUPPO ECONOMICO (OCSE) Memorandum d’intesa per la costituzione a Trento di un Centro per lo sviluppo locale - Parigi, 15 dicembre 2010 - In vigore dal 15 dicembre 2010 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). ITALIA - QATAR Accordo di cooperazione culturale - Doha, 14 gennaio 2007 - In vigore dal 3 ottobre 2011 (G.U. 28 novembre 2011 n. 277). ITALIA - ROMANIA Accordo sulla Cooperazione nel campo delle comunicazioni e della società dell’informazione - Bucarest, 10 giugno 2010 - In vigore dal 10 febbraio 2011 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). ITALIA - RUSSIA Accordo sulla cooperazione per la ricostruzione nella città di L’Aquila del Palazzo Ardinghelli e della Chiesa di San Gregorio Magno - Milano, 26 aprile 2010 - In vigore dall’8 ottobre 2010 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). ITALIA - SAN SALVADOR Accordo generale di cooperazione - San Salvador, 18 aprile 2007 - In vigore dal 4 settembre 2007 (G.U. 10 maggio 2011 n. 107 suppl.). Accordo per il « potenziamento della scuola inclusiva a tempo pieno » - San Salvador, 28 gennaio 2011 - In vigore dal 28 giugno 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - SENEGAL Accordo quadro di cooperazione allo sviluppo - Dakar, 7 dicembre 2010 - In vigore dal 12 luglio 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ACCORDI INTERNAZIONALI 269 ITALIA - SIRIA Accordo di cooperazione culturale - Roma, 11 settembre 2008 - In vigore dal 3 luglio 2011 (G.U. 22 settembre 2011 n. 221). ITALIA - SLOVENIA Convenzione per la manutenzione del confine di Stato - Roma, 7 marzo 2007 - In vigore dal 24 maggio 2001 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). Accordo sulla cooperazione transfrontaliera di polizia - Lubiana, 27 agosto 2007 - In vigore dal 18 luglio 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - SVIZZERA Accordo relativo alla non imponibilità dell’i.v.a. sui pedaggi riscossi al traforo del Gran San Bernardo - Roma, 31 ottobre 2006 - In vigore dal 4 ottobre 2010 (G.U. 3 marzo 2011 n. 51). ITALIA - STATI UNITI D’AMERICA Accordo per scambio di note per l’entrata in vigore del Memorandum of Understanding tra NASA e ASI nell’ambito della cooperazione per la missione NUSTAR - Washington, 21 gennaio/24 giugno 2011 - In vigore dal 24 giugno 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - TAGIKISTAN Accordo sulla cooperazione economica, industriale e tecnica - Dushanbé, 2 aprile 2009 - In vigore dal 1º novembre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). ITALIA - TOGO Accordo sulla cancellazione del debito della Repubblica del Togo - Lomé, 17 giugno 2011 - In vigore dal 17 giugno 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - TUNISIA Protocollo di Accordo concernente il programma di appoggio al settore privato, con due annessi - Tunisi, 14 aprile 2010 - In vigore dal 4 novembre 2010 (G.U. 4 agosto 2011 n. 180 suppl.). 270 ACCORDI INTERNAZIONALI ITALIA - TURCHIA Accordo di coproduzione cinematografica, con allegato - Ankara, 30 marzo 2006 - In vigore dal 21 luglio 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). ITALIA - VENEZUELA Accordo di cooperazione in materia di prevenzione e contrasto al traffico illecito di stupefacenti, sostanze psicotrope e precursori chimici - Caracas, 26 gennaio 2010 - In vigore dal 15 ottobre 2010 (G.U. 14 gennaio 2011 n. 12 suppl.). ITALIA - VIETNAM Scambio di note emendative dell’Accordo di conversione del debito - Milano, 21/30 giugno 2011 - In vigore dal 30 giugno 2011 (G.U. 17 novembre 2011 n. 236 suppl.). Atti internazionali resi esecutivi con provvedimenti pubblicati nel 2011 (2) ACCORDI MULTILATERALI Convenzione di Oslo sulla messa al bando delle munizioni a grappolo Dublino, 30 maggio 2008 - L. 14 giugno 2011 n. 95 (G.U. 4 luglio 2011 n. 153). Accordo di partenariato economico tra gli Stati del Cariforum, da una parte, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall’altra, con allegati, Protocolli, dichiarazioni e atto finale - Bridgetown, 15 ottobre 2008 - L. 24 agosto 2011 n. 154 (G.U. 23 settembre 2011 n. 222). Convenzione relativa allo sdoganamento centralizzato, concernente l’attribuzione delle spese di riscossione nazionali trattenute allorché le risorse proprie tradizionali sono messe a disposizione del bilancio dell’UE - Bruxelles, 10 marzo 2009 - L. 3 febbraio 2011 n. 7 (G.U. 24 febbraio 2011 n. 45 suppl.). Accordo tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da un lato, e la Repubblica sudafricana, dall’altro, che modifica l’Accordo sugli scambi, lo sviluppo e la cooperazione - Kleinmond, 11 settembre 2009 - L. 27 ottobre 2011 n. 194 (G.U. 23 novembre 2011 n. 273). Accordo quadro di partenariato globale e cooperazione tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Repubblica di Indonesia dall’altra, con atto finale - Giacarta, 9 novembre 2009 - L. 27 ottobre 2011 n. 192 (G.U. 23 novembre 2011 n. 273). (2) I dati relativi ai comunicati concernenti l’eventuale entrata in vigore per l’Italia di questi accordi sono contenuti nel precedente elenco. ACCORDI INTERNAZIONALI 271 Protocollo emendativo della Convenzione del 1988 tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa ed i Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) sulla reciproca assistenza amministrativa in materia fiscale - Parigi, 27 maggio 2010 - L. 27 ottobre 2011 n. 193 (G.U. 23 novembre 2011 n. 273). Accordo, con atto finale e dichiarazioni allegate, che modifica per la seconda volta l’Accordo di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall’altro, firmato a Cotonou il 23 giugno 2000, riveduto per la prima volta a Lussemburgo il 25 giugno 2005 - Ouagadougou, 22 giugno 2010 - L. 27 ottobre 2011 n. 197 (G.U. 24 novembre 2011 n. 274). Protocollo che modifica il Protocollo sulle disposizioni transitorie allegato al Trattato sull’Unione europea, al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica - Bruxelles, 23 giugno 2010 - L. 14 gennaio 2011 n. 2 (G.U. 1º febbraio 2011 n. 25). Fondo monetario internazionale, modifiche allo Statuto e quattordicesimo aumento generale delle quote derivanti dalla risoluzione del Consiglio dei governatori n. 66-2 del 15 dicembre 2010 - L. 31 ottobre 2011 n. 190 (G.U. 18 novembre 2011 n. 269). ACCORDI BILATERALI ITALIA - ALBANIA Accordo aggiuntivo alla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 ed alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, ed inteso a facilitarne l’applicazione - Tirana, 3 dicembre 2007 - con Scambio di note integrativo - Tirana, 18/19 settembre 2008 - L. 14 giugno 2011 n. 97 (G.U. 6 luglio 2011 n. 155). ITALIA - ARGENTINA Accordo di mutua assistenza amministrativa per la prevenzione, l’accertamento e la repressione delle infrazioni doganali, con allegato - Roma, 21 marzo 2007 - L. 24 agosto 2011 n. 152 (G.U. 23 settembre 2011 n. 222). ITALIA - AZERBAIGIAN Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo aggiuntivo - Baku, 21 luglio 2004 - L. 3 febbraio 2011 n. 6 (G.U. 24 febbraio 2011 n. 45 suppl.). 272 ACCORDI INTERNAZIONALI ITALIA - BRASILE Accordo in materia di cooperazione nel settore della difesa - Roma, 11 novembre 2008 - L. 11 marzo 2011 n. 22 (G.U. 22 marzo 2011 n. 66). ITALIA - CANADA Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo d’intesa - Ottawa, 3 giugno 2002 - L. 24 marzo 2011 n. 42 (G.U. 14 aprile 2011 n. 86). ITALIA - GIAPPONE Accordo di mutua assistenza amministrativa e cooperazione in materia doganale - Roma, 15 dicembre 2009 - L. 15 novembre 2011 n. 204 (G.U. 7 dicembre 2011 n. 285). ITALIA - GIORDANIA Accordo sulla cooperazione e sulla mutua assistenza in materia doganale Roma, 5 novembre 2007 - L. 27 ottobre 2011 n. 196 (G.U. 24 novembre 2011 n. 274). ITALIA - INIZIATIVA CENTRO-EUROPA (INCE) Accordo sull’istituzione del Segretariato esecutivo InCE a Trieste - Vienna, 29 maggio 2009 - L. 24 marzo 2011 n. 40 (G.U. 13 aprile 2011 n. 85). ITALIA - KUWAIT Accordo di cooperazione in materia culturale, scientifica, tecnologica e nei settori dell’istruzione e dell’informazione - Kuwait, 7 dicembre 2005 - L. 15 novembre 2011 n. 205 (G.U. 7 dicembre 2011 n. 285). ITALIA - LIBANO Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo aggiuntivo - Beirut, 22 novembre 2000 - L. 3 giugno 2011 n. 87 (G.U. 21 giugno 2011 n. 142). ITALIA - MAROCCO Accordo nel campo della cooperazione militare - Taormina, 10 febbraio 2006 - L. 24 agosto 2011 n. 153 (G.U. 23 settembre 2011 n. 222). ACCORDI INTERNAZIONALI 273 ITALIA - MOLDOVA Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo aggiuntivo - Roma, 3 luglio 2002 - L. 3 febbraio 2011 n. 8 (G.U. 24 febbraio 2011 n. 45 suppl.). ITALIA - ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE PER L’ALIMENTAZIONE E L’AGRICOLTURA (FAO) Scambio di lettere per la concessione di un immobile in Roma come sede per la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (CGPM) - Roma, 19 gennaio/24 marzo 2006 - L. 14 giugno 2011 n. 96 (G.U. 5 luglio 2011 n. 154). ITALIA - PANAMA Accordo di cooperazione culturale e scientifica - Roma, 2 maggio 2007 - L. 14 giugno 2011 n. 99 (G.U. 7 luglio 2011 n. 156). ITALIA - QATAR Accordo di cooperazione culturale - Doha, 14 gennaio 2007 - L. 3 giugno 2011 n. 86 (G.U. 21 giugno 2011 n. 142). Accordo sulla cooperazione nel settore della difesa - Doha, 12 maggio 2010 - L. 27 ottobre 2011 n. 198 (G.U. 24 novembre 2011 n. 274). ITALIA - RUSSIA Protocollo di modifica della Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo aggiuntivo del 9 aprile 1996 - Lecce, 13 giugno 2009 - L. 13 maggio 2011 n. 80 (G.U. 7 giugno 2011 n. 130). ITALIA - SIRIA Accordo di cooperazione culturale - Roma, 11 settembre 2008 - L. 24 marzo 2011 n. 38 (G.U. 12 aprile 2011 n. 84). ITALIA - SLOVENIA Accordo sulla cooperazione transfrontaliera di polizia - Lubiana, 27 agosto 2007 - L. 7 aprile 2011 n. 60 (G.U. 2 maggio 2011 n. 100). 274 ACCORDI INTERNAZIONALI ITALIA - SVIZZERA Scambi di note relativi alla modifica della Convenzione per la navigazione sul Lago Maggiore e sul Lago di Lugano, con allegati, del 2 dicembre 1992 - Roma, 23 luglio/24 settembre 2010 - L. 15 novembre 2011 n. 203 (G.U. 7 dicembre 2011 n. 285). ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI NAZIONI UNITE CONSIGLIO DI SICUREZZA Risoluzione 2014 (2011), adottata il 21 ottobre 2011, sulla situazione in Yemen (1) The Security Council, Recalling its Press Statements of 24 September 2011, 9 August 2011, and 24 June 2011, Expressing grave concern at the situation in Yemen, Reaffirming its strong commitment to the unity, sovereignty, independence and territorial integrity of Yemen, Welcoming the Secretary-General’s statement of 23 September 2011 urging all sides to engage in a constructive manner to achieve a peaceful resolution to the current crisis, Welcoming the engagement of the Gulf Cooperation Council, and reaffirming the support of the Security Council for the GCC’s efforts to resolve the political crisis in Yemen, Welcoming the continuing efforts of the Good Offices of the SecretaryGeneral, including the visits to Yemen by the Special Adviser, Taking note of the Human Rights Council resolution on Yemen (A/HRC/RES/18/19), and underlining the need for a comprehensive, independent and impartial investigation consistent with international standards into alleged human rights abuses and violations, with a view to avoiding impunity and ensuring full accountability, and noting in this regard the concerns expressed by the United Nations High Commissioner for Human Rights, Welcoming the statement by the Ministerial Council of the Gulf Cooperation Council on 23 September 2011 which called for the immediate signing by President Saleh and implementation of the Gulf Cooperation Council initiative, (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. Le risoluzioni 1325 (2000), 1820 (2008) e 1888 (2009), citate nel testo, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 2001, p. 229 ss., 2008, p. 916 ss., e 2010, p. 213 ss. 276 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI condemned the use of force against unarmed demonstrators, and called for restraint, a commitment to a full and immediate ceasefire and the formation of a commission to investigate the events that led to the killing of innocent Yemeni people, Expressing serious concern at the worsening security situation, including armed conflict, and the deteriorating economic and humanitarian situation due to the lack of progress on a political settlement, and the potential for the further escalation of violence, Reaffirming its resolutions 1325 (2000), 1820 (2008), 1888 (2009), 1889 (2009) and 1960 (2010) on women, peace, and security, and reiterating the need for the full, equal and effective participation of women at all stages of peaceprocesses given their vital role in the prevention and resolution of conflict and peacebuilding, reaffirming the key role women play in re-establishing the fabric of society and stressing the need for their involvement in conflict resolution in order to take into account their perspective and needs, Expressing serious concern also about the increasing number of internally displaced persons and refugees in Yemen, the alarming levels of malnutrition caused by drought and soaring fuel and food prices, the increasing interruption of basic supplies and social services, and increasingly difficult access to safe water and health care, Expressing further serious concern at the increased threat from Al-Qaida in the Arabian Peninsula and the risk of new terror attacks in parts of Yemen, and reaffirming that terrorism in all forms and manifestations constitutes one of the most serious threats to international peace and security and that any acts of terrorism are criminal and unjustifiable regardless of their motivations, Condemning all terrorist and other attacks against civilians and against the authorities, including those aimed at jeopardizing the political process in Yemen, such as the attack on the Presidential compound in Sana’a on 3 June 2011, Recalling the Yemeni Government’s primary responsibility to protect its population, Stressing that the best solution to the current crisis in Yemen is through an inclusive and Yemeni-led political process of transition that meets the legitimate demands and aspirations of the Yemeni people for change, Reaffirming its support for the Presidential decree of 12 September which is designed to find a political agreement acceptable to all parties, and to ensure a peaceful and democratic transition of power, including the holding of early Presidential elections, Stressing the importance of the stability and security of Yemen, particularly regarding overall international counter-terrorism efforts, Mindful of its primary responsibility for the maintenance of international peace and security under the Charter of the United Nations, and emphasizing the threats to regional security and stability posed by the deterioration of the situation in Yemen in the absence of a lasting political settlement, NAZIONI UNITE 277 1. Expresses profound regret at the hundreds of deaths, mainly of civilians, including women and children; 2. Strongly condemns the continued human rights violations by the Yemeni authorities, such as the excessive use of force against peaceful protestors as well as the acts of violence, use of force, and human rights abuses perpetrated by other actors, and stresses that all those responsible for violence, human rights violations and abuses should be held accountable; 3. Demands that all sides immediately reject the use of violence to achieve political goals; 4. Reaffirms its view that the signature and implementation as soon as possible of a settlement agreement on the basis of the Gulf Cooperation Council initiative is essential for an inclusive, orderly, and Yemeni-led process of political transition, notes the signing of the Gulf Cooperation Council initiative by some opposition parties and the General People’s Congress, calls on all parties in Yemen to commit themselves to implementation of a political settlement based upon this initiative, notes the commitment by the President of Yemen to immediately sign the Gulf Cooperation Council initiative and encourages him, or those authorized to act on his behalf, to do so, and to implement a political settlement based upon it, and calls for this commitment to be translated into action, in order to achieve a peaceful political transition of power, as stated in the Gulf Cooperation Council initiative and the Presidential decree of 12 September, without further delay; 5. Demands that the Yemeni authorities immediately ensure their actions comply with obligations under applicable international humanitarian and human rights law, allow the people of Yemen to exercise their human rights and fundamental freedoms, including their rights of peaceful assembly to demand redress of their grievances and freedom of expression, including for members of the media, and take action to end attacks against civilians and civilian targets by security forces; 6. Calls upon all concerned parties to ensure the protection of women and children, to improve women’s participation in conflict resolution and encourages all parties to facilitate the equal and full participation of women at decisionmaking levels; 7. Urges all opposition groups to commit to playing a full and constructive part in the agreement and implementation of a political settlement on the basis of the Gulf Cooperation Council initiative, and demands that all opposition groups refrain from violence, and cease the use of force to achieve political aims; 8. Further demands that all armed groups remove all weapons from areas of peaceful demonstration, refrain from violence and provocation, refrain from the recruitment of children, and urges all parties not to target vital infrastructure; 9. Expresses its concern over the presence of Al-Qaida in the Arabian Peninsula, and its determination to address this threat in accordance with the Charter of the United Nations and international law including applicable human rights, refugee and humanitarian law; 10. Encourages the international community to provide humanitarian assis- 278 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI tance to Yemen, and in this regard requests all parties in Yemen to facilitate the work of the United Nations agencies and other relevant organizations, and ensure full, safe and unhindered access for the timely delivery of the humanitarian aid to persons in need across Yemen; 11. Requests the Secretary-General to continue his Good Offices, including through visits by the Special Adviser, and to continue to urge all Yemeni stakeholders to implement the provisions of this resolution, and encourage all States and regional organizations to contribute to this objective; 12. Requests the Secretary-General to report on implementation of this resolution within 30 days of its adoption and every 60 days thereafter; 13. Decides to remain actively seized of the matter. Risoluzione 2015 (2011), adottata il 24 ottobre 2011, relativa alla modifica delle legislazioni nazionali e alla istituzione di tribunali speciali in Somalia e nei Paesi della Regione competenti a giudicare i responsabili degli atti di pirateria commessi al largo delle coste della Somalia e i loro complici (1) The Security Council, Recalling its previous resolutions concerning the situation in Somalia, especially resolutions 1918 (2010) and 1976 (2011), Continuing to be gravely concerned by the growing threat that piracy and armed robbery at sea against vessels off the coast of Somalia pose to the situation in Somalia, States in the region and other States, as well as to international navigation, the safety of commercial maritime routes and the safety of seafarers and other persons, and also gravely concerned by the increased level of violence employed by pirates and persons involved in armed robbery at sea off the coast of Somalia, Emphasizing the importance of finding a comprehensive solution to the problem of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, Stressing the need to build Somalia’s potential for sustainable economic growth as a means to tackle the underlying causes of piracy, including poverty, thus contributing to a durable eradication of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia and illegal activities connected therewith, Reaffirming its respect for the sovereignty, territorial integrity, political independence and unity of Somalia, Reaffirming that international law, as reflected in the United Nations Convention on the Law of the Sea of 10 December 1982 (Convention), in particular its articles 100, 101 and 105, sets out the legal framework applicable to combating piracy and armed robbery at sea, as well as other ocean activities, (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. Le risoluzioni 1918 (2010) e 1976 (2011), citate nel testo, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 2010, p. 921 ss., e 2011, p. 974 ss. NAZIONI UNITE 279 Further reaffirming that the provisions of this resolution apply only with respect to the situation in Somalia and do not affect the rights and obligations or responsibilities of Member States under international law, Bearing in mind the Djibouti Code of Conduct concerning the Repression of Piracy and Armed Robbery against Ships in the Western Indian Ocean and the Gulf of Aden, and recognizing the commitment of signatory States to review their national legislation with a view to ensuring that national laws to criminalize piracy and armed robbery against ships, and adequate guidelines for the exercise of jurisdiction, conduct of investigations, and prosecutions of alleged offenders, are in place, Commending those States that have amended their domestic law in order to criminalize piracy and facilitate the prosecution of suspected pirates in their national courts, consistent with applicable international law, including human rights law, and stressing the need for States to continue their efforts in this regard, Noting with concern at the same time that the domestic law of a number of States lacks provisions criminalizing piracy and/or procedural provisions for effective criminal prosecution of suspected pirates, Reaffirming the importance of national prosecution of suspected pirates for combating piracy off the coast of Somalia, Strongly condemning the continuing practice of hostage-taking by suspected pirates operating off the coast of Somalia, expressing serious concern at the inhuman conditions hostage face in captivity, recognizing the adverse impact on their families, calling for the immediate release of all hostages, and noting the importance of cooperation between Member States on the issue of hostage-taking and the need for the prosecution of suspected pirates for taking hostages, Recognizing that despite the efforts to date by States to prosecute suspected pirates at the national level, the ongoing work in this regard is still insufficient and that more must be done to ensure that suspected pirates are effectively brought to justice, Reiterating its concern over a large number of persons suspected of piracy having to be released without facing justice, reaffirming that the failure to prosecute persons responsible for acts of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia undermines anti-piracy efforts of the international community and being determined to create conditions to ensure that pirates are held accountable, Noting with interest the conclusion in the Secretary-General’s report on the modalities for the establishment of specialized Somali anti-piracy courts (S/2011/360) that, assuming that sufficient international assistance is provided, piracy trials being conducted by courts in Somaliland and Puntland are expected to reach international standards in about three years, and expressing its hope consistent with the mentioned Secretary-General’s report that this timeline will be accelerated if suitable experts, including those from the Somali diaspora, can be identified and recruited, Welcoming the consultations between the United Nations and regional States, 280 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI including the Seychelles, Mauritius, and Tanzania, and the willingness expressed by Tanzania to assist the international community, under the right conditions, to prosecute suspected pirates in its territory, Determining that the incidents of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia exacerbate the situation in Somalia, which continues to constitute a threat to international peace and security in the region, 1. Reaffirms that the ultimate goal of enhancing Somali responsibility and active involvement in efforts to prosecute suspected pirates, as emphasized by the Secretary-General’s Special Adviser on Legal Issues Related to Piracy off the Coast of Somalia in his report transmitted to the Security Council on 19 January 2011 (S/2011/30), remains highly relevant in the overall context of fighting piracy; 2. Recognizes the primary role of the Transitional Federal Government (TFG) and the relevant Somali regional authorities in eradicating piracy off the coast of Somalia; 3. Welcomes in this regard that the Somalia end of transition road map of 6 September 2011 includes developing counter-piracy policy and legislation in conjunction with regional entities as a key task of the Transitional Federal Institutions (TFI), and notes that the Security Council has made its future support to the TFI contingent upon the completion of the tasks contained in the road map; 4. Notes with appreciation the report of the Secretary-General on the modalities for the establishment of specialized Somali anti-piracy courts (S/2011/360) prepared pursuant to paragraph 26 of resolution 1976 (2011); 5. Reiterates its call upon all States, and in particular flag, port, and coastal States, States of the nationality of victims as well as of perpetrators of piracy and armed robbery, and other States with relevant jurisdiction under international law and national legislation, to cooperate in determining jurisdiction, and in the investigation and prosecution of all persons responsible for acts of piracy and armed robbery off the coast of Somalia, including anyone who incites or facilitates an act of piracy, consistent with applicable international law including human rights law; 6. Calls upon States to cooperate also, as appropriate, on the prosecution of suspected pirates for taking hostages; 7. Reiterates its request, as a matter of urgency, to the TFG and relevant Somali regional authorities to elaborate, with the assistance of UNODC and UNDP, and adopt a complete set of counter-piracy laws, including laws to prosecute those who illicitly finance, plan, organize, facilitate or profit from pirate attacks, with a view to ensuring the effective prosecution of suspected pirates and those associated with piracy attacks in Somalia, the post-conviction transfer of pirates prosecuted elsewhere to Somalia, and the imprisonment of convicted pirates in Somalia, as soon as possible, and strongly urges the TFG and regional authorities of Somalia to expeditiously address any other existing obstacles that impede progress in this regard, and requests the TFG and relevant regional authorities of Somalia to provide a report to the Security Council by 31 December 2011 on action taken in each of the areas above; NAZIONI UNITE 281 8. Calls upon UNODC, UNDP and other international partners to further their efforts to support the development of domestic legislation, agreements and mechanisms that would allow the effective prosecution of suspected pirates, and the transfer and imprisonment of convicted pirates; 9. Strongly urges States that have not already done so to criminalize piracy under their domestic law, and reiterates its call on States to favourably consider the prosecution of suspected, and imprisonment of convicted, pirates apprehended off the coast of Somalia, consistent with applicable international law including international human rights law; 10. Urges States and international organizations to share evidence and information for anti-piracy law enforcement purposes with a view to ensuring effective prosecution of suspected, and imprisonment of convicted, pirates; 11. Calls upon all Member States to report, no later than 31 December 2011, to the Secretary-General on measures they have taken to criminalize piracy under their domestic law and to prosecute and support the prosecution of individuals suspected of piracy off the coast of Somalia and imprisonment of convicted pirates, and requests the Secretary-General to compile this information and to circulate this compilation as a document of the Security Council; 12. Commends the ongoing work of UNODC and UNDP, as described in the Secretary-General’s report, in supporting counter-piracy trials and increased prison capacity in Somalia, consistent with the recommendation of the SecretaryGeneral’s Special Adviser on Legal Issues Related to Piracy of the Coast of Somalia; 13. Reaffirms that the efforts to promote effective judicial mechanisms to prosecute suspected pirates should be continued and intensified; 14. Welcomes the undertaking of the Secretary-General, in connection with his report (S/2011/360) to further proactively assist, at the request of the Security Council, in the taking of appropriate next steps aimed at further enhancing counterpiracy prosecution efforts; 15. Requests States and regional organizations to consider possible ways to seek and allow for the effective contribution of the Somali diaspora to anti-piracy efforts, in particular in the area of prosecution, as advised in the SecretaryGeneral’s report (S/2011/360); 16. Decides to continue its consideration, as a matter of urgency, without prejudice to any further steps to ensure that pirates are held accountable, of the establishment of specialized anti-piracy courts in Somalia and other States in the region with substantial international participation and/or support, and requests that the Secretary-General, in conjunction with UNODC and UNDP, further consult with Somalia and regional States willing to establish such anti-piracy courts on the kind of international assistance, including the provision of international personnel, that would be required to help make such courts operational; the procedural arrangements required for transfer of apprehended pirates and related evidence; the projected case capacity of such courts; and the projected timeline and costs for such courts, and to provide to the Council in the light of such 282 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI consultations within 90 days detailed implementation proposals for the establishment of such courts, as appropriate; 17. Underlines the importance for such courts to have jurisdiction to be exercised over not only suspects captured at sea, but also anyone who incites or intentionally facilitates piracy operations, including key figures of criminal networks involved in piracy who illicitly plan, organize, facilitate, or finance and profit from such attacks; 18. Recognizes that any increase in prosecution capacity must necessarily be accompanied by a related increase in prison capacity, and calls upon both Somali authorities, UNODC, UNDP and other international partners to support the construction and responsible operation of prisons in Somalia in accordance with international law; 19. Calls upon Member States, regional organizations and other appropriate partners to support efforts to establish specialized anti-piracy courts in the region by making or facilitating arrangements for the provision of international experts, including those from the Somali diaspora, through secondment or otherwise, and to otherwise support the work of UNODC, UNDP or others in this regard through contributions to the Trust Fund; 20. Decides to remain seized of the matter. Risoluzione 2016 (2011), adottata il 27 ottobre 2011, con cui si mette fine ad alcune delle misure adottate a carico della Libia (1) The Security Council, Recalling its resolutions 1970 (2011) of 26 February 2011, 1973 (2011) of 17 March 2011, and 2009 (2011) of 16 September 2011, Reaffirming its strong commitment to the sovereignty, independence, territorial integrity and national unity of Libya, Taking note of the National Transitional Council’s “Declaration of Liberation” of 23 October 2011 in Libya, Looking forward to a future for Libya based on national reconciliation, justice, respect for human rights and the rule of law, Reiterating the importance of promoting the full and effective participation of members of all social and ethnic groups, including the equal participation of women and minority communities in the discussions related to the post-conflict phase, Recalling its decision to refer the situation in Libya to the Prosecutor of the International Criminal Court, and the importance of cooperation for ensuring that (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. Le risoluzioni 1970 (2011), 1973 (2011) e 2009 (2011), citate nel testo, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 2011, pp. 621 ss., 630 ss. e 1292 ss. NAZIONI UNITE 283 those responsible for violations of human rights and international humanitarian law or complicit in attacks targeting the civilian population are held accountable, Reiterating that the voluntary and sustainable return of refugees and internally displaced persons will be an important factor for the consolidation of peace in Libya, Expressing concern at the proliferation of arms in Libya and its potential impact on regional peace and security, and also expressing its intention expeditiously to address that issue further, Expressing grave concern about continuing reports of reprisals, arbitrary detentions, wrongful imprisonment and extrajudicial executions in Libya, Reiterating its call to the Libyan authorities to promote and protect human rights and fundamental freedoms, including those of people belonging to vulnerable groups, to comply with their obligations under international law, including international humanitarian law and human rights law, and urging respect for the human rights of all people in Libya, including former officials and detainees, during and after the transitional period, Recalling its decisions in resolution 2009 (2011) to: (a) Modify the provisions of the arms embargo imposed by paragraph 9 of resolution 1970 to provide for additional exemptions, (b) Terminate the asset freeze imposed by paragraphs 17, 19, 20 and 21 of resolution 1970 (2011) and paragraph 19 of resolution 1973 (2011) with respect to the Libyan National Oil Corporation and Zueitina Oil Company, and to modify the asset freeze imposed by paragraphs 17, 19, 20 and 21 of resolution 1970 (2011) and paragraph 19 of resolution 1973 (2011) with respect to the Central Bank of Libya, the Libyan Arab Foreign Bank, the Libyan Investment Authority, and the Libyan Africa Investment Portfolio, and (c) Cease the measures imposed by paragraph 17 of resolution 1973 (2011), Recalling also its intention to keep the measures imposed by paragraphs 6 to 12 of resolution 1973 (2011) under continuous review and to lift, as appropriate and when circumstances permit, those measures and to terminate authorization given to Member States in paragraph 4 of resolution 1973 (2011), in consultation with the Libyan authorities, Mindful of its primary responsibility for the maintenance of international peace and security under the Charter of the United Nations, Acting under Chapter VII of the Charter of the United Nations, 1. Welcomes the positive developments in Libya which will improve the prospects for a democratic, peaceful and prosperous future there; 2. Looks forward to the swift establishment of an inclusive, representative transitional Government of Libya, and reiterates the need for the transitional period to be underpinned by a commitment to democracy, good governance, rule of law, national reconciliation and respect for human rights and fundamental freedoms of all people in Libya; 284 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI 3. Strongly urges the Libyan authorities to refrain from reprisals, including arbitrary detentions, calls upon the Libyan authorities to take all steps necessary to prevent reprisals, wrongful imprisonment and extrajudicial executions, and underscores the Libyan authorities’ responsibility for the protection of its population, including foreign nationals and African migrants; 4. Urges all Member States to cooperate closely with the Libyan authorities in their efforts to end impunity for violations of international human rights and international humanitarian law; Protection of Civilians 5. Decides that the provisions of paragraphs 4 and 5 of resolution 1973 (2011) shall be terminated from 23.59 Libyan local time on 31 October 2011; No-Fly Zone 6. Decides also that the provisions of paragraphs 6 to 12 of resolution 1973 (2011) shall be terminated from 23.59 Libyan local time on 31 October 2011; 7. Decides to remain actively seized of the matter. Risoluzione 2017 (2011), adottata il 31 ottobre 2011, con cui si chiede alla Libia di adottare misure per impedire la proliferazione delle armi (1) The Security Council, Recalling its previous resolutions 1373 (2001), 1526 (2004), 1540 (2004), 1970 (2011), 1973 (2011), 1977 (2011), 1989 (2011), 2009 (2011) and 2016 (2011), and the statements of its Presidents S/PRST/2005/7 and S/PRST/2010/6, Reaffirming its strong commitment to the sovereignty, independence, territorial integrity and national unity of Libya, Stressing that national ownership and national responsibility are key to establishing sustainable peace in Libya, Stressing also the importance of the United Nations Support Mission in Libya, in accordance with its mandate under resolution 2009 (2011), assisting and supporting Libyan national efforts, inter alia to restore public security and order, Recalling that, pursuant to paragraph 10 of resolution 1970 (2011), Member States are obliged to prohibit the procurement of all arms and related materiel from Libya by their nationals, or using their flagged vessels or aircraft, and whether or not originating in the territory of Libya, Expressing concern at the proliferation of all arms and related materiel of all (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. Le risoluzioni 1373 (2001), 1526 (2004), 1540 (2004), 1970 (2011), 1973 (2011), 1977 (2011), 1989 (2011), 2009 (2011) e 2016 (2011), citate nel testo, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 2001, p. 1173 s., 2004, pp. 571 ss. e 889 ss., 2011, pp. 621 ss., 630 ss., 979 ss., 1000 ss., 1292 ss., e supra, p. 282 ss. NAZIONI UNITE 285 types, in particular man-portable surface-to-air missiles, from Libya, in the region and its potential impact on regional and international peace and security, Underlining the risk of destabilization posed by the dissemination in the Sahel region of illicit small arms and light weapons, and recalling in that regard the Report of the Secretary-General on the activities of the United Nations Office for West Africa (S/2011/388), which inter alia calls for strengthened cooperation in the Sahel area, as well as the work of the United Nation Office for Central Africa, Recognizing the urgent need for additional efforts to be made at the national, regional and international levels, in order to prevent the proliferation of all arms and related materiel of all types, in particular man-portable surface-to-air missiles, in the region, Recognizing also the urgent need to secure and destroy chemical weapons stockpiles in Libya, in accordance with its international obligations, Emphasizing that the proliferation of all arms and related materiel of all types, in particular, man-portable surface-to-air missiles, in the region could fuel terrorist activities, including those of Al-Qaida in the Islamic Maghreb, Reaffirming, in that regard, that terrorism constitutes one of the most serious threats to international peace and security, Reiterating the obligation of Member States to cooperate in order to prevent the movement of terrorist groups, and the proliferation of arms in support of terrorist activities, inter alia through effective border control, Mindful of its primary responsibility for the maintenance of international peace and security, 1. Calls upon the Libyan authorities to take all necessary steps to prevent the proliferation of all arms and related materiel of all types, in particular manportable surface-to-air missiles, to ensure their proper custody, as well as to meet Libya’s arms control, disarmament and non-proliferation obligations under international law, through the full implementation of their plans in this regard; 2. Further calls upon the Libyan authorities to continue their close coordination with the Organization for the Prohibition of Chemical Weapons, with the aim of destroying their stockpiles of chemical weapons, in accordance with their international obligations; 3. Calls upon States in the region to consider appropriate measures to prevent the proliferation of all arms and related materiel of all types, in particular man-portable surface-to-air missiles, in the region; 4. Calls upon Member States, international and regional organizations and entities, including relevant United Nations bodies, to provide the necessary assistance to the Libyan authorities and States in the region in order to achieve this goal; 5. Requests the Committee established pursuant to resolution 1970 (2011), with assistance from its Panel of Experts, and in cooperation with the CounterTerrorism Executive Directorate, and working with other relevant United Nations 286 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI bodies including the International Civil Aviation Organization, and in consultation with international and regional organizations and entities, to assess the threats and challenges, in particular related to terrorism, posed by the proliferation of all arms and related materiel of all types, in particular man-portable surface-to-air missiles, from Libya, in the region, and to submit a report to the Council on proposals to counter this threat, and to prevent the proliferation of arms and related materiel, including, inter alia, measures to secure these arms and related materiel, to ensure that stockpiles are managed safely and securely, to strengthen border control and to enhance transport security; 6. Requests the Secretary-General to include in his reports pursuant to resolution 2009 (2011) to the Security Council updates on the implementation of this resolution; 7. Decides to remain seized of the matter. Risoluzione 2018 (2011), adottata il 31 ottobre 2011, sulla repressione degli atti di pirateria e di rapina a mano armata compiuti nel Golfo di Guinea (1) The Security Council, Expressing its deep concern about the threat that piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea pose to international navigation, security and the economic development of States in the region, Recalling its statement of 30 August 2011 on piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea, Expressing its concern over the threat that piracy and armed robbery at sea pose to the safety of seafarers and other persons, including through their being taken as hostages, and deeply concerned by the violence employed by pirates and persons involved in piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea, Affirming its respect for the sovereignty and territorial integrity of the States of the Gulf of Guinea and their neighbours, Further affirming that the provisions of this resolution apply only with respect to the situation in the Gulf of Guinea, Affirming that international law, as reflected in the United Nations Convention on the Law of the Sea of 10 December 1982, in particular its articles 100, 101 and 105, sets out the legal framework applicable to countering piracy and armed robbery at sea, as well as other ocean activities, Noting that applicable international legal instruments provide for parties to create criminal offences, establish jurisdiction, and prosecute or extradite for prosecution, persons responsible for or suspected of seizing or exercising control over a ship or fixed platform by force or threat thereof or any other form of intimidation, (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. NAZIONI UNITE 287 Emphasizing the importance of finding a comprehensive solution to the problem of piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea, Noting the efforts of the States of the Gulf of Guinea to address this problem, including joint patrols at sea and the activities of the Federal Republic of Nigeria and Benin Republic off the coast of Benin, Also noting the need for international assistance as part of a comprehensive strategy to support national and regional efforts to assist States in the region with their efforts to address piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea, Welcoming the contributions made by some Member States and international organizations in support of the maritime sector, including security, capacitybuilding and the joint operations of the States of the Gulf of Guinea, Stressing that the coordination of efforts at the regional level is necessary for the development of a comprehensive strategy to counter the threat of piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea, Noting that States in the region have a leadership role to play in this regard, supported by organizations in the region, 1. Condemns all acts of piracy and armed robbery at sea committed off the coast of the States of the Gulf of Guinea; 2. Welcomes the intention to convene a summit of Gulf of Guinea Heads of State in order to consider a comprehensive response in the region and encourages the States of the Economic Community of West African States (ECOWAS), the Economic Community of Central African States (ECCAS) and the Gulf of Guinea Commission (GGC) to develop a comprehensive strategy, including through: (a) the development of domestic laws and regulations, where these are not in place, criminalizing piracy and armed robbery at sea; (b) the development of a regional framework to counter piracy and armed robbery at sea, including information-sharing and operational coordination mechanisms in the region; (c) the development and strengthening of domestic laws and regulations, as appropriate, to implement relevant international agreements addressing the safety and security of navigation, in accordance with international law; 3. Encourages States of ECOWAS, ECCAS and the GGC, through concerted action, to counter piracy and armed robbery at sea in the Gulf of Guinea through the conduct of bilateral or regional maritime patrols consistent with relevant international law; and requests the States concerned to take appropriate steps to ensure that the activities they undertake pursuant to this resolution, do not have a practical effect of denying or impairing freedom of navigation on the high seas or the right of innocent passage in the territorial sea to vessels of third States; 4. Calls upon States, in cooperation with the shipping industry, the insurance industry and the International Maritime Organization (IMO) to issue to ships entitled to fly their flag, appropriate advice and guidance within context of the Gulf of Guinea, on avoidance, evasion and defensive techniques and measures to 288 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI take, if under the threat of attack, or attack when sailing in the waters of the Gulf of Guinea; 5. Further calls upon States of ECOWAS, ECCAS and GGC, in conjunction with flag States and States of nationality of victims or of perpetrators of acts of piracy or armed robbery at sea, to cooperate in the prosecution of alleged perpetrators, including facilitators and financiers of acts of piracy and armed robbery at sea committed off the coast of the Gulf of Guinea, in accordance with applicable international law, including human rights law; 6. Encourages the international community to assist, upon request, the States concerned in the region, ECOWAS, ECCAS, GGC and other relevant organizations and agencies in strengthening their efforts to counter piracy and armed robbery at sea, in the Gulf of Guinea; 7. Welcomes the intention of the Secretary-General of the United Nations to deploy a United Nations assessment mission to examine the threat of piracy and armed robbery at sea, in the Gulf of Guinea and explore options on how best to address the problem, and looks forward to receiving the mission’s report with recommendations on the matter; 8. Decides to remain seized of the matter. Risoluzione 2020 (2011), adottata il 22 novembre 2011, con cui si proroga l’autorizzazione data agli Stati ad usare tutti i mezzi necessari per reprimere gli atti di pirateria e di rapina a mano armata nelle acque al largo della Somalia (1) The Security Council, Recalling its previous resolutions concerning the situation in Somalia, especially resolutions 1814 (2008), 1816 (2008), 1838 (2008), 1844 (2008), 1846 (2008), 1851 (2008), 1897 (2009), 1918 (2010), 1950 (2010), 1976 (2011), and 2015 (2011), as well as the Statement of its President (S/PRST/2010/16) of 25 August 2010, Continuing to be gravely concerned by the ongoing threat that piracy and armed robbery at sea against vessels pose to the prompt, safe, and effective delivery of humanitarian aid to Somalia and the region, to the safety of seafarers and other persons, to international navigation and the safety of commercial maritime routes, and to other vulnerable ships, including fishing activities in conformity with international law, and also gravely concerned by the extended range of the piracy threat into the western Indian Ocean and adjacent sea areas, and the increase in pirate capacities, (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. Le risoluzioni 733 (1992), 1425 (2002), 1772 (2007), 1814 (2008), 1816 (2008), 1838 (2008), 1844 (2008), 1846 (2008), 1851 (2008), 1897 (2009), 1918 (2010), 1950 (2010), 1976 (2011) e 2015 (2011) sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 1992, p. 203 ss., 2002, p. 808 ss., 2007, p. 1246 ss., 2008, pp. 907 ss. e 912 ss., 2009, pp. 257 ss., 259 ss., 265 ss. e 270 ss., 2010, pp. 224 ss. e 921 ss., 2011, pp. 320 ss. e 974 ss., e supra, p. 278 ss. NAZIONI UNITE 289 Expressing concern about the reported involvement of children in piracy off the coast of Somalia, Recognizing that the ongoing instability in Somalia contributes to the problem of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, and stressing the need for a comprehensive response by the international community to repress piracy and armed robbery at sea and tackle its underlying causes, Recognizing the need to investigate and prosecute not only suspects captured at sea, but also anyone who incites or intentionally facilitates piracy operations, including key figures of criminal networks involved in piracy who illicitly plan, organize, facilitate, or finance and profit from such attacks and reiterating its concern over a large number of persons suspected of piracy having to be released without facing justice, reaffirming that the failure to prosecute persons responsible for acts of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia undermines anti-piracy efforts of the international community and being determined to create conditions to ensure that pirates are held accountable, Reaffirming its respect for the sovereignty, territorial integrity, political independence and unity of Somalia, including Somalia’s rights with respect to offshore natural resources, including fisheries, in accordance with international law, recalling the importance of preventing, in accordance with international law, illegal fishing and illegal dumping, including of toxic substances, and stressing the need to investigate allegations of such illegal fishing and dumping, and noting with appreciation in this respect the report of the Secretary-General on the protection of Somali natural resources and water (S/2011/661) prepared pursuant to paragraph 7 of Security Council Resolution 1976 (2011), Further reaffirming that international law, as reflected in the United Nations Convention on the Law of the Sea of 10 December 1982 (“the Convention”), sets out the legal framework applicable to combating piracy and armed robbery at sea, as well as other ocean activities, Again taking into account the crisis situation in Somalia, and the limited capacity of the Transitional Federal Government (TFG) to interdict, or upon interdiction to prosecute pirates or to patrol or secure the waters off the coast of Somalia, including the international sea lanes and Somalia’s territorial waters, Noting the several requests from the TFG for international assistance to counter piracy off its coast, including the letter of 10 November 2011, from the Permanent Representative of Somalia to the United Nations expressing the appreciation of the TFG to the Security Council for its assistance, expressing the TFG’s willingness to consider working with other States and regional organizations to combat piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, and requesting that the provisions of resolution 1897 (2009) be renewed for an additional twelve months, Commending the efforts of the EU operation Atalanta, North Atlantic Treaty Organization operations Allied Protector and Ocean Shield, Combined Maritime Forces’ Combined Task Force 151, and other States acting in a national capacity in cooperation with the TFG and each other, to suppress piracy and to protect vulnerable ships transiting through the waters off the coast of Somalia, and 290 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI welcoming the efforts of individual countries, including China, India, Islamic Republic of Iran, Japan, Malaysia, Republic of Korea, Russian Federation, Saudi Arabia, and Yemen, which have deployed ships and/or aircraft in the region, as stated in the Secretary-General’s report (S/2011/662), Welcoming the capacity-building efforts in the region made by the International Maritime Organization (IMO) Djibouti Code of Conduct, the Djibouti Code of Conduct Trust Fund, and the Trust Fund Supporting Initiatives of States Countering Piracy off the Coast of Somalia, and recognizing the need for all engaged international and regional organizations to cooperate fully, Noting with appreciation the efforts made by IMO and the shipping industry to develop and update guidance, best management practices, and recommendations to assist ships to prevent and suppress piracy attacks off the coast of Somalia, including in the Gulf of Aden and the Indian Ocean area, and recognizing the work of the IMO and the Contact Group on Piracy off the Coast of Somalia (“CGPCS”) on privately contracted armed security personnel on board ships in high-risk areas. Noting with concern that the continuing limited capacity and domestic legislation to facilitate the custody and prosecution of suspected pirates after their capture has hindered more robust international action against the pirates off the coast of Somalia, and in some cases has led to pirates being released without facing justice, regardless of whether there is sufficient evidence to support prosecution, and reiterating that, consistent with the provisions of the Convention concerning the repression of piracy, the 1988 Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (“SUA Convention”) provides for parties to create criminal offences, establish jurisdiction, and accept delivery of persons responsible for or suspected of seizing or exercising control over a ship by force or threat thereof or any other form of intimidation, Underlining the importance of continuing to enhance the collection, preservation and transmission to competent authorities of evidence of acts of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, and welcoming the ongoing work of IMO, INTERPOL and industry groups to develop guidance to seafarers on preservation of crime scenes following acts of piracy, and noting the importance for the successful prosecution of acts of piracy of enabling seafarers to give evidence in criminal proceedings, Noting the consensus at the ninth plenary session of the CGPCS on 14 July 2011 to establish a formal Working Group 5 on “illicit financial flows linked to piracy off the coast of Somalia”, Further recognizing that pirates are turning increasingly to kidnapping and hostage-taking, and that these activities help generate funding to purchase weapons, gain recruits, and continue their operational activities, thereby jeopardizing the safety and security of innocent civilians and restricting the flow of free commerce, Reaffirming international condemnation of acts of kidnapping and hostagetaking, including acts condemned in the International Convention against the Taking of Hostages, and strongly condemning the continuing practice of hostagetaking by suspected pirates operating off the coast of Somalia, expressing serious NAZIONI UNITE 291 concern at the inhuman conditions hostages face in captivity, recognizing the adverse impact on their families, calling for the immediate release of all hostages, and noting the importance of cooperation between Member States on the issue of hostage-taking and the need for the prosecution of suspected pirates for taking hostages, Commending the Republic of Kenya and the Republic of Seychelles’ efforts to prosecute suspected pirates in their national courts, welcoming the engagement of the Republic of Mauritius and the United Republic of Tanzania, and noting with appreciation the assistance being provided by the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), the Trust Fund Supporting Initiatives of States Countering Piracy off the Coast of Somalia, and other international organizations and donors, in coordination with the CGPCS, to support Kenya, Seychelles, Somalia, and other States in the region, including Yemen, to take steps to prosecute, or incarcerate in a third State after prosecution elsewhere, pirates, including facilitators and financiers ashore, consistent with applicable international human rights law, and emphasizing the need for States and international organizations to further enhance international efforts in this regard, Welcoming the readiness of the national and regional administrations of Somalia to cooperate with each other and with States who have prosecuted suspected pirates with a view to enabling convicted pirates to be repatriated back to Somalia under suitable prisoner transfer arrangements, consistent with applicable international law including international human rights law, Welcoming the report of the Secretary-General (S/2011/662), as requested by resolution 1950 (2010), on the implementation of that resolution and on the situation with respect to piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, Taking note with appreciation of the report of the Secretary-General on the modalities for the establishment of specialized Somali anti-piracy courts (S/2011/360) prepared pursuant to paragraph 26 of resolution 1976 (2011), and the ongoing efforts within the CGPCS and the United Nations Secretariat to explore possible additional mechanisms to effectively prosecute persons suspected of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, including those ashore who incite or intentionally facilitate acts of piracy, Stressing the need for States to consider possible methods to assist the seafarers who are victims of pirates, and welcoming in this regard the ongoing work within the CGPCS and the International Maritime Organization on developing guidelines for the care of seafarers and other persons who have been subjected to acts of piracy, Further noting with appreciation the ongoing efforts by UNODC and UNDP to support efforts to enhance the capacity of the corrections system in Somalia, including regional authorities notably with the support of the Trust Fund Supporting Initiatives of States Countering Piracy off the Coast of Somalia, to incarcerate convicted pirates consistent with applicable international human rights law, Bearing in mind the Djibouti Code of Conduct concerning the Repression of Piracy and Armed Robbery against Ships in the Western Indian Ocean and the 292 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI Gulf of Aden, and recognizing the efforts of signatory States to develop the appropriate regulatory and legislative frameworks to combat piracy, enhance their capacity to patrol the waters of the region, interdict suspect vessels, and prosecute suspected pirates, Emphasizing that peace and stability within Somalia, the strengthening of State institutions, economic and social development and respect for human rights and the rule of law are necessary to create the conditions for a durable eradication of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, and further emphasizing that Somalia’s long-term security rests with the effective development by the TFG of the National Security Force, including the Somali Police Force, in the framework of the Djibouti Agreement and in line with a national security strategy, Welcoming in this regard that the 6 September 2011 Roadmap to end the transition in Somalia calls for the TFG to develop counter-piracy policy and legislation in conjunction with regional entities, and the declaration of an Exclusive Economic Zone (EEZ), as key tasks of the Transitional Federal Institutions (TFIs), and notes that the Security Council has made its future support to the TFIs contingent upon the completion of the tasks contained in the Roadmap, Determining that the incidents of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia exacerbate the situation in Somalia, which continues to constitute a threat to international peace and security in the region, Acting under Chapter VII of the Charter of the United Nations, 1. Reiterates that it condemns and deplores all acts of piracy and armed robbery against vessels in the waters off the coast of Somalia; 2. Recognizes that the ongoing instability in Somalia is one of the underlying causes of the problem of piracy and contributes to the problem of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia; 3. Stresses the need for a comprehensive response to repress piracy and tackle its underlying causes by the international community; 4. Recognizes the need to investigate and prosecute not only suspects captured at sea, but also anyone who incites or intentionally facilitates piracy operations, including key figures of criminal networks involved in piracy who illicitly plan, organize, facilitate, or finance and profit from such attacks; 5. Calls upon States to cooperate also, as appropriate, on the issue of hostage-taking, and the prosecution of suspected pirates for taking hostages; 6. Notes again its concern regarding the findings contained in the 20 November 2008 report of the Monitoring Group on Somalia (S/2008/769, page 55) that escalating ransom payments and the lack of enforcement of the arms embargo established by resolution 733 (1992) are fuelling the growth of piracy off the coast of Somalia, calls upon all States to cooperate fully with the Somalia and Eritrea Monitoring Group including on information sharing regarding possible arms embargo violations; 7. Renews its call upon States and regional organizations that have the NAZIONI UNITE 293 capacity to do so, to take part in the fight against piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, in particular, consistent with this resolution and international law, by deploying naval vessels, arms and military aircraft and through seizures and disposition of boats, vessels, arms and other related equipment used in the commission of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, or for which there are reasonable grounds for suspecting such use; 8. Commends the work of the CGPCS to facilitate coordination in order to deter acts of piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, in cooperation with the IMO, flag States, and the TFG and urges States and international organizations to continue to support these efforts; 9. Encourages Member States to continue to cooperate with the TFG in the fight against piracy and armed robbery at sea, notes the primary role of the TFG in the fight against piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, and decides that for a further period of twelve months from the date of this resolution to renew the authorizations as set out in paragraph 10 of resolution 1846 (2008) and paragraph 6 of resolution 1851 (2008), as renewed by paragraph 7 of resolution 1897 (2009), and paragraph 7 of resolution 1950 (2010), granted to States and regional organizations cooperating with the TFG in the fight against piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia, for which advance notification has been provided by the TFG to the Secretary-General; 10. Affirms that the authorizations renewed in this resolution apply only with respect to the situation in Somalia and shall not affect the rights or obligations or responsibilities of Member States under international law, including any rights or obligations, under the Convention, with respect to any other situation, and underscores in particular that this resolution shall not be considered as establishing customary international law; and affirms further that such authorizations have been renewed only following the receipt of the 10 November 2011 letter conveying the consent of the TFG; 11. Further affirms that the measures imposed by paragraph 5 of resolution 733 (1992) and further elaborated upon by paragraphs 1 and 2 of resolution 1425 (2002) do not apply to weapons and military equipment destined for the sole use of Member States and regional organizations undertaking measures in accordance with paragraph 9 above or to supplies of technical assistance to Somalia solely for the purposes set out in paragraph 6 of resolution 1950 (2010) which have been exempted from those measures in accordance with the procedure set out in paragraphs 11 (b) and 12 of resolution 1772 (2007); 12. Requests that cooperating States take appropriate steps to ensure that the activities they undertake pursuant to the authorizations in paragraph 9 do not have the practical effect of denying or impairing the right of innocent passage to the ships of any third State; 13. Calls on Member States to assist Somalia, at the request of the TFG and with notification to the Secretary-General, to strengthen capacity in Somalia, including regional authorities, to bring to justice those who are using Somali territory to plan, facilitate, or undertake criminal acts of piracy and armed robbery at sea, and stresses that any measures undertaken pursuant to this paragraph shall be consistent with applicable international human rights law; 294 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI 14. Calls upon all States, and in particular flag, port, and coastal States, States of the nationality of victims, and perpetrators of piracy and armed robbery, and other States with relevant jurisdiction under international law and national legislation, to cooperate in determining jurisdiction, and in the investigation and prosecution of all persons responsible for acts of piracy and armed robbery off the coast of Somalia, including anyone who incites or facilitates an act of piracy, consistent with applicable international law including international human rights law to ensure that all pirates handed over to judicial authorities are subject to a judicial process, and to render assistance by, among other actions, providing disposition and logistics assistance with respect to persons under their jurisdiction and control, such as victims and witnesses and persons detained as a result of operations conducted under this resolution; 15. Calls upon all States to criminalize piracy under their domestic law and to favourably consider the prosecution of suspected, and imprisonment of convicted, pirates apprehended off the coast of Somalia, and their facilitators and financiers ashore, consistent with applicable international law including international human rights law; 16. Reiterates its decision to continue its consideration, as a matter of urgency, of the establishment of specialized anti-piracy courts in Somalia and other States in the region with substantial international participation and/or support, as set forth in resolution 2015 (2011), and the importance of such courts having jurisdiction over not only suspects captured at sea, but also anyone who incites or intentionally facilitates piracy operations, including key figures of criminal networks involved in piracy who illicitly plan, organize, facilitate, or finance and profit from such attacks, and emphasizes the need for strengthened cooperation of States, regional, and international organizations in holding such individuals accountable, and encourages the CGPCS to continue its discussions in this regard; 17. Urges all States to take appropriate actions under their existing domestic law to prevent the illicit financing of acts of piracy and the laundering of its proceeds; 18. Urges States, in cooperation with INTERPOL and Europol, to further investigate international criminal networks involved in piracy off the coast of Somalia, including those responsible for illicit financing and facilitation; 19. Commends INTERPOL for the creation of a global piracy database designed to consolidate information about piracy off the coast of Somalia and facilitate the development of actionable analysis for law enforcement, and urges all States to share such information with INTERPOL for use in the database, through appropriate channels; 20. Stresses in this context the need to support the investigation and prosecution of those who illicitly finance, plan, organize, or unlawfully profit from pirate attacks off the coast of Somalia; 21. Urges States and international organizations to share evidence and information for anti-piracy law enforcement purposes with a view to ensuring effective prosecution of suspected, and imprisonment of convicted, pirates; 22. Commends the establishment of the Trust Fund Supporting the Initiatives NAZIONI UNITE 295 of States Countering Piracy off the Coast of Somalia and the International Maritime Organization (IMO) Djibouti Code Trust Fund and urges both State and non-State actors affected by piracy, most notably the international shipping community, to contribute to them; 23. Urges States parties to the Convention and the SUA Convention to implement fully their relevant obligations under these Conventions and customary international law and cooperate with the UNODC, IMO, and other States and other international organizations to build judicial capacity for the successful prosecution of persons suspected of piracy and armed robbery at sea off the Coast of Somalia; 24. Urges States individually or within the framework of competent international organizations to positively consider investigating allegations of illegal fishing and illegal dumping, including of toxic substances, with a view to prosecuting such offences when committed by persons under their jurisdiction; and takes note of the Secretary-General’s intention to include updates on these issues in his future reports relating to piracy off the Coast of Somalia; 25. Welcomes the recommendations and guidance of the IMO on preventing and suppressing piracy and armed robbery against ships, underlines the importance of implementing such recommendations and guidance by all stakeholders, including the shipping industry, and urges States, in collaboration with the shipping and insurance industries, and the IMO, to continue to develop and implement avoidance, evasion, and defensive best practices and advisories to take when under attack or when sailing in the waters off the coast of Somalia, and further urges States to make their citizens and vessels available for forensic investigation as appropriate at the first port of call immediately following an act or attempted act of piracy or armed robbery at sea or release from captivity; 26. Invites the IMO to continue its contributions to the prevention and suppression of acts of piracy and armed robbery against ships in coordination, in particular, with the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), the World Food Programme (WFP), the shipping industry, and all other parties concerned, and recognizes the IMO’s role concerning privately contracted armed security personnel on board ships in high-risk areas; 27. Notes the importance of securing the safe delivery of World Food Programme (WFP) assistance by sea, welcomes the ongoing work by WFP, EU operation Atalanta and Flag States with regard to Vessel Protection Detachments on WFP vessels; 28. Requests States and regional organizations cooperating with the TFG to inform the Security Council and the Secretary-General in 9 months of the progress of actions undertaken in the exercise of the authorizations provided in paragraph 9 above and further requests all States contributing through the CGPCS to the fight against piracy off the coast of Somalia, including Somalia and other States in the region, to report by the same deadline on their efforts to establish jurisdiction and cooperation in the investigation and prosecution of piracy; 29. Requests the Secretary-General to report to the Security Council within 11 months of the adoption of this resolution on the implementation of this resolution 296 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI and on the situation with respect to piracy and armed robbery at sea off the coast of Somalia; 30. Expresses its intention to review the situation and consider, as appropriate, renewing the authorizations provided in paragraph 9 above for additional periods upon the request of the TFG; 31. Decides to remain seized of the matter. Risoluzione 2022 (2011), adottata il 2 dicembre 2011, con cui si proroga ed amplia il mandato della Missione d’appoggio delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) (1) The Security Council, Recalling its resolutions 1970 (2011) of 26 February 2011, 1973 (2011) of 17 March 2011, 2009 (2011) of 16 September 2011, 2016 (2011) of 27 October 2011, and 2017 (2011) of 31 October 2011, Reaffirming its strong commitment to the sovereignty, independence, territorial integrity and national unity of Libya, Recalling its decision to establish a United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) for an initial period of three months until 16 December 2011 to assist and support Libyan national efforts in the post-conflict phase, Welcoming the establishment of the transitional Government of Libya on 22 November 2011, and stressing its key role in creating the conditions conducive to the full implementation of UNSMIL’s mandate, Welcoming also the engagement of the Secretary-General and the President of the General Assembly, including through their recent visit to Libya which affirmed the key role of the United Nations in supporting Libyan national efforts in the postconflict phase, Looking forward to an assessment of needs by UNSMIL and the transitional Government of Libya by 16 March 2012, cooperating with all relevant international partners, including the international financial institutions, with a view to continuing the work of the UN in coordinating international support to the transitional Government of Libya on the basis of its needs, Stressing the importance of the UN’s, including UNSMIL’s, continued support to the transitional Government of Libya in addressing immediate priorities as set out in paragraph 12 of resolution 2009 (2011), Taking note of the Report of the Secretary-General on the United Nations (1) La risoluzione è stata adottata all’unanimità. Le risoluzioni 1970 (2011), 1973 (2011), 2009 (2011), 2016 (2011) e 2017 (2011), citate nel testo, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 2011, pp. 621 ss., 630 ss. e 1292 ss., e supra, pp. 282 ss. e 284 ss. NAZIONI UNITE 297 Support Mission in Libya (S/2011/727), including the recommendation for a three-month extension of the UNSMIL mandate, 1. Decides to extend the mandate of the United Nations Support Mission in Libya established by paragraph 12 of resolution 2009 (2011) until 16 March 2012, and looks forward to the report of the Secretary-General, including recommendations on the next phase of UNSMIL’s support to Libya; 2. Decides that the mandate of UNSMIL shall in addition include, in coordination and consultation with the transitional Government of Libya, assisting and supporting Libyan national efforts to address the threats of proliferation of all arms and related materiel of all types, in particular man-portable surface to air missiles, taking into account, among other things, the report referred to in paragraph 5 of resolution 2017 (2011); 3. Decides to remain actively seized of the matter. Risoluzione 2023 (2011), adottata il 5 dicembre 2011, con cui si condanna l’Eritrea per l’adozione di una serie di comportamenti diretti a destabilizzare gli Stati della Regione e si decide di prendere ulteriori misure a suo carico (1) The Security Council, Recalling its previous resolutions and statements of its President concerning the situation in Somalia and the border dispute between Djibouti and Eritrea, in particular its resolutions 751 (1992), 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009), 1916 (2009), 1998 (2011), and 2002 (2011), and its statements of 18 May 2009 (S/PRST/2009/15), 9 July 2009 (S/PRST/2009/19), 12 June 2008 (S/PRST/2008/20), Reaffirming its respect for the sovereignty, territorial integrity, and political independence and unity of Somalia, Djibouti and Eritrea, respectively, as well as that of all other States of the region, Reiterating its full support for the Djibouti Peace Process and the Transitional Federal Charter which provide the framework for reaching a lasting political solution in Somalia, and welcoming the Kampala Accord of 9 June 2011 and the roadmap agreed on 6 September 2011, Calling upon all States in the region to peacefully resolve their disputes and normalize their relations in order to lay the foundation for durable peace and lasting security in the Horn of Africa, and encouraging these States to provide the necessary cooperation to the African Union in its efforts to resolve these disputes, Reiterating its grave concern about the border dispute between Eritrea and Djibouti and the importance of resolving it, calling upon Eritrea to pursue with (1) La risoluzione è stata adottata con 13 voti a favore e due astensioni (Cina e Federazione russa). Le risoluzioni 733 (1992), 751 (1992), 1844 (2008), 1907 (2009), 1916 (2009) e 2002 (2011), citate nel testo, sono riprodotte in Rivista, rispettivamente, 1992, pp. 203 ss. e 543 ss., 2009, p. 259 ss., 2010, pp. 254 ss. e 608 ss., e 2011, p. 1286 ss. 298 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI Djibouti, in good faith, the scrupulous implementation of the 6 June 2010 Agreement, concluded under the auspices of Qatar, in order to resolve their border dispute and consolidate the normalization of their relations, and welcoming the mediation efforts of Qatar, the continued engagement of regional actors, the African Union, the United Nations, Noting the letter of the Permanent Representative of Djibouti to the United Nations of 6 October 2011 (S/2011/617) which informs the Secretary General of the escape of two Djiboutian prisoners of war from an Eritrean prison, while noting that the Government of Eritrea has to this date denied detaining any Djiboutian prisoners of war, Expressing grave concern at the findings of the Somalia/Eritrea Monitoring Group report of 18 July 2011 (S/2011/433), that Eritrea has continued to providing political, financial, training and logistical support to armed opposition groups, including Al-Shabaab, engaged in undermining peace, security and stability in Somalia and the region, Condemning the planned terrorist attack of January 2011 to disrupt the African Union summit in Addis Ababa, as expressed by the findings of the Somalia/Eritrea Monitoring Group report, Taking note of the Decision of the African Union Assembly of Heads of State and Government held in January 2010 and the Communiqué of the AU Peace and Security Council held on 8 January 2010, welcoming the adoption, by the United Nations (UN) Security Council on 23 December 2009, of resolution 1907 (2009), which imposes sanctions on Eritrea, for, among other things, providing political, financial, and logistical support to armed groups engaged in undermining peace and reconciliation in Somalia and regional stability; stressing the need to pursue vigorously the effective implementation of resolution 1907 (2009), and expressing its intention to apply targeted sanctions against individuals and entities if they meet the listing criteria set out in paragraph 15 of resolution 1907 (2009) and paragraph 8 of resolution 1844 (2008), Noting the decision by the 18th Extraordinary Session of the Assembly of the Heads of State and Government of the Intergovernmental Authority on Development (IGAD), calling on the Security Council to take measures to ensure that Eritrea desists from its destabilization activities in the Horn of Africa, Noting the letter from Eritrea (S/2011/652), containing a document responding to the report of Somali/Eritrea Monitoring Group, Strongly condemning any acts by Eritrea that undermine peace, security and stability in the region and calling on all Member State to comply fully with the terms of the arms embargo imposed by paragraph 5 of resolution 733 (1992), as elaborated and amended by subsequent resolutions, Determining that Eritrea’s failure to fully comply with resolutions 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009) and its actions undermining peace and reconciliation in Somalia and the Horn of Africa region as well as the dispute between Djibouti and Eritrea constitute a threat to international peace and security, NAZIONI UNITE 299 Mindful of its primary responsibility under the Charter of the United Nations for the maintenance of international peace and security, Acting under Chapter VII of the Charter of the United Nations, 1. Condemns the violations by Eritrea of Security Council resolutions 1907 (2009), 1862 (2009) and 1844 (2008) by providing continued support to armed opposition groups, including Al-Shabaab, engaged in undermining peace and reconciliation in Somalia and the region; 2. Supports the call by the African Union for Eritrea to resolve its border disputes with its neighbours and calls on the parties to peacefully resolve their disputes, normalize their relations and to promote durable peace and lasting security in the Horn of Africa, and encourages the parties to provide the necessary cooperation to the African Union in its efforts to resolve these disputes; 3. Reiterates that all member States, including Eritrea, shall comply fully with the terms of the arms embargo imposed by paragraph 5 of resolution 733 (1992), as elaborated and amended by subsequent resolutions; 4. Reiterates that Eritrea shall fully comply with resolution 1907 (2009) without any further delay and stresses the obligation of all States to comply with the measures imposed by resolution 1907 (2009); 5. Notes Eritrea’s withdrawal of its forces following the stationing of Qatari observers in the disputed areas along the border with Djibouti, calls upon Eritrea to engage constructively with Djibouti to resolve the border dispute, and reaffirms its intention to take further targeted measures against those who obstruct implementation of resolution 1862 (2009); 6. Demands that Eritrea shall make available information pertaining to Djiboutian combatants missing in action since the clashes of 10 to 12 June, 2008 so that those concerned may ascertain the presence and condition of Djiboutian prisoners of war; 7. Demands Eritrea to cease all direct or indirect efforts to destabilize States, including through financial, military, intelligence and non-military assistance, such as the provision of training centres, camps and other similar facilities for armed groups, passports, living expenses, or travel facilitation; 8. Calls upon all States, in particular States of the region, in order to ensure strict implementation of the arms embargo established by paragraphs 5 and 6 of resolution 1907 (2009), to inspect in their territory, including seaports and airports, in accordance with the national authorities and legislation and consistent with international law, all cargo bound to or from Eritrea, if the State concerned has information that provides reasonable grounds to believe that the cargo contains items the supply, sale, transfer or export of which is prohibited by paragraphs 5 or 6 of resolution 1907 (2009), and recalls the obligations contained in paragraphs 8 and 9 of resolution 1907 (2009) with respect to the discovery of items prohibited by paragraphs 5 or 6 of resolution 1907 (2009) and paragraph 5 of resolution 733 (1992) as elaborated and amended by subsequent resolutions; 9. Expresses its intention to apply targeted sanctions against individuals and entities if they meet the listing criteria set out in paragraph 15 of resolution 1907 300 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI (2009) and paragraph 1 of resolution 2002 (2011) and requests the Committee to review, as a matter of urgency, listing proposals from Member States; 10. Condemns the use of the “Diaspora tax” on Eritrean diaspora by the Eritrean Government to destabilize the Horn of Africa region or violate relevant resolutions, including 1844 (2008), 1862 (2009) and 1907 (2009), including for purposes such as procuring arms and related materiel for transfer to armed opposition groups or providing any services or financial transfers provided directly or indirectly to such groups, as outlined in the findings of the Somalia/Eritrea Monitoring Group in its 18 July 2011 report (S/2011/433), and decides that Eritrea shall cease these practices; 11. Decides that Eritrea shall cease using extortion, threats of violence, fraud and other illicit means to collect taxes outside of Eritrea from its nationals or other individuals of Eritrean descent, decides further that States shall undertake appropriate measures to hold accountable, consistent with international law, those individuals on their territory who are acting, officially or unofficially, on behalf of the Eritrean government or the PFDJ contrary to the prohibitions imposed in this paragraph and the laws of the States concerned, and calls upon States to take such action as may be appropriate consistent with their domestic law and international relevant instruments, including the 1961 Vienna Convention on Diplomatic Relations and the 1963 Vienna Convention on Consular Relations, to prevent such individuals from facilitating further violations; 12. Expresses concern at the potential use of the Eritrean mining sector as a financial source to destabilize the Horn of Africa region, as outlined in the Final Report of the Monitoring Group (S/2011/433), and calls on Eritrea to show transparency in its public finances, including through cooperation with the Monitoring Group, in order to demonstrate that the proceeds of these mining activities are not being used to violate relevant resolutions, including 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009) and this resolution; 13. Decides that States, in order to prevent funds derived from the mining sector of Eritrea contributing to violations of resolutions 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009) or this resolution, shall undertake appropriate measures to promote the exercise of vigilance by their nationals, persons subject to their jurisdiction and firms incorporated in their territory or subject to their jurisdiction that are doing business in this sector in Eritrea including through the issuance of due diligence guidelines, and requests in this regard the Committee, with the assistance of the Monitoring Group, to draft guidelines for the optional use of Member States; 14. Urges all States to introduce due diligence guidelines to prevent the provision of financial services, including insurance or re-insurance, or the transfer to, through, or from their territory, or to or by their nationals or entities organized under their laws (including branches abroad), or persons or financial institutions in their territory, of any financial or other assets or resources if such services, assets or resources, including new investment in the extractives sector, would contribute to Eritrea’s violation of relevant resolutions, including 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009) and this resolution; 15. Calls upon all States to report to the Security Council within 120 days on steps taken to implement the provisions of this resolution; NAZIONI UNITE 301 16. Decides to further expand the mandate of the Monitoring Group reestablished by resolution 2002 (2011) to monitor and report on implementation of the measures imposed in this resolution and undertake the tasks outlined below: (a) Assist the Committee in monitoring the implementation of the measures imposed in paragraphs 10, 11, 12, 13 and 14 above, including by reporting any information on violations; (b) Consider any information relevant to paragraph 6 above that should be brought to the attention of the Committee; 17. Urges all States, relevant United Nations bodies and other interested parties, to cooperate fully with the Committee and the Monitoring Group, including by supplying any information at their disposal on the implementation of the measures decided in resolution 1844 (2008), resolution 1907 (2009) and this resolution, in particular incidents of non-compliance; 18. Affirms that it shall keep Eritrea’s actions under continuous review and that it shall be prepared to adjust the measures, including through their strengthening, modification or lifting, in light of Eritrea’s compliance with the provisions of resolutions 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009) and this resolution; 19. Requests the Secretary-General to report within 180 days on Eritrea’s compliance with the provisions of resolutions 1844 (2008), 1862 (2009), 1907 (2009) and this resolution; 20. Decides to remain seized of the matter. LEGISLAZIONE LEGISLAZIONE ITALIANA Decreto legislativo 3 febbraio 2011 n. 71: « Ordinamento e funzioni degli uffici consolari, ai sensi dell’articolo 14, 18º comma, della legge 28 novembre 2005 n. 246 » (G.U. 13 maggio 2011 n. 110) TITOLO I DISPOSIZIONI INTRODUTTIVE Il Presidente della Repubblica Visti gli articoli 76, 87 e 117 della Costituzione; Visto il decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 18; Visto il decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 200; Vista la legge 28 novembre 2005 n. 246, ed in particolare l’art. 14, 18° comma; Vista la legge 2 maggio 1983 n. 185; Vista la legge 27 ottobre 1988 n. 470; Vista la legge 22 dicembre 1990 n. 401; Visto il decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, ed in particolare l’art. 126, comma 5-bis, così come modificato dal decreto-legge 27 giugno 2003 n. 151, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003 n. 214; Vista la decisione 96/409/PESC adottata dai Rappresentanti dei Governi degli Stati membri dell’Unione Europea, riuniti in sede di Consiglio, in data 25 giugno 1996; Vista la legge 15 marzo 1997 n. 59, ed in particolare l’art. 20; Visto il decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, e successive modificazioni; Visto il decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 300, ed in particolare l’art. 75, 3° comma; Visto il decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999 n. 394, e successive modificazioni; Visto il decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396; Visto il decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000 n. 445, ed in particolare l’art. 33; Vista la legge 9 gennaio 2004 n. 6; Vista la legge 27 dicembre 2006 n. 296, ed in particolare l’art. 1, 1319° comma; LEGISLAZIONE ITALIANA 303 Visto il regolamento (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009; Visto il decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 16 luglio 2010; Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi nell’Adunanza del 20 settembre 2010; Acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari; Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 22 dicembre 2010; Sulla proposta del Ministro degli affari esteri e del Ministro per la semplificazione normativa; Emana il seguente decreto legislativo: Articolo 1 Ordinamento degli uffici consolari 1. Gli uffici consolari, in quanto uffici all’estero del Ministero degli affari esteri, sono disciplinati dall’ordinamento del predetto Ministero, nonché dalle disposizioni del presente decreto. Articolo 2 Funzioni degli uffici consolari 1. L’ufficio consolare nell’ambito delle funzioni individuate dall’art. 45 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 18, provvede al rilascio dei visti di ingresso. Articolo 3 Esercizio delle funzioni consolari 1. Le funzioni dell’ufficio consolare sono esercitate dal capo dell’ufficio in conformità alle convenzioni ed agli usi internazionali. Gli uffici consolari sono di I e II categoria, secondo il disposto dell’art. 42, 1° comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 18. 2. S’intende per capo di ufficio consolare di I categoria il titolare dello stesso, il titolare dell’ambasciata nell’esercizio di funzioni consolari, il capo della cancelleria consolare, ove istituita, nonché, in assenza di costoro, i loro sostituti come individuati dalla normativa vigente. 3. S’intende per capo di ufficio consolare di II categoria il funzionario onorario ad esso preposto. In caso di assenza dalla sede, il capo di un ufficio consolare di II categoria, previa autorizzazione della missione diplomatica o dell’ufficio consolare di I categoria da cui dipende, può affidare a persona di sua fiducia la custodia degli archivi e compiti sussidiari di assistenza a cittadini italiani. 4. Il funzionario consolare onorario esercita le funzioni di cui al presente decreto legislativo nei limiti stabiliti dal Ministro degli affari esteri con decreto del quale è data notizia nella Gazzetta Ufficiale. 304 LEGISLAZIONE 5. Se un funzionario consolare non può procedere, per causa di incompatibilità, ad atto rientrante nelle sue attribuzioni, l’atto è compiuto da altro funzionario dello stesso o di altro ufficio consolare. 6. Il personale degli uffici consolari, nell’esercizio delle funzioni, non può accettare procure relative a procedure amministrative o giudiziarie, concernenti l’amministrazione o la liquidazione di successioni o comunque attinenti ad interessi privati, se non con l’assenso o su istruzioni del Ministero degli affari esteri o, su nulla osta di questo, dell’amministrazione competente per materia. L’assenso o le istruzioni devono sussistere anche prima di fare uso dei poteri previsti, in materia, dalle leggi locali o dalle convenzioni internazionali. Articolo 4 Delega di funzioni consolari 1. Il capo di ufficio consolare di I categoria può delegare le funzioni consolari, eccezion fatta per gli atti che implicano impegni di spesa, ad altro personale dell’ufficio. 2. Non possono tuttavia formare oggetto di delega a personale non appartenente alla carriera diplomatica, alla dirigenza amministrativa o alla terza area funzionale, le funzioni consolari inerenti alla giurisdizione o comunque connesse con questa, quelle disciplinari in materia di navigazione, quelle notarili salvo le autenticazioni e le procure generali e speciali, nonché quelle il cui esercizio è, a norma degli articoli seguenti, esplicitamente attribuito al capo dell’ufficio consolare. Articolo 5 Atti di delega 1. Le deleghe di cui all’art. 4 sono conferite con decreto, di cui copia è affissa nell’albo consolare. 2. La delega in materia di stato civile è redatta in duplice originale: uno è conservato negli archivi dell’ufficio consolare, un secondo presso il Ministero degli affari esteri. Una copia è trasmessa, con modalità informatica, al Ministero dell’interno. TITOLO II FUNZIONI CONSOLARI Capo I Funzioni relative allo stato civile Articolo 6 Ufficiale di stato civile 1. Il capo dell’ufficio consolare esercita nei confronti dei cittadini le funzioni di ufficiale di stato civile, attenendosi alla legislazione nazionale. LEGISLAZIONE ITALIANA 305 Articolo 7 Domicilio e residenza 1. Il domicilio e la residenza nella circoscrizione consolare sono determinati secondo le norme degli articoli 43 e seguenti del codice civile. 2. I residenti nella circoscrizione di ufficio consolare privo di personale abilitato all’esercizio di determinate funzioni consolari sono considerati residenti nella circoscrizione della missione diplomatica o dell’ufficio consolare cui le relative funzioni competono. Articolo 8 Schedario consolare 1. Presso ogni ufficio consolare è mantenuto uno schedario dei cittadini residenti nella circoscrizione che va tenuto aggiornato, tenuto conto delle circostanze locali. 2. L’iscrizione di un connazionale nello schedario è subordinata al possesso della cittadinanza e comunque non ne costituisce una prova. Della suddetta iscrizione l’ufficio consolare rilascia certificazione ai soli cittadini residenti. 3. Nello schedario è presa nota, oltre che dei dati anagrafici e professionali, anche degli atti o fatti che producono la perdita della cittadinanza o dei diritti civili od una restrizione nell’esercizio dei medesimi, nonché di ogni altro elemento utile ai fini della tutela degli interessi del connazionale. Articolo 9 Anagrafe degli italiani residenti all’estero - AIRE 1. Sulla base dei dati contenuti nello schedario previsto dall’art. 8, l’ufficio consolare della circoscrizione di immigrazione o di residenza provvede a trasmettere al comune italiano competente i dati richiesti dalla legislazione in materia di anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE). I dati sono relativi alle dichiarazioni fornite dai cittadini italiani che trasferiscono la propria residenza da un comune italiano all’estero, ovvero a quelle relative alla residenza all’estero, nonché a quelle concernenti il cambiamento di residenza o di abitazione all’estero. Articolo 10 Cittadinanza italiana 1. Il capo dell’ufficio consolare accerta il possesso della cittadinanza italiana, con ogni mezzo utile, così come previsto dal 2º comma, e rilascia il relativo certificato ai cittadini residenti. 2. Per accertare lo stato di cittadinanza, il capo dell’ufficio consolare esperisce le opportune indagini d’ufficio, facendo uso di tutti i mezzi di prova ammessi dalla legislazione nazionale e da quella locale, salvo, per i secondi, la sua discrezionale valutazione sulla loro forza probatoria. 306 LEGISLAZIONE Articolo 11 Comunicazioni agli uffici in Italia 1. L’ufficio consolare dà comunicazione ai competenti uffici in Italia di tutti gli atti o fatti suscettibili di influire sullo stato di cittadinanza dei cittadini residenti nella circoscrizione, ai fini dei conseguenti provvedimenti. Articolo 12 Matrimonio 1. Il capo dell’ufficio consolare celebra il matrimonio fra cittadini o fra un cittadino e un non cittadino. 2. La celebrazione del matrimonio può essere rifiutata quando vi si oppongono le leggi locali o quando le parti non risiedono nella circoscrizione. Articolo 13 Pubblicazioni matrimoniali 1. Le pubblicazioni di cui all’art. 54 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396, per il cittadino che intende contrarre matrimonio dinanzi al capo dell’ufficio consolare sono effettuate presso l’ufficio consolare nella cui circoscrizione egli è residente o in Italia, qualora ivi residente. 2. Le pubblicazioni non sono dovute in caso di matrimonio contratto all’estero dinanzi alle autorità straniere. 3. Le pubblicazioni di cui al 1º comma hanno luogo in via informatica ai sensi dell’art. 32 della legge 18 giugno 2009 n. 69. 4. Fino al 31 dicembre 2010 le pubblicazioni, effettuate in forma cartacea nell’albo consolare, continuano ad avere effetto di pubblicità legale, al pari delle pubblicazioni disposte nei siti informatici. 5. La richiesta della pubblicazione di matrimonio in Italia o presso l’ufficio consolare di residenza degli sposi è trasmessa direttamente dall’ufficio consolare celebrante a quello competente ad effettuare la pubblicazione. 6. Per quanto riguarda il non cittadino il capo dell’ufficio consolare si attiene a quanto stabilito dall’art. 116 del codice civile. Articolo 14 Dispensa dalle pubblicazioni e ammissione al matrimonio 1. Il capo dell’ufficio consolare, nei limiti previsti ed alle condizioni stabilite agli articoli 100, 2° comma, del codice civile e 58 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396, può ridurre, per gravi motivi, il termine delle pubblicazioni o dispensare dalle stesse, per cause gravissime, presso gli uffici consolari ed in Italia. L’atto di notorietà di cui all’art. 100, 2° comma, del codice civile, è effettuato presso lo stesso o altro ufficio consolare. 2. Il capo dell’ufficio consolare può, altresì, ammettere al matrimonio, per LEGISLAZIONE ITALIANA 307 gravi motivi, chi ha compiuto i sedici anni, secondo quanto previsto dall’art. 84, 2° comma, del codice civile. 3. Rilevata la mancanza dei presupporti per l’esercizio dei poteri di cui ai commi 1º e 2º, il capo dell’ufficio consolare trasmette: a) le domande per la riduzione del termine e per la dispensa dalle pubblicazioni al tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE o di ultima residenza degli sposi; b) le domande di ammissione al matrimonio ai sensi dell’art. 84, 2° comma, del codice civile, al tribunale per i minorenni nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE o di ultima residenza del minore. 4. In caso di matrimonio in imminente pericolo di vita, si applicano le disposizioni di cui all’art. 101 del codice civile. Articolo 15 Modalità di celebrazione del matrimonio 1. Il matrimonio è celebrato pubblicamente nella sede consolare. Può essere eccezionalmente celebrato fuori della sede consolare per impedimento degli sposi o per gravi motivi di sicurezza. 2. Il funzionario celebrante adempie alle formalità prescritte dall’art. 107 del codice civile, e, se del caso, prima di ricevere le dichiarazioni, porta a conoscenza degli sposi, alla presenza dei testimoni la possibile inefficacia del loro matrimonio nell’ordinamento locale. 3. Se il matrimonio è celebrato fuori della sede consolare, si applicano le disposizioni di cui all’art. 110 del codice civile. Articolo 16 Matrimonio per procura 1. Il capo dell’ufficio consolare celebra il matrimonio per procura quando uno degli sposi risiede fuori dello Stato in cui ha sede l’ufficio consolare. 2. Il matrimonio di cui al 1º comma non può essere celebrato quando lo sposo assente risiede in Italia. 3. La valutazione dei gravi motivi di cui al 2º comma dell’art. 111 del codice civile è effettuata dal tribunale del luogo di ultima residenza in Italia dell’altro sposo ovvero dal tribunale nel cui circondario si trova il suo Comune di iscrizione AIRE. 4. Se non è possibile determinare la competenza ai sensi del 3º comma, si applica quanto previsto dall’art. 17 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396. 5. Il funzionario consolare può rifiutare la celebrazione del matrimonio quando vi si oppongono le leggi locali o lo sposo presente non risiede nella circoscrizione. 6. Quando ne ricorrono i presupposti, si applica il disposto di cui al 2º comma dell’art. 15. Per lo sposo assente l’avvertimento ivi previsto è effet- 308 LEGISLAZIONE tuato, su richiesta del funzionario celebrante, per il tramite dell’ufficio consolare territorialmente competente. Articolo 17 Tribunale competente 1. Dei ricorsi avverso il rifiuto di celebrazione di matrimoni, espresso a termini dell’art. 112 del codice civile, e di quelli avverso il rifiuto della pubblicazione, espresso a termini dell’art. 98 del codice civile, nonché sulle opposizioni al matrimonio, è competente a decidere il tribunale del luogo di ultima residenza in Italia dell’uno o dell’altro degli sposi, ovvero il tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE dell’uno o dell’altro. Articolo 18 Trasmissione di atti di matrimonio 1. L’ufficio consolare trasmette ai Comuni ed agli altri eventuali competenti uffici in Italia gli atti relativi a matrimoni celebrati dinanzi alle autorità locali e ad esso pervenuti. 2. Sono trasmessi anche gli atti relativi a matrimoni celebrati in forma religiosa quando la legge locale li riconosce agli effetti civili. Articolo 19 Rettificazione degli atti di stato civile 1. Le domande di rettificazione degli atti di stato civile ricevuti dall’ufficio consolare sono rivolte al tribunale nel cui circondario trovasi trascritto o avrebbe dovuto essere trascritto l’atto da rettificarsi. Articolo 20 Cambiamento ed aggiunte di nomi e cognomi 1. Il cittadino che risiede all’estero può presentare all’ufficio consolare la domanda per il cambiamento ed aggiunte di nomi e cognomi di cui al Titolo X del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396, per il successivo inoltro al prefetto della provincia in cui si trova il Comune in cui costui ha avuto la sua ultima residenza ovvero al prefetto della provincia in cui si trova il Comune di iscrizione AIRE del richiedente. 2. Nel caso di domanda presentata ai sensi del 1º comma, le affissioni previste dagli articoli 86 e 90 sono effettuate in via informatica ai sensi dell’art. 32 della legge 18 giugno 2009 n. 69. 3. Fino al 31 dicembre 2010 le suddette affissioni, effettuate in forma cartacea nell’albo consolare, continuano ad avere effetto di pubblicità legale, al pari di quelle disposte nei siti informatici. Capo II Funzioni relative ai passaporti e documenti di viaggio Articolo 21 Passaporti 1. Il capo dell’ufficio consolare rilascia, rinnova, ritira il passaporto e ne estende la validità. LEGISLAZIONE ITALIANA 309 2. Se emergono dubbi sulla cittadinanza o sull’identità del titolare di un passaporto, o di chi ne ha chiesto il rilascio, ovvero negli altri casi previsti dalla normativa vigente, il capo dell’ufficio consolare, mediante apposito decreto, può circoscrivere a determinati Stati la validità territoriale del passaporto e limitarne la validità temporale per un periodo non superiore a sei mesi, eventualmente prorogabile di altri sei mesi, in attesa dei necessari accertamenti. 3. Venute meno le motivazioni che ne hanno determinato l’adozione, i decreti di cui al 2º comma sono revocati. Articolo 22 Carte d’identità 1. Il capo dell’ufficio consolare rilascia le carte d’identità ai cittadini residenti nella circoscrizione consolare e iscritti all’AIRE. Ne estende, altresì, la validità agli aventi diritto, secondo quanto previsto dalla vigente legislazione nazionale. Articolo 23 Documenti di viaggio provvisori 1. Il capo dell’ufficio consolare, compiuti gli opportuni accertamenti, rilascia ai cittadini italiani un documento di viaggio provvisorio conforme alla normativa europea valido per un solo viaggio di rientro in Italia o verso lo Stato di residenza permanente o, eccezionalmente, verso un’altra destinazione. 2. Il capo dell’ufficio consolare, compiuti gli opportuni accertamenti e previa autorizzazione delle competenti autorità del Paese di cui il richiedente è cittadino, rilascia un documento di viaggio provvisorio conforme alla normativa europea, valido per un solo viaggio verso lo Stato membro di cui il richiedente è cittadino o verso il Paese di residenza permanente o, eccezionalmente, verso un’altra destinazione, ai cittadini dei Paesi membri dell’Unione Europea, in assenza di una loro rappresentanza consolare o diplomatica. 3. Il documento di viaggio provvisorio è rilasciato: a) in caso di furto, smarrimento, distruzione o temporanea indisponibilità del passaporto o di altro documento di viaggio, previa denuncia all’ufficio consolare; b) in tutti i casi in cui il capo dell’ufficio consolare lo ritiene necessario o opportuno. 4. Quando lo ritiene opportuno, il capo dell’ufficio consolare dà notizia all’autorità di frontiera italiana o degli altri Paesi dell’Unione Europea del documento di viaggio da lui rilasciato. Capo III Funzioni di protezione ed assistenza, sussidi e rimpatri Articolo 24 Sussidi, erogazioni in danaro e rimpatrio di cittadini 1. L’ufficio consolare può concedere sussidi ai cittadini che versano in 310 LEGISLAZIONE stato di indigenza, nei limiti delle disponibilità fissate annualmente dal Ministero degli affari esteri. 2. Limitate erogazioni in danaro possono, altresì, essere eccezionalmente concesse, in caso di comprovata urgenza, a cittadini che versano in stato di occasionale grave necessità non altrimenti fronteggiabile. In tal caso l’interessato è tenuto a firmare una promessa di restituzione, cui è attribuita efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 del codice di procedura civile. L’autorità consolare trasmette al Ministero degli affari esteri copia dell’obbligazione degli interessati spedita in forma esecutiva a norma dell’art. 475 del codice di procedura civile. 3. Il capo dell’ufficio consolare, nei casi e con l’osservanza delle condizioni e modalità di cui al 2º comma, può fornire i mezzi per il rimpatrio, scegliendo la forma di rimpatrio più appropriata e meno onerosa per l’erario e facendo ricorso, ove del caso, ai poteri di cui all’art. 197 del codice della navigazione. 4. Il Ministero competente in materia, in conformità all’art. 363, 3° comma, del codice della navigazione, emette ingiunzione a carico dell’armatore per il rimborso delle spese sostenute dallo Stato per il rimpatrio in favore della gente di mare. Articolo 25 Rimpatrio su navi ed aeromobili militari nazionali 1. In casi eccezionali, il capo dell’ufficio consolare può chiedere l’imbarco, per il rimpatrio di cittadini, al comandante di nave od aeromobile militari nazionali. 2. Il comandante, se ritiene di non poter aderire alla richiesta, è tenuto ad indicare per iscritto all’ufficio consolare i motivi del rifiuto. Articolo 26 Rimpatri, evacuazioni e trasferimenti in circostanze eccezionali 1. Quando circostanze eccezionali impongono di provvedere al rimpatrio urgente di cittadini, o comunque al loro trasferimento altrove, e se il disposto dell’art. 197 del codice della navigazione non risulta adeguato alle necessità, il capo dell’ufficio consolare può disporre, su istruzioni o di sua iniziativa, la requisizione per impiego temporaneo di navi mercantili o di aeromobili civili nazionali. 2. Nei casi eccezionali in cui è necessario provvedere all’evacuazione dei cittadini, l’ufficio consolare sovrintende all’organizzazione delle operazioni in base ai piani di emergenza all’uopo predisposti. Esso assume tutte le iniziative necessarie anche sulla base delle istruzioni del Ministero degli affari esteri, che si avvale eventualmente del concorso di altre Amministrazioni. L’evacuazione è coordinata, laddove possibile, con le iniziative adottate dalle autorità diplomatiche o consolari degli Stati membri dell’Unione Europea e dei Paesi alleati. 3. L’ufficio consolare comunica col mezzo più celere i provvedimenti adottati al Ministero degli affari esteri ed agli altri Ministeri eventualmente LEGISLAZIONE ITALIANA 311 competenti. Alle requisizioni effettuate ai sensi del 1º comma si applicano, per quanto concerne le indennità, i criteri di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66, e successive modificazioni. Articolo 27 Assistenza a persone prive di cittadinanza italiana 1. L’ufficio consolare presta assistenza ai cittadini dell’Unione Europea ed ai non cittadini, ai sensi delle vigenti disposizioni. Capo IV Funzioni notarili e di volontaria giurisdizione Articolo 28 Funzioni notarili 1. Il capo dell’ufficio consolare esercita, secondo le modalità e con i limiti di seguito stabiliti, le funzioni di notaio nei confronti dei cittadini, attenendosi alla legislazione nazionale. 2. Con decreto del Ministro degli affari esteri possono essere specificati gli atti notarili che i capi degli uffici consolari sono chiamati a stipulare, tenendo conto della possibilità di accedere ad adeguati servizi notarili in loco. 3. Non è necessario il requisito della residenza in Italia, richiesto dalle vigenti disposizioni per i testimoni non cittadini. Articolo 29 Interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno 1. Il capo dell’ufficio consolare trasmette al pubblico ministero presso il tribunale competente, ai sensi del 2º comma, ogni utile dato istruttorio al fine di promuovere procedimenti relativi all’interdizione, all’inabilitazione e all’amministrazione di sostegno nei confronti di cittadini residenti nella circoscrizione. 2. Competente a pronunciarsi sull’interdizione, sull’inabilitazione e sull’amministrazione di sostegno di cittadini residenti all’estero è il tribunale di ultima residenza in Italia. Se il soggetto interessato non ha mai avuto residenza in Italia, è competente il tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE. 3. Il tribunale provvede, ai sensi dell’art. 419 del codice civile, all’esame del soggetto interessato avvalendosi, se del caso, di rogatoria consolare. Nell’espletamento della rogatoria, il capo dell’ufficio consolare è assistito da un consulente tecnico nominato dall’ambasciata o, in mancanza, approvato dal Ministero degli affari esteri. 4. Quando non è possibile provvedere all’esame di cui al 3º comma, il capo dell’ufficio consolare trasmette all’autorità rogante ogni elemento di prova in suo possesso. 312 LEGISLAZIONE Articolo 30 Riconoscimento e legittimazione dei figli naturali 1. Il capo dell’ufficio consolare riceve la dichiarazione di riconoscimento del figlio naturale di cui all’art. 254 del codice civile. Quando ricorrono i presupposti previsti dall’art. 262 del codice civile, il capo dell’ufficio consolare riceve, altresì, la domanda di assunzione del cognome paterno e la trasmette al tribunale dei minorenni competente. 2. L’ufficio consolare riceve la domanda di legittimazione dei figli naturali di cui agli articoli 280 e 288 del codice civile e la trasmette al tribunale competente. Se la competenza non può essere determinata ai sensi dell’art. 288, 1° comma, del codice civile, è competente il tribunale nel cui circondario si trova il Comune in cui l’interessato ha avuto la sua ultima residenza in Italia ovvero il tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE dell’interessato. Articolo 31 Adozione internazionale di minori 1. Competente a decidere sulla dichiarazione di disponibilità all’adozione di un minore straniero residente all’estero, quando gli adottanti non hanno residenza in Italia, è il tribunale per i minorenni nel cui circondario i coniugi hanno avuto l’ultima residenza. Se i coniugi non sono stati mai residenti in Italia, è competente il Tribunale per i minorenni di Roma. 2. L’ufficio consolare territorialmente competente in base alla residenza degli adottanti può essere delegato dal Tribunale per i minorenni titolare della procedura allo svolgimento delle attività di cui all’art. 29-bis della legge 4 maggio 1983 n. 184. Nello svolgimento di tali attività, il capo dell’ufficio consolare può avvalersi del supporto di strutture locali adeguatamente qualificate. 3. L’ufficio consolare, dopo aver ricevuto formale comunicazione da parte della Commissione per le adozioni internazionali, di cui all’art. 38, 1° comma, della citata legge n. 184 del 1983, così come modificata dalla legge 31 dicembre 1998 n. 476, in ordine all’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno permanente del minore straniero adottato o affidato a scopo di adozione, rilascia il visto di ingresso per adozione a beneficio del minore. Articolo 32 Adozione di persone di maggiore età 1. Competente in materia di adozione di persone di maggiore età, quando l’adottante non ha residenza in Italia, è il tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE dell’adottante ovvero il tribunale nel cui circondario si trova il comune di ultima residenza in Italia dell’interessato. 2. Il capo dell’ufficio consolare può essere delegato a ricevere il consenso dell’adottante, dell’adottato o del legale rappresentante di questo. Può anche LEGISLAZIONE ITALIANA 313 essere delegato a compiere le indagini e ad assumere le informazioni di cui all’art. 312 del codice civile. Articolo 33 Tutela, curatela, amministrazione di sostegno 1. Il capo dell’ufficio consolare esercita nei confronti dei cittadini minorenni, interdetti, emancipati, inabilitati e sottoposti ad amministrazione di sostegno, residenti nella circoscrizione, le funzioni ed i poteri, in materia di tutela, di curatela, di assistenza pubblica e privata, che le leggi dello Stato attribuiscono al giudice tutelare. 2. Il tutore, il protutore, il curatore, il curatore speciale e l’amministratore di sostegno, nominati in virtù dei poteri di cui al 1º comma, provvedono anche alla protezione degli interessi che la persona sottoposta alla tutela o alla curatela ha in Italia, previa autorizzazione del giudice tutelare competente per territorio. Essi cessano dall’ufficio dal giorno in cui è loro notificata la nomina, rispettivamente, di un nuovo tutore, protutore, curatore o curatore speciale, amministratore di sostegno, tanto se la sostituzione è decisa dal capo dell’ufficio consolare quanto se, in caso di rientro del minore o incapace in Italia, essa è decisa dalla competente autorità nazionale. A tale fine, è considerata competente l’autorità giudiziaria del luogo di residenza del minore o dell’incapace. 3. I cittadini residenti nella circoscrizione hanno l’obbligo di accettare le nomine di cui al 2º comma. Articolo 34 Altri provvedimenti di volontaria giurisdizione 1. Il capo dell’ufficio consolare, anche al di fuori delle ipotesi previste dal presente decreto, emana nei confronti dei cittadini residenti nella circoscrizione i provvedimenti di volontaria giurisdizione, in materia di diritto di famiglia e di successioni, che per le leggi dello Stato sono di competenza del giudice tutelare, del tribunale e del presidente di tribunale, ivi compreso quello per i minorenni. Articolo 35 Tribunali competenti 1. Dei ricorsi avverso i provvedimenti di volontaria giurisdizione adottati dal capo dell’ufficio consolare, nonché per l’omologazione degli stessi, è competente a decidere il tribunale nel cui circondario si trova il Comune di iscrizione AIRE dell’interessato. 2. Se l’interessato non è iscritto all’AIRE ed è stato residente in Italia, è competente il tribunale del luogo di ultima residenza. 314 LEGISLAZIONE Capo V Funzioni in materia di controversie, di polizia giudiziaria e di assistenza giudiziaria Articolo 36 Amichevole composizione di controversie ed arbitrato 1. Il capo dell’ufficio consolare: a) si adopera, se richiesto dalle parti, per comporre amichevolmente le controversie sorte fra cittadini o fra questi e non cittadini. Se il tentativo di conciliazione riesce e le parti ne fanno richiesta, egli redige il processo verbale dell’avvenuta conciliazione. Il processo verbale ha efficacia di scrittura privata riconosciuta in giudizio; b) esplica le funzioni di arbitro unico nelle controversie fra cittadini purché questi lo abbiano autorizzato a pronunciare secondo equità, ferme restando le eccezioni previste dall’art. 806 del codice di procedura civile. Con il deposito negli archivi dell’ufficio, il lodo ha forza esecutiva. Il deposito ha luogo nel termine perentorio di dieci giorni dalla sottoscrizione e di esso deve essere data notizia alle parti ai sensi dell’art. 825, 2° comma, del codice di procedura civile. Le impugnazioni di cui agli articoli 827 e seguenti, codice di procedura civile, si propongono innanzi alla Corte di appello di Roma. Articolo 37 Notificazioni, atti istruttori, dichiarazioni ed istanze 1. L’ufficio consolare: a) provvede, direttamente o tramite le autorità locali, in conformità alle disposizioni in materia di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea, alle convenzioni internazionali ed alle leggi dello Stato di residenza, alla notificazione degli atti ad esso rimessi a norma delle vigenti disposizioni; b) compie gli atti istruttori ad esso delegati dalle autorità nazionali competenti; riceve le dichiarazioni, anche giurate, da chiunque rese, da far valere in giudizi nazionali; le istanze di gratuito patrocinio relative a giudizi nazionali; le istanze di procedimento o le querele e la loro remissione; gli atti di impugnativa avverso provvedimenti emessi da autorità nazionali. 2. L’ufficio consolare trasmette direttamente gli atti espletati o ricevuti all’autorità nazionale competente. Articolo 38 Funzioni di polizia giudiziaria 1. Il capo dell’ufficio consolare informa direttamente le competenti autorità giudiziarie nazionali di tutte le ipotesi di reato giunte a sua conoscenza e suscettibili di interessare la giustizia italiana e provvede, d’iniziativa o su istruzioni, ai possibili accertamenti. 2. Egli cura, altresì, che sia assicurata dalle autorità locali la custodia delle persone delle quali sia richiesta l’estradizione e, ove sia del caso, di quelle ad esse consegnate dai comandanti di navi mercantili e di aeromobili civili italiani, per reati commessi a bordo. LEGISLAZIONE ITALIANA 315 Articolo 39 Esercizio di funzioni giurisdizionali 1. Le norme relative ai doveri ed alle prerogative dell’autorità giudiziaria si applicano ai funzionari consolari quando questi esercitano funzioni attribuite in Italia alla magistratura. Articolo 40 Esecuzione di rogatorie consolari 1. Della data e del luogo fissati dall’ufficio consolare per l’esecuzione della rogatoria è data tempestiva comunicazione alle parti. 2. Le convocazioni, eventualmente necessarie per l’esecuzione della rogatoria, sono effettuate mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o con altro idoneo sistema di comunicazione. Nella convocazione sono indicati gli estremi della causa, la natura e l’oggetto dell’atto istruttorio da compiersi. I termini di presentazione non possono essere inferiori a trenta giorni. Se l’interessato non si presenta nei termini fissati, l’ufficio consolare rinnova la convocazione. Ove anche questa rimanga senza effetto, l’ufficio consolare restituisce gli atti all’autorità rogante. In presenza di adeguate giustificazioni, il capo dell’ufficio consolare può disporre una terza ed ultima convocazione. 3. Copia delle comunicazioni e delle convocazioni è allegata agli atti. Articolo 41 Luogo di compimento degli atti istruttori 1. Le deposizioni testimoniali e gli altri atti istruttori hanno luogo, se non è altrimenti richiesto dalla natura dell’atto da compiersi, nella sede dell’ufficio. Può essere scelta altra sede ove particolari circostanze lo suggeriscano. Articolo 42 Consulenti e difensori 1. Quando la legislazione nazionale prevede la presenza ad atti istruttori di consulenti o difensori, l’appartenenza a tali categorie professionali può essere accertata anche in base alle leggi locali. Capo VI Funzioni relative all’amministrazione di interessi privati Articolo 43 Deposito consolare 1. Il capo dell’ufficio consolare, in caso di riconosciuta necessità ed urgenza, può ricevere in deposito somme di danaro e ogni altro bene, su richiesta di cittadini o di altri nell’interesse di cittadini o dello Stato. Il deposito ha termine venute meno le cause che ne hanno giustificato l’accettazione. 2. Il capo dell’ufficio consolare stabilisce i limiti e le condizioni del deposito. Per quanto non previsto si applicano, in quanto possibile, le 316 LEGISLAZIONE disposizioni di cui agli articoli 1766 e seguenti e 1798 e seguenti del codice civile. 3. Il capo dell’ufficio consolare non è tenuto ad alcun obbligo di amministrazione dei beni depositati; egli adotta tuttavia i provvedimenti che si rendono necessari nell’interesse degli aventi diritto. 4. Il capo dell’ufficio consolare, previa autorizzazione del Ministero degli affari esteri, può ordinare la vendita dei beni volontariamente depositati, quando vi è pericolo di deperimento o sussistono, comunque, ragioni di forza maggiore. Articolo 44 Termine del deposito 1. Il capo dell’ufficio consolare, quando ritiene venute meno le cause che hanno determinato il deposito, ne dà comunicazione agli aventi diritto, intimando loro di provvedere entro congruo termine, al ritiro delle somme di danaro o degli altri beni depositati. 2. Se gli aventi diritto non provvedano al ritiro delle somme di danaro depositate, l’ufficio consolare, qualora non vi siano motivi ostativi e comunque su istruzione del Ministero degli affari esteri, anche per quanto concerne l’eventuale cambio in moneta italiana, trasmette tali somme alla Tesoreria dello Stato, sezione provinciale di Roma. Per quanto concerne i beni diversi dal danaro, il capo dell’ufficio consolare, tenuto conto delle situazioni giuridiche e di fatto locali e su istruzione del Ministero degli affari esteri, può eseguirne il deposito presso idoneo magazzino od istituto, ovvero può ordinarne la vendita. Le somme di danaro ricavate dalla vendita sono trasmesse alla Tesoreria dello Stato, sezione provinciale di Roma. 3. Se gli aventi diritto non sono reperibili, e non si può quindi provvedere alla comunicazione ed intimazione di cui al 1º comma, le somme di danaro, nonché gli altri beni, restano depositati presso l’ufficio consolare per un massimo di altri tre anni, trascorsi i quali, e salvo diversa indicazione nel frattempo pervenuta dagli aventi diritto, il capo dell’ufficio consolare provvede ai sensi del 2º comma. 4. Per quanto non previsto dal codice civile, con provvedimento del Ministero degli affari esteri sono disciplinati il luogo di restituzione dei beni depositati presso l’ufficio consolare, nonché le modalità di conservazione e di verbalizzazione dei depositi consolari. Articolo 45 Vendita di beni 1. Quando, in materia di volontaria giurisdizione, di amministrazione di interessi privati, di navigazione, di successioni, ed in ogni altro caso in cui tale potere è a lui conferito, il capo dell’ufficio consolare autorizza la vendita di beni e vi procede, la vendita stessa è effettuata, con le opportune cautele, su istruzioni del Ministero degli affari esteri, tenuto anche conto della legislazione locale. LEGISLAZIONE ITALIANA 317 Articolo 46 Successioni 1. L’ufficio consolare, quando ne è richiesto o vi è tenuto in ragione dell’esercizio delle funzioni notarili, dà notizia alle competenti autorità nazionali e, se del caso, locali, della apertura nella circoscrizione consolare di successioni di cittadini o di successioni cui sono o possono essere chiamati cittadini. 2. L’ufficio consolare trasmette alle competenti autorità nazionali le dichiarazioni di accettazione e di rinuncia all’eredità, di accettazione con beneficio di inventario, nonché ogni altra manifestazione di volontà o istanza attinente all’eredità. Esso trasmette, per la via più breve, le richieste di apposizione di sigilli relative a beni ereditari che si trovano in Italia. 3. Su richiesta di un tribunale italiano presso cui si è aperta una successione, l’ufficio consolare provvede a disporre, nell’interesse degli aventi diritto, ogni possibile misura atta alla custodia dei beni relativi alla successione pervenuti all’ufficio stesso. Articolo 47 Imputazione di spese e cauzione 1. Le spese incontrate dall’ufficio consolare nell’esercizio delle funzioni previste dal presente capo sono a carico degli interessati. A tale fine può essere esercitato diritto di ritenzione sulle somme a questi eventualmente spettanti. 2. L’ufficio consolare può chiedere il preventivo versamento di una cauzione a copertura delle spese di cui al 1º comma. Capo VII Funzioni in materia di navigazione Articolo 48 Funzioni di amministrazione marittima 1. Il capo dell’ufficio consolare esercita le funzioni di autorità marittima, attenendosi alla legislazione nazionale. Articolo 49 Attribuzione di polizia giudiziaria, polizia della navigazione e poteri disciplinari 1. Il capo dell’ufficio consolare: a) ha le attribuzioni di ufficiale di polizia giudiziaria per i reati commessi a bordo delle navi mercantili e degli aeromobili civili italiani; b) esercita il potere di polizia della navigazione nei confronti delle navi mercantili e degli aeromobili civili italiani; c) esercita il potere disciplinare nei confronti del personale delle navi mercantili e degli aeromobili civili italiani. 318 LEGISLAZIONE Articolo 50 Assistenza da parte di navi o aeromobili militari nazionali 1. Il capo dell’ufficio consolare può richiedere assistenza al comandante di nave o aeromobile militare in caso di guerra civile o di altri eventi eccezionali o quando l’assistenza stessa è necessaria per l’esecuzione di istruzioni del Ministero degli affari esteri o dell’ambasciata. Tali istruzioni sono comunicate al comandante della nave o dell’aeromobile. 2. Il comandante, se ritiene di non poter aderire alla richiesta, indica per iscritto al funzionario consolare i motivi del rifiuto. Articolo 51 Dichiarazioni giurate del comandante per il rilascio di passavanti provvisorio 1. In caso di smarrimento o di distruzione dell’atto di nazionalità, e prima di rilasciare il passavanti provvisorio, il capo dell’ufficio consolare accerta, mediante giuramento deferito al comandante, se sull’atto di nazionalità smarrito o distrutto non esistessero annotazioni relative ad atti costitutivi, traslativi od estintivi di proprietà o di altri diritti reali. L’ufficio consolare appone sul passavanti provvisorio il contenuto delle annotazioni la cui esistenza, sull’atto smarrito o distrutto, risultasse dalle dichiarazioni giurate del comandante e ne informa la capitaneria di porto del compartimento marittimo di iscrizione della nave. Capo VIII Funzioni in materia di documentazione amministrativa Articolo 52 Certificati, legalizzazioni, vidimazioni 1. L’ufficio consolare: a) rilascia certificati di esistenza in vita a cittadini; li rilascia anche a non cittadini per l’utilizzo in Italia; b) rilascia o vidima certificati di origine delle merci ed ogni altro certificato o documento previsto dalle leggi italiane o dalle convenzioni internazionali; c) conferma le patenti di guida ai sensi e per gli effetti dell’art. 126, comma 5-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285; d) comunica il numero di codice fiscale attribuito dalla competente Agenzia delle Entrate; e) rilascia copia autentica degli atti da esso ricevuti o presso di esso depositati; f) legalizza gli atti rilasciati dalle autorità locali, secondo quanto previsto dall’art. 33, 2° comma, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000 n. 445, avvalendosi di ogni mezzo utile di accertamento; g) può rilasciare attestazioni concernenti leggi e consuetudini vigenti in Italia o nello Stato di residenza; h) può rilasciare certificati concernenti gli atti compiuti ed i fatti accertati nell’esercizio delle proprie funzioni; LEGISLAZIONE ITALIANA 319 i) può rilasciare e certificare traduzioni di atti dalla lingua italiana in quella dello Stato di residenza e viceversa. 2. Nei casi in cui non è in grado di ottenere dalle autorità locali copie degli atti di stato civile formati all’estero e da trascrivere in Italia, l’ufficio consolare rilascia, effettuati gli accertamenti del caso, motivata certificazione sostitutiva della documentazione che non si è potuto acquisire, secondo quanto previsto dalle vigenti disposizioni nazionali sull’ordinamento dello stato civile. 3. Si applicano, in ogni caso, le disposizioni in materia di dichiarazioni sostitutive di certificazione e di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà. 4. Sugli atti di cui al presente articolo sono riscossi i diritti di cui al Titolo IV del presente decreto, con le modalità e salve le eccezioni ivi previste. Articolo 53 Attestazione di condizione economica 1. Quando la legislazione nazionale prescrive un’attestazione del Comune o di altri uffici, relativa alla condizione economica dell’interessato, la medesima può essere sostituita, per la parte di sua competenza, da un’attestazione motivata dell’ufficio consolare della circoscrizione in cui l’interessato ha la sua residenza. 2. L’attestazione può venir rilasciata, per ogni uso consentito dalla legislazione nazionale, anche a non cittadini. Articolo 54 Non applicazione agli atti consolari delle norme sulla legalizzazione 1. Le firme apposte dal funzionario consolare su atti da valere in Italia non sono soggette a legalizzazione. Capo IX Funzioni in materia elettorale, scolastica e di servizio militare Articolo 55 Funzioni in materia elettorale 1. L’ufficio consolare assicura gli adempimenti previsti, in base alla legislazione vigente, per l’esercizio del diritto di voto all’estero da parte dei cittadini che ne abbiano titolo. Articolo 56 Funzioni in materia scolastica 1. Il capo dell’ufficio consolare, nei riguardi delle scuole italiane e di tutte le altre istituzioni e attività d’assistenza scolastica, operanti nella circoscrizione, a carico dello Stato o sussidiate, esercita, in conformità alla legislazione nazionale ed in armonia con la legislazione locale, le funzioni che competono ai dirigenti generali degli uffici scolastici regionali, fatte salve le funzioni 320 LEGISLAZIONE spettanti al Direttore generale per la promozione e cooperazione culturale del Ministero degli affari esteri. Articolo 57 Funzioni in materia di servizio militare 1. L’ufficio consolare esplica ogni attività in materia di servizio militare, relativamente alle persone residenti nella circoscrizione, attenendosi alla vigente legislazione nazionale. Capo X Funzioni in materia di visti Articolo 58 Rilascio dei visti 1. L’ufficio consolare rilascia i visti d’ingresso nel territorio della Repubblica ai cittadini stranieri che ne fanno una motivata e documentata richiesta. Le condizioni ed i requisiti per il rilascio di ciascuna tipologia di visto sono disciplinati da apposito decreto del Ministro degli affari esteri, adottato di concerto con gli altri dicasteri competenti. 2. Se non sussistono i requisiti previsti per il rilascio del visto, l’ufficio consolare comunica per iscritto al cittadino straniero il diniego indicando, altresì, il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere. Capo XI Funzioni in favore dello sviluppo delle attività culturali e della promozione economica Articolo 59 Sviluppo delle attività culturali 1. L’ufficio consolare promuove la diffusione della lingua e della cultura italiana, secondo le indicazioni delle competenti strutture del Ministero degli affari esteri e con il coordinamento dell’ambasciata. Articolo 60 Promozione delle attività economiche e commerciali 1. L’ufficio consolare promuove e stimola le attività economiche e commerciali che interessano l’Italia e le imprese italiane, secondo le indicazioni delle competenti strutture del Ministero degli affari esteri e con il coordinamento dell’ambasciata. TITOLO III ALBO E REGISTRI CONSOLARI Articolo 61 Albo consolare 1. Nella sede dell’ufficio consolare, in luogo accessibile al pubblico, è collocato apposito albo, per l’affissione degli atti ufficiali. LEGISLAZIONE ITALIANA 321 Articolo 62 Registri dell’ufficio consolare 1. Presso gli uffici consolari è tenuto un unico archivio informatico in cui sono registrati e conservati tutti gli atti ivi formati riguardanti la cittadinanza, la nascita, i matrimoni e la morte. Fino all’entrata in funzione del predetto archivio informatico, continuano ad essere tenuti i seguenti registri: a) degli atti di nascita; b) degli atti di matrimonio; c) degli atti di cittadinanza; d) degli atti di morte. 2. Sono, altresì, tenuti presso gli uffici consolari i seguenti registri: a) dei passaporti; b) del protocollo in arrivo e in partenza; c) delle operazioni in materia di servizio militare. 3. Se l’ufficio consolare rilascia le carte di identità è istituito il relativo registro. 4. Presso gli uffici consolari che esercitano funzioni relative alla navigazione marittima ed aerea, sono tenuti i registri previsti dalla legislazione nazionale in materia. 5. I registri di stato civile e il repertorio degli atti notarili sono tenuti in conformità alle disposizioni generali ed a quelle speciali impartite dal Ministero degli affari esteri, di concerto con quelli dell’interno e della giustizia, tenuto conto delle diverse situazioni locali. In assenza di dette disposizioni o per quanto esse non dispongano è fatto ricorso, per quanto possibile, alle disposizioni legislative e regolamentari stabilite per gli uffici di stato civile in Italia ed a quelle sul notariato. 6. Per quanto concerne gli altri registri, il Ministero degli affari esteri, d’intesa con gli altri Ministeri eventualmente interessati, impartisce le disposizioni generali e quelle speciali, tenuto conto delle diverse situazioni locali, per la loro tenuta, per la loro riunione o suddivisione o per l’istituzione di altri, nonché per la loro eventuale sostituzione con schedari o altri idonei sistemi di repertorio. Articolo 63 Raccolta delle firme delle autorità locali 1. A fini di legalizzazione, presso ciascun ufficio consolare è istituita e mantenuta aggiornata, per quanto possibile, una raccolta degli esemplari delle firme dei magistrati e funzionari locali preposti al rilascio di atti e documenti. 2. Se la firma è compresa nella raccolta, l’ufficio consolare provvede direttamente alla sua legalizzazione; in caso contrario, fa uso di altri opportuni mezzi di accertamento. 322 LEGISLAZIONE TITOLO IV DIRITTI CONSOLARI Articolo 64 Tariffa dei diritti consolari 1. I diritti consolari sono riscossi per gli atti elencati nella tabella allegata, secondo gli importi tariffari in essa specificati. 2. Con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, si procede ogni due anni all’adeguamento degli importi tariffari. 3. Se intervengono provvedimenti vincolanti di organi dell’Unione Europea concernenti variazioni di importi tariffari, il Ministro degli affari esteri provvede a darvi attuazione con propri decreti. Articolo 65 Valuta di riscossione 1. I diritti previsti dalla tariffa sono riscossi nella moneta avente corso legale sul posto. 2. Se sussistono particolari ragioni, il Ministero degli affari esteri può autorizzare con proprio decreto la riscossione dei diritti in valuta diversa da quella locale. Articolo 66 Atti rilasciati gratuitamente 1. Fermo restando quanto stabilito da altre disposizioni, l’ufficio consolare rilascia gratuitamente atti, o copie di atti, necessari per il servizio dello Stato, nonché quelli richiesti: a) da cittadini indigenti; b) da indigenti non cittadini, se gli atti stessi sono necessari per procedure richieste da autorità italiane; c) da cittadini residenti all’estero, o da non cittadini, per accertati motivi di studio, di previdenza ed assistenza sociale; d) dal personale civile e militare dello Stato in servizio all’estero, nonché dai loro familiari a carico; e) da eminenti personalità estere e, eccezionalmente, nazionali, a titolo di cortesia. 2. La gratuità di cui al 1º comma non si applica ai diritti d’urgenza previsti dalla tariffa. Articolo 67 Modifica o esenzione dei diritti stabiliti dalla tariffa 1. I diritti stabiliti in una o più voci della tariffa possono essere modificati o soppressi per i non cittadini, a titolo di reciprocità, con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. LEGISLAZIONE ITALIANA 323 2. Il Ministro degli affari esteri può, con proprio decreto, disporre l’esenzione o la diminuzione dei diritti stabiliti nella tariffa limitatamente a quelle voci che presentano un più diretto interesse per i residenti all’estero e per i loro familiari. 3. Il Ministero degli affari esteri, se per motivi di convenienza internazionale o nazionale ravvisa l’opportunità di agevolare l’ingresso di non cittadini in Italia, può disporre il rilascio di atti consolari mediante pagamento di diritti inferiori a quelli stabiliti nella tariffa od anche in esenzione dai diritti stessi. 4. L’ufficio consolare, su direttiva del Ministro degli affari esteri, rilascia gratuitamente atti consolari a favore di operatori economici italiani, dei Paesi membri dell’Unione Europea o anche di altri Paesi per fini di interesse nazionale. Articolo 68 Tasso di cambio consolare 1. Il tasso di cambio consolare tra l’euro e la valuta locale è fissato con decreto del capo della competente rappresentanza diplomatica. 2. Il decreto è emesso all’inizio del periodo di riferimento previsto dalla normativa vigente in materia di rendicontazione delle entrate consolari. 3. Esso è valido anche per tutti gli uffici dipendenti. Articolo 69 Modalità di fissazione del tasso di cambio consolare 1. Il decreto di cui all’art. 68 stabilisce il rapporto di cambio consolare sulla base della media dei cambi ufficiali del periodo di riferimento previsto in materia di rendicontazione delle entrate consolari. In caso di cambi plurimi o comunque, se la situazione locale lo richiede, il Ministero degli affari esteri, d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze, impartisce istruzioni circa i criteri di fissazione del tasso. 2. Nei casi di rapida svalutazione delle valute locali o di fissazione di cambi ufficiali non corrispondenti al reale valore internazionale delle valute stesse, nei quali l’applicazione del rapporto di cambio secondo i criteri stabiliti al 1º comma si traduce in diritti consolari eccessivamente elevati in rapporto al costo della vita locale, il Ministero degli affari esteri, d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze, può autorizzare il capo della rappresentanza diplomatica ad adottare un diverso tasso di cambio consolare. 3. Se durante il periodo di riferimento di cui al 1º comma si verificano oscillazioni nel corso dei cambi, tali da determinare variazioni nel tasso superiori al dieci per cento, il capo della rappresentanza diplomatica emana un nuovo decreto di cambio consolare. 4. Copia del decreto consolare è affissa nella sede dell’ufficio che deve applicarlo, unitamente alla tariffa. 324 LEGISLAZIONE Articolo 70 Percezione dei diritti consolari 1. La percezione dei diritti consolari è comprovata mediante evidenze informatiche o, se ciò non è possibile, mediante apposizione ed annullamento sugli atti di speciali marche o etichette. 2. Il Ministero degli affari esteri autorizza, in via eccezionale ed in presenza di speciali ragioni, particolari modalità di percezione dei diritti stessi. 3. L’ufficio consolare può chiedere un’anticipazione dei diritti dovuti. 4. L’ufficio consolare, in caso di dubbio circa l’assoggettabilità di un atto a percezione consolare, ovvero circa l’applicabilità ad esso di una od altra voce della tariffa, adotta provvisoriamente, in attesa di istruzioni in merito da parte del Ministero degli affari esteri, la soluzione più favorevole agli interessati. 5. Se non è stato possibile provvedere in tutto o in parte alla percezione dei diritti consolari, ai crediti relativi si provvede, nei riguardi degli obbligati, in base alle norme generali sul recupero dei crediti dello Stato. TITOLO V DISPOSIZIONI GENERALI E FINALI Articolo 71 Collaborazione con le autorità locali 1. L’ufficio consolare presta ogni possibile collaborazione alle autorità locali cui è affidata la cura di interessi che concernono cittadini nonché, a condizione di reciprocità, a quelle che curano interessi che concernono loro cittadini in Italia. Articolo 72 Corrispondenza degli uffici consolari 1. Gli uffici consolari corrispondono direttamente con le altre amministrazioni nazionali, per quanto riguarda le materie di loro competenza. Articolo 73 Inapplicabilità di norme nazionali 1. Se, nell’esercizio delle funzioni di cui al presente decreto, una norma nazionale non risulta applicabile, il capo dell’ufficio consolare ne motiva l’inapplicabilità e si conforma ai principi risultanti dall’art. 12, 2° comma, delle disposizioni sulla legge in generale, tenuto conto delle finalità dell’atto. Articolo 74 Poteri in circostanze eccezionali 1. In circostanze eccezionali il capo dell’ufficio consolare adotta, su istruzione del Ministero degli affari esteri o di iniziativa propria nei casi di emergenza, tutte le misure necessarie per la difesa degli interessi nazionali e per la protezione di quelli dei cittadini. LEGISLAZIONE ITALIANA 325 Articolo 75 Ricorsi avverso i provvedimenti consolari 1. Se non è diversamente stabilito dal presente decreto o da altre disposizioni speciali, i provvedimenti amministrativi emanati dall’ufficio consolare sono considerati definitivi. 2. Avverso i medesimi sono ammessi i mezzi di impugnazione ordinariamente previsti dalla legislazione nazionale. 3. Gli interessati possono, in ogni caso, proporre al medesimo ufficio consolare istanza di riesame finalizzata all’annullamento o alla revoca del provvedimento in autotutela, ai sensi degli articoli 21-nonies e 21-quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241. L’ufficio è tenuto a pronunciarsi sull’istanza stessa nei modi e termini previsti dall’art. 2 della legge 7 agosto 1990 n. 241. Articolo 76 Trasmissione di atti e documenti ad autorità nazionali 1. L’ufficio consolare trasmette direttamente, salvo diverse istruzioni del Ministero degli affari esteri, alle competenti autorità nazionali, atti di stato civile, atti notarili o copie dei medesimi, nonché qualunque altro atto o documento la cui trasmissione è richiesta dal codice civile, dalle leggi notarili, dalle leggi sulla navigazione marittima ed aerea o da altre leggi dello Stato. 2. Si applica in ogni caso l’art. 17 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396. Articolo 77 Rimessione ad altro ufficio consolare 1. Se l’ufficio consolare delegato ad atti istruttori, o che deve provvedere a notificazioni, viene a conoscenza che l’interessato si trova nella circoscrizione di altro ufficio, rimette gli atti a quest’ultimo per competenza, avvertendone l’autorità delegante. Articolo 78 Esecuzione diretta delle notificazioni 1. Le notificazioni cui l’ufficio consolare provvede direttamente sono eseguite mediante sistema di comunicazione idoneo alla conferma dell’avvenuto invio. Articolo 79 Abrogazioni 1. Sono abrogati i seguenti testi normativi: a) decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 200; b) legge 2 maggio 1983 n. 185. 326 LEGISLAZIONE Articolo 80 Clausola di invarianza finanziaria 1. Le attribuzioni, le funzioni ed i compiti previsti dal presente decreto devono essere svolti dalle amministrazioni interessate nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali ordinariamente disponibili a legislazione vigente. 2. Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi e/o maggiori oneri, né minori entrate per la finanza pubblica. Legge 2 agosto 2011 n. 130: « Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 luglio 2011 n. 107, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e disposizioni per l’attuazione delle Risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Misure urgenti antipirateria » (G.U. 5 agosto 2011 n. 181) (1) Articolo 5 Ulteriori misure di contrasto alla pirateria 1. Il Ministero della difesa, nell’ambito delle attività internazionali di contrasto alla pirateria al fine di garantire la libertà di navigazione del naviglio commerciale nazionale, può stipulare con l’armatoria privata italiana e con altri soggetti dotati di specifico potere di rappresentanza della citata categoria convenzioni per la protezione delle navi battenti bandiera italiana in transito negli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria individuati con decreto del Ministro della difesa, sentiti il Ministro degli affari esteri e il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, tenuto conto dei rapporti periodici dell’International Maritime Organization (IMO), mediante l’imbarco, a richiesta e con oneri a carico degli armatori, di Nuclei militari di protezione (NMP) della Marina, che può avvalersi anche di personale delle altre Forze armate, e del relativo armamento previsto per l’espletamento del servizio. 2. Il personale militare componente i nuclei di cui al 1º comma opera in conformità alle direttive e alle regole di ingaggio emanate dal Ministero della difesa. Al comandante di ciascun nucleo, al quale fa capo la responsabilità esclusiva dell’attività di contrasto militare alla pirateria, e al personale da esso dipendente sono attribuite le funzioni, rispettivamente, di ufficiale e di agente di polizia giudiziaria riguardo ai reati di cui agli articoli 1135 e 1136 del codice della navigazione e a quelli ad essi connessi ai sensi dell’art. 12 del codice di procedura penale. Al medesimo personale sono corrisposti, previa riassegna(1) Si pubblica la disposizione di maggior interesse del testo del decreto-legge 12 luglio 2011 n. 107 (G.U. 12 luglio 2011 n. 160), come modificato dalla legge di conversione. LEGISLAZIONE ITALIANA 327 zione delle relative risorse versate all’entrata del bilancio dello Stato ai sensi del successivo 3° comma, il compenso forfetario di impiego e le indennità previste per i militari imbarcati sulle unità della Marina negli spazi marittimi internazionali e si applicano le disposizioni di cui all’art. 5, 1° comma, del decreto-legge 30 dicembre 2008 n. 209, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2009 n. 12, e all’art. 4, commi 1º-sexies e 1º-septies, del decreto-legge 4 novembre 2009 n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 2009 n. 197, intendendosi sostituita alla necessità delle operazioni militari la necessità di proteggere il naviglio di cui al 1° comma. 3. Gli armatori che fruiscono dei servizi di protezione di cui al 1º comma provvedono al ristoro dei corrispondenti oneri, comprensivi delle spese per il personale di cui al 2º comma e delle spese di funzionamento, come definiti nelle convenzioni di cui al 1º comma, mediante versamenti all’entrata del bilancio dello Stato, integralmente riassegnati, entro sessanta giorni, ai pertinenti capitoli dello stato di previsione della spesa del Ministero della difesa, in deroga alle previsioni dell’art. 2, commi 615º, 616º e 617º, della legge 24 dicembre 2007 n. 244. 4. Nell’ambito delle attività internazionali di contrasto alla pirateria e della partecipazione di personale militare alle operazioni di cui all’art. 4, 13° comma, del presente decreto, anche in relazione all’azione comune 2008/851/PESC del Consiglio, del 10 novembre 2008, ed in attesa della ratifica delle linee guida del « Maritime Safety Committee » (MSC) delle Nazioni Unite in seno all’« International Maritime Organization » (IMO), è consentito, nei casi in cui non sono previsti i servizi di protezione di cui al 1° comma e nei limiti di cui ai commi 5º, 5º-bis e 5º-ter, l’impiego di guardie giurate, autorizzate ai sensi degli articoli 133 e 134 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931 n. 773, a bordo delle navi mercantili battenti bandiera italiana, che transitano in acque internazionali individuate con il decreto di cui al 1° comma, a protezione delle stesse. 5. L’impiego di cui al 4° comma è consentito esclusivamente a bordo delle navi predisposte per la difesa da atti di pirateria, mediante l’attuazione di almeno una delle vigenti tipologie ricomprese nelle « best management practices » di autoprotezione del naviglio definite dall’IMO, nonché autorizzate alla detenzione delle armi ai sensi del comma 5º-bis, attraverso il ricorso a guardie giurate individuate preferibilmente tra quelle che abbiano prestato servizio nelle Forze armate, anche come volontari, con esclusione dei militari di leva, e che abbiano superato i corsi teorico-pratici di cui all’art. 6 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’interno 15 settembre 2009 n. 154, adottato in attuazione dell’art. 18 del decreto-legge 27 luglio 2005 n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005 n. 155. 5-bis. Il personale di cui al 4° comma, nell’espletamento del servizio di cui al 5º comma ed entro i limiti territoriali delle acque internazionali a rischio di pirateria ivi previsti, può utilizzare le armi in dotazione delle navi, appositamente predisposte per la loro custodia, detenute previa autorizzazione del Ministro dell’interno rilasciata all’armatore ai sensi dell’art. 28 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931 n. 773. 328 LEGISLAZIONE La predetta autorizzazione è rilasciata anche per l’acquisto, il trasporto e la cessione in comodato al medesimo personale di cui al 4° comma. 5-ter. Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono determinate le modalità attuative dei commi 5º, 5º-bis e 5º-ter, comprese quelle relative al porto e al trasporto delle armi e del relativo munizionamento, alla quantità di armi detenute a bordo della nave e alla loro tipologia, nonché ai rapporti tra il personale di cui al 4° comma ed il comandante della nave durante l’espletamento dei compiti di cui al medesimo comma. 6. Si applicano le disposizioni di cui all’art. 5, commi da 2º a 6º, del decreto-legge n. 209 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12 del 2009, e successive modificazioni, riferite alle navi e alle aree in cui si svolgono i servizi di cui ai commi 1º e 4º. 6-bis. All’art. 111, 1° comma, del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66, la lett. a) è sostituita dalla seguente: « a) la vigilanza a tutela degli interessi nazionali e delle vie di comunicazione marittime al di là del limite esterno del mare territoriale, ivi compreso il contrasto alla pirateria, anche con le modalità di cui all’art. 5, 1° comma, del decreto-legge 12 luglio 2011 n. 107; ». 6-ter. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Decreto-legge 29 dicembre 2011 n. 216: « Proroga di termini previsti da disposizioni legislative » (G.U. 29 dicembre 2011 n. 302) (1) Articolo 7 Proroghe in materia di politica estera 1. All’art. 1, 1° comma, del decreto-legge 28 aprile 2010 n. 63, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2010 n. 98, recante disposizioni urgenti in tema di immunità di Stati esteri dalla giurisdizione italiana e di elezioni degli organismi rappresentativi degli italiani all’estero, le parole: « Fino al 31 dicembre 2011 » sono sostituite dalle seguenti: « Fino al 31 dicembre 2012 ». (1) Si pubblica la disposizione di maggior interesse per la materia internazionale del decreto-legge 29 dicembre 2011 n. 216: « Proroga di termini previsti da disposizioni legislative ». Il decreto-legge 28 aprile 2010 n. 63, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2010 n. 98, recante disposizioni urgenti in tema di immunità di Stati esteri dalla giurisdizione italiana e di elezioni degli organismi rappresentativi degli italiani all’estero, è pubblicato in Rivista, 2010, p. 963 s.