PREMESSA Una storia è come un fiore che per nascere e sbocciare ha bisogno di un seme, della terra, del nutrimento e dell’amore di un giardiniere affettuoso: lo scrittore. I semi dai quali nascono le storie si trovano dappertutto. Sono fuori, tra la gente che conosciamo, nelle città dove viviamo, sui campi da gioco che frequentiamo. Sono dentro di noi, stanno nella nostra esperienza quotidiana, nelle emozioni che proviamo, nei rapporti che instauriamo, nella fantasia, nelle paure, nei desideri che proiettiamo sullo schermo della vita e che la vita rimanda su di noi. Tutti noi siamo narratori, anche quando non sappiamo di esserlo. Narrare, raccontare, comunicare è nella natura umana. Nessuno nasce scrittore. Tutti dobbiamo imparare ad usare gli attrezzi per costruire le storie: le parole. Queste stanno chiuse dentro una grande scatola, il vocabolario, in fila come i pezzetti del Lego nella confezione nuova senza nessun senso, fino a quando non sono montati insieme. A poco a poco guardando, imparando, leggendo, ascoltando impariamo ad incastrare i pezzetti del Lego, un sostantivo qua, un aggettivo là. Sulla piccola impalcatura delle parole, possiamo costruire palazzi di immagini e di idee sempre più complesse, frasi principali e dipendenti, periodi interi che crescono naturali, quasi senza che noi ce ne accorgiamo. Tutti siamo padroni di tutte le parole: la parola è l’unico materiale da costruzione completamente gratuito e a nostra totale disposizione. “ E in principio fu la parola”, dice il libro più famoso del mondo. Non c’è nulla di spaventoso nello scrivere. Si comincia dall’idea. Dove la trovo? Ovunque. Si apre un giornale, si guarda la televisione, si osserva fuori dalla finestra e le idee ti piovono addosso. Il seme della storia è piantato, la mano si allunga verso la scatola del Lego, verso le parole e comincia a costruire, a scrivere, pezzetto per pezzetto, parola per parola. Ogni storia deve avere un inizio come una casa ha le fondamenta. Dove siamo? Chi sono i personaggi? Che sentimenti e che intenzioni li animano? Che cosa vogliamo dire a chi legge, a chi ascolta? Scrivendo con cura, coltivando con amore la pianticella, innamorandosi dei personaggi e della storia che si racconta, entrando assieme a loro nella casa, nella vita, accade che le parole giuste cominciano ad arrivare, la storia si racconta da sola, i personaggi parlano, acquistano voce, come se prendessero una vita propria. Scrivere non è più fatica , ma gioia e le dita si muovono sempre più in fretta per rincorrere il filo della storia che corre e che noi dobbiamo inseguire. Scopriamo così che ogni storia è già dentro di noi, come la scultura dentro il pezzo di marmo. Tutte le emozioni vissute dai personaggi sono dentro di noi, anche se spesso stanno nascoste e aspettano soltanto di uscire. Molti credono di non saper raccontare, di non aver fantasia. Nella realtà abbiamo paura di farlo per pigrizia, per pudore, perché in ogni storia, in ogni racconto noi sveliamo, senza volerlo, un pezzo di noi stessi: noi ci confidiamo, raccontando. Ogni racconto è una confessione. Dal momento che siamo tutti capaci di confessarci, sappiamo tutti raccontare. PROVATE ANCHE VOI Scrivete una storiella breve, poi leggetela a voce alta, a voi stessi, in solitudine e ascoltatevi. Le frasi devono correre come musica, come gli accordi e le note di una canzone che vi piace. La storia deve “cantare”, avere un ritmo. Poi guardate la vostra storia, quella che avete scritto , sbocciarvi davanti agli occhi, prendere forma e colore. Quando sarete riusciti a scriverne una, a sentirla “cantare”, resterà per sempre con voi. Questo dono vi accompagnerà per tutta la vita. Possono rubarci tutto, i soldi, l’automobile, il lavoro, il cellulare, ma nessuno può rubarci il pensiero e le parole. Se imparate a raccontare, troverete sempre qualcuno disposto ad ascoltarvi. CHI SA RACCONTARE, NON E’ MAI SOLO. (liberamente tratto da “Storie da non credere” di V. Zucconi) Gli alunni della 2^C della Scuola Secondaria di I grado “Regina Margherita” di Piove di Sacco hanno costruito questi racconti nel corso dell’anno scolastico 2014-15. Il risultato è una raccolta che ha reso molto felici gli autori, l’insegnante e, speriamo, anche voi lettori. Un affettuoso ringraziamento al Prof. Schiavon che si è occupato della pubblicazione di questo libro digitale e alla Dirigente Scolastica Dott.ssa Milani Franca sempre aperta a nuove iniziative. Ecco i nomi degli alunni della 2^ C: Benedetti Teresa Brentan Edoardo Buischio Aurora Bulgarelli Elena Carraretto Annarita Costa Edoardo Costa Federico Dan Serena Ludovica Durello Alice Fejzo Sara Ferrara Anita Ferrara Filippo Marin Emma Pagin Alessandro Perdon Alessandra Radu Alexandru Costantin Raji Ikram Ranzato Nicole Romagnosi Sofia Selvaggio Giacomo Sgaravatto Giovanni Stramazzo Michele Tommasi Giacomo Tommasi Gioele Vianello Franciele Zagolin Tommaso Insegnante: prof.ssa Ferrara Daniela La pietra azzurra New York anno Domini 3365 La guerra era alle porte ed io e la mia famiglia stavamo cercando un riparo sicuro per proteggerci dalle frequenti esplosioni che si stavano verificando nella nostra regione. Avevo paura per me e per i miei più cari amici. Per salvarci, le nostre famiglie decisero di farci scappare da quell’inferno di fuoco e morte. Eravamo spaventati, intorno a noi c’era solo morte e distruzione.Preparate le ultime cose, ci imbarcammo nella nave che ci portò fino al Rio delle Amazzoni, il fiume più grande della Foresta Amazzonica. Dopo giorni di dura navigazione con tempeste e grande paura, giungemmo a destinazione. La costa del Brasile era bellissima, i fiori emanavano un profumo delicato e le piante filtravano la luce del sole, creando un’ombra piacevole e fresca. Trovammo rifugio in una grotta scavata dal grande fiume; per proteggerci dal freddo e dagli animali feroci accendemmo subito un focolare. Ero spaventata, ma sapevo che non avevo ragione di esserlo, perché ero con i miei amici più fidati: Marco, Luca e Davide. Marco era molto gentile, giocherellone, aveva gli occhi color marrone scuro e i capelli neri. Purtroppo era un po’ pauroso, ma dopotutto in quel momento lo eravamo tutti. Luca era molto riservato e introverso, ma potevi sempre fidarti di lui; aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi ed era fanatico di nodi, ne sapeva fare centinaia, tutti diversi. Davide era molto estroverso, diceva sempre quello che pensava, a volte le persone, però, fraintendevano. Era fanatico dei numeri, dei problemi e della matematica. Aveva i capelli castani e gli occhi neri. Poi c’ ero io: occhi azzurri, capelli biondi e lunghi. Non ero particolarmente alta, ne particolarmente bassa, ero una via di mezzo; tuttavia ero abbastanza magra. Non sapevo dire se ero bella o meno, è una cosa che mi potevano dire gli altri, comunque non mi interessava più di tanto, ero così, punto e basta. Ero però gentile ed altruista, un po’ timida, ma sincera. Ogni giorno pensavo ai miei genitori rimasti a New York, se stavano bene oppure se erano in pericolo. Le giornate erano tristi e lunghe; a dire la verità io mi divertivo a stare con i miei amici, ma spesso pensavo alla guerra. Cercavamo di tenerci sempre in contatto con la nostra città, ma era molto difficile: ci eravamo solo portati via una radio alimentata da un pannello solare, che ascoltavamo tutte le sere, per sapere come andavano le cose. 5 mesi dopo… Erano passati cinque lunghi mesi ed eravamo sempre preoccupati per la guerra. Un mattino mentre andavamo sulla spiaggia per rilassarci un po’, vedemmo una barchetta malandata in mare. Pensammo immediatamente che forse ci fosse anche un uomo dentro e così ci tuffammo per recuperare quel relitto e, effettivamente, ci trovammo una ragazza allo stremo delle forze. Subito la portammo a riva e le demmo dell’acqua e del cibo: mai vista una persona così affamata! Il suo nome era Margò. Dopo essersi ripresa, ci raccontò la sua storia: anche lei, come noi aveva cercato di scappare, ma a causa di una tempesta, il mare la portò lì. Era bella, con i capelli corti fino alle spalle, neri e gli occhi blu notte. Era una ragazza molto strana e misteriosa, ma tanto gentile, coraggiosa e molto atletica. Per un po’ fu sotto shock, ma poi si riprese e si rivelò molto simpatica e disponibile, diventammo subito grandi amiche e insieme ci divertimmo moltissimo! Una sera, mentre ascoltavamo la radio, sentimmo una cosa meravigliosa: c’era un modo per fermare la guerra. Bisognava andare in un tempio nella Foresta Amazzonica e trovare un minerale azzurro rarissimo, il quale, dato al nemico, avrebbe fermato lo scontro. Sentivo crescere in me una speranza che mi rendeva pronta a tutto pur di trovare quella pietra. Io ed i miei amici decidemmo che il giorno dopo saremmo partiti alla ricerca del tempio e del minerale azzurro. Avevamo però paura che fosse molto pericoloso, di sicuro la pietra era protetta in qualche modo, ma come?! Ci alzammo di buon ora, circa alle 6.30 del mattino, Luca era impaurito, esattamente come Marco e Davide; invece Margò era abbastanza tranquilla. Fortunatamente, quando esplorammo la foresta, individuammo rapidamente il tempio e ci arrivammo molto facilmente. Era tutto d’ oro, grande, con delle colonne meravigliose, decorate da fiori scolpiti. Eravamo a circa 100m di distanza dal tempio quando, da un albero enorme con milioni di rami e rametti, vedemmo spuntare due occhi luminosi che ci fissavano minacciosamente; dopo qualche istante realizzammo che era una tigre: voleva attaccarci. Eravamo in preda al panico, avevamo pochi secondi per scegliere cosa fare. “Scappare o affrontare la tigre?” era questa la domanda che ronzava nelle nostre teste in quegli istanti. Poi decidemmo: affrontare la tigre. Luca, il quale amava gli scontri corpo a corpo, prese un grosso ramo appuntito e usandolo come una lancia si nascose dietro un cespuglio. Io e gli altri ci aggrappammo ad un ramo dell’enorme albero e, insieme, ci salimmo. La tigre sembrava più furiosa che mai. Arrivata vicina al cespuglio, Luca spuntò all’improvviso e iniziò a combattere contro la tigre. Vedendo che non ce l’avrebbe mai fatta, scendemmo dall’ albero e circondammo la tigre, che provò a contrattaccare. Lei era forte e metteva paura, ma noi eravamo più determinati a sconfiggerla e dopo sforzi e tentativi, Luca riuscì a conficcare la lancia esattamente nel cuore della tigre, che morì. Eravamo dispiaciuti tantissimo per averla uccisa, ma era l’unico modo per raggiungere la pietra della pace e salvarci la vita. Procedemmo molto cautamente cercando di non fare rumore. All’ entrata, però, era riservata per noi un’altra sorpresa. Una botola si aprì sotto ai nostri piedi e… buio. Dopo pochi secondi, ci trovammo immersi in una specie di lago, la cui acqua era ghiacciata. No, non era un lago, eravamo come in una grotta: la luce del sole si vedeva solo in un punto in lontananza. L’ acqua era gelata, se volevamo avere qualche speranza di sopravvivere dovevamo fare presto, dovevamo raggiungere il bagliore alla fine della caverna. Margò non ce la faceva più, era completamente ghiacciata, esattamente come me: non sopportavamo il freddo. Arrivammo alla fine della grotta esausti e non appena uscimmo dall’ acqua, ci addormentammo piangendo. Non so perché piangevamo, forse per la paura, o forse per lo sforzo che avevamo fatto. Ci svegliammo poco dopo e ci accorgemmo che eravamo su una spiaggia. A quanto pare, qualcosa di misterioso ci aveva portato lì e noi ne eravamo felici! Il sole era caldo e aiutava a rilassarsi, l’acqua era cristallina e le piante creavano un’ ombra piacevole che rendeva questo posto, oserei dire perfetto. Purtroppo no, non era perfetto… la pietra era lì e ce ne accorgemmo subito. Era in un’altra caverna, che però non conteneva acqua. Alla fine della grotta c’era uno scrigno di vetro al cui interno c’era il famoso minerale. Lo scrigno si poteva aprire solo mediante la sua rispettiva chiave, situata nel soffitto della grotta, alta 6m. Come si poteva fare? Provammo di tutto: Marco provò a saltare, Luca a lanciare pietre cercando di colpirla, ed io e Margò a salire l’una sull’altra. Davide invece era seduto sulla sabbia bianca a fare i suoi calcoli matematici cercando di trovare una soluzione. Dopo un po’, sorridendo, venne da noi dandoci la soluzione, che in realtà era piuttosto ovvia: fare una piramide umana. I maschi, ovviamente stavano in basso, mentre noi stavamo in alto. C’ è voluto un bel po’ prima di riuscire ad essere abbastanza stabili. Margò era quella più in alto, perché era anche la più agile e faceva dei salti altissimi. Quindi, salita sulla piramide, saltò più in alto che poteva e afferrò la chiave. Il problema venne poi: una volta presa doveva scendere ma…. finimmo tutti per terra. Non avevamo calcolato molto bene la discesa, per fortuna, nessuno si fece male e, cosa più importante, avevamo la chiave!!! Felici ci avvicinammo allo scrigno e, aperto, estraemmo la pietra. Era bellissima, azzurra con riflessi rosa e bianchi, una pietra così non l’avevo mai vista. Eravamo felici, eravamo fieri di noi per aver trovato il minerale della pace. Ora però bisognava tornare a casa. Come si poteva fare? Decidemmo di esplorare la foresta: magari avremmo trovato qualcosa e così fu. Mentre stavamo camminando, vedemmo il relitto di una canoa e con nostra grande gioia, c’era anche una mappa, questa ci avrebbe condotto in modo rapido a New York. Eravamo a dir poco felici e, sistemata la barca, iniziammo ad attraversare il mare. Fu un viaggio faticoso, perché il cibo scarseggiava e stavamo strettissimi: eravamo in cinque persone in una canoa! Il tempo poi, non ci aiutò molto. Fummo investiti da varie tempeste, ma il magico minerale della pace ci aiutò. Appena arrivati a New York, portammo l’amuleto al generale nemico che fece cessare le ostilità. La guerra finì poco dopo, eravamo felicissimi per il nostro contributo. La nostra missione era finita, e con questa, la guerra. Nella nostra città ormai regnava la pace Mi chiamo Azzurra e questa è la mia storia… Bulgarelli E., Durello A., Fejzo S., Buischio A., Dan S.L. Mititiki, l’isola misteriosa La mattina della partenza della nave mercantile Columbus, ormeggiata nel porto di Brighton, il marinaio appena assunto di nome Jack stava tranquillamente spazzando il ponte, quando il suo capo Alex gli disse di preparare le valige per andare a vendere le loro merci alle Hawaii. Dopo tre ore dedicate al carico delle merci, Jack si imbarcò e partì. IL suo capo gli disse che il viaggio sarebbe durato circa 25 giorni. Poi gli impartì di pulire il ponte e di sbucciare le patate per la cena. Dopo sole quattro ore di viaggio, Jack aveva già finito i suoi compiti, così si dedicò a incidere su una tavola di legno delle figure per divertirsi e scherzare con il suo migliore amico e collega Tom. Trascorsero tranquillamente altri 5 giorni quando all’improvviso una fitta nebbia li avvolse, facendo sì che nessuno vedesse più niente, nessuno sapeva più dove si trovasse. La nave, percorrendo la sua rotta, si imbatté in una mina subacquea della prima guerra mondiale, che nell’ impatto esplose, danneggiando gravemente lo scafo, senza però farlo affondare. La gigantesca nave si arenò su un’isola e gran parte dei marinai morirono. Jack si svegliò su una spiaggia bellissima e soleggiata, vedendo davanti a sè l’orribile barcone gigantesco col ponte completamente tinto di rosso. Jack perlustrò la nave in cerca di qualcuno ancora vivo e trovò solo il suo migliore amico con delle ferite terribili. Così lo portò sulla spiaggia e lo curò con erbe raccolte nella giungla. Mentre Tom si riprendeva, Jack cercò nella nave il suo coltello e altri oggetti utili come dell’acqua o del cibo. Quando ritornò con il necessario vide delle persone intente a portare via Tom. A quel punto Jack li seguì; cercando di riprendere il suo amico, ma il risultato fu la sua cattura. Jack si trovò legato con Tom ad un albero di cocco, mentre degli indigeni gli giravano intorno facendo una stranissima danza. Qualche minuto dopo, arrivò il capotribù urlando ripetutamente:”Sho cap”, che nella loro lingua significava:”Sho è il capo”. IL capo Sho capì che loro parlavano inglese dalla bandiera cucita sulle loro divise, così gli chiese con un accento straniero:” Cosa fare voi quì?”, Jack rispose prontamente senza farsi intimidire:” Siamo naufragati e siamo capitati in questa isola!”. IL capotribù li liberò dall’albero e li rinchiuse in una capanna per i prigionieri dove Tom fu curato con delle antichissime tecniche di medicazione a base di erbe. I due cercarono molte volte di scappare, ma alla fine venivano sempre riacciuffati e riportati nella capanna di prigionia. Un giorno finalmente, il capotribù entrò nella capanna sorvegliata da dieci indigeni armati di arco e frecce e disse a Jack:” Se voi pagate noi con vostri oggetti, noi liberiamo e regaliamo voi nostro amuleto portafortuna”. I due non ci pensarono troppo e diedero loro tutto quello che possedevano, tranne le vivande. Jack e Tom, aiutati da una squadra di quaranta indigeni, costruirono con i resti della nave ormai spiaggiata, una specie di barcone con un tetto che foderarono con teli di plastica affinché li proteggesse durante la traversata; come ultimo componente installarono l'unico motore della nave originaria salvatosi dal naufragio insieme a tutto il carburante rimasto. Due giorni dopo il barcone improvvisato fu trascinato sino a riva dove prese il largo con destinazione Londra. Al loro arrivo un sacco di gente li accolse calorosamente e li portò alla TATE GALLERY, un museo famoso della città dove consegnarono al direttore l’antico amuleto indigeno avuto in dono, che venne valutato con la strepitosa cifra di 3'500'000 sterline. Da quel momento Jack e Tom diventarono due ricchissimi archeologi di fama mondiale, che portarono alla luce tutta la storia dei loro amici indigeni, lasciando però segrete le coordinate per raggiungere l’isola; così mai nessuno avrebbe potuto rovinare quel paradiso incontaminato. Radu A., Selvaggio G. GOFFREDO & IL DUGONGO Nell'importantissimo e super rinnovato negozio di alta moda di Milano, “D&G”, alle 15:47 di venerdì 4 settembre, è arrivato tramite una limousine super riservata e lussuosa, un pacco grande un metro e mezzo per un metro e mezzo. Viene appoggiato sopra l'esclusivo nuovissimo modello di trolley firmato “ The Masier”, ultima creazione dei noti stilisti. Il titolare, proveniente dall'Alaska, tale Goffredo Megiaso, notò che sopra il pacco si trovava una scritta a grandi caratteri: “Banana Chiquita, molto fragile”. Subito si spaventò ed andò a chiamare il fruttivendolo, che però non c'era perchè si trovava in barca sul lago Maggiore. Goffredo partì subito per raggiungerlo e lo scovò su di una canoa a cantare:”Finchè la barca va, lasciala andare, finchè la barca va tu non remare...”. Terrorizzato dal suono della gracchiante voce del fruttivendolo, girò la barca e ormeggiò su un isolotto. Quì incontrò un dugongo spiaggiato che emetteva il verso di un pappagallo mentre viene spennato. Il signor Megiaso, preso da compassione per quel grosso e grasso essere simile ad un enorme pupazzotto dall'odore di alghe scadute, lo caricò sulla canoa che si trasformò in una catapulta, sotto il peso del dugongo il quale fece volare a vari metri di altezza l'uomo che gridò come una scimmia in calore. Fortunatamente esso ricadde esattamente sopra il suo nuovo amico dugongo. L'animale, preso dallo spavento, iniziò a nuotare velocemente verso la riva. Una volta giunto, si fermò di colpo e rigettò l'uomo sulla spiaggia il quale perse i sensi. Goffredo si risvegliò circondato da medici, chiamati da un amico che aveva assistito a tutta la scena e dal dugongo che lo leccava tutto. Sorrise e disse, come sospirando: “Cossa vuto ti?” Solo poco dopo si rese conto che Dughi, il dugongo, era completamente sopra di lui, nonostante la sua schiena stesse andando a pezzi. Dughi venne trasferito in uno zoo. Pochi giorni dopo, il signor Megiaso, guarì completamente dalla caduta ed andò a trovare il suo amico. Vedendolo triste, gli raccontò una barzelletta che diceva: “Una donna di mezza età è in ospedale per un banale intervento e mentre è sotto anestesia vede Dio che le tende la mano . “E' arrivata la mia ora?”chiede lei . “No – risponde Dio – ti rimangono ventitré anni, ventidue giorni e cinque ore di vita.” Dopo l'intervento la donna , superata la paura della morte e visto il tempo che ancora le restava da vivere , decide di rimanere in ospedale per farsi fare la liposuzione su addome e cosce ,lifting al viso , seno nuovo ,collagene nel labbro superiore , protesi per rialzare i glutei e si fa anche segare due costole per avere la vita più sottile... Fatto tutto esce dall'ospedale, inguainata in abito Gucci e tacco dodici …splendida!.Mentre sta attraversando la strada viene tirata sotto da un tir e così si ritrova davanti a Dio. Come prima cosa si lamenta con lui: “Ma non mi avevi detto che avevo ancora oltre vent'anni di vita?” “Ca...spita! Scusa! Ma non ti avevo mica riconosciuta, sai!?!”. Il dugongo, divertito, si mise a saltellare. Goffredo ritornò al negozio e vide il pacco regalo ancora chiuso. Si avvicinò e rifletté se aprirlo o no, era davvero molto curioso, ma avrebbe preferito aspettare e vedere se arrivava il fruttivendolo per farlo. Nel pomeriggio tornò di nuovo dall'enorme mammifero, perché la mattina precedente gli era venuta in mente un'idea alquanto strana. Avrebbe potuto far installare all'interno del negozio una gigantesca gabbia e far diventare Dunghi un'attrazione per la sua esclusiva clientela. In seguito avrebbe creato dei meravigliosi capi subacquei taglia dugongo. Quindi si presentò verso le 16:00 dal proprietario dello zoo, ma ad un tratto scorse un uomo vestito da pollo che gli correva incontro urlando: “Il panda è scappato” e subito dopo vide quello che sembrava un amorevole cucciolo, in realtà era un panda arrabbiato. Goffredo, preso dal panico, incominciò a correre nella direzione opposta, ma venne ben presto travolto dal pollo che lo buttò a terra. Fortunatamente non perse coscienza e quindi, appena riuscì ad alzarsi, andò dal direttore, il quale fu molto felice di vederlo e lo ringraziò per aver salvato il dugongo dall'isolotto e gli spiegò che l'animale aveva trovato una compagna ed era diventato la mascotte dello zoo. Goffredo, per gli amici Goffry, propose così al direttore un'idea entusiasmante, avrebbe creato una sfilata di moda per dugonghi allo zoo e i vestiti sarebbero stati donati dal negozio. Il responsabile accettò senza esitare, quindi Goffry salutò educatamente, ritornò al negozio e si mise subito all'opera. Per prima cosa cercò il pacco misterioso e lo trovò accanto a una borsa con una texture firmata Amber. Non resistette, doveva per forza aprirlo, e con la velocità di un ninja lo fece, ma rimase sconvolto: all'interno si trovava un costume di una taglia smisurata a forma di banana, tutto quel giallo era inquietante per uno stilista di alta moda come lui. Ancora traumatizzato, si recò nella sartoria in cui venivano prodotti i vestiti per la boutique,e chiese alle sarte se una di loro avesse fabbricato quell'orrendo capo, ma nessuna rispose. Goffredo, essendo una persona positiva, pensò a cosa avrebbe potuto fare per salvare il capo dalla pattumiera, quando gli ritornò in mente del concorso del dugongo. Avrebbe fatto sfilare i due dugonghi, il maschio vestito da banana la femmina vestita da fragola. Adulti e bambini avrebbero riso a crepapelle, vedendo i due mammiferi con quei ridicoli costumi. Tutto era programmato, il direttore aveva già fissato come data il 15 settembre alle ore 14:00. Mandarono dei tecnici a tentare di prendere le misure di Dughi e della sua compagna, un'impresa impossibile. Dopo circa 20 tentativi falliti, uno dopo l'altro, per vari motivi fra i quali: la compressione di un subacqueo sotto il dugongo spaventato, svenimento causato da maleodoranti emissioni di gas da parte della compagna, licenziamento di un volontario a causa di uno starnuto dell'animale che annaffiò l'altro volontario, ma alla fine le misure arrivarono. Le sarte fecero un lavoro a dir poco eccellente. La parte più complicata fu però convincere gli animali a indossare quei stravaganti costumi. Quindici uomini fecero subito un passo indietro e non vollero più entrare in acqua per un bel po' di tempo, un costume si ruppe e la femmina cominciò a nuotare senza che l'abito fosse chiuso e ciò provocò serie lacerazioni. Finalmente, dopo aver scatenato la terza guerra mondiale contro i dugonghi, riuscirono a convincerli a tenere l'abito. Sembrava tutto finito, fino a quando non arrivò il momento di insegnare ai dugonghi a sfilare. Prima di tutto tre modelle dovettero diventare subacquei e poi convincere i dugonghi. Arrivarono allo zoo e entrarono in acqua, la compagna accettò all'istante, mentre il compagno fu un po' più difficile. Fortunatamente giunsero ad un accordo: rifornimento di banane a vita . Ogni cosa era finalmente pronta, il giorno seguente si sarebbe tenuto lo spettacolo. Per tutta la mattina gli addetti lavorarono duramente ed all'ora prestabilita aprirono i cancelli dello zoo e la gente entusiasmata da questo grande evento comprò molti souvenir, un ragazzino poi urlò: “È stato dugongasticooo”. Goffredo tornò felice al negozio, che da allora fabbricò solo capi per animali naturalmente di alta moda! Buischio A., Carraretto A.R., Dan S.L., Vianello F. LO STUDIO MòNEL Era un pomeriggio abbastanza soleggiato. Nello studio dentistico del dottor Mònel regnava la confusione. La notte prima c'era stata una rapina e l'ufficio era stato messo a soqquadro: i ladri, intenti a rubare l' incasso mensile e i denti d'oro, avevano rovistato in tutti gli scaffali buttando a terra ogni cosa. Dopo indagini approfondite, Polizia, scartoffie varie,il locale era ancora più “incasinato” di prima. Il dentista quel pomeriggio aveva quattro appuntamenti che non poteva disdire: • un bambino a cui doveva mettere l' apparecchio; • un anziano che necessitava di una dentiera nuova; • un ragazzo al quale bisognava operare l'ugola; • una ventenne bulimica con i denti talmente corrosi dal vomito che dovevano essere sostituiti. Alle 15.00 arrivò Nikolenka Pippel che era pronto a farsi mettere l'apparecchio. Il bambino era puntualissimo, ma era arrivato senza genitori che, a causa di un impegno saltato fuori all'ultimo minuto, non avevano potuto accompagnarlo. In seguito alla rapina della notte precedente, le cartelle cliniche di tutti i pazienti erano finite sul pavimento e la dottoressa di turno le aveva messe alla rinfusa sul primo piano d'appoggio possibile con gli occhi semi-chiusi dalla stanchezza visto che erano ore che cercava affannosamente di mettere ordine in quella baraonda. Il dottor Mònel si ricordò di aver messo la cartella di Nikolenka sopra tutte le altre, ed essendo una persona molto sicura di sé, non ci pensò su nemmeno un attimo, la prese e la diede alla sua assistente. Questa , una giovane tirocinante un po' inesperta, convinta che ubbidire ciecamente al dottore fosse la cosa migliore da fare, sistemò con gentilezza il bambino sul lettino e lo addormentò come prevedeva la cartella che aveva in mano. Questa diceva: rimuovere al paziente tutti i denti, causa corrosione da vomito. Nonostante alla dottoressa sembrasse strano fare un' operazione del genere ad un bambino, visto che non poteva chiedere ai suoi genitori una conferma e fermo che il dottore, tempo prima a causa di un errore nella lettura di una cartella, aveva minacciato di licenziarla, preferì attenersi all' ordine dato e procedette con l'anestesia. Un' ora dopo il bambino era totalmente privo di denti!! Di lì a poco arrivarono i suoi genitori e quando videro il loro figlioletto sdentato esclamarono all' unisono: “Da oggi non avrà più problemi di denti, fortuna che ci sono avanzati degli omogenizzati!!!”. Super stranamente se ne andarono senza dire nulla. Poco più tardi giunse allo studio il signor Prost un po' malinconico perchè suo figlio era caduto dal balcone annaffiando i fiori, ma era comunque contento di mettersi la dentiera. La dottoressa lo portò nella sala operatoria e lesse la cartella che diceva: mettere un apparecchio della misura 5-6 anni sul palato. Senza esitazione eseguì alla lettera ciò che era riportato e, in men che non si dica, l'anziano signore sfoggiava un apparecchio che però era troppo piccolo per la sua bocca e quindi sembrava una scimmia “cappuccina” allucinata di 98 anni. Anch'egli stranamente se ne andò senza aprire bocca.... e se anche avesse voluto non avrebbe potuto farlo a causa dell' apparecchio. Poi fu la volta di Mohammed Amir anche lui triste perché suo fratello kebabbaro Abdoul era morto di fame durante il ramadam. Egli doveva farsi operare l'ugola infiammata per i troppi “falafel” ingurgitati ancora bollenti ed entrò nella saletta adibita a questo genere di interventi. Amir aveva accettato di farsi operare a condizione che a tagliare fosse uno della sua famiglia; venne interpellato dunque suo cugino Karim che di medicina non ne sapeva mezza piadina kebab. Egli comunque era molto diligente e volenteroso e si attenne a quello che c'era scritto nella cartellina che il dott. Mònel gli aveva appena consegnato. L'indicazione era inequivocabile, si doveva mettere una dentiera in silicone al paziente. Così fu fatto e quando uscì Allahu Akbar... va beh non mi ricordo come si chiama... aveva una dentiera linda e lustra che lo faceva sembrare una grossa e grassa femmina di ippopotamo. Anche lui uscì dallo studio senza fare storie. Infine arrivò Conat, una ragazzina molto carina, che però aveva un problema alimentare: era bulimica. Ad operarla fu il dottor Mònel in persona, che esausto dal troppo lavoro e reduce dalla terribile nottata non si soffermò a riflettere ed eseguì su Conat l'operazione all' ugola che era stata consigliata al paziente di prima a lei, in luogo della rimozione totale dei denti. Inutile dire che con le dita in bocca per due ore lo studio era diventato un lago di vomito. Anche Conat alla fine del suo intervento se ne andò inspiegabilmente senza proferire verbo....ma vomitando un po'. La settimana dopo arrivarono tutti insieme accompagnati dai loro legali:Nikolenka con i suoi genitori,il signor Prost e sua moglie Prosta, Mohammed Amir con suo cugino e Conat in compagnia del suo ragazzo. Il dottore dapprima non capiva cosa stesse succedendo, ma vedendo il vecchietto con l'apparecchio in bocca il cappellino con il frontino da rapper e le cuffiette sulle orecchie cominciò ad avere dei sospetti. Che avesse sbagliato qualcosa??Il dubbio fu più concreto quando vide il bambino di 6 anni a cavallo del suo triciclo con il ciuccetto in bocca ,ma la certezza arrivò quando vide il marocchino che avanzava saltellando al ritmo di nacchere che però nacchere non erano : la dentiera gli stava larga e sbatteva continuamente producendo un suono ritmico a dir poco sconvolgente. Tutti quanti fecero causa allo Studio che fallì a fronte della richiesta di risarcimento formulata per totali 12345678864211234567899876432345678987654321 euro, equivalente a BIG MONEY e cioè una somma gigantesca. Zagolin T., Tommasi Gioele, Ferrara F., Radu A., Stramazzo M., Selvaggio G. UNA SERATA PAZZA Ero davanti alla tv quando, all’improvviso, si spensero le luci e si sentì un rumore di vetro rotto. Per terra vidi un sasso con scritto “Buona serata”. Di colpo notai una luce rossa accompagnata da un fischio inquietante: capii che… il caffè era pronto, poi qualcuno bussò forte alla porta. Mi avvicinai piano e… un uomo vestito da coniglietto rosa sfondò la porta con un cartone di pizza in mano. Mi guardò in faccia imbarazzato e disse: “Ecco le pizze!”. Il pizzaiolo si presentò e disse di chiamarsi Frank, poi iniziò: “Vedo peperoni, rossi gialli e marroni; vedo mozzarella con ripieno di nutella”. Il pizzaiolo uscì dalla porta, tirando fuori dalla tasca i Biscottoni, lanciandoli e cantando la canzoncina del Mulino Bianco. Quando tornò la corrente, mi ritrovai un lemure seduto in divano, che probabilmente era entrato dalla porta che dava sul giardino e si stava mangiando le mie pastiglie diuretiche. Il lemure cominciò a lasciare i suoi escrementi in giro per l'abitazione, per poi uscire da dove era entrato. Per assicurarmi di non trovare altri intrusi per casa, chiamai il mio amico disinfestatore. Appena arrivò Christian cominciò a ispezionare ogni angolo della mia casa. Alla fine salì in soffitta , ma non vide niente, solo uno scrigno antiquato con scritto “I segreti di Habdul kebab”, ma niente, nessun animaletto, solo del cibo per cani che rifilo per ragù a mio fratello Giovanni quando viene a cena da me (credo proprio che gli piaccia). Così Cri portò giù dalla soffitta le crocchette che ormai erano andate a male e mi disse di chiamarlo se ne avessi avuto il bisogno. Finalmente trovai un momento per rilassarmi, ma un’insolita chiamata mi fece alzare dalla mia comoda poltrona; era la mia mammina che mi chiese di tenere d'occhio assolutamente mio fratello per una sera. Accettai scocciato. Preparai una bella cenetta a base di “pasta al ragù”, forse non molto gradita visto il vomito sul mio tappeto leopardato, ma era l’unica cosa che c'era in dispensa. Dopo che mio fratello andò a letto, si udirono strani rumori provenienti dal piano di sopra; mi sentivo in colpa perché la mia cena non era stata delle migliori. Qualche minuto dopo mi svegliai, ero ad una festa, probabilmente ubriaco e questo spiegò tutto: avevo fatto un inquietante incubo. Pagin A., Sgaravatto G., Ferrara A., Romagnosi S., Costa E. Una vacanza da dimenticare Quest’estate sicuramente non è stata una delle migliori per me, Tombarda e per i miei compari, Bigo Lino, Saracco Obama e Guido la Vespa. Tutto iniziò in una calda giornata d’inverno, quando Sbaracco ci disse di volere andare in vacanza al mare con tutti noi. Pensammo di andare in un hotel a cinque stelle, ma… come procurarci i biglietti? E i soldi?? Era un problema, perché con la crisi eravamo stati tutti licenziati. Ma la fortuna, quel giorno non ci abbandonò, e riuscimmo a trovarne quattro, vincendo a Vacanza Swag Online! Non era mai successo! Partimmo a luglio e avevamo in programma di restare in quell’hotel da sballo fino alla fine di Agosto. Prendemmo l’aereo della Fly and Die e partimmo alle 20.30. Il viaggio fu indimenticabile: Guido la Vespa, un idiota di ottima categoria, dopo aver mangiato un pacchetto intere di prugne, andò in bagno. Ma da perfetto idiota, tirò talmente tanto lo sciacquone, che allagò il bagno. Per recuperare quel ciccione gonfiato, l’hostess ha dovuto prendere una pompa per prosciugare il locale. Dopo l’arrivo schifoso, non trovammo più i bagagli, così senza ricambio, andammo in quella meraviglia di hotel nell’Africa del sud, dove ci aspettava un grondante benvenuto: pioveva a dirotto. Comunque la Hall era splendida, c’erano pelli di zebre e leoni sui muri ed i tappeti persiani odoravano di cammello. In poche parole un arrivo davvero fantastico! Arrivammo nella nostra bellissima camera, dove c’era un lettone matrimoniale a forma di cuore ed un altro rotondo con un sacco di petali rossi… ma che razza di camera ci avevano dato! “ Successivamente arrivò il nostro cameriere personale che ci fece –“Mlmlmlml congratulazioni per le vostre nozze! Vi piace la camera preparata apposta per voi? -Nozze?!! Ci deve essere stato un errore! -Aspetti che controllo. -Forse è meglio! … -Si, ci siamo sbagliati … ehm… desiderate un’altra camera? -Certamente. Arrivammo nella nostra nuova suite, ma prima di entrare, sentimmo il direttore dell’Hotel parlare con il nostro cameriere di una presunta rapina avvenuta la scorsa serata nell’Hotel. Entrammo in fretta e furia nella nostra camera per accertarsi che non ci fosse nessuno. Radunato tutto il gruppo, decidemmo di passare il tempo scoprendo il colpevole. Come prima cosa decidemmo di osservare il comportamento della gente e Guido sentì dire ad uno strano signore che la rapina era andata bene ed era tutto apposto, nessuno lo sospettava… Decidemmo allora di creare dei tranelli per incastrare il malintenzionato. Ognuno di noi ne pensò uno: - Io proposi di mettere un secchio sopra la porta del presunto rapinatore e dentro inserirci di tutto e di più. Spalmare del burro, olio e miele su tutti i corridoi. Mettere una rete sul soffitto con una lenza che lo sostiene. Mettere delle bucce di banana sulle scale. Il primo tranello lo attuammo il mattino seguente: con l’aiuto di Bigo, misi un secchio sopra la porta della stanza dello strano signore e lo riempii di acciughe, uova marce, ketchup e senape. Attendemmo che arrivasse , ma Bigo-lino aveva dimenticato una cosa all’interno della stanza e… il secchio gli si catapultò addosso! Era tutto sporco ed andò subito a farsi una doccia, dicendone di tutti i colori. Povero, dopo due giorni puzzava ancora! Toccò poi all’inganno del burro per tutti i corridoi: mi feci aiutare da Sbaracco. Spargemmo del burro, poi pensammo di dare un tocco di originalità e aggiungemmo l’olio ed il miele. Però ci scordammo che la nostra stanza era al lato opposto del corridoio, così usai come tavola da surf Sbaracco Obama e riuscimmo ad arrivare a destinazione, anche se lui era tutto appiccicoso, mamma mia che schifo! Dopo questo tentativo pensammo di usare una trappola tradizionale, che di solito funziona sempre. Perciò, Guido la Vespa prese una rete e con l’aiuto di una scala la fissò sul soffitto legando la lenza sulla gamba di un comodino attendendo che il presunto rapinatore arrivasse. Ma ad un tratto arrivò Bigo Lino che, per colpa della sua goffaggine, inciampò sulla lenza restando intrappolato. Per circa due ore abbiamo cercato di tirarlo giù, quella razza di polpetta gigante, poverino, abbiamo dovuto addirittura chiamare le guardie! Beh, ora non ci restava che passare all’ultima trappola: il vecchio trucco della banana sulle scale. Misi le bucce di banana mangiate da Sbaracco sulle scale proprio quando il misterioso individuo stava passando. Ad un tratto, arrivò quel pallone gonfiato di Guido la Vespa che, per farsi notare da una ragazza carina, prese la tavola da surf e… credo che lo immaginiate, scivolò come un pollo, andando proprio addosso a quella ragazza che gli diede due schiaffi di prima categoria: era blu. Ok, ok, niente da fare, i tranelli non sono il nostro forte… non ce la facevamo più di cadere nelle nostre stesse trappole. Soprattutto Bigo Lino, che per poco non moriva. … Poi successe una cosa che non merita commenti: Sbaracco, che è un po’ sfacciato, prese il presunto colpevole e gli disse: -Basta, ti abbiamo scoperto, ora devi confessare! -Che cosa mi scusi – rispose il signore -Non fare l’innocentino, ti abbiamo sentito mentre dicevi che la rapina è andata bene, capito? -Ahahah, no! Avete capito male signore, io ho detto che il rapinatore è stato scoperto e che ora va tutto bene; ma come le è venuto in mente?! -Oops, scusi tanto, ma quello stupido del mio compare Guido la Vespa aveva capito male. Lol! Il signore disse, poi, che era tutto apposto e noi ci scusammo con lui. Mamma mia, mi sarei sotterrato, al sol pensiero che abbiamo fatto tutte quelle trappole per niente! Ahah beh, di sicuro questa vacanza resterà impressa in noi per sempre, in tutti i sensi! Dopo questa faccenda, ci godemmo la nostra vacanza in un hotel a cinque stelle, ovviamente le castronate non mancavano, ma almeno, non ci uccidemmo. Purtroppo alla fine di Agosto dovemmo tornare a casa e questa vacanza, di sicuro, non sarà una delle nostre preferite, anzi, da dimenticare. Bulgarelli E., Durello A., Fejzo S., Perdon A., Raji I. I DUE STRANI CANI Mamma mia! Questa mattina sono proprio in ritardo … nessuno mi ha svegliata: la mamma è partita alle 4:30, il papà pure e io ieri sera non avevo messo la sveglia sullo smartphone. Gli occhi me li ha aperti il sole cocente delle 7:50 che è entrato dalla finestra della mia camera. Salto di colpo giù dal letto e finisco col volto per terra, perché i miei piedi sono rimasti incastrati nelle lenzuola. “Aiuto” penso “la giornata qui inizia male”. Colazione? Neanche pensarci: non ho nemmeno il tempo per salire le scale ed arrivare al secondo piano, figuriamoci se riesco a sedermi a tavola. Raccatto tutto il necessario da mettere in cartella, indosso le prime cose che l’armadio mi propone, scarpe slacciate (tanto vanno anche di moda), inforco la bici e mi tuffo nella mia via. La velocità di pedalata è quella che è, perché i miei muscoli sono ancora sotto le coperte. Circa a metà della strada sento un brontolio e una voce che mi chiama e dice: ”Ehi Adele! Oggi potresti stare anche con noi, noi insegniamo materie speciali”. Giro la testa a 360°, il mio collo si attorciglia tutto, non vedo nessun essere umano in giro, ma solo Liam, un bastardino che abita in una casa della mia via e che tutte le mattine mi fermo a salutare, quando non sono in ritardo. Lo scruto un po’ impaurita e gli chiedo: ”Sarai mica tu a parlare?”… ma che sto facendo: parlo con un cane?!”Neanche finito di parlare col primo sento la voce di un altro cane, questa volta di tono più basso e più potente che mi dice: ”Dai resta con noi, ti divertirai un mondo! Ti insegniamo come si vive da cani”. “E questo chi è?”, mi chiedo, ormai senza capire più nulla. La voce veniva dalla parte opposta della casa di Liam. Mi giro lentamente, terrorizzata e, con la coda dell’occhio, vedo una macchia pelosa scurissima … “No! Anche Cesare parla!” esclamo. Per chi non lo sapesse Cesare è un labrador gigantesco. Il primo incontro con lui è stato traumatico: una mattina lui era libero per la strada e ha iniziato a rincorrermi… il panico! Mi pizzico una guancia per vedere se sono ancora sotto le coperte a sognare. Ahi! Sono più che sveglia, ma nella confusione più totale … boh, che faccio? E subito mi stupisco di me stessa, però … non ho mai provato a vivere da cani, magari è anche interessante Guardo l’orologio: tardissimo, l’ingresso della scuola sarà già chiuso … oggi marino la scuola e faccio segno ai due cani di uscire dai loro recinti e gli dico: “Allora ci sto, ditemi cosa devo fare”. I due animali si mettono a spingere la mia bici da dietro, ma io, inciampando in un sasso, prendo il volo e piroetto in avanti … seconda pacca sulla faccia della giornata! Non voglio mostrare a loro però che ho male dappertutto. In qualche modo mi rialzo con un sorriso sulle labbra, ma le lacrime agli occhi. Riguardo l’orologio e penso: ”Magari potrei entrare alla seconda ora”, ma i due cani mi sono già saltati addosso e mi chiedono se sono capace di fare le capriole. “Certo” rispondo. Ma nella foga di dimostrare tutta la mia agilità, mi tuffo sull’asfalto con la cartella sulle spalle che mi sbilancia completamente … terzo ematoma sul viso… che vita da cani! Cesare insiste per insegnarmi i vari modi di abbaiare mi spiega che a seconda del tono, del ritmo e dell’intensità un cane può dire diverse cose . Quando è felice abbaia dolcemente, con un tono un po’ acuto, veloce, con versi corti e ravvicinati. Siccome non avevo niente di meglio da fare ci provo, inutile dire … non mi accorgo che qualcuno mi sta guardando e non è un cane, ma un essere umano, la signora Brigitte, di 79 anni suonati, che si perde anche in casa sua e che ora sulla soglia mi guarda stupita e divertita! Sto facendo spettacolo… Adele artista di strada!!! Poi Liam mi spiega il verso del cane all’attacco: tono tra il medio e il grave, intensità massima; si racchiude tutta l’aria nei polmoni e poi di botto si spinge fuori emettendo suoni brevi, ravvicinati e che vanno in crescendo per poi rimanere su quell’intensità. Bellissimo questo! Mi cimento subito nell’esercizio… che fatica però! Sono senza fiato! Brigitte adesso è terrorizzata: è convinta che io sia un fantasma di un cane e corre in casa dando tre giri di chiave alla porta. Adesso è la volta del pianto di tristezza. Liam e Cesare attaccano un duetto di ululati lunghi, lenti cupi e di intensità lieve… mi fanno piangere. Loro dicono che sarebbe più indicato provare la notte al chiaro di luna piena, vengono meglio in quel contesto malinconico. Adesso tocca a me e mi unisco al coretto dei cani… un trio in perfetta sintonia… pare musica da camera! Anche i cani mangiano. E’ l’ora della ricerca di cibo. Importantissimo è il naso che fa arrivare a cibi avanzati e abbandonati da altri animali o da umani. I due mi insegnano la tecnica del fiuto: aprire bene le narici, inspirare solo con il naso tutta l’aria che arriva da una sola direzione; fermare un attimo il respiro, trattenendo tutta l’aria nelle prime vie aereee dove ci sono i recettori dell’olfatto; inviare in velocità al cervello la sensazione (ma come?! Pensavo che gli animali ne fossero privi!!!), quindi dirigersi di corsa verso il succulento avanzo. Provo subito a seguire le istruzioni impartite dai due grandi maestri. Il mio naso ha puntato direzione “Da Gimo” e subito i miei piedi si mettono in corsa verso la pizzeria. Ma i due mi sgridano: i cani non si siedono a tavola e mangiano solo avanzi e non pizze intere appena sfornate. Loro mi portano all’area riservata ai cassonetti dei condomini. Che schifo… rovistare e mangiare quello che trovano… non ce la faccio. Sono le 13:10. scuola finita, anche quella da cani. Che mattinata! Saluto Liam e Cesare che rientrano nei loro giardini, io con la bici torno a casa. Chi avrebbe mai detto che i cani parlano e insegnano? Se lo racconto ai miei amici mi prenderanno per pazza. Eppure vi assicuro che quei due mi hanno parlato per l’intera mattina. E mi sono anche divertita. Sono matta davvero?? Adesso però c’è un problema: chi mi fa la giustificazione che oggi non sono andata a scuola? Che motivo scrivo? Magari i due sanno anche scrivere e firmare il libretto personale e la giustifica sarà: addestramento ad una vita da cani… che poi non è neanche male! Benedetti T., Brentan E., Costa F., Marin E., Ranzato N.,Tommasi Giacomo Il detective Green Mi presento: sono il detective Will Green probabilmente credete che io sia straniero, ebbene no, sono un italiano D.O.C. al cento per cento. I miei genitori sono nati entrambi a Mullingar, in Irlanda. Vivo a Mestre da un paio di anni, questa città mi piace molto perché puoi trovare tutto quello che ti serve. Io non sono un detective come tutti gli altri: non indosso un impermeabile scuro fino alle ginocchia, non ho un cappello alla Sherlock Holmes, non ho la pipa sempre in bocca, serio e rigido; anzi sono un tipo giovane, molto amichevole, mi vesto sempre alla moda con felpe e jeans attillati, mi piace andare in giro con la mia compagnia e di domenica adoro stare stravaccato sul divano a guardarmi la televisione: sono molto ammirato da tutti. Ho viaggiato in tutto il mondo e mi vanto di aver assaggiato ogni tipo di cibo perfino le cavallette in Africa! Una mia passione è la musica, suono la chitarra da quando ero bambino e ho iniziato da poco a prendere lezioni di piano. Un’altra mia grande passione è la ginnastica, vado in palestra tutti i giorni e pratico arti marziali. Ho trentasei anni compiuti, sono un tipo alto e muscoloso, ho il viso squadrato, bocca sottile quasi sempre sorridente, naso allungato, occhi azzurri e scintillanti sormontati da due sopracciglia scure, denti smaglianti e orecchie a sventola. Ho una fronte sfuggente, capelli marroni rasati di lato e al centro ciuffo corto. A volte tengo una barba più o meno lunga, comunque incolta. Sempre con il fiato corto per l’asma che non mi dà tregua. Mentre da piccolo non riuscivo a scrivere una frase che ero già stanco in seguito mi sono impegnato e mi sono meritato 100 e lode alla maturità classica. Ho una mezza laurea in teologia e una intera in psicologia. Ho seguito casi in tutte le parti d’Italia e di tutti i generi…ma questo è il più strano e buffo che mi sia capitato nei miei 15 anni di servizio. Si tratta della scomparsa di Tecla, la bidella della Regina Margherita che oggi è assente per un motivo sconosciuto nessuno sa niente, nessuno l’ha vista, nessuno l’ha sentita…non ha nemmeno avvisato che non veniva: strana cosa questa visto che lei è appassionatissima del suo lavoro e non manca mai. Tutte le mattine è dietro la cattedra, vicino alla porta d’ingresso ad accogliere i ragazzi che iniziano scuola. Tecla è una signora un po’ bassina ed esile, dalla pelle pallida, capelli bianchi e crespi, occhi verdi smeraldo, guance scavate e naso aquilino. Dall’aspetto sembra un po’ acida, ma è sempre gentile e comprensiva. Sono le 8:10 di lunedì 16 marzo 2015 e di Tecla nessuno sa nulla. Le ipotesi sono molte: è andata a fare visita a sua mamma in ospedale…no, è ricoverata a Roma e lei non avrebbe i soldi per prendere l’aereo dato che la sua fiat uno regge a malapena per un chilometro. Scappata per disperazione? Lei è uno spirito positivo, sempre sorridente, trova una soluzione a tutto. Rapita? Forse l’unica spiegazione. I primi ad accorgersi dell’assenza di Tecla siamo stati i suoi adorati ragazzi bloccati fuori dal cancello perché nessuno apre, un’altra bidella finalmente spalanca il cancello, ma la preside è già stata allertata. Tecla è sparita e nessuno sa niente non una mail, non un messaggio, niente. E’ scomparsa e non ha lasciato tracce. Io sono stato incaricato di risolvere il mistero da alcuni ragazzini della scuola. Essendo un tipo un po’ tirchio non potevo accettare di lavorare senza guadagnare e sapevo che loro non avevano neanche uno spicciolo, ma vedevo nei loro occhi una speranza infinita e non potevo abbandonarli, allora dissi ad alta voce:”Va bene risolverò il caso, ma voi sarete i miei aiutanti”. I ragazzi non riuscivano a stare fermi erano eccitatissimi all’idea di fare i detective. Senza fiatare ci incamminammo verso la casa della vittima, faceva caldo e il sole splendente dei primi giugno ci cuoceva le spalle, il cielo era chiarissimo non c’era una nuvola, si sentiva il rombo di alcuni motorini che giravano qua e là. Dopo dieci minuti arrivammo a casa di Tecla, era una misera casetta in centro, una di quelle che ci sono da sempre e di cui non fai caso. Era contornata da un giardino molto curato con l’erba verdissima e fiori colorati che lo ricoprivano, si raggiungeva l’ingresso attraverso una stretta stradina scavata, la porta era piccola, dipinta di verde e con la maniglia di metallo. Suonai il campanello diverse volte, ma nessuno rispose: dovetti rompere la serratura e così feci. I ragazzi entrarono di corsa dentro la minuscola casa in cerca di indizi. Era composta da due piani, nel piano terra si trovava la cucina, il salotto e un bagno mentre di sopra c’erano tre camere da letto e un piccolo sgabuzzino. Iniziammo a indagare, tutto era in ordine alla perfezione, nell’aria c’era odore di mistero: osservammo scrupolosamente tutto ciò che ci circondava. La luce fioca che emetteva la lampadina ci impediva di vedere perfettamente. All’improvviso mi accorsi che le finestre erano chiuse e le tapparelle giù, strano…a che scopo? Questo ancora non lo capivamo. Salimmo su per le scale scricchiolanti e vedemmo che le porte dell’armadio della camera di Tecla erano aperte, del resto nessun indizio. Era difficile capire tutto ciò…se era stata rapita non c’era motivo di chiudere le finestre, ma niente si può dare per scontato. Non avevamo la minima idea di cosa le potesse essere accaduto. L’unica soluzione era andare a chiedere a chi la conosceva e poteva darci una mano. Decidemmo così di andare da una sua amica, visto che il marito non ce l’aveva e la famiglia era lontana. Questa si chiamava Mary, era bassa e tozza, aveva un viso tondo con due occhi piccoli e scuri, aveva i capelli grigi e ricci. Lei ci raccontò un po’ la storia della sua cara amica. “La conosco da quando frequentavamo le elementari eravamo migliori amiche, finiti i cinque anni però dovemmo lasciare entrambe la scuola per dover andare a lavorare, siamo rimaste comunque molto amiche anche se ci vedevamo di rado. Dopo anni ci ritrovammo nello stesso quartiere e siamo nuovamente diventate amiche. Lei ha tutta la sua famiglia a Roma perché sua mamma è gravemente malata. Mi ha sempre detto che un giorno si sarebbe rifugiata in un posto rilassante dove si sarebbe potuta sfogare un po’, io ovviamente non ci credevo e ridevo,lei invece che evidentemente non scherzava abbozzava un sorriso poco convinto”. Questo è tutto quello che annotai nel mio taccuino che porto sempre dietro, dovetti tradurre un po’ perché Mary parlava mezzo dialetto, mezzo italiano e non azzeccava un verbo, ma ci fu di grande aiuto. Insieme ai ragazzi tornai in ufficio per ragionare sul fatto. Appena arrivati, ci siamo seduti intorno alla scrivania e eliminammo l’idea che fosse stata rapita. Ora l’unica soluzione era quella a cui portavano tutti gli indizi, infatti le finestre erano chiuse perché stava partendo per un viaggio e l’armadio aperto perché si era fatta la valigia. Il caso era quasi risolto, bastava scoprire dove si era cacciata. Un ragazzo mi ricordò che a casa sua non c’era la macchina quindi non era andata in un posto vicino. Era un posto rilassante e non troppo lontano perché a lei non piaceva viaggiare. Mi venne subito in mente Sottomarina, non ero affatto convinto, ma era l’unico posto tranquillo che lei conosceva. Montammo in macchina, destinazione Sottomarina. Appena arrivai, scendemmo dall’auto e ci dirigemmo verso il mare che Tecla adorava, andammo in spiaggia per cercare. Passa mezz’ora, passa un’ora, passano due ore…basta, avevamo sbagliato, Tecla non era lì. Ci doveva essere per forza un altro posto rilassante…certo, le terme di Abano! Con molta fretta sfrecciammo verso Abano. Di Tecla nessuna traccia: anche questa volta avevamo sbagliato posto. Tornammo di nuovo in ufficio per pensare, ma la soluzione ce l’avevamo davanti agli occhi, infatti mentre stavamo scendendo dalla macchina, notammo che nel giardino della casa di riposo, di fronte all’ufficio, c’era una persona che sembrava proprio Tecla, impossibile non pensavo che si fosse “rifugiata” lì. Ci doveva essere per forza un altro posto rilassante. Con molto stupore ci incamminammo verso l’ingresso della casa di riposo e più ci avvicinavamo, più ci convincevamo che quella era veramente Tecla. Ed ecco il momento della verità…varcammo il cancello della casa di riposo e rimanemmo stupiti, era davvero lei. Tecla ci venne incontro e ci salutò calorosamente:”Ciao ragazzi, cosa ci fate qui?” uno di loro rispose:”Tecla! Non pensavo che questo fosse il posto in cui tu ti potessi sfogare” Tecla disse:”Si ragazzi, forse siete sorpresi, ma è molto divertente giocare a carte con i miei amici” e indicò un gruppetto di anziani seduti attorno ad un tavolino. E questa è stata la conclusione del “caso” ,se così si può chiamare, della scomparsa di Tecla. Il motivo per cui non aveva avvertito nessuno questo non si seppe mai. Costa F., Benedetti T., Marin E., Tommasi Giacomo, Ranzato N. UNA FORMULA PERICOLOSA Era una giornata tranquilla a New York e non immaginavo nemmeno lontanamente di dover risolvere un caso di tale importanza. Se qualcuno non mi conoscesse io sono il celebre investigatore privato Brown e gestisco un’agenzia investigativa in periferia. Non sono il massimo della bellezza,ma i miei capelli neri e i miei irresistibili occhi verdi mi hanno fatto sposare una donna meravigliosa. Adoro fumare la mia pipa di legno d’ebano e vestirmi col mio elegante impermeabile giallo. Quando non risolvo casi, vado al bar per farmi un bicchierino. Quel giorno stavo spaparazzato in poltrona, quando lo squillo del telefono mi fece sobbalzare. Alzai la cornetta una voce preoccupata mi pregò di recarmi al laboratorio di ricerche scientifiche top-secret situato nelle vicinanze di New York. Non aspettai, :mi misi l' impermeabile al volo, uscii dal mio ufficio e presi al volo un taxi. Fortunatamente non c’era traffico e arrivai a destinazione in meno di un quarto d’ora. Appena sceso ,un distinto signore un po’ panciuto corse trafelato verso di me. “Finalmente è qui”-disse quando ebbe preso fiato-“è molto urgente,deve seguirmi”. Appena entrati nel laboratorio, rimasi a bocca aperta: i tavoli erano rovesciati,i baker frantumati a terra e gli scaffali crollati con tutti i libri sparsi per il laboratorio. “Che è successo qua??”dissi tutto d’un fiato-“Sembra sia passato un uragano!”.”E’ successa una catastrofe: una segretissima formula segreta è stata rubata!. “Interessante”-feci io-“di che si tratta?”,”Era una formula per l’invisibilità assolutamente segreta a tutti!!”. Il poveretto era sull’orlo di una crisi di nervi:”Chiunque l'abbia rubato, può analizzarne il contenuto e scoprirne gli ingredienti adesso noti solo a me. Il mio lavoro andrebbe perduto e il ladro si prenderebbe tutto il merito,capisce?!”.”Sì sì,si calmi”-feci io-“devo avere una lista con tutti quelli che sapevano dell’esistenza della formula,è possibile?”. Lui annuì con il capo e si ritirò nel suo ufficio. Dopo un’oretta, uscì con un foglio in mano:”Eccola qui: tutti i possibili sospettati sono scritti qui”. Questo caso era urgente da risolvere: il ladro potrebbe esaminare la formula e scappare per venderla all’estero. Iniziai subito a contattare i sospettati: la prima era una donna delle pulizie, alta e magra,con i capelli biondi e occhi molto scuri di un colore indefinito. Le feci qualche domanda:”Dov’era ieri sera all’ora del furto?”,”Ero a casa mia a leggere un bel libro, ma mio marito stava dormendo e non può confermare niente”. Ecco una possibile ladra, pensai,ma i sospettati erano ancora molti e il lavoro lungo. Per secondo arrivò un noto concorrente del laboratorio in questione: era alto e magro, biondo di capelli e gli occhi erano azzurri. “Dov’era ieri sera?”-“Al lavoro”. “Qualcuno lo può confermare?”-“No, ero l’ultimo rimasto ieri sera”. Un altro alibi poco convincente ed intanto ecco che arrivava l’assistente del direttore: era molto mingherlino e fragile, aveva gli occhi scuri ed era calvo. Quando gli feci la stessa domanda,lui ci pensò su e poi mi rispose:”Ieri sera ero talmente stanco che mi sono subito addormentato”. Io,sempre più dubbioso interrogai gli altri scienziati, ma avevano tutti un alibi. Stanco e deluso, mentre stavo per uscire e andare a casa, un luccichio arrivò ai miei occhi. Mi voltai e due gemelli d’oro per terra attirarono la mia attenzione. Li raccolsi da terra e li esaminai: erano nuovi di zecca e sicuramente appartenevano ad un uomo. Li presi e li conservai in tasca. Dopo di che uscii, presi un taxi e andai finalmente a casa a dormire. Il giorno dopo tornai sul luogo del furto e parlai col direttore delle scoperte fatte la sera prima. “Impressionante, lei ha una vista eccezionale.”-commentò l’uomo-“Adesso che ci penso, mia moglie ne aveva una coppia simile, sul suo comodino: erano di suo padre”. Non c’era tempo da perdere: andammo subito a parlare con la moglie, ma quando arrivammo alla casa del direttore la porta era chiusa. “Che storia è questa?!Io non chiudo mai la porta di casa mia. Greta, facci entrare!!”. Nessuna risposta. A quel punto il direttore era in collera: sferrò un calcio alla porta e la sfondò. La moglie era intenta ad aprire la cassaforte del marito ed appena si accorse di noi si voltò e tirò fuori una spiegazione:”E allora?Anche io posso prendere i soldi di mio marito, inoltre dato che il divorzio è imminente questi mi spettano di diritto”. Lasciai il direttore a discutere con la moglie e me ne andai. Chi era il misterioso ladro di formule segrete? Decisi di riesaminare la scena del crimine e finalmente trovai su uno scaffale vicino a quello che conteneva la provetta con la formula dell'invisibilità un valido indizio: un’impronta digitale. Chiamai subito la scientifica e la feci esaminare. “Abbiamo i risultati”- fece il responsabile-“le impronte appartengono alla donna delle pulizie, ha qualche precedente penale per grossi furti avvenuti soprattutto nella zona del sud del Canada ”. Ovviamente la convocai all’istante e le domandai:”Come spiega queste impronte sulla scena del crimine?”. “E’ ovvio!”-fece lei con noncuranza-“Sono la donna delle pulizie e devo pulire ovunque. Le mie impronte sono dappertutto!”. Aveva sfortunatamente ragione: ora che cosa potevo fare?Indagare più a fondo? Dopo alcune riflessioni scoprii un’informazione fondamentale: l’assistente era in crisi finanziaria ed aveva bisogno di soldi e anche alla svelta. Riordinai tutti i pezzi del puzzle e tutto fu finalmente chiaro: avevo solo bisogno di prove concrete. Così chiamai l’assistente e lo feci venire nel mio ufficio, lo invitai a sedersi e tranquillamente dissi:”Signore,sono lieto di dirgli che abbiamo arrestato il ladro e che lei ora non è più sospettato”.”Ne sono felice, posso andare ora?”. “Certo, le devo fare solo un' ultima domanda: cos’era contenuto dentro la formula?”. E lui ingenuamente rispose:”Certo,conteneva calcio,fosforo,azoto e…” non finì la frase che si irrigidì di colpo. Io sorrisi e dissi tranquillamente:”Vedo che ha già analizzato la formula,vero? E scommetto che questi gemelli sono suoi, tutti e due.”. Gli mostrai i gemelli e lui sbiancò subito: la prova definitiva l’aveva fornita lui stesso. Io a quel punto chiamai la polizia e il direttore: loro erano davvero impressionati e vollero conoscere il mio ragionamento. “Certo”-feci io-“ma, per favore, parliamone davanti ad un bel bicchiere di birra”. Il gioco truccato White Frost, 11 maggio 1987 Durante una gita alla città turistica White Frost,un giovane e promettente detective alle prime armi si trova a indagare su un oscuro caso. “Detective Mc Wire, sulla scena del delitto è stata ritrovata questa collanina”. Il mio assistente Winston mi passò la bustina contenente il piccolo gioiello e, nonostante fosse alquanto ossidato, si notavano ancora delle iniziali impresse “S.P.” Guardai il corpo ancora penzolante dal ramo di un faggio secco , il cadavere risaliva a poco tempo fa … circa la notte prima. Esaminando il portafoglio stracolmo di banconote, trovammo la carta di identità: si chiamava Bob Partinse ,aveva 26 anni e da alcune ricerche risultò uno sporco imbroglione. Posammo il corpo a terra e lo lasciammo agli addetti dell’autopsia. Finché lo spostavamo , cadde dalla manica del giovane una carta: una donna di cuori. Dopo il controllo del cadavere, trovammo nel telefono gli ultimi numeri che la vittima aveva chiamato: risalimmo alla moglie, Sasha Partinse, che risultò ignara e scioccata. Interrogammo l’ amico Ryan Collins con cui la sera prima del delitto era andato a passare due giorni al casinò e per ultimo il mazziere che la vittima aveva pagato per truccare il gioco. Incontrai la signora Smith nella sua stanza all’ albergo Sunset che mi disse: “La prego , vorrei giustizia per mio marito … mi dica chi è stato e come proseguono le indagini?” Io risposi: “Devo farle alcune domande: dove si trovava la sera del 10 maggio?” Lei rispose in modo tranquillo: “ Ero al casinò con un amico di mio marito e poco tempo dopo sono tornata in camera perché ero molto stanca”. Io replicai:“Appartiene a lei questo ciondolo?”. Lei: “Certamente, infatti ci sono le mie iniziali; lo avevo però regalato a mio marito, ma era da un po’ che non lo vedevo”. Io insistetti:“Com’erano ultimamente i rapporti con suo marito?” Lei in tono serio: “Ultimamente non eravamo molto affiatati, litigavamo spesso , ma …” scoppiò a piangere e, singhiozzando ricominciò a parlare: “Non sarei mai stata capace di ucciderlo mi creda”. Cambiai stanza per raggiungere l’amico della vittima che mi aspettava per l’interrogatorio. Bussai alla porta e lui aprì subito, l’uomo si sedette su una poltrona e mi offrì un bicchiere di Vodka, ma essendo astemio, rifiutai gentilmente. “Può dirmi dove si trovava la notte del’omicidio?” chiesi io. “Ero al casinò con una donna “, rispose lui. Io :“Era la moglie della vittima?” L’uomo: “Si,ma nessuno doveva saperlo”. A meno che i due non fossero complici, non avrebbero potuto uccidere Bob. Così andai a fare alcune domande al Mazziere corrotto, ma non risultò di gran aiuto, semplicemente all’ora del delitto compiva il suo turno. Più continuavo le indagini più ero disgustato da questa gente falsa. Tornai in centrale a riflettere e poco dopo le 17:00 mi arrivò una chiamata dal mio assistente Winston: il mazziere era scomparso dopo l’interrogatorio ed era stato avvistato vicino alla chiesa sulla strada del cimitero. A quel punto io e Winston prendemmo la volante e arrivammo al cimitero, lo trovammo che parlava da solo: ”Ce l’abbiamo fatta fratellone mio ora ho portato a termine la tua vendetta, riposa in pace”. Il mazziere lasciò una carta, la donna di cuori. Tornava tutto, ormai si era tradito con le sue stesse parole. ”Tanto vale confessare ,lei a ucciso il signor Smith”. L’uomo rispose “Lo provi! In più io ero al lavoro, questo come se lo spiega?” . “Lei voleva vendetta per conto di suo fratello che si suicidò a causa di problemi finanziari,esso andò in bancarotta perché Smith lo aveva imbrogliato giocando allo stesso casinò dove lavora” L’uomo si zittì e Winston mi guardò con aria stupefatta . Io continuai lo stesso: “Lei voleva incastrare la moglie e l’amico perché era venuto a conoscenza della loro relazione. Ha messo le carte che rappresentavano il tradimento e il ciondolo della signora vicino alla scena del delitto, ma, solo uno stupido lascerebbe così tante prove. Lei ha detto che era al lavoro, ma chi poteva confermarlo? Tra la folla del casinò per lei è stato facile uscire dal locale in un momento di distrazione”. ”Come fa a sapere tutte queste cose, capo?” mi chiese Winston perplesso. “Semplicemente ho fatto le mie ricerche negli archivi della polizia e ho trovato l’omicidio di un uomo con lo stesso cognome del mazziere”. L’uomo cadde a terra e iniziò a piangere e urlare: ”Quello aveva rovinato la vita di mio fratello tanto da farlo suicidare! Dopo aver sentito una discussione tra la signora Partinse e il suo amante, capì che avevo l’occasione per rendere vendetta a mio fratello ed eliminare quel falso. Lei ha colpito nel segno, detective, tutto a lei quadra, perfino come sono riuscito a uscire dal casinò”.Si arrese e si consegnò di sua spontanea volontà. Tornai in centrale e mi sedetti alla scrivania fiero di me, ma non ero ancora soddisfatto. Dopo che avevo scoperto l’assassino, rimaneva da stabilire la condanna. Il giudice lo mandò in carcere per 16 anni Ferrara A., Romagnosi S., Costa E., Sgaravatto G., Pagin A. L'investigatrice Oara Louvre, 2015,Parigi, Francia La quotatissima agenzia investigativa I.S.I.S (Investigatori.Segreti.Intelligenti e Scaltri) riceve da 10 anni a questa parte, casi di rapine di famosissimi quadri da musei importanti di tutto il mondo. “Ora è il momento di finirla!!” esclamò sbraitando l’agente Oara, Scarlett Oara. Era, a detta di tutti, l’agente di punta dell’agenzia. I suoi contributi erano sempre stati essenziali per la risoluzione di ogni caso. Ma questa volta non sarebbe stata una passeggiata; infatti da qualche tempo, in tutti i musei più celebri del mondo, erano cominciati a sparire opere di elevatissimo valore tra cui “La donna con l’ ermellino” di Leonardo, “L’urlo” di Munch, “La persistenza della memoria” di Dalì, “I girasoli” di Van Gogh insieme al suo autoritratto per un valore totale di più di 100 miliardi di dollari. Nell’ ufficio di Scarlett c’erano decine di pile di documenti ancora da archiviare, che occupavano spazio sulla scrivania, sui mobili e addirittura per terra. Quella mattina era appena stato rubato l’ ennesimo quadro di valore da un famosissimo museo parigino. Il caso le era stato affidato dalle autorità francesi e ciò spiegava il motivo del suo nervosismo. Scarlett decise recarsi al Louvre di persona. Era inspiegabile come le guardie non avessero fatto nulla per fermare il ladro , ma quando Scarlett le interrogò non si ricordarono di aver visto nulla, anzi, al momento dell’ interrogatorio non avevano la minima idea del fatto che fosse stato rubato un quadro. Dall’ analisi fatta dall’agente, risultava evidente che loro non c’entravano nulla con la sparizione, ma Oara non escludeva nessuna possibilità, anche se il fenomeno era inspiegabile. Dopo un paio d’ ore, arrivò la scientifica con i poliziotti ed, esaminando con cura, trovarono solo dei frammenti minuscoli di pigmento. “Ovviamente il colore si è staccato dai dipinti quando sono stati violentemente tolti dalla parete dal delinquente, abbiamo trovato lo stesso indizio anche nelle altre scene del crimine” spiegò convinto il caporale Scott Marley alla Stampa. Appena Oara vide il notiziario contenente questo servizio, andò su tutte le furie; secondo lei era una cosa troppo ovvia per un ladro che aveva rubato in tutto il mondo. Rimuginandoci su per due giorni ebbe un’ intuizione geniale: pensandoci bene in tutti i casi il quasi impercettibile alone di colore sul pavimento non era ampio come sarebbe stato se il ladro avesse effettivamente fatto come diceva il caporale Marley, ma era solo una piccola macchia sfumata in un area circoscritta. Dunque il ladro aveva fatto qualcosa sul quadro con un qualsivoglia utensile, come se avesse scartavetrato un pezzo subito dopo averlo rubato. Andando a ricontrollare meglio, la polvere era disposta in linea retta o in più linee. La seconda intuizione di Scarlett fu capire che il quadro era stato tagliato con una lama, probabilmente quella di un coltello da caccia. “Il ladro ha tagliato ogni quadro che ha rubato sul posto per poi toglierlo dalla parete, asportare la cornice e far sparire le tracce, forse voleva frazionarlo per facilitare il trasporto.”Questo non bastava, ma almeno era un inizio, pensò Oara convinta. Per arrivare a questa conclusione aveva impiegato più di una settimana, ma nonostante le opinioni contrastanti dei suoi colleghi, era abbastanza sicura della sua tesi. La scientifica usò un cane antidroga e gli fece annusare i pigmenti caduti per terra al Louvr, ma esso non li condusse alla casa del malvivente bensì al parco del quartiere vicino, nel quale rinvenirono un pezzo di tela sporgente dal terreno. Lo dissotterrarono e scorsero che al dipinto mancava un pezzo, tranciato via con un taglio netto: venne così confermata l'ipotesi di Scarlett. Dopo una serie di accurate analisi, Scarlett scoprì sulla cornice del quadro di Parigi una quasi impercettibile letterina rossa scarlatta. La nostra investigatrice ritornò al suo studio e, dopo una attenta riflessione, capì il messaggio che il colpevole voleva lasciarle: era un riferimento al suo nome (scarlatta-Scarlett), Era un’ impresa riservata solo a lei e per lei. L'investigatrice Oara Sembrava quasi impossibile ai suoi occhi, ma i ladri più incalliti lasciavano sempre indizi solo per un determinato investigatore quasi per proporre loro una sfida. Scarlett allora si mise subito d’impegno e prenotò i voli per tutte le località delle varie scene del crimine: Polonia, Olanda, Stati uniti , Inghilterra. Impiegò una settimana e una buona parte dei fondi dell’ Isis per pagare i biglietti, ma alla fine sul suo blocco notes comparivano tutte le lettere trovate sulle cornici dei pezzi rimanenti di tutti i quadri rubati. Siccome Scarlett viveva nel ventunesimo secolo, cercò su google un sito di anagrammi per non perdere troppo tempo e, in men che non si dica, Nomix ne trovò più di 2520 . Il numero 1678 era un effettivo nome di persona: Alex Swarzkopfe. Eravamo vicini alla soluzione, bastava controllare gli schedari e rintracciare il malfattore. Dopo un rapido controllo, scoprì che questo Alex era deceduto, ma andò lo stesso nella sua dimora. Appena entrata, vide sulla parete nord un gigantesco collage di pezzi di famosissimi quadri. Scarlett chiamò subito la scientifica e la polizia. Dopo varie ricerche, risalirono ai quadri che coincidevano con i pezzi di dipinti rubati più di vent’ anni prima dal maniaco. Siccome Scarlett era molto giovane quando vennero rubati i quadri, non era a conoscenza del fatto che si stesse ripetendo lo stesso crimine compiuto vent’ anni prima. Andò direttamente al distretto di polizia , dove cercò nell’ archivio il video dell’ interrogatorio di Svarzkopfe. Le sue esatte parole erano: “Anche quando morirò la mia opera verrà conclusa dal mio degno erede”. Scarlett appena vide il video comprese che si trattava di un crimine destinato a non cessare mai se non fermato, come una malattia che si espande nel paziente: bisogna stroncarla alla radice. Chi poteva essere questo famoso erede? Un figlio, un parente, o solo un conoscente? Controllò nuovamente nei registri della casa di cura: c’era una dottoressa che lavorava nel manicomio nel quale Alex era stato ricoverato che si occupava sempre di lui. Probabilmente quando gli aveva confessato il suo intento, lei ne era rimasta affascinata e aveva deciso di continuare la sua opera. Scoprì che l’ unica dottoressa con interessi artistici si chiamava donna Francisca Montenegro, andò a prenderla e la interrogò. Confessò subito tutto piangendo; cominciò dal suo metodo di furto : nonostante l’ età avanzata era riuscita a organizzare tutto da sola, con una tecnica d’ azione impeccabile. Era riuscita a infiltrarsi nei musei spacciandosi come donna delle pulizie, a disattivare gli allarmi, grazie ai codici che avevano detto gli agenti, legati ad una sedia, sotto effetto del siero della verità, messo in precedenza nei loro caffè. Scoperto il codice, li faceva ingoiare una pillola per dimenticare l'accaduto e poi del sonnifero per slegarli in tranquillità. Infine tagliava i pezzi dei quadri per il collage e metteva indizi per sfidare l'intelligenza di Scarlett. Sembrava quasi che Alex fosse risorto, da quanto simili erano le scene del crimine. Però appariva evidente che Francisca aveva un rapporto sentimentale con lui, tanto da mettere il suo nome sulle cornici. Un’ altro caso archiviato per la splendida detective. Anche se ripensò a ciò che aveva dedotto poco prima: e se effettivamente non fosse mai morto? Immersa nei suoi pensieri andò al cimitero e riesumò la sua bara ma dentro non c’era nulla… Brentan E., Tommasi Gioele, Stramazzo M., Zagolin T., Ferrara F. TRA IL MALE E IL BENE Roger Pifferson IV era l’ ultimo erede di una famiglia di stregoni ricca e cattiva nella quale tutti i membri dovevano assolutamente compiere nella loro vita un atto malefico. Quello che Roger aveva in mente era impadronirsi di tutte le libre d’ oro possedute dal regno dei folletti e delle fate che stava dall’ altra parte del pianeta, o almeno questo era il suo sogno. L’impresa però non si prospettava semplice, una grande schiera di soldati-folletti veterani, capeggiati dal generale Bartok difendeva da anni l’immenso patrimonio. Roger, nonostante fosse cattivo e malefico, non era uno stolto. Premeditò in ogni dettaglio il suo piano, organizzando una armata di guerrieri alla pari di quelli di Bartok in quantità e in qualità. Il tragitto non fu affatto semplice : intemperie devastanti calarono sull’ esercito maligno, ma il ragazzo e i suoi guerrieri spietati erano in grado di rigenerarsi, e ogniqualvolta la grandine, la tempesta di sabbia e la pioggia acerrima provocavano loro delle ferite, in pochi istanti tornavano come prima. Il loro unico punto debole, per quanto ridicolo, era il succo di mais, in grado di neutralizzarli all’ istante, ma questo ai folletti non era noto, anche se loro ne possedevano serbatoi interi. Appena arrivarono nei pressi dell’ ingresso del regno dei folletti e delle fate, una pioggia di frecce incantate li colpì incessantemente, ma senza alcun effetto. Con un pugno intriso di stregoneria e malvagità , Roger sfondò tutta la muraglia circondante il vasto regno di Glifferia, che cadde a pezzi . Roger e il suo esercito penetrarono nella terra pacifica dei folletti, pronta ad essere devastata. Tutte le fate più anziane, appena si furono accorte dell’ imminente pericolo crearono assieme una barriera protettiva fatta d’acqua plasmata che però fece la stessa fine del primo muro di cinta. La battaglia epica era solo all’ inizio Chiamarono Bartok e i suoi alleati che con le unghie e con i denti combatterono duramente contro i soldati cupi e senza cuore del principe malvagio, ignari della loro peculiarità di essere immortali. A mano a mano che i soldati-folletti morivano e stramazzavano al suolo , quelli avversari si rafforzarono. Nessuno ne era a conoscenza, ma Bartok all’ inizio si era arruolato nelle forze dell’ esercito Pifferson, sotto il controllo del padre di Roger, Jacob Pifferson X. Solo in seguito riuscì a liberarsi dalla stregoneria che lo opprimeva e rendersi conto del male che aveva provocato. Poi si arruolarono nelle forze del bene per difendere gli innocenti, senza dire nulla a nessuno del precedente incarico. Dunque lui era l’unico folletto capace di essere immortale come i soldati di Pifferson ed era a conoscenza del loro punto debole, ma se avesse detto qualcosa a un suo coetaneo avrebbe subito intuito tutto e Glifferia lo avrebbe cacciato in quanto traditore. Doveva agire in incognito. Abbagliò una fata-arciere con una un sole tascabile in modo da farle scoccare una freccia su uno dei serbatoi di succo di mais orbitanti intorno al castello del re-folletto Oiggavles. Si formò una crepa sul serbatoio e, stando bene attento a non farsi inondare in quanto vulnerabile, Bartok lasciò che tutti i nemici venissero bagnati e si sciogliessero, per poi non rialzarsi più. Metà del lavoro era fatto, mancava solo da uccidere il loro sovrano. Inscenarono una battaglia sul luogo, costruendo un campo di forza per isolarsi dal resto degli abitanti di Glifferia e non essere visti. Tentacoli, raggi di luce, frasi magiche arcane, cerchi di fuoco, acqua santa, frecce di uranio, croci argentee, incantesimi futuri, sostanze tossiche, psiche, controlli mentali, oggetti levitanti e chi più ne ha più ne metta. Di tutto venne fuori in quella interminabile battaglia, che non durò nemmeno un secondo perché il campo di forza bloccava anche il tempo. L’ultimo devastante attacco di Bartok però lo distrusse, facendoli ritornare nel modo reale. A quel punto Roger con un pugno squarcia terra, creò una fessura nel terreno facendoci cadere dentro Bartok. Dentro il canyon trovò una spada d’argento intrisa di concentrato di mais, in grado di stecchire anche il più potente degli stregoni. Con un salto tornò in superficie e la conficcò nel cuore di Roger che morì all’ istante. La spada venne conservata come trofeo, il buco anche, a Glifferia regnò sempre la pace e Bartok rimase un eroe, con il suo segreto. Tutti vissero felici e contenti e la malvagia stirpe dei Pifferson finì. Brentan E.,Ferrara F., Selvaggio G., Zagolin T. L’agente Spinelli Sono l’Agente Segreto Spinelli di cognome, Ariccia di nome. Lo so, non occorre che me lo ricordiate, il mio nome sembra tutto un programma da ridere: Spinelli… non certo mi drogo, anzi combatto lo spaccio oltre che lo spazio! Ariccia… paese dove si produce la migliore porchetta toscana della Terra… odio gli affettati e fisicamente sono un’acciuga! Eppure mi chiamo così. Nata sulla terra, abito su Marte da due vite. Mi è sempre piaciuto curiosare in giro per lo spazio e adesso mi ritrovo a fare l’agente segreto per una società ONLUS dell’Universo. Missione: salvare tutti i pianeti dai qualsiasi pericolo… proprio impossible!! Sono stata chiamata d’ urgenza stamattina dal grande capo: la Terra è in allerta… un Troll la sta distruggendo. Nessuna notizia in più. Difficile prepararsi ad una missione quando non si sa chi e che cosa si deve affrontare. Proprio per questo motivo il capo ha scelto me: non ho paura di nulla e ho un cervello che genera fantasia e idee per ogni evenienza, senza stancarsi mai. Mi preparo: nel mio razzetto spider, rosso ovvio, metto un po’ di tutto quello che mi potrà servire: tonno, compatto, energetico e digeribile… si fa per dire infradito per Sottomarina, moon-boots per Asiago un casco che va bene per ogni occasione: lavoro in altezza, skate-board, moto, bici, rally… anche se là mi pare non lo metta mai nessuno navigatore con mappa aggiornata sui limiti di velocità… la patente non vorrei me la ritirassero beh… vestiti posso portare un po’ di tutto: là sei sempre alla moda! Armi? No. Non mi conoscete bene: io combatto con l’astuzia, con la simpatia e con l’amore. Insomma: pronta per partire. Giro attorno alla Terra per scegliere dove atterrare, vicino al luogo del disastro fatto da Troll. Ecco: scendo qui. Che posto fantastico dall’alto: un insieme di strisce azzurre, verdi e marroni che si mescolano tra loro e sembra giochino a fare ricci, lingue, ricami, ma poi finiscono per tacere in un mare calmo e piatto… è la laguna veneziana. Tante luci sulla riva che animano quella quiete. Quando torno in laguna ho nostalgia della mia terra natale. Ma non ho tempo da perdere. Troll deve essere fermato. Mi hanno detto che è in queste zone, ma non vedo tracce di lui. Devo chiedere alla gente del luogo. Mi ricordo che a Sottomarina c’è la super pasticceria Nordio: è il ritrovo di tutto il paese. Mi fiondo. “Un cappuccino e una briosche con la crema di latte (non vi ho detto che proprio queste pastine sono la specialità qui!!)” ordino. Dicono che “il mattino ha l’oro in bocca”, ma io aggiungo anche che “a pancia piena si ragiona meglio!” Finchè aspetto, chiedo ad un pescatore se sa qualcosa di questo essere strano che sta combinando malefatte in giro. Toni, pescatore di 60 anni, ma con il viso che pare di 90 anni segnato da 1000 rughe scavate dal vento del mare, tace. Mi fissa negli occhi misteriosamente, mi si avvicina e con una voce rauca dal fumo di 80 sigarette al giorno mi dice: “Attenta, non sai a che cosa vai incontro”. 1 Ho capito: lui sa tutto, lui sarà la mia guida, devo solo convincerlo che io sono la sola, unica salvatrice. Penso a cosa gli potrei dire. Trovato: gli dico la verità. Mi riavvicino a lui e gli chiedo di uscire dal locale, ma lui si è addormentato: sveglio tutta la notte, adesso pare inanimato su quella sedia del bar, con la testa sul tavolino, davanti a un caffè corretto doppia grappa… chi lo sveglia?! Sono disperata. Il capo da Marte mi chiama e mi dice che la situazione qui intorno sta degenerando e che arrivano 1000 richieste di aiuto. Ma da sola non ce la posso fare. Tento di svegliare Toni: lo scuoto, lo strattono, gli calcio la sedia, gli urlo nelle orecchie, lo pizzico… niente… è in catalessi. Idea: gli faccio vedere una banconota da 500€, in silenzio gliela sventolo e strofino sotto il naso… come per incanto Toni alza il volto, apre un occhio poi l’altro, biascica qualcosa che sa di alcool e di tabacco e alla fine mi dice: “Vieni con me”. Si parte per la nuova missione!! Toni mi fa salire sulla sua moto-ape azzurra arrugginita che fuma da tutte le parti e ci dirigiamo al porto. Dopo aver evitato qualche scontro frontale e qualche strisciata laterale, parcheggiamo davanti alla porto di Chioggia. Mi indica un’isola di fronte e senza parlare mi fa capire che Troll è là. Là dobbiamo andare col suo peschereccio. E’ ancora buio in cielo, l’alba oggi stenta a sorgere. C’è freddo e il mare si è agitato. Onde altissime sbattono sui fianchi di questa barca di legno, che va avanti a stento. Speriamo che Toni abbia messo il carburante a sufficienza per andare e tornare, penso tra me. Le ondulazioni eccessive mi fanno stare male… sento il cappuccino e la briosche salire e scendere lungo l’esofago. Ecco arrivati. Buio pesto qui. L’isola è deserta: i pochi alberi atterrati e sradicati, le capanne sulla spiaggia divelte. Per le strade i panni stesi ai fili ad asciugare sono stati tutti strappati e abbandonati sul ciottolato. Non c’è un lampione acceso. Non c’è un essere umano per le strade. Tracce di sangue e pare di resti umani, anche se poco riconoscibili perché tutto in poltiglia, mi fanno capire che Troll è carnivoro… forse qualche arma serviva stavolta! Guardo Toni, come per trovare in lui una risposta al modo in cui catturare e annientare Troll. Toni, con la sua flemma da marinaio, tira fuori una sacca piena di funi. Intuisco che lo si potrebbe catturare legandolo. Un’ombra immensa ci sovrasta e fa diventare la strada ancora più scura. E’ lui: Troll è dietro di noi! Allungo una mano verso il braccio di Toni e lo stringo stretto: “Dobbiamo coordinarci bene: io faccio da esca e tu lo leghi” gli sussurro. Lui non parla, ma annuisce alzando il mento. Io mi metto a correre verso una piazza larga lontano dalle viuzze e dalla sabbia. Troll mi rincorre grosso, goffo, con occhi verde acido, lingua di fuoco, artigli lunghi e affilatissimi. La sua corsa fa scuotere la terra lagunare sotto i miei piedi e io avanzo arrancando oramai sfinita e alternando la corsa al passo e a qualche salto… stanchissima mi pare di fallire la missione questa volta e anche di perdere la vita… Troll mi inghiottirà con le sue fauci… STOP! NON DEVO PIU’ CORRERE. La terra non rimbalza più. Un filo di rosa all’orizzonte a pelo d’acqua si vede. Una folata di vento fortissima come un uragano mi fa roteare sul posto: Troll non muove più la terra perché legato dalle corde da pesca di Toni, ma si dimena in modo orribile per tentare di liberarsi e crea nell’aria 1000 mulinelli che accecano perché sollevano la sabbia. 2 Ed ecco che con un movimento brusco le funi si spezzano. Sono nel panico, non so più cosa fare… il Troll mi insegue. Ad un tratto compare dal nulla un balestra con delle frecce incantate, la acchiappo e ne scocco una nel torace del mostro che cade di faccia nell’ acqua ormai invasa dal suo sangue. Ce l’abbiamo fatta: abbiamo annientato con grande maestria Troll. Adesso è immobile, sfinito, ogni parte del suo corpo è incarcerata da un filo di spago, fatica anche a respirare. Io e Toni lo rotoliamo verso la banchina, dove la barca è ferma. Troll è inanime. Lo carichiamo sulla barca che ha un momento di sbandamento per l’eccessivo peso del mostro. Io e Toni abbiamo un’intesa perfetta: pensiamo entrambi che Troll finirà in mare. Infatti lui è mostro del centro della Terra e non è in grado di nuotare: morirà annegato. Prendiamo il largo con molta fatica… il peso adesso è davvero eccessivo per quella barchetta di legno con un piccolo motore che la spinge, che fa più fumo e schiuma che strada. Siamo al largo della laguna, ora tornata piatta. Il cielo è azzurro chiaro, il sole è salito appena e riscalda la brezza di questa bella giornata. Toni ferma il motore e mi fa cenno di aiutarlo per scaricare il mostro in acqua. Mi affianco a lui, assieme lo issiamo sul bordo della barca e lo lasciamo scivolare via in mezzo a quell’acqua che pian piano lo inghiotte e lo fa sparire. La tragedia è finita. Mi preparo per risalire sul razzo. Che nostalgia però il mare… che nostalgia della sua gente… magari la terza vita la passerò ancora qui! Marin E., Benedetti T., Tommasi G., Costa F. 3 La gara di magia Ogni anno nelle alte montagne innevate del “ Ghiaccio perenne “ si svolge la consueta gara di magia tra le tre città-stato: Arville, Cristalz e Snowland. Il premio consiste nel ricevere il diritto di governare le città avversarie e si ottiene superando tre dure sfide. Vi partecipano tre ragazzi forti e coraggiosi che cercheranno in ogni modo e con ogni mezzo di difendere l’onore della propria città . La notte iniziava a calare e gli abitanti delle tre città erano già immersi in un sonno profondo… Tutti tranne una ragazza, colei che il giorno seguente avrebbe onorato il suo paese. Tutto taceva e lei, in preda all’agitazione, cercava di scacciare i pensieri che le affioravano in testa, pensieri che sarebbe stato meglio fossero stati dimenticati per sempre… Ad un tratto uno fra quelli più tristi si fece spazio nella sua mente: il ricordo di sua madre che la cullava dolcemente cantandole una dolce e lenta cantilena. Lei era morta cercando di difendere la sua città durante la gara e la bambina aveva visto ogni cosa con i suoi piccoli occhi azzurri: non dimenticò mai il mostro che aveva ucciso sua madre. A quel pensiero la ragazza sobbalzò dal letto e prese a respirare affannosamente. Non vedeva nulla intorno a sè, gli occhi erano stanchi e poco abituati al buio, si alzò in piedi ed andò verso un secchio d’acqua per bagnarsi il viso. Era bellissima, ma non altissima, i capelli bianchi raccolti in una coda di cavallo ora scompigliata, era esile all’apparenza, ma tutti dicevano che era una grande guerriera pronta a tutto pur di vincere la gara del giorno seguente. Dopo aver osservato il suo riflesso nell’acqua per qualche istante, si costrinse a tornare a dormire, doveva riposarsi per l’indomani, avrebbe ricevuto l’acclamazione di tutta la città solo se avesse vinto e quello era il suo obbiettivo primario. La notte passò veloce e Kim (questo era il nome della ragazza) dopo il terribile incubo della sera prima, era riuscita a dormire profondamente senza essere svegliata da nulla, era carica, sorridente e piena di voglia di vincere. Uscì dalla tenda nella quale dormiva e andò dal padre per salutarlo e per farsi augurare buona fortuna. Si sorprese di trovarlo ancora addormentato, così gli diede un dolce bacio sulla fronte e si avviò verso il campo di combattimento. Era molto presto, all’incirca le 5:00 del mattino, per le strade si trovavano solo pochi venditori svegliatisi presto per esporre la merce durante la fiera su dei tavoli addobbati con tovaglie di ogni colore. C’erano anche delle anziane fate che donavano infusi porta fortuna, altre invece leggevano la mano e prevedevano il futuro, che si avverava sempre, tutti ammiravano la loro saggezza, la loro dolcezza e la loro bellezza, si diceva non invecchiassero mai perché ogni loro atteggiamento restava uguale a quando avevano vent’anni. Ora ne avevano centoventi ed erano ancora fresche e sorridenti. Kim passò oltre, lei cercava un’altra persona, il suo mentore, si sarebbero dovuti incontrare a pochi metri dal campo di battaglia per provare ancora le ultime magie imparate dalla giovane ragazza. Lei era molto legata a lui ed appena lo vide gli corse incontro felice di vederlo. Lui la abbracciò forte, la fece entrare nel campo ,perché gli altri ragazzi sarebbero arrivati a momenti. Kim aveva già sentito parlare di loro, si diceva che, anche se molto giovani, fossero i migliori maghi delle rispettive città, ma lei non era spaventata da questo, sapeva di avere un asso nella manica, una magia complicatissima che le era stata insegnata dalla madre quando lei era ancora in tenera età. A Kim piacevano quelle rime che davano inizio alla magia perciò involontariamente le imparò a memoria e non le scordò più. Era una magia molto difficile da domare, perciò aveva dovuto chiedere aiuto al suo maestro. Egli pur sapendo che ancora non era ben controllata dalla ragazza, le aveva dato il permesso di utilizzarla in casi di estremo bisogno: se fosse stata in difficoltà durante la battaglia quella sarebbe stata l’unica magia in grado di salvarla, ne era convinto. Passarono all’incirca due ore quando la guardia della città avvisò dell’arrivo del primo popolo. A guidare gli abitanti c’era un enorme carro trainato da cavalli bianchi, occupato da un ragazzo dai capelli castani e dagl’occhi verdi tendenti all’azzurro: era molto alto, aveva un mantello di colore blu scuro che cadeva dalle spalle fino a creare uno strascico a terra e portava dei guanti; Kim si chiese il perché visto che la magia veniva emanata solitamente dalle mani o da una bacchetta di legno di salice piangente del regno fatato del nord, così lo domandò al suo mentore. La risposta fu chiara e semplice, quel ragazzo si chiamava Kevin e non era in grado di controllare la sua magia, perciò prima di combattere doveva tenere dei guanti in modo da trattenerla almeno per tre o quattro ore all’interno di se stesso, per poi sfogarla in un combattimento. Bisognava stare molto attenti perchè avrebbe potuto farle del male. Lei non fece in tempo a giudicarlo che subito suonò la tromba, stavano arrivando gli ultimi ospiti, un altro ragazzo era in sella ad un cavallo e stava andando verso Kim con un sorriso smagliante. Sembrava tranquillo e questo incuriosì Kim. Il ragazzo scese da cavallo, era poco più alto di lei, aveva la pelle abbronzata e il corpo muscoloso, era vestito normalmente, non aveva mantelli, ma come Kim aveva notato, era affascinante e sicuro di sé. Si chiamava Samuel, entrambi si avvicinarono alla ragazza con passo maestoso di chi non ha paura di niente e di nessuno.Il maestro si allontanò per fare conoscenza con i re delle città, re Adolf e re Francis. Nel frattempo si era avviato verso di loro anche quello della città di Kim, re Edward. I duellanti si erano avvicinati all’ avversaria e avevano iniziato a parlarci. Subito Samuel, gentiluomo com’era, fece complimenti alla sua sfidante, paragonò i suoi occhi ad un profumato infuso di lavanda decorato con delle orchidee con qualche spruzzo di rosa posate sopra il mare in tempesta. Invece Kevin lo guardava schifato e divertito al tempo stesso. Anche Kim non era molto convinta che Samuel sapesse cosa stesse dicendo e a volte guardava Kevin in cerca di uno sguardo di compiacimento. Dopo aver fatto conoscenza, i ragazzi entrarono in campo che era di forma rettangolare e si sedettero ognuno su una sedia posta ai lati. Venne comunicato l’inizio della gara. Ogni re presentò il ragazzo che rappresentava la squadra, lo descrisse fisicamente e poi illustrò l’elemento che avrebbe domato durante la sfida. Sarebbero stati domati: il fuoco da Kevin, l’acqua da Samuel e la terra da Kim. Il primo ad iniziare fu Samuel, la prova consisteva nell’annientare tre mostri, se non si sentiva all’altezza si poteva rifiutare di sfidarli. I mostri venivano creati dai quattro giudici che infine avrebbero eletto il miglior mago. Il popolo a cui apparteneva sarebbe stato ceduto il governo delle altre città-stato. Il mostro di Samuel venne creato da Alissia, giudice dell’acqua, ed era un piccolo granchio. Il compito del ragazzo era quello di riuscire a fermarlo prima che arrivasse a toccare la linea di fine campo. A Kim e Kevin sarebbe toccato il compito di proteggere il piccolo granchietto durante la sua corsa. Samuel accettò ed i giochi cominciarono. I due avversari pensarono ad una strategia che riuscisse a farli vincere: avrebbero creato uno scudo di fuoco attorno al granchietto, che anche se molto semplice da distruggere gli avrebbe garantito salvezza per circa metà percorso. Per la seconda metà avrebbero creato uno scivolo di ghiaccio, in questo modo il piccolo esserino avrebbe preso velocità e come protezione gli avrebbero posizionato dietro un grande muro di terra. Samuel avrebbe perso abbastanza tempo così da garantire la salvezza all’animaletto. Dopo le ultime raccomandazioni il gioco ebbe inizio. Il ragazzo prima di tutto creò delle dune sul percorso in modo da rallentare il granchio e quindi, iniziò ad attaccarlo con bombe di terra, che si distruggevano a contatto con il fuoco. Nella seconda parte, vedendo gli scivoli d’acqua, Samuel sparò un’ ondata di fuoco che sciolse lievemente il ghiaccio, ma non abbastanza, così continuò per altre tre volte. Oltre al ghiaccio che lentamente lasciava spazio alla terra, il calore iniziò a sciogliere anche il povero granchietto che in preda al panico correva veloce come non mai. Quando tutti credevano che sarebbe arrivato al traguardo, Samuel ebbe un idea: sollevò il terreno con un potente incantesimo e lo buttò addosso al povero esserino che, essendo composto d’acqua, venne assorbito dalla grande massa di terreno che lo aveva travolto: aveva vinto la prima prova e non facilmente. Sorrise, era felice, poteva continuare, dentro si sentiva la forza di un leone, così Alissia si alzò dalla sedia da giudice si congratulò con Samuel e fatto ciò creò il secondo mostro. Appena Samuel lo vide, restò a bocca spalancata, non era possibile, davanti a lui Alissia aveva creato un suo clone completamente identico, interamente fatto d’acqua. Il ragazzo era paralizzato, con un filo di voce chiese in cosa consistesse la prova. La donna rispose serenamente: “Dovrai combatterci contro, se vorrai difendere tre città-stato insieme al tuo re, dovrai saper affrontare un pericolo maggiore di un povero animale indifeso”. Detto ciò lasciò il campo si avviò verso la sua postazione e diede il via allo scontro. Il giovane era spaventato, non sapeva come comportarsi, aveva già visto una magia simile e sapeva che il suo clone avrebbe eseguito a specchio ogni suo movimento. Cosa avrebbe potuto fare? In pochi avevano famigliarità con cose del genere, ad esempio Kim, avrebbe saputo come fare. Lei conosceva quella magia perché il suo istruttore, quando era arrivato il momento di scegliere l’elemento da sfidare, le aveva spiegato come vincere un incontro del genere. Samuel cercò di restare calmo, era difficile, ma proprio quando stava per arrendersi gli venne in mente la magia più semplice esistente, quella dell’invisibilità e la utilizzò. Il clone non fece in tempo a comprendere e Samuel lo colpì al cuore con uno strano amuleto, cadde a terra delirante e si dissolse nel terreno. Samuel aveva vinto. Si sedette sulla sedia, la pressione lo distruggeva, aveva mal di testa, mal di stomaco e sentiva gli arti quasi anestetizzati, respirava affannosamente e riusciva a stento a stare in piedi, per poco non sveniva. Decise che si doveva fermare, quindi lasciò posto agli altri e si ritirò dalla competizione. Toccava a Kevin, ma prima d' iniziare Astral, il giudice del fuoco, diede un insolito avviso: alla gara avrebbero partecipato i rimanenti due duellanti che si scambiarono uno sguardo impaurito, ma soddisfatto, perché avrebbero potuto dimostrare di saper combattere contro un nemico al proprio livello. I giudici spiegarono come si sarebbe svolta la sfida, ogni ragazzo avrebbe creato con la propria magia un mostro per poi farlo sfidare con quello dell’avversario. Entrambi i ragazzi restarono impietriti. Erano abbastanza abili nella creazione di mostri, ma essi di solito erano di piccole dimensioni e non adatti ad una battaglia. Inoltre nè i mostri di fuoco nè quelli di terra erano semplici da armare. Nessuno dei due, però, voleva mollare la sfida, anzi, si strinsero la mano e si abbracciarono, augurandosi buona fortuna. Dopo si posizionarono ai lati, tirarono fuori la bacchetta, alcuni infusi ed erbe che gli era stato chiesto di portare. Era stato posizionato inoltre un piccolo calderone in cui solitamente si preparavano piccole armature per il proprio mostro. Il grande giudice Drak diede il via ed i due giovani per più di tre ore stettero con la testa chinata su libri, infusi, erbe, calderoni, bacchette e strani ingredienti ben poco invitanti. Una volta finito il tempo, un giudice si alzò e proclamò la fine della preparazione dei mostri, chiese ai duellanti di alzarsi in piedi. Kim in mano aveva delle minuscole sfere di quattro colori, con sopra dipinti in piccolo i quattro elementi: fuoco, terra, acqua ed aria. Kevin invece aveva due lunghe strisce di stoffa arrotolate e le stringeva nelle mani. Gli sfidanti contarono ad alta voce fino al tre e quindi lanciarono in aria ciò che avevano in mano. Appena gli oggetti caddero a terra, si aprirono (le strisce si srotolarono) e da essi uscì una fitta nebbia, rossa e gialla da Kevin, verde e marrone da Kim. Dopo poco la nebbia si solidificò in strane forme che lentamente si unirono l’una con l’altra fino a formare due immensi mostri, alti fino a quattro metri, entrambi robusti. Quello di Kim sembrava un grosso albero ricoperto da muschio verde con degli strani funghi sulle radici e fiori di colori scuri come blu notte, viola e nero. Quello di Kevin era molto più colorato, sembrava un gigante interamente ricoperto di fuoco, lo scheletro in realtà sembrava di legno, ma nessuno ci badò. Al via dei giudici, i due mostri si sarebbero scontrati e quello che sarebbe andato distrutto per primo, avrebbe patito le pene della sconfitta. Ed ecco senza farsi attendere un attimo di più, arrivò l’atteso via. Partì Kim, il mostro saltò addosso all’altro e mise un tappo di muschio in un punto preciso. Il mostro infuocato cominciò a starnutire fortemente e senza capire il perché. Appena si riprese, anche quello di Kevin attaccò, sparò grandi soffi infuocati verso l’albero, che restò lievemente ferito, ma subito tornò all’attacco, dai fiori e dai piccoli funghi uscì del veleno che finì addosso al fuoco e lo spense, lasciando un segno indelebile. Allora il mostro di Kevin attaccò con tutte le forze che aveva e quello di Kim sprofondò sempre più. La ragazza aveva paura, non voleva che finisse così, non poteva finire così per lei! Raccolse tutte le forze che aveva in corpo e gridò forte: “ PER TE MAMMA!!!”. Subito pronunciò una formula incomprensibile ed iniziò a brillare di una luce azzurra. Lentamente salì verso il cielo e più lei andava su più il mostro si riprendeva. Arrivata all’altezza della sua creatura, un raggio di sole le attraversò il cuore, Kim cadde a terra sfinita, Kevin andò da lei cercando di svegliarla, la ragazza aprì gli occhi debolmente e con tutto il fiato che le rimaneva in corpo disse : “ Continua la battaglia, il mio albero sa cosa deve fare…”. Kevin la guardava e si chiedeva perché quella ragazza ormai esausta gli chiedesse di continuare la lotta, ma dopo poco smise di pensare e iniziò ad agire, prese il controllo del suo essere e comunicò a tutti che lo scontro sarebbe continuato.Non fece lui la prima mossa perché le creature già duellavano, entrambi sparavano dalla bocca un flusso di fuoco ( mostro di Kevin ) ed uno di acqua, linfa e sali (mostro di Kim). Ad un tratto ci fu uno scoppio e poi un forte flash di luce bianca. Una volta riabituati alla tenue luce, gli abitanti videro che il campo era diventato un immenso cratere, i due mostri a terra, Kevin e Kim abbracciati davanti a tutto ciò.La gara li aveva uniti e fatti innamorare. Il re Astral rivelò a tutti i presenti la profezia: sarebbero arrivati due giovani coraggiosi e altruisti che avrebbero uniti i regni facendoli prosperare. Fu così che la città di re Adolf e quella di re Edward divennero un unico regno governato da Kim e Kevin. Questo regno passò alla storia come simbolo di pace e amore. Buischio A., Ferrara A., Raji I., Ranzato N., Romagnosi S. LA LOTTA TRA IL BENE E IL MALE C'era una volta il grande re Martin, detto Supremo perché era bello e potente. Era alto, robusto, con i capelli biondi e gli occhi azzurri come il turchese, pieni di sicurezza e di coraggio. La sua sposa sembrava una fata e presto gli avrebbe dato un figlio. Un giorno d' inverno, alle orecchie del popolo, giunse una bellissima notizia: il piccolo principe tanto aspettato, nacque e gli fu dato nome Harold, come il nonno morto pochi anni prima a causa di un avvelenamento. Harold crebbe forte circondato da ogni comodità e accontentato da ogni sua richiesta. A causa della sua sete di potere e dellla sua prepotenza, decise di allearsi con i corvi, che rappresentavano la malvagità . Prese i sui vestiti, li butto nel camino, e se ne fece comprare di più eleganti e vistosi. Il re, avendo intuito le intenzioni del figlio, decise di comprargli dei vestiti più trasandati. Il ragazzo non sopportava ciò che il padre gli aveva fatto e giurò vendetta. Alcuni giorni dopo, esattamente il giorno del compleanno del principe Harold, il re Martin si sentì male, il suo cibo era stato avvelenato. Dopo un po il re morì e il figlio di 16 anni salì al trono. Tutto il regno fu colpito da una grande crisi e tutti pensarono che la morte del re fosse stata causata dal figlio perché, come tutto il popolo sapeva, gli aveva giurato vendetta. I sudditi si rivoltarono contro di lui e fu costretto a scappare. Nella foresta confinante incontrò un mago con due lunghi baffi neri e con la barba che gli arrivava fino ai piedi, e gli disse:” Se vuoi riuscire a sconfiggere il tuo popolo, che è dalla parte del bene, seguimi, ti condurrò dal grande capo, il quale ti darà dei poteri, che se saprai usare ti aiuteranno. Se li utilizzerai in modo sbagliato il tuo cervello sarà mangiato da scarafaggi, dalla tua bocca usciranno cavallette, la tua carne si scioglierà e le tue ossa si polverizzeranno”. Il ragazzo decise di seguire il mago, perché voleva riprendersi il regno che reputava suo per diritto dinastico. Giunti davanti alla tenda del grande capo, prima di entrare il mago gli richiese se fosse davvero sicuro di attaccare il suo popolo . Il ragazzo ci rifletté un attimo e disse che voleva quei poteri per combattere il bene e anche sua madre che era la protettrice del potere. Il mago lo condusse dal grande capo e Harold gli disse: “Mi servono i tuoi poteri per combattere il bene e mia madre che mi vuole negare il trono”. Questo sentendo la risposta di Harold incominciò il suo rito: “Tu male potente, che hai invaso il mio corpo da giovane, dà a questo ragazzo la forza per combattere il bene e un giorno governare il popolo del male”. Il mago decise di allenare Harold ad usare i poteri come: la palla di fuoco, il tornado di pietre, la spada invoca fulmini e altri incantesimi. Un mese dopo il grande capo, vedendo i progressi fatti da Harold, decise di sottoporlo a quattro prove. La prima consisteva nell'affrontare il golem di ghiaccio alto 5 metri, con gli occhi a forma di stalattite, impugnando un forcone a sette punte di ghiaccio. Harold scagliò una palla di fuoco, ma non lo scalfì. Allora lanciò 5 palle di seguito che arrivarono da tutti i lati e il golem esplose. Nella prova seguente c'era un fiume di lava color rosso sangue derivato dalla malvagità della gente che lo rendeva tossico. Harold lanciò un tornado per aprire un varco nel fiume, ma non funzionò. Allora lanciò tanti tornadi, lui salì su uno, volò in aria, saltò e passò il fiume. La penultima prova era l'orco d'acciaio largo 8 metri, alto 15 metri, che impugnava una spada forgiata con palladio di origine extraterrestre. Harold decise di ricorrere ad una spada invoca fulmini e una raffica finì addosso all'orco, ma sembrava non fare effetto. Allora escogitò un piano: si fece mangiare dal mostro e usò la spada dentro di lui. Lampi e saette uscirono dall'orco e lui esplose. L'ultima prova era quella di uccidere un essere mutante che prendeva le forme delle creature delle prove precedenti, inoltre poteva usare le loro armi. Harold era allo stremo delle forze e non sapeva cosa fare, così provò un pericoloso incantesimo: combinare tutti i suoi poteri in un'unica arma di distruzione. Si concentrò al massimo per incanalare tutti i suoi poteri in uno solo, lo sferrò contro il mostro e quello si sciolse come se fosse stato burro al sole. Finalmente aveva superato tutte le prove e così si avviò al villaggio con l'intento di distruggerlo. Quando fu alle porte del paese, però si fermò: davanti a lui un ladro stava derubando una gracile vecchietta che implorava aiuto. Qualcosa in lui cambiò, vedendo quella scena capì che stava per fare del male a degli innocenti e che si doveva fermare per aiutare quella signora indifesa. Così andò dal ladro, lo colpì con i suoi poteri e salvò la vecchietta. Lei lo ringraziò e se ne andò. Harold decise che ora doveva sconfiggere il male, ovvero il grande capo. Corse nel bosco alla ricerca del grande capo, ma non lo trovò. Si diresse verso la tenda e capì che lo stava aspettando. Lui era là, pronto per attaccarlo, ma non lo fece. Perciò Harold lo attaccò per primo e l'altro lo schivò. Poi i colpi continuarono. “Il capo è troppo forte” pensò “mi serve un nuovo attacco”. Così si ricordò dell'incantesimo usato per il mutante nell'ultima prova: il grande capo non sapeva che lui potesse usare quell'incantesimo così potente. Stava per prepararsi quando gli venne in mente di aggiungere anche l'unica magia buona che ricordava e la scagliò contro il grande capo che non se l'aspettava e fu sopraffatto. La vittoria era di Harold. Lui gioì ed esultò per qualche minuto, successivamente si avviò verso la sua vecchia casa. Era come la ricordava da piccolo e sapeva perfettamente dove trovare la madre, in salotto. Quando giunse davanti alla porta, fece un sospiro e la varcò. Sua madre era sul divano intenta a cucire, ma sentiva la presenza del figlio in quella stanza, lui fece un passo avanti e disse: “Madre, mi dispiace di essermi allontanato dal bene per seguire il male, ora sono cambiato e vorrei cominciare una nuova vita con i tuoi consigli”. La madre si girò e disse: “Sono molto felice di avere di nuovo mio figlio con me” e lo abbracciò. Harold fu molto contento e la madre gli disse che lui non era il suo unico figlio: aveva infatti un fratello di 10 anni che aspettava pure lui il suo ritorno. Harold conobbe finalmente il fratello ed insieme regnarono in pace per moltissimi anni. Carraretto A.R.,Perdon A.,Radu A., Stramazzo M. LA LUCE ETERNA Edmond, era un ragazzo di 9 anni, capelli biondi, occhi azzurri… era il principe ereditario di Aynder. Abitava insieme a sua sorella minore Stella, a suo Padre ed alla sua nuova moglie, che però nascondeva un segreto… Era una notte buia e tempestosa, quando Era, la nuova moglie, fece entrare il suo esercito dentro il castello e pietrificò suo marito, il padre di Edmond e Stella. I soldati assediarono il castello e cacciarono via i due fratelli. 8 anni dopo… Aynder, da bellissima e ricchissima, si impoverì… Intanto, Edmond e Stella trovarono un posto dove stare e soprattutto degli amici: tutti loro volevano riportare Aynder al suo antico splendore e far tornare Edmond e Stella, ormai cresciuti, al potere. Facile a dirsi, ma ancora non sapete che Aynder era un regno magico, con tantissimi incantesimi favolosi e incredibili. Ma Edmond non aveva scelta… facendo ricerche scoprì che l’ unico modo per sconfiggere Era era trovare la luce eterna, situata solo e soltanto in una grotta, piena di tranelli. Dopodiché dovevano entrare nel castello, superare le guardie e sconfiggere la “regina”. Presentazioni: -Edmond era un ragazzo sincero,allegro, intrepido e coraggioso, sempre pronto ad affrontare ogni tipo di pericolo. Aveva la pelle chiara, gli occhi azzurri e i capelli di color biondo dorato, con delle sfumature. -Stella era l’opposto del fratello: aveva un carattere più timido e riservato, era esile e mingherlina, aveva i capelli di color nero intenso, mossi e lunghi. aveva gli occhi verdi e a mandorla. I due ragazzi avevano due amici: Isabella e Ferdinando. Tutti insieme erano una squadra imbattibile … Comunque, avevano già deciso tutto: il giorno dopo sarebbero entrati nella grotta. Arrivata mattina, i quattro partirono alla ricerca della Luce eterna. Attraversarono mari e monti e dopo lunghe ed estenuanti ore di cammino trovarono, in cima ad una collina, la famigerata grotta. Entrarono: l’oscurità rendeva tutto più infido e difficile. I ragazzi videro uno strano oggetto, era una bussola, l’ aprirono e ……………… buio totale! Erano in un labirinto, che guarda caso portava al castello, ma qual’ era la strada giusta? I quatto, allora decisero di dividersi, per facilitarsi ed avere più possibilità di trovare la Luce Eterna e poi di raggiungere il palazzo. Edmond andò a destra, Stella a sinistra e Isabella e Ferdinando al centro. Le vie erano oscure e spaventose, ma per fortuna portavano tutte alla stessa cosa: La Luce Eterna… La trovarono: era appoggiata su un ripiano tutto d’ oro, con un cartello con su scritto: Per entrare in possesso della Luce Eterna un indovinello bisogna risolvere: qual è l’ unico strumento musicale che non si può nè vedere, nè toccare, ma tutti lo possono sentire? Una volta risposto a questo indovinello solo un re senza corona potrà prendere la Luce eterna… buona fortuna…. I ragazzi pensarono e ripensarono, ma non sapevano la risposta all’ indovinello e poi comunque nessuno sapeva chi potesse essere un re senza corona ma….. CLIC! A Stella venne in mente la prima risposta, e la disse ai suoi Amici:- Ragazzi, ho la soluzione! La risposta è “la voce!”: non si può nè vedere nè toccare, ma tutti possono sentirla!!- disse. I ragazzi fecero un applauso rumorosissimo, congratulandosi con lei. Okay, okay, ma non sapevano ancora chi poteva essere “un re senza corona”!! A meno che… Edmond si avvicinò alla luce e la prese in mano; gli amici urlarono – NOOOOO!!!!!!!!!!! Edmond, tu sei solo un principe!!!!!- Edmond non gli diede retta, afferrò con fermezza la Luce Eterna e la estrasse dal ripiano…. Ce l’ aveva fatta!!!!!! Edmond spiegò agli amici perché non fosse successo niente:- Ora che mio padre è pietrificato- disse – sono io il nuovo re, ma non ho ancora la mia corona…- aveva ragione. Ad un tratto si sentì una voce come un sussurro: - Bravi vostre maestà, siete molto intelligenti Edmond e Stella, e voi Isabella e Ferdinando siete molto coraggiosi ad affrontare questa pericolosa impresa! Ragazzi vi voglio dare una mano, tenete questi due oggetti: il primo è un tele-trasportatore, vi porterà senza problema nella camera da letto della regina; il secondo oggetto è un cerchio magico, vi servirà per proteggervi dall’ eventuale attacco della regina. Per tornare usate sempre il tele- trasportatore. Buona fortuna. Fecero come la voce aveva detto loro; usarono il trasportatore, si ritrovarono nella camera della regina. Per prima cosa fecero comparire il cerchio magico, così erano protetti; estrassero poi la Luce Eterna, la scagliarono contro la regina, che provò a contrattaccare, ma i ragazzi erano protetti dal cerchio magico, ed Era, dopo 10 secondi, morì. Avevano vinto, Aynder aveva vinto!!!! Il regno era di nuovo di Edmond e Stella, che lo riportarono al suo antico splendore e liberarono il padre dalla maledizione!! Il regno era grandissimo, perciò ne donarono un po’ ad Isabella ed a Ferdinando, che li avevano aiutati a sconfiggere Era. Ferdinando ed Isabella, chiamarono “Spagna” il nuovo territorio e Edmond diventò un saggio governante esattamente come Stella. Aynder ormai era al sicuro, e lo sarebbe stata per sempre… Durello A., Bulgarelli E., Fejzo S., Dan S.L., Vianello F. Antefatto Era tempo di festeggiamenti nel regno di Follemandia. Le strade erano gremite di gente, quasi a intasare le viuzze medievali. Il re Foll radunò la folla nella grande piazza principale e cominciò a leggere il suo discorso. “Sapete cari concittadini, approfitto di questo giorno di festa per farvi questo annuncio: ogni mille anni gli astri si allineano per formare una sequenza che cambia le sorti del nostro regno… Entro la fine dell’ anno nascerà il Bambino Gemma che sarà la nostra salvezza. State molto attenti e contate i giorni.” Il sovrano finì di proclamare il discorso e in breve tempo la folla si diramò, ma non si allontanò di molto, perché stavano commentando preoccupati il discorso. QUINDICI ANNI DOPO... Era il 23 dicembre, Plat stava camminando per la città. Ormai era tardi, doveva ritornare a casa altrimenti sarebbe stato sgridato. Girò l’angolo e si diresse alla sua magione, ma sentì come un ostacolo invisibile. L’aria attorno a lui iniziò a farsi pesante, stava cominciando a perdere i sensi…e così fu. Faceva freddo. Plat si risvegliò: “Di sicuro” pensò “non sono più nella mia città”. Una voce inquietante disse: “Per uscire da questo labirinto dovrai superare 3 prove.” Iniziò a pensare: perché mi hanno rapito? Cominciarono a sorgergli in testa molte domande: perché sono qui? Chi è costui? Cosa mi succederà… Plat non si perse d’animo e pensò: “La voce ha detto che sono in un labirinto, dovrò pensare ad un modo per uscire”. Il ragazzo si trovava su una torre diroccata. La stanza era piccola e angusta, le pareti erano sporche e in alcuni punti l’intonaco si era staccato rivelando i mattoni ormai consunti. C’erano solo due piccole finestre che lasciavano passare un filo di luce che illuminava a malapena la stanza, il resto era nella penombra. La sala era arredata alquanto modestamente: c’era solo un piccolo sgabello su cui erano posati una brocca d’acqua e un tozzo di pane. Nell’angolo, sopra una stuoia, era ammucchiata della paglia, coperta da un lenzuolo. Leggermente impaurito si guardò attorno e notò delle piccole scalette ormai marce. Si alzò in piedi e si diresse verso di esse, le discese lentamente e si ritrovò in una stanza circolare. Mosse il primo passo e all’improvviso udì di nuovo quella voce cavernosa:”Ti trovi davanti alla prima prova, quella dell’ acutezza. Ascolta ciò che ti dico: queste due pozioni rosse ti fanno arretrare, quella azzurra ti nuoce, tre ne rimangono, ma stai attento a questo: due hanno una cosa in comune, sono entrambe da escludere.” La voce lentamente smise di parlare. Plat cercò di memorizzare nella sua mente l’indovinello, ripetendolo più volte. Cominciò a risolvere l’enigma. Escluse immediatamente le due bottiglie rosse, gli rimanevano solo quattro contenitori, tolse anche quello azzurro, ne rimanevano ormai tre, uno nero,uno viola e uno giallo. Escluse i primi due perché rappresentavano le tenebre, afferrò la bottiglietta gialla pensando gli potesse servire; appena presa si aprì di colpo la porta e lui uscì. Questa si chiuse subito dopo e notò su di essa un’ incisione fatta probabilmente con un martello, con al centro un diamante luminoso che irradiava delle facce di luce: probabilmente i suoi concittadini. Il paesaggio attorno a lui era uniforme con alte siepi di un verde acceso che componevano l’intero labirinto. A giudicare la posizione del sole, era mezzogiorno le nubi stagliate nel cielo formavano grandi macchie bianche che oscuravano leggermente il sole. Osservò il labirinto, era molto curato, l’erba era rasata come un praticello inglese e le siepe perfettamente in ordine con delle foglie dalla forma affusolata. Senza rendersene conto, attraversò le perfette viuzze, arrivò alla seconda prova: superare il Lago dei sette Morti. Si trattava di un gigantesco bacino in cui era versato il sangue delle persone che ogni giorno restano vittime di una guerra. Plat si sedette sul bordo del lago e guardò in basso: sembrava profondo e mal promettente. Non aveva un’idea specifica, così si mise a ragionare sul da farsi. Dal profondo della mente, gli venne una intuizione: bere la strana pozione gialla. Dapprima afferrò il contenitore e se lo rigirò fra le mani, ma non era molto sicuro delle sue azioni. Chiuse gli occhi, stappò la bottiglia e annusò: sapeva di limone, così, ispirato dal suo profumo inebriante, lo bevve. Il sapore era molto diverso dall’odore, sembrava di bere una medicina dal gusto terribile. Cominciò a sentire un certo formicolio alle spalle e in men che non si dica, gli spuntarono due enormi ali. Plat pensò:” fatemi volare, fatemi volare…” e… senza rendersene conto si alzò in volo. Era velocissimo, sfrecciava nella brezza leggera e si trovò quasi subito nell’altra sponda. Appena toccò terra, gli sparirono le ali. Proseguì a piedi per il resto del tragitto, fino ad arrivare ad una fortezza. Era grigia e austera, c’erano quattro torri ai lati, che gli davano l’impressione di un penitenziario. Arrivò al portone, su cui era inciso lo stesso simbolo che era presente nell’uscio della torre diroccata al centro del labirinto. Entrò. Si ritrovò in una stanza dall’aspetto severo, con uno specchio enorme e un mobile di legno. Ai lati della stanza c’erano tre porte: era la terza prova. Osservò la prima. Sul battente c’era un’ iscrizione che recitava: “Dietro di me troverai la salvezza” Andò dalla seconda e vide la scritta: “Dietro di me troverai la morte” Guardò la terza e vide la scritta: “Dietro la seconda porta troverai la morte” Dopo aver letto i tre indizi tornò al centro della sala e sentì la voce-guida che diceva:” Bravo, complimenti, sei arrivato fin qui, ma bada: leggi ciò che è scritto sulle tre porte, sapendo che almeno una delle scritte è vera e almeno una è falsa. Poi scegli una porta: se è quella giusta troverai la salvezza.” Plat ripensò alle parole pronunciate da quella strana voce e ai tre indizi. Riflettè e alla fine giunse alla sua conclusione: la porta giusta è la numero 3, perché se la prima fosse corretta allora le tre scritte sarebbero tutte vere, se fosse la numero 2 allora sarebbero tutte false, di conseguenza è la numero 3 quella giusta. Entrò nella stanza e la prima cosa che vide fu un uomo gigantesco. Era vestito con un abito nero e lungo, che gli dava l’aspetto di uno stregone. La figura gli dava le spalle, ma cominciò a girarsi lentamente. Rivelò la sua faccia; sembrava come consunta dal tempo, aveva le rughe profonde e un viso pallido che sembrava quasi squagliarsi in mille pezzi. Quando il demonio fu del tutto girato cominciò a parlargli:” Sei stato bravo a superare tutte le mia prove Plat, questo dimostra che tu sei il Ragazzo Gemma:” Poi disse rivolgendosi alla sua guardia: ” Prendi il ragazzo e mettilo nelle segrete, la guerra contro Foll sta per cominciare”. All’improvviso Plat si sentì svenire per la seconda volta, ma resistette e appena portato nelle segrete si liberò della guardie con un pugno dritto nel naso e guardò quel che rimaneva all’interno della sua bisaccia: aveva ancora il liquido giallo e provò a bere le gocce rimanenti. Plat sentì quello strano formicolio e come un razzo si ritrovò nel suo paese; senza perdere un secondo andò subito dal re e gli spiegò tutto l’accaduto. Gli disse che il demone stava per attaccare. Foll informò i cittadini e in poco tempo, erano già armati alle porte della città. Subito comincio la guerra tra Foll e il demone che aveva l’ idea di conquistare Follemandia. La sanguinosa guerra finì per la migliore, il boss e il suo popolo erano sconfitti e il regno Follemandia fu salvo grazie a Plat. Fu festeggiato in città come un eroe e venne ricordato nel cuore di tutti.