Anteprima Estratta dall' Appunto di
Economia e gestione delle piccole e
medie imprese
Università : Istituto Universitario Navale
Facoltà : Economia
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L' Appunto
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rib
e.c
om
Corso di Cross-Cultural Management
Ct
Dispensa integrativa per il corso di CCM
AB
(prof.ssa Adriana Calvelli)
A.A. 2009-2010
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1. L’abbandono dell’ipotesi “one size fits all” 1
A partire dagli anni ‘70, la ricerca di vantaggi competitivi su scala
globale
e
lo
sviluppo
delle
relazioni
collaborative
in
ambito
internazionale hanno posto problemi di gestione delle azioni, strategiche
e operative, da intraprendere, soprattutto nei casi in cui le imprese si
pongono l’obiettivo di entrare in contesti con caratteristiche culturali
distanti da quelle dei mercati familiari. In tal caso, la conoscenza delle
caratteristiche culturali locali può spesso svolgere un ruolo determinante
per il successo delle strategie di internazionalizzazione e, in questa ottica,
gli studi di Cross-Cultural Management e l’analisi dell’impatto che le
om
differenze culturali hanno sulla capacità delle imprese di stabilire
relazioni di successo hanno assunto un’importanza crescente nel corso
e.c
del tempo e, soprattutto, a seguito della riduzione delle barriere
protezionistiche, dell’apertura di nuovi mercati, quali quello asiatico,
rib
della creazione e della progressiva estensione di aree di libero scambio.
Ct
Questi fenomeni 2 hanno contribuito a delineare un nuovo scenario
AB
competitivo per le imprese, che non possono più puntare al solo mercato
nazionale, né fare affidamento su protezioni governative, ma devono
sempre più orientarsi verso soluzioni strategico-organizzative che
permettano una progressiva affermazione sui mercati esteri e la creazione
di più elevate difese dalla concorrenza estera sul mercato domestico.
Per perseguire con successo strategie di internazionalizzazione, sia
attraverso modalità competitive sia collaborative, occorre, però, che le
imprese, prima di intraprendere un percorso di sviluppo all’estero,
Il materiale della dispensa è tratto da Calvelli A. (2008), La rilevanza strategica degli studi
sulla cultura dei contesti, in Calvelli A. (a cura di,), Cross-Cultural Management, Enzo Albano
Editopre, Napoli.
2 Tra le barriere protezionistiche, si evidenziano il processo di deregulation del mercato
interno in atto in Giappone dal 1992; l’accordo di libero commercio “Nord American Free
Trade Agreement”, stipulato tra Canada, Stati Uniti e Messico e in vigore dal 1994, il MUE, il
LAFTA, ecc..
1
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acquisiscano le conoscenze sulle caratteristiche non solo socioeconomiche delle aree-obiettivo, ma anche sulle possibilità di poter
trasferire all’estero le proprie pratiche manageriali, le proprie conoscenze
scientifiche e tecnologiche, il proprio output. Le ricerche sul tema
(Laurent, 1983; Cox e Cooper, 1985; Erez, 1986; Adler e Jelinek, 1986;
Morris e Pavett, 1992; Hofstede, 1993) sono spesso giunte alla
conclusione che tale trasferibilità ha successo solo in presenza di una
compatibilità delle culture dei contesti coinvolti e delle culture delle
imprese che in essi operano.
Soprattutto nelle relazioni inter-organizzative, basate sulla possibilità
om
di crescita delle conoscenze (scientifiche, tecnologiche e di mercato) 3 dei
singoli partner, una iniziale convergenza di interessi non è di per sé
e.c
sufficiente a garantire il successo dell’accordo, poiché la variabile chiave
nella formazione e nel mantenimento di una joint venture risiede
rib
essenzialmente nella ricerca di un equilibrio tra le disomogeneità culturali
Ct
delle imprese poste a confronto 4.
AB
Al riguardo, l’incrocio tra culture diverse può spesso creare una sorta
di shock culturale, tanto più elevato quanto più distanti sono le culture
delle imprese coinvolte, in quanto è realistico ipotizzare che, anche nei
processi di internazionalizzazione, ogni impresa tenda a preservare i
propri stili manageriali i propri credi e valori e la propria struttura
organizzativa, progettata coerentemente con le sue componenti culturali;
da ciò discende che, spesso, nelle joint venture internazionali, le modalità
3 La conoscenza è oggi una delle risorse strategicamente più rilevanti per vincere la gara
competitiva e le alleanze strategiche sono diventate sempre più popolari per le opportunità
che esse offrono in termini di apprendimento e condivisione di capacità e conoscenze.
4 Ne sono ben consapevoli i manager di alcune imprese italiane che hanno tentato di
introdursi nel mercato giapponese, apprendendo a proprie spese che il successo in tali
mercati è strettamente connesso alla capacità di penetrare nel complesso sistema culturale
aziendale e nazionale. Ad esempio, è tipico della cultura aziendale giapponese avere un
sistema decisionale basato sulla responsabilità diffusa, il che determina la partecipazione di
un vasto numero di persone alla stesura di un accordo di cooperazione; ciò allunga
notevolmente i tempi rispetto ad una negoziazione condotta con imprese occidentali.
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di ingresso nei Paesi esteri attualmente più frequenti in ambito
internazionale 5, lo scontro tra culture diverse porta a conseguenze
negative sulle performance dei partner, sul clima di lavoro, sulla
produttività futura e sulla competitività degli attori (Beamish e Lane,
1990; Meschi e Roger, 1994). Al limite, per alcuni studiosi, è molto più
semplice superare incompatibilità culturali intercorrenti tra diverse
nazioni che non quelle dovute all’incontro di due organizzazioni (Tosi,
1994).
Da quanto detto discende che lo studio delle caratteristiche culturali
del contesto in cui si intende operare, quale chiave di lettura per la
om
gestione delle relazioni tra imprese di paesi diversi e per l’inserimento
delle imprese in uno o più sistemi cognitivi di natura “globale”, può
e.c
diventare un valido strumento di supporto alle analisi strategiche di
internazionalizzazione. La conoscenza della cultura dominante nei diversi
rib
contesti può contribuire a ridurre l’incertezza insita negli approcci a
Ct
mercati non familiari e può, inoltre, aiutare a trovare le soluzioni più
AB
idonee per il superamento dei conflitti che possono generarsi nei
rapporti interorganizzativi.
Per la ricerca di una minimizzazione dei conflitti interculturali,
occorre che i manager sappiano comprendere le diversità culturali e,
consapevolmente, ricercare il giusto compromesso tra valori, credi e
comportamenti del Paese origine e particolarismi locali e, forti per la
conoscenza delle caratteristiche culturali del conteso in cui vogliono
operare, sappiano instaurare un clima di fiducia, favorevole alla
collaborazione.
Questo significa l’abbandono dell’ipotesi “one size fits all” che
guidava lo sviluppo internazionale delle multinazionali americane degli
5 In particolare, le joint venture costituiscono le modalità più utilizzate dagli operatori
occidentali per l’ingresso in mercati culturalmente distanti e nei mercati difficili, vista la
loro capacità di ridurre l’incertezza e, spesso, di limitare sfiducia e opportunismo.
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anni ‘60 che, in una sorta di “colonialismo”, imponevano propri stili,
regole e meccanismi di governo agli attori a vario titolo operanti nei
contesti nei quali si internazionalizzavano. In quegli anni, l’eccessivo
“etnocentrismo” delle multinazionali americane portava all’assunto che
l’attività manageriale potesse basarsi su principi universalmente validi e
che le pratiche manageriali statunitensi potessero essere esportate con
successo nelle economie di diversi contesti, contribuendo così alla
creazione di società sempre più omogenee, caratterizzate da identiche
norme socio-economiche e culturali. Supportava questa ipotesi la
componente unificante dei diversi stili manageriali, indotta dalle
om
metodologie, dai modelli, dalle procedure e dai diversi strumenti
utilizzati nelle ricerche economico-aziendali. Nonostante ciò, nel corso
e.c
degli anni, la realtà ha smentito tale ipotesi e le diversità culturali dei
paesi e delle imprese hanno sempre più richiesto una differenziazione
Ct
imprenditoriali.
rib
degli stili manageriali e dei meccanismi di governo delle attività
AB
D’altra parte, era ipotizzabile che l’ipotesi “one size fits all” non
potesse reggere nel tempo, in quanto era sottesa a tale ipotesi l’assunto
che la cultura dei contesti potesse cambiare in modo repentino solo
attraverso l’imposizione di norme e regole da parte di quegli attori che
avevano maggior potere economico, come le
multinazionali che
investivano nei paesi meno sviluppati.
L’ipotesi etnocentrica, che nel passato aveva portato le grandi
imprese, soprattutto statunitensi, a pensare che l’attività manageriale
potesse basarsi su principi universalmente validi e che le pratiche
manageriali potessero essere esportate con successo nelle economie di
diversi contesti, è stata oggetto di una rivisitazione critica negli anni più
recenti:
le
specificità
locali
hanno
richiesto
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sempre
più
una
differenziazione degli stili manageriali, dei meccanismi di governo delle
attività imprenditoriali e dei prodotti 6.
La scelta di competere in un’ottica di differenziazione multipoint
della produzione può creare, però, sacche di inefficienza che, alla lunga,
possono compromettere la creazione di valore dell’impresa: i numerosi
casi di insuccesso presenti nella letteratura hanno portato le grandi
imprese a privilegiare strategie di sviluppo in mercati culturalmente vicini
a quelli domestici, in modo da conseguire maggiori sinergie.
Appare evidente che, per ricercare una sorta di compromesso tra
standardizzazione e adeguamento, il manager debba muoversi, in
om
un’ottica dinamica, tra i rischi di rendere inefficaci le attività d’impresa,
insiti in un universalismo astratto, ed i rischi di creare inefficienza, insiti
e.c
in un adattamento puntuale alle situazioni locali.
Queste argomentazioni relative all’universalismo e particolarismo
manageriali
da
implementare
Ct
pratiche
rib
possono realisticamente estendersi, dal mero prodotto, anche alle
nei
diversi
contesti,
ai
AB
comportamenti manageriali da assumere, alle tipologie di relazioni da
stringere con gli attori locali, cioè a tutte le componenti dell’output, nella
sua accezione di “output allargato”.
Le imprese che esportano in cluster di paesi relativamente omogenei
hanno, in termini probabilistici, maggiori opportunità di conseguire
profitti più stabili, in termini di economie di scala e di spill-over, come
Persino la Coca Cola, che offre un prodotto che nell’immaginario collettivo è considerato
universale, ha dovuto rivedere le proprie strategie, che fino a qualche anno fa erano da
considerarsi “globali”; attualmente i principi che guidano la casa madre sono: “think local
and act local”, principio che la compagnia ha attuato incrementando il potere decisionale dei
manager periferici; marketing multipoint, volto ad affermare i marchi Coca Cola su basi
regionali e locali (e le numerose attività non profit, differenziate per singoli contesti, non
fanno che rafforzare la maggiore tensione della compagnia a farsi accettare come
operatore interno dalle comunità locali). Così Gillette che, in seguito alla ristrutturazione
organizzativa attuata nel 1988, ha segmentato il mercato globale in aree omogenee e creato
divisioni con potere decisionale in ciascun segmento, riuscendo così ad integrarsi in ogni
macroarea nella quale opera (Moss Kanter, Dretler, 1998).
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