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La nuova Bibbia di Gerusalemme
La parola di Dio nel flusso della storia
U
n recente libretto di
Luciano Canfora, Filologia e libertà (Mondadori, Milano 2008), celebra con piglio laicista, ma vera passione
di filologo, l’enciclica Divino afflante Spiritu, promulgata nel 1943 da papa Pio
XII. Canfora ripercorre affrettatamente
le tappe del peregrinare lento e faticoso
che ha portato la Chiesa ad ammettere
che anche i sacri testi possono essere oggetto di critica e d’analisi storica. Le di-
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scrivere il pensiero su Dio e sul creato, o
ancora prodotto tardivo della fantasia mitologizzante, più pericoloso delle antiche
leggende pagane perché dà nomi d’uomo
e di storia agli archetipi eterni della xenofobia e dell’ardore fanatico. Un sospetto di razionalismo distruttivo accompagna da sempre lo studio critico della Scrittura e – ben lo sa chi frequenta la grande
tela di ragno – riappare nelle infinite letture che si vogliono popolari e invece contrabbandano, sotto le apparenze d’una faciloneria accattivante, i più triti mitologumeni dell’Occidente.
Canfora ripercorre i 50 anni che separano la Divino afflante Spiritu dalla
Providentissimus Deus che Leone XIII
aveva promulgato nel 1893. La sua passione per Loisy, che ritenne insufficienti le
timide aperture del primo papa eletto dopo la presa di Porta Pia, fa commettere allo studioso la più vistosa (e umanamente
imperdonabile) delle omissioni: pur tenendo come riferimento costante il clima
intellettuale francese di quel cinquantennio, Canfora non cita il domenicano Marie-Joseph Lagrange, che nel 1890 aveva
fondato a Gerusalemme un’École pratique d’études bibliques, anticipando di poco la Providentissimus Deus, e fu poi vittima illustre della persecuzione antimodernista degli anni di Pio X.
mensioni fisiche e ideologiche del pamphlet gli impediscono di approfondire, valutare, o addirittura citare, alcuni grandi
momenti di questo percorso che ha conosciuto avanzate fulminee e ripiegamenti
rovinosi in due millenni di lettura del testo biblico.
Il grande Codice fu, di volta in volta e
di lotta in lotta, considerato cava da cui
estrarre versetti infallibili perché rapiti al
loro contesto e denucleati della loro significazione, o unico orizzonte in cui circo-
Scrit tura
e comunità generante
Lagrange, invece, fu precisamente
l’incarnazione del pensiero che trovò
espressione in Leone XIII: il testo non vive solo del testo, né delle letture e delle sistematizzazioni ideologiche che se ne possono trarre, vive anche della storia umana, dell’ambiente etnografico, geografico,
fisico in cui ha visto la luce. Ma Lagrange, che pure dovette piegarsi a tutte le esigenze e ai rischi della ricerca filologica,
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archeologica, documentaria, non fu mai
maestro del sospetto.
Forse per questo, poiché appare un
tantino apologeta alla nostra cultura
frammentante, è messo da parte da Filologia e libertà, che preferisce restringere la
filologia alla collezione e al confronto dei
manoscritti antichi, delle loro varianti e
dei loro eventuali errori. Il fatto è che Lagrange non si accontentò d’interrogare il
libro sulle sue incongruenze, ma sottomise a critica anche la nostra percezione del
testo, lasciando che i dati rilevati dall’archeologo, dallo storico delle religioni o
delle culture e dal filologo permettessero
alla pagina, anche quando tradotta, di
parlare la sua vera lingua e di dire le cose
che voleva dire. L’eventuale adesione di
fede, il dogma proclamato o la costruzione di una teologia sistematica (come la loro negazione) non possono prescindere
da questi primi passi chiarificatori, anche
se poi hanno modalità di conoscenza e
d’adesione totalmente distinte dall’approccio scientifico.
Lagrange volle stabilire la sua scuola
a Gerusalemme, secondo una metodologia caratteristica del tempo che, a seguito
dell’appropriazione coloniale dell’Orien-
te ottomano, vide nascere e moltiplicarsi
gli scavi archeologici e gli studi etnografici. Il libro era nato in quella terra, e lì doveva essere studiato, lontano dalle aule
europee, spesso travagliate da conflitti politici o confessionali. Lagrange era anche
un frate, e stabilì la sua scuola in un convento. Non so quanto se ne rendesse conto, ma la sua intuizione fu generatrice di
due vere e proprie chiavi di lettura del testo, destinate a lunga durata.
In effetti, non c’è Bibbia senza comunità generante. Quello che chiamiamo
Antico Testamento è, in gran parte, opera dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Si perfeziona nelle sue aule la Torah,
ovvero i cinque rotoli della Legge che descrivono minuziosamente il culto e dettano – intramezzato al racconto delle origini del mondo e del popolo – il «Codice di
santità». Parlano della storia e del culto
anche i Neviym, i libri dei profeti, molti
dei quali (basti ricordare Isaia, Geremia,
Ezechiele) sono sacerdoti. Solo alcuni degli «scritti», i Ketubym, non originano nel
tempio, che resta tuttavia protagonista del
maggiore di essi, il libro dei Salmi. L’Antico Testamento è, dunque, il frutto della
meditazione sacerdotale, protratta lungo
alcuni secoli in una città santuario: Gerusalemme. Solo dopo la caduta e la distruzione della città il testo passò agli scribi e
alle scuole dei commentatori, che l’hanno
incessantemente attualizzato nelle diversissime situazioni create dalla diaspora.
Il Nuovo Testamento ha origini più
popolari, si tratta di racconti trasmessi a
voce sulle prime e di lettere in buona parte occasionali. Le Chiese che lo produssero non avevano templi o sacrifici: i primi
scrittori cristiani conoscevano meglio le
stive delle navi romane e le piste sassose
piuttosto che gli atri di una qualsiasi delle
curie del tempo. Eppure, in buona misura, anch’esso cela l’opera di almeno tre
comunità di credenti, determinate a conservare memoria dell’evento: l’équipe di
missionari collaboratori e successori di
Paolo, la «scuola giovannea», i cristiani di
Gerusalemme raccolti attorno a Giacomo o alla casa di Betania. Forse bisognerebbe aggiungere alla lista i nazareni, cristiani di Galilea e della Siria meridionale.
Si tratta sempre, a ogni modo, di comunità che formano lo scrivente, ne motivano l’opera e ne trasmettono il testo. L’individuo, l’autore umano, è evidentemente
indispensabile, ma nessuno può negare
PINTURICCHIO, Annunciazione (part.), 1500 ca., Spello, Santa Maria Maggiore, Cappella Bella.
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che (a parte Dio) la Bibbia non ebbe un
unico autore.
Figlia di Gerus alemme
Una comunità, una realtà alla quale si
arriva assieme (con-ventum) dalle più diverse esperienze, non è certo l’unico ambito in cui studiare la Scrittura, è ovvio,
ma è un ambito privilegiato: l’interazione
fra i testi, fra le diverse prospettive e i diversi libri della Bibbia, diviene interazione fra persone, poiché – in un certo senso
– lo specialista di questo o quel libro lo incarna. Intanto, l’ha scelto come campo di
ricerca perché lo sentiva consono; poi si è
piano piano assimilato alla porzione di
mondo e di testo che gli è dato studiare;
infine, fa egli stesso scuola e comunità
quando altri, studenti o colleghi, vengono
a cercarlo per parlare con lui. La comunità dell’École biblique non è solo il convento domenicano che la ospita e la anima: è una sorta di scuola socratica o di
convivenza temporanea fra donne e uomini, religiosi e laici, credenti o non credenti delle più varie fedi e idealità, che si
ritrovano per capire un luogo e un testo.
Se di questo primo effetto dell’intuizione di Lagrange solo l’apertura oltre gli
LA BIBBIA
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stretti confini del clero cattolico era all’epoca imprevedibile, il secondo effetto somigliava solo a un oscuro orizzonte: Gerusalemme, insanguinata e indolente, sarebbe diventata luogo d’incontro e di conflitto fra le religioni, che a fine Ottocento
erano un dato di cultura, in pieno Novecento sarebbero parse morenti e ora resuscitano brandite dai professionisti dell’odio e dagli utopisti comunque motivati.
Leggere in tale contesto la Bibbia, e altra
letteratura a essa vicina o da essa derivata, è indispensabile per capirne gli effetti,
siano essi positivi e salvifici o negativi, in
molti angoli del mondo.
Questo intuì Lagrange, ai tempi della
Providentissimus Deus. I suoi seguaci, dopo che in pieno conflitto mondiale Pio
XII aveva appoggiato e incoraggiato lo
studio scientifico della Scrittura anche
laddove si faceva teologia, pensarono di
mettere a frutto l’esperienza dei primi 50
anni dell’École, facendosi promotori d’una nuova edizione della Bibbia in lingua
volgare, commentata da specialisti. Il progetto prese forma appena finita la guerra:
fra il 1945 e il 1955 i libri della Scrittura
furono pubblicati in fascicoletti, affidati ai
più apprezzati specialisti francofoni in cir-
GERUSALEMME
A gennaio la nuova edizione
a Bibbia di Gerusalemme è la Bibbia più diffusa a livello mondiale in tutto il Novecento e anche al presente. A livello mondiale, perché è stata tradotta nelle lingue più diffuse nel mondo cristiano. In italiano è stata tradotta dalle Edizioni Dehoniane
Bologna (EDB). Si chiama Bibbia di Gerusalemme perché è stata realizzata alla Scuola biblica e archeologica francese, che ha sede a Gerusalemme, poco fuori dalla Porta di Damasco, gestita con una forte impronta internazionale dai padri domenicani francesi.
Il rinnovamento degli studi biblici
Nel 1950 prende il via la prima edizione, che si presenta come
una serie di volumi ciascuno dei quali è dedicato a un singolo libro
della Bibbia, o a un blocco unitario, come per le Lettere di Giovanni. Ogni volume contiene una presentazione del libro biblico considerato, una traduzione del testo partendo dall’originale ebraico/aramaico e greco, un apparato di note di ordine testuale e teologico. Il
primo aspetto di pregio dell’edizione sta nella traduzione, per la
scelta di mettere a confronto le varie possibilità di senso, valorizzando in particolare per l’Antico Testamento la versione greca fatta nell’antichità da ebrei di lingua greca che partivano dall’originale ebraico. Il secondo, del tutto originale, aspetto del commento sono i rimandi ai versetti di altri libri della Bibbia, che possono essere di aiuto all’approfondimento e alla dilatazione del testo letto: vengono
usati come suggeritori di un senso che potrebbe sfuggire. Terzo elemento di pregio sono le cosiddette «note chiave»: messe a piè di
pagina, sintetizzano un percorso tematico all’interno di tutta la Bibbia, aiutano una visione sintetica e d’insieme tra tutti i libri che co-
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colazione, corredati di un’ampia introduzione, di note esplicative e di un apparato
di passi paralleli. Il formato era molto simile a quello dei volumetti su cui si studiavano i classici nelle scuole; le note testimoniano spesso una fase di passaggio, richiamando il testo latino, ancora il più conosciuto dal clero, ma suggerendo altrettanto spesso la molteplicità di letture e interpretazioni offerta dalla tradizione manoscritta come dal lessico quando ricollocato nel suo contesto originale.
La Bibbia in fascicoli rappresentava
un’ulteriore novità: il Libro tornava a essere biblia, tanti libri, una biblioteca. Ciascun autore e ogni opera potevano così
brillare di luce propria, mostrare la loro
personalità originale e gli eventuali limiti,
dettati dal tempo e dall’occasione di scrittura. Le introduzioni non nascondevano
certo la storia redazionale del Libro, le
eventuali riverniciature, i problemi posti
dalla tradizione manoscritta, ma cercavano anche d’enuclearne il messaggio teologico e il ruolo nel progresso della rivelazione. L’apparato dei passi paralleli creava una rete intertestuale, facendo sì che
per un gioco di richiami e d’allusioni i libri parlassero fra loro e, in particolare, il
stituiscono l’Antico e il Nuovo Testamento, impediscono che il lettore si perda nel particolare del singolo libro e lo aiutano a capire
che la Bibbia è un libro fatto da tanti libri.
Nel 1956 esce un volume unico telato, dal titolo La Sainte Bible
traduite en français sous la direction de l’École biblique de Jérusalem. Viene precisato che «la presente edizione è stata elaborata a
partire dalla precedente edizione della Bibbia di Gerusalemme in 43
volumi distinti». Lavorano alla Bibbia di Gerusalemme i biblisti di
area francese che forniranno poi le idee, gli argomenti e la teologia
al concilio Vaticano II. È la stagione felice in cui i grandi teologi d’Oltralpe, domenicani e gesuiti soprattutto, possono esprimersi liberamente e la teologia francese determina l’ordine del giorno della
Chiesa cattolica universale.
Nella Bibbia di Gerusalemme confluisce tutto il rinnovamento
degli studi biblici, iniziato tra grandi difficoltà ai primi del Novecento, e giunto negli anni dai cinquanta ai settanta alla piena maturità.
Proprio per la sua solidità scientifica la Bibbia di Gerusalemme, pur
essendo opera di soli cattolici, diventa una Bibbia di riferimento anche per i cristiani non cattolici. Essa ha contribuito fortemente a
creare una comune interpretazione biblica tra le Chiese cristiane.
La Bibbia di Gerusalemme è anzitutto una spiegazione di come
è nata la Bibbia, successivamente nel tempo: libro per libro presi
uno per uno, o per gruppi di libri che formano una parte omogenea,
come il Pentateuco o le Lettere di Paolo. Le introduzioni che sono
messe prima dei singoli libri chiariscono quali fatti storici, quali ambienti letterari, quali tradizioni religiose o quali personaggi hanno
contribuito alla scrittura del testo biblico.
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Nuovo Testamento apparisse, a chi era
abituato a teologie ormai distanti dal
mondo semitico, radicato profondamente
nell’Antico.
Nel 1956, però, si pensò di ricompattare il grande Codice e i fascicoli furono
adattati e riuniti in un solo volume. Sulle
prime l’opera assunse il nome più scontato La Sainte Bible, poi ci si rese conto che
essa doveva troppo alla scuola e alla città
in cui era nata e si chiamò La Bible de Jérusalem. Dopo il successo ottenuto da questa prima edizione, quasi tutte le Bibbie
tradotte nelle tante lingue moderne adottarono lo stesso quadro editoriale: introduzioni, testo, note e passi paralleli. Queste
Bibbie cercarono di diversificarsi nell’indole della traduzione (più o meno vicina al
testo antico, più o meno accattivante e
prossima al parlato), delle note (pastorali,
liturgiche, morali) o delle forme tipografiche, ma restarono sempre, per così dire, figlie della Bibbia di Gerusalemme.
Gli anni sessanta conobbero il Concilio, la riforma della liturgia, notevoli progressi nello studio dei tempi e degli scritti
antichi e soprattutto un’accresciuta coscienza dei fenomeni linguistici e ideologici: questi fattori spinsero a una radicale
revisione de La Bible de Jérusalem nei pri-
mi anni settanta. Il dialogo con gli altri
cristiani e il Concilio, in particolare, avevano evidenziato che non si sarebbe più
potuto fare una teologia che non fosse, in
tutto o in parte, una teologia biblica. Per
questo la revisione del 1973 assunse le caratteristiche d’una vera e propria riedizione: ampie note, soprattutto a commento
del Nuovo Testamento, disegnavano brevi sommari, accompagnando una parola
attraverso i libri della Bibbia. Queste note di sintesi erano segnalate da una crocetta a fianco del richiamo dei versetti a
commento dei quali erano collocate.
Un’altra rete, una sorta di mappa viaria
attraverso il grande Codice.
Fu questa la Bible de Jérusalem le cui
introduzioni, note, quadri cronologici e
riassuntivi e indici tematici furono tradotti in italiano, e pubblicati a commento
della traduzione ufficiale CEI nella Bibbia
di Gerusalemme delle EDB. Tradotta in
dodici lingue e pubblicata in una quarantina di paesi, la Bible de Jérusalem del 1973
ha rappresentato per moltissimi lettori e
per molte comunità o movimenti lo strumento più completo e maneggevole per
entrare nell’universo e nel testo della
Scrittura.
Tuttavia, col passare degli anni e l’af-
La Bibbia di Gerusalemme è poi un vocabolario di temi biblici,
perché i brani più importanti della Bibbia, quelli che sono all’origine
della dottrina ebraica e cristiana, sono spiegati con le «note chiave»
che sintetizzano un soggetto, mostrando come esso fa da nervatura attraverso tutti i libri e diventa chiave di comprensione del mondo biblico. Così accade, ad esempio, per il nome di Dio, per il Messia, per la legge-insegnamento, per l’acqua-vita, per il peccato-redenzione, per la terra promessa-futuro, per il popolo riunito-Chiesa, per l’uomo terrestre-spirituale, per il Vangelo-lieta notizia, per la
cronologia di Gesù e di Paolo, per la plausibilità storica di epoche e
avvenimenti ecc.
La Bibbia di Gerusalemme è inoltre un’inesauribile proposta di
sentieri personali con cui attraversare il testo. Nel margine esterno
delle pagine viene indicato il rimando ai passi che sono imparentati
con quello che si legge, così che chi vuole inoltrarsi nel tema deve
solo seguire quel segnale e poi il successivo: si troverà condotto nel
reticolo in cui Dio parla al cuore credente.
Mediante questo sistematico collegamento trasversale attraverso i singoli libri, la Bibbia di Gerusalemme permette di capire che la
Bibbia cristiana è un libro unitario che ha la chiave di volta in Gesù.
Libro dei cristiani, dunque, perché Gesù è il Figlio di Dio, ma anche
libro degli ebrei, perché Gesù è figlio di ebrei e porta a compimento la religiosità nata in Israele. Un libro dunque ove si impara la fraternità: tra le Chiese e tra le religioni.
Di questo classico degli studi biblici viene pubblicata nel 1998
un’edizione «riveduta e corretta», con caratteristiche che ne fanno un prodotto nuovo nelle scelte della traduzione, nell’aggiornamento delle note, nell’aggiornamento delle introduzioni ai sin-
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fievolirsi della speranza di costruire una
teologia biblica oggettiva, sistematica e
onnicomprensiva, le note di sintesi furono
percepite come troppo debitrici all’ideologia del commentatore e poco accomodate al dettaglio del testo. Così, dopo un
ventennio, l’École biblique mise in cantiere una nuova revisione della Bible de Jérusalem. La critica dell’Antico Testamento,
del Pentateuco in particolare, era allora
nel pieno della bufera: l’antica teoria delle quattro tradizioni, pur ancora solida
nell’insieme, divenne poco utile per giudicare dell’origine e del messaggio dei singoli passaggi; la figura del profeta, un po’
maestro un po’ rivoluzionario, andava ricollocata nell’ambiente templare, ma, soprattutto, la datazione di alcuni testi ritenuti di venerabile vetustà andava rivista.
Ritorno al la Biblia
Quanto al Nuovo Testamento (chi
scrive fu arruolato a collaborare alla sua
revisione causa la scomparsa del grande
p. Spicq), decidemmo di recuperare lo
spazio di alcune delle note di sintesi di cui
s’è detto sopra, per far meglio risaltare la
personalità del singolo libro o autore. Per
certi aspetti, è stato un ideale ritorno ai fascicoli: s’è cercato di presentare ogni se-
goli libri. Ed è questa nuova edizione che viene proposta, sommando il rifacimento della Bibbia di Gerusalemme con la nuova
traduzione CEI.
Nuovi la traduzione,
l’introduzione, il commento
Questa nuova edizione della Bibbia di Gerusalemme è dunque
nuova per tre motivi.
Anzitutto perché riporta la nuova traduzione della Conferenza
episcopale italiana (CEI) che va a sostituire quella del 1971. La traduzione della CEI è stata fatta per l’uso liturgico ed è quella che il cattolico italiano ascolta nella liturgia feriale e domenicale. La Bibbia liturgica può essere chiamata anche Lezionario, perché così si chiama
il libro che riporta i brani della Bibbia da leggere durante gli atti di
culto. Per questo continuo uso feriale e festivo, il credente praticante memorizza, «fa orecchio» a un certo frasario del testo sacro, che
gli diventa familiare. Per questo motivo quando le EDB decisero, nei
primi anni settanta, di tradurre in italiano la Bibbia di Gerusalemme
scelsero di utilizzare il testo della traduzione CEI. Ed è quello che le
EDB hanno fatto anche con la presente rinnovata edizione.
Ma siccome l’originale della Bibbia di Gerusalemme non nasce
da un intento liturgico, come la traduzione della CEI, sorge la necessità di un raccordo tra le scelte fatte dai traduttori CEI e le scelte fatte dai traduttori e dal commento della Bibbia di Gerusalemme.
Questa Bibbia è dunque commentata usando la ricchezza della Bibbia di Gerusalemme, ma con la preoccupazione di aiutare anche la
comprensione delle scelte operate dalla traduzione CEI.
La seconda ricchezza di questa nuova Bibbia di Gerusalemme
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zione come se il lettore abbordasse per la
prima volta e separatamente questo o
quel Vangelo, questa o quella lettera.
Hanno trovato così largo spazio note critiche che, come era già avvenuto nelle
precedenti edizioni, ma in forma più matura, mostrano e cercano di risolvere i
problemi storici, filologici, di trasmissione
testuale, per poi affrontare i nodi culturali e teologici, con grande attenzione alle
odierne ricerche sul linguaggio. È questa
l’edizione le cui note, introduzioni, quadri
esplicativi e indici vengono oggi tradotti
in italiano, per accompagnare la nuova
traduzione della CEI.
Quando apparve alla fine degli anni
novanta, col titolo La Bible de Jérusalem –
Cerf, non mancarono le polemiche, compresa un’acida recensione che l’accusava
di non avere neppure l’imprimatur. Questo fu subito richiesto e concesso dal card.
Pierre Eyt da Roma. Appurato che si tratta di una Bibbia leggibile e cattolica, non
resta che da chiedersi se lo sarà anche da
coloro che, come Luciano Canfora, pensano che un’ostilità sorda e solo di rado
superata separi fede e critica intelligente.
In questa edizione, ma in parte questo
era già chiaro nella precedente, si è tenuto conto del fatto che non solo i mano-
scritti hanno una storia (più un libro era
trascritto a mano, più varianti ne esistevano, per scorrettezza o distrazione degli
amanuensi), ma anche i libri biblici, che
tali manoscritti s’incaricano di trasmettere, ne hanno una. Abbiamo dei libri
«doppi», due redazioni di lunghezza e fattezze diverse. È il caso di Geremia, o degli Atti degli apostoli. Abbiamo testi manifestamente riscritti, o doppioni all’interno dello stesso libro: soprattutto i brani legali, come è ovvio, paiono essere stati modificati per adeguarli a nuove situazioni.
In altri termini: il testo canonico è come
stretto da una parte dalla storia della sua
redazione, delle sue varie riscritture, dall’altra dalla storia della sua trasmissione
manoscritta.
Fa parte della tradizione (nel senso etimologico di «consegna») anche l’edizione
in lingua moderna, corredata di note
spesso più leggibili del testo, anche tradotto, perché più vicine alla nostra sensibilità. Questo impegna enormemente il redattore dei commenti e, in misura minore, il revisore ingaggiato nelle edizioni
successive. Quest’ultimo è chiamato a
una doppia fedeltà creativa: fedeltà al testo in lingua originale, che bisogna far
uscire dall’alveo d’una civiltà lontana e
è l’attenzione con cui essa accoglie i mutamenti intervenuti all’interno degli studi biblici nei cinquant’anni che intercorrono dalla nascita dell’opera a oggi. L’edizione francese del 1998 afferma che «le note della precedente edizione sono state ampliate e aggiornate tenendo conto degli studi più recenti». Il risultato è che le introduzioni e il commento che qui vengono proposti possono essere usati
per cogliere i filoni sui quali gli studi biblici esprimono oggi sensibilità e posizioni rinnovate. Secondo un collaudato metodo di studio,
la forma più concreta di aggiornamento è quella di prendere un manuale, esaminare i cambiamenti che vi sono stati introdotti e interrogarsi sul perché di essi. Se per buona parte questa nuova Bibbia resta fedele a impostazioni consolidate e ormai condivise tra gli studiosi, i curatori hanno presenti gli orientamenti che si sono affermati nei cinquant’anni di vita dell’opera. E ne hanno tenuto conto, riformulando ipotesi, sfumando giudizi.
Chi ha pratica di studi biblici avvertirà subito la diversa forza con
cui nell’introduzione e nel commento al Pentateuco è ora presente
la «teoria documentaria» come spiegazione dell’origine dei testi.
Presentata nelle precedenti edizioni come la teoria sull’origine del
Pentateuco, ora è uno dei riferimenti utilizzati per spiegare il testo.
Lo stesso si può dire sulla certezza con cui la precedente edizione
privilegiava il testo greco dell’Antico Testamento (traduzione dei
Settanta) rispetto al testo ebraico. In questa edizione la posizione
viene semplicemente rovesciata. Tocca al lettore approfondire il
perché della scelta; essa è in ogni caso indice di come i curatori si
collocano in modo partecipe all’interno del fluire degli studi biblici.
La terza caratteristica di questa nuova Bibbia di Gerusalemme
la si ritrova all’interno delle «note tematiche». Diverse di esse sono
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delle traduzioni canonizzate dall’uso, perché risulti intelligibile nei decenni a venire, e fedeltà al primo commentatore, o almeno al suo metodo, pur tenendo conto
dei progressi scientifici e della propria indole personale.
Ma, anche attraverso tanti passaggi,
la Bibbia è la Bibbia da sempre: una nuova edizione, una revisione delle note o anche della metodologia di lettura, serve a
capire sempre meglio e a presentare nei
termini più chiari quel testo, non un altro.
Anche le glosse dei bizantini, o le miniature dei medioevali, erano delle note e richiamavano il messaggio del grande Codice, affiancando il testo. Al nostro tempo,
tanto sensibile alla storia, è opportuno
mostrare che la Parola corre nel flusso
delle parole che intessono un brano o lo
generano, lo trasmettono, lo commentano, lo traducono. Se la prima è la dimensione sincronica incentrata sulla lettera, la
seconda è la dimensione diacronica che
coinvolge, lungo i secoli, generazioni di
lettori.
Paolo Garuti *
* Docente di Nuovo Testamento all’École biblique di Gerusalemme e all’Angelicum di Roma.
A p. 387: CARAVAGGIO, San Gerolamo scrivente (part.), Roma, Galleria Borghese.
state riformulate all’insegna di un approfondimento che sia interno
al singolo libro di appartenenza. Si potrebbe dire che il criterio adottato è quello della coerenza testuale e contestuale. Ogni commento biblico vive la tensione tra il molteplice, costituito dai diversi libri
che compongono la Bibbia (Biblia è un sostantivo plurale e molti sono i libri che concorrono a formare il libro Bibbia) e l’individuale
(ogni libro della Bibbia ha un suo volto e un suo linguaggio caratteristico e per questo la Chiesa non ha accettato che i quattro Vangeli fossero ridotti a uno). Nel rispetto di questa tensione, compito del
commento è di sviluppare, da un lato, un tessuto unificante tra i 72
libri che compongono la Bibbia, sottolineando i temi che costituiscono le linee teologiche portanti dell’insieme, e dall’altro di individuare e mettere in luce le caratteristiche proprie di ogni libro, letto
nel suo contesto e nella sua teologia propria.
Le scelte della nuova Bibbia di Gerusalemme spingono spesso
ad approfondire il singolo libro, valorizzandone il quadro tipico, con
i rimandi, i paralleli e i suggerimenti che nascono dall’individualità
spirituale e culturale dell’autore e dal clima ecclesiale che ha generato quel testo.
Possiamo vedervi un suggerimento da cogliere circa il modo di
leggere la Bibbia. Essa è nata all’interno di una comunità vivente («Io
ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso», 1Cor
11,23); il contesto vitale di fede l’ha generata. In tale ambiente di fede vissuta deve essere anche letta e interpretata. È una delle idee
forza della costituzione conciliare Dei verbum sulla divina rivelazione. Ed è un programma di vita.
Alfio Filippi
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