Nome file
000329GE_MGM3.pdf
data
29/03/2000
Contesto
GE
Relatore
MG Monopoli
Liv. revisione
Pubblicazione
Lemmi
Competenza
Imputabilità
Ingenuità
Insoddisfazione
Libertà di psicologia
Psicopatologia
Virtù
Vizio
SEMINARIO DI STUDIUM CARTELLO 2000
LIBERTÀ DI PSICOLOGIA
GENOVA
Sala «Caffè Balilla»
29 marzo 2000
3° seduta
PSICOPATOLOGIA - COMPETENZA NELL’INSODDISFAZIONE.
«E L’INGENUO PRESE IL VIZIO»
MARIA GRAZIA MONOPOLI
Cito da Libertà di psicologia:
«Psicologia, se è, è individuale competenza, e come tale, libertà, oppure non è. O meglio: oppure è
psicopatologia, cioè deviazione dalla e riduzione della competenza come psicologia».
Ho provato a pensare se esistono forme psicopatologiche dove non si può parlare d’imputabilità del
soggetto, dove non è messa in atto una grande competenza nell’insoddisfarsi e nell’insoddisfare l’altro. Ho
concluso che non esistono. Anche se vado a scorrere le pagine di un qualsiasi manuale di psichiatria dove si
prendono in esame le malattie mentali croniche, soprattutto quelle che scaturiscono da patologie organiche,
traumi, le malattie degenerative del sistema nervoso ecc. e si prende in esame l’aspetto psicopatologico, sarei
tentata di pensare: «Eh, lì no!».
Ma io credo che non si sia mai riflettuto a fondo sul fatto che, se ora sotto alcuni aspetti sembra che
competenza ce ne sia molto poca perché la malattia ha il sopravvento, comunque la piega che prende la
struttura psicopatologica, come si è messa in piedi, come si pone, è tutta una competenza messa in atto nel
tempo, quindi c’è stata in passato. Infatti, ogni persona è diversa da un’altra nell’accento che emerge
nell’espressione della sua malattia. E in quell’accento lì c’è competenza. Basta avere sott’occhio un po’
spesso per esempio qualche anziano che si conosce bene, di cui se ne sa la storia, com’era parecchi anni fa, il
quale, pur nella degenerazione fisica dell’età, certo muoversi o dire l’ha imparato da piccolo.
Ma entriamo nel merito della trattazione di questa sera: I vizi: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia,
accidia.
Fu Gregorio Magno a conferire ai peccati l’imprimatur del suggello papale e a stabilirne la sequenza e il
numero che prevalsero fino al Medioevo. Fu nel tardo Medioevo che avarizia e lussuria conquistarono la
seconda e terza posizione, in quanto erano particolarmente invise, odiate dal popolo e da chi lottava per
purificare la chiesa poiché erano praticate in modo sfacciato da chi deteneva il potere e dal clero corrotto.
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Ricordo il tema di questa sera: Psicopatologia, competenza nell’insoddisfazione. Mi ha interessato
l’affermazione che è il vizio a presiedere alla condizione patologica in cui mi ritrovo e che ogni patologia è
una forma di alleanza con il vizio.
Dizionario dei sinonimi – N. Tommaseo:
Nell’uomo il vizio è più del difetto. Il vizio è cosa più grave: rende inutili e, talvolta, per abuso, nocevoli i
pregi stessi. Non saper sopportare le altrui imperfezioni è difetto; aggravarle con la maldicenza è vizio. Il
difetto viene, parte da volontà, parte da negligenza. Il difetto abituato diventa vizio.
L’imperfezione lascia qualcosa da desiderare o da aggiungere. Il difetto, da riprendere o da correggere. Il
vizio è abituale. L’indigestione nasce da vizio di stomaco. Nel vizio è più spontaneo abuso del libero
arbitrio.
E cos’è la virtù? Voltaire nel suo Dizionario filosofico dice che la virtù è un commercio di buone azioni: chi
non partecipa a questo commercio non deve essere contato.
Salvatore Natoli nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù si rifà a due significati della parola virtù (areté).
Virtuoso è in primo luogo colui che è dotato di agilità, che sa tirarsi fuori delle difficoltà. Ma, aggiunge,
l’idea di virtù è sin dall’inizio legata al rapporto con gli altri, al «riconoscimento». Questo si comprende
meglio se si considera il significato del verbo greco aresco che vuol dire piaccio, compiaccio, riesco gradito.
Quindi virtuoso è colui che se la sa cavare ma anche colui che sa compiacere; e aggiungo, che si muove in
modo che altri si compiacciano di lui.
Tommaso d’Aquino nei Vizi Capitali, (capitale è quel vizio da cui se ne generano altri) prima di prendere in
analisi i singoli vizi, afferma ripetutamente che: «L’amore disordinato deve essere posto soprattutto come
vizio capitale. Inoltre il proprio bene non può essere il fine dei vizi se non in quanto è ricercato e desiderato
disordinatamente». Agostino dice che ogni peccato scaturisce da un amore che infiamma male, e da un
timore che umilia male.
Riflettendo su queste parole posso dire che nel vizio non c’è amore disordinato, c’è vizio perché non c’è
Amore e non c’è desiderio. Il vizio, infatti, non è solo un errore, che di per sé non eliminerebbe l’atto
d’amore, ma un errore diventato teoria, cioè un errore la cui stabilità deriva dall’aver assunto su di sé la
teoria patologica dell’altro offensore. Mi sembra che in questo ci sia poco di disordinato. Inoltre nel vizio
non c’è desiderio, perché l’amore è farsene qualcosa del desiderio dell’altro in modo che il proprio
addirittura nasca, si generi o rigeneri, prenda nuova forma.
E mi riesce difficile pensare al desiderio disordinato. Credo che questo concetto, peraltro attuale anche oggi,
rappresenti la teoria del desiderio come mancanza, del desiderio come ricerca, cioè il pensiero che il
desiderio preceda un accadere, non dipenda da quel che ho davanti, che mi è capitato di incontrare (quel che
si dice «me ne fai venire la voglia») salvo poi recriminare contro tutto e tutti perché la realtà non soddisfa
mai la confusa attesa intessuta di desiderio.
Dal Pensiero di natura:
Si inizia a desiderare a partire da un già accaduto» e aggiungo «cui non si è posta obiezione». Prendere il
vizio è aver fatto fuori il desiderio dell’altro che è «allattandomi mia madre mi ha eccitato al bisogno di
venir soddisfatto per mezzo di un altro.
Il vizio si rifà sull’altro, è offesa. La virtù dipende dall’altro per il proprio bene. La categoria del vizio sono
atti che ammalano. Allora sono atti di altri, infatti, il vizio precede e l’ingenuo prende il vizio perché compie
un errore di giudizio sull’altro, gliela lascia passare.
Se il virtuoso dipende dall’altro per il proprio bene, cioè fa dell’altro un collaboratore al proprio beneficio,
ecco che si inizia a intravedere il vizio di superbia.
Dall’Ecclesiastico: «Principio d’ogni peccato è la superbia».
Tommaso d’Aquino definisce la superbia come l’amore della propria superiorità, della propria eccellenza
nell’onore e nella gloria; ed è proprio della superbia non riconoscere il suo bene come ricevuto da un altro.
Per dirla con le parole di Tommaso il desiderio non è ordinato al proprio fine. Poiché il desiderio è un lavoro
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a due, nella superbia il desiderio non è ordinato al proprio fine, cioè non c’è desiderio perché c’è l’idea del
fare da sé senza bisogno del rapporto fra soggetto e altro.
Orgoglio: quella cupa persuasione di un’eccellenza tutta sua propria e indipendente da quanto è al di fuori
(N. Tommaseo). Orgoglio, talvolta è più che superbia. La superbia si gonfia di quel che è e tende più in alto.
L’orgoglio è tanto pieno di sé che, talvolta, si accontenta dell’esser suo e non sa vedere più in là.
Ma Natoli nel suo dizionario già citato richiama alla fondatezza del nostro presumere. Una stima ben fondata
dipende da un’adeguata consapevolezza delle nostre doti, dipende anche dalle nostre opere. Il giusto
orgoglio è un atto di giustizia verso se stessi.
La persona orgogliosa è consapevole di sé, non cede è non è disposta a concedere e a concedersi facilmente.
Si lascia persuadere dai buoni ragionamenti, ma difficilmente si mette al seguito. Non è presuntuoso, ma
rifiuta di essere uno dei tanti.
Ma l’orgoglio, tornando a Tommaso d’Aquino, come tutto ciò che ha a che fare con il vizio e la virtù, rischia
di travalicare la misura. Il male della superbia consiste nel fatto che qualcuno, nel tendere a un bene
eccellente, oltrepassa la propria misura. Insuperbirsi non è nient’altro che andare oltre la propria misura nel
desiderio di superiorità. L’orgoglio allora si muta in vanagloria, che è figlia della superbia, che è vizio
strisciante. Voler apparire in modo singolare appartiene alla superbia come sua conseguenza… un uomo
presume di sé come se in modo singolare fosse superiore a tutti. E ancora l’orgoglio si muta in arroganza.
Colui che si attribuisce ciò che non ha, è arrogante.
Ma attribuirsi ciò che non si ha è ipocrisia che spesso è conseguenza della superbia. A differenza del
superbo, dice Serena Foglia in un suo libro I nostri sette peccati, il quale non nasconde il suo presumere di
sé con insolente ostinazione del proprio merito, l’ipocrita, simula modestia, interesse, pudore, riservatezza,
discrezione e persino umiltà.
Penso davvero che la superbia sia il caput dei vizi e ciò che tiene in piedi ogni psicopatologia. La superbia e
l’orgoglio non riconoscono il proprio errore e non permettono all’altro di essere collaboratore del proprio
beneficio. Fanno tutto da soli. È il detto: «Meglio soli che male accompagnati», dove il male accompagnati è
un pregiudizio sul fatto che dei beni dell’altro potrei farmene qualcosa.
Il superbo mette in atto il monopolio del commercio, fa fuori la concorrenza. Fa fuori la domanda e l’offerta.
E fa fuori il desiderio che è suscitare l’offerta dell’altro in modo che la propria si rinnovi, si rigeneri, si ripeta
come nuova.
Il peccato di superbia è, non il mettere a disposizione in modo silente i propri beni o oggetti, cose, pensieri,
affetti perché l’altro possa farne qualcosa (talento negativo) ma il metterli in mostra come componenti,
condizione e legge del rapporto con l’altro. Il rapporto con te passa attraverso i miei oggetti. Cioè salta il
rapporto. Non do a te lo spazio perché il mio potere possa diventare un tuo volere, con reciproca
soddisfazione.
C’è dell’odio in tutto questo, odio per la propria posizione di soggetto cioè di beneficiario. Il superbo,
l’orgoglioso, l’arrogante, l’ipocrita è colui che in fondo vive della sua peccaminosa solitudine
competentemente e attivamente sostenuta.
Chi afferma pubblicamente di essere molto solo e che tutti lo hanno abbandonato e si sono comportati male
con lui, scoprirete che sarà profondamente affetto dal vizio di superbia, unita a una certa dose di paranoia
che può esserne la patologia clinica.
Inoltre ricordo una affermazione che è stata fatta al seminario della scuola pratica a Milano: il vizio produce
vizio. Colui che si ritrova nella posizione di essere stato abbastanza ingannato da prendere il vizio, che vizio
prende nel caso di uno dei genitori che pecca di superbia? Se la legge del rapporto con te è il dar voce ai miei
beni con pretesa, «Io mi sono fatto da solo! So, perché sono tua madre», il genitore superbo avrà un figlio
invidioso, magari non apertamente verso il genitore. Non posso giudicare il rapporto con te (ecco lo
scrupolo), non posso competere con i tuoi beni, non posso volerli, perché non posso desiderarli. Cioè non mi
dai lo spazio perché un tuo potere possa diventare un mio volere. Allora l’unica via è mettere in atto un antidesiderio, che non li abbia nessuno, cioè l’invidia.
© Studium Cartello – 2007
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29/03/2000 - GE3 - pubblicazione