a cura della redazione di Lex24&Repertorio24
RESPONSABILITA’ E DLGS 231/2001
modelli organizzativi e “compliance” aziendale
Milano, 28 e 29 febbraio 2008 – Hotel Hermitage
Roma, 19 e 20 marzo 2008 – Visconti Palace Hotel
Aggiornamento: marzo 2008
Selezione della documentazione tratta dalla banca dati
SOMMARIO
pagina
Introduzione
Quotidiano – Norme e tributi – n. 70, 11.03.2008 pg. 32
Sicurezza, test alla Camera
3
Portale professionisti - News 11.03.2008
Decreto Sicurezza: gli effetti sul DLgs. 231/2001
4
Quotidiano – In primo piano- n.67, 08.03.2008 pg. 5
La “231” vigila ma apre ai modelli aziendali
5
Guida al Lavoro n. 11, 14.03.2008 pg. 14
Sicurezza sul lavoro: approvato lo schema di decreto
7
Schema del decreto legislativo di attuazione dell’art.1 legge delega 03.08.2007
n. 123 approvato il 06.03.2008
Artt. 15-17, 19, 28-29, 31-37, 49, 55-60, 64-74, 77, 80, 300
8
DLgs 08.06.2001, n. 231
Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità
giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n.
300.
27
Ministero della giustizia - Decreto ministeriale 26.06.2003, n. 201
Regolamento recante disposizioni regolamentari relative al
procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo delle
persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica, ai sensi dell'articolo 85 del decreto legislativo 8
giugno 2001, n. 231
50
Legge
Giurisprudenza
Corte di Cassazione sez. VI, pen., 02.10.2006, n. 32627
53
Rassegna
59
Commenti
Ambiente & Sicurezza n. 3, 05.02.2008 pg. 54
Secondo l'agenzia europea, la valutazione economica è connessa alla
prevenzione
62
2
Guida al Diritto n. 2, 12.01.2008 pg 77
Rischio di interdizione per gli enti
70
Guida al Diritto n. 2, 12.01.2008 pg 92
Confisca obbligatoria in caso di condanna
74
Diritto Comunitario e Internazionale n. 1, 01.01.2008 pg. 22
Commissione Greco: dall'usura alla frode verso una più ampia
responsabilità degli enti
78
Diritto e Pratica delle Società 31.12.2007 n. 24 pg. 6
231: responsabilità delle imprese estesa ai reati colposi
81
Ventiquattrore Avvocato 01.07.2007, n. 9 pg. 85
Reati commessi dagli amministratori e responsabilità degli organi di
vigilanza societari
83
Ventiquattrore Avvocato 13.01.2006, n. 1 pg. 70
Responsabilità amministrativa dell’ente per i reati commessi dai
dipendenti nell’interesse della società
90
Rassegna
98
INTRODUZIONE
Quotidiano
Quotidiano – Norme e tributi n. 70, 11.03.2008 pg. 32 – Marco Bellinazzo
Sicurezza, test alla Camera
Lavoro. Settimana determinante per le sorti dello schema di decreto legislativo varato dal Governo
Convocata domani la commissione Lavoro per il primo parere
La macchina è avviata. Anche se nessuno, oggi, ha la certezza che si arrivi in fondo al percorso. E,
soprattutto, che ci si arrivi in tempo politicamente utile (vale a dire, prima del voto del 13 e 14 aprile). A
meno che intorno al testo unico sulla sicurezza del lavoro non maturino convergenze bipartisan, seme di
futuribili larghe intese.
Dopo il primo via libera del Consiglio dei ministri, giovedì scorso, lo schema di decreto legislativo che attua la
legge delega 123/07, è atteso all'esame prima della Conferenza Stato-Regioni e poi delle commissioni di
Camera e Senato. L'ok delle Regioni è preliminare rispetto all'intervento del Parlamento.
La Conferenza si riunirà domani (oggi è in programma un pre-vertice per l'istruttoria tecnica). È molto
probabile, considerato il costante coinvolgimento dei rappresentanti delle Autonomie nel tavolo di
concertazione fra Governo e parti sociali, che ne venga fuori un giudizio positivo. Peraltro, va segnalato che
le Regioni – esulando quest'aspetto dall'area delle loro competenze – non potranno prendere posizione
sull'apparato sanzionatorio della nuova «626», ovvero su quello che finora si è rivelato il vero nodo nel
confronto tra l'Esecutivo e le associazioni delle imprese.
Anche le commissioni Lavoro e Affari sociali di Camera e Senato, chiamate a esprimere i cosiddetti pareri di
conformità, sono state allertate. In teoria, il Parlamento avrebbe 40 giorni (a partire da sabato scorso) per
3
pronunciarsi. Ma qualora deputati e senatori decidessero di utilizzare tutto il tempo a disposizione
metterebbero chiaramente a repentaglio il varo del testo unico.
La delega scade il prossimo 25 maggio e un eventuale allungamento dei termini della procedura avrebbe
come conseguenza inevitabile quella di rimettere la questione nelle mani della maggioranza premiata dal
voto di metà aprile. Alla quale resterebbe l'alternativa secca fra dover "ereditare" il progetto normativo fin
qui definito (tredici titoli, 305 articoli e 52 allegati) o procedere ex novo lasciando al Parlamento la facoltà di
riscrivere la disciplina-base della sicurezza sul lavoro.
Per scongiurare questa prospettiva, Gianni Pagliarini (Comunisti italiani), presidente della commissione
Lavoro di Montecitorio, ha già convocato domani una doppia seduta (mattina e pomeriggio). Mentre, sempre
domani in mattinata, a Palazzo Madama ci sarà un ufficio di presidenza per decidere il calendario. «La
commissione Lavoro del Senato potrà procedere parallelamente all'esame in corso alla Camera», osserva il
presidente Tiziano Treu (Ulivo). «È mia intenzione – aggiunge Treu – convocare i senatori all'inizio della
prossima settimana. La materia è complessa e dovranno essere ascoltate la parti sociali sui punti più
controversi. Non credo ci sia nessuno in grado di dire in questo momento se si riuscirà a fare in tempo. Ma
se ci sarà la volontà politica si potrà chiudere in un paio di giorni».
La volontà politica, appunto. Ascoltando le dichiarazioni di autorevoli esponenti del Pd e del Pdl degli ultimi
giorni (in particolare dopo la tragedia di Molfetta) sembrerebbero emergere consensi bipartisan
sull'opportunità di varare rapidamente il testo unico sicurezza, sia pure con qualche "sostanziale" correzione
di rotta. Secondo Maurizio Sacconi, (Forza Italia), componente della commissione Lavoro del Senato, «sarà
necessario ascoltare i punti di vista delle 15 organizzazioni imprenditoriali che hanno manifestato critiche nei
confronti dell'impianto della riforma, specie con riguardo alle sanzioni. Da parte nostra non c'è un intento
dilatorio. L'esito più probabile è quello di un robusto parere emendativo della commissione. E riterrei
doveroso a quel punto per un Governo privo dei pieni poteri attenersi alle scelte del Parlamento».
Ieri, durante un incontro con l'Anmil (Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro) è stato il candidato
premier del Pd, Walter Veltroni, a indicare una possibile via al compromesso: «Il decreto sulla sicurezza del
lavoro approvato dal Governo è importante, ma non penso che siano solo le sanzioni sulle imprese a
risolvere il problema. La formazione è il principale strumento di prevenzione. Le sanzioni arrivano dopo».
Portale professionisti
Portale professionisti - News 11.03.2008
Decreto Sicurezza: gli effetti sul DLgs. 231/2001
Lo schema di decreto legislativo varato giovedì 6 marzo dal Consiglio dei ministri in attuazione della legge
delega 3 agosto 2007, n. 123 in materia di salute e sicurezza del lavoro, formato da 303 articoli e 52 allegati
per le regole tecniche e suddiviso in 13 titoli, si applica a tutte le aziende e a tutte le attività a rischio,
riguardando sia i lavoratori dipendenti che gli autonomi, ma anche i collaboratori a progetto e coloro che
abbiano un contratto di collaborazione continuativa, le cui prestazioni si svolgano nei luoghi di lavoro del
committente.
Tale decreto contiene molte novità sugli obblighi a carico dei datori di lavoro, dei loro delegati e dei
dipendenti: in tal senso, dunque, necessariamente va anche a completare l’introduzione della responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001.
I modelli organizzativi: il testo unico sulla sicurezza del lavoro “integra” il d.lgs. 231/2001
La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche viene completata dal testo unico approvato dal
Consiglio dei Ministri quanto alle violazioni delle norme infortunistiche da cui derivi la morte o lesioni gravi
del lavoratore. In tali circostanze, infatti, per le aziende potrebbero esserci pesanti conseguenze: multe fino
a 1,5 milioni di euro e sanzioni interdittive quali il divieto di contrattare con la P.A. e l’esclusione da
agevolazioni e finanziamenti pubblici.
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Tuttavia, nelle ipotesi in cui siano violate norme antinfortunistiche, sarà sempre garantita una via d’uscita
alle imprese grazie alla forza esimente dei modelli organizzativi sancita direttamente dall’art. 30 dello stesso
decreto sicurezza, con conseguente limitazione, quanto alla sicurezza, della discrezionalità del giudice, al
quale spetta la generale valutazione dei modelli organizzativi adottati dalle imprese per decretarne l’esonero
dalle sanzioni. Infatti, l’art. 30 disciplina dettagliatamente quelli che devono essere i contenuti dei modelli di
gestione, che devono assicurare un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi posti dal testo
unico: dal rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a impianti, agenti chimici, fisici e biologici
alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione conseguenti, dalle
attività di natura organizzativa per la sicurezza a quelle di sorveglianza sanitaria, dall’informazione alla
formazione dei lavoratori, con previsione da parte degli stessi modelli di un sistema di controllo
sull’attuazione delle prescrizioni antinfortunistiche.
In tal modo, dunque, le imprese che adotteranno puntualmente le misure standard indicate nello schema del
decreto avranno la certezza di sfuggire agli effetti della responsabilità ex d.lgs. 231/2001.
Le sanzioni: l’impianto del d.lgs. 231/2001 rimodulato dal decreto sicurezza
Pur essendo, in realtà, possibile far valere già dall’agosto 2007 la responsabilità delle imprese, inserita tra le
norme immediatamente operative della legge 123/07 (articolo 9), lo schema di decreto legislativo varato da
Palazzo Chigi, oltre a certificare l’esimente dei modelli, ha provveduto tuttavia a rimodulare l’impianto delle
sanzioni per graduarle alla gravità degli incidenti.
Ed infatti l’art. 300 del decreto incide direttamente sul d.lgs. 231/2001 sostituendone l’art. 25-septies
(Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla
tutela della igiene e della salute sul lavoro): la sanzione pecuniaria più incisiva – pari a 1.000 quote,
corrispondenti a una somma che può variare da 250mila a 1,5 milioni di euro – e quelle interdittive da tre
mesi a un anno, troveranno applicazione solo per i casi più gravi, come l’omicidio colposo, commesso con la
violazione degli obblighi non delegabili del datore (valutazione e documentazione dei rischi aziendali) nei
settori produttivi più esposti. Nei casi di omicidio colposo derivante dal mancato rispetto degli altri obblighi
posti a carico del datore di lavoro e dei dirigenti troverà spazio una sanzione pecuniaria variabile tra 250 e
500 quote (più le sanzioni interdittive da tre mesi a un anno). Mentre in caso di incidenti che provochino
lesioni gravi o gravissime scatterà una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote e sanzioni
interdittive sotto i sei mesi.
Quotidiano
Quotidiano – In primo piano- n.67, 08.03.2008 pg. 5 – Marco Bellinazzo
La “231” vigila ma apre ai modelli aziendali
Ridotta la discrezionalità lasciata al giudice. Vale l'impegno: le prassi adottate consentono di evitare le multe
previste per la responsabilità amministrativa
In caso di gravi infortuni sul lavoro, le imprese dovranno fare i conti anche con le sanzioni dettate dal
decreto legislativo 231 del 2001. A meno che non abbiano adottato "idonei" modelli organizzativi.
Il testo unico sulla sicurezza del lavoro – approvato giovedì dal Consiglio dei ministri – completa, infatti,
l'introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche alle violazioni delle norme
antinfortunistiche da cui derivino la morte o lesioni gravi. In queste circostanze per le aziende potrebbero
esserci pesanti conseguenze: da multe che possono arrivare a 1,5 milioni di euro a sanzioni interdittive come
il divieto di contrattare con la Pa e l'esclusione da agevolazioni e finanziamenti pubblici.
I modelli organizzativi
Per la prima volta dall'introduzione della responsabilità amministrativa, però, nelle ipotesi di violazione di
norme antinfortunistiche sarà "garantita" alle imprese una via d'uscita. Mentre infatti, di solito, spetta al
giudice valutare l'efficacia dei modelli organizzativi scelti dall'impresa per decretarne l'esonero dalle sanzioni,
nel caso della sicurezza, la forza "esimente" dei modelli è sancita direttamente dalla legge. In altre parole, se
le imprese adotteranno le misure "standard" indicate nello schema di decreto, atteso ora al vaglio del
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Parlamento per i pareri, avranno la certezza di sfuggire agli effetti della «231». Non a caso, l'articolo 30 del
testo di attuazione della legge delega 123 dell'agosto 2007 disciplina dettagliatamente i contenuti dei modelli
di gestione, che dovranno assicurare un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi relativi, tra
l'altro: al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a impianti, agenti chimici, fisici e biologici;
alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione conseguenti; alle attività
di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, consultazioni dei
rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; alle attività di sorveglianza sanitaria; all'informazione e
formazione dei lavoratori.
Il modello organizzativo, inoltre, dovrà prevedere un sistema di controllo sull'attuazione delle prescrizioni
antinfortunistiche. Peraltro, le imprese fino a 50 lavoratori potranno ottenere finanziamenti per l'adozione dei
modelli. In questa prima fase poi sarà sufficiente optare per modelli di organizzazione conformi alle Linee
guida Uni-Inail del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007.
Le sanzioni
In realtà, è possibile far valere già dall'agosto 2007 la responsabilità delle imprese, inserita tra le norme
immediatamente operative della legge 123/07 (articolo 9). Lo schema di decreto legislativo varato da
Palazzo Chigi, oltre a certificare l'esimente dei modelli, ha provveduto tuttavia a rimodulare l'impianto delle
sanzioni per graduarle alla gravità degli incidenti.
La sanzione pecuniaria più incisiva – pari a 1.000 quote, corrispondenti a una somma che può variare da
250mila a 1,5 milioni di euro – e quelle interdittive da tre mesi a un anno, troveranno applicazione solo per i
casi più gravi, come l'omicidio colposo, commesso con la violazione degli obblighi non delegabili del datore
(valutazione e documentazione dei rischi aziendali) nei settori produttivi più esposti. Nei casi di omicidio
colposo derivante dal mancato rispetto degli altri obblighi posti a carico del datore di lavoro e dei dirigenti
troverà spazio una sanzione pecuniaria variabile tra 250 e 500 quote (più le sanzioni interdittive da tre mesi
a un anno). Mentre in caso di incidenti che provochino lesioni gravi o gravissime scatterà una sanzione
pecuniaria in misura non superiore a 250 quote e sanzioni interdittive sotto i sei mesi.
EFFETTI DA “231”
Omicidio colposo/1
Se il dipendente muore sul lavoro perché il datore ha violato gli obblighi non delegabili ai dirigenti (come la
valutazione e la documentazione dei rischi aziendali), l'impresa può essere colpita con una sanzione
pecuniaria in misura pari a mille quote (da 250mila a 1,5 milioni di euro). Inoltre troveranno applicazione
sanzioni interdittive (da tre mesi a un anno) tra cui la sospensione o la revoca delle autorizzazioni,
l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti e contributi o il divieto di contrattare con la Pa
Omicidio colposo/2
In caso di omicidio colposo causato dalla violazione degli altri obblighi posti a carico di datore e dirigenti si
applicherà una sanzione pecuniaria compresa tra 250 e 500 quote. Inoltre troveranno applicazione sanzioni
interdittive da tre mesi a 1 anno
Lesioni gravi o gravissime
Per le lesioni personali gravi o gravissime, commesse violando le norme antinfortunistiche e sulla tutela
dell'igiene e della salute sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria fino a 250 quote e sanzioni interdittive
per una durata non superiore a sei mesi.
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Guida al Lavoro
Guida al Lavoro n. 11, 14.03.2008 pg. 14 – Giampiero Falasca
Sicurezza sul lavoro: approvato lo schema di decreto
Nella seduta del 6 marzo 2008 il Governo ha approvato lo schema di decreto legislativo di attuazione della
legge n. 123/2007, che introduce nuove disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro Lo
schema di decreto legislativo passerà ora al vaglio delle Camere che dovranno dare un parere consultivo, e
poi potrà diventare un testo normativo mediante un’ulteriore seduta del Consiglio dei Ministri.
I principi di delega Il provvedimento dà attuazione ai principi di delega contenuti nella legge del 2007:
- estensione delle norme sulla sicurezza a tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale;
seppure con norme specifiche e adeguate al tipo di attività: si afferma il concetto che gli standard di
sicurezza sul lavoro devono essere applicati e rispettati anche nei confronti di lavoratori parasubordinati e
lavoratori autonomi;
- adeguamento del Dlgs n. 626/1994 ai mutamenti tecnologici ed organizzativi delle imprese, al fine di
aumentare l’efficacia delle prescrizioni tecniche previste dalla legge;
- rimodulazione del regime sanzionatorio; accentuare l’efficacia delle iniziative di formazione, informazione e
scambio di buone prassi in materia di sicurezza sul lavoro.
Le misure previste
Questi principi sono attuati dallo schema di decreto legislativo mediante le seguenti misure:
- ampliamento del campo di applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza a tutti i
lavoratori che si inseriscano in un ambiente di lavoro, senza distinzioni di tipo formale: di conseguenza
si innalzano i livelli di tutela di tutti i prestatori di lavoro, anche quelli autonomi o flessibili;
- rafforzamento delle prerogative delle rappresentanze in azienda, in particolare di quelle dei rappresentanti
dei lavoratori territoriali. Questi soggetti potranno operare, su base territoriale o di comparto, ove non vi
siano rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in azienda;
- creazione della figura del rappresentante di sito produttivo, presente in realtà particolarmente complesse e
pericolose;
- interventi in materia di coordinamento delle attività di vigilanza: si cerca di eliminare le sovrapposizioni e di
migliorare l’efficienza degli interventi. Viene creato un sistema informativo per la condivisione e la
circolazione di notizie sugli infortuni, sulle ispezioni e sulle attività in materia di salute e sicurezza sul lavoro,
utile anche a indirizzare le azioni pubbliche;
- finanziamento delle azioni promozionali private e pubbliche, con particolare riguardo alle piccole
e medie imprese, tra le quali l’inserimento nei programmi scolastici e universitari della materia della salute e
sicurezza sul lavoro;
- revisione del sistema delle sanzioni. Viene prevista la pena dell’arresto da sei a diciotto mesi per il datore di
lavoro che non abbia effettuato la valutazione dei rischi cui possono essere esposti i lavoratori in aziende che
svolgano attività con elevata pericolosità. Nei casi meno gravi di inadempienza, il decreto legislativo prevede,
invece, che al datore di lavoro si applichi la sanzione dell’arresto alternativo all’ammenda o della sola
ammenda, con un’attenta graduazione delle sanzioni in relazione alle singole violazioni;
- per favorire l’adeguamento alle disposizioni indicate dal decreto legislativo, al datore di lavoro che si metta
in regola non è applicata la sanzione penale ma una sanzione pecuniaria;
- con la stessa finalità prima segnalata, il datore di lavoro che cominci ad eliminare concretamente le
conseguenze della violazione o che adempia, pur tardivamente, all’obbligo violato ottiene una riduzione della
pena o, nel secondo caso, la sostituzione della pena con una sanzione pecuniaria che va da un minimo di
8.000 euro a un massimo di 24.000;
- conferma delle norme del codice penale estranee all’oggetto della delega per l’omicidio e le lesioni colpose
(artt. 589 e 590) causate dal mancato rispetto delle norme in materia di sicurezza sul lavoro;
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- eliminazione o semplificazione degli obblighi formali, attraverso la riduzione del numero e del peso per le
aziende degli adempimenti di tipo burocratico.
Schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 1 legge delega 03.08.2007 n. 123
Approvato dal governo il 06.03.2008
SEZIONE I - MISURE DI TUTELA E OBBLIGHI
Articolo 15 - Misure generali di tutela
(rif.: art 3 d.lgs. n. 626/1994; art. 4 d.lgs. n. 277/1991)
1. Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:
a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza;
b) la programmazione della prevenzione, mirata ad un complesso che integri in modo coerente nella
prevenzione le condizioni tecniche produttive dell’azienda nonché l’influenza dei fattori dell’ambiente e
dell’organizzazione del lavoro;
c) l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle
conoscenze acquisite in base al progresso tecnico;
d) il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella
scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre
gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo;
e) la riduzione dei rischi alla fonte;
f) la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;
g) la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al rischio;
h) l’utilizzo limitato degli agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro;
i) la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;
l) il controllo sanitario dei lavoratori;
m) l’allontanamento del lavoratore dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e
l’adibizione, ove possibile, ad altra mansione;
n) informazione e formazione adeguate per i lavoratori;
o) informazione e formazione adeguate per dirigenti e i preposti;
p) informazione e formazione adeguate per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
q) istruzioni adeguate ai lavoratori;
r) la partecipazione e consultazione dei lavoratori;
s) la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
t) la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di
sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi;
u) misure di emergenza da attuare in caso di primo soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione dei
lavoratori e di pericolo grave e immediato;
v) uso di segnali di avvertimento e di sicurezza;
z) regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di
sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti.
2. Le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso
comportare oneri finanziari per i lavoratori.
Articolo 16 - Delega di funzioni
1. La delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i
seguenti limiti e condizioni:
a)
che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b)
che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica
natura delle funzioni delegate;
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c)
che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate;
d)
che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni
delegate.
2. Alla delega di cui al comma 1 deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità.
3. La delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto
espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. La vigilanza si esplica anche attraverso i sistemi
di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4.
Articolo 17 - Obblighi del datore di lavoro non delegabili
(rif.: art 4 d.lgs. n. 626/1994)
1.
Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività:
a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente adozione dei documenti previsti dall’articolo 28;
b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi;
Articolo 18 - Obblighi del datore di lavoro e del dirigente
1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3 e i dirigenti, che organizzano e dirigono le
stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
a)
nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal
presente decreto legislativo.
b)
designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e
lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di
primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza;
c)
nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in
rapporto alla loro salute e alla sicurezza;
d)
fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del
servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente;
e)
prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e
specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico;
f)
richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni
aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei
dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione;
g)
richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel presente
decreto;
h)
adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni
affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la
zona pericolosa;
i)
informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa
il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
l) adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37;
m)
astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e sicurezza, dal
richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo
grave e immediato;
n)
consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza,
l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;
o)
consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi
e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a),
nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera q);
p)
elaborare il documento di cui all’articolo 26, comma 3, e, su richiesta di questi e per l’espletamento
della sua funzione, consegnarne tempestivamente copia ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
q)
prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare
rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la
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perdurante assenza di rischio;
r)
comunicare all’INAIL, o all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, a fini statistici e
informativi, i dati relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro di almeno un giorno,
escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, le informazioni relative agli infortuni sul lavoro che comportino
un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni;
s)
consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50;
t)
adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell’evacuazione dei luoghi di lavoro,
nonché per il caso di pericolo grave e immediato, secondo le disposizioni di cui all’articolo 43. Tali misure
devono essere adeguate alla natura dell’attività, alle dimensioni dell’azienda o dell’unità produttiva, e al
numero delle persone presenti;
u)
nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e di subappalto, munire i lavoratori di
apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e
l’indicazione del datore di lavoro;
v)
nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, convocare la riunione periodica di cui all’articolo 35;
z)
aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno
rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della
prevenzione e della protezione;
aa)
comunicare annualmente all’INAIL i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.
2. Il datore di lavoro fornisce al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in
merito a:
a) la natura dei rischi;
b) l’organizzazione del lavoro, la programmazione e l’attuazione delle misure preventive e protettive;
c) la descrizione degli impianti e dei processi produttivi;
d) i dati di cui al comma 1, lettera q), e quelli relativi alle malattie professionali;
e) i provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza.
3. Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del
presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni
o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’amministrazione
tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tal caso gli obblighi previsti
dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei
dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione
competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico.
Articolo 19 - Obblighi del preposto
1. In riferimento alle attività indicate all’articolo 3, i preposti, secondo le loro attribuzioni e competenze,
devono:
a) sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché
delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi
e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e, in caso di persistenza della
inosservanza, informare i loro superiori diretti;
b) verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone che li
espongono ad un rischio grave e specifico;
c) richiedere l’osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare
istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di
lavoro o la zona pericolosa;
d) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il
rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
e) astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in
una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato;
f) segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature
di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi
durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta;
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g) frequentare appositi corsi di formazione secondo quanto previsto dall’articolo 37.
SEZIONE II - VALUTAZIONE DEI RISCHI
Articolo 28 - Oggetto della valutazione dei rischi
(rif.: art. 4 d.lgs. n. 626/1994)
1. La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e
delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve
riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di
lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i
contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri
paesi.
2. Il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), redatto a conclusione della valutazione, deve
avere data certa e contenere:
a) una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante all’attività lavorativa,
nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;
b) l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali
adottati, a seguito della valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a);
c) il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di
sicurezza;
d) l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare nonché dei ruoli
dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti
in possesso di adeguate competenze e poteri;
e) l’indicazione del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza o di quello territoriale e del medico competente che ha partecipato alla
valutazione del rischio;
f) l’individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono
una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento.
3. Il contenuto del documento di cui al comma 2 deve altresì rispettare le indicazioni previste dalle specifiche
norme sulla valutazione dei rischi contenute nei successivi titoli del presente decreto.
Articolo 29 - Modalità di effettuazione della valutazione dei rischi
(rif.: art 4 d.lgs. n. 626/1994)
1. Il datore di lavoro effettua la valutazione ed elabora il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera
a), in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, nei
casi di cui all’articolo 41.
2. Le attività di cui al comma 1 sono realizzate previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza.
3. La valutazione e il documento di cui al comma 1 debbono essere rielaborati, nel rispetto delle modalità di
cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro
significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della
tecnica, della prevenzione e della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della
sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione
debbono essere aggiornate.
4. Il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) e quello di cui all’articolo 26, comma 3, devono
essere custoditi presso l’unità produttiva alla quale si riferisce la valutazione dei rischi.
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5. I datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori effettuano la valutazione dei rischi di cui al presente
articolo sulla base delle procedure standardizzate di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f). Fino alla scadenza
del diciottesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto interministeriale di cui all’articolo
6, comma 8, lettera f), e, comunque, non oltre il 30 giugno 2012, gli stessi datori di lavoro possono
autocertificare l’effettuazione della valutazione dei rischi. Quanto previsto nel precedente periodo non si
applica alle attività di cui all’articolo 31, comma 6, lettere a), b), c), d) e g).
6. I datori di lavoro che occupano fino a 50 lavoratori possono effettuare la valutazione dei rischi sulla base
delle procedure standardizzate di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f). Nelle more dell’elaborazione di tali
procedure trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3, e 4.
7. Le disposizioni di cui al comma 6 non si applicano alle attività svolte nelle seguenti aziende:
a) aziende di cui all’articolo 31, comma 6, lettere a), b), c), d), f) e g);
b) aziende in cui si svolgono attività che espongono i lavoratori a rischi chimici, biologici, da atmosfere
esplosive, cancerogeni mutageni, connessi all’esposizione ad amianto;
c) aziende che rientrano nel campo di applicazione del Titolo IV del presente decreto.
Articolo 30 - Modelli di organizzazione e di gestione
1. Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica
di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, deve essere adottato ed efficacemente attuato,
assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi:
a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro,
agenti chimici, fisici e biologici;
b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione
conseguenti;
c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni
periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
d) alle attività di sorveglianza sanitaria;
e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori;
f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza
da parte dei lavoratori;
g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge;
h) alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate.
2. Il modello organizzativo e gestionale di cui al comma 1 deve prevedere idonei sistemi di registrazione
dell’avvenuta effettuazione delle attività di cui al comma 1.
3. Il modello organizzativo deve in ogni caso prevedere, per quanto richiesto dalla natura e dimensioni
dell’organizzazione e dal tipo di attività svolta, un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze
tecniche ei poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio, nonché un sistema
disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
4 Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo
modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate. Il riesame e
l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati, quando siano scoperte violazioni
significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro, ovvero in occasione di
mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.
5. In sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee
guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001
o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui ai commi precedenti per le
parti corrispondenti. Agli stessi fini ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere
indicati dalla Commissione di cui all’articolo 6.
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6. L’adozione del modello di organizzazione e di gestione di cui al presente articolo nelle imprese fino a 50
lavoratori rientra tra le attività finanziabili ai sensi dell’articolo 11.
SEZIONE III - SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE
Articolo 31 - Servizio di prevenzione e protezione
(rif.: art. 8 d.lgs. n. 626/1994; art. 7 direttiva n. 89/391/CEE)
1. Salvo quanto previsto dall’articolo 34, il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione
all’interno della azienda o della unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche presso le
associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici, secondo le regole di cui al presente articolo.
2. Gli addetti e i responsabili dei servizi, interni o esterni, di cui al comma 1, devono possedere le capacità e i
requisiti professionali di cui all’articolo 32, devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche
dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati. Essi non
possono subire pregiudizio a causa della attività svolta nell’espletamento del proprio incarico.
3. Nell’ipotesi di utilizzo di un servizio interno, il datore di lavoro può avvalersi di persone esterne alla
azienda in possesso delle conoscenze professionali necessarie, per integrare, ove occorra, l’azione di
prevenzione e protezione del servizio.
4. Il ricorso a persone o servizi esterni è obbligatorio in assenza di dipendenti che, all’interno dell’azienda
ovvero dell’unità produttiva, siano in possesso dei requisiti di cui all’articolo 32.
5. Ove il datore di lavoro ricorra a persone o servizi esterni non è per questo esonerato dalla propria
responsabilità in materia.
6. L’istituzione del servizio di prevenzione e protezione all’interno dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva, è
comunque obbligatoria nei seguenti casi:
a) nelle aziende industriali di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e successive
modifiche ed integrazioni, soggette all’obbligo di notifica o rapporto, ai sensi degli articoli 6 e 8 del
medesimo decreto;
b) nelle centrali termoelettriche;
c) negli impianti ed installazioni di cui agli articoli 7, 28 e 33 del decreto legislativo 19 marzo 1995, n. 230, e
successive modificazioni;
d) nelle aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;
e) nelle aziende industriali con oltre 200 lavoratori;
f) nelle industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
g) nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori. Nelle ipotesi di cui al presente
comma il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione deve essere interno.
7. Nei casi di aziende con più unità produttive nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere istituito un
unico servizio di prevenzione e protezione. I datori di lavoro possono rivolgersi a tale struttura per
l’istituzione del servizio e per la designazione degli addetti e del responsabile.
Articolo 32 - Capacità e requisiti professionali degli addetti e dei responsabili dei servizi di prevenzione e
protezione interni ed esterni
(rif.: art. 8-bis d.lgs. n. 626/1994; art. 7 direttiva n. 89/391/CEE)
1. Le capacità ed i requisiti professionali dei responsabili e degli addetti ai servizi di prevenzione e protezione
interni o esterni devono essere adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle
attività lavorative.
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2. Per lo svolgimento delle funzioni da parte dei soggetti di cui al comma 1, è necessario essere in possesso
di un titolo di studio non inferiore al diploma di istruzione secondaria superiore nonché di un attestato di
frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi
presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative. Per lo svolgimento della funzione di responsabile
del servizio prevenzione e protezione, oltre ai requisiti di cui al precedente periodo, è necessario possedere
un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione in materia di
prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato di cui all’articolo
28, comma 1, di organizzazione e gestione delle attività tecnico amministrative e di tecniche di
comunicazione in azienda e di relazioni sindacali. I corsi di cui ai periodi precedenti devono rispettare quanto
previsto dall’accordo sancito il 26 gennaio 2006 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,
le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, serie generale,
del 14 febbraio 2006, n. 37, e successive modificazioni e integrazioni.
3. Possono altresì svolgere le funzioni di responsabile o addetto coloro che, pur non essendo in possesso del
titolo di studio di cui al comma 2, dimostrino di aver svolto una delle funzioni richiamate, professionalmente
o alle dipendenze di un datore di lavoro, almeno da sei mesi alla data del 13 agosto 2003 previo svolgimento
dei corsi secondo quanto previsto dall’accordo di cui al comma precedente.
4. I corsi di formazione di cui al comma 2 sono organizzati dalle regioni e province autonome di Trento e di
Bolzano, dalle università, dall’ISPESL, dall’INAIL, o dall’IPSEMA per la parte di relativa competenza, dal Corpo
nazionale dei vigili del fuoco dall’amministrazione della difesa, dalla Scuola superiore della pubblica
amministrazione, dalle associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori o dagli organismi paritetici,
nonché dai soggetti di cui al punto 4 dell’accordo di cui al comma 2 nel rispetto dei limiti e delle specifiche
modalità ivi previste. Ulteriori soggetti formatori possono essere individuati in sede di Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
5. Coloro che sono in possesso di laurea in una delle seguenti classi: L7, L8, L9, L17, L23, di cui al decreto
del Ministro dell’università e della ricerca 16 marzo 2007, o nelle classi 8, 9, 10, 4, di cui al decreto del
Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 4 agosto 2000 ovvero nella classe 4 di cui al
decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 2 aprile 2001, ovvero di altre
lauree riconosciute corrispondenti ai sensi della normativa vigente.
6. I responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione sono tenuti a frequentare corsi di
aggiornamento secondo gli indirizzi definiti nell’accordo Stato-Regioni di cui al comma 2. È fatto salvo quanto
previsto dall’articolo 34.
7. Le competenze acquisite a seguito dello svolgimento delle attività di formazione di cui al presente articolo
nei confronti dei componenti del servizio interno sono registrate nel libretto formativo del cittadino di cui
all’articolo 2, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive
modificazioni e integrazioni.
8. Negli istituti di istruzione, di formazione professionale e universitari e nelle istituzioni dell’alta formazione
artistica e coreutica, il datore di lavoro che non opta per lo svolgimento diretto dei compiti propri del
servizio di prevenzione e protezione dei rischi designa il responsabile del servizio di prevenzione e protezione
individuandolo tra:
a)
il personale interno all’unità scolastica in possesso dei requisiti di cui all’articolo 33 del presente
decreto legislativo che si dichiari a tal fine disponibile;
b)
il personale interno ad una unità scolastica in possesso dei requisiti di cui all’articolo 33 del presente
decreto legislativo che si dichiari disponibile ad operare in una pluralità di istituti.
9. In assenza di personale di cui alle lettere a) e b) del comma 8, gruppi di istituti possono avvalersi in
maniera comune dell’opera di un unico esperto esterno, tramite stipula di apposita convenzione, in via
prioritaria con gli enti locali proprietari degli edifici scolastici e, in via subordinata, con enti o istituti
specializzati in materia di salute e sicurezza sul lavoro o con altro esperto esterno libero professionista.
10. Il datore di lavoro che si avvale di un esperto esterno per ricoprire l’incarico di responsabile del servizio
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deve comunque organizzare un servizio di prevenzione e protezione con un adeguato numero di addetti.
Articolo 33 - Compiti del servizio di prevenzione e protezione
(rif.: art. 9 d.lgs. n. 626/1994; art. 7 direttiva 89/391/CEE)
1. Il servizio di prevenzione e protezione dai rischi professionali provvede:
a) all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la
sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica
conoscenza dell’organizzazione aziendale;
b) ad elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2,
e i sistemi di controllo di tali misure;
c) ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
d) a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
e) a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione
periodica di cui all’articolo 35;
f) a fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’articolo 36.
2. I componenti del servizio di prevenzione e protezione sono tenuti al segreto in ordine ai processi lavorativi
di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni di cui al presente decreto legislativo.
3. Il servizio di prevenzione e protezione è utilizzato dal datore di lavoro.
Articolo 34 - Svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dai
rischi
(rif.: art. 10 d.lgs. n. 626/1994; art. 7, comma 7, direttiva n. 89/391/CEE)
1. Salvo che nei casi di cui all’articolo 32, comma 7, il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti
propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e
di evacuazione, nelle ipotesi previste nell’allegato 2 dandone preventiva informazione al rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza ed alle condizioni di cui ai commi successivi.
2. Il datore di lavoro che intende svolgere i compiti di cui al comma 1, deve frequentare corsi di formazione,
di durata minima di 16 ore e massima di 48 ore, adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e
relativi alle attività lavorative, nel rispetto dei contenuti e delle articolazioni definiti mediante accordo in sede
di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano, entro il termine di dodici mesi dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo. Fino alla
pubblicazione dell’accordo di cui al periodo precedente, conserva validità la formazione effettuata ai sensi
dell’articolo 3 del decreto ministeriale 16 gennaio 1997, il cui contenuto è riconosciuto dalla Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in sede di
definizione dell’accordo di cui al periodo precedente.
3. Il datore di lavoro che svolge i compiti di cui al comma 1 è altresì tenuto a frequentare corsi di
aggiornamento nel rispetto di quanto previsto nell’accordo di cui al precedente comma. L’obbligo di cui al
precedente periodo si applica anche a coloro che abbiano frequentato i corsi di cui all’articolo 3 del decreto
ministeriale 16 gennaio 1997 e agli esonerati dalla frequenza dei corsi, ai sensi dell’articolo 95 del Decreto
legislativo 19 settembre 1994, n. 626.
Articolo 35 - Riunione periodica
(rif.: art. 11 d.lgs. n. 626/1994)
1. Nelle aziende e nelle unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, il datore di lavoro, direttamente o
tramite il servizio di prevenzione e protezione dai rischi, indice almeno una volta all’anno una riunione cui
partecipano:
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a) il datore di lavoro o un suo rappresentante;
b) il responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi;
c) il medico competente, ove nominato;
d) il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
2. Nel corso della riunione il datore di lavoro sottopone all’esame dei partecipanti:
a) il documento di valutazione dei rischi;
b) l’andamento degli infortuni e delle malattie professionali e della sorveglianza sanitaria;
c) i criteri di scelta, le caratteristiche tecniche e l’efficacia dei dispositivi di protezione individuale;
d) i programmi di informazione e formazione dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori ai fini della sicurezza e
della protezione della loro salute.
3. Nel corso della riunione possono essere individuati:
a) codici di comportamento e buone prassi per prevenire i rischi di infortuni e di malattie professionali;
b) obiettivi di miglioramento della sicurezza complessiva sulla base delle linee guida per un sistema di
gestione della salute e sicurezza sul lavoro.
4. La riunione ha altresì luogo in occasione di eventuali significative variazioni delle condizioni di esposizione
al rischio, compresa la programmazione e l’introduzione di nuove tecnologie che hanno riflessi sulla sicurezza
e salute dei lavoratori. Nelle ipotesi di cui al periodo precedente, nelle unità produttive che occupano fino a
15 lavoratori è facoltà del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza chiedere la convocazione di
un’apposita riunione.
5. Della riunione deve essere redatto un verbale che è a disposizione dei partecipanti per la sua
consultazione.
SEZIONE IV - FORMAZIONE, INFORMAZIONE E ADDESTRAMENTO
Articolo 36 - Informazione ai lavoratori
(rif.: art. 21 d.lgs. n. 626/1994; art. 10 direttiva n. 89/391/CEE)
1. Il datore di lavoro provvede affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione:
a) sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività della impresa in generale;
b) sulle procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei luoghi di lavoro;
c) sui nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di cui agli articoli 45 e 46;
d) sui nominativi del responsabile e degli addetti del servizio di prevenzione e protezione e del medico
competente.
2. Il datore di lavoro provvede altresì affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione:
a) sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni
aziendali in materia;
b) sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi sulla base delle schede dei dati di
sicurezza previste dalla normativa vigente e dalle norme di buona tecnica;
c) sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate.
3. Il datore di lavoro fornisce le informazioni di cui al comma 1, lettere a) e al comma 2, lettere a), b) e c),
anche ai lavoratori di cui all’articolo 3, comma 9.
4. Il contenuto della informazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire
loro di acquisire le relative conoscenze. Ove la informazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa
verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo.
Articolo 37 - Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti
(rif.: art. 22 d.lgs. n. 626/1994; art. 12 direttiva n. 89/391/CEE)
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1. Il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in
materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento a:
a)
concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti
e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza;
b)
rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e
protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda.
2. La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante
accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi
dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo.
3. Il datore di lavoro assicura, altresì, che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata
in merito ai rischi specifici di cui ai Titoli del presente decreto successivi al I. Ferme restando le disposizioni
già in vigore in materia, la formazione di cui al periodo che precede è definita mediante l’accordo di cui al
comma 2.
4. La formazione e, ove previsto, l’addestramento specifico devono avvenire in occasione:
a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si tratti di somministrazione
di lavoro;
b) del trasferimento o cambiamento di mansioni;
c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati
pericolosi.
5. L’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro.
6. La formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti deve essere periodicamente ripetuta in relazione
all’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi.
7. I preposti ricevono a cura del datore di lavoro e in azienda, un’adeguata e specifica formazione e un
aggiornamento periodico in relazione ai propri compiti in materia di salute e sicurezza del lavoro. I contenuti
della formazione di cui al precedente periodo comprendono:
a) principali soggetti coinvolti e i relativi obblighi;
b) definizione e individuazione dei fattori di rischio;
c) valutazione dei rischi;
d) individuazione delle misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione.
8. I soggetti di cui all’articolo 21, comma 1, del presente decreto possono avvalersi dei percorsi formativi
appositamente definiti, tramite l’accordo di cui al comma 2, in sede di Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
9. I lavoratori incaricati dell’attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di
lavoro in caso di pericolo grave ed immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione
dell’emergenza devono ricevere un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico; in attesa
dell’emanazione delle disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 46, continuano a trovare applicazione le
disposizioni di cui al DM 10 marzo 1998 attuativo dell’articolo 13 del decreto legislativo 19 settembre 1994,
n. 626.
10. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ha diritto ad una formazione particolare in materia di
salute e sicurezza concernente i rischi specifici esistenti negli ambiti in cui esercita la propria rappresentanza,
tale da assicurargli adeguate competenze sulle principali tecniche di controllo e prevenzione dei rischi stessi.
11. Le modalità, la durata e i contenuti specifici della formazione del rappresentante dei lavoratori per la
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sicurezza sono stabiliti in sede di contrattazione collettiva nazionale, nel rispetto dei seguenti contenuti
minimi: a) principi giuridici comunitari, costituzionali e civilistici; b) legislazione generale e speciale in materia
di salute e sicurezza sul lavoro; c) principali soggetti coinvolti e i relativi obblighi; d) definizione e
individuazione dei fattori di rischio; e) valutazione dei rischi; f) individuazione delle misure tecniche,
organizzative e procedurali di prevenzione e protezione; g) aspetti normativi dell’attività di rappresentanza
dei lavoratori; h) nozioni di tecnica della comunicazione. La durata minima dei corsi è di 32 ore iniziali, di cui
12 sui rischi specifici presenti in azienda e le conseguenti misure di prevenzione e protezione adottate, con
verifica di apprendimento. La contrattazione collettiva nazionale disciplina le modalità dell’obbligo di
aggiornamento periodico, la cui durata non può essere inferiore a 4 ore annue per le imprese che occupano
dai 15 ai 50 lavoratori e a 8 ore annue per le imprese che occupano più di 50 lavoratori.
12. La formazione dei lavoratori e quella dei loro rappresentanti deve avvenire, in collaborazione con gli
organismi paritetici di cui all’articolo 50 ove presenti, durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri
economici a carico dei lavoratori.
13. Il contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire
loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la
formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della
lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo.
14. Le competenze acquisite a seguito dello svolgimento delle attività di formazione di cui al presente
decreto sono registrate nel libretto formativo del cittadino di cui all’articolo 2, comma 1, lettera i), del
decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni e integrazioni. Il contenuto del
libretto formativo è considerato dal datore di lavoro ai fini della programmazione della formazione e di esso
gli organi di vigilanza tengono conto ai fini della verifica degli obblighi di cui al presente decreto.
SEZIONE VII - CONSULTAZIONE E PARTECIPAZIONE DEI RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI
Articolo 49 - Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo
(rif.: art. 1, comma 2, lett. g, l. n. 123/2007)
1. Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo sono individuati nei seguenti specifici
contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri:
a) i porti di cui all’articolo 4, comma 1, lettere b), c) e d) della legge 28 gennaio 1994, n. 84, sedi di autorità
portuale nonché quelli sede di autorità marittima da individuare con decreto dei Ministri del lavoro e della
previdenza sociale e dei trasporti da emanare entro dodici mesi dall’entrata in vigore del presente decreto;
b) centri intermodali di trasporto di cui alla direttiva del Ministro dei trasporti del 18 ottobre 2006, n. 3858;
c) impianti siderurgici;
d) cantieri con almeno 30.000 uomini-giorno, intesa quale entità presunta dei cantieri, rappresentata dalla
somma delle giornate lavorative prestate dai lavoratori, anche autonomi, previste per la realizzazione di tutte
le opere;
e) contesti produttivi con complesse problematiche legate alla interferenza delle lavorazioni e da un numero
complessivo di addetti mediamente operanti nell’area superiore a 500.
2. Nei contesti di cui al comma precedente il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo
è individuato, su loro iniziativa, tra i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza delle aziende operanti nel
sito produttivo.
3. La contrattazione collettiva stabilisce le modalità di individuazione di cui al comma 2 nonché le modalità
secondo cui il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo esercita le attribuzioni di cui
all’articolo 50 in tutte le aziende o cantieri del sito produttivo in cui non vi siano rappresentanti per la
sicurezza e realizza il coordinamento tra i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza del medesimo sito.
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CAPO IV - DISPOSIZIONI PENALI
SEZIONE I - SANZIONI
Articolo 55 - Sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente
1. E’ punito con l’arresto da quattro a otto mesi o con l’ammenda da 4.000 a 12.000 euro il datore di lavoro:
a) che omette la valutazione dei rischi e l’adozione del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a)
ovvero che lo adotta in assenza degli elementi di cui alle lettere a), b), d) ed f) dell’articolo 28 e dalla lettere
q) e z) dell’articolo 18;
b) che non provvede alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione ai sensi
dell’articolo 17, comma 1, lettera b), salvo il caso previsto dall’articolo 34;
2. Nei casi previsti al comma 1, lett. a), si applica la pena dell’arresto da sei mesi a un anno e sei mesi se la
violazione è commessa:
a) nelle aziende di cui all’articolo 31, comma 6, lettere a), b), c), d), f) e g);
b) in aziende in cui si svolgono attività che espongono i lavoratori a rischi biologici di cui all’articolo 268,
comma 1, lettere c) e d), da atmosfere esplosive, cancerogeni mutageni, e da attività di manutenzione,
rimozione smaltimento e bonifica di amianto;
c) per le attività disciplinate dal Titolo IV caratterizzate dalla compresenza di lavorazioni e la cui entità
presunta di lavoro non sia inferiore a 200 uomini-giorno.
3. E’ punito con l’ammenda da 5.000 a 15.000 euro il datore di lavoro che non redige il documento di cui
all’articolo 17, comma 1, lettera a), secondo le modalità di cui all’articolo 29, commi 1, 2 e 3, nonché nei casi
in cui nel documento di valutazione dei rischi manchino una o più delle indicazioni di cui all’articolo 28,
comma 2, lettere c) ed e).
4. Il datore di lavoro e il dirigente sono puniti:
a)
con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 800 a 3.000 euro per la violazione degli
articoli 18, comma 1, lett. b), e), g), i), m), n), o), p), 34, comma 3, 36, commi 1, 2 e 3, 43, comma 1, lett.
a), b) e c);
b)
con l’arresto tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.000 a 5.000 euro per la violazione degli articoli 18,
commi 1, lett. d), h), v), e 2, 26, comma 1, lett. b), 43, comma 1, lett. d) ed e), 45, comma 1;
c)
con l’arresto tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.000 a 5.000 euro per la violazione dell’articolo 18,
comma 1, lett. c). Nei casi previsti dal comma 2, si applica la pena dell’arresto da quattro a otto mesi;
d)
con l’arresto da quattro a otto mesi o con l’ammenda da 1.500 a 6.000 euro per la violazione degli
articoli 26, comma 1, e 2, lettere a) e b), 34, commi 1 e 2, 37, commi 1, 4, 6, 7, 8 e 9;
e)
con l’arresto da quattro a otto mesi o con l’ammenda da 2.000 a 4.000 euro per la violazione degli
articoli 18, comma 1, lettera l) e 43, comma 4;
f)
con l’ammenda da 800 a 3.000 euro per la violazione dell’articolo 18, comma 1, lett. r);
g)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.500 a 10.000 euro per la violazione degli articoli 18,
comma 1, lett. u), 29, comma 4, e 35, comma 2;
h)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.500 a 7.500 euro per la violazione dell’articolo 18,
comma 1, lett. r), con riferimento agli infortuni superiori ai tre giorni;
i)
) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 3.000 euro per la violazione dell’articolo 18,
comma 1, lett. r), con riferimento agli infortuni superiori ad un giorno;
l)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ciascun lavoratore, in caso di
violazione dell’articolo 26, comma 8.
m)
con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 3.000 a 10.000 euro per non aver provveduto alla
nomina di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a);
n)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.000 a euro 3.000 in caso di violazione
dall’articolo 18, comma 1, lettera s);
o)
con la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 500 in caso di violazione dall’articolo 18, comma 1,
lettera aa).
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5. L’applicazione della sanzione di cui al comma 4, lettera h) esclude l’applicazione delle sanzioni conseguenti
alla violazione dell’articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124.
Articolo 56 - Sanzioni per il preposto
1. I preposti sono puniti nei limiti dell’attività alla quale sono tenuti in osservanza degli obblighi generali di
cui all’articolo 19:
a)
con l’arresto da uno a tre mesi o con l’ammenda da 500 a 2.000 euro per la violazione dell’articolo
19, comma 1, lett. a), e), f);
b)
con l’arresto sino a un mese o con l’ammenda da 300 a 900 euro per la violazione dell’articolo 19,
comma 1, lett. b), c), d);
c)
con l’ammenda da 300 a 900 euro per la violazione dell’articolo 19, comma 1, lett. g).
Articolo 57 - Sanzioni per i progettisti, i fabbricanti, i fornitori e gli installatori
1. I progettisti che violano il disposto dell’articolo 22 sono puniti con l’arresto fino a un mese o con
l’ammenda da 600 a 2.000 euro.
2. I fabbricanti e i fornitori che violano il disposto dell’articolo 23 sono puniti con l’arresto da quattro a otto
mesi o con l’ammenda da 15.000 a 45.000 euro.
3. Gli installatori che violano il disposto dell’articolo 24 sono puniti con l’arresto fino a tre mesi o con
l’ammenda da 1.000 a 3.000 euro.
Articolo 58 - Sanzioni per il medico competente
1. Il medico competente è punito:
a)
con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 500 a 2.500 euro per la violazione dell’articolo 25,
comma 1, lett. d), e) e f);
b)
con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda da 1.000 a 4.500 euro per la violazione dell’articolo
25, comma 1, lett. b), c), g);
c)
con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da 1.000 a 5.000 euro per la violazione dell’articolo 25,
comma 1, lett. l);
d)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 3.000 euro per la violazione dell’articolo 25,
comma 1, lett. i);
e)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.500 a 10.500 euro per la violazione dell’articolo 40,
comma 1.
Articolo 59 - Sanzioni per i lavoratori
1. I lavoratori sono puniti:
a) con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euro per la violazione dell’articolo 20, comma
2, lett. b), c), d), e), f), g), h), i);
b) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro per la violazione dell’articolo 20 comma 3; la
stessa sanzione si applica ai lavoratori autonomi di cui alla medesima disposizione.
Articolo 60 - Sanzioni per i componenti dell’impresa familiare, i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori e i
soci delle società semplici operanti nel settore agricolo
1. I soggetti di cui all’articolo 21 sono puniti:
a) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 2.000 euro per la violazione dell’articolo 21, comma 1,
lettere a) e b);
b) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro per la violazione dell’articolo 21, comma 1,
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lettera c).
Articolo 64 - Obblighi del datore di lavoro
1. Il datore di lavoro provvede affinché:
a) i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all’articolo 63, comma 1;
b) le vie di circolazione interne o all'aperto che conducono a uscite o ad uscite di emergenza e le uscite di
emergenza siano sgombre allo scopo di consentirne l'utilizzazione in ogni evenienza;
c) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare manutenzione tecnica e vengano
eliminati, quanto più rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la sicurezza e la salute
dei lavoratori;
d) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare pulitura, onde assicurare
condizioni igieniche adeguate;
e) gli impianti e i dispositivi di sicurezza, destinati alla prevenzione o all'eliminazione dei pericoli, vengano
sottoposti a regolare manutenzione e al controllo del loro funzionamento.
Articolo 65 - Locali sotterranei o semisotterranei
1. È vietato destinare al lavoro locali chiusi sotterranei o semisotterranei.
2. In deroga alle disposizioni di cui al comma 1, possono essere destinati al lavoro locali chiusi sotterranei o
semisotterranei, quando ricorrano particolari esigenze tecniche. In tali casi il datore di lavoro provvede ad
assicurare idonee condizioni di aerazione, di illuminazione e di microclimatizzazione.
3. L’organo di vigilanza può consentire l'uso dei locali chiusi sotterranei o semisotterranei anche per altre
lavorazioni per le quali non ricorrono le esigenze tecniche, quando dette lavorazioni non diano luogo ad
emissioni di agenti nocivi, sempre che siano rispettate le norme del presente decreto legislativo e si sia
provveduto ad assicurare le condizioni di cui al comma 2.
Articolo 66 - Lavori in ambienti sospetti di inquinamento
1. È vietato consentire l’accesso dei lavoratori in pozzi neri, fogne, camini, fosse, gallerie e in generale in
ambienti e recipienti, condutture, caldaie e simili, ove sia possibile il rilascio di gas deleteri, senza che sia
stata previamente accertata l’assenza di pericolo per la vita e l’integrità fisica dei lavoratori medesimi, ovvero
senza previo risanamento dell’atmosfera mediante ventilazione o altri mezzi idonei. Quando possa esservi
dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, i lavoratori devono essere legati con cintura di sicurezza, vigilati per
tutta la durata del lavoro e, ove occorra, forniti di apparecchi di protezione.
Articolo 67 - Notifiche all’organo di vigilanza competente per territorio
1. La costruzione e la realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, nonché gli
ampliamenti e le ristrutturazioni di quelli esistenti, devono essere eseguiti nel rispetto della normativa di
settore ed essere notificati all’organo di vigilanza competente per territorio.
2. La notifica di cui al comma 1 deve indicare gli aspetti considerati nella valutazione e relativi:
a) alla descrizione dell’oggetto delle lavorazioni e delle principali modalità di esecuzione delle stesse;
b) alla descrizione delle caratteristiche dei locali e degli impianti.
L’organo di vigilanza territorialmente competente può chiedere ulteriori dati e prescrivere modificazioni in
relazione ai dati notificati.
3. La notifica di cui al presente articolo si applica alle aziende con più di cinque lavoratori impiegati o
presumibilmente da impiegare.
4. La notifica di cui al presente articolo è valida ai fini delle eliminazioni e delle semplificazioni di cui
21
all’articolo 53, comma 5.
CAPO II - SANZIONI
Articolo 68 - Sanzioni per il datore di lavoro
1.
Il datore di lavoro è punito:
a)
con l’arresto da sei a dodici mesi o con l’ammenda da 4.000 a 16.000 euro per la violazione
dell’articolo 66;
b)
con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.000 a 10.000 euro per la violazione dell’articolo
64, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e), e 65, commi 1 e 2;
c)
con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 2.500 euro per la violazione dell’articolo 67,
commi 1 e 2.
TITOLO III - USO DELLE ATTREZZATURE DI LAVORO E DEI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE
Capo I - Uso delle attrezzature di lavoro
Articolo 69 - Definizioni
1. Agli effetti delle disposizioni di cui al presente titolo si intende per:
a) attrezzatura di lavoro: qualsiasi macchina, apparecchio, utensile o impianto destinato ad essere usato
durante il lavoro;
b) uso di una attrezzatura di lavoro: qualsiasi operazione lavorativa connessa ad una attrezzatura di lavoro,
quale la messa in servizio o fuori servizio, l'impiego, il trasporto, la riparazione, la trasformazione, la
manutenzione, la pulizia, il montaggio, lo smontaggio;
c) zona pericolosa: qualsiasi zona all'interno ovvero in prossimità di una attrezzatura di lavoro nella quale la
presenza di un lavoratore costituisce un rischio per la salute o la sicurezza dello stesso;
d) lavoratore esposto: qualsiasi lavoratore che si trovi interamente o in parte in una zona pericolosa;
e) operatore: il lavoratore incaricato dell’uso di una attrezzatura di lavoro;
Articolo 70 - Requisiti di sicurezza
1. Salvo quanto previsto al comma 2, le attrezzature di lavoro messe a disposizione dei lavoratori devono
essere conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive
comunitarie di prodotto.
2. Le attrezzature di lavoro costruite in assenza di disposizioni legislative e regolamentari di cui al comma 1,
e quelle messe a disposizione dei lavoratori antecedentemente all’emanazione di norme legislative e
regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto, devono essere conformi ai requisiti
generali di sicurezza di cui all’allegato V.
3. Si considerano conformi alle disposizioni di cui al comma precedente le attrezzature di lavoro costruite
secondo le prescrizioni dei decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 395 del Decreto Presidente della
Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, ovvero dell’articolo 28 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626.
Articolo 71 - Obblighi del datore di lavoro
1. Il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all’articolo
precedente, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi.
2. All'atto della scelta delle attrezzature di lavoro, il datore di lavoro prende in considerazione:
22
a)
b)
c)
d)
le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro da svolgere;
i rischi presenti nell’ambiente di lavoro;
i rischi derivanti dall’impiego delle attrezzature stesse
i rischi derivanti da interferenze con le altre attrezzature già in uso.
3. Il datore di lavoro, al fine di ridurre al minimo i rischi connessi all’uso delle attrezzature di lavoro e per
impedire che dette attrezzature possano essere utilizzate per operazioni e secondo condizioni per le quali
non sono adatte, adotta adeguate misure tecniche ed organizzative, tra le quali quelle dell’Allegato VI.
4. Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché:
a) le attrezzature di lavoro siano:
1.
installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d’uso;
2.
oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di
sicurezza di cui all’articolo precedente e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso e
libretto di manutenzione;
3.
assoggettate alle misure di aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico
provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni di cui all’articolo 18, comma1, lettera z),
del presente decreto;
b) siano curati la tenuta e l’aggiornamento del registro di controllo delle attrezzature di lavoro per cui lo
stesso è previsto.
5. Le modifiche apportate alle macchine quali definite all'articolo 1, comma 2, del decreto del Presidente
della Repubblica 24 luglio 1996, n. 459, per migliorarne le condizioni di sicurezza non configurano
immissione sul mercato ai sensi dell'articolo 1, comma 3, secondo periodo, del predetto decreto, sempre che
non comportino modifiche delle modalità di utilizzo e delle prestazioni previste dal costruttore.
6. Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché il posto di lavoro e la posizione dei lavoratori
durante l’uso delle attrezzature presentino requisiti di sicurezza e rispondano ai principi dell’ergonomia.
7. Qualora le attrezzature richiedano per il loro impiego conoscenze o responsabilità particolari in relazione ai
loro rischi specifici, il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché:
a) l'uso dell'attrezzatura di lavoro sia riservato ai lavoratori allo scopo incaricati che abbiano ricevuto una
formazione adeguata e specifica;
b) in caso di riparazione, di trasformazione o manutenzione, i lavoratori interessati siano qualificati in
maniera specifica per svolgere detti compiti.
8. Fermo restando quanto disposto al comma 4, il datore di lavoro provvede affinché:
a)
le attrezzature di lavoro la cui sicurezza dipende dalle condizioni di installazione siano sottoposte a
un controllo iniziale (dopo l'installazione e prima della messa in esercizio) e ad un controllo dopo ogni
montaggio in un nuovo cantiere o in una nuova località di impianto, al fine di assicurarne l'installazione
corretta e il buon funzionamento,
b)
le attrezzature soggette a influssi che possono provocare deterioramenti suscettibili di dare origine a
situazioni pericolose siano sottoposte:
1.
a controlli periodici, secondo frequenze stabilite in base alle indicazioni fornite dai fabbricanti, ovvero
dalle norme di buona tecnica, o desumibili dai codici di buona prassi;
2.
a controlli straordinari al fine di garantire il mantenimento di buone condizioni di sicurezza, ogni volta
che intervengano eventi eccezionali che possano avere conseguenze pregiudizievoli per la sicurezza delle
attrezzature di lavoro, quali riparazioni trasformazioni, incidenti, fenomeni naturali o periodi prolungati di
inattività.
c) i controlli di cui alle lettere a) e b) sono volti ad assicurare il buono stato di conservazione e l’efficienza a
fini di sicurezza delle attrezzature di lavoro e devono essere effettuati da persona competente.
9. I risultati dei controlli di cui al comma 8 devono essere riportati per iscritto e, almeno quelli relativi agli
ultimi tre controlli, devono essere conservati e tenuti a disposizione degli organi di vigilanza.
10. Qualora le attrezzature di lavoro di cui al comma 8 siano usate al di fuori della sede dell’unità produttiva
23
devono essere accompagnate da un documento attestante l’esecuzione dell’ultimo controllo.
11 Oltre a quanto previsto dal comma 8, le attrezzature riportate in allegato VII sono sottoposte a prima
verifica da parte dell’ISPESL e, successivamente, a verifiche periodiche da parte delle ASL. La periodicità di
tali verifiche è definita nell’allegato VII.
12. Per l’effettuazione delle verifiche di cui al comma 11, le ASL e l’ISPESL possono avvalersi del supporto di
soggetti pubblici o privati abilitati. I soggetti privati abilitati acquistano la qualifica di incaricati di pubblico
servizio e rispondono direttamente alla struttura pubblica titolare della funzione.
13. Le modalità di effettuazione delle verifiche periodiche di cui all’allegato VII, nonché i criteri per
l’abilitazione dei soggetti pubblici o privati di cui al comma precedente sono stabiliti con decreto del Ministro
del lavoro e della previdenza sociale e del Ministro della Salute, di concerto con la Conferenza permanente
per i rapporti tra Stato, Regioni e province autonome di Trento e di Bolzano, da adottarsi entro dodici mesi
dall’entrata in vigore del presente decreto.
14. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentiti i Ministri della salute e dello
sviluppo economico, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e province
autonome di Trento e di Bolzano e sentita la Commissione consultiva di cui all’articolo 6 del presente decreto
legislativo, vengono apportate le modifiche all’Allegato VII relativamente all’elenco delle attrezzature di
lavoro da sottoporre alle verifiche di cui al comma 11.
Articolo 72 - Obblighi dei noleggiatori e dei concedenti in uso
1. Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria attrezzature di lavoro di cui all’articolo
70, comma 2, deve attestare, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della
consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui
all’allegato V.
2. Chiunque noleggi o conceda in uso ad un datore di lavoro attrezzature di lavoro senza conduttore deve, al
momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di
sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione
dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori
incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo.
Articolo 73 - Informazione e formazione
1. Nell’ambito degli obblighi di cui agli articoli 36 e 37 il datore di lavoro provvede, affinché per ogni
attrezzatura di lavoro messa a disposizione, i lavoratori incaricati dell’uso dispongano di ogni necessaria
informazione e istruzione e ricevano una formazione adeguata in rapporto alla sicurezza relativamente:
a) alle condizioni di impiego delle attrezzature;
b) alle situazioni anormali prevedibili.
2. Il datore di lavoro provvede altresì a informare i lavoratori sui rischi cui sono esposti durante l’uso delle
attrezzature di lavoro, sulle attrezzature di lavoro presenti nell’ambiente immediatamente circostante, anche
se da essi non usate direttamente, nonché sui cambiamenti di tali attrezzature.
3. Le informazioni e le istruzioni d’uso devono risultare comprensibili ai lavoratori interessati.
4. Il datore di lavoro provvede affinché i lavoratori incaricati dell’uso delle attrezzature che richiedono
conoscenze e responsabilità particolari di cui all’articolo 71, comma 7, ricevano una formazione adeguata e
specifica, tale da consentirne l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro, anche in relazione ai rischi
che possano essere causati ad altre persone.
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5. In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e province autonome di Trento e di
Bolzano sono individuate le attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli
operatori nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli
indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione.
Capo II - Uso dei dispositivi di protezione individuale
Articolo 74 - Definizioni
1. Si intende per dispositivo di protezione individuale, di seguito denominato “DPI”, qualsiasi attrezzatura
destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi
suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio
destinato a tale scopo.
2. Non costituiscono DPI:
a) gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la
salute del lavoratore;
b) le attrezzature dei servizi di soccorso e di salvataggio;
c) le attrezzature di protezione individuale delle forze armate, delle forze di polizia e del personale del
servizio per il mantenimento dell'ordine pubblico;
d) le attrezzature di protezione individuale proprie dei mezzi di trasporto stradali;
e) i materiali sportivi quando utilizzati a fini specificamente sportivi e non per attività lavorative ;
f) i materiali per l'autodifesa o per la dissuasione;
g) gli apparecchi portatili per individuare e segnalare rischi e fattori nocivi.
Articolo 77 - Obblighi del datore di lavoro
1. Il datore di lavoro ai fini della scelta dei DPI:
a) effettua l'analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri
mezzi;
b) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla lettera a),
tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI;
c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d'uso fornite dal fabbricante a corredo dei DPI, le
caratteristiche dei DPI disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate alla lettera b);
d) aggiorna la scelta ogni qualvolta intervenga una variazione significativa negli elementi di valutazione.
2. Il datore di lavoro, anche sulla base delle norme d'uso fornite dal fabbricante, individua le condizioni in cui
un DPI deve essere usato, specie per quanto riguarda la durata dell'uso, in funzione di:
a) entità del rischio;
b) frequenza dell'esposizione al rischio;
c) caratteristiche del posto di lavoro di ciascun lavoratore;
d) prestazioni del DPI.
3. Il datore di lavoro, sulla base delle indicazioni del decreto di cui all’articolo 79, comma 2, fornisce ai
lavoratori DPI conformi ai requisiti previsti dall’articolo 76.
4. Il datore di lavoro:
a) mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d’igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni
e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante;
b) provvede a che i DPI siano utilizzati soltanto per gli usi previsti, salvo casi specifici ed eccezionali,
conformemente alle informazioni del fabbricante;
c) fornisce istruzioni comprensibili per i lavoratori;
d) destina ogni DPI ad un uso personale e, qualora le circostanze richiedano l’uso di uno stesso DPI da parte
di più persone, prende misure adeguate affinché tale uso non ponga alcun problema sanitario e igienico ai
25
vari utilizzatori;
e) informa preliminarmente il lavoratore dei rischi dai quali il DPI lo protegge;
f) rende disponibile nell’azienda ovvero unità produttiva informazioni adeguate su ogni DPI;
g) stabilisce le procedure aziendali da seguire, al termine dell’utilizzo, per la riconsegna e il deposito dei DPI;
h) assicura una formazione adeguata e organizza, se necessario, uno specifico addestramento circa l’uso
corretto e l’utilizzo pratico dei DPI.
5. In ogni caso l’addestramento è indispensabile:
a) per ogni DPI che, ai sensi del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla terza
categoria;
b) per i dispositivi di protezione dell’udito.
Capo III - Impianti e apparecchiature elettriche
Articolo 80 - Obblighi del datore di lavoro
1.
Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché i materiali, le apparecchiature e gli impianti
elettrici messi a disposizione dei lavoratori siano progettati, costruiti, installati, utilizzati e manutenuti in
modo da salvaguardare i lavoratori da tutti i rischi di natura elettrica ed in particolare quelli derivanti da:
a)
contatti elettrici diretti;
b)
contatti elettrici indiretti;
c)
innesco e propagazione di incendi e di ustioni dovuti a sovratemperature pericolose, archi elettrici e
radiazioni;
d)
innesco di esplosioni;
e)
fulminazione diretta ed indiretta;
f)
sovratensioni;
g)
altre condizioni di guasto ragionevolmente prevedibili.
2.
A tal fine il datore di lavoro esegue una valutazione dei rischi di cui al precedente comma 1, tenendo
in considerazione:
a)
le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro, ivi comprese eventuali interferenze;
b)
i rischi presenti nell’ambiente di lavoro;
c)
tutte le condizioni di esercizio prevedibili.
3.
A seguito della valutazione del rischio elettrico il datore di lavoro adotta le misure tecniche ed
organizzative necessarie ad eliminare o ridurre al minimo i rischi presenti, ad individuare i dispositivi di
protezione collettivi ed individuali necessari alla conduzione in sicurezza del lavoro ed a predisporre le
procedure di uso e manutenzione atte a garantire nel tempo la permanenza del livello di sicurezza raggiunto
con l’adozione delle misure di cui al comma 1.
TITOLO XII - DISPOSIZIONI IN MATERIA PENALE E DI PROCEDURA PENALE
Articolo 300 - Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231
1. L’articolo 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme
antinfortunistiche e sulla tutela della igiene e della salute sul lavoro) del decreto legislativo 8 giugno 2001, n.
231, è sostituito dal seguente:
“1. In relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell’articolo 55,
comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 123 del 2007 in materia di salute e
sicurezza nel lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna
per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2,
per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale,
26
commesso con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, si
applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di
condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9,
comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
3. In relazione al delitto di cui all’articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione
delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, si applica una sanzione
pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente
periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei
mesi”.
LEGGE
Decreto legislativo 08.06.2001, n. 231 (G.U.19.06.2001, n. 140)
Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche
prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300.
In vigore dal 4 luglio 2001
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
Visto l' articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;
Visti gli articoli 11 e 14 della legge 29 settembre 2000, n. 300 che delega il Governo ad adottare, entro otto
mesi dalla sua entrata in vigore, un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che
non svolgono funzioni di rilievo costituzionale secondo i principi e criteri direttivi contenuti nell'articolo 11;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione dell'11 aprile 2001;
Acquisiti i pareri delle competenti commissioni permanenti del Senato della Repubblica e della Camera dei
deputati, a norma dell'articolo 14, comma 1, della citata legge 29 settembre 2000, n. 300;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 2 maggio 2001;
Sulla proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e
dell'artigianato e del commercio con l'estero, con il Ministro per le politiche comunitarie e con il Ministro del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica;
Emana
il seguente decreto legislativo:
CAPO I. Responsabilità amministrativa dell'ente - SEZIONE I. Principi generali e criteri di attribuzione della
responsabilità amministrativa
Articolo 1 - Soggetti
1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti
da reato.
2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e
associazioni anche prive di personalità giuridica.
3. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli
enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Articolo 2 - Principio di legalità
1. L'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità
amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge
entrata in vigore prima della commissione del fatto.
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Articolo 3 - Successione di leggi
1. L'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce
più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell'ente, e, se vi è stata
condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti giuridici.
2. Se la legge del tempo in cui è stato commesso l'illecito e le successive sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 non si applicano se si tratta di leggi eccezionali o temporanee.
Articolo 4 - Reati commessi all'estero
1. Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel territorio
dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all'estero, purché nei loro
confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.
2. Nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede
contro l'ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest'ultimo.
Articolo 5 - Responsabilità dell'ente
1. L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una
sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano,
anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di
terzi.
Articolo 6 - Soggetti in posizione apicale e modelli di organizzazione dell'ente
1. Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non
risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato
affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b).
2. In relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla
lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in
relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e
l'osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel
modello.
3. I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma
2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al
Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni,
osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati.
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4. Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti
direttamente dall'organo dirigente.
5. è comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per
equivalente.
Articolo 7 - Soggetti sottoposti all'altrui direzione e modelli di organizzazione dell'ente
1. Nel caso previsto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), l'ente è responsabile se la commissione del reato è
stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
2. In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della
commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e
controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
3. Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività
svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare
tempestivamente situazioni di rischio.
4. L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle
prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Articolo 8 - Autonomia delle responsabilità dell'ente
1. La responsabilità dell'ente sussiste anche quando:
a) l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile;
b) il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia.
2. Salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell'ente quando è concessa
amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l'imputato ha rinunciato alla sua
applicazione.
3. L'ente può rinunciare all'amnistia.
CAPO I. Responsabilità amministrativa dell'ente - SEZIONE II. Sanzioni in generale
Articolo 9 - Sanzioni amministrative
1. Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono:
a) la sanzione pecuniaria;
b) le sanzioni interdittive;
c) la confisca;
d) la pubblicazione della sentenza.
2. Le sanzioni interdittive sono:
a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell'illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un
pubblico servizio;
d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
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Articolo 10 - Sanzione amministrativa pecuniaria
1. Per l'illecito amministrativo dipendente da reato si applica sempre la sanzione pecuniaria.
2. La sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille.
3.L'importo di una quota va da un minimo di lire cinquecentomila ad un massimo di lire tre milioni.
4. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta.
Articolo 11 - Criteri di commisurazione della sanzione pecuniaria
1. Nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto
della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell'ente nonché dell'attività svolta per eliminare o
attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.
2. L'importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente allo scopo di
assicurare l'efficacia della sanzione.
3. Nei casi previsti dall'articolo 12, comma 1, l'importo della quota è sempre di lire duecentomila.
Articolo 12 - Casi di riduzione della sanzione pecuniaria
1. La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a lire duecento milioni
se:
a) l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha
ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
b) il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità;
2. La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado:
a) l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato
ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello
verificatosi.
3. Nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni previste dalle lettere del precedente comma, la
sanzione è ridotta dalla metà ai due terzi.
4. In ogni caso, la sanzione pecuniaria non può essere inferiore a lire venti milioni.
Articolo 13 - Sanzioni interdittive
1. Le sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste, quando
ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
a) l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione
apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è
stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
b) in caso di reiterazione degli illeciti.
2. Le sanzioni interdittive hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni.
3. Le sanzioni interdittive non si applicano nei casi previsti dall'articolo 12, comma 1.
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Articolo 14 - Criteri di scelta delle sanzioni interdittive
1. Le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l'illecito dell'ente. Il
giudice ne determina il tipo e la durata sulla base dei criteri indicati nell'articolo 11, tenendo conto
dell'idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso.
2. Il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione può anche essere limitato a determinati tipi di
contratto o a determinate amministrazioni. L'interdizione dall'esercizio di un'attività comporta la sospensione
ovvero la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali allo svolgimento dell'attività.
3. Se necessario, le sanzioni interdittive possono essere applicate congiuntamente.
4. L'interdizione dall'esercizio dell'attività si applica soltanto quando l'irrogazione di altre sanzioni interdittive
risulta inadeguata.
Articolo 15 - Commissario giudiziale
1. Se sussistono i presupposti per l'applicazione di una sanzione interdittiva che determina l'interruzione
dell'attività dell'ente, il giudice, in luogo dell'applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell'attività
dell'ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata
applicata, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
a) l'ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un
grave pregiudizio alla collettività;
b) l'interruzione dell'attività dell'ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni
economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull'occupazione.
2. Con la sentenza che dispone la prosecuzione dell'attività, il giudice indica i compiti ed i poteri del
commissario, tenendo conto della specifica attività in cui è stato posto in essere l'illecito da parte dell'ente.
3. Nell'ambito dei compiti e dei poteri indicati dal giudice, il commissario cura l'adozione e l'efficace
attuazione dei modelli di organizzazione e di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello
verificatosi. Non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice.
4. Il profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività viene confiscato.
5. La prosecuzione dell'attività da parte del commissario non può essere disposta quando l'interruzione
dell'attività consegue all'applicazione in via definitiva di una sanzione interdittiva.
Articolo 16 - Sanzioni interdittive applicate in via definitiva
1. Può essere disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività se l'ente ha tratto dal reato un
profitto di rilevante entità ed è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni, alla interdizione
temporanea dall'esercizio dell'attività.
2. Il giudice può applicare all'ente, in via definitiva, la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica
amministrazione ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi quando è già stato condannato alla stessa
sanzione almeno tre volte negli ultimi sette anni.
3. Se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di
consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre
disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni previste
dall'articolo 17.
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Articolo 17 - Riparazione delle conseguenze del reato
1. Ferma l'applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:
a) l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato
ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) l'ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e
l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
c) l'ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.
Articolo 18 - Pubblicazione della sentenza di condanna
1. La pubblicazione della sentenza di condanna può essere disposta quando nei confronti dell'ente viene
applicata una sanzione interdittiva.
2. La sentenza è pubblicata una sola volta, per estratto o per intero, in uno o più giornali indicati dal giudice
nella sentenza nonché mediante affissione nel comune ove l'ente ha la sede principale.
3. La pubblicazione della sentenza è eseguita, a cura della cancelleria del giudice, a spese dell'ente.
Articolo 19 - Confisca
1. Nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del
profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti
acquisiti dai terzi in buona fede.
2. Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme
di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato.
Articolo 20 - Reiterazione
1. Si ha reiterazione quando l'ente, già condannato in via definitiva almeno una volta per un illecito
dipendente da reato, ne commette un altro nei cinque anni successivi alla condanna definitiva.
Articolo 21 - Pluralità di illeciti
1. Quando l'ente è responsabile in relazione ad una pluralità di reati commessi con una unica azione od
omissione ovvero commessi nello svolgimento di una medesima attività e prima che per uno di essi sia stata
pronunciata sentenza anche non definitiva, si applica la sanzione pecuniaria prevista per l'illecito più grave
aumentata fino al triplo. Per effetto di detto aumento, l'ammontare della sanzione pecuniaria non può
comunque essere superiore alla somma delle sanzioni applicabili per ciascun illecito.
2. Nei casi previsti dal comma 1, quando in relazione a uno o più degli illeciti ricorrono le condizioni per
l'applicazione delle sanzioni interdittive, si applica quella prevista per l'illecito più grave.
Articolo 22 - Prescrizione
1. Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato.
2. Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione
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dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59.
3. Per effetto della interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione.
4. Se l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, la
prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.
Articolo 23 - Inosservanza delle sanzioni interdittive
1. Chiunque, nello svolgimento dell'attività dell'ente a cui è stata applicata una sanzione o una misura
cautelare interdittiva trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti a tali sanzioni o misure, è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni.
2. Nel caso di cui al comma 1, nei confronti dell'ente nell'interesse o a vantaggio del quale il reato è stato
commesso, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da duecento e seicento quote e la confisca del
profitto, a norma dell'articolo 19.
3. Se dal reato di cui al comma 1, l'ente ha tratto un profitto rilevante, si applicano le sanzioni interdittive,
anche diverse da quelle in precedenza irrogate.
CAPO I. Responsabilità amministrativa dell'ente - SEZIONE III. Responsabilità amministrativa da reato
Articolo 24 - Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il
conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico
1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 316 bis, 316 ter, 640, comma 2, n. 1, 640 bis e
640 ter se commesso in danno dello Stato o di altro ente pubblico, del codice penale, si applica all'ente la
sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote.
2. Se, in seguito alla commissione dei delitti di cui al comma 1, l'ente ha conseguito un profitto di rilevante
entità o è derivato un danno di particolare gravità; si applica la sanzione pecuniaria da duecento a seicento
quote.
3. Nei casi previsti dai commi precedenti, si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma
2, lettere c), d) ed e). (1)
-----
(1) La rubrica della sezione cui il presente articolo appartiene, è stata così sostituita dall'art. 3, D.Lgs. 11.04.2002, n. 61,
con decorrenza dal 16.04.2002. Si riporta di seguito il testo previgente: "Responsabilità amministrativa per reati previsti
dal codice penale"
Articolo 25 - Concussione e corruzione
1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321 e 322, commi 1 e 3, del codice penale,
si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote.
2. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 319, 319 ter, comma 1, 321, 322, commi 2 e 4,
del codice penale, si applica all'ente la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote.
3. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 317, 319, aggravato ai sensi dell'articolo 319 bis
quando dal fatto l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, 319 ter, comma 2, e 321 del codice
penale, si applica all'ente la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote.
4. Le sanzioni pecuniarie previste per i delitti di cui ai commi da 1 a 3, si applicano all'ente anche quando tali
delitti sono stati commessi dalle persone indicate negli articoli 320 e 322 bis.
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5. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive
previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno. (1)
----
(1) La rubrica della sezione cui il presente articolo appartiene, è stata così sostituita dall'art. 3, D.Lgs. 11.04.2002, n. 61,
con decorrenza dal 16.04.2002. Si riporta di seguito il testo previgente: "Responsabilità amministrativa per reati previsti
dal codice penale"
Articolo 25 Bis - Falsità in monete, in carte di pubblico credito e in valori di bollo
In vigore dal 27 settembre 2001
1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal codice penale in materia di falsita' in monete, in carte
di pubblico credito e in valori di bollo, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di cui all'articolo 453 la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote;
b) per i delitti di cui agli articoli 454, 460 e 461 la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
c) per il delitto di cui all'articolo 455 le sanzioni pecuniarie stabilite dalla lettera a), in relazione all'articolo
453, e dalla lettera b), in relazione all'articolo 454, ridotte da un terzo alla meta';
d) per i delitti di cui agli articoli 457 e 464, secondo comma, le sanzioni pecuniarie fino a duecento quote;
e) per il delitto di cui all'articolo 459 le sanzioni pecuniarie previste dalle lettere a), c) e d) ridotte di un
terzo;
f) per il delitto di cui all'articolo 464, primo comma, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote.
2. Nei casi di condanna per uno dei delitti di cui agli articoli 453, 454, 455, 459, 460 e 461 del codice penale,
si applicano all'ente le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore ad
un anno. (1) (2)
-----
(1) Il presente articolo è stato aggiunto dall'art. 6, D.L. 25.09.2001, n. 350.
(2) La rubrica della sezione cui il presente articolo appartiene, è stata così sostituita dall'art. 3, D.Lgs. 11.04.2002, n. 61,
con decorrenza dal 16.04.2002. Si riporta di seguito il testo previgente: "Responsabilità amministrativa per reati previsti
dal codice penale"
Articolo 25 Ter - Reati societari
1. In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell'interesse della societa'
da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto
non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica, si
applicano le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per la contravvenzione di false comunicazioni sociali, prevista dall' articolo 2621 del codice civile, la
sanzione pecuniaria da cento a centocinquanta quote;
b) per il delitto di false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, previsto dall' articolo 2622,
primo comma, del codice civile, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a trecentotrenta quote;
c) per il delitto di false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, previsto dall' articolo 2622,
terzo comma, del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote;
d) per la contravvenzione di falso in prospetto, prevista dall' articolo 2623, primo comma, del codice civile, la
sanzione pecuniaria da cento a centotrenta quote;
e) per il delitto di falso in prospetto, previsto dall' articolo 2623, secondo comma, del codice civile, la
sanzione pecuniaria da duecento a trecentotrenta quote;
f) per la contravvenzione di falsita' nelle relazioni o nelle
comunicazioni delle societa' di revisione, prevista dall' articolo 2624, primo comma, del codice civile, la
sanzione pecuniaria da cento a centotrenta quote;
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g) per il delitto di falsita' nelle relazioni o nelle comunicazioni delle societa' di revisione, previsto dall' articolo
2624, secondo comma, del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote;
h) per il delitto di impedito controllo, previsto dall' articolo 2625, secondo comma, del codice civile, la
sanzione pecuniaria da cento a centottanta quote;
i) per il delitto di formazione fittizia del capitale, previsto dall' articolo 2632 del codice civile, la sanzione
pecuniaria da cento a centottanta quote;
l) per il delitto di indebita restituzione dei conferimenti, previsto dall' articolo 2626 del codice civile, la
sanzione pecuniaria da cento a centottanta quote;
m) per la contravvenzione di illegale ripartizione degli utili e delle riserve, prevista dall' articolo 2627 del
codice civile, la sanzione pecuniaria da cento a centotrenta quote;
n) per il delitto di illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della societa' controllante, previsto dall'
articolo 2628 del codice civile, la sanzione pecuniaria da cento a centottanta quote;
o) per il delitto di operazioni in pregiudizio dei creditori, previsto dall' articolo 2629 del codice civile, la
sanzione pecuniaria da centocinquanta a trecentotrenta quote;
p) per il delitto di indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, previsto dall' articolo 2633 del
codice civile, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a trecentotrenta quote;
q) per il delitto di illecita influenza sull'assemblea, previsto dall' articolo 2636 del codice civile, la sanzione
pecuniaria da centocinquanta a trecentotrenta quote;
r) per il delitto di aggiotaggio, previsto dall' articolo 2637 del codice civile e per il delitto di omessa
comunicazione del conflitto d'interessi previsto dall'articolo 2629 bis del codice civile, la sanzione pecuniaria
da duecento a cinquecento quote; (3)
s) per i delitti di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, previsti dall' articolo
2638, primo e secondo comma, del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote;
3. Se, in seguito alla commissione dei reati di cui al comma 1, l'ente ha conseguito un profitto di rilevante
entità la sanzione pecuniaria e' aumentata di un terzo. (1) (2)
-----
(1) Il presente articolo è stato aggiunto dall' art. 3, D.Lgs. 11.04.2002, n. 61, con decorrenza dal 16.04.2002.
(2) La rubrica della sezione cui il presente articolo appartiene, è stata così sostituita dall' art. 3, D.Lgs. 11.04.2002, n. 61,
con decorrenza dal 16.04.2002. Si riporta di seguito il testo previgente: "Responsabilità amministrativa per reati previsti
dal codice penale"
(3) La presente lettera è stata così modificata dall'art. 31 comma 2, L. 28.12.2005, n. 262 con decorrenza 12.01.2006. Si
riporta di seguito il testo previgente:
"r) per il delitto di aggiotaggio, previsto dall' articolo 2637 del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a
cinquecento quote;"
(4) Le sanzioni pecuniarie previste dal presente articolo sono raddoppiate in virtù di quanto disposto dall'art. 39 comma
5, L. 28.12.2005, n. 262 con decorrenza 12.01.2006.
Articolo 25 Quater - Delitti con finalita' di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico
testo in vigore dal 28 gennaio 2003
1. In relazione alla commissione dei delitti aventi finalita' di terrorismo o di eversione dell'ordine
democratico, previsti dal codice penale e dalle leggi speciali, si applicano all'ente le seguenti sanzioni
pecuniarie:
a) se il delitto e' punito con la pena della reclusione inferiore a dieci anni, la sanzione pecuniaria da duecento
a settecento quote;
b) se il delitto e' punito con la pena della reclusione non inferiore a dieci anni o con l'ergastolo, la sanzione
pecuniaria da quattrocento a mille quote.
2. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 1, si applicano le sanzioni interdittive previste
dall'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno.
3. Se l'ente o una sua unita' organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di
consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nel comma 1, si applica la sanzione dell'interdizione
35
definitiva dall'esercizio dell'attivita' ai sensi dell'articolo 16, comma 3.
4. Le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 si applicano altresi' in relazione alla commissione di delitti, diversi da
quelli indicati nel comma 1, che siano comunque stati posti in essere in violazione di quanto previsto
dall'articolo 2 della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo fatta a
New York il 9 dicembre 1999. (1)
----(1) Il presente articolo è stato aggiunto dall'art. 3, L. 14.01.2003, n. 7, con decorrenza dal 28.01.2003.
Articolo 25 Quater 1 - Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili
testo in vigore dal 2 febbraio 2006
1. In relazione alla commissione dei delitti di cui all'articolo 583 bis del codice penale si applicano all'ente,
nella cui struttura è commesso il delitto, la sanzione pecuniaria da 300 a 700 quote e le sanzioni interdittive
previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno. Nel caso in cui si tratti di un ente
privato accreditato è altresì revocato l'accreditamento.
2. Se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di
consentire o agevolare la commissione dei delitti indicati al comma 1, si applica la sanzione dell'interdizione
definitiva dall'esercizio dell'attività ai sensi dell'articolo 16, comma 3. (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato inserito dall'art. 8 L. 09.01.2006, n. 7, con decorrenza dal 02.02.2006.
Articolo 25 Quinquies - Delitti contro la personalità individuale
In vigore dal 7 settembre 2003
1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dalla sezione I del capo III del titolo XII del libro II del
codice penale si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote;
b) per i delitti di cui agli articoli 600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, anche se relativi al
materiale
pornografico di cui all'articolo 600 quater.1, e 600 quinquies, la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento
quote;
c) per i delitti di cui agli articoli 600 bis, secondo comma, 600 ter, terzo e quarto comma, e 600 quater,
anche se relativi al materiale pornografico di cui all'articolo 600 quater.l, la sanzione pecuniaria da duecento
a settecento quote. (2)
2. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 1, lettere a) e b), si applicano le sanzioni
interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno.
3. Se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di
consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nel comma 1, si applica la sanzione dell'interdizione
definitiva dall'esercizio dell'attività ai sensi dell'articolo 16, comma 3. (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato aggiunto dall' art. 5, L. 11.08.2003, n. 228, con decorrenza dal 07.09.2003.
(2) Il presente comma è stato così modificato dall'art. 10 L. 06.02.2006, n. 38 (G.U. 15.02.2006, n. 38), con decorrenza
dal 02.03.2006. Si riporta di seguito il testo previgente:
"1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dalla sezione I del capo III del titolo XII del libro II del codice penale
si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote;
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b) per i delitti di cui agli articoli 600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, e 600 quinquies, la sanzione
pecuniaria da trecento a ottocento quote;
c) per i delitti di cui agli articoli 600 bis, secondo comma, 600 ter, terzo e quarto comma, e 600 quater, la sanzione
pecuniaria da duecento a settecento quote."
Articolo 25 Sexies - Abusi di mercato
testo in vigore dal 12 maggio 2005
1. In relazione ai reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato previsti dalla parte
V, titolo I bis, capo II, del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 si applica all'ente la
sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote.
2. Se, in seguito alla commissione dei reati di cui al comma 1, il prodotto o il profitto conseguito dall'ente è
di rilevante entità, la sanzione è aumentata fino a dieci volte tale prodotto o profitto. (1)
----(1) Il presente articolo è stato inserito dall' art. 9, L. 18.04.2005, n. 62, con decorrenza dal 12.05.2005.
Articolo 25 Septies - Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle
norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro
1. In relazione ai delitti di cui agli articoli 589 e 590, terzo comma, del codice penale, commessi con
violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro, si applica una
sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote.
2. Nel caso di condanna per uno dei delitti di cui al comma 1, si applicano le sanzioni interdittive di cui
all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato aggiunto dall'art. 9 L. 03.08.2007, n. 123 (G.U. 10.08.2007, n. 185).
Articolo 25 Octies - Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita
testo in vigore dal 29 dicembre 2007
1. In relazione ai reati di cui agli articoli 648, 648 bis e 648 ter del codice penale, si applica all'ente la
sanzione pecuniaria da 200 a 800 quote. Nel caso in cui il denaro, i beni o le altre utilità provengono da
delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni si applica la
sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote.
2. Nei casi di condanna per uno dei delitti di cui al comma 1 si applicano all'ente le sanzioni interdittive
previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a due anni.
3. In relazione agli illeciti di cui ai commi 1 e 2, il Ministero della giustizia, sentito il parere dell'UIF, formula
le osservazioni di cui all'articolo 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231. (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato inserito dall'art. 63 D.Lgs. 21.11.2007, n. 231, con decorrenza dal 29.12.2007.
Articolo 26 - Delitti tentati
1. Le sanzioni pecuniarie e interdittive sono ridotte da un terzo alla metà in relazione alla commissione, nelle
forme del tentativo, dei delitti indicati nel presente capo del decreto.
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2. L'ente non risponde quando volontariamente impedisce il compimento dell'azione o la realizzazione
dell'evento. (1)
-----
(1) La rubrica della sezione cui il presente articolo appartiene, è stata così sostituita dall'art. 3, D.Lgs. 11.04.2002, n. 61,
con decorrenza dal 16.04.2002. Si riporta di seguito il testo previgente: "Responsabilità amministrativa per reati previsti
dal codice penale"
CAPO II. Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell'ente - SEZIONE I. Responsabilità
patrimoniale dell'ente
Articolo 27 - Responsabilità patrimoniale dell'ente
1. Dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde soltanto l'ente con il suo patrimonio
o con il fondo comune.
2. I crediti dello Stato derivanti degli illeciti amministrativi dell'ente relativi a reati hanno privilegio secondo le
disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato. A tale fine, la sanzione pecuniaria
si intende equiparata alla pena pecuniaria.
CAPO II. Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell'ente - SEZIONE II. Vicende modificative
dell'ente
Articolo 28 - Trasformazione dell'ente
1. Nel caso di trasformazione dell'ente, resta ferma la responsabilità per i reati commessi anteriormente alla
data in cui la trasformazione ha avuto effetto.
Articolo 29 - Fusione dell'ente
1. Nel caso di fusione, anche per incorporazione, l'ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano
responsabili gli enti partecipanti alla fusione.
Articolo 30 - Scissione dell'ente
1. Nel caso di scissione parziale, resta ferma la responsabilità dell'ente scisso per i reati commessi
anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto, salvo quanto previsto dal comma 3.
2. Gli enti beneficiari della scissione, sia totale che parziale, sono solidalmente obbligati al pagamento delle
sanzioni pecuniarie dovute dall'ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la
scissione ha avuto effetto. L'obbligo è limitato al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo
ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell'ambito del
quale è stato commesso il reato.
3. Le sanzioni interdittive relative ai reati indicati nel comma 2, si applicano agli enti cui è rimasto o è stato
trasferito, anche in parte, il ramo di attività nell'ambito del quale il reato è stato commesso.
Articolo 31 - Determinazione delle sanzioni nel caso di fusione o scissione
1. Se la fusione o la scissione è avvenuta prima della conclusione del giudizio, il giudice, nella
commisurazione della sanzione pecuniaria a norma dell'articolo 11, comma 2, tiene conto delle condizioni
economiche e patrimoniali dell'ente originariamente responsabile.
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2. Salvo quanto previsto dall'articolo 17, l'ente risultante dalla fusione e l'ente al quale, nel caso di scissione,
è applicabile la sanzione interdittiva possono chiedere al giudice la sostituzione della medesima con la
sanzione pecuniaria, qualora, a seguito della fusione o della scissione, si sia realizzata la condizione prevista
dalla lettera b) del comma 1 dell'articolo 17, e ricorrano le ulteriori condizioni di cui alle lettere a) e c) del
medesimo articolo.
3. Se accoglie la richiesta, il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, sostituisce la sanzione
interdittiva con una sanzione pecuniaria di ammontare pari da una a due volte quello della sanzione
pecuniaria inflitta all'ente in relazione al medesimo reato.
4. Resta salva la facoltà dell'ente, anche nei casi di fusione o scissione successiva alla conclusione del
giudizio, di chiedere la conversione della sanzione interdittiva in sanzione pecuniaria.
Articolo 32 - Rilevanza della fusione o della scissione ai fini della reiterazione
1. Nei casi di responsabilità dell'ente risultante dalla fusione o beneficiario della scissione per reati commessi
successivamente alla data dalla quale la fusione o la scissione ha avuto effetto, il giudice può ritenere la
reiterazione, a norma dell'articolo 20, anche in rapporto a condanne pronunciate nei confronti degli enti
partecipanti alla fusione o dell'ente scisso per reati commessi anteriormente a tale data.
2. A tale fine, il giudice tiene conto della natura delle violazioni e dell'attività nell'ambito della quale sono
state commesse nonché delle caratteristiche della fusione o della scissione.
3. Rispetto agli enti beneficiari della scissione, la reiterazione può essere ritenuta, a norma dei commi 1 e 2,
solo se ad essi è stato trasferito, anche in parte, il ramo di attività nell'ambito del quale è stato commesso il
reato per cui è stata pronunciata condanna nei confronti dell'ente scisso.
Articolo 33 - Rilevanza della fusione o della scissione ai fini della reiterazione
1. Nel caso di cessione dell'azienda nella cui attività è stato commesso il reato, il cessionario è solidalmente
obbligato, salvo il beneficio della preventiva escussione dell'ente cedente e nei limiti del valore dell'azienda,
al pagamento della sanzione pecuniaria.
2. L'obbligazione del cessionario è limitata alle sanzioni pecuniarie che risultano dai libri contabili obbligatori,
ovvero dovute per illeciti amministrativi dei quali egli era comunque a conoscenza.
3. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche nel caso di conferimento di azienda.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE I.
Disposizioni generali
Articolo 34 - Disposizioni processuali applicabili
1. Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di questo
capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271.
Articolo 35 - Estensione della disciplina relativa all'imputato
1. All'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili.
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CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE II.
Soggetti, giurisdizione e competenza
Articolo 36 - Attribuzioni del giudice penale
1. La competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell'ente appartiene al giudice penale competente per
i reati dai quali gli stessi dipendono.
2. Per il procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo dell'ente si osservano le disposizioni sulla
composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l'illecito
amministrativo dipende.
Articolo 37 - Casi di improcedibilità
1. Non si procede all'accertamento dell'illecito amministrativo dell'ente quando l'azione penale non può
essere iniziata o proseguita nei confronti dell'autore del reato per la mancanza di una condizione di
procedibilità.
Articolo 38 - Riunione e separazione dei procedimenti
1. Il procedimento per l'illecito amministrativo dell'ente è riunito al procedimento penale instaurato nei
confronti dell'autore del reato da cui l'illecito dipende.
2. Si procede separatamente per l'illecito amministrativo dell'ente soltanto quando:
a) è stata ordinata la sospensione del procedimento ai sensi dell'articolo 71 del codice di procedura penale;
b) il procedimento è stato definito con il giudizio abbreviato o con l'applicazione della pena ai sensi
dell'articolo 444 del codice di procedura penale, ovvero è stato emesso il decreto penale di condanna;
c) l'osservanza delle disposizioni processuali lo rende necessario.
Articolo 39 - Rappresentanza dell'ente
1. L'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia
imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo.
2. L'ente che intende partecipare al procedimento si costituisce depositando nella cancelleria dell'autorità
giudiziaria procedente una dichiarazione contenente a pena di inammissibilità:
a) la denominazione dell'ente e le generalità del suo legale rappresentante;
b) il nome ed il cognome del difensore e l'indicazione della procura;
c) la sottoscrizione del difensore;
d) la dichiarazione o l'elezione di domicilio.
3. La procura, conferita nelle forme previste dall'articolo 100, comma 1, del codice di procedura penale, è
depositata nella segreteria del pubblico ministero o nella cancelleria del giudice ovvero è presentata in
udienza unitamente alla dichiarazione di cui al comma 2.
4. Quando non compare il legale rappresentante, l'ente costituito è rappresentato dal difensore.
Articolo 40 - Difensore di ufficio
1. L'ente che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore di
ufficio.
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Articolo 41 - Contumacia dell'ente
1. L'ente che non si costituisce nel processo è dichiarato contumace.
Articolo 42 - Vicende modificative dell'ente nel corso del processo
1. Nel caso di trasformazione, di fusione o di scissione dell'ente originariamente responsabile, il
procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della
scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova, depositando la dichiarazione di cui
all'articolo 39, comma 2.
Articolo 43 - Notificazioni all'ente
1. Per la prima notificazione all'ente si osservano le disposizioni dell'articolo 154, comma 3, del codice di
procedura penale.
2. Sono comunque valide le notificazioni eseguite mediante consegna al legale rappresentante, anche se
imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo.
3. Se l'ente ha dichiarato o eletto domicilio nella dichiarazione di cui all'articolo 39 o in altro atto comunicato
all'autorità giudiziaria, le notificazioni sono eseguite ai sensi dell'articolo 161 del codice di procedura penale.
4. Se non è possibile eseguire le notificazioni nei modi previsti dai commi precedenti, l'autorità giudiziaria
dispone nuove ricerche.
Qualora le ricerche non diano esito positivo, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sospende il
procedimento.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE III. Prove
Articolo 44 - Incompatibilità con l'ufficio di testimone
1. Non può essere assunta come testimone:
a) la persona imputata del reato da cui dipende l'illecito amministrativo;
b) la persona che rappresenta l'ente indicata nella dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2, e che
rivestiva tale funzione anche al momento della commissione del reato.
2. Nel caso di incompatibilità la persona che rappresenta l'ente può essere interrogata ed esaminata nelle
forme, con i limiti e con gli effetti previsti per l'interrogatorio e per l'esame della persona imputata in un
procedimento connesso.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE IV.
Misure cautelari
Articolo 45 - Applicazione delle misure cautelari
1. Quando sussistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell'ente per un illecito
amministrativo dipendente da reato e vi sono fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il
pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede, il pubblico ministero
può richiedere l'applicazione quale misura cautelare di una delle sanzioni interdittive previste dall'articolo 9,
comma 2, presentando al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, compresi quelli a favore dell'ente e
le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate.
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2. Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza, in cui indica anche le modalità applicative della misura.
Si osservano le disposizioni dell'articolo 292 del codice di procedura penale.
3. In luogo della misura cautelare interdittiva, il giudice può nominare un commissario giudiziale a norma
dell'articolo 15 per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata.
Articolo 46 - Criteri di scelta delle misure
1. Nel disporre le misure cautelari, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla
natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto.
2. Ogni misura cautelare deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa
essere applicata all'ente.
3. L'interdizione dall'esercizio dell'attività può essere disposta in via cautelare soltanto quando ogni altra
misura risulti inadeguata.
4. Le misure cautelari non possono essere applicate congiuntamente.
Articolo 47 - Giudice competente e procedimento di applicazione
1. Sull'applicazione e sulla revoca delle misure cautelari nonché sulle modifiche delle loro modalità esecutive,
provvede il giudice che procede. Nel corso delle indagini provvede il giudice per le indagini preliminari. Si
applicano altresì le disposizioni di cui all'articolo 91 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
2. Se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data
dell'udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all'ente e ai difensori. L'ente e i difensori sono altresì
avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli
elementi sui quali la stessa si fonda.
3. Nell'udienza prevista dal comma 2, si osservano le forme dell'articolo 127, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 10, del
codice di procedura penale; i termini previsti ai commi 1 e 2 del medesimo articolo sono ridotti
rispettivamente a cinque e a tre giorni. Tra il deposito della richiesta e la data dell'udienza non può
intercorrere un termine superiore a quindici giorni.
Articolo 48 - Adempimenti esecutivi
1. L'ordinanza che dispone l'applicazione di una misura cautelare è notificata all'ente a cura del pubblico
ministero.
Articolo 49 - Sospensione delle misure cautelari
1. Le misure cautelari possono essere sospese se l'ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la
legge condiziona l'esclusione di sanzioni interdittive a norma dell'articolo 17. In tal caso, il giudice, sentito il
pubblico ministero, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro a titolo di cauzione,
dispone la sospensione della misura e indica il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui al
medesimo articolo 17.
2. La cauzione consiste nel deposito presso la Cassa delle ammende di una somma di denaro che non può
comunque essere inferiore alla metà della sanzione pecuniaria minima prevista per l'illecito per cui si
procede. In luogo del deposito, è ammessa la prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione
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solidale.
3. Nel caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura
cautelare viene ripristinata e la somma depositata o per la quale è stata data garanzia è devoluta alla Cassa
delle ammende.
4. Se si realizzano le condizioni di cui all'articolo 17 il giudice revoca la misura cautelare e ordina la
restituzione della somma depositata o la cancellazione dell'ipoteca; la fideiussione prestata si estingue.
Articolo 50 - Revoca e sostituzione delle misure cautelari
1. Le misure cautelari sono revocate anche d'ufficio quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti,
le condizioni di applicabilità previste dall'articolo 45 ovvero quando ricorrono le ipotesi previste dall'articolo
17.
2. Quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata
all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere applicata in via definitiva, il giudice, su richiesta
del pubblico ministero o dell'ente, sostituisce la misura con un'altra meno grave ovvero ne dispone
l'applicazione con modalità meno gravose, anche stabilendo una minore durata.
Articolo 51 - Durata massima delle misure cautelari
1. Nel disporre le misure cautelari il giudice ne determina la durata, che non può superare la metà del
termine massimo indicato dall'articolo 13, comma 2.
2. Dopo la sentenza di condanna di primo grado, la durata della misura cautelare può avere la stessa durata
della corrispondente sanzione applicata con la medesima sentenza. In ogni caso, la durata della misura
cautelare non può superare i due terzi del termine massimo indicato dall'articolo 13, comma 2.
3. Il termine di durata delle misure cautelari decorre dalla data della notifica dell'ordinanza.
4. La durata delle misure cautelari è computata nella durata delle sanzioni applicate in via definitiva.
Articolo 52 - Impugnazione dei provvedimenti che applicano le misure cautelari
1. Il pubblico ministero e l'ente, per mezzo del suo difensore, possono proporre appello contro tutti i
provvedimenti in materia di misure cautelari, indicandone contestualmente i motivi. Si osservano le
disposizioni di cui all'articolo 322-bis, commi 1-bis e 2, del codice di procedura penale.
2. Contro il provvedimento emesso a norma del comma 1, il pubblico ministero e l'ente, per mezzo del suo
difensore, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge. Si osservano le disposizioni di cui
all'articolo 325 del codice di procedura penale.
Articolo 53 - Sequestro preventivo
1. Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell'articolo 19. Si
osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di
procedura penale, in quanto applicabili.
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Articolo 54 - Sequestro conservativo
1. Se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della
sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato, il
pubblico ministero, in ogni stato e grado del processo di merito, chiede il sequestro conservativo dei beni
mobili e immobili dell'ente o delle somme o cose allo stesso dovute. Si osservano le disposizioni di cui agli
articoli 316, comma 4, 317, 318, 319 e 320 del codice di procedura penale, in quanto applicabili.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE V.
Indagini preliminari e udienza preliminare
Articolo 55 - Annotazione dell'illecito amministrativo
1. Il pubblico ministero che acquisisce la notizia dell'illecito amministrativo dipendente da reato commesso
dall'ente annota immediatamente, nel registro di cui all'articolo 335 del codice di procedura penale, gli
elementi identificativi dell'ente unitamente, ove possibile, alle generalità del suo legale rappresentante
nonché il reato da cui dipende l'illecito.
2. L'annotazione di cui al comma 1 è comunicata all'ente o al suo difensore che ne faccia richiesta negli
stessi limiti in cui è consentita la comunicazione delle iscrizioni della notizia di reato alla persona alla quale il
reato è attribuito.
Articolo 56 - Termine per l'accertamento dell'illecito amministrativo nelle indagini preliminari
1. Il pubblico ministero procede all'accertamento dell'illecito amministrativo negli stessi termini previsti per le
indagini preliminari relative al reato da cui dipende l'illecito stesso.
2. Il termine per l'accertamento dell'illecito amministrativo a carico dell'ente decorre dalla annotazione
prevista dall'articolo 55.
Articolo 57 - Informazione di garanzia
1. L'informazione di garanzia inviata all'ente deve contenere l'invito a dichiarare ovvero eleggere domicilio
per le notificazioni nonché l'avvertimento che per partecipare al procedimento deve depositare la
dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2.
Articolo 58 - Archiviazione
1. Se non procede alla contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59, il pubblico ministero
emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte
d'appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano
le condizioni, contesta all'ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla
comunicazione.
Articolo 59 - Contestazione dell'illecito amministrativo
1. Quando non dispone l'archiviazione, il pubblico ministero contesta all'ente l'illecito amministrativo
dipendente dal reato. La contestazione dell'illecito è contenuta in uno degli atti indicati dall'articolo 405,
comma 1, del codice di procedura penale.
2. La contestazione contiene gli elementi identificativi dell'ente, l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del
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fatto che può comportare l'applicazione delle sanzioni amministrative, con l'indicazione del reato da cui
l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova.
Articolo 60 - Decadenza dalla contestazione
1. Non può procedersi alla contestazione di cui all'articolo 59 quando il reato da cui dipende l'illecito
amministrativo dell'ente è estinto per prescrizione.
Articolo 61 - Provvedimenti emessi nell'udienza preliminare
1. Il giudice dell'udienza preliminare pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi di estinzione o di
improcedibilità della sanzione amministrativa, ovvero quando l'illecito stesso non sussiste o gli elementi
acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere in giudizio la responsabilità
dell'ente. Si applicano le disposizioni dell'articolo 426 del codice di procedura penale.
2. Il decreto che, a seguito dell'udienza preliminare, dispone il giudizio nei confronti dell'ente, contiene, a
pena di nullità, la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente dal reato, con l'enunciazione, in forma
chiara e precisa, del fatto che può comportare l'applicazione delle sanzioni e l'indicazione del reato da cui
l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova nonché gli elementi identificativi dell'ente.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE VI Procedimenti speciali
Articolo 62 - Giudizio abbreviato
1. Per il giudizio abbreviato si osservano le disposizioni del titolo I del libro sesto del codice di procedura
penale, in quanto applicabili.
2. Se manca l'udienza preliminare, si applicano, secondo i casi, le disposizioni degli articoli 555, comma 2,
557 e 558, comma 8.
3. La riduzione di cui all'articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale è operata sulla durata della
sanzione interdittiva e sull'ammontare della sanzione pecuniaria.
4. In ogni caso, il giudizio abbreviato non è ammesso quando per l'illecito amministrativo è prevista
l'applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva.
Articolo 63 - Applicazione della sanzione su richiesta
1. L'applicazione all'ente della sanzione su richiesta è ammessa se il giudizio nei confronti dell'imputato è
definito ovvero definibile a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale nonché in tutti i casi in cui
per l'illecito amministrativo è prevista la sola sanzione pecuniaria. Si osservano le disposizioni di cui al titolo
II del libro sesto del codice di procedura penale, in quanto applicabili.
2. Nei casi in cui è applicabile la sanzione su richiesta, la riduzione di cui all'articolo 444, comma 1, del codice
di procedura penale è operata sulla durata della sanzione interdittiva e sull'ammontare della sanzione
pecuniaria.
3. Il giudice, se ritiene che debba essere applicata una sanzione interdittiva in via definitiva, rigetta la
richiesta.
Articolo 64 - Procedimento per decreto
1. Il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare la sola sanzione pecuniaria, può presentare al
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giudice per le indagini preliminari, entro sei mesi dalla data dell'annotazione dell'illecito amministrativo nel
registro di cui all'articolo 55 e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto di
applicazione della sanzione pecuniaria, indicandone la misura.
2. Il pubblico ministero può chiedere l'applicazione di una sanzione pecuniaria diminuita sino alla metà
rispetto al minimo dell'importo applicabile.
3. Il giudice, quando non accoglie la richiesta, se non deve pronunciare sentenza di esclusione della
responsabilità dell'ente, restituisce gli atti al pubblico ministero.
4. Si osservano le disposizioni del titolo V del libro sesto e dell'articolo 557 del codice di procedura penale, in
quanto compatibili.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE VII.
Giudizio
Articolo 65 - Termine per provvedere alla riparazione delle conseguenze del reato
1. Prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, il giudice può disporre la sospensione del processo se
l'ente chiede di provvedere alle attività di cui all'articolo 17 e dimostra di essere stato nell'impossibilità di
effettuarle prima. In tal caso, il giudice, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro
a titolo di cauzione. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 49.
Articolo 66 - Sentenza di esclusione della responsabilità dell'ente
1. Se l'illecito amministrativo contestato all'ente non sussiste, il giudice lo dichiara con sentenza, indicandone
la causa nel dispositivo. Allo stesso modo procede quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova
dell'illecito amministrativo.
Articolo 67 - Sentenza di non doversi procedere
1. Il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere nei casi previsti dall'articolo 60 e quando la
sanzione è estinta per prescrizione.
Articolo 68 - Provvedimenti sulle misure cautelari
1. Quando pronuncia una delle sentenza di cui agli articoli 66 e 67, il giudice dichiara la cessazione delle
misure cautelari eventualmente disposte.
Articolo 69 - Sentenza di condanna
1. Se l'ente risulta responsabile dell'illecito amministrativo contestato il giudice applica le sanzioni previste
dalla legge e lo condanna al pagamento delle spese processuali.
2. In caso di applicazione delle sanzioni interdittive la sentenza deve sempre indicare l'attività o le strutture
oggetto della sanzione.
Articolo 70 - Sentenza in caso di vicende modificative dell'ente
1. Nel caso di trasformazione, fusione o scissione dell'ente responsabile, il giudice dà atto nel dispositivo che
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la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiari
della scissione, indicando l'ente originariamente responsabile.
2. La sentenza pronunciata nei confronti dell'ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche
nei confronti degli enti indicati nel comma 1.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE VIII Impugnazioni
Articolo 71 - Impugnazioni delle sentenze relative alla responsabilità amministrativa dell'ente
1. Contro la sentenza che applica sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive l'ente può proporre
impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo.
2. Contro la sentenza che applica una o più sanzioni interdittive, l'ente può sempre proporre appello anche
se questo non è ammesso per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo.
3. Contro la sentenza che riguarda l'illecito amministrativo il pubblico ministero può proporre le stesse
impugnazioni consentite per il reato da cui l'illecito amministrativo dipende.
Articolo 72 - Estensione delle impugnazioni
1. Le impugnazioni proposte dall'imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo e dall'ente,
giovano, rispettivamente, all'ente e all'imputato, purché non fondate su motivi esclusivamente personali.
Articolo 73 - Revisione delle sentenze
1. Alle sentenze pronunciate nei confronti dell'ente si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del
titolo IV del libro nono del codice di procedura penale ad eccezione degli articoli 643, 644, 645, 646 e 647.
CAPO III. Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative - SEZIONE IX.
Esecuzione
Articolo 74 - Giudice dell'esecuzione
1. Competente a conoscere dell'esecuzione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato è il giudice
indicato nell'articolo 665 del codice di procedura penale.
2. Il giudice indicato nel comma 1 è pure competente per i provvedimenti relativi:
a) alla cessazione dell'esecuzione delle sanzioni nei casi previsti dall'articolo 3;
b) alla cessazione dell'esecuzione nei casi di estinzione del reato per amnistia;
c) alla determinazione della sanzione amministrativa applicabile nei casi previsti dall'articolo 21, commi 1 e 2;
d) alla confisca e alla restituzione delle cose sequestrate.
3. Nel procedimento di esecuzione si osservano le disposizioni di cui all'articolo 666 del codice di procedura
penale, in quanto applicabili. Nei casi previsti dal comma 2, lettere b) e d) si osservano le disposizioni di cui
all'articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.
4. Quando è applicata l'interdizione dall'esercizio dell'attività, il giudice, su richiesta dell'ente, può autorizzare
il compimento di atti di gestione ordinaria che non comportino la prosecuzione dell'attività interdetta. Si
osservano le disposizioni di cui all'articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.
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Articolo 75 - Esecuzione delle sanzioni pecuniarie
[1. Le condanne al pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie sono eseguite nei modi stabiliti per
l'esecuzione delle pene pecuniarie.
2. Per il pagamento rateale, per la dilazione del pagamento e per la sospensione della riscossione delle
sanzioni amministrative pecuniarie si osservano le disposizioni di cui agli articoli 19 e 19 bis del decreto del
Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 come modificato dall' articolo 7 del decreto legislativo
26 febbraio 1999, n. 46.] (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato abrogato dall' art. 299, D.P.R. 30.05.2002, n. 115 con decorrenza dalla data di entrata in
vigore del medesimo D.P.R..
Articolo 76 - Pubblicazione della sentenza applicativa della condanna
1. La pubblicazione della sentenza di condanna è eseguita a spese dell'ente nei cui confronti è stata
applicata la sanzione. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 694, commi 2, 3 e 4, del codice di
procedura penale.
Articolo 77 - Esecuzione delle sanzioni interdittive
1. L'estratto della sentenza che ha disposto l'applicazione di una sanzione interdittiva è notificata all'ente a
cura del pubblico ministero.
2. Ai fini della decorrenza del termine di durata delle sanzioni interdittive si ha riguardo alla data della
notificazione.
Articolo 78 - Conversione delle sanzioni interdittive
1. L'ente che ha posto in essere tardivamente le condotte di cui all'articolo 17, entro venti giorni dalla
notifica dell'estratto della sentenza, può richiedere la conversione della sanzione amministrativa interdittiva
in sanzione pecuniaria.
2. La richiesta è presentata al giudice dell'esecuzione e deve contenere la documentazione attestante
l'avvenuta esecuzione degli adempimenti di cui all'articolo 17.
3. Entro dieci giorni dalla presentazione della richiesta, il giudice fissa l'udienza in camera di consiglio e ne fa
dare avviso alle parti e ai difensori; se la richiesta non appare manifestamente infondata, il giudice può
sospendere l'esecuzione della sanzione. La sospensione è disposta con decreto motivato revocabile.
4. Se accoglie la richiesta il giudice, con ordinanza, converte le sanzioni interdittive, determinando l'importo
della sanzione pecuniaria in una somma non inferiore a quella già applicata in sentenza e non superiore al
doppio della stessa. Nel determinare l'importo della somma il giudice tiene conto della gravità dell'illecito
ritenuto in sentenza e delle ragioni che hanno determinato il tardivo adempimento delle condizioni di cui
all'articolo 17.
Articolo 79 - Nomina del commissario giudiziale e confisca del profitto
1. Quando deve essere eseguita la sentenza che dispone la prosecuzione dell'attività dell'ente ai sensi
dell'articolo 15, la nomina del commissario giudiziale è richiesta dal pubblico ministero al giudice
dell'esecuzione, il quale vi provvede senza formalità.
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2. Il commissario riferisce ogni tre mesi al giudice dell'esecuzione e al pubblico ministero sull'andamento
della gestione e, terminato l'incarico, trasmette al giudice una relazione sull'attività svolta nella quale rende
conto della gestione, indicando altresì l'entità del profitto da sottoporre a confisca e le modalità con le quali
sono stati attuati i modelli organizzativi.
3. Il giudice decide sulla confisca con le forme dell'articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.
4. Le spese relative all'attività svolta dal commissario e al suo compenso sono a carico dell'ente.
Articolo 80 - Anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative
[1. Presso il casellario giudiziale centrale è istituita l'anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative di cui al
capo II.
2. Nell'anagrafe sono iscritti, per estratto, le sentenze e i decreti che hanno applicato agli enti sanzioni
amministrative dipendenti da reato appena divenuti irrevocabili nonché i provvedimenti emessi dagli organi
giurisdizionali dell'esecuzione non più soggetti ad impugnazione che riguardano le sanzioni amministrative.
3. Le iscrizioni dell'anagrafe sono eliminate trascorsi cinque anni dal giorno in cui hanno avuto esecuzione se
è stata applicata la sanzione pecuniaria o dieci anni se è stata applicata una sanzione diversa sempre che nei
periodi indicati non è stato commesso un ulteriore illecito amministrativo.] (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato abrogato dall' art. 52, D.P.R. 14.11.2002, n. 313 (G.U. 13.02.2003, n. 36, s.o. n. 22), con
decorrenza dal quarantacinquesimo giorno dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del medesimo D.P.R.
Articolo 81 - Certificati dell'anagrafe
[1. Ogni organo avente giurisdizione, ai sensi del presente decreto legislativo, in ordine all'illecito
amministrativo dipendente da reato ha diritto di ottenere, per ragioni di giustizia, il certificato di tutte le
iscrizioni esistenti nei confronti dell'ente.
Uguale diritto appartiene a tutte le pubbliche amministrazioni e agli enti incaricati di pubblici servizi quando il
certificato è necessario per provvedere ad un atto delle loro funzioni, in relazione all'ente cui il certificato
stesso si riferisce.
2. Il pubblico ministero può richiedere, per ragioni di giustizia, il predetto certificato dell'ente sottoposto a
procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato.
3. L'ente al quale le iscrizioni si riferiscono ha diritto di ottenere il relativo certificato senza motivare la
domanda.
4. Nel certificato di cui al comma 3 non sono riportate le iscrizioni relative alle sentenze di applicazione della
sanzione su richiesta e ai decreti di applicazione della sanzione pecuniaria.] (1)
-----
(1) Il presente articolo è stato abrogato dall'art. 52, D.P.R. 14.11.2002, n. 313, (G.U. 13.02.2003, n. 36, s.o. n. 22), con
decorrenza dal quarantacinquesimo giorno dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del medesimo D.P.R.
Articolo 82 - Questioni concernenti le iscrizioni e i certificati
[1. Sulle questioni relative alle iscrizioni e ai certificati dell'anagrafe è competente il tribunale di Roma, che
decide in composizione monocratica osservando le disposizioni di cui all'articolo 78.] (1)
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----(1) Il presente articolo è stato abrogato dall'art. 52, D.P.R. 14.11.2002, n. 313, (G.U. 13.02.2003, n. 36, s.o. n. 22), con
decorrenza dal quarantacinquesimo giorno dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del medesimo D.P.R.
CAPO IV. Disposizioni di attuazione e di coordinamento
Articolo 83 - Concorso di sanzioni
1. Nei confronti dell'ente si applicano soltanto le sanzioni interdittive stabilite nel presente decreto legislativo
anche quando diverse disposizioni di legge prevedono, in conseguenza della sentenza di condanna per il
reato, l'applicazione nei confronti dell'ente di sanzioni amministrative di contenuto identico o analogo.
2. Se, in conseguenza dell'illecito, all'ente è stata già applicata una sanzione amministrativa di contenuto
identico o analogo a quella interdittiva prevista dal presente decreto legislativo, la durata della sanzione già
sofferta è computata ai fini della determinazione della durata della sanzione amministrativa dipendente da
reato.
Articolo 84 - Comunicazioni alle autorità di controllo o di vigilanza
1. Il provvedimento che applica misure cautelari interdittive e la sentenza irrevocabile di condanna sono
comunicati, a cura della cancelleria del giudice che li ha emessi, alle autorità che esercitano il controllo o la
vigilanza sull'ente.
Articolo 85 - Disposizioni regolamentari
1. Con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17 comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro
sessanta giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto legislativo, il Ministro della giustizia adotta le
disposizioni regolamentari relative al procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo che
concernono:
a) le modalità di formazione e tenuta dei fascicoli degli uffici giudiziari;
[b) i compiti ed il funzionamento dell'Anagrafe nazionale;] (1)
c) le altre attività necessarie per l'attuazione del presente decreto legislativo.
2. Il parere del Consiglio di Stato sul regolamento previsto dal comma 1 è reso entro trenta giorni dalla
richiesta.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi
della Repubblica italiana. è fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
-----
(1) La presente lettera è stata abrogata dall'art. 52, D.P.R. 14.11.2002, n. 313 (G.U. 13.02.2003, n. 36, s.o. n. 22), con
decorrenza dal quarantacinquesimo giorno dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del medesimo D.P.R.
Ministero della Giustizia
Decreto ministeriale 26.06.2003, n. 201 (G.U. 04.08.2003, n. 179)
Regolamento recante disposizioni regolamentari relative al procedimento di accertamento dell'illecito
amministrativo delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica,
ai sensi dell'articolo 85 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.
In vigore dal 19 agosto 2003
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IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Visto l'articolo 17, commi 3 e 4, della legge 23 agosto 1988, numero 400;
Visto l'articolo 85 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, che prevede l'adozione di un regolamento
con il quale il Ministro della giustizia adotta le disposizioni regolamentari relative al procedimento di
accertamento dell'illecito amministrativo delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche
prive di personalità giuridica;
Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso dalla sezione consultiva per gli atti normativi nell'adunanza del
7 aprile 2003;
Vista la comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri effettuata, ai sensi dell'articolo 17, comma 3,
della legge 23 agosto 1988, n. 400, con la nota protocollo n. 1109/U-12/21-49 del 29 maggio 2003;
Adotta
il seguente regolamento:
CAPO I Delle modalità di formazione e tenuta dei fascicoli
Articolo 1 - Norme applicabili
1. Nella formazione e nella tenuta dei fascicoli relativi al procedimento di accertamento degli illeciti
amministrativi dipendenti da reato e alla applicazione delle sanzioni amministrative, si osservano le
disposizioni del capo III del decreto legislativo 8 giugno 2001, numero 231, nonché, in quanto compatibili, le
disposizioni del codice di procedura penale, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 e del regolamento
per l'esecuzione del codice di procedura penale di cui al decreto ministeriale 30 settembre 1989, n. 334,
fatto salvo quanto previsto dall'articolo seguente.
CAPO I Delle modalità di formazione e tenuta dei fascicoli
Articolo 2 - Modalità di formazione e tenuta dei fascicoli
1. Nella formazione dei fascicoli, si osserva quanto disposto dall'articolo 3 del regolamento per l'esecuzione
del codice di procedura penale; la copertina del fascicolo deve contenere, in luogo delle generalità della
persona alla quale è attribuito il reato, gli elementi identificativi dell'ente cui è attribuito l'illecito
amministrativo, unitamente, ove possibile, alle generalità del suo legale rappresentante, nonché l'indicazione
del reato da cui dipende l'illecito amministrativo.
2. Nella formazione dei fascicoli relativi all'esecuzione, si osserva quanto disposto dall'articolo 29 del
regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale; nel fascicolo è inserito, in luogo del certificato
del casellario giudiziale riguardante il condannato, il certificato dell'Anagrafe delle sanzioni amministrative.
CAPO II Della tenuta dei registri
Articolo 3 - Norme applicabili
1. Le annotazioni relative al procedimento di accertamento degli illeciti amministrativi dipendenti da reato e
alla applicazione delle sanzioni amministrative sono compiute sugli ordinari registri obbligatori in materia
penale, previsti dall'articolo 2 del regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale e conformi ai
modelli approvati con il decreto ministeriale 30 settembre 1989, recante approvazione dei registri in materia
penale, e successive modificazioni. Salve le disposizioni di cui all'articolo seguente, nella formazione e nella
tenuta dei registri si osservano le norme del capo III del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, nonché,
in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n.
271 e del regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale.
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Articolo 4 - Formazione e tenuta dei registri.
1. Le annotazioni relative al procedimento di accertamento degli illeciti amministrativi dipendenti da reato e
alla applicazione delle sanzioni amministrative sono compiute apponendo, negli spazi dei registri obbligatori
destinati alla qualificazione giuridica del fatto e all'imputazione, una sigla identificativa, che consenta di
evidenziare la natura di procedimento per l'accertamento dell'illecito amministrativo dipendente da reato, ai
sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001.
2. All'interno dei registri obbligatori le annotazioni relative alla contestazione di cui all'articolo 59 del decreto
legislativo n. 231 del 2001 sono inserite negli spazi previsti per le annotazioni della data di esercizio
dell'azione penale e della imputazione.
3. Negli spazi dei registri obbligatori destinati alle generalità della persona sottoposta alle indagini o
dell'imputato, in luogo di queste, sono inseriti gli elementi identificativi dell'ente cui è attribuito l'illecito
amministrativo, unitamente, ove possibile, alle generalità del suo legale rappresentante.
4. Qualora il pubblico ministero emetta decreto motivato di archiviazione degli atti ai sensi dell'articolo 58 del
decreto legislativo, i relativi estremi sono inseriti nello spazio del registro generale delle notizie di reato
destinato alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero. Nel medesimo spazio è inserita l'annotazione
relativa alla comunicazione del decreto di archiviazione al procuratore generale presso la corte d'appello.
5. Qualora il procuratore generale proceda alla contestazione dell'illecito amministrativo ai sensi dell'articolo
58 del decreto legislativo n. 231 del 2001, gli estremi del provvedimento sono inseriti nel registro delle
indagini avocate.
CAPO III Del procedimento di controllo
Articolo 5 - Comunicazione dei codici di comportamento
1. In attuazione dell'articolo 6, comma 3, del decreto legislativo n. 231 del 2001, le associazioni
rappresentative degli enti, comunicano al Ministero della giustizia, presso la Direzione generale della giustizia
penale, Ufficio I, i codici di comportamento contenenti indicazioni specifiche (e concrete) di settore per
l'adozione e per l'attuazione dei modelli di organizzazione e di gestione previsti dal medesimo articolo 6 .
L'invio dei codici di comportamento è accompagnato dallo statuto e dall'atto costitutivo dell'associazione; in
difetto, ovvero quando dall'esame di tali atti risulti che il richiedente è privo di rappresentatività,
l'Amministrazione arresta il procedimento di controllo alla fase preliminare, dandone comunicazione entro
trenta giorni dalla data di ricezione dei codici.
Articolo 6 - Procedimento di esame dei codici
1. Il Direttore generale della giustizia penale esamina i codici di comportamento sulla base dei criteri fissati
all'articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 231 del 2001.
2. Ai fini dell'esame dei codici, il Direttore generale della giustizia penale, nell'ambito degli ordinari
stanziamenti di bilancio del Ministero della giustizia, può avvalersi della consulenza di esperti in materia di
organizzazione aziendale, designati con decreto del capo del Dipartimento per gli affari di giustizia, tra
soggetti i quali non abbiano rapporti di lavoro subordinato o autonomo, o di collaborazione anche
temporanea, con le associazioni di categoria legittimate all'invio dei codici di comportamento.
Articolo 7 - Efficacia dei codici
1. Il Direttore generale della giustizia penale, previo concerto con i Ministeri competenti, entro trenta giorni
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dalla data di ricevimento del codice di comportamento, comunica all'associazione eventuali osservazioni in
merito alla idoneità dello stesso a fornire le indicazioni specifiche di settore per l'adozione e per l'attuazione
dei modelli di organizzazione e di gestione finalizzati alla prevenzione dei reati indicati nel capo I, sezione III,
del decreto legislativo n. 231/2001 e nelle altre disposizioni di legge dalle quali discenda la responsabilità
amministrativa degli enti.
2. Qualora dopo la formulazione delle osservazioni l'associazione invii il codice di comportamento ai fini di un
ulteriore esame, il termine di trenta giorni decorre dalla data della nuova comunicazione. In caso contrario,
rimane impedita l'acquisizione di efficacia del codice.
3. Decorsi trenta giorni dalla data di ricevimento del codice di comportamento, senza che siano state
formulate osservazioni, il codice di comportamento acquista efficacia.
Articolo 8 - Disposizioni transitorie
In vigore dal 19 agosto 2003
1. Per i codici di comportamento inviati al Ministero della giustizia fino alla data di entrata in vigore del
presente regolamento, il termine di trenta giorni di cui all'articolo 6, comma 3, del decreto legislativo n. 231
del 2001, decorre da tale data.
2. Ai fini del procedimento di controllo di cui agli articoli 5 e seguenti del presente regolamento, dopo
l'entrata in vigore del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, le associazioni possono comunicare nuovi
codici, redatti tenendo conto delle intervenute modifiche relative alla configurazione delle società di capitali e
cooperative, ove adottate dagli enti rappresentati.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi
della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione sez. VI, pen., 02.10.2006, n. 32627
Persona giuridica - Società - Responsabilità da reato - Misure cautelari - Revoca - Imposizione dell'adozione
di modelli organizzativi - Legittimità - Esclusione
In tema di responsabilità degli enti dipendente da reato, non è consentito al giudice, nel revocare la misura
cautelare interdittiva, imporre all'ente l'adozione coattiva di modelli organizzativi. (Nell'affermare tale
principio, la Corte ha ravvisato l'interesse dell'ente ad impugnare l'ordinanza con la quale era stata applicata
nei suoi confronti la misura cautelare interdittiva di cui all'art. 45 D.Lgs. n. 231 del 2001, ancorchè la stessa
fosse stata revocata nelle more del procedimento di impugnazione, poichè dal suo annullamento poteva
derivare - come conseguenza diretta - anche l'immediata inefficacia degli adempimenti imposti con il
provvedimento di revoca).
Persona giuridica - Società - Responsabilità da reato - Applicazione di misure cautelari - Ordinanza - Requisiti
- Omessa indicazione del legale rappresentante - Conseguenze - Nullità - Esclusione
In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, non dà luogo a nullità l'omessa
indicazione nell'ordinanza cautelare, di cui all'art. 45 D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, del nominativo del legale
rappresentante della società indagata.
53
Integrale
Passando ad esaminare il merito del ricorso infondato è il secondo motivo, in quanto nessuna disposizione
del D.Lgs. n. 231/2001 sanziona con la nullità l'omessa indicazione nell'ordinanza cautelare del nominativo
del legale rappresentante della società indagata. Il richiamo all'art. 292 cod. proc. pen. contenuto nel comma
2 dell'art. 45 D.Lgs. cit., ha come effetto quello di estendere l'ipotesi di nullità dell'ordinanza nel caso in cui
manchino le necessarie indicazioni per identificare la società nei cui confronti viene emessa la misura
cautelare, ipotesi che non ricorre nel caso di specie in cui il provvedimento del Gip consente ed ha consentito
la piena identificazione del soggetto collettivo.
Né può invocarsi, così come ha fatto la difesa, la previsione di cui all'art. 39, comma 2, D.Lgs. cit., che
sanziona con una ipotesi di inammissibilità la mancata indicazione delle generalità del legale rappresentante:
infatti, tale disposizione disciplina, dal punto di vista formale, la partecipazione dell'ente nel procedimento,
accollandogli l'onere di presentare una dichiarazione contenente, tra l'altro, anche le generalità del
rappresentante. In caso di carenza di tali indicazioni è prevista l'inammissibilità dell'atto dichiarativo di
costituzione, con la conseguenza che l'ente non potrà partecipare in maniera completa al procedimento e,
nella fase del giudizio, verrà dichiarato contumace. Si tratta di una disciplina riguardante la modalità di
intervento dell'ente nel procedimento, funzionale ad individuare il soggetto deputato a manifestare la volontà
del soggetto collettivo, disciplina che non trova alcuna applicazione al di fuori di tali limitate previsioni.
6. È ancora infondato l'ottavo motivo in cui si deduce la violazione dell'art. 13 D.Lgs. n. 231/2001, in
relazione alla ritenuta sussistenza del requisito del profitto di rilevante entità.
Correttamente l'ordinanza impugnata ha esteso la verifica dei gravi indizi richiesti dall'art. 45 D.Lgs. cit.,
anche all'art. 13, spostando il controllo sulla stessa legittimità dell'applicazione della misura. La disposizione
da ultimo menzionata si riferisce, in genere, alle sanzioni interdittive, subordinandone l'applicazione
all'esistenza di almeno una delle due condizioni indicate nelle lett. a) e b), relative, la prima, alla circostanza
che l'ente abbia tratto dall'illecito un profitto di rilevante entità e la seconda al dato obiettivo della
reiterazione degli illeciti. Sul piano sostanziale l'art. 13 D.Lgs. cit., rappresenta una delle condizioni
applicative delle sanzioni interdittive, nell'ambito di un sistema che ammette il ricorso alle sanzioni più
incisive solo in presenza di un accentuato disvalore del reato e dell'illecito amministrativo ad esso collegato
ovvero in funzione di prevenzione speciale. Ciò significa che dal punto di vista cautelare il giudice deve
accertare, sempre sul piano indiziario, la presenza di una delle due condizioni per poter applicare una misura
cautelare, assicurando il collegamento tra sanzione definitiva e misura cautelare, che caratterizza l'intero
D.Lgs. n. 231/2001. Del resto, un tale collegamento è imposto dallo stesso sistema cautelare disciplinato
nella sezione IV del decreto del 2001, che all'art. 46, comma 2, enuncia il principio di proporzionalità della
misura, con riferimento non solo all'entità del fatto, ma anche alla sanzione che si ritiene possa essere
applicata all'ente. Una diversa interpretazione porterebbe il giudice della cautela ad applicare una misura
interdittiva laddove il giudice della cognizione, sulla base del citato art. 13, non potrebbe irrogare analoga
sanzione in sede di accertamento della responsabilità dell'ente. In sostanza, il ricorso alla misura cautelare
trova una sua legittimazione solo attraverso una valutazione prognostica sulla possibile, futura applicazione
della sanzione interdittiva.
Ciò premesso, occorre ora verificare in base a quale criterio il giudice della cautela deve valutare la
sussistenza del profitto di rilevante entità, cui si riferisce l'art. 13, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 231/2001.
I Giudici d'appello hanno escluso che la disposizione in esame faccia riferimento all'utile netto ricavato dalla
società ed hanno accolto, invece, una nozione di profitto più ampia, calcolata in relazione all'intero importo
del contratto ovvero al valore integrale della commessa, in considerazione del fatto che la legge non richiede
l'ingiustizia del profitto. Nella specie, sulla base di tale interpretazione, il profitto che la società ha tratto dai
reati commessi nel suo interesse viene determinato tenendo conto anche del vantaggio di posizione sul
mercato che le società hanno acquisito facendo ricorso a condotte illecite, fino ad assumere un ruolo di
sostanziale monopolio in materia di appalti di pulizia nell'ambito della Regione Puglia.
Diversamente, per la società ricorrente il profitto richiesto dall'art. 13 cit. corrisponde al concetto di
redditività d'impresa, ovvero all'utile netto derivato, unica interpretazione che consente di non confondere
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tale nozione con quella di prodotto del reato. A riprova di questa tesi la difesa porta l'esempio dell'art. 19
D.Lgs. n. 231/2001, che nel prevedere l'ipotesi della confisca del profitto, in caso di condanna dell'ente, si
riferisce sicuramente all'utile netto conseguito.
La ricostruzione riduttiva proposta dalla società indagata non può essere accolta.
Il profitto menzionato dall'art. 13 cit. non corrisponde alla nozione di profitto cui si riferiscono le disposizioni
in materia di confisca, quali, per esempio, gli artt. 19, 15, comma 4, 17, comma 1, lett. c), D.Lgs. n.
231/2001.
Queste ultime disposizioni, sebbene in maniera diversa, si preoccupano di assicurare allo Stato quanto
illecitamente conseguito dalla società attraverso la commissione degli illeciti e oggetto del provvedimento
ablativo non può che essere il profitto inteso in senso stretto, cioè come immediata conseguenza economica
dell'azione criminosa, che può corrispondere all'utile netto ricavato.
Nell'art. 13 cit., invece, il riferimento al profitto del reato non è direttamente collegato ad una ipotesi di
confisca, ma rappresenta un presupposto applicativo delle sanzioni interdittive temporanee. Può essere utile
ricordare che la disposizione in esame ha tradotto il criterio di delega contenuto nella direttiva di cui all'art.
11, lett. l), legge 29 settembre 2000, n. 300 che prevedeva l'applicazione delle sanzioni interdittive, in
aggiunta a quella pecuniaria, solo nei «casi di particolare gravità», secondo una di quelle clausole generali
con cui il legislatore spesso individua le ipotesi di maggior disvalore dell'illecito. Il richiamo al profitto di cui
all'art. 13 cit. costituisce, quindi, l'attuazione di quel criterio di delega, reso sicuramente più determinato, al
quale deve essere riconosciuta l'originaria funzione di selezionare i casi più gravi da punire con le sanzioni
maggiormente afflittive per l'ente. Se questa è la funzione attribuita alla condizione applicativa contenuta
nell'art. 13, allora appare estranea a questi fini una nozione di profitto intesa come utile netto, dovendo
optarsi per un concetto di profitto dinamico, più ampio, che arrivi a ricomprendere vantaggi economici anche
non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell'illecito. Nella fase cautelare, in cui
l'imputazione è ancora in fieri e gli accertamenti hanno natura provvisoria, pretendere di riferirsi all'utile
netto, cioè ad un valore che richiede calcoli precisi in un raffronto tra ricavi e costi, appare oltremodo
difficoltoso e contrario alla stessa funzione del procedimento incidentale volto all'emissione di provvedimenti
temporanei.
Con questo, ovviamente, non si vuole dire, così come sembra affermare l'ordinanza impugnata, che il
profitto di cui all'art. 13 cit. corrisponde, quasi automaticamente, al valore del contratto o del fatturato
ottenuto a seguito del reato, potendo sostenersi semmai che tali valori rappresentino comunque un
importante indizio a favore della rilevanza del profitto. La rilevanza del profitto potrà, almeno con riferimento
ad alcuni dei reati indicati negli artt. 24 e 25 D.Lgs. n. 231/2001, basarsi sul valore della commessa ottenuta
attraverso la illecita contrattazione con la P.A., valore che rappresenterà un indizio a favore della percezione
di un profitto rilevante, così come richiede l'art. 13 cit.
Deve pertanto riconoscersi che nella specie, seppure in base ad una differente impostazione rispetto a quella
evidenziata dall'ordinanza impugnata, sussista il requisito richiesto dal citato art. 13, in quanto prendendo in
considerazione il valore reale degli appalti acquisiti dalla società, pari ad una somma complessiva di oltre 40
milioni di euro (a cui va comunque sottratto il valore degli appalti acquisiti dalla Du. s.p.a.), può
fondatamente ritenersi l'esistenza di un profitto rilevante conseguito dalla società per effetto degli illeciti
commessi, anche in considerazione di quanto evidenziato nella stessa ordinanza impugnata circa la posizione
di quasi monopolio raggiunta dalla società indagata nel mercato pugliese degli appalti di pulizia e ausiliariato.
7. Più complesso è il problema posto dal primo e dal terzo motivo del ricorso, con cui si censura l'ordinanza
impugnata per non aver rilevato la violazione dell'art. 45 D.Lgs. cit., avendo il Gip disposto le misure
interdittive a carico della società motivando per relationem all'ordinanza cautelare emessa nei confronti delle
persone fisiche indagate per i reati dai quali dipende l'illecito amministrativo attribuito alla società ovvero
riportando interi brani della memoria del P.M. In sostanza, viene dedotta la violazione di legge in relazione
all'art. 45 D.Lgs. cit., che richiama espressamente l'art. 292 cod. proc. pen., il quale a sua volta prevede, a
pena di nullità, che l'ordinanza cautelare contenga l'esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli
indizi che giustificano in concreto la misura: nel caso di specie, sostiene la ricorrente, l'ordinanza del Gip
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risulterebbe prevalentemente motivata per relationem all'ordinanza cautelare personale, che ha presupposti
del tutto diversi da quelli richiesti per emettere una misura interdittiva a carico di una società, con la
conseguente violazione delle disposizioni di legge suindicate.
È noto che nel nostro ordinamento processuale la motivazione c.d. per relationem è considerata legittima,
purché siano osservate determinate condizioni: a) faccia riferimento a un legittimo atto del procedimento, la
cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di
destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle
ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la decisione; c) l'atto di
riferimento sia conosciuto dall'interessato, attraverso l'allegazione o la trascrizione nel provvedimento in
questione, o quanto meno ostensibile nel momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di
valutazione, di critica e di gravame, consentendo il controllo dell'organo della valutazione o
dell'impugnazione (Sez. Un., 21 giugno 2000, n. 17, Primavera; Sez. IV, 20 gennaio 2004, n. 16886, Rinero;
Sez. I, 20 dicembre 2004, n. 2612). Peraltro, il rispetto di tali condizioni presuppone che la motivazione per
relationem rinvii ad altri provvedimenti dello stesso procedimento, atteso che solo in tal caso è possibile per
il giudice dell'impugnazione controllare l' iter logico e giuridico che sorregge la decisione impugnata
attraverso l'esame degli atti del fascicolo, diversamente da quanto può accadere in caso di rinvio a
provvedimenti di altri procedimenti che non possono essere attinti dal giudice dell'impugnazione (Sez. III, 25
maggio 2001, n. 33648, Cataruzza).
Dal punto di vista formale l'ordinanza del Gip ha rispettato, solo in parte, tali condizioni: sebbene risulti che il
provvedimento cautelare personale sia stato notificato alla società unitamente all'ordinanza applicativa delle
misure interdittive e che entrambi i provvedimenti siano stati emessi nell'ambito del medesimo procedimento
penale (n. 10388/2001), tuttavia deve riconoscersi che con riferimento alla procedura cautelare prevista in
materia di responsabilità amministrativa degli enti, il rinvio per relationem all'ordinanza cautelare personale
può assolvere all'onere motivazionale solo per quanto concerne uno dei presupposti per l'applicazione delle
misure interdittive, quello cioè della sussistenza dei gravi indizi circa la commissione dei reati. Infatti, è solo
in relazione a questa porzione della fattispecie complessa prevista dall'art. 45 D.Lgs. n. 231/2001, che
l'ordinanza applicativa delle misure coercitive personali può svolgere una funzione integrativa della
motivazione, che sia coerente con la decisione cautelare riguardante il soggetto collettivo.
Dalla lettura dell'ordinanza del 18 aprile 2005 il rinvio al provvedimento di riferimento non è limitato
all'individuazione dei gravi indizi di colpevolezza in relazione ai reati presupposto, ma tende ad assorbire
l'intero quadro di gravità indiziaria riferibile alla fattispecie di cui al citato art. 45, in una sovrapposizione di
livelli che finisce per confondere il piano relativo alle persone fisiche, con quello riguardante la società. E tale
impostazione viene replicata anche nell'ordinanza del Tribunale di Bari, che oltre a giustificare la tecnica di
redazione della motivazione adottata dal Gip, ha assunto a fondamento della propria decisione
argomentazioni riguardanti i reati posti in essere dagli amministratori, tra l'altro dilungandosi nell'esame della
struttura e delle caratteristiche dell'associazione per delinquere, che è reato che non rientra tra quelli la cui
commissione può determinare la responsabilità amministrativa a norma del D.Lgs. n. 231/2001. In questo
modo, l'accertamento della sussistenza dei gravi indizi della responsabilità dell'ente ha finito per concentrarsi
soprattutto nella verifica dei gravi indizi di colpevolezza relativi ai reati presupposto, trascurando e
svalutando il controllo sui restanti elementi della fattispecie.
Occorre sottolineare che il massiccio ricorso fatto dall'ordinanza del Gip - e, in parte, anche dall'ordinanza del
Tribunale - alla tecnica di motivazione per relationem non si giustifica in un procedimento a carico delle
persone giuridiche, in quanto del tutto diversi sono i presupposti e i requisiti per accertare l'esistenza della
gravità indiziaria a carico dei soggetti collettivi, elementi che devono essere individuabili autonomamente
dall'ordinanza cautelare emessa ai sensi dell'art. 45 D.Lgs. n. 231/2001 che, come si è detto, può anche
richiamare il diverso provvedimento in cui sono state emesse le misure cautelari personali, ma solo per
dimostrare la sussistenza dei gravi indizi in rapporto ai reati presupposto, senza costringere difensori e
giudici dell'impugnazione ad effettuare continue verifiche in atti processuali per procedere alla ricostruzione e
al controllo della più ampia fattispecie cautelare richiesta dal D.Lgs. n. 231/2001.
8. Proprio la tecnica di motivazione per relationem ha prodotto un'erronea applicazione di alcune delle
disposizioni in materia di misure cautelari nel procedimento a carico degli enti, violazioni cui si riferiscono i
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motivi quarto, quinto e sesto del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente.
L'art. 45 D.Lgs. cit., subordina l'applicazione delle misure cautelari interdittive alla sussistenza dei gravi indizi
di responsabilità dell'ente. Tale valutazione deve essere riferita alla fattispecie complessa che integra l'illecito
amministrativo attribuito all'ente e che comprende anche il rapporto di dipendenza con il fatto reato. Ne
consegue che l'ambito di valutazione del giudice deve comprendere non soltanto il fatto reato, cioè il
presupposto dell'illecito amministrativo, ma estendersi ad accertare la sussistenza dell'interesse o del
vantaggio derivante all'ente, il ruolo ricoperto in concreto dai soggetti indicati dall'art. 5, comma 1, lett. a) e
b), D.Lgs. cit., nonché verificare se tali soggetti abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi (art.
5, comma 2); inoltre, nel giudizio cautelare rientrano anche le condizioni indicate dall'art. 13 D.Lgs. cit., che
subordina l'applicabilità delle sanzioni interdittive alla circostanza che l'ente abbia tratto dal reato un profitto
di rilevante entità ovvero, in alternativa, che l'ente abbia reiterato nel tempo gli illeciti, articolo che al comma
3 esclude l'applicabilità delle sanzioni interdittive nei casi in cui l'autore del reato abbia commesso il fatto nel
prevalente interesse proprio o di terzi ovvero quando il danno patrimoniale sia di particolare tenuità (art. 12,
comma 1). Infine, anche nella fase cautelare il giudice deve fondare la sua valutazione in rapporto ad uno
dei due modelli di imputazione individuati dagli artt. 6 e 7 D.Lgs. cit., l'uno riferito ai soggetti in posizione
apicale, l'altro ai dipendenti, modelli che presuppongono un differente onere probatorio a carico dell'accusa.
Si tratta di requisiti che concorrono su un piano di assoluta parità a configurare l'illecito amministrativo
dell'ente, per cui l'accertamento della gravità indiziaria deve riguardare ciascun elemento della fattispecie
complessa. La gravità degli indizi va perciò riferita non (solo) al reato, ma all'illecito amministrativo che lo
comprende, per cui il giudizio sugli elementi da prendere in considerazione si presenta più complesso
rispetto alla valutazione che il giudice compie quando applica una misura cautelare nei confronti di una
persona fisica.
Deve allora sottolinearsi come sia l'ordinanza impugnata, sia il provvedimento genetico del Gip non abbiano
proceduto ad una esame completo della fattispecie cautelare.
8.1. In alcuni casi appare viziata la stessa valutazione sulla sussistenza di un rapporto qualificato dell'ente
con i diversi autori dei reati. In particolare, il Tribunale di Bari, che pure ha limitato l'ambito applicativo delle
misure, escludendo una serie di episodi inizialmente contestati alle società, avrebbe dovuto verificare la
struttura delle imputazioni provvisorie riportate ai nn. 14, 18, 21 e 28 dell'ordinanza del Gip, in cui non è
indicato il soggetto che avrebbe comnesso il reato a vantaggio o nell'interesse della società. Si tratta, in
realtà, di quattro distinti episodi di reato in cui si descrivono ipotesi di corruzione (artt. 319 e 319-bis cod.
pen.) attribuite a funzionari o dirigenti di aziende ospedaliere, di Asl o di enti territoriali che con diverse
modalità avrebbero ricevuto favori e favorito la società ricorrente, ma non si indica la persona fisica del
corruttore, per poter accertare se si tratti di un soggetto interno alla persona giuridica, che possa aver
impegnato l'ente, secondo il modello delineato dal D.Lgs. n. 231/2001. D'altra parte né il provvedimento del
Gip, né l'ordinanza del Tribunale consentono di integrare tale omissione, in quanto nessuna delle due
decisioni esamina separatamente e analiticamente i diversi episodi contestati, limitandosi a richiamare
genericamente le condotte di alcuni imputati, con particolare riferimento alla loro collocazione nell'ambito
della associazione per delinquere, ricorrendo alle indicazioni contenute nell'ordinanza applicativa delle misure
cautelari personali. Neppure l'imputazione provvisoria sub A), riguardante l'ente, è in grado di sopperire a tali
carenze, data la sua assoluta genericità. In questo modo, per i quattro episodi indicati appare difficile anche
l'individuazione del modello di imputazione utilizzato, cioè se quello dei soggetti apicali di cui all'art. 6 anche nella forma della gestione di fatto - ovvero quello dei dipendenti previsto dal successivo art. 7 D.Lgs.
n. 231/2001. Peraltro, tale incongruenza, che si traduce in un'erronea applicazione dell'art. 5 in fase
cautelare, appare ancor più evidente dal momento che negli altri capi di imputazione si fa invece riferimento,
seppure in maniera indiretta, ai soggetti apicali della società come autori dei reati da cui l'ente avrebbe tratto
vantaggio.
8.2. Anche con riferimento al requisito dell'interesse o del vantaggio si registrano una serie di incertezze
applicative, rilevate nei motivi quarto e quinto del ricorso.
Nel prendere in considerazione le condotte poste in essere dalle persone fisiche a favore della società L.F.,
l'ordinanza impugnata, condividendo quanto ritenuto dal P.M. nella sua memoria - di cui sono riportati interi
57
brani - sostiene che l'interesse deriverebbe, comunque, dai reati commessi a vantaggio della Du. s.p.a., che
in quanto società controllata finirebbe per avvantaggiare anche la controllante.
Si osserva al riguardo che, pur convenendo in merito alle considerazioni svolte circa il fatto che le nozioni di
interesse e di vantaggio possano atteggiarsi in modo differente qualora siano riferite ad un contesto di
gruppo di imprese, tuttavia nel caso di specie non vi è stata alcuna contestazione in questo senso, non
figurando né nel capo di imputazione provvisorio, né nell'ordinanza cautelare del Gip un riferimento al fatto
che tra le due società vi fosse un rapporto qualificabile come tra controllante e controllata, dovendosi poi
evidenziare che nessun elemento a favore di questo presunto rapporto sia stato fornito, neppure a livello
meramente indiziario. Nella ricostruzione che hanno dato i Giudici di merito, il collegamento è dato semmai
dai soggetti che partecipavano all'associazione criminosa, circostanza questa che però non rileva ai fini della
responsabilità dell'ente e che dimostra, ancora una volta, come si tenda a confondere il vantaggio
conseguito dal gruppo dirigente della associazione criminale con quello della società.
In sostanza, il Tribunale avrebbe dovuto accertare, sempre a livello di gravi indizi, se e in che limiti la
commissione dei reati abbia fatto conseguire un interesse diretto alla società L.F., prescindendo da ogni
considerazione sull'interesse o sul vantaggio indirettamente derivato dai reati posti in essere a favore della
Du. s.p.a. Anche sotto questo profilo risulta un erronea applicazione dell'art. 5 D.Lgs. n. 231/2001, in
rapporto alla fattispecie concreta.
8.3. Il requisito dell'interesse è oggetto anche del quinto motivo del ricorso, in cui si deduce, tra l'altro, la
violazione del comma 2 dell'art. 5 D.Lgs. cit.
La disposizione citata prevede che l'ente non risponde dell'illecito qualora gli autori del reato hanno agito
«nell'interesse esclusivo proprio o di terzi»: si tratta di una norma che si riferisce al caso in cui il reato della
persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all'ente, in quanto non risulta realizzato nell'interesse di
questo, neppure in parte. In simili ipotesi la responsabilità dell'ente è esclusa proprio perché viene meno la
possibilità di una qualsiasi rimproverabilità al soggetto collettivo, dal momento che si considera venuto meno
lo stesso schema di immedesimazione organica: la persona fisica ha agito solo per se stessa, senza
impegnare l'ente. Alla medesima conclusione si giunge anche qualora la società riceva comunque un
vantaggio dalla condotta illecita posta dalla persona fisica, dal momento che l'art. 5, comma 2, D.Lgs. cit. si
riferisce soltanto alla nozione di interesse: in ogni caso, si tratterebbe di un vantaggio fortuito, in quanto non
attribuibile alla volontà dell'ente.
Anche tale condizione negativa deve essere verificata nella fase cautelare, non potendo applicarsi una
misura interdittiva qualora risulti, anche a livello indiziario, l'esclusività dell'interesse.
Nella specie, dall'ordinanza impugnata emerge un'applicazione contraddittoria della disposizione in esame:
infatti, in alcuni passaggi del provvedimento i giudici di merito evidenziano l'uso strumentale che gli indagati
avrebbero fatto della società cooperativa, tanto da tradirne le finalità mutualistiche, sfruttandola per il
proprio personale vantaggio; in altri sottolineano che l'attività della società era di fatto fittizia; giungendo,
infine, a dubitare che possa trattarsi di una società intrinsecamente criminosa. Si oscilla tra una ricostruzione
in cui la società viene considerata una vittima dell'operato di un gruppo di persone, cioè uno strumento nelle
mani di un'associazione criminale che persegue l'obiettivo di realizzare una serie di reati per mezzo della
società L.F. e non a favore o nell'interesse della stessa, e una ricostruzione alternativa in cui alla stessa
società viene attribuita una natura illecita. Ancora una volta, si confonde l'associazione per delinquere, con la
società cooperativa, nel senso che dove c'è interesse per l'associazione si individua, automaticamente, anche
l'esistenza di un interesse per l'ente, in una sovrapposizione di livelli che resta estranea al modello di
responsabilità amministrativa di cui al D.Lgs. n. 231/2001.
Tanto è indice di una errata applicazione della disciplina prevista dagli artt. 5 e segg. D.Lgs. n. 231/2001, dal
momento che non è stato accertato se ed in quale misura vi sia stato il vantaggio o l'interesse della
cooperativa L.F., anche sotto il profilo della possibile applicazione dell'art. 12, comma 1, lett. a), D.Lgs. cit.,
con riferimento ad un eventuale interesse prevalente degli autori dei reati rispetto all'interesse e al vantaggio
dell'ente, che porterebbe ad escludere il ricorso alle misure interdittive.
58
9. In conclusione l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Bari per un nuovo
esame relativo ai gravi indizi, da compiere tenendo conto dei principi innanzi indicati. Lo stesso Giudice
all'esito di questo esame valuterà, se del caso, la sussistenza attuale delle esigenze cautelari.
Rassegna di giurisprudenza
Corte di Cassazione sez. II, pen., 31.01.2007, n. 3629
Società - Responsabilità amministrativa degli enti – Confisca
La finalità del D.Lgs. n. 231 del 2001 è stata quella di prevedere una responsabilità dell'ente, per i reati
commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, sanzionabile anche con la confisca per equivalente (artt. 19 e
53, D.Lgs. cit.); tale normativa configura la responsabilità degli enti come autonoma, anche se alla base di
essa si colloca il rapporto di carattere organico sussistente con la persona fisica autore del reato, che porta
quest'ultima a tenere una condotta illecita "nell'interesse o a vantaggio dell'ente" (D.Lgs. cit., art. 5) : si
tratta, peraltro, di un collegamento tra individuo e persona giuridica che, in alcuni casi sfuma quasi del tutto
(D.Lgs. cit., art. 8, quando l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile) e che ha
principalmente lo scopo di salvaguardare il nuovo modello di responsabilità da censure di incostituzionalità
con riferimento al rispetto del principio di personalità della responsabilità penale e della sanzione (art. 27
Cost., comma 1).
Prova penale - Sequestro penale - Confisca per equivalente - Persone giuridiche - Applicabilità
Il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di cose non pertinenti al reato non è applicabile nei
confronti delle persone giuridiche per fatti-reato commessi in data anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs.
8/6/2001, n. 231".
Corte di Cassazione sez. VI; pen. 02.10.2006, n. 32626
Società - Responsabilità amministrativa degli enti - D.Lgs. n. 231/2001 - Misure cautelari - Art. 45 Applicazione - Condizioni
In tema di responsabilità amministrativa degli enti di cui al D.Lgs. n. 231/2001 l'art. 45, comma 1, oltre alla
presenza del fumus commissi delicti , richiede, per l'applicazione delle misure cautelari, l'esistenza di un
concreto pericolo di commissione di analoghi illeciti, caratterizzando l'apparato cautelare in senso fortemente
preventivo, ovvero, in funzione di tutela della collettività. La disposizione in esame si limita a richiedere che il
periculum derivi da elementi "fondati e specifici", per cui parrebbe che qualsiasi elemento, che possegga tali
connotati, possa essere idoneo a fondare una prognosi di pericolosità circa la reiterazione degli illeciti. In
realtà, tenendo conto che il procedimento cautelare previsto dal citato D.Lgs. n. 231/2001 è stato delineato
sul modello di quello codicistico, deve ritenersi che anche in questo caso, come del resto per l'art. 274, lett.
c), c.p.p., l'esigenza cautelare emerga dalla valutazione di due tipologie di elementi: il primo di carattere
obiettivo, relativo alle specifiche modalità e circostanze del fatto; il secondo di natura soggettiva, attinente
alla "personalità" dell'ente. Per quanto riguarda il primo aspetto, si tratterà di valutare la gravità dell'illecito,
ad esempio considerando il numero di illeciti commessi, nonché gli stessi elementi che l'art. 13 del citato
D.lgs. indica come condizioni per l'applicabilità delle sanzioni, come l'entità del profitto, ovvero lo stato
dell'organizzazione dell'ente; dall'altra parte, il fatto che si tratti di una persona giuridica, non impedisce di
considerarne la "personalità", attraverso una valutazione che abbia come oggetto l'ente collettivo stesso,
esaminandone, ad esempio, la politica d'impresa attuata negli anni, e gli eventuali illeciti commessi in
precedenza. Ne consegue una evidente tendenza all'oggettivizzazione dell'esigenza cautelare, che deriva, in
primo luogo, dalla monofunzionalità del modello, in cui le misure cautelari sono dirette prevalentemente a
realizzare una forma di prevenzione speciale, e, in secondo luogo, dal rilievo che assume anche a questi fini,
lo stato organizzativo dell'ente, cioè la sua capacità di agevolare o evitare la commissione dei reati. Sotto
tale ultimo aspetto, ai fini di una prognosi sulla pericolosità, è soprattutto lo stato di organizzazione dell'ente
che deve essere valutato, in quanto l'ente che non è attrezzato da questo punto di vista, cioè che non ha
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attuato modelli organizzativi idonei a prevenire i reati, è certamente un soggetto "pericoloso" nell'ottica
cautelare (1). (F.Cia.) (Integrale disponibile in banca dati)
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(1) Secondo la Corte, inoltre, nelle ipotesi di responsabilità derivante da condotte poste in essere dai vertici dell'ente, il
giudice deve prendere in considerazione le condizioni dei soggetti che rivestono posizioni apicali, con la conseguenza
che, la sostituzione o l'estromissione degli amministratori coinvolti, in tanto può portare ad escludere la sussistenza del
periculum richiesto dal citato art. 45, in quanto ciò costituisca il sintomo che l'ente inizi a muoversi verso un tipo di
organizzazione in cui sia presente l'obiettivo di evitare il rischio-reato.
Tribunale di Milano pen. ord. 25.01.2005
Costituzione di parte civile - D.Lgs. n. 231 del 2001 - Incompatibilità tra posizione di parte civile e di
responsabile ex d.lgs. n. 231/2001
La società nell'interesse della quale sono stati commessi i reati previsti dal d.lgs. n. 231/2001 dalle persone
fisiche coimputate nel medesimo processo, non può assumere contemporaneamente la veste di parte civile
nei confronti di detti soggetti. Infatti, ove ammessa quale parte civile, verrebbe ad assumere nell'ambito
dello stesso procedimento due vesti processuali antitetiche, quella di responsabile amministrativo ex d.lgs. n.
231/2001 e di parte civile nei confronti di soggetti (persone fisiche) imputati (ossia le persone il cui operato
fonda, secondo la prospettazione della richiesta di rinvio a giudizio, la responsabilità amministrativa della
società) in concorso con questi ultimi. In sostanza si ammetterebbe una domanda risarcitoria nei confronti di
persone che avrebbero cagionato danno alla società in concorso con soggetti che avrebbero agito
nell'interesse della società stessa, che viene incolpata di non essersi attivata, predisposto ed adottato alcun
modello di organizzazione volto a prevenire la commissione dei detti reati. In questa ipotesi non può la
società avanzare una pretesa risarcitoria per reati che, non solo sarebbero stati commessi nel suo interesse,
ma che la società stessa avrebbe reso possibile, omettendo di adottare le necessarie contromisure. (M.Rossi)
Tribunale di Milano pen., ord. 20.09.2004, n. 30382/03
Società - Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche
prive di responsabilità giuridica - Misure cautelari - Sanzioni interdittive - Applicabilità - Criteri
Il D.Lgs. n. 231/2001 non può essere interpretato nel senso di una intromissione giudiziaria nelle scelte
organizzative dell'impresa ma nel senso di una necessaria verifica di compatibilità di queste scelte con i
criteri di cui al D.Lgs. n. 231/2001. Ciò che il decreto richiede è che l'imprenditore adotti modelli di
organizzazione idonei a ridurre il rischio che si verifichino, nella vita dell'impresa, «reati della specie di quello
verificatosi» (art. 6 D.Lgs. n. 231/2001). L'individuazione delle attività nel cui ambito possono essere
commessi reati presuppone un'analisi approfondita della realtà aziendale con l'obiettivo di individuare le aree
che risultano interessate dalle potenziali casistiche di reato. In questa analisi dovrà necessariamente tenersi
conto della storia dell'ente cioè delle sue vicende, anche giudiziarie, passate e delle caratteristiche degli altri
soggetti operanti nel medesimo settore. Questa analisi consente di individuare sulla base di dati storici in
quali momenti della vita e della operatività dell'ente possono più facilmente inserirsi fattori di rischio; quali
siano dunque i momenti della vita dell'ente che devono più specificamente essere parcellizzati e
procedimentalizzati in modo da potere essere adeguatamente ed efficacemente controllati: ad esempio il
momento della presentazione delle offerte per gli enti che partecipano ad appalti pubblici; i contatti con la
concorrenza; la costituzione di consorzi; le modalità di esecuzione degli appalti; l'analisi delle attribuzioni a
soggetti esterni di consulenze (con particolare riguardo al costo ed alla effettività delle stesse), la gestione
delle risorse economiche, le movimentazioni di denari all'interno del gruppo ecc. È evidente che non esiste
una diversità strutturale tra modelli organizzativi a seconda che gli stessi vengano elaborati ex ante ovvero
ex post; lo stesso modello organizzativo può ritenersi o meno adeguato indipendentemente dal momento in
cui lo stesso venga adottato: ciò che si deve sottolineare non è una eventuale maggiore necessità di
incisività del modello elaborato ex post, ma la assoluta necessità che il modello elaborato ex post e cioè
dopo la contestazione dell'illecito tenga presente la storia dell'ente e prenda in serio esame i «segnali di
rischio» che detta storia ha evidenziato. Le linee guida elaborate da alcune associazioni rappresentative di
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enti suggeriscono la separazione di compiti fra coloro che svolgono fasi cruciali nell'ambito di un processo a
rischio, l'attribuzione di poteri di firma autorizzativi e di firma coerenti con le responsabilità organizzative e
gestionali, l'esistenza di un sistema di monitoraggio idoneo a segnalare situazioni di criticità. Si è ancora
suggerito, nel settore specifico dei rapporti con la P.A., la nomina di un responsabile, interno alla società, per
ogni singola operazione rientrante in aree di rischio, con obblighi di documentazione specifica delle attività
svolte; l'adozione di soglie ulteriori di controllo interno quando si partecipa a consorzi, l'adozione di strumenti
finalizzati alla verifica dell'esistenza, non meramente contabile, delle prestazioni espletate dai consulenti,
l'adozione di strumenti e meccanismi che rendano trasparente la gestione delle risorse finanziarie e che, in
sintesi, impediscano che vengano create attraverso emissione di fatture per operazioni inesistenti, attraverso
spostamenti di denaro non giustificati fra società appartenenti allo stesso gruppo, attraverso pagamenti di
consulenze mai effettivamente prestate ovvero di valore nettamente inferiore a quello dichiarato dalla
società disponibilità occulte. (Integrale disponibile in banca dati)
Tribunale di Milano ord.27.04.2004
Società - Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per reati commessi dai propri funzionari Misura cautelare del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione - Applicabilità - Verifica delle
condotte riparatorie poste in essere per evitare l'applicazione della misura interdittiva
E' legittima la richiesta di applicazione della misura interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica
amministrazione nei confronti della società responsabile di non aver adeguatamente vigilato sull'osservanza
del modello di organizzazione predisposto al fine di prevenire la commissione di reati da parte di suoi
funzionari. A nulla rileva, inoltre, la circostanza che l'ente abbia poi adottato alcune misure riparatorie, in
forma di risarcimento, nei confronti del diretto destinatario dell'attività illecita, perché resta aperto il
problema del profitto conseguito ai reati commessi.
Tribunale di Roma ord. 14.04.2003
Società - Responsabilità amministrativa degli enti - Misure cautelari - Presupposti - Pericolo di recidiva Esclusione - Costituzione di un modello ex post- Rilevanza - Condizioni
Ai fini dell'applicazione delle misure cautelari previste in materia di responsabilità amministrativa degli enti
(articolo 45 del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231), per escludere il pericolo di recidiva può rilevare
anche l'istituzione ex post, da parte della società, di un modello di organizzazione e di gestione: peraltro, per
poter ritenere tale modello idoneo a prevenire la commissione di reati della stessa specie di quello
verificatosi, occorre una valutazione più rigorosa di quella riservata al modello ex ante, occorrendo un
modello che effettivamente rimuova le carenze dell'apparato organizzativo e operativo dell'ente che hanno in
concreto favorito la commissione dell'illecito.
Tribunale di Roma pen., ord. 22.11.2002
Responsabilità amministrativa e patrimoniale di persone giuridiche, società, associazioni - Misure cautelari
interdittive - Sospensione e revoca - Presupposti - Modelli di organizzazione e gestione - Prevenzione dei
reati - Idoneità - Valutazione - Perizia - Ammissibilità
Nel corso di un procedimento per l'accertamento dell'illecito amministrativo ai sensi del d.lgs 8 giugno 2001
n. 231 è consentito al giudice delle indagini preliminari nominare un perito per valutare l'idoneità a prevenire
i reati di un modello organizzativo aziendale, adottato dalla società indagata dopo la commissione del fatto e
invocato per evitare l'applicazione di misure cautelari interdittive. (Repertorio Lex24 - (Zanichelli, Il Foro
Italiano, 2004, 5, pg. 318, pt. II)
61
Tribunale di Pordenone 04.11.2002
Responsabilità amministrativa e patrimoniale di persone giuridiche, società, associazioni - istigazione alla
corruzione - Sanzione pecuniaria - Riduzione - Condizioni - Risarcimento del danno - Modelli di
organizzazione e gestione - Adozione - Sufficienza
Deve essere ridotta, ai sensi dell'art. 12 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, la sanzione pecuniaria irrogata nei
confronti di una società a titolo di responsabilità amministrativa per il reato di istigazione alla corruzione
commesso dal suo legale rappresentante, qualora l'ente, prima dell'apertura del dibattimento, abbia
integralmente risarcito il danno alla pubblica amministrazione e abbia adottato un modello organizzativo
idoneo a prevenire la commissione di ulteriori reati. (Repertorio Lex24 - Zanichelli, Il Foro Italiano, 2004, 5,
pg. 318, pt. II)
COMMENTI
Ambiente & Sicurezza
Ambiente & Sicurezza n. 3, 05.02.2008 pg. 54 - Salvatore A. , Lovato Amerigo
Secondo l'agenzia europea, la valutazione economica è connessa alla prevenzione
La legge n. 123/2007 ha inserito nell'elenco dei reati-presupposto contenuto nel decreto legislativo n.
231/2001, con il nuovo art. 25-septies, i reati di cui agli artt. 598 e 590, c.p., omicidio colposo e lesioni
personali colpose gravi e gravissime, per la violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene
e della salute negli ambienti di lavoro. Il D.Lgs. n. 231/2001, nel disciplinare le responsabilità degli enti per
illeciti amministrativi dipendenti da reato, ha previsto per i soggetti apicali la possibilità di non essere
perseguiti nel caso in cui siano stati adottati modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire i reati della
specie di quello che si è verificato, modelli che si estendono anche alla gestione del sistema di prevenzione
dell'ente. L'Agenzia EU–OSHA ha pubblicato uno studio sulla “valutazione economica della prevenzione degli
infortuni sul lavoro a livello aziendale”, evidenziando come il miglioramento della sicurezza sul luogo di
lavoro può apportare notevoli vantaggi economici alle aziende, possibile base per l'efficace elaborazione di
un modello organizzativo.
Nel conferire la delega al Governo per la riforma della normativa in materia di sicurezza e di salute sul
lavoro, la legge 3 agosto 2007, n. 123 [1], ha modificato il D.Lgs. n. 231/2001, inserendo l'art. 25-septies,
ampliando il “catalogo” dei reati-presupposto, la commissione dei quali genera la responsabilità
amministrativa a carico degli enti, per il quale l'ente è responsabile, a livello amministrativo, in seguito alla
commissione, da parte dei soggetti “apicali” (individuati dall'art. 6, D.Lgs. n. 231/2001) ovvero «sottoposti
all'altrui direzione o vigilanza» (art. 7), dei reati di cui agli art. 589, c.p. (omicidio colposo) e 590, comma 3,
c.p. (lesioni personali colpose), commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela
dell'igiene e della salute sul lavoro[2].
È opportuno mettere in luce la rilevanza del processo di unificazione europea (al quale si deve la presenza,
nel sistema giuridico italiano, di una normativa in tema di responsabilità degli enti) e dell'attività dell'Agenzia
europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), nell'elaborazione di linee-guida e di criteri ispirativi
idonei all'elaborazione di efficaci modelli organizzativi, rilevanti ai sensi degli artt. 6 e 7, decreto legislativo n.
231/2001.
Si tratta dei modelli la cui adozione ed efficace attuazione:
• se avvenuta prima della commissione del fatto di reato (generante la responsabilità amministrativa
dell'ente), è idonea a escludere alla radice la responsabilità dell'ente (artt. 6, comma 1, lettera a), e
7, comma 2);
• se avvenuta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, è idonea a ridurre
62
da un terzo fino alla metà la sanzione pecuniaria a carico dell'ente (art. 12, comma 2, lettera b).
La sicurezza e la salute sul lavoro
Scopo della legislazione in materia di tutela e di sicurezza del lavoro è la prevenzione di eventi mortali o
lesivi della salute delle persone impegnate in un'attività lavorativa.
In altre parole, si tratta dell'insieme di norme volte a preservare e a proteggere le risorse umane presenti sul
luogo di lavoro.
Purtroppo, in Italia, si verificano con sempre maggiore frequenza incidenti con gravi conseguenze (anche
mortali) a causa dell'insufficienza delle tutele in materia di sicurezza sul lavoro.
L'entrata in vigore della legge 3 agosto 2007, n. 123, con la conseguente necessità, per gli enti, di elaborare
e di adottare in modo efficace adeguati “modelli organizzativi”, idonei a prevenire i reati di cui agli artt. 589 e
590, comma 3, c.p., può rappresentare un'importante occasione per migliorare sensibilmente la tutela in
materia di sicurezza sul lavoro.
Le Agenzie specializzate e decentrate della UE
Con lo scopo di fornire ausilio e consulenza agli Stati membri e ai singoli e per rispondere alla necessità di
fronteggiare i nuovi compiti di carattere giuridico, tecnico e scientifico in seno all'Unione europea, sono state
istituite alcune Agenzie specializzate e decentrate, raggruppate in quattro categorie:
agenzie comunitarie: si tratta di organismi di diritto pubblico, ben distinti dalle istituzioni comunitarie (vale a
dire, dal Consiglio, dal Parlamento europeo, dalla Commissione ecc.), dotati di personalità giuridica; sono
istituite con atto di diritto derivato e svolgono compiti molto specifici, di natura tecnica o scientifica, ovvero
gestionale, nell'ambito di quello che viene definito il “primo pilastro” dell'Unione europea;
agenzie per la politica estera e di sicurezza comune: svolgono compiti specifici di natura tecnica, scientifica e
di gestione nell'ambito della politica estera e di sicurezza comune dell'Unione europea, nell'ambito di quello
che viene definito il “secondo pilastro” dell'Unione europea;
agenzie per la cooperazione di Polizia e per la cooperazione giudiziaria in materia penale: sono state istituite
per la cooperazione degli Stati membri nella lotta contro la criminalità organizzata internazionale, nell'ambito
di quello che viene definito il “terzo pilastro” dell'Unione europea;
agenzie esecutive: si tratta di organizzazioni istituite secondo il regolamento CE del Consiglio Europeo n.
58/2003, allo scopo di svolgere determinati compiti relativi alla gestione di uno o più programmi comunitari;
hanno durata determinata e devono essere ubicate presso la sede della Commissione europea.
L'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro
Sulla scorta della grave situazione per cui, come è emerso in seguito a un'indagine statistica, ogni cinque
secondi un lavoratore comunitario è coinvolto in un incidente associato all'attività lavorativa e ogni due ore
un lavoratore dell'Unione muore in un incidente sul lavoro, nell'anno 1994 è stata istituita, nell'ottica del
continuo miglioramento della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro, l'Agenzia europea per la sicurezza
e la salute sul lavoro (EU-OSHA).
Scopo dell'Agenzia è quello di rendere più sicuri, salutari e produttivi i luoghi di lavoro europei, di raccogliere
e di divulgare il vasto patrimonio di conoscenze e di informazioni nel campo della sicurezza e della salute sul
lavoro dell'Unione europea, con particolare attenzione alle pratiche in tema di prevenzione.
Attualmente con sede in Spagna, precisamente a Bilbao, l'Agenzia opera, a livello nazionale, attraverso una
rete di focal points (presenti, oltre che negli Stati membri, nei Paesi in via di adesione, in quelli candidati e
nei Paesi EFTA) con il compito di coordinare e di diffondere, nei rispettivi Paesi comunitari, le informazioni
provenienti dall'Agenzia stessa.
L'organo comunitario agisce da catalizzatore nello sviluppo, nell'analisi e nella divulgazione di informazioni
volte a migliorare la sicurezza e la salute occupazionale in Europa, attraverso una rete di siti web dedicati
alla materia, e collabora con numerosi partners, tra cui la Commissione europea e le organizzazioni
63
internazionali nel campo della sicurezza.
Tra gli strumenti di diffusione del “messaggio della sicurezza”, realizzata attraverso campagne dirette e
pubblicazioni on-line, particolare rilevanza assume la “Settimana europea”, annunciata ufficialmente nella
primavera di ogni anno e concludentesi nel mese di ottobre, nel corso e in occasione della quale i partners
delle campagne nazionali dell'Agenzia svolgono numerose attività e manifestazioni in tutta Europa, attività e
manifestazioni concentrate su una singola tematica diversa anno per anno.
L'Agenzia è gestita da un direttore e ha un Consiglio di amministrazione composto da rappresentanti dei
governi, da datori di lavoro e da lavoratori degli Stati membri e da rappresentanti della Commissione
europea.
Le “linee guida” per la prevenzione degli infortuni
L'Agenzia EU-OSHA ha pubblicato uno studio sulla «Valutazione economica della prevenzione degli infortuni
sul lavoro a livello aziendale»[3], sul presupposto che il miglioramento della sicurezza sul luogo di lavoro può
apportare notevoli vantaggi economici alle aziende (in termini di risparmio degli ingenti costi derivanti dal
verificarsi di infortuni e da malattie legate al lavoro, ai quali si aggiungono, per effetto della legge 3 agosto
2007, n. 123, le gravissime conseguenze discendenti dall'applicazione delle sanzioni amministrative
dipendenti da reati ex D.Lgs. n. 231/2001, che possono giungere fino all'interdizione dall'esercizio
dell'attività).
In particolare, l'Agenzia ha individuato, nel metodo economico dell'analisi dei costi e dei benefici, un efficace
strumento di riduzione dei costi, metodo che, nell'impostazione adottata, dovrebbe condurre a un efficace
sistema preventivo degli eventi mortali o lesivi.
In realtà, nel campo della sicurezza sul lavoro, la prevenzione e il perseguimento dell'interesse economico
aziendale non necessariamente confliggono posto che, come rilevato dall'Agenzia:
• i lavoratori in buona salute sono più produttivi e possono produrre una migliore qualità;
• un numero minore di infortuni e di malattie legate al lavoro si traducono in un numero minore di
assenze per malattia, comportando costi più bassi e minori interruzioni dei processi produttivi;
• attrezzature e ambiente di lavoro ottimizzati secondo le esigenze del processo lavorativo generano
maggiore produttività, migliore qualità e minori rischi per la salute e la sicurezza;
• la riduzione di infortuni e di malattie comporta meno rischi di responsabilità civile.
La valutazione economica dei costi e dei benefici dovrebbe essere frutto di un'attività congiunta tra i
lavoratori (o i loro rappresentanti), gli specialisti in materia di sicurezza e di salute sul lavoro, gli esperti
finanziari e i responsabili dei processi decisionali e potrebbe articolarsi in cinque fasi:
la preparazione, al fine di stabilire:
- lo scopo della valutazione economica;
- l'obiettivo del progetto;
- chi sono gli operatori, quali i loro interessi, quale l'influenza esercitata su di loro;
- il tipo di risultato richiesto agli operatori;
- il tempo da impiegare per produrre una valutazione economica;
la selezione delle variabili e degli indicatori, al fine di individuare le variabili:
- che appaiono più idonee al perseguimento degli scopi della valutazione;
- in relazione alle quali vi siano dati il più possibile precisi e semplici da ottenere (per esempio, dalla
documentazione aziendale e dal sistema contabile) e, laddove necessario, generati ex novo;
- concordate tra gli operatori (lavoratori o loro rappresentanti, specialisti in materia di sicurezza e salute sul
lavoro, esperti finanziari e responsabili dei processi decisionali);
il reperimento dei dati relativi alle variabili selezionate e la determinazione di quali di essi debbano essere
collegati a infortuni (per esempio, assenza per malattia) e successiva quantificazione degli effetti (delle
lesioni, malattie e/o interventi) con metodi di stima o di analisi come:
- informazioni tratte da casi analoghi;
- calcoli su scenari;
64
- analisi dell'impatto (estrapolazione a partire dagli obbiettivi di un intervento).
Nella tabella 1 si riporta, a titolo esemplificativo, il prospetto (elaborato dall'Agenzia) delle variabili
direttamente collegate al costo delle lesioni e delle malattie a livello aziendale, distinguendo a seconda che si
tratti di effetti di incidenti suscettibili o meno di essere espressi direttamente in termini di valore monetario;
l'effettuazione dei calcoli, aggiungendo valori monetari alle variabili selezionate in precedenza e realizzando
una rappresentazione chiara dei risultati in formato tabulare (costo delle lesioni e analisi dei costi e dei
benefici), con grafici o serie temporali (applicazioni di monitoraggio), e tramite confronto con i cosiddetti
competitors, vale a dire la altre aziende del medesimo settore (benchmarking);
l'interpretazione attraverso l'analisi volta alla definizione di ulteriori azioni.
TABELLA 1
Prospetto generale delle variabili direttamente collegate al costo delle lesioni e delle malattie a
livello nazionale
Variabile
Descrizione
Come ottenere il valore monetario
Effetti di incidenti che non possono essere espressi direttamente in termini di valore monetario
Numero di incidenti mortali
Somma dei costi di conseguenti attività,
ammende e pagamenti
Assenteismo o assenza per
malattia
Quantità di tempo lavorativo perso
per assenteismo
Somma dei costi delle attività per
ovviare agli effetti del tempo lavorativo
perso, quali sostituzione e perdita di
produzione. L'effetto indiretto è che
l'assenza di malattia riduce la flessibilità
o le possibilità di far fronte a situazioni
impreviste
Rotazione del personale
dovuta a carenze
dell'ambiente di lavoro,
pensionamento anticipato o
invalidità
Somma dei costi delle attività generate
Percentuale del numero di persone
dalla rotazione non voluta, quali costi di
(non voluto) che lasciano la società in sostituzione, formazione
un dato periodo di tempo
supplementare, perdita di produttività,
annunci, procedure di assunzione
Pensionamento anticipato e
invalidità
Somma dei costi delle attività generate
Percentuale del numero di persone in da invalidità o pensionamento
un dato periodo di tempo
anticipato, ammende, indennità alla
vittima
Incidenti mortali, decessi
Effetti di incidenti, lesioni e malattie che possono essere facilmente espressi in termini di valore monetario
Riabilitazione non medica
Importo speso dal datore di lavoro per
facilitare il ritorno al lavoro
Fatture
(consulenza, formazione,
adeguamento del posto di lavoro)
Attività (manageriali) che devono
Amministrazione delle assenze
essere svolte dalla società in relazione Retribuzione totale del tempo speso
per malattia, lesioni ecc.
all'assenza per malattia
Materiale danneggiato
Costi di danni o riparazioni di
macchine, locali, materiali o prodotti
Costi di sostituzione
connessi con lesioni per infortunio sul
lavoro
65
Altri costi non connessi con la
salute (per esempio, indagini,
tempo di gestione, costi
esterni)
Tempo e denaro spesi per indagini
sulle lesioni, valutazioni del posto di
lavoro (dovute al verificarsi di
incidenti o malattie
Retribuzione totale del tempo speso
Effetti sugli elementi variabili
di premi di assicurazioni,
premi di assicurazioni ad alto
rischio
Cambiamenti di premi dovuti al
verificarsi di lesioni o malattie
professionali
Fatture
Responsabilità, spese legali,
multe
Fatture,reclami,costidi composizione di
vertenze; ammende, multe
Retribuzioni supplementari,
compenso per compiti
pericolosi (se la società ha
una scelta)
Spese supplementari per salari più
elevati dovuti a lavori pericolosi o
scomodi
Tempo di produzione perso,
servizi non forniti
Tempo di produzione perso a causa di
un evento che ha provocato lesioni
(per esempio, perché è necessario un
Valore di produzione totale
certo tempo per sostituire macchine o
perché la produzione deve essere
interrotta durante l'indagine)
Costi opportunità
Ordinazioni perdute o guadagnate,
competitività in mercati specifici
Valore di produzione stimato
Assenza di redditività di
capitale investito
Utile non realizzato a causa di costi
d'incidente, ossia importo delle spese
dovute a incidenti non investito in
attività redditizie (quali produzione,
mercato borsistico o risparmio) che
generano interessi
Interessi dell'importo della spesa,
investito durante x anni con un tasso di
interesse di y%
Retribuzione supplementare
Fonte: «Valutazione economica della prevenzione degli infortuni sul lavoro a livello aziendale», FACTS dell'Agenzia europea
per la sicurezza e la salute sul lavoro
Due tipi di valutazione
Le valutazioni più ricorrenti nella pratica possono ridursi a due:
quelle, effettuate ex post, relative ai costi concernenti un singolo infortunio (oppure alla somma degli
infortuni verificatisi in un determinato periodo di tempo);
quelle, effettuate ex ante, tese ad apprezzare gli effetti economici delle azioni preventive oppure della
prevenzione degli infortuni (attraverso il sistema dell'analisi costi/benefici); si tratta, all'evidenza, di
valutazioni alle quali si ricorre per verificare la fattibilità di un investimento o per scegliere tra più alternative.
L'analisi costi e benefici
L'Agenzia ha proposto, per effettuare l'analisi dei costi e dei benefici, uno “strumento” composto di tre parti.
La prima parte, contenente i costi relativi agli investimenti d'intervento, con la quale è possibile verificare se
ciascuna voce di costo sia pertinente al caso concreto, anche attraverso il calcolo e la stima dei costi, se
necessario avvalendosi dei dati riportati nella tabella 1.
Nella seconda parte sono indicati i potenziali benefici direttamente collegati con gli investimenti di cui alla
prima parte della stessa tabella 2.
66
TABELLA 2
Analisi costi e benefici
Parte 1: Sommario degli investimenti o delle spese iniziali
Pertinente?
Stima del costo €
Sì/No
Categoria
Componenti del costo
Pianificazione
Spese di consulenza
Studio tecnico
Attività interna
Investimenti
Edifici, abitazioni,
fondamenta
Proprietà terriere
Macchine
Attrezzature di prova
Attrezzature da
trasporto
Infrastrutture, ambiente
di lavoro
Posti di lavoro
Traslochi
Materiale
Trasporto
Personale
Spese di licenziamento
Assunzione
Formazione
Costi
preliminari
Perdita di qualità
Retribuzioni
supplementari
(straordinari)
Materiale
Operazioni
supplementari
Attività organizzative
Perdita di produzione,
interruzione
Entrate
Vendita delle attrezzature di produzione superflue
Descrizione,
osservazioni
Totale
Parte 2: Sommario dei costi annuali, dei risparmi di costo e delle entrate supplementari
Categoria
Componenti del costo
Pertinente?
Stima del costo €
Sì/No
Descrizione,
osservazioni
67
Produttività
Numero di prodotti
Riduzione del tempo
improduttivo
Riduzione delle perdite
in bilancio
Riduzione delle scorte
Altro, specificare
Costi del
personale
Servizio SSL
Risparmio dovuto a
riduzione di personale
Personale di sostituzione
temporanea
Costi di rotazione e
assunzione
Riduzione delle spese
generali
Riduzione dei costi
connessi con assenze
per malattia
Effetti sui premi
Altro, specificare
Manutenzione
Cambiamenti nei costi
Cambiamenti nei costi di
uso dei beni
Riscaldamento,
ventilazione
Uso di beni,
Illuminazione
infrastrutture e Cambiamenti nell'uso di
materiale
materiale
Energia, aria compressa
Energia, aria compressa
Rifiuti e costi di
smaltimento
Qualità
Cambiamenti nella
qualità di rielaborazione
Perdite di produzione
Cambiamenti di prezzo
dovuti a problemi di
qualità
Totale
Parte 3: Tabella del flusso di cassa
68
Anno
0
1
2
3
4
Pianificazione
Investimenti
Trasloco
Personale
Costi preliminari
Entrate supplementari
Produttività
Personale
Manutenzione
Uso di beni,
infrastrutture e
materiale
Costi qualità
Totale
Flusso di cassa
cumulativo
La terza parte contiene il cash flow, vale a dire il compendio delle spese e delle entrate per un dato numero
di anni.
Linee guida e modelli organizzativi ex D.Lgs. n. 231/2001
La legge 3 agosto 2007, n. 123, ha ampliato il “catalogo”, contenuto nel decreto legislativo n. 231/2001, dei
reati-presupposto, la commissione dei quali genera responsabilità amministrativa a carico degli enti,
inserendo nel corpus del decreto stesso l'art. 25-septies, una disposizione operativa già dal 25 agosto 2007.
Dunque, ai sensi dell'art. 25-septies, l'ente è responsabile a livello amministrativo anche in seguito alla
commissione, da parte dei soggetti “apicali” (individuati dall'art. 6, D.Lgs. n. 231/2001) ovvero «sottoposti
all'altrui direzione o vigilanza» (art. 7), dei reati di cui agli art. 589 c.p. (omicidio colposo), e 590, comma 3,
c.p. (lesioni personali colpose), commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela
dell'igiene e della salute sul lavoro.
Si tratta della prima volta in cui vengono inseriti, nel “catalogo” dei reati generanti responsabilità
amministrativa dell'ente, i reati colposi, il che, come è stato giustamente osservato[4], prevedibilmente
condurrà a una vera e propria “esplosione” di procedimenti a carico degli enti per accertarne la
responsabilità amministrativa.
Questo significa che è giunto il momento, ormai, per gli enti destinatari del decreto legislativo n. 231/2001,
di prendere più seriamente in considerazione i rischi connessi alla sua applicazione[5] [6].
Le “linee guida” elaborate dall'Agenzia EU-OSHA sulla «Valutazione economica della prevenzione degli
infortuni sul lavoro a livello aziendale», redatte secondo i criteri dell'analisi economica, potrebbero
rappresentare un valido ausilio per l'elaborazione e l'adozione, da parte degli enti, dei modelli organizzativi
(rilevanti ai sensi degli artt. 6 e 7, decreto legislativo n. 231/2001) idonei a prevenire i reati di cui agli artt.
589 e 590, comma 3, c.p.
In realtà, sotteso ai criteri elaborati dall'Agenzia EU-OSHA per la valutazione economica della prevenzione
degli infortuni, il sistema dell'analisi dei costi e benefici, calato nella prospettiva della cosiddetta “analisi
economica del diritto” (nel mondo anglosassone Law & Economics), per cui i problemi giuridici (nella
fattispecie, la tutela della salute sul lavoro) possono essere analizzati e risolti attraverso una comparazione
tra i diversi gradi d'efficienza economica delle molteplici soluzioni ipotizzabili - con emersione, da questo
69
confronto (effettuato con modalità analitiche mutuate dalla microeconomia), della scelta più efficiente, vale a
dire quella capace di garantire a ciascun soggetto coinvolto il maggior numero possibile di vantaggi potrebbe condurre alla predisposizione di una efficace tutela preventiva degli eventi mortali o lesivi della
salute delle persone impegnate in un'attività lavorativa.
_____
1. In Gazzetta Ufficiale del 10 agosto 2007, n. 185.
2. Si rimanda, per un sintetico quadro d'insieme del decreto legislativo n. 231/2001, anche con riferimento
alle novità introdotte dalla legge 3 agosto 2007, n. 123, ai commenti di Salvatore Mezzacapo, Renato
Bricchetti e Luca Pistorelli, in Guida al diritto n. 35/2007, pag. 38.
3. Per approfondimenti sul tema si vada al sito http://agency.osha.eu.int.
4. Per maggiori informazioni si veda, di Renato Bricchetti e Luca Pistorelli, Guida al diritto n. 35/2007, pag.
42.
5. Si veda la nota 4.
6. Sono sempre più attuali, quindi, le considerazioni di Filippo Sgubbi, raccolte nel volume Il reato come
rischio sociale. Ricerche sulle scelte di allocazione dell'illegalità penale (Bologna, 1990), posto che le norme
di cui agli artt. 589 e 590 c.p., non tutelano più (solo e direttamente) il bene - vita o integrità fisica - ma
anche, in maniera sempre più incisiva, il sistema approntato dall'ordinamento per la tutela di questi beni.
Guida al Diritto
Guida al Diritto n. 2, 12.01.2008 pg 77 - Ferrajoli Luigi
Rischio di interdizione per gli enti
Il reato di riciclaggio ex articolo 648 bis del Cp, con l'entrata in vigore del nuovo testo unico antiriciclaggio,
entra formalmente e di diritto nel novero dei delitti, la cui consumazione può determinare l'insorgenza di una
responsabilità amministrativa da reato degli enti, così come previsto dall'articolo 63 del decreto attuativo
della terza direttiva 2005/60/Ce che ha inserito il nuovo articolo 25 octies al Dlgs 231/2001.
Modifiche a disposizioni normative vigenti ( Dlgs 231/2007 articolo 63) - Con l'emanazione del Dlgs 8 giugno
2001 n. 231 il legislatore italiano ha, difatti, introdotto una novità significativa nel nostro ordinamento
giuridico, avendo riconosciuto la possibile configurabilità della responsabilità delle persone giuridiche, delle
società e delle associazioni per illeciti amministrativi dipendenti da reato. Si tratta di un'innovazione che ha
avuto come principale effetto l'insorgenza di una responsabilità diretta degli enti come conseguenza della
condotta illecita perpetrata da persone che agiscono in nome e per conto della società. In forza del disposto
ex articolo 5 comma 1, lettera a) del Dlgs 231/2001, un ente può vedersi ora difatti ascritta la responsabilità
per reati commessi da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione della
persona giuridica o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da
persone che esercitano, anche meramente di fatto, l'attività di gestione e controllo dell'ente. In termini
analoghi, l'articolo 5 comma 1, lettera b) del Dlgs 231/2001 riconosce la responsabilità dell'ente anche
nell'ipotesi in cui il reato è stato commesso da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei
soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza o amministrazione. Il presupposto sostanziale per la
configurabilità della responsabilità introdotta dal Dlgs 231/2001 risiede dunque nell'indispensabile
consumazione del reato attuata da soggetti «qualificati» cui sono conferiti compiti di direzione all'interno
dell'ente, a condizione che la condotta illecita sia stata commessa nell'interesse o a vantaggio esclusivo della
persona giuridica, essendo difatti essenziale, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza di un dolo specifico. Ne
consegue che l'ente deve ritenersi soggetto responsabile, nel caso in cui il reato commesso da un soggetto
con funzioni «apicali» sia stata coscienziosamente nonché volutamente concepita e consumata per esclusivo
vantaggio dell'ente di modo da recare un beneficio per la società. L'ente, tuttavia, non sarà invece chiamato
a rispondere se le persone che ricoprono funzioni di direzione, amministrazione o gestione abbiano viceversa
agito nel proprio esclusivo interesse o nell'interesse di terzi, così come sancito dall'articolo 5 comma 2, del
Dlgs 231/2001.
70
Responsabilità dell'ente - In genere si dovrebbe pertanto escludere la responsabilità dell'ente, quando la
condotta dell'agente si sia manifestata in totale contrasto o in assoluta autonomia rispetto agli obiettivi e alle
finalità perseguite dalla persona giuridica o dalla società, essendo del tutto irrilevante il fatto che l'ente possa
aver tratto un qualsivoglia vantaggio o beneficio dalla consumazione del reato. Ciò nondimeno, da
un'interpretazione restrittiva del combinato disposto ex articolo 5, comma 2, ed ex articolo 12 comma 1,
lettera a) del Dlgs 231/2001 (in base a cui la sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque
essere superiore a 103.291 euro se «l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio
o di terzi e l'ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo»), si può desumere
che possa essere imputato all'ente un certo margine di responsabilità perfino quando il reo ha commesso il
reato per soddisfare anche solo parzialmente interessi societari ovvero anche nel caso in cui la persona
giuridica abbia tratto un seppur minimo vantaggio. Sotto un profilo meramente oggettivo è altresì opportuno
premettere che la responsabilità amministrativa da reato degli enti può essere riconosciuta solamente
quando la condotta dell'autore del reato sia sussumibile in un archetipo di fattispecie incriminatrice rientrante
nell'elencazione tassativamente formulata dal nostro legislatore agli articoli 24 e seguenti del Dlgs 231/2001.
Infatti la responsabilità dell'ente può configurasi nelle sole ipotesi della consumazione di reati rientranti
nell'ambito tipicamente commerciale ed economico quali ad esempio l'indebita percezione di erogazioni
pubbliche ex articolo 316 ter del Cp o la truffa a danno dello Stato o di un ente pubblico ex articolo 640 bis
del Cp, la corruzione e la concussione ex articolo 317 del Cp, la falsità in monete, in carte pubbliche o valori
di bollo ex articolo 453 del Cp e seguenti, i reati societari per violazione delle disposizioni civilistiche ex
articolo 2622 e seguenti del Cc, nonché i delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine
democratico ex articolo 270 bis del codice penale. In ogni caso se il reato è stato commesso dalle persone
che ricoprono funzioni «apicali» all'interno della persona giuridica, la responsabilità dell'ente deve ritenersi
esclusa nei casi specificatamente indicati dall'articolo 6 del Dlgs 231/2001. Più precisamente, l'ente non
risponde allorquando l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del
fatto illecito, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire la consumazione dei reati rientranti nella
categoria della fattispecie incriminatrice verificatasi.
In termini analoghi, la commissione del reato non può essere ascritta all'ente, quando il compito di vigilare
sul funzionamento e l'osservanza dei modelli è stato affidato a un organismo della persona giuridica dotato
di poteri autonomi di iniziativa e di controllo ovvero nel caso in cui l'autore materiale del reato ha
fraudolentemente eluso i riferiti modelli di organizzazione e gestione.
Irrogazione della sanzione pecuniaria - Si noti, infine, che la sanzione principale in cui l'ente può incorrere
per gli illeciti dipendenti da reato ex articolo 9 del Dlgs 231/2001 consiste principalmente nell'irrogazione di
una sanzione amministrativa pecuniaria, la cui commisurazione viene determinata sulla base della gravità del
fatto, del grado di responsabilità della persona giuridica, nonché dall'eventuale attività svolta per eliminare o
attenuare le conseguenze derivanti dal fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti (la sanzione
pecuniaria va applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille e l'importo della
quota va da un minimo di 258 a un massimo di 1.549 euro). L'ente può inoltre rischiare di vedersi applicate
sanzioni interdittive quali: l'interdizione dall'esercizio dell'attività, la sospensione o la revoca di autorizzazioni,
licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito, il divieto di contrarre con la pubblica
amministrazione, l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e la revoca di quelli
precedentemente concessi, nonché il divieto di pubblicizzare beni o servizi. L'applicazione delle sanzioni
interdittive, la cui durata non può essere inferiore a tre mesi e non superiore a due anni, può trovare
giustificazione solamente nel caso in cui la persona giuridica abbia tratto dal reato un profitto di rilevante
entità e la fattispecie incriminatrice sia stata commessa da soggetti in posizione «apicale» ovvero da soggetti
sottoposti all'altrui direzione se la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze
organizzative. L'applicazione di una sanzione interdittiva può poi essere giustificata dall'eventuale consumata
reiterazione degli illeciti. Non è comunque da escludere la possibile configurabilità di sanzioni interdittive
dall'esercizio della attività in via definitiva nell'ipotesi in cui l'ente abbia realizzato un profitto di entità
rilevante ed è già stato precedentemente condannato, almeno tre volte, negli ultimi sette anni all'interdizione
temporanea. Ed è altresì possibile l'applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva del divieto di
contrarre con la pubblica amministrazione o pubblicizzazione dei beni o servizi quando l'ente è stato
condannato alla medesima sanzione almeno tre volte negli ultimi sette anni. Residuali sono poi le sanzioni
che comportanto la confisca del prezzo o del profitto del reato e la pubblicazione della sentenza di condanna
per intero o per estratto su uno o più quotidiani e mediante affissione nel comune ove l'ente ha la propria
sede principale.
71
Finanziamento del terrorismo - Quando c'è assimilazione. Nonostante l'elencazione delle fattispecie
incriminatrici da cui il nostro legislatore fa dipendere la configurazione di una responsabilità amministrativa
da reato dell'ente non contenga un chiaro, inequivocabile e specifico riferimento all'articolo 648 bis del
codice penale, si deve tuttavia ritenere che la disciplina contenuta nel Dlgs 231/2001 sia sin d'ora applicabile
anche nell'ipotesi di consumazione del delitto di riciclaggio per effetto di una sostanziale equiparazione con i
delitti commessi per finalità di terrorismo o eversione dell'ordine democratico sancito dal decreto, così come
emerge anche dall'interpretazione della ratio e dalle disposizioni della direttiva 2005/60/Ce (relativa alla
prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e
finanziamento del terrorismo). La ragione giustificativa posta alla base del riconoscimento di una
equiparazione tra il reato di riciclaggio e il finanziamento del terrorismo risiede difatti nel significato
funzionale della norma in quanto finalizzata a tutelare l'esigenza di garantire la stabilità del sistema
finanziario e le regole di mercato. Principio che è stato esplicitato al considerando n. 8 della direttiva n.
2005/60/Cee, in forza del quale «il fatto di sfruttare il sistema finanziario per trasferire fondi di provenienza
criminosa o anche denaro pulito a scopo di finanziamento del terrorismo minaccia chiaramente l'integrità, il
funzionamento regolare, la reputazione e la stabilità di tale sistema. Di conseguenza è opportuno che le
misure preventive previste dalla direttiva coprano non soltanto la manipolazione di fondi di provenienza
criminosa, ma anche la raccolta di beni o di denaro pulito a scopo di finanziamento del terrorismo».
Richiamo al codice penale - In questi termini l'articolo 648 bis del Cp individua chiaramente la fattispecie
incriminatrice che può configurarsi quando il reo ponga in essere attività finalizzate a operare una
sostituzione o trasferimento di denaro, beni o utilità provenienti da delitto non colposo ovvero compiere
operazioni finalizzate a ostacolare o impedire la corretta identificazione della provenienza delittuosa dei
mezzi di pagamento. In ogni caso a breve, come premesso, sarà possibile prescindere da un esame
interpretativo preliminare della questione della riconducibilità dell'articolo 648 bis del codice penale nel
novero dei reati rientranti nella classificazione prevista dal Dlgs 231/2001 per effetto dell'imminente
approvazione del Dlgs di recepimento della III direttiva antiriciclaggio.
Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita - In questo contesto
normativo d'ordine generale si inseriscono difatti a pieno titolo le integrazioni che verranno apportate al Dlgs
231/2001 da parte dell'articolo 63 del nuovo testo unico antiriciclaggio che consacrano l'attesa equiparazione
formale tra riciclaggio e finanziamento al terrorismo anche ai fini della configurabilità della responsabilità
amministrativa da reato dell'ente. L'articolo 63, comma 3 del testo unico antiriciclaggio inserisce il nuovo
articolo 25 octies al Dlgs 231/2001. In relazione ai reati di cui agli articoli 648, 648 bis e 648 ter del Cp,
l'ente potrà vedersi pertanto applicata una sanzione pecuniaria minima da 200 a 800 euro. Nel caso il
denaro, i beni o le utilità avessero una provenienza da un delitto per il quale il legislatore penale ha previsto
l'irrogazione della pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni, la sanzione pecuniaria
verrebbe invece calcolata nella misura da 400 a mille quote. Non solo, l'ente dovrebbe altresì subire le
sanzioni interdittive previste dall'articolo 9 comma 2, del Dlgs 231/2001 (interdizione dall'esercizio della
attività; sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell'illecito; divieto di contrarre con la pubblica amministrazione; esclusione dalle agevolazioni di natura
finanziaria, contributi o sussidi ed eventuale revoca dei precedentemente concessi) per una durata tuttavia
non superiore a due anni.
Organi di controllo ( Dlgs 231/2007 articolo 52) - Si noti che la disciplina che verrà dettata dal combinato
disposto delle disposizioni contenute nel Dlgs 231/2001 e dall'articolo 52 del nuovo testo unico antiriciclaggio
imporranno agli organi societari uno specifico obbligo di vigilanza in materia. Secondo quanto previsto
dall'articolo 52, comma 1, il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza, il comitato di gestione, l'organismo
di vigilanza ex articolo 6 comma 1, lettera b) del Dlgs 231/2001 e tutti i soggetti incaricati alla funzione di
controllo di gestione saranno difatti investiti dell'obbligo di vigilare sul rigoroso adempimento delle
disposizioni contenute nel nuovo testo unico antiriciclaggio. D'altronde l'articolo 2403 del Cc individua
specificatamente i doveri del collegio sindacale (analogamente rispetto a quanto avviene per il consiglio di
sorveglianza e il comitato di gestione), che come organo societario ha il compito di vigilare sulla corretta
osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, nonché
sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo
corretto funzionamento. Ed è quantomeno emblematico il profilo di responsabilità in cui i sindaci possono
incorrere ex articolo 2407 del Cc dal momento che gli stessi rispondono solidalmente con gli amministratori
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per i fatti od omissioni commessi da questi ultimi in violazione degli obblighi di diligenza e controllo loro
richiesti.
Autorità di vigilanza di settore ( Dlgs 231/2007 articolo 7) - In particolare gli organi deputati all'attività di
vigilanza avranno difatti il compito di comunicare, senza ritardo, alle autorità competenti del settore, tutti gli
atti o i fatti cui sono venuti a conoscenza nell'esercizio delle proprie funzioni che possano costituire la
violazione delle disposizioni emanate ai sensi dell'articolo 7, comma 2, del nuovo testo unico antiriciclaggio.
Segnalazione di operazioni sospette ( Dlgs 231/2007 articolo 41) - L'ambito oggettivo dell'attività di controllo,
la cui inosservanza può determinare l'insorgenza di una responsabilità degli organi di vigilanza è pertanto
innanzitutto riferibile alla violazione delle disposizioni dettate dalle autorità di vigilanza in materia di modalità
di adempimento degli obblighi di adeguata verifica della clientela, organizzazione, registrazione, procedure e
controlli interni finalizzati a prevenire l'utilizzo degli intermediari e degli altri soggetti che svolgono attività
finanziaria a fini di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. In secondo luogo gli organi di vigilanza
avranno anche il dovere di comunicare, senza ritardo, al titolare dell'attività o al legale rappresentante o a un
suo delegato, le infrazioni rilevate nell'espletamento della propria attività di controllo dell'articolo 41 del
nuovo testo unico antiriciclaggio.
Ne consegue pertanto che costituisce condotta rilevante ai fini della sussistenza di un comportamento
rientrante nell'ambito di applicazione del Dlgs 231/2001 l'inosservanza da parte dei responsabili «apicali»
dell'ente o delle persone giuridiche rientranti nell'elencazione ex articoli 10, 11 e 14 dell'obbligo di
segnalazione di operazione sospetta aventi a oggetto prestazioni in corso ovvero precedentemente compiute
o semplicemente tentate per scopi di riciclaggio o finanziamento del terrorismo.
Limitazioni all'uso del contante e dei titoli al portatore ( Dlgs 231/2007 articolo 49) - Un'ulteriore condotta
rilevante ai fini del riconoscimento di una responsabilità secondo le disposizioni del Dlgs 231/2001 riguarda
l'omessa comunicazione entro il termine di trenta giorni, al ministero dell'Economia, delle infrazioni alle
disposizioni di cui all'articolo 49, comma 1, 5, 6, 7, 12, 13 e 14 del nuovo testo unico antiriciclaggio in
materia di limitazioni all'utilizzazione del denaro contante e dei titoli al portatore. In termini analoghi la
responsabilità dell'ente può scattare nel caso in cui i soggetti responsabili omettano di comunicare, sempre
entro il termine di trenta giorni, all'Unità di informazione finanziaria le infrazioni di cui hanno avuto notizia
nell'espletamento delle funzioni di vigilanza loro attribuite, alle disposizioni contenute nell'articolo 36 in
materia di obblighi di registrazione e conservazione delle informazioni ottenute nel corso dell'adempimento
della procedura di adeguata verifica della clientela. La disciplina dettata dall'articolo 52 del nuovo testo unico
antiriciclaggio non svolge meramente la funzione di individuare un profilo di responsabilità degli organi
societari deputati all'attività di vigilanza, ma trova implicitamente fondamento nell'indispensabile adozione da
parte degli intermediari e delle società interessate di strumenti organizzativi di controllo e di sorveglianza in
grado di calmierare il rischio di riciclaggio e salvaguardare la persona giuridica dal pericolo di incorrere nel
profilo di responsabilità disciplinata dal Dlgs 231/2001.
D'altronde l'introduzione dell'articolo 25 octies del Dlgs 231/2001 e dell'articolo 52 del decreto legislativo di
attuazione della terza direttiva 2005/60/Ce costituiscono uno strumento incentivante per forzare gli enti
soggetti agli obblighi definiti dalla normativa antiriciclaggio a dotarsi e dare attuazione a modelli di
organizzazione e gestione adeguati e idonei a prevenire la consumazione del reato di riciclaggio ex articolo
648 bis del codice penale.
LA CONFIGURABILITÀ
Responsabilità amministrativa da reato degli enti secondo il Dlgs 231/2001
per violazione delle disposizioni antiriciclaggio
L'esclusione di responsabilità (
Dlgs 231/2001 articolo 6,
in relazione all'articolo 52
del Dlgs 231/2007)
Esclusione della responsabilità amministrativa da reato dell'ente nel
caso di prova dell'adozione di modelli di organizzazione in grado di
assicurare l'adempimento degli obblighi di adeguata verifica della
clientela, registrazione e conservazione, procedure e controlli interni
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Responsabilità del collegio
sindacale, consiglio
di sorveglianza,
comitato di gestione
( Dlgs 231/2007 articolo 52)
Responsabilità del collegio sindacale, consiglio di sorveglianza,
comitato di gestione
Omessa comunicazione delle violazioni all'articolo 7, comma 2
Omessa o ritardata comunicazione delle violazioni all'articolo 41
Omessa o ritardata comunicazione delle violazioni all'articolo 39
Omessa o ritardata comunicazione delle violazioni all'articolo 49
Guida al Diritto
Guida al Diritto n. 2, 12.01.2008 pg 92 - Ferrajoli Luigi
Confisca obbligatoria in caso di condanna
Le sanzioni penali e amministrative insieme alle disposizioni finali sono i temi affrontati negli ultimi articoli del
decreto legislativo n. 231 del 2007.
Le sanzioni penali ( Dlgs 231/2007 articolo 55) - Il titolo V del provvedimento è, infatti, dedicato alle
disposizioni sanzionatorie e finali e parte con il testo dell'articolo 55 che elenca otto diverse fattispecie di
reato:
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il delitto di chiunque contravviene alle disposizioni concernenti l'obbligo di identificazione che, salvo
che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la multa da 2.600 a 13.000 euro;
il delitto dell'esecutore dell'operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del
quale eventualmente esegue l'operazione o le indica false, che è punito, salvo che il fatto costituisca
più grave reato, con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa da 500 a 5.000 euro;
la contravvenzione dell'esecutore dell'operazione che non fornisce informazioni sullo scopo e sulla
natura prevista dal rapporto continuativo o dalla prestazione professionale o le fornisce false, che è
punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con l'arresto da sei mesi a tre anni e con
l'ammenda da 5.000 a 50mila euro;
il delitto di chi, essendovi tenuto, omette di effettuare la registrazione di cui all'articolo 36, ovvero la
effettua in modo tardivo o incompleto, il quale è punito con la multa da 2.600 a 13mila euro;
il delitto di chi (gli organi di controllo indicati nell'articolo 52), essendovi tenuto, omette di effettuare
la comunicazione di cui all'articolo 52, comma 2, il quale è punito con la reclusione fino a un anno e
con la multa da 100 a 1.000 euro;
il delitto commesso da agenti di cambio, mediatori creditizi e agenti finanziari (secondo le definizioni
indicate nel decreto per rinvio) che omettano di eseguire la comunicazione prevista dall'articolo 36,
comma 4 o la eseguano tardivamente o in maniera incompleta, che sono puniti con la multa da
2.600 a 13mila euro;
la contravvenzione di chi, essendovi tenuto, viola i divieti di comunicazione della segnalazione e delle
informazioni di ritorno (articolo 46, comma 1, e 48, comma 4), che è punito, salvo che il fatto
costituisca più grave reato, con l'arresto da sei mesi a un anno o con l'ammenda da 5.000 a 50mila
euro;
il delitto di chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone
titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al
prelievo di denaro contante o all'acquisto di beni o alla prestazione di servizi, che è punito con la
reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi,
al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi
altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all'acquisto di beni o alla
prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza
illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.
Le sanzioni amministrative ( Dlgs 231/2007 articoli 56, 57, 58 e 59) - La disciplina punitiva si completa con le
previsioni degli articoli 56, 57 e 58 che, per altre numerose violazioni agli obblighi imposti dalla legge,
impongono sanzioni amministrative di tipo pecuniario. L'articolo 59 rafforza le predette sanzioni con la
74
responsabilità solidale degli enti di riferimento che resta tale anche quando le persone fisiche che hanno
commesso la violazione non sono state identificate o non è comunque più perseguibile; si tratta di una
norma quantomai opportuna perché responsabilizza l'ente in sé e assicura maggiore probabilità di seguire la
sanzione con la riscossione effettiva della pena pecuniaria, a fronte della evidente maggiore volatilità della
persona fisica e del suo patrimonio (la previsione è completata all'articolo 63 dalla aggiunta dell'articolo 25
octies del Dlgs 8 giugno 2001 n. 231 che introduce sanzioni pecuniarie e interdittive per gli enti in relazione
ai reati di ricettazione, riciclaggio e reimpiego previsti dagli articoli 648, 648 bis, 648 ter del codice penale).
Debolezze e punti di forza del nuovi sistema - Il sistema punitivo, così come l'intero assetto della nuova
disciplina si segnala senz'altro per una maggiore specificità e completezza rispetto alle previgente normativa
che trovava il suo fulcro nel decreto legge 3 maggio 1991 n. 143 convertito dalla legge 197/1991 e
successive modificazioni. Invero certamente numerose e più dettagliate sono le sanzioni; la normativa in
questione, a una prima lettura, si preoccupa di accompagnare ai molteplici obblighi di legge una adeguata
sanzione di tipo penale o amministrativo. Il dato è senz'altro positivo e segna un passo avanti nella
sensibilità del Legislatore per la materia ma è del tutto evidente che, in via generale e con esclusione del
reato previsto dal comma 9 dell'articolo 55 (fraudolento uso di carte di credito, eccetera, fra l'altro già
sanzionato con una pena del tutto identica), le sanzioni introdotte appaiono di lieve entità a fronte della
delicatezza della materia e degli interessi in gioco. È chiaro che lievi sanzioni pecuniarie, fattispecie
contravvenzionali o delitti con pena che non supera nel massimo la reclusione di un anno, non sono idonee a
svolgere una reale funzione deterrente per chi ha la responsabilità di gestire informazioni economicamente
ritenute sensibili e appetibili agli operatori economici esposti ai controlli antiriciclaggio. Non è questo,
pertanto, il valore e l'utilità del decreto legislativo per chi si occupa della repressione del riciclaggio e delle
implicazioni di tali attività in settori criminali nevralgici quali quelli della criminalità finanziaria, organizzata e
del terrorismo. Non è cioè la condotta del singolo, eventualmente fraudolenta od omissiva, e la relativa
sanzione, a rappresentare un efficace strumento di accertamento e di repressione.
Assume invece assoluto rilievo l'intero sistema in sé, di mappatura e tracciatura del denaro e del bene
economico finanziario, che si pone l'obiettivo, a completo regime e attuati gli strumenti indicati nel testo, di
consentire segnalazioni tempestive, verifiche puntuali e accertamenti a ritroso fino a risalire, di passaggio in
passaggio all'origine dell'operazione finanziaria e alla provenienza del denaro. Ecco perché, più delle
sanzioni, sono di interesse per l'investigatore la compiuta identificazione dei soggetti destinatari degli
obblighi, con particolare attenzione agli intermediari e ai professionisti, la dettagliata elencazione degli
obblighi di adeguata verifica della clientela (da segnalare la espressa previsione dell'articolo 24 per gli
operatori delle case da gioco, settore da sempre esposte ad attività di riciclaggio), degli obblighi di
registrazione (anche attraverso l'archivio unico informatico in cui registrare e conservare i dati, previsto
obbligatoriamente per alcuni soggetti professionali) e di segnalazione delle operazioni sospette.
Allo stesso modo, in un approccio penalistico e investigativo, grande rilievo hanno le ulteriori e più restrittive
limitazioni all'uso del contante e dei titoli al portatore, e il divieto di conti e libretti di risparmio anonimi o con
intestazioni fittizie aperti presso Stati esteri. Si tratta di una disciplina che restringe il campo della
circolazione di denaro senza lasciare traccia, e indirizza invece verso una circolazione cartacea che passi
sempre più attraverso uno dei soggetti tenuti alla registrazione ed eventualmente alla comunicazione, in
modo da ampliare il campo della tracciatura delle transazioni e facilitare così gli accertamenti a posteriori (ad
esempio abbassamento della soglia consentita della transazione a 5.000 euro, obblighi di apposizione delle
clausole di non trasferibilità sugli assegni ecc.).
Ruolo dell'Uif - Da altro punto di vista, deve evidenziarsi poi la funzione centrale assunta dall'Uif (Unità di
informazione finanziaria per l'Italia), istituita presso la Banca d'Italia, che sostituisce, con poteri ancora più
penetranti l'Ufficio italiano cambi (ente soppresso). Si tratta di un organo di cui è affermata dalla legge
l'autonomia e l'indipendenza secondo un regolamento da emanare dalla Banca d'Italia, che è il destinatario
immediato e iniziale del flusso di informazioni finanziari di interesse per la prevenzione e la repressione dei
fenomeni di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo; esso riceve le segnalazioni sospette, si avvale
dell'anagrafe dei conti e dei depositi e dell'Anagrafe tributaria per l'aggregazione dei dati sensibili. Solo in
secondo momento e cioè a seguito del filtro, dello studio e dell'approfondimento dell'informazione ricevuta la
Uif attiva gli organi investigativi e di polizia giudiziaria abilitati e cioè la Dia (Direzione investigativa antimafia)
e il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza, i quali svolgono gli approfondimenti
investigativi delle segnalazioni e delle operazioni sospette di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo
(articoli 8 e 47), e informano il procuratore nazionale antimafia quando esse siano attinenti a fatti di
criminalità organizzata.
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Non tutte le segnalazioni però sono trasmesse per gli approfondimenti investigativi. La Uif infatti archivia le
segnalazioni che ritiene infondate, che conserva per dieci anni per eventuali richieste degli organi
investigativi. Inoltre la Uif fornisce i risultati di carattere generale dei suoi studi alle forze di polizia
interessate alle autorità di vigilanza di settore, al ministero dell'Economia e delle Finanze, al ministero della
Giustizia e al procuratore nazionale antimafia (Pna); fornisce invece solo alla Dia e al Nucleo speciale di
polizia valutaria della Guardia di finanza gli esiti delle analisi e degli studi effettuati su specifiche anomalie da
cui emergono fenomeni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.
Questi flussi di informazioni, in ogni caso, si riferiscono a fatti che non emergono nell'immediatezza già con i
caratteri della notizia di reato, poiché altrimenti il pubblico ufficiale della Uif ne informa direttamente
l'autorità giudiziaria competente, avendone l'obbligo ai sensi dell'articolo 331 del codice di procedura penale.
In definitiva sembra delinearsi nell'architettura del Legislatore una gamma di informazioni di diversa qualità
gestite dalla Unità di informazione finanziaria per l'Italia:
a) le informazioni che immediatamente appaiono di rilievo penale. Esse sono trasmesse immediatamente ex
articolo 331 del codice di procedura penale all'autorità giudiziaria competente o a un ufficiale di polizia
giudiziaria (soluzione questa che nella prassi sarà verosimilmente privilegiata con la comunicazione a Dia e/o
Guardia di finanza);
b) le informazioni che meritano approfondimento investigativo. Esse sono inviate agli organi investigativi
previsti dal decreto e cioè Dia e Nucleo speciale di polizia valutaria; questi danno immediata notizia al Pna se
si tratta di notizie attinenti alla criminalità organizzata; istruiscono le relative attive di indagine, informano la
Uif delle segnalazioni sospette non aventi ulteriore corso investigativo (per l'archiviazione), comunicano alla
autorità giudiziaria le segnalazioni sospette i cui approfondimenti investigativi danno luogo a notizia di reato
ex articolo 347 del codice di procedura penale;
c) le informazioni che immediatamente sono ritenute infondate. Esse sono archiviate dalla Uif, ma restano a
disposizione per dieci anni per eventuali richieste degli organi investigativi;
d) le informazioni che sono oggetto della attività di studio e di aggregazione da parte della Uif che sono
destinate ad una pluralità di organi, in relazione alla natura generale o specifica dei risultati, che consentono
un monitoraggio ampio del fenomeno dell'antiriciclaggio e del finanziamento del terrorismo per una pluralità
di scopi. In questo settore si attua la collaborazione che in più punti il Legislatore invita a realizzare fra i
diversi organi e soggetti istituzionali del settore, anche attraverso le cosiddette informazioni di ritorno ovvero
il flusso di informazioni che deve tornare alla stessa Uif e in alcuni casi anche al soggetto segnalante. Tutte
le informazioni sono comunque garantite dalle sanzioni previste dal decreto e da quelle concorrenti presenti
nel codice in materia di protezione dei dati personali ( Dlgs 30 giugno 2003 n. 196) e sono coperte dal
segreto di ufficio (articolo 9, comma 1).
Da segnalare il penetrante potere della Uif di sospendere, anche su richiesta del Nucleo speciale di polizia
valutaria della Guardia di finanza, della Dia e dell'autorità giudiziaria, per un massimo di cinque giorni
lavorativi, sempre che ciò non pregiudichi il corso delle indagini, operazioni sospette di riciclaggio o di
finanziamento del terrorismo, dandone immediata notizia a tali organi (articolo 6, comma 7, lettera c); tale
potere prima affidato all'Ufficio italiano cambi era limitato a sole 48 ore dal decreto legge 143/1991).
Confisca obbligatoria - Infine la disposizione di diritto penale più incisiva appare quella più nascosta nel
decreto, inserita nelle disposizioni finali, con l'aggiunta di un articolo dopo l'articolo 648 ter del codice
penale. Il nuovo articolo 648 quater introduce infatti una nuova ipotesi di confisca obbligatoria (a
integrazione di quelle dell'articolo 240 comma 2, del codice penale e delle altre di volta in volta disciplinate
da leggi speciali) in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, per uno dei delitti
previsti dagli articolo 648 bis e 648 ter; è sempre ordinata dunque la confisca dei beni che ne costituiscono il
prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persone estranee al reato. La norma rafforza la già ampia
possibilità di confisca prevista per i reati di riciclaggio e reimpiego dall'articolo 12 sexies della legge
356/1992. Con alcune differenze e in modo complementare, in modo da prefigurare un sistema di sanzioni
reali privo di vuoti. Utilizzando l'articolo 12 sexies infatti è possibile sequestrare e poi confiscare tutti i beni
del condannato per riciclaggio o reimpiego, indipendentemente dal nesso di pertinenzialità con il reato
(Cassazione, sezioni Unite, sentenza 19 gennaio 2004 n. 920), ma previo accertamento della esistenza di
una sproporzione di tale patrimonio rispetto al reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla
attività economica esercita. Il nuovo articolo 648 quater del codice penale consentirà invece di sequestrare e
poi confiscare solo il prodotto o il profitto del reato, e cioè i valori legati da nesso di pertinenzialità e di
derivazione con il riciclaggio o il reimpiego, ma senza ulteriori oneri di allegazione o probatori. Inoltre è
possibile (articolo 648 quater,, del codice penale) la confisca per equivalente tutte le volte in cui (piuttosto
frequentemente, data la natura dei beni in questione) le predette utilità del reato siano state disperse od
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occultate, per cui è non possibile la loro confisca diretta; si aggredirà di conseguenza un valore equivalente
al prodotto, profitto o prezzo del reato (sul punto si nota una distonia con il comma 1 in cui si parla solo di
prodotto e profitto, presumibilmente per un errore di compilazione).
Finanziamento del terrorismo - Va premesso che il decreto legislativo approvato è il secondo testo normativo
licenziato per dare attuazione alla direttiva 26 ottobre 2005 (n. 2005/60/Ce) del Parlamento europeo e del
Consiglio, a cui il Parlamento italiano ha dato esecuzione con la legge comunitaria 2005; esso segue il Dlgs
22 giugno 2007 n. 109 avente a oggetto in maniera più specifica le «misure per prevenire, contrastare e
reprimere il finanziamento del terrorismo».
L'articolo 2 del decreto legislativo in questione definisce il riciclaggio come comprensivo di una serie di
attività economico-finanziarie di acquisto, trasferimento, occultamento, dissimulazione di beni di provenienza
illecita, nonché l'associazione finalizzata a commettere tali atti, il tentativo, l'istigazione e l'agevolazione di
altri a commetterli.
Il provvedimento non offre invece una definizione diretta di finanziamento del terrorismo, rimandando al
Dlgs 22 giugno 2007 n. 109 che testualmente prevede «qualsiasi attività diretta, con qualsiasi mezzo, alla
raccolta, alla provvista, all'intermediazione, al deposito, alla custodia o all'erogazione di fondi o di risorse
economiche, in qualunque modo realizzati, destinati a essere, in tutto o in parte, utilizzati al fine di compiere
uno o più delitti con finalità di terrorismo o in ogni caso diretti a favorire il compimento di uno o più delitti
con finalità di terrorismo previsti dal codice penale, e ciò indipendentemente dall'effettivo utilizzo dei fondi e
delle risorse economiche per la commissione dei delitti anzidetti». Le condotte di terrorismo sono a loro volta
rintracciabili nella nuova definizione dell'articolo 270 sexies del codice penale e fanno riferimento ai molteplici
reati previsti dal codice.
Dal raffronto delle due nozioni emerge immediata la differenza: l'attività di riciclaggio richiede che i beni
provengano necessariamente da attività illecite; il finanziamento del terrorismo invece sanziona «qualsiasi
attività (...) con qualsiasi mezzo (...) in qualunque modo» realizzata, così comprendendo anche le attività
lecite, che vengono sanzionate in quanto finalizzate al compimento di atti di terrorismo, anche
indipendentemente dall'effettivo compimento dell'atto o dall'effettivo utilizzo dei fondi medesimi (con una
tutela particolarmente anticipata in virtù della gravità dei beni giuridici tutelati).
Pertanto, mentre le disposizioni previste per la prevenzione del riciclaggio si applicano anche per reprimere il
finanziamento del terrorismo nella misura in cui i fondi provengano da attività illecite, qualora si tratti di
risorse derivanti da attività lecite troverà piena ed esclusiva attuazione il Dlgs 109/2007 che consente misure
di congelamento di fondi e risorse economiche (articolo 5), che invece non è possibile attuare, all'inverso,
per la repressione del riciclaggio.
Si tratta, è bene ricordarlo, di misure di carattere sostanzialmente amministrativo disposte dal ministro
dell'Economia con decreto che consentono di vietare a un certo soggetto, indicato e designato dalle
risoluzioni Onu in materia, la movimentazione, il trasferimento, la modifica, l'utilizzo o la gestione dei fondi e
di risorse economiche, ed è prevista la nullità degli atti compiuti in violazione del divieto. Tali beni sono
affidati alla gestione dell'Agenzia del demanio. I due decreti legislativi presentano, dunque, ambiti di
discipline comuni e che si sovrappongono, nonché differenze e specificità legate alle diverse materie.
L'ultimo decreto legislativo provvede in parte ad amalgamare i due testi, con previsioni abrogative e
sostitutive. Ma è chiaro che si attende l'emanazione del testo unico in materia, previsto per il primo semestre
del 2008, che potrà coordinare le diverse disposizioni in materia di antiriciclaggio e repressione del
finanziamento del terrorismo, superando e discrasie fra i due testi e completandone il coordinamento.
LA REPRESSIONE
Riciclaggio
I beni provengono necessariamente da precedenti attività illecite: strumenti di contrasto
previsti dal Dlgs 231/2007
I beni possono provenire da attività illecite: strumenti di contrasto previsti dal Dlgs
Finanziamento 231/2007
del terrorismo I beni possono provenire anche da attività lecite: strumenti di contrasto previsti dal Dlgs
109/2007 (congelamento di beni e risorse)
N.B. Per il coordinamento si attende l'emanzione del Tu entro giugno 2008
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LE NORME PER IL SEQUESTRO DEI BENI
Articolo 12
sexies
della legge
356/1992
È possibile sequestrare e poi confiscare tutti i beni del condannato per riciclaggio o
reimpiego, indipendentemente dal nesso di pertinenzialità con il reato (Cassazione, sezioni
Unite, 19 gennaio 2004 n. 920), ma previo accertamento dell'esistenza di una sproporzione di
tale patrimonio rispetto al reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla attività
economica esercita
Articolo 648
È possibile sequestrare e poi confiscare solo il prodotto o il profitto del reato, e cioè i valori
quater,
legati da nesso di pertinenzialità e di derivazione con il riciclaggio o il reimpiego, ma senza
comma 1,
ulteriori oneri di allegazione o probatori
del Cp
Articolo 648
quater,
Alle stesse condizioni del primo comma è possibile il sequestro e poi la confisca di un valore
comma 2,
equivalente al bene oggetto di riciclaggio o reimpiego
del Cp
I POTERI DELL'UIF
Riceve la segnalazione sospetta:
• Archivia la segnalazione infondata;
• Invia per l'approfondimento investigativo alla Dia e/o al Nucleo speciale di polizia valutaria presso la
Guardia di finanza, che danno avviso al Procuratore nazionale antimafia se si tratta di notizie
attinenti alla criminalità organizzata;
• Comunica imemdiatamente all'autorità giudiziria le segnalazioni che assumono immediata
consistenza di notizia di reato (articolo 331 del codice di procedura penale)
Compie studi ed elabora i dati ricevuti:
• Fornisce i risultati di carattere alle forze di polizia, alle autorità di vigilanza, al ministero
dell'Economia e delle finanze, al ministero della Giustizia e al Procuratore nazionale antimafia (Pna);
• Fornisce solo alla Dia e al Nucleo speciale di polizia valutaria i risultati degli studi effettuati su
specifiche anomalie da cui emergono fenomeni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo
Può sospendere per un massimo di cinque giorni lavorativi, sempre che ciò non pregiudichi il corso delle
indagini, operazioni sospette di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo
Diritto Comunitario e Internazionale
Diritto Comunitario e Internazionale n. 1, 01.01.2008 pg. 22 – Paolo Ielo
Commissione Greco: dall'usura alla frode verso una più ampia responsabilità degli
enti
La ricezione nell'ordinamento italiano dei principi elaborati dalla convenzione Ocse contro la corruzione
introduce elementi di marcata discontinuità rispetto al precedente sistema.
La previsione della corruzione internazionale, la possibilità di accordi tra gli organi inquirenti per perseguire
nei diversi Paesi singoli segmenti delle condotte corruttive, l'estendersi dei confini della confisca per
equivalente sono alcuni degli strumenti di nuovo conio finalizzati a garantire l'effettività del contrasto alla
corruzione, non solo a livello nazionale.
La novità principale - La responsabilità diretta degli enti dipendente da reato commesso dai loro dipendenti,
tuttavia, costituisce la novità più pregnante, per certi versi con il carattere di maggiore discontinuità, in un
sistema improntato a una concezione antropocentrica del diritto penale, secondo cui societas delinquere non
potest.
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Una modifica del sistema necessitata dall'adesione dell'Italia alla convenzione Ocse, evidenza di quel
fenomeno di trasmissione di modelli giuridici tra diversi sistemi, conseguenza della globalizzazione dei
mercati.
L'analisi della forma che ha assunto la responsabilità degli enti nell'ordinamento italiano, peraltro, evidenzia
ulteriori elementi di novità, legati non tanto alla previsione di sanzioni interdittive per gli enti, già note a
settori particolari del sistema sanzionatorio italiano, quanto piuttosto al collegamento genetico posto tra
reato e responsabilità e alla circostanza che, attraverso il controllo della adeguatezza dei compliance
programs - modelli di organizzazione e di gestione finalizzati alla prevenzione dei reati presupposto - si
introduce un pregnante sindacato dell'autorità giudiziaria sulla struttura organizzativa delle imprese.
Una responsabilità che si espande - Originariamente introdotta per un numero limitato di reati (corruzione,
concussione, indebita percezione di erogazione, truffa e frode informatica ai danni dello Stato) la
responsabilità degli enti conosce un processo espansivo, per certi aspetti intrecciato all'analoga espansione
della cosiddetta responsabilità sociale delle imprese, in forza del quale essa si estende ad ambiti diversi ed
eterogenei, quali le aree del diritto penale societario e del market abuse.
Si aggiunga che la legge 123/2007 ha ampliato ulteriormente la platea dei reati presupposto, prevedendo tra
essi illeciti aventi natura colposa, quali lesioni gravi e omicidi commessi con violazione della normativa
antinfortunistica. Una disciplina certamente imposta dalla necessità di contrasto agli eventi di danno legati
alla violazione della normativa antinfortunistica sui luoghi di lavoro, ma, probabilmente per l'impellenza di tali
ragioni, connotata da profili di problematicità, connessi all'assenza di adeguamento dei cosiddetti criteri
d'imputazione soggettiva dell'illecito all'ente - pensati per i reati originariamente previsti tutti aventi natura
dolosa - e a una eccessiva rigidità della risposta sanzionatoria.
La proposta Greco - A tale ultimo riguardo, la proposta elaborata dalla Commissione Greco - insediata presso
il ministero della Giustizia - suggerisce l'introduzione, con riferimento ai reati colposi, di modifiche ai criteri
d'imputazione soggettiva della responsabilità e, con specifico riferimento alle ipotesi di responsabilità
dell'ente derivante da lesioni gravi e omicidi colposi determinati da violazione della normativa
antinfortunistica, indica la possibilità di una concreta modulazione della risposta sanzionatoria, attraverso
l'abbattimento dei minimi edittali e la previsione delle sanzioni interdittive solo per le violazioni di peculiare
gravità.
L'analisi delle proposte di modifica della disciplina, peraltro, evidenzia l'accentuarsi del processo espansivo
della responsabilità degli enti.
Taluni disegni di legge prevedono l'estensione dell'istituto ai reati in materia ambientale; la proposta
elaborata dalla Commissione Greco suggerisce l'introduzione tra i reati presupposto di alcuni dei più
significativi illeciti in materia fiscale, dell'abusivismo finanziario e bancario, dell'usura e dell'estorsione, della
turbativa d'asta, dell'inadempimento di contratti di pubbliche forniture, della frode nelle pubbliche forniture.
In concreto, s'intuisce una linea evolutiva che, nella logica del contrasto alla criminalità del profitto, tende a
considerare la responsabilità degli enti dipendente da reato una categoria generale del diritto penale
dell'economia, soprattutto per la sua capacità di infliggere costi non ammortizzabili attraverso le sanzioni
interdittive, che pongono limiti di diversa intensità alla capacità dell'impresa di stare sul mercato.
Prevenzione e repressione - La considerazione delle esperienze a oggi maturate, a poco più di un lustro
dall'entrata in vigore del Dlgs 231/2001 evidenzia luci e ombre, sia sul versante della prevenzione, sia sul
versante della repressione.
Sotto il primo profilo, si consideri che l'adozione da parte delle imprese dei compliance programs - modelli di
organizzazione e di gestione degli enti finalizzati alla prevenzione dei reati che attivano la responsabilità degli
enti - non ha la diffusione auspicata.
Assenza di cultura della legalità nell'agire dell'impresa, rigidità della previsione normativa - che, con
riferimento all'adozione dei modelli organizzativi, non distingue adeguatamente l'entità dell'onere in relazione
alla struttura dell'ente - costo elevato di adeguati compliance programs sono, probabilmente, le più rilevanti
tra le ragioni di tale fenomeno.
A tale ultimo riguardo, la Commissione Greco propone che per le piccole imprese - individuate in ragione del
doppio criterio della identificazione tra proprietà e gestione e dimensionale, legato al numero dei dipendenti
- siano previsti modelli organizzativi più leggeri, proprio al fine di attivare una maggiore diffusione di tali
misure di prevenzione dei reati.
Quanto al profilo repressivo, le tipologie di reati per i quali più frequentemente pendono procedimenti nei
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confronti degli enti per responsabilità da reato sono relative all'area delle corruzioni, delle truffe di danni
dello Stato, del market abuse e dei reati societari. È raro, nell'esperienza giudiziaria fin qui maturata, che a
fronte dell'attivazione di un procedimento di responsabilità degli enti da reato siano stati opposti adeguati
modelli organizzativi.
Peraltro, all'esistenza di situazioni nelle quali l'istituto ha dato prova di notevole efficienza, consentendo
l'acquisizione allo stato di beni illeciti di rilevante valore - si pensi che ne distretto milanese in un solo
procedimento sono state confiscate somme pari a 94.250.000 euro - e determinando gli enti sotto
procedimento a dotarsi di modelli organizzativi di prevenzione post factum, fa da contrappunto una sua
diffusione disomogenea sul territorio nazionale. Ad aree giudiziarie nelle quali si registra una coerente
applicazione della disciplina, con procedimenti prevalentemente definiti con sentenze di patteggiamento,
corrispondono aree giudiziarie nelle quali non vi sono significativi procedimenti pendenti.
Una scarsa confidenza degli operatori giuridici con uno strumento certamente nuovo per l'esperienza
giuridica italiana, talvolta l'insufficiente consapevolezza della obbligatorietà della sua applicazione, la
complessità del sistema processuale previsto per l'accertamento della responsabilità degli enti sono alcune
tra le cause di maggior peso di tale stato di cose.
Le linee di tendenze del sistema, tuttavia, sia a livello nazionale che a livello comunitario, paiono essere
irreversibili e, malgrado gli inconvenienti lamentati, individuano nell'istituto uno degli strumenti tipici del
contrasto alla criminalità d'impresa.
DIECI ANNI DI DECISIONI
Numero di reati oggetto di sentenze definitive nel periodo 1996-2006
Fattispecie
Numero di reati
% sul totale
Corruzione
6.603
35,5
Peculato
4.737
25,5
Abuso d'ufficio
4.634
24,9
Concussione
2.579
13,9
Totale
18.553
100,0
Fonte: Alto Commissario lotta alla corruzione
LE RICHIESTE DEGLI ESPERTI
Le principali modifiche al Dlgs 231/2001 suggerite dalla Commissione Greco
MODIFICHE
PROPOSTE
CONTENUTO
I REATI
COLPOSI
Con la modifica proposta all'articolo 6 del Dlgs 231/2001, che di fatto introduce la
responsabilità degli enti anche per i reati colposi dei soggetti in posizione apicale, si
prevedono i casi di esclusione di tale responsabilità:
- se l'organo dirigente ha adottato e attuato, prima della commissione del fatto, modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire le condotte costituenti reati colposi della
specie di quello verificatosi;
- se il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli, di curare il loro
aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di
iniziativa e di controllo;
- se non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo preposto;
- se le condotte costituenti reato sono state realizzate in violazione delle specifiche regole
dettate.
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I REATI
TRIBUTARI
1. In caso di dichiarazione fraudolenta e per l'emissione di fatture o altri documenti o per
operazioni inesistenti (articoli 2, comma 1, 3 e 8, comma 1, del Dlgs 74/2000 si applicano
all'ente la sanzione pecuniaria da 600 a 100 quote nonché le sanzioni interdittive per una
durata tra 6 mesi e 1 anno.
2. In relazione alla commissione del delitto di occultamento o distruzione di documenti
contabili (articolo 10 del Dlgs 74/2000) si applicano sanzione pecuniaria da 500 a 900
quote e le sanzioni interdittive, per una durata tra 4 e 9 mesi.
3. Per i delitti di cui all'articolo 5 del Dlgs 74/2000 (omessa dichiarazione) si applicano
all'ente la sanzione pecuniaria da 400 a 800 quote nonché le sanzioni interdittive, per una
durata non inferiore a 3 mesi e non superiore a 8 mesi.
IL
RICICLAGGIO
1. In relazione ai reati di riciclaggio e di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita (articoli 648 bis e 648 ter del Codice penale), si applicano all'ente la sanzione
pecuniaria da 200 a 800 quote nonché le sanzioni interdittive per una durata non
inferiore a 4 mesi e non superiore a 1 anno. Nel caso in cui il denaro, i beni o le altre
utilità provengano da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione superiore nel
massimo a cinque anni, si applica all'ente la sanzione pecuniaria da 400 a 1.000 quote
(sanzioni interdittive tra 6 mesi e 2 anni).
2. La Commissione ha ritenuto di non seguire l'indicazione per la quale fra i reati
presupposto dovrebbe rientrare anche il delitto di ricettazione, sul profilo che tale
tipologia d'illecito non connota in maniera esclusiva (o comunque marcatamente
significativa) fatti di criminalità del "profitto".
Fonte: Il Sole-24 Ore
Diritto e Pratica delle Società
Diritto e Pratica delle Società 31.12.2007 n. 24 pg. 6 – Negri Giovanni
231: responsabilità delle imprese estesa ai reati colposi
Trascorsi i primi anni di stasi nell'applicazione concreta della legge, si profilano oggi importanti cambiamenti
in tema di responsabilità amministrativa a carico delle società. La Commissione Greco discute misure più
severe e l'estensione al campo dei reati tributari.
Una revisione che va ben al di là della semplice manutenzione. Per il D.Lgs. n. 231/2001 e, in generale, per
la responsabilità amministrativa a carico delle società sono in vista cambiamenti profondi che testimoniano
dell'attenzione crescente con cui si guarda a uno strumento che si sta rivelando efficace nel contrasto alla
criminalità ormai non soltanto economica.
È inutile ripercorrere qui le vicende processuali che hanno dato luogo a un'applicazione più ampia,
soprattutto in via cautelare, delle norme.
Basti dire che la disciplina che imputa anche alle società i reati commessi da propri dipendenti, ma
specialmente dai vertici dell'ente, ha rivelato, dopo i primi anni di stasi e di iniziale presa di contatto da parte
delle procure, un utilizzo via via crescente, favorito certo da una linea di politica legislativa che vi ha
individuato da tempo uno strumento per responsabilizzare imprese e società.
Il 2007 si sta rivelando, in questo senso, un anno molto significativo. Su due fronti soprattutto. A tacere di
quello giurisprudenziale. Governo e Parlamento hanno infatti, in pochi mesi, notevolmente allargato l'area
dei reati per i quali è possibile contestare il D.Lgs. n. 231/2001. A partire dalle violazioni della normativa
sulla sicurezza dei luoghi di lavoro.
Dall'agosto scorso, infatti, nei confronti delle aziende possono scattare sanzioni molto consistenti, per alcuni
troppo consistenti, che, sul versante pecuniario, non possono mai scendere sotto i 258.000 euro, pari a
1.000 quote.
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A tutto questo si aggiunge poi l'esplicita possibilità di accompagnare alla misura patrimoniale anche quella
interdittiva, lasciando nelle mani dell'autorità giudiziaria la scelta tra le varie fattispecie disponibili.
Dall'interdizione allo svolgimento dell'attività, alla perdita di autorizzazioni, al blocco dei finanziamenti
pubblici.
Misure severe a fronte di una condotta per la quale non è sempre facile individuare il dolo o il vantaggio
immediato (a meno di non considerare tale l'eventuale risparmio di spese, provocato dalla mancata adozione
dei dispositivi di sicurezza) : la colpa così si concretizzerebbe piuttosto nell'avere trascurato l'adozione di
idonei strumenti di prevenzione degli infortuni.
Un ritorno al passato e alla versione originaria della legge-delega che poi dette origine al D.Lgs. n. 231/2001.
Allora, infatti, in un primo momento, anche la materia della sicurezza sul lavoro era compresa tra quelle per
le quali poteva essere chiamata in causa l'impresa.
La misura venne poi stralciata, ma oggi è ricomparsa. Come pure è ricomparsa, ma non è ancora divenuta
legge, l'estensione all'altro settore inizialmente previsto: quello dei reati ambientali. Il Governo ha presentato
un disegno di legge che oggi è all'esame del Parlamento.
È stato invece approvato ormai definitivamente il decreto che recepisce la terza direttiva antiriciclaggio:
anche in questo settore del diritto penale, così, diventa possibile l'imputabilità diretta all'impresa, oltre che ai
suoi manager e dipendenti, delle condotte tese all'impiego e al riutilizzo di beni provenienti da reato.
All'organismo di vigilanza - figura-chiave dei modelli di esclusione da responsabilità - sono poi affidati,
nell'ambito dell'antiriciclaggio, compiti di collaborazione e segnalazione più stringenti nei confronti di autorità
terze.
Da parte del Governo sono state poi presentate altre misure di estensione o revisione del D.Lgs. n.
231/2001. Ai reati informatici, per esempio, ma soprattutto alle due fattispecie di corruzione: quella classica,
che vede coinvolti i pubblici ufficiali, e quella privata (nei confronti, per esempio, del direttore dell'ufficio
acquisti di una grossa società). Su quest'ultimo punto, a dettare le regole sarà la prossima legge
comunitaria, già approvata da un ramo del Parlamento. Da ultimo - e si tratta veramente di cronaca - il
Governo pensa di utilizzare il D.Lgs. n. 231/2001 come arma contro le organizzazioni che sfruttano la
prostituzione.
Ma il fronte delle novità circa la responsabilità amministrativa delle società non si ferma qui. È ormai in
dirittura d'arrivo il lavoro della commissione Greco. L'attuale P.M. milanese, titolare di alcune delle maggiori
inchieste sulla criminalità economica e finanziaria di questi anni (basti pensare a Parmalat e AntonVeneta),
guida infatti, per volontà del Ministero della Giustizia Clemente Mastella, un gruppo di esperti che ha, tra
l'altro, come compito quello di ammodernare l'impianto complessivo del D.Lgs. n. 231/2001. A rendere in
qualche misura ancora più rappresentativo il profilo della commissione c'è poi la circostanza che ne fanno
parte gli altri componenti dell'ex pool di Mani pulite ancora nei ranghi della magistratura: Paolo Ielo, oggi Gip
al Tribunale di Milano, e Piercamillo Davigo, consigliere in Cassazione. Le proposte di correzione verranno a
breve sottoposte all'Ufficio legislativo della Giustizia con l'obiettivo di tradurle in uno specifico disegno di
legge.
Gli orientamenti, però, sono già in gran parte noti. A partire dalla volontà di estendere l'operatività del
decreto a nuove tipologie di illecito e, in particolare, a tutta la categoria dei reati colposi. A fare da apripista,
come detto, è stata la previsione di considerare le aziende responsabili anche per le violazioni della disciplina
antinfortunistica. Dovrà comunque essere sempre dimostrato che le condotte illecite (anche di omissione)
hanno prodotto un vantaggio all'ente oppure sono state realizzate anche nel suo interesse.
Se poi il D.Lgs. n. 231/2001 è stato utilizzato con efficacia nel campo della criminalità economica, una sua
estensione al settore dei reati tributari non sembra priva di razionalità. Anche perché spesso si tratta di
fattispecie di illecito dalle quali un ente, oltre che una persona fisica, può trarre vantaggi considerevoli. Così
la commissione sta pensando di introdurre un sistema articolato di sanzioni per colpire i reati di dichiarazione
fraudolenta, di emissione di fatture o altri documenti contabili per operazioni inesistenti, l'occultamento o la
distruzione di documenti, l'omessa dichiarazione. In scaletta pene pecuniarie fino a 900 quote e misure
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interdittive che possono arrivare alla durata di un anno.
A fare da contrappeso all'allungamento della lista dei reati soggetti all'imputazione diretta all'impresa c'è
però una considerazione specifica della realtà delle piccole imprese. La commissione Greco ha così messo
allo studio una versione semplificata dei modelli alla quale potranno fare ricorso le piccole aziende,
introducendo in tal modo, almeno in un settore produttivo, una valutazione particolare per uno degli aspetti
più controversi della disciplina del 2001.
L'efficacia protettiva dei modelli, infatti, non ha ancora avuto modo di concretizzarsi e neppure di essere
esaminata da parte dei P.M. perché tutti i procedimenti penali hanno fino ad ora preso in considerazione
società che non li avevano ancora adottati e che, semmai, si dichiaravano disponibili a prevederli solo dopo
l'avvio dell'inchiesta.
La versione soft dei modelli per i piccoli imprenditori dovrebbe, nelle intenzioni, permettere la graduale
diffusione di una più trasparente organizzazione aziendale (della quale i modelli sono un elemento
importante) in un settore produttivo dove finora dei modelli non c'è stata traccia. Il progetto prevede
l'esenzione assoluta da responsabilità, sia nel caso di reato commesso dai vertici, sia in caso di violazione dei
dipendenti, se l'ente prova di avere adottato prima del fatto un modello organizzativo che prevede specifiche
regole dirette a prevenire reati della specie di quelli effettivamente verificatisi. Inoltre, l'esenzione scatta se il
modello prevede una verifica periodica e l'eventuale modifica del modello stesso quando sono state rilevate
infrazioni alle prescrizioni oppure quando sono intervenuti cambiamenti organizzativi o nell'attività di
particolare rilevanza.
Ancora da decidere è però il requisito dimensionale per potere essere considerata piccola impresa ai fini del
D.Lgs. n. 231/2001. Sul numero dei dipendenti, infatti, al momento c'è ancora incertezza, mentre vi è intesa
sul fatto che sia piccola l'impresa individuale oppure la società di persone o di capitali nelle quali l'organo
amministrativo o di gestione è costituito in maggioranza da soggetti a cui deve essere ricondotto il controllo
dell'ente. Insomma, il criterio-base è quello dell'identificazione tra proprietà e gestione che, nelle società di
dimensioni ridotte, rende assai arduo distinguere la sorte dell'ente da quella della persona fisica.
All'ordine del giorno c'è infine la riduzione delle sanzioni nel caso della sicurezza sul lavoro. Troppo aspre
quelle attuali e con poca possibilità di intervento da parte della magistratura. Se il limite minimo è di 258.000
euro anche nel caso di infrazioni non particolarmente rilevanti, il timore è di colpire in maniera eccessiva
soprattutto le realtà produttive medio-piccole. Così, la sanzione più severa dovrebbe essere riservata ai soli
illeciti più gravi e, in particolare, ai casi di omicidio colposo e di lesioni gravissime. Al di sotto di questi reati,
la sanzione pecuniaria sarebbe sempre applicabile, ma per importi meno elevati. Stesso discorso per le
sanzioni interdittive, da riservare alle situazioni più pericolose.
Ventiquattrore Avvocato
Ventiquattrore Avvocato 01.07.2007, n. 9 pg. 85 - Moschini Cristina
Reati commessi dagli amministratori e responsabilità degli organi di vigilanza
societari
Presupposti della responsabilità delle persone giuridiche per reati commessi dagli amministratori.
Predisposizione di modelli organizzativi. Compiti dell'organismo di vigilanza.
LA QUESTIONE
È configurabile la responsabilità dei membri dell'organismo di vigilanza per i reati commessi dagli
amministratori?
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INTRODUZIONE
Il D.Lgs. n. 231 del 2001 ha introdotto nel nostro ordinamento la c.d. responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche, prevedendo, in presenza di determinati presupposti, che a queste siano applicate delle
sanzioni (pecuniarie o interdittive), qualora venga accertata la commissione di uno dei reati tra quelli
specificatamente indicati dal decreto stesso (Sez. III, Capo I).
Nell'ipotesi in cui venga commesso un reato presupposto da parte di uno dei soggetti qualificati di cui all'art.
5 del citato decreto, tra cui rientrano gli amministratori, e la realizzazione dello stesso risponda a un preciso
interesse o vantaggio per l'ente, scatta una forma di responsabilità amministrativa e allo stesso tempo
penale della persona giuridica.
LA FATTISPECIE
Modelli di organizzazione
La predisposizione di uno specifico modello organizzativo da parte della società, ai sensi dell'art. 6, lett. a),
D.Lgs. n. 231/2001 laddove sia stato adottato in modo efficace e laddove risulti essere astrattamente idoneo
a prevenire la commissione dei reati presupposto di cui al citato decreto, rappresenta un fatto impeditivo al
riconoscimento di una responsabilità in capo all'ente.
Tale causa di esonero dalla responsabilità, per essere operativa, richiede inoltre la costituzione di un
apposito organismo ad hoc all'interno della società, appunto l'organismo di vigilanza, che, ex art. 6, lett. b),
D.Lgs. n. 231/2001 ha il compito di «vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli» organizzativi e
gestionali che l'ente ha adottato allo scopo di «prevenire reati». I modelli di organizzazione, come specificato
dall'art. 6 comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, consistono nell'adozione di specifici protocolli di comportamento da
seguire per la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente, nella previsione di specifiche modalità di
gestione delle risorse finanziarie, tali da scongiurare il rischio della commissione di reati, nonché nell'obbligo
di informare delle operazioni compiute l'organismo di vigilanza deputato al controllo circa il rispetto del
modello di organizzazione e gestione.
Posizione dell'organismo di vigilanza
Qualora si verifichi la commissione di un reato, ai membri dell'organismo di vigilanza, in ragione della
posizione occupata all'interno della società, potrebbe essere contestata una responsabilità a titolo di
concorso mediante omissione nel reato commesso dagli amministratori, per non aver impedito, ex art. 40
c.p., la realizzazione dello stesso.
Al fine di stabilire l'effettiva ricorrenza di una responsabilità penale in capo ai membri di detto organismo,
occorre però considerare attentamente la posizione e il ruolo degli stessi all'interno della società.
Giova in primo luogo fare una considerazione di carattere generale: laddove il modello organizzativo non
esista o comunque non sia stato adottato in maniera efficace, configurandosi come un'entità meramente
fittizia, e, come tale, inidonea a creare obblighi in capo a coloro che sono tenuti a vigilare sul suo rispetto,
non sussisterebbe alcun profilo di responsabilità dell'organismo di vigilanza.
Predisposizione di un modello organizzativo e gestionale
Infatti, affinché il modello organizzativo e gestionale possa essere considerato causa di esclusione della
responsabilità dell'ente occorre, per espressa previsione del D.Lgs. n. 231/2001 che lo stesso sia
astrattamente idoneo a prevenire la commissione dei reati presupposti e che sia stato effettivamente attuato
e riconosciuto come vincolante da tutti i membri della società. Conseguentemente, l'organismo di vigilanza,
in quanto garante del rispetto del citato modello, deve essere legittimato a svolgere le sue funzioni di
controllo in seno alla società, devono essere conferiti ai suoi membri dei poteri di intervento e controllo
effettivi, e deve prevedersi un obbligo di informazione gravante su tutti coloro che hanno il potere di agire in
nome dell'ente.
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Laddove manchi una sola di queste condizioni, il modello organizzativo non potrà essere ritenuto tale da
escludere la responsabilità della persona giuridica, impedendo però, di fatto, la possibilità di muovere
qualsiasi addebito, a titolo di concorso nel reato altrui, ai membri dell'organismo di vigilanza.
Posizione dei membri dell'organismo di vigilanza in merito al concorso per omissione
Quanto alla posizione specifica di questi ultimi, per quanto riguarda una loro eventuale responsabilità a titolo
di concorso per omissione nel reato altrui, si osserva preliminarmente come, affinché una condotta omissiva
di partecipazione sia penalmente rilevante, risulti necessaria la sussistenza in capo all'omittente di un obbligo
di garanzia volto all'impedimento del reato; se infatti nell'ambito del concorso punibile sono da ricondurre
tutte e soltanto le condotte che abbiano avuto un'efficacia condizionante rispetto al fatto di reato e se, in
forza dell'art. 40 c.p., il non impedimento di un evento equivale al cagionarlo, ne consegue che potrà
considerarsi condotta di partecipazione rilevante soltanto quella di colui che risulta essere titolare di uno
specifico obbligo di garanzia avente a oggetto l'impedimento del reato stesso.
Se si analizza il D.Lgs. n. 231/2001 si può immediatamente constatare come la legge descriva in maniera
molto generica i compiti dell'organismo di vigilanza, menzionando in modo assai approssimativo e generico
quelli che sono i poteri a questo attribuiti, prevedendo semplicemente che tale organismo sia tenuto a
«vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli, a curare il loro aggiornamento», attraverso l'esercizio
di «autonomi poteri di iniziativa e controllo».
Da queste scarne indicazioni normative quello che si evince è che i membri dell'organismo di vigilanza hanno
soltanto il compito di vigilare affinché il modello di gestione e organizzazione adottato dall'ente sia rispettato,
ovvero che i soggetti aventi poteri gestionali all'interno della società (in primo luogo gli amministratori)
rispettino le procedure e il modello organizzativo dell'ente. L'impedimento dei reati non è quindi compito
dell'organismo di vigilanza, sebbene l'esplicazione della sua funzione, almeno di riflesso, dovrebbe limitare il
rischio di commissione degli stessi (sempre che il modello organizzativo sia idoneo a prevenirli). Lo stesso
decreto legislativo infatti attribuisce espressamente al modello organizzativo e non all'organismo di vigilanza
il compito di prevenire e impedire la commissione dei reati.
Natura degli obblighi in capo all'organismo di vigilanza
Può benissimo accadere che il modello sia idoneo ex ante a prevenire la commissione dei reati, che
l'organismo di vigilanza abbia correttamente eseguito i suoi compiti di controllo, ma che ciononostante
l'illecito si verifichi. Non a caso, ad es., l'art. 6, lett. c ), considera espressamente l'ipotesi in cui siano stati
fraudolentemente elusi i modelli di organizzazione e gestione. In questa ipotesi non sussiste nessuna
responsabilità dell'ente per la commissione del reato presupposto e, a maggior ragione, nessuna
responsabilità dell'organismo di vigilanza, dato che il suo compito è quello di vigilare non sulla condotta dei
soggetti di cui all'art. 5, ma soltanto sul rispetto dei modelli di organizzazione e gestione, che nell'ipotesi de
quo risultano essere stati fraudolentemente elusi.
Non si può infatti prevedere una forma di responsabilità da posizione in capo all'organismo di vigilanza,
stante il principio della responsabilità penale personale di cui all'art. 27 Cost. Ciò vuol dire che non è
costituzionalmente legittimo considerare responsabile l'organismo di vigilanza ogniqualvolta venga
commesso un reato da parte dei soggetti di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 231/2001.
La previsione dell'art. 6 dovrebbe già, quindi, essere indizio del fatto che l'organismo di vigilanza è tenuto
soltanto a vigilare sul rispetto del modello organizzativo e gestionale e non a impedire i reati degli
amministratori. Deve quindi escludersi la sussistenza di un obbligo rilevante ex art. 40 c.p. in capo
all'organismo di vigilanza.
Le scarne indicazioni dell'art. 6 sembrerebbero configurare, infatti, più che un obbligo di impedimento, un
obbligo di sorveglianza in capo ai membri del consiglio di vigilanza. Per distinguere l'obbligo di impedimento
(l'unico rilevante ex art. 40 c.p.) dall'obbligo di sorveglianza è necessario analizzare i poteri che sono
riconosciuti al garante: soltanto infatti laddove questi poteri siano così penetranti e articolati da interferire
con la condotta dei soggetti sottoposti al controllo, potendo bloccare o porre nel nulla la stessa, si sarebbe in
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presenza di un vero e proprio obbligo di garanzia ex art. 40 c.p. idoneo a fondare un'eventuale
responsabilità per omissione.
Solo quindi una funzione di controllo penetrante e ben articolata, oltre all'attribuzione di poteri sanzionatori
diretti a impedire gli illeciti degli amministratori potrebbe giustificare la previsione di una responsabilità
omissiva.
Limiti della funzione di controllo
La funzione dell'organismo di controllo si esaurisce invece in un'attività ispettiva e di controllo, non
essendogli riconosciuto nessuno strumento per reagire alla situazione anormale eventualmente prodottasi.
Unica possibilità di intervento è l'esternazione del proprio dissenso a certe operazioni compiute dagli
amministratori; al di là di questa prerogativa di tipo dissuasivo non sono riconosciute forme più pregnanti di
controllo, quali l'approvazione, la sospensione o l'annullamento degli atti, o addirittura la comminatoria di
sanzioni in capo ai soggetti che hanno violato i protocolli di comportamento adottati dall'ente.
Infatti, sebbene l'art. 6, comma 2, lett. e ), parli di sanzioni irrogabili a carico di coloro che non rispettano il
modello di organizzazione gestione, appare abbastanza inverosimile che l'organismo di vigilanza possa
irrogare sanzioni nei confronti dei soggetti apicali, tenendo conto anche del fatto che l'organismo è
predisposto dai vertici della società, che evidentemente hanno anche un potere di revoca degli stessi.
Sembrerebbe quindi mancare il requisito dell'indipendenza che è invece presupposto imprescindibile per un
corretto esercizio del potere-dovere di controllo.
L'attività dell'organismo di vigilanza non pare quindi dotata di quella incisività necessaria per fondare una
posizione di garanzia che abbia come contenuto l'impedimento di un reato. Colui che ha l'obbligo giuridico di
impedire il reato altrui deve infatti avere la possibilità giuridica di intervento nella sfera di
autodeterminazione del soggetto sottoposto a controllo, deve in sostanza avere un potere per così dire di
gerarchia, assente invece nel caso di specie, nei confronti dei soggetti sottoposti alla sua vigilanza. Solo
simili poteri conferiscono al generale obbligo di impedimento di altrui fatti illeciti la consistenza di un obbligo
di garanzia penalmente rilevante. Solo quando l'obbligo di garanzia è affiancato da simili poteri di
interferenza con la condotta del terzo, è possibile valutare l'inerzia del garante come tipicamente equivalente
ex art. 40 c.p.
Inoltre, è da osservare che, se si inquadra la responsabilità dei membri del consiglio di sorveglianza in una
forma di responsabilità concorsuale, appare piuttosto difficile spiegare la ragione per cui il loro contributo
dovrebbe assumere rilievo causale. Occorre infatti confrontarsi con i limiti e i requisiti specifici del concorso
di persone.
Se il contributo tipico è realizzabile solo da chi ha capacità di controllare o influenzare i processi causali,
calando questo principio generale nell'ambito del contesto societario, si osserva come tale contributo tipico
potrà essere apportato soltanto da chi ha un dominio sull'impresa, ipotesi, questa, che risulta estranea
all'attività dell'organismo di vigilanza.
LA GIURISPRUDENZA
Responsabilità dell'organismo di vigilanza
Dottrina e giurisprudenza maggioritaria rifiutano decisamente la c.d. teoria della prognosi e dell'aumento del
rischio, in base alla quale una condotta assume rilievo concorsuale quando appare ex ante idonea a facilitare
la commissione del reato, accrescendone la probabilità di verificazione. È invece opinione ormai consolidata
che la condotta di un soggetto, attiva od omissiva che sia, assume i connotati della condotta tipica
concorsuale soltanto quando ha influito in termini condizionali alla realizzazione del reato, convertendosi in
un apporto causale effettivo, contribuendo o agevolando in maniera apprezzabile la realizzazione dell'evento.
Quanto alla posizione specifica della giurisprudenza, non ci sono pronunce che abbiano ancora affrontato il
problema della responsabilità dell'organismo di vigilanza ex D.Lgs. n. 231/2001 mentre numerose sono le
sentenze in cui le giurisdizioni di merito, ma anche la Suprema Corte di Cassazione ( ex pluris Cass. 8 marzo
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2000, n. 2624; Cass. 28 maggio 1998, n. 5287), hanno riconosciuto l'esistenza di una responsabilità a titolo
di concorso dei sindaci nei reati commessi dagli amministratori per non averne impedito la commissione.
Data la similitudine intercorrente tra la posizione dei sindaci e quella dell'organismo di vigilanza, appare
pertinente considerare le argomentazioni addotte dai giudici in materia. La Suprema Corte di Cassazione,
ponendosi in netto contrasto con la prevalente posizione dottrinale in materia, partendo dalla somma dei
poteri che competono ai sindaci, ricava un quadro tale da poter concludere che ai sindaci sia attribuita una
posizione di controllo e garanzia che impone loro l'obbligo di impedire che gli amministratori, nell'esercizio
delle loro funzioni, «compiano atti contrari alla legge o, addirittura, sanzionati dalla legge penale» (Cass. 26
gennaio 1990). Sulla base di un giudizio prognostico si potrebbe quindi già preventivare quella che
verosimilmente sarà la posizione della giurisprudenza sull'argomento, tenendo conto però del fatto che per
quanto riguarda i poteri e i doveri dell'organismo di vigilanza la disciplina normativa appare molto più
generica e imprecisa rispetto a quella dettata con riferimento all'organismo sindacale.
OBBLIGO DI VIGILANZA DEL COLLEGIO SINDACALE
Cassazione pen., Sez. V, 14 luglio 1998, n. 8327
L'obbligo di vigilanza dei sindaci e del collegio sindacale non è limitato al mero controllo contabile, ma deve
estendersi al contenuto della gestione (...) e comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione,
tant'è vero che la legge distingue il controllo sull'amministrazione dalla vigilanza sull'osservanza delle norme,
e abilita i sindaci a chiedere notizie sull'andamento delle operazioni, a ricevere denunce da parte dei soci su
fatti censurabile nell'esercizio dell'impresa, obbligandoli a riferire nella relazione al bilancio sui concreti ed
effettivi risultati dell'esercizio sociale. ( Guida al Diritto, n. 33/1998, 91)
Tribunale di Lecce 30 novembre 1993
I sindaci delle società per azioni sono un tipico esempio di soggetti posti dall'ordinamento giuridico in una
posizione di garanzia e cioè di soggetti ai quali sono affidati compiti di controllo attivo allo scopo di
assicurare a determinati beni una speciale protezione; la legge attribuisce al collegio sindacale il compito di
controllare la gestione della società commerciale nel suo complesso, assicurando l'osservanza della legge e
dell'atto costituivo, verificando la corretta tenuta della contabilità sociale e la corrispondenza delle risultanze
della stessa con il bilancio, nonché garantendo lo svolgimento del rapporto sociale. ( Foro it., I, 1995, 654 )
Cassazione pen., Sez. V, 28 febbraio 1991
Contrariamente a quanto si è talvolta affermato, numerose norme depongono per l'estensione dei poteri di
controllo alla semplice legalità formale e al merito anche se, pur sempre, entro i confini loro propri: basti
richiamare, in proposito, i commi 1 e 4 dell'art. 2403 c.c. (il primo dei quali distingue tra controllo
sull'amministrazione e vigilanza sull'osservanza della legge e dell'atto costitutivo, mentre l'altro autorizza i
sindaci a richiedere notizie sull'andamento delle operazioni sociali e su determinati affari); l'art. 2429, comma
2, che impone di riferire, nella relazione al bilancio, sui risultati dell'esercizio sociale; l'art. 2048, che
attribuisce ai soci la facoltà di denunciare al collegio i fatti censurabili; l'art. 2405, comma 1, che impone ai
sindaci l'obbligo di intervenire alle riunioni del consiglio di amministrazione. Il generale potere di controllo dei
sindaci non si limita pertanto agli atti sociali espressamente considerati, ma si estende, ove non sia
diversamente stabilito, a ogni aspetto dell'attività sociale, anche se la sua attività e frequenza variano a
seconda delle circostanze. È per questo motivo che i sindaci possono rispondere a titolo di concorso
commissivo od omissivo dei reati commessi dagli amministratori, in quanto titolari di una funzione di
controllo e quindi obbligati all'impedimento di reati ai sensi dell'art. 40 c.p. ( Cass. pen., 1991, 1863 )
Conforme : Cass. pen., Sez. V, 26 gennaio 1990, in Cass. pen., 1991, 828 .
DI AVVISO PARZIALMENTE DIVERSO
Tribunale di Ancona, Sez. G.I.P., 5 dicembre 1997
La violazione da parte del collegio sindacale dell'obbligo di vigilanza previsto dagli artt. 2043 e 2407 c.c.
costituisce una condotta omissiva successiva alla commissione del reato di emissione o utilizzazione di
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fatture per operazioni inesistenti e non può integrare un'attività causalmente rilevante ai fini della
consumazione dei reati in questione, se non si dimostra il preventivo accordo. In ogni caso l'omessa vigilanza
deve essere determinata da un comportamento doloso e non invece da una più o meno grave negligenza. (
Ind. pen., 2000, 269 )
LA DOTTRINA
Natura ed estensione dell'obbligo di vigilanza
Per quanto concerne il concetto di vigilanza sull'adeguatezza della struttura organizzativa, la dottrina ha
concordemente affermato che tale previsione allude da un lato alla conformità delle procedure aziendali
rispetto alle dimensioni della società e al tipo di attività svolta, dall'altro alla verifica circa il fatto che la
direzione dell'impresa sia effettivamente esercitata dagli amministratori e che il personale dipendente sia
dotato in media di un appropriato livello di competenza (ANTOLISEI).
In merito alla sussistenza o meno di un dovere di vigilanza rispetto alla correttezza della contabilità da parte
del collegio sindacale, la dottrina appare divisa. Giova infatti ricordare come il nuovo assetto del controllo
contabile sia de facto sottratto al potere del collegio sindacale. In tal senso ciò appare limitare la portata di
specifici doveri a riguardo. Venendo meno l'obbligo giuridico sul punto sembra quindi che comportamenti che
una volta subivano la qualifica di omissione penalmente rilevante oggi non lo siano più. In senso contrario
ALDROVANDI ritiene che la posizione di garanzia del collegio sindacale comprenda anche tale dovere. Di
medesimo avviso appare essere anche MANTOVANI, per il quale l'obbligo di sorveglianza, che attiene a
specifiche categorie di soggetti quali i sindaci, non può essere ricompreso nello schema della posizione di
garanzia perché farebbero difetto i poteri impeditivi idonei a evitare la commissione del reato. Il presente
obbligo sarebbe diverso dall'obbligo di garanzia strictu senso «circa i poteri giuridici che sono non impeditivi
ma di mera vigilanza e informazione sulla situazione di pericolo spettando solo al titolare del bene o al
garante, informati dal sorvegliante, i poteri di intervento impeditivi». Da questa premessa deriva che, in virtù
del principio della responsabilità penale, la violazione dell'obbligo di sorveglianza, in difetto di poteri
impeditivi, non dà luogo a responsabilità penale neanche a titolo di concorso omissivo nel reato commesso
dal soggetto sottoposto a sorveglianza. Su questa linea si era già collocata autorevole dottrina, la quale
aveva riconosciuto che ai sindaci facevano difetto i poteri necessari all'effettivo impedimento dell'evento
criminoso. Ad analoghe conclusioni è pervenuto recentemente BISORI, secondo il quale l'identificazione dei
poteri di impedimento deve passare «per un'attenta distinzione tra quelli che sono effettivamente tali - e che
sembrerebbero riguardare gli amministratori - e l'obbligo di vigilanza sull'operato altrui che compete ai
sindaci e revisori che non dispongono di uno specifico potere di interferenza con le azioni degli
amministratori (non possono bloccarle o porle nel nulla in via diretta, ma solo di poteri di denuncia o di
azioni indirette cioè di interpello dei poteri d'intervento esercitabili da altri) ».
Orientamenti contrastanti
A conclusioni contrarie sembra invece essere pervenuto GRASSO, secondo il quale ai sindaci compete una
posizione di garanzia caratterizzata dall'obbligo d'impedimento dei reati. L'Autore ricollega agli artt. 2043 ss.
c.c., che assegnano al collegio il potere di vigilanza sull'osservanza della legge e dell'atto costitutivo, nonché
di effettuare il controllo contabile e, soprattutto, all'art. 2087 c.c. che sanziona la responsabilità solidale dei
sindaci con gli amministratori per i fatti e le omissioni da questi compiute, quando il danno non si sarebbe
prodotto se avessero vigilato in conformità agli obblighi della loro carica, la posizione di garanzia dei sindaci
all'interno della compagine sociale.
Sostiene GRASSO che la violazione dell'obbligo di vigilanza gravante sui sindaci «potrà avere anche riflessi
penali quando i fatti e le omissioni non impediti costituiscono reato. L'obbligo in questione deve essere
qualificato come un obbligo di garanzia in quanto esso costituisce una precisa presa di posizione difensiva
dell'ordinamento a favore degli interessi implicati nella gestione sociale».
Per ulteriori approfondimenti dottrinali
-ALDROVANDI, «La responsabilità penale degli organi di controllo nelle s.p.a », in Diritto e Pratica delle
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Società, 2003, 25 ss.;
-ANTOLISEI, Manuale di diritto penale , Giuffrè, 2007, 134 ss.;
bisORI, «L'omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e giurisprudenza italiane», in Riv. it. dir. proc.
pen ., 1997, 1339 ss.;
-GRASSO, Il reato omissivo improprio , Giuffrè, 1983;
-MANTOVANI, «L'obbligo di garanzia ricostruito alla luce del principio di legalità, di solidarietà, di libertà e di
responsabilità personale», in Riv. it. dir. proc. pen. , 2001, 388 ss.;
-VASSALLI, Organizzazione dell'impresa e responsabilità penale , (a cura di) IORI, Nardini, 1981.
LE CONCLUSIONI
Le considerazioni sopra svolte mostrano l'esistenza di un acceso e vivace contrasto tra dottrina e
giurisprudenza in ordine alla posizione e alle funzioni del collegio sindacale e in particolare in merito
all'esistenza di una posizione di garanzia in capo ai componenti del medesimo. Applicando i principi
giurisprudenziali richiamati nel D.Lgs. n. 231/2001 stante la spiccata somiglianza tra l'organismo di vigilanza
e il collegio sindacale, si dovrebbe concludere che anche i membri del primo, al pari dei sindaci, sono titolari
di un'autonoma posizione di garanzia diretta all'impedimento dei reati altrui rilevante ex art. 40 c.p. Tuttavia
i rilievi che la dottrina ha mosso a tale impostazione appaiono meritevoli di attenzione e del tutto
condivisibili.
Il rischio maggiore, infatti, seguendo l'orientamento giurisprudenziale esposto, è quello di creare in capo ai
membri dell'organismo di vigilanza una responsabilità da posizione bandita dal nostro sistema di diritto
penale attraverso il superiore principio costituzionale della responsabilità penale personale. Infatti, per poter
dirsi esistente una posizione di garanzia rilevante ai sensi dell'art. 40 c.p., non è sufficiente che a determinati
soggetti, magari in posizione apicale all'interno della società, siano attribuite funzioni di controllo e vigilanza,
bensì occorre qualcosa di più: prima di tutto che esista una norma di legge, o quantomeno una fonte a essa
equiparata (vedi contratto), che attribuisca al garante l'obbligo di impedire la commissione di reati da parte
del garantito; in secondo luogo occorre che al garante siano attribuiti poteri d'intervento incisivi, capaci cioè
all'occorrenza di porre nel nulla gli effetti della condotta illecita tenuta dal garantito.
Dall'esame della normativa di cui al D.Lgs. n. 231/2001 emerge che il compito di impedire la commissione di
reati da parte degli amministratori è attribuito, in base all'art. 6, al modello organizzativo che attraverso la
predisposizione di particolari protocolli e procedure comportamentali, ha proprio la funzione di scongiurare il
rischio di commissione di illeciti.
La legge non attribuisce all'organismo di vigilanza il compito di impedire la commissione di reati da parte
degli amministratori, ma sancisce espressamente che la funzione del medesimo è quella di sorvegliare
affinché il modello organizzativo sia rispettato dai soggetti dotati di poteri gestori all'interno della società. Ciò
significa che sebbene l'attività dell'organismo di vigilanza vada a incidere, seppur in maniera indiretta, con la
condotta eventualmente illecita tenuta dagli amministratori, dal momento che il compito del medesimo è
quello di sorvegliare affinché il modello organizzativo sia rispettato, il compito di impedire la commissione dei
reati è affidato dalla legge alla struttura e ai protocolli comportamentali predisposti ex ante dalla società
medesima. Quanto poi al secondo profilo, quello cioè dell'attribuzione di poteri impeditivi, i membri
dell'organismo di vigilanza, per espressa previsione di legge, dispongono esclusivamente di poteri di controllo
e non di intervento rispetto all'attività compiuta dagli amministratori, nel senso che gli stessi non hanno a
disposizione alcun mezzo con cui poter togliere efficacia o comunque impedire il compimento di un
determinato atto da parte di chi si occupa della gestione della società.
Riconoscere una posizione di garanzia in capo a tali soggetti si risolve nella creazione artificiosa di un
eventuale titolo di responsabilità per omissione non conforme ai principi generali del nostro ordinamento.
È per questi motivi che nessun addebito a titolo di responsabilità per omissione può essere mosso ai membri
dell'organismo di vigilanza nel caso di condotta illecita tenuta dagli amministratori, in quanto la legge non
crea in capo a essi alcun obbligo giuridico di impedimento del reato altrui e perché gli stessi non dispongono
dei necessari poteri per evitarne la commissione.
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Si tratta adesso di vedere se la giurisprudenza, quando sarà chiamata a pronunciarsi sulla questione, terrà
conto di tali rilievi ovvero intenderà proseguire lungo la strada già intrapresa in tema di responsabilità
omissiva del collegio sindacale.
Ventiquattrore Avvocato
Ventiquattrore Avvocato 13.01.2006, n. 1 pg. 70 - Garello Andrea
Responsabilità amministrativa dell’ente per i reati commessi dai dipendenti
nell’interesse della società
A quattro anni dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 231/2001 istitutivo della responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche, l'attenzione degli operatori si sta concentrando sui modelli organizzativi che le società
debbono adottare al fine di prevenire gli illeciti dei propri dirigenti e dipendenti e la conseguente propria
responsabilità.
LA QUESTIONE
Il D.Lgs. n. 231/2001 esclude la responsabilità della persona giuridica laddove essa abbia posto in essere un
modello organizzativo idoneo a prevenire illeciti analoghi a quello che è stato commesso. Quali sono le
condizioni che rendono un modello idoneo, e quindi scriminante, nei confronti della società?
INTRODUZIONE
Responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi nel loro interesse
Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha introdotto nell'ordinamento giuridico italiano la responsabilità delle
persone giuridiche per i reati commessi nel loro interesse.
La responsabilità della società può essere affermata, limitatamente ad una rosa di illeciti penali
predeterminati dal legislatore, allorché sia accertata l'esistenza di un rapporto organico tra l'autore del reato
e la società medesima e il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio della società. Tuttavia,
l'ente non risponde del reato se dimostri di avere precedentemente adottato un modello organizzativo
idoneo a prevenire la commissione di reati analoghi a quello consumato, cosicché l'illecito abbia potuto
verificarsi solo perché il modello gestionale approntato dalla società è stato fraudolentemente eluso
dall'autore del reato. Assume quindi un ruolo cruciale, per l'ente, l' adeguatezza, nel senso indicato dal
D.Lgs. n. 231/2001 del modello organizzativo adottato.
Una forma di responsabilità destinata all'espansione
Anche se, a tutt'oggi, il tema della responsabilità della persona giuridica è stato percepito solo dalle società
di grandi dimensioni o quotate, la sua rilevanza può essere apprezzata sotto diversi profili.
Prospetticamente si può constatare che il novero dei reati dei quali la società può essere chiamata a
rispondere è già stato oggetto di un primo ampliamento da parte del legislatore ed è verosimilmente
destinato ad espandersi ulteriormente (anche perché l'ambito di elezione di questa forma di responsabilità è
in realtà il reato colposo, ad oggi non ancora contemplato). L'espansione dell'ambito di operatività della
normativa in esame farà progressivamente aumentare il numero delle società direttamente interessate dalla
disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 e quindi esplicitamente sollecitate a dotarsi di un modello organizzativo.
Rilevanza dell'adozione di un modello organizzativo adeguato
Sul piano delle conseguenze giuridiche, la vigenza di un modello adeguato assume rilievo sotto un triplice
profilo.
Esclusione della responsabilità dell'ente
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Per quanto concerne la responsabilità dell'ente, l'esistenza di un modello adeguato, contestualmente al
ricorrere di talune altre circostanze di cui si dirà in seguito, può escludere ogni addebito a carico della
società.
A questo proposito è bene rammentare che le sanzioni applicabili ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001
comprendono: a) la sanzione pecuniaria (la cui irrogazione è obbligatoria in caso di condanna) da cento a
cinquecento quote di importo massimo pari a 1.549,37 euro; b) le misure interdittive, per una durata da tre
mesi a due anni (ovvero in forma definitiva nei casi di particolare gravità), e segnatamente: l'interdizione
dall'esercizio dell'attività, la sospensione o la revoca di autorizzazioni, concessioni o licenze, il divieto di
contrattare con la P.A., l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi pubblici; il divieto di
pubblicizzare beni o servizi; la confisca; la pubblicazione della sentenza. Si tratta quindi di provvedimenti
suscettibili di incidere pesantemente sulla vita e sulle condizioni economiche della società.
Affievolimento del trattamento sanzionatorio
Un secondo profilo di rilevanza da valutare è quello relativo al più blando trattamento sanzionatorio riservato
all'ente che, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, abbia adottato un modello organizzativo
adeguato: esclusione dall'applicazione delle sanzioni interdittive, riduzione delle sanzioni pecuniarie.
Incidenza sul profilo cautelare
Da ultimo, vi è il profilo cautelare. In pendenza del procedimento le sanzioni interdittive possono essere
adottate quali misure cautelari, ricorrendo i gravi indizi di colpevolezza ed il pericolo di reiterazione del reato
già commesso.
Tuttavia le stesse sanzioni interdittive possono essere sospese, in concorso con altre circostanze, nei
confronti dell'ente che chieda di poter adottare un modello adeguato. Evidentemente l'intervenuta adozione
del modello potrà essere poi posta a fondamento di una prognosi favorevole in ordine al pericolo di
reiterazione del reato, con il conseguente venir meno di uno dei presupposti legittimanti l'adozione della
misura cautelare.
Consistenza dei vantaggi connessi alla presenza del modello
Sembra quindi lecito e corretto concludere che la presenza del modello attribuisca significativi vantaggi in
ogni fase del procedimento, quale che ne sia l'esito.
LA FATTISPECIE
La disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 231/2001 è ispirata ad alcuni principi che possono essere così riassunti.
Ambito soggettivo di applicazione
Rientrano nell'ambito soggettivo di applicazione: enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni
che ne siano sfornite, con esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non
economici e degli enti cui siano attribuite funzioni di rilievo costituzionale (art. 1 D.Lgs. n. 231/2001).
Ambito oggettivo di applicazione
La disciplina si applica nel caso di consumazione o tentativo di una definita serie di delitti: indebita
percezione di erogazioni pubbliche; truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico ovvero finalizzata al
conseguimento di erogazioni pubbliche; frode informatica ai danni dello Stato o di altro ente pubblico;
concussione e corruzione; falso nummario; falso in carte di pubblico credito e in valori di bollo; reati
societari; delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico; delitti contro la personalità
individuale (artt. 24-26, D.Lgs. n. 231/2001).
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Presupposto oggettivo della responsabilità
Il reato deve essere stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente (art. 5 D.Lgs. n. 231/2001).
Presupposto soggettivo della responsabilità
Il reato deve essere stato commesso da persone dotate di funzioni di rappresentanza, di amministrazione o
di direzione della società o di una sua unità organizzativa autonoma, ovvero da amministratori di fatto della
società stessa (soggetti apicali ); oppure deve essere stato commesso da persone sottoposte alla direzione o
alla vigilanza di taluno dei soggetti appena indicati (soggetti sottoposti ) (art. 5 D.Lgs. n. 231/2001).
Il modello di organizzazione come causa di esclusione della responsabilità dell'ente
Nel caso di reato commesso da soggetti apicali (art. 5, comma 1, lett. a) ) «l'ente non risponde se prova
che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato
affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b) » (art. 6
comma 1, D.Lgs. n. 231/2001).
Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b) possono essere svolti direttamente
dall'organo dirigente (art. 6 comma 4, D.Lgs. n. 231/2001).
Il modello è quindi strutturato su un complesso di procedure organizzative e gestionali e su un organismo di
vigilanza che costantemente deve monitorarne il rispetto e l'efficacia e deve aggiornarle.
L'efficacia scriminante del modello opera previa verifica che il modello fosse effettivamente in funzione, che
lo stesso sia stato fraudolentemente aggirato dall'autore del reato e che tale aggiramento non sia imputabile
a negligenza dell'organismo di vigilanza.
Il legislatore entra nel merito anche della definizione del modello, specificando che: «In relazione
all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a) del
comma 1 devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in
relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e
l'osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel
modello» (art. 6 comma 2, D.Lgs. n. 231/2001).
Per quanto riguarda, viceversa, i reati commessi dai soggetti sottoposti, «l'ente è responsabile se la
commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della
commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e
controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività
svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare
tempestivamente situazioni di rischio.
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L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle
prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello» (art. 7
D.Lgs. n. 231/2001).
La verifica nel tempo della attualità del modello organizzativo definito, e la sua implementazione in relazione
al mutare del contesto amministrativo e operativo dell'ente, sono tipicamente funzioni dell'organismo di
vigilanza, cui compete pertanto un ruolo attivo e dinamico nella preservazione non già del modello, ma della
sua costante efficacia nel tempo.
Il modello di organizzazione come fattore positivo nel corso del procedimento penale
Non interessa in questa sede - dedicata al contenuto ed agli effetti giuridici dei modelli di organizzazione affrontare la disciplina processuale della responsabilità delle persone giuridiche (disciplina mutuata, in
quanto applicabile, dal processo penale).
Interessa invece analizzare i benefici processuali che il legislatore ha inteso riconnettere alla scelta dell'ente
di dotarsi di un modello idoneo.
Per quanto riguarda la fase delle indagini preliminari, va rilevato che anche nei confronti dell'ente possono
essere applicate misure cautelari «quando sussistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della
responsabilità dell'ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono fondati e specifici
elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello
per cui si procede» (art. 45 comma 1, D.Lgs. n. 231/2001).
Le misure cautelari coincidono con le sanzioni interdittive già esaminate, e si risolvono pertanto in
provvedimenti suscettibili di avere contenuti di grave afflittività nei confronti dell'ente. Orbene, sembra lecito
sostenere che la presenza di un modello organizzativo, pur a fronte dell'avvenuta commissione del reato,
imponga un previo accertamento in concreto dell'inadeguatezza del modello stesso prima di procedere alla
richiesta, ed all'eventuale applicazione, di una misura cautelare; così come sembra potersi sostenere che
l'intervenuta adozione di un modello adeguato, ancorché successiva alla commissione di un reato, possa
essere valutata quale circostanza di esclusione del pericolo di reiterazione del reato (sul punto si veda anche,
infra , la sezione dedicata alla giurisprudenza).
Laddove, viceversa, il giudice abbia deciso per l'applicazione della misura cautelare, la stessa può essere
sospesa «se l'ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l'esclusione di sanzioni
interdittive a norma dell'articolo 17» (art. 49 comma 1, D.Lgs. n. 231/2001), ovvero revocata nella stessa
ipotesi (art. 50 comma 1, D.Lgs. n. 231/2001). L'art. 17, relativo alle sanzioni applicabili in caso di
affermazione della responsabilità dell'ente, esclude l'applicazione di sanzioni interdittive nel caso in cui
«prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:
a) l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato
ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) l'ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e
l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi ;
c) l'ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca» (art. 17 D.Lgs. n. 231/2001).
LA GIURISPRUDENZA
In considerazione della novità della materia e della particolare rilevanza del diritto vivente nella definizione
dei requisiti concreti dei modelli organizzativi, sono state estrapolate, dai primi provvedimenti disponibili,
massime di una certa ampiezza, che consentono di analizzare compiutamente l'approccio del giudicante alla
nuova tematica.
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IL CONTENUTO DEI MODELLI ORGANIZZATIVI PREDISPOSTI EX ANTE O EX POST
Ordinanza GIP Tribunale di Milano 20 settembre 2004
Il D.Lgs. n. 231/2001 non può essere interpretato nel senso di una intromissione giudiziaria nelle scelte
organizzative dell'impresa ma nel senso di una necessaria verifica di compatibilità di queste scelte con i
criteri di cui al D.Lgs. n. 231/2001. Ciò che il decreto richiede è che l'imprenditore adotti modelli di
organizzazione idonei a ridurre il rischio che si verifichino, nella vita dell'impresa, «reati della specie di quello
verificatosi» (art. 6 D.Lgs. n. 231/2001).
L'individuazione delle attività nel cui ambito possono essere commessi reati presuppone un'analisi
approfondita della realtà aziendale con l'obiettivo di individuare le aree che risultano interessate dalle
potenziali casistiche di reato.
In questa analisi dovrà necessariamente tenersi conto della storia dell'ente - cioè delle sue vicende, anche
giudiziarie, passate - e delle caratteristiche degli altri soggetti operanti nel medesimo settore.
Questa analisi consente di individuare - sulla base di dati storici - in quali momenti della vita e della
operatività dell'ente possono più facilmente inserirsi fattori di rischio; quali siano dunque i momenti della vita
dell'ente che devono più specificamente essere parcellizzati e procedimentalizzati in modo da potere essere
adeguatamente ed efficacemente controllati: ad esempio il momento della presentazione delle offerte per gli
enti che partecipano ad appalti pubblici; i contatti con la concorrenza; la costituzione di consorzi; le modalità
di esecuzione degli appalti; l'analisi delle attribuzioni a soggetti esterni di consulenze (con particolare
riguardo al costo ed alla effettività delle stesse), la gestione delle risorse economiche, le movimentazioni di
denari all'interno del gruppo ecc.
È evidente che non esiste una diversità strutturale tra modelli organizzativi a seconda che gli stessi vengano
elaborati ex ante ovvero ex post; lo stesso modello organizzativo può ritenersi o meno adeguato
indipendentemente dal momento in cui lo stesso venga adottato: ciò che si deve sottolineare non è una
eventuale maggiore necessità di incisività del modello elaborato ex post , ma la assoluta necessità che il
modello elaborato ex post - e cioè dopo la contestazione dell'illecito - tenga presente la storia dell'ente e
prenda in serio esame i «segnali di rischio» che detta storia ha evidenziato.
Le linee guida elaborate da alcune associazioni rappresentative di enti suggeriscono la separazione di compiti
fra coloro che svolgono fasi cruciali nell'ambito di un processo a rischio, l'attribuzione di poteri di firma
autorizzativi e di firma coerenti con le responsabilità organizzative e gestionali, l'esistenza di un sistema di
monitoraggio idoneo a segnalare situazioni di criticità. Si è ancora suggerito, nel settore specifico dei rapporti
con la P.A., la nomina di un responsabile, interno alla società, per ogni singola operazione rientrante in aree
di rischio, con obblighi di documentazione specifica delle attività svolte; l'adozione di soglie ulteriori di
controllo interno quando si partecipa a consorzi, l'adozione di strumenti finalizzati alla verifica dell'esistenza,
non meramente contabile, delle prestazioni espletate dai consulenti, l'adozione di strumenti e meccanismi
che rendano trasparente la gestione delle risorse finanziarie e che, in sintesi, impediscano che vengano
create - attraverso emissione di fatture per operazioni inesistenti, attraverso spostamenti di denaro non
giustificati fra società appartenenti allo stesso gruppo, attraverso pagamenti di consulenze mai
effettivamente prestate ovvero di valore nettamente inferiore a quello dichiarato dalla società - disponibilità
occulte.
Ordinanza GIP Tribunale di Roma 4 aprile 2003
La condotta prevista dall'art. 17 lett. b) D.Lgs. n. 231/2001 è sostanzialmente identica a quella prevista
dall'art. 12, comma 2, lett. b) relativa ai casi di riduzione della sanzione pecuniaria.
Pertanto i modelli debbono necessariamente rispondere alle esigenze previste dal comma 2 dell'art. 6,
ovverossia individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati (nell'ipotesi evidentemente di
predisposizione dei modelli prima della commissione del fatto, come prevede l'art. 6), prevedere specifici
protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da
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prevenire, prevedere l'istituzione di un organismo di vigilanza deputato a verificarne il buon funzionamento,
individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati,
prevedere specifici obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul
funzionamento e sull'osservanza dei modelli e, infine introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il
mancato rispetto delle misure indicate nel modello organizzativo.
Le linee guida indicate dall'art. 6 hanno indubbia valenza anche in relazione ai modelli organizzativi previsti
dall'art. 17, ma alla diversità di situazioni - modelli adottati in via preventiva in un caso, dopo la
contestazione dell'illecito nell'altro -, deve corrispondere un diverso ambito di operatività e incisività dei
modelli.
I protocolli rivolti a procedimentalizzare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente, ove vengano
adottati non in funzione di prevenzione del rischio, ma successivamente al verificarsi dell'illecito, non
potranno non tener conto nel concreto della situazione che ha favorito la commissione dell'illecito, sì da
eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato. Quando il rischio si è concretizzato e
manifestato in un'elevata probabilità di avvenuta commissione dell'illecito da parte della società, i modelli
organizzativi predisposti dall'ente dovranno necessariamente risultare maggiormente incisivi in termini di
efficacia dissuasiva e dovranno valutare in concreto le carenze dell'apparato organizzativo e operativo
dell'ente che hanno favorito la perpetrazione dell'illecito.
Pertanto, in una fattispecie relativa a gravi vicende corruttive perpetrate per il tramite di un subappaltatore,
perché il modello possa ritenersi adeguato l'area dei subappalti deve essere necessariamente oggetto di
specifica considerazione volta a scongiurare la possibilità di subappalti creati artatamente al precipuo scopo
di precostituire costi a bilancio in tutto o in parte fittizi, attraverso la necessaria adozione di una sorta di
codice di autoregolamentazione che preveda espressamente il divieto di contratti di subappalto all'interno
delle società del gruppo.
Ordinanza GIP Tribunale di Roma 4 aprile 2003
Deve essere previsto un termine di non modificabilità del modulo organizzativo adottato, per esempio sotto
forma di una previsione in deroga all'art. 2388 c.c., che preveda una maggioranza qualificata del CDA in caso
di modifiche del modulo organizzativo adottato, una maggioranza particolarmente significativa, sì da
garantire la stabilità e l'effettività del modulo.
L'ORGANO DI VIGILANZA
Ordinanza GIP Tribunale di Milano 20 settembre 2004
Perché l'Organo di Vigilanza possa adeguatamente ed efficacemente adempiere ai propri compiti è
necessario che ne siano garantite la autonomia, l'indipendenza e la professionalità.
Sotto questo profilo deve ritenersi lacunoso e generico il modello che in punto di autonomia dell'organo di
vigilanza si limiti a rinviare ai curricula dei singoli componenti dell'organo e non preveda che,
necessariamente, i componenti dell'organo di vigilanza debbano possedere capacità specifiche in tema di
attività ispettiva e consulenziale.
Ci si riferisce al campionamento statistico; alle tecniche di analisi e valutazione dei rischi; alle tecniche di
intervista e di elaborazione di questionari, alle metodologie per l'individuazione delle frodi. La composizione
dell'organo di vigilanza muta nel tempo ed è evidente che un organo di vigilanza «debole» non può
adempiere ai propri compiti.
Ordinanza GIP Tribunale di Milano 20 settembre 2004
Il sistema disciplinare previsto da un modello organizzativo deve espressamente prevedere la comminazione
di sanzione disciplinare nei confronti degli amministratori, direttori generali e compliance officers che - per
negligenza ovvero imperizia - non abbiano saputo individuare, e conseguentemente eliminare, violazioni del
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modello e, nei casi più gravi, perpetrazione di reati. Deve altresì prevedere un obbligo per i dipendenti, i
direttori, gli amministratori della società di riferire all'organismo di vigilanza notizie rilevanti e relative alla
vita dell'ente, a violazioni del modello o alla consumazione di reati. In tal senso deve ritenersi del tutto
generica e inadeguata la mera previsione che la società «predispone canali di informazione tramite i quali
tutti coloro che vengano a conoscenza di eventuali comportamenti illeciti posti in essere all'interno della
società possano riferire all'organismo di vigilanza».
Ordinanza GIP Tribunale di Roma 4 aprile 2003
L'organismo di controllo, per essere funzionale alle aspettative, deve necessariamente essere dotato di
indispensabili poteri di iniziativa, autonomia e controllo. Evidente, infatti, che al fine di garantire efficienza e
funzionalità l'organismo di controllo non dovrà avere compiti operativi che, facendolo partecipe di decisioni
dell'attività dell'ente, potrebbero pregiudicare la serenità di giudizio al momento delle verifiche. Al riguardo
appare auspicabile che si tratti di un organismo di vigilanza formato da soggetti non appartenenti agli organi
sociale, soggetti da individuare, eventualmente ma non necessariamente, anche in collaboratori esterni,
forniti della necessaria professionalità, che vengano a realizzare effettivamente quell'organismo dell'ente
dotato di autonomi poteri di iniziativa e controlli. Indubbio che per enti di dimensioni medio grande la forma
collegiale si impone, così come si impone una continuità di azione, ovverossia un impegno esclusivo
sull'attività di vigilanza relativa alla concreta attuazione del modello. Deve pertanto ritenersi l'inidoneità
dell'indicazione, quale componente dell'organo di controllo, di un soggetto deputato a compiti di controllo
interno, in quanto responsabile delle procedure del sistema ISO 9002 e della sicurezza all'interno della
principale società operativa di un gruppo, considerato che questi potrebbe non possedere quei requisiti di
autonomia e di indipendenza che dovrebbero caratterizzare l'organismo di vigilanza. Vi è un indubbia
commistione tra il ruolo di vigilanza impostogli dalla partecipazione all'organo di controllo e un ruolo di
amministrazione attiva, quale deriva dalla concorrente situazione di responsabile della sicurezza e del
sistema ISO 9002.
Al riguardo, la circostanza che sia stato previsto un organo collegiale, costituito oltre che da detto soggetto
da altro professionista esterno al gruppo, non appare di per sé sufficiente ad escludere pericoli di
interferenza tra organo di controllo e società controllata.
PROFILI CAUTELARI
Ordinanza del Tribunale per il Riesame di Milano 20 dicembre 2004
Ai fini dell'applicazione della misura cautelare interdittiva, l'unica esigenza cautelare rilevante è costituita dal
pericolo di commissione di «illeciti della stessa indole di quello per cui si procede». Poiché l'illecito di cui si
occupa la normativa è quello dalla stessa definito «illecito amministrativo dipendente da reato», la locuzione
normativa non può intendersi come mera indicazione del pericolo di reiterazione di analoghi «reati», quasi
che la formula fosse meramente ripetitiva di quella dell'art. 274, lett. c ),
c.p.p., ma deve intendersi invece come pericolo che persone fisiche in posizione apicale in un ente (ovvero
dipendenti e controllate da persone in posizione apicale) possano commettere, nell'interesse o a vantaggio
dell'ente, nuovi reati da cui dipende la responsabilità dell'ente medesimo, reati della stessa indole di quello
per cui si procede.
Un pericolo di tal fatta può essere tratto sia da elementi attinenti le persone fisiche che operano nell'ente in
posizione qualificata (parametro soggettivo), sia da elementi che ineriscono oggettivamente la concreta
organizzazione dell'ente (parametro oggettivo) : per quanto concerne il parametro soggettivo i contenuti su
cui basare il giudizio di pericolosità saranno quelli soliti già elaborati anche in via giurisprudenziale per
desumere la pericolosità della persona fisica; per quanto concerne il parametro oggettivo, i contenuti
dovranno desumersi dai criteri elaborati dalla scienza economica in materia di organizzazione aziendale.
Peraltro, posto che il modello organizzativo viene previsto e disciplinato dal legislatore al fine di garantire
una struttura amministrativa all'ente tale da prevenire il rischio di commissione di illeciti amministrativi
dipendenti da reato, è chiaro che le indicazioni contenute a tal fine nell'art. 6, comma 2, lett. a ), b ), c ), d )
ed e ) costituiscano parametri la cui presenza attenua la pericolosità sino ad escluderla del tutto ove il
modello presenti tutte le caratteristiche sopra indicate e le stesse siano attuate in modo idoneo. Ciò non
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implica che da una valutazione congiunta di tutti i parametri sopra indicati (persone fisiche operanti in
posizione qualificata nell'ente, struttura organizzativa e adozione di uno o più degli accorgimenti previsti per i
modelli di organizzazione) gli stessi possano escludere in concreto la pericolosità anche laddove l'attuazione
del modello sia parziale ovvero non rispetti tutti i presupposti richiesti dal legislatore ai fini dell'effetto
impeditivo della responsabilità o ai fini dell'effetto attenuante della medesima.
LA DOTTRINA
Le riflessioni della dottrina sui modelli organizzativi
La dottrina, allo stato, tende a concentrarsi sulla fisionomia del sistema delineato dal legislatore
(VINCIGUERRA-CERESA GASTALDO-ROSSI), riconoscendo peraltro l'indispensabilità dell'apporto
giurisprudenziale nell'elaborazione dei criteri di adeguatezza dei modelli, ben oltre gli schemi proposti da
alcune associazioni di categoria (PAOLOZZI).
Non mancano peraltro tentativi impegnati di privilegiare la tecnica di costruzione dei modelli ai profili
dogmatici della nuova disciplina (MONESI), nonché di valutare i possibili effetti di ricaduta all'interno della
struttura societaria (BARTOLOMUCCI).
Per ulteriori approfondimenti dottrinali
-BARTOLOMUCCI, Corporate governance e responsabilità delle persone giuridiche , Ipsoa, 2004;
-CERESA GASTALDO, Il processo alle società nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 , Giappichelli, 2002;
-MONESI (a cura di), I modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/01 Giuffrè, 2005;
-PAOLOZZI, Vademecum per gli enti sotto processo , Giappichelli, 2005;
-SANTI, La responsabilità delle società e degli enti , Giuffré, 2004;
-STORELLI, L'illecito amministrativo da reato degli enti nell'esperienza giurisprudenziale, Itaedizioni, 2005;
-VINCIGUERRA-CERESA GASTALDO-ROSSI, La responsabilità dell'ente per il reato commesso nel suo
interesse , Cedam, 2004.
LE CONCLUSIONI
La storia della responsabilità delle persone giuridiche, ovviamente, è ancora tutta da scrivere. Ma i primi
segnali già lasciano intendere quali saranno i binari entro cui si formerà probabilmente la prassi.
Da un lato, la teorizzazione di un modello di organizzazione standardizzato, in qualche modo analogo ai
modelli di corporate governance , con il rischio di svuotare l'obiettivo dichiarato del legislatore di promuovere
una cultura aziendale fortemente orientata alla prevenzione dei comportamenti illeciti.
Sul lato opposto, la tentazione della giurisprudenza di forgiare direttamente le regole di costruzione dei
modelli anche nel dettaglio (tendenza già percepibile in qualche massima), col rischio di rinvenire
sistematicamente una cautela trascurata dal modello e di trasformare così surrettiziamente una
responsabilità amministrativa in una responsabilità oggettiva per il fatto illecito del dipendente . Un esito,
anche questo, che finirebbe per mortificare gli intendimenti del legislatore.
Su tutto, però, prevale la necessità di dare tempo alle nuove norme, per capire come in concreto si
atteggerà anche l'approccio del mondo dell'imprenditoria, sinora apparentemente incorso in quell'«equivoco
a cavallo tra sottovalutazione e ignoranza», consistente nell'idea che si tratti di un tema «di nicchia»
(PAOLOZZI).
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Ambiente & Sicurezza
Ambiente & Sicurezza n. 19, 16.10.2007 pg. 60 – Marinuzzi Chiara
Per organizzare e gestire l'azienda indispensabile un modello di impresa
Ambiente & Sicurezza n. 19, 16.10.2007 pg. 53 - Vigone Marco
Un sistema di gestione della sicurezza per affrontare le criticità dell'art. 9
Ambiente & Sicurezza n. 18, 02.10.2007 pg. 35 - Merlin Angelo
Sanzioni pecuniarie e interdittive per omicidio colposo e lesioni gravi
Ambiente & Sicurezza n. 8, 18.04.2006 pg. 88 - Pasqualini Salsa Claudia
Sulla responsabilità sociale di impresa prime esperienze significative in Italia
Ambiente & Sicurezza n. 5, 12.03.2002 pg. 40 - Benedetti Giulio
Con il decreto legislativo n. 231/2001 più responsabilità per le imprese che
delinquono
Diritto e Pratica delle Società
Diritto e Pratica delle Società n. 6, 16.04.2007 pg. 58 – Giuseppe Gliatta
Presupposti delle misure cautelari alle società: gravità dell'illecito e personalità
dell'ente
Diritto e Pratica delle Società n. 4, 12.03.2007 pg. 79 - Cerqua Luigi Domenico
Misure cautelari interdittive nei confronti delle società
Diritto e Pratica delle Società n. 21, 19.11.2004 pg. 26 - Bernardo Amelia
Prime pronunce sulla responsabilità amministrativa di società ed enti
Diritto e Pratica delle Società n. 10, 04.06.2004 pg. 82 - Guerini Umberto
Sanzioni amministrative: dibattito aperto sugli effetti per le controllate
Diritto e Pratica delle Società n. 6, 02.04.2004 pg. 25 - Bernardo Amelia
La responsabilità amministrativa delle società alla prova dei fatti
Diritto e Pratica delle Società n. 5, 17.03.2003 pg. 34 - Foglia Manzillo Fabio
Nessun obbligo per l'organo di vigilanza di impedire gli illeciti penali
Diritto e Pratica delle Società n. 4, 03.03.2003 pg. 49 - Ragusa C.
Sanzioni amministrative come strumento di lotta alla criminalità
Diritto e Pratica delle Società n. 1, 20.01.2003 pg. 30 - Bartolomucci Sandro
Responsabilità dell'ente: estensibilità volontaria dei presupposti oggettivi
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Quotidiano – Norme e tributi
Norme e Tributi 23.07.2007 pg. 41 - Negri Giovanni
Verifica continua sui modelli 231
Norme e Tributi 02.07.2007 pg. 37 - Negri Giovanni
Il decreto 231 va oltreconfine
Norme e Tributi 14.05.2007 pg. 43 - Amedeo Sacrestano
Dipendenti, reati da prevenire
Norme e Tributi 05.03.2007 pg. 33 - Negri Giovanni
Responsabilità delle imprese: il market abuse nei modelli
Norme e Tributi 05.03.2007 pg. 33 - Lunghini Giacomo
Dalle associazioni l'input per produrre «anticorpi»
Guida al Diritto
Guida al Diritto n. 35, 08.09.2007 pg 40 - Bricchetti Renato, Pistorelli Luca
Responsabili anche gli enti coinvolti
Guida al Diritto n. 35, 08.09.2007 pg. 42 - Bricchetti Renato, Pistorelli Luca
Esclusione solo in caso di lesioni lievi
Guida al Diritto n. 18, 05.05.2007 pg. 83 – Giuseppe Amato
Un utile riepilogo sull’applicabilità delle misure cautelari interdittive
Guida al Diritto n. 42, 04.11.2006 pg. 69 - Amato Giuseppe
Precisati i requisiti e le condizioni per sostenere la responsabilità degli enti
Guida al Diritto n. 5, 01.05.2005 pg. 101 - Granata Renato
Dubbi di costituzionalità sul nuovo sistema
Guida al Diritto n. 5, 01.05.2005 pg. 105 - Bricchetti Renato
L’insider trading fra i reati degli enti
Guida al Diritto n. 8, 26.02.2005 pg. 116 - Granata Renato
Finanziaria 2005: dubbi di costituzionalità sulle misure contro l’uso illecito dei
fondi pubblici
Guida al Diritto n. 47, 02.12.2004 pg. 85 - Del Sasso Gian Paolo
Sospesi gli effetti dirompenti delle misure cautelari ma restano dubbi sui modelli
per prevenire i reati
Guida al Diritto n. 3, 25.01.2003 pg. 112 - Granata Renato
Nella contestazione dei reati alle società l’incognita dei soggetti “sotto vigilanza”
Guida al Diritto n. 26, 07.07.2001 pg. 64 - Forlenza Oberdan
Con l'avvicinamento tra persone fisiche e giuridiche un primo passo verso il
completamento della delega
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Il Merito
Il Merito n. 12, 01.12.2005 pg. 56 - Grasso Silvia
La responsabilità delle persone giuridiche: societas delinquere potest
Il Merito n. 2, 01.02.2005 pg. 69 - Cerqua Luigi Domenico
Presupposti e condizioni per l'applicazione di misure cautelari interdittive nei
confronti degli enti collettivi
Il Merito n. 5, 01.05.2004 pg. 59 - Balsamo Antonio, Ruvolo Michele
La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reati
Terzo Settore
Terzo Settore n. 4, 19.04.2005 pg. 25 - Pietroforte Vito Santo
Responsabilità amministrativa degli enti: indietro tutta sui modelli organizzativi
Terzo Settore n. 1, 18.01.2005 pg. 15 - Mazzini C., Pietroforte Vito Santo
Responsabilità amministrativa degli enti: un modello organizzativo per le onlus
Terzo Settore n. 9, 16.09.2003 pg. 62 - Pettinato Salvo
Gravose responsabilità in agguato per gli enti non profit
Terzo Settore n. 2, 11.02.2003 pg. 53 - Sorrentino Bonaventura, Bartolomucci Sandro
La responsabilità amministrativa degli enti non profit
Edilizia e Territorio
Edilizia e Territorio n. 28, 16.07.2001 pg. 31 - Galli Domenico
Con la responsabilità delle società nuova causa di esclusione dalle gare
Ventiquattrore Avvocato
Ventiquattrore Avvocato n. 4, 10.04.2006 pg. 81 - De Feo Nicola Fabio
La responsabilità amministrativa da reato degli enti giuridici: la doppia anima di un
istituto di confine
Ventiquattrore Avvocato n. 1, 13.01.2006 pg. 70 - Garello Andrea
Responsabilità amministrativa dell’ente per i reati commessi dai dipendenti
nell’interesse della società
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Guida al Lavoro
Guida al Lavoro n. 20, 21.05.2002 pg. 25 - Panucci Marcella
Responsabilità penale delle imprese e modelli di organizzazione
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