Firera e Liuzzo Publishing è un marchio di Firera & Liuzzo Group © 2008 - Firera & Liuzzo Group Via Boezio, 6 - 00193 Roma www.fireraliuzzo.com Firera & Liuzzo Group è un membro di Vincenzo Poerio e Maria Teresa Merenda LA PSICOTERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE NELLA PRATICA CLINICA InDICE Presentazione Prefazione PRIMA PARTE - I disturbi depressivi 9 13 1 - Disturbi depressivi 19 1.1 1.2 1.3 1.4 19 22 31 36 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici SECONDA PARTE - I disturbi d’ANSIA 2 - Disturbi d’ansia 53 2.1 Introduzione 2.2 Modelli comportamentali e cognitivi 2.3 Trattamento 53 54 57 3 - Disturbo da panico 63 3.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche 3.2 Modelli comportamentali e cognitivi 63 65 4 - Agorafobia 71 4.1 4.2 4.3 4.4 71 72 73 79 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici 5 - Fobia specifica 87 5.1 5.2 5.3 5.4 87 88 90 94 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici 6 - Fobia sociale 6.1 6.2 6.3 6.4 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici 99 99 100 103 109 7 - Disturbo ossessivo compulsivo 117 7.1 7.2 7.3 7.4 117 120 124 130 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici 8 - Disturbo d’ansia generalizzato 133 8.1 8.2 8.3 8.4 133 136 137 138 Introduzione Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici TERZA PARTE - I disturbi dELLA CONDOTTA ALIMENTARE 9 - Disturbi della condotta alimentare 145 9.1 Introduzione 9.2 Modelli comportamentali e cognitivi 9.3 Trattamento 145 146 148 10 - Bulimia nervosa 151 10.1 10.2 10.3 10.4 151 152 154 159 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Casi clinici 11 - Disturbo da alimentazione incontrollata 163 10.1 10.2 10.3 10.4 163 164 165 166 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Modelli comportamentali e cognitivi Trattamento Caso clinico quarta PARTE - I disturbi di personalità 12 - Disturbi di personalità 171 12.1 Introduzione 12.2 Modelli comportamentali e cognitivi 12.3 Trattamento 171 177 181 13 - Disturbo borderline 183 13.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche 13.2 Trattamento 13.3 Caso clinico 183 185 189 14 - Disturbo istrionico 193 14.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche 14.2 Trattamento 14.3 Caso clinico 193 194 197 15 - Disturbo narcisistico 199 15.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche 15.2 Trattamento 15.3 Caso clinico 199 201 205 16 - Disturbo evitante 207 16.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche 16.2 Trattamento 16.3 Caso clinico 207 209 213 17 - Distrubo dipendente 217 17.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche 17.2 Trattamento 17.3 Caso clinico 217 218 221 7 Indirizzi utili Bibliografia ragionata Elenco di letture specialistiche di approfondimento 223 225 237 PRESENTAZIONE L’anno che si è appena concluso (2007) è stato un po’ speciale per gli studiosi di psicoterapia cognitivo-comportamentale che sono anche cultori dei numeri : infatti, in primo luogo, sono trascorsi trentuno anni dalla pubblicazione del libro di A.T. Beck “Cognitive therapy and the emotional disorders” (1976), pietra miliare per la nascita della terapia cognitiva. Dal mio punto di vista, tale lavoro costituisce anche un punto di riferimento affettivo, avendone curato l’edizione italiana (“Principi di terapia cognitiva” ), caricandomi così gli oneri e gli onori di portare al più vasto pubblico italiano il lavoro di Beck, aggiungendo a tale pubblicazione quella successiva dell’edizione italiana di “Anxiety disorders and phobias” (1985) (“L’ansia e le fobie” ). In secondo luogo, ricorre il trentennale dalla pubblicazione del libro “Cognitivebehavior modification” di Donald Meichenbaum (1977), dal quale si è andato affermando l’uso del termine “cognitivo-comportamentale” per designare un approccio che andava ad integrare le acquisizioni clinico-teoriche di area comportamentale, combinandole con quelle provenienti dalla neonata “rivoluzione cognitiva” esplosa negli anni ’60 del secolo scorso. Come ha successivamente notato M. Mahoney (1988), da allora, si sono differenziate almeno una ventina di modalità differenti nell’ambito dell’approccio cognitivocomportamentale che sono state recentemente suddivise in 2 macroareee principali: gli approcci cognitivi standard e gli approcci costruttivisti. Senza entrare nel merito di tali questioni classificatorie che da un lato semplificano ma dall’altra fanno, a volte, perdere di vista la complessità delle problematiche, possiamo sinteticamente affermare che gli approcci clinici cognitivi standard avendo un’”anzianità di servizio” maggiore di quelli costruttivisti, si presentano allo stato attuale più definiti, delineati e supportati da evidenze; mentre quelli costruttivisti, essendo più recenti, si trovano nella fase di definizione e verifica di alcuni dei loro assunti teoricoclinici. Naturalmente, numerosi assunti costruttivisti nascono da alcune problematiche lasciate irrisolte o risolte in modo insoddisfacente dagli approcci “standard”, per cui, allo stato attuale delle cose, a nostro avviso, l’atteggiamento più corretto da mantenere nei confronti del dibattito in corso, non è certamente quello tipicamente italiano di porsi “a favore” o “contro” qualcuno o qualcosa come in una disputa da “bar dello sport”, bensì quello di considerare in modo serio ed equilibrato le problematiche e i punti di debolezza dei modelli e della pratica clinica e considerare i diversi punti di vista e contributi utili alle soluzioni che a volte possono venire da un versante, a volte da un altro. 9 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Infatti, tematiche come, per esempio, il rapporto tra processi cognitivi, emozioni e comportamento, o la tematica attuale del peso specifico della relazione terapeutica come fattore di cambiamento, oppure le difficoltà di trattamento condivise da tutti gli approcci dei cosiddetti disturbi di personalità, costituiscono problematiche troppo complesse da pretendere di essere affrontate e risolte da un solo modello o unico approccio, e a maggior ragione, aggiungiamo noi, da una sola disciplina come la psicoterapia. Alla luce della presa di coscienza di una sempre maggiore complessità delle problematiche inerenti la psicoterapia e il lavoro clinico quotidiano diventa importante porsi in una prospettiva ampia e articolata che non dovrebbe tradursi in facili e improvvisati eclettismi superficiali, bensì in una visione complessa e profonda delle problematiche fondamentali della psicoterapia e con una mentalità “aperta” al confronto costruttivo. Ma la condizione sine qua non per favorire questo processo negli allievi è quella di aiutarli a formarsi una precisa identità clinica di base, assimilando e metabolizzando un modello di base che fornisca loro delle coordinate teoriche e degli strumenti operativi utili alla professione. Ed è proprio in tale prospettiva che, a nostro avviso, si colloca il corposo lavoro di Poerio e Merenda che con il loro taglio teorico-applicativo, illustrano una serie di modelli teorici di riferimento corredati dall’esposizione di numerosi esempi clinici dei disturbi che si incontrano maggiormente nella pratica clinica, fornendo un utile ed originale manuale sulla teoria e sulla clinica applicativa che potrà essere un agile strumento di consultazione, di guida e di stimolo per l’allievo in formazione. Infatti, prima di ogni altra eventuale operazione di confronto o di integrazione rigorosa e funzionale è assolutamente necessario che ogni allievo conosca e pratichi almeno uno dei principali approcci classici cognitivo-comportamentali che nel lavoro degli autori vengono descritti teoricamente e praticamente, con ordine, chiarezza e sistematicità. Tali caratteristiche sono certamente tra quelle che di solito vengono maggiormente apprezzate dagli allievi nell’iter di formazione e che li aiutano a crescere e prepararsi nel difficile e delicato compito della professione di psicoterapeuta. Giuseppe Sacco Università degli Studi di Siena Bibliografia Beck, A.T. (1967).Cognitive therapy and the emotional disorders. New York. International University Press. Trad. It. Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio, 1984. Beck, A.T., & Emery, G. (1985). Anxiety disorders and phobias: a cognitive perspective. New York: Basic Books. Trad. It. L’ansia e le fobie: una prospettiva cognitive. Roma: Astrolabio, 1988. 10 Presentazione Mahoney, M. J. & Lyddon (1988). Recent development in cognitive approach to conseling and psychotherapy. Counseling Psychotherapy, 16, 190-234. Meichenbaum, D. (1977). Cognitive-behavior modification. New York: Plenum Press. Reda, M. & Sacco, G. (2001).La terapia cognitivo-comportamentale nei disturbi d’ansia. In P. Pancheri (Ed.). Il Punto su: Ansia e non ansia. Diagnosi e terapia di un continuum psicopatologico in evoluzione. Firenze: Scientific Press. Sacco, G. (2003). Psicoterapia e sistemi dinamici. Milano: MCGraw-Hill. 11 Prefazione Ci siamo chiesti: perché scrivere un altro libro che tratta della psicoterapia cognitivo comportamentale se, nel panorama editoriale italiano ed internazionale, i testi che affrontano questo tema sono ormai innumerevoli ed autorevoli? Infatti sia Beck che Ellis che Meichenbaum, per citare alcuni degli autori più famosi, hanno già ampiamente divulgato, con i loro testi, i principi, i modelli, le strategie e le tecniche cognitivo comportamentali. Allora, perché scriverne un altro? Sia come docenti nelle scuole di specializzazione in psicoterapia che in qualità di supervisori clinici, abbiamo avuto modo di sentirci chiedere continuamente di poter consultare dei testi che illustrassero in modo chiaro, lineare ed esauriente la pratica del clinico nel “fare” la terapia cognitivo comportamentale. Oggi gli allievi si iscrivono e partecipano ai corsi di formazione con un atteggiamento diverso da quello tenuto dai colleghi di una generazione fa: sono impazienti di fare pratica, sono “affamati” di conoscenze riguardo cosa e come fare, per placare la propria impazienza e per soddisfare le richieste dei pazienti. Nella certezza che il presente testo contribuirà ad arricchire la già nutrita biblioteca di terapia cognitivo comportamentale, ci aspettiamo che esso aiuti gli studenti, psicoterapeuti in formazione, ed i terapeuti junior ad apprendere e ad applicare il metodo clinico così come si svolge ed articola nella sua esperienza quotidiana reale. In questo lavoro ci siamo prefissi di descrivere il trattamento dei disturbi clinici che più frequentemente incontriamo nella pratica psicoterapeutica. Il contributo è organizzato in quattro parti. Ogni parte si riferisce ad una famiglia di Disturbi psicologici, secondo i criteri indicati dal DSM – IV R. Ogni singolo Disturbo viene presentato nelle sue caratteristiche cliniche specifiche; vengono introdotti i modelli clinici di riferimento; sono presentati nel dettaglio, per mezzo di “finestre dedicate”, le tecniche e i metodi di trattamento più diffusi e funzionali; infine sono illustrati uno o più casi clinici completi di presentazione, assessment, concettualizzazione, trattamento ed esiti terapeutici. La prima parte è dedicata ai Disturbi Depressivi e approfondisce casi di Depressione Maggiore e di Disturbo Distimico. La seconda parte si interessa di Disturbi di Ansia ed in particolare tratta casi di Disturbo di Panico con o senza Agorafobia, di Fobia Specifica, di Fobia Sociale, di Disturbo Ossessivo Compulsivo e infine di Disturbo di Ansia Generalizzato. La terza parte è dedicata ai Disturbi della Condotta Alimentare e approfondisce casi di Bulimia Nervosa e di Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating Disorder). 13 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica La quarta ed ultima parte si interessa di Disturbi della Personalità e approfondisce casi di Disturbo Borderline, Disturbo Istrionico, Disturbo Narcisistico, Disturbo Evitante e Disturbo Dipendente. Con il presente contributo non pretendiamo di aver offerto una panoramica esauriente, né in termini di casistica clinica né in termini di possibilità di intervento procedurale e strategico e non abbiamo presentato tutti i modelli applicativi che sono alla base di una psicoterapia cognitivo comportamentale, in quanto ciò esula dalla finalità di questo libro. Vorremmo ricordare, peraltro, che non esiste un’unica modalità di psicoterapia cognitivo comportamentale e poiché questo modello clinico è flessibile e lascia molto spazio alla creatività individuale, non ci aspettiamo che la nostra esperienza sia necessariamente condivisa da altri colleghi. Siamo certi, invece, che il lettore individuerà degli spunti di riflessione sui processi terapeutici e gli stimoli necessari per una concreta e funzionale operatività clinica. Infine, vorremmo concludere sottolineando che con questo testo abbiamo voluto fornire un utile contributo al lettore italiano particolarmente interessato alla pratica clinica privata. Ai casi clinici descritti sono state apportate modifiche allo scopo di renderli irriconoscibili. Sono state comunque rispettate e mantenute fedelmente le caratteristiche di personalità dei pazienti, i loro problemi e le situazioni di vita. 14 “La psicoterapia non si pone come obiettivo primario di far luce sul passato, che è immutabile, ma è mossa piuttosto dall’insoddisfazione per lo stato in cui attualmente versano le cose e dal desiderio di offrire un futuro migliore” Watzlawick, Weakland e Fish “Gli uomini non sono spinti ad agire dalle cose in se stesse ma dalle idee che per loro esse rappresentano” Epitteto “Il nevrotico non ha soltanto una vita emotiva disturbata – ma anche un livello cognitivo distorto” Abraham Maslow “Se vogliamo cambiare i sentimenti è necessario prima di tutto modificare l’idea che li ha prodotti, e riconoscere o che non è corretta in sé, o che non incide sui nostri interessi” Paul Dubois “...In ogni frammento di una storia si trova la forma dell’ intera storia...” C. Pincola Estés PARTE PRIMA I DISTURBI DEPRESSIVI “Io non lotto contro il mondo, io lotto contro una forza più grande, contro la mia stanchezza del mondo” E.M. Cioran “Giacere svegli, programmando il futuro, cercando di sbrogliare, districare, dipanare e far quadrare il passato e il futuro, tra mezzanotte e l’alba, quando il passato è ormai solo inganno, il futuro senza futuro…” T.S. Eliot CAPITOLO 1 DISTURBI DEPRESSIVI 1.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV (American Psychiatric Association – APA, 1994) Disturbo depressivo maggiore A. Presenza di un Episodio Depressivo Maggiore B. L’Episodio Depressivo Maggiore non può essere meglio inquadrabile come Disturbo Schizoaffettivo e non sovrapponibile a Schizofrenia, Disturbo Schizofreniforme, Disturbo Delirante o Disturbo Psicotico N.A.S. C. Non è mai stato presente un Episodio Maniacale, un Episodio Misto o un Episodio Ipomaniacale. Episodio Depressivo Maggiore A. Cinque (o più) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e presentano un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento: almeno uno dei sintomi è costituito da (1) umore depresso o (2) perdita di interesse o piacere. Nota: non includere sintomi chiaramente dovuti ad una condizione medica generale o a deliri e allucinazioni incongruenti con l’umore. 1. umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto (p. es. si sente triste o vuoto) o come osservato da altri (p. es. appare incline al pianto). Nota: nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile 2. marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto o come osservato da altri) 3. significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento 19 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica B. C. D. E. di peso (p. es. un cambiamento di più del 5% del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno. Nota: nei bambini considerare l’incapacità di raggiungere i livelli ponderali attesi 4. insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno 5. agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli altri, non semplicemente sensazioni soggettive di irrequietezza o rallentamento) 6. faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno 7. sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa (che possono essere deliranti) quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per il fatto di essere ammalato) 8. diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservazione di altri) 9. ricorrenti pensieri di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l’elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio I sintomi non soddisfano i criteri per un episodio misto. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (p. es. l’abuso di una sostanza o un farmaco) o a condizione medica generale (p. es. ipotiroidismo). I sintomi non sono meglio giustificati da lutto, cioè dopo la perdita di una persona cara i sintomi persistono per più di 2 mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio. DISTURBO DISTIMICO A. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, come riferito dal soggetto ed osservato dagli altri, per almeno 2 anni B. Presenza, quando depresso, di due (o più) dei seguenti sintomi: 1. scarso appetito o iperfagia; 2. insonnia o ipersonnia; 3. scarsa energia o astenia; 4. bassa autostima; 5. difficoltà di concentrazione o nel prendere decisioni; 6. sentimenti di disperazione. C. Durante i due anni di malattia la persona non è mai stata priva di sintomi di cui ai Criteri A e B per più di due mesi alla volta D. Durante i primi due anni di malattia non è stato presente un Episodio Depressivo Maggiore; cioè il disturbo non è meglio inquadrabile come Disturbo Depressivo Maggiore Cronico, o Disturbo Depressivo Maggiore, in Remissione Parziale Nota: Prima dell’insorgere del Disturbo Distimico può esserci stato un Episodio Depressivo Maggiore, purché seguito da una totale remissione (nessun segno o sintomo per due mesi). Inoltre, dopo i primi due anni di Disturbo Distimico possono esserci episodi sovrapposti di Disturbo Depressivo Maggiore; in questo caso vengono poste entrambe le diagnosi se risultano soddisfatti i criteri per l’Episodio Depressivo Maggiore. 20 I Disturbi depressivi E. Non è mai stato presente un Episodio Maniacale, Misto o Ipomaniacale, né sono stati mai risultati soddisfatti i criteri per il Disturbo Ciclotimico F. La malattia non si manifesta esclusivamente durante il corso di un Disturbo Psicotico cronico, come Schizofrenia o Disturbo Delirante G. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. abuso di sostanza, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es. ipotiroidismo) H. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti Tabella 1.1 - Aspetti clinici della Depressione (da Cassano, 1990) Disturbo dell’umore depressione, irritabilità, ansia, anedonia Sintomi vegetativi modificazioni: libido appetito sonno Sintomi psicomotori astenia riduzione movimenti spontanei (mimica …) riduzione linguaggio (fluidità, contenuti) alterazione memoria e concentrazione Sintomi cognitivi riduzione autostima autorimprovero, colpa pessimismo temi di rovina idee di morte, di suicidio Il Disturbo dell’Umore si caratterizza per la profonda tristezza e la disperazione; l’incapacità di provare piacere (anedonia) può portare all’indifferenza anche verso ciò che prima arrecava soddisfazione. I sintomi vegetativi riguardano: la sfera sex, con diminuzione del desiderio; il rapporto con il cibo, con inappetenza o iperfagia; l’area del sonno, con insonnia caratterizzata frequentemente da risvegli precoci al mattino. Si ha rallentamento psicomotorio che si manifesta con riduzione di movimenti spontanei e con amimicità del volto, fissata su un’espressione di sofferenza. Nel linguaggio si ha una riduzione della fluidità, della varietà dei contenuti e della terminologia impiegata. Le funzioni psichiche sono rallentate e si possono avere disturbi della memoria e difficoltà di concentrazione. Il soggetto depresso nutre nei propri confronti sentimenti di disistima, indegnità e colpa. Ha una visione della realtà improntata al pessimismo che, unitamente alla convinzione dell’impossibilità di essere aiutato ed alla mancanza di speranza, può portare a ritenere il suicidio come unica soluzione per la liberazione dalla sofferenza e per l’espiazione delle proprie colpe (Cassano e Cecconi, 1995; Saggino, 2004). 21 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 1.2 Modelli comportamentali e cognitivi Le teorie comportamentali basate sul condizionamento rilevano la centralità del ruolo dei rinforzi ricevuti dai comportamenti emessi. La riproposizione di un determinato comportamento è subordinata alla presenza di rinforzi positivi, in assenza dei quali l’azione tende ad estinguersi. Secondo questo orientamento la condizione depressiva è conseguente alla mancanza di ricompense delle proprie attività, motivo per il quale la persona riduce l’attivazione comportamentale (Lazarus, 1968) e sperimenta un vissuto di perdita di controllo sugli effetti del proprio comportamento. Questa condizione di “sospensione” o ritiro dall’interazione con l’ambiente coinvolge sia le attività, finalizzate a soddisfare i bisogni e raggiungere obiettivi, sia i rapporti interpersonali, limitando sempre di più le opportunità di ricevere rinforzi positivi e di alimentare la fiducia nelle proprie capacità. Secondo Ferster (1973) il comportamento depressivo è il risultato di una riduzione prolungata della quantità di rinforzi positivi provenienti dall’ambiente e del contemporaneo aumento delle punizioni. La riduzione o cessazione delle contingenze di rinforzo positivo può essere determinata tanto da cambiamenti nell’ambiente (lutto, separazione, pensionamento …) quanto da comportamenti del soggetto. Ferster ritiene che la persona depressa, indipendentemente dall’effettiva presenza di un rinforzo o dalla possibilità concreta di ottenerlo, manifesti una ridotta capacità di riconoscere sia l’opportunità di accedervi sia le caratteristiche di ricompensa possedute da uno stimolo. Il ruolo primario del rinforzo nella genesi e nel mantenimento del Disturbo è sottolineata da Costello (1972): nella Depressione risulta significativa la perdita di efficacia dei rinforzi. In presenza di un insieme di ricompense collegate tra loro, la perdita di efficacia di quella più rilevante coinvolge a catena tutte le altre, a prescindere dal fatto che queste ultime possano essere ancora presenti e raggiungibili dal soggetto. L’Autore ha applicato tale teoria nella spiegazione della Depressione reattiva alla separazione. Ferster (1974) enfatizza la necessità di rinforzare positivamente condotte incompatibili con quelle depressive, intervenendo sulla famiglia e sull’ambiente. Il soggetto depresso, infatti, è molto abile nel sollecitare negli altri sentimenti di commiserazione e pietà che contribuiscono a mantenere il Disturbo. Lewinsohn (1974, 1985) integra le precedenti teorie, enfatizzando il ruolo dei rinforzi sociali nell’origine e nel mantenimento della Depressione. Il soggetto depresso possiede un basso livello di competenza sociale e, in conseguenza della riduzione delle proprie attività, riceve un minor numero di rinforzi positivi e ciò aumenta la limitazione dell’attivazione comportamentale. Inoltre, i comportamenti disforici vengono rinforzati da una limitata cerchia di persone con le quali il depresso conserva i rapporti: coloro che gli prestano attenzione, lo confortano e lo supportano nel mantenimento del Disturbo. Gray (1987) attribuisce rilievo alla modificazione del ruolo di determinati stimoli che, essendo stati inizialmente fonte di gratificazione e ricompensa, successivamente diventano motivo di frustrazione. Ad esempio, una persona particolarmente significativa per il soggetto è, con la sua presenza, fonte di gratificazione ma, nel momento in 22 I Disturbi depressivi cui viene a mancare, la stessa diventa motivo di frustrazione perché non soddisfa più le sue aspettative. Il soggetto depresso non riconosce nel suo comportamento le cause della condizione negativa nella quale si trova (locus of control interno) ma si ritiene “vittima” della situazione determinata da fattori incontrollabili (locus of control esterno). Rehm (1975) propone un modello della Depressione che rileva il ruolo attivo della persona nel suo rapporto con l’ambiente, mediante un processo di autoregolazione. In particolare, l’autocontrollo del proprio comportamento si realizza attraverso tre fasi: auto-osservazione dell’azione (self monitoring); auto-valutazione, come verifica secondo i propri standard di riferimento (self evaluating); auto-rinforzamento (self reinforcement), come ricompensa per i risultati raggiunti (self rewarding). Il soggetto depresso effettua osservazioni e valutazioni selettive e distorte, focalizzando l’attenzione sugli aspetti negativi del proprio comportamento, sulla valutazione negativa di sé e della realtà esterna a conferma della propria incapacità e dell’impossibilità di ricevere ricompense. Sulla base di questo modello Fuchs e Rehm (1977) hanno proposto un programma terapeutico di self management con l’obiettivo di far acquisire un autocontrollo funzionale, nel quale hanno rilievo le strategie di auto-rinforzo sia overt (come ad esempio attività piacevoli) sia covert (quali autoaffermazioni positive). Con il proprio modello, Seligman (1974, 1979) integra le teorie comportamentali del rinforzo con l’orientamento cognitivo, nel quale l’auto-valutazione dell’individuo assume un ruolo centrale, ed identifica una condizione psicologica nel depresso che chiama “learned helplessness”. Si tratta di una convinzione, traducibile in un senso di impotenza/incapacità di reazione appresa che comporta mancanza di iniziativa in presenza di eventi negativi vissuti come incontrollabili e di fronte ai quali il soggetto non dispone di possibilità di evitamento o fuga. Il depresso percepisce la mancanza di controllo sul proprio comportamento e sulle sue conseguenze e pertanto, non ritenendosi capace di affrontare un ostacolo, rinuncia ad agire. In sintesi, per il depresso il fattore critico non è rappresentato dall’esposizione allo stimolo avversivo ma dalla mancata percezione del legame tra quest’ultimo, il proprio comportamento e la risposta dell’ambiente. Il soggetto si sente impotente e sviluppa una considerazione negativa di sé e delle proprie caratteristiche personali che ritiene essere la causa dei suoi insuccessi. Inoltre, la mancanza di consapevolezza della correlazione tra il comportamento e la risposta dell’ambiente si generalizza anche alla visione degli altri che appaiono di conseguenza difficilmente prevedibili e controllabili. Abramson e coll. nel 1978, rifacendosi alla teoria di Seligman, individuarono un sottotipo di Depressione definita “Hopelessness Depression”. Questa si caratterizza per la presenza di aspettative circa il verificarsi di eventi molto dannosi e/o il non verificarsi di eventi molto desiderati, da parte di un soggetto che percepisce se stesso incapace di possedere risorse utili per fronteggiare gli ostacoli. Il verificarsi di situazioni negative significative per la persona comporta emozioni negative e, di conseguenza, favorisce lo sviluppo di uno stile di attribuzione che comporta scarsa autostima e crea le condizioni per lo sviluppo della Hopelessness Depression. Pertanto, l’attribuzione causale per il depresso risulta di questo tipo: le sue caratteristiche interne, globali e stabili, all’origine del fallimento e fattori esterni, specifici ed instabili, all’origine del successo. 23 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica STILE DI ATTRIBUZIONE E RIATTRIBUZIONE Alcune persone prendono su di loro tutta la responsabilità degli eventi accaduti e di specifici errori o disgrazie che si sono verificate nella loro vita, altri invece non si curano affatto di analizzare la minima possibilità che in qualche circostanza possano aver influito fortemente in senso causale sulle sorti di un qualche accadimento. Questa differenza tra gli individui è dovuta al diverso stile di attribuzione delle cause degli eventi, processo molto noto e molto importante nell’esame delle funzioni di ragionamento e dell’assunzione di responsabilità. Alcuni pazienti si lamentano profondamente sentendosi colpevoli di eventi apparentemente lontani e distanti da loro (senza un evidente legame causale ad occhio esterno), altri si lamentano per aver subito danni per colpa di altri o “del caso”, senza alcuna attribuzione a sé di una qualche responsabilità. In questi casi il terapista può aiutare il paziente a distribuire la responsabilità in modo realistico tra le diverse parti in gioco. C’è da rilevare l’importanza del ruolo che il terapista assume in questa procedura: se di eccessivo supporto, il paziente può classificarlo come un amico o un familiare che come tale non può essergli di aiuto perché “non può capirlo in ciò che prova”; se invece il terapista tende a caricare eccessivamente il paziente di responsabilità egli si potrà sentire attaccato o criticato troppo duramente e di conseguenza abbandonare il rapporto terapeutico, agire contro il terapeuta, commettere un atto di protesta, o agire contro se stesso sentendosi senza speranza. L’atteggiamento più funzionale del terapeuta consiste nell’assumere una posizione mediana, aiutando il paziente a riattribuirsi le proprie responsabilità ragionevolmente, senza prendersi tutte le critiche sia provenienti dagli altri sia da sé. Il principio sul quale si basa questa tecnica è il seguente: l’individuo è responsabile tanto delle proprie attività mentali (desideri, credenze, scelte, errori, ...) quanto delle proprie emozioni e della propria condotta. Beck (1978,1984,1987) e Clark et al. (2001) sono gli esponenti più rappresentativi della teoria cognitiva della Depressione, uno degli approcci maggiormente sperimentati con successo sui pazienti. Beck, impiegando la tecnica delle associazioni libere nella terapia psicoanalitica, osservò come i pensieri espressi dal paziente avessero “un grande impatto sui suoi sentimenti e sul comportamento”. Inoltre verificò che molti dei pensieri non fossero rilevati dal paziente soltanto perché egli “non era stato allenato” a prestarvi attenzione e riconoscerli. Queste osservazioni, secondo le quali il vissuto emotivo ed i comportamenti sono influenzati dal modo di interpretare ed organizzare gli stimoli nelle proprie strutture mentali, hanno costituito la premessa per l’elaborazione del modello cognitivo della Depressione. Attraverso l’analisi degli schemi cognitivi si arriva a spiegare l’origine ed il mantenimento della Depressione. Gli schemi sono definiti come: “strutture interne, relativamente permanenti di caratteristiche generiche o peculiari di stimoli, di idee o di esperienze che vengono immagazzinate ed utilizzate per organizzare nuove informazioni dotandole di significato, determinando così il modo in cui i fenomeni vengono percepiti e concettualizzati” (Clark et al, 2001, pp. 79-80). 24 I Disturbi depressivi In questo modo esse permettono di costruire il significato degli eventi interni ed esterni che accadono alla persona, suddividendoli ed organizzandoli in aspetti psicologicamente rilevanti. Sono stati ipotizzati diversi tipi di schemi che corrispondono a differenti funzioni dei sistemi biopsicosociali dell’organismo (Clark, Beck e Alford, 2001): a. gli schemi cognitivo-concettuali che hanno la funzione di selezionare, organizzare, reperire ed interpretare le informazioni; b. gli schemi affettivi che sono coinvolti nella percezione delle sensazioni e della loro combinazione; c. gli schemi fisiologici che costituiscono la struttura cognitiva che descrive le funzioni e i processi somatici; d. gli schemi comportamentali che permettono l’esecuzione coordinata e automatica delle risposte motorie implicate nel comportamento espressivo complesso; e. gli schemi motivazionali che sono di tre tipi: quelli primari legati all’orientamento biologico, quelli secondari che sono appresi attraverso il processo di socializzazione e quelli terziari che rappresentano obiettivi, valori ed aspettative più personali. Beck considera e descrive gli schemi di tipo cognitivo-concettuali che hanno un ruolo fondamentale nel suo modello, poiché è proprio a questo livello che avviene la rappresentazione interna del Sé e perché rivestono un ruolo cruciale nella determinazione del tipo e dell’intensità della risposta emozionale, normale o patologica (Clark, Beck e Alford, 2001). Sempre secondo l’Autore il contenuto di questi schemi è costituito da credenze, convinzioni, conoscenze e scopi. In questi termini il contenuto degli schemi può essere diviso in base a diversi gradi di specificità e generalità. Avremo pertanto: • gli schemi semplici che contengono rappresentazioni di oggetti e idee molto specifici presenti nel mondo fisico e sociale; • gli schemi di classe intermedia che contengono convinzioni e regole che la persona utilizza per valutare se stesso, le proprie esperienze, gli altri e l’ambiente che lo circondano e proprio per questo svolgono un ruolo molto importante nello sviluppo del disturbo depressivo. A questo livello si trovano tre categorie di convinzioni molto importanti che sono le regole condizionali “Se...allora” (Beck et al., 1987), le regole imperative con espressioni tipo “Devo” o “Dovrei” (Beck, 1984) e le convinzioni compensatorie che sono costituite da credenze riguardanti strategie che la persona ritiene utili in risposta alle convinzioni di base o a quelle intermedie negative; • gli schemi dell’ultimo livello contengono le convinzioni di base o nucleari che riguardano le caratteristiche del Sé e pertanto sono più generali, astratte e globali rispetto a quelle del livello intermedio. Esse si formano precocemente durante lo sviluppo e sono strettamente legate a vicende di attaccamento del bambino, svolgendo un ruolo importante nello sviluppo della vulnerabilità alla Depressione nonché al suo mantenimento. 25 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Nella Depressione, a seguito di uno stress specifico (come una separazione) o non specifico (come una successione di eventi stressanti), vengono attivati schemi negativi formatisi in origine in presenza di stimoli con analogo significato (perdita, rifiuto, ecc.) che portano ad una interpretazione negativa dell’esperienza vissuta, con conseguenze sulla sfera emotiva e comportamentale. Per poter spiegare le differenze individuali nella vulnerabilità al Disturbo depressivo Beck ipotizza l’esistenza di due suborganizzazioni schematiche di personalità pre-depressiva: sociotropica e autonoma. Entrambe queste sub-personalità rendono il soggetto più sensibile ad una specifica categoria di eventi (Beck, 1996). La personalità sociotropica è caratterizzata dal fatto che l’individuo considera il proprio valore in relazione ai rapporti intimi che intrattiene, valutandosi sulla base delle manifestazioni di affetto e di accettazione da parte delle altre persone. L’individuo con personalità autonoma invece è orientato all’ indipendenza e al successo e pertanto le valutazioni circa il proprio valore sono legate alla propria abilità e al proprio successo. In quest’ottica pertanto gli eventi in grado di scatenare la Depressione sono diversi in base alla personalità: perdite sociali e interpersonali per quella sociotropica e perdite di ruolo per la personalità autonoma. Ma la presenza di un’organizzazione cognitiva caratterizzata da schemi depressogeni non indica l’esistenza del Disturbo depressivo, piuttosto costituisce un importante fattore di rischio. Le convinzioni depressogene si possono infatti attivare in situazioni specifiche; un particolare evento è in grado di scatenare depressione solo se viene vissuto come perdita, poiché l’individuo deve valutare l’evento in termini di perdita irreversibile e inaccettabile e riguardante le proprie risorse e poteri. Molti eventi di perdita d’altronde non causano la Depressione, poiché la maggior parte degli individui risponde con sentimenti di frustrazione ma è capace di mantenere interesse negli aspetti non frustranti della propria vita. Arieti e Bemporad (1978) hanno osservato che i tre più comuni fattori precipitanti della Depressione sono la rottura di una relazione (generalmente sentimentale) centrale, la morte di una persona amata e il fallimento nel perseguire un obiettivo che definirebbe la persona. Oatley e Bolton (1985) ritengono che le perdite di risorse centrali e di autostima siano i maggiori predittori dell’insorgenza del Disturbo. Un altro concetto chiave del modello di Beck è quello di “distorsione cognitiva”: una modalità negativa di valutazione irrealistica che si basa su errori sistematici nell’attribuzione di significato alle informazioni che vengono adeguate agli schemi disfunzionali, alimentandoli ulteriormente. Le distorsioni logiche più frequentemente riscontrabili nella Depressione sono individuate in: catastrofizzazione, inferenza arbitraria, astrazione selettiva, ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, personalizzazione, esagerazione e minimizzazione. - Catastrofizzazione: tendenza a prevedere nel futuro solo eventi negativi, ignorando possibili esiti contrari. - Inferenza arbitraria: si trae una conclusione, di solito negativa, da un evento o situazione, in assenza di prove a sostegno ed anche di fronte ad elementi che la contraddicono. 26 I Disturbi depressivi - Astrazione selettiva: si estrapola un unico dato o alcuni elementi da una situazione e la si interpreta sulla base di questi, senza tenere conto delle altre informazioni disponibili o delle evidenze contrarie. - Ipergeneralizzazione: le caratteristiche proprie di un evento o di un’esperienza vengono arbitrariamente estese nell’interpretazione di altre simili. - Pensiero dicotomico: nell’interpretazione di un’esperienza o di un evento, vengono utilizzate categorie nettamente contrapposte, tipo “tutto o niente”, “bianco o nero”. - Personalizzazione: tendenza a riferire a sé ed alla propria persona eventi esterni anche senza nessuna evidenza al riguardo. - Esagerazione e minimizzazione: enfatizzare gli aspetti negativi di sé e degli eventi e sottovalutare quelli positivi. La presenza di tali distorsioni logiche, definibili come processi di ideazione depressiva, si manifesta attraverso un tipo di pensiero involontario che compare automaticamente, in forma breve e che viene alimentato dagli schemi cognitivi. Un esempio di pensiero automatico originato da uno schema di sé negativo e che esprime una personalizzazione è il seguente: “è colpa mia se le cose vanno male”. Secondo Beck la condizione depressiva è mantenuta dalla triade cognitiva, caratterizzata da convinzioni negative su di sé, sulla realtà esterna e sul futuro. La triade cognitiva funziona come uno schema che guida l’elaborazione delle informazioni e costituisce il contenuto tematico cognitivo specifico e distintivo del Disturbo depressivo. Per quanto riguarda il primo elemento della triade, il paziente vede se stesso come inadeguato e difettoso, e questi suoi presunti difetti lo portano a sentirsi indesiderabile e inutile, a sottovalutarsi e a criticare ogni cosa che fa. Il secondo elemento della triade si riferisce al fatto che la persona che soffre di Depressione interpreta negativamente le sue interazioni con l’ambiente circostante, descrivendole come fossero delle sconfitte o delle privazioni e spesso fraintendendole. Il terzo elemento, infine, ruota attorno alla visione negativa del futuro e cioè al pessimismo. Il paziente depresso ha infatti la tendenza a prevedere frustrazioni e difficoltà future come il naturale prolungamento di quelle attuali, con la nefasta previsione che queste continueranno indefinitamente. In una fase successiva (1997) l’Autore, in collaborazione con Clark, propone la nozione di mode che si differenzia dal precedente schema in quanto si tratta di “un cluster specifico di schemi intercorrelati cognitivo-concettuali, affettivi, fisiologici, comportamentali e motivazionali organizzati per soddisfare particolari richieste poste nei confronti dell’organismo”. Beck ha individuato le seguenti categorie di mode: mode primari, ciascuno dei quali rappresenta una delle quattro emozioni principali; mode costruttivi, che favoriscono le attività produttive della vita e sono acquisiti attraverso l’esperienza; mode minori che comprendono le informazioni che consentono di vivere in modo adattivo nell’ambiente. I soggetti inclini alla depressione presentano ipervalenza ed ipergeneralizzazione del mode primario di perdita ed una inattività dei mode costruttivi di pensiero. Il mode primario di perdita nel depresso è caratterizzato da schemi: - cognitivo concettuali: valutazione di perdita e di fallimento; - affettivi: tristezza; 27 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica - motivazionali: perdita di piacere, di interesse e mancanza di obiettivi; - fisiologici: affaticabilità; - comportamentali: passività e ritiro sociale. Un evento scatenante può attivare il mode di perdita e quindi tutti gli schemi che lo formano, determinando la sintomatologia depressiva. I modelli di D’Zurilla e Goldfried (1971, 1990) e di Nezu (1987) definiscono lo stato depressivo come un deficit di competenza per la risoluzione di problemi. La persona valuta che le richieste ambientali (percezione del problema) sono superiori rispetto alle capacità che egli possiede per soddisfarle (soluzione del problema). Le ricerche di Pyszczynski e Greenberg (1987), che hanno portato alla formulazione della teoria della perseverazione autoregolatoria, evidenziano che quando un individuo sperimenta la perdita di un elemento molto importante per la propria autostima, vi è un aumento dell’attenzione focalizzata su di sé da cui può nascere un processo di autosvalutazione. Le persone che perseverano in questo processo sviluppano uno stile di attenzione centrato su se stessi che va ad influire negativamente sulla performance. Le persone depresse pertanto continuano a concentrare l’attenzione su di sé con lo scopo di trovare una soluzione per uscire dallo stato depressivo ma, paradossalmente, ciò produce l’effetto opposto. Infatti, questo tentativo di soluzione abbassa l’autostima e aumenta i deficit di performance (Pyszczynski, Holt e Greenberg, 1987). Questa perseveranza nel concentrare l’attenzione su di sé porta all’aumento di effetti negativi come l’autocriticismo, l’auto-accusa e l’adozione di un unico stile depressivo autofocalizzato nel quale l’individuo cerca la concentrazione su se stesso dopo esiti negativi, evitando invece di tenere il medesimo comportamento dopo esiti positivi (Pyszczynski e Greenberg, 1986). Secondo la teoria dell’auto-perseverazione molte delle caratteristiche cognitive, affettive e comportamentali presenti nei depressi sono il risultato della loro incapacità di uscire dal circolo auto-regolatorio. In questo modo pertanto la percezione negativa degli eventi e il loro forte pessimismo alimentano ulteriormente lo schema cognitivo, portando, di conseguenza, ad un aumento della Depressione (Beck, Rush e al. 1987). La teoria della depressione sugli stili di risposta di Nolen-Hoeksema (1987,1991) suggerisce che il modo in cui le persone rispondono all’umore depresso influenza sia la durata che la gravità della loro Depressione. L’Autrice individua un primo modo di reagire che definisce “stile di risposta ruminante”, caratterizzato da un insieme di “pensieri e comportamenti che mettono a fuoco l’attenzione dell’individuo depresso sui suoi sintomi, sulle cause possibili e le conseguenze di quei sintomi”; tale atteggiamento gli impedisce di attivare piani o progettare azioni nell’ottica di alleviare il proprio distress, favorendo così l’umore depresso. Le risposte ruminative focalizzano l’attenzione della persona sul suo stato emozionale inibendo così ogni azione che potrebbe distrarla dal suo umore depresso. I pensieri negativi, ad esempio “sono un fallito”, possono pertanto aumentare come risultato di questo stile attentivo-comportamentale (Nolen-Hoeksema, 1991). In contrasto vi è uno “stile di risposta distrattivo” che caratterizza individui che si focalizzano non sui propri sintomi depressivi bensì sul cercare di intraprendere attività piacevoli o neutrali che hanno quindi una funzione distrattiva. 28 I Disturbi depressivi È evidente che l’attenzione auto-focalizzata da sola non è un fattore causale della Depressione, bensì un forte fattore di mantenimento e di cronicizzazione. Pyszczynski e Greenberg (1987) sostengono che un aumento di questo tipo di attenzione possa governare il processo depressogeno, ma solo una volta che esso sia iniziato. Figura 1 Raffigurazione schematica della perseverazione auto-regolatoria e dello sviluppo e mantenimento della Depressione Investimento in un oggetto come risorsa di identità/auto stima Perdita dell’oggetto Effetto negativo estremo e interruzione della normale routine Circolo auto-regolatorio: a) Inabilità a rimpiazzare l’oggetto perso b) Fallimento nell’interrompere il ciclo auto-regolatorio Eccessiva auto-focalizzazione riguardo la perdita Effetti negativi intensificati Attribuzioni interne Auto-criticismo Diminuita auto-stima Deficit nelle performance Auto-focalizzazione depressiva Stile (auto-focalizzazione persistente dopo esiti negativi ed evitamento di autofocalizzazione dopo esiti positivi Adozione e mantenimento di un’immagine negativa di se stessi Così come mostra questo schema, quando le persone sono preoccupate per la perdita di una fonte centrale di autostima, non sono necessariamente altamente autofocalizzate. Ciò che viene perso in questi casi non è l'oggetto in sé ma la base dell'autostima e della sicurezza emozionale che era garantita dall'oggetto. Infatti, dopo una tale privazione l'individuo non pensa prettamente alla perdita quanto piuttosto al significato che questa rappresenta per lui. Le conseguenze affettive e cognitive potrebbero essere quasi adattive se risposte strumentali capaci di sostituire l'oggetto perso fossero disponibili poiché darebbero impeto e direzione per il comportamento di riduzione della discrepanza. Quando però queste risposte non sono disponibili, l'auto-focalizzazione favorisce un processo a spirale che influenza l'adattamento cognitivo, emozionale e comporta29 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica mentale alla perdita e culmina in uno stato di depressione (Pyszczynski e Greenberg, 1987). Le conseguenze dell'attenzione auto-focalizzata si possono rilevare in diversi ambiti della persona: 1. Affetti. Le ricerche di Gibbons et al. (1985) hanno mostrato che l’auto-focalizzazione aumenta effetti negativi nelle persone clinicamente depresse. L’adozione di uno stile auto-focalizzato infatti esacerba questo problema portando le persone depresse a provare più affetti negativi dopo altri risultati negativi e affetti meno positivi dopo altri risultati positivi rispetto ai non depressi. 2. Attribuzioni. L’auto-focalizzazione aumenta la tendenza a fare attribuzioni interne per il proprio comportamento o suo esito. Infatti se le persone depresse persistono nell’auto-focalizzazione dopo una grossa perdita, ne consegue che nel tempo tenderanno a colpevolizzarsi per ciò che è accaduto. Questa auto-focalizzazione cronica potrebbe aiutare a spiegare l’irrazionale tendenza dei depressi a colpevolizzarsi per eventi negativi che sono chiaramente al di fuori del loro controllo (Abramson e Sackheim, 1977). 3. Schema negativo di sé e bassa autostima. Molti Autori, tra cui lo stesso Beck (1978), ritengono che la bassa autostima, uno schema negativo di sé e un elevato auto-criticismo siano aspetti importanti degli stati depressivi. Esistono dei meccanismi attraverso i quali la perseverazione auto-regolatoria e lo stile autofocalizzante possono diminuire l’autostima. Infatti se la tendenza ad uno stile auto focalizzato tipico delle persone depresse incoraggia attribuzioni individuali per la perdita iniziale e altri esiti negativi e attribuzioni situazionali per gli esiti positivi, è evidente che la bassa autostima ne sarà il risultato. 4. Performance. Spesso è stato notato come le persone depresse abbiano una scarsa motivazione (Beck, 1978; Seligman, 1975) e basse performance in compiti cognitivi e in interazioni sociali (Lewinsohn, Mischel, Chaplin e Barton, 1980). È altresì importante tenere presente che una variabile motivazionale rilevante che contribuisce a deficit nella performance è l’aspettativa di successo. Le ricerche mettono in luce il fatto che le persone depresse tendano ad avere aspettative pessimistiche (Beck, 1978; Pyszczynski, Holt e Greenberg, 1987). In conclusione si può affermare che la perseverazione auto-regolatoria e lo stile depressivo auto-focalizzato possono aiutare a spiegare la presenza di determinate attribuzioni e aspettative. Similarmente la stessa teoria cognitiva di Beck vede la Depressione come caratterizzata da uno schema di sé negativo che ha come base la persona con aumentate visioni negative di sé e del mondo. Così come descritto precedentemente la perseverazione auto-regolatoria e l’emergere di uno stile auto-focalizzato depressivo possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento di uno schema personale negativo e di un generale pessimismo. Infine è da tenere presente che esiste un punto cruciale sul quale la teoria della perseverazione auto-regolatoria differisce dalle altre teorie contemporanee della Depressione. Il Disturbo è infatti concettualizzato come un fenomeno all’interno del quale l’individuo abbandona obiettivi irraggiungibili e quindi generalizza questa perdita di motivazione agli altri ambiti. Viene suggerito invece di considerare che la Depressione 30 I Disturbi depressivi si presenti come risultato dell’incapacità di abbandonare/lasciar perdere quando sarebbe invece adattivo farlo. Le persone depresse appaiono essere passive e immotivate, ma invece di considerare questa passività come un lasciar perdere generalizzato dopo un’incapacità a mantenere un impegno centrale motivazionale, si ritiene che la passività in altri domini sia la conseguenza di una preoccupazione auto-regolatoria con una perdita significativa (Pyszczynski e Greenberg, 1987). Oltre all’attenzione auto-focalizzata, Pyszczynski, Greenberg et al. (2004), negli anni successivi hanno studiato l’autostima, la sua funzione psicologica e, di conseguenza, il perché le persone ne abbiano bisogno. Il concetto di autostima si riferisce alla valutazione che una persona fa di sé e si rileva come gli individui siano generalmente motivati a mantenere alti livelli di autostima e a difenderla quando sotto minaccia. Da questi studi é nata la teoria della gestione del terrore (TMT = Terror Management Theory). In sintesi l’autostima è una difesa protettiva designata per controllare il potenziale terrore che risulta dalla preoccupazione dell’orribile possibilità che noi umani siamo semplicemente animali che brancolano per sopravvivere in un universo senza senso, destinati solo alla morte. Modelli orientati in senso costruttivista e sistemico processuale (Reda, 1986; Guidano, 1988, 1991; Bara, 1996) e modelli cognitivo evolutivi (Bowlby, 1988; Liotti, 1991, 2001; Semerari, 1996) rilevano la centralità della relazione terapeuta – paziente all’interno del processo psicoterapeutico. Lo sviluppo di un’organizzazione depressiva è caratterizzato dal vissuto predominante della perdita che diventa lo schema di riferimento per la percezione di sé e degli altri e la base sulla quale l’individuo costruisce la propria identità. Il processo di conoscenza e costruzione di questa identità è caratterizzato da un costante tentativo di mantenere un equilibrio ed una coerenza interna, sulla base delle sensazioni primarie innescate dall’esperienza di perdita come la rabbia e la disperazione. 1.3 Trattamento Per definire la natura della relazione terapeutica, Beck fa riferimento all’”empirismo collaborativo” che indica il ruolo attivo e diretto del clinico nella terapia cognitiva. Questi fornisce al paziente informazioni sulla natura del suo problema, spiegandone segni e sintomi, e gli consiglia la lettura di libri e di articoli specifici. Successivamente progetta un intervento strutturato, concordando con lui gli obiettivi terapeutici che rende espliciti e flessibili, cioè soggetti a possibili modificazioni nel corso del trattamento. Nell’assessment della Depressione la valutazione iniziale deve considerare il rischio di suicidio e, qualora siano presenti concrete possibilità che si possa verificare, deve prevedere nel contratto terapeutico precise condizioni per ridurne la probabilità. Durgoni (1987), riferendosi al comportamento manifesto del depresso, accanto al rischio reale di suicidio formula le seguenti considerazioni: - - tale comportamento si differenzia da quello “normale” per il numero e la frequenza dei sintomi piuttosto che per i loro aspetti qualitativi; è necessario identificare i fattori covert che lo accompagnano. 31 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Come ausilio strumentale si possono impiegare le Scale della Depressione del Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), l’Inventario della Depressione di Beck, il Questionario delle Distorsioni Cognitive di Hammen e Krantz, il Self Rating Depression Scale di Zung. La terapia si avvale di tecniche comportamentali che consentono di: modificare lo stile relazionale, orientato alla passività, e superare le difficoltà comunicative (Training Assertivo e delle Abilità Sociali); migliorare la produttività attraverso la programmazione di attività giornaliere che aumentino le probabilità di ricevere rinforzi positivi e di favorire l’autostima; individuare attività piacevoli da svolgere regolarmente per sperimentare la possibilità di trarre soddisfazioni dal proprio comportamento e modificare la previsione negativa su tutto ciò che si fa. ADDESTRAMENTO ALL’ASSERTIVITà Il termine assertività deriva dall’inglese ed indica la capacità di un individuo di conoscere le proprie esigenze e di riuscire ad esprimerle nel proprio ambiente sociale. E´ naturale che ogni individuo possieda un proprio bagaglio di esperienze personali che concorrono nell’offrire tratti di personalità unici ed irripetibili. Quello che è assolutamente importante è riuscire ad affermare la propria personalità senza prevaricare le relazioni con gli altri, ma piuttosto potenziandole in maniera positiva. In altre parole, “essere assertivi” significa possedere una “buona immagine di sé”, essere sciolti, privi di inibizioni che potrebbero ostacolare la libera espressione e la critica costruttiva. Alcune persone sono estroverse nei rapporti con familiari ed amici mentre sul lavoro (o in pubblico) divengono introversi. L’assertivo è invece sempre se stesso in qualsiasi situazione, ed è per questo una persona dalla natura creativa. In genere si fa riferimento ad una analisi del comportamento nei rapporti interpersonali che si basa sull’estrapolazione di tre tipologie di comportamento: il comportamento passivo, quello aggressivo e quello assertivo. Nel caso del comportamento passivo, l’individuo agisce in maniera rinunciataria che spesso viene scambiata per indifferenza mentre in realtà è conseguenza di cause interferenti. Si tratta di una persona che non è soggetta ad apertura e falsa il rapporto con gli altri. L´aggressivo, particolarmente quello verbale, blocca ogni azione da parte di chi ascolta: ne consegue imbarazzo, spesso offesa, ansia e senso di colpa verso gli altri. L´interlocutore, bloccato a sua volta, non riesce ad intervenire. Nel comportamento assertivo (ottimale) la persona utilizza delle modalità verbali e non verbali (atteggiamento del viso e del corpo); presta attenzione alle libere informazioni dell´altro; sfrutta le occasioni offerte al dialogo, le facoltà di autoapertura. Si esprime in modo operativo e suscita interesse. Va sottolineato che una persona non può essere sempre uguale a se stessa, quindi è impossibile reagire sempre in maniera assertiva. La competenza sociale di un individuo può essere valutata sulla base dei comportamenti emessi sul totale delle sue interazioni. Chi è più allenato ad agire secondo un modello ottimale, in quanto l´allenamento non è altro che esperienza programmata, impara a valutare obiettivamente sia gli stimoli interni sia gli stimoli che provengono dall’esterno. Riuscirà ad esprimersi in modo socialmente adeguato, mantenendo “una buona immagine di sé”, anche se non raggiunge i propri obiettivi. Intervento sull’affermatività intende migliorare la capacità dell’individuo di esprimere pensieri, sentimenti e credenze in modo diretto, onesto e rispettoso dei diritti altrui. Più in particolare, concerne la capacità di “dire di no”, di fare richieste, di esprimere sentimen- 32 I Disturbi depressivi ti positivi e negativi e di iniziare, mantenere e porre termine ad una conversazione. Un comportamento non assertivo è tipicamente legato ad una carenza di abilità sociali, ma a volte è causato dall’interferenza provocata da particolari reazioni emotive o pensieri. Il training assertivo si articola nel modo seguente. Il clinico opera inizialmente un assessment approfondito riguardo alle situazioni che preoccupano il paziente, alle sue abilità sociali, alla presenza di ostacoli ambientali e personali, quali una limitata vita sociale o la presenza di relazioni problematiche, e alle risorse sociali e ambientali disponibili. In secondo luogo, il terapeuta formula un piano di intervento. Se il paziente dispone dei comportamenti appropriati ma non li mette in atto a causa dell’ansia, il punto centrale dell’intervento può consistere nell’aumento delle capacità di gestione dell’ansia. Se il paziente mette in atto dei comportamenti inappropriati al contesto é necessario che egli impari a discriminare tra le varie situazioni e a scegliere le condotte più idonee. Se infine sono presenti dei deficit di abilità, occorrerà un training finalizzato all’ insegnamento delle abilità stesse. Nella terza fase viene introdotto l’intervento vero e proprio. Lo psicoterapeuta insegna al paziente le specifiche abilità sociali tramite modellamento, istruzioni specifiche (suggerimenti) e feedback, ripetizioni comportamentali (behavioral rehearsal) e compiti da svolgere al di fuori delle sedute (homework). Modellare un comportamento efficace per situazioni specifiche richiede l’uso di uno o più dei seguenti metodi: dimostrazione “in vivo” del comportamento da parte del terapeuta, istruzioni scritte, audio e/o video-registrazioni o filmati. La ripetizione comportamentale (behavioral rehearsal) consiste nell’esercizio delle abilità nello studio del terapeuta o nel setting clinico. Nella quarta fase il clinico rinforza positivamente tutti quei comportamenti verbali e non verbali che dimostrano un miglioramento delle abilità sociali, suggerendo contemporaneamente le modifiche più opportune. I compiti a casa, concordati con il paziente, servono per esercitare queste abilità in contesti di vita reale. La durata del training assertivo dipende dal numero di abilità sociali da sviluppare e dal tipo di ostacoli ambientali e sociali presenti nella vita del paziente. Se vi sono poche abilità da sviluppare e una relativa assenza di ostacoli sono sufficienti poche sedute mentre in presenza di numerosi deficit comportamentali sono richiesti tempi più lunghi. Il training di assertività può essere condotto nel formato individuale o di gruppo. L’intervento cognitivo si pone l’obiettivo di modificare le strutture cognitive disfunzionali. La Ristrutturazione Cognitiva inizia dall’identificazione dei pensieri automatici, alla quale il paziente viene addestrato, per poi individuare e modificare le distorsioni logiche e gli schemi disadattivi sui quali si organizza il suo sistema di conoscenze. L’acquisizione della consapevolezza del legame tra pensiero, emozione e comportamento precede l’intervento sulla modificazione e sostituzione degli schemi di pensiero disfunzionali. LA RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA Un momento significativo della psicoterapia cognitivo comportamentale consiste nell’analisi e nella modifica dei fattori cognitivi che accompagnano il Disturbo (ristrutturazione cognitiva). La terapia cognitiva infatti non interviene direttamente sul controllo e l’eliminazione dei sintomi o comportamenti disadattivi, ma piuttosto ha lo scopo di 33 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica rendere la persona meno vulnerabile agli effetti di eventi che inducono stress, cercando di identificare gli schemi cognitivi di base che regolano la relazione con gli eventi di vita e quindi di modificarli. In una prima fase l’intervento si concentra sul sintomo e sulle componenti cognitive di mantenimento dello stesso. Il paziente viene istruito al riconoscimento dei “pensieri automatici”, che ad esempio nel caso dei disturbi depressivi sono solitamente inconsapevoli e ruotano intorno a tematiche di sconfitta e perdita. L’individuazione di tali pensieri risulta fondamentale poiché ad essi sono strettamente connessi i comportamenti di ritiro e rinuncia. L’individuazione dei pensieri automatici avviene attraverso l’impiego di precise tecniche, come le domande dirette (es., “Cosa pensava in quell’occasione?”, “Quale era il suo pensiero dominante in quella particolare situazione?”) o il dialogo socratico (es., “Cosa, secondo lei, potrebbe pensare una persona in quelle circostanze?”). Altre tecniche consistono nell’indagare sulle aspettative catastrofiche del paziente con domande del tipo “Quale è la cosa peggiore che potrebbe accadere se…?” oppure nel concentrarsi sui cambiamenti d’umore da considerare come indicativi dell’attivazione di pensieri automatici negativi. Un utile strumento in questa fase della terapia è la scheda di registrazione dei pensieri disfunzionali che segue lo schema ABC (A = evento attivante; B = sistema di convinzioni; C = conseguenze emotive e comportamentali), elaborato da Ellis e ripreso da Beck (Beck, 1984; Wells, 1997; Greenberger, 1995). Le schede per la registrazione dei pensieri disfunzionali devono essere compilate fra una seduta e la successiva. Questo tipo di compito aiuta il paziente ad acquisire una maggiore consapevolezza del legame esistente tra i pensieri e le emozioni che prova. La scheda utilizzata prevede la presenza di colonne per la descrizione della situazione, delle emozioni per le quali viene espressa anche una valutazione quantitativa di intensità, dei pensieri e delle conseguenze in termini comportamentali ed emotivi. Dopo che il paziente ha imparato a riconoscere i pensieri disfunzionali si procede alla strutturazione di un modo di pensare più adattivo. Le tecniche utili allo scopo mirano fondamentalmente alla confutazione dei pensieri automatici negativi per sostituirli con altri più realistici e funzionali. Fra queste la più comune è la ricerca delle prove a supporto delle convinzioni del paziente, attraverso la formulazione di interpretazioni alternative secondo la tecnica del Problem Solving. In assenza di elementi a favore del pensiero negativo, il suo grado di credibilità può essere attenuato. Qualora il paziente dovesse riportare prove a sostegno delle proprie convinzioni è necessario procedere ad una rivalutazione della qualità di tali prove, con l’obiettivo di individuare eventuali errori logici. Il fine ultimo di tale intervento è favorire la costruzione di interpretazioni alternative e l’individuazione di punti di vista differenti dal proprio. In questo caso, il metodo consiste nel porre nel corso delle sedute una serie di domande che guidino il paziente nella valutazione delle proprie credenze. Allo stesso tempo, per consolidare l’apprendimento della procedura di confutazione, vengono usate le schede del Diario dei pensieri disfunzionali nelle quali egli deve trascrivere, in apposite colonne, oltre al pensiero negativo i possibili pensieri alternativi, specificando in entrambi i casi il grado di convinzione attribuitogli (Burns, 1980; Wells, 1997). Vengono dunque identificate alcune classi di distorsioni cognitive come la personalizzazione, il pensiero dicotomico, l’attenzione selettiva, l’etichettatura, il ragionamento emotivo, l’esagerazione e l’ipergeneralizzazione che il paziente impara a riconoscere. Una volta che è stata portata a compimento l’analisi del sintomo l’intervento si sposta verso l’individuazione di schemi disfunzionali di base. L’abitudine all’individuazione dei pensieri automatici disfunzionali deve portare il paziente a comprendere il filo che li lega ed a risalire alle assunzioni implicite e agli schemi di base che costituiscono le regole che egli applica alla sua condotta e a quella degli altri. In questa fase dell’intervento la tecnica più efficace è quella della Freccia Discendente in cui il significato di un pensiero automatico viene indagato fino all’individuazione del punto finale o “bottom line” in cui 34 I Disturbi depressivi si riscontra lo schema di base (Wells, 1997). Le assunzioni disadattive così individuate vengono a loro volta sottoposte a confutazione per essere riformulate. Il paziente, dopo aver identificato gli schemi e le convinzioni di base, impara a valutare i vantaggi e gli svantaggi, ad esaminare le prove a favore e contro, ad analizzare ogni argomentazione della procedura della Freccia Discendente e produrre, infine, nuovi schemi alternativi. Klosko e Sanderson (2001) hanno proposto un trattamento cognitivo-comportamentale della Depressione in otto sedute, che offre le linee guida per la terapia: 1. fornire informazioni sulla Depressione; valutare il rischio di suicidio, pianificare attività piacevoli; strutturare un programma base giornaliero; 2. introdurre il modello cognitivo della Depressione; insegnare I’automonitoraggio dei pensieri automatici; 3. esaminare le prove, considerare spiegazioni alternative; 4. affrontare le distorsioni cognitive; introdurre tecniche comportamentali adeguate; 5. verificare le ipotesi; insegnare il problem solving; proseguire con le tecniche comportamentali; 6. identificare e valutare gli assunti sottostanti agli schemi; proseguire con tecniche comportamentali; 7. riassumere le fasi di cui si compone la terapia cognitiva, prevenire le ricadute e continuare con tecniche comportamentali; 8. programmare la generalizzazione ed il mantenimento dei risultati ottenuti. La terapia orientata secondo modelli strutturalisti-costruttivisti si propone un primo intervento teso a modificare l’atteggiamento del paziente rispetto ai propri disturbi ed a ridurre l’intensità dello scompenso emotivo. A livello più profondo, il percorso è orientato verso la ricostruzione della storia evolutiva e delle modalità di attaccamento, determinanti nello sviluppo e nel mantenimento del sistema di conoscenza di sé e della realtà. INTERVENTI COGNITIVI STRUTTURALISTI-COSTRUTTIVISTI Organizzazione cognitiva depressiva Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo-emotiva depressiva, il cosiddetto cambiamento superficiale mira all’identificazione e alla messa in discussione dei pensieri automatici negativi che sono in rapporto con l’aggravarsi dell’umore depressivo. Si affrontano, così, i concetti negativi del sé, del mondo e del futuro che caratterizzano la fase di scompenso. Nei piani di cambiamento terapeutico profondo si mira a modificare atteggiamenti di base come quello di doversi sforzare, di fronte ad un mondo in salita, senza chiedere aiuto a nessuno; o la tendenza all’isolamento e l’implicita sensazione di inferiorità che il paziente sembra dimenticare quando sta meglio ma che caratterizzano intrinsecamente la sua identità personale. 35 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Per ridurre il rischio di ricadute alcuni autori hanno sottolineato la necessità di prevedere incontri di richiamo ad intervalli mensili mentre secondo Dobson (2002), al termine di una terapia intensiva bisettimanale per il trattamento della Depressione acuta, risultano efficaci sedute di controllo meno frequenti. 1.4 Casi clinici Il caso di Franz - “Mi sto ritirando dalla vita” Diagnosi: Disturbo Depressivo Maggiore. Nell’assessment sono stati impiegati: Cognitive Behavioural Assessment (CBA) 2.0 scale primarie (Sanavio e al., 1987), Beck Depression Inventory (BDI). Dal CBA: elevate ansia di tratto e di stato, significativo il punteggio alla scala della Depressione. Nella dimensione introversione – estroversione si colloca decisamente nella direzione estroversione, è una persona socievole che ama la compagnia. Dal BDI: significativo il punteggio per la presenza di Disturbo Depressivo. Franz è un uomo di 53 anni che si presenta in terapia affermando “Credo di avere qualche problema. Gli altri mi dicono che sono depresso … Io non lo so ma a volte ho il desiderio di farla finita”. Lamenta una serie di sintomi fisici: mal di testa, disturbi gastrici e disturbi del sonno. Riferisce di non avere più energia né interesse verso le attività che normalmente svolgeva, tra le quali anche svariati hobby che lo appassionavano e lo gratificavano molto: “… mi sto ritirando dalla vita”. Anticipa il proprio futuro in termini di solitudine, miseria e malattia e teme l’avvicinarsi di una vecchiaia accompagnata da sciagure inevitabili. Idee relative alla morte si presentano con frequenza sempre maggiore. Storia del caso Franz ha il diploma di maturità ed è dirigente presso una grossa azienda commerciale. Separato da due anni, padre di tre figli, attualmente ha una storia sentimentale con una donna molto più giovane e vive da solo. All’età di venti anni perde il fratello, di due anni più giovane, a causa di un incidente. La famiglia di Franz era piuttosto agiata e disponeva di un discreto patrimonio ma questa condizione, invece di gratificarlo, gli pesava molto perché lo stile di vita era al contrario improntato alla parsimonia ed al rigido risparmio. Descrive la madre come persona dinamica ed il padre come un uomo piuttosto riservato e poco incline a manifestazioni di coinvolgimento emotivo. 36 I Disturbi depressivi Franz riferisce che il primo episodio di “crisi” risale a dieci anni fa: inaspettatamente si era trovato a dover accettare un cambiamento professionale, impostogli da un superiore, subìto con un profondo senso di impotenza. Nello stesso periodo, problemi di salute lo costringono a ripetuti ricoveri in ospedale e ad una penosa convivenza con la sofferenza fisica che si protrae per oltre sei mesi. Nel 2000 perde la madre e vive l’evento con forti sensi di colpa perché ne aveva voluto il ricovero in una casa di riposo benché lei si fosse opposta. Dopo pochi mesi la moglie lo lascia ed inizia per lui un periodo di battaglie legali che si è protratto per due anni: “… è stata una separazione violentissima”. Per un periodo vive da solo in una condizione di profonda prostrazione e con il pensiero costante di voler morire. Dopo qualche mese inizia una relazione con una donna molto più giovane con la quale sembra ritrovare un po’ di serenità: “Mi sento compreso … con lei provo una sensazione di benessere …”. Ma questa condizione, la prima positiva dopo un lungo periodo di negatività, sembra contribuire ad aggravare la sua condizione depressiva: “Ho sempre sbagliato tutto … non so se mi posso fidare … sono stanco”. Concettualizzazione e trattamento Nel Disturbo Depressivo di Franz sono presenti quasi tutti i criteri diagnostici previsti per l’Episodio Depressivo Maggiore, ad eccezione di significativi cambiamenti nel peso o nell’appetito e di agitazione o rallentamento psicomotorio osservabile. La sintomatologia è schematizzata come segue. Sintomi affettivi Tristezza Apatia Angoscia Sintomi vegetativi Disturbi del sonno Disturbi gastrici Mal di testa Sintomi psicomotori Astenia Isolamento Indecisione Sintomi cognitivi Riduzione dell’autostima Autorimprovero e colpa Pessimismo Temi di rovina Ricorrenti idee di morte e di suicidio Pertanto il trattamento è stato finalizzato a raggiungere i seguenti obiettivi. 1. Riduzione della sintomatologia depressiva. 2. Eliminazione dell’ideazione suicidaria. 37 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 3. Riduzione della sintomatologia psicofisiologica (mal di testa, disturbi gastrici e disturbi del sonno). 4. Miglioramento della produttività. 5. Incremento delle capacità di fronteggiamento delle situazioni difficili e di problem solving. Dall’approfondimento della tematica del suicidio è emerso che l’idea della morte ricorreva quando Franz si trovava in situazioni nelle quali si percepiva impotente o incapace di affrontarle positivamente. Benché ricorrente, quel pensiero non era stato finora accompagnato da alcuna pianificazione prevalentemente per la preoccupazione di arrecare dolore ai figli. Tuttavia, poiché il paziente considerava la morte come soluzione ma soprattutto come liberazione dalle sofferenze, si è stabilito di procedere come segue: - qualora il pensiero si fosse ripresentato, Franz doveva parlarne al terapeuta prima di prendere qualsiasi decisione; - qualora il terapeuta avesse ritenuto necessario un ricovero in ospedale per la salvaguardia della sua incolumità fisica, egli avrebbe dovuto accettarlo. Nel caso in cui non fosse riuscito a contattare il terapeuta, avrebbe dovuto: - - - - - telefonare ad una delle persone individuate come referenti; scrivere i pensieri associati all’idea suicida; utilizzare una tecnica di rilassamento appresa; leggere la lista sui buoni motivi per continuare a vivere, elaborata in precedenza; allontanarsi da casa e recarsi in un luogo pubblico. L’analisi dell’ideazione depressiva – la percezione di sé come inutile, della realtà come schiacciante ed il futuro senza speranza – ha aiutato Franz a concettualizzare il proprio Disturbo in termini di elaborazione cognitiva distorta e disfunzionale dei fatti e delle informazioni sui fatti. La familiarizzazione con il modello cognitivo gli ha consentito di comprendere la relazione tra pensiero, emozione e comportamento conseguente. Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva, sono stati individuati i pensieri negativi e le distorsioni logiche che caratterizzavano il suo stile cognitivo e Franz ha imparato a formulare alternative più funzionali ed adattive. Alcuni esempi di pensieri automatici con le relative distorsioni cognitive: - “O si è giovani ed attivi o vecchi e rimbecilliti” Pensiero dicotomico; - “Morirò presto, solo e malato” Catastrofizzazione; - “Mia moglie mi ha lasciato: nessuna donna starà a lungo con me” Ipergeneralizzazione. Gli schemi disadattivi sottostanti sono stati identificati nell’“essere inutile” e nell’“essere inadeguato a stabilire dei confini”, come descritto da Young (1990 cit. in Klosko e Sanderson, 2002). 38 I Disturbi depressivi SCHEMA PRECOCE DISADATTIVO RIGUARDO LO STABILIRE CONFINI ADEGUATI Consiste in una carenza nel definire e rispettare limiti e confini, nell’insufficiente senso di responsabilità verso gli altri o di orientamento circa obiettivi personali a lungo termine. Comporta difficoltà a riconoscere e salvaguardare i diritti degli altri, a cooperare, ad assumersi degli impegni o a stabilire e raggiungere obiettivi personali realistici. In genere, è tipico che la famiglia d’origine invece di insegnare l’esistenza di limiti, educare alla disciplina e favorire dei confronti adeguati con le proprie responsabilità, favorire uno stile di cooperazione reciproca e la ricerca di mete, sia caratterizzata da permissività, eccessiva indulgenza, mancanza di fini ed obiettivi o da senso di superiorità. La famiglia aveva trasmesso a Franz un senso di superiorità legato alla disponibilità economica e la convinzione che l’amore si dimostrasse con il denaro. Infatti, egli non ricorda gesti d’affetto o doni di giocattoli ma solo sacrifici e privazioni per mantenere integro il patrimonio da trasmettere a lui ed al fratello, per amore nei loro confronti. Franz ha applicato lo stesso schema nel rapporto con la moglie e con i figli: ha dato tanto, tutto quello che voleva lui ma non ha mai chiesto cosa volessero loro. Per incrementare la produttività del paziente, si è proceduto alla programmazione delle sue attività. 1. Esame del livello di attività. Negli ultimi mesi, Franz trascorre la maggior parte del tempo libero in casa da solo. Non vuole vedere nessun amico, non pratica più lo sport e trascura tutti gli interessi che precedentemente lo appassionavano. 2. Pianificazione e ripresa delle attività. 3. Pianificazione delle attività piacevoli. Franz individua alcune attività che vengono ordinate secondo una gerarchia di difficoltà crescente e gli viene chiesto, iniziando dalla meno impegnativa, di dedicarvisi quotidianamente anche solo per pochi minuti. Su una scala 0 - 10 doveva poi indicare il grado di piacere e la padronanza percepiti. Attraverso questa tecnica, il paziente ha contrastato la sensazione di inutilità e di incapacità che lo caratterizzavano ed ha verificato l’efficacia dell’attivazione nel miglioramento dell’umore. Durante gli episodi depressivi Franz trovava difficoltà nel risolvere anche piccoli problemi quotidiani che viveva come insuperabili ed irrisolvibili. Con la tecnica del Problem Solving ha imparato ad affrontare le situazioni con maggiore senso di efficacia. 39 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica PROBLEM SOLVING I problemi sono o situazioni nuove che richiedono comportamenti nuovi o situazioni per cui non si hanno soluzioni soddisfacenti. Quando non possiamo rispondere ad una domanda usando la nostra informazione contenuta nella memoria o quando non possiamo comportarci in una situazione come abbiamo fatto l’ultima volta o di solito, allora siamo di fronte ad un problema. Alcuni problemi sono difficili da risolvere perché “ci mettono”, o ci mettiamo da soli, su una pista sbagliata. Quando ciò succede si dice comunemente che vi è una impostazione negativa. Altri problemi, invece, sono difficili perché richiedono una impostazione molto poco probabile nella media dei ragionatori, per cui è necessario comporre i dati in modo insolito e creativo (vedremo più avanti). La capacità degli esseri umani di risolvere i problemi che incontrano e che si oppongono al raggiungimento dei propri scopi è una caratteristica specifica e basilare; senza di essa non saremmo sopravvissuti. La specifica abilità nella risoluzione di problemi è una caratteristica molto individuale e può variare da soggetto a soggetto. Non possiamo affermare che le persone risolvano i problemi tutte nello stesso modo né che tutti i problemi siano della stessa natura. Tuttavia, possiamo indicare una traccia generale che è una direzione logica della nostra mente, una sequenza naturale, una esigenza specificamente determinata del funzionamento mentale. Naturalmente, non tutti gli individui hanno lo stesso grado di abilità nello sviluppo della funzione di analisi, organizzazione e risoluzione di problemi. Il problem solving è definito come “un processo comportamentale sia di natura overt che covert (cognitiva) che rende disponibile una varietà di potenziali risposte alternative per affrontare le situazioni problematiche ed incrementare le probabilità di scegliere la risposta più efficace tra le diverse alternative”. Il problem solving ha il duplice scopo di portare il soggetto da un tipo di intelligenza teorico – astratta ad una pratico – concreta. La tecnica prevede le seguenti fasi: 1. 2. 3. 4. 5. fase introduttiva: ha lo scopo di evidenziare l’importanza del riconoscimento e dell’osservazione delle situazioni problematiche dove le risposte del paziente risultano automatiche ed affrettate; definizione del problema: consente di imparare a discriminare il problema in modo specifico, analizzando anche gli eventi interni (pensieri e sensazioni); formulazione delle alternative: ha lo scopo di produrre tutte le soluzioni possibili, distinguendo tra strategie (campo d’azione generale) e tattiche (rendere i piani operativi); fase decisionale (decision making): in questa fase si analizzano e si valutano le alternative prodotte in precedenza, considerando anche i vantaggi e gli svantaggi (conseguenze sociali e personali); fasi di verifica: assegnazione di compiti per verificare le soluzioni prodotte nella fase precedente e se necessario prevede un’applicazione “in vivo” per valutare l’efficacia dei nuovi comportamenti ed acquisizioni. Per la gestione della sintomatologia psicofisiologica, è stata impiegata la tecnica di Rilassamento Muscolare Progressivo nella forma ridotta di Wolpe. 40 I Disturbi depressivi RILASSAMENTO MUSCOLARE PROGRESSIVO Ideato da E. Jacobson (1952), è un metodo di rilassamento basato sull’apprendimento della decontrazione muscolare volontaria. È incentrato sulla presa di coscienza da parte della persona dello stato di contrazione o di distensione di ciascun gruppo muscolare, passando man mano in rassegna tutto il corpo, concentrandosi su un solo muscolo per seduta, fino a raggiungere la decontrazione totale. Il metodo è molto semplice ed efficace e, agendo sui muscoli ossia partendo dall’effetto sul corpo delle emozioni, mira a riportare la mente in uno stato di calma. Si pone l’obiettivo di riprendere contatto con il corpo e approfondirne la conoscenza. Questo si ottiene in maniera analitica agendo sui vari segmenti e regioni muscolari con alternanza di tensione e rilassamento. Tendere al massimo un muscolo e immediatamente rilassarlo rende coscienti delle tensioni di cui normalmente non si è coscienti. Secondo E. Jacobson la presenza di tensione delle varie regioni del corpo è collegata a diversi stati d’animo: - - - - la testa al timore di non controllare le situazioni e incapacità di prendere decisioni; il petto alla paura di esprimere emozioni affettive, amore; il bacino al timore di esprimere la propria sessualità; gli arti inferiori alla paura della staticità, dell’attesa, del silenzio. Gli esercizi vengono eseguiti dopo aver effettuato alcune profonde respirazioni e possono essere svolti in due diverse posizioni: a) Posizione seduta: indicata per chi avverte la necessità di un pronto impiego del metodo in particolari ambienti e situazioni: - - - - - - - - premere a terra col piede sinistro per 3-4 secondi; rilasciare i muscoli e cercare di percepire la differenza tra tensione iniziale e rilassamento conseguente; ripetere per 2-3 volte; fare la stessa cosa col piede destro; Poi passare alle braccia, poggiate sui braccioli della poltrona, su un tavolo o sulle cosce: premere con la mano sinistra verso il basso sempre per 3-4 secondi; rilasciarla e cercare di percepire, ancora una volta, la differenza tra tensione e rilassamento; ripetere per 2-3 volte; proseguire nello stesso modo con la mano destra. La durata totale di una seduta si aggira intorno ai 4-5 minuti. b) Posizione supina: comprende 8 diverse fasi di passaggio, ciascuna relativa a varie regioni del corpo. Il tempo di durata della tensione muscolare in ogni fase è di circa 3-4 atti respiratori, mentre il rilasciamento dura un solo atto respiratorio. Ogni singola fase va ripetuta 2-3 volte: - - estendere le punte dei piedi in avanti con forza; sollevare le gambe tese di circa 10-15 cm. (chi soffre di dolori lombari può eseguire con una gamba per volta); 41 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica - - - - - - mantenendo poggiati solo i gomiti, i piedi e le spalle sollevare il bacino di qualche cm.; mantenendo poggiati, oltre al bacino e agli arti inferiori, la nuca e i gomiti sollevare il petto; flettere il capo fino a fare pressione sullo sterno col mento; stringere i pugni con forza; serrare la mascella e portare le guance indietro; corrugare la fronte portando le sopracciglia verso l’alto. La durata di una seduta si aggira intorno ai 5-6 minuti. Il generale, l’apprendimento della tecnica di Jacobson è piuttosto complesso e di lunga durata, potendo durare anche un anno o più. Per questa ragione nella psicoterapia viene spesso utilizzata la versione abbreviata, elaborata da Wolpe. La tecnica si articola in sette sedute, nel corso delle quali il paziente apprende a rilassare la muscolatura di tutto il corpo, partendo dalla testa fino ad arrivare alle gambe. Contemporaneamente, gli esercizi effettuati in seduta vengono ripetuti a casa, in modo tale da favorire l’apprendimento ed al termine delle sette sedute di training il paziente dovrebbe essere in grado di indurre attivamente uno stato di rilassamento generalizzato. La terapia si è conclusa dopo nove mesi ed il paziente ha presentato un miglioramento clinicamente significativo della sintomatologia depressiva e l’eliminazione dell’ideazione suicidaria. Il sonno si è regolarizzato ed i sintomi fisici lamentati in precedenza si sono sensibilmente ridotti. Il caso di Isidora - “Non riesco a trovare più interesse per niente” Diagnosi: Disturbo Depressivo Maggiore. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Beck Depression Inventory (BDI), Rathus Assertiveness Schedule (RAS). Dal CBA: ansia di tratto elevata, significativo il punteggio alla scala della Depressione. Dal BDI: significativo il punteggio per la presenza di Disturbo Depressivo. Dal RAS: rilevata notevole anassertività. Isidora è una giovane di 21 anni che si trova in un momento di particolare difficoltà esistenziale. Dopo due anni di fidanzamento è stata lasciata dal ragazzo ed ha perso la nonna da pochi mesi. Questi eventi sono stati preceduti da altre due traumatiche perdite, quella di una zia alla quale era profondamente legata e quella di un carissimo amico, entrambi morti alcuni mesi prima. Ha frequenti crisi di pianto, difficoltà ad iniziare ed a mantenere il sonno, tachicardia ed episodi di dispnea con senso di soffocamento. A causa della sua inappetenza si sente debole. Non prova più interesse per l’attività sportiva che in passato l’appassionava. Si sente triste ed abbattuta per la maggior parte della giornata, è sempre stanca e senza 42 I Disturbi depressivi forze. È anche preoccupata di perdere il lavoro, è contabile presso un’azienda privata, a causa dei frequenti errori e distrazioni che si trova a compiere sempre più spesso. “Non riesco a trovare più interesse per niente … mi sento vuota … non riesco a prendere più una decisione, un’iniziativa … sto sempre male… sono sola”. Storia del caso Isidora ha un diploma di ragioniera e lavora come impiegata presso una ditta di computer. Vive con i genitori, madre commerciante e padre operaio, e con una sorella più giovane. Descrive l’ambiente familiare come poco affettuoso, con frequenti contrasti e litigi tra i genitori. Non ha mai avuto molto dialogo con loro ma ritiene comunque di aver ricevuto una discreta educazione. Il padre è definito ipercritico, autoritario, scontroso e piuttosto freddo dal punto di vista affettivo. La sua tendenza ad imporsi sulle figlie e sulla moglie lo portava a volte ad essere manesco con entrambe. La madre è descritta come fragile e sottomessa al marito. Dopo la nascita della seconda figlia ha sofferto di depressione. Isidora ritiene la sorella più fortunata perché avrebbe avuto più libertà ed è più determinata di lei. Riconosce di essere stata una bambina sensibile, tranquilla, ubbidiente e sempre disponibile. Ha sempre aiutato la mamma nella gestione della casa e nell’accudimento della sorella, spesso sacrificando anche parte del proprio tempo e facendo rinunce personali. All’età di quindici anni ha iniziato un rapporto con un ragazzo di venticinque che frequentava solo nei fine settimana per motivi di distanza. Il legame è durato due anni, contrastato dai genitori a causa della differenza di età, durante i quali Isidora si è sentita “fortunata, importante e grande”. Poi lei lo lascia mantenendo però un rapporto di amicizia. Dopo un anno avvia una nuova relazione con un giovane poco più che coetaneo, titolare di un’attività commerciale presso la quale lei si reca a lavorare. Quando il fidanzato la lascia, Isidora si trova costretta ad abbandonare il lavoro su sollecitazione dei genitori di lui. Reagisce con un atteggiamento di profondo sconforto e si isola socialmente. Concettualizzazione e trattamento Il Disturbo Depressivo si presenta in associazione con un problema d’ansia in soggetto decisamente anassertivo. Pertanto, il progetto di trattamento è stato orientato ai seguenti obiettivi. 1. Modificazione delle distorsioni cognitive, con particolare attenzione alle aspettative sul futuro e sui rapporti con gli altri, attraverso un intervento di Ristrutturazione Cognitiva. 2. Riduzione delle risposte psicofisiologiche connesse all’ansia, mediante apprendimento del Rilassamento Muscolare (Wolpe, forma abbreviata). 3. Miglioramento della qualità del sonno, con l’acquisizione di informazioni di Igiene del Sonno e modificazioni nelle abitudini personali scorrette connesse al problema. 43 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica NORME IGIENICHE E DIETETICHE PER L’INSONNIA Regole di comportamento da applicare nei casi insonnia o quando si voglia ristabilizzare il ciclo sonno – veglia. 1. Coricarsi ad ore regolari la sera ed alzarsi sempre alla stessa ora la mattina, anche nei periodi di vacanza. 2. Non recuperare il sonno perso con sonnellini pomeridiani. 3. Svolgere attività fisica durante il giorno, evitando esercizi fisici faticosi ed attività mentali troppo impegnative nelle ore precedenti il sonno. 4. Dormire in un ambiente silenzioso, poco illuminato e fresco. 5. Evitare di addormentarsi davanti al televisore o in poltrona. 6. Non assumere la sera caffè o sostanze contenenti caffeina, non fumare prima di coricarsi ed assumere alcol in quantità moderate perché può causare frammentazione del sonno. 7. Favorire dei comportamenti abitudinari prima di andare a letto (un bagno caldo, una tisana o latte caldo) allo scopo di creare condizionamenti positivi. 8. Usare il letto solo per dormire, evitando di utilizzarlo per mangiare, guardare la televisione, telefonare o leggere. 9. Evitare l’assunzione eccessiva di liquidi la sera, per ridurre la necessità di alzarsi di notte per andare in bagno. 10. Andare a letto solo se si ha sonno. 11. Se non si riesce a prendere sonno, alzarsi e cercare di rilassarsi in altro modo. (Sanavio, 1991) Hauri e Linde (1992) comprendono questo intervento informativo/educativo nell’ambito delle strategie cognitive in quanto contribuirebbe ad aumentare il senso di autoefficacia nel controllo sul sonno. 4. Acquisizione di uno stile relazionale affermativo, attraverso un Training all’Assertività. Isidora ha iniziato a compilare un Diario nel quale riportava di trascorrere la maggior parte del tempo in casa, a piangere e ad autocommiserarsi, o al lavoro, con ansia e preoccupazioni. Attribuiva le proprie difficoltà ad incapacità e scarsa intelligenza. Dall’analisi dei pensieri emergevano distorsioni cognitive di Personalizzazione (colpa), Svalutazione del Positivo (non riconosceva i propri meriti), Inferenza Arbitraria (di fronte ad una distrazione o un errore sul lavoro o in casa, si valutava incompetente ed incapace di ottenere risultati positivi). Situazione Pensiero automatico Distorsione cognitiva mamma si lamenta per la stanchezza non l’aiuto abbastanza nei lavori di casa personalizzazione colpa ho sbagliato alcuni conteggi al lavoro sono incapace, se ne accorgeranno e perderò il posto inferenza arbitraria depressione ansia 44 Emozione I Disturbi depressivi Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva Isidora è riuscita a sostituire i pensieri disfunzionali, che ha imparato a riconoscere ed analizzare, con un’ideazione che le ha consentito di auto-regolare i propri stati emotivi. Dopo aver appreso la tecnica del Rilassamento Muscolare e praticato le norme di Igiene del Sonno, ha migliorato la qualità del suo riposo ed ha ridotto l’attivazione fisiologica. Durante l’Addestramento all’Affermatività, Isidora ha riconosciuto che i suoi comportamenti erano per lo più motivati dalla necessità di compiacere gli altri ed evitare conflitti interpersonali, piuttosto che soddisfare se stessa e le proprie esigenze. Ha rilevato che il suo stile anassertivo era responsabile di stati d’animo negativi come ansia, solitudine e rabbia inespressa verso gli altri, oltre ad alimentare la propria insicurezza. La sua vulnerabilità alle critiche è stata decisamente ridimensionata attraverso l’addestramento alla gestione delle critiche manipolative, anche mediante tecniche verbali di difesa. L’orientamento verso uno stile relazionale affermativo le ha consentito di migliorare la comunicazione con il padre, nei confronti del quale sperimentava le difficoltà maggiori, ed ha avuto ripercussioni positive anche nel rapporto con la madre e con gli amici che ha gradualmente iniziato a rifrequentare. Inoltre Isidora ha ripreso a praticare con soddisfazione l’attività sportiva e a dedicarsi ad alcuni dei suoi passatempi preferiti. Al termine del trattamento, durato un anno, sono stati raggiunti significativi risultati nel miglioramento del tono dell’umore, nel controllo della risposta emozionale e nell’adattamento sociale. Nei confronti dell’ex fidanzato si sentiva più serena e consapevole delle condizioni che avevano portato alla fine del rapporto. Il caso di Minerva - “Cosa poteva sperare di più una come me?” Diagnosi: Disturbo Distimico. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Beck Depression Inventory (BDI), Rathus Assertiveness Schedule (RAS). Dal CBA: ansia di stato elevata, significativo il punteggio indicatore di instabilità emotiva. Nella dimensione introversione - estroversione si colloca decisamente nella direzione introversione e può essere descritta come una persona tranquilla, schiva e riservata nel rapporto con gli altri. Dal BDI: significativo il punteggio per ipotizzare un quadro disforico. Dal RAS: rilevata difficoltà a far valere i propri diritti e stile relazionale improntato all’anassertività di tipo passivo. Minerva è una donna di 40 anni che da circa tre anni vive in una condizione di profonda tristezza ed apatia. Sostiene di non avere progetti per il futuro e di essersi progressivamente disinteressata ai rapporti sociali. Attribuisce la causa del suo stato al fallimento del matrimonio e prova forti sensi di colpa nei confronti dell’ex marito tossicodipendente, per non essere 45 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica riuscita ad allontanarlo dalla droga. Si sente colpevole anche nei confronti delle due figlie, in quanto si ritiene responsabile di averle fatte vivere con genitori separati. La storia di Minerva è una storia difficile fin dall’infanzia ed è stata caratterizzata da una ridotta stima e scarsa accettazione di se stessa: “cosa poteva sperare di più una come me?”. Attualmente segue un trattamento farmacologico a base di antidepressivi e, al bisogno, fa uso di ansiolitici. Storia del caso Proviene da una famiglia numerosa ma lei è stata concepita al di fuori del matrimonio, a seguito di una relazione extraconiugale della madre. Ha saputo di essere illegittima dalle confidenze di una conoscente all’età di dieci anni e non ha mai conosciuto il padre. Ha trascorso due anni in collegio durante le scuole elementari ed al secondo anno delle superiori ha abbandonato gli studi. Ha svolto lavori saltuari fino a ventidue anni quando ha iniziato a lavorare stabilmente con soddisfazione presso una struttura di assistenza. A venti anni conosce il futuro marito, persona che le appare tranquilla e profonda d’animo. Durante il periodo del fidanzamento Minerva scopre che il ragazzo fa uso di droghe leggere e, nella speranza di un suo cambiamento, dopo cinque anni lo sposa. “Scopre” un marito apatico, disinteressato nei confronti della famiglia, molto propenso a ricevere e poco a dare. Dopo tre anni di matrimonio nasce la prima figlia e quello successivo la donna affronta una nuova gravidanza, non voluta. Passano alcuni anni e Minerva si accorge che il marito fa uso di eroina: il loro rapporto precipita fino alla separazione. Durante il periodo di crisi matrimoniale lei conosce un uomo, a sua volta padre separato, e dopo la fine del rapporto con il marito inizia una convivenza con lui. Il nuovo compagno è alcolista, non ha un’occupazione stabile e non è in grado di contribuire alla gestione familiare sotto nessun profilo. Dopo un anno, Minerva è incinta e, su insistenza del partner, acconsente ad abortire contro la sua volontà. A seguito di questo episodio il rapporto si interrompe. Il fallimento anche di questa seconda storia viene vissuto dalla donna come ulteriore prova di incapacità e si rafforza il lei la convinzione della propria responsabilità nel non essere riuscita a dare un padre alle sue figlie. Concettualizazione e trattamento Minerva presenta una compromissione dell’affettività, dove tristezza e malinconia sembrano prevalere nettamente rispetto ad altri stati d’animo. Ha contenuti di pensiero improntati al senso di colpa ed all’auto-accusa e convinzioni di inettitudine. Lo stile relazionale è anassertivo passivo. In questo quadro diagnostico si individuano i seguenti obiettivi di trattamento. 1. Riduzione dei vissuti disforici, attraverso un incremento delle attività “piacevoli” per lei. 46 I Disturbi depressivi 2. Gestione adeguata dei problemi pratici, sia familiari sia economici, mediante attività di Problem Solving. 3. Acquisizione di uno stile affermativo per migliorare la qualità delle relazioni interpersonali, in particolare in campo sentimentale, mediante un Training all’Assertività. 4. Analisi dei sensi di colpa. 5. Ristrutturazione di convinzioni irrazionali. Minerva ha manifestato interesse per la natura e le passeggiate all’aria aperta, per la lettura e per l’attività ginnica. Parallelamente ha però indicato diversi ostacoli alla pratica delle attività piacevoli individuate, primo tra tutti il senso del dovere che le ha fatto anteporre gli obblighi allo svago. Si è concordato un programma comportamentale che prevedeva il tempo da dedicare a queste attività, non meno di trenta minuti al giorno, ed alcune condizioni “vincolanti” per la loro realizzazione, di tipo economico come l’iscrizione in palestra e di tipo relazionale come il coinvolgimento di un’amica. Minerva riesce a rispettare questo programma tre/quattro volte alla settimana. Per l’Addestramento Affermativo vengono preliminarmente esaminati i suoi rapporti con i partner e con i familiari. Attraverso il Role Playing, si rileva che Minerva possiede abilità comunicative adeguate ma ha difficoltà a riconoscere alcuni diritti. In particolare il diritto di “commettere errori ed esserne responsabile” e quello di “non essere perfetta”. Minerva associa i propri errori al senso di colpa mentre è indulgente nei confronti delle mancanze, anche gravi, degli altri. In merito ai sensi di colpa, è riuscita a riconoscere la natura fallace delle sue colpe “malsane” ed il loro effetto negativo sulla propria valutazione di sé e sulla possibilità di attuare dei cambiamenti e migliorare. Oltre al sollievo emotivo, Minerva ha sperimentato una maggiore motivazione ad agire per cambiare ed una più positiva considerazione di sé. Attraverso la tecnica del Problem Solving, apprende a riconoscere la natura situazionale dei problemi ed emotivamente non si sente più “schiacciata” dagli eventi critici. Dall’analisi dei pensieri, sono emerse delle convinzioni associate con le emozioni di tristezza e colpa che sono state modificate con l’intervento di Ristrutturazione Cognitiva. Poiché la donna ha mostrato particolare resistenza all’ipotesi di rinviare alcune incombenze familiari e lavorative per soddisfare esigenze di svago, le è stato proposto di considerarle come una necessità, quasi un dovere verso se stessa che, essendo più serena, avrebbe potuto svolgere ancor più adeguatamente i propri compiti. “Chi non fa prima il proprio dovere non può permettersi il piacere” viene trasformato da Minerva in “dedicare del tempo a noi stessi ci aiuta ad essere più efficienti perché siamo più sereni”. In questo caso l’obiettivo non era intervenire sul senso del dovere bensì motivarla verso una maggiore attenzione e cura per se stessa. Ha sostituito il pensiero “sono una mamma cattiva perché non ho saputo dare un padre alla mie figlie” con la consapevolezza che lei svolge al meglio il proprio ruolo di madre e che non ha alcuna responsabilità in merito alla condotta dei partner. Questa nuova convinzione permette di contrastare un’altra idea distorta. Dopo aver analizzato il comportamento del marito, Minerva è consapevole che è stato lui a 47 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica rifiutare sistematicamente qualsiasi possibilità di ricorrere all’aiuto di esperti, come lei molto spesso gli proponeva, e non lei stessa incapace di risolvere un problema per il quale non aveva e non può avere nessuna competenza. Ha sostituito la convinzione “se mi fossi impegnata di più avrei aiutato mio marito” con “molte cose non sono in nostro potere, ho comunque fatto del mio meglio”. Infine è stato affrontato il pensiero “per valere devo essere utile agli altri”. In quest’idea è presente anche la Doverizzazione che viene modificata in “essere utile agli altri mi rende felice ma il mio valore personale rimane immutato anche nelle situazioni in cui non lo faccio”. Al termine del trattamento, protrattosi per diciotto mesi, il tono dell’umore è decisamente migliorato e Minerva manifesta una maggiore intraprendenza verso le attività piacevoli e di svago. Di fronte ai problemi che si presentano nella situazione familiare e lavorativa, mostra una nuova capacità di fronteggiamento e di gestione. Il caso di Vale - “Cosa c’è che non va in me? O è il mondo che non funziona?” Diagnosi: Disturbo Distimico. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Beck Depression Inventory (BDI), Questionario sui Pensieri Automatici di Kendall e Hollon. Dal CBA: ansia di stato elevata, significativo il punteggio alla scala della Depressione. Dal BDI: significativo il punteggio per ipotizzare un quadro disforico. Dal Questionario sui Pensieri Automatici: - - - - - - - “Perché io non posso mai avere successo?” “La mia vita non sta andando avanti come voglio io” “Sono molto delusa di me stessa” “Che cosa è sbagliato in me?” “Che cosa c’è che non va in me?” “Qualcosa deve cambiare” “Ci deve essere qualcosa di sbagliato in me” Si evidenzia un’ideazione caratterizzata da autosvalutazione e disistima, mentre non risultano presenti pensieri catastrofici e valutazione fallimentare di sé. Vale ha 23 anni. Riferisce di sentirsi spesso triste e demotivata e lamenta solitudine affettiva e confusione nelle scelte. Si descrive nel complesso “in buona salute” ad eccezione del sonno e dell’appetito che non sono regolari ma presentano notevole variabilità. Ha facilità al pianto di fronte a minime frustrazioni e ciò contribuisce ad accrescere il suo stato disforico. Ritiene di essere “perseguitata dal destino” al quale attribuisce, insieme alla sfortuna, la causa delle proprie difficoltà esistenziali. “Forse non sono portata per lo studio … esco con qualcuno, ma con chi? Sono sola … sono stanca, sono triste, sono stufa … perché le cose non funzionano?”. 48 I Disturbi depressivi Storia del caso Vale è studentessa universitaria con un rendimento nello studio discontinuo, soggetto ad oscillazioni. Vive con i genitori, commercianti, e con una sorella di venticinque anni. Descrive il rapporto con i genitori: “loro sono una coppia felice, anche se mamma è un po’ succube di papà. Io ho un rapporto molto stretto con lei. Mi ha sempre preferito rispetto a mia sorella. È brava, dolce, ha sempre cercato di mettersi dalla mia parte. Però è lunatica: un giorno è particolarmente nervosa, un giorno è molto tranquilla. Parla poco. Mio padre mi vuole bene ma è un problema di carattere ... non riesce ad essere emotivo, coinvolgente con me. Non mi ha mai abbracciato o coccolato. È molto razionale. È buono ma quando gli prende l’attacco d’ira diventa furente, allucinante, può anche arrivare a rompere qualcosa. Il problema è il rapporto affettivo con mio padre che mi ha sempre considerato una sua rivale. Non riesco a parlare con lui. Io cerco di evitare le discussioni ma quando lui decide di avere ragione, impone il suo modo di pensare.” Ha vissuto un’infanzia serena e da bambina giocava spesso da sola e fantasticava molto, creandosi amici immaginari. Fino all’età di diciassette anni ha avuto un’amica che definisce “molto più forte di me e che mi influenzava molto. Penso di essere stata anche sfruttata da lei”. Con questa affermazione si riferisce al fatto che l’amica prendeva quasi sempre decisioni alle quali lei sottostava, anche per incapacità di opporsi e proporre ciò che le sarebbe piaciuto fare. Dopo la maturità vive una relazione platonica con un coetaneo che abita in un’altra città e che sente solo telefonicamente: ne è innamorata e fantastica molto su di lui. Tuttavia, poiché riteneva “logorante” questa situazione di distanza, lei interrompe la relazione. Ha avuto il primo rapporto affettivo e sessuale a venti anni con un ragazzo che piaceva ai genitori. Il rapporto non andava bene perché lui la accusava di avere problemi e di essere frigida. Dopo pochi mesi lui la lascia. La delusione e la rabbia conseguenti furono tali che cominciò a frequentare più ragazzi contemporaneamente: insoddisfazione e delusione aumentavano. Iniziò un’altra storia con entusiasmo, ma anche in questo caso non sapeva, era confusa ... lo lascia: “sono rimasta sola”. A questa solitudine sentimentale continua ad affiancarsi la difficoltà comunicativa con il padre. Non riesce più a studiare, perde la concentrazione, si affatica con estrema facilità. Si sente spesso molto triste e piange in solitudine. Inizia a non riposare bene la notte ma spesso ha voglia di dormire di giorno. Manifesta una serie di incertezze decisionali che avverte come sempre più “schiaccianti”. Attualmente Vale ha una vita di relazione limitata e non ha legami sentimentali. Concettualizzazione e trattamento La strategia terapeutica è stata orientata al conseguimento dei seguenti obiettivi. 1. 2. 3. 4. Identificazione delle cognizioni negative relative al problema. Acquisizione di strategie di coping per la gestione dei problemi quotidiani. Facilitare la distensione psicofisica per favorire anche il riposo notturno. Migliorare le capacità relazionali e comunicative. 49 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Attraverso l’intervento di Ristrutturazione Cognitiva, Vale ha rilevato che lo schema disfunzionale prevalente era quello relativo al valore di sé espresso nei termini: “io valgo se sono accettata, quindi devo ottenere l’approvazione degli altri”. La visione di sé e del mondo esterno è risultata più negativa rispetto a quella relativa al futuro che non era connotata in maniera altrettanto pessimistica. La paziente ha compreso come l’attivazione dei modelli cognitivi disfunzionali la portasse a sperimentare una sorta di inermità accompagnata da emozioni negative (solitudine, tristezza, sconforto ...) e da inibizione del comportamento (confusione, incapacità ad operare scelte ...). L’addestramento al Problem Solving le ha consentito di acquisire abilità di fronteggiamento delle situazioni problematiche, dopo aver appreso ad identificare i problemi e le condizioni vissute in termini di stress negativo. Per facilitare la distensione psicofisica è stata impiegata la tecnica di Rilassamento Muscolare Progressivo nella forma ridotta di Wolpe. Attraverso il Training delle Abilità Sociali, sono state incrementate le capacità relazionali nelle quali la paziente risultava maggiormente carente con riferimento in particolare all’analisi della comunicazione, alla gestione dello stress ed all’opposizione/accettazione del rifiuto. La terapia è durata dieci mesi, al termine dei quali Vale ha ripreso gli studi con continuità, inizialmente con fatica, ma con soddisfazione. Ha avviato un dialogo con il padre e, di fronte ai suoi atteggiamenti di intransigenza e di chiusura, è riuscita ad esprimere le proprie emozioni. Ha imparato a non rapportare la “diversità” del padre, così come quella delle altre persone, a se stessa in termini di valore/accettazione/rifiuto ma a riconoscerla come altro da sé: “se lui è fatto così io gli dico quello che penso. Certo mi piacerebbe che fosse più affettuoso ma mi ha detto che mi vuole bene ...”. Nei rapporti sociali si definisce più soddisfatta perché “mi sembra di capire di più anche gli altri”. 50 PARTE SECONDA I DISTURBI DI ANSIA “Mi rendevo conto che tutte le cose di cui avevo paura, e che mi spaventavano, non erano buone o cattive di per sé, ma lo divenivano quando eran percepite dalla mente” Spinoza “I nostri dubbi sono traditori e, spesso, con la paura di provare, ci fanno perdere quanto di buono potremmo ottenere” W. Shakespeare “Mio Dio…sono libero. Liberatemi dalla libertà” P. Claudel CAPITOLO 2 DISTURBI Di ansia 2.1 Introduzione L’ansia è un’emozione caratteristica dell’essere umano. Il termine ansia deriva dal sostantivo latino anxia, condizione di agitazione e di preoccupazione, da angere che significa stringere, soffocare. È definita come uno “stato di tensione emotiva” caratterizzato da sintomi quali tensione muscolare, sudorazione ed aumento della frequenza cardiaca. Nel corso dei secoli le emozioni sono state considerate secondo orientamenti diversi. Nel XVIII secolo venivano indicate come condizione di disturbo della condotta improntata alla razionalità. Ma con Darwin assunsero un ruolo adattivo determinante per la sopravvivenza della specie. Le teorie comportamentiste ne fecero oggetto di osservazione in numerosi studi e la neurofisiologia si è interessata della loro relazione con il sistema nervoso. Oggi l’ansia viene considerata condizione, presente in ogni essere umano, che si manifesta lungo un continuum i cui estremi sono indicati in “normale” cioè adattiva e “patologica”, disadattiva. Si differenzia: dalla paura, in quanto relativa ad un pericolo reale e specifico; dalla fobia, paura esagerata e spesso invalidante; dal panico, esperienza di paura improvvisa o stato di terrore con vissuto di perdita di controllo o di morte imminente. L’ansia rappresenta un complesso schema multidimensionale che si manifesta attraverso tre sistemi o canali di risposta: - sistema fisiologico, con sintomatologia fisica come sudorazione, tachicardia…; - sistema comportamentale, osservabile oggettivamente; - sistema cognitivo, con pensieri di pericolo, preoccupazioni, aspettative negative… Questi canali non sono necessariamente correlati tra loro e tale fenomeno è noto come asincronia o risposta frazionata (Sanavio, 1991). Spielberg (1989) fa riferimento alla polarizzazione su due estremi: lo stato, condizione situazionale verosimilmente conseguente a determinate circostanze, ed il tratto, condizione stabile nel tempo che caratterizza la tendenza alla risposta d’ansia in più situazioni di vita. 53 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 2.2 Modelli comportamentali e cognitivi I modelli eziologici basati sul condizionamento si fondano sul presupposto che il soggetto fobico sia stato esposto ad uno stimolo paurogeno ed abbia imparato a temere e poi ad evitare determinate situazioni. A questo modello fa riferimento il programma terapeutico dell’esposizione allo stimolo fobico. Il tale contesto si colloca la teoria bifattoriale di Mowrer (1950), secondo il quale la paura si acquisisce mediante un condizionamento classico (primo fattore), quando un evento ansiogeno accidentale si manifesta in un contesto considerato fino a quel momento non pericoloso. Poiché lo stesso stimolo provocherà in seguito una risposta condizionata di paura, il soggetto tenderà ad evitare le situazioni temute (secondo fattore). Secondo l’orientamento cognitivo, i Disturbi d’Ansia sono riconducibili ad una distorsione nell’interpretazione personale degli eventi. I comportamenti disfunzionali, conseguenti a tale interpretazione, mantengono il Disturbo. Ellis (1989, 1993) attribuisce un ruolo determinante al sistema di convinzioni nelle manifestazioni emotive e comportamentali del soggetto di fronte ad uno stimolo. In particolare, all’origine dei disturbi emozionali identifica le convinzioni, idee irrazionali, di doverizzazione, catastrofizzazione, intollerabilità, indispensabilità o bisogni assoluti e giudizi globali su di sé. Nei Disturbi d’Ansia rileva: autosvalutazione di sé (“non valgo”), indispensabilità e bisogni assoluti (“non posso fare a meno di…”), catastrofizzazione (“è terribile che…”), immutabilità della condizione negativa (“non c’è niente da fare per…”). CATEGORIE PRINCIPALI DI PENSIERI IRRAZIONALI Doverizzazioni o uso assolutistico del verbo dovere Consistono nel ritenere che “le cose devono assolutamente andare così”, che “gli altri devono assolutamente comportarsi in un certo modo”, che “io devo assolutamente avere quello che voglio”. L’errore sta appunto nel considerare un’esigenza assoluta ciò che nella maggior parte dei casi sarebbe solo obiettivamente preferibile. Espressioni di insopportabilità, intolleranza Consistono in pensieri del tipo “non lo sopporto”, “non tollero che …”, “è insopportabile”. Sono forme di esagerazione attraverso le quali l’aspetto sgradevole di un evento o di una persona viene ingigantito, determinando un atteggiamento di rabbia o di evitamento. Valutazioni globali su se stessi e sugli altri In questo caso l’irrazionalità consiste nel giudicare una persona nella sua globalità partendo da uno solo o da pochi comportamenti osservati. Inoltre, il comportamento di una persona viene spesso erroneamente equiparato alla persona stessa (“hai fatto una cosa stupida, quindi sei uno stupido”). Questo errore nel modo di pensare porta a far uso di etichette che esprimono valutazioni globali tipo “incapace”, “stupido”, “carogna”. Tali attributi possono essere pensati riguardo agli altri oppure possono essere rivolti a se stessi. Quando sono riferiti agli altri questi pensieri fanno nascere nei loro confronti un atteggiamento di ostilità o di rifiuto; se riferiti a se stessi determinano disistima e sconforto. 54 I Disturbi d’ansia Pensieri catastrofizzanti Consistono nel considerare il verificarsi di certe cose come un evento “terribile”, “orrendo” quando obiettivamente sarebbe solo spiacevole o fastidioso. Spesso si tratta di pensieri che anticipano in modo esageratamente negativo eventi futuri, provocando quindi reazioni di intensa ansia. Indispensabilità, bisogni assoluti Consistono in affermazioni che trasformano in bisogno assoluto ciò che obiettivamente sarebbe solo preferibile. Prendono spesso forma di pensieri del tipo “non posso rinunciare a …”, “ho assolutamente bisogno di …”, “non posso fare a meno di …”. Le conseguenze emotive di questo modo di pensare possono essere ansia, depressione, ostilità. (da Di Pietro, 1992) Secondo Beck (1967, 1984), all’origine dei Disturbi d’Ansia ci sono distorsioni logiche nell’interpretazione degli eventi che si esprimono attraverso pensieri automatici, a loro volta derivati da convinzioni che l’individuo ha nei confronti di se stesso e della realtà. Le convinzioni e le assunzioni di base sono rappresentazioni relativamente stabili della conoscenza, organizzate in schemi, che influenzano il processo di elaborazione delle informazioni, modellano l’interpretazione dell’esperienza e condizionano il comportamento. Nel Disturbo d’Ansia l’elaborazione delle informazioni è guidata dall’ipervalutazione del concetto di pericolo e di minaccia e dalla sottovalutazione delle capacità personali di fronteggiamento (Beck, Emery e Greenberg, 1985). In questo modo vengono attivati gli schemi di pericolo che rinforzano le manifestazioni d’ansia e le risposte comportamentali conseguenti ed a loro volta contribuiscono a mantenere le convinzioni erronee nelle valutazioni di pericolo e nelle assunzioni (Salkovskis, 1991; Wells, 1999). La teoria dell’apprendimento sociale di Bandura si basa sul principio del determinismo reciproco, secondo il quale i comportamenti, i processi cognitivi ed i fattori ambientali si influenzano reciprocamente. L’Autore (1977, 1996) concettualizza i Disturbi d’Ansia con la teoria dell’autoefficacia. Le convinzioni sulle proprie capacità di operare efficacemente in determinati contesti influenzano il comportamento, le emozioni ed i pensieri relativi a quelle situazioni. Il senso di efficacia è il risultato di processi cognitivi che consentono di elaborare le informazioni acquisite attraverso esperienze dirette o vicarie di successo e da persuasioni verbali. L’acquisizione del senso di efficacia è subordinato alla presenza di capacità personali di base che consentono di apprendere e sviluppare abilità e competenze, di imparare attraverso l’interazione con l’ambiente, di operare riflessioni e valutazioni su di sé e di orientare e motivare il proprio comportamento. L’assessment di questi disturbi comprende una valutazione distinta dei tre diversi sistemi che caratterizzano la risposta d’ansia, attraverso indici: - soggettivi, che vengono riferiti dall’individuo attraverso il colloquio clinico ed attraverso strumenti quali questionari ed inventari; 55 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica - motori e comportamentali, osservabili direttamente nell’interazione con il soggetto; - fisiologici (frequenza cardiaca, attività elettrodermica …), rilevabili mediante apposita strumentazione. Un ulteriore contributo alla comprensione della configurazione dei Disturbi d’Ansia è stato fornito da studiosi cognitivisti che hanno riscontrato, nell’anamnesi di pazienti affetti da queste patologie, stili di “attaccamento insicuro” (Guidano, Liotti, 1983). Ci si riferisce a modalità relazionali con le figure genitoriali che segnalano la possibilità del verificarsi di un imminente pericolo. In particolare: nel Disturbo Fobico si individuano risposte emotive e comportamentali dello stile di attaccamento di tipo “ansioso – resistente” (Parker e coll.,1979), in cui l’individuo ha un concetto di sé negativo (non meritevole di cure e di affetto) e vive le relazioni significative con preoccupazione; nel Disturbo da Attacchi di Panico si individuano manifestazioni dello stile “evitante spaventato” (Bartholomew, 1990), nel quale la ricerca di relazioni si alterna al desiderio di isolamento (Lorenzini, Sassaroli, 1998). Tabella 2.1 Modello di attaccamento a quattro categorie o prototipi di Barthlomew (1990) Schema di SÈ Schema di SÈ Schema degli ALTRI POSITIVO NEGATIVO POSITIVO SICURO PREOCCUPATO Per me è facile coinvolgermi emotivamente cogli altri. Mi sento a mio agio in un rapporto di dipendenza reciproca. Non mi preoccupa un’eventuale solitudine o non essere accettato Io voglio essere totalmente coinvolto con altri, ma spesso questi non entrano in intimità come vorrei. Mi sento a disagio senza una relazione coinvolgente, anche se poi mi preoccuperei di essere controllato o soggetto a giudizio negativo EVITANTE DISTACCATO EVITANTE SPAVENTATO Mi sento a mio agio anche senza relazioni affettivamente intime. È molto importante per me sentirmi indipendente e auto-sufficiente, e quindi preferisco non instaurare rapporti di reciproca dipendenza Ci sono volte in cui mi sento a disagio nel vivere rapporti emotivi intimi. Io desidero tali rapporti, ma ho notato che per me è difficile dare completa fiducia agli altri, o dipendere da essi.Alcune volte penso che le relazioni intime potranno mettermi in crisi NEGATIVO Inoltre, nel quadro clinico generale dei soggetti con Disturbi d’Ansia, si rilevano: un’interpretazione fatalistica della propria sofferenza, con conseguente atteggiamento di passività e di attesa di un cambiamento “miracoloso” che non richiede impegno e 56 I Disturbi d’ansia partecipazione alla terapia; uno stile di conoscenza caratterizzato dall’evitamento di situazioni nuove; un’attività mentale continua (rimuginio), finalizzata all’essere preparati all’arrivo di eventuali pericoli; una storia evolutiva caratterizzata dall’inibizione di comportamenti esplorativi, che ha comportato un’incapacità di esplorare le emozioni proprie ed altrui (Lorenzini, Sassaroli, 2000). Sassaroli e Ruggiero (2002) hanno focalizzato le cognizioni disfunzionali che accomunano tutti i Disturbi d’Ansia: - timore sproporzionato del danno e pensiero catastrofico, che inducono il soggetto ansioso a prevedere un’ampia gamma di conseguenze negative ed a considerare il pericolo come inevitabile; - timore dell’errore e perfezionismo patologico, con la tendenza a considerare gli errori inaccettabili e causa di conseguenze fortemente negative; - intolleranza dell’incertezza, a seguito della quale si ritiene inaccettabile non conoscere e prevedere tutte le eventualità future con il dubbio che potrebbero anche essere negative; - valutazione negativa di sé, con autoattribuzione di responsabilità per il verificarsi di un evento negativo a causa di incapacità prestazionali o di carenze nel controllo emotivo (debolezza, fragilità); - necessità di controllo della realtà interna ed esterna, che induce alla ricerca della certezza assoluta nell’illusione di poter in tal modo prevenire il verificarsi di qualsiasi evento negativo. 2.3 Trattamento Nei Disturbi d’Ansia, le procedure terapeutiche cognitive e comportamentali costituiscono un trattamento di provata efficacia sperimentale in quanto consentono maggiori probabilità di successo rispetto ad altre terapie psicologiche (Sanavio, 1991; Lyddon e Jones, 2002; Rachman, 2004). Gli obiettivi generali sono rivolti alla riduzione della sintomatologia ansiosa e della condotta di evitamento e protezione ed al miglioramento del funzionamento cognitivo globale del paziente. L’Intervento Psicoeducativo consente al paziente di acquisire le corrette informazioni sulla natura dell’ansia e sul proprio specifico Disturbo, al fine di correggere errate convinzioni sul problema ed aumentare la consapevolezza e la collaborazione al trattamento. INTERVENTO PSICOEDUCATIVO Fortemente radicata nella cultura pragmatica, comportamentista e cognitivista, la Psicoeducazione si avvale di contenuti di tutto rispetto, in quanto derivano dalla ricerca clinica e dunque dagli approcci che hanno dimostrato la maggiore efficacia: dalla cosiddetta clinical evidence. La Psicoeducazione (detta anche educazione alla salute mentale), fa parte della più generale attività di educazione alla salute. È dunque un’attività socio-sanitaria che consiste nell’esporre in modo chiaro, semplice, didattico, possibilmente interattivo, e soprattutto 57 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica concretamente utile, le informazioni e le istruzioni per prevenire ed affrontare appropriatamente disturbi mentali e disagi di natura psicologica ed interpersonale. È pertanto una componente fondamentale di qualsiasi progetto di prevenzione, sostegno, aiuto, assistenza e/o trattamento. La Psicoeducazione si rivolge ad una ideale équipe di sostegno/aiuto e/o trattamento composta innanzitutto da chi soffre o può soffrire di un problema, dai suoi familiari, amici e conviventi e, naturalmente, dagli operatori. La Psicoeducazione può essere paragonata ad un corso pratico alla salute mentale in cui c’è un insegnante e ci sono degli allievi. L’insegnante è attento a fornire tutte le notizie e le istruzioni di cui gli allievi hanno bisogno per affrontare nel modo migliore il problema. Come in tutti i corsi che si rispettino, la Psicoeducazione ha un suo obiettivo formativo, un programma, degli esercizi e dei libri di testo. Il suo diffuso impiego è legato a due fattori fondamentali. Innanzitutto alla dimostrata efficacia nel trattamento di un gran numero di disturbi e problemi. In secondo luogo perché è molto ben accettata e richiesta dagli utenti in quanto si avverte già dal primo approccio la sua utilità e l’adesione ai concreti problemi quotidiani che si incontrano o perché si soffre personalmente di uno specifico problema o disturbo o perché in qualche modo ci si ha a fare, sia perché si convive con chi soffre di quel disturbo sia perché si è coinvolti nel sostegno/trattamento. Una seduta psicoeducazionale si svolge come una lezione. Si esaminano i “compiti a casa” (le esercitazioni pratiche nella vita reale), si affrontano le difficoltà eventualmente intervenute nelle esercitazioni, si introducono i nuovi argomenti, si effettua una esercitazione “in classe”, si assegnano i nuovi compiti. Alla base dell’approccio psicoeducazionale vi è il concetto di coping (dall’inglese to cope: fronteggiare, affrontare). Si ritiene infatti che molti problemi siano peggiorati da modalità inadeguate di fronteggiamento. Quando è presente un problema, infatti, spesso si insinuano dei circoli viziosi legati alla scarsa conoscenza del problema di base ed a derivanti comportamenti inadeguati che invece di migliorare la situazione la rendono ancora più grave. Questo intervento può essere integrato con la Biblioterapia, che prevede la lettura di testi informativi sulla problematica presentata. BIBLIOTERAPIA La Biblioterapia, cioè la terapia attraverso la lettura, non si affaccia solo oggi nel novero delle oltre cinquecento forme di psicoterapia esistenti. Il termine biblioterapia viene attualmente impiegato con tre diverse accezioni: 1. Autoterapia involontaria attraverso la lettura. A tutti è capitato di essere “illuminati” da un libro, da una frase, o addirittura da una parola utilizzata da un autore che tutto si proponeva tranne che il compito di illuminare qualcuno. Molta buona letteratura contiene, dentro e tra le righe, infinita saggezza, straordinario acume, profonda riflessione sulla natura dell’individuo e sulla sua vita di relazione. È naturale che noi possiamo incontrare in questo mare, per caso e per fortuna, qualche imbarcazione, qualche isola o persino qualche relitto di grande utilità nella nostra vita. Più si legge e più è probabile che ciò accada. Questo tipo di esperienza è simile alla fortuna di incontrare un amico che ci dice le parole giuste al momento giusto. 58 I Disturbi d’ansia Tutto ciò è naturalmente molto gratificante ed utile ma non è prevedibile e, soprattutto, non è prescrivibile. 2. Letteratura di autoaiuto. Si tratta di un gran numero di libri scritti espressamente con l’intento di aiutare le persone a risolvere un determinato problema. La caratteristica generale dei libri di autoaiuto è che si tratta di libri teorico-pratici, dal tono accattivante e ottimistico, che consigliano specifici comportamenti, specifici percorsi e specifiche esercitazioni. L’autore ha l’intento preciso di proporsi come mentore-terapeuta e si esprime coerentemente con questo intento. Per definizione la letteratura di autoaiuto non prevede intermediari. Il lettore si auto-cura attraverso la lettura di un testo. Come si fa a distinguere i buoni dai cattivi libri di autoaiuto? Sebbene non sia possibile definire a priori tutti i requisiti dei rari buoni libri prodotti in questo settore, esistono alcune caratteristiche che possono aiutare il lettore nella scelta. Esistono infatti dei buoni ed anche ottimi libri di autoaiuto. Si tratta per lo più di libri scritti da chi ha sofferto di quel particolare problema trattato, ne ha attraversato gli aspetti più dolorosi e ne è uscito. Chi ha percorso una strada con successo va sempre ascoltato. Potrebbe dirci qualcosa di prezioso. Infine ci sono dei manuali scritti da professionisti con l’intento di proporre con onestà elementi molto utili per affrontare il problema. Spesso si tratta di testi redatti da medici che hanno una particolare esperienza nello specifico argomento affrontato. Il gran numero di persone visitate e curate, la continua riflessione sul tema possono aver indotto il professionista ad individuare alcuni passaggi fondamentali sulla via del cambiamento. Questi libri sono per lo più onesti e realistici. Non è detto che facciano uscire dal problema ma certamente possono suggerire spunti di grande utilità. 3. Letteratura psicoeducazionale e sussidiaria. Si tratta di veri e propri strumenti terapeutici espressamente studiati da professionisti del settore allo scopo di coadiuvare il lavoro terapeutico. Questo tipo di letteratura, per certi versi assimilabile alla buona letteratura divulgativa, è piuttosto recente e si avvale di ottimi testi che spiegano in modo realistico, affidabile scientificamente, preciso e semplice le nozioni fondamentali per affrontare un determinato problema. Oppure si tratta di promemoria, schede o altro materiale da compilare. Questi stampati possono essere molto utili durante un percorso terapeutico. Di stampo comportamentista, il Flooding abbinato alla Prevenzione della Risposta si è rivelato una tecnica efficace nel trattamento delle Fobie monosintomatiche (Emmelkamp e al., 1978), consentendo al paziente di acquisire nuove capacità di controllo sulla sintomatologia ansiosa, affrontandola in vivo. FLOODING E TECNICA IMPLOSIVA Il Flooding e la Tecnica Implosiva sono impiegate soprattutto nel trattamento delle Fobie monosintomatiche e dei Disturbi Ossessivo Compulsivi. Entrambe queste tecniche sono finalizzate ad eliminare il comportamento di evitamento e l’ansia che lo evoca, attraverso una procedura base di estinzione: inducendo ansia ma prevenendo ogni comportamento di fuga o di evitamento si impedisce che tali condotte possano essere rinforzate dal sollievo da una situazione temuta. In sintesi, l’obiettivo è quello di estinguere la risposta d’ansia impedendo i comportamenti di evitamento o di fuga dallo stimolo ansiogeno, in modo che venga meno il rinforzo determinato dal sollievo che essi procurano. Allo stesso tempo la permanenza nella situazione ansiogena può disconfermare l’aspettativa di eventi terribili (Solomon e al., 1954; Stern e al., 1973). 59 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Sebbene entrambe le tecniche abbiano la stessa finalità e condividano alcune assunzioni o ipotesi di lavoro, vi sono delle nette differenze che le distinguono. Infatti, mentre la Tecnica Implosiva si basa su concetti mutuati dalla tradizione psicodinamica e consiste fondamentalmente nell’esposizione in immaginazione e nella drammatizzazione di stimoli ansiogeni (presentati in modo gerarchico, cominciando con gli item che provocano meno ansia) al fine di risolvere eventuali conflitti repressi ad essi associati, il Flooding si rivolge ai comportamenti visibili e tende ad utilizzare l’Esposizione in vivo (senza l’uso di una gerarchia e con tempi di presentazione molto lunghi). L’efficacia di questa metodologia è stata ampiamente documentata (Emmelkamp e al., 1978) e il vantaggio che se ne ricava è quello di consentire al paziente di acquisire nuove capacità di controllo sulla sintomatologia ansiosa affrontandola sul campo. Nel trattamento comportamentale dei Disturbi d’Ansia, il principio di base è il meccanismo dell’abituazione che si applica attraverso un’esposizione graduale alle situazioni temute. Le tecniche comportamentali più efficaci nella terapia di questi Disturbi sono: - Training di Rilassamento, per il controllo delle manifestazioni fisiologiche, delle tensioni muscolari e della respirazione (Goldwrum, 1986; Rolla, 1989; Brenner, 1991); - Controllo dell’Iperventilazione, per combattere lo stato di iperattivazione; - Distrazione ; - Desensibilizzazione Sistematica, in immaginazione ed in vivo, per affrontare gli stimoli e le situazioni temute, eliminare le condotte di evitamento e ridurre il livello di disabilità; - Training Assertivo e Social Skills Training, per la riduzione dell’ansia sociale e l’incremento delle abilità sociali; - Biblioterapia. TECNICHE DI DISTRAZIONE La Distrazione è una potente tecnica non farmacologica di applicazione semplice e immediata che non richiede un precedente insegnamento e fornisce ottimi risultati. La Distrazione prevede l’uso di oggetti e attività quotidiane della persona che catturino la sua attenzione e, di volta in volta, possano contribuire ad allontanare il disagio, la paura e l’ansia. Nei disturbi ansiosi, in genere, si incoraggia l’esposizione a situazioni nelle quali in precedenza si sono verificati attacchi di ansia e/o di panico. L’esposizione immediata e più o meno graduata alla situazione temuta è molto efficace ma può in alcuni casi sembrare impossibile per il forte disagio che comporta: è utile allora provare, solo inizialmente, ad utilizzare tecniche di distrazione che aiutino ad affrontarla (es. fare un cruciverba, leggere, ascoltare la musica, fare calcoli matematici, osservare e contare tutte le persone che hanno un indumento rosso, ecc…). L’operatore può applicare in prima persona la distrazione o istruire il paziente affinché si auto somministri la tecnica. 60 I Disturbi d’ansia DESENSIBILIZZAZIONE SISTEMATICA Storicamente una delle prime tecniche d’intervento di ispirazione comportamentista è la Desensibilizzazione Sistematica (DS) una tecnica sviluppata da J. Wolpe (1958, 1984) che mira in modo specifico all’eliminazione dell’ansia disadattiva e che spesso si è rivelata utile nel combattere i disturbi a componente fobica. La DS si basa sull’associazione di tecniche di rilassamento con situazioni (immaginate o in vivo) che il paziente ha indicato come causa della propria ansia. Nella DS si assume che un individuo in stato di rilassamento non possa esperire contemporaneamente l’ansia. Se il paziente, posto di fronte a stimoli fobici, esperisce rilassamento piuttosto che ansia avvertirà molto meno disagio. In seguito la nuova associazione (rilassamento–situazione stimolo) appresa in terapia andrà generalizzata in tutte le situazioni quotidiane. La DS si basa sul principio del controcondizionamento che è costituito da procedure di apprendimento per sostituzione: una risposta appresa in precedenza è sostituita per inibizione reciproca da un’altra. Con la DS si tenta di sostituire l’ansia con il rilassamento, in altre parole il rilassamento va a inibire l’ansia. In base al principio dell’inibizione reciproca, l’associazione tra lo stimolo ansiogeno e una risposta adattiva (il rilassamento) agisce eliminando il precedente condizionamento tra lo stesso stimolo e la risposta d’ansia (Wolpe, 1958, 1984, 1985). Nella terapia dei Disturbi d’Ansia, il trattamento cognitivo aumenta l’efficacia dell’intervento e la stabilità dei risultati (Rachman, 2004). Le tecniche cognitive maggiormente impiegate per il trattamento di queste patologie sono: - Psicoeducazione, che consente al paziente di ridefinire le proprie considerazioni sul disturbo attraverso l’acquisizione di informazioni sulla natura dell’ansia e sui suoi correlati fisiologici e psicologici; - Ristrutturazione Cognitiva, per modificare le percezioni distorte, relative prevalentemente a temi di minaccia e pericolo, la cui individuazione è di particolare importanza perché esse sono strettamente connesse alle condotte di evitamento; - Prevenzione delle Ricadute, con l’obiettivo di rinforzare le competenze acquisite e di rilevare la presenza di eventuali credenze residue che, in particolari condizioni di stress, potrebbero provocare la ricomparsa della sintomatologia. PREVENZIONE DELLE RICADUTE Questa particolare modalità di trattamento riguarda il modo in cui possono essere veicolati gli strumenti terapeutici di intervento attivo sui processi psicologici del soggetto, con la funzione di prevenire possibili ricadute (relapse) dopo un trattamento psicologico, ad esempio dopo una psicoterapia. Tale forma di prevenzione psicologica è concepibile come una più generale psicoeducazione alla salute mentale e al benessere psicofisico. Infatti, vari protocolli di Prevenzione delle Ricadute sono stati progettati come interventi tesi allo sviluppo di abilità 61 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica di ragionamento o problem solving, al fine di potenziare le capacità del soggetto nel fronteggiare le difficoltà, adattarsi con più successo e raggiungere più facilmente i propri scopi. Il punto cruciale è il seguente: gli interventi preventivi in psicoterapia sono informazioni che l’individuo elabora ed in base a tale elaborazione egli attiva o modifica una certa condotta. In sostanza, questi interventi si occupano di fornire conoscenze, utili e pratiche, mirate al potenziamento della capacità di adattamento del soggetto e del raggiungimento dei suoi scopi. Tutti questi interventi di tipo preventivo possono riguardare alcuni punti chiave nella organizzazione mentale della persona ed in particolare riguardano la organizzazione di alcuni concetti, di alcune assunzioni e credenze in generale, ed alcune teorie del senso comune, alcune abitudini nell’affrontare, fronteggiare e giudicare aspetti della realtà, del rapporto con gli altri, e anche delle relazioni riguardo se stessi. In breve, queste abilità possono essere denominate come “abilità metacognitive”; volendo indicare con tale termine quelle abilità di sviluppo ed uso del nostro essere coscienti, del nostro essere consapevoli del fatto che in dati momenti funzioniamo in un certo modo, cioè dell’essere consapevoli del nostro stesso funzionamento mentale (e di alcuni importanti contenuti e processi). Queste abilità metacognitive permettono all’individuo di autoregolarsi, di autocorreggersi e così assumere degli atteggiamenti e strategie di fronteggiamento (coping) e risoluzione dei problemi della vita, in particolare della vita quotidiana. Nell’ambito della terapia cognitiva c.d “post-razionalista”, orientata secondo modelli strutturalisti-costruttivisti, si propone un intervento articolato su di un duplice livello che prevede un cambiamento superficiale ed uno profondo. INTERVENTI COGNITIVO-STRUTTURALISTI Organizzazione cognitiva ansioso fobica Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo emotiva ansioso fobica, i progetti di cambiamenti superficiali possono, ad esempio, interessare il timore di perdere il controllo e di sentirsi male all’improvviso quando si è soli. Con l’aiuto delle tecniche cognitivo comportamentali si può incoraggiare il paziente ad esplorare, riconoscere e controllare i propri (temuti) sintomi neurovegetativi e fargli considerare come la solitudine non comporta, di per sé, un pericolo per una persona adulta. Nei piani di intervento a livello profondo, si considerano teorie più basilari, come quelle collegate al concetto di particolare vulnerabilità personale ed alla necessità di avere sotto controllo tutte le situazioni importanti, che si manifestano implicitamente con un atteggiamento verso se stessi e il mondo basato sulle sospettosità, sulla paura di non essere accettati e sul controllo automatico del proprio stato fisico e delle relazioni interpersonali. 62 CAPITOLO 3 Disturbo di panico 3.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV Attacco di Panico Nota: un attacco di panico non è un disturbo codificabile. Codificare la diagnosi specifica nell’ambito della quale si manifesta l’attacco di panico (ad esempio disturbo di panico con agorafobia). Un periodo definito di intensa paura o disagio, durante il quale quattro (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nell’arco di dieci minuti 1. palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; 2. sudorazione; 3. tremori o scosse; 4. dispnea o sensazione di oppressione; 5. sensazione di soffocamento; 6. dolore o fastidio al petto; 7. nausea o disturbi addominali; 8. sensazione di sbandamento, instabilità, stordimento o svenimento; 9. derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere staccati a se stessi); 10. paura di perdere il controllo o di impazzire; 11. paura di morire; 12. parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio); 13. brividi o vampate di calore. Disturbo di panico senza agorafobia A. Entrambi 1) e 2): 1. Attacchi di Panico inaspettati e ricorrenti; 2. Almeno uno degli attacchi è stato seguito da 1 mese (o più) di uno (o più) dei seguenti sintomi: a) preoccupazione persistente di avere altri attacchi; 63 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica b) preoccupazione per le implicazioni dell’attacco o delle sue conseguenze (es. perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, impazzire); c) significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi. B. Assenza di Agorafobia. C. Gli attacchi di Panico non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. una droga o un farmaco) o di una condizione medica generale (per es. ipertiroidismo). D. Gli Attacchi di Panico non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come Fobia Sociale (per es. si manifestano in seguito all’esposizione a situazioni sociali temute), Fobia Specifica (per es. in seguito all’esposizione ad una specifica situazione fobica), Disturbo Ossessivo Compulsivo (per es. in seguito all’esposizione allo sporco in qualcuno con ossessioni di contaminazione), Disturbo Post-traumatico da Stress(per es. in risposta a stimoli associati con un grave evento stressante), o Disturbo d’Ansia di Separazione (per es. in risposta all’essere fuori casa o lontano da congiunti stretti). Le caratteristiche del Disturbo di Panico senza Agorafobia sono simili a quelle del Disturbo di Panico con Agorafobia ad eccezione della presenza dell’Agorafobia stessa (criterio diagnostico B). Anche se si rilevano in aumento casi di manifestazione in età adolescenziale, il Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) esordisce generalmente verso i 25 – 30 anni, in prevalenza nelle donne e può cronicizzarsi (Lorenzini, Sassaroli, 1987). La maggiore frequenza nel sesso femminile può in parte ricondursi alla più marcata tendenza, sia innata sia socialmente appresa, a focalizzare l’attenzione sulle emozioni e sulle sensazioni corporee, accompagnata dalla manifestazione di comportamenti protettivi che possono essere messi in relazione con la genesi ed il mantenimento del Disturbo (Rovetto, 2003). Per la diagnosi di DAP è richiesta la manifestazione di attacchi inaspettati e ricorrenti, seguiti da un periodo di almeno un mese in cui è presente il timore persistente che si ripresentino o la preoccupazione per sue conseguenze, oppure il soggetto adotti dei significativi cambiamenti rispetto alle proprie condotte abituali. Inoltre va esclusa la presenza di effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale o di un altro disturbo mentale. La crisi di panico regredisce spontaneamente e può lasciare nel soggetto uno stato di spossatezza, di affaticamento, sensazione di “testa vuota” o di derealizzazione che a volte possono permanere per alcuni giorni (fase post critica) (Cassano, 1990; Giberti e Rossi, 1996). Il grado di sofferenza, di compromissione della libertà e delle capacità di funzionamento psicosociale del soggetto con DAP, che prima dell’episodio di panico conduceva un’esistenza normale, lo inducono a ricorrere all’aiuto sanitario al presentarsi di ogni attacco, in particolare quando la sintomatologia fa sospettare un disturbo cardiaco. L’esordio del Disturbo avviene all’improvviso durante lo svolgimento delle abituali attività quotidiane: i sintomi fisici sono accompagnati da ansia acuta e grave, senso di forte apprensione e di intensa paura, a volte con sensazione di morte imminente e desiderio impellente di allontanarsi dal luogo nel quale ci si trova. Questa esperienza penosa e sconvolgente rimarrà impressa nella memoria tanto da permettere al soggetto di rievocarla e descriverla con estrema precisione anche a distanza di molto tempo. 64 I Disturbi d’ansia Secondo Fava e Mangelli (1995) la comparsa del Disturbo si colloca al culmine di una catena di eventi stressanti, quando le circostanze di vita non consentono più il ricorso all’evitamento. Tra le condizioni predisponenti, alcuni Autori (McCarthy e Shean, 1996) individuano anche situazioni di separazione precoce, come la morte di un genitore o una separazione traumatica, condizioni che inibiscono il comportamento di esplorazione ed aumentano la sensazione di precarietà, favorendo la percezione di un profondo senso di insicurezza. Marks (2002) riporta che nel 92% dei casi il primo Attacco di Panico si sperimenta in luogo pubblico. Favarelli e al. (1985) motivano tale fenomeno con la presenza di una forma di agorafobia non conclamata che preesiste all’esordio clinico con il primo episodio di panico. Sebbene la crisi di panico sia descritta come inaspettata e spontanea, il soggetto che l’ha sperimentata attiva il proprio “sistema d’allarme” e vive in uno stato di apprensione, ipervigilanza ed ipersensibilità nei confronti degli stimoli enterocettivi e delle sensazioni somatiche e nel timore che un nuovo episodio possa accadere. Questa esperienza è definita ansia anticipatoria ed è spesso accompagnata da sintomi prodotti dall’attivazione del sistema nervoso autonomo (Beck, 1988). Gli Attacchi di Panico possono essere classificati sulla base delle condizioni in cui si verificano: - - - inaspettati (non provocati), si manifestano spontaneamente inattesi in assenza di una causa scatenante immediatamente evidente; causati dalla situazione (provocati), si verificano prima o durante l’esposizione alla situazione scatenante; sensibili alla situazione, possono manifestarsi a seguito dell’esposizione al fattore scatenante ma non sono invariabilmente associati ad essa. 3.2 Modelli comportamentali e cognitivi Barlow e coll. (1997) è tra gli studiosi che sostengono l’ipotesi di una predisposizione all’ansia che si riscontrerebbe nei pazienti con DAP e con Agorafobia. La conseguente maggiore vulnerabilità di questi soggetti determinerebbe le loro risposte di attacco o fuga, tanto in presenza di situazioni realmente pericolose (“vero allarme”) quanto in assenza di un effettivo pericolo ma come risposta ad una percezione negativa di eventi di vita stressanti (“falso allarme”). Secondo la teoria psicofisiologica elaborata da Jacob, Rapport (1984), Clark e Salkovskis (1985) il panico è prodotto da modalità respiratorie disfunzionali che generano il fenomeno dell’iperventilazione, una ventilazione polmonare che modifica l’equilibrio di ossigenazione del sangue. Questo fenomeno induce vasocostrizione, con maggiore difficoltà di ossigenazione dei vari organi, ed a livello cerebrale si sperimentano senso di stordimento, vertigini e sensazioni di svenimento. A livello periferico, le conseguenze dell’iperventilazione si manifestano con intorpidimento degli arti, spasmi e crampi mu65 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica scolari fino a fenomeni di aritmie cardiache. La sovrapposizione della sintomatologia prodotta dall’iperventilazione con quella degli Attacchi di Panico ha indotto gli Autori a considerare questi ultimi come conseguenza di un’alterazione nella respirazione che, sperimentata anche episodicamente, può allarmare la persona e renderla maggiormente sensibile ed attenta ai segnali che provengono dal corpo. La teoria del comportamento, nel considerare il DAP, fa riferimento ai principi di apprendimento per condizionamento classico (detto anche rispondente o pavloviano), operante e sociale (modellamento). Secondo il condizionamento classico, l’associazione tra uno stimolo neutro ed uno incondizionato, elicitante una determinata risposta, fa si che lo stimolo neutro assuma le stesse caratteristiche di quello incondizionato e viene definito condizionato (Meazzini, Galeazzi, 1978). Nel caso del panico, la situazione - stimolo neutra (es. tachicardia) associata con la situazione avversiva (crisi di panico) in grado di elicitare una risposta incondizionata di paura, diventa in grado di suscitare da sola la medesima reazione di paura. Le sensazioni fisiche diventano stimoli condizionati di risposte condizionate di panico. Con la definizione di “paura della paura” ci si riferisce alla condizione per cui un individuo che abbia sperimentato un Attacco di Panico può sensibilizzarsi agli stimoli interni, inizialmente neutri, ed innescare una spirale di ansia anticipatoria e di paura che amplifica i sintomi rendendo emotivamente drammatica una reazione oggettivamente banale (Sanavio, 1991). Una tecnica utile per estinguere la “paura della paura” è l’esposizione sistematica a sensazioni interne (esposizione enterocettiva). Secondo i principi del condizionamento operante, il comportamento è regolato dalle conseguenze che produce: l’individuo tenderà a ripetere le azioni seguite da effetti piacevoli e ad evitare quelle che producono conseguenze spiacevoli (Meazzini, Galeazzi, 1978). Nel caso di ripetuti Attacchi di Panico, in presenza di una situazione – stimolo che produce un aumento della risposta di paura o di ansia, il soggetto mette in atto una serie di azioni che, nel passato, hanno avuto come conseguenza la sua riduzione: ricerca di aiuto, fuga o evitamento delle situazioni collegate con la crisi. Il modello cognitivo individua i fattori cognitivi coinvolti nell’eziologia e nel mantenimento del DAP: particolarmente significativa è l’interpretazione catastrofizzante di eventi fisici e mentali (specie quelli associati all’ansia), erroneamente considerati premonitori di un imminente disastro, come avere una crisi di panico, svenire, impazzire o morire (Beck, 1985). L’Autore opera una distinzione tra fattori predisponenti e precipitanti. I primi includono: l’ereditarietà, i disturbi fisici che producono effetti somatici simili a quelli dell’ansia, le esperienze traumatiche, le inabilità sociali. I fattori precipitanti comprendono: malattie fisiche, esposizione a sostanze tossiche e vari tipi di stress esterni. Il ruolo negativo della cognizione nei disturbi ansiosi consiste nella tendenza del paziente ad interpretare erroneamente determinati eventi, considerandoli pericolosi, ed a sottovalutare le proprie risorse disponibili per farvi fronte. Clark nel 1986 descrive gli Attacchi di Panico come il risultato di una “interpretazione catastrofica” di alcune sensazioni corporee. Le sensazioni fisiche normalmente associate all’ansia quali palpitazioni, vertigini, iperventilazione … vengono “lette” dal paziente come segnali di un pericolo incombente (possibilità di un attacco cardiaco, 66 I Disturbi d’ansia di un’emorragia cerebrale …). Gli Attacchi di Panico possono presentarsi anche a seguito dell’assunzione di alcune sostanze farmacologiche ma la causa delle crisi è, anche in questi casi, comunque attribuibile all’interpretazione catastrofica delle sensazioni somatiche esperite. Figura 1 Modello cognitivo del DAP con l’aggiunta del ciclo di mantenimento (Wells, 1999) fattori scatenanti interni / esterni minaccia percepita ansia interpretazione erronea sintomi somatici / cognitivi evitamento e comportamenti protettivi (attenzione selettiva compresa) L’errata interpretazione delle reazioni fisiche produce un incremento dell’ansia fino all’instaurarsi del ciclo “paura della paura”. In sintesi: - - - il soggetto dispone di schemi cognitivi catastrofizzanti per l’analisi di eventi fisici o mentali; gli stimoli enterocettivi neutri vengono trasformati in sensazioni somatiche terrorizzanti, come risultato delle distorsioni presenti in tale analisi; il Disturbo viene mantenuto da un eccesso di apprensione ed ipervigilanza nei confronti degli eventi fisici o mentali. Poiché gli stimoli enterocettivi sono parte integrante dell’organismo e si manifestano nelle più svariate condizioni della vita quotidiana, qualsiasi situazione esterna può acquisire una connotazione ansiogena. Partendo dal modello di Clark, Wells (1999) identifica il ciclo del mantenimento del circolo vizioso rilevando il ruolo di tre fattori: - attenzione selettiva sulle sensazioni corporee; - comportamenti protettivi associati alla situazione; - evitamento. 67 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Il controllo continuo del proprio corpo alimenta la preoccupazione connessa ai supposti segnali e sintomi di malattia. L’attuazione di una serie di comportamenti protettivi e di evitamento delle situazioni ansiogene comporta una mancata disconferma delle interpretazioni erronee perché riduce la possibilità di confronto con esperienze che possono falsificare l’errata interpretazione. La teoria di Clark ed il suo ampliamento ad opera di Wells lasciano insoluti alcuni quesiti che possono schematizzarsi in: perché gli individui comincerebbero a “catastrofizzare” nella prima età adulta? Perché sono pochi gli anziani che sviluppano crisi di panico, dal momento che avrebbero più motivo rispetto ai giovani di preoccuparsi delle loro sensazioni corporee? Perché le donne hanno una probabilità di “catastrofizzare” da due a quattro volte superiore rispetto agli uomini? (Rachman, 2004). Nel suo modello eziologico Stampler (1978) ha integrato gli aspetti psicofisiologici, biochimici e clinici del Disturbo da Attacchi di Panico. Egli ha sottolineato che, sebbene l’attacco iniziale posa essere preceduto da ansietà “liberamente fluttuante”, il DAP e l’ansia generalizzata sono fenomeni distinti. Un evento stressante, quale ad esempio un conflitto coniugale, per un soggetto con deficit nelle capacità relazionali può costituire la premessa per l’insorgenza del Disturbo. Il primo sintomo può essere riconducibile sia ad eventi psicologici sia somatici ma, indipendentemente dalle cause iniziali, una volta sperimentati una serie di attacchi la patologia può cronicizzare. Stampler ritiene che la terapia efficace debba operare su tre livelli. Con un approccio psicodinamico, cognitivo comportamentale o familiare per l’azione sugli stressor e sui conflitti, mediante un intervento farmacologico o comportamentale per la riduzione dell’iperattività fisiologica, e con una procedura di ristrutturazione cognitiva al fine di incrementare l’autostima e le aspettative di autoefficacia. Basandosi sul principio del condizionamento interocettivo (Razran, 1972), secondo il quale le sensazioni corporee diventano stimoli condizionati di risposte condizionate, e sulla teoria dell’apprendimento, Goldstein e Chambless (1978) rilevano che i sintomi somatici fungono da stimolo condizionato per una risposta condizionata di panico. Alcuni Autori affermano che l’individuo che ha sperimentato un Attacco di Panico presta maggiore attenzione alle sensazioni fisiche percepite, in particolare quelle associate all’ansia, che interpreta come segnale anticipatorio di un successivo attacco. Barlow e coll. (1989) concludono che dal momento che ciascun individuo interpreta il significato degli eventi in maniera diversa, uno stressor esterno può portare o meno all’inizio della crisi di panico in una persona vulnerabile dal punto di vista neurofisiologico. Ciò suggerisce che esiste una variabile psicologica discriminante in grado di mediare tra eventi esterni e l’inizio dell’Attacco di Panico. Il ruolo di questa variabile può essere individuato in una predisposizione a reagire con elevata attivazione allo stress, definita “vulnerabilità allo stress” (Andrews e coll., 2003). Il modello cognitivo comportamentale nel trattamento del DAP opera sulla modificazione dell’interpretazione erronea e catastrofizzante delle manifestazioni somatiche sperimentate con i sintomi. Attraverso la compilazione del Diario delle crisi di panico, 68 I Disturbi d’ansia le tecniche di Esposizione che possono indurre i sintomi e la Ristrutturazione Cognitiva è possibile identificare e modificare le convinzioni e le credenze relative alle interpretazioni distorte. 69 CAPITOLO 4 Agorafobia 4.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV Agorafobia Nota: l’Agorafobia non è un disturbo codificabile. Codificare la diagnosi specifica nell’ambio della quale si manifesta l’Agorafobia. A. Ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un Attacco di Panico inaspettato o sensibile alla situazione o di sintomi tipo panico. I timori agorafobici riguardano tipicamente situazioni caratteristiche che includono l’essere fuori casa da soli; l’essere in mezzo alla folla o in coda; l’essere su un ponte ed il viaggiare in autobus, treno o automobile. Nota: prendere in considerazione la diagnosi di Fobia Specifica se l’evitamento è limitato ad una o solo a poche situazioni specifiche o la Fobia Sociale se l’evitamento è limitato alle situazioni sociali. B. Le situazioni vengono evitate (per esempio gli spostamenti vengono ridotti) oppure sopportate con molto disagio o con l’ansia di avere un Attacco di Panico o sintomi tipo panico o viene richiesta la presenza di un compagno. C. L’ansia o l’evitamento fobico non sono meglio giustificabili da un disturbo mentale di altro tipo, come Fobia Sociale, Fobia Specifica, Disturbo Ossessivo Compulsivo, Disturbo Post traumatico da Stress o Disturbo d’Ansia di Separazione. L’agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico A. Presenza di Agorafobia, correlata alla paura della comparsa di sintomi tipo panico (per es. vertigini o diarrea). B. Non sono mai risultati soddisfatti i criteri per il Disturbo di Panico. C. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. abuso di droga, un farmaco) o di una condizione medica generale. D. Se è presente una condizione medica generale, la paura descritta nel criterio A è chiaramente in eccesso rispetto a quella abitualmente associata con la condizione. 71 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica L’Agorafobia è, tra i disturbi fobici, la forma più diffusa ed invalidante e ad esserne maggiormente colpite sono le donne. L’età di esordio si colloca generalmente tra i 18 ed i 35 anni ed è raro che si manifesti durante l’infanzia (Marks, 2002). Viene definita come un “cluster” di fobie (Sanavio, 1991), nel quale l’elemento caratteristico distintivo è costituito dalla forte limitazione dell’autonomia personale. Tale limitazione tende a generalizzarsi ai vari ambiti ai quali il soggetto estende i propri evitamenti. Le persone con questo Disturbo presentano un elevato livello di ansia e di paura di trovarsi in luoghi affollati o in situazioni dalle quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi (essere intrappolati nel traffico, abbandonare una riunione…) o ricevere immediato soccorso in caso di malore (trovarsi da soli fuori di casa). Le principali paure per questi soggetti sono: svenire e cadere per terra; avere un attacco di cuore; perdere il controllo. L’agorafobico si difende da queste paure evitando attivamente le situazioni temute, riducendo gli spostamenti dalla zona ritenuta sicura (come la propria casa) o chiedendo la presenza di una persona che lo accompagni e sopporta con intenso disagio le risposte d’ansia conseguenti all’esposizione alla situazione temuta. Tali risposte possono includere sintomi tipo panico, quali: tachicardia, sudorazione, tremori, senso di soffocamento, nausea o dolori addominali, senso di sbandamento, derealizzazione o depersonalizzazione. Tra gli eventi scatenanti più comuni figurano: la perdita di un persona cara, una malattia, un trasferimento o relazioni familiari conflittuali. Secondo Barlow (1997) i pazienti con Agorafobia e con DAP, in conseguenza della loro maggiore vulnerabilità come predisposizione alle reazioni d’ansia, apprendono ad aspettarsi che determinate situazioni scatenino allarme. Uno dei maggiori fattori predittivi di evitamento agorafobico è l’aspettativa che, in una determinata situazione, si verifichi un attacco di panico (“falso allarme”). 4.2 Modelli comportamentali e cognitivi L’acquisizione da parte del soggetto agorafobico di comportamenti di evitamento della vasta gamma di situazioni, segue i principi dell’apprendimento rispondente, operante e sociale, tutti strettamente interconnessi (Meazzini, Galeazzi 1978). In base ai principi del condizionamento operante, di fronte ad uno stimolo che induce un incremento del livello di ansia, il soggetto agorafobico produce una risposta di fuga o di evitamento che ha come conseguenza un’immediata riduzione dell’attivazione psicofisiologica. La probabilità che tale risposta venga ulteriormente emessa aumenta perché l’individuo sperimenta che l’allontanamento dalla situazione fonte di disagio riduce o elimina la sofferenza. Nel 1978 Goldstein e Chambless distinsero l’Agorafobia in “semplice” e “complessa”. La prima si manifesta come risposta d’ansia di fronte ad eventi specifici quali assunzione di droga, disturbi fisici o eventi traumatici. In tali casi la terapia consiste in 72 I Disturbi d’ansia una graduale Esposizione in vivo ed ha come obiettivo il trattamento della paura situazionale specifica. L’Agorafobia complessa si caratterizza per la presenza di quattro elementi: - - - - la paura della paura, che è l’elemento fobico principale. Il soggetto anticipa con paura i sintomi che potrebbe provare, focalizzando l’attenzione selettiva sulla sintomatologia e sul suo incremento ed innescando un circolo vizioso che rende la risposta di paura sempre più elevata; una scarsa autosufficienza, dovuta all’ansia e/o alla carenza di abilità; il mancato riconoscimento degli antecedenti causali delle sensazioni spiacevoli. Non percepire lo stimolo collegato al sintomo che crea disagio non consente di effettuare corrette attribuzioni cognitive che permetterebbero di fronteggiare la paura; comparsa della sintomatologia in situazioni conflittuali. Il conflitto è generalmente, ma non necessariamente, di natura interpersonale. Il soggetto agorafobico è combattuto tra tendenze e progetti di vita conflittuali; combatte tra autonomia personale ed indipendenza e tra la ricerca/conferma di un ambiente familiare che gli assicuri protezione e supporto. Gli episodi di ansia rinforzano la percezione di sé come persona che necessita dell’accudimento da parte di qualcun altro. Per spiegare l’origine ed il mantenimento dell’Agorafobia, Brehony e Geller (1981) proposero un modello basato sull’analisi funzionale del comportamento e sull’influenza del fattori fisiologici, cognitivi, comportamentali ed interpersonali. Tensione ed ansia sono correlate alla bassa tolleranza allo stress e determinano un elevato livello di attivazione psicofisiologica, condizione favorevole per l’insorgenza di Attacchi di Panico. L’esperienza del panico induce la paura di sperimentare ulteriori attacchi e ciò incrementa il livello di stress. Di conseguenza, i soggetti tendono ad evitare determinate situazioni, quali rimanere da soli, trovarsi in contesti nei quali possono sentirsi intrappolati o affrontare situazioni sconosciute. I comportamenti di evitamento riducono la mobilità della persona che può contare su un sostegno sociale sempre più limitato ed inizia a sviluppare convinzioni di malattia, con conseguenti sentimenti depressivi. Questo modello eziologico sottolinea la centralità dei fattori cognitivi e della mancanza di assertività e propone, come terapia elettiva, il Training Assertivo e la Ristrutturazione Cognitiva. Mathews, Gelder e Johnston (1981), in un importante lavoro sull’Agorafobia, hanno sottoposto ad analisi tutte le precedenti teorie eziologiche ed hanno proposto un nuovo modello integrato che si basa sui seguenti presupposti: A. i soggetti con Agorafobia possono manifestare tratti ereditabili di ansietà; B. l’Agorafobia spesso si sviluppa in un contesto generale di stress; C. ha molti elementi in comune con il Disturbo d’Ansia Generalizzato; D. gli agorafobici evitano situazioni specifiche, dipendono da altre persone e tendono ad attribuire la causa del loro Disturbo esclusivamente a fattori esterni; E. i comportamenti di evitamento persistono ma variano secondo l’umore del soggetto. 73 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Gli Autori individuano una possibile predisposizione familiare: l’iper protezione o la sua carenza da parte dei genitori e l’instabilità familiare possono favorire l’instaurarsi di un comportamento dipendente. La presenza del comportamento dipendente, quale caratteristica ricorrente nell’Agorafobia, era già stato rilevato da Ellis (1989) come possibile spiegazione della maggiore prevalenza nelle donne, nelle quali più frequentemente si riscontrava tale atteggiamento. Il modello di Mathews presenta degli elementi comuni con quello di Goldstein e Chambless: sviluppo del Disturbo in un contesto di stress e comportamento sociale dipendente. Il modello ispirato alle teorie dell’attaccamento illustrato da Liotti e Reda (1981) e Liotti (1995) individua nell’Agorafobia: a) frustrazioni precoci nel comportamento esplorativo che portano alla formazione di schemi cognitivi nei quali l’ambiente esterno alla famiglia rappresenta un pericolo ed una oscura minaccia mentre quello familiare è un luogo sicuro; b) organizzazione disfunzionale dell’attaccamento, per cui la separazione dalle figure di attaccamento è rappresentata come intollerabile; c) esordio della sintomatologia in concomitanza con variazioni importanti nei legami con le figure di attaccamento; d) reazioni d’ansia in situazioni di solitudine e di isolamento; e) convinzioni di debolezza o malattia che ostacolano la ricerca di soluzioni alternative di fronte ai problemi; f ) ricerca e scelta di figure di accompagnatori di fiducia, a causa della convinzione della propria fragilità. 4.3 Trattamento Sanavio (1991) rileva come le procedure psicoterapeutiche cognitive e comportamentali costituiscano il trattamento, di provata efficacia sperimentale, che consente maggiori probabilità di successo per i Disturbi fobici e per i Disturbi d’Ansia. In particolare, individua l’Esposizione in vivo come la tecnica più diffusa e più efficace nel trattamento comportamentale dell’Agorafobia. ESPOSIZIONE IN VIVO La tecnica della Esposizione è notoriamente efficace nella riduzione dell’ansia associata a situazioni ben identificate come Fobie specifiche, Agorafobia, Ansia Sociale (Salkovskis e Clark, 1996; Sanavio, 1991). La procedura di Esposizione si pone l’obiettivo di permettere al paziente di percepire e valutare in modo “controllato” l’oggetto della propria paura. Questo metodo, se applicato con gradualità, consente al paziente di riappropriarsi di quelle funzionalità sociali e quotidiane che ha perso a causa dei rilevanti evitamenti dovuti ai sintomi acuti dell’ansia ed alla sindrome di ansia anticipatoria. Se ben disegnata, la modalità di Esposizione permette una rapida ripresa ed impiego di abilità che sono state sospese, ed in qualche caso dimenticate. Nel progettare ed 74 I Disturbi d’ansia effettuare le esposizioni è necessario illustrare compiutamente il significato di tali procedure e quindi ricercare la piena collaborazione del paziente ed eventualmente di un suo familiare. Il trattamento a lungo termine dei pazienti affetti da DAP con Agorafobia è finalizzato ai seguenti obiettivi: - riduzione, fino alla scomparsa, degli Attacchi di Panico e della loro interferenza con la vita quotidiana; - estinzione degli evitamenti agorafobici connessi con il panico; - modificazione della percezione della propria vulnerabilità. Le tecniche di Controllo della Respirazione, inserite in un più ampio ed articolato programma terapeutico basato sull’Esposizione, alleviano i sintomi del panico ed aiutano il paziente nella loro gestione (Clark e coll, 1985). IL CONTROLLO DELLA RESPIRAZIONE Il Controllo della Respirazione è una tecnica di rilassamento basata sul presupposto che respirazione e tensione muscolare sono direttamente collegate: è ben noto infatti che la tensione nervosa tende ad alterare il ritmo e la profondità del respiro, con conseguente diminuzione dell’ossigenazione del sangue. La respirazione addominale (diaframmatica profonda) è un metodo di rilassamento naturale; noi tutti fin da piccoli respiriamo in questo modo ma, col passare degli anni, ce ne dimentichiamo, usando per lo più una respirazione di tipo toracico. Il training consiste in una serie di esercizi volti a riapprendere volontariamente la modalità di respirazione diaframmatica. Il soggetto deve imparare con l’esercizio a respirare inspirando col naso fin nell’addome, espirare e aspettare l’impulso istintivo di inspirare prima di procedere ad inspirare di nuovo col naso. Per assicurarsi della correttezza della respirazione l’individuo può poggiare una mano all’altezza dell’ombelico e sentire l’alzarsi e l’abbassarsi dell’addome. Beta Jenks (1990) ha evidenziato diversi modi per rilassare il respiro e per renderlo profondo e diaframmatico. Ecco alcuni esempi di esercizi che possono essere insegnati ad un paziente. • • • • Respiro Lungo. Tenendo ferme le spalle, immaginate di inalare attraverso le punte delle dita, su per le braccia e dentro le spalle, quindi espirate lungo il tronco verso l’addome, le gambe e fuori dagli alluci. Ripetete. Respirare attraverso la pelle. Immaginate di inspirare e di espirare attraverso la pelle o una parte qualsiasi del corpo. Ad ogni inspirazione lasciate che la pelle si senta rinfrescata e rinvigorita. A ogni espirazione lasciate che la pelle si rilassi. Respirare attraverso l’addome. Mettete le mani sopra la zona che circonda il vostro ombelico e concentratevi su questo punto. Iniziate a inspirare profondamente, cercando di espandere lo stomaco il più possibile mentre le vostre mani si sollevano lentamente. Adesso, espirate ad una lentezza raddoppiata rispetto all’inspirazione, facendo rientrare i muscoli addominali mentre le mani scendono. Ripetete. Riempire e svuotare una bottiglia. Quando viene versato del liquido in una bottiglia, la prima cosa che si riempie è il fondo. Quando il liquido viene rovesciato, il fondo si svuota prima della parte superiore. Immaginate che il tronco del vostro corpo sia 75 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica • • • una bottiglia e riempitelo inspirando dell’aria dal basso verso l’alto. Quindi, svuotatelo allo stesso modo, prima l’addome inferiore, quindi quello superiore e infine il petto. Ripetete per non più di tre volte prima di ricominciare a respirare normalmente. Farmaco immaginario. Mentre respirate, immaginate di inalare un farmaco broncodilatatore che ha lo scopo di rilassare e allargare le vie di passaggio dell’aria nei bronchi e nei polmoni, facendo fluire l’aria più facilmente. Mentre espirate sentite il leggero allentamento di queste vie. Ripetete. Sasso nel pozzo. Immaginate che nel vostro addome ci sia un pozzo profondo. Mentre respirate, immaginate di inseguire un sasso che sta cadendo nel pozzo, durante ogni espirazione. Onde o maree. Sdraiati sulla schiena, immaginate che il vostro respiro, per due o tre cicli, scorra insieme alle onde del mare o alle maree. Sentite il flusso passivo che entra e esce. Anche le tecniche di Rilassamento possono supportare il soggetto nella gestione delle manifestazioni fisiologiche dell’ansia, ed in particolare il Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson è una tecnica utilmente adottata nell’applicazione della Desensibilizzazione Sistematica (per questa ultima tecnica vedi il capitolo sulla Fobia Specifica). Secondo il modello dell’autoefficacia (Bandura, 1977), alla base del Disturbo agorafobico vi è la percezione della carenza di abilità di fronteggiamento: la convinzione di non saper affrontare con padronanza situazioni potenzialmente pericolose innesca reazioni di ansia e panico. Il trattamento definito “guided mastery therapy” (terapia della padronanza guidata) è finalizzato all’acquisizione del senso di padronanza. La situazione temuta viene suddivisa in attività brevi ed ordinate secondo una gradualità di difficoltà che il paziente deve eseguire con l’aiuto attivo del terapeuta. Quest’ultimo viene poi progressivamente ridotto per facilitare la capacità di fronteggiamento autonomo della situazione fobica. Tale tipo di intervento, sebbene si articoli in un trattamento prevalentemente comportamentale, determina un cambiamento anche a livello cognitivo secondo il principio per cui gli individui acquisiscono la percezione del senso di efficacia personale attraverso le esperienze di successo nell’esecuzione di determinati compiti (Aquilar, Del Castello, 1998). Per il trattamento degli Attacchi di Panico alcuni autori, come Barlow (1991) e Clark (1986), proposero un protocollo che prevedeva l’Esposizione Graduata in immaginazione, l’Autoesposizione in vivo, il Rilassamento Respiratorio, la Ristrutturazione Cognitiva e l’Esposizione Enterocettiva. Questa ultima fa riferimento all’estinzione della paura, concettualizzando l’Attacco di Panico come risposta d’allarme condizionata di fronte a particolari stimoli fisici. Poiché il DAP secondo il modello cognitivo è una “fobia degli stimoli corporei interni”, l’obiettivo consiste nel modificare l’associazione tra sensazioni fisiche e reazioni di panico. La tecnica prevede l’induzione di sensazioni simili ai sintomi del panico attraverso l’iperventilazione o l’esercizio fisico che produca sensibili modificazioni nell’apparato cardiovascolare. Di fronte alla sperimentazione dei sintomi fisici conseguenti, il soggetto viene addestrato a modificare gli errori cognitivi che ne determinano l’interpretazione catastrofica. Questa tecnica utilizza il colloquio basato sullo stile socratico. 76 I Disturbi d’ansia TECNICHE DI ESPOSIZIONE A STIMOLI ENTEROCETTIVI Una persona che presenta un DAP, non riuscendo comprendere le reazioni fisiologiche legate alle condizioni d’ansia, cerca di evitarle e tende a drammatizzare. Un buon numero di queste sensazioni viene sperimentato spontaneamente dalle persone quando sono arrabbiate, eccitate o affaticate. Invece, le persone con un Disturbo di Panico valutano come minacciose queste reazioni normalissime. La paura basilare è quella di stare male e ognuno mostra di temere soprattutto alcuni sintomi specifici. Pur di non stare male, una persona con Attacchi di Panico escogita una serie di meccanismi di evitamento e di difesa, che gli permettono di evitare ogni emozione. Probabilmente, se un paziente riesce a non manifestare alcun tipo di emozione, può anche non presentare nessuna crisi, ma il timore che ogni evento possa suscitare emozioni, lo porterà a impoverire sempre più la sue esistenza. Inoltre, la paura evitata a lungo non può essere superata ed estinta, anzi tende ad aumentare sempre più fino a innescare il circolo vizioso della “paura della paura”. Per spezzare questo circolo, alimentato dall’interpretazione erronea di sensazioni fisiologiche normalissime, si propongono al paziente gli esercizi di Esposizione Enterocettiva. Questi servono a suscitare reazioni corporee simili a quelle che si manifestano spontaneamente in caso d’ansia. L’intento di tali “esperimenti” è di contraddire l’abitudine a sfuggirli o evitarli, quindi di imparare gradualmente a non drammatizzarli, e di costatare che le aspettative catastrofiche tanto temute non si avverano. Cioè si può avere un momento di tachicardia senza per questo morire o rischiare un infarto. In questo modo si aiuta il paziente a cambiare il proprio stile di comportamento, gli atteggiamenti e le aspettative. Questi esercizi possono essere appresi nello studio del terapeuta e proposti come compito a casa e quindi eseguiti nelle situazioni di vita reale. Gli esercizi proposti nelle diverse ambientazioni spesso hanno caratteristiche diverse, ma si dimostrano molto utili come strategia di assessment, dato che permettono un’esposizione dal vivo alle situazioni temute. Con questo tipo di esposizione si possono mettere in luce i pensieri, le emozioni e le aspettative, che si manifestano in modo molto più preciso di quanto non avverrebbe con una semplice verbalizzazione. Le tecniche di Esposizione Enterocettiva sono utilizzate spesso perché costituiscono un valido esperimento comportamentale per mettere alla prova le idee disfunzionali o per consentire al paziente di adottare nuove convinzioni più adattive. Nell’utilizzare le esposizioni a scopo terapeutico, si sceglie l’esercizio prendendo come spunto le sensazioni temute particolarmente dal paziente. Gli esercizi che suscitano una particolare sensazione, come ad esempio il capogiro, possono essere utilizzati per mettere alla prova le convinzioni che riguardano tale sensazione. Può capitare che durante un assessment un paziente possa avere una crisi di panico e se interpreta in modo catastrofico le proprie sensazioni potrà interrompere precocemente la prova di induzione. Se l’attacco di panico comprare in presenza del terapeuta, è possibile osservare direttamente l’esacerbarsi della crisi ed in questo contesto protetto il paziente ha la possibilità di apprendere come gestire l’attacco per poi analizzarne le caratteristiche. Se, al contrario, l’attacco non compare, le convinzioni del paziente in merito alla pericolosità di certi stimoli enterocettivi certamente si indeboliscono. Molti pazienti, dopo aver sperimentato in prima persona che le sensazioni tanto temute possono essere provocate volontariamente e interrotte senza grosse difficoltà, ne ricavano un senso di sicurezza e una spinta ad affrontare situazioni a lungo evitate. Per far si che le tecniche menzionate siano efficaci è necessario scegliere quegli esercizi in grado di indurre sensazioni simili a quelle che il paziente associa agli Attacchi di Panico. L’obiettivo non è di far stare male il paziente ma di mettere alla prova le sue convinzioni catastrofiche. In pratica lo si mette in grado di affrontare un episodio di vertigine o di 77 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica derealizzazione senza ricorrere all’evitamento o alla fuga, giungendo, così a costatare che si tratta di episodi forse sgradevoli ma sicuramente non pericolosi. In tal modo, il paziente deve poter affermare e comprendere che anche se si sta male non si muore, non si impazzisce, non si perde il controllo. La Ristrutturazione Cognitiva rappresenta la conseguenza più diretta di questi interventi, che hanno anche una funzione di decondizionamento e quindi indeboliscono il collegamento, quasi automatico, tra sintomi e sviluppo dell’Attacco di Panico. È utile, prima di proseguire con le esposizioni, affrontare e discutere con il paziente delle sensazioni che potrebbero essere indotte dall’esercizio e dei pensieri catastrofici che potrebbero derivarne. Inoltre, utilizzando una scala da 0 a 100, dove zero equivale a “non credo assolutamente che un episodio di tachicardia sia pericoloso” e cento indica la profonda convinzione che tale sintomo sia associato a un estremo pericolo, si valuta anche l’intensità delle cognizioni catastrofiche e delle alternative non catastrofiche. In un primo momento l’ esercizio scelto viene eseguito nello studio del terapeuta ed è di breve durata, alcuni minuti, il terapeuta funge da modello e poi descrive le sensazioni che vengono provate. DIALOGO CON METODO SOCRATICO L’oggetto del “sapere umano” , il sapere più importante , è anche il più difficile da raggiungersi in quanto non può essere definito una volta per tutte e per tutti ma può essere solamente trovato individualmente da ciascuno, e ogni volta di nuovo, attraverso la ricerca personale che ognuno deve condurre per tutta la vita. La ricerca da intraprendere per conoscere l’essere umano è eminentemente pratica; il conoscere è, infatti, una pratica che, conoscendolo, costituisce il suo oggetto, un oggetto che non può essere, dunque, posseduto ma solo cercato per tutta la vita. Ciò che meglio dimostra il significato costitutivo e pratico del sapere umano è il metodo di cui esso deve servirsi. Il cosiddetto Metodo Socratico, che si utilizza per la ricerca della conoscenza, consiste nel dialogare con l’interlocutore mettendo in evidenza le contraddizioni e le distorsioni delle sue affermazioni, spesso superficiali, e facendo venire alla luce le conseguenze disfunzionali delle sue più profonde convinzioni. In tal modo l’esito della ricerca, in siffatta maniera, non è il raggiungimento di una nuova conoscenza che lascia immutata l’identità di chi la possiede. Il metodo mette in atto una trasformazione profonda della persona che ha intrapreso, la ricerca. Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva si interviene per ridurre sia l’ipervigilanza verso i sintomi fisici sia l’ansia anticipatoria rispetto al verificarsi degli attacchi. Il trattamento cognitivo comportamentale del DAP insegna ai pazienti a valutare le sensazioni corporee sperimentate come naturali, adattive e non dannose e ad assumere il controllo delle proprie reazioni emotive. Andrews e coll. (2003) hanno elaborato un programma intensivo della durata di tre settimane, le prime due con un addestramento quotidiano e la successiva in cui il paziente si impegna in attività di Esposizione autodiretta. Il training si articola in un Intervento Psicoeducativo, con l’acquisizione di tutte le informazioni su panico e agorafobia (cause, manifestazioni…), seguita dall’apprendimento del Controllo dell’Iperventilazione. Si passa poi all’addestramento al Rilassamento che prepara il paziente ad 78 I Disturbi d’ansia affrontare la successiva Esposizione Graduale alle situazioni scatenanti. Di particolare efficacia risultano quindi l’apprendimento a “pensare in modo funzionale” e la fase di “riproduzioni delle sensazioni di panico” che insegna ad utilizzare efficacemente le tecniche acquisite. 4.4 Casi clinici Il caso di Aida - “Cosa mi sta succedendo, sto male, adesso svengo…” Diagnosi: Disturbo di Panico. Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di stato elevata, ansia di tratto prossima alla significatività. Significativo il punteggio indicatore di instabilità emotiva e quello relativo alla presenza di paure, prevalentemente riferite a preoccupazioni circa la propria incolumità ed alle situazioni che evocano malattie. Aida è una ragazza di 26 anni che lamenta un problema d’ansia. Ha avuto di recente una crisi di panico con tremore, tachicardia e paura di svenire. Si trovava in un negozio dove avvertiva molto caldo e le mancava l’aria. È stata soccorsa dai familiari e condotta al pronto soccorso. I controlli medici hanno escluso cause organiche, le viene diagnosticato un problema d’ansia e le vengono prescritti un farmaco ansiolitico ed un antidepressivo. Dopo quell’episodio non ha più avuto crisi ma vive in uno stato di perenne tensione che spesso sfocia in forti attacchi di ansia acuta. Storia del caso Vive con il padre ed il fratello, commercianti. La madre è deceduta per malattia da circa un anno. Ha un diploma in ragioneria ed è titolare di un’attività commerciale. Definisce “normale” il suo ambente familiare, con la madre come punto di riferimento per tutti. Riferisce di essere stata “affettuosa, viziata e coccolata” e di nutrire una gelosia nei confronti del fratello più grande perché “ha avuto più di me e mamma aveva un debole per lui”. Il clima familiare è stato caratterizzato da forti apprensioni a causa di problemi di salute del padre e del fratello: “io non capivo bene, c’era molta preoccupazione ed io di nascosto cercavo di sapere ma nessuno mi diceva niente”. Anche la lunga malattia della madre è stata protetta agli occhi della figlia che si teneva emotivamente distante dal problema, continuando a fare completamente riferimento a lei per tutto, in una condizione di totale dipendenza affettiva e di non autonomia personale. Anche di fronte all’aggravarsi delle condizioni della mamma, Aida non riesce a comprenderne la reale dimensione “non chiedevo ma leggevo i risultati delle analisi di nascosto… non riuscivo a darle conforto, lo desideravo ma non ci riuscivo, ero in imbarazzo”. Sente molto la mancanza della madre sia dal punto di vista affettivo 79 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica sia per il suo ruolo di gestione e di organizzazione della quotidianità. Oggi in famiglia ha assunto lei quel ruolo, e sente il peso della responsabilità che comporta, con senso di colpa e sentimenti di rabbia “perché queste cose le devo fare io, è scontato che ci devo pensare io…”. Il rapporto con il padre è sempre stato conflittuale, come riflesso delle tensioni tra i genitori: ”lui ha fatto soffrire la mamma, è un dongiovanni … l’ho odiato … non so cosa provo per lui”. Ricorda con rabbia l’atteggiamento impotente della madre perché avrebbe potuto lasciarlo ma le diceva: “non sono nelle condizioni per farlo, tu cerca di essere indipendente”. Attualmente tra lei ed il padre non c’è accordo e litigano spesso. Da circa sei mesi si è concluso un rapporto sentimentale durato otto anni e nello stesso periodo perde un amico al quale era molto legata. Pur avendo molti amici Aida si sente “sola, infelice e piena di responsabilità”. Concettualizzazione e trattamento Il Disturbo di Panico si manifesta in un soggetto con problematiche relative alle aree della dipendenza affettiva e dell’autonomia personale. Anche se dal punto di vista pratico Aida è autosufficiente, nella dimensione emotiva questa crescita non è avvenuta in quanto ha legato la propria sicurezza al rapporto con le figure di riferimento, madre e fidanzato, ed alla loro presenza. Aida ha appreso la risposta d’ansia nell’ambito della famiglia quando, di fronte ai problemi di salute dei suoi familiari, si originava uno stato di incertezza e di allarme che lei non riusciva a decodificare e comprendere. La presenza della madre con il suo atteggiamento protettivo la supportava in questo clima e l’ansia non si è mai manifestata fino alla sua scomparsa. Seguendo il modello cognitivo, è stato costruito il Circolo del Panico e gli antecedenti sono stati individuati in situazioni dalle quali è difficile allontanarsi (per es. stare con gli amici e non avere la propria macchina o trovarsi in un locale chiuso lontano dalla porta) ed in condizioni di aumento della temperatura ambientale. In queste situazioni l’attivazione del circolo vizioso è determinata da una sensazione fisica inusuale o da una contrarietà o contrattempo. La componente cognitiva è stata riconosciuta nel pensiero automatico “cosa mi sta succedendo, sto male, adesso svengo…”. L’attivazione fisiologica si manifestava con palpitazioni, sudorazione e difficoltà respiratorie. I comportamenti protettivi consistevano nella ricerca attiva dei familiari o degli amici. Dopo aver ricostruito il Circolo del Panico, Aida lo fa proprio e per modificare il pensiero d’allarme di fronte ai sintomi si dà l’autoistruzione “so che è una reazione non pericolosa del mio organismo, se non ci penso mi passa”. La ragazza ha personalizzato la consapevolezza di poter indirizzare i propri comportamenti in maniera efficace con la frase: “è proprio vero. Se uno pensa, pensa e non fa niente poi si trova male. Se invece fa magari poi si accorge che sta meglio”. Successivamente è stato praticato con successo un Training sull’Assertività. Al termine del trattamento, durato un anno, Aida non ha più manifestazioni di ansia disturbante. 80 I Disturbi d’ansia Ha acquisito uno stile relazionale improntato all’affermatività che le ha consentito di rivedere anche il proprio ruolo all’interno della famiglia e di gestire adeguatamente le doverizzazioni ed i sensi di colpa. Il caso di Tania - “… si può diventare pazzi?” Diagnosi: Disturbo di Panico con Agorafobia. Dal CBA 2.0 scale primarie: significativo il punteggio relativo alla presenza di paure, prevalentemente riferite a preoccupazioni circa la possibilità di perdere il controllo ed a situazioni di allontanamento da casa, viaggi e spostamenti. Tania ha 44 anni e da circa tre soffre di improvvisi capogiri con sensazioni di perdita dell’equilibrio, specialmente quando è fuori casa. Ciò la porta a non poter più uscire da sola perché ha bisogno di potersi appoggiare al braccio di qualcuno in caso di malore. Il primo episodio è stato improvviso, durante un concerto all’aperto, nel quale ha sperimentato un violento capogiro che l’ha indotta a chiedere di essere accompagnata a casa. Segue una terapia farmacologia con un ansiolitico ed un antidepressivo. Storia del caso Tania è sposata da venti anni ed ha due figli. I rapporti con il marito sono condizionati dal suo problema, in particolare dalla sue paure e dai continui cambiamenti di umore conseguenti alle preoccupazioni. Descrive i rapporti con la famiglia d’origine come buoni ed il padre, deceduto da qualche anno, come autoritario e poco presente in famiglia per motivi di lavoro. Nei confronti di una sorella minore riferisce di aver vissuto sentimenti di forte gelosia perché privata del ruolo di centralità che aveva avuto in famiglia fino a quel momento. Attualmente i loro rapporti sono definiti conflittuali. La donna lamenta, tra le conseguenze più pesanti del disturbo, la difficoltà a “… dover dipendere dagli altri. Non lo sopporto. Io ho sempre fatto tutto da sola, non ho chiesto aiuto neanche in situazioni difficili”. Concettualizazione e trattamento L’obiettivo generale della terapia è stato l’aumento della consapevolezza della paziente dei propri processi di costruzione della realtà che contribuivano al mantenimento del Disturbo, al fine di modificarne gli aspetti disfunzionali e consentire modalità più flessibili di adattamento agli eventi stressanti. In particolare, la Ristrutturazione Cognitiva ha rappresentato l’intervento principale, con l’Addestramento al Rilassamento per il controllo della sintomatologia fisiologica. Sono state inoltre impiegate la Desensibilizzazione Sistematica in vivo ed il Training Assertivo. 81 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 1. Intervento Psicoeducativo. L’impiego di questa tecnica si è reso necessario in quanto la paziente aveva sviluppato nel tempo una serie di convinzioni errate ed irrealistiche sui sintomi che sperimentava. Soprattutto, Tania temeva fortemente di impazzire o di essere posseduta da uno spirito maligno. A tali convinzioni si aggiungeva un basso livello di autoefficacia circa la possibilità di poter raggiungere un controllo sulla sintomatologia ansiosa e contribuire attivamente al superamento del Disturbo. Particolarmente utile è stato per Tania riuscire a percepire e riconoscere i primi segnali fisiologici indicatori della presenza di un leggero stato di attivazione che, se trascurati, potevano condurre alla crisi di ansia acuta e successivamente al panico. 2. Training di Rilassamento Muscolare (Wolpe, forma abbreviata). 3. Ristrutturazione Cognitiva. Attraverso l’analisi delle situazioni nelle quali si scatenavano i sintomi, la paziente ha evidenziato un forte timore del giudizio altrui. La preoccupazione di essere osservata e valutata negativamente le faceva sperimentare un’ansia anticipatoria: “Se mi vedono barcollare pensano che non sono normale, forse che sono ubriaca e rideranno di me”. La consapevolezza dell’influenza che questi pensieri avevano sul suo stato emotivo, l’ha indotta a metterli in discussione ed a sostituirli attraverso un autodialogo più funzionale: “Come faccio a sapere che stanno valutando il mio modo di camminare? Che prove ho che si siano accorti dei miei sintomi? È più probabile che stiano pensando ai fatti loro”. Un’ulteriore acquisizione circa la comprensione del suo problema è stato per Tania verificare, attraverso la compilazione delle schede di automonitoraggio, che le capitava di sperimentare ansia forte quando si trovava in luoghi nei quali le era già capitato di sentirsi male. Questo ricordo attivava automaticamente gli stessi sintomi avvertiti in precedenza ed il desiderio di allontanarsi aumentava in proporzione alla paura che stesse per sentirsi male di nuovo. Riconosciuti questi pensieri come fattori scatenanti delle crisi d’ansia, la paziente è riuscita a confutarne la validità ed a sostituirli con più adattive ipotesi di possibilità: “… potrebbe accadere o non accadere in questo luogo come in qualsiasi altro”. 4. Desensibilizzazione Sistematica in vivo. Tania ha ordinato gerarchicamente, in ordine crescente di difficoltà, i luoghi e le situazioni che aveva fino a quel momento evitato o che temeva fortemente di dover affrontare. Ha cominciato ad affrontarle con gradualità, inizialmente con l’aiuto di uno dei figli che l’ha affiancata nelle prime fasi della sperimentazione. Progressivamente, è stato ridotto l’ausilio esterno, si è aumentato il tempo di esposizione ed è stata ampliata la gamma delle situazioni temute, fino alla completa autonomizzazione della paziente. 5. Training Assertivo. Questo intervento è stato finalizzato all’elaborazione ed alla gestione di alcune conflittualità che riguardavano il rapporto con la sorella minore dalla quale non si sente rispettata: “… non mi fa finire di parlare, mi interrompe per dire la sua, non mi ascolta … Io sto zitta per evitare il peggio. Non c’è rispetto per me. Ho paura che se comincio a tirare fuori quello che penso si potrebbe arrivare alla rottura”. 82 I Disturbi d’ansia Attraverso la tecnica del Role Playing, Tania ha verificato come la propria condotta anassertiva aumentava il suo stato di disagio ed il suo malessere. “Essendo assertiva sicuramente mi sentirei meglio … e forse riuscirei a farmi ascoltare e a farmi capire da mia sorella”. La terapia si è conclusa dopo un anno e la paziente ha raggiunto un soddisfacente livello di adattamento alla realtà quotidiana con la scomparsa della sintomatologia agorafobica. A conclusione del trattamento, Tania si è espressa in questi termini: “La mia maggiore soddisfazione, oltre al fatto di stare meglio, è di aver recuperato la fiducia nelle mie capacità che avevo perso in questi ultimi anni”. Il caso di Irina - “…la morte arriva all’improvviso” Diagnosi: Disturbo di Panico con Agorafobia. Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di stato e di tratto elevate. Elevato punteggio alle scale delle paure relative in particolare alla possibilità di attacco cardiaco, di svenire, di perdere il controllo, di diventare pazza, del cancro, di usare i mezzi pubblici e del terremoto. Irina ha 35 anni. Riferisce di soffrire di frequenti malori, quasi quotidianamente, che si manifestano con: vampate di calore, tachicardia, sudorazione, affaticamento, dolore al petto, sensazioni di svenimento. In quei momenti teme un infarto, un ictus e la morte imminente e per questo chiede ad un familiare di essere portata al pronto soccorso. Lì viene visitata, sottoposta ad elettrocardiogramma e dimessa con diagnosi di attacco di panico e somministrazione di un ansiolitico. Avverte che il suo problema la condiziona pesantemente e rischia di compromettere la serenità dei rapporti con i familiari. È stanca di ricorrere continuamente a visite mediche e accertamenti che riconosce eccessivi e conseguenza di paure irragionevoli. Irina lamenta anche problemi relativi al peso, obesità, e talvolta si procura il vomito. Storia del caso È sposata da nove anni e vive con il marito, di poco più giovane, con il quale ha un rapporto sereno ed affettuoso. Lavora presso una ditta come ragioniera. Il padre è deceduto da circa sette anni a causa di un ictus. Ha un fratello di 28 anni con il quale riferisce un buon rapporto. Il clima familiare è sempre stato caratterizzato da calore e comprensione. Dopo un anno di matrimonio il marito si sottopone, con esito favorevole, ad alcuni mesi di cura farmacologia per un “esaurimento nervoso”, a seguito del quale perde anche il lavoro. L’anno successivo Irina perde il padre. 83 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Concettualizzazione e trattamento Dall’analisi del Diario del panico, che Irina ha compilato con cura e precisione, è emerso che gli attacchi insorgevano nei momenti nei quali non era impegnata in attività che richiedevano attenzione e concentrazione. In tali circostanze si presentavano pensieri negativi relativi alla paura di un attacco cardiaco e di morire: “in quei momenti mi sembra di impazzire”, “… la morte arriva all’improvviso”, “questi sintomi mi avvisano che c’è qualcosa che non va”. Seguendo i modelli di Barlow e di Clark il caso è stato concettualizzato come “interpretazione catastrofica di eventi fisici e mentali, erroneamente considerati segni di un imminente disastro, come svenire o morire”. In particolare, nel caso di Irina il verificarsi di alcuni eventi traumatici (evento critico) – morte del padre, problemi di salute e successivo periodo di disoccupazione del marito – hanno determinato una condizione di stress psicofisico con un aumento dell’ansia e successive crisi di panico. Questa situazione ha originato una modificazione nei processi attentivi (attenzione selettiva) che si sono focalizzati su reazioni fisiologiche (frequenza cardiaca, respirazione, mal di testa …) con conseguente interpretazione catastrofica (fattore cognitivo). Le rimuginazioni relative a morte imminente hanno mantenuto l’attenzione selettiva sul corpo, amplificando la frequenza e l’intensità di alcuni sintomi ed incrementando i livelli d’ansia (fattore affettivo). I comportamenti di controllo e di evitamento (componente agorafobica) e la continua ricerca di rassicurazioni (fattore comportamentale) hanno ulteriormente rafforzato sia le preoccupazioni relative allo stato di salute sia l’intensità e la frequenza degli attacchi d’ansia. Alla paziente è stata insegnata una tecnica di Controllo della Respirazione che avrebbe poi impiegato durante gli esperimenti di induzione del sintomo di iperventilazione attraverso l’Esposizione Interocettiva. Irina doveva respirare rapidamente per circa un minuto e segnalare il momento in cui iniziava a percepire sensazioni simili a quelle provate durante gli attacchi. In un primo momento le è stato chiesto di utilizzare la tecnica di Controllo della Respirazione precedentemente appresa. Successivamente, mentre sperimentava i sintomi, doveva descrivere dettagliatamente gli oggetti presenti nella stanza. In questo modo Irina poteva comprendere il ruolo dell’attenzione focalizzata sul corpo durante le crisi di panico ed effettuare esercizi finalizzati a decentrare l’attenzione da sé. Seguendo il modello del Circolo del Panico, la paziente viene motivata a ridurre gradualmente i comportamenti protettivi e di evitamento. Dopo aver modificato anche le convinzioni erronee relative al panico, si procede all’Autoesposizione Graduale in vivo. La terapia si è conclusa dopo sette mesi di trattamento. Il caso di Pedro - “Non posso uscire da solo … e se svengo?” Diagnosi: Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico. Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto molto elevata. Si rileva labilità emozionale con tendenza a somatizzare in situazioni di particolare stress. Sono riferite ac84 I Disturbi d’ansia centuate risposte psicofisiologiche come dolori addominali, nodo alla gola, vertigini, tremori e sudorazione. Significativi i punteggi relativi alle paure di luoghi affollati e di allontanamento da luoghi ritenuti sicuri. Pedro ha 44 anni e da circa un anno ha disturbi che lo condizionano nella sua vita di relazione: ansia, paura di uscire da solo e paura di sostare in luoghi affollati perché teme gli possa accadere qualcosa, disturbi gastrici ed insonnia. Nelle situazioni di maggiore disagio avverte i seguenti sintomi: tachicardia, sudorazione, tremore alle gambe, disturbi allo stomaco, difficoltà a respirare. Identifica l’origine dei suoi problemi d’ansia con il dissesto economico subito in conseguenza del fallimento di un’attività commerciale della quale era titolare. Da allora ha iniziato a sentirsi a disagio con persone estranee alla famiglia, delle quali temeva il giudizio per sue presunte debolezze. Ha cominciato a limitare le uscite e selezionare le amicizie: “… erano freddi nei miei confronti, a volte cattivi quando facevano certe battute su di me”. Solo in casa ha trovato tranquillità e sicurezza e quando è costretto ad allontanarsene teme che gli altri si possano accorgere dei suoi malesseri e giudicarlo. Evita supermercati, banche, ospedali, ristoranti ed altri luoghi affollati ed evita il treno. Da qualche mese si sposta in macchina da solo nei pressi dell’abitazione mentre per spostamenti maggiori chiede sempre di essere accompagnato. Storia del caso Sposato da ventiquattro anni, ha un sereno rapporto con la moglie. Ha due figlie nei confronti delle quali ha un atteggiamento iperprotettivo, preoccupandosi eccessivamente della loro salute e limitandole molto nelle uscite. Lavora nel campo della ristorazione ma senza particolare soddisfazione specialmente per difficoltà di rapporto interpersonale. Alcuni anni prima ha avuto gravi problemi economici. Rimasto orfano di madre all’età di otto anni, ha studiato in collegio dove ha conseguito la licenza media inferiore. Ricorda quel periodo come un’esperienza molto triste nella quale si sentiva solo e lontano dagli affetti familiari. Concettualizzazione e trattamento Al fine di ridurre le risposte psicofisiologiche connesse all’ansia, sono state impiegate la tecnica di Rilassamento Muscolare Progressivo nella forma ridotta di Wolpe e la Respirazione Diaframmatica. Attraverso la Desensibilizzazione Sistematica, unitamente alla modificazione dei pensieri disfunzionali relativi alle manifestazioni ansiose ed alle temute conseguenze catastrofiche, Pedro è riuscito a superare gli evitamenti comportamentali, prima in immaginazione e successivamente in vivo. La gerarchia costruita dal paziente prevedeva 12 item, dei quali 10 riferiti a situazioni ansiogene ma comunque affrontate e 2 assolutamente evitate: - andare da solo in macchina per recarsi al lavoro (SUD 90); - spostarsi da solo in macchina, per lavoro, verso una località distante oltre 50 chilometri da casa (SUD 100). 85 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Per affrontare la prima è stata richiesta la collaborazione della moglie secondo il seguente schema: - - - - lunedì, Pedro siede accanto alla moglie che guida; martedì, lui guida e la moglie gli siede accanto; mercoledì, lui guida la sua auto e la moglie lo segue con la propria; giovedì, Pedro guida da solo e raggiunge il posto di lavoro. Durante l’Esposizione in vivo, il paziente ha continuato a monitorare i pensieri prima, durante ed al termine della prova. Per affrontare l’allontanamento di oltre 50 chilometri da casa, è stata approntata un’ulteriore gerarchia di stimoli ansiogeni relativi alla paura di sentirsi male in macchina (14 item) che è stata affrontata prima in immaginazione e poi in vivo. Gerarchia di situazioni costruita dal paziente • • • • • • • • • • • • • • Ascoltare musica rilassante sul divano in casa La sera prima della partenza per Napoli Al risveglio la mattina della partenza Mentre mi preparo per uscire di casa Esco dalla porta di casa da solo Apro il garage Entro in macchina Sono per strada e lascio la mia casa alle spalle Sono per strada ormai lontano da casa Arrivo al casello dell’autostrada Ho preso il biglietto al casello Prendo l’autostrada Ho fatto già alcuni chilometri di autostrada Ho fatto molti chilometri, c’è traffico e nessuna possibilità d’uscita livello d’ansia 0 5 10 15 25 30 40 55 60 65 70 80 90 100 Item Dopo la conclusione del trattamento, durato un anno, Pedro ha migliorato sensibilmente la qualità della propria vita, con effetti positivi sulla considerazione di sé e sull’autoefficacia. 86 CAPITOLO 5 Fobia specifica 5.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole provocata dalla presenza o dall’attesa di un oggetto o situazione specifici (ad esempio: volare, altezze, animali, essere sottoposti ad iniezione, vedere il sangue). B. L’esposizione allo stimolo fobico provoca quasi inevitabilmente una risposta ansiosa immediata che può prendere forma di un attacco di panico legato a, o predisposto da, una situazione. Nota: nei bambini l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi d’ira, irrigidendosi o aggrappandosi a qualcuno. C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole. Nota: nei bambini questa caratteristica può essere assente. D. La situazione fobica viene evitata oppure sopportata con ansia e disagio intensi. E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella situazione temuta interferiscono in modo significativo con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico), con le attività sociali o le relazioni con gli altri, oppure è presente un disagio marcato per il fatto di avere la fobia. F. Nei soggetti con meno di 18 anni, la durata è di almeno 6 mesi. G. L’ansia, gli attacchi di panico o l’evitamento fobico associati all’oggetto o alla situazione specifici non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come il Disturbo Ossessivo Compulsivo (ad esempio, paura dello sporco in una persona con ossessioni di contaminazione), il Disturbo Post Traumatico da Stress (ad esempio, evitamento di stimoli associati ad un grave evento stressante), il Disturbo d’Ansia di Separazione (ad esempio, evitamento della scuola), la Fobia Sociale (ad esempio, evitamento di situazioni sociali per paura di rimanere imbarazzati), il Disturbo di Panico con Agorafobia o l’Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico. Specificare il tipo: tipo animali tipo ambiente naturale (ad esempio, altezze, temporali, acqua) 87 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica tipo sangue, iniezioni, ferite tipo situazionale (ad esempio, aerei ascensori, luoghi chiusi) altro tipo (ad esempio, evitamento fobico di situazioni che possono portare a soffocarsi, vomitare o contrarre una malattia; nei bambini evitamento di rumori forti o di personaggi mascherati) Si riconoscono i seguenti tipi di fobie: - - - - tipo animali, con esordio generalmente durante l’infanzia; tipo ambiente naturale, come temporali, altezza o acqua; tipo sangue, iniezioni o ferite, con elevata familiarità; tipo situazionale, come luoghi chiusi, ascensori, trasporti pubblici, volare…, le più frequenti in ambito clinico. I contenuti non differiscono da quelli delle paure comunemente rilevabili nella popolazione non fobica nella quale essi sono presenti a livelli quantitativamente minori, senza compromissione del normale funzionamento dell’individuo. La fobia si differenzia pertanto, rispetto alla paura, per le seguenti caratteristiche: - è sproporzionata rispetto alla situazione; - non può essere controllata da pensieri razionali; - produce l’evitamento sistematico della situazione temuta. 5.2 Modelli comportamentali e cognitivi Marks (2002) rileva che mentre i contenuti delle fobie sono cambiati nel corso degli anni, le caratteristiche dei soggetti fobici non hanno subito analoghe modificazioni. Con il progresso scientifico sono comparse nuove paure, come quella relativa alle radiazioni, ma se ne sono estinte altre, come la demonofobia o la satanofobia presenti nel sedicesimo secolo. Si distinguono paure “focali”, reazioni a specifiche situazioni stimolo in genere poco numerose, e “diffuse”, riferite ad una condizione di reattività ad un elevato numero di situazioni stimolo. Pertanto, le prime sarebbero più facilmente eliminabili (Rachman, 2004). L’acquisizione delle fobie è riconducibile ad un apprendimento per condizionamento classico: uno stimolo inizialmente neutro, associato successivamente ad uno stimolo avversivo, assume valenza fobica (Mowrer, 1947). Qualsiasi stimolo può acquisire tale caratteristica, anche se alcuni hanno maggiori probabilità di altri, e per il principio della generalizzazione la gamma degli stimoli fobici può estendersi. Per effetto del condizionamento operante, il comportamento di evitamento dell’oggetto fobico viene mantenuto perché rinforzato dalla riduzione dell’ansia. Seligman ha individuato alcuni punti deboli in relazione al semplice condizionamento: le fobie non erano uniformemente distribuite fra tutti i possibili stimoli, ma le 88 I Disturbi d’ansia paure fobiche erano soprattutto quelle del buio, dell’acqua, dell’altezza, degli insetti o degli animali piccoli. Poiché quindi le fobie tendevano a raggrupparsi più facilmente intorno ad alcuni oggetti o situazioni temuti, Seligman ricercò un denominatore comune e suggerì che certi stimoli fobici potevano aver rappresentato una minaccia biologica significativa durante il processo evolutivo della nostra specie. Egli ha ipotizzato che per alcune associazioni vi fosse una predisposizione, cioè che fossero più facilmente acquisibili di altre (Seligman, 1971). Tuttavia gli studi più recenti non sono riusciti a dimostrare l’aumento della velocità di acquisizione della paura per stimoli “predisposti” che Seligman aveva prospettato. Una difficoltà con i dati relativi al condizíonamento precoce è l’incompatibilità con i resoconti retrospettivi di acquisizione della paura. Di Nardo et al. (1988) hanno riferito che mentre quasi i due terzi dei pazienti con paura dei cani riportavano un evento condizionante, un numero equivalente di non fobici riportava in maniera analoga un’associazione fra cani ed eventi avversi. Un altro problema dei resoconti dei condizionamenti da trauma diretto riguarda i dati sull’acquisizione indiretta delle fobie. Ad esempio quando si osserva qualcuno reagire con panico alla presenza di un oggetto, si può acquisire la stessa reazione di paura (Mineka, 1988). Rescorla (1968) ha proposto che nel condizionamento classico delle fobie, piuttosto che una contiguità fra gli stimoli, vi debba essere una contingenza tra lo stimolo condizionato (SC) e lo stimolo incondizionato (SI), in modo da poter considerare il primo un segnale dell’esistenza dello SI. Una risposta a questi limiti è l’ipotesi che esistano diversi percorsi che portano a paure fobiche. Rachman (1991) ne ha identificati tre: il condizionamento, la trasmissione indiretta e l’acquisizione verbale. Il percorso comune finale di ognuno di essi è l’acquisizione di una rappresentazione che collega lo stimolo ad un risultato temuto o ad un evento avverso. Per estrapolazione, le tre strade che portano alla paura possono essere concettualizzate come modi diversi di acquisire convinzioni sulle relazioni contingenti. Primo, l’organismo può acquisire conoscenza di una relazione contingente attraverso l’esperienza diretta. Secondo, nell’acquisizione indiretta l’organismo si rende conto che il modello osservato ha una reazione di paura e apprende che dovrà temere ed evitare lo stimolo. Terzo, la trasmissione verbale può essere considerata ugualmente un mezzo per trasferire da un organismo ad un altro relazioni contingenti. Pertanto, un punto di vista più cognitivo sul condizionamento (Rapee, 1991 a) permette di ipotizzare che ognuno dei diversi percorsi verso la paura condivida con gli altri la caratteristica di permettere di farsi una convinzione sull’esistenza di situazioni rilevanti per la paura. Sulla base delle ricerche finora svolte, le Fobie Specifiche possono essere concettualizzate come esempi di reazioni di fuga o attacco innescate in modo inappropriato o eccessivo dalla presenza di oggetti o situazioni specifici. La paura può avere origine dalla giusta valutazione di un evento pericoloso del passato (es: un incidente automobilistico) o da una stima inaccurata, ma minacciosa, di un evento innocuo (es: un attacco di panico). I percorsi diretti (es: condizionamento) e indiretti implicano una rappresentazione cognitiva della consapevolezza che certi stimoli probabilmente determinano o predicono conseguenze avverse e temute (Andrews, et al., 2003). 89 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica La più recente concettualizzazione delle Fobie Specifiche come una funzione della tendenza ad avere falsi allarmi indica che una componente dell’eziologia possa risiedere nella soglia per l’ansia (es., nevroticismo elevato). Secondo la teoria dell’apprendimento sociale, le fobie vengono acquisite anche per osservazione e modeling. Al riguardo, circa le madri di bambini fobici è stato rilevato che: sono mediamente più ansiose; esiste una relazione tra il contenuto delle loro paure e quelle dei figli; il trattamento di questi ultimi è più efficace se precedentemente anche loro sono state trattate. Secondo Bandura (1977), nell’acquisizione e nel mantenimento delle fobie è determinante il ruolo dell’autoefficacia: la convinzione che una persona ha circa le proprie capacità di adottare un comportamento adeguato in un determinato contesto. Il fobico sarebbe caratterizzato da uno scarso senso di “self efficacy” relativamente all’oggetto temuto, verosimilmente mantenuto da precedenti comportamenti fallimentari. Il ruolo determinante della percezione di sé nel disturbo fobico è sostenuto anche da Beck che evidenzia la centralità del concetto di vulnerabilità: il soggetto si percepisce in una condizione di debolezza rispetto ai pericoli interni ed esterni sui quali ha poco o addirittura nessun controllo. Inoltre alcuni errori cognitivi contribuiscono ad alimentare la patologia: la minimizzazione delle proprie risorse personali con enfatizzazione dei limiti e la catastrofizzazione delle conseguenze. 5.3 Trattamento Obiettivi di un trattamento cognitivo-comportamentale efficace della Fobia Specifica: 1. ridurre il livello d’ansia scatenata dall’esposizione agli oggetti temuti; 2. ridurre il livello dell’ansia anticipatoria; 3. ridurre il grado di evitamento (Andrews, et al., 2003). Trattamenti comportamentali Un modello eziologico basato sull’apprendimento, suggerisce che il trattamento dovrebbe comprendere l’estinzione o l’esposizione allo stimolo che suscita paura in assenza delle conseguenze temute. È stato ampiamente dimostrato che l’Esposizione, ripetuta il più frequentemente possibile, è un trattamento rapido ed efficace delle Fobie Specifiche (Emmelkamp, 1978). La letteratura suggerisce inoltre che gli esercizi di esposizione devono essere specificati in modo chiaro e durare un tempo sufficiente affinché l’ansia decresca in modo sostanziale. L’Esposizione in vivo è più efficace di quella immaginativa (Marks, 2002), ma entrambe possono ridurre preoccupazioni di tipo fobico (Mathews et al., 1981). Risulta inoltre preferibile usare esercizi di esposizione organizzati in una gerarchia di difficoltà crescente: sebbene l’esito degli studi che hanno confrontato l’esposizione 90 I Disturbi d’ansia graduale con il Flooding (o esposizione intensiva) abbiano riscontrato un’efficacia simile, i pazienti sembrano più a loro agio con l’esposizione graduale e sono più disposti a completare il trattamento. Sono varie le tecniche comportamentali disponibili che possono essere impiegate per il trattamento della Fobia Specifica: il Flooding che comporta l’affrontare l’oggetto o la situazione temuta di solito in presenza del terapeuta, la Terapia Implosiva, simile al flooding tranne per il fatto che l’esposizione intensiva avviene in immaginazione, il Modeling Partecipativo in cui il terapeuta dà una dimostrazione di approccio con l’oggetto fobico e poi incoraggia il paziente a fare lo stesso e la Desensibilizzazione Sistematica in cui il paziente si espone gradualmente nell’immaginazione a situazioni ansiogene organizzate in una gerarchia, usando il rilassamento per mantenere l’ansia a livelli minimi. La maggior parte delle Fobie Specifiche risponde alle terapie basate sul confronto con lo stimolo fobico e sembra che sull’esito influisca più la durata dell’esposizione che la tecnica utilizzata. ESPOSIZIONE GRADUATA L’Esposizione Graduata è una procedura simile alla Desensibilizzazione Sistematica ma senza l’impiego del rilassamento. La gradualità con cui i vari stimoli vengono affrontati è minore rispetto a quanto avviene nella DS e ciò permette una maggiore velocità di trattamento. In concreto, insieme al paziente si elabora una gerarchia di situazioni ansiogene, iniziando dalla più lieve fino a quella di massima intensità, misurata attraverso una valutazione soggettiva (Unità Soggettiva di Disagio, SUD) su una scala di intensità da 0 a 100. Si formano solitamente gerarchie di 10 item, impiegando pertanto intervalli di 10 SUD. Si possono anche costruire due gerarchie (Dettore, 1998), una per il setting terapeutico in studio e l’altra come homework per il paziente, in modo da tenerlo impegnato e occupato durante la settimana e facilitare la generalizzazione dei risultati. Questa seconda gerarchia viene assegnata dopo la seconda o terza seduta di esposizione in studio. Si induce, quindi il paziente ad affrontare il primo item della gerarchia in immaginazione per il tempo necessario alla diminuzione dell’ansia (in genere 5-10 minuti), senza attendere, differentemente dalla Desensibilizzazione Sistematica, che l’ansia sia scomparsa completamente. È importante durante queste fasi incoraggiare il paziente, sottolineando il suo ruolo decisionale, in modo che possa attribuire a se stesso i progressi terapeutici e rafforzare, pertanto, le proprie abilità di coping. Naturalmente, la validità della procedura richiede che il paziente non effettui nell’immaginazione o concretamente alcun cerimoniale o rituale con lo scopo di ridurre il disagio, perché ciò ostacolerebbe il processo di assuefazione. Il passaggio da un item al successivo della gerarchia avviene solo quando si è potuta verificare la riduzione dell’ansia conseguente all’esposizione alla situazione temuta. Nella seduta successiva si riparte dall’ultimo item affrontato precedentemente. L’Esposizione Graduata può applicarsi in vivo e/o in immaginazione: nel primo caso le diverse situazioni della gerarchia vengono affrontate concretamente con la presenza del terapeuta, nel secondo caso le stesse situazioni vengono vissute mentalmente. L’applicazione ottimale della tecnica richiederebbe l’utilizzo di entrambe le forme di esposizione, in vivo ed in immaginazione, anche se quest’ultima risulta di più facile e pratico impiego ed in alcuni casi lavorare esclusivamente in immaginazione si rende necessario, come in presenza di ri- 91 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica cordi molto forti di una particolare esperienza traumatica o quando, per ragioni pratiche, risulti quasi impossibile procedere in vivo. D’altra parte, possono esserci delle situazioni in cui è d’obbligo l’esercizio concreto: ad es., quando si lavora con pazienti che presentano una limitata capacità immaginativa o addirittura non hanno alcuna attivazione emotiva nell’immaginare le situazioni ansiogene. Trattamenti cognitivi Con l’introduzione di spiegazioni cognitive nella psicologia clinica, le terapie cognitive sono state considerate trattamenti efficaci per le fobie, soprattutto se combinate con tecniche di esposizione (Oakley e Padesky, 1990). Nell’ottica cognitiva del condizionamento, risulta necessario modificare qualunque convinzione che porti alla percezione di possibili eventualità che aumentino l’ansia. Marshall (1985) ha riscontrato che la ripetizione di frasi di adattamento migliora l’efficacia dei programmi basati sull’esposizione. Recentemente sono state messe a punto tecniche di terapia cognitiva specificamente finalizzate a modificare le convinzioni ed i pensieri automatici associati alla percezione dello stimolo fobico, attraverso l’uso di schede strutturate e/o di diari (conosciute con la definizione di schede di auto-monitoraggio), ed a rendere più controllabile la risposta, per esempio aiutando il paziente a individuare ed etichettare le distorsioni cognitive. Queste tecniche si sono dimostrate particolarmente utili associate alle tecniche comportamentali. COMPILAZIONE DI UNA SCHEDA O UN DIARIO (SELF-MONITORING) Molto spesso il terapista chiede al paziente di porre la propria attenzione su specifici comportamenti, sintomi clinici ed azioni o pensieri neutrali; questa attività di osservazione è una parte importante della terapia cognitiva in quanto mira sia alla raccolta di dati empirici sia cerca di modificare l’atteggiamento del paziente che frequentemente è rigidamente bloccato in una posizione pregiudiziale (top-down) riguardo ai propri malesseri e problemi. Il compito di raccogliere dei dati è, anche di per sé, benefico in quanto introduce un elemento di operatività che alcune volte è assente nella situazione problematica del paziente; si dice spesso che lo stesso monitoraggio della depressione ne determina la riduzione. Pur non corrispondendo completamente al vero, questa affermazione contiene elementi di verità in quanto il soggetto inizia a differenziare la propria situazione, anche solo relativa al sintomo-bersaglio, passando da una valutazione assolutistica, globalizzata, generalizzata e dicotomica ad una valutazione più moderata, differenziata, articolata e graduata. Le Schede di Auto Monitoraggio possono essere costruite insieme al paziente e calibrate sullo specifico compito; alcune schede possono contenere due colonne, una per le date di ciascuna osservazione, l’altra per il tipo di dato. Il dato raccolto può essere un punteggio di intensità di quel sintomo o di quella emozione oppure può essere un punteggio medio di una giornata o ancora un punteggio relativo alla frequenza di un comportamento. La scheda può avere più colonne, ciascuna per una informazione diversa che è utile raccogliere: ad esempio, data, situazione, intensità del sintomo, intervento del paziente, nuova intensità del sintomo. 92 I Disturbi d’ansia La tipologia delle schede è varia, e viene modificata dai diversi autori in riferimento allo specifico obiettivo. È importante tenere presente che essa è uno strumento operativo indirizzato alla raccolta di informazioni e quindi l’obiettivo sono queste ultime e non la mera compilazione di una qualsiasi scheda. Anche i Diari sono utili se concepiti come resoconti del paziente in risposta a specifici stimoli o situazioni concordate con il terapista. Spesso, inizialmente, il paziente produce resoconti non pertinenti a situazioni concordate o dove non è facile capire il nesso tra un A ed un C, o tra un B ed un C (nel modello ABC). In questo caso il terapeuta deve ridiscutere con il paziente le modalità di raccolta delle informazioni al fine di accordarsi su obiettivi specifici e su situazioni mirate utili per il lavoro psicoterapeutico (non tutta la vita del paziente è utile, né tutte le sue osservazioni casuali, né tantomeno le lunghe descrizioni di qualche situazione, sebbene tutto questo sia sempre e comunque interessante e prezioso ad altri livelli). Le schede, inoltre, sono parte integrante di interventi di modificazione di processi cognitivi e di ristrutturazione. Uno degli aspetti più evidenti del carattere cognitivo del monitoraggio e dell’uso delle schede è quello relativo al resoconto sulle attività piacevoli. Il soggetto descrive l’andamento di attività piacevoli nella giornata, la loro frequenza ed il grado di gradevolezza. Questo compito non ha soltanto, come è evidente, un valore di produzione di informazioni ma la stessa raccolta di tali informazioni, l’essere cioè “sotto osservazione”, tende ad incrementare la pratica di quelle attività e ad elevare il grado di piacevolezza. Tale effetto si spiega perché il soggetto una volta centrato il focus su tali attività le nota di più e prestandovi maggiore attenzione le discrimina in rapporto ad altre che svolge nella giornata; egli quindi articola e differenzia in modo più adeguato le proprie azioni e le proprie valutazioni sulle attività che intraprende. INDIVIDUARE ED ETICHETTARE LE DISTORSIONI COGNITIVE La paura dell’ignoto è frequentemente uno degli aspetti salienti nei resoconti dei pazienti ansiosi. Il terapista allora può aiutare il soggetto ad identificare ed etichettare i meccanismi del fenomeno, come le proprie distorsioni cognitive, e spesso a seguito di questa pratica l’ansia associata diminuisce. Uno dei primi passi verso l’auto conoscenza è una identificazione degli errori del proprio pensiero. In terapia, i pazienti possono trovare utile etichettare le particolari distorsioni cognitive che essi notano ed identificano nel proprio pensiero automatico e nell’analisi delle proprie valutazioni. Può essere spesso utile fornire al paziente una lista di riferimento delle comuni distorsioni cognitive, oppure discuterla in seduta anticipatamente. Una volta apprese le comuni distorsioni, il paziente è in grado di riconoscerle per modificarle autonomamente o potervi eventualmente lavorare in seduta. In tal modo familiarizza con la terminologia che condivide con il terapeuta ed inizia a “vedere” gli eventi in un ottica cognitivista, essendo le etichette non meramente componenti del vocabolario del clinico ma strumenti di lettura dei meccanismi cognitivi impiegati dalle persone. Per quanto attiene alle etichette delle emozioni, è sempre necessario chiarire non soltanto i termini associati ai singoli stati emotivi espressi (in vario modo) dal paziente ma anche fornire informazioni sulla natura delle emozioni di base, sul loro radicamento evolutivo e sul significato che ciascuna ha per l’individuo. Questa fase informativa non deve ovviamente assumere le caratteristiche di una “lezione” ma svolgersi in forma dialettica con il coinvolgimento attivo del paziente. 93 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 5.4 Casi clinici Il caso di Malu - “I cani sono imprevedibili” Diagnosi: Fobia Specifica (tipo animali). Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Schede di Automonitoraggio. Dal CBA: elevata ansia di tratto. Dalle Schede di Automonitoraggio: l’oggetto fobico, i cani indipendentemente dalla taglia, viene prevalentemente evitato o “affrontato” con l’aiuto di altre persone presso le quali cerca difesa e protezione. Malu ha 30 anni ed è afflitta da fobia per i cani da quando era bambina. L’incontro con questi animali le suscita una risposta d’ansia di elevata intensità che si manifesta a livello fisiologico, con tachicardia e copiosa sudorazione, ed a livello comportamentale, con movimenti scoordinati ed incontrollati. Il progressivo aggravarsi della sintomatologia l’ha indotta a limitare sempre di più le occasioni di spostamenti a piedi nei quali non viene accompagnata da qualcuno. La donna riconosce che la sua paura è eccessiva ed irragionevole ed avverte la necessità di superarla anche in considerazione della progressiva limitazione della propria libertà personale, che avverte ormai come intollerabile. Storia del caso Malu svolge attività di impiegata presso un’azienda ed il lavoro la soddisfa e la gratifica. Ugualmente soddisfacente definisce il suo rapporto coniugale, con un uomo che stima ed apprezza anche se, rispetto al problema della sua fobia lamenta un comportamento ambivalente da parte del marito: “a volte è comprensivo e mi incoraggia, altre volte è infastidito e quasi non mi sopporta”. Ha un figlio al quale dedica molte attenzioni e vorrebbe evitare di “trasmettergli” il suo problema. Descrive la propria infanzia come serena e caratterizzata da rapporti affettuosi tra i componenti della famiglia. Le relazioni con i coetanei sono sempre state positive nonostante la sua accentuata timidezza della quale soffriva “in silenzio” e che si sforzava di mascherare agli altri. Concettualizzazione e trattamento La fobia di Malu si caratterizza per: - anticipazione ansiosa di eventi traumatici in occasione di spostamenti a piedi; - tendenza all’evitamento e/o al ricorso a comportamenti protettivi con la richiesta di compagnia in occasione degli spostamenti; - presenza di alcune idee irrazionali relative all’emozione della paura. 94 I Disturbi d’ansia Da una Scheda di Automonitoraggio compilata dalla paziente si riportano due episodi che esemplificano il suo vissuto rispetto al problema. Situazione Pensiero Emozione Comportamento esco dal negozio e sen- sarà sciolto ed io non paura e rabbia to abbaiare un cane mi posso muovere ma non lo vedo aspetto sulla porta fino a che non lo sento più abbaiare a piedi vado verso casa mi potrebbe aggredire paura e vedo un cane al guin- non ce la faccio a camzaglio che abbaia minare telefono a mio marito e gli chiedo di passare a prendermi Il trattamento terapeutico è stato finalizzato ai seguenti obiettivi. 1. Riduzione dei correlati fisiologici della sintomatologia ansiosa mediante Rilassamento Progressivo. 2. Superamento della fobia attraverso una Desensibilizzazione Sistematica. 3. Modifica di alcune convinzioni disfunzionali connesse con il vissuto fobico, mediante un intervento di Ristrutturazione Cognitiva. La Desensibilizzazione è stata eseguita inizialmente in immaginazione con la seguente gerarchia di dodici situazioni ansiogene, organizzata in ordine decrescente di SUD (Unità Soggettiva di Disturbo). Situazioni 1. Dalla machina vedo un cane al guinzaglio. 2. Dalla macchina vedo un cane libero. 3. A piedi vedo un cane tranquillo al guinzaglio lontano da me. 4. A piedi vedo un cane tranquillo al guinzaglio che abbaia lontano da me. 5. A piedi passo vicino ad un cane tranquillo al guinzaglio. 6. A piedi passo vicino ad un cane che abbaia al guinzaglio. 7. A piedi vedo un cane tranquillo libero lontano da me. 8. A piedi vedo un cane che abbaia libero lontano da me. 9. A piedi un cane tranquillo cammina nella mia direzione. 10. A piedi un cane tranquillo mi passa vicino. 11. A piedi un cane tranquillo mi si avvicina a pochi centimetri. 12.A piedi un cane mi passa vicino abbaiando. La successiva esposizione in vivo è stata realizzata secondo una sequenza di spostamenti che Malu ha progettato nel modo seguente. 95 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Spostamenti 1. Passo davanti ad un cancello chiuso dove c’è un cane legato, tenendomi fuori dal marciapiede. 2. Passo davanti ad un cancello chiuso dove c’è un cane sciolto, tenendomi fuori dal marciapiede. 3. Passo davanti ad un cancello chiuso dove c’è un cane sciolto camminando sul marciapiede. 4. Passo più vicino ad un cancello chiuso dove c’è un cane sciolto. 5. Passo davanti ad un cancello aperto dove c’è un cane legato. 6. Passo più vicino ad un cancello aperto dove c’è un cane legato. 7. Chiedo alla mia amica che ha un cane di lasciarlo sciolto. 8. Accarezzo il cane mentre lei lo tiene in braccio. 9. Porto a spasso il cane della mia amica. L’intervento di Ristrutturazione Cognitiva ha consentito di modificare alcune idee irrazionali che contribuivano a mantenere il disturbo emotivo. In particolare la paziente ha modificato i pensieri elaborando convinzioni più funzionali. Idee irrazionali Convinzioni funzionali la mia paura è innata la mia paura è un’emozione appresa e perciò può essere modificata se non si capisce l’origine della paura non si può capire può essere utile ma la paura si supera solo superare con azioni di confronto con essa la paura impedisce di affrontare le situazioni la paura è un’emozione naturale ed è un’ostimotemute lo per affrontare le situazioni il comportamento dei cani è completamente il comportamento dei cani può essere anche imprevedibile e non possiamo evitarel’aggres- prevedibile ed il nostro può ridurre i rischi di sione un’aggressione non devo più avere paura dei cani, se ho paura avere paura di un cane minaccioso è naturale ed sono malata è una reazione comune alle persone La fobia per i cani rappresenta l’estremo patologico di una paura che può manifestarsi anche nella popolazione normale. Pertanto il suo superamento deve mirare anche all’acquisizione della capacità di discriminare tra il pericolo reale, che può rappresentare l’incontro con un cane aggressivo che possa sentirsi minacciato da un comportamento della persona, ed il vissuto soggettivo di pericolo connesso con elaborazioni cognitive distorte. Al termine della terapia, Malu ha raggiunto un livello di consapevolezza circa il proprio vissuto e relativamente a ciò che realmente può configurarsi come minaccia che le consentono di affrontare con maggiore obbiettività gli “incontri” con i cani. Ha mantenuto un atteggiamento di particolare cautela nelle situazioni nelle quali può imbattersi in cani sconosciuti ma ha superato la fobia ed ha riconquistato la propria autonomia di movimento. 96 I Disturbi d’ansia Il caso di Diadora - “L’ago potrebbe rimanere in vena” Diagnosi: Fobia Specifica (tipo sangue, iniezioni, ferite). Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto elevata, particolarmente significativi i punteggi relativi alle schede delle ossessioni e delle paure riferite a sangue e medici. Diadora ha 26 anni ed ha la fobia dei prelievi di sangue. Nel caso in cui debba sottoporsi ad un’analisi, l’ansia anticipatoria si manifesta con tachicardia, tensione muscolare, crampi addominali e difficoltà nel respiro. Il problema è relativo soltanto ai prelievi e non riguarda anche le iniezioni “perché sono nel muscolo e non nella vena. L’ago potrebbe rimanere in vena o spezzarsi e risalire lungo il braccio”. Descrive così un recente episodio: “Sono andata al laboratorio per un prelievo facendomi coraggio e dicendomi che dovevo farcela ma quando sono arrivata ho sentito l’odore dell’alcol nell’aria e mi sono bloccata, ho iniziato a tremare e il cuore mi batteva fortissimo, non ce l’ho fatta e sono andata via”. Storia del caso Diadora lavora come assistente preso uno studio medico. Vive con i genitori ed ha con loro un rapporto sereno. Fidanzata da alcuni anni, progetta un imminente matrimonio. Il suo problema risale all’infanzia e, nonostante svolga un’attività in ambiente sanitario, non è riuscita ad affrontare la sua paura “dell’ago in vena”. Concettualizzazione e trattamento La Fobia di Diadora è stata trattata con tecniche di Rilassamento, Desensibilizzazione Sistematica e Ristrutturazione Cognitiva. Dopo aver raggiunto una buona capacità di rilassarsi con la tecnica appresa, la paziente ha elaborato una gerarchia di situazioni ansiogene che potevano precedere il confronto con l’oggetto fobico, elencandole in ordine crescente di disagio. Situazioni 1. La sera precedente il prelievo. 2. La mattina appena mi sveglio. 3. Esco di casa per andare al laboratorio di analisi. 4. Arrivo davanti al portone del laboratorio. 5. Arrivo davanti alla porta d’ingresso del laboratorio. 6. In sala d’attesa, aspetto il mio turno. 7. Si apre la porta della stanza e il dottore mi chiama. 8. Mi siedo sulla poltrona e stendo il braccio. 9. Il dottore mi mette il laccio al braccio. 10. Il dottore strofina il batuffolo di cotone sul braccio. 11.Il dottore avvicina la siringa al braccio e infila l’ago nella vena. 97 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Si è proceduto quindi con la tecnica della Desensibilizzazione Sistematica in immaginazione, a seguito della quale la paziente ha voluto affrontare subito in vivo la situazione fobica. Non ha eliminato l’ansia ma è riuscita a ridurla al punto da consentirle di effettuare il prelievo con un livello di attivazione fisiologica che ha potuto gestire ricorrendo alla visualizzazione di una scena rilassante precedentemente concordata in terapia. Particolarmente disturbanti risultavano per Diadora alcune idee distorte circa la possibilità di avere conseguenze pericolose a seguito di un prelievo, che l’ago potesse spezzarsi o risalire lungo la vena. Con un intervento di Ristrutturazione Cognitiva ne ha verificato l’irrazionalità e l’infondatezza: “Ho capito che non può succedere ma so che ancora a volte ci penserò e allora mi dirò che non mi succederà niente di brutto o pericoloso e farò il rilassamento”. La terapia si è conclusa dopo sei mesi con una gestione del problema che la paziente ha definito soddisfacente. 98 CAPITOLO 6 Fobia sociale 6.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazioni nelle quali la persona è esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante. Nota: nei bambini deve essere evidente la capacità di stabilire rapporti sociali appropriati all’età con persone familiari, e l’ansia deve manifestarsi con i coetanei e solo nelle interazioni con gli adulti. B. L’esposizione alla situazione sociale temuta provoca quasi invariabilmente ansia, che può assumere le caratteristiche di un Attacco di Panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione. Nota: nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi d’ira, con l’irrigidimento, con l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari. C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole. Nota: Nei bambini questa caratteristica può essere assente. D. Le situazioni temute sociali o prestazionali sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio. E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella situazione (o situazioni) temuta interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) con le attività sociali o le relazioni con gli altri oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia. F. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi. G. La paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es.: una sostanza oggetto di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale e non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale (per es.: Disturbo di Panico con o senza Agorafobia, Disturbo d’Ansia di Separazione, Disturbo da Dimorfismo Corporeo, un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo o il Disturbo Schizoide di Personalità). 99 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica H. Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo mentale, la paura di cui al criterio A non è ad essi correlata, per es. la paura non riguarda la balbuzie, il tremore nella malattia di Parkinson o il mostrare un comportamento alimentare abnorme nell’Anoressia Nervosa o nella Bulimia Nervosa. Specificare se: Generalizzata: se le paure includono la maggior parte delle situazioni sociali (prendere in considerazione anche la diagnosi addizionale di Disturbo Evitante di Personalità). L’individuazione della Fobia Sociale come entità clinica autonoma rispetto agli altri disturbi fobici venne rilevata inizialmente da Marks nel 1969 che la definì come “paura di mangiare, bere, parlare, ballare, scrivere … in presenza di altre persone per il timore di risultare ridicoli”. L’esordio della patologia si colloca in età adolescenziale, spesso in relazione con un evento sociale stressante o umiliante. Questo Disturbo si caratterizza per una marcata e persistente preoccupazione di trovarsi esposti al giudizio negativo degli altri, di agire in modo inadeguato, di sentirsi imbarazzati ed umiliati. Tale preoccupazione viene riconosciuta dal soggetto come eccessiva ed irrazionale. L’esposizione alle situazioni temute genera una forte ansia anticipatoria che si manifesta con sintomi neurovegetativi (sudorazione eccessiva, tremori, palpitazioni, disturbi gastrointestinali), cognitivi e comportamentali. A seguito di queste esperienze, l’individuo sviluppa progressivamente la tendenza ad evitare le situazioni ansiogene: parlare in pubblico, leggere o scrivere di fronte ad altri, mangiare o bere in presenza di altre persone, trovarsi in situazioni di gruppo. La risposta fobica alle situazioni sociali innesca un circolo vizioso poiché condiziona negativamente le prestazioni del soggetto e questo rinforza la paura originaria. Per fare diagnosi di Fobia Sociale è necessario che le condotte di evitamento siano tali da interferire significativamente con il funzionamento lavorativo, con le attività sociali abituali o con le relazioni interpersonali del soggetto. Nel caso in cui i comportamenti di evitamento siano generalizzati l’individuo sperimenta sentimenti di inferiorità e di inadeguatezza tali da favorire la cronicizzazione ed il possibile sviluppo di patologie concomitanti come Depressione, altri Disturbi d’Ansia o l’abuso di sostanze. 6.2 Modelli comportamentali e cognitivi Uno dei primi modelli di riferimento nella letteratura cognitivo comportamentale è quello del deficit di abilità sociali. Secondo questa ipotesi, i soggetti con fobia sociale non avrebbero acquisito le risorse e le competenze necessarie per fronteggiare e gestire le situazioni sociali. Ciò a causa di inadeguati modelli parentali, sociali e di distorsioni cognitive apprese. Il quadro psicopatologico di questi individui sarebbe pertanto caratterizzato da una carenza di base di abilità, con conseguenti vissuti di ansia, sentimenti di inadeguatezza, comportamenti di evitamento e di isolamento sociale. 100 I Disturbi d’ansia In tale quadro teorico, il trattamento va finalizzato all’acquisizione ed al potenziamento delle competenze attraverso il Training Assertivo e delle Abilità Sociali. Wolpe (1969) propose il modello della disinibizione, nel quale si ipotizza che i soggetti con fobia sociale disporrebbero già di un repertorio di competenze ma il loro impiego sarebbe inibito dalla presenza di elevati livelli di ansia in situazioni interpersonali. Secondo questo modello, l’obiettivo della terapia mira a ridurre l’intensità dell’attivazione psicofisiologica attraverso procedure di Desensibilizzazione Sistematica, di Rilassamento o di Esposizione. Secondo il modello della distorsione cognitiva, l’ansia sociale viene determinata dalla presenza di sistematiche distorsioni logiche che la persona fobica utilizza nell’analisi delle situazioni interpersonali. L’assunto teorico di base del modello rileva che emozioni e comportamenti di un individuo siano determinati dal suo modo di interpretare e valutare se stesso e gli altri. In particolare, questi errori di pensiero originano una ipervigilanza verso possibili indizi di giudizio negativo e determinano interpretazioni errate che portano ad autoattribuirsi la responsabilità di esiti negativi nelle situazioni sociali. La caratteristica fondamentale della Fobia Sociale, secondo il modello cognitivo, è il forte desiderio da parte del soggetto di dare un’immagine positiva dì sé agli altri, desiderio che si accompagna però ad una grossa insicurezza e incertezza circa tale risultato. Secondo il modello proposto da Clark e Wells (1995; 1997) i processi di auto-valutazione negativa svolgerebbero un ruolo decisivo nello strutturarsi della Fobia Sociale in quanto il contenuto dell’impressione influirebbe sul grado di pericolo percepito nelle situazioni sociali. Le persone con tali paure quando affrontano una situazione sociale la giudicano estremamente pericolosa, temono di poter agire in modo inadeguato e inaccettabile e pensano che tale comportamento avrà gravi conseguenze per il loro status sociale. Questi giudizi di pericolo sono la causa dell’ansia, che si manifesta attraverso cambiamenti fisiologici, cognitivi, emotivi e comportamentali. Nella Fobia Sociale tali sintomi costituiscono ulteriori fonti di pericolo essendo giudicati come minacce per le proprie capacità e per l’opinione di sé, conducendo così ad un’escalation dell’ansia e al mantenimento del problema. Una caratteristica dei fobici sociali è la tendenza a rimuginare molto sull’evento sociale che devono affrontare, naturalmente il contenuto delle rimuginazioni è negativo e continua anche dopo l’evento. Tali soggetti affrontano le situazioni considerate pericolose prestando molta attenzione alle proprie risposte somatiche, alla valutazione che potrebbero ricevere da parte di altri e all’opinione di se stessi; focalizzare l’attenzione su questi aspetti rende ancora più difficile la prestazione a causa dei comportamenti protettivi messi in atto e riduce la consapevolezza verso informazioni interpersonali più oggettive. Questi individui non riescono ad osservare le reazioni degli altri alle proprie prestazioni ma si concentrano solo sugli effetti, assumendo erroneamente che la percezione e valutazione che ne hanno loro coincida con quella che ne hanno gli altri. Il fobico sociale per evitare le conseguenze temute ricorre ai “comportamenti protettivi” che però hanno l’effetto di perpetuare l’ansia e rafforzare l’idea di essere valutato negativamente dall’esterno (Wells, 1997). In alcune circostanze infatti le strategie protettive non solo precludono l’esposizione a esperienze di disconferma, utili per superare 101 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica il problema, ma rafforzano la valutazione di pericolosità dell’evento. Si crea dunque un circolo vizioso: più il soggetto è preoccupato della propria prestazione e dell’ansia, maggiore è la probabilità che il suo comportamento sociale sia effettivamente inadeguato. Egli effettuerà poi un’analisi a posteriore della prestazione sociale, che non potrà che essere valutata negativamente visto che nel fare ciò si baserà solo sulle proprie sensazioni e non sugli effettivi feedback ambientali. Beck (1976) evidenzia che la Fobia Sociale è determinata da un processo circolare autoperpetuante, nel quale le aspettative negative del soggetto fobico lo rendono più pauroso ed inibito, quindi inadeguato sul piano comportamentale quando si trova in contesti sociali. I risultati delle sue prestazioni successivamente costituiscono le premesse per ulteriori aspettative di inefficacia. Quando un soggetto con fobia sociale si trova coinvolto nelle situazioni temute crede di essere esaminato e giudicato dagli altri ed è attento ed ipersensibile ai segnali dei suoi interlocutori, che divengono per lui segno della sua accettabilità. Pertanto, la percezione distorta ed autodenigratoria del proprio comportamento e del feedback sociale dipende da: aspettative di efficacia eccessive ed irrealistiche; svalutazione di sé e delle proprie capacità; auto affermazioni negative; attenzione selettiva alla propria prestazione sociale; attribuzione degli insuccessi alle proprie incapacità e dei successi ad eventi fortuiti ed esterni. Secondo questo modello, il trattamento terapeutico agisce sull’identificazione e successiva modificazione delle distorsioni logiche e degli schemi disfunzionali di base. Secondo il modello cognitivo dell’Ansia Sociale di Wells e Clark (1997) l’individuo tende a rimuginare sulla situazione che deve affrontare, anticipando i problemi che potrebbe incontrare, e continua a rimuginare a posteriori su quanto è accaduto. In questo processo di valutazione egli è concentrato unicamente sulle proprie sensazioni negative e sulle proprie valutazioni che non gli consentono di integrare nuove informazioni nel suo sistema cognitivo a disconferma delle errate premesse che guidano la percezione di sé nella situazione. Wells (1999) osserva che, quando un fobico sociale si trova in una zona pubblica vengono attivate le sue convinzioni relative al potenziale fallimento della prestazione e la situazione viene connotata come “pericolo sociale”. Tali convinzioni, che lo rendono vulnerabile al mantenimento del problema, costituiscono tre tipi di schema cognitivo: - credenze su di sé (ad es. “sono stupido”); - convinzioni sottoposte a condizioni (ad es. “se parlo in modo impacciato penseranno che sono stupido”); - rigidi standard di valutazione delle prestazioni in pubblico (ad es. “devo sempre apparire intelligente”). Facendo riferimento alla teoria dell’autoefficacia di Bandura (2000) “di fronte alle difficoltà, le persone che posseggono dubbi riguardo alle proprie capacità diminuiscono i loro sforzi o abbandonano l’attività. L’atteggiamento rinunciatario culmina spesso nell’abbandono”. Il modo in cui la persona valuta la propria capacità di far fronte ad una situazione influenza l’apprendimento di nuove soluzioni e le future possibilità di prestazione. A parità di competenze, la convinzione di riuscire costituisce un vantaggio significativo rispetto al risultato effettivo. La sensazione di “potercela fare” corrisponde 102 I Disturbi d’ansia al costrutto dell’”autoefficacia percepita” (perceived self efficacy). I fobici sociali sono persone che dubitano fortemente delle proprie capacità di coping ed attuano frequenti modalità di comportamento difensivo. La fonte dell’ansia è attribuibile alla differenza tra l’idea personale degli standard sociali e la percezione delle proprie abilità nel raggiungerli. Essi credono di non possedere le capacità sociali necessarie per soddisfare gli standard valutativi altrui ed hanno “convinzioni sociali di inefficacia”. 6.3 Trattamento Il trattamento cognitivo comportamentale della Fobia Sociale prevede la preliminare verifica della natura del Disturbo: un deficit primario di abilità o la loro inibizione causata da elevati livelli d’ansia. Di conseguenza, si potrà intervenire con un Training Assertivo o delle Abilità Sociali o con l’impiego di tecniche quali la Desensibilizzazione Sistematica o l’Esposizione Graduata nei casi in cui l’ansia prestazionale ed il comportamento di evitamento risultino elementi importanti del quadro sintomatologico. Secondo il paradigma cognitivo comportamentale, la persona può definirsi socialmente abile quando il suo comportamento è caratterizzato da affermatività sociale, difesa dei propri diritti, espressione di sentimenti positivi e negativi, empatia ed autostima positiva. Pertanto, risulta fondamentale l’individuazione degli schemi che il soggetto utilizza nel valutare se stesso ed il proprio comportamento allo scopo di intervenire anche con una Ristrutturazione Cognitiva. Questa tecnica è particolarmente efficace nel trattamento della Fobia Sociale in quanto i fattori cognitivi sono significativamente determinanti nello sviluppo e nel mantenimento della patologia. La paura di essere oggetto di osservazione, il terrore della valutazione negativa degli altri ed il timore di apparire inadeguati richiedono un intervento mirato alla modificazione dei pensieri automatici negativi e delle distorsioni cognitive. Nel modello per la terapia della Fobia Sociale proposto da Wells (1999) sono stati individuati i seguenti step. TRATTAMENTO COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLA FOBIA SOCIALE Introdurre al modello Cognitivo e Psicoeducazionale: l’Intervento Psicoeducativo, relativo alle caratteristiche della malattia, e l’introduzione del modello cognitivo, dovrebbero esser la premessa indispensabile ad un trattamento cognitivo comportamentale della Fobia Sociale. Addestrare alle Abilità Sociali: questa fase ha la funzione di fornire al paziente un repertorio comportamentale/comunicativo per gestire al meglio le situazioni sociali ed interpersonali con cui viene a confrontarsi. L’insegnamento di tali abilità prevede, solitamente, sia l’uso di tecniche (come il Training al Rilassamento) per la gestione dell’ansia che l’uso di tecniche per la gestione delle interazioni sociali. Queste ultime, che generalmente prendono il nome di Training all’Assertività, prevedono l’insegnamento di modalità per condurre le conversazioni, fare richieste ed esprimere i propri bisogni, imparare a dire di no quando se ne ha l’intenzione, affrontare le critiche che vengono rivolte. Particolare attenzione viene prestata agli aspetti della comunicazione verbale e non verbale. 103 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Modificare i processi di elaborazione del sé: la strategia principale per modificare i contenuti delle percezioni consiste nell’esposizione a una reale osservazione di sé. Questo può essere possibile, ad esempio, utilizzando registrazioni audio e video. Tale strategia comporta almeno due tipi di difficoltà: può potenziare ancor di più l’attenzione su di sé e ciò può influenzare l’obiettività dei giudizi; inoltre il paziente può cercare di sminuire i feedback che vengono dalle registrazioni. Per evitare che si verifichino tali inconvenienti, il terapeuta può chiedere al paziente di provare ad immaginare i risultati della registrazione, per poi confrontarli con gli esiti reali. Operare una Riattribuzione Verbale: la Riattribuzione Verbale permette una riformulazione di se stessi in termini di efficacia personale. Vengono esaminati i giudizi connessi al sé ed i pensieri negativi connessi sia alla reazione sia al giudizio degli altri. La migliore strategia per poter ottenere buoni risultati è quella che consiste nel chiedere al paziente le “prove” che lui ha a conferma delle proprie autovalutazioni negative. Sono previste alcune domande che possono essere davvero utili per valutare specifici pensieri automatici negativi. Esistono altre tecniche ugualmente utili nella riattribuzione verbale tra le quali il protocollo del bilancio sociale che consiste in una registrazione scritta delle “prove interne, prove esterne e controprove esterne” dei pensieri automatici negativi del paziente. Si procede all’identificazione dei propri errori cognitivi più comuni, all’analisi dei processi di anticipazione e alle valutazioni a posteriori nelle situazioni sociali. Programmare ed attuare Esperimenti Comportamentali: le procedure cognitive devono essere, ad un certo punto del trattamento, accompagnate dalla programmazione di azioni che il paziente, in accordo con il terapeuta, compie in situazioni pubbliche. Ciò consentirà l’esposizione e l’acquisizione di controprove alle proprie credenze, nonché sarà l’occasione per acquistare fiducia nella propria capacità di riuscita, incrementando l’autoefficacia percepita. Tra gli esperimenti più comuni, l’“indagine sull’ambiente circostante” consiste nell’indurre il paziente a determinare volontariamente le conseguenze nefaste tanto temute. Se, ad esempio egli ha paura di balbettare o di arrossire, lo si invita a farlo ed ad osservare poi ciò che accade. Si tratta di scegliere, ovviamente con gradualità, le circostanze temute e, se il paziente risulta resistente può sperimentare quel comportamento in presenza del terapeuta. L’esperienza verrà praticata prima nel setting terapeutico e poi nel vissuto quotidiano. Rilevare, durante il corso della terapia, convinzioni condizionate e credenze: il trattamento dovrebbe essere teso ad elicitare le convinzioni e le credenze nucleari per il paziente, procedendo con la ricerca delle prove alternative. Si otterrà la riduzione della rigidità dei principi di base e verranno programmati esperimenti comportamentali per indurre il paziente ad acquisire dati positivi su di sé. Esempi di alcune di queste convinzioni disfunzionali delle persone afflitte da Fobia Sociale possono essere: - - - - devo essere perfetto; non devo sbagliare mai; se mostro di essere ansioso apparirò ridicolo; fare un brutta figura é una catastrofe. Un altro intervento, ritenuto utile nel modello di trattamento secondo la teoria di Wells e Clark, è rivolto a sollecitare nel paziente la capacità di spostare l’attenzione selettiva da sé all’esterno, così da facilitare la ristrutturazione delle convinzioni disfunzionali attraverso l’attuazione di prove comportamentali di esposizione alle situazioni temute. 104 I Disturbi d’ansia FOCALIZZAZIONE SU EVENTI ESTERNI E ANALISI DI EVIDENZE E DATI Tutte le persone hanno un limite nella quantità di cose che possono pensare o tenere a mente contemporaneamente. Occupando la propria mente con pensieri neutri o positivi, si può bloccare il pensiero disfunzionale per un periodo di tempo. Questo processo può essere svolto attraverso il contare, il visualizzare immagini di calma o piacevoli, o il porre attenzione su stimoli esterni (oggetti, luci, sensazioni tattili, ...). Sebbene questa sia una tecnica con efficacia a breve termine può essere utile per permettere all’individuo di avere il tempo per fare una valutazione, o attuare un dato comportamento, o mettere in pratica qualche sequenza di una strategia terapeutica più complessa. Spesso, il paziente ansioso pone eccessiva attenzione sulle proprie sensazioni corporee e così facendo le interpreta catastroficamente; se il soggetto orienta all’esterno il proprio focus attentivo può contare maggiormente sulle proprie facoltà di ragionamento. Alcuni stimoli esterni possono servire d’aiuto: un accessorio nell’abbigliamento di chi ci sta di fronte, il muro di fondo di un ambiente, il colore di un oggetto, le sensazioni tattili delle nostre dita, ecc... La Focalizzazione può essere di aiuto anche per lo scopo opposto, cioè aiutare il paziente a percepire sensazioni e segnali utili del proprio stato. Molti soggetti possono aumentare la consapevolezza del proprio stato emotivo e dei segnali fisiologici per orientarsi e meglio definire e categorizzare le proprie reazioni (ciò in contrapposizione al caos interno ed alla confusione rispetto a queste ultime). La tecnica dell’Analisi delle Evidenze consiste nell’insegnare al paziente ad identificare e mettere in discussione l’evidenza e gli elementi utilizzati per mantenere le proprie idee inefficaci e disfunzionali. Per tale scopo è necessario individuare con chiarezza la fonte dei dati stessi e l’eventuale ragionamento che il paziente effettua per dare rilevanza ad essi. L’iniziale messa in discussione di una evidenza “sensoriale” o “percettiva” è un fatto indubitabilmente contro-intuitivo, tuttavia tramite questa tecnica il paziente può accedere alla migliore valutazione degli eventi; inoltre, il terapista può rilevare come il soggetto abbia utilizzato particolari processi cognitivi o abbia commesso particolari errori cognitivi. Tutto questo è determinante per l’analisi del personale stile disfunzionale di ragionamento e quindi per un successivo addestramento e modificazione. Generalmente il piano del trattamento è articolato nel seguente ordine, anche se nella pratica clinica può variare, finalizzato a fornire al paziente un sollievo dal sintomo (sensazione e comportamento): far acquisire le abilità sociali mancanti a causa degli evitamenti; insegnare al paziente come riconoscere i propri pensieri automatici negativi; istruirlo a rispondere ai pensieri distortì con la logica, la ragione, e l’esame empirico, cioè modificare i pensieri automatici negativi, identificare e di conseguenza modificare le concezioni disfunzionali di lunga data (schemi di base o assunzioni tacite). È importante capire quale significato il paziente ha attribuito al problema. Terapeuta e paziente devono concettualizzare il problema insieme affinché possa essere scelta la strategia adeguata. Gli obiettivi che si vogliono perseguire vanno operazionalizzati in termini concreti e non formulati in modo vago. Attraverso la Scoperta Guidata il terapeuta può aiutare il paziente a comprendere il significato del problema (es. di scoperta guidata T.: “cerchi di ricordare l’ultimo evento in cui si è manifestato il problema. Mi descriva dove era, cosa vedeva, cosa stava facendo immediatamente prima di stare male, cosa ha fatto immediatamente dopo”). Un modo per fare emergere i dati utili per la concettualiz105 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica zazione consiste nel prendere in considerazione molti episodi recenti in cui il paziente ha provato ansia in situazioni sociali; un altro modo è quello di fare al paziente domande durante o subito dopo l’esposizione alle situazioni per lui ansiogene. È possibile però che a causa degli evítamenti, egli non abbia molto da raccontare ed in questi casi si può ricostruire durante la seduta terapeutica una situazione sociale simile a quella che il paziente tende ad evitare. Per esporre il soggetto all’evento temuto è necessario fare un’analisi dettagliata della situazione fobica; infatti l’emergere o meno dell’ansia può dipendere da caratteristiche impercettibili della situazione stessa. L’obiettivo che si vuole raggiungere è quello di fare emergere ì pensieri automatici negativi che sono rintracciabili facendo delle domande precise in relazione alle situazioni problema, ad esempio “quali pensieri negativi le sono venuti in mente quando si trovava in quella situazione?”. Inoltre per capire qual è il senso che il paziente attribuisce ai suoi sintomi fisici (ad esempio sudare, tremare,...) gli si pongono domande sempre più puntuali concentrando l’attenzione sui pensieri avuti nell’esatto momento in cui essi si sono manifestati. Un altro obiettivo importante è quello di capire qual è la percezione che il fobico socìale ha di se stesso come oggetto sociale e per questo è utile: valutare i contenuti della sensazione dì disagio, chiedere al paziente quanto giudica evidenti i propri sintomi oppure indagare sui comportamenti protettivi (quando con questi il paziente cerca di celare i sintomi ci si trova di fronte a un soggetto che ha un’immagine di sé fortemente negativa). I comportamenti protettivi possono essere evidenti o latenti. Non è facile per il paziente prendere consapevolezza dei propri comportamenti protettivi, soprattutto quando questi vengono usati da molto tempo in modo sistematico. II terapeuta può cercare di farli emergere facendo tutta una serie di domande durante l’esposizione del paziente alla situazione temuta. (ad es.: “Ha fatto qualcosa per controllare la sua ansia? O per evitare il peggio? Quando ha pensato di dover affrontare quella situazione cosa ha fatto?”). L’introduzione del modello cognitivo ha lo scopo dì offrire dei punti di riferimento per comprendere la natura del trattamento. AI paziente vengono illustrati i principi della terapia cognitiva, viene data una spiegazione psicologica dei problemi. II soggetto con Fobia Sociale teme la disapprovazione o il rifiuto sociale, in questo modo si può sviluppare ansia anticipatoria che talvolta può essere così grave da impedire di applicare alcune tecniche di terapia cognitiva. Questi pazienti quando temono di fallire a causa dell’ansia non riescono ad applicare tali tecniche, per cui si rende necessario un intervento terapeutico finalizzato a ridurre l’ansia dell’ansia: a tate scopo sono molto utili le tecniche di Rilassamento. II fobico sociale infatti evita le situazioni che provocano ansia perdendo così l’opportunità di mettere alla prova i pensieri irrealistici; se l’evitamento sembra positivo a breve termine certo non lo sarà a lungo termine. Il paziente va anche aiutato ad accettare le sensazioni. Accettare la presenza dell’ansia è un fatto cruciale in quanto permette di affrontarla più efficacemente, ciò non significa naturalmente rassegnarsi all’ansia ma normalizzarla. Accrescere la tolleranza del soggetto all’ansia è molto importante. Generalmente essa viene fronteggiata ricorrendo a comportamenti disadattivi, come fumare, mangiare, ecc., e pertanto risulta indispensabile istruire la persona ad accrescere la tolleranza aumentando il tempo tra la sensazione di ansia e il ricorso agli abituali meccanismi di fuga. 106 I Disturbi d’ansia II paziente vive inoltre intensi sentimenti dì vergogna nel mostrarsi ansioso. A tal fine importanti ed efficaci sono gli esercizi anti-vergogna che nel caso del fobico sociale possono consistere semplicemente nel dire agli altri di essere ansioso. Tra i pensieri più comuni che producono vergogna ci sono ad es.: “sono debole; gli altri possono accorgersi della mia ansia e mettermi da parte; nessun altro è ansioso come me; sarò rifiutato” Il terapeuta può facilitare la considerazione che non c’è da vergognarsi ad essere ansiosi. L’automonitoraggio fornisce al soggetto un modo semplice per sviluppare un senso di padronanza sull’ansia. In questo senso l’uso di Grafici è molto importante, il terapeuta può far tenere al paziente un grafico della quantità di ansia provata durante un particolare periodo. Egli pone delle unità soggettive di disagio (SUD) da 0-100 su un asse, e il tempo (a intervalli di 30 min.) sull’altro asse. II grafico fornisce al terapeuta importanti informazioni e dimostra al paziente che l’ansia è limitata nel tempo e generalmente è collegata a situazioni esterne. Ciò contrasta l’idea, mentre si prova ansia, che questa non passerà mai. Per modificare i pensieri e le convinzioni ansiogene il paziente deve affrontare la situazione ansiogena. Affrontare la situazione temuta costituisce un elemento cruciale nel trattamento dell’ansia, così ad esempio si può ricostruire durante la seduta terapeutica una situazione sociale analoga a quella che il paziente evita. Identificare i meccanismi di protezione è importante per capire cosa egli fa per dìminuire l’ansia. Ci sono due meccanismi generali: la fuga e la ricerca di rassicurazione valutando continuamente il livello di minaccia. Nel primo caso il terapeuta incoraggerà la persona ad avvicinarsi alle situazioni temute; nel secondo ad astenersi dal cercare rassicurazioni. L’obiettivo è far capire che l’evitamento e il comportamento protettivo rafforzano i pensìeri spaventosi e irrealistici. Importante è la costituzione di una gerarchia di passi. II paziente comprenderà che un problema che fino a quel momento gli appariva come globale potrà essere suddiviso in stadi concreti e controllabili. II completamento di ogni passo permetterà di vedere che l’obiettivo può essere raggiunto. Sempre al fine di modificare la componente comportamentale può essere importante la tecnica dell’Auto-Istruzione che può aiutare il soggetto a superare le proprie paure ad entrare in situazioni ansiogene, ripetendosi ad es., frasi come “ciò che gli altri pensano di me non mi interessa”, “non valutare te stesso”, “devo assumere il rischio”. Il terapeuta sottolinea che il paziente ha il potere sul proprio corpo e parlando a se stesso può riuscire ad affrontare la situazione temuta. L’intervento va poi integrato con l’apprendimento di abilità sociali che la persona non ha avuto modo di sviluppare a causa dei frequenti evitamenti: a tale fine dunque è possibile introdurre il Training Assertivo. Uno dei principali obiettivi della terapia è aiutare il paziente a diventare maggiormente consapevole dei propri processi di pensiero. La consapevolezza di sé permette di distanziarsi dai pensieri disfunzionali e sviluppare una visione più oggettiva riguardo a una situazione. I pensieri automatici negativi possono essere elicitati in vari modi, uno dei quali è quello di accompagnare il paziente nelle situazioni temute e cercare lì dì riconoscere 107 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica i pensieri. Se egli ad esempio ha difficoltà ad affrontare situazioni come “entrare nei negozi” o “prendere un caffè al bar” lo si può accompagnare e chiedergli cosa stia pensando in quella situazione. Un altro metodo ancora, per aiutare le persone a divenire consapevoli dei propri pensieri è la loro registrazione tra una seduta e l’altra attraverso l’uso dei Diario. II terapeuta aiuta il paziente a riconoscere e a correggere i pensieri negativi anche attraverso le domande. Le domande possono essere dirette (cosa pensa quando sta male?) o induttive (scoperta guidata); alla fine i pazienti imparano a porre a se stessi le domande del terapeuta. Tali pensieri possono essere ristrutturati attraverso tre strategie cognitive esprimibili in tre domande. 1. Qual è la prova (Esaminare le ipotesi, Fornire informazioni). 2. Qual è un altro modo di vedere la situazione (Produrre interpretazioni alternative, Registrazione dei pensieri disfunzionali, Decentrarsi, Ampliamento della prospettiva). 3. E se succedesse (Decatastrofizzare, Piani per affrontare le situazioni). Se all’inizio l’obiettivo terapeutico è centrato sul sollievo dai sintomi e sull’elicitazione dei pensieri automatìci, in un secondo momento l’obiettivo è identificare e modificare le assunzioni che predispongono il paziente all’ansia. I pensieri automatici negativi riguardano temi di giudizio negativo di sé, gli schemi dovrebbero comprendere regole relative alle implicazioni di determinati eventi riguardanti le prestazioni sociali, le credenze più profonde e incondizionate dovrebbero rappresentare costruzioni disfunzionali del sé come oggetto sociale. Le assunzioni del paziente si sono strutturate a partire dalle esperienze familiari e personali e modificarle non è semplice soprattutto perché dal suo punto di vista le assunzioni impediscono che avvenga qualcosa di indesiderabile e garantiscono che accada qualcosa di desiderabile. Nel soggetto ansioso le assunzioni disadattive ruotano intorno a tre temi fondamentali: Accettazione (non posso essere lasciato solo), Competenza (devo essere qualcuno; se non raggiungo il massimo sono un fallimento) e Controllo (io sono il solo che può risolvere i miei problemi; non posso sopportare di perdere il controllo). II primo passo per identificare e successivamente modificare credenze e convinzioni è istruire il paziente riguardo al concetto di schema. Una tra le strategie più efficaci per determinare i contenuti degli schemi è quella della Freccia Discendente (Burns, 1980), nella quale il significato di un pensiero automatico viene ripetutamente valutato fino ad arrivare al punto finale o “bottom fine”. Le domande che guidano la Freccia Discendente sono del tipo “se ciò accadesse che cosa le succederebbe” oppure “cosa c’è di tanto brutto a pensare ciò”. Un altro metodo é quello di utilìzzare la Scala degli Atteggiamenti Disfunzionali: si tratta di un inventario dove vengono elencati differenti atteggiamenti o convinzioni che talvolta sono posseduti dalle persone. È importante inoltre identificare le regole personali espresse nei “Devo” o nei “Dovrei”. Talvolta i”Dovrei” non sono verbalizzati dal paziente in modo diretto ma è 108 I Disturbi d’ansia possibile leggerli attraverso i commenti che fa ai comportamenti degli altri. Dopo aver identificato gli schemi si passa alla loro confutazione. Una tecnica cognitiva consiste nell’uso del Contínuum per modificare i pensieri dicotomici. Spesso gli schemi consistono in concetti dicotomici, lavorare su un continuum offre un mezzo per inserire delle sfumature nel sìstema di giudizio del paziente. Esistono diversi modi per raggiungere tale scopo, si possono ad esempio definire i due estremi (fallito/non fallito) e sulla base di questi indicare i restanti punti lungo il continuum. Un’altra strategia per modificare le credenze consiste in una dettagliata Indagine delle Prove che il paziente porta a loro sostegno, di solito originate dalle proprie autovalutazioní, piuttosto che da eventi obiettivi. Un’altra strategia ancora è quella di soppesare Vantaggi e Svantaggi nel mantenere la convinzione. Infine anche la riorganizzazione della Freccia Discendente è una strategia di cambiamento: infatti dopo aver stabilito gli stadi e il punto finale, è possibile riformulare il tema predomìnante. Nelle ultime sedute terapeutiche è bene utilizzare metodologie per la Prevenzione delle Ricadute al fine di verificare le credenze residue nei pensieri automatici negativi e di identificare strategie per contrastarle. La terapia cognitivo comportamentale individuale della Fobia Sociale produce ottimi risultati ma il trattamento di gruppo presenta notevoli vantaggi, a cominciare dal fatto ovvio di essere già in una situazione sociale. 6.4 Casi clinici Il caso di Flo - “Sono noiosa e sono una perdente” Diagnosi: Fobia Sociale. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Assertion Inventory (AI). Dal CBA 2.0: ansia di tratto elevata, labilità emozionale con elevato rischio di sviluppare disturbi in condizioni di stress. Sono lamentati numerosi disturbi psicofisiologici ed intense paure riferite al parlare in pubblico, perdere il controllo di sé, svenire, folla e luoghi chiusi. Dall’AI: elevate difficoltà nella gestione dell’ansia in situazioni interpersonali nelle quali sono richieste abilità difensive, di gestione delle critiche e di formulazione di richieste. Flo ha 30 anni e conduce una vita molto limitata. Teme di uscire, soprattutto in compagnia di altre persone, perché se dovesse avvertire la necessità di defecare sarebbe per lei difficile riuscire a trattenere tale bisogno e “sarebbe terribile” far capire che deve assentarsi per recarsi in bagno: “non posso sopportare che gli altri sappiano che sono in bagno per defecare”. Il problema le ha procurato conseguenze negative anche nella sfera professionale, ha rinunciato a diverse possibilità di lavoro, ed in quella sentimentale, limitandosi le opportunità di frequentare dei ragazzi. 109 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Storia del caso Ricorda l’inizio del problema: si trovava a scuola, all’ultimo anno di liceo. In occasione di un’interrogazione inizia a sentirsi agitata ed avverte una fastidiosa sensazione allo stomaco, seguita da crampi intestinali. Chiede di andare in bagno ma l’insegnante le rifiuta il permesso, rimproverandola per non aver espletato i suoi bisogni durante l’intervallo appena concluso e la sollecita a rispondere all’interrogazione. Flo si sente sempre più male e teme di non riuscire a trattenersi dal defecare. Tuttavia, quello che la turba maggiormente è sentire su di sé gli occhi dei compagni, che sanno ciò che le sta accadendo, ed immaginare i loro possibili commenti. “Sapendo che dovevo andare al bagno sicuramente mi avranno deriso ed avranno pensato che da un momento all’altro me la sarei fatta addosso”. Racconta di aver vissuto momenti terribili che sembrava non finissero mai. Una volta tornata al suo posto, per non dare soddisfazione ai compagni che probabilmente l’avevano derisa, decide di trattenere ancora il suo bisogno per dimostrare che “non avevo rischiato di farmela addosso. Se fossi andata al bagno subito dopo l’interrogazione avrei dato modo ai miei compagni di prendermi in giro. Invece ho trattenuto il mio bisogno fino al rientro a casa, nonostante avessi forti dolori alla pancia”. Da allora Flo ha evitato di andare in bagno durante le ore di scuola ed ha iniziato a ridurre sempre di più le uscite da casa. La donna si definisce timida ed introversa, caratterizzata da una frequente paura di commettere errori e di “fare brutte figure”. Riferisce che, ancor prima dell’episodio scolastico traumatico, avvertiva un senso di imbarazzo nelle situazioni sociali e cercava di evitare di trovarsi al centro dell’attenzione. Descrive i genitori, con i quali convive, come molto rigidi nella sua educazione. Il clima familiare è indicato come sereno, pur con qualche conflitto tra il padre ed i figli. Concettualizzazione e trattamento Flo riconosce che le sue preoccupazioni sono eccessive e che la sollecitazione intestinale sia determinata dall’ansia e dalla sua “timidezza e paura del giudizio degli altri”. Ritiene di non essere capace di controllare le proprie emozioni e si sente inadeguata, inferiore agli altri, teme di apparire ridicola e di essere criticata o rifiutata nelle situazioni sociali. Pertanto la fobia determina l’evitamento delle situazioni temute o, nel caso di esposizione forzata, una risposta d’ansia con marcate manifestazioni neurovegetative a carico prevalentemente dell’apparato gastrointestinale. L’intervento terapeutico prevede i seguenti obiettivi. 1. Riduzione dell’ansia e delle manifestazioni somatiche. L’apprendimento della tecnica di Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson ha consentito a Flo di sperimentare un vissuto di controllo sul proprio corpo che “non potevo neanche immaginare di avere. Praticare il rilassamento mi fa sentire padrona delle mie sensazioni fisiche”. Attraverso una Desensibilizzazione Sistematica, la paziente acquisisce una discreta consapevolezza dei propri stati d’animo e riduce sensibilmente i livelli d’ansia sperimentati. 110 I Disturbi d’ansia 2. Modificazione dei pensieri disfunzionali che contribuiscono a mantenere il problema. Viene praticata una Ristrutturazione Cognitiva, che le consente di individuare gli antecedenti che precedono alcune sue esperienze negative e le conseguenze dei suoi comportamenti. L’analisi dei pensieri automatici evidenzia la presenza delle seguenti distorsioni logiche: inferenza arbitraria, astrazione selettiva, personalizzazione, pensiero dicotomico e doverizzazione. ”Sono incapace ed indesiderabile … sono noiosa e sono una perdente … se qualcuno mi guarda ho paura di sbagliare, quindi faccio una figura da stupida … devo assolutamente evitare di trovarmi al centro dell’attenzione … se gli altri criticano qualche mio comportamento vuol dire che ci sono delle buone ragioni per farlo …”. Flo, non senza qualche difficoltà, impara a mettere in discussione questi pensieri ed a sostituirli con altri più funzionali fino a chiedere di voler provare ad affrontare una situazione di lavoro presso un’azienda che seleziona personale. 3. Apprendimento delle abilità sociali. Si procede quindi con un Training Assertivo, attraverso Modeling e Role Playing in seduta e successivamente con l’esposizione in vivo nel nuovo ambiente di lavoro. Flo, dopo il successo nella gestione dell’ambiente di lavoro, decide di affrontare un viaggio con alcune amiche. Dopo otto mesi di terapia, la paziente presenta miglioramenti anche nel tono dell’umore che risulta più stabile. Il caso di Argo -“Se a 30 anni non ho ancora una ragazza…” Diagnosi: Fobia Sociale. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Rathus Assertiveness Schedule (RAS). Dal CBA: elevati punteggi relativi all’ansia in situazioni sociali, critiche o rifiuto, e nei rapporti con persone di sesso opposto. Nella dimensione introversione – estroversione si colloca decisamente nella direzione introversione, persona schiva e riservata. Dal RAS: rilevata notevole anassertività. Argo ha 30 anni e riferisce di avere notevoli difficoltà a relazionarsi con le ragazze, specialmente se ne è attratto. “Non ho mai avuto una relazione sentimentale con una ragazza ed ora che ho 30 anni comincio a sentirmi un po’ anormale”. Ha vissuto sempre i rapporti sociali con una certa apprensione anche se ha cercato, negli anni, di “forzarsi” a stare con gli altri, ottenendo anche risultati soddisfacenti. Pertanto, l’attuale problema sembra limitato all’interazione con le ragazze. Non ha particolari difficoltà di relazione con colleghe e conoscenti ma è completamente inibito nell’approccio con le donne che gli suscitano interesse. Nei loro confronti nutre infatti timori relativi alla possibilità di essere rifiutato e deriso. Ultimamente, una ragazza lo ha particolarmente attratto, provocando in lui una crisi profonda. Al solo pensiero di mostrarle interesse si agita ed inizia a sudare copiosamente, arrossisce e comincia a balbettare. Questo stato lo rende incapace di instaurare 111 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica una conversazione in quanto, nel tentativo di apparire brillante e simpatico, si trova a “dire cose stupide e banali”, amplificando il timore che la partner lo valuti negativamente. Storia del caso Argo vive con i genitori e due sorelle. Laureato in medicina, svolge la libera professione con impegno e soddisfazione. Descrive la famiglia come unita, con un padre piuttosto severo e riservato ed una madre un po’ superficiale, interessata più all’apparire che all’essere, caratterizzata da passività ed accondiscendenza. Definito timido ed impacciato fino ai tredici anni, al liceo Argo riesce ad instaurare buone relazioni con i coetanei maschi poiché non vi erano femmine nella scuola che frequentava. Con l’ingresso all’università si ripresentano difficoltà di rapporto con gli altri: parlare in gruppo e sostenere esami orali. Il giovane decide di superare il problema forzandosi ad uscire in compagnia e frequenta gruppi di coetanei. Concettualizzazione e trattamento Il caso è stato concettualizzato sulla base del modello cognitivo della Fobia Sociale di Wells (1999). Una situazione sociale percepita come pericolosa, attiva pensieri automatici negativi relativi al timore di manifestare comportamenti inadeguati, con conseguente rifiuto da parte dell’altro. Le valutazioni di pericolosità innescano un processo d’ansia che a livello fisiologico si manifesta con sintomi, interpretati anch’essi come elementi di minaccia per le proprie capacità e per il valore di sé, ed i conseguenti comportamenti di evitamento e di protezione contribuiscono a mantenere il Disturbo. Argo controllava ossessivamente i gesti da compiere e preparava le parole da pronunciare con meticolosità quasi ritualistica. In tal modo si impediva il confronto con l’evento fobico e si precludeva la possibilità di modificare le proprie convinzioni circa la sua natura. Il progetto di trattamento ha previsto i seguenti obiettivi. 1. Sviluppo ed incremento delle abilità sociali nelle relazioni interpersonali. 2. Gestione dello stress e dell’ansia sociale nell’interazione con persone di sesso opposto. 3. Superamento degli evitamenti delle situazioni fobiche. Il deficit di competenze sociali riscontrato in fase di assessment ha richiesto lo svolgimento di un Training di Abilità Relazionali, che ha consentito l’acquisizione ed il perfezionamento di capacità espressive, ricettive di ascolto e decodificazione, interattive di alternanza in conversazione e di rinforzo sociale. Particolarmente efficaci con questo paziente sono risultate le tecniche di Modeling e di Role Playing che gli hanno consentito il confronto e la verifica di ipotetiche situazioni di rapporto interpersonale con una terapeuta di sesso femminile. 112 I Disturbi d’ansia Si è proceduto all’Esposizione Graduata agli eventi fobici, sulla base di una gerarchia di situazioni oggetto di evitamento redatta dal paziente. La prima fase è stata caratterizzata dall’esposizione in immaginazione, in stato di rilassamento, attraverso la tecnica del Coping Imagery di Meichenbaum (1977). COPING IMAGERY Questa tecnica é fondamentalmente un’estensione della Desensibilizzazione Sistematica (DS), con la quale spesso si può integrare, e consiste essenzialmente nell’addestrare il paziente a produrre situazioni ansiogene in immaginazione e farvi quindi fronte (coping), sempre in immaginazione, attraverso una serie di abilità apprese in precedenza. Il terapeuta cerca, in primo luogo, di identificare i pensieri ansiogeni per far notare al paziente che essi gli arrecano l’ansia e che é possibile contrastarli attraverso auto-istruzioni adeguate che possono condurre a comportamenti più adattivi. Anche con questa tecnica il paziente viene addestrato al rilassamento ed alla costruzione gerarchica di scene ansiogene come avviene nella Ds. Rispetto a quest’ultima vengono però introdotti alcuni importanti cambiamenti: se un paziente prova ansia durante l’immaginazione di una scena, gli viene suggerito di concedersi di sperimentare alcune delle sensazioni di ansia e poi immaginarsi mentre l’affronta usando la tecnica di rilassamento e le autoistruzioni apprese in precedenza. Una seconda variazione rispetto alla Ds consiste nella successiva inclusione di scene ansiogene nella descrizione del terapeuta, piuttosto che attendere che sia il paziente a formularne una, e l’invito al paziente a fronteggiarle con le tecniche apprese in precedenza. Secondo Meichenbaum, sia la Ds che la Coping Imagery vanno considerate come una forma di covert modeling mettendo con ciò in risalto una sua concezione del processo terapeutico che ruota intorno all’apprendimento cognitivo attivo di nuove risposte, principalmente per mezzo di prove immaginative, piuttosto che come un contro-condizionamento passivo di una risposta invece di un’altra. Perciò, la componente immaginativa assolve in questo processo la funzione di prova. In precedenza erano state suggerite almeno tre modalità attraverso cui le prove immaginative contribuiscono al cambiamento: favorendo un più rapido ed efficace riconoscimento dei segnali iniziali di ansia; permettendo una più ampia gamma di situazioni da includere nelle sedute terapeutiche; conducendo ad una maggiore attivazione emotiva. In altre parole, le prove immaginative sono qui concepite come mezzi che contribuiscono al cambiamento attraverso la produzione di attivazione emotiva, migliorando la percezione del paziente dei segnali di ansia sia interni che esterni e migliorando, altresì, il suo bagaglio mnestico relativo a nuove procedure di coping. Nella pratica il Coping Imagery snellisce e rende più incisiva la Desensibilizzazione Sistematica e può essere impiegato secondo due criteri generali: - - nel primo, allorché il paziente avverte una reazione d’ansia nel visualizzare la scena, il terapeuta non interrompe la prova ma invita il paziente ad immaginare se stesso che affronta (coping) l’ansia mettendo in atto gli accorgimenti precedentemente concordati; nel secondo, il terapeuta include direttamente nella scena la rappresentazione della reazione d’ansia, quindi invita il paziente ad immaginarsi mentre l’affronta e la controlla. 113 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Il paziente ha immaginato se stesso mentre fronteggiava attivamente l’ansia prestazionale, ricorrendo a strategie di coping efficaci, sotto forma di autoistruzioni. La seconda fase di esposizione è stata realizzata in vivo, iniziando a confrontarsi con ragazze che riteneva meno attraenti. Il paziente è stato sollecitato a ridurre la focalizzazione attentiva su di sé, dirigendo l’osservazione su elementi esterni relativi all’ambiente ed alle persone. In associazione con l’esposizione allo stimolo temuto, è stata impiegata una Ristrutturazione Cognitiva. I pensieri ricorrenti riguardavano la previsione di catastrofiche conseguenze relative alla visibilità dei sintomi d’ansia (rossore, sudorazione, tremori…) che venivano interpretati come conferma della propria inadeguatezza ed incapacità relazionale. Identificare le distorsioni logiche che caratterizzavano il suo pensiero, ha consentito ad Argo di procedere poi all’invalidazione dei Pensieri Automatici negativi e delle credenze sottostanti. Pensiero automatico Distorsione cognitiva o faccio una bellissima figura o faccio la figura dello stupido pensiero dicotomico devo essere simpatico e brillante doverizzazione se a 30 anni non ho ancora una ragazza non sono normale saltare alle conclusioni sento di essere un incapace ragionamento emotivo Infine, la tecnica della Freccia Discendente, ha evidenziato il processo di passaggio da Pensiero Automatico negativo alla convinzione di base che il paziente ha imparato a sostituire con un contenuto alternativo. LA TECNICA DELLA FRECCIA DISCENDENTE All’interno dell’intervento attuato con la Ristrutturazione Cognitiva, il terapeuta può usare una modalità, definita “freccia discendente o all’ingiù”, per identificare sia le cosiddette “convinzioni intermedie” (opinioni, assunzioni, regole) sia le “convinzioni nucleari” (credenze di base o schemi). Con questa tecnica un pensiero automatico chiave viene ripetutamente messo al vaglio e valutato, dopo che esso è stato identificato ed ipotizzato essere la diretta conseguenza di una convinzione disfunzionale. Dando per scontata la veridicità del pensiero automatico, il terapeuta chiede al paziente il significato di tali contenuti ideativi fino ad arrivare al punto finale o “bottom line”. Questo processo consiste nel porre domande del tipo: 1°) “Tale evento, situazione, fenomeno…cosa significa per lei…?”. In genere questo tipo di domanda aiuta ad individuare convinzioni a livello intermedio; 2°) “Tale evento, situazione, fenomeno… cosa comporta o comporterebbe su di lei…?”. In genere quest’altro tipo di domanda aiuta ad individuare le convinzioni di base. Vediamo uno stralcio di colloquio clinico come esempio dell’utilizzo della tecnica della Freccia Discendente. 114 I Disturbi d’ansia T. P. T. P. T. P. T. P. T. P. Se lei arrossisse e parlasse in modo strano di fronte all’aula piena, cosa succederebbe? La gente se ne accorgerebbe Bene…e questo cosa significherebbe per lei? Senz’altro riderebbero di me (convinzione intermedia: assunzione tipo “se…allora”) …Uhm, riderebbero…e questo cosa significherebbe per lei ? Non mi prenderebbero sul serio (altra assunzione) E se non la prendessero sul serio, questo quali conseguenze avrebbe per lei ? Si convincerebbero che sono uno stupido (assunzione tipo opinione su se stessi) E pensare che gli altri la giudicano uno stupido cosa comporterebbe su di lei? …Che sono un perdente…un fallito…una persona inadeguata…(credenze di base) Di solito il punto finale o “bottom line” di questa tecnica è identificabile come la fase in cui non è più possibile proseguire con nuovi contenuti e quindi si tende a tornare su pensieri e convinzioni a livelli precedenti della sequenza. Durante l’applicazione della tecnica, possono essere evocate nel paziente emozioni dolorose collegate agli avvenimenti di cui si sta parlando (sarebbe terribile…avrei un’ansia a mille…mi vergognerei da morire, ecc). In questi casi, di tanto in tanto, il terapeuta arresta momentaneamente l’indagine e risponde, intercalando con una modalità empatica di comprensione e di rimando emotivo, per poi riguidare il paziente sulla giusta via. Altre volte il terapeuta, per minimizzare la possibilità che il paziente reagisca in modo non funzionale all’indagine e all’analisi, fornisce una spiegazione logica delle sue domande, con interventi del tipo: “Se questo è vero…allora cosa succede”; “Cosa c’è di brutto in…”; “Quale è la parte peggiore di, in…”; “Questo cosa significa o vorrebbe dire relativamente a lei…”. A conclusione della terapia, dopo sette mesi di trattamento, Argo ha raggiunto un discreto grado di padronanza nelle relazioni con il sesso opposto che gli ha consentito di avvicinare alcune donne in occasioni sociali informali. Nel complesso, il paziente si è sentito più soddisfatto nella gestione di tutti i rapporti interpersonali e ciò ha prodotto un effetto positivo sulla valutazione complessiva di sé, rafforzando l’autostima positiva. 115 CAPITOLO 7 Disturbo ossessivo compulsivo 7.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Ossessioni o compulsioni - Ossessioni come definite da 1), 2), 3), e 4): 1) pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia o disagio marcati; 2) i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale; 3) la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni; 4) la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi o le immagini ossessivi sono un prodotto della propria mente (e non imposti dall’esterno come nell’inserzione del pensiero). - Compulsioni come definite da 1) e 2): 1) comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente; 2) i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o a ridurre il disagio oppure a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi. B. In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Nota: questo non è valido per i bambini. 117 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica C. Le ossessioni o le compulsioni causano disagio marcato: fanno consumare tempo (più di un’ora al giorno) o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali usuali. D. Se è presente un altro disturbo di Asse I, il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni non è limitato ad esso (per es., preoccupazione per il cibo in presenza di un Disturbo dell’Alimentazione, tirarsi i capelli in presenza di Tricotillomania, preoccupazione per il proprio aspetto nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo, preoccupazione riguardante le sostanze nei Disturbi da Uso di Sostanze, preoccupazione di avere un agrave malattia in presenza di Ipocondria, preoccupazione di avere impulsi o fantasie sessuali in presenza di una Parafilia, ruminazioni di colpa in presenza di un Disturbo Depressivo Maggiore). E. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga, un farmaco) o di una condizione medica generale. Specificare se: Con scarso insight: se per la maggior parte del tempo, durante l’episodio attuale, la persona non riconosce che le ossessioni e le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è caratterizzato da pensieri o impulsi ricorrenti (ossessioni), che sono avvertiti come intrusivi, irrazionali o sgradevoli, ma ciò nonostante sono irrefrenabili. La risposta alle ossessioni consiste in atti ripetitivi e ritualizzati (compulsioni); le compulsioni servono a rassicurare il paziente circa i dubbi sollevati dalle ossessioni e si manifestano fino nel 75% delle persone con ossessioni. Un soggetto può essere affetto da più di un ossessione, mentre sono rare le compulsioni multiple. Il DOC è spesso associato all’ansia, portando ad Attacchi di Panico, evitamento fobico e compromissione della vita quotidiana (Lander e Uhde, 2003). Le ossessioni sono mantenute da un meccanismo paradossale: più si cerca di sopprimerle e di allontanarle e più questi pensieri aumentano di intensità e di frequenza (Sanavio, 1991). Una delle prime conseguenze della presenza delle ossessioni è l’evitamento delle situazioni in qualche modo connesse al contenuto delle ossessioni stesse. Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) può interferire con la vita scolastica o lavorativa in maniera così significativa da portare, nei casi più gravi, all’abbandono (Dèttore, 2003; Wells, 1999). L’aspetto importante delle ossessioni è dato dalla loro involontarietà; cioè, esse non sono suscitate dal paziente, il quale tenta in tutti i modi di porvi termine con altri pensieri, atti o “gesti cognitivi” detti anche neutralizzazioni. Se le ossessioni sono involontarie, le neutralizzazioni sono sempre volontarie (Sanavio, 1978). Le compulsioni sono comportamenti intenzionali ed apparentemente finalizzati o azioni mentali che la persona non può fare a meno di mettere in atto, in risposta ad un’ossessione, e che riconosce come irrazionali o inappropriati. Hodgson e Rachman (1977) hanno distinto i sottotipi: - - - - 118 cleaning, preoccupazioni comportamenti e rituali di pulizia e decontaminazione; checking, operazioni di controllo e ricontrollo senza necessità; doubting-ruminating, dubbi, rimuginazioni mentali e scrupoli ossessivi; slowness-repetition, comportamenti ripetitivi e le cosiddette lungaggini ossessive. I Disturbi d’ansia Caratteristiche cognitive presenti nel DOC: - - - - - - - - - fusione pensiero - azione; eccessivo senso di responsabilità; necessità di controllo totale sui pensieri e sistema di regole rigido; ipervalutazione della minaccia, in senso di un sovrastima sia della probabilità che si verifichi l’evento sia delle sue conseguenze; presenza del dubbio patologico, al punto che si ipotizza un deficit di memoria; intolleranza dell’ambiguità e dell’incertezza; convinzione che l’ansia sia qualcosa di intollerabile; presenza del senso di colpa inteso come conseguenza della violazione di una norma interiore. La colpa può essere sia commissione (per aver compiuto un atto ritenuto dannoso o immorale) che di omissione (per non aver fatto qualcosa di necessario o utile); in una buona percentuale di casi (circa il 60-70 %) al DOC si associano aspetti depressivi. Dèttore ipotizza che le persone con DOC, quando si trovano in una situazione che ha un esito potenzialmente indesiderabile o dannoso, sopravalutano la probabilità che tale esito si realizzi. Essi sono guidati dalla convinzione che “se qualcosa può andare storto, ci andrà” e di conseguenza, osserva Carr, mettono in atto l’evitamento delle possibili fonti di rischio. McFall e Wollersheim (1979) osservano che tali soggetti sono caratterizzati da un perfezionismo che si manifesta nella ricerca ostinata della soluzione migliore per ogni problema: credono di dover essere perfetti, che tutto debba funzionare nel modo migliore e che qualunque esito diverso rappresenti una catastrofe. Di conseguenza vivono con la percezione di una minaccia costante che li porta inevitabilmente a sperimentare ansia. Il DOC va distinto da Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità che si caratterizza per una modalità pervasiva di perfezionismo e di inflessibilità altamente invalidante. I soggetti con tale Disturbo perseguono costantemente la perfezione in tutto quello che fanno, con un’aderenza a standard eccessivamente rigidi e spesso irraggiungibili che interferisce significativamente con la realizzazione di progetti e di attività. Mostrano eccessiva dedizione al lavoro ed alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e delle amicizie; sono riluttanti a delegare compiti o lavorare con altri, salvo che non aderiscano completamente al loro modo di operare; appaiono esageratamente coscienziosi, scrupolosi ed inflessibili in tema di moralità e valori; avari, considerano il denaro come indispensabile da accumulare in previsione di future catastrofi. Nei soggetti con DOC è stata riscontrata un’anomalia nella trasmissione della serotonina ed i farmaci antidepressivi che agiscono come inibitori della ricaptazione di quel neurotrasmettitore (SSRI) hanno dimostrato efficacia terapeutica. Vi sono fattori biologici che predispongono all’insorgenza del Disturbo, insieme con elevati livelli di autocritica conseguenti a modelli educativi eccessivamente rigidi e severi. 119 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 7.2 Modelli comportamentali e cognitivi Secondo la teoria comportamentale, le ossessioni sono un’esperienza comune a tutte le persone ma la differenza tra normalità e patologia sta nella capacità di reazione e di controllo di queste intrusioni mentali. Rachman (1978, 1980) ha evidenziato alcune somiglianze e differenze tra ossessioni “patologiche” e non patologiche. Secondo l’autore “le ossessioni, sotto forma di pensieri e/o impulsi, sono un’esperienza comune, quindi un fenomeno normale che la maggior parte delle persone riferisce di aver sperimentato ed inoltre la forma, ed in parte anche il contenuto, delle ossessioni riferite dai soggetti non clinici e dai pazienti ossessivi sono simili ed hanno una relazione con l’umore”. Secondo l’Autore, l’ossessione patologica si differenzia da quella non patologica per le seguenti caratteristiche: - l’ossessione non patologica è più facile da allontanare ed ha una maggiore soglia di accettabilità; - l’ossessione patologica ha maggiore frequenza, durata e resistenza, è egodistonica, suscita più impulsi da neutralizzare e produce maggiore disagio. In presenza di un pensiero ossessivo può accadere che il soggetto metta casualmente in atto un comportamento che viene seguito, sempre casualmente dalla riduzione dell’ansia. In questo modo però egli apprende, per condizionamento operante, che quella risposta è in grado di ridurre l’ansia (rinforzo negativo). Successivamente tale comportamento si automatizza fino a caratterizzarsi come compulsione. Diversi autori sono concordi nel ritenere che gli impulsi ossessivi e l’ansia ad essi associata vanno incontro ad un decadimento spontaneo (nell’arco di circa un’ora), in conseguenza di un processo di abituazione lento e progressivo. In questo caso non si ha un rinforzo immediato, in quanto il decremento dell’ansia è causato dal fattore tempo; tuttavia, se il soggetto mette in atto il rituale il rinforzo sarà immediato. Lo stesso principio si applica alle neutralizzazioni covert, cioè a quei pensieri in grado di ridurre il livello dell’ansia provocata dai pensieri ricorrenti. Secondo il modello cognitivo comportamentale, nel DOC è determinante l’interpretazione e la valutazione che il soggetto fa del pensiero intrusivo, in particolare la convinzione che quel pensiero possa causare un evento dannoso. Questa convinzione origina dall’idea che la persona che lo ha prodotto abbia il potere di determinare gli eventi e che quindi avere un pensiero equivalga a produrre l’azione. Di conseguenza, il soggetto avverte la necessità di agire per evitare il verificarsi dell’evento temuto ed il rituale svolge per lui questa funzione. Pertanto, se le ossessioni provocano ansia ed i comportamenti ritualizzati o le compulsioni la riducono, tuttavia questi ultimi mantengono attive le credenze che la persona ha circa le intrusioni – stimolo in quanto non le consentono di verificarne l’infondatezza. Il DOC è sostenuto dalle seguenti convinzioni disfunzionali: - avere un pensiero equivale a compiere un’azione; - non riuscire a prevenire un danno equivale a provocarlo; 120 I Disturbi d’ansia - la responsabilità non è attenuata dalla bassa probabilità che un evento si verifichi ma proporzionale alla gravità del danno; - non “neutralizzare” un pensiero intrusivo con un rituale equivale a desiderare che il danno si produca; - una persona deve controllare sempre i propri pensieri. Tali convinzioni possono essere presenti senza determinare l’insorgenza del disturbo fino al verificarsi di un evento che agisce come scompenso dell’equilibrio psicologico. L’evento, non necessariamente evidente e significativo, può però anche essere un fatto positivo per il soggetto (una promozione, il matrimonio, la nascita di un figlio …) che però egli può vivere con una diversa connotazione emotiva, anche perché spesso si tratta di situazioni che richiedono una reale assunzione di maggiori responsabilità. La presenza dell’idea ossessiva origina un pensiero automatico a seguito del quale si mette in atto la compulsione e, poiché il mancato verificarsi dell’evento temuto è attribuito al rituale, il processo viene mantenuto. Lo schema seguente riporta alcuni esempi di contenuti ricorrenti nel meccanismo ossessivo compulsivo. p. ossessivo p. automatico rituale sulle mie mani potrebbero esserci virus mi ammalerò io e tutti i miei familiari lavarsi le mani continuamente uscendo di casa non ho chiuso ci sarà un’esplosione e moriil rubinetto del gas ranno tutti rientrare a controllare pensieri di fare del male ai propri figli pensare equivale a desiderare evitare di rimanere solo con i figli pensieri che gli oggetti siano fuori posto se non c’è ordine non c’è equilibrio ordine maniacale Salkovskis (1985) ha analizzato le differenze tra pensieri ossessivi e pensieri automatici definiti da Beck (1976), rilevando che i primi: a) si intromettono ed interrompono il normale flusso dei pensieri mentre i pensieri automatici compaiono in parallelo con lo svolgimento del flusso principale di pensiero e non provocano interferenza; b) si impongono al soggetto con una rilevanza eccessiva e disturbante mentre i pensieri automatici sono meno facilmente accessibili; c) sono solitamente percepiti come irrealistici ed irrazionali, a differenza dei pensieri automatici percepiti come logici e plausibili; d) il loro contenuto è inaccettabile ed incoerente rispetto al sistema di valori del soggetto (egodistonici) per cui egli cercherà di combatterlo in tutti i modi. I pensieri automatici sono egosintonici e coerenti con le credenze del soggetto. Wells e Matthews (1994) suggeriscono che le intrusioni attivano convinzioni che riguardano il significato dell’intrusione stessa. Queste convinzioni infatti non solo con121 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica sistono in informazioni sulle intrusioni ma anche in conoscenze riguardo le risposte comportamentali. Rachman nel 1993 ha introdotto un nuovo e utile concetto definito “thought-action fusion” (TAF) che ben rappresenta la convinzione meta-cognitiva per cui i pensieri sono equiparati alle azioni (ad esempio avere un pensiero di nuocere ai propri bambini significa che si farà loro del male). Questo stesso concetto è stato sviluppato successivamente e diviso in 2 componenti: • • “TAF morale”. “TAF probabile”. La prima riflette la convinzione che i pensieri sono moralmente equiparati alle azioni (cioè pensare è male tanto quanto agire); la seconda invece si riferisce alla convinzione che pensare a qualcosa aumenti la sua probabilità di accadere, sia a se stessi che agli altri (Rachman, Thordarson, Shafran, e Woody, 1995). Le convinzioni meta-cognitive pertanto riguardano le conseguenze dei pensieri (i pensieri possono causare azioni/eventi) e il significato dei pensieri per azioni/eventi passati (se penso di aver fatto qualcosa di brutto probabilmente l’ho fatto). Il modello generale mostra la relazione tra le variabili chiave nel mantenimento delle ossessioni con l’utilizzo delle compulsioni. In questo modello un elemento scatenante (molto spesso un pensiero intrusivo o un dubbio) attiva le convinzioni riguardo il significato dell’elemento stesso. Le convinzioni rilevanti a questo livello includono: • convinzioni sui pericoli e il significato del pensiero comprendente i temi di “thought-action fusion” e di “thought-event fusion”; • convinzioni sulle conseguenze dell’emozione /disagio. Tutti questi convincimenti influenzano la natura della valutazione delle intrusioni. Un’influenza ulteriore risulta dalle credenze che l’individuo possiede riguardo a rituali e risposte comportamentali. Due tipi di credenze sono qui rilevanti: quelle positive (ad es. “se non metto in atto il mio rituale la sensazione non finirà mai”) e quelle negative (ad es. “i miei rituali potrebbero danneggiare il mio corpo”). Inoltre due tipi di feedback circolari agiscono a questo punto: l’ansia e altre reazioni emotive negative, che risultano dalla valutazione delle intrusioni, possono essere soggette ad interpretazioni negative; le risposte comportamentali prevengono la disconferma della credenza nelle valutazioni disfunzionali di intrusioni. Nel primo caso le risposte emozionali aumentano la possibilità di ulteriori intrusioni poiché riportano all’elemento scatenante, mentre nel secondo caso la non occorrenza di eventi catastrofici risultante dalle intrusioni è attribuita ai rituali e non al fatto che la valutazione iniziale dell’intrusione non era valida poiché esagerata. Esistono numerosi modelli teorici del DOC, nessuno dei quali però appare distinguersi in particolare per spiegare il Disturbo. I modelli più promettenti includono i recenti approcci cognitivo-comportamentali (Clark, 2004; Frost e Steketee, 2002; 122 I Disturbi d’ansia Salkovskis, 1996) che propongono che il DOC derivi da un particolare insieme di credenze disfunzionali. L’Obsessive Compulsive Cognitions Working Group (OCCWG, 2003) in una recente ricerca suggerisce che vi siano 3 tipi distinguibili analiticamente di credenze correlate a ossessioni e compulsioni: (a) alto senso di responsabilità personale e la tendenza a sovrastimare la minaccia, (b) perfezionismo e intolleranza dell’incertezza, (c) eccessiva importanza e controllo dei pensieri. Queste dimensioni sono state identificate come risultato di tutte le credenze collegate a ossessioni e compulsioni che sono state precedentemente delineate nella letteratura della ricerca in questo ambito (Frost e Steketee, 2002; OCCWG, 1997). Altri modelli del DOC non considerano le credenze disfunzionali come elementi che giocano un ruolo importante nel Disturbo. Alcuni pazienti, ad esempio, sostengono che si sentono costretti ad attuare le loro compulsioni non perché associate a credenze specifiche (come la credenza di avere una personale responsabilità per prevenire un danno), ma bensì per il bisogno di ottenere un “sentimento” sensorioaffettivo per il quale le cose sono “semplicemente giuste/ corrette” (Leckman, Grice, et al., 1995). Per esempio una persona si potrebbe sentire costretta a lavarsi ripetutamente le mani fino a quando si sente “pulita”, senza essere in grado di definire il criterio di “pulizia”. Guidano e Liotti (1983) ritengono che se le persone con DOC svalutano la propria capacità di far fronte adeguatamente alle minacce temute, tali pensieri produrranno sensazioni diffuse di incertezza, disagio ed “helplessness”. Nell’ottica del paziente, i rituali sono l’unico sistema di riferimento possibile in assenza di altri più appropriati. Inoltre questi Autori hanno proposto che il DOC risulti da una combinazione di perfezionismo, bisogno di certezza e la credenza che esistano soluzioni perfette. Slade e Owens (1998) hanno suggerito un modello ancor più dettagliato del perfezionismo presente nei DOC basato sulla distinzione tra due fattori: il perfezionismo positivo e quello negativo. Il loro modello descrive la distinzione basata sulla funzione del comportamento perfezionistico e si può spiegare nel modo seguente: • il perfezionismo positivo coinvolge cognizioni e comportamenti finalizzati ad ottenere un rinforzo positivo; • il perfezionismo negativo comprende cognizioni e comportamenti indirizzati ad obiettivi di evitamento o fuga da fallimenti. Questi differenti modelli teorici mettono in luce la crescente evidenza che il DOC sia un disturbo eterogeneo (o un gruppo di disturbi), piuttosto che una sindrome unitaria (McKay et al., 2004); di conseguenza è possibile che differenti modelli teorici si possano applicare a diversi sottotipi di DOC. In questo modo pertanto i modelli che enfatizzano il ruolo delle credenze disfunzionali potrebbero applicarsi solo ad un sottogruppo di manifestazioni di DOC o in casi con presenza di particolari sintomi. 123 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 7.3 Trattamento Il trattamento comportamentale del DOC ha come obiettivo la riduzione dell’ansia associata a stimoli esterni ed interni e la modificazione dei comportamenti disadattivi attraverso la rottura dell’associazione tra gli stimoli ed i rituali. Le terapie cognitive si focalizzano sui pensieri ossessivi. Il trattamento più efficace associa entrambi gli interventi (Rovetto, 1996). In fase di assessment vengono indagate le seguenti aree: stimoli esterni o interni, in grado di attivare le ossessioni e le compulsioni; pensieri, immagini mentali ed impulsi ossessivi con una valutazione del grado di convinzione del paziente; comportamenti compulsivi, con descrizione dettagliata dei rituali comportamentali o mentali e delle azioni di evitamento messe in atto in risposta ai pensieri ossessivi; problemi relazionali, lavorativi e familiari conseguenti. La raccolta di queste informazioni si avvale di strumenti di automonitoraggio e di appositi questionari. L’impiego di questi ultimi consente di confrontare la situazione pre e post trattamento, in modo da ottenere una misurazione oggettiva della sintomatologia. Il questionario attualmente più utilizzato è il Mausdley Obsessional – Compulsive Inventory (MOCI) elaborato da Hodgson e Rachman (1977). Una versione ridotta e revisionata è la scheda 9 del CBA-2.0 Scale Primarie di Sanavio e al. (1986) composto di 21 item, con risposta vero falso, che prevede tre sottoscale: - checking, controllo; - cleaning, pulizia; - doubting-ruminating, dubbio/ruminazioni. Ad opera di Sanavio (1988) abbiamo anche il Padua Inventory, composto da 60 item da valutare su una scala a 5 gradi di intensità (0-4) e che rileva quattro fattori: - controllo inadeguato della propria attività mentale (difficoltà ad allontanare i pensieri intrusivi, rimuginazione, dubbi); - ossessioni e compulsioni, connesse a contagi e contaminazioni; - controlli e ricontrolli; - impulsi e preoccupazioni di poter perdere il controllo del proprio comportamento. Anche il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) presenta una scala di “ossessività” (OBS), i cui punteggi elevati indicherebbero difficoltà a prendere decisioni, tendenza alla ruminazione ed alla preoccupazione eccessive. Un aspetto importante da prevedere in fase di assessment è la motivazione del paziente ad affrontare il trattamento che richiede un notevole impegno e può anche provocare forte disagio. L’intervento comportamentale associa tecniche di Esposizione a tecniche di Prevenzione della Risposta. Le tecniche di Esposizione consistono nell’affrontare la situazione temuta direttamente (in vivo) o in immaginazione. L’Esposizione può avvalersi anche di procedure di 124 I Disturbi d’ansia Rilassamento e prevedere o meno una gradualità di esecuzione. Tra le principali tecniche di Esposizione: la Desensibilizzazione Sistematica, l’Esposizione Graduata, l’Esposizione non graduata o Flooding e la Saturazione. SATURAZIONE Consiste nella monotona ripetizione mentale di pensieri e di immagini ansiogene, per un tempo sufficiente a provocare la loro estinzione per un processo di abituazione. Le tecniche di Prevenzione della Risposta consistono nell’impedire l’emissione di comportamenti compulsivi o di rituali. Si basano sul principio del condizionamento operante, secondo il quale la risposta si estingue se non è seguita da rinforzo. PREVENZIONE DELLA RISPOSTA NEL DOC Questa tecnica consiste nell’impedire l’emissione dei comportamenti ritualistici ed è sempre associata a tecniche di Esposizione in vivo o in immaginazione. In pratica, si avvia un’esposizione graduata facendo affrontare stimoli ansiogeni di crescente intensità e si impedisce che venga effettuato qualsiasi cerimoniale di purificazione. I passi da seguire (Marks, 1985; Turner e Beidel, 1988; Steketee, 1993) sono i seguenti: Verificare che il paziente non abbia anche una sintomatologia depressiva e, nel caso, trattare prima la depressione. Bloccare l’eventuale utilizzo di ogni alcolico o ansiolitico da parte del paziente. Verificare l’eventuale presenza di disturbi organici (colite, ulcera, asma, disturbi cardiovascolari), aggravati sicuramente dall’ansia, in modo da intervenire gradualmente. Definire il problema in modo preciso e comportamentale, individuando tutte le situazioni che creano disagio, nonché rituali anche minimi, sia comportamentali sia mentali. Richiedere al paziente disponibilità di tempo per il trattamento necessario e forte motivazione al cambiamento. Contattare familiari e parenti significativi del paziente per spiegare le modalità dell’intervento, ma anche per dare consigli sul comportamento da assumere. Se viene affidato il compito di supervisore esterno ad un familiare, per controllare i compiti a casa, è necessario istruirlo sulle regole da seguire e le tecniche da utilizzare. Se, invece, sarà lo stesso paziente ad avere la responsabilità dei compiti lo si invita, qualora avesse forti impulsi ad emettere comportamenti ritualistici, a rivolgersi ad una persona vicina particolarmente comprensiva o, almeno nelle prime fasi della terapia, a mettersi in contatto telefonico col terapeuta. È necessario che il paziente tenga una scheda di rilevazione dei rituali eventualmente emessi. Via via che i rituali vengono controllati, l’aiuto del supervisore o del terapeuta verrà attenuato e quindi eliminato. La Prevenzione della Risposta costituisce un’importante tecnica d’autocontrollo che comporta, dunque, un alto grado di coinvolgimento e collaborazione del paziente e anche di familiari e parenti. 125 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica In alcuni casi, tuttavia, come nelle ossessioni di contaminazione e di controllo, può essere consentita la Dilazione della Risposta, una particolare e graduale forma di Prevenzione della Risposta che permette l’emissione del rituale quando l’ansia è troppo alta e non decresce, ma comunque sempre dopo un certo intervallo di tempo dalla manifestazione dell’impulso. Altre tecniche utili per aiutare i pazienti a gestire i loro rituali e le loro ideazioni ossessive sono di seguito descritte. DILAZIONE DELLA RISPOSTA Il paziente viene esposto allo stimolo ansiogeno ma si stabiliscono tempi precisi, e gradualmente più lunghi, di posticipazione della risposta compulsiva. Il presupposto per l’utilizzo di questa tecnica è che il rituale sia contiguo alla presenza dell’impulso. PRATICA NEGATIVA Al paziente viene richiesto di ripetere un elevato numero di volte il rituale con tempi prestabiliti ed in momenti della giornata concordati. RITUALI OBBLIGATI Si stabiliscono momenti della giornata nei quali il paziente è obbligato ad emettere il comportamento compulsivo e momenti nei quali gli è proibito attuarlo. I tempi del divieto vengono progressivamente allungati. SENSIBILIZZAZIONE COVERT In immaginazione, il paziente visualizza l’esecuzione del rituale ed il terapeuta introduce gradualmente nella scena elementi che portano a conseguenze estremamente sgradevoli. Sarà poi il paziente a ripetere la sequenza autonomamente, seguendo le istruzioni del terapeuta. ARRESTO O STOP DEL PENSIERO I pensieri disadattivi e disfunzionali hanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente insignificante ma può, se “lasciato libero”, acquistare peso e forza. Questo vuol dire che 126 I Disturbi d’ansia spesso gli individui valutano i propri pensieri e le proprie considerazioni attribuendo valutazioni a catena e generando circoli e problemi secondari. Una volta creati, questi processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può essere difficile bloccarli. Ad esempio, un paziente depresso può generare una catena di considerazioni sulla minaccia da parte degli altri e sulla durezza della vita che può condurlo velocemente al suicidio. Una tecnica utile in queste situazioni, nello stadio precoce ed iniziale del processo, è lo Stop del Pensiero. Il terapista può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente la parola “stop”, oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza nella seduta, oppure può attribuire il significato di “stop” ad un gesto che all’occorrenza può fungere da segnale per il paziente e da ausilio per rafforzare il comando di “stop”. Possono essere utili vari modi per indicare tale comando, da segnali visivi a stimoli acustici, come campanelli o altri rumori, o segnali cenestesici e tattili. Ognuna di queste procedure è usata nella fase di partenza del processo ed è molto utile nel bloccare lo sviluppo e la progressione dei pensieri. I vari segnali impiegati per indicare il comando di “stop” sono utili anche per il valore mnemonico che possono avere; infatti essi possono costituire un aiuto e un sussidio per il paziente il quale, avendo applicato in seduta tale comando, si ricorda di esso con più efficacia. Questa tecnica ha un valore duplice: è sia distraente, in quanto si propone un segnale all’attenzione distogliendola da un certo stimolo attivo fino a quel momento, ed è anche avversiva in quanto si contrappone una intenzione ad una intenzione contraria. Lo scopo principale è quello di permettere al paziente di riacquistare il senso del controllo del proprio pensiero attraverso un modo tangibile e perciò rassicurante. Questo tipo di procedura è utile per contrastare la modalità frequente che i soggetti utilizzano nel fronteggiare un pensiero (intrusivo) non voluto, sia scandalizzante sia rifiutato o ancora giudicato estraneo. Se il soggetto intenzionalmente si impone di allontanare un contenuto indesiderato dalla propria mente incorre nel fenomeno definito “paradosso della intenzionalità”: quel contenuto sarà presente molto più di prima in quanto egli controllerà continuamente se lo sta pensando. Una modalità adattiva consiste nell’impegnarsi in un compito selezionato che abbia un valore di interesse e di utilità reale per il soggetto, piuttosto che essere scelta a caso. Una variante della tecnica consiste nell’indirizzare lo “stop” non al pensiero intrusivo ma alla valutazione negativa che l’individuo ne formula: in questo caso il segnale di “stop” ha la funzione di blocco delle valutazioni disfunzionali e contribuisce a costruire una rappresentazione sempre meno convincente delle originarie valutazioni. L’applicazione di questa variante della tecnica si pone l’obiettivo di favorire lo sviluppo di un atteggiamento di accettazione dei propri contenuti mentali. Queste tecniche prevedono il coinvolgimento attivo della persona nella pianificazione dei compiti, proporzionati alle sue risorse disponibili, ed il ricorso ad attività piacevoli alternative al rituale da praticare in sua sostituzione. Nel trattamento cognitivo l’intervento mira ad identificare le distorsioni logiche e ad operare una ristrutturazione delle cognizioni rilevate nel paziente con DOC. In particolare, aiuta il soggetto a produrre valutazioni ed interpretazioni alternative ed a renderlo meno vulnerabile agli effetti di eventi stressanti. Partendo dall’individuazione dei pensieri automatici, si procede alla loro modifica e sostituzione seguendo alcune specifiche procedure: - l’esame delle prove a favore o contro e delle probabilità realistiche che il rischio temuto si verifichi, unitamente all’elaborazione di interpretazioni alternative; - la ricerca di esempi e di informazioni da fonti diverse dal terapeuta, come ad esempio amici o conoscenti; 127 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica - il decentramento e distanziamento dalle proprie interpretazioni, ad esempio ipotizzando di attribuirle ad un’altra persona e valutandole così dall’esterno; - la ricerca sistematica delle più comuni distorsioni cognitive, quali la personalizzazione, il pensiero dicotomico, la generalizzazione...; - la riattribuzione, cioè la consapevolezza da parte del paziente che egli non è responsabile del pensiero disfunzionale e delle sue temute conseguenze ma che il pensiero stesso rappresenta il disturbo. Il processo riattributivo contribuisce anche a diminuire il senso di autosvalutazione e ad aumentare l’autostiima; - la ricerca di modalità alternative di pensiero e di significati nuovi che sostituiscano i pensieri automatici. CAPIRE I SIGNIFICATI PERSONALI TIPICI Solitamente, i termini usati dal paziente sono particolari, idiosincrasici, personali ed il terapista non può dare per scontato che un tale concetto sia padroneggiato e posseduto, o un certo termine sia usato nello stesso campo di applicazione. Spesso anche tra professionisti l’accordo sui riferimenti semantici di un termine, pur centrale o frequente o “alla moda”, non è scontato. Inoltre, con pazienti con disturbi del pensiero, con particolari elaborazioni deliranti o sub-deliranti, l’accordo sulla terminologia “tecnica” è pressoché nullo. In tale questione il terapeuta chiede chiarimenti su particolari termini usati dal paziente. Ad esempio un paziente può usare il termine “ansioso” per descrivere il proprio stato di ostilità, un altro può definire se stesso come “disgustato” piuttosto che descriversi come “deluso” o come “arrabbiato” (ciò è tipico quando si ha a che fare con i termini riguardanti le emozioni). In sostanza, questo intervento ha lo scopo di aiutare il soggetto ad esplicitare la propria specifica definizione del termine che usa, in modo da rendere comprensibile il modello implicito che ha per comprendere il fatto o l’evento a cui è o è stato esposto. Spesso, può essere utile soffermarsi sulla distinzione tra termini, in quanto ciò agevola sia la discriminazione successiva sia l’acquisizione di vocabolario condiviso che è un aspetto importante per il proseguimento degli interventi. Ovviamente, la richiesta di chiarificazione del terapista non deve risultare un atto di accusa o una indicazione di ignoranza, il che porterebbe il paziente a diffidare di lui o a chiudersi “in difesa” da possibili svalutazioni. In alcuni casi, tuttavia, deve essere corso il rischio di richieste di chiarificazioni che appaiono scontate o banali ma che possono rivelarsi, ove si trascuri il chiarimento, fonte di equivoci. È sempre utile schematizzare o ricollegarsi al modello generale (ad esempio, il modello cognitivo ABC) in quanto il soggetto può non sapere ancora orientarsi o utilizzare concetti impiegati nel trattamento. DECATASTROFIZZAZIONE Se il paziente vede un’esperienza come potenzialmente catastrofica, il terapista lo può aiutare a considerare se egli non stia sovrastimando la natura catastrofica della situazione. Ad esempio, il terapeuta può proporre “cosa può farti di male ciò?” oppure “che danno particolare ti comporta ciò?” o anche “se ciò accade come pensi che ti sentirai fra un mese 128 I Disturbi d’ansia (o una settimana, o altro)?” Il clinico propone degli stimoli tendenti a “forzare” una visione diversa della situazione, una prospettiva meno a senso unico, meno catastrofica. Se il paziente considera lo stimolo minacciante o il pensiero negativo o la situazione da evitare come l’aspetto centrale della propria vita allora l’ansia o la depressione o l’emozione specifica associata ad essa sarà intensa e drammaticamente resistente; ma se il terapista riesce a decentrare o articolare l’interesse del soggetto su più aspetti o parti dello stesso aspetto generale allora l’aspettativa di “rimanere senza niente” o “essere scoperto (nel senso di esposto)” o anche “perdere l’unica cosa che ...” perderà importanza. È importante che il clinico riesca a promuovere nel paziente una prospettiva realistica delle conseguenze associate ad una certa situazione temuta o evitata. Un aspetto non secondario è la sensibilità del terapista nell’evitare di esporre il paziente ad autovalutazioni negative o alla percezione di essere ridicolizzato o sminuito, mentre affronta il compito di prospettarsi il danno realistico piuttosto che il danno irrazionale e catastrofico, e lo stesso vale per le conseguenze associate. Alcune volte è utile fare l’esperienza dalla situazione per ricavarne il dato realistico, altre volte è utile il ricordo soltanto; in ogni caso il paziente deve essere stimolato al confronto tra le proprie aspettative riguardo allo stimolo (un pensiero, un segnale dal proprio corpo, una certa situazione sociale) e delle valutazioni più moderate e realistiche. Successivamente si può procedere all’identificazione delle assunzioni e degli schemi di base sottostanti, che solitamente nel paziente con DOC si riferiscono ad un bisogno di perfezione e di controllo. A tale scopo, la terapia cognitiva “post-razionalista”, orientata secondo modelli strutturalisti - costruttivisti, propone un intervento articolato su di un duplice livello. INTERVENTO COGNITIVO STRUTTURALISTA Organizzazione cognitiva ossessiva Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo-emotiva ossessiva, il cambiamento superficiale si può ottenere dopo aver aiutato il paziente a riconoscere e criticare l’esigenza di perfezione che ovviamente implica l’idea di guarigione totale e perfetta. Si può poi intervenire con tecniche come l’Esposizione Graduale, il Modeling, il Differimento o il Blocco dei Rituali per alleviare i disagi emotivi collegati al bisogno compulsivo. È ovvio che nei piani di cambiamento terapeutico profondo, si agisce in modo tale che non rimanga inalterata l’identità personale basata sulla sensazione continua ed intrinseca di una doppia e opposta facciata, sempre presente in contemporanea negli atteggiamenti verso se stesso e la realtà, e sul tacito bisogno di adeguarsi del tutto a una delle due, quella giusta, escludendo l’altra, quella sbagliata. Lo studio della prognosi del Disturbo lo indica come difficile da trattare e, anche se l’intervento comportamentale ne favorisce esiti più positivi, risulta particolarmente necessario il lavoro sulla Prevenzione delle Ricadute (Déttore, 2003). 129 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 7.4 Casi clinici Il caso di Olindo -“Se penso di aver sbagliato probabilmente è vero” Diagnosi: Disturbo Ossessivo Compulsivo. Dal CBA 2.0 scale primarie: significativo il punteggio alla scala relativa alla paura del rifiuto sociale, con moltissima paura per gli “insuccessi”, per la possibilità di “commettere errori” e di “fare una figura da stupido”; alla scala delle ossessioni presenta un punteggio particolarmente elevato alle subscale relative ai controlli ed ai dubbi/ruminazioni. Olindo è un operaio di 40 anni che riferisce un problema d’ansia caratterizzato dalla presenza invasiva di ricorrenti pensieri stereotipati e ripetitivi che lo inducono all’irrinunciabile necessità di controllarne la veridicità. Il contenuto dell’ideazione è di tipo dubitativo ed è relativo alla sua attività lavorativa. In particolare il problema si acuisce nelle ore serali e notturne, durante le quali il pensiero di non aver svolto adeguatamente alcune azioni che richiedono la sua attenzione (come spegnere un macchinario o chiudere a chiave la porta al termine di un turno) lo spinge a ripercorrere mentalmente più volte, secondo un ordine preciso, tutta la sequenza dei movimenti compiuti e questo interferisce anche pesantemente con la durata e la qualità del riposo notturno: “se non riesco a ricordare tutto quello che ho fatto provo un’ansia terribile e non riesco ad addormentarmi”. Se durante la riproposizione mentale della sequenza si accorge di aver saltato un’azione, la compulsione alla ripetizione di tutti i passaggi aumenta nel tentativo di assicurarsi maggiormente di aver eseguito tutte le azioni con precisione. Storia del caso Olindo è coniugato e padre di due bambini. Riferisce di aver ricevuto dai genitori un’educazione improntata al senso del dovere e dell’impegno ”… mi hanno insegnato a fare le cose bene e con attenzione … a completare sempre le cose che inizio a fare…”. Si definisce una persona precisa e scrupolosa, ansioso da sempre, e colloca l’origine della sintomatologia, lamentata in relazione con l’avvio dell’attuale attività lavorativa, circa quindici anni prima. Concettualizzazione e trattamento Il Disturbo è stato trattato con una iniziale gestione della sintomatologia ansiosa, mediante tecnica di rilassamento che ha consentito al paziente di ridurre l’attivazione fisiologica disturbante associata con la presenza del pensiero intrusivo. Si è quindi proceduto alla realizzazione di compiti di Esposizione in vivo e di Prevenzione della Risposta, con la registrazione dei pensieri intrusivi non seguiti da neutralizzazione e delle cognizioni disfunzionali sottostanti. Le principali cognizioni disfunzionali rilevate sono risultate le seguenti: - “devo avere il controllo totale dei miei pensieri”; 130 I Disturbi d’ansia - - - - “bisogna sempre fare le cose nel modo migliore”; “se penso di aver sbagliato qualcosa probabilmente è vero”; “non devo mai sbagliare”; “se non svolgo bene il mio lavoro sono un incapace, sono un fallimento”. Mediante un intervento di Ristrutturazione Cognitiva, Olindo ha appreso a modificare i pensieri negativi con sensibile riduzione dell’intensità dell’emozione associata alla presenza dell’intrusione/dubbio. Situazione Pensiero intrusivo/ dubbio Pensiero disfunzionale Pensiero funzionale a casa dopo cena non ho spento il macchi- non devo sbagliare; se nario non ricordo di averlo fatto non l’ho fatto, devo verificare e non posso farne a meno sbagliare è umano, posso anche fare un errore, se non ricordo tutti i movimenti è perché li faccio in modo automatico, verificare è un impulso che posso trattenere: io posso controllare le mie azioni e decido di non verificare ma di affrontare la mia ansia con le tecniche che ho imparato Emozione ansia 80% Emozione ansia 30% Il confronto tra i propri pensieri negativi associati ad un suo errore sul lavoro e quelli associati ad un errore altrui, ha consentito al paziente di comprendere più facilmente le convinzioni negative che sostenevano il disturbo e di sostituirle con valutazioni più realistiche e funzionali. ERRORE SUL LAVORO Olindo Collega “Ho sbagliato, non sono stato attento, non deve suc- “Ha sbagliato, forse è stanco o è solo un momento cedere” di distrazione” “Quando se ne accorgono pensano che sono un inca- “Ha fatto un errore, non per questo è un incapace” pace” “Hanno ragione, non devo sbagliare, devo essere at- “Può succedere, di solito è una persona attenta e aftento e preciso nel lavoro” fidabile” “Se ho sbagliato è colpa mia … le conseguenze me le “Non ci sono conseguenze particolarmente negatimerito” ve” In particolare il paziente ha potuto verificare che: - l’errore altrui era giustificabile per stanchezza o semplice distrazione mentre il suo rivelava la propria inettitudine globale; 131 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica - i pensieri disfunzionali erano sostenuti da un’ipervalutazione del perfezionismo, con eccessivo senso di responsabilizzazione, e dall’assunzione: “comportamento corretto e preciso = sé amabile e degno di stima”. Dopo un anno di terapia, Olindo ha raggiunto un soddisfacente controllo dei propri dubbi ossessivi, con il superamento della compulsione alla verifica, sintetizzabile in questa sua espressione: “Non ricordo tutti i movimenti che ho fatto, e se ho sbagliato qualcosa? … Mi sento padrone della mia mente e libero di scegliere se stare a pensarci, e forse farmi venire i dubbi, oppure no… e scelgo di no”. Il caso di Era - “Se penso questo sono pazza o sto per impazzire” Diagnosi: Disturbo Ossessivo Compulsivo. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Padua Inventory (PI), Beck Depression Inventory (BDI), Rathus Assertiveness Schedule (RAS). Dal CBA: elevata ansia di tratto; marcata instabilità emozionale con possibilità di sviluppare disturbi psicologici in situazioni di stress; significativo il punteggio alla scala delle paure nell’area agorafobia ed a quella della depressione; elevati i valori indicativi della presenza di dubbi / ruminazioni. Dal PI: inadeguato controllo sulle proprie attività mentali relativamente alla paura di non riuscire a controllare i propri pensieri e comportamenti motori. Dal BDI: disturbo depressivo clinicamente significativo. Dal RAS: anassertività di tipo passivo. Era ha 30 anni e si presenta in terapia lamentando una sintomatologia ansiosa depressiva, con ricorrenti pensieri di impulsi aggressivi verso il figlio e verso la madre. Ossessionata dal dubbio di aver compiuto qualche gesto riprovevole del quale non aveva memoria, spesso si alzava di notte per controllare che il bambino stesse bene ed effettuava numerose e ripetute telefonate rassicuranti alla mamma. In particolare: verso quest’ultima aveva ridotto le occasioni di incontro per il timore di poter compiere qualche gesto violento nei suoi confronti e verso il figlio cercava di evitare le situazioni nelle quali poteva trovarsi da sola col lui. Il marito ha sempre cercato di rassicurarla, dimostrandole affetto e comprensione, ma Era provava forti sentimenti di colpa ed il timore di perdere il controllo si manifestava sempre più insistente. Storia del caso La donna si definisce riservata, corretta ed affidabile, timida, poco socievole e poco incline a manifestazioni che esprimano emozioni positive. Attribuisce queste caratteristiche all’educazione familiare, piuttosto rigida e con scarse esternazioni di affetto. Descrive il padre come severo, autoritario, poco presente e la madre come intrusiva ed iperprotettiva. Nonostante sia felicemente coniugata da dieci anni, ha continuato a mantenere un forte legame di dipendenza emotiva dalla madre che con i suoi atteggiamenti di controllo (“dove sei stata?”, “perché hai tardato?”…) e di diret132 I Disturbi d’ansia tività (“devi fare così”, “questo è giusto, questo è sbagliato”…) la condiziona ancora nel presente. All’età di ventotto anni, una lieve depressione la induce a rivolgersi ad uno psichiatra che le diagnostica un Disturbo Ossessivo Compulsivo e le prescrive una terapia farmacologia che lei però non inizia per il timore degli effetti collaterali. Concettualizzazione e trattamento Il trattamento del Disturbo ha previsto: - la riduzione della frequenza e dell’intensità dei pensieri ossessivi, attraverso un intervento cognitivo accompagnato da tecniche di Prevenzione della Risposta e di Esposizione Graduata; - la riduzione della sintomatologia ansiosa depressiva, con l’impiego di tecniche di rilassamento e di attività distraenti; - il miglioramento delle abilità comunicative, con Training Assertivo. Lo stile cognitivo della paziente era caratterizzato da convinzioni disfunzionali relative alla percezione di se stessa e del Disturbo: - - - - - “sono pazza o sto per diventarlo”; “non sono una brava madre”; “sono la disgrazia di chi mi vuole bene”; “non ne uscirò mai”; “prima o poi succederà veramente”. La confutazione dei pensieri irrazionali è stata prevalentemente guidata dalla produzione di alternative più realistiche ed adattive che potevano rispondere al quesito “in quale altro modo avrei potuto considerare questa situazione?”. Il miglioramento del tono dell’umore conseguente alle modificate cognizioni elaborate da Era l’hanno resa consapevole del ruolo attivo che ella possiede nel condizionare il proprio vissuto emotivo. Il Training Assertivo si è focalizzato in particolare sull’ansia connessa con la paura della critica negativa da parte degli altri e sulla capacità di manifestare le emozioni, esternandole in maniera adattiva e funzionale. Quest’ultima abilità ha consentito alla donna di migliorare il rapporto con il figlio, verso il quale si è sentita più libera e spontanea. L’analisi del rapporto con la madre ha evidenziato la difficoltà da parte di Era di fare e rifiutare una richiesta: “non chiedo per non metterla in obbligo di accontentarmi”, “non posso dirle di no se mi chiede qualcosa, ci rimarrebbe male”. La paziente ha imparato ad esprimere i propri bisogni e desideri in maniera affermativa, migliorando così anche il rapporto con il marito arrivando a comprendere “perché a volte non mi capisce … come può sapere quello che non gli dico?”. Al termine della terapia, dopo un anno di trattamento, non è più turbata dai pensieri negativi disturbanti e pratica abitualmente il rilassamento quando avverte i primi segnali di tensione emotiva. 133 CAPITOLO 7 Disturbo d’ansia generalizzato 8.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Ansia e preoccupazione eccessive (attesa apprensiva) che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi e riguardano numerosi eventi o attività (come prestazioni lavorative o scolastiche). B. La persona ha difficoltà nel controllare la preoccupazione. C. L’ansia e la preoccupazione sono associate a tre (o più) dei seguenti sintomi (con almeno alcuni dei sintomi presenti per la maggior parte dei giorni negli ultimi sei mesi: Nota: nei bambini è richiesta una sola voce. 1. irrequietezza o sentirsi con i nervi a fior di pelle; 2. facile affaticabilità; 3. difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria; 4. irritabilità; 5. tensione muscolare; 6. alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno irrequieto e insoddisfacente). D. L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è limitato alle caratteristiche di un disturbo di Asse I: ad esempio l’ansia o la preoccupazione non riguardano l’avere un attacco di Panico (come nel Disturbo di Panico), il rimanere imbarazzati in pubblico (come nella Fobia Sociale), l’essere contaminati (come nel Disturbo Ossessivo Compulsivo), l’essere fuori casa o lontano da parenti stretti (come nel Disturbo d’Ansia di Separazione), l’ingrassare (come nell’Anoressia Nervosa), l’avere molti fastidi fisici (come nel Disturbo di Somatizzazione) o l’avere una grave malattia (come nell’Ipocondria); e l’ansia e la preoccupazione non si manifestano esclusivamente durante un Disturbo Post Traumatico da Stress. 135 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica E. L’ansia, la preoccupazione e i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti. F. L’alterazione non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad esempio, una sostanza oggetto di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (ad esempio, ipertiroidismo) e non si manifesta esclusivamente durante un Disturbo dell’Umore, un Disturbo Psicotico o un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo. 8.2 Modelli comportamentali e cognitivi Secondo il modello cognitivo di Beck e al. (1985) i soggetti con Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG) si valutano incapaci di affrontare gli eventi e valutano un gran numero di situazioni come minacciose. La caratteristica cognitiva del Disturbo è un sentimento persistente e ricorrente di preoccupazione eccessivo ed incontrollabile. Wells (1999) propone un modello che rileva il ruolo della rimuginazione come strategia per far fronte a diverse situazioni, attività mentale considerata però dalla persona con connotazione negativa. L’autore individua due tipi di preoccupazioni: - tipo 1: riguardano le percezioni fisiche interne o gli eventi esterni di relazione o quotidiani; - tipo 2: riguardano la natura stessa delle rimuginazioni a livello metacognitivo. Nel DAG si rilevano più frequenti le preoccupazioni del secondo tipo. Alcune delle preoccupazioni metacognitive si mantengono perché hanno un fine protettivo, preoccuparsi è un modo per “essere sempre pronti”. Questa metacognizione positiva della preoccupazione è tipica delle prime fasi del Disturbo, mentre nel tempo si iniziano a produrre giudizi metacognitivi negativi riguardo alle rimuginazioni, come ad esempio “pensare troppo porta alla pazzia”. Pertanto la preoccupazione nasce come strategia di fronteggiamento: se preoccuparsi è considerato utile dal paziente, le difficoltà si intensificano nel momento in cui si percepisce che la preoccupazione può essere nociva, che “se continuo a preoccuparmi posso impazzire”; la preoccupazione ed i sintomi associati vengono allora letti come segnale di un pericolo imminente, con conseguente aumento dell’attivazione ansiosa. Mentre l’evitamento di situazioni ritenute preoccupanti può avere un iniziale effetto benefico e di riduzione dell’ansia, tentare di bloccare le metacognizioni spiacevoli dei pensieri agisce aumentandone la produzione. Clark, Ball e Pape (1991) hanno dimostrato sperimentalmente che i tentativi volti alla soppressione delle rimuginazioni portano a produrre con maggiore frequenza gli stessi pensieri disturbanti che si vogliono evitare. Questo meccanismo disfunzionale rinforza inoltre nel soggetto la percezione di non avere il controllo sulla produzione cognitiva. 136 I Disturbi d’ansia 8.3 Trattamento Wells propone di non intervenire sul paziente con DAG inducendolo a reprimere il contenuto di una sua preoccupazione ma di agire interrompendo il processo di preoccupazione. In questo modo non si cerca di eliminare dalla consapevolezza il contenuto di una preoccupazione (si è visto come ciò sia quasi impossibile) ma si vuole bloccare il percorso catastrofizzante della preoccupazione stessa: si riconosce il pensiero che preoccupa e lo si blocca, lo si allontana evitando di collegare ad esso tutta una serie di altri pensieri preoccupanti. Nell’intervento è centrale discutere con il paziente sia il contenuto delle preoccupazioni sia le specifiche preoccupazioni legate all’idea di preoccuparsi, quelle che Wells chiama “metapreoccupazioni”. È altresì importante confrontare gli aspetti ritenuti positivi in merito alle preoccupazioni con quelli ritenuti negativi, in modo che il paziente possa verificare l’onere di far coesistere pensieri positivi e negativi legati alle medesime metacognizioni sulle preoccupazioni. Spesso un individuo con DAG presenta carenze nella capacità di affrontare i problemi e le situazioni stressanti, motivo per cui gli è utile apprendere abilità di Problem Solving. Il superamento delle condotte di evitamento risulta poi fondamentale per consentire al paziente di confrontarsi con le proprie preoccupazioni e verificarne la natura inoffensiva e transitoria. fattore scatenante attivazione delle metacognizioni positive preoccupazioni di tipo 1 attivazione delle metacognizioni negative preoccupazioni di tipo 2 (metapreoccupazione) comportamento pensiero emozione Schema del modello metacognitivo del DAG tratto da Wells (1997) 137 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 8.4 Casi clinici Il caso di Solange - “Potrebbe accadere qualcosa di terribile” Diagnosi: Disturbo d’Ansia Generalizzato. Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto molto elevata, presenti dubbi e ruminazioni mentali. Solange ha 35 anni e da diversi mesi soffre di crisi d’ansia connesse a preoccupazioni su “possibili disastri o incidenti che potrebbero capitare ai miei cari … ci penso tutto il giorno …non vivo più”. Il suo stato di malessere interferisce significativamente con lo svolgimento di qualsiasi attività. Uno dei motivi che la spinge a chiedere una psicoterapia è la preoccupazione per la sua bambina di pochi mesi: “ho paura di trasmetterle tutte le mie paure e farla diventare un’insicura”. La paziente riconosce l’infondatezza delle proprie preoccupazioni: “ho capito che il mio è un problema psicologico. So che le mie paure sono infondate, ne ho avuto tante prove ormai … ma continuo lo stesso a preoccuparmi. Quando comincio a pensare che potrebbe succedere qualcosa di tremendo non riesco a fermare il pensiero, a volte per ore… è come se continuare a pensarci mi desse la possibilità di tenermi pronta e preparata… se succede qualcosa posso intervenire in tempo”. Solange, a seguito di questi pensieri disturbanti, cerca continue rassicurazioni e conferme dai suoi familiari con le quali riesce a tranquillizzarsi fino al sopraggiungere della successiva preoccupazione. Storia del caso Solange è casalinga, coniugata da tre anni, e vive con il marito e la figlia. La relazione di coppia è definita serena e riferisce che il marito si dimostra molto comprensivo nei suoi confronti, cercando di rassicurarla continuamente circa i dubbi ed i timori che la tormentano. Con i genitori ha avuto un rapporto caratterizzato da profonde incomprensioni. Ha due sorelle, una delle quali con problemi cronici di salute. Per questo motivo, la madre avrebbe riservato molte più attenzioni a questa figlia e Solange ne avrebbe sofferto particolarmente: “… ha sempre mostrato una preferenza per lei ed io soffrivo perché vedevo mia sorella più vicina a mamma di quanto potessi starci io”. Il padre è descritto come assente: “non si interessava veramente a me, non c’era dialogo tra noi”. Si definisce una persona un po’ ansiosa da sempre, spesso tesa e nervosa fin da ragazza, con un comportamento frequentemente iperattivo. La paziente non riesce ad individuare un momento preciso d’insorgenza del Disturbo ma rileva con certezza l’aggravamento della sintomatologia a seguito della nascita della figlia. Già durante la gravidanza era assalita da dubbi circa la possibilità di aver fatto qualcosa che potesse nuocere alla creatura, aver mangiato un cibo dannoso o essere stata a contatto con sostanze pericolose. A seguito di un episodio durante il quale un temporaneo stato di malessere fisico l’aveva particolarmente spa138 I Disturbi d’ansia ventata, si è sottoposta a numerosi controlli medici dai quali ha tratto conclusioni rassicuranti. Concettualizazione e trattamento In associazione con le preoccupazioni che non riesce a controllare, la paziente presenta anche irritabilità, affaticamento con difficoltà di rilassamento e difficoltà di concentrazione. Sulla base del modello cognitivo proposto da Wells (1999), sono stati rilevati due diversi tipi di preoccupazioni. Preoccupazioni del Tipo 1, relative a tutti gli eventi esterni e quelli interni non cognitivi, quali ad esempio: - preoccupazioni per la salute della figlia; - timore che il marito possa aver un incidente d’auto; - paura che avvertire una condizione di facile affaticabilità possa preannunciare una crisi depressiva. Preoccupazioni del Tipo 2, relative a convinzioni a livello metacognitivo sulla natura delle proprie ruminazioni. Queste credenze possono essere positive, come: - se mi preoccupo posso prevenire ed evitare che accadano cose terribili; - se continuo a rimuginare sono continuamente all’erta e pronta per affrontare qualsiasi problema; o negative, quali: - non ho alcun controllo sulle mie rimuginazioni; - se continuo a rimuginare posso perdere il controllo o diventare pazza. A livello comportamentale, la paziente adottava alcune strategie per affrontare l’ansia associata alle sue preoccupazioni. In particolare metteva in atto condotte di evitamento di alcune situazioni, nelle quali pensava di potersi preoccupare, e di protezione, come rassicurazioni e conferme dei mancati accadimenti catastrofici temuti. Il trattamento terapeutico ha previsto un iniziale Addestramento al Rilassamento per la gestione della sintomatologia ansiosa. Sono quindi stati stabiliti gli ulteriori obiettivi: 1. Acquisizione della capacità di affrontare e risolvere i problemi in maniera efficace, attraverso l’apprendimento della tecnica di Problem Solving. Ciò anche allo scopo di aumentare la fiducia nelle proprie capacità di gestione delle situazioni di reale pericolo. 2. Superamento delle condotte di evitamento e di protezione che contribuiscono al mantenimento della patologia ansiosa. 139 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 3. Intervento sulle preoccupazioni del Tipo 1 e del Tipo 2, mediante Ristrutturazione Cognitiva. L’analisi delle ruminazioni ha consentito alla paziente di comprendere come esse, determinando l’iniziale riduzione dei livelli d’ansia, venivano mantenute e quindi perpetuate attraverso un meccanismo di rinforzo negativo. Anche l’Analisi dei Vantaggi e degli Svantaggi sul processo di ruminazione ha aiutato Solange a coglierne gli aspetti non funzionali: le continue preoccupazioni non aiutano a risolvere un problema ma servono soltanto a mantenere elevato un livello di attivazione ansiosa fortemente disturbante. Relativamente alla credenza negativa di perdere il controllo sulla propria mente, la paziente ha sviluppato la successiva convinzione che “io ho il controllo sui miei pensieri …posso smettere di preoccuparmi se voglio … se sento l’ansia per qualche preoccupazione mi concentro sulle sensazioni che provo piuttosto che continuare a rimuginare sui pensieri che mi preoccupano”. La terapia si è conclusa dopo otto mesi di trattamento. Il caso di Palmiro - “Mi sono cancellato le emozioni” Diagnosi: Disturbo d’Ansia Generalizzato. Nell’assessment è stato impiegato il CBA 2.0 scale primarie che ha rilevato: ansia di stato elevata e, nei tratti di personalità, una prevalenza dei tratti di estroversione e di anticonformismo. Palmiro ha 29 anni e si rivolge alla terapia perché “Sto male, ho paura di cadere in depressione e di farmi venire le manie”. Si sente agitato e spaventato ed ha paura dei forti sintomi d’ansia che sperimenta da circa un anno. In particolare, teme che questi sintomi possano portarlo alla depressione di cui soffre il fratello che avrebbe anche non meglio precisati “disturbi mentali”. Circa un anno prima di richiedere l’intervento terapeutico Palmiro ha avuto un violento disturbo intestinale, probabilmente di natura virale, che gli ha provocato un abbassamento di pressione con sensazione di svenimento e che è culminato in un attacco di panico. A seguito di quell’episodio ha sempre vissuto con grande apprensione, nel timore di ripetere l’esperienza fino ad alcuni giorni prima quando “improvvisamente mi sono sentito agitatissimo, ansioso, mi sentivo svenire, avvertivo il bisogno di svuotare l’intestino e non mi sentivo più le gambe”. Storia del caso Palmiro ha un diploma di scuola media superiore ed ha frequentato l’università con brillanti risultati ma poi ha abbandonato gli studi. Vive da solo, svolge con il padre un’attività commerciale ed è fidanzato da diversi anni. Riguardo i motivi per i quali ha lasciato l’università dice “perché volevo guadagnare tanto, subito e senza fatica”. Per questo inizia a frequentare ambienti malavitosi, 140 I Disturbi d’ansia entrando in un giro di attività illegali, ed assume comportamenti violenti. Riferisce anche di essere abituato ad ottenere “tutto e subito” e di non saper tollerare le rinunce e le frustrazioni che gli generano intense reazioni di rabbia, con manifestazioni anche di violenza fisica. Palmiro però non è soddisfatto della vita che conduce, ne vuole uscire anche perché pressato dalla fidanzata che minaccia di lasciarlo se non cambia comportamento: “lei ha ragione, non si fida di me, con me è sempre in ansia”. Il ragazzo è molto legato alla mamma con la quale ha un ottimo rapporto, mentre con il padre vive intensi conflitti: ”lui non è stato presente nella mia vita… non mi ha mai chiesto come stai”. Tuttavia non nutre rabbia o risentimento nei suoi confronti ma dice “l’ho perdonato, anche se mi è mancato, perché so che è fatto così”. Tra i genitori ci sono sempre stati conflitti che il paziente ha vissuto in maniera angosciante, a causa della forte gelosia e della prepotenza ed aggressività del padre. Quando Palmiro aveva otto anni i genitori si sono separati e lui è andato a vivere con la madre presso i genitori di quest’ultima. Pur se accudito e sostenuto, avvertiva tuttavia molto intensamente la mancanza del padre. Concettualizzazione e trattamento Lo stato d’ansia che caratterizza attualmente il paziente è da considerare come la generalizzazione di uno stato di attivazione che egli ora riconosce di avere sempre vissuto, fin dall’infanzia. Inoltre Palmiro vive una situazione di conflitto che influisce sul suo stato ansioso: ha adottato modelli di aggressività e di illegalità che non sente suoi e dei quali vorrebbe liberarsi. In particolare, sente che questo stile di vita gli ha impedito di manifestare quelle emozioni ritenute inaccettabili negli ambienti malavitosi, perché segno di debolezza: “mi sono cancellato le emozioni, coperto da una falsa invulnerabilità”. L’intervento terapeutico ha previsto tecniche di: - - - - Gestione dell’Ansia Training per il Controllo della Rabbia Training Assertivo Ristrutturazione Cognitiva. Dopo aver condiviso il modello cognitivo dell’ansia e del panico, il paziente ha appreso la tecnica del Rilassamento Muscolare di Wolpe che ha praticato con successo. L’intervento per il Controllo della Rabbia si è articolato nei seguenti passi: - comprendere che la reazione comportamentale non è da attribuire alla situazione esterna ma soltanto a se stesso ed alla propria responsabilità; - riconoscere l’emozione dentro di sé; - riconoscere i fattori che scatenano la reazione di rabbia. A questo riguardo, il paziente individua precise situazioni: “quando non mi danno retta, quando mi criticano per qualcosa, quando mi interrompono mentre parlo”; - trovare risposte alternative a quelle aggressive; - spostare l’attenzione fuori da sé, decentrarsi. 141 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica L’intervento per il controllo della rabbia è stato favorito anche dal Training Assertivo, che ha consentito a Palmiro di costruire una modalità di comunicazione e di relazione interpersonale alternativa a quella aggressiva. La Ristrutturazione delle idee irrazionali e delle convinzioni distorte si è focalizzata sui seguenti errori di pensiero: - “Per essere un uomo di valore devo essere sempre ricco e vincente”. Nella convinzione che con il denaro si può comprare tutto, Palmiro adottava quei comportamenti, anche illegali, che alimentavano anche la risposta ansiosa. - “Devo avere sempre il controllo su tutto”. La paura più forte che scatenava la risposta d’ansia era il timore di svenire, come perdita di controllo della situazione. - “Per essere rispettati bisogna essere forti e fare paura” e questa idea irrazionale gli rendeva ancora più credibile la precedente. - “Chi ha paura, chi è insicuro, chi è ansioso è un debole”. Questa convinzione è risultata la più radicata e, pertanto, ha incontrato maggiori resistenze al cambiamento nel sistema cognitivo del paziente. Egli infatti, di fronte ai sintomi d’ansia che sperimentava, non ha mai reagito con l’evitamento ma piuttosto con un improduttivo atteggiamento di sfida aggressiva, così come reagiva a tutti gli altri eventi non desiderati o non tollerati. Riconoscere ed accettare quelle emozioni prima contrastate gli ha permesso di riconoscere ed accettare una parte di sé che sentiva di aver perso. Dopo diciotto mesi di terapia, il paziente ha raggiunto un livello soddisfacente di gestione dell’’ansia e di controllo della rabbia. Sul piano comportamentale, ha iniziato a collaborare con un gruppo di volontariato religioso ed a frequentare nuove amicizie. Si sente “più aperto, anche gli altri mi dicono che mi sono addolcito… riesco ad aspettare, ad avere pazienza”. 142 PARTE TERZA I DISTURBI DELLA CONDOTTA ALIMENTARE “Una malattia corporea, che noi vediamo come un’entità completa e conchiusa, dopo tutto, potrebbe essere niente più che il sintomo di un malessere della parte spirituale” Nathaniel Hawthorne “Non puoi fare molto affidamento sul tuo modo di sentire oggi la realtà, dal momento che, come quella di ieri, può dimostrarsi una delusione domani” L. Pirandello CAPITOLO 9 DISTURBI DELLA CONDOTTA ALIMENTARE 9.1 Introduzione I Disturbi della Condotta Alimentare (DCA) si caratterizzano per la presenza di alterazioni del comportamento alimentare e si sviluppano lungo un continuum dove i diversi sintomi e tratti comportamentali possono combinarsi tra loro, producendo una gamma di situazioni eterogenee all’interno della quale si collocano l’Anoressia e la Bulimia (Beumont, 1988). Il meccanismo comune di base è il rapporto introduzione/neutralizzazione del cibo e il fattore costante riscontrabile è la preoccupazione di controllare il peso. Nel DSM-IV vengono indicati i criteri diagnostici per individuare tre diverse patologie: - l’Anoressia Nervosa, caratterizzata dal rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra della soglia minima attesa per età ed altezza, terrore di ingrassare, immagine distorta del proprio corpo ed amenorrea; - la Bulimia Nervosa, con ricorrenti episodi di abbuffate seguiti dal ricorso a mezzi inappropriati di controllo del peso come condotte di eliminazione (vomito autoindotto, uso di lassativi …) o compensatorie (digiuno, eccessiva attività fisica…); - i Disturbi Alimentari Non Altrimenti Specificati (NAS), che non rientrano in nessuna delle due precedenti per assenza di amenorrea, per comportamenti di iperalimentazione inferiori a quelli richiesti per fare diagnosi di Bulimia o per la mancanza di condotte compensatorie. Diversi autori hanno rilevato l’alterata percezione dell’immagine corporea come caratteristica comune a queste patologie (Bruch, 1973; Garner, Garfinkel e Bonato, 1987; Cash e Brown, 1987; Grant e Cash, 1995; Williamson, 1996), mentre secondo altri (Hsu e Sobkiewicz, 1991) non tutti i pazienti affetti da DCA presentano una distorsione dell’immagine corporea e la tendenza a sovrastimare le proprie dimensioni 145 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica fisiche non ne è espressione diretta ma si riscontra anche in molti soggetti sani che, non soddisfatti del loro peso, vorrebbero essere più magri. I disturbi dell’immagine corporea possono riguardare la profonda insofferenza per il grasso corporeo, l’insoddisfazione estrema per il peso, il disgusto verso specifiche parti del corpo o anche un’errata percezione delle dimensioni corporee. A queste percezioni si accompagnano convinzioni circa la necessità di esercitare un severo autocontrollo su alimentazione e peso. Peso che, nella maggior parte dei casi di Bulimia, risulta nella norma (BMI compreso tra 20 e 25). Il peso corporeo è mantenuto dal bilancio energetico tra assunzione e consumo. I processi fisiologici e metabolici si modificano nel senso di mantenere il peso di un soggetto adulto ad un livello prefissato, costituzionale (teoria del “set point”) con modeste variazioni a lungo termine determinate da modificazioni di dieta ed esercizio fisico e variazioni legate all’avanzare dell’età. Infatti si osserva che un cambiamento del peso corporeo, prodotto sperimentalmente da variazioni della quantità di cibo, sia in senso di diminuzione (Keys e al. 1950) sia di aumento dell’apporto calorico (Sims, Horton e al. 1968), è normalmente seguita da un rapido ritorno al peso normale precedente all’esperimento, con il ripristino della dieta libera. Il “set point” può essere modificato in particolari condizioni: diete ad alto contenuto di grassi possono aumentarlo mentre l’esercizio fisico può ridurlo. Per spiegare queste variazioni Keesey (1986) ha notato che il peso corporeo non è rigorosamente fisso al livello di “set point” ma viene approssimativamente stabilito per un periodo di tempo di almeno sei mesi. Il comportamento alimentare può essere diviso in tre momenti (Del Toma, 1991): 1. avvio (“go”), costituito dalla sensazione di fame e dalla ricerca di cibo; 2. fase consumatoria vera e propria; 3. arresto (“stop”), collegato in parte alla sensazione di sazietà. Numerosi fattori di ordine psicologico, sociale e culturale non metabolici possono interferire e condizionare ciascuna fase (es. avvio in assenza di fame o sua inibizione per imposizione dietetica, inibizione dell’arresto per ansia ...). Il rapporto con il cibo è quindi mediato dalle emozioni ed assume un significato particolare secondo la storia personale. 9.2 Modelli comportamentali e cognitivi Nell’eziologia dei Disturbi Alimentari sono stati individuati fattori biologici (vulnerabilità basata su fattori ereditari di tipo neuroendocrino), socio culturali (stereotipo del corpo magro) e psicologici. Per quanto riguarda i fattori psicologici, nelle persone che sviluppano una patologia del comportamento alimentare sono riscontrabili alcune caratteristiche ricorrenti: scarsa identità personale, bassa autostima e autoefficacia, senso di inadeguatezza, 146 I Disturbi della condotta alimentare tendenza al perfezionismo, incapacità di riconoscere le proprie emozioni e le proprie esigenze, tendenza ad uniformarsi alle pressioni esterne ed a soddisfare i bisogni degli altri arrivando alla negazione di sé (Di Berardino e altri, 1997). Rilevati ripetutamente anche tratti quali ossessività, somatizzazione, difficoltà di adattamento sociale, ansia, locus of control esterno, confusa identità sessuale, tendenza all’abuso di sostanze e in generale problemi di controllo degli impulsi (Beumont, Gerye e Smart, 1976; Ordman e Kirschenbaum, 1986; Williamson, 1990). Bruch (1973) ha descritto lo “schiacciante senso di incapacità” come la condizione che sta alla base dei Disturbi dell’alimentazione. Questo costrutto è fortemente correlato con la bassa stima di sé o con l’autosvalutazione e l’inadeguatezza. L’Autrice (1978) ha inoltre rilevato la presenza di modelli perfezionistici che Slade (1982) ha indicato come condizione critica per l’instaurarsi di una patologia alimentare. Il modello multidimensionale di Garner (1985) rileva che in queste patologie modalità personali di attribuzione di significato al peso ed alle forme corporee interagiscono con caratteristiche stabili individuali, quali il perfezionismo ed i timori legati alla propria crescita e maturità psicobiologica, e con contingenze di rinforzo sociale associate alla dieta ed alla magrezza. Secondo l’Autore (1997), una volta raggiunto l’obiettivo del dimagrimento i sintomi emotivi e psicologici, secondari alla denutrizione, tendono a perpetuare i pensieri disfunzionali ed i comportamenti idiosincratici nei confronti del peso. Fairburn e coll. (1993) enfatizzano le variabili di mantenimento dei Disturbi: bassa autostima, estrema preoccupazione per peso e forme corporee, dieta ferrea, abbuffate e vomito autoindotto. Il ruolo della bassa autostima è condiviso dai diversi modelli cognitivo comportamentali, con la considerazione che queste pazienti assumono il peso e le forme corporee come criteri di riferimento per la valutazione di sé. Analogamente, diverse teorizzazioni convergono sull’enfatizzazione dei conflitti tra ricerca di autonomia e bisogno di dipendenza, perfezionismo ed evitamento sociale. I pensieri disfunzionali, per i soggetti che sviluppano un DCA, si legano alle contingenze rinforzanti positive e negative associate al successo o al fallimento nei comportamenti di controllo del peso (Garner e Dalle Grave, 1999). Crisp (1965, 1997) ha fatto riferimento al principio del rinforzo negativo per spiegare i fattori eziologici dell’Anoressia Nervosa, considerata come una “fobia del peso” o “fobia del grasso”. Al riguardo, alcune pazienti definiscono in maniera molto chiara l’esistenza di un peso che costituisce una soglia ponderale oltre la quale si innesca la reazione di paura per il possibile ritorno delle mestruazioni e la normalizzazione delle funzioni ipotalamiche - ipofisarie. Secondo questa teoria, che rileva una risposta fobica alle richieste esterne di crescere, la perdita del peso rappresenta una regressione ad un’età prepuberale. Pertanto, seguire una dieta e perdere peso sono comportamenti mantenuti da rinforzi negativi che determinano l’allontanamento dalle forme corporee di donna adulta. 147 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 9.3 Trattamento La terapia cognitivo comportamentale si è dimostrata particolarmente efficace nel trattamento di queste patologie, soprattutto per l’intervento sulle convinzioni disfunzionali che le sostengono: le pazienti con DCA in sostanza non si piacciono ed il controllo del peso e delle forme del corpo è un modo per cercare di piacersi. Il trattamento mira a favorire il riconoscimento e l’espressione adeguata delle emozioni e ad incrementare le scarse capacità di coping, aiutando la persona ad identificare le situazioni problematiche ed a generare soluzioni efficaci. Il progetto complessivo è finalizzato al raggiungimento dell’autonomia, con il miglioramento dell’immagine corporea, l’acquisizione di abilità comunicative per migliorare i rapporti interpersonali ed il più generale incremento dell’autostima. La terapia di questi Disturbi è spesso orientata all’integrazione tra differenti trattamenti: psicoeducazionale, per fornire le corrette informazioni nutrizionali; comportamentale, per modificare le condotte disfunzionali associate alla patologia; cognitivo, per intervenire adeguatamente sui pensieri e sulle convinzioni errate che mantengono il Disturbo; familiare. Nel trattamento dell’Anoressia il primo obiettivo è la normalizzazione dell’alimentazione, finalizzata all’aumento del peso. Successivamente si interviene sui vissuti associati all’alimentazione. Nel caso in cui il peso è troppo basso, lo stato di denutrizione causa alterazioni psicologiche che rendono impraticabile un efficace intervento terapeutico. In particolare, nei casi gravi (con dimagrimento superiore al 25% del peso corporeo) è necessaria una riabilitazione nutrizionale in ambito ospedaliero. Nella terapia della Bulimia, il primo intervento affronta la rapida oscillazione ponderale con la registrazione delle abbuffate e dei comportamenti di compenso. Nei casi più seri, si possono verificare complicanze fisiche (ulcere, aritmie …), squilibri elettrolitici e/o stati di disidratazione che vanno opportunamente trattati. L’intervento cognitivo nelle terapia dei DCA è rivolto ad affrontare i pensieri associati alla dieta estrema ed alla riduzione cronica del peso e le convinzioni connesse con sentimenti di inefficacia, conflitti interpersonali, lotta per l’autonomia e paure legate allo sviluppo psicosociale (Poerio, 1999). Nell’ottica della terapia cognitiva “post-razionalista”, orientata secondo modelli strutturalisti - costruttivisti, si propone un intervento articolato su di un duplice livello. INTERVENTO COGNITIVO STRUTTURALISTA Organizzazione cognitiva alimentare psicogena Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo emotiva alimentare psicogena, cambiamenti di livello “superficiale” si ottengono aiutando i pazienti a riconoscere le sensazioni di ansia collegate al desiderio-timore di giudizio, per riuscire poi ad affrontare le situazioni temute con tecniche del tipo Assertive Training e Ristrutturazione di Convinzioni di Inadeguatezza Personale. Un progetto di cambiamento a livello profondo, può presumere di modificare gli schemi 148 I Disturbi della condotta alimentare di base caratterizzati da atteggiamenti intrinseci di non riuscire a focalizzare e definire chiaramente le proprie sensazioni, decisioni e posizioni. La struttura presente, infatti, tende sempre ad evitare il rapporto diretto con la realtà ed a dipendere dalla presenza di persone con le quali non si riesce ad evitare il coinvolgimento emotivo. 149 CAPITOLO 10 Bulimia nervosa 10.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Episodi di ricorrenti abbuffate compulsive. Un’abbuffata compulsiva è caratterizzata dai due caratteri seguenti (entrambi necessari): 1. mangiare in un definito periodo di tempo (ad es. nell’arco di due ore) una quantità di cibo indiscutibilmente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo ed in circostanze simili. 2. sensazione di mancanza di controllo sull’atto del mangiare durante l’episodio (ad es. sentire di non poter smettere di mangiare o di non poter controllare cosa e quanto si sta mangiando). B. Ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o esercizio fisico eccessivo. C. Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano in media almeno due volte alla settimana, per tre mesi. D. La valutazione di sé è inappropriatamente influenzata dalle forme e dal peso corporei. E. Il Disturbo non si riscontra esclusivamente nel corso di episodi di Anoressia Nervosa. Specificare il sottotipo. Con condotte di eliminazione: nell’episodio attuale di Bulimia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi o diuretici. Senza condotte di eliminazione: nell’episodio attuale il soggetto ha utilizzato regolarmente altri comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente al vomito autoindotto o all’uso inappropriato di lassativi o diuretici. 151 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica La Bulimia viene indicata come entità nosografica autonoma dal 1979, anno di pubblicazione di un articolo dello psichiatra Russel che ne individua caratteristiche peculiari, differenziandola dall’Anoressia. L’esordio del Disturbo è spesso associato ad una dieta finalizzata a perdere peso, in altri casi vi è una storia di perdita o separazione. Molte pazienti presentano una condizione di pregresso sovrappeso rispetto ai coetanei (Fairburn, 1996). Indipendentemente dall’origine, la condotta bulimica sembra assumere nel tempo un’esistenza autonoma divenendo uno stile abituale che può arrivare a sovvertire completamente le normali abitudini alimentari, con l’eliminazione dei pasti regolari sostituiti da abbuffate alternate a periodi di digiuno o di rigide restrizioni (Cassano e al., 1999). Per fare diagnosi di Bulimia è necessaria la presenza di perdita di controllo, in caso contrario si tratta di “iperfagia”. La perdita di controllo può portare a sperimentare un vissuto di estraneità, soprattutto nelle fasi iniziali di insorgenza della patologia, quasi un’esperienza di derealizzazione. L’ingestione rapida di grandi quantità di cibo di solito ha termine quando il soggetto avverte un senso di pienezza estrema, anche accompagnato da dolore gastrico, o per l’esaurimento delle scorte. Nel caso in cui l’abbuffata sia stata interrotta può riprendere in un secondo momento come una continuazione dal punto dell’interruzione stessa: Fairburn (1996) osserva come chi si abbuffa sembra trovarsi in una condizione di pausa, in “stand-by”. Le persone affette da questo Disturbo provano vergogna per le loro abitudini alimentari e tentano di nasconderle: le abbuffate avvengono in solitudine e sono seguite da umore depresso, ansia e colpa. Caratteristiche delle abbuffate L’abbuffata che caratterizza la Bulimia Nervosa è detta “oggettiva”, poiché la quantità di cibo assunta è oggettivamente elevata, e si differenzia dalla percezione “soggettiva” di essersi abbuffata che non ha riscontro nella realtà. Generalmente durante le abbuffate vengono assunti cibi non consumati nelle fasi di restrizione dell’alimentazione, perché considerati troppo calorici. La preferenza va ad alimenti ricchi di carboidrati o grassi e che non richiedano particolare preparazione (dolci, gelati, cioccolata, pane, biscotti, formaggio). Caratteristica comune delle abbuffate è l’elevata velocità nell’assunzione del cibo. Durante l’attacco bulimico la persona è agitata ed irrequieta, con un vissuto di totale mancanza di controllo sul comportamento che la porta a procurarsi il cibo in qualsiasi modo, anche ripescandolo tra i rifiuti. 10.2Modelli comportamentali e cognitivi La paziente bulimica è caratterizzata da un basso livello di autostima che viene fortemente condizionato dalle forme e dal peso corporeo (Vanderlinden, Norré, Vandereycken, 1995). Di conseguenza ella ne enfatizza l’importanza e li utilizza come cri152 I Disturbi della condotta alimentare terio per la valutazione di sé, in quanto peso e forme del corpo sono più controllabili di altri aspetti esistenziali e, se gestiti adeguatamente, ricevono anche rinforzi sociali (enfatizzazione della magrezza). Il tentativo di regolare il peso a livelli sempre più bassi espone al rischio crescente di andare incontro alle abbuffate, che vengono seguite da comportamenti alimentari sempre più restrittivi e da condotte compensatorie o di eliminazione per controllare il peso. Questi comportamenti portano ad un’alterazione dei meccanismi che regolano la fame e la sazietà: chi è a dieta da un lato percepisce la forte pressione biologica ad alimentarsi ma dall’altro non percepisce più il senso di sazietà, con conseguente abbandono all’abbuffata. Non si tratta pertanto di diete dimagranti equilibrate e bilanciate ma di regole ferree autoimposte che prevedono rigidamente quando, cosa e quanto mangiare. L’applicazione di questa rigida schematizzazione alimentare è sostenuta da due caratteristiche cognitive che si riscontrano nella paziente bulimica: il perfezionismo ed il pensiero dicotomico. La prima spinge la persona a porsi standard qualitativi elevati in molti aspetti della propria vita, inclusa l’immagine corporea e la dieta. Il pensiero dicotomico interviene nel mantenere rigidamente distinti da una parte il controllo totale sulle forme corporee e sulla dieta e dall’altra il completo fallimento nel caso di minime variazioni degli obiettivi prefissati: “ho mangiato un cibo che non avrei dovuto assumere, ho fallito, tanto vale che mi abbuffi”. L’abbuffata ha anche una funzione di attenuazione delle emozioni negative (ansia, depressione, rabbia …) e può produrre alcuni effetti positivi che Fairburn (1997a) identifica nei seguenti: - stato di allentamento della tensione che può accompagnare l’avvio dell’abbuffata, come abbandono della rigida imposizione dietetica; - connotazioni positive associate a certi cibi; - stato di sonnolenza (o torpore) che può seguire l’assunzione di grandi quantità di carboidrati; - stato di allentamento della tensione e dell’ansia che segue l’eliminazione del cibo, ingerito con l’abbuffata, attraverso il vomito. Si tratta però di effetti di breve durata, presto sostituiti da emozioni negative (colpa, disgusto, paura…). Un’ulteriore teorizzazione della Bulimia fa riferimento ad un modello di dipendenza dal cibo, definito “Addiction Model”. Secondo questa teoria, il Disturbo è manifestazione di una generica predisposizione all’abuso di sostanze ed alla conseguente dipendenza. In alcuni casi sono presenti familiarità con tali condizioni o con alcolismo. Inoltre, si riscontrano similitudini sul piano sintomatologico e comportamentale tra Bulimia e tossicodipendenza: continua preoccupazione e ricerca della sostanza (alcol, cibo, stupefacenti), perdita di controllo sulla sua assunzione, segretezza che spesso caratterizza queste condotte, isolamento sociale e compromissione funzionale che ne conseguono (Cassano, 1990). 153 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica 10.3Trattamento Un modello di terapia applicata con successo nel trattamento della Bulimia è quello proposto da Fairburn e coll. (1993) che prevede un intervento articolato secondo tre strategie principali. Fase 1: normalizzazione del comportamento alimentare. Automonitoraggio dei cibi consumati, degli episodi di abbuffata, delle condotte di eliminazione e dei pensieri e delle emozioni che li accompagnano. Controllo del peso regolamentato. Pianificazione dei pasti ed assunzione dei cibi evitati. Eliminazione della restrizione alimentare. In questa fase risulta determinante l’intervento educativo con informazioni corrette sul peso corporeo, sulle conseguenze fisiche della dieta restrittiva, del vomito autoindotto e dell’uso improprio di lassativi e diuretici. Vengono impiegate tecniche di: - Controllo dello Stimolo, per favorire la regolazione dell’alimentazione attraverso l’identificazione delle sollecitazioni ambientali associate agli eccessi alimentari; - Comportamenti Alternativi, da sostituire all’alimentazione in tutte le situazioni a rischio di perdita di controllo; - Esposizione Graduale, per eliminare la restrizione alimentare, che prevede la progressiva graduale introduzione dei cibi fino ad allora evitati; - Problem Solving, che consente la gestione funzionale dei problemi individuati dalla paziente come collegati con le crisi bulimiche. l Fase 2: riduzione dell’importanza del peso e delle forme corporee come criterio per determinare il valore di sé, attraverso un intervento cognitivo volto all’identificazione e modificazione dei pensieri disfunzionali associati. l Fase 3: modificazione delle distorsioni logiche di perfezionismo, di pensiero dicotomico e di autosvalutazione e Ristrutturazione Cognitiva delle convinzioni determinanti nello sviluppo e nel mantenimento della patologia. l In questa fase viene dato particolarmente incremento al mantenimento del cambiamento ed alla prevenzione delle ricadute. Fondamentale in questa prospettiva è la valutazione delle aspettative della paziente che devono essere il più possibile realistiche. Infatti, credere che non si verificheranno più abbuffate non è realistico ma piuttosto l’evento va considerato come un “lapse” (scivolata) da prevedere e da saper gestire, tenendolo distinto dal “relapse” che rappresenta invece la ricaduta. Si tratta di un trattamento articolato in una ventina di sedute con cadenza settimanale, nel quale risulta fondamentale l’ordine di applicazione delle tecniche che sono state strutturate in modo da essere costruite una sull’altra, mentre possono subire variazioni i loro tempi di introduzione (Fairburn, Wilson, 1993). La Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) per la Bulimia Nervosa (CBTBN) è stata recentemente indicata dalle National Clinical Practice Guidelines inglesi come il trattamento di prima scelta da offrire agli adulti affetti da questa patologia (Na154 I Disturbi della condotta alimentare tional Institute of Clinical Excellence, 2004). La CBT BN, nonostante sia attualmente considerato il trattamento più efficace, presenta alcuni limiti: 1) ha un’efficacia ridotta (solo il 40-50% dei pazienti che completano il trattamento raggiunge remissione completa e prolungata); 2) è applicabile solo alla bulimia nervosa e non all’anoressia nervosa e ai disturbi dell’alimentazione atipici; 3) non prende in considerazione la presenza di meccanismi psicopatologici aggiuntivi che in un sottogruppo di pazienti sembrano contribuire al mantenimento del disturbo; 4) è applicabile solo a pazienti di età superiore ai 16 anni. Fairburn e colleghi (2003) per far fronte alle difficoltà della CBT-BN hanno recentemente proposto una nuova CBT transdiagnostica dei Disturbi dell’Alimentazione, chiamata CBT Enhanced (CBT-E), che può essere applicabile non solo alla Bulimia ma anche all’Anoressia e soprattutto ai Disturbi dell’Alimentazione atipici. La CBT-E si caratterizza perché prende in esame fattori di mantenimento specifici e fattori di mantenimento aggiuntivi o non specifici presenti in un sottogruppo di pazienti, elementi che non erano stati precedentemente considerati dalla CBT-BN. Il trattamento è stato ideato per un livello di cura ambulatoriale e per pazienti di età superiore ai 16 anni e con BMI > 16 kg/m2. La CBT-E è un grande passo in avanti nel trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione per tre motivi principali: 1) si basa su una teoria che espande quella della bulimia nervosa affrontando in modo chiaro e preciso alcuni fattori di mantenimento aggiuntivi non precedentemente considerati come il perfezionismo clinico, la bassa autostima nucleare, l’intolleranza alle emozioni ed i problemi interepersonali; 2) pur allargandosi ad affrontare fattori di mantenimento non specifici dei disturbi dell’alimentazione mantiene una struttura focalizzata e precisa solo sui processi di mantenimento rilevanti per il paziente attraverso la costruzione della formulazione personalizzata del caso; 3) è concepita per curare non solo la bulimia nervosa e l’anoressia nervosa ma anche i disturbi dell’alimentazione atipici che costituiscono più del 50% dei casi di pazienti che richiedono un trattamento specialistico. Nonostante questi progressi, il campo di applicazione della CBT-E è ancora limitato ad un sottogruppo di pazienti che hanno più di 16 anni, un BMI > 16 kg/m2 e che possono portare avanti una cura ambulatoriale. Poiché la CBT-E non fornisce alcuna soluzione ai pazienti che falliscono il trattamento ambulatoriale, è stata sperimentata un’estensione della CBT-E per renderla applicabile veramente a “tutti” i pazienti (di qualsiasi età e BMI) e ad ogni livello di cura (terapia ambulatoriale, terapia ambulatoriale intensiva, day-hospital e ricovero). 155 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica II nuovo trattamento chiamato CBT-MS (Multi Steps), pur basandosi sulla nuova teoria transdiagnostica di Fairburn e colleghi (2003), presenta numerose caratteristiche distintive rispetto alla CBT-E. Caratteristiche distintive della CBT-MS 1. Approccio multi-step La CBT-MS prevede cinque passi di cura: 1) ambulatoriale; 2) ambulatoriale intensiva; 3) day-hospital; 4) ricovero; 5) terapia ambulatoriale post-ricovero. L’intervento inizia sempre, salvo le eccezioni di pazienti con grave instabilità medica, con la terapia ambulatoriale e poi, se dopo tre mesi non si verificano miglioramenti (o prima se le condizioni mediche diventano instabili) il paziente passa alla terapia ambulatoriale intensiva (passo 2). Se il paziente non risponde al passo 2 (perchè ad esempio non riesce a gestire i pasti durante il week-end a casa) è proposto un trattamento residenziale che può essere il dayhospital (in genere nei pazienti maggiorenni e in condizioni mediche stabili) oppure il ricovero (in genere nei pazienti minorenni o in condizioni mediche instabili). Il passo successivo al trattamento residenziale (day-hospital o ricovero) è la CBT-MS ambulatoriale post-ricovero (passo 5). Se durante il passo 5 si verifica una ricaduta il paziente è ricollocato per un breve periodo al passo 2 o se questo intervento non è sufficiente ai passi 3 o 4. Caratteristica peculiare e unica della CBT-MS è l’applicazione ad ogni livello di cura della medesima teoria di riferimento e delle stesse procedure terapeutiche. Ciò significa che a tutti livelli di cura si usano i medesimi principi e identiche strategie d’intervento, con un’ovvia maggiore intensificazione degli interventi con il progredire del livello di cura del trattamento. 2. Èquipe multidisciplinare non eclettica La CBT-MS adotta un innovativo approccio che si può definire “multidisciplinare non eclettico”che è potenzialmente in grado di superare sia i problemi dell’approccio basato su singolo terapeuta sia quello basato su più terapeuti (multidisciplinare eclettico). L’approccio prevede a livello ambulatoriale un’équipe composta da medico, psicologo e dietista con l’aggiunta della figura dell’infermiere professionale nel day-hospital e ricovero. La caratteristica distintiva di questo nuovo approccio è che tutti i terapeuti dell’équipe aderiscono alla medesima teoria, usano lo stesso linguaggio e mirano ad obiettivi terapeutici comuni. In questo modo è possibile mantenere la fedeltà alla teoria e alla CBT-MS e nello stesso tempo avere i vantaggi di un approccio multidisciplinare. 3. Nessun limite di età La CBT-E è indicata solo per pazienti adulti. La CBT-MS, per superare questo limite introduce un modulo aggiuntivo di terapia cognitivo comportamentale familiare per i pazienti che hanno meno di 18 anni di età. Il modulo di terapia familiare prevede 10 sedute con i genitori e la paziente ed è organizzato in 4 passi: • • • • 156 Passo 1. Educare i genitori sulla teoria cognitivo comportamentale e il trattamento dei disturbi dell’alimentazione. Passo 2. Affrontare i pasti familiari. Passo 3. Ridurre l’emotività espressa e migliorare la comunicazione. Passo 4: Affrontare le problematiche dell’adolescenza. I Disturbi della condotta alimentare 4. Inclusione di pazienti con disturbi dell’alimentazione di quasi tutti i livelli di severità clinica Una delle più importanti caratteristiche distintive della CBT-MS è la possibilità di includere nel trattamento pazienti di quasi tutti i livelli di severità clinica. I pochi pazienti esclusi sono quelli che richiedono un ricovero urgente in un reparto per acuti. 5. Diario della pianificazione e alimentazione meccanica Una differenza fondamentale tra CBT-E e CBT-MS è la strategia adottata per affrontare la restrizione alimentare e il recupero eventuale di peso (nei soggetti sottopeso). La CBT-E consiglia ai pazienti di tenere un diario alimentare e di erodere la restrizione dietetica gradualmente regolarizzando la frequenza, la quantità e la qualità dell’alimentazione assunta. La CBT-MS incoraggia i pazienti a pianificare i pasti e a mangiare meccanicamente. Nella CBT-MS è fornito un razionale chiaro per adottare la pianificazione dei pasti. I pazienti sono incoraggiati a pianificare in anticipo la quantità, la qualità (con un contenuto di grassi dietetici del 30% e l’inclusione di cibi che il paziente considera fobici) e la frequenza dei pasti (ogni 4-5 ore). Il contenuto calorico è determinato dallo stato del disturbo dell’alimentazione: nei pazienti sottopeso per produrre un bilancio energetico positivo tale da permettere un aumento compreso tra 0,5 - 1 kg la settimana (tra 1 e 1,5 kg la settimana nei pazienti ricoverati e in day-hospital), nei soggetti normopeso per produrre un bilancio energetico in pareggio e così mantenere il peso in un range di 3 kg. Un intervento più specificamente indirizzato a ridurre la preoccupazione eccessiva per il peso e le forme corporee è quello proposto da Wilson (1999). Si tratta di una tecnica di Esposizione allo Specchio che si rifà al modello sviluppato da Teasdale (1999) nella “Mindfulness – Based Cognitive Therapy (MBCT)”. La procedura elaborata da Wilson prevede che la paziente stia in piedi davanti ad uno speciale specchio e descriva in maniera oggettiva il proprio corpo senza giudizi o autocritiche, inizialmente indossando i suoi vestiti abituali e progressivamente cambiando indumenti fino ad osservarsi in costume da bagno. Durante l’esposizione, la paziente è aiutata dal terapeuta ad adottare il medesimo atteggiamento di “mindfulness” previsto da Teasdale nella MBCT: si tratta di favorire un’attenzione passiva al proprio corpo ed alla propria mente che consenta di raggiungere la piena e neutra consapevolezza delle sensazioni fisiche, dei pensieri e delle emozioni sperimentati nel momento attuale. I risultati dell’Esposizione allo Specchio sono sostenuti e rafforzati da prescrizioni comportamentali che prevedono l’ascolto delle registrazioni delle sedute e l’astensione dall’adozione di condotte di mascheramento delle forme fisiche, come indossare vestiti larghi, e di eccessivo controllo del proprio corpo (body checking) (Wilson, 1999; Cappellari, Dalle Grave, 2001). MINDFULNESS Teasdale et al. (1995) descrivono nel modo seguente il “mindfulness”: “L’essenza di questo stato è quella di ‘essere’ pienamente nel momento presente, senza giudicarlo o valutarlo, senza guardare indietro alle memorie passate, senza guardare avanti per anticipare il futuro, come accade nello stato ansioso, e senza cercare di ‘risolvere il problema’ o altrimenti evitare qualsiasi aspetto della situazione immediata. In questo stato, uno è altamente consapevole e focalizzato 157 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica sulla realtà del momento presente ‘così come è’, accettandolo e riconoscendolo nella sua piena ‘realtà’ senza ingaggiare immediatamente pensieri discorsivi su di esso, senza cercare di lavorare per modificarlo e senza essere trasportato in pensieri diffusi e focalizzati in qualche altro luogo o in qualche altro tempo. La caratteristica centrale dello stato di ‘mindfulness’ sembra essere un’accentuata consapevolezza di essere nel qui ed ora, piuttosto che operare con le modalità ‘mindless’ di un pilota automatico, in cui uno automaticamente reagisce piuttosto che rispondere in modo conscio e ‘mindfully’. Lo stato ‘mindful’ è anche associato ad una scarsa processazione dei pensieri riguardanti l’esperienza della situazione corrente, le sue implicazioni, gli ulteriori significati, o le necessità per le azioni collegate ma non immediate. Piuttosto, il ‘mindfulness’ coinvolge l’esperienza diretta ed immediata della situazione presente”. Lo stato “mindfulness” sembrerebbe affinare la capacità sia di riconoscere sia di evitare quelle forme di rimuginazioni mentali disfunzionali più sopra citate. Si tratta in ultima analisi di favorire modalità di risposta più funzionali agli stimoli disturbanti in uno stato di rilassamento, senza incorrere in circoli viziosi che perpetuano il disturbo emotivo, dapprima durante le sedute terapeutiche e poi nella realtà quotidiana. Questo duplice intervento, sia a livello proposizionale sia a livello implicazionale, costituisce la base della Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), una forma di terapia innovativa che è stata applicata nella prevenzione delle ricadute per pazienti in remissione dalla Depressione e che ha fornito risultati decisamente incoraggianti. ESPOSIZIONE ALLO SPECCHIO PER RIDURRE LA PREOCCUPAZIONE PER IL PESO E LE FORME CORPOREE In sintonia con le considerazioni appena sopra esposte, circa la tecnica del Mindfulness, e con i risultati limitati ottenuti dalla CBT nella riduzione della preoccupazione per il peso e le forme corporee in pazienti affetti da Disturbi dell’Alimentazione, Wilson (1999) ha elaborato una tecnica di Esposizione allo Specchio che utilizza le procedure della MBCT. Egli, ipotizzando che la preoccupazione disfunzionale per il peso e le forme corporee si ponga a quel livello di significato schematico\emozionale definito da Teasdale come implicazionale, sostiene che la Ristrutturazione Cognitiva, e quindi la disputa razionale sui significati attribuiti dalla paziente alla propria immagine corporea, possa rivelarsi non sempre sufficiente per una riduzione duratura delle preoccupazioni corporee disfunzionali. La tecnica da lui elaborata prevede che la paziente stia in piedi di fronte ad uno specchio (alto 183 cm con due ali di 61 cm) e che descriva in modo sistematico il suo corpo senza essere “giudicante” (vedi sotto). La procedura prevede sette sedute: - - nella Seduta 1, la paziente indossa i propri vestiti abituali ed in quelle successive è incoraggiata ad indossare vestiti che progressivamente rivelino il suo corpo, ad esempio più aderenti, più corti, fino ad arrivare a vestire solo il costume da bagno. La velocità con cui avviene questa progressione dipende dalla paziente; nelle Sedute 4-7, la paziente è incoraggiata a consumare dei “cibi proibiti” un po’ prima di esporsi e a guardare, per alcuni minuti, foto di giornali di modelle magre. Durante l’esposizione la paziente è aiutata dal terapeuta ad adottare il medesimo atteggiamento di “mindfulness” previsto da Teasdale nel suo MBCT per i pazienti in remissione dalla Depressione. Si tratta quindi di favorire un’attenzione passiva al proprio corpo e alla 158 I Disturbi della condotta alimentare mente che permetta di raggiungere una piena, naturale e soprattutto neutra consapevolezza delle sensazioni corporee, dei pensieri e delle emozioni che la paziente esperisce nel momento attuale senza distrarsi in valutazioni e ragionamenti su quanto le sta accadendo. Per favorire un atteggiamento descrittivo, non giudicante e non autocritico, la paziente è continuamente aiutata a dare ad alta voce una descrizione oggettiva del proprio corpo in modo olistico, considerando quindi i dettagli di ogni sua parte e senza focalizzarsi su alcuni punti in particolare. L’essenza è quindi quella di “ascoltare” ed accettare tutto quello che esperisce nel momento presente (qui ed ora) senza “togliere od aggiungere” nulla, senza impegnarsi in ragionamenti discorsivi (rimuginazioni) su quello che dovrebbe o non dovrebbe essere o sul passato e sul futuro, lasciando “entrare ed uscire” da sé ogni pensiero, sensazione ed emozione, senza provare a modificare quello che le sta accadendo (Wilson, 1999). Tale atteggiamento favorisce una reazione più funzionale a quegli stimoli, i punti “caldi” del proprio corpo, che elicitano gli schemi e le preoccupazioni disfunzionali, senza incorrere ulteriormente in spirali autoriverberantesi di pensieri e sensazioni fisiche che perpetuano le preoccupazioni e quindi le emozioni disfunzionali. Grazie a questo atteggiamento la paziente sentirà arrivare, crescere e poi decrescere le emozioni negative, come la metafora del “surf che cavalca l’onda”, ma con la ripetizione sistematica delle esposizioni, le “ondate” appariranno sempre meno disturbanti e gli stimoli, che prima elicitavano le preoccupazioni disfunzionali, perderanno sempre più il loro potere patogeno. Gli effetti delle esposizioni allo specchio sono poi rinforzati da compiti a casa comportamentali, nei quali la paziente dovrà riascoltare l’audiocassetta della registrazione della seduta con incise le proprie descrizioni ed astenersi da comportamenti disfunzionali, come ad esempio indossare vestiti larghi (evitamento) oppure effettuare un eccessivo controllo del proprio corpo (body checking) (Wilson, 1999). 10.4 Casi clinici Il caso di Selina - “La crisi arriva quando c’è un vuoto” Diagnosi: Bulimia Nervosa. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie ed Eating Disorder Inventory-2 (EDI-2). Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto elevata. Paure legate al giudizio ed al rifiuto sociale, alla possibilità di sbagliare e di fare brutta figura. Dall’EDI-2: elevati punteggi alle scale di bulimia, impulso alla magrezza, insoddisfazione corporea, inadeguatezza e perfezionismo. Selina ha 37 anni ed ha un problema di abbuffate quotidiane con vomito autoindotto (BMI = 21). Storia del caso Laureata in Scienze Economiche, svolge la libera professione. Sposata da poco, è orfana di padre ed ha una madre con trascorsi di problemi psichiatrici e di alcolismo. 159 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Selina soffre di Disturbi del Comportamento Alimentare dall’età di diciotto anni quando, a seguito della morte del padre, ha iniziato a limitare drasticamente l’alimentazione fino a giungere ad un BMI = 16. Dopo qualche anno sono cominciate le abbuffate con il ricorso sistematico al vomito. Riferisce che la madre “era sempre a dieta” e controllava anche la sua alimentazione per il timore che potesse ingrassare: “Da piccola mi diceva di mangiare ma di non esagerare, di stare attenta a non ingrassare … sentivo che se fossi ingrassata non mi avrebbe più amato”. Concettualizzazione e trattamento Selina descrive così la dinamica dell’abbuffata: “La crisi arriva quando c’è un vuoto, una pausa tra le tante cose che ho da fare, e il pensiero va sul cibo. Non c’entra la fame, mi succede anche se ho mangiato da poco”. Dal Diario Alimentare. Situazione Pensiero Comportamento Da sola alla fine di una giornata Quante cose ho ancora da fare! Abbuffata di lavoro Non ce la faccio a finire tutto. Vomito Gli obiettivi terapeutici hanno previsto un iniziale Intervento Psicoeducativo sulla Bulimia (abbuffate, peso, alimentazione) che si è avvalso anche della Biblioterapia. Per la gestione delle situazioni a rischio di abbuffata, la paziente ha individuato le attività alternative che avrebbe potuto più piacevolmente svolgere: • • • • fare una telefonata andare in palestra uscire a fare qualche acquisto pianificare un’attività da svolgere. Il successivo obiettivo si è focalizzato sull’apprendimento di abilità di gestione di situazioni problematiche con la tecnica del Problem Solving. Ciò in quanto la paziente aveva riconosciuto tra i fattori scatenanti di una crisi bulimica “prendere una decisione, un problema da risolvere … e non so come fare”. Con la Ristrutturazione Cognitiva si è intervenuti su pensieri ed assunzioni disfunzionali verso il peso e le forme del corpo. - “La magrezza è segno di autocontrollo”. - “Il grasso è segno di pigrizia, sregolatezza, mancanza di disciplina e cura per se stessi”. - “Essere grassi vuol dire essere trascurati e incapaci”. - “Solo le persone magre sono ammirate ed apprezzate e io voglio essere ammirata”. Selina aveva associato fin dall’infanzia la propria amabilità all’essere magra, inizialmente per soddisfare le richieste della madre. Lavorando sulla costruzione di un 160 I Disturbi della condotta alimentare diverso concetto di sé, basato sulla conoscenza reale di se stessa e sull’autoaccetazione incondizionata, ha potuto sviluppare un’autostima svincolata da parametri di fisicità e di immagine del corpo. Per facilitare il cambiamento cognitivo è stata impiegata anche la tecnica di Esposizione allo Specchio dove la paziente doveva osservare il proprio corpo e descriverlo senza giudizi o critiche ma limitandosi ad esprimere osservazioni possibilmente neutre ed oggettive. A conclusione della procedura, Selina si è espressa in questi termini: “Ho imparato a conoscere davvero tutto il mio corpo, che prima credevo di conoscere bene. Vedo i difetti ma li riconosco come parte di un bel corpo che mi piace ed al quale mi sto proprio affezionando”. Nella programmazione della Prevenzione delle Ricadute, la paziente ha elaborato un piano di mantenimento che, in caso di rischio di ricaduta, prevedeva le seguenti strategie. Piano di mantenimento Nel caso sentirò di rischiare una ricaduta metterò in atto queste strategie 1. Cerco di prendere tempo per riconoscere la situazione che mi crea il problema. 2. Compilo il Diario Alimentare scrivendo emozioni e pensieri. 3. Faccio un programma per i giorni successivi, evitando situazioni sia di vuoto sia di eccesso di impegni. 4. Metto in atto una delle attività alternative per evitare di perdere il controllo. 5. Faccio il Problem Solving se ho qualche situazione da risolvere. 6. Parlo a qualcuno del mio problema, condividere mi aiuta. 7. Mi pongo obiettivi limitati e realistici. Se sbaglio lo considero un errore e non un fallimento. 8. Prendo nota dei miei progressi, anche minimi. Dopo un anno e mezzo di terapia i cicli abbuffata/vomito si sono ridotti ad una frequenza mensile e l’alimentazione si è normalizzata pur con la possibilità che Selina potesse concedersi qualche “sgarro” senza sentirsi in colpa: “Adesso non ho più il pensiero fisso che quello che mangio si trasforma tutto in ciccia … mangio senza ansia”. Il caso di Kori - “Sono troppo grassa” Diagnosi: Bulimia Nervosa. Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie ed Eating Disorder Inventory–2 (EDI–2). Dal CBA: si rileva scarsa stabilità emozionale con elevato rischio di sviluppare disturbi in condizioni di stress. Tono dell’umore piuttosto basso. Dall’EDI-2: elevati punteggi alle scale dell’impulso alla magrezza, bulimia, insoddisfazione per il corpo, sfiducia interpersonale e controllo degli impulsi. 161 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Kori ha 38 anni ed ha un problema di Bulimia caratterizzato da abbuffate tre volte alla settimana, la pratica di un’attività fisica molto intensa, una forte paura di ingrassare ed un basso tono dell’umore. Alta 1,70 cm, pesa 60 Kg (BMI = 20) ma vorrebbe perderne dieci e controlla il proprio peso anche più volte al giorno. Storia del caso Kori è docente ordinario di chimica, è single e vive da sola. Descrive i rapporti con la famiglia come difficili, con una madre molto ansiosa ed apprensiva ed un padre autoritario e poco affettuoso. Riconduce l’origine del suo problema all’adolescenza quando, intorno ai quindici anni, ha iniziato a saltare i pasti per dimagrire arrivando a perdere dieci chili in poco tempo. In un paio di anni li ha però recuperati e, digiunando a pranzo, arrivava ad abbuffarsi la sera perdendo il controllo sul cibo. Questa condotta la porta ad acquistare altri chili e da allora decide di sottoporsi a diete molto restrittive, intervallate da abbuffate, con la contemporanea pratica di un’attività molto intensa. Concettualizzazione e trattamento Kori si sottoponeva ad una dieta ipocalorica e sbilanciata che ha richiesto una regolarizzazione dell’alimentazione che la donna ha accettato di mettere in pratica dopo un Intervento Psicoeducativo. Con questa tecnica la paziente ha acquisito le necessarie informazioni sul peso e sugli effetti negativi delle restrizioni alimentari, sulle conseguenze fisiche delle abbuffate e dei meccanismi di compenso. Attraverso la compilazione del Diario Alimentare, Kori ha appreso a riconoscere le emozioni che, con i pensieri ed i comportamenti, mantenevano il Disturbo ed ha raggiunto l’obiettivo di una significativa riduzione nella frequenza delle abbuffate. In tal modo, unitamente ad un’alimentazione più bilanciata e senza restrizioni squilibrate, ha potuto perdere alcuni chili con soddisfazione, rinforzando positivamente i progressi raggiunti. La paziente ha monitorato i propri pensieri negativi verso il peso e le forme del corpo, arrivando a riformularli in maniera più realistica e funzionale attraverso una Ristrutturazione Cognitiva. In un intervento di Prevenzione delle Ricadute è stata affrontata l’aspettativa irrealistica di non incorrere mai più in un’abbuffata dal momento che il problema si ritiene superato. Tale convinzione espone al rischio che, di fronte ad un nuovo episodio non previsto, la paziente possa interpretarlo come ricaduta con tutte le conseguenze emotive e comportamentali che potrebbe mettere in atto. Pertanto Kori ha potuto modificare questa errata valutazione di quella che ha imparato a considerare come una probabile ed accettabile episodica “scivolata”. Al termine della terapia durata dodici mesi, la paziente non presentava più episodi di abbuffate con un peso di 55 Kg del quale si riteneva soddisfatta. Anche il vissuto dell’immagine del proprio corpo era decisamente migliorato e l’esercizio fisico che praticava, con una frequenza bisettimanale, era finalizzato non più soltanto al consumo calorico ma anche al suo benessere generale. 162 CAPITOLO 11 Disturbo da alimentazione incontrollata 11.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Episodi ricorrenti di alimentazione incontrollata. Un episodio di alimentazione incontrollata si caratterizza per la presenza di entrambi i seguenti elementi: 1. mangiare, in un periodo definito di tempo (per es., entro un periodo di due ore), un quantitativo di cibo chiaramente più abbondante di quello che la maggior parte delle persone mangerebbe in un periodo simile di tempo e in circostanze simili; 2. sensazione di perdita di controllo nel mangiare durante l’episodio (per es., la sensazione di non riuscire a fermarsi oppure a controllare che cosa e quanto si sta mangiando). B. Gli episodi di alimentazione incontrollata sono associati con tre (o più) dei seguenti sintomi: - mangiare molto più rapidamente del normale; - mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieni; - mangiare grandi quantità di cibo anche se non ci si sente fisicamente affamati; - mangiare da soli a causa dell’ imbarazzo per quanto si sta mangiando; - sentirsi disgustato verso se stesso, depresso, o molto in colpa dopo le abbuffate. C. È presente marcato disagio a riguardo del mangiare incontrollato. D. Il comportamento alimentare incontrollato si manifesta, mediamente, almeno per due giorni alla settimana per un periodo di 6 mesi. E. L’ alimentazione incontrollata non risulta associata con l’ utilizzazione sistematica di comportamenti compensatori inappropriati (per es., uso di purganti, digiuno, eccessivo esercizio fisico), e non si verifica esclusivamente in corso di Anoressia Nervosa o di Bulimia Nervosa. Il Binge Eating è classificato come un Disturbo dell’Alimentazione Non Altrimenti Specificato (NAS). 163 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Nell’accertamento di questa patologia è necessaria una diagnosi differenziale con i Disturbi: - Bulimia Nervosa, nella quale il soggetto ricorre a meccanismi compensatori inappropriati per controbilanciare le conseguenze delle abbuffate. La sottotipizzazione operata dal DSM-IV in Bulimia Nervosa con o senza condotte di eliminazione e la categorizzazione del Binge Eating (BED) hanno suscitato perplessità, facendo ipotizzare che in realtà i due quadri possano riferirsi al medesimo Disturbo con diverse manifestazioni relative al peso riconducibili a fattori differenti, come ad esempio cause genetiche o metaboliche (Cassano e coll. in “Trattato italiano di Psichiatria”, 1999). Altri orientamenti scientifici confermano il BED come categoria diagnostica autonoma, differenziandola significativamente dalla Bulimia e non ritenendola una variante comportamentale dell’obesità (Spitzer e al., 1992, 1993; Gladis e al., 1998). - Disturbo Depressivo Maggiore, in cui frequentemente si può riscontrare iperalimentazione nel corso degli episodi depressivi ma che solitamente non comporta la presenza di abbuffate. La diagnosi supplementare di Disturbo da Alimentazione Incontrollata può essere presa in considerazione solo se il soggetto riferisce che, nel corso di episodi di iperalimentazione, sono presenti sia il senso soggettivo di perdita di controllo sia tre dei sintomi associati elencati nel criterio B. Il comportamento caratteristico dei soggetti che presentano un Disturbo da Alimentazione Incontrollata è costituito, come nella Bulimia Nervosa, dalla presenza di episodi ricorrenti di abbuffate. Possono essere presenti abbuffate oggettive e soggettive, come anche episodi di iperfagia oggettiva e soggettiva (Fairburn e Wilson, 1993); per la diagnosi è però necessaria la presenza di abbuffate oggettive. Le caratteristiche di un’abbuffata oggettiva o episodio di alimentazione incontrollata, sono specificate dal criterio A della diagnosi del DSMIV, in sintesi: quantità elevata di cibo introdotto e sensazione di perdita di controllo. Se non c’è la perdita di controllo parliamo allora di iperfagia oggettiva se la quantità di cibo assunta è elevata, soggettiva se è scarsa. Il Disturbo si caratterizza per la presenza di giorni di alimentazione incontrollata piuttosto che di episodi (singoli) di abbuffata. Il fenomeno infatti si manifesta con l’assunzione di grandi quantità di cibo o episodi di abbuffate che si concentrano nell’arco delle 24 ore, alternate a giornate nelle quali il soggetto si alimenta normalmente o anche in maniera ridotta. La frequenza media del binge eating è di 3-5 giorni a settimana, con la preferenza di cibi ricchi di grassi piuttosto che di fibre o proteine che vengono invece consumate nei giorni “non binge”. 11.2Modelli comportamentali e cognitivi La Bulimia Nervosa ed il Binge Eating presentano caratteristiche comuni relativamente alla severità delle abbuffate ed alla preoccupazione per il peso, il cibo e le forme corporee (Marcus, 1995; Wilson e Fairburn, 1993). 164 I Disturbi della condotta alimentare Tuttavia, a differenza dei soggetti bulimici, quelli con BED non manifestano elevati livelli di restrizione alimentare, non riuscendo a limitare il loro introito calorico (Wilson e Smith, 1995; Marcus, 1997). A differenza dei bulimici che sono generalmente normopeso, molti pazienti con Disturbo da Alimentazione incontrollata sono in sovrappeso o addirittura obesi (Garner e coll., 1991; Dalle Grave, 1997a). Tuttavia, rispetto alle persone affette da obesità senza Binge Eating, essi hanno una incapacità generale di regolare la propria alimentazione sia durante le abbuffate che al di fuori di esse. Esperimenti effettuati in laboratorio hanno infatti evidenziato come, sia la durata dei pasti (Goldfein, Walsh, LaChaussee, Kissileff e Devlin, 1993) sia la quantità di cibo ingerito durante gli stessi (Guss, Kissileff, Walsh e Devlin, 1994; Yanovski et al. 1992), siano significativamente maggiori rispetto a quelle degli obesi di pari peso. Come nel caso dell’obesità, a causa dell’eccesso ponderale possono manifestarsi patologie organiche quali diabete mellito, ipertensione arteriosa, malattie cardio-vascolari ed alcuni tipi di neoplasie. Molti pazienti manifestano sentimenti di disperazione legati alla difficoltà di controllare l’assunzione di cibo, con pregressi numerosi tentativi di sottoporsi a dieta: proprio le diete rappresenterebbero un tentativo di recuperare il controllo su alimentazione e peso, perso completamente durante i periodi in cui predominano le abbuffate (Marcus, 1995). Coloro che soffrono di BED tendono a utilizzare il cibo per modulare una varietà di sensazioni ed emozioni negative e/o positive (Garner, 1985; Dalle Grave; 1999). Alcuni soggetti riferiscono che il loro comportamento alimentare incontrollato viene scatenato da alterazioni disforiche dell’umore, come ansia e depressione. Altri non sono in grado di individuare precisi fattori scatenanti, ma riferiscono sentimenti aspecifici di tensione, che ricevono sollievo dal mangiare senza controllo. Altri ancora individuano la propria perdita di controllo, in ambito alimentare, come determinata da sensazioni prevalentemente positive o, infine, come scatenata da qualsiasi tipo di emozione sia essa negativa che positiva. 11.3Trattamento I modelli di trattamento applicati alla Bulimia Nervosa hanno fortemente influenzato la terapia del BED per le molteplici similitudini tra i due Disturbi. I soggetti con BED presentano tuttavia alcune caratteristiche peculiari che li differenziano dai pazienti bulimici e che pertanto necessitano di una specificità di trattamento (Fairburn, Marcus & Wilson, 1993). In particolare manifestano: 1) diverso comportamento alimentare, con bassi livelli di restrizione alimentare e non utilizzo di condotte compensatorie; 2) minori distorsioni cognitive, che risultano generalmente meno estreme rispetto a quelle osservate nella Bulimia Nervosa pur mantenendo una notevole preoccupazione per l’eccesso ponderale; 3) obiettivi diversi, con maggiore motivazione alla perdita di peso (in presenza di soprappeso) rispetto all’eliminazione delle abbuffate. 165 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica La terapia del BED è basata sul modello di Fairburn per la Bulimia (v. trattamento della Bulimia Nervosa), la struttura è identica ma la durata dell’intervento è più lungo (22 sedute in 24 settimane). Il maggior tempo richiesto sembra essere necessario per favorire la normalizzazione del comportamento alimentare molto disturbato in questi pazienti ed aumentare così sensibilmente il numero dei “responders” al trattamento (Eldredge e al., 1997). Nella prima fase del trattamento, gli obiettivi consistono nella normalizzazione dell’alimentazione e nello sviluppo di uno stile di vita sano. Questo è ciò che deve essere ribadito ai pazienti che si presentano con una richiesta di riduzione del peso. Un programma dimagrante va preso in considerazione soltanto dopo che essi hanno imparato a gestire le abbuffate ed il comportamento alimentare, poiché la sospensione delle abbuffate solo raramente comporta una contemporanea riduzione di peso. La seconda fase del trattamento prevede un intervento di Ristrutturazione Cognitiva finalizzato all’identificazione ed alla modificazione delle distorsioni logiche e dei pensieri disfunzionali associati alla patologia ed al suo mantenimento. La fase della Prevenzione delle Ricadute conclude il trattamento. 11.4Caso clinico Il caso di Levia - “Non riesco a controllarmi perché sono una debole” Diagnosi: Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating Disorder). Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Rathus Assertiveness Scale (Ras) ed Eating Disorder Inventory-2 (EDI-2). Dal CBA: nella dimensione introversione - estroversione si colloca decisamente nella direzione dell’estroversione, è una persona socievole che ama la compagnia; significativo il punteggio alla scala della depressione. Dal RAS: rilevate difficoltà interpersonali riferibili a problemi di anassertività. Dall’EDI-2: elevati punteggi alle scale della bulimia, insoddisfazione per il corpo, inadeguatezza e sfiducia interpersonale. Levia ha 35 anni ed ha un problema di obesità (BMI = 40). Ha episodi di abbuffate quotidiani che mette in atto sempre la sera quando riesce ad ingerire, senza alcun controllo, una quantità di cibo tele da arrivare a sentirsi stordita. Storia del caso Nubile, vive in casa con i genitori anziani, entrambi obesi, che accudisce con una costante presenza. Ha un fratello, anch’egli obeso. Riferisce di essere sempre stata in soprappeso, fin da bambina, e di avere sempre mangiato moltissimo: “In famiglia tutti mangiavamo moltissimo”. Ha alternato diete a periodi nei quali riacquistava sistematicamente i chili persi. In una di queste diete si era sottoposta ad una rigida restrizione alimentare che le aveva consentito di perdere molti 166 I Disturbi della condotta alimentare chili ma, a seguito di una forte delusione sentimentale, aveva recuperato l’abbondante sovrappeso iniziale. L’aspetto fisico è stato per lei motivo di vergogna e fonte di frustrazioni: derisa e spesso esclusa dagli altri, in particolare rifiutata dai ragazzi. La sua vita sentimentale è costellata di delusioni che l’hanno portata ad una condizione di solitudine affettiva. Concettualizzazione e trattamento Nel Disturbo di Levia si possono identificare la familiarità e l’insorgenza precoce dell’obesità, come elementi predisponenti, e le diete, le frequenti fluttuazioni di peso e la delusione sentimentale come fattori di mantenimento. I fattori scatenanti delle crisi bulimiche sono stati da lei identificati in alcune condizioni emotive negative che frequentemente sperimentava: - rabbia, “Quando mi arrabbio e non mi posso sfogare mangio a rimpinzarmi, ma dopo mi sento ancora più arrabbiata per non essere riuscita a controllarmi”; - tristezza, “Quando vorrei tanto piangere … mangio”; - noia, “A volte non sento niente, non so cosa fare, mangiare mi aiuta a riempire questi vuoti”; - stanchezza, “Quando mi sento molto stanca mi rilasso con il cibo ma poi perdo il controllo su quello che mangio”. Il trattamento ha previsto i seguenti obiettivi: - - - - - - riduzione delle abbuffate compulsive; normalizzazione dell’alimentazione; riduzione dei pensieri disfunzionali su dieta, peso e forme corporee; riduzione della sintomatologia depressiva secondaria; sviluppo delle abilità assertive; prevenzione delle ricadute. La perdita di peso con un programma dietetico finalizzato è stata rinviata ad un momento successivo al raggiungimento della regolarizzazione dell’alimentazione con la progressiva diminuzione delle abbuffate. Attraverso la compilazione del Diario Alimentare Levia ha rilevato i pensieri ed i comportamenti con funzione di eventi scatenanti o conseguenze rinforzanti. Un esempio di registrazione. Situazione Pensiero Emozione Dopo cena mia madre Ci risiamo, ancora tutto Rabbia mi racconta una delle sue su di me, sono stufa lamentele solite Comportamento Abbuffata 167 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Con tecniche di Psicoeducazione e Biblioterapia la paziente ha acquisito le necessarie informazioni sul corretto stile nutrizionale e sulla normalizzazione e gestione autoregolativa dell’alimentazione. Nelle situazioni che Levia aveva identificato come a rischio di scatenare un’abbuffata, ha stabilito alcune attività alternative da mettere in pratica: • • • • • assumere una tisana; andare a dormire; ascoltare musica; fare una telefonata; uscire di casa. Nel programma è stata introdotta anche una leggera attività fisica, in precedenza del tutto assente. La fase successiva del trattamento ha previsto una Ristrutturazione Cognitiva per ridurre la preoccupazione per il peso e le forme corporee. Le Distorsioni Cognitive che sostenevano i pensieri negativi erano: ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, astrazione selettiva, etichettamento e pensiero catastrofico. Si riportano alcune assunzioni disfunzionali espresse dalla paziente: - - - - - - “Essere grassi vuol dire essere pigri”; “Solo le persone magre hanno successo nella vita”; “Se sono magra sono accettabile, se sono grassa faccio schifo”; “Se non riesco a fare la dieta non ho carattere”; “Non riesco a controllarmi perché sono una debole”; “Le persone magre possono mangiare tutto quello che vogliono, io ingrasso anche se non mangio”. Generando convinzioni alternative più realistiche, la paziente ha migliorato il proprio atteggiamento verso il corpo e più in generale verso se stessa. Con il Training Assertivo, Levia ha potuto apprendere ad esprimere adeguatamente i propri desideri e bisogni ed a gestire funzionalmente la rabbia che rappresentava una delle emozioni per lei più problematica. Un aiuto particolarmente importante per il problema dell’assunzione di cibo in casa, dove lo stile alimentare era improntato all’ipernutrizione, lo ha ottenuto dall’acquisizione dell’abilità di formulare un rifiuto senza sentirsi in colpa o reagire con aggressività. Dopo nove mesi di terapia, la presenza delle abbuffate si è ridotta ad una frequenza settimanale e, al di fuori della crisi bulimica, l’alimentazione si è normalizzata e la paziente ha iniziato a perdere alcuni chili. Levia ha diminuito sensibilmente la preoccupazione e l’atteggiamento disfunzionali sul peso e sulle forme del suo corpo che ha imparato gradualmente ad accettare come caratteristiche della propria struttura fisica. 168 PARTE QUARTA I DISTURBI DI PERSONALITà “Il pensiero ha bisogno di un padrone; di un desiderio; di un modello;di abitudini. Altrimenti è come un sogno – inutile, terribile, circolare, stupido. è una serie infinita… La potenza della mente è di limitarsi, di restringersi lei stessa” Paul Valéry CAPITOLO 12 disturbi di personalità 12.1Introduzione L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la personalità “Una modalità strutturata di pensiero, sentimento e comportamento che caratterizza il tipo di adattamento e lo stile di vita di un soggetto e che risulta da fattori costituzionali, dello sviluppo e dell’esperienza sociale”. Nell’ottica cognitivista la personalità definisce gli aspetti caratteristici e costanti di un individuo nel proprio modo di costruirsi la realtà (Lorenzini, Sassaroli, 1995). Quando i tratti della personalità di un individuo risultano talmente rigidi e poco adattivi rispetto all’ambiente da compromettere seriamente il suo funzionamento sociale e lavorativo e da provocare sofferenza per sé e per gli altri, ci si trova di fronte ad un Disturbo. Approccio categoriale vs. dimensionale Nel descrivere un Disturbo di Personalità (DP), assumiamo che non vi sia una chiara demarcazione tra ciò che è normale e ciò che è patologico, in quanto esistono numerose corrispondenze tra principali dimensioni della personalità normale (o del temperamento) e sintomatologia dei DP. L’attuale tendenza è propensa a concettualizzare questi Disturbi tenendo conto non soltanto degli aspetti caratteriali e di personalità, ma anche di quelli temperamentali e neurobiologici. L’approccio diagnostico utilizzato nell’ICD-10 e nel DSM-IV rappresenta la prospettiva categoriale secondo cui i Disturbi di Personalità rappresentano sindromi cliniche distinte qualitativamente. La definizione che ne dà il DSM così recita: “un Disturbo di Personalità rappresenta un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo, e determina disagio o menomazione”. 171 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Le classificazioni di questi Disturbi proposte dall’ICD-10 (International Classification of Disease) e dal DSM IV si basano sulla distinzione fra “tratto”, inteso come disposizione associata alla personalità, e “stato” come condizione mentale corrente. In particolare, l’ICD-10 definisce i Disturbi di Personalità “(…) condizioni e modalità di comportamento di significato clinico, che tendono ad essere persistenti e sono l’espressione di uno stile di vita e di un modo di porsi in relazione a sé e agli altri caratteristico dell’individuo (…). Alcune di queste condizioni e modalità di comportamento emergono precocemente nel corso dello sviluppo dell’individuo, come risultato sia di fattori costituzionali sia delle esperienze sociali, mentre altre sono acquisite più tardi nel corso della vita (…). Queste considerazioni comprendono modalità di comportamento profondamente radicate e durature, che si manifestano come risposta costante ad una vasta gamma di situazioni personali e sociali. Esse rappresentano deviazioni estreme o significative dal modo in cui l’individuo medio in una data cultura percepisce, pensa, sente e, in particolare, si pone in relazione con gli altri (…). Tali modalità comportamentali tendono ad essere stabili e ad estendersi a molteplici sfere di comportamento e di funzionamento psicologico. Esse sono frequentemente, ma non sempre, associate a vari livelli di sofferenza soggettiva e con problemi nel funzionamento e nelle prestazioni sociali”. Il DSM IV definisce i tratti di personalità come “(…) modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali”. Si parla di Disturbi di Personalità (DP) quando “(…) tali tratti sono rigidi e non adattivi e causano una significativa compromissione del funzionamento sociale o lavorativo, oppure una sofferenza soggettiva”. Pertanto, secondo il DSM IV, per diagnosticare un DP sono necessari i seguenti criteri: A. Una modalità persistente di esperienza interiore e di comportamento che si discosta in modo marcato dalle aspettative della cultura della persona. Tale modalità si manifesta in due o più delle seguenti aree: 1. Cognitiva (modi di percepire ed interpretare se stessi, gli altri e gli eventi). 2. Affettiva (gradazione, intensità, labilità ed appropriatezza della risposta emotiva). 3. Funzionamento interpersonale. 4. Controllo degli impulsi. B. È un modello rigido e pervade un’ampia gamma di situazioni sociali e personali. C. Porta ad un disagio di rilievo clinico o ad una compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree. D. È stabile e di lungo termine ed il suo esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta. E. Non è espressione o conseguenza di altro disturbo mentale. F. Non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (droga, farmaci) o ad una condizione medica generale. 172 I Disturbi di personalità Tabella 12.1 Le categorie dei disturbi di personalità Diagnosi DSM IV Principali dimensioni cliniche Diagnosi ICD-10 Confronto ICD-DSM Schizotipico Acuto disagio nelle relazioni intime, distorsioni cognitive o percettive, comportamento eccentrico Disturbo schizotipico Psicosi nell’ICD Disturbo di Personalità nel DSM Schizoide Indifferenza per le relazioni sociali, gamma ristretta di espressioni emotive Schizoide Nessuna differenza significativa Paranoide Diffidenza e sospettosità Paranoide Nessuna differenza significativa Antisociale Mancanza di rispetto e Dissociale violazione dei diritti degli altri Il DSM richiede un precedente Disturbo di Condotta Borderline Relazioni interpersonali instabili, instabilità dell’immagine di sè, affettività disforica, impulsività Emotivamente instabile, sottotipo borderline Il DSM include i sintomi cognitivi Istrionico Eccessiva emotività e bisogno di essere al centro dell’attenzione Istrionico Nessuna differenza significativa Narcisistico Grandiosità, bisogno di essere ammirati, mancanza di empatia Non presente nell’ICD Emotivamente instabile sottotipo impulsivo Non presente nel DSM Ansioso Nessuna differenza significativa Evitante Inibizione sociale, sentimento di inadeguatezza, ipersensibilità alla critica Dipendente Sottomesso, dipendente, Dipendente eccessivo bisogno di essere accudito Nessuna differenza significativa Ossessivo-Compulsivo Eccessiva attenzione per Anancastico l’ordine, il perfezionismo e i controlli Nessuna differenza significativa Non specificato Risponde ai criteri generali per un disturbo di personalità ma non a quelli specifici per una singola categoria Non specificato o misto 173 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Per la definizione dei vari Disturbi si fa riferimento ad un criterio fenomenologico descrittivo, per cui la diagnosi viene formulata sulla base della presenza/assenza di segni o sintomi rigorosamente osservabili. I DP classificati dal DSM IV sono dieci, ripartiti in tre cluster. • • 174 CLUSTER A. La cui caratteristica osservabile è la stranezza o l’eccentricità. Disturbo Paranoide. Gli individui con questo disturbo manifestano diffidenza e sospettosità tali da interpretare sempre negativamente le intenzioni degli altri. In particolare essi sospettano di essere sfruttati, ingannati o danneggiati. Non si fidano di nessuno, non si confidano con gli altri, spesso privi di umorismo, sono rancorosi, si offendono facilmente e spesso reagiscono con rabbia. Disturbo Schizoide. È caratterizzato da una modalità pervasiva di indifferenza e distacco nelle relazioni sociali e da una ristretta gamma di espressione delle emozioni. Il soggetto schizoide presenta introversione e ritiro sociale, non desidera stabilire legami affettivi e non mostra interesse per le relazioni sessuali, non ha amici o confidenti, appare indifferente, freddo e distaccato e quasi sempre sceglie attività solitarie. Disturbo Schizotipico. Il quadro è simile al precedente ma è più marcata la presenza di sintomi psicotici. Lo schizotipico manifesta distacco dalla realtà comune, usa un linguaggio strano ed a volte incomprensibile, presenta strane credenze o pensiero magico che influenzano il comportamento e sono incompatibili con il suo contesto culturale. CLUSTER B. Gli individui appaiono melodrammatici, emotivi o imprevedibili. Disturbo Istrionico. Caratteristiche di questo disturbo sono una modalità pervasiva di emotività eccessiva ed una costante ricerca di attenzione ed approvazione. Si tratta di individui molto egocentrici, che tendono ad utilizzare la loro grande carica emotiva per soggiogare gli altri. Sono teatrali, estroversi, esibizionisti e spesso iperseduttivi. Sfruttano l’aspetto fisico per attirare l’attenzione e sono a disagio se non si trovano al centro dell’attenzione. Le loro azioni sono mirate ad una soddisfazione immediata e non tollerano frustrazioni. Temono la solitudine e possono sentirsi profondamente angosciati di fronte a situazioni di separazione. Tendono a considerare le relazioni più intime di quanto lo siano in realtà. Disturbo Narcisistico. Grandiosità, costante bisogno di ammirazione e mancanza di empatia sono caratteristiche del Disturbo. Il narcisista ha una considerazione irrealistica del proprio valore, non tollera di essere messo in discussione e reagisce con rabbia alle critiche. Frequenti stati emotivi di disprezzo, invidia e superbia lo caratterizzano con conseguenti comportamenti anche finalizzati a sfruttare gli altri per raggiungere i propri scopi. Disturbo Borderline. Caratterizzato da instabilità nelle relazioni interpersonali e nell’immagine di sé e da forte impulsività. Incapace di stabilire un rapporto profondo, il borderline considera l’altro uno strumento per soddisfare i propri scopi, tra i quali anche il bisogno di attribuirgli la responsabilità dei propri problemi e difficoltà. Angosciato dall’idea dell’abbandono, tuttavia non tollera relazioni troppo intime. Alla continua ricerca di attenzioni e rassicurazioni, per ottenerle ricorre I Disturbi di personalità anche a comportamenti con forte connotazione emotiva (minacce, scopi di rabbia, tentativi di suicidio). Lo stile di vita del borderline è perennemente instabile, senza obiettivi e per questo costellato da delusioni ed esperienze di rifiuto. Disturbo Antisociale. Le persone con questo disturbo provano un’assoluta indifferenza per i diritti degli altri e mostrano un comportamento irresponsabile ed antisociale. Hanno una lunga storia di condotte antisociali già presenti nell’infanzia (menzogne, furti, scontri con l’autorità, assenze scolastiche, fughe da casa) e la diagnosi richiede un’età superiore ai 18 anni. Si tratta di individui incapaci di assumersi responsabilità, di conformarsi alle norme sociali e lavorative e di mantenere una relazione affettiva stabile. L’assenza di rimorso e la totale indifferenza li portano a giustificare la loro condotta. • CLUSTER C. Persone che appaiono ansiose o paurose. Disturbo Evitante. Grave inibizione del comportamento sociale, con sentimenti di inadeguatezza ed ipersensibilità alla critica. L’emozione che caratterizza i soggetti con questo Disturbo è la vergogna conseguente ad un profondo senso di inadeguatezza. La paura di essere rifiutati li porta a loro volta a rifiutare ogni occasione di contatto sociale. Estremamente in ansia per l’opinione che gli altri possono avere di loro, questi individui spesso interpretano come critiche negative anche semplici osservazioni. Disturbo Dipendente. Caratterizzato da un comportamento di sottomissione e di attaccamento, correlato al bisogno che altri si prendano cura di sé. La persona con Disturbo Dipendente è incapace di vivere in maniera autonoma e di prendere decisioni anche banali. Si affida completamente all’altro per ogni cosa, assumendo un ruolo totalmente passivo. Non esprime il dissenso dall’altro per timore di perderne il sostegno ed è disposta a tollerare anche situazioni spiacevoli o degradanti pur di essere accettata. Disturbo Ossessivo Compulsivo. Una modalità pervasiva e disadattiva di perfezionismo, ordine e controllo caratterizza questa patologia. Si tratta di un soggetto rigido, schematico, inflessibile ed esigente, continuamente preoccupato di essere perfetto. Molto severo con se stesso, non lascia spazio alle emozioni, dalle quali è spaventato, ma preferisce concentrarsi su fatti concreti con regole da rispettare e dettagli da considerare. Ha difficoltà a prendere decisioni per paura di sbagliare e rimugina continuamente sui propri impegni e priorità. Ossessioni o compulsioni non sono necessariamente presenti, mentre possono riscontrarsi pensieri ricorrenti o rituali. Accanto al modello ateoretico e categoriale proposto dal DSM e dall’ICD-10, esistono modelli teorici dei Disturbi di Personalità che prendono in considerazione la prospettiva dimensionale, che si fonda sull’assunto seguente: le misurazioni dei tratti di personalità covariano, ma sono anche indipendenti tra loro. La personalità può essere pensata come un insieme di tratti, ognuno dei quali può essere descritto come una dimensione nello spazio. Per questo motivo i tratti sono chiamati dimensioni di personalità. Ogni tratto rappresenta una strategia che può rivelarsi adattiva in un certo tipo di condizioni ambientali. I Disturbi di Personalità sono varianti disadattive di queste strategie. 175 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Vi sono stati tentativi diversi di identificare le dimensioni fondamentali che sottostanno all’intera area del funzionamento personologico normale e patologico. Il dibattito, ancora aperto, ruota fondamentalmente intorno a tre quesiti: 1) natura dimensionale o categorica dei DP; 2) distinzione tra caratteristiche di personalità normali e patologiche; 3) natura dei processi e della struttura di base sottostante sia ai Disturbi di Personalità sia alla personalità normale. Attualmente, sono in fase di valutazione cinque approcci dimensionali: a) approccio dimensionale puro: simile all’approccio categoriale di Asse II, trasforma le attuali categorie in rappresentazioni dimensionali, facendo corrispondere i criteri dimensionali al numero dei criteri che devono essere soddisfatti dalla persona (1-3 criteri soddisfatti = tratti di personalità; 4-5 criteri soddisfatti = disturbo di personalità; 5-8 = diagnosi pervasiva; 7-9 = diagnosi prototipica); b) approccio prototipico: permette di effettuare una diagnosi lungo un continuum di maggiore/minore gravità; si basa sulla valutazione della generale somiglianza del paziente ai prototipi che descrivono un DP nella sua forma pura; c) approccio prototipico derivato dall’esperienza clinica: sviluppato empiricamente dalle descrizioni dei clienti fornite da un migliaio di clinici; qui i criteri sono derivati dall’esperienza dei setting clinici, la patologia è diagnosticata lungo un continuum maggiore/minore gravità, si ricerca la somiglianza di specifici prototipi; d) approccio del modello dei cinque fattori: considera i cinque fattori nevroticismo, estroversione, apertura all’esperienza, coscienziosità e amabilità, ulteriormente suddiviso in sei sfaccettature, per un totale di 30 componenti che rendono accuratamente conto dei tratti di personalità adattivi e disadattivi che la maggior parte degli individui ritiene importanti quando deve fornire una descrizione di sé e degli altri. Un’altra implicazione del modello, descrivendo le aree più marcatamente disfunzionali della personalità, identifica fino a 40 dimensioni, tra cui: reattività affettiva, apprensività sociale, distorsione cognitiva, impulsività, mancanza di sincerità, egocentrismo. Altre dimensioni che sono state indagate includono l’affettività positiva, l’affettività negativa e I’inibizione, la ricerca della novità, la dipendenza dalla gratificazione, l’evitamento del danno, la persistenza, I’autodirezionalità, la cooperatività e I’autotrascendenza; il potere (il dominio verso la sottomissione), l’affiliazione (l’amore verso l’odio), la ricerca del piacere verso I’evitamento del dolore, l’adattamento passivo verso la modificazione attiva, la propagazione del sé verso la nutrizione degli altri; e) approccio psicobiologico: la personalità è qui concettualizzata come un’interazione complessa tra il temperamento - in cui confluiscono influenze genetiche e costituzionali - e il carattere, cui afferiscono le caratteristiche apprese nel processo di socializzazione. La personalità è quindi descritta secondo tre tratti caratteriali (gestione del sé, cooperatività e senso dell’esistenza) e tre tratti temperamentali (ricerca di novità, evitamento del danno e dipendenza dalla ricompensa). Bassi punteggi nei tratti caratteriali evidenziano un disturbo di personalità, mentre punteggi estremi nei tratti temperamentali denotano pattern di personalità. 176 I Disturbi di personalità I diversi modelli dimensionali hanno molto in comune e insieme sembrano coprire le importanti aree della disfunzione della personalità. La loro integrazione, l’utilità clinica e la relazione con le categorie diagnostiche dei Disturbi di Personalità e con vari aspetti delle disfunzioni della personalità sono tuttora in corso di studio. Le caratteristiche che definiscono un Disturbo di Personalità possono non essere considerate problematiche dall’individuo in quanto i tratti sono spesso egosintonici, cioè la persona attribuisce i propri problemi esistenziali a cause esterne e considera il proprio comportamento normale e logico. Inoltre, le sue sofferenze sono prodotte, in larga misura, dalle inevitabili reazioni dell’ambiente che rinforza le stesse anomalie. In tale quadro, risulta più difficile la valutazione del Disturbo (Lorenzini, Sassaroli, 1995). 12.2Modelli comportamentali e cognitivi Alcuni Autori (Koerner, Kolenberg, Parker, 1996; Marshall, Barbaree, 1984; Turner, Hersen, 1984) ritengono che molti problemi dei pazienti con DP siano di natura interpersonale. I disturbi del comportamento sociale vengono acquisiti secondo modalità di condizionamento operante e di apprendimento sociale. Attraverso complesse configurazioni di rinforzi, sia dirette sia vicarie, e di punizioni si consolidano comportamenti persistenti che si generalizzano alle diverse situazioni. Un ampliamento di questo modello è stato proposto con riferimento alla reciproca influenza tra i comportamenti interpersonali ed i pensieri disfunzionali (Beck e al., 1990; Freeman e al., 1990; Fleming e al., 1990; Pretzen, 1988). Da quando l’approccio comportamentale ha accettato di considerare l’elaborazione cognitiva e la sfera emotiva come importanti aspetti del comportamento umano anche se non direttamente osservabili, i Disturbi di Personalità non sono più stati visti come una costellazione di sintomi da trattare separatamente ma si è passati a considerarli come disturbi del comportamento interpersonale o come il risultato di schemi disfunzionali, fino a giungere alla più recente concettualizzazione dei DP in termini di cicli cognitivi-comportamentali autoperpetuantesi (Fleming e Pretzer, 1990; Pretzer e Fleming, 1990). Il modello cognitivo applicato alla psicopatologia sull’interazione reciproca fra elaborazione cognitiva e comportamentale, sottolineando gli effetti disfunzionali degli schemi, delle convinzioni, degli assunti e del comportamento interpersonale disadattivi, pone infatti l’accento sulla sfera emotiva e dei pensieri automatici. Numerose ricerche nel campo degli stili di attaccamento hanno evidenziato come i Disturbi di Personalità siano il risultato di modelli di sé e degli altri rigidi e chiusi (Fonagy, 1999; Liotti, 2001) e sottolineano come i deficit nelle prime relazioni infantili portino a deficit neurofisiologici e psicologici. Le interazioni adulto-bambino che connotano un attaccamento sicuro aiutano a sviluppare connessioni neuronali che consentono al bambino la gestione delle emozioni. Viceversa un attaccamento insicuro sarà caratterizzato da instabilità o indisponibilità emotiva. Sulla base degli stili di attaccamento sviluppati durante l’infanzia e dei modelli operativi interni di sé e degli altri si 177 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica definiranno perciò gli stili di attaccamento adulto. Di grande interesse teorico e clinico è la linea di studio che connette l’insicurezza nell’attaccamento in generale e la disorganizzazione dell’attaccamento in particolare a deficit nello sviluppo e nell’esercizio delle funzioni metacognitive (Flavell, 1979). In tale ottica i Disturbi di Personalità vengono a essere il risultato di modelli di sé e degli altri rigidi e chiusi, che caratterizzano individui con funzionamento sociale, lavorativo e relazionale diversamente compromesso e su cui hanno pesato influenze negative ambientali, culturali e spesso traumatiche. Risulta perciò priva di fondatezza la credenza per la quale i DP sono meno limitanti rispetto ai Disturbi in asse I. A parte i casi di comorbidità, è di assoluta importanza utilizzare trattamenti integrati che favoriscano una riabilitazione sociale al fine di mitigare l’impatto dei Disturbi di Personalità sul funzionamento dell’individuo. Nell’ottica del Cognitivismo, Liotti (1992) ha enfatizzato il ruolo dell’egocentrismo nei DP e Greenberg e Mitchell (1986) fanno riferimento a concetti propri della teoria delle relazioni oggettuali. Lorenzini e Sassaroli (1995) ipotizzano una relazione fra pattern di attaccamento, stili di conoscenza e Disturbi di Personalità: ai tre raggruppamenti dei DP corrispondono i tre stili di conoscenza che caratterizzano i pattern di attaccamento, così come di seguito schematizzato. Tabella 12.2 Stili di conoscenza, attaccamento e disturbo di personalità Stile di attaccamento Stile di conoscenza Disturbo di Personalità Sicuro Ricerca attiva Assente Insicuro evitante Immunizzazione Tipo A Paranoide Schizoide Schizotipico Insicuro resistente Evitamento Tipo C Ossessivo Evitante Dipendente Disorientato, Disorganizzato Ostilità Tipo B Narcisistico Borderline Istrionico Antisociale La crescita della conoscenza si sviluppa in due fasi: la generazione di alternative e l’eliminazione di quelle errate e, successivamente, il processo di generazione delle alternative differenzia quattro diversi sistemi cognitivi: - la ricerca attiva, che tende ad ampliare costantemente i propri confini attraverso l’esplorazione e la verifica delle proprie ipotesi; - l’immunizzazione, che annulla l’effetto dell’invalidazione con la riduzione del contenuto empirico delle previsioni; - l’evitamento, che tende a non incorrere in invalidazioni restringendo il campo dell’esplorazione; 178 I Disturbi di personalità - l’ostilità, che scredita la fonte delle invalidazioni ribadendo la propria costruzione dei fatti. I Disturbi del Tipo A sono caratterizzati da stranezza, eccentricità e da una marcata indifferenza per le relazioni sociali. Lo stile cognitivo dell’immunizzazione si sviluppa in seguito all’esperienza di una figura di attaccamento distante che porta, successivamente, all’indifferenza verso tutte le altre persone ed all’incapacità di condivisione. L’intervento terapeutico su questo stile di conoscenza va indirizzato prevalentemente al far uscire il paziente dall’egocentrismo cognitivo che immunizza il sistema dalle invalidazioni provenienti dagli altri, operando sulla distinzione tra sé ed altro da sé e favorendo la costruzione di significati condivisi e di un linguaggio condivisibile che consenta l’ascolto del messaggio altrui. Il terapeuta ha un ruolo di presenza discreta ma costante che non invade ma che non può essere ignorata. I Disturbi di Tipo C sono caratterizzati dalla presenza di ansia e dalla tendenza ad arginarla attraverso l’evitamento. L’ansia si produce quando il sistema è consapevole di dover affrontare eventi poco conosciuti, imprevedibili e dunque minacciosi. Lo stile cognitivo evitante si sviluppa all’interno di una relazione di attaccamento con una figura poco prevedibile, poco accessibile e controllante e si caratterizza per il progressivo restringimento del campo esplorativo, al fine di sottrarsi alle novità nel tentativo di diminuire l’aleatorietà del rapporto. La sequenza è quindi: imprevedibilità – ansia – evitamento. L’intervento terapeutico su questo stile di conoscenza va indirizzato al riconoscimento da parte del paziente della tendenza ad evitare situazioni esplorative, in conseguenza della loro valutazione come pericolose e della percezione di se stesso come inadeguato ad affrontarle. Egli dovrà esporsi gradualmente ad invalidazioni di peso crescente e parallelamente costruire alternative di adeguatezza personale. Il terapeuta lo guida nell’esplorazione di due diverse strategie: - la rilettura del rapporto tra ignoto e spaventoso, con la necessità di conoscere per ridurre la minacciosità e la pericolosità dovuti proprio a ciò che non è noto; - la familiarizzazione con le emozioni che si sperimentano quando si verifica un’invalidazione e che possono essere fonte di informazione su sé e sui cambiamenti in atto. In questo processo di riappropriazione dell’esplorazione, il ruolo del terapeuta è di rappresentare una base sicura, accessibile e prevedibile, contrariamente a quanto sperimentato con la figura di attaccamento. I Disturbi di Tipo B presentano comportamenti imprevedibili ed impulsivi, con la tendenza ad ignorare l’altro come interlocutore ed a trattarlo come oggetto da asservire ai propri bisogni. Lo stile cognitivo dell’ostilità si sviluppa a seguito di un’esperienza con una figura di attaccamento vissuta come minacciosa. L’intervento terapeutico su questo stile di conoscenza mira a far acquisire consapevolezza dell’imposizione ostile delle proprie scelte ed a stimolare il confronto con le “verità” degli altri, allo scopo di verificarne l’effettiva minacciosità ed a sperimentare il rapporto interpersonale in una prospettiva più realistica ed adattiva. Il terapeuta deve rifiutare la logica di potere del paziente e polarizzare la sua attenzione sulle aspettative che egli ripone nella loro relazione: potrà così sperimentarne il ruolo di complice invece di quello di elemento ostile e scoprire i vantaggi della cooperazione da sostituire al vecchio stile competitivo. 179 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Più recentemente Sperry (2000, 2004), altro autore clinico che si è molto occupato dei Disturbi di Personalità, postula il bisogno di sviluppare un’ottica integrata per la comprensione e la psicoterapia di tali patologie. Inoltre l’Autore considera fondamentale che la terapia sia indirizzata sia all’aspetto caratteriale che temperamentale del paziente, condizione indispensabile per la sua efficacia. La distinzione tra i due aspetti dell’individuo, già ipotizzata da Cloninger e al. (1993, 2000) per la descrizione della personalità, intende che per definizione il temperamento sia riferito alle influenze genetiche e costituzionali, mentre il carattere sia relativo alle influenze apprese tramite il processo di socializzazione. Modello neurobiologico. Secondo questa prospettiva, i pattern di risposta comportamentale si sono evoluti come mezzi di adattamento a stimoli critici in funzione della sopravvivenza del singolo individuo e per la conservazione della specie. L’aggressione a scopo difensivo sarebbe ad esempio una risposta comportamentale adattiva al dolore e alla minaccia di distruzione. La connessione tra questi sistemi e degli stimoli critici sembrerebbe indicare che la struttura neurobiologica sottesa è strettamente integrata in circuiti cerebrali responsabili del riconoscimento del significato degli stimoli e dell’attivazione dei sistemi effettori e del comportamento motorio. Queste funzioni cerebrali sono state definite emozione o valutazione emotiva e espressione emotiva (LeDoux, 1987). Possiamo quindi considerare i sistemi comportamentali in termini più generali come sistemi emozionali. Un sistema emotivo specifico sarebbe quindi costituito da una determinata classe di stimoli, dalle emozioni e dalle motivazioni generate e dai pattern di comportamento espressi. Esisterebbero poi dei sistemi neurocomportamentaliemozionali generali caratterizzati da una motivazione di tipo incentivo-gratificazione e da sentimenti soggettivi di desiderio e positività che faciliterebbe il contatto tra animale e stimoli condizionati e incondizionati implicanti gratificazione e da cui il sistema stesso è attivato. Similmente, anche per quanto riguarda la personalità sono stati individuati dei fattori di ordine superiore, concepiti secondo strutture gerarchizzate, scomponibili in tratti di ordine inferiore, a loro volta suddivisibili in tratti di superficie. Sarebbe quindi possibile ipotizzare un’analogia tra strutture gerarchiche dei fattori di personalità e dei sistemi neurocomportamentaliemozionali generali, tale da far pensare a una condivisione di caratteristiche neurochimiche e neurobiologiche. Modello biopsicosociale. Questo modello postula che l’influenza dei fattori biologici, psicologi e sociali presi singolarmente non è sufficiente a spiegare perche i tratti sono amplificati nei disturbi. L’ipotesi è che solo l’ effetto cumulativo e interattivo di molti fattori di rischio possa spiegare come si sviluppino i Disturbi di Personalità. Questo stesso modello prende anche in considerazione l’influenza di fattori protettivi, cioè quelle influenze biologiche, psicologiche o sociali che rendono meno probabile lo sviluppo di un Disturbo (Paris, 1996) istrionico, dipendente o passivo-aggressivo di personalità. Gli individui borderline e istrionici hanno storie familiari di elevata reattività autonomica e mostrano ipersensibilità alle stimolazioni. Il bambino si sentirà perciò adeguato solo se il suo comportamento sarà esplicitamente approvato dagli altri e solo se può contare su un supporto sicuro. Nel caso del Disturbo Dipendente, le caratteristiche temperamentali del bambino susciterebbero un atteggiamento iperprotettivo nel genitore che fa sì che egli sviluppi un forte attaccamento e dipendenza che a sua volta lo limiterà nell’acquisizione delle abilità necessarie ad emanciparsi dalla 180 I Disturbi di personalità famiglia. I soggetti che svilupperanno un Disturbo Passivo Aggressivo tendono a esibire un temperamento irritabile, difficile da consolare che susciterà in chi si prende cura di loro atteggiamenti irregolari, oscillanti a loro volta tra il passivo e l’aggressivo. 12.3Trattamento Come abbiamo già riportato, le persone con Disturbi della Personalità hanno scarsa consapevolezza delle proprie caratteristiche disfunzionali, considerano normale il loro comportamento, e tendono ad attribuire agli altri la causa delle proprie difficoltà. Pertanto, di solito intraprendono una terapia su insistenza di altri (familiari o autorità istituzionali) ed in presenza di Disturbi classificati nell’asse I del DSM, quali Disturbi d’Ansia o dell’Umore. Trattare questi pazienti diventa una sfida per il clinico di qualsiasi orientamento poiché la terapia è spesso lunga e frustrante (Fleming, Pretzen, 1990). La strategia generale del trattamento cognitivo comportamentale prevede un intervento a più fasi, di seguito indicate. - Fase dell’aggancio. Come per qualsiasi terapia, è essenziale che il paziente creda nel terapeuta, si fidi di lui e lo accetti. In tal modo si può stabilire un’alleanza terapeutica ed il paziente si impegna a lavorare per il proprio miglioramento. Da parte sua, il terapeuta deve manifestare empatia, accettazione ed il ricorso al pronome “noi” per sottolineare la collaborazione, l’adesione ad un contratto che definisca le regole, l’impegno e gli obiettivi. - Analisi della struttura. Si tratta di comprendere la struttura disadattiva del paziente che si manifesta nel suo modo di pensare, di comportarsi, di provare emozioni, di affrontare le situazioni della vita e di rapportarsi con gli altri. Questa fase di assessment consente di individuare gli obiettivi e le specifiche tecniche d’intervento per raggiungerli. - Cambiamento della struttura. Lo scopo della terapia è l’abbandono della struttura disadattiva e l’adozione permanente di una modalità generalizzata che migliori la qualità della vita e riduca la sofferenza soggettiva. Sono previsti interventi strutturati che consentono l’acquisizione di specifiche attività (gestione della rabbia, controllo degli impulsi, gestione dell’ansia, problem solving, training assertivo …). - Mantenimento della struttura. Quando la nuova struttura diventa modalità costante nella vita del paziente, è necessario affrontare la fase della conclusione della terapia con particolare attenzione. Il processo di separazione dal terapeuta è molto delicato e potrebbe rievocare antichi schemi di abbandono. Pertanto, le eventuali difficoltà di separazione devono costituire oggetto d’intervento. - Prevenzione della ricaduta. A conclusione della terapia, è indispensabile lavorare sulla generalizzazione dei nuovi apprendimenti e sulla prevenzione della ricaduta. È importante che il paziente impari a riconoscere le situazioni per lui critiche ed i segnali di un aumento dello stress personale, in modo da poter mettere subito in atto tutte le strategie per affrontare le difficoltà ed evitare di scivolare verso una ricaduta. 181 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Sperry (2000) sottolinea come l’efficacia della terapia cognitiva dipenda dal livello di congruenza che si stabilisce fra le aspettative del paziente e quelle del terapeuta, relativamente agli obiettivi del trattamento. Le dimensioni temperamentali e gli eventuali Disturbi sull’Asse I devono essere trattati per primi, sia per ottenere risultati positivi che rinforzino il paziente ed il terapeuta al proseguimento del lavoro sia per rimuovere quegli ostacoli che renderebbero l’intervento sulla modificazione del carattere, cioè il lavoro cognitivo sugli schemi che tendono a riprodurre errori di pensiero, complicato e facilmente destinato al fallimento. Poiché il cambiamento implica il passaggio attraverso un periodo di “caos” ed i pazienti con DP tendono prevalentemente a mantenere un sistema di significati disfunzionale piuttosto che sentirsi preda di un “disordine privo di senso” (Di Maggio, Semerari, 2003), è opportuno focalizzare l’intervento sulle specifiche esigenze della persona e calibrarlo sulla base dell’effettiva gravità del Disturbo. Pertanto il trattamento dei Disturbi di Personalità risulta piuttosto complesso e la terapia cognitivo comportamentale impiega un’ampia gamma di tecniche, in funzione del tipo e della gravità del Disturbo. L’efficacia dell’intervento richiede il superamento dell’applicazione “standard” della terapia, prevedendone l’adattamento alle specifiche caratteristiche del singolo paziente ad opera di un terapeuta più esperto e con specifica preparazione. Secondo Sperry (2004), il trattamento dei Disturbi di Personalità non può essere generalizzato ma deve differenziarsi in base alla individualità del soggetto e alla severità della patologia. Certamente, la migliore concettualizzazione è per l’Autore in termini integrativi e biopsicosociali. In tali terapie, l’obiettivo centrale è quello di riuscire, attraverso il trattamento focalizzato sulle caratteristiche del temperamento e del carattere, ad indirizzare, fino a modificarlo, il disturbo di personalità in direzione di uno stile di personalità, rendendo così l’individuo più adattato all’ambiente circostante. 182 CAPITOLO 13 Disturbo borderline 13.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore ed una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da uno (o più) dei seguenti elementi: 1. sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono (Nota: non includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5) 2. un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione 3. alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili 4. impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate (Nota: non includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5) 5. ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante 6. instabilità affettiva dovuta ad una marcata reattività dell’umore (per es.: episodica intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore, e soltanto raramente più di pochi giorni) 7. sentimenti cronici di vuoto 8. rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (per es.: frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici) 9. ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress Beck e Freeman (1990) sostengono che gli assunti di base nell’individuo borderline, rinviando a temi di vulnerabilità, inaccettabilità, mancanza di potere, insieme a una visione del mondo come pericoloso e malvagio, lo fanno vacillare tra autonomia e dipendenza e 183 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica strutturano le sue modalità di pensiero in maniera dicotomica. La combinazione di questi elementi è alla base dei comportamenti e delle emozioni borderline: • • • • • • le manifestazioni di paura e di intensa rabbia immotivata; la sensazione di persona vulnerabile per una propria intrinseca fragilità; l’assenza di progettualità; la percepita condizione di abbandono al quale è destinato; la convinzione di essere una persona inaccettabile; il vissuto di vuoto ed i comportamenti autolesivi. Secondo Young (1990) gli schemi disadattivi avrebbero origini precoci. I più comuni sono quelli di abbandono e perdita e di deprivazione emotiva. Linehan (1993) individua alla base del Disturbo un deficit del sistema di regolazione delle emozioni, che di conseguenza vengono esperite con eccessiva intensità e si manifestano nel comportamento e nella comunicazione in maniera sproporzionata: le incomprensibili esplosioni di rabbia, il terrore immotivato di essere abbandonati, le rapide oscillazioni dell’umore, il caos che caratterizza le relazioni affettive, fino alle condotte autolesionistiche. L’abuso di droghe o di alcol, le abbuffate di cibo e gli altri comportamenti impulsivi sono considerati dall’autrice come tentativi di gestire se non addirittura di spegnere l’intensità dolorosa delle emozioni, ed allo stesso modo possono essere letti i fenomeni di estraneamento, le sensazioni di vuoto e di annullamento. Per spiegare l’origine di questo deficit del sistema di regolazione delle emozioni, Linehan fa riferimento al concetto di “invalidazione dell’esperienza emotiva”, secondo il quale la persona apprende ad attribuire scarso valore alle esperienze emotive proprie ed altrui ed a connotarle negativamente a causa del contesto relazionale in cui sviluppa la conoscenza di sé e degli altri. Da un punto di vista evolutivo, il modello della Linehan, può essere così spiegato: in presenza di condizioni ambientali invalidanti, il bambino non potrà sviluppare la capacità di scegliere e regolare qualitativamente e quantitativamente le sue risposte agli stimoli ambientali, non imparerà a tollerare gli stress emotivi, né riuscirà ad avere la sicurezza che le sue risposte emozionali corrispondano a una corretta interpretazione degli eventi e dell’ambiente. Da adulto si approprierà delle caratteristiche invalidanti da cui è stato circondato. Ciò comporterà un costante atteggiamento di sfiducia, svalutazione e invalidazione rispetto alle proprie esperienze emotive, marcata tendenza ad appoggiarsi agli altri per trarre indicazioni dal mondo esterno, tendenza alla semplificazione dei problemi della vita. Si tratta pertanto di individui portati a seguire obiettivi irrealistici, con crollo dell’autostima, fino all’odio di sé, in occasione di ogni fallimento. Non riuscendo a adottare strategie adeguate all’avvicinamento della meta finale, essi svilupperanno un senso di vergogna, come reazione a emozioni intense e incontrollabili ma anche come conseguenza del rapporto con un ambiente che guarda con sospetto chi manifesta vulnerabilità emotiva. 184 I Disturbi di personalità 13.2Trattamento Nel 2001 l’APA ha pubblicato le Linee guida per il trattamento dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità. Le indicazioni evidence-based proposte, pur presentando dei limiti, sono degne di nota per i seguenti motivi: 1) identificano la natura multidimensionale della patologia borderline; 2) raccomandano un approccio di trattamento flessibile, ma soprattutto “tagliato su misura” a seconda dei bisogni e delle aspettative del paziente; 3) evidenziano il valore dell’approccio combinato (farmaci e terapia); 4) forniscono indicazioni per il ricovero e la cura dei pazienti. Con questo tipo di pazienti si possono utilizzare formati terapeutici individuali, di gruppo, di coppia e varie sono le tecniche applicabili, a seconda dei diversi approcci considerati. La costruzione di una buona alleanza terapeutica è essenziale per ogni tipo di psicoterapia ma nel caso del paziente borderline la relazione ha un ruolo primario. Egli infatti ripropone nel rapporto con il terapeuta la stessa conflittualità che caratterizza le sue relazioni interpersonali, con marcata instabilità ed ambivalenza, che lo porta frequentemente ad abbandonare la terapia. Il clinico riveste il ruolo di “modello” da imitare ma spesso è investito di aspettative irrealistiche: può quindi essere idealizzato e subito poi svalutato, amato ed odiato, complice e rivale. Il paziente gli può delegare totalmente il proprio benessere ed arrivare altrettanto totalmente a svalutarlo al minimo comportamento che deluda le sue aspettative. Pertanto, nel trattamento di questo paziente il terapeuta dovrà curare particolarmente alcuni aspetti del proprio atteggiamento e della propria disposizione di base. In particolare: disponibilità alla flessibilità che gli permette di “seguire” il paziente nelle sue oscillazioni emotive; grande attenzione alle reazioni emotive che il paziente gli suscita ed alle proprie modalità di esprimerle, in considerazione della sua accentuata sensibilità ad interpretare i segnali non verbali della comunicazione; atteggiamento di grande accoglienza, tolleranza, assenza di giudizio e di qualsiasi tendenza a colpevolizzare o punire; disponibilità ad accettare i propri errori ed a modificare le proprie modalità di risposta; riconoscere i propri confini personali, anche in termini di tolleranza, e pretenderne il rispetto. In sostanza, chi si prende cura di un individuo borderline deve saper gestire il proprio equilibrio, proponendo stabilità e coerenza mentre riceve labilità e caos. L’obiettivo della terapia è la regolazione dell’emotività e la conseguente modificazione dello stile di vita e delle abilità. Questo richiede la capacità del paziente di riconoscere le proprie risposte emotive e di controllare le conseguenti espressioni comportamentali. Dopo aver costruito le premesse per un rapporto terapeutico basato sulla fiducia e sull’alleanza, si procede alla fase psicoeducativa del trattamento finalizzata all’acquisizione di competenze emozionali e relazionali che il paziente non possiede. Al trattamento comportamentale, che prevede Training di Abilità Sociali e di Autocontrollo, si associa utilmente quello farmacologico che agisce sugli aspetti biologici dell’instabilità affettiva e dell’impulsività. Sul piano cognitivo si focalizzano le aree disfunzionali e si identificano gli schemi maladattivi che frequentemente riguardano il valore personale, l’abbandono, la dipen185 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica denza, la deprivazione emotiva, l’incompetenza. L’intervento si avvale delle tecniche di Ristrutturazione Cognitiva. Un modello di intervento particolarmente efficace è quello definito “dialettico” (Linehan, 2001). La caratteristica fondamentale del metodo enfatizza il rapporto terapeutico in una cornice interpretativa della realtà come prodotto dell’equilibrio tra forze contrapposte. Non prevede infatti l’esistenza di una posizione valida in assoluto, né un punto di vista giusto o sbagliato ma al contrario le possibilità di cambiamento e di equilibrio si trovano proprio all’interno delle contraddizioni, delle diversità e delle sfide che la vita propone. Nella fase iniziale del trattamento l’attenzione è centrata sull’accettazione più che sul cambiamento, accettazione ed attribuzione di valore all’esperienza di vita, anche dolorosa e caotica, del paziente. Nel setting terapeutico il paziente sperimenta l’esperienza di un ambiente che gli riconosce il valore per come egli è e per tutte le potenzialità che possiede per il cambiamento. Solo successivamente, quando avrà accettato i propri stati emotivi, anche se sgradevoli o dolorosi, e sarà in grado di riconoscerli, l’intervento potrà orientarsi verso l’obiettivo del trattamento. In sintesi questo tipo di terapia prevede quattro modalità di trattamento: terapia individuale; training di abilità psicosociali che si focalizza principalmente su quattro moduli: abilità nucleari di mindfulness (consapevolezza), abilità di efficacia interpersonale, abilità di regolazione emozionale, tolleranza della sofferenza mentale/angoscia; • contatto telefonico: tra una seduta e l’altra è permesso contattare telefonicamente il terapeuta, anche se con le dovute limitazioni; • consulenza terapeutica. • • Linehan propone altresì un doppio setting terapeutico, individuale e di gruppo, con due diversi clinici che operano in stretta collaborazione. Sperry (2000) ha affermato che il trattamento del Disturbo Borderline, pur essendo attuabile, pone una delle sfide terapeutiche più ardue a causa della patologica, perdurante e pervasiva instabilità emotiva e comportamentale di questi pazienti. Una relativa efficacia possono averla i trattamenti psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 2 a 3 anni), interventi che rimangono comunque auspicabili. In estrema sintesi e facendo riferimento ad obiettivi molto generali, l’intervento con pazienti borderline consiste nell’aiutarli ad integrare ed a “modulare”: le sovramodulazioni emotive frequenti e debilitanti (stile affettivo); i comportamenti automutilanti e suicidi e le vunerabilità e deficit nelle relazioni sociali (stile interpersonale); la sovramodulazione del pensiero con uso massiccio dell’identificazione proiettiva su di una base di scarsa tolleranza allo stress emotivo/frustrazioni (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per la Consapevolezza e la Regolazione Emotiva, Training alle Abilità di Autogestione, per le Abilità Interpersonali ed Addestramento per la Consapevolezza Cognitiva e per la Tolleranza allo Stress Emotivo. Dal punto di vista della relazione ed alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità borderline possono manifestare atteggiamenti e comportamenti di resistenza/dipendenza (intensa ambivalenza), lo psicoterapeuta può 186 I Disturbi di personalità inizialmente creare un clima di confronto, stabilendo dei limiti con contratti terapeutici chiari e contenutivi. Pertanto, il trattamento psicologico di questa patologia mira, in una prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il repertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative ed in una seconda fase, a riorganizzare la struttura (abbandono/perdita; mancanza di valore; dipendenza; incompetenza) e i processi (scarsa stabilità e difficoltà ad arrivare all’integrazione di sé) che mantengono i comportamenti disfunzionali (deficit pervasivo riguardo una interdipendenza più stabile ed adattiva) al fine di ristabilire un equilibrio tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato. Altre modalità di trattamento Interventi strutturati di abilità sociali. È stato osservato che questa strategia di trattamento ha un effetto normalizzante dei comportamenti mediati dal sistema limbico (ad esempio impulsività, aggressività, labilità dell’umore), che riflettono i particolari deficit di abilità dei soggetti con DBP. Terapia cognitiva focalizzata sulle strategie di coping. Questo tipo di terapia rappresenta un approccio attivo, direttivo, didattico e strutturato per il trattamento degli individui con Disturbi di Personalità (Sharoff, 2002). Si tratta di un approccio che inizia con la valutazione delle abilità di coping presenti nel paziente e in seguito si concentra sull’incremento di abilità nelle aree che lo necessitano. Le cinque principali aree di intervento sono: abilità cognitive (problem-solving, training di autoistruzione e gestione di sé), abilità emotive (contenimento emotivo), abilità percettive (arresto del pensiero, mantenimento della prospettiva e presa di distanza psicologica), abilità fisiologiche (meditazione e training di rilassamento) e abilità comportamentali (comunicazione e training assertivo). Terapia degli schemi. Sviluppata da Young (1999) e Young, Klosko, Weishaar (2003), è un’elaborazione della terapia cognitiva, specifica per i Disturbi di Personalità e per altri problemi individuali e di coppia. Implica l’identificazione degli schemi disadattivi e la pianificazione di specifiche strategie nelle aree cognitiva, esperienziale, comportamentale e della relazione terapeutica. Gli schemi disadattivi nel Disturbo Borderline di Personalità sono i seguenti: abbandono, imperfezione, abuso/sfiducia, deprivazione emotiva, isolamento sociale, scarso autocontrollo. STABILIRE DEI LIMITI Questo intervento é finalizzato ad aiutare i pazienti a rendersi conto di quegli aspetti personali che li spingono a comportamenti dannosi per sé o per gli altri. Gli individui con Disturbi di Personalità hanno spesso difficoltà a mantenere le proprie azioni entro certi confini e a valutarne le conseguenze. Per questa ragione Stabilire dei Limiti é estremamente importante sia all’interno che all’esterno della terapia. L’intervento procede come di seguito illustrato. Il terapeuta presta attenzione e mette al centro dell’intervento una delle seguenti categorie comportamentali: comportamenti che interferiscono con il buon andamento della terapia (come arrivare in ritardo o non presentarsi agli appuntamenti o ritardare senza motivo 187 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica i pagamenti); comportamenti distruttivi verso se stessi o gli altri (come atti autolesionistici); comportamenti verbali inappropriati (come l’utilizzo di minacce, il parlare troppo o a vanvera); invasione della privacy del clinico (come telefonate inappropriate o troppo frequenti); azioni fuori luogo (comportamenti violenti, danneggiamenti, furti o ricerca di contatti fisici); mancato svolgimento dei compiti a casa. In secondo luogo, il terapeuta comincia a stabilire dei limiti, definendo il concetto stesso di limite. Tale concetto viene espresso nella forma di “Se...allora...” e lo specifico limite é formulato in modo neutro, non critico, né giudicante. Ad esempio, nel caso di una persona che, presentandosi e descrivendosi come abbiente e con notevole disponibilità economica, facesse richiesta al terapeuta di una riduzione del suo onorario o di un pagamento rateizzato il clinico, piuttosto che fare concessioni speciali al paziente, potrebbe spiegargli in modo preciso il proprio modo di gestire i pagamenti o, esprimendo dispiacere, essere disponibile ad aiutarlo a trovare la possibilità di un’alternativa di trattamento economicamente per lui più soddisfacente. In terzo luogo il terapeuta spiega il motivo per cui é necessario stabilire un limite. Nell’esempio precedente potrebbe far rilevare che non sarebbe conveniente neppure per il paziente accumulare debiti e trovarsi un conto assai elevato da pagare. In quarto luogo si stabiliscono assieme al paziente le conseguenze relative alla trasgressione o al superamento dei limite stabilito. Sempre riferendosi all’esempio, si potrebbe concordare la sospensione temporanea del trattamento in mancanza del pagamento di due sedute consecutive; il trattamento verrebbe poi ripristinato una volta estinto il debito. E necessario che il terapeuta sia particolarmente attento ad evidenziare ogni superamento del limite stabilito, poiché i pazienti, consapevolmente o meno, tendono facilmente a trasgredire. Affrontare la trasgressione o il superamento del limite vuoi dire far scontare al paziente le conseguenze di tale comportamento, discuterne l’impatto sul trattamento e sottolineare la possibilità del ripetersi di tale evenienza. TRAINING PER LA TOLLERANZA ALLO STRESS EMOTIVO Per Tolleranza allo Stress Emotivo si intende la capacità di percepire il proprio ambiente senza pretendere che sia differente da quello che è, di accettare il proprio stato emotivo senza tentare di cambiarlo e di osservare i propri pensieri e le proprie azioni senza tentare di bloccarli. Consiste, in definitiva, nell’abilità di tollerare e accettare le situazioni difficili. Di solito le personalità istrioniche e borderline, con un basso livello di funzionamento, hanno molta difficoltà a tollerare lo stress emotivo. Questo training ha l’obiettivo di aiutare il paziente a sviluppare strategie e abilità che gli permettano di sopportare meglio le crisi emotive e di accettare la vita attimo per attimo. Tale intervento risulta particolarmente utile per gli individui impulsivi e con forti sbalzi di umore ed è necessario prima di procedere con qualsiasi altro intervento. Inizialmente viene presentato ed illustrato dal terapeuta e successivamente è messo in pratica ed applicato nella vita reale dal paziente. Si tratta quindi di una tecnica sostanzialmente auto-gestita (self-management). L’intervento procede come di seguito illustrato. In primo luogo lo psicoterapeuta valuta l’abilità del paziente nel distanziarsi dai pensieri e dai sentimenti dolorosi e nel consolare se stesso di fronte alla solitudine, alla preoccupazione o allo stress emotivo. A seconda dei problemi evidenziati, il terapeuta può insegnare abilità di distanziamento o distrazione ed abilità concernenti la capacità di consolare se stessi. Se esiste un deficit di base nella capacità di distrazione, si può utilizzare l’Arresto del Pensiero o si può suggerire di distrarsi telefonando a qualcuno, guardando la televisione, ascoltando musica, facendo sport o confrontandosi con qualche persona che ha 188 I Disturbi di personalità problemi più gravi. Si può fare anche ricorso ad intense sensazioni come quelle causate dal tenere del ghiaccio stretto in una mano o dallo strisciare un pezzo di stoffa spessa e ruvida sui propri polsi; in questo modo si produce una sensazione dolorosa ma innocua che é in grado di deviare pensieri e impulsi autolesionisti, come il desiderio di tagliarsi le vene. Se esiste un deficit nella capacità di consolare se stessi, si può utilizzare la Respirazione Controllata (tecnica che consiste nell’inspirare assai profondamente e nell’espirare molto lentamente e completamente) o consumare i cibi preferiti e ascoltare musica rilassante. Le abilità di accettazione prevedono invece l’accettazione radicale (completamente con tutto se stesso), la scelta di accettare la realtà così come é e l’abbandono del desiderio di cambiamento a favore dell’accoglimento della realtà. 13.3Caso clinico Il caso di Diamante - “Lei è la mia ultima speranza” Diagnosi: Disturbo Ossessivo Compulsivo (sull’Asse I). Disturbo Borderline di Personalità (sull’Asse II). L’assessment è stato condotto solo sulla base dei colloqui perché non è stato possibile ottenere la collaborazione della paziente nella compilazione di questionari. Diamante ha 35 anni e si reca in terapia per un Disturbo Ossessivo Compulsivo di cui soffre da 20 anni ma che ultimamente si è accentuato. In particolare la donna si sente obbligata a raccogliere da terra qualsiasi cosa attiri la sua attenzione (capelli, pezzi di carta, rifiuti...) ed in casa a controllare ripetutamente che sia rispettata la disposizione prestabilita di oggetti ed indumenti. Nel corso degli anni si è sottoposta a numerose visite psichiatriche, con terapie farmacologiche che segue ancora oggi. Storia del caso Diamante è nubile e vive con i genitori. Diplomata, svolge lavori saltuari come commessa nei negozi. Ha una relazione stabile con un uomo molto più grande che per lei è fonte di sicurezza. Riferisce che altri suoi familiari soffrono di problemi psicologici: le sorelle, una di attacchi di panico e un’altra di bulimia, ed alcuni altri parenti di manie e ossessioni. Queste circostanze inducono la donna a credere che il suo disturbo sia ereditario e pertanto irrisolvibile. L’atteggiamento dei genitori nei confronti del problema della figlia rispecchia quello che verosimilmente ha caratterizzato da sempre il loro rapporto: mentre si preoccupano con ansia per il suo stato di salute, in realtà non intervengono in alcun modo per sostenerla ed aiutarla concretamente ma la lasciano in balia di se stessa e della sua incapacità di autoregolarsi. 189 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Diamante presenta una modalità di relazione instabile con le persone con le quali entra in rapporto: “gli psichiatri mi hanno curato bene” e “i medici mi hanno rovinato con tutte quelle medicine”; riferendosi al terapeuta “non so se lei è in grado di curarmi … non le interessa niente di me” e “lei si che mi sa capire … ma mi vuole bene?”. La sua impulsività si manifesta nella gestione del denaro che spende senza controllo, nella guida spericolata e nella promiscuità della sua vita sessuale. L’instabilità dell’umore le fa sperimentare momenti di intensa depressione, a volte rimane a letto per giornate intere, alternati con vissuti di profonda rabbia che fa fatica a controllare. Concettualizzazione e trattamento La richiesta della paziente era di aiutarla per il Disturbo Ossessivo Compulsivo che è stato quindi il primo obiettivo della terapia. Si è proceduto inizialmente ad un Intervento Psicoeducativo, attraverso il quale la paziente ha potuto conoscere le caratteristiche del Disturbo secondo il modello cognitivo comportamentale. Per bloccare la compulsione a raccogliere gli oggetti si è impiegata la tecnica della Prevenzione della Risposta e si è addestrata la paziente ad un Training di Rilassamento Respiratorio per controllare la risposta ansiosa. Con la tecnica dell’Arresto del Pensiero si è intervenuti per bloccare i pensieri ossessivi, motivando Diamante con la considerazione che trattandosi di pensieri illogici, piuttosto che contrastarli con il ragionamento razionale si poteva riconoscerne l’illogicità e bloccarli al loro comparire. Diamante ha appreso correttamente le tecniche ma la loro applicazione è stata subordinata all’umore del momento: quando decideva di applicarle otteneva risultati positivi ma nel caso in cui si sentiva depressa o in preda a crisi di rabbia, il pensiero ossessivo prendeva il sopravvento “no, è inutile, il pensiero è più forte di me”. La donna ha manifestato scarsa consapevolezza dei propri processi di pensiero e del rapporto tra cognizioni, emozioni e comportamento conseguente: lei “sente” o vuole agire in un certo modo e lo fa. Pertanto ha incontrato una certa difficoltà a comprendere il modello cognitivo. Dall’analisi dei pensieri sono emerse distorsioni logiche che evidenziano uno schema di profonda svalutazione di sé. Pensiero automatico Distorsione cognitiva Se non sono perfetta non vengo accettata Pensiero dicotomico Non ci riuscirò mai, sono un’incapace Ipergeneralizzazione Anche la pregnanza delle distorsioni cognitive è subordinata al tono dell’umore, e gli schemi di autosvalutazione si impongono come verità incontestabili nel caso in cui Diamante stia vivendo un momento di abbattimento. 190 I Disturbi di personalità Dopo due anni e mezzo di terapia, caratterizzata da alterne manifestazioni di attaccamento e distacco, ripensamenti ed un abbandono, Diamante ha acquisito padronanza nell’impiego delle tecniche comportamentali per gestire efficacemente le sempre meno frequenti manifestazioni d’ansia e sul piano cognitivo ha sviluppato una nuova consapevolezza dei propri processi di pensiero, anche se l’instabilità emotiva che la caratterizza continua a condizionare l’elaborazione cognitiva. 191 CAPITOLO 14 Disturbo istrionico 14.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV Un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da almeno cinque dei seguenti criteri: 1. è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione; 2. l’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente seducente o provocante; 3. manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale; 4. costantemente utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé; 5. lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli; 6. mostra auto-drammatizzazione, teatralità ed espressione esagerata delle emozioni; 7. è suggestionabile, cioè facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze; 8. considera le relazioni più intime di quanto non lo siano realmente. Gli individui con Disturbo Istrionico sono caratterizzati da un’emotività eccessiva e dalla continua ricerca di attenzione: si sentono a disagio quando non sono al centro dell’attenzione. Percependo l’approvazione degli altri come unica ancora di salvezza per il timore di essere abbandonati, avvertono una pressione costante ad utilizzare l’aspetto fisico per ricercare questa attenzione. Di conseguenza, si preoccupano eccessivamente di essere fisicamente attraenti, di impressionare gli altri per il loro aspetto e spendono una notevole quantità di tempo, energia e denaro per gli abiti e per le cure personali. Spesso temono l’invecchiamento e la degenerazione fisica, in quanto potrebbero far perdere loro l’unico strumento che conoscono per attirare gli altri a sé. Queste persone si 193 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica percepiscono soggettivamente come socievoli e piacevoli ed il loro aspetto e comportamento risultano frequentemente provocanti o apertamente seduttivi. In effetti, possono inizialmente affascinare le nuove conoscenze per il loro entusiasmo e la loro apertura ma quando la relazione continua tali qualità tendono ad indebolirsi, poiché questi individui sono considerati come eccessivamente esigenti e bisognosi di continue attenzioni e rassicurazioni. Nei loro tentativi di ottenere l’accettazione e l’approvazione degli altri possono usare approcci indiretti come la manipolazione, ma fanno ricorso anche a coercizioni o a minacce di suicidio, se metodi più sottili non sembrano avere successo. In particolare per quanto riguarda il rischio reale di suicidio, l’esperienza clinica suggerisce che, oltre alle più frequenti minacce, possano realizzare gesti suicidari finalizzati ad attrarre l’attenzione e a costringere gli altri ad occuparsi maggiormente di loro. Le emozioni degli individui istrionici sono espresse intensamente e appaiono esagerate, prive di spontaneità, false; chi sta loro vicino ha la sensazione di assistere costantemente ad una recitazione. Facilmente rispondono a eventi minimi con pianti incontrollati, rabbia, scoppi d’ira o collera, tanto da indurre gli altri ad accusarli di simulare i sentimenti. Possono avere difficoltà a raggiungere l’intimità emotiva in relazioni sentimentali o sessuali nelle quali, senza rendersene conto, spesso recitano un ruolo (ad es., la “vittima” o la “principessa”). Possono cercare di controllare il partner attraverso la manipolazione emotiva o la seduttività, mentre manifestano parallelamente una marcata dipendenza. Spesso compromettono le relazioni con gli amici dello stesso sesso perché il loro stile relazionale sessualmente provocante può essere da questi vissuto come una minaccia per i propri rapporti oppure a causa di pressanti richieste di costante attenzione. Le persone con questo Disturbo sono frequentemente intolleranti o frustrati dalle situazioni che prevedono una gratificazione posticipata e le loro azioni sono spesso dirette ad ottenere soddisfazione immediata. Sebbene inizino un lavoro o un progetto con grande entusiasmo quest’ultimo può rapidamente venir meno. 14.2 Trattamento La terapia del Disturbo Istrionico può risultare molto difficile ed il trattamento cognitivo comportamentale a medio e lungo termine (da 1 a 2 anni) si è dimostrato piuttosto efficace. Sperry (2000) ha proposto un intervento rivolto a facilitare l’integrazione delle caratteristiche di sensibilità ed espressività con quelle di concretezza ed energia al fine di imparare a “modulare”: le manifestazioni di superficialità ed esagerazione (stile affettivo); i comportamenti di incoerenza, di anassertività e di deficit di empatia e di effettivo calore umano (stile interpersonale); gli atteggiamenti impressionistici e globali caratterizzati da impulsività (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training: per la Consapevolezza Emotiva e Cognitiva, per l’Empatia e l’Assertività, per il Controllo degli Impulsi. Le caratteristiche di drammatizzazione, impulsività, seduttività e tendenza alla manipolazione (che include potenzialità suicidarie) possono compromettere la relazione 194 I Disturbi di personalità terapeutica ed è quindi necessario che il clinico sappia prevenire tale rischio discutendone con il paziente, sottolineando altresì i limiti del loro rapporto e delle rispettive responsabilità. Pertanto, nella terapia si individuano due fasi finalizzate rispettivamente a: modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il repertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative; riorganizzare la struttura (deprivazione emotiva e/o eccessiva considerazione di sé) e i processi (eccessiva emotività) che mantengono i comportamenti disfunzionali (mancanza di obiettivi a medio e lungo termine, deficit di auto-gestione e di effettiva interdipendenza) per ristabilire un equilibrio tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato. TRAINING PER IL CONTROLLO DEGLI IMPULSI Scopo di questo intervento é ridurre l’impulsività. La tecnica consente di aumentare le capacità di autocontrollo e viene inizialmente presentata dal terapeuta e successivamente applicata dal paziente nella realtà. L’intervento si articola in tre fasi: valutazione, addestramento e applicazione. In una prima fase il clinico analizza l’insieme dei pensieri e delle emozioni del paziente che causano comportamenti impulsivi dannosi per sé o per gli altri. Una volta compresa la relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti, il paziente può cominciare a cercare modalità alternative che gli permettano di ottenere gli stessi risultati con minori effetti negativi. In secondo luogo il clinico esamina assieme al paziente questi pensieri e sentimenti: per esempio, il paziente può tenere un diario dei pensieri e dei sentimenti associati a ciascun comportamento impulsivo. In terzo luogo il terapeuta insegna al paziente alcune risposte alternative, provocando una situazione alla quale quest’ultimo risponde di solito in modo impulsivo e aiutandolo a dilazionare la risposta - per periodi di tempo progressivamente più lunghi - tramite metodi cognitivi (contare fino a dieci prima di agire o parlare) o rilassamento muscolare. Una delle risposte alternative più comuni consiste nell’utilizzare metodi di distrazione sia interna sia esterna. Come distrazioni interne si utilizzano pensieri incompatibili con l’impulso (per es. “In realtà mi sto divertendo ed é meglio sorridere che adirarsi”); come distrazioni esterne si possono apportare modificazioni all’ambiente (per es. lasciare una stanza quando un genitore sta gridando, piuttosto che picchiarlo). In quarto luogo il clinico fornisce il feedback necessario per aiutare il paziente a padroneggiare le abilità apprese. Inoltre gli insegna ad utilizzare metodi di distrazione per neutralizzare i propri impulsi: per esempio, se il paziente é presente mentre il proprio padre è ubriaco può evitare di essere coinvolto in un litigio pensando a qualcosa di divertente per poi allontanarsi con una scusa. Infine, poiché il comportamento autolesivo può essere particolarmente grave, é essenziale per il terapeuta comprendere le motivazioni di tale condotta, approfondendo in particolare i pensieri e i sentimenti immediatamente precedenti la messa in atto del comportamento stesso: in questo caso il clinico può chiedere direttamente: “Cosa stavi tentando di ottenere con questa azione?”. I tentativi di suicidio, le automutilazioni e altri comportamenti autodistruttivi possono essere messi in atto per differenti motivi: punire qualcuno con cui il paziente è arrabbiato; punire se stessi o cercare sollievo dai sensi di colpa; distrarsi da emozioni intollerabili e così via. Una volta comprese le ragioni di una tale condotta il paziente può cercare mo195 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica dalità meno dannose e più adattive per conseguire i propri scopi: per esempio, é possibile impiegare piccoli atti di autolesionismo (farsi dei segni con una penna) al posto di azioni dalle conseguenze più gravi (tagliarsi le vene dei polsi). A loro volta, i piccoli atti autolesionistici saranno successivamente sostituiti con condotte più appropriate. Se vi è un’alta probabilità che il soggetto si procuri seri danni fisici e l’approccio descritto in precedenza non si è rivelato efficace, può essere necessaria l’ospedalizzazione al fine di offrire al paziente un po’ più di tempo per lavorare su questi problemi. TRAINING PER LA CONSAPEVOLEZZA E LA REGOLAZIONE EMOTIVA Per quei pazienti che normalmente soffrono di labilità di umore può essere utile apprendere abilità di regolazione emotiva. Tale tipo di addestramento può risultare di difficile realizzazione poiché i pazienti sono spesso convinti che per modificare le proprie emozioni avrebbero bisogno di cambiare la loro natura. I pazienti con questi problemi sono spesso cresciuti in ambienti dove gli altri mostravano un grande controllo delle proprie emozioni, non tollerando al tempo stesso l’incapacità di mettere in atto tale controllo. Di conseguenza, le persone con problemi di labilità emotiva non sono particolarmente motivate a guadagnare il controllo sulle proprie emozioni perché questo significherebbe disconfermare il proprio modo di essere e di sentire. Negli individui con forti sbalzi di umore l’esperienza di una qualsiasi emozione scatena delle risposte secondarie quali intense sensazioni di vergogna, ansia e rabbia. In realtà le emozioni da loro provate sono spesso adattive e appropriate al contesto: occorre perciò ridurre la frequenza delle risposte secondarie, permettendo ai paziente di esprimere emozioni in un ambiente protetto e non giudicante. In altre parole, la consapevolezza e l’accettazione delle proprie emozioni é essenzialmente una tecnica di esposizione. L’intervento procede come di seguito illustrato. Lo psicoterapeuta indaga le abilità complessive di regolazione emotiva del paziente e alcune abilità specifiche, come la capacità di identificare le emozioni, di modularle e di averne la consapevolezza. Successivamente il terapeuta delinea un piano di azione. L’addestramento può essere allestito in un contesto individuale o di gruppo; la situazione di gruppo é tuttavia preferibile: il gruppo infatti può fornire il supporto sociale ed il feedback non disponibili nel tradizionale formato terapeutico individuale. In una terza fase il terapeuta, indipendentemente dal formato del trattamento, insegna, modella e incoraggia le diverse, specifiche abilità che concorrono a regolare lo stato emotivo. Il primo passo della regolazione emotiva consiste nell’identificare e dare un nome alle diverse emozioni. L’identificazione di una risposta emotiva implica abilità di autoosservazione e capacità di descrivere accuratamente il contesto in cui l’emozione viene provata; infatti l’identificazione é molto più semplice se la persona è in grado di: a) b) c) d) osservare e descrivere l’evento che ha provocato la risposta emotiva; interpretare l’evento stesso; differenziare le diverse sensazioni provate (incluse quelle fisiche); descrivere gli effetti di tali sensazioni sul proprio funzionamento. Allo stesso modo la labilità emotiva può essere modulata controllando gli eventi che provocano gli sbalzi di umore o riducendo la vulnerabilità dell’individuo. I pazienti sono più esposti emotivamente se conducono una vita stressante: in questo caso, le persone dovrebbero essere aiutate a raggiungere un maggiore equilibrio nel proprio stile di vita ed a ridurre gli eventi stressanti. Questo risultato si ottiene migliorando l’alimentazione, il sonno, l’attività fisica, riducendo l’uso di sostanze stupefacenti ed incrementando il 196 I Disturbi di personalità livello di autoefficacia. Il raggiungimento di tali obiettivi é facile solo in apparenza e può comportare molte difficoltà: richiede infatti un approccio attivo e costante da parte del paziente fino all’ottenimento dei risultati voluti. Un altro modo per regolare la labilità emotiva consiste nell’aumentare il numero di circostanze positive nella vita del paziente: inizialmente si cerca di incrementare il numero di eventi positivi nella quotidianità per poi arrivare a dei cambiamenti più profondi che facilitino la naturale comparsa di aspetti positivi. Oltre ad aumentare il numero effettivo di circostanze positive é utile lavorare per far si che il paziente sia più consapevole delle cose positive che accadono e meno preoccupato che le stesse possano venire meno. La consapevolezza verso lo stato emotivo corrente si ottiene vivendo pienamente le emozioni senza giudicarle, inibirle, allontanarle o bloccarle. Si ipotizza cioè che l’esposizione ad emozioni stressanti e dolorose, in un ambiente che protegge da conseguenze negative, estinguerà la comparsa delle risposte secondarie. Un paziente che vive in maniera conflittuale l’aver esperito una determinata emozione ed a causa di questo giudica se stesso negativamente, provando di conseguenza colpa, rabbia o ansia, finirà con l’aumentare ulteriormente il proprio stato di malessere. Al contrario, la persona é più capace di tollerare il proprio stato emotivo se si astiene dal giudicarlo in modo negativo. Come ultima fase, terapeuta e paziente collaborano assieme perché quest’ultimo possa mettere in pratica le abilità di regolazione emotiva all’interno e fuori delle sedute. All’interno delle sedute l’uso del Role Playing può essere particolarmente utile per rinforzare le abilità acquisite dal paziente; per l’applicazione fuori dalle sedute è possibile identificare particolari situazioni in cui il paziente possa fare pratica. 14.3Caso clinico Il caso di Marialba - “Devo dominare la situazione” Diagnosi: Disturbo Istrionico di Personalità (sull’Asse II). Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto elevata. Riferite alcune manifestazioni depressive come scarsa motivazione a svolgere le attività e facile affaticabilità. Marialba ha 23 anni e lamenta problemi con lo studio nel quale non riesce ad applicarsi con costanza, ha difficoltà di concentrazione ed è indietro con gli esami. Soffre di insonnia e di diversi disturbi fisici. Chiede di “conoscere meglio alcune mie caratteristiche psicologiche, capire cosa mi sta succedendo perché sto troppo male”. Storia del caso Marialba è una studentessa universitaria che vive con la madre ed il fratello in quanto i genitori sono divorziati. Descrive un rapporto positivo con la madre e più conflittuale con il padre ed il fratello. I rapporti tra i genitori sono sempre stati difficili, con frequenti litigi ed incomprensioni reciproche. Anche il rapporto sentimentale che la ragazza ha da un anno con un coetaneo è piuttosto burrascoso e lei ritiene che lui debba accettare completamente il suo modo di essere e di fare: “…sono fatta così e se mi vuole si deve adeguare a me”. 197 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Concettualizzazione e trattamento La paziente riferisce difficoltà nel gestire alcuni stati d’animo negativi come frustrazione e rabbia. “Quando mi arrabbio sento la necessità di spaccare qualche oggetto e di sentirne il rumore mentre si rompe”. Riferisce che in occasione di un recente esame universitario nel quale il professore l’aveva ripresa per il suo comportamento durante la prova scritta “mi sono messa a piangere e a gridare che non avevo fatto niente ed ho abbandonato l’aula senza finire il compito”. Il primo obiettivo terapeutico si è focalizzato sulla gestione dell’emotività, iniziando da una conoscenza e discriminazione delle emozioni ed intervenendo con una Ristrutturazione Cognitiva. Si riportano le principali distorsioni logiche espresse da Marialba. - - - - “Devo dominare la situazione altrimenti mi sento in difficoltà”. “Mi va tutto male e quindi non valgo niente”. “Nessuno mi vuole bene veramente se no mi capirebbe subito”. “Se ricevo un complimento non ci credo, lo fanno per ipocrisia”. La paziente ha appreso a riconoscere il legame tra pensieri, emozioni e comportamenti ed ha iniziato a mettere in discussione le cognizioni disfunzionali individuate nelle emozioni negative e nelle condotte distruttive. Quando ha potuto sperimentare modi alternativi di pensare e di affrontare la realtà ha acquisito consapevolezza anche della natura dei propri disturbi fisici che, non avendo base organica, erano delle somatizzazioni che venivano rinforzate dalle conseguenze che producevano nell’ambiente relazionale, in particolare attenzioni ed interessamento da parte degli altri. Marialba presentava anche problemi relazionali, con condotte aggressive correlate con scarsa stima in se stessa che la spingeva a volersi imporre a tutti i costi con la forza. A seguito delle reazioni violente che agiva, provava spesso sensi di colpa. Attraverso un Training Assertivo ha acquisito le abilità di disarmo della collera e di gestione delle critiche, aumentando anche la propria tolleranza alle situazioni frustranti, capacità che aveva sempre ritenuto espressione di debolezza. Dopo otto mesi di terapia la paziente ha imparato ad affrontare in maniera adattiva alcuni aspetti della propria esistenza che costituivano il problema più urgente per lei, mantenendo tuttavia quelle caratteristiche di instabilità emotiva e di enfatizzazione dell’espressione delle emozioni sulle quali era però maggiormente in grado di esercitare una forma di controllo. 198 CAPITOLO 15 Disturbo narcisistico 15.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV Un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. ha un senso grandioso di importanza (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore senza una adeguata motivazione) è assorbito da fantasie di illimitato successo, potere, fascino, bellezza e di amore ideale crede di essere speciale e unico e di dover frequentare e di poter essere capito solo da altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata richiede eccessiva ammirazione ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè l’irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative sfruttamento interpersonale, cioè si approfitta degli altri per i propri scopi manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri è spesso invidioso degli altri o crede che gli altri lo invidino mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi Beck, Rush, Shaw ed Emery (1979) fanno riferimento alla “triade cognitiva” per riferirsi agli schemi disfunzionali che caratterizzano la visione di sé, del mondo e del futuro del paziente con Disturbo Narcisistico. Nella percezione di se stesso egli si concentra esclusivamente sulla gratificazione personale e si considera unico, speciale, eccezionale; ritiene che tutto gli sia dovuto e si aspetta dagli altri continua attenzione, rispetto, obbedienza e forte ammirazione; il futuro è finalizzato alla realizzazione grandiosa di successo illimitato, potere, fascino ed amore ideale. 199 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica I pazienti con questo Disturbo possono presentare alcuni aspetti comportamentali che ne caratterizzano lo stile. Si tratta generalmente di persone molto attente e ricercate nella cura della propria forma fisica e nel modo di vestire. Parlano volentieri di sé, facendo frequentemente riferimento alle proprie doti e talenti, e si aspettano un’ammirazione ed una considerazione speciale ed esclusiva anche da parte del terapeuta che tentano di manipolare per ottenere una prova della loro grandiosità ed unicità. Nel rapporto con il terapeuta esprimono commenti ed interrogativi sulle sue capacità professionali, poiché si ritengono meritevoli delle cure migliori, ed hanno aspettative molto elevate sull’efficacia del trattamento in tempi brevi. Per questo motivo, spesso sperimentano un sentimento di delusione per la mancata realizzazione di obiettivi irrealistici e di conseguenza frequentemente arrivano ad interrompere il trattamento. A volte il terapeuta viene adulato con intenti manipolativi e se non interpreta questi atteggiamenti come espressione della psicopatologia, ma ne rimane gratificato e lusingato, arriva a compromettere il percorso terapeutico. In altri casi questi pazienti possono provocare nel clinico elevati livelli di frustrazione, non impegnandosi nella realizzazione dei progetti concordati perché convinti di meritare “ben altri trattamenti” dal terapeuta, ed indurlo a ritenere che gli atteggiamenti ed i comportamenti riscontrati siano troppo radicati per poter essere modificati. Per superare queste difficoltà è necessario provare ad identificare alcuni obiettivi più facilmente raggiungibili e programmabili a breve termine, in modo da poter ottenere cambiamenti positivi in tempi rapidi, come ad esempio focalizzarsi su una convinzione specifica espressa in un contesto particolare oppure aiutare il paziente ad essere maggiormente consapevole dei sentimenti che una persona a lui cara può aver provato trovandosi in una precisa situazione. Le relazioni sociali del paziente con Disturbo Narcisistico sono spesso caratterizzate da forti tensioni in quanto la vulnerabilità della sua autostima lo rende molto sensibile alle critiche altrui ed alle frustrazioni: anche se può non mostrarlo esteriormente, la critica gli provoca un’umiliazione ed un avvilimento che lo inducono a reagire con sdegno o rabbia oppure a contrattaccare con insolenza. In generale, i rapporti interpersonali sono compromessi dalle eccessive pretese, dalla necessità di ammirazione e dal relativo disinteresse per la sensibilità degli altri, con mancanza di empatia ed incapacità di riconoscere i loro sentimenti. Le relazioni sociali sono basate prevalentemente sul principio della convenienza e dello sfruttamento dell’altro: difficilmente il narcisista dona qualcosa in modo completamente disinteressato. Può esservi la tendenza a non instaurare legami affettivi seri ed importanti in quanto nessuno viene valutato sufficientemente positivo per sé e, nel caso in cui si stabiliscano relazioni sentimentali, sono frequenti separazioni e rotture. Il partner deve essere una figura ideale, con requisiti ad alti livelli nell’aspetto fisico, nella condizione socio economica e nella personalità: in caso contrario, difficilmente l’altro è oggetto di interesse. Tuttavia, all’interno della coppia entra spesso in competizione con il partner, in particolar modo se i suoi successi sono superiori ai propri. Anche il rapporto professionale è condizionato dal proprio ruolo di centralità: il lavoro viene usato come strumento per mettere in evidenza le proprie capacità, allo scopo di ottenere un riconoscimento personale. Il narcisista ritiene di non dover essere assegnato allo svolgimento di mansioni troppo semplici rispetto alle alte competenze che crede di possedere, è poco tollerante nei confronti dell’autorità ed esprime marcati sentimenti di insofferenza quando si trova a ricoprire posizioni professionali subordinate. 200 I Disturbi di personalità 15.2Trattamento Generalmente, il paziente con Disturbo Narcisistico richiede un intervento di psicoterapia solo quando i suoi problemi relazionali hanno raggiunto livelli significativamente invalidanti oppure a seguito dello sviluppo di un disturbo di tipo ansioso o depressivo. In particolare, quest’ultimo è assai frequente in quanto la presenza di aspettative grandiose e di fantasie di successo illimitato rimangono costantemente inappagate, generando un costante sentimento di frustrazione. Il narcisista può manifestare un atteggiamento di resistenza alla valutazione diagnostica, in quanto tende a non accettare che il proprio problema, che egli considera unico e speciale, venga classificato come ordinario e sia comune anche ad altri. Nel trattamento del Disturbo si focalizzano due obiettivi generali. 1. Trattamento del disturbo specifico presentato, finalizzato alla risoluzione dei sintomi lamentati. Si tratta di un lavoro a breve termine. 2. Modificazione dello stile di vita del paziente, attraverso un intervento di Ristrutturazione Cognitiva che, riducendo progressivamente le cognizioni disfunzionali, consenta di acquisire alternative di comportamento più adattive. Questo lavoro a lungo termine è rivolto al trattamento di aspetti caratteristici dello stile cognitivo, affettivo e comportamentale della persona narcisista. Questa infatti utilizza spesso una modalità di pensiero di tipo dicotomico, categorizzazione nei termini di “tutto o niente”, oscillando spesso tra due estremi: da una visione totalmente positiva di sé ad una drasticamente negativa. Nel confronto con gli altri, amplifica irrazionalmente le diversità, collocandosi o in una posizione di netta superiorità o in condizione di incolmabile inferiorità. Nel corso della terapia si opera una ristrutturazione cognitiva dell’eccessivo senso di grandiosità del paziente in modo che egli possa, attraverso l’assunzione di convinzioni alternative, attribuire a se stesso un livello di importanza più obiettivo e realistico e riconoscere analoghe caratteristiche negli altri. L’intervento sull’ipersensibilità alla valutazione si avvale della tecnica di Desensibilizzazione Sistematica, con una gerarchia di esposizioni graduali al feedback degli altri. Si procede iniziando con il confronto con un riscontro positivo e si prosegue verso altri progressivamente sempre più critici e negativi. Durante l’esposizione, il paziente ha il compito di riflettere sui propri pensieri e sulle interpretazioni disfunzionali e catastrofiche, ristrutturandoli in una direzione più realistica ed adattiva, nonché sulla propria modalità di reazione emotiva. Il fine ultimo è lo sviluppo di nuove abilità che gli consentano inizialmente di tollerare e successivamente di beneficiare delle valutazioni altrui e di poter mantenere una visione positiva di sé indipendentemente dalle osservazioni espresse dagli altri. L’intervento sulla modificazione dell’atteggiamento di eccessiva attenzione alle valutazioni ed ai giudizi utilizza tecniche di Blocco del Pensiero e di Distrazione. Nel trattamento del Disturbo si prevede un intervento per accrescere l’empatia verso gli altri. Il paziente inizia a prestare attenzione alla propria mancanza di empatia con l’aiuto del terapeuta che gli pone interrogativi circa il riconoscimento dei senti201 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica menti altrui. Attraverso l’utilizzo del Role Playing con inversione di ruolo, il paziente può attivare gli schemi cognitivi relativi ai sentimenti ed alle reazioni emotive degli altri, enfatizzando quali emozioni essi potrebbero provare in determinate circostanze. Egli viene invitato a riflettere e discutere sulla possibilità di modi alternativi di relazionarsi, ad esempio provando a cedere il posto a qualcuno, a complimentarsi con una persona per qualcosa … Per motivarlo a questo lavoro a lungo termine, può risultare facilitante l’impiego di una lista di problemi specifici lamentati dal paziente che consenta di concentrare il trattamento su situazioni ben definite. Secondo Sperry (2000) il trattamento del Disturbo Narcisistico è difficile ed inizialmente può risultare complesso, al punto da configurarsi come una sfida per il terapeuta, a causa del pervasivo atteggiamento di ipervalutazione di sé del paziente affetto da questa patologia. Di sicura efficacia risultano gli interventi psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 1 a 3 anni), che sono altamente consigliabili. Sinteticamente e riferendoci ad obiettivi generali, la terapia con pazienti narcisisti consiste nell’affiancarli nell’integrare e “modulare”: le frequenti e visibili manifestazioni della c.d. “collera narcisistica” (stile affettivo); i comportamenti interpersonali caratterizzati da profondi deficit di atteggiamento empatico (stile interpersonale); un utilizzo diffuso e disfunzionale di distorsioni cognitive, del meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva; una continua ipervigilanza (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per la Gestione della Rabbia, Training per l’Empatia ed Addestramento per la Consapevolezza Cognitiva e per la Riduzione della Sensibilità Interpersonale. Dal punto di vista della relazione ed alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità narcisistica possono manifestare atteggiamenti e comportamenti di attacco e di resistenza se non vedono soddisfatte le proprie aspettative e non vengono date conferme al loro sé, il clinico può minimizzare le proteste o le lamentale del paziente, fornendogli delle interpretazioni funzionali. In generale, quindi, il trattamento psicologico del Disturbo Narcisistico mira, in una prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il repertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative e, in una seconda fase, a riorganizzare la struttura (eccessiva considerazione di sé, mancanza di autocontrollo, propensione alla sfiducia e all’abuso verso gli altri) ed i processi (bassa consapevolezza e scarsa sollecitudine verso i bisogni degli altri) che mantengono i comportamenti disfunzionali (deficit pervasivo di empatia) al fine di ristabilire un equilibrio tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato. TRAINING PER LA GESTIONE DELLA RABBIA Lo scopo di tale intervento è diminuire l’attivazione emotiva e le manifestazioni di ostilità dell’individuo, aumentando allo stesso tempo la capacita di esprimere tali energie in modi più accettabili socialmente. Si tratta di un intervento sostanzialmente direttivo che può essere applicato in un formato individuale oppure di gruppo. Le abilità acquisite vanno poi messe in pratica nella realtà. Naturalmente un rapporto collaborativo tra terapeuta 202 I Disturbi di personalità e paziente può aumentare la motivazione e la compliance di quest’ultimo. L’intervento procede come di seguito illustrato. Inizialmente il clinico informa il paziente sui quattro fattori responsabili della risposta di rabbia: a) situazioni ad alto rischio (fattori esterni come persone, luoghi o momenti del giorno che possono suscitare rabbia o risentimento); b) fattori interni (sensazioni, sentimenti, sindrome da astinenza o livello di stress che possono rendere piú vulnerabile l’individuo alla reazione collerica); c) dialogo interno (pensieri, immagini o convinzioni specifiche che possono scatenare reazioni di rabbia o rendere la persona più vulnerabile alla rabbia stessa); d) strategie di coping che possono aumentare o diminuire gli effetti dei fattori precedenti. In secondo luogo il terapeuta aiuta il paziente a identificare nella propria vita le circostanze in cui si presentano i quattro fattori e viene compilata una lista contenente le situazioni che più tipicamente scatenano rabbia. Per esempio, il clinico chiede al paziente di descrivere un episodio recente in cui ha manifestato rabbia e lo guida nell’individuare e discriminare gli aspetti relativi ai quattro fattori. Riportiamo un caso a titolo di esempio. Un paziente era stato denunciato dalla moglie dopo averla percossa: - - - - dopo aver bevuto molti alcolici in un bar, egli decise di tornare a casa con la sua moto, rischiando più volte un’incidente grave (circostanza ad alto rischio); aveva avuto una giornata lavorativa molto pesante e frustrante, era sotto gli effetti dell’alcol ed era di pessimo umore poiché era andato incontro ad un umiliante insuccesso professionale (fattori interni); aveva pensato: “Perché capitano tutte a me?” e “Nessuno può permettersi di mortificarmi così mentre esercito e passarla liscia” (dialogo interno); trattandosi di una persona molto suscettibile alle critiche ed alle limitazioni e facile all’arrabbiatura (strategie di coping), di fronte all’“incomprensione” della moglie, totalmente in preda alla collera, passò alle vie di fatto. La terza fase consiste nell’invitare il paziente a riportare per iscritto ogni episodio in cui ha provato collera, ad identificare i quattro fattori ed i comportamenti messi in atto (nell’esempio precedente, gridare e strattonare violentemente la moglie). Vengono quindi cercate delle analogie tra i vari episodi accaduti e gli specifici deficit nelle strategie di coping (nell’esempio precedente, era più probabile che il paziente si arrabbiasse quando era stanco, dopo una giornata di lavoro non gratificante e/o dopo aver bevuto). Nella quarta fase si cercano alternative alle situazioni ad alto rischio (nell’esempio precedente, se il paziente aveva bevuto, poteva prendere un taxi o farsi accompagnare a casa) e piani di azione per ridurre l’influenza dei fattori interni (quando si é molto stanchi o stressati é meglio evitare di fare richieste pressanti o creare polemiche dannose e non funzionali). Nella quinta fase lo psicoterapeuta allena il paziente ad un dialogo interno più efficace nel gestire i propri scatti di collera (nell’esempio precedente, “È davvero brutto ed inutile che io abbia aggredito mia moglie, ma farò del mio meglio per evitare che riaccada”). Infine, il clinico insegna al paziente Tecniche di Rilassamento (respirazione controllata) e Distrattive (contare fino a dieci nel momento in cui si sente contrastato) e altre modalità di Coping (per es. comunicazione assertiva) come valide alternative alle reazioni di rabbia. 203 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica TRAINING PER LO SVILUPPO DELL’EMPATIA In questo intervento viene chiesto al paziente di esprimere ciò che ha compreso riguardo il punto di vista ed i sentimenti di qualcun altro. Tale visione è direttamente confrontata con l’altro individuo per essere eventualmente corretta. Si verifica anche in che misura il paziente é consapevole dell’impatto delle proprie azioni o parole sugli altri (specie se queste suscitano dolore o rancori) e delle aspettative degli altri sul tipo di comportamento da mettere in atto. Il Training per lo Sviluppo dell’Empatia é particolarmente comune per contrastare la proiezione e la scissione, favorendo una maggiore consapevolezza circa i sentimenti e i pensieri altrui. Le capacità empatiche, infatti, facilitano un rapporto costruttivo con l’altro ed una migliore capacità di risolvere i problemi. Tra i diversi approcci ideati per lo sviluppo dell’empatia, quello centrato sulle relazioni interpersonali ha dimostrato di essere particolarmente efficace e breve, non più di 3-4 sedute, per i Disturbi di Personalità (incluso il Disturbo Narcisistico), specialmente se inserito all’interno di una terapia di coppia. L’intervento procede come di seguito illustrato. In primo luogo il clinico valuta il grado in cui il paziente possiede e utilizza le seguenti abilità empatiche: ascolto attivo, interpretazione dei segnali interpersonali, risposta empatica. In secondo luogo il terapeuta, tramite Modellamento, istruisce il paziente su queste abilità fino a quando egli non cominci a mostrare capacità di ascolto e risposte empatiche. Successivamente il terapeuta incoraggia il paziente ad utilizzare le abilità empatiche con l’altro elemento della coppia partendo da argomenti neutri, proseguendo con gli aspetti positivi della relazione per poi arrivare ai conflitti. In pratica. lo psicoterapeuta esorta il paziente ad affrontare i propri punti deboli ed a riconoscere i propri bisogni mascherati dalle difese narcisistiche, incoraggiandolo a ricorrere all’uso dell’ascolto empatico ed all’espressione degli autentici sentimenti provati. Inizialmente il paziente tende ad esperire ed esprimere la propria vulnerabilità sotto forma di rabbia, critiche e biasimo; l’ascolto empatico diventa un mezzo a sua disposizione per calmare le proprie reazioni istintive e per scollegare le emozioni provate dai comportamenti dannosi scatenati da queste emozioni. In quarto luogo, con questo training viene insegnata al paziente l’auto-osservazione della propria reattività emotiva. I pazienti spesso riferiscono che ascoltare e rispondere empaticamente li fa sentire maggiormente di sostegno agli altri. Essi scoprono anche che quando le emozioni sono accuratamente osservate ed espresse con una consapevolezza maggiore, tenendo conto anche del significato dell’emozione stessa, esse tendono a mutare o ad estinguersi rapidamente. Per esempio, un individuo può sentirsi arrabbiato molto a lungo se non presta attenzione a tale emozione, al suo significato ed ai desideri che essa può rivelare. Se invece egli si pone in un atteggiamento di osservazione e comprensione verso il proprio stato emotivo, è facile che avvenga un cambiamento a livello affettivo, cognitivo e comportamentale. TRAINING PER LA CONSAPEVOLEZZA COGNITIVA Con questo intervento si vogliono ridurre i sentimenti di rabbia e frustrazione, le tendenze proiettive e le distorsioni cognitive tipiche dei narcisisti. Una maggiore consapevolezza ed attenzione verso le proprie distorsioni cognitive e le proprie aspettative irrealistiche per diminuire la tensione, lo stress e l’aggressività; per questo motivo il Training di Consapevolezza Cognitiva è particolarmente indicato per i Disturbi di Personalità. Anche se l’intervento è introdotto dal terapeuta, esso é sostanzialmente autogestito dal paziente a cui é richiesto molto esercizio al fine di raggiungere un buon livello di padronanza. L’intervento procede nel seguente modo. 204 I Disturbi di personalità Per prima cosa il clinico analizza il tipo di problema, poiché l’intervento varia a seconda che sia applicato a un problema di frustrazione, di proiezione o di distorsioni cognitive. Se il problema è il sentimento di frustrazione o l’atteggiamento proiettivo, il training si concentra sulle relazioni sociali che rappresentano fonti di conflitto per l’individuo. Lo scopo è far comprendere al paziente la relazione tra il comportamento altrui (che egli pensa essere causa dei propri problemi) e l’irragionevolezza delle proprie aspettative. Questo vuole dire cercare che cosa esattamente nel comportamento dell’altro ha provocato la frustrazione, il risentimento o il dolore ed identificare allo stesso tempo quali aspettative sono state deluse. L’essenziale è che il terapeuta assista il paziente nel differenziare le aspettative ragionevoli da quelle irragionevoli. La mancata differenziazione tra le aspettative è fonte della frustrazione tipicamente provata dai narcisisti. Se il problema riguarda le distorsioni cognitive, il clinico si focalizza sui pensieri e le immagini del paziente associati con l’inizio e l’esacerbazione del conflitto. Il terapeuta analizza l’esperienza interiore del paziente nel momento in cui la rabbia comincia a salire: che cosa pensava, cosa si diceva e quali immagini aveva il paziente nel momento in cui il contrasto con l’altro iniziava a degenerare? Prestando attenzione a queste cognizioni, l’individuo può diventare maggiormente consapevole di molti pensieri e percezioni irrazionali che in precedenza erano al di fuori della sua consapevolezza. 15.3Caso clinico Il caso di Barto - “Non credo che la mia personalità possa essere definita con tre parole” Diagnosi: Disturbo Narcisistico di Personalità (sull’Asse II). Dal CBA 2.0 scale primarie: non si rilevano punteggi significativi in nessuna delle scale. Barto ha 30 anni e chiede la psicoterapia perché “sono sempre agitato e in tensione”. Non identifica un momento d’inizio del problema ma dice di soffrirne da pochi mesi. Lamenta tachicardia, sudorazione e tremore agli arti superiori. Storia del caso Barto lavora come impiegato presso uno studio commerciale e vive con i genitori con i quali ha un buon rapporto. Ha interrotto gli studi universitari per timore di non riuscire come gli altri: “Mi sono trovato a dovermi confrontare con ragazzi molto preparati … mentre preparavo gli esami pensavo che qualcun altro comunque sarebbe stato più bravo di me”. Ritiene di avere doti e capacità eccezionali: “Qualsiasi cosa decido di fare mi riesce bene, non c’è niente che non sono in grado di fare bene a meno che non mi interessa e per questo non mi ci impegno”. Riferisce di non avere rapporti sociali soddisfacenti perché “molte persone sono deboli o cattive … e con i colleghi non c’è possibilità di relazione perché loro riconoscono che sono più bravo ma non lo ammettono”. Le difficoltà nel rapporto interpersonale gli suscitano frustrazione con emozioni di rabbia ed alimentano la considerazione narcisistica di se stesso e svalutante degli altri. 205 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Concettualizzazione e trattamento Le caratteristiche del Disturbo Narcisistico hanno influito negativamente sulla compliance alla terapia in quanto il paziente ha assunto un atteggiamento critico e svalutante, ritenendo poco probabile che lui potesse avere caratteristiche di personalità riscontrabili anche in altre persone: “Non mi riconosco nelle caratteristiche descritte come comuni anche ad altre persone e poi io sono unico”. La posizione di superiorità attribuitasi rispetto agli altri è stata inizialmente mantenuta anche nei confronti del terapeuta verso il quale sembrava prevalere un atteggiamento di sfida teso a squalificare piuttosto che a collaborare. Tuttavia si è proceduto con esiti positivi alla definizione di obiettivi comuni, concettualizzati in termini di problemi scatenanti le sue manifestazioni di ansia. Barto ha identificato i problemi di relazione come motivo di tensione e su quest’area si è dichiarato disposto a lavorare. Ha accettato di sperimentare convinzioni alternative a quelle che sostenevano la sua visione degli altri: “anche le altre persone hanno aspetti positivi”, “anche gli altri hanno opinioni da ascoltare”, “anche gli altri hanno bisogni da soddisfare”… Per ciascuna convinzione proposta il paziente ha prodotto esempi concreti che ricavava personalmente nell’esperienza quotidiana di relazione interpersonale. Particolarmente utile è risultata l’analisi delle caratteristiche obiettive delle persone con le quali veniva a contatto, in termini di abilità/pregi in alcune aree e difficoltà/difetti in altre. Questo gli ha consentito di “normalizzare” la visione di sé in rapporto agli altri, ha potuto riscontrare di avere anche aspetti in comune con loro, arrivando a riconoscere che “uno non può essere superiore o migliore in tutto e cercando di dimostrare di essere sempre il migliore ho compromesso i miei rapporti”. Un altro aspetto importante del Disturbo di Barto era l’ipersensibilità al giudizio e per ridurla si è proceduto con un compito di esposizione alla valutazione degli altri. Il paziente doveva chiedere opinioni su di sé e registrare i pensieri e le emozioni che queste gli suscitavano. Con l’utilizzo del Role Playing il paziente ha acquisito consapevolezza circa le conseguenze negative del proprio modo di porsi nei confronti altrui ed ha sviluppato un relativo grado di empatia: “Certo che con queste parole ferisco veramente, capisco come si può sentire…”. La terapia si conclude dopo undici mesi perché Barto riferisce di sentirsi più tranquillo e di aver migliorato i propri rapporti con i colleghi di lavoro, nei confronti dei quali continua a mantenere atteggiamenti competitivi ma con un grado di consapevolezza che ne consente la riduzione sia in termini quantitativi che di intensità. 206 CAPITOLO 16 Disturbo evitante 16.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV A. Un quadro pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza ed ipersensibilità al giudizio negativo, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale, perché teme di essere criticato, disapprovato o rifiutato; è riluttante nell’entrare in relazione con persone se non sia certo di piacere; è inibito nelle relazioni intime per il timore di essere umiliato o ridicolizzato; si preoccupa di essere criticato o rifiutato in situazioni sociali; è inibito in situazioni interpersonali nuove per sentimenti di inadeguatezza; si vede socialmente inetto, non attraente o inferiore agli altri; è insolitamente riluttante ad assumere rischi personali o ad ingaggiarsi in qualsiasi nuova attività, poiché questo può rivelarsi imbarazzante. Nell’accertamento di questa patologia è necessaria una diagnosi differenziale con i Disturbi: - - - - - Fobia Sociale, nel quale l’evitamento sociale non è generalizzato ma circoscritto a specifiche situazioni; Attacchi di Panico e Agorafobia, dove l’evitamento non ha esordio precoce ma è successivo all’esperienza di panico; Schizoide e Schizotipico di Personalità, dove l’evitamento sociale è un’esigenza pervasiva con l’assenza del desiderio di entrare in relazione con l’altro; Paranoide di Personalità, nel quale la riluttanza a fidarsi degli altri non è dovuta al timore dell’imbarazzo o dell’inadeguatezza ma alla loro supposta malevolenza; Dipendente di Personalità, poiché gli individui evitanti possono diventare dipendenti da quelle poche persone con le quali riescono ad instaurare un rapporto di amicizia. 207 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Una descrizione della personalità evitante può essere quella di un individuo che di fronte ad una minima provocazione o anche in assenza di un tale stimolo sente che gli altri lo disprezzano, non lo prendono sul serio, non desiderano la sua compagnia o lo trascurano. Il suo auto disprezzo lo rende profondamente incerto riguardo agli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti. Non essendo in grado di accettarsi così come è, non può in alcun modo credere che gli altri, conoscendo tutti i suoi difetti, possano accettarlo con spirito amichevole o elogiativo. Nel 1981, Millon rileva che individui con “Personalità Evitante” mantengono una vigilanza costante per timore che i propri impulsi e desideri d’affetto possano essere causa di ripetute esperienze dolorose ed angosciose, in passato già sperimentate con altri. In una prospettiva biosociale (Millon, Everly, 1985; Millon, Davis, 1996), l’origine e lo sviluppo del Disturbo Evitante sono correlati con fattori ambientali e biogenetici. L’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico, che determina l’ipervigilanza, comporta che impulsi anche irrilevanti possano interferire con i normali processi di pensiero, elementi di disturbo nelle associazioni logiche. Dal punto di vista ambientale, le esperienze del rifiuto da parte dei genitori e del gruppo dei pari rappresentano importanti influenze eziologiche che compromettono negativamente il proprio senso di valore e competenza e comportano critiche negative verso se stessi. Ne conseguono: una restrizione delle esperienze sociali, che non favorisce lo sviluppo di adeguate abilità relazionali e la possibilità di ricevere risposte positive dagli altri; una ipersensibilità alla critica che, associata all’ipervigilanza, induce ad interpretare come rifiuto di sé anche atteggiamenti non obiettivabili in tal senso; una accentuata introspezione. Beck e Freeman (1993) hanno proposto un profilo cognitivo per il Disturbo Evitante caratterizzato da un concetto di sé inadeguato, senza valore, socialmente inetto ed incompetente, vulnerabile al rifiuto e da un concetto degli altri come critici, disinteressati o umilianti. Il paziente con questo Disturbo utilizza una strategia di evitamento delle situazioni in cui può essere valutato (evitamento comportamentale) e di pensieri spiacevoli associati con emozioni negative intollerabili (evitamento cognitivo). Emotivamente prevale la disforia conseguente alla consapevolezza dell’impossibilità di stabilire relazioni sociali ed intime soddisfacenti, pur desiderando il rapporto con l’altro, e di ottenere la realizzazione nel lavoro. Gli Autori identificano le seguenti convinzioni del paziente evitante: - “se la gente avesse modo di conoscermi da vicino scoprirebbe chi sono veramente e mi respingerebbe”; - “essere smascherato come inferiore o inadeguato sarà insopportabile”; - “dovrei evitare situazioni spiacevoli ad ogni costo”; - “se gli altri mi criticano, vuol dire che ci sono delle buone ragioni”; - “dovrei evitare situazioni in cui sono al centro dell’attenzione o dovrei passare il più inosservato possibile”; - “qualunque segno di tensione in una relazione sta a significare che la relazione è andata a finire male, pertanto dovrei interromperla”. Beck e Freeman (1998) fanno risalire queste convinzioni ad esperienze di apprendimento nell’infanzia in un rapporto con le figure significative caratterizzato da criti208 I Disturbi di personalità che, umiliazioni e rifiuto. Di conseguenza il soggetto impara a percepirsi come inadeguato, incapace e senza valore e, dopo varie esperienze negative, crede che questa sia la sua vera natura. Pur desiderando affetto, accettazione ed amicizia è una persona con pochi amici e con poche relazioni intime. La paura di essere rifiutato lo porta a mantenere le distanze dagli altri ed a richiedere accettazione incondizionata prima di potersi aprire con loro. Tendenzialmente, li mette alla prova per verificare a chi può piacere veramente. Liotti (1994) rileva come atteggiamenti di genitori esigenti, umilianti ed improntati alla derisione producano nel figlio un’immagine di sé come debole ed incompetente e lo portino a vivere la relazione in termini di rifiuto. L’evitante è riluttante ad entrare in relazione con l’altro, a meno che non sia certo di essere accettato, in quanto questi ha un ruolo di validatore della sua identità e può pertanto costituire una minaccia: la propria amabilità si definisce sulla base della sua reazione. “Se sono accettato vuol dire che sono amabile, se sono rifiutato non sono amabile” (Lorenzini, Sassaroli, 1995). La centralità del rapporto con le figure parentali nell’infanzia è sottolineato da Benjamin (1999) che sottolinea come i pazienti con Disturbo Evitante abbiano ricevuto un’educazione appropriata ed abbiano avuto uno sviluppo iniziale positivo, tanto da desiderare i contatti sociali e l’accudimento da parte di altri. Tuttavia, il successivo controllo dei genitori, finalizzato a creare una positiva immagine sociale, ha comportato che qualsiasi imperfezione dei figli sia stata vissuta come fonte di imbarazzo ed umiliazione, specialmente per la famiglia. Diventati adulti, questi individui si relazionano soltanto quando sanno di poter agire in maniera adeguata e di poter dare una impressione favorevole di se stessi, evitando quelle situazioni sociali che potrebbero portarli a provare le stesse emozioni di imbarazzo e di umiliazione sperimentate nell’infanzia. Va osservato che, nonostante siano stati condizionati negativamente dalle figure significative di riferimento, sono convinti che la famiglia rappresenti per loro l’unica fonte di supporto e tutto ciò che ne è estraneo sia oggetto di pericolo sociale. Nel paziente con Disturbo Evitante Sperry (2000) individua uno schema di assenza di valore/vergogna, relativo alla credenza di essere intrinsecamente privo di valore e di meriti e quindi non degno dell’attenzione altrui, ed uno schema di scarsa attrattività sociale/alienazione, riferibile alla convinzione di essere diverso rispetto agli altri e di conseguenza indesiderabile. 16.2 Trattamento I pazienti con Disturbo Evitante hanno una bassa tolleranza agli stati disforici ed evitano pensieri che possono evocare emozioni spiacevoli. L’obiettivo terapeutico prevede l’iniziale presa di consapevolezza dell’evitamento cognitivo ed emotivo finalizzata non all’eliminazione totale della disforia quanto piuttosto all’accrescimento della capacità di sperimentare questo vissuto, intervenendo sulla disconferma delle convinzioni relative alla sua intollerabilità ed ai pericoli che vi vengono associati. 209 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Nella terapia di questo Disturbo si rileva la centralità della relazione terapeutica che deve basarsi sulla fiducia e sull’accettazione in un contesto nel quale il paziente si senta sicuro, considerata la sua paura di esprimere pensieri ed emozioni che possono essere giudicati negativamente. Egli diffida dell’autentico interessamento del terapeuta ed ha paura di essere rifiutato, così come avviene in tutte le altre relazioni interpersonali. Anche in questo tipo di rapporto quindi, una volta stabilita una relazione agirà nel tentativo di compiacere continuamente l’altro, nella convinzione che quest’ultimo lo rifiuterebbe se lui affermasse i propri desideri. Pertanto, nel trattamento del Disturbo Evitante si rivela efficace un Training di Abilità Sociali insieme con interventi di tipo cognitivo finalizzati all’ampliamento delle relazioni sociali ed alla riduzione dell’ansia ad esse associata (Stravynski, Marks, Yule, 1982). La fase finale della terapia si concentra sul lavoro di Prevenzione della Ricaduta a livello comportamentale e cognitivo, in quanto i pazienti con questo Disturbo possono facilmente ripresentare le caratteristiche patologiche iniziali. Gli obiettivi comportamentali possono prevedere le seguenti attività: stabilire nuove amicizie, approfondire le relazioni esistenti, comportarsi in maniera affermativa nei rapporti con gli altri, affrontare situazioni precedentemente evitate. A livello cognitivo, si interviene per ridurre l’incidenza delle convinzioni disfunzionali e rafforzare le nuove acquisizioni. L’identificazione delle situazioni di rischio che potrebbero compromettere le relazioni future consente al paziente di prevedere gli eventuali pericoli di ricaduta e progettare un piano d’intervento, con la pianificazione dei comportamenti adeguati e positivi che ha appreso, dopo aver identificato e modificato i pensieri che lo indurrebbero a riproporre l’evitamento. Sperry (2000) ritiene che il trattamento del Disturbo Evitante sia possibile anche se inizialmente può risultare frenato a causa dell’atteggiamento di chiusura e di sfiducia del paziente affetto da tale patologia. Una relativa efficacia presentano gli interventi psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 1 a 3 anni), che rimangono comunque quelli che hanno ottenuto i risultati più soddisfacenti. In sintesi e riferendoci ad obiettivi generali, l’intervento con pazienti evitanti consiste nell’aiutarli a sapere integrare ed a “modulare”: gli atteggiamenti di ipersensibilità ed apprensività (stile affettivo); i comportamenti fortemente caratterizzati da eccessivo evitamento/isolamento e da timidezza ed anassertività (stile interpersonale); l’ipervigilanza (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per la Regolazione Emotiva, Training per le Abilità Interpersonali e per l’Assertività, Addestramento alla Riduzione della Ipersensibilità. Dal punto di vista del rapporto e dell’ alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità evitante possono manifestare atteggiamenti e comportamenti di resistenza e di difesa invece che di auto-apertura per via della profonda paura di essere rifiutati, lo psicoterapeuta può all’inizio consentire una moderata dipendenza ed introdurre gradualmente il tema della paura della valutazione, della critica e del conseguente, temuto, rifiuto. In generale, quindi, il trattamento psicologico del Disturbo Evitante mira, in una prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il re210 I Disturbi di personalità pertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative e, in una seconda fase, a riorganizzare la struttura (assenza di valore/vergogna, scarsa attrattività sociale/ emarginazione) ed i processi (scarsa tolleranza al giudizio altrui) che mantengono i comportamenti disfunzionali (deficit di fiducia negli altri) al fine di ristabilire un equilibrio tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato. TRAINING PER LE ABILITÀ INTERPERSONALI Per abilità interpersonali si intende una vasta gamma di comportamenti legati alle relazioni sociali e ai rapporti intimi e personali. Tra queste abilità si annovera la capacità di sopportare il disagio emotivo, la regolazione del proprio stato emotivo, il controllo degli impulsi, l’ascolto attivo, l’assertività, il problem solving, lo stabilire rapporti amichevoli con gli altri, la negoziazione e la risoluzione dei conflitti. Le persone meno adattate possono mancare del tutto di queste abilità, mentre quelle con un migliore adattamento mostrano solitamente un discreto grado di funzionamento interpersonale. Tuttavia, per essere efficaci nei rapporti con gli altri non basta manifestare risposte comportamentali automatiche in situazioni di routine. Occorre, invece, essere in grado di creare o di combinare risposte per gestire particolari circostanze. Avere abilità interpersonali significa dunque rispondere assertivamente, negoziare ragionevolmente e gestire efficacemente i conflitti con gli altri. In altre parole, ottenere i propri scopi cercando di salvaguardare la relazione con l’altro ed il rispetto per se stessi. Anche se qualche paziente con Disturbo di Personalità non particolarmente grave può avere adeguate capacità nei rapporti interpersonali, i problemi insorgono quando tali abilità vengono applicate in situazioni particolarmente difficili. Questi pazienti possono essere in grado di suggerire un comportamento efficace ad una persona che incontra difficoltà interpersonali ed al tempo stesso essere totalmente incapaci di affrontare una situazione che li coinvolge direttamente. Di solito il loro sistema di credenze e i loro incontrollabili stati affettivi inibiscono l’applicazione delle abilità sociali. Non é raro che i pazienti con Disturbo di Personalità interrompano prematuramente le loro relazioni sentimentali o che il loro deficit nella tolleranza degli stati emotivi negativi renda difficoltosa la gestione delle paure, dell’ansia o delle frustrazioni che normalmente si incontrano nei rapporti conflittuali. Similmente, l’incapacità di controllare gli impulsi o di regolare il proprio stato emotivo impediscono la gestione della rabbia o della frustrazione. Inoltre, i deficit nelle capacità di problem solving rendono difficile la gestione dei potenziali conflitti e non consentono perciò di formare buone relazioni con gli altri. In breve, la competenza interpersonale richiede tutta la serie di abilità precedentemente o altrove descritte ed altre abilità aggiuntive. L’applicazione della tecnica procede nel modo di seguito illustrato. Il clinico valuta i tipi di deficit e le capacità sociali possedute. È necessario prendere in considerazione la tolleranza agli stati emotivi negativi, la regolazione del proprio stato emotivo, il controllo degli impulsi, l’ascolto attivo, l’assertività, il problem solving, la capacità di stabilire rapporti amichevoli con gli altri, la negoziazione e la risoluzione dei conflitti. Viene quindi elaborato un piano di trattamento. Se esistono deficit pervasivi può essere indicato un trattamento di gruppo sulle abilità sociali. Questo intervento di gruppo infatti é estremamente utile per fornire al paziente il supporto sociale necessario mentre impara le nuove abilità. Nella terza fase inizia l’insegnamento delle abilità, in contesto individuale o di gruppo. L’insegnamento prevede il modellamento delle abilità ed il successivo incoraggiamento a 211 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica metterle in pratica (operando le modifiche del caso) in modo tale che il paziente possa raggiungere un adeguato livello di padronanza. I risultati migliori si ottengono coinvolgendolo in molte situazioni ed esperienze diverse, e comunque con molto esercizio. L’uso di videoregistrazioni che mostrano i comportamenti adeguati, il role playing e l’assegnazione di compiti completano l’addestramento. È naturalmente compito del clinico seguire i progressi del paziente, anche nel caso in cui quest’ultimo partecipi ad un gruppo sulle abilità sociali. Infine, il terapeuta ed il paziente collaborano per pianificare alcuni modi in cui questi possa generalizzare nel proprio contesto di vita i comportamenti appresi. Le nuove abilità generalmente comprendono iniziare una conversazione con un estraneo, fare amicizia, fissare appuntamenti. Il livello di padronanza dimostrato nell’affrontare queste situazioni viene poi valutato, per essere eventualmente migliorato. TRAINING PER LA RIDUZIONE DELLA IPER-SENSIBILITÀ Questo intervento é mirato a neutralizzare e delimitare la vulnerabilità individuale alla critica, alla sospettosità ed alle percezioni erronee. Le persone che normalmente percepiscono in modo distorto e negativo i segnali sociali sono portate in mettere in atto comportamenti difensivi ed aggressivi. Il training si propone di insegnare a queste persone un modo più accurato di prestare attenzione, pensare e rispondere ai segnali di tipo sociale. Di norma l’intervento é introdotto e mostrato dal terapeuta e successivamente viene praticato e applicato nella vita reale dal paziente. Il training si svolge nel modo di seguito illustrato. Anzitutto il terapeuta stabilisce che l’ipersensibilità dell’individuo sia causata effettivamente da errori o distorsioni nella elaborazione delle informazioni. Tale elaborazione comprende quattro fasi: attenzione, elaborazione, risposta e feedback. L’intervento é diretto proprio a queste quattro componenti. Successivamente il clinico valuta come la persona percepisce i diversi segnali sociali tramite l’esame delle relazioni nelle quali l’individuo stesso é coinvolto. A titolo di esempio, riportiamo il caso di un soggetto che nell’entrare in un locale dove si teneva un’asta si era accorto che un piccolo gruppo di persone lo guardava sorridendo; dopodiché aveva udito un commento sottovoce seguito da una grossa risata. Se egli si fosse concentrato solo sul fatto di aver udito un commento sottovoce avrebbe ignorato il fatto che quelle persone gli avevano anche sorriso ed avrebbe reagito in modo aggressivo o difensivo. Nel caso in cui il paziente presenti difficoltà nel prestare attenzione ai diversi segnali sociali, il clinico deve lavorare per favorire lo sviluppo di questa abilità. La terza fase consiste nel valutare l’accuratezza della interpretazione dei segnali sociali. L’attenzione rivolta selettivamente verso certi segnali e la loro erronea percezione possono causare una interpretazione distorta: così insegnare all’individuo una modalità interpretativa più accurata e corrispondente alla realtà diventa essenziale. L’uso di videoregistrazioni, il role playing e l’assegnazione di compiti sono di grande aiuto per il training. Nella quarta fase il terapeuta valuta le modalità di risposta del paziente agli stimoli sociali: questi stimoli comprendono il linguaggio verbale ma anche il linguaggio non verbale e le azioni. Le risposte agli stimoli possono variare, da quelle accurate fino a quelle più aggressive. L’individuo risponderà in maniera appropriata nella misura in cui è in grado di prestare attenzione e di elaborare gli stimoli. L’intervento é diretto ad insegnare una modalità di risposta appropriata e si concentra sia sul linguaggio verbale sia sul tono di voce, sull’espressione facciale e sulla gestualità del paziente. 212 I Disturbi di personalità Nella quinta fase si valuta come e in che misura la persona utilizza le conseguenze dei propri comportamenti sociali: per esempio, un feedback negativo può costituire una informazione positiva ed essere utilizzato in modo costruttivo. Le conseguenze positive dovrebbero aumentare di frequenza con il miglioramento delle prestazioni sociali dell’individuo. 16.3Caso clinico Il caso di Teosio -“Gli altri avranno motivo per dire che sono stupido” Diagnosi: Fobia Sociale (sull’Asse I). Disturbo Evitante di Personalità (sull’Asse II). Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Assertion Inventory (AI). Dal CBA: ansia di tratto e di stato elevate; significativo il punteggio indicatore di instabilità emotiva; nella dimensione introversione - estroversione si colloca decisamente nella dimensione introversione e può essere descritto come persona riservata, che esercita un notevole controllo sulle proprie emozioni e piuttosto pessimista. Significativo il punteggio relativo alla paura del rifiuto sociale; elevato il punteggio alla scala della depressione. Dall’A I: elevati punteggi relativi tanto al grado di disagio quanto alla possibilità di azione in situazioni di rapporto interpersonale che richiedono comportamenti affermativi. Teosio ha 21 anni e chiede di intraprendere una psicoterapia perché ha “problemi troppo pesanti da reggere tutti i giorni”. Riferisce di sentirsi spesso nervoso, con forte senso di insicurezza e frequenti sbalzi d’umore. Descrive una sintomatologia fisica che sperimenta sotto forma di “agitazione interna. Mi sento una stretta allo stomaco, il cuore mi batte forte, ho la testa vuota … soprattutto quando sto in mezzo agli altri o quando devo fare qualcosa … l’unica soluzione è stare da solo o con persone che conosco ma a volte anche in questi casi mi sento agitato”. Storia del caso Teosio è diplomato e vive con i genitori, nei confronti dei quali si esprime in maniera positiva definendo i loro rapporti caratterizzati da affetto, comprensione e serenità. La madre è tuttavia valutata come poco disponibile in termini di tempo perché molto assorbita dal lavoro ed il padre “è sempre stato una persona forte e sicura. Ho con lui un rapporto di amicizia e di fiducia ma … mi vuole bene solo se faccio quello che vuole lui e se non riesco a farlo interviene lui per risolvere la situazione”. Da circa un anno ha una relazione sentimentale soddisfacente. Riferisce di avere sempre avvertito “un’agitazione interna” nelle situazioni sociali e di avere sempre incontrato difficoltà nel farsi le amicizie: “Non ho mai cercato gli altri, ho aspettato che gli altri mi cercassero … ma ogni novità mi mette ansia”. 213 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Le difficoltà del giovane si sono accentuate da alcuni mesi di fronte alla prospettiva di trovare un lavoro che lo esporrebbe al giudizio degli altri. A proposito dei suoi problemi Teosio si esprime così: “Per l’80% sono di origine genetica, per il 20% dovuti all’ambiente ed io posso fare poco per risolverli”. Concettualizzazione e trattamento Si tratta di un individuo ansioso, particolarmente esposto a disturbi psicosomatici e con intense reazioni emotive che possono interferire con la capacità di adattamento. Il quadro ansiogeno è particolarmente evidente in situazioni di interazione nelle quali teme il giudizio sociale. I comportamenti ed i vissuti conseguenti sono di tipo passivo con percezione di bassa autostima e di autosvalutazione. Il tono depresso dell’umore può essere ricondotto alla valutazione della scarsa autoefficacia sperimentata in molte situazioni. Le principali idee irrazionali espresse dal paziente sono risultate le seguenti: - “sono un insicuro ed un debole, nessuno deve accorgersi che sono così altrimenti non mi apprezzerebbero e mi respingerebbero”; - “non devo mostrare le mie emozioni altrimenti sono un debole”; - “non riesco a risolvere i problemi per cui sono un debole”; - “devo sempre trovare la risposta giusta altrimenti gli altri pensano che sono stupido”. Dall’analisi dei pensieri Teosio ha potuto verificare l’impiego delle distorsioni logiche di seguito schematizzate. Pensiero automatico Distorsione logica sicuramente sbaglierò a comprendere la richie- catastrofizzazione sta che mi ha fatto o capisco subito o è inutile insistere pensiero dicotomico non ne faccio una giusta, sono un disastro astrazione selettiva penserà che sono stupido lettura del pensiero L’obiettivo terapeutico è stato finalizzato al superamento dell’evitamento cognitivo, emotivo e comportamentale ed all’acquisizione di capacità assertive e di abilità sociali. Il paziente ha manifestato un’iniziale difficoltà nel riconoscimento e nella discriminazione delle emozioni che facilmente confondeva con un pensiero o con una situazione, come nell’esempio qui riportato. Emozione Pensiero Situazione sono spaventato credo di essere spaventato l’incontro con una persona nuova mi spaventa 214 I Disturbi di personalità Pertanto si è reso necessario un intervento volto a fargli apprendere ad identificare le emozioni sperimentate nel corso della giornata, lavoro che gli ha permesso di raggiungere un maggiore grado di consapevolezza relativamente ai propri vissuti di aggressività, delusione, dolore, timidezza ed imbarazzo. Il sistema cognitivo del paziente era caratterizzato da una scarsa tolleranza emotiva che lo portava ad evitare tutte le situazioni che potevano suscitargli forti emozioni: il rapporto con gli altri e l’esposizione alle loro richieste. Attraverso la tecnica della Freccia Discendente si è arrivati a cogliere la convinzione di base che lo guidava nel suo rapporto con la realtà: nelle situazioni nelle quali temeva di essere giudicato si attivava l’idea irrazionale “devo sempre dare la risposta giusta altrimenti gli altri penseranno che sono stupido”, sostenuta dalla convinzione negativa “sono uno stupido”. Nel Training all’Assertività si è dato particolare risalto al superamento comportamentale e cognitivo delle difficoltà a rifiutare richieste e ad accettare le critiche. Le idee irrazionali che sostenevano tali difficoltà erano rispettivamente, nel caso in cui non voleva esaudire una richiesta fattagli da qualcuno “se mi rifiuto e dico di no pensa che non sono capace” oppure “se dico di no potrebbe offendersi” e, di fronte ad una critica negativa su un suo comportamento, “non valgo niente” oppure “sono tutto sbagliato”. Al termine della terapia, durata nove mesi, Teosio è riuscito ad affrontare l’impatto con il lavoro in maniera meno minacciosa, con la riduzione dei vissuti depressivi ed ansiogeni legati alla prestazione in conseguenza di un aumento dell’autoefficacia. Il paziente ha sintetizzato la modificazione dei propri schemi cognitivi nell’affermazione “In effetti sono io che quando faccio le cose pretendo di avere un ottimo risultato”. 215 CAPITOLO 17 Disturbo dipendente 17.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche Criteri diagnostici del DSM IV Una situazione pervasiva ed eccessiva di necessità di essere assistiti che determina un comportamento sottomesso e dipendente e timore della separazione, che compare all’inizio dell’età adulta ed è presente in una varietà di contesti come indicato da cinque (o più) dei seguenti punti: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. ha difficoltà ad assumere le decisioni quotidiane senza chiedere un’eccessiva quantità di consigli e rassicurazioni; ha bisogno che altri si assumano la responsabilità per la maggior parte dei settori della propria vita; ha difficoltà ad esprimere disaccordo verso gli altri per il timore di perdere supporto o approvazione. Nota: non includere timori realistici di punizione. Ha difficoltà ad iniziare progetti o a fare cose autonomamente (per una mancanza di fiducia nel proprio giudizio o nelle proprie capacità più che per mancanza di motivazione o di energia); può giungere a fare qualsiasi cosa pur di ottenere assistenza e supporto da altri, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli; si sente a disagio o indifeso quando è solo per timori esagerati di essere incapace di provvedere a se stesso; quando termina una relazione stretta cerca urgentemente un’altra relazione come fonte di assistenza e supporto; si preoccupa in modo non realistico di essere lasciato a provvedere a se stesso. Il comportamento dipendente e sottomesso è motivato dalla convinzione di non essere in grado di prendere decisioni autonome in quanto la realtà è percepita come troppo impegnativa rispetto alle proprie capacità. Il paziente con questo Disturbo ha 217 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica paura di stare da solo perché ha aspettative catastrofiche e ritiene di avere costante bisogno di qualcuno che lo protegga, lo sostenga e lo indirizzi. Tale necessità lo porta ad evitare il contrasto con gli altri, attraverso l’adozione di comportamenti improntati alla disponibilità, al compiacimento ed all’accondiscendenza. Nell’accertamento di questa patologia è necessaria una diagnosi differenziale con i Disturbi di Personalità: - Borderline, nel quale si reagisce alla paura dell’abbandono con sentimenti di vuoto emotivo, rabbia e pretese piuttosto che con la sottomissione e le relazioni sono instabili ed incerte; - Istrionico, in cui il bisogno di dipendenza non si manifesta con comportamenti modesti e docili ma con richieste attive di attenzione; - Evitante, nel quale non si cerca di mantenere il legame a tutti i costi poiché il sentimento di inadeguatezza, l’ipersensibilità alla critica e la necessità di rassicurazione sono talmente pervasivi da indurre al ritiro dalle relazioni e ad accettarle solo nel caso in cui si sia certi di essere accettati. Beck identifica le convinzioni peculiari di questo Disturbo: - “non posso sopravvivere senza qualcuno che si prenda cura di me”; - “sono troppo inadeguato per affrontare la vita da solo”; - “se fossi più indipendente sarei completamente solo”. Queste convinzioni si esprimono prevalentemente attraverso le distorsioni cognitive del pensiero dicotomico giusto/sbagliato, considerandosi completamente sbagliato, e della catastrofizzazione, in particolare rispetto alla perdita di un rapporto di relazione. Nel paziente con Disturbo Dipendente Sperry (2000) individua uno schema di dipendenza/incompetenza, relativo alla convinzione di essere incapace di gestire le responsabilità quotidiane e di avere quindi bisogno di qualcuno a cui affidarsi, ed uno di fallimento relativo alla credenza di fallire e di avere comunque una prestazione inferiore rispetto a quella degli altri in qualsiasi attività si intraprenda. 17.2Trattamento L’obiettivo terapeutico potrebbe essere definito i termini di progressiva autonomizzazione, intesa come capacità di agire indipendentemente dagli altri pur mantenendo relazioni intime. A tale scopo il paziente deve aumentare la sicurezza in se stesso e la propria autoefficacia. Oltre a favorire comportamenti di autonomia, l’intervento va indirizzato verso il riconoscimento delle idee irrazionali connesse con la paura di rimanere solo. La capacità di prendere decisioni può essere potenziata attraverso l’addestramento al Problem Solving e l’impiego del Role Playing e del Modeling, allo scopo di favorire l’apprendimento della comunicazione affermativa nell’ambito di un Training all’Assertività. 218 I Disturbi di personalità Nella terapia del Disturbo Dipendente Sperry (2000) rileva l’iniziale complessità del trattamento dovuta all’eccessiva accondiscendenza di tali pazienti. Gli interventi psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 1 a 2 anni) risultano efficaci e sono consigliabili. In sintesi e riferendoci ad obiettivi generali, l’intervento con pazienti dipendenti consiste nell’aiutare le persone a sapere integrare ed a “modulare”: le manifestazioni frequenti e debilitanti di stati ansiosi (stile affettivo); i comportamenti scarsamente intraprendenti dal punto di vista decisionale, caratterizzati da eccessiva dipendenza/ acquiescenza e da anassertività (stile interpersonale); la propensione ad una valutazione ingenua ed acritica dei fatti (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per la Gestione dell’Ansia, Training al Problem Solving e all’Assertività, Addestramento all’Identificazione e Modificazione dei Pensieri Automatici. Dal punto di vista della relazione ed alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità dipendente possono manifestare atteggiamenti e comportamenti di accondiscendenza e di delega delle decisioni piuttosto che di collaborazione e di autonomia, lo psicoterapeuta può all’inizio consentire una moderata dipendenza e introdurre gradualmente il tema della collaborazione, distinguendola dalla acquiescenza. In generale, quindi, il trattamento psicologico del Disturbo Dipendente mira, in una prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il repertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative e, in una seconda fase, a riorganizzare la struttura (dipendenza/inadeguatezza) ed i processi (scarsa autonomia ed interdipendenza) che mantengono i comportamenti disfunzionali (deficit pervasivo di una dipendenza più adattiva) al fine di ristabilire un equilibrio tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato. TRAINING PER LA GESTIONE DELL’ANSIA Lo scopo di questo intervento consiste nel diminuire il livello d’ansia e le manifestazioni psicofisiologiche connesse, aumentando contemporaneamente le capacità di tolleranza e di gestione degli stati ansiosi dell’individuo. Si tratta di un intervento sostanzialmente direttivo che può essere applicato a singoli individui o a gruppi. Le abilità acquisite vanno poi messe in pratica nella vita di tutti i giorni. Naturalmente, una relazione terapeutica caratterizzata da alleanza può aumentare la motivazione e l’adesione al trattamento del paziente stesso. L’intervento procede come di seguito illustrato. Inizialmente il clinico istruisce il paziente circa le variabili che determinano lo stato ansioso: - - - fattori scatenanti esterni che possono elicitare ansia (impegni stressanti o problemi da risolvere); fattori scatenanti interni (attività e reattività psicofisiologica) o specifiche convinzioni - sotto forma di dialogo interno che possono rendere la persona più o meno vulnerabile all’ansia; strategie di coping del paziente che possono diminuire o aumentare gli effetti dei fattori precedenti. In secondo luogo il terapeuta aiuta il paziente ad identificare nella propria vita le circostanze in cui si presentano i tre fattori succitati e viene compilato un elenco contenente le 219 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica situazioni che più tipicamente scatenano ansia. A titolo di esempio, riportiamo il caso di un paziente che descrisse un episodio vissuto di recente nel quale aveva provato un’ansia da prestazione intollerabile: gli avevano affidato il compito di tenere una lezione per un uditorio di specialisti nella materia che avrebbe dovuto trattare (fattore scatenante esterno). Quando fu sul punto di entrare in aula di fronte al pubblico provò un’attivazione psicofisiologica notevole e disse tra sé e sé: “Mi sento totalmente inadeguato a tenere una lezione davanti a persone e professionisti così preparati” e inoltre: “Perderò il controllo della situazione e questo mi farà sprofondare nella vergogna” (fattori scatenanti interni). Prima di cominciare a parlare davanti al gruppo di persone che formavano l’aula, ammise i propri limiti e di sentirsi più capace nello scrivere che nel tenere una lezione (strategie di coping) e durante la presentazione si sentì inadeguato, accorgendosi di avere la bocca secca, le mani sudate ed il batticuore. Per registrare nei dettagli gli episodi ansiosi, si possono utilizzare delle schede apposite (schede di auto-monitoraggio) e, in presenza di più episodi, si può costruire una gerarchia di situazioni che evocano ansia. La terza fase dell’intervento consiste nell’invitare il paziente a scrivere e registrare ogni episodio nel quale prova ansia, identificando i tre fattori ed i relativi comportamenti messi in atto (nell’esempio precedente, il paziente, dopo la presentazione in aula, porse le sue scuse e nonostante ciò non si sentì affatto sollevato, concludendo che aveva ancora una volta fallito). Nella quarta fase vengono cercate delle similarità tra i vari episodi accaduti e gli specifici deficit nelle strategie di coping (nell’esempio precedente, era probabile che il paziente provasse più ansia in presenza di persone che valutava come superiori che non di fronte a pari e/o con scarsa conoscenza nella materia da trattare). Nella quinta fase si cercano alternative su come gestire i fattori scatenanti esterni (nell’esempio precedente, il soggetto poteva chiedere di essere affiancato da un docente più esperto che eventualmente sarebbe potuto intervenire per rispondere a domande più specifiche). Durante la sesta fase si mette a punto un piano particolare per fronteggiare (coping) i fattori scatenanti interni, come strategie di rilassamento per ridurre l’attivazione psicofisiologica e/o l’addestramento a un dialogo interno più efficace (nell’esempio precedente, “Il mio valore come persona non può e non deve dipendere da come presento una lezione”, oppure: “Conosco questa materia come pochi altri e posso benissimo cavarmela di fronte a questo uditorio di persone, seppure esperte e preparate”). Infine, lo psicoterapeuta insegna al paziente specifiche modalità di rilassamento, respirazione diaframmatica controllata (che il paziente dell’esempio poteva applicare prima di iniziare la presentazione) ed altre strategie di coping, quali valide alternative alle manifestazioni ansiose ed agli atteggiamenti di autocritica. Il progresso nel trattamento viene valutato in base alle capacità del paziente di gestire in modo più adattivo i fattori scatenanti esterni e interni. Nel momento in cui egli riporta una significativa diminuzione (o la scomparsa) delle sensazioni soggettive di ansia, si può affermare che il trattamento é stato efficace. TRAINING AL PROBLEM SOLVING PER PAZIENTI CON DISTURBI DI PERSONALITÀ Per mezzo di questo training l’individuo apprende come usare alcune strategie per affrontare problemi personali e interpersonali. Lo scopo dei training é quello di aiutare le persone ad identificare i problemi che causano disagio ed ansia, di insegnare loro un metodo sistematico di soluzione degli stessi così da formare un bagaglio di competenze 220 I Disturbi di personalità che potranno essere utili per affrontare le situazioni difficili nel futuro. Il training per le abilità di problem solving è in genere abbastanza breve e può essere applicato in formato individuale, di coppia o di gruppo. Di norma l’intervento è introdotto e mostrato dal terapeuta e successivamente viene praticato e applicato nella vita reale dal paziente. Il training si svolge nel modo di seguito illustrato. La capacità di risolvere i problemi viene valutata rispetto a cinque elementi: identificazione del problema, definizione di obiettivi, generazione di soluzioni alternative, presa di decisione e messa in atto della soluzione scelta come la più fattibile. Il terapeuta analizza, in collaborazione con il paziente, gli specifici problemi esistenti (per esempio, il paziente nota che rimane sempre senza soldi una settimana prima del pagamento dello stipendio, a causa del suo impulso a spendere nelle prime tre settimane del mese). Nella seconda fase, il clinico aiuta il paziente a valutare il problema, ad identificarne le cause ed a stabilire degli obiettivi realistici. Riferendoci all’esempio riportato, l’impulso a spendere é identificato come causa e l’obiettivo consiste nell’arrivare a fine mese con ancora disponibilità di denaro e possibilmente nel risparmiarne una piccola parte, per esempio il 10%. Successivamente si aiuta il paziente a generare diverse soluzioni. Nel caso del soggetto citato, si potrebbe organizzare una gestione del denaro su base settimanale o chiedere al datore di lavoro di essere retribuito ogni due settimane o chiedere l’accredito dello stipendio direttamente in banca. Nella quarta fase, la persona viene assistita nello scegliere una tra le possibili soluzioni, tenendo conto delle conseguenze di ciascuna a breve e a lungo termine. Nell’esempio, scegliere di gestire il proprio denaro su base mensile appare il tipo di scelta più realistico a breve e lungo termine. Infine, vengono date informazioni e incoraggiamenti per mettere in pratica la soluzione scelta. In questo caso il paziente potrebbe concordare di rivolgersi ad un consulente finanziario, per preparare un piano di spesa su base mensile ed annuale, e di aprire un libretto di risparmio presso una banca. 17.3 Caso clinico Il caso di Smirne -“Da sola, non ce la posso fare” Diagnosi: Disturbo Dipendente di Personalità (sull’Asse II). Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Assertion Inventory (AI). Dal CBA 2.0: punteggio significativo alla scala della depressione. Riferisce moltissima paura relativa alla possibilità di impazzire. Dall’AI: anassertività di tipo passivo con elevata ansia e scarsa competenza sociale. Smirne ha 35 anni e riferisce di sentirsi depressa, di essere fisicamente stanca e di temere di non riuscire ad affrontare le situazioni quotidiane che le “pesano sempre di più”. Il problema è iniziato dopo il parto, quattro anni prima, con sintomi diagnosticati depressione post partum dallo psichiatra al quale si era rivolta. E’ stata aiutata dalla madre, alla quale ha delegato da subito l’accudimento della neonata, e dal marito che provvede alla gestione ed all’amministrazione della casa. 221 La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica Storia del caso Casalinga, sposata da cinque anni, ha una figlia e definisce sereno il rapporto con il marito. Lamenta un problema dei relazione con la madre a causa della “eccessiva ingerenza” di quest’ultima nell’educazione della bambina: “è troppo permissiva e contraddice quello che dico a Lola”. Si sente molto legata alla famiglia di origine e trascorre gran parte del tempo libero a casa dei genitori. Non fa vita di relazione al di fuori della cerchia familiare (ha tre fratelli) e non ha interessi che possa condividere con il marito. Concettualizzazione e trattamento Il Disturbo della paziente è sostenuto da scarsa autostima, anassertività e limitata autonomia personale. Pertanto il trattamento terapeutico ha previsto interventi specifici indirizzati verso queste aree deficitarie, facilitando nel contempo alla paziente lo sviluppo di una maggiore consapevolezza emotiva. 1. Consapevolezza emotiva. Attraverso la compilazione del Diario con l’annotazione degli stati d’animo sperimentati nello svolgimento delle diverse attività quotidiane, Smirne ha appreso ad identificare le proprie e le altrui emozioni, a differenziarle dai sintomi fisici associati ed a gestire le emozioni negative, l’ansia in particolare e poi la rabbia. 2. Incremento dell’autostima. La paziente ha individuato i propri punti di forza ed ha pianificato degli obiettivi comportamentali che riteneva di poter raggiungere con le capacità possedute. Ha iniziato a svolgere attività extrafamiliari nel tempo libero, riducendo così le occasioni per “rifugiarsi” in casa dei genitori che le limitavano la possibilità di sviluppare un’autonomia personale. 3. Incremento delle abilità sociali. Smirne ha verificato che lo stile passivo che la caratterizzava nei rapporti interpersonali costituiva motivo di disagio relazionale e la portava ad evitare il confronto attivo con gli altri. Attraverso un Training Assertivo ha appreso le abilità sociali necessarie per consentirle rapporti più soddisfacenti. Dopo dieci mesi di terapia, Smirne è soddisfatta di aver acquisito una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e stati d’animo che riesce ad esprimere meglio al marito e, pur con qualche difficoltà in più, alla madre. In particolare, nei confronti di quest’ultima si sente meno vincolata ai suoi giudizi anche se continua in parte a subirne l’influenza. 222 INDIRIZZI UTILI ALETEIA - Scuola di Psicoterapia cognitiva – Istituto Superiore per le Scienze Cognitive - Via Grimaldi, 8 - 94100 Enna - Tel. 0935.504160 - Fax 0935.504383 E-mail: [email protected] Associazione per la Psicoterapia Cognitiva - Via Montebello, 27 - 20123 Milano - Tel. 02/6570350 Centro Clinico Crocetta - C.so Galileo Ferraris, 110 - 10129 Torino - Tel. 011. 503769-5682156. E-mail: [email protected] Centro di Terapia Cognitivo-Comportamentale - Viale Verona, 102 - 36100 Vicenza Tel./Fax 0444/961963. E-mail: [email protected] Centro di Psicologia Cognitiva -Via Grassi, 33 - 73100 Lecce - Tel. 0382.342326 CPC - Centro di Psicologia Cognitiva - Via Allegri, 51 - 09045 - Quartu S. Elena Cagliari - Tel. 070.822487 Istituto Miller - Sede di Genova: Corso Torino 17/10 - 16129 - Tel. 010.5707062 - Fax 010.8680904; Sede di Firenze: Via Mannelli, 139 - 50132 - Tel. e Fax 055.2466460. E-mail: [email protected]. Sito web: www.istituto-miller.it. Poiesi - Centro di Psicologia Cognitiva e Comportamentale - Via Luigi Ploner, 23 00123 Roma - Tel. 06.30893972. Sito web: digilander.libero.it/CentroPoiesi - Email: [email protected] 223 BIBLIOGRAFIA RAGIONATA Parte I - Disturbi depressivi Abramson L.Y. e Sackheim H.A. (1977). A paradox in depression: uncontrollollability and self-blame. Psychological Bullettin, 84, 838-851. Abramson, L.Y., Seligman, M.E.P., Teasdale, J. (1978). Learned helplessness in humans: Critique and reformulation. Journal of Abnormal Psychology, 87, 49-74. American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition. American Psychiatric Association, Washington D.C. (Tr. 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