VERITÀ E VALORI: ASSOLUTI O RELATIVI? Relativismo, Nichilismo, Pensiero debole e Nuovo realismo Contro Nietzsche. L' accusa del Papa al filosofo nichilista di Franco Volpi Il dibattito tra pensiero debole e nuovo realismo che divide i filosofi dibattito tra Ferraris e Vattimo L’idolatria dei fatti di Pier Aldo Rovatti, Se il relativismo teme la verità. Rinunciando alla ricerca del fondamento, la filosofia diventa un optional morale di Claudio Magris L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani di U. Galimberti RELATIVISMO. Termine con cui si può qualificar ogni concezione filosofica che non ammetta verità assolute nel campo della conoscenza o principi immutabili in sede morale. La prima espressione del relativismo, divenuta poi canonica, fu quella di Protagora che, indicando nell'uomo la misura di ciò che è e di ciò che non è, intendeva probabilmente confutare l'assoluta verità dell'essere parmenideo, contrapponendole l'opinione (dòxa), mutevole e contingente. Tale relativismo fu esteso da Protagora (e poi in genere da sofisti) anche all'etica: non esistono valori assoluti e cose buone o cattive di per sé, cioè indipendentemente dalle circostanze, dalle esigenza e dagli scopi soggettivi. La generale relatività d tutti i giudizi fu la tesi principale degli scettici Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti 1981, pag. 782 NICHILISMO. Il termine nichilismo designa in un senso generico l'atteggiamento o la dottrina volti a negare in modo definitivo e radicale l'esistenza di qualsiasi valore in sé e l'esistenza di una qualsiasi verità oggettiva, con conseguente svalutazione della realtà stessa. Nel variegato mondo del nichilismo le due principali figure di riferimento sono, per il filone letterario Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881), mentre per quello più propriamente filosofico Friedrich Nietzsche (1844-1900). Per quanto riguarda Dostoevskij, lo scenario del nichilismo si sviluppa in tutta la sua ampiezza e profondità nelle opere Delitto e castigo, in Demoni e ne I fratelli Karamazov. F. Nietzsche, fece uso della parola nichilismo in due accezioni. Nichilistico, in senso negativo, è la specifica situazione dell'uomo contemporaneo, che, non credendo più nei valori "supremi" di Dio, della verità, del bene ecc., né in un senso o in uno scopo metafisico delle cose, finisce per avvertire lo sgomento del vuoto e per non credere più in nulla. Nichilistico in senso positivo è invece la sostituzione dei valori tradizionali o con un nuovo sistema di valori che annunciano il tramonto dell'uomo cristiano e l'avvento di un uomo nuovo, il «superuomo» o «oltreuomo». In conclusione, dal punto di vista di Nietzsche, progettare di vivere senza certezze metafisiche assolute (cioè senza i «valori supremi») non significa distruggere ogni senso o norma, ma responsabilizzare l'uomo affinché si ponga come fonte di valori e di significati. Accettare il rischio e la fatica di dare un senso al caos del mondo dopo la morte delle antiche certezze e delle vecchie fedi: ecco il significato ultimo del superamento nietzscheano del nichilismo. PENSIERO DEBOLE. All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso alcuni filosofi italiani, tra cui G. Vattimo (1936) e P. A. Rovatti (1942), hanno proposto di distinguere tra “pensiero forte”, che si ritiene in grado di giungere a delle certezze 1 assolute, a delle verità definitive, a dei significati forti, e “pensiero debole”, che rinuncia a queste pretese ma non alla ricerca accettandone la precarietà e rimanendo aperto a cercare nuove vie, nuovi campi d’indagini, ad accettare la diversità, la molteplicità dei punti di vista. NUOVO REALISMO. Scritto nel da M. Ferraris (1956), Il Manifesto del nuovo realismo è stato preceduto a partire dall’estate del da un lungo dibattito, avvenuto anche sui mass media (da cui sono tratti Il dibattito tra pensiero debole e nuovo realismo che divide i filosofi dibattito tra Ferraris e Vattimo, L’idolatria dei fatti di Pier Aldo Rovatti). Il nuovo realismo, accusando il pensiero debole di ridurre la verità a interpretazioni, ritiene che occorra ritornare a porre al centro della riflessioni i fatti intesi come puri dati oggettivi che stanno al di là delle diverse interpretazioni. CONTRO NIETZSCHE L' accusa del Papa al filosofo nichilista di Franco Volpi Povero Nietzsche! È stato l' unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del 1914-1918 in una libreria di Piccadilly erano esposti in vetrina i diciotto volumi delle sue opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: “The EuroNietzschean-War: Leggete il diavolo per poterlo combattere meglio!”. Poi venne il nazionalsocialismo,e alcune sue dottrine- il superuomo nel senso della selezione biologica, la volontà di potenza, l'antropologia dell'animale da preda e della bestia bionda - furono considerate alla stregua di una fonte di ispirazione dell'ideologia razzista e del totalitarismo. Più tardi, dato che egli diagnostica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di Dio», la decadenza dei valori tradizionali o l' avvento del nichilismo, si è prodotto un singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà voleva solo analizzare e superare. Nietzsche è diventato allora il distruttore della ragione, il maestro dell'irrazionale, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo. Tutti questi stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo egli ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia, mode culturali e stili di pensiero, ma anche provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti. Ovviamente anche da parte cattolica. Durante la solenne messa del giovedì santo, nella basilica di San Pietro, Benedetto XVI ha richiamato la figura del filosofo tedesco stigmatizzandone il pensiero. Nietzsche, ha detto Papa Ratzinger, «ha dileggiato l' umiltà e l' obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell' uomo. Orbene esistono caricature di un' umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata che non vogliamo imitare». Agli occhi del pontefice, Nietzsche rappresenta la «superbia distruttiva e la presunzione che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza». ... Non c' è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti insegnamenti fondamentali del cristianesimo ci sia una profonda incompatibilità. Non stupisce perciò che il Papa consideri Nietzsche un cattivo maestro, e che riconduca alla sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo. Negli ultimi anni egli non si è stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da Nietzsche. Adesso, nel criticare l' ideale di umanità predominante nel mondo attuale, basato sul valore dell' autoaffermazione individuale, egoistica e libertaria, ricorda la responsabilità di Nietzsche: «Egli ha dileggiato l' umiltà e l' obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell' uomo». Ora, al di là del fatto che l' opera di 2 Nietzsche è un autentico puzzle, un subisso di frammenti e aforismi la cui combinazione in una dottrina d' insieme è tutt'altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone. Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell' altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C'è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo. Quanto poi alla concezione dell' uomo aristocratica e libertaria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singoli aforismi di Nietzsche. Ebbene, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende adagiarsi nella negazione dei valori. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine auspica un contro-movimento da cui nascano nuovi valori,e lo individua nella creatività dionisiaca dell' arte. La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all' eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell'abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell' artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell' esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!». E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale. Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell' uomo occidentale è sempre più paganizzata. La Repubblica”, 1, aprile, 2009 IL DIBATTITO TRA PENSIERO DEBOLE E NUOVO REALISMO CHE DIVIDE I FILOSOFI Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" che propone di riportare i fatti concreti al centro della riflessione Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico è aperto. Grazie anche al convegno che si terrà a Bonn il prossimo anno sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. Il dialogo con Vattimo (che lanciò in Italia il pensiero debole con Pier Aldo Rovatti guardando al postmoderno come ad una chiave per la democratizzazione della società, diffondendo pluralismo e tolleranza) cerca di affrontare i punti principali della questione. FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, 3 compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio? VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti? FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent’anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all’epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d’atto di un fatto vero. VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito". FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verità è una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l´acqua, sia la base per ristabilire la giustizia. VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verità accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salverà, dopo la sbornia ideal-ermeneutica-nichilista. FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto 4 all’accertamento della verità, oggi c’è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sarà poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?". VATTIMO È ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ciò che "vedi con i tuoi occhi"? Sì, andrà bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale? FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l’uscita dell’uomo dall’infanzia, l’emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell’università). VATTIMO Chi dice che "c’è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c’è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d’accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente. FERRARIS Se l’ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c'è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l’esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l’umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto perché è uscita dall’infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi? VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dell’agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l’idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere? La Repubblica, 19 agosto 2011 http://giannivattimo.blogspot.it/2011/08/laddio-al-pensiero-debole-che-divide-i.html 5 L’IDOLATRIA DEI FATTI di Pier Aldo Rovatti, Il pensiero debole, nato 30 anni fa grazie a un reading curato da Gianni Vattimo e da me, ha avuto una imprevedibile diffusione internazionale. Certo, anche le sciocchezze possono andare in giro per il mondo e trovare ascolto. Non so se questo sia il caso, e comunque non mi affretterei a darlo per morto. In autonomia dallo stesso Vattimo, con il quale tuttora condivido lo stile, la funzione e il senso di questo modo di pensare, e soprattutto la sua potenzialità emancipatoria, ci ho lavorato sopra da allora, puntando sui temi del gioco e del paradosso, senza di cui credo che si possa capire poco della difficile realtà in cui viviamo (e spesso ci dibattiamo). L'amico Ferraris lavorava gomito a gomito con me e con Vattimo, poi ha ritenuto opportuno andare per la sua strada che oggi chiama "nuovo realismo". Ho letto con molta attenzione il suo dialogo con Vattimo e sono rimasto – come molti – alquanto perplesso. Vi ho trovato un'eccessiva semplificazione. Come accade quando si vuole tirare troppo la coperta dalla propria parte, si rischia di deformare un poco le cose. Innanzi tutto, pensiero debole e postmodernità non possono essere sovrapposti. Forse la postmodernità ha fatto il suo tempo, mentre il pensiero debole era e rimane una maniera di leggere l'intera filosofia, mettendovi decisamente al centro la questione del potere. Nasceva infatti come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica e di conseguenza sospettava di ogni fissazione oggettivistica della Verità (con la iniziale maiuscola). Non si presentava come un semplice discorso teorico, aveva una valenza esplicitamente "politica", e il carattere di una mossa etica che Vattimo chiamava pietas (cioè, sostanzialmente, un ascolto del diverso) e che per me era un contrasto tra pudore e prepotenza per guadagnare uno spazio di gioco nelle maglie strette dell'uso dominante della teoria. Quando, oggi, si riduce tutto ciò a una querelle semplificata tra fatti e interpretazioni, si corre il pericolo di evacuare proprio questa sostanza etico-politica e di ridurre il pensiero debole a una specie di barzelletta. Non esistono fatti nudi e crudi che non abbiano a che fare con qualche interpretazione, questo è un fatto, così come sono fatti (duri e provvisti di effetti) le singole interpretazioni. Che oggi ci sia il sole o piova non mi dice niente sulla realtà in cui stiamo vivendo e nella quale temiamo di soccombere. Anzi, c'è da chiedersi perché qualcuno abbia bisogno di costruirsi questo paraocchi lasciando fuori dalla vista le cose più importanti. Il pensiero debole nasceva, poi, in una particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault e con le sue analisi del potere microfisico e della società disciplinare. Ora, che abbiamo potuto conoscere meglio le sue ultime ricerche, il debito si è allargato, e non è un caso che Foucault non trovi nessuna cittadinanza nel cosiddetto new realism di Ferraris. Un punto fa da spartiacque, e riguarda la verità. Foucault ci ha insegnato, con un gesto nietzschiano, che la storia (sì, la storia!) è un susseguirsi di giochi di verità, il che significa che i valori del vero e del falso si trasformano, sono la posta in gioco di un pesante e determinato conflitto, vengono di volta in volta innalzati sulle bandiere dentro una lotta di posizioni e per ottenere vantaggi. Dal dispositivo di potere (reale) non si evade con un semplice colpo di filosofia, e quando si eternizzano le categorie, cercando di fissare cosa è veramente reale, non si fa altro che assumere una posizione dentro il dispositivo, che lo sappiamo oppure no. Mi chiedo cosa abbia da dire il nuovo realismo a questo riguardo, una volta che si sia sgombrato il campo da contrapposizioni un po' di scuola e un po' artificiose, dato che nessuno dubita che la realtà abbia una consistenza e produca effetti. Sicuramente non lo dubitano coloro che hanno trovato nel pensiero debole molti attrezzi per la loro cassetta. La Repubblica, 26 agosto 201 http://temi.repubblica.it/micromega-online/lidolatria-dei-fatti/ 6 SE IL RELATIVISMO TEME LA VERITÀ. RINUNCIANDO ALLA RICERCA DEL FONDAMENTO, LA FILOSOFIA DIVENTA UN OPTIONAL MORALE di Claudio Magris Uno spettro si aggira per l'Europa. Non è, come scriveva Marx nel 1848, il comunismo, che ormai solo qualche imbroglione tenta di estrarre dal ripostiglio del passato e agita come uno spauracchio per i bambini. Oggi i fantasmi che saltano fuori dalle tenebre, come nel tunnel dell'orrore dei luna park, per spaventare i visitatori e gratificarli col brivido dello spavento, sono i nemici del relativismo, tutti coloro che hanno la sfrontatezza di usare ancora la parola «verità». Relativismo, parola malleabile e adattabile a piacere come un chewing gum, appare il sinonimo di libertà, tolleranza, civiltà; un distintivo che ogni benpensante deve portare all'occhiello, a scanso di equivoci. Nel coro retorico e mediatico, il relativismo - al pari dei concetti a esso contigui o opposti, quali tolleranza e verità - viene spesso radicalmente svisato nel suo significato più alto e profondo. Il relativismo, correttamente inteso, non è la negazione della verità e men che meno del significato e della necessità della sua ricerca. Esso è un indispensabile sale, non una pietanza; è un correttivo irrinunciabile nella ricerca della verità, che impedisce di credersene possessori definitivi, pervenuti a una piena e indiscutibile conoscenza della verità e autorizzati a imporla agli altri. Questo relativismo - rivolto a tutti i dogmatismi, a tutte le parole d'ordine e a tutte le opinioni dominanti del momento, soprattutto alle proprie convinzioni - è la base della tolleranza e della libertà. Ma c'è un altro relativismo che oggi detta legge come un dogma pacchiano, rinunciando a priori a cercare - certo a tentoni, perché nell'esistenza umana non è possibile altrimenti - una qualsiasi verità; rinunciando ad affermare qualsiasi valore, ponendo tutte le scelte morali sullo stesso piano, come in un menu in cui ognuno sceglie secondo i suoi gusti e le reazioni delle sue papille gustative. Chi si rifiuta di considerare l'etica come un supermarket è bollato, con intolleranza, quale retrogrado e reazionario. Tale relativismo è l'opposto del dubbio critico elemento costitutivo della libertà e della ricerca. È giusto e doveroso invece contestare il relativismo quale optional universale applicato alle scelte morali. .... Ogni pensiero, religioso o no, che pretenda di essersi impossessato della verità come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è una retorica menzognera che facilmente degenera in dogmatismo persecutorio, come l'Inquisizione e tutti i fondamentalismi d'ogni genere. Ma ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della verità e del significato della vita si riduce a un mero protocollo di un bilancio societario, magari - in nome del rifiuto della verità - truffaldinamente falsificato. Non possiamo vivere senza distinguere tra ciò che - almeno per noi - è relativo e ciò che - almeno per noi - è un assoluto. Pratiche religiose, morali sessuali, consuetudini del più vario genere, tradizioni anche profondamente sentite e radicate sono relative e relativi sono i doveri e i divieti che esse proclamano. Uccidere un bambino o schiavizzarlo in un lavoro bestiale, mandare gli ebrei ad Auschwitz non sono scelte relative, giustificabili o no a seconda del contesto sociale e culturale, ma sono - o almeno dobbiamo considerarli - un male assoluto. Probabilmente per la natura, per la forza di gravità e il moto degli astri, i Lager e i Gulag non contano più dell'estinzione dei dinosauri, ma per noi sì. La crescente mescolanza di culture, costumi, religioni e civiltà, con i loro valori diversi, devono indurci a fare il massimo sforzo possibile per mettere in discussione noi stessi e i nostri valori, pronti ad abbandonarli se altri si rivelano più credibili; pronti a considerare relativo ciò che eravamo abituati a considerare e a sentire come 7 immutabile, proprio perché, come è stato detto, ci saranno sempre purtroppo eschimesi pronti a rimproverare i neri del Congo di andare in giro poco vestiti. Ma afferma Todorov, altro pensatore illuminista che non ha nulla da spartire con le Chiese, dobbiamo stabilire alcuni, pochissimi, valori non più discutibili, ad esempio l'uguaglianza di diritti e la pari dignità di ogni persona indipendentemente dalla sua identità politica, etnica, religiosa, sessuale. Questo valore per noi non è «relativo», lo viviamo come una verità esistenziale e morale. Poco importa se alcuni lo ritengono dato da un Dio su un monte o elaborato dalla coscienza umana come i due postulati fondamentali dell'etica di Kant, non meno universali dei dieci comandamenti. Senza questa consapevolezza, il relativismo si degrada a indifferenza e ad arbitrio che, col pretesto di rispettare ogni opinione, può autorizzare la più atroce barbarie: io penso che non sia lecito sterminare gli ebrei, linciare i neri, mettere in manicomio i dissidenti politici o decapitare gli omosessuali, tu pensi invece di sì, ognuno ha diritto alla propria opinione e siamo tutti persone rispettabili. E invece va detto che chi pensa sia lecito trafficare con gli organi strappati a bambini o eliminare i disabili non è una persona rispettabile; è un porco o, nella migliore delle ipotesi, un imbecille condizionato da coatti pregiudizi sociali o razziali. ... Naturalmente è difficile individuare i valori da giudicare non più negoziabili, ma è in questo cammino e in questa ricerca che si gioca la più alta avventura della coscienza umana. Il relativista, per il quale tutto è interscambiabile, è invece - scrive Perlini intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo per la propria piatta sicurezza, che egli si convince sia l'esercizio della ragione, così come scambia l'indifferenza etica per democrazia. Un liberale a 24 carati quale Dario Antiseri ha sottolineato come l'autentica fede, proprio perché afferma di credere nella verità e non di sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell'assoluto. La fede, peraltro, a differenza di tante ideologie aiuta a non innalzare ad assoluto qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, religiosa, ecclesiastica; può essere una difesa contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un falso assoluto che esige cieca obbedienza. I fondamentalismi di ogni genere - soprattutto, ma non soltanto quelli religiosi - hanno perseguitato anche sanguinosamente questa libertà e questa verità. Il buon relativismo impedisce che la ricerca della verità si snaturi in tirannide spirituale e materiale. L'autentico illuminismo, fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è quello espresso da un genio della laicità quale Lessing, quando scriveva di non pretendere di possedere la verità, che spetta solo a Dio, e rivendicava per l'uomo la ricerca della verità - che non la raggiunge mai definitivamente ma è pur sempre ricerca di verità. Certo, anche l'affermazione di una verità può essere strumento della volontà di potenza, come Nietzsche ha visto genialmente, e ciò accade quando si presume di «avere» la verità come presumono i fondamentalismi di ogni genere, trionfalmente bigotti o trionfalmente atei, aggressivamente e pateticamente impari alla vita. Non si può essere fanatici della verità, che può essere talora crudele e devastante; talvolta può essere umanamente doveroso tacerla o smussarla a chi può esserne dolorosamente ferito, ma ciò ha a che vedere con l'amore o almeno col rispetto degli altri e non con la sicumera relativista per la quale non esistono il vero e il falso. È giusto rimproverare ad esempio alla Chiesa cattolica tanti no da essa pronunciati, come dice il libro di Sergio e Beda Romano, ma in certi casi, insegna Camus, è con un no, con una posizione «contro» qualcosa che cominciano la libertà e la dignità. Troppe brave persone sono convinte, come ho sentito dire una volta a una signora al caffè, che Einstein sostenesse che tutto è relativo... Claudio Magris “Il Corriere della Sera”, 23 febbraio 2012 http://www.corriere.it/cultura/12_febbraio_23/magris-relativismo-teme-verita_c996db805e07-11e1-ab06-25238cfc8ce3.shtml 8 L’OSPITE INQUIETANTE. IL NICHILISMO E I GIOVANI DI GALIMBERTI, U. Il nichilismo e la svalutazione di tutti i valori Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?". Che cosa significa nichilismo? che i valori supremi perdono ogni valore. F. NIETZSCHE, fr. 9 (35), in Frammenti postumi. Il disincanto del mondo Da Gorgia - per il quale "nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile"1 - a Heidegger - per il quale "che ne è dell'essere? Dell'essere ne è nulla! E se proprio qui si rivelasse l'essenza del nichilismo finora rimasta nascosta?"2 -, per l'intero arco della storia della filosofia, l'ospite inquietante ha fatto sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro tempo, questa presenza è divenuta clima della terra, spaesamento di tutti i paesaggi che gli uomini nella loro storia hanno di volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra. Ma perché proprio oggi? Perché, scrive Franco Volpi: Oggi i riferimenti tradizionali — i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori — sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l'indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l'efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo. Sotto la calotta d'acciaio del nichilismo non v'è più virtù o morale possibile3. Il paradigma tecnico-scientifico, infatti, non si propone alcun fine da realizzare, ma solo dei risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini destituisce, fin dalle sue fondamenta, ogni possibile ricerca di senso per quel tipo d'uomo, l'occidentale, cresciuto nella "cultura del senso" secondo la quale la vita è vivibile solo se inscritta in un orizzonte di senso. A questo tipo di domanda la tecnica non risponde, perché la categoria del senso non appartiene alle sue competenze. Ma siccome oggi la tecnica è diventata la forma del mondo, l'ultimo orizzonte al di là di tutti gli orizzonti, le domande intorno al senso vagano affannose e senza risposta in una terra ormai abbandonata dal suo cielo che ospita l'evento umano come qualsiasi altro evento. … La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l'età pre-tecnologica, e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici…. Nata con i Greci per emancipare l'uomo dall'oscurantismo delle credenze infondate, la ragione si era imposta sulle favole dei miti, sull'approssimazione delle opinioni diffuse, sull'infondatezza delle fedi, sul nichilismo degli scettici. In seguito, perfezionandosi, si è contratta nella razionalità tecnico-scientifica che non promuove 1 GORGIA, Del non essere o della natura, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1983, fr. B 3, p. 917. 2 M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207. 3 F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, pp. 175-176. 9 altro senso se non il proprio potenziamento afinalizzato. E così, in un orizzonte desertificato dove ogni fine ha la consistenza di un ingannevole miraggio, mancano la direzione, il senso, lo scopo. Il futuro come promessa Quali sono le ricadute del nichilismo soprattutto sulla condizione giovanile? A rispondere sono un filosofo e psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, che vive da molti anni a Parigi, e un professore di psichiatria infantile e dell'adolescenza, Gérard Schmit, che insegna all'Università di Reims4. I due studiosi hanno posto sotto osservazione i servizi di consulenza psicologica e psichiatrica diffusi in Francia e si sono accorti che a frequentarli, per la gran parte, sono persone le cui sofferenze non hanno una vera e propria origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà. Quali "tecnici della sofferenza" si sono sentiti impreparati ad affrontare problemi che non fossero di natura psicopatologica. E invece di adagiarsi tranquillamente sui farmaci a loro disposizione per curare il disordine molecolare e così stabilizzare la crisi, si sono messi a studiare e a pensare il senso che si nasconde nel cuore del sintomo, quando la crisi non è tanto del singolo quanto il riflesso nel singolo della crisi della società, che, senza preavviso, fa il suo ingresso nei centri di consulenza psicologica e psichiatrica, lasciando gli operatori disarmati. In che cosa consiste questa crisi? In un cambiamento di segno del futuro: dal futuropromessa al futuro-minaccia. E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale tutta concentrata sul presente), quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora, come dice Heidegger, "il terribile è già accaduto", perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l'energia vitale implode. Per i due studiosi tutto ciò è cominciato con la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche che ha segnato la fine dell'ottimismo teologico che visualizzava il passato come male, il presente come redenzione, il futuro come salvezza. La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi. La scienza, l'utopia e la rivoluzione hanno proseguito, in forma laicizzata, questa visione ottimistica della storia, dove la triade colpa, redenzione, salvezza trovava la sua riformulazione in quell'omologa prospettiva dove il passato appare come male, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o sociologico) come salvezza. Il positivismo di fine Ottocento, infatti, era animato da una sorta di messianesimo scientifico, che assicurava un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza. Sul versante sociologico Marx evidenziava le contraddizioni del capitalismo in vista di una radicale trasformazione del mondo, mentre sul versante psicologico Freud ipotizzava un prosciugamento delle forze inconsce non controllate dall'Io, perché "dov'era l'Es deve subentrare l'Io. Questa è l'opera della civiltà". L'Occidente - una volta abbandonato il pessimismo degli antichi Greci che, come ci ricorda Nietzsche, "sono stati gli unici ad avere la forza di guardare in faccia il dolore" - si è consegnato senza riserve all'ottimismo della tradizione giudaicocristiana che, sia nella versione religiosa sia nelle forme laicizzate della scienza, dell'utopia e della rivoluzione, ha guardato l'avvenire sorretta dalla convinzione che la storia dell'umanità è inevitabilmente una storia di progresso e quindi di salvezza. 4 I M. BENASAYAG, G. SCHMIT, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004. 10 I1 futuro come minaccia Oggi questa visione ottimistica è crollata. Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) hanno mancato la promessa. Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare il futuro dall'estrema positività della tradizione giudaico-cristiana all'estrema negatività di un tempo affidato a una casualità senza direzione e orientamento. E questo perché, se è vero che la tecno-scienza progredisce nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci getta in una forma di ignoranza molto diversa, ma forse più temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di far fronte alla nostra infelicità e ai problemi che ci inquietano e che paurosamente ruotano intorno all’assenza di senso. … Oltre il nichilismo La vita come sperimentazione È possibile oltrepassare il nichilismo e soprattutto la ricaduta sui giovani della sua atmosfera che fa ripiegare ogni senso su se stesso, che spegne ogni iniziativa, che cancella ogni prospettiva, che inoltra in quella notte buia e così poco rassicurante dove il futuro si fa incerto e ogni slancio vitale implode? O dobbiamo dire quello che Nietzsche diceva di sé, quando si definiva: Il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso - che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé.5 Eppure, anche se non più protetto dalla verità, dalla fede, dall'ideologia, perché queste figure sono state investite da quello che Nietzsche chiama "il vento del disgelo", forse è possibile un oltrepassamento del nichilismo, se è vero, come scrive Franco Volpi, che: Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni, ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all'altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro. Dopo la caduta della trascendenza e l'entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che disfa (analyei) incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.6 Questa "filosofia di Penelope", come la definisce Volpi, assomiglia a quella che da tempo vado chiamando "etica del viandante", che i giovani, affrancati dall'illusione di una meta da raggiungere, già hanno fatto propria quando si abbandonano alla corrente della vita, non più da spettatori, ma da naviganti e, in qualche caso, come 5 1 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, Adelphi, Milano 1971, fr. 11 (411), § 3, p. 393. 6 3 F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, p. 178. 11 l'Ulisse dantesco, da naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, scrive: Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: "la costa scomparve - ecco anche la mia ultima catena è caduta - il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!".7 L'appello al cuore dice che i giovani sono già oltre i territori giurisdizionali in cui finora abbiamo fissato le nostre dimore, ma questa ulteriorità dice cose più profonde di quanto non lasci pensare. Cancellata ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo, i giovani non stanno al gioco delle stabilità o delle definitività, e perciò liberano il mondo come assoluta e continua novità, perché non c'è evento già inscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l'immotivato accadere. L'andare che salva se stesso, cancellando la meta, inaugura infatti una visione del mondo radicalmente diversa da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella l'andare. Nel primo caso si aderisce al mondo come a un'offerta di accadimenti, dove si può prendere provvisoria dimora finché l'accadimento lo concede; nel secondo caso si aderisce al senso anticipato che cancella tutti gli accadimenti i quali, non percepiti, passano accanto agli uomini senza lasciar traccia, puro spreco della ricchezza del mondo. Non attraversate dall'evento nel suo accadere immotivato, le generazioni che hanno preceduto la gioventù di oggi hanno riprodotto il modello dell'uomo della stabilità, difeso e chiuso nelle spesse mura della Società della torre di cui parla Goethe, mentre i giovani d'oggi, al pari del viandante che accade insieme all'evento, recalcitrano a ogni schema di progressione e significazione, per dire sì al mondo, e non a una rappresentazione tranquillizzante del mondo. Impossibilitati a dominare il tempo inscrivendolo in una rappresentazione di senso, i giovani d'oggi, dopo aver rinunciato alla meta, sanno guardare in faccia l'indecifrabilità del destino, rifiutando quei cascami irradiati da un destino risolto in benevola provvidenza. Non si legga quindi l'etica del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, dove è l'accadimento stesso, l'accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro. Se noi adulti siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora l'etica del viandante può offrire ai giovani un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le loro costruzioni, perché l'apertura che chiede sfiora l'abisso, dove non c'è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione che i giovani aborrono, che è poi quell'andare e riandare sulla stessa strada, senza che una meta si profili davvero all'orizzonte. Gli anni che stiamo vivendo hanno visto lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se "etica" vuol dire "costume", è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine per lasciar spazio a un'etica che, dissolvendo recinti e 7 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., Parte III: "I sette sigilli (ovvero: il canto 'sì e amen')", p. 281. 12 certezze, va configurandosi come etica del viandante che non si appella al diritto ma all'esperienza e all'ideazione. A differenza dell'uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante, infatti, non può vivere senza elaborare la diversità dell'esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel "cielo stellato" e nella "legge morale",8 che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell'arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante con la sua etica può essere il punto di riferimento dei giovani d'oggi, se appena la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della deterritorializzazione. Fine dell'uomo come l'abbiamo conosciuto sotto la tutela della fede, o della verità, o della certezza scientifica, che finora hanno fatto da argine alla sua intrinseca debolezza, e nascita di un uomo sempre meno garantito e perciò costretto a cercare valori che trascendono quelle che per noi erano salde garanzie. Il prossimo, sempre meno specchio di me e sempre più "altro", obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. U. Galimberti, “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, 2007. Estratti pag.17-28, 141-146 A questo indirizzo puoi trovare altri materiali sul dibattito tra pensiero debole e nuovo realismo http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/il_neorealismo_sini.html In questo video Gianni Vattimo si interroga sui motivi d’esistenza del nuovo realismo. http://giannivattimo.blogspot.it/2014/01/ermeneutica-o-nuovo-realismo.html 8 I. KANT, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1955, p. 199: "Due cose riempiono l'anima di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte. Io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza". 13