digital magazine | ottobre 2014 | n. 120
perfume
genius
D o n ’ t y o u k n o w
y o u r q u e e n ?
sommario
>>>articoli – p. 4
Alt-J
Rashad Becker
Mattia Coletti
Perfume Genius
alber(t)i
Inspiral Carpets
Industrial Soundtrack For The Urban Decay
GustoForte
Om Unit
ROBOT 07
Loudness War e qualità audio
>>>recensioni – p. 78
>>>rubriche – p. 168
#120
ottobre
Direttore
Edoardo Bridda
Coordinamento promo
Gaspare Caliri, Stefano Pifferi
Art director
Nicolas Campagnari
A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito:
Fabrizio Zampighi, Marco Braggion, Nino Ciglio, Marco Boscolo,
Alessia Zinnari, Stefano Pifferi, Riccardo Zagaglia, Diego Ballani,
Marco De Baptistis, Gianluca Lambiase, Giulio Pasquali, Edoardo Bridda,
Stefano Solventi, Stefano De Stefano, Alessandro Pogliani, Giulia Antelli,
Andrea Murgia, Stefano Gaz, Elia Galli, Andrea Macrì, Christian Panzano,
Marco Frattaruolo, Gabriele Marino, Eugenio Goria, Teresa Greco,
Tommaso Iannini, Enrica Selvini, Alessandro Liccardo, Daniele Rigoli,
Fabrizio Z., Samanthia Clark
Copertina
Perfume Genius
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2014 Edoardo Bridda.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto
e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
A l t - J
D i
M i l e y
C y r u s ,
al i e n i
e
c e r v i ,
a r a n c i n i
s i c i l i a n i
Abbiamo incontrato Gus UngerHamilton, tastiere e voce degli
Alt-J, per discutere degli scenari
dietro la pubblicazione del secondo,
attesissimo album della band.
>>>Testo di Nino Ciglio
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Vincere il Mercury Prize al primo tentativo, vedersi sobbalzati dall’anonimato
alla fama internazionale, convincere
critica (se si eccettuano gli “american
hipsterismi” di Pitchfork) e pubblico
con un sound crossover fra atmosfere
sognanti, vocalità armonizzate e accenni folktronici, non dev’essere facile. Gli
Alt-J ne hanno pagato le conseguenze, con il recente abbandono di Gwil
Sainsbury che, stando a quanto dice la
band, non era più in grado di gestire
lo stile di vita che si confà a una band
popolare. Ridotti con le spalle al muro,
le grandi band sanno reagire e il (neo)
trio di stanza a Leeds ha trovato i propri
mezzi espressivi, andandoli a scovare
fra i ritornelli dei brani di Miley Cyrus,
nella cinematografia pop sci-fi, ma,
soprattutto, nel verde armonico della
natura che riempie tutte le quattordici tracce del nuovissimo This Is All
Yours.
Se il Guardian, poi, ha voluto definirli
“ordinary people” e dedicare loro un’intervista sulla vita normale condotta da
quella che è a tutti gli effetti una band
di fama mondiale, un motivo ci sarà. Gli
Alt-J provano a conservare il loro essere genuini ex-studenti, perfettamente
british e polite in ogni loro comportamento. Noiosi, qualcuno dirà? Forse, ma
fra i movimenti ritmici simil trip-hop, i
vocalizzi medievali e, soprattutto, un’inedita veste alla Doors-Black Keys, gli
Alt-J promettono di fare scintille anche
negli States.
Abbiamo incontrato Gus Unger-Hamilton, tastiere e voce della band, per
discutere di queste e di molte altre cose,
alla vigilia della pubblicazione del loro
secondo, attesissimo, album.
Il disco è già in streaming via Spotify,
giorni prima della release ufficiale…
come mai questa scelta?
Spotify ci ha convinti al farlo. Abbiamo
provato a guardare al modo in cui viviamo la nostra musica, con tutti i nostri
errori e difetti. Molte persone avrebbero
comunque trovato un modo per ascoltare il disco alla fine e crediamo che sia
impossibile e ingiusto tenere la musica
al guinzaglio… Perché le persone non
possono semplicemente godere della
musica nel modo più facile possibile?
Contestualmente, avete reso disponibile una app per condividere, commentare e trovare i punti più vicini di
ascolto di This Is All Yours. Come vi è
venuta questa idea?
Abbiamo reso disponibile lo streaming
dell’album e, attraverso l’applicazione,
le persone possono taggarsi, scrivere recensioni sul momento, trovarsi in tutto
il mondo, attraverso le nostre canzoni.
Penso sia splendido che, grazie alla
musica, nell’area delimitata dall’app,
tu possa camminare in qualche posto
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meraviglioso come un parco, una montagna o un lago. Abbiamo pensato fosse
bello che le persone potessero ascoltare
la nostra musica in questi posti.
L’università ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione e nella
musica degli Alt-J. Vi siete conosciuti
lì e avete iniziato a suonare in quel
contesto. Quanto pensi siano importanti i vostri studi per la vostra musica e lo sono ancora all’alba del nuovo
album?
Credo che sia vero principalmente per
l’album precedente. Quando stavamo
scrivendo quel disco eravamo realmente
6
studenti universitari e quando è uscito
io e Thom ci eravamo appena laureati
a Leeds. Sono passati quattro anni e
mezzo, è un bel po’ di tempo. Ma ovviamente traiamo ancora molto beneficio
dall’educazione che abbiamo acquisito
e siamo persone critiche, che guardano
alle cose in modi diversi. Se non fossimo andati all’università, probabilmente
avremmo pensato in maniera diversa.
Dopo aver vinto il Mercury Prize nel
2012 a dopo essere diventati estremamente popolari, avete sentito parti-
colari pressioni nel processo di scrittura del nuovo album?
No, non proprio. Volevamo consapevolmente ricreare l’ambiente in cui abbiamo scritto il primo album, cioè solo noi,
che ci divertiamo e passiamo del tempo insieme. Questo è come facevamo
musica quando eravamo studenti ed è
come la facciamo anche ora che abbiamo trovato gli spazi giusti per lavorare,
certamente non uno studio. Ci siamo incontrati ogni giorno per chiacchierare,
ascoltare musica, fumare erba. Abbiamo
pensato fosse giusto così, perché se non
avessimo fatto così, semplicemente non
avremmo fatto musica. Avevamo bisogno di un ambiente creativo e, grazie a
questo, siamo riusciti a vedere i fatti per
quelli che realmente erano: gli Alt-J che
facevano il secondo disco. È stato come
se un gruppo di ragazzi si godesse un
po’ di tempo insieme, facendo musica.
Avete scritto il disco voi tre, come un
trio? Cambia qualcosa rispetto alla
scrittura con Gwil?
Come il primo disco, la maggior parte
delle canzoni sono venute da Joe, nel
senso che se scrivi le parole, ti occupi
anche degli aspetti fondamentali della
melodia. Ha portato le canzoni a me e
Thom e poi abbiamo lavorato in comune, come facciamo normalmente.
Ma qual è la differenza più grande rispetto ad An Awesome Wave? Come
cambia il lavoro senza Gwil?
Credo che la differenza principale stia
nel fatto che questo disco è stato scritto
e registrato in un periodo di tempo minore, in tutto due settimane, quindi probabilmente suona più uniforme. Non ci
sono stati reali cambiamenti da quando
Gwil ha lasciato la band, semplicemente
ci siamo sentiti piantati a terra, perché
eravamo soliti approcciarci alla musica
come un gruppo. E’ strano scoprire di
non avere più un motore portante.
Scorrendo la tracklist di This Is All
Yours sembra che ci sia una sorta di
percorso narrativo, soprattutto nelle
canzoni intitolate Nara. Cosa puoi
dirci di più a tal proposito?
Nara è un posto in Giappone, dove ci
sono cervi che girano liberi in città. La
canzone è una metafora che riguarda le
persone che dovrebbero sentirsi libere
di fare quello che vogliono, come i cervi
a Nara. L’album è molto strutturato, ma
non credo che il percorso di cui parli
sia da riferirsi all’intero disco. Solo alle
canzoni chiamate Nara…
C’è molta natura nel disco, come se
aveste ritrovato un rapporto con
essa. Eppure, è stato in parte registrato in un edificio medievale…
Già, siamo andati nelle campagne nel
Kent per due settimane in questo salone medievale ed è stato molto bello. Un
posto storico per registrare…
Ma allo stesso tempo, ci sono i cervi,
le vespe, le farfalle, gli uccelli, le cam-
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pane… è diverso rispetto alle strade
rumorose del primo album…
Beh, interessante. Non so esattamente.
Eravamo in campagna, in questa splendida estate inglese e c’erano api che
ronzavano intorno… credo sia bello dare
il gusto, il sapore del posto in cui stai
lavorando al prodotto finale. Allo stesso modo nel primo album, che è stato
registrato a Londra, c’erano le strade di
Brixton. In entrambi gli album abbiamo
cercato questo aspetto. Anche le campane presenti in questo disco arrivano
dal municipio di Brixton. Credo sia una
cosa che ci piace fare. Riguardo alle
connessioni con il Medioevo, abbiamo
trovato da sempre interessante quel
periodo e la musica collegata a questo
e si nota bene in canzoni come English
Garden…
Proprio come in una canzone medievale, sembra che ci siano molte voci
nel disco, ma non troppe parole. È
una vostra scelta?
Esattamente. Ci piace usare la voce
come uno strumento. Non devi avere
necessariamente le parole, se vuoi cantare.
Ci sono però anche brani come Gospel Of John Hurt, in cui si descrive
la sensazione legata alla famosa scena
dell’alieno che fuoriesce dallo stomaco di John Hurt in Alien. Ha traumatizzato anche me…
[Ride, ndSA] È una vecchia canzone che
avevamo scritto quando eravamo ancora
studenti, ma non era entrata nel primo
disco perché non era completa. Durante le sessioni del nuovo album, però, ci
siamo accorti che funzionava e l’abbiamo inserita. L’aspetto testuale è quella
precisa immagine del film, ma non c’è
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un significato particolare.
Left Hand Free, il vostro secondo
singolo, è estremamente diversa da
Hunger for The Pine… alcuni dicono
che sia stata la vostra etichetta americana a costringervi a fare quel tipo
di canzone…
No, è una notizia riportata in modo
errato. Dopo aver scritto le canzoni del
disco, fra cui Left Hand Free, le abbiamo mandate a quelli dell’etichetta e
proprio quel brano li ha particolarmente convinti. Ci siamo sentiti confusi, dal
momento che per noi non era la migliore del disco, ma a loro piaceva un sacco. Allora abbiamo pensato: «Ok, se gli
americani vogliono cose così…». Se una
canzone può andar forte in America, a
noi non può che fare piacere.
Non credi che sia un po’ scendere a
patti con il commerciale?
Credo che in America siano soliti giocare la partita in un modo diverso,
rispetto a quello che facciamo noi in
Europa. È un mondo diverso, più legato
all’industria, old fashion… Non amano
le persone che non stanno al gioco e noi
vogliamo provarci, provare ad arrivare
alle radio, stare al gioco.
Giocare la partita significa anche
tirare dentro Miley Cyrus, se necessario…
Già, Thomas aveva fatto un remix per
lei, che è una nostra fan e le è capitato
di twittare cose su di noi, a volte. Così,
Thom l’ha contattata e le ha chiesto di
partecipare. Mentre scrivevamo Hunger
Of The Pine, poi, ci è sembrata molto
simile a 4X4, allora abbiamo provato a
mettere dentro il sample della sua voce
ed effettivamente suonava molto bene.
Avete nuove tecnologie sul palco?
Come cambia la performance ora?
Sì, abbiamo diverse tecnologie: Thom
ha alcuni nuovi pad elettronici nel suo
drum kit e sia io che il chitarrista abbiamo nuove SPD. Siamo più hi-tech
sul palco, ma teniamo ancora molto alla
performance dal vivo, ad avere voci o
batterie live.
In una recente intervista, il Guardian
via ha definito “completely normal”.
Mi chiedevo se c’era proprio bisogno
di specificarlo…
A noi va bene così… sai, ultimamente
non c’è molto da dire sulle band, ma
qualcosa la devi pur dire. Noi, certo, non
siamo persone ordinarie, ma credo che
non siamo particolarmente pretenziosi
o appariscenti.
Certo che qualcuno che, da perfetto
sconosciuto, è passato in pochi anni a
diventare popolare in tutto il mondo,
non collide felicemente con l’espressione “completely normal”…
Il nostro scopo non è mai stato quello di
diventare famosi o popolari. Abbiamo
provato a rimanere simili alle persone
che eravamo da studenti.
Siete per natura molto vicini alle
performance live e in particolare ai
festival…
Non possiamo sempre scrivere o registrare la musica. Pensa che due anni fa
siamo stati la terza band che ha suonato
di più nei festival… assurdo!
Ma stare in tour vi aiuta anche a scrivere nuovo materiale….
Già, è così perché abbiamo finalmente
del tempo da passare insieme.
Verrete a Milano a febbraio e siete
stati due anni fa in Sicilia, all’Ypsigrock…
Sì, quello dell’Ypsigrock è stato uno dei
concerti migliori che abbiamo fatto.
Un posto incredibile, ricordi splendidi
di noi che guidiamo nelle colline, nuotiamo nel mare, mangiamo un sacco di
arancini. Abbiamo conosciuto ottime
persone, ci siamo divertiti molto. Probabilmente quella data è nella top 3 dei
live che abbiamo mai fatto. Un po’ mi
manca questa dimensione perché ora
suoniamo in festival più grossi e, a volte,
possono essere davvero noiosi. Amiamo
i piccoli festival come l’Ypsigrirock perché ti fanno sentire connessi con l’intero evento. Non vediamo l’ora di tornare
in Italia.
9
Ra s h ad
B e c k e r
In occasione della data al Path Festival
di Verona, abbiamo intervistato via mail
Rashad Becker, interessante musicista e
ingegnere del suono tedesco.
>>>Testo di Marco Braggion
10
S u o n o
d u n q u e
s o n o
A settembre 2013 esce un disco che hanno notato in pochi, forse perché relegato alla categoria della cosiddetta musica
sperimentale, porto di mare per nerd
dell’elettronica o per malati di avanguardia. L’album è l’esordio di Rashad
Becker, Traditional Music of Notional Species Vol. I. Il nome di Becker
non è nuovo agli aficionados degli studi
di registrazione, infatti il produttore e
ingegnere del suono tedesco ha lavorato
con i più importanti artisti e innovatori degli ultimi anni, passando dalla
techno di Marcel Fengler a Joy One
Mile di Stellar OM Source, dallo split
fra Keith Fullerton Whitman e Floris
Vanhoof arrivando fino al nostro Donato Dozzy nell’eccellente Dozzy Plays
Bee Mask (queste sono una misera
parte delle collaborazioni: su Discogs ce
ne sono più di 1200).
Il suo tocco magico si divide fra il
mastering – al famoso studio Dubplates and Mastering, affiliato con Hard
Wax, altra grande etichetta di culto per
gli amanti dei suoni techno dub – e il
mixing (nel suo studio privato Clunk).
Tutto concentrato a Berlino, ovviamente. Becker è un personaggio strano, uno
che non fa la star, uno che fa parlare i
suoni e che per questo esce fuori con un
disco unico, raro, quasi già classico perché fuori dal tempo. Il suo è uno dei più
interessanti approcci alla musica elettronica, imparato mettendosi a lavorare
con i suoni, senza troppi marchingegni
o patch e senza nemmeno alcun corso
di musica formale. Poche macchine e
tanto, tanto, orecchio. Becker è uno dei
pochi che riesce a rispettare la materia
sonora senza renderla noiosa, indagando sulla costruzione del suono per la
composizione, sull’amalgama perfetto
che crea mondi, più che effetti speciali.
Dopo l’uscita del disco, sta girando
il mondo con il live, con cui tenta di
riprodurre dal palco la perfezione della
costruzione di sintesi da studio. L’abbiamo intervistato prima dell’esibizione al
Path Festival di Verona.
Ciao Rashad, come stai? Non ho mai
assistito a un tuo spettacolo dal vivo,
quindi la mia intervista sarà basata
solamente sull’ascolto del tuo album
e su qualche video che ho trovato in
rete. Trovo il tuo modo di comporre
molto concreto (concréte), nel senso
di Pierre Schaeffer. Usi suoni registrati dal vivo per comporre i tuoi
pezzi? Puoi dirci quali strumenti usi,
in termini di software, hardware,
microfoni, etc…?
I suoni sono tutti di sintesi e abbastanza
classici. Uso molta sintesi sottrattiva
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(cioè filtraggio, ndSA), qualche wavetable e qualcosa di analogico virtuale. Lo spettro delle macchine usate è
abbastanza limitato, preferisco avere
solo uno strumento e imparare bene ad
usarlo, rispetto ad avere una moltitudine di piccole scatole specializzate. I
sintetizzatori che utilizzo sono molto
vecchi, il mio strumento principale l’ho
comprato a 18 anni ed è ancora fonte di
ispirazione.
Ho letto un’intervista su Wire l’anno
scorso nella quale dicevi che eri un
po’ stanco di Berlino e che ti sarebbe
piaciuto trasferirti in Giappone. Ci
sei andato?
No. La politica giapponese da Abe
(l’attuale primo ministro nipponico) in
poi sta prendendo una piega disgustosa, e anche se è interessante vedere in
che modo emergano gli antagonismi in
una società così conformista, non lo è il
pensare a trasferirsi in un Paese dove il
giornalismo è stato praticamente reso
illegale e ogni uomo maggiorenne riceve
una lettera che gli chiede di servire la
sua patria con le armi…
In qualche modo i tuoi suoni sono
zen, mai troppo saturi, e usi molto
il silenzio. Pensi che il tuo modo di
comporre o di suonare sia influenzato dalla filosofia zen (come in Cage)?
Apprezzo come il buddismo zen abbia trovato il modo per oltrepassare
la comprensione (undestanding) per
puntare alla realizzazione… Lo guardo
comunque da una certa distanza e non
posso affermare che abbia una relazione
diretta con la mia musica.
Pensi che il tuo lavoro (ingegnere
del suono) abbia influenzato il tuo
sound? In che modo?
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Non ne sono completamente sicuro,
anche se la pratica costante dell’ascolto
analitico e la localizzazione/isolamento
degli armonici aiutano a costruire i suoni di sintesi, specialmente quando lavori
con la sintesi sottrattiva… mi aiutano
anche a capire e valutare meglio quale
potenziale mi possano dare gli strumenti e i filtri che uso.
In Italia, dopo la guerra, c’è stato un
folto gruppo di compositori allo Studio di Fonologia Musicale a Milano.
Fra gli altri (Berio, Maderna), c’era
anche Marino Zuccheri, ingegnere
del suono. Conosci il suo lavoro (ha
collaborato anche con Luigi Nono)?
Sfortunatamente no, ma cercherò di
approfondirlo.
Pensi che la tecnica sia in qualche
modo musicale? I tuoi suoni sono
molto ben bilanciati fra tecnica e registrazioni sul campo. Mi piace molto
questo equilibrio…
Sicuramente i circuiti possono essere
modellati più o meno musicalmente,
senza riferimento a generi o gusti…
questo è vero per i filtri, gli inviluppi,
i LFO, gli amplificatori dinamici, gli
altoparlanti, quasi tutto penso… Non ci
sono suoni registrati nella mia musica.
Ho sintetizzato tutto (eccetto per un
feedback su un pezzo, ma anche questo
potrebbe essere pensato come una forma di sintesi).
Ho letto che sei molto interessato
alla world music. Usi qualche tool
“etnico” per comporre?
Mi ha sempre irritato l’uso del termine
world music. È un termine generale
senza senso che potrebbe comprendere
tutta la musica prodotta. Non è, forse,
un tool etnico anche il synth prodotto
da un bianco anglosassone che riflette
il design americano? Ma ripeto, non ci
sono strumenti, tutte le fonti sonore
sono sintetiche.
So che hai registraro per altri artisti
anche musica disco ed elettronica
non sperimentale. Ascolti qualcosa
da dancefloor? Ti piace?
Difficilmente ascolto quel tipo di musica e se lo faccio guardo al passato. La
dance è un genere vasto, ci sono cose
che reputo molto ispirate o convincenti
o intriganti o sorprendenti, mentre ci
sono altri pezzi che sembrano generici
o ritmicamente frustranti. Penso che sia
come in tutta la musica: ci sono poche
noccioline che mi dicono qualcosa e una
grande fetta che non mi dice molto.
Trovo che la tua musica sia molto
dark. Ti senti vicino al dubstep o
all’industrial?
La musica e la cultura industrial sono
state entrambe molto presenti nella mia
gioventù. Ci sono molti dischi dei primi
anni dell’industrial che ascolto abbastanza regolarmente ancor oggi, prima
che si mescolasse con l’EBM e con i sequencer. Giudico la mia musica comica
e intensa nel contempo. Metà del pubblico la percepisce come dark, per l’altra
parte come divertente. Mi piace questa
dicotomia.
Hai studiato musica a scuola, in modo
formale, prima di comporre il tuo
primo disco?
Ho imparato a suonare qualche strumento, ma non sono mai stato a scuola
di musica, nel senso accademico del
termine.
Cosa stai ascoltando negli ultimi
mesi?
Sto ascoltando musica Samul nori, un
genere di musica tradizionale per percussioni della Corea del sud.
Ho visto un video live dello scorso
anno dal PAN ACT Festival presso il
Goethe Insitut di Boston. In quell’occasione hai usato solo sampler e
mixer. Non usi mai software per live
electronics come MAX/MSP o Ableton Live per modificare il suono dal
vivo con tecniche più sofisticate?
Non uso computer per comporre o
suonare. Riesco comunque ad utilizzare
sintesi dal vivo, è quasi il 60% di tutti i
segnali con cui lavoro sul palco. Il resto
è campionato perché sarebbe impossibile portare in giro tutte le macchine con
cui lavoro, sono troppo vecchie o pesanti… o entrambe le cose. Quindi suono il
campionatore, che considero un ottimo
strumento di per se stesso. Nel video cui
ti riferisci ci sono tre synth Nord Micro
Modular (un sistema virtuale analogico) e un po’ di equipaggiamento per il
sound processing.
Mi sembra che i tuoi suoni siano
connessi in qualche modo al lavoro di
Donato Dozzy. Lo conosci? Hai mai
lavorato con lui?
Curiosa osservazione! Sì, ho lavorato
con lui per qualche suo lavoro.
Piani per il futuro? Un secondo album (la Parte 2 dell’esordio)? O altri
live in giro per il mondo?
Assolutamente entrambe le cose.
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Ma t t i a
C o l e t t i
L'occasione è l'uscita del quinto lavoro
lungo di Mattia Coletti. Il risultato è una
chiacchierata, purtroppo breve, sulle
influenze, sulle novità, sull'attività da
chitarrista e fonico di uno dei più interessanti
musicisti italiani
>>>Testo di Stefano Pifferi
14
F r o m
T h e
L a n d
t h e
t o
M o o n
Un passato noise-rock; un presente da
chitarrista in solo; in mezzo, una mai
disattesa attenzione per il suono. Così,
con un sunto veramente limitativo si
potrebbe introdurre Mattia Coletti, uno
dei più interessanti chitarristi italiani,
oltre che produttore e fonico di primissimo ordine, dietro al bancone mixer a
registrare e/o curare suoni live di band
come OvO (di cui è una sorta di membro-ombra), Moon Duo – sua la registrazione dell’ultimo Live In Ravenna
– o Bachi Da Pietra.
Due ottimi album noise-rock targati Sedia – l’omonimo del 2004 e The Even
Times del 2006 – insieme ad Alessandro Calbucci e Alessio Compagnucci
in un power-trio che avrebbe meritato
altre attenzioni; il quotato progetto
Polvere condiviso con l’altro chitarrista
extra-ordinaire Xabier Iriondo che
ha fruttato un mini-album e tre lavori
lunghi quasi tutti omonimi e pubblicati
in CD (l’omonimo esordio del 2006),
10” (anch’esso omonimo) e cassetta
15
(l’ultimo nato Polvere’s Farewell su
Old Bycicle); l’unicum Manta a nome
Leg Leg, band condivisa coi conterranei
Roberto Ceccacci (batteria, ex Lleroy) e Andrea Giommi (basso, Edible
Woman) più una serie sterminata di
collaborazioni come 61 Winter’s Hat
(l’omonimo in 3” mini-CD condiviso
con Fabio Magistrali ed inserito nella
Wallace Mail Series), Damo Suzuki’s
Network (Coletti è una delle due chitarre in Tutti I Colori Del Silenzio), End
Of Summer (due Sedia + i due Uncode
Duello, Paolo Cantù e l’immancabile
Iriondo) o Christa Pfangen (il lavoro
con Andrea Belfi edito da Die Schachtel
nel 2006 che seguiva il cd-r Key On A
Tongue intestato però ai due titolari)
dicono di una irrefrenabile produzione
sempre di altissimo livello e sviluppata
tra post-rock chitarristico, avant-rock,
noise-rock e quant’altro.
Per la dimensione in solo, esposta in
album come Zeno, Zeno Submarine,
Pantagruele e The Land, Coletti si
concentra sulla sua chitarra elettricoacustica tarata in modalità ritual bluesy/
avant-folk e su pochissimo altro. Un
pochissimo altro che spesso assume
le forme di pulviscolo sonoro, disturbi
elettrostatici, sporcizia digitale, andando ad impreziosire quella ricerca sulla
sottile linea rossa che divide la sperimentazione dalla tradizione, la dissonanza dalla melodia, e che, col passare
dei dischi, si va sempre più focalizzando sul suono e sui dettagli, spostando
l’impianto originario verso lande “altre”. “Haiku sonori” abbiamo spesso
definito quei bozzetti in cui il procedere
chitarristico è sviluppato lungo l’asse
della reiterazione e della ciclicità senza
16
mai farsi accumulo fine a se stesso, ma
prediligendo una essenzialità pura e
sostanziosa. E sempre ad una sorta di
legame col poetico minimalismo della
succitata forma letteraria giapponese –
Paese con cui Coletti ha instaurato un
rapporto più che profondo – rimandano
le atmosfere evocate dai suoi intarsi
chitarristici: rigore, eleganza, osservanza. Quasi che vi fosse una sorta di laica
spiritualità di fondo pronta ad emergere
sotto le forme malinconicamente evocative delle struggenti pastorali acustiche
del Nostro.
Nell’ultimo lavoro Moon, Coletti però
compie uno scarto in avanti non indifferente, grazie all’introduzione dell’elettronica sotto forma di beat, pad ritmici
o drones che vanno a spostare l’asse
elegiaco delle musiche del Nostro verso
qualcosa di più corposo e robusto. Non
perdendo mai di vista quanto detto
sopra – reiterazione di cifre chitarristiche che si avviluppano l’una sull’altra, malinconia immaginifica di fondo,
predilezione per la pastorale visionaria,
alternanza di corde acustiche e elettriche – ma donando al tutto quel pizzico
di alterità che ci fa presupporre nuovi
sviluppi futuri, Coletti fa pulsare di un
battito nuovo le sue musiche atavicamente riconoscibili. Incuriositi da questo approdo lunare, abbiamo scambiato
qualche parola con l’autore.
Partiamo dall’artwork, che credo sia
esplicativo del tuo procedere musicale. Radici mutanti per alberi apparentemente simili, proprio come la
tua musica, in apparenza in linea con
la tradizione ma sempre pronta allo
scarto in avanti…
Mi fa felice il fatto che mi si chieda
della grafica. Per prima cosa, la grafica è
stata disegnata da Anna Secchia, in arte
Ludo, una ragazza bravissima e piena di
talento. Come dicevi tu, una volta visto
quel disegno ho subito pensato di usarlo
come copertina perché rappresentava in
pieno l’idea del disco. Essenziale, semplice all’apparenza, ma complesso nel
dettaglio. Volevo dare alla vista la stessa
idea di semplicità e apertura del suono.
Come nei lavori precedenti, l’equilibrio
tra vari opposti mi ha sempre attratto;
se nei primi lavori era una ricerca di
unione tra sperimentalismo e melodia,
ora si colloca tra suoni acustici ed elettronici o fra dilatazioni e ritmo.
Mi incuriosisce questa ultima parte, in particolare il riferimento alla
ricerca su dilatazioni e ritmo. Puoi
spiegarmela meglio?
Su Moon ci sono tutti gli ingredienti
base della musica che ho sviluppato nel
tempo: le chitarre, i suoni ambientali
e la ricerca del suono per semplificare. Negli anni, da una musica piuttosto
astratta sono arrivato sempre più vicino
alla forma composta, concreta, vicina al
più classico termine di “canzone”. Ma
solo su questo disco si trova anche il
ritmo, un tocco di groove, di pulsazione
presente, che affiancato a dilatazioni e
rarefazioni sonore, dà al lavoro quello
che cercavo, un omogeneità che avvicina ancora di più ad una idea di musica
17
fluida, quasi pop… Credo che questo elemento renda il disco più facile e leggero.
Abbini l’attività da musicista con
quella di fonico/produttore (Moon
Duo, Bachi Da Pietro, OvO). Quanto
incide l’una sull’altra?
E Guano Padano, così sono tutti dentro. Beh incide molto, nella maniera
in cui il suono è sicuramente una parte strutturale della musica stessa che
faccio; inoltre, la possibilità di viaggiare
molto e con gruppi diversi mi dà stimoli ed input che influenzano e possono
caratterizzare un futuro lavoro. L’unico
aspetto negativo è riuscire a far convivere i lavori da fonico con le mie date
live, ma questo fa ormai parte di una
triste ma capace abilità organizzativa.
I titoli dei tuoi lavori sono spesso, se
non sempre, diretti ed evocativi di un
intero immaginario. Dalla Terra stavolta sei andato sulla Luna. Cercavi
ariostescamente un senno perduto?
La musica, come l’arte, è per me totale
immaginazione. Mi piace cercare di
portare la musica, e quindi un disco,
verso un luogo “altro” dove ognuno è
libero di trovare quello che sente, che
prova. Il titolo è poi nato anche grazie
all’unica parte di voce e di testo che c’è
nel disco, voce di un musicista danese
straordinario e un amico importante,
Own Road, con il quale sarò in tour in
Italia a inizio novembre. “Moon”, la
luna, una dimensione lontana, un luogo
a cui spesso lanciamo molti pensieri.
Con il disco precedente volevo dare
un’idea di approdo terreno, con Moon
la Terra non c’è più.
Mi ha molto incuriosito l’utilizzo dei
beat in alcuni momenti di Moon. Pos-
18
so chiederti da dove proviene questa
necessità?
Gli elementi elettronici sono infatti la
parte nuova e caratterizzante del disco. Sono da tempo amante di musica
elettronica, soprattutto di quella più
informale e libera, e cercavo al tempo
stesso in questo disco di andare verso
una amalgama più fredda, meno acustica o comunque meno morbida. Inoltre, questi interventi hanno portato un
altro aspetto che prima non c’era e che
volevo inserire: il ritmo. Mi sono divertito molto a cimentarmi con un nuovo
strumento del tutto differente, come
approccio, rispetto a una chitarra o a
uno strumento acustico, un po’ come si
fa da piccoli con una tastiera colorata
davanti, quando si premono tutti i tasti…
La mancanza di controllo ha talvolta i
suoi lati positivi! Per il momento sono
solo piccoli interventi che però non mi
dispiacerebbe sviluppare maggiormente
in futuro.
Anni fa indagai il movimento rumoroso delle “Marche marce”. I tuoi
lavori, invece, ne sembrano una versione pastorale, ma forse mi trae in
inganno la tua provenienza…
Giusto, sono nato e vivo ad Ancona. “Pastorale” è un ottimo termine e mi piace
molto; di certo, il noise è il genere che
accomuna maggiormente i vari gruppi
che avrai incontrato in questa regione.
E’ una zona piccola, ma piena di tante
energie, di persone che negli anni stanno portando avanti molti progetti interessanti, una realtà in piena crescita e
con un interessante e produttivo ricambio generazionale. Ci sono sicuramente
anche difetti, come ad esempio l’inesperienza che deriva dalla mancanza di
scambi continui con contesti più grandi,
ma le scene di piccole dimensioni stanno crescendo molto e sono talvolta più
attuali di altre.
Una cosa che mi ha sempre colpito
dei tuoi lavori è l’essenzialità, in termini di minutaggio ma anche come
senso generale…
Sì, credo che il mio lavoro più lungo
duri 40 minuti scarsi. É un mio limite
e un mio gusto personale. Sono spesso
maniacale nei dettagli e, per chiudere
anche solo mezz’ora di musica, rischio
di metterci molto tempo. Sono però
convinto che un lavoro debba essere
rifinito e coerente nella sua interezza,
e spesso aggiungere minuti riempitivi
rovina il lavoro intero, soprattutto su
musiche che non vivono di ritornelli
o strofe. Come in un concerto, tendo
sempre a comprimere il tutto dando la
massima intensità possibile, lasciando
magari all’ascoltatore la voglia di averne
di più, piuttosto che la consapevolezza
di averne fin troppo.
Mi collego a quest’ultima parte per
chiederti come vedi questo periodo
di overload di uscite, tu che sei molto
parco nelle tue pubblicazioni in solo…
Siamo in un periodo storico dove se non
sei presente in modo costante, finisci
per essere dimenticato. Per questo,
molti puntano sulla visibilità continua
e giornaliera, producendo in quantità esuberante dischi, video, foto ecc…
Basta vedere facebook per capire e
rendersi conto di questo discorso. Non
sono contro chi produce in questo modo
così frenetico, anzi se poi riesce a farlo
dando qualità, ha tutta la mia stima.
Semplicemente non sono quel tipo di
persona, mi piace darmi tempo, avere
tempo e godermi il tempo che ho per
fare ciò che mi piace.
Ho spesso utilizzato il termine “haiku
sonori” per definire la tua musica. So
che hai un rapporto privilegiato col
Giappone, Paese in cui darai il via al
tour di supporto a Moon. Come nasce
questo legame?
Haiku sonori…..grazie, penso proprio
che sia uno dei migliori accostamenti
mai ricevuti. Sì, il tour di Moon, dopo
una data vicino casa appena fatta, comincerà dal Giappone con nove date,
dal 10 fino al 19 ottobre. Il legame è nato
nel 2006, dal primo indimenticabile
tour fatto là assieme a Xabier Iriondo (e
con Mirko “Wallace” Spino), poi da altri
3 tour sempre in solo. Un Paese fantastico, totalmente distante da tutto e da
tutti..molto vicino alla Luna, per citare
il disco. In realtà il rapporto tra me e il
Giappone è nato in maniera casuale e
solo nel tempo, poi, ho avuto modo di
conoscerlo e di apprezzarne a pieno i
pregi. Sicuramente ha influito sul mio
percorso compositivo questo gusto estetico lineare e trasparente.
Qual è la tua costellazione di riferimento, come chitarrista in solo? Mi
immagino banalmente una linea che
da Fahey arrivi a McGuire, ma se
sono nel giusto ti direi di aggiungere
qualche punto fermo…
Sì, loro ci sono sicuramente, poi potrei
aggiungere Charley Patton, Nick Drake,
Fred Frith e Arto Lindsay, ma da chitarrista in realtà sono stato sempre molto
influenzato da non chitarristi come Susie Ibarra, Burt Bacharach, Jim Black e
il Gagaku Giapponese, per dirne alcuni.
19
P e r f u m e
G e n i u s
D o n ’ t
y o u
y o u r
k n o w
q u e e n ?
Il terzo disco di Mike Hadreas è il più compiuto e il più complesso della
carriera. Lo abbiamo incontrato a Bologna, a margine della sua esibizione al
Locomotiv Club, per parlare del nuovo disco "Too Bright", di cantautorato e
soul, oltre che di unghie laccate e lezioni di pianoforte
>>>Testo di Marco Boscolo
20
Piccole mani di bambino, non ancora
laccate di rosso, si posano su quelle
adulte dell’insegnante di pianoforte: seguono i movimenti esperti sulla tastiera,
memorizzano, imparano. Sono mani
ancora innocenti, forse di un discolo:
un bambino biondo che ha più voglia di
correre in giro, che di studiare lo strumento. È un’immagine tentatrice, una
madeleine proustiana di plastica che
oggi, a tanti anni di distanza da quei
movimenti innocenti sui tasti del pianoforte, sarebbe fin troppo facile leggere
come il segno del destino, l’ineluttabile
ritorno alla musica per ritrovarvi contemporaneamente quell’innocenza e
quella spensieratezza che danno la forza per cantare con grazia le brutture del
mondo. Sarebbe un’immagine perfetta,
potente quanto basta per mandare in
cortocircuito papà Freud e zio Jung con
un posto delle fragole (lo sgabello del
pianoforte?), ma sarebbe un’immagine
falsa. E di falsità, brutture, soprusi, il
bambino fattosi uomo ne ha già visti e
subiti abbastanza da preferire una più
prosaica aderenza alla realtà.
La verità è che dopo avere preso lezioni di pianoforte classico «tra i sette e
i quindici, sedici anni non ho mai imparato a leggere la musica ed ero uno
studente pessimo». Parole di Mike Hadreas, classe 1984, americano di Seattle
ma dalle origini mediterranee (greche)
impresse nel cognome, più noto al mondo della musica come Perfume Genius.
Cantautore “schietto”, come lo definisce il suo addetto stampa. In altri tempi
e in altri ambienti lo avremmo definito
“autentico”. Si è fatto strada nel mondo
indie con due dischi brevi, fatti di piano
ballad cantate come se non ci fosse un
domani, o forse proprio alimentando la
speranza che un domani sia possibile.
Il primo, Learning, è uscito nel 2010,
quasi in sordina. C’era fin da subito in
evidenza la forza della semplicità: una
melodia di pianoforte, la voce dolente
e a tratti spettrale, poco altro. Eppure era anche chiaro che si trattava di
canzoni che colpivano in profondità,
forse proprio grazie alla nudità che le
contraddistingueva. Si sono spesi i nomi
di Antony e del primo Sufjan Stevens
(quest’ultimo, un riferimento che si è
rivelato effimero con il tempo). Ma era
soprattutto la concretezza di quel canto
a rendere speciale il disco. Lookout
lookout, Gay Angels, Mr. Petersen sono
diventati velocemente dei culti anche
per i temi trattai: prostituzione, violenza, sopruso, pedofilia, suicidio. Il tutto
gettato sulla tastiera del pianoforte con
dolcezza e rabbia trattenuta.
Il secondo disco, Put Your Back N2 It
del 2012, ripercorre gli stessi territori
ma aggiungendo sicurezza maggiore nei
propri mezzi di scrittura e di espressione musicale. Si tratta quasi del lato
B dello stesso disco, la continuazione
dello stesso discorso con gli stessi mezzi. «I primi due album sono stati una
sorta di rimembranza del passato, un
tuffarsi nei ricordi che ho per cercare di
guarirli». Ce lo racconta nel retropalco
del Locomotiv Club di Bologna, poche
ore prima del concerto per presentare
il nuovo disco, Too Bright, al pubblico
che non lo ha ancora sentito. «Per me è
stato davvero importante essere paziente e gentile con molte delle cose che mi
sono successe, che gentili non erano.
Era importante essere compassione-
21
vole, moderato, credo, finanche con la
musica». Un fare i conti con il proprio
passato, con la sofferenza degli sguardi
indiscreti, di quelli che ti guardano le
unghie laccate, i tacchi alti e ti giudicano, ti tolgono la pelle di dosso e ti mandano al tappeto. E ogni volta ingoi bile
che si trasforma in «una rabbia sottopelle che cresce lentamente da quando
avevo dieci anni e sta finalmente toccando la superficie», come dice lo stesso
press sheet.
Too Bright è un passo non solo avanti,
ma anche laterale. Mentre parla seduto
sul divano logoro, Mike Hadreas usa
parole meditate. Ogni tanto si ferma un
attimo, lo sguardo fisso davanti a sé tra
il pavimento e l’infinito, poi riprende
calmo: «quest’album riguarda molto più
come mi sento adesso o una specie di
protezione di come vorrei sentirmi, un
andare avanti, capisci quello che intendo?» L’autoanalisi e il riportare la lingua
a battere su ogni dente che doleva sono
alle spalle. Non c’è più bisogno di rivangare i propri ricordi per accettarli. Mike
Hadreas/Perfume Genius oggi è questo,
è Too Bright. O almeno è come vorrebbe essere. C’era il bisogno di provare
qualcosa di più «improvvisato e sperimentale». Prendete I’m A Mother: vocalizzi in libertà che hanno fatto parlare,
forse eccessivamente, di paragoni con lo
Scott Walker di Tilt. «Fa paura [essere paragonati a Walker, NdSA], ma allo
stesso tempo, lo accetto», perché «quel
tipo di cose è ciò che voglio fare, anche
se adesso sono ancora in territori più
pop. E mi piace che nonostante siano
scure e un po’ più sperimentali, le mie
canzoni rimangano comunque catchy».
La conferma arriva dal live di quella
22
sera, quando un pubblico non numerosissimo, ma chiaramente innamorato di
Perfume Genius, mostrerà di apprezzare i nuovi brani.
Ed è vero che nonostante Too Bright
sia di gran lunga l’opera più originale di
Mike Hadreas, al suo interno si annidano
comunque brani di una accessibilità quasi disarmante. Prendete il primo singolo,
Queen. Al netto di un testo per certi versi
urticante, volutamente disturbante e in
your face, è un singolo totalmente adatto
all’airplay: tiro quasi rock, un ritornello
quasi anthem e un’atmosfera torbidamente seducente sottolineata anche dal
video firmato SSION. Oppure Grid, che
con quel suo tiro Suicide prima maniera,
prevediamo diverrà facilmente un classico da indie club, che si abbia voglia di
ballare o meno.
D’altra parte non mancano momenti
riflessivi, come l’opener I Decline o
Don’t Let Them In: piano ballad/torch
song che fanno venire in mente l’amato rhythm’n’blues, la lezione di Nina
Simone e quella di PJ Harvey («adoro
il rock quando è sincero come lei, che
non usa atmosfere dark solamente come
una strizzatina d’occhio: è 100% dark»).
Ma bisogna almeno aggiungere James
Blake per quel suo modo bianco di
intendere il soul. E non mancano momenti più synth-oriented, come quella
Fool e quella Longping che scalpitano di
atmosfere 80s. Merito della produzione
accorta e capace di Adrian Utley dei
Portishead se tutto questo può coesistere in poco più di trenta minuti senza
che nessuna parte suoni come artefatta
o forzata. Utley e la band, che rispetto
al passato ha un ruolo più centrale, sono
stati gli strumenti che Hadreas ha usato
durante la registrazione per cercare
di ottenere quello che aveva in testa:
«entravo in studio e dicevo che volevo
un suono così o colà, e Adrian e gli altri
trovavano la macchina giusta per realizzarlo».
Too Bright è un’esplorazione di territori espressivi nuovi, con ferma la
consapevolezza di dove si vuole andare. Prima di comporre gli undici brani
dell’album, ci racconta con una mezza
smorfia Mike, «mi sono seduto al pianoforte tutti i giorni per quattro mesi per
cercare di scrivere delle canzoni in stile
Adele, ma non venivano». Era il periodo
immediatamente successivo al tour di
promozione del secondo disco. Un tour
che ha portato Hadreas in posti strani
come il Giappone «dove non applaudivano alle canzoni nuove», e gli ha fatto
capire che non dappertutto chi ascolta
dà lo stesso peso alle parole e alla musica. «Posso essere riflessivo e creativo
tanto con la musica e i suoni, quanto lo
posso essere con i testi e il messaggio
delle canzoni», ci racconta mentre mangia mortadella con i grissini.
L’elefante nella stanza è il rapporto con
la propria sessualità. I testi di Perfume
Genius e i video delle sue canzoni hanno da sempre messo al centro della sua
poetica i temi legati all’omosessualità.
Mentre parliamo ci tiene a sottolineare
che «la mia sessualità è un parte importante di me, ma non è tutto ciò che
sono». Quindi prende ancora più importanza il discorso che porta avanti sulla
violenza nei confronti dei giovani gay,
una violenza non per forza fisica, ma capace di fare sentire inadeguate le persone, spingerle verso la sofferenza. Per la
rabbia che prova in questo periodo della
sua vita, «ci sono molti interruttori.
Vedi, per strada faccio presto a inalberarmi con chi mi dà fastidio», oppure
se «sento quello che la gente dice di me
e di come sono». Per un lungo periodo,
quello che abbiamo chiamato dell’autoanalisi, «tutto ciò mi metteva a disagio,
mi vergognavo delle mie differenze».
Ora però non si sente più vittima, e non
gli piacciono gli atteggiamenti vittimistici, per cui questa materia rabbiosa è
riuscito a incanalarla in qualcosa di «più
produttivo».
Alla serata del Locomotiv, giovani e
meno giovani, coppie gay, cantano a
memoria le sue canzoni. Non è il punto
essenziale, che rimane la musica come
forma espressiva, ma Perfume Genius,
tra gli artisti della sua generazione, è
uno dei pochi che ha scelto di utilizzare
un problema socio-politico (l’accettazione degli omosessuali) come parte
integrante del proprio discorso espressivo. Non ha la preminenza politica del
messaggio alla base di, per esempio,
Janine Rostron aka Planningtorock,
ma è una componente chiave. Mike
spera che il suo messaggio, così volutamente esplicito su questo punto, serva
di conforto ad altri. Quando parliamo
dei giovani, italiani o americani, che si
suicidano perché si sentono rifiutati per
via della propria sessualità, lo sguardo
di Mike si fa umido, quasi lucido: «tutto
per qualcosa di bello e naturale su cui
non abbiamo nessun controllo». In questo senso, «sento una responsabilità»
dovuta alla condivisione di un’esperienza comune a molti. Che si trasforma in
una domanda semplicissima: «qual è il
problema?».
23
alb e r ( t ) i
E s p l o r a z i o n i
d e l
s o t t o b o s c o
s p e r i m e n t al e
p i e m o n t e s e
Alberi è il nuovo progetto sperimentale dei musicisti Alberto Barberis
e Alberto Ricca (aka Bienoise) che si basa sull'improvvisazione e sulle
dissonanze che scaturiscono dall'incontro fra una chitarra classica suonata
col finger-tapping e dei campionamenti di elettronica, il tutto accompagnato
da visuals ben studiati. Il primo disco, omonimo, uscirà questo autunno per
Floating Forest, neonato collettivo musicale ed etichetta discografica che
abbraccia l'etica del DIY e quella della "musica di frontiera". E mentre in quel
di Torino si prepara la serata di lancio ufficiale dell'etichetta - con location
ancora da definire -, sentireascoltare ha indagato questa nuova realtà
dell'underground piemontese, intervistando i due Alber(t)i.
>>>Testo di Alessia Zinnari
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Quando musicisti esperti, dal
background di stampo classico,
decidono di collaborare per dare vita
ad un lavoro sperimentale, quello
che ne esce fuori può risultare tanto
complesso, quanto piacevole. È il caso di
Alberi, prima manifestazione su disco
dell’omonimo progetto dei piemontesi
Alberto Barberis, alla chitarra classica
(classe ‘88, compositore e chitarrista,
al momento impegnato tra formazione
e lavoro di composizione in Svizzera)
e Alberto Ricca alle macchine (classe
‘85, noto ai più come Bienoise, nome
col quale è uscito per la londinese
Bitcrusher, la milanese MagmatiQ e la
romana White Forest).
Registrato nello studio di Alberto Ricca,
a Verbania, Alberi regala quaranta minuti di pura improvvisazione che sfiora
la catarsi sonora. Tre tracce (Mai indossate, In vendita, Scarpe da bambino –
voluto omaggio a Hemingway e alla sua
sperimentale six-word novel For sale:
baby shoes, never worn) frutto dell’ispirazione del momento, della composizione estemporanea e della destrutturazione ad opera di due menti che usano
strumenti totalmente opposti, pur
viaggiando sulle stesse frequenze. Un
disco anti-tecnico, vicino alla dimensione live e al recupero di quello che normalmente verrebbe considerato “scarto
musicale”, collocandosi come genere di
frontiera difficile da racchiudere e da
definire persino per chi lo crea.
Ai due Alber(t)i piace descriversi come
un progetto che “si basa sull’improvvisazione tra il noise e l’acusmatico”.
Detto ciò, sarebbe stato impossibile non
concedere a questi eclettici personaggi
una chiacchierata che non ha deluso,
sforando addirittura il filosofico.
Alberi uscirà questo autunno per Floating Forest, etichetta indipendente
e collettivo musicale con base operativa a Verbania, in Piemonte. Alberto (Ricca), tu che sei fra i fondatori
di questa nuova realtà alternativa,
descrivila per i lettori di SENTIREASCOLTARE: chi siete, come lavorate,
a cosa puntate?
A.R. Il collettivo/etichetta Floating
Forest è nato al momento opportuno.
I rapporti tra me e Davide Merlino,
percussionista e co-fondatore, erano
diventati molto intensi, con frequenti
registrazioni, collaborazioni notturne
ed esperimenti vari. Era il momento di
riunire idee e persone, ed abbiamo giudicato opportuno creare qualcosa che
sfruttasse i nuovi canali per far arrivare
questo genere di musica al pubblico.
Aggiunti Andrea Cocco (batteria) e
Federico Donadoni (contrabbasso) al
nucleo operativo, è nata Floating Forest che, come hai ben accennato, è sia
etichetta, che collettivo, che canale di
promozione: come etichetta rendiamo
pubbliche le registrazioni delle formazioni che gravitano attorno al progetto,
come canale di promozione cerchiamo
di dare visibilità e credito a realtà simili
alla nostra, ai progetti dei nostri collaboratori e a quanto ci pare in linea con
la nostra estetica.
Mi pare di capire che sia l’etica DIY
a guidarvi nei vostri progetti. Solo
che nel vostro caso non stiamo parlando di una crew hardcore, ma di un
gruppo di persone accomunate da
un background musicale di un certo
livello, di stampo classico, dico bene?
A.R. E’ vero. Tutti i musicisti coinvolti hanno una formazione musicale
completa; l’etica DIY a nostro modo
di vedere ben si associa ad un genere
musicale che vuole essere libero, ed ai
canali che abbiamo deciso di sfruttare:
i brani sono ascoltabili gratuitamente
su internet, i dischi, con i nostri packaging ricercati, si possono acquistare con
offerte libere ai concerti dei membri, e
le formazioni, come detto, sono spesso
fluide, anche per mantenere la spontaneità. Cerchiamo di curare con coerenza anche la parte grafica e fisica delle
nostre uscite: stiamo sviluppando nuove
idee con Andrea Buzzi, grafico torinese
(e produttore elettronico sotto il nome
di Sonambient), e quella di Alberi sarà
davvero particolare.
Passiamo proprio ad Alberi. Perché
vi definite un progetto piuttosto che
un gruppo o un duo? E soprattutto,
come vi siete incontrati?
A.R. Non trovo importante la definizione: è vero, siamo un duo, ma anche
un progetto di due musicisti altrimenti
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indipendenti. La nostra collaborazione
è più intensiva che estensiva, considerata la distanza e gli impegni di entrambi, ma abbiamo la fortuna di arrivare
sempre alle stesse conclusioni anche
quando seguiamo strade di pensiero
differenti, e questo ha semplificato
notevolmente la costruzione di un’estetica compiuta. L’incontro è stato dei
più fortuiti, come nelle migliori storie
d’amore: ero stato contattato per una
serata al Rat a Torino, in veste di Bienoise, durante Halloween di due anni
fa. La cosa strana è che mi fu chiesto di
adattare il mio live alla presenza di un
chitarrista acustico: invece di rifiutare
una richiesta così anomala, accettai, incuriosito dall’esperimento. Alberto ed io
arrivammo alla serata senza esserci mai
incontrati. Lui mi aveva fornito delle
indicazioni su quello che avrebbe voluto
fare, io delle versioni adattate dei miei
brani così che potesse fare delle prove,
e suonammo. Fu un successo imprevisto
ed esaltante, ma soprattutto mi permise
di fare la conoscenza di un musicista
straordinario e di una persona adorabile.
A.B. Alberi è stato musica, direttamente, senza troppe parole, senza attese,
senza ore di sala prova, e soprattutto senza estetiche altre se non quella
germogliata direttamente su un palco.
Per questo Alberi non è nient’altro che
un luogo di incontro tra due musicisti e
sperimentatori , affascinati da quel che
di inatteso e imprevedibile si può celare ancora dietro la musica e che forse
solo nel luogo dell’improvvisazione può
davvero prendere vita.
L’improvvisazione è dunque la linfa
vitale di Alberi?
A.R. Sì, il progetto Alberi nasce come
progetto d’improvvisazione e tale vogliamo che rimanga, sebbene operando
un’attenta selezione dei materiali e delle
direzioni da intraprendere . Una volta
convenuto il tipo di ritmiche, organizzati i materiali e le armonie coerenti con
l’estetica di fondo, il resto è totalmente
libero e non concordato, basato sull’interplay e su una genuina fetta di casualità.
A.B. Io dalla mia posso dire che mi
annoio in fretta: venendo da una formazione classica, ammetto di essermi stancato di suonare musica scritta da altri.
Per questo motivo ultimamente passo il
tempo a scrivere per strumenti che no
so suonare, oppure ad improvvisare con
la mia chitarra. Improvvisare è un po’
come suonare quello che non si conosce
pur sapendo di saperlo fare: una forma
di composizione istintiva, in cui la testa
e la tecnica devono fare un compromesso con il real time. Il compositore
è prima di tutto un improvvisatore.
Per Alberi abbiamo registrato il disco
in poche sessioni di improvvisazione,
senza avere idea di quello che sarebbe
saltato fuori. Il risultato è stata una piacevole sorpresa, in grado di far vivere
gli angoli più sconosciuti di due mondi
apparentemente lontani (quello delle
componenti elettroniche del computer
e quello del legno della mia chitarra). Il
tutto senza presunzione, senza eccessivo lirismo o eroismo, ma con slancio e
coraggio, questo sì!
Dove e come avete registrato questo
vostro primo album?
A.R. Anche Alberi, come la maggior
parte del catalogo Floating Forest, è
registrato e prodotto alla Casa Blu, il
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mio studio (che è anche casa mia). La
registrazione è ambientale, come se
stessi riprendendo un duo acustico e
non della musica elettronica. Questo
porta ad una patina di bassa definizione,
all’interno della quale è possibile percepire lo spazio fisico della stanza, e in cui
tutto risulta fuori fuoco. Abbiamo voluto anche mantenere diversi “errori” di
registrazione che comunque si integravano in modo organico con l’esecuzione.
Al di là della selezione dei brani, non ci
sono tagli: accettiamo la possibilità di
pubblicare anche degli “errori”, perché
consideriamo più grave interrompere il
naturale sviluppo della narrazione.
Parlando di quello che fate, non si
possono non mettere in campo termini quali “noise”, “lo-fi”, “sperimentale”. Che rapporto avete con queste
definizioni? Mi spiego meglio: vi siete
costruiti un’idea personale di questi
concetti, o preferite lasciare che questi termini parlino da sé, come unico
modo per definire musica “strana”?
A.R. Non riesco a definire sperimentale
la musica di Alberi: partiamo da basi sicure, tecnologie definite e controllate, e
non c’è un approccio né alla “scrittura”,
né alla direzione, che abbia alcunché di
stupefacente. Senza dubbio invece c’è
un po’ di noise e molto lo-fi, nelle loro
declinazioni più malinconiche ed atmosferiche: la nostra musica non vuole
essere oscura o aggressiva, ma raccontare storie di stanze vuote polverose ed
inondate dal sole. C’è anche parecchio
di acusmatico nella scelta dei materiali
coi quali lavoro io elettronicamente.
Non vuole neanche essere musica “strana”, o almeno speriamo che rimanga
28
accessibile anche per i non addetti ai
lavori: credo che la chitarra di Alberto,
ed il suo stile sporco e caldo, svolga un
ruolo fondamentale in questo. Io mi
sono limitato a costruirci attorno una
cornice che la valorizzi.
A.B. Io fino a pochi anni fa ero attratto profondamente dalla pulizia e dalla
precisione calcolata. Ho studiato per
anni la chitarra classica “filtrando lo
spettro”, cioè eliminando il più possibile quelle componenti “rumoristiche”
e inarmoniche che caratterizzano la
produzione di un suono. Forse volevo
imparare la tecnica per potermi pulire
in futuro la coscienza. [ride ndr] Ma
oggi avviene esattamente il contrario:
cerco suoni ricchi di informazioni e
imperfetti. Questo mio duplice interesse
estetico è evidente dall’ascolto del disco,
in cui si è perennemente in bilico tra i
suoni elettronici più magmatici e indefinibili e il limpido vibrare di una corda di
nilon tesa sul legno.
Artisti o influenze di riferimento?
A.R. I nomi che mi hanno influenzato
coscientemente nella definizione dell’estetica di questo progetto sono gli Autistici, con la loro micro musica concreta;
gli Oval, per la loro texture sonora vivace ma profonda; William Basinski, mia
grande ispirazione generale e di fondamentale importanza per la definizione
del clima “pastorale” di brani come Mai
Indossate. I Boards of Canada sono uno
dei motivi per cui faccio elettronica,
e forse sono ancora più avvertibili del
solito in questo progetto.
A.B. Non vorrei che Alberi si rifacesse ad un’estetica definita. Tutto quello
che ho ascoltato e suonato nella mia
vita influenza il mio contributo al
progetto (dal contrappunto barocco al
blues, dall’elettronica “colta” a quella
“underground”, dalla musica da strada
alle avanguardie storiche, al tardoromanticismo wagneriano). Se dovessi
dire quale musica ispira maggiormente
le mie produzioni dovrei menzionare il
rigido strutturalismo delle avanguardie
post-weberniane, come anche alcune
esperienze italiane legate al lo-fi (vedi
Fausto Romitelli). Ma con Alberi si
parla di improvvisazione, non di musica
scritta.
Quanto conta la dimensione live per
Alberi e quanto quella in studio?
A.R. E’ difficile rispondere a questa
domanda, perché non esiste una reale
differenza nell’approccio: i brani su
disco sono selezioni di quanto è riuscito
bene durante le sessioni in studio, e rappresentano i momenti in cui è successo
quanto doveva succedere. Le nostre
improvvisazioni partono da una grossa
riflessione su quanto funzioni all’interno dell’estetica che vogliamo incarnare,
e su quanto invece non funzioni e vada
evitato: unendo elettronica e suonato
è troppo facile voler fare tutto, urlare
sempre, e finire per non raccontare
davvero nulla di nuovo. Senza avere la
pretesa di essere rivoluzionari, abbiamo
almeno cercato di essere coerenti.
A.B. Credo che le due dimensioni coincidano. Ogni improvvisazione potrebbe
entrare a far parte di un disco, proprio
perché ogni esecuzione è un flusso auto-generativo in mutamento continuo.
Definirei la vostra musica come molto “visiva”. Avete in mente visual da
abbinare al disco? Quali sarebbero le
atmosfere perfette per rappresentare questa prima uscita?
A.R. Sì, senza dubbio concordiamo
sull’opportunità di completare il senso
dei nostri brani con delle immagini. E’
musica che vuole suggerire una storia,
come è evidente anche dai titoli, ed è
giusto che il focus rimanga su di essa e
non su quanto sta accadendo tecnicamente. Accompagnare la musica alle
immagini è un modo sicuro di porre un
velo tra di noi e l’ascoltatore ed aiutare
la costruzione del senso. Mi piacerebbe
che anche le immagini fossero vivaci ed
estemporanee, in grado di aumentare e
commentare dinamicamente l’esperienza: è musica calda e narrativa, le immagini possono aiutare a cancellare anche
quella sensazione di distante astrazione
che a volte si insinua.
A.B. Stiamo curando la realizzazione di
alcuni video che possano accompagnare
le tracce di Alberi. Più che le immagini,
sono i processi che le accompagneranno ad interessarci. I colori sono opachi,
qualcosa di molto vicino al respiro della
terra, qualcosa di inaccessibile. Detto
questo, non vediamo l’ora di cominciare
a girare con il nostro live in modo che
sia la gente a raccontarci come ci percepisce, dandoci nuova ispirazione per
crescere e trasformarci.
29
I n s p i r al
C a r p e t s
Madc h e s t e r
e
r i t o r n o
A vent'anni dall'ultimo album in studio, i campioni di
"Madchester" tornano con un disco che sembra aver fermato le
lancette da qualche parte nei tardi 80s. Abbiamo contattato il
leader Clint Boon per farci spiegare il segreto della band.
>>>Testo di Diego Ballani
30
Una cosa ho sempre apprezzato degli
Inglesi: la mancanza di reverenza nei
confronti delle star. Mi spiego meglio.
In terra d’Albione il pop resta ancora
un’alternativa al lavoro nei call center.
Chi intraprende tale strada tuttavia è
consapevole di non poter vivere di rendita neanche per un istante. Neppure il
fatto di ritrovarsi sul main stage di Reading assicura una lunga e promettente
carriera al riparo dal capriccio delle
mode. Basta chiedere agli Inspiral Carpets, ritrovatisi nel giro di una stagione
dalla Top 40, all’iscrizione nelle liste di
collocamento. Tempistiche sfortunate
le loro, visto che l’album con cui salutavano il loro pubblico (Devil Hopping,
1994) era perfettamente in linea con il
Brit rock dell’epoca. Purtroppo per loro,
pagavano pegno di aver fatto parte (con
Stone Roses ed Happy Mondays) della
trimurti di “Madchester”.
Nati nei primi anni ‘80 come ensemble
art pop, dal sound acido e diretto, fortemente influenzato dalle garage band dei
60s, avevano saputo rielaborare il loro
stile quel tanto che bastava per renderlo appetibile ai ritmi dell’Hacienda,
proprio nel momento in cui nel club
mancuniano si stavano sperimentando
inediti connubi fra rock e dance. Merito
di un leader eclettico come Clint Boon
il cui suono di Farfisa ha caratterizzato
prepotentemente hit memorabili come
This Is How It Feels? e Two Worlds
Collide. Dal 2003 l’entità Inspiral Carpets ha continuato ad esistere solo per
i fan che si accalcavano ai loro sporadici concerti per vederli eseguire le hit
del passato. Ci è voluto l’abbandono
del singer Tom Hingley e il ritorno del
cantante originario Stephen Holt per
infondere al gruppo linfa vitale.
Ora eccoli di nuovo in pista con un
disco omonimo, in uscita il 20 ottobre
via Cherry Red, che recupera lo spirito
urgente degli esordi. Il nuovo album
sembra il diretto successore di Life (l’esordio del 1990) al netto della danzabilità baggy. In brani come Spitfire, dalle
strutture esili ai ritmi incalzanti, tutto
sembra puntare verso l’anthem a presa
rapida. Un ritorno, convincente, il loro.
Al punto che abbiamo sentito il bisogno
di contattare direttamente Clint Boon
e chiedere maggiori dettagli riguardo
a questo proseguo di carriera, anche in
attesa del loro live al Circolo degli Artisti previsto per il 25 settembre.
In poche parole, che cosa vi ha trattenuto tutto questo tempo dal pubblicare un nuovo album?
Dal 1995, siamo stati tutti coinvolti in
esperienze che andavano oltre gli Inspirals. Non ci sentivamo in dovere di dedicare una gran parte del nostro tempo
a scrivere e registrare un nuovo album.
Anche se nel 2003 ci siamo riformati,
generalmente ci limitavamo ad andare
in tour per presentare le “hits”. Quando
Stephen si è unito nuovamente a noi,
31
nel 2011, ci siamo sentiti rinvigoriti.
Abbiamo iniziato a scrivere nuovo materiale e a fare concerti in altri Paesi per
la prima volta dopo anni. Il nostro unico
ostacolo erano le nostre vite incasinate.
È stato semplice per Stephen tornare
a far parte della band?
Sì. Ci è sembrata da subito la cosa più
naturale quando Tom ha lasciato il
gruppo. Eravamo rimasti in contatto
con Stephen nel corso degli anni e non
c’era mai stata alcuna animosità da
quando ci aveva lasciati alla fine degli
anni ‘80. Dal momento in cui abbiamo
cominciato a provare con lui, si è sempre sentito a suo agio. Il suo ritorno è
stata la chiusura del cerchio.
Il nuovo album mi ricorda molto il
sound che avevate agli inizi, con canzoni più dirette. Era quello che volevate ottenere?
Sì, esatto. Fin dall’inizio, volevamo che
il nuovo album riflettesse le nostre radici garage. Siamo una garage band. Penso
che l’album rappresenti perfettamente
da dove veniamo, dove siamo adesso e
dove potremmo andare da qui in avanti.
In effetti ho sempre pensato a voi
come ad una garage band con un
sound d’organo molto particolare.
Perché secondo te la gente vi associa
ancora al suono di “Madchester”?
Perché abbiamo involontariamente
contribuito a creare l’intera scena di
“Madchester”. Non solo per la musica
che suonavamo, ma anche per il modo
in cui ci vestivamo. La gente ha copiato
il nostro suono, le nostri acconciature,
i nostri vestiti. Non abbiamo deciso di
influenzare nessuno, ma insieme agli
Happy Mondays e agli Stone Roses,
abbiamo accidentalmente ispirato una
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generazione.
Come ben saprai la guitar music oggi
è in uno dei suoi momenti peggiori.
Secondo te era il momento giusto per
tornare con uno dei vostri album più
rock e potenti?
La guitar music ci sarà sempre. Ma le
chitarre non sono tutto. A mio parere,
sintetizzatori, campionatori, giradischi
e computer hanno fatto tanto per far
avanzare la musica, esattamente come
in passato ha fatto la chitarra elettrica.
Amo ancora la musica chitarristica, ma
un po’ della mia musica preferita degli
ultimi anni viene da artisti come Chase
and Status, Disclosure, Rudimental e
Sub Focus.
Com’è stato comporre nuova musica
per gli Inspiral Carpets dopo tutti
questi anni?
Il processo di scrittura mi è sembrato
più facile che mai questa volta. È stato
molto piacevole. Questo è il nostro primo album in cui tutti e cinque i membri
della band hanno contribuito ai testi.
Ti sembra che da vivo i nuovi pezzi
siano stati apprezzati?
Fino a questo momento le nuove canzoni stanno andando meravigliosamente dal vivo. Hanno quella familiarità dei
Doors, degli Stranglers, dei REM e di
tutte le altre band che ci hanno influenzato. Allo stesso tempo, possiedono tutti
i classici marchi degli Inspirals.
Puoi dirmi qualcosa riguardo agli
inizi della band? Quali erano le vostre
ispirazioni quando avete iniziato, e
come siete arrivati al vostro sound?
Io e Graham eravamo molto influenzati dalle band psichedeliche e garage
degli anni ‘60, come i Seeds, i Misunderstood e i 13th Floor Elevator. Ma
anche band degli anni ‘80 come Fall,
Echo and The Bunnymen, Psychedelic Furs e Prisoners hanno plasmato
il nostro sound. Stephen era un grande
amante della musica indie degli anni
‘80. La ascolta ancora adesso. Craig era
una delle prime persone che conoscevo
che avesse abbracciato l’hip hop e il rap
della metà degli anni ‘80.
Cosa mi racconti a proposito del rapporto che avevate con le alter band
della scena?
Abbiamo sempre avuto un grande rapporto con le altre band. E lo abbiamo
ancora. C’è un sacco d’amore tra noi,
gli Happy Mondays, i Charlatans, i
Northside, i James, i New Order, i Paris Angels e gli Smiths. Ed è fantastico
il fatto che siano ancora praticamente
tutti a Manchester.
Artisticamente parlando, quale pensi
sia stato il punto più alto raggiunto
dagli Inspiral Carpets? E qual è stato
il momento più alto di popolarità?
Penso che il nostro picco “commerciale”
sia stato probabilmente quando siamo
stati fra gli headliner del festival di Reading, nel 1990. In generale, gli anni tra
il ‘89 e il ‘94, quando giravamo il mondo
e registravamo grande musica, sono
stati fra i più memorabili della mia vita.
Detto questo, ritrovarmi all’età di 55
anni, padre di cinque figli e continuare a
registrare e girare il mondo, è qualcosa
che non avrei mai previsto. Conto le mie
benedizioni ogni giorno.
Che cosa è successo a metà degli anni
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‘90? In un certo senso eravate i precursori di un certo suono britannico
e Devil Hopping è un ottimo album.
Perché vi siete sciolti nel momento
in cui il Britpop stava crescendo di
popolarità?
Abbiamo perso il nostro contratto con
la Mute Records nei primi mesi del
‘95. Abbiamo faticato a trovare un’altra etichetta. Per l’industria musicale
britannica a quel punto “Madchester”
era morta. Il termine ‘Brit Pop’ non era
ancora stato inventato. Nessuno sapeva
cosa sarebbe successo. Abbiamo deciso
di fare una pausa. Poi arrivò il Brit Pop.
Se non ci fossimo sciolti, sono convinto
che saremmo stati una grande Brit Pop
band. Tuttavia non ho rimpianti. Sono
contento che ci siamo presi una pausa.
Ci ha fatto diventare individui più forti
e nei successivi nove anni abbiamo imparato molto di più su noi stessi.
Cosa ne pensi della situazione attuale
della musica britannica?
Io presento uno show quotidiano su
Xfm Manchester, così mi capita di
ascoltare tutti i nuovi dischi di musica
chitarristica o “alternative” che vengono pubblicati. Amo i Temples, amo
Jake Bugg e credo che il nuovo album
dei Kasabian sia fantastico. Mi irrita
quando la gente dice “la musica non è
più come una volta” o “non c’è più buona musica”. Io dico: “stronzate”. C’è ancora un sacco di grande musica la fuori.
A volte c’è bisogno di darsi un po’ da
fare per trovarla. Quando dici che non
c’è più buona musica di solito vuol dire
che hai smesso di cercarla. Non darti
mai per vinto con la musica. Contribuirà sempre a migliorare un po’ il mondo.
Mi puoi citare qualche altra band che
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consideri interessante?
Catfish and The Bottlemen, The Tea
Street Band, Sleaford Mods, Wild Beasts, Tame Impala, Temples….
Il ritorno di band dei tardi anni ‘80
come MBV e Slowdive ha avuto qualche ruolo nel vostro ritorno discografico?
No. Ci siamo riformati nel 2003 prima
che quelle band decidessero di farlo.
Era abbastanza fuori moda riformarsi
quando lo abbiamo fatto noi. Tuttavia
credo che abbiamo scelto un buon momento. Non è stato per i soldi. C’è stato
un periodo nei tardi 90s in cui ci sono
stati offerti parecchi soldi per riformarci. Non abbiamo accettato. Abbiamo
preferito aspettare finché non c’è stata
una buona ragione per farlo. L’intesa fra
di noi era ottima. Il 2003 era il momento giusto.
Cosa mi dici della Manchester odierna? C’è qualcosa che può essere paragonato al fermento che la città ha
vissuto fra il ‘77 e gli anni ‘90?
In questo momento a Manchester non
c’è un vero e proprio movimento come
in passato. Nulla a cui si possa dare
un’etichetta o un nome cool. Alcuni
della vecchia guardia sono sempre attivi. Gli Happy Mondays hanno suonato
lo scorso venerdì, gli Inspirals si sono
esibiti alcune settimane fa. E così gli Elbow, gli I Am Kloot… La città continua
a produrre fantastiche band e ottimi
album. Ci sono nuovi gruppi come The
Tapestry, The Minx, Tiny Philips,
Kindest of Thieves, Exile Parade che
potrebbero trasformarsi in una nuova
onda di influenti band mancuniane. Chi
lo sa? Una cosa è certa. La città produrrà sempre dischi monumentali.
Che sensazione ti dà suonare di fronte ad un’audience molto giovane, che
vi vede come un’istituzione del rock?
È fantastico trovarci a suonare di fronte a fan molto giovani. Questo in parte
è dovuto al fatto che nostri fan storici
hanno iniziato i loro figli alla nostra
musica. L’altra ragione è che viviamo in
un’età incredibile in cui la musica può
essere ascoltata, riprodotta e comprata
premendo un tasto. In questo tipo di
mondo gli Inspirals vinceranno sempre
perché la nostra musica è catchy, cool e
accattivante.
Dunque qual è la vera ragione di
questa reunion? Si tratta solo di dare
a chi non l’ha fatto in passato la possibilità di vedere gli Inspiral Carpets
dal vivo o volete ripristinare il processo creativo da dove lo avevate
interrotto?
Io la vedo come una cosa che facciamo
per noi stessi. Vogliamo lavorare ancora
insieme. Vogliamo esplorare il processo
di fare musica in questa nuova epoca.
Fortunatamente c’è ancora tanta gente
che ama gli Inspirals, il che vuol dire
che anche il lato economico della cosa
è interessante. Noi saremo eternamente
grati alle persone che ci hanno seguito
in tutti questi anni. Il magazine Melody Maker una volta ci ha chiamato “La
band più terribile della Gran Bretagna”.
Io credo che nel 2014 si possa parlare di
noi come della “band più fortunata della
Gran Bretagna”.
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I n d u s t r i al
S o u n d t r ac k
F o r T h e
U r ba n D e ca y
"Industrial Soundtrack For The Urban Decay" è il nuovo
documentario diretto da Amélie Ravalec e Travis Collins, sulla
storia del movimento Industrial. Abbiamo intervistato i due autori
in vista dell'uscita del film, in questi mesi nelle ultime fasi di postproduzione. Il lavoro uscirà tra gennaio e febbraio di quest'anno
e sarà presentato in diversi festival, oltre ad essere distribuito in
DVD.
>>>Testo di Marco De Baptistis
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Industrial Soundtrack For The Urban Decay è il nuovo documentario
diretto da Amélie Ravalec e Travis Collins, sulla storia della musica Industrial.
Abbiamo intervistato i due autori in
vista dell’uscita del film, in questi mesi
nelle ultime fasi di post-produzione. Il
lavoro uscirà tra gennaio e febbraio di
quest’anno e sarà presentato in diversi
Festival, oltre ad essere distribuito in
DVD. Nel documentario saranno presenti molte interviste ai pionieri della
musica industrial, girate nelle principali
città americane ed europee: Throbbing
Gristle, Cabaret Voltaire , NON, SPK,
Test Dept, Clock DVA, Re/Search – V
Vale, Z’EV, Click Click, Sordide Sentimental, Hula, In The Nursery, Hands
Production / Winterkälte, The Klinik
/ Dive, Ant Zen, Orphx e Prima Linea.
http://www.vimeo.com/86841887
Il film è stato accompagnato da due
ottimi mix pubblicati su Soundcloud.
Il primo, compilato da Paul Jamrozy
dei Test Dept., presentava brani di Zev,
Monte Cazazza, Laibach, Throbbing
Gristle e molti altri. Il secondo, a cura
dello stesso Travis Collins, giornalista
musicale che ha lavorato con la regista
francese Amélie Ravalec al documentario, presentava brani di gruppi come
Click Click, Dernière Volonté, Bourbonese Qualk, Can etc.
Nella nostra intervista agli autori del
documentario, abbiamo spaziato su
molti temi riguardanti la musica industrial e post-industrial: dalla situazione
politica ed economica degli anni Ottanta alla “crisi” di oggi; dai collegamenti
degli artisti industrial con le avanguardie novecentesche (futuristi, dadaisti,
surrealisti) all’influenza di scrittori
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come William Burroughs, Brion Gysin
e James Ballard. Abbiamo ragionato un
po’ attorno al concetto di distopia (1984
di Orwell, ma non solo) e sulla sua importanza per l’immaginario apocalittico
che si trova spesso in molti lavori degli
artisti industrial di oggi e di ieri. Infine,
abbiamo accennato anche all’influenza
che hanno avuto, e che continuano ad
avere, i pionieri della musica industrial
sulla musica elettronica di oggi e di
domani, in particolare all’interno dell’odierna scena techno industrial. Nella
nostra discussione è venuto fuori come
la musica industriale sia stata – e sia
ancora – il perno centrale attorno a cui
ruota un forte immaginario “alternativo” e “controculturale”, oggi sempre più
conosciuto e diffuso.
Potete dirci qualcosa su di voi, sul
vostro lavoro precedente e il vostro
background?
Amélie Ravalec: io sono una regista
francese di documentari e questo è il
mio secondo film. Il mio primo documentario Paris/Berlin: 20 Years Of
Underground Techno è uscito nel
2012. L’ho diretto e montato in tre anni,
intervistando alcuni dei miei dj preferiti, i produttori e le etichette della scena
techno. Il documentario è stato accolto
bene in tutto il mondo e ho avuto la
fortuna di farlo proiettare in Europa,
USA, Asia e Australia. Oltre a fare film,
ho co-fondato nel 2011 una public utility
foundation e un’etichetta discografica,
Fondation Sonore, dedicata alla techno
industriale e alla musica sperimentale.
Ospitiamo eventi in luoghi insoliti, a
Bruxelles in Belgio, e abbiamo pubblicato dischi con Ancient Methods, Kareem, Adam X, Regis, Makaton, Oyaarss
e Archae and Grovskopa. Lavoro
anche come colorista freelance e editor
video.
Travis Collins: ho vissuto in Europa ed
ho lavorato su questo film negli ultimi
due anni; prima ho vissuto a Perth in
Australia, lavorando in un negozio di
dischi, occupandomi di cinema e facendo il giornalista musicale per la National Street Press; ho fatto anche il dj in
bar e club e ospitato diversi programmi
radiofonici negli ultimi dieci anni. È
stato Stephen Mallinder, dei Cabaret
Voltaire, che ha ispirato il mio lavoro in
radio. Quando Mallinder viveva a Perth,
diversi anni fa, mi ha fatto conoscere i
primi Cabaret Voltaire e la musica di 23
Skidoo, Holger Czukay e molti altri.
Non ho mai pensato che avrei lavorato
ad un film, ma eccomi qui! È stata una
grande esperienza fare il documentario
con Amélie; ha coinvolto tutte le mie
competenze e i miei interessi come
giornalista di musica e appassionato di
cinema.
Come avete avuto l’idea di fare questo documentario? Come avete iniziato a lavorare sul progetto?
Amélie Ravalec: stavo pensando di
dirigere un documentario sulla musica
industrial da diversi anni. Ci sono stati
alcuni buoni documentari realizzati
sulla scena industriale attuale e documentari su artisti o gruppi specifici, ma
io non ero ancora riuscita a vedere un
documentario approfondito sulla nascita del movimento industrial. Un paio di
mesi dopo il rilascio di Paris/Berlin, ho
deciso di iniziare un nuovo film e così è
andata. Travis ed io ne abbiamo parlato
per un paio di giorni e poi abbiamo contattato tutti gli artisti per le interviste.
Travis Collins: entrambi abbiamo una
passione in comune per gruppi come
Cabaret Voltaire, In The Nursery e
Throbbing Gristle, così abbiamo iniziato a discutere le nostre idee, mandato
alcune email a diverse band e un paio di
settimane più tardi, abbiamo iniziato a
registrare le nostre prime interviste. Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare
Boyd Rice prima del suo tour a Berlino,
dove ora viviamo, poi abbiamo viaggiato
nel Regno Unito e abbiamo registrato
altre interviste: così il film ha iniziato a
prendere forma.
Quando penso alla musica industriale, penso ad una musica essenzialmente europea/continentale. A parte
l’originaria scena anglo-americana
(Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire,
Test Dept., Boyd Rice) e australiana
(S.P.K.), nel vostro documentario
accennate anche alla nascita e all’evoluzione della musica industriale
in paesi come Italia, Belgio, Francia,
Spagna, Svezia, Slovenia e, naturalmente, la Germania?
Travis Collins: tra le persone che abbiamo intervistato, ho parlato con artisti
provenienti principalmente da Regno
Unito, Francia, Belgio, Australia e Stati
Uniti. Non ho troppa familiarità con i
primi artisti industriali svedesi o italiani, ma la Germania, ad esempio, è stata
molto influente grazie a band come gli
Einstürzende Neubauten, così come lo è
stata Slovenia per i Laibach. Purtroppo
entrambe le band hanno rifiutato o non
erano disponibili per essere intervistate quando le abbiamo contattate. Dal
lancio del trailer, band provenienti da
tutto il mondo ci hanno contattato per
essere presenti nel film, ma il film era
già troppo in là con la produzione, per
fare altre interviste. Abbiamo oltre venti
ore d’interviste registrate e già così c’è
materiale più che sufficiente per un
realizzare film.
Dal lavoro dei pionieri della musica
industriale sono nati e si sono sviluppati nuovi generi musicali: dall’EBM,
con gruppi come Front 242, Nitzer
Ebb e Klinik, fino all’inizio della
musica post-industriale con progetti
neofolk/apocalyptic folk che hanno
coinvolto artisti attivi fin dall’inizio
della musica industrial, come Boyd
Rice e David Tibet (penso ai primi
Current 93), per esempio. Cosa pensate di queste diverse evoluzioni
della musica industrial, sviluppatesi
principalmente nella seconda metà
degli anni Ottanta? Nel vostro documentario trattate quest’argomento?
Amélie Ravalec: nel film abbiamo voluto
mettere a fuoco la storia dei pionieri
della musica industrial. È già un grande
argomento da coprire in un’ora, e abbiamo preferito andare più in profondità
con quello, rispetto a cercare di coinvolgere altri generi simili. Le band che hai
citato, Nitzer Ebb, Current 93, Skinny
Puppy e Front 242, a me e Travis piacciono molto, ma il nostro documentario
non si è focalizzato su di loro. Vedo l’evoluzione della musica industrial come
una cosa positiva. C’è ancora molta
buona musica odierna che rende omaggio al movimento industrial originario,
soprattutto nelle scene rhythmic noise
e techno contemporanee. È per questo
che abbiamo intervistato Orphx, Hands
e Ant Zen nel film.
40
Travis Collins: dopo il boom iniziale
delle band industriali alla fine degli anni
‘70 e nei primi anni ‘80, molte persone
hanno iniziato a fare musica, autoproducendosi, integrando le loro rispettive
influenze. Da questa evoluzione sono
emersi inevitabilmente nuovi sottogeneri come l’EBM, il rhythmic noise, il
neofolk, il dark ambient e molti altri. Ci
sono così tante band, oggi, che chiamano la loro musica “industrial”, ma alcune mi sembrano più electro o synth pop;
in ogni caso, chi sono io per giudicare
se si tratti di musica industriale o no?
Ora che la tecnologia ha reso più facile
produrre e distribuire la musica, ci sono
molte più cose che escono, quindi ci
vuole solo un po’ più tempo per scovare
musica realmente valida.
Un altro tema caldo di cui certamente vi siete occupati nel vostro documentario, è il controverso rapporto
tra politica, controcultura e “l’arte
della provocazione” ben presente nel
lavoro dei pionieri della musica industriale, come Test Dept, TG, S.P.K.,
Boyd Rice, ecc… Potete dirci qualcosa
su questo?
Amélie Ravalec: i gruppi industrial
hanno davvero spinto “oltre” i confini
della loro arte, presentando alcuni temi
impegnativi e rompendo diversi tabù,
con la loro musica ed i loro spettacoli.
Elementi molto provocatori erano già
presenti nei primi gruppi industrial,
come nel collettivo artistico da cui
emersero i Throbbing Gristle, ovvero i
Coum Trasmission, o anche negli S.P.K.,
penso ai loro video sulle autopsie, ad
esempio.
Travis Collins: la maggior parte dei
nostri intervistati per il documentario
proviene dall’Inghilterra. Il film mostra come il crescere durante gli eventi
dell’epoca di Margaret Thatcher ha
avuto un impatto su di loro, sia come
musicisti, sia come persone. È stato
difficile ignorare la politica nel Regno
Unito durante questo periodo. Il lavoro
di Genesis P-Orridge è sempre stato
molto dibattuto, dai suoi primi lavori di
mailing-art, in cui mandava “arte pornografica” alla Regina, sino alla fondazione del Thee Temple ov Psychick Youth.
Le idee politiche di Test Dept o Throbbing Gristle sono state ben documentate, ma anche i Cabaret Voltaire e gli
Hula hanno fatto dichiarazioni politiche
con la loro musica.
Nel trailer del documentario si evidenzia il ruolo che il declino delle
città industriali, della loro economia
e industria manifatturiera, ha giocato nella nascita e nello sviluppo della
musica industriale negli anni Ottanta. Possiamo dire che la crisi economica di allora (ma forse anche quella
di oggi) ha favorito la nascita di una
controcultura che ha cavalcato “creativamente” le distopie e la disillusione, piuttosto che una certa idea di
progresso e di benessere materiale?
Amélie Ravalec: gli artisti sono sempre
un prodotto del loro tempo, non si può
negare l’impatto della società e dell’ambiente intorno a noi. La crisi economica
41
induce sicuramente idee e pensieri tetri
e distopici, come sanno bene un sacco
di persone che stanno lottando contro
la crisi in questo momento. È diventato
sempre più difficile guadagnare, mentre
la vita è diventata sempre più costosa.
D’altra parte è anche molto più economico fare musica o film, con i prezzi
delle attrezzature che sono diminuito
drasticamente negli ultimi anni. Concetti ed elementi distopici sono stati
presenti per un lungo periodo nell’immaginario occidentale. 1984 di Orwell
è stato pubblicato negli anni ‘50, per
esempio, ma certamente ha continuato
a ispirare gli artisti. L’arte e la musica
42
sono sempre state valvole di sfogo per
sfuggire alla realtà della vita.
Travis Collins: il declino dell’industria
negli anni ‘80 e il recente declino economico sono entrambi collegati, entrambi riflettono la volatilità di un’economia globale basata sull’avidità e il
consumo. Come abbiamo visto nel corso
della Storia, le ondate di cambiamento
sociale e politico, le guerre e il declino
economico, sono, in realtà, i momenti
in cui emergono la musica e l’arte più
creativa. La gente vuole fuggire, cercare
un modo alternativo di vita, e questo è
il motivo per cui giochi, film, musica e
libri sono così importanti. Essi ci ispi-
rano, e le controculture sono essenziali
per dare alle persone un punto di appoggio per fuggire dalla vita quotidiana
e dalla schiavitù del lavoro. Tu parli di
questa nozione di distopia, io personalmente amo i libri di fantascienza e i
film distopici con temi post apocalittici.
Penso che tutti noi sogniamo un mondo
migliore in cui ricominciare daccapo. La
musica industriale è la colonna sonora
perfetta per questi temi perché è oscura
e bellissima al contempo.
1984
Nel vostro documentario sono messi in evidenza anche i rapporti della
musica e della controcultura industriale con le avanguardie come il
futurismo, dada, surrealismo e costruttivismo?
Amélie Ravalec: assolutamente. Movimenti artistici come Dada, surrealismo,
futurismo, ecc, hanno avuto un’enorme
influenza sui musicisti industriali e credo che siano essenziali per capire quegli
artisti. Molti gruppi industrial presero
molto in prestito da quei movimenti
artistici d’avanguardia, sia nello spirito,
sia nell’estetica. Erano artisti rivoluzionari, in grado di influenzare le persone
più di un secolo più tardi.
Travis Collins: l’arte dadaista è stato
enormemente importante per la nascita
della musica e della cultura industrial.
Genesis P-Orridge, Boyd Rice e Adi
Newton erano innanzitutto artisti, prima di essere musicisti. La mailing art,
l’arte postale, era un mezzo, per molti di
loro, per condividere idee e collaborare.
Non credo ci sia un altro movimento
musicale così interconnesso e ispirato
dall’arte. Questo è ciò che rende la musica industrial così unica.
Un’altra importante influenza per
lo sviluppo della musica Industrial è
quella letteraria: penso soprattutto a
scrittori pionieristici come William S.
Burroughs, James Ballard, ma anche
a tutta la corrente letteraria cyberpunk che, a sua volta, ha trovato nella
musica di artisti come Clock DVA una
fonte d’ispirazione. Volete anticiparci qualcosa su questo?
Amélie Ravalec: Burroughs e Gysin, con
e le loro tecniche di cut up, sono stati
un’influenza enorme per tutti gli artisti
industrial. Throbbing Gristle, Cabaret
Voltaire, SPK e Clock DVA nel film hanno tutti posto l’accento su quanto siano
stati importanti Burroughs e Gysin per
lo sviluppo della loro arte. Le tecniche
di cut up letterario lavoravano sulla
liricità e sulla musicalità delle parole ed
erano facilmente trasponibili ai primi
esperimenti di tape loop. J.G. Ballard
è stato un pioniere ed ha influenzato
molti, come V. Vale, che ha ripubblicato
La mostra delle atrocità su Re/Search, o
Daniel Miller, la cui prima uscita come
The Normal, Warm Leatherette, è stata
ispirata proprio da Crash di Ballard.
Travis Collins: non abbiamo potuto fare
questo film senza menzionare Burroughs e Ballard. Quando gruppi come
Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire
hanno introdotto il cut up nella loro
musica, è cambiato tutto. Loro hanno
usato il campionamento prima che i
campionatori venissero inventati.
Nel documentario parlerete anche
della scena techno industrial? Oggi
sembra essere una scena sulla cresta
dell’onda. Pensate che il vostro lavoro
43
sulla musica industriale possa servire
anche come promemoria di come la
musica di TG, Esplendor Geometrico,
Cabaret Voltaire, ecc, sia essenziale
per comprendere la nascita e lo sviluppo della musica elettronica contemporanea, anche nelle sue diramazioni più EDM e techno-oriented?
Amélie Ravalec: ho già fatto un documentario sulla musica techno industrial,
quindi non volevamo coinvolgere gli
stessi artisti in questo film, ma parlare
dell’ampia influenza della musica industrial in generale. Molti artisti provenienti da diversi generi e background
musicali oggi citano la musica industrial
come una grande fonte d’ispirazione,
soprattutto gli artisti techno. Negli
44
ultimi anni la scena techno industrial è
divenuta abbastanza grande ed in molti
sono stati coinvolti e si sono appassionati a queste sonorità, il che è una cosa
senz’altro positiva.
Travis Collins: negli anni ‘90, l’EBM
veniva considerata una grande influenza per la musica techno, con dj come
Richie Hawtin che suonavano brani
di Nitzer Ebb e Front 242. Da quando
Paris/Berlin 20 Years Of Underground
Techno è uscito, la musica techno industrial è divenuta molto più popolare.
Oggi molti dj techno e di musica elettronica stanno inserendo nei loro mix
tapes brani industrial. Ciò farà sì che
sempre più persone saranno indirizzate
verso questo genere di musica.
Quale futuro vedete per la musica
industriale?
Amélie Ravalec: la musica industriale ha
già influenzato molti musicisti, scrittori
e artisti. Gaspar Noé usa la musica di
Throbbing Gristle e dei Coil nel suo film
Enter The Void, e i film di David Lynch
sono molto importanti per i fan dell’industrial. È una musica che ha sicuramente un’importante eredità. Speriamo
che influenzi sempre più persone, che
si evolva e muti in suoni diversi e mai
sentiti prima.
Travis Collins: stiamo ottenendo richieste d’interviste da fashion blog per
parlare del film, la musica industrial sta
sicuramente iniziando a farsi conoscere
sempre di più nella cultura popolare.
Film, anime, giochi, cyberpunk e sci-fi
introducono colonne sonore di musica
industrial ed io credo che sia un ottimo modo per introdurre le persone al
genere. Sarebbe bello se il nostro film e
le band che abbiamo intervistato fossero apprezzate e conosciute da un pubblico più vasto. Credo che gruppi come
Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire
dovrebbero ricevere un Grammy o
riconoscimenti simili per il loro significativo contributo alla musica popolare.
Spero che ciò accada al più presto.
Quando uscirà il documentario? In
quali forme sarà distribuito?
Amélie Ravalec: stiamo progettando di
finire la post produzione nei prossimi
mesi e di fare uscire il film agli inizi del
2015. Ci saranno premiere in festival e
proiezioni in tutto il mondo e faremo
uscire il film in DVD.
Travis Collins: siamo molto vicini al
completamento. Non abbiamo un budget per il marketing, così ora ci siamo
concentrati sulla ricerca di audience
per il film. Vi chiediamo di contribuire
a diffondere le notizie e di seguirci sulle
nostre pagine sui social media. È un
impegno enorme fare un film. Sia io che
Amélie vi abbiamo lavorato sette giorni
su sette, negli ultimi due anni. Spero
che le persone siano in attesa per la sua
uscita tanto quanto lo siamo noi!
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G u s t o F o r t e
N o n
c ’ è
I t al i a
g u s t o
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e s s e r e
a v a n g u a r d i s t i
46
Dopo una pausa durata
trent’anni, il rientro in grande
stile dei GustoForte, gruppo
romano che pone un ideale
ponte tra le avanguardie anni
‘80 e l’attualità
>>>Testo di Stefano Pifferi
La verità è banale, molto spesso. Così
come la banalità ha molto a che fare con
l’ovvio e, di conseguenza, col vero. Il
titolo del presente articolo non ha a che
vedere con Freak Antoni, come invece
potrebbe sembrare, ma ha molto a che
fare con un piatto gustoso celato dalle
nebbie del tempo, oltre che dalla miopia
congenita degli (ipotetici) osservatori
dei sottoboschi, e per il quale non sarebbe ovvio né banale, ma semplicemente
vero, affermare che è uno dei segreti
meglio custoditi del “rock” in Italia.
Quel piatto ha un nome che rimanda a
qualcosa di culinario, ma anche no. Ad
una idea generale, più ampia dell’ambito meramente culinario. Ad una sorta
di filosofia di (non)vita. Ha a che fare
col gusto, elemento che nell’Italia degli
ultimi due o tre decenni viene sempre
più spesso da associare all’aggettivo
“cattivo” e che invece i romani GustoForte risollevano creando parallelismi
tra l’ambito culinario, nella fattispecie
tradizionalmente romano, e la musica.
Non a caso, è Quinto Quarto il titolo
del nuovo lavoro della rediviva compagine romana; insieme rimando alla tra-
47
dizione (“Il quinto quarto è quel che rimane della bestia vaccina o ovina dopo
che sono state vendute ai benestanti le
parti pregiate: i due quarti anteriori e i
due quarti posteriori” recita Wikipedia)
e dichiarazione di stortume, segnalazione di estraneità alla regola, asserzione
esplicita di una appartenenza al mondo
dei fuori asse (ma su questo torneremo
in seguito). Frattaglie sonore irregolari
sono infatti quelle che i romani hanno disseminato nei loro (pochi) lavori
ufficiali, in un “mercato” discografico
periferico e provinciale nel suo rinchiudersi a riccio su poche, scelte e tranquillizzanti certezze.
Un omonimo esordio (Rat Race, 1985)
fulminante, stando ai racconti dei
(pochi) sopravvissuti, e che assume
oggi – all’orecchio di oggi, avvezzo a
stramberie concettuali d’ogni sorta – le
forme di un “opalescente e indecifrabile
amalgama post-new wave” (Vittore Baroni dixit), mentre all’epoca assumeva
i connotati di un pesante packaging in
“lamiera piegata in due, con un bullone su di un lato e una scritta spruzzata
con vernice nera” decisamente in netto
anticipo sui tempi.
Ristampato lo scorso anno con titolo
cambiato in La Prima Volta da Plastica
Marella, “editore in modo moderno” di
“oggetti sonori diversamente udibili”,
l’album è un concentrato di coraggio e
sperimentazione nel suo trinciare dubwave, proto-industrial, plagiarismo,
rumorismo e avant-rock sprezzante
del pericolo nel suo evidente anticonformismo. Non a caso, ancora, l’autodefinizione “italian antipop group” che
ne indicava il senso più di mille parole
postume e che a noi, generazionalmente
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neofiti, ricorda unicum irripetibili come
Dedicato A… de Le Stelle di Mario
Schifano.
Poi uno iato quasi trentennale rotto nel
2012 dalla release di Souvenir Of Italy,
vinile 12” e nastro in edizione limitata, che riesuma(va) in una ristampa/
non ristampa (dato che non vide mai
la luce all’epoca della sua composizione) musiche previste per luoghi non
convenzionali. In soldoni, due lunghe
suite – alla title track del lato A fa da
contraltare La Merda Che Fuma sul lato
B – che diremmo quasi collagistiche,
tra cut-up, nastri, voci cercate e trovate
di radiogiornali, stornelli, registrazioni
(quasi)aliene la prima, e una composizione free/avant-rock eretta intorno
all’omonimo scritto di Osvaldo Licini e
catturata live al Beat72 di quella Roma
– che tanto significa, per contrasto e in
opposizione, nelle musiche dei GustoForte – la seconda.
Quaranta minuti di sperimentazione
che si fanno “necrofora discesa negli
inferi della memoria Nazionale”. Infine,
è storia di questi giorni, anche se coi
GustoForte parlare di tempo ha poco
senso, vista la capacità nel “cantare”
una contemporaneità paradossalmente
fuori dal tempo, Quinto Quarto: l’album della “rinascita” (ammesso che
questa definizione abbia un senso) che
li ri-proietta dentro un circuito musicale “underground” nel quale, ovviamente, i quattro stanno stretti, ma non
fuori luogo, pronti a rompere (non solo)
gli schemi per “cattiveria congenita” e
sarcastico gusto nello sparigliare il già
noto.
Accanto a questa produzione “ufficiale”,
a corroborare l’impianto onnicomprensivo (ed onnivoro) del progetto che mai
ha rifiutato le istanze più evidentemente artistiche, le release non ufficiali: “17
pubblicazioni autonome” (vinili limitati,
nastri serigrafati, “fotoromanzi sfocati
e strappati”) disseminate in situazioni,
luoghi, modalità non conformi (stazioni,
piazze, fermate d’autobus d’Europa) ad
un pubblico “non scelto, casuale, autonomo da scelte condizionate”.
Non è un caso, e col terzo indizio arriviamo finalmente alla proverbiale
prova, nemmeno che la biografia dei
GustoForte inizi con una sorta di rivendicazione del proprio essere periferici,
soprattutto rispetto ad un luogo che è
realisticamente l’epicentro caratterizzante del loro suono: “GustoForte born
in Rome in the 1984, develop its sonorous magma and then blend into the
continuous beat of the peripheral roman nights”. Perché GustoForte è Roma
e Roma è GustoForte, nei suoi contrasti,
nelle sue dicotomie evidenti, nel suo essere onnivora e ladrona, santa e puttana,
avanguardista e popolare. Un legame
che ritorna continuamente nei titoli delle canzoni e come atmosfera generale, e
sulla cui schizofrenica ambivalenza, tra
attrazione e repulsione, molto del laterale ruolo svolto dai GustoForte fonda
le sue basi. All’epoca il racconto, anzi,
la colonna sonora rovinata di una Roma
“di passaggio”, a metà tra le avanguardie
e la condizione popolare, tra l’impegno
“politico” tradizionale e l’autonomia
(sonora) “radicale”, tra la no-wave e gli
stornelli; oggi (come allora) la testimonianza di una eccentricità (verrebbe da
dire, in tempi di forzata gentrification,
una “perificità”) difficilmente catalo-
gabile, se non come figlia di se stessa,
aliena a se stessa, dentro unicamente se
stessa.
I GustoForte sono Stefano Galderisi
(basso, contrabbasso, rumore), Roberto
Giannotti (percussioni, voce, elettronica), Francesco Verdinelli (chitarra,
tastiere analogiche, synth, giradischi)
e Silvia Brunelli (batteria) e sono qui,
come trenta anni fa, per descrivere la
contemporaneità e per ricordarci che la
vita, così come la musica, è questione di
(buon)gusto.
Questo articolo, molto probabilmente, avrà come titolo la rivisitazione
di un celebre passo di Freak Antoni:
non c’è gusto in Italia a essere avanguardisti. Vuoi smentirmi?
Parafrasando sempre Freak Antoni è
possibile dire anche “…largo all’avanguardia, pubblico di merda…”. È che
non mi sono mai posto lo psicanalitico
quesito su cosa faccio. Forse spesso mi
ripeto perché lo stia facendo. Poi non
credo che esista “avant-garde” come
genere meta-creativo, è solo una formula creata dalle borghesie di inizio
secolo per stemperare la noia e cercare
una identità di classe alternativa (e se ci
pensi è quello che continua a fare oggi
il “faro” della borghesia (in)cosciente
italiana, ossia il Gruppo Espresso/Repubblica, summa dell’annientamento e
omogeneizzazione dei gusti): preferisco
allora il più generico e impetuoso “contemporanea”. Anche perché sono convinto da sempre che il futuro non esista,
è solo un artificio umano inventato per
creare una speranza all’esistenza. Giano,
il dio latino, è rappresentato con due
teste speculari, quella che ci osserva
guarda il presente, l’altra il passato. Il
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futuro è tutto nel passato. Ergo non esiste avanguardia, è solo un’etichetta per
far presa sulle “masse deboli”. L’arte si
esprime solo attraverso la contemporaneità: qui e adesso. Ma tornando alla tua
domanda, la risposta più semplice è che
in Italia non c’è gusto a fare nulla per la
passività congenita degli indigeni che la
popolano. Ogni minimo frammento che
ci spinge a metterci in discussione (la
forma primordiale del far arte) ci spaventa, non vogliamo responsabilità, soprattutto verso noi stessi. Siamo schiavi
e sottomessi, preferiamo qualcuno che
si assuma le responsabilità per noi.
Anche nelle arti visive o sonore: siamo
quello che siamo, inutili.
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Facci un sunto della storia dei GustoForte. Nonostante uno iato pluriennale che non sembra aver scalfito la
vostra irriverenza e la vostra iconoclastia, sonora innanzitutto, ma
anche ideale, quest’anno festeggiate
il trentennale. Non è poco no?
GustoForte è la sintesi della pigrizia
umana che ha affittato casa dentro i
suoi componenti. Lenti ma inesorabili,
bradipi creativi. Nasciamo come gruppo (collettivo sarebbe meglio ma non è
più di moda) nei primi anni ottanta. Un
vinile con copertina di lamiera stampato in edizione limitata e performance
sonore nelle gallerie d’arte dell’epoca e
piccoli teatri. Come il concerto/installazione che abbiamo realizzato nel 1985 al
Beat72 di Roma e pubblicato in picture
tre anni fa. Poi abbiamo preferito l’oblio
consapevole, il ricercare un rapporto
occasionale con il fruitore degli atti sonori. Per anni abbiamo realizzato mini
manufatti diversamente udibili (cassette, cianografie con banda magnetica,
45giri realizzati in copia unica, registrati con l’ausilio di una macchinetta che
sostava alla Stazione Termini di Roma)
abbandonandoli per strade e piazze
periferiche delle città. Un rapporto
paritario, uno a uno, con un pubblico
inconsapevole. Una bella esperienza.
Poi, vista la decadenza della modernità
e visto che il nostro humus è il sangue
e la merda, siamo tornati a rompere i
genitali (genere neutro) alla collettività.
Così, solo per cattiveria congenita.
Avete partecipato all’ultimo Thalassa, una sorta di consacrazione del
ruolo di anticipatori di un certo sentire musicale…
Il profeta in patria è morto da tempo,
credo anche in malo modo. Non abbiamo anticipato nulla, ma solo descritto
la contemporaneità dell’epoca, i primi anni ottanta. Se oggi c’è un ritorno
isterico e spasmodico al quel periodo
è solo il segno di una povertà creativa
immonda. Non sapere descrivere “l’adesso” e interpretarlo è il fallimento di
una generazione. Il ricorrere al passato
senza averlo assolutamente vissuto, tipo
i profeti dell’hypnagogic pop, è come
assistere ad un karaoke interpretato da
claudicanti afflitti da sordocecità. Per
noi l’esperienza al Thalassa è un bel trip
psicanalitico, una seduta di multicoscienza. Un bel gioco, una bella idea. Poi
sentire Donato Epiro, Valerio Cosi e Mai
Mai Mai in una decina di metri quadri è
totalizzante!
Mi interesserebbe sapere la tua opinione sulla situazione musicale d’oggi. Quando avete pubblicato il primo
disco, parliamo della metà degli ‘80,
eravate già degli outsider o Gustoforte era inserito/inseribile in qualche
corrente?
Nei primi anni ottanta il cosiddetto
“indie” italiano era una sorta di follia
collettiva autorganizzante. Il faro era
Oderso con la sua Italian Records, inarrivabile per tutti. Poi un mare di situazioni che si credevano emanazioni della
Rough Trade, ma eran solo peti d’affetti
da stipsi in sottoscala evanescenti. Il
tutto è catalogato molto bene da Fricchetti in un librettino dell’epoca di
Stampa Alternativa, Compra o Muori. Si
stampava in ogni formato disponibile e
si attendeva il successo imminente. Ma,
cosa tipicamente italiana, il “mercato”
era ostaggio da un combinato disposto
orripilante: giornalisti che aprivano etichette, che a loro volta eran distribuite
da organizzazioni di proprietà di riviste musicali, che aprivano negozi dove
lavoravano giornalisti, che a loro volta
suonavano in gruppi e si affidavano a
booking di proprietà dei soliti noti. Mai
capito perché nell’underground italico
non ha mai sfiorato a nessuno il dubbio
del conflitto d’interessi. Ma tant’è! Le
cose memorabili si contano su di una
mano, tutto il resto derivativo o quasi.
I 45giri dei GazNevada e Confusional
Quartet furono memorabili. Poi i Fiori
Malsani del Carillon del Dolore, i Gronge, le cassettine dell’Adn di milano, i Detonazione di Udine, le follie della Trax,
i primi Bisca e i CCCP dell’Attack Punk
Records. Bisogna attendere i Novanta
51
con Lory D e Leo Anibaldi per ascoltare
qualcosa di veramente originale e diffuso nell’intero globo terracqueo. Oggi
le cose vanno notevolmente meglio, le
maglie si sono aperte. Donato Epiro,
Valerio Cosi, Mai Mai Mai, Heroin in
Tahiti, Mamuthones, Von Tesla, Father
Murphy, Maria Violenza, Valerio Tricoli, Donato Dozzy sono belle realtà con
potenziali enormi…
Quanto c’è di “romano” nelle vostre
musiche? Mi riferisco soprattutto
alla (psico)geografia presente nei
titoli di Quinto Quarto e a una certa
predilezione per l’essere periferici,
cosa che secondo me Roma continua
a mantenere nonostante sia una metropoli, ma in grado di miscelare gli
input provenienti dal primo mondo
musicale…
Roma è GustoForte. Noi continuiamo
a raccontare in modo sonoro la città di
Sergio Citti e Nico D’Alessandria. Una
città ossimoro, negazione di se stessa.
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Una città discarica, che vive con migliaia di morti sotto pochi metri d’asfalto.
Una città spaventosamente alchemica e
contemporaneamente in preda alla fame
dell’ignoranza. Una città zeppa d’ignavia, codarda, vigliacca e infame. Mescolanza infinita di divinità che continuano
a combattersi sotto i nostri piedi. Dove
fino a poco tempo fa l’afrore dei corpi di
Pasolini e De Pedis accompagnavano la
questua quotidiana di Mario Appignani.
Imperatori, papi e duci, un susseguirsi
di malversazioni e schiene chine. Una
città meravigliosa perché morta da
millenni. Noi siamo zombie della nostra
stessa malinconia. Mai morti e sempre
cadaveri, malfattori della felicità altrui.
Roma non è una metropoli, ma la controfigura della periferia di Babilonia.
Solo che hanno tagliato tutti i ponti per
raggiungerla, e noi romani siamo troppo
vigliacchi per tentare di raggiungerla.
53
O m
54
U n i t
>>>Testo di Edoardo Bridda
T h a t
r h y t h m .
N o t
r e s o n a n t
i n
a
w a y.
Om unit, ovvero Jim coles, è uno con le idee chiare e l’accento
pulito. Lo comprendi da subito, quando te lo trovi davanti. Ha
i piedi piantati per terra, coerenza e curiosità. Non si vergogna
di raccontarti delle sue serate epifania e di come stanno alcune
cose con un piglio che va oltre il “secondo lui”. E’ un londinese
doc, ma, dall’alto del suo metroenovanta, non esce una sillaba di
cockney o un’inflessione troppo posh; il suo, anzi, è un distillato
kentish senza troppi distintivi, un veicolo con il quale si prende
gli spazi che deve in una conversazione, guardandosi bene di non
scavallare o risultare inopportuno.
Lo intervistiamo una sera di luglio al Link di Bologna, dove è
stato invitato per un dj set che si rivelerà una autentica sorpresa. Sapevamo della sua bravura produttiva e dei sui abili mix di
generi, ma è ai piatti che il trentacinquenne che prima si faceva
chiamare – non a caso – 2Tall dà un’idea chiara del mondo sonico
in cui si è immerso circa quattro anni fa.
Il sound che Om Unit si è conquistato è un flusso limpido di hip
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hop – provienente dal suo passato produttivo – innestato in una buona dose
di presente – sì presente, a lui non piace
tutto questo parlare di future this and
that – ovvero una grande padronanza
di footwork, jungle e, facciamola breve,
bass sound a 360° britannici. Nella sala
al piano superiore del locale di via Fantoni la gente ha il sorriso dei bei vecchi
tempi della drum’n’bass arena, e più
d’uno se ne compiace e sorprende. Non
par vero quanto renda bene in pista la
family di Coles, ovvero le produzioni
sue e dei “suoi” ragazzi recentemente
oggetto di una compilation celebrativa
curata dallo stesso Om Unit, Cosmology.
Nel mix non manca nulla, neanche uno
dei paladini più lontani (geograficamente) dell’nu eski sound o new wave
of grime, Epoch, un ragazzo che Coles
ha conosciuto ai tempi di Hydraulics,
un 12” in combutta con Wen. Riallaccandomi ai discorsi fatti in un articolo
su eski e jungle, gli chiedo naturalmente di più. “Lui abita a Melbourne, ma è
della Nuova Zelanda e a nessuno frega
nulla della sua musica laggiù” sentenzia
con sciolta dialettica “Ecco perché la
sua attività con l’etichetta, la Egyptian
Avenue, va a rilento. Andiamo molto
d’accordo. E pensa che è anche uno dei
migliori amici della mia ragazza. Lo abbiamo conosciuto quando siamo andati
in Australia e credo si voglia muovere
negli States ora. E’ sicuramente un
one to watch come è innegabile che il
movimento grime, rispetto al passato,
è in un certo senso globale. Vedi Rabit
da Houston o Sd Laika che è sempre
americano. C’è un giro di producer che
comunicano via internet. Stanno muo-
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vendo acque molto profonde nel loro
piccolo. E’ una cosa rivoluzionaria che
sta dando al movimento una ventata di
aria fresca”.
Scavando più a fondo apprendiamo che
Coles non è un esperto grime, ma come
sa quello che gli serve delle nuove wave
del genere, così se gli chiedi di Bristol
perché hai la testa piena di producer
di quelle parti, ecco che lui si riallaccia
alla sua più grande passione, la jungle,
e tutto si ricollega a uno dei possibili
continuum elettronici (“Bristol è molto vivace. C’è Gorgon Sound, ovvero
Kahn e Neek, e il loro dub è fantastico
soprattutto live. Sono un fan di quello
che succede in quella città almeno dai
tempi di Full Circle, da Roni Size e Dj
Die, la prima drum’n’bass, la jungle e
tutto quel che c’è in mezzo. E’ musica
per soundsystem in un certo senso ma
con un vibe carnevalesco che soltanto
Bristol ha. Con un sound spirit unico.
Non conosco le ultimissime leve, in
passato tenevo d’occhio Pinch e Peverelist”).
Del resto, tutto per lui viene dalla
jungle, e la sua storia in questo senso
è molto simile a quella di Lee Gamble;
entrambi, infatti, troppo piccoli per
vivere la scena, l’hanno ricreata a casa
propria componendo le prime produzioni da giovanissimi e assorbendo
come spugne le mitologie dei cugini
più vecchi. “Ho iniziato tipo nel ‘93,
quando avevo 14 anni, ma delle cose
che ho composto l’anno successivo non
ho poi pubblicato nulla. La mia vita, a
metà Novanta, era nei pub. Giocavamo
a stecca e ogni tanto avevamo la fortuna
di sentire qualcosa tipo garage, funky
house e garage. Solo se eri veramente
fortunato ti beccavi qualcosa di jungle”.
Sempre alle politirmie e ai rullanti è
legato il suo passaggio all’attuale alias,
ragione sociale che ha convissuto per
un breve periodo con un altro travestimento fondamentale, Philip D Kick,
ovvero un laboratorio di tracce bastarde
ottenute mixando ritmi footwork con
vecchie produzioni jungle dell’epoca
d’oro, tipo Horizons di LTJ Bukem o
Circles di Adam f. In pratica giusto, un
passo avanti a Machinedrum, Coles
aveva intuito, sempre con medesima
chiara visione di campo, che entrambi i generi condividevano parecchio,
dai bpm a un certo spirito tribale, fino
all’uso della 808 e la scelta dei sample.
“Ma quindi quando vi siete conosciuti
tu e Travis Stewart?”, gli faccio, “Circa
attorno al 2010. E sempre nello stesso
periodo abbiamo iniziato a comporre
assieme. Stewart ha passato un periodo a casa mia a Londra e così abbiamo
fatto partire questo progetto, Dream
Continuum su Planet Mu. Alla fine
abbiamo prodotto soltanto questo EP
di tre tracce che poi è molto simile alle
produzioni Philip D Kick”.
La Planet Mu di Mike Paradinas, nella formazione footwork di Coles, ha
un’importanza fondamentale. E’ una
sera al Plastic People, sempre nel 2010,
a un set dello stesso Paradinas, che gli si
accende una bella lampadina. Ma non è
la sola epifania, mi confessa, la seconda
è ad una serata di D-Bridge: “Ho conosciuto D-Bridge attraverso le cose sotto
Autonomic. Anzi, no”, mi fa, “avevo un
disco di Future Forces del ‘97 ma non
sapevo fosse lui. Naturalmente conoscevo Bad Company e le cose che faceva
ma diciamo che l’ho scoperto a dovere
con Autonomic e andando a un suo set
nel 2009. Lui è un maestro del ritmo. E
poi c’è questo aspetto melanconico ma
gioioso in splendido bilanciamento che
lo caratterizza. Ha avuto una influenza
massiccia su come lavoro. La gente accredita me, Machinedrum e altri per un
certo tipo di ecletismo, ma è a lui che
bisogna guardare. Non ha mai smesso
di innovare negli ultimi 10 anni. Dalla
fondazione di Exit ad oggi. Sono stato
in studio con lui, è fantastico, tira fuori
suoni incredibili al volo, senza pensarci.
Non ho idea di come faccia ma è uno
scienziato vero, un ricercatore di nuovi
sound”.
La stessa libertà riferita a D-Bridge,
Coles la riversa in tutti gli aspetti del
fare musica. (“Uso un sacco di roba differente, un poco di analogico e un sacco
di digitale al PC. Prendo tutto e non mi
interessa. Poi sì, campiono ma in modo
molto tattico. Non mi piace rendere le
cose riconoscibili. La melodia la scrivo per intera ma diciamo che ci metto
quei piccoli effetti strani presi da dischi
new age, la hippy music dei ‘70. Prendi
i Tangerine Dream e quegli assurdi
interludi che ci mettono, li prendo e
converto con un approccio hip hop e o
footwork”). Ma c’è una caratteristica
fondamentale che il suono deve avere
per essere come dice lui, “non deve
essere risonante”. “Con la musica che
suono live, e anche per Threads vale
lo stesso discorso, ci puoi fare viaggi
in macchina. E pulita e mantiene un
suono naturale”, mi confessa sicuro
di sé, rimarcando che se una musica è
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risonante gli procura dolore fisico, è il suo orecchio a rigettarla.
“Ma le produzioni jungle belle sporche e cattive un po’ risonanti
lo saranno no?”, gli faccio con sottile provocazione, “Non lo sono.
Almeno sì, in parte, sono crude per il modo in cui sono fatte, hanno una tape compression, cose così, ma lo stesso effetto è diverso
nel mondo digitale. E’ un approccio differente”.
Suoni puliti, eccletismo e orecchie sempre attente a ciò che
colpisce la sua immaginazione sono le caratteristiche che più
risaltano dopo una trentina di minuti di conversazione affabile e
amichevole con il producer, che non manca di fornirci anche la
chiave sociologica di tanta maleabilità e voracità: “Come britannico ti posso dire che non abbiamo mai avuto una cultura musicale nativa, se l’abbiamo appartiene ai gruppi etnici come Greci,
Giamaicani, Turchi. La nostra cultura è stata rimossa tanto tempo
fa. Non ne abbiamo una nostra. La nostra musica puoi dire che è il
pop. Abbiamo una tradizione di folk, ad esempio, ma è completamente sparita. Quindi senza andar troppo oltre le ragioni di questo interessante melting pot vanno ricercate nel nostro prendere
continuamente in prestito cose altrui, tipo il reggae giamaicano,
il rock’n’roll americano, la techno di Detroit, la house di Chicago.
Il nostro è sempre un mix. Ed è un mix in stato di salute perché
in costante cambiamento e mutazione. Ed è anche per questo
che i dj inglesi sembrano dominare il mondo, in un certo senso è
perché respirano quest’aria”.
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59
ROBOT 07
In occasione del roBOt festival 07 ripercorriamo le
carriere di due producer elettronici chiave degli ultimi
dieci anni. Il percorso che porta alla psichedelia di James
Holden e quello legato ai sogni e al ricordo di Jon Hopkins
>>>Testo di Edoardo Bridda / Daniele Rigoli
James Holden
Jon Hopkins
Con una carriera passata sulla cresta di alcune
ondate (prog house, neo trance, electro-psichedelia, elettromania analogica, ecc.) che hanno
attraversato il dancefloor dalla fine degli anni
Novanta e un’instancabile attività di dj, remixer
e label manager, James Holden si è imposto sia
come solido producer attentissimo ai dettagli
(e in costante pressione sui bordi delle mode),
sia come abile miscelatore di emozioni ai piatti.
Il filo conduttore della sua musica è il viaggio,
meglio ancora se la sua durata coincide con una
notte intera, un percorso che lo porta, dopo più
di dieci anni di carriera, a una naturale dialettica oltre la pista da ballo fatta di macchine
analogiche, minimalismo, cosmica e kraut rock.
E un importante punto d’approdo, ovvero The
Inheritors.
Nato il 7 giugno 1979 a Exeter, Devon, in Inghilterra, James Alexander Goodale Holden
esordisce a 19 anni sotto i migliori auspici. Il 12”
Horizons / Pacific, pubblicato da Silver Planet e
distribuito da INCredible, label legata alla Sony,
è uno degli hit neo prog house del 1999 e il suo
nome viene associato a nuova promessa del
genere, assieme a Space Manoeuvres, e a grossi
Nato nel quartiere londinese Kingston upon
Thames, il 15 agosto 1979, Jon Hopkins si è dimostrato nel corso degli anni uno dei producer
qualitativamente più interessanti della scene
elettronica, unendo una tecnica sopraffina da
autentico scultore del suono in studio a emozionanti e vibranti esibizioni sul palco.
Cresciuto a fianco degli storici campi di Wimbledon, Hopkins inizia a studiare pianoforte a 12
anni allo Junior Department of the Royal College
of Music, attività che lo porta ad ascoltare con
passione compositori di fine Ottocento come il
francese Maurice Ravel e il più conosciuto Igor
Stravinsky. Sin da subito il ragazzo mette in
mostra il suo talento, arrivando ad esibirsi con
un’orchestra e prendendo il soprannome di child
protégé. A soli 15 anni vince l’ennesimo concorso
di pianoforte, e con i soldi ricevuti acquista un
Roland Synth che lo catapulta immediatamente
nelle prime composizioni casalinghe, facendogli
scoprire in contemporanea una fascinazione verso l’acid house. Con l’aumentare degli ascolti di
mostri sacri del synthpop come i Depeche Mode
e dopo aver concluso gli studi classici, viene ingaggiato da Imogen Heap come tastierista, dopo
60
calibri come Sasha + John Digweed. Nel 2001,
esce One For You su Direction Records (sempre
legata Sony), un altro immaginifico viaggio ibizenco tra trance e house a cui seguono, l’anno
successivo, l’affondo tubolare Solstice, sempre
su Silver Planet, e un versus 12” con Ben Pound,
Kaern Turned, sub label di Silver Planet, attivata con l’aiuto dello stesso Holden. E’ l’anticamera di un’etichetta personale che viene aperta nel
2003, ovvero Border Community.
Sulla neonata realtà discografica, Holden affonda un altro banger per il dancefloor prog trance,
A Break In The Clouds, traccia contenuta in
quattro versioni in un omonimo 12”, mentre su
etichetta Loaded firma due uscite con la vocalist Julie Thomson: Nothing, in prepotente area
mainstream, e una emblematica (per le produzioni seguenti) Come To Me, traccia che esplora
traiettorie più pacate e articolazioni melodiche
non lontane dalle glitcherie emozionali di Apparat (al netto di ritmi idm-warp, s’intende).
Nel frattempo, sulla label personale, un’accolita
di spiriti affini come Petter, Avus, Mfa e soprattutto Nathan Fake, sempre partendo dagli
stroboscopici viaggi in 4/4 del label manager,
stanno esplorando nuove traiettorie che, pur
poggiando su casse dritte e snare funzionali al
dancefloor, mirano a una dimensione di psichedelico intimismo tagliato alla bisogna su fendenti electro, approccio che li ricollega più direttamente alla gloriosa tradizione techno IDM
briannica, e quindi a casa Warp (la Outhouse di
Fake, in particolare nel fluffy mix, porta diretti
ai Selected Ambient di Aphex Twin). Accade
così che se The Sky Was Pink nel mix originale richiama i Boards Of Canada, nel remix di
Holden diventa – parole sue – uno spartiacque
importantissimo nella carriera del musicista, lo
starter ideale per l’esordio discografico a venire.
The Idiots Are Winning, pubblicato nel 2006 e
visto anche come un mini o una raccolta delle
produzioni del periodo, taglia con il passato
aver paradossalmente partecipato all’audizione
con l’idea principale di accompagnare un amico:
“Direi che è stato un buon inizio, e pensavo che
tutto sarebbe decollato. Noi eravavamo la sua
band, e io facevo il mio lavoro”.
Scontato dire che con un curriculum così brillante scritto in così poco tempo, iniziano ad
aprirsi le prime porte con le etichette discografiche: nel 1999 arriva la firma con Just Music,
col Nostro che si mette al lavoro sul primo disco
solista nella stanza di Wembley dove abita, in
un periodo per lui di grande sofferenza a causa
della costante mancanza di soldi. Pubblicato il
30 luglio 2001, Opalescent si staglia su sonorità
atmosferiche e sfocate, che, come affermerà lo
stesso artista “erano frutto di improvvisazione, non sapevo davvero cosa stessi facendo in
quel momento”. Nonostante il lavoro suoni un
po’ acerbo e senza esperienza, la critica inizia
a buttare l’occhio su Hopkins, e alcune tracce
vengono scelte come colonna sonora del famoso
telefilm Sex And The City.
Tre anni più tardi arriva il secondo disco Contact Note, un album che, visti i bassi risultati
di vendite, delude talmente Hopkins da fargli
pensare di abbandonare l’idea della carriera
solista per dedicarsi completamente all’attività
di produttore. Nello stesso anno però, Hopkins,
per mano dell’ex band mate Leo Abrahams, conosce Brian Eno, che rimane colpito da alcune
tracce del ragazzo inglese, tanto da invitarlo a
sessioni in studio. Risultato: Hopkins diventa il
tastierista dello stratega obliquo in Another Day
On The Earth (2005).
Nel 2005 esce il 12” EP1, che mantiene la bussola ferma su coordinate ambient. I risultati
iniziano ad arrivare, come la produzione di
Bombshell di King Creosote e alcuni lavori con
il dj nord irlandese David Holmes. Arriva una
nuova chiamata da Eno, che trascina Hopkins
nelle registrazioni del quarto album dei
Coldplay, Viva La Vida or Death and All Of His
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e, di fatto, “tradisce” i fan della prima ora. Il
nuovo Holden fonda il suo corso su un inedito
crocevia di electro, psichedelia e minimal trattato, al solito, con enorme attenzione ai dettagli.
Sbucano dal mix riferimenti IDM e glitch di
sponda al citato Apparat e, trainato dal cavallo
di battaglia Lump (che per stacchi sul mix, filtri
e vortici elettronici ricorda il Richard D. James
dell’album omonimo), il disco si configura come
un vivido sogno da ascoltare nella dimensione
del long playing. Per il producer è l’apertura
di cerchio più ampio, oltre il dancefloor, che
nell’attività come dj e relativi mix su disco coincide con set visionari che si avvalgono di una
variegata palette di generi e stili anche piuttosto
lontani dalla pista da ballo e, pertanto, paragonabili a quelli di Andrew Weatherall in quanto
ad eclettismo, senso d’insieme e passione per
l’analogico.
La fase a cavallo tra gli anni Zero e i 10s è cruciale; in questo periodo Four Tet e Caribou
imparano molto da lui e Holden nei suoi At The
Controls, del 2006, e Dj Kicks, del 2010, ricambia e assume le influenze degli amici suonando
le loro tracce e mescolandole a quelle di altri
act come Arp, Kode9, Piano Magic, Legowelt,
Mogwai, Apparat. “[E’] un fiorire di beat che si
avvicinano e allontanano trovando il perfetto
bliss“, affermiamo in sede di recensione, oltre
al fatto che l’attività di remixer coincide grossomodo con alcuni nomi nelle varie scalette. Le
band in agenda diventano quindi Mercury Rev
(Senses On Fire), Caribou (Bowls) e Mogwai,
con l’unica produzione inedita, Triangle Folds,
a confluire in una unitaria visione d’insieme,
oltre che ad ingrossare un sempre più ricco
background di psichedelie possibili.
Allo stesso tempo, nei piatti di Holden girano
sempre più synth, specie se modulari, e loop
minimalisti, come è innegabile che molti producer britannici, giovani e non, convertono il loro
modo di lavorare dal digitale all’hardware (vedi
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Friend per fargli suonare le tastiere nella title
track e nel singolo Life In Technicolor – utilizzando anche un estratto della traccia precedentemente scritta The Escapist per Light Through
the Veins– e farlo partecipare anche alla delicata fase di produzione. Chris Martin e compagni
chiedono poi a Hopkins di suonare prima dei
loro show, girando il mondo per sei mesi, dagli
Stati Uniti al Giappone.
Il 2008 è l’anno di numerosi remix, tra cui Four
Tet e Wild Beasts, e della produzione di Good
Day Today/I Know, album di David Lynch.
Dello stesso anno è Entity, colonna sonora per
il Random Dance di Wayne McGregor. Dopo la
firma con Domino, arriva il momento del terzo
album Insides (2009), che purtroppo delude
le aspettative: come scritto da Edoardo Bridda
nella recensione “Non manca nulla tranne una
nota che gli abituali acquirenti d’elettronica
non sappiano già”, tra tinte noir di piano, synth,
archi e brevi schizzi di hip hop.
L’attività live cresce in maniera esponenziale,
soprattutto come opening act di XX e Kieran
Hebden. Il 2009 è l’anno della presenza nel
Pure Scenius, supergruppo che vede il solito Brian Eno, Karl Hyde degli Underworld, e
Abrahams. Tra il 2009 e il 2010, dopo la collaborazione con Tunng nell’EP Seven Gulps Of
Air – che sposta l’attenzione su certe tematiche
wonky care ad Hyperdub, ma restando sempre
su livelli mai sopra la media (recensione) – è
l’anno delle colonne sonore: dopo l’ennesima
collaborazione con Eno in The Lovely Bones
(Peter Jackson), è il turno di Rob and Valentyna
in Scotland di Eric Lynne, e soprattutto Monsters, opera in solitaria dell’artista britannico
che vince l’Ivor Novello Award.
Hopkins viene poi richiamato alle armi da Eno in
Small Craft On A Milk Sea (2010) e torna a lavorare con King Creosote, partorendo Diamond Mine:
stavolta ne esce un bel lavoro, con i testi del folkster scozzese e il Nostro a lavorare sapientemente
Mumdance, Karenn, Perc e Truss, Joy Orbison
e Boddika ecc.) e ai pad. In studio, il producer ci
mette del suo imparando a utilizzare software
multimediali come Max/MSP ma, soprattutto, personalizzando il tutto con un controller
da utilizzare mentre mixa. “[il mio controller]
parla con il computer un po’ di più [degli altri in
commercio] e mette le informazioni in un piccolo schermo. Sto cercando di abbinare le chiavi
ai bpm dei dischi, in un metodo che ti permetta
di suonare dischi krautrock senza che la gente
s’accorga che li stai suonando“, rivela a Fact nel
maggio del 2013, giusto in occasione del singolo
che anticipa il nuovo lavoro, Gone Feral.
Il mese seguente, dopo aver twittato una domanda che più che retorica dà chiari indizi sul
nuovo corso (“esiste già un genere chiamato
‘psychedelic-synth-garage’?”), esce The Inheritors, lavoro che sorprende tutti e porta la sua
idea di psichedelia (ma anche prog rock) su un
nuovo, personale, livello.
EB
su trame elettroniche mai banali, eppure concise
e pulite, che accantonano le precedenti seduzioni dubstep, come scritto da Simone Madrau in
recensione: “Sia Bats In The Attic che Your Own
Spell, ad esempio, percorrono le vie bucolicosiderali dei Sigur Ròs; se Your Young Voice riecheggia distintamente Tim Buckley, Running On
Fumes aggiorna la lezione di quest’ultimo a quella
dei Radiohead più epici e dilatati; mentre l’altra
faccia della band di Thom Yorke, quella elettronica, è la base della commovente Bubble che, complice l’inserimento del banjo, fa l’occhiolino anche
ai Notwist di Neon Golden”.
Anno davvero cruciale, e sicuramente il più
importante dell’intera carriera è il 2013.
Hopkins imbocca finalmente la via giusta: il
risultato è interamente leggibile nel quarto
album Immunity, definito da molti il capolavoro del musicista. La formula è semplice quanto
perfetta: rielaborazione del tocco ambient con
prepotenti incursioni techno che danzano tra
IDM e scena raver, con totale adorazione della
critica. Il nostro Edoardo Bridda, in recensione,
ha preferito mantenere un atteggiamento più
tiepido nei confronti del lavoro, aspettando una
conferma che possa certificare definitivamente
la maturità raggiunta. Nel dicembre dello stesso
anno, in occasione della partecipazione all’Amore Festival di Roma, abbiamo scambiato due
chiacchiere con il producer, parlando nell’intervista di temi esterni all’album, come il giudizio
sul criticatissimo Spotify e l’utilizzo di strategie
tipiche dell’EDM nei live set.
Dopo una performance di rara bellezza nella seconda edizione della rassegna capitolina Spring
Attitude, Hopkins partecipa al roBOt Festival
2014 a Bologna al fianco di Villalobos e Moderat. Il 10 novembre 2014 vede la luce il nuovo
EP Asleep Versions contenente re-interpretazioni sognanti e rallentate di brani provenienti
da Immunity.
DR
63
L o u d n e s s
Wa r
e
q u al i t à
a u d i o
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Cos’è la Loudness War? E cos’è la qualità audio? Proviamo a fare un
po’ d’ordine grazie a Giovanni Versari e a Franco Naddei, in un excursus
speriamo utile per capire qualcosa in più su questioni spinose ma
fondamentali
>>>Testo di Edoardo Bridda
A s c o lt o
( o
q u i n d i
s o n o
s o n o
q u e l
c h e
a s c o l t o ? )
Questo articolo non sarebbe mai stato possibile senza il prezioso
contributo di Franco Naddei e Giovanni Versari. Il primo è un
musicista dalla carriera rispettata e ormai pluridecennale (Francobeat, Santo Barbaro, John de Leo, Hugo Race, Sacri Cuori
e moltissimi altri progetti), nonché tecnico valente e proprietario
dello studio di registrazione Cosabeat; il secondo è una delle autorità più importanti in fatto di mastering in Italia (in curriculum
produzioni per Afterhours, Massimo Volume, Vinicio Capossela, La Crus, Giovanni Lindo Ferretti, Il teatro degli Orrori, Marco Parente, Marta Sui Tubi, Bachi da Pietra, Edda e
probabilmente almeno un terzo dei dischi italiani che possedete).
Nel momento in cui abbiamo deciso di approfondire il tema della
Loudness War e della qualità audio ci è sembrato naturale rivolgerci a due professionisti del settore, per aver ben chiara tutta la
parte tecnica della questione. A loro e alle parole che hanno speso
per noi in sede di intervista va il nostro più sentito ringraziamento e gran parte del merito per i contenuti che state per leggere.
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Glossario
Impossibile affrontare un tema come quello al centro di questo
articolo, senza fornire una definizione dei principali termini utilizzati. Ecco, dunque, un tentativo di glossario.
Loudness
Franco Naddei definisce il concetto come una “esaltazione del
volume in generale e dei volumi delle frequenze che ‘gratificano
l’ascoltatore’, che garantisce maggiore presenza di suono”. Treccani.it, riferendosi al comando Loudness nei riproduttori audio,
scrive: “In elettroacustica, nome, derivato dal concetto di livello
di sensazione sonora, del circuito elettronico (e anche del comando che lo attiva) che, negli amplificatori ad alta fedeltà, modifica
la risposta in frequenza a volume basso, esaltando le alte e le
basse frequenze, per ovviare alla scarsa sensibilità dell’orecchio
umano alle regioni estreme della banda udibile nei bassi livelli
sonori”. In un brano con un loudness molto elevato, vengono però
percepite più alte le frequenze medie, ovvero quelle a cui l’orecchio umano è più sensibile. “In fase di mastering”, specifica Giovanni Versari, “si dovrebbe cercare di ottenere questo incremento
mantenendo un equilibrio timbrico ottimale”.
Dinamica
Franco Naddei: “In musica, è quello che c’è tra il limite più basso
di emissione del suono e quello più alto. Una sorta di intervallo tra il piano e il forte”. Sempre da Treccani.it: “Complesso dei
rapporti d’intensità sonora che si produce all’interno del discorso
musicale, per es. tra nota e nota, inciso e inciso, parte e parte, dal
piano al forte, dal crescendo al diminuendo. Segni dinamici sono
quelli che regolano tutte le gradazioni d’intensità, dal pianissimo
(pp) fino al fortissimo (ff )”. Aggiungiamo noi in modo brusco,
naïf e forse non troppo ortodosso: in un brano musicale, la dinamica è quella sensazione di corposità, di definizione tagliente del
suono degli strumenti, di differenziazione tra gli alti e i bassi, che
si coglie all’ascolto.
Mastering:
Fondamentale, in questo caso, il contributo Giovanni Versari: “il
mastering di un album si differenzia dalla semplice registrazione
innanzitutto perché è uno sguardo distaccato e fresco sul disco
uscito dalla sala di ripresa. Grazie a particolari attrezzature e a
competenze specifiche, il mastering è quel procedimento successivo che dà un tocco finale, possibilmente migliorativo, al lavoro.
L’obiettivo è rendere un prodotto discografico capace di suonare
bene su ogni supporto di ascolto”.
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Wave Form
La traccia audio (o Wave Form – Forma d’onda) è da immaginare graficamente come una sorta di spettro o “onda simmetrica”
a sviluppo orizzontale. In genere sull’asse x si trova il tempo di
durata del brano, sull’asse y quella che potremmo genericamente
definire “l’intensità del suono”, in inglese “amplitude”.
Una guerra rumorosa e le sue conseguenze
Di Loudness War (letteralmente, “guerra del volume”) si è cominciato a parlare in modo massivo (soprattutto all’estero) nel nuovo
millennio, anche se i prodromi del problema stazionano già negli
anni Novanta. L’avvento del Compact Disc prima – e quindi delle
tecniche di registrazione digitali – e di internet poi, ha esacerbato
una questione figlia di tempi veloci e rumorosi, ponendola infine
sotto i riflettori della rete, degli addetti ai lavori e dell’utente finale. Wikipedianamente parlando, potemmo definire la Loudness
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War come la tendenza da parte delle etichette discografiche (ma
anche degli artisti) a pubblicare dischi con un livello di loudness
(il termine “volume” non è esattamente interscambiabile, ma
torna utile per circoscrivere grossolanamente il concetto) sempre
più alto. Tra gli scopi finali, far spiccare le proprie produzioni nel
mare magnum delle pubblicazioni audio che escono ogni anno,
grazie a un suono più “squillante” rispetto a quello dei competitor, in una rincorsa all’eccesso che ha tutto l’aspetto di un cane
che si morde la coda.
Tutto questo ha un legame forte con le tecniche di registrazione
e riproduzione digitale, ovvero quelle che permettono di gestire
livelli di loudness sempre più spinti, come ci spiega anche Franco
Naddei: «La registrazione è una fase molto delicata. In analogico,
lo 0db – dunque il livello massimo di volume per la registrazione
dei suoni – è a un determinato punto, nel digitale è in un altro.
Nel digitale la soglia massima di registrazione (prima di arrivare
alla distorsione del suono) è molto più in alto, tant’è che quando
il segnale, da analogico [il percorso attraverso cui viene catturato
il suono degli strumenti suonati dai musicisti, ndSA], arriva in
digitale, è a un livello molto basso (più o meno 12-14 db in meno).
E’ già a questo punto che comincia ad affiorare il concetto (a mio
avviso sbagliato) che “più alto è, meglio è”. Esistono inoltre alcuni
software di registrazione dotati di una funzione che permette al
suono di non andare mai pesantemente in distorsione, anche nel
caso in cui si commettano errori nel fare i volumi durante la ripresa. Il digitale, comprimendo, ti consente inoltre di aumentare
il volume senza registrare distorto, ma allo stesso tempo, oltre un
certo livello, inserisce un rumore digitale che in qualche maniera
danneggia la qualità delle parti registrate. Quando si registrava su
nastro, invece, era tutto suono vero. Oltre allo 0db (il livello del
segnale registrato), avevi la possibilità di sfruttare altri 20 db di
margine, proprio perché il segnale arrivava più basso, in fase di
registrazione».
In termini più prosaici e “grafici”, potremmo dire che, una volta raggiunta la massima ampiezza della wave form audio di un
brano (cioè quando la waveform tocca con la parte superiore e
inferiore dell’onda il limite superiore e inferiore di quell’asse y di
cui si diceva nel glossario), il livello di loudness può essere incrementato ulteriormente agendo sulla compressione dinamica del
suono e sull’equalizzazione. Questa operazione porta – grossolanamente parlando – ad allargare la waveform verso l’alto e verso
il basso, con un conseguente aumento del volume audio.
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Il procedimento che ci interessa avviene soprattutto nella fase di
mastering, ovvero successivamente alla ripresa dei suoni, e vale
soprattutto per generi musicali come il rock, certa elettronica e
il pop, ovvero le tipologie di musica più popolari e “fisiche” (chi
fa jazz, classica o magari musica contemporanea solitamente
tende ad evitare un livello di loudness troppo alto, ricercando
invece una maggiore dinamica nei suoni) ma anche quelle paradossalmente meno “delicate”, se sottoposte a tale trattamento.
Il turning point, in questo senso, è stata proprio la diffusione del
formato di ascolto digitale, dal momento che supporti come il
vinile, per limiti fisici legati al materiale, alla sua costruzione e
alla corretta riproduzione (il pericolo è far saltare la puntina del
giradischi o creare disturbi sonori), non accettano (alcuni degli attuali) livelli di compressione/loudness elevati (e infatti le
edizioni in vinile di uno stesso disco hanno spesso un mastering
diverso rispetto a quello dell’edizione in digitale). Il CD, invece –
e in generale i file musicali digitali – non hanno vincoli, in questo
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senso.
La compressione dinamica eccessiva e un livello di loudness che
vada troppo oltre il picco massimo digitale di ampiezza della
wave form (sempre l’asse y di cui sopra) tuttavia, portano a delle conseguenze. La prima e la più importante è una perdita di
dinamica e di naturalezza nel suono, ovvero quel “rumore” di cui
parlava Naddei poche righe più su. Nella pratica, tutto questo
significa ascoltare un flusso sonoro che, in un brano esageratamente compresso, potrebbe risultare molto “invadente” a livello
di volumi, ma anche piatto, poco stratificato e poco dettagliato
nelle caratteristiche “acustiche” della musica: le chitarre fagocitano i bassi e la voce, il beat della batteria manca di definizione,
le parti di brano basse hanno lo stesso volume di quelle alte, tutto
suona “schiacciato”. Puntualizza, a tal proposito, Giovanni Versari: «Come funziona la compressione dinamica? Tu ampli la forma
d’onda; così facendo tutti i picchi di suono che vanno oltre lo 0 digitale (che è un limite insormontabile, pena la distorsione, al contrario dello 0 analogico) vengono schiacciati. E vero anche che se
un disco ha pochi elementi, poi, subisce molto meno lo schiacciamento dovuto alla compressione. In quelli con moltissimi strumenti o elementi, invece, la compressione tende a far afflosciare il
tutto. Ti faccio un esempio. Nella realtà fisica, quando un gruppo
suona dal vivo, ha tot amplificatori, tot chitarre, ecc, e se il gruppo suona bello coerente, non sfasato, più ci sono strumenti e più
suona forte. Il muro di suono che viene fuori, insomma, se tutto
è fatto a regola d’arte, ha volume ed è davvero un muro di suono.
Nella registrazione, invece, non è così. Se tieni dinamica dei suoni
e non vuoi un’eccessiva loudness, questa cosa può funzionare, ma
se pretendi di avere volume devi ridurre per forza la dinamica,
e quello che viene fuori non è il muro di suono che avresti nella
realtà fisica. Tutto è più schiacciato. In questo caso, il mio lavoro
è trovare il giusto spazio per ogni strumento, in modo tale che gli
stessi non si sovrappongano».
Negli ultimi anni le grosse etichette discografiche e molti artisti
hanno dimostrato uno scarso interesse nel preservare la qualità
audio delle proprie produzioni, tanto da immettere sul mercato
nuovi dischi con altissimi livelli di loudness e ri-masterizzazioni
di vecchi album fatte non sempre a regola d’arte. Non lo diciamo
noi, ma siti internet come quello del Dynamic Range Database,
in cui esiste una vera e propria classificazione dei dischi in base
alla dinamica dei suoni contenuti al loro interno. La stessa pagina
Wikipedia relativa al termine Loudness War cita alcuni album tra
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quelli registrati a più alto volume, tra cui spiccano l’edizione rimasterizzata di Raw Power degli Stooges uscita nel 1997, 13 dei
Black Sabbath, Playing The Angel dei Depeche Mode, il remaster di Ten dei Pearl Jam uscito nel 2009, Songs For The Deaf
dei Queens Of The Stone Age e Death Magnetic dei Metallica.
L’ultimo disco citato è stato inoltre protagonista, nel 2008, di un
vero e proprio dibattito su testate giornalistiche illustri (tra cui
Rolling Stone, Wired, The Guardian, The Wall Street Journal).
Uscito in due versioni, una per Guitar Hero 3 e una audio classica
per lettori CD, il disco è finito al centro di una polemica infinita tra fan e gruppo perché la versione per il celebre videogioco
suonava, in termini di qualità audio e di dinamica, decisamente
meglio della versione CD audio. Quest’ultima è risultata talmente spinta nei livelli di compressione (oltre 10 db in più rispetto
all’altra versione, con tutte le conseguenze negative del caso), da
essere considerata uno dei dischi a più alto volume mai realizzati.
Illuminanti, in questo senso, due video scovati in rete: il primo
confronta edizioni diverse dello stesso brano (originale e rimasterizzata) per evidenziare i diversi livelli di loudness/compressione
dinamica nel tempo (e i cambiamenti conseguenti a livello di qualità del suono); il secondo riassume la questione “Loudness War”,
citando anche il caso Death Magnetic.
Ma l’assenza di dinamica nei suoni è solo una delle conseguenze
causate da un’eccessivo livello di loudness in una registrazione.
Earl Vickers, in passato ingegnere e creatore di algoritmi per l’audio presso la STMicroelectronics, in un intervento intitolato The
Loudness War: Background, Speculation and Recommendation
presentato all’AES 129th Convention di San Francisco del 2010 si
spinge oltre, arrivando a delineare conseguenze precise sul piacere legato all’ascolto. A suo avviso, una compressione eccessiva dei
suoni (con tutte le conseguenze negative sulla dinamica e sulla
scarsa definizione dei dettagli di cui abbiamo detto) potrebbe
portare nella migliore delle ipotesi ad «abbassare l’impatto drammatico ed emozionale della musica, [dal momento che] l’eccitamento, in musica, arriva dalla variazione del ritmo, del timbro,
dell’altezza e del volume», nella peggiore a una vera e propria
fatica nell’ascolto, con conseguente perdita di interesse per il
prodotto discografico. C’è da dire che non esistono prove certe in
merito, anche se Vickers, per avvalorare la sua ipotesi, riprende
dalla letteratura dedicata agli ingegneri del suono vari elementi
che, secondo tale letteratura, genererebbero fatica nell’ascolto:
tra i tanti, la mancanza di variazione di volume tra suoni bassi
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e alti, l’eccessiva compressione dinamica, i conflitti sui bassi,
clipping e distorsioni. Elementi, quelli citati, spesso rintracciabili in un prodotto musicale con livelli di loudness eccessivi. Nick
Southall scriveva nel 2006 su stylusmagazine.com: «la musica ha
a che fare con l’incremento e il rilascio della tensione. In una musica con poca dinamica, semplicemente non c’è rilascio». Sempre
Earl Vickers arriva a sostenere, in un video piuttosto eloquente,
come la tendenza ad ascoltare musica molto compressa potrebbe
essere la causa di danni all’udito soprattutto nei giovani, come
dimostrerebbero alcuni dati statistici (in crescita) degli ultimi
anni. Il motivo è piuttosto tecnico ma a nostro avviso credibile, e
sarebbe legato alla tendenza dell’utente ad alzare eccessivamente
il volume di un brano a causa della scarsa dinamica dei suoni e
della poca definizione dei bassi (da sempre i principali rivelatori
del “giusto volume”, durante l’ascolto), sommata all’utilizzo di
riproduttori musicali dotati di cuffie.
http://www.vimeo.com/16835917
C’è un’altra conseguenza portata da una compressione/loudness
eccessiva che è importante sottolineare, forse non subito evidente, ma che ha a che fare con la memoria collettiva e coinvolge
soprattutto i remaster di vecchi dischi. Se è vero che negli ultimi
anni sono uscite ristampe degne di questo nome e fatte con tutti i
crismi, è vero anche che in alcuni casi le operazioni di remaster di
album storici si sono rivelate poco accurate nel preservare la qualità originale del suono e assai più propense a salire sul ring della
loudness war. Considerando un mercato del disco schizofrenico
in cui le nuove edizioni vanno a sostituire le vecchie decretando
a tutti gli effetti la loro scomparsa, questo potrebbe significare
perdere una porzione di storia musicale collettiva, il suono originale di quei dischi. Come non essere d’accordo, allora, con Franco
Naddei, quando, generalizzando, afferma che «la tendenza a un
loudness eccessivo sta diventando l’identità di questo decennio,
ma sempre e comunque per alcuni generi di massa. Andando
avanti così, peggiorando in continuazione l’ascolto, arriveremo a
una sorta disgregazione della memoria del suono, ovvero di come
suonavano i dischi di decenni fa. Credo che sia una questione
di educazione dei musicisti ma anche degli ascoltatori, a cui si
devono insegnare queste cose». Versari, invece, scende più nello
specifico del suo lavoro – tra i remaster più noti e recenti del Nostro, quello di Hai paura del buio? degli Afterhours – parlando
dell’approccio alle ristampe: «per prima cosa dovremmo accertarci di cosa abbiamo a disposizione per curare il remaster. Molti
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remaster non sono altro che operazioni di marketing, e a volte
non viene fornito a chi si deve occupare del remaster, il materiale
adatto per fare un buon lavoro. Può arrivarti, ad esempio, il master dell’epoca su cui tu devi applicare per forza di cose altri processi, o magari potrebbe arrivarti, se sei fortunato, la sorgente del
mix. In generale, è sempre meglio procurarsi la sorgente migliore.
Poi cerchi di capire il disco, come potevano essere i suoi “colori
originali”, ci lavori sopra senza essere troppo invasivo. Documentarsi su come il disco è stato percepito fino ad ora e attualizzarlo: credo che stia tutto qui il discorso. Ogni disco, comunque, fa
storia a sé»
P erché ricercare un livello di loudness/
compressione elevato?
Della battaglia in corso tra le etichette discografiche più grosse si
è già detto: un loudness più alto è la discriminante – o perlomeno
questa è la credenza comune – che garantisce di essere “notati”
in un mercato discografico ormai imbottito oltremisura di produzioni musicali. Ci sono tuttavia altre ragioni, qualcuna anche condivisibile, che spiegano per quale motivo la tendenza, oggigiorno,
sia quella di ricercare equalizzazioni più compresse e volumi più
alti. La più importante è legata all’utilizzo che si fa della musica e
ai supporti che si adoperano per ascoltarla. Chi vi parla è nato nel
1975 ed ha avuto la fortuna di poter godere dell’ultima stagione
dell’hi-fi (esplosa a livello massificato soprattutto negli anni ‘70
e ‘80). Avere un lettore CD o un giradischi collegato a un amplificatore collegato a sua volta a delle casse era, per quelli della mia
generazione, il minimo indispensabile per potersi definire un
ascoltatore medio di musica. Non è un mistero come oggi non sia
più così: quando va bene, il cosiddetto appassionato ascolta MP3
da un PC (se è un utente scafato, connettendolo almeno all’amplificatore di un hi-fi), nella stragrande maggioranza dei casi si
accontenta di un iPod, dell’autoradio o del cellulare, nella peggiore delle ipotesi si crogiola nel sound a bassissima fedeltà veicolato dalla casse del computer. Come a dire, il rigor mortis. Piaccia
o non piaccia questo è lo standard nel 2014, e la compressione
dinamica e il loudness spinto sono esattamente la conseguenza
naturale di tutto questo. Quando l’ambiente di ascolto si fa rumoroso (molti device sono portatili, e quindi devono garantire una
buona resa ovunque), la qualità del supporto audio lascia a desiderare (leggi alla voce MP3), il sistema di riproduzione non mira
all’alta fedeltà (è difficile che uno smartphone suoni meglio di un
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vecchio “ampli” Marantz), compressione e loudness diventano
la soluzione (?) più immediata. A patto di utilizzarle con criterio: «Il problema vero sono i supporti su cui si ascolta musica»,
ci dice Giovanni Versari, «E’ vero che tutti si stanno abituando a
un ascolto sempre più compresso, tanto che soprattutto le nuove
generazioni non percepiscono più la dinamica dei suoni. In più
non è più come qualche decennio fa, quando tutti a casa avevano
uno stereo con due casse che potevano riprodurre la dinamica.
I supporti con cui si ascolta musica oggi non riproducono più la
dinamica. [...] C’è anche da dire che da un certo punto di vista,
una compressione usata con coscienza, valorizza certi prodotti
musicali, ad esempio legati a un immaginario rock».
Ipotetiche soluzioni
Ora che abbiamo scoperto qual è il problema, non resta che trovare una soluzione. Ma esiste davvero? Secondo Bob Katz, ingegnere del suono vincitore di vari Grammy Awards, esiste, e si chiama
Sound Check (in italiano, “verifica volumi” o similari). Le ultime
versioni di software musicali come iTunes e servizi come iTunes
Radio (ma anche lo streaming di Spotify ha un sistema analogo)
danno già la possibilità di godere di questa opzione (andate a
cercare tra le “preferenze” del software): in pratica, l’algoritmo
in questione fa un calcolo del volume audio di tutta la discografia caricata nel player o trasmessa dall’emittente, abbassando
di netto quello degli album registrati più alti e più compressi e
uniformando quello dei dischi con più dinamica e incisi più bassi
(questo a grandi linee, la questione è in realtà un po’ più complessa). “Il grande livellatore”, lo chiama Katz, sottintendendo che la
logica dietro a un tale apparato – equiparare i volumi di brani di
dischi diversi azzerando i vantaggi legati all’impatto sull’ascoltatore della musica troppo compressa e, indirettamente, esaltandone i difetti, ovvero la scarsa escursione dinamica – decreterebbe
di fatto la fine della necessità di spingere sul loudness per fare
spiccare il prodotto discografico in mezzo agli altri. Non è d’accordo Giovanni Versari, che afferma che «i sistemi attuali di compressione ragionata di iTunes e Spotify purtroppo, penalizzano
sia i brani con poca dinamica, sia quelli con molta dinamica. Per
cui non possono essere la soluzione dell’eccessiva compressione.
Comprendo tuttavia l’affermazione di Katz, nel senso che questi
sistemi potrebbero fungere da buon campanello d’allarme».
Che tutto stia, allora, nel pensare alle diverse fasce di utenti progettando un prodotto discografico mirato? I Nine Inch Nails lo
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hanno già fatto con l’ultimo disco, Hesitation Marks, affiancando alla tipica versione ipercompressa del disco (lo standard mix
destinato a iTunes, agli altri store digitali e al CD) una versione
per audiofili con un master completamente differente e capace
di preservare dinamica e relativo piacere nell’ascolto. Ma chi ha i
mezzi dei Nine Inch Nails, quando si tratta di registrare un disco?
Domanda retorica, che prevede una risposta banale (quasi nessuno), il che nella pratica significa trovarsi di fronte a un’altra via
non percorribile.
C’è chi vorrebbe affidare a una sorta di “bollino di certificazione
di qualità audio”, le sorti della “guerra”. Stiamo parlando dell’associazione Turn Me Up (istituita qualche anno fa dall’ingegnere
del suono Charles Dye, dal musicista John Ralston e dal tecnico
di registrazione Allen Wagner), una struttura composta da professionisti del settore capace di stilare un vero e proprio manifesto con relativa “mission aziendale”: «determinare un metodo
obiettivo per misurare la dinamica in un disco; definire un livello
di dinamica che sia superiore a quella aggressivamente limitata
dei dischi attuali, ma che al tempo stesso non sia completamente fuori dalla contemporaneità e rappresenti invece un’opzione
realistica per gli artisti; stabilire e mettere in pratica un sistema
per misurare e certificare i dischi che rispettino i parametri per
la Turn Me Up certification». Nel momento in cui scriviamo non
sappiamo se questo approccio abbia sortito effetti tangibili sulla
qualità delle registrazioni audio o abbia solo ricoperto la (peraltro nobile) funzione di “gruppo di pressione” nei confronti della
discografia ufficiale major e indipendente.
E se invece la soluzione migliore fosse lasciare tutto al buonsenso e alla consapevolezza? Il “buonsenso” degli artisti, ad esempio, chiamati a scegliere tra una “presenza” audio a tutti costi
(che puzza un po’ di protagonismo fittizio, lasciatecelo dire) e la
“qualità” della loro musica. Una scelta a prima vista immediata,
ma che invece non lo è, visto che sono proprio i musicisti i primi
a decidere di spingere sulla compressione e sul loudness, quando
si tratta di pubblicare un disco, magari per paura di sfigurare. Il
“buonsenso” anche degli ingegneri e dei tecnici deputati al mastering, chiamati invece a prendere posizione, a fissare dei paletti
e a svolgere un mestiere che ci auguriamo non sia solo “smanettare” con i livelli per “pompare” il più possibile le chitarre e i synth,
ma anche rispettare quei concetti volatili e al tempo stesso così
importanti che rispondono al nome di “musica” e di “ascolto”: il
contesto sonoro in cui la prima nasce e si sviluppa, le persone a
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cui il secondo è destinato. La “consapevolezza”, invece, deve essere materia per l’ascoltatore. Una parola che nello specifico significa conoscere cosa sia la qualità audio – per lo meno in termini
generali, e speriamo che questo articolo, nella sua superficialità,
sia servito a qualcosa – e pretenderla da chi produce musica e
la vende. Comprare (o scaricare) dischi che suonano male è una
perdita di tempo, oltre che di denaro, e ascoltarli è davvero una
fatica (chi fa il mio mestiere lo sa bene). Ecco perché informarsi,
assumere una mentalità critica e circostanziata evitando i soliti
schieramenti da curva nord e sud, bacchettare chi tra gli addetti
ai lavori non investe sulla qualità audio, farsi sentire – magari
attraverso quei canali del web 2.0 che per una volta sarebbero
davvero utili -, diventa fondamentale e rappresenta forse l’unica soluzione al problema della loudness war. E magari anche il
primo passo per ritrovare il piacere più intrinseco della musica:
la sua sensibilità e il suo linguaggio, capaci a loro volta di influire
sulla nostra sensibilità.
E pilogo: Loudness War e qualit à audio,
ovvero la punta e l’iceberg
«Le due informazioni principali, nell’audio, sono il numero di
campioni al secondo (44.100 Hz, 96.000 Hz, ecc, più campioni
hai, più punti hai per “disegnare” la forma d’onda del suono) e
i bit (è la variabile che dà informazione sulla qualità della dinamica, sullo “spessore” e la corposità del suono). Più questi valori
sono alti, più sarà alta la qualità della registrazione. Il limite per
il CD è di 44.100 campioni e 16 bit. E’ lo standard dei lettori CD.
In generale, però, nelle workstation digitali, in fase di registrazione, questa risoluzione è stata ampiamente superata da molti
anni. Il che significa che si può registrare materiale che ha una
qualità audio altissima, di molto superiore a quella che impone il
CD (a 24 o 32 bit, ad esempio). Tutta questa qualità la puoi gestire in fase di registrazione, missaggio e mastering, ma non in fase
di riproduzione, perché il CD ha lo standard che ti ho detto. Per
il vinile è diverso. Chi fa cutting del vinile, deve tradurre il file
digitale che io gli do in un flusso analogico, attraverso un convertitore specifico, che si trasforma nel disco fisico. Il che significa
che se io gli do un file audio di qualità superiore (ad esempio
a 24 bit), lui riesce a tradurmelo tutto sul vinile, non ha i limiti
imposto dallo standard CD. Quando si parla di vinile, però, c’è da
considerare anche questa cosa: ogni vinile, è un’interpretazione
della musica, in virtù della trasposizione meccanica che è alla
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base della creazione del vinile stesso. Il vinile non sarà mai quello
che suona il musicista nel momento in cui registra il disco. L’approssimazione più vicina a quel tipo di qualità sonora, alla qualità
del suono analogico, era in realtà il Super Audio CD (SACD), un
formato che però non è stato portato avanti da nessuno e che non
ha avuto successo.»
A parlare è Giovanni Versari e le parole che escono dalla sua
bocca saranno probabilmente per molti di voi un fulmine a ciel
sereno. Ok, si sapeva che l’mp3 non era il massimo della qualità,
ma il santificato CD? Quello non doveva essere il top dei formati
per l’ascolto di musica? Lo è stato per un periodo, forse, ma da
qualche tempo non lo è più. Per lo meno per gli addetti ai lavori
coinvolti nella creazione di un disco. Quello che ci dice Giovanni,
in soldoni, è questo: chi registra e masterizza dischi, ormai, lo fa
maneggiando un flusso musicale che ha un livello qualitativo e di
fedeltà al suono analogico – grazie anche al digitale – che è nettamente superiore a qualsiasi livello possa raggiungere un comune sistema di riproduzione casalingo. Una qualità audio che un
utente medio non ha probabilmente nemmeno mai sperimentato.
Noi stessi ne godiamo grazie allo studio di Versari, “imbottito” di
pannelli fonoassorbenti e attrezzature specifiche. Sperimentiamo
su un singolo brano “switchando” tra formato mp3 a 320 kbit/s
(di cui ascoltiamo anche la “controfase”, ovvero la parte di brano
che il formato compresso Mp3 sacrifica per divenire un file facilmente archiviabile – e credetemi, non è poca cosa), formato CD
e formato ad alta definizione destinato alla fase di mastering, e il
confronto finale lascia davvero senza parole.
Continua Versari: «chi fa master oggi, poi, si trova davanti a un
problema serio (forse ancora più serio del problema dell’eccessiva loudness): arrivano dischi registrati a 24 bit (o anche più alti)
con frequenze che arrivano fino a 96.000 Hz e tu li devi masterizzare nello standard del CD, che è 16 bit e 44.100 Hz. Questo
significa che già solo facendo un CD, hai in parte ucciso la qualità
audio di quel lavoro. Questa cosa alla fine ti porta comunque a
dover guadagnare db in fase di mastering o a regalare frequenze
attraverso varie macchine. Il CD, quindi, è già un formato che
parte con un handicap».
E allora la battaglia è persa in partenza, verrebbe da dire, non
c’è loudness war che tenga. Eppure non è proprio così. La lezione che bisognerebbe trarre da tutta questa faccenda è che non
deve essere il tanto santificato mercato a decidere cosa (e come)
ascoltiamo (prendendo direzioni spesso sbagliate), ma una scelta
consapevole del consumatore
in primis, e di chi si occupa
di registrare i dischi poi. Una
scelta che però deve essere veicolata dall’informazione e dalla
voglia di premiare il concetto
di “qualità”. Altra cosa è rendersi conto che, pur con tutti
i suoi limiti, il formato disco
rimane comunque una interpretazione della musica con
un suo fascino e una sua storia.
Snaturarne il DNA, cancellarne
il percorso, con un approccio
alla registrazione che in qualche caso ne mortifica la naturale destinazione e l’ascolto, non
è probabilmente una buona
idea. Fatto salvo che la dimensione concerto, tirando le somme di tutto il discorso, rimane
forse (al momento) la parentesi
migliore per apprezzare una
forma espressiva che è nata su
un palco – reale o figurato che
fosse – e solo successivamente
è finita in uno studio di registrazione.
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Genere: pop, rock
Fin dalle prime prove (il formidabile sophomore Cuckoo Boohoo del 2004) il quintetto di
Agropoli ci sorprese per la capacità di escogitare congegni sonori anche complessi senza mai
perderci in freschezza ed efficacia, padronanza da una parte ed entusiasmo da esordiente
spacca-classifica dall'altra. Disco dopo disco –
ne sono arrivati sei in tredici anni – questa attitudine non si è affatto smorzata, anzi, è andata
accentuandosi seguendo la scia di un pop-rock
intrigante che non ti fa mai mancare la trovata, il colpo d'ingegno che dà senso al pezzo, ad
ogni pezzo. Una formula azzeccata il cui solo
difetto era una vaga carenza di necessità, come
se la messinscena si divorasse il vissuto, come
se al nocciolo mancasse quel po' di polpa che
garantisse sostanza al dramma, allo sberleffo,
allo struggimento, all'ironia, alla sfuriata, al
ciondolare onirico e via discorrendo.
Anche quando nel precedente Midnight (R)
evolution i testi azzardavano tematiche più
impegnate, predominava un senso di coreografia, un'ansia di arguzia sonora che si divorava
tutte le energie nel momento stesso in cui portava a compimento la missione. Con Butterfly
Effects il problema non trova soluzione, anzi
Enzo Morello e compagni sembrano puntare
tutto sugli aspetti forti della proposta confezionando una scaletta zeppa di hit potenziali, colti
in una dimensione mediana tra il citazionismo
scafato dei Franz Ferdinand (su tutte la dinoccolata Mirrorball) e la versatilità accalorata
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degli Arcade Fire (se Fall To Restart gioca a
fare la The Suburbs coi synth, My Heroes Are
All Dead sembra piovere dalla caligine cupa di
Neon Bible), il tutto proiettato in un disegno
complessivo che potremmo definire power-pop
per gli anni Dieci.
Tra un wave funk con svenevolezze Badfinger
(Made To Grow Old), un boogie androide che
ammicca Black Keys (Mary), una malinconia
soul attraversata da mesmerismi trip-hop (Quiver) e una didascalia Bee Gees glassata glam
(Always I'm Wrong), le possibilità di restare
intrigati sono inversamente proporzionali a
quelle di annoiarsi. Resta però quel gap emotivo cui accennavamo, come un fantasma dispettoso nella macchina che non vuole saperne di
vaporizzarsi. Ed è un peccato, perché sembra
mancare davvero poco così.
6.5/10
Stefano Solventi
Abdulla Rashim - Unanimity (Northern
Electronics,2014)
Genere: techno
Unanimity, uscito nel 2014 per Northern
Electronics, è il primo LP di Abdulla Rashim,
pseudonimo dietro cui si cela un giovane e
promettente biondo techno producer svedese
con un affilato e personale sound-design. Alfiere di una techno cupa e oscura come la pece,
Rashim ha al suo attivo diverse uscite per label
come Northern Electronics, ARR, Semantica e
Prologue. Dal 2013, Rashim fa anche parte del
progetto techno-dark ambient Ulwhednar,
assieme a Varg. Il loro primo LP come duo è
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
A Toys Orchestra - Butterfly Effect
(Urtovox,2014)
r e c e n s i o n i
area techno-ambient, con un suono personale
e riconoscibile che non ha mancato di attirare
l'attenzione della critica internazionale più
attenta. Il disco è uscito come doppio LP e su
cassetta, andando subito esaurito in entrambe
le versioni. Anche il suo recente live-set al Norbergfestival aveva impressionato positivamente
il pubblico. La Svezia sta vivendo un momento
fecondo e creativo, per quanto riguarda la scena techno più dark e underground, e un esordio
su lunga distanza come quello realizzato da
Rashim lo dimostra appieno.
7.2/10
Marco De Baptistis
Acteurs - I W I (Public
Information,2014)
Genere: post-punk, industrial, noise, ambient, electro
Sempre più sfuggenti e misteriosi, i due
Acteurs continuano a circumnavigare i fondali dell'area grigia con dischetti sempre meno
pubblicizzati, ma sempre più gustosi per chi
traffica in quella terra di nessuno che sta tra
l'elettronica meno ortodossa e la zona grigia
made in England di fine '70.
Wave-funk-techno-noise-electronics, dice la
label, ma l'area di interesse dei due producers
Jeremy Lemos e Brian Case – in realtà piccole glorie in ambiti wave/impro/arty/ecc, con
White/Light il primo, e 90 Day Men e Disappears il secondo – è ben più ampia, seppur
caratterizzata da una devastante monocromia.
Come una sorta di Ike Yard del terzo millennio, una versione disidratata e unfriendly dei
Factory Floor, o ancora – giocando col nome
della label più cool del momento in ambiti
elettronici – "blackest ever black", i due radicalizzano la proposta e inglobano minimal-beat
profondi e oscuri, post-punk ritmico e pulsante, scarti e scorie industriali sotto forma di
glitcherie varie, astrattismo e pulviscolo sonoro. Ne esce un mini da nemmeno mezzora di
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o t t o b r e
uscito nel 2013 sempre per Northern Electronics. Nel suo esordio solista Rashim ha messo a
fuoco il suo stile facendo tesoro delle atmosfere
nordiche evocate nei lavori realizzati in coppia
con Varg, realizzate con attrezzatura rigorosamente analogica. Il producer mantiene anche
un certo gusto per l'anonimato e un riserbo
attorno alla propria reale identità che ben s'inserisce in un trend ormai consolidato in area
elettronica scandinava (si veda, al tal proposito,
il caso dei Shxcxchcxsh, tra i tanti)
Il brano distorto e pulsante che apre il suo LP,
Under This Wasted Sky, è una perfetta introduzione al mondo oscuro di Rashim. Segue un
brano come Path Inwards, angosciosa cavalcata elettronica che potrebbe trovare posto
nel catalogo della Hospital Productions (Function, Vatican Shadow, Silent Servant etc).
Red Uprise, invece, è invece un brano freddo e
spietato con la sua ritmica dritta e tagliente che
non concede scampo alcuno. Se in No Bordes
Rashim sembra tornare al dark ambient dei
suoi primi lavori come Ulwhednar, in Moral
Blinds suoni acuti e liquidi montano di nuovo minacciosi su un tappetto ritmico in 4/4.
Afar Depression con la sua cupa linea di basso
e le sue decise percussioni postindustriali in
12/8 è uno dei brani più riusciti del disco. No
God, invece, è un brano più convenzionale di
techno minimale con cassa dritta, ma la sua
corsa è impreziosita dall'evocativa atmosfera
avvolgente che emerge in sottofondo. Nothing
Existed è un altro cupo brano dark ambient
con un mormorio funereo che evoca paesaggi
invernali scandinavi, completamente disabitati
dagli esseri umani. Un brano adatto per aprire
la strada a Unanimity, la traccia che da il nome
all'album, la quale corre veloce e pulsante, assediata da fantasmi sonori che gli volano attorno implacabili e malevoli.
Colpisce la capacità del giovane producer svedese di spingersi in là nella ricerca sonora in
Genere: rock
Allergic To Water è il diciottesimo disco in studio in 24 anni di carriera,
per Ani Di Franco. Nato durante la sua seconda gravidanza, è un album
che non rinnega la figura DIY della cantautrice americana originaria di
Buffalo, da sempre impegnata politicamente e portatrice attiva di una
tradizione che parte da lontano rielaborando i grandi maestri Woody
Guthrie, Pete Seeger e Joan Baez; semmai la ingentilisce o quantomeno la pone in una dimensione più intima e introversa, ragionata, lontana
dalla foga reazionaria che da sempre ha contraddistinto la cantautrice.
"Questi ultimi due anni per me sono stati fatti di famiglia, di relazioni e di sentimenti. Sono comunque temi con cui tutti noi abbiamo a che fare, con cui a volte lottiamo…so anche che nella mia
vita ho fatto già venti dischi pieni di canzoni politicamente impegnate".
E allora non bisogna stupirsi se Allergic To Water, prodotto per la sua etichetta Righteous Babe
dal compagno Mike Napolitano, suona sobrio, morbido, raffinato e scarno nell'impalcatura delle
sue canzoni: la title track ne è un ottimo esempio, con la chitarra in evidenza e poco altro sullo
sfondo di una voce che canta pienamente del suo momento storico. Allergic To Water risente
della tradizione stilistica della Lousiana, dove tra l'altro la folk singer vive e produce la sua musica
da un po' di anni: il lento e cadenzato valzer Harder Than It Needs To Be testimonia questa inflessione su colori soul e neri, nella voce come nell'essenziale sezione fiati presente nel brano. Siamo
ancora nel territorio dell'alternative songwriter, dove il folk incontra il blues (Dithering, oppure
Tr'w) o un certo sapore tribale fatto di misticismo sonoro (Genie), per poi spogliarsi ancora e tornare alle atmosfere notturne e jazzy di Happy All The Time, dove la scrittura di testo e musica è
pressoché perfetta nel fotografare il momento personale dell'artista.
Ani Di Franco sembra perfettamente a suo agio in questa dimensione più familiare e al riparo, almeno per il momento, dal megafono urlato su un mondo pieno di contraddizioni e tensioni politico-sociali. Allergic To Water è un album pensato, ponderato e fatto di canzoni che si stagliano su
un livello molto alto; un disco misurato e non sovraprodotto, dove gli strumenti suonano essenziali
e diretti a supporto dei contenuti. Se questo è il risultato della sua seconda gravidanza, auguriamo
all'artista – per il nostro bene – di avere una folta prole.
7.5/10
Stefano De Stefano
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Ani DiFranco - Allergic to Water (Righteous Babe,2014)
una pesantezza inusitata, tra ipotesi per dancefloor del dopo-bomba (River Card), Throbbing
Gristle synthetic-funk (I W I), ossessivi scandagli per oceani nero-pece (Honey Bear), frattali sonori figli dei rimasugli techno-dub (Ewe)
e la lunga, esacerbante, opener Pride Of Classes, elettronica repressa simil-Bristol sound
andato al macero, che si lega a doppia mandata
alla Freezing Fog che chiudeva Acteurs.
C'è un percorso ben definito dietro questi due
mini-album e l'attesa per il full-length comincia a farsi insostenibile.
7/10
Stefano Pifferi
Genere: pop, rock, indie
Reduci da un salto di popolarità non indifferente, gli Alt-J, dal 2012 ad oggi, hanno dovuto fare i conti con l'impatto massiccio di An
Awesome Wave. Il debutto, infatti, trovandosi
a calcare i passi di Wild Beasts, Fleet Foxes e,
forse e soprattutto, i Radiohead più sperimentali, ha colto nel segno, sincronizzando elucubrazioni intellettualoidi e gusto pop, sull'onda
di una nuova commistione mainstream, che
tanto incuriosisce il pubblico contemporaneo.
Il risultato, per i giovani neolaureati, è stato
quasi devastante, soprattutto nella gestione
della vita da band internazionale. Il bassista Gwil Sainsbury non ha retto l'impatto e a
gennaio ha abbandonato la baracca, lasciando
la band sull'orlo dello scioglimento. Tuttavia,
bisogna dare atto agli Alt-J di aver reagito da
band matura e, col Mercury Prize nella bacheca
dei trofei e una cascata di aspettative sul groppone, si sono rimessi a lavoro per il nuovo This
Is All Yours.
Spiccatamente polite e frutto di un necessario
e apprezzato bagno di umiltà, il nuovo album
degli Alt-J ha l'innegabile pregio di suonare
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o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Alt-J - This Is All Yours
(Infectious,2014)
ancora genuino e non pretenzioso. D'altronde,
l'intervista rilasciata al Guardian e quella più
recente a noi di SA parlavano chiaro: gli Alt-J
hanno fatto di tutto per rimanere ordinary nella consapevolezza della popolarità.
This Is All Yours, dunque, pur non stravolgendo le dinamiche proprie della band, apporta
alcune sostanziali novità, legate, per lo più, al
luogo scelto per le registrazioni del disco, un
salone medievale nelle campagne inglesi. Non
sorprende, dunque, questa ritrovata fascinazione nei confronti della musica di tradizione
medievale, che nel disco viene fuori tanto nelle
composizioni vocali (Intro, Choice Kingdom),
quanto nei brani più strutturati (Garden Of
England, ma soprattutto Every Other Freckle
e Warm Foothills). Siamo stranamente lontani
dalle atmosfere al limite del metropolitano di
Tessellate o Fitzpleasure, nelle quali facevano
capolino, sotto forma di samples, le strade di
Brixton; qui, semmai, si trovano samples di
vespe, api o campane di chissà quale villaggio
sperduto, come a dire che la maturità della
band deve prima passare da un ritrovato rapporto con la natura.
Ci sono, infine, alcuni episodi lirici interessanti, dal punto di vista narrativo e compositivo.
Prima il trittico Arrival in Nara, Nara e Leaving Nara, in cui, come ci spiegano nella nostra intervista, la città giapponese nella quale
i cervi possono vagare felicemente liberi nelle
strade assurge a metafora generale di una vita
vissuta secondo le libertà individuali. C'è, poi,
un percorso musicale che ritrova certi accenni
di trip hop e un gusto per la sperimentazione
particolare, nelle atmosfere rarefatte di Hunger
Of The Pine, in cui il sample di 4X4 di Miley
Cyrus («I'm a female rebel») calza perfettamente. C'è, ancora, il tentativo di attraversare
l'Atlantico per convincere una volta per tutte la
critica stelle e strisce, con una Left Hand Free
tanto insolita per il sound della band, quan-
Nino Ciglio
Ariana Grande - My Everything
(Republic Records,2014)
Genere: pop
Ci risparmieremo la consueta manfrina moraleggiante et pensosa sull'evoluzione artistica
dei prodotti Disney (o in questo caso Nickelodeon) e sul loro cannibalizzarsi a vicenda
finendo, nel migliore dei casi (Spears, Timberlake, Aguilera) per creare macchine sputa
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o t t o b r e
verdoni e, di conseguenza, fenomenologie di
riflessioni mainstream e, nel peggiore (Cyrus),
trottole inarrestabili, che, indecise fino alla
fine fra l'essere e l'apparire, scelgono la via
della dissimulazione. Andiamo quindi dritti al
subject: Ariana Grande, pop$tar della Florida
ma di origini siculo-abruzzesi, è stata la vincitrice morale dell'estate 2014, con ben tre singoli, Problem (feat. Iggy Azalea), Break Free
(feat. Zedd) e Bang Bang (feat. Nicki Minaj e
Jessie J) in rotazione ossessiva nelle principali emittenti. Ariana, direbbe il critico esperto,
nella sapiente polarizzazione fra bad e good
girls del pop mainstream, si schiera dalla parte
del bene, ma badate, non perché sia reduce da
esperienze di kids Tv e quant'altro, ma perché,
con l'aria alla Audrey Hepburn nel corpo di
una ballerina di pole dance, l'atmosfera da Very
Normal Person e, soprattutto, la voce soave
ed incredibilmente potente, si è imposta pura,
anche nella sua versione da palcoscenico (reale
e non televisivo).
Ma questo non basta a definire My
Everything, secondo album della piccola Ariana (è del 1993), un disco puro. Innanzitutto, per
la scelta del genere d'appartenenza: un retro
pop in chiave r'n'b che, negli episodi migliori,
non risparmia del sano hip hop o, meglio ancora, dell'EDM energica, anche se, il più delle
volte, grazie ad un sapiente camuffamento,
gravita intorno alla ballad melensa di stampo
prettamente sentimentale. Secondariamente,
per continuare con le polarizzazioni del critico
saggio, la Grande è bravissima a controbilanciare la sua aria da good girl con personaggi del
polo opposto. È per questo che un brano come
Problem funziona così bene: grazie soprattutto
all'hip hop biascicato e masticato di una Iggy
Azalea che (anche lei) sembra non sbagliare un
colpo quest'anno. Ma non c'è solo il contributo
della rapper australiana, in My Everything.
Come recita il titolo stesso, infatti, il disco si
r e c e n s i o n i
to debitrice di un certo gusto Doors e Black
Keys; chissà se farà breccia nel cuore degli
americani…
Ancora altri tre episodi interessanti da segnalare. Il primo, Bloodflood pt. II (che riprende un
brano del primo disco), segna la cifra stilistica
dei nuovi Alt-J, attenti alle atmosfere, misurati,
orchestrali, che quasi riecheggiano i Sigur Rós;
il secondo, The Gospel Of John Hurt, ti sbatte in faccia la sensazione di claustrofobia che
chiunque ha provato dopo la visione della terribile scena dell'alieno che fuoriesce dal corpo di
John Hurt in Alien (1979); il terzo, Every Other
Freckle, è forse il brano più orecchiabile del
disco e sicuramente il più riuscito dal punto di
vista melodico e compositivo, malgrado il testo
un po' debole («Voglio girarti tutta e leccarti
come un pacchetto di patatine»).
Gli Alt-J di This Is All Yours, a conti fatti, si
mostrano una band maturata, alle prese con
nuovi mondi e nuove possibilità da esplorare.
Ma spesso, proprio la loro voglia di andare in
profondità coi suoni, di scavare verso la fantomatica essenza di qualcosa, si rivela una scelta
azzardata, che, nelle quattordici tracce del
disco, fa emergere tutti i lati deboli, non ultimo
quello di risultare un po' pedanti. Malgrado ciò,
This Is All Yours, con le sue melodie atipiche
e i suoi stravaganti percorsi narrativi, è un disco di cui far tesoro.
7.1/10
r e c e n s i o n i
sì, c'è anche lui da qualche parte), i One Direction (suonano il piano in Just A Little Bit Of
Your Heart) con l'attitudine propria della popstar della Florida, fatta di curiosità (altrimenti
non si spiegherebbero alcune scelte azzeccate)
e di tanto, troppo servilismo nei confronti della
bella voce.
5.9/10
Nino Ciglio
Avi Buffalo - At Best Cuckold (Sub
Pop,2014)
Genere: rock, indie
Ritornano gli Avi Buffalo, e con loro quell'attitudine indie/post-surf che aveva caratterizzato
anche l'esordio eponimo. Con il sophomore At
Best Cuckold, infatti, il frontman Avi ZahnerIsenberg e compagni scelgono di seguire la stessa linea che li aveva fatti conoscere e apprezzare
in primo luogo da Sub Pop, e poi da pubblico e
riviste di settore, tra cui anche Sentireascoltare.
In altre parole, dopo quattro anni poco o nulla
è cambiato dal debutto, e la formula proposta è
ancora un rock alternativo ibridato ad un pop
solare e prettamente californiano (i quattro provengono infatti da Long Beach), che li fa avvicinare non solo agli onnipresenti Beach Boys, ma
soprattutto ai Real Estate.
Un paragone confermato dall'opening So What,
che ne riprende la stessa malinconia pop con
tenui chitarre elettriche a far da sfondo; chitarre leggere e mai invasive che ritornano in
tutto il corso del disco (Found Blind, Can't Be
Too Responsible), accompagnate inoltre dalla presenza dell'acustica, a ribadire una vena
cantautorale ancora presente, come dimostrano piccoli esempi di buon folk-rock quali Two
Cherished Understandings o Won't Be Around
No More. Tutto è tenuto insieme dal falsetto
del cantante, in grado di produrre ora ritornelli
iper orecchiabili, ad esempio in Memories of
You, ora veri e propri inni tardoadolescenziali,
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o t t o b r e
propone di essere un concentrato (che scopriremo indigesto) dell'universo-mondo non
solo della Grande, ma del pop mainstream in
generale. All'appello, infatti, hanno risposto
bad boys con gli attributi quadrati come Big
Sean (già supporter della stellina agli esordi),
che regala forse il brano migliore del disco
(Best Mistake), A$AP Ferg, che con Hands On
Me incide il versante Harlem-hop del disco,
Childish Gambino, che con piglio scanzonato,
sottolinea i chorus di un brano che a sorpresa
(visto che è scritto da fior fior di produttori,
compreso Nile Rodgers) definiamo il peggiore
del disco, Break Your Heart Right Back.
Ci sono, infine, a coronazione di un percorso
inaugurato già da gente come Beyoncé (con
Boots), alcuni dj e producer di alto calibro
che, in varia misura, mettono le mani nel disco:
quelli che più ci hanno convinto sono Rami
(in One Last Time), Zedd e Martin (in Break
Free), Key Wane e Dwane Weir II (in Best
Mistake), il norvegese Cashmere Cat (in Be
My Babe) – che, accanto a Benny Blanco, è
abile nelle trame in levare – e The Weeknd (in
Love Me Harder), che regala al brano di competenza un discreto taglio PBr'n'b. Per dovere
di cronaca, aggiungiamo che Bang Bang, contenuta nella deluxe edition del disco, lavora sugli
stessi stilemi di retro pop, in tinte trap e hip
hop, e lo fa con la presenza a dir poco ingombrante di una Nicki Minaj smagliante.
Costruito sulla voce incredibile della Grande,
da soprano lirico leggero, con copertura di
quattro ottave e due semitoni, My Everything
ha il pregio di rendere questa stessa voce al
servizio dei brani, spesso ben costruiti e ricamati, in tutte le particolarità del genere. C'è
un difetto, però, che fa crollare il castello e le
buone premesse che lo sostengono: il disordine
sostanziale degli elementi, sciorinati senza soluzione di continuità, nel tentativo, intelligente
ma goffo, di far convivere David Guetta (beh
Genere: elettronica
Dove eravamo rimasti? Risolte le vertenze economiche con l'ex moglie
(ma sì, facciamo finta che sia questa la causa della lunga attesa: quel
tocco di sordidezza che, mischiato alla nerdiness – gli annunci criptici
via deep web, la lista delle 137 apparecchiature utilizzate, elencate ad uso
ed abuso dei fan ossessivo-compulsivi – e all'ironia ghignante – elemento fondamentale della brand equity del "most celebrated and influential
electronic fartist", citando la più spassosa press release di tutti i tempi
– definisce i tratti caricaturali del personaggio, così come dipinto dalla
vulgata mediatica), Richard D. James può finalmente tornare a pubblicare utilizzando il suo moniker principale.
Lasciamo da parte la campagna di lancio imponente e creativa, gestita in maniera impeccabile da
Warp sia strategicamente che a livello di implementazione, che ha ingigantito le già grandi aspettative (e generando come naturale side effect fastidi e risentimenti a priori), ma che ha rappresentato il giusto investimento per il ritorno sul mercato dell'artista/marchio più importante della
label di Sheffield, a tredici anni da Drukqs. Non soffermiamoci troppo neppure sul preciso concept paratestuale incentrato sulla trasparenza (fisica e informativa) dei codici, anzi cogliamone il
suggerimento: andiamo dritti e concentriamoci sulla musica, che basta e avanza.
C'è chi per SYRO ha già parlato di mancanza di innovazione: è vero, ma ciò non toglie che siamo
di fronte ad un album maiuscolo. La musica contenuta in SYRO è assolutamente sulla stessa lunghezza d'onda di quella pubblicata da James nel periodo 2004-2007 per la sua Rephlex: sono tante le risonanze recuperabili andando a scavare tra le oltre quattro ore e mezza della serie Analord,
ma soprattutto nelle due uscite del 2007 a nome The Tuss (l'LP Rushup Edge scritto e prodotto
da una fantomatica "Karen Tregaskin" e l'EP Confederation Trough del "fratello gemello" Brian),
che proprio per il fatto di non aver voluto/potuto essere firmate Aphex Twin non hanno mai
ricevuto l'attenzione che avrebbero meritato al di fuori della cerchia degli iniziati (ah, il potere del
brand!).
L'arroccamento nell'analogico non rappresenta peraltro un limite, tutt'altro. Questi sessantaquattro minuti e rotti suonano come autorevole endorsement dell'attuale ritorno retromaniaco alle
sonorità faticosamente ricavate dal fai-da-te sull'hardware e sugli effect box, reazione più che
giustificata di fronte all'usa-e-getta dell'imperante EDM contemporaneo. Ma soprattutto permette
a James di flettere i muscoli del fuoriclasse e di confermare il titolo di Signore delle Macchine: la
padronanza dei mezzi è totale e del tutto asservita allo sviluppo di idee musicali inventive e talentuose (ma spendiamolo pure, l'aggettivo più aphexiano di Aphex: geniali), caratterizzate da una
accessibilità melodica e allo stesso tempo da una complessità architetturale che promettono piacevoli scoperte ad ogni ulteriore ascolto. Se si deve trovare un difetto a SYRO, lo si trova in ciò che
di solito viene visto come pregio: una compattezza di intenti, di mondi evocati, di private effusioni
ma anche di trucchi e ammiccamenti tirati tutti fuori dallo stesso armadio, nonostante la sterminata strumentazione impiegata (come diceva sua madre, ovviamente nel Mummy Mix di Come
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Aphex Twin - SYRO (Warp Records,2014)
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to Daddy: "You've got so many machines, Richard". E comunque nella lista non compare la 303!).
Malgrado l'accorta costruzione della tracklist (con i bpm che tendono a salire dai 120 delle prime
tracce ai 164 della penultima, prima del bucolico finale a 102), la consistency dell'album rischia
di lasciare per strada gli incauti. Non è un disco da fast food: pretende attenzione ma restituisce
emozione. Astenersi perditempo.
Le prime due tracce erano già note, reperti non ufficiali suonati live e finora conosciuti con i nomi
delle location dei loro primi ritrovamenti: ora, "debootlegizzate", possono sprigionare tutta la loro
complessa bellezza, tra linee acide e vocoder. Di Minipops 67 [source field mix], il singolo apripista svelato prima dell'uscita ufficiale (e finora conosciuto come Manchester Track, datata 2007, e
suonata almeno anche a Singapore nel 2011), si è già detto tanto. Per ricchezza di spunti e personalità la traccia è sinopsi perfetta dell'album, micromondo armonico che contiene il suo contenitore:
i "gemelli Tregaskin" che escono con i Boards Of Canada in un pub fuori mano della Cornovaglia.
XMAS_EVET10 [thanaton3 mix] è la Metz Track (2010): circa dieci minuti di tastiere "pitchbendate" e bassi zigrinati per una (in)quieta vigilia di Natale, dove svisate eighties alla Ian Hammer
si sovrappongono ad un lavoro ambient non selezionato proveniente dal mondo SAW2, e a cui si
aggiungono voci provenienti da vari mondi, bellchimes, il ticchettio del pendolo di casa, liquide
tin drum.
Con produk 29 prosegue il trip fusion, con atmosfere afrofuturistiche frammiste a visioni psichedeliche acid funk: Aphlying Lotus! Un sample vocale rubato galleggia nello spazio, aggiungendo
non-senso: "…like, we were in that club… fu**ing house… disgusting… fu**ing whore…". 4 bit 9d
api+e+6 (traccia anch'essa già precedentemente comparsa in un live set aphexiano: dicembre
2007, All Tomorrow's Parties, Minehead) cortocircuita tre decenni di musica elettronica: melodie
euromantik à la Kraftwerk (seventies), hip hop hancockiano (eighties) e memorie IDM (nineties). Gli anni Novanta, stavolta nel loro assetto rave, sono presi a pretesto anche in 180db_ , l'anello debole dell'album, dove l'hoover sound viene rallentato, sezionato, de- e ri-strutturato sopra un
dritto breakbeat a 130 bpm. CIRCLONT6A [syrobonkus mix] ci ricorda da dove necessariamente
vengono le nuove leve grime 2.0 e PC Music, ma con una tessitura sonora così complessa e densa
da rendere improponibile ogni paragone. Dopo fz pseudotimestretch+e+3, giochino di prestigio
geek di un minuto, CIRCLONT14 [shrymoming mix] è acid drill nervoso ma non nichilista, con
giri melodici che non si bagnano mai due volte nello stesso fiume, assoli di tastiere che il wah wah
rende espressive, canti ipnotici, e master finale in drum programming. Con syro u473t8+e [piezoluminescence mix] torniamo in territorio funky fusion. Una voce femminile (l'attuale moglie?)
pronuncia un incantesimo (in russo?), e James si trasforma nello Stevie Wonder del periodo
synth T.O.N.T.O. anni Settanta, ma in piena crisi di iperattività: una trentina di bpm in meno e ci
troveremmo a casa di Todd Terje.
PAPAT4 [pineal mix] (già annotata in un live del 2011 a Singapore) e s950tx16wasr10 [earth
portal mix] portano SYRO in ambiti già battuti (dagli Hangable Auto Bulb del 1995 in avanti):
drill'n'bass e melodia, niente di nuovo ma niente di cui lamentarsi, con così tante idee dentro che
altri ci avrebbero costruito un album intero. La traccia finale si accosta alle precedenti in puro stile
Druqkschizofrenico: dopo la frenesia drill, la forza tranquilla di aisatsana (Anastasia allo spec-
chio, riferimento personale come lo era Nanou 2). La finestra aperta sul giardino, il Disklavier che
riproduce una minimalistica e risonante progressione armonica (la stessa utilizzata nella performance al Barbican Theatre nell'ottobre del 2012), Brian Eno annuisce e approva.
Con la pubblicazione di SYRO James tira una linea sul suo (recente) passato, prima, si auspica, di
ripartire. Come fare le pulizie di primavera in un'ala del castello di Xanadu. Ciao Richard, piacere
di riconoscerti.
7.8/10
come dimostra Overwhelmed With Pride, forse
il pezzo più convincente dell'album.
Una traccia che mostra in egual misura pregi
e difetti di questo disco: il limite di At Best
Cuckold è forse quello di non riuscire immediatamente a catturare l'attenzione, riuscendo
ad emergere come insieme coeso solo dopo
diversi ascolti. Verrebbe da aggiungere che
questo non è necessariamente un male, perché,
d'altra parte, il disco convince per le sue atmosfere, come del resto aveva fatto anche il debut:
un approccio garage che ben si sposa a quella
solarità geek propria dei luoghi d'origine, ma
venata da una nostalgia dolciastra, in grado
di confermare gli Avi Buffalo come una realtà
indie pop con qualcosa da dire. In attesa del
grande salto verso gli orizzonti della maturità.
7/10
Giulia Antelli
Bass Drum Of Death - Rip This
(Innovative Leisure,2014)
Genere: rock, hardrock, punk, lo-fi
John Barrett me lo ricordavo dedito ad altri tipi
di droga. Lo avevamo lasciato avvolto nei fumi
psichedelici di un sound lo-fi senza compromessi, ricco di voluttuosi trucchetti freakbeat,
lo ritroviamo rocker, anzi hard rocker, dal tiro
potente e affilato. In mezzo c'è stato il tour
con gli Unknown Mortal Orchestra e (non
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si sa bene come, a parte il fatto che il bassista
degli UMO, è anche il produttore di Rip This)
la presa di coscienza del fatto che con il suono debosciato e "stonato" dei due precedenti
album, non si sarebbe andati molto lontano.
Il punto è che il duo non ha mai deficitato in
quanto ad anthem a presa rapida e coinvolgente
rifforama. Spesso però era la qualità sonora, e
quella sensazione generale da "buona la prima",
a dare l'idea di una precarietà del progetto. Ecco
allora che più che sulla velocità e sul suono
deragliante, Rip This è un lavoro basato sulla
costruzione del perfetto inno rock (o meglio
hard rock). Intendiamoci, i due sanno ancora
come mollare allegramente calci nei denti, ma
lo dimostrano soprattutto quando spingono
sull'acceleratore. E' allora che i Bass Drum Of
Death ricordano una versione muscolare dei
Black Lips. Oppure dimostrano di aver fatto
proprio il segreto di quel garage rock scandinavo
(in particolare gli Hives e i Turbonegro), che lo
scorso decennio aveva insegnato come mietere
consensi senza sacrificare l'impatto frontale. Altrove si lasciano parlare i riff quadrati e si sconta
una certa involuzione nel songwriting (soprattutto rispetto al precedente album), o meglio
la sua evoluzione in qualcosa di più quadrato e
meno stupefacente (in tutti i sensi).
6/10
Diego Ballani
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Alessandro Pogliani
Genere: rock, punk, alt, emo
Può uno degli EP d'esordio più convincenti degli ultimi tempi provenire da un gruppo capitanato da un – non più giovanissimo – musicista
attivo discograficamente dal lontano 1992? E
può uno degli EP d'esordio più convincenti
degli ultimi tempi provenire da un gruppo che
in più di un'occasione – senza volere essere necessariamente cattivi – suona come una cover
band dei Goo Goo Dolls?
La risposta per entrambi i quesiti è, incredibilmente, affermativa. Stiamo parlando dei Beach
Slang – power trio di Phildelphia guidato da
tale James Snyder, per anni voce e chitarra dei
punk-rocker Weston – e del loro debutto discografico Who Would Ever Want Anything
So Broken?. Quattro tracce per undici minuti
di rimarchevole compattezza, in cui il trio –
che si completa con JP Flexner, già batterista
negli Ex-Friends, e con Ed McNulty, bassista
dei NONA – si cala abilmente nel ruolo di fiero
sbandieratore di un modo di fare rock tipicamente East-Coast, viscerale, genuino, sentito e
passionale, ma allo stesso tempo diretto e senza
troppe pretese. Un concetto e un'attitudine non
così facili da rintracciare negli ultimi anni, se
non in band come Gaslight Anthem (ecco, non
gli ultimi…), Titus Andronicus, Japandroids
e, in forma più articolata, Cymbals Eat Guitars.
Who Would Ever Want Anything So Broken? si apre con Filthy Luck e vince subito
facile: è praticamente una versione aggiornata
di There You Are dei Goo Goo Dolls che a sua
volta era una versione aggiornata di Bastards
Of Young di quei Replacements tornati in
questi giorni sugli schermi TV americani dopo
quasi tre decenni di ban. Un vero anthem per
tutti coloro che sono schiavi dell'essere "always
fucking up" con uno Snyder orgoglioso di appartenere – "Kids like us are weird, and more,
we're brave. We tie our tongues and turn them
into rage. And the night's still young" – ad una
scena come quella di Philly dove si invecchia
con la chitarra in mano e con la sindrome di
Peter Pan come migliore amica. La città, la notte, la polizia, gli amplificatori, la vita che scorre
nelle vene, la voglia di non crescere e i retrogusti emo – "This city sleeps in a pattern of
broken junk, but nights like this, it don't matter. All this dirty fun. We'll grow high not up"
– sono presenti anche nell'altro apice dell'EP,
Get Lost.
Temi ricorrenti pure in Kids, slacker-manifesto
("We're just some dumb kids getting wasted
and knowing we're alive", "The kids are still
alright. We're just too high to fight") gridato tra
i denti e in Punk or Lust ("They don't know the
power of amplifiers or the gutter is where we
feel alive"). Tutta roba che sta ai kids e ai junkie
di Philly come i testi di Repetto/Pezzali stavano alla provincia pavese.
Difficilmente diventeranno dei big e nulla ci
assicura che reggeranno anche su formato
lungo (li attendiamo a giorni con il secondo EP,
Cheap Thrills On A Dead End Street), ma i
mai domi Beach Slang con Who Would Ever
Want Anything So Broken? EP hanno confezionato un gran bel dischetto denso di energia,
cuore e vigore.
7/10
Riccardo Zagaglia
Bernard Szajner - Visions Of Dune
(InFiné,2014)
Genere: elettronica
Artista raffinato e curioso, Bernard Szajner
ha sicuramente raccolto meno di quanto seminato nella sua carriera ormai quarantennale.
Nativo di Grenoble ma di chiare origini polacche, Szajner è stato un pioniere della musica
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Beach Slang - Who Would Ever Want
Anything So Broken? EP (Dead
Broke,2014)
Genere: pop, elettronica
Quindi Caribou, dopo essersi immerso in nuove eccitanti correnti elettroniche, trova l'amore e chiude idealmente un cerchio con Start Breaking
My Heart, l'esordio del 2001. Dall'elettronica gentile si parte e qui si ritorna, maturati, distanti mille miglia eppur così tremendamente se stessi.
Da quell'esordio all'insegna di ritmi e colorate melodie strattonate da più
parti, eppure così rotonde, matematiche e jazzy, di acqua ne è passata.
C'è stato un tuffo carpiato negli anni '60, una Londra che gli ha regalato
amicizie come quelle di James Holden, Joy Orbison e Floating Points e una seconda gioventù; proprio nel mentre, metteva su famiglia e si preparava a diventare padre, tra un giro al Plastic People
e un nuovo alias specializzato in dance, Daphni. C'è stato il botto di Swim, l'album che parlava di
se stesso al presente, il lavoro intellettuale ragionato a lungo, ispirato da Arthur Russell e dosato su
combinazioni di minimalismo e complessità, disco che si è risolto, in soldoni, in visione, produzione e non ultimo in pezzi – Odessa, Sun, Found Out – che diventano inaspettati anthem per un pubblico sempre più numeroso che canta e s'esalta. Tra il 2013 e il 2014, Caribou diventa IL nome da
chiamare se hai un festival o un evento che si rispetti. Il cachet va di conseguenza e così i click del
singolo che anticipa la nuova prova, Can't Do Without You, un brano che fattura, in circa 1 mese, 1
milione di streaming. Tutti meritati.
Così arriva il "nostro amore". Dove quel noi è riferito alla figlia che gli ha completamente cambiato
i ritmi di vita e le priorità. A Fact, Snaith rivela di essere una persona diversa ora, di vivere le cose
più di petto e di aver voluto risolvere la complessità dell'amore in un album che fosse universalmene comprensibile. Our Love si traduce nell'album più arioso e fluido prodotto dal canadese
finora. C'è un cuore di soulful house nel singolo traino e nelle title track, synth pop per cangianti arpeggiatori, qualche drum machine compressa a contorno ma, soprattutto, c'è quest'inedita
gestione dello spazio aereo. Spazio che in questo disco, anche grazie al missaggio curato da David
Wrench, è gestito con eleganza, umiltà e mirabile sguardo d'insieme. Regna l'amore, sentimento
che si traduce in una title track che compenetra famiglia e club, r'n'b, ritmi UK. Se c'è una citazione, va agli Inner City, ed è con questo spirito che Caribou si regala alla Storia, siglando il secondo
disco di fila in uno stato di grazia che è osmosi con amici di lunga data e un contorno di stimoli
sonici. Troviamo Four Tet in primis, come al solito occhi e mani nascoste nella produzione delle
tracce, e a ruota, una piccola compagine canadese: quell'Owen Pallett che viene dalla classica e
dai pentagrammi (oltre che ottimo autore e touring member con gli Arcade Fire) e arrangia, tra
le altre cose, gli archi nella conclusiva, splendida, Your Love Will Set You Free, e un'incantevole
Jessy Lanza che abbiamo apprezzato nell'esordio Pull My Hair Back e che qui presta la voce ad
esattamente metà scaletta con Second Chance. Disco dell'anno.
8/10
Edoardo Bridda
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Caribou - Our Love (City Slang,2014)
r e c e n s i o n i
e decisamente più elevato e nobile rispetto al
tributo naïve di Grimes in Giedi Primes.
Dopo trentacinque anni di oblio, Infinè ha
reso giustizia ad un lavoro di assoluto livello,
riportandolo sugli scaffali in una veste ancora
più brillante di quella del 1979, pronto ora per
raccogliere, finalmente, l'attenzione che merita. Consigliato.
7.5/10
Andrea Murgia
Bonnie "Prince" Billy - Singer's Grave a
Sea of Tongues (Drag City,2014)
Genere: folk
Ci risiamo, verrebbe da dire. Per tenere il ritmo
di un disco all'anno, Bonnie "Prince" Billy torna
a reinterpretare se stesso, proponendo nuove
versioni di brani già editi. Era già successo con
Sings Greatest Palace Music nel 2004 (ma
eravamo in territorio Will Oldham) e con l'EP
Now Here's My Plan del 2012 dove reinterpretava, soprattutto, il suo oramai classico I See
a Darkness. Qui i brani riletti vengono da Wolfroy Goes to Town del 2011 tranne due: New
Black Rich (Tusks) e Sailor's Grave a Sea of
Sheep. Entrambi ballate incorniciate da tempi
lunghi e struggimenti da termine del viaggio.
Il risultato è comunque un disco omogeneo, in
cui Bonnie "Prince" Billy dimostra ancora una
volta la capacità di ritornare sul proprio materiale come quasi fosse di qualcun altro e darne
nuova interpretazione. Rispetto al 2011, i brani
riletti sono meno scheletrici, affidati come
sono a una band Americana con tanto di pedal
steel guitar, fiddle, banjo e una serie di voci
secondarie affidate a Ann e Regina McCrary.
Oramai Bonnie "Prince" Billy non ha bisogno
di promozione, di annunci: gli basta mettere
in circolazione il proprio materiale. Sia esso
nuovo di zecca, rilettura di brani propri o altrui, come avvenne lo scorso anno per l'album
di cover degli Everly Brothers in compagnia
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elettronica francese, sia come compositore
– la stampa d'oltralpe lo ha più volte definito,
a ragione, il Brian Eno francese -, sia come
artista visuale, creando effetti speciali per i live
di Gong, Magma, Pierre Henri e The Who,
ma soprattutto ideando e realizzando l'arpa
laser, portata su tutti i palchi del mondo dal suo
conterraneo Jean Michel Jarrè.
Sfruttando la recente distribuzione di Jodorowsky's Dune, documentario sulla nonrealizzazione della pellicola sul capolavoro
della sci-fi di Frank Herbert, Dune, l'etichetta
francese Infiné ha deciso, dopo un lungo lavoro
di remastering sulle bobine originali ad opera
di Rashad Becker, di ripubblicare Visions Of
Dune, uno dei più grandi e incompresi lavori
di Szajner e dell'elettronica tutta. Pubblicato
la prima volta nel 1979 sotto il nome d'arte
ZED (coincidenza incredibile, del '79 è anche il Dune di Klaus Schulze), Visions è una
personalissima interpretazione del manoscritto di Herbert filtrata attraverso i suoni di un
Oberheim sequencer e un Revox due tracce,
sintetizzando e rielaborando gli insegnamenti
dei maestri Terry Riley e dei teutonici Kraftwerk in un prodotto ancora oggi vivace e
sofisticato.
Registrato con Hahn Rowe, Klaus Basquiz, Colin Swinburne, Clement Bailly e Annanka Raghel, l'esordio di Szajner si smarca in maniera
netta dal kraut sintetico del periodo, andando
ad analizzare in modo approfondito il rapporto
che intercorre tra suono e spazio, coinvolgendo
l'ascoltatore in un esperienza sensoriale e ambientale assolutamente convincente. Arricchito
da due inediti rimasti fuori dalla prima versione (Spice e Duke), Visions Of Dune è il miglior
lavoro ispirato dal pluripremiato (fu in assoluto
il primo vincitore del premio Nebula) romanzo
di Frank Herbert, lontano anni luce dalla scialbissima colonna sonora dei Toto della trasposizione per il grande schermo di David Lynch
di Dawn McCarthy. Attendiamo con curiosità
anche la prosecuzione della collaborazione
con i britannici Trembling Bells suggellata nel
2012 con The Marble Down e già proseguita
in questo 2014 con un singolo New Trip on the
Old Wine dello scorso aprile. Oramai un'icona
paragonabile solamente a se stesso.
6.7/10
Marco Boscolo
Genere: emo, post-rock
Avevano maturato del credito presso pubblico
e critica, i Boris, grazie a quella doppia uscita
Heavy Rocks/Attention Please del 2011 che,
pur senza meravigliare, era stata capace di mettere l'accento sulla duttilità del trio giapponese.
Ora che è arrivato il momento di riscuotere
quanto dovuto, i Boris mandano tutto a rotoli
con Noise.
Nelle intenzioni, Noise è concepito come un
album dei Motorhead: tutto vuole essere
sfrontato ed elevato all'ennesima potenza. L'emo sempre più emo (Ghost of Romance, titolo
che è tutto un programma), il post rock sempre più post rock (brillano gli interminabili 18
minuti di Angel), l'hard rock sempre più hard
rock (la buona Quicksilver) e così via. Purtroppo per i Boris questa scelta, invece di portare al
nocciolo della loro ragion d'essere, li trascina
verso una versione caricaturale di se stessi. Capita così di ritrovarsi nel mezzo di una sceneggiata barocca e fru fru, suonata con ruffianeria
e poca sostanza sotto la superficie.
Può andare bene per irretire gli aficionados, ma
alla fine il gioco non vale la candela.
50/10
Stefano Gaz
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Genere: ambient, techno, experimental, idm
Call Super, vero nome Joseph Seaton, arriva
alla pubblicazione del suo primo album dopo
un percorso compositivo solo in apparenza
lineare. Nelle sue primissime produzioni, e
in ugual misura in quelle più recenti firmate
con alias diversi, si riconoscono deviazioni
non convenzionali e richiami alle più svariate
sensazioni elettroniche di matrice dance che
difficilmente potremmo attribuirgli ascoltando
solamente Suzi Ecto.
Originario di Londra, ora residente a Berlino,
durante il triennio 2009-2011 Seaton si muove
tra deep house (Yphsilon, Nocturnes) e fantasmi di Mr. Fingers (Dance Out Doubt, Relish
Recordings), estrosi take italo-disco (She Had
A Wing) e suggestioni tropical-funk (Wey
Savvy). Poi, come Call Super, inizia a delineare
un'idea techno che – abbandonata la serialità
di kickdrum secche e decise, e accentuata la
componente ambientale, d'atmosfera – resterà
impressa fino a questo disco. Quello che rimane degli extended-play precedenti l'album, in
sostanza, sono i giochi di bleep in cascata e i
loop di sintetizzatore (Staircase EP, Five Easy
Pieces), i tagli, i graffi e le ritmiche irregolari
(The Present Tense, prima uscita in assoluto per Houndstooth), le scariche elettriche in
ripetizone tra i disturbi di fondo (No Episode,
Throne Of Blood, con un Madteo remix che anticipa le tracce sporche e spezzate formato LP,
e Black Octagons, ancora su Houndstooth).
Suzi Ecto è stato pensato come lavoro di ampia
portata, non votato alla pista, e come tale è
stato realizzato. Elementi portanti sono i field
recording, gli arpeggi sintetici, le percussioni
miste rumore bianco, i frammenti digitali che
si vanno a posare sui breakbeat densi di sfregi e
detriti cosmici. In questi, Seaton innesta sentieri melodici di oboe e flauti dall'oriente (Sulu
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Boris - Noise (Sargent House,2014)
Call Super - Suzi Ecto
(Houndstooth,2014)
Elia Galli
Carlot-ta - Songs Of Mountain Stream
(Brumaio Sounds,2014)
Genere: pop, cantautori
Di Make Me a Picture Of The Sun, esordio di
Carlot-ta risalente al 2011, dicevamo: "un ottimo esempio di come si possa mettere ordine in
r e c e n s i o n i
una giovinezza esuberante mandando a mente
quanto di meglio il cantautorato femminile abbia prodotto negli ultimi tempi". Le cose hanno
poi seguito il loro corso, premiando l'impegno
della giovane musicista di Vercelli (classe 1990)
anche oltre le più rosee aspettative, con un
Premio Mei Supersound come "miglior disco
dell'anno", un Premio Ciampi come "miglior
esordio dell'anno", una fase finale del Premio
Tenco giustamente guadagnata e, addirittura,
l'interessamento di una casa automobilistica
come la Ford, che nel 2012 ha utilizzato un suo
brano (Pamphlet) per uno spot televisivo.
Potenza dell'hype o doti reali? Songs of Muntain Stream in questo senso toglie ogni dubbio,
confermando quanto di buono si era detto sulla
musicista. Se, da un lato, le principali influenze rimangono sull'asse folk-pop costituita da
Tori Amos-Joanna Newsom, dall'altro lo stile
si fa meno dispersivo e più personale rispetto all'esordio. Eleganza formale garantita da
pianoforte, violoncello, viola, clarinetto, synth,
ma anche un istinto per la sperimentazione
(per quanto confinato) sottolineato dal lavoro
di Rob Ellis (qui produttore e arrangiatore –
già al lavoro, tra gli altri, con PJ Harvey e Anna
Calvi) sulla parte ritmica: molti drum kit che
si ascoltano nel disco sono infatti il risultato di
field recordings rubati sulle Alpi e poi dissezionati e rimontati a dovere.
Tutti input che confluiscono in quella che
potremmo definire la personalità musicale
poliedrica di Carlot-ta: un misto di ironia (The
Barn Owl), songwriting cameristico ortodosso e impeccabile (Basiliscus, Sunday Morning
Bells Are Ringin'), orchestrazioni sorprendenti
che mimano Anna Calvi (White Fur), qualche sbandata in stile Cat Power (Sick To The
Heart), malinconie in controluce (L'insinuant,
su rime di Paul Valery). Elementi che fanno di
Songs Of Mountain Stream un ottimo lavoro,
posizionandolo qualche gradino sopra l'esor-
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Sekou, e una Okko Ink in odore di My Life In
The Bush Of Ghosts, caposaldo Eno and Byrne), dub esotici e isolate stoccate d'archi per
un viaggio indietro nel tempo fino alle detroitiane Strings Of Life (Raindance, molto vicina
al FaltyDL di In The Wild), malinconie analogiche disturbate dalle drum machine effettate
all'estremo, poi improvvise schiarite e schegge
luccicanti in sequenza (Acephale I, prologo
ideale di Acephale II, 12″ a edizione limitata
uscito in precedenza quest'anno). Scelte precise, quelle di Call Super, che suonano come
un ritorno a certe costruzioni armoniche IDM
e sci-fi, e che oggi sembrano affascinare anche
altri nomi (in primis Dorian Concept e il già
citato FaltyDL, ma anche Inkke, Slackk, Mr.
Mitch, Moleskin – questi ultimi raccontati nel nostro articolo "Grime 2.0, PC music e
oltre", magazine di settembre 2014), portatori
di storie più o meno distanti rispetto a quella
del produttore londinese. Scelte che, proprio
in prospettiva di un progetto ragionato sulla lunga distanza, allontanano Seaton dalla
techno scarna ed essenziale degli esordi e dai
più recenti stomp in cassa dritta a nome Ondo
Fudd (Coup D'État, Trilogy Tapes).
Non manca visione d'insieme, né abilità in fase
di produzione. Il trasporto emozionale, tangibile, è accompagnato da un'attentissima cura
del dettaglio. Con i suoi paesaggi impalpabili, i
suoi scenari crudi e indeterminati, Suzi Ecto è
chiave di volta per stilemi ancor più perfezionabili.
7.2/10
Genere: pop, cantautori, rock
È dal terzo album Dove sei tu che parliamo di maturità per la cantautrice di Rho, ma da allora – sono passati undici anni – ad ogni nuovo disco
l'asticella ha continuato ad alzarsi di una tacca senza tradire pigrizia o
prese di beneficio. Certo, è capitato di doversi rammaricare per una fin
troppo pronunciata ricercatezza delle forme o per certe concessioni easy
listening, rammarico liberamente interpretabile come rimpianto per il piglio crudo e persino selvatico degli esordi. Ma Cristina Donà non ha mai
mancato di sembrarci una musicista in progress, per nulla banale, spesso
capace dell'intuizione melodica/lirica/musicale che ti ammalia fino al limite del turbamento.
Non dovrebbe quindi stupirci un lavoro (l'ottavo) come questo Così vicini, invece un po' lo fa, perché ha la forza di imporsi come uno dei suoi più sentiti. È molto pensato (una sorta di concept sulle parole, a volte potenti da scatenare tempeste emotive, eppure/oppure inadeguate ad esprimere
il flusso fisico e magico del vivere) però anche istintivo, sorretto da una tensione calda e inquietante, a tratti carnale come da un bel pezzo non accadeva. Scritto assieme a Saverio Lanza, vede
dieci tracce avvicendarsi tra incanto pop (a tratti segnatamente psych) e piglio wave, con un'attitudine arty mai fine a se stessa, anzi sempre veicolata all'economia della canzone. Se gli episodi
più meditabondi sembrano colti al crocicchio tra rapimento Wyatt e trepidazione Ivano Fossati
(Perpendicolare), altri inseguono astrazione onirica beatlesiana (L'inifinito nella testa ha il passo
sonnacchioso e visionario di una Happiness Is A Warm Gun), mentre Siamo vivi galoppa postpunk
tra elettricità e sospensioni androidi (ricordando un po' il Battiato altezza Strani giorni).
La qualità principale del disco sta proprio in questo "equilibrio di contrasti" tra momenti emotivamente rarefatti e slanci di sensualità torbida, con la melodia che non viene mai lasciata sola dai
dettagli d'arrangiamento e l'interpretazione che non si lascia congelare dalla forma: senti Così
vicini col suo srotolarsi nostalgico mentre il piano beccheggia bluesy e l'orchestra spande luce
tiepida, oppure La fame (di te) con le sue pulsazioni resinose e l'acidità esausta, o ancora il lirismo
teso tra influssi wave e soul de Il senso delle cose, per approdare alle vaghe dissonanze tra caligini
orchestrali della conclusiva, bellissima, Senza parole.
Se il cantautorato ha spesso rappresentato (anche) una zavorra per il pop-rock italiano – per
l'enfasi sui testi mentre la musica tira la catena – Cristina Donà è di quelle cantautrici che hanno
gettato il cuore oltre l'ostacolo per scoprirlo capace di battiti sempre più stratificati, peculiari,
coraggiosi, vivi. Tu chiamala se vuoi (lei vuole) incantautrice.
7.5/10
Stefano Solventi
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Cristina Donà - Così vicini (Believe,2014)
dio.
Nonostante la buona prova di carattere, tuttavia, ci pare che a Carlot-ta manchi forse ancora
quello che una Laura Loriga/ Mimes of Wine,
ad esempio (tanto per rimanere in tema), veicola in maniera più diretta e profonda, ovvero
un vissuto emotivo che vada oltre la proposta
artistica ben fatta, un feeling esistenziale che
afferri le viscere, prima di gratificare le orecchie. C'è tempo per crescere, comunque.
6.8/10
Fabrizio Zampighi
Genere: pop, soul, rnb
Al di là della copertina imbarazzante e traumatica, non è una novità il percorso rigeneratore
di Owens, che l'ha (ri)portato a (ri)abbracciare
le amate sonorità 50s, mai come questa volta
infarcite di r'n'b, country, soul, gospel. L'ex
leader dei Girls pare sia definitivamente tornato in sé, dopo un passato gestito in maniera
ambigua, fra drugs addiction, occhi neri e un
continuo far parlare di sé. Lo ha fatto dapprima facendo quello che ha sempre saputo fare
meglio: mettersi in mostra. Ed ecco allora il
suo volto comparire sugli advertising di Yves
Saint Laurent e spadroneggiare sui cartelloni
pubblicitari di HandM. Poi ha messo a punto le
nostalgie, elaborato i dolori da lupo solitario e
ha tirato fuori un disco – Lysandre – strutturato nei riferimenti (psych-folk) e nei temi (il
periodo 2008-2012 fra NY, San Francisco e la
Costa Azzurra). Non male per uno che poteva
finire in malo modo la carriera o, peggio ancora, la vita.
Ad ogni modo ogni disco è un nuovo testamento, ci dice Owens all'uscita di A New
Testament, un album che, se nella copertina
ha questo ambiguo e mal riuscito riferimento al christian pop (?) o semplicemente alla
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r e c e n s i o n i
Christopher Owens - A New Testament
(Turnstile,2014)
musica tradizionale del centro America, nei
suoni è quanto di più vicino ai Girls potremmo
mai sentire. E questo non significa che A New
Testament suona come Album o Father, Son,
Holy Ghost, ma che: 1. è frutto della naturale
evoluzione del songwriting di Owens che, con
o senza White, probabilmente sarebbe arrivato
comunque a questi risultati; 2. parla principalmente d'amore e sofferenze varie, cercando di
elevare il personale al generale, in discreto stile
Girls. Insomma, per capire A New Testament
basta pensare ai Girls in dopo sbornia e alle
prese con un album di cover natalizie.
C'è di più. Il disco è frutto di un team work di
gente che lavora insieme dai tempi dell'ultimo
dei Girls. E la maturazione, la crescita, si sente
tutta: John Anderson, Darren Weiss, Makeda, innanzitutto, avevano dato a Father, Son,
Holy Ghost quel taglio compatto e ordinato
che lo caratterizza. Poi c'è Dan Eisenberg che
ha prodotto gli organi e i piani migliori, tanto
nei Girls quanto in Lysandre. E Infine Doug
Boehm, con cui Owens condivide i tasti del mixer dal 2011. Tutta questa empasse è al servizio
di pochi accordi («tre accordi e verità») e una
manciata di testi sulle battaglie vinte e su quelle perse, sui traumi grandi e sui ricordi tutti.
Come quello di Stephen, il fratellino deceduto
a soli 2 anni «just like an angel», un brano fatto
di cori gospel e di ampie citazioni pop (le ballad di Elton John o quelle corali di Dylan, ma
anche i canti di Natale tutti, potremmo dire). Ci
sono altri episodi estremamente intimi, come
It Comes Back To You, terribilmente struggente nel ricordarci gli ultimi dischi di Lennon.
Ad ogni modo, gli episodi migliori sono da
cercare altrove, nelle facili ma efficaci canzoni di country rock, come My Troubled Heart,
Nothing More Than Everything, Key To My
Heart e, soprattutto, Never Wanna See That
Look Again (quest'ultima rivelatrice sul nuovo
corso della vita personale di Owens).
Genere: drone
Vanno in doppia cifra gli Earth e al compiere il quarto di secolo tornano al
passato. Non a quello degli esordi che li investì, seppur a distanza di anni, del
titolo di padrini del droning-rock, ma a quello "southern-heavy" dell'età di
mezzo (altezza Hex, in poi, per intendersi), grazie ad un inspessimento di un
suono sempre sporcato di polveri desertiche e immaginario isolazionista, ma
molto più corposo rispetto al più recente passato. Non sono però queste le grosse sorprese di Primitive And Deadly (un monito? un suggerimento? un indizio?), dato che al solito rimescolamento
della formazione – insieme alla batterista di lunga data, Adrienne Davies, troviamo Bill Herzog
(Sunn O)))) al basso, Brett Netson (Built To Spill, Caustic Resin) e Jodie Cox (Narrows) alle chitarre, Randall Dunn (Master Musicians Of Bukkake) al moog – si aggiungono anche le voci. E se
non bastasse questa novità in seno ad una band che ha fatto dello strumentale una ragione di vita,
basta guardare che voci. Mark Lanegan a quella maschile e Rabia Shaheen Qazi (Rose Windows)
a quella femminile allargano ancor di più lo spettro delle possibilità della band di Seattle, senza
per questo snaturare un processo che, alla luce del percorso pluriennale, si può definire perfettamente compiuto.
Lunghe digressioni psych lente e macerate che fuoriescono dalla chitarra maledetta di Carlson,
dal peso specifico talmente alto da far impallidire novelli virgulti d'area sludge o doom, che si vanno screziando di stralci sixties – la From the Zodiacal Light con la Shaheen Qazi alla voce diviene
il rovescio della medaglia di una summer of love andata decisamente a male o una "torch song
ideale per l'ora delle streghe", press-sheet dixit – e di portentosi esercizi di feral-blues, catatonici
e fiaccanti come perdersi nel (biblico) deserto rosso fuoco di There Is A Serpent Coming in preda
a visioni da disidratazione (o perdita della fede, chissà).
E se l'opener Torn By The Fox Of The Crescent Moon e Even Hell Has Its Heroes sono visionari
accumuli di riff come se non ci fosse un domani – la prima più heavy oriented, la seconda figlia di
una personale via al blues – l'onore del masterpiece spetta alla conclusiva Rooks Across the Gates.
Non a caso di nuovo cantata da Lanegan, è la traccia che più si avvicina per sensibilità e affinità al
percorso "introspettivo" dei vari Angels of Darkness 1 e 2, ma ne offre una lancinante, possente,
sofferentissima nuova versione/visione. Gli Earth sono tornati a guardare nelle profondità dell'essere e noi non possiamo che abbandonarci, spossati ma felici, a questo nuovo inizio.
7.2/10
Stefano Pifferi
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Earth - Primitive And Deadly (Southern Lord,2014)
Sono brani terribilmente ruffiani, che fondano
tutto sulla citazione, sul già sentito. Eppure, a
tratti funzionano, un po' perché ci fanno emozionare, un po' perché la voce di Owens trasuda la sofferenza che racconta e lo fa rivelando
un navigato e consapevole cantautore. Tutto
giusto e legittimo, anche quando, a conti fatti, il
disco non affonda del tutto il colpo.
6.3/10
Nino Ciglio
Genere: rock, indie
Gli anni Novanta rappresentano un terreno che
ancora oggi è oggetto di discussione: c'è chi li
considera l'ultima mecca, chi la rovina di tutto,
chi un panorama in cui fenomeni reazionari
(qualcuno ha detto "grunge"?) erano visti come
rivoluzionari, chi fucina delle ultime sperimentazioni realmente coraggiose. Un fatto è certo:
sono anni che paiono uno dei pochi luoghi di
tregua possibile tra quelli "che l'indie rock è
morto" e la nuova fauna "alternative" odierna.
In questo alveo si annidano il senso e l'identità
dei Cymbals Eat Guitars da Staten Island, con
LOSE al terzo disco: anche questo, come il precedente Lenses Alien, prodotto dal rinomato
John Agnello.
È, quella di LOSE, musica che avrebbe fatto piacere a qualsiasi procacciatore AandR,
in epoca immediatamente post-Nirvana: un
suono slacker più raffinato (Superchunk +
Feelies), impasto in equilibrio tra potenza e
dettaglio, con chitarre che saltano tra il vigoroso, l'acido e il tenue arpeggio, sezioni ritmiche anfetaminiche registrate molto spesso
"qua davanti", dove la levità è resa sofisticata
da arrangiamenti ricercati e cambi di passo
repentini. Il piano-forte, il canone pixiesiano
per antonomasia, che viene shakerato, steso
e levigato: reso appetibile per le masse, per
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Cymbals Eat Guitars - LOSE
(Barsuk,2014)
capirci. Ed è qui che il processo di adesione/
evoluzione rispetto agli anni Novanta si innesta. È musica che però, allo stesso tempo, non
avrebbe venduto milioni di dischi nemmeno
nei Nineties, proprio come accadde ai Superchunk di cui sopra nell'epoca post-Nirvana di
cui sopra. D'altronde, in quei tempi andarono
sotto major anche i Melvins (!): un'opportunità
si dava anche agli invendibili.
Il disco dei Cymbals Eat Guitars pare una
dolce e grassa consolazione: è quello che anni
coraggiosi per certo rock chitarristico hanno
partorito passando attraverso un tritacarne pop
e radiofonico, attraverso le nicchie e il senso di
colpa dato dalla coscienza di essere una musica
fondamentalmente conservatrice (o di esserlo
comunque diventata). Un compromesso che,
a chi scrive, pare rispondere ad una domanda:
cosa sarebbe successo se l'indie dei Nineties
fosse, ad un certo punto, diventato il mainstream? LOSE è il simbolo (o uno dei simboli) di
tutto questo, ma la cosa incredibilmente bella è
che è anche un disco fantastico. Tutte le chitarre sono al punto giusto, tutti i brani (Jackson in
particolare, ma sarebbe un torto etichettare gli
altri come episodi minori) hanno qualcosa che
si fa ricordare. C'è la struttura stortissima, c'è
la melodia aperta e sgargiante che batte i Deerhunter nel loro sport, c'è il particolare strumentale inconsueto o lo sviluppo vocale particolarmente slanciato: Child Bride, per dire,
fa pensare addirittura a Townes Van Zandt a
braccetto con Graham Parker (o era Micah
P. Hinson?), non fosse per il falsetto. Con un
canto che soffre ancora di una certa logorrea,
ma che rispetto al disco precedente pare avere
più sintesi e messa a fuoco.
Una consolazione, dunque, che sintetizza in
maniera tutt'altro che torva (come certe consolazioni invece fanno) un percorso ultra-decennale non del gruppo, ma di una musica intera.
Che regala emozioni che riescono a venire
Fabrizio Testa - Music For Adriatic Colonies (Autoprodotto,2014)
Genere: pop, cantautori, avant, elettroacustica, classica, contemporanea,
Music For Adriatic Colonies è l'interludio di Fabrizio Testa, che nel
giro di due anni scarsi ha espresso veramente tanto in termini di geografia sonoro-cantautorale. Come Mastice e Morire, parti di una trilogia
che l'autore dice dovrebbe chiudersi l'anno prossimo, Music For Adriatic Colonies è ancora uno storyboard sui ruderi metastorici della riviera
adriatica, ma si distanzia dalla forma canzone per cimentarsi in strumentale. Le diciassette suddivisioni sono l'epitome delle doti artistiche di tutti i musicisti coinvolti nel
progetto, che sono ben otto, ma finiscono a corredo di un connotato fenomenologico atemporale
dell'autore milanese.
Già in precedenza Testa aveva espresso la volontà di indagare il passato con occhio disincantato,
eppure il processo narrativo in quest'ultimo lavoro viaggia in parallelo con una mediazione romantica o tardo romantica di deragliamento in passacaglia opposto al titanismo; lo stile mantiene
un unico registro compositivo, eppure l'organicità tecnica svirgola, corre via fra impro-acusmatica
appena accennata (un richiamo all'appena nato Gorlago trio), ambient costruttivista, quartomondismo e sci-fi noir.
Le adamantine e algide scritture di piano cullano gli accenti dei fiati in quote di lied jazz, gli
armonici fan squadra con la percussività degli strumenti, gli oggetti diventano quello che sono, e
cioè ruderi d'era coloniale, i passi tendono ad arrestarsi proprio nell'atto in cui tutto sembra trasformarsi in musica classica o scultura, eppure ce ne sarebbero di ragioni a carico. Il piano stesso
sembra occupi un ruolo da maitre à penser timbrico, in senso reichiano, e invece viene spintonato
come dall'anca di una mossa, lasciato solo a rimuginare su quale albero maestro possano posarsi
clarinetto, clarino e tromba, in ordine di chiama. Un lavoro, questo, che dà instancabilmente da
pensare.
7.4/10
Christian Panzano
fuori nonostante il chiacchiericcio dell'hype,
lo snobismo, gli occhialoni nerd, e che mette
al centro quello che veramente conta: il suono,
soltanto e sempre il suono.
7.3/10
Andrea Macrì
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Dario Buccino - La costrizione della
nudità (Edizioni Zùmpapa,2014)
Genere: concreta, experimental
La costrizione della nudità non passerà alla
Storia per l'interpretazione canora di Dario
Buccino e, bisogna dirlo, nemmeno per i testi,
spesso chiusi a bulbo, pieni di rabbia ermetica.
Pur con eccezioni dovute se non altro all'orchestrazione o a un precipuo folk che permette
consonanze vocali basiche, il padrone di casa
r e c e n s i o n i
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minimalismo
r e c e n s i o n i
pronuncia timbrica della musica anzichè una
genìa di forma canzone. Per questa ringhiera
Buccino instrada i suoi progetti, rendendo viva
una cronaca che a molti sfuggirebbe di mano,
e in questo La costrizione della nudità crea
o creerà un solco per chi vuole legare a mo' di
bouquet la sperimentazione sonora a una prosa
istintuale. Bisogna dargliene atto.
6.8/10
Christian Panzano
Death From Above 1979 - The Physical
World (Last Gang Records,2014)
Genere: rock
Il tempo che non sembra essere passato, fermo
a quella metà degli anni 2000 quando i due
musicisti di Toronto esordivano come Death
From Above 1979: pulsioni punk, attitudine
dance, passione per i riff di chitarra grassi dei
Novanta. Potremmo sintetizzare così il secondo album, Physical World, che esce a distanza
di un decennio dal primo. Di mezzo uno scioglimento nel 2006 per problemi interni e una
reunion spinta dalla base di fan e dalle buone
vendite dell'esordio anche dopo la rottura.
La formula è rimasta pressoché invariata: un
muro di chitarre grasse e distorte, sostenute
da ritmi incalzanti per una manciata di brevi
canzoni che, scommettiamo, sono pronte per
incendiare i live come già è accaduto in passato. Con qualche sottolineatura più elettronica
(Gemini e una titletrack che gioca anche con gli
8-bit), ma sostanzialmente senza grossi cambi in campo, il secondo disco avrebbe potuto
essere tranquillamente pubblicato nel 2004: un
incrocio tra i Rapture, i Liars prima del cambio
di direzione, con una grattugiatina di riff che
sembrano presi talvolta da Superunknonw ,
talvolta da un album stoner.
Funziona tutto alla perfezione, e si sente per
tutta la durata del disco che i DFA1979 sono
sopraffini interpreti del genere. Se cercate un
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o t t o b r e
è uno stile che fischietta fra leve differenti
di scuole romane e il Finardi più recente, la
liturgia à la Giovanni Lindo Ferretti, ma pure
Negramaro e Tiziano Ferro sono gioie non poi
così insabbiate.
La costrizione della nudità è invece musicalmente uno scavo concreto meta-lirico e
metafisico, una sonda che batte nuovi vicoli
ciechi alla ricerca del suono che schiocca e
sferruzza dalla reciprocità corpo-materia. Il
lavoro si pone una sfida, merce rara di questi
tempi perlomeno lungo lo Stivale, che origina
da una domanda: cosa sa della musica il corpo,
che il pensiero non sa di sapere? Dario risponde col sistema HN, acronimo per hic et nunc,
elaborato anni fa "per imbrigliare le forze che
si dispiegano nel momento della performance".
Nel libretto che fa punteggio alto con l'imballaggio e che accompagna il dischetto, l'autore
sa svelarsi con generosità e dovizia. Racconta
di quando i medici gli dissero di avere un cancro e poi che no, si erano sbagliati, "mi sentivo
perso in un conflitto lacerante: come unire
organicamente le due dimensioni, la vertigine
del vuoto e quella del pieno? Cominciai a cercare la risposta nella musica" . Il sistema HN è
dotato di una lamiera, che col tempo ha figliato,
le cui onde vibratorie rendono possibile un'interazione tridimensionale e le cui proporzioni
sono calcolate secondo formule matematiche.
Buccino è giunto negli anni a imbastire una
tavola di notazioni partendo da quest'intuizione che istintivamente può ricordare il progetto
Let sfinge e però a ben vedere va praticamente
oltre, travalicando e scombinando più arti, in
una contemporaneità tutta sua, in una sintesi
da vero mestierante.
Ma La costrizione della nudità è anche un
lavoro che mette al centro un tipo di forma
canzone che aiuti nella ricerca di "risonanze
affettive". Ecco, se ne potrebbe parlare per ore,
ma io credo che in queste tracce vinca più la
disco che vi faccia ballare al suono di imponenti muri di chitarre (e se non chiedete troppo ai
testi: da no comment) e che vi faccia sudare,
questo è l'indirizzo giusto. E con la fortuna che
un certo revival Novanta sta avendo, è probabile che alla fedele base di fan si aggiunga una
nuova generazione di estimatori.
6.9/10
Marco Boscolo
Genere: psych, dark, kraut
Dismessi i panni martial industrial del suo
celebre quanto discusso progetto Der Blutharash, Albin Julius si è spostato da diversi anni
verso uno psych-kraut oscuro e mutante che si
muove nel segno di una occult-religious-psychedelic-trance. Sotto la sigla Der Blutharsch
And The Infinite Church Of The Leading
Hand, Albin Julius, sempre circondato da un
gruppo di amici e collaboratori nuovi e di vecchia data, ha avuto il coraggio di rimettersi in
gioco.
Se da album come When Did Wonderland
End?, ancora realizzato sotto il marchio Der
Blutharash, s'intuiva il cambiamento imminente e la deriva psichedelica di certe sonorità
di ispirazione martial-neofolk, è con un disco
come The Story About The Digging Of The
Hole And The Hearing Of The Sounds From
Hell del 2011 che sia ha la vera svolta nel lavoro
di Albin Julius. Un cambiamento che prosegue
degnamente con The End Of The Beginning
nel 2012 e The Cosmic Trigger nel 2013, con i
suoi interessanti remix ad opera di Geoffroy D.
(meglio conosciuto per i suoi lavori come Dernière Volonté e Position Parallèle).
All To Pieces è il nuovo EP ad opera dei nostri
"artisti marziali" convertiti alla psichedelia,
uscito il 29 luglio 2014 per l'italiana Sound of
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Der Blutharsch And The Infinite Church
Of The Leading Hand - All To Pieces EP
(Sound Of Cobra,2014)
Cobra (a riprova di un interesse particolare
dell'Italia più underground per certe sonorità
psichedeliche e occulte). Il disco si avvale della
presenza di molti ospiti, come Alan Trench,
della storica band neofolk Orchis, e Pete Hope
(Wrong Revolution, Bone Orchestra), e continua l'esplorazione di Albin Julius e compagni
in oscuri territori psych kraut, psicotropi e
devianti alla Amon Düül II.
Indubbiamente, vi è una sorta di filo conduttore che lega una certa musica psichedelica con
attitudini kraut e suggestioni post-industriali.
L'immagine di copertina, da questo punto di vista, è molto significativa, oltre ad essere molto
bella: una foto con colori accessi e psichedelici
di un edificio ormai in rovina e disabitato. L'EP
è anche un picture disc e mostra uno sciame di
farfalle blu prese in una spirale che le trasforma in polvere, all'interno di quello che sembra
un fiore. L'aspetto grafico si presenta, come
solito per la band, molto curato ed evocativo.
Nel lavoro si percepisce anche un ritorno ad
atmosfere alla The Moon Lay Hidden Beneath A Cloud, primo progetto di Albin Julius,
sopratutto in All to Pieces, il pezzo che da il
nome all'EP: un gorgo oscuro, un bad trip in cui
gli ascoltatori vengono risucchiati come farfalle sedotte dalla voce teutonica di Marthynna.
Un urlo apre I Have Been Here Before, un viaggio sciamanico nella chiesa dei Der Blutharash
con un satanico blues cosmico in cui Pete Hope
canta "The world is just a spaceship travelling
too fast for me (…) I've been here before, so I
know my way" ("Il mondo è solo una navicella
spaziale troppo veloce per me. Sono già stato
qui prima e per questo conosco la mia direzione"). Song of Life and Death, invece, è l'eco
pulsante di una misteriosa liturgia pagana: una
danza macabra in una foresta che si muove
tra distorsioni ed effetti sonori inquieti, in cui
galleggiano voci maschili e femminili; un brano
emblematico del selvaggio percorso iniziatico
compiuto sino ad ora dalla band. Solo alla fine
del viaggio intravediamo un bagliore di luce: il
disco si conclude con un brano, Acheroantia, in
cui le tastiere creano un suggestivo strumentale ispirato alla psichedelia della West Coast
americana degli anni Sessanta impreziosito da
venature ambient. Un buon lavoro che anticipa
il prossimo LP del gruppo. Attendiamo fiduciosi.
7.1/10
Marco De Baptistis
Genere: rock, blues, garagerock
Gioca da solo, Dirty Trainload, al secolo Bob
Cillo from Bari. Gioca da solo perché di trend,
mode, hype e quant'altro gli frega vicino allo
zero assoluto, mentre continua imperterrito
a sfornare lavori che farebbero, anzi, fanno, la
gioia di chiunque si sia mai trovato a trafficare
con quella terra di mezzo in cui il rock'n'roll
più lercio e il blues più sofferto si sfiorano fino
a diventare qualcos'altro. E lo fa con nonchalance dal 2007, anno d'esordio con Rising
Dust, non proprio da oggi che questo "newblues" elettrificato e accattivante è ormai di
dominio (fin troppo) pubblico.
Questo giocare da solo lo ha preservato da trappole come l'accondiscendenza verso un pubblico sempre maggiore che si aspetta, e chiede,
e pretende sempre più dal suo artista preferito
– vedi alla voce White Stripes o ai vari adattamenti in forme "altre" targati Jon Spencer (gli
Experimental Remixes o gli intrecci col Dub
Narcotic Sound System) – permettendo alla
sua musica di mantenere la barra dritta in direzione ostinata (e pura) e contraria (guardare al
passato, più che al presente modaiolo).
In realtà, Bob Cillo non gioca proprio da solo,
dato che a supportarlo c'è sempre qualcuno:
all'altezza di Rising Rust era l'armonicista-
Stefano Pifferi
Electric Würms - Musik, Die Shwer Zu
Twerk EP (Warner Music Group,2014)
Genere: psych
Con gli anni il genio sfavillante e contorto del
buon Wayne Coyne non si sta affatto smorzando, anzi, si ramifica e prospera tra colpi di
testa ingegnosi, intuizioni maniacali e svaccate
eclatanti. In un certo senso, Coyne sta eccedendo i Flaming Lips, anche per ciò che concerne
la dimensione stessa della band, coinvolgendola in progetti che trascendono il consueto
iter. In questo caso fa invece una cosa piuttosto
standard, ovvero si dà al side project seguendo
la scia dell'attitudine psych-spacey ostentata
con arguzia in particolare da Yoshimi in avanti.
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Dirty Trainload - A Place For Loitering
(Side 4,2014)
cantante Marco Del Noce, nel successivo
Trashtown la cantante e polistrumentista
Livia Noisance e ora la batteria di Go Balzano
a sostituire quelle elettroniche che facevano e fanno da scheletro ritmico al progetto.
A "supportarlo" nella scrittura, poi, oltre ai
molti originali di suo pugno, anche i traditional
blues – The Ballad Of John Hardy e When The
Saints Go Marching In – e le penne storiche
del disagio, come quella di Robert Johnson – di
cui Dirty Trainload rivede If I Had Possession
Over Judgement Day, resa infinita grazie al
locked groove che ne amplia il senso di straniamento – o di Tommy Johnson (una Big Road
Blues a dir poco Johnspencerizzata) o, infine,
di John Barry, di cui viene rivisitata la bondiana You Only Live Twice.
Tradizione, dunque, e molta nei solchi di questo "posto per bighellonare", ma Bob Cillo ci
mette molto del suo: ci mette sangue e sudore
nel rivestire di elettricità e sporcizia canzoni
fuori dal tempo e libere nello spazio. Di quelle
che ti si appiccicano addosso perché sono fatte
della stessa sostanza degli umori umani.
7/10
o t t o b r e
Stefano Solventi
Electric Youth - Innerworld (Secretly
Canadian,2014)
Genere: pop, wave, 80s, synthpop
Osservando il recente passato, la sensazione è
che Kill For Love dei Chromatics abbia rappresentato non solo il trionfo della versione più
100
cinematica (così lo definemmo all'epoca) e romanticamente notturna del synth-pop, ma anche la sua rapida morte: difficilmente eguagliabile sotto diversi punti di vista, l'album targato
Italians Do It Better sembra aver scoraggiato i
più ad imboccare quelle evocative strade.
Negli ultimi due anni, infatti, poche sono state
le uscite vicine a tali atmosfere: tra le più
riuscite abbiamo senza dubbio Nature Trips,
l'ottimo singolo di Eyedress (presente nella
nostra playlist SA Presents: Tracks from EPs
2013), The Peak of Diggitiness targata Doctrine, alcune cose contenute nell'ultimo Xeno
and Oaklander, l'omonimo debutto lungo
firmato Gold Zebra e soprattutto Innerworld,
l'album d'esordio degli Electric Youth. In
realtà i canadesi Electric Youth (Bronwyn
Griffin e Austin Garrick) esordienti non lo sono
affatto, dato che tre anni fa la loro A Real Hero
(con David Grellier aka College) era tra i brani
di punta della colonna sonora di Drive e che da
allora hanno pubblicato almeno una manciata
di singoli collaborando anche con miss nu-italo
Sally Shapiro.
Appesantiti da un look – soap opera/discokitsch – che rispetta le regole del genere, i due
cercano di liberarsi dalle fin troppo stereotipate – per quanto sempre affascinanti – coordinate dark-metropolitane, elevando il discorso su
retromanie eighties di stampo più fantascentifico/spaziale e picchi di epicità di scuola m83,
pur mantenendo un alone nostalgico di grande
effetto. Assodato che Austin Garrick possiede
la metà del genio creativo di Johnny Jewel e
che Bronwyn Griffin è più che altro funzionale
alla causa, Innerworld è un disco decisamente contagioso: A Real Hero – giustamente qui
riproposta – continua a spiccare, ma è accompagnata da almeno altre cinque o sei tracce di
perfetta sintesi pop.
Before Life introduce l'ascolto e facilita l'ingresso nel giusto mood, con Vangelis ad os-
r e c e n s i o n i
Con questo non voglio sminuire il ruolo dell'altro Lips Steven Drozd coinvolto nella faccenda, anzi, vale la pena sottolineare che ne è il
principale artefice sonoro e vocalist, mentre il
buon Wayne ci dà dentro col basso e scuote la
chioma zampillante di folli neuroni.
Comunque, tant'è, i due zuzzurelloni danno
vita a questi vermi teutonici elettrificati assieme ai quattro psichedelici di Nashville Linear
Downfall, impastando incubi sci-fi lynchiani,
prog cosmico e kraut radiante in una più vasta
congiuntura psych, mantenendosi sul crinale
tra messinscena e vertigine, lirismo straniante
e goliardia. Sei i pezzi che si infilano nella scia
eterea di The Terror accompagnati da detriti
e ordigni insidiosi, ora sfarfallando misterici
(The Bat) e floydiani (l'asciuttezza wave tra
asprezze amniotiche di Living), ora spicciando
tumulti acidi Sixties (il blues folle e vetroso di
Transform!!!), angosce scenografiche Yes (la
cinematica Futuristic Hallucination) e schizofrenie serrate Can (tra le caligini luminose di
I Could Only See Clouds). Nel finale Heart Of
The Sunrise suggerisce una deriva radiosa e
senza approdi che in un certo senso riconduce
a The Terror espandendone il concetto, come
una piega spaziotempo di possibilità e collasso.
Questo disco/progetto insomma non è che un
tassello tutto sommato inessenziale dell'ormai
trentennale percorso di Coyne e Drozd, ma
inserito nel puzzle sembra l'ennesima dose di
additivo chimico come minimo divertente, a
tratti intrigante.
6.4/10
r e c e n s i o n i
Riccardo Zagaglia
Emiliano Mazzoni - Cosa ti sciupa
(Gutenberg Records Primigenia
Produzioni Musicali,2014)
Genere: pop, cantautori, 80s, blues
Per un autore musicale che opera in Italia, progettare una sua seconda release è un po' come
una specie di conquista da vello d'oro senza
scranno al rientro in patria. E metteteci che la
patria uno ce l'ha a 1200 metri da terra, per la
precisione a Piandelagotti in provincia di Modena, beh che ve lo dico a fare? Se va di sfiga,
tocca fare l'autostop. Emiliano Mazzoni però
ci crede e in Cosa ti sciupa ci mette tutt'un trasporto e poi una testa di quelle, che uno si crea
dopo anni e anni di stoicismo e vita forte, dal
fuoco in petto dopo un bel sorso di grappa. A
seguirlo/accompagnarlo come un Virgilio verso
l'ennesimo psicopompo, Luca Alfonso Rossi, ex
Ustmamò, anche se il grosso del lavoro quasi
tutto fatto in casa.
Ballo sul posto, esordio di due anni fa, era un
disco in filigrana, fatto di locuzioni sospese.
Una curiosa bellezza interlocutoria che piantava cirmoli profumati e notturni. Questo secondo figlio riesce a rivelare sguardi. E sono occhi
bellissimi. Ma perchè te ne vai quarant'anni fa
avrebbe vinto Sanremo e oggi ci lascia un ritornello amaro; Diva irrompe in una casamatta
senza guarnigione, deserto dei tartari e protocollo d'armonica; Ciao tenerezza è un valzer
da belle epoque in quadrante felliniano; Hey
boy lo swing ivesiano che manco Buscaglione;
Ragazza aria ha il gusto di quella new wave
anni '80 solo musica italiana che però cede in
elettronica e dà di pop blues, uno strano animale che nelle piante ferite di Mazzoni piglia un
colore quarzato con punte di quinte; Nell'aria
c'era un forte odore potrebbe trovarsi in qualche album del primo Enrico Ruggeri e invece è
uno spaghetti twang in rispettoso Butch Cassidy in fuga per la Patagonia; Tornerà la felicità
culla Battiato e Sakamoto; Non rivedrò più
nessuno saluta la guerra per i tasti più bianchi
del piano, vero protagonista della serata.
Mazzoni sembra aver fatto non uno, ma dieci,
venti, cento salti in avanti rispetto a un Ballo
sul posto che sostanzialmente era bello sì, con
i suoi rimandi waitscaposseliani, ma a confronto con questo non regge la partita. Quasi da non
credere.
7.2/10
o t t o b r e
servare al largo dei bastioni di Orione, e poi si
parte per un viaggio al neon. Runaway – un po'
Madonna in modalità dreamy – per tutti i nati
negli anni '80, è un tuffo nell'infanzia, Innocence – "Where have you gone sweet innocence?"
– incalza e ammalia e Tomorrow allontana gli
eccessi patinati concedendo maggiore spazio al
reparto strumentale, mediamente composto dal
beat dritto della drum machine e da un synth
una volta minimale, la volta dopo possente e
saltuariamente strillante (Jewel insegna).
Le più ordinarie WeAreTheYouth e Another
Story – più che piacevoli ma leggermente
ripetitive – nulla tolgono a Innerworld, un
disco che non ha la pretesa di presenziare nelle
classifiche di fine anno, ma a cui dobbiamo
riconoscere il merito di mantenere vivo l'interesse verso certe sonorità, con gusto e preziose
soluzioni melodiche.
6.7/10
Christian Panzano
Erlend Øye - Legao (Bubbles
Records,2014)
Genere: pop
Ricordate il simpatico ragazzo dai capelli rossi
e occhiali da nerd del duo norvegese Kings
of Convenience? E soprattutto ricordate le
trame acustiche che intrecciandosi alle voci del
duo Øye e Glambæk sullo sbocciare dei 2000
aveva permesso a quest'ultimi di essere para-
101
Genere: pop, cantautori, art, folk
E' ancora possibile mischiare suoni acustici e sintesi elettroniche senza
risultare banali o ridondanti? L'ex dj di Ninja Tune Fin Greenall, in arte
Fink, ci aveva già dato buoni segnali anni fa con i tre primi Biscuits For
Breakfast (2006), Distance and Time (2007) e Sort of Revolution (2009).
In pochi se ne accorsero e con Perfect Darkness (2011), il musicista
britannico aveva rilanciato dando alle stampe un lavoro in perfetto equilibrio tra sonorità minimal e incursioni trip hop. Consolidato un discreto
seguito Fin Greenall lo fa di nuovo, con un disco prodotto e suonato meglio, più ambizioso e volitivo. No, non è il disco che aggiunge quella definitiva marcia in più e probabilmente è anche meglio
così.
Fink è ancora lontano dai più collaudati ecosistemi folk (Bon Iver, Andrew Bird) quanto da
certe sperimentazioni noise (Yorke, Blockhead, Sufjan Stevens). Hard Believer ha una suona
dimensione, un suo panorama nel quale si muove con grande naturalezza tra fascinazioni ambient,
raffinate soluzioni acustiche e una salda atmosfera che accompagna l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Con il piglio da navigato dj il Nostro riesce a non risultare mai scontato e mai scintillante ma
sempre convincente, unendo con grande naturalezza pezzi di suoni e influenze di stili.
Giocato in un campionato tutto suo, interessanti impasti armonici (il climax evocativo di Green
and the blue, la tellurica Pilgrim o la più scanzonata Shakespeare), una voce profonda e una perenne tensione melodica (Looking Too Closely) fanno di Hard Beliver un piacevolissimo disco e di
Fink un artista da non perdere mai d'occhio. Sarebbe un peccato.
7.2/10
Gianluca Lambiase
gonati ai leggendari Simon and Garfunkel?
Bene se la risposta è sì dimenticatevene per un
attimo. Messi in standby i KOC e il progetto
parallelo The Whitest Boy Alive l'occhialuto
Erlend Øye, a inizio 2014, decide di mettersi in
proprio, partire per l'Islanda (dopo che si era
trasferito nella nostra penisola) e andare alla
ricerca di una band reggae che lo supportasse
nella lavorazione di un nuovo album solista.
Il risultato è questo Legao, album che si regge
sull'equilibrio tra l'eleganza che ha contraddistinto sin qui le opere targate Kings of Convenience, l'eclettismo stilistico dei The Whitest
102
Boy Alive e la nuova crescente curiosità verso
suoni world. Ed è un equilibrio che si protrae
per tutti i trentotto minuti: a partire dal reggae
di Fence Me, in cui il tocco del gruppo islandese Hjalmar che ha ospitato il cantautore
norvegese nei personali studi di Reykjavik si fa
più tangibile, passando per la disco-soul anni
Ottanta di Garota, la briosa Same Some Loving,
la caraibica Whistler e intermezzi definibili
"classici", vedi Bad Guy Now (ballata in stile
CrosbyandNash) e Who Do You Report To
(minimale composizione piano-voce) fino a
giungere a un hammond à la Whiter Shade of
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Fink - Hard Believer (Ninja Tune,2014)
Pale che scivola in una melanconica Lies Become Part of Who You Are.
La tranquillità e la serenità che Øye riesce a
emanare attraverso i dieci capitoli che compongono Legao rappresentano il vero valore
aggiunto di questa seconda opera in proprio
(la prima risale a circa undici anni fa, Unrest
il titolo). Un album da ascoltare durante una
di quelle malinconiche serate autunnali, con
luce soffusa e in compagnia di un calice di vino
rosso.
6.7/10
Marco Frattaruolo
Genere: goth, post-rock
È facile trovare vagamente appassionante la
storia degli Esben and The Witch. Anzi, è
facile invidiare il loro low profile, la loro dedizione autentica verso la musica, fuori (quasi)
completamente dalle logiche commerciali ad
essa legate. Non si spiegherebbero altrimenti
le scelte che, dal 2008 ad oggi, hanno portato
la band sotto le luci della ribalta di un nuovo
sound "goth but not goth", passando per il contratto con Matador e la (consequenziale?) approvazione unanime della stampa britannica (e
internazionale), per poi tornare alle origini. A
New Nature, infatti, terzo LP della band, pare
sia frutto del desiderio di ritornare al periodo
post-universitario, quando, dalla stanzetta sul
mare di Brighton, i tre si esercitavano a fare
rumore sugli strumenti.
È inutile sottolineare che si tratta di una esagerazione, dal momento che, sebbene i Nostri
abbiano scelto coraggiosamente di tirarsi fuori
dall'etichetta e mettersi in proprio, dietro i mixer di questo nuovo lavoro ci sta un certo Steve
Albini, che tutto è tranne che un amante delle
camerette. A New Nature, ad ogni modo, è
effettivamente una piccola svolta per la band, e
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Esben and The Witch - A New Nature
(Nostromo Records,2014)
non solo perché, almeno qui in Italia, è arrivato
in sordina, quasi dimenticato dagli uffici stampa e dalle promozioni. Il lavoro, a dir la verità,
rappresenta il disco con il quale gli EATW
seppelliscono definitivamente le ambizioni
shoegaze, gloom, ampollose, per abbracciare,
una volta per tutte, un post-rock ruvido, ispido, crudo, che torna a chiamare in causa God
Speed You! Black Emperor, HEALTH, Slint e
persino la filosofia musicale di XX, Zola Jesus,
Deer Hunter e Fiery Furnaces.
Non è casuale, dunque, l'affiliazione al genio di
Albini, che affina e sporca il disco di rimbalzi
alla Shellac, di code rumoristiche impetuose,
di enormi muri di chitarra, di ritmi tribali, ma,
soprattutto, di equilibrio e ordine, che in dischi
come questi, fanno molta differenza. Hanno
coraggio, da parte loro, gli EATW: la nuova
natura a cui fa riferimento il titolo è probabilmente una natura post-pandemica, a-ritmica,
disarmonica e sofferta. Lo si nota già da Press
Heavenwards!, con i suoi dieci minuti di crescendo e il suo paesaggio suburbano morente;
lo si intuisce in Dig Your Fingers In It, che, con
una cattiveria quasi sexy, ricorda le londinesi
Savages (che devono molto agli EATW); lo si
sottolinea nella monolitica No Dog, che, fra
riverberi e ritmi ossessivi, quasi ricorda i Sonic
Youth dei tempi migliori. The Jungle, poi, è il
cuore del disco: un mostro a tre teste e altrettanti movimenti di minuti 14 e secondi 33, in
cui si narra la storia di una donna persa in una
giungla che vuole intrappolarla e infine mangiarla. La voce della Davies si sublima in questo
brano di ambizione e magniloquenza: il suo
lamento imperfetto riflette il ritmo tribale della
giungla, pronto a cannibalizzare l'esperienza
claustrofobica della percezione, fra gorgoglii,
urla, mugugni e un assolo di tromba dalle più
recondite profondità. Gli otto minuti di Blood
Teachings, primo singolo estratto dal disco,
ricordano, come d'altronde suggerisce l'intero
103
Genere: cantautori, rock, blues
Un esordio discografico del 2010 (Piume), un libro di poesie nel 2011 (Il
museo dello sbaglio) e uno nel 2014 (Madonna delle cicatrici), e un'amore sconsiderato per Bob Dylan e il blues. Questo per quanto riguarda
la cronaca; il resto è un Petali a firma Gian Luca Mondo che dallo Zimmerman riprende la logorrea tagliente e dalla musica del Diavolo l'oscuro
esistenzialismo, il mito prepotente del perdente, quest'ultimo trasposto
in una dimensione interiore che vive di provincia, amori strazianti e fallimenti.
Davvero impressionante lo scolpire continuo e spietato di una prosa che sa di narrativa e poesia,
più che di versi e refrain, che vive di immagini potenti in punta di rima («Sono più di 60 anni /
Che non si mette mano al fucile / Ci sono i fili con i panni / Sopra ai fiori nelle aiuole / Si sente
odore di cibo buono / E non si sente più vergogna / A pensare quando intorno / Si sentiva odore di
carogna») e che nasconde sotto la coperta bucata di una spoken word apparentemente grezza un
mood viscoso e densissimo. Troppo per racchiuderlo in musiche preconfezionate, e infatti il suono
pulsa di indeterminatezza e di sudore esattamente come le parole: feedback che si rincorrono,
qualche mitraglia di percussione, una chitarra elettrica che mima il boogie di John Lee Hooker
senza esserne figlia legittima, e dall'altro lato ambienti sonori destrutturati, talvolta sognanti (Lo
sbocciare della Magnolia).
Da brividi la lascivia che nasce dall'accostamento di tromba swing e rigurgiti di chitarra elettrica in Valentina Blues, almeno quanto il Nick Cave più lancinante – in sbornia Nine Inch Nails
– di Rivelazioni, il Leonard Cohen desolato assorbito dalla frontiera messicana di Crapshooter,
il blues tra lo Springsteen di State Trooper, Skip James e gli ultimi Tinariwen (ma anche un
Vinicio Capossela) di Il punto del cinghiale, le cadenze quasi industriali della title track. Ma è
tutto il disco a funzionare, a divorarti boccone dopo boccone senza guardarti nemmeno in faccia,
impegnato come è a scorticare murder songs ipotetiche e parole troppo pesanti per sciogliersi al
sole. Detto tra noi, questo menefreghismo da mine vaganti, questa anomia da bluesman del nuovo
millennio, è uno dei pregi maggiori di dodici tracce che sanno, in primis, d'esistenza vissuta. Non
fatevele scappare
7.3/10
Fabrizio Zampighi
album, le (anti)melodie vocali di Pj Harvey,
con un tocco di malinconica e straziante sofferenza.
Malgrado non tutte le scelte degli EATW del
2014 siano comprensibili e giustificabili (un po'
ci manca quel sound ricercato, ingenuo e fatato
104
degli esordi), ci sentiamo di premiare il coraggio e l'abilità di una band sempre interessante,
sempre concentrata sugli strumenti a disposizione, sempre sull'osso, affamata. Non sarà più
il gruppo della nuova onda, della nuova sperimentazione, ma è meglio prendersi qualche
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Gian Luca Mondo - Petali (Contro Records,2014)
rischio, che non rischiare mai.
7.1/10
Nino Ciglio
Genere: pop, cantautori
Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè si
conosco da una vita, almeno da quegli anni Novanta che li ha visti sbocciare nel praticello pop
stretto tra le fioriere sanremesi e le siepi fitte
del cantautorato (di scuola romana, of course).
Le rispettive carriere li hanno visti baciati da
riscontri alterni tanto quanto gli altalenanti
esiti artistici. Forse tra i tre la targa del meno
banale tocca all'allampanato Max, estro notevole al basso e un debutto coraggioso (Contro
un'onda del mare, 1996) seguito da lavori via
via – ahinoi – più addomesticati. Intendiamoci,
non manca loro la capacità di sfornare canzoni accattivanti, benedette da testi ingegnosi e
spesso supportati da un autentico trasporto,
ma – come dire? – sembrano accoccolarsi nello
spazio angusto di una scena nazionale all'interno della quale riescono a ritagliarsi una certa
rilevanza.
Lo fanno senza il minimo accenno ad uno
scarto che vada oltre la linea di galleggiamento
standard, preferendo continuare a riflettersi in
un pop cantautorale che ha l'indubbio vantaggio di lasciare le cose nel posto esatto in cui le
ha trovate. L'equivalente, se volete, di un Fabio
Volo per le sorti della letteratura nostrana (spero che il paragone non suoni offensivo). Non
dubitiamo che l'idea di unire le forze oggi sia
dovuto ad obiettivi eminentemente artistici, di
certo è una trovata di tutto rispetto in un'epoca
che necessita soprattutto di dare all'utente uno
straccio di motivo per comprare uno straccio di
disco. Detto ciò, stupisce che se ne sia parlato
come di una specie di supergruppo alla CSN,
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Fabi Silvestri Gazzè - Il Padrone
Della Festa (Sony Music
Entertainment,2014)
entità provvidenziale capace di restituire lustro
ad una scena in disarmo.
In fondo in questo Il padrone della festa non
accade nulla di particolarmente rilevante:
parliamo di ballatine elettroacustiche (Alzo
le mani), ebbrezze bossa (Canzone di Anna),
fregole mariachi (Spigolo tondo) ed evanescenze 80s (Come mi pare) senz'altra ambizione
che ben figurare nelle più gettonate playlist
nazionalpopolari, magari puntando ora all'aura
mediocritas à la Ron (L'amore non esiste, la title track) e ora alla teatralità imbizzarrita degli
Avion Travel (Arsenico). Tutto si svolge nel
solco dell'orecchiabile levigato con carinerie
d'arrangiamento e qualche bel colpo d'ingegno
sul versante dei testi, quel che basta a conferire
lo status di "intelligente". Neppure servono a
risollevare le sorti la trepidazione wave di Life
Is Sweet (come un Riccardo Sinigallia sbrigativo) e il lirismo resinoso di Giovanni sulla
terra con le sue luci eniane e l'enfasi narrativa
tra Dalla e Fossati, i due momenti migliori del
programma. L'impressione, insomma, è che il
totale in questo caso non superi la somma delle
parti. Anzi.
5.5/10
Stefano Solventi
Fast Animals And Slow Kids - Alaska
(Woodworm,2014)
Genere: pop, rock
Reduci da un incredibile sfilza di successi, i
Fast Animals And Slow Kids da Perugia si
sono imposti su larga scala attraverso sentieri
piuttosto tipici a queste latitudini. Se possiamo catalogare il loro genere nelle infinite
declinazioni del (l'emo) core, possiamo anche
facilmente immaginare come, con l'indole
incendiaria, i riff massicci e le gole spezzate, i
quattro della band umbra facciano facile presa
sui loro coetanei (venticinquenni?). Malgrado
le premesse possano far pensare al profilo di
105
o t t o b r e
106
biglietto) dallo spazio-catarsi-concerto.
L'Ouverture, dunque, con un condito arrangiamento di archi e melodie malinconiche che
quasi richiamano alla memoria To Wish Impossible Things dei Cure, crea lo spaesamento
essenziale per il prosieguo ruggente del disco e
ne rappresenta, a tutti gli effetti, l'episodio più
interessante. Con Il Mare davanti è già strapotere del testo che, se regge nelle descrizioni
iniziali, si perde nel finale con «A me che sono
un represso» e «Non c'è più speranza» gridato a tutta gola, sotto un tappeto orchestrale. E
torna ancora la riflessione sociale nel singolo
Come reagire al presente, vero esempio di brano emopop di massima orecchiabilità, che non
sfigurerebbe nei migliori talent show. E ancora:
le suggestioni chitarristiche alla Federico Poggipollini di Te lo prometto, i siparietti di calma,
in cui emerge un Brunori in nuce, un Dente
mancato, un Dimartino incazzato, le filastrocche armoniche e al solito costruite a climax di
Odio Suonare, lo squilibrio e l'asimmetria della
tranquilla Il vincente.
Al di là delle caratteristiche vocali del leader,
che possono essere apprezzate o indigeste nel
loro essere così teatrali, sempre in bilico fra
ubriachezza, stonatura e instabilità, l'impatto
globale di Alaska non è dei più positivi, perché
nell'orchestrazione dei brani troppo spesso si
finisce col risultare monotoni e ripetitivi: le geometrie, infatti, sono quasi sempre fondate su
un sali-scendi-sali che, se funziona in episodi
come Gran Final, è quasi sempre troppo scontato per essere apprezzato in pieno.
Con i FASK non siamo davanti a un fuoco
fatuo, ma ad un fenomeno della musica di casa
nostra che, ancora una volta, merita lo spazio
per potersi esprimere pur rischiando spesso di
trovarsi fuori posto.
5.9/10
Nino Ciglio
r e c e n s i o n i
una band estremamente generazionale, grazie
anche all'impatto dei moltissimi concerti per i
palchi di tutta Italia, Hybris, il secondo album,
aveva mostrato di che stoffa i FASK fossero
fatti. Non solo disordine e voglia di asserragliare tutto, ma anche un affiatamento reale verso
le modalità tipiche dell'hardcore, edulcorate da
un gusto autentico nei confronti del cantautorato ruggente.
L'attesa per Alaska, dunque, è cresciuta in
maniera esponenziale e, date le premesse,
l'album avrebbe potuto seguire due direzioni.
Considerato il debito evidente della band nei
confronti di Raein, La Quiete e, soprattutto
Fine Before You Came, si poteva pensare di
accentuare le caratteristiche incendiarie del
sound e spingere il cantato al di sotto dei muri
chitarristici e percussivi. D'altra parte, sarebbe
stato comunque sensato riportare alla luce le
suggestioni punk-rock "con chitarra acustica"
già sdoganate, ad esempio, dagli Zen Circus: la
voce che evoca disagi più o meno sociali o, in
questo caso, adolescenziali, che diventa il vero
fulcro dei brani. Complice anche la personalità
straripante di Aimone Romizi, alla fine Alaska,
pur tenendo ben alto il muro del suono (e, anzi,
trasfigurando gli arrangiamenti di archi o fiati,
ben innestati in Hybris), segue purtroppo la
seconda strada, quella del chitarrismo rampante, del cantautorato travestito da bestemmia.
Si vuole dire che dietro una copertura (a dire il
vero ben riuscita) di brani prepotenti, schizzati
e irrefrenabili, si cela una forma-canzone che
si appoggia su stilemi già noti, ovvero quelli
del "fancazzismo" de Lo Stato sociale, della
sempiterna adolescenza dei Ministri, dell'urlo fine a se stesso de Il Pan del diavolo. C'è
tanto, forse troppo patetismo nelle corde vocali
spezzate di Romizi, che rischia di scivolare nel
nichilismo autoreferenziale o, semmai, nell'esperienza fine a se stessa che dura solo nell'ambito delimitato (da chi effettivamente paga il
Genere: elettroacustica, fieldrecordings, noise
Lanciata sul mercato nel 1963 dalla Philips, la
compact cassette si è dimostrata mezzo rivoluzionario nello stravolgere le modalità di
fruizione della musica (in particolare dopo
l'introduzione, dal 1979, del Sony Walkman) e
nel rendere accessibile la registrazione, consentendo facilmente sia la duplicazione di fonti
preesistenti (trasmissioni radio o album, per la
preoccupazione delle major – home taping is
killing music!), che la diffusione sottocoperta
di produzioni indipendenti. Pur tecnologicamente surclassata dall'avvento del CD prima e
dell'MP3 poi, la musicassetta vive ancora oggi,
nell'epoca dello streaming e dei cloud, in Africa, nelle auto Euro 1 e in ristretti circuiti retromaniaci (oltre che come segno grafico di moda
per t-shirt e smartphone cover).
Ed è proprio l' audiocassetta il soggetto di
Chromdioxidgedächtnis ("memoria al biossido di cromo", ovvero la cassetta tipo II – CrO2),
lavoro sperimentale, astratto e personale di
Felix Kubin. Come indicato nel pregevole booklet (compreso nel boxset insieme ad un CD e,
più che coerentemente, ad una cassetta C-60),
indispensabile strumento per decodificare il
progetto, l'opera tratta direttamente "delle caratteristiche della registrazione magnetica – le
sue vacillazioni meccaniche, le sue saturazioni,
distorsioni e interferenze". Più che ai suoni
e ai rumori, l'attenzione è quindi rivolta alle
imperfezioni e alle inadeguatezze del processo
di tape recording, senza peraltro portare questi
ragionamenti alle estreme conseguenze, come
era invece successo nel caso degli esperimenti di Alvin Lucier (I Am Sitting In A Room,
1969). Chromdioxidgedächtnis prende le
mosse dall'omonima composizione "per strumenti elettronici, registratore a cassette, pianoforte e percussioni" commissionata a Kubin
dal Consiglio Tedesco della Musica (presentata
ad Amburgo nel maggio 2013, in trio con Ninon
Gloger e Steve Heather), a cui vengono affiancati suoni e memorie di suoni, carpiti dalla
radio o dalla segreteria telefonica, o recuperati
dall'archivio giovanile dell'artista tedesco, field
recording o prototracce elettroniche. In questa attività di archeologia privata trova posto
anche un'intervista a Wim Langenhoff, dipendente Philips coinvolto nello sviluppo tecnico
dell'audiocassetta e membro del collettivo
olandese Electric Chamber Music Ensemble,
alcuni brani del quale vengono qui utilizzati
come collante e colore.
Lasciando temporaneamente da parte l'atteggiamento divertito e l'ironia quasi zappiana che
contraddistingue le sue pubblicazioni "dada
pop" (delle quali Zemsta Plutona, uscito a
fine 2013, rappresenta ottimo esempio), Kubin
firma un progetto tanto stimolante a livello di
dichiarazione di intenti quanto, tutto sommato,
poco interessante e solipsistico all'atto dell'ascolto, ottenendo lo stesso effetto che si ha
quando si raccontano ad altri i propri sogni.
6/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Felix Kubin - Chromdioxidgedächtnis
(Gagarin Records,2014)
Alessandro Pogliani
Flying Lotus - You're Dead! (Warp
Records,2014)
Genere: prog, elettronica
You're Dead!, 38 minuti organizzati in un
unico flusso, un film per le orecchie scandito
dai disegni di Shintaro Kago, prosegue coerentemente il discorso inaugurato da Flying
Lotus con Cosmogramma, chiarendo definitivamente quale sia la sua idea di musica.
Non si tratta tanto di una possibile elettronica
suonata, quanto proprio di un nuovo jazz, anzi
di una pan-fusion la cui anima sono un basso nodoso, un piatto ride ora picchiettato ora
sfrigolante, tante linee di tastiera elettrica, tanti
vocalizzi vaporosi. Il suono di Steven, in pieno
107
Genere: indie, avant
Di Helado Negro aspettavamo un disco maturo, dopo che si era divertito
a fare la figura dell'emarginato del glo-fi e aveva professato qualche indecisione di troppo, sfociata in una miriade di progetti con qualche promettente sprazzo di genialità pop. Al quarto disco Roberto Lange raggiunge
l'agognata "ripeness", viaggiando sulle coordinate che hanno reso interessante il suo timbro: tropicalismo, synth misurati, cantato mezzo ispanico
mezzo inglese e lacrimucce nostalgiche.
I Krill You ha gli inserti orchestrali/coreutici che già usati nella serie degli EP Island Universe
Story (in particolare nel Vol. 2 con la collaborazione con il compositore Trey Pollard), in Myself
On 2 U c'è il featuring dell'amico di Atlanta Adron, che aggiunge un tocco di soul alle ritmiche
sudamericane, in Friendly Arguments si fa maturo anche l'uso della voce, che assomiglia sempre
di più a quella del frontman dei National. Triangulate è poi uno strano ibrido fra il dark di certo
Tricky e la dolcezza dei synth anni 80. Per finire That Shit Makes Me Sad mescola Brian Ferry
e Phil Collins. L'uomo raccoglie a piene mani l'eredità del pop elettrificato di Beck di Midnite
Vultures e la riattualizza con qualche citazione Animal Collective, filtri sepia da Instagram e il
ricordo di quello che ci aveva insegnato Washed Out nei suoi EP d'esordio. Una sensibilità che
trascende dalle mode e crea un ottimo compromesso fra synth pop e cantautorato indie.
Lange è come se fosse una specie di Julio Iglesias raffreddato con i synth squadrati dei Tarwater
(Queriendo): un ibrido che non c'era, e che non fa sorridere, anzi. L'uomo è serissimo negli intenti e ha una sensibilità che mette i delay al posto giusto, ci aggiunge qualche tastierina e qualche
beat chiudendo il cerchio senza sbavature. Fa tutto a casa Roberto, e dalla finestra del suo studio
di Brooklyn ci immaginiamo di vedere passare Hannah Horvath di Girls o la frangetta di qualche
studentessa ricca che è andata a studiare a New York dai Parioli. Un disco che fa moda non perché
è di moda, ma perché vale.
7.4/10
Marco Braggion
trip post-Bitches Brew, è sfarzoso, ma lontano
dal massimalismo wonky che ha contato negli
ultimi anni, è puro afrofuturismo da salotto,
lontano anche dalle baldorie e dai bagordi dei
figli di Sun Ra (o dalla carnale spiritualità,
dalla umana trascendenza dello zio Coltrane),
incorporato com'è in una pasta timbrica suadente e impeccabile, elegante, controllatissima,
che da Until the Quiet Comes è programmaticamente manierista.
108
Escludendo la manciata di pezzi rappati e sotto
l'influsso del doppio Captain Murphy (quello
con Kendrick Lamar, quello con Snoop Dogg,
The Boys Who Died in Their Sleep), tutti ottimi, ma assai meno selvaggi di quanto pensabile
dopo lo splendido guazzabuglio psichedelico
che era stato Duality (di cui si attende il seguito entro l'anno, speriamo finalmente con
dentro Lil Wayne), il disco è uno showcase di
goloserie da produttore, da audiofili col mi-
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Helado Negro - Double Youth (Asthmatic Kitty Records,2014)
Gabriele Marino
r e c e n s i o n i
Francobeat - Radici (Brutture
Moderne,2014)
Genere: pop, cantautori
«C'era una volta un matto. E questo è un fatto».
Comincia così il nuovo disco di Francobeat,
Radici, con una dichiarazione – e un brano, il
"manifesto dei diversi" Belluno – che riassume in una decina di parole il concept alla base
del lavoro. Sì perché i "matti" Franco Naddei è
andato a cercarli sul serio, collaborando con gli
ospiti della residenza per disabili mentali "Le
Radici" di San Savino (Riccione) per i testi di
tutti i brani del disco. Del resto l'arte più originale nasce da sempre dal disordine, mentale o
esistenziale che sia, e anche questo è un fatto;
nel caso specifico, inoltre, il raccontare storie
– tra cui la propria – attraverso il dialogo o la
scrittura (realistica o fantastica) diventa per i
pazienti del centro una vera e propria terapia
(«caro amico Franco, ti offriamo un vin santo,
se ci aiuti a trasformare in canzoncelle, tutte
queste note belle»), come spiega nel booklet
anche la psicoterapeuta Patrizia Cavalli.
Ovviamente torna alla mente il caso emblematico di Daniel Johnston – al cui stile potremmo
accostare, al massimo, il pianoforte "affogato"
della poetica Io ero bellissima – ma solo per
certe assonanze tematiche e di contesto. Per
il resto Naddei lavora di testa propria, bravissimo a posizionare il tutto su un terreno fatto
di rime baciate filastrocchesche in stile Gianni
Rodari (qualche richiamo al recente progetto
discografico/editoriale Mondo Fantastico) e
costruzioni musicali variegate che seguono le
metriche un po' scardinate dei testi. Ecco allora
un'iniziale Belluno che cita certi deragliamenti
del Barrett solista, una Le mie meraviglie che
finisce dalle parti di un ambient da Minimoog e
affini, il rock-wave intestinale di Verde/Secco, i
King Of Convenience suggeriti dalla chitarra
acustica di Camminare e di Pillole, la ballad
"timida" de Il principe e la donzella, il tex mex
o t t o b r e
croscopio, immerse in atmosfere ora più dense
(l'esoterica Descent into Madness, Ready Err
Not) ora più elegiache (l'ascensionale Siren
Song, Obligatory Cadence) che restituiscono
tutta la pulizia dei Settanta con tutta la tecnologia dei Duemila, sfruttando l'expertise di vari
turnisti jazz (e di Herbie Hancock) orchestrati
dal solito Miguel Atwood Ferguson. Non si
scappa, tanto nelle strutture, che nei suoni, che
nella strategia con cui entrambe le cose sono
impiattate: per dire, i primi quattro pezzi non
sono che una lunga intro a Never Catch Me (e
Cold Dead è una scheggia di math rock suonato dagli Area di Maledetti) e Coronus, The
Terminator è un apocrifo di Madlib – ripulito
– per Erykah Badu.
Detta così dovremmo spellarci le mani. Il fatto
è che accecati dal nome, dalle attese, dai discorsi di contorno, dalla lucentezza dei suoni
il rischio che si corre è di non vedere questo
disco per quello che è: un lussuoso EP, un'alternanza di intro, intermezzi, code e sprazzi di
grande musica confezionati da un produttore
bravissimo e con mezzi potenti che è diventato maturo nel senso dell'AOR. Dopo il funk di
1983, il blues di Los Angeles, il prog di Cosmogramma e il trip hop di Until the Quiet
Comes era questo l'esito più probabile e questo
è stato. Ma Steven deve osare di più, andare sul
serio in quell'oltre di cui parla. Sono splendidi
suoni e faranno scoprire e riscoprire i Soft Machine di Third and dintorni, la "musica totale",
tutto quello che è successo dopo il Miles Davis
elettrico, forse anche il Kraut. Ma questa fusion
afrofuturista ancora non (ci fa) esplode(re la testa): come immagini a corredo, invece di Shintaro, sarebbe stata più azzeccata una raccolta di
screen saver con foto di nebulose in HD. Resta
un disco importante per capire dove può puntare la musica che viene dai beats.
7/10
109
o t t o b r e
Fabrizio Zampighi
Hammerhead - Global Depression
(Learning Curve,2014)
Genere: rock, noise
Se avete più di 30 anni e vi siete sempre trovati bene a trafficare con reietti, depravati,
drogati, drop-out e gentaglia simile, allora non
avete scuse per non gioire. Gli Hammerhead
sono tornati e con loro riaffiora l'epoca d'oro
dell'AmRep, quella più sporca e maledetta,
disturbante e fuori fase, alla quale Jeff Mooridian Jr. (batteria, aka Isolation DH-9), Paul
Erickson (basso, aka Apollo Liftoff ) e Paul
Sanders (chitarra, aka Interloper) apportarono il giusto grado di follia – eleggere il Travis
Bickle di Taxi Driver a guida spirituale è garanzia di qualità – e qualche lieve variazione
del canone (vedi alla voce "infatuazione per
l'immaginario sci-fi"). Tre dischi lunghi e una
110
manciata di pezzi minori prima del classico disbanding – risolto dopo uno iato decennale con
un paio di live-reunion (la prima in occasione
del 25ennale dell'AmRep) e un 12" single sided
pubblicato proprio per l'occasione dall'etichetta di Tom Hazelmyer – avevano toccato i cuori
dei più rudi noise-rockers del tempo, facendo
del terzetto di Minneapolis (originario in realtà
della Coeniana, Fargo) una sorta di culto sotterraneo.
Ora con questo Global Depression i Nostri
riprendono il discorso proprio dove lo avevano interrotto quasi 20 anni fa: giri circolari di
basso distorto tanto groovey quanto disperati
(Like A Wizard), solito drumming secco e in
perenne midtempo pure nel suo essere eclettico, chitarre taglienti come accette e corrosive
come nella miglior tradizioni noisey e un cantato spesso distorto e disumanizzato (Another
Room) che è a dir poco destabilizzante. Tutto
sparato in faccia senza fronzoli né troppi giri
di parole – qualche appena accennata concessione alla melodia e qualche sperimentazione
weird-sci-fi (Descended From Apes) – in un
mini da poco più di 15 minuti in cui depravazione e ossessioni annullano lo iato pluriennale
e ci offrono gli Hammerhead al loro massimo
splendore.
7/10
Stefano Pifferi
Hozier - Hozier (Island,2014)
Genere: pop, soul, blues
La lunga corsa verso il successo dell'irlandese
Hozier (Andrew Hozier-Byrne all'anagrafe)
passa inevitabilmente dall'omonimo album d'esordio, contemporaneamente un punto d'arrivo
e un punto di partenza.
Punto d'arrivo se parliamo della gavetta che ha
regalato al ventiquattrenne di Bray parecchie
– e probabilmente inaspettate – soddisfazioni:
dal successo ottenuto settimana dopo setti-
r e c e n s i o n i
di Carmencita o la canzone d'autore quasi tenchiana di Io ero bellissima (infiltrata con una
psichedelia sognante un po' à la Flaming Lips
nella conclusiva Che cambino le cose).
Colpisce l'ingenuità semplice di alcuni passaggi, ma anche l'estrema serietà di parole cantate
con apparente leggerezza pop («pillole magiche, pillole di chi è fragile, di chi non ha una
vita facile») e l'umanità di certi temi (la bellezza sfiorita, l'amore, il sesso, il corpo, la solitudine) così vicini a ognuno di noi. Al disco partecipa (in varie misure) un parterre di musicisti
aggiunti che comprende Sacri Cuori, John De
Leo, Santo Barbaro, Moro, Giuseppe Righini, Giacomo Toni. Anche questo dà il metro di
quanto Radici si elevi dai confini fin troppo ristretti di un mercato discografico nostrano che
raramente ha il coraggio di mettersi veramente
in gioco, per farsi opera a sé stante e in qualche
maniera "sociale". «Il manicomio diventa una
barzelletta. E tutti parlano a strofetta»
7.2/10
r e c e n s i o n i
volte per cadere in manierismi da classifica
amplificati da arrangiamenti a grana grossa e
dalla produzione di Rob Kirwan. È il caso di
Sedated con il suo ritornello da boy band, di Jackie and Wilson, tributo a Jackie Wilson ("we'll
name our children Jackie and Wilson, raise
em on rhythm and blues") e dell'easy-listening
Someone New dove si palesano sfumature non
troppo distanti dal territorio Counting Crows.
E' lapalissiano che in un prodotto di questo
tipo ci si aspettino concessioni al radiofonico ma la vera forza di Hozier si palesa negli
spunti chitarristici (To Be Alone – peraltro
meglio qui che su disco – e la slide-guitar di
It Will Come Back) e nei brani più intensi e
meno orecchiabili, come nel folk-gospel di
Like Real People Do (già presente in Take Me
To Church EP). L'altro passaggio in fingerpicking acustico – In a Week, in duetto con la
conterranea Karen Cowley – alterna momenti
di magia ad altri decisamente stucchevoli.
Negli oltre cinquanta minuti di Hozier, l'irlandese mostra una grande abilità nell'unire
atmosfere d'antan ad aperture più moderne
ma, con un pelo di rammarico, gli highlights in
formato pop continuano ad essere le titletrack
dei rispettivi EP pre-album.
6.5/10
Riccardo Zagaglia
IO e la TIGRE - IO e la TIGRE EP
(Autoprodotto,2014)
Genere: cantautori, rock
Chissà se il 2014 verrà davvero ricordato come
l'anno della riscoperta degli anni '90. Le IO e
la TIGRE provano a dare la loro versione dei
fatti confezionando un EP di chitarre elettriche grasse, compresse e ruggenti (Sottovuoto)
come si facevano una volta, in un guscio di
batteria minimale e voce rabbiosa non troppo
interessata alla forma. Sorta di L7 giocattolo,
la formazione felsineo-cesenate (un duo à la
111
o t t o b r e
mana dal suo singolo Take Me To Church, alle
apparizioni televisive (a maggio è stato ospite
da Letterman e da Ellen DeGeneres), passando
per la conferma discografica del secondo EP
From Eden.
Punto di partenza se guardiamo invece nella
direzione di una consacrazione probabile ma
non necessariamente scontata. Effettivamente le cifre che stanno totalizzando George
Ezra con Wanted On Voyage, Vance Joy con
Dream Your Life Away e soprattutto Sam
Smith con In the Lonely Hour parlano chiaro
e assumono la connotazione di una controprova del fatto che il grande pubblico è portato ad
acquistare certi dischi anche dopo un anno di
bombardamento mediatico: Budapest, Riptide
o Take Me To Church (tutte e tre incluse nella
nostra compilation Tracks from EPs 2013) avevano già stancato i più ad inizio 2014, eppure i
loro autori non sembrano assolutamente voler
rallentare il proprio percorso.
Rispetto ai tre newcomers citati in precedenza,
Hozier ha tenuto un profilo più basso, continuando a mostrare un'attitudine da musicista
poco interessato a quello che si muove attorno
alla sua figura pubblica. Tra venature soul, pop,
folk e sprazzi di rock è la componente blues a
farsi largo con più forza, figlia di una passione che Andrew si porta dietro fin da piccolo,
quando il padre – un bluesman di Dublino – lo
sottoponeva all'ascolto di John Lee Hooker
e Muddy Waters. Il vecchio blues, capace di
contagiare anche gli ultimi Arctic Monkeys e
Alt-J (la black-keysiana Left Hand Free), torna
quindi ad essere un punto di riferimento per la
musica inglese.
Hozier – l'album – è però un lavoro riuscito
solo per metà: tra le – forse eccessive – tredici
tracce (diciassette nella versione deluxe) non
mancano i passaggi a vuoto ed in generale si ha
l'impressione che il Nostro non abbia espresso
tutto il potenziale di cui dispone, finendo più
Genere: punk, indie
L'ultima pinta offertaci da Jamie Alexander Treays, aka Jamie T, risalente ad oltre cinque anni fa, ci aveva mandati a casa appagati. Kings and
Queens era riuscito a confermare una volta per tutte il valore dell'artista
che ci trovavamo di fronte. Un ventitrenne capace di fondere nelle sue
opere l'anima del punk e del folk britannico anni Ottanta, l'indie da dancefloor e i beats hip-hop di nuova generazione. Jamie T era allora all'apice dell'hype creatogli da una stampa, quella britannica (vedi NME),
sempre alla ricerca di prede con cui nutrirsi, ma il ragazzo dimostrava di sapere con chi aveva a
che fare dichiarando, con la solita lingua tagliente, "one minute you're the next big thing and the
next you're shit". Forse è per questo che per oltre cinque anni si è rinchiuso in un silenzio che aveva finito addirittura per allarmare la sua fanbase, tanto da arrivare a creare una pagina facebook
dal nome "Where is Jamie T?".
Jamie, dal canto suo, faceva sapere di non essersi mai mosso da quel decadente pub di provincia e
di aver continuato a macinare testi e canzoni, oltre cento, dodici delle quali ritroviamo in questo
Carry on the Grudge.
L'atmosfera che si respira entrando nel nuovo mondo disegnato da Jamie T pare tuttavia essere cambiata. Jamie appare ora più quieto, riflessivo e adulto. Il trittico iniziale segnato da Limits
Lie, il singolo Don't You Find e la piovosa Turn On the Light sono le specchio di un ragazzo che
sembra aver messo da parte la voglia di fare baldoria per entrare in quella che può essere definita
l'età delle responsabilità. Quella fase della vita che è racchiusa in Zombie, in cui Treays recupera
l'andatura spassosa di un tempo, ma rivestendola di malinconia e rabbia per una storia d'amore
andata a male. Lo stesso vuoto dell'età adulta che aleggia in gran parte del disco e che ritroviamo
nella dolce Love Is Only A Heartbeat Away (ballata in cui a una chitarra arpeggiata fa da contraltare una vellutata composizione di violini), nella raffinata Murder of Crows, nelle strummeriane
The Prophet e Trouble (che a tratti appare una The Magnificent Seven dei giorni nostri) e nelle
più elettriche Rabbit Hole e Peter, che devono molto ai Kasabian dei giorni migliori.
Jamie affida la chiusura di questo terzo capitolo discografico a They Told Me It Rained, punto
d'arrivo del Jamie T artista, e non solo. Piove nella post-adolescenza, ma se questo è il risultato
lasciamo che piova ancora e ancora.
7.5/10
Marco Frattaruolo
White Stripes che non fa musica à la White
Stripes, composto da Barbara Suzzi e Aurora
Ricci) somma all'elettricità una certa melodia,
testi che rimandano alla canzone d'autore più
recente (a tratti viene in mente Maria Anto-
112
nietta) e una slackerness indie-hipster dedita
al buon vecchio binomio grunge "quiete/tempesta" (vedi alla voce: "pedaliere e distorsori").
Nel disco c'è spazio anche per certe analogie
Zen Circus (La mia collezione impossibile),
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Jamie T - Carry on the grudge (Virgin,2014)
ritmiche cadenzate Violent Femmes in chiave
pop (Il lago dei cigliegi) e cover che rivelano
molto del DNA "misto" della band (una Cuore
portata al successo da Rita Pavone), ma soprattutto per una spavalderia e una sensibilità do it yourself che alla fine convince senza
strafare. Le aspettiamo sulla lunga distanza, le
due ragazze, sperando che non si perda quanto
di buono si intuisce in questa autoproduzione
distribuita esclusivamente in digitale.
6.7/10
Fabrizio Zampighi
Genere: elettronica
Avevamo catalogato con la tag hipster house i primi esperimenti su 100% Silk di Daniel
McCormick. Rispetto ai "colleghi" Caribou,
Jaar e simili, il ragazzo di Washington aveva
la vena dello sperimentatore ad ampio raggio:
una feature che l'aveva portato a mescolare nei
suoi pezzi forse troppi elementi, che distraevano la messa a fuoco globale (vedi il precedente
album Hive Mind). In questo nuovo disco,
Ital cerca di concentrarsi di più sul lato "atmosferico" della sua produzione, un cammino
intrapreso già nella collaborazione con Hieroglyphic Being e negli EP immediatamente
precedenti su Workshop e su(lla sua) Lovers
Rock. Risultato: melodie house ed esplorazioni techno che ricordano in qualche modo
Drexciya e Dozzy: uno degli scopi del disco
era infatti, secondo lo stesso Ital, "mantenere
le cose liquide". Il riferimento è alla psichedelia, ai minimalisti, all'ambient e al post-global:
l'album è stato mixato guardacaso a Los Angeles con l'aiuto del multistrumentista M. Geddes
Gengras (giro Not Not Fun, Pocahaunted, Sun
Araw, The Congos) ed è stato masterizzato da
Rashad Becker.
Il risultato suona ovviamente bene, anche se in
Marco Braggion
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Ital - Endgame (Planet Mu
Records,2014)
troppi punti manca l'anima. Grandi piani sonori ben curati (Relaxer), architetture studiate a
puntino (Dancing), ritmiche da club trancey (la
bella Whispers In The Dark, White II), tunnel
e trip mentali in fissa liquida Detroit-Drexciya
(Coagulate, Concussion). Tutto molto meditato, tagliato a puntino, ma in generale si fatica a
sentire l'esplosione, quel quid in più che scalda e fa muovere il cuore. In più non si capisce
bene in che cosa Daniel si differenzi dai suoi
peers. Cosa ha di così innovativo questo suono?
Una trance che non osa mai (come invece fa
quella di Dozzy), una ricerca che non va oltre il
dancefloor/ambient e non spazia su altri mondi (come invece fa quella di James Holden), o
un'intimismo che non fa scaldare i cuori (vedi
ad esempio alla voce "Blake"). Tutti elementi
che pesano e che rendono il lavoro prescindibile. La prossima volta dì la tua in modo più
riconoscibile. Basta crederci.
5.9/10
JAWS - Be Slowly (Rattlepop,2014)
Genere: pop, rock, indie
Sarebbe errato non includere i JAWS in quella lunghissima lista di gruppetti inglesi che
finiscono per cadere nel dimenticatoio dopo
pochi mesi, ma altrettanto errato sarebbe non
riconoscere alla band la capacità – condivisa
con parecchi colleghi indirettamente citati in
precedenza – di realizzare una manciata di brani vincenti, dal target preciso e perfettamente
adatti ad ascolti disimpegnati.
"Per cadere nel dimenticatoio sarebbe però
necessario essere passati, almeno per qualche tempo, per la notorierà", direte voi, e non
avreste tutti i torti, dato che fuori dal ristretto
circolo di appassionati i JAWS sono pressoché
sconosciuti: appartenenti alla scena B-City
(Birmingham) con i compari Peace e Swim
Deep (altre due hyped-band a posteriori piut-
113
Genere: rock
Sembrano un po' quegli scherzi del destino… Un artista-simbolo come
Johnny Marr, all'asciutto (in quanto a progetti in proprio) per ben 25
anni, pubblica due dischi, uno dietro l'altro in meno di 20 mesi. Qualcosa
nella sua vena da duro, con un elevatissimo livello di timidezza nel sangue, dev'essere cambiato. The Messenger segnava non solo il ritorno
solista del Godlike Genius di Manchester, dopo collaborazioni di vario
tipo, alcune vagamente riuscite (Electronic, The The, Modest Mouse),
altre meno (The Cribs, The Healers). The Messenger segnava il ritorno della chitarra smithisana per antonomasia, adagiata, all'occorrenza su tappeti futuribili di un classico brit rock, alle volte
dichiaratamente derivativo, altre volte ben focalizzato sulla prospettiva post-urbana del Nuovo
Mondo, da cui il Nostro arrivava a inizio 2013. The Messenger era l'album del ritorno e, sebbene
fosse una raccolta di canzoni non perfette e magari poco catchy, funzionava per il suo stesso bilanciare la componente sperimentale alla chitarra che ha scritto la storia del pop-rock.
Concepito proprio durante il tour di promozione del disco precedente, Playland ne è chiaramente
l'ideale continuazione tematica e concettuale. Le undici tracce appaiono l'altra faccia della medaglia di quelle di The Messenger. Con poche ma significative differenze. Mentre nel disco del
2013, infatti, regnava sovrana un'atmosfera stagnante, estremamente metropolitana, dai colori
contrastanti come quelli della sua copertina, Playland ha un altro scenario e nuovi obiettivi: quelli
di filtrare e bilanciare in controluce la nuova vita della capitale britannica, con la quale Marr pare
sia tornato in buoni rapporti e, anzi, abbia voglia di raccontarne i pregi e i difetti, dal consumismo,
al sesso, all'ansia e l'ideale trascendenza da esse. Trascendenza, appunto, che trasforma il grigio
smog di Londra nel regno dei giochi, visti come condizione esistenziale non solo dell'uomo ma degli animali tutti: Playland, che altro non è se non l'adattamento dell'opera Homo Ludens di Joan
Huzinga, è appunto l'andare alla caccia di se stessi nella pre-cultura. Alla faccia di quell'acculturato dell'ex-partner col ciuffo.
Ma Playland e The Messenger sono diversi ancora per un altro motivo. Playland è un disco più
immediato, estremamente più accattivante e molto più ruffiano del predecessore. Più della metà
delle tracce sono potenziali singoli da classifica, con melodie se vogliamo molto "facili" e un uso
chitarristico più limato, meno espressivo ma più funzionale al brano. Non è necessariamente un
difetto. Se è vero che questo aspetto, infatti, emergeva qua e là anche in The Messenger (Generate! Generate!, The Crack Up), il primo Lp aveva tutt'altra intenzione, che potremmo appunto
valutare come intensiva, intro-proiettata piuttosto che estensiva, a pronta disponibilità. Par quasi
che Marr abbia ritrovato la voglia di scrivere belle canzoni pop, con il piglio (chitarristico e non)
che da sempre lo caratterizza.
Non si vada in cerca di un nuovo corso, dunque, o di studi particolari del genere. Playland sembra
quasi la raccolta dei brani che per ragioni di coerenza non sono riusciti ad entrare in The Messenger. Il lavoro di produzione del nuovo disco è palesemente più curato rispetto al primo e anche
Marr (sembra impossibile a dirsi) pare abbia trovato una nuova maturità nello scrivere canzoni.
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r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Johnny Marr - Playland (Warner Music Group,2014)
r e c e n s i o n i
Nino Ciglio
tosto fallimentari), i quattro guidati da Connor
Schofield si sono fatti lentamente strada tra
singoli e due EP, Milkshake EP e Gold EP.
Quest'ultimo contiene l'omonima traccia, probabilmente la meglio confezionata fino ad oggi.
Tra episodi già apprezzati in passato e alcuni
inediti, l'album d'esordio Be Slowly non regala tanto di più di quaranta minuti di giovanile
indie pop dall'hook facile e dal mood scanzonato. Gli ingredienti di base sono i soliti noti: dosi
pesanti di Cure (la titletrack va vicino al plagio,
a livello strumentale, ma pure Sunset State),
una spruzzata di madchester (soprattutto
l'uno-due iniziale), qualche grammo di componenti dreamy, piglio brit e sporadiche distorsioni soniche di scuola alternative '90s. Debilitato
o t t o b r e
Prendiamo la scarica adrenalinica dell'opening Back In The Box, con i synth che fanno irruzione come nei migliori brani dark wave spiccatamente 80s e la voce di Marr impostata e seria, che
quasi ricorda Andrew Eldritch dei Sisters Of Mercy. O ancora: la potenza del singolo Easy Money, che sembra scritto apposta per riempire i dancefloor (siamo nel 2014, non nel 1985!) delle
serate targate brit; i riff di Dynamo, una novella Lost In The Superparket dei Clash, con il ritornello sintonizzato sul canale "melodia disarmante"; Candidate e, soprattutto This Tension, oh This
Tension…: provate a immaginarci la voce dell'Innominato, non sarebbero brani perfetti per il postSmiths? Se la risposta è no, bisogna comunque ammettere che non sentiremo niente di più simile
agli Smiths di questo; 25 Hours summa indie rock, fra echi Kasabian e richiami The Strokes (già,
solo che quella chitarra lì, è Marr che l'ha inventata…); The Trap, in cui torna una delle eredità
più pesanti per il Nostro: quei New Order (sì, ma quelli di Get Ready) che Marr non contento
dei giri di basso e dell'attitudine new wave, sembra voler addirittura imitare nel cantato. Il cantato già, quello che a lungo ha fatto discutere e mai ha pienamente convinto. Qui, come del resto in
The Messenger, c'è un Marr in forma, non certo memorabile, ma che reggerebbe il confronto con
Weller, Noel Gallagher o Richard Hawley.
Playland, in definitiva, è un disco ancora molto giovane per un signore cinquantenne che, se non
vuole saperne di capricci e retoriche socio-politiche moraliste come il suo ex-collega col ciuffo, si
dimostra in sintonia tanto con gli stilemi del genere, quanto con la carriera che, ahinoi troppo tardi, si è voluto imporre. Con i suoi alti e bassi (Boys Get Straight e Little King), Playland è un disco
prezioso e, soprattutto, divertente.
7.3/10
dall'impatto vocale quasi impalpabile di Connor Schofield, Be Slowly, pur sfoggiando un
filo conduttore sensoriale tra il pigro e il narcotico, difetta parecchio a livello di personalità
ed è quindi costretto a rifugiarsi nei singoli
capitoli, in particolare Time, Gold, Be Slowly e
Surround You, arricchita da una preziosa linea
di tastiera. Nel momento in cui escono – lateralmente – da queste coordinate, i Nostri si
perdono in un bicchiere d'acqua (in Think Too
Much, Feel Too Little prendono praticamente
in prestito il riffino funky dai 1975).
A piccole dosi è decisamente piacevole, ma è
difficile trovare ulteriori spunti di riflessione
su un disco che non solo è pericolosamente
derivativo, ma risulta anche incapace di im-
115
Genere: ambient, techno
Lee Gamble è stato uno dei nomi più spesi dall'intellighènzia experimental techno nel 2012. Grazie alle trasfigurazioni ambient di un mixtape
di gioventù (Diversions 1994-1996), a un album sospeso tra computer
music e techno (Dutch Tvashar Plumes) e, in generale, a un'estrazione
musicale in grado di unire, sotto il prestigioso vessillo PAN, i portati generazionali dell'ardkore continuum con le manipolazioni digitali dell'epoca d'oro di Mille Plateaux, Mego e Touch, il producer nato a Birningham è sembrato tanto il perfetto corrispettivo adulto (non intellettuale) di label come la Tri Angle
(o della hipster house tout court), quanto un'ideale matta nel mazzo di produzioni e speculazioni
"death of rave" (Actress e Zomby) e altro ancora (vedi i prodigiosi djset nei programmi radio e le
installazioni con il sodale Dave Gaskarth).
Del resto, se mettersi in mezzo alle correnti, rompere le nicchie anche solo per un motivo di sopravvivenza artistica, è uno dei must degli anni '10, Gamble, che di regole non ha conosciuto che le
proprie, era ed è il personaggio giusto al momento giusto, tanto meglio se la sua libreria di suoni e
campioni può, da sempre, contare su più di quindici anni di produzioni e mixtape musicali passate
sotto i radar e le sue fisse di sempre. Ritrovarlo nel 2014 con un approccio che concede quel tanto
che basta al 4/4 di Detroit e Chicago, asciugando molta della computer music che caratterizzava
alcuni aspetti delle sue produzioni precedenti, rappresenta una nuova quadratura di un percorso
ancora sfuggente, e non facile, ma non di meno affascinante, visionario, totale.
Kuang e Koch, quindi, come Diversions 1994-1996 e Dutch Tvashar Plumes, sono due facce
della stessa medaglia, con il primo sorprendentemente aperto ad ambiguità post-deep jazz (non
lontane da Andy Stott) e il secondo, della durata di 1 ora e 16 minuti, in coerenza con il precedente
Dutch Tvashar Plumes, ad acquistare i contorni sia di una versione ipnagogica della techno del
Berghain, sia di un ritorno ad acquatiche ed aeree fascinazioni Porter Ricks e Basic Channel, con
le quali ri-osservare smalti jungle e continuum britannici di lungo corso.
La bellezza produttiva di Gamble è sì fatta di dettagli sopra e sotto il manto sonoro (tocchi noise,
piccole glitcerie, loop con l'accetta, campionamenti ovunque screziati, pause, oppure, a sorpresa,
lunge distese di soniche spaziali), ma si rivela a pieno in un modo particolare di tenere l'attenzione di chi ascolta. Nel coinvolgere l'ascoltatore non raccontando nulla di sé e tutto dell'altro da sé.
Emerge, ancor di più, un'elettronica autorale, non vincolata ai generi, che richiama il miglior Mika
Vainio come anche Thomas Köner.
7.5/10
Edoardo Bridda
116
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Lee Gamble - Kuang / Koch (PAN,2014)
porsi in una posizione di rilievo tra le decine
di uscite discografiche similari ascoltate negli
ultimi anni.
6/10
Riccardo Zagaglia
Genere: elettronica, experimental
Bisogna riconoscere a Battiato la capacità di
giocare con regole diverse la partita con la resa
dei conti che ogni musicista maturo affronta
presto o tardi. La fortunata produzione pop del
cantautore siciliano – iniziata nel '79 con L'era
del cinghiale bianco – lo ha visto muoversi
tra elettronica, easy listening, cantautorale,
wave rock, ibridazioni cameristiche, misticismo classicheggiante e sicuramente qualcos'altro che adesso non mi sovviene. Prima
di questo fortunato periodo c'è stata però una
fase – come dire? – propedeutica, durante la
quale riuscì ad imporsi come una delle figure
più curiose e interessanti della sperimentazione sonora italiana dei 70s. Da Fetus (1972) a
L'Egitto prima delle sabbie (1978), passando
dallo straordinario Sulle corde di Aries (1973),
Battiato tracciò infatti un percorso in bilico tra
minimalismo, progressiva e colta, componendo arie post-moderne in cui il canto si limitava
spesso a pochi vocalizzi, chiose sconcertanti di
tessiture suggestive, ambientazioni aliene che –
sulla scorta delle inaudite possibilità del sintetizzatore analogico VCS3 – non mancarono di
colpire anche la critica d'oltralpe.
E' appunto a quei lavori che questo Joe Patti's
Experimental Group (titolo scelto pare solo
per come suona) guarda, recuperando modalità, strutture e forme, nonché un pezzo da Clic
(la formidabile Proprietà proibita, utilizzata
per anni come sigla di TG2 Dossier), forse e
non a caso l'album che più ricorda l'influenza
di Terry Riley e Steve Reich. Detto della pre-
Stefano Solventi
Joel Gion - Apple Bonkers
(Burger,2014)
Genere: rocknroll, psych, shoegaze
Se c'è un personaggio nella musica rock degli
ultimi venti e passa anni sul quale mai e poi
mai avrei avuto il coraggio di scommettere un
solo euro, quello è Joel Gion. Su due piedi il
117
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Franco Battiato - Joe Patti's
Experimental Group (Universal,2014)
senza del pianista Carlo Guaitoli, particolare
enfasi è riservata al contributo di Pino "Pinaxa"
Pischetola, sound engineer da tempo collaboratore di Battiato (e nel frattempo al lavoro con
mezzo mondo), a ribadire che di ricerca sonora
si tratta, o meglio d'indagare le possibilità di
questi suoni nel presente. Le sensazioni sono
positive: nel momento stesso in cui riverberi
radianti, intrecci valvolari e scansioni androidi
attivano i dispositivi della nostalgia e si fanno
riconoscere come ingredienti fondanti della
sua produzione più radiofonica (non è mai
mancato al Battiato pop lo scarto qualitativamente elevato, il vezzo "alto" che si fa organico
all'orecchiabilità della canzone), abbozzano
una sorta di dimensione alternativa dove il sintetico non ha conosciuto la dis-antropizzazione
del digitale, conservando necessità spirituali e
codici visionari che la storia ha messo in disparte ma non ha annientato.
Al netto di questo, rileviamo come tracce quali
L'isola elefante e Omaggio a Giordano Bruno
potrebbero benissimo stazionare nel catalogo
Warp, Leoncavallo e The Implicate Order scozzano con disinvoltura movenze Eno e spasmi
Underworld, mentre le rarefatte palpitazioni
di Klavier emanano potenzialità cinematiche
da brividi. Uno sfizio, un gioco, oppure una
sfida all'ascoltatore "medio", cui Battiato offre
la possibilità di sbirciare dietro le quinte dei
"battiatismi", in quell'ombra della luce che ne
sostanzia da sempre la proposta.
7/10
Genere: rock, indie, folk
Avevamo lasciato l'artista americana (polistrumentista, performer, attrice) nel 2011, con l'album di transizione All Things Will Unwind. A
distanza di tre anni This Is My Hand ci ripropone una My Brightest Diamond rinnovata; complice una serie di esperienze, prima per importanza
la partecipazione – come attrice e autrice di alcune musiche – al film di
Matthew Barney (The River Of Fundament), Shara Worden appare rivitalizzata, mantenendo inalterata la cifra stilistica e la continuità artistica.
Il nuovo album è stato preceduto di un paio di mesi dal suggestivo EP None More Than You, arty
pop chamber ibridato. Il suono delle marching band americane, con il ritmo scandito da tamburi
e fiati, è un'altra importante ispirazione per This Is My Hand, si veda il singolo Pressure (ispirato
anche al film The River Of Fundament di Barney), pop soul blues ritmato e Before The Word; per il
resto trattasi di chamber pop stratificato con suggestioni sempre più elettroniche e minimali.
Shara arriva, al traguardo del quarto lavoro, a fondere il suo amore per il pop classico ad elementi
orchestrali e a stratificazioni sonore mediate dall'elettronica. Il nome più prossimo che viene in
mente per questo album, oltre alle consuete ispirazioni Laurie Anderson e Bjork, è David Sylvian e le sue misture Ottanta (dalle parti di Brilliant Trees), più che le contaminazioni alla David
Byrne (con cui la polistrumentista ha collaborato in passato).
Ballad ninnananne (la title track con elementi di musical, Resonance), suggestioni ambientali (Apparition, So Easy) sospese tra chamber e rarefazioni, nelle quali la voce duttile da soprano di My
Brightest Diamond gioca alla perfezione, testi come sempre evocativi: il tutto ben si dosa, consegnandoci una Shara assai consapevole delle sue capacità e che sa impegnarle molto bene.
7.3/10
Teresa Greco
suo nome non vi dirà granché, ma se cominciassimo a nominare DIG!, Anton Newcombe
e quindi Brian Jonestown Massacre, forse
vi si accenderebbe una piccola scintilla. Bene,
Joel Gion era fino a poco tempo fa il tamburellista dei sopracitati BJM. L'anima della festa, se
così vogliamo definirlo. Il basettone frastornato
che durante i concerti aveva il semplice ruolo
di far imbestialire Anton Newcombe e mandare
tutto all'aria. Un Bez – il ballerino acido che
accompagnava i mancuniani Happy Mondays
nei giorni di gloria – versione californiana.
Dopo vent'anni di onorata carriera nelle vesti
118
di "tambourine man", Gion decide infatti che è
giunto il momento di smarcarsi dall'ombra del
guru Newcombe per intraprendere la propria
strada. E lo fa con questo Apple Bonkers,
dieci tracce che se da un lato devono molto ai
sopracitati BJM, dall'altro dimostrano come
Gion sia in grado di mettersi in viaggio alla
ricerca della propria identità artistica. E il
"trip", perché in fin dei conti di viaggio acido si
tratta, parte subito in quarta con le stroboscopiche Yes e Smile, brani che ci proiettano in una
vallata desertica in cui a risuonare è anche il
rock'n'roll spaziale di Two Daisies e quello ben
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
My Brightest Diamond - This Is My Hand (Asthmatic Kitty Records,2014)
Genere: pop
Non si può dire che non ci abbia provato. Si è messo al pianoforte tutti i
giorni per quattro mesi con la precisa volontà di scrivere delle perfette
canzoni in stile Adele. Se ci pensate un attimo sarebbe la perfetta coronazione di uno stereotipo: giovane musicista gay che dopo un passato nel
mondo indie trova il successo grazie alla cantante che fa piangere tutte
le casalinghe del mondo. Lo racconta lui stesso, avrebbe messo a posto i
conti di casa sua per un bel po' di tempo, e dopo le lacrime di prammatica, unghie laccate di rosso o meno, forse avrebbe potuto dedicarsi a quel disco personale che
davvero voleva fare da tanto. "Ma non venivano: semplicemente non venivano", e allora si butta
tutto per ripartire da zero. Per fortuna, possiamo dire adesso, perché il risultato è Too Bright: i
migliori 33 minuti di songwriting del 2014. Il resto, con brutale senso di realtà, è solo una montagna di cazzate.
Dopo Learning e Put Your Back N2 It che avevano posto stabilmente Mike Hadreas da Seattle, in arte Perfume Genius, nel radar di Sentireascoltare, ora il terzo "difficile album" rivela un
songwriter di razza purissima capace di allargare il proprio raggio d'azione per non rimanere
ingabbiato nella ripetitività della formula piano-voce, e mostra una curiosità sperimentale che non
sospettavamo. E in più ci dimostra che 33 minuti, per 11 brani, sono più che sufficienti per "fare
uno statement", come dicono gli americani. Perché pur non mancando i riferimenti al proprio
recente passato, Too Bright è un album del non-ritorno, con l'asticella volontariamente alzata
rispetto ai quattro anni precedenti. In fin dei conti, se Mike Hadreas avesse prodotto un'altra manciata di torch song a tema "gay panic", come dice lui stesso, nessuno avrebbe avuto niente da ridire: i fan contenti ad applaudirlo live, la comunità LGBT felice perché finalmente qualcuno parla di
tematiche a loro care, i critici a benedire con una simbolica pacca sulla spalla il buon lavoro di una
voce interessante della scena indie.
E invece no. Si mandano delle bozze di brano ad Adrian Utley dei Portishead, che apprezza e comincia a corrispondere con il ragazzo di Seattle. Allora Mike capisce che può chiedere di più. A sé
e agli altri: vuole usare quelle macchine che Utley conosce così bene. Rivuole l'amico John Parish
a suonare la batteria, dove ce ne fosse bisogno. E, più di tutto, vuole provare a varcare il proprio
orizzonte verso territori ancora inesplorati. C'è l'amato rhythm and blues anni Cinquanta sbiancato a dovere (My Body), ci sono i Suicide (Grid), scalpitii Eighties firmati dalle tastiere (Fool e
Longping), ci sono vocalizzi in libertà che sfociano in territorio Scott Walker (I'm A Mother), c'è
il marchio di torbida schiettezza che tanto ammira in PJ Harvey e Nina Simone (Queen). Su tutto aleggia una rabbia trattenuta, meditata e scelta come via espressiva, come se dopo avere sputato
la propria psicanalisi personale nei primi due dischi, ora Mike Hadreas abbia trovato la quadratura e la fiducia definitiva nei propri mezzi.
7.7/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Perfume Genius - Too Bright (Matador,2014)
Marco Boscolo
119
7/10
Marco Frattaruolo
Johann Sebastian Punk - More
Lovely and More Temperate (Sfera
Cubica,2014)
Genere: pop, rock, psych, glam, art
Dietro le vesti di Johann Sebastian Punk
si cela il siciliano Massimiliano Raffa che, a
dispetto delle forme, con questo suo esordio
punta su se stesso a viso aperto. Enrico Ruggeri lo ha scoperto e Beatrice Antolini sostenuto
in fase di produzione per la SRI Productions
di Daniele Calandra.
Vernal Equinox è annunciata da Exit, parte
lounge gridando bossa, fomenta glam e dance
pop. Jesus Crust baked coglie il musical dal
mascara wave/prog e Yes' I miss the Ramones
è un punk ispirato al musical dal passo teddy
boy. Fa centro Barber's Shop, che scolpisce sui
vortici progressive e british beat. The WellShorn Moufflon Paradox ha un armonia post
rock, col finale che, non chiedetemi perché, dà
120
l'idea di vedere Eraserhead di Lynch. White si
tiene inizialmente su un preambolo spartano,
per poi irrompere con un pianismo a fior di
pelle à la Split Enz fra rintocchi di analogico
e software chiazzati di caffè, come nel glitch
rock di Strontium.
Quello che difficilmente si può riciclare, perchè tutto ma proprio tutto è stato già detto e
fatto e suonato, potrebbe, a forza d'insistere,
dare un'idea, se pur vaga, di nuovo. Johann
Sebastian Punk è questo mostriciattolo arty,
vispo e talentuoso, pronto ad assumere mille
altre forme e svariati altri pseudonimi in futuro, teniamoci pronti. Per ora un decisamente
sopra la media.
7.2/10
Christian Panzano
Julian Casablancas + The Voidz Tyranny (Cult Records,2014)
Genere: rock, indie
A ripensare al successo di Is This It degli Strokes si prova un po' di imbarazzo. Non tanto per
il valore del disco in sé, ottimo e centrato per
il gusto semplice e diretto che portava avanti
– fatto di anthem memorabili e a presa rapida
che reggono anche bene lo scorrere del tempo
-, quanto per ciò che successe di lì a poco. Una
discesa, qualitativamente parlando, pari soltanto al botto fatto con l'esordio, attraverso una serie di dischi che definire mosci è un eufemismo
e che dimostrava due cose, in definitiva: o l'abbaglio generalizzato relativo all'esordio, o una
di quelle congiunzioni astrali, ignote e sfuggenti, per le quali l'alchimia funziona a meraviglia
senza una logica spiegazione, per poi sparire di
nuovo misteriosamente come è arrivata.
Tutto questo per introdurre la seconda fatica
del leader Julian Casablancas, dopo il già abbastanza prescindibile Phrazes For The Young.
Tyranny, sorta di concept ruotante attorno al
concetto di "tirannia", vede il belloccio front-
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
più rozzo di Radio Silence, Sailon On e Don't
Let the Fuckers Bring You Down (sui sedili
posteriori viaggiano i Jesus and Mary Chain).
Quando la destinazione comincia a intravedersi, Gion decide invece che è arrivato il momento di tirare il freno e di gustarsi un'aromatica
sigaretta alle erbe, lasciandosi così trasportare
dalle note delle ballate Hair Flowers, in cui a
riecheggiare è lo spettro di Syd Barrett, e di
una fluttuante Change My Mind.
A fine corsa, la sensazione che questo Apple
Bonkers lascia è quella di una pallina impazzita
che, lanciata dal croupier, gira e rigira per poi
posarsi su un numero perdente, il nostro. Mentre dall'altra parte del tavolo Joel Gion è lì che
se la sghignazza per la vittoriosa giocata (alla
faccia di tutti quelli che non avrebbero scommesso una sola monetina).
Stefano Pifferi
Karen O - Crush Songs (Cult
Records,2014)
Genere: rock, indie
Che Karen O degli Yeah Yeah Yeahs fosse
in grado di cantare da sola senza i compagni
d'arme Brian Chase e Nick Zinner, lo avevamo
scoperto cinque anni fa ai tempi della colonna
sonora di Where The Wild Things Are, la pellicola di Spike Jonze: un lavoro che ce l'aveva
presentata maturata e perfettamente a suo agio
r e c e n s i o n i
nei panni di cantastorie, lontana dall'immagine di rocker debordante propria della band di
provenienza.
Crush Songs, dunque, è la naturale conseguenza del buon approccio solista scoperto ai tempi
dell'OST di cui sopra, perseguito e confermato,
tra l'altro, dalla canzone The Moon Song per il
film Her, che ha valso all'artista una candidatura agli Oscar. Il nuovo disco, tuttavia – ufficialmente il primo in solitaria – non riesce
ad andare oltre una semplice interpretazione
dei brani, tracce che appaiono più come un
insieme di spunti raccolti in fretta e furia che
come un'idea coesa e convincente. Un album
di 14 pezzi per una durata totale di 25 minuti
(fate voi il conto), dove, a esclusione di quattro
o cinque episodi, non si riesce ad andare oltre
la jam session: come ha ammesso lei stessa,
Crush Songs è stato registrato tra il 2006 e il
2007 ed è "la colonna sonora di quella che è
stata un'infinita crociata d'amore".
Dopo numerosi ascolti, però, l'impressione
è che la musicista abbia semplicemente tirato fuori dal cassetto un progetto sepolto da
tempo, rivitalizzandolo con la patina hype/
newyorchese propria della Cult Records, la
neonata label di Julian Casablancas. Come
dicevamo, qualche brano riuscito (e in grado
di essere definito tale) c'è ma si tratta di poche eccezioni, come ad esempio una Rapt che,
con la sua melodia dolente ben accompagnata
dalla sempre ottima voce di Karen, sintetizza
tutta la direzione dell'album: approccio lo-fi,
registrazioni da cameretta e in presa diretta,
con canzoni sempre costruite sull'intreccio tra
voce e chitarra acustica, come dimostrano Days
Go By, Body King e Beast. Sono infatti solo
quattro i pezzi che riescono a emergere nella
restante monotonia del disco, dove si sente a
tratti qualche buona intuizione melodica, e poi
nient'altro. Sembra quasi di vederla, al ritorno
da qualche evento cool nella sua New York, a
o t t o b r e
man accompagnato dal quintetto The Voidz e il
marchio sull'album appannaggio della sua Cult
Records, con quest'ultima scelta coerentemente in linea con le critiche contenute nell'album.
In soldoni però, fatte salve le istanze meritevoli che sembrano aver mosso Casablancas in
questa pseudo-crociata da poser anti-multinazionale, il discorso musicale non si allontana di molto da ciò che si diceva sopra e che è
estensibile anche ai vari progetti solisti made in
Strokes (Albert Hammond Jr su tutti).
Un pastone senza capo né coda, eterogeneo e
massimalista, tanto quante sono le influenze
del Nostro, eccessivamente ambizioso e scarsamente focalizzato tra revanscismo (il termine non è scelto a caso) wave, rigurgiti sixties,
electro-rock anni '90, sprazzi di pseudo alt-etno p-funk e non si sa che altro. Più di un'ora di
musica che, a parte qualche saltuario momento
di relativo interesse (l'assalto electro-punk di
Business Dog, l'orgia noise post-Mars Volta di
Father Electricity e poco altro), non ha né mordente né progettualità, ma che sembra pescare
"post-modernamente" qui e là nei vari rivoli del
suono newyorchese. Perché a volerla dire tutta,
sembra proprio un disco-resumè delle istanze
sollevate nella Grande Mela da un 30-40ennio
in qua, ma senza quasi nessun tipo di attrattiva,
nome dell'autore a parte.
5.5/10
121
Genere: elettronica
Durante gli anni 2000, Populous è stato per Andrea Mangia l'output
privilegiato di una (indie)elettronica post-Boards Of Canada che univa
l'amore di sempre per l'hip hop a varie latitudini del pop, da quello strumentale sciolto nel glich e nel folk a quello tinto nella r'n'b e nello shoegaze.
Dai quadretti glitch dell'esordio Quipo, Andrea è passato alle fascinazioni folktroniche di Four Tet e all'abstract-hop di Prefuse 73 con Queue
For Love, disco dove troviamo, tra gli altri, il cLOUDDEAD Dose One, la chitarra di Jukka Reverberi dei Giardini Di Mirò e una buona dose di personalità al servizio di una produzione floreale,
gelatinosa, fatta di campionamenti (60s e 70s) e breakbeat. E' poi arrivato Drawn In Basic, sempre via Morr, affondo nelle rotondità dell'indie (dream) pop e nei sintetizzatori di Raymond Scott,
disco a doppia firma Populous e Short Stories (ovvero il newyorchese Michael McGuire) che battezzava anche un compiuto corso indie pop che proseguirà, negli anni Dieci, nei progetti Life and
Limb (sempre con McGuire) e Girl With A Gun (con Matilde De Rubertis degli Studio Davoli).
In mezzo, c'è un album di remix, Drawn In Basic Remixed, cartina tornasole dei numerosi legami e apprezzamenti ricevuti dal producer (da Martyn a Opiate, fino ai ragazzi del Lower End
Theory e della label Brainfeeder come Teebs, producer con il quale in ballo c'era più di un'idea
di album), e un grosso imprevisto: un fermo obbligatorio che lo costringe a letto, ne prosciuga le
energie, azzera contatti e la voglia di fare.
Quella di Night Safari, pubblicato a 6 anni da Drawn In Basic è dunque la storia di una rinascita
artistica, oltre che di una riappropriazione profonda di una cifra stilistica radicata fin nell'infanzia.
L'hip hop di sempre da astratto si è ingrossato di bassi e 808, i campionamenti, prima numerosi e
provenienti dalla discoteca del padre, sono ora un portato pan-africano di un manipolo di producer italiani come Digi G'Alessio / Clap! Clap! e dj Khalab che già parlano, assieme al Nostro, di
comunità, di scena autoctona. I sintetizzatori dalle spazialità warpiane passano alla psichedelia
che va da quel James Holden che gli ha acceso la lampadina qualche anno fa all'ultimo, splendido,
Caribou (Dead Sea).
Semplificando, potremmo dire che quest'album è la versione pop della future roots in bilico tra
footwork, hip hop e dubstep di Tayi Bebba, anche se in verità è molto di più. Il singolo, Brasilia
con il feat. dell'amico fraterno di Lecce, Giorgio Tuma, fan terminale degli Animal Collective, è
puro (buon)depistaggio di una tracklist mai così eclettica, ricca di spunti e nondimeno emancipata
dal campo sportivo dei facili rimandi. Il punto è farti girare bendato attorno al mondo tra una buona dose di ritmi esotici e qualche episodio concentrato sulla melodia, ciondolando, magari, sulle
sponde americane di drum programming e sincopato in zona Mad Decent / Diplo (Quad Boogie
con il feat di G'Alessio), oppure facendoti lievitare tra la Francia degli AIR e il j-pop, con la voce
dreamy di Cuushe (Fall).
Con Night Safari, Andrea porta (e spezza) il lavoro di cesello che da sempre lo caratterizza a un
nuovo livello. La tracklist rappresenta il frutto maturo sia di un gioco delle parti tra producer che
122
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Populous - Night Safari (Folk Wisdom,2014)
puntano a un disegno più grande delle singole produzioni, sia a una progettualità personale coltivata lungo tutti questi anni. Il producer salentino, anche grazie al mastering di Twerk / Shawn
Hatfield (che ha tenuto corposità sui bassi e dinamica nei suoni), ha saputo sintetizzare molteplici
stimoli ed influenze non negando le proprie origini, un affare di ossessioni che vanno dalle produzioni di J Dilla, alla Stones Throw di Madlib, ai recenti ascolti dei Beat Konducta. Tutto si tiene.
Egregiamente.
7.5/10
strimpellare la chitarra e improvvisare canzoni
d'amore.
Il difetto più lampante di Crush Songs è infatti
la sua voluta incompletezza, che fa pensare
ad una deriva alt-folk solo di maniera: non c'è
mordente, non c'è nessuna riflessione catartica
o anche qualche isolato picco d'intensità, ma
solo rumori, mormorii e campanelli inseriti ad
hoc per mascherare una certa svogliatezza di
fondo. Un vero peccato, perché conoscendo
la personalità incendiaria di Karen O sarebbe
stato interessante sentirla davvero concentrata
su una scrittura più emotiva e originale. Non è
questo il caso, visto che, per adesso, abbiamo
tra le mani soltanto un'occasione mancata.
5.2/10
Giulia Antelli
Laetitia Sadier - Something Shines
(Drag City,2014)
Genere: pop, art, wave, synthpop
Passa il tempo e la carriera solista di Laetitia
Sadier raggiunge il terzo titolo, regolarissima la
cadenza (uno ogni biennio) e sempre buono il
livello qualitativo. Se continua di questo passo,
verrà presto il momento in cui dovremo smettere di considerarla "solo" la ex-vocalist degli
Stereolab, anche se la band londinese segnò
il frangente storico in maniera inestimabile.
Intanto però con questa autrice e interprete
dobbiamo farci i conti, è una presenza concreta
e attiva, non sa affatto di scoria residuale né
di arredo mitologico. Nel suo avant pop infarcito di fughe all'indietro e rilanci futuristici
non c'è posto per rimpianto o autoindulgenza:
la ricerca sonora sembra una calligrafia che
insegue la dimensione del classico, arrogandosi
il coraggio dell'azzardo arty di cui i tipici testi
"militanti" (vedi le citazioni di Debord nella
mesmerica The Scene Of The Lie) rappresentano un fisiologico intercalare.
Se lo può permettere perché alla resa dei conti
la sua voce – con quella capacità di sembrare
originata ad un tempo da una monade algida
e dalla pasionaria col cuore rivolto a tutti – è
un'interfaccia straordinaria tra il livello popular e quello avanguardistico. Probabilmente
Laetitia è la sola oggi a potersi permettere d'infilare nella stessa scaletta lo sciropposo languore exotica di Release From The Centre Of Your
Heart (scritta dal "nostro" Giorgio Tuma) e
la paranza visionaria (aura spacey, pennellate
jazzy, inseminazioni rumoristiche) di Quantum
Soup, oppure una Butter Side Up dalla mollezza 60s estenuante (come un impatto atmosferico tra Crosby e gli Air) e l'incantesimo lunare
pseudo bossa di Echo Port, o ancora un valzer
espressionista infarcito di sbuffi orchestrali
come The Milk Of Human Tenderness subito
dopo lo struggimento palpitante di Then I Will
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Edoardo Bridda
123
Love You Again.
L'elettricità, l'elettronica valvolare, le chiose
drammatiche degli archi e le nuances ammiccanti dei fiati vanno a combinarsi in quadri
assieme destabilizzanti e ipnotici, ti raccontano
la possibilità di un mainstream naturalmente
contagiato di incantesimi cerebrali e geometrie
cardiache. Pezzi come Transhumance col suo
lucore cosmico e Life is Winning con quella specie di contro-psichedelia crepuscolare non sono
solo ottimi esempi di ingegnosità strutturale ed
equilibrio timbrico/stilistico: sono innanzitutto
canzoni pensate per arrivarti al cuore. Tra le
signore del pop-rock degli anni Dieci, Laetitia
Sadier merita un posto di assoluto rilievo.
7.3/10
Leonard Cohen - Popular Problems
(Columbia Records,2014)
Genere: blues
A due anni dal buon Old Ideas, il tredicesimo
album del fresco ottuagenario Leonard Cohen
vede nove ballate diversamente blues segnate dalla voce in primissimo piano del grande
canadese. Come giudicarle? Francamente
suonano gradevoli, a tratti intriganti, però a
dirla chiara se non si trattasse del disco di uno
dei più grandi cantautori di ogni tempo, non
staremmo a dedicargli tanta attenzione. La parola chiave è: mestiere. Il fatto che siano state
scritte e prodotte assieme ad un guru del mainstream come Patrick Leonard – dagli 80s al
lavoro con Madonna, Pink Floyd, Bon Jovi e
tanti altri, per non tacere di Laura Pausini – è
estremamente significativo: l'impianto gospelblues possiede una sorta di levigatezza pneumatica, come se ogni canzone si consumasse in
una sorta di bolla sonora senza spiragli verso
l'esterno. Sembra quasi il corrispettivo musicale di un recital, un tentativo quasi pittorico di
rappresentare il protagonista sul palco avvolto
124
Stefano Solventi
Letlo Vin - Songs For Takeda
(Autoprodotto,2014)
Genere: cantautori, folk
Dopo anni di intensa attività live, il cantautore
Letlo Vin presenta l'album d'esordio Songs
For Takeda, un lavoro folk/blues che parte da
un concept ben preciso: un tributo e un insie-
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Stefano Solventi
nel cono magico ed essenziale delle luci, col
coro ad un passo e l'orchestra (una band minimale più archi e ottoni) ad agire nell'ombra.
Pure immerso in quest'aura artificiale fino al
limite del fastidio, Cohen riesce a conservare
la quota minima d'intensità, quella solenne
mancanza di riguardo, quel tipico impasto di
lucidità struggente e pietas risoluta. Pochi altri
possono permettersi riflessioni sulla catastrofe dell'uragano Katrina come Samson in New
Orleans, con la rabbia che la indovini appena
rimbombare sorda nel petto sotto il chiarore
gospel folk. Lo stesso dicasi per l'ibrido tra
blues androide e sfumature orientali di Nevermind. Altrove ti sembra di essere al cospetto
di uno zio guitto di Nick Cave (vedi la meditazione post-undicisettembre di A Street ed il
call and response di Born in Chains), oppure di
un Tom Waits redento nelle acque del Delta
(Almost Like The Blues), mentre My Oh My
tenta di abbozzare un country rock credibile
pur spazzato da vampe errebì, col risultato che
il deserto diventa subito scenografico.
Forse l'episodio migliore ce lo regala in chiusura quella You Got Me Singing che esala vapori
klezmer sotto il front porch, col distacco palpitante delle ballate che guardano la vita a volo
d'uccello. Insomma, un album non certo memorabile che però ha il non trascurabile merito
di esistere: un mondo in cui un nuovo album
di Leonard Cohen è possibile, è comunque un
mondo migliore.
6/10
r e c e n s i o n i
all'interno di canzoni in grado di rispecchiarle
tutte. Manca dunque un po' di intensità e calore, qualcosa in grado di mettere le canzoni al
centro di un'analisi profonda e senza veli, per
un disco che, in teoria, dovrebbe fare dell'introspezione la propria carta vincente. Un buon
esempio di artigianato folk dentro un mare
immenso e indefinito di altre proposte.
6.3/10
Giulia Antelli
Literature - Chorus
(Slumberland,2014)
Genere: pop, rock, indie, shoegaze
Appartengono ad una tradizione consolidatasi
negli ultimi anni, i Literature. Quella dei gruppi americani che suonano all'inglese. In altri
tempi la naïveté del gruppo di Philadelphia
(fra le cui fila figura anche un ex redattore di
Pitchfork) sarebbe stata sinonimo di radici
britanniche, più precisamente nordiche. Da un
po' di tempo non è più così. Gente come Real
Estate, Beach Fossils, Wild Nothing e metà
del catalogo Captured Tracks, ha incasinato
riferimenti geografici che sembravano scolpiti
nella pietra. Il problema è che spesso, sonorità filologicamente perfette, con jingle jangle
opalescenti e una ingenuità ostentata, sono a
corredo di album senza anima.
I Literature, al contrario, si distinguono per
una sana dose di cinismo e perché sanno quando troppo zucchero rischia di diventare stucchevole. Sono outsider anche in un giro angusto come quello dell'indie pop, ma piuttosto
che ostentare una posa da Pierrot, puntano su
ritmiche febbricitanti e un ispiratissimo bilanciamento fra il graffio delle chitarre e gli sfarfallii shoegaze. Il loro secondo album (dopo un
primo più grezzo e lo-fi) è un autentico scrigno
delle delizie. La stella polare è il C86, quello
mercuriale e Buzzcocks addicted dei Soup
Dragons, con chitarre elettroacustiche usate
o t t o b r e
me di memorie in ricordo di un amico morto
suicida, al quale – come recita il titolo – sono
dedicate tutte le canzoni del disco.
Dal punto di vista delle sonorità, Songs For
Takeda attinge a piene mani dalla tradizione
del songwriting americano, spaziando dalle
polveri secolari di Woody Guthrie e Pete Seeger al lirismo intimo e acustico di Bob Dylan
e Leonard Cohen: giusto un paio di esempi
per mostrare come il Nostro guardi ben oltre i
confini del cantautorato prettamente italiano,
abbandonando così un paradigma più ristretto per concedersi di entrare in un universo –
quello del folk, appunto – ben più profondo e
trasversale. Il risultato sono brani classici e ben
costruiti, che rendono il disco coeso senza farlo
suonare monotono. Si comincia con il blues
crepuscolare di Rusty World's Seeds e si prosegue poi con il crescendo rugginoso di Roll Over
My Devils e Brix (tra i pezzi più riusciti del
lotto), che diventano una sorta di preghiera/
invocazione agli spiriti dell'amico scomparso,
entrambe capaci di sintetizzare al meglio il già
citato concept dell'album.
È lo stesso sound sporco ed essenziale, accompagnato da una vocalità non originale ma comunque appassionata, che troviamo in canzoni
ora declinate in un rock di springsteeniana memoria (How Young Were You?, Friday Night),
ora amalgamate nell'intreccio tra acustica, ukulele e percussioni (cajon, stompbox), che conferisce ad ogni traccia una vena di ricercatezza
spesso assente in altre prove sullo stesso genere
(come dimostrano anche buoni episodi quali
Your Mama Saw There e It Won't Last Long).
Visti i canoni di riferimento, e nonostante la
qualità delle singole tracce e di arrangiamenti
estremamente curati, il limite di Songs For
Takeda sta forse in una generale mancanza
di pathos e originalità, laddove altri colleghi
– uno su tutti, Bon Iver – sono invece riusciti
ad incanalare un intero spettro di emozioni
125
Genere: post-punk, industrial
Arrivano da Detroit, i Ritual Howls, terzetto alle prese con un industrial post punk relegato ai circuiti underground di una Urinal Cake che
ha dato alle stampe l'omonimo debutto, ma soprattutto della Nostilevo,
etichetta di culto in campo cold/minimal electronics/industrial con cui
sono andate in stampa tre cassette, prima di Turkish Leather.
Questo nuovo full-length cambia un po' le carte in tavola, smussando gli
spigoli noise e d.i.y. con l'idea di uscir fuori dalla nicchia e presentarsi
ad un pubblico più vasto, scelta sancita dall'omonimo singolo, già presente nella seconda uscita
Nostilevo in una versione psych/noise tutta melma e riverberi e ora rielaborata in HD sulla scia
dell'industrial wave stile Skinny Puppy. E in questo passaggio dal piccolo al grande, il merito dei
Ritual Howls è quello di capire e centrare l'andazzo revival post Sacred Bones – di cui la stessa
Felte pare essere fautrice – in cui prevalgono le atmosfere cinematografiche Lynch/morriconiane,
le voci baritonali, gli afflati pop, la wave mischiata al death rock. Ecco allora il fluire di chitarre e
synth, le suggestioni del Nick Cave filtrato Slug Guts in Taste of You, il western Cult of Youth in
Final Service, senza tralasciare le classiche infatuazioni Joy Division di My Friend e il già citato
scheletro Skinny Puppy.
A conti fatti siamo davanti a un piccolo classico dell'odierno post punk americano, capace di coniugare moda ed integrità cold/dark, tinte mainstream e riflessi underground. E' oltretutto un bel
sentire, indipendentemente dalla fortuna che seguirà.
72/10
Stefano Gaz
come armi contundenti e i ritornelli che arrivano dopo pochi secondi, ma hanno esuberanti
parti strumentali che non si limitano a fungere
da collegamento fra un chorus e l'altro (vedi
l'emozionante coda surf dreamy di Blasé).
Il risultato è che di questa mezz'ora scarsa non
solo non si butta via nulla, ma si finisce per
ricordare pure i frammenti più emozionanti
(come The English Softheart) il cui tiro garage
pop suonerà ai più come una versione punk
dei Belle And Sebastian, mentre ai più scafati
ricorderà i McCarthy al netto della retorica
marxista.
6.5/10
Diego Ballani
126
Luminance Ratio - Seven Inch Series
Vol. 3 (Fratto9 Under The Sky,2014)
Genere: avant, elettroacustica
Esondiamo eccezionalmente dal territorio naturale per i vinili piccoli, cioè il nostro appuntamento mensile con Gimme Some Inches,
per segnalare quello che è un disco piccolo
nel formato ma dal potenziale enorme. Lo
split colorato in verde acido esce nella collana
gestita da Fratto9 in coabitazione con la Kinky
Gabber di Luca Sigurtà e vede confrontarsi il
quartetto italiano con referenti stranieri sempre d'ambito impro/elettroacoustic/experimental. Dapprima toccò al volume 1, in vinile
blu, condiviso con l'americano Steve Roden,
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Ritual Howls - Turkish Leather (Felte,2014)
Stefano Pifferi
Luz - Polemonta (Auand,2014)
Genere: prog, avant, impro, jazz
Disco stratificato e complesso, Polemonta dei
Luz, almeno quanto atipica e strutturata è la
band che lo ha fatto nascere: Giacomo Ancillotto (Enrico Rava, Caterina Palazzi Quartet –
chitarra), Igor Legari (contrabbasso) e Federico Leo (Gronge – batteria) e la violoncellista
r e c e n s i o n i
e compositrice americana Tomeka Reid (Anthony Braxton, Nicole Mitchell, Mike Reed)
dipingono settanta minuti di musica in divenire che definire jazz sarebbe quantomeno
riduttivo. Certo, l'impronta votata all'interplay
improvvisativo e certe cadenze "istituzionali"
ci sono, ma servono solo da collante per un
lavoro che centrifuga stili e ispirazioni: a testimonianza, una iniziale Frate Mitra che parte
minimalista e mediterranea per poi abbracciare certi crescendo quasi post-rock, una Zdenek che chiama in causa il surrealismo di una
ipotetica Andromeda Mega Express Orchestra immerso in una fusion-prog sui generis,
una Polemonta che sa di Medioriente o magari
una Nogales che aspira a un avant-free rumorista e sfilacciato. Alla lunga potrebbero venire in mente certe produzioni RareNoise, ma
qui l'approccio è più contemporaneo e meno
aggressivo, senza perdere mai di vista un DNA
che rimane fondamentalmente "melodico",
pur nell'estrema mutevolezza dei colori.
Il timone resta ben fermo, dunque, su una narrazione musicale che ha molto di cinematografico, irrequieta ma non troppo selettiva, capace
di cambiare continuamente il punto di vista su
una materia anch'essa morfologicamente indecifrabile. E' questa la virtù e al tempo stesso
il limite di un disco che affascina per l'estrema
varietà di stili e trova infine un bel modo di
venirne a capo, ma in qualche maniera subisce
anche il peso di un involontario dialogo edonista tecnicamente impeccabile.
6.8/10
o t t o b r e
poi fu la volta del volume 2, in vinile rosso,
"splittato" con l'apolide del drone Oren Ambarchi. Per questo terzo volume i Luminance
Ratio (Sigurtà, Aprile, Ferraris e Mauri) chiamano a sé il greco (nato a Limassol, Cipro, ma
inglese d'adozione) Yannis Kyriakides, solito
sperimentare su forme d'elettronica "ambientale" elaborate partendo da input sonori tra i
più diversi.
Nel lato occupato dai Luminance Ratio, troviamo Sirens, condensato in 4 minuti del
mondo dei quattro: accumulo di suoni apparentemente incongruenti e discordanti
che man mano emergono in forme, stavolta,
estremamente melodiche e sognanti, pur
rimanendo sempre evanescenti e stranianti.
Risponde Kyriakides con una traccia, Junta
Tv, altamente evocativa per la riproposizione
in chiave intimistica di una tragedia personale
e collettiva come quella del regime dei colonnelli, coincisa con le prime trasmissioni della
TV greca. Voci lontane provenienti da tubi
catodici ormai desueti, pulviscolo da "effetto
nebbia", brandelli di canti tradizionali, esplosioni di white noise e quant'altro, in un collage sonoro ispirato dal lavoro del video-artista
Stefanos Tsivopulos.
Speriamo che questa serie continui ai livelli dei
primi tre volumi e ne auspichiamo anche una
ristampa collettiva in CD per un pubblico più
vasto.
7/10
Fabrizio Zampighi
LV and Josh Idehen - LV, Josh Idehen –
Islands (Keysound,2014)
Genere: brit, funk, elettronica
Gli LV, trio, quartetto, duo – non è mai dato
certo – sono i riservati fiori all'occhiello della
meticcia elettronica che da sempre Blackdown
127
o t t o b r e
128
come non può mancare un'incursione future
roots con pulseprogramming in area footwork
Double Decker Back Seat o un'angolata jungle
con richiami wonky, balearica, rave. E tanto di
cappello, come sempre.
7/10
Edoardo Bridda
Marianne Faithfull - Give My Love to
London (Naive,2014)
Genere: cantautori, rock
Marianne Faithfull ha avuto tante vite e altrettante rinascite artistiche, così un suo nuovo
album si aspetta sempre molto volentieri. Give
My Love To London non fa eccezione, ospitando, come sempre, numerosi collaboratori.
Prodotto da Rob Ellis e Dimitri Tikovoi, e
mixato da Flood, il disco vede testi scritti dalla
Faithfull come da Nick Cave, Roger Waters,
Anna Calvi, Pat Leonard, Tom McRae e Steve Earle. La band è formata da Adrian Utley
(Portishead), Ed Harcourt, Ellis e Tikovoi,
un quartetto d'archi e due guest come Warren
Ellis e Jim Sclavunos (Nick Cave and The Bad
Seeds). Presenti alcune cover: The Price Of
Love (Everly Brohers), Going Home (Leonard
Cohen) e I Get Along With You Very Well (Hoagy Charmicheal).
Un album che raccoglie tante voci autoriali e si
mantiene uniforme nella resa, tenuto bene insieme dalle drammatiche interpretazioni della
Faithfull: è teatrale (ricordiamo la carriera parallela di attrice dell'artista inglese) nella title
track (scritta da Steve Earle) così come nell'intensa True Lies (di Ed Harcourt), uno dei pezzi
migliori dell'album, è drammatica nel singolo
Sparrows Will Sing (scritta da Roger Waters),
oscura e spettrale in Late Victorian Holocaust
(di Nick Cave, che già aveva dato a Marianne
tre pezzi nel 2005 per Before The Poison), si
fa ninnananna in Deep Water (scritta a quattro
mani con Cave). Going Home è ballad intensa
r e c e n s i o n i
di Keysound e Kode9 di Hyperdub professano.
Di fatto, non c'è miglior nome da spendere del
loro per tradurre in suoni la pulsante frenesia
della capitale britannica, pro e contro compresi
(un altro nome naturalmente è Mumdance).
Parliamo di un intreccio scentifico ma pur
sempre bastardo tra microchip e etniche, tra
attitudine funky e narrative d'esotici vocalist, o
meglio, poeti urbani dal cuore nero.
Nel recente passato, il combo ha spinto a tavoletta con un alcuni vocalist sudafricani come
Okmalumkoolkat, Spoek Mathambo e Ruffest; in questa prova torna in campo Joshua
Idehen, membro del trio alt hop Benin City e
personaggio sopra le righe con il quale i ragazzi
hanno pubblicato lo splendido – e ovunque ben
accolto – Routes.
C'è una curiosa geografia dietro ai lavori delle parti coinvolte, che fa il paio con un sound
pulsante, caotico, in divenire, spesso caratterizzato da un divertito torpore, volutamente
sbilanciato su un presente in 4d eppure inafferrabile, molto aderente ai tempi in cui viviamo:
il primo EP prendeva in prestito il numero 38
dalla tratta di un bus Londinese; in Islands
è un viaggio – andata e ritorno dalla Nigeria,
compiuto da Idehen – il canovaccio di una tracklist cucita più che mai addosso ai poemi, alle
improvvisazioni e al free flow del – più che mai
– poeta. Imminent – singolo traino, una bella
grattata sull'asfalto – non può comptere con
Sebenza o la roccambolesca Northern Line,
ma è comunque un buon ariete per un album
che non riesce a bissare l'ispirazione dei due
precedenti ma conferma la bontà di un combo
fuoriclasse.
Prendete la rincorsa di Shake, la ricchezza timbrica, il dettaglio dei ritmi, la circolarità dei vibrafoni, il vocalist processato e infilato nel mix
come thé caldo, o gli smalti dub con l'andazzo
"trip hop meets trap" di Make It Count. Anche
i brani in area UK Funky si difendono bene,
per piano e chitarre (un Cohen del penultimo
disco) con il cameo ai backing vocals di Brian
Eno, un altro dei pezzi migliori del lotto, mentre Falling Back è invece un tipico brano cinematico in crescendo della Calvi, dove si corre
un po' il rischio di manierismo. Ma è solo un
attimo.
Give My Love To London è un disco di impianto moderno che riflette su passato e presente ("sono arrabbiata per ciò che è successo
al mondo, più passa il tempo, più divento furiosa"), arrivando a festeggiare il cinquantesimo
anniversario della nascita della carriera della
Faithfull (iniziata nel lontano 1964, quando
l'artista era appena diciassettenne, con As Tears Go By) con un tour imminente.
7.3/10
Mazes - Wooden Aquarium (Fat
Cat,2014)
Genere: rock, indie
Confermando i discreti propositi del precedente Better Ghosts, i Mazes tornano con un
album più strutturato e, probabilmente meno
frenetico. Wooden Aquarium è l'ennesima
prova di fedeltà acustica della band che, non
solo ha registrato live l'intero disco, ma, nel
farlo, si è trovata invischiata in storie divertenti
che comprendono una macchina senza benzina, un freddo polare e una camminata a piedi
dalle parti di New York.
Malgrado l'origine altamente british, in Wooden Aquarium, il sound del trio vira leggermente dalle parti di un America lo-fi, con
Pavement e Feelies a fare da numi tutelari.
L'intento, sarebbe quello di portare il ritmo
conglobante, magari sporco, ma sicuramente
catchy dei sopracitati in un sound più attuale,
sulla scorta dei Real Estate, per dirne una. Da
segnalare, rispetto al precedente lavoro, la quasi totale assenza dei (riusciti) riferimenti kraut
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Teresa Greco
o noise melodico alla Smashing Pumpkins.
Prodotto da Jonathan Schenke (già con i
Parquet Courts), Wooden Aquarium non
sorprende per originalità e, anzi, perde punti rispetto ai lavori precedenti, ma ha alcuni
spunti interessanti: a partire da Salford (che
nel nome ha tutto quello che vogliamo sentire),
che è indie-rock come si faceva un tempo, con
debiti enormi nei confronti dei migliori Pixies.
Si segnalano ancora RIPP, per il suo incedere
sperimentale e rumoristico, che fluttua dalle
parti dei Sonic Youth di Daydream Nation,
e Letters Between UandV, per lo stridere delle
chitarre elettriche sulla voce comunque interessante di Cooper.
Alla fine dell'ascolto rimane poco, se non la
sensazione di aver avuto a che fare con qualcosa di estremamente nostalgico. Intendiamoci,
i Mazes sono bravi a giocarsi le carte degli
indie-rocker vagamente art e lo-fi di un tempo,
ma nessuna di queste undici canzoni, probabilmente, lascerà un'impronta indelebile nella
memoria dell'ascoltatore. Di nuovo, tocca parlare di un album di ottime canzoncine, magari
un po' piatto a causa della registrazione live,
ma davvero troppo poco per giustificare l'eco
che ha in patria.
6/10
Nino Ciglio
Miss Kenichi - The Trail (Ghost
Records,2014)
Genere: cantautori, indie, folk
Terzo lavoro in studio per Miss Kenichi, al
secolo Katrin Hahner, questo The Trail è ad
oggi il suo disco più maturo: atmosfere solenni,
intime ed evocative, songwriting adulto, una
produzione semplice e mai invadente per canzoni fatte di pochi elementi ben dosati, come
undici piccole finestre aperte sull'autunno
berlinese.
Se vocalmente (e non solo) il riferimento più
129
Genere: dark, folk
Nel corso degli anni Jérôme Reuter, dal 2005 attivo sotto la sigla Rome,
ha sempre proposto una musica affascinante quanto densa di contenuti
e riferimenti letterari e storici, evolvendosi da un martial-folk, debitore
verso gruppi come Death in June e Der Blutharsch, sino ad un personale dark folk/cantautorale riconoscibile e originale. Nel 2014 Rome
torna dopo due anni di assenza (quasi un record per il prolifico musicista lussemburghese, che ci aveva abituato ad un album all'anno) con un
concept sulla storia della Rhodesia, colonia ribelle dell'impero britannico che prese il nome dal
politico britannico Cecil Rhodes. Si tratta di un lavoro che infila il dito in una piaga della Storia
(come dovrebbe fare questo genere di musica), una vicenda tragica e poco conosciuta: una generazione di bianchi in Africa combatté strenuamente per una causa persa, accecati dal pregiudizio
e dal desiderio di vivere in quello che loro credevano un luogo per una vita migliore; un sogno che
presto si rivelò un incubo.
A Passage To Rhodesia è un grande affresco sugli eventi storici dell'ex-colonia che, nel 1965,
tentò di rendersi indipendente dalla Gran Bretagna, sotto la guida di Ian Smith e del suo partito,
il Rhodesian Front, che nel 1962 conquistò la maggioranza in parlamento. Sotto la spinta dell'influenza britannica e statunitense il mondo rifiutò di riconoscere il nuovo stato rhodesiano (in
quanto responsabile di un sistema di apartheid), il quale ottenne l'appoggio economico e militare
solo di Sudafrica, Portogallo e pochi altri. Tutto ciò portò ai tragici eventi della guerra civile: la
famigerata Rhodesian Bush War, che vide contrapposti la fazione bianca della colonia ribelle, guidata da Ian Smith, e i guerriglieri ZANU e ZAPU di Robert Mugabe (futuro dittatore sanguinario
dello Zimbabwe, uno Stato parte del territorio dell'ex-rhodesia "liberata") e Joshua Nkomo. Questi ultimi erano finanziati e sostenuti dall'URSS, in un clima da spartizione del mondo da Guerra
Fredda, ma appoggiati anche dalla Gran Bretagna e da molti paesi Occidentali che vedevano nella
Rhodesia una pericolosa anomalia nel continente africano, nonché un vero intralcio per i loro affari con i futuri politici africani, facilmente corrompibili dal vile denaro.
Inquadrato l'album nel periodo storico in cui viene ambientato (ma la situazione sembra echeggiare anche in alcune vicende contemporanee), notiamo come Reuter sia riuscito a creare, con le
sue canzoni, una sorta di affresco corale a più voci, un "discorso indiretto libero" bipolare pieno
di registrazioni d'epoca che compaiono come fantasmi (Hate Us and See If We Mind), in cui il suo
martial-folk incarna la voce del fanatismo rhodesiano (One Fire e Hate Us and See If We Mind)
mentre la sua anima più cantautorale funziona come la voce della coscienza di un popolo che
ammette la sconfitta di un'impresa disperata, votata al discredito da parte della Storia. The Ballad
of the Red Flame Lily è emblematica da questo punto di vista: si tratta di una bellissima e malinconica ballata il cui il musicista, come sua abitudine, dona voce ai reduci della guerra, agli sconfitti
della Storia. Si cammina tra i fallimenti degli uomini, in una giungla oramai in fiamme, mentre ci si
continua a ripetere "And it will shame us now (It was wrong)" ("…e ciò ci farà vergognare. È stato
un errore").
130
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Rome - A Passage to Rhodesia (Trisol,2014)
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Se in One Fire, uno dei brani più travolgenti dell'opera, si afferma la dura corsa verso la battaglia
– "one fire fights one fire" ("Un fuoco si combatte con il fuoco") -, in The River Eternal assistiamo,
invece, ad un delicato spoken-word su cupi archi che ci mostra la dura realtà di una guerra da incubo, un conflitto che ha distrutto e diviso il Paese e che sembra non finire mai: "Into the glowing
darkness / We travel the shining black serpent / That plugs us straight into the heart of this
nightmare / At the end of this river is the end of this war" ("Dentro un'oscurità radiosa, noi siamo
trasportati da un brillante serpente nero che ci porta dritti nel cuore di questo incubo. Al termine
di questo fiume c'è la fine di questa guerra"). In questo brano Reuter sembra richiamare direttamente alcune pagine di Heart of Darkness (Cuore di Tenebra) di Joseph Conrad.
Il disco si apre con un brano strumentale, Electrocuting an Elephant, memore delle passate sonorità martial-industrial di Rome, ma con un senso di greve e plumbeo presagio per quello che accadrà in Rhodesia, e si conclude con The Past Is Another Country, dove sentiamo la registrazione
di una vecchia e rovinata incisione di un pezzo anni sessanta con un coro femminile che appare,
nel contesto, decisamente inquietante. L'anima del cantautore di razza, invece, esce fuori in brani
melodici, raffinati quanto tristi e melanconici, come A Country Denied e Lullaby for Georgie, continuando sulla scia degli ultimi lavori realizzati dall'artista.
Il disco è uscito per la label tedesca Trisol, finora solo nella forma di un CD-Boxset limitato a 1000
copie che contiene, oltre all'album principale, un secondo CD dal titolo House of Stone – con
solo brani strumentali martial-industrial old school (un po' sulla scia dei primissimi lavori usciti
su Cold Meat Industry) impreziositi da campionamenti di registrazioni d'epoca -, un 10″ pollici
con due tracce inedite (Braai The Beloved Country e My Traitor's Heart), un DVD con tre videoclip diretti dal regista Claudio Roberti (This Silver Coil e Amsterdam, The Clearing, tratti dal suo
album precedente, e il video di Hate Us And See If We Mind, brano di questo suo ultimo lavoro). Il
DVD contiene anche una lunga e approfondita intervista a Jérôme Reuter. Come se non bastasse,
il boxset racchiude anche due poster, una busta di cartoline, una moneta e un certificato d'autenticità firmato dall'artista. Una vera e propria sfida al mercato discografico in crisi, visto anche il
prezzo alto del boxset che si aggira sui cento euro circa.
Una scommessa sicuramente rischiosa, ma bisogna ricordare che Reuter è un'artista che, nel corso
degli anni, è riuscito a crearsi uno stile, una reputazione e uno zoccolo duro di fan e appassionati.
In questo suo ultimo lavoro i poster e le cartoline non sono solo dei semplici accessori per collezionisti feticisti, ma un modo per entrare meglio nel mondo che Rome evoca con la sua musica.
Che il futuro di un certo tipo di musica – con contenuti profondi e alternativi al pensiero dominante – passi da qui e non dalle sirene della smaterializzazione via internet? Quel che è certo è
che A Passage To Rhodesia è un ottimo lavoro, uno dei migliori della discografia di Rome, grazie
anche ai testi e alla cura nell'ambientazione del lavoro, elementi che riescono a fare la differenza
rispetto ad altri lavori in ambito neofolk.
7.6/10
Marco De Baptistis
131
o t t o b r e
Enrica Selvini
Moon Duo - Live In Ravenna (Sacred
Bones,2014)
Genere: rock, psych
La notizia non è tanto la musica contenuta in
questo disco. Dicono già tutto nome del gruppo
e titolo. I due Moon Duo, cioè Sanae Yamada
e Ripley Johnson dei Wooden Shjips, sono
ormai una realtà consolidata della nuova (vecchia) "psych" col loro suono ciclico e reiterato,
figlio di quel rock geneticamente modificato
che si sviluppa di qua e di là dell'oceano, in una
linea continua e sottotraccia che dai Velvet
Underground arriva fino agli Spacemen 3 e giù
fino ai giorni nostri, toccando lande inusitate
(vedi alla voce Cile).
Il Live In Ravenna coglie proprio il trio – della
partita anche il batterista John Jeffrey, chiamato dopo anni di tour con drum-machine per
132
dare "un po' di dinamismo e flessibilità" alle
rigide sonorità del duo, Sanae dixit – in una
delle più accese performance del tour 2013,
sapientemente catturata live all'Hana-bi dall'orecchio di Mattia Coletti, ottimo chitarrista
e preciso produttore. Musica in presa diretta,
dunque, e al suo massimo splendore ritmico ed
emotivo: un flusso di note in accumulo che rendono il rock ipnotico e reiterato un qualcosa di
magmatico e insieme estatico, roba che punta
alla trascendenza pur mantenendo i piedi ben
piantati al suolo, evanescente quanto materica,
che si rivolge su se stessa nel riprendere, omaggiare, stuprare spasmi di Spacemen 3 e Suicide, Loop e Neu!
Al netto di tutto quello che è scritto sopra, la
vera sorpresa sta nel fatto che un gruppo di
punta dell'underground internazionale, edito
da una delle più interessanti label indipendenti
degli Stati Uniti, pubblichi un live del genere
catturato in una provincia italiana. Apparentemente fuori da tutti i giri che contano, periferica rispetto ai "grandi" centri culturali e musicali d'Italia (qualora ne esistessero), Ravenna è
la dimostrazione di come possano funzionare –
anzi, di come funzionino – le cose quando si ha
passione, lungimiranza e competenza. I nomi
li sapete, sono pochi e tirano avanti un effervescente e inarrestabile viavai di concerti estivi
e invernali, attraggono musicisti (e non solo)
da ogni parte d'Italia (e non solo), organizzano
festival dal richiamo internazionale, fanno da
volano a situazioni culturali che smuovono la
stagnante economia di questi anni tristi e, infine, fanno di Ravenna una delle più serie candidate al ruolo di capitale europea della cultura
2019. Tutto questo per parlare di un disco? Sì,
perché questa è una di quelle piccole gratificazioni che vogliono dire molto più di mille
chiacchiere istituzionali sul ruolo della cultura
e sul come fare cultura.
Ci vuole passione, perché alla lunga i risulta-
r e c e n s i o n i
evidente è la Cat Power di You Are Free, la
cui lunga ombra si estende sostanzialmente su
tutto il disco (in particolare sul singolo Who
Are You, sull'inquieta Whatever e sul gioco di
nervi di The Ghost), appaiono altrettanto chiari i rimandi ad Elizabeth Fraser nel periodo
This Mortal Coil (l'opening Tale Of Two Rivers) e alla PJ Harvey più intimista di White
Chalk (da ascoltare in tal senso, Interlude e
The Trail), mentre vibrati, riverberi e tintinnii
di chitarra sembrano riportarci alle atmosfere
liturgiche care alla coppia Buckley/Lucas di
Grace (Bobby Bacala, Broken Bell); quasi un
piccolo tributo al Nick Drake di Pink Moon,
l'incedere folleggiante di Dream.
Un album che se da una parte scorre forse troppo monocorde e privo di impennate, dall'altra
ci mostra un'autrice dalla buona personalità e
capace di colpire senza strafare, di commuovere senza facili sentimentalismi e, a tratti, di
suonare quasi classica. Non è poco, ad oggi.
7.2/10
ti arrivano. Ah, il disco è un ottimo, sia come
viatico per neofiti che come perla per gli appassionati.
7/10
Stefano Pifferi
Genere: psych, drone, ambient, world_etnica
L'incontro musicale inusuale tra due spiriti
affini come quello di Nazim Comunale, già
polistrumentista con gli ottimi Caboto, e di Patrizio Ligabue, viaggiatore e studioso di canto
difonico o armonico (in uso in molte tradizioni
non occidentali e introdotto in "occidente" da
Stockhausen e poi dalla Sainkho Namtchylak), produce un lavoro che è una vera e propria fuga verso un altrove spesso idealizzato
e/o sognato. Il primo organizza tessiture prodotte dall'utilizzo di strumenti tradizionali e
non, rock e meno (farfisa, piano elettrico, eko
tiger da una parte, flauti, percussioni, tampura
dall'altra, che fanno il paio con tubi sonori e
tastiere giocattolo); il secondo si esprime col
dispiegarsi del proprio soffio vitale, sotto forma
di strumento a fiato (konkovca, fujara) o di
voce diafonica.
Proprio come un ripiegamento su se stessi, le
musiche contenute in Venezia Non Esiste –
titolo fuorviante eppure a suo modo evocativo
– concentrano in tre ampi movimenti, per quasi
sessanta minuti di durata, un intero universo
di riferimento mistico, trascendentale, "altro":
il lontano Oriente evocato nel lunghissimo,
estasiato, mantra dell'opener Meiktila Loop –
cuore pulsante e paradigma del mondo rappresentato dai due – diviene visione pacificata di
modernità e tradizione (l'elettronica e i flauti
che segnano un drone trascendente e sognante
lungo tutti i quasi trenta minuti di durata), così
come i due divengono corrieri, non cosmici
stavolta, ma extra-terreni. Nella seguente The
Stefano Pifferi
Neel - Phobos (Spectrum Spools,2014)
Genere: drone, ambient
Phobos, primo LP solista di Neel, potrebbe
sembrare uno spin-off dei lavori firmati Voices from the Lake, progetto ambient-techno
plasmato insieme a Donato Dozzy. Invece,
molto probabilmente, è l'originale convergenza
dei mondi a lui più vicini, il manifesto organico
delle sue suggestioni musicali. Le coordinate di
riferimento – Steve Stapleton e Nurse With
Wound, Pete Namlook, Tetsu Inoue –, citate
in nota stampa, non sono da intendersi quali
confini invalicabili e circoscritti, ma piuttosto
come vaghi rimandi, da seguire muovendosi
necessariamente a ritroso.
I quarantacinque minuti di disco – articolati in
tracce per disegnare una sceneggiatura, ma che
in sostanza formano un flusso sonoro monolitico, senza interruzioni – sono un viaggio cosmico durante il quale si deve procedere a vista.
Ambienti rarefatti, sfregi, rumori, abrasioni.
Luci sfocate, poi improvvisamente abbaglianti.
Stringhe sintetiche in totale assenza di com-
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Nazeem - Venezia Non Esiste
(Autoprodotto,2014)
Perfect Funeral Song (Armonic Version) l'ideale "musica delle sfere" perseguito dai due vira
verso un corposo psych-prog rock col supporto della batteria di Ulisse Tramalloni (Julie's
Haircut), del basso di Yuri Degola (A.F.A) e
della chitarra di Martino Pompili, e se si perde
un po' della magia dell'opener, a guadagnarne è
la densità sonora. Densità che si liquefa nuovamente nella conclusiva Continuum dilatandosi
in un loop tremendamente evocativo.
Il rischio, con certe musiche, è quello di scivolare verso la "world music" coniugata secondo
crismi new-age, ma dai solchi di Venezia Non
Esiste e dal background dei due emerge una
passione che poco ha dell'artefatto. Disco notturno e psicotropo.
7/10
133
Genere: folk
Tredici anni di carriera alle spalle, sette album pubblicati a suo nome, grandi e numerosi momenti
di puro folk: Sam Amidon è di nuovo tra noi, tornato, a solo un anno di distanza dal buon Bright
Sunny South, a ravvivare il nostro immaginario folk con Lily-O, una raccolta/rielaborazione di
canzone popolari. Un disco che continua il discorso cominciato con il lavoro precedente, e cioè
condensare il sostrato intergenerazionale che attraversa decenni di alt-folk e traditional senza cadere nella vuota nostalgia o nel trucco della mera citazione, riuscendo quindi a superare la figura
del semplice cantautore per reinventarsi come fine musicista e musicologo.
Un percorso pensato fin dagli esordi, iscritto giocoforza nel DNA del Nostro (come non citare a
questo proposito i genitori Mary Alice e Peter nel progetto di storytelling corale The Amidons?),
perfezionato nel corso degli anni e dei dischi pubblicati. Sam Amidon è riuscito nell'intento di non
diventare egli stesso stereotipo, laddove molti colleghi più o meno illustri hanno invece imbracciato l'acustica per ribadire più la loro appartenenza alla tradizione, che non un sincero confronto
con essa. Per nostra fortuna, Lily-O ha proprio il compito di narrare il nuovo viaggio di Amidon
nelle cerchie più profonde del folk americano, battendo i sentieri di country e blues, ma soprattutto psych, per arrivare ad una nuova forma cantautorale e musicale, ancora legata alle prove scorse,
ma già rivolta a nuovi orizzonti. Un vagabondaggio nella vecchia e nuova America che prende il via
con il banjo vivace dell'opener Walking Boss, arricchita dal violino e dalle percussioni sincopate
del chitarrista e compositore jazz Bill Frisell, la cui presenza, assieme a quella dei fidati Shahzad
Ismaily al basso e Chris Vatalaro alla batteria, conferisce a tutto il disco una vena di improvvisazione e sperimentazione in più. Si prosegue poi con il languido lamento di Blue Mountains, esempio di
quel connubio tra antico e moderno in grado però di orientarsi verso territori maggiormente pop,
subito rivoltato dal country travolgente di Pat Do This, Pat Do That, senza dubbio uno dei pezzi più
riconoscibili del disco, assieme a Won't Turn Back, altro sapiente recupero dalla musica popolare qui
arricchito dal contrappunto del pianoforte e dall'appassionata interpretazione di Amidon.
Il fulcro, però, è rappresentato dalla title-track, che con i suoi quasi nove minuti si propone come
nodo centrale e sintesi dell'album: introdotta da un attacco gospel assorto ma quanto mai potente,
e ricondotta a poco a poco dall'acustica nei meandri dell'old time music e dello psych, il pezzo si
sviluppa in due parti, poi riunite da chitarra elettrica e voce, quest'ultima declinata ora a canto e
preghiera, ora a invocazione e lamento. È, dunque, la proiezione della doppia natura del musicista,
ossessionato in egual misura dalla cultura pop quanto dal declino apparente del folk, ma anche in
grado di far rivivere un genere che in questi anni ha fatto tante vittime quanti proseliti.
Che l'abilità compositiva di Sam Amidon fosse al di sopra delle canzonette e dell'obsolescenza
usa-e-getta di molti gruppi di oggi lo sapevamo da un pezzo, e Lily-O lo dimostra di nuovo. Un
disco che già dalle prime note appare come qualcosa di a sé stante, ricercato senza suonare manieristico, profondo senza apparire pesante, per un artista dalla sensibilità consapevole, capace di
reiventare una musica ancora in grado di stupire e affascinare.
7.5/10
Giulia Antelli
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r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Sam Amidon - Lily-O (Nonesuch,2014)
Genere: cantautori, folk
Scott Matthews non ha solo la "s" finale del cognome che lo distingue dal barbuto cantautore
australiano, ma tutto un mondo emotivo che è entrato di prepotenza in questo nuovo album dal
titolo Home Part 1. Non che nelle precedenti produzioni tutto questo fosse assente, anzi; ma già il
nome del disco suggerisce l'idea che l'artista sia tornato metaforicamente a casa, luogo di ripiego
e introspezione per eccellenza. Dove, tra l'altro, il musicista ha modo di sciorinare la tua (altissima) padronanza vocale e chitarristica, eppure senza mai forzare la mano e anzi mettendo tutto al
servizio di canzoni gentili, intime, fortemente ancorate a una linea immaginaria che unisce Nick
Drake, il Boss di Nebraska e ancora José Gonzàlez, Damien Rice e Antony and The Johnsons.
Home Part 1 è un disco essenzialmente acustico ma ricco di colori e strumentazione dosata nei
minimi dettagli: il risultato è una sequenza di 11 canzoni che suonano poderose e scarne allo stesso
tempo, ricche di pathos compositivo e lirismo nei testi, quanto mai notturni e melanconici. Il trittico iniziale Virginia/The Outsider/Sunlight è micidiale e basterebbe non ascoltare altro per promuovere il disco a pieni voti; invece, dopo lo strumentale guidato dai flauti The Clearing, arriva il
valzer acustico di The City And The Lie, dove il cantautore fornisce una prova eccelsa tanto alla
voce quanto alla chitarra classica.
Con naturalezza e senza quasi accorgersene, si passa attraverso le decadenti progressioni armoniche nella rumba di The Night Is Young (che lentamente si evolve in una ballata rock incattivendosi
nel finale), il folk etereo di Dear Angel e quello che probabilmente è il brano più delicato dell'album, vale a dire quella Mona cui si chiede di restare per scommettere sulla propria vita. Nel finale
arriva un invito a tornare ai luoghi a cui si appartiene per natura e quest'ultimo bozzetto folk in
veste pseudo lo-fi suona quasi come un educato congedo.
L'ispirazione di Scott Matthews, tra le quattro mura di casa in cui è stato registrato il disco, sembra quasi trasudare dalle pareti; non resta che farsi delicatamente travolgere. Se non un capolavoro, ci siamo vicini.
7.6/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Scott Matthews - Home Part 1 (San Remo Records,2014)
Stefano De Stefano
ponenti ritmiche. Atmosfere desolate, tensioni
costanti, che se l'autore non avesse espressamente associato ad una narrativa immaginata
tra galassie e trascendenza (Phobos è satellite
naturale di Marte, figlio di Ares e Afrodite
secondo la mitologia greca), potremmo ricondurre anche a leggendari mondi subacquei,
essendo così marcata la vicinanza ideale tra
gli universi non controllabili dall'uomo. Tutto
questo posato sulle solidissime fondamenta di
una produzione impeccabile, attenta al dettaglio, senza la quale lavori di questo tipo perderebbero di significato.
7/10
Elia Galli
News For Lulu - Circles (Urtovox,2014)
Genere: pop, rock, psych, indie
"Cerchi" che partono con una Into Nowhere
costruita su un basso rotondo in stile Love's In
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o t t o b r e
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messa in campo (a parte l'asse chitarra-bassobatteria, citiamo timpano, Fender Rhodes,
organo, vibrafono, clarinetto, sax alto e tenore),
nell'intrico armonioso delle voci – partecipano
anche Laura Burhen (Mynabirds, Postal Service) e Orenda Fink (Azure Ray) – e nel magico
equilibrio dei suoni. Oltre che in un passatismo
solo apparente, che alla fine finisce per avere il
sapore della modernità.
Disco da ascoltare con la dovuta calma. Del
resto, con tre uscite in sei anni, il messaggio
dei News For Lulu è ben chiaro: peel slowly
and see. Noi raccogliamo la sfida senza remore,
posizionando con cura Circles tra i migliori
album del 2014.
7.3/10
Fabrizio Zampighi
Niagara - Don't Take It Personally
(Monotreme,2014)
Genere: synthpop, kraut
Se una band vanta collaborazioni con Gonjasufi, Notwist, Perdurabo (moniker di uno
personaggio misterioso), ha nel taschino un
contratto discografico con Monotreme, fa
uscire streaming esclusivi con Consequence
Of Sound e Clash Magazine, mostra un sound
internazionale da paura, non stupisce che in
Italia se ne parli poco. La "tronica" in tinte
kraut – sperimentale, eppure comodamente fruibile – dei torinesi Niagara vive questa
sorte, senza crucciarsi troppo delle faccende
mediatiche. D'altronde la musica parla da sola,
e lo aveva già fatto in occasione dell'esordio
del duo, Otto, "top album" a queste latitudini
perché, fra il pop beatlesiano, la folktronica, la
psichedelia e le derive ambient, suonava come
un gioiellino da esportazione.
E difatti la strada spianata non poteva che
essere rosea, dal momento che Davide Tomat e
Gabriele Ottino hanno optato per la via della coerenza, concependo un secondo lavoro,
r e c e n s i o n i
The Air, su arpeggi soffici di chitarra, su armonie vocali di scuola beachboysiana e sull'immaginario psichedelico suggerito dai tremolo dei
suoni, per poi esplodere nell'irresistibile pop
West Coast di Spring Burns: bastano due brani
per farsi raccontare il terzo disco dei News For
Lulu e per capirne la grandezza. Sì, perché se
da un lato è vero che i Nostri sintetizzano in
questa sede un certo scibile rock americano
Seventies ben targetizzabile, è vero anche che
quel che esce fuori è infine materiale brillante,
personale e significativo.
Come dei Crosby, Stills and Nash in Technicolor, i ragazzi riescono nell'impresa di strattonare l'immaginario di cui si diceva (citiamo
riferimenti random: Neil Young, Fletwood
Mac, Eagles, qualcosa dei Quicksilver Messenger Service in certi solo, ma anche un'attitudine "lisergica" aliena che ha più a che
vedere con gente come Flaming Lips o Animal
Collective), innestando al suo interno certi
tempi balbettanti rubati al passato "post-rock"
di Ten Little White Monsters (Eagles, ma anche Say Hello With A Wave e New Year's Eve),
giocando egregiamente tra costruzione della
tensione, orecchiabilità e code strumentali (la
splendida Rain), o richiamando illustri punti di
riferimento (i Wilco suggeriti da Follow And
Run, già frequentati ai tempi dei They Know, o
magari certi Spoon mimati dagli arrangiamenti
di brani come Flowers in the Oven).
A parte la cura riservata alle registrazioni –
portate a termine da Ben Brodin (Mynabirds,
Bright Eyes) a Omaha, in Nebraska, con il
mastering di Joe Lambert (già al lavoro con
Deerhunter, Animal Collective, The National)
– e al suono in generale, a colpire è una scrittura puntigliosa ed efficace, vogliosa ma non
invadente, capace di prendere direttive inaspettate senza rinunciare a una vena pop(rock)
di fondo. La si coglie nei contrappunti ariosi
ma creativi della ricchissima strumentazione
r e c e n s i o n i
Nino Ciglio
Phil Selway - Weatherhouse (Bella
Union,2014)
Genere: rock, alt
Quattro anni più o meno esatti dopo l'apprezzato esordio solista Familial, torna Phil Selway
con un sophomore che di fatto lo propone
come il più adatto tra i cinque Radiohead a
camminare sulle proprie gambe. Più di Yorke,
fisiologicamente portato alla sinergia (a ben
vedere anche The Eraser nacque in combutta
con Nigel Godrich) e diversamente da Greenwood, che necessita invariabilmente di convogliare l'estro in forma di soundtrack. Con la
tenace discrezione che lo ha caratterizzato nei
molti anni di militanza ai tamburi della band
madre, Selway ribadisce di trovarsi perfettamente a proprio agio con la forma canzone.
Dieci pezzi per altrettante ballate ritagliate su
canovacci indie venati di elettronica ed attitudine jazzy, col baricentro mediamente stabile
su un romanticismo fosco e atmosferico.
Il programma parte vagamente Elbow un attimo prima di diventare trip-hop con Coming
Up For Air e arriva dalle parti degli U2 già
eniani ma ancora ruspanti (altezza The Unforgettable Fire) di Turning It Inside Out. Nel
mezzo, un'accorta modulazione di cinematico
e languido che coglie i frutti migliori quando
impasta aura David Sylvian e struggimento
spiegazzato Robyn Hitchcock (Drawn To The
Light), spande scorie agrodolci Elliott Smith
(It Will End in Tears) o spiccia melodia postwave (una Don't Go Now che deve qualcosa ai
Tears For Fears). Tutto ciò senza farsi sfuggire l'occasione di instillare un dubbio nel gentile
auditorio, che cioè il suo contributo nell'economia dei Radiohead sia (stato) più importante di
quanto non si calcoli normalmente: vedi come
si disimpegna Around Again tra ritmica dinoccolata jazzy ed il vortice teso della melodia,
o t t o b r e
Don't Take It Personally, sulla scia dell'esordio, ma con piccoli e significativi aggiustamenti. Innanzitutto il concept, che ci è sembrato di
cogliere anche in molti altri artisti che mettono
mano a tecnologie raffinate che poi finiscono
col possederli: c'è un limite alla curiosità, alla
sperimentazione, alla tecnologia? E se sì, come
facciamo a conviverci o a farla convivere con la
natura? Da queste domande sembra derivare,
dunque, il senso a volte claustrofobico di questo disco, virato verso colori bristoliani, con un
occhio al trip hop dei Massive Attack e l'altro
all'IDM, magari di stampo Warp (Gonjasufi ha
remixato il singolo Curry Box).
Questa natura, alla fine dei conti, viene sintetizzata in un trionfo di artificialità, come se la
montagna di synth fosse solo un pretesto per
tornare a parlare di terra, aria, acqua, fuoco.
D'altronde – e le radici folktroniche (Notwist,
Lali Puna) non mentono – se è vero che tutti
i brani nascono con una componente acustica
non indifferente, è vero anche che, giocoforza,
la bilancia pesa dal lato della sperimentazione più creativa, sia essa di natura cibernetica
(Speak and Spell, Popeye) o propriamente
psichedelica. Se volessimo chiamare in causa dei nomi, dunque, dovremmo riferirci alla
creatività scolorita degli Animal Collective,
alle follie acrobatiche dei Beatles psych (Laes),
alle suggestioni kraut dei Porcupine Tree,
anche se gli episodi migliori emergono quando
i due si avventurano sulla stessa strada percorsa dai These New Puritans, con un tocco di
Radiohead (Curry Box) o TV On The Radio
(Vanilla Cola).
Don't Take It Personally, seppur in continuità e coerenza con il precedente Otto, rende i
Niagara una delle realtà più interessanti del panorama elettronico italiano perché, nonostante
le sperimentazioni e i macchinari utilizzati,
resta un disco profondamente umano.
7.3/10
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Genere: rock, noise
Cosa aspettarsi da un disco degli Shellac nel 2014, quasi 2015? Sommovimenti clamorosi, stantia fedeltà alle origini, stanche prove giusto per accumulare date dal vivo? Tutto e nulla di tutto ciò. Gli Shellac sono quello
che sono da quando l'uomo (Albini, chi altri) inventò la chitarra (semicit.
parafrasata da film culto della commedia italiana) e – vedi alla voce promozione completamente inesistente ampiamente dichiarata molto prima
dell'uscita dell'album (cosa che stride molto con le paraculate alla Aphex
Twin da un lato, quello dei giusti, e degli U2 dall'altro, quello degli approfittatori fastidiosi) – se ne
fregano pure molto.
Suonano, gli Shellac. Registrano dischi quando viene loro voglia ("Recording took place sporadically over the past few years", T'n'G dixit), non intasano il mercato tanto per esser presenzialisti,
non sporcano e non disturbano (fosse vero). Solo che quei dischi che parcamente elargiscono a
distanze ormai siderali – Excellent Italian Greyhound, risalente ormai a sette anni fa, e il predecessore 1000 Hurts, addirittura del 2000 – sono sempre un piccolo evento; per nostalgici e diehard fan, ovviamente, ma non solo (vedi alla voce polemiche "social" sulla scelta della non promozione di cui sopra).
Il problema, se di problema si può parlare, è che suonano sempre tutti (magnificamente) uguali.
Per forza di cose, si dirà, visto che l'impianto è quello ormai storicizzato dal primo passo (fanno
vent'anni precisi dal primo full-length) e centrato su un power-trio di rara lucidità e malvagità
sonora, metronomico quanto tagliente in quell'interplay tra batterie asciutte e ridotte all'osso,
chitarre affilate e così tremendamente albiniane (banalità: mode on) e bassi caterpillar e circolari.
Tutto sempre sviluppato secondo una logica geometrica e reiterata che è un trademark definitivo
della band: della serie, un giro qualsiasi degli Shellac lo si riconosce tra mille. E tra mille risaltano
tutti i pezzi di questo nuovo (vecchio) album, come a dire che la classe, quando c'è, è bene ribadirla, seppur con parsimonia: dagli intrecci dell'opener Dude Incredible, col suo procedere a ondate,
allo stop'n'go rovesciato di Complaint; dall'apparentemente annoiato sound di Riding Bikes (una
canzone su "the context of children or adolescents riding bikes,[...] You're not just riding bikes,
you're having adventures, you're breaking things, you're stealing things, you're causing minor
vandalism") alla celia noise-rock a zero fronzoli di The People's Microphone (ispirata alla comunicazione orizzontale del movimento "Occupy"); dal (post)noise-rock newyorchese di You Came In
Me ("a fairly straightforward song about sexual intercourse") a quello in implosione di Gary.
Su tutto, una specie di riflessione concettual-politica su padri fondatori, "surveyors" nel doppio
senso di "agrimensori" e controllori, rivolta e progresso, insubordinazione e aggregazione, che fa
del disco un lavoro ottimo anche dal punto di vista ideologico, oltre che strumentalmente nel solco
della tradizione shellachiana. Per i prossimi sette anni dovremmo essere a posto.
7.5/10
Stefano Pifferi
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r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Shellac - Dude Incredible (Touch and Go,2014)
l'abbandono dolciastrio di Ghosts riconducibile ad Exit Music, la pulsazione circospetta di
Waiting For A Sign o la bruma di Let It Go con
le sue caligini sintetiche ed il vibrafonino à la
No Surprises.
Quanto detto finora deve inserirsi in un quadro
espressivo che trova limiti pressoché invalicabili nella voce di Selway, puntuale e appassionata ma piuttosto monocorde, incapace di
imprimere una direzione forte alla canzone,
tanto che finisci con provare una specie di
irragionevole nostalgia per quello che potrebbe
divenatre la ieratica Miles Away se affidata ad
uno Yorke qualsiasi. Tirate le somme comunque si tratta di un buon lavoro.
6.8/10
Robyn Hitchcock - The Man Upstairs
(Yep Roc,2014)
Genere: cantautori
Ventesimo album in carriera, The Man Upstairs vede la produzione – fortemente voluta dal
musicista inglese – del leggendario Joe Boyd
(Nick Drake, Fairport Convention). E' un
disco stile anni '60 di preferiti, con cover note e
meno note, insieme ad alcuni originali, il tutto
con un trattamento folk e un mood rilassato da
interprete. Apre The Ghost In You (The Psychedelic Furs), dove Robyn Hitchcock trasforma l'andamento piuttosto nervoso dell'originale in una ballad morbida e di forte personalità,
trattamento in genere riservato agli altri rifacimenti; tra i più conosciuti, ricordiamo To Turn
You On di Bryan Ferry (Avalon) e The Crystal
Ship di Jim Morrison, quest'ultima resa canzone. Altre cover-riscoperte sono Don't Look
Down (Grant Lee Phillips) e la spettacolare
Ferries (I Was A King).
Gli originali presenti (San Francisco Patrol,
Trouble In Your Blood, Somebody To Break Your
Heart, Comme Toujours, per la maggior parte
Teresa Greco
Roman Flügel - Happiness Is Happening
(Dial,2014)
Genere: elettronica
Roman Flügel produce musica elettronica,
nascosto da infiniti pseudonimi, fin dall'inizio
degli anni Novanta. Con Jörn Elling Wuttke
prima forma Acid Jesus, poi Alter Ego (è loro
la hit electro-punk Rocker). Più di recente, in
parallelo agli alias, pubblica con il suo vero
nome: c'è il successo commerciale su larghissima scala con Geht's Noch? (pezzo del 2004, poi
diventato template per miriadi di producer),
una collezione di numeri techno-jazz (Superstructure, 2005, con il musicista Cristopher
Dell), ma soprattutto due album, Fatty Folders
(2011) e Happiness Is Happening (2014), nei
quali Flügel dispensa electro esotica e deephouse a tinte cupe, impressioni kraut e suggestioni synth-pop.
Happiness Is Happening è la messa a fuoco, o
meglio, il consolidamento, di una cifra stilistica.
Un insieme omogeneo di visioni trasformate
in musica di marca tipicamente mitteleuropea.
Visioni costruite su drum machine all'apparenza fredde, algide, progressivamente colorate da
esplosioni sintetiche (Connection The Ghost),
da storie tribali di civiltà lontane (Stuffy), da
giochi di contrappunti tra ritmi e melodie,
super-effettati e super-manipolati (Parade).
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Stefano Solventi
ballad) ben si adeguano al mood generale del
disco, folk morbido di razza. Un altro centro
dopo il bell'album di inediti dell'anno scorso di
cui abbiamo detto positivamente (Love From
London).
Intendiamoci, uno come Hitchcock ha ben
poco da dimostrare vista la lunga e proficua
carriera, è una garanzia l'ottimo livello che
riesce a mantenere sempre. Lunghissima vita al
nostro eroe.
7.3/10
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Genere: pop, funk, elettronica, afrobeat
Per capire Sinkane dovreste internare sotto chiave Stevie Wonder,
Sting, la famiglia Kuti, Sam Cooke e giù giù fino a creare una costellazione o una losanga (afro)americana percepibile fino a un certo punto. Tralasciando che per il randez vous bisognerebbe evocare un bel po' di spiriti
e trovare la location per la jam, quello che eventualmente se ne trarrebbe,
assomiglierebbe a un crumble vistoso, esotico, come dire reggae, disco
e funk, come dire blaxploitation e r'n'b anche quello un pochino becero,
beat come dire Motown, e poi – e qui il Nostro si supera – country e soul come dire bossa.
Ecco, provate solo a capirne le potenzialità. Figliolo di due esuli politici sudanesi, Ahmed Gallab
aka Sinkane si è fatto un bel mazzo nella scena hardcore-punk di Columbus, Ohio, per approdare
poi come turnista nell'eremo di Of Montreal, Caribou e Yeasayer. Due anni fa ha avuto quello che
si meritava, e cioè l'applausometro in tilt e un bell'hype da club in occasione dell'uscita di Mars
edito per DFA records. Quest'anno tocca ascoltarci Mean Love, sai che fatica. C'è un ufficiale
retro-soul mania ultimamente, ma qui si va ben oltre, perché come potrebbe uno come Sinkane
fermare le lancette del tempo alle sole anime pure? Si mischia, si contamina e si macina centimetro su centimetro farina che sembra oro, segale che sembra bronzo.
Non c'è cintura che tenga o dio o figliol prodigo. L'afro beat vapour di New Name, il clavinet di
Yacha e il reggaettone di Young Trouble perdonano anni e anni a sentire robaccia senza capirci
niente. Ma poi l'intensa curva vocale di Son sostenuta dalla tastiera, che se non fosse cantata da un
maschio parrebbe quella di Billie Black. L'intreccio con handclap, basso stellare e inserto di flauto
in How We Be, la bossa – eccola qui – strafatta di downbeat francaise in Moonstock, l'intro country con percussioni dolcissime in Galley Boy. Tutti, uno ad uno, i brani sembrano fertilizzati, lavorati con sapienza analogica, senso epidermico del ritmo e della melodia. Proviamo ad immaginare
dove potrà mai portarci questo ragazzo. Proviamoci.
7.2/10
Christian Panzano
Friendship Song canta la vicinanza – in termini
sonori e geografici – ai Kraftwerk, ma anche
al synth-pop britannico d'inizio anni Ottanta
(si sente, aristocratica, la stessa impronta del
Vince Clarke che pensa Speak and Spell,
primo LP dei Depeche Mode, e tutto il materiale Yazoo). Wilkie rielabora in formato kraut
un cadenzato incedere cosmic-disco, le tastiere
liquide di All That Matters sono viaggio di sola
andata verso sconosciute spiagge equatoriali,
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Occult Levitation è house eterea e leggerissima. Gli scenari pastorali, prima coperti dalle
tenebre, sfregiati da schegge acide (Your War Is
Over), vengono squarciati dagli arpeggi e dalle
svisate di sintetizzatore (We Have A Nice Life).
C'è una linearità, un'essenzialità, forse solo
materiale, che però disegna un disco capace
di sovrapporre immagini su immagini. Flussi
sonori che viaggiano su binari nitidi, precisi,
per poi improvvisamente deragliare e tornare
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Sinkane - Mean Love (DFA records,2014)
in pista con la stessa naturalezza con la quale
ne erano usciti. Senza inciampare in fin troppo
facili caricature delle correnti musicali di riferimento, Flügel sigla un lavoro da ricordare.
7.3/10
Elia Galli
Genere: rock, hardrock, blues, garagerock
Verrebbe voglia di stroncarli al volo, i Royal
Blood. Primi in Inghilterra, primi in Irlanda,
terzi in Australia: qualsiasi cosa si possa dire
di loro, la new sensation d'Albione la sfida dei
numeri pare già averla vinta. Così giovani e così
venduti: perché non accanirsi sulla qualità artistica? Facile, con tutto quell'hype. E invece no:
il duo composto da Mike Kerr (basso e voce)
e Ben Thatcher (batteria), formatosi solo un
anno fa a Worthing, vicino Brighton, la sostanza ce l'ha. Uscito su Warner, prodotto dalla
band assieme a Tom Dalgety, il disco si presenta con l'anatema di dover confermare le aspettative, nate con i singoli precedentemente editi
e con l'Ep Out Of The Black, uscito quest'anno
solo negli Stati Uniti.
Ed è proprio con Out Of The Black che si
apre il disco: intro spezzata che pare presa
dai QOTSA a cavallo tra Novanta e Duemila,
nonostante il fracasso venga da due soli individui. Le progressioni, i cambi di tempo, gli
stop 'n' go sono quelli propri di un hard rock
evoluto, ovvero passato attraverso il tritacarne
dello stoner e del fuzz ma senza la componente
insana/minacciosa. Se la missione dei Royal
Blood di non risultare un fuoco di paglia sia
stata compiuta o meno, ce lo diranno i dischi
seguenti, ma le premesse sono buonissime,
soprattutto se si pensa che ciascun pezzo è
stato praticamente registrato in stile "buona la
prima", e che viene pur sempre da un'accoppiata basso-batteria.
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Royal Blood - Royal Blood (Warner
Music Group,2014)
Il suono è quello dei Black Keys che ascoltano troppo i Black Sabbath e abbastanza punk
senza passare dal blues delle origini, mentre
crescono al Rancho de la Luna (Figure It Out).
In alcuni tratti alla voce sembra di sentire un
Matthew Bellamy dei Muse impossibilitato
a cimentarsi in acuti e falsetti da operetta. Lo
stoner è un riflesso addolcito (per non dire addomesticato) da una produzione forse troppo
pulita, che non valorizza al massimo i momenti
di dinamismo di pezzi che usano i soliti espedienti del genere: il riff solitario, l'assolo di
batteria o di basso, la ripartenza forsennata,
il coretto glam. Ma tutti gli elementi sono al
posto giusto, suonati bene, in certi tratti benissimo, come in You Can Be So Cruel, che pare
una jam tra Jack White alla voce e Nick Olivieri
al basso. Certo, una buona dose di perizia non
sopperisce ad una personalità poco pronunciata: in certi momenti viene fuori una certa
stanchezza che ricorda i Wolfmother più
macchinosi, in altri una tendenza al radiofonico che scade semplicemente nel caciarone (Ten
Tonne Skeleton), ma sono momenti che non
rappresentano, per fortuna, la totalità di un
programma che per il resto scorre bene. Con
più lode che infamia.
Staremo ora a vedere cosa succederà, se questo
duo sarà fagocitato dalle brame di un'industria
che meno dischi vende e più visibilità artificiale cerca di costruire o se riuscirà a divincolarsi
da queste minacce. Di sicuro, chi aveva i fucili
puntati può abbassarli, almeno fino al prossimo
giro.
6.4/10
Andrea Macrì
Ryan Adams - Ryan Adams (PaxAm
Records,2014)
Genere: cantautori, rocknroll
E' sempre difficile parlare di Ryan Adams
perché il cantautore americano è abituato a
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Genere: rock, folk
Malinconia, dolcezza, disagio, trasporto, amarezza. Queste sono solo
alcune delle sensazioni che scaturiscono dalla musica dei Wilco, una
band che come poche, pochissime altre, può vantare un'integrità e un
valore senza eguali. Un gruppo che si ama e basta, senza riserve, e che in
vent'anni di carriera ha saputo alternare capolavori a "soltanto" ottimi
dischi. Insomma, possiamo davvero affermare che i Wilco siano uno dei
più grandi gruppi di sempre, e viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato
di loro senza il leader Jeff Tweedy, che, dal principio, ne rappresenta il fulcro poetico ed anche
emotivo.
Possiamo però anche porci l'interrogativo opposto, perché stavolta il buon Tweedy si presenta da
solo, con un album che è il suo primo ufficialmente da solista, anche se in realtà lo è solo a metà:
non solo perché è inevitabilmente legato al sound di provenienza, ma anche perché è stato registrato con un ospite/collaboratore d'eccezione, ovvero il figlio diciottenne Spencer. Sukierae è
il primo lavoro di Tweedy senza i suoi compagni, ed è un disco pensato, nato e dedicato alla sua
famiglia, come conferma anche il titolo, che riprende il nomignolo della moglie Sue Miller.
"Ho dovuto aspettare diciotto anni per registrare questo disco, perché dovevo far crescere un
batterista": con la sua solita ironia, il Nostro ha spiegato che l'idea di un lavoro in solitaria era già
nell'aria da tempo, come dimostrano i numerosi progetti al di fuori del gruppo che lo hanno visto
protagonista in questi anni. Un paio di importanti produzioni (Mavis Staples, Low), ma anche
tour acustici in giro per gli Stati Uniti e collaborazioni illustri, come ad esempio Song Reader
di Beck, a voler forse ribadire la sua doppia identità di frontman e di songwriter profondamente
immerso nella tradizione americana. In sintesi, potremmo dire che Sukierae rappresenta un ulteriore tassello nel percorso umano e artistico di Jeff Tweedy, ed è facile capire perché abbia voluto
il figlio come compagno di viaggio. Già abile polistrumentista, Spencer sembra avere la medesima
sensibilità del padre, la stessa curiosità che ha spinto l'adulto, a suo tempo, a voler esplorare gli
infiniti meandri dell'Americana, del folk e del country. Cambiati i tempi e le modalità, ma con lo
stesso rispettabilissimo background, padre e figlio viaggiano attraverso vent'anni di contemporaneità, e il risultato è Sukierae, un disco appassionato, intenso, profondamente vero. Venti brani
per oltre 72 minuti di musica, che si aprono con la rabbia incalzante di Please Don't Let Me Be So
Understood; un mix di generi che spazia dal rock al folk, dal country all'avant pop, passando per
jazz e psych, come dimostra la grande varietà dei brani.
A provarlo, episodi maggiormente classici quali World Away e I'll Sing It, con chitarre corpose e
volumi elettrificati, così come gli assoli dilatati e struggenti di Diamond Light Pt 1 e Slow Love, in
cui riecheggia l'inquietudine sintetica di I'm Trying To Break Your Heart. Altrove, ritroviamo tutto
il fascino della polvere Americana: la disarmante dolcezza di Honey Combed, esempio di quella
malinconia acustica marchio di fabbrica dei primi Wilco, così come il country da manuale di Fake
Fur Coat, o la freschezza sixties/pop di Summer Noon e New Moon. Ad unire il tutto, una fragilità sospesa, una tenerezza inquieta, direttamente indirizzate alla già citata moglie Sue. Qualcuno,
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r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Tweedy - Sukierae (dBpm,2014)
forse, potrà rimproverargli di non aver aggiunto nulla di nuovo alla già esaustiva discografia dei
Wilco, così come qualcun altro considererà Sukierae solo un'avventura estemporanea o l'ennesima variazione sullo stesso tema, ma in fondo cosa importa? La bellezza di questo disco sta nella
conferma che Jeff Tweedy continua ad essere quello che è, ovvero una figura genuina e visionaria,
a suo modo straordinariamente carismatica e soprattutto ancora capace di grandissimi episodi. Vi
basta?
7.4/10
spiazzare sin dagli esordi solisti di Heartbreaker, dopo la parentesi con i Whyskeytown.
Ogni disco in carriera non è mai stato uguale
ai precedenti, e questo ha permesso all'artista di esplorare tutte le strade dell'alternative
country, finendo per abbracciare l'indie rock, il
folk e il classico cantautorato a stelle e strisce
di springsteeniana memoria. Oggi Ryan Adams
è una persona diversa, lontana dagli eccessi di
una vita da rockstar e con una serie di problemi
buttati alle spalle (leggi alcolismo e un matrimonio finito male); in questi casi, di solito si
mette un punto e a capo.
Ryan Adams è un album di rock blues con
venature AOR direttamente mutuate dagli anni
Ottanta. Le prime tre canzoni, Gimme Something Good, Kim e Trouble (dove sembra di
ascoltare i Wallflowers di Jacob Dylan) parlano chiaro: corpose chitarre elettriche in evidenza, riff che lasciano spazio al cantato sotto
una sezione ritmica solida ed essenziale. L'uso
di organi hammond e di chitarre acustiche
in alcuni momenti, completa il quadro di un
album che non presenta nessun punto debole,
nelle undici canzoni che lo compongono.
Non ci sono dischi simili a questo nella discografia del musicista (forse Rock and Roll del
2003 può avvicinarglisi per l'approccio generale alla materia sonora), ma alcuni momenti
riescono ancora a riportarci al Demolition
del 2002: è il caso di My Wrecking Ball, che è
una delicata e intima ballata che odora dello
Springsteen di Nebraska. Ma dura solo un attimo, perché con Stay With Me si è di nuovo catapultati nella dimensione AOR che sembra essere il filo conduttore del rinnovato cantautore;
altre soddisfazioni arrivano con Feels Like Fire
e soprattutto con le ultime due canzoni, Tired
Of Giving Up e Let Go: in particolare, sembra
che qui Ryan Adams stia parlando a sé stesso
provando a fare i conti con il difficile periodo
affrontato in passato. Inutile dire che per il suo
pubblico i momenti di maggiore riconoscibilità
dell'artista sono proprio qui, in quelle melodie
malinconiche e in quei testi drammaticamente
onesti che fungono da filo conduttore per tutta
la sua produzione.
Che suoni folk, alt. country o rock, Ryan Adams
è ancora un artista fortemente ispirato, che sa
regalare album di alto profilo. E questa è una
fortuna.
7.1/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Giulia Antelli
Stefano De Stefano
SBTRKT - Wonder Where We Land
(Young Turks,2014)
Genere: dubstep, elettronica, post
Non è immediato trovare la quadra per questo secondo attesissimo album, a tre anni
dall'esordio sulla lunga distanza del progetto
143
o t t o b r e
144
ad un nu soul notturno e cinematico.
La copertina cita il film d'animazione fantascientifico francese La Planète Sauvage (1973,
disegni di Roland Topor, regia di René Laloux),
ma i riferimenti sci-fi (tranne che negli strumentali Lantern, saggio breve di due minuti,
e Osea, in collaborazione con il promettente Koreless, sempre scuderia Young Turks)
rimangono sottopelle, nelle scelte complessive di sound design che ricordano i recenti
esperimenti di FaltyDL, ma non osano tanto.
I quattro interventi di Sampha definiscono
bene l'ambito di riferimento, future r'n'b comunque più corposo e complesso delle recenti
proposte di SOHN o di Chet Faker: la title
track è post-non-post "cantautoralizzato" alla
James Blake; Temporary View, altra vetta nel
saliscendi dell'album, è canzone dall'equilibrio
perfetto tra pop ed eleganza; il minuto e mezzo
pianoforte-voce di If It Happens, sviluppato e
dato ad Adele, avrebbe spaccato le chart mondiali; la scorribanda afro Gon Stay, con basso
gracelandiano e pennellate fender rhodes, è già
meno memorabile.
Le scelte dei vocalist dimostrano un particolare
interesse verso il mercato USA (il denso tour
autunnale americano ne raccoglierà i frutti):
oltre a Koenig, nei credits compaiono il diciottenne Raury, cantautore black emergente da
Atlanta (il rap in apnea di Higher), il rapper
A$AP Ferg da Harlem (nella conclusiva hip
hop acustica Voices in My Head, dalle evidenti
radici Roots, le sue lyrics parlano del padre
morto e di droga) e la languida Caroline Polachek dei Chairlift (Look Away è sfuggente
come lo sguardo della ragazza in 3D del video
interattivo). Completano i ricchi credits due
voci femminili UK: ma, sia quella ormai sontuosa di Jessie Ware (Problem Solved) che
quella educata e suadente della giovane Denai
Moore (The Light), sono utilizzate per tracce
che non si aprono mai completamente e ri-
r e c e n s i o n i
SBTRKT, da parte del titolare Aaron Jerome Foulds. Da un lato capitalizzando gli studi
accademici in produzione musicale, dall'altro
cogliendo in pieno lo spirito del tempo con un
naturale killer instinct per la canzone perfetta,
il non-più-misterioso producer inglese (ormai
le iconiche maschere futuristico-tribali create
dal design studio A Hidden Place lasciano più
trapelare, che nascondere) ha ritagliato un suo
riconosciuto spazio nel panorama popstep UK.
Dopo l'acclamato album omonimo del 2011,
SBTRKT ha ridotto sensibilmente le uscite
su disco, dedicando tutto il tempo disponibile
nella sua fitta e remunerata agenda live per il
confezionamento del seguito. I tre EP della serie Transitions, pubblicati tra maggio e giugno
2014, vanno visti come una sorta di diario di
appunti e sketch preparatori (Resolute, traccia
in Transitions II, è la versione strumentale di
Temporary View) per un album che, forse per
eccesso di confidenza, risulta ricco di spunti
interessanti ma complessivamente fuori fuoco.
La decisione di anticipare la pubblicazione di
ben sei brani (più della metà dei 42 minuti e
23" totali dell'LP) nei due mesi prima dell'uscita del disco può quindi dimostrarsi scelta
tatticamente azzeccata, spostando l'attenzione
più sui singoli episodi che non sul lavoro complessivo: in Wonder Where We Land sono
infatti incastonati brani piacevolissimi e di alto
livello qualitativo, in grado di alzare da soli la
media della valutazione complessiva.
Il primo singolo è particolarmente fuorviante,
ma è anche una delle più trascinanti canzoni
dell'anno: in New Dorp, New York la presenza
di Ezra Koenig dei Vampire Weekend è più di
un semplice featuring, portando in dote con piglio princeiano atteggiamenti funky e afrobeat.
Il pezzo è però l'unica concessione al mondo
dance che troviamo in un album che lascia da
parte ogni riferimento al 2step garage, ossatura
del precedente, per dedicarsi principalmente
mangono irrisolte. Anche Everybody Knows,
dal giro armonico jazzato (la Love Unlimited
Orchestra in versione trip hop) e con sample
vocale non accreditato, lascia insoddisfatti per
le potenzialità inespresse.
Viste le premesse, da Wonder Where We
Land ci si aspettava di più. Ma visto il livello
delle aspettative, e la qualità di almeno due dei
brani contenuti più altri momenti pregevoli, il
risultato rimane più che sufficiente.
6.7/10
Alessandro Pogliani
Genere: techno
Linear S Decoded, il secondo album degli svedesi Shxcxchcxsh, vede il duo muoversi da un
ambito techno industrial mutante, già esplorato ed ibridato, verso nuovi lidi, come faceva già
presagire il breve e minimale video dell'intro
del disco, uscito l'8 agosto 2014: un movimento
di macchina radente alla superficie di un lago,
in cui si intravedeva una vegetazione che sembrava quasi affiorare dall'acqua, mente il brano,
Entering The S-Cloud, evocava atmosfere alla
David Lynch.
Il duo ha dichiarato di aver dato più spazio alle
atmosfere e agli aspetti melodici, continuando l'opera di contaminazione e ricerca che lo
contraddistingue. Il disco ha, per la prima volta
nella carriera della formazione, titoli comprensibili: elemento non trascurabile, che ha
giocato sin dall'inizio con una certa tradizione
"oscura" in un ormai consolidato (e forse abusato) gioco situazionista, in cui è quasi d'obbligo celare le proprie identità anche quando
si suona dal vivo. Più che di techno industrial,
soprattutto rispetto a quest'ultimo lavoro, si
dovrebbe parlare di una techno che porta con
sé principalmente elementi IDM assieme a
cupe e spettrali incursioni electro/breakbeat:
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Shxcxchcxsh - Linear S Decoded
(Avian,2014)
si rallenta la battuta e si curano molto di più le
atmosfere che lavorano su una vasta scala di
grigi, presentando dinamiche sempre mutevoli.
Drain This Lord e Elocution sono brani che
offrono ancora una techno veloce, metallica
e martellante che si riconnette efficacemente alle sonorità dei lavori precedenti. Invece,
brani come Wading Guise sembrano evocare
il fantasma di Burial, assieme a vaghe reminiscenze trip-hop. Tutto il disco si muove in
un'atmosfera subacquea, presentando anche
campionamenti di rumori acquatici, in quello
che sembra un lago oscuro. Siamo permeati, a
tratti, da bravi flash luminosi provenienti dalla
superficie, come accade in The Roots. Helical
Dialog è una veloce e claustrofobica tempesta
di bassi e toni mid-rage distorti, mentre The
Under Shore sembra tornare nei territori di un
dubstep melanconico ed evocativo. A Sunny
Day In Ostrogothia e Rudimental Retreat sono
lenti brani techno-dub dai grezzi e decisi bassi
metallici post-industriali. In Sub Mission – The
Atlantic Vision la battuta si rallenta sino a sfaldarsi in schegge sonore di vago sapore IDM,
sino all'emersione melodica e malinconica del
brano finale: Monolitich Conclusion.
Sicuramente gli Shxcxchcxsh sono parte di
quel movimento di produttori europei che
stanno inserendo nella propria musica elementi sempre più apocalittici e post-umani,
non scevri però da una fascinazione per cupe
melodie che tratteggiano affascinati paesaggi solitari, come quelli evocati dal duo scandinavo. Un'elettronica mutante che riesce a
conquistare il dancefloor meno mainstream
con musiche da rave in capannoni industriali
dismessi, ma che riesce a coinvolgere, al contempo, appassionati di uno spettro di musica
"dark-oriented" molto vario.
7/10
Marco De Baptistis
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Genere: rock, psych, blues
Ascolti qualche intervista al gruppo recuperata in rete e finisci per accostare gli Universal Sex Arena ai Led Zeppelin testosteronici del Robert
Plant che cantava "i'm gonna give you every inch of my love". Del resto il
disco d'esordio della formazione, pubblicato nel 2013, si intitolava Women Will Be Girls, mentre il qui presente Romancitysm parla di una
"città" intesa come "entità femminile che genera vita e racconta i suoi
processi, meccanismi, sistemi. […] La città è la donna. Sensuale. Molto
articolata". Tanto per dire che si allarga il cerchio, ma il succo del discorso rimane lo stesso. Plantiano è anche il cantato, timbro soul bianco con qualche reminiscenza sudista in stile Zakk Wylde
periodo Pride and Glory, o magari debitore verso un Rob Tyner degli MC5: roba che da sola tiene
su metà dei sette brani di questo secondo album della formazione veneta, in uscita per La Tempesta International.
Eppure c'è anche altro, nell'immaginario degli Universal Sex Arena, e non ha a che vedere con la
categoria "classic": l'approccio tutto sommato ironico alle tematiche trattate, una line up piuttosto
peculiare (due batterie, percussioni, due chitarre elettriche, synth, basso) e una musica che pare
un folle e meraviglioso danzare tra immaginario rock e avanguardia, riff lancinanti e tribalismo
terzomondista, no wave e ballad oblique. Quello che accade in una Breathe The Light figlia degli
MC5 di cui sopra ma avvitata su un suono angolare fatto di poliritmie carnali e assoli blues di armonica, in una Sudden Donna fondamentalmente soul che si accascia su una psichedelia morbida
e uterina, o magari una The Last Detroit's Urbanist che suona beefheartiana fino al midollo, pur
possedendo un'indole quasi hard rock.
La produzione artistica del Jennifer Gentle, Marco Fasolo, e il fatto che il disco sia stato registrato in una settimana e dal vivo fanno il resto, consegnando ai posteri un lavoro entusiasmante e
surreale, immediato e intellettuale al tempo stesso. Uno di quei sogni adolescenziali sudati e folli
in cui tutto è meravigliosamente fuori posto ma, chissà come, credibile.
7.2/10
Fabrizio Zampighi
Simian Mobile Disco - Whorl (ANTI,2014)
Genere: electro, house
Difficile scrivere di Simian Mobile Disco senza tirare in ballo, ancora una volta, quella scena
electroclash che gli stessi James Ford e Jas
Shaw frequentarono, e per la quale dispensarono contributi decisivi. Sono pochi, in ambito
elettronico, quelli che sono riusciti a prendere
146
le distanze da certi eccessi – in quegli anni
ampiamente sdoganati – e tornare alla carica
con materiale rilevante. E allora, sempre di
più, si cerca l'essenziale, back to basics, con un
disco – Whorl – pensato come semplice registrazione di un set suonato dal vivo (il 26 aprile
di quest'anno, al Pappy and Harriets Saloon di
Pioneertown, California), utilizzando strumentazione ridotta al minimo indispensabile (un
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Universal Sex Arena - Romancitysm (La Tempesta International,2014)
Elia Galli
Sinead O'Connor - I'm Not Bossy, I'm
The Boss (Nettwerk Music Group,2014)
Genere: pop
Poche carriere sono state turbolente tanto
r e c e n s i o n i
quanto quella di Sinéad O'Connor. Emersa
con il bell'album di debutto The Lion and the
Cobra e divenuta in breve tempo una star di
prima grandezza grazie al successivo I Do Not
Want What I Haven't Got (e soprattutto, ironia della sorte per una cantautrice, a una cover
di un brano minore che Prince inizialmente
donò alla band The Family, Nothing Compares
2 U), spiazzò subito il pubblico con un disco di
standard inciso con una big band, dichiarazioni
forti, una foto di Giovanni Paolo II strappata
sul palco durante l'esecuzione di un pezzo di
Bob Marley e una miriade di collaborazioni. In
molti, a torto o a ragione, smisero di seguirla
dopo Faith and Courage, perdendosi quindi
le sue incursioni nel folk e nel dub; il colpo di
coda è stato How About I Be Me (And You
Be You)?, un lavoro organico e baciato da una
ritrovata ispirazione. Da sempre un'artista e
una donna imprevedibile, stavolta Sinéad ha
cambiato strategia e ha preferito non avventurarsi in territori musicali insoliti, consegnando
il seguito ideale del lavoro del 2012.
Sono canzoni asciutte, musicalmente accessibili, mature e che vanno dritte al sodo, quelle
che propone in I'm Not Bossy, I'm The Boss.
Sono ritratti di donne che sfilano sotto forma di
canzoni, anche se è inevitabile che ci siano reconditi riferimenti autobiografici, in un album
che più che rendere un omaggio idilliaco all'universo femminile, alla sua forza e al desiderio
di riscatto (il titolo è stato cambiato all'ultimo
momento, ispirato dalla campagna Ban Bossy
lanciata da Sheryl Sandberg e che ha coinvolto
personalità come Beyoncé e Condoleeza Rice),
ne racconta anche le contraddizioni, in quell'eterna guerra dei sessi in cui anche la donna più
orgogliosa e combattiva si scopre succube e,
specie se entra in gioco l'amore, tende a smettere di lottare. Sinéad gioca in copertina vestita
in PVC, con una parrucca e un'immagine glam
che mai prima d'ora aveva adottato, ma ascol-
o t t o b r e
sintetizzatore analogico e un sequencer ciascuno). Schema di fondo molto simile a quello
di Holkham Drones, album di Luke Abbott,
pubblicato da Border Community qualche
mese fa. Un nome, quest'ultimo, insieme al
quale i Nostri condividono le coordinate spazio-temporali degli esordi (fermenti post-Gigolo, seconda metà degli anni Zero, Inghilterra),
dando per scontate le significative differenze
in termini di stile e cadenze produttive, e con il
quale tornano oggi ad incontrarsi, con Simian
Mobile Disco decisamente più propensi ai ritmi
e alla pista.
Whorl disegna un dancefloor vellutato, abilmente posato sulle atmosfere spacey, sgravato
dalle ruvidità che furono marchio di fabbrica
per qualche stagione. Ricorderemo Tangents,
coro di sintetizzatori a più voci su cassa dritta, rievocazione intima di collaudati approcci
anthemici, oppure Jam Side Up, che in coda
gioca a slegare gli strumenti sul breakbeat. Poi,
le costruzioni di layout sintetici sui bpm rallentati di Iron Henge, i tribalismi cosmici di Sun
Dogs e Hypnick Jerk, i quadretti dallo spazio
in assenza di drum machine, quasi in fotocopia
(Redshift, Dandelion Spheres, Z Space). L'amarcord di un passato spavaldo, che continua a
confrontarsi con queste nuove direzioni, innesca gli arpeggi di Calyx – distorti sì, ma non
così pesantemente come si usava – e Dervish,
electro a fumetti con loop di tastiera sopra una
traccia di contrappunti ritmici. Una serie di
suggestioni che, sulla scia dei precedenti Delicacies (2010) e Unpatterns (2012), dimostrano
la presenza di un gusto in costante evoluzione.
6.7/10
147
Genere: kraut
Discograficamente silenzioso da qualche anno, Valerio Cosi non se ne è
stato con le mani in mano. Anzi, ha finalmente aumentato le sue apparizioni live e nel frattempo ha portato avanti una serie di progetti che
ora cominciano a vedere la luce. Questo Plays Popol Vuh, ad esempio,
edizione vinilica colorata e completamente autoprodotta, è, come intuibile dal titolo, un lavoro di ripensamento di alcuni momenti tra i più
significativi della band/comune tedesca pioniera del kraut cui Cosi molto
deve in termini di attitudine e ispirazione. E se la congrega freak di Fricke prendeva spunto dalle
leggende sulla creazione del mondo (contenute appunto nel "Libro della comunità" da cui ripresero il nome) per imbastire il percorso nella propria creazione (questa volta musicale), Valerio Cosi
afferra il senso più profondo della weltanschauung dei "krauti" e vi soprappone la propria, ri-creando ciò che i tedeschi hanno affidato alla storia musicale contemporanea quaranta anni fa.
In soldoni, cinque ripensamenti – non versioni, ma proprio rielaborazioni (quasi) in toto – di
altrettante perle dei Popol Vuh che si muovono tra reiterazioni e ciclicità, sfasamenti e rispettoso
omaggio, in un continuum che sposta di volta in volta l'asse portante delle canzoni originarie verso
lande e dimensioni "altre". Hosianna Mantra è esemplare in questo senso: parte come un techno/
industrial-rock acceso da tribalismo e sax indemoniato e free, e pian piano si sfalda, avvitandosi
su se stessa fino a trasformarsi in un trip ossessivo e orientaleggiante. Mistica e materica, quasi
in forme transustanziate, per un leitmotiv operativo che si mostra lungo tutto l'album, sia la kosmische sfilacciata di Vuh, la psych cinematografica di Affenstunde, l'ossessione motorik di Train
Through Time – tutta sovrapposizioni e reiterazioni – o le aperture astral-cameristiche dell'opener Aguirre. Ad accompagnare le ottime intuizioni di Cosi – e a ribadirne la stima guadagnata in
certi giri – le comparsate di Paul de Jong (The Books), Zac Nelson (batteria) e Mauro Corvaglia
(chitarra).
A seguire, tanto per dimostrare di nuovo quell'eruttività eccentrica che lo contraddistinse agli
esordi, Valerio se ne esce con un album digitale per un progetto particolare legato alla tragedia del
Vajont, commissionato da Calamita/à. Sounds For Vajont, lavoro totalmente estraneo alle dinamiche di cui sopra, permette al tarantino di esplorare il suo lato più elettronico in brevi sketches
definiti dallo stesso come "sound miniature". Una scelta per evitare le secche del "dejà vu" e che si
concretizza nell'estasi droning sospesa di Vajont Naturelle e nel suo contraltare conclusivo Slowly
Sinking, nel glitch umorale di Castrum De Spengenberg o nella quieta pastorale alpina di Longarone Blues (1'38" For Loren Connors): piccoli tasselli nella ricostruzione/restituzione della memoria
sulla più alta diga ad arco a doppia curvatura del mondo e su una delle più terribili tragedia dell'Italia post-guerra.
7.5/10
Stefano Pifferi
148
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Valerio Cosi - Plays Popol Vuh (Dreamsheep,2014)
r e c e n s i o n i
questo è vero, e tutto è più maturo e calibrato
rispetto agli standard cui ci ha abituati, eppure
il disco, per quanto levigato e forse fin troppo
"perfettino", scorre fino alla fine che è un piacere – conciso, vario quanto basta e soprattutto
pieno zeppo di hook. D'altronde, è proprio il
tipo di lavoro che oggi ci si attende da un "boss"
come lei, abituata com'è a farci innamorare (e
disinnamorare) rivelandosi sulla ribalta e nel
retroscena, forte ma senza mai nascondere la
sua vulnerabilità. E non è poco.
6.8/10
Alessandro Liccardo
Stephen Steinbrink - Arranged Waves
(Melodic UK,2014)
Genere: pop, cantautori, indie
Stephen Steinbrink è un cantautore introverso e con gli occhi ancora iniettati di sogno, un
polistrumentista autodidatta e con un amore
palese verso artisti come John Lennon ed Elliott Smith, le cui vocalità sono spesso richiamate nelle sue interpretazioni. Americano di
Phoenix in Arizona, autore di svariati album
che gli hanno costruito un percorso di nobile
anonimato, arriva oggi al suo primo disco edito
per la piccola etichetta inglese Melodic, label
che si prende la briga di rispolverare questo
Arranged Waves uscito in autoproduzione un
anno fa.
I misteri del music business sono e restano tuttora irrisolti: l'artista in questione ha talento da
vendere, e appare evidente nelle dodici composizioni di quest'album, così fortemente radicato
in melodie e arrangiamenti dal forte retrogusto
Eighties. Qui si tratta di puro e basico indiepop
di stampo forse nordamericano, sul genere di
Craft Spells (Animated Dust e Trust su tutte),
Fruit Bats o The Shins; spesso, poi, si vola con
la testa ad alcune sperimentazioni beatlesiane
degli anni di Revolver o Rubber Soul (Bran
New Manic Brain Holder), rivisitate in chiave
o t t o b r e
tando i nuovi dodici pezzi (che diventano quindici nella deluxe edition, ben confezionata in
un piccolo hardbook) è chiaro che la signora ci
ha depistati per l'ennesima volta. Il disco è dedicato a se stessa, e l'autrice spiega nel libretto
di aver lasciato la "guerriera" per una volta a riposare e di aver dunque indossato i panni della
"donna con il vestito rosso". Della donna innamorata – di Davey, anche se il produttore è il
suo ex marito John Reynolds. Della seduttrice,
ironica e sicura di sé ("See, I'm special forces /
they call me in after divorces / to lift you up",
canta in Kisses Like Mine) e della donna sedotta e abbandonata (dall'uomo sposato che si
prende gioco di lei in The Voice Of My Doctor).
Della donna che desidera l'uomo che non può
avere, e del quale fantastica annusando la sua
giacca (Your Green Jacket) e infine di quella
che ammonisce le nuove leve, come una madre, con una stoccata a quella Miley Cyrus cui
scrisse una lettera pubblica in 8 Good Reasons
("You know I love to make music / but my head
got wrecked by the business").
Ottima la scelta di affidare a Take Me To
Church (no, Hozier non c'entra) il ruolo di singolo apripista: un ritornello facile ma graffiante, che riporta inevitabilmente agli esordi della
cantante, arrangiato con gusto. Funziona la
collaborazione col sassofonista Sean Kuti, figlio
del grande Fela, in James Brown (un richiamo
indiretto al passato, visto che di Brown era
stata campionata la batteria di Funky Drummer
in I Am Stretched On Your Grave ventiquattro
anni fa) così come Where Have You Been, un
potenziale hit single con tutti i crismi. I due
brani più coinvolgenti del lotto sono tuttavia
Harbour e il conclusivo Streetcars, più spoglio
e intimo rispetto al resto del materiale presente
in questo decimo, riuscito, lavoro in studio.
Sembra che Sinéad O'Connor sia tornata definitivamente e che non abbia alcuna intenzione
di lasciarci di nuovo. Manca il coup de théâtre,
149
Genere: rock, glam, industrial, elettronica
Seb Gainsborough, in arte Vessel, è un musicista eclettico che ci ha ormai
abituato ad un percorso incline alle svolte e ai cambiamenti più repentini, come avviene anche nel caso del suo ultimo disco: Punish, Honey, in
uscita per Tri Angle il 15 settembre 2014.
"Punish, Honey", ovvero punizione e delizia, è un titolo che ben si sposa con l'immagine della copertina: corpi marmorei maschili in bianco e
nero che emergono da un fondo scuro, presi in un abbraccio confuso che
potrebbe essere d'agonia, d'estasi o entrambe le cose. L'immagine richiama chiaramente alcune
scene del film "Un Chant d'Amour" di Jean Genet e un certo sadomasochismo omoerotico, un perfetto connubio di dolore e piacere.
Proprio nel segno del richiamo di una certa idea di fisicità e di gusto per la dimensione tattile,
si iscrive la decisione di Gainsborough di mettere da parte software e computer, per sporcarsi
le mani con suoni prodotti da macchine e strumenti concreti. Il disco, infatti, è stato realizzato
utilizzando strumenti trovati dal rigattiere o creati ed assemblati dallo stesso artista come, ad
esempio, lamiere di metallo per le percussioni, carillon, vecchi clavicembali, richiami per uccelli e
strumentazione analogica. Anche per questo, i suoni appaiono particolarmente curati e originali,
abilmente orchestrati per una marcia industriale. Il risultato finale sembra andare verso atmosfere e sonorità oscure e abilmente evocative alla Haxan Cloak, compagno di etichetta su Tri Angle,
anch'esso talentuoso polistrumentista; ma, a differenza dell'approccio minimalista di quest'ultimo, il disco di Vessel è decisamente barocco e non lontano da certe cose di Pete Swanson (che ha
recentemente collaborato e suonato assieme al musicista di Bristol).
Dalla press release il disco viene presentato come un lavoro influenzato da sonorità glam, il che
però è da prendere con una certa cautela e forse anche con la giusta dose d'ironia. Red Sex, il
singolo che anticipa il disco, rimanda, in effetti, ad atmosfere glam, ma in qualche maniera anche a
qualcosa più vicino a dei Suicide o ad alcuni dei lavori solisti di Martin Rev. Si tratta di una sorta
di "glam industrial" futuribile fatto di situazioni ambigue, oscillanti e persuasive, synth sporchi e
grezzi conditi da ritmiche metalliche post-industriali.
Ci sono circa 12 secondi di silenzio prima che inizi la prima traccia del disco, Febrile, al ritmo di
percussioni metalliche in crescendo degne degli Einstürzende Neubauten. Dopo l'"industrial
glam" alla Suicide di Red Sex, segue la lenta marcia meccanica di Drowned in Water and Light,
che, dopo un inizio ossessivo, si apre a suggestioni cinematiche in bianco e nero. Euoi è un brano
pieno di arpeggi d'organo tanto schizoidi, quando evocativi. Tornano poi i synth memori dei Suicide in Anima, con il suo convincente ed ipnotico crescendo tra clangori metallici e rumorismi vari.
Black Leaves And Fallen Branches si apre con un richiamo di uccelli effettato e distorto, per poi
proseguire riuscendo a creare delicati, quanto inquietanti, paesaggi onirici. Kin To Coal inizia con
il consueto clangore metallico per poi inserire varie stratificazione sonore con una timbrica solida
per un brano oscuro, carnale e violento. Punish, honey rimanda, con le sue tastiere, a suggestioni
sensuali e ambigue, prima della chiusura di DPM, piena di fughe di arpeggi sintetici palpitanti e
150
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Vessel - Punish, Honey (Tri Angle,2014)
anarchici, il tutto condito con ritmiche metalliche che montano sempre minacciose e aggressive.
Disco più che buono – che, in puro spirito Tri Angle, ci mostra scorci di possibili traiettorie future
– costruito con sonorità post-industriali fecondamente e coraggiosamente ibridate.
7.5/10
personale. Fatto sta che la qualità c'è, eccome.
Con la canzone Tangerine si entra nel territorio
di un folk malinconico e sospeso che sicuramente
non reinventa il genere, ma si limita ad offrire un
contributo notevole per intenzione ed intensità di
scrittura. E' con It Takes A Lot To Change A Mind
e Sand Mandalas che si arriva al momento più
chiaro di Arranged Waves, quello in cui si paga
il tributo a tutta la famiglia Lennon, da John ai
suoi figli, con una ballata sognante e di effetto.
Si tratta di pop nel vero senso del termine;
nessuno strumento, dalle chitarre al piano,
emerge chiaramente, perché ogni cosa è pensata per dare risalto alle melodie come fosse un
morbido ed elegante tappeto. Un pop ordinato,
canonico ma non banale, dove ogni canzone si
lascia ricordare e ascoltare per qualche hook
particolare (Impress My Memories, dove si
va ancora più indietro verso i Seventies in un
gioco di richiami con certo folk d'annata quasi
canterburiano), sia esso la linea vocale o un
arpeggio di chitarra acustica messo qui e lì.
Arranged Waves è un album consistente, che
fa porre domande sulla casualità o fortuna che
governa spesso il music business.
7/10
Stefano De Stefano
Steve Gunn - Cantos de Lisboa (RVNG
Intl.,2014)
Genere: avant, blues, country, folk
La serie FRKWYS della Rvng Intl. arriva al suo
volume numero 11 e non arretra di un passo nel
lodevole tentativo di associare musicisti contemporanei (o semplicemente più giovani) coi
propri predecessori ideali (anagraficamente
più in là con l'età). In questo volume i mondi
avvicinati da questa collana collaborativa sono
meno distanti di quelli incontrati in precedenza (si pensi a Julianna Barwick e Ikue Mori
o a Blues Control e Laraaji), dato che a incrociare le chitarre sono Steve Gunn e Mike
Cooper: il primo consolidata realtà d'area
psych-folk e appassionato adepto al punto da
considerare l'album di Cooper del 1970 Trout
Steel come modello e ispirazione, il secondo
grande vecchio "riscoperto" con sommo gaudio
negli ultimi tempi con prove originali e notevoli ristampe (New Globe Notes su tutte).
Terreno d'incontro, come si deduce dal titolo,
il Portogallo, sinonimo dunque di intrecci di
chitarra e malinconia (fado e blues non sono
così lontani, così come saudade, volendo, non
è che uno dei tanti nomi dello spleen), e una
città, Lisbona, che molto ha contribuito coi
suoi "cantos" (gli "angoli", gli "scorci") alla
stesura dei sette lunghi "cantos" (le "canzoni")
qui presenti. Una sorta di viaggio psicogeografico a base di folk sui generis, faheyiano
fino al midollo e bluesy in maniera viscerale (il
Delta che riecheggia qua e la in tutto il lavoro,
ma che fuoriesce prepotentemente in tracce
come Pony Blues) in cui non mancano momenti weird e disturbanti (l'overdrive di Song For
Charlie) o alieni e notturni (The Enchanted
Moura), oppure perfette sintesi di quanto detto
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Marco De Baptistis
151
finora (la straziante Lampedusa 2013).
Un lavoro, si sarà inteso, di grossissimo spessore e in grado di accontentare i palati più fini.
7/10
Stefano Pifferi
Genere: rock, indie
Una pausa quando prima si era corso, la conta
dei reduci dopo che gli altri se ne sono andati, gli scazzi interni, le aspettative dopo alcuni
album fortunati ma non del tutto a fuoco: c'era
tutto per stare con i fucili puntati al cospetto
del nuovo album dei The Drums, quantomeno
per vedere se i Nostri sarebbero rimasti relegati al ruolo di eterna promessa oppure no. Con
Encyclopedia Jonathan Pierce e Jacob Graham
si trovano davanti ad una sfida: senza tirare
fuori lo stereotipo del terzo album, il duo è quasi
costretto a fare "il grande passo", quello che ti
fa svoltare una carriera dopo alcuni segnali di
appiattimento e magari ti catapulta nel club dei
grandi. Almeno, questo piace pensare a chi ha
seguito la loro carriera, fatta di surf e spleen, di
elettronica tenue e chitarre secche, di abbigliamento hipster e di un immaginario a metà strada
tra Stati Uniti da mercoledì leonini e brughiere
smithsiane. Tutti elementi che fanno capire che
i ragazzi di Brooklyn e il loro sound, tra i grandi (inteso come adulti), non vogliono entrarci.
Almeno, non ora: meglio continuare a divertirsi,
anche se con un filo di malinconia.
C'è subito da dire che nella prima parte del
disco i Drums non ne sbagliano una: dalla
spiazzante intro (hard rock suonato dagli Echo
and The Bunnymen) di Magic Mountain a Let
Me, ci sono sia melodie intriganti che intrecci di elettronica e cori, ad impastare canzoni
dall'ottimo impatto. I Don't Pretend è il ballo
di fine anno fatto di drum machine, chitarra
secca e malinconia struggente, Kiss Me Again
è il pezzo pop perfetto, zuccheroso come il
152
Andrea Macrì
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
The Drums - Encyclopedia (Minor,2014)
titolo vuole, chitarre echeggianti sotto i synth
in primo piano, linea di basso che detta il passo,
e quei cori miagolanti che ti stendono. L'uso
dell'elettronica è maggiore rispetto al passato,
ma si tratta di sfumature, mentre i riverberi tra
Magnetic Fields e 60s restano sullo sfondo a
delineare l'atmosfera.
Nella seconda parte l'album scende leggermente di tono, in momenti come la chiusa di Wild
Geese e U.S. National Park: ma parliamo di
due pezzi su dodici. Basta un attimo e ti ritrovi
dentro a There Is Nothing Left, (puro Drumssound nella sua massima tipicità ed efficacia,
impreziosito da policromia sonora) e nella
lenta e spettrale Bell Laboratories, un tentativo forse timido ma comunque interessante di
sfondare dalle parti dei primi Knife.
E qui nascono alcune considerazioni. La band
ha avuto nel tempo (dai primi EP fino a Portamento) il difetto di non tentare mai realmente
l'allargamento dei propri orizzonti sonori, se
non con qualche slancio più umorale/tematico
che sonoro: oscillamenti però sempre interni a
quell'orizzonte di cui si diceva sopra. È questo – assieme alla constatazione che forse, con
qualche pezzo in meno, questo sarebbe stato
un signor album – l'unico problema dei Drums:
se si cerca la band che sconvolge il proprio universo e si reinventa, allora si perde in partenza,
perché la cosa non è né nelle corde, né nei desideri del duo. Se invece si analizza la cura del
dettaglio, la bellezza delle melodie, l'equilibrio
tra trascinante e suadente, allora sì, i Drums
hanno fatto un buon disco.
Encyclopedia è un album in fin dei conti riuscito, senza dubbio un passo avanti: quel passo
che magari non ti permette di entrare nel club
dei grandi (e per quello forse c'è ancora tempo) ma che attesta un ottimo stato di ritrovata
forma.
7/10
Genere: pop, rock, psych, art, indie, wave, lo-fi
"Beach goth" è una definizione fantasiosa che
nelle intenzioni dei californiani Growlers starebbe ad indicare l'insolito connubio fra il sole
della Costa Ovest e i chiaroscuri New Wave.
Poco importa che, nei fatti, le trame pigre del
loro guitar pop si confondano con lo scazzo
degli Strokes e la slackness delle indie band
anni '90. La componente wave si traduce in
un minimalismo pop a cui i Nostri sono giunti
asciugando progressivamente le trame, attraverso un processo di sottrazione perfezionato
nei tre precedenti album.
Che fosse arrivato il momento per un cambio
di passo lo si era capito da tempo. Due anni fa
i Growlers avevano giocato la carta della collaborazione d'alto profilo, facendosi produrre
l'album da Dan Auerbach. Nulla da fare, purtroppo. Il risultato di quelle registrazioni era
stato considerato troppo pulito rispetto agli
standard informali del gruppo, e dunque cestinato. Nel frattempo sono usciti un album (il
divertente Hung At Heart) e un EP (il promettente Not. Psych!). Ora arriva questo Chinese
Fountain, che trova la quadra con un suono
mid-fi che valorizza le preziose melodie della
band e le permette di giocare con le sfumature.
Incredibile cosa si possa fare con pochi tocchi
di twang e una vena melodica fuori dal comune. Fra una Big Toe che pare scritta dai Kinks
in vacanza ad Honolulu e una Black Memories
che è tutta tramonto e malinconia, i cinque
trovano il modo di cimentarsi anche con funk
(anche se lo shuffle e i synth cheap della title
track, la fanno sembrare più la parodia di un
brano disco) e reggae (su Dull Boy lo suonano
come potrebbero suonarlo i Beat Happening
di prima mattina).
Insomma questa volta i Nostri ce l'hanno messa
tutta per dare un senso al loro pop ironicamen-
te post moderno. Perché se è vero che il cantilenare distratto di Brooks Nielsen si scambia
spesso con quello di Alex Turner, va riconosciuto ai Growlers di essere solidi autori di canzoni. Valga per tutte una Not The Man che fra
chiaroscuri (questa volta veramente) post punk
e un chorus che profuma di spezie 60s, finisce
per non assomigliare ad altro che a se stessa.
7.2/10
Diego Ballani
The Juan MacLean - In A Dream
(DFA,2014)
Genere: house, dance, disco, elettronica
Bastano due chitarre iniziali e un arpeggiatore
a farci capire che il punto di partenza di questo
terzo lavoro dei Juan Maclean è, come al solito,
la disco classica, quella dei Settanta di Giorgio
Moroder e compagnia cantante. Il tutto ovviamente mutato con la consapevolezza di più di
dieci anni di carriera in casa DFA (il primo singolo è del 2002), e quindi con tagli che aggiungono sensibilità e gusto newyorchese, quella
specie di spaesamento urban che solo la grande mela sa conferire. Un tocco personale che
con il passare dei minuti muta il lavoro in una
"fuga di mezzanotte" dal passato, un cambio di
rotta che prevede il mastermind John Maclean
concentrato praticamente solo sui suoni e che
promuove la chanteuse Nancy Whang (ex LCD
Soundsystem) a vera e propria frontman del
duo.
Non a caso è proprio lei che campeggia questa volta – e meritatamente – in copertina. Un
bianco e nero che asciuga i colori del passato e
tiene buone solo le cose necessarie. Il "Future
Will Come" del 2009 è oggi diventato ritmo,
coolness, movimento, qualche effetto laser,
synth vintage '80 (che malinconia in Here I
Am), bassi funky r'n'b sciccosi (Running Back
To You), tappetini melò e una produzione pressoché perfetta (da panico tutto il remix delle
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
The Growlers - Chinese Fountain (Fat
Cat,2014)
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o t t o b r e
Marco Braggion
The New Pornographers - Brill Bruisers
(Matador,2014)
Genere: rock, indie
I New Pornographers non avevano mai fatto trascorrere quattro anni tra due lavori,
ma come si suol dire tanta attesa è stata ampiamente ripagata. Così, se Togheter aveva
festeggiato i dieci anni di attività del combo
canadese con un'apoteosi del loro stile, questo
Brill Bruisers – sesto disco a loro nome – rilancia la proposta con lievi correzioni di rotta.
Tredici i pezzi perlopiù firmati – come al solito
– da Carl Newman, all'insegna di un mood entusiasta e impetuoso attraversato da venuzze
154
agrodolci, con l'evidente intenzione di testare il
magnetismo del pop-rock a tavoletta.
Rispetto al passato il baricentro è sensibilmente più vicino all'AOR degli 80s, una sorta di
power pop ai tempi della musica sintetica, dove
l'elettricità e l'elettronica cospirano un carosello energico e stuzzicante, senza scordare – anzi
in un certo senso sublimandole – inquietudini
e malinconie. Questi ultimi aspetti sono più
evidenti nei pezzi interpretati dalla al solito
mesmerica Neko Case (sentitevi Champions
Of Red Wine e la tesa Another Drug Deal Of
The Heart) e in quelli firmati Daniel Bejar (la
tristezza sorniona di Spidyr – rilettura della
vecchia Spider – a base di armonica ruspante e
synth cosmici, la ruvidità indolenzita di Born
With A Sound – con Lightning Dust e Amber
Webber dei Black Mountain ai cori – e l'impeto dolciastro di War On The East Coast).
Al resto pensa Newman dicevamo, con una
serie di gioiosi uppercut sonori a base di molecole Roxy Music (Wide Eyes, You Tell Me
Where) e XTC (lo zampillio zuccheroso della
title track, il languore ipercromatico di Hi-Rise), mentre con Backstairs la synth-wave riesce
a stare deliziosamente in bilico tra verve androide e detriti visionari. Oltre la festa powerpop, c'è insomma una strategia che costeggia
ambizioni arty senza perderci in tasso adrenalinico (vedi su tutte Fantasy Fools), ed è proprio
questo il cuore della faccenda. Certo, c'è molto
mestiere, è come un algoritmo per l'intrattenimento canzonettistico che non vuole saperne
di bloccarsi, ma ad alimentarlo c'è la giusta
dose di fattore umano, col relativo carico di
implicazioni e benedetta complessità.
7.2/10
Stefano Solventi
r e c e n s i o n i
nostalgie degli ultimi anni in stile pop-glo-Cascine e vocoder più che mai Daft Punk in I've
Waited For So Long).
Con l'esordio Less Than Human i JML avevano definito un suono, quello indie dance dei
primi anni del nuovo millennio, e correvano il
rischio, causa la stazza del capolavoro, di essere
"taggati" come post-millennial per sempre. Con
questo disco escono dalle mode e fanno capire
di avere la stoffa del classico che dura, a prescindere da Murphy, da Toro Y Moi e dall'hipsteria congenita della dance contemporanea,
troppo spesso vittima della retrofilia cristallizzante. Un disco che assomiglia negli intenti
soul all'ultimo Alexis Taylor, pronto sia per il
ballo che per il relax; un disco che fa tremare
i più sensibili e che scolpisce canzoni d'amore che sarebbero state perfette per la colonna
sonora di Drive. Piacerà ai cinquantenni che
vanno ancora in balera, ai quarantenni con figli
in crisi d'astinenza da dancefloor e ai teen che
cercano ispirazione dal passato. In tutto questo
calderone la popness non fa scendere la qualità.
Anzi, è proprio perché è fruibile da un pubblico
così vasto che salirà sempre di più.
7.5/10
Genere: folk
Il buon vecchio folk sta vivendo un momento
davvero singolare. Se da un lato c'è quello generalista e da classifica ad arricchire un revival
che sembra non volersi fermare (ne abbiamo
parlato anche in sede di playlist), dall'altro c'è
tutto un movimento musicale più sotterraneo
che cerca di fare evolvere il genere verso lidi
meno frequentati e più creativi, declinandolo
anche in forme di cantautorato originali. Pensiamo, ad esempio, a Nancy Elizabeth, Agnes
Obel, Marissa Nadler, Laura Marling, Josephine Foster, o magari, su un versante più
tradizionale, a un James Yorkston o a un Tom
Brosseau.
I qui presenti The Once, canadesi fissati con le
armonie vocali e il ritornello facile, stanno esattamente in mezzo, in un limbo di intenzioni
che non è mainstream ma nemmeno avanguardia. Musica rassicurante come potrebbe esserlo
certo country americano a base di storie d'amore un po' retoriche ("La verità è rara e difficile
da trovare", "Hai provato a spegnere il mio
fuoco, ma brucia da troppo"), istituzionale nella voce (quella squillante di Geraldine Hollett)
e nei risultati. Nel disco c'è un po' di Irlanda
presa in prestito per le melodie, l'immancabile
mandolino/banjo, qualche crescendo condito
da strumenti ad arco e un gusto spiccato per
gli incroci di voci (messi consapevolmente in
bella mostra soprattutto nel brano a cappella
di Ron Hynes, Sonny's Dream) che garantiscono al tutto una confezione a prima vista assai
gradevole, ma tutto sommato scontata. Persino
nella scelta di una cover di Elvis Presley come
Can't Help Falling In Love, qui spogliata di tutta l'enfasi da crooner e indirizzata verso ritmi
folk ballabili che lasciano un po' il tempo che
trovano.
Se si eccettua una The Nameless Murderess
in odore di marching band, in generale manca
personalità, un moto d'orgoglio, a un pugno di
canzoni caratterizzate da un'accademia (per
quanto ben fatta) che mira ad essere il più possibile intellegibile e veicolo di un'empatia ad
ampio spettro. Questione di aspettative, probabilmente, ma fatichiamo a farla nostra.
5.3/10
Fabrizio Zampighi
The Vaselines - V for Vaselines (Rosary
Music,2014)
Genere: pop, rock, indie
C'erano una volta quelli che si potevano considerare i Beat Happening scozzesi, un duo indie
pop squisitamente eighties tra ripescaggi di
jingle jangle e pop anni sessanta, scrostatissimo garage rock alla Stooges/Cramps e un po'
di bricolage con tastierine elettroniche a bassa
fedeltà, tutto rigorosamente made in bedroom o con quel sapore candido e naïf. Passati
vent'anni, i Vaselines, scioltisi dopo un unico
album, hanno vissuto una seconda giovinezza
quando Kurt Cobain ha riproposto a modo suo
alcuni dei loro pezzi più belli; nel 2010 decidono di tornare in pista con Sex With an X per
Sub Pop.
V for Vaselines, come è evidente già dal titolo,
è il seguito di quella rentrée e come tale si comporta. Mantiene sia le caratteristiche peculiari
del duo Kelly/McKee – leggi, melodie leggere
e di una sofisticata naiveté, orecchiabili, non
dozzinali, sempre un po' ingenue e delicate – e
gli aggiornamenti del sound che rispecchiano
quelli già sentiti in Sex With an X: più arrangiato, con chitarre più robuste, più "professionale".
Invece di fare i reduci dell'età del twee pop –
che loro tra l'altro detestano – Eugene e Frances guardano al variegato mondo indie di cui
sono entrati a far parte su entrambe le sponde
dell'oceano. Il power pop di High Tide Low
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
The Once - Departures (Nettwerk
Music Group,2014)
155
Tide fa pensare ai Wedding Present, The Lonely L.P. è un pezzo alla Pixies più (e meglio)
di certe ultime cose degli originali (come anche
False Heaven), Crazy Lady ha addosso un (bel)
po' della brumosa indolenza rumor-velvettiana
dei Jesus and Mary Chain e Single Spies ha la
grazia di certe lullabies eleganti degli Yo La
Tengo. Non ci sono brani fiacchi, è un disco che procede spedito e non annoia, anche
perché è molto conciso, spigliato, compatto.
Tutto impeccabile, manca però quel guizzo che
rendeva memorabili almeno due/tre pezzi del
comeback album. Il livello generale è buono,
ma si tratta di un disco di assestamento, e che
non riscrive la Storia. Al massimo la continua,
nel miglior modo possibile.
6.7/10
The Young Mothers - A Mothers Work Is
Never Done (Tektite records,2014)
Genere: jazz
Sestetto capitanato dal bassista norvegese
Ingebrigt Haker Flaten che spazia dal free
collettivo, sognante nell'alternanza, organico
e scosceso (Terrestrial Impact Theory), al jazz
impudente e libertino (Molè) giro Brotherhood Of Breath, con un robusto rock e pregevoli
soli che alternano saudade e Grande Mela.
Momenti di sospensione aurea britteniana si
stringono a visibili e sciabordii (Theme From
Fanny and Velentine), hard bop, screamo, enka
wave ed acid rap sognano guerrilla in un crossover urbano (Wells, Ruth, The Wood), minimal disimpegno e doom puntellano infine una
trama che parte di pancia e si perde in testa,
dopo qualche fila di vibra (Virgoan Ways).
Interessante ciò che si innesta quando le rime
decise del rapper Jawwaad Taylor fanno
ghenga con l'urgenza e la ruvidezza degli strumenti acustici, un plauso alla tenuta ritmica
comunque avant free su pezzi relativamente
156
Christian Panzano
Thegiornalisti - Fuoricampo
(Foolica,2014)
Genere: pop, indie, synthpop
Dobbiamo essere sinceri. All'uscita del secondo
singolo Mare Balotelli, la tentazione di archiviare definitivamente in un cassetto l'esperienza dei Thegiornalisti è stata forte. Un brano
inutile, facilone, col testo che sciorina volutamente luoghi comuni, trasformando l'intera
operazione in un luogo comune a sua volta. È
vero, i Thegiornalisti hanno questa antipatica
propensione (che fu baustelliana e successivamente di tutto il cantautorato da Brunori
in su) ad accentuare le citazioni, sciorinare
i brand e, soprattutto, concepire il mondo in
chiave nostalgica rispetto ad un passato (che
probabilmente non hanno mai vissuto) migliore del presente. È una cosa che non va giù,
malgrado sia stato dimostrato che può essere
controllata.
A beneficio di chi non conosce i Thegiornalisti, è opportuno sottolineare che questo nuovo Fuoricampo è un disco di svolta, perché
stravolge lo stile chitarristico e strokesiano, in
piena devozione ai Sixties o, se volete, ai 00s,
dei Libertines. Fuoricampo è il regno del
synthpop, quello magniloquente e ingombrante
degli anni Ottanta, quando tutti si giocava coi
capelli cotonati e le tastiere Roland. L'operazione non è banale, sebbene di poco fuori coi
tempi, che già abbandonano gli Eighties (ricordate i Drums?) per altri lidi. Ad ogni modo,
non è banale, si diceva, perché il recupero sta
non tanto (ma anche) nei mostri da classifica
internazionale tipo Duran Duran, Simple
Minds o Eurythmics, quanto negli eroi di
casa nostra che solo 30 anni fa si allineavano in
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Edoardo Bridda
brevi, ma alla fine rimane un senso poco chiaro
del risultato che gli si voleva dare.
6.2/10
Nino Ciglio
Thom Yorke - Tomorrow's Modern
Boxes (Autoprodotto,2014)
Genere: elettronica
La seconda cosa che mi ha colpito del nuovo
r e c e n s i o n i
disco di Thom Yorke sono i primi trenta secondi, quella specie di loop monocorde pseudoindustrial: cosa mi ricordava? Ci ho pensato un
bel po' prima di rendermi conto che sembrava
il riflesso lacero e consunto di un'altra intro,
quella di Discotheque, canzone di apertura di
Pop, album che ha segnato un turning point
per gli U2 e – a detta di molti, tra cui il sottoscritto – l'ultimo nel quale abbiano dimostrato
un po' di vena creativa. Tutto lascia pensare
che si tratti di un link attivato solo dalla complicata rete di connessioni mnemoniche del
sottoscritto, o al massimo una coincidenza,
però dal momento che viviamo in un'epoca in
cui tutto è collegato, stratificato, connesso appunto, credo sia inevitabile lasciare accesa una
fiammella di sospetto.
Venendo invece alla prima cosa che mi ha colpito di Tomorrow's Modern Boxes, è ovviamente la sua comparsa repentina, bruciante,
inattesa ma soprattutto inopportuna, considerata soprattutto la contemporaneità del lavoro
solista di Phil Selway. Certo, dal momento in
cui quest'ultimo è un album distribuito con
criteri standard, la competizione tra le due
situazioni dovrebbe essere ridotta. Però dal
punto di vista mediatico il buon Selway ne esce
letteralmente sepolto, non ci sono discussioni.
E' strano. Verrebbe quasi da pensare che Yorke lo abbia fatto apposta, non contro l'amico
batterista ovviamente, ma per offrire alla platea
una risposta clamorosa alla altrettanto clamorosa operazione U2-Apple. E' un po' come se
avesse voluto dire, "ecco una modalità di distribuzione realmente contemporanea, fruibile
da chiunque lo voglia, che permette all'artista
di essere libero e all'utente di fare proprio a 6
dollari (meno di 5 euro) e in pochi istanti un
disco vero e proprio (c'è anche la versione in
vinile bianco), non un gadget scintillante di
gloria passata".
Sia chiaro, a parte una nuova versione di tor-
o t t o b r e
maniera interessante con i sopra citati mostri
sacri: Dalla in primis et super partes, ma anche
Massimo Ranieri, Ivan Graziani, Franco
Battiato, Antonello Venditti e Luca Carboni.
Se Mare Balotelli, dunque, è la fiera della banalità, non è così per tutti e dieci i brani di questo
terzo disco della band romana. È come se, reduce da una carriera di chitarre e ritmi elevati,
la band abbia avuto una sorta di rigurgito per la
velocità e la classica canzone strofa-ritornello:
sono questi, infatti, gli episodi meno riusciti,
fra riferimenti (neanche troppo velati) ai Ricchi e Poveri in Fine dell'estate, e voci sguaiate
che, a volte, smettono di assomigliare a Dalla
per tornare a Carboni. Ma ci sono, nella cura
dell'orchestrazione generale, anche episodi
positivi: Per lei, che quasi ricorda i Future
Islands, Promiscuità, che è l'opera maxima di
citazione dalliana, Proteggi questo tuo ragazzo, che è al limite del plagio di Perdere l'amore
di Ranieri, ma strappa un sorriso anche per
questo, Aspetto che, che ha il beat giusto per
ricordare il Battiato dell'Era del cinghiale
bianco, come fosse cantato dal Bugo dei bei
tempi andati.
Nel complesso, Fuoricampo è un disco omogeneo, pregno di riferimenti e spunti culturali su
cui riflettere. Paga però l'eccessiva devozione
nei confronti di Dalla in particolare, perché
è bene ricordare che una cosa è l'ispirazione,
un'altra è l'imitazione. Rimane da capire il perché di un cambiamento così repentino rispetto
agli album precedenti, anche se, ci rincuora
dirlo, una volta aggiustato il tiro, preferiamo
questa veste.
6.5/10
157
o t t o b r e
158
densità a pezzi come Nose Grows Some (una
latineria cibernetica Aphex Twin satura di
languore elusivo), Truth Ray (bradicardica e
vetrosa) e la opening A Brain In A Bottle (che
sembra un po' l'ultimo Jeff Buckley ipnotizzato da Flying Lotus).
Ci sono come due piani che scivolano uno sotto
l'altro – individuabili sommariamente nella
dualità macchine vs. piano/voce – scambiandosi posizione e incrociandosi senza mai trovare
una sintesi reale, e questa tensione è l'energia
che tiene vive le canzoni ma che rischia allo
stesso tempo di metterle all'angolo, troppo preoccupate a risolversi per offrire motivi di reale
trasporto, abbandono, eccitazione, rapimento.
Se c'è un problema nel Thom Yorke di oggi, a
mio avviso già presente nei Radiohead di The
King Of Limbs e semplicemente ignorato dagli
Atoms For Peace, è che non è ancora chiara
una direzione. Forse la causa è proprio questo
eccessivo delegare e mutuare calligrafie altrui,
un processo di ricerca erratico che non sembra
(ancora) prevedere approdi. Il rischio – già un
po' attuale – è fare la figura dello zio attempato
ad un party di universitari. Per adesso è ancora
apprezzabile, ma non so quanto possa durare.
Mi auguro che succeda qualcosa prima che
inizi a sembrare imbarazzante.
6.5/10
Stefano Solventi
TOPS - Picture You Staring (Arbutus
Records,2014)
Genere: pop, indie
I TOPS sono un quartetto proveniente da
Montreal, che si è formato in seguito alla scissione di alcune band locali e attorno alla scena
creatasi in modo naturale nei paraggi dell'etichetta Arbutus Records. Picture You Staring
è il loro secondo disco e raffina ulteriormente
la forma data alla loro musica già dall'esordio
Tender Opposities del 2012: una sorta di pop
r e c e n s i o n i
rent, stavolta non c'è nulla di rivoluzionario
nella proposta. Il metodo è quello già estremamente familiare utilizzato dalle app: assaggi gratis (una canzone e un video) e poi se ti
piace fai l'upgrade alla versione a pagamento, il
tutto con comodi click dal tuo cellulare/tablet.
Nulla di nuovo appunto, però a pensarci bene
è questo l'aspetto più importante della faccenda: quel futuro immaginato nel 2007 con In
Rainbows si è a grandi linee realizzato, con gli
aggiustamenti del caso. Era utopica la modalità
"up to you", ma la rotta per svincolarsi da un
circuito produttivo e distributivo novecentesco
era giusta. Detto questo, possiamo passare alla
musica.
E' il secondo lavoro solista firmato da Yorke,
ma rispetto a The Eraser sembra concepito e
realizzato in una dimensione più raccolta, intima, faccia a faccia con le proprie ossessioni e la
voglia di abbozzare tentativi, rendendo evidente la pelle del lavoro (ferma restando la presenza di Nigel Godrich in cabina di regia). Questi
otto pezzi fanno pensare ad altrettanti sguardi
gettati nel laboratorio di musicisti/ingegneri
che stanno cercando, mettendo a punto, smerigliando bordi e mescolando dimensioni. In un
certo senso, parliamo anche del significato che
può avere un album oggi secondo Yorke: un'istantanea sulla fase creativa. Nelle qui presenti
scatole moderne troviamo polaroid (versione
Instagram se preferite) di un ex-ragazzo del
post punk folgorato prima dall'idm di casa
Warp e poi dal trittico di producer formato da
James Holden, Four Tet e Burial (Guess Again!
di cui abbiamo già sentito il motivo nella app
Polyfauna), dagli ultimi sviluppi ambient (Pink
Section) alla 2 step (The Mother Lorde), dalla
techno colta su una nuvola tra Detroit e Berlino (There Is No Ice), che comunque intuisce
l'importanza di far affiorare il residuo capitale
umano, una specie di vena soul esausta che
pure ha la forza di imprimere una inafferrabile
Stefano De Stefano
r e c e n s i o n i
Total Control - Typical System (Iron
Lung,2014)
Genere: indie, wave
Chi avrebbe mai pensato a un cambio di formula per i Total Control, dopo l'ottima visibilità
ottenuta con il precedente Henge Beat? Nessuno, e infatti lo schema di Typical System è lo
stesso dell'esordio: commistione punk e wave,
chitarre e synth, Wire e Ultravox.
Per non ridurre però Typical System a un
mero doppione, il quintetto di Melbourne ha
messo in atto alcuni assestamenti diciamo di
superficie, avvicinandosi al canone wave inglese e recuperando il sound di un Gary Numan
dei tempi d'oro (Pleasure Principle), sia quando l'afflato è marcatamente pop (Flesh War),
sia quando è synth-wave (The Ferryman). Il
risultato bissa il successo del suo predecessore:
l'acquisizione di una scrittura più pulita traducibile con un respiro pop sempre più marcato
si equilibra con una minor libertà compositiva,
perché in effetti il disco appare a tratti ingessato nell'indie wave. E se uno dei migliori brani
in tracklist – insieme alla punkettara Expensive
Dog – rimane l'altezzosa Liberal Party, in cui i
Total Control tornano a far sfoggio di quel filo
di anarchia da sempre nel DNA del quintetto,
forse qualche rimpianto per quel che poteva
essere e non è viene a galla.
Ad ogni modo, confermato il valore del progetto Total Control, basterà decidere in che direzione far pendere l'ago della bilancia.
6.8/10
o t t o b r e
complesso dal vago sapore Eighites che si nutre
di diverse suggestioni provenienti dal funk, dal
post r'n'b, dalla dance e dall'electro. Sonorità
lo-fi e attitudine DIY completano il quadro.
I TOPS suonano coesi e minimali, mai sovraprodotti ma anzi sempre asciutti, diretti e se
vogliamo "grezzi", nel loro modo di approcciare la materia sonora. Un basso che lavora molto
assieme alla batteria, lascia spazio a chitarre e
sintetizzatori che creano tappeti su cui adagiare la voce di Jane Penny. La formula è chiara
ed efficace: il super singolo Change Of Heart
è un esempio di come essere catchy, crudi ed
elaborati, pur non andando al di là dell'utilizzo della strumentazione tipica di una band di
quattro elementi. Qualcuno li ha paragonati a
una sorta di Ariel Pink in fase Fletwood Mac,
non sbagliando di molto: tra movenze jazzyfunk e umori dance pop modellati su stilemi
anni Ottanta (Superstition Future e 2 Shy), il
disco risulta assolutamente credibile, godibile e
soprattutto rivela nuovi particolari con l'aumentare degli ascolti.
Serrati, sincopati o sospesi in alcuni incastri
ritmici dilatati, i TOPS confezionano il ritmo
in modo elegante e con abiti vintage: è il caso
di Easier Said o dell'opening track Way To Be
Loved. Che sia in Circle The Dark, dove arriva un lontano profumo di Police che però si
disperde appena entra il cantato, o in Outside,
una power ballad '80 infarcita di tastieroni,
appare evidente un gusto nostalgico verso certe
sonorità.
Sebbene si rallenti con le conclusive Driverless
Passenger e Destination, il risultato globale non
cambia perché Picture You Staring vuole e ottiene sempre più ascolti, in virtù della propria
capacità di dosare aperture luminose e chiusure ritmiche, come fosse una fisarmonica.
7.2/10
Stefano Gaz
Two Moons - Elements (Irma
Group,2014)
Genere: rock, alt, wave
Li avevamo lasciati nel 2012 con il più che discreto Colors, che spostava l'asse dei richiami
dal dark dei Bauhaus verso atmosfere più in
debito con certi Cure, con un tentativo apprez-
159
o t t o b r e
160
Richard Butler e persino, in più di un momento, lo sberleffo di Holly Johnson).
Le influenze eighties sono ancora ben presenti
sulla mappa: Welcome To My Joy, scritta con il
santino di Ian Curtis in tasca, ci invita a ballare su una pista da ballo posta sull'orlo del precipizio, Snow fa propria la lezione dei Depeche
Mode con Alan Wilder nella line-up (come
l'altrettanto valida I'm Sure) e anticipa una
Rain poetica e abrasiva e Autumn, episodio che
si colloca tra certi Camouflage e i più recenti White Lies. Sono gli Electronic di Johnny
Marr e Bernard Sumner ad emergere in Brand
New, mentre in Star's Child torna ad aleggiare
lo spettro del primo Robert Smith (qui i Two
Moons trascinano a forza nel nuovo millennio
pure gli U2 di Love Comes Tumbling, saltando
senza rimpianti lo stadium rock e il più recente
easy listening su cui gli irlandesi da anni indugiano). Alla fine di tutto c'è Leaves, eterea ma
robusta, felice connubio tra i Cocteau Twins
di Head Over Heels e i Simple Minds di Seeing
Out The Angel. Per chi preferisce il supporto
fisico c'è anche una stravagante ghost track,
Crazy World, posta dopo sedici microtracce di
silenzio da sei secondi l'una. Il suono di Elements è pulito, definito, lontano dal lo-fi di
Colors – le idee sono ben organizzate, senza
strafare, e c'è una nuova finezza negli arrangiamenti e nell'esecuzione. È il suono di una band
cresciuta, che sa sempre più cosa vuole (e sa
sempre più come ottenere al meglio i risultati
che si prefigge).
7/10
Alessandro Liccardo
U2 - Songs Of Innocence (Self
Released,2014)
Genere: rock
Non è facile parlare di musica a proposito
dell'ultimo album degli U2, uscito di sorpresa
sui canali di Itunes ad un prezzo di estremo
r e c e n s i o n i
zabile di darsi un'identità fuggendo dal puro
omaggio calligrafico al suono di un'epoca che
ha felicemente contagiato, negli anni Duemila,
diverse band di belle speranze da una parte
all'altra dell'Oceano. Non poteva che essere
un passo avanti, il successore Elements: inizialmente autoprodotto, l'album ha catturato
l'attenzione della bolognese Irma Records (una
tra le etichette protagoniste della scena dance,
rap ed acid jazz degli anni Novanta, attenta
da sempre alle sonorità più ricercate – e sede
operativa anche di artisti internazionali come
Sarah Jane Morris – che da un po' ha aperto le
porte anche a realtà indie e alle sonorità electro).
Ancora una volta, il trio composto da Emilio
Mucciga (voce), Giuseppe Taibi (basso, chitarre, programming) e Vincenzo Brucculeri
(chitarre, campionatori) dà all'artwork la
medesima importanza attribuita alla proposta
musicale, sottolineando un legame inscindibile
tra il messaggio delle dieci canzoni e la suggestiva immagine in copertina – Babel, un'opera
di Paula Braconnot in cui tre paia di occhi si
mimetizzano tra le foglie e che al primo colpo
d'occhio si rivela figlia delle più indovinate
scelte grafiche di James Marsh per le copertine
dei Talk Talk (in particolare le pupille dipinte
sulle ali delle farfalle di The Colour of Spring).
Sono occhi che ci scrutano con una serenità
solo apparente, quelli sulla copertina di un
lavoro che continua il discorso già iniziato
con nuovi colori sulla tavolozza; si continua a
venerare l'epopea dark-wave, ma con coraggio
si inizia a guardare anche oltre, modellando le
melodie attorno a consumate drum machine
che si alternano a beat più attuali e corposi, a
tastiere che non si accontentano più di fare accompagnamento puro e semplice ma si ritagliano un ruolo in primo piano, a una voce tanto
teatrale quanto stranamente distante (una
sintesi tra Blixa Bargeld, le asperità del giovane
r e c e n s i o n i
soltanto la faccia lasciando il lavoro sporco a
qualche session man coi controcoglioni: probabilmente non ci saremmo accorti della differenza. Il problema secondario – solo perché
non stupisce per nulla – è che le canzoni sono
fiacche, sono puro mestiere da mestieranti di
lusso tenuto in piedi con infusioni di adrenalina artificiale.
In questo senso rappresentano un prodotto
eccellente, perché sanno sfiorare l'autocitazione senza smettere di ostentare la voglia di stare
nel presente (vedi come Every Breaking Wave
ricordi vagamente With Or Without You – per
poi infangarsi in un chorus troppo zuccheroso
persino per i Coldplay – o come Sleep Like A
Baby Tonight abbozzi una rielaborazione di
If You Wear That Velvet Dress strapazzata di
insidie industrial), celebrano il passato come
se stessero sfogliando ologrammi di fronte
all'entusiasmo di uno stadio gremito (vale tanto
per i vocalizzi radenti di The Miracle che per
le palpitazioni tenui di Song For Someone),
bazzicano situazioni pseudo-alternative (una
piuttosto sostituibile Lykke Li tra le astrazioni
errebì corrucciate di The Troubles, una Cedarwood Road che cincischia tra turgori Black
Keys e ugge western) senza smettere di mirare
al bersaglio grosso e soprattutto scordando di
innescare troppo scomoda empatia.
Sono pezzi cioè pensati come elementi/accessori/propaggini di un evento di grandi proporzioni, ne hanno il volume e la dimensione
estetica ma anche l'inevitabile indeterminatezza poetica, la smania di confezione più adatta
per ben figurare in una convention che per
suscitare emozioni nell'intimo della cameretta.
Diciamo che la sensazione, per nulla piacevole,
è che nell'ordine di idee di megastar come loro
non rientrino più crucci del tipo "facciamo un
disco rock", sostituiti da "facciamo un disco che
lasci a bocca aperta la multinazionale".
In ultimo, rispetto all'operazione In Rainbows
o t t o b r e
favore (gratis) che però a ben vedere un prezzo ce l'ha: ovvero, l'impossibilità di non averlo
se sei un utente Itunes. E pazienza se a Bono
e compagni preferisci da sempre i Casadei o
Laura Pausini. C'è un problema di invadenza
metodologica che viene ostentato con sfacciataggine da guinness dei primati ("la più grande distribuzione di un album della storia!"),
ma ancor più c'è un problema di sostanza che
induce a riflettere: la fortuna di questo disco
– intendendo con questo la sua diffusione e
(di riflesso ma non necessariamente) la sua
popolarità – sarà pesantemente influenzata da
questo metodo massivo di distribuzione.
Una sorta di dumping portato all'estremo, dove
la sovvenzione è a cura di Apple (che ha pagato
il disco agli U2, vale la pena di sottolinearlo) e
l'obiettivo è ottenere una molteplice ricaduta
promozionale (sui prodotti Apple nonché su
tour e prodotti U2, che tra l'altro hanno già annunciato il successore Songs Of Experience).
Tutto ciò lasciando perdere aspetti quali la coerenza della band rispetto alla sua storia recente
e antica, nonché le ricadute sulla posizione
stessa del rock – già di per sé in fase calante –
tra le arti espressive. Insomma, difficile parlare
della musica contenuta in questo disco. Ma ci
proviamo, anche se a dire il vero la musica non
aiuta. Iniziamo sottolineando che la produzione è di Danger Mouse, la qual cosa – che ve lo
dico a fare – si sente: una produzione implacabile, definita e tornita, ricca e scoppiettante.
C'è un problema però: rispetto al già fin troppo
enfatizzato sound dei due precedenti lavori,
qui il tentativo di attualizzarlo ha neutralizzato
l'impronta U2, fatta eccezione per la voce. Tra
riffoni variamente hard, dinamismi di basso,
ingegneria ritmica e grafismi sintetici, sembra
di ascoltare l'ipotetico disco solista che Bono
non ha mai inciso. Non vorrei utilizzare un'affermazione troppo forte, ma The Edge, Clayton
e Mullen avrebbero potuto benissimo metterci
161
dei Radiohead a cui è inevitabile ricondurlo,
questo Songs Of Innocence sta più o meno
agli antipodi. In primo luogo, perché laddove
i cinque di Oxford ti dicevano "assaggia e paga
quanto/se vuoi", i quattro irlandesi ti dicono
"prendi e ascolta, il resto sono cazzi tuoi, tanto
mi hanno/hai già pagato". In secondo luogo,
perché al netto della posizione privilegiata i
Radiohead ipotizzavano un modello alternativo
all'egemonia delle major, mentre gli U2 ne tracciano uno esclusivo che solo pochi grandissimi
nomi potranno mai permettersi. In altre parole,
se quello schiudeva possibilità (opinabili, ma
pur sempre possibilità), questo si rintana dentro le mura della fortezza. Sempre più dorata e
arida.
4.5/10
The Van Pelt - Imaginary Third (La
Castanya,2014)
Genere: indie, post-punk, emo, post-rock
Alla fine degli anni '90 i Van Pelt si erano
sciolti lasciando incompiuto il seguito di Sultans of Sentiment. A distanza di tempo e di
chilometri, l'etichetta indipendente catalana
La Castanya ha raggruppato le registrazioni del
biennio '96-'97 per quello che avrebbe dovuto
essere e non è mai stato il terzo album. Ha aggiunto inoltre alcuni mixaggi e voilà, un disco
immaginato per anni è ora pur sempre "immaginario" – come dice il titolo – ma finalmente in
carne o ossa (viniliche e digitali).
Imaginary Third ci riporta il gruppo di Chris
Leo all'incirca dove lo aveva lasciato Sultans
of Sentiment, il secondo e finora ultimo LP
di una breve carriera, vero culto come dimostra anche l'entusiasmo con cui è stata accolta
la recentissima reunion. Siamo dove eravamo
rimasti, in un contorto e avvincente crocevia
che è anche una fertile terra di mezzo tra indie,
emocore e post-rock, con un sound spigoloso
162
Tommaso Iannini
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Stefano Solventi
e intellettuale quanto la scrittura ellittica e il
tono inconfondibile di Chris Leo, oscillante
tra lo scream, il canto e il recitato. Canzoni
dissonanti un po' smart casual, come nel miglior college rock, un po' obliquamente pop e
discretamente rumorose, che suonano fluide
eppure abbastanza intricate anche quando giostrano semplicemente su due accordi fragorosi
(ABCD's of Fascism).
Lo si può considerare un buon mix tra i due
album precedenti dei Van Pelt, la parte sanguigna di Stealing from Our Favorite Thieves
e quella astratta di Sultans of Sentiment.
Da una parte il talking punk letterario di The
Treat, il rock and roll sbilenco ma tecnico di
The Betrayal e una specie di rockabilly contorto (Evil High), dall'altra le chitarre a canone
di Three People Wide at All Times, e poi The
Speeding Train, ballata post-hardcore un po'
sui generis che a pelle può ricordare l'impressionismo strumentale dei Durutti Column con
una spruzzata di epica alla U2 e il soul rock degli Afghan Whigs riletti in chiave Minutemen/
Fugazi. Buona parte delle canzoni sono state
l'anticamera per l'album Betrayal dei Lapse,
appena divergenti nell'esecuzione – più ruvida
– che avrebbe impresso il gruppo successivo di
Chris Leo, più che nella struttura in sé.
Avessero proseguito la loro corsa, i Van Pelt
sarebbero andati probabilmente oltre questi
pezzi, non ancora al livello di Sultans of Sentiment. Non sarebbero diventati delle star (se
The Speeding Train è una hit mancata, poteva
esserlo comunque per un pubblico di nicchia),
ma avrebbero consolidato la propria reputazione. Cosa che anche questo disco contribuisce a
fare.
70/10
Genere: pop, cantautori, folk
La scena cantuatorale australiana brulica di
nuovi talenti pronti a conquistare fette più o
meno grandi di mercato. Da una parte abbiamo
tutto un movimento caratterizzato da una forte
deriva post-boniveriana calcata con gusto dai
vari Vancouver Sleep Clinic, Dustin Tebbutt,
Solomon Grey, Fractures e RY X, dall'altra
continua a fare proseliti la scuola più tradizionalista – e probabilmente più profittevole
in termini economici – maggiormente legata
all'elogio della semplicità chitarra-voce e delle
melodie orecchiabili.
In questa seconda categoria il principale attore
è sicuramente Vance Joy. Classe 1987, James
Keogh – così all'anagrafe (ha scelto di utilizzare l'alias Vance Joy dopo aver letto il romanzo
Bliss dello scrittore americano Peter Carey) – è
il classico bravo ragazzo della porta accanto
che le madri consiglierebbero alle figlie adolescenti e porta avanti un discorso musicale che
rispecchia questa attitudine sintetizzabile con
il termine polite.
Armato di ukulele il Nostro ha già completato
il grande balzo nell'universo mainstream e l'ha
fatto con il brano Riptide: se a dicembre dello
scorso anno, quando recensimmo il suo EP d'esordio God Loves You When You're Dancing,
il brano aveva scalato solamente le classifiche
locali, nella prima parte del 2014 si è diffuso a
livello internazionale – 90.000.000 i plays su
Spotify, non così distante dalle tracce più ascoltate di sempre – tenendo in qualche modo viva
(insieme a Budapest di George Ezra) quella
folk prostitution che sembrava destinata a ridimensionarsi dopo un paio d'anni di dominio
discografico.
Riptide è anche il pezzo di punta dell'album di
debutto Dream Your Life Away con il quale
James – almeno sulla carta – avrà l'occasione di
aumentare il proprio gruzzoletto con il minino
sforzo artistico. Mess Is Mine funziona egregiamente grazie ad una presa melodica efficace
(ad altezza Mumford and Sons privati dello
slancio bluegrassy), Form Afar fa sfoggio del
DNA del cantautorato più classico (Cat Stevens), My Kind Of Man possiede gli ingranaggi
giusti negli angoli più reconditi mentre Red
Eye porta il discorso su un livello meno intimo
e più adatto ad essere suonato davanti a grandi
platee, ripescando un certo pop-rock americano di metà anni '90 (All I Ever Wanted). Difficile poi non lasciarsi cullare da Georgia.
Analizzando esclusivamente i singoli brani è
però facile venire ingannati dall'estrema facilità con cui questi ultimi riescono ad entrare in
testa e si rischia di focalizzare l'attenzione su
quegli elementi – melodie, chorus – che rendono quasi tutti gli episodi del disco praticamente inattaccabili a livello di leggerezza pop.
Escludendo un paio di passaggi palesemente
poco riusciti (Who Am I sembra una bozza
abbandonata, l'uptempo First Time irrita e
Wasted Time odora già di autocitazionismo), è
solamente osservando Dream Your Life Away
da un'ottica più ampia che ci si rende conto di
essere di fronte a un disco vacuo e patinato –
la produzione è di Ryan Hadlock, già dietro al
bestseller targato Lumineers – in cui Vance
Joy non riesce mai a ricreare la magia del folk
fatto con l'anima, quello che trasuda onestà
e che è in grado di trasportare l'ascoltatore
in contesti bucolici e in coordinate temporali
lontane.
L'accompagnamento – che si tratti di ukulele o
di chitarra acustica – regala pochissime emozioni nonché poche variazioni sul tema, e i testi
– seppur meno banali e immediati di quanto
si possa pensare – non posseggono quel fascino vagamente maledetto e sinistro dei grandi
songwriter. Così, quel che si diceva sull'EP – "si
avverte l'assenza di qualche sussulto emozio-
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Vance Joy - Dream Your Life Away
(Atlantic Records,2014)
163
nale e di un tratto distintivo evidente. Tutto è
molto bilanciato, forse troppo" – si concretizza
anche in un album che sembra realizzato con
l'intento di accontentare un target cross-generazionale tanto ampio in termini di età quanto
limitato a livello di ascolti.
5.7/10
Riccardo Zagaglia
Genere: blues, jazz
Quello di Veronica And The Red Wine Serenades è una sorta di marchio di fabbrica,
per gli amanti del blues rurale e del ragtime
anni '20/'30, oltre che di tutto l'immaginario
analogico e gracchiante che i generi suddetti si
portano dietro. Da tempo, infatti, il combo si dà
da fare per portare in giro la propria versione
di un mondo fatto di Bessie Smith, Leadbelly,
Blind Blake, Sister Rosetta Tharpe, Memphis
Minnie (e chi più ne ha più ne metta), attraverso un recupero di brani tradizionali e un
approccio alle registrazioni più " dal vivo" possibile (con tanto di strumenti rigorosamente
acustici come chitarra, ukulele, contrabbasso,
kazoo, incisioni in presa diretta o in mono, microfoni panoramici e riverberi ambientali).
Registrato tra Stati Uniti (da Mark Simmons)
e Italia (da Dario Raveli), The Mexican Dress
("Full dynamic range" – recitano i crediti –
"play it loud!") è l'ennesima declinazione di un
amore sconsiderato per le blue notes, capace
di bissare le buone sensazioni già scaturite
dall'omonimo esordio del 2009 con la consueta
classe. Il disco, oltre a proporre i primi brani
composti da Veronica Sbergia e Max De Bernardi (lo swing-blues dell'iniziale The Mexican Dress, Crying Time, il fingerpicking di
The Resurrection Of The Honey Badger), è la
consueta gimkana tra classici (quasi)conosciuti
164
Fabrizio Zampighi
Whirr - Sway (Graveface,2014)
Genere: pop, rock, alt, shoegaze, dream, noise
Ah, che spettacolo i Whirr… da grande promessa – mai mantenuta fino in fondo – a risibile macchietta social. Il clamore attorno al
primo EP Distressor – uno degli esordi più
folgoranti di tutta la guitar-music degli ultimi
anni, portatore sano di possibili evoluzioni di
un genere piuttosto ermetico come lo shoegaze
– non si è concretizzato due anni più tardi con
l'album di debutto Pipe Dreams, troppo discontinuo e sostanzialmente noioso (anche se
per il sottoscritto Flashback rimane un pezzo
da novanta ancora oggi).
Poi, l'assurda debacle di stile che ha accompagnato la release del trascurabile Around EP: di
punto in bianco la pagina Facebook del gruppo
è diventata il luogo preferito dalla band guidata da Nick Bassett per dare spazio a infantili
assalti mediatici verso alcuni importanti critici
musicali americani. Su tutti, il noto Needledrop (Anthony Fantano) – vedi immagine – e
Ian Cohen di Pitchfork per la sua recensione
di Guilty of Everything dei loro amichetti
Nothing. Non contenti, hanno persino iniziato
una crociata contro i – numerosi – fan che non
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Veronica and The Red Wine
Serenaders - The Mexican Dress
(Autoprodotto,2014)
(la Weed Smoker's Dream "prototipo" della ben
più celebre Why Don't You Do Right) e brani
più o meno noti esclusivamente agli amanti del
genere (il ragtime della Who's That Knocking
At My Door già nel repertorio di Hannette
Hanshaw).
Per forza di cose derivativo e nostalgico, The
Mexican Dress, poco aggiunge alla produzione già edita di una band che non aspira certo
a rivoluzionare un linguaggio. Eppure gusto
negli arrangiamenti, sincero trasporto e ottime
capacità tecniche fanno del disco un bel compendio di suoni decisamente intriganti.
6.6/10
r e c e n s i o n i
band potenzialmente all'altezza – nel migliore
dei casi – di tirare fuori dal cilindro il grande
album, sebbene ad oggi non sembri in grado di
effettuare il cambio di marcia decisivo.
6.5/10
Riccardo Zagaglia
The Wytches - Annabel Dream Reader
(Partisan,2014)
Genere: post-punk, shoegaze, garagerock
Qualche giorno fa riflettevo su come negli
ultimi anni il punk inglese abbia perso smalto
rispetto a quello dei lontani cugini americani.
A band come Cloud Nothings, Japandroids,
Metz, DIIV (giusto per citarne solo alcune)
l'(anti)establishment punk di Sua Maestà, negli
ultimi tempi, non è riuscito a rispondere con
valide alternative, se non in rarissimi casi (vedi
Eagulls e Male Bonding).
Puntuali, a tentare di far crollare la nostra tesi,
ecco arrivare i Wytches, giovanissimo trio di
Peterborough, ma con sede a Brighton, formatosi nel 2011 e con all'attivo finora solo alcuni
EP prodotti da sgangherate etichette (Hate
Hate Hate Records), che tuttavia sono riusciti
ad attirare l'attenzione delle più note Heavenly
Recordings (Uk) prima, e Partisan Records
(USA) poi.
Eccoci perciò a dover fare i conti con Annabel Dream Reader, album di debutto del trio
composto da Kristian Bell (voce e chitarra),
Dam Rumsey (basso) e Gianni Honey (batteria)
registrato nello studio analogico ToeRag del
produttore Liam Watson sotto la supervisione
dell'ex Coral, Bill Ryder-Jones. Tredici tracce
che avanzano nell'ombra di una psichedelia
dalle tinte macabre (Wide at Midnight, Fragile
Male, Crying Clown), per poi discostarsi da essa
attraverso fraseggi surf-punk (Gravedweller),
grunge (Wire Frame Mattress) e intraprendendo sentieri disegnati da ballad dal piglio core
(Weights and Ties, Summer Again, Track 13).
o t t o b r e
hanno apprezzato le uscite della band (per i
più curiosi, c'è pure un Tumblr dedicato). Un
carisma decisamente lontano dal contornarsi di
quell'alone di mistero onirico che caratterizzava alcuni nomi storici dello shoegaze.
Dopo un tour con i compari Nothing di Dominic Palermo (con il quale Nick Bassett ha dato
vita al momentaneo side-project post-punk
Death of Lovers) la band ha avviato la scrittura del materiale per il secondo album Sway
(il primo su Graveface) tra Philadelphia – dove
Bassett sembra aver trovato il proprio nirvana –
e la California, dove risiedono i restanti Whirr
ora privi della voce di Alexandra Morte, attualmente nelle Night School (ennesimo gruppettino female-garage-fuzzpop).
Sway è un disco meno etereo-ambientale
rispetto a Pipe Dreams, più scuro, aggressivo,
claustrofobico e "settato" su coordinate b/n
care alla band di Palermo (si ascolti l'iniziale e
potentissimo attacco di Press). Un immersivo
saliscendi di accelerazioni e decelerazioni catartiche che regala sporadiche emozioni, come
quelle suscitate dai cambi di tempo che sorreggono, distruggono e riassemblano Feel e dal
veleggiare di Heavy (a suo modo orecchiabile).
Un mood sinistro e devastante che dalle distorsioni abbassate e dai muri di feedback risale
verso linee vocali – volutamente – piatte, malinconiche e sofferte, che nei momenti più intensi possono ricordare alla lontana i passaggi
emo-sussurrati di Chino Moreno (Deftones),
come nel caso della maestosa Clear – e le sue
aperture che vagamente ricordano Change – e
nella slowness abissale della titletrack in cui –
ma non li troviamo solo qui – prendono forma
alcuni panorami cosmici di scuola Slowdive.
Otto tracce prodotte da Jack Shirley per poco
più di mezz'ora di granitico spleen senza via
d'uscita. Non una prova destinata a rimanere e
probabile disco di transaizione che riesce però
a mantere viva l'attenzione nei confronti di una
165
o t t o b r e
Marco Frattaruolo
Zammuto - Anchor (Temporary
Residence,2014)
Genere: wave, synthpop, avant, electro
Due anni dopo il buon album omonimo – più
che un esordio, una sorta di second coming
dopo l'eutanasia dei The Books – torna a farsi
vivo Nick Zammuto assieme alla sua band (il
fratello Mikey al basso, Sean Dixon alla batteria
ed il polistrumentista Nick Oddy in sostituzione del dimissionario Gene Back). Di nuovo non
c'è molto, ma quel poco è importante: ferma
restando l'impronta del metodo, ovvero quel
riarticolare moduli sonori predefiniti in combinazioni ingegneristiche, c'è una più marcata
disposizione da band appunto, una voglia di
manufatto che innerva le strutture ritmiche e si
irradia nei riff, conferendo ai pezzi una vena di
traslucida e umanissima frenesia.
Se l'impronta genetica della tradizione è meno
palpabile rispetto a quanto non fosse nei The
166
Books – qui però esplicitamente omaggiata nel
rifacimento di Henry Lee, come uscirebbe da
uno split tra Notwist e Boards Of Canada –
d'altro canto c'è un più evidente senso della
canzone, che in molti casi sembra persino ammiccare forme radiofoniche. Vedi l'atmosferica
Good Graces col suo procedere felpato downtempo e l'elevazione luminosa Sufjan Stevens,
il soul imbronciato con tastierine pastello
e (pseudo) violini di Your Time, oppure gli
incalzanti rigurgiti 80s di IO (riff segmentato
e piglio da rock sintetico tipo il Glenn Frey di
The Heat Is On, con l'Herbie Hancock futurista alle calcagna).
Resta pur sempre l'attitudine per gli esperimenti in vitro, incastri e sovrapposizioni che
perseguono un'ebbrezza di nervi e sinapsi
prima che ventrale: è il caso di Sinker, con le
sincopi secche e la malinconia cerebrale in un
crescendo d'irrequietezza elettrica, così come
della compenetrazione tra solennità etnica
Peter Gabriel, pennellate di chitarra Tortoise e riff cubista di synth in Great Equator, o
ancora il David Sylvian angelicato in trame
ritmiche cyberjazz di Stop Counting. Il buono,
ancora una volta, sta nella sua natura di intrattenimento intelligente che non rinuncia al
guizzo nervoso, alla simpatia quasi diabolica
per l'inconsueto. Il brutto è una certa irriducibile freddezza di base come prezzo da pagare
alla metabolizzazione del digitale in una prassi
creativa che ha provato a reinventare l'analogico. Non certo un'impresa facile.
6.8/10
Stefano Solventi
r e c e n s i o n i
L'approccio punk dei tre, tuttavia, non deve
trarre in inganno. Difatti gli episodi punk, quelle grezze schegge che dovrebbero rimbalzare
all'impazzata da una parte all'altra del disco,
finiscono per essere i grandi assenti di questo
debutto targato Wytches – che in definitiva si
fa apprezzare per il sound ricercato, ma allo
stesso tempo immediato e schietto (merito
della produzione analogica, evidentemente). I
tre comunque sembrano non volersene curare,
dimostrando di volersi spingere alla ricerca di
intrecci maggiormente levigati, consapevoli dei
rischi a cui potrebbero andare incontro (ripetitività e ridondanza sono dietro l'angolo). E se
è vero che il punk è stato e forse rimarrà per
sempre un concetto abbastanza astratto (come
tutte le etichette d'altronde), Bell, Rumsey
e Honey, se non altro, dimostrano di averlo
nell'attitudine, e non è poca cosa.
6.5/10
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
167
I n c h e s # 5 2
S o m e
G i m m e
168
Altro mese, altro giro sui formati piccoli e strani. Atmosfere differenti ma spesso e volentieri stessi medium che se ne fregano di revival e ritorni in auge semplicemente perché non
se ne sono mai andati del tutto. Erano stati soltanto dimenticati per un attimo.
Stessi formati e musiche diverse dicevamo. È il caso dei primi due sette pollici del mese.
Il primo è appannaggio dei Father Murphy, band di cui non ci stancheremo mai di lodare l’atteggiamento prima ancora che le (ottime) risultanze musicali, e tiene a battesimo una nuova label, la Zen Hex nata sulle ceneri della Sons Of Vesta, etichetta d’ambito
più eterogeneamente punk con in catalogo La Quiete, Raein, Violent Breakfast e Johnny
Mox. La Zen Hex si fa ancor più radicale, non come suoni quanto come formato, dato che
l’intenzione sarebbe quella di mantenere come formato il 7” in tiratura limitata. Esempio
ne è questa uscita numero 1 che si spera sia solo la prima di un lungo percorso: preso atto
dell’ultimo lavoro del Reverendo Pain Is On Our Side e della possibilità di creare nuove
canzoni dalla sovrapposizione contemporanea dei due 10” e detto anche dell’impossibilità
per molti di attuare questo stratagemma, ecco il 7” Let Them All Fail With You che unisce
Let The Wrong Rise With You e They Will All Fail You, mixate da Greg Saunier dei Deerhoof. Il risultato è una straniante nenia tra cacofonie abissali, orchestrazioni mefitiche e procedere doom, nel senso di “giorno del giudizio”. Sul lato b, una incisione artigianale opera
di Handy Lab impreziosisce ulteriormente questo oggettino piccolo solo di formato.
L’altro 7” è targato Acid Baby Jesus e cambia totalmente gli orizzonti musicali. Il quartetto greco anticipa il comeback sempre per Slovenly con un vinile piccolo in cui espone il
proprio pensiero sul concetto di psych’n’roll. Velvet, giro Frisco alla Thee Oh Sees, primi
Rolling Stones e zozzerie alla Demon’s Claws? Beh, sì, ma anche molto altro in appena
cinque minuti di roba che vivono di retroterra sixties (la title track) ma soprattutto di psychotico incedere reiterato e ossessivo come non capita di sentirne spesso (Brain Damage In
Athens City). Li vogliamo sulla lunga distanza.
Passando dai vinilini ai nastri cambia il formato ma non la sostanza. Stesso medium, atmosfere diversissime. Cominciamo con un duo di cui demmo segnalazione il mese scorso,
offrendone anche lo streaming integrale. Ora ci torniamo su perché un disco come Elementer dei SUTT non può passare sotto silenzio. Cacofonie al limite dell’harsh noise più
brutale (l’opener Test Tone 95) si alternano a deliqui avant-qualsiasi cosa (Jord) per questo
duo insolito e apolide di stanza a Berlino: batteria appannaggio del turco-norvegese Utku
I n c h e s # 5 2
S o m e
G i m m e
Tavil, e voce (più elettroniche varie) della danese Sofie Trolde Christiansen, per un lavoro
che ricorda Bjork e ?Alos quanto i nostri Camusi calati nel marasma più incompromissorio
del noise più devastante. Spiazzante e ottimo.
Arriva in cassetta anche l’esordio su Haunter di Petit Singe, moniker dietro il quale si cela
Hazina Francia, producer d’origine indiana e cittadinanza romagnola. Tregua, pubblicato
in 100 nastri da Haunter e masterizzato da Antonio Gallucci aka Architeutis Rex, è una
mezzora di suoni oscuri, blips minimali, ossessioni circolari e trance malleabile che abbassa i bpm quasi fino alla stasi, ma crea situazioni emotive borderline in the vein on the label,
come potete leggere qui di seguito.
Dal BelPaese (?) saliamo in Svizzera, e più precisamente a Lucerna, senza per questo cambiare label. Finiamo con l’imbatterci nell’esordio di SSSS, nome del nuovo progetto solista
di Sam Savenberg (già bassista nei teutonici Die Selektion e tenutario della piccola Edition
Gris). Ispirate dagli studi sul controllo sociale di Virilio e Baudrillard, musicalmente le sei
tracce di questa tape si avvicinano alla techno astratta e caliginosa dei padrini Black Rain
(la title-track Administration of Fear) e Ancient Methods (Hegemonie Negative), senza
tralasciare passaggi quasi EBM (Are You Lost) e digressioni dark-ambient (Circles). 100
copie per la milanese Haunter, giovane label che si dimostra con queste due uscite decisamente focalizzata sulle sonorità più oscure dell’elettronica da-ballare-ma-presi-male.
A Copenhagen invece, si sa, sono di stanza nomi come Lust For Youth e Croatian Amor
che tornano in coppia con un nuovo 7 pollici ovviamente su Posh Isolation. Due pezzi
del precedente (nonché ottimo) album collaborativo Pomegranate qui remixati in chiave
club. Fa uno strano effetto sentire l’ambient subacquea di pezzi come Sister venire travolta
improvvisamente da beat techno e melodie euro dance ma d’altra parte sono loro stessi a
definirsi masters of romance e bisognerà dargliene atto. In altre parole un giochino ruffiano ma divertente al contempo.
Ancora più a Nord per arrivare in Svezia, terra sempre ricca di proposte per i palati più
estremi (tra cui vi segnaliamo le recenti produzioni di giro Northern Electronics). Torna
con un 12 pollici uno degli act nazionali più interessanti : parliamo degli Amph, duo composto da Andreas Malm (già in quegli Skeppet il cui album su Not Not Fun non dovete assolutamente perdere) e Peter Henning (Sprachlos Verlag). Due tracce per l’etichetta locale
Komplott in cui i nostri dipanano due aspetti speculari del loro sound. Terry ha infatti un
incipit free jazz, presto annegato in un’ambient invasiva e avvolgente che sconfina presto
in picchi di rumore bianco per poi ripiegare su se stessa e sfaldarsi in una lunga coda sfatta
ed eterea. Il B side Framtid è invece un tunnel buio dall’inizio alla fine, un viaggio di dieci
minuti senza luce e anzi avvolto da brume e fumi claustrofobici: niente impennate rumoristiche, niente fraseggi dissonanti, solo una coltre color pece a cui il gruppo ha dato (ironicamente?) il nome Futuro. Sarà che anche da quelle parti il futuro non è più quello di una
volta?
169
Mayhem
c l a ss i c
a l b u m
De Mysteriis Dom Sathanas (Code666,1994)
170
170
Era già dall’estate che avevamo deciso di scrivere di questo disco ma le dichiarazioni del leader dei
Sonic Youth, non si sa quanto serie considerando la sua recente militanza in progetti black metal –
o quanto seria sia questa militanza –, ci hanno servito l’occasione su un piatto d’argento. Qualcuno
si è infuriato, alcuni hanno riso, altri hanno semplicemente preferito soprassedere o leggere l’ironia
tra le righe (come era più giusto fare).
Le frasi di Moore sono a doppio taglio perché nascondono una doppia assurdità o, se preferite,
un paradosso e una verità. Il paradosso è che la sua stessa presenza in progetti del genere indica
appunto come si tratti di un genere musicale, che dall’inizio degli anni ‘90 a oggi ha avuto la sua
evoluzione sotto tutti i profili, non diversamente da qualsiasi altro. Che non si consideri musica
non si può dire, del disco dei Mayhem, se si vuole avere il tempo per non fermarsi alla superficie e
indagarne un po’ più a fondo le strutture (anche con l’aiuto di quegli spartiti elettronici che girano
in rete, non sempre accuratissimi ma utili quando si ha voglia di conoscere qualcosa di nuovo e di
non andare per luoghi comuni).
Quanto alla completa disintegrazione dell’esistenza, oddio – anzi, scusate, che diavolo (!!!) –, il
finale della citazione forse una mezza verità la nasconde. Se voler dannatamente scrivere di musica
su De Mysteriis Dom Sathanas, l’album che sta al black metal norvegese come Scum dei prima
apprezzati e poi tanto odiati (da Euronymous) Napalm Death al grindcore, significa dover dribblare, oltre a dichiarazioni pubbliche e pose pour épater le chretien, anche un corollario di cronaca
nera – molto nera – tra suicidi, omicidi, vandalismi, chiese date alle fiamme e gente pronta per le
bestie di Satana tanto prima delle Bestie di Satana (quelle de noantri), se parliamo di vita che diventa più arte dell’arte, se consideriamo quanto la vocazione distruttiva – e autodistruttiva – dei suoi
primi ispiratori abbia inciso sul piano estetico e sonoro del black metal, e non solo nell’aura maledetta che aleggia su un parto discografico quasi decennale, be’ allora questa potrebbe essere l’unica
frase azzeccata dal nostro amico Thurston. Ben conscio, tra l’altro, di come ciò abbia il suo fascino.
Per rimarcare la differenza con una scena diventata – a parere loro – troppo trendy, i norvegesi si
definivano total death metal e questa cosa l’hanno presa molto a cuore, oseremmo dire alla lettera.
Ma appunto, parliamo della musica.
Brutal musik è un’altra definizione che i Mayhem si portavano dietro dalle origini, tra gli inizi e la metà
degli anni ‘80, quando il metal più forte sulla piazza era rappresentato da band come Venom e Celtic
Frost e agli albori del thrash. Dopo il demo Pure Fucking Armageddon, è con l’EP dell’87 Deathcrush
che Maniac, Euronymous, Necrobutcher e Manheim (i componenti di allora) arrivano a un primo punto
fermo della propria evoluzione: una sorta di versione hardcore – più intensa ma anche “punk”, in senso
molto lato – incrostata e lo-fi del thrash/death estremo dell’epoca. Più ancora del sound incancrenito
nella sua sporcizia, è il grido spiritato di Maniac a introdurre quelle caratteristiche autoctone che saran-
no evidenti in tutta la scena norvegese (nel momento in cui gli svedesi Bathory in Under the Sign of the
Black Mark compiono il passo decisivo per diventare il trait d’union storico tra la first wave dei Venom
e gli sviluppi futuri del black metal sul piano canoro e strumentale).
Di fatto tra Deathcrush e De Mysteriis dom Satanas passano sette anni in cui non escono dischi
di studio, ma succede di tutto sul piano stilistico e non solo. I Mayhem consolidano la propria reputazione underground di totale estremismo con poche esibizioni shock. L’ingresso del nuovo vocalist
Dead imprime una svolta. Lui nel ruolo di frontman e il chitarrista Euronymous come leader della
scena, definiscono il concept del nuovo black metal. Ossessionato dalla morte (ancora), Dead adotta
il face-painting («non per essere glam come i Kiss o maligno come King Diamond, ma per assomigliare a un cadavere», come racconta Necrobutcher) ed estremizza le sue esibizioni sfidando il pubblico con gesti fuori controllo (l’automutilazione o le teste di maiale lanciate dal palco). Dead scrive
i testi delle canzoni che finiranno su De Mysteriis – tra cui Freezing Moon o Life Eternal, preludio
al suo suicidio nel 1991 –, e plasma la tecnica dello scream, diversa sia dal growl del death metal,
sia dal canto metal classico; il suo urlo viscerale d’angoscia tra l’agonizzante e l’indemoniato non si
è mai potuto apprezzare in una resa di studio, ma solo in dischi dal vivo come Live in Leipzig o il
famigerato bootleg Dawn of the Black Hearts.
Anche il batterista Hellhammer, emulo della potenza al cardiopalma dei Dave Lombardo e dei Pete
Sandoval, contribuisce non poco all’evoluzione musicale del gruppo e a definire le coordinate del
black metal. Un nuovo cambio di formazione dopo il suicidio di Dead e l’uscita dal gruppo di Necrobutcher vede l’ingresso di Varg Vikernes al basso, di una seconda chitarra (Blackthorn) e del cantante ungherese Attila Csihar, vocalist più tecnico e sperimentale che rivisita a sua volta lo scream
modulandolo in maniera più cupa e agghiacciante. Il gruppo che registra il tanto atteso primo album,
più volte rimandato per incapacità organizzative dell’etichetta di Euronymous e uscito solo dopo la
morte di ques’ultimo per mano di Vikernes, è molto cresciuto tecnicamente. E i brani lo rivelano.
Le coordinate del black metal esposte da Funeral Fog e dalla title-track sono un incastro di riff
forsennati, muro frusciante e brusente (a zanzara, secondo il gergo) di chitarra, basso metronomico e blast-beat superveloce di batteria sostenuto da raffiche di rullante e (doppia) cassa battente,
il tutto immerso in un’atmosfera dark e maligna. OK. Gli altarini però si scoprono e rivelano un
virtuosismo che non contempla o quasi gli assoli (e non è un male) e non è così monolitico. Di Freezing Moon più delle parti veloci si imprimono i riff lenti, incluso l’arpeggio in ¾ che un orecchio
straniato potrebbe immaginare in versione post-rock. Per non dire di From the Dark Past, forte di
un arpeggio tutto in terzine e di un riff in 16/4, che propone quasi un black metal “matematico”, se
mi si passa anche questo termine. Proprio antimusica non è. La catena di power chord in terzine
su un tempo galoppante e la metrica arzigogolata di Pagan Fears, i riff in trentaduesimi, l’arpeggio
sweep di Buried by Time and Dust, Life Eternal, che oltre a massacri di doppia cassa in sedicesimi a
170 bpm offre un surreale riff in 15/8, ci sprangano e ringhiano nelle orecchie una forma di metal sì
spaventosamente eccessiva e provocatoria, ma nello stesso tempo ricercata, cerebrale, quasi progressiva (aaaaaargghhhh!). Un approccio formalista e una lettura un po’ più sottotraccia la rende
persino (più) godibile.
7.5/10
Tommaso Iannini
171
Transllusion
c l a ss i c
a l b u m
The Opening Of The Cerebral Gate (Tresor,2014)
172
172
La riedizione dell’album The Opening Of The Cerebral Gate, di pochi giorni antecedente
a quella dell’EP accompagnatorio Mind Over Positive And Negative Dimensional Matter, prosegue il programma di rispolvero di alcuni tesori del catalogo dell’etichetta berlinese (la sublabel Supremat ha fatto in tempo a pubblicare solo tre progetti), e in particolare
segue le reissue a maggio dell’album Neptune’s Lair e dell’EP Hydro Doorways firmati
Drexciya. E’ da qualche anno che fervono i lavori di riproposizione della produzione del
misterioso collettivo di Detroit, oggetto di culto profondo in ambito elettronico. Le quattro
proditorie compilation Journey of the Deep Sea Dweller pubblicate dal 2011 al 2013 dalla
Clone hanno riportato l’attenzione sul primo periodo 1992-1997 (con una dozzina di inediti
ad impreziosire il tutto).
Transllusion è stato quasi certamente (ma nella galassia Drexciya nulla può mai essere
dato per scontato) un’idea gestita esclusivamente da James Stinson, che nella seconda
fase drexciyana ha sostanzialmente portato avanti da solo il progetto complessivo, con
Gerald Donald al massimo citato come semplice socio-ombra. Probabilmente consapevole del peggioramento del suo stato fisico (in una delle rare interviste aveva segnalato il
suo trasferimento da Detroit ad Atlanta per ragioni di salute), e forse cosciente di avere
così tante cose da dire e così poco tempo ancora a disposizione, nel suo ultimo anno di
vita Stinson ha dato fondo a tutte le sue energie creative per dedicarsi al progetto Seven
Storms: sette album in un anno, sotto diversi pseudonimi e per diverse label. La morte nel
settembre 2002 interrompe il progetto (poi ricostruito postumo) ai primi tre capitoli: nel
programma, The Opening Of The Cerebral Gate, pubblicato nel novembre 2001 poco
dopo Lifestyles Of The Laptop Café (firmato The Other People Place e pubblicato da
Warp) e poco prima di Harnessed The Storm (a nome Drexciya, uscito nel gennaio 2002
da Tresor), avrebbe occupato il secondo posto.
Accantonata la mitologia sottomarina di stampo pseudoatlantidea che ha costituito il paratesto concettuale della prima fase dei detroitiani, qui siamo di fronte ad una electro-techno
astratta, metallica ma pulsante passione, che disegna un album tra i più piacevoli e interessanti dell’intero corpus drexciyano, Rimanendo fedele al suo stile, oltranzisticamente
legato alle sonorità analogiche nineties, la riproposizione nel 2014 di un disco che già nel
2001 suonava rètro riporta sul pezzo il progetto Transllusion e il suo responsabile, che va
a sormontare quel mondo off-house lo-fi ultimamente così hype (vedi alla voce Legowelt,
The Trilogy Tapes, L.I.E.S.). Transmission Of Life, nervosa e danzabile opening track,
imposta subito il set, caratterizzato dalla riduzione delle frequenze medie e medio-basse e
dall’esaltazione di quelle alte e subcraniche. Nella compattezza della proposta dell’album
emergono alcune perle: la purezza electro di Look Within e il suo giro armonico funky, il
folle knob twirling di Cerebral Cortex Malfunction, la profonda techno-house moroderiana di Dimensional Glide; Unordinary Realities riesce nell’ossimoro industrial melodic;
Crossing Into The Mental Astroplane è soundtrack per un videogame lisergico. Un album
che merita rispetto.
7.8/10
Alessandro Pogliani
173
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