digital magazine | ottobre 2014 | n. 120 perfume genius D o n ’ t y o u k n o w y o u r q u e e n ? sommario >>>articoli – p. 4 Alt-J Rashad Becker Mattia Coletti Perfume Genius alber(t)i Inspiral Carpets Industrial Soundtrack For The Urban Decay GustoForte Om Unit ROBOT 07 Loudness War e qualità audio >>>recensioni – p. 78 >>>rubriche – p. 168 #120 ottobre Direttore Edoardo Bridda Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Fabrizio Zampighi, Marco Braggion, Nino Ciglio, Marco Boscolo, Alessia Zinnari, Stefano Pifferi, Riccardo Zagaglia, Diego Ballani, Marco De Baptistis, Gianluca Lambiase, Giulio Pasquali, Edoardo Bridda, Stefano Solventi, Stefano De Stefano, Alessandro Pogliani, Giulia Antelli, Andrea Murgia, Stefano Gaz, Elia Galli, Andrea Macrì, Christian Panzano, Marco Frattaruolo, Gabriele Marino, Eugenio Goria, Teresa Greco, Tommaso Iannini, Enrica Selvini, Alessandro Liccardo, Daniele Rigoli, Fabrizio Z., Samanthia Clark Copertina Perfume Genius Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare. A l t - J D i M i l e y C y r u s , al i e n i e c e r v i , a r a n c i n i s i c i l i a n i Abbiamo incontrato Gus UngerHamilton, tastiere e voce degli Alt-J, per discutere degli scenari dietro la pubblicazione del secondo, attesissimo album della band. >>>Testo di Nino Ciglio 4 Vincere il Mercury Prize al primo tentativo, vedersi sobbalzati dall’anonimato alla fama internazionale, convincere critica (se si eccettuano gli “american hipsterismi” di Pitchfork) e pubblico con un sound crossover fra atmosfere sognanti, vocalità armonizzate e accenni folktronici, non dev’essere facile. Gli Alt-J ne hanno pagato le conseguenze, con il recente abbandono di Gwil Sainsbury che, stando a quanto dice la band, non era più in grado di gestire lo stile di vita che si confà a una band popolare. Ridotti con le spalle al muro, le grandi band sanno reagire e il (neo) trio di stanza a Leeds ha trovato i propri mezzi espressivi, andandoli a scovare fra i ritornelli dei brani di Miley Cyrus, nella cinematografia pop sci-fi, ma, soprattutto, nel verde armonico della natura che riempie tutte le quattordici tracce del nuovissimo This Is All Yours. Se il Guardian, poi, ha voluto definirli “ordinary people” e dedicare loro un’intervista sulla vita normale condotta da quella che è a tutti gli effetti una band di fama mondiale, un motivo ci sarà. Gli Alt-J provano a conservare il loro essere genuini ex-studenti, perfettamente british e polite in ogni loro comportamento. Noiosi, qualcuno dirà? Forse, ma fra i movimenti ritmici simil trip-hop, i vocalizzi medievali e, soprattutto, un’inedita veste alla Doors-Black Keys, gli Alt-J promettono di fare scintille anche negli States. Abbiamo incontrato Gus Unger-Hamilton, tastiere e voce della band, per discutere di queste e di molte altre cose, alla vigilia della pubblicazione del loro secondo, attesissimo, album. Il disco è già in streaming via Spotify, giorni prima della release ufficiale… come mai questa scelta? Spotify ci ha convinti al farlo. Abbiamo provato a guardare al modo in cui viviamo la nostra musica, con tutti i nostri errori e difetti. Molte persone avrebbero comunque trovato un modo per ascoltare il disco alla fine e crediamo che sia impossibile e ingiusto tenere la musica al guinzaglio… Perché le persone non possono semplicemente godere della musica nel modo più facile possibile? Contestualmente, avete reso disponibile una app per condividere, commentare e trovare i punti più vicini di ascolto di This Is All Yours. Come vi è venuta questa idea? Abbiamo reso disponibile lo streaming dell’album e, attraverso l’applicazione, le persone possono taggarsi, scrivere recensioni sul momento, trovarsi in tutto il mondo, attraverso le nostre canzoni. Penso sia splendido che, grazie alla musica, nell’area delimitata dall’app, tu possa camminare in qualche posto 5 meraviglioso come un parco, una montagna o un lago. Abbiamo pensato fosse bello che le persone potessero ascoltare la nostra musica in questi posti. L’università ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione e nella musica degli Alt-J. Vi siete conosciuti lì e avete iniziato a suonare in quel contesto. Quanto pensi siano importanti i vostri studi per la vostra musica e lo sono ancora all’alba del nuovo album? Credo che sia vero principalmente per l’album precedente. Quando stavamo scrivendo quel disco eravamo realmente 6 studenti universitari e quando è uscito io e Thom ci eravamo appena laureati a Leeds. Sono passati quattro anni e mezzo, è un bel po’ di tempo. Ma ovviamente traiamo ancora molto beneficio dall’educazione che abbiamo acquisito e siamo persone critiche, che guardano alle cose in modi diversi. Se non fossimo andati all’università, probabilmente avremmo pensato in maniera diversa. Dopo aver vinto il Mercury Prize nel 2012 a dopo essere diventati estremamente popolari, avete sentito parti- colari pressioni nel processo di scrittura del nuovo album? No, non proprio. Volevamo consapevolmente ricreare l’ambiente in cui abbiamo scritto il primo album, cioè solo noi, che ci divertiamo e passiamo del tempo insieme. Questo è come facevamo musica quando eravamo studenti ed è come la facciamo anche ora che abbiamo trovato gli spazi giusti per lavorare, certamente non uno studio. Ci siamo incontrati ogni giorno per chiacchierare, ascoltare musica, fumare erba. Abbiamo pensato fosse giusto così, perché se non avessimo fatto così, semplicemente non avremmo fatto musica. Avevamo bisogno di un ambiente creativo e, grazie a questo, siamo riusciti a vedere i fatti per quelli che realmente erano: gli Alt-J che facevano il secondo disco. È stato come se un gruppo di ragazzi si godesse un po’ di tempo insieme, facendo musica. Avete scritto il disco voi tre, come un trio? Cambia qualcosa rispetto alla scrittura con Gwil? Come il primo disco, la maggior parte delle canzoni sono venute da Joe, nel senso che se scrivi le parole, ti occupi anche degli aspetti fondamentali della melodia. Ha portato le canzoni a me e Thom e poi abbiamo lavorato in comune, come facciamo normalmente. Ma qual è la differenza più grande rispetto ad An Awesome Wave? Come cambia il lavoro senza Gwil? Credo che la differenza principale stia nel fatto che questo disco è stato scritto e registrato in un periodo di tempo minore, in tutto due settimane, quindi probabilmente suona più uniforme. Non ci sono stati reali cambiamenti da quando Gwil ha lasciato la band, semplicemente ci siamo sentiti piantati a terra, perché eravamo soliti approcciarci alla musica come un gruppo. E’ strano scoprire di non avere più un motore portante. Scorrendo la tracklist di This Is All Yours sembra che ci sia una sorta di percorso narrativo, soprattutto nelle canzoni intitolate Nara. Cosa puoi dirci di più a tal proposito? Nara è un posto in Giappone, dove ci sono cervi che girano liberi in città. La canzone è una metafora che riguarda le persone che dovrebbero sentirsi libere di fare quello che vogliono, come i cervi a Nara. L’album è molto strutturato, ma non credo che il percorso di cui parli sia da riferirsi all’intero disco. Solo alle canzoni chiamate Nara… C’è molta natura nel disco, come se aveste ritrovato un rapporto con essa. Eppure, è stato in parte registrato in un edificio medievale… Già, siamo andati nelle campagne nel Kent per due settimane in questo salone medievale ed è stato molto bello. Un posto storico per registrare… Ma allo stesso tempo, ci sono i cervi, le vespe, le farfalle, gli uccelli, le cam- 7 pane… è diverso rispetto alle strade rumorose del primo album… Beh, interessante. Non so esattamente. Eravamo in campagna, in questa splendida estate inglese e c’erano api che ronzavano intorno… credo sia bello dare il gusto, il sapore del posto in cui stai lavorando al prodotto finale. Allo stesso modo nel primo album, che è stato registrato a Londra, c’erano le strade di Brixton. In entrambi gli album abbiamo cercato questo aspetto. Anche le campane presenti in questo disco arrivano dal municipio di Brixton. Credo sia una cosa che ci piace fare. Riguardo alle connessioni con il Medioevo, abbiamo trovato da sempre interessante quel periodo e la musica collegata a questo e si nota bene in canzoni come English Garden… Proprio come in una canzone medievale, sembra che ci siano molte voci nel disco, ma non troppe parole. È una vostra scelta? Esattamente. Ci piace usare la voce come uno strumento. Non devi avere necessariamente le parole, se vuoi cantare. Ci sono però anche brani come Gospel Of John Hurt, in cui si descrive la sensazione legata alla famosa scena dell’alieno che fuoriesce dallo stomaco di John Hurt in Alien. Ha traumatizzato anche me… [Ride, ndSA] È una vecchia canzone che avevamo scritto quando eravamo ancora studenti, ma non era entrata nel primo disco perché non era completa. Durante le sessioni del nuovo album, però, ci siamo accorti che funzionava e l’abbiamo inserita. L’aspetto testuale è quella precisa immagine del film, ma non c’è 8 un significato particolare. Left Hand Free, il vostro secondo singolo, è estremamente diversa da Hunger for The Pine… alcuni dicono che sia stata la vostra etichetta americana a costringervi a fare quel tipo di canzone… No, è una notizia riportata in modo errato. Dopo aver scritto le canzoni del disco, fra cui Left Hand Free, le abbiamo mandate a quelli dell’etichetta e proprio quel brano li ha particolarmente convinti. Ci siamo sentiti confusi, dal momento che per noi non era la migliore del disco, ma a loro piaceva un sacco. Allora abbiamo pensato: «Ok, se gli americani vogliono cose così…». Se una canzone può andar forte in America, a noi non può che fare piacere. Non credi che sia un po’ scendere a patti con il commerciale? Credo che in America siano soliti giocare la partita in un modo diverso, rispetto a quello che facciamo noi in Europa. È un mondo diverso, più legato all’industria, old fashion… Non amano le persone che non stanno al gioco e noi vogliamo provarci, provare ad arrivare alle radio, stare al gioco. Giocare la partita significa anche tirare dentro Miley Cyrus, se necessario… Già, Thomas aveva fatto un remix per lei, che è una nostra fan e le è capitato di twittare cose su di noi, a volte. Così, Thom l’ha contattata e le ha chiesto di partecipare. Mentre scrivevamo Hunger Of The Pine, poi, ci è sembrata molto simile a 4X4, allora abbiamo provato a mettere dentro il sample della sua voce ed effettivamente suonava molto bene. Avete nuove tecnologie sul palco? Come cambia la performance ora? Sì, abbiamo diverse tecnologie: Thom ha alcuni nuovi pad elettronici nel suo drum kit e sia io che il chitarrista abbiamo nuove SPD. Siamo più hi-tech sul palco, ma teniamo ancora molto alla performance dal vivo, ad avere voci o batterie live. In una recente intervista, il Guardian via ha definito “completely normal”. Mi chiedevo se c’era proprio bisogno di specificarlo… A noi va bene così… sai, ultimamente non c’è molto da dire sulle band, ma qualcosa la devi pur dire. Noi, certo, non siamo persone ordinarie, ma credo che non siamo particolarmente pretenziosi o appariscenti. Certo che qualcuno che, da perfetto sconosciuto, è passato in pochi anni a diventare popolare in tutto il mondo, non collide felicemente con l’espressione “completely normal”… Il nostro scopo non è mai stato quello di diventare famosi o popolari. Abbiamo provato a rimanere simili alle persone che eravamo da studenti. Siete per natura molto vicini alle performance live e in particolare ai festival… Non possiamo sempre scrivere o registrare la musica. Pensa che due anni fa siamo stati la terza band che ha suonato di più nei festival… assurdo! Ma stare in tour vi aiuta anche a scrivere nuovo materiale…. Già, è così perché abbiamo finalmente del tempo da passare insieme. Verrete a Milano a febbraio e siete stati due anni fa in Sicilia, all’Ypsigrock… Sì, quello dell’Ypsigrock è stato uno dei concerti migliori che abbiamo fatto. Un posto incredibile, ricordi splendidi di noi che guidiamo nelle colline, nuotiamo nel mare, mangiamo un sacco di arancini. Abbiamo conosciuto ottime persone, ci siamo divertiti molto. Probabilmente quella data è nella top 3 dei live che abbiamo mai fatto. Un po’ mi manca questa dimensione perché ora suoniamo in festival più grossi e, a volte, possono essere davvero noiosi. Amiamo i piccoli festival come l’Ypsigrirock perché ti fanno sentire connessi con l’intero evento. Non vediamo l’ora di tornare in Italia. 9 Ra s h ad B e c k e r In occasione della data al Path Festival di Verona, abbiamo intervistato via mail Rashad Becker, interessante musicista e ingegnere del suono tedesco. >>>Testo di Marco Braggion 10 S u o n o d u n q u e s o n o A settembre 2013 esce un disco che hanno notato in pochi, forse perché relegato alla categoria della cosiddetta musica sperimentale, porto di mare per nerd dell’elettronica o per malati di avanguardia. L’album è l’esordio di Rashad Becker, Traditional Music of Notional Species Vol. I. Il nome di Becker non è nuovo agli aficionados degli studi di registrazione, infatti il produttore e ingegnere del suono tedesco ha lavorato con i più importanti artisti e innovatori degli ultimi anni, passando dalla techno di Marcel Fengler a Joy One Mile di Stellar OM Source, dallo split fra Keith Fullerton Whitman e Floris Vanhoof arrivando fino al nostro Donato Dozzy nell’eccellente Dozzy Plays Bee Mask (queste sono una misera parte delle collaborazioni: su Discogs ce ne sono più di 1200). Il suo tocco magico si divide fra il mastering – al famoso studio Dubplates and Mastering, affiliato con Hard Wax, altra grande etichetta di culto per gli amanti dei suoni techno dub – e il mixing (nel suo studio privato Clunk). Tutto concentrato a Berlino, ovviamente. Becker è un personaggio strano, uno che non fa la star, uno che fa parlare i suoni e che per questo esce fuori con un disco unico, raro, quasi già classico perché fuori dal tempo. Il suo è uno dei più interessanti approcci alla musica elettronica, imparato mettendosi a lavorare con i suoni, senza troppi marchingegni o patch e senza nemmeno alcun corso di musica formale. Poche macchine e tanto, tanto, orecchio. Becker è uno dei pochi che riesce a rispettare la materia sonora senza renderla noiosa, indagando sulla costruzione del suono per la composizione, sull’amalgama perfetto che crea mondi, più che effetti speciali. Dopo l’uscita del disco, sta girando il mondo con il live, con cui tenta di riprodurre dal palco la perfezione della costruzione di sintesi da studio. L’abbiamo intervistato prima dell’esibizione al Path Festival di Verona. Ciao Rashad, come stai? Non ho mai assistito a un tuo spettacolo dal vivo, quindi la mia intervista sarà basata solamente sull’ascolto del tuo album e su qualche video che ho trovato in rete. Trovo il tuo modo di comporre molto concreto (concréte), nel senso di Pierre Schaeffer. Usi suoni registrati dal vivo per comporre i tuoi pezzi? Puoi dirci quali strumenti usi, in termini di software, hardware, microfoni, etc…? I suoni sono tutti di sintesi e abbastanza classici. Uso molta sintesi sottrattiva 11 (cioè filtraggio, ndSA), qualche wavetable e qualcosa di analogico virtuale. Lo spettro delle macchine usate è abbastanza limitato, preferisco avere solo uno strumento e imparare bene ad usarlo, rispetto ad avere una moltitudine di piccole scatole specializzate. I sintetizzatori che utilizzo sono molto vecchi, il mio strumento principale l’ho comprato a 18 anni ed è ancora fonte di ispirazione. Ho letto un’intervista su Wire l’anno scorso nella quale dicevi che eri un po’ stanco di Berlino e che ti sarebbe piaciuto trasferirti in Giappone. Ci sei andato? No. La politica giapponese da Abe (l’attuale primo ministro nipponico) in poi sta prendendo una piega disgustosa, e anche se è interessante vedere in che modo emergano gli antagonismi in una società così conformista, non lo è il pensare a trasferirsi in un Paese dove il giornalismo è stato praticamente reso illegale e ogni uomo maggiorenne riceve una lettera che gli chiede di servire la sua patria con le armi… In qualche modo i tuoi suoni sono zen, mai troppo saturi, e usi molto il silenzio. Pensi che il tuo modo di comporre o di suonare sia influenzato dalla filosofia zen (come in Cage)? Apprezzo come il buddismo zen abbia trovato il modo per oltrepassare la comprensione (undestanding) per puntare alla realizzazione… Lo guardo comunque da una certa distanza e non posso affermare che abbia una relazione diretta con la mia musica. Pensi che il tuo lavoro (ingegnere del suono) abbia influenzato il tuo sound? In che modo? 12 Non ne sono completamente sicuro, anche se la pratica costante dell’ascolto analitico e la localizzazione/isolamento degli armonici aiutano a costruire i suoni di sintesi, specialmente quando lavori con la sintesi sottrattiva… mi aiutano anche a capire e valutare meglio quale potenziale mi possano dare gli strumenti e i filtri che uso. In Italia, dopo la guerra, c’è stato un folto gruppo di compositori allo Studio di Fonologia Musicale a Milano. Fra gli altri (Berio, Maderna), c’era anche Marino Zuccheri, ingegnere del suono. Conosci il suo lavoro (ha collaborato anche con Luigi Nono)? Sfortunatamente no, ma cercherò di approfondirlo. Pensi che la tecnica sia in qualche modo musicale? I tuoi suoni sono molto ben bilanciati fra tecnica e registrazioni sul campo. Mi piace molto questo equilibrio… Sicuramente i circuiti possono essere modellati più o meno musicalmente, senza riferimento a generi o gusti… questo è vero per i filtri, gli inviluppi, i LFO, gli amplificatori dinamici, gli altoparlanti, quasi tutto penso… Non ci sono suoni registrati nella mia musica. Ho sintetizzato tutto (eccetto per un feedback su un pezzo, ma anche questo potrebbe essere pensato come una forma di sintesi). Ho letto che sei molto interessato alla world music. Usi qualche tool “etnico” per comporre? Mi ha sempre irritato l’uso del termine world music. È un termine generale senza senso che potrebbe comprendere tutta la musica prodotta. Non è, forse, un tool etnico anche il synth prodotto da un bianco anglosassone che riflette il design americano? Ma ripeto, non ci sono strumenti, tutte le fonti sonore sono sintetiche. So che hai registraro per altri artisti anche musica disco ed elettronica non sperimentale. Ascolti qualcosa da dancefloor? Ti piace? Difficilmente ascolto quel tipo di musica e se lo faccio guardo al passato. La dance è un genere vasto, ci sono cose che reputo molto ispirate o convincenti o intriganti o sorprendenti, mentre ci sono altri pezzi che sembrano generici o ritmicamente frustranti. Penso che sia come in tutta la musica: ci sono poche noccioline che mi dicono qualcosa e una grande fetta che non mi dice molto. Trovo che la tua musica sia molto dark. Ti senti vicino al dubstep o all’industrial? La musica e la cultura industrial sono state entrambe molto presenti nella mia gioventù. Ci sono molti dischi dei primi anni dell’industrial che ascolto abbastanza regolarmente ancor oggi, prima che si mescolasse con l’EBM e con i sequencer. Giudico la mia musica comica e intensa nel contempo. Metà del pubblico la percepisce come dark, per l’altra parte come divertente. Mi piace questa dicotomia. Hai studiato musica a scuola, in modo formale, prima di comporre il tuo primo disco? Ho imparato a suonare qualche strumento, ma non sono mai stato a scuola di musica, nel senso accademico del termine. Cosa stai ascoltando negli ultimi mesi? Sto ascoltando musica Samul nori, un genere di musica tradizionale per percussioni della Corea del sud. Ho visto un video live dello scorso anno dal PAN ACT Festival presso il Goethe Insitut di Boston. In quell’occasione hai usato solo sampler e mixer. Non usi mai software per live electronics come MAX/MSP o Ableton Live per modificare il suono dal vivo con tecniche più sofisticate? Non uso computer per comporre o suonare. Riesco comunque ad utilizzare sintesi dal vivo, è quasi il 60% di tutti i segnali con cui lavoro sul palco. Il resto è campionato perché sarebbe impossibile portare in giro tutte le macchine con cui lavoro, sono troppo vecchie o pesanti… o entrambe le cose. Quindi suono il campionatore, che considero un ottimo strumento di per se stesso. Nel video cui ti riferisci ci sono tre synth Nord Micro Modular (un sistema virtuale analogico) e un po’ di equipaggiamento per il sound processing. Mi sembra che i tuoi suoni siano connessi in qualche modo al lavoro di Donato Dozzy. Lo conosci? Hai mai lavorato con lui? Curiosa osservazione! Sì, ho lavorato con lui per qualche suo lavoro. Piani per il futuro? Un secondo album (la Parte 2 dell’esordio)? O altri live in giro per il mondo? Assolutamente entrambe le cose. 13 Ma t t i a C o l e t t i L'occasione è l'uscita del quinto lavoro lungo di Mattia Coletti. Il risultato è una chiacchierata, purtroppo breve, sulle influenze, sulle novità, sull'attività da chitarrista e fonico di uno dei più interessanti musicisti italiani >>>Testo di Stefano Pifferi 14 F r o m T h e L a n d t h e t o M o o n Un passato noise-rock; un presente da chitarrista in solo; in mezzo, una mai disattesa attenzione per il suono. Così, con un sunto veramente limitativo si potrebbe introdurre Mattia Coletti, uno dei più interessanti chitarristi italiani, oltre che produttore e fonico di primissimo ordine, dietro al bancone mixer a registrare e/o curare suoni live di band come OvO (di cui è una sorta di membro-ombra), Moon Duo – sua la registrazione dell’ultimo Live In Ravenna – o Bachi Da Pietra. Due ottimi album noise-rock targati Sedia – l’omonimo del 2004 e The Even Times del 2006 – insieme ad Alessandro Calbucci e Alessio Compagnucci in un power-trio che avrebbe meritato altre attenzioni; il quotato progetto Polvere condiviso con l’altro chitarrista extra-ordinaire Xabier Iriondo che ha fruttato un mini-album e tre lavori lunghi quasi tutti omonimi e pubblicati in CD (l’omonimo esordio del 2006), 10” (anch’esso omonimo) e cassetta 15 (l’ultimo nato Polvere’s Farewell su Old Bycicle); l’unicum Manta a nome Leg Leg, band condivisa coi conterranei Roberto Ceccacci (batteria, ex Lleroy) e Andrea Giommi (basso, Edible Woman) più una serie sterminata di collaborazioni come 61 Winter’s Hat (l’omonimo in 3” mini-CD condiviso con Fabio Magistrali ed inserito nella Wallace Mail Series), Damo Suzuki’s Network (Coletti è una delle due chitarre in Tutti I Colori Del Silenzio), End Of Summer (due Sedia + i due Uncode Duello, Paolo Cantù e l’immancabile Iriondo) o Christa Pfangen (il lavoro con Andrea Belfi edito da Die Schachtel nel 2006 che seguiva il cd-r Key On A Tongue intestato però ai due titolari) dicono di una irrefrenabile produzione sempre di altissimo livello e sviluppata tra post-rock chitarristico, avant-rock, noise-rock e quant’altro. Per la dimensione in solo, esposta in album come Zeno, Zeno Submarine, Pantagruele e The Land, Coletti si concentra sulla sua chitarra elettricoacustica tarata in modalità ritual bluesy/ avant-folk e su pochissimo altro. Un pochissimo altro che spesso assume le forme di pulviscolo sonoro, disturbi elettrostatici, sporcizia digitale, andando ad impreziosire quella ricerca sulla sottile linea rossa che divide la sperimentazione dalla tradizione, la dissonanza dalla melodia, e che, col passare dei dischi, si va sempre più focalizzando sul suono e sui dettagli, spostando l’impianto originario verso lande “altre”. “Haiku sonori” abbiamo spesso definito quei bozzetti in cui il procedere chitarristico è sviluppato lungo l’asse della reiterazione e della ciclicità senza 16 mai farsi accumulo fine a se stesso, ma prediligendo una essenzialità pura e sostanziosa. E sempre ad una sorta di legame col poetico minimalismo della succitata forma letteraria giapponese – Paese con cui Coletti ha instaurato un rapporto più che profondo – rimandano le atmosfere evocate dai suoi intarsi chitarristici: rigore, eleganza, osservanza. Quasi che vi fosse una sorta di laica spiritualità di fondo pronta ad emergere sotto le forme malinconicamente evocative delle struggenti pastorali acustiche del Nostro. Nell’ultimo lavoro Moon, Coletti però compie uno scarto in avanti non indifferente, grazie all’introduzione dell’elettronica sotto forma di beat, pad ritmici o drones che vanno a spostare l’asse elegiaco delle musiche del Nostro verso qualcosa di più corposo e robusto. Non perdendo mai di vista quanto detto sopra – reiterazione di cifre chitarristiche che si avviluppano l’una sull’altra, malinconia immaginifica di fondo, predilezione per la pastorale visionaria, alternanza di corde acustiche e elettriche – ma donando al tutto quel pizzico di alterità che ci fa presupporre nuovi sviluppi futuri, Coletti fa pulsare di un battito nuovo le sue musiche atavicamente riconoscibili. Incuriositi da questo approdo lunare, abbiamo scambiato qualche parola con l’autore. Partiamo dall’artwork, che credo sia esplicativo del tuo procedere musicale. Radici mutanti per alberi apparentemente simili, proprio come la tua musica, in apparenza in linea con la tradizione ma sempre pronta allo scarto in avanti… Mi fa felice il fatto che mi si chieda della grafica. Per prima cosa, la grafica è stata disegnata da Anna Secchia, in arte Ludo, una ragazza bravissima e piena di talento. Come dicevi tu, una volta visto quel disegno ho subito pensato di usarlo come copertina perché rappresentava in pieno l’idea del disco. Essenziale, semplice all’apparenza, ma complesso nel dettaglio. Volevo dare alla vista la stessa idea di semplicità e apertura del suono. Come nei lavori precedenti, l’equilibrio tra vari opposti mi ha sempre attratto; se nei primi lavori era una ricerca di unione tra sperimentalismo e melodia, ora si colloca tra suoni acustici ed elettronici o fra dilatazioni e ritmo. Mi incuriosisce questa ultima parte, in particolare il riferimento alla ricerca su dilatazioni e ritmo. Puoi spiegarmela meglio? Su Moon ci sono tutti gli ingredienti base della musica che ho sviluppato nel tempo: le chitarre, i suoni ambientali e la ricerca del suono per semplificare. Negli anni, da una musica piuttosto astratta sono arrivato sempre più vicino alla forma composta, concreta, vicina al più classico termine di “canzone”. Ma solo su questo disco si trova anche il ritmo, un tocco di groove, di pulsazione presente, che affiancato a dilatazioni e rarefazioni sonore, dà al lavoro quello che cercavo, un omogeneità che avvicina ancora di più ad una idea di musica 17 fluida, quasi pop… Credo che questo elemento renda il disco più facile e leggero. Abbini l’attività da musicista con quella di fonico/produttore (Moon Duo, Bachi Da Pietro, OvO). Quanto incide l’una sull’altra? E Guano Padano, così sono tutti dentro. Beh incide molto, nella maniera in cui il suono è sicuramente una parte strutturale della musica stessa che faccio; inoltre, la possibilità di viaggiare molto e con gruppi diversi mi dà stimoli ed input che influenzano e possono caratterizzare un futuro lavoro. L’unico aspetto negativo è riuscire a far convivere i lavori da fonico con le mie date live, ma questo fa ormai parte di una triste ma capace abilità organizzativa. I titoli dei tuoi lavori sono spesso, se non sempre, diretti ed evocativi di un intero immaginario. Dalla Terra stavolta sei andato sulla Luna. Cercavi ariostescamente un senno perduto? La musica, come l’arte, è per me totale immaginazione. Mi piace cercare di portare la musica, e quindi un disco, verso un luogo “altro” dove ognuno è libero di trovare quello che sente, che prova. Il titolo è poi nato anche grazie all’unica parte di voce e di testo che c’è nel disco, voce di un musicista danese straordinario e un amico importante, Own Road, con il quale sarò in tour in Italia a inizio novembre. “Moon”, la luna, una dimensione lontana, un luogo a cui spesso lanciamo molti pensieri. Con il disco precedente volevo dare un’idea di approdo terreno, con Moon la Terra non c’è più. Mi ha molto incuriosito l’utilizzo dei beat in alcuni momenti di Moon. Pos- 18 so chiederti da dove proviene questa necessità? Gli elementi elettronici sono infatti la parte nuova e caratterizzante del disco. Sono da tempo amante di musica elettronica, soprattutto di quella più informale e libera, e cercavo al tempo stesso in questo disco di andare verso una amalgama più fredda, meno acustica o comunque meno morbida. Inoltre, questi interventi hanno portato un altro aspetto che prima non c’era e che volevo inserire: il ritmo. Mi sono divertito molto a cimentarmi con un nuovo strumento del tutto differente, come approccio, rispetto a una chitarra o a uno strumento acustico, un po’ come si fa da piccoli con una tastiera colorata davanti, quando si premono tutti i tasti… La mancanza di controllo ha talvolta i suoi lati positivi! Per il momento sono solo piccoli interventi che però non mi dispiacerebbe sviluppare maggiormente in futuro. Anni fa indagai il movimento rumoroso delle “Marche marce”. I tuoi lavori, invece, ne sembrano una versione pastorale, ma forse mi trae in inganno la tua provenienza… Giusto, sono nato e vivo ad Ancona. “Pastorale” è un ottimo termine e mi piace molto; di certo, il noise è il genere che accomuna maggiormente i vari gruppi che avrai incontrato in questa regione. E’ una zona piccola, ma piena di tante energie, di persone che negli anni stanno portando avanti molti progetti interessanti, una realtà in piena crescita e con un interessante e produttivo ricambio generazionale. Ci sono sicuramente anche difetti, come ad esempio l’inesperienza che deriva dalla mancanza di scambi continui con contesti più grandi, ma le scene di piccole dimensioni stanno crescendo molto e sono talvolta più attuali di altre. Una cosa che mi ha sempre colpito dei tuoi lavori è l’essenzialità, in termini di minutaggio ma anche come senso generale… Sì, credo che il mio lavoro più lungo duri 40 minuti scarsi. É un mio limite e un mio gusto personale. Sono spesso maniacale nei dettagli e, per chiudere anche solo mezz’ora di musica, rischio di metterci molto tempo. Sono però convinto che un lavoro debba essere rifinito e coerente nella sua interezza, e spesso aggiungere minuti riempitivi rovina il lavoro intero, soprattutto su musiche che non vivono di ritornelli o strofe. Come in un concerto, tendo sempre a comprimere il tutto dando la massima intensità possibile, lasciando magari all’ascoltatore la voglia di averne di più, piuttosto che la consapevolezza di averne fin troppo. Mi collego a quest’ultima parte per chiederti come vedi questo periodo di overload di uscite, tu che sei molto parco nelle tue pubblicazioni in solo… Siamo in un periodo storico dove se non sei presente in modo costante, finisci per essere dimenticato. Per questo, molti puntano sulla visibilità continua e giornaliera, producendo in quantità esuberante dischi, video, foto ecc… Basta vedere facebook per capire e rendersi conto di questo discorso. Non sono contro chi produce in questo modo così frenetico, anzi se poi riesce a farlo dando qualità, ha tutta la mia stima. Semplicemente non sono quel tipo di persona, mi piace darmi tempo, avere tempo e godermi il tempo che ho per fare ciò che mi piace. Ho spesso utilizzato il termine “haiku sonori” per definire la tua musica. So che hai un rapporto privilegiato col Giappone, Paese in cui darai il via al tour di supporto a Moon. Come nasce questo legame? Haiku sonori…..grazie, penso proprio che sia uno dei migliori accostamenti mai ricevuti. Sì, il tour di Moon, dopo una data vicino casa appena fatta, comincerà dal Giappone con nove date, dal 10 fino al 19 ottobre. Il legame è nato nel 2006, dal primo indimenticabile tour fatto là assieme a Xabier Iriondo (e con Mirko “Wallace” Spino), poi da altri 3 tour sempre in solo. Un Paese fantastico, totalmente distante da tutto e da tutti..molto vicino alla Luna, per citare il disco. In realtà il rapporto tra me e il Giappone è nato in maniera casuale e solo nel tempo, poi, ho avuto modo di conoscerlo e di apprezzarne a pieno i pregi. Sicuramente ha influito sul mio percorso compositivo questo gusto estetico lineare e trasparente. Qual è la tua costellazione di riferimento, come chitarrista in solo? Mi immagino banalmente una linea che da Fahey arrivi a McGuire, ma se sono nel giusto ti direi di aggiungere qualche punto fermo… Sì, loro ci sono sicuramente, poi potrei aggiungere Charley Patton, Nick Drake, Fred Frith e Arto Lindsay, ma da chitarrista in realtà sono stato sempre molto influenzato da non chitarristi come Susie Ibarra, Burt Bacharach, Jim Black e il Gagaku Giapponese, per dirne alcuni. 19 P e r f u m e G e n i u s D o n ’ t y o u y o u r k n o w q u e e n ? Il terzo disco di Mike Hadreas è il più compiuto e il più complesso della carriera. Lo abbiamo incontrato a Bologna, a margine della sua esibizione al Locomotiv Club, per parlare del nuovo disco "Too Bright", di cantautorato e soul, oltre che di unghie laccate e lezioni di pianoforte >>>Testo di Marco Boscolo 20 Piccole mani di bambino, non ancora laccate di rosso, si posano su quelle adulte dell’insegnante di pianoforte: seguono i movimenti esperti sulla tastiera, memorizzano, imparano. Sono mani ancora innocenti, forse di un discolo: un bambino biondo che ha più voglia di correre in giro, che di studiare lo strumento. È un’immagine tentatrice, una madeleine proustiana di plastica che oggi, a tanti anni di distanza da quei movimenti innocenti sui tasti del pianoforte, sarebbe fin troppo facile leggere come il segno del destino, l’ineluttabile ritorno alla musica per ritrovarvi contemporaneamente quell’innocenza e quella spensieratezza che danno la forza per cantare con grazia le brutture del mondo. Sarebbe un’immagine perfetta, potente quanto basta per mandare in cortocircuito papà Freud e zio Jung con un posto delle fragole (lo sgabello del pianoforte?), ma sarebbe un’immagine falsa. E di falsità, brutture, soprusi, il bambino fattosi uomo ne ha già visti e subiti abbastanza da preferire una più prosaica aderenza alla realtà. La verità è che dopo avere preso lezioni di pianoforte classico «tra i sette e i quindici, sedici anni non ho mai imparato a leggere la musica ed ero uno studente pessimo». Parole di Mike Hadreas, classe 1984, americano di Seattle ma dalle origini mediterranee (greche) impresse nel cognome, più noto al mondo della musica come Perfume Genius. Cantautore “schietto”, come lo definisce il suo addetto stampa. In altri tempi e in altri ambienti lo avremmo definito “autentico”. Si è fatto strada nel mondo indie con due dischi brevi, fatti di piano ballad cantate come se non ci fosse un domani, o forse proprio alimentando la speranza che un domani sia possibile. Il primo, Learning, è uscito nel 2010, quasi in sordina. C’era fin da subito in evidenza la forza della semplicità: una melodia di pianoforte, la voce dolente e a tratti spettrale, poco altro. Eppure era anche chiaro che si trattava di canzoni che colpivano in profondità, forse proprio grazie alla nudità che le contraddistingueva. Si sono spesi i nomi di Antony e del primo Sufjan Stevens (quest’ultimo, un riferimento che si è rivelato effimero con il tempo). Ma era soprattutto la concretezza di quel canto a rendere speciale il disco. Lookout lookout, Gay Angels, Mr. Petersen sono diventati velocemente dei culti anche per i temi trattai: prostituzione, violenza, sopruso, pedofilia, suicidio. Il tutto gettato sulla tastiera del pianoforte con dolcezza e rabbia trattenuta. Il secondo disco, Put Your Back N2 It del 2012, ripercorre gli stessi territori ma aggiungendo sicurezza maggiore nei propri mezzi di scrittura e di espressione musicale. Si tratta quasi del lato B dello stesso disco, la continuazione dello stesso discorso con gli stessi mezzi. «I primi due album sono stati una sorta di rimembranza del passato, un tuffarsi nei ricordi che ho per cercare di guarirli». Ce lo racconta nel retropalco del Locomotiv Club di Bologna, poche ore prima del concerto per presentare il nuovo disco, Too Bright, al pubblico che non lo ha ancora sentito. «Per me è stato davvero importante essere paziente e gentile con molte delle cose che mi sono successe, che gentili non erano. Era importante essere compassione- 21 vole, moderato, credo, finanche con la musica». Un fare i conti con il proprio passato, con la sofferenza degli sguardi indiscreti, di quelli che ti guardano le unghie laccate, i tacchi alti e ti giudicano, ti tolgono la pelle di dosso e ti mandano al tappeto. E ogni volta ingoi bile che si trasforma in «una rabbia sottopelle che cresce lentamente da quando avevo dieci anni e sta finalmente toccando la superficie», come dice lo stesso press sheet. Too Bright è un passo non solo avanti, ma anche laterale. Mentre parla seduto sul divano logoro, Mike Hadreas usa parole meditate. Ogni tanto si ferma un attimo, lo sguardo fisso davanti a sé tra il pavimento e l’infinito, poi riprende calmo: «quest’album riguarda molto più come mi sento adesso o una specie di protezione di come vorrei sentirmi, un andare avanti, capisci quello che intendo?» L’autoanalisi e il riportare la lingua a battere su ogni dente che doleva sono alle spalle. Non c’è più bisogno di rivangare i propri ricordi per accettarli. Mike Hadreas/Perfume Genius oggi è questo, è Too Bright. O almeno è come vorrebbe essere. C’era il bisogno di provare qualcosa di più «improvvisato e sperimentale». Prendete I’m A Mother: vocalizzi in libertà che hanno fatto parlare, forse eccessivamente, di paragoni con lo Scott Walker di Tilt. «Fa paura [essere paragonati a Walker, NdSA], ma allo stesso tempo, lo accetto», perché «quel tipo di cose è ciò che voglio fare, anche se adesso sono ancora in territori più pop. E mi piace che nonostante siano scure e un po’ più sperimentali, le mie canzoni rimangano comunque catchy». La conferma arriva dal live di quella 22 sera, quando un pubblico non numerosissimo, ma chiaramente innamorato di Perfume Genius, mostrerà di apprezzare i nuovi brani. Ed è vero che nonostante Too Bright sia di gran lunga l’opera più originale di Mike Hadreas, al suo interno si annidano comunque brani di una accessibilità quasi disarmante. Prendete il primo singolo, Queen. Al netto di un testo per certi versi urticante, volutamente disturbante e in your face, è un singolo totalmente adatto all’airplay: tiro quasi rock, un ritornello quasi anthem e un’atmosfera torbidamente seducente sottolineata anche dal video firmato SSION. Oppure Grid, che con quel suo tiro Suicide prima maniera, prevediamo diverrà facilmente un classico da indie club, che si abbia voglia di ballare o meno. D’altra parte non mancano momenti riflessivi, come l’opener I Decline o Don’t Let Them In: piano ballad/torch song che fanno venire in mente l’amato rhythm’n’blues, la lezione di Nina Simone e quella di PJ Harvey («adoro il rock quando è sincero come lei, che non usa atmosfere dark solamente come una strizzatina d’occhio: è 100% dark»). Ma bisogna almeno aggiungere James Blake per quel suo modo bianco di intendere il soul. E non mancano momenti più synth-oriented, come quella Fool e quella Longping che scalpitano di atmosfere 80s. Merito della produzione accorta e capace di Adrian Utley dei Portishead se tutto questo può coesistere in poco più di trenta minuti senza che nessuna parte suoni come artefatta o forzata. Utley e la band, che rispetto al passato ha un ruolo più centrale, sono stati gli strumenti che Hadreas ha usato durante la registrazione per cercare di ottenere quello che aveva in testa: «entravo in studio e dicevo che volevo un suono così o colà, e Adrian e gli altri trovavano la macchina giusta per realizzarlo». Too Bright è un’esplorazione di territori espressivi nuovi, con ferma la consapevolezza di dove si vuole andare. Prima di comporre gli undici brani dell’album, ci racconta con una mezza smorfia Mike, «mi sono seduto al pianoforte tutti i giorni per quattro mesi per cercare di scrivere delle canzoni in stile Adele, ma non venivano». Era il periodo immediatamente successivo al tour di promozione del secondo disco. Un tour che ha portato Hadreas in posti strani come il Giappone «dove non applaudivano alle canzoni nuove», e gli ha fatto capire che non dappertutto chi ascolta dà lo stesso peso alle parole e alla musica. «Posso essere riflessivo e creativo tanto con la musica e i suoni, quanto lo posso essere con i testi e il messaggio delle canzoni», ci racconta mentre mangia mortadella con i grissini. L’elefante nella stanza è il rapporto con la propria sessualità. I testi di Perfume Genius e i video delle sue canzoni hanno da sempre messo al centro della sua poetica i temi legati all’omosessualità. Mentre parliamo ci tiene a sottolineare che «la mia sessualità è un parte importante di me, ma non è tutto ciò che sono». Quindi prende ancora più importanza il discorso che porta avanti sulla violenza nei confronti dei giovani gay, una violenza non per forza fisica, ma capace di fare sentire inadeguate le persone, spingerle verso la sofferenza. Per la rabbia che prova in questo periodo della sua vita, «ci sono molti interruttori. Vedi, per strada faccio presto a inalberarmi con chi mi dà fastidio», oppure se «sento quello che la gente dice di me e di come sono». Per un lungo periodo, quello che abbiamo chiamato dell’autoanalisi, «tutto ciò mi metteva a disagio, mi vergognavo delle mie differenze». Ora però non si sente più vittima, e non gli piacciono gli atteggiamenti vittimistici, per cui questa materia rabbiosa è riuscito a incanalarla in qualcosa di «più produttivo». Alla serata del Locomotiv, giovani e meno giovani, coppie gay, cantano a memoria le sue canzoni. Non è il punto essenziale, che rimane la musica come forma espressiva, ma Perfume Genius, tra gli artisti della sua generazione, è uno dei pochi che ha scelto di utilizzare un problema socio-politico (l’accettazione degli omosessuali) come parte integrante del proprio discorso espressivo. Non ha la preminenza politica del messaggio alla base di, per esempio, Janine Rostron aka Planningtorock, ma è una componente chiave. Mike spera che il suo messaggio, così volutamente esplicito su questo punto, serva di conforto ad altri. Quando parliamo dei giovani, italiani o americani, che si suicidano perché si sentono rifiutati per via della propria sessualità, lo sguardo di Mike si fa umido, quasi lucido: «tutto per qualcosa di bello e naturale su cui non abbiamo nessun controllo». In questo senso, «sento una responsabilità» dovuta alla condivisione di un’esperienza comune a molti. Che si trasforma in una domanda semplicissima: «qual è il problema?». 23 alb e r ( t ) i E s p l o r a z i o n i d e l s o t t o b o s c o s p e r i m e n t al e p i e m o n t e s e Alberi è il nuovo progetto sperimentale dei musicisti Alberto Barberis e Alberto Ricca (aka Bienoise) che si basa sull'improvvisazione e sulle dissonanze che scaturiscono dall'incontro fra una chitarra classica suonata col finger-tapping e dei campionamenti di elettronica, il tutto accompagnato da visuals ben studiati. Il primo disco, omonimo, uscirà questo autunno per Floating Forest, neonato collettivo musicale ed etichetta discografica che abbraccia l'etica del DIY e quella della "musica di frontiera". E mentre in quel di Torino si prepara la serata di lancio ufficiale dell'etichetta - con location ancora da definire -, sentireascoltare ha indagato questa nuova realtà dell'underground piemontese, intervistando i due Alber(t)i. >>>Testo di Alessia Zinnari 24 Quando musicisti esperti, dal background di stampo classico, decidono di collaborare per dare vita ad un lavoro sperimentale, quello che ne esce fuori può risultare tanto complesso, quanto piacevole. È il caso di Alberi, prima manifestazione su disco dell’omonimo progetto dei piemontesi Alberto Barberis, alla chitarra classica (classe ‘88, compositore e chitarrista, al momento impegnato tra formazione e lavoro di composizione in Svizzera) e Alberto Ricca alle macchine (classe ‘85, noto ai più come Bienoise, nome col quale è uscito per la londinese Bitcrusher, la milanese MagmatiQ e la romana White Forest). Registrato nello studio di Alberto Ricca, a Verbania, Alberi regala quaranta minuti di pura improvvisazione che sfiora la catarsi sonora. Tre tracce (Mai indossate, In vendita, Scarpe da bambino – voluto omaggio a Hemingway e alla sua sperimentale six-word novel For sale: baby shoes, never worn) frutto dell’ispirazione del momento, della composizione estemporanea e della destrutturazione ad opera di due menti che usano strumenti totalmente opposti, pur viaggiando sulle stesse frequenze. Un disco anti-tecnico, vicino alla dimensione live e al recupero di quello che normalmente verrebbe considerato “scarto musicale”, collocandosi come genere di frontiera difficile da racchiudere e da definire persino per chi lo crea. Ai due Alber(t)i piace descriversi come un progetto che “si basa sull’improvvisazione tra il noise e l’acusmatico”. Detto ciò, sarebbe stato impossibile non concedere a questi eclettici personaggi una chiacchierata che non ha deluso, sforando addirittura il filosofico. Alberi uscirà questo autunno per Floating Forest, etichetta indipendente e collettivo musicale con base operativa a Verbania, in Piemonte. Alberto (Ricca), tu che sei fra i fondatori di questa nuova realtà alternativa, descrivila per i lettori di SENTIREASCOLTARE: chi siete, come lavorate, a cosa puntate? A.R. Il collettivo/etichetta Floating Forest è nato al momento opportuno. I rapporti tra me e Davide Merlino, percussionista e co-fondatore, erano diventati molto intensi, con frequenti registrazioni, collaborazioni notturne ed esperimenti vari. Era il momento di riunire idee e persone, ed abbiamo giudicato opportuno creare qualcosa che sfruttasse i nuovi canali per far arrivare questo genere di musica al pubblico. Aggiunti Andrea Cocco (batteria) e Federico Donadoni (contrabbasso) al nucleo operativo, è nata Floating Forest che, come hai ben accennato, è sia etichetta, che collettivo, che canale di promozione: come etichetta rendiamo pubbliche le registrazioni delle formazioni che gravitano attorno al progetto, come canale di promozione cerchiamo di dare visibilità e credito a realtà simili alla nostra, ai progetti dei nostri collaboratori e a quanto ci pare in linea con la nostra estetica. Mi pare di capire che sia l’etica DIY a guidarvi nei vostri progetti. Solo che nel vostro caso non stiamo parlando di una crew hardcore, ma di un gruppo di persone accomunate da un background musicale di un certo livello, di stampo classico, dico bene? A.R. E’ vero. Tutti i musicisti coinvolti hanno una formazione musicale completa; l’etica DIY a nostro modo di vedere ben si associa ad un genere musicale che vuole essere libero, ed ai canali che abbiamo deciso di sfruttare: i brani sono ascoltabili gratuitamente su internet, i dischi, con i nostri packaging ricercati, si possono acquistare con offerte libere ai concerti dei membri, e le formazioni, come detto, sono spesso fluide, anche per mantenere la spontaneità. Cerchiamo di curare con coerenza anche la parte grafica e fisica delle nostre uscite: stiamo sviluppando nuove idee con Andrea Buzzi, grafico torinese (e produttore elettronico sotto il nome di Sonambient), e quella di Alberi sarà davvero particolare. Passiamo proprio ad Alberi. Perché vi definite un progetto piuttosto che un gruppo o un duo? E soprattutto, come vi siete incontrati? A.R. Non trovo importante la definizione: è vero, siamo un duo, ma anche un progetto di due musicisti altrimenti 26 indipendenti. La nostra collaborazione è più intensiva che estensiva, considerata la distanza e gli impegni di entrambi, ma abbiamo la fortuna di arrivare sempre alle stesse conclusioni anche quando seguiamo strade di pensiero differenti, e questo ha semplificato notevolmente la costruzione di un’estetica compiuta. L’incontro è stato dei più fortuiti, come nelle migliori storie d’amore: ero stato contattato per una serata al Rat a Torino, in veste di Bienoise, durante Halloween di due anni fa. La cosa strana è che mi fu chiesto di adattare il mio live alla presenza di un chitarrista acustico: invece di rifiutare una richiesta così anomala, accettai, incuriosito dall’esperimento. Alberto ed io arrivammo alla serata senza esserci mai incontrati. Lui mi aveva fornito delle indicazioni su quello che avrebbe voluto fare, io delle versioni adattate dei miei brani così che potesse fare delle prove, e suonammo. Fu un successo imprevisto ed esaltante, ma soprattutto mi permise di fare la conoscenza di un musicista straordinario e di una persona adorabile. A.B. Alberi è stato musica, direttamente, senza troppe parole, senza attese, senza ore di sala prova, e soprattutto senza estetiche altre se non quella germogliata direttamente su un palco. Per questo Alberi non è nient’altro che un luogo di incontro tra due musicisti e sperimentatori , affascinati da quel che di inatteso e imprevedibile si può celare ancora dietro la musica e che forse solo nel luogo dell’improvvisazione può davvero prendere vita. L’improvvisazione è dunque la linfa vitale di Alberi? A.R. Sì, il progetto Alberi nasce come progetto d’improvvisazione e tale vogliamo che rimanga, sebbene operando un’attenta selezione dei materiali e delle direzioni da intraprendere . Una volta convenuto il tipo di ritmiche, organizzati i materiali e le armonie coerenti con l’estetica di fondo, il resto è totalmente libero e non concordato, basato sull’interplay e su una genuina fetta di casualità. A.B. Io dalla mia posso dire che mi annoio in fretta: venendo da una formazione classica, ammetto di essermi stancato di suonare musica scritta da altri. Per questo motivo ultimamente passo il tempo a scrivere per strumenti che no so suonare, oppure ad improvvisare con la mia chitarra. Improvvisare è un po’ come suonare quello che non si conosce pur sapendo di saperlo fare: una forma di composizione istintiva, in cui la testa e la tecnica devono fare un compromesso con il real time. Il compositore è prima di tutto un improvvisatore. Per Alberi abbiamo registrato il disco in poche sessioni di improvvisazione, senza avere idea di quello che sarebbe saltato fuori. Il risultato è stata una piacevole sorpresa, in grado di far vivere gli angoli più sconosciuti di due mondi apparentemente lontani (quello delle componenti elettroniche del computer e quello del legno della mia chitarra). Il tutto senza presunzione, senza eccessivo lirismo o eroismo, ma con slancio e coraggio, questo sì! Dove e come avete registrato questo vostro primo album? A.R. Anche Alberi, come la maggior parte del catalogo Floating Forest, è registrato e prodotto alla Casa Blu, il 27 mio studio (che è anche casa mia). La registrazione è ambientale, come se stessi riprendendo un duo acustico e non della musica elettronica. Questo porta ad una patina di bassa definizione, all’interno della quale è possibile percepire lo spazio fisico della stanza, e in cui tutto risulta fuori fuoco. Abbiamo voluto anche mantenere diversi “errori” di registrazione che comunque si integravano in modo organico con l’esecuzione. Al di là della selezione dei brani, non ci sono tagli: accettiamo la possibilità di pubblicare anche degli “errori”, perché consideriamo più grave interrompere il naturale sviluppo della narrazione. Parlando di quello che fate, non si possono non mettere in campo termini quali “noise”, “lo-fi”, “sperimentale”. Che rapporto avete con queste definizioni? Mi spiego meglio: vi siete costruiti un’idea personale di questi concetti, o preferite lasciare che questi termini parlino da sé, come unico modo per definire musica “strana”? A.R. Non riesco a definire sperimentale la musica di Alberi: partiamo da basi sicure, tecnologie definite e controllate, e non c’è un approccio né alla “scrittura”, né alla direzione, che abbia alcunché di stupefacente. Senza dubbio invece c’è un po’ di noise e molto lo-fi, nelle loro declinazioni più malinconiche ed atmosferiche: la nostra musica non vuole essere oscura o aggressiva, ma raccontare storie di stanze vuote polverose ed inondate dal sole. C’è anche parecchio di acusmatico nella scelta dei materiali coi quali lavoro io elettronicamente. Non vuole neanche essere musica “strana”, o almeno speriamo che rimanga 28 accessibile anche per i non addetti ai lavori: credo che la chitarra di Alberto, ed il suo stile sporco e caldo, svolga un ruolo fondamentale in questo. Io mi sono limitato a costruirci attorno una cornice che la valorizzi. A.B. Io fino a pochi anni fa ero attratto profondamente dalla pulizia e dalla precisione calcolata. Ho studiato per anni la chitarra classica “filtrando lo spettro”, cioè eliminando il più possibile quelle componenti “rumoristiche” e inarmoniche che caratterizzano la produzione di un suono. Forse volevo imparare la tecnica per potermi pulire in futuro la coscienza. [ride ndr] Ma oggi avviene esattamente il contrario: cerco suoni ricchi di informazioni e imperfetti. Questo mio duplice interesse estetico è evidente dall’ascolto del disco, in cui si è perennemente in bilico tra i suoni elettronici più magmatici e indefinibili e il limpido vibrare di una corda di nilon tesa sul legno. Artisti o influenze di riferimento? A.R. I nomi che mi hanno influenzato coscientemente nella definizione dell’estetica di questo progetto sono gli Autistici, con la loro micro musica concreta; gli Oval, per la loro texture sonora vivace ma profonda; William Basinski, mia grande ispirazione generale e di fondamentale importanza per la definizione del clima “pastorale” di brani come Mai Indossate. I Boards of Canada sono uno dei motivi per cui faccio elettronica, e forse sono ancora più avvertibili del solito in questo progetto. A.B. Non vorrei che Alberi si rifacesse ad un’estetica definita. Tutto quello che ho ascoltato e suonato nella mia vita influenza il mio contributo al progetto (dal contrappunto barocco al blues, dall’elettronica “colta” a quella “underground”, dalla musica da strada alle avanguardie storiche, al tardoromanticismo wagneriano). Se dovessi dire quale musica ispira maggiormente le mie produzioni dovrei menzionare il rigido strutturalismo delle avanguardie post-weberniane, come anche alcune esperienze italiane legate al lo-fi (vedi Fausto Romitelli). Ma con Alberi si parla di improvvisazione, non di musica scritta. Quanto conta la dimensione live per Alberi e quanto quella in studio? A.R. E’ difficile rispondere a questa domanda, perché non esiste una reale differenza nell’approccio: i brani su disco sono selezioni di quanto è riuscito bene durante le sessioni in studio, e rappresentano i momenti in cui è successo quanto doveva succedere. Le nostre improvvisazioni partono da una grossa riflessione su quanto funzioni all’interno dell’estetica che vogliamo incarnare, e su quanto invece non funzioni e vada evitato: unendo elettronica e suonato è troppo facile voler fare tutto, urlare sempre, e finire per non raccontare davvero nulla di nuovo. Senza avere la pretesa di essere rivoluzionari, abbiamo almeno cercato di essere coerenti. A.B. Credo che le due dimensioni coincidano. Ogni improvvisazione potrebbe entrare a far parte di un disco, proprio perché ogni esecuzione è un flusso auto-generativo in mutamento continuo. Definirei la vostra musica come molto “visiva”. Avete in mente visual da abbinare al disco? Quali sarebbero le atmosfere perfette per rappresentare questa prima uscita? A.R. Sì, senza dubbio concordiamo sull’opportunità di completare il senso dei nostri brani con delle immagini. E’ musica che vuole suggerire una storia, come è evidente anche dai titoli, ed è giusto che il focus rimanga su di essa e non su quanto sta accadendo tecnicamente. Accompagnare la musica alle immagini è un modo sicuro di porre un velo tra di noi e l’ascoltatore ed aiutare la costruzione del senso. Mi piacerebbe che anche le immagini fossero vivaci ed estemporanee, in grado di aumentare e commentare dinamicamente l’esperienza: è musica calda e narrativa, le immagini possono aiutare a cancellare anche quella sensazione di distante astrazione che a volte si insinua. A.B. Stiamo curando la realizzazione di alcuni video che possano accompagnare le tracce di Alberi. Più che le immagini, sono i processi che le accompagneranno ad interessarci. I colori sono opachi, qualcosa di molto vicino al respiro della terra, qualcosa di inaccessibile. Detto questo, non vediamo l’ora di cominciare a girare con il nostro live in modo che sia la gente a raccontarci come ci percepisce, dandoci nuova ispirazione per crescere e trasformarci. 29 I n s p i r al C a r p e t s Madc h e s t e r e r i t o r n o A vent'anni dall'ultimo album in studio, i campioni di "Madchester" tornano con un disco che sembra aver fermato le lancette da qualche parte nei tardi 80s. Abbiamo contattato il leader Clint Boon per farci spiegare il segreto della band. >>>Testo di Diego Ballani 30 Una cosa ho sempre apprezzato degli Inglesi: la mancanza di reverenza nei confronti delle star. Mi spiego meglio. In terra d’Albione il pop resta ancora un’alternativa al lavoro nei call center. Chi intraprende tale strada tuttavia è consapevole di non poter vivere di rendita neanche per un istante. Neppure il fatto di ritrovarsi sul main stage di Reading assicura una lunga e promettente carriera al riparo dal capriccio delle mode. Basta chiedere agli Inspiral Carpets, ritrovatisi nel giro di una stagione dalla Top 40, all’iscrizione nelle liste di collocamento. Tempistiche sfortunate le loro, visto che l’album con cui salutavano il loro pubblico (Devil Hopping, 1994) era perfettamente in linea con il Brit rock dell’epoca. Purtroppo per loro, pagavano pegno di aver fatto parte (con Stone Roses ed Happy Mondays) della trimurti di “Madchester”. Nati nei primi anni ‘80 come ensemble art pop, dal sound acido e diretto, fortemente influenzato dalle garage band dei 60s, avevano saputo rielaborare il loro stile quel tanto che bastava per renderlo appetibile ai ritmi dell’Hacienda, proprio nel momento in cui nel club mancuniano si stavano sperimentando inediti connubi fra rock e dance. Merito di un leader eclettico come Clint Boon il cui suono di Farfisa ha caratterizzato prepotentemente hit memorabili come This Is How It Feels? e Two Worlds Collide. Dal 2003 l’entità Inspiral Carpets ha continuato ad esistere solo per i fan che si accalcavano ai loro sporadici concerti per vederli eseguire le hit del passato. Ci è voluto l’abbandono del singer Tom Hingley e il ritorno del cantante originario Stephen Holt per infondere al gruppo linfa vitale. Ora eccoli di nuovo in pista con un disco omonimo, in uscita il 20 ottobre via Cherry Red, che recupera lo spirito urgente degli esordi. Il nuovo album sembra il diretto successore di Life (l’esordio del 1990) al netto della danzabilità baggy. In brani come Spitfire, dalle strutture esili ai ritmi incalzanti, tutto sembra puntare verso l’anthem a presa rapida. Un ritorno, convincente, il loro. Al punto che abbiamo sentito il bisogno di contattare direttamente Clint Boon e chiedere maggiori dettagli riguardo a questo proseguo di carriera, anche in attesa del loro live al Circolo degli Artisti previsto per il 25 settembre. In poche parole, che cosa vi ha trattenuto tutto questo tempo dal pubblicare un nuovo album? Dal 1995, siamo stati tutti coinvolti in esperienze che andavano oltre gli Inspirals. Non ci sentivamo in dovere di dedicare una gran parte del nostro tempo a scrivere e registrare un nuovo album. Anche se nel 2003 ci siamo riformati, generalmente ci limitavamo ad andare in tour per presentare le “hits”. Quando Stephen si è unito nuovamente a noi, 31 nel 2011, ci siamo sentiti rinvigoriti. Abbiamo iniziato a scrivere nuovo materiale e a fare concerti in altri Paesi per la prima volta dopo anni. Il nostro unico ostacolo erano le nostre vite incasinate. È stato semplice per Stephen tornare a far parte della band? Sì. Ci è sembrata da subito la cosa più naturale quando Tom ha lasciato il gruppo. Eravamo rimasti in contatto con Stephen nel corso degli anni e non c’era mai stata alcuna animosità da quando ci aveva lasciati alla fine degli anni ‘80. Dal momento in cui abbiamo cominciato a provare con lui, si è sempre sentito a suo agio. Il suo ritorno è stata la chiusura del cerchio. Il nuovo album mi ricorda molto il sound che avevate agli inizi, con canzoni più dirette. Era quello che volevate ottenere? Sì, esatto. Fin dall’inizio, volevamo che il nuovo album riflettesse le nostre radici garage. Siamo una garage band. Penso che l’album rappresenti perfettamente da dove veniamo, dove siamo adesso e dove potremmo andare da qui in avanti. In effetti ho sempre pensato a voi come ad una garage band con un sound d’organo molto particolare. Perché secondo te la gente vi associa ancora al suono di “Madchester”? Perché abbiamo involontariamente contribuito a creare l’intera scena di “Madchester”. Non solo per la musica che suonavamo, ma anche per il modo in cui ci vestivamo. La gente ha copiato il nostro suono, le nostri acconciature, i nostri vestiti. Non abbiamo deciso di influenzare nessuno, ma insieme agli Happy Mondays e agli Stone Roses, abbiamo accidentalmente ispirato una 32 generazione. Come ben saprai la guitar music oggi è in uno dei suoi momenti peggiori. Secondo te era il momento giusto per tornare con uno dei vostri album più rock e potenti? La guitar music ci sarà sempre. Ma le chitarre non sono tutto. A mio parere, sintetizzatori, campionatori, giradischi e computer hanno fatto tanto per far avanzare la musica, esattamente come in passato ha fatto la chitarra elettrica. Amo ancora la musica chitarristica, ma un po’ della mia musica preferita degli ultimi anni viene da artisti come Chase and Status, Disclosure, Rudimental e Sub Focus. Com’è stato comporre nuova musica per gli Inspiral Carpets dopo tutti questi anni? Il processo di scrittura mi è sembrato più facile che mai questa volta. È stato molto piacevole. Questo è il nostro primo album in cui tutti e cinque i membri della band hanno contribuito ai testi. Ti sembra che da vivo i nuovi pezzi siano stati apprezzati? Fino a questo momento le nuove canzoni stanno andando meravigliosamente dal vivo. Hanno quella familiarità dei Doors, degli Stranglers, dei REM e di tutte le altre band che ci hanno influenzato. Allo stesso tempo, possiedono tutti i classici marchi degli Inspirals. Puoi dirmi qualcosa riguardo agli inizi della band? Quali erano le vostre ispirazioni quando avete iniziato, e come siete arrivati al vostro sound? Io e Graham eravamo molto influenzati dalle band psichedeliche e garage degli anni ‘60, come i Seeds, i Misunderstood e i 13th Floor Elevator. Ma anche band degli anni ‘80 come Fall, Echo and The Bunnymen, Psychedelic Furs e Prisoners hanno plasmato il nostro sound. Stephen era un grande amante della musica indie degli anni ‘80. La ascolta ancora adesso. Craig era una delle prime persone che conoscevo che avesse abbracciato l’hip hop e il rap della metà degli anni ‘80. Cosa mi racconti a proposito del rapporto che avevate con le alter band della scena? Abbiamo sempre avuto un grande rapporto con le altre band. E lo abbiamo ancora. C’è un sacco d’amore tra noi, gli Happy Mondays, i Charlatans, i Northside, i James, i New Order, i Paris Angels e gli Smiths. Ed è fantastico il fatto che siano ancora praticamente tutti a Manchester. Artisticamente parlando, quale pensi sia stato il punto più alto raggiunto dagli Inspiral Carpets? E qual è stato il momento più alto di popolarità? Penso che il nostro picco “commerciale” sia stato probabilmente quando siamo stati fra gli headliner del festival di Reading, nel 1990. In generale, gli anni tra il ‘89 e il ‘94, quando giravamo il mondo e registravamo grande musica, sono stati fra i più memorabili della mia vita. Detto questo, ritrovarmi all’età di 55 anni, padre di cinque figli e continuare a registrare e girare il mondo, è qualcosa che non avrei mai previsto. Conto le mie benedizioni ogni giorno. Che cosa è successo a metà degli anni 33 ‘90? In un certo senso eravate i precursori di un certo suono britannico e Devil Hopping è un ottimo album. Perché vi siete sciolti nel momento in cui il Britpop stava crescendo di popolarità? Abbiamo perso il nostro contratto con la Mute Records nei primi mesi del ‘95. Abbiamo faticato a trovare un’altra etichetta. Per l’industria musicale britannica a quel punto “Madchester” era morta. Il termine ‘Brit Pop’ non era ancora stato inventato. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Abbiamo deciso di fare una pausa. Poi arrivò il Brit Pop. Se non ci fossimo sciolti, sono convinto che saremmo stati una grande Brit Pop band. Tuttavia non ho rimpianti. Sono contento che ci siamo presi una pausa. Ci ha fatto diventare individui più forti e nei successivi nove anni abbiamo imparato molto di più su noi stessi. Cosa ne pensi della situazione attuale della musica britannica? Io presento uno show quotidiano su Xfm Manchester, così mi capita di ascoltare tutti i nuovi dischi di musica chitarristica o “alternative” che vengono pubblicati. Amo i Temples, amo Jake Bugg e credo che il nuovo album dei Kasabian sia fantastico. Mi irrita quando la gente dice “la musica non è più come una volta” o “non c’è più buona musica”. Io dico: “stronzate”. C’è ancora un sacco di grande musica la fuori. A volte c’è bisogno di darsi un po’ da fare per trovarla. Quando dici che non c’è più buona musica di solito vuol dire che hai smesso di cercarla. Non darti mai per vinto con la musica. Contribuirà sempre a migliorare un po’ il mondo. Mi puoi citare qualche altra band che 34 consideri interessante? Catfish and The Bottlemen, The Tea Street Band, Sleaford Mods, Wild Beasts, Tame Impala, Temples…. Il ritorno di band dei tardi anni ‘80 come MBV e Slowdive ha avuto qualche ruolo nel vostro ritorno discografico? No. Ci siamo riformati nel 2003 prima che quelle band decidessero di farlo. Era abbastanza fuori moda riformarsi quando lo abbiamo fatto noi. Tuttavia credo che abbiamo scelto un buon momento. Non è stato per i soldi. C’è stato un periodo nei tardi 90s in cui ci sono stati offerti parecchi soldi per riformarci. Non abbiamo accettato. Abbiamo preferito aspettare finché non c’è stata una buona ragione per farlo. L’intesa fra di noi era ottima. Il 2003 era il momento giusto. Cosa mi dici della Manchester odierna? C’è qualcosa che può essere paragonato al fermento che la città ha vissuto fra il ‘77 e gli anni ‘90? In questo momento a Manchester non c’è un vero e proprio movimento come in passato. Nulla a cui si possa dare un’etichetta o un nome cool. Alcuni della vecchia guardia sono sempre attivi. Gli Happy Mondays hanno suonato lo scorso venerdì, gli Inspirals si sono esibiti alcune settimane fa. E così gli Elbow, gli I Am Kloot… La città continua a produrre fantastiche band e ottimi album. Ci sono nuovi gruppi come The Tapestry, The Minx, Tiny Philips, Kindest of Thieves, Exile Parade che potrebbero trasformarsi in una nuova onda di influenti band mancuniane. Chi lo sa? Una cosa è certa. La città produrrà sempre dischi monumentali. Che sensazione ti dà suonare di fronte ad un’audience molto giovane, che vi vede come un’istituzione del rock? È fantastico trovarci a suonare di fronte a fan molto giovani. Questo in parte è dovuto al fatto che nostri fan storici hanno iniziato i loro figli alla nostra musica. L’altra ragione è che viviamo in un’età incredibile in cui la musica può essere ascoltata, riprodotta e comprata premendo un tasto. In questo tipo di mondo gli Inspirals vinceranno sempre perché la nostra musica è catchy, cool e accattivante. Dunque qual è la vera ragione di questa reunion? Si tratta solo di dare a chi non l’ha fatto in passato la possibilità di vedere gli Inspiral Carpets dal vivo o volete ripristinare il processo creativo da dove lo avevate interrotto? Io la vedo come una cosa che facciamo per noi stessi. Vogliamo lavorare ancora insieme. Vogliamo esplorare il processo di fare musica in questa nuova epoca. Fortunatamente c’è ancora tanta gente che ama gli Inspirals, il che vuol dire che anche il lato economico della cosa è interessante. Noi saremo eternamente grati alle persone che ci hanno seguito in tutti questi anni. Il magazine Melody Maker una volta ci ha chiamato “La band più terribile della Gran Bretagna”. Io credo che nel 2014 si possa parlare di noi come della “band più fortunata della Gran Bretagna”. 35 36 I n d u s t r i al S o u n d t r ac k F o r T h e U r ba n D e ca y "Industrial Soundtrack For The Urban Decay" è il nuovo documentario diretto da Amélie Ravalec e Travis Collins, sulla storia del movimento Industrial. Abbiamo intervistato i due autori in vista dell'uscita del film, in questi mesi nelle ultime fasi di postproduzione. Il lavoro uscirà tra gennaio e febbraio di quest'anno e sarà presentato in diversi festival, oltre ad essere distribuito in DVD. >>>Testo di Marco De Baptistis 37 Industrial Soundtrack For The Urban Decay è il nuovo documentario diretto da Amélie Ravalec e Travis Collins, sulla storia della musica Industrial. Abbiamo intervistato i due autori in vista dell’uscita del film, in questi mesi nelle ultime fasi di post-produzione. Il lavoro uscirà tra gennaio e febbraio di quest’anno e sarà presentato in diversi Festival, oltre ad essere distribuito in DVD. Nel documentario saranno presenti molte interviste ai pionieri della musica industrial, girate nelle principali città americane ed europee: Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire , NON, SPK, Test Dept, Clock DVA, Re/Search – V Vale, Z’EV, Click Click, Sordide Sentimental, Hula, In The Nursery, Hands Production / Winterkälte, The Klinik / Dive, Ant Zen, Orphx e Prima Linea. http://www.vimeo.com/86841887 Il film è stato accompagnato da due ottimi mix pubblicati su Soundcloud. Il primo, compilato da Paul Jamrozy dei Test Dept., presentava brani di Zev, Monte Cazazza, Laibach, Throbbing Gristle e molti altri. Il secondo, a cura dello stesso Travis Collins, giornalista musicale che ha lavorato con la regista francese Amélie Ravalec al documentario, presentava brani di gruppi come Click Click, Dernière Volonté, Bourbonese Qualk, Can etc. Nella nostra intervista agli autori del documentario, abbiamo spaziato su molti temi riguardanti la musica industrial e post-industrial: dalla situazione politica ed economica degli anni Ottanta alla “crisi” di oggi; dai collegamenti degli artisti industrial con le avanguardie novecentesche (futuristi, dadaisti, surrealisti) all’influenza di scrittori 38 come William Burroughs, Brion Gysin e James Ballard. Abbiamo ragionato un po’ attorno al concetto di distopia (1984 di Orwell, ma non solo) e sulla sua importanza per l’immaginario apocalittico che si trova spesso in molti lavori degli artisti industrial di oggi e di ieri. Infine, abbiamo accennato anche all’influenza che hanno avuto, e che continuano ad avere, i pionieri della musica industrial sulla musica elettronica di oggi e di domani, in particolare all’interno dell’odierna scena techno industrial. Nella nostra discussione è venuto fuori come la musica industriale sia stata – e sia ancora – il perno centrale attorno a cui ruota un forte immaginario “alternativo” e “controculturale”, oggi sempre più conosciuto e diffuso. Potete dirci qualcosa su di voi, sul vostro lavoro precedente e il vostro background? Amélie Ravalec: io sono una regista francese di documentari e questo è il mio secondo film. Il mio primo documentario Paris/Berlin: 20 Years Of Underground Techno è uscito nel 2012. L’ho diretto e montato in tre anni, intervistando alcuni dei miei dj preferiti, i produttori e le etichette della scena techno. Il documentario è stato accolto bene in tutto il mondo e ho avuto la fortuna di farlo proiettare in Europa, USA, Asia e Australia. Oltre a fare film, ho co-fondato nel 2011 una public utility foundation e un’etichetta discografica, Fondation Sonore, dedicata alla techno industriale e alla musica sperimentale. Ospitiamo eventi in luoghi insoliti, a Bruxelles in Belgio, e abbiamo pubblicato dischi con Ancient Methods, Kareem, Adam X, Regis, Makaton, Oyaarss e Archae and Grovskopa. Lavoro anche come colorista freelance e editor video. Travis Collins: ho vissuto in Europa ed ho lavorato su questo film negli ultimi due anni; prima ho vissuto a Perth in Australia, lavorando in un negozio di dischi, occupandomi di cinema e facendo il giornalista musicale per la National Street Press; ho fatto anche il dj in bar e club e ospitato diversi programmi radiofonici negli ultimi dieci anni. È stato Stephen Mallinder, dei Cabaret Voltaire, che ha ispirato il mio lavoro in radio. Quando Mallinder viveva a Perth, diversi anni fa, mi ha fatto conoscere i primi Cabaret Voltaire e la musica di 23 Skidoo, Holger Czukay e molti altri. Non ho mai pensato che avrei lavorato ad un film, ma eccomi qui! È stata una grande esperienza fare il documentario con Amélie; ha coinvolto tutte le mie competenze e i miei interessi come giornalista di musica e appassionato di cinema. Come avete avuto l’idea di fare questo documentario? Come avete iniziato a lavorare sul progetto? Amélie Ravalec: stavo pensando di dirigere un documentario sulla musica industrial da diversi anni. Ci sono stati alcuni buoni documentari realizzati sulla scena industriale attuale e documentari su artisti o gruppi specifici, ma io non ero ancora riuscita a vedere un documentario approfondito sulla nascita del movimento industrial. Un paio di mesi dopo il rilascio di Paris/Berlin, ho deciso di iniziare un nuovo film e così è andata. Travis ed io ne abbiamo parlato per un paio di giorni e poi abbiamo contattato tutti gli artisti per le interviste. Travis Collins: entrambi abbiamo una passione in comune per gruppi come Cabaret Voltaire, In The Nursery e Throbbing Gristle, così abbiamo iniziato a discutere le nostre idee, mandato alcune email a diverse band e un paio di settimane più tardi, abbiamo iniziato a registrare le nostre prime interviste. Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Boyd Rice prima del suo tour a Berlino, dove ora viviamo, poi abbiamo viaggiato nel Regno Unito e abbiamo registrato altre interviste: così il film ha iniziato a prendere forma. Quando penso alla musica industriale, penso ad una musica essenzialmente europea/continentale. A parte l’originaria scena anglo-americana (Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, Test Dept., Boyd Rice) e australiana (S.P.K.), nel vostro documentario accennate anche alla nascita e all’evoluzione della musica industriale in paesi come Italia, Belgio, Francia, Spagna, Svezia, Slovenia e, naturalmente, la Germania? Travis Collins: tra le persone che abbiamo intervistato, ho parlato con artisti provenienti principalmente da Regno Unito, Francia, Belgio, Australia e Stati Uniti. Non ho troppa familiarità con i primi artisti industriali svedesi o italiani, ma la Germania, ad esempio, è stata molto influente grazie a band come gli Einstürzende Neubauten, così come lo è stata Slovenia per i Laibach. Purtroppo entrambe le band hanno rifiutato o non erano disponibili per essere intervistate quando le abbiamo contattate. Dal lancio del trailer, band provenienti da tutto il mondo ci hanno contattato per essere presenti nel film, ma il film era già troppo in là con la produzione, per fare altre interviste. Abbiamo oltre venti ore d’interviste registrate e già così c’è materiale più che sufficiente per un realizzare film. Dal lavoro dei pionieri della musica industriale sono nati e si sono sviluppati nuovi generi musicali: dall’EBM, con gruppi come Front 242, Nitzer Ebb e Klinik, fino all’inizio della musica post-industriale con progetti neofolk/apocalyptic folk che hanno coinvolto artisti attivi fin dall’inizio della musica industrial, come Boyd Rice e David Tibet (penso ai primi Current 93), per esempio. Cosa pensate di queste diverse evoluzioni della musica industrial, sviluppatesi principalmente nella seconda metà degli anni Ottanta? Nel vostro documentario trattate quest’argomento? Amélie Ravalec: nel film abbiamo voluto mettere a fuoco la storia dei pionieri della musica industrial. È già un grande argomento da coprire in un’ora, e abbiamo preferito andare più in profondità con quello, rispetto a cercare di coinvolgere altri generi simili. Le band che hai citato, Nitzer Ebb, Current 93, Skinny Puppy e Front 242, a me e Travis piacciono molto, ma il nostro documentario non si è focalizzato su di loro. Vedo l’evoluzione della musica industrial come una cosa positiva. C’è ancora molta buona musica odierna che rende omaggio al movimento industrial originario, soprattutto nelle scene rhythmic noise e techno contemporanee. È per questo che abbiamo intervistato Orphx, Hands e Ant Zen nel film. 40 Travis Collins: dopo il boom iniziale delle band industriali alla fine degli anni ‘70 e nei primi anni ‘80, molte persone hanno iniziato a fare musica, autoproducendosi, integrando le loro rispettive influenze. Da questa evoluzione sono emersi inevitabilmente nuovi sottogeneri come l’EBM, il rhythmic noise, il neofolk, il dark ambient e molti altri. Ci sono così tante band, oggi, che chiamano la loro musica “industrial”, ma alcune mi sembrano più electro o synth pop; in ogni caso, chi sono io per giudicare se si tratti di musica industriale o no? Ora che la tecnologia ha reso più facile produrre e distribuire la musica, ci sono molte più cose che escono, quindi ci vuole solo un po’ più tempo per scovare musica realmente valida. Un altro tema caldo di cui certamente vi siete occupati nel vostro documentario, è il controverso rapporto tra politica, controcultura e “l’arte della provocazione” ben presente nel lavoro dei pionieri della musica industriale, come Test Dept, TG, S.P.K., Boyd Rice, ecc… Potete dirci qualcosa su questo? Amélie Ravalec: i gruppi industrial hanno davvero spinto “oltre” i confini della loro arte, presentando alcuni temi impegnativi e rompendo diversi tabù, con la loro musica ed i loro spettacoli. Elementi molto provocatori erano già presenti nei primi gruppi industrial, come nel collettivo artistico da cui emersero i Throbbing Gristle, ovvero i Coum Trasmission, o anche negli S.P.K., penso ai loro video sulle autopsie, ad esempio. Travis Collins: la maggior parte dei nostri intervistati per il documentario proviene dall’Inghilterra. Il film mostra come il crescere durante gli eventi dell’epoca di Margaret Thatcher ha avuto un impatto su di loro, sia come musicisti, sia come persone. È stato difficile ignorare la politica nel Regno Unito durante questo periodo. Il lavoro di Genesis P-Orridge è sempre stato molto dibattuto, dai suoi primi lavori di mailing-art, in cui mandava “arte pornografica” alla Regina, sino alla fondazione del Thee Temple ov Psychick Youth. Le idee politiche di Test Dept o Throbbing Gristle sono state ben documentate, ma anche i Cabaret Voltaire e gli Hula hanno fatto dichiarazioni politiche con la loro musica. Nel trailer del documentario si evidenzia il ruolo che il declino delle città industriali, della loro economia e industria manifatturiera, ha giocato nella nascita e nello sviluppo della musica industriale negli anni Ottanta. Possiamo dire che la crisi economica di allora (ma forse anche quella di oggi) ha favorito la nascita di una controcultura che ha cavalcato “creativamente” le distopie e la disillusione, piuttosto che una certa idea di progresso e di benessere materiale? Amélie Ravalec: gli artisti sono sempre un prodotto del loro tempo, non si può negare l’impatto della società e dell’ambiente intorno a noi. La crisi economica 41 induce sicuramente idee e pensieri tetri e distopici, come sanno bene un sacco di persone che stanno lottando contro la crisi in questo momento. È diventato sempre più difficile guadagnare, mentre la vita è diventata sempre più costosa. D’altra parte è anche molto più economico fare musica o film, con i prezzi delle attrezzature che sono diminuito drasticamente negli ultimi anni. Concetti ed elementi distopici sono stati presenti per un lungo periodo nell’immaginario occidentale. 1984 di Orwell è stato pubblicato negli anni ‘50, per esempio, ma certamente ha continuato a ispirare gli artisti. L’arte e la musica 42 sono sempre state valvole di sfogo per sfuggire alla realtà della vita. Travis Collins: il declino dell’industria negli anni ‘80 e il recente declino economico sono entrambi collegati, entrambi riflettono la volatilità di un’economia globale basata sull’avidità e il consumo. Come abbiamo visto nel corso della Storia, le ondate di cambiamento sociale e politico, le guerre e il declino economico, sono, in realtà, i momenti in cui emergono la musica e l’arte più creativa. La gente vuole fuggire, cercare un modo alternativo di vita, e questo è il motivo per cui giochi, film, musica e libri sono così importanti. Essi ci ispi- rano, e le controculture sono essenziali per dare alle persone un punto di appoggio per fuggire dalla vita quotidiana e dalla schiavitù del lavoro. Tu parli di questa nozione di distopia, io personalmente amo i libri di fantascienza e i film distopici con temi post apocalittici. Penso che tutti noi sogniamo un mondo migliore in cui ricominciare daccapo. La musica industriale è la colonna sonora perfetta per questi temi perché è oscura e bellissima al contempo. 1984 Nel vostro documentario sono messi in evidenza anche i rapporti della musica e della controcultura industriale con le avanguardie come il futurismo, dada, surrealismo e costruttivismo? Amélie Ravalec: assolutamente. Movimenti artistici come Dada, surrealismo, futurismo, ecc, hanno avuto un’enorme influenza sui musicisti industriali e credo che siano essenziali per capire quegli artisti. Molti gruppi industrial presero molto in prestito da quei movimenti artistici d’avanguardia, sia nello spirito, sia nell’estetica. Erano artisti rivoluzionari, in grado di influenzare le persone più di un secolo più tardi. Travis Collins: l’arte dadaista è stato enormemente importante per la nascita della musica e della cultura industrial. Genesis P-Orridge, Boyd Rice e Adi Newton erano innanzitutto artisti, prima di essere musicisti. La mailing art, l’arte postale, era un mezzo, per molti di loro, per condividere idee e collaborare. Non credo ci sia un altro movimento musicale così interconnesso e ispirato dall’arte. Questo è ciò che rende la musica industrial così unica. Un’altra importante influenza per lo sviluppo della musica Industrial è quella letteraria: penso soprattutto a scrittori pionieristici come William S. Burroughs, James Ballard, ma anche a tutta la corrente letteraria cyberpunk che, a sua volta, ha trovato nella musica di artisti come Clock DVA una fonte d’ispirazione. Volete anticiparci qualcosa su questo? Amélie Ravalec: Burroughs e Gysin, con e le loro tecniche di cut up, sono stati un’influenza enorme per tutti gli artisti industrial. Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, SPK e Clock DVA nel film hanno tutti posto l’accento su quanto siano stati importanti Burroughs e Gysin per lo sviluppo della loro arte. Le tecniche di cut up letterario lavoravano sulla liricità e sulla musicalità delle parole ed erano facilmente trasponibili ai primi esperimenti di tape loop. J.G. Ballard è stato un pioniere ed ha influenzato molti, come V. Vale, che ha ripubblicato La mostra delle atrocità su Re/Search, o Daniel Miller, la cui prima uscita come The Normal, Warm Leatherette, è stata ispirata proprio da Crash di Ballard. Travis Collins: non abbiamo potuto fare questo film senza menzionare Burroughs e Ballard. Quando gruppi come Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire hanno introdotto il cut up nella loro musica, è cambiato tutto. Loro hanno usato il campionamento prima che i campionatori venissero inventati. Nel documentario parlerete anche della scena techno industrial? Oggi sembra essere una scena sulla cresta dell’onda. Pensate che il vostro lavoro 43 sulla musica industriale possa servire anche come promemoria di come la musica di TG, Esplendor Geometrico, Cabaret Voltaire, ecc, sia essenziale per comprendere la nascita e lo sviluppo della musica elettronica contemporanea, anche nelle sue diramazioni più EDM e techno-oriented? Amélie Ravalec: ho già fatto un documentario sulla musica techno industrial, quindi non volevamo coinvolgere gli stessi artisti in questo film, ma parlare dell’ampia influenza della musica industrial in generale. Molti artisti provenienti da diversi generi e background musicali oggi citano la musica industrial come una grande fonte d’ispirazione, soprattutto gli artisti techno. Negli 44 ultimi anni la scena techno industrial è divenuta abbastanza grande ed in molti sono stati coinvolti e si sono appassionati a queste sonorità, il che è una cosa senz’altro positiva. Travis Collins: negli anni ‘90, l’EBM veniva considerata una grande influenza per la musica techno, con dj come Richie Hawtin che suonavano brani di Nitzer Ebb e Front 242. Da quando Paris/Berlin 20 Years Of Underground Techno è uscito, la musica techno industrial è divenuta molto più popolare. Oggi molti dj techno e di musica elettronica stanno inserendo nei loro mix tapes brani industrial. Ciò farà sì che sempre più persone saranno indirizzate verso questo genere di musica. Quale futuro vedete per la musica industriale? Amélie Ravalec: la musica industriale ha già influenzato molti musicisti, scrittori e artisti. Gaspar Noé usa la musica di Throbbing Gristle e dei Coil nel suo film Enter The Void, e i film di David Lynch sono molto importanti per i fan dell’industrial. È una musica che ha sicuramente un’importante eredità. Speriamo che influenzi sempre più persone, che si evolva e muti in suoni diversi e mai sentiti prima. Travis Collins: stiamo ottenendo richieste d’interviste da fashion blog per parlare del film, la musica industrial sta sicuramente iniziando a farsi conoscere sempre di più nella cultura popolare. Film, anime, giochi, cyberpunk e sci-fi introducono colonne sonore di musica industrial ed io credo che sia un ottimo modo per introdurre le persone al genere. Sarebbe bello se il nostro film e le band che abbiamo intervistato fossero apprezzate e conosciute da un pubblico più vasto. Credo che gruppi come Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire dovrebbero ricevere un Grammy o riconoscimenti simili per il loro significativo contributo alla musica popolare. Spero che ciò accada al più presto. Quando uscirà il documentario? In quali forme sarà distribuito? Amélie Ravalec: stiamo progettando di finire la post produzione nei prossimi mesi e di fare uscire il film agli inizi del 2015. Ci saranno premiere in festival e proiezioni in tutto il mondo e faremo uscire il film in DVD. Travis Collins: siamo molto vicini al completamento. Non abbiamo un budget per il marketing, così ora ci siamo concentrati sulla ricerca di audience per il film. Vi chiediamo di contribuire a diffondere le notizie e di seguirci sulle nostre pagine sui social media. È un impegno enorme fare un film. Sia io che Amélie vi abbiamo lavorato sette giorni su sette, negli ultimi due anni. Spero che le persone siano in attesa per la sua uscita tanto quanto lo siamo noi! 45 G u s t o F o r t e N o n c ’ è I t al i a g u s t o a i n e s s e r e a v a n g u a r d i s t i 46 Dopo una pausa durata trent’anni, il rientro in grande stile dei GustoForte, gruppo romano che pone un ideale ponte tra le avanguardie anni ‘80 e l’attualità >>>Testo di Stefano Pifferi La verità è banale, molto spesso. Così come la banalità ha molto a che fare con l’ovvio e, di conseguenza, col vero. Il titolo del presente articolo non ha a che vedere con Freak Antoni, come invece potrebbe sembrare, ma ha molto a che fare con un piatto gustoso celato dalle nebbie del tempo, oltre che dalla miopia congenita degli (ipotetici) osservatori dei sottoboschi, e per il quale non sarebbe ovvio né banale, ma semplicemente vero, affermare che è uno dei segreti meglio custoditi del “rock” in Italia. Quel piatto ha un nome che rimanda a qualcosa di culinario, ma anche no. Ad una idea generale, più ampia dell’ambito meramente culinario. Ad una sorta di filosofia di (non)vita. Ha a che fare col gusto, elemento che nell’Italia degli ultimi due o tre decenni viene sempre più spesso da associare all’aggettivo “cattivo” e che invece i romani GustoForte risollevano creando parallelismi tra l’ambito culinario, nella fattispecie tradizionalmente romano, e la musica. Non a caso, è Quinto Quarto il titolo del nuovo lavoro della rediviva compagine romana; insieme rimando alla tra- 47 dizione (“Il quinto quarto è quel che rimane della bestia vaccina o ovina dopo che sono state vendute ai benestanti le parti pregiate: i due quarti anteriori e i due quarti posteriori” recita Wikipedia) e dichiarazione di stortume, segnalazione di estraneità alla regola, asserzione esplicita di una appartenenza al mondo dei fuori asse (ma su questo torneremo in seguito). Frattaglie sonore irregolari sono infatti quelle che i romani hanno disseminato nei loro (pochi) lavori ufficiali, in un “mercato” discografico periferico e provinciale nel suo rinchiudersi a riccio su poche, scelte e tranquillizzanti certezze. Un omonimo esordio (Rat Race, 1985) fulminante, stando ai racconti dei (pochi) sopravvissuti, e che assume oggi – all’orecchio di oggi, avvezzo a stramberie concettuali d’ogni sorta – le forme di un “opalescente e indecifrabile amalgama post-new wave” (Vittore Baroni dixit), mentre all’epoca assumeva i connotati di un pesante packaging in “lamiera piegata in due, con un bullone su di un lato e una scritta spruzzata con vernice nera” decisamente in netto anticipo sui tempi. Ristampato lo scorso anno con titolo cambiato in La Prima Volta da Plastica Marella, “editore in modo moderno” di “oggetti sonori diversamente udibili”, l’album è un concentrato di coraggio e sperimentazione nel suo trinciare dubwave, proto-industrial, plagiarismo, rumorismo e avant-rock sprezzante del pericolo nel suo evidente anticonformismo. Non a caso, ancora, l’autodefinizione “italian antipop group” che ne indicava il senso più di mille parole postume e che a noi, generazionalmente 48 neofiti, ricorda unicum irripetibili come Dedicato A… de Le Stelle di Mario Schifano. Poi uno iato quasi trentennale rotto nel 2012 dalla release di Souvenir Of Italy, vinile 12” e nastro in edizione limitata, che riesuma(va) in una ristampa/ non ristampa (dato che non vide mai la luce all’epoca della sua composizione) musiche previste per luoghi non convenzionali. In soldoni, due lunghe suite – alla title track del lato A fa da contraltare La Merda Che Fuma sul lato B – che diremmo quasi collagistiche, tra cut-up, nastri, voci cercate e trovate di radiogiornali, stornelli, registrazioni (quasi)aliene la prima, e una composizione free/avant-rock eretta intorno all’omonimo scritto di Osvaldo Licini e catturata live al Beat72 di quella Roma – che tanto significa, per contrasto e in opposizione, nelle musiche dei GustoForte – la seconda. Quaranta minuti di sperimentazione che si fanno “necrofora discesa negli inferi della memoria Nazionale”. Infine, è storia di questi giorni, anche se coi GustoForte parlare di tempo ha poco senso, vista la capacità nel “cantare” una contemporaneità paradossalmente fuori dal tempo, Quinto Quarto: l’album della “rinascita” (ammesso che questa definizione abbia un senso) che li ri-proietta dentro un circuito musicale “underground” nel quale, ovviamente, i quattro stanno stretti, ma non fuori luogo, pronti a rompere (non solo) gli schemi per “cattiveria congenita” e sarcastico gusto nello sparigliare il già noto. Accanto a questa produzione “ufficiale”, a corroborare l’impianto onnicomprensivo (ed onnivoro) del progetto che mai ha rifiutato le istanze più evidentemente artistiche, le release non ufficiali: “17 pubblicazioni autonome” (vinili limitati, nastri serigrafati, “fotoromanzi sfocati e strappati”) disseminate in situazioni, luoghi, modalità non conformi (stazioni, piazze, fermate d’autobus d’Europa) ad un pubblico “non scelto, casuale, autonomo da scelte condizionate”. Non è un caso, e col terzo indizio arriviamo finalmente alla proverbiale prova, nemmeno che la biografia dei GustoForte inizi con una sorta di rivendicazione del proprio essere periferici, soprattutto rispetto ad un luogo che è realisticamente l’epicentro caratterizzante del loro suono: “GustoForte born in Rome in the 1984, develop its sonorous magma and then blend into the continuous beat of the peripheral roman nights”. Perché GustoForte è Roma e Roma è GustoForte, nei suoi contrasti, nelle sue dicotomie evidenti, nel suo essere onnivora e ladrona, santa e puttana, avanguardista e popolare. Un legame che ritorna continuamente nei titoli delle canzoni e come atmosfera generale, e sulla cui schizofrenica ambivalenza, tra attrazione e repulsione, molto del laterale ruolo svolto dai GustoForte fonda le sue basi. All’epoca il racconto, anzi, la colonna sonora rovinata di una Roma “di passaggio”, a metà tra le avanguardie e la condizione popolare, tra l’impegno “politico” tradizionale e l’autonomia (sonora) “radicale”, tra la no-wave e gli stornelli; oggi (come allora) la testimonianza di una eccentricità (verrebbe da dire, in tempi di forzata gentrification, una “perificità”) difficilmente catalo- gabile, se non come figlia di se stessa, aliena a se stessa, dentro unicamente se stessa. I GustoForte sono Stefano Galderisi (basso, contrabbasso, rumore), Roberto Giannotti (percussioni, voce, elettronica), Francesco Verdinelli (chitarra, tastiere analogiche, synth, giradischi) e Silvia Brunelli (batteria) e sono qui, come trenta anni fa, per descrivere la contemporaneità e per ricordarci che la vita, così come la musica, è questione di (buon)gusto. Questo articolo, molto probabilmente, avrà come titolo la rivisitazione di un celebre passo di Freak Antoni: non c’è gusto in Italia a essere avanguardisti. Vuoi smentirmi? Parafrasando sempre Freak Antoni è possibile dire anche “…largo all’avanguardia, pubblico di merda…”. È che non mi sono mai posto lo psicanalitico quesito su cosa faccio. Forse spesso mi ripeto perché lo stia facendo. Poi non credo che esista “avant-garde” come genere meta-creativo, è solo una formula creata dalle borghesie di inizio secolo per stemperare la noia e cercare una identità di classe alternativa (e se ci pensi è quello che continua a fare oggi il “faro” della borghesia (in)cosciente italiana, ossia il Gruppo Espresso/Repubblica, summa dell’annientamento e omogeneizzazione dei gusti): preferisco allora il più generico e impetuoso “contemporanea”. Anche perché sono convinto da sempre che il futuro non esista, è solo un artificio umano inventato per creare una speranza all’esistenza. Giano, il dio latino, è rappresentato con due teste speculari, quella che ci osserva guarda il presente, l’altra il passato. Il 49 futuro è tutto nel passato. Ergo non esiste avanguardia, è solo un’etichetta per far presa sulle “masse deboli”. L’arte si esprime solo attraverso la contemporaneità: qui e adesso. Ma tornando alla tua domanda, la risposta più semplice è che in Italia non c’è gusto a fare nulla per la passività congenita degli indigeni che la popolano. Ogni minimo frammento che ci spinge a metterci in discussione (la forma primordiale del far arte) ci spaventa, non vogliamo responsabilità, soprattutto verso noi stessi. Siamo schiavi e sottomessi, preferiamo qualcuno che si assuma le responsabilità per noi. Anche nelle arti visive o sonore: siamo quello che siamo, inutili. 50 Facci un sunto della storia dei GustoForte. Nonostante uno iato pluriennale che non sembra aver scalfito la vostra irriverenza e la vostra iconoclastia, sonora innanzitutto, ma anche ideale, quest’anno festeggiate il trentennale. Non è poco no? GustoForte è la sintesi della pigrizia umana che ha affittato casa dentro i suoi componenti. Lenti ma inesorabili, bradipi creativi. Nasciamo come gruppo (collettivo sarebbe meglio ma non è più di moda) nei primi anni ottanta. Un vinile con copertina di lamiera stampato in edizione limitata e performance sonore nelle gallerie d’arte dell’epoca e piccoli teatri. Come il concerto/installazione che abbiamo realizzato nel 1985 al Beat72 di Roma e pubblicato in picture tre anni fa. Poi abbiamo preferito l’oblio consapevole, il ricercare un rapporto occasionale con il fruitore degli atti sonori. Per anni abbiamo realizzato mini manufatti diversamente udibili (cassette, cianografie con banda magnetica, 45giri realizzati in copia unica, registrati con l’ausilio di una macchinetta che sostava alla Stazione Termini di Roma) abbandonandoli per strade e piazze periferiche delle città. Un rapporto paritario, uno a uno, con un pubblico inconsapevole. Una bella esperienza. Poi, vista la decadenza della modernità e visto che il nostro humus è il sangue e la merda, siamo tornati a rompere i genitali (genere neutro) alla collettività. Così, solo per cattiveria congenita. Avete partecipato all’ultimo Thalassa, una sorta di consacrazione del ruolo di anticipatori di un certo sentire musicale… Il profeta in patria è morto da tempo, credo anche in malo modo. Non abbiamo anticipato nulla, ma solo descritto la contemporaneità dell’epoca, i primi anni ottanta. Se oggi c’è un ritorno isterico e spasmodico al quel periodo è solo il segno di una povertà creativa immonda. Non sapere descrivere “l’adesso” e interpretarlo è il fallimento di una generazione. Il ricorrere al passato senza averlo assolutamente vissuto, tipo i profeti dell’hypnagogic pop, è come assistere ad un karaoke interpretato da claudicanti afflitti da sordocecità. Per noi l’esperienza al Thalassa è un bel trip psicanalitico, una seduta di multicoscienza. Un bel gioco, una bella idea. Poi sentire Donato Epiro, Valerio Cosi e Mai Mai Mai in una decina di metri quadri è totalizzante! Mi interesserebbe sapere la tua opinione sulla situazione musicale d’oggi. Quando avete pubblicato il primo disco, parliamo della metà degli ‘80, eravate già degli outsider o Gustoforte era inserito/inseribile in qualche corrente? Nei primi anni ottanta il cosiddetto “indie” italiano era una sorta di follia collettiva autorganizzante. Il faro era Oderso con la sua Italian Records, inarrivabile per tutti. Poi un mare di situazioni che si credevano emanazioni della Rough Trade, ma eran solo peti d’affetti da stipsi in sottoscala evanescenti. Il tutto è catalogato molto bene da Fricchetti in un librettino dell’epoca di Stampa Alternativa, Compra o Muori. Si stampava in ogni formato disponibile e si attendeva il successo imminente. Ma, cosa tipicamente italiana, il “mercato” era ostaggio da un combinato disposto orripilante: giornalisti che aprivano etichette, che a loro volta eran distribuite da organizzazioni di proprietà di riviste musicali, che aprivano negozi dove lavoravano giornalisti, che a loro volta suonavano in gruppi e si affidavano a booking di proprietà dei soliti noti. Mai capito perché nell’underground italico non ha mai sfiorato a nessuno il dubbio del conflitto d’interessi. Ma tant’è! Le cose memorabili si contano su di una mano, tutto il resto derivativo o quasi. I 45giri dei GazNevada e Confusional Quartet furono memorabili. Poi i Fiori Malsani del Carillon del Dolore, i Gronge, le cassettine dell’Adn di milano, i Detonazione di Udine, le follie della Trax, i primi Bisca e i CCCP dell’Attack Punk Records. Bisogna attendere i Novanta 51 con Lory D e Leo Anibaldi per ascoltare qualcosa di veramente originale e diffuso nell’intero globo terracqueo. Oggi le cose vanno notevolmente meglio, le maglie si sono aperte. Donato Epiro, Valerio Cosi, Mai Mai Mai, Heroin in Tahiti, Mamuthones, Von Tesla, Father Murphy, Maria Violenza, Valerio Tricoli, Donato Dozzy sono belle realtà con potenziali enormi… Quanto c’è di “romano” nelle vostre musiche? Mi riferisco soprattutto alla (psico)geografia presente nei titoli di Quinto Quarto e a una certa predilezione per l’essere periferici, cosa che secondo me Roma continua a mantenere nonostante sia una metropoli, ma in grado di miscelare gli input provenienti dal primo mondo musicale… Roma è GustoForte. Noi continuiamo a raccontare in modo sonoro la città di Sergio Citti e Nico D’Alessandria. Una città ossimoro, negazione di se stessa. 52 Una città discarica, che vive con migliaia di morti sotto pochi metri d’asfalto. Una città spaventosamente alchemica e contemporaneamente in preda alla fame dell’ignoranza. Una città zeppa d’ignavia, codarda, vigliacca e infame. Mescolanza infinita di divinità che continuano a combattersi sotto i nostri piedi. Dove fino a poco tempo fa l’afrore dei corpi di Pasolini e De Pedis accompagnavano la questua quotidiana di Mario Appignani. Imperatori, papi e duci, un susseguirsi di malversazioni e schiene chine. Una città meravigliosa perché morta da millenni. Noi siamo zombie della nostra stessa malinconia. Mai morti e sempre cadaveri, malfattori della felicità altrui. Roma non è una metropoli, ma la controfigura della periferia di Babilonia. Solo che hanno tagliato tutti i ponti per raggiungerla, e noi romani siamo troppo vigliacchi per tentare di raggiungerla. 53 O m 54 U n i t >>>Testo di Edoardo Bridda T h a t r h y t h m . N o t r e s o n a n t i n a w a y. Om unit, ovvero Jim coles, è uno con le idee chiare e l’accento pulito. Lo comprendi da subito, quando te lo trovi davanti. Ha i piedi piantati per terra, coerenza e curiosità. Non si vergogna di raccontarti delle sue serate epifania e di come stanno alcune cose con un piglio che va oltre il “secondo lui”. E’ un londinese doc, ma, dall’alto del suo metroenovanta, non esce una sillaba di cockney o un’inflessione troppo posh; il suo, anzi, è un distillato kentish senza troppi distintivi, un veicolo con il quale si prende gli spazi che deve in una conversazione, guardandosi bene di non scavallare o risultare inopportuno. Lo intervistiamo una sera di luglio al Link di Bologna, dove è stato invitato per un dj set che si rivelerà una autentica sorpresa. Sapevamo della sua bravura produttiva e dei sui abili mix di generi, ma è ai piatti che il trentacinquenne che prima si faceva chiamare – non a caso – 2Tall dà un’idea chiara del mondo sonico in cui si è immerso circa quattro anni fa. Il sound che Om Unit si è conquistato è un flusso limpido di hip 55 hop – provienente dal suo passato produttivo – innestato in una buona dose di presente – sì presente, a lui non piace tutto questo parlare di future this and that – ovvero una grande padronanza di footwork, jungle e, facciamola breve, bass sound a 360° britannici. Nella sala al piano superiore del locale di via Fantoni la gente ha il sorriso dei bei vecchi tempi della drum’n’bass arena, e più d’uno se ne compiace e sorprende. Non par vero quanto renda bene in pista la family di Coles, ovvero le produzioni sue e dei “suoi” ragazzi recentemente oggetto di una compilation celebrativa curata dallo stesso Om Unit, Cosmology. Nel mix non manca nulla, neanche uno dei paladini più lontani (geograficamente) dell’nu eski sound o new wave of grime, Epoch, un ragazzo che Coles ha conosciuto ai tempi di Hydraulics, un 12” in combutta con Wen. Riallaccandomi ai discorsi fatti in un articolo su eski e jungle, gli chiedo naturalmente di più. “Lui abita a Melbourne, ma è della Nuova Zelanda e a nessuno frega nulla della sua musica laggiù” sentenzia con sciolta dialettica “Ecco perché la sua attività con l’etichetta, la Egyptian Avenue, va a rilento. Andiamo molto d’accordo. E pensa che è anche uno dei migliori amici della mia ragazza. Lo abbiamo conosciuto quando siamo andati in Australia e credo si voglia muovere negli States ora. E’ sicuramente un one to watch come è innegabile che il movimento grime, rispetto al passato, è in un certo senso globale. Vedi Rabit da Houston o Sd Laika che è sempre americano. C’è un giro di producer che comunicano via internet. Stanno muo- 56 vendo acque molto profonde nel loro piccolo. E’ una cosa rivoluzionaria che sta dando al movimento una ventata di aria fresca”. Scavando più a fondo apprendiamo che Coles non è un esperto grime, ma come sa quello che gli serve delle nuove wave del genere, così se gli chiedi di Bristol perché hai la testa piena di producer di quelle parti, ecco che lui si riallaccia alla sua più grande passione, la jungle, e tutto si ricollega a uno dei possibili continuum elettronici (“Bristol è molto vivace. C’è Gorgon Sound, ovvero Kahn e Neek, e il loro dub è fantastico soprattutto live. Sono un fan di quello che succede in quella città almeno dai tempi di Full Circle, da Roni Size e Dj Die, la prima drum’n’bass, la jungle e tutto quel che c’è in mezzo. E’ musica per soundsystem in un certo senso ma con un vibe carnevalesco che soltanto Bristol ha. Con un sound spirit unico. Non conosco le ultimissime leve, in passato tenevo d’occhio Pinch e Peverelist”). Del resto, tutto per lui viene dalla jungle, e la sua storia in questo senso è molto simile a quella di Lee Gamble; entrambi, infatti, troppo piccoli per vivere la scena, l’hanno ricreata a casa propria componendo le prime produzioni da giovanissimi e assorbendo come spugne le mitologie dei cugini più vecchi. “Ho iniziato tipo nel ‘93, quando avevo 14 anni, ma delle cose che ho composto l’anno successivo non ho poi pubblicato nulla. La mia vita, a metà Novanta, era nei pub. Giocavamo a stecca e ogni tanto avevamo la fortuna di sentire qualcosa tipo garage, funky house e garage. Solo se eri veramente fortunato ti beccavi qualcosa di jungle”. Sempre alle politirmie e ai rullanti è legato il suo passaggio all’attuale alias, ragione sociale che ha convissuto per un breve periodo con un altro travestimento fondamentale, Philip D Kick, ovvero un laboratorio di tracce bastarde ottenute mixando ritmi footwork con vecchie produzioni jungle dell’epoca d’oro, tipo Horizons di LTJ Bukem o Circles di Adam f. In pratica giusto, un passo avanti a Machinedrum, Coles aveva intuito, sempre con medesima chiara visione di campo, che entrambi i generi condividevano parecchio, dai bpm a un certo spirito tribale, fino all’uso della 808 e la scelta dei sample. “Ma quindi quando vi siete conosciuti tu e Travis Stewart?”, gli faccio, “Circa attorno al 2010. E sempre nello stesso periodo abbiamo iniziato a comporre assieme. Stewart ha passato un periodo a casa mia a Londra e così abbiamo fatto partire questo progetto, Dream Continuum su Planet Mu. Alla fine abbiamo prodotto soltanto questo EP di tre tracce che poi è molto simile alle produzioni Philip D Kick”. La Planet Mu di Mike Paradinas, nella formazione footwork di Coles, ha un’importanza fondamentale. E’ una sera al Plastic People, sempre nel 2010, a un set dello stesso Paradinas, che gli si accende una bella lampadina. Ma non è la sola epifania, mi confessa, la seconda è ad una serata di D-Bridge: “Ho conosciuto D-Bridge attraverso le cose sotto Autonomic. Anzi, no”, mi fa, “avevo un disco di Future Forces del ‘97 ma non sapevo fosse lui. Naturalmente conoscevo Bad Company e le cose che faceva ma diciamo che l’ho scoperto a dovere con Autonomic e andando a un suo set nel 2009. Lui è un maestro del ritmo. E poi c’è questo aspetto melanconico ma gioioso in splendido bilanciamento che lo caratterizza. Ha avuto una influenza massiccia su come lavoro. La gente accredita me, Machinedrum e altri per un certo tipo di ecletismo, ma è a lui che bisogna guardare. Non ha mai smesso di innovare negli ultimi 10 anni. Dalla fondazione di Exit ad oggi. Sono stato in studio con lui, è fantastico, tira fuori suoni incredibili al volo, senza pensarci. Non ho idea di come faccia ma è uno scienziato vero, un ricercatore di nuovi sound”. La stessa libertà riferita a D-Bridge, Coles la riversa in tutti gli aspetti del fare musica. (“Uso un sacco di roba differente, un poco di analogico e un sacco di digitale al PC. Prendo tutto e non mi interessa. Poi sì, campiono ma in modo molto tattico. Non mi piace rendere le cose riconoscibili. La melodia la scrivo per intera ma diciamo che ci metto quei piccoli effetti strani presi da dischi new age, la hippy music dei ‘70. Prendi i Tangerine Dream e quegli assurdi interludi che ci mettono, li prendo e converto con un approccio hip hop e o footwork”). Ma c’è una caratteristica fondamentale che il suono deve avere per essere come dice lui, “non deve essere risonante”. “Con la musica che suono live, e anche per Threads vale lo stesso discorso, ci puoi fare viaggi in macchina. E pulita e mantiene un suono naturale”, mi confessa sicuro di sé, rimarcando che se una musica è 57 risonante gli procura dolore fisico, è il suo orecchio a rigettarla. “Ma le produzioni jungle belle sporche e cattive un po’ risonanti lo saranno no?”, gli faccio con sottile provocazione, “Non lo sono. Almeno sì, in parte, sono crude per il modo in cui sono fatte, hanno una tape compression, cose così, ma lo stesso effetto è diverso nel mondo digitale. E’ un approccio differente”. Suoni puliti, eccletismo e orecchie sempre attente a ciò che colpisce la sua immaginazione sono le caratteristiche che più risaltano dopo una trentina di minuti di conversazione affabile e amichevole con il producer, che non manca di fornirci anche la chiave sociologica di tanta maleabilità e voracità: “Come britannico ti posso dire che non abbiamo mai avuto una cultura musicale nativa, se l’abbiamo appartiene ai gruppi etnici come Greci, Giamaicani, Turchi. La nostra cultura è stata rimossa tanto tempo fa. Non ne abbiamo una nostra. La nostra musica puoi dire che è il pop. Abbiamo una tradizione di folk, ad esempio, ma è completamente sparita. Quindi senza andar troppo oltre le ragioni di questo interessante melting pot vanno ricercate nel nostro prendere continuamente in prestito cose altrui, tipo il reggae giamaicano, il rock’n’roll americano, la techno di Detroit, la house di Chicago. Il nostro è sempre un mix. Ed è un mix in stato di salute perché in costante cambiamento e mutazione. Ed è anche per questo che i dj inglesi sembrano dominare il mondo, in un certo senso è perché respirano quest’aria”. 58 59 ROBOT 07 In occasione del roBOt festival 07 ripercorriamo le carriere di due producer elettronici chiave degli ultimi dieci anni. Il percorso che porta alla psichedelia di James Holden e quello legato ai sogni e al ricordo di Jon Hopkins >>>Testo di Edoardo Bridda / Daniele Rigoli James Holden Jon Hopkins Con una carriera passata sulla cresta di alcune ondate (prog house, neo trance, electro-psichedelia, elettromania analogica, ecc.) che hanno attraversato il dancefloor dalla fine degli anni Novanta e un’instancabile attività di dj, remixer e label manager, James Holden si è imposto sia come solido producer attentissimo ai dettagli (e in costante pressione sui bordi delle mode), sia come abile miscelatore di emozioni ai piatti. Il filo conduttore della sua musica è il viaggio, meglio ancora se la sua durata coincide con una notte intera, un percorso che lo porta, dopo più di dieci anni di carriera, a una naturale dialettica oltre la pista da ballo fatta di macchine analogiche, minimalismo, cosmica e kraut rock. E un importante punto d’approdo, ovvero The Inheritors. Nato il 7 giugno 1979 a Exeter, Devon, in Inghilterra, James Alexander Goodale Holden esordisce a 19 anni sotto i migliori auspici. Il 12” Horizons / Pacific, pubblicato da Silver Planet e distribuito da INCredible, label legata alla Sony, è uno degli hit neo prog house del 1999 e il suo nome viene associato a nuova promessa del genere, assieme a Space Manoeuvres, e a grossi Nato nel quartiere londinese Kingston upon Thames, il 15 agosto 1979, Jon Hopkins si è dimostrato nel corso degli anni uno dei producer qualitativamente più interessanti della scene elettronica, unendo una tecnica sopraffina da autentico scultore del suono in studio a emozionanti e vibranti esibizioni sul palco. Cresciuto a fianco degli storici campi di Wimbledon, Hopkins inizia a studiare pianoforte a 12 anni allo Junior Department of the Royal College of Music, attività che lo porta ad ascoltare con passione compositori di fine Ottocento come il francese Maurice Ravel e il più conosciuto Igor Stravinsky. Sin da subito il ragazzo mette in mostra il suo talento, arrivando ad esibirsi con un’orchestra e prendendo il soprannome di child protégé. A soli 15 anni vince l’ennesimo concorso di pianoforte, e con i soldi ricevuti acquista un Roland Synth che lo catapulta immediatamente nelle prime composizioni casalinghe, facendogli scoprire in contemporanea una fascinazione verso l’acid house. Con l’aumentare degli ascolti di mostri sacri del synthpop come i Depeche Mode e dopo aver concluso gli studi classici, viene ingaggiato da Imogen Heap come tastierista, dopo 60 calibri come Sasha + John Digweed. Nel 2001, esce One For You su Direction Records (sempre legata Sony), un altro immaginifico viaggio ibizenco tra trance e house a cui seguono, l’anno successivo, l’affondo tubolare Solstice, sempre su Silver Planet, e un versus 12” con Ben Pound, Kaern Turned, sub label di Silver Planet, attivata con l’aiuto dello stesso Holden. E’ l’anticamera di un’etichetta personale che viene aperta nel 2003, ovvero Border Community. Sulla neonata realtà discografica, Holden affonda un altro banger per il dancefloor prog trance, A Break In The Clouds, traccia contenuta in quattro versioni in un omonimo 12”, mentre su etichetta Loaded firma due uscite con la vocalist Julie Thomson: Nothing, in prepotente area mainstream, e una emblematica (per le produzioni seguenti) Come To Me, traccia che esplora traiettorie più pacate e articolazioni melodiche non lontane dalle glitcherie emozionali di Apparat (al netto di ritmi idm-warp, s’intende). Nel frattempo, sulla label personale, un’accolita di spiriti affini come Petter, Avus, Mfa e soprattutto Nathan Fake, sempre partendo dagli stroboscopici viaggi in 4/4 del label manager, stanno esplorando nuove traiettorie che, pur poggiando su casse dritte e snare funzionali al dancefloor, mirano a una dimensione di psichedelico intimismo tagliato alla bisogna su fendenti electro, approccio che li ricollega più direttamente alla gloriosa tradizione techno IDM briannica, e quindi a casa Warp (la Outhouse di Fake, in particolare nel fluffy mix, porta diretti ai Selected Ambient di Aphex Twin). Accade così che se The Sky Was Pink nel mix originale richiama i Boards Of Canada, nel remix di Holden diventa – parole sue – uno spartiacque importantissimo nella carriera del musicista, lo starter ideale per l’esordio discografico a venire. The Idiots Are Winning, pubblicato nel 2006 e visto anche come un mini o una raccolta delle produzioni del periodo, taglia con il passato aver paradossalmente partecipato all’audizione con l’idea principale di accompagnare un amico: “Direi che è stato un buon inizio, e pensavo che tutto sarebbe decollato. Noi eravavamo la sua band, e io facevo il mio lavoro”. Scontato dire che con un curriculum così brillante scritto in così poco tempo, iniziano ad aprirsi le prime porte con le etichette discografiche: nel 1999 arriva la firma con Just Music, col Nostro che si mette al lavoro sul primo disco solista nella stanza di Wembley dove abita, in un periodo per lui di grande sofferenza a causa della costante mancanza di soldi. Pubblicato il 30 luglio 2001, Opalescent si staglia su sonorità atmosferiche e sfocate, che, come affermerà lo stesso artista “erano frutto di improvvisazione, non sapevo davvero cosa stessi facendo in quel momento”. Nonostante il lavoro suoni un po’ acerbo e senza esperienza, la critica inizia a buttare l’occhio su Hopkins, e alcune tracce vengono scelte come colonna sonora del famoso telefilm Sex And The City. Tre anni più tardi arriva il secondo disco Contact Note, un album che, visti i bassi risultati di vendite, delude talmente Hopkins da fargli pensare di abbandonare l’idea della carriera solista per dedicarsi completamente all’attività di produttore. Nello stesso anno però, Hopkins, per mano dell’ex band mate Leo Abrahams, conosce Brian Eno, che rimane colpito da alcune tracce del ragazzo inglese, tanto da invitarlo a sessioni in studio. Risultato: Hopkins diventa il tastierista dello stratega obliquo in Another Day On The Earth (2005). Nel 2005 esce il 12” EP1, che mantiene la bussola ferma su coordinate ambient. I risultati iniziano ad arrivare, come la produzione di Bombshell di King Creosote e alcuni lavori con il dj nord irlandese David Holmes. Arriva una nuova chiamata da Eno, che trascina Hopkins nelle registrazioni del quarto album dei Coldplay, Viva La Vida or Death and All Of His 61 e, di fatto, “tradisce” i fan della prima ora. Il nuovo Holden fonda il suo corso su un inedito crocevia di electro, psichedelia e minimal trattato, al solito, con enorme attenzione ai dettagli. Sbucano dal mix riferimenti IDM e glitch di sponda al citato Apparat e, trainato dal cavallo di battaglia Lump (che per stacchi sul mix, filtri e vortici elettronici ricorda il Richard D. James dell’album omonimo), il disco si configura come un vivido sogno da ascoltare nella dimensione del long playing. Per il producer è l’apertura di cerchio più ampio, oltre il dancefloor, che nell’attività come dj e relativi mix su disco coincide con set visionari che si avvalgono di una variegata palette di generi e stili anche piuttosto lontani dalla pista da ballo e, pertanto, paragonabili a quelli di Andrew Weatherall in quanto ad eclettismo, senso d’insieme e passione per l’analogico. La fase a cavallo tra gli anni Zero e i 10s è cruciale; in questo periodo Four Tet e Caribou imparano molto da lui e Holden nei suoi At The Controls, del 2006, e Dj Kicks, del 2010, ricambia e assume le influenze degli amici suonando le loro tracce e mescolandole a quelle di altri act come Arp, Kode9, Piano Magic, Legowelt, Mogwai, Apparat. “[E’] un fiorire di beat che si avvicinano e allontanano trovando il perfetto bliss“, affermiamo in sede di recensione, oltre al fatto che l’attività di remixer coincide grossomodo con alcuni nomi nelle varie scalette. Le band in agenda diventano quindi Mercury Rev (Senses On Fire), Caribou (Bowls) e Mogwai, con l’unica produzione inedita, Triangle Folds, a confluire in una unitaria visione d’insieme, oltre che ad ingrossare un sempre più ricco background di psichedelie possibili. Allo stesso tempo, nei piatti di Holden girano sempre più synth, specie se modulari, e loop minimalisti, come è innegabile che molti producer britannici, giovani e non, convertono il loro modo di lavorare dal digitale all’hardware (vedi 62 Friend per fargli suonare le tastiere nella title track e nel singolo Life In Technicolor – utilizzando anche un estratto della traccia precedentemente scritta The Escapist per Light Through the Veins– e farlo partecipare anche alla delicata fase di produzione. Chris Martin e compagni chiedono poi a Hopkins di suonare prima dei loro show, girando il mondo per sei mesi, dagli Stati Uniti al Giappone. Il 2008 è l’anno di numerosi remix, tra cui Four Tet e Wild Beasts, e della produzione di Good Day Today/I Know, album di David Lynch. Dello stesso anno è Entity, colonna sonora per il Random Dance di Wayne McGregor. Dopo la firma con Domino, arriva il momento del terzo album Insides (2009), che purtroppo delude le aspettative: come scritto da Edoardo Bridda nella recensione “Non manca nulla tranne una nota che gli abituali acquirenti d’elettronica non sappiano già”, tra tinte noir di piano, synth, archi e brevi schizzi di hip hop. L’attività live cresce in maniera esponenziale, soprattutto come opening act di XX e Kieran Hebden. Il 2009 è l’anno della presenza nel Pure Scenius, supergruppo che vede il solito Brian Eno, Karl Hyde degli Underworld, e Abrahams. Tra il 2009 e il 2010, dopo la collaborazione con Tunng nell’EP Seven Gulps Of Air – che sposta l’attenzione su certe tematiche wonky care ad Hyperdub, ma restando sempre su livelli mai sopra la media (recensione) – è l’anno delle colonne sonore: dopo l’ennesima collaborazione con Eno in The Lovely Bones (Peter Jackson), è il turno di Rob and Valentyna in Scotland di Eric Lynne, e soprattutto Monsters, opera in solitaria dell’artista britannico che vince l’Ivor Novello Award. Hopkins viene poi richiamato alle armi da Eno in Small Craft On A Milk Sea (2010) e torna a lavorare con King Creosote, partorendo Diamond Mine: stavolta ne esce un bel lavoro, con i testi del folkster scozzese e il Nostro a lavorare sapientemente Mumdance, Karenn, Perc e Truss, Joy Orbison e Boddika ecc.) e ai pad. In studio, il producer ci mette del suo imparando a utilizzare software multimediali come Max/MSP ma, soprattutto, personalizzando il tutto con un controller da utilizzare mentre mixa. “[il mio controller] parla con il computer un po’ di più [degli altri in commercio] e mette le informazioni in un piccolo schermo. Sto cercando di abbinare le chiavi ai bpm dei dischi, in un metodo che ti permetta di suonare dischi krautrock senza che la gente s’accorga che li stai suonando“, rivela a Fact nel maggio del 2013, giusto in occasione del singolo che anticipa il nuovo lavoro, Gone Feral. Il mese seguente, dopo aver twittato una domanda che più che retorica dà chiari indizi sul nuovo corso (“esiste già un genere chiamato ‘psychedelic-synth-garage’?”), esce The Inheritors, lavoro che sorprende tutti e porta la sua idea di psichedelia (ma anche prog rock) su un nuovo, personale, livello. EB su trame elettroniche mai banali, eppure concise e pulite, che accantonano le precedenti seduzioni dubstep, come scritto da Simone Madrau in recensione: “Sia Bats In The Attic che Your Own Spell, ad esempio, percorrono le vie bucolicosiderali dei Sigur Ròs; se Your Young Voice riecheggia distintamente Tim Buckley, Running On Fumes aggiorna la lezione di quest’ultimo a quella dei Radiohead più epici e dilatati; mentre l’altra faccia della band di Thom Yorke, quella elettronica, è la base della commovente Bubble che, complice l’inserimento del banjo, fa l’occhiolino anche ai Notwist di Neon Golden”. Anno davvero cruciale, e sicuramente il più importante dell’intera carriera è il 2013. Hopkins imbocca finalmente la via giusta: il risultato è interamente leggibile nel quarto album Immunity, definito da molti il capolavoro del musicista. La formula è semplice quanto perfetta: rielaborazione del tocco ambient con prepotenti incursioni techno che danzano tra IDM e scena raver, con totale adorazione della critica. Il nostro Edoardo Bridda, in recensione, ha preferito mantenere un atteggiamento più tiepido nei confronti del lavoro, aspettando una conferma che possa certificare definitivamente la maturità raggiunta. Nel dicembre dello stesso anno, in occasione della partecipazione all’Amore Festival di Roma, abbiamo scambiato due chiacchiere con il producer, parlando nell’intervista di temi esterni all’album, come il giudizio sul criticatissimo Spotify e l’utilizzo di strategie tipiche dell’EDM nei live set. Dopo una performance di rara bellezza nella seconda edizione della rassegna capitolina Spring Attitude, Hopkins partecipa al roBOt Festival 2014 a Bologna al fianco di Villalobos e Moderat. Il 10 novembre 2014 vede la luce il nuovo EP Asleep Versions contenente re-interpretazioni sognanti e rallentate di brani provenienti da Immunity. DR 63 L o u d n e s s Wa r e q u al i t à a u d i o 64 Cos’è la Loudness War? E cos’è la qualità audio? Proviamo a fare un po’ d’ordine grazie a Giovanni Versari e a Franco Naddei, in un excursus speriamo utile per capire qualcosa in più su questioni spinose ma fondamentali >>>Testo di Edoardo Bridda A s c o lt o ( o q u i n d i s o n o s o n o q u e l c h e a s c o l t o ? ) Questo articolo non sarebbe mai stato possibile senza il prezioso contributo di Franco Naddei e Giovanni Versari. Il primo è un musicista dalla carriera rispettata e ormai pluridecennale (Francobeat, Santo Barbaro, John de Leo, Hugo Race, Sacri Cuori e moltissimi altri progetti), nonché tecnico valente e proprietario dello studio di registrazione Cosabeat; il secondo è una delle autorità più importanti in fatto di mastering in Italia (in curriculum produzioni per Afterhours, Massimo Volume, Vinicio Capossela, La Crus, Giovanni Lindo Ferretti, Il teatro degli Orrori, Marco Parente, Marta Sui Tubi, Bachi da Pietra, Edda e probabilmente almeno un terzo dei dischi italiani che possedete). Nel momento in cui abbiamo deciso di approfondire il tema della Loudness War e della qualità audio ci è sembrato naturale rivolgerci a due professionisti del settore, per aver ben chiara tutta la parte tecnica della questione. A loro e alle parole che hanno speso per noi in sede di intervista va il nostro più sentito ringraziamento e gran parte del merito per i contenuti che state per leggere. 65 Glossario Impossibile affrontare un tema come quello al centro di questo articolo, senza fornire una definizione dei principali termini utilizzati. Ecco, dunque, un tentativo di glossario. Loudness Franco Naddei definisce il concetto come una “esaltazione del volume in generale e dei volumi delle frequenze che ‘gratificano l’ascoltatore’, che garantisce maggiore presenza di suono”. Treccani.it, riferendosi al comando Loudness nei riproduttori audio, scrive: “In elettroacustica, nome, derivato dal concetto di livello di sensazione sonora, del circuito elettronico (e anche del comando che lo attiva) che, negli amplificatori ad alta fedeltà, modifica la risposta in frequenza a volume basso, esaltando le alte e le basse frequenze, per ovviare alla scarsa sensibilità dell’orecchio umano alle regioni estreme della banda udibile nei bassi livelli sonori”. In un brano con un loudness molto elevato, vengono però percepite più alte le frequenze medie, ovvero quelle a cui l’orecchio umano è più sensibile. “In fase di mastering”, specifica Giovanni Versari, “si dovrebbe cercare di ottenere questo incremento mantenendo un equilibrio timbrico ottimale”. Dinamica Franco Naddei: “In musica, è quello che c’è tra il limite più basso di emissione del suono e quello più alto. Una sorta di intervallo tra il piano e il forte”. Sempre da Treccani.it: “Complesso dei rapporti d’intensità sonora che si produce all’interno del discorso musicale, per es. tra nota e nota, inciso e inciso, parte e parte, dal piano al forte, dal crescendo al diminuendo. Segni dinamici sono quelli che regolano tutte le gradazioni d’intensità, dal pianissimo (pp) fino al fortissimo (ff )”. Aggiungiamo noi in modo brusco, naïf e forse non troppo ortodosso: in un brano musicale, la dinamica è quella sensazione di corposità, di definizione tagliente del suono degli strumenti, di differenziazione tra gli alti e i bassi, che si coglie all’ascolto. Mastering: Fondamentale, in questo caso, il contributo Giovanni Versari: “il mastering di un album si differenzia dalla semplice registrazione innanzitutto perché è uno sguardo distaccato e fresco sul disco uscito dalla sala di ripresa. Grazie a particolari attrezzature e a competenze specifiche, il mastering è quel procedimento successivo che dà un tocco finale, possibilmente migliorativo, al lavoro. L’obiettivo è rendere un prodotto discografico capace di suonare bene su ogni supporto di ascolto”. 66 Wave Form La traccia audio (o Wave Form – Forma d’onda) è da immaginare graficamente come una sorta di spettro o “onda simmetrica” a sviluppo orizzontale. In genere sull’asse x si trova il tempo di durata del brano, sull’asse y quella che potremmo genericamente definire “l’intensità del suono”, in inglese “amplitude”. Una guerra rumorosa e le sue conseguenze Di Loudness War (letteralmente, “guerra del volume”) si è cominciato a parlare in modo massivo (soprattutto all’estero) nel nuovo millennio, anche se i prodromi del problema stazionano già negli anni Novanta. L’avvento del Compact Disc prima – e quindi delle tecniche di registrazione digitali – e di internet poi, ha esacerbato una questione figlia di tempi veloci e rumorosi, ponendola infine sotto i riflettori della rete, degli addetti ai lavori e dell’utente finale. Wikipedianamente parlando, potemmo definire la Loudness 67 War come la tendenza da parte delle etichette discografiche (ma anche degli artisti) a pubblicare dischi con un livello di loudness (il termine “volume” non è esattamente interscambiabile, ma torna utile per circoscrivere grossolanamente il concetto) sempre più alto. Tra gli scopi finali, far spiccare le proprie produzioni nel mare magnum delle pubblicazioni audio che escono ogni anno, grazie a un suono più “squillante” rispetto a quello dei competitor, in una rincorsa all’eccesso che ha tutto l’aspetto di un cane che si morde la coda. Tutto questo ha un legame forte con le tecniche di registrazione e riproduzione digitale, ovvero quelle che permettono di gestire livelli di loudness sempre più spinti, come ci spiega anche Franco Naddei: «La registrazione è una fase molto delicata. In analogico, lo 0db – dunque il livello massimo di volume per la registrazione dei suoni – è a un determinato punto, nel digitale è in un altro. Nel digitale la soglia massima di registrazione (prima di arrivare alla distorsione del suono) è molto più in alto, tant’è che quando il segnale, da analogico [il percorso attraverso cui viene catturato il suono degli strumenti suonati dai musicisti, ndSA], arriva in digitale, è a un livello molto basso (più o meno 12-14 db in meno). E’ già a questo punto che comincia ad affiorare il concetto (a mio avviso sbagliato) che “più alto è, meglio è”. Esistono inoltre alcuni software di registrazione dotati di una funzione che permette al suono di non andare mai pesantemente in distorsione, anche nel caso in cui si commettano errori nel fare i volumi durante la ripresa. Il digitale, comprimendo, ti consente inoltre di aumentare il volume senza registrare distorto, ma allo stesso tempo, oltre un certo livello, inserisce un rumore digitale che in qualche maniera danneggia la qualità delle parti registrate. Quando si registrava su nastro, invece, era tutto suono vero. Oltre allo 0db (il livello del segnale registrato), avevi la possibilità di sfruttare altri 20 db di margine, proprio perché il segnale arrivava più basso, in fase di registrazione». In termini più prosaici e “grafici”, potremmo dire che, una volta raggiunta la massima ampiezza della wave form audio di un brano (cioè quando la waveform tocca con la parte superiore e inferiore dell’onda il limite superiore e inferiore di quell’asse y di cui si diceva nel glossario), il livello di loudness può essere incrementato ulteriormente agendo sulla compressione dinamica del suono e sull’equalizzazione. Questa operazione porta – grossolanamente parlando – ad allargare la waveform verso l’alto e verso il basso, con un conseguente aumento del volume audio. 68 Il procedimento che ci interessa avviene soprattutto nella fase di mastering, ovvero successivamente alla ripresa dei suoni, e vale soprattutto per generi musicali come il rock, certa elettronica e il pop, ovvero le tipologie di musica più popolari e “fisiche” (chi fa jazz, classica o magari musica contemporanea solitamente tende ad evitare un livello di loudness troppo alto, ricercando invece una maggiore dinamica nei suoni) ma anche quelle paradossalmente meno “delicate”, se sottoposte a tale trattamento. Il turning point, in questo senso, è stata proprio la diffusione del formato di ascolto digitale, dal momento che supporti come il vinile, per limiti fisici legati al materiale, alla sua costruzione e alla corretta riproduzione (il pericolo è far saltare la puntina del giradischi o creare disturbi sonori), non accettano (alcuni degli attuali) livelli di compressione/loudness elevati (e infatti le edizioni in vinile di uno stesso disco hanno spesso un mastering diverso rispetto a quello dell’edizione in digitale). Il CD, invece – e in generale i file musicali digitali – non hanno vincoli, in questo 69 senso. La compressione dinamica eccessiva e un livello di loudness che vada troppo oltre il picco massimo digitale di ampiezza della wave form (sempre l’asse y di cui sopra) tuttavia, portano a delle conseguenze. La prima e la più importante è una perdita di dinamica e di naturalezza nel suono, ovvero quel “rumore” di cui parlava Naddei poche righe più su. Nella pratica, tutto questo significa ascoltare un flusso sonoro che, in un brano esageratamente compresso, potrebbe risultare molto “invadente” a livello di volumi, ma anche piatto, poco stratificato e poco dettagliato nelle caratteristiche “acustiche” della musica: le chitarre fagocitano i bassi e la voce, il beat della batteria manca di definizione, le parti di brano basse hanno lo stesso volume di quelle alte, tutto suona “schiacciato”. Puntualizza, a tal proposito, Giovanni Versari: «Come funziona la compressione dinamica? Tu ampli la forma d’onda; così facendo tutti i picchi di suono che vanno oltre lo 0 digitale (che è un limite insormontabile, pena la distorsione, al contrario dello 0 analogico) vengono schiacciati. E vero anche che se un disco ha pochi elementi, poi, subisce molto meno lo schiacciamento dovuto alla compressione. In quelli con moltissimi strumenti o elementi, invece, la compressione tende a far afflosciare il tutto. Ti faccio un esempio. Nella realtà fisica, quando un gruppo suona dal vivo, ha tot amplificatori, tot chitarre, ecc, e se il gruppo suona bello coerente, non sfasato, più ci sono strumenti e più suona forte. Il muro di suono che viene fuori, insomma, se tutto è fatto a regola d’arte, ha volume ed è davvero un muro di suono. Nella registrazione, invece, non è così. Se tieni dinamica dei suoni e non vuoi un’eccessiva loudness, questa cosa può funzionare, ma se pretendi di avere volume devi ridurre per forza la dinamica, e quello che viene fuori non è il muro di suono che avresti nella realtà fisica. Tutto è più schiacciato. In questo caso, il mio lavoro è trovare il giusto spazio per ogni strumento, in modo tale che gli stessi non si sovrappongano». Negli ultimi anni le grosse etichette discografiche e molti artisti hanno dimostrato uno scarso interesse nel preservare la qualità audio delle proprie produzioni, tanto da immettere sul mercato nuovi dischi con altissimi livelli di loudness e ri-masterizzazioni di vecchi album fatte non sempre a regola d’arte. Non lo diciamo noi, ma siti internet come quello del Dynamic Range Database, in cui esiste una vera e propria classificazione dei dischi in base alla dinamica dei suoni contenuti al loro interno. La stessa pagina Wikipedia relativa al termine Loudness War cita alcuni album tra 70 quelli registrati a più alto volume, tra cui spiccano l’edizione rimasterizzata di Raw Power degli Stooges uscita nel 1997, 13 dei Black Sabbath, Playing The Angel dei Depeche Mode, il remaster di Ten dei Pearl Jam uscito nel 2009, Songs For The Deaf dei Queens Of The Stone Age e Death Magnetic dei Metallica. L’ultimo disco citato è stato inoltre protagonista, nel 2008, di un vero e proprio dibattito su testate giornalistiche illustri (tra cui Rolling Stone, Wired, The Guardian, The Wall Street Journal). Uscito in due versioni, una per Guitar Hero 3 e una audio classica per lettori CD, il disco è finito al centro di una polemica infinita tra fan e gruppo perché la versione per il celebre videogioco suonava, in termini di qualità audio e di dinamica, decisamente meglio della versione CD audio. Quest’ultima è risultata talmente spinta nei livelli di compressione (oltre 10 db in più rispetto all’altra versione, con tutte le conseguenze negative del caso), da essere considerata uno dei dischi a più alto volume mai realizzati. Illuminanti, in questo senso, due video scovati in rete: il primo confronta edizioni diverse dello stesso brano (originale e rimasterizzata) per evidenziare i diversi livelli di loudness/compressione dinamica nel tempo (e i cambiamenti conseguenti a livello di qualità del suono); il secondo riassume la questione “Loudness War”, citando anche il caso Death Magnetic. Ma l’assenza di dinamica nei suoni è solo una delle conseguenze causate da un’eccessivo livello di loudness in una registrazione. Earl Vickers, in passato ingegnere e creatore di algoritmi per l’audio presso la STMicroelectronics, in un intervento intitolato The Loudness War: Background, Speculation and Recommendation presentato all’AES 129th Convention di San Francisco del 2010 si spinge oltre, arrivando a delineare conseguenze precise sul piacere legato all’ascolto. A suo avviso, una compressione eccessiva dei suoni (con tutte le conseguenze negative sulla dinamica e sulla scarsa definizione dei dettagli di cui abbiamo detto) potrebbe portare nella migliore delle ipotesi ad «abbassare l’impatto drammatico ed emozionale della musica, [dal momento che] l’eccitamento, in musica, arriva dalla variazione del ritmo, del timbro, dell’altezza e del volume», nella peggiore a una vera e propria fatica nell’ascolto, con conseguente perdita di interesse per il prodotto discografico. C’è da dire che non esistono prove certe in merito, anche se Vickers, per avvalorare la sua ipotesi, riprende dalla letteratura dedicata agli ingegneri del suono vari elementi che, secondo tale letteratura, genererebbero fatica nell’ascolto: tra i tanti, la mancanza di variazione di volume tra suoni bassi 71 e alti, l’eccessiva compressione dinamica, i conflitti sui bassi, clipping e distorsioni. Elementi, quelli citati, spesso rintracciabili in un prodotto musicale con livelli di loudness eccessivi. Nick Southall scriveva nel 2006 su stylusmagazine.com: «la musica ha a che fare con l’incremento e il rilascio della tensione. In una musica con poca dinamica, semplicemente non c’è rilascio». Sempre Earl Vickers arriva a sostenere, in un video piuttosto eloquente, come la tendenza ad ascoltare musica molto compressa potrebbe essere la causa di danni all’udito soprattutto nei giovani, come dimostrerebbero alcuni dati statistici (in crescita) degli ultimi anni. Il motivo è piuttosto tecnico ma a nostro avviso credibile, e sarebbe legato alla tendenza dell’utente ad alzare eccessivamente il volume di un brano a causa della scarsa dinamica dei suoni e della poca definizione dei bassi (da sempre i principali rivelatori del “giusto volume”, durante l’ascolto), sommata all’utilizzo di riproduttori musicali dotati di cuffie. http://www.vimeo.com/16835917 C’è un’altra conseguenza portata da una compressione/loudness eccessiva che è importante sottolineare, forse non subito evidente, ma che ha a che fare con la memoria collettiva e coinvolge soprattutto i remaster di vecchi dischi. Se è vero che negli ultimi anni sono uscite ristampe degne di questo nome e fatte con tutti i crismi, è vero anche che in alcuni casi le operazioni di remaster di album storici si sono rivelate poco accurate nel preservare la qualità originale del suono e assai più propense a salire sul ring della loudness war. Considerando un mercato del disco schizofrenico in cui le nuove edizioni vanno a sostituire le vecchie decretando a tutti gli effetti la loro scomparsa, questo potrebbe significare perdere una porzione di storia musicale collettiva, il suono originale di quei dischi. Come non essere d’accordo, allora, con Franco Naddei, quando, generalizzando, afferma che «la tendenza a un loudness eccessivo sta diventando l’identità di questo decennio, ma sempre e comunque per alcuni generi di massa. Andando avanti così, peggiorando in continuazione l’ascolto, arriveremo a una sorta disgregazione della memoria del suono, ovvero di come suonavano i dischi di decenni fa. Credo che sia una questione di educazione dei musicisti ma anche degli ascoltatori, a cui si devono insegnare queste cose». Versari, invece, scende più nello specifico del suo lavoro – tra i remaster più noti e recenti del Nostro, quello di Hai paura del buio? degli Afterhours – parlando dell’approccio alle ristampe: «per prima cosa dovremmo accertarci di cosa abbiamo a disposizione per curare il remaster. Molti 72 remaster non sono altro che operazioni di marketing, e a volte non viene fornito a chi si deve occupare del remaster, il materiale adatto per fare un buon lavoro. Può arrivarti, ad esempio, il master dell’epoca su cui tu devi applicare per forza di cose altri processi, o magari potrebbe arrivarti, se sei fortunato, la sorgente del mix. In generale, è sempre meglio procurarsi la sorgente migliore. Poi cerchi di capire il disco, come potevano essere i suoi “colori originali”, ci lavori sopra senza essere troppo invasivo. Documentarsi su come il disco è stato percepito fino ad ora e attualizzarlo: credo che stia tutto qui il discorso. Ogni disco, comunque, fa storia a sé» P erché ricercare un livello di loudness/ compressione elevato? Della battaglia in corso tra le etichette discografiche più grosse si è già detto: un loudness più alto è la discriminante – o perlomeno questa è la credenza comune – che garantisce di essere “notati” in un mercato discografico ormai imbottito oltremisura di produzioni musicali. Ci sono tuttavia altre ragioni, qualcuna anche condivisibile, che spiegano per quale motivo la tendenza, oggigiorno, sia quella di ricercare equalizzazioni più compresse e volumi più alti. La più importante è legata all’utilizzo che si fa della musica e ai supporti che si adoperano per ascoltarla. Chi vi parla è nato nel 1975 ed ha avuto la fortuna di poter godere dell’ultima stagione dell’hi-fi (esplosa a livello massificato soprattutto negli anni ‘70 e ‘80). Avere un lettore CD o un giradischi collegato a un amplificatore collegato a sua volta a delle casse era, per quelli della mia generazione, il minimo indispensabile per potersi definire un ascoltatore medio di musica. Non è un mistero come oggi non sia più così: quando va bene, il cosiddetto appassionato ascolta MP3 da un PC (se è un utente scafato, connettendolo almeno all’amplificatore di un hi-fi), nella stragrande maggioranza dei casi si accontenta di un iPod, dell’autoradio o del cellulare, nella peggiore delle ipotesi si crogiola nel sound a bassissima fedeltà veicolato dalla casse del computer. Come a dire, il rigor mortis. Piaccia o non piaccia questo è lo standard nel 2014, e la compressione dinamica e il loudness spinto sono esattamente la conseguenza naturale di tutto questo. Quando l’ambiente di ascolto si fa rumoroso (molti device sono portatili, e quindi devono garantire una buona resa ovunque), la qualità del supporto audio lascia a desiderare (leggi alla voce MP3), il sistema di riproduzione non mira all’alta fedeltà (è difficile che uno smartphone suoni meglio di un 73 vecchio “ampli” Marantz), compressione e loudness diventano la soluzione (?) più immediata. A patto di utilizzarle con criterio: «Il problema vero sono i supporti su cui si ascolta musica», ci dice Giovanni Versari, «E’ vero che tutti si stanno abituando a un ascolto sempre più compresso, tanto che soprattutto le nuove generazioni non percepiscono più la dinamica dei suoni. In più non è più come qualche decennio fa, quando tutti a casa avevano uno stereo con due casse che potevano riprodurre la dinamica. I supporti con cui si ascolta musica oggi non riproducono più la dinamica. [...] C’è anche da dire che da un certo punto di vista, una compressione usata con coscienza, valorizza certi prodotti musicali, ad esempio legati a un immaginario rock». Ipotetiche soluzioni Ora che abbiamo scoperto qual è il problema, non resta che trovare una soluzione. Ma esiste davvero? Secondo Bob Katz, ingegnere del suono vincitore di vari Grammy Awards, esiste, e si chiama Sound Check (in italiano, “verifica volumi” o similari). Le ultime versioni di software musicali come iTunes e servizi come iTunes Radio (ma anche lo streaming di Spotify ha un sistema analogo) danno già la possibilità di godere di questa opzione (andate a cercare tra le “preferenze” del software): in pratica, l’algoritmo in questione fa un calcolo del volume audio di tutta la discografia caricata nel player o trasmessa dall’emittente, abbassando di netto quello degli album registrati più alti e più compressi e uniformando quello dei dischi con più dinamica e incisi più bassi (questo a grandi linee, la questione è in realtà un po’ più complessa). “Il grande livellatore”, lo chiama Katz, sottintendendo che la logica dietro a un tale apparato – equiparare i volumi di brani di dischi diversi azzerando i vantaggi legati all’impatto sull’ascoltatore della musica troppo compressa e, indirettamente, esaltandone i difetti, ovvero la scarsa escursione dinamica – decreterebbe di fatto la fine della necessità di spingere sul loudness per fare spiccare il prodotto discografico in mezzo agli altri. Non è d’accordo Giovanni Versari, che afferma che «i sistemi attuali di compressione ragionata di iTunes e Spotify purtroppo, penalizzano sia i brani con poca dinamica, sia quelli con molta dinamica. Per cui non possono essere la soluzione dell’eccessiva compressione. Comprendo tuttavia l’affermazione di Katz, nel senso che questi sistemi potrebbero fungere da buon campanello d’allarme». Che tutto stia, allora, nel pensare alle diverse fasce di utenti progettando un prodotto discografico mirato? I Nine Inch Nails lo 74 hanno già fatto con l’ultimo disco, Hesitation Marks, affiancando alla tipica versione ipercompressa del disco (lo standard mix destinato a iTunes, agli altri store digitali e al CD) una versione per audiofili con un master completamente differente e capace di preservare dinamica e relativo piacere nell’ascolto. Ma chi ha i mezzi dei Nine Inch Nails, quando si tratta di registrare un disco? Domanda retorica, che prevede una risposta banale (quasi nessuno), il che nella pratica significa trovarsi di fronte a un’altra via non percorribile. C’è chi vorrebbe affidare a una sorta di “bollino di certificazione di qualità audio”, le sorti della “guerra”. Stiamo parlando dell’associazione Turn Me Up (istituita qualche anno fa dall’ingegnere del suono Charles Dye, dal musicista John Ralston e dal tecnico di registrazione Allen Wagner), una struttura composta da professionisti del settore capace di stilare un vero e proprio manifesto con relativa “mission aziendale”: «determinare un metodo obiettivo per misurare la dinamica in un disco; definire un livello di dinamica che sia superiore a quella aggressivamente limitata dei dischi attuali, ma che al tempo stesso non sia completamente fuori dalla contemporaneità e rappresenti invece un’opzione realistica per gli artisti; stabilire e mettere in pratica un sistema per misurare e certificare i dischi che rispettino i parametri per la Turn Me Up certification». Nel momento in cui scriviamo non sappiamo se questo approccio abbia sortito effetti tangibili sulla qualità delle registrazioni audio o abbia solo ricoperto la (peraltro nobile) funzione di “gruppo di pressione” nei confronti della discografia ufficiale major e indipendente. E se invece la soluzione migliore fosse lasciare tutto al buonsenso e alla consapevolezza? Il “buonsenso” degli artisti, ad esempio, chiamati a scegliere tra una “presenza” audio a tutti costi (che puzza un po’ di protagonismo fittizio, lasciatecelo dire) e la “qualità” della loro musica. Una scelta a prima vista immediata, ma che invece non lo è, visto che sono proprio i musicisti i primi a decidere di spingere sulla compressione e sul loudness, quando si tratta di pubblicare un disco, magari per paura di sfigurare. Il “buonsenso” anche degli ingegneri e dei tecnici deputati al mastering, chiamati invece a prendere posizione, a fissare dei paletti e a svolgere un mestiere che ci auguriamo non sia solo “smanettare” con i livelli per “pompare” il più possibile le chitarre e i synth, ma anche rispettare quei concetti volatili e al tempo stesso così importanti che rispondono al nome di “musica” e di “ascolto”: il contesto sonoro in cui la prima nasce e si sviluppa, le persone a 75 cui il secondo è destinato. La “consapevolezza”, invece, deve essere materia per l’ascoltatore. Una parola che nello specifico significa conoscere cosa sia la qualità audio – per lo meno in termini generali, e speriamo che questo articolo, nella sua superficialità, sia servito a qualcosa – e pretenderla da chi produce musica e la vende. Comprare (o scaricare) dischi che suonano male è una perdita di tempo, oltre che di denaro, e ascoltarli è davvero una fatica (chi fa il mio mestiere lo sa bene). Ecco perché informarsi, assumere una mentalità critica e circostanziata evitando i soliti schieramenti da curva nord e sud, bacchettare chi tra gli addetti ai lavori non investe sulla qualità audio, farsi sentire – magari attraverso quei canali del web 2.0 che per una volta sarebbero davvero utili -, diventa fondamentale e rappresenta forse l’unica soluzione al problema della loudness war. E magari anche il primo passo per ritrovare il piacere più intrinseco della musica: la sua sensibilità e il suo linguaggio, capaci a loro volta di influire sulla nostra sensibilità. E pilogo: Loudness War e qualit à audio, ovvero la punta e l’iceberg «Le due informazioni principali, nell’audio, sono il numero di campioni al secondo (44.100 Hz, 96.000 Hz, ecc, più campioni hai, più punti hai per “disegnare” la forma d’onda del suono) e i bit (è la variabile che dà informazione sulla qualità della dinamica, sullo “spessore” e la corposità del suono). Più questi valori sono alti, più sarà alta la qualità della registrazione. Il limite per il CD è di 44.100 campioni e 16 bit. E’ lo standard dei lettori CD. In generale, però, nelle workstation digitali, in fase di registrazione, questa risoluzione è stata ampiamente superata da molti anni. Il che significa che si può registrare materiale che ha una qualità audio altissima, di molto superiore a quella che impone il CD (a 24 o 32 bit, ad esempio). Tutta questa qualità la puoi gestire in fase di registrazione, missaggio e mastering, ma non in fase di riproduzione, perché il CD ha lo standard che ti ho detto. Per il vinile è diverso. Chi fa cutting del vinile, deve tradurre il file digitale che io gli do in un flusso analogico, attraverso un convertitore specifico, che si trasforma nel disco fisico. Il che significa che se io gli do un file audio di qualità superiore (ad esempio a 24 bit), lui riesce a tradurmelo tutto sul vinile, non ha i limiti imposto dallo standard CD. Quando si parla di vinile, però, c’è da considerare anche questa cosa: ogni vinile, è un’interpretazione della musica, in virtù della trasposizione meccanica che è alla 76 base della creazione del vinile stesso. Il vinile non sarà mai quello che suona il musicista nel momento in cui registra il disco. L’approssimazione più vicina a quel tipo di qualità sonora, alla qualità del suono analogico, era in realtà il Super Audio CD (SACD), un formato che però non è stato portato avanti da nessuno e che non ha avuto successo.» A parlare è Giovanni Versari e le parole che escono dalla sua bocca saranno probabilmente per molti di voi un fulmine a ciel sereno. Ok, si sapeva che l’mp3 non era il massimo della qualità, ma il santificato CD? Quello non doveva essere il top dei formati per l’ascolto di musica? Lo è stato per un periodo, forse, ma da qualche tempo non lo è più. Per lo meno per gli addetti ai lavori coinvolti nella creazione di un disco. Quello che ci dice Giovanni, in soldoni, è questo: chi registra e masterizza dischi, ormai, lo fa maneggiando un flusso musicale che ha un livello qualitativo e di fedeltà al suono analogico – grazie anche al digitale – che è nettamente superiore a qualsiasi livello possa raggiungere un comune sistema di riproduzione casalingo. Una qualità audio che un utente medio non ha probabilmente nemmeno mai sperimentato. Noi stessi ne godiamo grazie allo studio di Versari, “imbottito” di pannelli fonoassorbenti e attrezzature specifiche. Sperimentiamo su un singolo brano “switchando” tra formato mp3 a 320 kbit/s (di cui ascoltiamo anche la “controfase”, ovvero la parte di brano che il formato compresso Mp3 sacrifica per divenire un file facilmente archiviabile – e credetemi, non è poca cosa), formato CD e formato ad alta definizione destinato alla fase di mastering, e il confronto finale lascia davvero senza parole. Continua Versari: «chi fa master oggi, poi, si trova davanti a un problema serio (forse ancora più serio del problema dell’eccessiva loudness): arrivano dischi registrati a 24 bit (o anche più alti) con frequenze che arrivano fino a 96.000 Hz e tu li devi masterizzare nello standard del CD, che è 16 bit e 44.100 Hz. Questo significa che già solo facendo un CD, hai in parte ucciso la qualità audio di quel lavoro. Questa cosa alla fine ti porta comunque a dover guadagnare db in fase di mastering o a regalare frequenze attraverso varie macchine. Il CD, quindi, è già un formato che parte con un handicap». E allora la battaglia è persa in partenza, verrebbe da dire, non c’è loudness war che tenga. Eppure non è proprio così. La lezione che bisognerebbe trarre da tutta questa faccenda è che non deve essere il tanto santificato mercato a decidere cosa (e come) ascoltiamo (prendendo direzioni spesso sbagliate), ma una scelta consapevole del consumatore in primis, e di chi si occupa di registrare i dischi poi. Una scelta che però deve essere veicolata dall’informazione e dalla voglia di premiare il concetto di “qualità”. Altra cosa è rendersi conto che, pur con tutti i suoi limiti, il formato disco rimane comunque una interpretazione della musica con un suo fascino e una sua storia. Snaturarne il DNA, cancellarne il percorso, con un approccio alla registrazione che in qualche caso ne mortifica la naturale destinazione e l’ascolto, non è probabilmente una buona idea. Fatto salvo che la dimensione concerto, tirando le somme di tutto il discorso, rimane forse (al momento) la parentesi migliore per apprezzare una forma espressiva che è nata su un palco – reale o figurato che fosse – e solo successivamente è finita in uno studio di registrazione. 77 Genere: pop, rock Fin dalle prime prove (il formidabile sophomore Cuckoo Boohoo del 2004) il quintetto di Agropoli ci sorprese per la capacità di escogitare congegni sonori anche complessi senza mai perderci in freschezza ed efficacia, padronanza da una parte ed entusiasmo da esordiente spacca-classifica dall'altra. Disco dopo disco – ne sono arrivati sei in tredici anni – questa attitudine non si è affatto smorzata, anzi, è andata accentuandosi seguendo la scia di un pop-rock intrigante che non ti fa mai mancare la trovata, il colpo d'ingegno che dà senso al pezzo, ad ogni pezzo. Una formula azzeccata il cui solo difetto era una vaga carenza di necessità, come se la messinscena si divorasse il vissuto, come se al nocciolo mancasse quel po' di polpa che garantisse sostanza al dramma, allo sberleffo, allo struggimento, all'ironia, alla sfuriata, al ciondolare onirico e via discorrendo. Anche quando nel precedente Midnight (R) evolution i testi azzardavano tematiche più impegnate, predominava un senso di coreografia, un'ansia di arguzia sonora che si divorava tutte le energie nel momento stesso in cui portava a compimento la missione. Con Butterfly Effects il problema non trova soluzione, anzi Enzo Morello e compagni sembrano puntare tutto sugli aspetti forti della proposta confezionando una scaletta zeppa di hit potenziali, colti in una dimensione mediana tra il citazionismo scafato dei Franz Ferdinand (su tutte la dinoccolata Mirrorball) e la versatilità accalorata 78 degli Arcade Fire (se Fall To Restart gioca a fare la The Suburbs coi synth, My Heroes Are All Dead sembra piovere dalla caligine cupa di Neon Bible), il tutto proiettato in un disegno complessivo che potremmo definire power-pop per gli anni Dieci. Tra un wave funk con svenevolezze Badfinger (Made To Grow Old), un boogie androide che ammicca Black Keys (Mary), una malinconia soul attraversata da mesmerismi trip-hop (Quiver) e una didascalia Bee Gees glassata glam (Always I'm Wrong), le possibilità di restare intrigati sono inversamente proporzionali a quelle di annoiarsi. Resta però quel gap emotivo cui accennavamo, come un fantasma dispettoso nella macchina che non vuole saperne di vaporizzarsi. Ed è un peccato, perché sembra mancare davvero poco così. 6.5/10 Stefano Solventi Abdulla Rashim - Unanimity (Northern Electronics,2014) Genere: techno Unanimity, uscito nel 2014 per Northern Electronics, è il primo LP di Abdulla Rashim, pseudonimo dietro cui si cela un giovane e promettente biondo techno producer svedese con un affilato e personale sound-design. Alfiere di una techno cupa e oscura come la pece, Rashim ha al suo attivo diverse uscite per label come Northern Electronics, ARR, Semantica e Prologue. Dal 2013, Rashim fa anche parte del progetto techno-dark ambient Ulwhednar, assieme a Varg. Il loro primo LP come duo è r e c e n s i o n i o t t o b r e A Toys Orchestra - Butterfly Effect (Urtovox,2014) r e c e n s i o n i area techno-ambient, con un suono personale e riconoscibile che non ha mancato di attirare l'attenzione della critica internazionale più attenta. Il disco è uscito come doppio LP e su cassetta, andando subito esaurito in entrambe le versioni. Anche il suo recente live-set al Norbergfestival aveva impressionato positivamente il pubblico. La Svezia sta vivendo un momento fecondo e creativo, per quanto riguarda la scena techno più dark e underground, e un esordio su lunga distanza come quello realizzato da Rashim lo dimostra appieno. 7.2/10 Marco De Baptistis Acteurs - I W I (Public Information,2014) Genere: post-punk, industrial, noise, ambient, electro Sempre più sfuggenti e misteriosi, i due Acteurs continuano a circumnavigare i fondali dell'area grigia con dischetti sempre meno pubblicizzati, ma sempre più gustosi per chi traffica in quella terra di nessuno che sta tra l'elettronica meno ortodossa e la zona grigia made in England di fine '70. Wave-funk-techno-noise-electronics, dice la label, ma l'area di interesse dei due producers Jeremy Lemos e Brian Case – in realtà piccole glorie in ambiti wave/impro/arty/ecc, con White/Light il primo, e 90 Day Men e Disappears il secondo – è ben più ampia, seppur caratterizzata da una devastante monocromia. Come una sorta di Ike Yard del terzo millennio, una versione disidratata e unfriendly dei Factory Floor, o ancora – giocando col nome della label più cool del momento in ambiti elettronici – "blackest ever black", i due radicalizzano la proposta e inglobano minimal-beat profondi e oscuri, post-punk ritmico e pulsante, scarti e scorie industriali sotto forma di glitcherie varie, astrattismo e pulviscolo sonoro. Ne esce un mini da nemmeno mezzora di 79 o t t o b r e uscito nel 2013 sempre per Northern Electronics. Nel suo esordio solista Rashim ha messo a fuoco il suo stile facendo tesoro delle atmosfere nordiche evocate nei lavori realizzati in coppia con Varg, realizzate con attrezzatura rigorosamente analogica. Il producer mantiene anche un certo gusto per l'anonimato e un riserbo attorno alla propria reale identità che ben s'inserisce in un trend ormai consolidato in area elettronica scandinava (si veda, al tal proposito, il caso dei Shxcxchcxsh, tra i tanti) Il brano distorto e pulsante che apre il suo LP, Under This Wasted Sky, è una perfetta introduzione al mondo oscuro di Rashim. Segue un brano come Path Inwards, angosciosa cavalcata elettronica che potrebbe trovare posto nel catalogo della Hospital Productions (Function, Vatican Shadow, Silent Servant etc). Red Uprise, invece, è invece un brano freddo e spietato con la sua ritmica dritta e tagliente che non concede scampo alcuno. Se in No Bordes Rashim sembra tornare al dark ambient dei suoi primi lavori come Ulwhednar, in Moral Blinds suoni acuti e liquidi montano di nuovo minacciosi su un tappetto ritmico in 4/4. Afar Depression con la sua cupa linea di basso e le sue decise percussioni postindustriali in 12/8 è uno dei brani più riusciti del disco. No God, invece, è un brano più convenzionale di techno minimale con cassa dritta, ma la sua corsa è impreziosita dall'evocativa atmosfera avvolgente che emerge in sottofondo. Nothing Existed è un altro cupo brano dark ambient con un mormorio funereo che evoca paesaggi invernali scandinavi, completamente disabitati dagli esseri umani. Un brano adatto per aprire la strada a Unanimity, la traccia che da il nome all'album, la quale corre veloce e pulsante, assediata da fantasmi sonori che gli volano attorno implacabili e malevoli. Colpisce la capacità del giovane producer svedese di spingersi in là nella ricerca sonora in Genere: rock Allergic To Water è il diciottesimo disco in studio in 24 anni di carriera, per Ani Di Franco. Nato durante la sua seconda gravidanza, è un album che non rinnega la figura DIY della cantautrice americana originaria di Buffalo, da sempre impegnata politicamente e portatrice attiva di una tradizione che parte da lontano rielaborando i grandi maestri Woody Guthrie, Pete Seeger e Joan Baez; semmai la ingentilisce o quantomeno la pone in una dimensione più intima e introversa, ragionata, lontana dalla foga reazionaria che da sempre ha contraddistinto la cantautrice. "Questi ultimi due anni per me sono stati fatti di famiglia, di relazioni e di sentimenti. Sono comunque temi con cui tutti noi abbiamo a che fare, con cui a volte lottiamo…so anche che nella mia vita ho fatto già venti dischi pieni di canzoni politicamente impegnate". E allora non bisogna stupirsi se Allergic To Water, prodotto per la sua etichetta Righteous Babe dal compagno Mike Napolitano, suona sobrio, morbido, raffinato e scarno nell'impalcatura delle sue canzoni: la title track ne è un ottimo esempio, con la chitarra in evidenza e poco altro sullo sfondo di una voce che canta pienamente del suo momento storico. Allergic To Water risente della tradizione stilistica della Lousiana, dove tra l'altro la folk singer vive e produce la sua musica da un po' di anni: il lento e cadenzato valzer Harder Than It Needs To Be testimonia questa inflessione su colori soul e neri, nella voce come nell'essenziale sezione fiati presente nel brano. Siamo ancora nel territorio dell'alternative songwriter, dove il folk incontra il blues (Dithering, oppure Tr'w) o un certo sapore tribale fatto di misticismo sonoro (Genie), per poi spogliarsi ancora e tornare alle atmosfere notturne e jazzy di Happy All The Time, dove la scrittura di testo e musica è pressoché perfetta nel fotografare il momento personale dell'artista. Ani Di Franco sembra perfettamente a suo agio in questa dimensione più familiare e al riparo, almeno per il momento, dal megafono urlato su un mondo pieno di contraddizioni e tensioni politico-sociali. Allergic To Water è un album pensato, ponderato e fatto di canzoni che si stagliano su un livello molto alto; un disco misurato e non sovraprodotto, dove gli strumenti suonano essenziali e diretti a supporto dei contenuti. Se questo è il risultato della sua seconda gravidanza, auguriamo all'artista – per il nostro bene – di avere una folta prole. 7.5/10 Stefano De Stefano 80 r e c e n s i o n i o t t o b r e Ani DiFranco - Allergic to Water (Righteous Babe,2014) una pesantezza inusitata, tra ipotesi per dancefloor del dopo-bomba (River Card), Throbbing Gristle synthetic-funk (I W I), ossessivi scandagli per oceani nero-pece (Honey Bear), frattali sonori figli dei rimasugli techno-dub (Ewe) e la lunga, esacerbante, opener Pride Of Classes, elettronica repressa simil-Bristol sound andato al macero, che si lega a doppia mandata alla Freezing Fog che chiudeva Acteurs. C'è un percorso ben definito dietro questi due mini-album e l'attesa per il full-length comincia a farsi insostenibile. 7/10 Stefano Pifferi Genere: pop, rock, indie Reduci da un salto di popolarità non indifferente, gli Alt-J, dal 2012 ad oggi, hanno dovuto fare i conti con l'impatto massiccio di An Awesome Wave. Il debutto, infatti, trovandosi a calcare i passi di Wild Beasts, Fleet Foxes e, forse e soprattutto, i Radiohead più sperimentali, ha colto nel segno, sincronizzando elucubrazioni intellettualoidi e gusto pop, sull'onda di una nuova commistione mainstream, che tanto incuriosisce il pubblico contemporaneo. Il risultato, per i giovani neolaureati, è stato quasi devastante, soprattutto nella gestione della vita da band internazionale. Il bassista Gwil Sainsbury non ha retto l'impatto e a gennaio ha abbandonato la baracca, lasciando la band sull'orlo dello scioglimento. Tuttavia, bisogna dare atto agli Alt-J di aver reagito da band matura e, col Mercury Prize nella bacheca dei trofei e una cascata di aspettative sul groppone, si sono rimessi a lavoro per il nuovo This Is All Yours. Spiccatamente polite e frutto di un necessario e apprezzato bagno di umiltà, il nuovo album degli Alt-J ha l'innegabile pregio di suonare 81 o t t o b r e r e c e n s i o n i Alt-J - This Is All Yours (Infectious,2014) ancora genuino e non pretenzioso. D'altronde, l'intervista rilasciata al Guardian e quella più recente a noi di SA parlavano chiaro: gli Alt-J hanno fatto di tutto per rimanere ordinary nella consapevolezza della popolarità. This Is All Yours, dunque, pur non stravolgendo le dinamiche proprie della band, apporta alcune sostanziali novità, legate, per lo più, al luogo scelto per le registrazioni del disco, un salone medievale nelle campagne inglesi. Non sorprende, dunque, questa ritrovata fascinazione nei confronti della musica di tradizione medievale, che nel disco viene fuori tanto nelle composizioni vocali (Intro, Choice Kingdom), quanto nei brani più strutturati (Garden Of England, ma soprattutto Every Other Freckle e Warm Foothills). Siamo stranamente lontani dalle atmosfere al limite del metropolitano di Tessellate o Fitzpleasure, nelle quali facevano capolino, sotto forma di samples, le strade di Brixton; qui, semmai, si trovano samples di vespe, api o campane di chissà quale villaggio sperduto, come a dire che la maturità della band deve prima passare da un ritrovato rapporto con la natura. Ci sono, infine, alcuni episodi lirici interessanti, dal punto di vista narrativo e compositivo. Prima il trittico Arrival in Nara, Nara e Leaving Nara, in cui, come ci spiegano nella nostra intervista, la città giapponese nella quale i cervi possono vagare felicemente liberi nelle strade assurge a metafora generale di una vita vissuta secondo le libertà individuali. C'è, poi, un percorso musicale che ritrova certi accenni di trip hop e un gusto per la sperimentazione particolare, nelle atmosfere rarefatte di Hunger Of The Pine, in cui il sample di 4X4 di Miley Cyrus («I'm a female rebel») calza perfettamente. C'è, ancora, il tentativo di attraversare l'Atlantico per convincere una volta per tutte la critica stelle e strisce, con una Left Hand Free tanto insolita per il sound della band, quan- Nino Ciglio Ariana Grande - My Everything (Republic Records,2014) Genere: pop Ci risparmieremo la consueta manfrina moraleggiante et pensosa sull'evoluzione artistica dei prodotti Disney (o in questo caso Nickelodeon) e sul loro cannibalizzarsi a vicenda finendo, nel migliore dei casi (Spears, Timberlake, Aguilera) per creare macchine sputa 82 o t t o b r e verdoni e, di conseguenza, fenomenologie di riflessioni mainstream e, nel peggiore (Cyrus), trottole inarrestabili, che, indecise fino alla fine fra l'essere e l'apparire, scelgono la via della dissimulazione. Andiamo quindi dritti al subject: Ariana Grande, pop$tar della Florida ma di origini siculo-abruzzesi, è stata la vincitrice morale dell'estate 2014, con ben tre singoli, Problem (feat. Iggy Azalea), Break Free (feat. Zedd) e Bang Bang (feat. Nicki Minaj e Jessie J) in rotazione ossessiva nelle principali emittenti. Ariana, direbbe il critico esperto, nella sapiente polarizzazione fra bad e good girls del pop mainstream, si schiera dalla parte del bene, ma badate, non perché sia reduce da esperienze di kids Tv e quant'altro, ma perché, con l'aria alla Audrey Hepburn nel corpo di una ballerina di pole dance, l'atmosfera da Very Normal Person e, soprattutto, la voce soave ed incredibilmente potente, si è imposta pura, anche nella sua versione da palcoscenico (reale e non televisivo). Ma questo non basta a definire My Everything, secondo album della piccola Ariana (è del 1993), un disco puro. Innanzitutto, per la scelta del genere d'appartenenza: un retro pop in chiave r'n'b che, negli episodi migliori, non risparmia del sano hip hop o, meglio ancora, dell'EDM energica, anche se, il più delle volte, grazie ad un sapiente camuffamento, gravita intorno alla ballad melensa di stampo prettamente sentimentale. Secondariamente, per continuare con le polarizzazioni del critico saggio, la Grande è bravissima a controbilanciare la sua aria da good girl con personaggi del polo opposto. È per questo che un brano come Problem funziona così bene: grazie soprattutto all'hip hop biascicato e masticato di una Iggy Azalea che (anche lei) sembra non sbagliare un colpo quest'anno. Ma non c'è solo il contributo della rapper australiana, in My Everything. Come recita il titolo stesso, infatti, il disco si r e c e n s i o n i to debitrice di un certo gusto Doors e Black Keys; chissà se farà breccia nel cuore degli americani… Ancora altri tre episodi interessanti da segnalare. Il primo, Bloodflood pt. II (che riprende un brano del primo disco), segna la cifra stilistica dei nuovi Alt-J, attenti alle atmosfere, misurati, orchestrali, che quasi riecheggiano i Sigur Rós; il secondo, The Gospel Of John Hurt, ti sbatte in faccia la sensazione di claustrofobia che chiunque ha provato dopo la visione della terribile scena dell'alieno che fuoriesce dal corpo di John Hurt in Alien (1979); il terzo, Every Other Freckle, è forse il brano più orecchiabile del disco e sicuramente il più riuscito dal punto di vista melodico e compositivo, malgrado il testo un po' debole («Voglio girarti tutta e leccarti come un pacchetto di patatine»). Gli Alt-J di This Is All Yours, a conti fatti, si mostrano una band maturata, alle prese con nuovi mondi e nuove possibilità da esplorare. Ma spesso, proprio la loro voglia di andare in profondità coi suoni, di scavare verso la fantomatica essenza di qualcosa, si rivela una scelta azzardata, che, nelle quattordici tracce del disco, fa emergere tutti i lati deboli, non ultimo quello di risultare un po' pedanti. Malgrado ciò, This Is All Yours, con le sue melodie atipiche e i suoi stravaganti percorsi narrativi, è un disco di cui far tesoro. 7.1/10 r e c e n s i o n i sì, c'è anche lui da qualche parte), i One Direction (suonano il piano in Just A Little Bit Of Your Heart) con l'attitudine propria della popstar della Florida, fatta di curiosità (altrimenti non si spiegherebbero alcune scelte azzeccate) e di tanto, troppo servilismo nei confronti della bella voce. 5.9/10 Nino Ciglio Avi Buffalo - At Best Cuckold (Sub Pop,2014) Genere: rock, indie Ritornano gli Avi Buffalo, e con loro quell'attitudine indie/post-surf che aveva caratterizzato anche l'esordio eponimo. Con il sophomore At Best Cuckold, infatti, il frontman Avi ZahnerIsenberg e compagni scelgono di seguire la stessa linea che li aveva fatti conoscere e apprezzare in primo luogo da Sub Pop, e poi da pubblico e riviste di settore, tra cui anche Sentireascoltare. In altre parole, dopo quattro anni poco o nulla è cambiato dal debutto, e la formula proposta è ancora un rock alternativo ibridato ad un pop solare e prettamente californiano (i quattro provengono infatti da Long Beach), che li fa avvicinare non solo agli onnipresenti Beach Boys, ma soprattutto ai Real Estate. Un paragone confermato dall'opening So What, che ne riprende la stessa malinconia pop con tenui chitarre elettriche a far da sfondo; chitarre leggere e mai invasive che ritornano in tutto il corso del disco (Found Blind, Can't Be Too Responsible), accompagnate inoltre dalla presenza dell'acustica, a ribadire una vena cantautorale ancora presente, come dimostrano piccoli esempi di buon folk-rock quali Two Cherished Understandings o Won't Be Around No More. Tutto è tenuto insieme dal falsetto del cantante, in grado di produrre ora ritornelli iper orecchiabili, ad esempio in Memories of You, ora veri e propri inni tardoadolescenziali, 83 o t t o b r e propone di essere un concentrato (che scopriremo indigesto) dell'universo-mondo non solo della Grande, ma del pop mainstream in generale. All'appello, infatti, hanno risposto bad boys con gli attributi quadrati come Big Sean (già supporter della stellina agli esordi), che regala forse il brano migliore del disco (Best Mistake), A$AP Ferg, che con Hands On Me incide il versante Harlem-hop del disco, Childish Gambino, che con piglio scanzonato, sottolinea i chorus di un brano che a sorpresa (visto che è scritto da fior fior di produttori, compreso Nile Rodgers) definiamo il peggiore del disco, Break Your Heart Right Back. Ci sono, infine, a coronazione di un percorso inaugurato già da gente come Beyoncé (con Boots), alcuni dj e producer di alto calibro che, in varia misura, mettono le mani nel disco: quelli che più ci hanno convinto sono Rami (in One Last Time), Zedd e Martin (in Break Free), Key Wane e Dwane Weir II (in Best Mistake), il norvegese Cashmere Cat (in Be My Babe) – che, accanto a Benny Blanco, è abile nelle trame in levare – e The Weeknd (in Love Me Harder), che regala al brano di competenza un discreto taglio PBr'n'b. Per dovere di cronaca, aggiungiamo che Bang Bang, contenuta nella deluxe edition del disco, lavora sugli stessi stilemi di retro pop, in tinte trap e hip hop, e lo fa con la presenza a dir poco ingombrante di una Nicki Minaj smagliante. Costruito sulla voce incredibile della Grande, da soprano lirico leggero, con copertura di quattro ottave e due semitoni, My Everything ha il pregio di rendere questa stessa voce al servizio dei brani, spesso ben costruiti e ricamati, in tutte le particolarità del genere. C'è un difetto, però, che fa crollare il castello e le buone premesse che lo sostengono: il disordine sostanziale degli elementi, sciorinati senza soluzione di continuità, nel tentativo, intelligente ma goffo, di far convivere David Guetta (beh Genere: elettronica Dove eravamo rimasti? Risolte le vertenze economiche con l'ex moglie (ma sì, facciamo finta che sia questa la causa della lunga attesa: quel tocco di sordidezza che, mischiato alla nerdiness – gli annunci criptici via deep web, la lista delle 137 apparecchiature utilizzate, elencate ad uso ed abuso dei fan ossessivo-compulsivi – e all'ironia ghignante – elemento fondamentale della brand equity del "most celebrated and influential electronic fartist", citando la più spassosa press release di tutti i tempi – definisce i tratti caricaturali del personaggio, così come dipinto dalla vulgata mediatica), Richard D. James può finalmente tornare a pubblicare utilizzando il suo moniker principale. Lasciamo da parte la campagna di lancio imponente e creativa, gestita in maniera impeccabile da Warp sia strategicamente che a livello di implementazione, che ha ingigantito le già grandi aspettative (e generando come naturale side effect fastidi e risentimenti a priori), ma che ha rappresentato il giusto investimento per il ritorno sul mercato dell'artista/marchio più importante della label di Sheffield, a tredici anni da Drukqs. Non soffermiamoci troppo neppure sul preciso concept paratestuale incentrato sulla trasparenza (fisica e informativa) dei codici, anzi cogliamone il suggerimento: andiamo dritti e concentriamoci sulla musica, che basta e avanza. C'è chi per SYRO ha già parlato di mancanza di innovazione: è vero, ma ciò non toglie che siamo di fronte ad un album maiuscolo. La musica contenuta in SYRO è assolutamente sulla stessa lunghezza d'onda di quella pubblicata da James nel periodo 2004-2007 per la sua Rephlex: sono tante le risonanze recuperabili andando a scavare tra le oltre quattro ore e mezza della serie Analord, ma soprattutto nelle due uscite del 2007 a nome The Tuss (l'LP Rushup Edge scritto e prodotto da una fantomatica "Karen Tregaskin" e l'EP Confederation Trough del "fratello gemello" Brian), che proprio per il fatto di non aver voluto/potuto essere firmate Aphex Twin non hanno mai ricevuto l'attenzione che avrebbero meritato al di fuori della cerchia degli iniziati (ah, il potere del brand!). L'arroccamento nell'analogico non rappresenta peraltro un limite, tutt'altro. Questi sessantaquattro minuti e rotti suonano come autorevole endorsement dell'attuale ritorno retromaniaco alle sonorità faticosamente ricavate dal fai-da-te sull'hardware e sugli effect box, reazione più che giustificata di fronte all'usa-e-getta dell'imperante EDM contemporaneo. Ma soprattutto permette a James di flettere i muscoli del fuoriclasse e di confermare il titolo di Signore delle Macchine: la padronanza dei mezzi è totale e del tutto asservita allo sviluppo di idee musicali inventive e talentuose (ma spendiamolo pure, l'aggettivo più aphexiano di Aphex: geniali), caratterizzate da una accessibilità melodica e allo stesso tempo da una complessità architetturale che promettono piacevoli scoperte ad ogni ulteriore ascolto. Se si deve trovare un difetto a SYRO, lo si trova in ciò che di solito viene visto come pregio: una compattezza di intenti, di mondi evocati, di private effusioni ma anche di trucchi e ammiccamenti tirati tutti fuori dallo stesso armadio, nonostante la sterminata strumentazione impiegata (come diceva sua madre, ovviamente nel Mummy Mix di Come 84 r e c e n s i o n i o t t o b r e Aphex Twin - SYRO (Warp Records,2014) 85 r e c e n s i o n i o t t o b r e to Daddy: "You've got so many machines, Richard". E comunque nella lista non compare la 303!). Malgrado l'accorta costruzione della tracklist (con i bpm che tendono a salire dai 120 delle prime tracce ai 164 della penultima, prima del bucolico finale a 102), la consistency dell'album rischia di lasciare per strada gli incauti. Non è un disco da fast food: pretende attenzione ma restituisce emozione. Astenersi perditempo. Le prime due tracce erano già note, reperti non ufficiali suonati live e finora conosciuti con i nomi delle location dei loro primi ritrovamenti: ora, "debootlegizzate", possono sprigionare tutta la loro complessa bellezza, tra linee acide e vocoder. Di Minipops 67 [source field mix], il singolo apripista svelato prima dell'uscita ufficiale (e finora conosciuto come Manchester Track, datata 2007, e suonata almeno anche a Singapore nel 2011), si è già detto tanto. Per ricchezza di spunti e personalità la traccia è sinopsi perfetta dell'album, micromondo armonico che contiene il suo contenitore: i "gemelli Tregaskin" che escono con i Boards Of Canada in un pub fuori mano della Cornovaglia. XMAS_EVET10 [thanaton3 mix] è la Metz Track (2010): circa dieci minuti di tastiere "pitchbendate" e bassi zigrinati per una (in)quieta vigilia di Natale, dove svisate eighties alla Ian Hammer si sovrappongono ad un lavoro ambient non selezionato proveniente dal mondo SAW2, e a cui si aggiungono voci provenienti da vari mondi, bellchimes, il ticchettio del pendolo di casa, liquide tin drum. Con produk 29 prosegue il trip fusion, con atmosfere afrofuturistiche frammiste a visioni psichedeliche acid funk: Aphlying Lotus! Un sample vocale rubato galleggia nello spazio, aggiungendo non-senso: "…like, we were in that club… fu**ing house… disgusting… fu**ing whore…". 4 bit 9d api+e+6 (traccia anch'essa già precedentemente comparsa in un live set aphexiano: dicembre 2007, All Tomorrow's Parties, Minehead) cortocircuita tre decenni di musica elettronica: melodie euromantik à la Kraftwerk (seventies), hip hop hancockiano (eighties) e memorie IDM (nineties). Gli anni Novanta, stavolta nel loro assetto rave, sono presi a pretesto anche in 180db_ , l'anello debole dell'album, dove l'hoover sound viene rallentato, sezionato, de- e ri-strutturato sopra un dritto breakbeat a 130 bpm. CIRCLONT6A [syrobonkus mix] ci ricorda da dove necessariamente vengono le nuove leve grime 2.0 e PC Music, ma con una tessitura sonora così complessa e densa da rendere improponibile ogni paragone. Dopo fz pseudotimestretch+e+3, giochino di prestigio geek di un minuto, CIRCLONT14 [shrymoming mix] è acid drill nervoso ma non nichilista, con giri melodici che non si bagnano mai due volte nello stesso fiume, assoli di tastiere che il wah wah rende espressive, canti ipnotici, e master finale in drum programming. Con syro u473t8+e [piezoluminescence mix] torniamo in territorio funky fusion. Una voce femminile (l'attuale moglie?) pronuncia un incantesimo (in russo?), e James si trasforma nello Stevie Wonder del periodo synth T.O.N.T.O. anni Settanta, ma in piena crisi di iperattività: una trentina di bpm in meno e ci troveremmo a casa di Todd Terje. PAPAT4 [pineal mix] (già annotata in un live del 2011 a Singapore) e s950tx16wasr10 [earth portal mix] portano SYRO in ambiti già battuti (dagli Hangable Auto Bulb del 1995 in avanti): drill'n'bass e melodia, niente di nuovo ma niente di cui lamentarsi, con così tante idee dentro che altri ci avrebbero costruito un album intero. La traccia finale si accosta alle precedenti in puro stile Druqkschizofrenico: dopo la frenesia drill, la forza tranquilla di aisatsana (Anastasia allo spec- chio, riferimento personale come lo era Nanou 2). La finestra aperta sul giardino, il Disklavier che riproduce una minimalistica e risonante progressione armonica (la stessa utilizzata nella performance al Barbican Theatre nell'ottobre del 2012), Brian Eno annuisce e approva. Con la pubblicazione di SYRO James tira una linea sul suo (recente) passato, prima, si auspica, di ripartire. Come fare le pulizie di primavera in un'ala del castello di Xanadu. Ciao Richard, piacere di riconoscerti. 7.8/10 come dimostra Overwhelmed With Pride, forse il pezzo più convincente dell'album. Una traccia che mostra in egual misura pregi e difetti di questo disco: il limite di At Best Cuckold è forse quello di non riuscire immediatamente a catturare l'attenzione, riuscendo ad emergere come insieme coeso solo dopo diversi ascolti. Verrebbe da aggiungere che questo non è necessariamente un male, perché, d'altra parte, il disco convince per le sue atmosfere, come del resto aveva fatto anche il debut: un approccio garage che ben si sposa a quella solarità geek propria dei luoghi d'origine, ma venata da una nostalgia dolciastra, in grado di confermare gli Avi Buffalo come una realtà indie pop con qualcosa da dire. In attesa del grande salto verso gli orizzonti della maturità. 7/10 Giulia Antelli Bass Drum Of Death - Rip This (Innovative Leisure,2014) Genere: rock, hardrock, punk, lo-fi John Barrett me lo ricordavo dedito ad altri tipi di droga. Lo avevamo lasciato avvolto nei fumi psichedelici di un sound lo-fi senza compromessi, ricco di voluttuosi trucchetti freakbeat, lo ritroviamo rocker, anzi hard rocker, dal tiro potente e affilato. In mezzo c'è stato il tour con gli Unknown Mortal Orchestra e (non 86 si sa bene come, a parte il fatto che il bassista degli UMO, è anche il produttore di Rip This) la presa di coscienza del fatto che con il suono debosciato e "stonato" dei due precedenti album, non si sarebbe andati molto lontano. Il punto è che il duo non ha mai deficitato in quanto ad anthem a presa rapida e coinvolgente rifforama. Spesso però era la qualità sonora, e quella sensazione generale da "buona la prima", a dare l'idea di una precarietà del progetto. Ecco allora che più che sulla velocità e sul suono deragliante, Rip This è un lavoro basato sulla costruzione del perfetto inno rock (o meglio hard rock). Intendiamoci, i due sanno ancora come mollare allegramente calci nei denti, ma lo dimostrano soprattutto quando spingono sull'acceleratore. E' allora che i Bass Drum Of Death ricordano una versione muscolare dei Black Lips. Oppure dimostrano di aver fatto proprio il segreto di quel garage rock scandinavo (in particolare gli Hives e i Turbonegro), che lo scorso decennio aveva insegnato come mietere consensi senza sacrificare l'impatto frontale. Altrove si lasciano parlare i riff quadrati e si sconta una certa involuzione nel songwriting (soprattutto rispetto al precedente album), o meglio la sua evoluzione in qualcosa di più quadrato e meno stupefacente (in tutti i sensi). 6/10 Diego Ballani r e c e n s i o n i o t t o b r e Alessandro Pogliani Genere: rock, punk, alt, emo Può uno degli EP d'esordio più convincenti degli ultimi tempi provenire da un gruppo capitanato da un – non più giovanissimo – musicista attivo discograficamente dal lontano 1992? E può uno degli EP d'esordio più convincenti degli ultimi tempi provenire da un gruppo che in più di un'occasione – senza volere essere necessariamente cattivi – suona come una cover band dei Goo Goo Dolls? La risposta per entrambi i quesiti è, incredibilmente, affermativa. Stiamo parlando dei Beach Slang – power trio di Phildelphia guidato da tale James Snyder, per anni voce e chitarra dei punk-rocker Weston – e del loro debutto discografico Who Would Ever Want Anything So Broken?. Quattro tracce per undici minuti di rimarchevole compattezza, in cui il trio – che si completa con JP Flexner, già batterista negli Ex-Friends, e con Ed McNulty, bassista dei NONA – si cala abilmente nel ruolo di fiero sbandieratore di un modo di fare rock tipicamente East-Coast, viscerale, genuino, sentito e passionale, ma allo stesso tempo diretto e senza troppe pretese. Un concetto e un'attitudine non così facili da rintracciare negli ultimi anni, se non in band come Gaslight Anthem (ecco, non gli ultimi…), Titus Andronicus, Japandroids e, in forma più articolata, Cymbals Eat Guitars. Who Would Ever Want Anything So Broken? si apre con Filthy Luck e vince subito facile: è praticamente una versione aggiornata di There You Are dei Goo Goo Dolls che a sua volta era una versione aggiornata di Bastards Of Young di quei Replacements tornati in questi giorni sugli schermi TV americani dopo quasi tre decenni di ban. Un vero anthem per tutti coloro che sono schiavi dell'essere "always fucking up" con uno Snyder orgoglioso di appartenere – "Kids like us are weird, and more, we're brave. We tie our tongues and turn them into rage. And the night's still young" – ad una scena come quella di Philly dove si invecchia con la chitarra in mano e con la sindrome di Peter Pan come migliore amica. La città, la notte, la polizia, gli amplificatori, la vita che scorre nelle vene, la voglia di non crescere e i retrogusti emo – "This city sleeps in a pattern of broken junk, but nights like this, it don't matter. All this dirty fun. We'll grow high not up" – sono presenti anche nell'altro apice dell'EP, Get Lost. Temi ricorrenti pure in Kids, slacker-manifesto ("We're just some dumb kids getting wasted and knowing we're alive", "The kids are still alright. We're just too high to fight") gridato tra i denti e in Punk or Lust ("They don't know the power of amplifiers or the gutter is where we feel alive"). Tutta roba che sta ai kids e ai junkie di Philly come i testi di Repetto/Pezzali stavano alla provincia pavese. Difficilmente diventeranno dei big e nulla ci assicura che reggeranno anche su formato lungo (li attendiamo a giorni con il secondo EP, Cheap Thrills On A Dead End Street), ma i mai domi Beach Slang con Who Would Ever Want Anything So Broken? EP hanno confezionato un gran bel dischetto denso di energia, cuore e vigore. 7/10 Riccardo Zagaglia Bernard Szajner - Visions Of Dune (InFiné,2014) Genere: elettronica Artista raffinato e curioso, Bernard Szajner ha sicuramente raccolto meno di quanto seminato nella sua carriera ormai quarantennale. Nativo di Grenoble ma di chiare origini polacche, Szajner è stato un pioniere della musica 87 o t t o b r e r e c e n s i o n i Beach Slang - Who Would Ever Want Anything So Broken? EP (Dead Broke,2014) Genere: pop, elettronica Quindi Caribou, dopo essersi immerso in nuove eccitanti correnti elettroniche, trova l'amore e chiude idealmente un cerchio con Start Breaking My Heart, l'esordio del 2001. Dall'elettronica gentile si parte e qui si ritorna, maturati, distanti mille miglia eppur così tremendamente se stessi. Da quell'esordio all'insegna di ritmi e colorate melodie strattonate da più parti, eppure così rotonde, matematiche e jazzy, di acqua ne è passata. C'è stato un tuffo carpiato negli anni '60, una Londra che gli ha regalato amicizie come quelle di James Holden, Joy Orbison e Floating Points e una seconda gioventù; proprio nel mentre, metteva su famiglia e si preparava a diventare padre, tra un giro al Plastic People e un nuovo alias specializzato in dance, Daphni. C'è stato il botto di Swim, l'album che parlava di se stesso al presente, il lavoro intellettuale ragionato a lungo, ispirato da Arthur Russell e dosato su combinazioni di minimalismo e complessità, disco che si è risolto, in soldoni, in visione, produzione e non ultimo in pezzi – Odessa, Sun, Found Out – che diventano inaspettati anthem per un pubblico sempre più numeroso che canta e s'esalta. Tra il 2013 e il 2014, Caribou diventa IL nome da chiamare se hai un festival o un evento che si rispetti. Il cachet va di conseguenza e così i click del singolo che anticipa la nuova prova, Can't Do Without You, un brano che fattura, in circa 1 mese, 1 milione di streaming. Tutti meritati. Così arriva il "nostro amore". Dove quel noi è riferito alla figlia che gli ha completamente cambiato i ritmi di vita e le priorità. A Fact, Snaith rivela di essere una persona diversa ora, di vivere le cose più di petto e di aver voluto risolvere la complessità dell'amore in un album che fosse universalmene comprensibile. Our Love si traduce nell'album più arioso e fluido prodotto dal canadese finora. C'è un cuore di soulful house nel singolo traino e nelle title track, synth pop per cangianti arpeggiatori, qualche drum machine compressa a contorno ma, soprattutto, c'è quest'inedita gestione dello spazio aereo. Spazio che in questo disco, anche grazie al missaggio curato da David Wrench, è gestito con eleganza, umiltà e mirabile sguardo d'insieme. Regna l'amore, sentimento che si traduce in una title track che compenetra famiglia e club, r'n'b, ritmi UK. Se c'è una citazione, va agli Inner City, ed è con questo spirito che Caribou si regala alla Storia, siglando il secondo disco di fila in uno stato di grazia che è osmosi con amici di lunga data e un contorno di stimoli sonici. Troviamo Four Tet in primis, come al solito occhi e mani nascoste nella produzione delle tracce, e a ruota, una piccola compagine canadese: quell'Owen Pallett che viene dalla classica e dai pentagrammi (oltre che ottimo autore e touring member con gli Arcade Fire) e arrangia, tra le altre cose, gli archi nella conclusiva, splendida, Your Love Will Set You Free, e un'incantevole Jessy Lanza che abbiamo apprezzato nell'esordio Pull My Hair Back e che qui presta la voce ad esattamente metà scaletta con Second Chance. Disco dell'anno. 8/10 Edoardo Bridda 88 r e c e n s i o n i o t t o b r e Caribou - Our Love (City Slang,2014) r e c e n s i o n i e decisamente più elevato e nobile rispetto al tributo naïve di Grimes in Giedi Primes. Dopo trentacinque anni di oblio, Infinè ha reso giustizia ad un lavoro di assoluto livello, riportandolo sugli scaffali in una veste ancora più brillante di quella del 1979, pronto ora per raccogliere, finalmente, l'attenzione che merita. Consigliato. 7.5/10 Andrea Murgia Bonnie "Prince" Billy - Singer's Grave a Sea of Tongues (Drag City,2014) Genere: folk Ci risiamo, verrebbe da dire. Per tenere il ritmo di un disco all'anno, Bonnie "Prince" Billy torna a reinterpretare se stesso, proponendo nuove versioni di brani già editi. Era già successo con Sings Greatest Palace Music nel 2004 (ma eravamo in territorio Will Oldham) e con l'EP Now Here's My Plan del 2012 dove reinterpretava, soprattutto, il suo oramai classico I See a Darkness. Qui i brani riletti vengono da Wolfroy Goes to Town del 2011 tranne due: New Black Rich (Tusks) e Sailor's Grave a Sea of Sheep. Entrambi ballate incorniciate da tempi lunghi e struggimenti da termine del viaggio. Il risultato è comunque un disco omogeneo, in cui Bonnie "Prince" Billy dimostra ancora una volta la capacità di ritornare sul proprio materiale come quasi fosse di qualcun altro e darne nuova interpretazione. Rispetto al 2011, i brani riletti sono meno scheletrici, affidati come sono a una band Americana con tanto di pedal steel guitar, fiddle, banjo e una serie di voci secondarie affidate a Ann e Regina McCrary. Oramai Bonnie "Prince" Billy non ha bisogno di promozione, di annunci: gli basta mettere in circolazione il proprio materiale. Sia esso nuovo di zecca, rilettura di brani propri o altrui, come avvenne lo scorso anno per l'album di cover degli Everly Brothers in compagnia 89 o t t o b r e elettronica francese, sia come compositore – la stampa d'oltralpe lo ha più volte definito, a ragione, il Brian Eno francese -, sia come artista visuale, creando effetti speciali per i live di Gong, Magma, Pierre Henri e The Who, ma soprattutto ideando e realizzando l'arpa laser, portata su tutti i palchi del mondo dal suo conterraneo Jean Michel Jarrè. Sfruttando la recente distribuzione di Jodorowsky's Dune, documentario sulla nonrealizzazione della pellicola sul capolavoro della sci-fi di Frank Herbert, Dune, l'etichetta francese Infiné ha deciso, dopo un lungo lavoro di remastering sulle bobine originali ad opera di Rashad Becker, di ripubblicare Visions Of Dune, uno dei più grandi e incompresi lavori di Szajner e dell'elettronica tutta. Pubblicato la prima volta nel 1979 sotto il nome d'arte ZED (coincidenza incredibile, del '79 è anche il Dune di Klaus Schulze), Visions è una personalissima interpretazione del manoscritto di Herbert filtrata attraverso i suoni di un Oberheim sequencer e un Revox due tracce, sintetizzando e rielaborando gli insegnamenti dei maestri Terry Riley e dei teutonici Kraftwerk in un prodotto ancora oggi vivace e sofisticato. Registrato con Hahn Rowe, Klaus Basquiz, Colin Swinburne, Clement Bailly e Annanka Raghel, l'esordio di Szajner si smarca in maniera netta dal kraut sintetico del periodo, andando ad analizzare in modo approfondito il rapporto che intercorre tra suono e spazio, coinvolgendo l'ascoltatore in un esperienza sensoriale e ambientale assolutamente convincente. Arricchito da due inediti rimasti fuori dalla prima versione (Spice e Duke), Visions Of Dune è il miglior lavoro ispirato dal pluripremiato (fu in assoluto il primo vincitore del premio Nebula) romanzo di Frank Herbert, lontano anni luce dalla scialbissima colonna sonora dei Toto della trasposizione per il grande schermo di David Lynch di Dawn McCarthy. Attendiamo con curiosità anche la prosecuzione della collaborazione con i britannici Trembling Bells suggellata nel 2012 con The Marble Down e già proseguita in questo 2014 con un singolo New Trip on the Old Wine dello scorso aprile. Oramai un'icona paragonabile solamente a se stesso. 6.7/10 Marco Boscolo Genere: emo, post-rock Avevano maturato del credito presso pubblico e critica, i Boris, grazie a quella doppia uscita Heavy Rocks/Attention Please del 2011 che, pur senza meravigliare, era stata capace di mettere l'accento sulla duttilità del trio giapponese. Ora che è arrivato il momento di riscuotere quanto dovuto, i Boris mandano tutto a rotoli con Noise. Nelle intenzioni, Noise è concepito come un album dei Motorhead: tutto vuole essere sfrontato ed elevato all'ennesima potenza. L'emo sempre più emo (Ghost of Romance, titolo che è tutto un programma), il post rock sempre più post rock (brillano gli interminabili 18 minuti di Angel), l'hard rock sempre più hard rock (la buona Quicksilver) e così via. Purtroppo per i Boris questa scelta, invece di portare al nocciolo della loro ragion d'essere, li trascina verso una versione caricaturale di se stessi. Capita così di ritrovarsi nel mezzo di una sceneggiata barocca e fru fru, suonata con ruffianeria e poca sostanza sotto la superficie. Può andare bene per irretire gli aficionados, ma alla fine il gioco non vale la candela. 50/10 Stefano Gaz 90 Genere: ambient, techno, experimental, idm Call Super, vero nome Joseph Seaton, arriva alla pubblicazione del suo primo album dopo un percorso compositivo solo in apparenza lineare. Nelle sue primissime produzioni, e in ugual misura in quelle più recenti firmate con alias diversi, si riconoscono deviazioni non convenzionali e richiami alle più svariate sensazioni elettroniche di matrice dance che difficilmente potremmo attribuirgli ascoltando solamente Suzi Ecto. Originario di Londra, ora residente a Berlino, durante il triennio 2009-2011 Seaton si muove tra deep house (Yphsilon, Nocturnes) e fantasmi di Mr. Fingers (Dance Out Doubt, Relish Recordings), estrosi take italo-disco (She Had A Wing) e suggestioni tropical-funk (Wey Savvy). Poi, come Call Super, inizia a delineare un'idea techno che – abbandonata la serialità di kickdrum secche e decise, e accentuata la componente ambientale, d'atmosfera – resterà impressa fino a questo disco. Quello che rimane degli extended-play precedenti l'album, in sostanza, sono i giochi di bleep in cascata e i loop di sintetizzatore (Staircase EP, Five Easy Pieces), i tagli, i graffi e le ritmiche irregolari (The Present Tense, prima uscita in assoluto per Houndstooth), le scariche elettriche in ripetizone tra i disturbi di fondo (No Episode, Throne Of Blood, con un Madteo remix che anticipa le tracce sporche e spezzate formato LP, e Black Octagons, ancora su Houndstooth). Suzi Ecto è stato pensato come lavoro di ampia portata, non votato alla pista, e come tale è stato realizzato. Elementi portanti sono i field recording, gli arpeggi sintetici, le percussioni miste rumore bianco, i frammenti digitali che si vanno a posare sui breakbeat densi di sfregi e detriti cosmici. In questi, Seaton innesta sentieri melodici di oboe e flauti dall'oriente (Sulu r e c e n s i o n i o t t o b r e Boris - Noise (Sargent House,2014) Call Super - Suzi Ecto (Houndstooth,2014) Elia Galli Carlot-ta - Songs Of Mountain Stream (Brumaio Sounds,2014) Genere: pop, cantautori Di Make Me a Picture Of The Sun, esordio di Carlot-ta risalente al 2011, dicevamo: "un ottimo esempio di come si possa mettere ordine in r e c e n s i o n i una giovinezza esuberante mandando a mente quanto di meglio il cantautorato femminile abbia prodotto negli ultimi tempi". Le cose hanno poi seguito il loro corso, premiando l'impegno della giovane musicista di Vercelli (classe 1990) anche oltre le più rosee aspettative, con un Premio Mei Supersound come "miglior disco dell'anno", un Premio Ciampi come "miglior esordio dell'anno", una fase finale del Premio Tenco giustamente guadagnata e, addirittura, l'interessamento di una casa automobilistica come la Ford, che nel 2012 ha utilizzato un suo brano (Pamphlet) per uno spot televisivo. Potenza dell'hype o doti reali? Songs of Muntain Stream in questo senso toglie ogni dubbio, confermando quanto di buono si era detto sulla musicista. Se, da un lato, le principali influenze rimangono sull'asse folk-pop costituita da Tori Amos-Joanna Newsom, dall'altro lo stile si fa meno dispersivo e più personale rispetto all'esordio. Eleganza formale garantita da pianoforte, violoncello, viola, clarinetto, synth, ma anche un istinto per la sperimentazione (per quanto confinato) sottolineato dal lavoro di Rob Ellis (qui produttore e arrangiatore – già al lavoro, tra gli altri, con PJ Harvey e Anna Calvi) sulla parte ritmica: molti drum kit che si ascoltano nel disco sono infatti il risultato di field recordings rubati sulle Alpi e poi dissezionati e rimontati a dovere. Tutti input che confluiscono in quella che potremmo definire la personalità musicale poliedrica di Carlot-ta: un misto di ironia (The Barn Owl), songwriting cameristico ortodosso e impeccabile (Basiliscus, Sunday Morning Bells Are Ringin'), orchestrazioni sorprendenti che mimano Anna Calvi (White Fur), qualche sbandata in stile Cat Power (Sick To The Heart), malinconie in controluce (L'insinuant, su rime di Paul Valery). Elementi che fanno di Songs Of Mountain Stream un ottimo lavoro, posizionandolo qualche gradino sopra l'esor- 91 o t t o b r e Sekou, e una Okko Ink in odore di My Life In The Bush Of Ghosts, caposaldo Eno and Byrne), dub esotici e isolate stoccate d'archi per un viaggio indietro nel tempo fino alle detroitiane Strings Of Life (Raindance, molto vicina al FaltyDL di In The Wild), malinconie analogiche disturbate dalle drum machine effettate all'estremo, poi improvvise schiarite e schegge luccicanti in sequenza (Acephale I, prologo ideale di Acephale II, 12″ a edizione limitata uscito in precedenza quest'anno). Scelte precise, quelle di Call Super, che suonano come un ritorno a certe costruzioni armoniche IDM e sci-fi, e che oggi sembrano affascinare anche altri nomi (in primis Dorian Concept e il già citato FaltyDL, ma anche Inkke, Slackk, Mr. Mitch, Moleskin – questi ultimi raccontati nel nostro articolo "Grime 2.0, PC music e oltre", magazine di settembre 2014), portatori di storie più o meno distanti rispetto a quella del produttore londinese. Scelte che, proprio in prospettiva di un progetto ragionato sulla lunga distanza, allontanano Seaton dalla techno scarna ed essenziale degli esordi e dai più recenti stomp in cassa dritta a nome Ondo Fudd (Coup D'État, Trilogy Tapes). Non manca visione d'insieme, né abilità in fase di produzione. Il trasporto emozionale, tangibile, è accompagnato da un'attentissima cura del dettaglio. Con i suoi paesaggi impalpabili, i suoi scenari crudi e indeterminati, Suzi Ecto è chiave di volta per stilemi ancor più perfezionabili. 7.2/10 Genere: pop, cantautori, rock È dal terzo album Dove sei tu che parliamo di maturità per la cantautrice di Rho, ma da allora – sono passati undici anni – ad ogni nuovo disco l'asticella ha continuato ad alzarsi di una tacca senza tradire pigrizia o prese di beneficio. Certo, è capitato di doversi rammaricare per una fin troppo pronunciata ricercatezza delle forme o per certe concessioni easy listening, rammarico liberamente interpretabile come rimpianto per il piglio crudo e persino selvatico degli esordi. Ma Cristina Donà non ha mai mancato di sembrarci una musicista in progress, per nulla banale, spesso capace dell'intuizione melodica/lirica/musicale che ti ammalia fino al limite del turbamento. Non dovrebbe quindi stupirci un lavoro (l'ottavo) come questo Così vicini, invece un po' lo fa, perché ha la forza di imporsi come uno dei suoi più sentiti. È molto pensato (una sorta di concept sulle parole, a volte potenti da scatenare tempeste emotive, eppure/oppure inadeguate ad esprimere il flusso fisico e magico del vivere) però anche istintivo, sorretto da una tensione calda e inquietante, a tratti carnale come da un bel pezzo non accadeva. Scritto assieme a Saverio Lanza, vede dieci tracce avvicendarsi tra incanto pop (a tratti segnatamente psych) e piglio wave, con un'attitudine arty mai fine a se stessa, anzi sempre veicolata all'economia della canzone. Se gli episodi più meditabondi sembrano colti al crocicchio tra rapimento Wyatt e trepidazione Ivano Fossati (Perpendicolare), altri inseguono astrazione onirica beatlesiana (L'inifinito nella testa ha il passo sonnacchioso e visionario di una Happiness Is A Warm Gun), mentre Siamo vivi galoppa postpunk tra elettricità e sospensioni androidi (ricordando un po' il Battiato altezza Strani giorni). La qualità principale del disco sta proprio in questo "equilibrio di contrasti" tra momenti emotivamente rarefatti e slanci di sensualità torbida, con la melodia che non viene mai lasciata sola dai dettagli d'arrangiamento e l'interpretazione che non si lascia congelare dalla forma: senti Così vicini col suo srotolarsi nostalgico mentre il piano beccheggia bluesy e l'orchestra spande luce tiepida, oppure La fame (di te) con le sue pulsazioni resinose e l'acidità esausta, o ancora il lirismo teso tra influssi wave e soul de Il senso delle cose, per approdare alle vaghe dissonanze tra caligini orchestrali della conclusiva, bellissima, Senza parole. Se il cantautorato ha spesso rappresentato (anche) una zavorra per il pop-rock italiano – per l'enfasi sui testi mentre la musica tira la catena – Cristina Donà è di quelle cantautrici che hanno gettato il cuore oltre l'ostacolo per scoprirlo capace di battiti sempre più stratificati, peculiari, coraggiosi, vivi. Tu chiamala se vuoi (lei vuole) incantautrice. 7.5/10 Stefano Solventi 92 r e c e n s i o n i o t t o b r e Cristina Donà - Così vicini (Believe,2014) dio. Nonostante la buona prova di carattere, tuttavia, ci pare che a Carlot-ta manchi forse ancora quello che una Laura Loriga/ Mimes of Wine, ad esempio (tanto per rimanere in tema), veicola in maniera più diretta e profonda, ovvero un vissuto emotivo che vada oltre la proposta artistica ben fatta, un feeling esistenziale che afferri le viscere, prima di gratificare le orecchie. C'è tempo per crescere, comunque. 6.8/10 Fabrizio Zampighi Genere: pop, soul, rnb Al di là della copertina imbarazzante e traumatica, non è una novità il percorso rigeneratore di Owens, che l'ha (ri)portato a (ri)abbracciare le amate sonorità 50s, mai come questa volta infarcite di r'n'b, country, soul, gospel. L'ex leader dei Girls pare sia definitivamente tornato in sé, dopo un passato gestito in maniera ambigua, fra drugs addiction, occhi neri e un continuo far parlare di sé. Lo ha fatto dapprima facendo quello che ha sempre saputo fare meglio: mettersi in mostra. Ed ecco allora il suo volto comparire sugli advertising di Yves Saint Laurent e spadroneggiare sui cartelloni pubblicitari di HandM. Poi ha messo a punto le nostalgie, elaborato i dolori da lupo solitario e ha tirato fuori un disco – Lysandre – strutturato nei riferimenti (psych-folk) e nei temi (il periodo 2008-2012 fra NY, San Francisco e la Costa Azzurra). Non male per uno che poteva finire in malo modo la carriera o, peggio ancora, la vita. Ad ogni modo ogni disco è un nuovo testamento, ci dice Owens all'uscita di A New Testament, un album che, se nella copertina ha questo ambiguo e mal riuscito riferimento al christian pop (?) o semplicemente alla 93 o t t o b r e r e c e n s i o n i Christopher Owens - A New Testament (Turnstile,2014) musica tradizionale del centro America, nei suoni è quanto di più vicino ai Girls potremmo mai sentire. E questo non significa che A New Testament suona come Album o Father, Son, Holy Ghost, ma che: 1. è frutto della naturale evoluzione del songwriting di Owens che, con o senza White, probabilmente sarebbe arrivato comunque a questi risultati; 2. parla principalmente d'amore e sofferenze varie, cercando di elevare il personale al generale, in discreto stile Girls. Insomma, per capire A New Testament basta pensare ai Girls in dopo sbornia e alle prese con un album di cover natalizie. C'è di più. Il disco è frutto di un team work di gente che lavora insieme dai tempi dell'ultimo dei Girls. E la maturazione, la crescita, si sente tutta: John Anderson, Darren Weiss, Makeda, innanzitutto, avevano dato a Father, Son, Holy Ghost quel taglio compatto e ordinato che lo caratterizza. Poi c'è Dan Eisenberg che ha prodotto gli organi e i piani migliori, tanto nei Girls quanto in Lysandre. E Infine Doug Boehm, con cui Owens condivide i tasti del mixer dal 2011. Tutta questa empasse è al servizio di pochi accordi («tre accordi e verità») e una manciata di testi sulle battaglie vinte e su quelle perse, sui traumi grandi e sui ricordi tutti. Come quello di Stephen, il fratellino deceduto a soli 2 anni «just like an angel», un brano fatto di cori gospel e di ampie citazioni pop (le ballad di Elton John o quelle corali di Dylan, ma anche i canti di Natale tutti, potremmo dire). Ci sono altri episodi estremamente intimi, come It Comes Back To You, terribilmente struggente nel ricordarci gli ultimi dischi di Lennon. Ad ogni modo, gli episodi migliori sono da cercare altrove, nelle facili ma efficaci canzoni di country rock, come My Troubled Heart, Nothing More Than Everything, Key To My Heart e, soprattutto, Never Wanna See That Look Again (quest'ultima rivelatrice sul nuovo corso della vita personale di Owens). Genere: drone Vanno in doppia cifra gli Earth e al compiere il quarto di secolo tornano al passato. Non a quello degli esordi che li investì, seppur a distanza di anni, del titolo di padrini del droning-rock, ma a quello "southern-heavy" dell'età di mezzo (altezza Hex, in poi, per intendersi), grazie ad un inspessimento di un suono sempre sporcato di polveri desertiche e immaginario isolazionista, ma molto più corposo rispetto al più recente passato. Non sono però queste le grosse sorprese di Primitive And Deadly (un monito? un suggerimento? un indizio?), dato che al solito rimescolamento della formazione – insieme alla batterista di lunga data, Adrienne Davies, troviamo Bill Herzog (Sunn O)))) al basso, Brett Netson (Built To Spill, Caustic Resin) e Jodie Cox (Narrows) alle chitarre, Randall Dunn (Master Musicians Of Bukkake) al moog – si aggiungono anche le voci. E se non bastasse questa novità in seno ad una band che ha fatto dello strumentale una ragione di vita, basta guardare che voci. Mark Lanegan a quella maschile e Rabia Shaheen Qazi (Rose Windows) a quella femminile allargano ancor di più lo spettro delle possibilità della band di Seattle, senza per questo snaturare un processo che, alla luce del percorso pluriennale, si può definire perfettamente compiuto. Lunghe digressioni psych lente e macerate che fuoriescono dalla chitarra maledetta di Carlson, dal peso specifico talmente alto da far impallidire novelli virgulti d'area sludge o doom, che si vanno screziando di stralci sixties – la From the Zodiacal Light con la Shaheen Qazi alla voce diviene il rovescio della medaglia di una summer of love andata decisamente a male o una "torch song ideale per l'ora delle streghe", press-sheet dixit – e di portentosi esercizi di feral-blues, catatonici e fiaccanti come perdersi nel (biblico) deserto rosso fuoco di There Is A Serpent Coming in preda a visioni da disidratazione (o perdita della fede, chissà). E se l'opener Torn By The Fox Of The Crescent Moon e Even Hell Has Its Heroes sono visionari accumuli di riff come se non ci fosse un domani – la prima più heavy oriented, la seconda figlia di una personale via al blues – l'onore del masterpiece spetta alla conclusiva Rooks Across the Gates. Non a caso di nuovo cantata da Lanegan, è la traccia che più si avvicina per sensibilità e affinità al percorso "introspettivo" dei vari Angels of Darkness 1 e 2, ma ne offre una lancinante, possente, sofferentissima nuova versione/visione. Gli Earth sono tornati a guardare nelle profondità dell'essere e noi non possiamo che abbandonarci, spossati ma felici, a questo nuovo inizio. 7.2/10 Stefano Pifferi 94 r e c e n s i o n i o t t o b r e Earth - Primitive And Deadly (Southern Lord,2014) Sono brani terribilmente ruffiani, che fondano tutto sulla citazione, sul già sentito. Eppure, a tratti funzionano, un po' perché ci fanno emozionare, un po' perché la voce di Owens trasuda la sofferenza che racconta e lo fa rivelando un navigato e consapevole cantautore. Tutto giusto e legittimo, anche quando, a conti fatti, il disco non affonda del tutto il colpo. 6.3/10 Nino Ciglio Genere: rock, indie Gli anni Novanta rappresentano un terreno che ancora oggi è oggetto di discussione: c'è chi li considera l'ultima mecca, chi la rovina di tutto, chi un panorama in cui fenomeni reazionari (qualcuno ha detto "grunge"?) erano visti come rivoluzionari, chi fucina delle ultime sperimentazioni realmente coraggiose. Un fatto è certo: sono anni che paiono uno dei pochi luoghi di tregua possibile tra quelli "che l'indie rock è morto" e la nuova fauna "alternative" odierna. In questo alveo si annidano il senso e l'identità dei Cymbals Eat Guitars da Staten Island, con LOSE al terzo disco: anche questo, come il precedente Lenses Alien, prodotto dal rinomato John Agnello. È, quella di LOSE, musica che avrebbe fatto piacere a qualsiasi procacciatore AandR, in epoca immediatamente post-Nirvana: un suono slacker più raffinato (Superchunk + Feelies), impasto in equilibrio tra potenza e dettaglio, con chitarre che saltano tra il vigoroso, l'acido e il tenue arpeggio, sezioni ritmiche anfetaminiche registrate molto spesso "qua davanti", dove la levità è resa sofisticata da arrangiamenti ricercati e cambi di passo repentini. Il piano-forte, il canone pixiesiano per antonomasia, che viene shakerato, steso e levigato: reso appetibile per le masse, per 95 o t t o b r e r e c e n s i o n i Cymbals Eat Guitars - LOSE (Barsuk,2014) capirci. Ed è qui che il processo di adesione/ evoluzione rispetto agli anni Novanta si innesta. È musica che però, allo stesso tempo, non avrebbe venduto milioni di dischi nemmeno nei Nineties, proprio come accadde ai Superchunk di cui sopra nell'epoca post-Nirvana di cui sopra. D'altronde, in quei tempi andarono sotto major anche i Melvins (!): un'opportunità si dava anche agli invendibili. Il disco dei Cymbals Eat Guitars pare una dolce e grassa consolazione: è quello che anni coraggiosi per certo rock chitarristico hanno partorito passando attraverso un tritacarne pop e radiofonico, attraverso le nicchie e il senso di colpa dato dalla coscienza di essere una musica fondamentalmente conservatrice (o di esserlo comunque diventata). Un compromesso che, a chi scrive, pare rispondere ad una domanda: cosa sarebbe successo se l'indie dei Nineties fosse, ad un certo punto, diventato il mainstream? LOSE è il simbolo (o uno dei simboli) di tutto questo, ma la cosa incredibilmente bella è che è anche un disco fantastico. Tutte le chitarre sono al punto giusto, tutti i brani (Jackson in particolare, ma sarebbe un torto etichettare gli altri come episodi minori) hanno qualcosa che si fa ricordare. C'è la struttura stortissima, c'è la melodia aperta e sgargiante che batte i Deerhunter nel loro sport, c'è il particolare strumentale inconsueto o lo sviluppo vocale particolarmente slanciato: Child Bride, per dire, fa pensare addirittura a Townes Van Zandt a braccetto con Graham Parker (o era Micah P. Hinson?), non fosse per il falsetto. Con un canto che soffre ancora di una certa logorrea, ma che rispetto al disco precedente pare avere più sintesi e messa a fuoco. Una consolazione, dunque, che sintetizza in maniera tutt'altro che torva (come certe consolazioni invece fanno) un percorso ultra-decennale non del gruppo, ma di una musica intera. Che regala emozioni che riescono a venire Fabrizio Testa - Music For Adriatic Colonies (Autoprodotto,2014) Genere: pop, cantautori, avant, elettroacustica, classica, contemporanea, Music For Adriatic Colonies è l'interludio di Fabrizio Testa, che nel giro di due anni scarsi ha espresso veramente tanto in termini di geografia sonoro-cantautorale. Come Mastice e Morire, parti di una trilogia che l'autore dice dovrebbe chiudersi l'anno prossimo, Music For Adriatic Colonies è ancora uno storyboard sui ruderi metastorici della riviera adriatica, ma si distanzia dalla forma canzone per cimentarsi in strumentale. Le diciassette suddivisioni sono l'epitome delle doti artistiche di tutti i musicisti coinvolti nel progetto, che sono ben otto, ma finiscono a corredo di un connotato fenomenologico atemporale dell'autore milanese. Già in precedenza Testa aveva espresso la volontà di indagare il passato con occhio disincantato, eppure il processo narrativo in quest'ultimo lavoro viaggia in parallelo con una mediazione romantica o tardo romantica di deragliamento in passacaglia opposto al titanismo; lo stile mantiene un unico registro compositivo, eppure l'organicità tecnica svirgola, corre via fra impro-acusmatica appena accennata (un richiamo all'appena nato Gorlago trio), ambient costruttivista, quartomondismo e sci-fi noir. Le adamantine e algide scritture di piano cullano gli accenti dei fiati in quote di lied jazz, gli armonici fan squadra con la percussività degli strumenti, gli oggetti diventano quello che sono, e cioè ruderi d'era coloniale, i passi tendono ad arrestarsi proprio nell'atto in cui tutto sembra trasformarsi in musica classica o scultura, eppure ce ne sarebbero di ragioni a carico. Il piano stesso sembra occupi un ruolo da maitre à penser timbrico, in senso reichiano, e invece viene spintonato come dall'anca di una mossa, lasciato solo a rimuginare su quale albero maestro possano posarsi clarinetto, clarino e tromba, in ordine di chiama. Un lavoro, questo, che dà instancabilmente da pensare. 7.4/10 Christian Panzano fuori nonostante il chiacchiericcio dell'hype, lo snobismo, gli occhialoni nerd, e che mette al centro quello che veramente conta: il suono, soltanto e sempre il suono. 7.3/10 Andrea Macrì 96 Dario Buccino - La costrizione della nudità (Edizioni Zùmpapa,2014) Genere: concreta, experimental La costrizione della nudità non passerà alla Storia per l'interpretazione canora di Dario Buccino e, bisogna dirlo, nemmeno per i testi, spesso chiusi a bulbo, pieni di rabbia ermetica. Pur con eccezioni dovute se non altro all'orchestrazione o a un precipuo folk che permette consonanze vocali basiche, il padrone di casa r e c e n s i o n i o t t o b r e minimalismo r e c e n s i o n i pronuncia timbrica della musica anzichè una genìa di forma canzone. Per questa ringhiera Buccino instrada i suoi progetti, rendendo viva una cronaca che a molti sfuggirebbe di mano, e in questo La costrizione della nudità crea o creerà un solco per chi vuole legare a mo' di bouquet la sperimentazione sonora a una prosa istintuale. Bisogna dargliene atto. 6.8/10 Christian Panzano Death From Above 1979 - The Physical World (Last Gang Records,2014) Genere: rock Il tempo che non sembra essere passato, fermo a quella metà degli anni 2000 quando i due musicisti di Toronto esordivano come Death From Above 1979: pulsioni punk, attitudine dance, passione per i riff di chitarra grassi dei Novanta. Potremmo sintetizzare così il secondo album, Physical World, che esce a distanza di un decennio dal primo. Di mezzo uno scioglimento nel 2006 per problemi interni e una reunion spinta dalla base di fan e dalle buone vendite dell'esordio anche dopo la rottura. La formula è rimasta pressoché invariata: un muro di chitarre grasse e distorte, sostenute da ritmi incalzanti per una manciata di brevi canzoni che, scommettiamo, sono pronte per incendiare i live come già è accaduto in passato. Con qualche sottolineatura più elettronica (Gemini e una titletrack che gioca anche con gli 8-bit), ma sostanzialmente senza grossi cambi in campo, il secondo disco avrebbe potuto essere tranquillamente pubblicato nel 2004: un incrocio tra i Rapture, i Liars prima del cambio di direzione, con una grattugiatina di riff che sembrano presi talvolta da Superunknonw , talvolta da un album stoner. Funziona tutto alla perfezione, e si sente per tutta la durata del disco che i DFA1979 sono sopraffini interpreti del genere. Se cercate un 97 o t t o b r e è uno stile che fischietta fra leve differenti di scuole romane e il Finardi più recente, la liturgia à la Giovanni Lindo Ferretti, ma pure Negramaro e Tiziano Ferro sono gioie non poi così insabbiate. La costrizione della nudità è invece musicalmente uno scavo concreto meta-lirico e metafisico, una sonda che batte nuovi vicoli ciechi alla ricerca del suono che schiocca e sferruzza dalla reciprocità corpo-materia. Il lavoro si pone una sfida, merce rara di questi tempi perlomeno lungo lo Stivale, che origina da una domanda: cosa sa della musica il corpo, che il pensiero non sa di sapere? Dario risponde col sistema HN, acronimo per hic et nunc, elaborato anni fa "per imbrigliare le forze che si dispiegano nel momento della performance". Nel libretto che fa punteggio alto con l'imballaggio e che accompagna il dischetto, l'autore sa svelarsi con generosità e dovizia. Racconta di quando i medici gli dissero di avere un cancro e poi che no, si erano sbagliati, "mi sentivo perso in un conflitto lacerante: come unire organicamente le due dimensioni, la vertigine del vuoto e quella del pieno? Cominciai a cercare la risposta nella musica" . Il sistema HN è dotato di una lamiera, che col tempo ha figliato, le cui onde vibratorie rendono possibile un'interazione tridimensionale e le cui proporzioni sono calcolate secondo formule matematiche. Buccino è giunto negli anni a imbastire una tavola di notazioni partendo da quest'intuizione che istintivamente può ricordare il progetto Let sfinge e però a ben vedere va praticamente oltre, travalicando e scombinando più arti, in una contemporaneità tutta sua, in una sintesi da vero mestierante. Ma La costrizione della nudità è anche un lavoro che mette al centro un tipo di forma canzone che aiuti nella ricerca di "risonanze affettive". Ecco, se ne potrebbe parlare per ore, ma io credo che in queste tracce vinca più la disco che vi faccia ballare al suono di imponenti muri di chitarre (e se non chiedete troppo ai testi: da no comment) e che vi faccia sudare, questo è l'indirizzo giusto. E con la fortuna che un certo revival Novanta sta avendo, è probabile che alla fedele base di fan si aggiunga una nuova generazione di estimatori. 6.9/10 Marco Boscolo Genere: psych, dark, kraut Dismessi i panni martial industrial del suo celebre quanto discusso progetto Der Blutharash, Albin Julius si è spostato da diversi anni verso uno psych-kraut oscuro e mutante che si muove nel segno di una occult-religious-psychedelic-trance. Sotto la sigla Der Blutharsch And The Infinite Church Of The Leading Hand, Albin Julius, sempre circondato da un gruppo di amici e collaboratori nuovi e di vecchia data, ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco. Se da album come When Did Wonderland End?, ancora realizzato sotto il marchio Der Blutharash, s'intuiva il cambiamento imminente e la deriva psichedelica di certe sonorità di ispirazione martial-neofolk, è con un disco come The Story About The Digging Of The Hole And The Hearing Of The Sounds From Hell del 2011 che sia ha la vera svolta nel lavoro di Albin Julius. Un cambiamento che prosegue degnamente con The End Of The Beginning nel 2012 e The Cosmic Trigger nel 2013, con i suoi interessanti remix ad opera di Geoffroy D. (meglio conosciuto per i suoi lavori come Dernière Volonté e Position Parallèle). All To Pieces è il nuovo EP ad opera dei nostri "artisti marziali" convertiti alla psichedelia, uscito il 29 luglio 2014 per l'italiana Sound of 98 r e c e n s i o n i o t t o b r e Der Blutharsch And The Infinite Church Of The Leading Hand - All To Pieces EP (Sound Of Cobra,2014) Cobra (a riprova di un interesse particolare dell'Italia più underground per certe sonorità psichedeliche e occulte). Il disco si avvale della presenza di molti ospiti, come Alan Trench, della storica band neofolk Orchis, e Pete Hope (Wrong Revolution, Bone Orchestra), e continua l'esplorazione di Albin Julius e compagni in oscuri territori psych kraut, psicotropi e devianti alla Amon Düül II. Indubbiamente, vi è una sorta di filo conduttore che lega una certa musica psichedelica con attitudini kraut e suggestioni post-industriali. L'immagine di copertina, da questo punto di vista, è molto significativa, oltre ad essere molto bella: una foto con colori accessi e psichedelici di un edificio ormai in rovina e disabitato. L'EP è anche un picture disc e mostra uno sciame di farfalle blu prese in una spirale che le trasforma in polvere, all'interno di quello che sembra un fiore. L'aspetto grafico si presenta, come solito per la band, molto curato ed evocativo. Nel lavoro si percepisce anche un ritorno ad atmosfere alla The Moon Lay Hidden Beneath A Cloud, primo progetto di Albin Julius, sopratutto in All to Pieces, il pezzo che da il nome all'EP: un gorgo oscuro, un bad trip in cui gli ascoltatori vengono risucchiati come farfalle sedotte dalla voce teutonica di Marthynna. Un urlo apre I Have Been Here Before, un viaggio sciamanico nella chiesa dei Der Blutharash con un satanico blues cosmico in cui Pete Hope canta "The world is just a spaceship travelling too fast for me (…) I've been here before, so I know my way" ("Il mondo è solo una navicella spaziale troppo veloce per me. Sono già stato qui prima e per questo conosco la mia direzione"). Song of Life and Death, invece, è l'eco pulsante di una misteriosa liturgia pagana: una danza macabra in una foresta che si muove tra distorsioni ed effetti sonori inquieti, in cui galleggiano voci maschili e femminili; un brano emblematico del selvaggio percorso iniziatico compiuto sino ad ora dalla band. Solo alla fine del viaggio intravediamo un bagliore di luce: il disco si conclude con un brano, Acheroantia, in cui le tastiere creano un suggestivo strumentale ispirato alla psichedelia della West Coast americana degli anni Sessanta impreziosito da venature ambient. Un buon lavoro che anticipa il prossimo LP del gruppo. Attendiamo fiduciosi. 7.1/10 Marco De Baptistis Genere: rock, blues, garagerock Gioca da solo, Dirty Trainload, al secolo Bob Cillo from Bari. Gioca da solo perché di trend, mode, hype e quant'altro gli frega vicino allo zero assoluto, mentre continua imperterrito a sfornare lavori che farebbero, anzi, fanno, la gioia di chiunque si sia mai trovato a trafficare con quella terra di mezzo in cui il rock'n'roll più lercio e il blues più sofferto si sfiorano fino a diventare qualcos'altro. E lo fa con nonchalance dal 2007, anno d'esordio con Rising Dust, non proprio da oggi che questo "newblues" elettrificato e accattivante è ormai di dominio (fin troppo) pubblico. Questo giocare da solo lo ha preservato da trappole come l'accondiscendenza verso un pubblico sempre maggiore che si aspetta, e chiede, e pretende sempre più dal suo artista preferito – vedi alla voce White Stripes o ai vari adattamenti in forme "altre" targati Jon Spencer (gli Experimental Remixes o gli intrecci col Dub Narcotic Sound System) – permettendo alla sua musica di mantenere la barra dritta in direzione ostinata (e pura) e contraria (guardare al passato, più che al presente modaiolo). In realtà, Bob Cillo non gioca proprio da solo, dato che a supportarlo c'è sempre qualcuno: all'altezza di Rising Rust era l'armonicista- Stefano Pifferi Electric Würms - Musik, Die Shwer Zu Twerk EP (Warner Music Group,2014) Genere: psych Con gli anni il genio sfavillante e contorto del buon Wayne Coyne non si sta affatto smorzando, anzi, si ramifica e prospera tra colpi di testa ingegnosi, intuizioni maniacali e svaccate eclatanti. In un certo senso, Coyne sta eccedendo i Flaming Lips, anche per ciò che concerne la dimensione stessa della band, coinvolgendola in progetti che trascendono il consueto iter. In questo caso fa invece una cosa piuttosto standard, ovvero si dà al side project seguendo la scia dell'attitudine psych-spacey ostentata con arguzia in particolare da Yoshimi in avanti. 99 o t t o b r e r e c e n s i o n i Dirty Trainload - A Place For Loitering (Side 4,2014) cantante Marco Del Noce, nel successivo Trashtown la cantante e polistrumentista Livia Noisance e ora la batteria di Go Balzano a sostituire quelle elettroniche che facevano e fanno da scheletro ritmico al progetto. A "supportarlo" nella scrittura, poi, oltre ai molti originali di suo pugno, anche i traditional blues – The Ballad Of John Hardy e When The Saints Go Marching In – e le penne storiche del disagio, come quella di Robert Johnson – di cui Dirty Trainload rivede If I Had Possession Over Judgement Day, resa infinita grazie al locked groove che ne amplia il senso di straniamento – o di Tommy Johnson (una Big Road Blues a dir poco Johnspencerizzata) o, infine, di John Barry, di cui viene rivisitata la bondiana You Only Live Twice. Tradizione, dunque, e molta nei solchi di questo "posto per bighellonare", ma Bob Cillo ci mette molto del suo: ci mette sangue e sudore nel rivestire di elettricità e sporcizia canzoni fuori dal tempo e libere nello spazio. Di quelle che ti si appiccicano addosso perché sono fatte della stessa sostanza degli umori umani. 7/10 o t t o b r e Stefano Solventi Electric Youth - Innerworld (Secretly Canadian,2014) Genere: pop, wave, 80s, synthpop Osservando il recente passato, la sensazione è che Kill For Love dei Chromatics abbia rappresentato non solo il trionfo della versione più 100 cinematica (così lo definemmo all'epoca) e romanticamente notturna del synth-pop, ma anche la sua rapida morte: difficilmente eguagliabile sotto diversi punti di vista, l'album targato Italians Do It Better sembra aver scoraggiato i più ad imboccare quelle evocative strade. Negli ultimi due anni, infatti, poche sono state le uscite vicine a tali atmosfere: tra le più riuscite abbiamo senza dubbio Nature Trips, l'ottimo singolo di Eyedress (presente nella nostra playlist SA Presents: Tracks from EPs 2013), The Peak of Diggitiness targata Doctrine, alcune cose contenute nell'ultimo Xeno and Oaklander, l'omonimo debutto lungo firmato Gold Zebra e soprattutto Innerworld, l'album d'esordio degli Electric Youth. In realtà i canadesi Electric Youth (Bronwyn Griffin e Austin Garrick) esordienti non lo sono affatto, dato che tre anni fa la loro A Real Hero (con David Grellier aka College) era tra i brani di punta della colonna sonora di Drive e che da allora hanno pubblicato almeno una manciata di singoli collaborando anche con miss nu-italo Sally Shapiro. Appesantiti da un look – soap opera/discokitsch – che rispetta le regole del genere, i due cercano di liberarsi dalle fin troppo stereotipate – per quanto sempre affascinanti – coordinate dark-metropolitane, elevando il discorso su retromanie eighties di stampo più fantascentifico/spaziale e picchi di epicità di scuola m83, pur mantenendo un alone nostalgico di grande effetto. Assodato che Austin Garrick possiede la metà del genio creativo di Johnny Jewel e che Bronwyn Griffin è più che altro funzionale alla causa, Innerworld è un disco decisamente contagioso: A Real Hero – giustamente qui riproposta – continua a spiccare, ma è accompagnata da almeno altre cinque o sei tracce di perfetta sintesi pop. Before Life introduce l'ascolto e facilita l'ingresso nel giusto mood, con Vangelis ad os- r e c e n s i o n i Con questo non voglio sminuire il ruolo dell'altro Lips Steven Drozd coinvolto nella faccenda, anzi, vale la pena sottolineare che ne è il principale artefice sonoro e vocalist, mentre il buon Wayne ci dà dentro col basso e scuote la chioma zampillante di folli neuroni. Comunque, tant'è, i due zuzzurelloni danno vita a questi vermi teutonici elettrificati assieme ai quattro psichedelici di Nashville Linear Downfall, impastando incubi sci-fi lynchiani, prog cosmico e kraut radiante in una più vasta congiuntura psych, mantenendosi sul crinale tra messinscena e vertigine, lirismo straniante e goliardia. Sei i pezzi che si infilano nella scia eterea di The Terror accompagnati da detriti e ordigni insidiosi, ora sfarfallando misterici (The Bat) e floydiani (l'asciuttezza wave tra asprezze amniotiche di Living), ora spicciando tumulti acidi Sixties (il blues folle e vetroso di Transform!!!), angosce scenografiche Yes (la cinematica Futuristic Hallucination) e schizofrenie serrate Can (tra le caligini luminose di I Could Only See Clouds). Nel finale Heart Of The Sunrise suggerisce una deriva radiosa e senza approdi che in un certo senso riconduce a The Terror espandendone il concetto, come una piega spaziotempo di possibilità e collasso. Questo disco/progetto insomma non è che un tassello tutto sommato inessenziale dell'ormai trentennale percorso di Coyne e Drozd, ma inserito nel puzzle sembra l'ennesima dose di additivo chimico come minimo divertente, a tratti intrigante. 6.4/10 r e c e n s i o n i Riccardo Zagaglia Emiliano Mazzoni - Cosa ti sciupa (Gutenberg Records Primigenia Produzioni Musicali,2014) Genere: pop, cantautori, 80s, blues Per un autore musicale che opera in Italia, progettare una sua seconda release è un po' come una specie di conquista da vello d'oro senza scranno al rientro in patria. E metteteci che la patria uno ce l'ha a 1200 metri da terra, per la precisione a Piandelagotti in provincia di Modena, beh che ve lo dico a fare? Se va di sfiga, tocca fare l'autostop. Emiliano Mazzoni però ci crede e in Cosa ti sciupa ci mette tutt'un trasporto e poi una testa di quelle, che uno si crea dopo anni e anni di stoicismo e vita forte, dal fuoco in petto dopo un bel sorso di grappa. A seguirlo/accompagnarlo come un Virgilio verso l'ennesimo psicopompo, Luca Alfonso Rossi, ex Ustmamò, anche se il grosso del lavoro quasi tutto fatto in casa. Ballo sul posto, esordio di due anni fa, era un disco in filigrana, fatto di locuzioni sospese. Una curiosa bellezza interlocutoria che piantava cirmoli profumati e notturni. Questo secondo figlio riesce a rivelare sguardi. E sono occhi bellissimi. Ma perchè te ne vai quarant'anni fa avrebbe vinto Sanremo e oggi ci lascia un ritornello amaro; Diva irrompe in una casamatta senza guarnigione, deserto dei tartari e protocollo d'armonica; Ciao tenerezza è un valzer da belle epoque in quadrante felliniano; Hey boy lo swing ivesiano che manco Buscaglione; Ragazza aria ha il gusto di quella new wave anni '80 solo musica italiana che però cede in elettronica e dà di pop blues, uno strano animale che nelle piante ferite di Mazzoni piglia un colore quarzato con punte di quinte; Nell'aria c'era un forte odore potrebbe trovarsi in qualche album del primo Enrico Ruggeri e invece è uno spaghetti twang in rispettoso Butch Cassidy in fuga per la Patagonia; Tornerà la felicità culla Battiato e Sakamoto; Non rivedrò più nessuno saluta la guerra per i tasti più bianchi del piano, vero protagonista della serata. Mazzoni sembra aver fatto non uno, ma dieci, venti, cento salti in avanti rispetto a un Ballo sul posto che sostanzialmente era bello sì, con i suoi rimandi waitscaposseliani, ma a confronto con questo non regge la partita. Quasi da non credere. 7.2/10 o t t o b r e servare al largo dei bastioni di Orione, e poi si parte per un viaggio al neon. Runaway – un po' Madonna in modalità dreamy – per tutti i nati negli anni '80, è un tuffo nell'infanzia, Innocence – "Where have you gone sweet innocence?" – incalza e ammalia e Tomorrow allontana gli eccessi patinati concedendo maggiore spazio al reparto strumentale, mediamente composto dal beat dritto della drum machine e da un synth una volta minimale, la volta dopo possente e saltuariamente strillante (Jewel insegna). Le più ordinarie WeAreTheYouth e Another Story – più che piacevoli ma leggermente ripetitive – nulla tolgono a Innerworld, un disco che non ha la pretesa di presenziare nelle classifiche di fine anno, ma a cui dobbiamo riconoscere il merito di mantenere vivo l'interesse verso certe sonorità, con gusto e preziose soluzioni melodiche. 6.7/10 Christian Panzano Erlend Øye - Legao (Bubbles Records,2014) Genere: pop Ricordate il simpatico ragazzo dai capelli rossi e occhiali da nerd del duo norvegese Kings of Convenience? E soprattutto ricordate le trame acustiche che intrecciandosi alle voci del duo Øye e Glambæk sullo sbocciare dei 2000 aveva permesso a quest'ultimi di essere para- 101 Genere: pop, cantautori, art, folk E' ancora possibile mischiare suoni acustici e sintesi elettroniche senza risultare banali o ridondanti? L'ex dj di Ninja Tune Fin Greenall, in arte Fink, ci aveva già dato buoni segnali anni fa con i tre primi Biscuits For Breakfast (2006), Distance and Time (2007) e Sort of Revolution (2009). In pochi se ne accorsero e con Perfect Darkness (2011), il musicista britannico aveva rilanciato dando alle stampe un lavoro in perfetto equilibrio tra sonorità minimal e incursioni trip hop. Consolidato un discreto seguito Fin Greenall lo fa di nuovo, con un disco prodotto e suonato meglio, più ambizioso e volitivo. No, non è il disco che aggiunge quella definitiva marcia in più e probabilmente è anche meglio così. Fink è ancora lontano dai più collaudati ecosistemi folk (Bon Iver, Andrew Bird) quanto da certe sperimentazioni noise (Yorke, Blockhead, Sufjan Stevens). Hard Believer ha una suona dimensione, un suo panorama nel quale si muove con grande naturalezza tra fascinazioni ambient, raffinate soluzioni acustiche e una salda atmosfera che accompagna l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Con il piglio da navigato dj il Nostro riesce a non risultare mai scontato e mai scintillante ma sempre convincente, unendo con grande naturalezza pezzi di suoni e influenze di stili. Giocato in un campionato tutto suo, interessanti impasti armonici (il climax evocativo di Green and the blue, la tellurica Pilgrim o la più scanzonata Shakespeare), una voce profonda e una perenne tensione melodica (Looking Too Closely) fanno di Hard Beliver un piacevolissimo disco e di Fink un artista da non perdere mai d'occhio. Sarebbe un peccato. 7.2/10 Gianluca Lambiase gonati ai leggendari Simon and Garfunkel? Bene se la risposta è sì dimenticatevene per un attimo. Messi in standby i KOC e il progetto parallelo The Whitest Boy Alive l'occhialuto Erlend Øye, a inizio 2014, decide di mettersi in proprio, partire per l'Islanda (dopo che si era trasferito nella nostra penisola) e andare alla ricerca di una band reggae che lo supportasse nella lavorazione di un nuovo album solista. Il risultato è questo Legao, album che si regge sull'equilibrio tra l'eleganza che ha contraddistinto sin qui le opere targate Kings of Convenience, l'eclettismo stilistico dei The Whitest 102 Boy Alive e la nuova crescente curiosità verso suoni world. Ed è un equilibrio che si protrae per tutti i trentotto minuti: a partire dal reggae di Fence Me, in cui il tocco del gruppo islandese Hjalmar che ha ospitato il cantautore norvegese nei personali studi di Reykjavik si fa più tangibile, passando per la disco-soul anni Ottanta di Garota, la briosa Same Some Loving, la caraibica Whistler e intermezzi definibili "classici", vedi Bad Guy Now (ballata in stile CrosbyandNash) e Who Do You Report To (minimale composizione piano-voce) fino a giungere a un hammond à la Whiter Shade of r e c e n s i o n i o t t o b r e Fink - Hard Believer (Ninja Tune,2014) Pale che scivola in una melanconica Lies Become Part of Who You Are. La tranquillità e la serenità che Øye riesce a emanare attraverso i dieci capitoli che compongono Legao rappresentano il vero valore aggiunto di questa seconda opera in proprio (la prima risale a circa undici anni fa, Unrest il titolo). Un album da ascoltare durante una di quelle malinconiche serate autunnali, con luce soffusa e in compagnia di un calice di vino rosso. 6.7/10 Marco Frattaruolo Genere: goth, post-rock È facile trovare vagamente appassionante la storia degli Esben and The Witch. Anzi, è facile invidiare il loro low profile, la loro dedizione autentica verso la musica, fuori (quasi) completamente dalle logiche commerciali ad essa legate. Non si spiegherebbero altrimenti le scelte che, dal 2008 ad oggi, hanno portato la band sotto le luci della ribalta di un nuovo sound "goth but not goth", passando per il contratto con Matador e la (consequenziale?) approvazione unanime della stampa britannica (e internazionale), per poi tornare alle origini. A New Nature, infatti, terzo LP della band, pare sia frutto del desiderio di ritornare al periodo post-universitario, quando, dalla stanzetta sul mare di Brighton, i tre si esercitavano a fare rumore sugli strumenti. È inutile sottolineare che si tratta di una esagerazione, dal momento che, sebbene i Nostri abbiano scelto coraggiosamente di tirarsi fuori dall'etichetta e mettersi in proprio, dietro i mixer di questo nuovo lavoro ci sta un certo Steve Albini, che tutto è tranne che un amante delle camerette. A New Nature, ad ogni modo, è effettivamente una piccola svolta per la band, e o t t o b r e r e c e n s i o n i Esben and The Witch - A New Nature (Nostromo Records,2014) non solo perché, almeno qui in Italia, è arrivato in sordina, quasi dimenticato dagli uffici stampa e dalle promozioni. Il lavoro, a dir la verità, rappresenta il disco con il quale gli EATW seppelliscono definitivamente le ambizioni shoegaze, gloom, ampollose, per abbracciare, una volta per tutte, un post-rock ruvido, ispido, crudo, che torna a chiamare in causa God Speed You! Black Emperor, HEALTH, Slint e persino la filosofia musicale di XX, Zola Jesus, Deer Hunter e Fiery Furnaces. Non è casuale, dunque, l'affiliazione al genio di Albini, che affina e sporca il disco di rimbalzi alla Shellac, di code rumoristiche impetuose, di enormi muri di chitarra, di ritmi tribali, ma, soprattutto, di equilibrio e ordine, che in dischi come questi, fanno molta differenza. Hanno coraggio, da parte loro, gli EATW: la nuova natura a cui fa riferimento il titolo è probabilmente una natura post-pandemica, a-ritmica, disarmonica e sofferta. Lo si nota già da Press Heavenwards!, con i suoi dieci minuti di crescendo e il suo paesaggio suburbano morente; lo si intuisce in Dig Your Fingers In It, che, con una cattiveria quasi sexy, ricorda le londinesi Savages (che devono molto agli EATW); lo si sottolinea nella monolitica No Dog, che, fra riverberi e ritmi ossessivi, quasi ricorda i Sonic Youth dei tempi migliori. The Jungle, poi, è il cuore del disco: un mostro a tre teste e altrettanti movimenti di minuti 14 e secondi 33, in cui si narra la storia di una donna persa in una giungla che vuole intrappolarla e infine mangiarla. La voce della Davies si sublima in questo brano di ambizione e magniloquenza: il suo lamento imperfetto riflette il ritmo tribale della giungla, pronto a cannibalizzare l'esperienza claustrofobica della percezione, fra gorgoglii, urla, mugugni e un assolo di tromba dalle più recondite profondità. Gli otto minuti di Blood Teachings, primo singolo estratto dal disco, ricordano, come d'altronde suggerisce l'intero 103 Genere: cantautori, rock, blues Un esordio discografico del 2010 (Piume), un libro di poesie nel 2011 (Il museo dello sbaglio) e uno nel 2014 (Madonna delle cicatrici), e un'amore sconsiderato per Bob Dylan e il blues. Questo per quanto riguarda la cronaca; il resto è un Petali a firma Gian Luca Mondo che dallo Zimmerman riprende la logorrea tagliente e dalla musica del Diavolo l'oscuro esistenzialismo, il mito prepotente del perdente, quest'ultimo trasposto in una dimensione interiore che vive di provincia, amori strazianti e fallimenti. Davvero impressionante lo scolpire continuo e spietato di una prosa che sa di narrativa e poesia, più che di versi e refrain, che vive di immagini potenti in punta di rima («Sono più di 60 anni / Che non si mette mano al fucile / Ci sono i fili con i panni / Sopra ai fiori nelle aiuole / Si sente odore di cibo buono / E non si sente più vergogna / A pensare quando intorno / Si sentiva odore di carogna») e che nasconde sotto la coperta bucata di una spoken word apparentemente grezza un mood viscoso e densissimo. Troppo per racchiuderlo in musiche preconfezionate, e infatti il suono pulsa di indeterminatezza e di sudore esattamente come le parole: feedback che si rincorrono, qualche mitraglia di percussione, una chitarra elettrica che mima il boogie di John Lee Hooker senza esserne figlia legittima, e dall'altro lato ambienti sonori destrutturati, talvolta sognanti (Lo sbocciare della Magnolia). Da brividi la lascivia che nasce dall'accostamento di tromba swing e rigurgiti di chitarra elettrica in Valentina Blues, almeno quanto il Nick Cave più lancinante – in sbornia Nine Inch Nails – di Rivelazioni, il Leonard Cohen desolato assorbito dalla frontiera messicana di Crapshooter, il blues tra lo Springsteen di State Trooper, Skip James e gli ultimi Tinariwen (ma anche un Vinicio Capossela) di Il punto del cinghiale, le cadenze quasi industriali della title track. Ma è tutto il disco a funzionare, a divorarti boccone dopo boccone senza guardarti nemmeno in faccia, impegnato come è a scorticare murder songs ipotetiche e parole troppo pesanti per sciogliersi al sole. Detto tra noi, questo menefreghismo da mine vaganti, questa anomia da bluesman del nuovo millennio, è uno dei pregi maggiori di dodici tracce che sanno, in primis, d'esistenza vissuta. Non fatevele scappare 7.3/10 Fabrizio Zampighi album, le (anti)melodie vocali di Pj Harvey, con un tocco di malinconica e straziante sofferenza. Malgrado non tutte le scelte degli EATW del 2014 siano comprensibili e giustificabili (un po' ci manca quel sound ricercato, ingenuo e fatato 104 degli esordi), ci sentiamo di premiare il coraggio e l'abilità di una band sempre interessante, sempre concentrata sugli strumenti a disposizione, sempre sull'osso, affamata. Non sarà più il gruppo della nuova onda, della nuova sperimentazione, ma è meglio prendersi qualche r e c e n s i o n i o t t o b r e Gian Luca Mondo - Petali (Contro Records,2014) rischio, che non rischiare mai. 7.1/10 Nino Ciglio Genere: pop, cantautori Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè si conosco da una vita, almeno da quegli anni Novanta che li ha visti sbocciare nel praticello pop stretto tra le fioriere sanremesi e le siepi fitte del cantautorato (di scuola romana, of course). Le rispettive carriere li hanno visti baciati da riscontri alterni tanto quanto gli altalenanti esiti artistici. Forse tra i tre la targa del meno banale tocca all'allampanato Max, estro notevole al basso e un debutto coraggioso (Contro un'onda del mare, 1996) seguito da lavori via via – ahinoi – più addomesticati. Intendiamoci, non manca loro la capacità di sfornare canzoni accattivanti, benedette da testi ingegnosi e spesso supportati da un autentico trasporto, ma – come dire? – sembrano accoccolarsi nello spazio angusto di una scena nazionale all'interno della quale riescono a ritagliarsi una certa rilevanza. Lo fanno senza il minimo accenno ad uno scarto che vada oltre la linea di galleggiamento standard, preferendo continuare a riflettersi in un pop cantautorale che ha l'indubbio vantaggio di lasciare le cose nel posto esatto in cui le ha trovate. L'equivalente, se volete, di un Fabio Volo per le sorti della letteratura nostrana (spero che il paragone non suoni offensivo). Non dubitiamo che l'idea di unire le forze oggi sia dovuto ad obiettivi eminentemente artistici, di certo è una trovata di tutto rispetto in un'epoca che necessita soprattutto di dare all'utente uno straccio di motivo per comprare uno straccio di disco. Detto ciò, stupisce che se ne sia parlato come di una specie di supergruppo alla CSN, o t t o b r e r e c e n s i o n i Fabi Silvestri Gazzè - Il Padrone Della Festa (Sony Music Entertainment,2014) entità provvidenziale capace di restituire lustro ad una scena in disarmo. In fondo in questo Il padrone della festa non accade nulla di particolarmente rilevante: parliamo di ballatine elettroacustiche (Alzo le mani), ebbrezze bossa (Canzone di Anna), fregole mariachi (Spigolo tondo) ed evanescenze 80s (Come mi pare) senz'altra ambizione che ben figurare nelle più gettonate playlist nazionalpopolari, magari puntando ora all'aura mediocritas à la Ron (L'amore non esiste, la title track) e ora alla teatralità imbizzarrita degli Avion Travel (Arsenico). Tutto si svolge nel solco dell'orecchiabile levigato con carinerie d'arrangiamento e qualche bel colpo d'ingegno sul versante dei testi, quel che basta a conferire lo status di "intelligente". Neppure servono a risollevare le sorti la trepidazione wave di Life Is Sweet (come un Riccardo Sinigallia sbrigativo) e il lirismo resinoso di Giovanni sulla terra con le sue luci eniane e l'enfasi narrativa tra Dalla e Fossati, i due momenti migliori del programma. L'impressione, insomma, è che il totale in questo caso non superi la somma delle parti. Anzi. 5.5/10 Stefano Solventi Fast Animals And Slow Kids - Alaska (Woodworm,2014) Genere: pop, rock Reduci da un incredibile sfilza di successi, i Fast Animals And Slow Kids da Perugia si sono imposti su larga scala attraverso sentieri piuttosto tipici a queste latitudini. Se possiamo catalogare il loro genere nelle infinite declinazioni del (l'emo) core, possiamo anche facilmente immaginare come, con l'indole incendiaria, i riff massicci e le gole spezzate, i quattro della band umbra facciano facile presa sui loro coetanei (venticinquenni?). Malgrado le premesse possano far pensare al profilo di 105 o t t o b r e 106 biglietto) dallo spazio-catarsi-concerto. L'Ouverture, dunque, con un condito arrangiamento di archi e melodie malinconiche che quasi richiamano alla memoria To Wish Impossible Things dei Cure, crea lo spaesamento essenziale per il prosieguo ruggente del disco e ne rappresenta, a tutti gli effetti, l'episodio più interessante. Con Il Mare davanti è già strapotere del testo che, se regge nelle descrizioni iniziali, si perde nel finale con «A me che sono un represso» e «Non c'è più speranza» gridato a tutta gola, sotto un tappeto orchestrale. E torna ancora la riflessione sociale nel singolo Come reagire al presente, vero esempio di brano emopop di massima orecchiabilità, che non sfigurerebbe nei migliori talent show. E ancora: le suggestioni chitarristiche alla Federico Poggipollini di Te lo prometto, i siparietti di calma, in cui emerge un Brunori in nuce, un Dente mancato, un Dimartino incazzato, le filastrocche armoniche e al solito costruite a climax di Odio Suonare, lo squilibrio e l'asimmetria della tranquilla Il vincente. Al di là delle caratteristiche vocali del leader, che possono essere apprezzate o indigeste nel loro essere così teatrali, sempre in bilico fra ubriachezza, stonatura e instabilità, l'impatto globale di Alaska non è dei più positivi, perché nell'orchestrazione dei brani troppo spesso si finisce col risultare monotoni e ripetitivi: le geometrie, infatti, sono quasi sempre fondate su un sali-scendi-sali che, se funziona in episodi come Gran Final, è quasi sempre troppo scontato per essere apprezzato in pieno. Con i FASK non siamo davanti a un fuoco fatuo, ma ad un fenomeno della musica di casa nostra che, ancora una volta, merita lo spazio per potersi esprimere pur rischiando spesso di trovarsi fuori posto. 5.9/10 Nino Ciglio r e c e n s i o n i una band estremamente generazionale, grazie anche all'impatto dei moltissimi concerti per i palchi di tutta Italia, Hybris, il secondo album, aveva mostrato di che stoffa i FASK fossero fatti. Non solo disordine e voglia di asserragliare tutto, ma anche un affiatamento reale verso le modalità tipiche dell'hardcore, edulcorate da un gusto autentico nei confronti del cantautorato ruggente. L'attesa per Alaska, dunque, è cresciuta in maniera esponenziale e, date le premesse, l'album avrebbe potuto seguire due direzioni. Considerato il debito evidente della band nei confronti di Raein, La Quiete e, soprattutto Fine Before You Came, si poteva pensare di accentuare le caratteristiche incendiarie del sound e spingere il cantato al di sotto dei muri chitarristici e percussivi. D'altra parte, sarebbe stato comunque sensato riportare alla luce le suggestioni punk-rock "con chitarra acustica" già sdoganate, ad esempio, dagli Zen Circus: la voce che evoca disagi più o meno sociali o, in questo caso, adolescenziali, che diventa il vero fulcro dei brani. Complice anche la personalità straripante di Aimone Romizi, alla fine Alaska, pur tenendo ben alto il muro del suono (e, anzi, trasfigurando gli arrangiamenti di archi o fiati, ben innestati in Hybris), segue purtroppo la seconda strada, quella del chitarrismo rampante, del cantautorato travestito da bestemmia. Si vuole dire che dietro una copertura (a dire il vero ben riuscita) di brani prepotenti, schizzati e irrefrenabili, si cela una forma-canzone che si appoggia su stilemi già noti, ovvero quelli del "fancazzismo" de Lo Stato sociale, della sempiterna adolescenza dei Ministri, dell'urlo fine a se stesso de Il Pan del diavolo. C'è tanto, forse troppo patetismo nelle corde vocali spezzate di Romizi, che rischia di scivolare nel nichilismo autoreferenziale o, semmai, nell'esperienza fine a se stessa che dura solo nell'ambito delimitato (da chi effettivamente paga il Genere: elettroacustica, fieldrecordings, noise Lanciata sul mercato nel 1963 dalla Philips, la compact cassette si è dimostrata mezzo rivoluzionario nello stravolgere le modalità di fruizione della musica (in particolare dopo l'introduzione, dal 1979, del Sony Walkman) e nel rendere accessibile la registrazione, consentendo facilmente sia la duplicazione di fonti preesistenti (trasmissioni radio o album, per la preoccupazione delle major – home taping is killing music!), che la diffusione sottocoperta di produzioni indipendenti. Pur tecnologicamente surclassata dall'avvento del CD prima e dell'MP3 poi, la musicassetta vive ancora oggi, nell'epoca dello streaming e dei cloud, in Africa, nelle auto Euro 1 e in ristretti circuiti retromaniaci (oltre che come segno grafico di moda per t-shirt e smartphone cover). Ed è proprio l' audiocassetta il soggetto di Chromdioxidgedächtnis ("memoria al biossido di cromo", ovvero la cassetta tipo II – CrO2), lavoro sperimentale, astratto e personale di Felix Kubin. Come indicato nel pregevole booklet (compreso nel boxset insieme ad un CD e, più che coerentemente, ad una cassetta C-60), indispensabile strumento per decodificare il progetto, l'opera tratta direttamente "delle caratteristiche della registrazione magnetica – le sue vacillazioni meccaniche, le sue saturazioni, distorsioni e interferenze". Più che ai suoni e ai rumori, l'attenzione è quindi rivolta alle imperfezioni e alle inadeguatezze del processo di tape recording, senza peraltro portare questi ragionamenti alle estreme conseguenze, come era invece successo nel caso degli esperimenti di Alvin Lucier (I Am Sitting In A Room, 1969). Chromdioxidgedächtnis prende le mosse dall'omonima composizione "per strumenti elettronici, registratore a cassette, pianoforte e percussioni" commissionata a Kubin dal Consiglio Tedesco della Musica (presentata ad Amburgo nel maggio 2013, in trio con Ninon Gloger e Steve Heather), a cui vengono affiancati suoni e memorie di suoni, carpiti dalla radio o dalla segreteria telefonica, o recuperati dall'archivio giovanile dell'artista tedesco, field recording o prototracce elettroniche. In questa attività di archeologia privata trova posto anche un'intervista a Wim Langenhoff, dipendente Philips coinvolto nello sviluppo tecnico dell'audiocassetta e membro del collettivo olandese Electric Chamber Music Ensemble, alcuni brani del quale vengono qui utilizzati come collante e colore. Lasciando temporaneamente da parte l'atteggiamento divertito e l'ironia quasi zappiana che contraddistingue le sue pubblicazioni "dada pop" (delle quali Zemsta Plutona, uscito a fine 2013, rappresenta ottimo esempio), Kubin firma un progetto tanto stimolante a livello di dichiarazione di intenti quanto, tutto sommato, poco interessante e solipsistico all'atto dell'ascolto, ottenendo lo stesso effetto che si ha quando si raccontano ad altri i propri sogni. 6/10 o t t o b r e r e c e n s i o n i Felix Kubin - Chromdioxidgedächtnis (Gagarin Records,2014) Alessandro Pogliani Flying Lotus - You're Dead! (Warp Records,2014) Genere: prog, elettronica You're Dead!, 38 minuti organizzati in un unico flusso, un film per le orecchie scandito dai disegni di Shintaro Kago, prosegue coerentemente il discorso inaugurato da Flying Lotus con Cosmogramma, chiarendo definitivamente quale sia la sua idea di musica. Non si tratta tanto di una possibile elettronica suonata, quanto proprio di un nuovo jazz, anzi di una pan-fusion la cui anima sono un basso nodoso, un piatto ride ora picchiettato ora sfrigolante, tante linee di tastiera elettrica, tanti vocalizzi vaporosi. Il suono di Steven, in pieno 107 Genere: indie, avant Di Helado Negro aspettavamo un disco maturo, dopo che si era divertito a fare la figura dell'emarginato del glo-fi e aveva professato qualche indecisione di troppo, sfociata in una miriade di progetti con qualche promettente sprazzo di genialità pop. Al quarto disco Roberto Lange raggiunge l'agognata "ripeness", viaggiando sulle coordinate che hanno reso interessante il suo timbro: tropicalismo, synth misurati, cantato mezzo ispanico mezzo inglese e lacrimucce nostalgiche. I Krill You ha gli inserti orchestrali/coreutici che già usati nella serie degli EP Island Universe Story (in particolare nel Vol. 2 con la collaborazione con il compositore Trey Pollard), in Myself On 2 U c'è il featuring dell'amico di Atlanta Adron, che aggiunge un tocco di soul alle ritmiche sudamericane, in Friendly Arguments si fa maturo anche l'uso della voce, che assomiglia sempre di più a quella del frontman dei National. Triangulate è poi uno strano ibrido fra il dark di certo Tricky e la dolcezza dei synth anni 80. Per finire That Shit Makes Me Sad mescola Brian Ferry e Phil Collins. L'uomo raccoglie a piene mani l'eredità del pop elettrificato di Beck di Midnite Vultures e la riattualizza con qualche citazione Animal Collective, filtri sepia da Instagram e il ricordo di quello che ci aveva insegnato Washed Out nei suoi EP d'esordio. Una sensibilità che trascende dalle mode e crea un ottimo compromesso fra synth pop e cantautorato indie. Lange è come se fosse una specie di Julio Iglesias raffreddato con i synth squadrati dei Tarwater (Queriendo): un ibrido che non c'era, e che non fa sorridere, anzi. L'uomo è serissimo negli intenti e ha una sensibilità che mette i delay al posto giusto, ci aggiunge qualche tastierina e qualche beat chiudendo il cerchio senza sbavature. Fa tutto a casa Roberto, e dalla finestra del suo studio di Brooklyn ci immaginiamo di vedere passare Hannah Horvath di Girls o la frangetta di qualche studentessa ricca che è andata a studiare a New York dai Parioli. Un disco che fa moda non perché è di moda, ma perché vale. 7.4/10 Marco Braggion trip post-Bitches Brew, è sfarzoso, ma lontano dal massimalismo wonky che ha contato negli ultimi anni, è puro afrofuturismo da salotto, lontano anche dalle baldorie e dai bagordi dei figli di Sun Ra (o dalla carnale spiritualità, dalla umana trascendenza dello zio Coltrane), incorporato com'è in una pasta timbrica suadente e impeccabile, elegante, controllatissima, che da Until the Quiet Comes è programmaticamente manierista. 108 Escludendo la manciata di pezzi rappati e sotto l'influsso del doppio Captain Murphy (quello con Kendrick Lamar, quello con Snoop Dogg, The Boys Who Died in Their Sleep), tutti ottimi, ma assai meno selvaggi di quanto pensabile dopo lo splendido guazzabuglio psichedelico che era stato Duality (di cui si attende il seguito entro l'anno, speriamo finalmente con dentro Lil Wayne), il disco è uno showcase di goloserie da produttore, da audiofili col mi- r e c e n s i o n i o t t o b r e Helado Negro - Double Youth (Asthmatic Kitty Records,2014) Gabriele Marino r e c e n s i o n i Francobeat - Radici (Brutture Moderne,2014) Genere: pop, cantautori «C'era una volta un matto. E questo è un fatto». Comincia così il nuovo disco di Francobeat, Radici, con una dichiarazione – e un brano, il "manifesto dei diversi" Belluno – che riassume in una decina di parole il concept alla base del lavoro. Sì perché i "matti" Franco Naddei è andato a cercarli sul serio, collaborando con gli ospiti della residenza per disabili mentali "Le Radici" di San Savino (Riccione) per i testi di tutti i brani del disco. Del resto l'arte più originale nasce da sempre dal disordine, mentale o esistenziale che sia, e anche questo è un fatto; nel caso specifico, inoltre, il raccontare storie – tra cui la propria – attraverso il dialogo o la scrittura (realistica o fantastica) diventa per i pazienti del centro una vera e propria terapia («caro amico Franco, ti offriamo un vin santo, se ci aiuti a trasformare in canzoncelle, tutte queste note belle»), come spiega nel booklet anche la psicoterapeuta Patrizia Cavalli. Ovviamente torna alla mente il caso emblematico di Daniel Johnston – al cui stile potremmo accostare, al massimo, il pianoforte "affogato" della poetica Io ero bellissima – ma solo per certe assonanze tematiche e di contesto. Per il resto Naddei lavora di testa propria, bravissimo a posizionare il tutto su un terreno fatto di rime baciate filastrocchesche in stile Gianni Rodari (qualche richiamo al recente progetto discografico/editoriale Mondo Fantastico) e costruzioni musicali variegate che seguono le metriche un po' scardinate dei testi. Ecco allora un'iniziale Belluno che cita certi deragliamenti del Barrett solista, una Le mie meraviglie che finisce dalle parti di un ambient da Minimoog e affini, il rock-wave intestinale di Verde/Secco, i King Of Convenience suggeriti dalla chitarra acustica di Camminare e di Pillole, la ballad "timida" de Il principe e la donzella, il tex mex o t t o b r e croscopio, immerse in atmosfere ora più dense (l'esoterica Descent into Madness, Ready Err Not) ora più elegiache (l'ascensionale Siren Song, Obligatory Cadence) che restituiscono tutta la pulizia dei Settanta con tutta la tecnologia dei Duemila, sfruttando l'expertise di vari turnisti jazz (e di Herbie Hancock) orchestrati dal solito Miguel Atwood Ferguson. Non si scappa, tanto nelle strutture, che nei suoni, che nella strategia con cui entrambe le cose sono impiattate: per dire, i primi quattro pezzi non sono che una lunga intro a Never Catch Me (e Cold Dead è una scheggia di math rock suonato dagli Area di Maledetti) e Coronus, The Terminator è un apocrifo di Madlib – ripulito – per Erykah Badu. Detta così dovremmo spellarci le mani. Il fatto è che accecati dal nome, dalle attese, dai discorsi di contorno, dalla lucentezza dei suoni il rischio che si corre è di non vedere questo disco per quello che è: un lussuoso EP, un'alternanza di intro, intermezzi, code e sprazzi di grande musica confezionati da un produttore bravissimo e con mezzi potenti che è diventato maturo nel senso dell'AOR. Dopo il funk di 1983, il blues di Los Angeles, il prog di Cosmogramma e il trip hop di Until the Quiet Comes era questo l'esito più probabile e questo è stato. Ma Steven deve osare di più, andare sul serio in quell'oltre di cui parla. Sono splendidi suoni e faranno scoprire e riscoprire i Soft Machine di Third and dintorni, la "musica totale", tutto quello che è successo dopo il Miles Davis elettrico, forse anche il Kraut. Ma questa fusion afrofuturista ancora non (ci fa) esplode(re la testa): come immagini a corredo, invece di Shintaro, sarebbe stata più azzeccata una raccolta di screen saver con foto di nebulose in HD. Resta un disco importante per capire dove può puntare la musica che viene dai beats. 7/10 109 o t t o b r e Fabrizio Zampighi Hammerhead - Global Depression (Learning Curve,2014) Genere: rock, noise Se avete più di 30 anni e vi siete sempre trovati bene a trafficare con reietti, depravati, drogati, drop-out e gentaglia simile, allora non avete scuse per non gioire. Gli Hammerhead sono tornati e con loro riaffiora l'epoca d'oro dell'AmRep, quella più sporca e maledetta, disturbante e fuori fase, alla quale Jeff Mooridian Jr. (batteria, aka Isolation DH-9), Paul Erickson (basso, aka Apollo Liftoff ) e Paul Sanders (chitarra, aka Interloper) apportarono il giusto grado di follia – eleggere il Travis Bickle di Taxi Driver a guida spirituale è garanzia di qualità – e qualche lieve variazione del canone (vedi alla voce "infatuazione per l'immaginario sci-fi"). Tre dischi lunghi e una 110 manciata di pezzi minori prima del classico disbanding – risolto dopo uno iato decennale con un paio di live-reunion (la prima in occasione del 25ennale dell'AmRep) e un 12" single sided pubblicato proprio per l'occasione dall'etichetta di Tom Hazelmyer – avevano toccato i cuori dei più rudi noise-rockers del tempo, facendo del terzetto di Minneapolis (originario in realtà della Coeniana, Fargo) una sorta di culto sotterraneo. Ora con questo Global Depression i Nostri riprendono il discorso proprio dove lo avevano interrotto quasi 20 anni fa: giri circolari di basso distorto tanto groovey quanto disperati (Like A Wizard), solito drumming secco e in perenne midtempo pure nel suo essere eclettico, chitarre taglienti come accette e corrosive come nella miglior tradizioni noisey e un cantato spesso distorto e disumanizzato (Another Room) che è a dir poco destabilizzante. Tutto sparato in faccia senza fronzoli né troppi giri di parole – qualche appena accennata concessione alla melodia e qualche sperimentazione weird-sci-fi (Descended From Apes) – in un mini da poco più di 15 minuti in cui depravazione e ossessioni annullano lo iato pluriennale e ci offrono gli Hammerhead al loro massimo splendore. 7/10 Stefano Pifferi Hozier - Hozier (Island,2014) Genere: pop, soul, blues La lunga corsa verso il successo dell'irlandese Hozier (Andrew Hozier-Byrne all'anagrafe) passa inevitabilmente dall'omonimo album d'esordio, contemporaneamente un punto d'arrivo e un punto di partenza. Punto d'arrivo se parliamo della gavetta che ha regalato al ventiquattrenne di Bray parecchie – e probabilmente inaspettate – soddisfazioni: dal successo ottenuto settimana dopo setti- r e c e n s i o n i di Carmencita o la canzone d'autore quasi tenchiana di Io ero bellissima (infiltrata con una psichedelia sognante un po' à la Flaming Lips nella conclusiva Che cambino le cose). Colpisce l'ingenuità semplice di alcuni passaggi, ma anche l'estrema serietà di parole cantate con apparente leggerezza pop («pillole magiche, pillole di chi è fragile, di chi non ha una vita facile») e l'umanità di certi temi (la bellezza sfiorita, l'amore, il sesso, il corpo, la solitudine) così vicini a ognuno di noi. Al disco partecipa (in varie misure) un parterre di musicisti aggiunti che comprende Sacri Cuori, John De Leo, Santo Barbaro, Moro, Giuseppe Righini, Giacomo Toni. Anche questo dà il metro di quanto Radici si elevi dai confini fin troppo ristretti di un mercato discografico nostrano che raramente ha il coraggio di mettersi veramente in gioco, per farsi opera a sé stante e in qualche maniera "sociale". «Il manicomio diventa una barzelletta. E tutti parlano a strofetta» 7.2/10 r e c e n s i o n i volte per cadere in manierismi da classifica amplificati da arrangiamenti a grana grossa e dalla produzione di Rob Kirwan. È il caso di Sedated con il suo ritornello da boy band, di Jackie and Wilson, tributo a Jackie Wilson ("we'll name our children Jackie and Wilson, raise em on rhythm and blues") e dell'easy-listening Someone New dove si palesano sfumature non troppo distanti dal territorio Counting Crows. E' lapalissiano che in un prodotto di questo tipo ci si aspettino concessioni al radiofonico ma la vera forza di Hozier si palesa negli spunti chitarristici (To Be Alone – peraltro meglio qui che su disco – e la slide-guitar di It Will Come Back) e nei brani più intensi e meno orecchiabili, come nel folk-gospel di Like Real People Do (già presente in Take Me To Church EP). L'altro passaggio in fingerpicking acustico – In a Week, in duetto con la conterranea Karen Cowley – alterna momenti di magia ad altri decisamente stucchevoli. Negli oltre cinquanta minuti di Hozier, l'irlandese mostra una grande abilità nell'unire atmosfere d'antan ad aperture più moderne ma, con un pelo di rammarico, gli highlights in formato pop continuano ad essere le titletrack dei rispettivi EP pre-album. 6.5/10 Riccardo Zagaglia IO e la TIGRE - IO e la TIGRE EP (Autoprodotto,2014) Genere: cantautori, rock Chissà se il 2014 verrà davvero ricordato come l'anno della riscoperta degli anni '90. Le IO e la TIGRE provano a dare la loro versione dei fatti confezionando un EP di chitarre elettriche grasse, compresse e ruggenti (Sottovuoto) come si facevano una volta, in un guscio di batteria minimale e voce rabbiosa non troppo interessata alla forma. Sorta di L7 giocattolo, la formazione felsineo-cesenate (un duo à la 111 o t t o b r e mana dal suo singolo Take Me To Church, alle apparizioni televisive (a maggio è stato ospite da Letterman e da Ellen DeGeneres), passando per la conferma discografica del secondo EP From Eden. Punto di partenza se guardiamo invece nella direzione di una consacrazione probabile ma non necessariamente scontata. Effettivamente le cifre che stanno totalizzando George Ezra con Wanted On Voyage, Vance Joy con Dream Your Life Away e soprattutto Sam Smith con In the Lonely Hour parlano chiaro e assumono la connotazione di una controprova del fatto che il grande pubblico è portato ad acquistare certi dischi anche dopo un anno di bombardamento mediatico: Budapest, Riptide o Take Me To Church (tutte e tre incluse nella nostra compilation Tracks from EPs 2013) avevano già stancato i più ad inizio 2014, eppure i loro autori non sembrano assolutamente voler rallentare il proprio percorso. Rispetto ai tre newcomers citati in precedenza, Hozier ha tenuto un profilo più basso, continuando a mostrare un'attitudine da musicista poco interessato a quello che si muove attorno alla sua figura pubblica. Tra venature soul, pop, folk e sprazzi di rock è la componente blues a farsi largo con più forza, figlia di una passione che Andrew si porta dietro fin da piccolo, quando il padre – un bluesman di Dublino – lo sottoponeva all'ascolto di John Lee Hooker e Muddy Waters. Il vecchio blues, capace di contagiare anche gli ultimi Arctic Monkeys e Alt-J (la black-keysiana Left Hand Free), torna quindi ad essere un punto di riferimento per la musica inglese. Hozier – l'album – è però un lavoro riuscito solo per metà: tra le – forse eccessive – tredici tracce (diciassette nella versione deluxe) non mancano i passaggi a vuoto ed in generale si ha l'impressione che il Nostro non abbia espresso tutto il potenziale di cui dispone, finendo più Genere: punk, indie L'ultima pinta offertaci da Jamie Alexander Treays, aka Jamie T, risalente ad oltre cinque anni fa, ci aveva mandati a casa appagati. Kings and Queens era riuscito a confermare una volta per tutte il valore dell'artista che ci trovavamo di fronte. Un ventitrenne capace di fondere nelle sue opere l'anima del punk e del folk britannico anni Ottanta, l'indie da dancefloor e i beats hip-hop di nuova generazione. Jamie T era allora all'apice dell'hype creatogli da una stampa, quella britannica (vedi NME), sempre alla ricerca di prede con cui nutrirsi, ma il ragazzo dimostrava di sapere con chi aveva a che fare dichiarando, con la solita lingua tagliente, "one minute you're the next big thing and the next you're shit". Forse è per questo che per oltre cinque anni si è rinchiuso in un silenzio che aveva finito addirittura per allarmare la sua fanbase, tanto da arrivare a creare una pagina facebook dal nome "Where is Jamie T?". Jamie, dal canto suo, faceva sapere di non essersi mai mosso da quel decadente pub di provincia e di aver continuato a macinare testi e canzoni, oltre cento, dodici delle quali ritroviamo in questo Carry on the Grudge. L'atmosfera che si respira entrando nel nuovo mondo disegnato da Jamie T pare tuttavia essere cambiata. Jamie appare ora più quieto, riflessivo e adulto. Il trittico iniziale segnato da Limits Lie, il singolo Don't You Find e la piovosa Turn On the Light sono le specchio di un ragazzo che sembra aver messo da parte la voglia di fare baldoria per entrare in quella che può essere definita l'età delle responsabilità. Quella fase della vita che è racchiusa in Zombie, in cui Treays recupera l'andatura spassosa di un tempo, ma rivestendola di malinconia e rabbia per una storia d'amore andata a male. Lo stesso vuoto dell'età adulta che aleggia in gran parte del disco e che ritroviamo nella dolce Love Is Only A Heartbeat Away (ballata in cui a una chitarra arpeggiata fa da contraltare una vellutata composizione di violini), nella raffinata Murder of Crows, nelle strummeriane The Prophet e Trouble (che a tratti appare una The Magnificent Seven dei giorni nostri) e nelle più elettriche Rabbit Hole e Peter, che devono molto ai Kasabian dei giorni migliori. Jamie affida la chiusura di questo terzo capitolo discografico a They Told Me It Rained, punto d'arrivo del Jamie T artista, e non solo. Piove nella post-adolescenza, ma se questo è il risultato lasciamo che piova ancora e ancora. 7.5/10 Marco Frattaruolo White Stripes che non fa musica à la White Stripes, composto da Barbara Suzzi e Aurora Ricci) somma all'elettricità una certa melodia, testi che rimandano alla canzone d'autore più recente (a tratti viene in mente Maria Anto- 112 nietta) e una slackerness indie-hipster dedita al buon vecchio binomio grunge "quiete/tempesta" (vedi alla voce: "pedaliere e distorsori"). Nel disco c'è spazio anche per certe analogie Zen Circus (La mia collezione impossibile), r e c e n s i o n i o t t o b r e Jamie T - Carry on the grudge (Virgin,2014) ritmiche cadenzate Violent Femmes in chiave pop (Il lago dei cigliegi) e cover che rivelano molto del DNA "misto" della band (una Cuore portata al successo da Rita Pavone), ma soprattutto per una spavalderia e una sensibilità do it yourself che alla fine convince senza strafare. Le aspettiamo sulla lunga distanza, le due ragazze, sperando che non si perda quanto di buono si intuisce in questa autoproduzione distribuita esclusivamente in digitale. 6.7/10 Fabrizio Zampighi Genere: elettronica Avevamo catalogato con la tag hipster house i primi esperimenti su 100% Silk di Daniel McCormick. Rispetto ai "colleghi" Caribou, Jaar e simili, il ragazzo di Washington aveva la vena dello sperimentatore ad ampio raggio: una feature che l'aveva portato a mescolare nei suoi pezzi forse troppi elementi, che distraevano la messa a fuoco globale (vedi il precedente album Hive Mind). In questo nuovo disco, Ital cerca di concentrarsi di più sul lato "atmosferico" della sua produzione, un cammino intrapreso già nella collaborazione con Hieroglyphic Being e negli EP immediatamente precedenti su Workshop e su(lla sua) Lovers Rock. Risultato: melodie house ed esplorazioni techno che ricordano in qualche modo Drexciya e Dozzy: uno degli scopi del disco era infatti, secondo lo stesso Ital, "mantenere le cose liquide". Il riferimento è alla psichedelia, ai minimalisti, all'ambient e al post-global: l'album è stato mixato guardacaso a Los Angeles con l'aiuto del multistrumentista M. Geddes Gengras (giro Not Not Fun, Pocahaunted, Sun Araw, The Congos) ed è stato masterizzato da Rashad Becker. Il risultato suona ovviamente bene, anche se in Marco Braggion o t t o b r e r e c e n s i o n i Ital - Endgame (Planet Mu Records,2014) troppi punti manca l'anima. Grandi piani sonori ben curati (Relaxer), architetture studiate a puntino (Dancing), ritmiche da club trancey (la bella Whispers In The Dark, White II), tunnel e trip mentali in fissa liquida Detroit-Drexciya (Coagulate, Concussion). Tutto molto meditato, tagliato a puntino, ma in generale si fatica a sentire l'esplosione, quel quid in più che scalda e fa muovere il cuore. In più non si capisce bene in che cosa Daniel si differenzi dai suoi peers. Cosa ha di così innovativo questo suono? Una trance che non osa mai (come invece fa quella di Dozzy), una ricerca che non va oltre il dancefloor/ambient e non spazia su altri mondi (come invece fa quella di James Holden), o un'intimismo che non fa scaldare i cuori (vedi ad esempio alla voce "Blake"). Tutti elementi che pesano e che rendono il lavoro prescindibile. La prossima volta dì la tua in modo più riconoscibile. Basta crederci. 5.9/10 JAWS - Be Slowly (Rattlepop,2014) Genere: pop, rock, indie Sarebbe errato non includere i JAWS in quella lunghissima lista di gruppetti inglesi che finiscono per cadere nel dimenticatoio dopo pochi mesi, ma altrettanto errato sarebbe non riconoscere alla band la capacità – condivisa con parecchi colleghi indirettamente citati in precedenza – di realizzare una manciata di brani vincenti, dal target preciso e perfettamente adatti ad ascolti disimpegnati. "Per cadere nel dimenticatoio sarebbe però necessario essere passati, almeno per qualche tempo, per la notorierà", direte voi, e non avreste tutti i torti, dato che fuori dal ristretto circolo di appassionati i JAWS sono pressoché sconosciuti: appartenenti alla scena B-City (Birmingham) con i compari Peace e Swim Deep (altre due hyped-band a posteriori piut- 113 Genere: rock Sembrano un po' quegli scherzi del destino… Un artista-simbolo come Johnny Marr, all'asciutto (in quanto a progetti in proprio) per ben 25 anni, pubblica due dischi, uno dietro l'altro in meno di 20 mesi. Qualcosa nella sua vena da duro, con un elevatissimo livello di timidezza nel sangue, dev'essere cambiato. The Messenger segnava non solo il ritorno solista del Godlike Genius di Manchester, dopo collaborazioni di vario tipo, alcune vagamente riuscite (Electronic, The The, Modest Mouse), altre meno (The Cribs, The Healers). The Messenger segnava il ritorno della chitarra smithisana per antonomasia, adagiata, all'occorrenza su tappeti futuribili di un classico brit rock, alle volte dichiaratamente derivativo, altre volte ben focalizzato sulla prospettiva post-urbana del Nuovo Mondo, da cui il Nostro arrivava a inizio 2013. The Messenger era l'album del ritorno e, sebbene fosse una raccolta di canzoni non perfette e magari poco catchy, funzionava per il suo stesso bilanciare la componente sperimentale alla chitarra che ha scritto la storia del pop-rock. Concepito proprio durante il tour di promozione del disco precedente, Playland ne è chiaramente l'ideale continuazione tematica e concettuale. Le undici tracce appaiono l'altra faccia della medaglia di quelle di The Messenger. Con poche ma significative differenze. Mentre nel disco del 2013, infatti, regnava sovrana un'atmosfera stagnante, estremamente metropolitana, dai colori contrastanti come quelli della sua copertina, Playland ha un altro scenario e nuovi obiettivi: quelli di filtrare e bilanciare in controluce la nuova vita della capitale britannica, con la quale Marr pare sia tornato in buoni rapporti e, anzi, abbia voglia di raccontarne i pregi e i difetti, dal consumismo, al sesso, all'ansia e l'ideale trascendenza da esse. Trascendenza, appunto, che trasforma il grigio smog di Londra nel regno dei giochi, visti come condizione esistenziale non solo dell'uomo ma degli animali tutti: Playland, che altro non è se non l'adattamento dell'opera Homo Ludens di Joan Huzinga, è appunto l'andare alla caccia di se stessi nella pre-cultura. Alla faccia di quell'acculturato dell'ex-partner col ciuffo. Ma Playland e The Messenger sono diversi ancora per un altro motivo. Playland è un disco più immediato, estremamente più accattivante e molto più ruffiano del predecessore. Più della metà delle tracce sono potenziali singoli da classifica, con melodie se vogliamo molto "facili" e un uso chitarristico più limato, meno espressivo ma più funzionale al brano. Non è necessariamente un difetto. Se è vero che questo aspetto, infatti, emergeva qua e là anche in The Messenger (Generate! Generate!, The Crack Up), il primo Lp aveva tutt'altra intenzione, che potremmo appunto valutare come intensiva, intro-proiettata piuttosto che estensiva, a pronta disponibilità. Par quasi che Marr abbia ritrovato la voglia di scrivere belle canzoni pop, con il piglio (chitarristico e non) che da sempre lo caratterizza. Non si vada in cerca di un nuovo corso, dunque, o di studi particolari del genere. Playland sembra quasi la raccolta dei brani che per ragioni di coerenza non sono riusciti ad entrare in The Messenger. Il lavoro di produzione del nuovo disco è palesemente più curato rispetto al primo e anche Marr (sembra impossibile a dirsi) pare abbia trovato una nuova maturità nello scrivere canzoni. 114 r e c e n s i o n i o t t o b r e Johnny Marr - Playland (Warner Music Group,2014) r e c e n s i o n i Nino Ciglio tosto fallimentari), i quattro guidati da Connor Schofield si sono fatti lentamente strada tra singoli e due EP, Milkshake EP e Gold EP. Quest'ultimo contiene l'omonima traccia, probabilmente la meglio confezionata fino ad oggi. Tra episodi già apprezzati in passato e alcuni inediti, l'album d'esordio Be Slowly non regala tanto di più di quaranta minuti di giovanile indie pop dall'hook facile e dal mood scanzonato. Gli ingredienti di base sono i soliti noti: dosi pesanti di Cure (la titletrack va vicino al plagio, a livello strumentale, ma pure Sunset State), una spruzzata di madchester (soprattutto l'uno-due iniziale), qualche grammo di componenti dreamy, piglio brit e sporadiche distorsioni soniche di scuola alternative '90s. Debilitato o t t o b r e Prendiamo la scarica adrenalinica dell'opening Back In The Box, con i synth che fanno irruzione come nei migliori brani dark wave spiccatamente 80s e la voce di Marr impostata e seria, che quasi ricorda Andrew Eldritch dei Sisters Of Mercy. O ancora: la potenza del singolo Easy Money, che sembra scritto apposta per riempire i dancefloor (siamo nel 2014, non nel 1985!) delle serate targate brit; i riff di Dynamo, una novella Lost In The Superparket dei Clash, con il ritornello sintonizzato sul canale "melodia disarmante"; Candidate e, soprattutto This Tension, oh This Tension…: provate a immaginarci la voce dell'Innominato, non sarebbero brani perfetti per il postSmiths? Se la risposta è no, bisogna comunque ammettere che non sentiremo niente di più simile agli Smiths di questo; 25 Hours summa indie rock, fra echi Kasabian e richiami The Strokes (già, solo che quella chitarra lì, è Marr che l'ha inventata…); The Trap, in cui torna una delle eredità più pesanti per il Nostro: quei New Order (sì, ma quelli di Get Ready) che Marr non contento dei giri di basso e dell'attitudine new wave, sembra voler addirittura imitare nel cantato. Il cantato già, quello che a lungo ha fatto discutere e mai ha pienamente convinto. Qui, come del resto in The Messenger, c'è un Marr in forma, non certo memorabile, ma che reggerebbe il confronto con Weller, Noel Gallagher o Richard Hawley. Playland, in definitiva, è un disco ancora molto giovane per un signore cinquantenne che, se non vuole saperne di capricci e retoriche socio-politiche moraliste come il suo ex-collega col ciuffo, si dimostra in sintonia tanto con gli stilemi del genere, quanto con la carriera che, ahinoi troppo tardi, si è voluto imporre. Con i suoi alti e bassi (Boys Get Straight e Little King), Playland è un disco prezioso e, soprattutto, divertente. 7.3/10 dall'impatto vocale quasi impalpabile di Connor Schofield, Be Slowly, pur sfoggiando un filo conduttore sensoriale tra il pigro e il narcotico, difetta parecchio a livello di personalità ed è quindi costretto a rifugiarsi nei singoli capitoli, in particolare Time, Gold, Be Slowly e Surround You, arricchita da una preziosa linea di tastiera. Nel momento in cui escono – lateralmente – da queste coordinate, i Nostri si perdono in un bicchiere d'acqua (in Think Too Much, Feel Too Little prendono praticamente in prestito il riffino funky dai 1975). A piccole dosi è decisamente piacevole, ma è difficile trovare ulteriori spunti di riflessione su un disco che non solo è pericolosamente derivativo, ma risulta anche incapace di im- 115 Genere: ambient, techno Lee Gamble è stato uno dei nomi più spesi dall'intellighènzia experimental techno nel 2012. Grazie alle trasfigurazioni ambient di un mixtape di gioventù (Diversions 1994-1996), a un album sospeso tra computer music e techno (Dutch Tvashar Plumes) e, in generale, a un'estrazione musicale in grado di unire, sotto il prestigioso vessillo PAN, i portati generazionali dell'ardkore continuum con le manipolazioni digitali dell'epoca d'oro di Mille Plateaux, Mego e Touch, il producer nato a Birningham è sembrato tanto il perfetto corrispettivo adulto (non intellettuale) di label come la Tri Angle (o della hipster house tout court), quanto un'ideale matta nel mazzo di produzioni e speculazioni "death of rave" (Actress e Zomby) e altro ancora (vedi i prodigiosi djset nei programmi radio e le installazioni con il sodale Dave Gaskarth). Del resto, se mettersi in mezzo alle correnti, rompere le nicchie anche solo per un motivo di sopravvivenza artistica, è uno dei must degli anni '10, Gamble, che di regole non ha conosciuto che le proprie, era ed è il personaggio giusto al momento giusto, tanto meglio se la sua libreria di suoni e campioni può, da sempre, contare su più di quindici anni di produzioni e mixtape musicali passate sotto i radar e le sue fisse di sempre. Ritrovarlo nel 2014 con un approccio che concede quel tanto che basta al 4/4 di Detroit e Chicago, asciugando molta della computer music che caratterizzava alcuni aspetti delle sue produzioni precedenti, rappresenta una nuova quadratura di un percorso ancora sfuggente, e non facile, ma non di meno affascinante, visionario, totale. Kuang e Koch, quindi, come Diversions 1994-1996 e Dutch Tvashar Plumes, sono due facce della stessa medaglia, con il primo sorprendentemente aperto ad ambiguità post-deep jazz (non lontane da Andy Stott) e il secondo, della durata di 1 ora e 16 minuti, in coerenza con il precedente Dutch Tvashar Plumes, ad acquistare i contorni sia di una versione ipnagogica della techno del Berghain, sia di un ritorno ad acquatiche ed aeree fascinazioni Porter Ricks e Basic Channel, con le quali ri-osservare smalti jungle e continuum britannici di lungo corso. La bellezza produttiva di Gamble è sì fatta di dettagli sopra e sotto il manto sonoro (tocchi noise, piccole glitcerie, loop con l'accetta, campionamenti ovunque screziati, pause, oppure, a sorpresa, lunge distese di soniche spaziali), ma si rivela a pieno in un modo particolare di tenere l'attenzione di chi ascolta. Nel coinvolgere l'ascoltatore non raccontando nulla di sé e tutto dell'altro da sé. Emerge, ancor di più, un'elettronica autorale, non vincolata ai generi, che richiama il miglior Mika Vainio come anche Thomas Köner. 7.5/10 Edoardo Bridda 116 r e c e n s i o n i o t t o b r e Lee Gamble - Kuang / Koch (PAN,2014) porsi in una posizione di rilievo tra le decine di uscite discografiche similari ascoltate negli ultimi anni. 6/10 Riccardo Zagaglia Genere: elettronica, experimental Bisogna riconoscere a Battiato la capacità di giocare con regole diverse la partita con la resa dei conti che ogni musicista maturo affronta presto o tardi. La fortunata produzione pop del cantautore siciliano – iniziata nel '79 con L'era del cinghiale bianco – lo ha visto muoversi tra elettronica, easy listening, cantautorale, wave rock, ibridazioni cameristiche, misticismo classicheggiante e sicuramente qualcos'altro che adesso non mi sovviene. Prima di questo fortunato periodo c'è stata però una fase – come dire? – propedeutica, durante la quale riuscì ad imporsi come una delle figure più curiose e interessanti della sperimentazione sonora italiana dei 70s. Da Fetus (1972) a L'Egitto prima delle sabbie (1978), passando dallo straordinario Sulle corde di Aries (1973), Battiato tracciò infatti un percorso in bilico tra minimalismo, progressiva e colta, componendo arie post-moderne in cui il canto si limitava spesso a pochi vocalizzi, chiose sconcertanti di tessiture suggestive, ambientazioni aliene che – sulla scorta delle inaudite possibilità del sintetizzatore analogico VCS3 – non mancarono di colpire anche la critica d'oltralpe. E' appunto a quei lavori che questo Joe Patti's Experimental Group (titolo scelto pare solo per come suona) guarda, recuperando modalità, strutture e forme, nonché un pezzo da Clic (la formidabile Proprietà proibita, utilizzata per anni come sigla di TG2 Dossier), forse e non a caso l'album che più ricorda l'influenza di Terry Riley e Steve Reich. Detto della pre- Stefano Solventi Joel Gion - Apple Bonkers (Burger,2014) Genere: rocknroll, psych, shoegaze Se c'è un personaggio nella musica rock degli ultimi venti e passa anni sul quale mai e poi mai avrei avuto il coraggio di scommettere un solo euro, quello è Joel Gion. Su due piedi il 117 o t t o b r e r e c e n s i o n i Franco Battiato - Joe Patti's Experimental Group (Universal,2014) senza del pianista Carlo Guaitoli, particolare enfasi è riservata al contributo di Pino "Pinaxa" Pischetola, sound engineer da tempo collaboratore di Battiato (e nel frattempo al lavoro con mezzo mondo), a ribadire che di ricerca sonora si tratta, o meglio d'indagare le possibilità di questi suoni nel presente. Le sensazioni sono positive: nel momento stesso in cui riverberi radianti, intrecci valvolari e scansioni androidi attivano i dispositivi della nostalgia e si fanno riconoscere come ingredienti fondanti della sua produzione più radiofonica (non è mai mancato al Battiato pop lo scarto qualitativamente elevato, il vezzo "alto" che si fa organico all'orecchiabilità della canzone), abbozzano una sorta di dimensione alternativa dove il sintetico non ha conosciuto la dis-antropizzazione del digitale, conservando necessità spirituali e codici visionari che la storia ha messo in disparte ma non ha annientato. Al netto di questo, rileviamo come tracce quali L'isola elefante e Omaggio a Giordano Bruno potrebbero benissimo stazionare nel catalogo Warp, Leoncavallo e The Implicate Order scozzano con disinvoltura movenze Eno e spasmi Underworld, mentre le rarefatte palpitazioni di Klavier emanano potenzialità cinematiche da brividi. Uno sfizio, un gioco, oppure una sfida all'ascoltatore "medio", cui Battiato offre la possibilità di sbirciare dietro le quinte dei "battiatismi", in quell'ombra della luce che ne sostanzia da sempre la proposta. 7/10 Genere: rock, indie, folk Avevamo lasciato l'artista americana (polistrumentista, performer, attrice) nel 2011, con l'album di transizione All Things Will Unwind. A distanza di tre anni This Is My Hand ci ripropone una My Brightest Diamond rinnovata; complice una serie di esperienze, prima per importanza la partecipazione – come attrice e autrice di alcune musiche – al film di Matthew Barney (The River Of Fundament), Shara Worden appare rivitalizzata, mantenendo inalterata la cifra stilistica e la continuità artistica. Il nuovo album è stato preceduto di un paio di mesi dal suggestivo EP None More Than You, arty pop chamber ibridato. Il suono delle marching band americane, con il ritmo scandito da tamburi e fiati, è un'altra importante ispirazione per This Is My Hand, si veda il singolo Pressure (ispirato anche al film The River Of Fundament di Barney), pop soul blues ritmato e Before The Word; per il resto trattasi di chamber pop stratificato con suggestioni sempre più elettroniche e minimali. Shara arriva, al traguardo del quarto lavoro, a fondere il suo amore per il pop classico ad elementi orchestrali e a stratificazioni sonore mediate dall'elettronica. Il nome più prossimo che viene in mente per questo album, oltre alle consuete ispirazioni Laurie Anderson e Bjork, è David Sylvian e le sue misture Ottanta (dalle parti di Brilliant Trees), più che le contaminazioni alla David Byrne (con cui la polistrumentista ha collaborato in passato). Ballad ninnananne (la title track con elementi di musical, Resonance), suggestioni ambientali (Apparition, So Easy) sospese tra chamber e rarefazioni, nelle quali la voce duttile da soprano di My Brightest Diamond gioca alla perfezione, testi come sempre evocativi: il tutto ben si dosa, consegnandoci una Shara assai consapevole delle sue capacità e che sa impegnarle molto bene. 7.3/10 Teresa Greco suo nome non vi dirà granché, ma se cominciassimo a nominare DIG!, Anton Newcombe e quindi Brian Jonestown Massacre, forse vi si accenderebbe una piccola scintilla. Bene, Joel Gion era fino a poco tempo fa il tamburellista dei sopracitati BJM. L'anima della festa, se così vogliamo definirlo. Il basettone frastornato che durante i concerti aveva il semplice ruolo di far imbestialire Anton Newcombe e mandare tutto all'aria. Un Bez – il ballerino acido che accompagnava i mancuniani Happy Mondays nei giorni di gloria – versione californiana. Dopo vent'anni di onorata carriera nelle vesti 118 di "tambourine man", Gion decide infatti che è giunto il momento di smarcarsi dall'ombra del guru Newcombe per intraprendere la propria strada. E lo fa con questo Apple Bonkers, dieci tracce che se da un lato devono molto ai sopracitati BJM, dall'altro dimostrano come Gion sia in grado di mettersi in viaggio alla ricerca della propria identità artistica. E il "trip", perché in fin dei conti di viaggio acido si tratta, parte subito in quarta con le stroboscopiche Yes e Smile, brani che ci proiettano in una vallata desertica in cui a risuonare è anche il rock'n'roll spaziale di Two Daisies e quello ben r e c e n s i o n i o t t o b r e My Brightest Diamond - This Is My Hand (Asthmatic Kitty Records,2014) Genere: pop Non si può dire che non ci abbia provato. Si è messo al pianoforte tutti i giorni per quattro mesi con la precisa volontà di scrivere delle perfette canzoni in stile Adele. Se ci pensate un attimo sarebbe la perfetta coronazione di uno stereotipo: giovane musicista gay che dopo un passato nel mondo indie trova il successo grazie alla cantante che fa piangere tutte le casalinghe del mondo. Lo racconta lui stesso, avrebbe messo a posto i conti di casa sua per un bel po' di tempo, e dopo le lacrime di prammatica, unghie laccate di rosso o meno, forse avrebbe potuto dedicarsi a quel disco personale che davvero voleva fare da tanto. "Ma non venivano: semplicemente non venivano", e allora si butta tutto per ripartire da zero. Per fortuna, possiamo dire adesso, perché il risultato è Too Bright: i migliori 33 minuti di songwriting del 2014. Il resto, con brutale senso di realtà, è solo una montagna di cazzate. Dopo Learning e Put Your Back N2 It che avevano posto stabilmente Mike Hadreas da Seattle, in arte Perfume Genius, nel radar di Sentireascoltare, ora il terzo "difficile album" rivela un songwriter di razza purissima capace di allargare il proprio raggio d'azione per non rimanere ingabbiato nella ripetitività della formula piano-voce, e mostra una curiosità sperimentale che non sospettavamo. E in più ci dimostra che 33 minuti, per 11 brani, sono più che sufficienti per "fare uno statement", come dicono gli americani. Perché pur non mancando i riferimenti al proprio recente passato, Too Bright è un album del non-ritorno, con l'asticella volontariamente alzata rispetto ai quattro anni precedenti. In fin dei conti, se Mike Hadreas avesse prodotto un'altra manciata di torch song a tema "gay panic", come dice lui stesso, nessuno avrebbe avuto niente da ridire: i fan contenti ad applaudirlo live, la comunità LGBT felice perché finalmente qualcuno parla di tematiche a loro care, i critici a benedire con una simbolica pacca sulla spalla il buon lavoro di una voce interessante della scena indie. E invece no. Si mandano delle bozze di brano ad Adrian Utley dei Portishead, che apprezza e comincia a corrispondere con il ragazzo di Seattle. Allora Mike capisce che può chiedere di più. A sé e agli altri: vuole usare quelle macchine che Utley conosce così bene. Rivuole l'amico John Parish a suonare la batteria, dove ce ne fosse bisogno. E, più di tutto, vuole provare a varcare il proprio orizzonte verso territori ancora inesplorati. C'è l'amato rhythm and blues anni Cinquanta sbiancato a dovere (My Body), ci sono i Suicide (Grid), scalpitii Eighties firmati dalle tastiere (Fool e Longping), ci sono vocalizzi in libertà che sfociano in territorio Scott Walker (I'm A Mother), c'è il marchio di torbida schiettezza che tanto ammira in PJ Harvey e Nina Simone (Queen). Su tutto aleggia una rabbia trattenuta, meditata e scelta come via espressiva, come se dopo avere sputato la propria psicanalisi personale nei primi due dischi, ora Mike Hadreas abbia trovato la quadratura e la fiducia definitiva nei propri mezzi. 7.7/10 o t t o b r e r e c e n s i o n i Perfume Genius - Too Bright (Matador,2014) Marco Boscolo 119 7/10 Marco Frattaruolo Johann Sebastian Punk - More Lovely and More Temperate (Sfera Cubica,2014) Genere: pop, rock, psych, glam, art Dietro le vesti di Johann Sebastian Punk si cela il siciliano Massimiliano Raffa che, a dispetto delle forme, con questo suo esordio punta su se stesso a viso aperto. Enrico Ruggeri lo ha scoperto e Beatrice Antolini sostenuto in fase di produzione per la SRI Productions di Daniele Calandra. Vernal Equinox è annunciata da Exit, parte lounge gridando bossa, fomenta glam e dance pop. Jesus Crust baked coglie il musical dal mascara wave/prog e Yes' I miss the Ramones è un punk ispirato al musical dal passo teddy boy. Fa centro Barber's Shop, che scolpisce sui vortici progressive e british beat. The WellShorn Moufflon Paradox ha un armonia post rock, col finale che, non chiedetemi perché, dà 120 l'idea di vedere Eraserhead di Lynch. White si tiene inizialmente su un preambolo spartano, per poi irrompere con un pianismo a fior di pelle à la Split Enz fra rintocchi di analogico e software chiazzati di caffè, come nel glitch rock di Strontium. Quello che difficilmente si può riciclare, perchè tutto ma proprio tutto è stato già detto e fatto e suonato, potrebbe, a forza d'insistere, dare un'idea, se pur vaga, di nuovo. Johann Sebastian Punk è questo mostriciattolo arty, vispo e talentuoso, pronto ad assumere mille altre forme e svariati altri pseudonimi in futuro, teniamoci pronti. Per ora un decisamente sopra la media. 7.2/10 Christian Panzano Julian Casablancas + The Voidz Tyranny (Cult Records,2014) Genere: rock, indie A ripensare al successo di Is This It degli Strokes si prova un po' di imbarazzo. Non tanto per il valore del disco in sé, ottimo e centrato per il gusto semplice e diretto che portava avanti – fatto di anthem memorabili e a presa rapida che reggono anche bene lo scorrere del tempo -, quanto per ciò che successe di lì a poco. Una discesa, qualitativamente parlando, pari soltanto al botto fatto con l'esordio, attraverso una serie di dischi che definire mosci è un eufemismo e che dimostrava due cose, in definitiva: o l'abbaglio generalizzato relativo all'esordio, o una di quelle congiunzioni astrali, ignote e sfuggenti, per le quali l'alchimia funziona a meraviglia senza una logica spiegazione, per poi sparire di nuovo misteriosamente come è arrivata. Tutto questo per introdurre la seconda fatica del leader Julian Casablancas, dopo il già abbastanza prescindibile Phrazes For The Young. Tyranny, sorta di concept ruotante attorno al concetto di "tirannia", vede il belloccio front- r e c e n s i o n i o t t o b r e più rozzo di Radio Silence, Sailon On e Don't Let the Fuckers Bring You Down (sui sedili posteriori viaggiano i Jesus and Mary Chain). Quando la destinazione comincia a intravedersi, Gion decide invece che è arrivato il momento di tirare il freno e di gustarsi un'aromatica sigaretta alle erbe, lasciandosi così trasportare dalle note delle ballate Hair Flowers, in cui a riecheggiare è lo spettro di Syd Barrett, e di una fluttuante Change My Mind. A fine corsa, la sensazione che questo Apple Bonkers lascia è quella di una pallina impazzita che, lanciata dal croupier, gira e rigira per poi posarsi su un numero perdente, il nostro. Mentre dall'altra parte del tavolo Joel Gion è lì che se la sghignazza per la vittoriosa giocata (alla faccia di tutti quelli che non avrebbero scommesso una sola monetina). Stefano Pifferi Karen O - Crush Songs (Cult Records,2014) Genere: rock, indie Che Karen O degli Yeah Yeah Yeahs fosse in grado di cantare da sola senza i compagni d'arme Brian Chase e Nick Zinner, lo avevamo scoperto cinque anni fa ai tempi della colonna sonora di Where The Wild Things Are, la pellicola di Spike Jonze: un lavoro che ce l'aveva presentata maturata e perfettamente a suo agio r e c e n s i o n i nei panni di cantastorie, lontana dall'immagine di rocker debordante propria della band di provenienza. Crush Songs, dunque, è la naturale conseguenza del buon approccio solista scoperto ai tempi dell'OST di cui sopra, perseguito e confermato, tra l'altro, dalla canzone The Moon Song per il film Her, che ha valso all'artista una candidatura agli Oscar. Il nuovo disco, tuttavia – ufficialmente il primo in solitaria – non riesce ad andare oltre una semplice interpretazione dei brani, tracce che appaiono più come un insieme di spunti raccolti in fretta e furia che come un'idea coesa e convincente. Un album di 14 pezzi per una durata totale di 25 minuti (fate voi il conto), dove, a esclusione di quattro o cinque episodi, non si riesce ad andare oltre la jam session: come ha ammesso lei stessa, Crush Songs è stato registrato tra il 2006 e il 2007 ed è "la colonna sonora di quella che è stata un'infinita crociata d'amore". Dopo numerosi ascolti, però, l'impressione è che la musicista abbia semplicemente tirato fuori dal cassetto un progetto sepolto da tempo, rivitalizzandolo con la patina hype/ newyorchese propria della Cult Records, la neonata label di Julian Casablancas. Come dicevamo, qualche brano riuscito (e in grado di essere definito tale) c'è ma si tratta di poche eccezioni, come ad esempio una Rapt che, con la sua melodia dolente ben accompagnata dalla sempre ottima voce di Karen, sintetizza tutta la direzione dell'album: approccio lo-fi, registrazioni da cameretta e in presa diretta, con canzoni sempre costruite sull'intreccio tra voce e chitarra acustica, come dimostrano Days Go By, Body King e Beast. Sono infatti solo quattro i pezzi che riescono a emergere nella restante monotonia del disco, dove si sente a tratti qualche buona intuizione melodica, e poi nient'altro. Sembra quasi di vederla, al ritorno da qualche evento cool nella sua New York, a o t t o b r e man accompagnato dal quintetto The Voidz e il marchio sull'album appannaggio della sua Cult Records, con quest'ultima scelta coerentemente in linea con le critiche contenute nell'album. In soldoni però, fatte salve le istanze meritevoli che sembrano aver mosso Casablancas in questa pseudo-crociata da poser anti-multinazionale, il discorso musicale non si allontana di molto da ciò che si diceva sopra e che è estensibile anche ai vari progetti solisti made in Strokes (Albert Hammond Jr su tutti). Un pastone senza capo né coda, eterogeneo e massimalista, tanto quante sono le influenze del Nostro, eccessivamente ambizioso e scarsamente focalizzato tra revanscismo (il termine non è scelto a caso) wave, rigurgiti sixties, electro-rock anni '90, sprazzi di pseudo alt-etno p-funk e non si sa che altro. Più di un'ora di musica che, a parte qualche saltuario momento di relativo interesse (l'assalto electro-punk di Business Dog, l'orgia noise post-Mars Volta di Father Electricity e poco altro), non ha né mordente né progettualità, ma che sembra pescare "post-modernamente" qui e là nei vari rivoli del suono newyorchese. Perché a volerla dire tutta, sembra proprio un disco-resumè delle istanze sollevate nella Grande Mela da un 30-40ennio in qua, ma senza quasi nessun tipo di attrattiva, nome dell'autore a parte. 5.5/10 121 Genere: elettronica Durante gli anni 2000, Populous è stato per Andrea Mangia l'output privilegiato di una (indie)elettronica post-Boards Of Canada che univa l'amore di sempre per l'hip hop a varie latitudini del pop, da quello strumentale sciolto nel glich e nel folk a quello tinto nella r'n'b e nello shoegaze. Dai quadretti glitch dell'esordio Quipo, Andrea è passato alle fascinazioni folktroniche di Four Tet e all'abstract-hop di Prefuse 73 con Queue For Love, disco dove troviamo, tra gli altri, il cLOUDDEAD Dose One, la chitarra di Jukka Reverberi dei Giardini Di Mirò e una buona dose di personalità al servizio di una produzione floreale, gelatinosa, fatta di campionamenti (60s e 70s) e breakbeat. E' poi arrivato Drawn In Basic, sempre via Morr, affondo nelle rotondità dell'indie (dream) pop e nei sintetizzatori di Raymond Scott, disco a doppia firma Populous e Short Stories (ovvero il newyorchese Michael McGuire) che battezzava anche un compiuto corso indie pop che proseguirà, negli anni Dieci, nei progetti Life and Limb (sempre con McGuire) e Girl With A Gun (con Matilde De Rubertis degli Studio Davoli). In mezzo, c'è un album di remix, Drawn In Basic Remixed, cartina tornasole dei numerosi legami e apprezzamenti ricevuti dal producer (da Martyn a Opiate, fino ai ragazzi del Lower End Theory e della label Brainfeeder come Teebs, producer con il quale in ballo c'era più di un'idea di album), e un grosso imprevisto: un fermo obbligatorio che lo costringe a letto, ne prosciuga le energie, azzera contatti e la voglia di fare. Quella di Night Safari, pubblicato a 6 anni da Drawn In Basic è dunque la storia di una rinascita artistica, oltre che di una riappropriazione profonda di una cifra stilistica radicata fin nell'infanzia. L'hip hop di sempre da astratto si è ingrossato di bassi e 808, i campionamenti, prima numerosi e provenienti dalla discoteca del padre, sono ora un portato pan-africano di un manipolo di producer italiani come Digi G'Alessio / Clap! Clap! e dj Khalab che già parlano, assieme al Nostro, di comunità, di scena autoctona. I sintetizzatori dalle spazialità warpiane passano alla psichedelia che va da quel James Holden che gli ha acceso la lampadina qualche anno fa all'ultimo, splendido, Caribou (Dead Sea). Semplificando, potremmo dire che quest'album è la versione pop della future roots in bilico tra footwork, hip hop e dubstep di Tayi Bebba, anche se in verità è molto di più. Il singolo, Brasilia con il feat. dell'amico fraterno di Lecce, Giorgio Tuma, fan terminale degli Animal Collective, è puro (buon)depistaggio di una tracklist mai così eclettica, ricca di spunti e nondimeno emancipata dal campo sportivo dei facili rimandi. Il punto è farti girare bendato attorno al mondo tra una buona dose di ritmi esotici e qualche episodio concentrato sulla melodia, ciondolando, magari, sulle sponde americane di drum programming e sincopato in zona Mad Decent / Diplo (Quad Boogie con il feat di G'Alessio), oppure facendoti lievitare tra la Francia degli AIR e il j-pop, con la voce dreamy di Cuushe (Fall). Con Night Safari, Andrea porta (e spezza) il lavoro di cesello che da sempre lo caratterizza a un nuovo livello. La tracklist rappresenta il frutto maturo sia di un gioco delle parti tra producer che 122 r e c e n s i o n i o t t o b r e Populous - Night Safari (Folk Wisdom,2014) puntano a un disegno più grande delle singole produzioni, sia a una progettualità personale coltivata lungo tutti questi anni. Il producer salentino, anche grazie al mastering di Twerk / Shawn Hatfield (che ha tenuto corposità sui bassi e dinamica nei suoni), ha saputo sintetizzare molteplici stimoli ed influenze non negando le proprie origini, un affare di ossessioni che vanno dalle produzioni di J Dilla, alla Stones Throw di Madlib, ai recenti ascolti dei Beat Konducta. Tutto si tiene. Egregiamente. 7.5/10 strimpellare la chitarra e improvvisare canzoni d'amore. Il difetto più lampante di Crush Songs è infatti la sua voluta incompletezza, che fa pensare ad una deriva alt-folk solo di maniera: non c'è mordente, non c'è nessuna riflessione catartica o anche qualche isolato picco d'intensità, ma solo rumori, mormorii e campanelli inseriti ad hoc per mascherare una certa svogliatezza di fondo. Un vero peccato, perché conoscendo la personalità incendiaria di Karen O sarebbe stato interessante sentirla davvero concentrata su una scrittura più emotiva e originale. Non è questo il caso, visto che, per adesso, abbiamo tra le mani soltanto un'occasione mancata. 5.2/10 Giulia Antelli Laetitia Sadier - Something Shines (Drag City,2014) Genere: pop, art, wave, synthpop Passa il tempo e la carriera solista di Laetitia Sadier raggiunge il terzo titolo, regolarissima la cadenza (uno ogni biennio) e sempre buono il livello qualitativo. Se continua di questo passo, verrà presto il momento in cui dovremo smettere di considerarla "solo" la ex-vocalist degli Stereolab, anche se la band londinese segnò il frangente storico in maniera inestimabile. Intanto però con questa autrice e interprete dobbiamo farci i conti, è una presenza concreta e attiva, non sa affatto di scoria residuale né di arredo mitologico. Nel suo avant pop infarcito di fughe all'indietro e rilanci futuristici non c'è posto per rimpianto o autoindulgenza: la ricerca sonora sembra una calligrafia che insegue la dimensione del classico, arrogandosi il coraggio dell'azzardo arty di cui i tipici testi "militanti" (vedi le citazioni di Debord nella mesmerica The Scene Of The Lie) rappresentano un fisiologico intercalare. Se lo può permettere perché alla resa dei conti la sua voce – con quella capacità di sembrare originata ad un tempo da una monade algida e dalla pasionaria col cuore rivolto a tutti – è un'interfaccia straordinaria tra il livello popular e quello avanguardistico. Probabilmente Laetitia è la sola oggi a potersi permettere d'infilare nella stessa scaletta lo sciropposo languore exotica di Release From The Centre Of Your Heart (scritta dal "nostro" Giorgio Tuma) e la paranza visionaria (aura spacey, pennellate jazzy, inseminazioni rumoristiche) di Quantum Soup, oppure una Butter Side Up dalla mollezza 60s estenuante (come un impatto atmosferico tra Crosby e gli Air) e l'incantesimo lunare pseudo bossa di Echo Port, o ancora un valzer espressionista infarcito di sbuffi orchestrali come The Milk Of Human Tenderness subito dopo lo struggimento palpitante di Then I Will o t t o b r e r e c e n s i o n i Edoardo Bridda 123 Love You Again. L'elettricità, l'elettronica valvolare, le chiose drammatiche degli archi e le nuances ammiccanti dei fiati vanno a combinarsi in quadri assieme destabilizzanti e ipnotici, ti raccontano la possibilità di un mainstream naturalmente contagiato di incantesimi cerebrali e geometrie cardiache. Pezzi come Transhumance col suo lucore cosmico e Life is Winning con quella specie di contro-psichedelia crepuscolare non sono solo ottimi esempi di ingegnosità strutturale ed equilibrio timbrico/stilistico: sono innanzitutto canzoni pensate per arrivarti al cuore. Tra le signore del pop-rock degli anni Dieci, Laetitia Sadier merita un posto di assoluto rilievo. 7.3/10 Leonard Cohen - Popular Problems (Columbia Records,2014) Genere: blues A due anni dal buon Old Ideas, il tredicesimo album del fresco ottuagenario Leonard Cohen vede nove ballate diversamente blues segnate dalla voce in primissimo piano del grande canadese. Come giudicarle? Francamente suonano gradevoli, a tratti intriganti, però a dirla chiara se non si trattasse del disco di uno dei più grandi cantautori di ogni tempo, non staremmo a dedicargli tanta attenzione. La parola chiave è: mestiere. Il fatto che siano state scritte e prodotte assieme ad un guru del mainstream come Patrick Leonard – dagli 80s al lavoro con Madonna, Pink Floyd, Bon Jovi e tanti altri, per non tacere di Laura Pausini – è estremamente significativo: l'impianto gospelblues possiede una sorta di levigatezza pneumatica, come se ogni canzone si consumasse in una sorta di bolla sonora senza spiragli verso l'esterno. Sembra quasi il corrispettivo musicale di un recital, un tentativo quasi pittorico di rappresentare il protagonista sul palco avvolto 124 Stefano Solventi Letlo Vin - Songs For Takeda (Autoprodotto,2014) Genere: cantautori, folk Dopo anni di intensa attività live, il cantautore Letlo Vin presenta l'album d'esordio Songs For Takeda, un lavoro folk/blues che parte da un concept ben preciso: un tributo e un insie- r e c e n s i o n i o t t o b r e Stefano Solventi nel cono magico ed essenziale delle luci, col coro ad un passo e l'orchestra (una band minimale più archi e ottoni) ad agire nell'ombra. Pure immerso in quest'aura artificiale fino al limite del fastidio, Cohen riesce a conservare la quota minima d'intensità, quella solenne mancanza di riguardo, quel tipico impasto di lucidità struggente e pietas risoluta. Pochi altri possono permettersi riflessioni sulla catastrofe dell'uragano Katrina come Samson in New Orleans, con la rabbia che la indovini appena rimbombare sorda nel petto sotto il chiarore gospel folk. Lo stesso dicasi per l'ibrido tra blues androide e sfumature orientali di Nevermind. Altrove ti sembra di essere al cospetto di uno zio guitto di Nick Cave (vedi la meditazione post-undicisettembre di A Street ed il call and response di Born in Chains), oppure di un Tom Waits redento nelle acque del Delta (Almost Like The Blues), mentre My Oh My tenta di abbozzare un country rock credibile pur spazzato da vampe errebì, col risultato che il deserto diventa subito scenografico. Forse l'episodio migliore ce lo regala in chiusura quella You Got Me Singing che esala vapori klezmer sotto il front porch, col distacco palpitante delle ballate che guardano la vita a volo d'uccello. Insomma, un album non certo memorabile che però ha il non trascurabile merito di esistere: un mondo in cui un nuovo album di Leonard Cohen è possibile, è comunque un mondo migliore. 6/10 r e c e n s i o n i all'interno di canzoni in grado di rispecchiarle tutte. Manca dunque un po' di intensità e calore, qualcosa in grado di mettere le canzoni al centro di un'analisi profonda e senza veli, per un disco che, in teoria, dovrebbe fare dell'introspezione la propria carta vincente. Un buon esempio di artigianato folk dentro un mare immenso e indefinito di altre proposte. 6.3/10 Giulia Antelli Literature - Chorus (Slumberland,2014) Genere: pop, rock, indie, shoegaze Appartengono ad una tradizione consolidatasi negli ultimi anni, i Literature. Quella dei gruppi americani che suonano all'inglese. In altri tempi la naïveté del gruppo di Philadelphia (fra le cui fila figura anche un ex redattore di Pitchfork) sarebbe stata sinonimo di radici britanniche, più precisamente nordiche. Da un po' di tempo non è più così. Gente come Real Estate, Beach Fossils, Wild Nothing e metà del catalogo Captured Tracks, ha incasinato riferimenti geografici che sembravano scolpiti nella pietra. Il problema è che spesso, sonorità filologicamente perfette, con jingle jangle opalescenti e una ingenuità ostentata, sono a corredo di album senza anima. I Literature, al contrario, si distinguono per una sana dose di cinismo e perché sanno quando troppo zucchero rischia di diventare stucchevole. Sono outsider anche in un giro angusto come quello dell'indie pop, ma piuttosto che ostentare una posa da Pierrot, puntano su ritmiche febbricitanti e un ispiratissimo bilanciamento fra il graffio delle chitarre e gli sfarfallii shoegaze. Il loro secondo album (dopo un primo più grezzo e lo-fi) è un autentico scrigno delle delizie. La stella polare è il C86, quello mercuriale e Buzzcocks addicted dei Soup Dragons, con chitarre elettroacustiche usate o t t o b r e me di memorie in ricordo di un amico morto suicida, al quale – come recita il titolo – sono dedicate tutte le canzoni del disco. Dal punto di vista delle sonorità, Songs For Takeda attinge a piene mani dalla tradizione del songwriting americano, spaziando dalle polveri secolari di Woody Guthrie e Pete Seeger al lirismo intimo e acustico di Bob Dylan e Leonard Cohen: giusto un paio di esempi per mostrare come il Nostro guardi ben oltre i confini del cantautorato prettamente italiano, abbandonando così un paradigma più ristretto per concedersi di entrare in un universo – quello del folk, appunto – ben più profondo e trasversale. Il risultato sono brani classici e ben costruiti, che rendono il disco coeso senza farlo suonare monotono. Si comincia con il blues crepuscolare di Rusty World's Seeds e si prosegue poi con il crescendo rugginoso di Roll Over My Devils e Brix (tra i pezzi più riusciti del lotto), che diventano una sorta di preghiera/ invocazione agli spiriti dell'amico scomparso, entrambe capaci di sintetizzare al meglio il già citato concept dell'album. È lo stesso sound sporco ed essenziale, accompagnato da una vocalità non originale ma comunque appassionata, che troviamo in canzoni ora declinate in un rock di springsteeniana memoria (How Young Were You?, Friday Night), ora amalgamate nell'intreccio tra acustica, ukulele e percussioni (cajon, stompbox), che conferisce ad ogni traccia una vena di ricercatezza spesso assente in altre prove sullo stesso genere (come dimostrano anche buoni episodi quali Your Mama Saw There e It Won't Last Long). Visti i canoni di riferimento, e nonostante la qualità delle singole tracce e di arrangiamenti estremamente curati, il limite di Songs For Takeda sta forse in una generale mancanza di pathos e originalità, laddove altri colleghi – uno su tutti, Bon Iver – sono invece riusciti ad incanalare un intero spettro di emozioni 125 Genere: post-punk, industrial Arrivano da Detroit, i Ritual Howls, terzetto alle prese con un industrial post punk relegato ai circuiti underground di una Urinal Cake che ha dato alle stampe l'omonimo debutto, ma soprattutto della Nostilevo, etichetta di culto in campo cold/minimal electronics/industrial con cui sono andate in stampa tre cassette, prima di Turkish Leather. Questo nuovo full-length cambia un po' le carte in tavola, smussando gli spigoli noise e d.i.y. con l'idea di uscir fuori dalla nicchia e presentarsi ad un pubblico più vasto, scelta sancita dall'omonimo singolo, già presente nella seconda uscita Nostilevo in una versione psych/noise tutta melma e riverberi e ora rielaborata in HD sulla scia dell'industrial wave stile Skinny Puppy. E in questo passaggio dal piccolo al grande, il merito dei Ritual Howls è quello di capire e centrare l'andazzo revival post Sacred Bones – di cui la stessa Felte pare essere fautrice – in cui prevalgono le atmosfere cinematografiche Lynch/morriconiane, le voci baritonali, gli afflati pop, la wave mischiata al death rock. Ecco allora il fluire di chitarre e synth, le suggestioni del Nick Cave filtrato Slug Guts in Taste of You, il western Cult of Youth in Final Service, senza tralasciare le classiche infatuazioni Joy Division di My Friend e il già citato scheletro Skinny Puppy. A conti fatti siamo davanti a un piccolo classico dell'odierno post punk americano, capace di coniugare moda ed integrità cold/dark, tinte mainstream e riflessi underground. E' oltretutto un bel sentire, indipendentemente dalla fortuna che seguirà. 72/10 Stefano Gaz come armi contundenti e i ritornelli che arrivano dopo pochi secondi, ma hanno esuberanti parti strumentali che non si limitano a fungere da collegamento fra un chorus e l'altro (vedi l'emozionante coda surf dreamy di Blasé). Il risultato è che di questa mezz'ora scarsa non solo non si butta via nulla, ma si finisce per ricordare pure i frammenti più emozionanti (come The English Softheart) il cui tiro garage pop suonerà ai più come una versione punk dei Belle And Sebastian, mentre ai più scafati ricorderà i McCarthy al netto della retorica marxista. 6.5/10 Diego Ballani 126 Luminance Ratio - Seven Inch Series Vol. 3 (Fratto9 Under The Sky,2014) Genere: avant, elettroacustica Esondiamo eccezionalmente dal territorio naturale per i vinili piccoli, cioè il nostro appuntamento mensile con Gimme Some Inches, per segnalare quello che è un disco piccolo nel formato ma dal potenziale enorme. Lo split colorato in verde acido esce nella collana gestita da Fratto9 in coabitazione con la Kinky Gabber di Luca Sigurtà e vede confrontarsi il quartetto italiano con referenti stranieri sempre d'ambito impro/elettroacoustic/experimental. Dapprima toccò al volume 1, in vinile blu, condiviso con l'americano Steve Roden, r e c e n s i o n i o t t o b r e Ritual Howls - Turkish Leather (Felte,2014) Stefano Pifferi Luz - Polemonta (Auand,2014) Genere: prog, avant, impro, jazz Disco stratificato e complesso, Polemonta dei Luz, almeno quanto atipica e strutturata è la band che lo ha fatto nascere: Giacomo Ancillotto (Enrico Rava, Caterina Palazzi Quartet – chitarra), Igor Legari (contrabbasso) e Federico Leo (Gronge – batteria) e la violoncellista r e c e n s i o n i e compositrice americana Tomeka Reid (Anthony Braxton, Nicole Mitchell, Mike Reed) dipingono settanta minuti di musica in divenire che definire jazz sarebbe quantomeno riduttivo. Certo, l'impronta votata all'interplay improvvisativo e certe cadenze "istituzionali" ci sono, ma servono solo da collante per un lavoro che centrifuga stili e ispirazioni: a testimonianza, una iniziale Frate Mitra che parte minimalista e mediterranea per poi abbracciare certi crescendo quasi post-rock, una Zdenek che chiama in causa il surrealismo di una ipotetica Andromeda Mega Express Orchestra immerso in una fusion-prog sui generis, una Polemonta che sa di Medioriente o magari una Nogales che aspira a un avant-free rumorista e sfilacciato. Alla lunga potrebbero venire in mente certe produzioni RareNoise, ma qui l'approccio è più contemporaneo e meno aggressivo, senza perdere mai di vista un DNA che rimane fondamentalmente "melodico", pur nell'estrema mutevolezza dei colori. Il timone resta ben fermo, dunque, su una narrazione musicale che ha molto di cinematografico, irrequieta ma non troppo selettiva, capace di cambiare continuamente il punto di vista su una materia anch'essa morfologicamente indecifrabile. E' questa la virtù e al tempo stesso il limite di un disco che affascina per l'estrema varietà di stili e trova infine un bel modo di venirne a capo, ma in qualche maniera subisce anche il peso di un involontario dialogo edonista tecnicamente impeccabile. 6.8/10 o t t o b r e poi fu la volta del volume 2, in vinile rosso, "splittato" con l'apolide del drone Oren Ambarchi. Per questo terzo volume i Luminance Ratio (Sigurtà, Aprile, Ferraris e Mauri) chiamano a sé il greco (nato a Limassol, Cipro, ma inglese d'adozione) Yannis Kyriakides, solito sperimentare su forme d'elettronica "ambientale" elaborate partendo da input sonori tra i più diversi. Nel lato occupato dai Luminance Ratio, troviamo Sirens, condensato in 4 minuti del mondo dei quattro: accumulo di suoni apparentemente incongruenti e discordanti che man mano emergono in forme, stavolta, estremamente melodiche e sognanti, pur rimanendo sempre evanescenti e stranianti. Risponde Kyriakides con una traccia, Junta Tv, altamente evocativa per la riproposizione in chiave intimistica di una tragedia personale e collettiva come quella del regime dei colonnelli, coincisa con le prime trasmissioni della TV greca. Voci lontane provenienti da tubi catodici ormai desueti, pulviscolo da "effetto nebbia", brandelli di canti tradizionali, esplosioni di white noise e quant'altro, in un collage sonoro ispirato dal lavoro del video-artista Stefanos Tsivopulos. Speriamo che questa serie continui ai livelli dei primi tre volumi e ne auspichiamo anche una ristampa collettiva in CD per un pubblico più vasto. 7/10 Fabrizio Zampighi LV and Josh Idehen - LV, Josh Idehen – Islands (Keysound,2014) Genere: brit, funk, elettronica Gli LV, trio, quartetto, duo – non è mai dato certo – sono i riservati fiori all'occhiello della meticcia elettronica che da sempre Blackdown 127 o t t o b r e 128 come non può mancare un'incursione future roots con pulseprogramming in area footwork Double Decker Back Seat o un'angolata jungle con richiami wonky, balearica, rave. E tanto di cappello, come sempre. 7/10 Edoardo Bridda Marianne Faithfull - Give My Love to London (Naive,2014) Genere: cantautori, rock Marianne Faithfull ha avuto tante vite e altrettante rinascite artistiche, così un suo nuovo album si aspetta sempre molto volentieri. Give My Love To London non fa eccezione, ospitando, come sempre, numerosi collaboratori. Prodotto da Rob Ellis e Dimitri Tikovoi, e mixato da Flood, il disco vede testi scritti dalla Faithfull come da Nick Cave, Roger Waters, Anna Calvi, Pat Leonard, Tom McRae e Steve Earle. La band è formata da Adrian Utley (Portishead), Ed Harcourt, Ellis e Tikovoi, un quartetto d'archi e due guest come Warren Ellis e Jim Sclavunos (Nick Cave and The Bad Seeds). Presenti alcune cover: The Price Of Love (Everly Brohers), Going Home (Leonard Cohen) e I Get Along With You Very Well (Hoagy Charmicheal). Un album che raccoglie tante voci autoriali e si mantiene uniforme nella resa, tenuto bene insieme dalle drammatiche interpretazioni della Faithfull: è teatrale (ricordiamo la carriera parallela di attrice dell'artista inglese) nella title track (scritta da Steve Earle) così come nell'intensa True Lies (di Ed Harcourt), uno dei pezzi migliori dell'album, è drammatica nel singolo Sparrows Will Sing (scritta da Roger Waters), oscura e spettrale in Late Victorian Holocaust (di Nick Cave, che già aveva dato a Marianne tre pezzi nel 2005 per Before The Poison), si fa ninnananna in Deep Water (scritta a quattro mani con Cave). Going Home è ballad intensa r e c e n s i o n i di Keysound e Kode9 di Hyperdub professano. Di fatto, non c'è miglior nome da spendere del loro per tradurre in suoni la pulsante frenesia della capitale britannica, pro e contro compresi (un altro nome naturalmente è Mumdance). Parliamo di un intreccio scentifico ma pur sempre bastardo tra microchip e etniche, tra attitudine funky e narrative d'esotici vocalist, o meglio, poeti urbani dal cuore nero. Nel recente passato, il combo ha spinto a tavoletta con un alcuni vocalist sudafricani come Okmalumkoolkat, Spoek Mathambo e Ruffest; in questa prova torna in campo Joshua Idehen, membro del trio alt hop Benin City e personaggio sopra le righe con il quale i ragazzi hanno pubblicato lo splendido – e ovunque ben accolto – Routes. C'è una curiosa geografia dietro ai lavori delle parti coinvolte, che fa il paio con un sound pulsante, caotico, in divenire, spesso caratterizzato da un divertito torpore, volutamente sbilanciato su un presente in 4d eppure inafferrabile, molto aderente ai tempi in cui viviamo: il primo EP prendeva in prestito il numero 38 dalla tratta di un bus Londinese; in Islands è un viaggio – andata e ritorno dalla Nigeria, compiuto da Idehen – il canovaccio di una tracklist cucita più che mai addosso ai poemi, alle improvvisazioni e al free flow del – più che mai – poeta. Imminent – singolo traino, una bella grattata sull'asfalto – non può comptere con Sebenza o la roccambolesca Northern Line, ma è comunque un buon ariete per un album che non riesce a bissare l'ispirazione dei due precedenti ma conferma la bontà di un combo fuoriclasse. Prendete la rincorsa di Shake, la ricchezza timbrica, il dettaglio dei ritmi, la circolarità dei vibrafoni, il vocalist processato e infilato nel mix come thé caldo, o gli smalti dub con l'andazzo "trip hop meets trap" di Make It Count. Anche i brani in area UK Funky si difendono bene, per piano e chitarre (un Cohen del penultimo disco) con il cameo ai backing vocals di Brian Eno, un altro dei pezzi migliori del lotto, mentre Falling Back è invece un tipico brano cinematico in crescendo della Calvi, dove si corre un po' il rischio di manierismo. Ma è solo un attimo. Give My Love To London è un disco di impianto moderno che riflette su passato e presente ("sono arrabbiata per ciò che è successo al mondo, più passa il tempo, più divento furiosa"), arrivando a festeggiare il cinquantesimo anniversario della nascita della carriera della Faithfull (iniziata nel lontano 1964, quando l'artista era appena diciassettenne, con As Tears Go By) con un tour imminente. 7.3/10 Mazes - Wooden Aquarium (Fat Cat,2014) Genere: rock, indie Confermando i discreti propositi del precedente Better Ghosts, i Mazes tornano con un album più strutturato e, probabilmente meno frenetico. Wooden Aquarium è l'ennesima prova di fedeltà acustica della band che, non solo ha registrato live l'intero disco, ma, nel farlo, si è trovata invischiata in storie divertenti che comprendono una macchina senza benzina, un freddo polare e una camminata a piedi dalle parti di New York. Malgrado l'origine altamente british, in Wooden Aquarium, il sound del trio vira leggermente dalle parti di un America lo-fi, con Pavement e Feelies a fare da numi tutelari. L'intento, sarebbe quello di portare il ritmo conglobante, magari sporco, ma sicuramente catchy dei sopracitati in un sound più attuale, sulla scorta dei Real Estate, per dirne una. Da segnalare, rispetto al precedente lavoro, la quasi totale assenza dei (riusciti) riferimenti kraut o t t o b r e r e c e n s i o n i Teresa Greco o noise melodico alla Smashing Pumpkins. Prodotto da Jonathan Schenke (già con i Parquet Courts), Wooden Aquarium non sorprende per originalità e, anzi, perde punti rispetto ai lavori precedenti, ma ha alcuni spunti interessanti: a partire da Salford (che nel nome ha tutto quello che vogliamo sentire), che è indie-rock come si faceva un tempo, con debiti enormi nei confronti dei migliori Pixies. Si segnalano ancora RIPP, per il suo incedere sperimentale e rumoristico, che fluttua dalle parti dei Sonic Youth di Daydream Nation, e Letters Between UandV, per lo stridere delle chitarre elettriche sulla voce comunque interessante di Cooper. Alla fine dell'ascolto rimane poco, se non la sensazione di aver avuto a che fare con qualcosa di estremamente nostalgico. Intendiamoci, i Mazes sono bravi a giocarsi le carte degli indie-rocker vagamente art e lo-fi di un tempo, ma nessuna di queste undici canzoni, probabilmente, lascerà un'impronta indelebile nella memoria dell'ascoltatore. Di nuovo, tocca parlare di un album di ottime canzoncine, magari un po' piatto a causa della registrazione live, ma davvero troppo poco per giustificare l'eco che ha in patria. 6/10 Nino Ciglio Miss Kenichi - The Trail (Ghost Records,2014) Genere: cantautori, indie, folk Terzo lavoro in studio per Miss Kenichi, al secolo Katrin Hahner, questo The Trail è ad oggi il suo disco più maturo: atmosfere solenni, intime ed evocative, songwriting adulto, una produzione semplice e mai invadente per canzoni fatte di pochi elementi ben dosati, come undici piccole finestre aperte sull'autunno berlinese. Se vocalmente (e non solo) il riferimento più 129 Genere: dark, folk Nel corso degli anni Jérôme Reuter, dal 2005 attivo sotto la sigla Rome, ha sempre proposto una musica affascinante quanto densa di contenuti e riferimenti letterari e storici, evolvendosi da un martial-folk, debitore verso gruppi come Death in June e Der Blutharsch, sino ad un personale dark folk/cantautorale riconoscibile e originale. Nel 2014 Rome torna dopo due anni di assenza (quasi un record per il prolifico musicista lussemburghese, che ci aveva abituato ad un album all'anno) con un concept sulla storia della Rhodesia, colonia ribelle dell'impero britannico che prese il nome dal politico britannico Cecil Rhodes. Si tratta di un lavoro che infila il dito in una piaga della Storia (come dovrebbe fare questo genere di musica), una vicenda tragica e poco conosciuta: una generazione di bianchi in Africa combatté strenuamente per una causa persa, accecati dal pregiudizio e dal desiderio di vivere in quello che loro credevano un luogo per una vita migliore; un sogno che presto si rivelò un incubo. A Passage To Rhodesia è un grande affresco sugli eventi storici dell'ex-colonia che, nel 1965, tentò di rendersi indipendente dalla Gran Bretagna, sotto la guida di Ian Smith e del suo partito, il Rhodesian Front, che nel 1962 conquistò la maggioranza in parlamento. Sotto la spinta dell'influenza britannica e statunitense il mondo rifiutò di riconoscere il nuovo stato rhodesiano (in quanto responsabile di un sistema di apartheid), il quale ottenne l'appoggio economico e militare solo di Sudafrica, Portogallo e pochi altri. Tutto ciò portò ai tragici eventi della guerra civile: la famigerata Rhodesian Bush War, che vide contrapposti la fazione bianca della colonia ribelle, guidata da Ian Smith, e i guerriglieri ZANU e ZAPU di Robert Mugabe (futuro dittatore sanguinario dello Zimbabwe, uno Stato parte del territorio dell'ex-rhodesia "liberata") e Joshua Nkomo. Questi ultimi erano finanziati e sostenuti dall'URSS, in un clima da spartizione del mondo da Guerra Fredda, ma appoggiati anche dalla Gran Bretagna e da molti paesi Occidentali che vedevano nella Rhodesia una pericolosa anomalia nel continente africano, nonché un vero intralcio per i loro affari con i futuri politici africani, facilmente corrompibili dal vile denaro. Inquadrato l'album nel periodo storico in cui viene ambientato (ma la situazione sembra echeggiare anche in alcune vicende contemporanee), notiamo come Reuter sia riuscito a creare, con le sue canzoni, una sorta di affresco corale a più voci, un "discorso indiretto libero" bipolare pieno di registrazioni d'epoca che compaiono come fantasmi (Hate Us and See If We Mind), in cui il suo martial-folk incarna la voce del fanatismo rhodesiano (One Fire e Hate Us and See If We Mind) mentre la sua anima più cantautorale funziona come la voce della coscienza di un popolo che ammette la sconfitta di un'impresa disperata, votata al discredito da parte della Storia. The Ballad of the Red Flame Lily è emblematica da questo punto di vista: si tratta di una bellissima e malinconica ballata il cui il musicista, come sua abitudine, dona voce ai reduci della guerra, agli sconfitti della Storia. Si cammina tra i fallimenti degli uomini, in una giungla oramai in fiamme, mentre ci si continua a ripetere "And it will shame us now (It was wrong)" ("…e ciò ci farà vergognare. È stato un errore"). 130 r e c e n s i o n i o t t o b r e Rome - A Passage to Rhodesia (Trisol,2014) r e c e n s i o n i o t t o b r e Se in One Fire, uno dei brani più travolgenti dell'opera, si afferma la dura corsa verso la battaglia – "one fire fights one fire" ("Un fuoco si combatte con il fuoco") -, in The River Eternal assistiamo, invece, ad un delicato spoken-word su cupi archi che ci mostra la dura realtà di una guerra da incubo, un conflitto che ha distrutto e diviso il Paese e che sembra non finire mai: "Into the glowing darkness / We travel the shining black serpent / That plugs us straight into the heart of this nightmare / At the end of this river is the end of this war" ("Dentro un'oscurità radiosa, noi siamo trasportati da un brillante serpente nero che ci porta dritti nel cuore di questo incubo. Al termine di questo fiume c'è la fine di questa guerra"). In questo brano Reuter sembra richiamare direttamente alcune pagine di Heart of Darkness (Cuore di Tenebra) di Joseph Conrad. Il disco si apre con un brano strumentale, Electrocuting an Elephant, memore delle passate sonorità martial-industrial di Rome, ma con un senso di greve e plumbeo presagio per quello che accadrà in Rhodesia, e si conclude con The Past Is Another Country, dove sentiamo la registrazione di una vecchia e rovinata incisione di un pezzo anni sessanta con un coro femminile che appare, nel contesto, decisamente inquietante. L'anima del cantautore di razza, invece, esce fuori in brani melodici, raffinati quanto tristi e melanconici, come A Country Denied e Lullaby for Georgie, continuando sulla scia degli ultimi lavori realizzati dall'artista. Il disco è uscito per la label tedesca Trisol, finora solo nella forma di un CD-Boxset limitato a 1000 copie che contiene, oltre all'album principale, un secondo CD dal titolo House of Stone – con solo brani strumentali martial-industrial old school (un po' sulla scia dei primissimi lavori usciti su Cold Meat Industry) impreziositi da campionamenti di registrazioni d'epoca -, un 10″ pollici con due tracce inedite (Braai The Beloved Country e My Traitor's Heart), un DVD con tre videoclip diretti dal regista Claudio Roberti (This Silver Coil e Amsterdam, The Clearing, tratti dal suo album precedente, e il video di Hate Us And See If We Mind, brano di questo suo ultimo lavoro). Il DVD contiene anche una lunga e approfondita intervista a Jérôme Reuter. Come se non bastasse, il boxset racchiude anche due poster, una busta di cartoline, una moneta e un certificato d'autenticità firmato dall'artista. Una vera e propria sfida al mercato discografico in crisi, visto anche il prezzo alto del boxset che si aggira sui cento euro circa. Una scommessa sicuramente rischiosa, ma bisogna ricordare che Reuter è un'artista che, nel corso degli anni, è riuscito a crearsi uno stile, una reputazione e uno zoccolo duro di fan e appassionati. In questo suo ultimo lavoro i poster e le cartoline non sono solo dei semplici accessori per collezionisti feticisti, ma un modo per entrare meglio nel mondo che Rome evoca con la sua musica. Che il futuro di un certo tipo di musica – con contenuti profondi e alternativi al pensiero dominante – passi da qui e non dalle sirene della smaterializzazione via internet? Quel che è certo è che A Passage To Rhodesia è un ottimo lavoro, uno dei migliori della discografia di Rome, grazie anche ai testi e alla cura nell'ambientazione del lavoro, elementi che riescono a fare la differenza rispetto ad altri lavori in ambito neofolk. 7.6/10 Marco De Baptistis 131 o t t o b r e Enrica Selvini Moon Duo - Live In Ravenna (Sacred Bones,2014) Genere: rock, psych La notizia non è tanto la musica contenuta in questo disco. Dicono già tutto nome del gruppo e titolo. I due Moon Duo, cioè Sanae Yamada e Ripley Johnson dei Wooden Shjips, sono ormai una realtà consolidata della nuova (vecchia) "psych" col loro suono ciclico e reiterato, figlio di quel rock geneticamente modificato che si sviluppa di qua e di là dell'oceano, in una linea continua e sottotraccia che dai Velvet Underground arriva fino agli Spacemen 3 e giù fino ai giorni nostri, toccando lande inusitate (vedi alla voce Cile). Il Live In Ravenna coglie proprio il trio – della partita anche il batterista John Jeffrey, chiamato dopo anni di tour con drum-machine per 132 dare "un po' di dinamismo e flessibilità" alle rigide sonorità del duo, Sanae dixit – in una delle più accese performance del tour 2013, sapientemente catturata live all'Hana-bi dall'orecchio di Mattia Coletti, ottimo chitarrista e preciso produttore. Musica in presa diretta, dunque, e al suo massimo splendore ritmico ed emotivo: un flusso di note in accumulo che rendono il rock ipnotico e reiterato un qualcosa di magmatico e insieme estatico, roba che punta alla trascendenza pur mantenendo i piedi ben piantati al suolo, evanescente quanto materica, che si rivolge su se stessa nel riprendere, omaggiare, stuprare spasmi di Spacemen 3 e Suicide, Loop e Neu! Al netto di tutto quello che è scritto sopra, la vera sorpresa sta nel fatto che un gruppo di punta dell'underground internazionale, edito da una delle più interessanti label indipendenti degli Stati Uniti, pubblichi un live del genere catturato in una provincia italiana. Apparentemente fuori da tutti i giri che contano, periferica rispetto ai "grandi" centri culturali e musicali d'Italia (qualora ne esistessero), Ravenna è la dimostrazione di come possano funzionare – anzi, di come funzionino – le cose quando si ha passione, lungimiranza e competenza. I nomi li sapete, sono pochi e tirano avanti un effervescente e inarrestabile viavai di concerti estivi e invernali, attraggono musicisti (e non solo) da ogni parte d'Italia (e non solo), organizzano festival dal richiamo internazionale, fanno da volano a situazioni culturali che smuovono la stagnante economia di questi anni tristi e, infine, fanno di Ravenna una delle più serie candidate al ruolo di capitale europea della cultura 2019. Tutto questo per parlare di un disco? Sì, perché questa è una di quelle piccole gratificazioni che vogliono dire molto più di mille chiacchiere istituzionali sul ruolo della cultura e sul come fare cultura. Ci vuole passione, perché alla lunga i risulta- r e c e n s i o n i evidente è la Cat Power di You Are Free, la cui lunga ombra si estende sostanzialmente su tutto il disco (in particolare sul singolo Who Are You, sull'inquieta Whatever e sul gioco di nervi di The Ghost), appaiono altrettanto chiari i rimandi ad Elizabeth Fraser nel periodo This Mortal Coil (l'opening Tale Of Two Rivers) e alla PJ Harvey più intimista di White Chalk (da ascoltare in tal senso, Interlude e The Trail), mentre vibrati, riverberi e tintinnii di chitarra sembrano riportarci alle atmosfere liturgiche care alla coppia Buckley/Lucas di Grace (Bobby Bacala, Broken Bell); quasi un piccolo tributo al Nick Drake di Pink Moon, l'incedere folleggiante di Dream. Un album che se da una parte scorre forse troppo monocorde e privo di impennate, dall'altra ci mostra un'autrice dalla buona personalità e capace di colpire senza strafare, di commuovere senza facili sentimentalismi e, a tratti, di suonare quasi classica. Non è poco, ad oggi. 7.2/10 ti arrivano. Ah, il disco è un ottimo, sia come viatico per neofiti che come perla per gli appassionati. 7/10 Stefano Pifferi Genere: psych, drone, ambient, world_etnica L'incontro musicale inusuale tra due spiriti affini come quello di Nazim Comunale, già polistrumentista con gli ottimi Caboto, e di Patrizio Ligabue, viaggiatore e studioso di canto difonico o armonico (in uso in molte tradizioni non occidentali e introdotto in "occidente" da Stockhausen e poi dalla Sainkho Namtchylak), produce un lavoro che è una vera e propria fuga verso un altrove spesso idealizzato e/o sognato. Il primo organizza tessiture prodotte dall'utilizzo di strumenti tradizionali e non, rock e meno (farfisa, piano elettrico, eko tiger da una parte, flauti, percussioni, tampura dall'altra, che fanno il paio con tubi sonori e tastiere giocattolo); il secondo si esprime col dispiegarsi del proprio soffio vitale, sotto forma di strumento a fiato (konkovca, fujara) o di voce diafonica. Proprio come un ripiegamento su se stessi, le musiche contenute in Venezia Non Esiste – titolo fuorviante eppure a suo modo evocativo – concentrano in tre ampi movimenti, per quasi sessanta minuti di durata, un intero universo di riferimento mistico, trascendentale, "altro": il lontano Oriente evocato nel lunghissimo, estasiato, mantra dell'opener Meiktila Loop – cuore pulsante e paradigma del mondo rappresentato dai due – diviene visione pacificata di modernità e tradizione (l'elettronica e i flauti che segnano un drone trascendente e sognante lungo tutti i quasi trenta minuti di durata), così come i due divengono corrieri, non cosmici stavolta, ma extra-terreni. Nella seguente The Stefano Pifferi Neel - Phobos (Spectrum Spools,2014) Genere: drone, ambient Phobos, primo LP solista di Neel, potrebbe sembrare uno spin-off dei lavori firmati Voices from the Lake, progetto ambient-techno plasmato insieme a Donato Dozzy. Invece, molto probabilmente, è l'originale convergenza dei mondi a lui più vicini, il manifesto organico delle sue suggestioni musicali. Le coordinate di riferimento – Steve Stapleton e Nurse With Wound, Pete Namlook, Tetsu Inoue –, citate in nota stampa, non sono da intendersi quali confini invalicabili e circoscritti, ma piuttosto come vaghi rimandi, da seguire muovendosi necessariamente a ritroso. I quarantacinque minuti di disco – articolati in tracce per disegnare una sceneggiatura, ma che in sostanza formano un flusso sonoro monolitico, senza interruzioni – sono un viaggio cosmico durante il quale si deve procedere a vista. Ambienti rarefatti, sfregi, rumori, abrasioni. Luci sfocate, poi improvvisamente abbaglianti. Stringhe sintetiche in totale assenza di com- o t t o b r e r e c e n s i o n i Nazeem - Venezia Non Esiste (Autoprodotto,2014) Perfect Funeral Song (Armonic Version) l'ideale "musica delle sfere" perseguito dai due vira verso un corposo psych-prog rock col supporto della batteria di Ulisse Tramalloni (Julie's Haircut), del basso di Yuri Degola (A.F.A) e della chitarra di Martino Pompili, e se si perde un po' della magia dell'opener, a guadagnarne è la densità sonora. Densità che si liquefa nuovamente nella conclusiva Continuum dilatandosi in un loop tremendamente evocativo. Il rischio, con certe musiche, è quello di scivolare verso la "world music" coniugata secondo crismi new-age, ma dai solchi di Venezia Non Esiste e dal background dei due emerge una passione che poco ha dell'artefatto. Disco notturno e psicotropo. 7/10 133 Genere: folk Tredici anni di carriera alle spalle, sette album pubblicati a suo nome, grandi e numerosi momenti di puro folk: Sam Amidon è di nuovo tra noi, tornato, a solo un anno di distanza dal buon Bright Sunny South, a ravvivare il nostro immaginario folk con Lily-O, una raccolta/rielaborazione di canzone popolari. Un disco che continua il discorso cominciato con il lavoro precedente, e cioè condensare il sostrato intergenerazionale che attraversa decenni di alt-folk e traditional senza cadere nella vuota nostalgia o nel trucco della mera citazione, riuscendo quindi a superare la figura del semplice cantautore per reinventarsi come fine musicista e musicologo. Un percorso pensato fin dagli esordi, iscritto giocoforza nel DNA del Nostro (come non citare a questo proposito i genitori Mary Alice e Peter nel progetto di storytelling corale The Amidons?), perfezionato nel corso degli anni e dei dischi pubblicati. Sam Amidon è riuscito nell'intento di non diventare egli stesso stereotipo, laddove molti colleghi più o meno illustri hanno invece imbracciato l'acustica per ribadire più la loro appartenenza alla tradizione, che non un sincero confronto con essa. Per nostra fortuna, Lily-O ha proprio il compito di narrare il nuovo viaggio di Amidon nelle cerchie più profonde del folk americano, battendo i sentieri di country e blues, ma soprattutto psych, per arrivare ad una nuova forma cantautorale e musicale, ancora legata alle prove scorse, ma già rivolta a nuovi orizzonti. Un vagabondaggio nella vecchia e nuova America che prende il via con il banjo vivace dell'opener Walking Boss, arricchita dal violino e dalle percussioni sincopate del chitarrista e compositore jazz Bill Frisell, la cui presenza, assieme a quella dei fidati Shahzad Ismaily al basso e Chris Vatalaro alla batteria, conferisce a tutto il disco una vena di improvvisazione e sperimentazione in più. Si prosegue poi con il languido lamento di Blue Mountains, esempio di quel connubio tra antico e moderno in grado però di orientarsi verso territori maggiormente pop, subito rivoltato dal country travolgente di Pat Do This, Pat Do That, senza dubbio uno dei pezzi più riconoscibili del disco, assieme a Won't Turn Back, altro sapiente recupero dalla musica popolare qui arricchito dal contrappunto del pianoforte e dall'appassionata interpretazione di Amidon. Il fulcro, però, è rappresentato dalla title-track, che con i suoi quasi nove minuti si propone come nodo centrale e sintesi dell'album: introdotta da un attacco gospel assorto ma quanto mai potente, e ricondotta a poco a poco dall'acustica nei meandri dell'old time music e dello psych, il pezzo si sviluppa in due parti, poi riunite da chitarra elettrica e voce, quest'ultima declinata ora a canto e preghiera, ora a invocazione e lamento. È, dunque, la proiezione della doppia natura del musicista, ossessionato in egual misura dalla cultura pop quanto dal declino apparente del folk, ma anche in grado di far rivivere un genere che in questi anni ha fatto tante vittime quanti proseliti. Che l'abilità compositiva di Sam Amidon fosse al di sopra delle canzonette e dell'obsolescenza usa-e-getta di molti gruppi di oggi lo sapevamo da un pezzo, e Lily-O lo dimostra di nuovo. Un disco che già dalle prime note appare come qualcosa di a sé stante, ricercato senza suonare manieristico, profondo senza apparire pesante, per un artista dalla sensibilità consapevole, capace di reiventare una musica ancora in grado di stupire e affascinare. 7.5/10 Giulia Antelli 134 r e c e n s i o n i o t t o b r e Sam Amidon - Lily-O (Nonesuch,2014) Genere: cantautori, folk Scott Matthews non ha solo la "s" finale del cognome che lo distingue dal barbuto cantautore australiano, ma tutto un mondo emotivo che è entrato di prepotenza in questo nuovo album dal titolo Home Part 1. Non che nelle precedenti produzioni tutto questo fosse assente, anzi; ma già il nome del disco suggerisce l'idea che l'artista sia tornato metaforicamente a casa, luogo di ripiego e introspezione per eccellenza. Dove, tra l'altro, il musicista ha modo di sciorinare la tua (altissima) padronanza vocale e chitarristica, eppure senza mai forzare la mano e anzi mettendo tutto al servizio di canzoni gentili, intime, fortemente ancorate a una linea immaginaria che unisce Nick Drake, il Boss di Nebraska e ancora José Gonzàlez, Damien Rice e Antony and The Johnsons. Home Part 1 è un disco essenzialmente acustico ma ricco di colori e strumentazione dosata nei minimi dettagli: il risultato è una sequenza di 11 canzoni che suonano poderose e scarne allo stesso tempo, ricche di pathos compositivo e lirismo nei testi, quanto mai notturni e melanconici. Il trittico iniziale Virginia/The Outsider/Sunlight è micidiale e basterebbe non ascoltare altro per promuovere il disco a pieni voti; invece, dopo lo strumentale guidato dai flauti The Clearing, arriva il valzer acustico di The City And The Lie, dove il cantautore fornisce una prova eccelsa tanto alla voce quanto alla chitarra classica. Con naturalezza e senza quasi accorgersene, si passa attraverso le decadenti progressioni armoniche nella rumba di The Night Is Young (che lentamente si evolve in una ballata rock incattivendosi nel finale), il folk etereo di Dear Angel e quello che probabilmente è il brano più delicato dell'album, vale a dire quella Mona cui si chiede di restare per scommettere sulla propria vita. Nel finale arriva un invito a tornare ai luoghi a cui si appartiene per natura e quest'ultimo bozzetto folk in veste pseudo lo-fi suona quasi come un educato congedo. L'ispirazione di Scott Matthews, tra le quattro mura di casa in cui è stato registrato il disco, sembra quasi trasudare dalle pareti; non resta che farsi delicatamente travolgere. Se non un capolavoro, ci siamo vicini. 7.6/10 o t t o b r e r e c e n s i o n i Scott Matthews - Home Part 1 (San Remo Records,2014) Stefano De Stefano ponenti ritmiche. Atmosfere desolate, tensioni costanti, che se l'autore non avesse espressamente associato ad una narrativa immaginata tra galassie e trascendenza (Phobos è satellite naturale di Marte, figlio di Ares e Afrodite secondo la mitologia greca), potremmo ricondurre anche a leggendari mondi subacquei, essendo così marcata la vicinanza ideale tra gli universi non controllabili dall'uomo. Tutto questo posato sulle solidissime fondamenta di una produzione impeccabile, attenta al dettaglio, senza la quale lavori di questo tipo perderebbero di significato. 7/10 Elia Galli News For Lulu - Circles (Urtovox,2014) Genere: pop, rock, psych, indie "Cerchi" che partono con una Into Nowhere costruita su un basso rotondo in stile Love's In 135 o t t o b r e 136 messa in campo (a parte l'asse chitarra-bassobatteria, citiamo timpano, Fender Rhodes, organo, vibrafono, clarinetto, sax alto e tenore), nell'intrico armonioso delle voci – partecipano anche Laura Burhen (Mynabirds, Postal Service) e Orenda Fink (Azure Ray) – e nel magico equilibrio dei suoni. Oltre che in un passatismo solo apparente, che alla fine finisce per avere il sapore della modernità. Disco da ascoltare con la dovuta calma. Del resto, con tre uscite in sei anni, il messaggio dei News For Lulu è ben chiaro: peel slowly and see. Noi raccogliamo la sfida senza remore, posizionando con cura Circles tra i migliori album del 2014. 7.3/10 Fabrizio Zampighi Niagara - Don't Take It Personally (Monotreme,2014) Genere: synthpop, kraut Se una band vanta collaborazioni con Gonjasufi, Notwist, Perdurabo (moniker di uno personaggio misterioso), ha nel taschino un contratto discografico con Monotreme, fa uscire streaming esclusivi con Consequence Of Sound e Clash Magazine, mostra un sound internazionale da paura, non stupisce che in Italia se ne parli poco. La "tronica" in tinte kraut – sperimentale, eppure comodamente fruibile – dei torinesi Niagara vive questa sorte, senza crucciarsi troppo delle faccende mediatiche. D'altronde la musica parla da sola, e lo aveva già fatto in occasione dell'esordio del duo, Otto, "top album" a queste latitudini perché, fra il pop beatlesiano, la folktronica, la psichedelia e le derive ambient, suonava come un gioiellino da esportazione. E difatti la strada spianata non poteva che essere rosea, dal momento che Davide Tomat e Gabriele Ottino hanno optato per la via della coerenza, concependo un secondo lavoro, r e c e n s i o n i The Air, su arpeggi soffici di chitarra, su armonie vocali di scuola beachboysiana e sull'immaginario psichedelico suggerito dai tremolo dei suoni, per poi esplodere nell'irresistibile pop West Coast di Spring Burns: bastano due brani per farsi raccontare il terzo disco dei News For Lulu e per capirne la grandezza. Sì, perché se da un lato è vero che i Nostri sintetizzano in questa sede un certo scibile rock americano Seventies ben targetizzabile, è vero anche che quel che esce fuori è infine materiale brillante, personale e significativo. Come dei Crosby, Stills and Nash in Technicolor, i ragazzi riescono nell'impresa di strattonare l'immaginario di cui si diceva (citiamo riferimenti random: Neil Young, Fletwood Mac, Eagles, qualcosa dei Quicksilver Messenger Service in certi solo, ma anche un'attitudine "lisergica" aliena che ha più a che vedere con gente come Flaming Lips o Animal Collective), innestando al suo interno certi tempi balbettanti rubati al passato "post-rock" di Ten Little White Monsters (Eagles, ma anche Say Hello With A Wave e New Year's Eve), giocando egregiamente tra costruzione della tensione, orecchiabilità e code strumentali (la splendida Rain), o richiamando illustri punti di riferimento (i Wilco suggeriti da Follow And Run, già frequentati ai tempi dei They Know, o magari certi Spoon mimati dagli arrangiamenti di brani come Flowers in the Oven). A parte la cura riservata alle registrazioni – portate a termine da Ben Brodin (Mynabirds, Bright Eyes) a Omaha, in Nebraska, con il mastering di Joe Lambert (già al lavoro con Deerhunter, Animal Collective, The National) – e al suono in generale, a colpire è una scrittura puntigliosa ed efficace, vogliosa ma non invadente, capace di prendere direttive inaspettate senza rinunciare a una vena pop(rock) di fondo. La si coglie nei contrappunti ariosi ma creativi della ricchissima strumentazione r e c e n s i o n i Nino Ciglio Phil Selway - Weatherhouse (Bella Union,2014) Genere: rock, alt Quattro anni più o meno esatti dopo l'apprezzato esordio solista Familial, torna Phil Selway con un sophomore che di fatto lo propone come il più adatto tra i cinque Radiohead a camminare sulle proprie gambe. Più di Yorke, fisiologicamente portato alla sinergia (a ben vedere anche The Eraser nacque in combutta con Nigel Godrich) e diversamente da Greenwood, che necessita invariabilmente di convogliare l'estro in forma di soundtrack. Con la tenace discrezione che lo ha caratterizzato nei molti anni di militanza ai tamburi della band madre, Selway ribadisce di trovarsi perfettamente a proprio agio con la forma canzone. Dieci pezzi per altrettante ballate ritagliate su canovacci indie venati di elettronica ed attitudine jazzy, col baricentro mediamente stabile su un romanticismo fosco e atmosferico. Il programma parte vagamente Elbow un attimo prima di diventare trip-hop con Coming Up For Air e arriva dalle parti degli U2 già eniani ma ancora ruspanti (altezza The Unforgettable Fire) di Turning It Inside Out. Nel mezzo, un'accorta modulazione di cinematico e languido che coglie i frutti migliori quando impasta aura David Sylvian e struggimento spiegazzato Robyn Hitchcock (Drawn To The Light), spande scorie agrodolci Elliott Smith (It Will End in Tears) o spiccia melodia postwave (una Don't Go Now che deve qualcosa ai Tears For Fears). Tutto ciò senza farsi sfuggire l'occasione di instillare un dubbio nel gentile auditorio, che cioè il suo contributo nell'economia dei Radiohead sia (stato) più importante di quanto non si calcoli normalmente: vedi come si disimpegna Around Again tra ritmica dinoccolata jazzy ed il vortice teso della melodia, o t t o b r e Don't Take It Personally, sulla scia dell'esordio, ma con piccoli e significativi aggiustamenti. Innanzitutto il concept, che ci è sembrato di cogliere anche in molti altri artisti che mettono mano a tecnologie raffinate che poi finiscono col possederli: c'è un limite alla curiosità, alla sperimentazione, alla tecnologia? E se sì, come facciamo a conviverci o a farla convivere con la natura? Da queste domande sembra derivare, dunque, il senso a volte claustrofobico di questo disco, virato verso colori bristoliani, con un occhio al trip hop dei Massive Attack e l'altro all'IDM, magari di stampo Warp (Gonjasufi ha remixato il singolo Curry Box). Questa natura, alla fine dei conti, viene sintetizzata in un trionfo di artificialità, come se la montagna di synth fosse solo un pretesto per tornare a parlare di terra, aria, acqua, fuoco. D'altronde – e le radici folktroniche (Notwist, Lali Puna) non mentono – se è vero che tutti i brani nascono con una componente acustica non indifferente, è vero anche che, giocoforza, la bilancia pesa dal lato della sperimentazione più creativa, sia essa di natura cibernetica (Speak and Spell, Popeye) o propriamente psichedelica. Se volessimo chiamare in causa dei nomi, dunque, dovremmo riferirci alla creatività scolorita degli Animal Collective, alle follie acrobatiche dei Beatles psych (Laes), alle suggestioni kraut dei Porcupine Tree, anche se gli episodi migliori emergono quando i due si avventurano sulla stessa strada percorsa dai These New Puritans, con un tocco di Radiohead (Curry Box) o TV On The Radio (Vanilla Cola). Don't Take It Personally, seppur in continuità e coerenza con il precedente Otto, rende i Niagara una delle realtà più interessanti del panorama elettronico italiano perché, nonostante le sperimentazioni e i macchinari utilizzati, resta un disco profondamente umano. 7.3/10 137 Genere: rock, noise Cosa aspettarsi da un disco degli Shellac nel 2014, quasi 2015? Sommovimenti clamorosi, stantia fedeltà alle origini, stanche prove giusto per accumulare date dal vivo? Tutto e nulla di tutto ciò. Gli Shellac sono quello che sono da quando l'uomo (Albini, chi altri) inventò la chitarra (semicit. parafrasata da film culto della commedia italiana) e – vedi alla voce promozione completamente inesistente ampiamente dichiarata molto prima dell'uscita dell'album (cosa che stride molto con le paraculate alla Aphex Twin da un lato, quello dei giusti, e degli U2 dall'altro, quello degli approfittatori fastidiosi) – se ne fregano pure molto. Suonano, gli Shellac. Registrano dischi quando viene loro voglia ("Recording took place sporadically over the past few years", T'n'G dixit), non intasano il mercato tanto per esser presenzialisti, non sporcano e non disturbano (fosse vero). Solo che quei dischi che parcamente elargiscono a distanze ormai siderali – Excellent Italian Greyhound, risalente ormai a sette anni fa, e il predecessore 1000 Hurts, addirittura del 2000 – sono sempre un piccolo evento; per nostalgici e diehard fan, ovviamente, ma non solo (vedi alla voce polemiche "social" sulla scelta della non promozione di cui sopra). Il problema, se di problema si può parlare, è che suonano sempre tutti (magnificamente) uguali. Per forza di cose, si dirà, visto che l'impianto è quello ormai storicizzato dal primo passo (fanno vent'anni precisi dal primo full-length) e centrato su un power-trio di rara lucidità e malvagità sonora, metronomico quanto tagliente in quell'interplay tra batterie asciutte e ridotte all'osso, chitarre affilate e così tremendamente albiniane (banalità: mode on) e bassi caterpillar e circolari. Tutto sempre sviluppato secondo una logica geometrica e reiterata che è un trademark definitivo della band: della serie, un giro qualsiasi degli Shellac lo si riconosce tra mille. E tra mille risaltano tutti i pezzi di questo nuovo (vecchio) album, come a dire che la classe, quando c'è, è bene ribadirla, seppur con parsimonia: dagli intrecci dell'opener Dude Incredible, col suo procedere a ondate, allo stop'n'go rovesciato di Complaint; dall'apparentemente annoiato sound di Riding Bikes (una canzone su "the context of children or adolescents riding bikes,[...] You're not just riding bikes, you're having adventures, you're breaking things, you're stealing things, you're causing minor vandalism") alla celia noise-rock a zero fronzoli di The People's Microphone (ispirata alla comunicazione orizzontale del movimento "Occupy"); dal (post)noise-rock newyorchese di You Came In Me ("a fairly straightforward song about sexual intercourse") a quello in implosione di Gary. Su tutto, una specie di riflessione concettual-politica su padri fondatori, "surveyors" nel doppio senso di "agrimensori" e controllori, rivolta e progresso, insubordinazione e aggregazione, che fa del disco un lavoro ottimo anche dal punto di vista ideologico, oltre che strumentalmente nel solco della tradizione shellachiana. Per i prossimi sette anni dovremmo essere a posto. 7.5/10 Stefano Pifferi 138 r e c e n s i o n i o t t o b r e Shellac - Dude Incredible (Touch and Go,2014) l'abbandono dolciastrio di Ghosts riconducibile ad Exit Music, la pulsazione circospetta di Waiting For A Sign o la bruma di Let It Go con le sue caligini sintetiche ed il vibrafonino à la No Surprises. Quanto detto finora deve inserirsi in un quadro espressivo che trova limiti pressoché invalicabili nella voce di Selway, puntuale e appassionata ma piuttosto monocorde, incapace di imprimere una direzione forte alla canzone, tanto che finisci con provare una specie di irragionevole nostalgia per quello che potrebbe divenatre la ieratica Miles Away se affidata ad uno Yorke qualsiasi. Tirate le somme comunque si tratta di un buon lavoro. 6.8/10 Robyn Hitchcock - The Man Upstairs (Yep Roc,2014) Genere: cantautori Ventesimo album in carriera, The Man Upstairs vede la produzione – fortemente voluta dal musicista inglese – del leggendario Joe Boyd (Nick Drake, Fairport Convention). E' un disco stile anni '60 di preferiti, con cover note e meno note, insieme ad alcuni originali, il tutto con un trattamento folk e un mood rilassato da interprete. Apre The Ghost In You (The Psychedelic Furs), dove Robyn Hitchcock trasforma l'andamento piuttosto nervoso dell'originale in una ballad morbida e di forte personalità, trattamento in genere riservato agli altri rifacimenti; tra i più conosciuti, ricordiamo To Turn You On di Bryan Ferry (Avalon) e The Crystal Ship di Jim Morrison, quest'ultima resa canzone. Altre cover-riscoperte sono Don't Look Down (Grant Lee Phillips) e la spettacolare Ferries (I Was A King). Gli originali presenti (San Francisco Patrol, Trouble In Your Blood, Somebody To Break Your Heart, Comme Toujours, per la maggior parte Teresa Greco Roman Flügel - Happiness Is Happening (Dial,2014) Genere: elettronica Roman Flügel produce musica elettronica, nascosto da infiniti pseudonimi, fin dall'inizio degli anni Novanta. Con Jörn Elling Wuttke prima forma Acid Jesus, poi Alter Ego (è loro la hit electro-punk Rocker). Più di recente, in parallelo agli alias, pubblica con il suo vero nome: c'è il successo commerciale su larghissima scala con Geht's Noch? (pezzo del 2004, poi diventato template per miriadi di producer), una collezione di numeri techno-jazz (Superstructure, 2005, con il musicista Cristopher Dell), ma soprattutto due album, Fatty Folders (2011) e Happiness Is Happening (2014), nei quali Flügel dispensa electro esotica e deephouse a tinte cupe, impressioni kraut e suggestioni synth-pop. Happiness Is Happening è la messa a fuoco, o meglio, il consolidamento, di una cifra stilistica. Un insieme omogeneo di visioni trasformate in musica di marca tipicamente mitteleuropea. Visioni costruite su drum machine all'apparenza fredde, algide, progressivamente colorate da esplosioni sintetiche (Connection The Ghost), da storie tribali di civiltà lontane (Stuffy), da giochi di contrappunti tra ritmi e melodie, super-effettati e super-manipolati (Parade). o t t o b r e r e c e n s i o n i Stefano Solventi ballad) ben si adeguano al mood generale del disco, folk morbido di razza. Un altro centro dopo il bell'album di inediti dell'anno scorso di cui abbiamo detto positivamente (Love From London). Intendiamoci, uno come Hitchcock ha ben poco da dimostrare vista la lunga e proficua carriera, è una garanzia l'ottimo livello che riesce a mantenere sempre. Lunghissima vita al nostro eroe. 7.3/10 139 Genere: pop, funk, elettronica, afrobeat Per capire Sinkane dovreste internare sotto chiave Stevie Wonder, Sting, la famiglia Kuti, Sam Cooke e giù giù fino a creare una costellazione o una losanga (afro)americana percepibile fino a un certo punto. Tralasciando che per il randez vous bisognerebbe evocare un bel po' di spiriti e trovare la location per la jam, quello che eventualmente se ne trarrebbe, assomiglierebbe a un crumble vistoso, esotico, come dire reggae, disco e funk, come dire blaxploitation e r'n'b anche quello un pochino becero, beat come dire Motown, e poi – e qui il Nostro si supera – country e soul come dire bossa. Ecco, provate solo a capirne le potenzialità. Figliolo di due esuli politici sudanesi, Ahmed Gallab aka Sinkane si è fatto un bel mazzo nella scena hardcore-punk di Columbus, Ohio, per approdare poi come turnista nell'eremo di Of Montreal, Caribou e Yeasayer. Due anni fa ha avuto quello che si meritava, e cioè l'applausometro in tilt e un bell'hype da club in occasione dell'uscita di Mars edito per DFA records. Quest'anno tocca ascoltarci Mean Love, sai che fatica. C'è un ufficiale retro-soul mania ultimamente, ma qui si va ben oltre, perché come potrebbe uno come Sinkane fermare le lancette del tempo alle sole anime pure? Si mischia, si contamina e si macina centimetro su centimetro farina che sembra oro, segale che sembra bronzo. Non c'è cintura che tenga o dio o figliol prodigo. L'afro beat vapour di New Name, il clavinet di Yacha e il reggaettone di Young Trouble perdonano anni e anni a sentire robaccia senza capirci niente. Ma poi l'intensa curva vocale di Son sostenuta dalla tastiera, che se non fosse cantata da un maschio parrebbe quella di Billie Black. L'intreccio con handclap, basso stellare e inserto di flauto in How We Be, la bossa – eccola qui – strafatta di downbeat francaise in Moonstock, l'intro country con percussioni dolcissime in Galley Boy. Tutti, uno ad uno, i brani sembrano fertilizzati, lavorati con sapienza analogica, senso epidermico del ritmo e della melodia. Proviamo ad immaginare dove potrà mai portarci questo ragazzo. Proviamoci. 7.2/10 Christian Panzano Friendship Song canta la vicinanza – in termini sonori e geografici – ai Kraftwerk, ma anche al synth-pop britannico d'inizio anni Ottanta (si sente, aristocratica, la stessa impronta del Vince Clarke che pensa Speak and Spell, primo LP dei Depeche Mode, e tutto il materiale Yazoo). Wilkie rielabora in formato kraut un cadenzato incedere cosmic-disco, le tastiere liquide di All That Matters sono viaggio di sola andata verso sconosciute spiagge equatoriali, 140 Occult Levitation è house eterea e leggerissima. Gli scenari pastorali, prima coperti dalle tenebre, sfregiati da schegge acide (Your War Is Over), vengono squarciati dagli arpeggi e dalle svisate di sintetizzatore (We Have A Nice Life). C'è una linearità, un'essenzialità, forse solo materiale, che però disegna un disco capace di sovrapporre immagini su immagini. Flussi sonori che viaggiano su binari nitidi, precisi, per poi improvvisamente deragliare e tornare r e c e n s i o n i o t t o b r e Sinkane - Mean Love (DFA records,2014) in pista con la stessa naturalezza con la quale ne erano usciti. Senza inciampare in fin troppo facili caricature delle correnti musicali di riferimento, Flügel sigla un lavoro da ricordare. 7.3/10 Elia Galli Genere: rock, hardrock, blues, garagerock Verrebbe voglia di stroncarli al volo, i Royal Blood. Primi in Inghilterra, primi in Irlanda, terzi in Australia: qualsiasi cosa si possa dire di loro, la new sensation d'Albione la sfida dei numeri pare già averla vinta. Così giovani e così venduti: perché non accanirsi sulla qualità artistica? Facile, con tutto quell'hype. E invece no: il duo composto da Mike Kerr (basso e voce) e Ben Thatcher (batteria), formatosi solo un anno fa a Worthing, vicino Brighton, la sostanza ce l'ha. Uscito su Warner, prodotto dalla band assieme a Tom Dalgety, il disco si presenta con l'anatema di dover confermare le aspettative, nate con i singoli precedentemente editi e con l'Ep Out Of The Black, uscito quest'anno solo negli Stati Uniti. Ed è proprio con Out Of The Black che si apre il disco: intro spezzata che pare presa dai QOTSA a cavallo tra Novanta e Duemila, nonostante il fracasso venga da due soli individui. Le progressioni, i cambi di tempo, gli stop 'n' go sono quelli propri di un hard rock evoluto, ovvero passato attraverso il tritacarne dello stoner e del fuzz ma senza la componente insana/minacciosa. Se la missione dei Royal Blood di non risultare un fuoco di paglia sia stata compiuta o meno, ce lo diranno i dischi seguenti, ma le premesse sono buonissime, soprattutto se si pensa che ciascun pezzo è stato praticamente registrato in stile "buona la prima", e che viene pur sempre da un'accoppiata basso-batteria. o t t o b r e r e c e n s i o n i Royal Blood - Royal Blood (Warner Music Group,2014) Il suono è quello dei Black Keys che ascoltano troppo i Black Sabbath e abbastanza punk senza passare dal blues delle origini, mentre crescono al Rancho de la Luna (Figure It Out). In alcuni tratti alla voce sembra di sentire un Matthew Bellamy dei Muse impossibilitato a cimentarsi in acuti e falsetti da operetta. Lo stoner è un riflesso addolcito (per non dire addomesticato) da una produzione forse troppo pulita, che non valorizza al massimo i momenti di dinamismo di pezzi che usano i soliti espedienti del genere: il riff solitario, l'assolo di batteria o di basso, la ripartenza forsennata, il coretto glam. Ma tutti gli elementi sono al posto giusto, suonati bene, in certi tratti benissimo, come in You Can Be So Cruel, che pare una jam tra Jack White alla voce e Nick Olivieri al basso. Certo, una buona dose di perizia non sopperisce ad una personalità poco pronunciata: in certi momenti viene fuori una certa stanchezza che ricorda i Wolfmother più macchinosi, in altri una tendenza al radiofonico che scade semplicemente nel caciarone (Ten Tonne Skeleton), ma sono momenti che non rappresentano, per fortuna, la totalità di un programma che per il resto scorre bene. Con più lode che infamia. Staremo ora a vedere cosa succederà, se questo duo sarà fagocitato dalle brame di un'industria che meno dischi vende e più visibilità artificiale cerca di costruire o se riuscirà a divincolarsi da queste minacce. Di sicuro, chi aveva i fucili puntati può abbassarli, almeno fino al prossimo giro. 6.4/10 Andrea Macrì Ryan Adams - Ryan Adams (PaxAm Records,2014) Genere: cantautori, rocknroll E' sempre difficile parlare di Ryan Adams perché il cantautore americano è abituato a 141 Genere: rock, folk Malinconia, dolcezza, disagio, trasporto, amarezza. Queste sono solo alcune delle sensazioni che scaturiscono dalla musica dei Wilco, una band che come poche, pochissime altre, può vantare un'integrità e un valore senza eguali. Un gruppo che si ama e basta, senza riserve, e che in vent'anni di carriera ha saputo alternare capolavori a "soltanto" ottimi dischi. Insomma, possiamo davvero affermare che i Wilco siano uno dei più grandi gruppi di sempre, e viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato di loro senza il leader Jeff Tweedy, che, dal principio, ne rappresenta il fulcro poetico ed anche emotivo. Possiamo però anche porci l'interrogativo opposto, perché stavolta il buon Tweedy si presenta da solo, con un album che è il suo primo ufficialmente da solista, anche se in realtà lo è solo a metà: non solo perché è inevitabilmente legato al sound di provenienza, ma anche perché è stato registrato con un ospite/collaboratore d'eccezione, ovvero il figlio diciottenne Spencer. Sukierae è il primo lavoro di Tweedy senza i suoi compagni, ed è un disco pensato, nato e dedicato alla sua famiglia, come conferma anche il titolo, che riprende il nomignolo della moglie Sue Miller. "Ho dovuto aspettare diciotto anni per registrare questo disco, perché dovevo far crescere un batterista": con la sua solita ironia, il Nostro ha spiegato che l'idea di un lavoro in solitaria era già nell'aria da tempo, come dimostrano i numerosi progetti al di fuori del gruppo che lo hanno visto protagonista in questi anni. Un paio di importanti produzioni (Mavis Staples, Low), ma anche tour acustici in giro per gli Stati Uniti e collaborazioni illustri, come ad esempio Song Reader di Beck, a voler forse ribadire la sua doppia identità di frontman e di songwriter profondamente immerso nella tradizione americana. In sintesi, potremmo dire che Sukierae rappresenta un ulteriore tassello nel percorso umano e artistico di Jeff Tweedy, ed è facile capire perché abbia voluto il figlio come compagno di viaggio. Già abile polistrumentista, Spencer sembra avere la medesima sensibilità del padre, la stessa curiosità che ha spinto l'adulto, a suo tempo, a voler esplorare gli infiniti meandri dell'Americana, del folk e del country. Cambiati i tempi e le modalità, ma con lo stesso rispettabilissimo background, padre e figlio viaggiano attraverso vent'anni di contemporaneità, e il risultato è Sukierae, un disco appassionato, intenso, profondamente vero. Venti brani per oltre 72 minuti di musica, che si aprono con la rabbia incalzante di Please Don't Let Me Be So Understood; un mix di generi che spazia dal rock al folk, dal country all'avant pop, passando per jazz e psych, come dimostra la grande varietà dei brani. A provarlo, episodi maggiormente classici quali World Away e I'll Sing It, con chitarre corpose e volumi elettrificati, così come gli assoli dilatati e struggenti di Diamond Light Pt 1 e Slow Love, in cui riecheggia l'inquietudine sintetica di I'm Trying To Break Your Heart. Altrove, ritroviamo tutto il fascino della polvere Americana: la disarmante dolcezza di Honey Combed, esempio di quella malinconia acustica marchio di fabbrica dei primi Wilco, così come il country da manuale di Fake Fur Coat, o la freschezza sixties/pop di Summer Noon e New Moon. Ad unire il tutto, una fragilità sospesa, una tenerezza inquieta, direttamente indirizzate alla già citata moglie Sue. Qualcuno, 142 r e c e n s i o n i o t t o b r e Tweedy - Sukierae (dBpm,2014) forse, potrà rimproverargli di non aver aggiunto nulla di nuovo alla già esaustiva discografia dei Wilco, così come qualcun altro considererà Sukierae solo un'avventura estemporanea o l'ennesima variazione sullo stesso tema, ma in fondo cosa importa? La bellezza di questo disco sta nella conferma che Jeff Tweedy continua ad essere quello che è, ovvero una figura genuina e visionaria, a suo modo straordinariamente carismatica e soprattutto ancora capace di grandissimi episodi. Vi basta? 7.4/10 spiazzare sin dagli esordi solisti di Heartbreaker, dopo la parentesi con i Whyskeytown. Ogni disco in carriera non è mai stato uguale ai precedenti, e questo ha permesso all'artista di esplorare tutte le strade dell'alternative country, finendo per abbracciare l'indie rock, il folk e il classico cantautorato a stelle e strisce di springsteeniana memoria. Oggi Ryan Adams è una persona diversa, lontana dagli eccessi di una vita da rockstar e con una serie di problemi buttati alle spalle (leggi alcolismo e un matrimonio finito male); in questi casi, di solito si mette un punto e a capo. Ryan Adams è un album di rock blues con venature AOR direttamente mutuate dagli anni Ottanta. Le prime tre canzoni, Gimme Something Good, Kim e Trouble (dove sembra di ascoltare i Wallflowers di Jacob Dylan) parlano chiaro: corpose chitarre elettriche in evidenza, riff che lasciano spazio al cantato sotto una sezione ritmica solida ed essenziale. L'uso di organi hammond e di chitarre acustiche in alcuni momenti, completa il quadro di un album che non presenta nessun punto debole, nelle undici canzoni che lo compongono. Non ci sono dischi simili a questo nella discografia del musicista (forse Rock and Roll del 2003 può avvicinarglisi per l'approccio generale alla materia sonora), ma alcuni momenti riescono ancora a riportarci al Demolition del 2002: è il caso di My Wrecking Ball, che è una delicata e intima ballata che odora dello Springsteen di Nebraska. Ma dura solo un attimo, perché con Stay With Me si è di nuovo catapultati nella dimensione AOR che sembra essere il filo conduttore del rinnovato cantautore; altre soddisfazioni arrivano con Feels Like Fire e soprattutto con le ultime due canzoni, Tired Of Giving Up e Let Go: in particolare, sembra che qui Ryan Adams stia parlando a sé stesso provando a fare i conti con il difficile periodo affrontato in passato. Inutile dire che per il suo pubblico i momenti di maggiore riconoscibilità dell'artista sono proprio qui, in quelle melodie malinconiche e in quei testi drammaticamente onesti che fungono da filo conduttore per tutta la sua produzione. Che suoni folk, alt. country o rock, Ryan Adams è ancora un artista fortemente ispirato, che sa regalare album di alto profilo. E questa è una fortuna. 7.1/10 o t t o b r e r e c e n s i o n i Giulia Antelli Stefano De Stefano SBTRKT - Wonder Where We Land (Young Turks,2014) Genere: dubstep, elettronica, post Non è immediato trovare la quadra per questo secondo attesissimo album, a tre anni dall'esordio sulla lunga distanza del progetto 143 o t t o b r e 144 ad un nu soul notturno e cinematico. La copertina cita il film d'animazione fantascientifico francese La Planète Sauvage (1973, disegni di Roland Topor, regia di René Laloux), ma i riferimenti sci-fi (tranne che negli strumentali Lantern, saggio breve di due minuti, e Osea, in collaborazione con il promettente Koreless, sempre scuderia Young Turks) rimangono sottopelle, nelle scelte complessive di sound design che ricordano i recenti esperimenti di FaltyDL, ma non osano tanto. I quattro interventi di Sampha definiscono bene l'ambito di riferimento, future r'n'b comunque più corposo e complesso delle recenti proposte di SOHN o di Chet Faker: la title track è post-non-post "cantautoralizzato" alla James Blake; Temporary View, altra vetta nel saliscendi dell'album, è canzone dall'equilibrio perfetto tra pop ed eleganza; il minuto e mezzo pianoforte-voce di If It Happens, sviluppato e dato ad Adele, avrebbe spaccato le chart mondiali; la scorribanda afro Gon Stay, con basso gracelandiano e pennellate fender rhodes, è già meno memorabile. Le scelte dei vocalist dimostrano un particolare interesse verso il mercato USA (il denso tour autunnale americano ne raccoglierà i frutti): oltre a Koenig, nei credits compaiono il diciottenne Raury, cantautore black emergente da Atlanta (il rap in apnea di Higher), il rapper A$AP Ferg da Harlem (nella conclusiva hip hop acustica Voices in My Head, dalle evidenti radici Roots, le sue lyrics parlano del padre morto e di droga) e la languida Caroline Polachek dei Chairlift (Look Away è sfuggente come lo sguardo della ragazza in 3D del video interattivo). Completano i ricchi credits due voci femminili UK: ma, sia quella ormai sontuosa di Jessie Ware (Problem Solved) che quella educata e suadente della giovane Denai Moore (The Light), sono utilizzate per tracce che non si aprono mai completamente e ri- r e c e n s i o n i SBTRKT, da parte del titolare Aaron Jerome Foulds. Da un lato capitalizzando gli studi accademici in produzione musicale, dall'altro cogliendo in pieno lo spirito del tempo con un naturale killer instinct per la canzone perfetta, il non-più-misterioso producer inglese (ormai le iconiche maschere futuristico-tribali create dal design studio A Hidden Place lasciano più trapelare, che nascondere) ha ritagliato un suo riconosciuto spazio nel panorama popstep UK. Dopo l'acclamato album omonimo del 2011, SBTRKT ha ridotto sensibilmente le uscite su disco, dedicando tutto il tempo disponibile nella sua fitta e remunerata agenda live per il confezionamento del seguito. I tre EP della serie Transitions, pubblicati tra maggio e giugno 2014, vanno visti come una sorta di diario di appunti e sketch preparatori (Resolute, traccia in Transitions II, è la versione strumentale di Temporary View) per un album che, forse per eccesso di confidenza, risulta ricco di spunti interessanti ma complessivamente fuori fuoco. La decisione di anticipare la pubblicazione di ben sei brani (più della metà dei 42 minuti e 23" totali dell'LP) nei due mesi prima dell'uscita del disco può quindi dimostrarsi scelta tatticamente azzeccata, spostando l'attenzione più sui singoli episodi che non sul lavoro complessivo: in Wonder Where We Land sono infatti incastonati brani piacevolissimi e di alto livello qualitativo, in grado di alzare da soli la media della valutazione complessiva. Il primo singolo è particolarmente fuorviante, ma è anche una delle più trascinanti canzoni dell'anno: in New Dorp, New York la presenza di Ezra Koenig dei Vampire Weekend è più di un semplice featuring, portando in dote con piglio princeiano atteggiamenti funky e afrobeat. Il pezzo è però l'unica concessione al mondo dance che troviamo in un album che lascia da parte ogni riferimento al 2step garage, ossatura del precedente, per dedicarsi principalmente mangono irrisolte. Anche Everybody Knows, dal giro armonico jazzato (la Love Unlimited Orchestra in versione trip hop) e con sample vocale non accreditato, lascia insoddisfatti per le potenzialità inespresse. Viste le premesse, da Wonder Where We Land ci si aspettava di più. Ma visto il livello delle aspettative, e la qualità di almeno due dei brani contenuti più altri momenti pregevoli, il risultato rimane più che sufficiente. 6.7/10 Alessandro Pogliani Genere: techno Linear S Decoded, il secondo album degli svedesi Shxcxchcxsh, vede il duo muoversi da un ambito techno industrial mutante, già esplorato ed ibridato, verso nuovi lidi, come faceva già presagire il breve e minimale video dell'intro del disco, uscito l'8 agosto 2014: un movimento di macchina radente alla superficie di un lago, in cui si intravedeva una vegetazione che sembrava quasi affiorare dall'acqua, mente il brano, Entering The S-Cloud, evocava atmosfere alla David Lynch. Il duo ha dichiarato di aver dato più spazio alle atmosfere e agli aspetti melodici, continuando l'opera di contaminazione e ricerca che lo contraddistingue. Il disco ha, per la prima volta nella carriera della formazione, titoli comprensibili: elemento non trascurabile, che ha giocato sin dall'inizio con una certa tradizione "oscura" in un ormai consolidato (e forse abusato) gioco situazionista, in cui è quasi d'obbligo celare le proprie identità anche quando si suona dal vivo. Più che di techno industrial, soprattutto rispetto a quest'ultimo lavoro, si dovrebbe parlare di una techno che porta con sé principalmente elementi IDM assieme a cupe e spettrali incursioni electro/breakbeat: o t t o b r e r e c e n s i o n i Shxcxchcxsh - Linear S Decoded (Avian,2014) si rallenta la battuta e si curano molto di più le atmosfere che lavorano su una vasta scala di grigi, presentando dinamiche sempre mutevoli. Drain This Lord e Elocution sono brani che offrono ancora una techno veloce, metallica e martellante che si riconnette efficacemente alle sonorità dei lavori precedenti. Invece, brani come Wading Guise sembrano evocare il fantasma di Burial, assieme a vaghe reminiscenze trip-hop. Tutto il disco si muove in un'atmosfera subacquea, presentando anche campionamenti di rumori acquatici, in quello che sembra un lago oscuro. Siamo permeati, a tratti, da bravi flash luminosi provenienti dalla superficie, come accade in The Roots. Helical Dialog è una veloce e claustrofobica tempesta di bassi e toni mid-rage distorti, mentre The Under Shore sembra tornare nei territori di un dubstep melanconico ed evocativo. A Sunny Day In Ostrogothia e Rudimental Retreat sono lenti brani techno-dub dai grezzi e decisi bassi metallici post-industriali. In Sub Mission – The Atlantic Vision la battuta si rallenta sino a sfaldarsi in schegge sonore di vago sapore IDM, sino all'emersione melodica e malinconica del brano finale: Monolitich Conclusion. Sicuramente gli Shxcxchcxsh sono parte di quel movimento di produttori europei che stanno inserendo nella propria musica elementi sempre più apocalittici e post-umani, non scevri però da una fascinazione per cupe melodie che tratteggiano affascinati paesaggi solitari, come quelli evocati dal duo scandinavo. Un'elettronica mutante che riesce a conquistare il dancefloor meno mainstream con musiche da rave in capannoni industriali dismessi, ma che riesce a coinvolgere, al contempo, appassionati di uno spettro di musica "dark-oriented" molto vario. 7/10 Marco De Baptistis 145 Genere: rock, psych, blues Ascolti qualche intervista al gruppo recuperata in rete e finisci per accostare gli Universal Sex Arena ai Led Zeppelin testosteronici del Robert Plant che cantava "i'm gonna give you every inch of my love". Del resto il disco d'esordio della formazione, pubblicato nel 2013, si intitolava Women Will Be Girls, mentre il qui presente Romancitysm parla di una "città" intesa come "entità femminile che genera vita e racconta i suoi processi, meccanismi, sistemi. […] La città è la donna. Sensuale. Molto articolata". Tanto per dire che si allarga il cerchio, ma il succo del discorso rimane lo stesso. Plantiano è anche il cantato, timbro soul bianco con qualche reminiscenza sudista in stile Zakk Wylde periodo Pride and Glory, o magari debitore verso un Rob Tyner degli MC5: roba che da sola tiene su metà dei sette brani di questo secondo album della formazione veneta, in uscita per La Tempesta International. Eppure c'è anche altro, nell'immaginario degli Universal Sex Arena, e non ha a che vedere con la categoria "classic": l'approccio tutto sommato ironico alle tematiche trattate, una line up piuttosto peculiare (due batterie, percussioni, due chitarre elettriche, synth, basso) e una musica che pare un folle e meraviglioso danzare tra immaginario rock e avanguardia, riff lancinanti e tribalismo terzomondista, no wave e ballad oblique. Quello che accade in una Breathe The Light figlia degli MC5 di cui sopra ma avvitata su un suono angolare fatto di poliritmie carnali e assoli blues di armonica, in una Sudden Donna fondamentalmente soul che si accascia su una psichedelia morbida e uterina, o magari una The Last Detroit's Urbanist che suona beefheartiana fino al midollo, pur possedendo un'indole quasi hard rock. La produzione artistica del Jennifer Gentle, Marco Fasolo, e il fatto che il disco sia stato registrato in una settimana e dal vivo fanno il resto, consegnando ai posteri un lavoro entusiasmante e surreale, immediato e intellettuale al tempo stesso. Uno di quei sogni adolescenziali sudati e folli in cui tutto è meravigliosamente fuori posto ma, chissà come, credibile. 7.2/10 Fabrizio Zampighi Simian Mobile Disco - Whorl (ANTI,2014) Genere: electro, house Difficile scrivere di Simian Mobile Disco senza tirare in ballo, ancora una volta, quella scena electroclash che gli stessi James Ford e Jas Shaw frequentarono, e per la quale dispensarono contributi decisivi. Sono pochi, in ambito elettronico, quelli che sono riusciti a prendere 146 le distanze da certi eccessi – in quegli anni ampiamente sdoganati – e tornare alla carica con materiale rilevante. E allora, sempre di più, si cerca l'essenziale, back to basics, con un disco – Whorl – pensato come semplice registrazione di un set suonato dal vivo (il 26 aprile di quest'anno, al Pappy and Harriets Saloon di Pioneertown, California), utilizzando strumentazione ridotta al minimo indispensabile (un r e c e n s i o n i o t t o b r e Universal Sex Arena - Romancitysm (La Tempesta International,2014) Elia Galli Sinead O'Connor - I'm Not Bossy, I'm The Boss (Nettwerk Music Group,2014) Genere: pop Poche carriere sono state turbolente tanto r e c e n s i o n i quanto quella di Sinéad O'Connor. Emersa con il bell'album di debutto The Lion and the Cobra e divenuta in breve tempo una star di prima grandezza grazie al successivo I Do Not Want What I Haven't Got (e soprattutto, ironia della sorte per una cantautrice, a una cover di un brano minore che Prince inizialmente donò alla band The Family, Nothing Compares 2 U), spiazzò subito il pubblico con un disco di standard inciso con una big band, dichiarazioni forti, una foto di Giovanni Paolo II strappata sul palco durante l'esecuzione di un pezzo di Bob Marley e una miriade di collaborazioni. In molti, a torto o a ragione, smisero di seguirla dopo Faith and Courage, perdendosi quindi le sue incursioni nel folk e nel dub; il colpo di coda è stato How About I Be Me (And You Be You)?, un lavoro organico e baciato da una ritrovata ispirazione. Da sempre un'artista e una donna imprevedibile, stavolta Sinéad ha cambiato strategia e ha preferito non avventurarsi in territori musicali insoliti, consegnando il seguito ideale del lavoro del 2012. Sono canzoni asciutte, musicalmente accessibili, mature e che vanno dritte al sodo, quelle che propone in I'm Not Bossy, I'm The Boss. Sono ritratti di donne che sfilano sotto forma di canzoni, anche se è inevitabile che ci siano reconditi riferimenti autobiografici, in un album che più che rendere un omaggio idilliaco all'universo femminile, alla sua forza e al desiderio di riscatto (il titolo è stato cambiato all'ultimo momento, ispirato dalla campagna Ban Bossy lanciata da Sheryl Sandberg e che ha coinvolto personalità come Beyoncé e Condoleeza Rice), ne racconta anche le contraddizioni, in quell'eterna guerra dei sessi in cui anche la donna più orgogliosa e combattiva si scopre succube e, specie se entra in gioco l'amore, tende a smettere di lottare. Sinéad gioca in copertina vestita in PVC, con una parrucca e un'immagine glam che mai prima d'ora aveva adottato, ma ascol- o t t o b r e sintetizzatore analogico e un sequencer ciascuno). Schema di fondo molto simile a quello di Holkham Drones, album di Luke Abbott, pubblicato da Border Community qualche mese fa. Un nome, quest'ultimo, insieme al quale i Nostri condividono le coordinate spazio-temporali degli esordi (fermenti post-Gigolo, seconda metà degli anni Zero, Inghilterra), dando per scontate le significative differenze in termini di stile e cadenze produttive, e con il quale tornano oggi ad incontrarsi, con Simian Mobile Disco decisamente più propensi ai ritmi e alla pista. Whorl disegna un dancefloor vellutato, abilmente posato sulle atmosfere spacey, sgravato dalle ruvidità che furono marchio di fabbrica per qualche stagione. Ricorderemo Tangents, coro di sintetizzatori a più voci su cassa dritta, rievocazione intima di collaudati approcci anthemici, oppure Jam Side Up, che in coda gioca a slegare gli strumenti sul breakbeat. Poi, le costruzioni di layout sintetici sui bpm rallentati di Iron Henge, i tribalismi cosmici di Sun Dogs e Hypnick Jerk, i quadretti dallo spazio in assenza di drum machine, quasi in fotocopia (Redshift, Dandelion Spheres, Z Space). L'amarcord di un passato spavaldo, che continua a confrontarsi con queste nuove direzioni, innesca gli arpeggi di Calyx – distorti sì, ma non così pesantemente come si usava – e Dervish, electro a fumetti con loop di tastiera sopra una traccia di contrappunti ritmici. Una serie di suggestioni che, sulla scia dei precedenti Delicacies (2010) e Unpatterns (2012), dimostrano la presenza di un gusto in costante evoluzione. 6.7/10 147 Genere: kraut Discograficamente silenzioso da qualche anno, Valerio Cosi non se ne è stato con le mani in mano. Anzi, ha finalmente aumentato le sue apparizioni live e nel frattempo ha portato avanti una serie di progetti che ora cominciano a vedere la luce. Questo Plays Popol Vuh, ad esempio, edizione vinilica colorata e completamente autoprodotta, è, come intuibile dal titolo, un lavoro di ripensamento di alcuni momenti tra i più significativi della band/comune tedesca pioniera del kraut cui Cosi molto deve in termini di attitudine e ispirazione. E se la congrega freak di Fricke prendeva spunto dalle leggende sulla creazione del mondo (contenute appunto nel "Libro della comunità" da cui ripresero il nome) per imbastire il percorso nella propria creazione (questa volta musicale), Valerio Cosi afferra il senso più profondo della weltanschauung dei "krauti" e vi soprappone la propria, ri-creando ciò che i tedeschi hanno affidato alla storia musicale contemporanea quaranta anni fa. In soldoni, cinque ripensamenti – non versioni, ma proprio rielaborazioni (quasi) in toto – di altrettante perle dei Popol Vuh che si muovono tra reiterazioni e ciclicità, sfasamenti e rispettoso omaggio, in un continuum che sposta di volta in volta l'asse portante delle canzoni originarie verso lande e dimensioni "altre". Hosianna Mantra è esemplare in questo senso: parte come un techno/ industrial-rock acceso da tribalismo e sax indemoniato e free, e pian piano si sfalda, avvitandosi su se stessa fino a trasformarsi in un trip ossessivo e orientaleggiante. Mistica e materica, quasi in forme transustanziate, per un leitmotiv operativo che si mostra lungo tutto l'album, sia la kosmische sfilacciata di Vuh, la psych cinematografica di Affenstunde, l'ossessione motorik di Train Through Time – tutta sovrapposizioni e reiterazioni – o le aperture astral-cameristiche dell'opener Aguirre. Ad accompagnare le ottime intuizioni di Cosi – e a ribadirne la stima guadagnata in certi giri – le comparsate di Paul de Jong (The Books), Zac Nelson (batteria) e Mauro Corvaglia (chitarra). A seguire, tanto per dimostrare di nuovo quell'eruttività eccentrica che lo contraddistinse agli esordi, Valerio se ne esce con un album digitale per un progetto particolare legato alla tragedia del Vajont, commissionato da Calamita/à. Sounds For Vajont, lavoro totalmente estraneo alle dinamiche di cui sopra, permette al tarantino di esplorare il suo lato più elettronico in brevi sketches definiti dallo stesso come "sound miniature". Una scelta per evitare le secche del "dejà vu" e che si concretizza nell'estasi droning sospesa di Vajont Naturelle e nel suo contraltare conclusivo Slowly Sinking, nel glitch umorale di Castrum De Spengenberg o nella quieta pastorale alpina di Longarone Blues (1'38" For Loren Connors): piccoli tasselli nella ricostruzione/restituzione della memoria sulla più alta diga ad arco a doppia curvatura del mondo e su una delle più terribili tragedia dell'Italia post-guerra. 7.5/10 Stefano Pifferi 148 r e c e n s i o n i o t t o b r e Valerio Cosi - Plays Popol Vuh (Dreamsheep,2014) r e c e n s i o n i questo è vero, e tutto è più maturo e calibrato rispetto agli standard cui ci ha abituati, eppure il disco, per quanto levigato e forse fin troppo "perfettino", scorre fino alla fine che è un piacere – conciso, vario quanto basta e soprattutto pieno zeppo di hook. D'altronde, è proprio il tipo di lavoro che oggi ci si attende da un "boss" come lei, abituata com'è a farci innamorare (e disinnamorare) rivelandosi sulla ribalta e nel retroscena, forte ma senza mai nascondere la sua vulnerabilità. E non è poco. 6.8/10 Alessandro Liccardo Stephen Steinbrink - Arranged Waves (Melodic UK,2014) Genere: pop, cantautori, indie Stephen Steinbrink è un cantautore introverso e con gli occhi ancora iniettati di sogno, un polistrumentista autodidatta e con un amore palese verso artisti come John Lennon ed Elliott Smith, le cui vocalità sono spesso richiamate nelle sue interpretazioni. Americano di Phoenix in Arizona, autore di svariati album che gli hanno costruito un percorso di nobile anonimato, arriva oggi al suo primo disco edito per la piccola etichetta inglese Melodic, label che si prende la briga di rispolverare questo Arranged Waves uscito in autoproduzione un anno fa. I misteri del music business sono e restano tuttora irrisolti: l'artista in questione ha talento da vendere, e appare evidente nelle dodici composizioni di quest'album, così fortemente radicato in melodie e arrangiamenti dal forte retrogusto Eighties. Qui si tratta di puro e basico indiepop di stampo forse nordamericano, sul genere di Craft Spells (Animated Dust e Trust su tutte), Fruit Bats o The Shins; spesso, poi, si vola con la testa ad alcune sperimentazioni beatlesiane degli anni di Revolver o Rubber Soul (Bran New Manic Brain Holder), rivisitate in chiave o t t o b r e tando i nuovi dodici pezzi (che diventano quindici nella deluxe edition, ben confezionata in un piccolo hardbook) è chiaro che la signora ci ha depistati per l'ennesima volta. Il disco è dedicato a se stessa, e l'autrice spiega nel libretto di aver lasciato la "guerriera" per una volta a riposare e di aver dunque indossato i panni della "donna con il vestito rosso". Della donna innamorata – di Davey, anche se il produttore è il suo ex marito John Reynolds. Della seduttrice, ironica e sicura di sé ("See, I'm special forces / they call me in after divorces / to lift you up", canta in Kisses Like Mine) e della donna sedotta e abbandonata (dall'uomo sposato che si prende gioco di lei in The Voice Of My Doctor). Della donna che desidera l'uomo che non può avere, e del quale fantastica annusando la sua giacca (Your Green Jacket) e infine di quella che ammonisce le nuove leve, come una madre, con una stoccata a quella Miley Cyrus cui scrisse una lettera pubblica in 8 Good Reasons ("You know I love to make music / but my head got wrecked by the business"). Ottima la scelta di affidare a Take Me To Church (no, Hozier non c'entra) il ruolo di singolo apripista: un ritornello facile ma graffiante, che riporta inevitabilmente agli esordi della cantante, arrangiato con gusto. Funziona la collaborazione col sassofonista Sean Kuti, figlio del grande Fela, in James Brown (un richiamo indiretto al passato, visto che di Brown era stata campionata la batteria di Funky Drummer in I Am Stretched On Your Grave ventiquattro anni fa) così come Where Have You Been, un potenziale hit single con tutti i crismi. I due brani più coinvolgenti del lotto sono tuttavia Harbour e il conclusivo Streetcars, più spoglio e intimo rispetto al resto del materiale presente in questo decimo, riuscito, lavoro in studio. Sembra che Sinéad O'Connor sia tornata definitivamente e che non abbia alcuna intenzione di lasciarci di nuovo. Manca il coup de théâtre, 149 Genere: rock, glam, industrial, elettronica Seb Gainsborough, in arte Vessel, è un musicista eclettico che ci ha ormai abituato ad un percorso incline alle svolte e ai cambiamenti più repentini, come avviene anche nel caso del suo ultimo disco: Punish, Honey, in uscita per Tri Angle il 15 settembre 2014. "Punish, Honey", ovvero punizione e delizia, è un titolo che ben si sposa con l'immagine della copertina: corpi marmorei maschili in bianco e nero che emergono da un fondo scuro, presi in un abbraccio confuso che potrebbe essere d'agonia, d'estasi o entrambe le cose. L'immagine richiama chiaramente alcune scene del film "Un Chant d'Amour" di Jean Genet e un certo sadomasochismo omoerotico, un perfetto connubio di dolore e piacere. Proprio nel segno del richiamo di una certa idea di fisicità e di gusto per la dimensione tattile, si iscrive la decisione di Gainsborough di mettere da parte software e computer, per sporcarsi le mani con suoni prodotti da macchine e strumenti concreti. Il disco, infatti, è stato realizzato utilizzando strumenti trovati dal rigattiere o creati ed assemblati dallo stesso artista come, ad esempio, lamiere di metallo per le percussioni, carillon, vecchi clavicembali, richiami per uccelli e strumentazione analogica. Anche per questo, i suoni appaiono particolarmente curati e originali, abilmente orchestrati per una marcia industriale. Il risultato finale sembra andare verso atmosfere e sonorità oscure e abilmente evocative alla Haxan Cloak, compagno di etichetta su Tri Angle, anch'esso talentuoso polistrumentista; ma, a differenza dell'approccio minimalista di quest'ultimo, il disco di Vessel è decisamente barocco e non lontano da certe cose di Pete Swanson (che ha recentemente collaborato e suonato assieme al musicista di Bristol). Dalla press release il disco viene presentato come un lavoro influenzato da sonorità glam, il che però è da prendere con una certa cautela e forse anche con la giusta dose d'ironia. Red Sex, il singolo che anticipa il disco, rimanda, in effetti, ad atmosfere glam, ma in qualche maniera anche a qualcosa più vicino a dei Suicide o ad alcuni dei lavori solisti di Martin Rev. Si tratta di una sorta di "glam industrial" futuribile fatto di situazioni ambigue, oscillanti e persuasive, synth sporchi e grezzi conditi da ritmiche metalliche post-industriali. Ci sono circa 12 secondi di silenzio prima che inizi la prima traccia del disco, Febrile, al ritmo di percussioni metalliche in crescendo degne degli Einstürzende Neubauten. Dopo l'"industrial glam" alla Suicide di Red Sex, segue la lenta marcia meccanica di Drowned in Water and Light, che, dopo un inizio ossessivo, si apre a suggestioni cinematiche in bianco e nero. Euoi è un brano pieno di arpeggi d'organo tanto schizoidi, quando evocativi. Tornano poi i synth memori dei Suicide in Anima, con il suo convincente ed ipnotico crescendo tra clangori metallici e rumorismi vari. Black Leaves And Fallen Branches si apre con un richiamo di uccelli effettato e distorto, per poi proseguire riuscendo a creare delicati, quanto inquietanti, paesaggi onirici. Kin To Coal inizia con il consueto clangore metallico per poi inserire varie stratificazione sonore con una timbrica solida per un brano oscuro, carnale e violento. Punish, honey rimanda, con le sue tastiere, a suggestioni sensuali e ambigue, prima della chiusura di DPM, piena di fughe di arpeggi sintetici palpitanti e 150 r e c e n s i o n i o t t o b r e Vessel - Punish, Honey (Tri Angle,2014) anarchici, il tutto condito con ritmiche metalliche che montano sempre minacciose e aggressive. Disco più che buono – che, in puro spirito Tri Angle, ci mostra scorci di possibili traiettorie future – costruito con sonorità post-industriali fecondamente e coraggiosamente ibridate. 7.5/10 personale. Fatto sta che la qualità c'è, eccome. Con la canzone Tangerine si entra nel territorio di un folk malinconico e sospeso che sicuramente non reinventa il genere, ma si limita ad offrire un contributo notevole per intenzione ed intensità di scrittura. E' con It Takes A Lot To Change A Mind e Sand Mandalas che si arriva al momento più chiaro di Arranged Waves, quello in cui si paga il tributo a tutta la famiglia Lennon, da John ai suoi figli, con una ballata sognante e di effetto. Si tratta di pop nel vero senso del termine; nessuno strumento, dalle chitarre al piano, emerge chiaramente, perché ogni cosa è pensata per dare risalto alle melodie come fosse un morbido ed elegante tappeto. Un pop ordinato, canonico ma non banale, dove ogni canzone si lascia ricordare e ascoltare per qualche hook particolare (Impress My Memories, dove si va ancora più indietro verso i Seventies in un gioco di richiami con certo folk d'annata quasi canterburiano), sia esso la linea vocale o un arpeggio di chitarra acustica messo qui e lì. Arranged Waves è un album consistente, che fa porre domande sulla casualità o fortuna che governa spesso il music business. 7/10 Stefano De Stefano Steve Gunn - Cantos de Lisboa (RVNG Intl.,2014) Genere: avant, blues, country, folk La serie FRKWYS della Rvng Intl. arriva al suo volume numero 11 e non arretra di un passo nel lodevole tentativo di associare musicisti contemporanei (o semplicemente più giovani) coi propri predecessori ideali (anagraficamente più in là con l'età). In questo volume i mondi avvicinati da questa collana collaborativa sono meno distanti di quelli incontrati in precedenza (si pensi a Julianna Barwick e Ikue Mori o a Blues Control e Laraaji), dato che a incrociare le chitarre sono Steve Gunn e Mike Cooper: il primo consolidata realtà d'area psych-folk e appassionato adepto al punto da considerare l'album di Cooper del 1970 Trout Steel come modello e ispirazione, il secondo grande vecchio "riscoperto" con sommo gaudio negli ultimi tempi con prove originali e notevoli ristampe (New Globe Notes su tutte). Terreno d'incontro, come si deduce dal titolo, il Portogallo, sinonimo dunque di intrecci di chitarra e malinconia (fado e blues non sono così lontani, così come saudade, volendo, non è che uno dei tanti nomi dello spleen), e una città, Lisbona, che molto ha contribuito coi suoi "cantos" (gli "angoli", gli "scorci") alla stesura dei sette lunghi "cantos" (le "canzoni") qui presenti. Una sorta di viaggio psicogeografico a base di folk sui generis, faheyiano fino al midollo e bluesy in maniera viscerale (il Delta che riecheggia qua e la in tutto il lavoro, ma che fuoriesce prepotentemente in tracce come Pony Blues) in cui non mancano momenti weird e disturbanti (l'overdrive di Song For Charlie) o alieni e notturni (The Enchanted Moura), oppure perfette sintesi di quanto detto o t t o b r e r e c e n s i o n i Marco De Baptistis 151 finora (la straziante Lampedusa 2013). Un lavoro, si sarà inteso, di grossissimo spessore e in grado di accontentare i palati più fini. 7/10 Stefano Pifferi Genere: rock, indie Una pausa quando prima si era corso, la conta dei reduci dopo che gli altri se ne sono andati, gli scazzi interni, le aspettative dopo alcuni album fortunati ma non del tutto a fuoco: c'era tutto per stare con i fucili puntati al cospetto del nuovo album dei The Drums, quantomeno per vedere se i Nostri sarebbero rimasti relegati al ruolo di eterna promessa oppure no. Con Encyclopedia Jonathan Pierce e Jacob Graham si trovano davanti ad una sfida: senza tirare fuori lo stereotipo del terzo album, il duo è quasi costretto a fare "il grande passo", quello che ti fa svoltare una carriera dopo alcuni segnali di appiattimento e magari ti catapulta nel club dei grandi. Almeno, questo piace pensare a chi ha seguito la loro carriera, fatta di surf e spleen, di elettronica tenue e chitarre secche, di abbigliamento hipster e di un immaginario a metà strada tra Stati Uniti da mercoledì leonini e brughiere smithsiane. Tutti elementi che fanno capire che i ragazzi di Brooklyn e il loro sound, tra i grandi (inteso come adulti), non vogliono entrarci. Almeno, non ora: meglio continuare a divertirsi, anche se con un filo di malinconia. C'è subito da dire che nella prima parte del disco i Drums non ne sbagliano una: dalla spiazzante intro (hard rock suonato dagli Echo and The Bunnymen) di Magic Mountain a Let Me, ci sono sia melodie intriganti che intrecci di elettronica e cori, ad impastare canzoni dall'ottimo impatto. I Don't Pretend è il ballo di fine anno fatto di drum machine, chitarra secca e malinconia struggente, Kiss Me Again è il pezzo pop perfetto, zuccheroso come il 152 Andrea Macrì r e c e n s i o n i o t t o b r e The Drums - Encyclopedia (Minor,2014) titolo vuole, chitarre echeggianti sotto i synth in primo piano, linea di basso che detta il passo, e quei cori miagolanti che ti stendono. L'uso dell'elettronica è maggiore rispetto al passato, ma si tratta di sfumature, mentre i riverberi tra Magnetic Fields e 60s restano sullo sfondo a delineare l'atmosfera. Nella seconda parte l'album scende leggermente di tono, in momenti come la chiusa di Wild Geese e U.S. National Park: ma parliamo di due pezzi su dodici. Basta un attimo e ti ritrovi dentro a There Is Nothing Left, (puro Drumssound nella sua massima tipicità ed efficacia, impreziosito da policromia sonora) e nella lenta e spettrale Bell Laboratories, un tentativo forse timido ma comunque interessante di sfondare dalle parti dei primi Knife. E qui nascono alcune considerazioni. La band ha avuto nel tempo (dai primi EP fino a Portamento) il difetto di non tentare mai realmente l'allargamento dei propri orizzonti sonori, se non con qualche slancio più umorale/tematico che sonoro: oscillamenti però sempre interni a quell'orizzonte di cui si diceva sopra. È questo – assieme alla constatazione che forse, con qualche pezzo in meno, questo sarebbe stato un signor album – l'unico problema dei Drums: se si cerca la band che sconvolge il proprio universo e si reinventa, allora si perde in partenza, perché la cosa non è né nelle corde, né nei desideri del duo. Se invece si analizza la cura del dettaglio, la bellezza delle melodie, l'equilibrio tra trascinante e suadente, allora sì, i Drums hanno fatto un buon disco. Encyclopedia è un album in fin dei conti riuscito, senza dubbio un passo avanti: quel passo che magari non ti permette di entrare nel club dei grandi (e per quello forse c'è ancora tempo) ma che attesta un ottimo stato di ritrovata forma. 7/10 Genere: pop, rock, psych, art, indie, wave, lo-fi "Beach goth" è una definizione fantasiosa che nelle intenzioni dei californiani Growlers starebbe ad indicare l'insolito connubio fra il sole della Costa Ovest e i chiaroscuri New Wave. Poco importa che, nei fatti, le trame pigre del loro guitar pop si confondano con lo scazzo degli Strokes e la slackness delle indie band anni '90. La componente wave si traduce in un minimalismo pop a cui i Nostri sono giunti asciugando progressivamente le trame, attraverso un processo di sottrazione perfezionato nei tre precedenti album. Che fosse arrivato il momento per un cambio di passo lo si era capito da tempo. Due anni fa i Growlers avevano giocato la carta della collaborazione d'alto profilo, facendosi produrre l'album da Dan Auerbach. Nulla da fare, purtroppo. Il risultato di quelle registrazioni era stato considerato troppo pulito rispetto agli standard informali del gruppo, e dunque cestinato. Nel frattempo sono usciti un album (il divertente Hung At Heart) e un EP (il promettente Not. Psych!). Ora arriva questo Chinese Fountain, che trova la quadra con un suono mid-fi che valorizza le preziose melodie della band e le permette di giocare con le sfumature. Incredibile cosa si possa fare con pochi tocchi di twang e una vena melodica fuori dal comune. Fra una Big Toe che pare scritta dai Kinks in vacanza ad Honolulu e una Black Memories che è tutta tramonto e malinconia, i cinque trovano il modo di cimentarsi anche con funk (anche se lo shuffle e i synth cheap della title track, la fanno sembrare più la parodia di un brano disco) e reggae (su Dull Boy lo suonano come potrebbero suonarlo i Beat Happening di prima mattina). Insomma questa volta i Nostri ce l'hanno messa tutta per dare un senso al loro pop ironicamen- te post moderno. Perché se è vero che il cantilenare distratto di Brooks Nielsen si scambia spesso con quello di Alex Turner, va riconosciuto ai Growlers di essere solidi autori di canzoni. Valga per tutte una Not The Man che fra chiaroscuri (questa volta veramente) post punk e un chorus che profuma di spezie 60s, finisce per non assomigliare ad altro che a se stessa. 7.2/10 Diego Ballani The Juan MacLean - In A Dream (DFA,2014) Genere: house, dance, disco, elettronica Bastano due chitarre iniziali e un arpeggiatore a farci capire che il punto di partenza di questo terzo lavoro dei Juan Maclean è, come al solito, la disco classica, quella dei Settanta di Giorgio Moroder e compagnia cantante. Il tutto ovviamente mutato con la consapevolezza di più di dieci anni di carriera in casa DFA (il primo singolo è del 2002), e quindi con tagli che aggiungono sensibilità e gusto newyorchese, quella specie di spaesamento urban che solo la grande mela sa conferire. Un tocco personale che con il passare dei minuti muta il lavoro in una "fuga di mezzanotte" dal passato, un cambio di rotta che prevede il mastermind John Maclean concentrato praticamente solo sui suoni e che promuove la chanteuse Nancy Whang (ex LCD Soundsystem) a vera e propria frontman del duo. Non a caso è proprio lei che campeggia questa volta – e meritatamente – in copertina. Un bianco e nero che asciuga i colori del passato e tiene buone solo le cose necessarie. Il "Future Will Come" del 2009 è oggi diventato ritmo, coolness, movimento, qualche effetto laser, synth vintage '80 (che malinconia in Here I Am), bassi funky r'n'b sciccosi (Running Back To You), tappetini melò e una produzione pressoché perfetta (da panico tutto il remix delle o t t o b r e r e c e n s i o n i The Growlers - Chinese Fountain (Fat Cat,2014) 153 o t t o b r e Marco Braggion The New Pornographers - Brill Bruisers (Matador,2014) Genere: rock, indie I New Pornographers non avevano mai fatto trascorrere quattro anni tra due lavori, ma come si suol dire tanta attesa è stata ampiamente ripagata. Così, se Togheter aveva festeggiato i dieci anni di attività del combo canadese con un'apoteosi del loro stile, questo Brill Bruisers – sesto disco a loro nome – rilancia la proposta con lievi correzioni di rotta. Tredici i pezzi perlopiù firmati – come al solito – da Carl Newman, all'insegna di un mood entusiasta e impetuoso attraversato da venuzze 154 agrodolci, con l'evidente intenzione di testare il magnetismo del pop-rock a tavoletta. Rispetto al passato il baricentro è sensibilmente più vicino all'AOR degli 80s, una sorta di power pop ai tempi della musica sintetica, dove l'elettricità e l'elettronica cospirano un carosello energico e stuzzicante, senza scordare – anzi in un certo senso sublimandole – inquietudini e malinconie. Questi ultimi aspetti sono più evidenti nei pezzi interpretati dalla al solito mesmerica Neko Case (sentitevi Champions Of Red Wine e la tesa Another Drug Deal Of The Heart) e in quelli firmati Daniel Bejar (la tristezza sorniona di Spidyr – rilettura della vecchia Spider – a base di armonica ruspante e synth cosmici, la ruvidità indolenzita di Born With A Sound – con Lightning Dust e Amber Webber dei Black Mountain ai cori – e l'impeto dolciastro di War On The East Coast). Al resto pensa Newman dicevamo, con una serie di gioiosi uppercut sonori a base di molecole Roxy Music (Wide Eyes, You Tell Me Where) e XTC (lo zampillio zuccheroso della title track, il languore ipercromatico di Hi-Rise), mentre con Backstairs la synth-wave riesce a stare deliziosamente in bilico tra verve androide e detriti visionari. Oltre la festa powerpop, c'è insomma una strategia che costeggia ambizioni arty senza perderci in tasso adrenalinico (vedi su tutte Fantasy Fools), ed è proprio questo il cuore della faccenda. Certo, c'è molto mestiere, è come un algoritmo per l'intrattenimento canzonettistico che non vuole saperne di bloccarsi, ma ad alimentarlo c'è la giusta dose di fattore umano, col relativo carico di implicazioni e benedetta complessità. 7.2/10 Stefano Solventi r e c e n s i o n i nostalgie degli ultimi anni in stile pop-glo-Cascine e vocoder più che mai Daft Punk in I've Waited For So Long). Con l'esordio Less Than Human i JML avevano definito un suono, quello indie dance dei primi anni del nuovo millennio, e correvano il rischio, causa la stazza del capolavoro, di essere "taggati" come post-millennial per sempre. Con questo disco escono dalle mode e fanno capire di avere la stoffa del classico che dura, a prescindere da Murphy, da Toro Y Moi e dall'hipsteria congenita della dance contemporanea, troppo spesso vittima della retrofilia cristallizzante. Un disco che assomiglia negli intenti soul all'ultimo Alexis Taylor, pronto sia per il ballo che per il relax; un disco che fa tremare i più sensibili e che scolpisce canzoni d'amore che sarebbero state perfette per la colonna sonora di Drive. Piacerà ai cinquantenni che vanno ancora in balera, ai quarantenni con figli in crisi d'astinenza da dancefloor e ai teen che cercano ispirazione dal passato. In tutto questo calderone la popness non fa scendere la qualità. Anzi, è proprio perché è fruibile da un pubblico così vasto che salirà sempre di più. 7.5/10 Genere: folk Il buon vecchio folk sta vivendo un momento davvero singolare. Se da un lato c'è quello generalista e da classifica ad arricchire un revival che sembra non volersi fermare (ne abbiamo parlato anche in sede di playlist), dall'altro c'è tutto un movimento musicale più sotterraneo che cerca di fare evolvere il genere verso lidi meno frequentati e più creativi, declinandolo anche in forme di cantautorato originali. Pensiamo, ad esempio, a Nancy Elizabeth, Agnes Obel, Marissa Nadler, Laura Marling, Josephine Foster, o magari, su un versante più tradizionale, a un James Yorkston o a un Tom Brosseau. I qui presenti The Once, canadesi fissati con le armonie vocali e il ritornello facile, stanno esattamente in mezzo, in un limbo di intenzioni che non è mainstream ma nemmeno avanguardia. Musica rassicurante come potrebbe esserlo certo country americano a base di storie d'amore un po' retoriche ("La verità è rara e difficile da trovare", "Hai provato a spegnere il mio fuoco, ma brucia da troppo"), istituzionale nella voce (quella squillante di Geraldine Hollett) e nei risultati. Nel disco c'è un po' di Irlanda presa in prestito per le melodie, l'immancabile mandolino/banjo, qualche crescendo condito da strumenti ad arco e un gusto spiccato per gli incroci di voci (messi consapevolmente in bella mostra soprattutto nel brano a cappella di Ron Hynes, Sonny's Dream) che garantiscono al tutto una confezione a prima vista assai gradevole, ma tutto sommato scontata. Persino nella scelta di una cover di Elvis Presley come Can't Help Falling In Love, qui spogliata di tutta l'enfasi da crooner e indirizzata verso ritmi folk ballabili che lasciano un po' il tempo che trovano. Se si eccettua una The Nameless Murderess in odore di marching band, in generale manca personalità, un moto d'orgoglio, a un pugno di canzoni caratterizzate da un'accademia (per quanto ben fatta) che mira ad essere il più possibile intellegibile e veicolo di un'empatia ad ampio spettro. Questione di aspettative, probabilmente, ma fatichiamo a farla nostra. 5.3/10 Fabrizio Zampighi The Vaselines - V for Vaselines (Rosary Music,2014) Genere: pop, rock, indie C'erano una volta quelli che si potevano considerare i Beat Happening scozzesi, un duo indie pop squisitamente eighties tra ripescaggi di jingle jangle e pop anni sessanta, scrostatissimo garage rock alla Stooges/Cramps e un po' di bricolage con tastierine elettroniche a bassa fedeltà, tutto rigorosamente made in bedroom o con quel sapore candido e naïf. Passati vent'anni, i Vaselines, scioltisi dopo un unico album, hanno vissuto una seconda giovinezza quando Kurt Cobain ha riproposto a modo suo alcuni dei loro pezzi più belli; nel 2010 decidono di tornare in pista con Sex With an X per Sub Pop. V for Vaselines, come è evidente già dal titolo, è il seguito di quella rentrée e come tale si comporta. Mantiene sia le caratteristiche peculiari del duo Kelly/McKee – leggi, melodie leggere e di una sofisticata naiveté, orecchiabili, non dozzinali, sempre un po' ingenue e delicate – e gli aggiornamenti del sound che rispecchiano quelli già sentiti in Sex With an X: più arrangiato, con chitarre più robuste, più "professionale". Invece di fare i reduci dell'età del twee pop – che loro tra l'altro detestano – Eugene e Frances guardano al variegato mondo indie di cui sono entrati a far parte su entrambe le sponde dell'oceano. Il power pop di High Tide Low o t t o b r e r e c e n s i o n i The Once - Departures (Nettwerk Music Group,2014) 155 Tide fa pensare ai Wedding Present, The Lonely L.P. è un pezzo alla Pixies più (e meglio) di certe ultime cose degli originali (come anche False Heaven), Crazy Lady ha addosso un (bel) po' della brumosa indolenza rumor-velvettiana dei Jesus and Mary Chain e Single Spies ha la grazia di certe lullabies eleganti degli Yo La Tengo. Non ci sono brani fiacchi, è un disco che procede spedito e non annoia, anche perché è molto conciso, spigliato, compatto. Tutto impeccabile, manca però quel guizzo che rendeva memorabili almeno due/tre pezzi del comeback album. Il livello generale è buono, ma si tratta di un disco di assestamento, e che non riscrive la Storia. Al massimo la continua, nel miglior modo possibile. 6.7/10 The Young Mothers - A Mothers Work Is Never Done (Tektite records,2014) Genere: jazz Sestetto capitanato dal bassista norvegese Ingebrigt Haker Flaten che spazia dal free collettivo, sognante nell'alternanza, organico e scosceso (Terrestrial Impact Theory), al jazz impudente e libertino (Molè) giro Brotherhood Of Breath, con un robusto rock e pregevoli soli che alternano saudade e Grande Mela. Momenti di sospensione aurea britteniana si stringono a visibili e sciabordii (Theme From Fanny and Velentine), hard bop, screamo, enka wave ed acid rap sognano guerrilla in un crossover urbano (Wells, Ruth, The Wood), minimal disimpegno e doom puntellano infine una trama che parte di pancia e si perde in testa, dopo qualche fila di vibra (Virgoan Ways). Interessante ciò che si innesta quando le rime decise del rapper Jawwaad Taylor fanno ghenga con l'urgenza e la ruvidezza degli strumenti acustici, un plauso alla tenuta ritmica comunque avant free su pezzi relativamente 156 Christian Panzano Thegiornalisti - Fuoricampo (Foolica,2014) Genere: pop, indie, synthpop Dobbiamo essere sinceri. All'uscita del secondo singolo Mare Balotelli, la tentazione di archiviare definitivamente in un cassetto l'esperienza dei Thegiornalisti è stata forte. Un brano inutile, facilone, col testo che sciorina volutamente luoghi comuni, trasformando l'intera operazione in un luogo comune a sua volta. È vero, i Thegiornalisti hanno questa antipatica propensione (che fu baustelliana e successivamente di tutto il cantautorato da Brunori in su) ad accentuare le citazioni, sciorinare i brand e, soprattutto, concepire il mondo in chiave nostalgica rispetto ad un passato (che probabilmente non hanno mai vissuto) migliore del presente. È una cosa che non va giù, malgrado sia stato dimostrato che può essere controllata. A beneficio di chi non conosce i Thegiornalisti, è opportuno sottolineare che questo nuovo Fuoricampo è un disco di svolta, perché stravolge lo stile chitarristico e strokesiano, in piena devozione ai Sixties o, se volete, ai 00s, dei Libertines. Fuoricampo è il regno del synthpop, quello magniloquente e ingombrante degli anni Ottanta, quando tutti si giocava coi capelli cotonati e le tastiere Roland. L'operazione non è banale, sebbene di poco fuori coi tempi, che già abbandonano gli Eighties (ricordate i Drums?) per altri lidi. Ad ogni modo, non è banale, si diceva, perché il recupero sta non tanto (ma anche) nei mostri da classifica internazionale tipo Duran Duran, Simple Minds o Eurythmics, quanto negli eroi di casa nostra che solo 30 anni fa si allineavano in r e c e n s i o n i o t t o b r e Edoardo Bridda brevi, ma alla fine rimane un senso poco chiaro del risultato che gli si voleva dare. 6.2/10 Nino Ciglio Thom Yorke - Tomorrow's Modern Boxes (Autoprodotto,2014) Genere: elettronica La seconda cosa che mi ha colpito del nuovo r e c e n s i o n i disco di Thom Yorke sono i primi trenta secondi, quella specie di loop monocorde pseudoindustrial: cosa mi ricordava? Ci ho pensato un bel po' prima di rendermi conto che sembrava il riflesso lacero e consunto di un'altra intro, quella di Discotheque, canzone di apertura di Pop, album che ha segnato un turning point per gli U2 e – a detta di molti, tra cui il sottoscritto – l'ultimo nel quale abbiano dimostrato un po' di vena creativa. Tutto lascia pensare che si tratti di un link attivato solo dalla complicata rete di connessioni mnemoniche del sottoscritto, o al massimo una coincidenza, però dal momento che viviamo in un'epoca in cui tutto è collegato, stratificato, connesso appunto, credo sia inevitabile lasciare accesa una fiammella di sospetto. Venendo invece alla prima cosa che mi ha colpito di Tomorrow's Modern Boxes, è ovviamente la sua comparsa repentina, bruciante, inattesa ma soprattutto inopportuna, considerata soprattutto la contemporaneità del lavoro solista di Phil Selway. Certo, dal momento in cui quest'ultimo è un album distribuito con criteri standard, la competizione tra le due situazioni dovrebbe essere ridotta. Però dal punto di vista mediatico il buon Selway ne esce letteralmente sepolto, non ci sono discussioni. E' strano. Verrebbe quasi da pensare che Yorke lo abbia fatto apposta, non contro l'amico batterista ovviamente, ma per offrire alla platea una risposta clamorosa alla altrettanto clamorosa operazione U2-Apple. E' un po' come se avesse voluto dire, "ecco una modalità di distribuzione realmente contemporanea, fruibile da chiunque lo voglia, che permette all'artista di essere libero e all'utente di fare proprio a 6 dollari (meno di 5 euro) e in pochi istanti un disco vero e proprio (c'è anche la versione in vinile bianco), non un gadget scintillante di gloria passata". Sia chiaro, a parte una nuova versione di tor- o t t o b r e maniera interessante con i sopra citati mostri sacri: Dalla in primis et super partes, ma anche Massimo Ranieri, Ivan Graziani, Franco Battiato, Antonello Venditti e Luca Carboni. Se Mare Balotelli, dunque, è la fiera della banalità, non è così per tutti e dieci i brani di questo terzo disco della band romana. È come se, reduce da una carriera di chitarre e ritmi elevati, la band abbia avuto una sorta di rigurgito per la velocità e la classica canzone strofa-ritornello: sono questi, infatti, gli episodi meno riusciti, fra riferimenti (neanche troppo velati) ai Ricchi e Poveri in Fine dell'estate, e voci sguaiate che, a volte, smettono di assomigliare a Dalla per tornare a Carboni. Ma ci sono, nella cura dell'orchestrazione generale, anche episodi positivi: Per lei, che quasi ricorda i Future Islands, Promiscuità, che è l'opera maxima di citazione dalliana, Proteggi questo tuo ragazzo, che è al limite del plagio di Perdere l'amore di Ranieri, ma strappa un sorriso anche per questo, Aspetto che, che ha il beat giusto per ricordare il Battiato dell'Era del cinghiale bianco, come fosse cantato dal Bugo dei bei tempi andati. Nel complesso, Fuoricampo è un disco omogeneo, pregno di riferimenti e spunti culturali su cui riflettere. Paga però l'eccessiva devozione nei confronti di Dalla in particolare, perché è bene ricordare che una cosa è l'ispirazione, un'altra è l'imitazione. Rimane da capire il perché di un cambiamento così repentino rispetto agli album precedenti, anche se, ci rincuora dirlo, una volta aggiustato il tiro, preferiamo questa veste. 6.5/10 157 o t t o b r e 158 densità a pezzi come Nose Grows Some (una latineria cibernetica Aphex Twin satura di languore elusivo), Truth Ray (bradicardica e vetrosa) e la opening A Brain In A Bottle (che sembra un po' l'ultimo Jeff Buckley ipnotizzato da Flying Lotus). Ci sono come due piani che scivolano uno sotto l'altro – individuabili sommariamente nella dualità macchine vs. piano/voce – scambiandosi posizione e incrociandosi senza mai trovare una sintesi reale, e questa tensione è l'energia che tiene vive le canzoni ma che rischia allo stesso tempo di metterle all'angolo, troppo preoccupate a risolversi per offrire motivi di reale trasporto, abbandono, eccitazione, rapimento. Se c'è un problema nel Thom Yorke di oggi, a mio avviso già presente nei Radiohead di The King Of Limbs e semplicemente ignorato dagli Atoms For Peace, è che non è ancora chiara una direzione. Forse la causa è proprio questo eccessivo delegare e mutuare calligrafie altrui, un processo di ricerca erratico che non sembra (ancora) prevedere approdi. Il rischio – già un po' attuale – è fare la figura dello zio attempato ad un party di universitari. Per adesso è ancora apprezzabile, ma non so quanto possa durare. Mi auguro che succeda qualcosa prima che inizi a sembrare imbarazzante. 6.5/10 Stefano Solventi TOPS - Picture You Staring (Arbutus Records,2014) Genere: pop, indie I TOPS sono un quartetto proveniente da Montreal, che si è formato in seguito alla scissione di alcune band locali e attorno alla scena creatasi in modo naturale nei paraggi dell'etichetta Arbutus Records. Picture You Staring è il loro secondo disco e raffina ulteriormente la forma data alla loro musica già dall'esordio Tender Opposities del 2012: una sorta di pop r e c e n s i o n i rent, stavolta non c'è nulla di rivoluzionario nella proposta. Il metodo è quello già estremamente familiare utilizzato dalle app: assaggi gratis (una canzone e un video) e poi se ti piace fai l'upgrade alla versione a pagamento, il tutto con comodi click dal tuo cellulare/tablet. Nulla di nuovo appunto, però a pensarci bene è questo l'aspetto più importante della faccenda: quel futuro immaginato nel 2007 con In Rainbows si è a grandi linee realizzato, con gli aggiustamenti del caso. Era utopica la modalità "up to you", ma la rotta per svincolarsi da un circuito produttivo e distributivo novecentesco era giusta. Detto questo, possiamo passare alla musica. E' il secondo lavoro solista firmato da Yorke, ma rispetto a The Eraser sembra concepito e realizzato in una dimensione più raccolta, intima, faccia a faccia con le proprie ossessioni e la voglia di abbozzare tentativi, rendendo evidente la pelle del lavoro (ferma restando la presenza di Nigel Godrich in cabina di regia). Questi otto pezzi fanno pensare ad altrettanti sguardi gettati nel laboratorio di musicisti/ingegneri che stanno cercando, mettendo a punto, smerigliando bordi e mescolando dimensioni. In un certo senso, parliamo anche del significato che può avere un album oggi secondo Yorke: un'istantanea sulla fase creativa. Nelle qui presenti scatole moderne troviamo polaroid (versione Instagram se preferite) di un ex-ragazzo del post punk folgorato prima dall'idm di casa Warp e poi dal trittico di producer formato da James Holden, Four Tet e Burial (Guess Again! di cui abbiamo già sentito il motivo nella app Polyfauna), dagli ultimi sviluppi ambient (Pink Section) alla 2 step (The Mother Lorde), dalla techno colta su una nuvola tra Detroit e Berlino (There Is No Ice), che comunque intuisce l'importanza di far affiorare il residuo capitale umano, una specie di vena soul esausta che pure ha la forza di imprimere una inafferrabile Stefano De Stefano r e c e n s i o n i Total Control - Typical System (Iron Lung,2014) Genere: indie, wave Chi avrebbe mai pensato a un cambio di formula per i Total Control, dopo l'ottima visibilità ottenuta con il precedente Henge Beat? Nessuno, e infatti lo schema di Typical System è lo stesso dell'esordio: commistione punk e wave, chitarre e synth, Wire e Ultravox. Per non ridurre però Typical System a un mero doppione, il quintetto di Melbourne ha messo in atto alcuni assestamenti diciamo di superficie, avvicinandosi al canone wave inglese e recuperando il sound di un Gary Numan dei tempi d'oro (Pleasure Principle), sia quando l'afflato è marcatamente pop (Flesh War), sia quando è synth-wave (The Ferryman). Il risultato bissa il successo del suo predecessore: l'acquisizione di una scrittura più pulita traducibile con un respiro pop sempre più marcato si equilibra con una minor libertà compositiva, perché in effetti il disco appare a tratti ingessato nell'indie wave. E se uno dei migliori brani in tracklist – insieme alla punkettara Expensive Dog – rimane l'altezzosa Liberal Party, in cui i Total Control tornano a far sfoggio di quel filo di anarchia da sempre nel DNA del quintetto, forse qualche rimpianto per quel che poteva essere e non è viene a galla. Ad ogni modo, confermato il valore del progetto Total Control, basterà decidere in che direzione far pendere l'ago della bilancia. 6.8/10 o t t o b r e complesso dal vago sapore Eighites che si nutre di diverse suggestioni provenienti dal funk, dal post r'n'b, dalla dance e dall'electro. Sonorità lo-fi e attitudine DIY completano il quadro. I TOPS suonano coesi e minimali, mai sovraprodotti ma anzi sempre asciutti, diretti e se vogliamo "grezzi", nel loro modo di approcciare la materia sonora. Un basso che lavora molto assieme alla batteria, lascia spazio a chitarre e sintetizzatori che creano tappeti su cui adagiare la voce di Jane Penny. La formula è chiara ed efficace: il super singolo Change Of Heart è un esempio di come essere catchy, crudi ed elaborati, pur non andando al di là dell'utilizzo della strumentazione tipica di una band di quattro elementi. Qualcuno li ha paragonati a una sorta di Ariel Pink in fase Fletwood Mac, non sbagliando di molto: tra movenze jazzyfunk e umori dance pop modellati su stilemi anni Ottanta (Superstition Future e 2 Shy), il disco risulta assolutamente credibile, godibile e soprattutto rivela nuovi particolari con l'aumentare degli ascolti. Serrati, sincopati o sospesi in alcuni incastri ritmici dilatati, i TOPS confezionano il ritmo in modo elegante e con abiti vintage: è il caso di Easier Said o dell'opening track Way To Be Loved. Che sia in Circle The Dark, dove arriva un lontano profumo di Police che però si disperde appena entra il cantato, o in Outside, una power ballad '80 infarcita di tastieroni, appare evidente un gusto nostalgico verso certe sonorità. Sebbene si rallenti con le conclusive Driverless Passenger e Destination, il risultato globale non cambia perché Picture You Staring vuole e ottiene sempre più ascolti, in virtù della propria capacità di dosare aperture luminose e chiusure ritmiche, come fosse una fisarmonica. 7.2/10 Stefano Gaz Two Moons - Elements (Irma Group,2014) Genere: rock, alt, wave Li avevamo lasciati nel 2012 con il più che discreto Colors, che spostava l'asse dei richiami dal dark dei Bauhaus verso atmosfere più in debito con certi Cure, con un tentativo apprez- 159 o t t o b r e 160 Richard Butler e persino, in più di un momento, lo sberleffo di Holly Johnson). Le influenze eighties sono ancora ben presenti sulla mappa: Welcome To My Joy, scritta con il santino di Ian Curtis in tasca, ci invita a ballare su una pista da ballo posta sull'orlo del precipizio, Snow fa propria la lezione dei Depeche Mode con Alan Wilder nella line-up (come l'altrettanto valida I'm Sure) e anticipa una Rain poetica e abrasiva e Autumn, episodio che si colloca tra certi Camouflage e i più recenti White Lies. Sono gli Electronic di Johnny Marr e Bernard Sumner ad emergere in Brand New, mentre in Star's Child torna ad aleggiare lo spettro del primo Robert Smith (qui i Two Moons trascinano a forza nel nuovo millennio pure gli U2 di Love Comes Tumbling, saltando senza rimpianti lo stadium rock e il più recente easy listening su cui gli irlandesi da anni indugiano). Alla fine di tutto c'è Leaves, eterea ma robusta, felice connubio tra i Cocteau Twins di Head Over Heels e i Simple Minds di Seeing Out The Angel. Per chi preferisce il supporto fisico c'è anche una stravagante ghost track, Crazy World, posta dopo sedici microtracce di silenzio da sei secondi l'una. Il suono di Elements è pulito, definito, lontano dal lo-fi di Colors – le idee sono ben organizzate, senza strafare, e c'è una nuova finezza negli arrangiamenti e nell'esecuzione. È il suono di una band cresciuta, che sa sempre più cosa vuole (e sa sempre più come ottenere al meglio i risultati che si prefigge). 7/10 Alessandro Liccardo U2 - Songs Of Innocence (Self Released,2014) Genere: rock Non è facile parlare di musica a proposito dell'ultimo album degli U2, uscito di sorpresa sui canali di Itunes ad un prezzo di estremo r e c e n s i o n i zabile di darsi un'identità fuggendo dal puro omaggio calligrafico al suono di un'epoca che ha felicemente contagiato, negli anni Duemila, diverse band di belle speranze da una parte all'altra dell'Oceano. Non poteva che essere un passo avanti, il successore Elements: inizialmente autoprodotto, l'album ha catturato l'attenzione della bolognese Irma Records (una tra le etichette protagoniste della scena dance, rap ed acid jazz degli anni Novanta, attenta da sempre alle sonorità più ricercate – e sede operativa anche di artisti internazionali come Sarah Jane Morris – che da un po' ha aperto le porte anche a realtà indie e alle sonorità electro). Ancora una volta, il trio composto da Emilio Mucciga (voce), Giuseppe Taibi (basso, chitarre, programming) e Vincenzo Brucculeri (chitarre, campionatori) dà all'artwork la medesima importanza attribuita alla proposta musicale, sottolineando un legame inscindibile tra il messaggio delle dieci canzoni e la suggestiva immagine in copertina – Babel, un'opera di Paula Braconnot in cui tre paia di occhi si mimetizzano tra le foglie e che al primo colpo d'occhio si rivela figlia delle più indovinate scelte grafiche di James Marsh per le copertine dei Talk Talk (in particolare le pupille dipinte sulle ali delle farfalle di The Colour of Spring). Sono occhi che ci scrutano con una serenità solo apparente, quelli sulla copertina di un lavoro che continua il discorso già iniziato con nuovi colori sulla tavolozza; si continua a venerare l'epopea dark-wave, ma con coraggio si inizia a guardare anche oltre, modellando le melodie attorno a consumate drum machine che si alternano a beat più attuali e corposi, a tastiere che non si accontentano più di fare accompagnamento puro e semplice ma si ritagliano un ruolo in primo piano, a una voce tanto teatrale quanto stranamente distante (una sintesi tra Blixa Bargeld, le asperità del giovane r e c e n s i o n i soltanto la faccia lasciando il lavoro sporco a qualche session man coi controcoglioni: probabilmente non ci saremmo accorti della differenza. Il problema secondario – solo perché non stupisce per nulla – è che le canzoni sono fiacche, sono puro mestiere da mestieranti di lusso tenuto in piedi con infusioni di adrenalina artificiale. In questo senso rappresentano un prodotto eccellente, perché sanno sfiorare l'autocitazione senza smettere di ostentare la voglia di stare nel presente (vedi come Every Breaking Wave ricordi vagamente With Or Without You – per poi infangarsi in un chorus troppo zuccheroso persino per i Coldplay – o come Sleep Like A Baby Tonight abbozzi una rielaborazione di If You Wear That Velvet Dress strapazzata di insidie industrial), celebrano il passato come se stessero sfogliando ologrammi di fronte all'entusiasmo di uno stadio gremito (vale tanto per i vocalizzi radenti di The Miracle che per le palpitazioni tenui di Song For Someone), bazzicano situazioni pseudo-alternative (una piuttosto sostituibile Lykke Li tra le astrazioni errebì corrucciate di The Troubles, una Cedarwood Road che cincischia tra turgori Black Keys e ugge western) senza smettere di mirare al bersaglio grosso e soprattutto scordando di innescare troppo scomoda empatia. Sono pezzi cioè pensati come elementi/accessori/propaggini di un evento di grandi proporzioni, ne hanno il volume e la dimensione estetica ma anche l'inevitabile indeterminatezza poetica, la smania di confezione più adatta per ben figurare in una convention che per suscitare emozioni nell'intimo della cameretta. Diciamo che la sensazione, per nulla piacevole, è che nell'ordine di idee di megastar come loro non rientrino più crucci del tipo "facciamo un disco rock", sostituiti da "facciamo un disco che lasci a bocca aperta la multinazionale". In ultimo, rispetto all'operazione In Rainbows o t t o b r e favore (gratis) che però a ben vedere un prezzo ce l'ha: ovvero, l'impossibilità di non averlo se sei un utente Itunes. E pazienza se a Bono e compagni preferisci da sempre i Casadei o Laura Pausini. C'è un problema di invadenza metodologica che viene ostentato con sfacciataggine da guinness dei primati ("la più grande distribuzione di un album della storia!"), ma ancor più c'è un problema di sostanza che induce a riflettere: la fortuna di questo disco – intendendo con questo la sua diffusione e (di riflesso ma non necessariamente) la sua popolarità – sarà pesantemente influenzata da questo metodo massivo di distribuzione. Una sorta di dumping portato all'estremo, dove la sovvenzione è a cura di Apple (che ha pagato il disco agli U2, vale la pena di sottolinearlo) e l'obiettivo è ottenere una molteplice ricaduta promozionale (sui prodotti Apple nonché su tour e prodotti U2, che tra l'altro hanno già annunciato il successore Songs Of Experience). Tutto ciò lasciando perdere aspetti quali la coerenza della band rispetto alla sua storia recente e antica, nonché le ricadute sulla posizione stessa del rock – già di per sé in fase calante – tra le arti espressive. Insomma, difficile parlare della musica contenuta in questo disco. Ma ci proviamo, anche se a dire il vero la musica non aiuta. Iniziamo sottolineando che la produzione è di Danger Mouse, la qual cosa – che ve lo dico a fare – si sente: una produzione implacabile, definita e tornita, ricca e scoppiettante. C'è un problema però: rispetto al già fin troppo enfatizzato sound dei due precedenti lavori, qui il tentativo di attualizzarlo ha neutralizzato l'impronta U2, fatta eccezione per la voce. Tra riffoni variamente hard, dinamismi di basso, ingegneria ritmica e grafismi sintetici, sembra di ascoltare l'ipotetico disco solista che Bono non ha mai inciso. Non vorrei utilizzare un'affermazione troppo forte, ma The Edge, Clayton e Mullen avrebbero potuto benissimo metterci 161 dei Radiohead a cui è inevitabile ricondurlo, questo Songs Of Innocence sta più o meno agli antipodi. In primo luogo, perché laddove i cinque di Oxford ti dicevano "assaggia e paga quanto/se vuoi", i quattro irlandesi ti dicono "prendi e ascolta, il resto sono cazzi tuoi, tanto mi hanno/hai già pagato". In secondo luogo, perché al netto della posizione privilegiata i Radiohead ipotizzavano un modello alternativo all'egemonia delle major, mentre gli U2 ne tracciano uno esclusivo che solo pochi grandissimi nomi potranno mai permettersi. In altre parole, se quello schiudeva possibilità (opinabili, ma pur sempre possibilità), questo si rintana dentro le mura della fortezza. Sempre più dorata e arida. 4.5/10 The Van Pelt - Imaginary Third (La Castanya,2014) Genere: indie, post-punk, emo, post-rock Alla fine degli anni '90 i Van Pelt si erano sciolti lasciando incompiuto il seguito di Sultans of Sentiment. A distanza di tempo e di chilometri, l'etichetta indipendente catalana La Castanya ha raggruppato le registrazioni del biennio '96-'97 per quello che avrebbe dovuto essere e non è mai stato il terzo album. Ha aggiunto inoltre alcuni mixaggi e voilà, un disco immaginato per anni è ora pur sempre "immaginario" – come dice il titolo – ma finalmente in carne o ossa (viniliche e digitali). Imaginary Third ci riporta il gruppo di Chris Leo all'incirca dove lo aveva lasciato Sultans of Sentiment, il secondo e finora ultimo LP di una breve carriera, vero culto come dimostra anche l'entusiasmo con cui è stata accolta la recentissima reunion. Siamo dove eravamo rimasti, in un contorto e avvincente crocevia che è anche una fertile terra di mezzo tra indie, emocore e post-rock, con un sound spigoloso 162 Tommaso Iannini r e c e n s i o n i o t t o b r e Stefano Solventi e intellettuale quanto la scrittura ellittica e il tono inconfondibile di Chris Leo, oscillante tra lo scream, il canto e il recitato. Canzoni dissonanti un po' smart casual, come nel miglior college rock, un po' obliquamente pop e discretamente rumorose, che suonano fluide eppure abbastanza intricate anche quando giostrano semplicemente su due accordi fragorosi (ABCD's of Fascism). Lo si può considerare un buon mix tra i due album precedenti dei Van Pelt, la parte sanguigna di Stealing from Our Favorite Thieves e quella astratta di Sultans of Sentiment. Da una parte il talking punk letterario di The Treat, il rock and roll sbilenco ma tecnico di The Betrayal e una specie di rockabilly contorto (Evil High), dall'altra le chitarre a canone di Three People Wide at All Times, e poi The Speeding Train, ballata post-hardcore un po' sui generis che a pelle può ricordare l'impressionismo strumentale dei Durutti Column con una spruzzata di epica alla U2 e il soul rock degli Afghan Whigs riletti in chiave Minutemen/ Fugazi. Buona parte delle canzoni sono state l'anticamera per l'album Betrayal dei Lapse, appena divergenti nell'esecuzione – più ruvida – che avrebbe impresso il gruppo successivo di Chris Leo, più che nella struttura in sé. Avessero proseguito la loro corsa, i Van Pelt sarebbero andati probabilmente oltre questi pezzi, non ancora al livello di Sultans of Sentiment. Non sarebbero diventati delle star (se The Speeding Train è una hit mancata, poteva esserlo comunque per un pubblico di nicchia), ma avrebbero consolidato la propria reputazione. Cosa che anche questo disco contribuisce a fare. 70/10 Genere: pop, cantautori, folk La scena cantuatorale australiana brulica di nuovi talenti pronti a conquistare fette più o meno grandi di mercato. Da una parte abbiamo tutto un movimento caratterizzato da una forte deriva post-boniveriana calcata con gusto dai vari Vancouver Sleep Clinic, Dustin Tebbutt, Solomon Grey, Fractures e RY X, dall'altra continua a fare proseliti la scuola più tradizionalista – e probabilmente più profittevole in termini economici – maggiormente legata all'elogio della semplicità chitarra-voce e delle melodie orecchiabili. In questa seconda categoria il principale attore è sicuramente Vance Joy. Classe 1987, James Keogh – così all'anagrafe (ha scelto di utilizzare l'alias Vance Joy dopo aver letto il romanzo Bliss dello scrittore americano Peter Carey) – è il classico bravo ragazzo della porta accanto che le madri consiglierebbero alle figlie adolescenti e porta avanti un discorso musicale che rispecchia questa attitudine sintetizzabile con il termine polite. Armato di ukulele il Nostro ha già completato il grande balzo nell'universo mainstream e l'ha fatto con il brano Riptide: se a dicembre dello scorso anno, quando recensimmo il suo EP d'esordio God Loves You When You're Dancing, il brano aveva scalato solamente le classifiche locali, nella prima parte del 2014 si è diffuso a livello internazionale – 90.000.000 i plays su Spotify, non così distante dalle tracce più ascoltate di sempre – tenendo in qualche modo viva (insieme a Budapest di George Ezra) quella folk prostitution che sembrava destinata a ridimensionarsi dopo un paio d'anni di dominio discografico. Riptide è anche il pezzo di punta dell'album di debutto Dream Your Life Away con il quale James – almeno sulla carta – avrà l'occasione di aumentare il proprio gruzzoletto con il minino sforzo artistico. Mess Is Mine funziona egregiamente grazie ad una presa melodica efficace (ad altezza Mumford and Sons privati dello slancio bluegrassy), Form Afar fa sfoggio del DNA del cantautorato più classico (Cat Stevens), My Kind Of Man possiede gli ingranaggi giusti negli angoli più reconditi mentre Red Eye porta il discorso su un livello meno intimo e più adatto ad essere suonato davanti a grandi platee, ripescando un certo pop-rock americano di metà anni '90 (All I Ever Wanted). Difficile poi non lasciarsi cullare da Georgia. Analizzando esclusivamente i singoli brani è però facile venire ingannati dall'estrema facilità con cui questi ultimi riescono ad entrare in testa e si rischia di focalizzare l'attenzione su quegli elementi – melodie, chorus – che rendono quasi tutti gli episodi del disco praticamente inattaccabili a livello di leggerezza pop. Escludendo un paio di passaggi palesemente poco riusciti (Who Am I sembra una bozza abbandonata, l'uptempo First Time irrita e Wasted Time odora già di autocitazionismo), è solamente osservando Dream Your Life Away da un'ottica più ampia che ci si rende conto di essere di fronte a un disco vacuo e patinato – la produzione è di Ryan Hadlock, già dietro al bestseller targato Lumineers – in cui Vance Joy non riesce mai a ricreare la magia del folk fatto con l'anima, quello che trasuda onestà e che è in grado di trasportare l'ascoltatore in contesti bucolici e in coordinate temporali lontane. L'accompagnamento – che si tratti di ukulele o di chitarra acustica – regala pochissime emozioni nonché poche variazioni sul tema, e i testi – seppur meno banali e immediati di quanto si possa pensare – non posseggono quel fascino vagamente maledetto e sinistro dei grandi songwriter. Così, quel che si diceva sull'EP – "si avverte l'assenza di qualche sussulto emozio- o t t o b r e r e c e n s i o n i Vance Joy - Dream Your Life Away (Atlantic Records,2014) 163 nale e di un tratto distintivo evidente. Tutto è molto bilanciato, forse troppo" – si concretizza anche in un album che sembra realizzato con l'intento di accontentare un target cross-generazionale tanto ampio in termini di età quanto limitato a livello di ascolti. 5.7/10 Riccardo Zagaglia Genere: blues, jazz Quello di Veronica And The Red Wine Serenades è una sorta di marchio di fabbrica, per gli amanti del blues rurale e del ragtime anni '20/'30, oltre che di tutto l'immaginario analogico e gracchiante che i generi suddetti si portano dietro. Da tempo, infatti, il combo si dà da fare per portare in giro la propria versione di un mondo fatto di Bessie Smith, Leadbelly, Blind Blake, Sister Rosetta Tharpe, Memphis Minnie (e chi più ne ha più ne metta), attraverso un recupero di brani tradizionali e un approccio alle registrazioni più " dal vivo" possibile (con tanto di strumenti rigorosamente acustici come chitarra, ukulele, contrabbasso, kazoo, incisioni in presa diretta o in mono, microfoni panoramici e riverberi ambientali). Registrato tra Stati Uniti (da Mark Simmons) e Italia (da Dario Raveli), The Mexican Dress ("Full dynamic range" – recitano i crediti – "play it loud!") è l'ennesima declinazione di un amore sconsiderato per le blue notes, capace di bissare le buone sensazioni già scaturite dall'omonimo esordio del 2009 con la consueta classe. Il disco, oltre a proporre i primi brani composti da Veronica Sbergia e Max De Bernardi (lo swing-blues dell'iniziale The Mexican Dress, Crying Time, il fingerpicking di The Resurrection Of The Honey Badger), è la consueta gimkana tra classici (quasi)conosciuti 164 Fabrizio Zampighi Whirr - Sway (Graveface,2014) Genere: pop, rock, alt, shoegaze, dream, noise Ah, che spettacolo i Whirr… da grande promessa – mai mantenuta fino in fondo – a risibile macchietta social. Il clamore attorno al primo EP Distressor – uno degli esordi più folgoranti di tutta la guitar-music degli ultimi anni, portatore sano di possibili evoluzioni di un genere piuttosto ermetico come lo shoegaze – non si è concretizzato due anni più tardi con l'album di debutto Pipe Dreams, troppo discontinuo e sostanzialmente noioso (anche se per il sottoscritto Flashback rimane un pezzo da novanta ancora oggi). Poi, l'assurda debacle di stile che ha accompagnato la release del trascurabile Around EP: di punto in bianco la pagina Facebook del gruppo è diventata il luogo preferito dalla band guidata da Nick Bassett per dare spazio a infantili assalti mediatici verso alcuni importanti critici musicali americani. Su tutti, il noto Needledrop (Anthony Fantano) – vedi immagine – e Ian Cohen di Pitchfork per la sua recensione di Guilty of Everything dei loro amichetti Nothing. Non contenti, hanno persino iniziato una crociata contro i – numerosi – fan che non r e c e n s i o n i o t t o b r e Veronica and The Red Wine Serenaders - The Mexican Dress (Autoprodotto,2014) (la Weed Smoker's Dream "prototipo" della ben più celebre Why Don't You Do Right) e brani più o meno noti esclusivamente agli amanti del genere (il ragtime della Who's That Knocking At My Door già nel repertorio di Hannette Hanshaw). Per forza di cose derivativo e nostalgico, The Mexican Dress, poco aggiunge alla produzione già edita di una band che non aspira certo a rivoluzionare un linguaggio. Eppure gusto negli arrangiamenti, sincero trasporto e ottime capacità tecniche fanno del disco un bel compendio di suoni decisamente intriganti. 6.6/10 r e c e n s i o n i band potenzialmente all'altezza – nel migliore dei casi – di tirare fuori dal cilindro il grande album, sebbene ad oggi non sembri in grado di effettuare il cambio di marcia decisivo. 6.5/10 Riccardo Zagaglia The Wytches - Annabel Dream Reader (Partisan,2014) Genere: post-punk, shoegaze, garagerock Qualche giorno fa riflettevo su come negli ultimi anni il punk inglese abbia perso smalto rispetto a quello dei lontani cugini americani. A band come Cloud Nothings, Japandroids, Metz, DIIV (giusto per citarne solo alcune) l'(anti)establishment punk di Sua Maestà, negli ultimi tempi, non è riuscito a rispondere con valide alternative, se non in rarissimi casi (vedi Eagulls e Male Bonding). Puntuali, a tentare di far crollare la nostra tesi, ecco arrivare i Wytches, giovanissimo trio di Peterborough, ma con sede a Brighton, formatosi nel 2011 e con all'attivo finora solo alcuni EP prodotti da sgangherate etichette (Hate Hate Hate Records), che tuttavia sono riusciti ad attirare l'attenzione delle più note Heavenly Recordings (Uk) prima, e Partisan Records (USA) poi. Eccoci perciò a dover fare i conti con Annabel Dream Reader, album di debutto del trio composto da Kristian Bell (voce e chitarra), Dam Rumsey (basso) e Gianni Honey (batteria) registrato nello studio analogico ToeRag del produttore Liam Watson sotto la supervisione dell'ex Coral, Bill Ryder-Jones. Tredici tracce che avanzano nell'ombra di una psichedelia dalle tinte macabre (Wide at Midnight, Fragile Male, Crying Clown), per poi discostarsi da essa attraverso fraseggi surf-punk (Gravedweller), grunge (Wire Frame Mattress) e intraprendendo sentieri disegnati da ballad dal piglio core (Weights and Ties, Summer Again, Track 13). o t t o b r e hanno apprezzato le uscite della band (per i più curiosi, c'è pure un Tumblr dedicato). Un carisma decisamente lontano dal contornarsi di quell'alone di mistero onirico che caratterizzava alcuni nomi storici dello shoegaze. Dopo un tour con i compari Nothing di Dominic Palermo (con il quale Nick Bassett ha dato vita al momentaneo side-project post-punk Death of Lovers) la band ha avviato la scrittura del materiale per il secondo album Sway (il primo su Graveface) tra Philadelphia – dove Bassett sembra aver trovato il proprio nirvana – e la California, dove risiedono i restanti Whirr ora privi della voce di Alexandra Morte, attualmente nelle Night School (ennesimo gruppettino female-garage-fuzzpop). Sway è un disco meno etereo-ambientale rispetto a Pipe Dreams, più scuro, aggressivo, claustrofobico e "settato" su coordinate b/n care alla band di Palermo (si ascolti l'iniziale e potentissimo attacco di Press). Un immersivo saliscendi di accelerazioni e decelerazioni catartiche che regala sporadiche emozioni, come quelle suscitate dai cambi di tempo che sorreggono, distruggono e riassemblano Feel e dal veleggiare di Heavy (a suo modo orecchiabile). Un mood sinistro e devastante che dalle distorsioni abbassate e dai muri di feedback risale verso linee vocali – volutamente – piatte, malinconiche e sofferte, che nei momenti più intensi possono ricordare alla lontana i passaggi emo-sussurrati di Chino Moreno (Deftones), come nel caso della maestosa Clear – e le sue aperture che vagamente ricordano Change – e nella slowness abissale della titletrack in cui – ma non li troviamo solo qui – prendono forma alcuni panorami cosmici di scuola Slowdive. Otto tracce prodotte da Jack Shirley per poco più di mezz'ora di granitico spleen senza via d'uscita. Non una prova destinata a rimanere e probabile disco di transaizione che riesce però a mantere viva l'attenzione nei confronti di una 165 o t t o b r e Marco Frattaruolo Zammuto - Anchor (Temporary Residence,2014) Genere: wave, synthpop, avant, electro Due anni dopo il buon album omonimo – più che un esordio, una sorta di second coming dopo l'eutanasia dei The Books – torna a farsi vivo Nick Zammuto assieme alla sua band (il fratello Mikey al basso, Sean Dixon alla batteria ed il polistrumentista Nick Oddy in sostituzione del dimissionario Gene Back). Di nuovo non c'è molto, ma quel poco è importante: ferma restando l'impronta del metodo, ovvero quel riarticolare moduli sonori predefiniti in combinazioni ingegneristiche, c'è una più marcata disposizione da band appunto, una voglia di manufatto che innerva le strutture ritmiche e si irradia nei riff, conferendo ai pezzi una vena di traslucida e umanissima frenesia. Se l'impronta genetica della tradizione è meno palpabile rispetto a quanto non fosse nei The 166 Books – qui però esplicitamente omaggiata nel rifacimento di Henry Lee, come uscirebbe da uno split tra Notwist e Boards Of Canada – d'altro canto c'è un più evidente senso della canzone, che in molti casi sembra persino ammiccare forme radiofoniche. Vedi l'atmosferica Good Graces col suo procedere felpato downtempo e l'elevazione luminosa Sufjan Stevens, il soul imbronciato con tastierine pastello e (pseudo) violini di Your Time, oppure gli incalzanti rigurgiti 80s di IO (riff segmentato e piglio da rock sintetico tipo il Glenn Frey di The Heat Is On, con l'Herbie Hancock futurista alle calcagna). Resta pur sempre l'attitudine per gli esperimenti in vitro, incastri e sovrapposizioni che perseguono un'ebbrezza di nervi e sinapsi prima che ventrale: è il caso di Sinker, con le sincopi secche e la malinconia cerebrale in un crescendo d'irrequietezza elettrica, così come della compenetrazione tra solennità etnica Peter Gabriel, pennellate di chitarra Tortoise e riff cubista di synth in Great Equator, o ancora il David Sylvian angelicato in trame ritmiche cyberjazz di Stop Counting. Il buono, ancora una volta, sta nella sua natura di intrattenimento intelligente che non rinuncia al guizzo nervoso, alla simpatia quasi diabolica per l'inconsueto. Il brutto è una certa irriducibile freddezza di base come prezzo da pagare alla metabolizzazione del digitale in una prassi creativa che ha provato a reinventare l'analogico. Non certo un'impresa facile. 6.8/10 Stefano Solventi r e c e n s i o n i L'approccio punk dei tre, tuttavia, non deve trarre in inganno. Difatti gli episodi punk, quelle grezze schegge che dovrebbero rimbalzare all'impazzata da una parte all'altra del disco, finiscono per essere i grandi assenti di questo debutto targato Wytches – che in definitiva si fa apprezzare per il sound ricercato, ma allo stesso tempo immediato e schietto (merito della produzione analogica, evidentemente). I tre comunque sembrano non volersene curare, dimostrando di volersi spingere alla ricerca di intrecci maggiormente levigati, consapevoli dei rischi a cui potrebbero andare incontro (ripetitività e ridondanza sono dietro l'angolo). E se è vero che il punk è stato e forse rimarrà per sempre un concetto abbastanza astratto (come tutte le etichette d'altronde), Bell, Rumsey e Honey, se non altro, dimostrano di averlo nell'attitudine, e non è poca cosa. 6.5/10 r e c e n s i o n i o t t o b r e 167 I n c h e s # 5 2 S o m e G i m m e 168 Altro mese, altro giro sui formati piccoli e strani. Atmosfere differenti ma spesso e volentieri stessi medium che se ne fregano di revival e ritorni in auge semplicemente perché non se ne sono mai andati del tutto. Erano stati soltanto dimenticati per un attimo. Stessi formati e musiche diverse dicevamo. È il caso dei primi due sette pollici del mese. Il primo è appannaggio dei Father Murphy, band di cui non ci stancheremo mai di lodare l’atteggiamento prima ancora che le (ottime) risultanze musicali, e tiene a battesimo una nuova label, la Zen Hex nata sulle ceneri della Sons Of Vesta, etichetta d’ambito più eterogeneamente punk con in catalogo La Quiete, Raein, Violent Breakfast e Johnny Mox. La Zen Hex si fa ancor più radicale, non come suoni quanto come formato, dato che l’intenzione sarebbe quella di mantenere come formato il 7” in tiratura limitata. Esempio ne è questa uscita numero 1 che si spera sia solo la prima di un lungo percorso: preso atto dell’ultimo lavoro del Reverendo Pain Is On Our Side e della possibilità di creare nuove canzoni dalla sovrapposizione contemporanea dei due 10” e detto anche dell’impossibilità per molti di attuare questo stratagemma, ecco il 7” Let Them All Fail With You che unisce Let The Wrong Rise With You e They Will All Fail You, mixate da Greg Saunier dei Deerhoof. Il risultato è una straniante nenia tra cacofonie abissali, orchestrazioni mefitiche e procedere doom, nel senso di “giorno del giudizio”. Sul lato b, una incisione artigianale opera di Handy Lab impreziosisce ulteriormente questo oggettino piccolo solo di formato. L’altro 7” è targato Acid Baby Jesus e cambia totalmente gli orizzonti musicali. Il quartetto greco anticipa il comeback sempre per Slovenly con un vinile piccolo in cui espone il proprio pensiero sul concetto di psych’n’roll. Velvet, giro Frisco alla Thee Oh Sees, primi Rolling Stones e zozzerie alla Demon’s Claws? Beh, sì, ma anche molto altro in appena cinque minuti di roba che vivono di retroterra sixties (la title track) ma soprattutto di psychotico incedere reiterato e ossessivo come non capita di sentirne spesso (Brain Damage In Athens City). Li vogliamo sulla lunga distanza. Passando dai vinilini ai nastri cambia il formato ma non la sostanza. Stesso medium, atmosfere diversissime. Cominciamo con un duo di cui demmo segnalazione il mese scorso, offrendone anche lo streaming integrale. Ora ci torniamo su perché un disco come Elementer dei SUTT non può passare sotto silenzio. Cacofonie al limite dell’harsh noise più brutale (l’opener Test Tone 95) si alternano a deliqui avant-qualsiasi cosa (Jord) per questo duo insolito e apolide di stanza a Berlino: batteria appannaggio del turco-norvegese Utku I n c h e s # 5 2 S o m e G i m m e Tavil, e voce (più elettroniche varie) della danese Sofie Trolde Christiansen, per un lavoro che ricorda Bjork e ?Alos quanto i nostri Camusi calati nel marasma più incompromissorio del noise più devastante. Spiazzante e ottimo. Arriva in cassetta anche l’esordio su Haunter di Petit Singe, moniker dietro il quale si cela Hazina Francia, producer d’origine indiana e cittadinanza romagnola. Tregua, pubblicato in 100 nastri da Haunter e masterizzato da Antonio Gallucci aka Architeutis Rex, è una mezzora di suoni oscuri, blips minimali, ossessioni circolari e trance malleabile che abbassa i bpm quasi fino alla stasi, ma crea situazioni emotive borderline in the vein on the label, come potete leggere qui di seguito. Dal BelPaese (?) saliamo in Svizzera, e più precisamente a Lucerna, senza per questo cambiare label. Finiamo con l’imbatterci nell’esordio di SSSS, nome del nuovo progetto solista di Sam Savenberg (già bassista nei teutonici Die Selektion e tenutario della piccola Edition Gris). Ispirate dagli studi sul controllo sociale di Virilio e Baudrillard, musicalmente le sei tracce di questa tape si avvicinano alla techno astratta e caliginosa dei padrini Black Rain (la title-track Administration of Fear) e Ancient Methods (Hegemonie Negative), senza tralasciare passaggi quasi EBM (Are You Lost) e digressioni dark-ambient (Circles). 100 copie per la milanese Haunter, giovane label che si dimostra con queste due uscite decisamente focalizzata sulle sonorità più oscure dell’elettronica da-ballare-ma-presi-male. A Copenhagen invece, si sa, sono di stanza nomi come Lust For Youth e Croatian Amor che tornano in coppia con un nuovo 7 pollici ovviamente su Posh Isolation. Due pezzi del precedente (nonché ottimo) album collaborativo Pomegranate qui remixati in chiave club. Fa uno strano effetto sentire l’ambient subacquea di pezzi come Sister venire travolta improvvisamente da beat techno e melodie euro dance ma d’altra parte sono loro stessi a definirsi masters of romance e bisognerà dargliene atto. In altre parole un giochino ruffiano ma divertente al contempo. Ancora più a Nord per arrivare in Svezia, terra sempre ricca di proposte per i palati più estremi (tra cui vi segnaliamo le recenti produzioni di giro Northern Electronics). Torna con un 12 pollici uno degli act nazionali più interessanti : parliamo degli Amph, duo composto da Andreas Malm (già in quegli Skeppet il cui album su Not Not Fun non dovete assolutamente perdere) e Peter Henning (Sprachlos Verlag). Due tracce per l’etichetta locale Komplott in cui i nostri dipanano due aspetti speculari del loro sound. Terry ha infatti un incipit free jazz, presto annegato in un’ambient invasiva e avvolgente che sconfina presto in picchi di rumore bianco per poi ripiegare su se stessa e sfaldarsi in una lunga coda sfatta ed eterea. Il B side Framtid è invece un tunnel buio dall’inizio alla fine, un viaggio di dieci minuti senza luce e anzi avvolto da brume e fumi claustrofobici: niente impennate rumoristiche, niente fraseggi dissonanti, solo una coltre color pece a cui il gruppo ha dato (ironicamente?) il nome Futuro. Sarà che anche da quelle parti il futuro non è più quello di una volta? 169 Mayhem c l a ss i c a l b u m De Mysteriis Dom Sathanas (Code666,1994) 170 170 Era già dall’estate che avevamo deciso di scrivere di questo disco ma le dichiarazioni del leader dei Sonic Youth, non si sa quanto serie considerando la sua recente militanza in progetti black metal – o quanto seria sia questa militanza –, ci hanno servito l’occasione su un piatto d’argento. Qualcuno si è infuriato, alcuni hanno riso, altri hanno semplicemente preferito soprassedere o leggere l’ironia tra le righe (come era più giusto fare). Le frasi di Moore sono a doppio taglio perché nascondono una doppia assurdità o, se preferite, un paradosso e una verità. Il paradosso è che la sua stessa presenza in progetti del genere indica appunto come si tratti di un genere musicale, che dall’inizio degli anni ‘90 a oggi ha avuto la sua evoluzione sotto tutti i profili, non diversamente da qualsiasi altro. Che non si consideri musica non si può dire, del disco dei Mayhem, se si vuole avere il tempo per non fermarsi alla superficie e indagarne un po’ più a fondo le strutture (anche con l’aiuto di quegli spartiti elettronici che girano in rete, non sempre accuratissimi ma utili quando si ha voglia di conoscere qualcosa di nuovo e di non andare per luoghi comuni). Quanto alla completa disintegrazione dell’esistenza, oddio – anzi, scusate, che diavolo (!!!) –, il finale della citazione forse una mezza verità la nasconde. Se voler dannatamente scrivere di musica su De Mysteriis Dom Sathanas, l’album che sta al black metal norvegese come Scum dei prima apprezzati e poi tanto odiati (da Euronymous) Napalm Death al grindcore, significa dover dribblare, oltre a dichiarazioni pubbliche e pose pour épater le chretien, anche un corollario di cronaca nera – molto nera – tra suicidi, omicidi, vandalismi, chiese date alle fiamme e gente pronta per le bestie di Satana tanto prima delle Bestie di Satana (quelle de noantri), se parliamo di vita che diventa più arte dell’arte, se consideriamo quanto la vocazione distruttiva – e autodistruttiva – dei suoi primi ispiratori abbia inciso sul piano estetico e sonoro del black metal, e non solo nell’aura maledetta che aleggia su un parto discografico quasi decennale, be’ allora questa potrebbe essere l’unica frase azzeccata dal nostro amico Thurston. Ben conscio, tra l’altro, di come ciò abbia il suo fascino. Per rimarcare la differenza con una scena diventata – a parere loro – troppo trendy, i norvegesi si definivano total death metal e questa cosa l’hanno presa molto a cuore, oseremmo dire alla lettera. Ma appunto, parliamo della musica. Brutal musik è un’altra definizione che i Mayhem si portavano dietro dalle origini, tra gli inizi e la metà degli anni ‘80, quando il metal più forte sulla piazza era rappresentato da band come Venom e Celtic Frost e agli albori del thrash. Dopo il demo Pure Fucking Armageddon, è con l’EP dell’87 Deathcrush che Maniac, Euronymous, Necrobutcher e Manheim (i componenti di allora) arrivano a un primo punto fermo della propria evoluzione: una sorta di versione hardcore – più intensa ma anche “punk”, in senso molto lato – incrostata e lo-fi del thrash/death estremo dell’epoca. Più ancora del sound incancrenito nella sua sporcizia, è il grido spiritato di Maniac a introdurre quelle caratteristiche autoctone che saran- no evidenti in tutta la scena norvegese (nel momento in cui gli svedesi Bathory in Under the Sign of the Black Mark compiono il passo decisivo per diventare il trait d’union storico tra la first wave dei Venom e gli sviluppi futuri del black metal sul piano canoro e strumentale). Di fatto tra Deathcrush e De Mysteriis dom Satanas passano sette anni in cui non escono dischi di studio, ma succede di tutto sul piano stilistico e non solo. I Mayhem consolidano la propria reputazione underground di totale estremismo con poche esibizioni shock. L’ingresso del nuovo vocalist Dead imprime una svolta. Lui nel ruolo di frontman e il chitarrista Euronymous come leader della scena, definiscono il concept del nuovo black metal. Ossessionato dalla morte (ancora), Dead adotta il face-painting («non per essere glam come i Kiss o maligno come King Diamond, ma per assomigliare a un cadavere», come racconta Necrobutcher) ed estremizza le sue esibizioni sfidando il pubblico con gesti fuori controllo (l’automutilazione o le teste di maiale lanciate dal palco). Dead scrive i testi delle canzoni che finiranno su De Mysteriis – tra cui Freezing Moon o Life Eternal, preludio al suo suicidio nel 1991 –, e plasma la tecnica dello scream, diversa sia dal growl del death metal, sia dal canto metal classico; il suo urlo viscerale d’angoscia tra l’agonizzante e l’indemoniato non si è mai potuto apprezzare in una resa di studio, ma solo in dischi dal vivo come Live in Leipzig o il famigerato bootleg Dawn of the Black Hearts. Anche il batterista Hellhammer, emulo della potenza al cardiopalma dei Dave Lombardo e dei Pete Sandoval, contribuisce non poco all’evoluzione musicale del gruppo e a definire le coordinate del black metal. Un nuovo cambio di formazione dopo il suicidio di Dead e l’uscita dal gruppo di Necrobutcher vede l’ingresso di Varg Vikernes al basso, di una seconda chitarra (Blackthorn) e del cantante ungherese Attila Csihar, vocalist più tecnico e sperimentale che rivisita a sua volta lo scream modulandolo in maniera più cupa e agghiacciante. Il gruppo che registra il tanto atteso primo album, più volte rimandato per incapacità organizzative dell’etichetta di Euronymous e uscito solo dopo la morte di ques’ultimo per mano di Vikernes, è molto cresciuto tecnicamente. E i brani lo rivelano. Le coordinate del black metal esposte da Funeral Fog e dalla title-track sono un incastro di riff forsennati, muro frusciante e brusente (a zanzara, secondo il gergo) di chitarra, basso metronomico e blast-beat superveloce di batteria sostenuto da raffiche di rullante e (doppia) cassa battente, il tutto immerso in un’atmosfera dark e maligna. OK. Gli altarini però si scoprono e rivelano un virtuosismo che non contempla o quasi gli assoli (e non è un male) e non è così monolitico. Di Freezing Moon più delle parti veloci si imprimono i riff lenti, incluso l’arpeggio in ¾ che un orecchio straniato potrebbe immaginare in versione post-rock. Per non dire di From the Dark Past, forte di un arpeggio tutto in terzine e di un riff in 16/4, che propone quasi un black metal “matematico”, se mi si passa anche questo termine. Proprio antimusica non è. La catena di power chord in terzine su un tempo galoppante e la metrica arzigogolata di Pagan Fears, i riff in trentaduesimi, l’arpeggio sweep di Buried by Time and Dust, Life Eternal, che oltre a massacri di doppia cassa in sedicesimi a 170 bpm offre un surreale riff in 15/8, ci sprangano e ringhiano nelle orecchie una forma di metal sì spaventosamente eccessiva e provocatoria, ma nello stesso tempo ricercata, cerebrale, quasi progressiva (aaaaaargghhhh!). Un approccio formalista e una lettura un po’ più sottotraccia la rende persino (più) godibile. 7.5/10 Tommaso Iannini 171 Transllusion c l a ss i c a l b u m The Opening Of The Cerebral Gate (Tresor,2014) 172 172 La riedizione dell’album The Opening Of The Cerebral Gate, di pochi giorni antecedente a quella dell’EP accompagnatorio Mind Over Positive And Negative Dimensional Matter, prosegue il programma di rispolvero di alcuni tesori del catalogo dell’etichetta berlinese (la sublabel Supremat ha fatto in tempo a pubblicare solo tre progetti), e in particolare segue le reissue a maggio dell’album Neptune’s Lair e dell’EP Hydro Doorways firmati Drexciya. E’ da qualche anno che fervono i lavori di riproposizione della produzione del misterioso collettivo di Detroit, oggetto di culto profondo in ambito elettronico. Le quattro proditorie compilation Journey of the Deep Sea Dweller pubblicate dal 2011 al 2013 dalla Clone hanno riportato l’attenzione sul primo periodo 1992-1997 (con una dozzina di inediti ad impreziosire il tutto). Transllusion è stato quasi certamente (ma nella galassia Drexciya nulla può mai essere dato per scontato) un’idea gestita esclusivamente da James Stinson, che nella seconda fase drexciyana ha sostanzialmente portato avanti da solo il progetto complessivo, con Gerald Donald al massimo citato come semplice socio-ombra. Probabilmente consapevole del peggioramento del suo stato fisico (in una delle rare interviste aveva segnalato il suo trasferimento da Detroit ad Atlanta per ragioni di salute), e forse cosciente di avere così tante cose da dire e così poco tempo ancora a disposizione, nel suo ultimo anno di vita Stinson ha dato fondo a tutte le sue energie creative per dedicarsi al progetto Seven Storms: sette album in un anno, sotto diversi pseudonimi e per diverse label. La morte nel settembre 2002 interrompe il progetto (poi ricostruito postumo) ai primi tre capitoli: nel programma, The Opening Of The Cerebral Gate, pubblicato nel novembre 2001 poco dopo Lifestyles Of The Laptop Café (firmato The Other People Place e pubblicato da Warp) e poco prima di Harnessed The Storm (a nome Drexciya, uscito nel gennaio 2002 da Tresor), avrebbe occupato il secondo posto. Accantonata la mitologia sottomarina di stampo pseudoatlantidea che ha costituito il paratesto concettuale della prima fase dei detroitiani, qui siamo di fronte ad una electro-techno astratta, metallica ma pulsante passione, che disegna un album tra i più piacevoli e interessanti dell’intero corpus drexciyano, Rimanendo fedele al suo stile, oltranzisticamente legato alle sonorità analogiche nineties, la riproposizione nel 2014 di un disco che già nel 2001 suonava rètro riporta sul pezzo il progetto Transllusion e il suo responsabile, che va a sormontare quel mondo off-house lo-fi ultimamente così hype (vedi alla voce Legowelt, The Trilogy Tapes, L.I.E.S.). Transmission Of Life, nervosa e danzabile opening track, imposta subito il set, caratterizzato dalla riduzione delle frequenze medie e medio-basse e dall’esaltazione di quelle alte e subcraniche. Nella compattezza della proposta dell’album emergono alcune perle: la purezza electro di Look Within e il suo giro armonico funky, il folle knob twirling di Cerebral Cortex Malfunction, la profonda techno-house moroderiana di Dimensional Glide; Unordinary Realities riesce nell’ossimoro industrial melodic; Crossing Into The Mental Astroplane è soundtrack per un videogame lisergico. Un album che merita rispetto. 7.8/10 Alessandro Pogliani 173 174