Giordano Sivini
La finanziarizzazione della vita quotidiana
in via di pubblicazione su Foedus
Il processo di finanziarizzazione della vita quotidiana viene qui esaminato con riferimento
agli Stati Uniti a partire dalla formazione dell’ingente massa di liquidità in mano a fondi pensione e
fondi di investimento, che, alla continua ricerca di rendimenti, ha contribuito da un lato a
trasformare la struttura dell’economia dall’altro ad alimentare bolle speculative. L’esame si
sofferma sul debito come vettore della finanziarizzazione di istituzioni sociali che riguardano tre
momenti fondamentali della vita: pensioni, assistenza malattia e studi universitari. Si sposta poi
sulla cartolarizzazione, potente sistema che attribuisce agli investitori il potere sul credito. Si
conclude occupandosi degli strumenti che intervengono sui rapporti quotidiani di mercato, in
particolare le carte di credito, trasferendo sistematicamente reddito al sistema finanziario in maniera
tanto estesa da abbracciare anche chi non dispone di risorse economiche adeguate ai bisogni, dai
subprimers agli unbanked.
Questo lavoro si aggiunge ad altri pubblicati su Foedus (Sivini 2008, 2009, 2010, 2011) che
interpretano la crisi attuale come effetto dell’appropriazione sul lungo periodo della ricchezza
materiale da parte del sistema finanziario. La dispossession, concetto chiave in questa
interpretazione (Harvey 2006), si realizza nello specifico della quotidianità nella fase di espansione
finanziaria (Arrighi 1996, 2007) con trasferimenti al sistema finanziario di risparmi, patrimoni,
redditi presenti e futuri, attraverso l’indebitamento e l’investimento, intaccando irreversibilmente le
condizioni di esistenza del proletariato. Gli investitori finanziari agiscono in maniera pervasiva e
molecolare sugli individui di tutti gli strati sociali avvalendosi di strumenti messi in opera dagli anni
‘80 del ‘900, sostenuti normativamente dal potere politico, e ormai assunti come elementi discorsivi
della quotidianità.
L’indebitamento
Pochi dati sono sufficienti a tratteggiare il cambiamento radicale nei rapporti economici e
sociali tra lavoro e capitale negli Stati Uniti nella fase di finanziarizzazione successiva al fordismo
(Wolff 2010). Tra il 1947 e il 1973 la produttività del lavoro era cresciuta del 2,4 per cento all’anno,
i salari reali del 2,6; l’aliquota fiscale massima era 86,5; l’indice Gini relativo alle disuguaglianze di
reddito era 39,7 nel 1967. Nei primi venti anni della fase di finanziarizzazione, tra il 1979 e il 2001,
la produttività del lavoro è cresciuta dell’1,1 per cento all’anno e i salari reali dello 0,5; l’aliquota
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fiscale massima è scesa fino al 28,0 nel 1986 e al 39,6 nel 1993; l’indice Gini relativo alle
disuguaglianze di reddito è aumentato di oltre 6 punti, a 46,6.
In trent’anni il debito delle famiglie di ceto medio è cresciuto di due volte e mezzo: era 67 nel
1973, 100 nel 1980, e 157 nel 2007. Anche il loro patrimonio ha avuto periodi di crescita: più 65
per cento negli anni ’90 e più 20 per cento tra il 2000 e il 2007: il primo per l’incremento dei valori
dei titoli di borsa, detenuti dalla metà delle famiglie in gran parte in piani di investimento
pensionistici; il secondo per l’apprezzamento dei valori immobiliari. Un incremento di ricchezza
patrimoniale sostanzialmente virtuale, dissolto nelle bolle, che tuttavia ha facilitato e incentivato
l’indebitamento.
Quando si stava profilando la recente crisi finanziaria, il 77 per cento delle famiglie era
indebitato su vari fronti (Moore e Palumbo 2010); poi sono crollati i prezzi dei titoli di borsa e
quelli degli immobili. Molti di coloro che avevano acquistato la casa sono finiti sott’acqua, con più
debiti residui rispetto al suo valore; altri l’hanno persa o la stanno perdendo. La contrazione degli
investimenti immobiliari e dei consumi ha trascinato nella crisi gli altri settori dell’economia. “I
booms degli anni ’90 e della prima metà degli anni 2000 (...) avevano creato una classe media
fragile” (Wolff 2010).
Un economista italiano, negli Stati Uniti tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90,
aveva trovato la società, l’economia, la politica dominate dal debito. Era aumentato quello delle
famiglie e anche delle imprese, senza corrispondente aumento degli investimenti. Aumentato era il
debito federale per la crescita delle spese militari e dei superstiti programmi sociali varati negli anni
sessanta, per i salvataggi bancari, e per la riduzione delle entrate fiscali come conseguenza della
riduzione delle imposte; ed anche il debito con l’estero era aumentato, a causa dello squilibrio della
bilancia commerciale. “L’esplosione del debito negli anni Ottanta passava attraverso un’accresciuta
‘finanziarizzazione’ dell’economia americana. L’industria dei servizi finanziari cresceva a tassi
molto elevati, creando strumenti di debito apparentemente idonei a soddisfare ogni esigenza
finanziaria, e attività finanziarie per ogni tipo di portafoglio” (Roselli 1995, 13).
La generalizzazione del debito era stata considerata, negli anni ’90, effetto della corsa ad
emulare modelli culturali proposti quotidianamente dai media, per adeguare la qualità della vita a
quella di una middle class che nel discorso dominante doveva coprire uno spazio crescente nella
stratificazione sociale. Nell’Overspent American (Schor 1998) si attribuiva l’aumento del tempo
speso in attività lavorative alla necessità di guadagnare per far fronte a spese indotte da pressioni
consumistiche. I salari restavano indietro rispetto al costo della vita, i debiti si accumulavano, e la
gente faticava “a tirarsi fuori dal ciclo insidioso del lavorare e spendere” (Kuttner 1992), indotto
dalla pressante offerta di beni e servizi che, per quanto non necessari, provocavano soddisfazione.
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Nell’Overworked American (Schor 1992), era stato già messo in evidenza che i lavoratori erano
costretti a lavorare sempre di più, per l’impossibilità di far fronte ai bisogni attraverso il normale
salario.
Altri, però, hanno dimostrato che il crescente indebitamento della classe media è stato
finalizzato a consumi abituali, non al loro ampliamento (Wolff 2010). Il debito ha supplito al
progressivo venir meno dei servizi pubblici; alla precarietà dell’occupazione; all’aumento dei costi
per la casa, per l’istruzione dei figli, per la salute, per i trasporti, per i beni di consumo, per la
vecchiaia. E’ stato stimolato dalla finanziarizzazione, che “permea la vita quotidiana con nuovi
prodotti che mercificano il corso dell’esistenza, come i crediti agli studenti o i piani pensionistici, il
marketing delle carte di credito e la promozione dei mutui immobiliari” (Blackburn 2006). E’ stato
pressato da mass marketing machines (Montgomerie 2009), che hanno funzionato perché “la magia
della finanza consistente nell’abilità di dare prendendo” (Martin 2002).
“Dal punto di vista dell’individuo, il prodotto finanziario – un vitalizio, una pensione, un
mutuo o un contratto assicurativo – connette i costi attuali con benefici futuri” (Blackburn 2006);
rassicura rispetto agli imprevisti, fornisce beni, semplifica le relazioni di compravendita. Le
relazioni di mercato tra gli individui sono captate dalle carte di credito e debito; l’accesso agli studi
universitari è condizionato dall’accensione di mutui; la proprietà della casa dipende da altri mutui; il
denaro per rimborsarli, per far fronte ad eventi straordinari e persino a spese correnti, proviene, fin
quando i tassi di interesse sono stati bassi e i valori immobiliari in crescita, da secondi mutui sulla
casa; l’acquisto di beni durevoli da vendite rateali.
Gli individui sono stati soggiogati dalla pervasività del potere finanziario che è espressione di
un capitale rispetto al quale lo stato non svolge più quella funzione ricompositiva dell’antagonismo
sociale che aveva nel fordismo, ma diventa vettore della privatizzazione delle condizioni di
esistenza (dall’istruzione, alla salute, alla pensione), parcellizzate e trasformate in merci veicolate
dal mercato finanziario. Merci che è necessario acquistare indebitandosi, dando in pegno il
patrimonio già acquisito e ipotecando reddito ancora da realizzare, correndo il rischio, per
rimborsare il debito, “di essere ridotti ad una condizione moderna di peones” (Williams 2004).
La finanziarizzazione della vita quotidiana va interpretata con riferimento all’insieme di
dispositivi normativi e culturali che consentono al sistema finanziario di conseguire profitti e
rendimenti, regolando la vita degli individui in misura pervasiva "from credit card debt to subprime
mortgages and from student loans to pork belly futures" (Wray 2007).
La finanziarizzazione delle pensioni e i fondi di investimento
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I fondi pensione sono una eredità fordista. Alimentati dai contributi dei lavoratori e dei datori
di lavoro, tra grandi e piccoli, negli anni ’70 erano 50 mila, i più importanti con un proprio
management, gli altri gestiti da banche e compagnie di assicurazioni. Vent’anni prima la General
Motors aveva spinto i sindacati ad accettare che il denaro del loro fondo pensioni fosse investito in
azioni invece che, com’era stato fino ad allora, in titoli pubblici. Il nuovo orientamento si era
generalizzato, portando i fondi pensione ad avere in portafoglio almeno un terzo delle azioni delle
mille più importanti compagnie manifatturiere e delle prime cinquanta imprese dei maggiori settori
di servizio. Gli Stati Uniti potevano essere considerati "the first truly 'Socialist’ country" (Drucker
1976), ma i pochi tentativi dei sindacati di imporre una linea nei consigli di amministrazione non
avevano prodotto risultati significativi.
Il sistema basato sui fondi pensione dava diritto a ‘prestazioni definite’, commisurate agli anni
di attività lavorativa e all’ultimo stipendio. Negli anni ’80 nel settore privato venne gradualmente
soppiantato dal sistema delle ‘contribuzioni definite’. All’atto del pensionamento ai lavoratori
sarebbero spettate le somme che durante gli anni di lavoro ciascuno accantonava in esenzione di
imposta in piani gestiti da fondi di investimento, al netto dei guadagni o delle perdite realizzati in
borsa, detratti i costi di funzionamento dei fondi.
Una legge entrata in vigore nel 1980 aveva previsto che le imprese potessero promuovere
questi piani per conto dei dipendenti, e Wall Street l’aveva cavalcata. “Credo che sia stata la
strategia di marketing più brillante e più aggressiva della storia del capitalismo. Una cosa
assolutamente travolgente”. “Il sistema aveva enorme sex appeal. Il potere veniva dato al popolo,
erano i lavoratori a decidere: questo è il modo in cui venne presentato, il modo in cui venne venduto
da Wall Street, dai fondi di investimento, eccetera” (PBS 2006).
Già i fondi pensione investivano in borsa; ora però erano i singoli individui a poter scegliere
su che cosa puntare. “Numerose aziende sono passate al sistema delle contribuzioni definite, e
molte persone, tranquillizzate dai rendimenti apparentemente elevati del mercato finanziario, hanno
scelto di investire gran parte del loro denaro in azioni. Questa tendenza ha contribuito in maniera
significativa alla creazione di un capitalismo ‘popolare’, ma quando le borse sono scese, queste
persone hanno risentito pesantemente della crisi (…). In seguito, la flessione del mercato azionario
è stata talmente marcata da compromettere il futuro livello di vita dei pensionati e, quando fosse
successo, le famiglie avrebbero sentito l’esigenza di mettere da parte di più per la pensione
riducendo i consumi” (Stiglitz 2004, 81-2).
Le imprese avevano spinto i dipendenti ad effettuare un passaggio irreversibile al nuovo
sistema, evitando di continuare a garantire la pensione con fondi che attingevano per l’11 per cento
al salario e per l’89 al bilancio delle stesse imprese. “Ad un tratto tutti i rischi di mercato, tutti i
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rischi di inflazione, tutti i rischi di gestione sono stati trasferiti ai lavoratori” (PBS 2006). Negli anni
recenti il passaggio da un sistema pensionistico all’altro è stato spesso brutale. Molte grandi
imprese dell’acciaio, delle linee aeree, dell’automobile portate sull’orlo della bancarotta hanno
ottenuto dal giudice di trasferire gli impegni per le pensioni alla Pension Benefit Guaranty
Corporation, ente pubblico creato per intervenire in queste situazioni. Poiché vi fa fronte erogandole
in misura ridotta, i dipendenti devono proseguire ad accantonare soldi nei piani pensionistici privati.
L’impresa, sgravata da questi oneri, aumenta di valore, e dietro queste operazioni ci sono capitali di
rischio che la acquistano, la rimettono in carreggiata, e la rivendono con buon profitto (Blackburn
2009).
Prima della recente crisi 65 milioni di lavoratori alimentavano questi piani, con più di 7 mila
miliardi di dollari investiti, tra quelli sponsorizzati dalle imprese e quelli volontari dei lavoratori
autonomi, attivati e gestiti in maniera analoga (ICI 2009). Il 20 per cento dei lavoratori privati e l’85
per cento di quelli pubblici era ancora iscritto a fondi pensione, ma quelli in profonda crisi erano
stati congelati (BLS 2010). Nell’insieme il 51 per cento dei lavoratori attivi partecipa a qualche
piano pensionistico; gli altri trovano sostegno nella Social Security, una assicurazione pubblica
alimentata da trattenute sul salario, da contributi aziendali e versamenti individuali dei lavoratori
autonomi. La ricevono l’87 per cento delle persone con più di 65 anni. Per due terzi è la fonte
principale di reddito; per un terzo la fonte pressoché esclusiva (SSA 2010).
I lavoratori vicini al pensionamento hanno subìto nella recente crisi perdite sostanziali nei
piani di accantonamento a contribuzioni definite, più del 35 per cento. Altri, licenziati anzitempo,
subiranno drastici ridimensionamenti, o non riusciranno a mettere da parte soldi sufficienti per la
vecchiaia. Nel 2007 un lavoratore con un salario pari alla media nazionale, a sessant’anni avrebbe
dovuto avere nel piano pensionistico 250 mila dollari, ma nei fondi accantonati c’erano in media 98
mila (Hiltonsmith 2010). “L’investitore che deve calcolare, misurare e gestire rischi è sempre più
stressato perché volatilità e incertezza non sono governabili in termini di aspettative razionali”
(Langley 2008). “Mi terrorizza quel che può capitare se nell’economia mondiale si verifica un
disastro, con il petrolio o con un altro attacco terroristico, che mi provoca un nuovo collasso” (PBS
2006).
Il cambiamento dei criteri di gestione dei fondi pensione è stato determinante per
l’accelerazione della finanziarizzazione. Negli anni ’70 la liquidità scarseggiava “perchè non erano
stati ancora mobilizzati l’immensi risparmi delle famiglie depositati nei fondi pensione”; nel 1974 si
ridusse quando una normativa considerò personalmente responsabili i loro managers per
investimenti imprudenti; ma nel 1979 i vincoli ad investimenti rischiosi vennero rimossi (Lazonick
2008). Dall’inizio degli anni ’80 il massiccio trasferimento degli accantonamenti pensionistici dai
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fondi pensione ai fondi di investimento, e la possibilità anche per questi ultimi di perseguire
obiettivi rischiosi, ha trasformato i gestori di questa massa enorme e crescente di liquidità in voraci
cacciatori di rendimenti.
I fondi pensione disponevano nel 2010 di 9,8 mila miliardi di dollari (Federal Reserve 2011),
di cui circa la metà concentrati in 200 fondi. Gli 8 mila fondi di investimento, che gestivano altre
forme di risparmio oltre a quello pensionistico, muovevano 11,8 mila miliardi di dollari di 55 milioni
di famiglie (ICI 2011).
Mentre i fondi pensione continuano ad essere funzionalmente legati alle imprese e soprattutto
agli enti pubblici di cui sono espressione, i fondi di investimento sono entità finanziarie
espressamente create per generare utili per i fondatori e per i gestori vendendo il miraggio di
rendimenti a coloro che vi aderiscono. I loro managers - sostiene John C. Bogle, decano del settore mettono i propri interessi davanti a quelli dei sottoscrittori. Sono aggressivi sia nel reclutamento sia
nella speculazione. Rimodulano continuamente i portafogli nella incessante ricerca di risultati che
trattengano i sottoscrittori, i quali, a loro volta passano con crescente frequenza da un fondo ad un
altro (Bogle 2005).
Per la massa di liquidità di cui dispongono fondi pensione e fondi di investimento sono stati
definiti “maitres et prisonniers” del mercato. “Non si comportano né da imprenditori, perchè non
costruiscono e non producono nulla; nè da consumatori, perchè non consumano; si preoccupano di
gestire il valore nel tempo (…). Tra il mercato dove si valutano e si trattano gli attivi finanziari e
questi ‘silos di risparmio’ si è progressivamente aperto un potenziale di intermediazione che viene
occupato da un ventaglio di attori” (Dembinski 2008, 63). La loro attività ha avuto un profondo
impatto sulla finanziarizzazione del sistema produttivo, attraverso l’imposizione in borsa del
principio del valore per gli azionisti, e sulla deriva speculativa del sistema finanziario attraverso la
funzione di leva a cui si sono prestati.
Sul primo fronte, spostando gli investimenti da un titolo ad un altro quando i rendimenti non
sono soddisfacenti, possono determinare le sorti borsistiche delle imprese. Il loro management,
peraltro cointeressato dalle stock options che costituiscono una parte crescente del loro reddito, ha
elaborato molteplici strategie per far salire il valore delle azioni, dal riacquisto in borsa ad interventi
sulla struttura produttiva con la compressione del costo del lavoro, l’esternalizzazione, la
delocalizzazione, i licenziamenti per la chiusura di impianti. Già negli anni ’80 i fondi “erano stati
‘investitori chiave’ in fusioni e acquisizioni, ristrutturazioni e ridimensionamenti” (Morris 2008,
40). La ”rivoluzione degli azionisti” degli anni ’90 ha generalizzato le pretese di alti rendimenti sul
breve periodo, con profonde ripercussioni sulla struttura dell’intero sistema produttivo (Sivini
2011).
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Sul secondo fronte, fornendo il brodo di coltura per il sistema finanziario ombra, hanno
attivamente contribuito ad ogni genere di operazioni speculative. Sono stati la “linfa vitale” (Cox
2010) dei veicoli finanziari costituiti dalle grandi banche per svolgere operazioni che non potevano
svolgere direttamente. In cambio di rendimenti modesti ma sicuri hanno fornito liquidità di breve
periodo utilizzata per investire sul lungo periodo in titoli più rischiosi ma più remunerativi, come
quelli basati sui mutui subprime. Hanno inoltre fornito la leva per le operazioni speculative degli
operatori finanziari più spericolati.
La finanziarizzazione degli studi e le università quotate in borsa
Per sostenersi negli studi due terzi degli studenti universitari sono indebitati, il 14 per cento
con istituzioni private di credito, il resto con lo Stato federale. L’ammontare complessivo dei debiti
pendenti, fatti per studiare all’università, è di 833 miliardi di dollari.
Nel 2009 si sono iscritti all’università 19,6 milioni di studenti. L’anno precedente 750 mila
avevano conseguito un titolo biennale, 1 milione e mezzo la laurea, 625 mila il master, 91 mila un
titolo superiore intermedio, e 64 mila quello di dottore di ricerca. Undici milioni di famiglie hanno
ricevuto nel 2009 prestiti federali per 90 miliardi di dollari, le istituzioni private hanno erogato
mutui per altri 12 miliardi. Nove milioni di famiglie con un reddito inferiore a 50 mila dollari hanno
ricevuto borse di studio, in genere insufficienti a coprire i costi di frequenza.
Il costo medio annuo degli undergraduates per la retta e il mantenimento nei colleges è di 14
mila dollari nelle università pubbliche, e 32 mila in quelle private (NCES 2011), a causa
dell’aumento delle rette dovuto alla riduzione dei contributi federali e statali alle università, che nel
dopoguerra coprivano l’80 per cento dei costi e ora appena il 15 per cento. Le università hanno
attivato numerosi canali per rimpiazzare i fondi pubblici, ma quello principale resta la tassa di
iscrizione. Mark Kantrowitz, uno dei maggiori esperti del settore, rileva che si sta andando verso
una situazione in cui lo studente di oggi si troverà ancora in debito quando i suoi figli si dovranno
iscrivere all’università (Kantrowitz 2010). “Se l’attuale tendenza continua le famiglie giungeranno
ad un punto di rottura” (Kim 2010).
Il governo eroga agli istituti cui gli studenti si iscrivono prestiti che devono essere da loro
rimborsati, con gli interessi, dopo gli studi. E’ una specie di credito per l’avviamento di un’impresa,
attivato nel 1965. Le banche concedono mutui alle condizioni fissate dal governo, che si fa carico
degli interessi durante gli anni di università e ne garantisce il rimborso nel caso di insolvenza.
Vengono concessi per la frequenza a tutti gli istituti di istruzione post secondaria, pubblici e privati,
purché accreditati a livello federale o statale.
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Nel 1973 venne costituita la National Student Loan Marketing Association (in gergo Sallie
Mae), paragovernativa, esente da imposte, che, al pari di Ginnie Mae, Fannie Mae e Freddie Mac
presenti sul mercato immobiliare, doveva liberare le banche dei crediti erogati, in modo che ne
finanziassero altri. Sallie Mae li acquistava da colossi bancari come Citicorp e Chase, principali
erogatori, e faceva utili incassando gli interessi dai mutuatari o dal governo se questi erano
insolventi.
Il presidente Clinton aveva proposto che i mutui non venissero erogati più dalle banche ma
direttamente. Per l’opposizione dei repubblicani si arrivò soltanto ad affiancare al vecchio un nuovo
sistema di erogazione diretta, lasciando alle università la scelta di orientarsi verso l’uno o l’altro.
Poiché queste si mostravano favorevoli a quello nuovo, più semplice e rapido, le banche e Sallie
Mae (che dal 1996 aveva iniziato un processo di graduale privatizzazione) si impegnarono a
contrastarlo, con un marketing aggressivo e l’offerta di condizioni migliori, ma l’Education
Department federale venne autorizzato da Clinton a competere.
Le banche e Sallie adottarono allora un’altra strategia, puntando al coinvolgimento delle
università, che attribuivano loro priorità nelle liste raccomandate agli studenti per accedere a mutui
privati aggiuntivi. Potevano trattenersi le prime due o tre rate di interessi, ottenere ‘opportunity
loans’ da distribuire agli studenti meno abbienti, e fondi per la sponsorizzazione di eventi (Beaver
2008).
Ne nacque uno scandalo, che nel 2007 coinvolse Citibank, Sallie Mae, ed altre istituzioni.
Avevano corrotto con doni, incarichi retribuiti, compartecipazioni azionarie, alcuni funzionari
universitari. Alcuni furono rimossi - alla Columbia University, alla Johns Hopkins, alla Texas at
Austin, tra le più note - e anche all’Office of Federal Student Aid dell’Education Department
federale (Pardo, Lacey 2009). Dopo di allora è aumentato sensibilmente il numero di università che
indirizzano gli studenti al prestito federale diretto: 1075 nel 2008 e 1624 nel 2009 (SilverGreenberg 2009).
Nel 2008 Sallie Mae aveva in portafoglio 82 miliardi di dollari di crediti, e altri 39 fuori
bilancio, cartolarizzati e ceduti ad investitori. Aveva anche allargato le attività, acquistando i crediti
privati di diverse banche e rafforzando un sistema articolato di raccolta del denaro dei debitori,
riuscendo a conseguire alti tassi di rimborso. Il metodo è così esemplificato: “Per dieci anni sono
stato sottoposto al una persecuzione quasi costante; talvolta mi telefonavano tre volte al giorno”
(PBS 2006).
Nel 2010 Obama ha eliminato l’erogazione dei prestiti federali attraverso le banche. Ora sono
erogati tutti direttamente. Sallie Mae ha speso milioni in attività lobbistiche per evitare questa
decisione, sostenendo che avrebbe provocato la perdita di posti di lavoro e peggiorato il servizio. In
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realtà, come rileva Datamonitor valutandone l’assetto finanziario, le ha provocato un grosso danno
(Datamonitor 2010).
A parte questa misura, nessun’altra è stata intrapresa per impedire che l’indebitamento sia
l’unica via di accesso all’università. Nemmeno per proteggere gli studenti dagli abusi di chi fa
crediti privati, o per porre fine alle persecuzioni legali di chi non riesce a pagarli.
Ci sono diversi tipi di crediti federali, alcuni per i meno abbienti, con interessi che decorrono
dal mese successivo all’erogazione o dalla conclusione degli studi, con tempi di rimborso da 10 a
30 anni. L’entità delle somme erogate varia a seconda dei livelli di formazione universitaria, e, con
il tempo, si è rilevata sempre più insufficiente rispetto all’aumento dei costi. Le banche hanno
coperto questo crescente vuoto con l’erogazione agli studenti di prestiti non garantiti dal governo. I
tassi di interesse per i prestiti federali vanno dal 4,5 e il 6,8 per cento, quelli dei privati sono molto
più alti, e sono determinati dagli indici di solvibilità finanziaria delle famiglie, alle quali sono
spesso richieste le fideiussioni.
Conclusa la scuola secondaria, tranne che per i pochi giovani di famiglie abbienti, non c’è
alternativa tra l’indebitarsi e lo smettere di studiare. Più che nel passato, nel 2009-10 oltre un
milione e mezzo di giovani hanno rinunciato all’università, e, per contenere il debito, la metà degli
studenti full-time lavora, e il dieci per cento di questi per 35 e più ore alla settimana (Hanson 2009).
Alle famiglie viene data la possibilità di accantonare, fin dalla nascita di un figlio, somme
finalizzate a sostenerlo negli studi universitari. Dal 1996 il risparmio collocato nei College Saving
Plans è esente da imposte statali, e gode di un trattamento federale fiscalmente privilegiato. I piani
sono proposti dagli Stati e dalle istituzioni universitarie, e il più delle volte vengono gestiti da fondi
di investimento; la recente crisi ne ha intaccato il valore del 21 per cento (Hanson 2009).
“Per milioni di americani, la prima importante decisione finanziaria nella vita è se prendere un
prestito per studiare. Si tratta di debiti un po’ diversi di quelli fatti con carta di credito o per
acquistare un automobile. Fanno parte della ricerca da un futuro migliore, e provocano
conseguenze, buone o cattive, per tutta la vita, dal momento che per imprevisti o per sfortuna,
possono diventare un peso irreparabile” (Mclean e Tkczyk 2005).
Le università sono formalmente corresponsabilizzate nel rimborso dei debiti dei propri
studenti. Se i tassi di insolvenza sono alti perdono l’accreditamento che consente di accedere al
credito governativo. La rilevazione dei tassi di insolvenza tiene tuttavia conto solo dei mancati
rimborsi nei primi 2-3 anni dopo la conclusione degli studi; questa è la ragione per cui appaiono
relativamente bassi, il 7 per cento nelle università pubbliche e in quelle private no profit (per lo più
colleges comunitari) e l’11-12 in quelle private for profit (Silver-Greenberg 2009). Aumentano però
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sensibilmente con il tempo: a quindici anni dall’accensione del mutuo arrivano rispettivamente al
20 e al 30-40 per cento (Kraft 2010).
I crediti avuti dal governo diventano un incubo. “Sono uno statistico. Ho fatto un debito di
100 mila dollari e ogni mese compilo un assegno di 660 dollari per Sallie Mae. Sul mio libretto di
assegni scrivo SM, e mi fa rabbia. Ho 46 anni. Da 15 ho finito il dottorato e devo ancora 9 mila
dollari” (Williams 2008). I giovani si trovano invischiati nel debito quando non è ancora chiaro il
percorso di studio che riusciranno a fare, e che spesso viene condizionato da questo debito. “Oggi
mi chiedo se ero realmente pronto a studiare e ad applicarmi e se il mio titolo di studio è davvero
adeguato per un futuro globalmente incerto. A 18 anni avevo tante fantasie sulla vita, che non mi
inducevano a prestar attenzione a indebitarmi per continuare gli studi. Il denaro per me era
immateriale, ora invece è una cosa davvero materiale” (PBS 2006).
Il rimborso insegue nella vita il debitore, perseguitato dagli agenti incaricati di riscuoterlo,
condizionato nell’accesso al credito, limitato nelle prospettive di lavoro, impossibilitato ad ottenere
una borsa o un altro prestito per riprendere gli studi. Al rimborso del mutuo pubblico non si può
sfuggire, se non entrando in un programma promosso dal governo: volontariato, insegnamento in
scuole di recupero, attività sanitarie comunitarie, e servizio militare. Lo si può scalare nel tempo
caricandosi degli ulteriori interessi. Non se ne può invece ottenere la cancellazione neanche in una
situazione economicamente disperata quando il giudice riconosce lo stato di bancarotta.
“I debitori insolventi possono perdere una parte dei salari, dei crediti di imposta, dei contributi
della Social Security anche in caso di disabilità. Sono costretti a pagare interessi più alti su altri
prestiti, possono essere cacciati dall’impiego pubblico e possono aver revocate le licenze
professionali” (Kraft 2010). L’Educational Department federale può chiedere ai datori di lavoro di
dedurne dallo stipendio il 15 per cento fino a che il debito non viene saldato.
Un sistema di speculazione sui prestiti agli studenti è venuto alla luce negli anni recenti,
avvolto negli scandali, e riguarda il nuovo fenomeno delle università private for profit, quotate in
borsa, che si stanno moltiplicando.
Apollo Group è una società cui fa capo l’Università di Phoenix, che serve più di 400 mila
studenti in una novantina di campus ed ha 150 learning centres in tutto il mondo; Center Education
Corporation ha 95 mila studenti e 75 campus nel mondo; Corinthian Colleges 69 mila studenti negli
Stati Uniti e in Canada. La banca Goldman Sachs possiede il 36 per cento delle azioni di Education
Management Corporation, che a Pittsburgh conta 136 mila studenti. Attualmente sono quotate in
borsa 14 società, per un valore di 26 miliardi di dollari (Kutz 2010).
L’espansione è legata ad un marketing martellante. Apollo Group spende più in attività
promozionali che nell’insegnamento: 900 milioni di dollari contro 675 nel 2008 (PBS 2010).
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Propone programmi di studio legati ad opportunità di lavoro, di durata flessibile e modalità online.
“Vende la speranza per un impiego migliore” (PBS 2010, Golden Interview).
Gli studenti for profit si iscrivono in media a 25 anni anzichè a 18-19, e provengono da
famiglie con reddito basso. Se frequentassero altri tipi di colleges si indebiterebbero di meno, ma
sono spesso oggetto di promesse ingannevoli, e a volte incoraggiati a pratiche fraudolente per
ottenere il sostegno finanziario pubblico. Con la crisi dei subprime è stato intensificato il
reclutamento degli homeless, particolarmente qualificati per borse di studio e mutui federali
(Golden 2010).
Il sistema for profit si è accaparrato nel 2009 ben 26,5 miliardi di dollari di fondi federali,
rispetto ai 4,5 miliardi del 2000. “In parte perché le iscrizioni sono aumentate, (...) ma anche perché
è cambiata la strategia, passando da studenti un po’ più abbienti a quelli con un reddito tale da avere
accesso a borse di studio e mutui federali” (Golden 2010). I contributi pubblici non coprono
interamente le rette, molto più alte che nei colleges pubblici e in quelli comunitari, e i mutui
aggiuntivi accesi dagli studenti sono forniti da banche e, soprattutto, da Sally Mae.
Michael Clifford spiega come si espande il sistema for profit. Si autodefinisce educational
entrepreneur che investe in istituzioni universitarie in rovina, le raddrizza mobilitando capitali
privati, le colloca in borsa e le vende. Ha fatto così con la Grand Canyon University,
l’Interamerican College, la Chancellor University. Questa è la sua testimonianza.
“Wall Street mi dice: ’Ci mettiamo i nostri soldi, entriamo in questo affare. E’ nostro,
facciamolo andare avanti’. Il sistema di accreditamento mi dice. ‘Queste istituzioni sono parte del
complesso pubblico. Erano no profit, convertile in for profit, affinchè possano continuare a svolgere
la missione sociale di educare’(... ). Ho speso sette od otto anni in giro per il paese, parlando con chi
si occupa degli accreditamenti per trovare scuole in difficoltà economiche ma in ordine con i
requisiti (...). L’accreditamento è segno di approvazione accademica, e... quando hai
l’accreditamento, sei qualificato per il programma federale di prestiti. Senza prestiti agli studenti il
nostro sistema educativo non funziona. Non c’è verso che a 17, 18 o 19 anni, quando non si può
dimostrare di essere solvibili, di lavorare, e di avere la capacità di pagarsi la scuola, si possa andare
in banca e ottenere un prestito di 20, 30 o 40 mila dollari all’anno per 4 o 5 anni...” (PBS 2010,
Clifford Interview).
“I colleges falliscono perchè consentono alle facoltà di prendere decisioni che spettano a chi
si occupa di affari (...). Noi diamo alle facoltà un anno di tempo. Dopo un anno, chi ci lavora decide
se vuole stare in affari con noi (...). Non ci sono né sindacati né ruoli permanenti” (PBS 2010,
Clifford Interview). Nei colleges dell’Apollo Group, che ha una grande infuenza nel modellare il
settore, pochi docenti sono full-time, quasi tutti sono persone a cui viene consegnato il programma
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di insegnamento da svolgere. Non lo possono decidere autonomamente e non fanno ricerca. “Sono
poco più che funzionari” (PBS 2010, Golden Interview).
Il sistema for profit è un affare redditizio. Arriva dal governo un sacco di soldi freschi prima
ancora che venga reso il servizio. “Wall Street di solito valuta il profitto come percentuale sulle
entrate. Questo può variare da una impresa all’altra, e, alla metà del decennio, per alcune si aggira
sul 25-30 per cento (...)”. I margini di profitto del sistema universitario for profit sono generalmente
“at the high end” (PBS 2010, Silver Interview). Gli investitori sono anche attratti dalla sua crescita
potenziale. “Penso che tutti riconoscano che più ci sarà istruzione nella vita, più denaro ci sarà da
guadagnare, e questo, nella prospettiva del mercato, è un fatto attraente” (PBS 2010, Silver
Interview). Nel giro di 10 anni le università for profit hanno attratto il 10 per cento degli studenti, la
previsione è che possono raddoppiare nel giro di altri dieci.
L’ipoteca di Wall Street sulla salute
Il 17 per cento della popolazione, 51 milioni, non ha accesso alle cure mediche (US Census
Bureau 2009). E’ gente che non può pagare, o che, circa 11 milioni, potrebbe avere la copertura
pubblica ma non si registra fin quando non finisce in ospedale. Un quarto ha un reddito familiare
inferiore a 25 mila dollari; la metà tra 25 e 45 mila dollari.
Il 20 per cento della popolazione, 87 milioni, fruisce della copertura pubblica, e, tranne il 4
per cento che rientra in un programma riservato ai militari, si distribuisce in parti quasi eguali nel
programma Medicaid per i meno abbienti e nel Medicare per gli anziani, una parte dei quali paga
anche una assicurazione privata. Però, a causa della crisi, tra dicembre 2007 e giugno 2010 oltre 7
milioni e mezzo di persone si sono aggiunte al programma Medicaid.
Medicaid è un programma sanitario, gestito dagli Stati con contributi statali e federali, per le
famiglie in precarie condizioni economiche e per le persone disabili. In molti Stati, per esservi
ammessi bisogna trovarsi in condizioni di miseria, almeno di un terzo al di sotto del livello ufficiale
di povertà, così che, nell’insieme, risulta assicurato uno solo su quattro adulti poveri sotto i 65 anni.
I bambini invece vi sono ammessi se le famiglie sono al di sotto del livello di povertà. Nonostante
questi limiti, Medicaid è considerato una safety net per il suo carattere anticiclico. Si espande nei
periodi di recessione, con contributi federali aggiuntivi, perché vi affluiscono persone che perdono
il lavoro.
Medicare è un programma federale che riguarda gli anziani, indipendentemente dal loro
reddito, e i giovani disabili. Come la Social Security, è finanziato con trattenute sul salario durante
l’attività lavorativa. Copre circa la metà delle spese sanitarie degli assicurati. Perciò gli anziani più
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poveri, in caso di necessità, fruiscono del programma Medicaid del proprio Stato; agli altri
provvede l’assicurazione privata, spesso fatta durante l’attività lavorativa.
Al di fuori di Medicaid e Medicare ci sono le assicurazioni private. Circa due terzi della
popolazione, 201 milioni, ha una assicurazione, in parte complementare alla copertura pubblica,
stipulata attraverso i datori di lavoro o individualmente. Almeno 20 milioni sono sottoassicurati, in
quanto la copertura è inadeguata.
Per acquistare una polizza individuale occorre superare diversi tests. Non la si ottiene in casi
di preesistenti malattie e, sovente, anche di disturbi comuni, come l’acne o la condizione di
sovrappeso o sottopeso (Andrews 2007). "Vogliono conoscere tutto di te, anche la tua storia
debitoria (...) e mettono le informazioni in una enorme base dati poco conosciuta, che si chiama
MIB o Medical Information Bureau”; in base a questo screening 5 milioni di persone sono
considerate non assicurabili (Marcus 2008). Tra quelle assicurate, se sopraggiunge una malattia
grave, le compagnie assicurative fanno di tutto per rescindere il contratto (Silberner 2009).
Le polizze di gruppo sono contrattate dai datori di lavoro per i propri dipendenti, che, in
genere, possono scegliere tra diversi tipi di piani. Non tutti aderiscono, sia perché sono assicurati
attraverso il coniuge, sia per evitare di sostenerne il costo, che è a carico del lavoratore per il 20-30
per cento, a seconda che riguardi una persona o l’intera famiglia.
Nel 2010 il costo medio di una polizza assicurativa è di 5 mila dollari per una persona e quasi
14 mila per una famiglia di 4 persone, con una variabilità in più o in meno che dipende dal grado di
copertura. E’ aumentato del 27 per cento tra il 2005 e il 2009, ma la parte a carico dei lavoratori è
cresciuta del 47 per cento, mentre i loro salari sono aumentati del 18 per cento. Poiché, in genere, la
copertura non è totale, tre quarti degli assicurati devono anche concorrere alle spese sanitarie.
“Premi assicurativi e contributi aggiuntivi influiscono sulle decisioni di farsi curare. Se i premi e i
costi continuano a essere posti a carico dei consumatori, le famiglie si troveranno di fronte a scelte
difficili, come rinunciare alle cure o riflettere su come possono risolvere il problema delle loro
famiglie” (Kaiser Commission 2010).
Le compagnie di assicurazione offrono anche polizze di gruppo meno costose, con alte
franchigie. A queste possono essere collegati piani di risparmio o di investimento vincolati a spese
mediche con somme accantonate in esenzione di imposta. E’ la politica del consumer-driven healt
care, relativamente recente, che viene fatta passare come responsabilizzazione degli assicurati.
Polizze di gruppo di questo tipo riguardano 25 milioni di persone.
Gli Stati Uniti hanno, tra i paesi industrializzati, uno dei più alti tassi di mortalità infantile,
un’aspettativa di vita alla nascita al di sotto di alcuni paesi in via di sviluppo, e il più alto tasso di
mortalità evitabile con appropriate cure mediche (Nolte e McKee 2008). Il sistema sanitario,
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secondo molteplici valutazioni, è inefficiente, segnato da disparità di trattamento per reddito e
appartenenza etnica (AHRQ 2010). La spesa sanitaria pubblica, tuttavia, è la più alta nel mondo
(WHO 2009), con una media di 8 mila dollari pro capite, il doppio dell’Olanda, che in uno studio
comparato risulta avere il sistema sanitario più efficiente (Reinberg 2010).
Il numero di medici e di infermieri in rapporto alla popolazione è basso, e circa 65 milioni di
persone abitano in zone carenti di strutture sanitarie. L’American Medical Association ha svolto
attività lobbistica per contenere il numero di medici, il che consente alla categoria di guadagnare il
doppio o il triplo rispetto ad altri paesi industrializzati, un livello che non si giustifica solo con i più
alti costi della formazione universitaria (Berenson 2007).
Il sistema sanitario privato si è formato embrionalmente negli anni ’30 per iniziativa di
ospedali e di medici che si erano associati a pazienti in forme di tipo mutualistico. Il loro successo
aveva spinto le compagnie di assicurazioni ad entrare nel nuovo mercato, raggiungendo nel
dopoguerra i 142 milioni di assicurati. Lo sviluppo è stato facilitato dal fatto che i contributi sono
esenti da imposte. Fin dal 1910 erano stati proposti, senza successo per l’opposizione dell’American
Medical Association, programmi federali di copertura sanitaria universale. Negli anni ‘60 i
sostenitori avevano adottato una strategia di realizzazione incrementale, che nel 1965 produsse
Medicare e Medicaid entrati in funzione l’anno successivo. Gli ulteriori passi per la copertura
sanitaria universale vennero bloccati, fino all’ampliamento recente con la riforma fatta varare da
Obama.
Il sistema assicurativo è controllato da due grandi compagnie, in condizioni di monopsonio.
Nella seconda metà degli anni ’90 da 400 fusioni sono emerse Aetna e Unitedhealth Group; altre
successive fusioni e incorporazioni hanno portato alla attuale posizione dominante di Wellpoint e di
Unitedhealth, che operano attraverso diverse consociate. La progressiva concentrazione ha indotto
l’American Medical Association a richiedere l’intervento del governo, documentando che in 24
Stati e in moltissime contee le due compagnie controllano più del 70 per cento del mercato
assicurativo. La preoccupazione dell’associazione deriva dal fatto che si restringono i margini di
contrattazione della categoria, perché i piani assicurativi comportano, per lo più, che gli assicurati si
rivolgano a strutture convenzionate. I medici, inoltre, sono pressati a conseguire production targets,
e vengono valutati individualmente per i guadagni che fanno realizzare alle compagnie (Silberner
2009). L’American Medical Association protesta: “I medici hanno doveri legali ed etici verso i loro
pazienti. Gli assicuratori hanno doveri verso i loro azionisti. Il ruolo dei medici è sistematicamente
minacciato se gli assicuratori in posizione dominante sono in grado di imporre contratti che
direttamente riguardano le cure da prestare ai pazienti e il rapporto con essi” (AMA 2011).
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Sono preoccupazioni fondate, secondo la testimonianza davanti ad una commissione
senatoriale di Wendell Potter, un dirigente di compagnie assicurative passato dall’altra parte della
barricata. “La priorità delle compagnie è di alzare il valore delle azioni, che fluttuano a seconda
delle relazioni trimestrali, discusse in conferenze a distanza con investitori e analisti. Costoro
guardano a due dati chiave: l’utile per azione e il rapporto tra ciò che la compagnia spende per le
cure e ciò che le resta per coprire vendite, marketing, contratti, spese amministrative e,
naturalmente, profitti. (...) Se gli investitori vedono che una compagnia assicuratrice non ha fatto
ciò che si aspettavano, la puniscono. Se ne escono a mucchi. (...) Ciò che vogliono è aumentare i
profitti. Aumentare il valore per gli azionisti. Questa è la prima cosa (...). Gran parte degli azionisti
sono grandi investitori istituzionali e hedge funds” (PBS 2009).
Ogni trimestre deve andare meglio del precedente. “Per aiutare Wall Street a sostenere queste
aspettative di profitto sempre crescenti, gli assicuratori scaricano sistematicamente i portatori di
polizze meno redditizi. Hanno molte strade per cacciare chi si ammala. Una è la rescissione dei
contratti individuali (...). Un’altra è l’eliminazione di quelli con le piccole imprese, se le spese
mediche degli assicurati sono più alte di quelle che ci si aspetta (...), pratica conosciuta tra gli
addetti come ‘purga’” (PBS 2009). Un altro mezzo è negare interventi costosi, e qualche anno fa
l’opinione pubblica ha reagito al rifiuto di pagare i costi di un trapianto di fegato ad una giovane
donna (AP 2008). Infine, i costi delle polizze vengono aumentate di anno in anno in misura
rilevante.
La recente riforma fatta approvare dal Presidente Obama ha vietato alle imprese assicurative
di imporre condizioni capestro, le ha obbligate a comportamenti più trasparenti. Ha previsto di
ammettere nel 2014 al programma Medicaid circa 20 milioni di persone che sono del 33 per cento
sopra il livello di povertà; di attribuire benefici fiscali ai piccoli imprenditori che offriranno polizze
di gruppo; di imporre, pena una multa, a tutti gli individui di avere una polizza malattia, dando un
sussidio a coloro che hanno un reddito inferiore a quattro volte il livello di povertà.
Gli assicuratori hanno speso miliardi per contrastare la riforma, con attività lobbistiche e con
una martellante campagna su tutti i mezzi di comunicazione. Sembra abbiano perso, se si
considerano le severe restrizioni loro imposte, ma è convinzione diffusa che nel giro di pochi anni
avranno da guadagnare con l’ampliamento del mercato assicurativo sostenuto da contributi pubblici
(Terry 2010).
La cartolarizzazione, pressione sistemica all’indebitamento
Con la trasformazione di qualsiasi credito in attività sottostante a titoli che producono
rendimenti, la cartolarizzazione incentiva all’indebitamento. La trasformazione di per sé non ha a
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che vedere con la speculazione. Consente di riutilizzare quasi subito un credito che altrimenti resta
congelato nel portafoglio di una banca fino al rimborso. Libera inoltre la banca dai limiti di utilizzo
dei depositi bancari, perché non sono più i depositanti bensì gli investitori a fornire la liquidità
necessaria per concedere crediti. Questi, però, sono interessati a farlo se traggono adeguati
rendimenti dai titoli che acquistano in cambio della liquidità che mettono a disposizione.
La cartolarizzazione fa venir meno la reciprocità del rapporto economico tra i due soggetti che
stipulano un contratto di mutuo, preliminare all’erogazione di un credito. Chi lo eroga realizza un
utile cedendo il contratto ad un terzo. Il nuovo titolare del contratto acquisisce il diritto ad essere
rimborsato dal debitore e a percepire gli interessi, nell’ammontare e nei tempi originariamente
pattuiti. Tuttavia non fa valere questo diritto, e fa confluire il mutuo, assieme a molti altri, in un
pacchetto, sulla cui base vengono emessi titoli, che sono remunerati dal flusso di denaro che origina
dal rimborso del debito e dagli interessi pagati dai mutuatari.
I rischi di una loro insolvenza, certificati dalle agenzie di rating, sono distribuiti su diverse
tranches di titoli in maniera proporzionale ai rendimenti. Il flusso di denaro garantisce in prima
istanza le tranches denominate senior, da cui gli investitori traggono rendimenti più bassi ma più
sicuri, poi quelle mezzanine e infine le junior, con rendimenti alti ma più a rischio.
L’acquisto dei titoli da parte degli investitori genera un flusso di liquidità che retroagisce
all’erogatore in un processo continuo, che rende necessaria l’esistenza di sempre nuove schiere di
mutuatari. “E’ questo l’aspetto più dirompente del nuovo paradigma della finanza globale: che il
credito non venga creato su richiesta del debitore per rispondere a precise esigenze di
finanziamento, ma su proposta insistente, spesso subdola, talvolta fraudolenta, di chi vuole a tutti i
costi prestare” (Amato e Fantacci 2009). Lungo le molteplici tappe di questo circuito che induce gli
individui ad indebitarsi, gli operatori finanziari prelevano commissioni, che coprono spese e
generano profitti, e gli investitori ottengono rendimenti.
Il sistema di cartolarizzazione è scaturito dalla pratica finanziaria, ma se ne trova l’origine in
decisioni delle autorità politiche per fornire liquidità al mercato immobiliare. Nel 1938 era stata
creata la Federal National Mortgage Association, conosciuta comunemente come Fannie Mae, per
sostenere la diffusione della proprietà della casa. Nel 1968 da una sua costola fu creata la
Government National Mortgage Association, conosciuta come Ginnie Mae, autorizzata l’anno
successivo a trasformare pacchetti di mutui, che acquistava da chi li erogava, in titoli garantiti
offerti agli investitori. Ne ricavava denaro con cui acquistava altri mutui. “I Ginnie Mae
contribuirono a collegare più intimamente l’alta finanza con il grosso pubblico della provincia”
(Millman 1996, p. 156).
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Ginnie Mae continuò ad operare come ente pubblico. Fannie Mae invece venne privatizzata e,
con lei, la Federal Home Loan Mortgage Corporation conosciuta come Freddie Mac sorta nel 1970
con le stesse finalità. Fu quest’ultima che nel 1977 iniziò a stratificare i pacchetti di mutui
immobiliari che acquistava, e ad offrire agli investitori mortgage backed securities di strati diversi
con tassi di remunerazione variabili a seconda dei rischi di insolvenza dei mutuatari. Fannie Mae la
seguì.
I titoli di Fannie Mae e Freddie Mac attrassero investitori, anche quelli esteri, poiché
offrivano rendimenti più alti dei titoli di Stato. Alla fine degli anni ’90 un terzo era in mano a
investitori esteri. “Fannie e Freddie erano diventati l’anello chiave tra il settore immobiliare
statunitense ed i mercati creditizi internazionali” (Seabrooke 2010).
“Anche se furono necessari diversi anni per sviluppare un sistema efficiente di
cartolarizzazione, coloro che originavano i mutui si accorsero rapidamente che il processo era
facilmente applicabile ad altri tipi di prestiti” (Comptroller of the Currency 1997). Dalla metà degli
anni ’80 la cartolarizzazione si diffuse velocemente. Nel 1985 venne applicata ai prestiti per
l’acquisto di autoveicoli; nel 1986 alle carte di credito. Poi, man mano, ad ogni sorta di prestiti.
“Tutti sembravano vincitori. Le banche guadagnavano commissioni per fare prestiti senza farli
pesare sui propri bilanci. Gli investitori avevano titoli che rendevano più dei buoni del tesoro e che
attingevano a gruppi diversificati di debitori” (Economist 2008).
I titoli genericamente definiti come asset backed securities (Abs) hanno assunto, a seconda
delle attività sottostanti, specifiche denominazioni; nel caso dei mutui immobiliari quella di
mortgage backed securities (Mbs). Poi, in risposta all’appetito degli investitori, dalle asset backed
securities si è passati alle collateralised debt obbligations (Cdo), titoli garantiti da Abs, che hanno
fatto la loro apparizione nel 1987, inventati dalla banca Drexel Burnham Lambert, impegnata anche
in spericolati raids su imprese quotate in borsa e poi fallita. Con la stessa logica sono stati messi sul
mercati Cdo al quadrato e Cdo al cubo, garantiti da Cdo; e Cdo sintetici, basati su credit default
swaps. Le speculazioni sui subprime hanno origine nelle piramidi di titoli eretti a fronte di una
ricchezza fittizia che allontana la visibilità del loro radicamento in redditi presenti e futuri e in beni
patrimoniali dei mutuatari (Sivini 2008).
Le carte di credito e l’appropriazione di reddito nelle transazioni di mercato
Gli istituti che emettono e gestiscono carte di credito si appropriano di reddito sottratto a chi
le utilizza. Ad ogni operazione di mercato prelevano commissioni dai commercianti, che le
scaricano sui prezzi finali. Secondo uno studio della Federal Reserve Bank of Boston, senza l’onere
di queste commissioni i prezzi finali potrebbero diminuire tra 0,15 e 0,26 per cento. Il sistema
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trasferisce inoltre reddito da chi non le usa a chi le usa, e dai consumatori a basso reddito a quelli di
alto reddito. “In media ogni acquirente che paga in contanti cede annualmente 149 dollari a chi usa
le carte, e ciascun acquirente che paga con le carte riceve 1.133 dollari da chi acquista in contanti.
(..) Circa il 79 per cento degli utili delle banche, derivanti dalle commissioni versate dai
commercianti, pesa su coloro che pagano in contanti, e in particolare sulle persone di basso reddito”
(Schuh, Shy, Stavins 2010).
Le carte di credito diventano, con l’opzione revolving, anche strumenti di indebitamento. “Ci
piace sapere di avere in tasca una linea di credito di 20 o 30 mila dollari, e siamo preoccupati per i
problemi che ci può creare questa mancanza di limiti. Le carte ci consentono di soddisfare impulsi
per acquisti folli, ma anche di comperare cose assolutamente necessarie, un mobile, una televisione,
un frigorifero. Ci aiutano a superare le crisi, ma, se non stiamo attenti, ci possono anche spingere
alla crisi” (Nocera 2008).
L’industria delle carte di credito propone sconti, riconoscimenti, premi fedeltà, offerte
speciali, carte aggiuntive. Definisce valued costumers i debitori e balance accumulation il debito
che aumenta. Nella sua strategia i rimborsi sono meno importanti che il permanere in attività delle
carte. I debiti sono infatti cartolarizzati, e i ritardi nei rimborsi generano interessi che sono una
importante fonte di ricavi per le seimila istituzioni emittenti, tra cui molte catene commerciali, e per
le diecimila agenzie locali, nonchè per Visa e MasterCard che incassano per l’uso del marchio.
Revolving è una delle forme più costose di indebitamento perché gli interessi devono coprire gli alti
tassi di default che incidono sulla cartolarizzazione di milioni e milioni di prestiti.
Il debito è un “perpetual earning asset”, aveva spiegato nel 2005 il capo del consiglio del
Controller of the Currency, osservando che 90 dei 135 milioni di card holders non lo rimborsavano
mensilmente e che, in media, restava sempre pendente un debito di 8 mila dollari per famiglia. Un
nucleo familiare giostrava con 13 carte (Zakaria 2008). “I debitori usano una carta per pagare le
altre, spostando il debito da un istituto ad un altro. Come invita una pubblicità: ‘Io utilizzo la mia
MasterCard per pagare la mia Visa’” (Williams 2004, p. 49).
Quando il mercato dei mutui immobiliari si è fermato, è aumentato il debito gravante sulle
carte, usate anche per far fronte al rimborso dei mutui ipotecari. “Una strategia senza speranza”,
incentivata dalle stesse istituzioni finanziarie (Morris 2008, p. 165). Nel 2008 i titolari di carte
revolving sono aumentati a 181 milioni; il debito medio è cresciuto a quasi 10 mila dollari per
famiglia. Le carte revolving sono diventate una ‘rete di salvataggio’ per tre famiglie su quattro di
basso e medio reddito. Prima della crisi, per tentare di ridurre il debito prima di ricorrere alle carte
di credito, metà di esse avevano acceso un secondo mutuo sulla casa, avevano cercato un secondo
lavoro, lavoravano di più (Garcia e Draut 2009).
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Per la diffusione delle carte gli istituti finanziari fanno ricorso a pratiche predatorie. Riferisce
il New York Times, di una persona appena uscita da una situazione di insolvenza alla quale "per tre
mesi ogni settimana arrivavano offerte di carte di credito e di mutui per l'acquisto di automobili, che
facevano esplicito riferimento alla bancarotta in cui era incorsa" (Stone 2008). Predatorie sono
anche le pratiche per abituare i giovani all’utilizzo delle carte di debito. Le prime le ricevono già
alle scuole superiori, ma è all’università che sono oggetto di vaste campagne di adesione. Ne sono
coinvolti gli stessi colleges. La Michigan State University aveva un contratto con la Bank of
America, da cui riceveva soldi in proporzione ai conti aperti dagli studenti e alla loro utilizzazione,
con un minimo di 8,4 milioni di dollari nell'arco di un settennio. "To get cardholder into debt" era
dunque nel suo interesse (Glater 2009a).
“Le strategie di marketing cercano di indurci ad essere irresponsabili, a farci spendere con
facilità ciò che non abbiamo”. Così, succede che ad un titolare di carta di credito arriva una seconda
carta revolving appena raggiunge con la prima un certo ammontare di spesa. “Una famiglia ha avuto
un credito non richiesto per 53 mila dollari. Un giovane da poco laureato, con uno stipendio annuo
di 3.100 dollari, ha avuto un credito di 29 mila dollari” (Williams 2004, p. 49).
I titoli realizzati con la cartolarizzazione delle carte sono ad alto rischio e rendono bene. Fino
all’agosto 2010 gli investitori potevano considerarsi protetti dal singolare potere delle istituzioni
finanziarie di modificare ad libitum, e anche con decorrenza arretrata, i tassi di interesse. “Le carte
di credito sono la sola merce il cui prezzo varia dopo che è stata acquistata. C’è qualche altra per la
quale dopo l’acquisto vi si chiede improvvisamente di pagare di più?” (Scurlock 2007). Una legge
ha posto fine a questo arbitrio nel 2009, dando la possibilità di adeguarsi entro un anno. Hanno
approfittato di questo lasso di tempo per aumentare i tassi di interesse. Nel settembre 2010 erano
mediamente del 26,01 per cento per i subprime, 15,44 per i prime, e 10,59 per i super-prime; quelli
"punitive" arrivavano al 30 per cento, mentre un tasso promozionale del 5,77 incoraggiava ad
entrare nel mondo revolving. Prima della riforma il tasso dei subprime era di 4 punti percentuali più
basso.
Nell’anno di transizione anche le commissioni che gravano su molteplici operazioni fatte con
carte revolving sono aumentate, mediamente del 35 per cento, e non solo quelle di ingresso. Il New
York Times in un editoriale ha ammonito Curbing Credit Predator (Editorial 2008), ed ha anche
denunciato una Credit Card Trap che “aveva disgustato e fatto infuriare milioni di persone”
(Editorial 2009a). Un sistema eufemisticamente definito Overdraft Protection, applicato
indiscriminatamente a tutte le carte, in un solo anno aveva generato utili per 27 miliardi di dollari.
Imponeva, al superamento della soglia del fido e senza un avviso preliminare, oneri su ogni
operazione, che, sommandosi, arrivavano ad una Small Step Back From Usury (Editorial 2009b).
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“Una banca aveva fatto pagare una commissione di 34 dollari per ciascuna delle sette operazioni,
notificando solo l’indomani che il conto era rimasto scoperto. Aveva addebitato 4,14 dollari per un
caffè e 34 dollari di commissione; 6 dollari e mezzo per un biglietto scontato di cinema e 34 dollari
di commissione non scontata; 6,76 dollari per un cacciavite e 34 dollari di commissione…” (Liber,
Martin 2009).
Con la nuova legge l’Overdraft Protection è diventata opzionale, ed è stata scelta solo dal 22
per cento degli utilizzatori. La Federal Reserve è stata incaricata di ridefinire gli oneri a carico dei
consumatori, e la coalizione di banche e di compagnie che emettono carte, persa la battaglia
sull’onda dell’indignazione pubblica contro Wall Street, è passata all’attacco riempiendo la
metropolitana e i siti internet di avvisi: “I burocrati vogliono privarti della tua carta di debito!”
(Wyatt, 2011).
L’allargamento della base sociale dell’espropriazione: i subprime
La stratificazione dei consumatori secondo criteri di solvibilità ha consentito al sistema
finanziario di realizzare un drenaggio differenziato delle loro risorse. Il sistema che la realizzava era
stato inventato da una impresa, Fair, Isaac & Company (FICO), che fin dagli anni ’50 si occupava
di metodologie di valutazione della clientela per conto di molteplici istituzioni finanziarie. Si era
concentrata sul mercato delle carte di credito, che si espandeva con un marketing martellante fatto
di milioni e milioni di offerte inviate per posta, e aveva inventato una classificazione lineare della
solvibilità che superava quella binaria (affidabile/inaffidabile) fino allora in uso. Era basata su
algoritmi che consentivano di utilizzare molteplici basi di dati per valutare ogni consumatore con un
punteggio da 300 a 850 secondo il comportamento nei rapporti creditizi, prescindendo dal reddito,
dall’occupazione, o da caratteristiche sociodemografiche.
“Questo sistema rapidamente realizzò la possibilità che le carte di credito andassero in mano
ad individui la cui propensione al rimborso poteva essere calcolata preventivamente secondo una
scala decisa da chi erogava il credito”. In precedenza cinque imprese raccoglievano informazioni
sui consumatori, per lo più a livello regionale. “Ricevevano dati da coloro che erogavano crediti, ci
aggiungevano altri dati ricavati da fonti pubbliche (...), e li distribuivano, spesso semplicemente
rispondendo a richieste telefoniche” (Poon 2007). Ne rimasero tre, Trans-Union, Equifax ed
Experian, tuttora attive, che, avendo adottato la nuova metodologia classificatoria, sono in grado di
utilizzarla per predisporre e vendere liste di consumatori.
Nei primi anni’90 Fair, Isaac & Company aveva sviluppato anche un sistema di indici
specifico per i mutui immobiliari, che venne però abbandonato, perchè Fannie Mae e Freddie Mac
avevano criteri rigidi e precisi nella selezione dei mutui da acquistare, che dovevano essere stipulati
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rispettando criteri conformino di sicurezza e concessi a debitori prime, di buona solvibilità. Nel
1995, a seguito della spinta politica ad ampliare l’accesso sociale ai mutui, finirono per utilizzare
l’indicatore FICO già esistente, fissando a 660 (invece che a 620 come per le carte di credito) il
limite al di sopra del quale il mutuo era accettabile. Assieme a Standard & Poor’s, una agenzia di
rating, ne estesero l’impiego alla cartolarizzazione. Nel 1998 la metà dei mutui immobiliari, tutti
ancora di debitori di livello prime, incorporavano nei contratti il FICO credit score; nel 2003 si
arrivò al 100 per cento.
Il loro metodo fu presto adottato dalla generalità delle istituzioni finanziarie che erogavano
prestiti, anche senza cederli a Fannie Mae e Freddie Mac. Le decisioni non erano più confinate
nell’approvare o rifiutare mutui, ma nello sfruttare la qualità dei richiedenti per imporre costi
diversificati.
“La difficoltà di valutare con precisione la qualità dei mutui (...) è la ragione per cui per
cinquant’anni c’era stata una attività debole di investimenti al di fuori del mercato lentamente
crescente patrocinato dal governo federale. Fannie e Freddie erano state un punto di passaggio quasi
obbligato per le mortgage backed securities, perchè solo esse erano in condizioni di certificare la
qualità dei mutui e dei titoli, ma la scala di valutazione, una volta adottata, fornì la possibilità di
calcolare i rischi (…). La combinazione tra FICO e agenzie di rating catapultò i subprime dall’area
specializzata di basso profilo del credito non-conforming in un fiorente mercato finanziario” (Poon
2008).
Di fronte all’esplosione dei subprime, Fannie Mae e Freddie Mac allentarono i criteri che le
guidavano nell’acquisto dei mutui, estendendoli a seconde case e ipoteche di secondo livello, senza
tuttavia impegnarsi in quelli che non erano conformi ai criteri di solvibilità. Per fare utili investirono
però non in mutui ma in titoli subprime emessi da altri, che, secondo le agenzie di rating, erano
altamente affidabili, triple A, e vennero così sommerse dalla crisi.
Al di fuori della sfera di azione di Fannie e Freddie, “lo sviluppo del mercato del credito
subprime segnò una svolta decisiva nel finanziamento della casa” (Bohner 1995). Rispetto ai mutui
convenzionali, quelli subprime vennero gravati da commissioni e interessi più alti, solo in parte
giustificati dai maggiori rischi di insolvenza. Per rispondere alla pressione di investitori che
chiedevano incessantemente di acquistare titoli ad alto rendimento basati sulla cartolarizzazione di
questi mutui, si generalizzarono i predatory loans. Pur di concludere contratti, vennero abbandonati
i criteri per il controllo dei rischi, come il rapporto tra debito e reddito e tra debito e valore
dell’ipoteca; furono raggirati i potenziali mutuatari offrendo loro di dilazionare i pagamenti più
gravosi; e furono anche imposte commissioni occulte di vario genere, e interessi più alti giustificati
dal maggiore rischio di insolvenza.
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“Fare crediti predatori è un processo che spoglia la gente della ricchezza delle proprie case”
(Bohner 1995). Questa ricchezza viene trasferita al sistema finanziario dalla catena di agenti che
concludono i contratti, di istituti finanziari che erogano i crediti, di altri istituti che cartolarizzano i
mutui, di agenzie di rating che partecipano alla cartolarizzazione, fino agli investitori che
acquistano i titoli cartolarizzati.
La campagna di mutui predatori fu facilitata dall’andamento sempre crescente, fin dagli anni
’90, dei valori immobiliari, che, a sua volta, contribuì a trasformare i mutui da strumenti per
l’acquisto della casa a strumenti per allentare la morsa dell’indebitamento. Per l’80 per cento si è
trattato di second mortgages, mutui ipotecari secondari per far fronte al rimborso del primo mutuo e
ad altre esigenze. L’ipoteca di secondo grado consentiva al sistema finanziario di drenare altro
reddito. La percezione di questa spogliazione era attutita dal continuo aumento del valore di
mercato dell’abitazione, rispetto al quale l’aumento dell’indebitamento era però ancora più alto.
Così, fino allo scoppio della bolla dei mutui subprime (Sivini 2008).
La casa, non più il luogo di clausura della famiglia fordista, aveva acquisito in questa fase il
volto nuovo di una risorsa di sicurezza, da cui era possibile estrarre ricchezza in caso di necessità;
per questo, non ostacolava la mobilità. Il suo valore cresceva, e poteva essere ipotecata più volte, o
poteva essere rivenduta per acquistare un’altra altrove. Per riscattarla, bisognava inseguire il posto
di lavoro e lavorare di più.
L’utilizzazione dei FICO score non si è fermata al credito. Da quindici anni viene utilizzata
dai datori di lavoro come criterio di assunzione, nel 2009 da 6 su 10 (SHRM 2010). E’ una
procedura autorizzata dalla legge federale, anche se alcuni Stati impongono restrizioni. Gli studi
hanno dimostrato che non c’è relazione diretta tra prestazioni lavorative e cattivo comportamento
nel credito, semmai una inversa, e non è nemmeno dimostrato che serva a prevenire eventi
fraudolenti. Eppure “non ti è possibile riaggiustare il tuo credito se non trovi un lavoro, e non puoi
trovare un lavoro se hai cattivo credito” (Glater 2009b).
La finanziarizzazione della povertà
Un’ampia area sociale si sottrae alla classificazione per solvibilità e rischio. Si tratta di gran
parte degli oltre 46 milioni di persone che nel 2010 sono al di sotto del livello ufficiale di povertà;
di queste, quasi un terzo in miseria. Altri 54 milioni sono in condizioni di quasi povertà.
Un numero crescente di persone, e in particolare di anziani, fa riferimento per molteplici
necessità a quello che viene definito sistema finanziario ‘alternativo’. Gli alternative financial
service providers sono diffusi nelle zone più povere, “dove una parte significativa della popolazione
non è qualificata per accedere a forme di credito più convenzionali e meno costose” (Prager 2009).
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Dagli anni ’90 questa rete si è estesa e consolidata “per esercitare un credito predatorio nei confronti
dei poveri” (William 2004, p. 92). Più si diffonde la povertà, maggiori sono gli utili realizzati in
questo circuito. Derivano da piccoli prestiti per brevi periodi, su cui gravano commissioni che si
aggirano sul 300 per cento annuo.
Un tempo tutti gli Stati avevano stabilito per legge le soglie di usura per i crediti al consumo.
Attualmente alcuni hanno completamente deregolamentato, altri hanno diversificato le soglie,
tutelando solo alcune categorie come i giovani o le famiglie di persone in servizio militare. Le
norme restrittive valgono in genere solo per gli operatori che hanno sede all’interno dello Stato; se
la collocano in uno di quelli che hanno liberalizzato le norme vengono evase.
Coloro che erogano i prestiti fanno spesso capo a gruppi finanziari quotati in borsa, e,
direttamente o indirettamente, sono collegati con le grandi banche. Le modalità con cui operano
hanno a volte remote origini in pratiche informali, ora realizzate entro strutture moderne e facciate
rispettabili. Offrono denaro o beni mobili a tassi usurari a chi ne ha bisogno, a chi non ha possibilità
di giostrare con le carte di debito, a chi per piccoli importi non vuol pagare le commissioni di
scoperto su queste carte. Sono prestiti di breve durata (payday loans), su pegno di beni mobili
(pawn loans) e su pegno della carta di circolazione automobilistica (auto-title loans); sono servizi di
incasso di assegni e di crediti di imposta (check cashing outlet); sono carte prepagate e secured
cards; sono vendite basate su leasing (rent-to-own). Ci sono imprese e negozi specializzati in un
solo servizio, altri che li combinano assieme.
I payday loans providers offrono finanziamenti per ogni situazione: ‘fast cash, fast service,
fats solutions to money problems’ (Witehead 2008). Ogni mese 15 milioni di persone si rivolgono
ad essi, per avere piccoli prestiti – da 100 a 2500 dollari – per qualche giorno o qualche settimana.
Li ricevono istantaneamente se dimostrano di avere un conto bancario, e una residenza. Devono
restituirli insieme ad interessi che si aggirano sul 300-400 per cento annuo, ma arrivano anche a
mille. Per coprire il debito rilasciano un assegno in bianco che viene avviato all’incasso se la
somma non viene restituita. Chi si indebita cade spesso in una debit trap perché rinnova più volte il
credito, o fa molte transazioni payday all’anno.
Negli anni ’90 sono sorti i payday shops. Sono ora oltre 24 mila - “più che tutti i McDonald’s
e i Burger King” (Rivlin 2010), con una offerta complessiva, nel 2006, di credito a breve per 25
miliardi di dollari. Il 75 per cento sono piccoli, ma operano anche imprese multinazionali come
Dollar Financial Group, First Cash Financial Services, Provident Financial, collegate a grandi
banche di cui utilizzano linee di credito e licenze operative. Qualche operatore agisce da centri on
line fuori dagli Stati Uniti. L’attività è in piena espansione, e la storia di Advance America che in 10
anni ha aperto centinaia di shops, mostra che gli utili sono rilevanti. “Nonostante la crisi che ha
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colpito il globo con i subprime, il payday lending ha avuto un 2009 robusto, almeno negli stati in
cui può operare liberamente. I profitti di Advance America, al netto dalle tasse, sono saliti di più del
40 per cento rispetto al 2008 (...). Le insolvenze sono aumentate ma anche il traffico, e le entrate
per punto di vendita sono aumentate” (Rivlin 2010).
Con la crisi, la percezione che i payday loans avessero carattere speculativo è cresciuta. In
Ohio, uno dei mercati più forti, il voto popolare ha imposto il limite del 12 per cento annuo sugli
interessi; in Arizona la stragrande maggioranza ha votato per vietarli, e in Oregon e New Hampshire
sono stati i parlamenti statali a decidere nello stesso senso. “Non capisco che cosa sia successo per
farmi diventare improvvisamente il diavolo”, ha dichiarato il proprietario di Advance America
(Rivlin 2010).
Prestiti pressocchè istantanei per brevi periodi sono erogati dagli auto-title lenders che
chiedono in pegno la licenza dell’autovettura. E’ una soluzione di emergenza per chi non ha un
lavoro, non ha un conto bancario, non ha una carta di credito. Quel che conta è la valutazione della
autovettura, rispetto alla quale ottiene una frazione del valore. L’interesse si aggira sul 300 per
cento annuo. Molte piccole finanziarie se ne occupano, anche su siti internet. In alcuni stati
comportano la registrazione elettronica di una ipoteca. “Per il creditore è una situazione win win. Io
non sono per niente favorevole ai payday loans, ma devo dire che sono meglio che perdere
l’automezzo” (Wiki Answers s.d). Per molti, tuttavia, è la sola soluzione per ottenere un prestito, a
meno di non avere qualche altro bene da dare in pegno.
Il pawn lending è praticato da molti piccoli imprenditori locali e da alcune grandi imprese che
hanno sedi moderne e ben attrezzate in grandi e piccoli centri. I pawn shops sono tra 10 e 15 mila;
le prime quattro imprese ne controllano 1400. La più importante, Cash America International è
quotata in borsa ed ha tra i suoi azionisti un gruppo di grandi banche. Si è particolarmente
impegnata nel marketing per migliorare l’immagine del pegno. I suoi profitti sono in espansione.
Con la crisi la clientela si è differenziata: non più solo poveri e working class, ma ceto medio e
anche piccoli commercianti in difficoltà.
Nei pawn shops delle grandi catene la valutazione dei beni viene fatta in maniera
standardizzata con sistemi computerizzati. Il prestito varia dal 25 al 65 per cento del valore; può
essere di piccola entità ma può trattarsi anche di beni costosi. Un pawn shop ha allargato il credito
fino ad accettare in pegno camions ed escavatori. Vi ricorrono piccoli imprenditori che “in queste
condizioni economiche fanno fatica ad essere pagati” (Emerson 2009). Di norma i prestiti devono
essere restituiti nel giro di un mese, e sono rinnovabili ripagando la commissione, che ammonta fino
al 300 per cento annuo, a seconda degli Stati. Trascorso uno o due mesi senza rinnovo, il bene dato
in pegno viene venduto.
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I check cashing outlets sono luoghi dove “puoi pagare un conto, inviare soldi in pochi minuti
in tutto il mondo, riempire un modulo e incassare rapidamente un credito d’imposta, riscuotere un
assegno quando ricevi i soldi dello stipendio o della Social Security”: è la bank for the unbanked
(Williams 2004, pp. 98-9). Il core business è occuparsi dell’incasso di assegni, dietro una
commissione proporzionale al valore. Vi ricorre chi, per vari motivi, non ha un conto bancario o
non è in grado di accedervi perché il conto è scoperto; chi non ha una carta di debito o non può
usarla; chi è immigrato ma non regolarizzato; chi incassa e spedisce parte del denaro incassato. Per
ottenere i servizi bisogna pagare una quota associativa, oltre alle commissioni per le operazioni. Ce
ne sono 15 mila, un terzo dei quali in mano a nove grandi imprese. Vi ricorrono 30 milioni di
persone. American Cash Express è una catena quotata in borsa, sostenuta da American Express e da
Western Union. Nel mercato è entrata anche Wal-Mart con i suoi 3 mila grandi magazzini.
Un working paper della Federal Reserve Bank of Philadelphia del 2002 prevedeva che questo
sistema di servizi avrebbe chiuso nel giro di un decennio in conseguenza della diffusione delle carte
di credito, delle check-cashing machines, e del payday lending (Caskey 2002). Si è verificato
l’opposto. I negozi si sono dotati di macchine automatiche e di collegamenti elettronici ed hanno
ampliato i servizi. American Cash Express, il principale proprietario di check cashing stores, offre
payday e auto-title loans. Dollar Financial Corporation, una multinazionale quotata in borsa che
opera in diveri paesi, ha annunciato risultati record per il 2010. Financial Service Centers of
America, l’associazione che rappresenta circa la metà degli operatori, ha speso nel 2010 oltre mezzo
milione di dollari in attività lobbistiche per sostenere il settore quando il parlamento discuteva la
revisione delle norme di tutela dei consumatori.
Rent-to-Own è il principio operativo di una rete costituita da decine di società locali, che
agiscono anche in franchising. Fanno capo all’Association of Progressive Rental Organization, che
nel 2010 ha un giro di affari di 7 miliardi di dollari con 6 milioni di clienti e con 8.600 magazzini.
Si occupa di forniture per la casa dietro pagamenti rateali settimanali o mensili ad alti tassi di
interesse. Si può avere un televisore che sul mercato vale 220 dollari versando 10 dollari a
settimana per 78 settimane, un totale di 780 dollari; chi non salda il debito lo deve restituire.
Formalmente è un leasing, non una vendita, e così vengono aggirati, dove esistono, i limiti
dell’usura. “Le condizioni sono attrattive per molti consumatori che non dispongono di mezzi per
acquistare in contanti, non sono in grado di qualificarsi per il credito, e non vogliono o non possono
aspettare di risparmiare per fare l’acquisto” (FTA 1999).
Le prepayd cards e le secured cards sono strumenti messi a punto per le persone che si
avvalgono dei servizi finanziari ‘alternativi’. Le carte ‘prepagate’ sono emesse da imprese che
utilizzano spesso il logo di Visa, MasterCard e Discovery. Il governo federale ha deciso di
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utilizzarle per caricare gli assegni di Social Security di coloro che non hanno un conto in banca.
Wal-Mart ha annunciato che farà lo stesso per i dipendenti in condizioni analoghe. Le associazioni
dei consumatori hanno chiesto un controllo sulle commissioni che le finanziarie prelevano su queste
carte.
Conclusioni
La traslazione del salario differito e del risparmio in liquidità che, nella continua ricerca di
rendimenti, drena risorse dall’economia reale e si pone al servizio della finanza speculativa è
all’origine dell’espansione finanziaria. La liquidità continua ad essere raccolta molecolarmente con
una grande varietà di strumenti specifici che, remunerandone i rendimenti, lavora per espanderla.
“La razionalità finanziaria è penetrata progressivamente nei comportamenti, i meccanismi e le
strutture delle nostre società, trasformandole” (Dembinski 2008, pp. 16-17), facendo della
finanziarizzazione un principio di organizzazione sociale.
Il capitale sfrutta il lavoro salariato nei processi di produzione, e si appropria delle sue
condizioni di riproduzione per espandere un potere finanziario che, libero dall’antagonismo che
caratterizzava il fordismo, ridetermina continuamente le condizioni dello sfruttamento. Il nesso tra
accumulazione materiale in cui il capitale si valorizza e l’espansione finanziaria in cui accresce il
suo potere al di la di quel che valorizza, è dato dai processi di dispossession.
I governi e le banche centrali si adoperano per ristabilire la liquidità che affermano necessaria
per riavviare l’attività produttiva. Tuttavia la liquidità si nutre incessantemente di altra liquidità, e la
stessa accumulazione materiale non riprende se non si espandono anche i rendimenti finanziari
(Sivini 2011). Processi di incessante dispossession sono necessari per traslare ricchezza materiale in
liquidità, comprimendo i livelli di sussistenza del proletariato. Li realizzano le politiche economiche
e fiscali sotto la spinta dei grandi investitori che, controllando il debito pubblico, ne determinano il
costo che i governi riversano sulla collettività. Il sistema finanziario drena invece risparmi,
patrimoni, redditi presenti e futuri, con gli strumenti che ho esaminato e che sono ormai assunti
come elementi invarianti e persino necessari della quotidianità, non soggetti a controversie, ma,
tutt’al più, ad aggiustamenti regolativi.
La situazione esaminata riguarda gli Stati Uniti, ma è parte di un percorso avviato da tempo
anche in Europa e in Italia, non ancora arrivato agli estremi della dipendenza diretta dal sistema
finanziario di momenti essenziali della vita quotidiana, lo studio, la salute, la vecchiaia.
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