I.I.S. L. Luzzatti,
via Perlan 17, Mestre (Gazzera)
Blog: http://quaderni­glev.blogspot.it/
Casella di posta elettronica: [email protected]
Comitato di redazione:
Barbara Bertin, Chiara de Manzano, Lucia Oldrati, Claudia Rispoli,
Nicola Tonelli.
Hanno collaborato a questo numero:
Marco Gallizioli, Maria Locane.
Si ringrazia per i loghi e per la grafica:
Federico Fragapane
Chi volesse contribuire con articoli originali può inviare il materiale
alla casella di posta elettronica [email protected]
INDICE
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Presentazione
di Barbara Bertin
Sezione Job
La moda di casa nostra: una meravigliosa forma
d’arte dove torna a splendere il sole
di Lucia Oldrati
Sezione Didattica
Viaggiare col portfolio sempre in tasca
di Maria Locane
Sezione Letteratura ­ Multietnica
L’altro Mediterraneo: viaggio tra culture e mondi
letterari
di Marco Gallizioli
Libriamoci
di Claudia Rispoli
Curiose disquisizioni sul numero zero
di Nicola Tonelli
Sezione Rapporti con il territorio
Un viaggio della città nella città
di Chiara de Manzano
pag. 5
pag. 9
pag. 15
pag. 22
pag. 28
pag. 34
pag. 41
Presentazione
QuaderniGLEV: un viaggio a tappe nel mondo dell’Istituto Luzzatti
di Barbara Bertin
Quaderni GLEV è una rivista semestrale nata dall’iniziativa di un gruppo di
docenti dell’Istituto che hanno dato vita a un vero e proprio comitato di
redazione. Sfogliando le sue pagine il lettore viene accompagnato in un
viaggio all’interno della nostra scuola, attraverso una finestra diversa di
comunicazione con l’esterno.
L’obiettivo, ambizioso, è di far emergere, da uno sfondo valoriale condivi­
so, le identità multiple che animano l’Istituto.
La rivista offre un’inedita opportunità di un dialogo con il territorio, con la
quale la scuola può affermare in modo deciso il proprio ruolo di agenzia
culturale ed educativa, che del territorio è parte integrante. Interazione e
integrazione costituiscono i due poli attrattori di un processo virtuoso bi­
direzionale. E’ curioso che la differenza tra i due termini stia in una ‘g’in
più o in meno. Interagendo si produce integrazione; l’integrazione è la base
di un’interazione positiva.
E’ sicuramente un bene che la scuola si faccia conoscere utilizzando una
modalità non consueta, un progetto editoriale che segue e accompagna la
vita quotidiana dell’Istituto per rendere noti i pensieri, le idee, le attività. Il
proiettarsi verso l’esterno (e il termine “progetto” ha in sé l’idea di gettare
qualcosa in avanti) è utile per chi nella scuola opera: ampliare la visione
oltre i muri dell’edificio scolastico, stabilendo un contatto con ciò che
accade sul territorio, favorisce il superamento dell’autoreferenzialità e la
riflessione sull’idea che ogni cultura è permeabile, porosa, dinamica, in
quanto si modifica in un processo di ibridazione continua attraverso il con­
tatto con esperienze, materiali e immateriali, e culture altre.
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Il titolo
Il quaderno, da sempre, è associato con l’idea di scuola. Tuttavia, ha anche in
sé le caratteristiche del taccuino di viaggio e del diario. Infatti, il taccuino è lo
strumento sul quale il viaggiatore annota impressioni, riflessioni, idee estem­
poranee per fissarle nel momento stesso in cui gli appaiono nella mente. Il
diario, invece, è un racconto, “fedelmente soggettivo”, scandito ad intervalli di
tempo regolari. Ed ecco, quindi, che il quaderno lega la scuola al viaggio, in
questo caso un viaggio nel mondo dell’apprendimento e dell’insegnamento.
GLEV è un acronimo già utilizzato in uno dei tanti progetti di cui l’Istituto
è promotore, “Impresa in Azione”. Deriva dai nomi degli Istituti che lo
compongono, Gramsci, Luzzatti, Edison­Volta, e sta ad indicare la diversi­
tà nell’unità, una diversità che si propone come un valore aggiunto all’in­
terno di una condivisione di valori e di obiettivi.
Le sezioni
La rivista si articola in quattro sezioni, Job, Didattica, Letteratura ­Multietnica,
Rapporti con il territorio. Nel loro insieme sono state concepite per far emer­
gere le peculiarità dell’artista e dell’artefice che risiedono in ognuno di noi.
Job: abbraccia il mondo del lavoro e delle professioni, con un occhio atten­
to agli sbocchi che il territorio e la società, in continua evoluzione,offrono
agli studenti.
Didattica: raccoglie contributi ed esperienze d’aula o maturati in percorsi
extracurricolari. Si configura come un cassetto da cui estrarre buone prati­
che da trasferire nel proprio contesto.
Letteratura ­ Multietnica: fa leva sulla componente artistica dei docenti,
che si possono misurare con la scrittura creativa, aprendo l’orizzonte verso
luoghi multiculturali, in cui l’incontro con l’altro innesca un viaggio inte­
riore verso la conoscenza di sé.
Rapporti con il territorio: un polo tecnico­professionale come il Luzzatti
deve sempre e comunque mettersi in relazione con il territorio su cui insi­
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ste. La sezione, quindi, è pensata per ospitare contributi tesi all’analisi del­
l’ambiente circostante, delle opportunità che offre nei diversi ambiti, nel­
l’ottica di uno scambio dinamico tra il mondo della formazione culturale e
quello della formazione in tutti i contesti della vita.
Prima tappa: Il Numero Zero – Liberi di viaggiare
Ogni numero ha un filo conduttore che attraversa idealmente tutti i con­
tributi. Il viaggio è un topos letterario, come è noto. Nel corso della nostra
vita siamo sempre in viaggio, concretamente e metaforicamente. Viaggiare
significa conoscere, conoscere significa confrontarsi, confrontarsi significa
ammettere il cambiamento e la crescita. Viaggiare vuol dire mettersi in
gioco, quotidianamente. E il viaggio diventa tanto più appagante se non ha
vincoli né costrizioni, se consente la navigazione libera, l’approdo su terre
inesplorate. Questo Numero Zero, dunque, è l’inizio di un viaggio a tappe,
nel quale i docenti sono contemporaneamente instancabili sherpa ­ accom­
pagnatori e portatori di alta quota – ed esploratori.
Gli articoli
Sei sono i contributi che animano la prima tappa.
La sezione Job è resa viva da un viaggio nel futuro che attraversa il
mondo della moda di casa nostra. “Sistema Moda” è il nuovo indirizzo tecnico
che il nostro Istituto, unico sul territorio provinciale, ospiterà dal prossimo
anno scolastico, con l’occhio rivolto a Marghera dove sorgerà la cittadella della
moda, progetto di ampio respiro di un veneto trapiantato in Francia, Pierre
Cardin.
La sezione Didattica accoglie il viaggio di un cittadino con il suo baga­
glio di esperienze che devono trovare il giusto riconoscimento nella realtà lavo­
rativa e sociale. Viene quindi proposta una riflessione sull’apprendimento che
dura lungo tutto l’arco della vita e si esplica in tutti i contesti della vita, discu­
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tendo su una questione nodale che coinvolge l’istruzione degli adulti, l’accre­
ditamento delle competenze acquisite in ambito non formale e informale.
La sezione Letteratura ­ Multietnica ospita un viaggio attraverso le
acque del Mediterraneo, luogo di incontro / scontro tra culture ed esperienze
diverse, diverse prospettive e diverse concezioni del mondo. Il Mediterraneo
è un luogo di separazione profonda, assoluta, inciso da “una invisibile, ma
potentissima faglia culturale”? Potranno la conoscenza e l’incontro, il viaggio
attraverso la diversità culturale, avvicinare i lembi della ferita?
Presenta, quindi, tre recensioni di libri, tutti costruiti attorno al tema del
viaggio, raggruppate sotto il titolo eloquente “Libriamoci”. Viaggio è anche
qui sinonimo di libertà, incontro, tessitura di legami, ma anche fuga, per­
dita e ritrovamento.
Vi è infine un viaggio nel tempo, sulle tracce storiche del numero zero, per­
correndo un itinerario oltre la matematica, attraverso i secoli e i popoli, per
giungere ai nostri giorni, quando lo zero non è “più voto e inconcrudente
come recita Trilussa ma rispettato e ricercato come dice Rodari”.
L’ultima sezione, Rapporti con il Territorio, ci offre un inedito viaggio che
si snoda attraverso il labirinto reale e figurato di una città dentro la città, il car­
cere di Venezia, che è stato oggetto di un progetto formativo dal titolo “Oltre
l’@urora”. Si tratta di un viaggio educativo per ridurre “percorrendole, quelle
enormi distanze che si creano tra noi e realtà vicine ma quasi invisibili”, per
scoprire l’altro e attraverso questa scoperta conoscere e ri­conoscere se stessi.
E ora, con l’augurio di una buona lettura, non resta che ringraziare
Federico Fragapane che con la sua creatività artistica ha realizzato i loghi
per la rivista, permettendo di renderla facilmente identificabile, e i docen­
ti che hanno collaborato a questo numero zero, dedicando tempo e entu­
siasmo perché il viaggio inizi.
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Sezione JOB
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La moda di casa nostra: una meravigliosa
forma d’arte dove torna a splendere il sole
di Lucia Oldrati
Il termine moda deriva dal latino modus, che significa maniera, norma,
regola, tempo, melodia, ritmo, tono, moderazione, guisa, discrezione.
La moda ­ detta anche storicamente costume ­ nasce solo in parte
dalla necessità umana di coprirsi; in realtà l’abito assunse anche preci­
se funzioni sociali, atte a distinguere le varie classi, le mansioni e i
ruoli.Dal XIX secolo iniziano a distinguersi i primi stilisti, che creano
nuovi tagli, nuove stoffe e nuovi canoni nel modo di abbigliarsi; anche
nella moda il “fattore uomo” è l’elemento fondamentale, imprescindi­
bile di tutto il sistema e questo si esprime attraverso la creatività.
E’ ormai acquisito che ai giorni nostri la moda è qualcosa che agisce tra­
sversalmente, il gusto per il trasformismo, la metamorfosi e il voler
mostrare ad altri, procedono parallelamente come espressione della cul­
tura dell’individualismo. Gli abiti possono servire a nascondere lati della
personalità che non si vogliono far conoscere o, viceversa, a mostrarli.
Il presidente di Sistema Moda Italia, Michele Troncon, ha fatto pre­
sente che nel 2010 i dati Istat sull’ andamento della bilancia commer­
ciale italiana parlavano di un deficit record di 27,3 miliardi di euro
ma, nel calo generale dei diversi settori, spicca il positivo andamen­
to del Made in Italy (dall’abbigliamento alla pelletteria), con il suo
saldo di +11,7 miliardi di euro. Un settore che per la nostra economia
resta strategico, con 48,4 miliardi di euro di fatturato.
La crisi finanziaria degli ultimi anni ha avuto ripercussioni anche nel
settore moda; finalmente dopo un periodo di crisi le sfilate di febbra­
io 2012 a Milano Unica hanno visto crescere la presenza dei buyer
Usa e un boom di cinesi e di brasiliani.
Ci auguriamo che il Governo Monti sostenga la crescita del settore
intraprendendo un’azione politica forte e senza tentennamenti pres­
10
so l’Unione Europea per il varo della legge che tuteli il Made in Italy;
questo potrebbe rafforzare e salvaguardare la creatività italiana nota
in tutto il mondo.
Nel 2010 il fatturato della tessitura ha registrato un incremento
dell’11,8% rispetto al 2009; se confrontato con il 2008 siamo a ­16%,
ma tutto fa pensare ad un rapido recupero. La sfida è tornare ai livel­
li pre­crisi. Gli ordinativi del tessile per il primo trimestre di quest’an­
no già superano il 10% e non sono rari i casi in cui la crescita è addi­
rittura del 20%. Indicazioni confermate dai dati Istat su fatturato e
ordinativi dell’industria italiana, dove il comparto moda fa meglio
della media, con un +25,5% degli ordini (quasi il doppio del +13,9%
medio dell’industria nazionale) e un +11,9% del fatturato (+10,1% la
media). A trainare ordini e fatturato italiani (rispettivamente +21,2%
e +16%), è l’export soprattutto del tessile, il settore che anticipa l’an­
damento di tutta la moda. Milano Unica ha segnato +12% di presen­
ze straniere, con il dato boom dei visitatori cinesi, quasi 300% più del­
l’edizione precedente, seguiti da brasiliani (+60%), coreani e russi
(+43%) e americani (+23%). Le nostre aziende stanno spingendo sul­
l’acceleratore dell’internazionalizzazione. Attualmente il settore
moda, che si attesta intorno al 60% di esportazioni, dimostra di avere
sicuramente margini di crescita importanti sui mercati mondiali e
l’attenzione dimostrata dai buyer internazionali lo conferma. Il mer­
cato interno invece non dà ancora segnali di crescita. Una speranza
potrebbe essere rappresentata dal progetto dello stilista Pierre Cardin
che, se diventerà realtà, vedrà per la prima volta realizzare un gratta­
cielo laddove ci sono state solo fabbriche: 245 metri di altezza, 60
piani, 5 mila nuovi posti di lavoro nel mondo della moda, dei servizi,
totalmente ecologico. Un aspetto importante è la decisione della
giunta regionale del Veneto, che il 20 marzo 2012 ha dichiarato il
Palais Lumière un progetto di interesse regionale. La città della moda
sorgerà praticamente in riva alla darsena del canale industriale Ovest,
nel cuore antico di Porto Marghera, a due passi da via Fratelli
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Bandiera, da Mestre e, in linea d’aria, dal Vega.
Mai come in questo momento è necessaria una strategia di comuni­
cazione che sappia proporre, oltre alla qualità del prodotto e al valo­
re aggiunto del brand, dei riferimenti nei quali il consumatore si
possa ritrovare, per esempio legati ad uno specifico territorio, nel
nostro caso le calzature della Riviera del Brenta.
La centralità del consumatore, nelle politiche sia di ricerca del pro­
dotto come nell’elaborazione delle politiche di comunicazione, rap­
presenta sicuramente l’evoluzione del mercato. Questo è tanto vero
quanto più si va verso un mercato di gamma alta dove il Made in Italy
è un invincibile valore aggiunto; nello stesso tempo però anche l’uti­
lizzatore finale risulta essere decisamente evoluto, quantomeno nelle
società occidentali; un esempio è rappresentato dall’alta moda, che
altro non è che la capacità di pensare cose uniche. Oggi c’è una nuova
generazione di clienti internazionali alla ricerca di qualcosa di segre­
to, nascosto e unico, quasi irripetibile, il lusso vero.L’alta moda è la
colonna vertebrale della moda in generale, è un bellissimo laborato­
rio di ricerca, di fantasia, di estremi dove si vedono delle tecniche che
non si potrebbero mai utilizzare nell’industria, queste sperimentazio­
ni si possono effettuare soltanto negli atelier.Le aziende a forte appe­
al, per esempio, con un brand di immagine internazionale stanno
investendo nella distribuzione diretta attraverso punti vendita mono­
marca situati in location a forte valore aggiunto, esempio Moncler a
Parigi. Tale scelta è possibile solo per quelle imprese che rappresen­
tano il vertice del Made in Italy, si pensi a Prada, Versace e buona
parte delle griffes italiane o che hanno puntato sulle reti di franchi­
sing la propria politica commerciale, vedi il Gruppo Benetton.Queste
aziende di notevoli dimensioni e diversificazioni di gamma hanno
delocalizzato in paesi a basso costo di manodopera senza riversare le
economie di costi sui prezzi finali, opportunità colta dal gruppo Zara
che ne ha fatto una filosofia vincente allestendo presso i grandi stores
internazionali e supermercati degli Shop in Shop che permettono al
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prodotto, alla collezione ed al brand di acquisire una propria visibili­
tà rendendolo in questo modo facilmente individuabile e raggiun­
gibile attraverso un percorso diretto e guidato.
Ma veniamo alle opportunità di lavoro che vengono offerte ai giovani in
questo settore: dall’indagine Excelsior di Unioncamere del primo trime­
stre del 2012 possiamo notare che le difficoltà nel reperire i profili deside­
rati risultano particolarmente rilevanti nel settore moda dove riguardano
8 figure su 10, si auspica quindi un incremento degli iscritti nelle scuole
esistenti nel nostro territorio che possano fornire tale preparazione.
Ecco che si aprono nuove opportunità per gli studenti che si affac­
ciano alla scuola secondaria di secondo grado: la possibilità di diven­
tare tecnici della moda…. Quale meravigliosa opportunità per un
futuro in salita, tra modelle e passerelle avranno l’opportunità di
conoscere in anteprima le news dei più grandi stilisti, impareranno
a creare e promuovere un evento, respireranno la creatività per non
parlare anche dell’internazionalità che questo mondo racchiude.
La moda da sempre ha creduto nei giovani, incoraggiando chi si è
proposto con novità a dir poco strabilianti, a volte anche troppo fan­
tasiose ma che hanno contribuito a distruggere i vecchi schemi di
utilizzare i tessuti e i colori e poter ricostruire una dimensione nuova
senza condizioni, libera da catene. La società insegna spesso l’unifor­
mità, molti si adeguano e vestono in un certo modo perché la socie­
tà nella quale vivono li apprezza se sono così, solo chi respira moda
“vera” è capace di infrangere vecchie abitudini, osare con tessuti e
colori. Inventare fantasie ti fa sentire vivo, non ti puoi fermare, devi
sempre cambiare, creare, non farai mai la stessa cosa perché potresti
essere travolto dagli innovatori. La moda non vuole te, vuole solo la
tua capacità di innovazione ed efficienza. Mentre la società cerca di
cambiarti standardizzando i tuoi comportamenti, le abitudini di
vita, i cibi, la moda si muove esattamente al contrario, innovazione
e creatività sono le chiavi per entrare in questo mondo.
Detto questo vediamo qual è la tendenza per la prossima primavera?
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Per capirlo, basta aggirarsi tra gli stand di negozi quali Zara, H&M che
rappresentano perfettamente il fast fashion: una sola declinazione di
colore, il bianco virginale, immacolato e puro ma dalle seducenti tra­
sparenze. Non mancheranno però i colori, sgargianti o pastello, gli
abbinamenti saranno a contrasto, lo street style sempre più richiesto,
vestire informale, per chi deve uscire presto di casa per recarsi al lavo­
ro ma vuole vestire con stile.Il vero must have tra letendenze moda
primavera estate 2012 è il tailhem, una gonna lunga dietro e corta
avanti, un modello molto particolare e decisamente sensuale.
Sentiamoci liberi di scegliere secondo il nostro stile senza farci condi­
zionare, forti della nostra personalità, viaggiamo con la fantasia senza
costrizioni, dobbiamo essere consapevoli che non sempre quello che
fa tendenza è il modello adatto a noi, valorizziamoci anche con ciò che
indossiamo, non necessariamente dovrà essere costoso ma adatto al
nostro corpo e inserito nel nostro stile per poter dire “mi voglio bene”!
Il Palais Lumière
Lucia Oldrati ha conseguito la laurea in Economia Aziendale presso l’università
Ca’ Foscari di Venezia, insegna dal 1984 all’I.I.S. Luzzatti di Mestre Informatica e
Applicazioni gestionali.
Dal 2011 ricopre la carica di RegionalTeacher per il Veneto per conto di Junior
Achievement di Milano, occupandosi di sviluppare progetti d’impresa all’interno
delle scuole.
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Sezione Didattica
15
Viaggiare col portfolio sempre in tasca
di Maria Locane
La questione è la predisposizione di un modello/strumento di accre­
ditamento condiviso e condivisibile a livello nazionale ed europeo; e
per fare questo, diventa necessario stabilire e riconoscere livelli di
standard riferiti ai settori produttivi e alle figure professionali, con lo
scopo di favorire: una riqualificazione mirata, parallelamente al rico­
noscimento di crediti, per dare un’idea chiara e oggettiva di “ciò che
una persona sa già fare” e in “quale direzione bisogna invece muo­
versi”; la predisposizione di percorsi specifici in base ad esigenze
individuali (secondo il concetto di piano personalizzato); l’integra­
zione con il territorio; la trasferibilità di conoscenze e abilità in
campi esperienziali nuovi e diversi; la mobilità e la spendibilità; l’ap­
prendimento permanente.
Se è vero che l’apprendimento è lifelonglearning, allora la certifica­
zione delle competenze, per essere significativa, deve essere gradua­
le…continuativa…permanente e deve rilevare gli apprendimenti for­
mali, non formali, informali (esperienziali).
In quest’ottica, e soprattutto riconoscendo l’importanza dell’intera­
zione e dell’integrazione con il proprio, diventa fondamentale indi­
viduare, riconoscere, valutare, convalidare gli apprendimenti e le
competenze acquisite in contesti diversificati, ricordando anche che
l’apprendimento non ha età e il percorso formativo è per sempre.
La Commissione Europea e i ministri dell’istruzione dell’UE indica­
no le linee guida per una ricostruzione del “quadro delle competen­
ze acquisite” dall’individuo in contesto di apprendimento formale,
informale, non formale, ma l’autonomia delle Regioni ha seguito le
tracce delle Istituzioni Scolastiche per rilevare le competenze degli
studenti: ha cioè occasionalmente creato e sperimentato procedure
di convalida diversificate a tal punto da non riuscire a stabilire nem­
meno dei punti su cui operare un confronto.Infatti, tra i tanti model­
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li, (sistemi e procedure), sperimentati per il riconoscimento, la vali­
dazione e la certificazione delle competenze a livello nazionale ed
europeo, emergono i seguenti punti di criticità: definizione degli
standard professionali da certificare; definizione di dispositivi di certi­
ficazione (commissioni, certificati); attivazionedi procedure condivise
per il riconoscimento delle competenze”. (daMetodologie innovative e
accreditamento delle competenze).Da qui, la necessità di formalizza­
re e istituzionalizzare dispositivi e sistemi di certificazione e valida­
zione degli apprendimenti.
In Italia non esiste ancora un metodo di valutazione condiviso oltre
al fatto che non esiste un quadro nazionale di riferimento, e il qua­
dro nazionale delle qualifiche (NQF), che mira ad una formazione
maggiormente rispondente alle esigenze di mercato e accreditabile a
livello europeo, è ancora in fase di sviluppo.
C’è da dire che dopo il Decreto Ministeriale n. 174 del 2001,
“Certificazione del Sistema Professionale”, che afferma l’importanza
della certificazione delle competenze individuali in termini di titoli
e qualifiche, in Italia parte la sperimentazione del “Libretto
Formativo del Cittadino”, documento ufficiale approvato nel 2005,
atto a registrare le competenze acquisite in situazioni formali, non
formali e informali. Tale “Libretto” è conosciuto come Portfolio delle
Competenze, una sorta di diario che può raccogliere in modo gra­
duale e significativo titoli, attività, stili di apprendimento, esperien­
ze, qualifiche … tutto ciò che merita di essere registrato e, quindi,
riconosciuto. Questo strumento nasce nel mondo del lavoro per
selezionare personale; viene poi sperimentato nel contesto scolasti­
co, per il riconoscimento delle competenze individuali. Le prime
sperimentazioni nella scuola sono volte a raccogliere tutte le notizie
possibili rispetto a percorsi cognitivi / formativi, ma senza riuscire a
cogliere le eventuali potenzialità ancora da esplorare e senza mette­
re in evidenza i punti di forza dell’individuo. C’è poi da dire come,
all’interno del sistema scolastico, si colga ancora una certa difficoltà
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a porre l’attenzione sulle competenze individuali e ancor più a regi­
strarle in modo significativo, visto che scolasticamente parlando
risulta davvero difficile esaminare la competenza e spesso ci si sof­
ferma sulla valutazione dell’obiettivo formativo, della conoscenza e
dell’abilità. Ma dovendo l’azione formativa qualificare e orientare,
per migliorare le possibilità occupazionali, diventa necessario esami­
nare le competenze professionali acquisite e prendere in considera­
zione eventuali interventi integrativi.Questo significa predisporre
piani personalizzati a vantaggio di un’azione formativa specifica,
mirata e soprattutto orientativa e riqualificante.
Il Portfolio sembra in linea con un sistema di formazione e di riqua­
lificazione professionale che tiene conto delle specificità dell’indivi­
duo; appare inoltre uno strumento flessibile, che può essere aggior­
nato in itinere di elementi e aspetti significativi; infine può esplora­
re la dimensione della valutazione, dell’auto­valutazione e del­
l’orientamento, permettendo così agli esperti di lavorare sulla pro­
gettualità, aspetto irrinunciabile per il ri­orientamento e per la con­
tinuità formazione/territorio. In tal senso il Portfolio potrebbe arric­
chirsi della valutazione di tutte le competenze individuali, indivi­
duate e registrate attraverso prove convalidanti e attestanti i percor­
si formativi formali/non formali/informali (esperienziali).
Dalle sperimentazioni effettuate nel contesto scolastico italiano
emergono alcuni punti di forza significativi attribuibili a questa sorta
di “Libretto Formativo”: la valorizzazione dell’identità; il riconosci­
mentodelle esperienze personali; la continuità verticale e orizzonta­
le; la documentazione regolare, graduale e significativa; l’alleanza
formativa con il territorio; il ri­orientamento formativo e professio­
nale; la riflessione sui propri stili di apprendimento e sui modi di
operare, l’autonomia del soggetto.
Il Portfolio risulta uno strumento anche flessibile, perché aggiornabi­
le in itinere; può, cioè, certificare/convalidare gli apprendimenti indi­
viduali in qualsiasi momento e accompagnare l’individuo lungo tutto
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l’arco della vita; nasce col percorso formativo di un individuo che
entra nelle istituzioni scolastiche con quello che è già il suo bagaglio
esperienziale; assume gradualmente una connotazione valutativa e
auto­valutativa; diventa strumento di “raccolta permanente” dei pro­
cessi cognitivi non formali e informali “raccontati dal protagonista”.
Attorno a questo strumento di documentazione delle competenze,
restano tuttavia degli interrogativi e delle perplessità: tempi e proce­
dura di compilazione; modalità di aggiornamento in itinere; sogget­
ti certificatori; redazione di testi e/o tabelle adeguati da inserire nel
Portfolio; condivisione degli esiti tra il mondo della scuola e il
mondo del lavoro; definizione di standard chiari e puntuali a livello
nazionale e/o internazionale.
Tra i modelli di accreditamento sperimentati quello francese (model­
lo VAE: ValidationdesAcquis de l’Expérience), e quello romenohanno
attirato particolare interesse, perché entrambi pongono l’accento
sull’individuo valorizzandone le competenze.
I punti di criticità emersi in fase di sperimentazione (non solo rela­
tivamente a questi due modelli) sono: la necessità di istituzionaliz­
zare le procedure di accreditamento; la messa a punto di strumenti
che favoriscano la mappatura delle competenze di partenza; la pos­
sibilità reale di valutare la competenza pratica e non solo teorica.I
modelli sperimentati in Italia, in particolare a Macerata, sembrano
avvicinarsi al modello francese, soprattutto sotto l’aspetto strumen­
tale e metodologico. Infatti, nella procedura sperimentata si parla di
“Dossier individuale delle competenze e libretto formativo” (portfo­
lio delle competenze), (“Livret 1”); questionario sulle abilità relazio­
nali e sullo stile comportamentale; (“saper essere” in termini di com­
petenze trasversali); piano personale di sviluppo (“Livret 2”).
Particolarmente interessante anche la tipologia di riconoscimento spe­
rimentata in Spagna, dove lo schema di accreditamento si compone di
5 strumenti principali: 1. test di ingresso (per accedere ad un determi­
nato livello di istruzione); 2. test per il conseguimento di specifiche
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qualifiche (per ottenere il certificato delle proprie competenze); 3. valu­
tazione iniziale del candidato (per valutare esperienze e conoscenze);
4. valutazione ed analisi delle competenze occupazionali (che stabilisce
procedure e requisiti per la valutazione delle competenze acquisite in
modo non formale e informale e porta alla loro validazione, completa
o parziale, nonché alla loro certificazione); 5. premi speciali o licenze
professionali (per lo svolgimento di determinate attività professionali;
vengono garantite dalla verifica del conseguimento delle competenze
richieste, anche mediante percorsi formativi non formali e
informali).Questi modelli definiscono e seguono con puntualità attivi­
tà mirate a rilevare competenze, attitudini, stili cognitivi e operativi;
colgono con esattezza la personalità di un individuo, che ha bisogno di
“ri­definirsi” per collocarsi o ricollocarsi con adeguatezza nel territorio.
In tal senso, questi modelli potrebbero essere considerati coma una
pagina importante e significativa del portfolio di un individuo, che in
un momento della sua vita decide di rivalutarsi e di auto­valutarsi, per
quella irrinunciabile “alleanza formativa” che dovrebbe finalmente
porsi “in continuità” tra il cittadino e il territorio nazionale e europeo.
Note Bibl. : Deli Salini, Identificazione e convalida delle competenze acquisite in
contesti formali e informali; Piero Cattaneo, Il Portfolio delle Competenze dello stu­
dente; Metodologie innovative ed accreditamento delle competenze per una forma­
zione integrata in chiave europea –DGR 4124, Unione europea Fondo sociale euro­
peo­ CENTRO PRODUTTIVITÀ VENETO Formazione e Innovazione IRIGEM.
Maria Locane si è diplomata all’Istituto Magistrale nel 1990 e abilitata all’insegna­
mento nella scuola dell’Infanzia; successivamente laureatasi in Lingue e
Letterature Straniere presso l’Università Ca’Foscari nel 1999, ha conseguito l’abili­
tazione all’insegnamento di Lingua e Civiltà Francese per l’Istruzione Secondaria
di 1° e di 2° grado.Fino al 2010 presta servizio nei ruoli della scuola Primaria, par­
tecipando a diversi corsi di formazione professionale, rivolti alla didattica e alla
metodologia per campi di esperienza e per disciplina.
Nell’anno scolastico 2010/2011 ottiene il passaggio di ruolo nella scuola secondaria
di 2° grado, presso l’ I.P.C. “L. Luzzatti”, partecipando a convegni e a corsi di for­
mazione rete EDA. L’articolo è tratto dalla relazione presentata e illustrata in occa­
sione di una convocazione Rete EDA della Provincia di Venezia.
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Sezione
Letteratura ­ Multietnica
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L’altro Mediterraneo: viaggio tra culture
e mondi letterari
di Marco Gallizioli
Forse nessun luogo come il Mediterraneo è stato interpretato in modi diame­
tralmente opposti dalle culture che si sono sviluppate lungo le sue sponde.
La “grande pianura d’acqua”, come la definì F. Braudel1, è stato il mare
nostrum dei Romani, così come il bahr­al­Rum2, il “mare dei Bizantini”, per
gli Arabi. Più specificatamente, mentre l’espressione latina nasceva dal carat­
tere inclusivo della cultura romana, dal tentativo di inglobare le differenze,
uniformandole all’insegna di un solo centro politico, Roma; l’espressione
araba – oggi dimenticata – sottolineava, invece, la pericolosità di un mare in
cui era possibile incontrare l’altro, il diverso e, spesso, il nemico. Oggi, inve­
ce, il Mediterraneo è percepito come un luogo separato da un’invisibile, ma
potentissima faglia culturale, che divide il nord dal sud, l’Europa dall’Africa
e dall’Asia, l’occidente dall’oriente. Il grande specchio d’acqua allontana irri­
mediabilmente popoli e culture, creando un “al di qua” e “un al di là”, sepa­
razioni profonde, percepite, da chi vive da una parte e dall’altra, come asso­
lute. Ma – si chiede giustamente Valentina Colombo, curatrice di una splen­
dida raccolta di racconti arabi,3 ­ “l’altro che vive sull’altra sponda di questo
bacino è così diverso da noi? E’ davvero così estraneo?”. Se la risposta a que­
sti interrogativi retorici può sembrare quasi ovvia, ciò non toglie che la loro
complessità rappresenti una ferita aperta nelle relazioni tra le culture e le
società del Mediterraneo, un vulnus che porta a contrapposizioni spesso
aspre e dure. In contesti così vicendevolmente sospettosi, però, vi è anche chi
va alla ricerca di varchi che aprano nuovi orizzonti interpretativi, e, non di
rado, è la letteratura a costituire l’accesso più diretto e potente alla comples­
sità culturale “altra”, finendo col rappresentare un metaforico passaggio
1
Cfr. F. BRAUDEL, Mediterraneo, Bompiani, Milano 2002, p. 6.
D. M. DUNLOP, Bahr al­Rum, in Encyclopaedia of Islam, Brill, Boston 2012.
3 V. COLOMBO (a cura di), L’altro Mediterraneo. Antologia di scrittori arabi del Novecento,
Mondadori, Milano 2004
2 Cfr.
22
verso la differenza. Con la parola letteraria, infatti, il lettore entra tra le pie­
ghe di vissuti complessi e insieme universali, sbirciando da dietro la porta le
stanze e i luoghi narrati, in cui si muove un’umanità, a tratti dolente e a trat­
ti vitalissima, fino al punto di trovarsi costretto ad uscire allo scoperto e a
riconoscere la consanguineità della propria cultura con quella descritta.
Per tali motivi, l’intento di questo breve percorso è quello di proporre una
riflessione critica su una manciata di racconti di autori appartenenti alle
differenti sponde del Mediterraneo, nel tentativo di cogliere quell’ecceden­
za di senso, quel pluriverso nascosto, che, spesso, neghiamo con la prassi
delle nostre culture autoreferenziali.
Alla fine, tuttavia, viaggiare dentro i mille meandri del narrare, non ci
spinge tanto a dire che non esistano differenze, quanto piuttosto a ricono­
scere, oltre le differenze, quei denominatori comuni dell’umanità che trop­
po spesso vogliamo dimenticare quando ci riferiamo ad altre visioni del
mondo e, in particolare alla Weltanschauung arabo­musulmana, ossia
quell’esperienza dell’essere vivi che appartiene all’uomo tout court, indi­
pendentemente dalla soluzione culturale nella quale è immerso.
1. Incontrarsi in terra straniera
Emblematico, a questo proposito, è il racconto breve della scrittrice egiziana
Daisy Al­Amir, Storia andalusa4, ambientato in una scuola per stranieri, presu­
mibilmente inglese, e che ha per protagonisti una ragazza araba e un giovane
spagnolo. I due studenti si incontrano davanti ad un distributore automatico di
caffè e si riconoscono come estranei in un paese che non è il loro, scambiando­
si appena poche parole. Per la ragazza, si tratta di superare le barriere culturali
di origine che le fanno avvertire come una minaccia il semplice dialogo con un
coetaneo dell’altro sesso. La giovane, dunque, deve attraversare un guado invi­
sibile perché non condiviso dagli altri ragazzi, per i quali non vi è nulla di minac­
cioso in un colloquio come quello. Per il ragazzo, invece, l’incontro è un modo
4 D. AL­AMIR, Storia Andalusa, in V. COLOMBO, op. cit., pp. 267­271. La scrittrice è nata
ad Alessandria d’Egitto nel 1935 e cresciuta a Bagdad. Si è in seguito trasferita in
Inghilterra, dove si è laureata in lingua inglese e araba.
23
attraverso il quale recuperare la propria identità, le proprie radici culturali, fino
a riconoscersi spagnolo e insieme arabo. Il viaggio verso la studentessa compor­
ta una radicale messa in discussione di sé, con l’intento di riuscire a mettere tra
parentesi la diversità esteriore per poter recuperare una profonda consanguinei­
tà, simbolicamente individuata nella propria “arabicità”. Entrambi i protagoni­
sti, quindi, devono essere disposti ad eccedere i loro significati, a travalicare le
proprie categorie: da un lato, la ragazza deve superare se stessa, la sua ritrosia,
le sue difficoltà di comunicare con un mondo e con individui che le sembrano
lontani, inarrivabili e, in parte, alieni; dall’altro, il ragazzo deve riconoscersi
come vicino, al di là dei segni di superficie che marcherebbero una incolmabile
distanza. La “terra straniera” nella quale si incontrano, dunque, si connota di
significati universali, divenendo l’allegoria di un mondo in cui nessuno può dirsi
mai veramente a casa e rassicurato. Rappresenta la complessità nel suo doppio
risvolto di impedimento, di barriera, di incomprensibilità e, insieme, di possibi­
lità, nel senso che, sembra dire Al­Amir, solo se si è disposti ad avvertirsi stra­
nieri vi è una possibilità per incontrarsi davvero. Ma, riconoscersi come estranei
in una terra inospitale, conduce a prendere coscienza anche del fatto che l’in­
contro comporta un viaggio di conoscenza, in cui è possibile perdere tutto, il
proprio passato, la propria appartenenza, i propri valori, senza sapere con cer­
tezza se si acquisterà qualcosa in cambio. “Il passato è prezioso perché deve
essere dimenticato5”, afferma la giovane araba, cosciente di quanto sia inelutta­
bile che qualcosa di sé e del proprio mondo si infranga quando entra in contat­
to con realtà altre. Viaggiare, quindi, significa anche correre il rischio di dimen­
ticare, di perdere qualche briciola della propria visione del mondo per far posto
ad altri orizzonti. E questo aspetto del viaggio di conoscenza è forse il più tre­
mendo perché comporta uno sconfinamento in territori foschi e inesplorati, di
cui non si conoscono i sentieri o, addirittura, possono essere scambiati per sen­
tieri anche semplici venature della terra. E così, quando la ragazza crede di rav­
visare l’arabicità del giovane nei suoi modi decisi, il ragazzo le confessa che sta
per partire, per recarsi in un’altra nazione, dalla quale sarebbe presto ripartito
5
D. AL­AMIR, op. cit., p. 268
24
per far ritorno alla sua “Andalusia”. Il mondo costruito e rinnovato nel sempli­
ce dialogo dei due giovani entra in una nuova fase di turbolenza, di instabilità,
che diviene il simbolo dell’indecifrabilità del destino umano. Quello spazio inte­
riore creato per ospitare il confronto con l’altro sembra essere stato un inutile
tentativo di fermare il dinamismo degli eventi; quella parte di sé sacrificata per
lasciare spazio ai significati sussurrati del giovane pare essere stato un inutile tri­
buto versato all’insensatezza e alla vacuità del mondo. Ma non è così: la ragaz­
za araba riscopre nei discorsi del ragazzo che le parla del suo paese e dei suoi
problemi, ma anche delle sue personali aspirazioni, dei suoi dolori e delle sue
speranze, i problemi, le aspirazioni, i dolori e le speranze universali: “ed era
come se si chinasse verso un arabo del suo paese (…)6”. Ciò che si è apparente­
mente cancellato di sé nel tentativo di lasciare posto alla rivelazione dell’altro
ha prodotto nella ragazza la capacità di cogliere, a sua volta, la consanguineità
di lui, il suo essere innanzi tutto vicino e universale, al di là delle distanze
inscritte nelle culture. Allora gli occhi le si riempiono di lacrime, perché non sa
cosa fare né dove andare. “L’unica cosa che sapeva era che avrebbe aggiunto nel
cassetto dei ricordi una storia andalusa”.
2. Perdersi per incontrarsi
Lo stesso tema, trattato da un’angolazione diversa, meno lirica e più serratame­
ne filosofica, ritorna anche nel racconto intenso e toccante dello scrittore yeme­
nita AminBaGiunaid: “Attenzione!”7, nel quale due uomini discutono in modo
acceso se il colore bianco sia da preferire al nero o viceversa. Il lettore viene cata­
pultato in medias res senza conoscere il contesto della conversazione, quasi
fosse un passante indiscreto che origlia il dialogo acceso di due amici. Da subi­
to, però, si comprende che si stanno confrontando due posizioni ideologiche
molto ben delineate e contrastanti. La prima coincide con quella dello strenuo
difensore del colore bianco, il quale ammette che è lecito per l’altro preferire il
nero al bianco, ma lo ritiene comunque sbagliato. Il nero – afferma – è indifen­
6
Ib., p. 270
AMIN BA GIUNAID, Attenzione!, in V. COLOMBO, op. cit., pp. 260­ 264. Lo scrittore è
nato a Mukalla, nello Yemen, nel 1947. Dopo essere stato per anni giornalista radiofonico,
ora lavora presso l’amministrazione dell’istruzione nella sua città natale..
7
25
dibile: è il colore della notte, dell’oscurità, del tempo in cui si commettono
“delitti e crimini”. E’ quindi un colore da vietare all’uomo di sani principi e
occorre fare il possibile per salvare l’ingenuo dalle sue lusinghe. Viceversa – egli
afferma – il bianco non ha necessità di essere difeso, perché la sua superiorità è
autoevidente: è quindi lecito preferire il nero al bianco, ma non è giusto!
La risposta del suo interlocutore, l’unico dei due di cui si conosce il nome, Abd
al­Rahim, è, invece di segno opposto e rappresenta la seconda linea ideologica
del dialogo. Per al­Rahim è indubbio che le diversità tra i due colori siano incol­
mabili, ma, sostiene, “per non trasformare la differenza alla quale non v’è scam­
po in una lotta, in un conflitto, oppure in una guerra fredda su tutti i fronti, biso­
gna ammettere ed essere convinti della libertà di preferire questo a quello”.
Occorre, quindi, mettere a tema che ci siano ragioni ignote al sostenitore del
bianco che rendono il nero preferibile per il sostenitore di tale colore. E’ neces­
sario, dice al­Rahim, essere in grado di pensare che esistano delle motivazioni
che eccedono le proprie capacità di comprensione e, perché no, la propria intel­
ligenza, quasi nel senso etimologico di intuslegere, di leggere dentro le cose.
Prima ancora di giudicare e di dividere il mondo secondo traiettorie di valori
unilaterali, per al­Rahim è necessario scoprirsi umili davanti alla complessità di
un mondo che va oltre la propria capacità immediata e mediata di comprender­
lo nella sua interezza. Bisogna affidarsi al “dubbio”, dice l’uomo, ossia alla capa­
cità di interrogare, che non coincide tanto con un dubitare dell’altro, ma che
comporta anche il coraggio di dubitare di sé, fino a poter ravvisare la ragione
dell’altro8. Anche in questo frammento narrativo, dunque, emerge il rischio del­
l’incontro, il pericolo che nasce dal mettersi in discussione bruciando ogni sche­
ma classificatorio, quando si determinano situazioni­limite che non vanno sot­
tovalutate. L’incontro con l’altro è sempre una minaccia, quindi, perché com­
porta una contropartita che non è affatto certa e che potrebbe addirittura coin­
cidere con la nullificazione di sé. Ma è un rischio che occorre affrontare e sfida­
re se non si vuole restare imprigionati dentro le gabbie di una sorta di imperia­
lismo conoscitivo che tenta sempre di conciliare l’incomprensibile del mondo
con le proprie categorie. Conoscere significa sentirsi minacciati, ma vuol dire
8
Cfr. E. MORIN, Cultura e barbarie europee, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 15
26
anche comprendere che solo quella è la via che ci conduce fuori da una rigida
autoreferenzialità; è l’unico modo che ci permette di evitare l’equivoco di sen­
tirci gli unici “intelligenti”al mondo. AminBaGiunaid, quindi, non vuole rassicu­
rare circa la difficoltà del dialogo in presenza di differenze marcatissime; non
prospetta soluzioni facili e immediate. Indica una strada che comporta il desi­
derio, la volontà e la pertinacia di mettersi in discussione, mossi dal convinci­
mento di fondo che – per parafrasare le parole di Clifford Geertz9 – il mondo sia
troppo complesso per saltare velocemente alle conclusioni.
Nelle parole dello scrittore yemenita, dunque, traspare un invito al relativi­
smo conoscitivo, inteso – ed è bene ripeterlo – non come una negazione di
valori assoluti, abbracciando un nichilismo da quattro soldi; quanto piutto­
sto nel senso del negare valore assoluto alle proprie capacità di comprende­
re, di contenere in sé tutti i significati. La via del dialogo sembra per
BaGiunaid un sentiero in salita, difficile e per nulla piacevole, ma anche l’uni­
co percorribile se si vuole evitare che la nettezza delle differenze divenga un
moltiplicatore di tensione o, peggio, una causa di conflitto, e finisca col tra­
sformarsi nell’alibi che ci impedisce di cogliere l’umanità universale della
persona. E il Mediterraneo è, in senso figurato, ma anche reale, un luogo in
cui si intersecano differenze che da troppo tempo si sono dimenticate di con­
frontarsi, perseguendo l’idea di fondo che ignorare il valore dell’altro signifi­
chi gerarchizzarlo e non riconoscerlo come consanguineo.
Marco Gallizioli si è laureato in Lettere e in Filosofia, specializzandosi in seguito
in “Scienze storico­antropologiche delle religioni” presso l’Università di Urbino.
Dal 2000, dopo aver vinto l’ultimo concorso ordinario a cattedre, insegna materie
letterarie nelle scuole superiori, unendo a questa attività l’incarico di Professore a
contratto, prima, e aggregato, poi, di “Antropologia delle religioni” presso
l’Università di Urbino.
Numerose sono le sue pubblicazioni di argomento storico e sociologico tra cui si
ricordano:
id., La religione fai da te, Cittadella, Assisi 2005; id., Un click sui giovani. Autenticità
e inquietudine, Cittadella, Assisi 2009.
9
Cfr. C. GEERTZ, Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale,
Il Mulino, Bologna 2001, p. 61.
27
Libriamoci
di Claudia Rispoli
IN FUGA
di Alice Munro
Einaudi, 2006
pp. 316
Una copertina delicatamente evocativa mostra un pontile che si diri­
ge verso l’acqua, verso il nulla forse, o magari verso una terra scono­
sciuta, una vita da scoprire, da cambiare, da ridisegnare. Un’aura
verdastra ammanta il paesaggio di una luce irreale, eppure attraen­
te; una barca è lì, appena coperta da un telo, per esortarci alla par­
tenza, al viaggio, alla fuga. E i racconti di Alice Munro mantengono
le promesse dell’immagine di copertina, racconti che non ci lasciano
mai con l’insoddisfazione, mai delusi, mai con il senso di incompiu­
tezza che a volte ci fa rimpiangere che un breve racconto non si sia
evoluto in qualcosa di più lungo e complesso. Probabilmente ciò
dipende dal particolare modo che la Munro ha di gestire il tempo,
l’approccio cronologico alle vicende che desidera narrarci, e che sa
gestire in maniera inequivocabilmente artistica e sicura di sé.
Spesso i racconti iniziano con un quadro, una breve descrizione del
presente, che non ci dà il tempo di capire cosa stia effettivamente
succedendo tra i personaggi. Non ne abbiamo il tempo perché l’au­
trice ci tira per un braccio – proprio così – vigorosamente, con deci­
sione e fermezza, verso il passato, il momento in cui le vicende si
sono originate, nell’occhio del ciclone, come si suol dire. E lenta­
mente, con i suoi soliti non­detti (o meglio, con i suoi sussurri
28
all’orecchio del lettore attento e ricettivo), ci porta fino alla conclu­
sione delle vicende, a volte saltando di decennio in decennio, a volte
invece racchiudendo tutto il climax in una singola giornata.
Donne in fuga, ma da cosa? In fuga da vite senza speranza, da fami­
glie oppressive, da esistenze opache, piatte, spente, e ancor più spes­
so in fuga da se stesse. Oppure, in fuga verso cosa? Verso un amore
irreale, sognato ancor prima che effettivamente provato, verso un
passato che ritorna con le sue ombre per poi scoprire che tutto è stato
un inganno, un qui pro quo, un fraintendimento, una coincidenza
persa. Donne intelligenti ancor prima che sensibili, piccoli ambienti
rurali e soffocanti dove un’intelligenza femminile è vista alla stessa
stregua di una zoppia, un difetto fisico, un particolare imbarazzante
(Fatalità), lavoratrici instancabili, donne gradevoli, colte, simpatiche,
chissà perché prive di un affetto vero, di un rapporto di coppia soddi­
sfacente o comunque duraturo (Scherzi del destino).
Dove sono, allora, gli uomini nei racconti di Alice Munro? Che ruolo
hanno, nella vita di queste donne “in fuga”? Spesso sono buoni
amici, o mariti stravaganti e non sempre solidali se non addirittura
opprimenti, o tormentati esseri in bilico tra la passione e la codardia.
Oppure è il caso a distruggere le possibili storie nascenti, gli incon­
tri mancati, la paura del mostrarsi come realmente si è.
Nemmeno stavolta Alice Munro delude, nemmeno in questa raccol­
ta di racconti (caso unico, tre storie hanno la stessa protagonista,
Juliet, ritratta in periodi diversi della sua vita) i lettori che l’hanno già
apprezzata si pentiranno di aver comprato questo libro. Un libro che
dovrebbero leggere non solo le donne, per riconoscersi nell’interio­
rità e nelle indecisioni di qualche protagonista, ma soprattutto gli
uomini, per non rimanere – come spesso avviene nella vita reale –
sullo sfondo delle vicende femminili, spesso causa inespressa e
inconsapevole di ciò che accade alle loro figlie, madri, mogli, sorelle,
prigionieri del loro mondo iper­razionale, fatto di poche parole e
pochissima astrazione.
29
LIBERTA’
di Jonathan Franzen
Einaudi, 2011
pp. VI­626
Leggendo Forte movimento, è necessario imporsi di non cadere nel­
l’errore di paragonarlo a Le correzioni. E il raffronto diventa ancor
più fuorviante quando si legge Libertà e si cerca di analizzarlo razio­
nalmente. Quello che è – probabilmente a ragion veduta – conside­
rato il capolavoro di Franzen fu pubblicato una settimana prima del­
l’attentato alle Twin Towers e rappresentava la critica aspra e sfer­
zante agli eccessi degli anni ‘90 e alla loro potenza economica ridon­
dante e disdicevole. Ma tra quel 2001 e i giorni nostri parecchia
acqua è passata sotto i ponti statunitensi; gli anni di Bush hanno
stravolto l’immagine e la vita stessa dell’americano medio, i Lambert
e i Berglund sono davvero lontani anni luce gli uni dagli altri.
Conservatori contro liberali, tuttavia pienamente e decisamente
americani nel senso più intrinseco della parola, dai Lambert ai
Berglund si è consumata in mezzo la tragedia del crollo del sogno e
dell’invincibilità americana, del dollaro che tutto può comprare,
della potenza e della forza che tutto possono ridurre alla ragione.
Come fantasmi si aggirano tra le vicende dei Berglund Bush e
Cheney, la Halliburton e le truffe alle spalle della guerra irachena, i
Repubblicani e i movimenti oltranzisti contro la sovrappopolazione
del pianeta e lo sfruttamento criminale e indiscriminato delle risor­
se naturali non rinnovabili.
Al di là dei raffronti, delle equivalenze e dei paragoni fattibili tra
Lambert e Berglund, la prima e più importante cosa per cui valga
30
assolutamente ed inequivocabilmente la pena di leggere Libertà sta
nella fluida, giornalistica e pulita scrittura di Franzen. Uno stile che
conquista, che scorre con facilità e carattere pagina dopo pagina,
coadiuvato dalla bella traduzione della Pareschi.
Patty e Walter Berglund sono certamente una coppia del Midwest in
cui pochi italiani possono riconoscersi; troppo lontani dalla nostra
cultura mediterranea ed europea; anche se l’arco narrativo parte
dagli anni ‘70, la maggior parte degli avvenimenti ha luogo nel 2004,
quando la guerra di Bush sembrava ancora non dovesse ripercuoter­
si tragicamente sulla finanza americana. Nei due uomini di mezza
età Walter e nel suo amico/antagonista di sempre, Richard Katz, c’è
un po’ di Franzen, in particolare nel secondo, rocker prima ignorato
poi osannato dalla critica e dal pubblico e che si dibatte tra disgusto
e attrazione per il suo successo. La voce narrante è per buona parte
delle seicento pagine del libro affidata a Patty; una donna fortemen­
te controversa, fragile, indecisa, che guarda indietro la sua vita senza
riuscire a trovare un solido punto d’appoggio per le scelte fatte e
quelle dribblate o ignorate.
Sicuramente Libertà non è quella bieca operazione commerciale che
da più parti è stata dipinta; su di essa ha gravato pesantemente e
negativamente l’aspettativa di quasi un decennio di lettori mondiali
che non aspettavano altro che poter gridare al nuovo grande roman­
zo americano dopo Roth o Bellow. Molto semplicemente, Libertà è
un bel romanzo familiare che ruota attorno ad un fondamentale
triangolo (senza scomodare Guerra e Pace come molti hanno fatto,
aizzati dalle allusioni dell’autore) e al passare degli anni e al loro sco­
modo fardello emotivo, che racconta una nazione turbata e in diffi­
coltà, una società che guarda al futuro e vede solo incertezza e per­
plessità.
31
TRENO DI NOTTE PER LISBONA
di Pascal Mercier
Mondadori, 2006
pp. 431
Non solo un romanzo molto ben scritto (l’autore è un professore di
filosofia alla FreieUniversitätBerlin), ma un gioco di scatole cinesi
che va molto oltre l’apparente piano della trama pura e semplice. Un
libro che si apprezza rileggendolo, soffermandosi sugli intarsi narra­
tivi, riflettendo sulle tante domande esistenziali che sottilmente ci
vengono poste dall’autore; un libro prezioso da usare come spunto
di meditazione, da sfogliare, aprire a caso e centellinare; un libro che
ricama con le parole e con le lingue.
Nella quieta e fredda Berna, il professore di lingue antiche
RaimundGregorius incontra casualmente una donna portoghese che
pare in procinto di gettarsi da un ponte, o forse no. Il loro breve incro­
cio di tragitti, attraverso una serie di fortuite coincidenze (o di norma­
li eventi che ognuno di noi vuole leggere come coincidenze?), porterà
il serioso e grigio professor Gregorius a stravolgere la propria vita, la
carriera, la monotona quotidianità, salendo su un treno notturno per
Lisbona, alla ricerca non della donna misteriosa, come si potrebbe
pensare, ma di un medico, Amadeu Ignacio Prado, autore di un libri­
cino di riflessioni travagliate, capitatogli in mano per puro caso.
Un libro nel libro, quindi, e la ricostruzione di un personaggio con­
troverso, tormentato, affascinante come Amadeu. Sullo sfondo la bel­
lissima Lisbona, il Rossio, l’Alfama, il ponte sul Tago, il Bairro Alto, le
stradine in salita, i tram, gli odori e i colori portoghesi. Ma anche
Finisterre, Coimbra, Salamanca si insinuano nella vita di Gregorius.
32
Affiorano gli orrori della dittatura di Salazar, le torture perpetrate
nel terribile carcere di Tarrafal, la resistência e i movimenti clande­
stini; come un velo, cade a poco a poco il mistero sul passato di
Amadeu, sulla sua famiglia, sul tormentato rapporto con i genitori (il
padre innanzitutto), la sorella, le donne e l’amico Jorge.
Apparentemente un libro lento, in realtà un libro denso di avvenimen­
ti, ricco di personaggi affascinanti, pieno di pathos e dei grandi inter­
rogativi dell’anima umana di ogni tempo ed ogni luogo. Alcuni dei
brani del libro di Amadeu sono concentrati di poesia, di filosofia, di
etica; luoghi e persone sembrano respirare all’unisono, trascinando il
lettore dentro una spirale, un viaggio sentimentale dentro una vita,
una storia, una nazione. I legami dello spazio e del tempo si sciolgono,
si dilatano fino ad annullarsi. Attraverso gli occhi del professor
Gregorius (una specie di Peter Kien, di Jakov Mendel, uno studioso
molto più a suo agio con i libri che con le persone) ci lanciamo in un
percorso alla ricerca di un’immagine, di una figura sfocata che si fa via
via sempre più distinta. Potrebbe essere Amadeu, o forse Gregorius, e
in piccoli frammenti c’è forse dentro anche una parte di ognuno di noi.
Claudia Rispoli si è laureata nel 1990 in Lingue e letterature straniere moderne
(inglese e tedesco) e dal 1993, dopo aver vinto il concorso ordinario a cattedre del
1990, insegna lingua e civiltà inglese nelle scuole superiori. Da più di 10 anni si
occupa di Educazione degli Adulti, e attualmente coordina i corsi dell’Istituto
Luzzatti.
Ha scritto recensioni di libri per varie riviste letterarie e generalistiche e di recen­
te è stata pubblicata una loro raccolta intitolata Libri sul comodino.
Giardinaggio, cucina (perlopiù siciliana) e la manifattura di arazzi patchwork si
contendono, assieme alla lettura, il suo (poco) tempo libero.
33
Curiose disquisizioni sul numero zero
di Nicola Tonelli
Diciamocelo, ogni scoperta o invenzione ha portato con sé effluvi di
polemiche. Citiamo alcune dichiarazioni che ora fanno sorridere ma
fatte da autorità che all’epoca potevano influenzare l’opinione pub­
blica: “La famiglia americana media non ha tempo per guardare la
televisione” (New York Times 1939); “Questa invenzione dell’energia
elettrica è un fallimento totale” (Erasmus Wilson, presidente dello
Stevens Institute of Technology, 1879); “La fotografia durerà poco, per
l’evidente superiorità della pittura” (Le Journal dessavantes, 1829); “Il
Sole non gira attorno alla Terra? Folle, eretico, assurdo e falso”
(Tribunale dell’inquisizione sulle teorie di Copernico e Galileo,
1616).Tutto ciò che portava cambiamento era sempre stato visto con
avversione e ancora di più se questa novità proveniva da paesi rite­
nuti arretrati e da popoli considerati senza anima.
Noi europei ci siamo da sempre ritenuti al centro del mondo e la
nostra cultura, culla della civiltà conosciuta, un esclusivo prodotto
da esportare a cui il resto del globo doveva attingere. Per secoli si
riteneva che oltre le colonne d’Ercole terminassero le terre conosciu­
te. In seguito, con la scoperta di popoli e di terre lontane, il compito
degli europei conquistatori era catechizzare e civilizzare quelle
insulse popolazioni.
Ma non fu così, anzi proprio da quelle popolazioni barbare abbiamo
attinto alcune delle più importanti scoperte in campo scientifico e
tecnico; e meno male che la scienza e il commercio non rispettano i
confini nazionali.
Prendiamo un nostro matematico, scoperto dal grande pubblico con
il libro Il codice Da Vinci; sto parlando di Leonardo Pisano detto
Fibonacci (1170 – 1240 ca.) conosciuto per la sequenza di numeri che
prende proprio il suo nome (ogni termine, a parte i primi due, è la
34
somma dei due che lo precedono). Figlio di mercante pisano ebbe
contatti con il mondo arabo e visse per alcuni anni in Algeria arri­
vando fino a Costantinopoli. Alternava il commercio agli studi mate­
matici. A suoi tempi si usavano i numeri romani che erano una nota­
zione simbolica di tipo additivo (per leggere il numero occorreva
sommare i valori dei segni scritti).Tale numerazione poteva andar
bene per semplici calcoli. Ai pastori era sufficiente segnare in una
corteccia il numero di pecore da scambiare, diventava complicato
per i commercianti che avevano contatti con mezzo mondo e dove­
vano fare rapidi calcoli di addizione e sottrazione con cifre
alte.Fibonacci attinse dalle conoscenze arabe per introdurre la
numerazione decimale, rendendo ufficiale ciò che già forse i mercan­
ti facevano di nascosto alle autorità (introducendo pure il primo
metodo di conversione: numeri romani/numeri arabi).
Il popolo che per primo usò una notazione numerica posizionale,
cioè che il significato del numero varia a seconda della posizione che
occupa nella cifra, furono gli indiani, che poi gli arabi fecero propria.
Ma quello che gli europei fecero fatica ad accettare non fu il sistema
decimale a base dieci (basato sul conto delle dita delle mani, in fin
dei conti anche i romani usavano già una numerazione mista: base
cinque e base dieci) e neppure i numeri relativi o logaritmi, ma lo
zero inteso come numero e non solo spazio vuoto.Questa avversio­
ne aveva radici lontane: i greci, sia in epoca classica che in epoca
ellenistica, non danno un valore numerico al nulla. Lo zero era
assenza, il vuoto non era rappresentabile. Basti ricordare Ulisse che,
per sfuggire dalla grotta di Polifemo, fa intendere di chiamarsi
“Nessuno”. Per di più i grandi filosofi, come Platone ed Aristotele,
ne teorizzavano la non esistenza. Poiché lo zero era considerato
assenza di numero, non doveva neppure esistere come aveva procla­
mato il filosofo greco Protagora e su questo indirizzo era anche la
chiesa cattolica (Dio non ha inizio né fine). Certo, prima di Fibonacci
un certo Gerberto d’Aurillac, noto come papa Silvestro II fu tra i
35
primi divulgatori dei numeri arabi già ai primi dell’anno mille. Tutto
bello, peccato che papa Silvestro II usò questo sistema di numerazio­
ne solo all’interno di alcuni monasteri per la catalogazione dei libri
tenendola nascosta per altri tre secoli (riconoscere a una popolazio­
ne non cristiana il merito d’aver inventato qualcosa di utile era imba­
razzante).
Tuttavia anche se la parte di clero più intransigente cercava di osteg­
giare l’introduzione di un non numero, questi assunse nei secoli un
ruolo fondamentale tanto che in un manoscritto del monastero di
Salem (chissà perché mi vengono alla mente le streghe) del XII si
legge: “Ogni numero nasce dall’Uno e questo deriva dallo Zero. In que­
sto c’è un grande sacro mistero: Dio è rappresentato da ciò che non ha
né inizio né fine; e proprio come lo zero non accresce né diminuisce un
altro numero al quale venga sommato o dal quale venga sottratto, così
Egli né cresce né diminuisce”.
Bisognerà aspettare circa tre secoli (che non sono bruscolini) affin­
ché Fibonacci nel suo Liber abaci dia allo zero la giusta connotazio­
ne: “Novem figure indorum he sunt 9 8 7 6 5 4 3 2 1
Cumhisitaquenovemfiguris, et cum hoc signo 0, quodarabicezephiru­
mappellatur, scribiturquilibetnumerus, ut inferiusdemonstratur.” (
Ci sono nove figure degli indiani: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con queste nove
figure, e con il simbolo “0”, che gli arabi chiamano zephiro, qualsiasi
numero può essere scritto, come dimostreremo.) Da zephirus si
ebbe zevero e quindi zero.
A prima vista sembra una cosa da nulla segnalare il nulla con un
segno, invece fu un salto enorme. Lo zero non era più solo un segno
di interruzione, un vuoto, ma ottenne la condizione comune di cifra
come le altre nove.
Fu il matematico e astronomo indiano Brahmaguptail primo a trat­
tare dello zero come un numero a tutti gli effetti. E questo prima del­
l’anno mille, quando dalle nostre parti si contava con numeri roma­
ni o al massimo con le lettere greche e il latino era la lingua più cono­
36
sciuta. E non incontrò opposizione religiosa come capitò in Europa
poiché il nulla era un concetto ben conosciuto nella religione indui­
sta e faceva parte della cultura indiana. Nell’induismo infatti il rag­
giungimento del Nirvana consiste nell’ottenere la salvezza fonden­
dosi per l’eternità col nulla.
L’opera intitolata Brahmagphuta Siddhaˉnta (628) tratta non solo
dello zero ma anche delle soluzioni di un’e quazione di secondo
grado, enuncia regole aritmetiche a con numeri negativi. Pensate,
mentre l’Europa è sconvolta da guerre, invasioni e dalla caduta del­
l’impero romano dall’altra parte del globo venivano poste le basi
della matematica come la conosciamo noi oggi.
Lo zero divenne un numero, ossia un’entità suscettibile di rientrare
in un’operazione.
Oggi lo zero è come la matta nel gioco delle carte: appare quando
meno te l’aspetti e non segue le stesse regole degli atri numeri.
È del tutto inefficace nell’addizione, onnipotente nelle moltiplica­
zione, assolutamente proibito nella divisione, particolare nell’eleva­
zione a potenza.
Alcune sue caratteristiche sono intuibili, come il fatto che non è ne
positivo ne negativo, è il più piccolo dei numeri naturali, nel piano
cartesiano lo zero è l’origine degli assi, è l’ elemento neutro nell’ad­
dizione/sottrazione. Ma a causa del retaggio della cultura
greca/romana lo zero nel linguaggio comune assume ancora il signi­
ficato di Nulla. Con una differenza: il nulla può avere un significato
ambivalente.
Sei una nullità, non vali nulla, vali meno di zero, sono tutti modi
comuni per indicare l’incapacità di una persona. Tolleranza zero a
indicare vigilanza assoluta che rasenta l’ autoritarismo. Fino ad arri­
vare a crescita zero (economica e demografica) sinonimo di una
società malata.
Negli ultimi anni tuttavia si tende ad attribuirgli un significato posi­
tivo. Pubblicità come: zero limiti, a chilometri zero, zero batteri,
37
zero interessi, sono sinonimi di situazioni vantaggiose e benefiche.
Quasi a esorcizzare quel nulla che aveva vincolato per molti secoli il
libero pensiero lo zero diventa il trampolino per rilanciare un’econo­
mia stanca e disillusa.
Finalmente lo zero, per molto tempo avversato, ha preso il suo legit­
timo posto accanto al guidatore, non più voto e inconcrudente come
recita Trilussa ma rispettato e ricercato come dice Rodari.
38
NUMMERI di Trilussa
­ Conterò poco, è vero:
­ diceva l’Uno ar Zero ­
ma tu che vali? Gnente: proprio gnente.
Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.
IL TRIONFO DELLO ZERO
di Gianni Rodari
C’era una volta
un povero Zero
tondo come un o,
tanto buono ma però
contava proprio zero
e nessuno lo voleva in compagnia
per non buttarsi via.
Una volta per caso
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché
non riusciva contare
fino a tre.
Vedendolo così nero
il piccolo Zero
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio,
e schiacciò l’acceleratore,
fiero assai dell’onore
di avere a bordo
un simile personaggio.
39
D’un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede?
Il signor Tre che si leva il cappello
e fa un inchino...
E poi, per Giove,
il Sette, l’Otto, il Nove
che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo?
Che l’Uno e lo Zero
seduti vicini,
uno qua l’altro là
formavano un gran Dieci:
nientemeno, un’autorità!
Da quel giorno lo Zero
fu molto rispettato,
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato:
gli cedevano la destra
con zelo e premura,
(di tenerlo a sinistra
avevano paura),
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinemà,
per il piccolo Zero
fu la felicità.
Nicola Tonelli
Nato l’anno in cui Hemingway divenne immortale, prende il nome dal più grande
tennista italiano dagli occhi azzurri.
Docente di matematica presso l’Istituto Luzzatti di Mestre, proviene da una fami­
glia di insegnanti. Laureato a Ca’Foscari, da qualche anno ha scoperto il piacere
della scrittura. Partecipa a corsi di scrittura creativa e suoi racconti sono apparsi
in diverse antologie.
40
Sezione
Rapporti con il territorio
41
Un viaggio della città nella città
di Chiara de Manzano
Per parlarti di Pentesilea dovrei cominciare a descriverti l’ingresso nella città. Tu
certo immagini di vedere levarsi dalla pianura polverosa una cinta di mura, d’avvi­
cinarti passo passo alla porta, sorvegliata dai gabellieri che già guatano storto ai
tuoi fagotti. Fino a che non l’hai raggiunta ne sei fuori; …La domanda che adesso
comincia a rodere nella tua testa è piú angosciosa: fuori da Pentesilea esiste un
fuori? O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all’altro
e non arrivi a uscirne?
Da Italo Calvino, “Le città invisibili”, Einaudi, Torino, 1972
L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi,
ma nell’avere nuovi occhi. (Proust)
Ogni volta che si pensa ad un viaggio, si presuppone un ritorno: una
partenza ed un arrivo. La parola viaggio deriva dal latino viaticum, il
corredo, l’occorrente da portare accingendosi a partire, il necessario
per un lungo cammino.
Molto spesso, nell’immaginario collettivo, più la meta è lontana, più
si favoleggia attorno al viaggio. In realtà, qualunque viaggio è sino­
nimo da una parte di curiosità, ricerca, fascino e dall’altra di timori,
ansie, paure più o meno inconsce dell’ignoto, una sorta di riscoper­
ta di sé e dell’altro.
Spesso non è necessario andare lontano per scoprire realtà nuove,
diverse o sconosciute: proprio una di queste realtà che sta racchiusa
nel ventre della nostra città, immersa in quella sorta di zona d’om­
bra di questa Venezia Metropolitana è diventata la meta del nostro
viaggio: il carcere.
Ed è così che un giorno, la nostra scuola si è messa in viaggio: un
viaggio questo dall’evidente indirizzo educativo e pensato per i
42
nostri alunni coinvolti. Un viaticum, quindi, costruito sui binari della
conoscenza, della revisione delle proprie certezze, mirato alla risco­
perta del nostro territorio. Un viaggio che si è prefisso di ridurre,
percorrendole, quelle enormi distanze che si creano tra noi e realtà
vicine ma quasi invisibili come il carcere. La speranza era di poter
partire verso un luogo di sofferenza e dolore, rifiuto ed emarginazio­
ne, non dimenticando che esso era un viaggio che ci proponeva
un’occasione unica per riflettere e far riflettere in modo significativo
sul tema della legalità, sul superamento del pregiudizio e dei luoghi
comuni legati al mondo carcerario, su storie di vita e di trasgressio­
ne, sul senso che oggi riveste l’ assunzione di responsabilità e sulla
funzione riabilitativa della pena.
La realizzazione di questo percorso ha reso necessario il coinvolgi­
mento a tutto campo di varie Agenzie preposte sul territorio, primo
fra tutti il Comune di Venezia e i suoi vari settori come la Direzione
delle Politiche Sociali, Partecipative e dell’Accoglienza, il Servizio
Promozione dell’Inclusione Sociale, l’U.O.C. dell’Area Penitenziaria,
l’U.O.C. della Protezione Sociale e Umanitaria e l’Università di
Padova con la partecipazione di una docente di diritto penale.
La motivazione che ha sostenuto la nostra partecipazione al proget­
to OLTRE L’@URORA nasce dall’osservazione dei fabbisogni sociali
e territoriali del nostro Istituto.
La scuola è inserita in un’area a forte processo immigratorio (dati a.s.
2009/10), con una percentuale di alunni non italiani del 24.4% ed è un
istituto scolastico che detiene un alto tasso di dispersione scolastica.
Si sono verificati e si verificano ripetuti episodi riconducibili a proble­
matiche di tipo socio­ambientale e a consistenti fenomeni di devian­
za giovanile (atti di bullismo, violenze, degrado sociale ecc); il terri­
torio in cui è insediato l’istituto presenta carenza di centri di aggre­
gazione giovanile e/o il supporto di agenzie preposte sul territorio.
Il progetto OLTRE L’@URORA è risultato da subito rispondente alle
nostre necessità ed affine alle linee guida progettuali che si sta ten­
43
tando di porre in essere da alcuni anni nel nostro Istituto.
L’ adesione è nata quindi dalla convinzione che il sostegno e la pro­
mozione di una seria riflessione sulle tematiche che ruotano attorno
al mondo carcerario non fossero aree di approfondimento lontane o
non idonee a tutte quelle domande ed esigenze sorte negli ultimi
tempi e sollevate da più parti (allievi, genitori, docenti).
Aurora, quindi, è stata una sorta di occasione per sviluppare ed
approfondire alcune importanti questioni che coinvolgono le dina­
miche interne ed esterne alla vita scolastica: il tema della giustizia e
della legalità, la promozione e tutela dei diritti dei cittadini, l’assun­
zione di responsabilità rispetto al proprio agire in un’ottica futura di
convivenza in una società in veloce evoluzione e cambiamento.
La necessità di imparare a comprendere superando i vari pregiudizi
al fine di poter approfondire una reale conoscenza dei problemi, è
stato il punto di partenza da cui si è cominciato ad affrontare l’impe­
gnativo percorso di confronto con le tematiche sopra descritte.
L’uso consapevole del web 2.0 e la successiva creazione di un nostro
sito hanno contribuito notevolmente alla raccolta di ottimi risultati
sia in termini di ricaduta positiva sulle classi sia di un notevole incre­
mento della spinta propulsiva verso un’auspicata e consapevole
aggregazione.
L’integrazione e il confronto sono stati resi finalmente possibili
anche all’interno di un ambito di ricerca e sviluppo delle competen­
ze reso possibile ed attuabile grazie al sostegno che hanno rappre­
sentato i sussidi offerti dalle nuove risorse tecnologiche.
Il progetto è iniziato nell’anno scolastico 2010/2011 ed è stato ripro­
posto anche per il corrente anno scolastico con altre tre classi coin­
volte e si sta concludendo in questi ultimi mesi dell’a.s. 2011/2012.
Nella prima edizione, gli incontri sono avvenuti con cadenza setti­
manale per lo più in orario extra curricolare. Questo ha rappresenta­
to un notevole sforzo da parte degli allievi nell’assunzione di respon­
sabilità verso l’impegno preso, ma al tempo stesso esso ha rappresen­
44
tato anche un’occasione per vivere la scuola quale centro propositi­
vo di aggregazione: una sorta di laboratorio virtuoso da contrappor­
re alla (grigia) quotidianità, spesso rappresentata da mancanza di
progetti o impegni di tipo extrascolastico.
I risultati e le soddisfazioni hanno ampiamente ripagato l’impegno
profuso: gli studenti hanno appreso le nuove tecniche di didattica
laboratoriale, si sono confrontati ed hanno imparato a collaborare
in un lavoro di gruppo, sono venuti a contatto con la drammatizza­
zione, il roleplaying, il problem­solving, il brainstorming, ildrama in
education.
Sono stati questi momenti formativi importanti,esperienzefunzionali
alla loro formazione che, attraverso il raggiungimento degli obiettivi
prefissati, ha contribuito e sta contribuendo all’arricchimento della
loro autonomia e all’accrescimento dell’autostima: sono state attivate
strategie fondamentalmente utili quali la discussione, l’approfondi­
mento dei temi trattati mediante il supporto prezioso di vari esperti.
Molto importante si è rivelata la condivisione delle “idee” attraverso
la piattaforma informatica web 2.0: è stata un formidabile strumento
di supporto valido ad arricchire e definire la capacità di relazionarsi
degli allievi; essa ha contribuito ad agevolare un costante e sereno
confronto su temi in cui mai prima d’ora si era riusciti a costruire una
piattaforma d’interessi comuni all’interno del nostro istituto.
La visita alla casa circondariale di Venezia ha costituito un’esperien­
za decisamente significativa che ha toccato la sensibilità di ognuno
dei partecipanti ed altamente formativa nel contempo: ascoltare
direttamente le testimonianze di alcuni carcerati, poter interagire
con loro, vedere e conoscere gli ambienti entro cui si attua la cosid­
detta riabilitazione per chi ha commesso reati, hanno contribuito a
favorire un percorso preparatorio sostenuto da momenti di profon­
da riflessione
E’ stato un vero e proprio viaggio con una partenza ed un ritorno, un
percorso tracciato all’interno del cuore della città che ha avuto per
45
meta un’esperienza importante che li ha sicuramente maturati.
Gli studenti hanno percepito e realizzato compiutamente l’impor­
tanza delle attività sviluppate nel corso dell’anno ed hanno potuto
riflettere e rivedere alcune loro posizioni, alcuni pregiudizi nati da
“consuetudini” e luoghi comuni spesso sedimentatisi in loro anche
inconsapevolmente. I ragazzi, in buona sostanza, hanno permesso
che un luogo tanto lontano e sconosciuto diventasse un luogo in
grado di far scaturire in loro un momento di riflessione utilissimo
nella prospettiva del loro cammino futuro.
Vista la complessità e drammaticità delle tematiche affrontate e
nonostante vi siano state (in particolare all’inizio)una sorta di natu­
rali “resistenze” riguardanti le inevitabili difficoltà insite al rapportar­
si con la questione carceraria, posso concludere che il progetto
OLTRE L’@URORA ha risposto in modo efficace alle esigenze degli
alunni, ed ha costituito per loro una valida opportunità di crescita che
ha contribuito al raggiungimento di alcune preziose competenze ed
alla formazione di una sorta di nuova idea di essere cittadini: quella
di una cittadinanza che può e deve divenire attiva e consapevole.
Tutto ciò è stato reso possibile da una stretta collaborazione con le
aree preposte del Comune di Venezia.
Un ringraziamento doveroso va dunque rivolto all’impegno profuso
dagli operatori coinvolti che hanno voluto e saputo realizzare in
modo efficace ed efficiente un progetto che si è sviluppato all’inter­
no di un percorso difficile, ma dall’alto valore educativo.
Chiara de Manzano ha conseguito il titolo di Magistero Accademico in Scienze
Religiose presso L’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Portogruaro (VE) nel
1990, si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia
nel 1999 e ha frequentato un Master biennale in Bioetica presso l’Università
Cattolica “A. Gemelli” di Roma negli anni 2005­2006.
Nel 2000 ha vinto l’ultimo concorso ordinario a cattedre. Dal 2008 insegna mate­
rie letterarie nelle scuole superiori.
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Il titolo del prossimo numero
di QuaderniGLEV
(novembre 2012) sarà:
GUARDARE LONTANO
Gli articoli dovranno pervenire entro il 30.09.2012 alla casella di
posta elettronica [email protected]
Stamperia Cetid S.r.l. - Venezia/Mestre
Maggio 2012
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