Libri/Recensioni e Schede a cura di Roberto Segatori
Ariel Toaff
Il vino e la carne. Una comunità
ebraica nel Medioevo
Bologna, Il Mulino, 1989,
Ristampa 2007, pp. 316, euro
12,00.
Ecco un “romanzo” che ci offre
Ariel Toaff (Ancona, 1942),
rabbino e storico medievista,
figlio del rabbino capo emerito
di Roma Elio Toaff, e divenuto
improvvisamente noto al grande
pubblico nel febbraio del 2007,
quando uscì la prima versione
del suo libro Pasqua di sangue.
In quell’opera Toaff riportava
le accuse rivolte ad alcuni
ebrei ashkenaziti medievali
di compiere omicidi di infanti
cristiani nel periodo di Pasqua
per usare il loro sangue in
riti anticristiani. L’autore,
pur riconoscendo il carattere
generalmente falso delle accuse,
non escludeva la possibilità che
alcuni estremisti ashkenaziti
avessero potuto abbandonarsi a
tale pratica. Lo stesso Toaff ebbe
peraltro modo di chiarire la sua
tesi storiografica nell’edizione
successiva del volume. Ma,
diciotto anni prima, l’autore
aveva pubblicato l’interessante
testo che qui presentiamo.
Il vino e la carne tratta della
comunità ebraica insediata
in Umbria tra il XIII e il
XVI secolo. Come mostra la
cartina di p. 16, gli ebrei erano
abbastanza numerosi in alcuni
centri maggiori (Perugia, Terni,
Foligno, Città di Castello,
Spoleto), ma si trovavano
anche, con nuclei familiari di
rilievo, in centri minori come
Bevagna, che entra qui in ballo
per una vicenda assolutamente
emblematica.
Sulla base di analitici documenti
d’archivio, il libro esplora in
particolare tre dimensioni: a)
le attività ricorrenti degli ebrei
umbri; b) la convivenza adattiva
con la popolazione cristianizzata;
c) le dinamiche conflittuali con
gli stessi autoctoni.
Circa il primo aspetto, Toaff
dedica tre capitoli a illustrare
come gli ebrei ricoprissero
soprattutto ruoli di mercanti
e artigiani, medici e cerusici,
banchieri con banchi di prestito
contro pegni. L’approfondimento
delle altre dimensioni muove
dal fatto che il rispetto rigoroso
delle pratiche religiose da
parte ebraica e alcune attività
particolari (soprattutto la
gestione dei banchi di prestito),
richiedessero accorgimenti non
sempre accolti pacificamente
dalla popolazione, quasi
totalmente cristiana. Ad
esempio, ci si barcamena
nelle vicende di sesso, amore
e matrimonio. Purché il
matrimonio sia tra ebrei, le
esperienze prematrimoniali
possono svolgersi anche con
donne gentili, ossia donne
cristiane. Ci si accorda con le
autorità locali per la gestione
dei morti e la salvaguardia
delle abitudini rituali di tipo
alimentare: si ottengono così
spazi cimiteriali riservati, come
pure la possibilità di macellare
carne casher o di effettuare la
pigiatura dell’uva per il vino da
piedi (almeno dichiarati tali) di
ebrei.
Ma non tutto appunto si risolve
pacificamente. Qualche secolo
prima di Hitler, e su disposizioni
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che muovono dal IV Concilio
Lateranense (1215), agli ebrei
è spesso imposto il segno: una
rotella gialla sul vestito per gli
uomini e orecchini a forma di
anello per le donne. Durante la
Settimana Santa, fomentati da
frati che richiamano il deicidio,
i debitori dei banchi dei pegni si
abbandonano a “sassaiole sante”
contro le case degli ebrei. Sta
qui invero il nucleo dell’odio
che gli ebrei suscitavano in
modo ricorrente: un motivo
concreto (i prestiti a condizioni
che sfioravano l’usura) e un
argomento ideologico (l’essere
identificati negli uccisori di Gesù
da una pervicace tradizione
dottrinale cristiana).
È a questo proposito che
Bevagna diviene nel libro la
scena di un caso esemplare.
Quello della lunga fortuna e
della repentina disgrazia della
famiglia di Abramo, originario
di Perugia, sposato, nel
1449, a Rosa di Giacobbe di
Bevagna e qui venuto a vivere
in una bella casa nel quartiere
Sant’Angelo. Patriarca di un
esercito di figli e nipoti, Abramo
aveva banchi e interessi, oltre
che a Bevagna, a Spello e a
Foligno, ad Amelia e ad Assisi,
a Perugia e a Spoleto. Ma la
campagna dei frati minoriti,
alimentata da Bernardino da
Feltre intenzionato a chiudere i
banchi ebraici per sostituirli con
i cristiani Monti di Pietà, portò
alla rovina i suoi figli, anche per
la falsa testimonianza di Pietro
Antoniuccio, un bambino di
Bevagna (un santo mancato,
ironizza Toaff), che li accusava
di aver tentato di compiere ai
suoi danni un omicidio rituale.
Accuse infondate ma con effetti
concretissimi, che si sarebbero
generalmente imposti nel secolo
successivo.
Piccola era dunque Bevagna,
ma importante assai, visto che
qui si svolgevano microstorie
direttamente connesse con la
macrostoria.
Libri
Musica in piazza. La Banda
musicale di Bevagna, gli uomini
le vicende, le immagini. A cura
di Annarita Falsacappa, Marta
Gaburri, Laura Lorentini,
Cristina Palomba, Franco
Proietti, Filippo Salemmi.
Documentazione iconograÞca a
cura di Massimo Berzetta
Spello, Dimensione Grafica
Editrice, 2010, pp. 355.
del Concerto/Banda succedutisi
dal 1854 ai giorni nostri,
Marta Gaburri e Annarita
Falsacappa raccontano in
realtà, con grande dovizia di
particolari, le vicende delle
principali famiglie bevanate,
gli ingorghi istituzionali che si
verificano tra i governi locali e
i regimi nazionali, la dialettica
spesso nervosa che si ripropone
ogni volta tra conservatori
e progressisti, clericali e
anticlericali, nobili, borghesi,
proletari e sottoproletari.
Avvicinandosi al presente, il
volume è impreziosito dalle note
tecniche di Filippo Salemmi, il
maestro di oggi, e dagli snelli
contributi di Laura Lorentini,
Cristina Palomba e Franco
Proietti. Il tutto accompagnato
dal mirabile corredo iconografico
curato da Massimo Berzetta.
Per i bevanati si tratta di un
libro fondamentale per la
storia e per il cuore. Per chi,
innamorato di cultura, volesse
conoscere la Bevagna degli ultimi
centosessant’anni, un passaggio
obbligato.
Questo libro nel suo genere
eccezionale porta nel titolo i suoi
tre riferimenti fondamentali.
Musica in piazza è in primo
luogo un omaggio all’omonimo
film del 1936 di Mario Mattòli,
gloria cinematografica locale
e nazionale. La piazza è lo
spazio del Noi grande (qui dei
bevanati), ovvero il luogo in cui
si svolgono da sempre le pratiche
collettive e in cui le motivazioni
private si trasformano in
opinioni di rilevanza pubblica.
La musica è il filo conduttore del
volume, la colonna sonora con
cui i musicanti del popolo alto e
basso (dalla Cappella musicale
alla Società del Concerto, dalla
Banda di Bevagna alle Fanfare di
Cantalupo e di Torre del Colle)
celebrano il genius loci, in vivace
dialettica con le retoriche delle
varie stagioni politiche.
Nel tracciare le biografie
e i repertori dei vari maestri
Antonio Carlo Ponti, Antonio
Lanari
Mevaniae Nomina da Abele
a Zopiro. Nomi strani e
soprannomi di Bevagna.
Presentazione di Attilio Bartoli
Langeli. Prefazione di Roberto
Segatori.
Con una nota di Ombretta
Ciurnelli
Perugia, EFFE Fabrizio Fabbri
Editore, 2012, pp. 101, euro
9,00.
Come ricorda Curzio Malaparte
nel citatissimo Maledetti
Toscani (1956), Bevagna desta
meraviglia anche per i nomi
della classicità attribuiti ai suoi
abitanti. «Udrai», egli scrive,
«[…] dal forno alla fontana,
dal lavatoio alla cucina, dalla
stalla al frantoio, Temistocle
chiamare Cassandra, ed
Elettra Agamennone, ed Ecuba
Astianatte, e Tiresia Antigone».
Mosso da “curiosità e amore”,
Antonio Carlo Ponti, con l’aiuto
di Antonio Lanari (autore
anche del pregevole inserto
Memoriale da Cantalupo), si
mette a spulciare con indefesso
ardore l’elenco telefonico,
l’anagrafe comunale, le lapidi
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Libri
del cimitero e del monumento
ai caduti e ogni altra forma
di memoria, per trovare un
riscontro all’originalità dei nomi
dei suoi concittadini del cuore. Il
risultato è un prezioso volumetto
in cui Ponti ci offre pagine e
pagine di nomi e soprannomi
(un vero e proprio repertorio),
precedute da godevolissime
Cronachette di un desiderio
antico, ricche di ricordi e di
poesie in dialetto, in cui, oltre a
quelle dello stesso Ponti (si legga
l’incisiva Lapidi), meritano di
essere segnalate quelle di Cesira
Nardi (L’elenco telefonico) e di
Gian Paolo Nardi (La filastrocca
de li Peppi, Pippini eccompagnia
bbella).
Il volume è arricchito da
una Presentazione di Attilio
Bartoli Langeli, da una
Prefazione di Roberto Segatori
e da una Nota di onomastica
di Ombretta Ciurnelli. Nella
sua presentazione il paleografo
Bartoli Langeli scrive
giustamente: «Bella questa
storia dei nomi di Bevagna,
e ben raccontata in questo
libretto. Potrebbero andarci
a nozze l’antropologo, lo
storico, il filosofo, il linguista.
Avrebbero modo, l’uno o
l’altro, di tirarne fuori un
bel po’ di spunti per studiare
l’invenzione della tradizione
o i meccanismi di costruzione
del mito». Già, perché, ad
onta delle sue mille chiese, a
Bevagna i nomi della cristianità
hanno ceduto spesso il passo
all’onomastica della classicità
pagana e all’Ottobrismo (ebbene
sì, compare anche questo nome)
della tradizione laico-socialista.
Giulio Urbini
Spello, Bevagna, Montefalco.
Collezione di Monografie
illustrate
Bergamo, Istituto Italiano d’Arti
Grafiche, 1913.
Ristampa anastatica
dell’originale a cura
dell’Associazione Orfini
Numeister.
«In una pingue valle ben
coltivata e ricca delle acque
del Topino, del Timia, del
Clitunno, dell’Attone, sorge, a
225 metri sul livello del mare, la
“caliginosa” Bevagna, riparata
a mezzodì e a ponente da basse
colline con tratti boschivi, ma
nella più gran parte ricoperte
d’olive e liete dei canti della
vendemmia». La sua popolazione
è fatta di «gente vigorosa, di
buon umore, cordialmente
ospitale, amatissima della musica
e che risponde, non di rado, a
nomi classici, quasi a testimonio
dell’antica grandezza».
Cominciano così le belle
pagine (59-86) della Guida
che Giulio Urbini dedica a
Bevagna, inserendola tra
Spello e Montefalco. L’autore
prosegue con veloci pennellate
di storia, per soffermarsi poi
sui personaggi illustri della
città: Vareno che cadde nella
sua «bianca armatura»,
il cinquecentesco Alfonso
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Ceccarelli, famigerato
falsificatore, «ond’ebbe tronca
prima la destra e poi la testa»,
Alessandro Aleandri, Fabio degli
Alberti e Francesco Torti.
La Guida, dopo un cenno alla
piccola chiesa della Madonna
della Rosa, provvede quindi
ad illustrare Bevagna seguendo
un itinerario che muove dalla
Porta Folignate e attraversa
le mura medievali edificate su
resti romani. Delle numerose
chiese vengono illustrati
minuziosamente dipinti e lapidi,
tornando con convinzione sulle
attribuzioni al Fantino (pittore
singolo e non duplice) e a
Camassei.
Tre cose, più di altre, colpiscono
Urbini: «l’importante Mosaico
romano, con un bellissimo
meandro a tessere bianche e
nere, in casa Aleandri»; «I
notevoli avanzi dell’Anfiteatro
[in realtà il teatro], che si
calcola capace di diecimila
spettatori, che, sotto e presso le
case Marinucci, Angeli Nieri e
altri, si diramano da una parte
verso il Monastero del Monte e
dall’altra, passando per la casa
Bartoli, fin verso il convento
di S. Francesco»; e «Il più
insigne monumento d’arte che
oggi possegga Bevagna; cioè la
tanto notevole sebbene forse
non abbastanza nota Basilica
di S. Silvestro, fortunatamente
sfuggita al pericolo che
verso il 1870 la minacciava
per un malinteso disegno di
allargamento della piazza».
Dal 1913 sono giusto passati
cento anni. Ma chi se la sente di
dare torto a Giulio Urbini?
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File - Accademia di Bevagna