digital magazine | dicembre 2012 | n. 98
Bob mould
w
John Cale
House Is
The Temptation
alke
r
Sc o t t
sentireascoltare
turn on – p. 4
Mimes Of Wine
Ronin
The Soft Moon
#98
dicembre
Yousef
tune in – p. 12
Direttore
Edoardo Bridda
John Cale
drop out – p. 16
Scott Walker
House Is The Temptation
Santo Barbaro
rearview mirror – p. 102
Bob Mould
recensioni – p. 44
gimme some inches – p. 100
classic album – p. 116
Direttore Responsabile
Antonello Comunale
Ufficio Stampa
Alberto Lepri, Teresa Greco
Coordinamento
Gaspare Caliri
Progetto Grafico
Nicolas Campagnari
Redazione
Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda,
Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion,
Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia,
Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco
Staff
Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia,
Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante,
Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere,
Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo,
Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri
Copertina
Scott Walker (foto © Jamie Hawkesworth)
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare
online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590
del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
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Canzoni che diventano memorie. La Spoon River dei Mimes Of Wine, forte di un
romanticismo in parte lunare e sinistro, in parte solare ed aspro.
Mimes Of Wine
Giro di Vite
La musica ha la capacità di prendersi il proprio spazio,
di sottolineare un attimo, di farsi firma per un evento,
un pensiero, finanche per un’opinione. La buona musica può addirittura trascendere e farsi memoria. Come
Haruki Murakami che cita i Beatles in Tokyo Blues e le
diverse Penny Lane, Julia, Nowhere Man più che siglare
semplicemente uno stacco, un passaggio, un dialogo, si
fanno sostanza stessa del libro. Canzoni che diventano
memorie. Quelle di Memories For The Unseen hanno lo
stesso spirito confidenziale, riservato, intimo del sussurro
4
notturno degli amanti, delle lettere sporche dal fronte, di
una carezza inaspettata. E’ il Giro di Vite secondo i Mimes
Of Wine, la loro Spoon River, forte di un romanticismo in
alcune parti lunare e sinistro, in altre solare ed aspro. In
definitiva uno spirito molto “rock”, come dovrebbe essere il rock nel 2012: tagliente, colto, pieno di una passionalità che si è persa da tempo.
Come fosse una medium che parla per i suoi fantasmi,
Laura Loriga si incarica di trasmettere ai posteri le opinioni degli invisibili: «l’ album raccoglie le storie di dodici
voci che ritornano per parlare a qualcuno di importante,
per riaprire un momento del passato, legate da un’idea
piuttosto variegata di ritorno. A volte è l’immagine di un
ricordo ad essere descritta, a volte le immagini vengono
inventate per dare concretezza a quello che viene detto e
chiesto. In tutti i brani, chi parla tramite la mia voce, lo fa
sempre dal retro della scena (per tre volte sono personaggi vivi solo nei libri), ma si tratta sempre di una presenza
centrale, che guarda da molto tempo ciò di cui è parte silenziosa, mossa da un desiderio di essere infine, vista. Si
tratta di dialoghi tra fantasmi veri, di battaglie, preghiere,
scherzi e amori, dietro ai quali a volte mi nascondo anche
io stessa.» Memories For The Unseen, secondo disco
firmato Mimes Of Wine ha il carattere intimo del diario
personale, enfatizzando sotto questo aspetto l’intimismo
pianistico di Apocalypse Sets In.
Eppure, se il merito di Laura Loriga fosse stato solo quello di buttar giù un abile secondo capitolo, non avremmo
avuto una collezione di canzoni così coesa e dinamica,
marchiata da quell’umore agrodolce che è ormai un trademark. Sottolineato da un parterre strumentale assai
più ricco, Memories For The Unseen è la testimonianza di una musicista che si conquista il proprio spazio e
diventa cosciente delle proprie capacità: «L’approccio in
sé è rimasto lo stesso, ma crescendo e cambiando i miei
ascolti e le esperienze fatte nei due anni che mi separano
dal primo disco, i risultati si sono sicuramente a loro volta
trasformati. Ho semplificato i brani per concentrarmi di
più sullo sviluppare idee definite, e il concetto che li unisce
mi ha guidato nel dare ad ognuno di essi il suo posto e il
suo colore». In questo senso, più di una mano arriva dai
musicisti che gravitano attorno alla sigla Mimes Of Wine
fin dall’inizio e dal rodaggio dal vivo: «In realtà i live del
disco scorso sono stati fatti con musicisti diversi e molte
variazioni di formazione. Questa volta la band che ha registrato sarà anche quella al mio fianco sul palco. Tutti i suoi
componenti hanno influito moltissimo sugli arrangiamenti
e il suono finale dell’album: Stefano Michelotti, Luca Guglielmino, Matteo Zucconi, Riccardo Frisari, Helen Belangie.
Altre due persone, il cui contributo è stato fondamentale,
sono Adam Moseley (con cui ho lavorato sul mix e il master
a Los Angeles) e Enzo Cimino. Quest’ultimo si è preso cura
delle registrazioni e ha colto in pieno le idee che avevamo
in mente per il risultato finale».
La vicenda si fa poi del tutto personale. Laura ha ormai
una capacità di scrittura autonoma, individuale. Le canzoni dei Mimes Of Wine hanno un respiro e uno sviluppo
sufficientemente caratteristici per svincolarsi, di volta in
volta, dai variegati riferimenti della stampa. Paragoni che
vanno dai più ovvi come Tori Amos, Lisa Germano e PJ
Harvey a quelli più strambi come Dead Can Dance e
Diamanda Galas. Interrogata sulle possibili assonanze
della propria musica, Laura non si fa pregare: «E’ buffo
perchè quasi mai chi fa confronti cita le cose che ascolto di
più, ma è anche interessante e un buon segno, perchè altrimenti vorrebbe dire che sono una seria vittima di che quello
a cui accenni, il problema di creare cose simili a quello che
si sente. Quando capita di sentire l’eco di qualcosa, credo
che stia a noi decidere se crediamo di poterlo fare nostro o
se è meglio lasciar perdere. Mi piace molto Lisa Germano
e il suo modo di scrivere sincero e forte, come mi piacciono
la maggior parte degli artisti prodotti da Michael Gira e
Young God Records. Non ascolto Tori Amos da moltissimi
anni perciò non so dire ora se mi si sia vicina o meno, ma
rimane sicuramente un complimento».
I Mimes Of Wine, complice anche il tour con i Giardini di
Mirò, sono destinati a marchiare a fuoco questo strano
autunno 2012, che non sa decidersi se diluire i postumi
di un’estate torrida o flirtare timoroso con il minaccioso
inverno all’orizzonte
Antonello Comunale
5
La scusa è l’anteprima del nuovo video dei Ronin “Fenice”. Ottima occasione per
parlare con Bruno Dorella dell’ultimo periodo della band, ma anche degli innumerevoli
progetti collaterali
Ronin
Narrare senza parole
La scelta di fare un video per la title track di un album dal titolo così pieno di significati non può essere casuale. In più l’idea alla base del girato di Fenice,
pur essendo semplice, è anche piuttosto evocativa
e adatta alla musica. Ti va di raccontarci il dietro le
quinte?
Il primo video tratto da Fenice è stato Selce, girato da
una donna (Fatima Bianchi) che fa parte del mondo della
videoart. In mezzo c’è stato il gustoso dono di Angelo
Puzzutiello per Gentlemen Only, una sorta di Romanzo
Criminale in chiave Roma Underground che ho gradito
molto. Si trattava però di un pezzo ironico, il “divertissement” del disco. Tornando ai pezzi di matrice “epica
Ronin”, Fenice è stato affidato di nuovo ad una donna
(Natalia Saurin), anch’essa riconducibile al mondo della
videoart. Questa duplice caratteristica (donna + videoarte) dà ai video dei Ronin una chiave di lettura veramente unica. Lungi dall’essere melensa, lontana anni luce
dall’esigenza di “ritmo” e appeal del videoclip. Ecco, se
qualcuno volesse capire la differenza tra videoclip e videoart applicata alla musica, potrebbe guardarsi i video di
6
Selce o Fenice, e poi guardare un qualsiasi altro videoclip.
Per quanto riguarda il canovaccio di partenza, abbiamo
dato a Natalia piena libertà, anche perché la mia visione
estetica dell’epica dei Ronin (l’eroe sconfitto, eccetera) è
piuttosto maschia e invece volevo lasciare emergere la
personalità della regista. Narrare senza parole rende impegnativo decrittare il
significato del video: ci si legge inquietudine, solitudine, aspettative disilluse, rimasugli del passato, su
cui aleggia la costante presenza della morte. Gli archi
di Manzan sul finale, insieme agli stormi di uccelli in
volo libero, arricchiscono le suggestioni musicali, ma
c’è sempre un forte senso di malinconia..
E’ quello che volevo: la visione dell’epica Ronin virata al
femminile. L’intro è di un’angoscia quasi insostenibile,
perché non ne capiamo il motivo. Quando poi ho letto che Natalia voleva girare delle immagini in un Luna
Park, ho subito capito che ne avrebbe colto l’aspetto
decadente. Questo vale anche per me: mettetemi a una
festa e vedrete la versione più solitaria e malinconica di
Bruno Dorella. La sensazione di isolamento in situazioni
di euforia collettiva mi appartiene in pieno. Infine, il volo
finale abbinato agli archi di Nicola Manzan è di grande
forza evocativa e il nesso narrativo con la pesca dei cigni
di plastica al Luna Park è geniale.
A quasi un anno dall’uscita dall’omonimo CD da cui
il brano è tratto, quale credi sia il pregio maggiore
dell’ultima produzione targata Ronin?
La registrazione casalinga, il sapore sanguigno dei pezzi che ricade anche sul suono, l’urgenza espressiva che
è stata colta da critica e pubblico. Abbiamo voluto far
passare il messaggio che si trattava di un disco “vero” e
sentito. Non che gli altri non lo fossero, ma la produzione patinata forse prevaricava il sentimento. Non so. Ma
sono contento invece che su Fenice la gente abbia colto
il messaggio.
Com’è portare un disco così “difficile” - dal punto di
vista dell’impegno con cui l’hai scritto e registrato e
del significato che ha per l’intera esperienza Ronin in tour? Avete fatto un bel numero di date...
Non so se fosse più o meno difficile degli altri. C’erano
due brani che, a causa dei contributi esterni di grande
spessore (la voce di Emma Tricca in It Was a Very Good
Year ed i fiati di Enrico Gabrielli in Conjure Man) non
potevano essere riproposti live. Ma questo è successo
per ogni disco. Mi tengo sempre un paio di brani che
esulano dal set chitarre-basso-batteria, ben sapendo
che poi, probabilmente, non potrò riproporli dal vivo.
Suonare il disco ogni sera ci ha permesso di migliorare
e cementare l’unione anche col nuovo batterista Paolo
Mongardi. La prima sera del tour, a Torino, mi ricordo che
ero emozionatissimo. Abbiamo saputo dell’uscita di Chet dalla formazione. Il commiato dev’essere stato tra lo struggente e
il cazzone, da quanto si è letto sulla vostra pagina
facebook. Nel frattempo è arrivato Diego Pasini.
Cambierà qualcosa nello stile del gruppo?
Nel Luglio 2011, quando stavo per sciogliere il gruppo,
Chet e Nicola vennero a Ravenna e mi convinsero a ripensarci. Da lì nacque Fenice. Ho deciso di ritrovarci ogni
anno a Luglio, per fare un bilancio dell’annata e capire
chi c’è e chi non c’è. I Ronin non devono essere un cappio
per nessuno. Chet ha deciso che aveva dato e ricevuto
dal gruppo quello che c’era da dare e ricevere. Siamo
amici come prima e così dovrebbe essere sempre, se i
rapporti sono limpidi e corretti. Gli auguro ogni bene
coi Quasiviri. Diego è appena arrivato, abbiamo fatto un
paio di registrazioni e un solo concerto. E’ giovane e ha
una gran voglia di suonare. Ha portato nel gruppo una
bella energia e una sana dose di tensione propedeutica. Ovo, Ronin, Bachi da Pietra sono i progetti che ti vedono impegnato attualmente. Cosa ti piace di ognu-
no di essi e come cambia il tuo approccio - in termini
strettamente musicali ma anche di attitudine - passando da una formazione all’altra?
Cambia tutto in ogni gruppo: genere, strumento, attitudine. Negli OvO suono la batteria, il genere è in qualche
modo riconducibile al noise-rock, io e Stefania Pedretti
ci dividiamo equamente le responsabilità compositive
e organizzative. Nei Ronin suono la chitarra, scrivo io i
pezzi e dirigo il gruppo e il genere è strumentale/cinematografico. Nei Bachi da pietra scrive e dirige Giovanni
Succi, io suono la batteria in un ruolo di gregario d’oro
che mi piace molto e il genere è più o meno affine alla
canzone. Come vedi è tutto molto diverso, non corro il
rischio di mischiare troppo o confondermi....
Ultimamente il tuo alter ego nei Bachi da Pietra, Giovanni Succi, ha lavorato sul progetto La Morte con
Rico di Uochi Toki. Come lo giudichi? Che ti pare del
suo impegno nell’ambito dei reading inaugurato con
Il Conte di Kevenhüller?
A me sembra straordinario. In questo momento sono
davvero pochi in Italia a scrivere e leggere con la sua
intensità, nel mondo della musica. Il Conte di Kevenhüller mi ha coinvolto oltre ogni aspettativa, tanto che ora
sto seguendo il blog (caproni.org) come se fosse un’avvincente serie TV. Ho visto La Morte Dal Vivo al suo esordio, pochi giorni fa, e ne sono entusiasta, sono riusciti ad
inventarsi un modo convincente di affrontare la lettura
in musica, ed hanno margini di miglioramento tali che
non mi stupirei se diventassero un “caso” nazionale. Se
poi aggiungi che Rico Uochi Toki è anche il fonico degli
OvO dal vivo, ecco che le mie sorti sono legate a doppio
filo a La Morte. Ma non pensare che il mio giudizio su di
essa sia ammorbidito da ciò, anzi... Sono severo censore
di Rico e Giovanni, e loro lo sono per me. Ci diciamo
sempre cosa ci piace e cosa no di quello che facciamo, è
il modo migliore di aiutarsi a vicenda.
Domanda inevitabile e certamente fuori tema, considerato l’argomento principale di questa intervista:
puoi darci qualche anticipazione sul nuovo disco dei
Bachi da Pietra in uscita a Gennaio 2013?
Sarà un disco hard rock. Non scherzo.
Fabrizio Zampighi, Stefano Pifferi
7
Arriva Halloween e puntualmente torna The Soft Moon, questa volta con il secondo
LP, Zeros. Nell’intervista esclusiva ci racconta l’evoluzione del progetto e del processo
creativo, la collaborazione con John Foxx ed i retroscena dello scorso tour in Italia...
The Soft Moon
Adult, focused darkness
The Soft Moon è nato come progetto estremamente
introspettivo. A livello di registrazione, hai fatto nuovamente più o meno tutto per conto tuo anche per
il nuovo album, Zeros? O questa volta hai preferito
spostarti dalla tua “cameretta” allo studio?
Ho scelto di scrivere anche il grosso di Zeros per conto
mio e a porte chiuse, eppure questa volta ho finito per
portare tutto il materiale che avevo registrato e prodotto (a metà) in uno studio professionale per espanderlo
ulteriormente. The Soft Moon resta un progetto intro8
spettivo e sempre lo sarà, in quanto le mie intenzioni
sono tuttora quelle di guardarmi dentro per ragioni terapeutiche, così come di esprimere la mia creatività e le
mie sensazioni.
Che diresti della tua nuova musica? Dalle due canzoni di lancio, Die Life e Insides, mi è parso che dal punto di vista sonico tu abbia voluto prenderti un altro
disco per portare ancora avanti il tuo discorso. Ma
qualcosa è cambiato in termini di mood o punto di
vista magari?
Credo la differenza principale sia che Zeros tratta di prospettive della vita attraverso gli occhi e le orecchie del
me stesso adulto, mentre invece il primo disco puntava
alla riscoperta dell’infanzia che mi sembrava di avere rimosso, oscurato. Approcciarmi a Zeros come adulto mi
ha portato ad essere molto più focalizzato e preciso. Ho
sentito di avere molto più controllo che in precedenza
nello sviluppo di questo disco ed allo stesso tempo di
poter continuare a lasciare che le cose semplicemente
venissero da sè.
Hai collaborato con l’ex-cantante degli Ultravox John
Foxx e la sua band, the Maths, per il 7” Evidence che è
uscito sempre per Captured Tracks lo scorso giugno.
Come sei finito a lavorare con lui? Come è stato? Che
hai ricevuto da questa collab in termini di esperienza/trucchi del mestiere?
John Foxx mi ha contattato un paio d’anni fa proponendomi una possibile collaborazione. Tutt’oggi non so bene
come avesse scoperto The Soft Moon. In ogni caso, poco
dopo che mi contattò, io e la band avevamo uno show
fissato a Londra, così lo misi in lista per discuterne nel
backstage. Pochi mesi dopo il nostro incontro mi mandò
qualcosa su cui lavorare: una sequenza interessantissima che aveva creato usando uno dei miei sintetizzatori
preferiti, l’Arp Odyssey. Dal canto mio, avendo amato alla
follia il suo primo album, ho deciso di spingere in quella
direzione, sperando di echeggiare un qualche tipo di nostalgia per entrambi e allo stesso tempo di creare qualcosa di fresco. Dopo una serie di back and forth di rispettive
idée siamo alla fine arrivati ad aver per le mani un pezzo
incredibile. Ciò che ho guadagnato da questa esperienza
è stata la realizzazione di non essere poi davvero il lupo
solitario che pensavo e quindi effettivamente di poter
lavorar bene con altre persone.
Ho notato che il nuovo album uscirà il giorno prima di
Halloween, esattamente come fu per l’EP dello scorso
anno, Total Decay. Questo non è altrettanto valido per
il tuo s/t del 2010 ma immagino possa magari essere
perchè all’epoca non avevi lo stesso controllo del tuo
progetto che puoi vantare ora. Per cui ti chiedo: è una
sorta di via figurata che ti sei scelto per incanalare e
rilasciare le atmosfere tetre, l’oscurità e le paure che
stanno in piedi con la tua musica dove popolarmente
appergono?
Total Decay doveva in realtà uscire esattamente per
Halloween. Per qualche ragione non ho preso l’EP tanto seriamente quanto i full-lenght ed è per questo che
mi è stato bene venisse rilasciato in corrispondenza di
tale festività, mentre in un’altra situazione tale mossa
mi avrebbe fatto sentire piuttosto “fasullo”. In ogni caso
per quella release il timing era corretto e mi sembrò una
buona idea. Il fatto che Zeros esca in data similare è una
coincidenza. La scelta riguarda piuttosto il lanciarlo in
autunno, in quanto sento le sue sonorità come particolarmente adatte per questa stagione. Ma hai ragione:
ironicamente [quella delle uscite sotto Halloween] potrebbe diventare una vera e propria tradizione per The
Soft Moon.
Parlando di touring, dobbiamo onestamente ammettere che il tuo concerto dello scorso anno a Bologna
fu ben lungi dall’essere pubblicizzato a dovere. È andato così male in termini di risposta del pubblico da
averti convinto a saltare a piedi pari l’Italia nella tua
prossima tour-leg europea? O hai in programma di
tornare comunque presto a farci visita?
A dir la verità, quella data mi piacque molto e anzi finì
per diventare uno dei miei personali highlight di quel
tour. L’affluenza è stata persino migliore di quanto mi
aspettassi, considerando che prima di allora non avevo
mai sentito parlare di Bologna. Inoltre, nonostante sia
vero che i sold-out si fecero a Milano e Roma, fu effettivamente in occasione di quella performance che ho
percepito la connessione più forte col pubblico. Sarò di
ritorno in Italia a Marzo 2013!
Massimo Rancati,
9
L’intervista esclusiva al leader di uno dei club più importanti al mondo, il Circus di
Liverpool. Arrivato al suo secondo album, Yousef vuol andare oltre la consolle.
Yousef
The Importance Of Being (more than) a DJ
Ha compiuto a Settembre 10 anni di gloriosa attività, il
Circus Club di Liverpool, e non vogliamo immaginare
cosa devono essere stati i festeggiamenti con dietro la
consolle Sasha, Seth Troxler, Maceo Plex, David Squillace e Lewis Boardman. Ovviamente c’era anche lui,
Yousef, il fondatore del club, il responsabile del prestigio
degli eventi Circus, che negli anni passati hanno ospitato
nomi come Laurent Garnier, Luciano, Richie Hawtin,
Ricardo Villalobos, Sven Vath, Carl Cox e avviato le
carriere DJ degli allora giovanissimi Jamie Jones, Seth
Troxler e Loco Dice. Era dietro alla consolle, preso come
sempre a offrire al pubblico il più elettrizzante evento
house di cui è capace, ma alemo una volta la sua mente sarà andata al suo nuovo album A Product Of Your
Environment, al suo sottile smarcamento dalla dimensione club e alle recenti, nuove ambizioni di producer.
Una differenza che si nota, se rapportata al primo A Collection Of Scars And Situations. Se quello era l’album
fatto per il suo pubblico, che raccoglieva pezzi già noti
ai frequentatori del club, il nuovo album ha voglia di
offrire anche una differente prospettiva d’ascolto. Accanto a hit da dancefloor come Think Twice o In Fear Of
Dusk, che restano comunque il marchio di fedeltà del
producer britannico, compaiono anche pezzi più lenti
e densi di suggestioni esotiche come What Is Revolution o una prova di coraggio dall’ambizione pop come I
See, arricchita dalla sezione cantata di Chari Taft. Anche
Yousef, insomma, vuole un orizzonte più ampio del solo
ambiente club, ambizione che prima o poi coinvolge
tutti i DJ dotati di capacità di producing.
L’obiettivo, come dice lui stesso, è invogliare la gente
ad ascoltare ed apprezzare l’album anche in cuffia, una
mossa importante anche quando non riesce alla perfezione, volta ad evolvere un rapporto consolidato DJpubblico oltre la pista e trasformarlo in un legame più
profondo e affezionato. È per questo che Yousef appare
così entusiasta nell’intervista che segue: sta scoprendo
di essere qualcosa in più che solo un DJ, e vedere che
sono in molti ad accorgersene significa che sta andando
nella giusta direzione.
10
Ciao Yousef,parlaci dello spirito di A Product Of Your
Environment e di come si differenzi rispetto all’album precedente.
Il nuovo album era pensato come produzione in studio
fin dall’inizio, mentre l’altro alla fine era una serie di tracce precedenti messe insieme. A Product Of Your Evnironment vuole raccontare una storia, essere ascoltato
dall’inizio alla fine. Ha molti momenti club ma è più che
una serie di tracce da dancefloor, ho voluto mettermi
alla prova lato house e techno, coinvolgendo anche elementi live.
Possiamo dire che il nuovo album ha un maggiore
appeal d’ascolto? Penso a tracce come What Is Revolution o I See...
Sì, l’idea era quella, farmi conoscere anche come producer e artista, non solo come DJ. Sono sempre un DJ prima
di tutto, ma so bene che tanti album fatti dai DJ si finisce
per non ascoltarli mai fino alla fine. Mi sono sforzato di
fare un lavoro che vale il tempo speso dall’ascoltatore,
e poi magari dopo l’ascolto il DJ può tirar fuori le tracce
più forti per il club. Il progetto è in equilibrio tra l’ascolto
in casa o in macchina e i momenti in pista. Pezzi come
Feel The Same Thing, For The Terraces, In Fear Of Dusk son
già finite nei set di Marco Carola, Loco Dice, Carl Cox,
Magda, Nic Fanciulli e altri.
Cosa si aspetta la gente da un album del leader del
Circus? Ti senti forzato a far musica che rifletta le notti nel club, o sei libero di provare quello che vuoi?
Al Circus c’è sempre house e techno di qualità, chiamiamo i migliori DJ ma li incoraggiamo anche a prendere
iniziativa e mettere nuova musica. Come DJ e come capo
del Circus ovviamente voglio sempre spaccare nel dancefloor, ma stavolta ho voluto spingermi oltre. Molti dei
pezzi dell’album sono già degli inni al Circus, intendiamoci, ma l’album è pensato come qualcosa in più della semplice dimensione club, ho voluto una maggiore
libertà.
In quest’album ho sentito suoni meno urbani. Qualcosa di più jazzy, esotico, come serate estive ballando
in spiaggia. È il tuo modo di evadere?
Grazie. Ascolto ogni tipo di musica e ho viaggato molto
quindi sono aperto a ogni influenza. Mi piace pensare
che la musica porti l’ascoltatore alla deriva e lo spinga
ad ascoltare le melodie e i testi (che scrivo anch’io da
me). Ogni traccia è una storia che ho voluto raccontare.
Quest’album mette in mostra tutte le potenzialità
della house: la melodia, l’immaginazione, il movimento, l’orientamento pop, il clubbing... esiste uno
stile più flessibile di questo?
Grazie di nuovo, son contento che tu abbia compreso
cosa ho tentato di fare. È stato un progetto molto personale, per me. I pezzi sono mixati in modo da suonare
gentili all’orecchio e forti nel club. Concordo, la house è
molto flessibile. Dicono che la house è musica di sensazione e se sono riuscito a infondere sensazioni alla gente,
allora posso ritenermi soddisfatto.
Il tuo club ha celebrato da poco dieci anni di attività.
Com’è stata la festa?
Sì, è stato un viaggio folle. Dagli inizi umili al diventare
club UK dell’anno a ospitare il 500esimo Essential mix
party di BBC Radio. Ormai abbiamo chiamato chiunque, Hawtin, Cox, Villalobos, Carola, offerto a DJ come
Loco Dice e David Squillace i loro primi concerti in UK,
ospitato gente sconosciuta come Seth Troxler e Jamie
Jones nei loro primi set di riscaldamento tanti anni fa.
Cerchiamo sempre di fare il party più divertente possibile. Il sabato del nostro decimo compleanno è stato incredibile, Seth, Sasha, Davide, Maceo Plex e ovviamente
anch’io. È bellissimo aver raggiunto dieci anni.
Quali sono i tuoi producer preferiti al momento?
Ci son molti stili che apprezzo, Maceo Plex, Davide
Squillace, Nicole Mouderber, Just Be, Tom Flynn,
Lewis Boardman, Dj Sneak, Hot Since 82, Butch, etichette come Cadenza, Desolat, Intec, Ellum Audio e Cecille. Chiunque produca un buon sound, la cui music sia
interessante, abbia sentimento, spacchi in pista e sia più
originale possibile.
Prossimi obiettivi?
Sto già lavorando ad alcune tracce per clubbing. Più
tagliate del mio album, studiate per far ballare e stare
bene. Ne ho già pronte 5, le farò uscire dopo l’album.
Continuo a organizzare eventi Circus a Liverpool, Londra
e New York e penso ancora di allargare il raggio d’azione
(forse Italia?). L’etichetta Circus è presa a bloccare nuovi
talenti. Sono sempre al lavoro e in viaggio. Ora comincia anche il tour dell’album, America, Sud America, Asia,
Australia e un’infinità di concerti in Europa.
Il DJing è la mia passione, e così anche far musica.
Carlo Affatigato
11
John Cale
Le shifty adventures di un giovane settantenne
Un nuovo album, una ristampa celebrativa del debutto dei Velvet
Underground, un imminente tributo live a Nico a Brooklyn e altri
ottimi motivi per parlare oggi dell’eclettico pioniere del rock
testo: Alessandro Liccardo
Ci sono molti buoni motivi per tornare a parlare, nel
2012, di mr. John Davies Cale. Certo, questo è l’anno
della riedizione celebrativa (anche in veste super deluxe)
di The Velvet Underground and Nico, ma anche quello che
segna il suo ritorno discografico - anticipato lo scorso
anno dall’Ep Extra Playful, primo tassello della collaborazione con l’etichetta Domino - con l’album Shifty
Adventures In Nookie Wood. I più fortunati lo vedranno
anche alla BAM Howard Gilman Opera House di Brooklyn, il prossimo gennaio, alle prese con Life Along the
Borderline: A Tribute To Nico insieme ad altri ospiti e con
la rivisitazione integrale del già riproposto Paris, 1919
(ancora oggi tra i suoi lavori più accessibili), che festeggerà quaranta primavere.
Shifty Adventures in Nookie Wood, dicevamo. In Inghilterra possono vederci un riferimento allusivo all’amplesso (“Do you wanna have some nookie?” sembra sia
un’espressione che lascia poco spazio all’immaginazione), eppure il senso del titolo è più complesso, tetro e stravagante: l’ispirazione arriva nientemeno che
dal Giappone, dalla foresta Aokigahara (“Il mare degli
12
alberi”), resa famosa nei primi anni Sessanta da Seicho
Matsumoto e celebre ancora oggi in tutto il mondo per
l’incredibile tasso di suicidi (si parla di una media di trenta all’anno) che si verificano da quelle parti.
Nato nel Galles ma arrivato a New York a ventun anni,
Cale attirò le attenzioni di Aaron Copland e fu attivo
nell’avanguardia prima di fondare insieme a Lou Reed
(col quale si è ricongiunto tanti anni più tardi per Songs
For Drella) una delle band più influenti di tutti i tempi.
Sebbene di solito si associ l’immagine ad altri artisti
come David Bowie e Madonna, quella del “camaleonte” gli si addice particolarmente: se Paris, 1919 è la sua
visione del chamber pop, è anche vero che si deve a
lui la produzione del debutto proto-punk degli Stooges datato 1969 e di Horses di Patti Smith, tanto per
citare due dischi passati alla storia. Amante del rischio,
delle novità, ci ha insegnato come anche il suono della
viola può “dronare” e, prima di Jeff Buckley, k.d. lang e
un’infinità di colleghi che l’hanno aggiunta al proprio
repertorio, ha riconosciuto la bellezza di Hallelujah di
Leonard Cohen, che interpretò per il tribute album I’m
13
Your Fan. La recente, interessante compilation Conflict
& Catalysis: Productions & Arrangements 1966-2006 ben
incapsula il suo ampio e variegato curriculum artistico
(tra i suoi partner di lusso ci sono i Modern Lovers, gli
Squeeze, gli Happy Mondays e i Jesus Lizards); dopo
esserre sempre stato avanti nelle intuizioni, negli anni
Novanta si è crogiolato un po’ con artisti-simbolo della
new wave del decennio precedente come Siouxsie (The
Rapture) e Marc Almond (è lui a suonare il piano in Love
To Die For e Come In Sweet Assassin, quest’ultimo uno dei
pochi momenti davvero riusciti nel farraginoso Fantastic
Star dell’ex cantante dei Soft Cell). Ora ci racconta che la
sua passione è l’hip-hop - cita Erykah Badu, Dr. Dre, Eminem - ma è difficile non intuire che nella sua proposta
c’è anche molta nu-new wave.
Nookie Wood è un disco di contrasti, mescola mood diversi, con coraggio e il più delle volte con successo. Per
il precedente blackAcetate del 2005 John Cale compose
le canzoni al piano e alla chitarra, ma stavolta - racconta - ha scelto un approccio meno ortodosso. C’è molto
studio, ma anche molta improvvisazione (Cale qui suona
quasi tutti gli strumenti). C’è l’AutoTune che fa capolino, per esempio, in December Rain (più Pet Shop Boys
dei Pet Shop Boys stessi!). Poi c’è Danger Mouse (Gnarls
Barkley, ma anche i Broken Bells con James Mercer degli
Shins), già all’opera con i Black Keys, Norah Jones (Little
Broken Hearts), i Gorillaz e Beck, che si diverte in una
jam session con l’eterno ragazzo settantenne dal ciuffo
improbabile.
John Cale non ama parlare del proprio passato (“lo rivisito giusto quando devo creare setlist per i miei concerti”), ma a ripercorrerlo oggi ci pensano, con riverenza,
artisti come Agnes Obel (che ha riletto Close Watch per
Philharmonics) e gli Awesome New Republic (Fear Is
A Man’s Best Friend). L’artista ha smesso da tempo di
assumere droghe (quella più forte adesso, rivela, è il
caffè) ma non ha perso la voglia di stupire, di stare attento alla nuova musica che lo circonda, perfettamente sintonizzato con gli umori del nostro tempo (già in
Hobosapiens del 2003 si respirava aria di Beta Band,
Elbow e Radiohead).
Com’è nato questo nuovo lavoro? C’è qualcosa di
radicalmente nuovo, in termini di produzione e soprattutto di songwriting, rispetto a quanto già inciso
negli ultimi dieci anni?
Sì, spero lo si possa avvertire chiaramente. E’ quello che
cerco di fare ogni volta, creare qualcosa di totalmente
nuovo, perché non mi piace ripetermi quando compongo nuova musica. L’elemento dell’electronica è molto
importante - non ho scritto i nuovi brani al piano o alla
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chitarra, stavolta; spesso si è partiti da una linea di basso,
dalla batteria, da un hook.
Quando entri in studio hai già qualche idea o molto
nasce durante le jam session? Mi riferisco in particolare al brano con Danger Mouse, I Wanna Talk 2 U..
Con Danger Mouse è nato tutto esattamente così, improvvisando, sviluppando un’idea strada facendo. Un
processo compositivo bottom-up, come potremmo definirlo.
Ho ascoltato Shifty Adventures In Nookie Wood e lo
trovo straordinariamente vicino alla nu-new wave
che abbiamo ascoltato nel corso del decennio precedente. Questo lo rende classico e, allo stesso tempo, “fresco”. Che tipo di musica ascolti oggi? Quale ti
influenza di più?
Dunque.. direi Dr. Dre.. mi piace molto Eminem, per
come stende i propri testi, delle vere storie “estese”. C’è
molta black music tra i miei ascolti, è un qualcosa che ho
cercato di fare mio (lo si può notare nel brano Vampire
Cafe..). Mi piacciono molto certe tracce ritmiche sloppy,
ecco. Nell’era del digitale sembra tutto più semplice, ma
c’è ancora spazio per l’inusuale: ho scritto la parte del
piano di Face To The Sky sull’iPad, che però non ha configurazione Midi.. C’è molta elettronica in questo disco,
ma non sostituisce del tutto gli altri strumenti. Semmai
li completa: il batterista (Michael Jerome Moore, ndr) ha
il proprio spazio nella scena sonora.
Spesso quando pensiamo a John Cale ci viene in
mente il musicista sperimentatore, avanguardista.
Eppure qui emerge molto il tuo lato di storyteller..
Anche di vero e proprio “commentatore sociale”, per
esempio in Mary in cui affronti con delicatezza il tema
del bullismo omofobico, ahimé sempre attuale.
È sempre stato così. Non interessa cosa fai: sei sempre,
inevitabilmente, un commentatore sociale. Poi chiaro,
cantautore “di protesta” non lo sono stato mai, però di
tanto in tanto sento il bisogno di dire la mia su argomenti che ritengo importanti.
Come scegli i pezzi per i tuoi concerti?
Non ho una regola precisa, tutto dipende da come si
inseriscono nel contesto - specie se il set contiene moltissimo nuovo materiale. Anche come dispongo i brani
in scaletta dipende dal mood e da cosa voglio trasmettere al pubblico - quindi con quale pezzo partire, quali
inserire a metà e quali eseguire in chiusura.
Recentemente hai suonato dal vivo a Chicago insie-
me ad artisti come Bobby Womack e Zola Jesus. Trovo interessante che quest’ultima richiami Siouxsie
e Patti Smith, due artiste rock con una personalità
molto forte con cui hai lavorato nel corso della tua
carriera. Come vedi, oggi, il ruolo delle donne nel
rock e nel cantautorato?
Trovo che Zola sia fantastica! Le donne oggi sono più
presenti che in passato, emergono ottimi talenti, il loro
ruolo è più forte, più energico. Tutto questo non può
che essere positivo.
Pochi mesi fa è uscito un documentario nel Regno
Unito, Last Shop Standing, sul boom e sull’attuale crisi
dei record shop indipendenti. Se da una parte notiamo che sempre meno persone acquistano cd nei
negozi, dall’altra c’è il grande ritorno del vinile. Che
ne pensi?
Non so.. oggi esce un disco, si fa il CD, il vinile, poi ci
sono i download... a me tutte queste edizioni sembrano
il più delle volte strategie volte a confondere l’attenzione della gente. Però ritengo ancora importante il ruolo
dei record shop indipendenti: non solo sono luoghi in
cui è ancora possibile confrontarsi con appassionati, ma
c’è un legame speciale tra questi e le band emergenti
che giungono, per esempio, a proporre il loro primo Ep..
Quest’anno abbiamo celebrato il centenario della
nascita di John Cage. Un tuo ricordo particolare del
maestro?
Di Cage ricorderò sempre l’approccio peculiare alla performance, mai eguagliato dai suoi epigoni. Va fatta attenzione ai suoi Pieces, al modo in cui sono organizzati.
John, inoltre, non era proprio il tipo di persona cui si
poteva dare ordini.
Ti vedremo dal vivo in Italia?
È ancora tutto da definire. Penso che ci vedremo nel
2013.
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Scott
Walker
Antistar
La parabola artistica di un genio
musicale contemporaneo che si
spinge continuamente al di là dei
propri limiti. Un outsider assoluto
e una indiscutibile lezione di stile.
Testo: Teresa Greco
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Due flash, in ordine sparso. Q Awards 2003, apparizione assolutamente rara:
uno Scott Walker spaurito, dimesso ma dall’inarrivabile carisma riceve un
premio speciale alla carriera dalle mani del fan Jarvis Cocker, pronunciando
un brevissimo ringraziamento, contornato per la maggior parte da stelline
in una scontata fiera delle vanità. 8 gennaio 1997, in occasione del suo cinquantesimo compleanno in diretta alla BBC, David Bowie viene omaggiato
da una serie di discepoli-fan, tra i quali Brett Anderson, Damon Albarn e
Bono. Sicuramente inaspettata è la telefonata di Scott: “Come tutti, anch’io
allora vorrei ringraziarti per quello che hai fatto in questi anni, in particolar
modo per la generosità d’animo che hai mostrato verso i tuoi colleghi. Ne sono
stato il beneficiario in più di una occasione, lasciatelo dire”. La commovente
dedica del maestro all’allievo testimonia dei rapporti di stima profondi tra
i due e di come in verità quanto detto da Walker al Duca Bianco valga in
realtà per se stesso, assoluto pioniere e ispiratore negli anni per decine di
artisti, che da un certo punto in poi della sua carriera gli hanno riconosciuto
i meriti dovuti. Si veda anche a questo proposito il documentario di Stephen
Kijak uscito nel 2006, Scott Walker 30 Century Man, con le sue numerose
testimonianze, da Brian Eno a Bowie, dai Radiohead a Johnny Marr, da
Neil Hannon dei Divine Comedy a Simon Raymonde (Cocteau Twins) fino
a Jarvis e Marc Almond.
Antistar per eccellenza, l’artista americano ha l’assoluto merito di avere una
carriera qualitativamente straordinaria che dura ormai da diversi decenni, di
essere sopravvissuto a fama e celebrità giovanili negli anni ‘60 con la gabbia
dorata dei Walker Brothers, sorta di risposta ai Beatles nonché in un certo
senso precursori raffinati delle boy-band che sarebbero venute, di aver avuto
il coraggio di annullarsi e ripartire più volte e di aver intrapreso, a un certo
punto della carriera sin da metà ‘80, un percorso “altro” di musica sperimentale coraggioso e inarrivabile, da outsider al di fuori di mode e visibilità, per
andare continuamente al di là dei propri limiti, perseguendo in tal modo
un disegno coerente e alto. E riuscendo in pieno a scomparire progressiva-
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mente come persona pubblica, per rifondarsi ed esprimersi artisticamente
al meglio.
Walker fame
Ovvero come un ragazzo di Hamilton, Ohio riesce ad arrivare a Londra negli
anni Sessanta con la deflagrante esplosione pop dei Walker Brothers.
Il ragazzo in questione nasce il 9 gennaio 1943 come Noel Scott Engel da
una famiglia benestante di origine tedesca, figlio unico di una coppia che
non durerà a lungo. Il nomadismo, l’essere solitario per natura e a quanto
pare una vena ribelle caratterizzerà la sua infanzia, fino al trasferimento da
Dallas a New York, dove avviene l’incontro con la musica, che lo segnerà. Ha
meno di dodici anni quando accompagna un amico per un’audizione e viene scelto lui, nella più classica delle circostanze. Si ritrova così ad avere una
parte, faccia d’angelo dai biondi capelli, nel musical Pipedream di Rodgers
& Hammerstein; vi partecipa per un anno e mezzo non troppo volentieri
e questo gli consente l’ingresso nello show biz. Scotty Engel, “baritono da
Denver” come viene ormai presentato, ha per modelli Elvis Presley e Frankie Lymon ed esordisce nel ‘57 per la RKO con il 45 When Is A Boy A Man /
Steady As A Rock, a cui seguirà altro materiale abbastanza trascurabile in
stile rockabilly e doo-wop, cantato con una voce da adolescente che non è
ancora quella che ben si conosce.
Si trasferisce a Los Angeles nel ‘59 dove però non va come previsto e qui
conosce precocemente le delusioni di una mancata affermazione. A poco
più di 18 anni comincia intanto a prendere forma il suo gusto estetico ed
intellettuale, fatto di fascinazione per l’Europa, a base di Federico Fellini,
Ingmar Bergman, Jean-Paul Sartre, Albert Camus.
Ci riprova allora con il contrabbasso, abbandonando per il momento il canto,
diventando un ricercato sessionman, per poi continuare facendosi le ossa
nell’ambiente. Più o meno a questo punto incontra un certo John Maus,
biondo chitarrista californiano che avrebbe impartito, secondo la leggenda, lezioni a un giovanissimo Carl Wilson. Scott entra come bassista nella
sua band, Walker Family, che dopo la fuoriuscita della sorella di John, Judy,
prende il nome di Walker Brothers. Non sono ancora quei Walker Brothers,
canta John e perlopiù fanno i sessionmen. Nel giro di un anno si esibiscono
nel giro che conta e ottengono alla fine del ‘64 un contratto con la Mercury,
per cui pubblicano un deludente singolo di debutto, Pretty Girls Everywhere
(cover di una hit r’n’b del ‘58 di Eugene Church); intanto Scott ha sviluppato
una passione per crooner quali Frank Sinatra e Tony Bennett. L’occasione
giusta arriva al secondo singolo su Mercury, Love Her (firmato Mann / Weil),
la cui produzione va ai veterani Nick Venet e Jack Nitzche; trattasi di superballad per la cui voce non va bene quella di John, ed ecco come nascono
i veri Walker Brothers con la voce caldissima di Scott. Il pezzo ha il wall of
sound spectoriano, le armonie al loro posto e finalmente la formula adatta.
E di lì a non molto progettano una British Invasion, emigrando a Londra nel
febbraio ‘65. L’idea è del nuovo batterista, Gary Leeds, un breve passaggio
negli Standells, del quale più che le doti musicali (non partecipò a nessuna incisione del gruppo negli anni ‘60 e dal vivo era doppiato..) contano
quelle organizzative. L’idea è quella di far diventare i Walkers più famosi dei
Beatles e con questo progetto in mente tentano la strada d’oltreoceano. Ci
riescono di lì a non molto, raggiungendo il #1 con il terzo singolo, Make It
Easy On Yourself (Bacharach / David). Ed è Walkermania, con il personaggio
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misterioso e fascinoso di Scott, biondo e occhiali scuri, esistenzialista ed
europeo ma dal caldo crooning americano, ed intorno l’industria del pop
aureo degli anni ‘60, con grandi autori, arrangiatori ed interpreti. Trattasi di
ballad melodrammatiche, perlopiù, come My Ship Is Coming In e The Sun Ain’t
Gonna Shine Anymore, che fece strage di classifiche nell’estate ‘66. Il bilancio
è di tre LP realizzati in tre anni più alcuni singoli, la cui qualità è variegata,
che hanno dietro Scott soprattutto dal punto di vista artistico, insieme al
produttore Johnny Franz e ad arrangiatori come Ivor Raymonde (il papà di
Simon dei Cocteau Twins e della Bella Union) e Reg Guest (gli stessi dietro
a Dusty Springfield). Take It Easy With The Walker Brothers (Philips, 1965) è
il debutto sulla lunga distanza, una sorta di versione più lucidata del wall of
sound spectoriano; Portrait (Philips, 1966) è più drammatico e lascia spazio ai
singoli membri, Scott con Saturday’s Child (una sorta di River Deep Mountain
High) e Where’s The Girl di Leiber / Stoller; seguono alcune sue ottime b-side,
come Archangel e Mrs. Murphy. Scott comincia intanto a stare sempre più
per conto suo distaccandosi dagli eccessi da popstar degli altri Walkers. E
prendendone sideralmente le distanze. Come si evince in Images (Philips,
1967) ultimo disco dei “fratelli”, dove i suoi pezzi svettano: la drammatica
Orpheus, la stramba Experience e la romantica Genevieve. L’esperienza Walker
Brothers è ormai agli sgoccioli, poco successo dei singoli e le ambizioni di
John verso una carriera solista fanno il resto.
Fou r s olo s
1967, 1968, 1969: sono i tre anni che vedono l’uscita dei primi quattro dischi
solisti del Nostro e il suo affermarsi come songwriter raffinato; da un lato il lascito “commerciale” dei Walkers e il personaggio, l’idolo delle ragazzine, dall’altro l’emergere della personalità poliedrica di Scott, il decadente interprete
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dello chansonnier francese Jacques Brel nelle empatiche traduzioni inglesi
di Mort Shuman, e infine l’intellettuale curiosissimo che divora classica, avanguardia, letteratura e cinema. E tutto va allora a confluire nella produzione di
questi anni. Il primo Scott (Philips, 1967) viene premiato commercialmente da
un terzo posto in classifica e vede la presenza di una serie di cover di Brel, la
drammatica Mathilde e le siderali My Death e Amsterdam, verso le quali Bowie
si rivolgerà presto, nonché Jackie. Non mancano le originali di qualità, come la
Montague Terrace (In Blue), song orchestrale e alcune canzoni più vicine a un
gusto popolare. Il successivo Scott 2 (Philips, 1968) finisce al primo posto delle
classifiche, trainato dal singolo abbastanza facile Joanna, mentre si segnala
un gioiellino del calibro della psichedelica Plastic Palace People.
È a questo punto che, al culmine della popolarità, la BBC gli offre una serie
TV: possiamo solo immaginare come fossero andati quei sei episodi trasmessi , non essendone rimasto niente, a causa del riutilizzo dei nastri. Certo è
che il suo desiderio di privacy mal si concilia, con il passare del tempo, con
le esigenze del music biz, come si sarebbe visto di lì a poco. Il seguente Scott
3 (Philips, 1969) è quasi tutto suo, a parte tre cover breliane in coda (Sons
Of, Funeral Tango e If You Go Away); un preludio di quello che sarebbe stato
il sublime Scott 4, il terzo Scott ha dalla sua un’unità di stile che va verso il
lirismo, si vedano gli arrangiamenti di Wally Stott. Con tocchi dissonanti che
preannunciano un futuro prossimo a venire. Copenhagen, Rosemary, Two
Ragged Soldiers ma anche Big Louise, It’s Raining Today. Ottiene un terzo posto in classifica, mentre di lì a poco esce anche Scott - Scott Walker Sing Songs
From His Tv Series (Philips, 1969), un estratto di alcuni standard presentati
nello show TV. Si avverte lo stridore con la produzione corrente, dato che
trattasi di Walker virato mainstream.
E a questo punto la scelta si fa radicale: abbandonata la sua identità, il seguente Scott 4 (Philips, 1969) è pubblicato a nome di Noel Scott Engel. Solo
pezzi originali per questo capolavoro siderale: lirico e drammatico, malinconico e umorale, mescola love songs tinte di folk, rock e perfino country,
in cui si respira davvero un’aria rarefatta e impalpabile; le ispirazioni sono
palesi e vanno da Albert Camus, citato in copertina a Ingmar Bergman,
il cui Settimo Sigillo diventa una canzone (The Seventh Seal), fino a Ennio
Morricone e in generale a tutta la musica sin lì espressa, che sia Brel o il
crooning classico che adorava o Phil Spector o Burt Bacharach o la musica
contemporanea. Tutto è filtrato secondo il suo gusto alto e reso proprio.
Dieci pezzi ineguagliabili da ascoltare di seguito. Perdendosi.
Non c’è troppo da stupirsi però se questa perfezionenon fosse da classifica,
infatti Scott 4 non vi entrò, anzi fu accompagnato da recensioni alquanto
negative.
Lost..
E allora Scott ne prende atto, ritorna al vecchio nome e ci riprova ancora
con la Philips. Che impone un album bizzarro come ‘Til The Band Comes In
(Philips, 1970), con originali, co-firmati dal nuovo manager Ady Semel, e
cover; risultato altalenante con qualche chicca (Prologue / Little Things, la
title track e The War Is Over) che il pubblico ignora completamente.
Decide di scomparire per qualche anno, dal ‘71 al ‘75, non senza aver tenuto
fede agli impegni presi con la casa discografica. Escono The Moviegoer (Philips, 1972) e Any Day Now (Philips, 1973), il primo una selezione di musica
da film, il secondo una serie di pezzi leggeri, musica senza infamia né lode
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casa discografica sta ormai per essere venduta. L’ultima chance resta allora
quella di scrivere il proprio materiale e così Nite Flights (GTO, 1978) si materializza. Ora, non ci vuole molto a capire che il livello delle composizioni
di Scott, finalmente lasciato libero di esprimersi, sia pure in un contesto
come questo, superi stellarmente quelle degli altri due. I pezzi infatti (Shutout, Fat Mama Kick, Nite Flights e soprattutto The Electrician) parlano un
linguaggio che poco ha a che vedere con il mainstream pop dei “fratelli”, tra
wave di qualità e oscuri abissi come The Electrician, sospeso com’è tra incubi
industrial e orchestrazioni. La musica che verrà parte anche da qua, con il
musicista che ha ormai attraversato il presente ed è entrato in uno spazio
altro, scomparendo e rinascendo a nuova vita artistica. Nite Flights segna il
canto del cigno dei Walkers e pur avendo ricevuto recensioni positive per
l’apporto di Scott, fallisce l’obiettivo vendite.
This is how you disappear ..
cantata in modo scialbo. Amen. Si avvicina allora alla CBS e ancora una volta
la speranza di poter incidere la sua musica svanisce: Stretch (CBS, 1973) e We
Had It All (CBS, 1974) sono album country & western oggi disponibili in una
ristampa unica, del tutto privi di mordente. Un’altra fase sta per chiudersi
su un presente meditabondo, con un effetto sorpresa ..
The Elec t r i c ia n
Il passo successivo, il comeback dei tre “fratelli” Walker, sembra il tentativo
ultimo di riacciuffare un treno perduto, e in fondo cos’hanno da perdere a
questo punto gli americani? Non si erano avute notizie rilevanti sugli altri due,
se non su John Maus, il quale aveva persino tentato un ritorno fotocopia selfmade del gruppo, ribattezzato New Walker Brothers con un epigono di Scott ..
A dare manforte ai tre c’è una nuova etichetta indipendente, la GTO di Dick
Leahy, che dà loro la possibilità di incidere tre album, con Scott come produttore. Si ripropongono ora ad un pubblico adulto come è diventato ormai
il loro, e il singolo No Regrets (ballata folk di Tom Rush) fa il resto: riarrangiato
pomposamente in mainstream style seventies, entra in classifica al settimo
posto e segna il loro ritorno. L’album che seguirà, No Regrets (GTO, 1975)
allinea una serie di cover piuttosto innocue (Curtis Mayfield, Emmylou Harris, Kris Kristofferson, Dionne Warwick ..) ma soprattutto mostra la voglia di
tornare a presentarsi al loro pubblico; l’immagine è mutuata dall’immaginario di ragazzoni “californiani” tutti sorrisi e ottimismo.. e Scott fa buon viso
a cattivo gioco. Il successivo Lines (GTO, 1976) ancora di cover, segna ancor
più il passo verso il mainstream, passando del tutto inosservato, mentre la
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Mentre il Nostro vive un periodo tormentato dopo lo scioglimento dei Walker Brothers, come riferirà a Alan Bangs (si paragona ad Orson Welles, “un
grande che tutti volevano incontrare ma di cui nessuno era disposto a finanziarne i progetti”), il suo nome da inizi ‘80 comincia a diventare un punto di
riferimento per altri musicisti, David Bowie e Brian Eno in primis; quest’ultimo ne aveva ampiamente tessuto le lodi sul Melody Maker ai tempi di Nite
Flights, e Bowie farà conoscere il pezzo omonimo grazie a una cover nel ‘93,
mentre nell’81 veniva pubblicata una compilation di editi, Fire Escape In The
Sky: The Godlike Genius of Scott Walker, a cura del fan Julian Cope, senza
contare che nello stesso anno la Philips aveva raccolto le cover breliane in
Scott Sings Jacques Brel.
Questo “hype” gli favorirà quindi un contratto con la Virgin, per cui nel 1984
esce Climate Of Hunter. L’album segna il definitivo spartiacque tra il Walker #
1 e quello successivo, marcando definitivamente un punto di non ritorno con
l’artista più pop in senso lato. Raccogliendo tutte le sue migliori esperienze,
da quelle orchestrali e crooning di Scott 1,2, 3, e soprattutto 4 e le avvisaglie
più futuristiche viste in Nite Flights, con la fida produzione di Peter Walsh,
l’artista americano riduce al minimo la strumentazione: pochissima orchestrazione ed arrangiamenti, permane formalmente la forma canzone, che
qua e là si sgretola e riduce (Dealer, Sleepwalkers Woman, Track Six), sembra
ritornare a tratti (Rawhide, il singolo Track 3) per farsi dissonanza e rarefazione. Walsh spiegherà nel citato documentario Scott Walker 30 Century Man che
nelle session del disco i musicisti registravano le loro parti senza conoscere
la melodia dei pezzi, sia perché Walker non aveva fatto alcun demo ma semplicemente perché la melodia era un “segreto gelosamente custodito”. Engel intendeva dire che se si fosse conosciuta la melodia, questo avrebbe portato
ogni pezzo lontano da dove doveva stare secondo la sua concezione; vale a
dire che “tutto doveva essere tenuto un po’ disgiunto” per “evitare che ci fosse
la possibilità di andare tutti a tempo”. L’effetto è allora straniante e segna un
al di là da cui non si può più fare ritorno. Il tutto accompagnato da testi non
facili che permarranno in tutta la successiva produzione di Scott. E ancora
non si era visto abbastanza. This Is How To Disappear..
Farmer in the cit y
Come scomparire appunto .. Così come il precedente, Climate passa inosservato commercialmente. Un secondo album per la Virgin era previsto, con la
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produzione di Brian Eno e Daniel Lanois, ma non se ne fece niente. Da qui in
poi le notizie su Walker si fanno sempre più rade, e se già poche erano state
le interviste promozionali nel corso del 1984, ora il buio assoluto. Bisogna
aspettare addirittura il 1993, quindi quasi un decennio, per un singolo (di
cui firma il testo) con Goran Bregovic, Man From Reno / Indecent Sacrifice,
uscito in Francia per il film Toxic Affair di Philoméne Esposito, con Isabelle
Adjani e per cui Bregovic compone la colonna sonora. Una ballad non propriamente oscura.
E infine due anni dopo il ritorno con Tilt (Fontana, 1995), coprodotto con
Peter Walsh. L’album prosegue in parte sulla scia del precedente, facendosi
però incubo sonoro tout court. Una miscellanea di elementi, in cui coesistono classica, avanguardia, sperimentalismo, minimalismo, industrial, per un
marchio di fabbrica che comincia ora a diventare “riconoscibile”. Via del tutto
la forma-canzone, la poca melodia sia pur presente non è ingabbiata ma
dissonante insieme al resto, il cantato si fa espressionistico, declamatorio,
come un lieder sui generis, le atmosfere sono claustrofobiche e morbose,
cinematograficamente efficaci sia nelle immagini evocate, sia dal punto di
vista sonoro (l’uso narrativo dell’orchestra, della strumentazione minimale, l’utilizzo funzionale degli effetti sonori, delle dissonanze). Alienazione,
disagio esistenziale ma anche sarcasmo e ironia gli elementi presenti. I
testi stessi sono evocativi più che letterari, sono parte musicale, effetto
sonoro che procede per immagini, sia quando rievocano la morte di Pier
Paolo Pasolini (la incalzante Farmer In The City, ispirata dalla poesia Uno dei
tanti epiloghi, dedicata nel 1969 all’attore Ninetto Davoli), sia nel processo
all’ufficiale SS Adolf Eichmann (The Cockfighter), negli orrori delle guerre
americane (Patriot), nel narcotraffico sudamericano (Bolivia ‘95). Come detto
dall’autore, sono le liriche che dettano il suono all’intera canzone. La compiutezza dell’album rivela le ambizioni di Walker, che nelle interviste non
concede moltissimo seguendo la sua indole. E d’altra parte un lavoro artistico dovrebbe parlare di per se stesso, crediamo. E come in tutte le prove
che verranno dopo, il fascino malato avvince e si riesce a entrare penetrare
compiutamente nell’opera se si ha la pazienza e l’umiltà di addentrarvisi, di
aspettare, di insistere.
A fine 2003 esce un importante e corposo box set, Five Easy Pieces (Mercury),
suddiviso in 5 CD tematici e un booklet; l’arduo compito di antologizzare
la carriera di Walker viene così bypassato dalla divisione per argomenti e in
modo cronologico, racchiudendo numerosi brani rari e fuori stampa.
La firma con la 4AD nel 2004, sua etichetta attuale, preannuncia l’uscita di
The Drift (2006). Walker continua il suo percorso artistico altro, tassello dopo
tassello, ogni volta destrutturando, togliendo o modificando gli elementi
costitutivi della sua musica. Di Tilt restano il mood e l’ambientazione sonora:
il cantato è parimenti espressionista, declamatorio, lirico, con poca melodia;
è ancora più claustrofobico, morboso, oscuro, cinematografico (si vedano
l’uso narrativo dell’orchestra , la strumentazione minimale, gli effetti sonori
funzionali, le dissonanze). Si assiste a un’ulteriore disgregazione delle “canzoni”, che già nel precedente avevano perso la loro forma: qui diventano
momenti di flusso ininterrotto, uno stream assoluto di suoni e parole.
I brani consistono in “blocchi di suono”, come vengono definiti dall’autore,
che si susseguono per giustapposizioni e contrapposizioni, assenze di ritmo
seguite da accelerazioni (Hand Me Ups), incubi sonorizzati (Jolson and Jones,
Cue), brevi attimi di calma (A Lover Loves). Fanno eco le liriche astratte e in
apparenza casuali, unite tra loro (Cossacks Are, Jolson And Jones), colme di
visioni horror, fisiche, attualità (la scomparsa di Woytila, in Cossacks Are, o
l’11/9 in Jesse) e Storia (la vicenda Benito Mussolini / Claretta Petacci in Clara,
Milosevic in Cue).
Cossac ks a r e c har g i n g i n . .
Dopo Tilt Walker esce relativamente dall’isolamento, con diverse collaborazioni. Nel 1996 registra I Threw It All Away di Bob Dylan, sotto la direzione
di Nick Cave, per la colonna sonora del film To Have and to Hold; nel 1998
coverizza Only Myself to Blame di David Arnold, per lo score del bondiano
The World Is Not Enough (Il mondo non basta). Nello stesso anno scrive e
produce la maggior parte della colonna sonora del controverso Pola X di
Léos Carax, che contiene contribuiti anche di Smog e Sonic Youth. Trattasi
di strumentali, orchestrati o sperimentali/industrial, e l’unica volta che si
sente la sua voce, è in un estratto di Cockfighter, da Tilt.
Nel 2000 è il curatore del prestigioso Meltdown Festival, dove non suona
ma scrive un pezzo, Thimble Rigging per The Richard Alston Dance Project;
nello stesso anno collabora a Punishing Kiss, album della performer tedesca
Ute Lemper, con due pezzi articolati e dissonanti nello stile di Tilt. Nel 2001
produce l’album dei Pulp, We Love Life, ovvero di uno dei suoi più grandi
fan, Jarvis Cocker, traghettandone la transizione, con un album raffinato,
verso una fase più adulta e preparando il Jarvis solista.
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In The Drift dominano la cognizione del dolore e la tragicità estrema della
condizione umana, come osservate al microscopio da un narratore, senza
darne alcun giudizio. Lo specchio dei tempi oscuri che stiamo vivendo e un
punto di non ritorno. Ancora un passo oltre i propri limiti.
Appena un anno dopo, nel 2007, Walker pubblica sempre su 4AD in edizione
limitata And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una
suite strumentale in quattro movimenti per una pièce di danza contemporanea della compagnia CandoCo (con ballerini anche disabili) del coreografo
Rafael Bonachela. L’americano qui è molto vicino alle sperimentazioni di The
Drift, tra sottrazioni ed implosioni, strappi ed improvvise esplosioni, sinfonie irregolari per archi (con la London Sinfonietta) e percussioni sincopate,
fughe improvvise ed esplosioni di archi, con rari momenti di quiete. Inoltre
droni leggeri, sovrapposizioni alla Philip Glass, orchestrazioni che per alcuni
momenti possono ricordare quelle di Bernard Herrmann. Saliscendi che
richiamano un sottile gioco di equilibri/disequilibri. Il concept espresso da
musica e danza riflette la vita dell’uomo in un mondo meccanizzato, con la
dicotomia profonda tra corpo e mente, e viene trasmessa ai movimenti irregolari dei danzatori, anche disabili, che sono come prigionieri in uno spazio
chiuso. Ancora una volta, la musica trasmette il disagio e la disperazione di
una condizione alienata e spezzata.
Due anni dopo, nel 2009, ritroviamo Scott ad occuparsi ancora di musica per
balletto, alla Royal Opera House di Londra, con una riscrittura del monologo Duet For One di Jean Cocteau, coreografato da Aletta Collins; e sempre
nello stesso anno, una collaborazione con Bat For Lashes in un pezzo del
suo Two Suns.
Bish b o s h e n d i n g
Le sorprese non sono finite e Scott continua ancora a lasciare senza fiato. A
sei anni da The Drift, senza contare gli intermezzi susseguitisi nel frattempo,
fa un altro centro, riuscendo a mutare ulteriormente le variabili a sua disposizione, senza alcun segno di cedimento, anzi proseguendo con una classe
infinita, spanne sopra tutti. In finale d’anno, il 2012 vede Bish Bosch (in spazio
recensioni) svettare e offrirsi come ennesimo capolavoro. In sintesi, ritroviamo la struttura che abbiamo imparato a conoscere con gli album dell’ultima
parte della sua carriera, destrutturata e con voce narrante-cantante, con alcuni significativi cambiamenti. Più ricco di sfumature e meno oscuro rispetto
al precedente, con una pienezza di suono, vi si trovano chitarre, tastiere e
fiati, una novità assoluta. Il mood è meno claustrofobico e morboso, e le
storie raccontate e cantate confluiscono in un unicum organico, un fluire
ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Il narratore Walker si fa
guida in un Inferno dantesco, una sorta di dipinto visionario di Hieronymus
Bosch, citato nel titolo in un gioco di parole - dove bish bosh significa “job
done, sorted” - per esprimere l’ordine delle parti, apparentemente messe
accanto ma in realtà unite fluidamente in un tutto organico.
Bish Bosch è quindi un’esperienza totalizzante che ripaga ascolto dopo ascolto, confermando Walker come genio musicale contemporaneo e outsider
al di fuori di mode e tempi. Un osservatore acuto della contemporaneità
e della condizione umana sempre più lacerata e dolorosa. Uno di quei rari
artisti concentrato totalmente sulle sue espressioni artistiche. Si può andare
ancora più in là?
“I’m for permanence” (Scott Walker, TV tedesca, 1969).
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House Is The
Temptation
Testo: Carlo Affatigato
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Da qualche tempo alla Rinse tira
una nuova, sorprendente aria.
È la house, propugnata da un
poker di personaggi carismatici
lungo quattro punti cardinali:
energia, rigore, eleganza e
grooves.
Ha compiuto 18 anni giusto lo scorso settembre, Rinse FM, festeggiando con una doppia data tra Manchester e
Londra e una line up che comprendeva non solo la propria crew ma tutti i membri dell’unitissima élite UK che va
da Skream, Joker e J:Kenzo a Pearson Sound, Jamie George e Kode 9. 18 anni di alacre attività e continui rapporti con pezzi grossi e giovani emergenti della scena, dopo i quali puoi permetterti oggi di avere una timeline di
lusso ogni giorno della settimana, distribuita tra forze giovani come Monki o Sian Anderson e veri pezzi di storia
della scena elettronica londinese come Plastician o Distance, più una folta scuderia di soggetti amatissimi dal
pubblico che con la Rinse son legati a doppio filo: Roska, Redlight, Zinc, Brackles, Youngsta, Elijah & Skilliam,
tutti protagonisti di un continuo inseguimento delle espressioni dance underground più divertenti del momento.
Come label discografica, invece, da circa un lustro s’è imposta in una scena vivace e ricca di fermenti affermandosi
come una delle realtà più cool della Londra musicale. Ha inseguito i trend ma sempre prendendo una precisa posizione estetica a riguardo: quando s’è trattato di affrontare il dubstep lo si è fatto tramite i Rinse Mix di Skream,
Plastician e N-Type, che com’è noto hanno di quel mondo un proprio personale punto di vista, per molti versi
lontano dallo schema offerto intanto su Tempa; nel frattempo, il funky e il grime diventavano ufficialmente concreti
terreni di indagine di casa e iniziavano a sparigliare le carte, dando l’assist a uscite crossover frizzanti come quelle di
Skepta, Oneman e più recentemente Roska. Una costellazione di inziative e direzioni che restituiscono l’immagine
non di un gruppo gerarchico con una linea adottata dall’alto (come invece - e ce ne siamo accorti più volte - può
essere la Planet Mu di Paradinas), ma di un team fresco e fortemente unito dall’esperienza in radio, che condivide
la voglia di esprimere il vero fun londinese in tutte le sue forme.
Da qualche tempo, poi, alla Rinse sembra esser arrivato un nuovo vento di passione che viene da lontano: la house.
Qualcosa che non si credeva pienamente fittable col sound di casa, sempre eclettico, estroso e attento alla vivacità
del pubblico giovane, ma che proprio per questo diventa ufficialmente la nuova sfida. Perché se i soggetti in questione iniziano ad appassionarsi allo schema 4/4, ovviamente lo fanno con precise direttive caratteriali, plasmando
una forma trasversale che unisca movimento e rigore. E se si erano già avute certe avvisaglie del passaggio a una
nuova fase di revisionismo interno (vedi la Rinse:15 di Roska o l’arrivo di Katy B), oggi abbiamo una manciata
di nomi vecchi e nuovi da tenere d’occhio, che stan portando avanti alcune teorie originali sotto schema quadro.
Nessuno di loro è ancora esploso definitvamente in questo senso, quindi gustatevi questa disamina come un’anticipazione su quel che potrebbe fare il botto di qui a qualche mese.
Zinc: la “crack”
Se è vero che i nuovi trend hanno origine dalle influenze reciproche, in questo caso l’inizio di tutto va ricondotto a
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zinc
Zinc. O meglio, al volto che Zinc ha mostrato grossomodo nell’ultimo lustro,
rileggendo in maniera drasticamente diversa i frutti di un’esperienza lunga
ormai vent’anni: lui è quello di pezzi storici dell’era jungle e drum’n’bass
come 138 Trek e Super Sharp Shooter, uno dei più affezionati sodali di DJ
Hype (i due hanno collaborato più volte, Disappear, Six Millions Ways To Die,
Show Me The Lovin) e per lungo tempo impegnato a indagare i presupposti
evolutivi del continuum verso l’hip-hop e quel precursore del dubstep che
fu il breakstep. Fino a fine 2000, quando si sedette a tavolino e si inventò un
suo modo di rendere i groove, gli inserti sintetici e tutti quei meccanismi
dance di pancia figli di anni di DJing e produzioni rave/UK garage su un più
elastico e irriverente tessuto in 4/4. Crack house, la battezzò, e fu l’intuizione
che lo fece rinascere a nuova vita.
Nel 2009 pubblica sulla propria Bingo Bass il primo Crack House EP, seguito
pochi mesi dopo da Crack House Vol. 2, venti tracce per circa due ore di ascolto inedito. Ed è subito chiaro che la house non è solo segno di svecchiamento (attenzione, non è un controsenso) ma vera e propria tentazione: quello
adottato è un pattern più universale, sul quale riversare i frutti consolidati
dello sballo sperimentato con le produzioni dnb. Tecnicamente parlando, i
genitori più diretti sono la deep house e l’acid, dove la prima viene spogliata
delle sue forme più eleganti e soul e la seconda viene traslata su un piano
meno hardcore e più popolare. Un pezzo come Killa Sound spiega tutto, lo
spazio importante dei loop vocali che catalizzano gli effetti dance e l’indispensabile groove sintetico killer, il vero elemento di scarto tra la normale
tech-house e la crack di Zinc, più le sirene à la Kill Bill che lanciano un
parallelo concreto con quel che Quentin Tarantino fa del cinema: riciclo
sfrenato (qui prevalentemente dai ‘90) e ricerca ossessiva del piacere esplicito, con una determinazione e una pressocché totale assenza di distrazioni
intellettuali che colloca il prodotto finale proprio sopra la sottile linea di
separazione tra erotismo e pornografia. Pezzi come 128 Trek (il crack house
remix della sua stessa hit dnb) e soprattutoo Wyle Out (con Ms. Dynamite)
rappresentano invece l’anello di congiunzione diretto con la rave culture,
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gli elementi sono esattamente gli stessi (luci, bleeps e droghe) e quel che
cambia è solo la recettibilità di tempi e strutture ritmiche.
L’impatto sulla scena è enorme. I pezzi migliori del Crack House Vol. 2, Love
To Feel This Way e Nexx, finiscono nelle compilation più estroverse (I Love
Techno dei Cassius e ancora Rinse:15 di Roska, che resta ascolto imprescindibile per chi si appassiona al tema corrente) e il nome di Zinc riacquista
lo spolvero di un tempo. La formula giovane e elettrizzante finisce per conquistare un palco prestigioso come la Rinse (che dei nuovi modi per esaltare
il pubblico dance non se ne lascia scappare nessuno), Zinc inizia ad essere
presenza fissa nella programmazione e sarà uno dei producers dietro l’album
di Katy B (l’altro è Geeneus). L’anno scorso, lo step successivo alla serie crack
house è Sprung, stavolta proprio su Rinse, un EP di 4 pezzi ancora più dritti e
tagliati per l’eccitazione collettiva (nonché perfetti come dj tools): Unlike Me
e Juicy Fruit son le due mosse di stile per la clubbing fashion, mentre Sprung
e Recovered son due vere gemme di energia esplosiva che spinge verso l’aggressivo e può cambiarti la serata in un attimo. Le ultime tappe del percorso
arrivano quest’anno, prima Goin’ In e poi Like The Dancefloor con A-Trak, e
portano la crack house verso un’immagine più radiofonica e commerciale
(si parla di successo, of course), ma con Zinc c’è sempre da stare in allerta e
chissà che presto non arrivi la sua crack release definitiva. Per dicembre è
già pronto il nuovo EP, Only For Tonight, e i primi ascolti sembrano volgere
a un’immagine house pop compiuta. Terremo gli occhi aperti.
Mark Ra dford: i l rigore
Quando a marzo il Rinse:18 di Mark Radford è stato recensito su ResidentAdvisor, Andrew Ryce esordiva chiedendosi furbescamente: “Che diavolo
ci fanno Alex Niggemann e Steve Bug in una compilation Rinse?”. Quello
è stato in effetti il primo squarcio del velo, la prima incursione della house
tra le release ufficiali della Rinse. Radford era entrato a far parte della crew
da un annetto circa, con una finestra settimanale fissa nella timeline radio
(adesso ha la prestigiosissima prima serata del sabato), ma si era fatto notare
dai talent scout già qualche tempo prima, grazie a una serie di serate underground londinesi in cui il ragazzo sembrava star dando un nuovo slancio di
euforia alla scena UK house live (cosa non facile per un pubblico esigente
come quello di Londra, soprattutto se parliamo di un genere così altamente
storicizzato).
E che house, poi. Parliamo del lato più rigoroso e old-fashioned del filone,
quello che discende direttamente dalla prima fase deep di Chicago e che
oggi è ancora vivo grazie al lavoro di etichette come la Poker Flat, che teoricamente della Rinse sarebbero concorrenti in piena regola (aspetto, questo,
che fa riflettere su quanto sia editorialmente rischiosa la mossa di cui stiam
parlando). Più che la fresca gioventù di nomi caldi UK come potevano essere
i Disclosure o Benjamin Damage, i set di Radford preferiscono riscoprire
il classicismo e l’eleganza della house recente, e infatti il suo mix includex
lavori come la Speechless della coppia Agoria-Carl Craig o il John Tejada
remixer, stando ovviamente sempre attenti ai nuovi nomi della scena underground come James What, No Artificial Colours o A1 Bassline.
Eppure anche Radford veniva da un background e un bacino d’esperienza
jungle/drum’n’bass e solo recentemente è scoppiato l’amore house. In una
recente intervista su Pulseradio la racconta come la sua vera fase di maturazione, spiegando che “col tempo è cambiato il tipo di party a cui andavo, dalla
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mark radford
t. williams
UK garage a una house più funky e soulful. La mia attenzione si è spostata verso
groove più morbidi e lontano dalle aggressioni dnb, e quando ho iniziato ad
appassionarmi ai bassi dark e profondi della deep, ho trovato il mix davvero
sexy”. Se in Zinc parlavamo di mossa di rinnovamento, in Radford i 4/4 sono
l’effetto della crescita estetica. Prerogative niente male per un genere che
si appresta a compiere 30 anni di vita. E non è finita...
Fu lì che scoprii il vero vibe house, nel suo momento storico migliore in UK.”
Accolto alla Rinse con grande entusiasmo, la sua visione house ve l’abbiamo
raccontata all’uscita di Rinse 21: il four-on-the-floor di Williams è denso di
umori e amante dell’eleganza, ragiona su mood deep e sulla puntuale presenza di sezioni cantate a rendere il tutto più easy all’ascolto, estendendone
l’efficacia anche fuori dalla pista. I quattro pezzi del suo ultimo EP Pain &
Love raccontano meglio di mille parole le armonie di cui il ragazzo è capace,
in particolare con due brani di spicco come Can’t Get Enough (la voce funky
è di Himal e serve tutta al movimento clubbing) e Think Of You (capolavoro
di raffinatezza deep/soul con la voce femminile di Tendai a raddoppiare la
sensualità di una formula erotica a priori). T Williams oggi non è solo “uno
dei bass producers più interessanti della scena londinese”, come dicono ormai
tutti. Lui è la perfezione in carne ed ossa della cosiddetta house sensation
del momento, e la speranza è che venga fuori l’album-capolavoro a tema
prima che la spinta al cambiamento lo faccia spostare altrove.
T Wi lli a m s : l’ e leg an za
Tesfa Williams è un altro che proviene da un punto di partenza stilisticamente lontanissimo. Per tutti gli anni ‘00 lui è DJ Dread D, giovanissimo
produttore grime partito per gioco all’età di 13 anni e arrivato alle prime
produzioni ufficiali al giro di boa della maggiore età, con un bel pezzo di
cattiveria ossuta come Invasion e una serie di interessanti 12’’ usciti sulla
Black Ops di Jon E Cash. Poi una pausa riflessiva durante gli anni della laurea, alcuni anni di silenzio serviti a focalizzare bene la migliore direzione
e prendere la rincorsa per poi partire in velocità. Spinto da una costante
voglia di cimentarsi in nuovi orizzonti, prima fonda la Deep Teknologi, label
dichiaratamente orientata verso influenze world music legate in particolare
all’India e al Nord Africa (il padre è dei Caraibi e gli ha trasmesso la passione
per i vinili) e poi incide come T Williams un paio di EP (Chop And Screw
sulla sua Teknologi e T Williams sulla Local Action del collaboratore di FACT
Tom Lea) che compiono la svolta decisiva verso un sound house dal carattere
tribale più o meno marcato.
La house entra in punta di piedi nell’universo sonoro di Williams. Sempre su
Pulseradio l’intervista più interessante sul web, dove il producer racconta:
“C’era un rave di old-skool garage a Londra, il Liberty. Alle 6 di mattina si trasformava in un rave house, e mi ritrovai anch’io, da appassionato di garage,
ad ascoltare house. Insieme a un amico iniziammo ad ascoltarla prima per
mezz’ora, poi per un’ora, poi per due e finché ci passavamo intere notti. Venendo dal grime non amavo particolarmente la house, alla fine di ogni sessione
d’ascolto ci dicevamo, un po’ per sentirci più a nostro agio, ‘è come la garage,
vero?’. Poi alcuni dj bravi a guardare oltre come Wig Man mi hanno introdotto
alla house più afro/soulful di Quentin Harris, DJ Gregory e Dennis Ferrer.
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M osca : la groove science
Giovanissimo ma dotato di un sorprendente bagaglio di conoscenze musicali, Mosca è finito sulla bocca di tutti a fine 2011 grazie alla super hit Bax,
un tessuto ritmico tech-house di grande energia con tanto di inserto tribale
seminascosto nell’ombra e un giro acid ipnotico da fase finale di una notte in
disco, tutto apparentemente semplice ma irresistibile. In precedenza, erano
già usciti per Night Slugs e Fat City una manciata di pezzi che avevano fatto
breccia sugli intenditori di nuove intuizioni, così che prima l’esplorazione
degli spazi tra afrobeat e west dance di Square One, poi il giro slow house
groove-addicted di Tilt Shift si son beccati i remix di Roska, Julio Bashmore,
Bok Bok e L-Vis 1990. I frutti dolci del successo però Mosca li ha raccolti da
fine 2011 in poi, coi tre pezzi di garage sghemba contenuti nel Wavey EP
che ricevono consenso unanime in tutte le riviste specializzate e l’altro eppì
di quest’anno Eva Mendes, contenente la collaborazione eccellente di un
semidio come Robert Owens, Accidentally.
Più che il cambio di rotta che abbiam visto per i tre qui sopra, per Mosca la
house è la forma sposata con convinzione per la sua flessibilità, che permette
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questo un fine per cui si è disposti a giocarsi qualsiasi carta, persino quella
patinata di What You Came For, il rework di Bax fatto con una Katy B ormai
popstar, nonché l’esordio ufficiale di Mosca su Rinse. Ci vuole anche faccia
tosta, e alla Rinse nessuno può dar lezioni in merito.
Quattro linee direttrici che raccontano una rinnovata attenzione verso la
musica house, capace più di ogni altro genere di flettersi ed evolversi per
qualsiasi esigenza. Che sia voglia di riscoprire la vecchia scuola delle emozioni oppure determinazione a ricreare energia clubbing per più pratiche
necessità d’evasione, il movimento intorno alla cassa in quattro, regina incontrastata della pista praticamente da quand’è nata, è una delle tendenze
più interessanti del momento. E non è un caso infatti che quattro dei nomi
londinesi più sul pezzo in questo senso siano finiti nella crew storicamente
più attenta all’underground UK. Tutti sembrano completamente d’accordo
nel dire che non c’è mai stato momento migliore per la UK house di questo.
Il bello è che lo si dice da alcuni anni ormai, ed c’è sempre una release che
stabilisce un nuovo apice.
Tra la New Wave Of Techno che vi abbiamo raccontato e l’escalation house di
cui sopra, sembra non esserci più spazio per altro negli ambienti veramente cool: col funky in declino, il footwork che sembra preferire la dimensione intellettuale, il dubstep che ormai è storia e la tangente modern beats
ricchissima di inventiva ma ancora poco apprezzata in pista, sembra che
lo scettro dance l’abbiano ancora gli stili storici. Retromania? No, questa è
voglia di ripartire, e i livelli di energia son troppo evidenti per considerarla
semplicemente una fase di transizione. Fai tanto l’hipster sofisticato sempre
in cerca della dimensione alternativa e intanto non passa notte in questo
2012 senza che un DJ europeo mandi Child.
mosca
di tirare in ballo ogni sorta di influenza derivante dal crate digging senza
per questo rinunciare all’appeal di prima mano. Il profilo più interessante del
producer londinese lo disegna stavolta Fact Magazine, in una lunga intervista
che ben rende lo spirito compositivo dietro ai suoi pezzi: appassionato da
sempre di world music proveniente da ogni parte del mondo, per lungo
tempo il ragazzo è conquistato dai fermenti ritmici del terzo mondo (kuduro,
kwaito, zouk, cumbia, reggaeton) senza però riuscire a integrarli al meglio
in un dj set (“quella roba proprio non era mixabile, a meno che tu non sia un dj
fenomenale come DJ Rupture. E io non lo sono.”). Successivamente scopre il
lato urbano della world music (il pezzo illuminante è stato Vem Nha Nha del
brasiliano Mr. Catra, che infatti fa da fulcro per l’intera intervista) e inizia a
farsi attrarre dalle sue prerogative dance per il mondo occidentale.
Niente in Mosca può prescindere dal groove. Qualsiasi sia la componente
esterofila dei suoi pezzi, c’è sempre il gancio infallibile del giro melodico che
rende ogni conquista più facile. Eva Mendes è il suo cavallo di battaglia metropolitano, atmosfera elegante ma taglio netto e concreto che comanda in
pista, mentre la coppia Dom Perignon / Orange Jack sfoggia l’estro che si può
mettere in gioco nello schema house e un pezzo sulla carta minore come
Murderous è una gemma di equilibrio fashion+beat che trasuda Londra da
ogni poro. Qui in fondo non c’è molta filosofia da fare, i 4/4 sono il mezzo
maestro per catturare il pubblico in modo immediato ed esaustivo, ed è
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/ / H ouse T emptation : T he E ssentials / /
Zinc - Sprung
T Williams feat. Tendai - Think Of You
Mosca - Eva Mendes
George FitzGerald - Child
Disclosure feat. Sam Smith - Latch
Julio Bashmore - Au Seve
Gerry Read - Roomland (Youandewan Remix)
Cooly G - Love Dub
Maceo Plex - Frisky
Maya Jane Coles - Nobody Else
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Santo
Barbaro
Testo: Fabrizio Zampighi
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Cantautorato mutante
Esce “Navi”, terzo disco dei Santo
Barbaro. Una buona occasione
per ricostruire le vicissitudini
di una formazione che del
cantautorato sta facendo un
linguaggio inedito e affascinante
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L a n ot t e è u n m u r o
Al Cosabeat si arriva percorrendo una strada strettissima che passa per la
campagna forlivese. Da fuori, lo studio di registrazione di Franco Naddei ha
l’aspetto di una vecchia casa colonica, confinata in un’area verde piuttosto
rustica che sembra quasi fare da filtro naturale tra l’edificio e l’ambiente
esterno. Il pomeriggio d’ottobre in cui arriviamo c’è un consapevole silenzio
autunnale ad accoglierci nel giardino che circonda lo stabile. Una pace quasi
irreale che sa di isolamento, nonostante il primo centro abitato sia solo a
pochi minuti di macchina. Vien quasi da pensare che un disco di artigianato
autarchico come Navi, i Santo Barbaro, potessero concepirlo soltanto tra
queste mura: dieci brani slegati da un’attualità musicale che vista da qui
sembra ancora più aliena, capaci indirettamente di rappresentare un viaggio nell’io più recondito di chi li ha partoriti. «Nel cantare ci metto me stesso,
la mia vita, la mia incompiutezza. Non me vergogno. Dalla bocca esce ciò che
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sono» dichiarava qualche tempo fa a E20 Romagna l’altra metà del progetto
Pieralberto Valli riferendosi alla peculiarità della sua voce e dei suoi testi.
Eppure il discorso potrebbe valere per tutta la poetica del gruppo, che incompiuta non è, ma certo procede senza freni in una ricerca formale febbrile,
personale, mutevole, che non porta quasi mai dove ci si potrebbe aspettare.
L’ultimo Navi è un chiaro esempio in questo senso, anche se a ben vedere è
così fin dagli esordi per i Santo Barbaro. Quando esce Mare Morto, nel 2008,
in formazione ci sono lo stesso Valli, Marco Frattini (batteria), Francesco Tappi (basso e contrabbasso) e Giacomo Toni (pianoforte e fisarmonica) ma la
sostanza non cambia. Già allora il linguaggio è composito, letterario, visivo
e musicale al tempo stesso (il CD esce inizialmente inserito in un libretto
con i testi e accompagnato dalle foto di Francesco Fantini, per poi essere
ristampato dalla Ribess Records assieme a un libro di racconti - Un giorno
passo e ti libero - indipendente dal disco), per un lavoro che sancisce le linee
guida del progetto su un ventaglio stilistico comunque ricercato: «Il primo
disco era incentrato sul concetto di straniero, una sorta di concept involontario
se vogliamo. Una riflessione sulla diversità, sui viaggi da una realtà all’altra, data
anche da esperienze personali. In questo senso, la dicotomia Santo Barbaro ci
piaceva e ci piace tutt’ora. Questo concetto rimane il cuore di tutto il discorso:
dove c’è una diversità, dove c’è anche disaccordo, c’è la possibilità che nasca
qualcosa di nuovo».
Il “barbaro” come personificazione della diversità, quest’ultima da santificare ed eleggere a manifesto programmatico. Sembra una banalità e invece
non lo è, soprattutto in un mercato veloce e caotico come quello in cui ci
troviamo ad operare, a suo modo spietato nel non dare visibilità a tutto ciò
che non sia immediatamente targetizzabile e in linea con i tempi di assimilazione ridottissimi del web. Nel caso di Mare Morto l’universo musicale di
riferimento è una canzone d’autore elegante, parente alla lontana del jazz
ma anche piacevolmente distesa nella riscoperta di un esotico che parte
da certi accenni al Sud America per arrivare fino al Medio Oriente (Occhi
immensi). In mezzo, riferimenti a esponenti di primo piano di un certo cantautorato moderno come Giancarlo Onorato (Santo Barbaro, Nuovi schiavi) e Marco Parente (Nero deserto), ma anche il Nick Drake di Three Hours
(Guerre), certo blues in orbita Hugo Race (Cecità), pianoforti in stile Black
Heart Procession (Noir) e persino post-rock (Mare morto). «Volevamo ridestare la centralità della parola, del testo. Ma non per giungere allo stomaco di
un pubblico vasto e sconosciuto, piuttosto per scavare nella nostra coscienza e
mettere in discussione la nostra percezione delle cose» dichiarava il gruppo al
nostro Luca Barachetti ai tempi del primo disco. Segno di una scrittura che
prima di tutto è ricerca interiore e poi parto ad uso e consumo di terzi. Nei
testi non c’è l’eleganza distaccata di un Tenco o il narrare puntuale di un De
Andrè - anche se Valli è un estimatore della produzione del genovese -, piuttosto una serie di input capace di aprire delle porte, comunicare sensazioni,
lasciando all’ascoltatore la responsabilità di interpretare. Un procedere per
immagini montate in ordine sparso e date in pasto attraverso una calligrafia
in parte già riconoscibile e senza sbavature.
Lorna, arriva l’anno successivo e finisce - immeritatamente, lasciatemelo
dire - per passare quasi sotto silenzio. E’ sufficiente fare una breve ricerca
su Google per rendersene conto: nel momento in cui scriviamo il celebre
motore di ricerca dà come risultato sei recensioni in tutto - tra cui la nostra
- e molte di queste non stanno sui principali siti internet di informazione
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musicale. Un delitto, se si pensa a tutto il ben di Dio che c’è all’interno del
disco. Il secondo lavoro dei Santo Barbaro è una mezza rivoluzione, sia dal
punto di vista musicale che della line-up: della formazione originale rimane il
solo Valli e tra i crediti, questa volta, troviamo Franco Naddei (Francobeat) e
il polistrumentista Diego Sapignoli (già Aidoru, Hugo Race, Sacri cuori, Pan
del Diavolo, Vinicio Capossela). Il trio si dimostra la scelta migliore, vuoi per
la caratura dei nuovi arrivati, vuoi per un’idea di canzone d’autore che qui
si fa ancora più imprevedibile nei richiami. A dimostrazione un brano come
Naufragio, vicino per indole all’ultimo Fabrizio De Andrè nella parte iniziale e poi inghiottito dalle chitarre elettriche o magari un Non balla nessuno
voce-chitarra nei primi minuti e delirio di batteria ed elettronica in chiusura.
Giusto, l’elettronica. Compare qui per la prima volta ed è una svolta piuttosto
importante nell’ottica dell’evoluzione del gruppo. Come sottolinea del resto
anche Naddei: «Lorna è stato una sorta di terra di mezzo. Su quel disco io sono
entrato a gamba tesa facendo comparire le prime cose elettroniche, elettronica
che, alla fine, è un linguaggio che comunque possiede anche Pieralberto. In
realtà, ho cercato di far venir fuori Pieralberto in un contesto diverso da quel
cantautorato a cui si riferisce di solito, portandolo su altro pianeta. I brani di
Lorna, alla fine, hanno comunque mantenuto un’identità basata su chitarravoce al centro e l’impianto strumentale attorno». Nel nostro caso due sono gli
elementi che sottolineano uno scarto decisivo rispetto al primo disco: da
un lato un impianto musicale flessibile, volutamente sfilacciato e mutante
(ascoltatevi L’uomo del sogno) nel suo toccare l’ambient, il folk, la canzone
d’autore, i ritmi sintetici con la stessa efficacia; dall’altro i testi di Pieralberto
Valli, perfettamente adagiati negli spazi ampi concessi dalla musica, peculiari
nella metrica e molto più evocativi rispetto agli esordi. O per meglio dire,
poetici. Del resto in quale altra maniera potremmo definire versi come Lei
incide i giorni sulle vene di un bosco / rincorre la neve sui camini fumanti / lei
che ascolta le foglie vagare nomadi sulle colline / tu non sai le carovane di lupi
che si nascondono nei silenzi dei vespri (Il vuoto) oppure Potrebbero mancare
forse anche millenni / per chi mendica su croci improvvisate / maledico l’uomo
che sorride al mio specchio / il dolore che diventa passatempo /e se tu sei il
padre perché non mi somigli / se tu sei il padre perché non premi il grilletto /
che a me tremano un poco le gambe / nel vedere il destino che giunge su una
scia di polvere (Su una scia di polvere)? E dire che lo stesso Valli, interrogato
a proposito del suo stile nella scrittura, si schermisce dietro un «In realtà
detesto scrivere i testi. Mi piace scrivere in libertà, senza vincoli, ma quando si
tratta di calcolare le metriche e adattarle alla musica, faccio fatica. Di base, mi
piacciono più la musica e la melodia».
Lorna è il disco che, in un mondo ideale, avrebbe dovuto sbancare alle Targhe Tenco. E invece passa veloce come l’acqua per finire presto nel dimenticatoio, lasciando tuttavia in eredità ai diretti interessati una serie di concerti
utile per riflettere sulla direzione da imprimere al progetto. E’ ancora Naddei
a parlare: «Portando in giro Lorna, ci siamo accorti che i concerti diventavano
delle performance che cambiavano in continuazione. Se per esempio eravamo in un locale in cui prima di noi suonavano dub, poteva succedere che anche il nostro concerto guadagnasse qualche elemento dub. Qualsiasi brano,
se è efficacie, lo si può girare in tutti i modi. Noi cerchiamo sempre di tendere
a un’evoluzione. Se Pieralberto domani venisse fuori con l’intenzione di fare il
prossimo disco con un gruppo di africani e senza di me, quelli sarebbero i nuovi
Santo Barbaro».
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Senti la tempesta che cresce
Ricerca formale, dicevamo. Per Navi, il terzo disco della formazione romagnola, sarebbe meglio parlare di direzioni potenziali, attracchi possibili, futuri incerti. Come quelli suggeriti dal brano Nove navi, chiusura di scaletta
che lo stesso Valli elegge in realtà a manifesto del nuovo corso: «Il disco è
fondamentalmente autobiografico. Tutto parte dalla numerologia: nove sono
le personalità, i destini. Le nove navi sono quindi i futuri potenziali, tra cui un
individuo deve scegliere. Fuor di metafora, la direzione che deve prendere nella
vita. Non ci sono appigli o consiglieri che ti dicano come muoverti, tutto dipende da te e la scelta ovviamente non è facile». Si parla di elettronica nei
dieci brani del disco: teutonica, razionale, ma anche aperta a ogni tipo di
contaminazione. Con la canzone d’autore a far da filo conduttore, da chiave
interpretativa, tanto che considerare Navi come un disco di elettronica pura
sarebbe quantomeno riduttivo, se non proprio un errore. I testi si fanno
ancora più essenziali e risicati rispetto al passato, in una fusione a freddo
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con la musica che cerca di privilegiare le fascinazioni suggerite dall’insieme,
dai brani nella loro interezza. Lontani, per una volta, dalle inutili e vetuste anche se spesso inevitabili, quando si parla di canzone d’autore - vivisezioni
tra parole e musica.
Il disco è un parto estenuante, iniziato da semplici demo chitarra e voce e
arrivato, tra rimpalli e riletture infinite, a ciò si ascolta nel prodotto finito.
Indice, quanto meno, della libertà creativa alla base del progetto. «Per me è
stata una grande fatica» ci dice Pieralberto Valli «Sono arrivato in studio solo
con i provini e abbiamo passato il tempo a smontare pezzo per pezzo quello
che era stato fatto per costruire tutto il disco sulla voce. Per Urania per esempio, abbiamo fatto quattro versioni finite e poi ne abbiamo scelta una. In tutto
ci abbiamo lavorato un anno, con le pause inevitabili tra una registrazione e
l’altra. La cosa difficile, quando lavori molto in studio, è che puoi fare qualsiasi
cosa con i suoni». E’ Naddei il “barbaro” della situazione. Sua è buona parte
della responsabilità per le macchine utilizzate nella parte più elettronica del
lavoro. E infatti si procede sui binari atipici e creativi tipici del personaggio,
lontanissimi dalle ultime tendenze e certamente poco interessati a sancire
un’appartenenza stilistica o ideologica certa. Anzi, si va esattamente nella
direzione opposta, privilegiando il significato e lo svolgersi dei contenuti,
piuttosto che una forma mentis riconoscibile e aggiornata: «Io [Franco Naddei, ndr] vengo dall’elettronica dei Depeche Mode in giù e ho quaranta anni.
Non mi andava di competere con ragazzi giovani - su cui tra l’altro sarebbe stato
molto difficile avere la meglio - che utilizzano il computer e due plug-in. Il mio
linguaggio è semplicemente diverso. All’interno del disco ci sono comunque
riferimenti precisi, come i Talk Talk e i Massive Attack ad esempio. Però è anche
vero che nel momento in cui, in fase di scrittura, ci sembrava di essere troppo
derivativi, abbiamo subito cambiato direzione cercando di suonare più originali
possibili».
Nulla che appaia dispersivo o raffazzonato - come del resto era già accaduto
in Lorna -, piuttosto una visione della musica come linguaggio tout court, a
trecentosessanta gradi, e non come atto strategico. L’obiettivo è raggiunto, a
giudicare da un disco che colleziona archi, pianoforte e basso, che concede
enorme spazio ai synth e alle drum machine e che, nel contempo, mostra in
alcuni dettagli un’indole sperimentale da coltivare. Nello specifico, i suoni
percussivi in odore Einstürzende Neubauten ricavati dalle lamiere autocostruite di Jessica Stenta e perfettamente integrati nel tessuto sonoro. «Questo disco è un po’ una scommessa, un parto travagliato, perché ognuno di noi
due ha voluto osare qualcosa in più seguendo il suo linguaggio e stimolando
l’altro a fare altrettanto».
Chiudo gli occhi e non ricordo più
Resta infine da chiedersi in che termini la proposta dei Santo Barbaro sia
riconducibile o meno al mondo della canzone d’autore. Lo è per la profondità degli argomenti, per la vena poetica dei contenuti e per la sensibilità;
non lo è (soprattutto ora) se il termine di paragone è l’estetica dei classici
o dei figliocci copia carbone dei classici. Qui siamo a duemila anni luce da
casa, con una band che si dimostra abile nel ridefinire un linguaggio, non
solo a frequentarlo. Un elemento che si spiega con le dichiarazioni di un Valli
debitore solo in parte - e in tempi recenti - verso l’immaginario condiviso
(«In realtà fino a Mare Morto non ho mai avuto nulla a che fare col cantautorato. Prima suonavo punk, elettronica, trip hop, post rock. Quando ho deciso di
passare ai testi in italiano mi sono guardato un po’ intorno e ho cominciato ad
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ascoltare i cantautori, in particolare De Andrè») e ancor più con quelle di Franco Naddei: «Tra i cantautori apprezzo soprattutto Lucio Dalla, che era davvero
avanti. Le rivisitazioni moderne di cantautorato mi lasciano piuttosto freddo.
Le trovo eccessivamente ripetitive rispetto ai modelli originali. In generale, il
cantautorato l’ho sempre visto come un binario morto, in cui a spiccare sono
in pochissimi. Anche i tentativi di svecchiamento del genere non sono sempre
efficaci, come dimostrano produzioni di gente come Leonard Cohen negli anni
Ottanta. Credo che il linguaggio cantautorale debba essere reso potente e originale da quello che sei tu, non tanto prendendo ad esempio qualche modello
precedente a cui per forza di cose si finisce per rimanere troppo attaccati».
Un ragionamento che non fa un piega, se ci pensate, ma quanti lo mettono
davvero in pratica? Soprattutto negli ultimi tempi, da quando la new wave
del cantautorato si è riguadagnata uno spazio notevole negli ascolti del
pubblico e, proprio per questo, è forse capitolata in una sclerotizzazione
(per quanto spesso gradevole) dal punto di vista estetico e delle finalità.
Da quel Vasco Brondi/Le luci della centrale elettrica - tanto bistrattato ma
alla fine fondamentale nell’aprire un varco negli appetiti cantautorali del
nuovo pubblico con il suo Canzoni da spiaggia deturpata - in poi, è tutto un
ritorno di sonorità nostalgiche pensato per ascoltatori forse non del tutto
consapevoli, talvolta fin troppo accondiscendenti. E allora non si sfugge
nemmeno alla domanda inevitabile sullo stato di salute della cosiddetta
“scena italiana”, a cui Naddei risponde con una chiosa che idealmente chiude
il nostro percorso: «Di sicuro ora c’è più libertà. E la libertà ha lati positivi e negativi. Fare dischi oggi costa pochissimo e questo ovviamente permette a molte
cose belle di emergere ma anche a molte cose brutte. Il giudizio sulla proposta
musicale ormai lo dà la fruizione del pubblico. A volte il mondo indipendente è
schiavo dell’estetica molto più del mondo major. Ci sono molti gruppi che sono
nella posizione in cui sono perché se lo meritano e molti altri per cui invece
questo ragionamento non vale. Non so. Senti certi testi che citano “You Tube” o
“Berlusconi” e se da un lato identifichi tutto questo in un meccanismo generazionale, dall’altro ti rendi conto che questo tipo di musica è destinata a invecchiare
all’istante. E’ musica morta, scaduta in partenza. Io ho seguito il sogno “pop”
per anni facendo pali e traverse per etichette anche grosse. Alla fine non se ne
è fatto nulla, però nel momento in cui ho deciso di smettere di voler piacere a
tutti i costi, musicalmente sono rinato».
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Recensioni
— cd&lp
dicembre
(etre) - Abitacolo Ostile (2006-2001)
(Privileged To Fail, Novembre 2012)
Genere: abstract
A C Newman - Shut Down The Streets
(Matador, Ottobre 2012)
Genere: pop rock
Una vera e propria parata di all-star, Abitacolo Ostile. Con
un incipit del genere però, si corre il rischio di spostare l’attenzione, guadagnatissima nel corso degli anni e
degli album, da (etre), sigla dietro cui si cela Salvatore
Borrelli, uno dei musicisti più sensibili e meno valutati
del panorama non solo nazionale.
Dieci composizioni in ensemble (con una pletora di
ospiti nazionali e internazionali) registrate qualche anno
addietro e confezionate solo ora, in cui (etre) omaggia altrettanti capisaldi della cultura più trasversale e
ricercata. Ognuna delle quali rende appieno lo spirito
dell’omaggiato, rielaborando sensazioni e suggestioni
provenienti dall’arte, filmica, pittorica, letteraria o musicale, di ognuno di essi.
La disgregazione del non-suono che rimanda alla filosofia dell’”eternità di tutti gli essenti” di Severino (L’Avenir Se
Prend-il Dans L’Origin con Zero Centigrade, The North
Sea e Sascha Neudeck); la fratturata ritmica del jazz rimanda all’infrazione ayleriana (Goodbye Dragon Hymn
insieme a Zavoloka, Valerio Cosi, Xabier Iriondo, Elio
Martusciello e Donato Epiro); l’accumulo bambinesco
e parodico di voci infantili su tappeti cinematici che tira
in ballo lo humour nero di Todd Solondz (Unquiet Night
In The Intermediary Distance col supporto di Lucky Dragons, My Jazzy Child e Nobuko Hori); la stasi estatica fatta di fruscii e piccole rifrazioni in omaggio all’arte filmica
di Kiyoshi Kurosawa (Petrified By The Sun In Convalescence
And The Long Departed Lover, insieme a Midori Hirano
e Moskitoo) non solo che esempi di un procedere che è
prima “ideologico” che strettamente musicale e che trova
nella controparte sonora - collagistica, astratta, deviata
e mutante - una sua definizione totalizzante.
Ascoltatelo con la richiesta e dovuta attenzione e lasciatevi trascinare dalle volute architettate da Borrelli. Dopo
di che sbrigatevi ad accaparrarvi una delle purtroppo
sole 150 copie.
(7.2/10)
Nel terzo lavoro solista di A.C. Newman - due anni abbondanti dopo il buon Get Guilty - avverti una specie
di entusiastica rassegnazione. Il buon Carl sembra infatti
arrendersi all’inevitabile: per quanto genuinamente tenti
di abbozzare un percorso solistico, è innanzitutto il leader dei New Pornographers, quella la cifra espressiva
e l’orizzonte stilistico. D’altro canto, si muove in questa
falsariga senza pigrizia, fa perno sulla padronanza per
approfondire e svariare, con generosità. Nelle dieci tracce di Shut Down The Streets non azzecca mai l’impasto
killer, però riesce sempre a mantenersi su un livello di
piacevolezza arguta, vivace, a tratti persino raffinata.
Accanto ai consueti pedaggi Beach Boys (lo slancio frugale di Do Your Own Time, le trovate e gli struggimenti a
fuoco lento di They Should Have Shut Down The Streets), ai
divertissement power-pop (l’incalzante Encyclopedia Of
Classic Takedowns, ospite Neko Case ai cori), alle glasse
60s (There’s Money In New Wave, I’m Not Talking) e alle
gelatine remmiane (Hostages), capita infatti d’incontrare
miraggi desertici come Wasted English, valzerini sghembi
punteggiati di loop sintetici (You Could Get Lost Out Here)
oppure trepidazioni traditional (mandolino, clarinetto,
tuba...) come The Troubadour.
Ok, Newman non sarà un grandissimo e tende un po’ a
ripetersi ormai, ma una cosa possiamo sostenerla senza
remore: la sua proverbiale immediatezza è una trama
di complessità risolte grazie ad una fervida miscela di
attitudine e talento. Appena un gradino sotto al genio.
(7/10)
Stefano Pifferi
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Stefano Solventi
Adrian Crowley - I See Three Birds
Flying (Chemikal Underground Records,
Novembre 2012)
Genere: folk songwriting
Il sodalizio tra Chemikal Underground e Adrain Crowley
iniziato nel 2009 continua con il sesto disco del cantautore di origine maltesi ma cresciuto a Galway, una delle
mille capitali del folk irlandese. Della voce si è già scritto tutto, basta leggere la recensione di Season of the
Andrew Bird - Hands Of Glory (Mom And Pop, Novembre 2012)
Genere: folk rock
Un disco così non te lo aspetteresti da quel meditabondo perfezionista che risponde al
nome di Andrew Bird. Appena otto mesi sono passati dalla pubblicazione di Break It
Yourself, del quale il qui presente Hands Of Glory rappresenta una sorta di appendice
basale. Il materiale proviene dalle stesse sessioni, ma lo spirito è rilassato, amichevole,
ruspante. Scosso da slanci appalachiani, scorticato d’irrequietezza errebì e indolenzito
di trasporto gospel. Riuscendo comunque - anzi forse proprio per questo - ad azzeccare
inedite combinazioni di profondità e rarefazione.
Quattro le cover, il rodeo zompettante del traditional Railroad Bill (dove Bird sbriglia
l’estro al fiddle), l’ombrosa When The Helicopter Comes dei The Handsome Family, una
agrodolce Spirograph dal repertorio degli Alpha Consumer e quella If I Needed You firmata Townes Van Zandt il
cui lirismo stratificato ci ricorda i Byrds del riflusso spiritual/country: sembrano dichiarazioni di non appartenenza
alle rapide del presente, come il passo dell’amico che resta indietro e che ti mette una mano sulla spalla facendoti sussultare. Non si tratta però di abbracciare la causa del passato per smarcarsi snobisticamente dall’attualità,
semmai di sposare una dimensione espressiva che sia tanto più avulsa quanto più stringente. E per farlo non c’è
una formula, una ricetta, un manuale d’istruzioni: somiglia più ad un sortilegio, che in qualche modo ti fa toccare
le corde di un archetipo. Lo stesso che miracolava la Band nella casa rosa e marezzava d’entusiasmo il primo Tim
Buckley: l’inspiegabile capacità evocativa d’una mistura folk, errebì e gospel lasciata fermentare in un caldo, fiero,
spontaneo isolamento artistico.
E’ quello che senti nella prosciugata rilettura di Orpheo Looks Back (qui semplicemente Orpheo) e nei notevoli inediti:
una Something Biblical che procede con garbo commovente e tenace, l’iniziale Three White Horses con le caligini
country e le vibrazioni Arcade Fire, la conclusiva chiusura del cerchio di Beyond the Valley Of The Three White Horses,
col suo lungo crepuscolo di suggestioni cameristiche e fatamorgane di celluloide. Questo disco ribadisce la statura
di Andrew Bird mettendo sul piatto nuovi indizi e prospettive inattese. Ed è solo un’appendice.
(7.4/10)
Stefano Solventi
Sparks firmata da Teresa Greco. Qui basti aggiungere
che l’attacco dell’iniziale Alice Among The Pines fa pensare immediatamente a Charlie Fink dei Noah And The
Whale, che vengono richiamati anche per altre particolarità stilistiche.
Il percorso intimistico e bucolico già segno di fabbrica
di un autore che si è oramai rassegnato a essere definito
“serio” dalla stampa irlandese e britannica (“è impossibile toglierti di dosso un’etichetta quando te la mettono
addosso all’inizio della carriera”), qui si fa più umbratile,
come sottolineato anche dalla brughiera al confine tra
il magico e il tragico ritratta in copertina. Le canzoni di
Crowley sono fatte di poco o niente: qualche accordo
di chitarra, qualche raro fiato (The Mock Wedding), pochi
tocchi di tastiera (The Morning Bells) e su tutto un canto
che non lascia indifferenti, specialmente se ascoltato in
un pomeriggio invernale.
I quadri bucolici, ma soprattutto la personale descrizione
di Dublino (From Champion Avenue to Misery Hill) fanno
pensare a Dickens o, per meglio rimanere in territorio
irlandese, il Joyce di The Dubliners. Allora i riferimenti
si fanno chiari (irlandesità profonda e sofferta, povertà, campagna e pioggia, il folk) per un gemello di Neil
Hannon che ha scelto la brughiera e la riflessione alla
città e all’ironia. La materia che trattano, però, è la stessa:
l’animo umano di fronte al precipizio della vita. (7.1/10)
Marco Boscolo
Adriano Modica - La sedia (Cardio a
dinamo, Novembre 2012)
Genere: canzone d’autore
E’ un disco che colpisce senza far rumore, il nuovo di
Adriano Modica. Diversamente da quanto accadeva nei
due episodi precedenti, La sedia rinuncia a un approccio immediato e diretto (pop?), delegando al secondo
o al terzo ascolto (almeno) il compito di districare tutti
i fili. Non che la materia sia ostica, tutt’altro. La ragione è da ricercare invece nelle aspirazioni di un lavoro a
suo modo “orchestrale”, allentato, capace di rinsaldare
45
il legame profondo di Modica con la canzone d’autore ma anche di esplorare una dimensione nuova per
quella psichedelia sognante ormai marchio di fabbrica
del musicista. «La sedia è fermarsi, darsi una calmata e
guardare al passato per non dimenticarsi di essere stati
vivi, al presente per preoccuparsi e chiedersi il perché e al
futuro per ricordarsi che c’è sempre un’altra possibilità per
fare meno schifo. Considero il coltivare la memoria come la
base di un progresso sano, sottintendendo per progresso la
rielaborazione delle cose in funzione del benessere e non la
manipolazione del concetto di benessere in funzione delle
cose. Non imparare dagli sbagli è al di sotto persino delle
bestie».
La trilogia inaugurata dai due lavori pubblicati in passato trova quindi compimento: dall’infanzia (la stoffa
morbida e confortevole di Annanna), all’adolescenza
(la pietra dura della realtà esemplificata da Il fantasma
ha paura), all’età matura qui rappresentata dal legno,
materiale caldo e comunque vivo. Si fa pace con i mostri
della vita reale, insomma, affrontandoli finalmente con
occhi diversi. Un concept sui tempi moderni? Probabilmente si, ma
alla maniera di Modica. Il che significa distorcere il punto di vista fino a interiorizzarlo in un grandangolo autobiografico sfumato, grazie soprattutto a una musica
che gioca con gli spazi vuoti, le pause, gli arrangiamenti
articolati. Con la poetica dei testi che segue a ruota: non
più le fotografie oniriche ma essenzialmente descrittive
dei “cassetti chiusi a chiave” di qualche anno fa, piuttosto
suggestioni da cogliere, espressionismo slegato dalla
consecutio temporum. Se Che mi dai è il brano più cinematografico e lisergico del lotto con i suoi cerchi concentrici di fagotto, mellotron e voci, l’iniziale Alieni è il
Modica più familiare, Almeno il cielo è sempre uguale è
l’Italia musicale in bianco e nero di cinquanta anni fa, Il
divano mescola Syd Barrett e un’indole da brass band,
L’albero delle mollette è cabaret in stile Liza Minnelli traviato dai Beatles (con la chiusura affidata agli intrecci
vocali del “Coro acrobatico delle voci nell’armadio”).
Quel che rimane di un disco registrato in analogico,
ambizioso (numerosissimi i contributi strumentali, dal
timpano al vibrafono, dal clavicembalo agli ottoni, dal
flauto dolce agli archi) e a cui partecipa con un cameo
anche quel Duggie Fields nel ‘69 coinquilino del Barrett già citato, è il misto paradossale di classicismo ed
estrema libertà formale che si respira al suo interno. A
dimostrazione che la personalità, quando c’è, non ha
bisogno di effetti speciali o di trucchi da imbonitore.
(7.2/10)
Fabrizio Zampighi
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Aerosmith - Music From Another
Dimension! (Columbia Records, Novembre
2012)
Genere: tamarrock+ballads
Nati ad inizio anni ‘70 come band di culto all’ombra dei
giganti del rock (dai Led Zeppelin ai Rolling Stones),
gli Aerosmith riuscirono a lasciare una traccia importante (Toys In The Attic e Rocks) appena prima dell’arrivo dello spazzino chiamato punk. Letteralmente a pezzi e autori di prove indecorose nella prima metà degli
anni ‘80, Steven Tyler e compagni (all’epoca i chitarristi
Perry e Whitford abbandonarono la causa per qualche
anno) tornarono sulla cresta dell’onda, aggrappandosi alle spalle dell’esplosione glam/hair (e di MTV), con
gli album Permanent Vacation e Pump, prima tuffarsi
nei ‘90 con ballate strappalacrime di successo (Amazing,
Cryin’ e poi I Don’t Want to Miss a Thing).
Anni zero praticamente nulli, tanto che l’ultimo album
vero e proprio (il dimenticabilissimo Just Push Play) risale addirittura ad undici anni fa, seguito poi da problemi di varia natura, cover e uscite minori. Si ripresenano
nel 2012 con Music from Another Dimension!, album
che sulla carte avrebbe dovuto rappresentare il grande
comeback sulla scena mondiale.
Purtroppo per loro, partendo dall’artwork old-style (e
decisamente primi-883), è chiaro fin da subito che gli
Aerosmith non riescono a bissare quanto fatto dagli
AC/DC qualche anno fa: la riproposizione, quasi caricaturale, di se stessi è la medesima, ma manca il tiro
giusto... e non solo.
L’album infatti si apre con LUV XXX, introdotta da un discorso da datato sci-fi movie è il classico riff-orama hard
bello ritmato con chorus che rimanda a Love In a Elevator, Steven però appare distante e fiacco, protagonista
- un po’ come su tutto il disco - di una ricercata energia
ormai persa (si pensi all’ultimo Kiedis).
Rock-blues tamarro (tra Stones e AC/DC) come Oh Yeah
o la decente Legendary Chid (ad un certo punto è impossibile non pensare a Sweet Emotion), aperture corali
insensate (Beautiful, dove Tyler insegue Matthews Shadows degli Avenged Sevenfold), autocitazionismi vari
(le chitarre+fiati di Out Go The Lights) e tentativi speed
che non vanno da nessuna parte (Street Jesus)
Poi ci sono loro, ovviamente, le cheesy-ballads languide
da rimorchio: la semiacustica Tell Me, We All Fall Down, la
pacchianissima (telefilm anni ‘90 dietro l’angolo) What
Could Have Been Love? e il disastro annunciato di Can’t
Stop Loving You, un pezzo alla ultimo Kid Rock in compagnia dell’ex-reginetta del country-pop Carrie Underwood, negli anni soppiantata da Taylor Swift. Chiude
Another Last Goodbye (co-scritta da Desmond Child,
Eagle Twin - The Feather Tipped the Serpent’s Scale (Southern Lord, Ottobre 2012)
Genere: Post Stoner
Non è dato sapere se il messaggio criptico (e non avrebbe potuto essere altrimenti)
rilasciato dagli Eagle Twin al termine delle registrazioni di The Feather Tipped the Serpent’s Scale - “questo disco segna il termine di un lungo e oscuro processo di ricerca, per
tutte le persone coinvolte nel progetto..” - significhi la fine di un’era (o la fine del tutto).
Ipotizziamo che loro, sconfortati dalla poca considerazione a fronte di una carriera sinceramente titanica, abbiano optato per una legittima riflessione: continuare o dichiarare terminato il proprio excursus musicale? Gli eventi ce lo diranno ma, nel frattempo,
non possiamo non rilevare come quest’ultimo lavoro del gruppo sia uno dei dischi di
metal estremo più interessante degli ultimi anni.
Una radice ultra core e doom nella loro storia (provengono dai seminali Iceburn e Ascend) e la forza di isolarsi
dall’universo per penetrare i misteri dell’occulto, hanno permesso al duo di Salt Lake City di sviluppare un concept
a partire dal già significativo debutto The Unkindness of Crows, che oggi esplode in tutta la sua soffocante meraviglia. E per l’occasione, la produzione di Rundall Dunn ha significato l’aggiunta di un terzo uomo, di un concepteur
d’elite, in grado di trasmettere alla band le regole soniche già applicate ai Wolves In The Throne Room, agli Earth
e ai Boris.
Descrivere gli Eagle Twin oggi è praticamente impossibile se non partendo proprio dai Wolves In The Throne
Room dai quali la band eredita, non tanto il caos pagano della radice black metal, quanto la violenza oscurantista
del doom estremo. Ma sarebbe limitativo definirli una doom band. Anzi, sarebbe fuorviante. Provate ad immaginare
la fusione di Earth, Slayer e Pentagram, polverizzare il risultato in una macina composta dalle mole monolitiche
di Mayhem e Saint Vitus e, infine, immaginare il risultato soffiato nell’oscurità del cosmo. Sarete vicini alla poetica maledetta di una Ballad Of Job Cain divisa in due parti, continuamente altalenate tra drumming epici, spoken
gutturali, lastre di doom siderurgico e stomp gong alla Bongripper.
Ancor di più in Lorca, sembra di avvicinarsi nuovamente alle prime note del debutto dei Black Sabbath, ma sconvolto dall’ascetismo malefico dei Bong e dalla marzialità neurosisiana. Gli Eagle Twin non solo hanno coraggio,
ma anche un progetto musicale solido e inattaccabile che sublima nell’apocalisse Coleridgiana di Snake Hymn, in
cui si materializza l’incubo dronico dei Sunn O))) prima che il break tipico degli Slayer di Angel Of Death squarci
il velo e apra a una danza sacrificale violentissima. Niente da dire, gli Eagle Twin hanno scritto una delle migliori
pagine di doom core degli ultimi anni.
(8/10)
Mario Ruggeri
storico filo conduttore tra Aerosmith e Bon Jovi).
Considerando il livello di Music from Another Dimension! speriamo sia davvero un sincero “last goodbye”:
gli Aerosmith del 2012 hanno tutti i sintomi di una ispirazione che non c’è e di un attaccamento maniacale a
certi stereotipi (loro, in primis) legati inevitabilmente al
passato e forzatamente riproposti fino allo sfinimento
(l’album, tra le altre cose, è fin troppo lungo) nel segno
dell’obsolescenza.
(4.4/10)
Riccardo Zagaglia
Allah-las - Allah-las (Innovative Leisure,
Ottobre 2012)
Genere: 60’ garage
Il debutto di questo quartetto losangelino per Innovative leisure è un’esperienza totalizzante. Come chiudere
gli occhi ed entrare nella macchina del tempo destinazione West Coast, la San Francisco garage e surf dei ‘60
e di Greg Shawn: Nuggets, Bomp, tutta quella roba lì. Ci
siamo arrivati alla fine, un retrò completamente identico
al vintage.
Viene da chiedersi come faccia a piacere un disco così
nel 2012, perché indubbiamente piace. La risposta è in
realtà abbastanza semplice, gli Allah-Las hanno trovato
la ricetta perfetta: evirare il garage di cui sopra della sua
componente rock’n’roll, sostituendola con il jingle jangle
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dei Byrds e il surf dei Beach Boys. D’altronde fare garage oggi pare davvero diventato sinonimo di saccheggio,
quindi tanto vale razziare dai Byrds e dai Beach boys che
piacciono a tutti giusto? E se due più due fa quattro, un
fac-simile con sapore alla Youger than Yesterday dovrebbe quantomeno essere gradevole, fosse anche solo
un quarto dell’originale andrebbe benissimo. Ragionamento perfetto, funziona proprio così.
Gli Allah las hanno il merito di padroneggiare bene la
materia, di far scorrere queste dodici tracce senza intoppi, di far vorticare di atmosfere svagate, leggere psichedelie e spiaggie in salsa lounge con assoluta naturalezza,
permettendosi anche di uscire dai binari con la bossa
nova di Ela Navega. Qualcosa di simile l’avevano fatto un
paio d’anni fa i Fresh & onlys con Play it strange, ma
qui la copia è di fedeltà assoluta. Si finisce col rimuginare
il ritornello “beh cosa ci vuole, lo potevo fare anch’io”. E
invece l’hanno fatto loro, onore al merito.
(6.8/10)
Stefano Gaz
Anthony Phillips - City Of Dreams
(Voiceprint, Dicembre 2012)
Genere: musica elettronica
Confacendosi a meraviglia col significato della collana
Private Parts and Pieces, anche l’undicesima edizione della raccolta si rivela espletazione di spunti e annotazioni
decisamente privati; la musica elettronica qui affrontata
da Phillips è - più che in passato - soliloquio disinteressato a considerare l’esistenza di un qualsiasi sottogenere
nato e cresciuto negli ultimi quarant’anni (da quando
cioè, l’elettronica fece breccia sul mercato popolare grazie ai vari Morton Subotnick e Walter Carlos).
City Of Dreams rinuncia momentaneamente al mood
acustico delle opere più note di Ant discostandosi pure
dalle recenti dolcezze orchestrali in coppia con Andrew
Skeet in Seventh Heaven. Risultato di queste investigazioni sono trentuno acquerelli che alternano pacificazioni ambient (Watching While You Sleep, Coral Island, Astral
Bath) a soluzioni strumentali vicine per enfasi visiva al
mondo delle colonne sonore, a cui si aggiungono alcuni
episodi di scherzoso stordimento (la titletrack).
Nei momenti più riusciti si gioca seriamente alla sottrazione, evocando paesaggi di indubbia profondità come
nel caso di Desert Flower. Nella mancanza di un filo conduttore che leghi insieme una canzone alla successiva
c’è spazio anche per uno scampolo tastieristico più convenzionale e lì il professionista sa commuovere con una
progressione di accordi di meticolosa semplicità (Air &
Grace). King Of The Mountains parte con l’enfasi fluida
del tipico Vangelis cinematografico per sovraincidere
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un assolo di chitarra elettrica che rimanda al Göttsching
di fine Anni ‘70. I guai si odorano quando è selezionato sul synth un timbro oltremodo datato (Piledriver) o
nell’azzardo di frenesie robotiche sprovviste del giusto
ingranaggio (lo schizzo jungle Night Train To Novrogod).
Il tutto - va ribadito senza che questa voglia risultare
necessariamente un merito - senza il benché minimo
criterio commerciale. Se ce ne fosse bisogno, Phillips ribadisce al mercato e
ai suoi fedelissimi l’assoluto disinteresse nel dare alle
stampe un prodotto che non riproduca tale e quale il
suo estro del momento. Davvero indipendente, a tutto
e a tutti.
(6.9/10)
Filippo Bordignon
Antibalas - Antibalas (Daptone Records,
Agosto 2012)
Genere: Afrobeat
Sono passati 5 anni dal precedente Security nel quale il
collettivo di Brooklyn aveva spinto i propri limiti stilistici
fin quasi oltre l’afrobeat nel cui ritorno in auge aveva
giocato un ruolo non secondario e al quale qui torna,
ispirato in parte dall’aver lavorato al musical Fela!, in parte dal ritorno al banco della produzione dell’ex-membro
Gabe Roth (anche produttore dei primi 3 dischi).
Il gruppo infatti ricompatta le linee tornando ad una più
stretta osservanza del manuale, dalla quale però riparte
cercando la novità altrove, quasi più dall’interno che non
nella contaminazione.
I riff di chitarra e di organo acquistano infatti maggiore
centralità rispetto a prima, guidando il flusso musicale
ampiamente dispiegato nella durata lunga dei brani e
sostenuto dalla forza poliritmica dell’ensemble, questa
affidata anche a fiati in contrappunto e ricamo ritmico:
vedi l’apertura subito in ballo di Dirty Money, che rallenta solo leggermente in The Ratcatcher ma arriva vicino
al reggae in Him Belly No Go Sweet, viaggia dispari sulle
stratificazioni ritmiche di Ari Degbe e Ibéji prima di ripartire nella frenetica apoteosi finale di Sáré Kon Kon col sax
che si riprende il centro della scena tirando il tutto senza
nessuna voglia di smettere.
Per qualcuno è un paradosso che un gruppo occidentale
sia così calato dentro una musica che nella terra e negli
anni d’origine veniva suonata con un orecchio agli strumenti e l’altro alla porta da cui potevano irrompere militari, e vede in ciò la causa dell’assenza della tensione che
animava i dischi di Fela Kuti; ma i testi, che esprimono
talvolta sotto metafora talvolta direttamente temi cari al
movimento Occupy (per il quale hanno anche suonato,
e si guardi anche il video della suddetta Dirty Money),
Holly Herndon - Movement (RVNG Intl., Novembre 2012)
Genere: experimental
Movement, l’esordio di Holly Herndon, è una sorta di saggio anatomico: il corpo in relazione alla tecnologia e la
decostruzione dello stesso allo stato pre-codificato. Più in generale è disco ultra-concettuale, che passa in rassegna
vari nerdismi 90s (realtà virtuale, post-umanesimo, cyborg manifestoes e cyber-femminismo) per poi incasellarsi, estremamente contemporaneo, nel dualismo fra tecnofobia
e tecnofilia. Un dualismo che in musica viene steso attraverso il doppio binario curriculare della nostra: da una parte il club come appreso dagli anni spesi in consolle a
Berlino, dall’altra l’accademia come da laurea in Electronic Music and Recording Media
al Mills College di San Francisco e attuale dottorato a Stanford.
Si parla quindi di laptop e composizione vocale processatissima, di combinazione fra
gelide astrazioni avant-garde e techno viscerale, di blend fra cerebrale e fisico. Eppure
i paragoni - logici ed immediati - con gli ultimi lavori di Actress e Laurel Halo sono
riduttivi: la proposta della Herndon è ben più coraggiosa ed intenzionata ad abbattere muri e nozioni assodate. La
stessa concezione di elettronica come “intrattenimento” è limitata in Movement a due episodi su sette, ovvero la
cavernosa Fade - che suona come il risultato di una collab fra Ellen Allien, Andy Stott e i Knife dopo una visione
di Ghost In The Shell - e l’acida, kinetica, Aphex Twin-esca titletrack. Episodi che non possono che essere letti come
concessioni all’accessibilità, come antri in cui sciogliere la tensione.
La maggior parte del discorso è infatti estrema, ansiolitica, tenuta per isolamenti drastici degli elementi essenziali
del grottesco, a tratti deliberatamente disgustosa. È il caso di Breathe, in cui respiri, sospiri e ansimi sono microprocessati, tritati e deformati per il massimo disagio; ancora di Dilato, controparte ideale dell’I Am Sitting In A Room
di Alvin Lucier e della Numb di Stott, con la ripetizione del titolo affidata ad una bella voce outsider - quella del
baritono classico Bruce Rameker - e condotta per via di time-stretching e pitch-shifting dal gutturale all’angelico,
fino al totale, inquietante spoglio dei ruoli di genere. Movement è breve e disgiunto, ma non l’ennesima residenza per la sperimentazione inconsistente. La Herndon
crede davvero nelle sue idee, la perseveranza che ci mette per realizzarle è palpabile e fa struttura da sè. Non solo:
all’ascolto ripetuto vengono rivelati diversi livelli di profondità, tanto che dall’attrazione inconscia per l’orrorifico si
arriva a rovescio alla sfera intima, quasi-sessuale. Come da concept, dalla antica (ma del tutto superata?) diffidenza
e timore per tutto ciò che è tech, all’oggi dei device come estensione di noi stessi e della nostra espressione. Il lato
sintetico della voce umana e quello organico della “musica fatta al computer” sono qui entrambi legittimati. Non
è un disco facile e non può esserlo, ma alla dedizione si rivela per ciò che è: arte. (7.5/10)
Massimo Rancati
mostrano che si può guardare comunque il mondo sfruttando la prospettiva, certo più sicura ma diversa, offerta
dal vivere al centro dell’Impero. Magari senza senso di
pericolo, ma con “tiro” e ispirazione.
(7.2/10)
Giulio Pasquali
Atlas Genius - Through The Glass EP
(Warner Music Group, Novembre 2012)
Genere: pop rock
Ennesimo nome nuovo destinato al successo? Gli Atlas
Genius sono tra le “next big things” della scena Australiana (recentemente vi abbiamo parlato dei Gypsy & The
Cat e dei Collarbones) ed hanno tutte le caratteristiche
per fare breccia tra il pubblico figlio di O.C..
La band è formata da Keith Jeffrey, Steven Jeffrey, Michael Jeffrey e Darren Sell e se siete stati abbastanza attenti
vi starete chiedendo “ma sono fratelli?”. Risposta affermativa, tanto che qualcuno li ha già etichettati come i Kings
Of Leon australiani, non solo per alcune sfaccettature
vocali di Keith.
Gli Atlas Genius escono per la Warner Bros e non sorprende quindi che stiano già iniziando a ricevere un discreto airplay radiofonico negli States grazie al brano
Trojans ed il suo appicicoso chorus “Your trojan’s in my
head”. Detto questo, la formazione guidata da Keith Jeffrey non eccelle in nulla e lo dimostra senza troppi veli
nell’EP di debutto Through The Glass.
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Più un assaggio che un vero e proprio EP considerato
l’esile contenuto, il quattro tracce Through The Glass
si apre con la sopracitata Trojans, brano in cui le particolarità vanno ricercate in alcune e vaghe inflessioni
alla Foals, probabilmente più evidenti nella successiva
Back Seat: pulizia sonora, giochetti in direzione mathpop e andazzo svogliato ma trascinante. Il terzo brano
in scaletta, Symptoms, rimedia un innocuo incrocio tra
Temper Trap, Phoenix e un Miike Snow svuotato della componente electro prima di lasciare spazio ad una
versione acustica di Trojans, probabilmente progettata
per finire in una scena conclusiva di qualche telefilm
americano.
La musica contenuta in Through The Glass e gli altri
brani disponibili su internet, tra cui If So presente nella
soundtrack del videogioco Fifa 13, per il momento non
ci permettono di sbilanciarci più di tanto. Attendiamo
l’album, con aspettative piuttosto tiepide. (6/10)
Riccardo Zagaglia
ginaria, drums and wires per davvero, a mostrare come
l’amandran sia davvero l’origine del blues, sia per l’affinità tra lo ‘ngoni e la chitarra, sia per i call and response,
sia per raccontare il quotidiano e gli umori profondi di
una cultura (emblematica Afrika/Afro blues, ma anche le
venature fusion di So/Fanzia).
Ma nell’arte come in biologia è la mescolanza che rende
più forti: così i 4 membri del gruppo che lo accompagna
provengono da zone diverse del centroafrica (Senegal,
Costa d’Avorio, Camerun) più un cubano, e tra il groove
del titolo, un’aria diffusa da canti tradizionali e frequenti
assonanze afrobeat, la musica esce dall’ortodossia trovando uno dei momenti più alti nel funk di Ambita/
Bakadaji o nei ricordi d’India col basso in evidenza di
Yala (ma non solo, vedi Mama Don) mentre il manifesto
Donnya oscilla tra swing e blues (e dal vivo prende una
in perfetta naturalezza una piega reggae).
A questo punto della carriera Sissoko ha ormai la mano
sicura per essere se stesso mentre rilegge la tradizione.
(7.1/10)
Giulio Pasquali
Baba Sissoko - African Griot Groove
(Afrodisia, Giugno 2012)
Genere: Amandran
Come ci spiegano le note di copertina, Sissoko appartiene ad un’illustre dinastia di griot: figura centrale nella
cultura dell’africa subsahariana, un po’ saggio, un po’
cantastorie, un po’ memoria collettiva della comunità,
come ai tempi in cui i ruoli di sacerdote, poeta, sciamano degli elementi e filosofo non erano così distinti.
Un’eredità ancestrale protrattasi però anche oltre i tempi del colonialismo e delle varie diaspore africane, grazie
a un adattamento alle nuove circostanze che, specie in
situazioni di emigrazione, continuano a vedere necessaria la presenza di qualcuno che interpreti e trasmetta
la cultura di un popolo (e lo stesso Sissoko si è trasferito
da tempo in Calabria). Nella pratica dei griot musica e
aspetto scenico hanno sempre rivestito un ruolo centrale: non stupisce quindi vedere alcuni di essi avere
successo nello spettacolo.
Baba porta avanti da anni una ricerca sull’amandran
e sulla musica tradizionale del suo paese d’origine, in
un’ottica di contaminazione che lo ha portato a suonare
i suoi strumenti tradizionali (lo ‘ngoni, a corda, e i tamani, tamburi parlanti) con gruppi piuttosto lontani tra di
loro (Art Ensemble of Chicago e Buena Vista Social
Club per dirne due), o a metter su collaborazioni che
portavano a mescolare il suo patrimonio musicale col
jazz o col folk rock (vedi il progetto con Aka Moon e
Black Machine, o quello con Il pozzo di san Patrizio).
Stavolta la scelta è diversa: si torna all’essenzialità ori50
Balmorhea - Stranger (Western Vinyl,
Ottobre 2012)
Genere: Chamber post rock
Con il quinto disco, il duo di Austin (benché ormai fisicamente separato) prova a cambiare direzione: con
calma, com’è nelle loro corde, ma il camerismo dei dischi
precedenti qui accoglie variazioni di suono e dinamica
dovute ad una paletta strumentale che adesso include
anche, tra le altre cose, inserti elettronici, chitarre elettriche, oltre a una maggiore presenza delle percussioni.
Siamo sempre lungo le onde di strumentali sereni, ottimamente prodotti, che fluiscono piacevoli e atmosferici
l’uno nell’altro (i due brani iniziali), ma già nel terzo Fake
Fealty le dinamiche portano a momenti di grinta ritmica
che proseguono anche nella successiva Dived. Archi e
piano sono qui come al solito, ma le chitarre effettate
richiamano in Jubi certo Metheny anni ‘80, tracciano
etereità in Shore e nel bozzetto Islet (ma anche in Pyrakantha, prima del crescendo con elettronica, steel drum
e infine batteria tradizionale), mentre la più strana del
lotto, Artifact, giustifica gli accostamenti precedenti al
post-rock coi suoi arpeggi da Fripp primi anni ‘80 (e anche certi controtempi si collocano tra i King Crimson di
quel periodo e i suoi dischi con Andy Summers).
Passi avanti, forse ancora da focalizzare del tutto, ma
intrapresi con l’eleganza consueta.
(6.9/10)
Giulio Pasquali
King Dude - Burning Daylight (Dais, Novembre 2012)
Genere: dark folk
Parlavamo poco tempo fa dei Cult of youth ed ecco arrivare l’illustre compare, TJ Cowgill aka King Dude, altra punta
di diamante del neofolk americano. Un po’ cantante un po’ imprenditore (si è inventato uno marchio streetwear a
croce in giù dal nome Actual Pain, di cui cura personalmente accessori magliette eccetera) Cowgill l’anno scorso
aveva sorpreso con Love, disco struggente che rileggeva in chiave nera e scarnificata parecchia della tradizione
folk a stelle e strisce scomodando i vari Dylan e Cash.
Come i suoi predecessori anche questo nuovo disco è intriso di sacralità, invocazioni
a Dio e al Diavolo, personaggi rassegnati allo scorrere del tempo e quindi al sopraggiungere della morte (i drive my hearse in reverese coz’ i know when i die o ancora there’s
no use in lying cuz’ i know that i’m dying my friend/ my body is leaving and i know Death
is reeling me in). Tutto gira intorno a voce e chitarra, gli elementi essenziali del King
Dude pensiero. Temi morriconiani a sfondo western, ballate per cuori spezzati, Cowgill
che gioca a fare il crooner con la sua voce greve e baritonale. Ed è proprio la voce il
topos più indagato, un canto estremo e quasi parodistico nei timbri funerari (Barbara
Anne) o nell’esaltazione del vibrato (Lorraine), in ogni caso alla ricerca di nuove forme
e soluzioni senza rinunciare a un pizzico di ironia.
Anche la musica allarga il respiro, agguanta la rabbia del blues (I’m Cold), vede assimilata la lezione Dirty Beaches
(Holy Land che rilegge in chiave polverosa i Suicide, You can break my heart che già dal titolo bussa alla porta di
papà Elvis) e soprattutto pone molta più attenzione negli arrangiamenti, finalmente incisivi in un fiorire di strepitii
tenui e altezzosi. Così Burning Daylight riesce a avanzare con maggior complessità quella dicotomia tra dolcezza
e oscurità che è il vero tratto distintivo della poesia Cowgilliana.
I detrattori potrebbero dire che è uno un po’ finto il Dude, uno pronto a marciare nell’hype del ritualismo stile
chitarra e passamontagna, eppure sotto la maschera c’è un songwriting ispirato, capace di emozionare e centrare
sempre il bersaglio (Jesus in the countryard). Il dark folk 2012 è marchiato col suo nome.
(7.5/10)
Stefano Gaz
Bambounou - Orbiting (50 Weapons,
Novembre 2012)
Genere: Techno
Che la techno sia il vero, nuovo terreno di conquista
dei producer votati all’inventiva non lo dimostra solo
quel che abbiamo raccontato su speciale e osservato dal
vivo, ma anche quel che stan facendo due delle label
più dinamiche e originali che si son viste quest’anno,
Monkeytown e 50 Weapons. Entrambe dirette con mano
caparbia e decisa dai Modeselektor, d’estrazione intellettuale la prima e più club-oriented la seconda, nel 2012
le due etichette han saputo offrirci uno spaccato affascinante delle direzioni più prolifiche recitate dal verbo
techno, passando dalla rigidità da club di Shed e Benjamin Damage/Doc Daneeka alle aperture garage ben
orchestrate da Phon.o e Lazer Sword, senza contare le
teorie personali più caratteristiche di Otto Von Schirach
o Anstam e le mosse da fuoriclasse di Mouse On Mars
e Addison Groove.
Coi Modeselektor a dettare i tempi, tutto avviene sem-
pre a gran velocità. Il giovane produttore parigino Bambounou, ad esempio, non ha fatto nemmeno in tempo
l’anno scorso a venir fuori da etichette underground
come Youngunz e Sound Pellegrino che già questo agosto era al primo EP su 50 Weapons, poi un altro paio di
mesi e arriva l’album che fa impazzire diversi addetti al
settore, tra cui una garanzia di qualità come Laurent Garnier. Facile pensare che le esitazioni spariscono quando
non si hanno dubbi, perché il ragazzo in effetti sembra
tutto tranne che un principiante in cerca del proprio
nord: Orbiting mostra sicurezza e autorevolezza in ogni
risvolto, componendo un mosaico di sfumature piantate
tra le derive moderne a partire da un midollo osseo fatto
di tensione minimal techno e aggressività urbana.
Da una parte Mass e Let Me Get che esaltano i loop
stretti del juke, con scoppi di energia dancey che il
ghetto difficilmente avrebbe replicato, dall’altra Splaz,
Great Escape e Any Other Service che riprendono le fascinazioni future-garage con rinnovato spirito melodico e una punta di sana invidia verso la coppia Jimmy
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Martha Wainwright - Come Home To Mama (V2 Music, Ottobre 2012)
Genere: pop
La nascita di un figlio, la morte della madre. La ruota gira e sono carezze e ceffoni, il togliere e il dare della vita
che spesso riverberano sul versante pop-rock come invasive infusioni di concretezza. Con Martha Wainwright,
invece, le cose non vanno così. Forse meno addicted alla messinscena rispetto al fratello Rufus, è comunque uno
spettacolo d’arte varia quello che allestisce con questa terza prova d’inediti (a quattro
anni dal buon I Know You’re Married But I’ve Got Feelings Too). Se nel frattempo lo
splendido live dedicato ad Édith Piaf faceva supporre un rinculo verso territori nobili
dell’arte canzonettistica, questo Come Home To Mama - registrato nello studio di Sean
Lennon - cala sul piatto una rinnovata voglia di sparigliare le carte.
Decisiva è stata la mossa d’affidare la produzione a Yuka C Honda delle Cibo Matto,
che ha portato in dote ghiribizzi elettronici e il prurito della misticanza stilistica, oltre
al di lei marito Nels Cline, ospite pregiato alla chitarra. Ne risulta un album poliedrico
e vivace, croccante d’intelligenza e sensibilità. Il registro svaria dalla spersa malinconia
bluesy di All Your Clothes alla piacioneria folk-errebì di Can You Believe It, passando da spasmi ed esotismi David
Byrne (la tesa I Wanna Make an Arrest, una Radio Star irrorata glam), solennità crepuscolari (la gravità à la Sandy
Denny di Everything Wrong) e altri approcci diversamente arty (le impalpabili arguzie di Leave Behind, la wave
acidula di I Am Sorry, lo pseudo trip-hop di Some People...).
Quanto a Proserpina, pezzo scritto dalla madre Kate McGarrigle nei suoi ultimi giorni, è un melò cameristico corale
che per quanto suoni avulso dal resto del programma sembra esserne l’ombra luminosa, il momento di massimo
artificio che va a coincidere col massimo di (struggente) verità. Del resto con Martha la messinscena è solo un altro
modo in cui il vero può (rap)presentarsi, prassi che ne potrebbe mettere a rischio la credibilità se la caratura di
autrice ed interprete non fosse a livelli (oramai) altissimi.
(7.2/10)
& The Family Stone quindi ci siamo (e la versione ha
tutti i pregi e nessuno dei difetti del disco) e Everybody
Knows This Is Nowhere è la conclusione che scioglie la
tensione su una nota lieve.
Ma, pur senza pretendere filologia fuori luogo, altre
volte dispiace veder sparire le belle melodie originali:
vedi Yesterday Is Here di Tom Waits (retta da un piano
che sembra uscire da un grammofono), o il classico Dirty
Old Town (l’eccezione di cui dicevamo, ma col testo riportato negli USA delle tensioni razziali) presente in due
versioni (un mid tempo vibrante la prima, un blues rilassato intorno a una bella figura di batteria la seconda).
Crazy degli Gnarls Barkley, invece, era nell’originale che
soffriva di qualche sguaiatezza, e qui migliora sia nell’arrangiamento rarefatto che nell’interpretazione vocale,
più misurata rispetto al resto; ma rimane il fatto che,
come nelle due precedenti, se avesse cantato un altro
testo e cambiato il titolo non l’avrebbero riconosciuta
neanche gli stessi autori.
Ma non si può certo chiedere a Bettye di rinnegare la
sua natura e la sua storia, o un genere che vive più di
cuore che di osservanze e per il quale tutto ciò va benissimo: anche un po’ meno, però.
(7/10)
Giulio Pasquali
Stefano Solventi
Bison B.C. - Lovelessness (Metal Blade,
Novembre 2012)
Genere: Heavy Metal
Edgar+Machinedrum: sono le direttive che lasciano
più il segno durante l’ascolto, strappi intelligenti a una
regola base che invece affonda i colpi in Data o Off The
Motion, svelando il retaggio minimal da club underground di Bambounou. È un suono abrasivo e votato
alla notte, che però sa esibirsi in slanci electro d’impatto
pià cerebrale, come in Capsule Process e EX06. Orbiting
è l’album giusto per riassumere lo stato di forma della
techno 2012 e presentare un autore con le mani in pasta nella scena che conta. Le scimmie di Berlino non ne
sbagliano più una.
(7/10)
Carlo Affatigato
Bettye LaVette - Thankful N’ Thoughtful
(ANTI-, Settembre 2012)
Genere: Soul, r ’n’b
50 anni di carriera accidentata che da qualche anno
ottiene i meritati riconoscimenti: le nozze d’oro con la
discografia arrivano nel momento migliore per questa signora del soul old style. Per festeggiare, dunque,
autobiografia e disco nuovo che, dopo Interpretations
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costruito su firme UK, stavolta pesca il repertorio dagli
USA (con significativa eccezione).
Con la produzione di Craig Street (già con Norah Jones,
tra gli altri) che fa tessere al gruppo una trama sonora
notturna, fremente di distorsioni e di un occasionale
tremolo sulla chitarra (calzante, benché dai Calexico e
da Tarantino in poi sia diventato quasi più inflazionato
del flanger negli anni ‘80), la nostra sfodera tutte le arti
che ben le conosciamo: graffi e passione, ruvidità e cuore, e la profondità sensuale di una voce che ha cinque
decenni di lezioni soul da impartire.
Anche troppo, però: il repertorio di vocalizzi, ricami, rubati, variazioni melodiche che Bettye conosce in tutti i
suoi recessi viene squadernato in misura forse eccessiva,
quasi senza interruzione e, invece di essere utilizzato
come decorazione e abbellimento al momento giusto,
spesso diventa una spezia che prende il posto di qualsiasi altro sapore.
Certo, Everything’s Broken di Dylan che aveva già una
struttura blues funziona, come I’m Not The One dei classicisti Black Keys che risulta personale pur senza esagerare in distanza dall’originale; la title track era di Sly
Quiet Earth. Dark Ages. Infine Loveleness. Ovvero,
un pianeta terra quieto, un’era oscura e infine una vita
senza amore. In pratica, la trilogia della disperazione,
secondo i Bison B.C. che, nel breve giro di tre dischi,
sono passati da band metal emergente (e parzialmente
grezza) a gruppo di riferimento nella scena heavy nordamericana. Vengono da Vancouver e hanno allineato la
loro carriera a quella della Metal Blade che ne ha patrocinato gli ultimi lavori, credendo ampiamente nelle loro
possibilità. Ebbene Loveleness è la risposta più concreta a questo atto di fede e racconta perfettamente origini
e sviluppi dei Bison B.C.
Fondamentale conoscere le loro radici, per entrare perfettamente nel quadro apocalittico di uno dei migliori
dischi metal dell’anno; e quindi è doveroso ricordare
come la prima incarnazione della formazione congiungesse le partiture aggressive e secche del thrash
metal, la greve cadenza del doom con lo state of the
art dell’Heavy Metal inglese. Tutta la loro vita si è concentrata sullo sviluppo di un tema fatto di tre elementi
ben distinti e, se prima il punto di caduta della band era
la difficile amalgama fra i generi oggi, trovata la qua-
dratura del cerchio, diventa l’arma vincente. Tutto ha
inizio con An Old Friend in cui James Farwell, cantante e
chitarrista, dimostra una versatilità non comune, danzando (metaforicamente) tra il power metal ortodosso
degli High On Fire, il chitarrismo degli Iron Maiden e
l’incedere tipico dei Black Sabbath, spezzato da una
marcia speed chiaramente thrash metal, alla Forbidden.
La forza sta nel tema di fondo, lanciato con la prima canzone del disco e poi mai abbandonato, come dimostra
il gioco a intarsi di Last and First Thing, tutta sviluppata
sul classico intreccio di “guitar twin” Judas Priest, che
si aprono solo con un sottile gioco di armoniche vicino
ai primi Machine Head: ed eccolo il thrash evoluto che
ritorna in una scarica di watt che il Logan Mader di Davidian ha consacrato a status metal.
Metal, metal, sempre più metal in Blood Music, ma ribadiamo, è nell’insieme, nell’omogeneità, nel trademark
musicale, che i Bison B.C. si giocano le frecce migliori. E
centrano il bersaglio. Una band sicuramente non innovativa, ma nel conservatorismo tipico del metal di ogni
tempo, sfavillante.
(7.2/10)
Mario Ruggeri
Blood Command - Funeral Beach (Fysisk
Format, Dicembre 2012)
Genere: Post Metal
Bergen, Norvegia, crocevia culturale del Nord Europa.
Terra silenziosa ma così importante per la storia della
musica. Bergen, la città di Grieg, del Peer Gynnt Ibseniano, landa desolata di atrocità Black Metal, dance
(Royksopp) e NAM (Kings Of Convenience). Bergen:
confine delle sperimentazioni e dei Blood Command
che gettano i semi nel 2008 e, dopo un paio di lavori
sotto misura, raccolgono i frutti, nel 2012, con Funeral
Beach.
Non si gridi al capolavoro, non ancora, perché i Blood
Command devono ancora chiarire a loro stessi alcuni
punti fondamentali, come ad esempio l’equilibrio da
tenere in fase di composizione, però il dato di partenza
è interessantissimo, Funeral Beach nasce dall’esigenza di fondere la club music (loro passione) con il punk
hardcore (loro provenienza artistica). Un esperimento
che, letto da un altro punto di vista, ricorda quello degli
ultimi Justice che partendo dall’elettro pop, sfociavano
nel rock. I Blood Command si prendono il rischio di
tentare una strada di fusione, di commistione, fra generi
apparentemente in conflitto tra loro e, come già detto, a
volte non si capisce dove vogliano andare esattamente,
soprattutto quando si concedono al pop o alla tentazione di un bel singolo da classifica (Wolves At The Door).
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sono, l’idea pure. Ora, spazio alla chiarezza. E il gioco
è fatto.
(6.7/10)
indie-UK mid-00 (dai Kaiser Chiefs ai Kasabian, passando per i Jet), progetti paralleli/solisti minori e gruppi da
facepalm come i Viva Brother.
Le recenti live reunion (Stone Roses, Blur, Suede e
Pulp) da una parte dimostrano che la nostalgia di quel
periodo oggi è diffusissima, dall’altra hanno la fisionomia di chi ha il compito di celebrare il passato, tarpando
ulteriormente le ali ad un’ipotetica rinascita.
Nonostante le premesse, cinque londinesi capitanati
da Arthur Delaney da un paio d’anni girano per le terre albioniche armati di buona volontà e sostegno alla
causa. Si chiamano Born Blonde e per la Moriarty the
Cat Records pubblicano il loro album di debutto What
the Desert Taught You, uscito dopo una serie di singoli
piuttosto promettenti.
Il tocco dei Born Blonde è spesso influenzato da una
psichedelia spacey, più cullante che acida (l’iniziale Solar) e da sonorità puramente anni ‘90. Si prenda I Just
Wanna Be: intenti fluttuanti (“I just want to fly. I don’t
want to fall”), pattern di batteria collaudato, strofa vagamente Oasis e ritornello abbastanza anthemico per riaccendere le speranze del popolo brit. Certi The Verve e
The Charlatans rivivono in brani come Light On, sorretto da un basso bello corposo.Dopo una parte centrale
del disco più radiofonica (Signs Of Fear), con These Days
I Dream of Pyramids si torna ad ondeggiare lentamente.
La voce melodica e sognante di Arthur è perennemente
protagonista e tende ad assumere una connotazione
più roca quando aumenta i giri. A livello strumentale
bisogna riconoscere alla band il coraggio di smarcarsi
da qualsiasi moda del momento (distorsioni shoegaze
o hip-hyped sounds ad esempio), cercando una soluzione di derivazione brit ‘90s che va ad attingere da varie
fonti, senza necessariamente clonare. In questo senso
importante un utilizzo di piano/tastiere mai invadenti
ma quasi sempre presenti (Dreamland, Radio Bliss).
What the Desert Taught You non brilla di originalità e
presenta qualche filler di troppo (dovuti probabilmente
ad una capacità compositiva ancora da rodare), ma nel
complesso si fa più che apprezzare, soprattutto se si è
alla ricerca di un ascolto poco impegnativo.
(6.4/10)
Mario Ruggeri
Riccardo Zagaglia
Raime - Quarter Turns Over A Living Line (Blackest Ever Black, Novembre 2012)
Genere: post-industrial
Erano attesi per il battesimo sulla lunga distanza, Joe Andrews e Tom Halstead, in arte Raime, dopo che la trilogia
su Blackest Ever Black degli Ep - Raime Ep / If Anywhere was here we would know where we are / Hennail
aveva preparato il terreno dando ampie indicazioni sul tipo di sonorità che i due volevano visitare. Più che musica,
quella dei Raime è una scenografia, uno studio d’ambiente, una forma di soundtrack
della notte metropolitana. Il risultato finale si traduce in un design profondamente
noir: paranoico, inquieto, disturbato. I Raime abitano le ore della notte con la stessa
sicurezza con cui i colletti bianchi si affollano intorno alle 8.00 del mattino. Arriva da
qui l’evidenza proclamata con cui seguono una tradizione prettamente britannica. Da
un lato il flirt, quasi istintivo, con la corrente dubstep, che viene trattata come indole
di fondo, come materiale grezzo, privato dei suoi riflessi più carnali.
I due brutalizzano di fatto il sound Hyperdub con una lama minimalista che stacca
letteralmente la sostanza delle cose dalle notti più lussuriose di Burial, Scuba e Kode9
lasciandone solo uno scheletro esanime. Dall’altro il tributo alla tradizione post-industrial e dark-ambient, di cui si
pongono evidentemente come gli ultimi profeti. Lo scontro tra la ritmica algida, digitale, inumana che sa di dub
androide e la saggezza dei sample concreti e metallici che si stendono come nebbia nelle strade, apre un varco
sensibile con l’isolazionismo di metà ‘90: Scorn soprattutto, ma anche Main, :Zoviet*France:*, Thomas Köner,
Techno Animal e tutti i nomi catalogati nella seminale Ambient 4: Isolationism.
Nascono così i brani di Quarter Turns Over A Living Line, che asciugano se possibile una tavolozza di suoni, mostrata negli ep, già estremamente austera di suo. Ne è un esempio The Last Foundry, che riprende la This Foundry
del Raime Ep, riletta poi magistralmente da Regis, dove l’elettronica aveva ancora un taglio concreto e nell’ordine
delle cose. Il confronto con quella contenuta nel disco di debutto, non potrebbe dare indicazioni più chiare su
dove stanno andando a parare Andrews e Halstead. Il mimalismo maniacale della ritmica di Soil And Colts segna
evidentemente un ulteriore stato del degrado costante verso cui tendono le composizioni dei Raime. Sempre
più vuote, con gli echi sempre più profondi e i suoni sempre più distanti. La catastrofe sceneggiata in Exist In The
Repeat Of Practice non nasconde per altro l’ossessiva disposizione dei suoni e dei campionamenti. C’è sempre una
forma di eleganza molto inglese nel modo in cui i Raime mandano in rotazione e giocano con la circolarità, si veda
la fragranza blues di Your Cast Will Tire che riprende il taglio urbano post-Neubauten degli Heaven And, o ancora
la maestria con cui si mette mano al lato più “aereo”, con i campioni di archi e strumenti a corda di The Dimming
Of Road And Rights che mandano in gloria il disco e chiudono malinconicamente sui i titoli di coda per quella che
potrebbe essere la soundtrack ideale di La Fin absolue du monde.
(7.5/10)
Antonello Comunale
Eppure, quando rimangono concentrati, i ragazzi di
Bergen riescono a tirare fuori dal cilindro qualcosa di
paradossalmente vicino agli At The Drive In, solo che
in versione più ballabile. Un hardcore isterico, quello
di Funeral Beach, ma anche saltellante come March
of the Swan Elite, tra i pezzi più convincenti di tutto il
disco.
Non per portarla sempre sul rock, ma i Blood Command convincono maggiormente quando l’ago della
bilancia si sposta sull’hardcore. E’ lì che la loro reinterpretazione di Orange 9mm, Refused e Justice diventa materia indubbiamente interessante. I numeri ci
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Born Blonde - What the Desert Taught
You (Moriarty the Cat Records, Novembre
2012)
Genere: britpop / psy
Nell’ultimo decennio in tanti hanno provato - invano a far resuscitare la scena britpop: i residui post-britpop
brevemente fagocitati dai Coldplay, un ramo della scena
Brian Eno - Lux (Warp Records, Novembre
2012)
Genere: ambient
Lux è inequivocabilmente un album di musica discreta. E perché farne oggi, nel 2012, di musica discreta?
Impossibile comprenderlo se non si pensa a Scape,
l’applicazione per iPad che Eno ha rilasciato da poco.
Niente a che vedere con il caso Cage-iano, se pensiamo
che le due cose (disco e app) sono state raccontate in
un’intervista unica (che potete ascoltare qui). “Abbiamo
molte più chance di scegliere come ascoltare oggi”. E
abbiamo molte più chance di scrivere per i fatti nostri
l’album che vogliamo ascoltare. Come ha detto Brian
al Guardian: “A partire da Discreet Music e da Music For
Airports, ho mostrato il processo della musica generativa
in azione. Con Scape, quello che voglio fare ora è vendere il
processo a chiunque, e non il mio output di quel processo”.
Lux è esattamente un’altra versione di quel “process in
action”. Una composizione di 75 minuti in 12 sezioni che
porta a compimento la sonorizzazione delll’istallazione, Music for the Great Gallery of the Palace of Venaria,
realizzata l’estate appena passata alla Galleria Grande
della Venaria Reale di Torino. Un’ora e un quarto in quattro parti, suddivisione che ricorda subito Music For Airports, rispetto al quale è un po’ più “dramatic” (soprattutto per i picchi dinamici sulle note alte nella seconda
e terza parte), con un uso degli strumenti che ricordano
On Land. Più estatico di Discreet Music (diciamo più
vicino - ma con meno “mistero” - a Neroli). Lo stesso
mattoncino-tema minimalista è rilasciato piano piano,
in vena, per tutta la durata dell’album, con un’insistenza
e un effetto ipnosi che ricordano Morton Feldman per
pianoforte.
C’è un ragionamento in più da fare. La musica ambientale nasce come musica per rassenerare le ansie
dei fruitori degli ascensori dei primi grattacieli, grazie
all’opera della Muzak. Musica industriale per calmierare psicodrammi standard. Brian è colui che ha rigirato
la frittata, e l’ha pensata come musica come supporto,
superficie di iscrizione personale. Musica “per”, da far
abitare ai rumori della giornata, del momento in cui la
si ascolta. Oppure - ma allora è thinking music - il supporto di iscrizione è per i nostri pensieri. Con Lux viene
da domandarsi da che parte stiamo. Da che parte sia
oggi la musica generativa di Eno.
La questione non è tra musicista e non-musicista, ma
l’eterna tensione tra ascoltatore e non-ascoltatore. È
una questione davvero peculiare alla musica generativa. Nell’ascensore oggi ci stiamo con le nostre cuffie
che abbattono il rumore di fondo. Siamo isolati. Eppure
i pensieri sono più roboanti del rumore meccanico del
contrappeso dell’elevator che va su e giù. E i picchi minimalisti delle tastiere di Eno interagiscono con i nostri
neuroni. Li influenzano in definitiva molto di più che nel
passato, e quindi sono subdoli, se fruiti dentro il manifesto Eno-iano di una vita. Non è una forma di meditazione: Eno si scarta in modo assertivo e definitorio
dall’ambientale mistico-new age-iana di compositori
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come Steve Roach (da noi intervistato qui e con mille
rigagnoli di acqua santa di Palo Alto ancora da esplorare nelle dune del deserto). Brian è dentro il presente.
E capisce bene che rifare la stessa cosa non vuol dire
davvero riproporla, dato che i requisiti a contesto (noi)
sono (siamo) cambiati.
(7/10)
Gaspare Caliri
Brokeback - Brokeback And The Black
Rock (Thrill Jockey, Novembre 2012)
Genere: rock
I Brokeback sono lo sfizio che Doug McCombs si concede dall’ormai lontano 1995. Un combo mutante che
dal 2010 si è consolidato in quartetto: assieme al bassista (qui anche chitarrista) dei Tortoise ci sono musicisti dell’area chicagoana come James Elkington degli
ex-inglesi The Zincs (chitarra, organo e batteria), Pete
Croke (basso) e Chris Hansen (chitarra), questi ultimi
assieme nei tosti Head Of Skulls. Registrato negli studi
dell’amico John McEntire, Brokeback And The Black
Rock è il quinto titolo del progetto e rispetto all’ormai
lontano predecessore Looks at the Bird (Thrill Jockey,
2003) suona potente e rilassato, un divertissement da
professionisti con la fiammella della passione ancora
accesa.
Otto strumentali che miscelano brume desertiche, retaggi prog-psych (in senso tortoisiano, vedi Don’t Worry Pigeon) e un pizzico di peregrinazioni post, in una
forma estremamente fruibile, a tratti persino radiofonica (come i Calexico in estasi lisergica di Tonight At
Ten e Will Be Arriving). A sorreggere il tutto c’è un piglio
friendly che nei titoli diventa persino umoristico, come
a stemperare la naturale attitudine ad un eccesso di epicità: vedi la drammatica Colossus Of Roads o i miraggi
morriconiani che pervadono Gold! e The Wire, The Rag,
And The Payoff. Va sottolineata una eccessiva attenzione
nel suonare per suonare (esercizi sulle strutture, calligrafie strumentali...) che sposta il baricentro emotivo sul
sentire (che in effetti è un bel sentire, McEntire sa il fatto
suo) determinando di contro un ascolto appagante ma
poco evocativo, senza mistero. Mi verrebbe da definirla
una raccolta di brevi soundtrack per gratificanti chill-out
salottieri. Mah. Fate voi.
(6/10)
Stefano Solventi
Calvin Harris - 18 Months (Columbia
Records, Ottobre 2012)
Genere: Trance pop
Non deve stupire se Calvin Harris prima lo selezionia56
mo nella summer compilation mainstream e poi finiamo
in sede di recensione per dirne tutto il male possibile. La
compilation estiva rappresenta la classica selezione goliardica che sporge la testa oltre il davanzale ad osservare cosa succede “fuori”, a scorrere i pezzi con la massima
spensieratezza senza spendere tempo in analisi o solidità di stile, aspetti sotto i quali invece la preferibilità della
musica del soggetto in questione crolla miseramente.
Ed è qualcosa che in Harris si è accentuata soprattutto in
tempi recenti, perché in fondo il primo album I Created
Disco riusciva ancora a mantenere una propria dignità,
grazie soprattutto all’autoironia e all’esplicito richiamo
dei meccanismi classici di catalizzazione dance ereditati
dai 70/80.
Ora invece è tutto diverso. Lo scozzese ha furbamente
assorbito lo spirito di quelli con cui condivide i piani alti
della DJ Mag top 100 (quest’anno ha raggiunto il 31°
posto) e ha gettato il solito fumo negli occhi con un album alla David Guetta, pieno di collaborazioni illustri e
singoli già di ampio successo, dandosi con convinzione
nella trance, che non è solo il genere che storicamente
s’è svenduto ai meccanismi commerciali peggio di tutti
gli altri, ma anche l’unico col quale puoi ancora produrre
un pezzo piatto come pochi e riscuotere comunque gli
applausi degli affezionati della scena. Che poi è proprio
il caso di Bounce con Kelis - giro melodico di sconfortante monotonia, n. 2 nella UK chart - e di Sweet Nothing,
cordiale ma banale nella struttura, con in più il demerito
di ridurre Florence Welch ad anonima voce femminile
di genere.
Con dieci featuring eccellenti su tredici brani veri totali
c’è poco da discutere sulla nuova piega stilistica dell’autore, dell’happy pop di Feel So Close (una manna per
radio e negozi d’abbigliamento) o della scelta electro
house di Awooga (il modo più facile per far massa in
un album dance). Come sempre in questi casi contano i nomi e l’immagine adottata, e la scelta di un profilo danzereccio così povero di spunti e omologato a
schemi vecchi di dieci anni (Drinking From The Bottle,
Let’s Go) non fa altro che rivolgersi sulle file di ascoltatori meno esigenti e caratterizzate da una fruizione di
massa e “ignorante” (ci scusino i fan ma è così: qualsiasi
altro dance act disponibile oggi, compresi Deadmau5,
Zedd o Madonna, offrono energie e stimoli più solidi
di 18 Months).
Mettici anche il brutto di vedere artisti di differente
estrazione che rinunciano ai propri caratteri distintivi
per appiattirsi sullo stile imposto (I Need Your Love e We’ll
Be Coming Back, prove di carisma fallite per Ellie Goulding ed Example) e le delusioni si accatastano. Alla fine
gli unici a fare una minima figura sono Rihanna (la hit
Scott Walker - Bish Bosch (4AD, Dicembre 2012)
Genere: contemporanea
Riesce molto difficile racchiudere nello spazio limitato di una recensione l’ennesima opera compiuta di quel genio
musicale contemporaneo che conosciamo sotto il nome di Scott Walker. A distanza di sei anni dall’oscuro ed
estremo The Drift e intrapresa sin da metà anni Ottanta una strada che lo ha definitivamente separato dalla prima
parte della sua carriera “pop”, l’artista americano procede senza minimamente guardarsi indietro, andando continuamente al di là dei propri limiti.
In questo consiste la sua sfida, effettuata con autentica passione artistica e un sottile
e crudo sense of humour: superare la forma musicale, mescolando generi e modi,
attitudini, umori e materiali più disparati, di cui la musica è solo una parte. Il risultato,
anche e soprattutto in questo caso, è un patchwork che trascende le singole parti, per
farsi risultato artistico a tutto tondo, capolavoro.
“Lavoro fatto, in ordine”, recitano le note stampa a proposito del significato dell’espressione Bish bosh, che nel titolo dell’album diventa Bish Bosch, citando il visionario e
simbolico pittore fiammingo Hieronymus Bosch. L’’ordine’ è quello derivante dalla giustapposizione delle parti. In
questo caso l’album non è un vero e proprio concept ma consiste in tante piccole narrazioni che nel disegno del
musicista diventano un unicum organico, un fluire ininterrotto di cantato, recitato, sofferto e declamato. Lirica e
drammatica, tesa e liberatoria, più ricca di sfumature e meno oscura rispetto al precedente disco, l’opera segue il
filo della voce narrante Walker, che si fa guida attraverso l’humus figurativo e sonoro, iterativo e cinematico. Come
un dipinto di Bosch, si scoprono sempre nuovi tasselli e angolazioni che ne completano il senso, mescolando bene
e male, senza dare alcun giudizio.
Musicalmente Bish Bosch è abbastanza affine a The Drift per quanto riguarda l’aspetto formale: abolita quasi del
tutto la forma canzone, il cantato-recitato, lirico ed espressionista procede liberamente come un flusso, accompagnato dall’onnipresente ritmo, e dall’uso di chitarre, tastiere e fiati, che ne contrappuntano il narrato. Tutti elementi,
questi ultimi, che rappresentano una novità assoluta. L’orchestra è usata soprattutto funzionalmente per gli effetti
sonori; l’effetto è quello di una pienezza assoluta di suono ed è lasciato totale campo libero alla sperimentazione
e alle soluzioni di arrangiamento: fra gli “strumenti” usati è presente perfino un machete.
Testi e suoni procedono di pari passo, intersecandosi gli uni negli altri, in un procedimento cinematografico che
richiama molto una danza sonorizzata, più che un album sperimentale tout court. E non a caso dopo The Drift
Scott Walker aveva composto And Who Shall Go To The Ball? And What Shall Go To The Ball?, una suite strumentale
per una pièce di danza contemporanea del coreografo Rafael Bonachela pubblicata in edizione limitata nel 2007,
mentre nel 2009 si era occupato delle musiche di un altro balletto, Duet For One, coreografato da Aletta Collins ed
ispirato a Jean Cocteau.
I testi di Bish Bosch uniscono tante piccole e grandi storie, flash e narrazioni che comprendono vicende storiche
(l’esecuzione del dittatore rumeno Ceausescu e di sua moglie Elena in The Day The ‘Conducator’ Died, un buffone
della corte di Attila e la recente scoperta astronomica di corpi substellari freddi fuori dal Sistema Solare nella lunga
suite SDSS1416 + 13B (Zercon, A Flagpole Sitter), Gorbacev, Reagan, i nazisti, il Ku Klux Klan..), ambientazioni geografiche (Danimarca, Alpi, Hawai (Hepizootics!), antica Roma e Grecia..), metafore prese dalla medicina e dalla biologia
molecolare, citazioni bibliche, cinematografiche e quant’altro. Il tutto unito in un procedimento che unisce cut-up,
reinvenzione storica, sci-fi e spesso mescolamento di più di una storia in uno stesso pezzo (come nel caso della
suite citata), con termini ricercati di inglese colto e vocaboli specifici di genere.
Non è un disco facile, Bish Bosch, ma l’ascolto ripetuto ripaga ampiamente, rivelando via via sempre nuovi indizi,
in un’esperienza sonica totalizzante e immersiva.
(8.5/10)
Teresa Greco
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We Found Love sarà anche facile e leggera, ma almeno la
popstar tiene le redini di stile sui binari a lei funzionali)
e Dizzee Rascal (l’unico che in Here 2 China è capace
di mettere all’angolo Calvin Harris e far valere senza
compromessi il suo grime inossidabile). Ma non bastano
a tenere a galla una barca in cui tutti sembrano volersi
fiondare sul fondale per vedere l’effetto che fa. Tanto
il risultato si sa già: vendite alle stelle e sorrisi da ogni
parte tranne che dalla critica. In quella condizione da
summer compilation di cui sopra ci vive mezzo mondo,
e questo disco se lo meritano tutto.
(3.8/10)
Carlo Affatigato
Cemeteries - The Wilderness (Lefse,
Novembre 2012)
Genere: bedroom dream-pop
A dimostrare che la scena newyorkese non è tutta brookl-hip e feste ci pensa il solitario Kyle J. Reigle, mente
e creatore del progetto Cemeteries.
Nel leggere la sua bio, che descrive il suo appartamento
situato nella desolante zona industriale di Buffalo, mi
sono immaginato Kyle recluso all’interno di un loculo,
unico avamposto abitativo in un grigio panorama, composto da ciminiere ed industrie perennemente al lavoro
sotto al cielo plumbeo.
E’ tutta questione di immaginazione, come quella che
porta facilmente ad associare il nome Cemeteries a stili
musicali (black metal o darkwave) piuttosto lontani da
quelli proposti nell’album di debutto The Wilderness,
pubblicato per la Lefse, da sempre brava a coprire tutte
le sfumature della musica indipendente, spaziando tra
post-r&b (how to dress well), chillwave (Neon Indian,
Teen Daze) e chitarre (i nostri A Classic Education) con
un occhio sempre puntato al futuro (attenzione a Mister
Lies) e all’attitudine DIY (Youth Lagoon).
Il progetto Cemeteries può essere considerato come il
corrispettivo dream-pop (e probabilmente meno ispirato) del fragile Youth Lagoon. In The Wilderness l’atmosfera è perennemente ovattata al limite del subacqueo
(Deerhunter, Atlas Sound i riferimenti), sia quando a
dirigere sono accordi acustici (Young Blood), sia quando
invece sono arpeggi dal DNA 100% dreamy (What Did
You See) o tappeti di tastiera (In The Trees).
Kyle cede alle tentazioni eighties di scuola Wild Nothing nella titletrack, uno degli episodi musicalmente
meno cupi di un disco caratterizzato da una tavolozza
dalle tonalità crepuscolari che se diluite portano a situazioni decisamente fluttuanti (in Summer Smoke gioca
con i Pink Floyd).
The Wilderness pur regalando qualche picco emozio58
nale, è il classico lavoro destinato quasi esclusivamente
agli appassionati del genere, soffre infatti di un’eccessiva
staticità di fondo che va a braccetto con una mancanza
di coraggio che ben si sposa con la figura timida di Kyle.
(6.4/10)
Riccardo Zagaglia
Chad Valley - Young Hunger (Cascine,
Ottobre 2012)
Genere: balearic dance-pop
Non è un caso che ogni release a firma Chad Valley
finisca sistematicamente ai vertici della sezione popular
del celebre aggregatore Hype Machine. L’oxfordiano ha,
infatti, sempre avuto intuito nel far fremere la blogosfera, a partire dall’ingresso nel business con un EP (selftitled, 2010) che aveva dato al web esattamente ciò che
domandava: variazioni più smaccatamente tropical-pop
al tabù chillwave sull’onda della ripresa della balearic.
Equatorial Ultravox (2011) aveva battuto il medesimo
sentiero, mentre per questo Young Hunger la virata decisa è per un revival ultra-patinato tra citazionismo billionario di 80s e 90s (“If you wanna be my girl/Then you
gotta get with my friends” in My Girl, tributo diretto alle
Spice Girls). Il nostro - che all’anagrafe fa Hugo Manuel - non può,
è chiaro, puntare nuovamente sul tempismo perchè il
trend è già strabordante; gioca quindi duro, scorretto se
volete, imbracciando un parco ospitate che va da Twin
Shadow ad Active Child, passando per Glasser, El Perro del Mar e Totally Enormous Extinct Dinosaurs.
Ne vien fuori una piccola sintesi-manifesto di un genere
minore, di quella che lo stesso Chad Valley chiama “pop
music for people who don’t listen to pop music”, ovvero che
possa essere legittimata anche dal pubblico, che dir si
voglia, alt o hipster. Gli ingredienti ci sono tutti: chattering drums e disco beats, armonie auto-tuned (My Girl), la
tavolozza che spazia dal minimalismo atmosferico (Fathering Mothering, con Anne Lise Frøkedal) al synth bass
del glo più nostalgico (titletrack), il ponte con l’indie-R&B
bianco che sta definendo il roster - altrettanto a favor di
blog - della stessa Cascine (Evening Surrender), la posa da
frontman che non offusca il trademark - col solito occhio
di riguardo alla balearic nordica - da producer.
Perdonati un paio di gestioni restrittive (I Owe You This,
Manimals) delle controparti vocali (egomania?) per altrettanti episodi che in mano a nomi da milioni di click ci
avrebbero già bombardato le radio (Fall 4 U e Tell All Your
Friends), Young Hunger si rivela un album immediato,
divertente, infettivo.
(6.9/10)
Massimo Rancati
Spaccamombu - In The Kennel Vol. 2 (GoatMan, Novembre 2012)
Genere: metal
Incontrarsi su un terreno di mezzo. Questo il senso della collana In The Kennel, parente stretta dell’ormai mitizzata
In The Fishtank olandese ma ben radicata in quella provincia italiana sempre vigile e irrequieta. Nello specifico,
quella Provincia piemontese che molto spesso ci siamo ritrovati a trattare qui, col Canalese noise prima e con le
singole uscite, poi.
Ora, il secondo volume della collana compie già qualche passo decisivo in più rispetto
al primo numero. Non più cd, bensì bellissima edizione in vinile; non più una collaborazione in studio tra entità diverse quanto una fusione di due progetti in una nuova
vita. Il nome dei protagonisti si cela poco dietro l’intellegibile a.k.a. Spaccamombu
a dimostrazione della fusione “a caldo” tra esperienze in apparenza lontane ma che,
nell’accogliente studio Blue Rec di Mondovì e cullati dalla GoatMan Records, si sono
dimostrate in grado di stupire. Da un lato Paolo Spaccamonti, chitarrista silenzioso
e solitario, dal taglio cinematico e umorale; dall’altro i due Mombu (Luca T. Mai degli
Zu e Antonio Zitarelli dei Neo), rumorosi e afro-addicted in formazione atipica. Nel mezzo i cinque pezzi del vinile
totalmente immolati al verbo del metal sabbathiano e post-.
Sorpresi? Beh, se per il versante Mombu, il trafficare con le musiche estreme era piuttosto comprensibile (vedi alla
voce Tom Araya Is Our Elvis di Zuiana memoria), per Spaccamonti è una vera sorpresa trovarcelo accanito fan dei
quattro in nero. E, dall’ascolto delle cinque tracce del vinile, nemmeno in soggezione. Che si tratti di rinverdire fasti
doomy (Antro) col supporto dello stravolto sax di Mai, di tirate metallone con break da urlo e stop’n’go assassini
(Mountains Crashing Sound) o catacombali incroci tra sludge straniante e jazz-metal alieno (Idemortos), la potenza
di fuoco è fatale.
Quando poi il trio libera i fantasmi afro - una Assufais veramente notevole e la conclusiva The Altar Of Iommi che
racchiude molti mondi - allora la fusione riesce al massimo. Centrifugando il percussivismo tribale di Zitarelli (sempre
più influenzato dalle poliritmie africane), l’attitudine ipnotica degli ultimi Ex (quelli più afro), la follia cosmica e libera
di Sun Ra, certo jazz nordico limitrofo al noise made in Rune Grammofon (i Noxagt, per esempio), la devozione a
Tony Iommi che riecheggia anche in progetti particolari (gli Om meno devozionali), sfilacciamenti ambient-fusion
e chissà quant’altro. Centro pieno? Decisamente. In alto le corna.
(7.5/10)
Stefano Pifferi
Christina Aguilera - Lotus (RCA, Novembre
2012)
Genere: voci sprecate
Quando le attenzioni dell’universo girl-pop si spostarono dalla sfida Spice Girls-All Saints alla sfida Britney
Spears-Christina Aguilera, dovevano ancora scoccare
i rintocchi del nuovo millennio e per le due teen-diva i
più prevedevano un destino effimero similare a quelle di
tante altre star usa&getta. Invece (purtroppo? Malauguratamente? Sfortunatamente?) ancora oggi, nel 2012, il
music business sembra non riuscire a farne a meno, nonostante successo e vendite in calo più o meno costante.
Se Britney Spears ha toccato il fondo (artistico e non
solo) abbastanza presto per poi, in parte, riprendersi,
Christina Aguilera l’ha raggiunto negli ultimi anni,
dando vita ad un album destinato alla derisione (Bionic) e attirando il gossip più cinico e di bassa lega. Prima
di Bionic una carriera partita a livello disney-teen pop,
mutata prima in un porno-pop dirtyzzato di r&b e poi
nel revival retro-pop di Back to Basics, probabilmente ad
oggi il disco a suo nome più coraggioso (ed è tutto dire).
Bionic è stato un disastro perchè i suoi stessi fan avevano intuito la fregatura: era un disco realizzato con la
sola necessità di seguire la moda del momento (l’electrodance-pop di Lady Gaga). Veniamo a Lotus, ritorno discografico successivo alla parentesi cinematografica - in
compagnia di Cher - del consigliatissimo (...) Burlesque
e alla fastidiosissima Moves Like Jagger con i Maroon 5.
Avvio affidato alle velleità arty di Lotus Intro, dove il produttore Alex Da Kid manipola il sample della sdoganatissima Midnight City: una Christina Aguilera per certi
versi inedita. L’illusione termina qui: Army Of Me rigurgita
sonorità dance radiofoniche (leggasi Katy Perry) su cui
piazzare il solito potente vocione, Red Hot Kinda Love è
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semplicemente impresentabile e il singolo trash-pop Your
Body debole (qui producono Max Martin e Shellback,
come nella successiva e wannabe disco-hit Let There Be
Love). Chi si fa incantare dall’innegabile talento canoro
apprezzerà maggiormente l’accoppiata balladry Sing For
Me-Blank Page (quest’ultima in compagnia di Sia).
L’assenza di una direzione precisa è evidente in Around
The World - a metà tra Rihanna e la Lady Marmaladecitazione “voulez-vous coucher avec moi ce soir” - e
nella finta naughtytudine di Circles. A rendere ancora
più chiara la situazione “proviamole tutte pur di salvare
il salvabile” ci pensano i feat con i due colleghi televisivi - come lei giudici nel talent show The Voice - Cee Lo
Green (presenza quasi impalpabile in Make The World
Move) e il divo contry Blake Shelton, nell’arrangiamento pessimo di Just a Fool.
Unica nota positiva: nessun tentativo brostep.
(3.3/10)
Riccardo Zagaglia
feat con Guerre) mette le cose in chiaro impastando ritmi
‘90s - 2step&bass - con linee e timbri soul. La titletrack è
settata maggiormente su tonalità pop&rap (qui il guest è
HTML Flowers), ma poi i due tornano a mettersi i guanti vellutati che non avrebbero stonato addosso a Frank
Ocean, nella successiva Too Much e nella più ritmata - ma
comunque sinuosa - Missing.
Se pensate che lo slow-minimal soul di Cocooned sia
decisament deep, aspettate di sentire l’apertura di Teenage Dream (l’obiettivo dei due era collaborare con
How to Dress Well su questa traccia), sviluppata poi su
variazioni che possono riportare alla mente certe cose
di The Weeknd. Ottimo lavoro dietro ai tasti sia in One
Day che nel chill-sound di Losing, prima di approdare
alla conclusiva e vagamente spettrale Red.
Die Young difficilmente può competere con i pesi massimi, ma si contestualizza perfettamente e si muove con
grande gusto all’interno del movimento nu r&b.
(6.9/10)
Riccardo Zagaglia
Collarbones - Die Young (Two Bright
Lakes, Novembre 2012)
Genere: nu r&b / elettronica
All’interno della recensione del debutto degli Stubborn
Heart avevamo descritto la contaminazione tra black music e le ultime tendenze elettroniche come un “movimento
in pericolo saturazione”. Negli ultimi due anni tra James
Blake, Jamie Woon, How To Dress Well, The Weeknd e
la dimensione clubby di SBTRKT (solo per citare i nomi
più noti) si è assistito ad una vera e propria rinascita di un
contesto black - spesso inglobato da artisti bianchi - che in
questi giorni sembra non conoscere limiti. Con un 2013 già
spianato tra inc., Brolin, Autre Ne Veut e - si spera - Twigs,
il 2012 post-r&b ha ancora da sparare qualche cartuccia.
Una di queste risponde al nome Collarbones.
Collarbones è un progetto australiano composto da
Marcus Whale e Travis Cook - i quali vivono più di 1000
km di distanza l’uno dall’altro - con già all’attivo un
album, Iconography dello scorso anno, passato pressochè inosservato. A meno di un anno di distanza da
Iconography i Collarbones ci riprovano - sempre per la
Two Bright Lakes - con il sophomore album Die Young,
un disco tributo alla gioventù spenta crudelmente troppo presto, tanto che tra le note del booklet troviamo
frasi come “RIP River, Aaliyah, Lefteye” e “Thanks to all
our teen crushes”.
Marcus (stanziato a Sydney) e Travis (di casa ad Adelaide)
nelle interviste esprimono apprezzamenti per R.Kelly e
Miguel ma sono ben consapevoli di porsi sopra ad un piano mediatico e concettuale totalmente differente e maggiormente legato all’elettronica. L’iniziale Hypothermia (in
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Corin Tucker - Kill My Blues (Kill Rock
Stars, Settembre 2012)
Genere: Indie rock
Al secondo album solista, Corin Tucker lascia da parte
le interessanti esplorazioni semi-acustiche dell’esordio
1000 Years, per far tornare le chitarre elettriche in primo
piano. Una scelta che certo non sorprende, considerata
la reazione tiepida riservata al disco precedente, ma che
sembra essere una diretta reazione al successo delle altre due Sleater-Kinney Carrie Brownstein e Janet Weiss,
ormai lanciate nelle Wild Flag.
“Eccomi, sono tornata” esordisce la cantante nell’inno
post-femminista Groundhog Day che apre l’album, mettendo da subito in primo piano la sua voce inimitabile,
per niente segnata dagli anni che passano. Il risultato,
grazie anche al drumming frenetico dell’ex Unwound
Sara Lund, non sfigura rispetto ai momenti migliori delle Sleater-Kinney nei brani più movimentati (Kill My
Blues, I Don’t Wanna Go, No Bad News Tonight), mentre
rispetto all’album precedente convincono maggiormente anche i pezzi più lenti, dall’esperimento quasi
psichedelico None Like You alle chitarre schiaffeggiate
di Outgoing Message, forse l’apice emotivo dell’album.
Come ai tempi di Call the Doctor conmuove l’omaggio
a Joey Ramone Joey, mentre le noti dolenti arrivano
invece con il singolo Neskowin, un malriuscito tentativo
di trasformare il sound del disco in chiave dance-rock.
In generale, ci troviamo di fronte ad un buon seguito,
lontano come ci si poteva aspettare dagli apici emotivi
del trio di Olympia, ma che mostra un’artista di nuovo
Walking Mountains - Walking Mountains (40033 Records, Dicembre 2012)
Genere: ambient, psych
Walking Mountains è Bartolomeo Sailer, sound artist di stanza a Bologna. Il suo nuovo
progetto segue l’epopea Wang Inc., marchio di culto che lo ha fatto conosce alla scena
elettronica internazionale fin dal 1999 - sulla Sonig dei Mouse On Mars - nonché progetto ideale per comprendere il passaggio che, tra i Novanta e i Duemila, ha portato la
comunità elettronica verso sonorità concrete e un approccio maggiormente “suonato”
(un nome di punta? Matmos). Da allora, Bart approfondisce queste tematiche in un
frame di musica (pop)olare e non solo. Negli ultimi anni ha ampliato particolarmente
lo spettro d’analisi nelle musiche per visuals con video artisti come Saguatti, Federico
Pepe, Yuri Ancarani, mentre recentemente si è cimentato in Toilet Paper - progetto in
condivisione con Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan - e in una mastodontica maratona per l’etichetta digitale
40033 records che lo ha portato alla realizzazione di una ottantina di tracce minimal dance in un anno.
Sempre per quest’ultima label, grazie al crowd founding, esce l’atteso debutto omonimo Walking Mountains, un
album che ha richiesto più di un anno di lavoro e che si presenta come un melting pot degli ascolti di una vita,
oltre che di ripescaggi mirati di psych, rock, kraut, prog e di tutte le pietre miliari 70s (da cui eredita lunghezza e
suggestioni). Al centro il concetto di rivoluzione, gesto che sottintende una forte (e meditabonda) componente
di resistenza passiva sviluppata sia a partire da un mondo familiare e interconesso (e mai del tutto decifrabile),
sia all’interno di mura domestiche che liberano ma anche asfissiano. Il taglio potrebbe richiamare il concetto di
broadcasting dal mondo che sappiamo ha intrigato gli Animal Collective nella realizzazione dell’ultimo album,
qui sotto la lente di ingrandimento dell’open vision liquida dei Mouse On Mars e degli incastri acustico elettronici
dei Matmos (al netto di humor).
Molto attento, Bart, a vestirsi delle miriadi di band che hanno influenzato il disco: Amon Düül e (a)simmetrie Can,
cosmica Cluster, la psichedelia più marcia dei Throbbing Gristle (Ὀδύσσε&i
ota;α Book XII), l’influenza dichiarata capitale di ESKMO (guarda caso un mouseonmarsiano doc), il free-jazz di
Peter Brotzmann e il trip hop più esoterico e black di Tricky. Molto a fuoco il taglio sonico, dove ambientazioni di
cielo (ambient e psych) e terra (l’etno) oculatamente s’affidano a rock (chitarre) e hip e hop (campioni, filtri, break).
Interessante anche la scelta di sondare dicotomie quali l’intimismo (e la sofferenza) del solo (No Poetry) vs la forza
(e la propulsione) della moltitudine. Altrettanto importante la resa delle tracce, lungamente lavorate e soggette
al continuo feedback della community di Bandcamp (dove sono state originariamente pubblicate). Materiale che
nel master finale a cura di Mauro Andreolli (presso Das Ende Der Dinge), ha goduto di un sound all’altezza degli
immaginari di riferimento.
Molto suonato (e percosso), ma pur sempre frutto di una sensibilità elettronica, Walking Mountains è un album a
cui si ritorna sapendo di scoprirci sempre qualcosa di nuovo e ben cesellato. Certo prog via King Crimson (Holding
Back), i Nine Inch Nails (My Revolution), lo status facebook di Umberto Palazzo e il sax di Enzo Casucci (The Dominant
Class), la voce di Vincenzo Vasi (Ⓐ) on and on e mai nulla che sia una banale citazione.
(7.3/10)
Edoardo Bridda
pronta a tirare fuori i denti e ormai avviata da protagonista anche in questa carriera solista. Se era lecito
aspettarsi forse qualcosa di più dopo gli esperimenti
dell’album precedente, è anche vero che il formato da
rock band è quello che si addice di più alla bionda cantante dell’Oregon, che non è mai sembrata così a suo
agio dai tempi di The Woods.
(6.5/10)
Giorgio Bonomi
Daniel Maloso - In And Out (Kompakt,
Novembre 2012)
Genere: Latin body music
Dopo il grande interesse suscitato negli addetti ai lavori,
forte dell’esperienza alla Cómeme e del successo ottenuto con la hit Ritmo Especial, non stupisce più di tanto
vedere su Kompakt il messicano Daniel Maloso, sostanzialmente per tre buoni motivi: primo, la label di Michael Mayer & co. resta sempre ottimo trampolino di lancio
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e traguardo di consolidamento nello stesso tempo (a
dirlo sono i nomi passati e presenti della scuderia, Oxia,
Steve Bug, Popnoname, Jürgen Paape, SCSI-9, The
Field); secondo, la scena minimal o comunque techno
sud-americana vanta ancora ottimi ascendenti tra le release Kompakt (vedi anche Gui Boratto e Matias Aguayo); ultimo, il sound di Maloso, così attento all’intreccio
ritmo/groove, non poteva trovare che trovare naturale
delta e foce nella casa di Colonia, che a questa maniera
di massaggiare e coccolare i bassi modulati da synth ha
dedicato parte pressochè totalitaria delle proprie uscite,
peccando quasi di settarismo.
Per In And Out quindi c’è stato uno scambio quanto
meno alla pari, con la Kompakt che ha messo a disposizione tutta la propria caratteristica libreria di suoni
(quelli sentiti in toto da Superpitcher a Jürgen Paape
a Rex The Dog) e Maloso che nel goderne ha offerto il
proprio mestiere, manipolando secondo voglie, usi e
costumi non soltanto germanici ma genuinamente latini, che ripartono dalle sensazioni di producer di classe
amanti di una techno (Aguayo) e di una micro-house
(Boratto) dai sapori dolci e meldiosi.
Non stupiscono e non dispiacciono dunque certi salti a
gravità zero nella spacey di Lindstrøm prima maniera
(Boney, Right Kind, sono le stesse, lunghe levitazioni in
salsa norvegese) e divertono anche le esibizioni muscolari di Body Music e Cafe Obscuro, vigorose ma brave a
non trascendere nel kitsch e nemmeno nel rozzo già
visto in Rebolledo. Il marchio di fabbrica della label ovviamente è ben presente in tutte le tracce, anche con
una certa ridondanza: le lunghe armonie panoramiche
micro house di They Came At Night le adottava Superpitcher già nel 2004, ma va detto che lo stile di Maloso
è maturo e sicuro, distinguendosi per la notevole cura
dell’estetica e della produzione.
L’unico limite, purtroppo invasivo e penetrante, è frutto del vortice imbalsamatore orchestrato da Mayer e
Voigt, che ormai fanno album col limitatore di fantasia
in mode ON. E Daniel Maloso qui ci finisce dentro a
piedi uniti.
L’innovazione in casa Kompakt è finita con Supermayer nel 2007, da li è solo un rielaborare secondo varianti di stile e piacere differenti. Fortuna vuole che
a Maloso l’esercizio riesca piuttosto bene, anche perché trattasi di prima prova, ma per il secondo album
urgono innovazione e novità, tenendo bene a mente
anche le scelte fatte dai predecessori: chi ha voluto
innovare, anche solo parzialmente, ha allargato i suoi
orizzonti (SCSI-9 e Oxia, che han pubblicato gli ultimi album altrove) e nel frattempo a Colonia vanno in
onda solo repliche, benché recitate alla perfezione e
62
capaci ancora di non annoiare. Le evoluzioni non si
faranno attendere.
(6.5/10)
subliminale. Resta il fatto che Deification oggi si pone
come un disco di riferimento per il black a venire.
(7.5/10)
Mirko Carera
Mario Ruggeri
DE MAGIA VETERUM - Deification
(Trascendental Creations, Novembre
2012)
Genere: Black Metal
Che cos’è black metal oggi? O, un passo in avanti, cosa
possiamo considerare “pure black metal” oggi? Chiediamolo a Maurice De Jong, olandese con un passato
e un presente nel suo progetto più famoso, gli Gnaw
Their Tongues, ma autore del miglior disco black metal radicale dell’ultimo quinquennio grazie al suo side
project De Magia Veterum. Il potenziale nervoso del
gruppo si era già intuito nel predecessore The Divine
Antithesis, ma nessuno si sarebbe mai aspettato un
disco così fulminante come Deification.
Il black metal, nel corso dell’ultimo decennio, ha attraversato fasi particolari, spesso diverse fra loro e si è
decomposto in tante correnti: dal black ortodosso di
scuola norvegese, al black progressivo poi sfociato in
prog puro (penso agli Opeth), al black ammantato di
oscurità dark e industrial (penso ai Blunt Aus Nord), per
arrivare al black sperimentale e spirituale di un gruppo come i Wolves In The Throne Room. Ma ciò che
è, insieme, nuova teoria del caos e continuazione della
specie, oggi è solo nei De Magia Veterum. Non è tanto
il vortice horror della strumentale di apertura, Eradication, liberamente ispirata agli Entombed di Left Hand
Path e al King Diamond di Abigail ad essere il centro
nevralgico di un ottimo disco, quanto il delirio isterico
di Thorns (la polverizzazione degli Emperor e dei Dissection degli esordi).
Thorns è un cataclisma, la convergenza di ferocia e satanismo. Una lunga serie di scosse nervose che diventano
quasi il grindcore applicato al black metal. Passage riprende i passaggi Zorniani dei Painkiller, riscrivendoli
secondo le teorie di Burzum. Ecco, immaginate Filosofem se fosse scritto con il sangue e spogliato di tutte
le concezioni elettroniche. Ci potremmo avvicinare a
Deification. C’è qualcosa di veramente malvagio in
De Jong e nella sua visione della musica. Qualcosa che
in Evoked in Passion espolode in un vortice di ferocia
insopportabile: oltre certi livelli di suono, il rapporto
con l’ascoltatore diventa sofferenza fisica. De Jong, che
scrive e produce tutti i suoi lavori - e anche in questo è
vicino a Burzum - ancora in Shall Not Take Form applica
al free jazz schizoide il black metal e produce qualcosa
di impenetrabile. Come se tutto fosse un messaggio
Deftones - Koi No Yokan (Reprise,
Novembre 2012)
Genere: alternative metal
Anche se questo album fosse stato meno convincente,
i Deftones sarebbero da considerare senza dubbio il
gruppo più interessante compreso nel discusso fenomeno nu-metal, se non altro perché la qualità media e la
longevità artistica della loro produzione superano, per
ragioni differenti, sia i Korn sia i System Of A Down (fermo restando che lavori come l’omonimo dei Korn o Toxicity dei SOAD sono dischi fondamentali per il genere
e per una certa idea di metal alternativo e contaminato).
Ko No Yokan lo dimostra “solo” una volta di più. Che
la band di Sacramento possieda più elasticità creativa
di molti complessi a lei contemporanei non è una novità. Oltre a quel muro chitarristico così potente e allo
stesso tempo quasi volatile nella sua molecolarità, e alla
voce calda ed emotiva di Moreno, il segreto sono le doti
melodiche superiori che quest’album non si astiene dal
dispensare a piene mani e che permettono di apprezzare meglio la ricchezza di sfumature presente nel loro
stile. Niente crisi, il settimo LP li restituisce oltretutto in
forma come non li ricordavo dai tempi dell’omonimo del
2003, dopo qualche lieve ma comprensibile flessione.
Il dittico iniziale lascia pochi dubbi: Swerve City, con il
suo insieme di Black Sabbath, Nirvana, new wave e
emocore, e Romantic Dreams hanno il pregio di suonare
tanto classiche (cioè “deftoniane” fino al midollo) quanto
fresche. Leathers, che aveva anticipato il disco, è addirittura più incisiva nel contesto dell’album. Poltergeist
rispolvera tutti i trucchi preferiti dei quattro californiani,
a partire dal canto melodico sui controtempi.
I Deftones sono tuttora uno dei complessi rock che usa
meglio il dj, e nonostante l’assenza di Chi Cheng (che sta
ancora recuperando dopo il terribile incidente d’auto
del 2008) la scelta di Sergio Vega, ex Quicksand, al basso è sembrata da subito la più naturale. Tutto al posto
giusto, e anche se alcuni riff li avevamo già sentiti, è
difficile domandare di più a una band del genere dopo
quasi vent’anni di carriera.
(7.2/10)
Tommaso Iannini
Denise - Universe (Al-Kemi Records,
Ottobre 2012)
Genere: glitch pop
Universe è il disco della presunta maturità di Denise
Galdo, autrice salernitana di spiccata sensibilità dreamypop, fantasiosa, favolistica, rediviva Alice in un paese che
non è mai stanco di meraviglie. Lasciatasi alle spalle l’ala
salvifica e lungimirante di Gianni Maroccolo (già produttore del primo disco), la musicista si affida a Roberto
Vernetti, Cristian Milani e Michele Clivati. L’intento, ça va
sans dire, è quello di superare il clima bambinesco e ingenuo che caratterizzava Dodo, do! e che, in un modo o
nell’altro, era riuscito a conquistare l’ammirazione della
critica (passando ovviamente per le varie Trl, Radio Dj e
quant’altro, mai sazie di ritornelli e stornelli prêt-à-porter)
Eppure l’ingresso nel mondo degli adulti non è così facile, quando manca la leva militare. Se da un lato è palese
l’approccio a sonorità più emancipate rispetto alla parte
glitterata degli Eighties (il suono di Mantra of The Universe e Halfman può essere cifra di ciò) e c’è il tentativo
- per quanto solo accennato - di accostarsi a una tradizione che parte dal jazz-folk passando per Kate Bush e
Regina Spektor (Sailors è una bella, ma troppo classica ballad), dall’altro la zampata del manierismo “pascoliano” è dietro l’angolo. C’est-à-dire: ben venga questo
mondo di meraviglia visto dall’artista con gli occhi di
un fanciullino e condito di sincopati ritmi pop e accenni
elettronici di natura squisitamente sognante (e quindi
archi, archetti, stelle e stelline, giocattoli e giocattolini),
ma attenzione a non farsi prendere troppo la mano. E
quale miglior testimone di questa indole manieristica
se non proprio l’accanimento sull’onomatopea (ancora
in Rain e Piggy Poggy), la faciloneria gigiona storpiata
nell’electro-indie-pop di Superpop o la strozzatura forzata di una bella (è doveroso dirlo) vocalità?.
Rimangono gli spunti programmatici finalizzati a uscire
dal Baby Denise Universe e che, salvo gli episodi indicati
sopra, si sporgono appena in dirittura d’arrivo (Lighthouse
Keeper). Troppo contaminati, tuttavia, da un immaginario
che in tempi come i nostri ha smesso di affascinare. (5.8/10)
Nino Ciglio
Dj Balli - Tweet It! (Extratone Mix) (Sonic
Belligeranza, Novembre 2012)
Genere: extravaganza concept
DJ Balli + Ralph Brown manipolano tweet. Concept a
140 bpm: electrocabala della comunicazione 2.0 (14
brani x 1:40 min) in picture disc.
(7/10)
Marco Boscolo
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Egyptian Hip Hop - Good Don’t Sleep (R & S
Records, Ottobre 2012)
Genere: art pop, psychedelia
Li si era dati per desaparecidos, un po’ come i Late Of The
Pier del loro primo collaboratore, Sam Eastgate (Wild Human Child, 2010). Invece, a distanza di due anni dall’acclamatissimo EP Some Reptiles Grew Wings (prodotto
da Hudson Mohawke), rieccoli gli Egyptian Hip Hop,
quattro mancuniani neanche ventenni che ritorviamo
maturati sia tecnicamente (il frontman Alex Hewett è
stato touring member per Connan Mockasin e Charlotte Gainsbourg), sia artisticamente.
Rispetto al progressive synth-pop di stampo “upbeat” (e
a favor di NME) visto in precedenza, Good Don’t Sleep si
rivela fin da subito un album dalla lenta combustione,
dalle qualità espansive e sorprendentemente coeso. Un
unico mood dai tanti blend esplorati in dodici tracce scritte su una prosa psichedelia narcolettica, contraddistinte
cioé dalla diversa intensità di movimento e scandite da
una attiva, pulsante e vagamente esotica sezione ritmica. I richiami vanno dai 90s alternative agli 80s gothpop; ci troviamo sapori Warpaintiani (The White Falls)
e - d’altronde in cabina di regia c’è il medesimo Richard
Formby - dei Wild Beasts di Smother (Tobago, Strange
Vale), per un suono che è già piuttosto caratterizzato:
synth e torbide bassline a far da fondale nebbioso ad
effetto “wall of sound”, in grado di esaltare al massimo le
intricate trame chitarristiche che dai citati 80s di genere
possono sorprendere in calibrate e scientificizzate pose
Talking Heads.
Complice inoltre una sensibilità tutta chorus che torna a
rompere la quiete ripetitiva (Yoro Diallo, SYH), Good Don’t
Sleep scaccia il rischio noia, risultando, anzi, intrigante ed
immersivo. Comodità da stereotipo indie incluse nella
scatola (leggi: vocalità “shoegazey”) ma tutto il potenziale a disposizione per il classico debutto da qualche
culto, come fu quello dei Wu Lyf lo scorso anno. Merita.
(7.2/10)
Massimo Rancati
El Perro Del Mar - Pale Fire (Memphis
Industries, Ottobre 2012)
Genere: folk
Preceduto in estate da un sorprendente singolo Innosence Is Sense, che lasciava presagire una svolta goth-pop,
efficace ma fin troppo anonima in un territorio a metà
tra Zola Jesus e Esben And The Witch dove perdeva
su tutti i punti, Sarah Assbring consegna finalmente alle
stampe l’atteso ritorno sulla lunga distanza, sgombrando il campo dagli equivoci. El Perro Del Mar non traffica
con l’oscurità. Sarah, anche se gli anni passano, resta la
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ragazza bionda con i capelli da marinaretto che sogna
una forma di amore impossibile, tra Liala e un romanzo
Harmony. Esattamente quel profilo anni ‘60, leggero e
soffice come le nuvole estive che ce l’ha fatta amare fin
dall’esordio.
Pale Fire si colloca come l’ultimo tassello di questo personalissimo mosaico pop. Parla la stessa lingua di brani
storici del suo catalogo come Change Of Heart, This Loliness, Candy, Let Me In, eppure non conserva un grammo della magia di quest’ultime, colpa soprattutto del
pesante corredo elettro, che se pure si era intravisto in
Love Is Not Pop, stavolta domina su tutte le canzoni. Una
soluzione che aiuta l’omaggio verso la dance pop anni
‘90 che Sarah afferma voler fare con questo disco. Brani
come Hold Off The Dawn, Home Is To Feel Like That e I
Carry The Fire, in questo senso riescono a stabilire una
relazione con i vecchi Ace Of Base o Cardigans, in un
modo sicuramente più efficace di Maria Minerva, che
sostanzialmente fa la stessa cosa. Il singolo, con quell’irresistible refrain “Solitude is my best friend..” e gli ancheggiamenti pop-funk riesce finanche a farci ricordare
gente come Luscious Jackson, Soul Coughing e il Beck
di Odelay. Sostanzialmente i brani da best of ci sono
anche stavolta, soprattutto I Was A Boy, ma la scelta di
adeguarsi all’andazzo digitale quando lei, da sola con
la sua chitarra, evocava mondi interi e si rivelava come
l’unica degna erede di Claudine Longet, toglie parecchi
punti al disco. (6/10)
Antonello Comunale
Emptyset - Collapsed (Raster Noton DE,
Ottobre 2012)
Genere: elettronica
Emptyset sono James Ginzburg, producer americano
di Washington ma di stanza a Bristol che durante due
lustri ha suonato praticamene di tutto sotto svariati alias
(30Hz, P Dutty), dalla dubstep ai break, passando per
grime, acid e tech-house (tra gli altri ha collaborato con
Pinch fondando con lui il Multiverse, un network d’etichette). E l’artista Paul Purgas, attivo in solo soltanto
con un 12’’ di quest’anno, Dual Capacity co-firmato Shelley Parker, in area ambient scura, post-industrial, noise
e paraggi (non a caso la giovane etichetta dell’eppì, la
WCEC, ha ospitato Mick Harris).
Assieme dal 2007, James e Paul producono costantemente per svariate label specializzate e di genere tra cui
Caravan e Future Days su album e eppì. Collapsed è il
loro biglietto da visita Rasten Noton: smussati i looping
più grezzi e accantonato il 4/4 in area Minus per pulseprogramming, minimalismo e noise effect (Core, Wire)
rigorosamente analogico, il duo si posiziona sulla scia di
Byetone, ovvero sul lato più muscolare della faccenda
abstract techno iniziata dai Pan Sonic e proseguita con
rigore dai mastermind dell’etichetta tedesca (Armature).
Tra i nuovi ingressi della label, sicuramente più interessante la giapponese Kyoka.
(6.2/10)
Edoardo Bridda
Fausto Balbo - Login (Snowdonia, Ottobre
2012)
Genere: Kraut / glitch
Pubblicato dalla solita ammirevole stoica Snowdonia
in coproduzione con Afe Records (il disco è apparso in
streaming su bandcamp a luglio, la distribuzione Audioglobe è di ottobre), ecco la quinta release maggiore
in 12 anni di attività discografica per il cuneese classe
1970 Fausto Balbo, a due anni da quel Detrimental
Dialogue smezzato con Andrea Marutti che ci era
molto piaciuto. Fausto fa stavolta con la sua elettronica
glitch di ispirazione metà krauta metà industriale - ma
dal taglio artiginale e fragrante - una specie di concept
pessimista sul web e sul web 2.0 dei social e dei login
appunto, con lo spirito di chi dopo un giro circospetto e
attento corre prima possibile a fare logout, agli antipodi insomma dell’ottimismo modernista, yuppie e fintoingenuamente pro-tecnologico del James Ferraro di
Far Side Virtual.
L’elettronica di Balbo è rabdomantica nel senso che si
aggira zoppa alla ricerca di una forma propriamente
musicale, e te la fa intuire, te la fa immaginare, restando
sempre orgoliosamente al confine tra concreta pura e
suono orientato/organizzato. Come già abbiamo avuto
occasione di sottolineare, è questo un ambito inflazionato e rischioso, ma il nostro sa bene come costruire i
suoi materiali e il risultato, per quanto apparentemente
anche di base, riesce a suonare freschissimo e godibile.
E’ un viaggio nella rete non consolatorio da un punto di
vista della dimensione sociale-comunicativa, tutto grumi, inciampi, interdizioni; più appagante forse per chi
cerca davanti allo schermo la sublimazione di un’esperienza individuale/individualistica di ritiro appartato, di
meditazione.
Dal romanticismo austero subito ricondotto a un algido
inciampare di bit di Harvester of Bits appunto, all’effetto didgeridoo di aphextwiniana memoria di Virus Scan,
dalla illbient arabeggiante e misteriosa - poi addensantesi in figure quasi gobliniane - di Hardmysticmeeting, ai
suoni al limite dell’infrasuono che fanno agghiacciare il
gatto di Hi Mr. Kemp, dalla mimesi naturalistica e dalle
krauterie di Bird’s Room, al melmoso drone dub di Clozier
e allo sfarfallio spacey di Walkin’ with Klaus (il pezzo più
formato - nel senso di musicale - del lotto). Fino ai quasi
diciotto minuti conclusivi di Will Future Man Develop a
Third Ear?, che stimolano lo spuntare di questo famoso
terzo orecchio con un fantastico concertino di ciguettii - fischi, rumori e rumorini - che diventa poi un muro
di micro-contrappunti come di grilli in trance, diciotto
minuti che passano ipnotici e lisci come fossero manco
cinque.
Login by Fausto Balbo
(7.1/10)
Gabriele Marino
Fauve! Gegen A Rhino - Polemos (Bedevil,
Novembre 2012)
Genere: avant
Avevamo visto giusto puntando sulla formazione toscana Fauve! Gegen A Rhino. Per modalità compositive e
di distribuzione si dimostrano sempre più emancipati,
figli di una generazione “liquida” per manegevolezza del
medium e impatto libero, ma accesi dal sacro fuoco del
furore conoscitivo intragenere. Un atteggiamento che
li porta a mostrarsi come epigoni di nessuno e originali
compositori, pur nella trafficata ampiezza della tavolozza di colori usata.
Polemos è la collezione, uscita in formato digitale, dei tre
Ep a concetto rilasciati dall’un tempo trio e ora duo (da
segnalare la defezione di Matteo Moca avvenuta dopo
la registrazione del primo ep) nei mesi scorsi, e incentrati sulla riflessione sulla lotta come “modalità di origine
dell’evento”. In When You’re Dancing, You’re Struggling,
When You’re Struggling You’re Winning e When You’re
Winning You’re Losing c’è un intero universo di forme e
modalità sonore agile e scomposto tra heavy rhythm,
ambient malsana, techno atipica, destrutturazione acidrock, devianze trip-hop, perversioni Liars e increspature Fennesziane, trance da droga sintetica e mantra dal
futuro.
Roba che è a tempo stesso minimale e massimalista, che
costruisce orizzonti rimescolando input da ogni dove,
che frantuma generi e preconcetti, convogliando in sé
la migliore accezione del termine “musica liquida”. La tavolozza di colori dei Fauve è orizzontale sul piano dello
spazio-tempo e condita di ogni ben di dio musicale. In
essa infilano le manine per dipingere paesaggi sonori
nuovi e sporcare quelli evidenti e riconoscibili, col sostegno di una impalcatura progettuale e ideologica di
grandissimo spessore. Leggere e guardare il video di
Serse per averne conferma.
(7.5/10)
Stefano Pifferi
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Fear - The Fear Records (EM Records,
Dicembre 2012)
Genere: Punk
Personalmente, non ho mai nutrito per i remake di nessun genere. Preferisco gli originali o almeno, accetto le
riproposizioni se fatte con arte e intelligenza, con gusto,
rispetto e con (addirittura) magari qualche idea innovativa. Ma le autocelebrazioni no. Soprattutto quando
si tratta di celebrare un culto totale, distruggendolo.
Sarebbe interessante chiedere ai The Fear, motivazioni
economiche a parte, perché incidere nuovamente un
disco, trent’anni dopo, dopo aver perso giocoforza tutto
lo smalto e la rabbia del revolt punk dei primissimi anni
‘80. E torniamo, non si scappa, al ragionamento di sempre: Debord, McLuhan, la storia si ripete. Prendete una
musica, estrapolatela dal suo habitat originario e allora,
solo allora, capirete quanto la storia, l’ambiente, la società nella quale è stata composta siano importanti tanto
quanto l’idea creativa. Soprattutto se parliamo di punk.
I Fear, per gli amanti del rock, sono un’istituzione. Per
tutti gli altri sono quelli che hanno copiato i Guns’n’Roses rifacendo I Don’t Care (da The Spaghetti Incident!?)
senza sapere, loro malgrado, che furono i G’n’R a coverizzare il manifesto del gruppo che faceva paura: Fear
appunto. The Fear Album, edito nel 1982, fu una sorta
di elegia del caos rivoluzionario, da mettere in fila con
i Germs di G.I., i Discharge di Hear Nothing, See Nothing, Say Nothing, i Poison Idea di The Fear E.P.,
i Gbh e bande armate non troppo dissimili; un disco
violento, fastidioso, pericoloso, scomodo, una sorta di
blitz sonoro effettuato a colpi di We Destroy The Family,
Let’s Have a War, Gimme Some Action. Più che canzoni,
manifesti sociali.
Ed oggi? Ecco, provate ad immaginare una canzone ingrassata, imbolsita, pigra, senza più rabbia ma con la
voglia di rappresentare la rabbia. Come una proiezione
di un tempo che è stato. Ecco, il risultato, senza cattiveria, non può che essere pericolosamente tragico. Perché
se al punk togli il suo contesto di rabbia giovanile, o ti
chiami Jello Biafra, oppure rischi di fare magre figure:
e se sei un simbolo del punk, allora l’affare si complica.
Certo, i The Fear anche oggi si fanno ascoltare ma qualcuno dovrà anche spiegarci il senso di un’operazione
del genere.
(5/10)
Mario Ruggeri
Fergus & Geronimo - Funky Was the State
of Affairs (Hardly Art, Luglio 2012)
Genere: garage soul
Rieccoli, i Fergus & Geronimo, quel duo di folli garage
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boys tanto promettenti usciti con il loro buon primo
disco poco più di un anno fa. Funky was the state of affairs è un titolo decisamente adatto a sedici canzoni che
vanno a comporre un mix delirante di parlato (The strange one speaketh, My phone’s bene tappe, baby), rumorismi
(The Uncanny Valley) rock’n’roll, garage (Spies) e parecchi
residui (post)punk (Roman nvmerals, Drones). Rispetto
all’esordio i passi avanti sono moltissimi. Si riconferma
soprattutto l’eterogeneità delle ispirazioni, in particolar
modo aggiungendo i deliri funky tutti basso, tromba e
synth che vanno a chiudere l’album.
Funky was the state of affairs ha a tratti perfino la
forza di un concept che non si presta a una facilissima
interpretazione, anche a causa di scelte stilistiche disparate che comunque vanno a dare al disco una forma
unitaria. Un buon lavoro, insomma, pieno di slanci low-fi
e ricco di estemporaneità.
(7/10)
Giulia Cavaliere
Franco Battiato - Apriti Sesamo
(Universal, Ottobre 2012)
Genere: Cantautorato
Capire Battiato, avrebbe detto il buon Castoldi, non è
affatto un’operazione scontata. Tanto più se, dopo cinque anni e mezzo, l’attesa (l’ultimo lavoro di inediti fu Il
Vuoto, 2007) ha divorato i fans, che, trepidanti, hanno
guardato con mal celata malizia le opere cinematografiche, teatrali e sperimentali del maestro. Apriti Sesamo
arriva in una stagione inattesa della vita di Battiato, in
cui, di certo non nel silenzio assoluto, il cantautore catanese sta affrontando la sperimentazione su vari fronti. Rimarrà deluso, dunque, chi si aspettava da questo
ventottesimo album un’opera di indagine e di ricerca sul
suono. Essa non è stata abbandonata, quanto piuttosto
relegata al campo di altre arti non meno nobili come il
melodramma (recentissima è l’opera di ologrammi, balletto e lirica dedicata alla figura di Bernardino Telesio).
Si può dire che, sul fronte del sound, Apriti Sesamo
poco si distacca dall’esperienza de Il Vuoto o, meglio
ancora, dei Fleurs.
Ma nessuno aveva aspettative diverse. Gli strumenti
dell’artigiano pop sono maneggiati con la perfezione
che si confà a chi è maestro assoluto nel genere. Con
l’immancabile ausilio del fido Sgalambro e di un cast
d’eccezione come Faso (Elio e le storie tese), Gavin
Harrison (King Crimson), Simon Tong (Verve), Battiato
cuce dieci episodi di vita, fra nostalgie e indignazione,
echi sacri e mitologia pagana. Il tutto sapientemente
distribuito nel consueto pastiche di citazionismo: si va
da Santa Teresa d’Avilia (Un irresistibile richiamo) a Dan-
te (Testamento), da Stefano Landi (Passacaglia) al poeta
arabo Ibn Hamdis (Aurora), da Sheherazade di Nikolai
Rimsky-Korsakov (Apriti Sesamo) ai sempreverdi Vangeli.
L’impressione è quella di un Battiato per nulla stanco e
per nulla sazio di novità liriche. Se si eccettua un po’ di
moralismo di troppo nel singolo Passacaglia (“La gente
è crudele e spesso è infedele” et similia), il ritornello ridondante e a marcetta di Eri con me e il cantato femminile
(pur pregno di significato politico) in stile pubblicità della Lines di Caliti Junku, il disco presenta svariati momenti
in cui l’orecchio corre ad opere decisamente fortunate
di Battiato: Testamento suona molto alla maniera di
Fisiognomica, La polvere del branco ricorda alcune cose
di Gommalacca, il tutto in un’operazione che nei due
precedenti dischi di inediti non era avvenuta. Il richiamo
alla gioventù e la nostalgia di essa porta con sé anche un
auspicio militante per le nuove generazioni (in Quand’ero
giovane si canta “Viva la gioventù che fortunatamente
passa senza troppi problemi”), ridimensiona gli spazi
bucolici investendoli di una saggezza popolare ormai
dimenticata (Caliti junku) che diventa critica sociale (“The
world outside is insane”), s’allarga, infine, in atmosfere
favolistiche, da Mille e Una Notte, con il finale di Apriti
Sesamo, che, come la roccia della favola, sembra quasi
spalancare un’aspettativa di speranza, di rinascita e reincarnazione (non a caso la parola torna spesso nel disco).
Se dunque l’impegno del cantautore è sconfinato in altri
fronti estetici e la ricerca sul suono non progredisce in
maniera evidente (non si pensi però che gli arrangiamenti siano deboli), nulla si può certo contestare all’accanimento e all’ardore di questo signore di sessantasette
anni che ancora non smette di deliziarci.
(6.9/10)
di contaminarsi con concetti musicali contemporanei.
Blak and Blu per Gary Clark Jr. è l’album d’esordio su
Warner, la quale ha evidentemente individuato in lui
un potenziale tornaconto economico: Gary ha diviso
lo stage con alcuni dei nomi più prestigiosi del blues,
ha presenziato all’evento Red, White and Blues alla Casa
Bianca, ha recitato nel film Honeydripper, è stato nominato “Best Young Gun” dal Rolling Stone (eh beh...) ed
ha collaborato a più riprese con Alicia Keys. Insomma,
in un periodo in cui in USA la tradizione (dai Mumford
& Sons a Taylor Swift) è tornata a dominare, uno come
Gary Clark Jr. la vince facile.
Gary Clark Jr è sicuramente un musicista abile quanto furbo e lo si può intuire dalla linfa, sapientemente
impostata sul gusto vintage, che scorre lungo le tredici
tracce - alcune già presentate in passato - di Blak and
Blu. L’iniziale Ain’t Messin’ ‘Round ha il compito di catturare l’attenzione con il suo trascinate soul-rock bello tirato, sorretto egregiamente dalla grana grossa del blues
cattivo e ‘60s della successiva When My train Pulls In. Altrove troviamo tentativi soul (la titletrack), scie Prince,
modernizzazioni vicine all’r&b (The Life) contrapposte a
stereotipati retro boogie-roll (Travis County), la vecchia
black sixties (Please Come Home) e gli ancora più vecchi
blues delle paludi (Next Door Neighbor Blues).
Blak and Blu è una sorta di mini guida tascabile “For
Dummies” sulla storia della musica nera dell’ultimo
secolo. L’autore, Gary Clark Jr, conosce molto bene la
materia e i suoi riferimenti principali ma non si è sforzato abbastanza da rendere l’opera interessante, inoltre la
produzione affidata a Mike Elizondo e Rob Cavallo (mr.
rock patinato) finisce per appesantire il tutto.
(5.7/10)
Nino Ciglio
Riccardo Zagaglia
Gary Clark Jr - Blak and Blu (Warner
Music Group, Ottobre 2012)
Genere: blues-soul-rock-pop
Gentless3 - Speak To The Bones (Viceversa,
Dicembre 2012)
Genere: folk rock
Etichettato dai soliti noti come “il nuovo Hendrix” o “il
salvatore del blues”, il ventottenne texano Gary Clark
Jr. ha passato gli ultimi anni tra lo studio (alcuni album
introvabili e un paio di EP) e il palco.
Il nuovo Hendrix, il salvatore del blues... ma qualcuno
oggi sente veramente il bisogno di un nuovo Hendrix
(non lo doveva già essere Lenny Kravitz? Ecco...) o del
salvatore del blues? La musica, fortunatamente, evolve
e per farlo spesso lo fa passando anche dal revival, senza
però che ci sia per forza la necessità di avere un nuovo
qualcuno o colui in grado di salvare un genere che negli
anni ha perso parte del suo fascino, forse proprio perchè
fin troppo legato ai cliché del passato e spesso incapace
Sono tanti i motivi d’interesse per questo sophomore dei
Gentless3. Alcune arrivano dalla cartella stampa, dove
ad esempio si narra che le incisioni sono state effettuate
anche al Teatro Coppola, della cui occupazione vi abbiamo parlato qualche mese fa, esperienza che prosegue
e cui rinnoviamo il nostro più cordiale in bocca al lupo.
Inoltre, veniamo a sapere che la produzione artistica di
questo Speak To The Bones è di Joe Lally nientemeno,
e che anche un altro tipo poco raccomandabile (si fa per
dire) come Cesare Basile ci ha messo lo zampino.
E’ però alla prova dell’ascolto che arrivano le notizie più
gustose, visto che il trio ragusano pare essersi affrancato
quasi del tutto dai fantasmi post-rock per abbracciare
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una forma canzone matura ma non supina, cupa e calda,
elaborata seppure diretta al cuore. Il banjo e le tastiere
cambiano gli scenari intrecciando trame tradizionali e
inquietudini 90s, ma ad indicare la rotta è la scrittura, di
un’intensità duttile ed espansa, capace d’impastare con
disinvoltura la palpitazione tenue Mark Kozelek ed il
ciondolare afflitto Black Heart Procession (Destinations
Unknown), il lirismo essenziale Karate ed il malanimo
Alice In Chains (V For Vittoria), ugge Willard Grant Conspiracy (Letters From A New Form) e paturnie Lanegan
(My Father Moved Through Dooms Of Love).
Un pantheon d’influenze che pure sa tenere al centro
la propria voce, densa e febbrile in Speak To My Bones,
struggente nella dedica ad Elliott Smith buonanima
di Ellis Island, bieca ma venata di tenerezza speranzosa
nella conclusiva Saved, come dire che c’è uno spiraglio
di luce alla fine del tunnel noir. (7.1/10)
Stefano Solventi
Giancarlo Frigieri - Togliamoci il
pensiero (Contro Records, Ottobre 2012)
Genere: canzone d’autore
Si definisce un cantante “povero”, Giancarlo Frigieri, facendo torto a sé stesso. Anche se un mood involontariamente scompigliato lo cogli davvero in una poetica che
rimane comunque riconoscibile, per certi versi tradizionale, innegabilmente autarchica. Quinto disco in carniere e un immaginario sonoro in bilico tra rock ad ampio
spettro e Giorgio Gaber, Francesco Guccini e Pierangelo Bertoli, ma anche, per dire, un Mauro Mercatanti
dei tempi di Infedele alla linea. Tanto per sottolineare
che qui di laccature ordinarie e ben codificabili legate
a una riscoperta à la page della canzone all’italiana ne
troverete ben poche. Al massimo una sensibilità d’autore che mira al quotidiano, a una dimensione locale
e da essere umano con tutti i pregi e i difetti del caso.
Del resto l’ex Love Flower/Julie’s Haircut/Joe Leaman
ci ha abituati a un punto di vista tutto suo sul mondo e
sulla la vita, rinnovato con stile ad ogni passaggio discografico. Anche con un Togliamoci il pensiero che non fa
eccezione in questo senso, adottando il linguaggio della
semplicità folk-rock (la title-track) e mescolandolo, di
volta in volta, a richiami tra i più disparati: il Messico di
frontiera de Il nemico, la chiusa quasi hardcore del L’altra,
il blues-funk di Senza canditi. Con quel valore aggiunto
di cui si diceva poche righe più su, ovvero la capacità
di scrivere su un attualità semplice e legata a filo doppio alle umane solitudini. Quel che accade soprattutto
in una La polisportiva che nei suoi cinque minuti riesce
a dipingere un universo ristretto, contestualizzato, ma
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anche commovente e con le sue regole, tra badanti e
pensionati, gnocco fritto e balli di gruppo.
(6.8/10)
Fabrizio Zampighi
Giovanni Marton - Ogni sguardo non è
perso (Seahorse Recordings, Novembre
2012)
Genere: dark pop d’autore
Cresciuto a pane e studi musicali - soprattutto chitarra
classica, ma anche solfeggio, armonia e composizione -,
il ventitreenne Giovanni Marton esordisce sulla lunga
distanza con Ogni sguardo non è perso (sottotitolo: Formulario di estetica stagionale), album che arriva dopo
l’EP del 2011 Non sogno l’estate. Il giovane polistrumentista si presenta con un debutto convincente sotto
diversi aspetti, grazie a una personalità cantautorale già
matura che, seppur orientata principalmente verso sonorità dark pop, riesce comunque a costruire brani eterogenei. Un campionario di suoni caratterizzato da una
scrittura sottile, misurata, che di volta in volta rimanda
a paesaggi fuori dal tempo e dallo spazio, in bilico tra
dissolvenze barocche ed eclettismi cameristici.
Tormenta estiva, il brano che apre il disco, introduce
l’ascoltatore a un songwriting che per i suoi giochi di
luce e ombra fa pensare al lato intimista e visionario
del Morgan migliore, come anche L’ultimo sole, pezzo
che vira verso territori maggiormente synth senza però
rinunciare alla linearità della forma-canzone tradizionale. Perdersi tra gli sguardi, con la sua tenue melodia
impressionista, immerge in uno scenario da Parigi in
bianco e nero, dove la suggestione chamber non è più
solo musicale ma anche cinematografica, mentre Il tuo
mondo non è perso è un ipnosi electro rock à la Bluvertigo. Nel disco c’è spazio anche per due ospiti illustri: Fabio Cinti in Nuovi sistemi stellari (un synth d’autore in
aria Battiato) e Lele Battista in Idillio Borghese (ottimo
esempio di artigianato pop, per uno dei brani più riusciti del lotto). Tanto per sottolineare ancora una volta i
legami di Marton con tutto il revival 80s connesso a una
certa canzone d’autore all’italiana.
Nel complesso, il pregio maggiore di Ogni sguardo non
è perso è la voglia di sperimentare soluzioni musicali
insolite e personali, pur nell’ottica di un songwriting
sempre riconoscibile. Un buon esordio di un autore da
tenere d’occhio. (7/10)
Giulia Antelli
Green Day - ¡Dos! (Reprise, Novembre 2012)
Genere: garage pop
Non staremo qui a parlarvi degli attuali tormenti di
Billy Joe, quarantenne ragazzaccio in rehab reduce da
bravate come quello sfogo anti-Bieber all’iHeart Radio
Music Festival (dai, ché su Facebook l’avete cliccato e
pure condiviso). E nemmeno a ribadirvi chi, anzi che cosa
siano i Green Day oggi come ieri (macchina da soldi per
teenager lo erano già ai tempi di Dookie e di Woodstock
‘94, le indignazioni dei puristi “punk” lasciano il tempo
che trovano).
Essì, neanche l’arte della preterizione ci salva da questo
¡Dos!, seconda installazione dell’annunciata trilogia aperta dall’invero innocuo (e a tratti fastidioso) ¡Uno! e chiusa
ovviamente dal venturo ¡Tré! (indovinate chi ci sarà in
copertina?). Freddure a parte - chi conosce i nomi della
band l’avrà capita, nemmeno a spiegarla -, la scelta di
tre album sparati a breve distanza riflette una - per loro
- audace diversificazione stilistica: il disco precedente era
dedicato alle canzoncine punk pop, il prossimo sarà dedicato alle canzoncione in stile rock opera (alla American
Idiot, per capirci), mentre questo vede i tre californiarni
alle prese con le - si fa per dire - canzonacce garage.
Operazione per certi versi gustosa, anzitutto perché richiama palesemente il loro side-project Foxboro Hot
Tubs (ne hanno pure semiriciclato una canzone, Mother
Mary, per il singolo Stray Heart, peraltro parente melodica di Everybody’s Happy Nowadays dei Buzzcocks) e poi
perché certe dinamiche riescono ai nostri meglio della solita roba. La voce di BJ è ovviamente sempre - sin
troppo - riconoscibile per indurci nell’illusione che non
si tratti dei Green Day, però cose come il bridge di Fuck
Time e Wild One - puro Weezer - hanno il loro bel sapore
bubblegum (appena sporcato di ruggine e di testi inevitabilmente adolescenziali), laddove l’evidente strizzata
d’occhio agli Strokes di Lazy Bones fa quasi tenerezza; e
se la scontatissima dedica a Amy Winehouse (Amy, appunto) nasconde una melodia che più beatlesiana non
si può, Nightlife è l’inevitabile concessione poppettara
(scivolone pari alla ruffianissima Kill The DJ del disco prima), con l’ospitata della rapper Lady Cobra. Uno, due,
massimo tré ascolti: impossibile chiedere di più a un disco così. Non è poco, eh.
(6.3/10)
Antonio PancamoPuglia
Gypsy & The Cat - The Late Blue (Alsatian
Music, Novembre 2012)
Genere: indiepop+psichedelia
I Gypsy and The Cat sono due ex DJ australiani, Xavier
Bacash e Lionel Towers, votati alla causa dell’indie pop.
Un album d’esordio, Gilgamesh del 2010, capace di ricevere - soprattutto nella terra dei canguri e nei territori
mitteleuropei - consensi ad ampio spettro, grazie ad una
proposta tanto fresca quanto azzeccata.
Se in Gilgamesh il duo proponeva un pop di derivazione
eighties (che la scena electropop australiana sia ai vertici
ormai da anni non è un caso) che li ha portati ad aprire
per Kylie Minogue, nel sophomore The Late Blue Xavier e Lionel si sono tuffati tra le variopinte onde sixties.
Scritto in tour e registrato in una fattoria, The Late Blue,
può far vanto della produzione del guru della new psichedelia Dave Fridmann. Ed è proprio Dave Fridmann
(recentemente dietro all’acclamato Lonerism dei Tame
Impala) il nome chiave di una sterzata sonora che va a
rafforzare la scena acida made in Australia. L’obiettivo
dei musicalmente rinnovati Gypsy & The Cat sembra
essere quello di portare il discorso psichedelia+pop di
Lonerism su livelli ancora più radiofonici e vendibili,
lasciando quindi da parte tutte le contaminazioni jamoriented anni’70.All’interno delle dieci tracce di The Late
Blue è il singolo di lancio Bloom a svettare: prendete
un po’ di Cure, un po’ di The Drums, tocchi jangly (non
lontana Every Beat Of The Heart dei The Railway Children), infarcite il tutto in un’atmosfera surf/estiva e avete
l’indiepop-hit perfetta.
Regnano melodie funzionali come quella di It’s a Fine
Line (qui e in Soul Kiss la mano di Fridmann è più evidente che mai), armonie The Zombies, qualche falsetto di troppo (nella MGMTiana Sorry), repliche Foster
the People (Only In December) e un perenne senso di
psichedelia annacquata evidente ad esempio negli accompagnamenti acustici di Broken Kites e della titletrack
(impossibile non vedere arcobaleni ovunque).
Furbi quanto volete, anche questa volta i Gypsy and
The Cat zitti zitti hanno realizzato un bel dischetto senza
troppe pretese. Pubblicato in Australia tramite la propria
label Alsatian Music, dovrebbe essere disponibile a livello internazionale ad inizio 2013. (6.6/10)
Riccardo Zagaglia
How To Destroy Angels - An Omen EP (The
Null Corporation, Novembre 2012)
Genere: soft postindustrial
Il secondo EP degli How To Destroy Angels lascia aperte
molte soluzioni. Può dare l’idea di una compagine molto
eclettica, oppure che gioca un po’ a carte nascoste o che
ha un progetto ancora in fase di sviluppo. Ogni ipotesi è
valida. Anche se non si tratta di un vero album (per cui
bisogna aspettare l’anno prossimo), dal confronto tra An
Omen, pubblicato solo in MP3 e vinile, e il precedente
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EP iniziano a delinearsi meglio i connotati della creatura
di Trent Reznor, Maryqueen Maandig e Atticus Ross. Di
sicuro, il disegno musicale ha una sua personalità, sia
rispetto ai Nine Inch Nails, sia rispetto alle colonne sonore, pur risentendo come logico di entrambe le esperienze. Semmai le tracce di industrial sono più sfumate,
il rock non abita più qui mentre le assonanze con il triphop diventano più di una suggestione in un pezzo come
On the Wing, dalla melodia pigra e indolente.
Una forma canzone piuttosto statica e dilatata e la voce
di Maryqueen sono gli elementi principali dei primi due
brani. L’idea di stile di Keep It Together è piuttosto chiara:
una specie di trance pop, una song elettronica avvolgente e minimale, che sfrutta in particolare la ripetitività
delle parti strumentali e la circolarità della melodia vocale. Sarebbe forse la direzione più interessante su cui
lavorare, a giudicare anche dal duetto finale tra le voci
di Maryqueen e Trent Reznor. La successiva Ice Age, il
pezzo più curioso del disco, parte dagli stessi motivi di
fondo, ma ci troviamo al cospetto di un elegante etnofolk 2.0, che ai bassi elettronici sostituisce percussioni
analogiche e suoni di strumenti a corda.
Gli altri pezzi, a prevalenza strumentale, spaziano tra
diverse direzioni: con The Sleep of Reason Produces Monsters lambiamo i territori dell’ambient, The Loop Closes
sembra un brano dei Nine Inch Nails senza le chitarre (la
voce è soltanto di Trent) e Speaking In Tongues è il momento più sperimentale e indecifrabile, tra voci pesantemente filtrate, bisbigli, distorsioni e suoni enigmatici.
È ancora un lavoro di transizione, ma chi apprezza Trent
Reznor può ascoltare con interesse. (6/10)
Tommaso Iannini
tempi di From Her To Eternity dimostra di non aver capito molto del personaggio: Race al massimo può rientrare in quella vasta tradizione che parte da Leadbelly,
passa per Robert Johnson e Son House e arriva fino a
Howlin’ Wolf. Con una puntatina, magari, verso l’ultimo
Mark Lanegan, a cui il Nostro assomiglia sempre più
nel timbro vocale ruvido e polveroso (ma chi dei due è
l’uovo e chi la gallina?). In We Never Had Control ritroviamo il nucleo dei Sacri Cuori Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli già
all’opera nel precedente Fatalists, oltre al “guastatore”
Franco Naddei (Francobeat, Santo Barbaro) addetto ai
synth. Una presenza importante, quest’ultima, perché
se il duo citato poc’anzi lavora sulle più classiche atmosfere desertiche (Snowblind), Naddei si occupa di creare
sfondi sintetici che staccano un po’ lo stile raceiano dai
soliti canoni. Quelli, per dire, che nell’electro-boogie
di Ghostwriter lucidano le scarpe a John Lee Hooker
chiamando a supporto vaghe atmosfere à la Depeche
Mode. Se Dopefiends ricorda la Ghost Riders In The Sky
cantata da Johnny Cash, No Stereotype è a metà strada
tra la State Trooper di Springsteen e una Peggy Sue in
stile Hellraiser, Shining Light sembra fare il verso, col suo
violino ancestrale, al duo Nick Cave-Warren Ellis mentre
Meaning Gone è puro blues tra west e Mississipi.
We Never Had Control non stravolge l’universo di riferimento del chitarrista australiano - chi lo conosce già, ci
si ritroverà ampiamente - ma riesce a costruire un immaginario credibile e maledettamente affascinante, grazie
anche alla collaborazione di Francesco Giampaoli, Vicky
Brown, Catherine Graindorge, Violetta DelConte Race e
Hellhound Brown. (7/10)
Fabrizio Zampighi
Hugo Race - We Never Had Control
(Interbang Records, Ottobre 2012)
Genere: blues
La musica di Hugo Race si potrebbe paragonare a un
fiume: procede spedita e, pur sembrando a prima vista
sempre uguale, di disco in disco cambia la portata, la
velocità, la profondità dei fondali su cui scorre. Del resto
l’australiano stesso è in perenne movimento: una vita
pressoché nomade (si dice) in stile hobo contemporaneo, buona parte della quale spesa entro i patrii (nostri)
confini. A fissare su nastro un blues che, nonostante gli
innamoramenti temporanei - il jazz dei tempi di Last
Frontier o magari gli accenti più folk di questo We Never
Had Control -, rimane l’architrave di tutta la sua produzione, oltre che la naturale espressione di un’esistenza
affascinata dai crepuscoli. Chi continua a vederlo come
una filiazione del Nick Cave a cui prestò la chitarra ai
70
Indian Jewelry - Peel It (Reverberation
Appreciation Society, Novembre 2012)
Genere: noise-psych
Li avevamo lasciati con la “psichedelia nera sempre più
industriale” ma in assetto variabile di Totaled - e li ritroviamo con uno psych post-punk che certo tra cupo
e chiaro sceglie le ore notturne. La musica di Indian
Jewelry è scorticata, nomen omen da titolo dell’album,
e nondimeno l’effetto sull’ascolto è come fare uno scivolo su carta vetrata. Con una novità rispetto al passato
che tanto abbiamo celebrato: la fine della scivolata è
nota (See Forever), l’abrasione costante, senza picchi e
imprevedibili cambi di direzione.
Ciò che è intatto è la capacità di fare forse ottimamente
ciò che oggi viene fatto già bene da altri - vedi le reminiscenze tra Peaking Lights e Fabulous Diamonds in Eva
Cherie. Indian Jewelry nel 2012 vuol dire però principalmente essere punto di riferimento nel genere “bad trip
psichedelico in formato canzone”. Musica psych fatta di
spazzatura, come direbbero i diretti interessati.
Le undici tracce di Peel It - disponibili in full streaming
- sono tali - ossia canzoni - quantomeno per durata e
per riconoscibilità; non comportano sconquassi stilistici,
lavorano sulla formula, ne cesellano una serie di varianti
di medio-alta se non alta qualità (come nella drittissima
ma perforante Heart Of A Dog). Il lavorìo ritmico è ipnotico eppure sempre in primo piano, come in Unknown
Pleasures, la voce di Tex Kerschen (e a volte di Erika
Thrasher, nomen omen part. II) riverbera con eco cose
indicibili. Le pennate di chitarra sono moltiplicate per
le x virgola volte delle dimensioni frattali, il basso un
binario da cui non si sfugge. La sporca cinquina di Houston si è fermata a pensare e scrivere. Tutto se non altro
apprezzabile, ma noi li preferiamo quando camminano
sballati al buio.
(7/10)
Gaspare Caliri
Jah Wobble/Keith Levene - Yin & Yang
(Cherry Red Records, Novembre 2012)
Genere: Cockney dub rock
Quando nel 2006 Mark Stewart ci dichiarò che stava
registrando con il chitarrista dei PiL tracce per il nuovo
album, il nome di Keith Levene sembrava il più improbabile tra i chitarristi delle varie line-up della formazione
di John Lydon. Non che Keith fosse morto, lo avevamo
avvistato nell’album del 2004 dei Pigface per esempio,
ma sicuramente rimaneva un eroinomane dai tempi dai
tempi di First Edition, perso nei meandri della propria
dipendenza da almeno due decadi.
Contrariamente ad ogni pronostico, il mitico chitarrista
c’è finito veramente su un album di Stewart e non parliamo di Edit, uscito a un paio d’anni di distanza dalla
nostra intervista, ma del recente, deludente, The Politics
Of Envy, album del 2012 che fa coppia, in negativo, con
l’attessissimo ritorno discografico dei PiL. La faccenda
è curiosa perché negli ultimi anni Levene, non solo ha
provato a uscire da una dipendenza trentennale ma, a
quanto pare, da un paio d’anni è pulito e in forma sufficiente da imbracciare lo strumento. Jah Wobble lo ha
voluto prima in un paio di tracce di Psychic Life con
Julie Cambpell, poi in un mini tour che negli scorsi mesi
ha riproposto il mitologico Metal Box (Metal Box In Dub
Tour). Secondo quanto dichiarato da NME, John Lydon
aveva chiesto pochi mesi prima al bassista di riunirsi ai
PiL e s’era visto sventolare un cachet piuttosto salato.
Chissà che invece non sia stato l’egomaniaco frontman
ad aver voluto l’ex amico unicamente come turnista e
non come parte integrante della band. Sia come sia Levene ne è stato fuori a priori. Le sue skill chitarristiche
sono indubbiamente compromesse e questo Yin & Yang,
come il precedente eppì firmato dalla coppia, lo dimostra ampiamente.
La seicorde che tagliava vetro e fregava il metallo è ancora lì, sepolta sotto le macerie e, non senza sorpresa,
può ancora regalare notevoli colpi al cuore (Vampires).
Eppure, l’uomo, spesso distratto e slabbrato negli arrangiamenti (Black On The Block) è, in definitiva, dolorosamente non paragonabile agli episodi maggiori
della discografia della Public Image Ltd. Oltre al fatto
che l’ombra lunga dell’ex band dei due amici si distende
lungo tutta l’avventura. Il recitato cockeny holligan di
Jags And Staffs richiama quello di Religion, mentre in
Understand al canto troviamo Nathan Maverick conosciuto come Johnny Rotter, cantante di una Pistols Tribute band che ha contribuito in alcuni show del Metal
Box In Dub (e che qui canta come se i Blur fossero scesi
a Gunter Grove).
D’altro canto, la quarantecinquesima (?) prova wobbliana, pur con il buon trattamento alla harrisoniana Within
You Without You, i gustosi gli inserti jazzati al sapor di
Miles Davis (grazie alla tromba di Sean Corby, collaboratore di lungo corso di Wobble), l’onesto taglio 60s
psych e il dub di Jah, è a pieno titolo annoverbile tra
le classiche jam trasportate su album del Nostro, pro e
contro compresi. Levene nel mezzo.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
James Ferraro - Sushi (Hippos In Tanks,
Novembre 2012)
Genere: electro / wonky
Sempre concettuale James Ferraro, anche quando
non si dà a una personale possibile sistematizzazione
estetica della hauntology - il controverso ma comunque
importante Far Side Virtual - o non si cimenta - situazionista? - con la tradizione della musica corale. Sempre
concettuale: anche quando sulla testa fa vincere l’orecchio e per una volta si concentra - sempre fedele però
al proprio immaginario - sui suoni di oggi. Copertina
nerissima e minimale, la scritta Sushi appena distinguibile in toni di grigio, stile finto bassorilievo, e dentro
una musica decorativa e golosa, proprio come i piatti
di pesce crudo giapponese: ma una musica, sotto sotto,
a ben sentire, rigorosa e monocroma, fredda sotto la
superficie calda di nowness electro/wonky.
Anche se il singolo SO N2U ha un gusto break/downtempo innegabilmente primi anni Novanta (e l’incipi71
taria Powder ha in trasparenza un’anima praticamente
drill, altro fantasmatico richiamo quindi a quel decennio), il focus è sempre e comunque sugli anni Ottanta,
stanza degli specchi dalla quale Ferraro non ha la benché minima intenzione di uscire: Ottanta non più però
concentrati in forma di ultralucidi acquerelli elettronici
miniaturizzati - Far Side Virtual appunto - ma aggiornati
ai nostri giorni e quindi declinati, strato su strato, con
tutti i trick che la cosmesi produttiva anni Dieci mette a
disposizione, vedere i sapori addirittura juke/footwork
spalmati tra le tracce (specialmente i cut vocali di Jump
Shot Earth, Flamboyant e della soulrappusa Lovesick).
Laddove Far Side era naif e lineare, Sushi è grumoso e
barocco: un guazzabuglio di suoni che per svagatezza e
formato può anche far pensare a un update degli Psychic Chasms di Neon Indian (altro disco controverso
e importante), ma con tutt’altra capacità costruttiva e
di sintesi (Baby Mitsubishi, con sotto l’house che cova;
Condom; Bootycall), cosa questa che ci piace ascrivere
alle basi - occhio - alla fine hip hop di tutto (E 7; appunto
e di nuovo, Lovesick). Ancora un buon disco per Ferraro,
che non smentisce la sua anima di giocherellone cervellotico, perfettamente a metà tra genio incompreso (o al
contrario sovrastimato) e slacker elettronico.
Qui sotto lo streaming integrale dell’album, attraverso il
canale Soundcloud di Dazed Digital.
(6.9/10)
Gabriele Marino
James Yorkston - I Was A Cat From A Book
(Domino, Agosto 2012)
Genere: folk
James Yorkston non è più una sorpresa. E’ la sua discografia a parlare per lui, esemplare nel delineare una
scrittura folk elegante, sensibile, legata a filo doppio alla
tradizione inglese quanto personale in certi passaggi. Ai
tempi del buon esordio Moving Up Country (ristampato di recente), di Yorkston si accorsero Bert Jansch, un
John Peel che lo chiamò a partecipare ad una delle sue
celeberrime session e persino John Martyn, quest’ultimo talmente impressionato dai suoi brani da volerlo
con lui in tour. Tanto per dire che al Nostro è bastato un
pugno di buone canzoni per ritrovarsi in un batter d’occhio - e meritatamente - ad attraversare la storia della
musica anglosassone. Da allora sei album pubblicati, tra
materiale inedito, raccolte e cover (ad esempio le Folk
Songs in condivisione con i The Big Eyes Family Players),
utili a definire i canoni di uno stile sempre in bilico tra
intimismo e melodia.
Paradigmatico, in questo senso, I Was A Cat From A Book,
un lavoro che in termini di immaginario non cambia pra72
ticamente nulla ma riesce comunque a suonare fresco.
Registrato per buona parte in presa diretta, il disco snocciola undici brani tra il Nick Drake altezza Bryter Layter
di Catch e i violini in stile Hurricane di Border Song, le
malinconie chitarra, voce e poco più di The Fire And The
Flames (i primi Radiohead non sono poi così lontani) e
le atmosfere vagamente Belle & Sebastian di Sometimes The Act Of Giving Love. In generale il mood varia, tra
suoni riconducibili alla tradizione irlandese/scozzese - un
immaginario che Yorkston si porta appresso anche solo
per ragioni biografiche - e una morbidezza d’insieme
garantita soprattutto dalle tastiere e dal contrabbasso
(quello del Lamb John Thorne). Tutto suona estremamente rassicurante e i toni “caldi” della registrazione danno consistenza a una musica che riconferma il talento
cristallino del musicista scozzese.
(7/10)
Fabrizio Zampighi
Jello Biafra/Jello Biafra & The
Guantanamo School Of Medicine - Shock-UPy (Alternative Tentacles, Novembre 2012)
Genere: punk
Il fatto che Jello Biafra non avesse ancora allungato il suo
sguardo caustico sul movimento Occupy, era una sorta
di cattivo presagio. Di quelli che fanno pensare cose che
non si vorrebbero mai pensare, tipo “vuoi vedere che il
vecchio leone è diventato veramente vecchio?”. La risposta alla domanda oziosa non ha tardato ad arrivare ed è
affidata a questo 10”. Tre soli pezzi, e questo è male, di
infinito punk in opposition, e questo è bene.
Si parte con l’hard-rock cafonissimo della title track, 30
secondi che sembrano gli ac/dc, e poi via di sarabanda
jellobiafresca tra hardcore evoluto e punk da bava alla
bocca: bassone infinito e drumming insistito col santone
della controcultura a sciorinare i suoi versi caustici e velenosi a creare un ponte tra grande depressione e attualità
in crisi, a dimostrazione della lucida visione del grande
vecchio from Frisco. Barackstar O’ Bummer rispolvera il
tiro dei migliori Dead Kennedys mentre dimostra, se
ce ne fosse ancora bisogno, di che pasta è fatto il nostro: riottoso, punk al midollo e contro ogni sistema: il
target stesso, quell’Obama osannato a destra e sinistra
(Barackstar O’ Bummer / outta nowhere to save the day
/ what a package / marketing hope and change / never
seen / so much excitement and faith / since MLK / where’ve
I heard this before? 1992 / called him the “Man From Hope”
/ a “New beginning” was his tune / signed our sovereignty
/ over to Wall Street / he should have been impeached / for
treason), da la misura delle mire di un leone mai domo.
Nemmeno a cinquant’anni suonati.
A concludere We Occupy, già edita nel 7” in cui Biafra
prestava la sua voce incazzata a quei loschi figuri dei
D.O.A. per un inno all’occupazione che supera il tempo.
We occupy, gonna occupy. E se lo dice il quasi sindaco di
Frisco, c’è da credergli.
(6.5/10)
Stefano Pifferi
Jimi Tenor - The Mystery Of Aether (Sähkö
Recordings, Novembre 2012)
Genere: etno
Figlio un po’ del fortunato sodalizio con Tony Allen (l’Inspiration/Information del 2009) e di una lunga collaborazione con i sodali Kabu Kabu, il nuovo The Mystery Of
Aether di Jimi Tenor è l’ennesima tappa di un viaggio nel
mondo afro-lounge-jazz-exotico-blaxploitation per big
band e fiati. Un trip che il Nostro ha intrapreso con forza
prima con Beyond the Stars e poi con l’afro ensemble di
stanza a Berlino in Joystone.
Calato perfettamente in un immaginario vintage tra
Strut, Fantastic Voyage e Vampisoul, ora come ora il
Tenor elettronico su Warp non è neppure più un ricordo. Inforcando la direttrice afro-jazz cinematografica, il
finalandese continua a testa bassa su un immaginario
testardamente retrò a cui, bisogna ammetterlo, non
manca più nulla in termini di sfumature (le soundtrack
fantascientifica di fine Sessanta, la psychedelia bucolica
dei primi 70s, il jazz-rock più esoterico, il mambo, suoni
da balera latina ecc.), smalti (questa volta Jimi si costruisce anche gli strumenti da solo) e influenze (Martin
Denny, Sun Ra e ovviamente gli Africa 70 di Allen, ma
anche tante chicce come scampoli di folk-prog sempre
primi Seventies).
Come nelle migliori parabole da world hyppie, quest’album parla d’esplorare il cosmo per il nostro bene materiale e spirituale. In brani cantati come Universal Love,
Eternal Mystery, Dance Of The Planets e Resonate And Be
ci si riferisce addirittura alle particelle di noi umani che
risuonano nella canzone suprema del cosmo. Tutto il
folklore è ovviamente parte del gioco (certi passaggi da
Pantera Rosa à la Lounge Lizard - Africa Kingdom - lo
confermano) e di un disco svagato e generoso. Il perfetto album per chi si trova nella fase di scoperta di questo
tipo d’ecletismo dalle parti di Strut e co.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
Kaki King - Glow (, Ottobre 2012)
Genere: instrumental
Kaki King, chitarrista da Atlanta classe ‘79, sforna il sesto
lavoro lungo a suggello di un periodo di crisi creativa
che ne aveva messo in dubbio prospettive e direzione.
A sentire la dozzina di tracce che compongono questo
Glow, sembra tornato tutto a posto. La ragazza è dinamica e intensa sulle sei corde spalleggiata dal quartetto
d’archi ETHEL nella discreta ma evocativa trama sonica
apparecchiata dal producer newyorkese D. James Goodwin (già al lavoro per Devo e Murder By Death). C’è
lei e la sua ossessione folk con digressioni psych-blues
e svalvolate jazzy che governa con padronanza febbricitante (se il fingerpicking è notevole, l’abilità con percussivi e tapping è impressionante), mediando apprensioni
e furore, incantesimi traditional e astrazioni avanguardiste, senza farsi mancare una presenza di spirito in bilico
tra gioco e autoironia.
La scrittura è sorretta da una buona ispirazione però
sempre chiaramente al servizio dell’impatto timbrico,
mirata cioè a creare la scena nella quale il suono suonato possa consumarsi in apprensioni meditabonde (le
atmosferiche Skimming the Fractured Surface to a Place
of Endless Light e Fences con quel un gioco di armonici da nipotina acustica di Jimmy Page), frenesia noir
(Streetlight In The Egg) o incendi mercuriali (Great Round
Burn, The Fire Eater), con tutto ciò che sta nel mezzo (la
trama arty di Cargo Cult, la pseudo bossa di Kelvinator
Kelvinator, gli esotismi di Bowen Island...). Ok, siamo di
fronte ad un prodotto che aspira a mediare il massimo
dell’espressività col massimo della vendibilità, ma tutto
sommato ci riesce bene, senza mai suonare eccessivamente patinato o - peggio - artefatto. Katherine possiede del talento vero. La sua carriera d’ora in avanti probabilmente somiglierà ad una sfida per mantenerlo tale.
(6.9/10)
Stefano Solventi
Kelly Hogan - I Like to Keep Myself in Pain
(ANTI-, Luglio 2012)
Genere: Country pop
Mentre la grande discografia arranca impelagata nel paradosso di politiche sempre meno attente alla qualità
artistica (per non usare la parolaccia “commerciali”) con
le quali - retromanie a parte - poi invece vende sempre
meno, un’etichetta come la Anti- continua la caccia ai
più o meno grandi esodati del rock e dintorni.
Stavolta va a prendere una cantante dalla lunga carriera
che, dopo un inizio che l’aveva vista militare in vari gruppi, si era indirizzata verso un ruolo da seconda voce di
lusso per un gran numero di colleghi (Dylan, Tortoise,
Neko Case...), e le propone di fare un nuovo disco suo
dopo undici anni.
Lei allora si rivolge agli amici/colleghi di una carriera e
loro le inviano le canzoni che vanno a comporre la sca73
letta di quello che è solo il quarto disco solista. Il quale
nonostante le grandi firme non si discosta granché dal
lontano predecessore, visto che la cantante di Atlanta
riporta tutto al suo tipico stile country pop venato soul,
col risultato che l’eterogenesi delle scritture finisce per
lo più per dare al disco semplicemente le giuste dinamiche di scaletta - e anche una band piena di nomi illustri (Booker T., per dirne uno) si limita ad assecondare il
disegno generale (in questo, il contributo come autore
di Andrew Bird ci sta anche bene, ma Plant White Roses
finisce per nascondere l’ironia con cui Stephin Merritt
scrive questo tipo di canzoni).
Non che il disco sia monotono: la generale impressione Emmylou Harris dell’iniziale Dusty Groove ma anche
della title-track (dono di un Robyn Hitchcock mascherato da cowboy) o le rimembranze Eddie Brickell di We
Can’t Have Nice Things e Haunted, si stemperano in testi
che affrontano temi che a Nashville non sono proprio
il pane quotidiano, o nel dolore di Ways of This World
(lascito del compianto Vic Chesnutt e presumibilmente
uno degli ultimi frutti della sua penna).
Rimane una generale coerenza stilistica, elegante, che
forse è un pregio (anche come potenzialità commerciale, volendo), forse smorza possibili, interessanti deviazioni.
(6.8/10)
Giulio Pasquali
Kevin Drumm - Relief (Editions Mego,
Ottobre 2012)
Genere: drone
Un ritorno formale alla materia noise era ampiamente
prevedibile per Kevin Drumm. Si era capito che i due
capitoli su Hospital, Imperial Distorsion e Imperial
Horizon, altro non erano che fenomenali deviazioni da
una strada abbastanza integralista, fatta di rumore, caos,
scontro di frequenze.
Relief è l’atteso comeback alle maniere di Sheer Hellish
Miasma, ergo grandissimo lavoro di stratificazione su
multitraccia e caos predominante per tutti o quasi i
37 minuti dell’unico brano di cui è fatto il disco. I due
episodi ambient oriented della Hospital non sono però
passati del tutto senza lasciar traccia. Si avverte in alcuni frangenti una vena maggiormente meditata che
va ad insinuarsi nel densissimo layer cacofonico delle
distorsioni.
Eppure la forma finale che assume Relief è quella di un
lunghissimo quanto inutile torrente sonoro con variazioni di registro scarsissime se non proprio nulle. Una
sorta di fiume guadato a metà e per questo fondamentalmente inconcludente. Di fatto siamo di fronte ad un
74
disco di passaggio in attesa di capire dove voglia andare
a parare il musicista.
(5/10)
Antonello Comunale
Kid Rock - Rebel Soul (Atlantic Records,
Novembre 2012)
Genere: redneck rock
Il primo approccio con il termine “redneck” lo ebbi in
adolescenza grazie al videogioco Redneck Rampage,
ironicamente ambientato nel Sud degli Stati Uniti e
pieno di tutti gli stereotipi che ruotano attorno ad un
universo ben rappresentato da personaggi come Cletus
dei Simpson o Ansel Smith del recente film Killer Joe.
Nell’ambiente musicale probabilmente nessuno - provenienza geografica a parte - incorpora tutte le caratteristiche redneck meglio di Kid Rock: rozzo, ignorantone,
conservatore e amante dei motori tanto da autodefinirsi
un “redneck, rock and roll son of Detroit”.
Nato come rapper di serie z e successivamente convertito con grande fortuna (Devil Without a Cause del 1998
raggiunse cifre di vendita clamorose) in MTV rap-zarrrocker, Robert James Ritchie/Kid Rock nell’ultimo decennio ha intrapreso un processo di countryzzazione che
gli ha regalato parecchie soddisfazioni (prima dell’agghiacciante tormentone All Summer Long per l’italiano
medio era solo “uno che è stato con Pamela Anderson”).
A due anni di distanza da Born Free, Mr.Rock in compagnia della sua fedele - e piuttosto preparata - Twisted
Brown Trucker Band, torna con quello che è il nono album in carriera: Rebel Soul. Dopo due lavori che hanno
visto due guru del plastic-rock come Rob Cavallo e Rick
Rubin in cabina di regia, Robert - in copertina ritratto in
modalità pappone - questa volta ha preferito accantonare big producers e fare tutto, o quasi, da solo.
Il concentrato di country-rock, blues e atmosfera southern affiora già nell’iniziale Chickens In The Pen seguita
dal singolo di lancio Let’s Ride, che oltre ad essere un
pasticcio assoluto tra riff AC/DC e chorus late-RHCP è
contemporaneamente sia un tributo alle truppe militari
statunitensi, sia uno dei brani manifesto della campagna elettorale di Mitt Romney. Esplicativo il commento
su Youtube “This song made me PROUD to be an AMERICAN! Mitt would have won the election, hands down
if this would have been his theme song!!!!!”: in una mano
la Stars & Stripes, nell’altra il fucile.
Kid Rock sa bene dove colpire e non c’è dubbio che
il - suo - pubblico apprezzerà anche questa nuova scorpacciata di riferimenti ad Uncle Sam, a Detroit (Detroit,
Michigan) e alla glorificazione del ruuuock (God Save
Rock & Roll, Mr.Rock annd Roll). Musicalmente insegue
ancora Bob Seger e un certo swamp rock anni ‘70 prendendo in prestito (da C.C.R e dintorni) più o meno velatamente melodie e giri chitarristici. Fanno eccezione
il comeback in territori rap-rock (comunque sporcati di
fango southern-soul) di Cucci Galore e l’oscena ballad
in autotune The Mirror. Il re dei redneck è lui e ci tiene
a precisarlo in Redneck Paradise, anthem campagnolo
per eccellenza (“And when you’re here you’re free and
clear to drink beer and dance all night, that’s right. Cuz
no one’s uptight in Redneck Paradise”).
Il problema di Rebel Soul, e più in generale di qualsiasi
cosa uscita a suo nome, non è tanto l’aspetto musicale
(il disco è derivativo e obsoleto ma a tratti si fa anche
ascoltare) quanto quel misto di patriottismo e di superficialità spicciola che caratterizza in lungo e in largo i suoi
prevedibili quanto ripetitivi testi.
(3.4/10)
Riccardo Zagaglia
KK Null/Cris X - Proto Planet (CX Records,
Dicembre 2012)
Genere: noizu
Da un po’ di tempo in qua il romano Cristiano Luciani aka
Cris X sembra aver conosciuto una seconda giovinezza,
nonostante la giovane età. Dopo la dipartita dell’esperienza Lendormin il nostro ha intrapreso una carriera in
solo con la nuova sigla e a suggellare questa scelta sono
uscite in rapida successione una serie di collaborazioni
con nomi altisonanti del noise e dell’industrial mondiale,
quasi a stabilire padri putativi, omaggi sentiti e totale
mancanza di timore reverenziale.
Dopo gli split con Maurizio Bianchi (Heczplaser/Black
Pulse) e con sua santità Merzbow (Guya/Greed), ecco ora
il turno di un altro peso massimo della sperimentazione
noizu. A segnare un punto d’interesse nella geografia
rumorosa di Cris Xè la volta di Kazuyuki Kishino Null noto
come KK Null e già leader degli importantissimi Zeni
Geva.
Proto Planet (o Genshi Wakusei in lingua nippo) vede i
due non dividersi i lati del limitato 12” quanto collaborare in nome di un noise-impro che spesso e volentieri
oscilla tra deflagrazioni white noise (il gioco di distorsioni incrociate di 1, le folate al calor bianco di 4, le asperità
“materiche” quasi Z’ev di 5) e momenti di stasi ambientale (il cuore di 2, il piano post-atomico della parte centrale di 1) non meno oscure e minacciose. Tra elettronica primitiva, loops assassini, cut-up estremo e cupezza
(post)industrial a go-go emerge tutta la maestria con cui
il duo plasma una materia incandescente, giocando di
cesello e clava, tanto che non mancano i momenti più
ipnotici ed ossessivi (3), costruiti sulla rielaborazione di
field recordings come si trattasse di una architettura di
origami, prima di venire spazzata via da uno tsunami di
cancrene sonore. Musica in tensione, mai doma, sempre
alla ricerca della mutevolezza e dell’equilibrio, figlia di
due artisti che preferiscono far parlare la propria arte
piuttosto che altro. Chapeau.
(7/10)
Stefano Pifferi
Klippa Kloppa - Siren (Charity Press,
Novembre 2012)
Genere: Kraut / electro
Una prolificità imbarazzante e una altrettanto straordinaria qualità media garantita. Il tutto in free download.
Questi in due parole i Klippa Kloppa, il collettivo casertano guidato da Prete Criminale e Dino Draghen già ampiamente - ma mai abbastanza - magnificato su queste
pagine, nel loro oramai più che decennale armeggiare
pop/sperimentale a doppia mandata ‘ncòppa alla musica italiana indipendente, anzi proprio autarchica. Poche parole qui giusto per dare le coordinate di un nuovo
bellissimo lavoro, uscito l’8 novembre per la loro Charity
Press (come a dire: autoproduzione, do it yourself e zappiana cheepnis), uno dei loro più rigorosi ed eleganti,
fin dalla evocativa copertina disegnata da Daniela (In)
Stabile.
Siren sono 9 tracce strumentali tutte nebulose di tastiere, oscillazioni e pulsazioni che uniscono cardiaco e
siderale, tra Kraut, electro e ambient elettronica ma analogica. Un lavoro lineare, luminoso, aristocratico, ma immediatamente godibile, notevole nella sua interezza ma
di cui dobbiamo lodare particolarmente la dance anni
Novanta di Union, la terza traccia, il dub funk minimale
di Loving God, la sette, e la solenne zampogna venusiana
di Life, l’ultimo pezzo. La musica dei Klippa Kloppa è un
diamante neanche poi tanto grezzo. La sfida è riuscire
sul serio a stare appresso a tutte le cose che sfornano.
Siren by klippa kloppa
(7.3/10)
Gabriele Marino
Lana Del Rey - Paradise EP (Interscope
Records, Novembre 2012)
Genere: bored pop
Un successo di massa annunciato quello di Lana Del
Rey, arrivata - dopo mesi di hip-blogosfera - nelle case
di chiunque grazie anche (o soprattutto?) a vicende di
extra-musicali come prime pagine, ospitate televisive e
spot pubblicitari.
A livello di classifiche, Lana Del Rey è stato il “nuovo”
nome femminile del 2012 (nonostante la sua fama sia re75
taggio del 2011): il discreto Born To Die è infatti, ad oggi,
il terzo album più venduto dell’anno a livello globale con
due milioni e mezzo di copie ed è la perfetta fotografia
di un universo mainstream pop - e ci mettiamo in mezzo
anche Gotye - che ha nuovamente virato verso la melodia, dopo un periodo di estremizzazioni electro-trashy.
La figura di Lana Del Rey (ovviamente sommersa da
qualsiasi tipo di opinioni, speculazioni e rumors) oggi
appare sicuramente più definita di un anno fa, ma è ancora difficile stabilire realmente quanto ci sia e quanto
ci faccia. Com’è ancora difficile riconoscere le indubbie
qualità sotto a uno strato così spesso di furbizia business-oriented: Lana è una bambola in mano ai produttori come le altre dive pop, ma è abilissima a fare il doppio
gioco.
Che sia ormai in balia del commercio è evidente anche dalla scelta di pubblicare la classica deluxe edition
dell’album in prossimità del periodo pre-natalizio per
sfruttare il boom del mercato. Come la Lady Gaga del
primo disco, la deluxe di Born To Die consiste nell’inclusione di un vero e proprio EP aggiuntivo, intitolato
Paradise (da cui il titolo complessivo The Paradise Edition). Otto tracce aperte dal singolo Ride (prodotto da
Rick Rubin) che mostra la corda a livello d’ispirazione
e, tra una strofa sicuramente evocativa e un chorus in
cui avrebbe potuto duettare con Brandon Flowers, la
naturalezza di una Video Games sembra lontana. Lana
continua a portare alta la bandiera a stelle e strisce nelle
successive American e Cola: la prima piuttosto anonima
e con un chorus leggermente fuori dai suoi standard e la
seconda, già famigerata (“my pussy tastes like Pepsi Cola”).
Più interessante il taglio melodico di Body Electric (“I sing
the body electric” è un tributo al poeta trascendentalista
Walt Whitman), la ricerca di redenzione di Gods and Monsters (“In the land of gods and monsters, I was an angel,
Lookin’ to get fucked hard. Like a groupie, incognito,
posing as a real singer”), e soprattutto la conclusiva Bel
Air, tra i soliti tappeti orchestrali e certe melodie dreamy
di scuola Cocteau Twins. La cover di Blue Velvet non fa
gridare al miracolo ma Lana Del Rey ha saputo adattarla
abilmente alle proprie caratteristiche, rievocando alcune
atmosfere - ovviamente e non a caso - lynchiane, ancora
più forti nella jazz-Badalamentiana Yayo.
Abbandonati (momentaneamente?) quasi del tutto i
tentativi di avvicinarsi al mondo dell’hip hop, il Paradise EP non è altro che una breve raccolta di variazioni
sul tema.
(6.4/10)
Riccardo Zagaglia
76
Lebowski - Lebowski & Nico - Propaganda
(Bloody Sound Fucktory, Novembre 2012)
Genere: post punk-wave
Lino Costa - Minianimali (4miqe,
Settembre 2012)
Genere: jazz-fusion
Quando in mezzo ci sono i Lebowski il citazionismo è
d’obbligo, seppur mediato da una cazzonaggine di fondo quasi irresistibile. Prendete Propaganda: foto di copertina in puro stile Devo (versione Ken di Barbie e con
qualche accento demenziale garantito dal David Gnomo
e parentado ritratti di spalle); la partnership con Nicola
Amici sancita da una ragione sociale opportunamente
corretta in Lebowski & Nico (il nome Velvet Underground vi dice nulla?); brani come Giovanni citofonista
che sembrano una versione ancor più da loser del Giovanni telegrafista di Jannacci (il che è tutto un programma). Poi c’è il suono, incasellato perfettamente tra i Devo
di cui sopra, i Talking Heads e le stilettate dei Gang
Of Four. Synth e chitarre elettriche formalmente riconoscibili ma abbastanza flessibili da evitare pericolosi
vicoli ciechi, grazie anche al sax no wave del già citato
Amici (Mattia Pascal, Mutatis Mutande, (A dicembre una
tombola) rosso shocking).
Chissà che non sia proprio l’immaginario surreale del
gruppo, oltre alle ottime capacità tecniche, a rendere
impeccabile e in qualche maniera necessaria una formula che comunque pesca a piene mani da un revival
fin troppo inflazionato. Certo è che trovarsi di fronte a
brani come Sei uno sprovveduto (una rapina finita male
raccontata in un italiano strascicato), Kansas City (electro-funk-rock piantato sul mantra Oggi ho fatto veramente niente / però l’ho fatto veramente bene / oggi ho detto
veramente niente / però l’ho detto molto chiaramente) o
Avevo un sogno nel cassonetto (fusion-no wave robotica
a suon di Chi voleva fare il dottore e invece resta a casa
malato / chi l’esploratore spaziale ed ora si ritrova alienato) fa decisamente apprezzare l’approccio del gruppo.
Fresco, sempre sul pezzo, blindato nelle geometrie, ma
anche dissacrante, in un misto di leggerezza e ironico
disincanto che non crederesti possibile.
A produrre ci sono Giulio Ragno Favero e Andrea Cajelli,
per un lavoro che suona più compatto rispetto al precedente e già ottimo The Best Love Songs Of The Love For
The Songs And Best. Anzi detto tra noi, i Lebowski se ne
escono proprio bene, fortunati - e forse involontari - continuatori di quella intelligente irriverenza che in passato
ha caratterizzato (pur con le dovute differenze formali
e di approccio) formazioni come gli Elio e le storie tese.
(7.2/10)
Se brani come Insonnia o Chimera suggeriscono, per
Lino Costa, parentele che vanno dal padre Wes Montgomery fino al figliol prodigo (e altolocato) Bill Frisell - lo avrete capito, parliamo di chitarra jazz e dintorni -, il resto della scaletta di Minianimali fa di tutto
per confondere le idee. O quantomeno, procede senza
troppe esitazioni in una fusion virtuosistica e pulita che
conferma ancora una volta come il jazz possa essere un
linguaggio totalizzante e aperto a mille contaminazioni. Tanto che in questo disco d’esordio, concepito tra il
1998 e il 2011, si azzardano commistioni singolari con
il progressive (Orange Trip), ci si trova proiettati in medioriente sulle note del sax (Oud), si apprezza uno stile
monkiano d’annata su base ritmica funk (The Elephant
Jump), si finisce per frequentare persino un avant-rock
elettrico sfilacciato ma credibile (Minianimali).
Il tutto fatto col rigore tipico di un musicista con una
buona esperienza alle spalle - tra i tanti progetti a cui
Costa ha prestato lo strumento ci sono Ivan Segreto e i
Tinturia - e grazie a collaboratori di primo piano (Domenico Cacciatore al basso e Roberto Pistoiesi alla batteria,
con in più Gianni Gebbia, Stefano D’anna e Gianpiero
Risico ai fiati e Mauro Schiavone al piano). Ne vien fuori
un album soprattutto elegante, destinato a un ascolto
generalizzato e a tutte le latitudini. Nulla di apparentemente rivoluzionario alla maniera di Improvvisatore
Involontario, per intenderci, eppure materiale tutt’altro
che banale.
(6.7/10)
Fabrizio Zampighi
Fabrizio Zampighi
Lorenzo Lambiase - Lupi e vergini (Modern
Life, Novembre 2012)
Genere: pop cantautorale
Romano, classe 1981, Lorenzo Lambiase ha esordito
nel 2009 con un La Cena in cui si immaginava una “cena
ideale intesa come momento di condivisione, in cui le tematiche siano quelle del viaggio, del sogno, della città,
dell’amore, del tempo, dello smarrimento”.Dopo tre anni
il musicista torna per l’etichetta Modern Life con Lupi
e vergini, un disco il cui filo conduttore è, già dal titolo,
quello della sincerità e della fragilità poste all’interno
di una prospettiva universale dell’amore. Il tentativo
pare quello di volersi mettere completamente a nudo
attraverso undici canzoni che, pur cercando di muoversi in più direzioni - soprattutto elettronica e post-rock,
ma non mancano neppure suggestioni psichedeliche
-, finiscono per costruire un pop-rock cantautorale ben
curato nella produzione, ma monocorde nella sostanza
delle singole canzoni.Non bastano gli arpeggi à la Bon
Iver (si ascolti l’attacco di Perth) dell’iniziale Le mani né
l’attacco in ipnosi electro della title-track per esaltare
un lirismo che, nonostante le buone intenzioni, sembra
forse un troppo scontato: è il caso del pop elettrificato
di Sulla riva o dell’intro acoustic di Gospel. Brani, quelli
citati, in cui il polistrumentista pecca per la troppa voglia
di raccontarsi, senza riuscire a immergere l’ascoltatore
nel proprio abisso emotivo. Non mancano episodi di
scrittura più convincenti come in Periferia - altro brano
costruito su rimandi ambient/pop e giocato sui controcanti soul della voce - o un La stanza di Winston e
Julia dai riferimenti letterari ed esempio di cantautorato - seppur declinato in toni electro beat - non troppo
distante dal Moltheni più disincantato ed esistenziale.
La conclusione è affidata agli inserti rock di La grande
rivolta, brano di oltre sette minuti che chiude un disco
certo interessato a sondare nuove direzioni ma pure
troppo attento allo stile e meno al contenuto. Intuizioni e mestiere ci sono, ma manca ancora la maturità per
consegnare un album che riesca ad esprimere appieno
una personalità per il momento ancora troppo legata ai
grandi nomi della tradizione cantautorale. (5.8/10)
Giulia Antelli
Lucas Santtana - O Deus Que Devasta Mas
Também Cura (Mais Um Discos, Ottobre
2012)
Genere: post-tropicalista
Fa un certo effetto recensire Lucas Santtana, dopo
averlo incontrato e ascoltato in concerto prima della
proiezione dell’abbagliante documentario Tropicália
(andatelo a vedere). Non per questioni squisitamente
personali, discorsi episodici aneddotici esperienze inenarrabili di condivisione, ma perché ora che l’associazione con quella linfa vitale è fatta, iacta est: è operazione
chirurgica isolare la musica del Lucas dal tropicalismo,
da quella gioia ed energia trascinante, e dalla leggerezza romantica che la persona comunica. Ci proviamo
quanto meno - è nelle nostre corde - per posizionare
O Deus Que Devasta Mas Também Cura rispetto agli
episodi precedenti di Santtana, e specialmente al più
significativo di essi, Sem Nostalgia, perfetto set di scritture post-tropicaliste, con melodie e arrangiamenti direttamente provenienti da quell’approccio sincretico
che Caetano, Gil, Mutantes tra gli altri esercitavano
con la nonchalance del talento di una comunità intera.
Lucas sorprende per la stessa disinvoltura con cui ci colpivano i protagonisti dell’onda tropicale. Con O Deus
77
Que Devasta... tenta però meno la strada della bossa
(tranne in casi quali Dia de Furar Onda no Mar, sciolti
in produzione con elaborata stanza dei bottoni) e più
la ricchezza dell’arrangiamento, dell’orchestrazione, e
della canzone (e della figura del cantautore) in tutta
la sua variabilità transoceanica che porta poi alla tradizione del rondò, pur con le inconfondibili note che
escono solo a chi proferisce portoghese brasiliano (la
title-track). Allo stesso Santtana, parole sue, un brano
come É Sempre Bom Se Lembrar sembra musica italiana
(dei nostri sessanta, aggiungeremmo noi, e mai più del
cantautorato odierno).
Mancano forse i momenti avvincenti di Sem Nostalgia
(come quelli strumentali, da heavy rotation, vedi Super
Violão Mashup o Recado Para Pio Lobato) ma la penna è
in assoluta evidenza, pronta a essere agghindata senza
perdere la propria natura. Altra chiave - per chiudere - di
lettura. Lucas Santtana sa fare cose semplici che semplici poi non sono (scrivere canzoni) e attorno allo scheletro pulsante metterci carne e pelli colorate, senza però
far perdere di vista le ossa che si dimenano.
(7/10)
Gaspare Caliri
Madness - Oui, Oui, Si, Si, Ja, Ja, Da, Da
(Cooking Vinyl UK, Ottobre 2012)
Genere: Pop
A tre anni (abbondanti) dall’apprezzabile The Liberty of
Norton Folgate, i Madness tornano a dimostrarci come
la seconda giovinezza non sia solo un bolso luogo comune ma un’eventualità possibile, anche e soprattutto
nel supergiovanilistico mondo del pop-rock. Certo, vale
la regola che è difficile ascoltarli e scriverne senza voltarsi indietro, nella fattispecie a quegli 80s che li videro
rappresentare una via di fuga tanto cazzona quanto intelligente all’oppressione tatcheriana. Un vero e proprio
esercizio di dadaismo caricaturale dai risvolti umani il
loro, che nella sinergia tra videoclip e canzone li proponeva come dei nipotini scellerati (e a tratti gratuiti)
dei Monty Python, ad uso e consumo dei post-punk
alla ricerca di un disimpegno che non disimpegnasse
troppo i neuroni.
Nevrotici, folli, allegri, ma con sotto un cuore che pulsava tra gli ska, i vaudeville e gli errebì. La loro eredità si è
dispersa tra le tante band che hanno tentato di tenere
vivo il mix senza mai azzeccare la sintonia col presente,
a meno che non si voglia annoverare tra gli epigoni certi
Blur (e in parte ci può stare). Quindi oggi McPherson e
soci si ritrovano con un capitale mitologico pressoché
intatto da proporre ai nostalgici di mezza età e di rimbalzo ai più giovani, bisognosi di nuove dosi di cazzoni78
smo come antalgico per nuove e sempre più pressanti
oppressioni (e infatti vedi il successo che riscuotono i
vari circhi radiofonici e il solitoidiotismo cinetelevisivo).
Però i Madness non stanno al gioco, non cadono nell’errore di fare la trita rifrittura dei Madness rischiando il
ridicolo. Ovvero, ci marciano eccome sulla loro fama e ci mancherebbe - ma sanno bene di non poter più
interpretare quel ruolo, per cui chiamano a raccolta il
mestiere e la maturità sfornando un songwriting - come
dire? - post-Madness, ovvero pop gradevole, guizzante,
a tratti denso, guarnito di espedienti ad hoc.
Capace d’ingegnarsi agrodolce (il doo wop in salsa reggae di Misery) e cotonarsi disco (la vagamente inquieta
Never Knew Your Name), d’imbronciarsi trip-hop (una
Death Of A Rude Boy che sfoggia trovate futuristico/fumettistiche quasi Gorillaz - il che chiude uno strano,
intrigante cerchio) ed incalzare power pop (Leon). E’ un
disco che non aggiunge virgole significative alla loro
vicenda e neppure paragrafi sul libro del pop rock contemporaneo, ma che si fa forte della sua inessenzialità
rendendola l’alibi perfetto per sbrigliare estro disincantato (il reggaettino slavato di How Can I Tell You?), a costo
di svariare tra improbabili siparietti mariachi (La Luna),
piacionismo errebì (My Girl 2) o malinconie noir (la invero un po’ didascalica Powder Blue). Quanto allo ska, è
ingrediente quasi omeopatico che quando viene a galla
sembra una caramellina che si scioglie subito (So Alive,
Black And Blue). Ed è meglio così.
(6.7/10)
Stefano Solventi
Mama Rosin - Bye Bye Bayou (Moi J Connais,
Ottobre 2012)
Genere: trash’n’roll, zydeco
Quantomeno era difficile da pronosticare: tre svizzeri
che direttamente dal lago di Ginevra si mettono a fare
zydeco e cajun, musica tradizionale della minoranza
creola francese in Louisiana. Poteri della globalizzazione? Chissà, certo è che non te lo aspetteresti e invece...
Partiti con un paio di dischi rilasciati per il culto svizzero
Voodoo Rhythm, si sono finalmente decisi a sbarcare in
America per saggiare con mano luoghi e tradizioni della
zona, e la traversata atlantica ha portato con sè anche
un mentore d’eccezione, Jon Spencer, produttore di
Bye bye Bayou.
Diciamolo senza mezzi termini: il party - o la sagra? rock’n’roll dell’anno si consuma qui, con buona pace
dei vari Blues Explosion e Jim Jones Revue. Bye bye
Bayou è uno di quei dischi che ti esplode nelle orecchie. Parte rock’n’roll, si incurva nel trash punk rock, inverte la rotta verso lo zydeco salvo fare subito marcia
indietro in territori punk, e finisce per scratchare una
commistione cajun trash’n’roll. Prime cinque tracce. Va
bene non inventano la luna, ma il mix tra tradizione e
innovazione trova l’equilibrio perfetto, supportato da
un cantato diviso equamente tra francese e inglese. E
poi le cose continuano a evolvere anche nella seconda
parte con qualche filtro psichedelico in Black Samedi
e nella polverosa Seco e Molhado, del vecchio country
western, con la ballad malinconica di I don’t fell home e il
surf rock svagato di Story of love and hate, un po’ Beach
boys e un po’ Byrds.
E’ un disco pieno di energia e buone vibrazioni ma non
si commetta l’errore di rilegarlo con superficialità alla
voce happy songs. I Mama Rosin offrono una narrazione
che prevede incontro di culture, studio della storia e capacità interpretativa. Metteteci lo zampino di Spencer a
tenere unite le parti ed ecco spiegato il piccolo miracolo.
(7.3/10)
Stefano Gaz
Mara - Dots (Brutture Moderne,
Novembre 2012)
Genere: pop
Una mezz’ora spesa tra certi Velvet Underground puliti e fuori contesto (Way Out), frammenti pop di Fifties
americani (Your Lies), i Doors più brechtiani (Not You),
qualche parentesi folk à la Le-Li (Hitch), divertissement
strumentali senza pretese (Afternoon Here, Close) e cover
plausibili (i dEUS di Nine Threads). La scrittura di Mara
Luzietti - ravennate all’esordio - per quanto minimale
e, a suo modo, solitaria, regge il peso delle aspirazioni sciorinando un pop-folk da cameretta asciutto nella
strumentazione, ma comunicativo come non crederesti
possibile. Il tutto grazie anche a una voce ancora un po’
timida - o forse dovremmo dire algida - ma adattissima
a far da battitrice libera in mezzo a bozzetti musicali da
un paio di minuti o poco più. La formula scelta per Dots qualche naso lo farà storcere,
anche solo per il fatto di rappresentare un modello estetico
decisamente inflazionato. Eppure c’è una certa freschezza
nelle nove tracce della tracklist che non sai bene a cosa
ricondurre: se alle inquadrature effettivamente sghembe
della Luzietti o al buon lavoro di arrangiamento e produzione di Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra Afrobeat, Quartetto Klez, Sur). Probabilmente a
entrambe le cose, fatto salvo che Dots rimane comunque
un buon modo per iniziare un percorso discografico che,
con la dovuta costanza e un po’ di coraggio in più, potrebbe rivelarsi decisamente intrigante.
(6.5/10)
Fabrizio Zampighi
MasCara - Tutti usciamo di casa (Eclectic
Circus, Aprile 2012)
Genere: indie
Dopo l’EP del 2010 L’amore e la filosofia, i varesini MasCara approdano al primo album e lo fanno in grande. La produzione è sontuosa, così come una cura per
i dettagli profonda e attenta. Il disco, un concept sul
passaggio dalla giovinezza all’età adulta - quella in cui
appunto si esce di casa -, è stato anticipato da un trailer
a puntate atto a introdurci ai suoni e alle atmosfere di
questa storia. Grande produzione, grande attenzione
alla forma, per un sound che si divide tra una contemporaneità tutta riverbero di Editors e Bloc Party (con
inserti in stile Muse e Coldplay) e un passato dal quale
emergono richiami Cure (Le città da costruire) e Depeche Mode (I giorni di Urano contro).
Nonostante gli antecedenti illustri e un abito che si
allontana dall’universo indie rivolgendosi a un pubblico più vasto, sembra che a questo disco manchi però
una decisiva spinta emotiva, soprattutto per un lavoro
sui testi che non svetta mai. Se a livello compositivo il
suono della band ha una connotazione comunque rilevante, soprattutto in termini di commerciabilità, i testi
sfuggono, banalizzano e in qualche caso annoiano. Per
un concept album, a ben vedere, non è cosa da poco.
Monumenti sonori in esplosione tra l’elettronico e il baroccheggiante (Da uomo a uomo, La stanza) ma racconti
le cui immagini non spiccano. (6/10)
Giulia Cavaliere
Michele Maraglino - I mediocri (La Fame
Dischi, Novembre 2012)
Genere: cantautorato indie
Cantautorato indie post-anni Zero, quindi un grado
(quasi) zero di pancia e nervi che ti arrivano al cervello
per dare la scossa alla matassa di neuroni generazionali
anestetizzati. Non chiamatelo impegno, ma il bisogno
impellente di dare voce allo sconcerto per una prassi
sociale dalle molte, troppe sfaccettature tragicomiche.
Sferzate che possono assumere la forma del lirismo sloganistico à la Vasco Brondi o del sarcasmo urticante
tipo I Cani, con tutto ciò che ti ritrovi nel mezzo, dai
laconici quadretti di Dimartino alla disamina umorale dei Numero 6 passando dal cinismo outsider de Lo
Stato Sociale. Ecco, appunto, dal mazzo spunta anche
Michele Maraglino, classe ‘84 da Perugia, fondatore de
La Fame Dischi, un ep d’esordio targato 2011 (Vogliono
solo che ti diverti) e finalmente questo debutto su lunga distanza che ne conferma l’attitudine per la calligrafia
diretta, nessun volo pindarico ma congetture essenziali
79
che arrivano al punto senza tappe intermedie.
Una triangolazione basale di testi, melodia e arrangiamenti (chitarre, basso, batteria) che non inventa nulla
se non il senso di urgenza hic et nunc, quello che ti fa
ascoltare canzoni come L’aperitivo, Taranto o Verranno
a dirti che c’è un muro sopra come reportage dal cuore
stesso del disagio. Canzoni che sembrano circostanze
sul punto di accaderti, o appena accadute, comunque
fatti che ti riguardano da vicino, empatia innescata più
dall’approccio ad altezza marciapiede - un po’ busker e
un po’ punk da cameretta - di Maraglino che non dall’efficacia delle pur apprezzabili intuizioni (c’è arguzia da
vendere nel ritornello di Umida, mentre l’innodia di Vita
mediocre e Vienimi a cercare è meno facilona di quel che
può sembrare).
Manca appunto la ricchezza delle tappe intermedie, la
capacità di avventurarsi e svariare nei contesti, l’ispessimento e la problematicità del punto di vista, l’additivo di
astrazioni e visioni, tutto ciò insomma che possa conferire alla cronaca emotiva dimensione “poetica”, come invece fa ad esempio benissimo un Paolo Zanardi. Tuttavia,
come accennavamo in apertura, più che di mancanza
dovremmo parlare di necessità storica, fors’anche di una
ben ponderata scelta espressiva. Quanto fruttuosa oltre
la contingenza, lo scopriremo ovviamente solo vivendo.
(6.8/10)
Stefano Solventi
Mika Vainio - Magnetite (Touch Music UK,
Novembre 2012)
Genere: Ambient-noise
Mika Vainio ha sicuramente un approccio in qualche
modo stoico. Non solo per il significato che questa parola assume nel senso comune, ma anche per l’originario
senso filosofico e per le connotazioni a esso associato.
Ossia, stoico è colui che desidera ciò che ha. Una questione di consapevolezza della propria volontà e dei
propri mezzi, insomma. Fe3o4 - Magnetite è non solo
l’ennesimo disco analogicissimo dell’ex metà pansonica
ma ulteriore prova provata di questo atteggiamento.
Non vale la pena cercare innovazione, piuttosto coinvolgimento, da un esperimento come questo. E forse per
dare complessità alla faccenda si può ipotizzare qualche
dettaglio in più sul concept, derivato dal minerale che
in natura più di ogni altro (e prima di ogni altro, nella
storia delle scoperte umane) ha proprietà magnetiche,
e lì balla l’aprezzamento o meno dell’album: un gioco
di polarità.
Punto di partenza è la sospensione dello stato d’animo,
che Vainio attira a sua discrezione verso toni più o meno
luminosi - e quindi meno scontati dell’oscurescenza a cui
80
il nome di Mika è abbastanza drammaticamente ormai
associato. Magnetotactic ne è perfetta espressione, anzi
una successione il cui netto tra scuro e bianco è pari. Lo
switch è anche tra materia analogica e materia sintetizzata da suoni radiofonici a basso fuoco di frequenza di
hertz - e funziona finchè da padroni li fanno gli oscillatori, pur con continue soluzioni di continuità, all’opposto di come fa per esempio Keith Fullerton Whitman.
Il bipolarismo scende anche nel giudizio. I suoni, il vero
prodotto su cui dare un giudizio aldilà dell’epochè, convincono solo a metà, ossia quando se ne sente la materia
viva. E purché non generino automatismi alla Pan Sonic come nella conclusiva Elvis’s TV Room (con frequenza
acuta finale che sembra autoironica, ma sappiamo che
non lo potrà mai essere).
(6.5/10)
nella loro connessione con desideri di plastica e lattice.
La produzione ha qulla cura che ci si aspetta, ormai, da
ogni artista uscito dalla scuola DFA e si incanala nel solco
di quella house adulta, anche nelle tematiche, insieme ai
più recenti esempi di Chelonis e Wolf+Lamb.
Temporary Happiness non è la proposta di un breve
paradiso nel quale fuggire per la durata del disco. Così
come Don’t Work, Don’t Care, che si avvia con un cut up
vocale che ricorda gli Art of Noise, l’intera opera è un’inno all’apatia drogata e allo stesso tempo espressione
dell’insoddisfazione per queste routine che si basano,
schiettamente, sul perdere tempo. I Mock & Toof stressano quindi l’accento su quel Temporality per spingerci
a ricordare, ancora una volta, la vanità e la fragilità dello
stesso progetto house.
(7.2/10)
Gaspare Caliri
Antonio Cuccu
Mock & Toof - Temporary Happiness (Tiny
Sticks, Ottobre 2012)
Genere: Deepest House
Mouse On Mars - WOW (Monkeytown
Records, Novembre 2012)
Genere: Wonky
Quando un paio d’anni fa vennero pubblicati una serie
di articoli sui danni permanenti all’udito provocati dal
clubbing, sembrò solo l’ultima riflessione, in ordine di
tempo, da parte della dance sull’estemporaneità ed il
costo dello stile di vita che propone.
La house poi, proprio in quanto offshoot tecnologico,
non-umano, della disco è sempre stata consapevole
della disforia e dell’autodistruzione che stanno al cuore
dei suoi incalzanti inviti a gioire e ballare. Una consapevolezza che, nell’essere presente sin dagli inizi, ne ha
fatto un genere maturo, riflessivo, raramente naive. Per
esempio Adonis, solo due anni dopo avere suonato coi
Clockwork la melensa I’m Your Candy Girl, confesserà la
sua disperazione con No Way Back. Ancora prima On and
On di Jesse Saunders, lo stesso groove madre, includevea in sé tutti gli elementi che sarebbero andati a comporre la futura house music suonando allo stesso tempo
come l’espressione di un profondo malessere.
L’intera carriera dei Mock & Toof potrebbe essere considerata come un lungo commento a On and On: gli stessi
ritmi che si sfaldano meccanici in uno spazio assolutamete vuoto, con percussioni dedicate a fissare l’attenzione
dell’ascoltatore sulla cassa quarti, tesa a sostenere pad
dissonanti e synth corpuscolari. Resta al basso e al vocalist
il compito di ricordare la parentela, tramite studiati accenni, con il funk ed il dub. Confusion Time, traccia che apre
l’LP, evoca addirittura la strofa di Saunders quando canta This things inside in my soul, they make me lose control.
Per poi essere seguita a ruota da My Head che continua
ad esplorare il tema della possessione e dell’ossessione
A pochi mesi da Parastrophics, album che segnava il ritorno sulle scene dopo svariati anni d’attività parallele
e collaborazioni, i Mouse On Mars si riaffacciano sulla
Monkeytown dei Modeselektor con una sorta di spinoff
di quella prova, WOW.
Se il predente lavoro cercava d’aggiornare il caratteristico massimalismo sonico del duo, quest’ultimo sforzo,
prodotto seguendo un approccio il più possibile spontaneo e di petto, vede i tedeschi posizionarsi in area wonky
con tutto il corollario di beat, bit e filtri derivati. I contribuiti dichiarati da parte di Eric D. Clarke, l’artista Dao Anh
Khanh (gli sparuti urletti incisi all’Hanoi studio sono suoi)
e la punk band argentina Las Kellies sono giusto delle
note di folclore. La tracklist è al 100% figlia di un marchio
che, ancora una volta, tenta lo svecchiamento anche con
APP musicale (Wretchup) d’imminente commecializzazione su ITunes e, di fatto, usata per la composizione
delle tracce.
Con MYH a piazzarsi con successo tra Bibio e Hudson
Mohawke sotto lente vintage-balearic, PUN a giocare
stancamente con gli acquerelli post-glo, APE a trafficare
con l’afosità meticcia delle produzioni Flying Lotus e
altre tracce a pasturare il lato tech di Parastrophics (la micro acid da videogame di ACD con tanto di 303 filtrate),
WOW non si divincolerà dai difetti dell’ultima fase dei
Mouse On Mars (CAN) eppure un minimo di freschezza
e genuinità lo dimostra. Per la serie, Jan e Andi in studio
si divertono e divertono.
(6.4/10)
Edoardo Bridda
Naomi Punk - The Feeling (Captured
Tracks, Novembre 2012)
Genere: psy-garagrunge
In ambito musicale ho sempre sostenuto l’importanza
delle idee. Puoi aver studiato per trent’anni pianoforte,
puoi sparare assoli hyper-speed di 10 minuti o cambiare
tre tempi nel giro di 5 secondi, ma se mancano le idee
ai miei occhi vali zero. In poche parole, se ci fossero piú
Kevin Shields e meno John Petrucci sarebbe un mondo
(discografico) migliore.
Anche per questo motivo apprezzo il lavoro della Captured Tracks, protagonista di un 2012 di grande valore e
capace di crearsi un roster di artisti che tendenzialmete
mettono davanti l’urgenza espressiva o il tocco personale alla mera tecnica. Artisti forse ancora un po’ acerbi
ma già in grado di portare avanti un discorso tanto di
difficile collocazione quanto facilmente riconoscibile.
Il primo approccio dell’ascoltatore medio con The Feeling dei Naomi Punk può variare dal “cosa è questa
roba?” al “per piacere abbassa”. L’album, uscito originariamente in 300 copie su Couple Skate Records e caratterizzato da un artwork dalle tendenze cromatiche presenti
in molte delle ultime uscite Captured Tracks, è infatti un
tuffo in un mondo malato, dove però il rifiuto iniziale si
tramuta ben presto in assuefazione.
The Feeling, che è il secondo disco della band, non tradisce le origini - Seattle e dintorni - del trio capitanato
da Travis Benjamin Coster: si respirano dosi di abrasioni
proto-grunge lungo le dieci tracce del disco, soprattutto
in brani garage oriented come l’ottima Burned Body o
nell’estrema visceralità di The Buzz.
Tra la sguaiatezza di chitarre maltrattate, riff sorretti
da potenti crash e melodie capaci di entrare in testa in
modo subdolo, il sinistro The Feeling è un lavoro che si
concentra in primis sul suono e poi, con un po’ di fortuna,
sulle canzoni: dietro alla loro proposta musicale è facile
intuire infatti delle scelte stilistiche ben precise, come
ad esempio il settaggio della distorsione della chitarra
o l’effetto omnipresente sulla voce.Tra i momenti più
alti troviamo l’iniziale Voodoo Trust con una strofa non
troppo lontana dal chorus della sopracitata Burned Body
ed un ritornello decisamente killer e la struttura ciclica
di Trashworld. Niente male pure l’instrumental (uno dei tre presenti
nell’album) vagamente gaze di Gentle Movement Toward Sensual Liberation, esplicativo della sensazione
“inside the bell” che torna a più riprese lungo la durata
del disco e il retrogusto art/no della conclusiva Linoleum Tryst.
Si potrebbero trovare decine di aspetti negativi, debolezze compositive o di possibili migliorie, ma a conti fatti
81
- e non è poco - non esiste nessun disco che suoni come
questo. Alienato e alienante.
(7/10)
Riccardo Zagaglia
Natural Assembly - Arms of Departure
(Avant!, Ottobre 2012)
Genere: synth-wave
Torbido e oscuro. Eppure a suo modo attraversato da
bagliori “glamour”. Elegante, insomma. Ma pur sempre
apocalittico. Il primo (mini) Lp del duo londinese Natural
Assembly raccoglie frammenti di electro, industrial ed
ebm, per creare una scultura di ferro, plastica e velluto,
creatura squisitamente “cold”, come tutta la wave più o
meno sotterranea che ha saputo farsi apprezzare nelle
ultime due o tre stagioni.
Ritmiche aliene e riverberate, sintetizzatori a pervadere
l’aria, voci lontane, filtrate e trasfigurate nel processo di
de-umanizzazione che vuole la macchina a sostituire la
coscienza di un’umanità alla deriva, fanno di Arms of
Departure un album ricco di variazioni sul tema, nonostante la breve durata.
Piace quindi l’incontro tra groove incalzante e oscurità
soffocante in 19.03.12, così come la distensione synthpop di Sunrise e i fitti tappeti su battiti mid-tempo di
Wretched Burden. Certamente perfettibili, ma già ampiamente a fuoco.
(7/10)
dal Gilmore International Keyboard Festival, per il pianista Bruce Brubaker) è la parte migliore del lotto. La
pianizzazione di un bipolarismo. Ci racconta una storia
musicale di schizofrenia. Da un lato il pianoforte assume una personalità antitonale, dissonante e dinamica.
Dall’altro una personalità docile, quasi pensierosa. Con
soluzioni di continuità raramente prevedibili. A volte
(Drones & Piano Part 3 - The 8th Tune) quel nervosismo
è una composizione veloce, che sa che i minuti contati
sono preziosi per mantenere un barlume di lucidità.
La viola di sottofondo è l’ambiente ideale per questa
dialogica tragedia quotidiana, allo stesso modo il piano in reverse dovrebbe essere tappeto perfetto per il
protagonismo degli archi nelle due serie successive
(Drones & Viola e Drones & Violin), ma perde efficacia. La
viola dronica ricorda John Cale, se non Tony Conrad;
il piano statico il Terry Riley di In C, come se fosse suonato nell’altra stanza, e quindi come se gli fosse negato
il protagonismo solo per una questione di piani di fuoco. Per lo stesso motivo, gli switch / glitch di Drones &
Violin - Drones in Large Cycles sono - seppur più “strutturanti” - meno adatti a dare luce alla metafora del disco:
monologhi interiori su suoni dronici della quotidianità
tradotti in strumento musicale. Funziona quando lavora
sull’ossatura, Nico Muhly, in Drones. Per un compositore
di fatto camerista, è una posizione di vantaggio.
(7.1/10)
Gaspare Caliri
Antonio Laudazi
Nico Muhly - Drones (Bedroom Community,
Novembre 2012)
Genere: contemporanea
Odd Future Wolf Gang Kill Them All - The
OF Tape Vol. 2 (Odd Future Records, Marzo
2012)
Genere: Hip Hop
Nico Muhly è uno fedele a quello che dice. E alle metafore con cui titola le proprie composizioni. Mothertongue era un calembour di vocalismi, l’allestimento di una
scena di parole e timbri d’ugola pennellati da mamma
lingua. Drones - che raccoglie tre EP del compositore
(Drones & Piano, Drones & Viola, Drones & Violin) unendoli
con la finale Drones & Violin - Drones in Large Cycles - non
solo riflette i mezzi usati (gli strumenti), ma li impasta
dando a uno o all’altro il protagonisto e al restante l’ambientazione dronica. Il gioco è non cadere nel tranello:
non ci sono droni - come siamo abituati a pensarli - ma
ipotesi strumentali di traduzione della sospensione del
velivolo senza conducente, non un ronzio ma un veicolo
- un mezzo, appunto.
Il tutto resta molto legato a Philip Glass, con il quale
Nico ha collaborato in diverse occasioni e che del resto
forse è stato mentore indiretto. Si rimpallano pianoforte,
viola e violino. Drones & Piano (commissionata in origine
Il collettivo hip hop Odd Future confeziona una compilation per fare bella mostra di tutti i piccoli e grandi
talenti che si sono raggruppati attorno al leader Tyler
the Creator, artisti quali Earl Sweatshirt, Frank Ocean,
Hodgy Beat, Domo Genesis, The internet. L’impressione è che questo disco immortali una momento difficile per la crew: da normalissimi ragazzini malati di hip
hop gli Odd Future si sono trovati in un baleno, grazie
ai tempi iper-veloci di internet, al centro dell’attenzione della scena musicale grazie all’immediato successo
riscosso da Earl e Tyler. Gran parte del merito dei due è
stato quello di portare una ventata di aria fresca nella
scena hip hop con una musica estrema e perversa (con
basi che pescano tanto da Waka Flocka Flame che da
Hudson Mohawke) ma al contempo adolescenziale
e spensierata, sempre però concentrata sull’autocelebrazione di sé stessi come giovanissimi V.I.P. Purtroppo
però non si rimane adolescenti a vita e le debolezze di
82
questo disco ci mostrano come ciò è vero anche per la
gang del lupo, che forse dovrebbe iniziare a ricalibrare
la propria proposta. L’album è incentrato su una formula semplice: lo storico membro e produttore Left
Brain (aiutato da Tyler) siede in consolle e sforna basi
su cui andranno a lavorare più artisti. Purtroppo rispetto
agli anni passati è proprio questo meccanismo che si è
inceppato. Se l’adolescenza è il momento della vita comune, la maturazione impone la solitudine degli adulti
e di conseguenza è divenuto difficile per i nostri lavorare
insieme senza schiacciarsi l’uno con l’altro. Così da una
parte ci sono un gruppetto di big che per lavorare assieme avrebbero bisogno almeno di un terreno neutro,
laddove invece la produzione di Left Brain gioca quasi
sempre a favore di Tyler. Un esempio tra tutti: in Snow
White Frank Ocean sembra capitato per caso in un pezzo
di Tyler the Creator.
Dall’altra ci sono invece Hodgy Beat e Domo Genesis i
quali sono ancora incerti tra adagiarsi sugli stereotipi
Odd Future, ma rimanere sempre personaggi di secondo
piano rispetto ai più carismatici, oppure azzardare un
percorso di maturazione che li porti verso una propria
proposta artistica, come cercano di fare nei loro buoni
dischi solisti grazie a produzioni più classiche (l’Ep di
Hodgy e No idols di Domo).
Paradossalmente le
tracce migliori sono quelle più inaspettate come White, con Ocean questa volta libero di fare Frank Ocean
(accompagnato dal piano). Belle anche la funkeggiante
Ya Know dei The Internet con The Internet stessi in consolle e Forest Green by Mike G, che ci presenta un flow
assolutamente di livello. Fortunatamente a redimere
tanti brutti momenti arriva, in chiusura, il singolo allstar
Oldie, dalla produzione finalmente poco ingrombrante
e 90s che ci lascia godere della varietà di stili e registri
vocali. Da notare - e non senza amarezza - come Ocean
si dimostri il più maturo del gruppo anche nel rappato
e come il ritorno nel finale di Earl (che non aveva potuto
presenziare alle session) ci faccia pentire di aver ascoltato finora quasi solo brani di Domo Genesis e Hodgy
Beat. Un fatto curioso è che il più grande difetto del
disco, quello di fare un pasticciaccio di artisti così diversi,
va in realtà a vantaggio della crew: viene voglia di sentire
i dischi solisti, dove ognuno avrà lo spazio per esprimersi
al meglio. Forse una mossa di marketing geniale?
(6.5/10)
in occasione dell’uscita del sophomore di Fritz, col quale
tornava alta l’evidenza di una scienza del perfezionamento, l’elevazione di un sound in fondo proprietario
e amatissimo per armonie e umori difficilmente replicabili. E se questo nel fratello minore raggiunge l’apice
con Sick Travellin’, la discografia della star Paul aveva
già raccolto tutto il possibile negli ultimi due (vendutissimi) album, Berlin Calling e Icke Wieder, ponendolo
di fronte a un bivio per questo Guten Tag: insistere su
quel che vogliono i fan col rischio di apparire narcisista,
o liberare il movimento verso una nuova fase stilistica?
La risposta la dà subito in apertura Der Stabsvörnern,
parziale messa in discussione di quel caratteristico mix
di atmosfera e ritmo che aveva fatto innamorare nelle
opener dei due dischi precedenti, Aaron e Böxig Leise.
Stavolta i bpm sono accelerati e il mood è più duro, più
vicino alle ossessioni della Berlin techno (i loop autoritari
di Trümmerung) e all’impatto per il club (Hinrich Zur See,
siam dalle parti della minimal), interpretando una certa
tendenza europea recente che punta verso territori più
aggressivi e intransigenti e che stiamo osservando sotto
fronti diversi, che siano lo Scuba berlinese lanciatissimo
con Sigha o persino l’ultimo urlo hardcore di Vitalic (che
- guarda caso, troviamo qui campionato in Kernspalte, il
sample è della Polkamatic di OK Cowboy e adesso suona
come la fase di respirazione preliminare all’agonismo).
Nonostante il singolo Das Gezabel sia di quelli fedeli al
ben noto Kalkbrenner style e l’album lasci comunque
spazio a momenti melodici liberatori (ottima Der Buhold
che ci mette anche la grinta), gran parte della tracklist
si rivolge, in realtà, agli aficionados delle notti in pista.
Il pezzo più rappresentativo è Spitz-Auge, che riesce a
riversare la sapienza della star di Berlino sui meccanismi del club buio, farcendo con bassi electro industriali
che accompagnano ogni battuta nel segno di un groove
meccanizzato. Così Guten Tag diventa album meno propenso all’accettazione globale e più orientato a un pubblico di appassionati di nicchia (se così possiam vedere
la techno nello scacchiere complessivo). Mossa più che
lecita: dopo Icke Wieder d’altronde era controproducente tentare ancora repliche, e il ritorno alla dimensione DJ
è un modo per ribadire l’identità di Paul Kalkbrenner.
Da oggi un po’ meno divo, un po’ più umano e genuino.
(6.7/10)
Carlo Affatigato
Gianluca Carletti
Paul Kalkbrenner - Guten Tag (Paul
Kalkbrenner Musik, Novembre 2012)
Genere: Berlin techno
Phillip Phillips - The World from the
Side of the Moon (Interscope Records,
Novembre 2012)
Genere: Mumford&Matthews
Giusto questo mese riprendevamo il Kalkbrenner affair
Nel 2012 dove vai se il mandolino non ce l’hai? Il succes83
so - assolutamente clamoroso - dei Mumford & Sons e
dei loro nipoti (dai The Lumineers agli Of Monsters and
Men) recentemente è arrivato fino al melmoso e putrido
mercato italiano. Semplice, le armonie dilatate e a volte articolate dei Fleet Foxes funzionano ma non sono
abbastanza spensierate per il nostro pubblico e non potrebbero di certo finire nel trailer del cinepanettone con
De Sica (come è successo a Little Talks).
Negli Stati Uniti il ricambio è continuo e il fenomeno è
probabilmente all’apice dell’esposizione mediatica, tanto che l’ultima edizione del talent show American Idol,
in passato trampolino di lancio per teen-idols, divette
mtv, country-boys o pseudorocker, ha visto trionfare un
cantautore folk-pop armato di chitarra acustica: Phillip
Phillips.
Il brano che che lo accompagna da qualche mese si intitola Home e potrebbe trovare - rarità per i prodotti usciti
da talent show statunitensi - consensi anche da noi, magari sotto ad un albero di Natale radicato in frasi come
“because I’m gonna make this place your home”. Home,
manco a dirlo, sembra un clone - anche ben riuscito - di
un qualsiasi (tanto per sottolineare nuovamente la poca
varietà presente in Babel) brano dei Mumford & Sons
con la partecipazione degli Arcade Fire a fare la coda.
L’album di debutto di Phillip Phillips, pubblicato via Interscope e 19 Entertainment, si intitola The World from
the Side of the Moon e parte certamente dai risvolti
trad di Marcus Mumford&co ma va a toccare corde - anche vocali - più vicine a certe cose (private dei tecnicismi
free-jam del caso) della Dave Matthews Band come in
Hold On, in Get Up Get Down e in una Drive Me a rischio
plagio concettuale.
Realizzato con la collaborazione di Gregg Wattenberg
(non a caso già con roots pop-rockers quali Train, Five
For Fighting e O.A.R.), The World from the Side of the
Moon è il classico prodotto di chi punta dritto all’obiettivo - le classifiche - mettendo in secondo piano tutto
il resto. I pro sono quindi quasi tutti da ricercare nella
facilità con cui Phillip trova gli hook melodici mentre tra
i - tanti - contro abbiamo cori quasi parrocchiali (Where
We Came From, la probabile hit Gone, Gone, Gone), produzioni da blockbusters OST (Tell Me A Story), eccessi
zuccherosi e alcuni ritornelli talmente stucchevoli (So
Easy) da generare l’effetto contrario.
The World from the Side of the Moon è un album bidirezionale: da una parte Mumford e dall’altra
Matthews.M&M’s e tutto torna.
(5.3/10)
Riccardo Zagaglia
Pinch - Missing in Action (Tectonic,
Novembre 2012)
Genere: Dubstep
Prince Rama - Top Ten Hits Of The End Of
The World (Paw tracks, Novembre 2012)
Genere: now-age
Mentre oggi uno come Skream inizia a generare casi
di malcontento tra i fan per abbandono del tetto coniugale, Pinch aveva iniziato un’inesorabile deriva verso
la New Wave Of Techno già due anni fa con le varie
Croydon House, Retribution e Paranormal Activity, tracce che ridefinivano certi contorni dance con equilibrio
e autorità, senza crear troppo scompiglio. Un percorso
di rinnovamento che ha trovato espressione definitva
proprio quest’anno (l’ottimo FabricLive.61) ma che non
ha mai completamente distolto il producer bristoliano
dalle genuine profondità del dubstep. In questo senso
vanno il valido album in collaborazione con Shackleton
e questo Missing In Action, che segna il ritorno nei luoghi del delitto sotto forma di raccolta di rarità e inediti
prodotti dal 2006 al 2010.Rob Ellis rinvia dunque a data
da destinarsi il seguito in studio di Underwater Dancehall,
e si ripresenta nelle vesti di label manager attento ai desideri del pubblico, mantenendo alto il profilo tecnico e
preferendo evitare certe versioni/visioni personali che,
Mala insegna, richiedono coraggio e sforzo mediatico.
Meglio agire con cautela dunque, mettendo sì in gioco
le risposte nu soul al giro post-Blake & SBTRKT (nel personale approccio esotico di Dil Da Rog Muka Ja Maha,
ovvero dell’arab-soul) ma lasciando il centro del palco
ai personali fondamenti, mai sconfessati, del producing
elettronico 00s e all’arte del remixing.
In 12 tracce, dal 2006 al 2010, M.I.A. presenta il biglietto
da visita di una vecchia volpe che puntella ai fianchi il monolite dubstep: materia giocata per raffinazioni successive (la spendida 136 Trek tutto stepping in chiaroscuro +
polveri di stelle old skool house), curata a livello tattile del
campione ritmico come da tradizione trip-hop (Motion
Sickness, E.Motive), chiara (reggae/dancehall) come scura.
Con il wobble nelle vene (Cave Dream). Dal cuore tech
che batte per Detroit (Mutate(d), ovvero il rework di 30Hz,
ovvero il citato Ginzburg) senza che lo sguardo si neghi
ai tagli ambient (ancora la citata E.Motive, Attack Of The
Giant Robot Spiders!) oltre che ai tocchi soul (via 2 step),
house (ancora Mutate(d)), fondamenti reggae (la versione
di Rise Up di Henry & Luis con il feat. in ragammuffin di
Steve Harper), dancehall (Chamber Dub) e pop (Qawwali
VIP, il remix di Emika Double Edge).
Ancora una volta, assieme alle compile Dubstep Allstars, i
nostalgici del genere avranno un paladino da osannare,
del resto questa è anche materia destinata ai cultori di
ogni categoria elettronica.
(7.2/10)
Tanto erano credibili i paralleli fra le assurde personalità
- background in una comune Hare Krishna, letture e manifesti prodigati da pozze di sangue, esorcismi di gruppo
su VHS - e le rotelle altrettanto fuori posto rinvenibili nel
melt di psych, raga/free-folk e now-age, fino a Shadow
Temple (2010) di dubbi ne avevamo pochi: il trio dietro al
progetto Prince Rama c’era ben più di quanto ci facesse,
nel senso che faceva quel che faceva perchè quella era
la natura alla base.
Soltanto un anno dopo, ecco la fuoriuscita di Michael
Collins, con la band che diventa appannaggio esclusivo
delle sorelle Larson e il deludente Trust Now a farci annusare una deriva terzo/quartomondista da freak sfattone che di colpo appariva un po’ forzata. Ora, infine,
il terzo lavoro su Paw Tracks a consolidare tale deriva,
con l’aggravante di un’apertura ad uso e consumo di un
pubblico sempre più vasto (e modaiolo) che affossa ogni
parvenza di attitudine del tutto non calcolata.
Tops 10 Hits Of The End Of The World è concepito come
un souvenir post-apocalittico, ovvero una pseudo-compilation di singoli firmati dalle dieci band (fittizie) che
stavano ai vertici delle chart prima di perire allo scoccare
del giorno del giudizio. Il concept non è nuovo (Sonny
Smith aveva già gestito artisti immaginari nel suo 100
Records) ma risulta comunque interessante e di grande
potenziale, specie se messo in prossimità del responso
della profezia Maya e in balia di due menti malate come
quelle di Taraka e Nimai.
E infatti tutto il corredo del disco è un capolavoro demenziale: cover ultra-goofy a parte, per ogni band
- tra cui spiccano nomi come Taohaus, Hyparxia e
I.M.M.O.R.T.A.L.I.F.E che già di per sè meritano - ci sono
anche le press photos, i tag di genere - motorcycle rock,
new-wave grunge, ghost-modern glam, etc - e delle
bios che, fra culti erotici infiltrati nelle disco underground
ed act generati al computer, sono tra le cose più divertenti ci siano capitate per le mani di recente.
Lo stesso non si può dire del contenuto musicale. La
buona resa della mossa volta all’immediata appetibilità
attraverso la diluizione dei tratti ricorrenti - droni arabeggianti e new-age, blend di cheesy-disco e goth-rock,
percussioni tribalissime e riverbero cosmico - regge soltanto per quattro pezzi, scadendo poi in un pasticcio di
generico, scarsamente ispirato retro synth-pop, tra imbarazzi bollywoodiani (Radhamadhava) e nostalgie lato
Bananarama (Exercise Ecstacy). Non solo: col volgere al
termine di So Destroyed - appunto la traccia #4 - va a
perdersi anche un qualsiasi contatto con l’idea di fondo,
Edoardo Bridda
84
sia per la varietà di proposta - ben inferiore a quanto
implicitamente richiesto -, sia per la assenza di ulteriori
episodi che ne rinnovino il “panico concettuale”. Per intenderci, quanto egregiamente fatto dai canti meta-rituali dell’opener Blade Of Austerity e della contigua Those
Who Live For Love Will Live Forever. Per le Prince Rama è
un’altra occasione sprecata.
(6/10)
Massimo Rancati
Producers - Made In Basing Street (The
LAST Label, Novembre 2012)
Genere: AOR/AAA
Sono in quattro, arrivano da Londra, si fanno chiamare
Producers ma non sono l’ennesima nuova band destinata alle copertine di NME, tutt’altro. Suonano insieme
da sei anni e all’anagrafe sono Lol Creme, Trevor Horn,
Steve Lipson e Ash Soan.
Un progetto guidato da due assi del pop inglese, musicisti di fama mondiale prima ancora di dedicarsi in primo luogo alla produzione: l’occhialuto Trevor Horn - nei
Baggles di Video Killed the Radio Star, negli Yes di Owner
of a Lonely Heart e negli Art Of Noise del superclassico Moments in Love - e il sessantacinquenne Lol Creme,
già negli Art Of Noise della reunion di fine millennio e
presenza storica dei 10cc di (compresa I’m Not in Love).
Stephen Lipson è stato visto spesso a fianco di Horn (ad
esempio per Slave to the Rhythm di Grace Jones), mentre
l’ex Del Amitri Ash Soan - il più giovane del gruppo - ha
recentemente lavorato come sessionman dietro alle pelli
per molte star dell’UK pop.
L’album di debutto Made In Basing Street esce per
la The LAST Label, branchia della ZTT Records fondata
trent’anni fa dallo stesso Horn, dopo mesi passati - guestate di Will Young e Jamie Cullum comprese - sui palchi
di mezzo mondo. Nonostante siano producer, la dimensione ideale della band è infatti quella live, situazione
perfetta per sfoggiare anni e anni di esperienza e una
perizia tecnica sopraffina, davanti ad un pubblico nostalgico dell’AOR-era.
Made in Basing Street - così intitolato in quanto registrato ai SARM/Basing Street Studios - inizia con quell’incrocio tra Live And Let Die e i TOTO più leziosi che è Freeway. Soft rock (Waiting For The Right Time) e cori che
rimandano a quella che a cavallo tra ‘70 e ‘80 era probabilmente la scena meno interessante che l’industria musicale aveva da offrire: tappeti di tastiere, arrangiamenti
e guizzi chitarristici che sembrano uscire a seconda dei
casi da Sanremo 1980 (o anche 2012, cambia poco) o dai
cd di Beppe Maniglia (Your Life). Qualche riffetto accennato (You And I) e una parte centrale del disco pseudo85
acustica (Stay Elaine, Barking Up The Right Tree) che alza
ulteriormente un livello di glucosio già molto elevato.
Dieci tracce costruite su struttre di layer, strumentali e
vocali, impilati da una mano dolce e inoffensiva. Pacchiana.
Anche dai titoli dei brani (l’onesta Every Single Night in
Jamaica ad esempio) è chiaro che i quattro Producers
puntino tutto sull’effetto nostalgia, ma non siamo né di
fronte ad una nascita di un revival prog-soft-aor (fortunatamente), né di fronte ad un prodotto in grado di
trovare nuovi adepti alla causa. Made in Basing Street
sarebbe stato un arcaico disco da cestino automatico già
trent’anni fa, figuriamoci oggi.
(3.5/10)
Riccardo Zagaglia
Rihanna - Unapologetic (Def Jam
Recordings, Novembre 2012)
Genere: Pop / R’n’b
Per ben tre album, dal primo Music Of The Sun a Good
Girl Gone Bad, Rihanna era riuscita a gestire con una
certa dignità la propria figura di star pop/r’n’b dalle diverse influenze, e se pensiamo a quanto aggressiva e
invadente sia l’industria musicale USA degli ultimi anni,
non è poco. Ma col mainstream, si sa, la genuinità non
dura mai e dal 2009 l’artista caraibica è diventata una
specie di carrozzone carnevalesco sul quale tutti vogliono salire (il tasso di visibilità è troppo allettante), così
che tutti i dischi da Rater R in avanti son finiti per essere
dei puzzle eterogenei studiati a tavolino che non si son
lasciati scappare nessuna delle mode intercorse nel frattempo: dal dubstep al Gaga style fino al danzereccio pop,
e mai nessuno a chiedersi sul serio se fossero mosse perfettamente adatte alle qualità del soggetto manipolato.
Per Unapologetic la situazione è ancora così (la svolta
solitamente avviene causa colpo d’orgoglio dell’artista
stesso, qui non pervenuto) e quel che qualcuno definisce “un gran bel mix di generi” in realtà è uno scontro in
galleria di almeno 4-5 diverse traiettorie tra loro incompatibili. Peccato, perché i primi pezzi sembravano aver
identificato un’immagine efficace da seguire e la stavano
costruendo anche con stile. Fresh Off The Runaway pecca
forse di leggerezza nel rivangare certe sonorità fidget
da autoradio, ma almeno ridisegna un volto da bad girl,
resosi necessario dopo il passaggio di Calvin Harris e
spendibile bene in più di un’occasione. Come in Numb,
ad esempio, per riempire con carattere gli spazi abstract
e compensare l’impalpabilità dell’intervento di Eminem.
E molto meglio sono Power It Up e Loveeeee Song, che
finalmente tirano in ballo qualcosa di veramente underground come la trap music e le sue filettature ritmiche:
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mentre sullo sfondo corrono proprio quelle che presumibilmente saranno le colonne sonore della dance
d’avanguardia dei prossimi anni, il ruolo di Rihanna è
di addolcirne l’effetto con un r’n’b essenziale e black, riportandole a una dimensione più ascoltabile e fruibile,
sinuosa nella prima e malinconica nella seconda. Mossa
coraggiosa al di là delle ragioni che ci stanno dietro, soprattutto perché si svincola dal solito schema caro a Mtv
e anche da quello che i fan potevano aspettarsi.
Il resto dell’album, ovviamente, non poteva correre
dietro teoremi tanto rischiosi e va quindi a cercarsi le
proprie ricette appetibili secondo i canali classici, ballate
pop sul mieloso andante come Stay e Get Over With It
(che su un disco r’n’b di un certo livello non dovrebbero
starci), riciclo di suoni indie rock collaudati (Lost In Paradise, Love Without Tragedy) e onoroficenze devote verso
il pop che conta (Nobody’s Business con Chris Brown, che
trapela invidia stilistica verso chi certe cose le ha dimostrate negli ‘80, Madonna e Pet Shop Boys). I momenti
peggiori però son due: Jump prova a inseguire il nuovo
dubstep insieme a due esperti del caso come i Chase &
Status, che vedono di non esagerare ma di fatto creano
un conflitto di compatibilità con le movenze di Rihanna (Katy B già c’è e non è necessario imitarla), mentre
in Right Now - manco a dirlo - David Guetta è sempre
abilissimo a far sbiadire ogni eleganza estetica, coprendo con quantità industriali di dj tools disinibiti al limite
dell’offensivo. Se togli la sostanza capace di distinguerti
e lasci intatto il jet set, alla fine hai solo un contenitore
luccicante riempito senza molto criterio. E con Rihanna
sta diventando un’abitudine.
(5/10)
Carlo Affatigato
Rio Mezzanino - Love Is A Radio (A Buzz
Supreme, Novembre 2012)
Genere: blues, desert
Quattro anni fa, al loro esordio, i Rio Mezzanino convinsero un po’ tutti e si ritagliarono apprezzamenti e paragoni con un certo desert blues-rock di taglia grossa.
La combriccola toscana torna a bomba su quello che
aveva sapientemente costruito, cercando di equilibrare
gli orizzonti e aggiungere solidità al sound.
Love Is A Radio è un disco cupo, granitico, sporcato dalla polvere di un country-blues deviato e sorretto dalla
voce portante di Bacchiddu, suggestionato dalla ballad
nera e mitologica dei Bad Seeds (Ghost Song, Get Me
Down, Animal), influenzato dall’ombra degli Screaming
Trees (Thorn, A Star), addolcito dagli smussamenti in stile
Calexico (Mint And Holy Water, For Love). Fanno la loro
dignitosa comparsata le ricostruzioni di sassofono e i rit-
mi sbarazzini quando tutto sembra perdersi nella calma
piatta e strasognante di Silver, le rifiniture di archi e il
controcanto femminile in pieno stile western (la sedia
a dondolo cigolante sotto il porticato) di My Enemy JR,
le cattedrali di innovazione sonora in eco Radiohead di
Sleep Togheter.
Tutte le carte sono giocate benissimo e i toni moderati
da dieci episodi d’amore e non, paradigma affatto scontato per chi si avvicina al genere. Eppure il castello di
sabbia viene via con un soffio, le canzoni non suggestionano, non smuovono gli animi (né di chi le esegue né di
chi le fruisce), come se l’apparato esterno fosse troppo
facilmente penetrabile da allagamenti e sconfitte.
(6/10)
Nino Ciglio
Robbie Williams - Take The Crown (Island,
Novembre 2012)
Genere: Pop
A luglio 2006, al termine di una sudata esibizione in quel
catino chiamato stadio San Siro, Robbie Williams deteneva e custodiva lo scettro di Re indiscusso del pop di
tutta Europa. Gradasso e adorato sex simbol, negli anni
precedenti aveva sfanculato i Take That per andarsene
da solo e litigato con un Liam Gallagher che gli dava
del ciccione; si era drogato e alcolizzato; aveva superato
indenne la maledizione dei 27 anni pubblicando singoli
capaci di fare la storia del pop inglese moderno (Angels);
aveva sfornato pupazzate stilosissime (Millenium, che
quasi ruba il posto a Daniel Craig per 007) e confezionato duetti swing (Something Stupid, cover di Mr. Frankie
Sinatra - e figlia - in compagnia di Nicole Kidman fresca
di oscar); aveva bisticciato furiosamente contro il bigottismo a stelle e strisce precludendosi definitivamente
il mercato USA (i famosi 10 secondi tolti al videoclip di
Rock DJ). Il concerto meneghino e il tour di quell’anno riuscirono abilmente a mascherare i primi passi falsi di un
Williams che, staccatosi dal produttore Guy Chamber,
pubblicava prima Rudebox (album dal taglio elettronico
con, tra le altre, la collaborazione dei Pet Shop Boys) e
poi, tre anni più tardi, l’imbarazzante Reality Killed The
Video Stars, con un parterre di produttori quali Trevor
Horn e Mark Ronson (oltre al rientrato Chambers).
Tra i fatti recenti: una reunion con i Take That (Progress)
che si commenta da sola, un fidanzamento con prole,
l’ossessione per gli UFO che quasi gli costa un TSO, e un
“buen” ritiro nei prima odiati e poi amati USA. E dunque
Take The Crown, l’ultima wild card che lasciava presagire un’ammissione di colpa e, invece, non esaudisce né i
desideri del pubblico generalista né quelli dei fan. Robbie, che tra le attitudini non ha mai avuto il rock,
decide d’affidarsi a Jacknife Lee, che in curriculum può
vantare gente come U2 e R.E.M. (di cui ha cercato di
ringiovanire il sound) ma anche The Drums e Two Door
Cinema Club. Il risultato? The Killers che coverizzano gli
U2 (All That I Want, Hunting For You, Not Like The Others).
Un minestrone riscaldato e sciapo in cui, con l’aiuto (?) di
due pischelli provienienti dagli Undercolours troviamo
un bolso papà Williams a dispensare, tra gli uuh e gli ooh,
consigli di saggezza per le giovani generazioni (Be A Boy).
Into The Silence o il singolone Candy - bannato dalla BBC1
perché non in linea con il palinsesto e scritta a quattro
mani con Gary Barlow - dimostrano ancora quanto il
Take That ci sappia fare, ma nel resto della tracklist c’è
troppa svogliatezza e stanchezza.
Con un giro da X-Factor, Robbie i conti li farà ancora tornare, ma sono lontani i tempi degli stadi e delle ballad
con l’accendino. Take The Crown non risparmia nulla,
neppure le paternali. I sudditi stiano tranquilli, a Buckingam Palace non sono previsti smoking rosa e sneakers
blu.
(4/10)
Mirko Carera
Roberto “Freak” Antoni & Alessandra
Mostacci - Però quasi EP (CNI, Ottobre 2012)
Genere: Rock demenziale
Dopo il clamoroso abbandono degli Skiantos (il secondo, dopo quello dell’80) l’incontenibile Freak Antoni
prosegue i progetti cui aveva già dato vita da un po’ di
tempo insieme alla pianista Alessandra Mostacci: il duo
di Ironikontemporaneo e il rock della Freak Antoni Band.
Questo EP anticipa un album previsto in primavera e dà
anche l’idea di come i pezzi dei vari repertori passino da
un progetto all’altro (le serate voce e piano che includono anche brani Skiantos e altri suonati con la Band, e
idem i concerti di questa).
Non si tratta infatti un nuovo volume di Ironikontemporaneo ma il passaggio al “rock”, almeno su disco, anche
del duo, che allo scopo recluta musicisti diversi da quelli
della FAB. Però quasi, melodia che arguta e leggera segue i movimenti di un testo d’amore apparentemente
classico, riesce dove il pop dei tentativi di mandare la
Buconi a Sanremo realizzati con la FAB risultavano fuori
contesto (troppo festivalieri e lontani dal resto), cioè riequilibrando l’elemento pop italiano con l’ironia che Freak
ha già nel timbro vocale e con immagini notevoli quali
“Baciami, fammi passeggiare sulla porcellana dei tuoi denti” - in Liguria poteva finirci davvero e fare un figurone.
La natura composita dell’approccio recente si vede però
anche nelle collaborazioni: la canzone del titolo ospita
un Luca Carboni evidentemente stufo del pop, mentre
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J-Ax, dopo averla ripresa in un suo live, aggiunge le sue
rime a I gelati sono buoni (la classica Gelati), brano le cui
varie versioni negli anni ne hanno dimostrato una duttilità inattesa. Dove sei è uno dei pezzi “sanremesi” di cui
sopra (in origine Dove sei stato), arrangiamento diverso e
bello come l’originale ma che non scaccia le perplessità,
Sono un ribelle mamma le toglie gli anni ‘80 della versione
originale animandola di samples nel finale mentre Lettera alla madre è la Filastrocca della mamma della FAB che
musicava una lettera di Mozart (sboccata come Freak non
è mai stato), qui resa con carillon e scalpitii campionati.
Ottima la title track, buon souvenir per i divertenti concerti il resto, ma perché cambiare i titoli alle canzoni?
(6.8/10)
Giulio Pasquali
Rusko - Kapow EP (Rusko Recordings,
Ottobre 2012)
Genere: Mainstream dubstep
Dopo la joint venture con i Cypress Hill nell’estivo eppì
Cypressxrusko, Rusko torna sulla media distanza con un
lavoro in free download di 4 tracce, Kapow.
In un periodo d’oro per il brostep - e l’Owsla con i fari
più che mai puntati addosso - era chiaro che il furbone
di Songs non potesse mancare all’appello. Se condividi
sulla tua bacheca il post facebook, in cambio scarichi
quattro tracce tra il potente e il tamarro con meno attenzione verso i drop e più enfasi sulle power rhythm
che strizzano l’occhio a Krewella (Yeah), alla trance cara
a Van Bureen (numero uno di dj mag per il 2012, gran
tempismo), a jingle degni di Deadmau5 e Guetta (Bring
It Back), condendo con rigurgiti hardcore/techno europea come Booyakasha, il pezzo più valido del lotto, forte
anche del tipico Rusko sound.
Vale lo stesso discorso fatto ai tempi dell’album dei Nero:
mainstream dubstep per il generalismo di MTV.
(5.4/10)
Mirko Carera
Scott & Charlene’s Wedding - Para Vista
Social Club (Critical Heights, Ottobre
2012)
Genere: low fi
Basta con questa robetta suonata male e registrata
peggio, forzatamente sdrucita come i jeans degli adolescenti, retrograda, con la carica eversiva di un mozzicone gettato per terra. Tanto i Velvet Underground
erano i Velvet Underground, e comunque non ci sono
più. Punto. Non ci sono più gli Stooges, né i Television.
Non c’è più l’epoca che ne legittimava la poetica. Tutto
il resto, o quasi, è revival, sovente fastidioso.
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Craig Dermody, l’australiano trapiantato a New York
sotto il moniker di Scott and Charlene’s Wedding, se
ne esce appunto con un disco derivativo e fuori misura,
sporco come un divano abbandonato accanto a un cassonetto dell’immondizia, molesto come un ubriaco che
ti viene addosso sul marciapiede alle quattro di notte,
ma scarico di poesia, tensione, tormento e ispirazione.
Incentrato su chitarre slabbrate e voce a cazzo di cane,
tra melodie stonate e chiacchiericcio proto punk, Paravista Social Club è un disco noioso e pretestuoso, il quale,
più che rievocare i numi tutelari di cui sopra, ne azzarda
una floscia ripresa stilistica.
Unica nota positiva è il packaging, che al di là del risultato
sonoro denota con tutta probabilità la buona fede del progetto. Il disco, infatti, fu originariamente stampato in sole
200 copie oggi sold out, ciascuna con una copertina diversa
dipinta a mano dall’autore, e in questa reissue la londinese
Critical Heights ne sceglie 38 che l’appassionato o (sventurato) ascoltatore potrà intercambiare a suo piacimento.
(4.5/10)
Antonio Laudazi
Sigha - Living With Ghosts (Hotflush
Recordings, Novembre 2012)
Genere: Techno
Quel che ha spinto Scuba ad accaparrarsi il giovane
Sigha e tirarselo in quel di Berlino non è dato saperlo,
ma di certo il boss Hotflush negli ultimi tempi ha dimostrato lungimiranza, giocando, se non in anticipo, almeno alla pari con i desideri del club teutonico. Lui, con
Triangulation prima e col DJ-Kicks poi, è stato il primo
a smarcarsi dal pantano dubstep e ora il pupillo spinge
a tavoletta sulla autobahn.
La sua è techno sudata e cerebrale, paranoica e senza
fronzoli, fatta di strati programmati, pause and reprise,
dove le ossessioni per la pista hanno un posto più importante di stimoli intellettivi che comunque non vengono trascurati. Mirror e Ascention ricordano l’ultimo
Andy Stott al netto di rassicurazioni soul, ed è qui che
risiedono le angosce e i fantasmi con cui Sigha sembra
convivere. Il disco, del resto, gioca su alienazioni mentali
durissime e intermittenti come la luce di un neon rotto:
Puritan suona come un avvertimento prima d’intraprendere il viaggio, è un rito sciamanico sotto cassa dritta che
trasmette rigore al ballo e all’ascolto. Lo stesso basso killer che ritroviamo in Scenecouple tra ripetizione in levare
e sapienti manipolazioni noise.
A colpire, e in maniera lisergica, sono ancora le iniezioni
di ambient asettica, vicine a quelle usate da Redshape nell’ultimo Square: i cali di tensione sono indotti e
studiati (She Kills In Ecstasy), il cattedralismo dronico e
incensante (Aokigahara richiama persino Tim Hecker).
Un peccato che questa vena venga sacrificata sull’altare
dell’ortodossia techno. Living With Ghosts, infatti, resuscita la durezza e le simmetrie care alla minimal (Hatwin, M_nus o Bar 25 che sia) e disegna uno affresco
dai contorni netti e paranoidi (leggi Shed, Ben Klock
e Marcel Dettmann, quest’ultimo non a caso feticcio
dichiarato dello stesso Scuba). E’ un album funzionale
al club techno di nicchia. 8 euro all’ingresso e buio pesto
in sala. Prendere o lasciare.
(7/10)
Mirko Carera
Sikitikis - Le belle cose (Autoprodotto,
Novembre 2012)
Genere: electro rock
I Sikitikis tornano dopo due anni di assenza con un disco, Le belle cose, che riprende il discorso là dove il precedente Dischi fuori moda lo aveva lasciato. Una ricerca
in continua evoluzione, che prosegue spedita intorno
a quei territori rock/psych che caratterizzano il gruppo
fin dall’esordio (Fuga dal deserto del Tiki) e che si ritrova,
declinata in più soluzioni - elettronica in primis -, anche
in questo terzo album. Come a dire: la sostanza, l’essenza
vera della musica dei Sikitikis è soprattutto nel riuscire a
far convivere - rigorosamente senza chitarre - gli aspetti
più contorti e straripanti del rock con un mix di generi
che varia dal jazz al funk, dal punk al prog, senza mai
tener conto delle categorie precostuite.
Il cocktail lo ritroviamo anche in Le belle cose, a cominciare dalla title-track, introduzione afrobeat trascinata
dall’incedere funky dei synth, mentre La mia piccola rivoluzione continua su toni electro 80s uniti all’orecchiabilità del ritornello. La divertente marcetta di Soli, a cui
partecipa la cantante reggae Sista Namely, è un surfpop in acido subito rovesciato dalle pulsazioni ambient
di un Aria in cui riecheggia la lezione dei Radiohead di
Kid A. Si procede poi con La casa sull’albero e Hey tu!, altri
episodi in bilico tra spensieratezza anni ‘60 e tastiere,
con la chiusa affidata all’anima latina di Amori stupidi,
perfetto retro-pop italiano unito alla vocalità sempre
incalzante di Alessandro “Diablo” Spedicati.
Le belle cose è un album che vive di citazioni - dichiarate, esplicite, riconoscibili - e che passa con grande
disinvoltura dal cantautorato blues di Bennato e Rino
Gaetano, ai classici di Celentano, alla fisicità del punk
unita all’eclettismo del jazz. Il tutto legato, rimasticato e
buttato fuori da quella massiccia dose di ironia e sberleffo che da sempre contraddistingue la band. (7.1/10)
Giulia Antelli
Snow Palms - Intervals (Village Green,
Novembre 2012)
Genere: modern classical
Un carillon impazzito di marimbas, xilofoni, vibrafoni e
glockenspiel che tratteggia mini-suite tra minimali orchestrazioni da camera, folk stranito e cantilene afone su
cui si stratificano elettronica scarna, nebulose di suoni e
corde pizzicate in punta di dita.
Intervals è tutto questo, niente più, niente meno. Piccoli
sketch di romanticismo algido e sognante (post)elettronica appannaggio della sigla dietro cui si nasconde David Sheppard - titolare del progetto - e il collaboratore,
non si sa quanto occasionale a questo punto, Chris Leary
aka Ochre.
Musica minima che gioca di stratificazione e accumulo senza mai risultare eccessiva, che prende da mondi
diversi - Yann Tiersen e Reich, Moondog e Riley, poliritmie esotiche e le musiche filmiche di Philipp Glass
- per amalgamare il tutto in un concentrato umorale e
ondivago, a tratti melanconico, spesso giocoso, che si
sviluppa quasi sempre con tonalità soffuse e tinte tenui.
Un album che passerà inosservato per la sua inclassificabile stravaganza, ma che non mancherà di lasciare un
segno nei coraggiosi che ci si cimenteranno. In the night
time, ovviamente. (6.8/10)
Stefano Pifferi
Soundgarden - King Animal (Universal,
Novembre 2012)
Genere: grunge
Quando Chris Cornell e compagni si sono sciolti negli
anni ‘90, in fondo non avevano lasciato nulla d’intentato.
La loro parabola creativa era giunta al termine per naturale esaurimento. A un ascolto attento, e non influenzato
dall’entusiasmo per quello che era stato Superunknown,
in Down On The Upside risultava evidente una certa usura
del loro armamentario musicale, che poi era quello di
tutto il genere che avevano contribuito a ispirare. Piuttosto che fare altri dischi di routine scelsero di sciogliersi,
una decisione saggia e di una certa onestà intellettuale. Come si fa a riaprire, quindici anni dopo, un discorso
chiuso in questo modo?
Se escludiamo ragioni essenzialmente economiche che
ci possono stare, l’operazione comeback più ancora che
di revival sa di commemorazione, se non altro perché il
ritorno dei Soundgarden si è sovrapposto al ventennale
di Nevermind dei Nirvana e ai vent’anni di carriera dei
Pearl Jam. Un modo per dire che c’erano anche loro,
oppure la dimostrazione che il grunge è ormai un genere storicizzato; al di là di una breve stagione e dei suoi
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interpreti originari non ha saputo produrre una degna
continuazione.
Tranne in casi di nadir estremo, e questo non lo è, spesso i “ritorni” discografici non aggiungono e non tolgono
nulla alla carriera dei titolari. Di fatto, sono dischi superflui. King Animal è un album troppo lungo, alcuni brani
si potevano tranquillamente sforbiciare. Per il resto, i
Soundgarden ci provano. Bisogna riconoscerlo. Provano a fare cosa? Ad aggiornarsi, o meglio a riproporsi in
modo credibile.
Il loro sound era già di per sé il frutto di un’operazione
di aggiornamento dell’hard rock degli anni ‘70 rispetto
a ciò che era venuto dopo: il punk, la new wave e l’indie
rock americano degli anni ‘80. In Screaming Life i riff
cavernosi dei Black Sabbath e il dinamismo ritmico/chitarristico dei Led Zeppelin andavano a braccetto con un
art rock abrasivo, derivato dal dark punk britannico e
dalle tossiche rivisitazioni post-punk di scuola SST (Black
Flag) e Touch And Go (Die Kreuzen, Killdozer, Butthole
Surfers). Ultramega OK metteva curiosamente in evidenza le radici blues dello stesso sound, Louder Than Love
era una sorta di disco a doppio taglio, che giocava in
modo ambiguo con gli stereotipi del metal, quanto Badmotorfinger plasmava in una direzione più psichedelica
e progressiva il loro stile ormai maturo: un power rock
alternativo di cui Superunknown incarna invece il classico, apogeo di un tardo suono di Seattle prossimo alla
fine. Da dove si riparte quindici anni dopo?
Le premesse non sono granché. La copertina è un funesto presagio, anche se le scelte di grafica e videoclip del gruppo sono state spesso brutte e kitsch: è un
elemento di continuità con il passato di cui avremmo
fatto a meno, ma per altri versi è un tratto familiare da
cui riconosciamo in filigrana la vecchia e cara band. Il
singolo pomposetto e autoindulgente, Been Away Too
Long, concessione al riff troppo facile e al boogie metal
più dozzinale, è una parentesi fortunatamente chiusa
già al secondo pezzo. Non-state Actor e By Crooked Steps
sono due brani molto più dinamici e interessanti, specialmente sotto il profilo strumentale, intendendo anche
la voce tenorile di Cornell come uno strumento insieme
alla chitarra di Thayil e alla fondamentale sezione ritmica di Cameron e Shepherd. Sono anche i pezzi in cui i
Soundgarden sembrano rendere meglio come band e
reinventarsi partendo dal loro versante più progressivo e psichedelico. Su questa falsariga, A Thousand Days
Before è la canzone più piacevole e sorprendente: il suo
raga-rock suona come un omaggio alle indimenticate
origine indiane di Thayil ma anche al lato più curioso e
lisergico dei Soundgarden. Il dinosauro si è scrollato un
po’ d’anni dal groppone? Sarebbe bello.
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In realtà, nel blocco centrale del disco le cose vanno
meno bene, anche se si naviga a vista senza veri scivoloni. Il quartetto specula sul proprio stile classico e maturo in Blood on the Valley Floor, Bones of Birds e Taree. È
un episodio estemporaneo ma gradevole Attrition, un
ibrido indie rock che ricorda i Dinosaur Jr. La parte conclusiva è quella che, francamente, ci convince di meno.
Nel grunge semiacustico di Black Saturday e nel folk pop
di Halfway There sembra di ascoltare un disco solista di
Cornell con gli altri ridotti a backing band. Worse Dreams
si salva in corner con il rovente finale psichedelico. Gli
ultimi due pezzi, no: parliamo dei Black Sabbath virati
soul (in verità, un mezzo pasticcio) di Eyelids Mouth e di
Rowing, una specie di mantra-blues tirato troppo per le
lunghe. Nel complesso, basta per sfiorare una sufficienza
risicata, peccato per i buoni spunti che la prima parte
lasciava intravedere.
(5.9/10)
Tommaso Iannini
Starred - Prison To Prison EP (Pendu
Sound, Novembre 2012)
Genere: narcotic-dreamfolk
Ennesima coppia uomo-donna a rischio hype? Ennesimo
progetto con base a Brooklyn? Sì, ma non solo.
Il progetto Starred ruota attorno alla figura di Liza Thorn
e alle intuizioni di Matthew Koshak. Liza, californiana,
cresciuta a San Francisco ed emblema di eccessi autodistruttivi, per un periodo è stata la Courtney Love
dell’ex-Girls Christopher Owens (quando i due si facevano chiamare Curls).
L’EP Prison To Prison arriva dopo il singolo (escluso dalla
tracklist) No Good, accompagnato da un video che rende
bene l’idea delle suggestioni che il duo è in grado di
creare. Sei tracce per circa venticinque minuti di musica,
Prison To Prison EP si apre con l’ottimo biglietto da visita Call From Paris: chitarra acustica ed echi dream... un
incrocio tra desolazione country-folkish e statiche atmosfere narcoticho/funeree. Pensate alla EMA di California
che gioca con i Mazzy Star.
La successiva e spiazzante Sure Bet muove le carte in tavola portando drum beats incalzanti e riff elettrici che
forse stonano all’interno di un set che torna sulle lande
desertico-oniriche già con la successiva La Drugs: tappeto di organi, lullaby-piano e una chitarra che a metà
del brano sfocia in un lancinante e spettrale mini assolo.
Aperture vicine al fuzz-pop (hanno aperto per le Dum
Dum Girls di recente) in Commitee, e lento e lugubre
crescendo dream-folk - con intro Badalamentiana - in
direzione spazio in Cemetery. Chiude Light, ipnotica meditazione strimpellata.
Evocativa e senza tempo, la musica contenuta in Prison
To Prison EP non lascia indifferenti: uno di quegli esordi
in grado di attirare l’attenzione all’istante. (7/10)
però è spesso dietro l’angolo ed è un peccato, soprattutto considerate le qualità dei singoli e la produzione
di Ruckspin, che speriamo essere più presente in futuro.
(6.5/10)
Riccardo Zagaglia
Riccardo Zagaglia
Submotion Orchestra - Fragments
(Exceptional, Dicembre 2012)
Genere: downstep / nu jazz
Taylor Deupree - Faint (12k, Novembre
2012)
Genere: ambient / field recs
Finest Hour - l’album di debutto della Submotion Orchestra - lo scorso anno non è stato incluso nelle yearend charts più quotate, ma più o meno tutti quelli che
lo hanno ascoltato ne hanno tessuto le lodi.
Nata nel 2009 a Leeds su commissione della Arts Council,
la band è formata dal batterista jazz Tommy Evans, dal
percussionista dal tocco latino Danny Templeman, dal
bassista Chris Hargreaves, dal tastierista Taz Modi, dai fiati di Simon Beddoe e dalla voce di Ruby Wood, laureata
al Leeds College of Music’s con formazione jazz. Dirige
l’orchestra mister Dom Howard aka Ruckspin, ovvero
metà del progetto chillstep Author. Detta così è facile
pensare alla cocktail music da Buddah Bar.
In un certo senso è così: la Submotion Orchestra parte dalle diramazioni cool-chic anni ‘90 e le modernizza
con sonorità contemporanee. Nel secondo album Fragments abbiamo infatti un concentrato di frammenti vellutati figli dell’acid e del nu jazz, battute lente tra downtempo (Zero 7) e certe cose trip hop (Morcheeba) e la
profondita dei bassi dubstep. E’ chillstep che non disdegna il drop: provate ad togliere mentalmente tutta la
componente beat e wub-centrica da brani come Fallen,
rimane un pop da locale jazz, con tutti i pro e i contro
del caso.
It’s Not Me, It’s You è un misto tra trance-voices, SBTRKT e
impianto jazzy di chitarra e tromba, Thousand Yard Stare
è puro dubstep, privo dell’aurea dui Ruby Wood ma arricchito da fiati sbilenchi, impro pianisitici ed archi, mentre
ad ampliare ulteriormente la contaminazione temporale
ci pensa lo spokern-rap di Rider Shafique che sul finale
di Times Strange riporta la mente ad alcune cose di Roni
Size & Reprazent senza ritmiche d&b. Nella conclusiva
Coming Up For Air troviamo infine anche sonorità orchestrali con crescendo quasi post-rock (vagamente The Cinematic Orchestra se vogliamo). Il brano simbolo del
set è probabilmente Blind Spot con Roby protagonista
(ma sempre in bilico tra sublime diva soul e vocalist da X
Factor), basso che cresce sottopelle, giri che aumentano
ed esplosione droppata con l’arrivo della batteria.
Quando tutto torna ed è calibrato nel modo giusto la
Submotion Orchestra riesce a creare un gioco di atmosfere piuttosto intrigante, il rischio stucchevolezza
Deupree ha dimostrato con Northern di saper trattare
le sostanze musicali sottilissime e delicate. E di avere la
competenza per far abitare il “minimalismo digitale” con
la musica concreta. Sono passati sei anni e la pasta della
musica dell’elettroacustico di New York non ricerca molte differenze: i suoni sono trovati, il retroscena riecheggia
Brian Eno e il ciclo di passaggio da musica da ambienti
/ musica da pensiero / generativa. Faint è “ontologicamente”, per usare un termine speso dallo stesso autore,
fatto di quella consistenza dell’incapacità di capire se si
è nella veglia o nel sonno.
Quello stato ha una peculiare sostanza e l’ultimo album
di Taylor ne va in cerca. Sarebbe molto comodo fare
scorrere le metafore, cosiccome Taylor fa scorrere i field
recording sul tappeto pseudo-generativo dell’ambiente
musicale. E dato che il musicista non ne risparmia nella
descrizione testuale del disco, né usando altri supporti: la versione Deluxe di Faint è un box che comprende
anche un bonus CD contenente la versione estesa (38
minuti) di Thaw - uno dei brani originariamente sviluppantesi in 11 minuti e mezzo di classica ambientale - ma
soprattutto un set di riproduzioni di 12 foto che Deupree
in persona ha scattato con una macchina fotografica di
plastica.
Anziché cedere alle metafore e agli aggettivismi, citiamo
una similitudine: chi ha mai fatto un esercizio di campionamento, magari di quelli scientifici, da archeologo,
strappi da parete o cogliere da terra un pezzo di arbusto o una ceramica da catalogare e categorizzare, sa benissimo che la sostanza che ci si trova in mano appare,
un istante dopo averla “rubata”, fragilissima. Come se si
rompesse al solo sguardo. Così l’ambientazione elettronica che Deupree allestisce per i suoi suoni: è come se
cercassero di contenerne l’indole a scomparire. Come in
una campana di vetro.
(7/10)
Gaspare Caliri
The 1975 - Sex EP (Vagrant, Novembre 2012)
Genere: post r&b o pop-rock
L’attuale scena mancuniana ha bisogno di almeno due
o tre nomi in grado di portare nuovamente Manchester
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tra le grandi capitali della musica. Secondo alcuni uno di
questi potrebbe essere quello dei The 1975, quartetto
guidato da Matt Healy che sembra destinato a generare
un discreto buzz nei prossimi mesi.
Il progetto di realizzare tre EP prima del debutto lungo
atteso per il 2013, ha già dato alla luce gli extended play
Facedown (uscito questo agosto) e il recente Sex. Due
EP sicuramente non ancora abbastanza esplicativi e non
ancora in grado di definire la loro direzione musicale:
in poche parole, in tutta onestà, non ci ho capito nulla.
Sex EP propone ad inizio tracklist Intro/Set 3, un liquido
e sospeso battito elettronico sulle quali si armonizzano
diverse voci e loops a creare qualcosa di non troppo lontano dal concetto di post-r&b. Undo, la seconda traccia,
sembra confermare una proposta sonora che propende
verso un pop piuttosto slow, filtrato da un comparto di
beats che ruota attorno all’universo nu r&b. Il risultato,
nel complesso, convince.
Proprio quando sembra di essere di fronte ad una versione radiofonica di How To Dress Well, arriva l’uptempo
power-pop Sex e pensi di aver inserito per sbaglio un cd
dei Bloc Party (nell’attacco), un cd dei Jimmy Eat World
(nella strofa) o di qualche pagliaccio “emo”-pop (nel ritornello): Sex è praticamente l’opposto musicale di Undo,
sotto tutti i punti di vista (approccio, influenze, strumenti
e vocalità). La conclusiva You invece va a parare su coordinate pop rock in zona Snow Patrol/Coldplay.
Attualmente in studio con Mike Crossey (Arctic Monkeys,
Foals, Razorlight), a questo punto per i giovanissimi The
1975 le strade percorribili sono due: tentare di seguire
la scia della scena alt-r&b o buttarsi completamente sul
pop-rock da classifica. Scopriremo presto quale sceglieranno, ora come ora siamo al cospetto di una grande
incognita.
(6/10)
Riccardo Zagaglia
The Ex/Getatchew Mekuria - Y’Anbessaw
Tezeta (Terp, Novembre 2012)
Genere: world
Non ti guadagni il titolo di “negus del sax” a caso. Te lo
guadagni perché hai più di 75 anni e un sacro fuoco che
arde dentro. Che ti porta a scrivere musica nonostante
l’età, nonostante un passato burrascoso, nonostante
il (metaforico) bastone che porti per sostenerti. E per
fare la tua musica, che è un messaggio universale senza
tempo né spazio, riesci perfino ad unirti ad un gruppo
di punk anarchici olandesi, per un clash of the titans, per
non dire di culture, storie, mondi, che ha dell’incredibile.
Così come dell’incredibile ha la musica che fuoriesce da
questa ennesima perla di un mondo trasversale, globale
92
nel senso più puro e genuino del termine, figlio di quel
melting pot culturale che tanto apprezziamo e che invece spesso se non sempre viene sacrificato sull’altare
del mercimonio.
Jazz etiope, malinconico e corale, furioso a tratti e delicato sempre più spesso, etnico senza essere popular e avanguardistico senza perdere in immediatezza,
world nel senso più sano, come se il neologismo glocal
prendesse finalmente un senso in forma musicale. È un
mondo in apparenza a noi alieno, distante nello spaziotempo ma vicino antropologicamente. Un mondo in cui
convivono tracce di “blues etiope”, tezeta e jazz spirituale
della prima ora in forme rielaborate e personali, ma che
siamo in grado di apprezzare e decodificare, poiché ci
dimostra come la musica sia un linguaggio universale
che solo le sovrastrutture ci hanno insegnato a suddividere e recintare. Noi e loro, occidente e oriente, di là e di
qua diventano ad un tratto, mentre si ascolta e si sfoglia
il corposissimo booklet con foto e interviste, mere speculazioni prive di senso, specie quando in un folgorante
b/n di Matìas Corral ti ritrovi sul palco quattro anarcopunk olandesi in posa a gambe aperte e chitarre altezza
ginocchio e il negus lì con loro, fasciato nei vestiti della
sua tradizione e inforcato il sax come fosse una chitarra,
nella più totale normalità.
Gente che non comunica a parole (Getatchew speaks
Amharic and a tiny bit of English and we speak english
and dutch and a tiny bit Amharic. This made work in the
rehearsal space a interesting challenge, Andy dixit) ma col
linguaggio atavico della musica. Ed è lì che il miracolo
avviene di nuovo, come sempre. Che assuma le forme
della wedding song, del tradizionale folk, del canto guerresco, della marcia funebre arricchita di tantissimi fiati,
dell’incontro tra bianchi e neri poco cambia. La musica
è un messaggio universale, specie se proviene dalla sapiente saggezza di un vecchio figlio della grande madre
Africa da dove tutto parte.
(7.8/10)
Stefano Pifferi
The Herbaliser - There Were Seven
(Department H, Ottobre 2012)
Genere: hip hop / jazz funk
Torna dopo quattro anni l’hip hop suonato dei londinesi
Herbaliser, Jake Wherry e Ollie Teeba. Storicamente accasati Ninja Tune, dopo il passaggio su !K7 di Same As It
Never Was, pubblicano questo There Were Seven in odore
di celebrazioni sulla personale Department H, settimo
album in studio in diciassette anni di attività e settima
release, la prima maggiore, della label (attiva dal 2000
ma con uscite centellinate).
La miscela è la solita: calchi di colonne sonore black/
Blaxploitation (e tutto il disco è intriso di omaggi e ammicchi cinematografici, vedere anche solo la penultima
traccia Danny Glover), cremosità downtempo, densi fiati
e robuste sezioni ritmiche jazzfunk. Titoli di testa e di
coda epici che piacerebbero tanto a Tarantino e RZA,
l’ottimo esperimento reggae/dub di Welcome to Extravagance, le atmosfere da trip hop felino di The Lost Boy, il
basso pulsante e gli scratch di Crimes & Misdemeanours,
l’afrofunk/noir di Deep in the Woods, il tutto elegantemente e orgogliosamente - le note stampa parlano di
un time-out from the tinny, uninspiring, auto-tune-infected
world of today - fuori dal tempo, diciamo anche datato,
ma in senso buono. Ottimi tutti i feat (Hannah Clive, George the Poet, Teenburger, il duo canadese Twin Peaks),
per un disco di genere classico, condotto con equilibrio
e mestiere, ma sorprendentemente fresco e succoso.
(7/10)
in un assolo psy-blues di derivazione sixties. Le aperture
al pop sono maggiormente evidenti nella patinatissima
Sweater Weather (nella strofa il rischio è quello di avvicinarsi pericolosamente The Script), graziata da suggestioni acustiche affogate in un mare di “ouh-ouh-ooohh”.
Chiude l’orecchiabile Wires: voce filtrata, ritmica hip hop
da movimento cranico e chorus appicicoso (“If he said
help me kill the president, I’d say he needs medicine”).
I’m Sorry... è un biglietto da visita dal contenuto anche
interessante - probabile che finiscano in qualche lista
“new acts 2013” - ma tipografato su del materiale da
centro commerciale.
(5.8/10)
Riccardo Zagaglia
The Rust And The Fury - May The Sun Hit
Your Eyes (La Fame Dischi, Settembre 2012)
Genere: garage/roots rock
Eccoli i The Rust And The Fury, formazione umbra con
alle spalle quasi dieci anni di attività ma con un esordio,
appunto May The Sun Hit Your Eyes, uscito solo a settemThe Neighbourhood - I’m Sorry... EP
bre scorso per La Fame Dischi/Cura Domestica. Un per(Columbia Records, Novembre 2012)
corso inconsueto quello dei cinque ragazzi di Perugia,
Genere: pop rock / hip&b
Continuiamo il focus sulla scena indie->mainstream caratterizzato da diversi cambi di formazione e dalla
della costa ovest degli USA. Dopo Imagine Dragons, volontà di staccarsi dal repertorio originario, virando
Youngblood Hawk e The New Electric Sound è il mo- decisamente verso i territori più schietti del rock.
Siamo infatti dalle parti di un disco che si rifà tanto al
mento di parlare dei The Neighbourhood.
Guidati dal pseudo-attore Jesse James Rutherford, i blues elettrico di Neil Young (e al suo nutrito esercito
cinque giovani californiani hanno saputo in breve tem- di eredi/epigoni) quanto al revivalismo garage-wave
po catalizzare l’attenzione di un certo tipo di pubblico di inizio secolo. Gli otto brani della tracklist si reggono
ed i favori delle emittenti radio sia al di qua che al di là su una volontà cantautorale consapevolmente tenuta
sottopelle e immersa nell’adrenalinica tensione delle
dell’oceano.
Rutherford non nasconde la propria passione per l’hip chitarre: quello che succede nell’iniziale Roundabouts,
hop (prima dei The Neigbourhood faceva parte di un buona melodia ben amalgamata all’incedere noir del
gruppo rap) all’interno dell’EP di debutto I’m Sorry... nel pezzo, o nella successiva Francis With God, con il suo requale cercano di presentarsi al mondo attraverso cinque frain catchy (Arcade Fire?) intrecciato alle voci di Daniele
tracce piuttosto esplicative delle peculiarità e delle vel- Rotella e Francesca Lisetto. Voce femminile protagonista
anche in Laughing For Nothing, con il suo synth-wave in
leità della band.
La linea dei The Neigbourhood insegue quelle band in aria psych in cui il controcanto fra le due chitarre tesse il
grado contemporaneamente di proporsi con sonorità crescendo finale del pezzo. C’è anche spazio per accentanto personali quanto astute a livello di music business. ti maggiormente southern come in Keep On e She Was
Un po’ come degli Alt-J deturpati della credibilità artisti- Too Late, con un intimismo (espressamente debitore al
ca, la band ci consegna cinque tracce sospese tra “indie” sopracitato Young) che rimanda al classic rock dei Band
Of Horses. pop-rock, calore r&b-soul e cadenze hip hop.
Female Robbery, accompagnata da un video Hitchco- May The Sun Hit Your Eyes è un album che vive di stratifickiano, evidenzia la produzione di Emile Haynie, tanto cazioni sonore, variazioni dark e riverberi accuratamenche risulta facile ritrovare suoni (le bells per esempio) te elettrificati che si rivelano ascolto dopo ascolto. Un
e scelte stilistiche già cucite addosso a Lana Del Rey. esordio nel complesso piuttosto maturo che, pur non
Batteria a scandire il ritmo del chill-rock vagamente late presentando niente che non sia stato già visto e sentito,
‘90s di Leaving Tonight e delle battute downtempo della risulta comunque godibile. (6.7/10)
strofa di una Baby Come Home che finisce per riversarsi
Giulia Antelli
Gabriele Marino
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Three Second Kiss - Tastyville
(Africantape, Novembre 2012)
Genere: mathrock
Throbbing Gristle/X-TG - Desertshore - The
Final Report (INDUSTRIAL RECORDS Ltd.,
Novembre 2012)
Si potrebbe riaprire l’infinito casus belli della “morte del Genere: Industrial
(math)rock” parlando dell’album numero cinque (e mezzo) del trio italiano. Riproposizione di uno standard ormai storicizzato o necessità di sorprendenti svolte a gomito? Nessuna delle due ed entrambe, perché nel caso
dei bolognesi Three Second Kiss la classe non è mai stata
acqua e i tempi geologici che Sergio Carlini, Massimo
Mosca e Sasha Tilotta mettono tra una uscita e l’altra ne sono già passati quattro di anni da Long Distance, per
dire - stanno a significare riflessione e approfondimento,
lavoro incessante sulla propria materia musicale e continuità. E così se per incensare l’album precedente ne
parlavamo come dei nuovi Shellac, non per paragonare
i tre al trio americano, quanto per dimostrarne coerenza
e spessore, ora ci ritroviamo nel mezzo del guado.
I TSK sono quelli che conoscevamo: nervosi, mathematici, accesi dal sacro fuoco dell’irrequietezza e della spigolosità, ma questa volta sono anche altro. Più ragionati, a
volte melodici, si direbbe, di sicuro meno irruenti e affilati, specie nelle timbriche delle chitarre di Carlini (che
c’entri l’esordio in solo con Jowjo?). Sempre alla ricerca
di una quadratura ormai nota tra pancia e cervello, tensione e rilascio, ma che stavolta tende verso lande più
evocative e meno dirette. Arzigogoli e melodie che si
rifrangono e ricompongono appoggiati su una sezione
ritmica mai come ora all’unisono, con connaturate tracce
di un qualcosa di sognante e romantico.
L’opener Caterpillar Tracks Haircut con quell’organo che
più datato e fuori fase non si può, mette già sull’avviso:
gli intarsi chitarristici e l’indolenza vocale di The Sky Is
Mine a far da presagio al crescendo tempestoso della
parte centrale o le tessiture a incastro dei migliori June
Of 44 rese sotto la lente dell’indolenza, prima, e della
cavalcata tempestosa, poi (A Catastrophe Outside), la
sad-mathy-song In Winter, The Sun Shines Over The Bridge,
sono alcuni esempi di un lavoro prezioso e elaboratissimo. Che sceglie la via della ricerca e mai si adagia sul
già fatto ma allunga lo sguardo verso nuove modalità.
La “convocazione” per l’ATP festival di fine mese non è
che l’ennesima dimostrazione di una stima guadagnata
senza sbandierare nulla, a parte la propria classe.
(7.3/10)
Stefano Pifferi
94
È doloroso tornare sulla vicenda Throbbing Gristle, innanzitutto perché è la storia della band ad essere caratterizzata da profonde lacerazioni sia umane che musicali. Nei TG, vita, morte e musica sono sempre stati un
tutt’uno, così come le scelte dei componenti della band,
sempre urgenti, estreme, massacranti. L’intera vicenda
della formazione britannica si può così riassumere in un
grande taglio sulla tela. Una storia di final report, missioni di anime morte, scelte radicali dalle quali non si può
tornare indietro. E nondimeno la vicenda di quattro persone umanamente e artisticamente mosse da altrettanto
vitalistiche scelte di resistenza e desistenza.L’abbandono
di Genesis P. Orridge durante la final leg del tour del
2010 - distrutto da tre anni di lutto per morte di Lady
Jaye - che chiuse definitivamente il capitolo reunion
della band, è stata una mossa in tal senso. È servita
per salvaguardare il progetto dal peggio, tanto quanto
quella di Chris Carter, Peter “Sleazy” Christopherson e
Cosey Fanni Tutti di tenere in vita il cadavere. Dopo l’annullamento della gig di Praga e la conferma al Festival
Gender Bender di Bologna, la nuova formazione si battezzava quell’anno X-TG, lo stesso nome sotto il quale
esce questo doppio album inizialmente - ed erroneamente - accreditato alla sigla Throbbing Gristle. Quella
sera, all’Arena del Sole, c’eravamo, e abbiamo assistito a
un concerto con Carter e Fanni Tutti ai 4/4 e droni, e con
un Christopherson attrezzato di theremin, voci filtrate e
altri strumenti a fiato autocostruiti. Uno show musicalmente vario e d’esperienza, con rigurgiti di D.O.A., già a
suo tempo “bollettino finale”, eppur privo degli strappi
e delle lacerazioni psycho-horror-thrilling che le gig a
quattro erano in grado di garantire con lancinante - e
quasi masochistica - precisione (zenit puntualmente
raggiunto durante la trasmissione dei vecchi filmati del
COUM Transmission).L’affresco della data bolognese era
stata una sintesi delle recenti evoluzioni dell’industrial
originaria con le varie correnti art-techno, isolazioniste,
elettroacustiche, noise, drone ottimamente metabolizzate, ma anche un bel film senza reali presupposti. Lo
stesso lungometraggio a cui assistiamo oggi nel commiato The Final Report, inciso tra il 2009 e il 2010 negli
studi di Norfolk, e nell’omaggio al Desertshore di Nico,
diverso per formato (canzone), approccio (industrialtechno-pop-rock) e ospiti al canto (Antony di Antony
and the Johnsons, Marc Almond, Blixa Bargeld degli
Einstürzende Neubauten, l’attrice Sasha Grey e il regista Gaspar Noé) ma pressoché identico nei risultati
artistici.Come i Battles di Gloss Drop, ovvero la band
al netto del solista ad apparecchiare le scenografie e i
cantanti/guest star ad interpetare se stessi, gli X-Tg del
cover album allestiscono un all star set industriale per il
pubblico industriale di ieri e di oggi. L’idea del lavoro era
nata dal solo Christopherson nel 2006 a Berlino e doveva
trovare attuazione nel dicembre di quel fatidico anno
con le musiche che Chris & Cosey preparono alla fine del
tour. Morto Sleazy, la coppia ha concluso il lavoro chiamando gli amici di una vita a omaggiarlo. A conti fatti,
il lavoro non sfugge ai limiti delle operazioni di questo
tipo. La performance di Bargeld risulta la più intensa e
carismatica (Abschied, Mutterlein), Marc Almond è bolso
(The Falconer), Antony, al solito, bravo, ma nessuno di
loro ha cantato Nico come se non ci fosse un domani.
Gen lo avrebbe fatto.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
Tre Allegri Ragazzi Morti - Nel giardino
dei fantasmi (La Tempesta Dischi, Dicembre
2012)
Genere: dub-etnico
Ci era piaciuto e non poco, I primitivi del futuro, soprattutto perché sanciva la svolta reggae-dub del gruppo
di Pordenone - a suo modo storica, se pensiamo alla
produzione precedente - pur mantenendo integro il
DNA originale della band. Diversi eppure sempre riconoscibili, i TARM, come ben sottolineava anche un Enrico
Molteni intervistato in quei giorni: «È come cambiare abbigliamento a una persona. La persona è sempre la stessa, anche se con colori e taglie nuove. I Tre allegri ragazzi
morti rimangono (anti)eroi nemici delle convenzioni anche
quando suonano in levare». Quel disco sparigliava le carte
in maniera consapevole, affiancando ritmiche giamaicane e bassi corposi a uno stile essenziale ma sufficientemente elastico da poter accogliere senza crisi di rigetto
i nuovi input.
Nel giardino dei fantasmi, nonostante quanto si dice
in giro, non è l’ennesima inversione di marcia della formazione. L’etnico di cui si parla nei comunicati stampa
o nelle anticipazioni web è meno di una rivoluzione, al
massimo un aggiustare il tiro che arricchisce di nuove
sfumature un suono già fatto e finito (nel disco precedente). Quel che accade, ad esempio, in una Come mi
guardi tu fondamentalmente dub nelle atmosfere - seppur con una ritmica peculiare - ma attorcigliata a un riff
ripetuto di mandolino. Se di etnico si deve parlare, allora,
lo si deve fare chiamando in causa più un’attitudine generalizzata, che uno stravolgimento estetico palpabile:
quella, si, presente e rintracciabile nella scansione dei
tempi legata al sound africano, in strutture musicali circolari e soprattutto in testi basati su un call and response di stampo quasi blues-tribale (la già citata Come mi
guardi tu, Alle anime perse, Bene che sia, E poi si canta, Il
nuovo ordine).
Semplicità concettuale da un lato, produzione efficacissima - quella del Paolo Baldini già in regia per I primitivi
del futuro - dall’altro: queste le due direttive principali lungo cui ci si muove. Per un lavoro che, oltretutto,
mette in mostra più TARM “tradizionali” rispetto al disco
precedente, seppur aggiornandoli al nuovo corso: l’adolescenza dissotterrata a suon di chitarre elettriche ne I
cacciatori, una Bugiardo che monta un punk sui generis
su basi ritmiche dispari, il rock un po’ Violent Femmes/
Zen Circus de La via di casa, il sound vagamente beatlesiano di Di che cosa parla veramente una canzone?.
Innegabilmente pop, al cento per cento TARM, apparentemente meno ideologico e schierato rispetto al precedente, Nel giardino dei fantasmi è un disco solido, ben
suonato e che cresce con gli ascolti, pur non rappresentando, nell’ottica della storia del gruppo, un passaggio
epocale.
(6.9/10)
Fabrizio Zampighi
Two Fingers - Stunt Rhythms (Big Dada
Recordings, Ottobre 2012)
Genere: bass-hop
Amon Tobin si rimette a fare le cose da solo nel secondo disco Two Fingers, abbandonando il compagno di
ventura Joe Chapman aka Doubleclick, che collaborava
al progetto nelle sue prime fasi, risalenti al 2006 e sfociate nell’omonimo e interessante esordio del 2009. L’act
dovrebbe mostrare il Tobin che punta alle sonorità declinate nel più ampio spettro UK Bass, il “lato continuum”
della proposta più seria e di ricerca che il musicista professa con il vero nome.
Se fosse per la prima metà del disco (per lo meno fino
a Razorback) si potrebbe anche pensare di avere per le
mani un disco importante: Stripe Rhythm è slow motion
fidget per i Chemical, Snap una teoria decostruzionista
del vocoderismo hip-hop, Defender Rhythm viaggia in eccellenza sulle acidità di Kid 606 e Bok Bok, Fools Rhythm
è puro anthem post-hop (il pezzo era già stato inserito
nella compila celebrativa del ventennale della Ninja Tune),
Lock86 e Sweden sono Amon in smascellamento ‘90, 101
South mesh-hop con anima e stile.
Poi purtroppo Tobin cede al rimpianto e si mette a risuonare le cose di vent’anni fa - quando ancora girava con il
moniker di Cujo. Un trip-hop sì curato, ma che richiama
un’epoca ormai storicizzata (vedi alla voce Mantronix e J
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Dilla). L’hip-hop strumentale va anche bene ma quando
si vuole strafare e scimmiottare i Beastie Boys (Problem)
od il Mochipet più massiccio e meno breakcore si cade
quasi nel ridicolo.
(6.2/10)
Marco Braggion
Tyvek - On Triple Beams (In The Red
Records, Ottobre 2012)
Genere: garage punk
Si è già detto in queste pagine come i Tyvek, nel giro di
pochi anni, abbiano mostrato due anime distinte: una
weird e abrasiva risalente agli esordi (Tyvek e Fast Metabolism), con singoli fluttuanti tra punk post punk shitgaze e garage, un’altra più noiosa come punkers precisini,
tutti anthem e zero fuochi d’artificio (Nothing fits). A
questo punto On triple Beam, terzo disco, ancora su In
The Red, ne è la prova del nove.
Non essendo cuori impavidi, i quattro se ne escono con
la mossa del pot-pourri: prendono un po’ di questo un
po’ di quello speziando con qualcosa di nuovo, ovvero un’ambientazione ossessiva e reiterante. Le chitarre
spigolano sempre gli stessi giri e per una volta sferragliano senza esagerare con brutture shit/lo-fi, mentre le
ritmiche marciano asfissianti a conferma di una tensione
sempre presente e temperata. Pezzo chiave: l’ingranaggio a ciclo continuo Efficency con echi no wave. E poi
guardare indietro è sinonimo di varietà. A momenti torna una scrittura originale (Little Richard e il suo riuscito
gioco pieno/vuoto), nervosa, sgangherata, con un paio
di immancabili standard punk (al grido di don’t say/don’t
say/don’t say no/just say yeah/yeah yeah yeah) e garage
ricamati a dovere. Nuovo punto di partenza, On triple Beams non fa gridare al miracolo. Si riorganizzano le idee prima di decidere
cosa fare da grandi. Per fortuna, le fondamenta reggono.
(6.9/10)
Stefano Gaz
Underdog - Keep Calm (Altipiani,
Novembre 2012)
Genere: art jazz
Ci hanno messo tre anni a dare un seguito all’esordio
Keine Psichotherapie, segno che questo settetto basato a Roma è di quelli che preferiscono fare le cose per
bene, malgrado l’estro tracotante e l’attitudine impro
che sprizza dai pori del loro sound. Nel quale in effetti
non manchi mai d’avvertire la competizione tra il cerebrale e l’animalesco, tra sfuriata e sfumatura. Anche in
questo Keep Calm - pubblicato in joint venture da Altipiani e MArte Label - si parte da un’impostazione jazz, di
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quello più selvatico ed aperto a qualsivoglia digressione
(come insegna la loro guida spirituale Charles Mingus,
alla cui biografia si sono ispirati per la ragione sociale),
in particolare blues ispido da crogiolo Bad Seeds, l’impudenza crossover dei Primus e il vaudeville desolato
d’un Tom Waits. Non finisce qui però la lista degli ingredienti e delle suggestioni, talvolta così stranianti che un
po’ hai timore di citarli, tipo certo lirismo astruso Jefferson Airplane tra le scorie psych e i fremiti noir di Lundi
Massacre o il rapimento Nico che mette in standby la
nevrastenia post-bop di Revolution Is Subject To Delay.
Aspettatevi quindi un po’ di tutto, in primo luogo una
bravura quasi irritante sugli strumenti (di certo una spanna sopra la media del tipico indie rocker) tra le patafisiche circensi di Empty Stomach, i velluti mitteleuropei di
Soul Coffee, l’incubo rumba di Macaronar. Gli strumenti,
a proposito, sono: trombone, piano, chitarre, violino,
basso, batteria, più le voci opposte e complementari di
Diego e Barbara. Da segnalare inoltre una cover schizoide (tra understatement e isteria) di Cuore Matto, curiosa
ma non imprescindibile, mentre invece è notevole la rilettura di Berlin, come un balocco atavico smontato nei
suoi elementi basali senza perdere il polso di una tenera,
decadente malinconia (stupendo il crescendo bandistico
conclusivo).
Bel sophomore quindi, al quale possiamo rimproverare
solo un pizzico di spirito goliardico di troppo, frutto forse
dell’attitudine alla performance, sensatissima sul palco,
un po’ meno su disco.
(7/10)
Stefano Solventi
Unsolved Problems of Noise - L ‘ombra
delle formiche (Snowdonia, Novembre
2012)
Genere: jazzcore / metal
Quando eravamo giovani ci siamo letteralmente ammazzati di tutto quello che veniva dal post-hardcore,
e quindi tutto l’albero di band di Louisville figlio degli
Squirrel Bait (Slint, Bastro, Bitch Magnet, For Carnation)
e non (Rodan, June Of 44), Don Caballero (e Storm &
Stress), Blind Idiot God, Dazzling Killmen e Laddio Bolocko, i Rapeman/Big Black/Shellac di Steve Albini, Fugazi, NoMeansNo, Jesus Lizard, il jazzcore (Saccharine
Trust, Sabot, la scena italiana con Zu, Demodè/Squartet,
gli Splatterpink/Testadeporcu di Diego D’Agata), ma anche gli Uzeda, i Primus, e su indietro fino a The Process Of
Weeding Out dei Black Flag o a quello che insieme a poco
altro con pari efficacia profetica ci sembrava il big bang
della disintegrazione della forma rock/blues classica in
senso appunto post-rock (almeno di tutto quel post-rock
non elettronicofilo), ovvero il Beefheart strumentale (per
esempio quello semplicemente sorprendente delle outtake di Safe As Milk).
Bene. Tutto questo per dire che abbiamo le orecchie vaccinate ed è proprio cosa rara ormai che noise, jazzcore,
math, post o tantomeno metal tecnico, matematico e
progressivo - abbiamo in testa gli Atheist, ma anche
Dillinger Escape Plan, Commit Suicide e via dicendo tra
mathcore e brutal - riescano a sorprenderci o almeno
avvincerci davvero. E qui arrivano i tre genovesi David
Avanzini, Matteo Orlandi e Mattia Prando, gli Unsolved
Problems of Noise (dal nome di un congresso di matematica applicata ai problemi del rumore), chitarra-batteria-basso ma anche saxtenore-batteria-basso. Sono nati
nel 2005 ma debuttano adesso su Snowdonia in coproduzione con TeslaDischi. Loro dicono di fare post-atomic
instrumental noise e in effetti dietro l’artwork entomologico e geologico come in un mix tra Il Silenzio degli Innocenti e i Ruins di Tatsuya Yoshida (aggiungere prego alla
lista) troviamo qualcosa del genere, ovvero una miscela
di molto di quanto sopra elencato.
Le filiazioni, i riferimenti o almeno i parallelismi sono tutti in bella mostra (Formicazione Parte 1 sembra un pezzo
degli Shellac; la Parte 2, dopo una intro death/prog/freejazz-metal, coi suoi stomp secchi ricorda gli Zu di Tom
Araya Is Our Elvis; riferimento questo obbligato anche per
la successiva Le Pecore Elettriche Sognano gli Androidi?; e
così via), chiaro, ma i ragazzi li conducono e mescolano
ottimamente, con un deciso tocco psichedelico e una
dose di emotività epica che deriva sicuramente da certi
ascolti metal. Non solo assalti hardcore quindi, tra intro
arpeggiate, controtempi, tempi dispari, riff meccanici,
rullatissime a doppiare eccetera che dominano la prima
metà del disco, ma anche la ambience cinematografica,
quasi cameristica, di Una Formica Da Marciapiede; il fumoso jazzblues, quasi morphineano, di L’ultimo Grido in
fatto di Silenzio; l’epico/tragico arpeggio di Dromofobia
Parte 1, che ci ha ricordato tanto - ma proprio tanto - la
Tragic del supertrio Bozzio Levin Stevens; le sognanti
svisate di chitarra di Il Diavolo A4; la bellissima avvincente jam di fusion psichedelica All Jazz Hera, con sfoghi di
jazzcore circense alla Bromio sul finale. Bravi: 7+.
L ‘ombra delle Formiche by Unsolved Problems of Noise
(7.3/10)
Gabriele Marino
Vladislav Delay - Kuopio (Raster Noton DE,
Novembre 2012)
Genere: Ambient-tech
Il discorso in solitaria di pure electronic iniziato con Vantaa continua con Kuopio via Espoo, eppì di transizione tra
la prima e la seconda prova sull’etichetta di Alva Noto. E
Sasu Ripatti su Raster Noton non l’abbiamo mai sentito
così avvincente, sia perché questo lavoro rappresenta un
autorevole punto di continuità all’interno delle fila concrete-conceptual-techno della label, sia per la capacità
del finnico di rinnovare il proprio repertorio partendo
dall’assorbimento/superamento dei canoni architettonici dell’etichetta stessa.
Attraverso le lenti della natia Finlandia e dal solito avamposto fuori dal mondo di Hailuoto, Sasu si sposta su
un’analisi urbanistico sonica osservando Kuopio - una
paradigmatica città finlandese - da un punto di vista organizzativo e di interazione con l’ambiente circostante.
Abbiamo così un lavoro che, pur tenendoli ovattati, aumenta l’intensità nei ritmi e, in continuità con l’approccio
organico del recente corso, presta ancor più attenzione
all’addensamento/dipanamento dei layer sonici.
Sulla spinta subliminare degli stepping della New Wave
Of Techno e della pulsante battuta Footwork troviamo
gli episodi migliori, tutti caratterizzati da serrati loop
ritmici: Marsila porta Alva Noto a Ibiza, Hitto serializza
gli anthem-tamburello di Plastikman, Osottava, traccia
manifesto del disco, svecchia efficacemente alcuni standard del Dalay sound. Le trasfigurazioni tech-house in
salsa artica di Avanne rappresentano senz’altro la parte
più prevedibile. Del resto, già le rienterpretazioni dinamiche dell’esperienza del trio di Von Oswald (Kellute)
godono degli scarti necessari per tenere ben alta l’attenzione come, in generale, le potenzialità e la libertà data
dall’utilizzo dei microfoni a contatto conferisce all’opera
un bilanciamento ottimale tra la severa visione sonica e
l’impro sul 4/4 e oltre.
Rispetto alle possibilità e alle problematiche dei lavori
collettivi del finnico (Vainio personalità troppo forte per
il Quartet?), la nuova fase di Vladislav Delay restituisce
un musicista fieramente finnico, coerente e perciò libero,
preparato. Un adulto che ha trovato una propria ecologia elettronica. Un habitat noto dove non accade mai
quello che veramente ti aspetti che accada.
(7.2/10)
Edoardo Bridda
Wolf + Lamb - Versus (Wolf + Lamb Music,
Ottobre 2012)
Genere: Electro funk
Wolf + Lamb, il duo di Brooklyn mecenate assoluto del
rinascimento house anni 2006/2007 e forte dell’esperienza del Marcy Hotel (come for the music stay for the
life), torna a distanza di due anni dal debut album Love
Someone - accolto con favore da pubblico e critica - e
ad uno da un’ ottima prova su Dj Kicks. In mezzo, live
97
di alta scuola che hanno toccato un paio di volte anche
l’Italia (la Wolf+Lamb night in chiusura al roBOt festival
5 di Bologna) e last but not least pregiate produzioni al
banco mixer per la label che porta lo stesso nome di cui
Soul Clap, sorpresa del 2012, Deniz Kurtel di cui ha prodotto l’ultimo album e, più indietro negli anni, Nicolas
Jaar (Mi mujer l’hanno prodotta loro)
Riunendo in otto tracce amici e componenti della label
newyorchese (Pillow talk, Soul Clap e Voices of Black)
Versus Lp diventa vero un statuto del love movement
promulgato dal duo, una corrente di pensiero nata al
tempo della produzione del sopraccitato lavoro della
Kurtel e di cui dicono “is the evolution of our family, not
only affiliated by name, but constantly working with
each other to grow, produce new sounds and evolve
together” .
L’album riprende e costruisce uno sguardo su pop, soul
e jazz in continuità con le basi house del primo disco.
E quel che ne esce è un suono corposo e conviviale, di
un’eleganza scintillante (ma non fatta di lustrini) che si
tiene ben lontana dal glamour rosa e patinato della 5th
avenue. I ritmi compassati e spezzettati consentono d’inserire più divertissement arricchendo il sound di calde
provocazioni, un humus che attraversa l’album partendo
dalla traccia d’apertura con l’auto-tune (Kanye West dia
un’ascoltatina) e una bassline sospesa tra Prince e Kruder & Dorfmeister (Real Life), ai profumi del Bronx e allo
spoken so eighties di Weekend Affair.
Molte idee sono figlie dell’hip hop pre 2k che ricordano
il funk di George Clinton smussato d’angoli e ovvietà.
Le stesse che fecero da testimone alla nascita del g-funk
di Dr. Dre e di tutto il suono rap West Coast. Inoltre, le
suggestioni depechemodiane di World Turning, sempre
in continuità con il primo album, raccolgono quanto Gahan e soci hanno elaborando fino ad oggi ed, infine, il
tocco deep dai sapori Little Luie Vega e Master At Work,
tra il latino e il balearico, lo ritroviamo in In The Morning.
Il club riposa mentre il Marcy Hotel, l’Hotel vero e proprio
gestito dalla coppia, è protagonista, avvolto, magari, dal
jazz della closing track Close To You che l’ultimo Miles Davis, avrebbe adorato. Wolf+lamb decantano ogni forma
di eleganza in musica, guardando a un pubblico sempre
più maturo. Lo stesso target che ritroviamo nell’ultimo
Temporary Happiness di Mock & Toof, coppia con la
quale Zev e Gadi avevano collaborato in Love Someone.
It’s A Famly Thing.
(7.2/10)
Young Wonder - Young Wonder EP (Feel
Good Lost, Novembre 2012)
Genere: future pop
Giochiamo ad indovina chi. Primo indizio: “duo ragazzaragazzo in zona future-pop con un Ring di mezzo”. Ok, so
già a chi state pensando, ma il secondo indizio vi spiazzerà: “non sono canadesi”. La risposta infatti non è Purity
Ring ma Young Wonder, progetto con base a Cork in
Irlanda, risultato dell’unione tra il beat maker Ian Ring e
la vocalist Rachel Koeman.
L’omonimo EP di debutto, uscito ormai da qualche mese
per la Feel Good Lost Records (che cura anche i numerosi
videoclip), ha l’obiettivo primario di presentare al mondo
il microcosmo sonoro dei due irlandesi e contemporaneamente di farli emergere tra una folta selva di artisti
sotto alcuni aspetti abbastanza simili. L’apertura è affidata completamente a Ian Ring che confeziona un crescendo di due minuti e quaranta (A Live Mystery) prima
di lasciare spazio alla voce di Rachel (come timbro siamo
su coordinate nordiche via Fever Rey/Niki & The Dove/
Karin Park), protagonista in Orange.
In Flesh riescono nell’impresa di utilizzare a loro volta
un sample dei masters of samples The Avalanches (il
classicone Since I Left You) costruendoci attorno un contesto piuttosto interessante. Sono invece beats e bassi
più corposi a sorreggere la strofa, decisamente melodica,
di Tumbling Backwards e le atmosfere piuttosto spettrali
di Pulse che portano a pensare che la vera mente degli
Young Wonder sia Ian, abile nell’impastare pitch-shifted
vocals, tratti glo-fi e intuizioni glitch-hop sotto il segno
delle quattro S (Slow Magic, Sun Glitters, Stumbleine
e Shlohmo). Chiudono l’EP tre remix di Orange, Flesh e
Tumbling Backwards a cura rispettivamente del sopracitato Sun Glitters, Sertone e Daìthi.
Recentemente in Italia per il Club To Club, i poco più
che ventenni Young Wonder hanno già pubblicato in
rete due nuovi brani che dovrebbero anticipare l’uscita
di nuovo materiale: Lucky One (qui aleggia lo spettro di
James Blake) e To You, caratterizzato da aperture pop
non indifferenti. (6.7/10)
sentireascoltare.com
Riccardo Zagaglia
Mirko Carera
98
99
Gimme Some
Inches #32
Mp3, cassette, vinili a 10 e 12 pollici, split, cd-r...anche questo mese
non ci facciamo mancare nessuno dei formati “minori”. Con Morose,
HTRK, Holy Hole, Sonic Jesus, Dispo and so on
Partiamo dall’impalpabile, questo
mese, per passare via via in rassegna
una serie di uscite in formati come
cassette e 12” considerati “minori”
ma non per questo meno intriganti. Affidano alla volatilità dell’mp3 il
loro esordio gli Holy Hole, duo italico di cervelli in fuga verso Berlino.
Chitarre e loop montanti per una
drone music virata al nero che ha i
suoi buoni momenti ritualistici (Excerpt #3) ed evocativi, senza perdere
di vista la materialità del suono alla
maniera di un BJ Nielsen. Dote mai
abbastanza apprezzata.
Salendo sul versante delle cassette, incontriamo una vecchia conoscenza. Nicola Giunta, prima con
summerTales, poi in solo, è ormai
presenza fissa qui da noi. Ora è il
turno di The Lay Llamas, ennesima
incarnazione in cui il siciliano mette
la crescente dimestichezza sonora
al servizio di una sensibilità psichedelica che si mostra sempre più ipnotica (African Spacecraft 2092 AD)
e “altra” (il tribalismo droning di Rite
100
Of Passage). Il tasso di weirdismo è
assicurato anche dal concept alla
base del tutto, ossia le avventure
della tribù nigeriana dei Lay Llamas
che nel 2092 si avventura a bordo di
una astronave su un pianeta lontano e in cui raggiungono la purificazione e l’innalzamento dello stato di
coscienza una volta incontrato un
totem chiamato Grande Serpente.
Una narrazione in 4 momenti cruciali per altrettante tracce di un trip
sonico da psych sci-fi.
Sempre per la Jozik, in una manciata di ottime tapes appena sfornate,
ritroviamo Olli Aarni, il finlandese
che aveva condiviso una split-tape
proprio coi summerTales. Non differisce di molto il contenuto di Pohjoisen Kesä: due lunghe estatiche
tracce di ambient rilassante tra suoni trovati, rielaborazione di nastri e
frequenze radio che non può non
far tornare in mente le lande innevate e silenziose della terra d’origine.
Salendo ancora di gerarchia dei
mezzi di riproduzione,tocca ora ai
vinili. Partiamo dal 10” d’esordio
dei Sonic Jesus, quartetto laziale
totalmente devoto alla psichedelia
citaristica della perfida Albione. Se
prendi ispirazione da Sonic Boom
e dalla Jesus dei Velvet hai segnato
bene i paletti entro cui ti muovi. Se
poi lo fai col giusto grado di reiteratezza ipnotica (It’s Time To Hear),
weirdness (Monkey On My Back) e
malattia mentale (Underground) e
ci metti pure la firma di Nonni Dead
dei Dead Skeletons (responsabile
dell’ottimo artwork) allora dimostri
di avere le idee ben chiare. E, cosa
non altrettanto scontata, di saperle
mettere perfettamente su pentagramma. Decisamente ottimi.
Saliamo poi ai 12” del vinile con l’ultima uscita targata Brigadisco con
protagonisti i romani Dispo e gli
(italo)inglesi Barberos. Split nato da
circostanze da live condiviso, ossia
quando affiatamento e lunghezza
d’onda sono simili ecco che i frutti
finiscono su preziosi dischetti. Da un
lato, i romani con la loro ormai ben
nota follia math&noise tra cambi di
tempi, elaborazioni ritmiche, strappi
muscolari e ritmi spezzati, sempre
conditi da autoironia e sprezzo del
pericolo. Della serie, un frullatore di
cui non ci si annoia.Rispondono a
tono i Barberos, forti di doppia batteria e synth creano grovigli avantelectro-noise (Buffalo Biffle) spesso
dilatati oltremisura (In The Mouth
Of The Madness) in ipnotici deliri
space-ipno-horror.
Scendendo verso atmosfere scure, segnaliamo un altro split a 12”
uscito per Ghostly con protagonisti
HTRK e Tropic Of Cancer. Il 12” racchiude 6 tracce figlie delle Part Time
Punks Radio Sessions, una specie
di Peel Sessions losangeline virate
dark. Luogo della mente dove le
due formazioni si ritrovano a pieno
agio, condividendo immaginario e
sonorità: più sognanti ed elettronici
i primi, completamente ripresisi dalla tragedia di un paio di anni fa che
sembrava interromperne la carriera.
Più inchiodati ad una forma postpunkish dreamy e quasi shoegaze
i secondi, in realtà progetto ormai
solitario di Camella Lobo. Tutte o
quasi trace già pubblicate sui rispettivi album, ma la menzione d’onore
va all’inedito More Alone dei TOC:
beat sintetici e nuvole di sognanti
riverberi, come un arcobaleno neropece dentro a una caverna.
Cambiando decisamente atmosfera, giusta segnalazione se la merita
anche Backslash, nuovo progetto
in the vein of M16 per Alessandro
Bocci già Starfuckers/Sinistri. Due
lunghe tracce distanti dall’incompromissoria formula di M16 e più dj
friendly grazie ad una impostazione
classicamente detroitiana. Musica
che induce alla trance grazie alla
reiterazione delle frasi sonore (Cold
Fusion Technology), al ricorso a stilemi techno dub e all’introduzione
di ritmiche esotiche di matrice afrotech (The End Of The Weekenders).
Non esattamente la mia cup of tea,
ma gli amanti avranno di che essere
felici.
Concludiamo arrivando al cd e inabissandoci su dimensioni più intimiste, tiriamo in ballo il volume 4 della
serie Cinque Pezzi Facili edita dalla
Under My Bed. Dell’Amore E Dei Suoi
Fallimenti è il titolo indicativo delle
atmosfere che i Morose rilasciano
sul “lato A” di questo cd-r, rievocando quelle dell’ottimo La Vedova
D’Un Uomo Vivo: struggenti, malinconiche, notturne, di una bellezza
conturbante e insieme disturbante.
Roba che prende al cuore e lo stringe forte fino a farlo sanguinare.
Non ce n’è di simili in Italia, almeno
oggigiorno. E purtroppo, non si sa
nemmeno troppo in giro.
Dall’altro, il quartetto parmigiano
Campofame dispiega un armamentario meno diretto in Deleted
Scenes, ma pur sempre evocativo.
Composizioni in punta di plettro ed
elettronica non invasiva, senza necessità di parole per disegnare paesaggi astratti e sinestetici, e ipotizzare geografie dell’animo. Promossi,
ovviamente.
Stefano Pifferi
101
Bob
Mould
Life &
Times
102
Mentre la sua autobiografia ci
restituisce l’immagine di un
personaggio complesso, l’album
Silver Age lo riporta agli anni ‘90.
Il nuovo (e il vecchio) Bob Mould.
Testo: Tommaso Iannini
L a rabbia , la melodi a
«Da bambino la musica era la mia via di fuga, il mio mondo di fantasia. Appena ho capito il suo valore e il suo significato, ho cominciato a comporre». Parole - e musica,
naturalmente - sono di Bob Mould, dalla prefazione alla
sua autobiografia See A Little Light - The Trail of Rage and
Melody, scritta con la collaborazione di Michael Azerrad.
È sicuramente “la versione di Bob”, nel senso che restituisce il suo punto di vista anche su fatti controversi come
la fine della sua storica prima band, ma aiuta a capire
meglio il musicista insieme all’uomo, tra i suoi slanci e le
sue contraddizioni. Preparatevi a una lettura torrenziale
(non è ancora uscito in versione italiana): prima ancora
che di trentacinque anni di carriera, il libro traccia un
bilancio di cinquant’anni di vita.
Spesso, però, proprio i ricordi personali e il racconto privato suggeriscono nuove prospettive da cui inquadrare
le sue vicende artistiche. Bob racconta di avere scritto i
testi di Zen Arcade nel furgone regalatogli dal padre, la
persona che più lo ha influenzato in negativo e che pure
ha assecondato più di altre la sua passione per la musica.
La presenza di questo padre autoritario e frustrato sembra rivelare molto della parabola creativa e umana di
uno dei più intensi songwriter degli ultimi trent’anni di
rock. This Is Not Your Parents World è la frase che compare
al termine del video di If I Can’t Change Your Mind degli
Sugar. Il clip, più della canzone in sé, aveva il valore di un
metaforico coming out, un paio d’anni prima che Mould
rivelasse dettagli della sua vita privata in un’intervista a
Dennis Cooper. La stessa frase può riassumere lo spirito del movimento hardcore, di cui gli Hüsker Dü hanno
fatto parte, ma anche il senso sempiterno della contestazione giovanile. Il trio di Minneapolis ha gettato un
ponte tra lo spirito degli anni ‘60 per chiudere con il post
hardcore il cerchio aperto del ‘77 e preparare il terreno
per il rock alternativo degli anni ‘90. Bob Mould ha creato un nuovo modello di punk rock, proponendo una
rivoluzione che iniziava da casa, di fronte allo specchio
del bagno. Punto di partenza, le emozioni. E la musica:
un rapido flusso dai toni lirici, epici e lisergici, dagli accenti aspri e toccanti, capace di raffiche rabbiose come
di estatici deliri. Alla base, il concetto di catarsi, su cui si
sofferma a un certo punto del libro. Con quel muro di
rumore chitarristico era la valvola di sfogo della rabbia
e dell’angoscia di chi viveva dentro di sé una lacerazione profonda e con il wall of sound non cercava solo un
metodo per scrivere grande musica pop. Cercava il suo
nirvana acustico. Lo ha trovato, più ancora che per se,
per i tanti che in quei solchi ci hanno lasciato le vibrazioni della loro anima.
Broken H ome, Broken H ear t
Robert Mould nasce a Malone, nello stato di New York, il
16 ottobre 1960, ultimo di quattro fratelli, il più grande
dei quali muore di cancro pochi giorni dopo che lui è
venuto al mondo. La Broken Home della quale parlerà
103
in una canzone era probabilmente casa sua. Nel suo libro Bob non è tenero con il padre, ne ricorda gli eccessi
quando beveva ma soprattutto il clima di terrore psicologico che aveva creato in famiglia. Le cose non vanno
molto meglio neppure dopo che i suoi genitori rilevano
un piccolo negozio. Nonostante tutto, i familiari assecondano il suo interesse per la musica fin da quando
è un bambino. La nonna cura a domicilio una persona
disabile e lo porta spesso con sé, lasciandogli suonare
il pianoforte a casa della persona che assiste. Il padre
compra per pochi centesimi da un distributore i 45 giri
usati di un juke-box, facendogli scoprire Who, Beatles e
Beach Boys. Il risultato è che il piccolo Bob a nove anni
compone le sue prime canzoni su una tastiera giocattolo
e le incide con tanto di overdubs, usando due registratori
a bobine.
Negli anni della prima adolescenza, che per lui significano la scoperta della sessualità e della sua “diversità”,
Bob è più preso dallo sport che dalla musica. In seguito
si lascia conquistare dall’hard rock di Kiss, Aerosmith e
Ted Nugent. Forma anche una band e torna a scrivere
canzoni, poco più che fotocopie di successi heavy metal. Niente di paragonabile alla “folgorazione” per i 45
giri degli anni ‘60 che hanno segnato la sua infanzia.
Nella vita succede, tuttavia, che cercando qualcosa, si
raggiunga qualcos’altro. Attirato dalle cover story dei
propri idoli, sulle pagine di una rivista il nostro scopre
i fermenti sotterranei del rock americano degli anni ‘70:
la scena punk di New York, l’underground di Cleveland
e i Suicide Commandos, un gruppo di Saint Paul, la città
gemella di Minneapolis («un altro posto in cui si gelava a
200 miglia da Malone»), che avrà una forte influenza non
solo sul suo modo di scrivere, ma anche sulla decisione
di trasferirsi nel Minnesota.
E poi la vera “epifania”, i Ramones, «la prima gang di cui
volevo fare parte». Nel giorno del sedicesimo compleanno, Bob si fa accompagnare dal padre nel negozio di
dischi di una città vicina e torna con il loro primo album.
Appena sistema il vinile sul piatto e appoggia la puntina,
si accorge di avere in mano qualcosa di diverso, di controcorrente, di unico. Primitivo, nel bianco e nero della
copertina, Ramones è mixato con la chitarra su un canale,
il basso sull’altro e la batteria e la voce nel mezzo, come
gli adorati singoli degli anni ‘60. Le canzoni sono brevi,
veloci, intense. Lo conquistano le figure semplici ma suonate con veemenza della chitarra di Johnny Ramone, il
suo stile elementare, aggressivo e pieno di energia, le
sequenze di accordi scandite con le pennate in giù invece che con le classiche alternate, un altro tassello del salutare shock di questa seconda iniziazione musicale. Poi
sarà il turno del punk inglese e dei New York Dolls, sorta
104
di anello mancante tra i Kiss e i Ramones. Bob sceglie la
Flying V della Ibanez come prima chitarra in omaggio a
Sylvain Sylvain. Altrettanto decisive in prospettiva, saranno due formazioni del Midwest, i Cheap Trick e i già citati
Suicide Commandos, con la loro combinazione di punk,
hard rock e guitar pop anni ‘60. «Ero cresciuto ascoltando
tutte quelle cose e mi riconoscevo nel loro sound». Per un ragazzo punk e gay una città di provincia come
Malone è soltanto un luogo da cui fuggire al più presto.
Bob va a studiare al Macalester di Saint Paul, un college progressista che ha una retta sostenibile dalla famiglia. Nel 1978, in un negozio di dischi di Minneapolis fa
amicizia con il commesso, di un anno più giovane di lui.
Iniziano a parlare di musica, poi il discorso cade sulla marijuana, e Grant Hart - così si chiama il ragazzo - chiude il
negozio per andare a fumare insieme al suo nuovo amico. La seconda volta che tirerà giù le serrande sarà per
sentirlo suonare la chitarra. Grant conosce un bassista
appassionato di jazz, anche lui commesso in un negozio
di dischi. Con Greg Norton prende forma il nucleo degli
Hüsker Dü che rimarrà immutato fino allo scioglimento,
quasi dieci anni dopo.
Ultracore
Se la prima sala prove è lo scantinato del Northern Lights
(sempre un negozio di dischi), la prima ispirazione è ovviamente il punk rock americano: dai Ramones all’avantgarage dei Pere Ubu fino ai Germs (fondamentali nel
passaggio dal punk all’hardcore), ma emerge anche un
lato più dark e sinistro, ispirato dai Joy Division e dal
post-punk inglese. Gli Hüsker Dü dovevano tra l’altro
aprire uno dei concerti americani del gruppo di Manchester - show che non ci sono mai stati perché Ian Curtis si
uccise alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti. Dopo
aver cercato invano di essere ingaggiati dalla Twin/Tone,
la più importante etichetta di Minneapolis - e, incidentalmente, dove si sono accasati gli amici/rivali Replacements - pubblicano il singolo per la loro etichetta Reflex,
che non avrà vita molto lunga ma contribuirà non poco
ai fasti della scena locale (sotto la sua ala protettrice usciranno i primi dischi dei Soul Asylum). La lunga Statues,
lato A del 45 giri (il retro è Amusement, un altro brano
lungo e dissolto), deve tutto ai Public Image Ltd.; la voce
salmodia delirando come quella di John Lydon e la chitarra clona lo stile di Keith Levene. Da questo primo bozzolo post-punk il gruppo (a proposito il nome Hüsker Dü in danese significa “Ti ricordi” ed
era il nome di un popolare gioco da tavolo) si trasforma
nella crisalide hardcore. Nel 1981 il terzetto suona due
concerti a Chicago e qui conosce Greg Ginn, che rimane
conquistato dalla loro performance, nonostante Mould
fosse completamente fatto di speed e a un certo punto del concerto avessero imbrattato il palco di vernice
blu. Per molti aspetti gli Hüsker Dü sono sulla stessa
lunghezza d’onda dei Black Flag e dei Minutemen: li
accomunano l’etica del lavoro, l’attitudine do it yourself e
lo stakanovismo da palco. Un po’ per la necessità di
concentrare più canzoni possibili nei brevi set a disposizione, un po’ per inclinazione naturale, il trio esaspera
l’approccio hardcore accentuandolo fino al parossismo.
Una canzone dell’epoca ha un titolo eloquente, quasi
una dichiarazione di intenti: Ultracore. Il brano fa parte
dell’album di debutto Land Speed Record, un grezzo live
pubblicato agli inizi del 1982 dalla New Alliance, etichetta di proprietà dei Minutemen. Diciassette brani in ventisei minuti, per un punk frenetico al limite del rumore
bianco. Per certi versi, una sorta di rockblues tiratissimo,
talmente esasperato da diventare una sorta di astrazione psichedelica, favorita da un’incisione economica e
decisamente lo-fi. Registrato in presa diretta, è la fedele
riproposizione del loro set dal vivo; senza un attimo di
tregua - non c’è praticamente soluzione di continuità da
un brano all’altro - la band cerca i nervi scoperti degli
spettatori spingendo al limite fisico la propria veemenza
sonora, ammantata di un’eco lisergica.
Inarrestabili nel loro hardcore veloce, gli Hüsker Dü iniziano a infonderlo di una struttura decisamente più melodica nel singolo In A Free Land. Non è un caso se Everything Falls Apart, prodotto dalla Reflex nel 1982, ha un
respiro più ampio del predecessore, non soltanto perché
è registrato in studio e ha una resa sonora migliore (per
quanto si tratta pur sempre di brani autoprodotti, incisi
in una sola take o comunque in maniera diretta e veloce). Parte del repertorio è un intreccio di anfetamine,
nichilismo e ambizione, ma in questo sound claustrofobico si fanno spazio una piccola “eresia” come la cover
di Sunshine Superman di Donovan e la title-track, che
tra una melodia in stile bubblegum-punk e i rintocchi
psichedelici del ritornello preannuncia sostanziali novità
in arrivo.
Registrato alla fine del 1982, il mini album Metal Circus (1983) contiene sette brani in diciannove minuti
scarsi ma fissa una tappa fondamentale nell’evoluzione
della band. La durata media di fatto raddoppia rispetto
a Land Speed Record, e i brani hanno il tempo di svilupparsi in trame di più ampio respiro, senza stemperare
però l’energia e i volumi da tregenda a cui suona la band.
Si tratta a tutti gli effetti di un avvicinamento, certo non
solo temporale, a quello che i più considerano il loro
capolavoro. Deadly Skies e On A Limb mostrano tutte le
rispettive assonanze con Black Flag e Flipper e Out On A
Line è una tirata hardcore. Tuttavia gli altri quattro bra105
ni, due di Bob Mould e due di Grant Hart, dispiegano il
ventaglio di possibilità che può offrire la loro scrittura
una volta maturata. Real World di Mould inaugura un
turning point nella poetica del terzetto e di una fetta non
indifferente del post-punk americano. Se emo non fosse
diventata una parolaccia di questi tempi, cercheremo qui
le radici di un’attitudine lirica nuova; Bob esprime con
chiarezza il rifiuto della retorica hardcore e la volontà di
toccare temi più profondi, intimi e personali. C’è voglia
di sporcarsi le mani con il mondo reale dei sentimenti.
La musica segue di pari passo; al di là del canto a squarciagola, la chitarra cerca nuove armonie in un’esecuzione
dal timing serrato. Ai power chords, tipici del rock duro,
che costruivano l’ossatura dei brani del primo periodo,
Mould affianca ora volentieri accordi aperti, di cui sfrutta
le corde vuote per creare bordoni, secondo una tecnica
cara al folk e alla psichedelia. «Il suono di chitarra degli
Hüskers nasceva per buona parte dal fatto che cercassi
di suonare due parti di chitarra in un colpo solo - tenendo una nota, usando i bordoni e sviluppando sequenze
di accordi su quella singola nota - il tutto combinato
con la “scatoletta gialla” il pedale MXR Distortion» e un
harmonizer collegato al banco del mixer per creare un
106
suono saturo con la densità di un gas più che del metallo
pesante, un wall of sound quasi spectoriano ottenuto
con una sola chitarra. Da parte sua, Grant Hart è molto
più versatile rispetto ai batteristi hardcore che si limitavano a tenere il solito tempo in stile polka. Ascoltando
bene si può notare, per esempio, il lavoro sui piatti, dai
rintocchi a un lungo sciabordio, parallelo ai drones della
chitarra di Mould. Con il basso di Norton a fungere da
essenziale collante, e a ritagliarsi qualche momento da
protagonista, gli Hüsker Dü rappresentano un power trio
essenziale quanto dinamico. First Of The Last Calls annuncia con enfasi che la direzione musicale del gruppo sarà
più orientata alla melodia. È comunque di Hart la firma
sul numero più melodico, It’s Not Funny Anymore, memore del pop dissonante dei Mission Of Burma (quegli
armonici..), e sul vero pezzo forte del mini LP: Diane, una
murder ballad ispirata da un episodio di cronaca nera e
cadenzata da un giro di basso che ricorda i Joy Division.
Splendida la progressione del pezzo, tra il controcanto sul ritornello e un arrangiamento di chitarra da pelle
d’oca: sembra di sentire un anticipo di Big Black via PIL
e Throbbing Gristle (una grande passione di Mould),
negli accordi acuti simili a lamine di metallo che scivo-
lano uno sull’altro, soprattutto nel ritornello e nell’assolo. Metal Circus esce per i tipi della SST, affidato alle cure
del produttore di casa, Spot.
Chartered Trips
La collaborazione con l’etichetta californiana segna uno
dei momenti più alti di tutto l’indie rock. A cavallo della
metà degli anni ‘80, infatti, il terzetto del Minnesota vive
una fase di notevole ispirazione, segnata da rapidi cambiamenti e da una produttività ai limiti dell’inaudito. Il
centro della loro attività rimangono i concerti, dove la
band si lancia in show nervosi ed esaltanti, senza soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro, come nei loro
primi live. Le scalette comprendono abitualmente brani
inediti su disco: mentre sono in tour per promuovere
un album, gli Hüskers suonano già le canzoni del 33 giri
successivo, mesi prima di inciderlo. In questo modo, i
pezzi sono già rodati per la registrazione in tempi rapidi
e con poca spesa che è la norma delle produzioni SST.
La prima dimostrazione di questo stato di grazia sono i
ventiquattro brani di Zen Arcade (1984) registrati in una
settimana e mixati in 48 ore. L’uscita del doppio album
sarà poi posticipata di qualche mese per permettere la
pubblicazione in contemporanea con Double Nickels
On The Dime dei Minutemen. Tenendo conto che nello
stesso periodo usciva Meat Puppets II, il 1984 è un anno
cruciale per la SST e per tutto il rock indipendente americano. Questi tre lavori costituiscono uno spartiacque storico e stilistico decisivo, alla luce di quello che succederà
tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. La mossa
di un doppio LP non è solo coraggiosa dal punto di vista
estetico, ma anche economico, considerando i mezzi limitati con cui operavano le etichette indipendenti. L’antipasto di Zen Arcade è un singolo che sul lato B presenta una versione di Masochism World mentre sul lato A
c’è una vera chicca: uno dei nomi di punta dell’hardcore
a stelle e strisce interpreta a modo suo il brano simbolo
dell’era psichedelica, Eight Miles High dei Byrds. Quello che poteva sembrare un controsenso appena pochi
mesi prima è una sorta di passaggio di consegne generazionale che apre l’hardcore e il rock del dopo punk a
nuove contaminazioni. Non si può parlare di revival o di
neopsichedelia ma di un cambio di passo sotto il profilo
musicale. Gli Hüsker Dü non imitano i Byrds; interpretano lo spirito di quel brano alla luce del loro stile. I 45 giri
degli anni ‘60 sono stati il primo amore di Bob e sono
anche la guida della sua rivoluzione musicale.
Se Zen Arcade ha rappresentato per l’hardcore quello
che London Calling è stato per il punk, il suo riferimento
ideale è piuttosto un White Album meets Tommy (o Quadrophenia). L’idea del concept è nata probabilmente in
un secondo tempo, fatto sta che gli Hüsker Dü allargano il quadro abbastanza da farci entrare una storia. I
contorni non sono molto chiari, l’idea è forse quella di
«un ragazzo lascia la sua famiglia devastata e va a cercar fortuna nella Silicon Valley dove crea un videogioco
intitolato Search», oppure semplicemente il racconto di
un’iniziazione alla vita indipendente.
L’hardcore esistenziale del gruppo ha acquistato una propria identità e una coesione formale che gli permette di
essere riconoscibile al primo ascolto. L’iniziale Something
I Learned Today parte con il ritmo incalzante di basso e
batteria e prende quota con il vespaio sollevato dalla chitarra di Mould. In Broken Home, Broken Heart e Chartered
Trips il tempo veloce ma più sincopato di Hart e gli interventi melodici di Norton disegnano una trama di più
ampio respiro che la chitarra satura completa con bordoni distorti e fills armonici aprendo nuove dimensioni
alla musicalità del gruppo, restando sempre nel campo
di un punk rock veloce. Il parossismo hardcore tocca
vertici di frenesia unici in Beyond The Treshold, Pride, I’ll
Never Forget You con sciabolate ai limiti dell’heavy metal. The Biggest Lie, Somewhere, Pink Turns To Blue (Hart)
e Newest Industry con un suono più soft anticipano il
pop core sviluppato nei dischi successivi. Lo spettro si
allarga in maniera quasi vertiginosa se si considerano
i nastri al contrario e il maelstrom psichedelico di Hare
Krishna, Dreams Reoccurring e Reoccurring Dreams, il folk
acustico di Never Talking To You Again (Hart), il boogie
di What’s Going On (Hart), la ballata elettrica Standing By
The Sea (Hart) e interludi pianistici creati apposta come
passaggi tra diverse tonalità. Stilisticamente è una delle opere più mature e complesse del punk, cui infonde
un lirismo di rara intensità oltre ad allargarne l’orizzonte
compositivo. L’hardcore esistenzialista degli Hüsker Dü è arrivato a
una dimensione quasi trascendentale, che ha forzato
nettamente i confini del genere. New Day Rising (1985)
è un disco abbastanza diverso da Zen Arcade. I testi affrontano temi più adulti: «Prima prendevo le frasi dai
quaderni, le radunavo insieme, le compattavo, ci sputavo
sopra e le tiravo in faccia agli ascoltatori come se fossero
palle di neve. Erano esplosioni di confusione, parlavano
soltanto di problemi e non offrivano mai delle risposte.
Le nuove canzoni avevano tutto un altro immaginario,
parlavano del tempo, della natura transitoria delle emozioni e del trascorrere delle stagioni». Bob lo definisce il
suo drinking album, mentre per Zen Arcade aveva carburato a caffè e metedrina. Anche dal punto di vista musicale, l’evoluzione è costante. Se la produzione di questo
disco (di Spot) è stata spesso criticata, non c’è dubbio
che New Day Rising contenga alcuni dei migliori brani
107
multinazionale (addirittura prima dei REM, che però già
pubblicavano per una semi-indipendente, la Enigma).
«Speravamo di avere successo senza compromettere
la nostra integrità, e che questo avrebbe potuto aprire
la porta per altre band. Non eravamo il primo gruppo
alternativo a firmare per una major, ma tenevamo più
degli altri alla libertà e all’autonomia artistica. Volevamo
raggiungere un pubblico più numeroso, sapevamo che
la Warner ci avrebbe garantito una struttura con cui poterlo fare, e avevamo fiducia nel fatto che non avrebbe
cercato di cambiare la nostra immagine, la nostra musica
o il nostro messaggio». In effetti la Warner accetta la loro
decisione di prodursi da soli e non interferisce nel loro
processo creativo.
Non possiamo sapere come sarebbero andate le cose
se Flip Your Wig fosse uscito già per la Warner. Di sicuro
era l’album più accessibile pubblicato fino a quel momento con almeno due potenziali hit: Makes No Sense
At All, firmata da Bob, e l’irresistibile Green Eyes di Grant
Hart.
«Con Metal Circus ci eravamo distanziati dai suoni e dai
dogmi dell’hardcore, Zen Arcade era un concept album
che si proiettava ben oltre i confini e le convenzioni del
punk, con New Day Rising avevamo cominciato a privile-
degli Hüsker Dü. Perle assolute di Mould sono Celebrated Summer e I Apologize. La prima unisce il folk rock
cristallino in stile Sixties con la disperazione ultrasonica
dell’hardcore (stessa cosa fa anche Folklore): Mould ha
iniziato a scrivere canzoni sulla dodici corde acustica, a
usare di più gli arpeggi e le variazioni di intensità sonora, e mette a frutto quello che imparato in uno dei suoi
classici. A cavallo tra garage rock e neomod settantasettino in stile Jam, I Apologize è una delle sue melodie
più ricche di pathos e dimostra come il nostro sappia
caricare di ipertoni psichedelici anche il più semplice
di giro di accordi. Questo genere di canzoni melodiche
e veloci, suonate con un muro di distorsioni e sterzate
dinamiche, è una conquista fondamentale alla luce del
successivo alternative rock: un tipo di scrittura analoga,
per fare un nome, a quella di J Mascis, che quell’anno
debutta con i Dinosaur Jr. L’accoppiata rumorismo/melodia stabilisce una delle grandi linee guida dell’indie
rock. Il power pop punk acido degli Hüsker Dü è l’altra
faccia della medaglia che oltreoceano propone Psychocandy dei Jesus And Mary Chain. Il discorso su New Day
Rising non si esaurisce qui. Dei brani scritti da Grant Hart,
è d’obbligo citare The Girl Who Leaves On Heaven Hill e il
108
giare la melodia rispetto al rumore. Ora volevamo creare
un disco pop a tutti gli effetti e quello abbiamo fatto». Il
noise pop non è l’unica freccia dell’arco di questo LP, in
cui l’immediatezza delle canzoni va di pari passo con una
produzione che porta più in primo piano la voce rispetto
ai dischi precedenti.
Fino a questo momento, la presenza di due menti creative in seno alla band è stata la sua carta vincente. Bob
è il principale songwriter, ma Grant ha dato un contributo fondamentale sia per il suono e le armonie vocali, sia come compositore e cantante. In Candy Apple
Grey (1986) le canzoni più rappresentative, scelte come
singoli, sono entrambe di Hart: Don’t Want To Know If
You Are Lonely e Sorry Somehow. Mould da parte sua
conquista una dimensione più riflessiva, nella delicata
veste cantautoriale dei brani acustici, Too Far Down e la
struggente Hardly Getting Over It. Le sue ballate più magistrali. Tra i brani elettrici che portano la sua firma, si
fa preferire la sfuriata finale di All This I’ve Done For You,
mentre I Don’t Know For Sure è una replica in tono minore
di Makes No Sense At All. Il debutto per la Warner non
ottiene il successo sperato, tuttavia, il problema di fondo
è un altro. Le tensioni all’interno del gruppo crescono di
giorno in giorno. Too Far Down e No Promise I’ve Made di
divertissement di Books About UFOs. La tavolozza di stili
si allarga anche al jazz e all’honky tonk, dimostrando una
libertà creativa quasi sorprendente.
T hese Importa nt Yea rs
Nessuno parla ancora di alternative, un termine che
diventerà d’uso comune soltanto negli anni ‘90, per
indicare il new rock nel periodo post Nevermind, ma
l’ascendente esercitato dal complesso di Minneapolis
sulla miscela di stili rock del passato, riletti alla luce di
quanto è successo dopo il punk, è innegabile. Saranno
poi le major a sdoganare un suono nato nell’ambito delle etichette indipendenti e portarlo alle masse. Appunto, le major. Anche da questo punto di vista, gli Hüsker
Dü sono stati un po’ pionieri e un po’ profeti. Flip Your
Wig (1985) sarà l’ultimo disco pubblicato per la SST. Karen Berg, una discografica della Warner Brothers che in
passato aveva lavorato anche per Joni Mitchell e i Television, vola a Minneapolis per convincere la band a firmare. Nonostante i problemi con l’etichetta di Greg Ginn, gli
Hüsker Dü in segno di lealtà le concedono di pubblicare
l’album che hanno già registrato. In compenso, sono il
primo gruppo della scena indie rock a firmare per una
109
Hart sono due brani solisti a tutti gli effetti, a cui soltanto
i titolari hanno messo mano.
Per cercare di bilanciare di più gli apporti di entrambi, Warehouse: Songs And Stories (1987) diventa il secondo doppio LP della storia degli Hüsker Dü. Mentre Zen
Arcade mette d’accordo quasi tutti, l’ultimo album suscita reazioni contrastanti: c’è chi lo considera l’apoteosi e uno dei migliori dischi non solo del complesso,
ma dell’intero decennio, e chi addirittura lo considera
il peggior capitolo di tutta la loro carriera discografica. Per quanto mi riguarda, sono più vicino alla prima
ipotesi. Per motivi anagrafici sono arrivato a Warehouse andando a ritroso da Nevermind e Doolittle e la linea
di discendenza si sente, eccome. Il doppio del 1987 fa
da contraltare a Zen Arcade e rappresenta il perfezionamento di quel sound. Meglio ancora, l’album del 1984
rappresentava l’uscita dai confini, questo è la chiusura
del cerchio. Un loop che riavvolge tutto il percorso del
gruppo e lo sintetizza nella sua formula canzone “definitiva”, replicandola all’infinito con una sorta di virtuosismo solipsistico. Sublime o stucchevole? In realtà, se
si esclude un calo naturale nell’ultima parte, la tensione
creativa almeno della prima metà è altissima. Dal punto di vista compositivo, l’album funziona come i poli di
una batteria: a un brano di Mould ne segue uno di Hart,
110
come se fosse uno schema voluto. Bob firma gli anthem
più appassionati, These Important Years, Standing In The
Rain, Ice Cold Ice, Could You Be The One, melodie mozzafiato e squarci visionari, rifinendo un nuovo genere di
ballata elettrica che piacerà a tanto college rock (ricambiando perché Visionary è una versione punk dei REM).
Di Grant sono le melodie più insidiose e uno degli standouts del disco, She Floated Away. Warehouse contiene
tutti gli elementi del sound degli Hüsker Dü - la progressione hardcore con il ritornello beat, il feedback e il fuzz
del garage rock con la grinta bubblegum dei Ramones,
la mistica hippie con l’irrequietezza sovreccitata del
punk, le distorsioni timbriche del rock hendrixiano con
gli assoli parossistici dell’heavy metal e la delicatezza
del folk rock con il rumorismo esasperato - a un livello
di raffinatezza superiore e definitivo. Quando è finito il
gruppo non è ancora sciolto ma di fatto non esiste più.
Greg Norton diserta parte delle sessioni e Mould e Hart
non lavorano quasi mai insieme. Vivranno da separati in
casa i mesi successivi fino allo scioglimento della band.
È interessante notare come Bob nel suo libro attribuisca
velatamente la scelta di registrare Warehouse come un
doppio album al fatto che Hart avesse voluto avere più
pezzi suoi sul disco, mentre Grant, dal canto suo, sostiene che Mould non gli avrebbe mai concesso di firmare lo stesso numero di brani rispetto a lui. La fine degli
Hüsker Dü è tuttora fonte di polemiche e rancori mai
sopiti. La verità è che la situazione prima o poi era destinata a precipitare per lo scontro tra ego, e i problemi
di droga di Grant Hart non hanno fatto che accelerare la
conclusione. Attore non protagonista in buona parte di
questa vicenda, Greg Norton, come noto, si è creato una
seconda vita come chef, poi ha dovuto chiudere il locale
e ora fa il rappresentante di vini. Le altre sue avventure
musicali non hanno lasciato il segno.
Dopo la fine della band, Bob Mould si trasferisce con il
suo partner di allora, Michael, in una grande casa fuori
città per staccare da tutto. A Pine City vive come in isolamento e inizia a comporre di nuovo, ma da una prospettiva diversa. Anche gli strumenti sono nuovi: una
Strato blu e una Yamaha a dodici corde con un suono
che paragona a un “sacco di dadi fruscianti”. Scrive spesso improvvisando, in maniera più spirituale e libera. Ha
un modo curioso di raccontarlo nel suo libro: «Facevo
sempre più attenzione al suono delle sibilanti e alle consonanze tra musica e parole, a come le sibilanti somigliavano a percussioni, e a come la ‘s’ si accordava al suono
dei piatti o la ‘t’ e le consonanti occlusive o percussive
formavano gruppi di suoni che cadevano perfettamente sulle note di chitarra. Adesso capivo meglio i piccoli
dettagli, gli spazi tra i suoni e le parole. Questo nuovo
approccio non c’entrava nulla con quello che facevo prima, e sembrava arrivare dal nulla. Di certo non mi sono
seduto con l’idea di lavorare su bordoni, accordature
alternative, parole in libertà e di pensare al suono delle
consonanti come a un elemento ritmico».
Wishing We ll
Il risultato di questo anno sabbatico, passato a ricaricare le batterie e scrivere canzoni, è il suo primo album
solista, Workbook, pubblicato dalla Virgin nel 1989. Lo
strumentale Sunspots apre l’album con il suo arpeggio
fingerstyle (in questo caso, più vicino al folk rock britannico che a quello americano). La cesura rispetto agli Hüsker Dü è marcata con decisione. È evidente la volontà di
emanciparsi dal passato e di assumere una dimensione
espressiva diversa, da cantautore, anche se non si tratta
di un semplice disco voce/chitarra e non si tratta di un
disco semplice in generale. Anzi, è molto arrangiato ed
enfatico. Per quanto la chitarra acustica a sei o dodici
corde o al massimo l’elettrica pulita siano le vere protagoniste delle canzoni, il sound d’insieme è ovviamente
meno saturo ma più spazioso, “arioso” nel senso che i
suoni sembrano sviluppare più volume e le stesse com-
posizioni tendono a gonfiarsi, a crescere a lievitare come
accade a Wishing Well. Nel parco strumentale, Mould può
contare su una sezione ritmica importante, formata da
Anton Fier e Tony Maimone, e sul violoncello di Jane
Scarpantoni, un elemento fondamentale per l’atmosfera
di Workbook. «Per anni avevo vissuto circondato da un
muro di suono distorto, ora pensavo agli arrangiamenti
d’archi su questi sonanti accordi aperti che producevano
bordoni (huge open droning chords)». Huge è proprio la
parola adatta: con la sua scioltezza See A Little Light, uno
dei brani più amati tanto da intitolare la biografia del
nostro, rappresenta quasi una parentesi rispetto all’epica
drammaticità di una Poison Years o alla pomposa classicità tra il melò e il pastorale di Sinners and Repeantances,
per non parlare del ruggito hard blues di Whichever the
Wind Blows (a sua volta uno stacco piuttosto marcato dal
tono generale). Disco di un’intensità stordente e che risente di una messa a punto quasi maniacale, Workbook è
inserito dall’autore nel trittico dei suoi preferiti, insieme
a Flip Your Wig degli Hüsker Dü e a Copper Blue degli
Sugar.
Anton Fier alla batteria e Tony Maimone al basso sono
un duo di musicisti esperti, che Mould sfrutterà anche
111
in tour. La musica degli Hüsker Dü era un unico flusso di
energia in cui i contorni spesso si perdevano; invece il
batterista (un passato con i Golden Palominos ma anche
Lounge Lizards e Feelies) e l’ex bassista dei Pere Ubu
formano una sezione ritmica più tecnica e sincronizzata.
Mould stesso riconosce quanto la loro professionalità
abbia aiutato il suo orecchio di musicista. Il seguito della
prima avventura da solo è il rovente e cupissimo Black
Sheets Of Rain (1990). Le ballate di Workbook diventano
una marziale sinfonia elettrica, da cui emergono composizioni cadenzate e potenti. Stop Your Crying, Hanging
Tree e It’s Too Late, tra Neil Young e quello che tutti di lì
a poco chiameranno grunge, la byrdsiana Hear Me Calling o Out Of Your Life sono la sintesi che ci si sarebbe
aspettati tra l’eredità degli Hüsker Dü , la nuova cifra di
cantautore, l’amore per il melodismo anni ‘60 e una riscoperta del rock dopo il folk-core da camera di Workbook.
Anche se l’unica canzone nello stile della vecchia band,
il pop-punk di Disappointed, non è un omaggio ma una
frecciata agli ex compagni. Lo shouter dell’hardcore ritorna in Sacrifice, in una sorta di blues trasformato in un
tour de force vocale con tanto di sdoppiamento tra call
and response. La title track è uno dei migliori brani di
Bob Mould solista e anche il disco, di una compattezza
invidiabile, si colloca ai vertici della sua produzione, nonostante la sua avversione a posteriori per le atmosfere
112
claustrofobiche di questa seconda prova en solitaire.
T hat ’s A Good Ide a
Tuttavia, le cose non si mettono bene per il nostro: la
successiva tournée è un flop, non tanto per i concerti
in sé quanto per il fatto che, per la prima volta nella sua
carriera, si trova a chiudere un tour in perdita, per i costi
di due turnisti di lusso e di tutto l’apparato. La Virgin e il
suo management avevano oltretutto ceduto i suoi diritti
di edizione. «All’inizio del 1991 stavo facendo i conti. Perché anche se avevo un ricco contratto con la Virgin ero
sempre al verde?». Su consiglio di un legale, Bob risolve
il contratto e si lancia in un tour acustico senza band.
Un’esperienza che sotto certi aspetti lo riavvicina alle
origini, al punto da ricondurlo anche a formare un vero
gruppo e a riabbracciare il mondo delle indie. Dopo aver
fatto ascoltare i suoi demo a diverse case discografiche,
trova infatti un accordo con la Creation in Gran Bretagna e la Rykodisc in America. I prescelti per il nuovo trio
sono il bassista David Barbe, un vecchio amico del suo
compagno Kevin O’Neill, e Malcolm Travis, l’ex batterista
degli Zulus, di cui Mould aveva prodotto nel 1988 l’album Down On The Floor.
Copper Blue (1992) è uno dei suoi migliori dischi. Esce nel
momento giusto per farlo conoscere al nuovo pubblico
“alternativo”, appena sedotto dai Nirvana (di cui Mould
ha potuto vedere da vicino l’ascesa partecipando allo
stesso tour insieme a Sonic Youth e Dinosaur Jr. documentato nel video The Year Punk Broke). Non a caso, sarà
il suo bestseller. Privo di un contraltare quale Grant Hart
negli Hüsker Dü , Bob dirige la band come se fosse una
sua creatura. Mentre il muro chitarristico degli Hüskers
aveva un valore assoluto, una trascendenza che andava
oltre l’armonia stessa, quello degli Sugar è più corposo
ma più quadrato e funzionale. Composizione e arrangiamento mostrano una grande attenzione alla dinamica,
sull’esempio di Workbook ma in maniera più diretta e rumorosa. Come nell’iniziale The Act We Act, tra i momenti
clou del disco, un aspro rock mid-tempo quasi grunge,
che parte da un riff compresso coronato da un breve
ricamo di chitarra per decollare verso una luminosa armonia sostenuta da un melodioso assolo sottotraccia.
Come in Good Idea, con un ritornello che si pianta in
testa al primo ascolto, ma che assorbe tutta l’influenza
di ritorno dei Pixies: la struttura è proprio quella di un
brano dei folletti (file under: Debaser), dal giro di basso
iniziale alla progressione di accordi che supportano il
ritornello e il finale. Tracce di Huskers in Fortune Teller,
ma anche molta melodia, lo psych pop frizzante di Helpless e Hoover Dam e la perla di una canzone folk-rock
super orecchiabile, If I Can’t Change Your Mind.
Pochi mesi dopo Copper Blue, è la volta di Beaster (1993),
un mini album composto da canzoni registrate nello
stesso periodo, ma dal mood molto più cupo. Esce la
settimana di Pasqua e rappresenta una sorta di passione
tutta personale di Bob Mould. Le sonorità - come in JC
Auto - sono a volte più vicine al grunge che al pop-core
o a certe frange dell’indie inglese. Feeling Better ha addirittura uno strano sapore baggy. Walking Away ricorda
invece i My Bloody Valentine, compagni di etichetta alla
Creation, anche se sono le tastiere a prendere il posto
della chitarra. Il titolo dell’ultimo disco degli Sugar, File
Under: Easy Listening (1994), non è poi così ironico come
sembra. Brani come Your Favorite Thing (che echeggia
un titolo dei Replacements), Gee Angel, Can’t Help You
Anymore rielaborano il consolidato stile di Mould e del
suo gruppo in maniera più facile e scanzonata. È il disco
più pop del nostro so far, e se Gift potrebbe ricordare i
Dinosaur Jr., Believe What You’re Saying la sua nenia più
dolce, è ancora un velato omaggio agli amati Byrds. È
l’ultimo album del trio, di cui due anni dopo uscirà una
raccolta di rarità.
Il 1994 è anche l’anno in cui esce il live degli Hüsker
Dü, The Living End, che il nostro si rifiuta perentoriamente di ascoltare. Sempre nel 1994, un’intervista con
Dennis Cooper per Spin rende di pubblico dominio alcuni aspetti della sua vita privata, a cominciare dal suo
orientamento sessuale. Se di coming out si tratta, è un
po’ forzato e detto fra i denti, con il timore di finire ingabbiato in uno stereotipo. Alcune radio si rifiutano di
trasmettere la musica degli Sugar, ma a mettere disagio
il musicista e l’uomo sono probabilmente le critiche ricevute in seno alla stessa comunità gay.
Bo b M ou ld Is Bo b M o ul d
Gli Sugar si sciolgono all’inizio del 1995, e Bob ritorna
alla carriera solista nel 1996 con uno spartano senza titolo (Bob Mould) in cui canta e suona tutti gli strumenti.
È l’ennesimo segnale di un’indole creativa irrequieta e
mai accomodante. Accomodante non lo è neppure con
se stesso, il buon Bob: I’m sick of myself, ripete nel primo
pezzo, Anymore Time Between. Con lo stesso sarcasmo
con cui parlava di easy listening per il disco degli Sugar,
intitola il brano chiave del suo ritorno solista IHate Alternative Rock. È una specie di parodia (un po’ come in Disappointed il nostro parodiava gli Hüsker Dü) per un atto
d’accusa nei confronti delle case discografiche, colpevoli
ai suoi occhi di avere trasformato in una moda il genere
di musica che lui aveva contribuito a creare. In questo
caso è difficile dargli torto; per il resto, uno dei punti
deboli conclamati dell’album è la rigidità dovuta all’utilizzo, non molto fantasioso, della batteria elettronica,
insieme a una produzione dallo spiacevole retrogusto
meccanico. Il modello che Mould sembra avere in mente
è quello di Lou Barlow e dei suoi Sebadoh; per accorgersene è sufficiente ascoltare l’incipit (sempre Anymore
Time Between). Qualche zampata non manca (il turbinio elettrico di Egøverride), ma è penalizzata dalle scelte
sonore, in una prova al di sotto degli standard a cui ci
aveva abituati. The Last Dog and Pony Show (1998) è quello che spesso si
definisce un disco di transizione. Non è ispirato quanto
i migliori dischi del suo autore, ma trova un suo equilibrio, tra il ritorno alle atmosfere di Workbook, sonorità
rock aggressive o il panning elettroacustico (Who Was
Around) che sono ormai un marchio di fabbrica. Si sentono anche le avvisaglie di qualcosa di diverso, nel primo flirt con i sintetizzatori di Megamanic, una specie di
sgorbio rap che parte con una base drum and bass e non
si capisce bene dove vada a parare. Bob avrebbe provato molte altre soluzioni ma alcuni nastri di esperimenti
sono rimasti cancellati per sbaglio perché dimenticati
in studio. Se i risultati erano simili a Megamanic, forse è
meglio che sia andata così. LiveDog98 (2004), venduto
ai concerti e su internet, è una testimonianza del tour
che lo vede, per la prima e ultima volta, affiancato da un
secondo chitarrista.
Nel giro di un paio di dischi i riferimenti passano dai
113
Sebadoh e dalla scena lo-fi a Believe di Cher e a Xpander di Sasha. Modulate (2002) è il progetto a nome Loudbomb (l’album Long Playing Grooves,2004) sono per
molti critici la pietra dello scandalo. Nessuno dei fans
storici si sarebbe probabilmente aspettato che da qualche esperimento estemporaneo sarebbe nata la svolta
più clamorosa della carriera. Mould diventato dj di musica dance poteva sorprendere quanto, per chi non lo
monitorava da un po’, scoprire che per un anno aveva
fatto lo sceneggiatore per gli incontri di wrestling (e
prima ancora aveva fornito la colonna sonora per una
campagna pubblicitaria della American Express). Tutte e
due le cose, anzi tutte e tre, sono vere. L’abiura del rock e
l’improvvisa metamorfosi si spiegano anche con la new
gay life di cui racconta esplicitamente nella sua autobiografia. Bob si appassiona alla musica da ballo elettronica
da club nel momento in cui si trasferisce a New York e
insieme al suo compagno conosce per la prima volta da
vicino la cultura gay della Grande Mela. Anche considerando che questa folgorazione sulla via del dancefloor
può avere una sua contestualizzazione esistenziale e la
necessità di liberarsi dallo stereotipo del rocker depresso
e arrabbiato abbia ragioni al di là di quelle strettamente
artistiche, a un ascolto senza pregiudizi Modulate rimane un disco goffo. Il buon Mould soffre del difetto
di molti neofiti, che si lasciano incautamente prendere
la mano senza filtro e, soprattutto, senza la necessaria
padronanza del linguaggio in cui si avventurano per la
prima volta. Il risultato sono pacchianate a ripetizione,
che finiscono per sabotare anche quelle poche idee fluttuanti in una serie di inutili orpelli.
Body Of Song (2005) contiene in parte l’hangover dalla
sbornia electro-danzereccia, con rimasugli di suoni sintetici e qualche fastidioso effetto vocale, ma la REMiana Circles sembra tornare ai tempi di Black Sheets Of Rain,
e il pop punk tinto di psichedelia di Missin’ You anche
qualche anno più indietro. La malinconica Days Of Rain è
il viatico per i dischi successivi. Per il tour, Mould può
contare su una band di tutto rispetto in cui oltre al sodale elettronico Richard Morel (l’altra metà di Loudbomb),
milita Brendan Canty dei Fugazi. Con il quartetto di cui
fa parte anche il bassista Jason Narducy, l’ex Hüsker Dü
ritorna ad esibirsi dal vivo con un gruppo elettrico dopo
più di un lustro. Per l’occasione rispolvera i classici di
tutta la sua carriera che finiranno anche sul suo primo
DVD, Circle Of Friends.
un’ispirazione di ritorno). Il modo di cantare di Bob nei
primi pezzi ricalca da vicino quello di Michael Stipe; Old
Highs New Lows rivela piuttosto un’affinità con Mark
Eitzel. Il trascorrere dei pezzi segna un ritorno del rock
(Return To Dust, The Silence Between Us) e dell’elettronica
(Shelter Me), che fa capolino con qualche moderata intromissione anche nei brani di impianto chitarristico. Di
apprezzabile c’è che il nostro non ricalchi i soliti schemi
di un tempo anche nel momento in cui la sua produzione è più di routine e meno ispirata. Più o meno sulla
stessa linea si colloca Life and Times (2009). Anche il
power pop di Argos e Spiraling Down e il ritorno (uno
dei tanti) alle architetture di Workbook in Bad Blood Better stavolta sanno di routine. Nel 2009 esce Live At ATP,
registrato all’All Tomorrow’s Parties: la seconda metà del
set è quasi tutta occupata da classici degli Hüsker Dü (I
Apologize, Chartered Trips, Celebrated Summer, Makes No
Sense At All, New Day Rising). Se si è riconciliato con il suo
passato, Mould, non lo è affatto con i suoi ex compagni,
trattati ancora con un certo astio nelle pagine del libro.
Il più recente LP, Silver Age (2012), sembra un disco più
“leggero” di molte sue opere del passato, non nel sound
ma nello stato d’animo. È l’album più fragorosamente
rock dai tempi degli Sugar e il migliore degli ultimi dieci
anni (in cui non ha certamente brillato). Dove il nostro,
almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni, si abbandona al piacere di suonare musica elettrica e liberatoria.
Un disco compatto e che dà certezze: solidità in fase di
scrittura, un sound grintoso e le melodie con i giri giusti.
Oltre che con il passato, Mould sembra più a suo agio
con se stesso e con il suo ruolo di icona, un ruolo che lui
stesso ha intenzione di rivendicare e promuovere, senza
la conflittualità del passato. Non è un caso l’intenzione
di pubblicare See A Little Light, stesso titolo del libro per
un concerto che dovrebbe diventare un film e in cui l’ex
Hüsker Dü duetta con suoi discepoli dichiarati come
Dave Grohl e i No Age. «Finalmente inizio a godermi la
vita come viene» è una delle ultime frasi della biografia.
Contenti per lui oggi, e meglio per noi che in passato sia
appartenuto alla schiera dei non riconciliati e abbia scritto alcune delle migliori pagine di indie rock di sempre.
The D es c e n t
In District Line (2007) l’anima del cantautore torna in
primo piano. L’influenza che salta per prima all’orecchio
sono curiosamente i REM (in parte, si tratta anche qui di
114
115
classic album
classic album
Dire Straits
Nine Inch Nails
Dire Straits (Vertigo, Ottobre 1978)
The Downward Spiral (TVT Records, Marzo 1994)
Credo di aver conosciuto i Dire Straits assieme ai principali rimproveri che da sempre vengono mossi nei loro
confronti: derivativi, e quel che è peggio out-of-time.
Quanto alla prima accusa, penso sia abbastanza incontestabile, per quanto non mi sembra che debbano scontare
più debiti di quanto il rock non abbia contratto prima
e dopo la loro venuta. Senza scordare poi come siano
comunque riusciti a sviluppare un sound estremamente
riconoscibile, soprattutto grazie alla chitarra (e alla voce)
di Mark Knopfler. Quanto al secondo “peccato”, credo
sia il caso di soffermarsi un attimo. Di ripartire dall’inizio.
La band prese forma a metà dei 70s proponendo una
mistura di rock’n’roll venato country e blues nel circuito
dei pub londinesi. A muovere i fratelli Knopfler, il bassista
John Illsley ed il batterista Pick Withers (quest’ultimo con
un passato abbastanza importante nei The Primitives di
Mal) pareva essere innanzitutto la voglia di allestire un
sottofondo tanto suggestivo quanto divertente, nel quale
la componente folk-blues - seppur mutuata in una sorta
di fantasia western ad alto tasso cinematico - predominava tenendo ancorato il messaggio ad altezza d’uomo.
In un certo senso, possiamo interpretare la proposta dei
Dire Straits come un controcanto escapista tanto all’iconoclastia punk dominante quanto alla sua alternativa arty
rappresentata dalla parimenti pervasiva new wave. Ne
risultò un crescente successo di pubblico (a partire dal
terzo album addirittura clamoroso) e la disistima imperitura proprio da parte di chi vedeva nel verbo di Pistols,
Clash, Suicide e Television il codice che avrebbe salvato le
sorti del rock. Un’avversione che ancora oggi dura.
Penso tuttavia sia il caso di tenere presente quanto le
schematizzazioni storiografiche siano solo necessarie
approssimazioni. Nella realtà in ogni momento convivono, si sfiorano e sovrappongono situazioni diverse,
ognuna diretta volente o nolente verso lo stesso domani. I Dire Straits insomma, che ci piaccia o meno,
sono figli perfetti del loro tempo. Prendete ad esempio
il nome della band, che tradotto vuol dire più o meno
“gravi ristrettezze”: non sarà una delle ragioni sociali più
punk che si possano immaginare, ma ci va abbastanza
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vicino. Detto questo, non si può negare che la loro comparsa sulla scena fu vissuta con sollievo e persino con
entusiasmo proprio dai reduci del folk-rock e persino di
certo prog (ne ho conosciuti in tempo reale). Alla fine di
tutti questi discorsi, e passiamo a quello che conta, c’è
un album d’esordio omonimo uscito nell’ottobre del ‘78:
periodo tragico che il quartetto britannico (con sede a
Londra, anche se i Knopfler erano originari di Glasgow)
volle sublimare inventandosi una dimensione epica.
Fu un po’ come fondere il piombo di quegli anni per farne proiettili simbolici, vaganti in una specie di scenario
post-western, tutto un gioco di astrazioni al sapor di
celluloide condotte con un gradevole mix di entusiasmo
e gravità. Lo stile del chitarrista-cantante-compositore
si esalta tra le insidie bluesy di Six Blade Knife e quelle funky di Southbound Again, nella blandizie errebì di
Lions (tipo gli Steely Dan in fregola Tom Petty), nelle latinerie languide di Water Of Love e in quelle smerigliate
di Down To The Waterline, nel deserto carezzevole di Wild
West End. Soprattutto, è ovvio, nella trascinante celebrazione di un mondo sul punto d’estinguersi (“...And an
old guitar is all he can afford/When he gets up under the
lights to play his thing”) di Sultans Of Swing, nella quale
c’è tutta intera la loro poetica, né più né meno.
Col suo lirismo liquido e denso, dalla visionarietà prepsichedelica, la chitarra di Knopfler sembra un archetipo rurale di Tom Verlaine, lo stilo di un sognatore che
allestisce sogni senza additivi, trasformando cupezze &
amarezze in un melò crepuscolare. Troppo caratterizzato per lasciare epigoni, il discorso dei Dire Straits è
evaporato in una nuvola mainstream prima che sembrasse in grado di scrivere pagine davvero profonde. Un
percorso così simile seppur così diverso nella sostanza
a quello dei coevi Police. In questo senso, il sodalizio
stretto da Sting e Knopfler per la scrittura e l’interpretazione della celeberrima Money For Nothing - anno 1985
- assume l’aspetto di un paradigma. O di un punto di
non ritorno, fate voi.
Stefano Solventi
“I ragazzi sono curiosi di noi, ci chiedono di Rebirth,
ma non sanno cosa c’è di sporco in quel programma,
di BASTARDO DENTRO”, diceva Cristina dei Krisma
tempo fa dopo un concerto.
Reznor invece lo sapeva sicuramente, cresciuto com’era
in un contesto nel quale i losers anni ‘90 avevano preso
da un decennio di metal il gusto per apocalisse, atrocità
e violenza, nonché attento allievo di Ministry e Skinny
Puppy sui lati oscuri dell’elettronica e conscio della svolta industrial presa da una buona corrente del suo amato gothic rock (amore che lo porterà alla cover di Dead
Souls per la colonna sonora de Il Corvo e alle collaborazioni con Peter Murphy). D’altronde nel ‘91 Nirvana
e Red Hot Chili Peppers avevano ribadito in classifica,
per chi non lo sapesse, che il rock esisteva ed era rumoroso, violento e meticcio (e dunque punk e metal
potevano abbandonare parecchie diffidenze reciproche), aprendo la strada per MTV a Vitalogy, agli Alice In
Chains o ai Ministry di Psalm 69.
Così Trent, che aveva esordito con due lavori ottimi ma
ancora non del tutto autonomi dai maestri suddetti
(Pretty Hate Machine, deviatamente pop, e l’EP Broken)
e che partecipava al Lollapalooza fin dall’inizio, va a raccogliere numerose suggestioni sia da una fase musicale
eclettica capace di sdoganare il rumore, sia da tendenze
sotterranee che risalivano ai Suicide e dintorni, sintetizzandole in una nuova musica davvero 90s e in grado
di dare indicazioni per il futuro: creare il capolavoro /
colonna sonora per la nuova generazione.
Attentissimo manipolatore del suono, chiuso nel suo
studio (costruito nella villa in cui Sharon Tate fu uccisa da Manson e accoliti, tanto per ribadire la moda
dell’atrocità) insieme a Flood a combattere contro tecniche pionieristiche di hard disk recording, Reznor costruisce un edificio di violenza sonora strutturato come
un film, dove l’introspezione disperata e l’immaginario
tra splatter, apocalisse e cyberpunk dei testi sanno raccontare le ansie di una modernità sempre meno umana.
Tanto quanto le narra un suono che toglie alla chitarra
elettrica l’aura di unica purezza possibile della rabbia
rock e al computer il frac algido che gli avevano messo
addosso i Kraftwerk e il synth pop anni ‘80.
C’è tutto questo in un disco che mostra un uso da maestro delle dinamiche forte/piano: dalla furia con aperture ambient dell’iniziale autoritratto di Mr. Self Destruct al
dub inquietante di Piggy, dal techno-pop che struttura
inizialmente Heresy al technopunk di Big Man With A
Gun, dall’apparente tranquillità venata di inquietudine
sempre meno trattenuta di Closer e Eraser alle frenesie quasi Pixies del breve singolo March Of The Pigs col
suo sorprendente stacco melodico di piano, dalla house
frammentata con interludio folk di The Becoming agli
intermezzi strumentali da colonna sonora della title
track e di A Warm Place, fino alla sorprendente ballatacapolavoro Hurt, che chiude il disco allo stesso tempo
in modo coerente e inatteso.
Il disco venderà parecchio, rafforzando l’influenza che
Reznor esercitava già dagli esordi e confermando che
il pubblico era pronto da tempo per un suono che il
disco stesso contribuisce a diffondere: vedi i Prodigy
in classifica di lì a poco, l’uso di certe batterie scorticate
da parte di Bjork in Homogenic, l’influenza su Outside
di un Bowie che con Low era stato una delle muse dichiarate di Reznor (ne seguirà anche un tour insieme) e
soprattutto l’apocalittico concerto a Woodstock 94 coi
nostri coperti di fango nel bel mezzo di una consacrazione ufficiale.
Alcuni preferiranno poi lo sviluppo realizzato nell’altro
capolavoro The Fragile: accademia, visto il livello delle
due opere.
Giulio Pasquali
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