Via Nizza, 11 ‐ 00198 ROMA ‐ Tel. 068845005 ‐ Fax 0684082071 ‐ www.gildains.it Giornata Mondiale dell’Insegnante 5 ottobre 2009 Nel 1994 l'UNESCO ha deciso di istituire la Giornata mondiale dell’Insegnante, celebrata il 5 di ottobre di ogni
anno in oltre 100 nazioni, per segnalare a governi e opinione pubblica la necessità di valorizzare il ruolo
dell'insegnante nel percorso di formazione, educazione e guida delle nuove generazioni.
Convegno Nazionale INSEGNANTI,
COSTITUZIONE, SCUOLA
Hotel Massimo D’Azeglio, Via Cavour 18
- ROMA
Art. 33.
L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse
piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per
l'abilitazione all'esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti
stabiliti dalle leggi dello Stato.
Art. 34.
La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso.
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MATERIALI di LETTURA e DISCUSSIONE
Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale «Facciamo l'ipotesi» Piero Calamandrei
1950
Cari colleghi, Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università [...]. Siamo qui
riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in
pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo?
Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po' vero ed è stato
detto stamane. Ma non è tutto qui, c'è qualche cosa di più alto. Questa nostra riunione non si deve immiserire in una
polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri
che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l'art. 7? Ma
lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione
democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento,
perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà [...].
La scuola, come la vedo io, è un organo "costituzionale". Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel
complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione),
nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola "l'ordinamento dello Stato", sono descritti quegli organi
attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto,
le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono
gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il
presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la
scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone
tra l'organismo costituzionale e l'organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che
nell'organismo umano hanno la funzione di creare il sangue [...].
La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale
della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di
classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli
organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo
delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della
democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una
chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre
rinnovata dall'afflusso verso l'alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni
categoria deve avere la possibilità di liberare verso l'alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa
temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire
a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società [...].
A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità
(applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La
scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può
aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.
Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno
immaginosa. » l'art. 34, in cui è detto: "La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi,
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hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi". Questo è l'articolo più importante della nostra Costituzione.
Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini
del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la
rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola
nella nostra Repubblica, domandiamoci: com'è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi
fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola
pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius,
quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima
(applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l'accento su quel comma dell'art. 33 della Costituzione che
dice così: "La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e
gradi". Dunque, per questo comma [...] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo
Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione
di realizzazione [...].
Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a
tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole
ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che
si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole
ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell'art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è
una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né
marxisti. La scuola è l'espressione di un altro articolo della Costituzione: dell'art. 3: "Tutti i cittadini hanno parità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione
politica, di condizioni personali e sociali". E l'art. 151: "Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle
cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge". Di questi due articoli deve
essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte
le fedi e di tutte le opinioni [...].
Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora,
ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative
pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato
ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato
in un altro articolo della Costituzione, nell'articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità
che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere
la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche,
religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di
unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità
di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre
parole, non è creata per questo.
La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di
una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: (1) che lo
Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private
a danno di altre. (2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione.
Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della
scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le
scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che
eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c'erano, si senta stimolato
a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l'espressione, "più ottime" le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere
la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.
Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere
nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché
non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella
scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del
totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque
molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di
Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di
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Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato
in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono
senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un
partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non
vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere,
una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in
scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in
quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta
un'ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a
favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le
cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i
ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei
premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli
invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia
meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo
trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la
prevalenza alle sue scuole private.
Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta.
Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: (1) ve l'ho già detto: rovinare
le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la
sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che
non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro
pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest'ultimo è il metodo più pericoloso. » la
fase più pericolosa di tutta l'operazione [...]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro
di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi
partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito
[...].
Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell'art. 33 della
Costituzione fu messa questa disposizione: "Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione
senza onere per lo Stato". Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da
compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche [...]. Ma poi c'è un'altra questione che è venuta
fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la "frode alla legge",
che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può
violare la legge figurando di osservarla [...]. E venuta così fuori l'idea dell'assegno familiare, dell'assegno familiare
scolastico.
Il ministro dell'Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a
"stimolare" al massimo le spese non statali per l'insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia
sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata,
bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per
partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due
volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da
questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge
quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno [...].
Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo
pagare? » un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla
scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si
potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i
cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l'arbitrato costa caro, spesso
costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici
pubblici l'arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! [...]. Dunque
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questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le
scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe
scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa
rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito [...].
Poi, nella riforma, c'è la questione della parità. L'art. 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità,
dice: "La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa
piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali" [...]. Parità, sì, ma bisogna ricordarsi che
prima di tutto, prima di concedere la parità, lo Stato, lo dice lo stesso art. 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della
scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo Stato ha il compito
di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a
controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma
evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso:
che lo Stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo Stato favorisca
questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale
alla bestialità [...].
Però questa riforma mi dà l'impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si
vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto
c'era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile
spianato. Anche nella riforma c'è il cacciatore con il fucile spianato. » la scuola privata che si vuole trasformare in
scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell'avvenire
lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in
scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di
partito.
E poi c'è un altro pericolo forse anche più grave. E’ il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso
di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto
significativo. » il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà,
la precisione, l'onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola
sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l'idea
che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una
parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la
morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della
scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c'erano scuole di preti in cui si sapeva
insegnare il latino e l'italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono
i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti,
cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè
profittatori del regime.
E c'è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento.
Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui
le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però
guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. E’ accaduto lo stesso. Ci sono stati
professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni
affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome
di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d'Italia. Pensiamo a
questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell'avvenire. Siamo fedeli
alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza
morale.
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Costituzione: elusa dai politici di Rino Di Meglio
Il prossimo 5 ottobre si celebrerà in tutto il
mondo la giornata mondiale dell’insegnante.
Noi abbiamo decisa di celebrarla con un
convegno dedicato al rapporto tra la
Costituzione e la Scuola, un argomento che
potrebbe apparire accademico in un momento
come quello che viviamo che vede la nostra
scuola oggetto di tagli feroci e, per gli
insegnanti, una condizione di sempre maggior difficoltà, sia per lo status sociale derivante da una retribuzione
molto bassa, ma anche per le condizioni di lavoro sempre più difficili.
Un discorso sulla legge fondamentale potrebbe risultare noioso e didattico, ma nei momenti difficili, ritengo che
non sia improduttiva una riflessione approfondita sui valori fondanti della nostra società
La Costituzione sancisce le libertà, i diritti e i doveri principali per tutti i cittadini; non è una norma immutabile,
tanto che con particolari procedure di garanzia, può essere anche modificata. In termini generali, va detto che non
sempre la semplice esistenza di una buona Costituzione garantisce l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali,
come dimostrato da esperienze storiche anche recenti.
Questa premessa per affermare che i principi costituzionali possono diventare puramente formali se essi non
impregnano la cultura e la mentalità della maggioranza dei cittadini.
Ecco quindi la funzione fondamentale della Scuola e dei docenti: trasmettere alle future generazioni, assieme
all’istruzione nelle discipline, la consapevolezza di essere cittadini e non sudditi, ed il grande valore delle
libertà fondamentali, che non possono essere violate da nessun governo.
Alcuni articoli della nostra Costituzione riguardano direttamente la Scuola Pubblica Statale ed i docenti.
Il più rilevante, per noi insegnanti, è sicuramente l’articolo 33 che sancisce la libertà di insegnamento.
E’ questa fondamentale libertà che differenzia il docente da qualsiasi altro impiegato dello Stato.
E’ dal contenuto di questa parte della Costituzione che possiamo trovare i motivi profondi della battaglia che
sosteniamo da sempre per un contratto specifico per i docenti.
Anche la necessità di organismi che garantiscano l’autonomia e la libertà della professione docente nasce da questo
principio che si trova invece in profondo contrasto con la politica condotta negli ultimi anni, che vuole
rafforzare il potere della dirigenza scolastica, a discapito dell’autonomia della docenza.
Possiamo quindi dire che questo tipo di politica contrasta con lo spirito della Costituzione.
Un'altra questione sulla quale i politici ignorano o fingono di ignorare la costituzione è quella del
finanziamento alle scuole private: quel lapidario “senza oneri per lo Stato” viene sistematicamente aggirato con
finanziamenti forniti attraverso varie forme. L’ultima trovata è il “buono scuola” che verrebbe attribuito alle
famiglie e non alle Scuole, aggirando il dettato dell’articolo 33.
I signori politici fingono di dimenticare che l’articolo 34 dice, con molta chiarezza che le provvidenze o
assegni alle famiglie debbono essere attribuite per concorso.
Il buono scuola generalizzato è quindi indiscutibilmente contro la Costituzione.
Storicamente, un altro equivoco ha riguardato l’articolo 3 della Costituzione che affida alla istituzioni
repubblicane, il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano l’uguaglianza dei cittadini.
Significa che la Scuola ha il dovere di agire per garantire ai futuri cittadini l’uguaglianza delle opportunità.
Questo principio di uguaglianza è stato per molto tempo interpretato come la necessità di un livellamento
verso il basso, una sorta di appiattimento. In realtà il senso viene precisato nell’articolo 34, laddove si
afferma che i “capaci e meritevoli” debbono poter raggiungere i più alti gradi dell’istruzione.
Ancora, capita sempre più spesso, nella vita quotidiana delle nostre scuole, che qualche dirigente scolastico,
facendosi forte dei poteri dell’autonomia, affermi di possedere dei poteri discrezionali. Anche in questo caso si
ignora la Legge fondamentale, infatti gli articoli 97 e 98 fissano i principi fondamentali cui deve attenersi la
Pubblica Amministrazione, per tutti, dal ministro al bidello, e dicono, con semplicità che i comportamenti e le
decisioni del pubblico dipendente debbono attenersi all’interesse pubblico ed essere improntati all’imparzialità,
quindi mai a quello privato.
In questa nostra epoca non sono principi molto in voga, ma ci sono.
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Sempre qui sta scritto che al pubblico impiego si accede mediante concorso, una barriera formidabile alla
quale dobbiamo aggrapparci con forza per sventare le pretese di “assunzione diretta”.
Per concludere, voglio ricordare i diritti dei disabili all’istruzione, dichiarati dall’articolo 38, diritti che non
possono essere violati da esigenze di organico o risparmio, e dalla questione dei poteri, piuttosto ampi, attribuiti
alle Regioni dall’art. 117. Una questione sulla quale dovremo concentrarci, per non farci cogliere impreparati da
qualche improvviso sussulto della cosiddetta volontà politica.
Allo Stato sono infatti rimaste solo competenze di carattere generale, per il resto può essere solo questione di
tempo, non ci deve ingannare il termine di “potestà concorrente”, usato nel testo costituzionale, con questo nuovo
testo è abbastanza chiaro che il potere legislativo spetterà alle Regioni.
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Art. 33
[…] È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 33
L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sulla istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. […]
Art. 34
La scuola è aperta a tutti.
[…] I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso.
Art. 38
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e
all'assistenza sociale.
Art. 97
I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la
imparzialità dell'amministrazione.
[…] Agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
Art. 98
I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
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Costituzione alla mano di Rino Di Meglio
Malgrado l’ opinione del ministro Gelmini, la Costituzione non permette che lo Stato finanzi le scuole private.
Piuttosto ci troviamo di fronte ad un inequivocabile sistema di illegalità diffusa ed è quanto mai fuori luogo
questa intenzione peraltro proprio in un momento storico nel quale le risorse della Scuola Statale vengono tagliate
con una brutalità senza precedenti.
Durante una recente intervista, il ministro Gelmini ha dichiarato pubblicamente, che intende
“Costituzione alla mano” offrire sostegno economico alle scuole paritarie. Secondo il Ministro il
concetto di uguaglianza tra i cittadini verrebbe realizzato con l’erogazione di somme di danaro alle
famiglie degli alunni che iscrivono i propri figli alle scuole gestite da soggetti privati. L’erogazione
effettuata dallo Stato alle famiglie sarebbe poi trasferita, quale retta di iscrizione e frequenza, dalle
famiglie alle scuole private contribuendo al loro finanziamento.
La libertà delle opinioni vale per tutti, anche ovviamente per i ministri, ma sembra oggettivamente
difficile potersi appellare alla Costituzione per concludere che si agirebbe secondo i suoi principi,
finanziando le scuole private. Su questo argomento, dopo un confronto non privo di asprezze,
l’Assemblea costituente nel 1948 risolse la questione nel testo dell'articolo 33 della Costituzione che così
recita testualmente: “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per
lo Stato”.
Ora tutto si può interpretare, ma resta quel lapidario “senza oneri per lo Stato”.
A proposito di finanziamenti indiretti alle scuole private, la Gilda degli Insegnanti aspetta inutilmente da
mesi una risposta da parte del ministro rispetto allo scandalo, evidenziato soprattutto nel Sud del Paese,
delle scuole private che sfruttano i docenti precari facendoli lavorare senza stipendio e contributi in
cambio del punteggio da utilizzare nelle graduatorie statali. Lo scandalo è stato denunciato, con
prove, anche da una trasmissione televisiva ed il ministro tace. Abbiamo indicato al Ministro la via
dell’incrocio con i dati INPS per scoprire almeno una parte di queste attività illecite ed il silenzio
tombale continua.
Il meccanismo perverso che è stato denunciato , in pratica, rappresenta una forma di finanziamento
occulto alle scuole private che così hanno personale gratis a volontà. Non sono rari, inoltre, i casi di
supplenti che hanno contratti di poche ore settimanali, senza percepire un euro ma ricevendo in cambio
punteggio, e che nel frattempo hanno un'altra occupazione in nero. Senza considerare che molte scuole
paritarie, per esempio in Campania, sono in realtà diplomifici dove gli studenti non frequentano le lezioni
ma, pagando, vengono comunque ammessi a sostenere l'esame di maturità all'interno dell'istituto. Anche
questa casistica è stata ampiamente documentata in un’inchiesta televisiva.
Ci troviamo quindi di fronte ad inequivocabile sistema di illegalità diffusa ed è quanto mai fuori
luogo l'intenzione espressa dal ministro Gelmini di assegnare un bonus alle famiglie che vogliono
iscrivere i propri figli alle scuole paritarie, peraltro proprio in un momento storico nel quale le
risorse della Scuola Statale vengono tagliate con una brutalità senza precedenti.
Oggi alcune vaste zone del paese sono sotto il controllo della malavita organizzata, lo Stato fa fatica a
contrastare questo fenomeno, spesso la Scuola pubblica statale è l’unica trincea dove si cerca di
recuperare i futuri cittadini alla legalità.
Allora, lasciare che anche il sistema scolastico venga inquinato dall’illegalità è un grave delitto contro il
futuro della nostra Nazione. Come potranno educare al diritto, alla legalità ed al senso di giustizia
docenti che per salire nelle graduatorie sono essi stretti costretti a convivere ed utilizzare il mondo
dell’illegalità ?
Che cittadini saranno quelli i cui genitori acquistano un titolo di studio che non corrisponde ad un
merito ?
Il silenzio del Ministro non ci farà rassegnare. Continueremo imperterriti a batterci perché in
questo paese trionfino il diritto e la giustizia e perché la scuola di tutti i cittadini, la scuola del
pluralismo sia salvata.
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Art. 33 ­ Libertà di insegnamento di Anna Papa
Art. 33.
L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse
piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per
l'abilitazione all'esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti
stabiliti dalle leggi dello Stato.
Fondamenti storico-giuridici
La “libertà di insegnamento” è sancita dall’art. 33 della Costituzione ed è in relazione alle funzioni
istituzionali della scuola. Tra le diverse interpretazioni dottrinali è prevalsa quella che assegna alla scuola
un carattere educativo e non solo informativo, poiché essa tende alla formazione delle nuove generazioni.
Infatti, il D.L. 16 Aprile 1994, n. 297 (Parte III, , titolo I, Capo I) afferma che la “funzione docente è
intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla
elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione
umana e critica della loro personalità”.
Quella libertà è intesa come “libertà da” e “libertà di”.
Nella prima accezione, è intesa come “libertà da pressioni o intromissioni da parte di altri soggetti”, in
primo luogo lo Stato, ma più concretamente le autorità scolastiche.
Tale libertà si sostanzia nella possibilità, per l’insegnante, di esercitare la sua funzione in conformità alle
proprie convinzioni in ordine alle discipline che insegna, senza essere condizionato né da una verità
ufficiale alla quale adeguarsi, né da una dottrina, elaborata in altra sede e elevata a dogma, da riferire
agli studenti.
In questo senso, il 1° comma dell’art. 33 della Costituzione viene visto come volto a salvaguardare il
docente dalla possibilità che lo Stato gli imponga una “dottrina ufficiale” da trasmettere ai discenti. Si
tratta di un punto particolarmente sottolineato dagli studiosi, anche sulla scia di quanto emerso nel corso
del dibattito in sede di Assemblea Costituente (cfr. Atti Assemblea Costituente, vol. IV, p. 3146 e SS.)
In assenza (voluta) di una scienza e di una coscienza di Stato, la libertà di insegnamento mira a garantire
la libertà del docente, per se stesso, come libertà di manifestare il proprio “sapere” nella scuola.
La predisposizione ministeriale dei programmi di insegnamento per i vari ordini di scuola tocca soltanto
l’aspetto oggettivo dell’insegnamento e non quello qualitativo relativo alle concrete modalità con cui
l’insegnante svolgerà i programmi (cfr. Caretti-De Siervo, Istituzioni di Diritto Pubblico, p. 570).
E’ vero che egli è professionista in senso etico e non giuridico, poiché in una scuola di Stato si trova
nella condizione di pubblico dipendente, collegato all’Amministrazione da un rapporto gerarchico, per ciò
che attiene agli aspetti organizzativi; di direzione e controllo per l’aspetto tecnico della sua prestazione;
ma, in ogni caso e comunque, egli è indipendente per gli aspetti culturali ed ideologici dell’insegnamento
(A. Mura, La Scuola della Repubblica, pag. 117).
Quella libertà permette la libera espressione culturale del docente e rientra, con alcuni limiti, nella
libertà di pensiero (art. 21 della Costituzione) che la stessa Corte Costituzionale riconosce come la “pietra
angolare dello sviluppo democratico in quanto condizione del modo di essere e dello sviluppo della vita
del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale.” (Sentenze 31/12/1982, n. 257 e 23/05/1985, n.
159).
(da Anna Papa, Autonomia didattica e libertà di pensiero nell’ambito della scuola pubblica, “Dirigenti e Scuola”, n. 2,
Nov/Dic.1995).
9
Art 34 ­ Diritto all'istruzione e diritto allo studio di Maria Rosaria Ricci*
Art. 34.
La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso.
L'analisi dell'art. 34 della Costituzione impone una preliminare indagine di tipo terminologico, volta a
chiarire se esiste e qual è la differenza fra diritto all'istruzione e diritto allo studio.
La necessità di tale chiarimento si spiega in ragione del differente impiego, da parte degli studiosi,
dell'una o dell'altra delle due espressioni. Parte consistente della dottrina preferisce la prima, ritenendola
giuridicamente più corretta rispetto alla locuzione «diritto allo studio» (Mastropasqua, Pototschnig,
Ruscello); altri autori, al contrario, pur non negando la maggiore correttezza formale e giuridica
dell'espressione «diritto all'istruzione», reputano più opportuno parlare di «diritto allo studio»: tale
formula sarebbe più moderna e meglio esprimerebbe la nuova fondamentale funzione dell'istruzione, che
non è quella di trasmettere un bagaglio culturale già acquisito, bensì quella di garantire la promozione e lo
sviluppo della personalità dello studente (Atripaldi, Bruno, Meloncelli).
Sicuramente interessante è poi l'orientamento di chi utilizza l'uno e l'altro dei due termini, attribuendo a
ciascuno di essi un significato suo proprio (De Simone, Fancellu, Mazziotti Di Celso).
Per «diritto all'istruzione» s'intende quello all'istruzione inferiore, di cui sono titolari tutti gli alunni della
scuola dell'obbligo.
L'espressione «diritto allo studio» indica, invece, il diritto di raggiungere i gradi più elevati degli studi, da
riconoscersi non indistintamente in capo a tutti gli studenti, ma solo a quanti fra essi presentino specifici
requisiti: capacità, merito, appartenenza a famiglie in condizioni economiche disagiate («privi di mezzi»);
perciò si parla di diritto all'istruzione superiore.
Quest'ultimo orientamento merita attenzione non solo perché soddisfa quell'esigenza di chiarezza cui
poc'anzi si accennava, ma soprattutto perché trova la sua giustificazione proprio nel disposto
costituzionale in esame.
L'art. 34 Cost., infatti, dà fondamento al diritto all'istruzione nel suo secondo comma; il diritto allo studio
si deduce, invece, dalla formulazione del comma successivo.
La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso
L'articolo in commento ha rappresentato una novità di grande rilievo rispetto al passato - dato che nello
Statuto albertino non vi era riferimento alcuno né alla situazione giuridica ora tutelata né, più in generale,
alla tematica scolastica - e ha costituito al tempo stesso una svolta nella legislazione ordinaria successiva,
che ha introdotto una più articolata e organica disciplina della materia.
La stessa disposizione ha fatto, però, a lungo discutere i padri costituenti e continua a far parlare gli
studiosi dei giorni nostri.
Il suo primo comma, che proclama la scuola aperta a tutti, solleva non poche questioni, alcuni interpreti
riferendolo al primo gradino della scuola in generale, altri al primo gradino di ogni corso di studi.
Qualche critico, inoltre, in maniera decisamente riduttiva, coglie in questa formula di apertura
semplicemente un diritto all'iscrizione scolastica; i più, a ragione, la leggono quale consacrazione del
diritto ad ottenere un'istruzione adeguata, necessaria alla formazione della personalità e all'assolvimento
dei compiti sociali.
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La necessità di aprire la scuola a tutti denuncia, a quanto sembra, la volontà dei costituenti di fare in modo
che l'istruzione, cessando di essere privilegio di pochi, potesse finalmente diventare diritto di tutti. E
questo è il senso da dare alla proposizione in esame: essa sancisce il principio della non discriminazione
ed il divieto di configurare l'istruzione come appannaggio di categorie determinate di persone, quelle
situate più in alto nella scala sociale.
A mente del secondo comma, l'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e
gratuita.
Il legame fra le due caratteristiche è chiaro: l'imposizione di un obbligo, per adempiere al quale è previsto
un sacrificio economico, non può che sposarsi con la garanzia della non onerosità dell'attività necessaria a
tale adempimento.
L'affermazione della gratuità e dell'obbligatorietà riferite all'istruzione consente di comprendere come
nella statuizione in esame trovi fondamento da un lato, come si diceva, un diritto - inteso non già in senso
generico, ma specificamente quale diritto all'istruzione inferiore - dall'altro un vero e proprio obbligo o
dovere di istruzione. Le due situazioni giuridiche fanno capo ad un unico soggetto: l'alunno, che può
soddisfare il diritto attraverso la gratuità ed adempiere all'obbligo mediante la frequenza a scuola.
La correlazione diritto-dovere chiama in causa, è ovvio, anche la pubblica amministrazione: affinché il
diritto all'istruzione possa essere soddisfatto, questa deve adoperarsi e porre in essere ciò che è necessario
allo scopo.
Il punto cruciale è proprio questo: cosa deve fare la pubblica amministrazione perché il diritto
all'istruzione possa essere concretamente garantito?
Può rispondersi che deve assicurarne la gratuità. In tal modo, però, altro non si fa se non spostare i termini
del problema. Rendere gratuita l'istruzione significa esonerare semplicemente dal pagamento delle tasse
di iscrizione a scuola, o vuol dire mettere a disposizione degli alunni tutto ciò che serve (i mezzi
necessari) per consentire loro di adempiere all'obbligo scolastico e di esercitare, al tempo stesso, il diritto
all'istruzione?
Questa seconda accezione, più ampia e soddisfacente, trova fondamento proprio nel nesso che sussiste fra
tale diritto e la caratteristica della gratuità: la garanzia del primo, difatti, si ritiene possa misurarsi
nell'ampiezza della seconda.
Quanto alla gratuità, si impone una precisazione. Spesso essa viene riferita indistintamente tanto
all'istruzione inferiore quanto a quella superiore.
Nel primo caso l'imputazione è senz'altro corretta, non foss'altro perché è lo stesso costituente che utilizza
questa espressione. Qualche perplessità sorge, invece, con riferimento all'istruzione di grado superiore,
nel qual caso più che di gratuità sarebbe opportuno parlare di sostegno statale a favore dei soggetti
bisognosi, di assistenza da parte dello Stato che si traduce nell'attribuzione di borse di studio, assegni alle
famiglie e altre provvidenze.
Tra la gratuità della scuola obbligatoria e l'assistenza prevista per la fascia successiva vi è infatti una
differenza considerevole. Mentre la prima è garantita a tutti, perché è dovere della società assicurare un
minimo di istruzione agli alunni della scuola dell'obbligo, l'assistenza statale per gli studenti che
percorrono i gradi più alti degli studi è riservata soltanto a una categoria di essi: i capaci e meritevoli privi
di mezzi.
Conferma di ciò si coglie nelle disposizioni di cui al terzo e al quarto comma, analizzate congiuntamente,
nel paragrafo che segue, visto il nesso che le lega.
Il riconoscimento del diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi (terzo comma) può considerarsi
un'affermazione di principio, che si completa e concreta nella previsione dei mezzi attraverso i quali
renderlo effettivo (quarto comma).
Dall'esame delle due disposizioni sembra emergere, innanzitutto, che per aversi diritto alle provvidenze
non è sufficiente essere capaci o meritevoli; è necessario che si sia capaci e meritevoli nello stesso tempo.
Il merito, cioè, non può essere disgiunto dalla capacità e viceversa. Su questo punto non pare vi siano
contrasti in dottrina, e ciò probabilmente per la chiarezza dei costituenti al riguardo.
Sicuramente più controverso è, invece, un altro aspetto. Perché si possano ottenere le provvidenze di cui
parla il legislatore costituente è necessario che si sia capaci e meritevoli e privi di mezzi, oppure a esse
hanno diritto anche i capaci e meritevoli che però abbiano mezzi sufficienti?
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Nonostante le differenti posizioni della dottrina al riguardo, si ritiene ragionevole cercare la risposta nella
distinzione tra riconoscimento ed effettività, o, come si è osservato, fra diritto al proseguimento degli
studi e diritto alle prestazioni patrimoniali.
E allora, in quest'ottica, il diritto di raggiungere i gradi più elevati degli studi sarebbe riconosciuto a tutti,
ma verrebbe reso effettivo, attraverso un intervento statale, soltanto per i privi di mezzi (Ruscello).
Insomma, la Repubblica concede benefici agli studenti che, pur capaci e meritevoli, non potrebbero
conseguire certi livelli perché economicamente impossibilitati. Per coloro che, capaci e meritevoli, hanno
mezzi propri, il diritto ai gradi più alti degli studi viene garantito in base alle norme che regolano
l'accesso a scuola; non c'è bisogno, cioè, di un particolare intervento di sostegno.
Questo sembra il senso da attribuire alle disposizioni in parola. Esso scaturisce da un'interpretazione non
semplicemente letterale - la quale, anzi, rischierebbe di essere fuorviante a causa di quella «improprietà
nel testo costituzionale» (Ospitali) rappresentata dall'uso dell'espressione “anche se privi di mezzi”, che
non parrebbe escludere gli studenti in possesso degli stessi - bensì di tipo logico-sistematico, che tiene
conto, cioè, non solo dell'articolo da interpretare, ma anche di altre statuizioni allo stesso legate e dei
principi generali desumibili dalla Costituzione.
Tralasciando altri riferimenti, non può farsi a meno di notare che il diritto allo studio rappresenta uno
degli strumenti più importanti per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il
pieno sviluppo della persona umana (fra cui quelli legati all'istruzione) e per dare attuazione, quindi, a
quell'eguaglianza sostanziale fra cittadini abbienti e meno abbienti che è alla base dell'art. 3 Cost.
(secondo comma).
Tra diritto allo studio e principio di uguaglianza si coglie un evidente nesso di reciprocità: se non si tutela
il primo non può garantirsi l'uguaglianza fra i cittadini; del pari, se non si assicura l'uguaglianza o, meglio,
se non si rimuovono gli ostacoli economici che creano differenziazioni, non si può consentire ai capaci e
meritevoli, privi di mezzi, di raggiungere i gradi più elevati degli studi.
*Funzionario della Provincia di Roma, cultore delle materie di Istituzioni di Diritto pubblico (Università L.U.M.S.A. - Facoltà
di Lettere e Filosofia) e di Diritto amministrativo (Università “La Sapienza - Fac. Scienze politiche). Fra le sue pubblicazioni
ricordiamo: Diritto allo studio e assistenza economica agli universitari (Archivio Giuridico 1997), Il diritto allo studio
(U.R.P.L. 1997).
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La Corte costituzionale apre la strada al contratto separato dei docenti? (Intervista all’avvocato e professore Carlo Pisani*
a cura di Renza Bertuzzi in Professione docente, ottobre 2005)
La sentenza 322/2005 ha affermato che le differenze tra docenti e personale ata riguardano lo status giuridico e non
la qualifica .
D) Professor Pisani, la sentenza n. 322 del 13 Luglio 2005 della Corte Costituzionale conferma ciò che la Gilda va
sostenendo da molti anni e cioè che i docenti svolgono una funzione diversa da quella delle altre figure che
operano nella scuola. Da questo elemento, secondo la nostra Associazione, dovrebbe discendere la necessità di
un’area di contrattazione separata per i docenti. Come va letta questa sentenza?
R) La Corte Costituzionale, chiamata a decidere su di un caso particolare per il quale si era ipotizzata una presunta,
illegittima, differenza di trattamento tra figure professionali, ha esaminato differenze ed identità delle figure in
oggetto, ed ha concluso esaltando le differenze e non le identità.
In più, le differenze tra i docenti, gli ATA e i dirigenti della scuola che la Corte ha messo in evidenza, non sono di
tipo contrattuale, ma discendono dalla disciplina generale delle leggi.
In sostanza, non ci si riferisce a differenze di qualifica, ma a differenze di status.
Docenti, dirigenti ed ATA sono figure distinte, svolgono funzioni distinte e la Corte ha decisamente marcato questa
distinzione.
D) Quali ricadute può avere questa sentenza?
R) Ragionevolmente, si potrebbe pensare ad una area (o sub -area) di contrattazione separata, ma questa è una
pagina tutta da scrivere.
D) Bene, Professore, quali potrebbero essere le azioni per dare vita a questa possibile pagina?
R) Due sono le azioni che potrebbero rendere operativa quella sentenza: l’azione sindacale e l’azione giudiziaria.
L’azione giudiziaria avrebbe un presupposto. In regime privatistico, la definizione di aree di contrattazione
sindacale è lasciata alla lotta sindacale: se nuovi soggetti professionali sono in grado di organizzarsi per dare vita
ad una nuova area contrattuale, nulla osta e l’azione giudiziaria non entra nel merito.
Nel pubblico, invece, il Dlg. 165 ha creato un ibrido, assegnando comunque alla Pubblica amministrazione la
facoltà di stabilire i comparti o le sub- aree contrattuali. Per questo, dunque, l’azione giudiziaria ha il compito di
verificare che ogni atto compiuto dalla PA sia conforme alla Costituzione.
Questa sentenza, esaltando le marcate diversità di funzioni all’interno del comparto della scuola, propone
argomenti sistematici per sostenere la necessità di un distinto contratto collettivo per i docenti.
In sostanza, vi sono fondati motivi per ritenere irragionevole l’ attuale unificazione contrattuale del Comparto
scuola. Come può una norma amministrativa mettere insieme funzioni così diverse?
C’ è il precedente di un’azione giudiziaria, relativa all’accorpamento del contratto dei Vigili del Fuoco con figure
che svolgono funzioni completamente differenti. L’azione ha avuto successo, uno degli argomenti che ho sostenuto
è stato proprio quello dell’ “ irragionevole accorpamento”. Ora i Vigili del Fuoco hanno un contratto separato.
D) La via giudiziaria dunque avrebbe probabilità di successo?
R) Non possiamo azzardare pronostici, tuttavia nella sentenza n. 322 vi sono argomenti validi da approfondire e
che meritano una riflessione.
Anche il possibile argomento contrario, secondo il quale è usuale trovare qualifiche differenti in molti contratti
(per esempio nel contratto degli enti Territoriali ci sono qualifiche decisamente differenziate), non sarebbe
dirimente, poiché le differenze a cui si riferisce questa sentenza non sono relative alle qualifiche ma allo status,
alle persone che operano nella scuola.
“Le differenze di cui parla la Corte non sono di grado, ma di peculiarità, tanto che nella sentenza si trova
testualmente un’ affermazione di grande rilievo : “le indicate tipologie di personale versano in una situazione di
stato giuridico che non ne consente l’ assimilazione in un’ unica categoria”, ( Corte costituzionale, Sentenza,
n. 322, del 13 Luglio 2005, 5.3).”
*Il professor Carlo Pisani è docente di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università di Trieste e
presso la LUISS, oltre che libero professionista. Ha partecipato al seminario di Formazione per i quadri della Gilda che si è
tenuto a Roma nel gennaio del 2005.
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La Costituzione si insegna con il comportamento Intervista a Gherardo Colombo*
a cura di Renza Bertuzzi
E’ opportuno è utile parlare della Costituzione anche a chi si trova in età precoce, perché i bambini si misurano
con le regole fin da piccoli. La Costituzione dovrebbe essere insegnata sia a scuola che in famiglia, ma poiché è
difficile che in famiglia ciò succeda, il compito grava sulla scuola. Il modo migliore per insegnare la Costituzione
è metterla in pratica, cioè praticarla con i comportamenti. E’ quel che si fa, non quel che si dice, che viene
recepito dai ragazzi perché si diventa grandi in un modo o in un altro a seconda dei comportamenti che si vedono,
degli esempi che si hanno davanti.
D) Dottor Colombo, perché ha pensato di parlare di regole anche con i bambini, con questo libro, scritto
con Anna Sarfatti, “Sei Stato tu? La Costituzione attraverso le domande dei bambini”?
R) Ogni anno mi capita di fare almeno 400 incontri con le scuole di ogni ordine e grado: elementari,
medie e superiori. Sono più frequenti i contatti con le scuole superiori, ovviamente, ma mi sono reso
conto di un fatto importante: più i ragazzi sono giovani e meno sono prevenuti sul tema delle regole e
meno resistenti a conoscerle.
Questa esperienza, unita a quella vissuta nei rapporti con i miei figli, mi ha mostrato come anche con i
bambini sia possibile dialogare sulla Costituzione, regola base di tutte le regole. La collaborazione con
Anna Sarfatti è nata dalla conoscenza del modo in cui lei lavora con i suoi scolari e così, proprio
attraverso le domande dei bambini, è nato il libro. Il rapporto con Anna e la sua classe mi ha confermato
l’opportunità e l’utilità del parlare anche a chi si trova in età precoce della Costituzione. I bambini si
misurano con le regole fin da piccoli: ogni gioco ha le sue, e se vogliono giocare devono conoscerle e
rispettarle; la regola dimostra subito la sua utilità. Non è così semplice quando le regole riguardano i
rapporti con le altre persone nella vita reale, perché lì è assai più difficile avere consapevolezza della
funzione, e della utilità, delle regole.
D) A suo parere, dove dovrebbe essere insegnata la Costituzione?
R) La Costituzione dovrebbe essere insegnata sia a scuola che in famiglia. Spesso però è difficile che in
famiglia questo avvenga, quindi il compito grava soprattutto sulla scuola. Ovviamente, per insegnare la
Costituzione occorre conoscerla, e conoscerla bene. E non è sufficiente conoscere il contenuto della
Costituzione, ma è necessario sapere anche perché coloro che l’hanno scritta hanno voluto farla così
com’è. Alcuni insegnamenti si prestano meglio di altri a trattare il tema (penso, per esempio, alle materie
umanistiche), ma credo tutti gli insegnanti potrebbero trasmettere i principi costituzionali, anche se le loro
materie sono apparentemente lontane. Il modo migliore per insegnare la Costituzione è metterla in
pratica. Cioè, praticarla con i comportamenti. Faccio un esempio sul principio dell’uguaglianza: se si
proibisce agli studenti l’ uso del cellulare in classe, ma poi si lascia acceso il proprio, non si insegna la
Costituzione. E’ quel che si fa, non quel che si dice, che viene recepito dai ragazzi. Si diventa grandi in un
modo o in un altro a seconda dei comportamenti che si vedono, degli esempi che si hanno davanti.
Quando quel che si dice e quel che si fa non coincidono si insegna anche ad essere l’ipocriti.
*Gherardo Colombo, già Pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Milano, di cui si ricorda soprattutto il
fondamentale contributo alle indagini e ai processi nell'ambito dell'operazione Mani pulite, è attualmente Vicepresidente della
Casa Editrice “Garzanti”.
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Non è mai troppo presto Gherardo Colombo, Anna Sarfatti,
Sei Stato tu? La Costituzione attraverso le domande dei bambini.
Salani Editore.
di Renza Bertuzzi
Parafrasando un vecchio slogan dei tempi d’antan, quando la cultura rappresentava un
obiettivo di grande valore, si può con sicurezza affermare che non è mai troppo presto parlare di regole a
scuola e soprattutto parlare della base di tutte le regole che è la Costituzione.
I tempi in cui stiamo vivendo non sono certo confortanti, rispetto a questo tema. Le regole ormai non
sono più parte consolidata del vivere civile e familiare e la Costituzione appare a troppi più come un
impedimento che come una garanzia e come la memoria del nostro passato.
Se così è, come tentare un’ inversione di tendenza in questo comune sentire piuttosto preoccupante?
Diciamo subito che l’impresa non è facile, che spesso si è tentati dalla sensazione di ineluttabile
scivolamento verso il disincanto. Tuttavia, per fortuna, si muovono e agiscono nella società civile persone
che non hanno alcuna intenzione di abbandonare la funzione di educare ai valori della nostra Repubblica,
quei valori che dovrebbero essere difesi prima di tutto da quel ceto politico, in nome dei quali esso giura
fedeltà al proprio mandato.
Persone come Gherardo Colombo, ex magistrato di Mani pulite e Anna Sarfatti, docente nella scuola
primaria, i quali hanno messo in cantiere un’ esperienza di Costituzione insegnata ai bambini di una
classe V, da cui è nato uno stimolante testo “Sei stato tu? La Costituzione attraverso le domande dei
bambini.”
Così, partendo dal fatto che ogni gioco ha le sue regole e che per giocare occorre conoscerle, il “gioco” di
imparare la Costituzione è cominciato. Perché -come dice Colombo- nella sua prefazione “La
Costituzione è un po’ come un libretto d’istruzione sulle relazioni; del “gioco” dei rapporti con gli altri
[…] dello stare insieme armoniosamente, senza prevaricare e senza essere prevaricati, riconoscendo in
ogni altro una persona e perciò rispettandolo come si rispetta se stessi”.( Pag. 7)
Il percorso, iniziato da Anna Sarfatti, è durato 4 anni, perché- lei stessa ci dice nella Conclusione- “si può
cominciare anche dalla prima classe a parlare di Costituzione, purché si cerchino modalità adeguate
all’età e agli interessi dei bambini” e perché bisogna prevedere “un tempo disteso, accogliente, […] un
tempo che preveda di fermarsi anche a lungo su un argomento, se i bambini lo richiedono”. In questo
tempo, tutti gli articoli della Costituzione sono stati analizzati e spiegati, dando voce a tutti i dubbi e tutte
le domande dei bambini, in un “dialogo a distanza con una persona molto esperta, la cui identità è
rimasta a lungo coperta da segreto. A lui, -all’uomo senza nome- potevano rivolgere la domande
scaturite nel corso delle nostre conversazioni. […]si capisce che scrive per noi bambini-hanno dettoperché ci spiega bene, con parole facili”. Solo a conclusione di questa esperienza hanno appreso di aver
dialogato con Gherardo Colombo”. ( Pag. 127).
Anna Sarfatti afferma che “parlando di Costituzione con i bambini si è sentita cittadina più che maestra”
(pag. 126), ma, concludiamo noi, i docenti dovrebbero essere cittadini più cittadini degli altri e questa
esperienza ci insegna che è possibile che ciò avvenga e che è auspicabile che queste esperienze diventino
comuni in tutte le scuole.
15
Le parole della Costituzione di Antonio D’Andrea
Che cosa è stata e che cosa ha significato per il nostro Paese la Costituzione repubblicana del 1948 ?
Penso si possa affermare che la vigente Costituzione ha consentito il lento, faticoso avvio dell’ordinamento
italiano, che non aveva dimestichezza con i principi base del costituzionalismo occidentale – a partire dalla
divisione dei poteri –, verso uno sbocco democratico in un contesto sociale fortemente arretrato che mostrava
oltretutto evidenti “fratture interne” sia ideologiche sia territoriali. Essa delineava in effetti un avanzato – e
“presbite”, è stato giustamente definito – modello statuale, persino troppo avanzato. Ciò spiega bene perché sia
stato attuato lentamente e abbia incontrato difficoltà di realizzazione da parte degli stessi apparati pubblici. Modello
che avrebbe dovuto stimolare una evoluzione progressiva e solidaristica della società italiana così da ridurre le
evidenti fratture di partenza e, comunque, tale da comporre ex novo il mosaico democratico.
Questa coraggiosa prospettiva costituzionale era frutto – grazie alla lungimiranza e duttilità della classe dirigente
dei partiti riemersi dalla clandestinità dopo la caduta del fascismo – della ricercata contaminazione tra culture
politiche diverse che, pur restando distinte, si riconoscevano nell’ordinamento che avevano responsabilmente
contribuito ad edificare in virtù del “grande compromesso” raggiunto in seno all’Assemblea Costituente.
Dinanzi a quell’Assemblea, il 13 marzo 1947, così parlava Aldo Moro: “Non possiamo fare una Costituzione
afascista. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella
Resistenza, da quella lotta, da quella negazione. Nei momenti duri e tragici nascono le Costituzioni. Guai a noi se
dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce”.
La prima parte – relativa ai diritti e doveri – e la seconda – riguardante l’organizzazione statuale – della nostra
Costituzione sono state saldate tra loro ed esprimono un coerente e bilanciato assetto nel solco della tradizione
liberaldemocratica occidentale rimasta estranea sino a quel momento alle vicende istituzionali italiane; a questo
riguardo, la drammatica svolta autoritaria imposta dal fascismo suggeriva una certa complicazione del processo
decisionale e ispirava scelte organizzative prudenti quali in effetti sono il bicameralismo perfetto e la debole
razionalizzazione dei meccanismi del governo parlamentare già conosciuto nell’esperienza liberale precedente la
ventennale dittatura del capo del Governo.
Agli indiscutibili meriti, riconosciuti alla vigente Costituzione per aver consentito la promozione dei diritti e
l’inclusione sociale dei soggetti più deboli, per molto tempo non sono state neppure associate contestazioni riferite
alla parte organizzativa del testo costituzionale. E così le prolungate difficoltà del sistema politico italiano, non in
grado, almeno sino alla svolta maggioritaria del 1994, di produrre alternative di governo tra le maggiori forze
politiche rappresentate in Parlamento, come accade in tutte le democrazie consolidate, restavano confinate
prevalentemente in ambito extra costituzionale. Solo a partire dal tracimante messaggio cossighiano alle Camere
sulle riforme istituzionali (26 giugno 1991) le difficoltà politiche sono state esplicitamente ricollegate alle
inadeguatezze costituzionali a cominciare da chi rivestiva la massima carica dello Stato. E sarà lo stesso successore
di Cossiga, il Presidente Scalfaro, nel suo discorso di insediamento, a reclamare addirittura l’istituzione di una
speciale Commissione parlamentare per affrontare in modo organico il tema delle riforme anche di livello
costituzionale nel mentre il Paese assisteva – apparentemente sbigottito – alla vicenda giudiziaria “tangentopoli” ed
alla ferocia della mafia assassina. Cosicché, dopo il positivo esito del referendum elettorale dell’aprile 1993 e la
conseguente riforma maggioritaria della legislazione elettorale, si fa strettissimo l’intreccio tra la prospettiva di un
cambiamento della parte organizzativa della Costituzione ed il mutato sistema politico che sperimenta altre
formazioni e un andamento bipolare man mano sempre meno incerto pur nella tipica e anzi accentuata
frammentazione partitica.
Viene allora coniata l’espressione suggestiva “seconda repubblica” contro cui insorgono i Comitati di difesa della
Costituzione guidati con impeto e sapienza giuridica sino alla sua morte da don Giuseppe Dossetti, autorevole
costituente da tempo dedito al suo ordine monastico e lontano dalla vita pubblica. Da quel momento il processo
riformatore diretto a cambiare la seconda parte della Costituzione e ad abbracciare la causa del federalismo, che
incontra vasto consenso nelle Regioni del nord, entra stabilmente in Parlamento e ne esce con qualche fallimento
(non produce gli esiti sperati la nuova Commissione parlamentare istituita nel 1997 e dotata ancora una volta di
speciali poteri in deroga esplicita alle procedure prescritte per revisionare legittimamente il testo costituzionale) e
con qualche “frutto deprecabile”, certamente sotto il profilo del metodo seguito per cambiare le esistenti regole
costituzionali. La Costituzione difatti diventa “bottino” per la maggioranza governativa e i due schieramenti che si
alternano nella guida del Paese approvano tra il 2001 e il 2005 due distinte riforme: la prima quella più limitata del
regionalismo – la modifica del titolo V della Parte II - ; la successiva quella assai più ampia che interessa l’intera
Seconda Parte del testo vigente. Rotta la pace costituzionale, lo stesso corpo elettorale viene trascinato nella
deprecabile contesa tra le forze politiche post-ideologiche sebbene, secondo quanto stabilito tuttora dall’art. 138, gli
elettori non abbiano titolo per intervenire nel procedimento di revisione costituzionale ove si raggiungano ampie
maggioranze parlamentari. E’ comunque noto quello che è accaduto a seguito dell’intervento popolare che non
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richiede il superamento di alcun quorum partecipativo: il primo referendum costituzionale, svoltosi il 7 ottobre
2001, ha così registrato una bassissima partecipazione – solo il 34,1% degli aventi diritto – confermando
agevolmente la riforma; il secondo referendum, come è noto, ha viceversa respinto nettamente il 25 giugno 2006 la
“grande riforma”, avendo registrato il 53,7% dei votanti e il 61,3% di no, e rilegittimato l’attuale Costituzione per
come è stato riconosciuto dagli stessi propugnatori della delibera legislativa bocciata. Ammesso che sia davvero
così, mi limito a constatare che se vi è stata una nuova legittimazione della Legge Fondamentale essa segue e
interrompe la sua precedente, grave delegittimazione.
Permangono pertanto le forti preoccupazioni di chi teme che le croniche difficoltà nelle quali si dibatte il sistema
politico italiano, sia pure ogni volta per ragioni diverse, possano essere affrontate, come già accaduto, con
escogitazioni costituzionali volte a superare l’attuale democrazia parlamentare e rappresentativa, peraltro già
disattesa nella recente prassi. Quello che può essere ribadito è che le evoluzioni del sistema politico sono
certamente favorite dalle regole elettorali – ed è quel che è accaduto in Italia - ma non comportano come corollario
indispensabile il mutamento delle regole costituzionali. Da questa angolazione è utile ricordare il superamento, con
la legge n. 270 del 2005, del sistema maggioritario con collegio uninominale per far spazio ad un sistema con
impianto proporzionalistico ma di dubbia costituzionalità, già utilizzato nelle due ultime tornate elettorali e che
lascia intravedere, dopo quella di qualche giorno fa uno sbocco sino a ieri impensato di drastica riduzione delle
forze politiche rappresentate in Parlamento e l’emergere di due partiti formalmente nuovi che rappresentano al
momento circa il 70% degli elettori votanti.
2. Spetterà allora alle nuove forze politiche, se si consolideranno, rispondere quanto prima alla cruciale domanda su
quale sarà il futuro della nostra Costituzione e sul valore che esse intendono attribuire al referendum popolare del
2006 che ha confermato l’attuale organizzazione dello Stato. Certamente quando sbocciano rapidamente nuovi
partiti conta moltissimo la cultura democratica dalla quale provengono ed assume un peso decisivo la loro
determinazione nel segnare una più o meno accentuata discontinuità con l’assetto costituzionale nel quale sono
chiamati ad operare e del quale potrebbero avvertire la lontananza ideale. Sarà in particolare indispensabile
approfondire i loro intendimenti anche a proposito della collocazione del nostro Paese nel più ampio contesto
europeo nel quale l’Italia è stata irreversibilmente inserita proprio in virtù dell’ “apertura internazionalistica”
profeticamente ipotizzata dalla Costituzione del 1948. Tra i tanti auspici che si potrebbero fare, senza alcuna
retorica, ne avanzo, da costituzionalista, uno soltanto, e cioè quello di non vedere più questo testo così lineare,
“sfregiato” da un intarsio vistoso che, rompendo i chiari equilibri interni, riproponga una versione “scecherata” del
presidenzialismo americano e del parlamentarismo bipartitico britannico con il comodo intento di “blindare”, nel
nome della volontà popolare, il Premier e la maggioranza parlamentare per la durata della legislatura attraverso
congegni sconosciuti alle esperienze democratiche occidentali. Che almeno si lasci per intero alla responsabilità
della politica più demagogica e ottusa (altro che coerente!) inneggiare al corpo elettorale accreditato, apponendo
solo segni su dei simboli, del potere di investire della comune responsabilità di governo nientemeno che un Premier
e la sua invariabile maggioranza di riferimento, l’uno e l’altra non sostituibili dall’organo parlamentare,
complessivamente considerato, a meno di non aprire la strada a nuove elezioni anticipate. La demagogia populista è
da sempre pericolosa per la democrazia; di ciò è assolutamente avvertita la nostra Costituzione che difatti, dopo
aver evocato i modi di esercizio della sovranità popolare, ne richiama espressamente i limiti preoccupandosi così
della razionalità che deve sempre accompagnare il funzionamento di un ordinamento democratico. Vorrei perciò
dire, in conclusione, che da soli sessant’anni l’Italia si è finalmente dotata di un’architettura costituzionale degna di
questo nome e, appunto, razionale che andrebbe consapevolmente preservata e difesa più che dalle “classiche”
pulsioni autoritarie pure sperimentate, da una sorta di leaderismo qualunquista che mi pare di vedere in forte ascesa
e che potrebbe, a mio parere, consolidarsi e imporsi senza traumi apparenti, ma abbassando inesorabilmente e
sensibilmente il livello della nostra democrazia.
Salone Vanvitelliano, Brescia, 23 aprile 2008
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Rispondere con la cultura della Costituzione
Antonio D’Andrea, ordinario di diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Brescia
(articolo pubblicato in “Per un’altra Brescia”, anno I, numero 1, p.3)
1. Provo ad indicare, tra le tante, tre questioni cruciali auspicando di dimostrare come rispetto ad esse il
tempo presente non sia caratterizzato da una positiva evoluzione dei precetti contenuti nella Legge
fondamentale che per rimanere vivi nella società e punto di riferimento della comunità politica
dovrebbero essere, al contrario, in grado di ispirare le iniziative del Governo a prescindere dal suo colore
politico e attuati dalle leggi dello Stato. In realtà spesso i principi costituzionali vengono sviliti se non
addirittura sostanzialmente aggirati; ciò sempre più frequentemente viene presentato, in modo del tutto
strumentale e fraudolento, come lo sforzo di fornire una versione “aggiornata” ai tempi (in attesa di
approvare le riforme che tutti dicono necessarie e di volere da trent’anni) del dettato costituzionale e che
tenga conto di una preoccupazione e cioè quella di dare una genuina attuazione al principio che tutti li
ricomprende, vale a dire quello democratico. È in forza di esso che la maggioranza parlamentare e di
governo, essendo espressione della libera volontà del corpo elettorale deve essere messa nelle condizioni di
realizzare il suo programma “battezzato” dal voto popolare.
2. La prima ragione per la quale sarebbe indispensabile “tornare” alla Costituzione riguarda proprio il
supposto rapporto diretto tra corpo elettorale e maggioranza che non è affatto nel senso che si vorrebbe far
credere dai propugnatori della tesi sopra richiamata. Se si resta, infatti, alla lettera ed allo spirito della
forma di governo parlamentare descritta dagli art. 92 e 94 Cost., dovrebbe risultare chiaro che il Governo
del Premier non è scelto direttamente dagli elettori. Se da qualche tempo si ritiene che la scelta del Capo
del Governo sia rimessa agli elettori è perché non la Costituzione ma solo ed elusivamente le forze
politiche – di maggioranza o di opposizione su questo non fa differenza – anche in virtù di acconci
meccanismi elettorali previsti dalla legge ordinaria, indicano, prima del voto, chi guiderà il Governo e tale
soggetto, in forza di quella convenzione politica, resterà leader sino a quando durerà la legislatura che potrà
cessare anticipatamente se si dovesse sfaldare quella maggioranza; in nessun caso ci potrà essere un’altra
maggioranza e un altro Premier. Si chiama coerenza con il volere degli elettori questa rigidità istituzionale?
A me pare ottusa demagogia che apre le strade al deprecabile assunto secondo il quale chi vince è destinato
a durare comunque e perciò “prende tutto”. In realtà la Costituzione si limita a prevedere la derivazione
parlamentare del Governo cosicché il corpo elettorale, una volta che abbia votato, è spogliato di qualsiasi
altra attribuzione che abbia a che vedere con l’organo esecutivo. Tuttavia se non si insiste sui limiti che
incontra, sin dall’art. 1 Cost., la sovranità popolare riesce poi difficile contrastare l’idea che la
maggioranza che ha vinto non si cambia e basta. Se si volesse mutare davvero la forma di governo e
arrivare sul serio ad una elezione diretta del Capo del Governo si dovrebbe modificare la Costituzione
vigente ma se si desiderasse restare una democrazia occidentale si dovrebbero definire non solo i suoi
poteri ma anche i contropoteri, come nel sistema schiettamente presidenziale nordamericano.
3. Il secondo serio motivo che oggi più che mai meriterebbe un’attenta riflessione sul senso delle attuali
disposizioni costituzionali è dovuto alla crescente insofferenza espressa dagli organi di derivazione elettiva
riguardo al controllo giurisdizionale sulla loro attività politica e persino sulle loro stesse persone: si pensi
al “lodo Alfano” che ha previsto la sospensione dei processi penali nei confronti di alcune alte cariche dello
Stato durante l’esercizio del mandato anche con riguardo a fatti che non c’entrano nulla e che sono
antecedenti alla carica ricoperta e che ha ottenuto l’effetto immediato che l’attuale maggioranza si era
prefissa in delicato processo in corso di svolgimento che vedeva imputato il Presidente del Consiglio.
Egualmente chi esercita la funzione di governo spesso ritiene “frenata”la sua azione dall’intervento
pretestuoso degli organi di garanzia, a cominciare dal Capo dello Stato: si pensi alle polemiche che sono
seguite dopo il rifiuto del Presidente Napolitano di emanare un decreto legge in tema di alimentazione
forzata nella “vicenda Englaro”. La sbandierata ed esibita “superiorità democratica” di chi agisce
nell’ordinamento in virtù di un mandato elettorale diretto o indiretto è davvero inconciliabile con il
principio, che ammette poche e tassative deroghe direttamente disposte dal dettato costituzionale,
dell’eguale sottoposizione di tutti alla legge; è altresì inconciliabile con l’assoluta indipendenza nei
confronti del potere politico della magistratura anche inquirente che ha l’obbligo di esercitare l’azione
penale; è, infine, inconciliabile con la preziosa presenza di organi non politici il cui compito è proprio
quello di assicurare la superiorità gerarchica dei principi costituzionali rispetto a qualsiasi atto normativo
compresa la legge parlamentare che può essere annullata dalla Corte costituzionale ove contrasti con essi.
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La quarta ragione che consiglierebbe di “tornare” al dettato costituzionale è la sistematica scarsa attenzione che
riceve oggi tanto il “principio personalista” – al genere umano si appartiene in quanto individui singoli e irripetibili
– quanto il “principio internazionalistico”, stando al quale è dovuta la cessione di una quota della sovranità
nazionale in favore di organizzazioni sovranazionali – quali l’ONU e la UE – che sono, con tutte le difficoltà note ,
impegnate a promuove opportune forme di collaborazione tra Stati diversi con lo scopo di far prevalere ovunque
pace e giustizia. La politica nostrana più recente sulla sicurezza come pure quella di rilievo internazionale (penso
agli accordi con la Libia) pare avere un’altra impostazione di fondo essendo esclusivamente finalizzata a meglio
presidiare i confini nazionali, attraverso “i respingimenti”. Ma da quale minaccia? Quella di una moltitudine di
disperati spesso senza neppure un’identità accertabile che fuggono da terre lontane martoriate dalla miseria e
dall’oppressione, talvolta teatro di guerre intestine feroci , adeguatamente sostenute anche da quei paesi che
consentono la vendita di armi e attrezzature militari ai “signori della morte” che le ripagano profumatamente. Una
volta giunti nel nostro Paese, le cui radici cristiane vengono talvolta orgogliosamente rivendicate come espressive
di una civiltà aperta e meno ottusa e integralista rispetto ad altre caratterizzate da un fondamentalismo religioso
che non consentirebbe dialoghi fecondi, quale accoglienza viene organizzata per queste persone che magari hanno
visto inghiottiti dai flutti del mare un famigliare, un amico, un loro simile? Quali prospettive affinché la loro
esistenza torni ad essere degna dell’appartenenza al genere umano? L’espulsione ed il rimpatrio sono davvero in
linea con il “principio personalista” così magistralmente promosso da grandi costituenti cattolici? E il diritto
d’asilo, pure riconosciuto dall’art.10 Cost. , trova ancora accoglienza, come correttamente ricordato dal Presidente
della Camera, nel nostro ordinamento? La condizione di “clandestino” assorbe qualsiasi altra valutazione riferibile
a quella persona e annulla sul suolo patrio il godimento dei diritti inviolabili che dal 1789 sono riferiti all’uomo? È
mai possibile che il nostro Paese si sia ridotto a pensarsi rannicchiato su se stesso come una comunità di eletti da
preservare dalla contaminazione etnica che, ove non frenata, ne abbasserebbe il livello di civiltà?
Nella nostra Costituzione si possono dunque trovare buone idee per respingere, almeno sul piano culturale,
politiche regressive nel campo dei diritti e delle libertà e aspirazioni autoritarie e populiste nell’esercizio del potere
politico. Raccontarla può servire perciò a individuare ancora oggi quel che serve alla democrazia italiana.
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Assedio alla Costituzione Quanto è nuova la nostra vecchia Costituzione di Sandra Bonsanti, 26 ottobre 2004
Chissà che alla fine questa grande prova che ci aspetta attorno alla nostra Costituzione per far vincere il “no” alla
riforma della Casa delle libertà, non ci faccia fare a tutti un passo avanti e che ci sveglieremo un bel giorno
migliori cittadini di un’Italia migliore, più unita e più consapevole. Sul piano culturale, storico e civile, oltre che
politico.
Sta accadendo infatti che nei dibattiti che già si fanno su questo tema, negli incontri organizzativi dei vari
coordinamenti locali e del coordinamento nazionale stia nascendo una nuova forma di associazionismo che vede
seduti insieme e uno accanto all’altro rappresentanti dei partiti di opposizione, i sindacati nazionali, le grandi
associazioni storico sociali del paese, i movimenti. La posta in gioco è così alta che mi pare che ognuno stia dando
il meglio di sé. Non ci sono o sono sostanzialmente inesistenti i protagonismi che tanto male hanno fatto alla
politica nazionale, la discussione si sofferma subito su un interesse superiore che costringe gli interlocutori a un
ragionamento che travalica ogni scopo personalistico e porta a rovistare nelle storie di ognuno (persone conosciute,
vicende della nostra Patria) per trasmettere ad altri la memoria e l’impegno. Parlo, ovviamente, degli incontri tra
persone e con persone. In Tv ho già visto i soliti politici dire le solite cose nelle solite trasmissioni: da alcuni di essi
non c’è davvero niente da imparare.
La cosa interessante, a mio avviso, è che non c’è assolutamente nulla di nostalgico o di “vecchio” in questa
esperienza. C’è invece una gran voglia di guardare avanti con spirito moderno, per scoprire tutto ciò che di
“lungimirante” (adopro una definizione usata da Franzo Grande Stevens al seminario sulla democrazia di LeG)
c’è nella nostra Carta, tutto ciò che di “programmatico” (come diceva Calamandrei) essa contiene. Il disegno
di una società futura globale e più giusta, in cui i diritti di tutti sono protetti e coltivati, in cui ogni uomo e
donna possano dare il meglio di sé, senza ostacoli e partecipare a una democrazia aliena dal potere di pochi o
di uno solo, forte di un parlamento efficiente che rappresenti davvero la volontà dei cittadini oltre il
momento del voto.
Questo e altro c’è ancora da scoprire e da realizzare della nostra Costituzione. Persino il concetto di “stabilità”
tanto oggi invocato dai sostenitori della riforma appare esso sì vecchio e superato. In un mondo che cambia, si
trasforma e subisce “emergenze” improvvise come il nostro, che senso ha puntare tutto il sistema su un voto
espresso quattro o cinque anni prima, magari su temi e programmi completamente diversi da quelli attuali in quel
momento? Perché la stabilità deve essere un valore assoluto? Il premier non può forse egli sì tradire le sue
promesse, non può rivelarsi totalmente inadeguato a fronteggiare l’evento? No, secondo il progetto berlusconiano,
una volta votato è votato e si ha un bel dire che è stata introdotta la sfiducia costruttiva: che sfiducia è se essa non
può ricevere i voti dell’altra parte, pena lo scioglimento delle Camere? A chi, a cosa serva un Parlamento ingessato
una volta per tutte, legato a un voto politico che lo esautora di qualunque spazio di fare e determinare scelte
politiche? La riflessione più moderna sulle forme di democrazia ci spiega che soltanto la discussione profonda di
tutti i problemi fondamentali crea democrazia, non il voto popolare.
Un altro luogo comune che occorre sfatare è quello secondo il quale la Costituzione blocca lo sviluppo e la
modernizzazione del Paese. Chiedete a economisti e esperti di questioni costituzionali ed essi vi diranno che
niente, assolutamente niente fu messo dai padri fondatori a frenare competitività e sviluppo di un paese moderno.
Contro questi e altri luoghi comuni la società civile si sta attrezzando in vista delle menzogne che saranno
propagandate in attesa del referendum. Di questo anche si comincia a parlare nei nostri primi incontri. Insomma,
questa “fatica” che stiamo facendo attorno alla Carta, attorno al concetto di democrazia, attorno alla nostra storia io
penso che oggi sia utile a tutti coloro che vogliono impegnarsi su questi temi ma domani forse il servizio reso andrà
oltre il referendum. Perché se è stato un errore grave dimenticarsi della Costituzione nei cinquant’anni passati, se
l’insegnamento della sua origine, del suo significato e delle potenzialità future è stato delegato a pochi volenterosi
(penso a singoli maestri nelle scuole di ogni genere, penso ad alcuni protagonisti dei dibattiti sulla Resistenza, alla
lungimiranza di don Giuseppe Dossetti) oggi non è più cosi: oggi che siamo chiamati a salvarla, cominciamo a
conoscerla davvero. Oggi tutti gli italiani dovranno sapere cosa essa è e a cosa rinunciano se passa la nuova
Costituzione di Berlusconi. Oggi dobbiamo tutti spiegare che è la nostra stessa identità di italiani a diventare
qualcosa di molto incerto, appeso agli umori capricciosi del governante di turno. Dobbiamo credere nella
Costituzione e nella sua freschezza, nella sua lungimiranza e modernità. Il passo che ci vogliono far fare è un
approdo che sa di avventura. Non fa per noi.
Il coordinamento nazionale che il 25 ottobre è stato tenuto a battesimo nella sede della Cgil di Roma nasce con
questo spirito: un “no” vistoso alla riforma, un “no” che è un minimo comun denominatore che tiene insieme anche
chi pensa alla necessità di aggiustamenti futuri. Nasce con la consapevolezza che la Costituzione è di tutti gli
italiani e che tutti gli italiani saranno chiamati a difenderla. Ed è in questo lavoro di appropriarci di nuovo di
qualcosa che davamo per scontato, che ci faceva dormire sonni tranquilli perché ci fidavamo di coloro che ce la
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consegnarono a prezzo di immani sacrifici, che diventeremo forse italiani migliori. Questo lavoro va oltre la sfida
attuale, e se i partiti sapranno cogliere la novità di questo grande amore e di questo grande impegno avranno fatto
essi stessi un passo importante nel rinnovamento che tutti speriamo e che è l’ora di aspettarsi.
Anche il loro futuro è scritto nella nostra Costituzione.
Libertà e Giustizia
Libertà e Giustizia (www.libertaegiustizia.it)
è un’Associazione della Società civile, il cui presidente onorario è Gustavo Zagrebelsky, mentre
Sandra Bonsanti è l’ attuale presidente.
Questo il Manifesto dell'associazione:
Libertà e Giustizia è nata dalla proposta di un gruppo di persone che si è costituito come comitato dei garanti. I loro nomi sono:
Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Umberto Eco, Alessandro Galante Garrone, Claudio Magris, Guido Rossi,
Giovanni Sartori, Umberto Veronesi.
Il cammino di Libertà e Giustizia lo costruiranno i suoi aderenti e sono pertanto aperte le adesioni di tutti i cittadini che
vorranno trovare in questa libera associazione lo strumento per mettersi al servizio degli altri e del proprio Paese.
Oggi tanti nostri concittadini non sono soddisfatti dello stato del Paese ma non trovano gli strumenti culturali per unirsi e
cambiarlo, per contare insieme, per far valere il loro impegno civile.
Perché il dibattito politico assomiglia spesso a una rissa o a uno spettacolo. Gli spazi di un confronto serio e moderno sono
limitati e ristretti, gli ideologismi pesano ancora.
Libertà e Giustizia sarà il luogo per discutere serenamente, per creare occasioni di approfondimento e di documentazione sui
fatti fondamentali che stanno mettendo in crisi la nostra democrazia.
Libertà e Giustizia non è un partito, non vuole diventarlo e non punta a sostituire i partiti, ma vuole dare un senso positivo
all’insoddisfazione che cresce verso la politica, trasformandola in partecipazione e proposta.
Libertà e Giustizia vuole intervenire a spronare i partiti perché esercitino fino in fondo il loro ruolo di rappresentanti di valori,
ideali e interessi legittimi. Vuole arricchire culturalmente la politica nazionale con le sue analisi e proposte.
Libertà e Giustizia vuole essere l’anello mancante fra i migliori fermenti della società e lo spazio ufficiale della politica.
L’Associazione è in primo piano nella difesa dei valori costituzionali ed è stata promotrice del grande movimento
che ha portato alla sconfitta del progetto di revisione costituzionale che confluì nella legge del 18.11.05 pubblicata
sulla G.U. n. 269 (anche “Professione docente”- pag 10-11 del numero di giugno 2006) partecipò a quella
campagna.
Da allora ha prodotto appelli ed interventi sui temi dei diritti civili e costituzionali. L’ appello “Rompiamo il
silenzio”, del febbraio 2009, ha raccolto centinaia di migliaia di firme.
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