digital magazine | giugno 2013 | n. 104
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Unive
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collisione
sommario
turn on – p. 4
Wampire
Ghostpoet
tune in – p. 8
Tricky
drop out – p. 12
Neutral Milk Hotel
A Hawk and a Hacksaw
Alison Moyet
Bargeld + Teardo
rearview mirror – p. 142
David Bowie
recensioni – p. 66
rubriche – p. 162
live report
gimme some inches
campi magnetici
classic album
#104
giugno
Direttore
Edoardo Bridda
Direttore Responsabile
Antonello Comunale
Ufficio Stampa
Alberto Lepri
Coordinamento
Gaspare Caliri
Progetto Grafico
Nicolas Campagnari
Redazione
Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda,
Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Massimo Rancati
Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Sebastian Procaccini
Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco
Staff
Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti,
Antonio Pancamo Puglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli,
Federico Pevere, Filippo Papetti, Filippo Bordignon, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere,
Giulio Pasquali. Luca Falzetti, Luca Barachetti,
Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera,
Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz, Enrica Selvini
Copertina
Blixa Bargeld & Teho Teardo
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2013 Edoardo Bridda.
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è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Dagli house party al pastiche pop di Curiosity. La scena di Portland si arricchisce del
suo gruppo più misterioso
Wampire
Vampiri a Portland
A Portland non son mai stato, ma dovendo immaginarmela sulla base di una ricostruzione pop
mutuata da una ferrea dieta di serial televisivi, la
penso come il punto di incontro fra la coolness
metropolitana di Portlandia e la periferia magica
di Grimm. Un mix di mistero e arruffamento indie,
che oggi è perfettamente incarnato dal duo con il
moniker più curioso in circolazione. Pare che Urban Dictionary definisca la voce “wampire”, come
“un aspirante vampiro”. Più banalmente, il nome
del progetto nasce da una storpiatura, un souvenir dei soggiorni tedeschi di Rocky Tinder, la metà
del gruppo più compromessa con l’immaginario
dark.
4
Se la cosa può sembrarvi senza senso, aspettate di
ascoltare il loro singolo The Hearse, macabro sinth
pop in salsa lo-fi, con vezzi da soundtrack retrofuturista e svolazzi garage. Una cosetta camp che
si è subito guadagnata paragoni con l’electropop
espressionista e teatrale di John Maus. E’ bastato
questo a catapultare il duo americano fra le “band
to watch” di questo primo scorcio di 2013.
“Alla buon ora!”, verrebbe da dire, visto che il
progetto non è certo alle prime mosse. “Abbiamo
iniziato a provare nel 2001”, ricordano Tinder (il tipo
con l’aria da goth andato a male) e Eric Phipps
(quello che sembra uscito dalla puntata più grottesca di That 70s Show). Di fatto però, all’inizio
del millennio i due erano solo dei diciottenni con
le idee confuse e una strumentazione vintage
raccattata chissà dove. Le cose iniziano a farsi
serie (per così dire) nel 2007, quando i Wampire
si affermano fra i protagonisti della “party scene”
di Portland. La loro gavetta inizia così: “All’inizio
eravamo solo noi due che cazzeggiavamo e scrivevamo canzoni solo per eseguirle in situazioni divertenti, come quelle degli house show. Suonavamo in
un angolo all’interno di appartamenti stipati fino
all’inverosimile”.
La vicenda degli house show gode di un picco di
popolarità proprio fra il 2007 e il 2009. In pratica
funziona così: arrivi con la tua strumentazione di
fortuna, ti scoli qualche birra e inizi a suonare nel
modo più rumoroso e istantaneamente appetibile che puoi, perché c’è da far (s)ballare un mucchio di teenager su di giri, possibilmente stando
attento che non ti vomitino addosso. Soundcheck
e qualità del suono, ovviamente, sono concetti
estranei. E’ così, tuttavia, che il nome del gruppo
inizia a circolare con insistenza. “Per noi, portare
un impianto, le chitarre e vedere tutti che ballavano come pazzi, era l’ideale. E’ durato circa un paio
di anni, dopodiché sentivamo il bisogno di fare
qualcosa di diverso e di più personale”. Eccoli allora
ricalibrare il loro sound in una peculiare mistura di
rock, elettronica lo-fi ed estetica DIY. Una formula
che stanno perfezionando ancora adesso e nella quale convergono elementi da ogni angolo
dell’immaginario pop: “L’organo horrorifico di The
Harse? E’ qualcosa che è arrivato negli ultimi giorni
di registrazione. Di solito pensiamo alla polpa dei
brani, dopodiché aggiungiamo elementi e lasciamo
che i pezzi si sviluppino di fronte a noi”.
In questo caso l’intuizione è stata vincente. Dopo
averlo ascoltato, quelli della Polyvinyl si sono decisi a pubblicare il primo album della band, mettendo fine ad una serie sfortunata di tentativi che,
ad un certo punto, sembravano dover minare il
contagioso ottimismo di cui i due dispongono. Per
la verità, parte del merito è da attribuirsi a Jacob
Portrait degli Unknown Mortal Orchestra. L’illustre
concittadino li ha presi sotto la sua ala, ha sfrondato gli elementi più pittoreschi e li ha benedetti
con alcuni dei suoi consigli più preziosi (“il migliore”, dicono, “è stato quello di non metterci la faccia
se non stai dietro a una cosa con tutto te stesso”).
Alla fine si è seduto dietro il bancone di regia e ha
prodotto il loro Curiosity.
In effetti, paternalismo a parte, c’è qualcosa che
accomuna i due vampiri al soul, funk, pop degli
UMA. Innanzitutto un’idea di musica totale, in cui
Kraftwerk, psichedelia e surf music vanno allegramente a braccetto. Poi c’è l’approccio laterale alla
materia pop e un utilizzo strumentale della bassa
fedeltà che ricopre pezzi come Can’t See Why e
Outta Money di una stilosissima patina ingiallita.
Se al tutto aggiungiamo il feeling retrofuturista
che caratterizza la band e che la avvicina ai concittadini STRFKR, risulta evidente come la scena di
Portland stia ridefinendo sempre più nitidamente
i propri confini estetici. “Penso che quello che succede attorno a noi ci abbia in qualche misura ispirato”, confermano i due, “dopo un pò però abbiamo
iniziato a guardare altrove, a gente come Ariel Pink,
ad esempio, oppure a Mac Demarco”.
In attesa che Curiosity dispieghi tutto il proprio
potenziale commerciale, la band ha cominciato
un fortunato tour insieme a Unknown Mortal
Orchestra e Foxygen (altro act che ha fatto dello
sguardo retrospettivo una ragion d’essere). Nel
frattempo i due ragionano già sul proprio futuro.
Possibilmente con quell’istinto e quell’urgenza che in passato ne ha fatto degli animali da
party. “Se c’è qualcosa che abbiamo imparato dai
quegli show, è il fatto che ci piace scrivere canzoni
veloci e divertenti. Per il prossimo lavoro sarebbe
bello fare un disco composto interamente da pezzi
esplosivi. Penso sia una cosa che viene proprio dal
background degli house party e dal desiderio di suonare in maniera sempre più cruda e punk”.
Diego Ballani
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Due chiacchiere con Obaro Ejimiwe, in arte Ghostpoet, giunto al terzo lavoro con
Some Say I So I Say Light, in uscita il 6 maggio
Ghostpoet
Faccia a faccia con un fantasma
Vero e proprio fenomeno dell’anno scorso, celebrato nel Regno Unito e accolto con entusiasmo
altalenante qui in Italia, Obaro Ejimiwe, noto come
Ghostpoet, ha il pregio di aver saputo coniugare suggestioni provenienti da variegati ambienti
musicali declinandole in una chiave tipicamente
british. Una chiacchierata interessante sotto diversi
punti di vista, quella che abbiamo avuto con lui;
di fronte c’è una persona piuttosto concreta, con
un’idea molto chiara della sua musica, restia a riconoscere collegamenti diretti con altri filoni o artisti
e, soprattutto, molto ponderata nel rispondere.
Obaro non è esattamente un individuo rapito dal
trasporto nel parlare del proprio lavoro: è misurato
e professionale nelle risposte, nella stessa misura
in cui lo può essere la sua musica. Non è nemmeno
un interlocutore ostile però, tutt’altro. Si dimostra
anzi disponibile e cortese, malgrado i numerosi
problemi incontrati prima della chiacchierata tra
voli aerei e mezzi di trasporto vari. Professionalità
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e distacco a parte, la chiacchierata dà uno sguardo
alla nuova formula live e si attarda sulle impressioni
suscitate in lui dall’Italia e dai festival nostrani a cui
ha partecipato.
La prima domanda può apparire scontata. Non
sei più un ragazzino e il tuo esordio musicale
è parecchio recente, per cui viene spontaneo
chiedersi cosa ci sia stato prima dell’esordio.
Come inizia la storia di Ghostpoet?
Inizialmente ho vissuto tutto come un hobby, seppure molto importante, prima che divenisse una
carriera vera e propria. Mi ci dedicavo ogni sera,
una volta finito il lavoro. Ai tempi lavoravo per una
compagnia di assicurazioni. Poi mi sono trasferito
a Coventry, ho messo la mia musica su Myspace
e ho aspettato che la cosa diventasse più seria e
di raggiungere il livello che volevo. Attraverso il
web, poi, Brownswood ha notato la mia musica e
il seguito è che ora siamo qui a Milano a parlarne
(ride).
Una cosa che colpisce del tuo modo di interpretare i brani è questo tuo essere solo
parzialmente inseribile nella definizione di
MC, soprattutto se si prende il termine nella
sua accezione più classica. Questo, poi, è un
elemento ancora più chiaro nell’ultimo disco,
distante dall’hip hop anche dal punto di vista
strettamente musicale. Il tuo modo di cantare
ricorda gli esperimenti precedenti al rap vero
e proprio, penso a figure come l’Isaac Hayes di
Hot Buttered Soul o a Gil-Scott Heron. Ti ritrovi in
queste osservazioni?
Non più di tanto a dire il vero (ride). In realtà mi limito ad ascoltare la musica, non è che sia legato a
un genere specifico in particolare o a un solo tipo
di musica. Di solito è un discorso che fanno gli
ascoltatori, quello di mettere la musica in scatole.
Io mi limito ad ascoltare la musica e mi piace darle
qualsiasi direzione, a seconda di come mi sento.
Il tuo nuovo lavoro è molto più eterogeneo e,
in diversi episodi, sia la matrice black che quella elettronica si riducono drasticamente. Come
mai questo cambiamento? Era più una necessità o un desiderio?
No, guarda, non è che sentissi di aver perso l’ispirazione. Alla fine quello che scrivo non deriva da
storie di fantasia ma da esperienze che vivo, gente
con cui parlo, cose che vedo ogni giorno. In questo disco ho voluto convogliare tutto il mio fare
arte, provare a combinare elementi di elettronica
e di acustica. Sicuramente ho già ascoltato musica
del genere, non sono stato certo io ad inventarla,
ma sentivo il bisogno di farla nella maniera in cui
l’avrei fatta io.
Ti ho già visto due volte dal vivo in Italia, al Locomotiv a Bologna e al Meet In Town festival, a
Roma. In relazione a quest’ultima esperienza,
come ti sei trovato al festival? Come ti è sembrato il pubblico?
I festival in generale sono cose complicate da
organizzare, tra soundcheck e tutto il resto, ed è
naturale che possano esserci inconvenienti. Mi è
sembrato tuttavia che quello di Roma fosse ben
organizzato. E poi era la prima volta che suonavo
là e la città è stupenda, è stato molto emozionante. In più il cibo era buonissimo! Ho notato che
l’organizzazione era comunque molto professionale e purtroppo non sono riuscito a vedere alcuni live che mi dicono essere stati molto interessanti, come quello di Squarepusher. Sul pubblico
posso dire che è stato educatissimo: eravamo in
una stanza priva di un palco e non c’era una vera
barriera tra noi e chi ascoltava. In queste situazioni
può capitare spesso che la gente ti venga addosso, invece qui tutti si sono sempre tenuti alla giusta distanza e, pur non dimostrandosi un pubblico
fuori di testa, mi è sembrato che abbiano gradito
lo show.
Che tipo di live set dobbiamo aspettarci per
questo nuovo disco?
Per questo live siamo passati da due a tre musicisti sul palco ad accompagnarmi. In più ci sarà un
batterista, che è la vera novità del live set. Oltre a
questo, ci sarò ovviamente io a cantare e a suonare tastiere e macchine. Questo consente di dare
un’anima più musicale al concerto. Inoltre ci sarà
la possibilità di eseguire materiale di due dischi,
e questa è una cosa che trovo particolarmente
stimolante perchè potremo cambiare la scaletta,
studiare un repertorio diverso a seconda del live o
magari allungare la durata dei concerti.
Una domanda finale sugli ascolti. C’è qualcosa
che ha influenzato la lavorazione di questo
album?
Non in maniera diretta. Voglio dire, ascolto ovviamente molta musica, ma tendo a chiudermi
nel momento in cui inizio a registrare, perché alla
fine c’è sempre il rischio di rimanere influenzati
da quello che ascolti. Così non posso parlare di
ispirazioni vere e proprie, magari qualcosa c’è, ma
si tratta di un’influenza che avviene più a livello di
subconscio che altro.
Sebastian Procaccini
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Tricky
Il trip-hop è un falso idolo
A colloquio con Tricky per parlare del
suo nuovo album. Il suo slogan: contro i
falsi idoli della vita moderna
testo: Tommaso Iannini
È un Tricky in grande spolvero a livello dialettico,
quello che incontriamo in un albergo di Milano
durante un soleggiato pomeriggio di fine aprile.
Vivo, pimpante, il musicista di Bristol è reduce da
un intenso tour de force promozionale, ma la sua
parlantina sciolta, la loquacità quasi incontenibile
e la grande determinazione che mostra nel presentare il suo ultimo lavoro sono il tonico che ci
voleva per un’intervista a viso aperto, in cui non si
avvertono proprio i segni della stanchezza accumulata durante l’intera giornata.
Come suo solito, il tricky kid va all’attacco, senza
peli sulla lingua né paura di esporsi, e sferra un
contropiede inaspettato e micidiale prima alla Domino, con cui ha avuto recenti trascorsi che non lo
hanno proprio soddisfatto, e poi nientemeno che
al suo album d’esordio Maxinquaye, considerato
all’unanimità come una pietra miliare degli anni
‘90 e onorato da una ristampa celebrativa non più
quattro anni or sono. Ha voglia di parlare Adrian
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Thaws, il ragazzo prodigio di Bristol che prima
nel Wild Bunch, poi da solo e insieme ai Massive
Attack, ha dato un contributo decisivo nel gettare le fondamenta del trip-hop; lo stesso genere
musicale che oggi demolisce come un “falso idolo”
insieme ai politici e alle star, troppo prese dalla
fama, dai soldi facili e dal proprio ego per avere un
minimo di significato.
Un disco nuovo e una nuova casa discografica “di
proprietà” sono la linfa vitale per la sua rinnovata
voglia di fare musica, una vera e propria rinascita che lo spinge a tessere le lodi del suo nuovo
materiale. E pazienza se alcune sue posizioni sono
comprensibili dal suo punto di vista ma altrettanto difficili da sostenere, prima tra tutte quella
“artistica” secondo cui False Idols sarebbe migliore
di Maxinquaye.. In altri casi, non si può che dargli
ragione.
Annunciando il nuovo album sul tuo sito internet hai detto chiaramente che non sei più sod-
disfatto dei due dischi che lo hanno preceduto.
Sì, ed è naturale perché non mi trovavo bene alla
Domino. Pensavo fosse un’etichetta indipendente
e invece il successo che ha avuto l’ha fatta diventare come una major. Io per lavorare ho bisogno
di persone come Chris Blackwell [lo storico patron
della Island, ndr], che mi lascino piena libertà
creativa. Quando ero con lui alla Island non sapevo nemmeno quanti dischi vendessi, non ne
abbiamo mai parlato. Mi è successo per la prima
volta alla Domino. Gli album erano diventati solo
una questione di business. Per il clima che si era
creato, dovevo sentirmi fortunato perché mi pubblicavano un disco. Questa situazione ha influenzato in maniera negativa la mia musica e il mio
atteggiamento. Si sentiva già dai demo che questo mio nuovo album avrebbe avuto molto più
feeling degli ultimi due. Sono comunque in grado
di scrivere buona musica, ma mi viene meglio e
più naturale quando mi sento libero di fare ciò
che voglio; più passava il tempo alla Domino e più
i miei rapporti con loro peggioravano, e non parlo
delle persone che ci lavoravano, ma del proprietario. Ho cominciato a disprezzarlo e a tenere le cose
migliori per me. We Don’t Die [il brano numero 10 di
False Idols, ndr] sarebbe potuto uscire su uno degli
ultimi due album, ma era un pezzo a cui tenevo
troppo per darlo alla Domino. Non pensavo che i
due dischi fossero brutti quando li ho pubblicati,
ma riflettendo e riascoltandoli ora è chiaro che
manca quella vibrazione che trovo invece in False
Idols.
Il problema con la Domino è uno dei motivi per
cui ora incidi con la tua nuova etichetta.
Certo, anche se ci ho messo tanto a imparare la lezione. Sono stato ingenuo, mi sono illuso per anni
di poter trovare un altro Chris Blackwell; del resto,
se ci fosse stato ancora lui non avrei mai lasciato
la Island. Ho creduto ai PR della Domino pensando che fosse un’etichetta indipendente cool, ma
quando ho cominciato a lavorarci mi sono reso
conto che erano l’esatto opposto di Chris. Mi ci è
voluto un po’ troppo per capire che l’unico modo
per ritrovare la libertà era quello di creare una mia
etichetta.
Credi veramente che False Idols sia migliore di
Maxinquaye?
Sì, ne sono convinto, Maxinquaye per me suona
come un disco vecchio, datato. Quando è uscito
tutti pensavano che fosse una novità, ma poi in
tanti hanno seguito la stessa falsariga e quella
musica ha smesso di essere nuova. False Idols è un
disco nuovo, fresco, in cui mi riconosco. Maxinquaye non lo è più. Questo album è migliore del mio
debutto perché nessuno lo ha ancora copiato ed è
molto più difficile da imitare. Penso ai Morcheeba,
che considero una versione più commerciale della
mia musica. Gruppi come loro hanno copiato il
suono di Maxinquaye ma non credo che i Morcheeba saprebbero fare la stessa cosa con False Idols.
Anche il tuo modo di scrivere e di lavorare è
cambiato in tutti questi anni?
No, è sempre lo stesso, è molto, molto semplice.
Non seguo le nuove tecnologie, non ho nemmeno cambiato attrezzature in questi anni, se posso
creare musica con gli stessi strumenti di quindici
anni fa non vedo perché non dovrei farlo. Lavoro
in modo semplice e molto tranquillo. Oggi mi rendo conto di quanto sia fortunato a poter vivere di
musica e per questo mi diverto ancora di più. Amo
scrivere testi e comporre musica, più che mai. Prima, il successo e l’ego mi avevano fatto dimenticare la fortuna che ho avuto. Quando provo con una
cantante e con il mio ingegnere del suono li invito
a casa e cucino per loro. Mi rendo conto di quanto
sia fortunato a fare il musicista a casa mia piuttosto che l’impiegato o l’operaio in una fabbrica. Ora
ho imparato a godermi di più il mio lavoro.
Come lavori quando scrivi un pezzo?
A volte parto dal testo, oppure dò a una cantante
un testo e un pezzo di musica da cui partire, senza
che ci sia niente di troppo rigido o definitivo. La
musica è soprattutto suono. Ho diversi suoni su
una tastiera, schiaccio un tasto per trovare quello
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giusto e poi ne schiaccio un altro... Come i disegni
di un bambino. Non c’è niente di geniale, niente di
intelligente [sic] nel mio modo di lavorare, penso
che chiunque potrebbe fare la stessa cosa. Se vedessi Prince in studio suonare la batteria, il basso,
la chitarra e tutti gli strumenti, penseresti: «No, io
non sarei mai capace». Ma se una persona qualsiasi mi vedesse lavorare in studio, direbbe subito:
«Questo lo so fare anch’io».
False Idols è il titolo dell’album e False Idol è
anche il nome della tua casa discografica, con
cui produrrai altri artisti. Dell’industria musicale pensi ancora le stesse cose che hai scritto in
Six Minutes quindici anni fa? Nei falsi idoli di cui
parli c’è anche il trip-hop?
Il trip-hop è un falso idolo e, per quanto riguarda
l’industria discografica, mi fa schifo come allora,
soltanto che prima ce l’avevo con i discografici,
ora ad avermi stancato sono gli artisti. Non ne
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posso più di queste celebrità egomaniache; ora,
essere famosi è parte del problema e l’ego dipende anche dal territorio in cui ti muovi, ma se con
la tua fama non fai niente per aiutare le persone
e pensi solo a gonfiare il tuo ego...; ecco, questa
è una cosa che non capisco. È tutto così assurdo.
Ti faccio un esempio: io non sono un fan di John
Lennon né di Bob Marley, non ascolto così tanto
la loro musica, ma so che erano brave persone e
si interessavano agli altri. So che hanno sofferto
sulla loro pelle per le cose che hanno detto alla
stampa, quando parlavano di libertà o si schieravano contro la guerra in Vietnam. Pensiamo invece a tutte le star di oggi, non c’è nessuno che si
sia schierato contro la guerra o l’invasione di altri
Paesi, dicendo che era una cosa sbagliata, perché
sono così sazi della loro fama, dei loro soldi e del
loro successo che non hanno nient’altro da dire.
Se domani scoppiasse un nuovo Vietnam quan-
ti musicisti si schiererebbero contro la guerra?
Abbiamo avuto l’Afghanistan e l’Iraq ma i pochi
contrari avevano paura di parlare, perché l’ultimo
che lo aveva fatto era stato Tupac, ed è morto. Chi
dice che sia stato quello e chi un altro ad ucciderlo, ma lui era uno che parlava chiaro, lo avevano
inserito nel registro dall’FBI, lo consideravano un
“messia nero” come Martin Luther King o Malcolm
X: messia neri, cioè persone che avevano un seguito in grado di disturbare lo status quo. Anche
John Lennon era sul libro nero dell’FBI. Gli artisti
di oggi si accontentano di essere ricchi e famosi.
Nessuno critica il sistema e lo schifo che c’è nel
mondo: Obama è un demonio, ha incentrato tutta
la sua campagna elettorale sul cambiamento, ha
illuso le speranze della gente che vive uno dei
momenti peggiori di sempre, ha mentito a una
generazione che ha creduto in lui, e nessuno ne
parla, tutti vogliono andare alla Casa Bianca a
cantare una canzone, tutti quanti vogliono tenere
i loro sponsor come la Coca-Cola, fare pubblicità..
Io ho sempre pensato che la musica dovesse parlare d’altro, di attualità, di vita, di lotta, delle cose
che non vanno nel mondo, ma ora non sembra
più essere così. Se prima odiavo l’industria, adesso
non sopporto più gli artisti.
Ci parli degli artisti della False Idols che intendi produrre?
Fifi Rong si produce da sola. Se un artista è bravo
come lei, lo ingaggio perché amo la sua musica.
Mi piacerebbe fare qualcosa ma non posso fare di
meglio, vorrei contribuire di più ma lei è talmente brava che non ce n’e bisogno. Con Francesca
[Belmonte] lavorerò forse su quattro brani, non
sul resto perché va già bene così. Lei ha voluto
che partecipassi ad alcune canzoni, quindi lo farò
perché me l’ha chiesto. Ho aiutato mio fratello
Marlon dandogli una mano a produrre e partecipando qua e là. Se incontro una cantante bravissima che non scrive musica, la scrivo io per lei,
ma se penso che ci sia qualcuno più adatto, come
un produttore di Milano che nessuno conosce, la
affiderò a lui o a lei. Farò anche il produttore, ma
in modo diverso rispetto ai miei dischi.
Come hai conosciuto Francesca Belmonte?
Canterà dal vivo con te?
Sì, farà tutto il tour con me. Lei lavorava in un
negozio, sua madre ha letto l’annuncio che avevo
pubblicato in cui cercavo una cantante e le ha
consigliato di provare. Appena l’ho sentita, l’ho
subito ingaggiata, ha una voce così organica,
naturale, lei dà l’anima alla musica senza pensare
al successo, lo fa per passione. Se non fosse in
tournée con me, sarebbe qui a cantare al piano.
Non le importa niente, perché la musica è la sua
vita ed è quello che ama di più.
Sei molto attivo sui social network come Instagram e Facebook. Pensi che siano utili per
avere un contatto diretto con il tuo pubblico?
Non lo pensavo prima di conoscere il mio web engineer, un vero amante della musica. Non ho tempo di curare la mia pagina Facebook, ma lui si è
offerto di farlo. È davvero insopportabile quando
ci s’iscrive alla pagina facebook di un musicista,
passa un anno e non si hanno notizie, finché non
arriva l’annuncio del nuovo album. Ma lui sapeva
che tipo di artista sono e apprezzava il modo in
cui interagisco con chi mi ascolta - odio la parola
fan -, così mi ha detto che dovevo approfondire
l’uso di questi mezzi. Adesso sono riuscito anche a
fare un video con le immagini che mi hanno mandato via Instagram. È splendido poter condividere
queste cose e coinvolgere i miei ascoltatori.
Tommaso Iannini
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Come un aeroplano sul mare
Neutral Mil
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lk Hotel
Testo: Nino Ciglio
In occasione dell’annunciata
reunion, ripercorriamo le gesta
della band che con il suo fuzz-folk
ha forgiato un’intera generazione
di artisti: quella del Duemila.
Prologo
Il quattro ottobre 2011 una
figura smilza, col cappellino a
visiera calato sugli occhi, il classico maglione di lana caprina ad
avvolgerla come un batuffolo e
l’immancabile chitarra in miniatura tenuta a spalla tramite
un filo impercettibile, compare
nei pressi di Zuccotti Park, New
York City. Nessun palco, nessun
microfono, nessun annuncio ad
aspettarla. Nessun fan scatenato a saltare addosso a questa
misteriosa creatura dai capelli
lunghi, chiari. Eppure si tratta
di Jeff Mangum, leader e motore perpetuo dei Neutral Milk
Hotel. Uno che, di soppiatto,
senza scosse o clamori, ha dato
vita al sound più innovativo ed
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influente di tutti gli anni Novanta. Mangum, alla faccia dell’hype,
si presenta in sordina, come gli piace fare di tanto in tanto da quel
giorno del ‘98 a Londra quando tenne l’ultimo show con la band
che aveva suonato quel rivoluzionario In The Aeroplane Over The
Sea. L’occasione è Occupy Wall Street, il movimento di protesta
iniziato qualche settimana prima nel cuore dell’economia americana e mondiale. Mangum, che è uno che nel potere della musica
ha sempre creduto, non si è tirato indietro: si è assiepato su una
scalinata, con il suo pubblico a un centimetro di distanza e la sua
voce roca e tagliente che raggiungeva la cima dei grattacieli, dove
i capi dell’economia globale decidevano le sorti dell’umanità; poi
ha suonato, riso, scherzato e parlato con tutti per quaranta minuti.
Quaranta minuti in cui tutti hanno tirato fuori la voce, hanno fatto il
verso delle cornamuse, hanno dimenticato le sofferenze, mistificato
le lotte e iniziato a sognare.
Qualche anno più tardi, il 30 aprile 2013 - dopo uno hiatus (il periodo di inattività per gli inglesi) durato quasi quattordici anni - giunge
la conferma ufficiale: i Neutral Milk Hotel hanno annunciato una
manciata di live a partire dall’autunno 2013 in molte città america-
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ne (Atlanta, Athens, Mamphis, Columbia), ma anche Tokyo, Sidney,
Brisbane, Taipei. La notizia, diffusa nel pomeriggio, rimbalza da sito
in sito, da fanzine in fanzine, da tweet a tweet, come se un branco
di leoni rimasto a digiuno per molto tempo, ricevesse qualcosa da
mangiare su un piatto d’argento. Per di più, nella serata del sabato
al Primavera Sound 2013, l’organizzazione, poco prima di mezzanotte, annuncia il primo headliner dell’edizione 2014: guarda caso,
proprio i Neutral Milk Hotel, che aggiungono così il loro (per ora)
unico tassello europeo. La loro reunion ha risvegliato gli animi già
caldi di una generazione forgiata sul loro sound, viziata da moltissime band che si sono ispirate a Mangum e soci.
Tuttavia c’è più di un mistero dietro la figura di Jeff Mangum. C’è
l’ombra asfissiante di un passato difficile e i dubbi sulle ragioni
di una scomparsa artistica troppo accelerata. I suoi Neutral Milk
Hotel, con all’attivo solo due dischi e una manciata di cassette, si
sono rivelati la cartina al tornasole di un’intera generazione di artisti, da inizio millennio ad oggi. Non ne hanno fatto mistero i Franz
Ferdinand, quando li hanno pubblicamente elogiati o gli Arcade
Fire - anche loro della scuderia Merge. Li hanno omaggiati in cover
di lusso, come quella di Two-Headed Boy degli Swell Season o di In
The Aeroplane Over The Sea dei Dresden Dolls. Persino in Italia c’è
chi ha preso in prestito un verso di una canzone dei NMH per il
nome della propria band (Goldaline, My Dear), chi si è ispirato al
loro sound (Girless & The Orphan), chi, con un po’ di nostalgia, dopo
la scomparsa di Mangum ha aperto una fan page italiana per recuperare quante più notizie possibili sul proprio idolo. Le cose non
tornano. Come può una band così non-convenzionale, così un-cool,
così bizzarra e limitata temporalmente, aver creato tutto questo
scompiglio? Come può una rivista come Magnet inserire Aeroplane come miglior disco dei 90s, al di sopra di Nevermind, al di sopra
di Ok Computer?
U na m acch i n a s i n tetica vo l a nt e
Scavalchiamo e andiamo, il peso schiaccia giù,
e non so, urlerò finché capiranno cosa intendo:
intendo il matrimonio tra un cane morto che cantae una macchina
sintetica volante
Occorre andare con ordine. Jefferson Nigh Mangum è uno che
viene dalla terra di nessuno: è nato nel 1972 a Ruston in Louisiana,
una zona agricola, che compare giusto in qualche racconto di Kerouac o al telegiornale per localizzare un episodio di cronaca nera.
Ruston ha una forte aura religiosa, è uno degli epicentri della Chie-
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sa Battista del Sud, la vera erede del puritanesimo inglese del XVII
secolo. Mangum stesso avrà con la propria fede un rapporto intimo,
personale, contraddittorio: è probabilmente grazie ad essa che la
sua storia, nel momento più buio, non è finita come quella di molti
suoi conterranei e contemporanei (Cobain su tutti). Ma non si tratta
naturalmente di Battismo o proselitismi vari (“Non sono stato cresciuto come un Battista del Sud spaventato dall’Inferno, ma piuttosto
in una sorta di Cristianità psichedelica”): si tratta di filosofie orientali,
di “immaginazione attiva”, di sogni, visioni, di pace interiore, di stati
che ascendono alla gioia attraverso il dolore. E di dolore, Mangum
ne potrebbe parlare tantissimo. A chi, come Kevin Griffis (Creative
Loafing Atlanta), prova ad intervistarlo oggi, risponde così: “Non
sono un’idea. Sono una persona che ovviamente vuole essere lasciata
sola. Se la mia musica ha significato qualcosa per te, allora rispetterai
la mia decisione. Poiché sono la mia vita e la mia storia, penso di aver
qualcosa da dire quando viene narrata. E non mi è stato dato questo
diritto”; a chi prova ad indagare sul periodo di hiatus dei NMH, magari contattando qualche familiare, scrive: “per favore non contattare
la mia famiglia. Penso che mio padre avesse interesse in te, che fosse
intrigato all’inizio, ma ora si sta domandando come potesse un perfetto sconosciuto sapere del suo passato doloroso. Nemmeno io desidero
rivisitare il passato”.
Eppure, almeno apparentemente, si tratta di un passato ordinario,
certo con tutte le stravaganze tipiche di una testa calda del Sud. La
sua storia artistica inizia come quella di tanti altri: a scuola, esattamente alla Ruston High School, dove lui, Will Hart, Bill Doss e Robert
Schneider vengono allontanati dalla squadra di calcio e in tutta risposta, prendono in mano le chitarre e la batteria. Il clima di Ruston
è quello tipico della provincia: quando arriva la musica che ti colpisce, è già passata a miglia e miglia da dove ti trovi. L’unico canale
di sfogo è la stazione radio Louisiana Tech, dove Hart e Mangum
trovano lavoro come Dj già dalla metà degli anni Ottanta: Zombies, Small Faces, Syd Barrett, Scratch Acid, Tall Dwarfs fanno irruzione nelle loro vite, seminando il gusto per la canzone psicotica,
per il folk malato, per la psichedelica d’avanguardia. Le rare volte in
cui un artista di fama passa da lì, i quattro sono sempre disponibili
a fare la spalla, senza compensi, senza speranze, solo per il gusto
di suonare e confrontarsi con il pubblico. A dir la verità, Jeff e Will
sono quelli che si sono fatti prendere più di tutti dall’ondata punk e
riottosa oltreoceano: le loro cassette contano decine di parolacce e
sono dei veri e propri gesti autolesionistici. Con Jeff alla batteria e
Will alle chitarre, danno vita al loro primo progetto dal nome Mag-
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got, qualcosa che ancora oggi fa rabbrividire il proprio autore: al
limite dalla decenza.
Ma Ruston non sarà la dimora definitiva di questi quattro personaggi. Per loro, il destino ha in serbo una vita da girovaghi, con un
punto fisso nella ruota americana: Athens, Georgia. È lì che quattro
amici qualunque alle prese con musicasette, piccoli live e la voglia
di emulare i grandi, si trasformano nel collettivo Elephant 6, destinato a ridefinire le regole del folk in America, a essere la punta
massima dello sperimentalismo degli anni Novanta. Ed è lì che Hart
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e Mangum - che già avevano provveduto a ridimensionare gli animi
dei Maggot in quelli più pacati e pop dei Cranberry Lifecycle danno vita al progetto più programmatico, forse anche più “serio”
di tutta la scuderia Elephant 6 fino a quel momento: The Synthetic
Flying Machine. Anche in questo caso (ed è forse ora di farcene
una ragione) stiamo parlando di un mondo popolato da nastri su
nastri di musica registrata, da esperimenti sonori di tutti i tipi e forse, se lo si cerca in profondità, qualche accenno di melodia.
E’ così che funziona ad Athens, è così che si mostra la ribellione, la
voglia di cambiamento: “Quando cominciammo l’Elephant 6, - rivela
Mangum a Pitchfork - avevamo visioni molto utopistiche secondo le
quali avremmo potuto superare qualsiasi ostacolo grazie alla musica.
La musica non era solo intrattenimento: stavamo cercando di creare
una sorta di cambiamento. Avevamo il desiderio di trasformare le
nostre vite e quelle dei nostri ascoltatori.” Nel frattempo, le vicende di
questo collettivo artistico cominciano a dipanare la loro ragnatela
in tutto il nuovo mondo, dal Colorado al New Jersey: Schneider,
quello più competente musicalmente parlando, vive a Detroit, dove
ha fondato gli Apples in The Stereo e distribuisce singoli sotto il
marchio dell’elefante fin dal 1993; Hart e Doss, ad Athens trasformano i Synthetic Flying Machine negli Olivia Tremor Control,
l’unico collettivo della Elephant capace di coniugare l’abilità di Hart
come artista visivo e la psichedelia pop più sintetica. Si stila persino un manifesto, prendendo spunto dalle avanguardie storiche a
cui Mangum e soci sono fedelmente devoti (Dadaisti e Surrealisti
su tutti): “Noi crediamo nell’uso di macchinari casalinghi, - dice Sch-
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neider - in modi ingegnosi di ideare le cose e nello scrivere canzoni
che comunichino con la gente. Vogliamo realizzare dischi classici che
riescano a sopravvivere al proprio tempo e che possano essere accessibili a persone di tutte le età”, salvo poi correggerlo (ma il sospetto
di un rimaneggiamento postumo è tutt’altro che infondato) in “noi
crediamo nel ‘quattro piste’, nelle belle sonorità e idee, ma più di ogni
altra cosa noi crediamo nelle CANZONI”. L’estetica del lo-fi tocca qui
le punte massime: la storia dell’Elephant 6 e quindi dei NMH coincide con la ricerca, con le stranezze, le stravaganze di esseri sovrannaturali e di strumenti bizzarri applicati ad un abbecedario poprock: sarangi, zanzithophone, sega a mano, sitar, filicorno, eufonio e
tantissimi altri espedienti che saranno l’habitat ideale per la musica
del Duemila. Non solo: Elephant 6 ha le caratteristiche intrinseche
di un progetto di cooperazione: molti componenti si danno alla vita
in comune, alla deriva più hippie che ci si possa immaginare. Condividere scelte musicali ed estetiche coincide quasi sempre con il
condividere la propria vita con le persone che abitano quel luogo. È
da cose così che nascono, in quegli anni, le grandi ondate di innovazione culturale: come a Seattle o come in Minnesota.
Diviso fra Athens, Denver e fra numerosi progetti, si dice che Mangum viva nei servizi igienici della casa che condivide con la sua
ragazza Laura Carter e un’altra manciata di persone in Grady Street,
Athens. In preda alle fobie, alla paura del buio, Mangum riceve nel
gabinetto le visite dei suoi fantasmi, che gli consigliano gli accordi
migliori per le partiture della sua chitarra acustica. Ha deciso di farsi
strada da solo. Ha deciso di ripescare dall’album dei ricordi del liceo
un suo progetto dal nome Milk Studios: l’embrione più significativo della sua carriera.
Il re d ei f i o r i di ca r ota
L’unica ragazza che abbia mai amato
è nata con rose negli occhi
ma poi la seppellirono viva
una sera del 1945.
Al suo fianco solo la sorella,
e solo qualche settimana prima che le armiarrivassero e piovessero su
tutti
Quello che preme a Mangum e compagni in questa fase di ricerca
è di non cadere facili prede dello spirito del tempo. Sebbene largamente affascinati dal noise creativo di Sonic Youth e Minuteman,
ad esempio, essi hanno come imperativo categorico quello di stare
lontani dai riflettori, di non utilizzare ciò che altri hanno o potreb-
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bero utilizzare: lo scopo è di creare collage sonori, paesaggi frammentari straziati da un’indole cinica, che guardi alla sofferenza del
mondo col maturo distacco. E nella solitudine Mangum continua a
incidere cassette, a registrare suoni della natura o della città: se ne
conosce una, ad esempio, sotto il moniker Milk: Pygmie Barn in E
Minor, stampata in una dozzina di copie per gli amici e resa pubblica recentemente dal catalogo della Elephant 6. Evidentemente, la
dimensione intima dell’ascolto fra amici, dei consigli che si possono
ricavare dalle lunghe session di incisioni solitarie è quella più congeniale al Mangum dei primissimi 90s: ben tre musicassette vengono registrate fra il ‘91 e il ‘93: Invent Yourself a Shortcake, Beauty e Hype City Soundtrack. Nulla di più che semplici esperimenti,
le cassette in questione sembrano essere dei recording casuali di
eventi che accadono nel periodo di vita comune ad Athens: in una
di queste c’è addirittura un brano che consiste in sei minuti di con-
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versazione fra lo stesso Mangum e Will Hart.
Nel 1994 Mangum è allo sbando: non ha un lavoro, i suoi progetti
tardano a divenire concreti e comunque non fa nulla per renderli in
qualche misura “fruibili”, vaga per l’America in cerca di ispirazione.
A Seattle, la Cher Doll Records gli dà la possibilità di pubblicare il
primo vero sette pollici della carriera, sotto il nome di Neutral Milk
Hotel: Everything Is. Si tratta di un lavoro ibrido, assolutamente
embrionale, che presenta larghe tracce di sperimentalismo (interviste, colpi di tosse, dialoghi, monologhi, estratti sonori, strani o
stranissimi strumenti, sovraincisioni), ma che lascia intravvedere
all’orizzonte i nuclei formali del progetto NMH. Non fa eccezione,
in questo senso, l’apertura affidata ad Everything Is, un brano fuzz
tiratissimo, che a quell’altezza cronologica fa pensare ai Pavement,
ad esempio; o Snow Song Pt. 1 (“one, two, three, fuck!”) che con la sua
cadenza lenta e dolcissima fa venire in mente certi giochi psichedelici dei Velvet Undrground. Sulla stessa linea si pone Tuesday
Moon, fin troppo debitrice nei confronti di Syd Barret e delle sue
manie psichedeliche chiuse in qualche armadietto oltreoceano.
Rimanendo a nord, Mangum ha la possibilità di spostarsi a Denver,
dall’amico e produttore Robert Schneider, che gli fornisce finalmente musicisti completi e competenti per la registrazione del
primo full length dei Neutral Milk Hotel: On Avery Island. È il 1996
e il manifesto della Elephant 6 recita che bisogna usare il “quattro
tracce” di rito, ma questa volta Mangum non sarà solo: con lui e
Schneider (che suonerà organo, basso e xilofono nel disco) ci sono
Lisa Jansen dei Secret Square e Rick Banjamin dei Perry Weissman
3. On Avery Island è il salto definitivo per i Neutral Milk Hotel: Magnum interviene laddove gli spigoli sono troppo appuntiti, smussa le idiosincrasie da avanguardia artistica e concepisce un disco
fuzz folk, che, se non fosse per le acustiche, archivieremmo sotto
l’etichetta “punk”. In un certo senso manca l’atmosfera che renderà
leggendari i NMH, quella - per intenderci - delle fanfare, del clima
circense e festoso di Aeroplane, ma qui c’è, per certi versi, di più. Ci
sono le fondamenta indissolubili dell’etica visionaria del nostro cantastorie, ci sono le derive kraut (Marching Theme, You’ve Passed, Pree
Sisters), le pillole di romanticismo (Naomi), le marce funebri (Three
Peaches), le pugnalate di malinconia dritte alla pancia (gli organi e
i fiati di Avery Island) e una manciata di canzoni piccanti che hanno
il sapore amaro di un bicchiere di caffè col sale. In Song Against
Sex, il Nostro si chiede: “Perché dovrei stare qui steso, nudo / quando
è semplicemente troppo lontano / da qualsiasi cosa chiameremmo
amore?”, per poi offrire all’amata di “dormire fuori nella grondaia”,
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poiché “con un fiammifero che è malvagio e un po’ di benzina / non mi
vedrai più”. Eros e Thanatos: c’è tutto quello che nel ‘96 i R.E.M. non
ci avrebbero detto.
L’anno successivo, il 1997, fra un tour e il continuo girovagare, Jeff
Mangum capita in un negozio di libri usati. Compra per caso un
libro comune, un best seller di tutti i tempi, che qualsiasi ragazzino americano che abbia frequentato le scuole ha letto: il diario
di Anne Frank. Ne rimane folgorato, emotivamente devastato,
tanto da desiderare una macchina del tempo per poter salvare la
giovane olandese, vittima dello sterminio nazista. Non senza un
pizzico d’imbarazzo, sull’onda di questa devastazione, Mangum si
mette a scrivere i testi di In The Aeroplane Over The Sea. Le sessioni sono durissime, si estendono fino a quattordici ore al giorno. Con
l’aggiunta di Jeremy Barnes alla batteria, il team di Denver, lavora
per migliorare gli effetti di On Avery Island vivendo sotto lo stesso
tetto, dormendo sui pavimenti, strimpellando strumenti presi in
prestito. Tutti possono suonare tutti gli strumenti, tutti però devono
seguire le direttive di Mangum: non si può suonare qualcosa che
ricordi un brano inciso da altri, non si possono usare troppi suoni
(un obiettivo era l’essenzialità) e una serie infinita di altre necessità
o bizzarrie. Racconta Schneider: “una notte sognò dei monaci Tibetani che cantavano. Il giorno dopo disse:’Voglio qualcosa che suoni
come quello’”. Nessuna delle dodici persone (!) che lavorano al disco
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- tranne Barnes - è un musicista professionista: l’armonia viene
creata tagliando e componendo le melodie e le liriche che Magnum
di volta in volta propone. Per dirla con Will Robinson Sheff (Okkervil River), grazie a Aeroplane “Jeff Mangum ha generato un livello
di devozione simile a quello ispirato da figure letterarie come William
Blake e Walt Whitman”. Blake per la mitologia personale e surreale, basata su tematiche mistiche come la reincarnazione o su esseri
di altri pianeti, mostri o emarginati; Whitman perché le liriche del
disco sono un flusso ininterrotto di compassione per l’umanità e
odio per la violenza.
Alla fine, il disco vede la luce nel febbraio del 1998. Per la copertina,
Jeff porta al designer Chris Bilheimer una vecchia cartolina europea
con dei bagnanti, che viene alterata e sovrapposta creando la famosa immagine dal gusto magico, circense che consegna il disco alla
storia. “Da giovane eri il Re dei Fiori di Carota / e come costruivi una
torre facendo acrobazie tra gli alberi / in sacri serpenti a sonagli che cadevano tutt’intorno ai tuoi piedi” (The King Of Carrot Flowes pt. 1). Da
questo momento in poi, Aeroplane segue il suo lento corso degli
eventi, ricreando un mondo bizzarro, cauterizzando cicatrici della
storia personale di Mangum e della storia collettiva dell’uomo. Ricerca in realtà alternative le vie di fuga dalla propria sofferente vita,
plasma la materia sottostante al fine di equilibrare i due piatti della
bilancia del reale. E tutto parte - manco a dirlo - dal corpo: “Ora mi
ricordo di te/come spingevo le mie dita/nella tua bocca per far muovere i tuoi muscoli/che rendevano la tua voce così fluida e dolce” (In The
Aeroplane Over The Sea). Ecce homo: l’ostentazione dissacrante del
sé come corpo, messo in scena dall’artista saltimbanco, irriverente
ed eversivo; ecco l’immagine che ha bisogno di essere scuoiata per
disvelare in modo cinico l’io. Non a caso ripresa sia in Oh Comely che
in Two-Headed Boy pt. 2.
Per certi versi Aeroplane è un miracolo. È un disco suonato con chitarra acustica, percussioni, un basso distorto, un banjo accarezzato
da un arco, un theremin, zampogne, trombe e tromboni, persino
una sega da falegname ed è l’attestato di nascita del concept album
“indie”. Fra folk e punk, fra psichedelia e cantautorato; fra riferimenti
a Bob Dylan ed ai Pavement. Chi insegna ai critici del tempo a destreggiarsi in una simile esplosione? Come riesce un disco che parla
di “cani morti che si dissolvono e scompaiono, di sperma che macchia
la cima delle montagne, di ponti che esplodono e si contorcono, di
fantasmi nascosti con occhi di rosa che osservano la terra orbitando su
una cometa, di feti in bottiglia che picchiettano le dita su dei barattoli,
con i cuori pieni di aghi che cantano, di coppie sole in stanze pomeri-
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diane con le dite uno nella bocca dell’altra, attraverso gli incavi della
spina dorsale” a tracciare un solco inesorabile nella linea musicale
del tempo? Sembra quasi che Mangum ci stia prendendo in giro
o stia semplicemente spingendo l’ascoltatore a trascendere l’orrore (Anna Frank si reincarna attraverso l’arte del suo Diario e causa
nell’ascoltatore la fantasia in cui egli stesso proteggerà Anna dopo
essere rinato come suo gemello siamese) per arrivare, attraverso la
bellezza (Beauty era persino il titolo di una prima musicassetta di
Mangum), alla purificazione totale.
Rimane da interrogarsi sul perché del successo immediato (quello
postumo è materia portante di questo articolo). Dopo Aeroplane,
i NMH e la Elephant 6 sono sulla bocca di tutti. I concerti, dacché si
svolgevano nei piccoli club, cominciano a raccogliere folle sempre
più ingenti. La formazione è estremamente allargata; in Norvegia
arrivano a calcare il palco più di quindici persone. Riviste specializzate come Pitchfork definiscono Aeroplane come la fusione
perfetta del lo-fi con Sgt. Pepper; Rolling Stone ci va più cauto
dicendo che Aeroplane è “materiale di distrazione”, poco attento
alla forma, al limite del passabile la voce di Mangum. In ogni caso,
a stretto giro, come spesso accade, la notorietà improvvisa scuote
l’equilibrio precario di Jeff Mangum: qualcosa cambia nel suo modo
di vedere il mondo. E alla fine cede.
O ne day w e wi l l di e a n d o u r as h es will fly
E quando ci incontrerermo su una nuvola
riderò fortissimo
riderò con tutti quelli che vedo:non posso credere a quanto sia strano
non essere proprio niente
Parte integrante del successo dei NMH è la mitologia creata all’altezza del breakdown di Mangum. Dopo il concerto di Londra nel ‘98,
ognuno prende la sua strada: Jeff - come dice l’ex moglie - “controllava ossessivamente la posta elettronica e seguiva ogni chat room, e
quando la gente diceva qualcosa di lui, si arrabbiava veramente. Era
una cosa personale,’Dicono questo di me, e non è vero!’”. E’ il tracollo,
il cui segno palpabile viene percepito quando nel 1999 i concittadini R.E.M. offrono ai Neutral Milk Hotel di aprire l’intera tournée,
ma ricevono il cortese rifiuto di Mangum. Cominciano a circolare
strane voci sul conto di Jeff Nigh Mangum: pare che inizi a credere
alle strampalate teorie di Art Bell su un probabile cataclisma a inizio
millennio, tiene da parte sacchi e sacchi di riso come provviste, fa lo
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stesso percorso tutti i giorni in pantofole: da casa sua al negozio di
ciambelle Dunkin’. And back. “Ho passato un periodo, dopo Aeroplane, - rivela Mangum nella famosa intervista a Pitchfork - in cui tutti
i presupposti che davo per scontati sulla realtà iniziarono a sgretolarsi.
Prima di tutto questo: penso di aver avuto un’innocenza intuitiva che
mi guidava e che è stata una cosa molto positiva per un certo tempo.
Ma poi ho capito di aver lasciato fino ad allora il mio lato razionale da
parte per la maggior parte della mia vita. Ad un certo punto, la mia
mente razionale ha iniziato ad infiltrarsi, e non riuscivo più a farla tacere”. Nel 2000 si separa dalla moglie e vola in Bulgaria a un festival
di suoni etnici che si tiene una volta ogni dieci anni. Porta con sé
un registratore e, anche se non capisce una parola di bulgaro, trova
interessanti connessioni con la musica tradizionale di quel popolo.
Tornato ad Athens, è difficile per lui trovare una sistemazione. E le
sue tracce si fanno sempre meno fitte. C’è chi dice di averlo avvistato a New York, chi in Arizona, chi in New Scotland. Di sicuro pensa
di fare lo scultore, forse del bronzo, stando a quanto dice la sua ex
moglie. Dopodiché nel 2001 fa il turno dalle tre alle sei del mattino
in uno spettacolo trasmesso dalla radio WFMU a Jersey, con lo pseudonimo di Jefferson. La domanda che ossessionava i fan, i critici, gli
appassionati è sempre la stessa: che fine ha fatto Jeff Mangum?
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Tutti aspettano un seguito di Aeroplane che non arriva mai. Malgrado questo, il disco continua a vendere (rimane fra i cinquanta dischi più venduti della Touch & Go) e Magnum, col tempo, esce pian
piano allo scoperto: qualche performance occasionale a partire dal
2008, fra cui la già citata apparizione a New York nel 2011, una bella
sorpresa al Primavera Sound 2012 e un’altra al Coachella dello
stesso anno; una ricomparsa nella line up degli Olivia Tremor Control e un conseguente tour; infine una miriade di rumors, a partire
dal 2012 su una probabile reunion della formazione dei NMH dei
tempi di Aeroplane. Poi, il 30 Aprile 2013 - come detto - giunge
la conferma ufficiale della reunion. Tutto lascia presagire un ritorno coi fiocchi, magari sublimato da qualche assaggio dell’enorme
quantità di materiale che Mangum ha tenuto nascosto negli anni
di hiatus. I proventi saranno parzialmente devoluti all’associazione
Children Of The Blue Sky, giusto per ricordarci che Mangum è uno
che non ha mai smesso di credere nel potere della musica.
Nel 2012 per cause ancora da chiarire muore Bill Doss, che, pur
non avendo partecipato alle registrazioni di Aeroplane, è sempre
stato un punto di riferimento fondamentale per Mangum. Ha anche
fondato, in parallelo agli Olivia Tremor Control, i Sunshine Fix,
un rock sperimentale in linea con gli anni Zero. Una storia simile
a quella di Will Hart, che dal 2000 porta in giro il collettivo Circulatory System (formazione che ha fatto la sua comparsa anche in
Europa, al Primavera Sound del 2010). La Carter, che di certo non
è stata con le mani in mano dopo la separazione con Mangum, ha
incrementato l’attività dei suoi Elf Power, che - tra le altre cose suoneranno con i Neutral in alcune date della reunion annunciata:
che si tratti di un ritorno di fiamma? Schneider, l’unica figura che
ha musicalmente ispirato Mangum (oltre ad aver curato parte degli
arrangiamenti dei fiati di Aeroplane), tiene vivacemente in vita
gli Apples In Stereo e ha recentemente dato vita agli Ulysses, una
band con strane influenze shoegaze. Barnes, infine, è il leader indiscusso del progetto più interessante del post-NMH: A Hawk And A
Hacksaw.
Legacy
E coricati fra lenzuola pulite e sicure:
ma non odiarla quando si alza per andarsene
Una riflessione finale, alla quale avevamo accennato anche all’inizio di questo articolo. I Neutral Milk Hotel hanno generato una
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schiera di imitatori, consapevole o meno dell’apporto innovativo
di un sound che ha sconvolto gli ascolti abituali di chi aveva a che
fare con la musica nei 90s. Lo stupore si genera nel momento in cui
ci si rende conto che il collettivo di Athens non ha effettivamente
inventato nulla da zero; ha solo coagulato una serie di rapporti di
forza che evidentemente aspettavano di esplodere da un momento
all’altro: da lì in poi le regole del gioco sono cambiate, Aeroplane
ha avuto un impatto paragonabile a pochi altri nella storia. Per dirla
con Tom Williams di Radio Exile, “i Neutral Milk Hotel sono per i 2000
quello che i Pixies sono stati per i ‘90”. Perché? Seguendo Williams,
perché essi hanno inventato il “concept album indie”, poi ripreso
da gruppi come Acorn, Decemberists, Okkervil River e Sleep
Station. Probabilmente un’altra causa sta nell’enorme personalità
mostrata nei live: sempre al limite della catarsi, sempre in mezzo al
pubblico ad odorare e respirare gli stessi sapori dell’uditorio. Così
faranno artisti del calibro di Arcade Fire, Beirut, Bon Iver, Ra Ra
Riot, Animal Collective. Un terzo aspetto è l’utilizzo dei fiati: non
che il rock ne avesse mai deficitato, ma i NMH collocano questa
particolarità nel periodo in cui le chitarre distorte regnano sovrane (Nirvana, Pavement, tutto il brit) e sono puntualmente imitati
da Antlers, National, Sufjan Stevens. Infine, il gusto folk punk, che
Magnum ha forse preso da qualche disco dei Violent Femmes, è
qui definitivamente esaltato e codificato, per poi essere riproposto
da gruppi come Frightened Rabbit, Microphones o Phosphorescent. Con una sfilza di nomi così (e ne stiamo tralasciando un bel
po’), il capogiro è assicurato.
Non male per uno che viveva nel bagno di casa aspettando le
visite dei fantasmi dei Natali passati. Intanto a noi rimane (per ora)
solo quel suono di Two-Headed Boy pt. 2 con cui si conclude In The
Aeroplane Over The Sea, come un viaggio bellissimo. Si sente Jeff
poggiare la chitarra, spostare la sedia e trascinarsi fuori dal palcoscenico, in silenzio, come ha sempre amato fare.
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Smoke The Waterpipe
A Hawk
And A
Hacksaw
Giunti al settimo album dopo
oltre dieci anni di attività, per
gli A Hawk And A Hacksaw di
Jeremy Barnes e Heather Trost è
tempo di fare bilanci
Testo: Giulia Antelli
“Sai, la musica balcanica per noi non è mai stata qualcosa da cui
prendere spunto solo perché negli ultimi anni è tornata molto di moda.
È qualcosa che amiamo profondamente, perciò cerchiamo di fare del
nostro meglio per renderla nostra nel modo giusto. Crediamo che non
ci si debba limitare all’imitazione di determinate band o generi, noi vogliamo provare a fare qualcosa di diverso. Siamo degli outsider, abbiamo una visione differente della questione, e quello che ci muove non è
la nostalgia per il passato, ma la voglia di scoprire e sperimentare”.
Giunti al settimo album dopo oltre dieci anni di attività - quel You
Have Already Gone To The Other World ispirato alla pellicolaculto Shadows Of Forgotten Ancestors del regista sovietico Sergej
Paradzanov - per gli A Hawk And A Hacksaw di Jeremy Barnes e
Heather Trost è tempo di fare bilanci. Li abbiamo incontrati qualche
settimana fa all’Hana-bi di Marina di Ravenna (una della tappe di
una serie di show in giro per l’Italia - cinque date in tutto, tra cui
una anche in Sicilia) e ci siamo fatti raccontare direttamente da loro
la storia di un viaggio in continua evoluzione, immersi tra secoli di
ricercata tradizione old-est folk e appassionata etnomusicologia.
Una chiacchierata fondamentale per capire le dinamiche, o meglio, l’etica che muove questo piccolo gruppo innamorato della
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folk-music balcanica, con le radici piantate nel sud degli Stati Uniti
(Albuquerque, la città più grande dello stato del Nuovo Messico) e il
cuore rivolto all’Est Europa, anche se, come ci diranno loro stessi nel
corso dell’intervista, “è difficile stabilire dove sia l’est e dove sia l’ovest”.
Qui sta racchiuso il pensiero di una band che ha fatto della scoperta
- sempre unita a una passione vera e profonda per la musica tutta
-, il personale punto di partenza. E anche se è forte la tentazione di
apporre etichette, lo è altrettanto la voglia di credere che, potenzialmente, per Barnes e Trost non esistano confini, partendo dall’assunto che “la cosa più importante è avere una costante curiosità, qualcosa
che ti permetta di andare avanti, di guardare sempre oltre”.
Guardare oltre, cercare di non cadere nella trappola del sospetto,
è forse la scommessa maggiore non solo per i due musicisti, ma
anche per l’ascoltatore che abbia voglia di tuffarsi nella generosa discografia del duo senza storcere il naso di fronte alla dicitura
“balkan-folk”. Il problema principale del cercare di analizzare in maniera più obbiettiva possibile l’amore sconfinato degli A Hawk And
A Hacksaw per la tradizione est-europea, è infatti quello di riuscire
a scindere le immagini da cartolina dalla voglia di appropriarsi di
un genere che, per definizione, appartiene ad una cultura lontana e
radicata nel tempo quanto la musica stessa, talmente riconoscibile
che il rischio caricatura è sempre dietro l’angolo. Se ci concedete
di generalizzare, si potrebbe azzardare che, a causa di certa miopia
critica, in questi anni la musica balcanica è stata spesso relegata a
prodotto tipico delle zone di provenienza, un bene da esportazione
commerciabile solo da chi può vantare natali est-europei. Ridotta a stereotipo dello stereotipo, l’estetica gipsy si è trasformata in
un marchio di origine strettamente controllata, con la tracotanza
del punk zigano à la Gogol Bordello da una parte (e non è un caso
che Eugene Hutz sia un maestro nell’arte della vendibilità etnomainstream) e le suggestioni da Belgrado in bianco e nero del buon
Goran Bregovich dall’altra. Solo un paio di esempi per dire che, nel
bene o nel male, il folclore e la fascinazione per quel mondo sono
troppe volte serviti a placare soprattutto le nostalgie di chi ha sempre voluto vedere nell’Est niente più che l’opposizione all’Ovest, o,
nel migliore dei casi, a soddisfare la morbosa curiosità per un terzomondismo forzatamente lontano e, dunque, incomprensibile.
Insomma, appare chiaro che, con le dovute eccezioni, la musica balcanica ci è stata spesso presentata totalmente svuotata, se non di
significato, perlomeno di tutta la sua portata culturale, utile soltanto
per riempire gli spazi vuoti di un diffuso trend votato all’esotismo.
In questo contesto, è difficile non considerare gli AHAAH soltanto
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come l’ennesimo capriccio di un musicista folgorato lungo i binari
dell’Orient Express; anche perché, spesso le migliori intenzioni sembrano avere un generale vizio di forma, e cioè la convinzione che
cercare l’ispirazione in un altrove non meglio specificato e misterioso possa essere la miglior medicina per supplire alla mancanza
di idee. Un rischio che i due hanno cercato di evitare attraverso una
personale rivisitazione e riformulazione dei canoni strettamente
musicali, grazie a una volontà ferrea - e qui sta la differenza - di
cercare di vivere, e non solo conoscere, ogni aspetto dei paesi in
questione - ovvero Ungheria, Serbia, Romania e Bulgaria, eccetera..
- sforzandosi ogni volta di trovare differenze e similarità non solo a
livello musicale, ma anche culturale e storico.
Viene da chiedersi, allora, quale sia il ponte che collega idealmente
i due mondi, come se esistesse un filo rosso tra la sabbia riarsa del
New Mexico e la polvere millenaria dei Carpazi. Barnes riflette prima
di parlare, quasi come se dovesse rispondere prima a se stesso: “ad
essere sincero non ho mai pensato ad un ponte geografico che unisca questi luoghi. Casomai, credo che il ponte esista tra certa musica
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messicana e certa musica dei Balcani. Ad esempio, ci sono molti legami
tra melodie e strumenti, soprattutto con la musica romena, che è stata
influenzata principalmente dalla presenza dell’impero austro-ungarico. Allo stesso modo, in New Mexico c’è una lunga storia di colonizzazione spagnola, francese e anche tedesca. Certo, è chiaro che ci sono
delle differenze, anche se quando ho sentito la musica romena per la
prima volta ci sono stati degli elementi che mi hanno immediatamente
ricordato alcune tradizioni del New Mexico, ad esempio nell’uso degli
ottoni”. Non stupisce, allora, come la componente di ricerca sia perfettamente amalgamata a quell’attitudine über-folk che da sempre
ne caratterizza il lavoro: la musica degli AHAAH, infatti, non ha mai
rinnegato l’Occidente, perché è pur sempre con la preparazione e
la tecnica di quest’ultimo che i due si sono appropriati dell’Est, e
sono loro stessi a confermarlo, quando, prima di tutto, si definiscono musicisti Americani. “Credo che ci siano due modi di considerare
la musica folk”, prosegue Barnes: “il primo guarda al modo di suonare
di cento o duecento anni fa, in cui si tende a conservare la tipicità del
genere come se fosse un pezzo da museo. Anche questo è un aspetto
molto importante, perché comunque si devono conoscere e mantenere le origini di questa cultura, ma allo stesso tempo, per me, significa
fossilizzarsi su determinate caratteristiche che non ti permettono di
costruire nulla di nuovo. Dall’altro lato, il folk è una musica estremamente viva, che cambia e si evolve continuamente. Non è qualcosa che,
semplicemente, può trasmettermi mio nonno e che io a mia volta posso insegnare a mio figlio. Penso che sia fondamentale sottolineare che
la sopravvivenza di questo tipo di musica non dipende dai trend e dalle
mode: le mode vanno e vengono, per un po’ alla gente piace la musica
balcanica e poi l’anno successivo passa a quella africana, quindi credo
che la cosa migliore sia semplicemente ignorare questi meccanismi e
continuare a fare ciò che amiamo”.
Ma prima di esplorare il cammino musicale degli AHAAH, c’è un’altra storia da raccontare. Tutto ha inizio nell’ormai lontano 1998,
anno dello scioglimento di una delle band più influenti del pianeta,
di cui il giovane Jeremy, allora 23enne, era stato il batterista. Stiamo
parlando dei Neutral Milk Hotel e di quel capolavoro uscito appena pochi mesi prima, In The Aeroplane Over The Sea, che li aveva
innalzati - a ragione - a nuovi sacerdoti dell’indie americano. Ripercorrere la storia, passata e presente, dei NMH non è compito di questo articolo, anche se è interessante notare come il percussionista
di Albuquerque si sia ritrovato, in pochissimo tempo, ad essere un
outsider tra gli outsider. Infatti, dopo lo split della band madre, Barnes, unico musicista di professione della compagnia, si trova davan-
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ti a un bivio. Se a poco più di vent’anni hai già militato nel gruppo
di riferimento di un’intera generazione, le scelte che hai sono due:
fossilizzarti nel circuito del rock underground nel (vano) tentativo
di ripetere da solo i fasti passati, oppure - ed è questo il caso - fare
tesoro dell’esperienza e aspettare che le cose vadano avanti, maturino e magari portino ad una svolta inaspettata.
Così, in attesa di un avvenimento che indichi la strada da seguire,
ecco che riemergono dalle nebbie del pre-NMH i Bablicon, trio
avant-jazz formato nel 1996 assieme a David McDonnell e Griffin
Rodriguez degli Icy Demons (quest’ultimo, qualche anno più tardi,
sarà una presenza fondamentale nel neonato progetto A Hawk And
A Hacksaw), con all’attivo tre album e un EP basati quasi interamente sull’improvvisazione. L’ensemble si scioglierà nel 2001, con
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Rodriguez ormai concentrato sugli Icy Demons e McDonnell sull’experimental rock dei Michael Columbia. Barnes, invece, ha alle spalle
varie tournee, tra cui quella con i Gerbils, altra band di stanza ad
Athens, Georgia, e legata al collettivo degli Elephant 6 fondato, tra
gli altri, da Jeff Mangum e Robert Shneider.
Dopo i Gerbils, l’esperienza di live-drummer continua. Siamo ancora
agli sgoccioli del 1999 e i side-projects provati da Barnes sono stati
numerosi e diversi fra loro. Tuttavia, il musicista non ha ancora ben
chiaro in mente quale sarà il suo futuro professionale. “I was kind of
at a dead end in what I was listening to, and it just opened up a whole new world for me”, si legge sul web, e il riferimento è chiaro: nel
corso dello stesso anno, durante uno dei tanti viaggi che fin dagli
esordi influenzeranno l’estetica degli AHAAH, arriva la scoperta banale, se vogliamo, ma letteralmente rivoluzionaria per lui - della
musica balcanica. Qualcosa che, come racconta lui stesso, “mi aveva
davvero colpito, facendomi ripensare anche alla mia intera esperienza
di musicista. Ma ero ancora un batterista, e non pensavo che avrei potuto suonarla io stesso: di solito, quando scopri un determinato genere,
è probabile che si tratti solo di una moda, una fissa che dura un mese e
poi passa. Ma ormai ci sono dentro da dodici anni, perciò credo che sia
diventata qualcosa che fa davvero parte di me”.
Da qui a decidere di perdersi completamente nei sentieri della
vecchia Europa, passano altri tre anni. Continuano i tour - tra le fila
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di Broadcast, Bright Eyes e Of Montreal - e, soprattutto, i viaggi. Uno
in particolare, nell’ovest della campagna francese, convince definitivamente Barnes a mettere su un progetto nominalmente solista,
ma che di fatto riunisce sotto di sé un collettivo di musicisti/amici
reclutati nei luoghi più disparati. Con il moniker di A Hawk And A
Hacksaw - preso, non a caso, da uno dei baluardi della letteratura
europea, il Don Chisciotte di Cervantes, e unito all’aksak, termine
della musicologia turca che indica il ritmo della canzone tradizionale - nel 2002 l’ex batterista dà alle stampe l’esordio eponimo tramite
Cloud Recordings, la stessa etichetta di amici come Icy Demons e
Olivia Tremor Control. Siamo ancora lontani dalla compiuta attitudine stra-folk che caratterizzerà i lavori successivi: infatti, l’album appare più come il tentativo di dare voce alle mille impressioni scaturite dalle prime peregrinazioni lungo la penisola balcanica piuttosto
che un’idea coesa e coerente di ricerca sonora, un collage di impianto lo-fi che cerca di fondere folclore mediterraneo e esperimenti
avant. Il disco, comunque, diventa la colonna sonora del docu-film
diretto da Astra Taylor (moglie di Mangum) Zizek!, incentrato sulla
carismatica figura del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek,
giusto per sottolineare ancora una volta che la prospettiva musicale
di Barnes, anche se non ancora completamente a fuoco, è già rivolta
ad un ideale punto d’incontro tra est e ovest.
Il successivo Darkness At Noon, registrato nel 2005, segna la nascita
definitiva degli A Hawk And A Hacksaw: compare per la prima volta
anche Heather Trost, musicista klezmer che diventerà ben presto
l’altra metà del duo, nonché compagna di Barnes. Il disco, concepito
tra Praga, New Mexico e Regno Unito, riprende le fila del seminale
old-est folk precedente, anche se sporcato da un’attitudine maggiormente live che ne documenta la girandola di influenze: non più
solo i tentativi avanguardistici dell’esordio, ma anche echi morriconiani (l’album si apre addirittura con degli spari western) e folk
anti-militarista à la Woody Guthrie, oltre a campionamenti di field
recordings e citazioni letterarie (Nabokov nell’opening Laughter In
The Dark, Arthur Koestler nel titolo dell’album). Un pastiche preparato per accumulo di suggestioni, in cui l’est si fonde alla musica
mariachi e l’ortodossia klezmer alla tradizione acustica appalachiana, costruito sulla combinazione di violino e fisarmonica, tromba e
tuba.
Si comincia così a intravedere la base fondante del Barnes-pensiero,
e cioè una sapiente ricerca del nuovo attraverso la scoperta sul campo della musica popolare. La stessa di The Way The Wind Blows, terza
proposta che conferma e consolida quanto elencato finora. Grazie
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anche all’ausilio della Fanfare Ciocarlia, brass-band di dodici musicisti di etnia romena e rom, Barnes e Trost continuano il loro nomadismo musicale ed esistenziale, attraverso un percorso che cerca
nelle strade del mondo la sua ragion d’essere. È per questo motivo
che, meno di un anno dopo, il duo decide di raccontare il proprio
percorso attraverso la release di A Hawk And A Hacksaw And The Hun
Hangar Ensemble. EP registrato assieme al suddetto quartetto ungherese e pubblicato in un doppio formato cd più dvd, il disco documenta l’interazione dei due all’interno del contesto in cui hanno
deciso di immergersi. Il video, intitolato programmaticamente An
Introduction to A Hawk And A Hacksaw, mette insieme le immagini di
due anni di tour in giro per l’Europa ed è utile soprattutto per capire
definitivamente che la vicenda musicale di Barnes e Trost non è
affatto il mero divertissement di una coppia ubriacata d’oriente. Qui
ci sono determinazione, spontaneità e umiltà, il terreno ideale per
Délivrance, quinto album che segna il punto di svolta nella discografia degli AHAAH. Stabilitisi definitivamente a Budapest, i musicisti allargano il loro itinerario comprendendovi non più soltanto i
Balcani, ma anche Grecia e Turchia, Nord e Sud, in un immaginifico
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percorso che riunisce sotto di sé Asia e Mediterraneo. Dieci brani
tra riadattamenti di pezzi traditional e composizioni ex novo, che
sintetizzano al meglio la disarmante volontà di voler comprendere
attivamente il folk est-europeo, come di inserirsi coscienziosamente
in una cultura evitandone la sacralizzazione o l’esaltazione. Dunque,
non un atto d’amore, ma il disco più maturo e consapevole, il luogo
dove ispirazione e mestiere si incontrano per dare vita a una musica
scoperta, sentita e assimilata al cento per cento.
È su questi presupposti di improvvisazione, ricomposizione e
ricerca, che per Cervantine gli AHAAH decidono di tornare a casa,
a quella Albuquerque fino a quel momento lontana, ma solo sulla
carta geografica: una nuova tessera di quel mosaico transcontinentale composto con pazienza e tenacia album dopo album, che li
ricongiunge, dopo aver seguito mille itinerari, alle radici e le origini
del proprio suono. Un punto di arrivo che diventa anche punto di
partenza, e la miglior chiosa all’ultimo capitolo della storia, You
Have Already Gone To The Other World.
“Quello che ci ha spinto a fare un disco come You Have Already Gone
To The Other World è stata l’ispirazione. La trama del film è essenzialmente una favola antica, e l’abbiamo usata per inventare e raccontare
una nuova storia. Anche se l’immaginario da cui siamo partiti è quello
del film, abbiamo cercato di creare qualcosa di completamente nuovo”.
Per l’ultimo album, la coppia decide di attingere ad un altro pilastro
della cultura balcanica, stavolta cinematografica, che è il film di
Paradzanov Shadows Of Forgotten Ancestors. Riprendendo già dal
titolo le immagini visionarie e spettrali del lungometraggio (You
Have Already Gone To The Other World è infatti una delle frasi chiave
della pellicola), i due musicisti costruiscono il loro personale tributo
al regista ucraino, anche se la celebrazione è soprattutto lo spunto
per comporre una nuova gamma di suoni in cui la tradizione, come
al solito, viene assorbita attraverso la rivisitazione e riformulazione
delle musiche del film. Come ci raccontano loro stessi, “inizialmente
il progetto era di portare in tour la colonna sonora, e lo abbiamo fatto
per circa un anno. Durante quel periodo, suonando ogni sera, abbiamo
iniziato a pensare di fare un disco in cui la dimensione cinematografica fosse un punto di partenza, invece che di arrivo. Non abbiamo
riprodotto esattamente le musiche originali di Shadows Of Forgotten
Ancestors, piuttosto direi che l’album è stato il risultato della nostra
ispirazione”. I due hanno lavorato soprattutto sui suoni e sui dialoghi, suonando sia sopra le canzoni originali che componendone di
nuove: un’assimilazione avvenuta progressivamente, guardando il
film ogni giorno. “Siamo entrati completamente dentro la pellicola,
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non solo dal punto di vista musicale, ma anche puramente cinematografico: il soggetto, la sceneggiatura, la fotografia, e ogni altra cosa al
suo interno, sono tutti elementi che hanno influito sulla realizzazione
dell’album”. Un ulteriore passo in avanti in questa continua ricerca
storica e musicologica, anche rispetto a Cervantine e Délivrance:
“direi che una delle differenze maggiori tra You Have Already Gone To
The Other World e gli ultimi due album è che in questi abbiamo suonato con una band. Abbiamo viaggiato ininterrottamente per due anni
e questo ci ha portato a comporre come duo, e penso che sia stato il
cambiamento più evidente. Si è trattato di un processo naturale, che
ha influito molto sul nostro modo di lavorare alle canzoni e anche sul
nostro approccio agli strumenti: se si escludono un paio di episodi con
John Dieterich alla chitarra, abbiamo suonato personalmente ogni
singola parte del disco. Credo che a volte sia giusto anche restringere
gli orizzonti, e non solo allargarli, e questo è anche il motivo per cui
abbiamo registrato ad Albuquerque invece che a Budapest”.
Che si trovino in New Mexico o in Ungheria, quello che importa è
cercare di creare una materia sonora in continuo movimento nello spazio e nel tempo. È lo stesso intento che anima il live, di cui
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abbiamo potuto avere un assaggio già nel pomeriggio durante il
soundcheck, pochi minuti prima di cominciare l’intervista. Dopo
anni, la formazione è di nuovo al nucleo originario, a quell’accordo
quasi simbiotico tra fisarmonica e violino che costituisce il cuore
pulsante della strumentazione del gruppo. L’atmosfera è allegra e
rilassata, come lo sarà due ore dopo sul piccolo palco dell’Hana-bi,
cornice perfetta di un concerto intimo e coinvolgente non solo per
il pubblico, ma anche per i musicisti. Gli stessi che, tra sguardi e
occhiate di reciproca complicità e ammirazione - Barnes elargisce
inchini alla moglie canzone dopo canzone -, riescono a portare
nel cuore e nelle orecchie dei presenti l’atmosfera, i suoni e i colori
delle mille strade percorse finora. Tra i pezzi dell’ultimo album e i
brani più significativi e belli di sempre (basti pensare, sul finale, a
Raggle Taggle, solo violino e fisarmonica con marito e moglie avvolti
dalla folla), il risultato è una splendida sensazione di indimenticabile viaggio che ribadisce, casomai ce ne fosse ancora bisogno,
come i due abbiano saputo creare una musica vibrante e tangibile,
estremamente vera e romantica ma lontana da qualsiasi velleità di
riproposizione nostalgica. Vengono alla mente le parole di qualche
ora prima, quando, tra e una chiacchiera e un’altra, avevamo chiesto come fosse suonare una musica così irrimediabilmente senza
tempo in un’epoca come la nostra: “siamo troppo abituati a sezionare e tagliare, e mi chiedo quanto questo possa servire per concentrarsi
davvero sulla musica. Trovo che sia abbastanza triste che con il tempo
si siano un po’ persi questi presupposti, ma credo che la cosa davvero
importante sia continuare a fare ciò che amiamo di più, e cioè preservare un certo tipo di musica attraverso il nostro modo di suonare, o
meglio, attraverso il nostro modo di vivere la musica”.
Ecco il miglior sigillo ad una parabola che, ci auguriamo, possa
ancora riservare delle bellissime sorprese. Nel frattempo, il concerto
è finito, e quello che rimane è la sensazione di aver assistito ad una
splendida magia, dove l’unico trucco è, semplicemente, riportare
la musica a quello che dovrebbe sempre essere, e cioè qualcosa di
assolutamente vivo, reale ed emozionante. Qui si suona con la S
maiuscola, dicevamo, e così è. Vi basta?
(Special thanks: Giuseppe Antelli )
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Loving Every Minute
Alison
Moyet
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L’ottavo album solista di Alison
Moyet è una collaborazione con
Guy Sigsworth (Frou Frou), già
all’opera con Madonna, Bjork,
Seal, David Sylvian e Alanis
Morissette.
Testo: Alessandro Liccardo
Una carriera intensa, quella di Alison Moyet. Una tra le voci più
riconoscibili del pop inglese ritorna oggi con the minutes, un lavoro eccentrico ma coerente, che rispecchia appieno l’artista nel
2013 - mai così in forma come oggi. Niente reality show, niente tour
confezionati per le “vecchie glorie” oltre il quindicesimo minuto di
celebrità: ancora una volta, l’artista è andata dritta per la propria
strada e stavolta l’ha fatto con la complicità di Guy Sigsworth,
che conoscemmo con Imogen Heap nei Frou Frou e che abbiamo
rintracciato nei credits di dischi come il primo omonimo di Seal, Psyence Fiction degli UNKLE, Homogenic e Vespertine di Bjork, Music
di Madonna, What Sound dei Lamb e le ultime due prove di Alanis Morissette (Flavors of Entanglement e il più incerto Havoc And
Bright Lights).
Genevieve Alison Moyet, “Alf” per gli amici più stretti, nasce il 18
giugno 1961 a Billericay, nell’Essex, da padre francese e madre inglese. È Basildon la città che segnerà la sua infanzia e adolescenza,
che le permetterà di muovere i primi passi nelle band (post-)punk
e soprattutto di conoscere colui che sarà il suo primo collaboratore
importante, quel Vince Clarke che dopo aver formato i Depeche
Mode e aver composto tutti i brani del primo album della band (eccetto Tora! Tora! Tora! e Big Muff), decide di mettere un annuncio e
cercare una voce per il suo nuovo progetto. A rispondere è proprio
lei, Alison Moyet, che oggi però dà una versione diversa dei fatti - i
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due già si erano già presentati quando lei aveva undici anni, semplicemente si ritrovarono e diedero vita, in fretta, a uno dei synth-pop
act di maggior successo e più influenti dei primi anni Ottanta, con
un’eredità raccolta negli ultimi quindici anni da Jyoti Mishra (White
Town), La Roux ed Hercules and Love Affair (e non solo). La ricetta è tanto originale quanto semplice: una voce blues, “nera”, appassionata e potente che si fonde con la fredda precisione dei sintetizzatori e delle drum machine. La prima hit, Only You, è inizialmente
donata ai Depeche Mode (che, ridotti a trio prima dell’arrivo di
Alan Wilder in pianta stabile, nel 1982 danno alle stampe A Broken
Frame) che la rifiutano; i riscontri che la canzone riceve sono lusinghieri tanto in Europa quanto oltreoceano (negli States il nome del
duo cambiò in Yaz), e ben si comporta nell’airplay e nei club anche
il lato B del singolo, Situation, specialmente dopo il remix curato
da François Kevorkian. Seguono l’Lp Upstairs At Eric’s (1982, Mute
Records in Europa, Sire negli Stati Uniti), i singoli Don’t Go/Winter
Kills eThe Other Side Of Love, il sophomore You And Me Both (1983, il
primo album della Mute Records a raggiungere la vetta delle classifiche inglesi) e un altro singolo fortunato, Nobody’s Diary, composto
interamente dalla Moyet.
Ma Vince e Alison hanno due caratteri troppo diversi (“eravamo
nella stessa band ma non siamo mai usciti insieme neanche per una
birra”, ammette con rammarico lei), e tutto inizia a scricchiolare già
al momento dell’uscita del secondo e ultimo full length del duo. Ciò
che segue è ben noto: Clarke forma prima gli Assembly con Eric
Radcliffe e incide il singolo Never Never con l’ex leader degli Undertones Feargal Sharkey per poi dar vita agli Erasure insieme ad Andy
Bell, mentre la Moyet inaugura una proficua carriera solista con un
contratto con la Columbia (“la casa discografica di Janis Joplin”, ricorda ancora orgogliosa) e un album, Alf (1984), che conquista senza
fatica la vetta delle Charts grazie a un soul-pop “dagli occhi azzurri”
in linea con quanto già piaceva al pubblico in quegli anni - si pensi
al successo che ottennero No Parlez di Paul Young e Colour By Numbers dei Culture Club nel 1983. I singoli Love Resurrection, All Cried
Out e Invisible (canzone firmata da Lamont Dozier), prodotti dall’allora premiata ditta Jolley & Swain (Imagination, Spandau Ballet)
funzionano, ma ancora meglio andrà la cover di Billie Holiday That
Ole Devil Called Love. Il successivo Raindancing (1987), anticipato dal
singolo Is This Love? co-firmato da Dave Stewart degli Eurythmics
celatosi dietro lo pseudonimo Jean Guiot, arriva dopo la partecipazione di Alison al Live Aid e le garantisce un buon airplay grazie a
Weak In The Presence Of Beauty (cover dei Floy Joy) e Ordinary Girl.
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L’album contiene anche una collaborazione con i Lover Speaks, dei
quali diversi anni dopo Annie Lennox riprenderà il brano No More
I Love You’s per il suo album Medusa, ma non la fortunata cover di
Love Letters - corredata da un video con French & Saunders - che
comparirà su una release di Alison non prima del 1995, anno in cui
uscì la raccolta Singles.
Gli anni Novanta vedono la Moyet alla ricerca di una nuova identità
artistica. It Won’t Be Long, 45 giri che lancia il suo terzo disco solista Hoodoo (1991, Columbia), ottiene una nomination ai Grammy
Awards, ma il nuovo materiale si dimostrerà meno radio-friendly
rispetto a quello del passato. La Sony interviene a gamba tesa durante le registrazioni del successivo Essex (1994), spingendo Alison
e i produttori Pete Glenister e Ian Broudie (The Lightning Seeds)
a modificare la tracklist e remixare anche drasticamente alcune
canzoni del lotto per renderle più appetibili. Se non altro, la “single
version” di Whispering Your Name - scritta da Jules Shear, lo stesso autore di All Through The Night di Cyndi Lauper - ha il pregio di
vedere di nuovo Vince Clarke al mix dopo tanti anni, e ci sarà una
rivisitazione di Ode To Boy (in origine su You And Me Both degli Ya-
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zoo) più in linea con il brit-pop che negli anni conquistava le prime
pagine dei principali magazine britannici. Nel 1995 Alison torna al
primo posto della UK Album Chart con Singles, antologia ripubblicata un anno dopo con un live (dal sottotitolo No Overdubs), ma i
rapporti con la casa discografica si fanno sempre più tesi.
Il tempo di collaborare con Tricky per l’album Nearly God e la Moyet
si mette all’opera con gli Insects, il fido Pete Glenister e nuove firme
che arricchiranno il suo nuovo disco, come quella di Eg White (già
Brother Beyond ed Eg & Alice, poi autore di hit per Adele, Joss
Stone, Natalie Imbruglia, James Morrison e Will Young) che scrive
Say It. Hometime, il quinto album della cantante, esce nel 2002 per
la Sanctuary (l’ultima uscita per la Sony sarà invece The Essential
Alison Moyet). Il lavoro piace al pubblico, che lo fa arrivare in Top 20
nonostante la scarsa promozione, e alla critica; il rapporto con la
Sanctuary va avanti e produce anche un disco di sole cover, Voice,
con arrangiamenti orchestrali del premio Oscar Anne Dudley (ex
Art Of Noise). Da Almost Blue e God Give Me Strength di Elvis Costello
a The Windmills Of Your Mind di Michel Legrand fino a La Chanson
des Vieux Amants di Jacques Brel, l’album è una carrellata di inter-
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pretazioni intense, che risaltano ancora di più nel DVD live One True
Voice.
Nel 2007 Alison cambia nuovamente casa e si trasferisce alla W14,
etichetta del gruppo Universal Music che dà alle stampe The Turn.
Si punta prevalentemente su ballate malinconiche (come il singolo
di lancio One More Time) ma si inciampa anche in goffi tentativi di
emulazione degli Scissor Sisters (A Guy Like You); in scaletta ci sono
anche tre brani scritti per un musical, Smaller. Seguirà un silenzio
discografico interrotto dalla reunion degli Yazoo (per l’occasione
escono il box set In Your Room e, in seguito, il doppio live Reconnected) e una terza compilation, 25 Years Revisited, che comprende
anche nuove versioni dei classici storici.
Oggi, dopo che le label inglesi si sono sfregate le mani immaginando la Moyet in un reality show a promuovere cover jazz che
potessero servire - chissà - anche come sottofondo di qualche
spot pubblicitario, la signora del pop inglese sorprende il pubblico
ancora una volta: undici canzoni con una chiara matrice elettronica
che però hanno ben pochi punti di contatto con il repertorio degli
Yazoo. Si guarda persino al dancefloor in Right As Rain e al dubstep
nell’opener Horizon Flame. Lei stessa scopre le carte in tavola già
dalle prime battute: “suddenly the landscape’s changed”.. la Cooking
Vinyl (casa discografica che negli ultimi anni ha accolto i Cranberries, i Cult di Ian Astbury e Billy Duffy ma anche gli Echo and the Bunnymen e, più recentemente, Billy Bragg) ha creduto nel progetto e,
grazie alla scelta di un singolo forte come When I Was Your Girl, Mrs.
Moyet è tornata nella Top 5 in Gran Bretagna. Com’è nata l’idea di intitolare l’album the minutes?
Tutto è partito da una canzone, Filigree, che descrive la sensazione
che ho provato quando mi sono trovata in un cinema a vedere The
Tree Of Life di Terrence Malick. La trama procedeva lentamente,
in mezzo a persone che uscivano sfiduciate dalla sala prima degli
ultimi minuti, che poi sono quelli più intensi e che meglio aiutano a
comprendere l’intero film. Capita che ci sentiamo truffati quando la
nostra vita non è un flusso di sola gioia, di sola felicità - ma siamo in
grado di capire solo maturando che la felicità è godersi quei singoli,
brevi minuti che rimangono sospesi negli anni, nelle ore.
Il disco è un deciso ritorno a sonorità elettroniche, ed è frutto
dell’incontro con Guy Sigsworth. Come l’hai conosciuto?
Da tempo volevo realizzare un album elettronico, ma avevo bisogno di lavorare con la persona giusta. Qualcuno che fosse avventuroso, amasse sperimentare con i suoni con una buona padronanza
della tecnologia di cui oggi disponiamo, ma che allo stesso tempo
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desse importanza alla voce (troppo spesso sacrificata, nei dischi
electro degli anni Novanta) e alle melodie, come accadeva ai tempi
degli Yazoo. E Guy ha le caratteristiche che andavo cercando: ha
studiato clavicembalo a Cambridge, è attento tanto ai soundscape
quanto alla musicalità. Siamo due persone socially awkward, con
cui non è sempre facile approcciare, ma ci siamo trovati benissimo
insieme. Entrambi avevamo in mente di creare un disco solido con
una personalità forte e distintiva, e non una collezione di brani scritti e prodotti da una miriade di collaboratori per andare incontro a
questa o a quella particolare fetta di pubblico. Non ci siamo curati
granché dell’appeal commerciale del progetto e delle esigenze delle etichette, e sono andata ai colloqui con i discografici con le idee
chiare e un prodotto già bello e finito; purtroppo mi sono scontrata
con la mancanza di fiducia che molti hanno manifestato. Preferivano qualcosa di più, come dire, “sicuro”.
Rispetto agli altri co-autori e produttori con cui hai lavorato
in passato (da Vince Clarke a Pete Glenister) qual è stata, a tuo
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avviso, la differenza più marcata nell’approccio di Guy verso il
songwriting? Quanto tempo c’è voluto per sviluppare le idee e
trasformarle in vere e proprie canzoni?
Dipende da canzone a canzone. Alcune sono nate da una melodia
accennata alla chitarra, altre come Changeling si reggono su un
loop e in altri casi ancora si è partiti dalla backing track e solo in
un secondo momento sono venute fuori la melodia e le parole. In
generale potrei dirti che abbiamo lavorato molto individualmente:
a volte arrivavo da lui con un testo, e poi in base alle emozioni che
gli suscitava si lavorava insieme sulla palette.
Nonostante il disco entri spesso in territori finora poco esplorati nella tua produzione solista, in the minutes ci sono anche
diversi elementi che riportano al tuo passato. Una fusione
riuscita di fasi diverse del tuo percorso artistico, visto che troviamo il soul, il guitar pop dei tempi di Essex, tracce di Hometime
e gli archi che abbiamo ascoltato in Voice e The Turn... È solo una
mia impressione oppure oggi sei un’artista più sicura delle tue
capacità e una donna più a proprio agio con se stessa?
Assolutamente sì. Volevo creare un album che fosse un insieme
di istantanee, di esperienze di vita viste con gli occhi di oggi, ma
ho evitato accuratamente di riascoltare gli altri miei dischi e non
mi sono fatta condizionare da ciò che passa oggi per radio. Siamo
spesso influenzati da ciò che ci piace, ma anche da ciò che non ci
piace - e stavolta volevo che emergessero i testi, le storie. Non sono
interessata alle “acrobazie” vocali che troppo spesso viziano i brani
delle artiste emergenti. La presenza degli archi ha più a che fare con
il gusto personale di Guy che con quanto ho già registrato anni fa.
Mi ha colpito il fatto che il disco non sia affatto un mero nostalgia trip. Più che dagli Yazoo possiamo pensare che la rinnovata
voglia di elettronica sia stata suscitata dalle recenti collaborazioni con Moby e My Robot Friend?
Non direi. Stavolta è stato un processo molto diverso: la musica che
ascolti in the minutes è qualcosa di profondamente “mio”, mi rispecchia in toto; nelle collaborazioni sono stata coinvolta come vocalist,
ma io mi vedo prima di tutto come un’artista.
Dopo essere stata in un duo di grande successo hai poi avuto
riscontri commerciali importanti anche da solista. Esiste una
ricetta segreta per restare rilevanti e influenti dopo una lunga
carriera?
Non saprei, davvero. Ti confesso che da giovane non avevo un bel
carattere, per esempio, e non sono sempre stata in grado di cogliere le occasioni che mi sono state offerte... Mi piace pensare che i fan
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abbiano visto in me non solo un’interprete, come ti dicevo prima,
ma un’artista a tutto tondo con una propria visione riconoscibile, un
proprio mondo da condividere, e in più credo di essere stata sempre onesta con il pubblico. Il gossip non mi è mai interessato, non
rincorro affannosamente i trend e oggi se incido canzoni è perché
sento di avere qualcosa da dire, curandomi poco di come si posizioneranno in classifica e di quanto venderanno.
Ti senti più libera, oggi, con Cooking Vinyl?
Quando sei sotto contratto con una major come la Sony, indubbiamente senti maggiori pressioni perché si spendono considerevoli
somme di denaro per promuovere il tuo lavoro. Firmai un contratto con loro, al tempo, forte di un album degli Yazoo già arrivato al
primo posto in classifica e lavoravano per avere gli stessi risultati, se
non superiori. Nessuno oggi era preparato ad ascoltare un album
come the minutes; andai all’incontro con la Cooking Vinyl con il lavoro già pronto. Niente cover, come volevano altre etichette. “Questo
è ciò che desidero pubblicare. Prendere o lasciare”, dissi. Penso sia
una tra le poche label che ancora investono sull’artist development,
ed è davvero triste che troppo spesso oggi dai giovani si cerchino
risultati immediati, spremendoli, magari usando la TV come trampolino.
I tuoi testi sono da sempre incentrati sulle emozioni, sui sentimenti, sulla vita di tutti i giorni. Hai mai avuto la tentazione di
sconfinare nel commento politico? È da poco venuta a mancare
Margaret Thatcher, tu come hai vissuto quell’era?
In quegli anni, al contrario di mio marito che era un giovane disoccupato con grosse difficoltà nel trovare lavoro, non ho mai dato
molta importanza alla politica. Sebbene il mio background sia
quello della working class, mi sono ritrovata all’improvviso su Top
Of The Pops e con i dischi in cima alle classifiche: ero famosa, ho
guadagnato parecchio agli esordi, e quindi non mi accorgevo di ciò
che stava accadendo.
Hai accennato prima alle cover. Oltre a That Ole Devil Called Love,
Ne Me Quitte Pas and Love Letters, hai registrato un intero disco
di riletture, Voice. Come scegli i brani da reinterpretare? E quali
sono i tuoi artisti preferiti?
Canzoni come Love Letters e Weak In The Presence Of Beauty sono
state reinterpretate perché il mio management sapeva che sarebbero diventate delle hit. Col senno di poi mi sono persino stancata di quei brani, non li apprezzo più come un tempo. Voice non è
semplicemente “un album di cover” per me, non è stato fatto con
intenti commerciali ma è un vero e proprio labour of love, un disco
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di classic songs scelte per la loro qualità. Mi sono confrontata con
altri repertori per esplorare le potenzialità della mia voce: mi piace
molto la chanson francese, Brel, Michel Legrand, cose che non riuscirei mai a scrivere.
Di Legrand hai interpretato The Windmills Of Your Mind, portata
al successo anche da Dusty Springfield. Quest’anno il Dusty
Day (domenica 26 maggio) ha celebrato il cinquantesimo
anniversario del suo primo disco solista.. tu e Sinéad O’Connor
eravate ai cori di una delle sue più recenti canzoni. È un’artista
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che ti ha influenzata? L’hai conosciuta personalmente?
Mi sono ispirata più alla versione di Petula Clark che non alla sua.
Petula è una cantante strepitosa, ha una voce incredibile. A casa
mio padre ascoltava musica francese, e quindi conoscevo il pezzo in
lingua originale... poi vidi lei cantare il brano in uno show televisivo..
Dusty ha senza dubbio influenzato molti, ma l’artista che ho sempre ammirato di più è Janis Joplin.
È vero che volevano che partecipassi a un reality show? Qual è
il tuo rapporto con i talent e la reality TV? Qualche talento genuino, a tuo avviso, c’è?
Sì, ma non ero interessata. Avrei dovuto promuovere altre cover,
ma io volevo andare avanti, non tornare indietro. Non mi capita mai
di andare a riascoltare brani di artisti dei talent: trovo deprimente
questo tipo di show, il più delle volte va bene semplicemente per
chi ricerca la celebrità fine a se stessa.
Il 20 aprile è stato celebrato il Record Store Day. iTunes e Spotify hanno cambiato le modalità della tua fruizione della musica?
Uso Spotify e credo sia uno strumento utilissimo per scoprire nuova
musica. Può essere utile anche scaricare singole canzoni, creare
playlist, ma vorrei che chi si approccia al mio nuovo lavoro vedesse
non undici singoli pezzi, ognuno a sé stante, ma undici parti di un
racconto, di un discorso unitario che meriti di essere ascoltato per
intero.
Hai sperimentato con il teatro e con i musical. Scriveresti un
libro?
C’ho pensato più di una volta, ma alla fine ho sempre accantonato
l’idea. Ho scelto comunque un mestiere che, attraverso i testi che
compongo, mi ha reso possibile “toccare” le vite delle altre persone
ed esporre me stessa. Ci si apre agli altri raccontando storie, ma non
per forza bisogna farlo per mezzo di un romanzo.
Com’è il tuo rapporto con i fan? Hai qualche esperienza particolarmente positiva (o negativa) che ricordi, in trent’anni di
attività?
Il rapporto con la mia fanbase è splendido. I fan sono spesso cresciuti con me e hanno abbracciato i miei cambiamenti.. non solo
perché la voce che hai a cinquant’anni non è la stessa di quando
ne hai venti, ma anche i contenuti, i linguaggi, necessariamente
cambiano ed evolvono insieme a noi. Tra chi mi segue c’è certamente chi ama una fase della mia carriera più delle altre.. Ho avuto
la fortuna di iniziare alla fine degli anni Settanta, in un momento di
grande fermento musicale, artistico e intellettuale: c’era chi ascoltava il prog, chi abbracciava il punk, ma non era raro ascoltare David
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Bowie e subito dopo i Pink Floyd. Oggi si bada troppo ai demographics, si osa poco e si spazia poco. Me ne rendo conto quando sento
ciò che i miei figli ascoltano alla radio.
Eri a scuola con Martin Gore, Andy Fletcher dei Depeche Mode
e con Perry Bamonte, che è stato un membro dei Cure. Qualche
ricordo o aneddoto particolare su di loro?
Ero molto amica di Perry, un personaggio inusuale, imprevedibile. Mentre Andy e Martin erano i classici bravi ragazzi, gli alunni
diligenti che arrivavano a scuola sempre con i compiti fatti a casa,
Perry era un ribelle, un irregolare. Un maverick. Molto bello il video di When I Was Your Girl, in cui ti vediamo con
tua figlia. I tuoi figli sono coinvolti nella tua carriera? Ascoltano
i tuoi dischi? Suonano qualche strumento?
Mia figlia è un’artista a tutto tondo, suona la chitarra, il banjo, il pianoforte e canta da soprano. È stato interessante girare il video con
lei: era una giornata terribile, pioveva e faceva freddo, ma è stato
emozionantissimo. La canzone stessa è una riflessione sul passare
del tempo, sulla condizione umana e su come cambiano negli anni
le nostre percezioni.
Quale consiglio daresti a un giovani talento? Collaboreresti,
inoltre, con colleghe che sono emerse negli ultimi anni come
Adele ed Emeli Sandé?
Tendo a separare sempre di più me stessa dal resto del music business, sceglierei quindi artisti con cui sento davvero di avere qualcosa da spartire indipendentemente dalla loro popolarità. Non ho mai
avuto l’ambizione di duettare con qualcuno, se non con Elvis Costello, ma tra i talenti emersi negli ultimi anni apprezzo moltissimo
Guy Garvey degli Elbow. Un consiglio ai giovani? Lasciate perdere i
reality. Mettete su una band.
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Blixa
Bargeld
Teho
Teardo
Universi in collisione
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L’intervista a Teho Teardo e Blixa
Bargeld è una buona scusa per
ricostruire vicissitudini e ascesa
della coppia più insolita dell’anno
Testo: F
abrizio Zampighi
Stefano Pifferi
On c e upon a ti me
“Ci siamo incontrati per un progetto teatrale che si chiamava Ingiuria
e nel quale Blixa era coinvolto assieme ad Alexandre Balanescu e alla
Societas Raffaello Sanzio, la compagnia teatrale romagnola”. Questo, nelle parole di Teardo che leggerete oltre, il fattore scatenante
di una unione in apparenza - ma soltanto in apparenza - strana e
inusuale. Da un lato lo ieratico, mitizzato, folle, iconoclasta cantante
(ehm) tedesco con alle spalle eccessi di ogni sorta e un pedigree da
vero cavallo di razza del rumore (ehm) rock; dall’altro un professionista della soundtrack, partito dalla periferia dell’impero - Pordenone, fine anni ‘80 - e da suoni di tutt’altra natura e giunto, passo dopo
passo, a scivolare sul red carpet di Cannes o a vincere premi prestigiosi per pellicole altrettanto prestigiose.
W e ’ r e i nto t he grey area , aren’ t we ?
A scavare nei percorsi di questa deutsch-italienische freundschaft sì, stiamo parafrasando proprio gli industrial heroes D.A.F. e non a
caso - c’è una partenza comune, perché se vuoi che i frutti arrivino
copiosi, devi avere seminato per bene. E i due hanno seminato
eccome a partire dagli epici e mitizzati - ma soltanto da chi non li ha
mai veramente vissuti - anni Ottanta, da cui, citazione per citazione,
non si uscirebbe vivi se non fosse che Teardo e Bargeld sono qui
a dimostrare l’esatto contrario. Dicevamo di un humus comune. È
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quello in cui muovono i primi passi i due, distanti millenni per provenienza geografica e background, ma in realtà molto affini come
animi e interessi squisitamente musicali: l’industrial culture degli
anni ‘80.
Il giovane Teardo si muove in solitaria, pronto all’epoca della “cassette culture” ad anticipare le collaborazioni a distanza con la pubblicazione di album di matrice industrial anche con calibri grossi come
Ramleh, Skullflower o Nurse With Wound. Travisato sotto la sigla
M.T.T. con la quale pubblica nastri, 7” e 12” split e full-length, comincia a farsi notare in un ambiente di nicchia e dimostra di trovarsi a
proprio agio nel tessere reti di contatti in tempi non sospetti.
Blixa Bargeld - nome d’arte del cantante, chitarrista, performer,
attore berlinese Christian Emmerich - si forma tutto sommato sulle
stesse coordinate. Mischiando l’irruenza punk e d.i.y. dei primordi
alle influenze arty made in Die Geniale Dilettanten (movimento dai
contorni non ben delineati e di chiara matrice dadaista - altra grossa influenza per il Nostro, che vi si ispirerà anche per la scelta di un
nome d’arte preso dal poeta e pittore Johannes Theodor Baargeld),
il berlinese è tra i membri fondatori degli Einstürzende Neubauten. La band non ha certo bisogno di presentazioni; con lei Bargeld
mette a soqquadro non solo l’ambiente cultural-musicale berlinese prima ed europeo poi, ma anche l’idea stessa di arte, a suon di
iconoclaste visioni e devasto industial-rumoroso: si veda lo smacco
all’ICA di Londra il cui palco, devastato dal martello pneumatico, è
entrato nella mitologia del rock senza passare dal via (facendo bannare il gruppo per un ventennio abbondante dai suddetti locali),
oppure la ironica presa in giro del retrocopertina di Kollaps (1981)
in cui si fa il verso ai Pink Floyd di Ummagumma sfoggiando l’armamentario dei materiali di risulta (lastre di metallo, tondini di ferro,
martello pneumatico, chiavi inglesi and so on...) usato per “suonare”
un album storico.
That ’s ( i n d u st r ia l ) r oc k , b a by
Die Zeichnungen Des Patienten O.T. (1983), Halber Mensch (1985),
Fünf Auf Der Nach Oben Offenen Richterskala (1987) e Haus Der Lüge
(1989) - solo per rimanere agli album ufficiali - si susseguono lungo
gli Ottanta in un crescendo che diremmo wagneriano, tanta e tale
è l’epica forza che fuoriesce da lavori ormai classici e storicizzati ma
che non stentiamo a credere piuttosto disturbanti all’epoca della
loro uscita, tra clangori industriali di risulta e visionarietà arty esposta con la lucida idiosincrasia del punk.
Neanche il tempo di ingranare la marcia del rumore con gli EN,
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però, che Blixa allarga il suo personale range musicale entrando
a far parte dei Bad Seeds di sua maestà Nick Cave, proprio nel
momento in cui i Birthday Party implodevano sotto il peso della
sregolatezza. Complice Berlino, ovviamente, il legame tra i due
durerà per un ventennio abbondante, per affinità musicali ma non
solo: sono ormai parte della storia della musica le scorribande della
coppia di intellettuali prestati al rumore.
Non pago di essere il frontman della formazione tedesca e il chitarrista di quella capitanata dal collega, dagli albori degli anni ‘90
Bargeld comincia ad aprirsi a progetti particolari: da una parte i
dischi fuori contesto con gli EN come Die Hamletmaschine di Heinder Muller con Blixa ad interpretare Amleto e nei panni di Ofelia
Gudrun Gut - sì, la stessa della Monika Enterprise e già membro storico ma fuoriuscito degli EN -, o Faustmusik (qui Blixa Bargeld recita
il ruolo di Mefistofele) che hanno molti legami con la performance
teatrale; dall’altra le prove in solo, spesso e volentieri per sola voce e
aggeggi elettronici - si pensi alle Rede/Speech Performances imbastite col supporto del tecnico del suono degli EN Boris Wilsdorf e
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debitrici nei confronti di una specie di tendenza dada-cabarettistica
in cui Blixa esplora i “confini di linguaggio e musica” -, dicono di una
personalità a tutto tondo, onnivora e troppo curiosa per limitarsi
ad agire in un contesto squisitamente “rock”. Commissioned Music,
edito nel 1995, è esemplare in questo senso: prendendo spunto
dalle musiche appositamente commissionate a Bargeld per pièce
teatrali e film (Jahre Der Kalte di Uli M. Schueppel), l’opera mostra
come l’artista tedesco sia a suo agio anche con trame minimali e
ambient-rumoriste, destinate a supportare rappresentazioni o immagini. Considerato che già dagli anni ‘80 Bargeld aveva cominciato
a trafficare con cinema e teatro anche in qualità di attore, va da sé
che l’esondazione verso lidi extra-rock è, di fatto, completa.
Per conto suo, Teardo non è da meno. Seppur a distanza di chilometri, l’italiano percorre una strada molto simile, per certi versi, a
quella del collega. Prima il rock, esagitato e newyorchese fino al
midollo come nell’esperienza Meathead, band sopra le righe con
cui Teardo fa sue le sonorità noise-rock a stelle e strisce che agli
inizi degli anni ‘90 erano pronte a uscire dal ghetto del Lower east
Side per conquistare il mondo a suon di distorsioni e marciume,
crossover stilistico e aggressività repressa. Street Knowledge (1992)
e Bored Stiff (1994) sono due belle botte in faccia di ritmi midtempo, storti e dalle marcate ascendenze hip-hop (è l’epoca delle
insane unioni made in Judgement Night, per intenderci), chitarre in
acido overdrive, ammennicoli elettronici degli albori (atari e nastri
a go-go), voce compassata e nauseata, che si fanno apprezzare a
distanza di anni sia per la pletora di ospiti e collaboratori (spesso in
modalità “postale” degli albori) che per il coraggio avanguardista
nel “crossoverizzare” elementi in apparenza lontani. Per non farsi
mancare nulla della mitologia rock, c’è purtroppo anche un decesso
a corredare l’epopea Meathead: il bassista Tim Pintado muore di
AIDS all’epoca dell’uscita dell’esordio, un po’ come, in circostanze
diverse, fece Roland Wolf poco dopo aver sostituito il basso di Mark
Chung negli EN.
È però con Meathead Against The World (1996) che l’attività collaborativa di Teardo arriva al suo culmine: l’album colleziona infatti una
serie di 7” o mini-cd che la band ha condiviso con formazioni del calibro di Cop Shoot Cop, Pain Teens, Zeni Geva e Babyland, così come
un remix opera di Mick Scorn Harris, mentre dello stesso periodo
sono le collaborazioni con Paolo Favati dei Pankow o quella con
gli svizzeri industrial rockers Swamp Terrorists che darà il via alla
sigla Circus Of Pain e al disco The Swamp Meat Intoxication. Il rock
estremo ma sempre più orecchiabile e accomodante dei Meathead
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seguirà poi una parabola discendente simile a quella degli inglesi
Therapy?, perdendo la carica iniziale e arrivando al capolinea con
l’album Protect Me From What I Want del 1998. Un lavoro di ordinario electro-rock velocizzato, con qualche freccia accattivante ma,
complici le nostre orecchie ormai assuefatte a certe sonorità, anche
stanco, pacificato e che ha il merito di arrivare mentre Teho ha già
aperto nuove vie di fuga alla sua instancabile creatività.
Quel ponte invisibile tra Italia e mondo anglosassone si rafforza sempre di più, anche a fase Meathead calante. Anzi, proprio
da quelle prime tessiture emergono legami che a fine millennio
mostrano un Teardo sempre più aperto alle contaminazioni. A
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breve giro di posta, il Nostro se ne esce infatti con alcuni progetti
condivisi in cui raffina la propria arte musicale e mostra una notevole maturità “altra” rispetto alle solite lande “rock” indagate con i
Meathead. Si riprende, anzi, quella atmosfera originaria che come
un liquido amniotico aveva cullato la formazione e i primi passi
del musicista italiano e la si trasforma in una sorta di onnipresente
tavolozza su cui disporre via via nuove sfumature. A collaborare,
mostri sacri dell’underground inglese e americano. Mick Harris aka
Scorn, ad esempio, abbassa volumi e riveste di grigi paesaggi postindustriali l’esperienza Matera, materica e sassosa come il rimando contenuto nel nome. Il cui unico album Same Here (1996) è un
ottimo esempio di quell’età di mezzo tra bassa battuta, dancefloor
ibridi su modalità jungle, asperità (post)industriali e dimensione
pre-apocalisse. Non è da meno Here, sempre un duo ma con Jim
“Phylr” Coleman dei Cop Shoot Cop, stavolta. Le atmosfere si fanno
più urbane e dirette, in virtù di una predilezione per la forma canzone - abrasiva e minacciosa quanto si vuole, ma pur sempre canzone - e della ricerca di atmosfere cittadine alla stregua del citato
gruppo di Coleman. Contaminazione è la parola d’ordine e non è un
caso che ciò avvenga con Coleman - la cui attrazione per sonorità
visive, prima ancora che visionarie, è nota - e con la notevole mole
di ospiti - da Lydia Lunch al giro Motherhead Bug tutto -, ennesima
dimostrazione della statura internazionale del nostro. Operator, è
il terzo indizio che costituisce la prova. La sigla condivisa con Scott
McCloud dei Girls Against Boys produrrà un album (Welcome To
The Wonderful World) ottimamente accolto, al punto da supportare i Placebo lungo l’intero tour francese e un 12” per la collana
Domestic Landscapes della friulana Nail recs. Con McCloud alla
voce, Teardo si occupa in toto dei suoni elettronici, sposta l’asse verso dimensioni ibride alla GvsB, fornendo quasi una versione poppy
dei primi passi targati Meathead. Siamo nella metà dei fatidici anni
Zero e prima di intraprendere l’ennesimo progetto a due - i Modern
Institute, in coppia col violoncello di Martina Bertoni (da lì in poi
vera spalla onnipresente per le sonorità del Teardo maturo) e sotto
la cui sigla i Nostri pubblicheranno un full length e un volume della
citata serie Domestic Landscapes - Teardo ha già iniziato la sue terza
fase. Quella cinematografica.
Nuovo ci n e m a Pa r a dis o ?
Quella che, forzando un po’ la mano, porterà al “ricongiungimento”
con Blixa, indicando una via - esplicitata nell’ottimo Still Smiling e
nel tour di maggio 2013 - come camera di condensazione e com-
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pensazione tra mondi non proprio lontani come potrebbe apparire
e come abbiamo cercato di mostrare. Da Denti a Diaz, da Salvatores
a Vicari, passando per Chiesa, Molaioli e Louis Nero; dal legame con
Sorrentino al David di Donatello per Il Divo, da La ragazza del lago a
Gorbaciof, Rasputin, Una vita tranquilla, la nuova fase di Teardo è un
susseguirsi di mondi immaginati e ricreati sull’onda di una musica
che si fa supporto senza essere tappezzeria sonora. Che vive di
molte di quelle traiettorie che, da un quarto di secolo abbondante,
Teardo usa e metabolizza, ingloba e riproduce. E che trovano una
loro dimensione “pacificata” nell’ultimo lavoro con Bargeld. In cui,
cioè, si fondono in maniera naturale i percorsi dei due, giungendo
all’elaborazione di un disco che è insieme ricerca e immediatezza,
visionarietà arty e classicità contemporanea, sognanti atmosfere da
cellulosa e sorta di via personale al cantautorato sub specie mitteleuropea.
Ci sarebbe ancora da scrivere molto, per entrambi. Potremmo parlare di Specula Records e Jim Thirlwell, dei progetti di ricerca vocale di
Blixa, dei lavori sul suono di Teardo (notevole il progetto site-specific Tower/Microphone del 2005) o di quelli sulla e con la memoria del
tedesco (The execution of precious memories, sorta di performance
nomade da esercitarsi in luoghi diversi e di volta in volta dai connotati differenti), di Erik Friedlander, Balanescu Quartet, Wilder Mann,
audio play (Elementarteilchen tratto da “Le particelle elementari” di
Houellebecq) e chissà quant’altro per rendere giustizia a due menti
coraggiose ed erranti come quelle dei qui presenti. Ma l’oggi ha un
nome e una determinata finalità, Still Smiling, e di quella è giusto
parlare.[S.P.]
Com u nica z i o n i t r asv e r sa l i
Quando li abbiamo visti dal vivo in maggio al Senza Filtro di Bologna, in un capannone industriale imponente pieno per metà
di persone che avevano pagato venti euro a testa per assistere al
concerto, abbiamo avuto la conferma di quanto il progetto di Teho
Teardo e Blixa Bargeld fosse stato ben accolto dal pubblico. Un’ulteriore dimostrazione unita alle sensazioni positive già trasparite
dai numerosissimi click macinati - ancor prima che uscisse il disco dalle news riguardanti i due e dalla recensione di Still Smiling.
Quali i motivi alla base di un tale interesse nei confronti di questo
atipico duo? Proviamo a sintetizzarli, abbozzando un’analisi parziale
e per forza di cose soggettiva che tuttavia potrebbe isolare qualche
input interessante. Partendo magari dalla qualità intrinseca di uno
Still Smiling che sintetizza songwriting, elementi di musica contem-
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poranea, l’universalità degli archi conciliati alla sperimentazione in
termini di strutture compositive e testi multi-lingua. Da una parte
l’eleganza teatrale di un Blixa Bargeld che porta in dote l’inquietudine del personaggio e certe aspirazioni semantiche alte (quasi
filosofiche, se ci passate il termine); dall’altra un Teardo che è bravissimo a lasciargli il giusto spazio, pur non mortificando la propria
personalità musicale. Quel che ne esce è qualcosa a metà strada tra
l’opera di ricerca e la melodia, una via di mezzo che mette d’accordo tutti senza rinunciare alla qualità.
Basterebbe questo spiegare l’appeal del disco, ma forse c’è anche di
più. Per esempio l’idea che un’opera del genere non incontri nessun
hype passeggero o moda che dir si voglia. E’ materiale, cioè, che al
contrario di quel che accade con certe produzioni perfettamente
calate nell’attualità, farà le veci di un Dorian Gray con nemmeno
una ruga da mostrare tra qualche anno, tanto è radicato in un limbo
formale blindato e adulto. Questione di qualità, di progettualità alla
base del disco, ma forse anche di storia personale degli artisti coinvolti e di anagrafica dei potenziali destinatari: a farla, un’indagine
demografica in quel Senza Filtro che citavamo in apertura, magari
si sarebbe pure scoperto che di under 23, l’11 maggio 2013, ce ne
erano davvero pochi. C’è poi da considerare il percorso dei protagonisti di questa storia: Bargeld è uno che tra Bad Seeds, Einstürzende Neubauten ed esperimenti solisti vanta da sempre un seguito
consistente e fedele nel Bel Paese. Uno zoccolo duro che lo segue
ovunque, ammaliato dal suo passato “estremo”, dalla produzione
musicale senza compromessi e da un presente che lo innalza a simbolo di una sperimentazione alta (Rede Speech, esperienze teatrali
e via dicendo). Coraggio espressivo ed eleganza, insomma, in un
completo nero con tanto di gilet. Teardo è invece un professionista
della musica cresciuto fuori dal “quartierino” indipendente a suon
di gavetta all’estero; personaggio trasversale agli ambiti ma anche
simbolo di rispettabilità, il Nostro è finito al cinema a far la punta
di diamante con le colonne sonore aprendosi, dunque, a bacini di
utenza non convenzionali per la musica indipendente.
Unite i puntini e verrà fuori un meraviglioso paradosso; lo yin e
lo yang, a guardarli da fuori, l’uno simbolo di un decadentismo
rock di cui s’è persa ormai traccia ma anche musicista con i crismi
dell’intellettuale e dell’artista contemporaneo; l’altro compositore
raffinato e di carattere, capace anche di mediare attriti e potenziali
corto circuiti. Un matrimonio che mescola i due universi con un
primo singolo (Mi Scusi) cantato da un Bargeld compito, rispettoso e in qualche maniera fuori posto rispetto all’idea che ci si fa di
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lui guardando la sua storia passata. Proprio per questo, splendido
esempio di involontario viral marketing che a suon di “Il mio italiano
non ha fatto molta strada / me la cavo un po’ così” guadagna ascolti
e visualizzazioni, nascondendo con un’ironia solo apparente - come
scopriremo nel corso dell’intervista, sono ben altre le tematiche
legate a quel brano - i toni serissimi di un disco che invece viaggia
in tutt’altra direzione.
Sia come sia, abbiamo voluto incontrare Teho Teardo e Blixa Bargeld
per scoprire se l’empatia si guadagna sul campo e se Still Smiling
davvero possegga quel peso semantico che abbiamo voluto vederci dentro. Quanto segue è quel che è venuto fuori da una ventina
di minuti di videochiamata a tre via Skype intensi ma certamente
costruttivi.
Come vi siete incontrati?
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Teho Teardo: ci siamo incontrati per il progetto teatrale Ingiuria, in
cui era coinvolto anche Blixa assieme ad Alexander Balanescu e alla
Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia teatrale romagnola. Quello
è stato l’inizio, poi abbiamo lavorato assieme a una canzone che si
chiama A Quiet Life per il film Una vita Tranquilla di Claudio Cupellini. Questo circa tre anni fa. Da lì abbiamo cominciato a ragionare
sul fare un album assieme. Ci siamo scambiati un po’ di idee e file ed
eccoci qua.
Still Smiling non è certo un disco facile o commerciale, ma in
Italia ha ricevuto buone recensioni e molte persone vi seguono
in concerto. Cosa ne pensate?
Blixa Bargeld: Non credo che sarei capace di fare un disco commerciale. Comunque sono contento di come il disco è stato accolto.
Teho Teardo: Siamo molto contenti della positivissima ricezione del
disco in Italia.
Ve lo aspettavate?
BB: In realtà non sapevo bene cosa aspettarmi, perché non conosco
il mondo della critica musicale italiana. Ho ricevuto buone recensioni in passato con altri progetti, ma il tipo di reazione legata a questo
disco è più massiva e sorprendente.
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TT: Sono sorpreso anch’io, anche perché in genere non mi chiedo
mai come potrebbe essere recepito dal pubblico un mio progetto
musicale, aspetto sempre di vedere le reazioni. Still Smiling, come
hai detto tu, non è un disco facile ma credo che abbia una sua
specifica forza comunicativa. Credo tuttavia che ci sia stato un gran
trasporto, sia nel pubblico che viene ai concerti che nelle recensioni
della stampa.
Che tipo di disco volevate fare con Still Smiling? Un disco di songwriting, di musica contemporanea, di musica sperimentale...
BB: Volevo fare un disco di canzoni.
TT: Di solito non scrivo canzoni, ma mi sembrava un’esperienza interessante riuscire a farlo con Blixa e trovare un equilibrio in questo
senso. E’ stata una cosa inaspettata. Di solito quando scrivo musica,
scrivo tracce musicali più che canzoni. Blixa ha avuto l’abilità di
trasformare queste tracce in canzoni. Alcune volte nel materiale
c’era già questo tipo di attitudine, ma il ruolo di Blixa è stato anche
quello di camminare all’interno del mio materiale per creare cambiamenti nella struttura dei brani.
BB: Le canzoni seguono essenzialmente le leggi della logica aristotelica. Una canzone classica segue in maniera molto stretta
tali leggi, mentre quelle più insolite rompono qualcuna di queste
regole. Di solito però hanno una struttura che considera una A, una
B e una sintesi posta da qualche parte. Un meccanismo che si può
replicare in vari modi e cambiando i fattori in gioco (chorus, strofe,
ecc..). Ad alcuni brani ho applicato una struttura che giustificasse il
poterli cantare come canzoni, con altri non l’ho fatto. Ad esempio,
con Buntmetalldiebe ho cercato atmosfere più cinematografiche,
una narrazione che diventasse sempre più veloce. Con Negroni ho
provato a inseguire un idea di sviluppo molto lento.
TT: Anche Axolotl inizia in un modo, in qualche maniera, più sperimentale...
BB: Personalmente non uso mai la parola “sperimentale”, perché
quando hai fatto qualcosa, quel qualcosa non può essere più definito sperimentale. L’unica cosa inusuale di Axolotl è un’introduzione
molto lunga, probabilmente più lunga del resto della canzone. E
questa è una aberrazione della forma-canzone classica.
Still Smiling possiede una dimensione o un’ispirazione teatrale?
TT: In questo senso, mi ha ispirato il fatto che Blixa abbia un modo
molto teatrale di cantare, non necessariamente in tutto quello che
fa però. E’ tuttavia un elemento interessante e, considerato anche
che ci siamo conosciuti collaborando a una pièce teatrale, mi ha
probabilmente influenzato in fase di scrittura.
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Mi parlate delle scelte strumentali e musicali alla base del disco?
TT: Ho pensato di lavorare in un modo molto semplice e usando
pochissimi strumenti musicali, inizialmente per creare qualche idea
di base, qualche abbozzo. Ho usato chitarra baritona, violoncello,
violino, viola e un po’ di piano elettrico Rhodes. Poi ho sviluppato
il materiale, aggiungendo livelli con un quartetto d’archi. Ho fatto
tutto tenendo bene a mente che su quei brani avrebbe dovuto cantare Blixa e quindi lasciandogli più spazio possibile.
BB: L’utilizzo che faccio della voce non ha che fare con il “trasportare” le parole, quanto con il creare vocalizzi, come se fossero
overdub. Credo che la voce sia stata il mio principale strumento su
questo disco.
Mi sembra che il concetto di “linguaggio” sia uno dei temi ricorrenti del disco. Sto pensando al testo di Mi scusi, al “mistake in the
translation” di What If... o al fatto che il disco sia cantato in varie
lingue (tedesco, inglese, italiano...)
BB: Non ho inteso il linguaggio come “tema”. Volevo fare un disco
multilingua. Se guardo ai temi su cui ho scritto, sia in ambito musicale che in ambito extra-musicale, mi accorgo che l’idea del linguaggio, comunque, c’è sempre. Gli argomenti che tratto di solito
hanno a che fare con la sfera della biologia, dell’astronomia, del corpo o del linguaggio. Di solito torno sempre su questi argomenti e lo
faccio anche in questo disco. Gioco col linguaggio, con le differenti
lingue. In Mi scusi rifletto su quanto il linguaggio sia radicato nel
corpo e su come il corpo influenzi quello che dico in un linguaggio
che non è il mio. Tutto questo rientra nei miei usuali “campi metaforici”, comunque.
In questo senso, Mi scusi non è solo una canzone ironica, quindi,
ma ha un significato più profondo...
BB: Non interpreto le parole delle canzoni e di solito non spiego i
testi che scrivo. E’ un meccanismo che toglie alla canzone tutto il
fascino. La canzone è un entità a sé stante. Dev’essere l’ascoltatore a interpretare quello che scrivo, non devo essere io a spiegarlo.
L’ascoltatore può interpretare il testo nella maniera che preferisce.
Questo dovrebbe valere per ogni tipo di testo scritto, anche in ambito narrativo.
In Italia abbiamo una tradizione molto forte di cantautori che
usano la parola in forma poetica o con una particolare attenzione sul contenuto del messaggio...
BB: Credo che sia sbagliato farlo. Io non uso le parole in questo
modo. E’ ok se le parole creano delle conseguenze, raggiungono un
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obiettivo, ti convincono a fare qualcosa. Ma non sarà stato quello
che ho scritto a dirti di farlo. Non c’è nessun messaggio nascosto tra
i solchi del disco, nemmeno se li riproduci al contrario.
Teho, che differenze ci sono tra scrivere una colonna sonora e
un disco come Still Smiling?
TT: E’ un mondo completamente diverso. Questo è un lavoro in collaborazione con Blixa e quindi è un po’ un convergere tra universi
differenti. La colonna sonora ha delle dinamiche diverse, dal momento che la musica in quel caso nasce leggendo la sceneggiatura,
un testo scritto in un contesto circoscritto alla storia del film. In Still
Smiling invece non c’è un progetto chiuso che genera la musica, e
questo ovviamente influenza anche l’ispirazione, che arriva da più
parti.[F.Z.]
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Recensioni
Genere: wave-songwriting
Appunti e idee intriganti, nel disco d’esordio
degli A Violet Pine (Beppe Procida, Paolo Ormas
e Pasquale Ragnatela), ma forse sviluppati non
al cento per cento. Fondamentalmente si parla
di songwriting, seppur mascherato da una wave
oscura e sussurrata che tende a creare scenari
piuttosto onirici. L’equalizzazione e le scelte strumentali prendono in prestito elementi dal dub
e dal trip-hop (i bassi morbidi e persistenti e gli
arpeggi post-rock narcotici di Pathetic), finendo
poi per citare di rimbalzo Depeche Mode (25 Mg
of Happiness) ma anche certe atmosfere claustrofobiche à la For Carnation (senza, tuttavia,
replicarne l’immaginario estetico).
Parte musicale solida, quasi blindata nel suo
incedere omogeneo e razionale; quel che non
convince è una voce eccessivamente monocorde,
che non riesce ad essere evocativa come vorrebbe, talvolta quasi fuori contesto su un groove che
vive di vita propria (Sleep). Non è tanto per il sussurrato che la contraddistingue - i Santo Barbaro ci hanno insegnato che se c’è della sostanza,
il minimalismo in questo senso funziona eccome
-, quanto per uno scollamento presente in alcuni
passaggi che ne vanifica le potenzialità immaginifiche. C’è margine comunque e i Violet Pine
rimangono una materia di studio interessante.
(6.3/10)
Fabrizio Zampighi
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AA. VV. - Deutsche Elektronische
Musik. Experimental German
Rock and Electronic Music
1972-83 - 2 (Soul Jazz Records,
Febbraio 2013)
Genere: krautrock
Deutsche Elektronische Musik. Experimental German Rock and Electronic Music 1972-83 - 2 segue
l’omonima parte 1 uscita sempre per Souljazz.
Entrambe sono compilation pubblicate con
l’intento di fornire una panoramica su quel krautrock tedesco (o kosmische musik che dir si voglia)
sviluppatosi in Germania nei Settanta e capace
di influenzare, col suo portato innovativo, tutta
la musica occidentale venuta successivamente
(elettronica, industrial e post punk, in primis).
C’era davvero bisogno di un’operazione del
genere? Probabilmente no, e per vari motivi: da
un lato perché gli artisti in scaletta sarebbe stato
meglio scoprirli da un disco ufficiale, piuttosto
che da un’antologia (per forza di cose) entomologica come questa; poi perché nelle due pubblicazioni mancano nomi eccellenti (ci vengono
in mente, ad esempio, Kraftwerk, Guru Guru o
Klaus Schulze, immaginiamo non presenti per
questioni di diritti d’autore); infine perché sintetizzare in cinquantuno brani un movimento
musicale/culturale così differenziato, stratificato
e evolutivamente instabile come il krautrock,
ci pare un’operazione quantomeno velleitaria.
Si pensi, ad esempio, solo alla discografia di un
gruppo come i Can, esemplificazione di un percorso artistico da seguire in ogni svolta e impossibile da ridurre a un brano o due.
Detto questo, le due raccolte hanno comunque il
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gi u gn o
A Violet Pine - Girl (Seahorse
Recordings, Aprile 2013)
Fabrizio Zampighi
Airhead/Cloud Boat - For Years
/ Book Of Hours (R & S Records,
Giugno 2013)
Genere: Blake soul
Se James Blake è (stato) il capitano della cosiddetta post-dubstep, è indubbio che la R&S stia
facendo man bassa di tutti gli amici del circondario del producer londinese. Ad aprile abbiamo
recensito il debutto lungo del trio r’n’b/soul
Vondelpark tra tastiere dreamy, chitarre pastello di marca glo-fi e vocalizzi Sade, tutto basato
sulle rotondità e la coerenza d’insieme; a maggio
la label belga sforna l’intingolo folk elettronico
r e c e nsi o ni
del duo Cloud Boat, tutto graffi wave e carezze
dream; a giugno arrivano gli wonky beat di Rob
McAndrews in arte Airhead, debutto sulla lunga
distanza (assieme a quello di Cloud Boat) legato
all’amicizia con il lonley boy degli anni dieci per
eccellenza.
Il lavoro più interessante è quello della coppia
formata da Sam Ricketts (chitarra) e Tom Clarke
(voce). Book Of Hours, uscito per la sister label
della R&S Apollo, fonda la sua forza su un set
acustico per chitarra e voce e sample/ritmi facilmente riproducibile dal vivo e pertanto pensato
dal principio in questo modo. Gli elementi suonati e la voce sono predominanti, l’elettronica
strategicamente si posiziona a contorno o si
rende protagonista di alcune parti (a comparsa
o in coda) che possono assumere i contorni noir
degli XX o i beat sincopati dei Mount Kimbie,
fino a toccare le librerie tipiche della folktronica.
Così configurato lo scacchiere presenta pedine
interessanti: in Youthern fanno capolino l’intimità
di un The Weeknd ma anche i cori estatici delle
ballad country del mainstream di questo biennio
(che ritroviamo un po’ bolse in Kowloon Bridge),
Lions On The Beach (debutto assoluto del duo
originariamente pubblicato nel 2011 su una compila R&S, IOTDXI) mescola chitarre dream-wave a
un tappeto 2 step dalle parti di Burial, un paio
di lentoni come Bastion e Dream si calano con
dignità nei blakeismi tanto in scrittura quanto
negli spazi sonici, con tanto di strofe tra solitudine e risciacqui bass (e ancora Jamie XX o Mount
Kimbie come riferimenti). L’episodio più toccante
rimane la wave soul per beat spezzati Wonderlust
(il singolo che ha anticipato l’album), il difetto
più evidente risiede nel calore un po’ scontato di
alcune soluzioni canore.
Differente ma non distinto - e sempre in zona
Blake, quest’ultimo presente in una traccia (Knives) ma anche scomposto e filtrato in numerose
altre - è l’esordio dell’amico, oltre che chitarrista
live del musicista, McAndrews, dove a farla da
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gi u gn o
pregio di rappresentare per il neofita una buona
introduzione, quantomeno capace di dare una
vaga idea sulla differenziazione stilistica ma anche sulle costanti formali alla base del krautrock
tedesco. Con in più il valore aggiunto di ripescare, nel caso specifico di questa seconda puntata,
piccole perle come la Emphasis di Harald Grosskopf, gli Amon Düül II della blues-beatlesiana A
Morning Excuse, la bella escursione folk-etnica dei
Bröselmaschine in Nossa Bova, la psichedelia dei
Gila di In A Sacred Manner o il motorik morbido
fatto di synth del Wolfgang Riechmann di Himmelblau. Forse ancora più interessante, in termini
di riscoperta, un secondo CD in cui si distinguono il programming serrato e i toni spacey degli
You di Electric Day, il beat selvaggio e desertico
dei Niagara di Gibli, i toni marziali, ipnotici e
moroderiani della Der Prophet di Rolf Trostel, il
rock quasi hendrixiano della China degli Electric Sandwich e la techno in naftalina di Asmus
Tietchens di Zeebrugge. Dimostrazione di come il
coraggio espressivo e l’originalità della Germania
musicale del dopoguerra non fossero prerogativa
solo dei grossi nomi, ma anche delle seconde file
e di figliocci che ne raccolsero pazientemente
eredità e meravigliosa follia.
(6.8/10)
Genere: Acid, house
Seguito della seminale raccolta Acid: Can You Jack? recentemente ristampata e contenente alcuni classiconi house come Baby Wants To Ride (Frankie
Knuckles featuring Jamie Principle), I’ve Lost Control (Sleezy D) e il primo
pezzo acid in assoluto ovvero Acid Tracks di Phuture, Acid: Mysterons Invade
The Jackin’ Zone intende ritornare sui luoghi del delitto, a Chicago, per riscoprire ulteriori angolazioni e innesti del mefitico suono spremuto dalla Roland 303 nei modi e nelle
modalità del fermento house tra il 1984 e il 1995.
Se la prima puntata si era spinta fino alla metà dei Novanta, qui il cerchio si restringe da una parte al
1986, ovvero qualche mese prima che Ron Hardy, dj del mitico Music Box, sganciasse la bomba targata Phuture, e dall’altro capo al 1993, anno anch’esso cruciale per via della conclamata frantumazione
in nicchie e sottonicchie del mercato elettronico innescato dalle rivoluzioni di Chicago, Detroit e New
York.
Meno seminale del primo volume, corredato da un bel libretto per mano di Tim Lawrence (quello di
Love Saves The Day, A History of American Dance Music Culture 1970 1979 e della biografia di Arthur
Russell) e dalla prototipica presenza di iconici trip quali Acid Tracks, Phuture Jacks e This Is Acid, Mysterons Invade The Jackin’ Zone è corredato da un fumetto fantascentifico per mano di Paolo Parisi che
metaforicamente racconta l’invasione aliena del lisergico sound a Chi-town (ovvero la Windy City) per
mano di fantomatici Mysteron alien sound lords, e racconta una storia fatta di alcuni classici - che più
classici non si può - della house di Chicago con e senza acid (Can You Feel It, Washing Machine, No Way
Back) con alcune proverbiali rare track.
Più che lo stereotipico sound che dà il nome alla compila (il bordone Slam di Phuture, le The Juice e
Ecstacy di Mr Fingers, senza dimenticarci di una chicca come World Turns Around di Kool Ma Kool), a
colpire sono take bislacche come Strenght Of Bass di Devotion, dove l’acid è ficcata nel HH ghetto e
imbottita di squadre tech, gli hi hat sporchissimi, grezzissimi ma efficaci di Love Track infilati nel gorgo
intestinale di 303 da parte di Acid Wash, ovvero Juan Lopez, resident nella città allo Smart Bar con
Mark Farina a fine ‘80, dj firmatario anche della stereotipica (e angolare) colata lavica a freddo sulla
classica, scoppiettante, marcetta alla 909 dell’opener Hallucinate. E continuando di dettagli di culto è
senz’altro nel giro experimental house, sviluppatosi in convergenze e autonomia rispetto al segmento acid, a cui bisogna prestare l’orecchio. Prendi il tocco di K-Alexi, ovvero Keith Alexi Shelby, nel trio
Risque Rythum Team, con The Jackin’ Zone, la traccia da cui la compila prende ispirazione e (non a
caso) dove radici funk via Prince - gli originali dei campanacci traghettati nei Duemila dalla DFA e un
loop vocale filtrato - sono condotti per mano da uno spettrale fantasma sintetico (il presagio acid).
Oppure il sermone I Believe di Black Man, A Black Man and Another Black Man, crescendo di leggera
suspance e sexyblackness di quel DJ Farley Jackmaster Funk che è anche il The Housemaster Boyz
della più nota - e qui presente - sci-fictioniana House Nation (che fa il paio con l’altra proto-idm take di
Ricky Jones,The Choice Of A New Generation del 1987).
Da notare anche gli aspetti più artigianali - dell’uomo sulla macchina viva - delle produzioni della
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AA. VV. - Acid: Mysterons Invade The Jackin’ Zone
(Soul Jazz Records, Maggio 2013)
compila, in negativo, ad esempio, il volume e l’esecuzione sommaria della linea synth della I Can’t Understand di Pleasure Zone (tuttavia goveranta da un solidissimo funk groove), oppure, in totale positività, la 303 torturata da Mr Fingers nell’emblematica (fin dal titolo) Juice. Due facce di una medaglia
del fabbricare musica da ballo in economia che, nei minimi termini, era in grado di ottenere i massimi
risultati. Dove cioè i limiti tecnici diventano strumenti per raggiungere il fine più ambito, far ballare
per un minutaggio infinito con una nota e mezzo (151 di Armando docet).
Come dar torto alla metafora Soul Jazz? L’acid, lungo quasi trent’anni di permanenza sul pianeta terra,
è stato un vero e proprio virus alieno. Ha corrotto irrimedibilmente generazioni di producer in tutto il
mondo. Senza di lui nessuna Summer Of Love, Madchester o idm music (da Warp a Planet Mu) sarebbe stata come la conosciamo. Senza contare che non avremmo avuto la serie Analord di AFX o tante
produzioni firmate Luke Vibert, Last Step, Squarepusher ecc. ecc.
(7.3/10)
padrone sono cut up di voci, fluttuanti wonky
beat (anche qui in abbondante debito verso la
folktronica) e un filo di post-rock, tag omnia che,
dall’Islanda (il singolo Autumn che ricorda tanto
Mùm quanto Mice Parade) al Canada (la R&S
parla di Stars Of The Lid e Godspeed You! Black
Emperor ma difficilmente ne troverete traccia)
possiamo spenderci anche per i Cloud Boat.
Per farla breve - e con un pizzico d’ironia - Airhead, chitarrista/producer ammanicatissimo che ha
collaborato con Brian Eno e si è fatto conoscere
già nel 2010 con alcune produzioni per la Brainmath, porta Blake a Los Angeles a farsi una fumata d’oppio (Milkola Bottle, Pyramid Lake), cerca di
fidanzarlo con l’incantevole fatina di Reykjavík
di turno (vedi gli espisodi con i feat. femminili
come Milkola Bottle), per spingerlo, alla bisogna,
in pista (la spugnosa techno sul filo di Caribou e
Four Tet di Fault Line). Il risultato è volutamente
laboratoriale con svariati spunti interessanti e
momenti d’incanto. Il clou, guarda caso, è il pezzo
con il solito James, la conclusiva Knifes, molto 60s
lounge angolata jazz.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
Alessio Lega - Mala Testa (Obst
und Gemuse, Marzo 2013)
Genere: canzone d’autore
Alessio Lega torna con un album di inediti
a distanza di nove anni da quel Resistenza e
amore che vinse la Targa Tenco nel 2004 come
miglior album d’esordio. Nel frattempo, il più
classicamente impegnato tra i cantautori italiani
degli anni Zero non è stato con le mani in mano:
ha tradotto in italiano i testi dei grandi della
canzone francese, ha scritto un libro a quattro
mani con Ascanio Celestini e ha lavorato anche
per il teatro. Lega è bravo, e in questo MalaTesta
raccoglie ancora una volta, mettendole a punto,
tutte le migliori capacità del cantautore folk - pop
- rock tradizionale, unendo le spinte più intime
a quelle più strettamente connesse al racconto
storico e sociopolitico e rimanendo in qualche
modo legato alla formula “resistenza e amore”
che, oltre ad essere il titolo dell’album del 2004, si
fa facilmente manifesto dei suoi intenti autoriali. Il disco si struttura in tre parti distinte: “Tornare
a bomba”, “Romanzo di formazione” e “Le storie
cantate”, in tutto diciotto brani. La sensazione
è che Lega abbia voluto rischiare e condensare
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Edoardo Bridda
Giulia Cavaliere
Austra - Olympia (Domino, Maggio
2013)
Genere: art pop/club
“This is the album where we discovered rhythm”.
Katie Stelmanis sembra avere le idee chiare sul
secondo capitolo dei suoi Austra, disco intitolato
Olympia in onore della figlia dei due proprietari
dello studio Keyclub (Michigan) nata durante le
sessioni di registrazione dell’album.
Chi ha apprezzato l’esordio Feel It Break - per
chi scrive, uno dei debutti più compatti e con-
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gi u gn o
tagiosi del 2011 - avrà sicuramente intuito che il
“rhythm” dell’affermazione precedente non fa riferimento alla definizione più ampia di ritmo, ma
a concetti più specifici: brani come Beat and The
Pulse (l’incredibile biglietto da visita del 2010) o
The Villain erano, difatti, già la quintessenza delle
beat-driven tracks dall’alto contenuto ritmico.
Ad essere cambiato è invece l’approccio al
ritmo: l’ossessività dark e synthetica di chiara
matrice Eighties - presente peraltro nei Trust,
side-project della batterista Maya Postepski - ha
lasciato posto ad una visione più aperta alle
contaminazioni dancey (leggasi principalmente
house music), conseguenza di un processo realizzativo maggiormente distribuito tra le sei menti
del gruppo di Toronto.
Il risultato di questo cambiamento di rotta è, a
conti fatti, meno evocativo e meno adatto alle
inflessioni operistiche del timbro di Katie (vagamente Giuni Russo). Annie (Oh muse, you) ne è
l’emblema: le club-vibes sono decisamente azzeccate, ma la linea melodica non riesce a chiudere
completamente il cerchio. Troviamo divagazioni
da dance-floor più ricercato anche in Forgive Me groove di basso tutt’altro che gelido - o in Painful
Like (presentata già lo scorso anno), ma in generale si nota una maggiore attenzione dedicata al
comparto strumentale rispetto a Feel It Break,
ai tempi caratterizzato da electrobeats assolutamente funzionali, ma abbastanza didattici.
Con il rinnovato aiuto, in fase di produzione,
di Mike Haliechuk (chitarrista dei Fucked Up),
Olympia fatica a trovare i giri giusti: Sleep (piuttosto fiacca, ritornello a parte) abusa di soluzioni
vocali già sentite, Fire e We Become si disperdono senza incidere come dovrebbero e neanche
Home, pur essendo un buon singolo, riesce ad
avere l’impatto suggestivo dei suoi predecessori. Le introspettive tematiche Katie-centriche
escono meglio nei passaggi piu atmosferici - la
breve I Don’t Care (I’m a Man) o l’intro piano+voce
di You Changed My Life - e non sorprende che, in
r e c e nsi o ni
tutte le diverse anime che hanno accompagnato
la sua scrittura negli ultimi nove anni: si va da una
collaborazione con Paolo Pietrangeli in Canzoni
da amare, passando per la memoria di Giovanna
Daffini e le sue mondine in Risaie e le canzoni d’amore, intime, (i baci, la romanesca Dormi
dormi, Insulina) fino al racconto di storie di personaggi storici (Matteotti, Spartaco e Frizullo).
Se musicalmente abbiamo di fronte un maestro
del nuovo cantautorato italiano capace di unire
l’eredità di Ivano Fossati, quella di Fabrizio De
André, ma pure la contemporaneità di un Vinicio Capossela, i testi - che pure risultano ricchissimi, stratificati, complessi, soprattutto perchè
legati a vicende e personaggi della Storia più o
meno famosi (La strage di Piazza della Loggia, la
storia di Dino Frisullo) e cantati in una classicheggiante forma-racconto (che nella canzone italiana
“indie” ha ceduto invece facilmente il passo alla
formula strofa brevissima - ritornello, nanananà)
- non sono sempre al massimo. In particolare va
notato come Lega risulti ben più capace, ispirato
e dotato a livello di scrittura, misurandosi con la
Storia che non, invece, con la canzone d’amore
e del privato. Verrebbe da dirgli di insistere a
battere il terreno a lui evidentemente più congeniale, nel quale oggi è difficile trovare altri grandi
talenti.
(7/10)
r e c e nsi o ni
Riccardo Zagaglia
Bass Drum Of Death - Bass Drum
Of Death (Fat Possum, Giugno
2013)
Genere: Garage psichedelico
Aver anticipato l’album con un brano come
Shattered Me, con il suo sozzume ramonesiano
e la qualità audio inesistente, è stata una scelta
controversa. Non che i Bass Drum Of Death
puntino a sovvertire i paradigmi del rock, ma qui
dentro c’è di più e c’è di meglio. Non a livello di
produzione, s’intende. Immaginare che John Barrett impari a mettere le proprie canzoni in bella
calligrafia, è come pretendere che una scimmia si
faccia il bidet.
Qualche differenza rispetto al precedente GB
City, però, la si percepisce subito. Tanto per
cominciare, pare che l’ex impiegato della Fat
Possum, abbia deciso di prendersi carico del
progetto in prima persona. Così nella copertina
si fa ritrarre sa solo, con i capelli lavati di fresco e
un’espressione un pò meno stonata di quella che
campeggiava sulla precedente cover. Poi certo,
fai partire I Wanna Be Forgotten e ci ritrovi il solito
ignorantissimo assalto garage pop, con un occhio alla tradizione americana più negletta e uno
a quella del ‘77 britannico.
Quando vuole, Barrett sa sciorinare anthem
appiccicosissimi su velocità da brivido e i BDOD
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G I U G N O
fin dei conti, gli Austra convincano maggiormente quando tornano a sfoggiare il mix di memorie
anni ‘80 e melodie catchy degli esordi (Reconcile).
Quello di Olympia è un coraggioso step evolutivo (e siamo sicuri che in sede live le teatrali
movenze di Katie e delle coriste Sari e Romy
Lightman ne trarranno beneficio) per il quale,
purtroppo, si è scelto di sacrificare alcuni aspetti
che erano tra i punti di forza di una proposta musicale che comunque si conferma essere degna di
nota.
(6.6/10)
Genere: electro-pop
Non sempre l’industria discografica è in grado di indovinare le ricette giuste
per il (ri)lancio degli artisti o di interpretare le loro intenzioni: un esempio
clamoroso fu quello di una debuttante Kate Bush che, nel 1978, puntò con
lungimiranza su Wuthering Heights mentre la EMI si era fissata su James And
The Cold Gun. Ad Alison Moyet è accaduto più volte, in oltre trent’anni nel
music business, di essere in disaccordo con gli A&R manager e di fare poi di testa propria, con risultati
lusinghieri: il suo Hometime, nel 2002, entrò nella Top 20 inglese nonostante una scarsa promozione,
e si trattava di un disco rimasto per anni nel freezer di una riluttante Sony che non ne scorgeva un
potenziale commerciale soddisfacente. Ed è successo ancora, quando lo scorso anno i colloqui con
le case discografiche chiedevano rassicuranti album di cover (l’artista di Basildon ne ha già pubblicato uno, Voice) da promuovere grazie alla partecipazione a un reality show. Sicura della qualità del
nuovo materiale, Alison disse un secco “no” e si mise al lavoro con Guy Sigsworth, già nei Frou Frou
con Imogen Heap e in seguito in cabina di regia per illustri colleghi come Seal, Bjork, David Sylvian,
Madonna e Alanis Morissette.
Se non fosse per la felice unione di strizzate d’occhio al trip hop (merito, al tempo, degli Insects),
guitar-pop e inserti orchestrali di Hometime, potremmo affermare che the minutes sia il disco più
elettronico della Moyet dai tempi di You And Me Both, l’ultimo capitolo della breve ma intensa parentesi con Vince Clarke negli Yazoo (eseguito dal vivo solo venticinque anni dopo durante il tour Reconnected). C’è molto di più, in queste nuove undici canzoni che mettono in luce un approccio maturo al
songwriting: una fusione perfetta di tutti gli elementi che hanno reso Alison una delle vocalist inglesi
più riconoscibili insieme ad Annie Lennox e che dimostrano, ancora una volta, che si può seguire un
percorso artistico coerente, pur con la consapevolezza che le mode cambiano e che si può abbracciare il nuovo senza forzature. L’artista è perfettamente a suo agio con le contaminazioni dubstep di
Horizon Flame, nell’ammiccante electro di Right As Rain dal retrogusto Basement Jaxx, nell’ariosa
melodia a vele spiegate (ma con una voce mai così ben dosata) di When I Was Your Girl e nel fascino
tetro e cinematico di Remind Yourself, immaginario incontro tra Dusty Springfield e i Massive Attack
di Mezzanine. C’è spazio anche per rivisitare il passato, con una Filigree che è quanto di più vicino al
repertorio degli Yazoo, mentre A Place To Stay è una nuova This House pronta per il terzo millennio.
Fatta eccezione per due episodi in scaletta che convincono poco - Love Reign Supreme è un synthpop sotto steroidi sulla falsariga del più recente full-length dei Goldfrapp, Rung By The Tide indulge
in certe atmosfere gotiche vicine alla Siouxsie più annoiata -, il disco è il risultato di una partnership
artistica particolarmente felice. Non era per nulla scontato, considerando gli importanti co-autori del
passato (da Clarke a Dave Stewart, da Pete Glenister a Eg White), ma l’estrema versatilità di Sigsworth
- che, pur giocando con synth, loop ed effetti sonori da parecchio tempo, ha una solida preparazione
classica - si è rivelata l’ingrediente che mancava, per esempio, all’incerto The Turn del 2007.
the minutes è un album che vive nel presente di un’artista che, nei testi, si guarda indietro con coraggio e senza rimorsi, magari tornando alla ragazza esuberante che era ieri, che ambiva a esibirsi col suo
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Alison Moyet - the minutes (Cooking Vinyl UK,
Maggio 2013)
gruppo punk e invece si ritrovò in hit parade e sul palco di Top Of The Pops. Alison ha fatto pace con
se stessa e non ha perso la voglia di mettersi in gioco: tutto questo rende the minutes uno dei suoi
migliori lavori, tutt’altro che passatista, in grado di spiazzare i fan della prima ora - che probabilmente
si aspettavano un ritorno al pop facile di Raindancing - e i loro figli adolescenti. Not just ‘another’ page
in her history.
(7.3/10)
assumono le sembianze dei Black Lips col turbo
inserito. Più interessante è vedere cosa succede
quando i ritmi si placano e viene fuori la lezione dei 60s più speziati. E’ qui che emergono le
stramberie freakbeat di Fines Lines, con i sui break
in puro 60s vaudeville. Quando sul pigro riff di
Such a Bore, Barrett gioca con la pedaliera, la sensazione è quella di stare sulla spiaggia strafatti in
attesa della grande onda.
Certo, l’assalto alla Damned di Bad Reputation
ha un certo fascino, ma la lezione psichedelica
impartita con Faces of the Wind, quando il nostro
opera per sottrazione e si abbandona alla suggestione di effetti e riverberi, mostra come anche
negli angusti confini creativi dei Bass Drums Of
Death ci sia spazio per la maturazione.
(6.8/10)
Diego Ballani
Beaches - She Beats (, Maggio
2013)
Genere: psy
Sempre più palpabile la forte presenza di allfemale band in un 2013 che, dopo una partenza
incerta, sta iniziando a regalare parecchie soddisfazioni. A testimoniare la vasta copertura geografica - oltre che stilistica - l’Inghilterra propone
le lanciatissime (quanto valide) Savages, gli USA
rispondono con le Haim e il duo Deap Vally,
mentre Italia e Australia si fanno largo rispettivamente con - escludendo l’attesissimo ritorno
delle Lollipop - le Blackie Drago e Beaches.
Formatesi a Melbourne nel 2007, le cinque Beaches (Ali, Al, Antonia, Karla e Gill) hanno pubblicato l’omonimo debutto nel 2008 e il quattro
tracce Eternal Spheres nel 2010, ma solo ora sembrano poter uscire dai confini locali, grazie anche
alle recenti attenzioni di webzine internazionali
riservate all’ultima fatica She Beats.
Ulteriore conferma dell’ottimo stato di salute della scena psy australiana (Tame Impala su tutti),
She Beats parte subito in quinta con una Out Of
Mind che veleggia a metà tra l’acidume psichedelico di stampo californiano e alcune sfuriate
shoegaze di fine anni Ottanta: voci trascinanti e
perennemente effettate, pulsante sezione ritmica
e stratificazioni chitarristiche in grado di riempire
il suono.
La strumentale Keep On Breaking Through
materializza le allucinazioni desertiche dei primi
‘70, periodo storico che devono aver studiato con
attenzione dato che, come i non troppo distanti
TOY, le cinque ragazze dimostrano in più di una
occasione di essere preparate alchimiste psykraute nelle dilatazioni cosmiche che sono in
grado di ricreare (Distance). Lo zampino, in due
tracce, di mister Michael Rother (NEU!) ovviamente aiuta. Analizzando il tutto con la lente di
ingrandimento si scoprono poi dettagli per certi
versi inediti: la bassline post-punk di Dune, il tiro
rock - assolo compreso - dell’orecchiabile Send
Them Away, il lento mantra velvetiano di Veda e
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Alessandro Liccardo
Genere: nu folktronica
Fin dalla sua prima traccia nel 2009, quella Quitters Raga che Pitchfork
apprezzò e innalzò a Best New Track quell’anno, Gold Panda ha dimostrato,
in egual misura, passione per la musica e per il viaggio. Il brano, cortissimo,
univa ritmi continuum post-Dilla a un tipico trattamento chopped-up delle
voci (diffuso a tappeto in quei mesi, peraltro), e la traccia originale - un gioioso raga indiano - veniva così triturata, anche brutalmente, senza che colori e freschezza venissero
meno. Il carattere agreste e nomade a tutto tondo della produzione del producer dell’Essex si è poi
osservato in Before (2009) e in un esordio tutt’altro che trascurabile, Lucky Shiner, contenente, oltre
alle lallazioni del frammento sonoro, sia ampi legami con la folktronica “idmmata” lato Four Tet (intimismo, sample caserecci, ecc.) sia un portato di HH beat che dagli allora esordienti Mount Kimbie (in
comune anche certi trattamenti della seicorde) portava ai 4/4 del dancefloor.
In tutta la costellazione di gusto e influenze, una matrice di forte continuità è sicuramente stata l’impronta di Kieran Habden ma l’intingolo, generalmente ovattato, lussuoso nel sampling (vedi alla voce
Luke Vibert) ma dai looping e skipping a contrasto rapidi e trance induttivi, ci porta anche dalle parti
dei The Field, altra modalità bazzicata ed evidente in Companion (Ghostly International), una compila
dei primi tre eppì dell’uomo, ovvero la citata Before, Miyamae e, appunto, quella Quitter’s Raga contenente la famosa traccia omonima.
Per Edwin finora la strada è stata tutta in crescendo - live la gente lo adora e anche in Italia ha già
un piccolo seguito - ed è un piacere sentirne un’ulteriore conferma in questo secondo album che,
aggiungendo maggior dettaglio e circostanziando l’elemento etnico (angolati pertanto già a partire
da un ottimo singolo come Mountain/Financial District del 2012), regala una solidissima tracklist ben
anticipata dal singolo Brazil (ideato a Sao Paolo), ideale apertura a un album caratterizzato anche da
certa pulizia deutch nei beat e da un’inedita consapevolezza “in divenire” del sound (peraltro da Edwin
stesso ammessa).
Pur prendendo casa a Berlino, le nuove tracce sono state assemblate durante numerosi viaggi e,
sempre a detta di Panda, sono caratterizzate da un mood urbano che, in alcuni episodi, ha assorbito
le preoccupazioni riguardo allo stato di salute psicologica ed economica degli abitanti di alcune città
visitate. Niente vocine nel tritacarne per lui in questo episodio, dunque, ma nulla che non possa sposarsi con certa balearica house (o percussivismo brasilero) già trattato nel recente, e anch’esso più che
valido, Trust EP.
Half Of Where You Live è una stanza di specchi che luccicano in un prisma di quartomondismi di
husselliana memoria: i vibrafoni e la gestione delicata delle viste à la Four Tet di An English House, i
calibrati ambienti noisey tech alla Deepchord e il refrain in ricordo rave di Junk City II (dedicato alla
filmografia del regista Takashi Miike), il gamelan e la minimalismo à la Caribou (ma indietro anche
Tortoise) di My Father In Hong Kong 1961, i trapani ritmici soft tardo Nineties alla Aphex Twin (The
Most Livable City) formano un ammaliante diario di viaggio dal linguaggio sonico riconoscibile nelle
fonti ma pienamente autosufficiente nel piegare forme e lemmi verso una personale poetica, che,
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r e c e nsi o ni
gi u gn o
Gold Panda - Half Of Where You Live (Ghostly
International, Giugno 2013)
come si diceva, è gentile nei modi ma pungente nei loop e nei contrappunti ritmici (un esempio chiave: Community, ispirata dalle differenze culturali nella popolazione londinese).
L’atmosfera di viaggio estiva e colorata, per molti versi, ci riporta alla folktronica di inizio duemila, agli
amati campanellini dei noughties, alle sue modalità casalinghe, fragilità e squarci vivi sulla materia
emozionale. Ma c’è anche una consapevolezza elettronica odierna fatta di minimalismi di rimbalzo da
techno, drone music e compagine hauntologica (We Work Nights), tutto giostrato con mano ferma e
senso del groove. Per dirla con Edwin “you just you find your groove and settle into a sound and realize
you only really need to please yourself”.
(7.3/10)
gli intrecci vocali sbilenchi di Distance (le Shaggs
sarebbero orgogliose di loro) e Weather, quest’ultima veramente multiforme e avvolgente.
L’album, prodotto da Jack Farley (già dietro ai
conterranei Twerps), sembra essere un gustoso
antipasto nell’attesa del piatto forte: portavoci di
un credo definito ma comunque lasciato libero
di evolvere, le Beaches hanno i mezzi e le qualità per poter puntare ancora più in alto. In She
Beats, infatti, la resa è già di prim’ordine, manca
giusto il colpo di genio a livello di profondità
compositiva e una produzione capace di guardare oltre alla trip music. Magari il nome giusto
potrebbe essere quel Kevin Parker (Tame Impala) che ha già cromato l’esordio lungo della sua
musa Melody’s Echo Chamber.
(6.8/10)
Riccardo Zagaglia
Beady Eye - BE (Columbia Records,
Giugno 2013)
Genere: brit-retro
La prima sfida post-Oasis tra i due fratelli Gallagher l’ha vinta sicuramente Noel, sia sul lato
quantitativo - in Inghilterra circa 750.000 le copie
vendute da Noel Gallagher’s High Flying Birds contro le poco meno di 200.000 di Different Gear,
Still Speeding - che sul lato qualitativo: Noel era
la mente dietro a buona parte dei successi targati
Oasis e, non a caso, il debutto dei Beady Eye era
un lavoro in cui un paio di brani azzeccati non
riuscivano a controbilanciare carenze a livello di
songwriting, autocitazionismo esasperato e idee
musicali decisamente obsolete.
Dalla prima release a nome Beady Eye ad oggi,
Liam Gallagher è ovviamente rimasto sulla cresta
dell’onda grazie alle solite e frivole notizie sul
rapporto con il fratello (compreso un ipotetico
comeback della band di Wonderwall), provocazioni fini a se stesse di dubbio interesse e al consueto tran-tran promozionale, spesso di cattivo
auspicio.
Il sophomore album intitolato BE porta invece
qualche interessante novità, non tanto nell’inesistente apporto di un Jay Mehler (Kasabian)
subentrato a Jeff Wootton in fase post-realizzazione, quanto nel cambio in cabina di regia tra
Steve Lillywhite e il più eclettico Dave Sitek (TV
On The Radio), fresco del poco riuscito Mosquito
dei Yeah Yeah Yeahs. Se infatti l’album d’esordio
era settato più sullo “Still” che sul “Different”, BE
sotto alcuni punti di vista può essere visto come
un tentativo - riuscito - di distaccarsi in parte
dall’universo Oasis.
Scritta a due mani da Gallagher e Archer, Flick of
the Finger è trama 100% british, ma - oltre agli
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r e c e nsi o ni
Edoardo Bridda
Riccardo Zagaglia
Bibio - Silver Wilkinson (Warp
Records, Maggio 2013)
Genere: folktronica
Per Bibio / Stephen James Wilkinson conta più
il contesto che il testo, verrebbe da pensare
ascoltando Silver Wilkinson, settima prova sulla
lunga distanza. E il titolo - una personale silver
age? - non fa che rendere naturale uno sguardo
in prospettiva sull’attività finora svolta.
All’inizio, sulla coda della folktronica di inizio
‘00s, Bibio era l’astratto vignettista folktronico (Fi,
Mush, 2005) tutto echo chamber e registrazioni
in cassetta stop & play, perfetto per il posiziona-
76
gi u gn o
mento sulle nascenti hauntologiche tendenze
britanniche della Ghost Box. Da li si è sviluppato
un artigianato che ha fatto della stratificazione la
propria cifra stilistica: da una chitarra, spesso in
primo piano, registrata, “layerata” nel multitraccia, arricchita di loop, field recording ed effetti,
hanno preso vita paesaggi o brevi storie riconducibili a qualche stereotipica landa britannica,
tra pioggerelline e foschie all’alba (Hand Cranked,
2006, Vignetting The compost, 2009). Il segreto
della svolta del 2009 e del passaggio dalla Mush
alla Warp dell’amico Clark e dei venerati Boards
Of Canada, è consistito nell’aggiungere i beat
e i colori del mondo J Dilla a quelle campagne
e farci sembrare Ambivalence Avenue come la
cosa più naturale al mondo.
Nell’anno del fermento wonky, al di qua come
al di là dell’Atlantico (da FlyLo a Harmonic 313),
l’album rappresenta un perfetto esempio di
freschezza e timing e sono tutti d’accordo nel
ritrovarci ottimi incastri di funk e HH, idm aggiornata al looping chitarristico di The Campfire
Headphase (uscito lo stesso anno in cui Bibio
pubblicava l’esordio Fi) e un’agreste - appena
abbozzata - scrittura brit folk di lungo corso che
rappresenta, anche a questo punto, la partenza e
l’arrivo del Nostro.
Il sequel sempre su Warp, Mind Bokeh, spinge
sull’acceleratore massimalista: Bibio attacca
sapori ‘80s, sostituisce il prefisso ghost con glo
e affolla di lustrini la già colorata tavolozza con
discreti risultati ed implicazioni importanti: il
bilanciamento tra contesto e testo si traduce in
uno spostamento di fuoco del secondo, ovvero
da una modalità folk a un’appetiblità pop, rimandando così a un momento successivo un dilemma mai completamente risolto tra una scrittura
non pienamente autosufficiente e una produzione di beat non ragionata in termini prospettici.
Con Silver Wilkinson la questione si pone proprio
in questi termini: senza novità nella formula e,
anzi, riavvolgendo il nastro al calore folky di Am-
r e c e nsi o ni
ottoni - si scorgono tessiture psichedeliche che
prendono vita ancora meglio nella tensione
malinconica della successiva e oscura Soul Love o
nell’uptempo di una Shine A Light tenuta in piedi
principalmente da ritmo e scelte sonore azzeccate.
Una maggiore acidità made in UK (Primal Scream, direbbe qualcuno) e una maggiore attenzione a livello strumentale (varietà tra fiati e inserti
di synth) compensano la rivedibile performance
vocale di Liam e, se perfino l’inutilità degli abusati riffacci - che ormai non impressionano più
nessuno - di Face The Crowd o gli standard delle
ballad semiacustiche (Soon Come Tomorrow e
la “dedica” a Noel ironicamente intitolata Don’t
Brother Me) riescono a superare la barriera della
mediocrità, lo si deve anche e soprattutto all’ottimo lavoro di Sitek.
Tra i fan degli Oasis - perché questo rimane a
grandi linee il target, nonostante tutto - c’è chi ne
tesserà lodi incredbili e chi lo denigrerà in quanto
“strano”. Tipico tifo gallagheriano a parte, anche
i passaggi meno convincenti - la banale Iz Rite e
l’ordinario rock di I’m Just Saying - non minano un
lavoro che, pur non destinato a lasciare traccia in
un 2013 musicale che guarda altrove, riesce comunque a dare un senso al progetto Beady Eye.
(6.4/10)
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Edoardo Bridda
Bicep - Stash (Aus Music, Aprile
2013)
Genere: House
“Pompati” ovunque nella blogosfera e dai siti
dance specializzati grazie (soprattutto?) alla popolarità che il loro blog retromaniaco Feel My Bicep ha raggiunto negli ultimi anni, i Bicep, ovvero
Andrew Ferguson e Matthew McBriar - duo di
producer e dj originario di Belfast ora di stanza a
Londra - non hanno mai nascosto l’enorme devozione per l’house di New York, la garage del New
Jersey e, naturalmente, la Trax Records di Chicago. Ogni uscita dell’indaffaratissima coppia
si è quindi settata nel continuum del genere di
riferimento, magari con qualche flavour techno
à la Derrick May, sempre con gusto analogico e
dispiego di Roland, tagli ambient, umbratilità,
deepness da classiche nottate early 90s e così via.
Il tutto con rispetto e senza esagerare, cercando
di coltivare il bliss in tracce lunghe (313 pubblica-
SABATO 15 GIUGNO
DOMENICA 7 LUGLIO
DOMENICA 16 GIUGNO
VENERDÌ 19 LUGLIO
MARTEDÌ 18 GIUGNO
LUNEDÌ 22 LUGLIO
NEFFA
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bivalence sedato dalle precedente produzioni su
Mush, magari influenzato dall’Iradephic di Clark
(che lui stesso - a ben vedere - ha influenzato sul
lato chitarristico), troviamo un Stephen James
Wilkinson arroccato su una formula stanca ma
non stancante, che ha la forza della coerenza ma
senz’altro mostra i segni del tempo. Le voci “instagrammate” di Dye The Water Green, i riscacqui
di Mirroring All, il concentrato r’n’b a base di Jackson 5 di You, gli interessanti passagi goth (Wulf )
che meriterebbero una separata sede (e trattazione), formano un mosaico mai così bisognoso di
una solida base in scrittura (À Tout à L’heure).
Dopo un bagno nelle mode, Bibio cerca la complicità della nicchia per ritrovare se stesso o prendere fiato, ma quello che ottiene è un soltanto un
ripiego.
(6.5/10)
CAT POWER
ASCANIO CELESTINI MAX GAZZÈ
ROY PACI CORLEONE JONATHAN WILSON
VENERDÌ 28 GIUGNO
NADA
PATTI SMITH
GIOVEDÌ 4 LUGLIO
SABATO 27 LUGLIO
SABATO 6 LUGLIO
SABATO 3 AGOSTO
PERTURBAZIONE
Via Granelli 1
Sesto San Giovanni
www.carroponte.org
GIOVEDÌ 25 LUGLIO
GLEN HANSARD
DEVENDRA BANHART
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TONINO CAROTONE
Genere: psych-garage-dance
Il debutto vero di Holden dopo The Idiots Are Winning doveva apparire
già nel 2006, all’indomani di quella compila stupefacente. È arrivato sei anni
e mezzo dopo, come se fosse sempre andato in secondo piano rispetto ad
altri interessi. È arrivato con il rischio che si fosse persa la freschezza possibile, oltre il tempo massimo degli statement già affermati a metà ‘00. Niente
di tutto questo.
“The cosmic couriers are winning”, da almeno quarant’anni. Mossa semplice e sensazionale, quella
di salire in cielo con una cadenza robotica, e grande l’efficacia sia per chi la vive da dentro, sia per
chi è fuori. Come la cassa dritta e prima di essa, non a caso. Dunque sentire - in Rannoch Dawn, prima traccia - un filtro-firma alla Lumpette essere subito sovrastato da un motore tedesco produce un
détournement che lascia interdetti. Così Sky Burial, davvero una traccia imprendibile: organo, campioni concreti per lo scheletro ritmico, straniamento. Così lasciarsi andare a The Illuminations, volo cosmico su un tappeto di synth, e meditare poi sulla rarefazione di Inter-City 125. Altrettanto vale per la
motorizzazione spaziale di Delabole, che va dietro a quella corsa celeste che i tedeschi hanno sempre
cercato. Eccetera eccetera.
“The psychedelia is winning”, da quando è iniziato il rock, anzi da quando si è data importanza all’amplificazione di uno strumento, alla sua capacità trasformativa oltre che degenerativa. Lì dietro l’angolo stavano costruendo la città elettronica. Ma il centro storico è la psichedelia. Asserto falsificabile ma
pure dimostrabile dentro la parabola di The Inheritors. Anche a parole: James Holden, poco più di
un mese prima dell’uscita del disco, diciamo qualche giorno prima della distribuzione promozionale
agli addetti ai lavori, si domandava (retoricamente): “esiste già un genere chiamato ‘psychedelic-synthgarage’?” e si rispondeva: “ora sì”
Ci sono modi migliori per dirlo, forse, ma le tre parole chiave dell’espressione di James hanno un peso
narrativo enorme nel racconto della storia di The Inheritors. Sporcizia, trip, tastiere. Non per strizzare
occhi a chi sta seduto sul divano (vedi Random Access Memories), non per fare il memoriale in Piazza Venezia, pure se a volte anche Holden sembra guardare alla adult oriented dance music, pur mantenendo grandi distanze dall’easy listening dove i Daft amano sguazzare. Seven Stars fa fare un bagno
nel Gange più lurido (garage) a un Klaus Shulze (synth) che sta eseguendo un carillon. Il misticismo
psichedelico di Gone Feral evita la naivite piccolo borghese per concederci un trip con tutti i crismi e
una cadenza fuori dalle battute tradizionali. Eccetera eccetera.
Non ci sono sofismi, perché, con leggerezza calviniana, quando Holden fa ricerca, toglie peso alla
sperimentazione. Solo una persona che la sa mantenere - la leggerezza - può gestire un locale dove
la gente si diverte, e non ascolta “ciò che la gente vuole sentire”, come direbbe Costanzo, il più grande
bluff della comunicazione di massa italiana. Solo una persona che si diverte cercando non si appiattisce su calcoli strategici circa il gusto del suo pubblico.
Holden riprende suoni da The Idiots Are Winning, ma chi vince qui non è l’idiota che si ritrova di nuovo
accessibile l’intelligent dance music, ma il robotico che gode dei motorik e dell’alternanza tra quattro
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James Holden - The Inheritors (Border Community,
Giugno 2013)
quarti e l’incedere da Klaus Dinger, tra i trucchi per far salire la scimmia house e l’ipnosi controllata
della psichedelia.
“The Border Community is winning” prima - tramite il suo capo, James - ci ha dato coordinate (a volte
mal volute, mal apprese come a loro volta intellettualoidi) per andare oltre l’IDM, dicendoci dopo la
supposta intelligenza non c’è solo idiozia, ma intanto il corpo; ora ripesca il capo - James, al primo
disco reale - per dimostrare come approcciare un dopo Four Tet, Caribou, (The Caterpillar’s Intervention), e rilanciare la loro opera di traghettamento dal post- all’oggi con ipotesi per domani. Poteva essere più asciutto, più statuario, The Inheritors. Non c’è compattezza nelle quindici tracce. Non va certo
per sottrazione ma fila via. Lecito aspettarselo, da un’infiorescenza garage, sintetica, psichedelica. (7.4/10)
ta sulla finnica Traveller Records), affondando il
colpo con il cantato anthemico (il Darwin EP per
la lanciatissima house label newyorchese Throne
Of Blood) o piazzando una traccia, $tripper, che si
conquista in scioltezza il trentacinquesimo posto
del poll di RA tra le migliori del 2012, mentre
la coppia è strattonata ovunque e Andrew, nel
pieno delle energie, si fa il giro della Cina come
dj, si traveste da giornalista per la Redbull Academy e, come consulente, appronta APP Iphone
e suggerisce jingle pubblicitari per colossi come
Tuborg, Burn, Bench e Sony. Firmando per Aus
Music, i Bicep saltano con decisione sulla label
dai tagli mai banali ma anche sull’etichetta che
ha rilanciato la garage lo scorso anno con una
serie di fortunatissimi eppì (a cui sta cercando di
bissare quest’anno). E più che buttarsi a capofitto
nel giro dei riscacqui hi hat di Disclosure e co.,
i ragazzi vanno d’astuzia, masticano basamenti ambient e IDM prima con You / Don’t EP - un
versus eppì con Ejeca e Omar Odyssey (e remix
di Steffi) - e ora con Stash, che è di gran lunga la
prova più “tastierata” e matura. Un quattro tracce,
a detta loro, immerso non solo nelle sonorità di
King Street e Aphex Twin, ma anche in serie TV
come The Wire della sodale HBO. Quattro tasselli
che cercano il culto, immergendo la garage (o la
tech-house) in ritratti pensosi o in inquiete attese
all’aeroporto, fino a un finale che, da solo, alza di
un paio di punti la scaletta, un soffio di magia
80s via Richard D. (The Game).
(7/10)
Edoardo Bridda
Billy Bragg - Tooth and Nail
(Cooking Vinyl UK, Aprile 2013)
Genere: folk blues
“I’m so tightly wound in tension / Feel just like a guitar string / Wait until you feel emotion / Touch me
and you’ll hear me sing”. Comincia così la January
Song che introduce il tredicesimo album in studio di Billy Bragg: urgenza di dire, di cantare, di
suonare. Parole e note che si devono essere accumulate in questi cinque anni di silenzio, durante i
quali la politica barricadera che ha segnato la vita
e l’arte del folksinger britannico ha fatto sentire
profondamente la sua voce con i movimenti di
piazza (Occupy, 15-M, ma anche la Primavera
Araba). Una lunga attesa che si è concentrata
in una rapida di registrazione inattesa: appena
cinque giorni durante un blitz californiano con il
produttore Joe Henry. Non c’è più l’energia punk
degli 80s, quando Bragg si divideva tra la piazza
e il palco per denunciare le storture del thatche-
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r e c e nsi o ni
Gaspare Caliri
Genere: Techno House
Dopo numerosi passaggi incrociati per collaborazioni che, dietro le quinte,
si sono dilazionate per circa vent’anni, due dei più grandi maestri techno
di sempre si trovano ora per la prima volta ad affrontare l’uscita di un disco
a nome di entrambi e gestito a quattro mani. Di Detroit Atkins e di Berlino
von Oswald, l’uno e l’altro mentori della prima ora dei rispettivi sound cittadini e ognuno rigorosamente determinante nei processi di fondazione ed evoluzione della techno
primigenia tutta, si muovono stavolta verso una conciliazione tra elementi pur non evidentemente antitetici, ma comunque mai così specchiati da vicino (Craig e von Oswald, a loro tempo, fecero
un’operazione un po’ diversa). In questo senso l’album stesso diventa un interessante banco di prova
per riflettere su un genere che, pur iniziando ad annoverare militanze pluriennali e ad essere pertanto
non più l’ultima delle novità in ordine di tempo, potrebbe tuttavia avere ancora molto da dire anche
ai pubblici più trasversali.
Rispettando le similitudini e le differenze tra i due ecosistemi con un lavoro votato alla causa comune,
Atkins e von Oswald sviluppano in Borderland un linguaggio terzo che pare essere concrezione ulteriore della dialettica in atto, più che giustapposizione dei due punti di partenza. Non è cosa difficile
ricondurre i passaggi più jazzy al primo e le scure rotondità dub al secondo, tuttavia è evidente la
prospettiva comune della costruzione di un lavoro che sia puntuale nell’intercettare l’attimo in cui
sperimentazione e club music si incontrano.
Otto sequenze o movimenti (un brano, Electric Garden suona in più versioni alternative, secondo
mixaggi differenti) registrate a Berlino, a coronare una collaborazione pluridecennale che si risolve
per la sintesi. Ne emerge uno specifico programma sonoro crocevia tra dancefloor elevato e cultura
conservatoriale, determinato da precise scelte foniche e produttive che spingano al meglio le possibilità del progetto, senza violarne né trascurarne alcun aspetto. Footprints è un brano dagli accenti
irresistibili e direzionato da un hi-hat ritmicamente inarrestabile (e poi riproposto similmente verso
la fine del disco in Digital Forest), senza per questo perdere niente in termini di cura maniacale per il
suono, dove profondità e spessore sono perfettamente calibrati per il rispetto dei canoni dell’ascolto
alto. Ne risulta così, contemporaneamente, musica ballabile e di ricerca.
Monolitico, anche se con leggiadria, il disco (le otto sequenze hanno in pratica gli stessi suoni, cosa
anomala in contesti elettronici) non manca, anche nei momenti di escursione, (come potrebbe essere
il lounge di Mars Garden) di porsi all’inseguimento preciso degli stessi identici assiomi di produzione
e ascolto. Borderland è un raro esempio di pulizia ed eleganza su tutta la linea: alla produzione impeccabile da un punto di vista tecnico, si aggiunge una chiarezza sofisticata a livello stilistico che determina la molteplicità dei livelli di lettura.
Il disco esce per Tresor, label del notissimo locale berlinese riaperto in tempi recenti (2007) e, almeno
apparentemente, destinato ad una nuova giovinezza. (7.8/10)
Michele Ferretti
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Juan Atkins/Moritz Von Oswald - Borderland
(Tresor, Aprile 2013)
Marco Boscolo
Buke And Gase - General Dome
(Brassland, Febbraio 2013)
Genere: weird pop
Il lavoro del duo newyorkese consta di un ottimo
weird pop al femminile dalle forme cangianti e
imprevedibili, dalle melodie articolate e dalle ritmiche sghembe. Impossibile non pensare a una
versione ridotta dei Dirty Projectors, ma spingendosi un po’ oltre con la fantasia potremmo
anche immaginare un’improbabile jam tra Merril
r e c e nsi o ni
“Tune-Yards” Garbus e i Paramore. Perché alla fine l’elemento teenage rock, volenti
o nolenti, c’è, sotteso quanto vi pare ma presente (specialmente nell’incipit di Houdini Crush) e
implicito probabilmente nella vocalità adolescenziale e precisa della giovane Arone Dyer; e non dà
affatto fastidio mescolato com’è a impasti noise,
storture e armonie tese (General Dome) o nobilitato da un’impronta cantautorale che trasmette
un senso di grande libertà formale, con soluzioni
tutt’altro che scontate e geometrie complesse
(Hard Times). Merito anche della buona estensione (persino katebushiana in più di un’occasione,
come in Twisting The Lasso of Truth) e di un modo
di pensare la ritmica che non disdegna di sconfinare nel math (l’alternarsi di 6/4 e 7/8 in My Best
Andre Shot).
Detto così tutto d’un fiato pare poco, ma arrivare in fondo a General Dome è navigare su acque
scure, dove le promesse di un’anima sostanzialmente pop sono in realtà un canto di sirena
pronto a intrappolare l’ascoltatore tra flutti sonori
piacevolmente vorticosi.
(6.9/10)
Antonio Laudazi
Chance the Rapper - Acid Rap (Self
Released, Maggio 2013)
Genere: rap on acid
È passato circa un anno da quella sospensione
per droga. E dieci giorni lontano dalle aule sono
bastati a Chancelor Bennett per raccogliere le
idee ed ispirare il primo mixtape 10 Days, diventando Chance, “il rapper” - “Call me Chancellor the
Rapper, please say the Rapper”. Il secondo mixtape rilasciato da indipendente - ma destinato ad
avere un riscontro mediatico ben più rilevante
e non solo per le svariate comparse (dall’amico
Childish Gambino ad Action Bronson) - è un Acid
Rap che, nonostante il nome, ha poco da condividere con l’horrorcore “rockettaro” di Esham.
“Acid” infatti, secondo le recenti dichiarazioni di-
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rismo, e la musica arrabbiata della gioventù ha
lasciato spazio a un disincantato e malinconico
sguardo sul mondo di oggi fatto di ballad e Americana.
Il viaggio dall’altra parte dell’oceano può anche
essere letto come un avvicinamento a Woody
Guthrie (qui riletto in I Ain’t Got No Home), simbolo archetipico delle lotte a tutte le storture dei
fascismi che attraversano ciclicamente il mondo. Se lo sguardo è più disincantato e la musica
meno aggressiva, non significa che la politica sia
scomparsa dall’orizzonte di Billy Bragg, tutt’altro.
In No One Knows Anything Anymore canta “what
happens when the markets drop / If the numbers
really don’t add up?”, toccando il nervo scoperto
di questi anni di crisi economica senza fine e, ai
suoi occhi, senza motivazioni fuori dall’avidità di
alcuni. La fiamma, però, brucia ancora e Bragg
profetizza che ci sarà una resa dei conti (There
Will Be A Reckoning) e “tomorrow’s gonna be a better day”, detto da uno che sa che “the glass is half
full” (Tomorrow’s Going To Be A Better Day). Con un
accento ammorbidito dentro l’americano, Billy
Bragg continua il suo percorso musicale fatto di
passioni e integrità da vero attivista. Forse è un
po’ disincantato, ma a 56 anni sa di appartenere a
una generazione che - la Storia sembra averlo già
stabilito - non può vincere per troppa purezza ed
è destinata a cercare la sconfitta con onore.
(7.1/10)
Genere: folk
Per il precedente A Creature I Don’t Know si diceva da queste colonne che
spesso siamo fin troppo esigenti con gli artisti giovani: difficile confrontarli con passati ingombranti e con le migliaia di ascolti che abbiamo fatto.
A volte, però, bisogna semplicemente applicare un principio di realtà, lo
stesso che oggi ci impone di dire che questo quarto album spinge prepotentemente Laura Marling verso i piani alti del cantautorato folk-rock. Di sicuro è in prima classe tra i
musicisti della sua generazione. Oggi, a soli 23 anni, Laura Marling domina il folk in tutte le sue accezioni come nessuno ha saputo fare negli ultimi anni: c’è una naturalezza genuina nella sua scrittura,
una forza fragile nei testi e nel canto che l’hanno fatta giustamente definire il perfetto incrocio tra
Joni Mitchell e Sandy Denny. Ma in Once I Was A Eagle c’è molto altro.
Basterebbe la prima metà del disco, quella che precede l’interludio per violoncello che separa nettamente le due parti, per parlare di un miracolo. Le prime sette tracce sono un continuum praticamente
indistinguibile giocato a trio con il violoncello di Ruth De Turbeville e le percussioni di Ethan John (a
entrambi pienissimi voti), che sottolinea la tensione quasi filosofica del fingerpicking di Laura e del
suo flusso di coscienza che - giustamente - scomoda il Bob Dylan degli anni Sessanta. Questa trama
essenziale si arricchisce nell’ordito, si impreziosisce per tutti i rimandi alla lunga storia del folk inglese
e scozzese: Pentangle, ma anche Comus e Incredible String Band.
La seconda parte, pur non allontanandosi né per qualità né per intenti, è invece più canonica e le otto
canzoni che la compongono vedono la partecipazione di una band più allargata. Where Can I Go? è
semplicemente perfetta, all’incrocio tra rutilanti Sixties e Julie Holland, mentre Once mette in evidenza le tinte più blues dello spettro espressivo della Marling. In questa seconda parte emerge anche
l’amore per il country più colto (già si citava Johnny Cash in altre occasioni), ma qui si può vedere in
filigrana anche Emmylou Harris (soprattutto quella a cavallo tra Settanta e Ottanta), ma anche una
gemma oscura come Carol Kleyn o la Cat Power più bucolica di qualche annetto fa.
Once I Was A Eagle è un album stratificato, denso di parole e di suoni, di atmosfere e di significati
cangianti. Colpisce al primo ascolto, ma ogni ritorno nel lettore è l’occasione per la scoperta di una
sfumatura diversa, per un profumo e un’emozione che non ci ricordavamo di aver già incontrato. La
stella che già avevamo imparato a conoscere è più luminosa che mai.
(7.8/10)
Marco Boscolo
Chance, trova riferimento nell’uso di LSD durante
le registrazioni, una pratica che ha influenzato il
risultato per un trenta/quaranta per cento (parole
sue) senza intaccarne il metodo. Il ragazzo, appena ventenne, dimostra persona-
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lità nonché un’innata sensibilità romantica e un
flow di livello dalle molte sfaccettature black - dal
gospel di Good Ass Intro e Interlude al reggae di
Favourite Song, dal pop al r’n’b fino al blues -, tratti che lo ricollegano al piglio di un Kanye West,
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Laura Marling - Once I Was An Eagle (Virgin, Maggio
2013)
(7.2/10)
Davide Nespoli
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Chapel Club - Good Together
(Ignition Records, Giugno 2013)
Genere: synth-pop
Ricordate Palace? Quel romanticissimo monumento al wave-pop, con dentro canzoni incredibili come The Shore e Surfacing? Roba che faceva
rivivere per miracolo nello stesso disco Smiths,
Ride, Echo & The Bunnymen senza riciclare
nessuno di essi, con songwriting e arrangiamenti
personali, tosti ed eccellentemente architettati?
Uno di quegli esordi per cui, una volta tanto,
valeva davvero la pena di gridare al capolavoro?
Bene, potete scordarvelo. I loro autori, i londinesi Chapel Club, lo hanno fatto senza alcun
rimpianto, sostenendo che “non era abbastanza fantasioso e inventivo” e che fosse “privo di
sorprese”, proponendosi di “purificare la fanbase
dai nostalgici post-punk pieni di dopamina fino
ai capelli”. Quindi beccatevi Good Together, la loro
sconcertante metamorfosi sunshine (synth) pop:
via le chitarre, via i cuori infranti, via il crooning
di Lewis Bowman; dentro i sintetizzatori (l’iniziale
Sleep Alone, il pastiche bowiano Fruit Machine), i
coretti, le melodie ariose alla Beach Boys / Animal
Collective (Sequins, Jenny Baby), i ritmi house (la
coda ipnotica della title track), pure il falsetto
(Shy). Il suicidio è servito, dite? Sì e no.
Ora, viene persino naturale lasciarsi andare a una
lettura “ideologica” di questo disco. La suggerisce e in un certo senso ce la impone la stessa
band, nel momento in cui rivendica fieramente
presunta indipendenza e libertà e, soprattutto,
afferma che quella di Palace non fosse la sua
“vera” musica. Inevitabile, quindi, riflettere sugli
spietati meccanismi dello showbiz in UK, tritacarne implacabile al punto che se il tuo album, per
quanto ottimo, si ferma al trentunesimo posto
in classifica, viene stroncato da NME (che pure
aveva osannato i primi singoli!) e totalmente
ignorato da Pitchfork, bisogna fermarsi e rifare
tutto da capo (!), anche perché la Polydor ti ha
già scaricato. O, se accreditiamo la versione dei
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in particolare quello di The College Dropout. Il
paragone con good kid, m.A.A.d city, tanto
banale quanto scontato, viene però oltremodo
naturale per i contenuti e per via della cadenza “nasale” del rapper. Senza tirare in ballo un
post-Lamar, parliamo semplicemente di un altro
tributo ai tecnicismi di Andre 3000. Più stimolante, del resto, un’analisi sulla genesi del disco:
un’adolescenza spesa in una grande città americana. Lontana dall’iper-realismo di Compton,
Chicago lascia addosso rabbia e voglia di rivincita
(“I am a new man, I am sanctified / Oh I am holy, I
have been baptized / I have been born again, I am
the white light”) ma, in qualche modo, permette a
un rapper adolescente di autoprodursi. Acid Rap
è ambientato in un mondo più astratto e borghese, con i trip mentali e le meditazioni di Chance
in primo piano, non lontano comunque da un
Lamar più “fighetto” e sotto additivo. Merito dell’acido o meno, Bennett ne esce credibile, sincero e arrogante, malinconico e introspettivo, infestato dalla presenza di Rodney Kyles Jr.,
amico del rapper morto prematuramente (“My
big homie died young, just turned older than him
/ I seen it happen, I seen it happen, I see it always
/ he still be screaming, I seen his demon in empty
hallways”). Il pathos di beat e significati, infine,
è raggiunto nella viva confessione di Acid Rain
dove, proprio come accadeva in alcuni pezzi dello stesso Lamar o nella notevole seconda parte di
Pusha Man, riappare il fantasma del primissimo
Eminem.
Buon esordio per un altro rappresentante della
nuova generazione di rapper che in un modo o
nell’altro è cresciuta - e sta crescendo - con il mito
o la presenza ingombrante della Odd Future “brain broken/Frank Ocean listening/.../motha, shut
your mouth”. Antonio PancamoPuglia
CLOSE - Getting Closer (!K7,
Giugno 2013)
Genere: House
Presentato Close in qualità di progetto inizialmente anonimo - e solo in tempi recentissimi
rivelata la propria identità -, William Saul, boss di
Simple Records e Aus Music, aveva già anticipato
qualcosa su !K7. Già resident dj per tre anni al The
End di Londra (prima che il noto locale chiudesse nel 2009), a fine aprile aveva infatti dato
alle stampe il singolo Beam Me Up, poi qui, nel
full lenght, comunque ripreso nella sua versione
originale, ossia con featuring di Scuba e Charlene
84
gi u gn o
Soraia alla voce (e che nel singolo uscito un mese
fa era stato pure remixato da Hercules And Love
Affair e George FitzGerald).
Il biglietto da visita del disco, dalla confenzione
alla superficie di un suono pulito e levigato, è
un leggero piglio glamour, da house trasversale che si sta allontanando dalle frequentazioni
club più dure per diventare easy listening di
situazioni giustissime. Più profondamente - ed
è una cosa che si fa chiara con ascolti attenti e,
magari, anche ripetuti - vuole essere il passaggio
da un retaggio house assai più classico e club
culture oriented ad un determinato approccio sì
pop (in riferimento alla accessibilità), ma anche
crepuscolare, se non proprio oscuro. Una sorta di
l’evoluzione dell’antico piano ubiquo dei Recoil
di Alan Wilder e tutto un altro pianeta rispetto
a Midland o Bicep che Saul, appunto, segue da
vicino come editore.
Dall’ascolto raffinato e accessibile - e sul finale
effettivamente cupo - di OSCAR ai glitter di My
Way, la produzione rimane in perfetto equilibrio
e calibrata tra le prerogative già accennate sopra.
Che sia la dance astratta di Cubizm o il dub roots
di Born In A Rolling Barrel o del Wallflower che
ospita l’amico carissimo Fink, sempre si tratta di
materiale concepito dichiaratamente per funzionare nel dancefloor ma, contemporaneamente,
caratterizzato da una godibilità che ne trascende
i limiti. Così si spiegano le melodie ricercate, gli
strumenti perlopiù suonati e, a tratti, pure la visionarietà (più da ascolto che da ballo) di alcune
incursioni spaziali che paiono quasi citazioni di
Vangelis.
Il quadro complessivo dà l’idea di un disco in diretta discendenza con i lavori di fine anni Novanta di alcuni storici produttori mitteleuropei (Kruder & Dorfmeister in particolare, incarnati come
coppia, come Peace Orchestra o come Tosca),
tra downtempo, atmosfere languide e strumenti
registrati invece che simulati digitalmente. Ma
anche Terranova (ancora Europa centrale e !K7) o
r e c e nsi o ni
protagonisti, dobbiamo ritenere che ci siano dj,
giornalisti, produttori e major in grado di plasmare a loro piacimento l’identità artistica di una
band appena formata, forzandola a comporre
musica non nelle sue corde. Riascoltando Palace,
però, non ci sembra che qualcuno abbia puntato
una pistola contro questi ragazzi. E d’altronde, se
prendiamo un esempio che potrebbe fare al caso
nostro come gli Horrors, le loro continue metamorfosi di disco in disco hanno un denominatore
comune: l’identità artistica di Faris Badwan e
sodali, che trapela a prescindere dallo stile preso
in esame (Bowie docet). Qui, quest’identità fatica
ad emergere, anzi: a questo punto non capiamo
proprio quale sia.
La buona fattura di Good Together (che tuttavia rimane dispersivo e non ha la coesione che avrebbe reso il cambiamento quantomeno accettabile)
e l’indubbia validità di alcune canzoni (Scared,
oltre le citate), nonché certe soluzioni effettivamente sperimentali e inventive ci porterebbe a
valutarlo a prescindere, per quel che è: un discreto e interessante disco di pop contemporaneo,
opera di una band parecchio intelligente, curiosa
e dotata di un certo talento. Ma anche un po’
confusa.
(6.5/10)
Experimental Pop Band.
ll dj e produttore William Saul si spinge in territori
pop-downtempo con eleganza e una sorprendente sensibilità, accordando un funky introspettivo che parte da Detroit e arriva fino a Berlino
con una forte ispirazione melodica che rimanda
agli antichi maestri della sintesi.
(7.1/10)
Michele Ferretti
Genere: Pop
Nove anni orsono ci sembrarono una azzeccatissima via di mezzo tra la persistenza effimera del
prewar e l’avanguardia frugale della folktronica,
con abbondante corredo di capricci lo -fi, orpelli
operistici, estro hip-hop e tutto un immaginario
di grazia stropicciata e apolide, sofisticata e stracciona, fragile e struggente. Seminare sperimentazione e raccogliere mainstream è in ambito
pop una prassi tanto consueta quanto difficile da
gestire bene. Così, un po’ banalmente se volete,
le sorelle Bianca e Sierra si adeguano a questa
blanda parabola, traslocano l’hype alternativo
residuo negli attigui salotti radical chic, con licenza casomai di fare una puntatina al ristorantino
col buffet cinquestelle. No, non hanno smarrito il
talento, solo che oggi, album numero cinque, lo
domano, lo piegano, lo impiegano con evidente
acume ed obiettivi precisi. Ovvero, in questo Tales Of A Grass Widow tra una tirata ideologica e
l’altra (neo-femminismo ed ecologia) costruiscono almeno quattro potenziali ordigni da spot o
sigletta televisiva (Tears For Animals, Villain, After
The Afterlife e Gravediggers su tutti).
Un bel passo in avanti rispetto a quando proprio
dal talento si fecero soverchiare (vedi le abbastanza inconcludenti deviazioni di The Adventures
Of Ghosthorse And Stillborn). A ben vedere, già
il precedente Grey Oceans lasciava intravedere
quanto le Nostre bramassero normalizzarsi, or-
Stefano Solventi
Corleone - Blaccahénze
(Etnagigante, Febbraio 2013)
Genere: fusion
Roy Paci è un ottimo musicista e anche un abile
comunicatore. I Corleone (band nata discograficamente nel 2005 con il disco d’esordio Wei-WuWei) rappresentano, nella costellazione di progetti che lo vedono coinvolto - Roy Paci & Aretuska
in primis, poi Banda Ionica e una marea di
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Cocorosie - Tales of a Grass
Widow (City Slang, Maggio 2013)
mai divenute più affini all’universo etico ed estetico di un Kenzo o di una Miuccia Prada che non
alle peripezie senza rete d’un Devendra Banhart
o di una Joanna Newsom. In questo senso, la
presenza del sodale Antony Hegarty - sempre
più un lirismo Ikea il suo quando si presta a queste comparsate - sembra il bollo di ceralacca sul
tenore bohémienne di lusso. Che inevitabilmente
va a nutrirsi del materiale di scarto delle avanguardie passate, vedi in genere tutto il riciclaggio
di elementi glitch, trip-hop e folktronica, così
come la Björk-wannabe di Far Away e Child Bride
(non a caso il disco è co-prodotto dal navigato
Valgeir Sigurðsson ).
Il problema non sta nell’eccessiva leggerezza, nella cifra orecchiabile, ma nel fatto che per ottenerla si scelga la strada della facilità o peggio della
faciloneria, come nel caso dell’operetta reggae
End Of Time o delle giapponeserie giocattolo in
Roots Of My Hair. Peggio ancora: quello che un
tempo era incantesimo fragile, oggi è ingegneria.
E quella fragilità, quel fuoco fatuo di memorie e
sensibilità sparigliate, era ahiloro un ingrediente fondamentale della proposta. In altre parole,
forse le Cocorosie non sono mai apparse tanto
sicure di sé, consapevoli d’essere in possesso di
una calligrafia inconfondibile, soprattutto in virtù
di quello straniante gioco a due voci. Ma tanto
più si sforzano d’essere intriganti, riuscendoci,
tanto meno risultano interessanti.
(5.7/10)
Genere: Techno
Secondo album sulla lunga distanza e primo LP su Crosstown Rebels per
Mathew Jonson, producer/pianista/musicista che abbiamo apprezzato nei
Cobblestone Jazz e meno nel pur pregevole esordio Agents Of Time sulla
personale (e ora in standy by) Wagon Repair, che comunque - con il senno
di poi - possedeva le sue ragioni di culto a partire da una zampata “classical”
minimal techno come Marionette.
La nuova pubblicazione, insolita all’interno del catalogo prettamente house di Damian Lazarus - che
segue due singoli come Dayz del 2011 e Automaton di quest’anno (entrambi non contenuti in scaletta) - è stata ideata per la gran parte in un complesso industriale devoluto all’attività artistica, a Berlino,
tra la fine del 2011 e il 2012, un ambiente completamente differente dalla casa sul mar Pacifico dov’è
nata la tracklist precedente.
Jonson, che ora possiede un nuovo studio in un aeroporto dismesso sempre nella capitale tedesca ed
ha recentemente acquistato i diritti per la pubblicazione della label canadese Itiswhatitis, ha ammesso al blog dell’Independent di avere le vertigini nel pensare alla fitta agenda di impegni che lo
occuperà almeno fino alle ferie già programmate in India del prossimo marzo 2014. E il nuovo lavoro,
descritto come urbano e cittadino, composto di musica pensata per il presente, “lontana da voglie
d’escapismo”, ne è il più logico degli output.
Her Blurry Pictures è decisamente un album di calvinistica berlinesità. Una tracklist molto a fuoco,
compatta a livello formale ma (novità!) dotata di un’inedita forza visionaria che scaturisce con compostezza tra looping liquido e mentalità techno di lungo corso che dall’intellighenzia UK può tranquillamente riavvolgere il nastro fino al famoso capolavoro cinematografico di Friz Lang, Metropolis. Una
metafora, quest’ultima, che torna sempre utile, specie se aggiornata alla laptop-tronica a cui il canadese, ricordiamolo, oppone sempre un bel gusto per l’analogico e tocchi di suonato.
Tra le tracce, il tiro jazzy dei Cobblestone Jazz (il cui ritorno, come di tanti altri progetti, è già programmato) emerge in Touch The Sky anche grazie a sapori house in aderenza Crosstown Rebels (e
snare/percussioni suonate dal vivo stile Vladislav Delay) oppure in astrazioni e beat concettuali alla
Raster Noton in Illusions Of Control, tracce fatte di quadrature acquatiche e raffinatezze in progressione minimale piuttosto lontane dai più potabili tagli marittimi di un brano come - appunto - Metropolis recentemente apparso sulla elegante compilation minMAX della Minus. Inoltre, Level 7 ricorda la
pongo-elettronica colorata di certo Gold Panda, la finale e omonima title track per (quasi) soli synth fa
il paio con la Spetchka dei Black Dog (Tranklements altro gran bel disco techno), come Kissing Your
Eyes è un altro bel esempio per sottolineare come la palpabile tensione psych di Illusions Of Control
può farsi, alla bisogna invisibile. Infine una Body In Motion è utile per descrivere come certa tentazione acid possa poi, in una traccia come Sahara, riportare a Vangelis via tunnel analogue.
Album decisamente da premiare e questa volta non solo per meriti tecnici.
(7.2/10)
Edoardo Bridda
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Mathew Jonson - Her Blurry Pictures (Crosstown
Rebels, Giugno 2013)
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senza essere banali: in due parole, missione compiuta.
(7.1/10)
Fabrizio Zampighi
Crystal Fighters - Cave Rave
(Zirkulo, Giugno 2013)
Genere: summer vibes
“The holy roller bloomingblighters are singing the
freedom of utopic space”. “The nature of utopic
space is the fractal interdimension between the
fourth and fifth dimensional realms”. Queste sono
solo due delle frasi esoterico-filosofiche presenti
nell’assurdo artwork di Cave Rave ideato e realizzato dal visionario Paul Laffoley in omaggio ad
alcuni nomi - Rudolf Steiner e la sua antroposofia,
ad esempio - che hanno fatto la storia dell’immaginario punto d’incontro tra psicologia, spiritualità, scienza e religione.
Che questi Crystal Fighters fossero personaggi
fuori dagli schemi lo si era già capito ai tempi
dell’interessante debutto Star of Love, ma la
presentazione extra-musicale del secondo lavoro
(pubblicato via Zirkulo/PIAS) spiana la strada ad
un nuovo livello di follia nella corsa verso l’oltre.
Prodotto da Justin Meldal-Johnsen a Los Angeles,
Cave Rave è stato scritto dai Crystal Fighters
in territorio Euskadi ed eredita dal predecessore
tutto quello spirito tradizionalista che da sempre
è parte fondante del codice genetico dei cinque basco-londinesi.Se non vengono tradite le
influenze trad, è facile invece notare una minore
propensione verso le tentazioni elektro-oriented
che avevano reso brani come I Love London e il
pezzo da novanta Xtatic Truth veri e propri indie
club anthems. Poco male: l’energico folk danzante di You & I ha tutte le potenzialità per finire in
high rotation persino nelle radio più generaliste
(se ci son riusciti Of Monsters And Men e Lumineers...). Quantità industriali di energia radiofriendly anche nei saliscendi pop di Wave e in
quel mix trascinante di suggestioni che spaziano
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gi u gn o
collaborazioni con nomi come Manu Chao e Mike
Patton - la parentesi forse più borderline, o, come
scrive il diretto interessato nelle note di Blaccahènze, “la passione incandescente nei confronti
del jazz più sperimentale e meno etichettabile”.
Tutto vero, non fosse che la sperimentazione di
cui si parla (che innegabilmente c’è, in questo
disco) è un’ottima sintesi di elementi che chi traffica in certe nicchie conosce bene: innanzitutto la
no wave (Contortions su tutti), poi certe cadenze
Zu, l’immaginario di John Zorn, il Mike Patton
senza briglie e, ovviamente, il jazz. Quest’ultimo
imbastardito a suon di assoli di chitarra elettrica
(Alberto Capelli), sintetizzatori e basso (Marco
Pettinato), batteria possente (Andrea Valdrucci) e
una sezione fiati al cardiopalma (il sax baritono di
Marco Motta, il sax alto di Guglielmo Pagnozzi e
la tromba dello stesso Paci).
Nella pratica, il secondo disco a marca Corleone
si trasforma dunque in un prodotto consapevolmente trasversale, materiale bello solido per palati già abituati a certi suoni, esempio di grande
sperimentazione agli occhi di chi di solito macina
solo mainstream, piatto abbastanza gustoso da
solleticare anche i palati più jazz-oriented (testimone ne è la copertina che il magazine Musica
Jazz ha dedicato a Paci). Dal canto suo, il trombettista siculo fa le cose per bene, imprimendo
un marchio riconoscibile alla consueta irruenza dei fraseggi (il Sudamerica scapicollante di
Umuntu ngumuntu ngabantu) e ai toni bandistici
di certi passaggi, ma cercando anche di aprire
porte su universi altri: il drone nelle fondamenta
di Tromba l’oeil (Reloaded), le andature dubstep di
Budstep Infected, la no wave cinematografica (e in
qualche modo non troppo distante dall’universo
Calibro 35) di Cinematic Conventions Of Murder, il
jazzcore melodico di Moshpit Comedy, parentesi
classiche come Lookin’ For Work.
La band non si risparmia e tira fuori un sound
tesissimo, c’è una sostanziale godibilità di fondo
che mette un po’ tutti d’accordo e ci si diverte
Genere: afrocentric jazz
Avete presente un’orgia libera di suoni multicolori scevra da ogni recondita influenza psych ma ben
radicata in atmosfere da jazz afro-beat? Bene, siete molto vicini alle sonorità che riempiono l’esordio di questo supergruppo inglese che vede in ballo gente da Acoustic Ladyland (il sassofonista
Pete Wareham, vero aggregatore del tutto, e Ruth Goller al basso), Heliocentrics (il sax di Shabaka
Hutchings), Zun Zun Egui (la voce di Kushal Gaya), strumentisti del giro di Mulatu Astatke (la batteria di Tom Skinner) e Fela (Satin Singh alle percussioni) e un produttore d’eccezione come Leafcutter
John che mischia le sue electronics al flusso sonoro dei compari.
Un vero e proprio tornado di suoni in libera uscita, sfuggenti e coinvolgenti, etimologicamente eccentrici nel loro fuoriuscire dalla grande madre Africa ed espandersi e contaminarsi, che rinverdiscono, se ce ne fosse ancora bisogno, la linea dell’afro-jazz più ispirato e acceso apprezzato negli ultimi
anni e meritandosi la definizione di “Afrocentric jazz-tinged tribal pop” appioppata loro sul web. Mulatu Astatke e l’appena riscoperto ethio-jazz, l’approccio materico e punkish degli ultimi The Ex specie
se in combutta con Getatchew Mekurya nella formazione allargata che ci ha regalato capolavori
come Moa Anbessa e Y’Anbessaw Tezeta o nel progetto Brass Unbound, formazioni orchestrali come
la Hypnotic Brass Ensemble messa su dall’ottantenne Kelan Philip Cohran, per non parlare dei
pezzi storici dell’afro-beat, sono alcuni dei punti di riferimento di una band che non lesina in energia
e ricercatezza, pur vivendo sulla pelle l’attrazione per il groove, la malia del ritmo tribale, l’eccitazione
stessa di una musica spirituale e mai doma.
Non è un caso che affiori qua e là l’attitudine più bianca e “rock”, per non dire punk, ma è solo questione di approccio a una materia che resta irrimediabilmente nera, groovey, (poli)ritmicamente accesa e
terribilmente sensuale. Della serie provate a rimanere fermi quando partono pezzi come Release!, We
Are Enough o Kingdom Of Kush. Se ce la fate, iniziate a preoccuparvi: non siete umani.
(7.4/10)
Stefano Pifferi
tra il bucolico (strumenti acustici, good vibes e
psichedelie annesse) e il dancefloor (cassa dritta,
micropassaggi droppati) che caratterizzano le
dieci tracce che compongono l’album.
Sicuramente attaccabile sotto più punti di vista (Star of Love era più genuino), Cave Rave
è comunque un disco che, nella sua continua
imprevedibilità, funziona in tutte - o quasi - le
proprie sfaccettature. Lo fa nei pezzi più furbi da
scampagnate happy-folk (No Man), nella VampireWeekendiana L.A. Calling (cori da stadio a
parte), nei contagiosi break afro di Separator e ad-
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dirittura nelle improbabili ballads Bridge Of Bones
e Everywhere. La prima ha un arrangiamento e un
tocco corale talmente pacchiano - quasi clericale - che deve essere per forza voluto, mentre
la seconda vanta un ritornello tranquillamente
“coverizzabile” da Justin Timberlake. Quello
che colpisce è l’incredibile concetrazione - sicuramente maggiore rispetto a quella dell’ultima
fatica degli amici Is Tropical o del debutto lungo
degli smile-poppers Youngblood Hawke - di
wannabe hit che volenti o nolenti riescono ad
insinuarsi nelle sinapsi con grande facilità. In-
r e c e nsi o ni
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Melt Yourself Down - Melt Yourself Down (Leaf, Maggio 2013)
somma, il disco centra l’obiettivo nel suo essere
inammissibilmente paraculo.
L’estate è alle porte e tutto è concesso, compreso
il lasciarsi andare ai ritmi disimpegnati e youthful
dei Crystal Fighters. Divertimento assicurato.
(6.3/10)
Daft Punk - Random Access
Memories (Columbia Records,
Maggio 2013)
Genere: pop
Che dire? Anche noi ci siamo felicemente piegati
a questo rito dell’ascolto unico e blindato tra le
mura della casa discografica davanti al macguffin
daftpunkiano - la valigetta-scrigno color arancio con tanto di lucchetto e codice segreto - in
un’atmosfera che sulle prime sarà stata anche un
po’ da spionaggio (e un po’ da cartoon) ma che
quando siamo arrivati noi era già ampiamente
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Riccardo Zagaglia
prosaicamente - divertitamente - profanata: abbiamo ascoltato la musica, il giorno della morte
di Andreotti, in una piovosissima Milano, con un
vicino di scrivania che batteva il piede a tempo
davanti al suo pranzo a base di bresaola, sgombro e cracker integrali.
Che dire che non sia stato detto di questo disco
subito mitologicizzato e subito issato a totem
polemico? Facciamo il punto. I teaser saccheggiati e rimontati dai fan per creare credibilissimi
fake leak (su tutti, quello di Fabio Nirta). Il singolo
tormentone istantaneo sbancatutto. Le interviste ai collab che parlano dell’incontro coi due
robot con toni messianici (giustamente presi per
il culo da qualcuno). Ma sopra e prima di tutto, il
ritorno del più importante act dance & pop degli
ultimi anni dopo anni di assenza: i Daft Punk, gli
sdoganatori, i moltiplicatori di pani e di pesci, i
condensatori di immaginario. Tutti ingredienti,
questi, che annunciavano un disco schiaccia-
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Genere: electronica
Qualcuno dirà che i Mount Kimbie “si sono finalmente decisi a fare musica
seria” e, al di là della scialba provocazione, un fondo di verità è rilevabile:
Cold Spring Fault Less Youth si presenta, in effetti, come prova istantanea di
maturità e salto (da Hotflush a Warp ma anche) di qualità.
Il tutto passa - oltre che per la prevedibile migrazione dalla “cameretta” allo
studio professionale - da un aggiornamento stilistico tanto necessario quanto riuscito, che si lascia
alle spalle un po’ tutti i ponti col mondo del (post-) dubstep, va ad abbracciare soluzioni prettamente
downtempo (Home Recording, Blood And Form), si fa trovare pronto al ritorno della house (quindi dei
4/4) in terra inglese e - soprattutto - indugia sull’elettronica come Dominic Maker e Kai Campos l’hanno sempre voluta: suonata.
Piuttosto che i field recordings, a far da padroni sono questa volta sintetizzatori saturi e live drums; i
pezzi mostrano tutti - novità! - una struttura propriamente detta, praticamente ordinata, perlopiù
progressiva, occasionalmente addirittura club-ready. Va da sé, dunque, che della firma off-kilter (e in
un certo senso intimista) che fece la fortuna di Crooks & Lovers (2010) restino soltanto vaghe tracce tra
i livelli. Eppure risulta difficilissimo rimpiangere il passato e avanzare lamentele verso l’assunta posatezza: la versatilità del duo londinese, quella sì, è immutata e il disco - con la complicità di una palette
strumentale espansa - trova tutto il dinamismo che gli serve variegando ulteriormente la proposta
rispetto al predecessore.
Ci sono le (già viste) inflessioni ambient ed abstract, ma istituite anch’esse di spina dorsale percussiva
(Fall Out) o lanciate in ascesa da tastierismi nordici (Break Well); c’è un amalgama di ritmica industrial
con materia post-glo (Slow) e c’è un saluto a casa Actress (Sullen Ground); ci sono, di fatto, aperture
hip-hop ma senza passare per featuring hip-hop (You Took Your Time e Meter, Pale, Tone, con King Krule) e quindi incasellate nelle fascinazioni per il macchinismo applicato al rock già rilevate sul debutto,
le stesse che trovano il proprio apice organico nel paio di jam (So Many Times, So Many Ways e Lie
Near) probabilmente composte in tour, probabilmente pensando ad un settaggio live allargato; c’è
infine Made To Stray, la traccia killer che Dominic e Kai non hanno mai davvero avuto, concreta minaccia atomica al monopolio sui dancefloor perpetrato dai Disclosure.
A separare Cold Spring Fault Less Youth dal poter essere definito come punto d’arrivo restano qualche
passaggio un pelo forzato e il tradito sviluppo orizzontale di alcuni episodi. In fondo non può che
farci piacere: ci auguriamo di ascoltare, in futuro, altri cento di questi Mount Kimbie.
(7.5/10)
Massimo Rancati
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Mount Kimbie - Cold Spring Fault Less Youth (Warp
Records, Maggio 2013)
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memoria operativa, con quello di cui mito e trasfito dalle attese (che fanno rima con delusione),
dall’hype, dall’entusiasmo o dal rigetto a prescin- gurazione si nutrono da sempre: l’immaginario.
Sono i Daft che conosciamo, non c’è un’evoluziodere. Dal contesto, insomma. E invece diciamo
ne, un cambiamento profondo, solo una declinasubito: dei tanti miracoli possibili - ma improbabili, tipo una palingenesi dei nostri - questo disco zione nuova di quello che sono e fanno.
compie almeno quello di non restare schiacciato Il disco allora è esattamente come ce lo immadalla sua storia esterna ed essere degno oggetto ginavamo incrociando gli indizi a nostra dispodi discorso di per sé. Diciamo subito: non è il disco sizione, e cioè Get Lucky e tutta la mitogenesi di
contorno di cui sopra (che va presa per quel che
della vita, non è la cartina al tornasole dell’oggi
è: marketing fatto bene), retorica anti-laptop
(se non nella misura in cui è uno dei manifesti
compresa (la già-vivisezione di Wiki ce la siamo
possibili del vintagismo e della retromania, noinvece risparmiata). RAM è un caleidoscopio di
stra seconda pelle ormai) o del domani (se non
riferimenti, citazioni e calchi, un sottofondo di
nella misura in cui l’elettronica cercherà - forse
lusso nell’epoca dell’ascolto intelligente della
- di essere sempre più suonata e live, anche se
Muzak, una dance analogica e orchestrale. È
non nel senso modernista che abbiamo sondato
suonato, caldo, corposo, i Daft avevano voglia di
altrove), ma è un buon disco, un disco colorato,
che funziona e diverte, che spesso è avvincente e suonare, di jammare (e di spendere soldoni nel
farlo), e si sente. Ha i piedi nella disco, nel funky,
altre volte - come dire - è sicuramente un po’ retorico e ostentativo, fin troppo ricco. Ovviamente nel West Coast sound tutto miele e vento tra i
suonato da dio. Ma soprattutto, è un disco inzup- capelli di Fleetwood Mac e Eagles (con tanto di
pedal steel). È lineare, ma stratificato, progressivo
pato di un amore per i propri amori che è tanto
e audiofilo, come un Dark Side of the Moon (è il
furbo quanto sincero, tanto coerente concept
loro Dark Side of the Moon, Alan Parsons incluso).
studiato a tavolino - per andare oltre il presente
È architettonico e certosino, come il fusion pop
bisogna ciclicamente ritornare alle radici - quandegli Steely Dan. Ha gli occhi puntati a un’idea
to genuina ossessione adolescenziale. Certo, di
di spazio e di futuro che fu, dove avanguardia fa
due adolescenti non più adolescenti ma sempre
rima con artigianato (synth, Moroder, colonne
adolescenti che possono permettersi come giocattoli lo studio di Jimi Hendrix, l’expertise di Nile sonore Sci-Fi).
Per il track by track, ormai di rito, rimandiamo ad
Rodgers e l’appeal di Pharrell. Thomas e Guy-Manuel tributano ancora una vol- altra sede. Qui ci tenevamo a dire la nostra: non è
il disco dell’anno, non è una furbata da capricciota i propri miti, fanno ancora una volta i compiti
si ricconi. Ma in medio stat divertimento.
a casa, studiano i grandi per scoprire cos’è che
(Lo streaming dell’album è disponibile via Itunes
fa ancora battere il cuore e girare il mondo, si
a questo indirizzo).
mettono davanti alle loro Gioconde e copiano
(7.1/10)
come sanno (qualcuno ha portato agli estremi
questa idea, parlando di praticamente-cover), solo
Gabriele Marino
che stavolta invece di mimare ed evocare (campionare e stilizzare), i miti li convocano proprio
Dargen D’Amico - Vivere aiuta a
fisicamente (la confessione di Moroder, l’elegan- non morire (Giada Mesi, Aprile
te cameo di Paul Williams). È un ritorno al corpo
2013)
umano, il loro sogno di sempre, di Daft come
Genere: dargen poetamarro
moderni pinocchi. Che giocano, con questa loro
D l’avevamo lasciato con un pizzico di Nostal-
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di alti e bassi (soprattutto tra incisi e feat) ma si
ingolfa davvero solo nel quartetto centrale Il cubo
(gag con Danti dei Two Fingerz), A meno di te
(con il soul uptempo da corista di Michelle Lily),
Sincero/sincera (un po’ contro-qualunquismo che
diventa qualunquismo-contro), Il corriere contromano (con Andrea Volontè, tutto tranne che
irresistibile, già nel singolo Siamo tutti uguali).
Bellissimo invece il pezzo coi Perturbazione, Con
te, una vera sorpresa, un po’ Gazzè un po’ Neffa
pop; bellissimo il remix del singolo Continua a
correre, feat. il pupillo Nardinocchi, firmato Zen
Marque; sorprendentemente drammatico, tipo
Guccini meets il pezzo di Fibra sul piccolo Tommy (Potevi essere tu), E’ già, con Enrico Ruggeri. D è troppo bravo per nascondere di esserlo e
riesce a essere grande anche quando, sopra le
righe, si abbassa. Alchimista, trasforma il piombo
in oro, anche se va notato che lui viene dall’oro e
al piombo c’è arrivato. Copertina cristologica da
applausi firmata Corrado Grilli cioè Mecna, il più
conscious dei rapper della nuova generazione.
(6.7/10)
Gabriele Marino
Dirty Beaches - Drifters/Love
is The Devil (Zoo Music, Maggio
2013)
Genere: r ’n’r/sperimentale
Attraverso Badlands (2011), il qui presente Alex
Zhang Hungtai seppe mettere in campo (anche
in senso filmico) l’immagine di un sentimento
notturno e allucinato, della ricerca e dello smarrimento attraverso lo spazio e il tempo, usando
il rock’n’roll come icona dissacrata, memoria da
deformare.
Condizione di esule la sua, taiwanese di nascita,
trapiantato in Canada e ancora nomade tra America e Europa, fino a toccare Berlino e gli studi di
Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, dove è stata registrata una parte del disco
(l’altra, a Montreal). Niente di particolarmente
r e c e nsi o ni
gia Istantanea. Aveva alzato l’asta del limbo e
ci eravamo chiesti quale il prossimo passo ora
che poteva parlare a tutti, bimbiminkia, pentiti
del rap, rappofili e indie. Qui D dice chiaro e forte
che ha scelto: le peggio coatte, tamarre mai viste /
commesse, estetiste, shampiste / coi jeans attillati,
incollati di tutti i colori / e scritte appariscenti come
gli evidenziatori (Lorenzo De’ Medici). D le punta,
ma per ora lo zoccolo duro sono i ragazzini, tipo
quelli che affollavano tutti uguali - vestiti e capelli tipo Fedez, cofanetto coi bodyglasses nuova
serie in mano - la saletta della Feltrinelli di Porta
Nuova a Torino il 30 aprile, per una presentazione
del disco risolta ad autografi e foto. Ma questo ci
interessa fino a un certo punto.
Vivere aiuta a non morire è il disco easy di D,
estivo, di bocca buona e sboccato, ma anche
impegnato, se la triade chiave dei temi del nostro (amore dio morte) diventa un pentacolo
aggiungendo i tag italia e politica (vedere particolarmente Il presidente). D ci si siede in mezzo,
autorevole e carismatico anche nei tanti troppi pezzi-gag, ambigui tra adesione e strizzata
d’occhio, un po’ automatici, un po’ slogan, tra
culo, para-culo e presa-per-il-culo (il culto istantaneo Bocciofili, feat di Fedez e Mistico; il singolo
L’amore a modo mio con il principe dei tamarri
J-Ax), frulla assieme cantautori, spirito neomelodico, Daft Punk, italo disco, Crookers, dance
90, 883 e rap (le produzioni sono quasi tutte di
Zangirolami), e regala comunque le sue perle e i
suoi gimmick metrici e linguistici. Il citazionismo
dargeniano (L’Italia è una ha sotto una tastiera
alla Amarsi un po’ e accumula luoghi comuni alla
Rino Gaetano) è ormai anche autocitazionismo,
come il mare d’inverno: Due come noi, con un
Pezzali pezzalissimo, è un po’ Bere una cosa un
po’ Odio volare; Un fan in Basilicata è un po’ Prendi
per mano D’Amico; Il ginocchio, sempre con J-Ax,
un po’ In loop.
Il disco parte a bomba con l’arrancante incalzare
di VV, roba quasi da Musica senza musicisti, va
r e c e nsi o ni
senso dell’operazione. Troppo discontinuo e
denso Drifters, troppo umorale e parziale Love..,
incapaci entrambi di acquisire una forma propria e compiuta. Insieme, invece, il sentimento e
l’esperienza del vagare, unitamente alla presenza
dell’amore come forma-pensiero struggente e
distorta, creano una sorta di racconto (tra Bukowsky e Lynch), dove i titoli dei brani hanno un peso
inaspettato, e che si sviluppa anche in virtù delle
contraddizioni che mostra, dei pieni e dei vuoti
che scandiscono il ritmo della narrazione.
Dopo le canzoni - si fa per dire - della prima parte, è dunque opportuno abbandonarsi al b-side
che ne diluisce le nevrosi e le angosce in un moto
andante e malinconico. Come se il viaggiatore
si fosse fermato a contemplare la veduta di una
città sterminata fatta di luci sfocate, provando
a entrare nelle finestre intermittenti dei palazzi,
provando ad abitare le vite che trascorrono negli
appartamenti, nelle automobili che percorrono le
strade, in un passante lontanissimo.
A partire dalle atmosfere noir e meditabonde di
Greyhound At Night tutto è lasciato a metà, proviene da un altrove e in un altrove sfuma; tutto
si abbandona su caldi tappeti di organi, rintocchi di vecchi pianoforti, interferenze analogiche
(Woman), archi malinconici (Love Is The Devil) e
chitarre evanescenti. Dall’immancabile ballata romantica tra sogno, incubo e realtà (ancora Lynch)
di Like The Ocean We Part, si arriva alla chiusa di
Berlin, ultima tappa di questo viaggio imperfetto
e forse sovrabbondante, ma pregno di sensazioni e scorci di un realismo lisergico, inquietante,
eppure fotografico.
(7.6/10)
Antonio Laudazi
Dirty Beaches - Water Park OST
(A., Maggio 2013)
Genere: soundtrack
Lo aveva anticipato, o meglio, suggerito nell’intervista di qualche tempo fa, ma non era un se-
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gi u gn o
scioccante sulla carta, un percorso da apolide
comune a molti in un mondo ormai globalizzato,
ma che sembra aver un peso importante nella
psicologia, nell’arte e nella sostanza del Nostro.
Quanto alla forma, il doppio album in questione,
diciamolo subito, non ha la stessa immediata e
ipnotica presa del precedente, ma si presenta
come un’opera certamente più vasta e multiforme, con nuove carte espressive nel mazzo, prime
fra tutte l’elettronica. Prosegue comunque il
discorso sullo sguardo perturbante lungo spazi
metropolitani, in un’estetica del viaggio (nello
spazio e nel tempo) dove il revival si traduce in
sentimento di morte: il fantasma di Elvis che abitava Badlands, metonimia a raffigurare un’epoca
e il suo ineluttabile “transitare”, è più trasparente,
ma ancora permane.
Un lavoro diviso in due capitoli separati e consequenziali: il primo, Drifters, più strutturato e
arrangiato; il secondo, Love Is The Devil, frutto di
manipolazioni ambientali, clangori post-jazz e liquidi drone. La cifra alienata e beffarda la ritroviamo già dall’incipit di Night Walk, mix scarnificato
di Suicide, groove circolare di basso, rumorismi
spettrali e voce corrosa dal riverbero: un cadavere anni ‘50 con brillantina e ciuffo ancora intatti. I Dream In Neon ricorda i nostri cari Bachi da pietra, Belgrade è una corsa lungo synth da colonna
sonora sci-fi fine anni ‘80, Casino Lisboa è colorata
con le tinte fosche e circensi del post-punk più
deviato, fino a ELLI, batteria a 8 bit e un’interpretazione straordinaria dove la metrica pop incontra un minimalismo depresso, quasi da carillon.
Sorprende poi l’uso di ritmiche spinte e ossessive
a sostenere la colonna sonora di un movimento
allucinatorio che raggiunge l’apice nella doppietta Aurevoir Mon Visage e Mirage Hall, nelle quali
l’uso del francese e dello spagnolo acquistano
una forza espressiva determinante per l’ingresso
in un mondo che inizia ad apparire sempre meno
impenetrabile.
Ed è nella percezione del tutto che risiede il
Genere: IDM, electro
Era da un po’ che il guru dell’elettronica d’Albione Mike Paradinas non
sfornava un album in solitaria. Il boss della Planet Mu si era avventurato da
poco nel progetto Heterotic con la moglie Lara Rix-Martin e con Gravenhurst, ma una sua prova in solitaria mancava dagli scaffali dal lontano 2007,
un’era geologica parlando in termini musical-produttivi contemporanei. La
lenta gestazione di Chewed Corners ci fa pensare ad un processo compositivo senza pressioni, alieno
dalle logiche di mercato attuali. In questo mood calmo e conscio delle proprie possibilità, si situa una
proposta che nell’ambient melodica fa il suo cavallo di battaglia. Se vogliamo proprio trovare un filo logico con il passato, è proprio dall’IDM ibrida di Aphex Twin che
il discorso prende spunto. Paradinas è uno dei pochi musicisti ad aver collaborato fattivamente con
Richard D. James in un album, Expert Knob Twiddlers (a nome Mike and Rich, pubblicato su Rephlex
nel lontano 1996), dove regnava il divertimento quasi lounge fabbricato a puntino con loop giocattolosi. Oggi che è passato molto tempo, l’IDM di “tanto tempo fa” viene inevitabilmente filtrata dagli
accadimenti che sono intercorsi fra quel punto zero e l’oggi. Già in Duntisbourne Abbots Soulmate Devastation Technique avevamo capito che l’uomo filava dritto per il suo percorso monolitico, discostandosi di poco da quello che gli è sempre piaciuto fare: elettronica squadrata con piena consapevolezza
retrò, sorta di contraltare alla moda reynoldsiana del ripescaggio. Qui per fortuna si va leggermente
avanti. L’immobilismo e l’ortodossia di quei bei tempi andati sono il magma su cui costruire un suono
in apparenza datato ma prolifico, pieno di citazioni a classici del genere. Non è un caso poi che Mike
abbia esportato il verbo footwork di Chicago in Inghilterra, con la compilation seminale Bangs & Works sulla sua Planet Mu e abbia aperto così un nuovo corso per i nuovi adepti della blacktronica UK. Dietro le sonorità di Paradinas stanno però nascosti i Boards of Canada (Hug), la new age della Windam Hill (Mountain Island Boner) e di Kitaro (Melting), un po’ di melanconia dark e, perché no, anche
certi tappetini Animal Collective (il finale di Christ Dust). L’unico appunto hic et nunc è il basso footwork di Tickly Flanks: un accenno, che ammicca alle astrazioni di Kuedo e che potrebbe far leggere
parte del disco come ponte tra vecchio e nuovo, non totalmente impermeabile al presente. In questo
senso sono coerenti pure le sensazioni now à la Toro Y Moi di Smooch, ferme restando le didascalie
stagionate del primo Selected Ambient Works di Aphex in tracce come Gunnar, o le infatuazioni per gli
anni 90 disco-pop in Weakling Paradinas.
Il ricordo dell’epoca IDM (cioè l’hi-fi sul lato produttivo) si palesa come costante elitaria per i padrini dell’elettronica d’oggi: questi ultimi propongono infatti una teoria sonica sempre più permeata
da una dimensione di sogno e di utopia che non ha nulla a che vedere con l’afrofuturismo o con la
blackness, ma che si basa su una “whiteness” disimpegnata che coglie l’attimo purtroppo già passato,
sentimento che esalta le coorti hipster della musica da ballo. Paradinas è l’esatto opposto di Ford & Lopatin, duo che usa i suoni old restando, per partito preso,
su posizioni da arcadia pre-00. L’evoluzione, Mike la promuove su due fronti: il primo sono i dischi
sulla sua label (vedi i blasonati protagonisti della Planet Mu come FaltyDL, Boxcutter, Machinedrum o
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Mu-Ziq - Chewed Corners (Planet Mu Records,
Giugno 2013)
Benga); il secondo sono le produzioni a suo nome: un diario intimista che coglie pochi ma significativi
attimi dal passato e li cura con amore e devozione, trasformandoli in succosi appunti per un eventuale futuro. A noi piace crogiolarci nel ricordo di quel tempo andato, ma pur sempre attualissimo. Back
to the cameretta is the new loud. (7.1/10)
greto. L’immaginario su cui si è costruito il senso
ultimo del progetto Dirty Beaches si basa indubbiamente su quello filmico, specie se di serie B o
indipendente. Non è così casuale o sorprendente
che l’attrazione per le ambientazioni cinematografiche di Alex Zhang Hungtai lo abbia portato
ad approdare alla soundtrack, come avviene in
questo Water Park e come era già avvenuto per
Practical ESP, un mediometraggio documentaristico del 2010 opera di Zoe Kirk-Gushowaty.
Qui come allora, però, il trademark di Dirty
Beaches va dimenticato. Il 50s rock’n’roll disumanizzato alla maniera dei Suicide o da crooner
retro-futurista lascia spazio a dilatazioni atmosferiche, contrappunti immaginifici che si svolgono
in forme liquide e visionarie pronte al supporto
visivo. Non è altrettanto casuale che un paio di
anni fa, nelle liner notes di una delle millemila
tape sparse dal nostro in giro per il mondo - nello
specifico Solid State Gold per la cinese (!) Rose
Mansion Analog - il nostro auto-descrivesse il
proprio suono come “the sound of waves against
a picturesque and putrid shore”: in Water Park,
anch’esso documentario di Evan Prosofsky ma
stavolta su un parco acquatico dimenticato, l’acqua gioca un ruolo centrale e altrettanto liquide
e cullanti sono le note che Alex distribuisce lungo
le sette tracce del 10” armato di strumentazione
all’uopo (oscillatori, loop station, software, chitarra trattata, ecc.).
Tra scandagli dalle profondità che si irradiano
nemmeno troppo pacifici (Floating Underwater
Watching Waves), flutti montanti (Water Park Theme), sospensioni oniriche (Phases) e malinconici
accordi di chitarra in modalità post-hypna - c’è
ovunque un non so che di colloso e zuccheroso
che rimanda a sfocate immagini di telefilm e pomeriggi afosi - scorre una mezzora di musica che
ci mostra un Dirty Beaches lontano dal rock ma
sempre più a suo agio.
(7/10)
Stefano Pifferi
Divanofobia - I fantasmi baciali
(A Buzz Supreme, Maggio 2013)
Genere: rock cantautorale
Bologna 2012: i Divanofobia incontrano Lucio
Dalla, poco prima della sua scomparsa. Nello
stesso anno si rifugiano presso il Soporoco Studio sui colli a registrare questo I fantasmi baciali
con la collaborazione di Michele Postpischi degli
Ofeliadorme. Sempre nel 2012, infine, esce la
raccolta di poesie Parlo dentro (Edizioni Prufrock)
di Andrea Lorenzoni, che si farà poi carico di
tutti i testi del suo nuovo collettivo musicale. Il
background è dunque chiaro: la Bologna cantautorale, con le sfumature rock di base, fortemente
suggestionate dalle visioni idiosincratiche dei
testi dell’autore in questione.
Nulla di nuovo, però: alle spalle di questi fantasmi
da baciare ci sono i gorgheggi vocali di Umberto Maria Giardini, quando ancora si faceva
chiamare Moltheni, gli ululati di Manuel Agnelli
a loro volta sorretti da una versione soporifera
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Marco Braggion
Nino Ciglio
Echopark - Trees (We Were Never
Being Boring Collective, Maggio
2013)
Genere: dream, electro
Fa sorridere leggere nelle note biografiche di
Echopark che il nome del progetto trae origine
dal quartiere verde di Los Angeles, perché la
Puglia, terra d’origine dell’artista in questione, è
un po’ “la California italiana, con gli skater, i surfisti,
la scena delle band e il sole”. Fa sorridere pensare
che Antonio Elia Forte (il nome che si cela dietro il moniker Echopark) sia un cervello in fuga
dal Sud Italia per svolgere il nobilissimo lavoro
di missionario presso la capitale europea della
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musica: Londra. E fa altrettanto sorridere pensarlo chiuso nella sua cameretta in affitto presso
Whitechapel, alle prese con sample, sintetizzatori,
software, laptop e drum machine, tutto teso alla
ricerca spasmodica di un’imperfezione elettronica, dettata dalle melodie nebbiose delle sue
canzoni. Senza un punto riferimento particolare,
ma con la voglia di sporcarsi le mani con un’attrezzatura casuale, raccattata qua e là, chiesta in
prestito a un amico o a un conoscente.
Fa sorridere, certo, se non pensiamo ai frequenti dibattiti sul brain drain. Quelli che dicono che
in un’Italia troppo miope alle proposte di valore
spesso ci dimentichiamo dell’originalità, forzando in
qualche modo la migrazione. Successe a suo tempo
con quel che restava dei Disco Drive - Banjo or
Freakout -, succede ora a Indian Wells (anche lui
un missionario del sud) e Lilies on Mars (Sardegna).
Quel che conta è che la storia di Echopark, partita da Londra - dove il nome comincia già a circolare - è arrivata anche da noi grazie agli scout
attentissimi della We Were Never Being Boring.
Trees, dunque. Un album in undici tracce che
racchiude l’essenza già nella copertina: un acquarello caleidoscopico (degli alberi, forse?), appannato dalla sovraesposizione dei pixel. Quasi come
se Forte ci volesse dire che la sua è sì una musica
fatta di luce rifratta dalla cassa dritta e da synth
che parlano il linguaggio dei vegetali, ma anche
una vibrazione distorta e inafferrabile, nuvolosa
come il cielo di Londra, “pixelata” come la scarsa
definizione di una fotografia scattata male. Di
nuovo, l’imperfezione.
Non ci stupirebbe vedere nella cameretta dove
Echopark è intento a suonare i suoi giocattoli, qualche disco di quegli Animal Collective
(l’esempio massimo dell’imperfezione) presenti
nella follia psichedelica di Cranes, Youth And
Fury e No Time To Riot; non ci stupirebbe vederlo
salire sul palco di spalla ai Tame Impala o sentire
Mountain, Gary Clouds o Waves nei migliori indie
disco club d’Europa (un po’ come è successo - per
r e c e nsi o ni
e strumentale degli Afterhours, le fantasie di
un Dimartino, qualche sporadico ruggito in
stile Marlene Kuntz, la giusta dose di schizofrenia Marta Sui Tubi e, soprattutto, molta (troppa)
melodia da canzone italiana post-cantautorale:
Negramaro, Modà, Le Vibrazioni.
Per vedere i lati migliori dobbiamo fare lo sforzo
non indifferente di astrarre i testi dal contesto
(splendide le parole di Ci-viltà, Forza e sigarette,
L’eremo, ecc) o, viceversa, di immergerci negli
equilibri sonori abbandonando pretese di stabilità. Basta guardare agli arpeggi ossessivo-compulsivi di chitarra in Sorprendente, agli stop & go
di Campo di nervi, alla roboante e inquieta atmosfera di una Non farti corrompere che vorrebbe
strizzare l’occhio ai certi suoni di Slint, Grizzly
Bear o Radiohead.
I fantasmi baciali è nel complesso un’operazione
non del tutto riuscita, perché insiste su un genere
sterilizzato da troppi concorrenti, che, a lungo
andare, l’hanno corroso. La lingua dei testi, vera
forza propulsore di questo lavoro, non collide con
l’orchestrazione tutta, risultando spesso asfissiata
e logorata nella ripetitività delle forme. Un vero
peccato.
(5.7/10)
Genere: soundtrack
Da sempre i Sursumcorda fanno musica per immagini, ovvero producono
soundtrack di ogni ordine e grado (per film, documentari, teatro...). Anche quando hanno tentato la strada della canzone canonicamente intesa
sembrava comunque di sentire lo sfarfallìo del proiettore, ambienti sonori
che si arricchivano di tensione e lirismo secondo un lessico di inquadrature,
montaggio, luce. Un “galleggiare” cinematografico che trovava appigli e spinta nell’impasto di movenze orchestrali, calligrafia autorale e digressioni etno-folk con licenza di esulare jazz.
In questo senso, con Musica d’acqua realizzano l’album che si avvicina più di ogni altro al cuore della
loro proposta. È una raccolta di undici brani strumentali concepiti per diversi progetti cinematografici e televisivi - tra cui il corto Francesco e Bjorn di Fausto Caviglia e Amir di Jerry D’Avino, lavoro
quest’ultimo che li ha visti premiati al Gold Elephant World International Film & Musical Festival di
Catania -, diversi quindi per impostazione ma unificati da una stessa visione “liquida”, ovvero mutevole e disposta a diluire suggestioni, radici, coordinate e scenari in misture fluide e suggestive. Un
plotoncino di strumenti diversamente esotici (kalimba, berimbao, kora, cavigliere, dayan, guzheng,
sansula, udu drum...) si accompagna ad archi, chitarre, pianoforte e synth discreti per dare vita a situazioni ibride però mai improbabili, luoghi “altri” che ti invitano a sospendere l’incredulità per l’intensa
determinazione e l’equilibrio visionario.
Chimere stilistiche come Entropia (folk radente da steppa, brezza d’archi letteraria e strane bordature sintetiche) si alternano a ineffabili intrecci geografici come Miraggi (echi d’Asia, mediterraneo,
sudamerica e balcani). Per una Amir che procede tra apprensione sospesa quasi Sigur Ros ed epica
melò morriconiana c’è il placido intrigo di banjo, hammond e tromba di Red Floyd (come un lirismo
blasé pre-sintetico Air). All’eleganza onirica della title-track (pensosità latine e fatamorgane orientali)
risponde il valzer asprigno di Behind A Dripping Window e quello sinuoso (splendido il violino) di The
Promise Of The Merrow. Disco notevole che consacra il sestetto lombardo tra le migliori realtà italiane.
(7.3/10)
Stefano Solventi
certi versi inspiegabilmente - ai Postal Service).
A quanto pare, la filosofia dell’imperfezione
funziona magnificamente nel catturare gli scatti
metamorfici delle emozioni, sia quando l’happening sonoro vede trionfare il riverbero pericoloso
(ma sapientemente gestito) della voce e dei tamburi, sia quando l’aria rarefatta della sera concede
ai fumi anglosassoni un attimo di pausa. Ed è lì
che si collocano brani come Franky, Raindrops o
Brother, dettati in silenzio alla mano destra che,
con la giusta malizia, pizzica le corde di un’acustica. Poi c’è unaTeleportation nella quale, noi che
siamo rimasti al di qua della Manica, ci permettiamo di leggere un desiderio latente, da parte
di Echopark, di essere teletrasportato nella sua
terra d’origine. Magari, un giorno.
(7.4/10)
Nino Ciglio
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Sursumcorda - Musica d’acqua (A Cup In The Garden,
Giugno 2013)
Genere: rock autorale
Dopo l’esperimento post-rock/slow core de La
stasi , Giorgio Scorza, Daniele Mantegazza e
Lorenzo Borroni approdano assieme a Pasquale
Delfina all’esordio Il topo che stava nel mio muro,
pubblicato sotto il moniker di El Santo.
Undici tracce di alternative rock marcatamente
italiano, orientato sia verso accenti maggiormente psych/blues, sia verso soluzioni più cantautorali. L’album si apre con Garage #5, uno slogan
apocalittico-rumorista che introduce a Marabù,
dove alla cinica incombenza delle liriche (“Ti
hanno convinto che sei il prodotto di 50 anni di
Andreotti, sacerdoti e Marabù”) si accompagna
una ruvida energia rock, che richiama ai maggiori
nomi del generi, soprattutto Afterhours e Marlene Kuntz.
Con questi ultimi, gli El Santo condividono
soprattutto una certa propensione per l’armonia
distorta - come mostrano, ad esempio, le chitarre
stirate di Sugar Ray -, nonché la capacità di costruire testi in cui convivono, in buon equilibrio,
sentenze e letterarietà, ermetismo e ironia: brani
in cui la spinta propulsiva del genere di riferimento resta sempre in primo piano, ma capaci, anche,
di intrecciare soffusioni da (quasi) ballad e ricercatezza cantautorale, come mostrano rispettivamente Il salario delle formiche e Dean.
L’incombente tensione di Motown (quello che ti
uccide), uno dei pezzi più riusciti del disco, riunisce invece languori bluesy e altalene psych, mentre l’intro allucinato di Ossessiva, che chiude l’album, sintetizza quanto elencato finora: ruvidezza
elettrica da un parte e visionarietà lirica dall’altra,
unite ad una buona abilità di costruire pezzi dove
alla ricercatezza e cura dei testi si accompagnano
buone melodie, per un esordio che, pur senza
fare dell’originalità il suo maggior pregio, riesce
a inserirsi in un panorama - quello dell’alt. rock
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nostrano - a volte fin troppo affollato. (6.8/10)
Giulia Antelli
Elio e le Storie Tese - L’album
biango (Sony, Maggio 2013)
Genere: demenziale avant
Ho da sempre un problema con le canzoni degli
Elii. La definirei “sindrome delle risate a denti
stretti” provocate dalle loro gag argute, talora
sottili e ingegnose ai limiti del genio, casomai
subito dopo smentite da svaccate demenziali
un tanto al chilo. Mi diverte il loro citazionismo
compulsivo dissacrante, funzionale e parallelo al
cabaret dadaista/satirico dei testi (proprio questa
vaghezza tra satira e nonsense, con esiti spesso
inoffensivi, finisce per sembrarmi il loro difetto
peggiore), però una volta consumato non lascia
traccia, è un siparietto che svapora appena cambi
canale. Ecco, il punto credo sia proprio questo:
con gli anni sono diventati una spassosa band da
chiosa televisiva e radiofonica (spot compresi),
prodighi di trovate ed espedienti in Parla con
me e su Radio Deejay, ruolo per il quale l’aspetto
musicale e canzonettistico è funzionale o persino
collaterale alla performance. Il guaio è che non lo
tieni in piedi un disco a forza di gag.
Consumate le risatine (a denti stretti) del primo ascolto, ne resta ben poco, soprattutto se
l’ispirazione non è più - come è naturale - quella
dei tempi migliori. Pochi momenti memorabili
insomma in questo Album biango, nono lavoro
lungo per la band meneghina: di certo i virtuosismi patafisici de La canzone mononota e Come gli
Area, quest’ultima preceduta da un breve pezzo
di fusion strumentale - il cui titolo è un calembour da apoteosi nerd: Reggio (base per altezza)
- suonato dai veri Area (residui). Ostentazioni
di abilità e padronanza della materia, persino di
devozione, che altrove - nel Modugno infebbrato
dance di Amore amorissimo, nell’ironia facilona
del Complesso del primo maggio - diventa parodia
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El Santo - Il topo che stava
nel mio muro (A Buzz Supreme,
Maggio 2013)
tificazioni chamber, piano classico, smalti electro
usati con dovizia ecc.), e non ultima un’immagine
coordinata fatta di videoclip, pose studiate e collaborazioni altrettanto mirate (la Brandt Brauer
Frick e il successo di Tonight su tutte). Sementi di
un successo scritto sulla carta, diventato realtà e,
non dimentichiamoci, costruito interamente con
le proprie mani tra un lavoretto diurno e l’altro.
Inevitabile, viste le premesse, la grossa pressione a cui la producer è stata sottoposta nella
realizzazione di un sophomore che, per dirla
subito e al netto dei guizzi produttivi del deubtto, deluderà i fan glamour della producer. “Ho
deciso di sfidarmi” ha dichiarato Emika “volevo
realizzare l’album che avevo immaginato tutto
Stefano Solventi da sola, senza inegneri del suono, senza studio
professionale, solo la mia creatività”. All’isolmento è corrisposto un output spesso essenziale,
Emika - Dva (Ninja Tune, Giugno
con brani dai ritornelli non memorabili e strofe
2013)
che vanno metabolizzate con ascolti ripetuti,
Genere: Noir soul
del resto queste sono tracce che hanno richiesto
Le parole chiave nel successo dell’esordio di
un fatiscoso anno di lavoro nell’appartamento
Emika nel 2011 possono riassumersi in sound
della producer - coadiuvata a metà del percordesign e nella definizione di noir lady. Con la
prima ci riferiamo a una solida architettura sonica so, da Hank Shocklee nelle vesti di produttore
esecutivo - ballad strette attorno a (parole sue)
in grado di spalmare le atmosfere trip hop di
Bristol sulle superfici di bassi tanto debitori della differenti dimensioni d’oppressione.
dubstep briannica quanto della techno berlinese; Nel cupo ed essenziale suono di Dva il grosso
con la seconda parliamo d’efficaci giochi sponda lo fanno dei synth riconducibili all’electro dei
club dell’Est e corposi bassi che assorbono l’urcon tale architettura, sia per mezzo di una voce
genza dubstep del debutto (Centuries), d’altro
nuda che sussurra, s’angoscia, si erge e palpita,
canto trovano spazio anche pianismi, archi e,
sia grazie al suo utilizzo filtrato da trick da studio
in generale, un’eleganza algida in stile Appadi registrazione.
rat Band (Mouth To Mouth) che, in apertura, ci
Su queste basi, utilizzando strumentazione sia
porta diritti all’opera con tanto d’accompagnasintetica che acustica e, non ultimo, il field remento della The City Of Prague Philharmonic
cording (ricordiamoci che è stata Emika a fornire
Orchestra e al feat della soprano Michaela
i field recording per la compilation Funf della
Šrůmová (Hush). Premesse deciOstgut Ton) la Nostra ha costruito non solo le hit
se, anche ideali per una reinvenzione, eppure
(Tonight, 3 Hours) ma anche un disco coerente
il risultato che la bristoliana cerca è un lavoro
nelle dominanti cromatiche (nero brillante, nero
opaco, nero lucido ecc.), variegato nelle soluzioni sottopelle (Sing To Me non è proprio Tonight)
che non sempre riesce a catalizzare le urgenze
canore (si va dall’omonimo dei Portishead, ai
Massive Attack di Mezzanine) e arrangiative (stra- necessarie in scrittura (Mouth To Mouth, tan-
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piuttosto gratuita, un pò come quando la Gialappa’s percula il Grande Fratello: finisce, ahimé, che
la grana trash di oggetto e soggetto si mischia
nello stesso calderone.
Il resto sono storielline più (Il ritmo della sala
prove, Il tutor di Nerone) o meno (Una sera con
gli amici, quella Luigi il pugilista che sembra un
Walter Chiari di serie b) azzeccate, con momenti
- Dannati forever, Lampo, una Enlarge (Your Penis)
che scozza Police e ELO - in cui la satira sociale
cazzona sembra denunciare una certa senilità, su
cui la parata di cameo (Eugenio Finardi, Fiorello,
Nek, Fabio Treves, Marco Mengoni...) spennella
una patina di goliardo avanspettacolo.
(5.6/10)
Genere: Folk rap
Prima Aesop Rock ha collaborato con la Dawson per l’ultimo album da
solista dato alle stampe, quel Thunder Thighs arrivato dal nulla nel 2011
e impostosi come uno dei momenti di maggior profondità creativa della
titolare. Un anno dopo l’ex Moldy Peaches ha restituito il favore nel disco di
Aesop Rock Skelethon del 2012. Ora i due hanno deciso di presentarsi sotto
una sigla comune per sedici tracce al confine tra due culture musicali così diverse come il rap e il
folk, ma coerenti per ambientazione urbana. In realtà l’(anti)folk della Dawson, come abbiamo scritto
analizzando i suoi testi, ha predisposizione spiccata per la valanga di parole, quasi di un Bob Dylan
circa Blonde On Blonde in versione intima e autobiografica. Per questo e per l’originalità all’interno dei
rispettivi mondi, il matrimonio musicale tra i due non appare forzato, ma anzi la logica conseguenza
di un rapporto che ha già dato buoni frutti negli episodi precedenti.
Aesop Rock che canta (nel senso proprio della parola, cercando quindi una vera e propria melodia) in
Organs non è proprio un bel sentire, soprattutto se le lines si posano su una nenia infantile. Quando
avviene un spostamento contrario, invece, con la Dawson che si avvicina al mondo di Aesop, le cose
funzionano meglio, tanto che nei 38 secondi di Superheroes, in cui si intona “sandwiches!”, sembra di
essere tornati ai tempi migliori dei Moldy Peaches, più vicini alla cultura urban di quanto ci verrebbe
in mente di primo acchito. Certo Aesop ha poco della leggerezza da elfa freakettona della Dawson,
ma Kryptonite e Jambi Cafe sono equilibri quasi perfetti (nel secondo caso anche per la lunghezza da
open-mike-night che la caratterizza). Ci sono brani più infantili (Scissorhands, The Aquarium), come se i
due avessero continuato l’album per bambini della Dawson, ma anche un suono che, come avveniva
già in Thunder Thighs, è più da band che da solisti al lavoro (vedi Delicate Cycle o Eyeball Soup).
Un album che seppure non rappresenta una svolta per la Dawson dal punto di vista delle possibilità
musicali (in fondo sembra più un disco suo che di Aesop Rock), mette comunque insieme un pugno
di brani di buon livello che sembrano più della somma delle singole parti che i due hanno portato in
dote alla nuova creatura.
(7.2/10)
Marco Boscolo
to per chiarire il concetto). Se Emika punta ad
essere una Beth Gibbons in versione Berghain
con nel taschino le lezioni di tragedia in musica
di Mahler e Rachmaninov (Dem Worlds), obbiettivi e realtà devono ancora trovare allineamenti
consistenti ma, d’altro canto, non è una novità
che un seguito discografico si presenti come
un’opera di transizione.
100
Rimane una certa nostalagia per i vecchi modi
della diva (riproposti in Searching) e non taciamo
alcune perplessità nell’interpretazione (Criminal
Gift o la scialba cover di Wicked Game di Chris
Issak) assodato comunque il fascino di un set
di canzoni dalla presa sulla lunga distanza dove
l’infanzia a Praga, l’adolescenza a Bristol e una
Berlino a far da ponte tra passati e presenti cre-
r e c e nsi o ni
gi u gn o
The Uncluded - Hokey Fright (Rhymesayers Records,
Maggio 2013)
ano un’atmosfera ammaliante e non priva delle
giuste gradazioni di grigio.
(7/10)
Edoardo Bridda
Genere: folk soul
Ernesto De Pascale aveva tra le altre cose il dono
di restarti impresso nella memoria, anche per le
cose più banali. In questi due anni trascorsi dalla
morte ho letto su di lui molte testimonianze aneddoti o semplici frammenti di vissuto - da
parte di conoscenti più o meno intimi, più o
meno occasionali. Faccio parte senza dubbio di
quest’ultima categoria, ciononostante mi tengo
cari diversi episodi che me lo fanno ricordare
come un appassionato totale, uno capace di far
convivere il disincanto disinvolto di chi ne ha
viste (e toccate con mano) parecchie e l’entusiasmo incontenibile del ragazzino.
La mezza età significò per lui l’inizio di un percorso musicale da solista in bilico tra dilettantismo
e devozione, che ne rivelò il talento magari non
cristallino però sincero e ben sintonizzato. A Morning Manic Music del 2007 seguì l’anno successivo My Land Is Your Land, quest’ultimo realizzato a quattro mani con una specie di leggenda
come Ashley Hutchings. Entrambi lavori più che
apprezzabili, destinati ad avere un seguito che Ernesto ebbe solo il tempo di progettare, lasciando
un’eredità di due pezzi finiti e altri solo abbozzati,
perlopiù tracce vocali con accompagnamento di
piano, hammond e fender rhodes. Si deve quindi
alla “famiglia” de Il Popolo del Blues, in particolare a Guido Melis e Giulia Nuti (tra l’altro basso
e viola degli Underfloor), il completamento di
questo Seven Songs While The City Is Sleeping,
raccolta meritevole oltre il doveroso rituale della
memoria.
Seguendo gli appunti originali ed allestendo
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Ernesto De Pascale - Seven Songs
While the City is Sleeping (Il
Popolo del Blues, Aprile 2013)
orchestrazioni curate però mai sopra le righe,
hanno ricavato sette ballate tra il romantico
ed il laconico, nelle quali avverti il retrogusto
spiegazzato e fascinoso del songwriting che sa
mischiarsi alla vita, come a volte capita al miglior cantautorato folk pasturato soul. Saranno i
milioni di canzoni ascoltate, le infinite discussioni
e riflessioni, fatto sta che De Pascale aveva capito quando affondare il colpo e quando alzare il
piede dal pedale, riuscendo spesso ad azzeccare
un prezioso equilibrio tra languido ed essenziale.
Ti ritrovi quindi con una Sixty Second Kiss velluatata gospel che sembra un Randy Newman
immalinconito Leonard Cohen, con una Subway
To The West Country che immerge Alex Chilton
tra tremori agrodolci Bill Fay, oppure coi tepori
agresti e allusivi - vagamente Lambchop - di My
Way Or The Highway.
In tutte avverti un senso di gioco al limite, di
artigianato che azzarda sottigliezze artistiche,
ed è un valore aggiunto perché produce tensione commovente e quasi mai compiaciuta, pure
quando non azzecca la quadratura come nella
piuttosto sfocata We Were One (parzialmente
riscattata dalla tromba di Fabio Morgera). Giusto
quindi l’epilogo di Wish You Well, un sogno ad
occhi aperti che a metà diventa una marcetta
impettita di ance e ottoni, come dire che la musica in fondo è un prodigio sempre meritevole di
celebrazione, anche quando l’accordo dominante
è il rimpianto.
(7.1/10)
Stefano Solventi
Faz Waltz - Back On Mondo
(Piovra, Maggio 2013)
Genere: rock
Una delle prospettive più allettanti, quando si
mette su una band, è quella di ridefinire un genere creandosi un’estetica a partire dalla combinazione dei propri background di influenze.
Il più delle volte questo genere di partenza è il
101
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Alessia Zinnari
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Fleetwood Mac - Extended Play (,
Maggio 2013)
Genere: Pop
L’ultimo vagito discografico degno di nota era
Say You Will, anno di grazia 2003, e a dirla tutta
non è che già allora avessimo proprio questa
urgenza di ascoltare “questi” Fleetwood Mac. Che
per la cronaca, proprio come dieci anni fa, non
contano nell’organico Christine McVie. Il dubbio
che si tratti di un operazione di monetizzazione
per la recente visibilità avuta dalla ristampa (monumentale) di Rumors è legittimo. Siamo quindi
di fronte a quattro brani affidati velocemente
ad iTunes per variare un po’ la scaletta dei live e
pagare il mutuo della casa al mare? Sì e no.
Sì, perché licenziare un EP di fatto scritto completamente da Lindsey Buckingham sotto la gloriosa sigla non è operazione pulitissima. E anche
musicalmente, infatti, siamo più vicini a un disco
del Buckingham solista, che a canzoni dei Fleetwood Mac. No, perché almeno per l’intarsio di
voci Lindsey/Nicks di Without You il disco conserva parte dell’antico fascino (anche se non è come
se ci fosse la McVie, sia chiaro). No, perché l’hook
pop dell’opening Sad Angel e di Miss Fantasy
sono lezioni di classe. Certo, come sarebbe la
ballatona It Takes Time senza i prodigi degli studi
di registrazione moderni? Riuscirebbe il 64enne
Buckingham a reggere con quel filino di voce?
D’altra parte la produzione in altre occasioni,
come le tastiere di Sad Angel, è in realtà un peso
per un brano basato sulla chitarra acustica che
avrebbe vissuto tranquillamente di vita propria
anche se accorciato di una ventina di secondi.
Sicuramente prescindibile per chi non ha seguito
la vicenda Fleetwood Mac, Extended Play farà comunque felici i fan che da (forse) troppo tempo
non ascoltavano qualche brano nuovo.
(6.3/10)
Marco Boscolo
r e c e nsi o ni
“rock”, termine che, specialmente in ambito di
critica musicale, che si parli di White Stripes o di
Little Tony, si è tramutato in un noioso e abusato
emblema di banalità.
I comaschi Faz Waltz, al loro terzo album in sei
anni di attività, centrano in pieno l’obiettivo,
partendo appunto dal rock per poi contaminarlo attingendo dai suoi derivati più stimolanti.
Immaginate un Marc Bolan incazzato che canta
gli Stooges accompagnato dai New York Dolls e
otterrete gli ingredienti che rendono i Faz Waltz
un gruppo da tenere d’occhio. Una miscela di garage e glam che, fatta eccezione per pochi nomi
(vedi i Barbacans), ben poco ha a che vedere
con ciò che propongono altre band connazionali
contemporanee. Dopo i feedback positivi di Life
On The Moon (Rocketmann Records, 2011) e una
rinnovata formazione che li ha portati da quartetto a power-trio (oltre che ad un cambio di batterista), con Back On Mondo questi electric warriors
italiani ritornano a pestare coi piedi per terra.
L’impatto deciso e graffiante delle prime due
tracce cattura subito l’attenzione degli appassionati di quel Raw Power proto-punk degli Stooges
dei primi anni ‘70, carico di un garage mai abbastanza sporco che ritroviamo più o meno in ogni
traccia e che ci fa venire in mente certi Hives o
ancor meglio i Kinks (Baby Left Me). Altrettanto
percettibile il desiderio di revival del primo glamrock anni ‘70 in una chiave moderna che rievoca i
JET in una versione meno mtviana/patinata e più
street (Get The Poison).
Tredici tracce ben strutturate con un tiro che
cattura ma che non sorprende, un’interessante
registrazione in presa diretta perfettamente in
linea con le pretese vintage di cui sopra: il tutto
abilmente confezionato ma con un margine di
crescita, in termini di originalità, ancora da sfruttare appieno.
(6/10)
Genere: Indie
La difficoltà di rimanere fedeli a se stessi. A
sentire le prime dichiarazioni del quintetto di
Sunderland (Gran Bretagna), è stato questo il
punto più difficile da tenere in cosiderazione in
questo anno in cui la band ha rimuginato sulle
qui presenti undici tracce: “abbiamo riso, pianto, ci
siamo sciolti e riuniti, abbiamo letto libri, ascoltato
musica, scritto canzoni, cestinato canzoni, siamo
andati al pub, a Wembley, siamo diventati un po’
matti, quindi ci siamo dati uno schiaffo, soppesato
ogni singola decisione, lavorato duro e alla fine abbiamo fatto un disco di cui siamo molto orgogliosi”.
Che sia retorica da orgoglio della provincia UK o
la realtà, probabilmente non lo sapremo mai fino
in fondo. Quello che resta è un disco che ritorna
sul luogo del delitto di due anni fa, spostando di
poco o niente la barra.
Non che si tratti di un lato B di Hunger o, comunque, di una fotocopia di quel disco. In questo
anno vissuto intensamente, i cinque membri
del gruppo sono diventati una band più coesa e
musicisti più sciolti. Merito forse di Bernard Butler
(“talvolta il sesto membro della band”) e della
voglia di crescere. Comunque ora Frankie Francis canta con più sicurezza e in alcuni momenti
ricorda il compagno di merende di Butler, ovvero
Brett Anderson. Una sicurezza in più si può ravvisare anche nella chitarra di Michael McKnight,
quest’ultimo, assieme a Frankie Francis, spina
dorsale del sound, un po’ come lo sono stati i loro
miti Morissey e Johnny Marr negli Smiths o gli
stessi Anderson e Butler negli Suede.
Il risultato, però, è ancora una volta un disco
che promette, ma chissà se in futuro manterrà.
Nessuna della canzoni è brutta e tutta l’operazione è messa a fuoco con maestria nel filone del
suono scozzese e del successivo britpop. Manca
però il guizzo, quell’elemento che faccia andare
oltre l’agrodolce nostalgia post adolescenziale e
ci inviti a riascoltare di nuovo. Tutto bellino, ma
temiamo non reggerà nemmeno a qualche mese
di ascolti.
(7/10)
Marco Boscolo
Giacomo Toni - Musica per
autoambulanze (Martelabel,
Giugno 2013)
Genere: cantautorato jazz
Dopo tre album autoprodotti e pubblicati assieme alla 900 Band, Giacomo Toni, pianista romagnolo classe 1983, arriva con Musica per autoambulanze al primo album nominalmente solista.
Un disco che racchiude dodici brani collocabili
tra la canzone d’autore più tradizionale e un riuscito gioco pop-jazz.
A dispetto dell’opening track Se ti vedo, dalle
atmosfere soffuse e immalinconite (che potrebbero far presagire l’ennesimo emulo di un certo
romanticismo nostalgico di cui sono piene le
discografie italiane), il cantautorato di Toni, come
dimostra la successiva L’autoambulanza, si muove
disinvolto tra le pieghe di un’irriverente cinismo,
sempre in bilico tra frenesia swing ed eleganza
jazz. E sarà forse anche perché lo scorso anno il
musicista di Forlì ha deciso di intraprendere una
serie di concerti in cui lo omaggiava assieme a
Lorenzo Kruger dei Nobraino, ma certo è che
la presenza di Paolo Conte - e del suo ghigno
baffuto - riecheggia spesso in tutto l’album:
un’influenza che ricorre, appunto, soprattutto
nella stessa sorniona ironia, come accade nel
piano-voce teatrale di Come una specie di mezzo
matto o nello sghembo blues/declamazione di
Un bevitore longevo.
Una giornata difficile, invece, costruita sul morbido contrappunto tra voce e trombone, riporta
dentro i binari di una scrittura più tradizionale,
anche se è sempre costante la voglia di cercare
soluzioni, se non del tutto originali, quantomeno
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Frankie & The Heartstrings - The
Days Run Away (Wichita, Giugno
2013)
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personali e inconsuete: Maledizione riformula il
paradigma della canzone d’amore attraverso un
languido jazz che esplode in un finale rumorista
fatto di piano, sax e trombone, mettendo in mostra un Toni capace di giocare coi rimandi, come
conferma anche la verve caposselliana di Le macchine vedovi. Un ultimo esempio, quest’ultimo,
che ribadisce la classe con cui Musica per autoambulanze da un lato riprende e reinterpreta le
immancabili influenze cantautorali - in cui, oltre
a Conte, figurano anche Jannacci e Buscaglione
- e dall’altro è capace di costruire testi mai banali
in cui acume e sberleffo, poeticità e disillusione,
si mischiano abilmente. (7/10)
Giulia Antelli
gi u gn o
Genere: dream, elettronica
Sulla falsariga dei Solar Bears dell’esordio e del
recentissimo Supermigration, quindi su un orizzonte più da band che non dimentica la tradizione elettronica e, anzi, ne approfondisce il versante analogico tastieristico, troviamo, sempre sulla
fida Planet Mu, il progetto Heterotic dei cogniugi
Paradinas, ovvero il boss della label Mike e la
compagna Lara già avvistati nei remix della No
Names di NastyNasty e della Shutter Light Girl di
Kuedo, entrambi del 2011.
Love & Devotion ne è il vero debutto, un’inebriante e impalpabile immersione in una forma
canzone ai sintetizzatori, femminea e studiata ai
limiti del manierismo. Il focus della coppia, del
resto, mira a un’autodichiarata urgenza 80s vista
nella sua più intima e nostalgica malinconia. A tal
proposito, Nick Talbot / Gravenhurst, chiamato a
scrivere e interpretare ben quattro delle otto canzoni in tracklist, si è concentrato proprio sui temi
della fragilità della memoria e dell’ineluttabilità
del presente, per dare al canzoniere un preciso
pallore tra calor bianco e avvolgenti puntelli dan-
104
Edoardo Bridda
Hookworms - Pearl Mystic
(Gringo, Aprile 2013)
Genere: hard psych
Sono in cinque e vengono dal profondo Nord
dell’Inghilterra, questi psych-addicted che si
nascondono dietro un anonimato mai come oggi
demodé e rubano il nome a un parassita intestinale. E come il parassita intestinale prendono da
dentro, facendoci soccombere nella loro psichedelia ora docile e soffusa, ora corposa e stordente, senza che si possa opporre nessun tipo di
resistenza.
L’asse è quello della cara e vecchia psichedelia
inglese rinvigorita sul finire degli ‘80 e l’inizio dei
‘90 da band come Loop o Spacemen 3. Dense
manovre di chitarre lattiginose, reiterazioni Sixties a creare vortici di suono (il massacro di Brian
r e c e nsi o ni
Heterotic - Love & Devotion
(Planet Mu Records, Maggio 2013)
cey, proprio come se il disco dovesse lentamente
accompagnare l’ascoltatore dal rave alla spiaggia,
dall’estasi (Bliss) all’anomia (Fanfare).
Non mancano i richiami ai New Order del caso,
agli albori del synth pop e al pop più umorale e vacanziero della decade edonista, eppure
l’album, che finisce per mostrarsi funereo in un
interessante finale, non è in grado di mostrarsi
addictive come i suoi protagonisti spererebbero.
L’anomico epilogo joydivisioniano fa da frettoloso contraltare a un percorso iniziato con i
tepori chill della buona opener Bliss e cavalcato
nella Blue Lines cantata da Talbot, entrambe con
richiami house tastieristici e avvolte nello stato di
grazia di un’epoca sospesa nel mito del clubbing
ibizenco. Impeccabile Paradinas nel gioco delle
coreografie, nei chiaroscuri (Wartime, Robo Corp),
oppure nelle pieghe dreamy (Devotion) come anche nei puri acquerelli (la splendida Knell in odor
di Vangelis), non sullo stesso piano, le liriche e la
forza dell’insieme. Un lavoro che aveva le carte in
regola per incantare e invece non lascia il segno.
(6.8/10)
Genere: songwriting pop
Un nuovo album con inediti dopo ventiquattro anni (l’ultimo era stato Tokyo Rose nel 1989) proprio quando compie settant’anni: un bel traguardo per
il genio pop Van Dyke Parks, che non ha di certo bisogno di molte presentazioni. Dalla collaborazione con i Beach Boys e con Brian Wilson (le liriche
per il tormentato Smile), nonché con numerosi altri artisti come The Byrds,
Phil Ochs, Harry Nilsson, Randy Newman, Frank Zappa, fino a quella più recente (2006) con Joanna
Newsom per il secondo album YS, il compositore, arrangiatore, liricista ed autore americano è ormai
ampiamente entrato di diritto nell’Olimpo dei Grandi.
La ristampa del debutto, targato 1968, Song Cycle, risale al 2012 ad opera della Bella Union di Simon
Raymonde e proprio sull’etichetta dell’ex-Cocteau Twins esce ora Songs Cycled, che già dal titolo
richiama il famoso quasi omonimo. Song Cycle era un ambizioso caleidoscopio di generi e impressioni
ad opera dell’allora giovanissimo autore; mescolava una struttura di base orchestrale con almeno un
secolo di musica popolare americana: bluegrass, gospel, ragtime, jazz, cantautorato pop e folk, Americana tradizionale, musical, psichedelia e molto altro ancora, in una struttura “concept” sequenziale.
Un’opera tutta americana che assecondava il bisogno di “classicità” del Nostro, mentre esprimeva
istanze di rinnovamento e di protesta.
Songs Cycled ne riprende la concezione musicale poliedrica, ma non la struttura tematica; consta di
un insieme disparato di pezzi uniti tematicamente dal punto di vista concettuale, più che musicale. Vi
si trovano orchestrazioni, musica latina e tropical, pop raffinato e d’ambiente, gospel e musica corale,
canzone teatrale brechtiana e quant’altro. Sono presenti inediti (Dreaming of Paris, Wall Street e Missin’
Missippi), nuove collaborazioni (Money Is King con Neville Marcano), cover inedite (Wedding In Madagascar, una folk song tradizionale, The Parting Hand, inno corale che risale al 1835) e registrazioni di vecchi
pezzi (come Hold Back Time, targata 1995 dall’album Orange Crate Art allora realizzato con Brian Wilson).
Così come il debut album, Songs Cycled riflette totalmente il suo essere “un cane sciolto a piede libero”,
come Van Dyke Parks si autodefinisce, che rivede con amarezza ma non con rassegnazione il vecchio
“sogno americano” come la guerra e il bombardamento statunitense in Iraq (Dreaming of Paris), l’11
settembre e la crisi finanziaria (Wall Street), l’uragano Katrina (Missin’ Missippi) e numerosi altri racconti
grandi e piccoli dell’America di provincia. Un’attitudine critica investe tutto il disco, mentre l’autore
rivendica il vecchio ma non superato ruolo da attribuire ancora oggi alla forma-canzone come musica
di protesta: “il più potente strumento politico a disposizione, ho imparato tanto da Woody Guthrie, Phil
Ochs, e sì, Bob Dylan”.
Nell’insieme, allora, Songs Cycled tiene bene, confermando, se mai ce ne fosse stato il bisogno, la statura siderale del Nostro. Certo, un’opera monumentale, fresca e innovativa come Song Cycle è molto
difficile da ripetere in quella forma e a distanza di ben quarantacinque anni. Ci si avvicina da par suo il
Parks odierno della maturità, mantenendone la forza espressiva e il vigore. Non è poco.
(7.4/10)
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Van Dyke Parks - Songs Cycled (Bella Union, Maggio
2013)
Teresa Greco
105
Jonestown non è così lontano), melodie più o
meno evidenti seppellite da feedback chitarristico come redivivi J&MC assurti a padrini spirituali,
dilatazioni cosmiche sotto lo sguardo compiaciuto di Sonic Boom e una latente freakeria che
farebbe la gioia di padre Julian Cope segnano
un album che, impreziosito da tre strumentali a
far da raccordo con lande ambient-rumorose, si
mostra diretto, senza fronzoli e in grado di dire
la sua senza perdersi in intellettualismi di sorta o
spocchiose rivendicazioni di originalità.
Musica “stupefacente”, si sarà capito, per generazioni di psych-addicted stanche degli ultimi,
sgonfi, Black Angels e pronti a farsi trascinare da
un suono corposo e trascendente. (7/10)
Houndmouth - From The Hills
Below The City (Rough Trade,
Giugno 2013)
Genere: Americana
L’unica sorpresa che ci riserva l’esordio di questo
quartetto dell’Indiana è il fatto che siano targati
Rough Trade. Non ci saremmo aspettati certo di
vedere il marchio della storica label londinese su
un disco del genere, country rock irrorato soul,
afrore southern e un pizzico appena di piglio
alternative, chitarra-basso-batteria e hammond
a tessere trame calde per le voci (tutti e quattro
si alternano al microfono). Il risultato è un’Americana che non lascia margini all’inaudito, ovviamente tenuta in piedi solo dalla notevole convinzione, dall’entusiasmo tipico di chi ci sta immerso
fino ai capelli.
Vale a dire: gli Houndmouth sono tutt’altro che
indispensabili però sono credibili, a tratti persino freschi. Sia quando caracollano tra vampe e
chiaroscuro nel solco profondo che collega Wilco
e The Band (Penitentiary, Long As You’re At Home)
che quando si concedono ricreazione agrodolce
(il singolo On The Road) o mestizie lunari quasi
106
Stefano Solventi
I gatti mézzi - Vestiti Leggeri
(Picicca Dischi, Aprile 2013)
Genere: cantautorale, jazz
Secchiate di provincialismo e sorrisi mal fidi,
facce d’altri tempi, musica d’altri tempi: per I
gatti mézzi è giunto il momento di un quinto
disco che già nel titolo è tutto un programma: Vestiti Leggeri. Ma occorre fare attenzione: i vestiti
leggeri sono solo ciò che copre il cuore caldo del
disco, quello romantico, viveur, bohemien, appeso
da un lato alla musica dei bar affollati e fumosi
della ville lumiere, dall’altro alla tradizione che ha
reso celebre la nostra nazione: Gaber, Conte, Buscaglione e non solo.
Stiamo parlando di una felice operazione vintage,
fatta di swing, jazz, qualche accenno blues, molti
archi, fiati e tratti di rimembranze cinematografiche, dei tempi in cui Nino Rota dirigeva orchestre meravigliose, di lustrini e Dolce Vita. I gatti
mézzi si esercitano su queste partiture, si muovono con sicurezza come dei veterani: affidano
all’autoironia la maggior parte del disco; conce-
r e c e nsi o ni
gi u gn o
Stefano Pifferi
Big Star (Halfway To Hardinsburg). Sono bravi a
stuzzicarti un attimo prima di sembrarti noiosi,
tipo quando bazzicano solennità sciroppose
Grant Lee Phillips e verve dolciastra New Pornographers (Come On Illinois), concedendosi
persino di spacciare disincanto loser ai limiti del
didascalico (Comin’ Round Again) e rinverdire i
canovacci più risaputi (in Casino c’è la Janis Joplin invaghita di Kris Kristofferson, in Hey Rose
qualcosa dei Grateful Dead altezza American
Beauty).
Infine, con Palmyra si congedano rallentando il
battito fin quasi alla letargia spersa di Jason Molina, in una caligine di crepuscolo e vaga jazzitudine, lasciandoti col retrogusto amarognolo delle
cose venute dal cuore. Così è, o così non è. Come
vi pare.
(6.4/10)
Nino Ciglio
r e c e nsi o ni
Il magnetofono - Il magnetofono
(Il Magnetofono Records, Maggio
2013)
Genere: cantautorato-teatro
Atmosfere fumose da film noir, sfumature jazzy,
digressioni ludico-oniriche: stanno grosso modo
in questo triangolo ideale, tra il Waits della prima
ora, quello post-Swordfishtrombones e il Nino
Rota di 8½, le coordinate musicali entro cui si
muove questo omonimo debut album dei vicentini Il Magnetofono.
Evidente il debito col cantautore di Pomona nelle
pieghe brechtiane di La merenda del mago, mentre più goliardica e vicina al Capossela di Canzoni a manovella è Il the nel Caspio; non mancano
momenti puramente felliniani (La dichiarazione
del Mago, con la voce di Freak Antoni a declamare beffarda) e altri invece più vicini a un Paolo
Conte d’annata (Cinque minuti). Nessuna traccia,
però, della leggerezza canticchiabile da “gelato al
limon”: si resta saldamente ancorati a una realtà
decadente, dal sociale alla stanza da letto, con
parole dure che sfiorano un fatalismo romantico
prossimo, almeno per atmosfere, a Luigi Tenco.
Discorso a parte merita la notevole ed evocativa
Finezze, dove Bedin dimostra una volta di più di
avere una voce tanto versatile quanto emozionale - per quanto volutamente teatrale - capace di
muoversi con disinvoltura tra registri e paesaggi
sonori molto diversi tra loro.
Tra spoken word carmelobeniani (Non ho finito,
con Pier Paolo Capovilla alla voce) e una produzione che si destreggia tra fiati, archi, Theremin e
inserti a mò di Teatro Canzone (il tutto registrato
in presa diretta, con uno splendido effetto retrò
e la complicità di Vincenzo Vasi), il disco trova la
sua conclusione ideale nella cover di Mondo di
uomini (indimenticabile rifacimento tenchiano di
It’s A Man’s, Man’s, Man’s World di James Brown).
Siamo alle ultime note di un album formalmente
impeccabile, tra arrangiamenti di livello e testi
debitori verso un cantautorato d’altri tempi. Re-
gi u gn o
piscono piccoli ritratti eterogenei, storie di amori,
di donne, di successi e fallimenti. Vestiti Leggeri è
una piccola enciclopedia decadente, quasi dandy,
fatta da un duo che non ci stupiremmo di trovare
in qualche angolo di città nei giorni di isola pedonale, ad intrattenere piccole folle di turisti.
E lo farebbero con grande facilità. Parlando di ciò
che conoscono meglio, nella lingua che conoscono meglio: il pisano. Un’azione che, messa
in bocca a qualsiasi altro gruppo della contea,
sarebbe risultata spiacevole ed inopportuna. E
invece qui regge. Regge nell’opening track sognante e orchestrale Piscio ar muro (“meno aiuole
più figliole”), si equilibra in una Marina (musica
da ultimo metrò) che gioca con il nome di una lei
che è poi il nome di una località balneare; funziona magistralmente in Soltanto i tuoi baffi (“mamma è rimasta con un tù calzino [..] potevi lasciarle
chamicia e cravatta”) che rimbalza su leggere
partiture d’archi a cui rispondono, quasi timide,
le note di contrabasso.
E ancora: una Ti c’ho beccato che è un tripudio
di blues e sorrisi a metà, una Delirio (tittitti) che
quasi ricorda Vinicio Capossela senza fare l’errore di prendersi troppo sul serio, una Lacrima
meccanica che è la storia di una lacrima spezzata
raccontata in pieno stile Lucio Dalla, con contorno di urlate opportune. Le stesse che hanno reso
famoso Dario Brunori qui presente in Fame nel
ruolo di controcanto di questo blues steppato e
ipnotico.
Diciamolo pure: I gatti mézzi hanno saputo giocarsi tutte le carte, azzeccando il genere (trasversale sia nella sua anima revivalista, sia in quella
originale), i collaboratori, l’immaginario e la label (una rivoluzionata Picicca). Non è comunque
cosa da poco.
(6.8/10)
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Genere: queer rap
Nata apparentemente come deriva maschile nella tumblr-wave delle
“bitches” post-Kreayshwan o come svolta intellettuale dell’homo hop, la
comunità gay rap di Brooklyn sembra ogni giorno di più incanalarsi verso una “scena” vera e propria. Qui una serie di rappers/producers con una
vistosa predisposizione per il beatmaking (e il vestiario) fantasioso - spesso
delegato a terzi -, sta iniziando a sfornare un buona dose di mixtape catchy,
contemporanei e di livello, con tratti distintivi molto peculiari. Al di là di una riconoscibilità pressoché
immediata, le personalità che si stanno andando a definire in questa micro scena locale di rapper
riescono ad essere assai variegate. Dalla ruvida sensualità primordiale di Mykki Blanco (vagamente
in territorio The Bug) ai risvolti trap/cloud libidinosi di Le1f, la linea è quella di un “queer rap” messo
in piedi da ragazzi tutti di colore, omo, from New York City e, come A$AP Rocky insegna, con le giuste
conoscenze nel mondo dei producer. Dulcis in fundo, l’ultimo ritrovato in questo campo è il nuovo
mixtape di Zebra Katz: DRKNLG.
Il sound e l’immagine di Ojay Morgan (classe ‘87) è la quintessenza del minimalismo “ebony”, indissolubilmente legato al mondo della moda, elegante e statuario come una posa di Grace Jones (“Grace
Jones... Josephine Effect... I’m out of control”). Non a caso il giovane rapper è salito alle luci della ribalta
ad inizio 2012 con Ima Read, tema selezionato per rappresentare Rick Owens alla fashion week parigina. La scelta da parte di un brand tanto avanguardista risulta ancora più eclatante se si pensa che
la canzone è stata prodotta intorno al 2005/2006 - in seguito completata con Njena Reddd Foxxx,
dopo il solidificarsi dell’amicizia tra i due - con Garage Band, quando il ragazzo era ancora teenager.
Fino ad allora Ojay componeva liberamente nella sua stanza, a detta sua senza troppe mire verso una
carriera da musicista, ma con un ruolo da manager nel campo della ristorazione. Sta di fatto che ora è
finito sotto Mad Decent.
Fratello maggiore di Champagne - prima raccolta rilasciata indipendentemente nel 2011 -, DRKNLG è
un mixtape suadente e vellutato, metropolitano e raffinatamente volgare, qualcosa di vicino allo “slime urbano” del Dark York di Le1f, che riesce ad andare oltre per consapevolezza e risultato. Influenzato da artisti ballroom e ghetto house, il lavoro è carico di classe e non perde charme, nonostante skit
assurdi, linguaggio explicit da censura (“I want to disgust you”), riflessioni sulle “zebra vaginas” e una
buona dose di autoironia, dove persino una cassa dritta risulta sensuale e delicata. Nel mixtape, concepito come traccia unica suddivisa in più producer, non manca una rivisitazione di Ima Read, ribattezzata Ima Lead: unica base prodotta da Ojay dove - forse per mantenere il dualismo tra beatmaking
e performance - il flow viene affidato ad un Busta Rhymes in ottima forma.
Senza entrare nel merito di pesi e misure, a conti fatti questa nuova corrente di Brooklyn si candidata
a pieno titolo per rappresentare l’avanguardia hip hop dell’anno in corso, tanto quanto furono El-P e
Killer Mike per il 2012.
(7.5/10)
Davide Nespoli
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r e c e nsi o ni
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Zebra Katz - DRKLNG (Mad Decent, Aprile 2013)
sta da chiedersi, però, se l’anima di questo lavoro
non rischi di perdersi proprio tra le sue mille
muse, indistinguibile dai fantasmi che, una volta
evocati, reclamano a gran voce un ruolo di primo
piano.
(6.8/10)
Enrica Selvini
Genere: Prog, impro
Da anni caso anomalo del panorama musicale
europeo, i Jaga Jazzist - collettivo norvegese
di jazz “aperto” e sperimentale capeggiato dai
fratelli Lars e Martin Horntveth, via via coadiuvati
da musicisti differenti - tornano dopo un breve
periodo di silenzio (l’ultimo album in studio,
One-Armed Bandit, risale al 2010) con un prezioso
live in compagnia dell’ensemble anglosassone di
musica classica contemporanea Britten Sinfonia.
I live in questione sono di fatto due, uno in UK e
l’altro - l’ultimo, quello da cui sono tratte le registrazioni dell’album, pubblicato da Ninja Tune - in
Norvegia, più precisamente Oslo. Il repertorio,
tendenzialmente recente e già edito, si arricchisce del lavoro dei suddetti musicisti britannici,
un contributo che pur non stravolgendo l’idea di
base del progetto, ne implementa le potenzialità
portando sul palco ben trentacinque elementi.
Dediti come al solito a un’interpretazione del jazz
assai ampia e che al suo interno include il tribalismo di Fela Kuti come il progressive primigenio
e trasversale di Fripp e dei King Crimson e le
sonorità avant dei Tortoise di TNT, i Jaga Jazzist
orchestrano grandi e magniloquenti affreschi
acustici. Gli assoli di tromba in Kitty Wu sono
particolarmente avvolgenti e le svariate cavalcate
elettriche a cui spesso si concedono i norvegesi,
acquisiscono un sapore tra l’epico e il psichedelico. Il prog distorto di One-Armed Bandit, Prungen
e Bananfluer Overalt come la caoticità psicotropa
Michele Ferretti
Jello Biafra & The Guantanamo
School Of Medicine - White
People And The Damage Done
(Alternative Tentacles, Aprile
2013)
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Jaga Jazzist - Live With Britten
Sinfonia (Ninja Tune, Maggio
2013)
e ironica di Music! Dance! Drama! vantano uno
spessore di difficile riproduzione in studio e con
una formazione più ristretta. Seguono momenti
di maggiore riflessione, drammatici e intensi in
For All You Happy People - unico vero abbassamento dinamico dell’intera release - procedendo
quasi sistematicamente fino alla magnifica chiusura, con una versione di Oslo Skyline capolavoro
da What We Must (loro esordio su Ninja Tune) che
tocca le corde dell’immaginazione più libera e
gratificante.
Live With Britten Sinfonia è un disco da realtà
musicale ormai del tutto consacrata, che, pur
non saziando del tutto chi avrebbe desiderato
un nuovo episodio in studio, consolida la band
come una delle realtà più brave nel trattare un
certo sincretismo avanguardistico che voglia parlare laicamente al proprio, ampio, pubblico.
(7.4/10)
Genere: punk
Cominciamo a diventare banali parlando di seconda (o terza) giovinezza in merito alla (ennesima) nuova fase di mr. Biafra. Il signore in questione è quello che è sempre stato: un instancabile,
riottoso, ipercritico, cinico, ecc. ecc. ecc. agitatore
punk! E in quanto tale fa il suo “lavoro” come lo
fa da quando capitanava una band dal nome
decisamente politically uncorrect, una label che
a furia di sfidare il perbenismo ipocrita e combattere la legge dimostrò che l’assioma clashiano era
verissimo rimettendoci pure le mutande sporche,
e un intero sistema di riferimento che lo portava
a diventare quasi sindaco di San Francisco o a
fare controinformazione sullo strapotere militareconomico degli States con un anticipo di qual-
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gi u gn o
Stefano Pifferi
John Parish - Screenplay (Thrill
Jockey, Aprile 2013)
Genere: folk
Screenplay non è il nuovo disco di John Parish
e nemmeno il frutto di una delle tante collaborazioni che l’uomo di Bristol ha messo in piedi,
come la oramai solida partnership con PJ Harvey. Dato però che il Nostro è un lavoratore instancabile, mentre continua a produrre dischi di
altri (Arno e M Ward, nel 2012) e comporre per il
teatro e la danza, nelle giornate passate nello studio casalingo trova anche il tempo di selezionare
110
gli estratti migliori da una carriera di compositore
per il cinema cominciata nel 1998. Tra i film su cui
ha lavorato, da ricordare almeno Sister di Ursula
Meier (Orso d’Argento a Berlino lo scorso anno e
selezionato come miglior film straniero agli Oscar
americani) e quelli di Patrice Toye (Little Black
Spider, il debutto Rosie).
Come ci si sarebbe potuti aspettare da una
raccolta di questo genere, la varietà la fa da
padrona, passando dall’ambient astratto di River
allo youngster rock di The Minotaur pt. 2, senza
dimenticare brani con estratti di recitato che si
posano su poche note e leggere suggestioni atmosferiche. La bravura dell’artigianato di Parish,
in questo caso, non sta nella composizione, ma
nell’aver selezionato e organizzato la scaletta in
modo impeccabile, al punto che senza il supporto visivo, all’ascolto sembra comunque di essere
di fronte alle immagini di un film (immaginato,
probabilmente). Il tocco in più è dunque la coesione, nonostante la disomogeneità delle composizioni. Non è da tutti.
(7/10)
Marco Boscolo
Jon Hopkins - Immunity (Domino,
Giugno 2013)
Genere: ambient techno
Nel 2009, all’altezza del terzo album Insides, avevamo puntato il dito sulla fredda perfezione formale di un producer cresciuto a pane e Brian Eno
e, grazie a lui, giunto a una rapida fama sia tra gli
addetti ai lavori (innumerevoli remix per gente
come David Lynch, Four Tet, Wild Beasts, Nosaj
Thing e Purity Ring), sia nel giro dei bookmaker
dei festival (citiamo doversamente il supergruppo live Pure Scenius attivato sempre da Eno con
Karl Hyde, Leo Abrahams e The Necks esibitosi
al Luminous Festival e al Brighton Festival tra il
2009 e il 2010).
Seguiva una soundtrack, Monsters del 2010, nominata per un Ivor Novello Award come miglio-
r e c e nsi o ni
che anno sull’opinione pubblica (il Chomsky del
punk?).
White People And The Damage Done non fa eccezione, a partire dal collage che fa da artwork o
a quello che fa da booklet-poster interno e che
è un vero e proprio saggio sulle analisi di Biafra
su una contemporaneità trattata con la arguzia
e la caustica vena che gli si riconosce ormai da
decenni. E che ne fa uno dei più lucidi, o forse
“il” più lucido esponente della vecchia guardia.
Uno per cui il tempo non passa affatto, a furia di
acidissima sintesi e sarcastica vena “anthemica”.
Si fosse poi circondato da quattro scacciacani,
probabilmente lo avremmo apprezzato lo stesso,
ma la School Of Medicine è un concentrato di
apparenti reduci dalla stagione d’oro del punk in
ogni sua forma. Musicisti in là con l’età, ma in realtà ancora accesi da un sacro fuoco che li fa invidiare per perizia, spericolatezza e furia esecutiva.
Ipercitazionisti e veloci, gretti e grezzi come una
macchina da guerra perfettamente oliata e in
grado di spaziare tra tempi e generi con clamorosa naturalezza; pacchiani a volte, sopra le righe
spesso se non sempre, ma lo show necessita del
clima adatto affinché la pantomimica presenza
scenica del leader possa dare il meglio di sé. Jello
Biafra ha finalmente i suoi Kennedy risorti.
(7/10)
Genere: Elettronica
Tesi antitesi sintesi. With Love completa la trilogia del producer nel migliore dei modi e con una dedica particolare che non può che tradursi in un
necessario distacco tra sé e le proprie ossessioni elettroniche ovvero l’ardkore che dai breaks di inizio 90s porta alla d’n’b da una parte, e tutto quel
sincopato grime che scivola nei suonini 8 bit del Wonky, dall’altra. In mezzo,
e tutta attorno, la visione: un dancefloor di rimbalzo, della mente, un habitat siderale abitato da fantasmi rave che si mescolano a malinconie personali, la maschera che, come
quella di Aphex, è bucata e ti fa vedere la carne che c’è sotto.
Trentatre tracce che sublimano i due statement precedenti in un doppio che alterna ritmi e atmosfere, riprendendo, domandola, la mossa situazionista che fu Where Were You In ‘92 che lo proiettò
come il lost raver della sua generazione e ricalibrando l’incursione nelle sue sinapsi post mortem che
fu Dedication, dedica al defunto padre e assieme al lato dark della dance culture dei 90s.
Come ogni sintesi che si rispetti non sono le novità l’aspetto predominante di un album che porta a
compimento una cifra stilistica già consolidata nel precedente episodio. Eppure l’aggiunta del lato
più astratto della trap si rivela da subito la più strategica e funzionale delle scelte. Delle tracce di HPNTK o Massapeals caratterizzate non dall’ansia antemica ma da pulizia del suono, atmosfere gotiche,
ultra bassi e sketch cartoon non lontani da Terror Danjah, Zomby riprende la vena haunted o dungeon sganciando un tris d’assi come Vast Emptiness, White Smoke e Sphinx, pezzi che a livello di hi hat
rullanti e lugubri linee di synth risultano tra le più fascinose mai sentite in quest’ambito.
Un altro di punto di permeabilità con la contemporaneità che non va taciuto sono senz’altro i pitch
sugli snare che vengono fatti brillare oppure tenuti a contrasto di una produzione meticolosamente
impolverata, curata e rifinita fino nella calibrazione dei bassi del sub oltre che sepolta da synth che
farebbero contento persino il Martin Hannett altezza Closer (Horrid).
E’ un lavoro sospeso tra ritmi da continuum raynoldsiano e atmosfere, dicevamo, ma l’insieme cerca,
trovandola, la propria antemica, l’hook melodico in negativo (If I Will) o il piacere di una traccia jungle. A interludi come Isis scendono in campo gli UK breaks di It’s Time che paiono rispondere all’Andy
Stott in fregola ritmica. In pratica, volano sorrisi e venerazione: Zomby sa esattamente come piazzare
il rave momentum senza che i suoi caratteristici episodi interlocutori passino sotto skip e nell’intera
tracklist, del resto, c’è poco o nulla da buttare, anche la vena minore prende il peso di un pensiero
debole con tutte le giustificazioni artistico filosofiche del caso (Memories). Uno dei migliori lavori
elettronici dell’anno.
(7.5/10)
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Zomby - With Love (Domino, Giugno 2013)
Edoardo Bridda
re colonna sonora originale e una stravagante
quanto riuscita collaborazione folktronica con
King Creosote, Diamond Mine del 2011, poi una
pausa per dar spazio e corpo a una nuova prova
in solo che, fin dalle note stampa, si presenta
oggi come una bestia se non rivoluzionata nei
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gi u gn o
Edoardo Bridda
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Lilacs & Champagne - Danish &
Blue (Mexican Summer, Aprile
2013)
Genere: Plunderphonics
Lasciate da parte le plumbee progressioni strumentali e la tribù dei Neurot, i Grails Emil Amos
ed Alex Hall continuano a giocare ai beatmakers
nel side project Lilacs & Champagne, sorta di
valvola di sfogo dove convogliare le svariate passioni musicali inespresse.
Il secondo lavoro - il cui titolo è in onore alla
prima legalizzazione del porno in Danimarca
nel 1969 e tributo agli outsiders del passato - è
Danish & Blue, full-lenght che prende le mosse
da influenze dichiarate quali Entroducing di DJ
Shadow e i Beat Konducta di Madlib. I due Grails
vanno sostanzialmente a cimentarsi anche qui
nel citazionismo eclettico da library music pescando sample dalle produzioni di serie B - persino dalle sopracitate porno commedie danesi
-, sommando tutte le suggestioni e cavandone
fuori un’abstract dalla forte fascinazione psichedelica, più hip hop e meno cinematografico del
precendente.
Vittime della retromania e del male d’archivio ma
senza dimenticare di mettere in bella mostra le
loro doti chitarristiche in pezzi come Le Grand ed
Hamburgers & Tangerines, Amos e Hall confezionano beat lo-fi dal richiamo hauntologico, nella
ricerca di un filo conduttore tra quei noughties
fantasma che vanno da J Dilla all’elettronica
Ghost Box. Ad essere saccheggiati sono, ancora
una volta, gli anni 80, con i polizieschi di Police
Story - theme alla Jan Hammer rivisitata a ritmo hip hop - e gli assoli aperti o arpeggioni da
soundtrack alla Brian May in A Kind of Magic,
conservando comunque un buona dose di ironia.
Con tali presupposti è però facile perdersi per
strada, soprattutto se si cede alle più recenti tentazioni metafisiche raccolte dagli ultimi esperimenti Matmos e dalla chitarra di Mark McGuire.
Danish & Blue è sicuramente un LP dalle forti
r e c e nsi o ni
fini, senz’altro rinvigorita nelle fondamenta.
Hopkins rimane sempre quel serio architetto
d’ambienti figlio tanto di Sir Brian Peter George
che del Trent Reznor in licenza cinematografica
(l’influenza di The Social Network è palpabile), ma
riproporre da una parte l’idm minimal di James
Holden e dall’altra certe progressioni del Caribou
altezza Swim rispolverando, nel contempo, certi
trick glitchy di stampo berlinese, giova a una formula che regala inedite soddisfazioni sin dall’iniziale uno-due di We Disappear e Open Eyed Signal
(un singolo e anche videoclip che pare uscito da
The Idiots Are Winning).
L’obiettivo di Immunity è il ritratto di una gioventù post-rave raccontata attraverso un’epica
night out, un obiettivo abbordabile ascoltando
l’ipnotica potenza dei migliori episodi della tracklist (molto valida una Breathe This Air tra hi hat
garage, progressività analog-tech, filtri e tagli sul
mix ben fatti e lead theme classico al piano, come
anche una Collider che rimanda alla migliore
Bpitch Control), una meta ancora lontana per chi,
come Hopkins, calibra eccessivamente i tempi
tecnici dell’emozione non accompagnando l’osservazione alla partecipazione.
Nella seconda (più pacata) parte del lavoro e,
in particolare, nel finalone omonimo con King
Creosote in versione islandese al canto, il concorso di struggimenti per piano, field recording e
synth “dronati” in zona The Album Leaf è il solito,
abile, esercizio di stile, questa volta più accorato
e generoso che mai fin dagli eccellenti ceselli
drone alle analogiche. Un contraltare appropriato
anche se meno appagante degli episodi più corposi, la vera polpa di un album che non può considerarsi necessario ma, di fatto, riuscito, ovvero
un successo annunciato di un bravo compositore
che può ancora giocarsi molto in senso autoriale
(anche se il riserbo, in questi casi, è d’obbligo).
Full streaming via NPR.
(7/10)
ambizioni, considerato che non è parte di un progetto principale, ma dove la ricerca non manca
gli intenti compositivi sono ancora ben lontani
dal esser chiari ed omogenei. Nonostante un’attitudine un po’ trita e un’amalgama tutto sommato
complicata da gestire, la coppia di chitarristi è
comunque in grado di trovare buoni equilibri,
seppur precari e forzati in molti punti, nonché di
sfornare un interessante groove “nero” intriso di
soul “bianco” come Better Beware.
(6.5/10)
Davide Nespoli
Genere: dream pop
Abbandonati i vessilli neo grunge, le batterie e le
chitarre suonate a “plettrata” aperta, abbandonate le influenze del songrwriting maschile e newyorkese di Matthew Parker, in Dot To Dot le Lilies
On Mars rivendicano il girl power tutto elettronico, sognato, spesso sussurrato, fra l’alt techno
e lo shoegaze. Pescate nell’underground sardo/
londinese da chi ha fatto della ricerca il proprio
marchio di fabbrica (il maestro Franco Battiato),
alle Lilies è sempre piaciuto giocare con i suoni.
Troppo spesso, però, l’hanno fatto con un piglio
scherzoso, poco convinto e soprattutto poco in
linea con i tempi.
Non a caso, ora, quei suoni sono diventati giocattoli, sampler, drum machines, tastiere e loop
station, rendendo il tessuto musicale il luogo perfetto della liquidità, della sensazione scivolosa, di
un viaggio interstellare. Non a caso il duo, che nel
nome porta il pianeta rosso, assume le sembianze stranianti di eccentrici alieni che si esercitano
in complicate operazioni di funambolismo fra
il minimale indie-tronico di alcune derive Morr
(Lali Puna, Notwist), il clima sofisticato e super
sexy di certi Slowdive e tanta fascinazione retromaniaca 80s (Cocteau Twins, Dead Can Dance
su tutti).
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Lilies On Mars - Dot To Dot (Long
Song Records, Maggio 2013)
Dot To Dot, terzo episodio della saga delle
Lilies, è un disco potenzialmente da hype, fatto
di piccoli rituali leggeri, immersioni ipnotiche in
un ambient creativo e svincolato dalle fasi lunari
(SIDE ADCE, Sugar Is Gone) che quasi riecheggiano la storia di Grimes. Ma è soprattutto un disco
di pregiatissima marcatura pop: See You Sun,
Dream Of Bees, Entre-Temps sono brani nordici,
freddissimi, che viaggiano in direzione scandinava passando prima dal pianeta Beach House,
quasi a creare un ponte che congiunga anche la
Sardegna e la sua steppa ardente.
Prima delle sperimentali e quasi bjorkiane Martians e For The First 3 Years (l’unica, quest’ultima,
cantata in italiano, anche se è difficile accorgersene!), Dot To Dot rende giustamente omaggio a un
maestro Battiato che, sempre con l’incredibile
disponibilità e curiosità di un bambino e con
il suo anglo-catanese da occhi lucidi, fa la sua
comparsa nel singolo Oceanic Landscape. Non il
brano più bello del disco, ma sicuramente quello
che nel titolo racchiude la sensazione visiva che
dà questo magnifico disco: un paesaggio oceanico, di un oceano extra-terrestre.
(7/10)
Nino Ciglio
Lovespoon - Carious Soul (Hey
Man Records, Maggio 2013)
Genere: pop-rock
Dopo un EP (Naked For You) e un debut eponimo,
i Lovespoon, da Ravenna, arrivano con Carious
Soul, album che conferma e prosegue le fila di un
pop-rock sporcato da accenti quasi punk/garage.
I dodici brani del disco, infatti, seguono la rotta di
un percorso che attinge tanto al rock britannico
degli ultimi vent’anni - con il binomio Blur/Oasis
in testa -, quanto alle suggestioni del Dylan più
elettrico. Per intenderci: non mancano né l’orecchiabilità (brit) pop delle melodie, né il furore
delle chitarre, ma declinate in una formula semplice e immediata, che suggerisce come i quattro,
113
gi u gn o
Giulia Antelli
Lucrecia Dalt - Commotus (Human
Ear Music, Luglio 2012)
Genere: contemporanea
In chiusura di intervista, nel 2011, Lucrecia Dalt
rivelò di essere un’estimatrice del lavoro di Julia
Holter e Luke Sutherland. Li ritroviamo ora in
Commotus, i due (lei presta l’Harmonium in Silencio, lui suona il basso in Batholith), a chiudere un
ideale cerchio che non solo riconferma tutte le
buone cose che dicemmo allora sulla musicista
colombiana, ma parla anche di crescita qualitativa costante.
Se l’EP in condivisione con F.S. Blumm Cuatro
Covers che diede il La al nostro approfondimento
114
parlava già di minimalismo destrutturato, il qui
presente LP va oltre, facendo convergere immagini e musica in una strettoia fatta di indeterminatezza voluta. Le immagini sono quelle che ha
in testa la Dalt, a sentir lei stati mentali che in
qualche maniera la bloccano e che possono essere superati solo attraverso lo sviluppo dei brani.
Questi ultimi, spaccati in bilico tra intimismo e
inquietudine ombrosa, perfettamente calati nel
“commotus” (agitato, disturbato) del titolo.
Il risultato è forse il disco più suonato e meno
“elettronico” di Lucrecia Dalt - e probabilmente, anche quello più sfuggente -, la cui base di
partenza è costituita dalla consueta ragnatela
di bassi minimali, chitarre spettrali, percussioni
anoressiche e voci sospirate non lontane da un
twinpeaksiano Badalamenti. Il tutto nell’ottica
di un suono che arriva ad accarezzare certi Joy
Division slabbrati (Conversa), quando non appare come un vaporoso e metallico schioccare di
dita (Esplendor), trip hop mascherato da frontiera
desolata (Turmoil), affastellarsi di liquide presenze
e voci registrate al contrario (Saltación). Si sfiora il
John Carpenter delle colonne sonore in Escopolamina, nebbie cosmiche da incubo in Multitud,
un inconsapevole Conrad Schnitzler in Jet, certa
psichedelia di raccatto in Waste Of Shame e persino un barlume di Sudamerica nella parte ritmica
di Batholith.
La Dalt lavora sul looping in maniera meno meccanica rispetto al passato, mascherandolo con
eloquenti silenzi e cambi di atmosfera e giocando
con uno stile conciso, sempre più riconoscibile
e foriero di un’immediatezza solo apparente. Un
bel disco, comunque, valorizzato da un artwork
evocativo e perfettamente rappresentativo del
contenuto.
(7.2/10)
Fabrizio Zampighi
r e c e nsi o ni
prima di aver alzato il volume degli amplificatori,
siano stati influenzati da coloro che la formacanzone l’hanno praticamente inventata, e cioè i
Beatles.
È così che i trenta secondi dell’iniziale Pale Moon
aprono la strada ad un album ultra diretto nei
riferimenti e nelle influenze, suonato con perizia
e senz’altro piacevole all’ascolto: Mary Comes, un
probabile singolo di lancio, è un solido pezzo in
cui si uniscono la ruvidità dei riff e la ruffianeria
della melodia, e che, in sostanza, esemplifica l’andatura della maggior parte dei brani. Infatti, se si
escludono la fisarmonica in afflato post-country
di Like An Eleanor e la marcetta di Anyway, come,
del resto, l’intro acustico di Bianca, Carious Soul
si muove senza intoppi dentro i meandri di un
rock sì energico ma declinato in tutto e per tutto
all’ascoltabilità pop (a volte fin troppo).
Un disco che, seppur piacevole, scorre tranquillo
senza lasciare una traccia davvero significativa
del suo passaggio. E nonostante il gruppo non
manchi di abilità e di qualche buona intuizione,
per il momento manca ancora quel pizzico di
personalità in più che serve a distinguersi nel
mare immenso delle nuove proposte. (6.2/10)
Genere: art-pop
Su Majical Cloudz siamo arrivati - con colpevole
ritardo - soltanto lo scorso anno e soltanto grazie
a Nightmusic, traccia #11 del Visions di Grimes
per la quale il nostro ha scritto la linea di synth.
Abbiamo poi scoperto, vagliando tutta la serie
di interviste rilasciate da Claire Boucher in corso
di 2012, che Devon Welsh - titolare del progetto
e figlio del Kenneth Welsh di Twin Peaks - è in
realtà proprio chi l’ha introdotta al far musica con
GarageBand.
Eppure, nonostante il ruolo propulsivo appena
delineato, la proposta di Majical Cloudz è non
solo ben lungi dall’essere analoga a quella di Grimes, ma persino anomala all’interno della nuova
scena a base Montréal. O meglio: Welsh è rimasto
legato al situazionismo cittadino fino al precedente LP del 2011, II, che lo vedeva mugugnare
sotto svariati livelli di droni sintetici (un po’ come
il Born Gold di Little Sleepwalker, ma anche come
un Doldrums mid-tempo). Viceversa, nell’incarnazione inaugurata dal Turns Turns Turns EP (2012)
e proseguita in questo Impersonator, non vi è più
alcun interesse nel buttare il layer aggiunto - leggi: di tutto - nel mix e tantomeno nel far magari
un mischione di generi (pratica comune tra gli
act del sopracitato centro canadese). L’obbiettivo
è, anzi, quello opposto: focalizzarsi totalmente
sulla singola idea, comunicare il più possibile
utilizzando il meno possibile.
Ecco quindi che le componenti soniche dei brani
si riducono a pozze ambientali praticamente
immobili, fatte di quattro-note-quattro di piano,
synth od organo, lievissimi arpeggi di corde, vocal samples sparsi e percussioni come eccezione.
Le controlla il programmatore di sintetizzatori e
compagno d’avventura Matthew Otto, in una
ricerca (riuscita) volta alla valorizzazione delle
ripetizioni e dello spazio come veicoli per l’inglobamento dell’ascoltatore.
Contrapposto a tutto questo amorfo, glaciale
minimalismo sullo sfondo, dunque, il fulcro caldo
del disco non può che diventare la voce baritonale di Welsh, qui a situarsi tra quelle di Tom Smith
degli Editors e Chris Martin dei Coldplay, là dalle
parti di un Dave Gahan striato Autre Ne Veut o
ancora di un Nick Cave improvvisamente vulnerabile, comunque sempre splendida.
Tanto basta, anche perché i testi - personalissimi,
confessionali, tra amore, morte e fragilità d’artista - sono costruiti attorno a frasi ad effetto (“The
cheesiest songs all end with a smile / This won’t end
with a smile, my love”, da Bugs Don’t Buzz; “Hey
man, sooner or later you’ll be dead”, da Notebook)
che non fanno altro che amplificare - per razionalizzazione - la potenza della delivery. Tanto basta
a candidare Impersonator a disco più emozionale
ed emozionante dell’anno, controparte di ciò che
è stato il Put Your Back N2 It di Perfume Genius
per il 2012. E se lanciarsi in un track-by-track
per un lavoro dallo scorrere tanto omogeneo
non avrebbe alcun senso, possiamo comunque
indicare un paio di apici per intensità: Childhood’s
End e la già citata Bugs Don’t Buzz.
(7.3/10)
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Majical Cloudz - Impersonator
(Matador, Maggio 2013)
Massimo Rancati
Mauro Ermanno Giovanardi/
Sinfonico Honolulu - Maledetto
colui che è solo (SAM, Maggio
2013)
Genere: canzone d’autore
La crisi discografica impone ristrettezze, ma può
precludere il consueto iter disco-tour-disco. Così
per Mauro Ermanno Giovanardi, che all’ultima
uscita in solitario con passaggio sanremese (Ho
sognato troppo l’altra notte?, 2011) fa seguire
non un nuovo disco di inediti e nemmeno un’antologia, ma un lavoro ibrido e di deviazione. L’incontro con le sonorità sognanti della Sinfonico
Honolulu, unica orchestra di ukulele del nostro
Paese, è stato infatti il pretesto per Maledetto
115
gi u gn o
(6.7/10)
Luca Barachetti
Metzengerstein - Albero
Specchio (Sonic Meditations,
Maggio 2013)
Genere: ritualismo psych
Con un nome che richiama Edgar Allan Poe e un
sound così scuro ed ermetico, i Metzengerstein
saranno inseriti giocoforza nel trend italo-occultista. Poco male, dal momento che beneficeranno
del battage pubblicitario della scena. Eppure i
Metzengerstein non sono direttamente assimilabili a nessuno e sono, da un punto di vista comunicativo, quanto di più scontroso e impenetrabile
ci possa essere. Le coordinate di riferimento sono
116
in linea con l’estetica della Sonic Meditations,
label di Justin Wright / Expo ‘70, quindi alimentate alla linfa inesauribile del kraut-rock tedesco e
della psichedelia sciamanica.
Formazione di origine toscana, con membri del
collettivo artistico Ambient-Noise Session, i Metzengerstein fanno pensare a formazioni aperte
e dall’impianto psichedelico come la No Neck
Blues Band, i Sunburnd Hand Of the Man, gli
australiani Brothers Of The Occult Sisterhood
e, andando più indietro, all’indimenticata compagine degli Iceburn Collective di Salt Lake
City. Tutto questo si traduce in una musica dalla
fortissima vena rituale e con una fascinazione per
una sorta di magnetismo ancestrale che attinge
da un alfabeto mitologico, più antico della civiltà
umana. La strumentazione va di conseguenza
alla ricerca di chiavi di registro classico/arcaiche
ma con esiti inaspettati: l’organo allucinogeno
della seconda e della quarta traccia che apre
all’onirismo nero di Ummagumma; il sitar della
terza che inventa ex-novo una impossibile nuova
danza mediorientale; il flauto arcano dell’ultima, ad opera di un Donato Epiro che come suo
solito contribuisce all’evocazione di un bestiario
esotico e millenario.
La musica dei Metzengerstein è allucinata, nella
misura in cui prende in prestito gli strumenti
della psichedelia classica, rivoltandone le premesse. L’altro-mondo, potrebbe essere ben più
strano di quanto il più acido dei trip possa mai
immaginare. Albero Specchio ne è l’implacabile
soundtrack.
(7.3/10)
Antonello Comunale
Mikal Cronin - MCII (Merge,
Maggio 2013)
Genere: indie rock
E dopo Ty Segall ecco arrivare il compagno di
sempre, Mikal Cronin, autore un paio di anni fa
di un buon debutto tra garage e brit-pop uscito
r e c e nsi o ni
colui che solo, lavoro dalla scaletta mescolata,
che raccoglie inediti (due e mezzo: Solo e col sole
in faccia è la versione con testo riscritto insieme
a Marco Lodoli di Testamento d’amore), cover e
ripescaggi nel repertorio solista e in quello dei La
Crus.
Da un lato le corde esotiche dell’incantevole
ensemble; dall’altro la voce sempre più in seppia del nostro; in mezzo Io confesso, Come ogni
volta, l’immancabile Ciampi (Livorno in duetto
con Nada), Celentano (Storia d’amore con l’organetto di Riccardo Tesi), De André (Ho visto Nina
volare), Capossela (Non è l’amore che va via con
Vincenzo Vasi al theremin) e un sapido Radius
d’annata (Nel ghetto). Il risultato è un Morricone
in gita alle Hawai (Io confesso), un mood di spessore popolare ma preso in obliquo, in transito
Selvaggio West-Parigi passando per l’Appennino.
Giovanardi canta benissimo, figlio di Tenco e
Scott Walker; pesa le parole e le ripulisce da ogni
insabbiatura retorica come solo i migliori sanno
fare. Giusto una scaletta un po’ più coraggiosa
avrebbe reso l’operazione qualcosa di più di quello che è. Ovvero un disco molto gradevole ma
che saprà dire la sua soprattutto live.
Stefano Gaz
Millelemmi - Spazionauta EP
(Fresh Yo!, Marzo 2013)
Genere: Hip Hop
Frutto di tre giorni di jam session tra Biga e
Millelemmi, Spazionauta EP è la più recente
fatica del rapper fiorentino e l’ultima uscita della
neonata Fresh Yo! Label, etichetta particolarmente feconda. Nonostante le precedenti uscite di
questa label possano far pensare a qualcosa di
semplicemente limitrofo all’hip hop, la presenza
r e c e nsi o ni
di Millelemmi è sufficiente a fugare ogni dubbio:
questo lavoro è un EP assolutamente hip hop,
intendendo quest’ultimo come un genere ormai
contaminante e contaminato, sottoposto a mille
ibridazioni e tuttavia ancora in grado di influenzare qualsiasi cosa.
Il motivo per cui possiamo dire in maniera così
netta che si tratta di un disco hip hop a tutti gli
effetti risiede nel rhyming solidissimo, tecnico e
spontaneo in tutta la sua ricercatezza, del rapper
fiorentino, che verosimilmente alterna a qualche
lettura dei sempreverdi poeti toscani, qualche
gustoso cypha di freestyle corroborato da della
sana cannabis. L’uso (a tratti eccessivo) dell’allitterazione e la ricerca quasi ossessiva del gioco
fonetico vanno sicuramente nella direzione di
chi vuole coniugare letterarietà del testo e l’arte
del parlare a tempo (aka il rap). In questo senso
si può parlare di rap poetico, facendo appunto riferimento più al labor limae evidente che
alla ricerca di metafore e immagini suggestive.
Basterebbe già questo a rendere la proposta di
Millelemmi interessante e unica, ma va preso in
considerazione anche il suo ottimo rapporto con
il ritmo.
Che l’ideale punto di partenza (da cui prendere
poi altre direzioni altrettanto personali, va detto)
sia il Neffa di Chicopisco e più precisamente
di Stare Al Mondo (splendida nenia a 53 bpm
che ancora oggi rimane forse il punto più alto
raggiunto dal rap in Italia), emerge chiaramente
nell’ottima opener Per fare, brano (in)conscious
che, su un tappeto morbidissimo e soffuso, lascia
cadere mantra ritmici a proposito del pensare
prima di agire. Questo è forse l’apice del disco dal
punto di vista strettamente testuale, nonostante
i fuochi di artificio tecnici siano riservati alla terza
traccia, su cui ci soffermeremo a brevissimo. Il
secondo brano dà il titolo all’EP e vanta un grandissimo lavoro sul beat, soprattutto nell’utilizzo
di un campione vocale splendido e gestito con
grande sapienza. In questo caso il rap, sempre
gi u gn o
per la giovane label Trouble in mind. Ed è forse
proprio grazie all’exploit della stellina Segall che
le quotazioni del nostro hanno preso il volo,
permettendogli di entrare in casa Merge records
per questo secondo lavoro solista che prende
definitivamente il commiato dalla scena garage
della Bay area e, a dispetto dell’hype che gli gira
intorno, fa della semplicità la sua arma migliore.
MCII ha essenzialmente il pregio della scrittura:
Cronin è abilissimo con riffoni pop, spolverate
‘90s, malinconie on the road con tanto teste fuori
dal finestrino, vento tra i capelli e via dicendo.
Roba indie, roba che in casa Merge è stata pane e
fortuna discografica e dunque è naturale trovare
una produzione pressoché perfetta, capace di
suggerire arrangiamenti deliziosi (Am i Wrong) e
di ripescare vecchi preset appartenuti ai Superchunk o, se si parla di acustica, ai Neutral Milk
Hotel (Don’t let me go). Tutto qui e null’altro.
Rimane impercettibile il passato garagista e
qualsiasi tentativo di leggere questo disco con
spirito avventuriero fallisce. C’è solo il qui e ora di
una manciata di canzoni pop dagli standard elevati (non a caso i primi due singolo sono anche
le prime due canzoni in tracklist, dunque hit a
vagonate) e il viaggio alla ricerca di una personale Peace of mind, con il sentore di una gioventù
inizia a sfuggire tra le mani. Non esattamente una
fesseria raccontarlo in musica. (7.1/10)
117
gi u gn o
Sebastian Procaccini
ture The Dawn Is Me, riportano con disinvoltura
agli Stones più Sixties, senza dimenticare il
sound spinto dei ‘70 a cavallo tra i Jam e gli Undertones di Teenage Kicks. E per quanto qua e là
spuntino echi Strokes (Don’t Look Back, Little Boy)
e reminescenze kinksiane vicine ai primi Coral
(Let Us Shine), non viene mai meno quell’ispirazione country-rock di matrice americana fatta di ballate sotto anfetamina alla Johnny Cash (Calcutta,
Quack), che costituisce di fatto il leitmotiv di tutto
il disco.
In definitiva, The Dawn sancisce un importante
passo avanti per una band che, fin dall’esordio, è
riuscita a catturare l’attenzione di pubblico e critica anche oltre i nostri confini (sono attesi in tour
tra Europa, Stati Uniti, Canada e Giappone). La
voce di Astrid Dante è oggi più profonda, matura,
quasi sfrontata nella sua sicurezza, vicina a tratti
alla Debbie Harry di Parallel Lines. Notevole anche una produzione di Pierluigi Ballarin (The R’s)
che riesce nel difficile intento di trasportare su
supporto fisico tutta l’energia, la polvere e il sudore di una musica che merita di essere assaporata soprattutto dal vivo e che regge sulla distanza in un disco maiuscolo. Un lavoro, quest’ultimo,
che non sfigura di fronte ai suoi - evidenti - numi
tutelari e che ci consegna una band con una personalità e un carisma rari in questi anni di revival
anemico e da aperitivo.
(7.1/10)
Enrica Selvini
Miss Chain & The Broken Heels The Dawn (Tre accordi Records,
Maggio 2013)
MS MR - Secondhand Rapture
(Columbia Records, Maggio 2013)
Genere: rock
Selvatici, diretti, catchy ed essenziali, i Miss
Chain & The Broken Heels tornano con The
Dawn, a quasi tre anni di distanza dal debut
album On a Bittersweet Ride e dopo il 7” del 2012
Rainbow.
Undici tracce garage rock di ispirazione country e
rhythm’n’blues che, fin dalle prime note dell’over-
Genere: (ch)art-pop
L’impatto visivo del duo newyorkese MS MR non
deve ingannare: nonostante il look hip-trash, se
i MS MR sono tra i nomi maggiormente hypeizzati degli ultimi mesi lo devono principalmente
alla musica contenuta nell’ottimo EP Candy Bar
Creep Show dello scorso anno e in particolare al
brano Hurricane, ovviamente inserito all’interno
118
r e c e nsi o ni
e comunque di altissimo livello, risulta leggermente meno incisivo rispetto agli altri episodi.
La terza canzone, Capita, è decisamente, in senso
buono, la traccia più sbruffona dal punto di vista
strettamente testuale. Qui i giochi fonetici e i
numeri di funambolismo toccano vette esplorate
da pochissimi in Italia, su un beat che parte da un
classicissimo accenno di jazz per poi concludersi in un tappeto ritmico che farà felici tutti i fan
dell’hip hop strumentale di derivazione jaylibiana.
Complessivamente, il confronto tra i due artisti
si risolve con un risultato più o meno di parità,
con l’ago della bilancia tendente leggermente
verso le strumentali di Biga. Si tratta comunque
di una vittoria al fotofinish, dovuta al fatto che
mentre tutti i tappeti ritmici potrebbero tranquillamente vivere di vita propria senza rap, i testi
sono ancora troppo dipendenti dalla ritmica per
risultare opere poetiche funzionanti da sole sulla
carta. É tuttavia giusto ricordare che Millelemmi è
uno dei talenti più meritevoli di uscire allo scoperto, magari con un progetto che lo veda alla
prese con canzoni più complesse come struttura.
Direzione che consentirebbe una valutazione più
generosa delle sue già enormi capacità anche da
parte di ascoltatori esigenti ma non iniziati alla
doppia acca.
(7/10)
r e c e nsi o ni
Think Of You potrebbe addirittura appartenere
a Lady Gaga, mentre la strofa di Salty Sweet ha
già le sembianze di un odioso motivetto da spot
televisivo.
Il Ghost EP di Sky Ferreira rimane l’esempio più
lampante, ma gli alti e bassi dei debutti lunghi
di Charli XCX e MS MR lo confermano: il tumblrpop sembra ancora trovare la sua dimensione
ideale nelle singole tracce, più che nel contesto
album.
(6.2/10)
Riccardo Zagaglia
Noise Trade Company Reformation (EK Product,
Febbraio 2013)
Genere: electro-wave
Cambia decisamente pelle, il progetto Noise
Trade Company. Fortemente voluto da Gianluca
Becuzzi, vero e proprio deus ex machina della
formazione post-Limbo e rifugio ove sfogare le
pulsioni più latamente rock, Noise Trade Company si è sviluppato lungo tre album (Crash Test
One, Just Consumers e Post Post Post) in cui sviscerava le coordinate di un “electro harsh-pop per la
civiltà dei consumi terminali”. Col passar del tempo NTC si è man mano mosso verso lande meno
ruvide e synth-wave oriented, per approdare ora,
con questo quarto passo, a rivoluzionarle dal di
dentro.
Due cover poste programmaticamente al centro
delle dieci tracce del disco sono più di un indizio,
tanta e tale è la forza con cui vengono ripensate
dal duo Gianluca Becuzzi/Elena De Angeli (in
questa uscita ormai trio, con supporto di Fabrizio
Biscontri a chitarra e basso): la prima è Ice, monolite Scorniano tratto dal capolavoro della prima
incarnazione del duo Bullen/Harris (Vae Solis,
anno di grazia 1992) e reso liquido e haunted alla
maniera del dub più oscuro e sensuale, con un
Becuzzi luciferino alla voce. L’altra è Evening, trasposizione della omonima traccia con cui Christa
gi u gn o
della compilation Female-Pop 2012.
Per Lizzy Plapinger (voce e anche fondatrice della
label Neon Gold) e Max Hershenow il periodo
di avvicinamento all’album di debutto Secondhand Rapture non ha fatto altro che confermare lo status di progetto pronto ad esplodere: live
sold out anche in Europa, release del videoclip da
500.000 views di Hurricane con tanto di recente
remix ad opera dei CHVRCHES e Bones a far da
colonna sonora per il trailer della terza stagione
di Game Of Thrones.
Pubblicato da Creep City via Columbia, Secondhand Rapture è chiaramente più dispersivo
rispetto all’EP - dal quale eredita anche Dark Doo
Wop e Ash Tree Lane - e in più di una occasione
viene da pensare che l’urgenza maggiore, durante le session, non fosse tanto quella comunicativa
quanto di dare alle stampe l’album di debutto
per tempo.
Hurricane rimane infatti la standout track capace di smarcarsi, anche a livello stilistico, da una
buona parte di tracklist composta da (ch)art-pop
in perenne rotta di collisione con certo generico
piattume mainstream. Ciò nonostante, Secondhand Rapture può essere visto come l’album
che avrebbero potuto realizzare Ellie Goulding e
soprattutto Marina & The Diamonds se avessero continuato per la propria strada senza grosse
pressioni discografiche.
La voce di Lizzy, in un panorama affollato da
timbri spesso privi di tratti distintivi, ne esce
sicuramente vincitrice, mentre Max Hershenow
si dimostra abile nel plasmare e nel far convivere
i passaggi più riflessivi e tenebrosi con le colorate esplosioni in zona Florence & The Machine
(Fantasy, dall’energio chorus sorretto da incalzanti drums o il riuscito riassunto del MS MR-sound
che è No Trace). Una Florence Welch che torna
a più riprese tra le dodici tracce del disco (Head
is Not My Home), così come certi vividi richiami
anni ‘90 (sulla scia dei Poliça) e alcune modulazioni alla Jessie Ware. Il ritornello iper-catchy di
119
gi u gn o
Stefano Pifferi
Nordvargr - Murkhr (Old Europa
Cafe, Dicembre 2012)
Genere: Dark, metal
Il prolifico compositore e musicista svedese Henrik Nordvargr Björkk, trascorsi gli ultimi tempi a
ridosso del più estremo rumorismo harsh, torna
dopo anni all’originaria attenzione per la dark
ambient da lui stesso, in senso molto aperto, già
codificata con piglio poliedrico. Murkhr è fuori da
120
qualche tempo per l’italiana Old Europa Cafe in
edizione limitata a 300 copie in LP e CD, con i due
supporti a mostrare materiale leggermente differente al loro interno. Ritorno alla dark ambient,
dicevamo, ma in una accezione che, nel frattempo, è forse irreversibilmente uscita dal discorso
musicale contemporaneo. Diventata canone,
la stessa rischia ora di suonare velleitaria nelle
intenzioni e schiacciata da una visione del mondo poco propensa al dinamismo interpretativo e
trans-generico suggerito dai tempi attuali.
Il 12” consta di due pezzi lunghi, uno per lato, per
una durata totale di circa quaranta minuti. I due
brani, che scorrono senza attrarre particolarmente l’attenzione dell’ascoltatore, sono di fatto due
suite di ambient oscuro, monocorde e del tutto
trascurabile sia nelle velleità che negli impliciti
presupposti. Più articolato è invece il discorso
che riguarda il CD, vario e capace di una trasversalità di soluzioni che ne rende più piacevole
l’ascolto. Il punto di partenza è sempre il drone
più malevolo e, ormai, prevedibile, anche in funzione dell’immaginario di riferimento di Nordvargr. Il quale, schierato talvolta in prima persona
tra le fila dei musicisti black metal piuttosto che
industrial (si ricordi il significativo passato nei
seminali Maschinenzimmer 412), sta dichiaratamente da quella parte della barricata.
Maggiore ricchezza di soluzioni, insomma, ma
evocazioni riuscite a metà. Siano gli ambienti
ospedalizzati della title track o i climax dinamici
da film horror di Interdimensional Drift, il lavoro
tende comunque a scadere nel cliché, fino ad
arrivare a episodi davvero sfortunati, come i
fraseggi dal pathos epico ma infelice di Larvae
Rex Caelestis o il movimento massimalista completamente scontato e retorico del finale in stile
marziale. Episodio più curioso dell’intero album è
The Alchemical Vessel, in bilico tra tromboni, bassi
rotolanti/glitch e stravagante dissolvenza ritmica
in chiusura.
Ultimamente il genere musicale in questione
r e c e nsi o ni
Paffgen aka Nico concludeva, nel 1968, l’album
The Marble Index e che da nenia folk ancestrale
e pagana si trasforma in algida resa, se possibile
ancor più opprimente dell’originale.
Due prove magistrali che indirizzano il lavoro
verso nuove, e per certi versi inedite, vie di fuga
per il progetto NTC; vie di fuga avvalorate dalla
conformazione speculare dell’album, con due
lunghe suite gemelle che aprono (Fate) e chiudono (Truth) il lavoro in nome di una sorta di ritorno
ad atmosfere ossianiche e criptiche (quasi) alla
Limbo, o dai vari rimandi/trasfigurazioni di sonorità primigenie dell’epopea wave - l’introspettivo
travisamento à la Joy Division di Orchid - sempre
trattate sotto la lente di un’elettronica insieme
robotica e umana, a battuta lenta, dubbosa ma
anche dubbiosa e scivolosa, sensuale come
l’oscurità e sempre pervasa da una latente sensazione di paganesimo (ir)rituale (si veda Fall, sorta
di chiesastico trip-hop o l’assenza esoterico-rumorista di Endless e Seven, altra coppia di questo
album dicotomico).
Reformation mantiene dunque fede al proprio
titolo: minutaggio lungo, coesione di fondo
invidiabile, atmosfere dilatate, meno immediate
ma non per questo meno grigie ed evocative con
cui ammantare il sostrato wavey cui il progetto
fa riferimento. E ci dice inoltre di uno spirito mai
domo e sempre pronto a ripensarsi e rimettersi in
gioco. Chapeau.
(7.2/10)
Bloodroot è equilibrio, misura, in un certo senso
stasi, dove rimanere fermi e rallentare il polso
significa distorcere il tempo nell’esplorazione di
ogni singolo, lunghissimo, attimo (il passo lento e
ammaliante di Brussels). La personalità e l’eleganza vocale di Francesca
Bono emergono con forza, acquisendo l’autorevolezza e la centralità di una cantautrice (cosa
ben diversa dalla “semplice” performer); il peso
Michele Ferretti di ogni parola, il controllo eccellente dell’espressione, le pause, le curvature leggere e non ultima
una pronuncia inglese davvero ottima, caratterizOfeliadorme - Bloodroot (The
zano l’impronta lineare ma mai banale di questi
Prisoner Records, Marzo 2013)
nove pezzi. Genere: art-pop
Il secondo full-length dei bolognesi è un passo di A mancare, in questo disco di una primavera
lato, né propriamente avanti né tantomeno indie- astratta dove alla calma ancora invernale si
tro; mossa di una band vitale, costantemente alla sovrappongono guizzi solari, è forse l’affondo
viscerale, il pezzo che ti segue la notte mentre
ricerca di qualcosa.
La band costruisce trame raffinate, culla per testi ti addormenti, il colpo basso (come per il sottoaccesi e “crudeli”, giocando molto bene con inne- scritto fu Ian, ad esempio). Tutto scorre in luce
sti e dinamiche (gli ingressi taglienti di chitarra in di grazia e ombre intriganti, senza sbavature né
Bloodroot), punteggiando un sostrato sostanzial- scosse.
(6.9/10)
mente pop-folk (Cat Power fa capolino in Magic
Ring) che nell’esprimere la sua vena più malincoAntonio Laudazi
nica e arrendevole guarda all’art-rock di fine millennio, dai Blonde Redhead ai Radiohead, tra
Perturbazione - Musica X
ballate dilatate ma spesso pronte ad accendersi e (Mescal, Giugno 2013)
mid-tempo contaminati dalla musica americana
Genere: pop
(il banjo dell’ospite Marcello Petruzzi in Stuttering Tre anni dopo Del nostro tempo rubato, sorta di
Morning).
Blonde On Blonde - con rispetto parlando - che
Rispetto al precedente All Harm Ends Here, Bloscozzava l’estro ipotizzando tutti gli sbocchi posodroot perde in parte l’ipnotica introspezione, il
sibili della cifra stilistica, i Perturbazione tornano
contrarsi su se stesso, poetico e claustrofobico,
col sesto album nel segno della concisione (dieci
l’intensità dell’imperfezione e una certa vena
pezzi per poco più di mezz’ora complessiva) e
noir. Guadagna invece una produzione calda e
di un piglio pop marcatamente elettronico. Una
raffinata, arrangiamenti maturi, una maggiore ar- svolta strettamente correlata alla scelta di un
ticolazione della scrittura e dei testi - evidente già produttore come il corregionale Max Casacci,
nel ricamo vocale dell’iniziale Last Day First Day
fatto di per sé sorprendente ma che non sembra
- e quell’attenzione ai dettagli che ne conferma
distoglierli dal canovaccio di sempre. Ovvero, Ceil respiro internazionale (gli inserti di mellotron e rasuolo e compagni continuano a muoversi nel
wurlitzer nel brano appena citato, a cura di Bruno solco mediano tra cantautorato sensibile, indie
Germano, primo di una serie di ospiti).
asprigno ed intrigante radiofonico, uno stile e un
gi u gn o
r e c e nsi o ni
sembra essere illuminato da una forma di sdoganamento che sta portando alcune delle sue più
evolute manifestazioni in contesti meno criptici
(Samuel Kerridge tra i nuovi, Lustmord tra i veterani). Per quanto qui si parli di un maestro, oggi
gli alfieri più attendibili sono altrove. Lo dimostrano i vari Maurice de Jong, Rainforest Spiritual
Enslavement, Sutekh Hexen.
(5.2/10)
121
gi u gn o
122
artificiosità che basta a renderle empatiche come
soprammobili sofisticati.
È il disco insomma di una band matura che tiene
in caldo un’adorabile sindrome di Peter Pan,
sprimaccia dilemmi esistenziali ed epocali con
leggerezza struggente e guardandosi bene dal
risolverli, crocifigge con garbo la svalutazione di
certi valori (la sindrome del “fattore X”) ma solo
per cavalcarli con un canzonettismo che tocca
pochi tasti ma quelli giusti tra cuore e cervello,
tra io e media, tra stereotipo e ricercato. Sono
una delle migliori realtà pop-rock italiane degli
ultimi quindici anni e si fanno distribuire in allegato da un mensile con più sponsor che anima: la
morale, se c’è, la lascio a voi.
(6.5/10)
Stefano Solventi
Poppy Ackroyd - Escapement
(Denovali, Dicembre 2012)
Genere: Avant, contemporanea
Della musica di qualità val sempre la pena parlare: meglio colmare un ritardo che non parlarne
affatto. E’ il caso di questo esordio solista per
Poppy Ackroyd, di norma membro della Hidden Orchestra di cui abbiamo apprezzato sia
le passeggiate notturne che le esplorazioni di
arcipelago. Nonostante la violinista qui si muova
in solitaria e con un impianto strumentale assai
diverso, il mood e le atmosfere rimandano alla
band madre, seppur indagati con un cipiglio più
tenue, verrebbe da dire più femmineo. Il violino
è sempre presente, ma al centro di questi sette
brani strumentali c’è il pianoforte suonato in
tutte le sue parti, oltre alla tastiera: sia percuotendo direttamente le corde con vari artifici tecnici,
sia sfruttando le parti lignee. I suoni così ottenuti
vengono poi stratificati per comporre le frasi
musicali e, quindi, i brani.
L’interesse per suoni cinematografici, tanto per
la Ackroyd quanto per la Hidden Orchestra, sono
in bella evidenza anche in questa fuga, ma qui
r e c e nsi o ni
mood consolidati negli anni e perciò riconoscibilissimi.
Siamo in presenza quindi di una variazione sul
tema che appare tanto più riuscita quanto più
rispettosa del verbo della band piemontese, che
da questa ebbrezza synth-wave pare lasciarsi
investire senza perdere quel particolare equilibrio così fragile eppure così tenace (un po’ come
è accaduto all’ultima Cat Power, se mi consentite
l’ardire). Al solito, e malgrado i proclami (il comunicato stampa arriva a citare Bjork, Phoenix e
persino David Bowie...) non c’è vera sperimentazione, nessuno spiraglio d’inaudito. È semmai un
gioco che guarda allo ieri e all’altro ieri evoluti,
contando sulla capacità di definire un popolare
raffinato e appassionato, piacione ma non banale, una terza via insomma che funzionava e
ancora funziona. Vedi l’ordito nervoso e asciutto
di Monogamia con le sue arguzie battistiane reloaded, il boogie robotico di Questa è Sparta (dove
si sprimacciano gli anni Zero assieme a I Cani), la
stolida pulsazione funky dance della title-track (la
più Subsonica del lotto).
Il punto di forza alla fine resta la scrittura, in grado di stemperare con disinvoltura apprensione
e morbidezza, come nella wave caramellata di
Diversi dal resto, nella marcetta quasi Xtc di Chiticapisce o nel dub tra lo stranito e l’abboccato di
Ossexione (ospite l’emergente - ennesima cavallina della scuderia Sugar - Erica Mou). Ma è anche
un punto di debolezza, perché di fronte ad una
pur gradevole La vita davanti o alla poco più che
sanremese I baci vietati (dove riportano a galla
uno dei loro potenziali padrini, il quasi desaparecido Luca Carboni) il senso di automatismo è
pressoché inevitabile. Ci provano, certo, ad alzare
l’asticella e sparigliare le coordinate, però quando
lo fanno pagano pegno: tanto Mia figlia infinita
(valzer folk dolciastro tra smarrimenti sintetici e
orchestrali) che Legàmi (sincopi e trepidazioni
androidi come dei Depeche Mode impressionisti
e un po’ squinternati) scontano quel pizzico di
Marco Boscolo
Primal Scream - More Light (1st
International, Maggio 2013)
Genere: rock
Capita ancora, fortunatamente, che dischi nuovi
ti sorprendano al punto di scatenare un genuino
entusiasmo. Più che mai quando non te li aspetti.
I Primal Scream sono una band imprevedibile.
Nel bene e nel male. Possono fare un album
rivoluzionario e un altro di retroguardia, un’opera
capitale e un disco irritante. Questa volta, però,
colpiscono nel segno, come non facevano non
dico dai tempi di Screamadelica, ma perlomeno
da quelli di XTRMNTR, di cui More Light condivide
la tensione politica e la propensione all’invettiva.
Oltre a ribadire in maniera persino imprevista
la centralità di Bobby Gillespie, Andrew Innes e
compagni nel panorama musicale britannico,
il nuovo album rende bruciante e attuale una
parola quasi dimenticata: crossover. Uno dei
dischi dell’anno - da queste parti - comincia con
quello che si candida, dalle prime note di quel riff
di sax, a essere uno dei pezzi dell’anno (non solo
per il titolo): 2013. Sembra quasi di sentire i Roxy
Music con una carica di rabbia spropositata in
aggiunta ai lustrini glam e all’intelligenza sonora, incontrare gli Stooges di Funhouse e il suono
baggy; si balla sulle barricate tra la chitarra di Kevin Shields e un arpeggio liquido di tastiera, un
groove di quelli che andrebbero avanti all’infinito
come nel migliore krautrock e strofa-ritornelloponte-coda orecchiabili e perfetti. Un brano allo
stesso tempo camaleontico e catchy come i Primal Scream ne sanno davvero scrivere quando si
mettono di buzzo buono, e che i Nostri riescono
a tessere e tenere vivo come da manuale per tutti
i suoi otto e passa minuti. Il testo è durissimo: si
parla di schiavi del XXI secolo, di un punk rock
che non ha cambiato niente, della controcultura
corrotta dal denaro, di soluzione finale per la rivoluzione giovanile. Difficilmente poteva esserci
un inizio migliore e più convinto.
Poi si prosegue e le gradite sorprese non mancano. Il trip-hop di River of Pain che si spacca in due
per dare spazio a un intermezzo dell’Arkestra di
Sun Ra calata da chissà quale galassia; Culturecide, dub-funk aggressivo come un pugno in faccia
e destabilizzante come la morsa allo stomaco
che ti prende nel leggere le liriche: siamo in
pieno retaggio post-punk tra il Pop Group e i
PIL (e perché no, un po’ di Tricky) con fiati e un
flauto (!) al limite del free jazz e la voce di Mark
Stewart a rendere il tutto ancora più disperato e
apocalittico; Hit Void, cioè quello che sarebbe un
brano punk di oggi: i My Bloody Valentine o gli
Spacemen 3 su Nuggets insieme ai Ramones e ai
Contortions.
Si può obiettare che si tratta di citazioni, di un
passato rimescolato e riverniciato di moderno,
di un gruppo che è uno nessuno centomila per
come ha cambiato pelle in questi anni. D’accordo. Questo non nega, però, che i Primal Scream
siano al top della forma per scrittura e arrangiamenti. La produzione di David Holmes contribuisce a dare ulteriore smalto ad altri pezzi di tutto
rispetto: il brio soul di Invisible City, gli accenti
gi u gn o
r e c e nsi o ni
spicca di più il retroterra colto, quasi snob della
musicista inglese. In controluce c’è tutto il minimalismo di Steve Reich, ma anche una certa
modularità che sembra presa dallo strutturalismo: linee melodiche che si costruiscono nota su
nota - quasi mai facendo ricorso agli accordi - e
linee strumentali che possono essere ripetute in
diverse combinazioni, dando origine a momenti
musicali diversificati. Soprattutto nei passaggi
con il piano preparato, impossibile non pensare a
John Cage, ma è più un atto dovuto che un vero
e proprio riferimento esplicito. In perfetto equilibrio tra atmosfera, ambient, classica e avanguardia chic, Escapement non prenderà mai davvero
polvere sullo scaffale perché ogni ascolto aggiunge una dimensione nuova alla profondità sonora.
(7.3/10)
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gi u gn o
Tommaso Iannini
Public Service Broadcasting
- Public Service Broadcasting
(Test Card Recordings, Maggio
2013)
Genere: Art rock
L’idea, quella di realizzare musica strumentale
con samples tratti da video d’archivio, non è delle
più fresche. A quelli della mia generazione, ad
esempio, fa venire subito in mente 19 (Ninteen),
l’hit del 1985 con cui Paul Hardcastle portava
sul dancefloor le intuizioni della new wave più oltranzista. Più recentemente, la musica hauntologica ha fatto un largo uso di materiale d’archivio
delle tv britanniche, per recuperare suggestioni
di un passato idealizzato.
Analogamente i Public Service Broadcasting
utilizzano samples tratti da film di propaganda
della Seconda Guerra Mondiale, con l’intento (dichiarato da un titolo per nulla ironico) di informare, educare ed intrattenere le nuove generazioni.
Onestamente, il loro lavoro di ricerca presso il
124
BBC Sound Archive andrebbe premiato, perché il
materiale recuperato è estremamente interessante ed evocativo.
Peccato non si possa dire altrettanto delle basi,
che spesso assecondano un recitato perentorio e
concitato, con progressioni ritmiche che affastellano ritmi electro, arpeggi di banjo, strati di synth
e riff muscolari. Il duo londinese composto dal
polistrumentista J. Wllgoose, Esq. e dal fido compare, nonché batterista, Wrigglesworth, finisce
per non sposare la denuncia e l’ardore polemico
di Hardcastle (che faceva ballare snocciolando
dati sulle vittime del Vietnam), né il fascino criptico delle produzioni GhostBox.
Cosa rimane dunque? Non molto. Giusto il feeling anni 80 e retrofurista di brani come The Now
Generation (una versione meno ispirata dei Daft
Punk di Derezzed) o l’assalto chitarristico di Signal 30 (indie wave apocalittica, ma un pò troppo
educata). Un po’ poco per poter immaginare un
futuro che vada al di là del curioso divertissement.
(5.7/10)
Diego Ballani
Sam Amidon - Bright Sunny South
(Nonesuch, Maggio 2013)
Genere: avant folk
Quarto album nel segno della continuità per Sam
Amidon, non perché riproponga papale papale
la formula dei predecessori ma per come semmai
la spinge di una tacca in avanti, verso una sintesi
trepida, fragile, quasi disturbante tra suggestioni
traditional e contagi contemporanei. Ad aiutarlo troviamo ancora il producer e vecchio amico
Thomas Bartlett, altrimenti detto Doveman, ma a
comandare i microfoni stavolta c’è il tecnico Jerry
Boys, uno col bagaglio di esperienze che vanno
dai R.E.M. a Vashti Bunyan passando per gli
Steeleye Span. Sembra insomma che in occasione dell’esordio su Nonesuch il folk singer del
Vermont - nonché marito della cara Beth Orton abbia voluto prestare particolare cura all’aspetto
r e c e nsi o ni
quasi alla Bad Seeds di Sideman, Elimination
Blues con il cameo di Robert Plant, il raga-rock di
Relativity che con un guizzo diventa una ballata
acustica, di quelle che non sarebbero dispiaciute
ai Radiohead di tanti anni fa. Suonano tutt’altro
che stucchevoli persino le vecchie ossessioni
byrdsiane e rollingstoniane di Walking With The
Beast e It’s Alright, It’s OK, sorta di Movin’ On Up
parte seconda, con lo stesso groove e le stesse
qualità innodiche della traccia d’apertura di Screamadelica.
Con una bassista nuova di zecca, i Primal Scream
presenteranno ora il nuovo materiale dal vivo e
vedremo se andrà tutto per il verso giusto. Non
capita così spesso di trovare in questo stato di
grazia un gruppo con venticinque anni di carriera
alle spalle. Ti fa quasi avere fiducia nel rock and
roll nel 2013...
(7.8/10)
Stefano Solventi
r e c e nsi o ni
Savages - Silence Yourself
(Matador, Maggio 2013)
Genere: post-punk
Talvolta un prodotto musicale somiglia a una
formula alchemica; combinazione più o meno
casuale, nella quale, a un certo punto, alcuni
elementi instabili si miscelano dando luogo
all’ultimo fragoroso hype del momento. Parliamo
di quattro ragazze inglesi dall’anima inquieta e lo
sguardo accigliato, novelle post-punker balzate
all’orecchio della stampa dopo un paio di singoli
e qualche concerto. Le loro performance live
sono state particolarmente apprezzate per l’impeto graffiante e il carisma oscuro e iancurtisiano
della vocalist Jehnny Beth, nonché, si suppone,
per un certo muoversi perfettamente al confine
tra musica d’arte e fenomeno di costume, tendenza, moda.
Un occhio ai produttori di questa attesissima
opera prima e quanto detto apparirà più chiaro:
Johnny Hostile e Rodaidh McDonald, già dietro
le quinte di Adele, The xx, e How To Dress Well.
Ecco spiegata la produzione pressoché perfetta,
unitamente a un esistere nel proprio tempo e sul
proprio tempo al punto da sfiorare una magistrale furberia: antenne dritte per capire - anzi di più,
dettare - il sound giusto per la gente giusta.
La partenza affidata a Shut Up è coinvolgente ma
leggermente sottotono rispetto alla percezione
complessiva dell’album, e vengono in mente le
Organ, quando, era il 2004, il revivalismo newwave delle cinque ragazze - anch’esse made
in UK, anch’esse al primo full-length - fu molto
apprezzato, salvo poi esaurirsi in uno scioglimento prematuro. Qui però c’è molta più tensione,
nervosismo, pathos. La Beth è una cantante con i
controcazzi, diciamolo pure senza mezzi termini.
Un approccio e un timbro che sembrerebbero (e
in un certo senso sono) fortemente derivativi: incontro tra gli arabeschi dark di Siouxsie Sioux e
l’intensa mascolina autorialità di Pj Harvey. Fino
a quando non arrivi a sentirci pure il romantici-
gi u gn o
sonoro, inseguendo una fragranza brusca, intima
e terrigna.
Finisce che ritornano in ballo i soliti riferimenti,
la trepidazione spersa d’un Nick Drake (nell’incedere jazzy di I Wish I Wish, ospite la tromba del
grande Kenny Wheeler), la disillusione carnosa
d’un Jason Molina (nella cupa Short Life), la letargia estatica di Mark Kozelek (vedi l’apprensiva
rilettura del traditional Streets of Derry), addirittura il John Martin più placido come nella soffice
e resinosa title track. Poi, al solito, ci imbattiamo
in cover scelte da repertori imprevedibili, come la
Shake It Off targata Mariah Carey (!), qui ridotta
a meditabonda pensosità piano-voce, o quella
My Old Friend firmata dalla stella del country Tim
McGraw, col suo incalzare agrodolce probabilmente il pezzo più accattivante mai licenziato da
Amidon.
Il quale, a forza di ricorrere a questa strategia
di smarcamento sistematico, gioca una partita
affascinante ma rischiosa: dove lo metti uno così,
né nostalgico né post-moderno, coi suoi intrecci
caldi ma striminziti di particelle elementari folk,
country, blues e jazz? La risposta sta forse nella
misteriosa energia che unifica due situazioni agli
antipodi come Pharoah e As I Roved Out, indolenza edenica la prima, espettorazione country
blues sanguigna la seconda: così lontane per
approccio, tenore ed esito, eppure evidentemente parte di uno stesso discorso narrativo, di una
stessa sfera emotiva. Probabilmente il merito
maggiore di Sam Amidon sta nel tenere al centro
con determinazione la figura - stavo per scrivere
l’idea - del musicista/interprete. Disarmato, quasi
nudo, persino vulnerabile, ma un libro aperto di
passione e inquietudine.
(7.1/10)
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gi u gn o
Antonio Laudazi
Seaven Teares - Power Ballads
(Northern Spy Records, Aprile
2013)
Genere: Avant folk
Sono una sorta di supergruppo i Seaven Teares,
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combo nelle cui fila militano Charlie Hooker, musicista di casa alla Northern Spy visti i precedenti
con Extra Life e Zs, Robbie Lee degli Howling
Hex, Russel Greenberg degli Yarn/Wire e infine
la cantante Amirtha Kidanbi già alla prese con
il collettivo Skeletons. Campi e interessi variegati rispecchiati perfettamente da questo disco
d’esordio, Power Ballads, il cui linguaggio è
quello del folk ma un folk onnivoro e disparato,
capace ad esempio di abbinare atmosfere cinquecentesche ai gusti della wave.
La riprova sta nelle due cover dell’album: la
liturgica Flow My tears per gentile concessione
del compositore rinascimentale Jhon Downland,
e Them Bones degli Alice in Chains, qui riadattata in una versione stile incubo surrealista. Tanta
carne al fuoco che però non deve far perdere di
vista il senso dell’operazione: il lavoro dei Seven
teares poggia sulla tradizione folk pre ‘900 sia per
quanto riguarda la strumentazione, tra organi dal
sapore medievale, campane, vibrafoni, e flauti, sia
nel lirismo delle parti vocali ad opera di Hooker e
della Kidanbi. Questo è il punto di partenza, poi
c’è la trasfigurazione nel qui e ora. Forme che coniugano i Death in June con i synth della wave
(Our lady of sound), il folk più classico con il nero
espressionista dei Current 93 (Grown woman), o
ancora forme che si sciolgono e dissolvono come
nella conclusiva Thin Veil, dove sono le voci e i
vocalizzi a guidare il senso.
Non era impresa facile costruire un mosaico
con oltre quattrocento anni di storia folk, ma la
missione è compiuta. L’impostazione è avant, il
suono organico, e il chiaroscuro emoziona. Se
siete in cerca di avventura troverete pane per i
vostri denti.
(7.3/10)
Stefano Gaz
r e c e nsi o ni
smo sermonico di un Nick Cave, e allora ti accorgi che la ragazza ha imparato bene le lezioni che
le interessavano, ma ci mette anche del suo, tale
è la varietà di umori che riesce a interpretare.
E arriviamo così al secondo punto della questione (il primo era la voce, se non si fosse capito):
le sfumature che il quartetto riesce a esprimere
all’interno del proprio contenitore. Il che è una
delle cifre dei grandi: sfuggire all’eclettismo fine
a se stesso, collocarsi in un ambito codificato ed
esprimerne le varianti, le possibilità, quasi fino a
contraddirsi, per poi rientrare sapientemente sul
proprio binario. Dal fluire sensuale e notturno di
Strife alla ruvidezza rock’n’roll di I Am Here, dalla
sporcizia garage di No Face alle progressioni dark
di She Will, dalla murder ballad Waiting For A Sign,
rumorista e struggente, fino alla circolarità punk
di Husbands, per concludere con la sofisticata
Marshall Dear, dal gusto art-noir molto Anna
Calvi.
Eppure, nonostante l’indiscutibile qualità della
proposta, è come se da tanta e tale esattezza di
mezzi e grammatica trasparisse il brivido freddo
del calcolo, prima ancora di un’idea ben precisa
di suono, un’urgenza comunicativa, un’anima.
Stile, stile e ancora stile; una maschera perfetta che sembra vera anche a chi la indossa. Non
proprio esangui come i fenomeni The xx (il che
non vuole essere un giudizio di valore, tanto che,
per chi scrive, Coexist è stata una delle uscite
più apprezzabili della passata stagione), ma un
po’ sofferenti di quello scollamento tra forma e
sostanza che non permette a un buon disco di
diventare ottimo.
(7.2/10)
Genere: ‘60 retrò
Terzo disco per gli Shannon & the Clams, Dreams in the Rat House è l’ennesimo lavoro con
fascinazioni fifties e oltre, diciamo dai fasti doo
wop alle Shangri-las. Un disco che per la verità
non lascia molti spunti di riflessione: qualche
buon pezzo, specie quando la Shannon attacca
con voce rancida (Rip Van Winkle, Bed Rock, Heads
or tail), ma la strada per arrivare a fine scaletta è
lunga, tanto più che nella maggior parte dei casi
si tenta la via dell’arrangiamento arzigogolato
per uscire dalle secche del copia e incolla, senza
che il risultato ne benefici in alcun modo. Se siete
in fissa con questo tipo di retrò meglio ripassarsi
le Detroit Cobras o i Mr Heavenly, lì almeno ci si
diverte di più.
(5/10)
Stefano Gaz
Sightings - Terribly Well (Dais,
Aprile 2013)
Genere: noise
Ce lo assicurano loro stessi: suona “terribly well” il
ritorno dei tre Sightings. Dopotutto, da qualsiasi
prospettiva lo si guardi, un album dei newyorchesi lascia sempre una sensazione di avvincente
spossatezza, di devasto liberatorio e insieme
costruttivo, nonostante una formula sempre
incompromissoria e tendente più allo sfacelo che
al propositivo. Che siano le melmose lande rumoriste limitrofe a certo post-industrial di Yellow
(sei minuti di cappottamenti e rigurgiti di rumori
in implosione), il funkettone inacidito da bassifondi cittadini di Better Fastened, i deragliamenti
free-noise di Rivers Of Blood che vagano senza
un apparente senso su una terra di nessuno o il
clangore al calor bianco di Mute’s Retreat, la sensazione è che dietro la sigla ci sia un arco concettuale più ampio del mero rumore fine a se stesso
che ha caratterizzato troppe band cresciute nel
decennio scorso.
L’aver abbassato la cresta del rumore duro e puro,
l’essersi concentrati su una forma sonora che è
più cerebrale che muscolare - ma questo è da
sempre nell’esperienza Sightings, tanto da farne
mosca bianca rispetto a illustri colleghi -, l’aver
unito le forze col synth “smostrato” di Pat Murano
(No-Neck Blues band), a dimostrazione di uno
spessore ormai conclamato, pare che ne abbia
risollevato le sorti, facendo dei Sightings uno dei
progetti noise più apprezzabili di sempre. In grado, cioè, di mostrarsi per ciò che è - un’indubbia
accozzaglia di riferimenti al culto del rumore in
ogni sua forma - ma anche per qualcosa di altro,
di mutante e mutato sempre su quel corpo morto e sfatto che è oggi il “noise”. E dimostrandoci
come anche dai sottoscala zozzi e puzzolenti degli anni zero possano emergere progetti capaci di
segnare le epoche a venire.
(7.2/10)
Stefano Pifferi
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Shannon & The Clams - Dreams
in the rat house (Hardly Art,
Maggio 2013)
Small Giant - Now We’re Gone
(Autoprodotto, Gennaio 2013)
Genere: synth-pop
Il maggior pregio di questo esordio a firma Small
Giant, progetto solista di Simone Stefanini dei
Verily So, è di vivere nel rapporto tra sentimento
e memoria, andando a scovare, talvolta in maniera esatta e commovente (We Were Fuckers),
lo scarto che determina il passaggio dalla reminiscenza alla malinconia. Una variabile del tutto
personale, fatta di oggetti fluttuanti e improvvisi:
un film dai colori sbiaditi come è solo la fanciullezza, la foto di un passato recente ma comunque
non replicabile, un suono e melodie alle quali
siamo soliti associare pezzi di vissuto.
Ecco, il “piccolo gigante” riesce più di una volta
a rendere universale questa variabile, usando
come mezzo un synth-pop che è da cameretta,
sì, ma solo perché i mezzi adibiti alla produzione
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gi u gn o
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r e c e nsi o ni
te (oppure - più opportunamente - a riempire
generosi boccali di buona Tennent’s), perché
se Mason era l’inconfondibile semi-falsetto dei
Beta e uno dei principali compositori, non ne era
certo il deus ex machina, come del resto ci dimostrò a suo tempo la buona popadelia vintage di
John Maclean, Robin Jones e Gordon Anderson
radunati nel combo The Aliens. Tuttavia il caro
Steve sembra volerci provare il contrario: non si
risparmia, sforna venti tracce ispezionando tutto
il ventaglio attitudinale, dall’hip-hop (sbilanciato
funky soul come nella brusca Fight Them Back o
sciroppato d’acido come in Fire!) al downtempo
spacey (la melassa pensosa e oppiacea di Lie
Awake) passando per ibridazioni psichedeliche
più o meno amniotiche (la tensione fiabesca di A
Lot Of Love), dub ibridi (la celebrazione di Ayrton
Senna - con tanto di sample di una telecronaca
brasileira - in The Last Of Heroes) e gospel strapazzati electro (quella Lonely che scomoda certi
Antonio Laudazi tremori acidi Spiritualized).
Lo sforzo è di quelli notevoli già sulla carta, alla
prova dei fatti inoltre benedetto da un’ispirazione
Steve Mason - Monkey Minds In
più che buona che ne enfatizza l’aspetto autoraThe Devil’s Time (Domino, Marzo
le. Tuttavia Mason non era (non è) la Beta Band,
2013)
e questo disco rischia spesso di suonare come
Genere: psych-pop-hop
Lontani i tempi della Beta Band (sono passati già un tentativo d’ufficio di mettere il cappello su
nove anni dall’epitaffio Heroes to Zeros), scarsi i tutta l’eredità senza averne il diritto. Nel carosello
segnali dell’attività solista (e para-solista) di Steve stilistico infatti c’è troppo ordine, troppa ingeMason, dal momento che almeno a queste latitu- gneria, troppa fiducia nel farsi canzone di intuizioni sì intriganti però attente a non scomodare
dini né come King Biscuit Time né come Black
le consuetudini auditive. Se assieme a Maclean
Affair ha smosso più di tanto le acque. Non è
andata meglio con l’esordio a proprio nome Boys e Jones (ed inizialmente anche Anderson) l’imOutside, roba di tre anni esatti orsono, col quale pasto sonoro mirava proprio a destabilizzare il
volle presentarci il suo lato più intimista, malinco- canonico - spacciandoti l’insidia nel carezzevole,
il robotico nel visionario, l’inquieto urbano nel
nico e a tratti melodrammatico. Col qui presente
velluto cosmico - oggi Mason sa essere al più
Monkey Minds In The Devil’s Time il registro
bizzarro (vedi i siparietti allucinati tipo Behind The
cambia drasticamente, a partire dal concept segnatamente politico, ma anche per la cifra sonora Curtain) e spesso accomodante forse persino a
dispetto delle intenzioni (come nei detriti frenchche riallaccia numerosi link con la calligrafia del
touch di Never Be Alone - l’incubo Elbow degli
rimpianto gruppo scozzese.
Air? - o nel dancefloor nevrastenico di Towers of
Meglio aspettare però a stappare lo spumanstanno tutti in un armadio. Così proteso, invece,
verso spazi espressivi potenzialmente molto
più ampi. Da qui la sostanza ariosa, assai ricca di
timbri e umori differenti che vanno dalle atmosfere conturbanti e lynchane di The Other Me (con
la voce di Maria Laura Specchia e la partecipazione straordinaria di John Neff ) al french touch
di Divisi, dall’epica in miniatura di Murakami agli
arpeggiatori anni ‘80 + assolo di chitarra di The
Night Apollo Died. Fino alla cover un po’ furbetta - ma d’altro canto perfettamente in linea con
quanto detto - di Never Ending Story, manifesto
generazionale di un’adolescenza dorata, come
forse vuole esserlo il continuo sguardo rivolto
all’indietro, a partire dal titolo.
Now We’re Gone inizialmente paga forse un’eccessiva eterogeneità, ma è un disco al quale, con
il trascorrere degli ascolti, non si può fare a meno
di voler bene.
(6.6/10)
Power). A dirla tutta, sembra essere molto più in
parte quando sforna pezzi sfacciatamente radiofonici come lo stomp tra il solare e l’agrodolce
di Oh My Lord o quella Come To Me che dipana
solennità pop tra i Wire più languidi e gli Alan
Parson meno sdolcinati.
In conclusione, questo è solo un buon disco di
indie pop contemporaneo, solo un po’ più versatile e sfaccettato del solito. La Beta Band è morta,
viva la Beta Band.
(6.6/10)
Stefano Solventi
Genere: alt-pop
“È tempo che ci facciamo una chiacchierata / non
è mai ciò che vuoi sentire / È così divertente come
le parole possano ferirti / anche dopo tutti questi
anni”. Inizia così il nuovo album dei Texas, che
esce a otto lunghi anni di distanza dal precedente Redbook. La band di Sharleen Spiteri è abituata
a passare dal centro della scena al dimenticatoio
per poi rialzare la testa - dopo la prima hit I Don’t
Want A Lover, infatti, ci volle un po’ di tempo per
rivederla in cima alle classifiche; alla fine degli
anni Novanta brani come Say What You Want e
Black-Eyed Boy spopolavano nelle radio di tutta Europa, per merito della fusione di melodie
sfiziose ed echi di girl group, ABBA e Fleetwood
Mac uniti al fascino discreto di una Sharleen cresciuta a pane e classici Motown, sensuale persino
in versione drag king nel video di Inner Smile.
L’incantesimo, però, non si è ripetuto negli anni
Duemila e, durante la lunga pausa, la front-woman ha sfornato un disco furbo come Melody (se
Amy Winehouse e Duffy vendevano guardando
al rhythm ‘n’ blues e al pop malinconico di matrice Sixties, fece bene a provarci visto che quei territori li esplorava già) seguito da una collezione
di cover (The Movie Songbook) non esattamente
imprescindibile.
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r e c e nsi o ni
Texas - The Conversation (Pias,
Maggio 2013)
Ora è la volta di The Conversation, che nelle intenzioni degli autori dovrebbe celebrare venticinque
anni nel music business con un campionario di
ciò che la band scozzese ha dimostrato di saper
fare piuttosto bene; più che ai grandi successi
di White On Blonde e The Hush, tuttavia, qui ci si
accosta agli esordi (da un lato) e alla prima prova
solista della Spiteri (dall’altro), tra caramelle pop/
rock con la dose giusta di zucchero (la title track,
Talk About Love, Hid From The Light), gradite incursioni nei Sixties di Ike & Tina Turner (Big World)
e delle Supremes di Diana Ross (Dry Your Eyes) e
lenti perfetti per far tornare adolescente il pubblico adulto nostalgico dei balli da mattonella
nel segno di Elvis Presley e di Roy Orbison (I Will
Always, Maybe I).
A dare man forte ai Texas arrivano il gentiluomo
senza tempo Richard Hawley, che lavora volentieri con profitto al servizio di altri artisti (sua la
recente After The Rain di Shirley Bassey), e Bernard Butler - prima chitarrista dei Suede, poi in
duo con David McAlmont e, ultimamente, autore
e produttore per la già citata Duffy. Il dispendio
di energie non dà sempre i risultati sperati, ma le
vere note dolenti sono altre: fuori tempo massimo il rock da FM di Detroit City (indecisa se rievocare Pat Benatar, Deborah Harry o Kim Wilde,
Sharleen cerca nel dubbio di emularle tutte e tre
in un brano che gli ultimi Killers relegherebbero
allo status di b-side senza pensarci due volte),
senza infamia né lode Hearts Are Made To Stray
(vicina, stavolta, agli ultimi Pretenders).
C’è parecchia confusione, in casa Texas, e un’attenzione alle melodie (a volte fiacche, altre volte
che sanno di già sentito) incostante rispetto ai
loro standard; si sospetta che neppure la loro
nuova etichetta (la Pias, dopo anni alla corte
della Universal) creda molto al materiale inedito,
tant’è che la prima tiratura arriva anche in edizione limitata con nove grandi successi dal vivo
allegati. Poteva essere l’album della rinascita,
magari correndo qualche rischio, e invece The
129
Conversation alla fine si rivela per ciò che è: uno
dei tanti dischi “carini” in circolazione, all’insegna
di un adult contemporary tanto piacevole quanto
inoffensivo. Un album cui avvicinarsi con cautela
e che nulla toglie - ma ben poco aggiunge - alla
carriera del gruppo.
(6/10)
Alessandro Liccardo
Genere: post-rock/indiemo
Sono passati ormai quindici anni dagli esordi per
la Deep Elm Records. Un periodo storico che continua, nonostante la chiara evoluzione stilistica,
ad essere il punto di partenza dei lavori targati
The Appleseed Cast: la scena midwest emo si
stava diramando - accentuando i toni punkpop
- verso sud con i Jimmy Eat World e verso nordovest, plasmando parte del collage indie/lo-fi dei
Modest Mouse.
Dal maestoso doppio volume Low Level Owl ad
oggi, il gruppo di Christopher Crisci ha sempre
più abbandonato le sonorità indie-emo alla Sunny Day Real Estate, dilatando le soluzioni chitarristiche di stampo twinkle fino ad addentrarsi nei
landscape di matrice prettamente post-rock. Li
avevamo lasciati così lo scorso decennio con
l’ultima realease via Militia Group (il precedente
Sagarmatha) e li ritroviamo quattro anni dopo
tra le fila Graveface alle prese con Illumination
Ritual, l’ottavo disco anticipato - se così si può
dire - nel 2011 dall’EP Middle States.
Nel 2013 la proposta degli The Appleseed Cast
suona vagamente fredda e un po’ troppo calcolata, limitando così il fondamentale interessamento
della sfera emozionale. L’esperienza è tanta, così
come il mestiere messo in campo da Crisci e
compagni. Mancano però elementi in grado di
catturare le attenzioni di chi si avvicina al gruppo
per la prima volta.
Tra lunghi fraseggi strumentali, arpeggi di
130
Riccardo Zagaglia
The Cave Singers - Naomi
(Jagjaguwar, Maggio 2013)
Genere: folk errebi
Perseverare, nel caso dei Cave Singers, ha qualcosa di angelico. Non fosse per come la loro
calligrafia riesca a sembrare fresca e sanguigna
malgrado non sia altro che folk errebì vecchio
stampo, sia pure asperso di acidità erratica.
Anche a questo giro insomma - probabilmente
anche per merito del producer Phil Ek, già al
lavoro per Built To Spill, The Shins, Fleet Foxes e The Walkman tra gli altri - il trio di Seattle
riesce a sintonizzare la frequenza giusta e, a due
anni dal buon No Witch, ribadisce le coordinate
del proprio universo, affacciato su un mondo di
euforia terrena, morbida inquietudine e tenerezze southern.
Ti capita di sentirli ululare alla luna storta come
un Mike Scott ringalluzzito I Am Kloot (nella
rumba rugginosa di Have To Pretend), incalzare
r e c e nsi o ni
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The Appleseed Cast - Illumination
Ritual (Graveface, Maggio 2013)
chitarra in loop ed effettistiche annesse, l’impressione è che il gruppo del Kansas abbia una
marcia in più quando va ad aggiungere ad un
tappeto post-rock piuttosto ordinario e privo di
grossi sussulti (nonostante l’estroso drumming)
situazioni e stratificazioni melodiche in grado di
evocare sentimenti nostalgici (l’ottima Clearing
Life o Cathedral Rings). Spiccano in positivo anche
l’intro dispari di Adriatic To Black Sea (non solo
uno sfoggio di tecnica) e quello che forse è il passaggio maggiormente pop (nonostante la coda
math-post) del disco: 30 Degrees 3AM.
Le tonalità crepuscolari dipinte ad acquerello tramite un tocco volutamente leggero non ingannino, Illumination Ritual è un lavoro in realtà
coeso e raramente pedante. Gli appassionati
apprezzeranno, chi è invece alla ricerca di qualcosa di più stimolante e contemporaneo può anche
soprassedere.
(6.6/10)
la malinconia con piglio bayou Creedence (Easy
Way), caracollare fra delta e front porch (Evergreens), tenere la fregola al guinzaglio come dei
Them sul punto di esplodere Black Keys (It’s a
Crime). Lubrificando il tutto con una vaga tendenza alle digressioni amniotiche che ricordano
un po’ i Dave Matthews (l’agrodolce Canopy, la
jazzata Shine) quando non certi disimpegni evocativi Phish (la felpata No tomorrows, la meditabonda Northern Lights).
Tra il frugale e l’aspro, tra l’indolenzito e l’entusiatico, tra lo speranzoso ed il viscerale, i Cave
Singers suonano come i compagni perfetti per
un viaggio che vorresti fare tenendo il crepuscolo
negli occhi senza farlo mai diventare buio.
(7.1/10)
The Fall - Re-Mit (Cherry Red
Records, Maggio 2013)
Genere: Punk
Ci sono icone irrinunciabili che vengno in mente
ascoltando il nuovo - vecchio, eppur fresco - album dei The Fall. Il trentesimo, per essere precisi,
e il quarto (un record) con la stessa formazione:
Elena Poulou (tastiere), Dave Spurr (basso), Pete
Greenway (chitarra) Keiron Melling (batteria).
Attacca Sir William Wray e pensi a come John
Lydon il teatrante strattonò glam e r’n’r in quella
botta che fu Never Mind The Bollocks; senti
Noise e quel testo che parla di pizza (oh, ma che
diavolo dice?) e ti viene spontaneo il rimando a
quel Thomas which I still love e al dada punk di
Cleveland che tirò giù nello scantinato Beefheart;
ti cali nello sporco di Hittite Man e pensi al Charles Bukowski di Tutti gli stronzi del mondo e me e
al fatto che Lydon e Thomas erano i due pagliacci, le due maschere beffarde e crudeli mentre lui,
Mark E. il poeta di strada, il “crudaiolo” stronzo, il
petulante “comiziaro”, l’omaccio che senza le sue
otto pinte non se ne torna a casa.
Trentesimo album, si diceva, e proprio come
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Stefano Solventi
l’ennesimo disco di quei fenicotteri dei Melvins,
sentirli biascicare, sibilare le S e implodere le P,
insomma sentire i Fall in autogol permanente, è
la solita becera goduria, specie se Mr. Smith è più
a suo agio del solito, menefregista al punto che lo
senti provare qualcosa di isterico, qualcosa di più
stronzo della media antipatia suscitata nel prossimo. Del resto, rispetto all’iniziò di quella dispotica
avventura che è stata la sua alias band, libertà
vorrà ben dire che tu giochi e gli altri assecondano le tue regressive invettive, no? Per esempio,
intuiscono un regredito punk da un testo, massaggiano del rockabilly sotto una manciata di
sputi (No Respects Rev.), mettono un giro di moog
(Vicotrola Time) o del caffé tostato postpunkista
(Jetplane) a scaldar la fiammella dell’ennesimo
“bla bla declama” contro questo o quello.
Sempre differenti, sempre the same, qualcuno
dice la caricatura di se stessi in questo episodio,
io aggiungo in surf su quella (ed ecco perché lo
considero superiore a Ersatz GB). The Fall tornano
e danno l’assuefazione che richiedono i grandi.
Loadstones chiude il disco col dito medio agli Art
Brut e alla loro compila antologica Art Brut Top
of the Pops uscita quest’anno. E già, si fotta pure
l’ultimo album dei PIL.
(7.1/10)
Edoardo Bridda
The Handsome Family Wilderness (Loose Music, Maggio
2013)
Genere: alt-country
Una coppia, Brett e Rennie Sparks - il primo
autore delle musiche, la seconda responsabile
dei testi - forma gli Handsome Family, band ventennale che arriva con Wilderness al traguardo
del decimo album, dopo aver pubblicato l’ultimo,
Honey Moon, nel 2009.
Americana, alt-country, murder e southern gotic
gli ingredienti principali, corredati da una forte
passione per lo storytelling, di varia provenienza:
131
gi u gn o
Teresa Greco
The Orb/Lee “Scratch”
Perry - More Tales From The
Orbservatory (Cooking Vinyl UK,
Maggio 2013)
Genere: House, dub
Dopo l’ottima accoglienza ricevuta dall’esordio
collaborativo The Orbserver in the Star House,
jamaica e inghilterra incrociano nuovamente le
proprie strade in una sorta di appendice di quel
lavoro. More Tales From The Orbservatory, lo
dice già il titolo, oltre a festeggiare i venticinque
anni di attività della sigla, è un ulteriore rimodellamento del materiale inciso originariamente in
quelle fortunate session berlinesi di una settimana soltanto. Il menù non può essere che quel
misto di house rilassata e dub che i due Orb, Alex
Paterson e Thomas Fehlmann, hanno apparecchiato per noi grazie al feat. della leggenda classe
‘36.
Riferimento obbligato anche questa volta, il
132
primo doppio album della coppia britannica
Adventures Beyond The Ultraworld (che assieme a UFOrb sarà probabilmente suonato live
alla O2 Academy il prossimo 8 giugno all’interno
del Playground Festival), anche se queste nuove
cinque tracce (+ interludio) e realtivi strumentali pasturano diverse angolazioni house sotto il
toasting di Perry con modalità forse più concise e
coerenti con il nuovo corso orbiano. A partire dal
singolo Fussball, i due, sotto il rauco, magnetico,
narrato del mito vivente, macinano dub e house:
Fehlmann va giù coi bassi grassi, i beat e i loop,
Paterson coadiuva con il manuale della buona
‘90s house sotto sedativo, i riverberi e gli echi a
prezzemolo. Perry, chiaramente, fa Perry e Dio lo
faccia continuare così ancora molto a lungo. La
traccia più evocativa del lotto? E’ la più german
lato Thomas, Making Love In Dub, che con i suoi
hi hat house e gli innesti techno dub a ricordarci
del buon Moritz Von Oswald è pura lievitazione.
Pubblicato contestualmente a un eppì e un album di remix del precedente episodio, Ball Of Fire
e Orbserving The Star House In Dub, The Observer... non è proprio un album lungo, vista la presenza di soli sei originali; profittevole, comunque,
e qualitativamente soddisfacente per i due, visti
i risultati, aver rimanipolato ed espanso lungo
questi ultimi mesi il ricco materiale delle brevi
session orignali non ancora pubblicato. In autunno uscirà un album celebrativo per i venticinque
anni degli Orb a cui seguirà un tour intensivo. Il
prossimo anno, invece, arriverà una nuova collaborazione illustre. Paterson dice che proviene
dal Nord America ma di più ancora non è dato
sapere, se non che sarà un nome grosso.
(7/10)
Edoardo Bridda
The Pastels - Slow Summits
(Domino, Maggio 2013)
Genere: indie pop
Difficile, se non impossibile, avvicinarsi a questo
r e c e nsi o ni
che sia la tradizione gotica americana, la folk music, la cronaca, la storia o l’immaginazione fervida,
questa componente li caratterizza fortemente.
Nello specifico, Wilderness è centrato sul mondo
animale e le sue meraviglie, anche strane, il tutto
mescolato a miti, leggende e inserti storici (dal
Generale Custer allo storico songwriter americano Stephen Foster, per citarne alcuni).
Musicalmente si va dalle murder ballads (Eels,
Caterpillars) al gothic - spesso in salsa country
morriconiana -, al rock blues stoniano (Frogs),
a un alt-country (Owls, Spider) abbastanza prevalente. In sostanza, una riconferma del potere
immaginifico e delle atmosfere di questo gruppo
molto stimato nell’ambiente (non si contano le
cover dei tanti, Jeff Tweedy, Andrew Bird, Christy
Moore).
Niente di nuovo sostanzialmente, se non il piacere di ritrovare ancora una volta dei vecchi amici.
(7/10)
r e c e nsi o ni
inconfondibili, che quando occorre (l’adorabile
singolo Check My Heart, The Wrong Light, Summer
Rain, Night Time Made Us) rispolverano l’innocenza twee di un tempo, con la consapevolezza che
comunque di tempo ne è passato, eccome. Ed
è bello che ogni tanto qualcuno ce lo ricordi in
maniera tanto dolce, profonda e ottimista.
(7.2/10)
Antonio PancamoPuglia
The Veils - Time Stays, We Go
(Pitch Beast Records, Aprile
2013)
Genere: indie, alt-rock
Sono trascorsi quasi dieci anni da quando ci
imbattemmo per la prima volta in Finn Andrews, voce e mente (nonché l’unico membro
che rintracciamo in tutti gli album) dei Veils. Un
giovane irrequieto, un diavolo dalla faccia d’angelo, dagli occhi blu e un appena celato sorriso
sardonico, un istrione che però dopo l’exploit
del debutto The Runaway Found ha faticato non
poco a trovare un “centro di gravità permanente”: alla sfavillante malinconia dei primi successi
seguì il sottovalutato Nux Vomica e, quando
arrivò il cinematico (ma altalenante) Sun Gangs
lo aspettarono in pochi, complice anche la lunga
pausa dal suo predecessore. Dopo tanta attesa
(interrotta solo da un EP del 2011, Troubles Of The
Brain) ecco la quarta fatica discografica del gruppo anglo-neozelandese: alla soglia dei trent’anni,
il carismatico figlio di Barry Andrews degli XTC
sembra davvero intenzionato a lasciare il segno e
a crescere, lavorando sui suoi punti di forza - una
vocalità subito riconoscibile, oggi più armoniosa
ed educata che in passato ma pur sempre graffiante, che amalgama la fierezza di Nick Cave e il
romanticismo dolceamaro di Rufus Wainwright
- e smussando gli angoli laddove necessario, con
l’aiuto di Nick Launay (che ha prodotto dischi dei
Bad Seeds e degli Yeah Yeah Yeahs) alla produzione e di Bill Price (The Clash) al missaggio.
gi u gn o
album senza avvertire a pelle la stessa autorevolezza, familiarità, spessore e maturità che hanno
reso grande Fade, l’ultimo Yo La Tengo. Sarà
per il tocco di John McEntire, che ha prodotto
entrambi i dischi; o sarà perché le affinità elettive
tra Stephen McRobbie e Katrina Mitchell (unici superstiti della formazione originale) e Ira &
Georgia sono innegabili, tanto per le infatuazioni
velvettiane, per le voci soffuse, per le dinamiche
in costante evoluzione quanto per il significato
cruciale per le scene che hanno rispettivamente
fondato (Glasgow e Hoboken, negli ‘80 come
oggi, non devono essere poi così distanti). Slow
Summits non è soltanto il graditissimo ritorno dei
Pastels su lunga distanza da sedici anni a questa parte (escluse collaborazioni e soundtrack,
Illumination reca la data 1997), è la pietra miliare
che ha il dovere di ricordarci, nel 2013, la statura di un’entità che dell’indie-pop scozzese è di
fatto sinonimo. Dici Pastels e dici Creation, C86,
Rough Trade, Baby Honey e tutto quello che, dai
Vaselines fino ai Belle And Sebastian passando
per Teenage Fanclub (e citiamo solo i più noti)
ha reso la Scozia la capitale morale dell’indie-pop
europeo e non solo.
Come Fade, questo disco è dunque sì una meritatissima celebrazione, ma soprattutto la testimonianza di un’eleganza compositiva che è
sinonimo di maturità espressiva, una cosa che
acquisisci col tempo e, perché no?, con il piccolo
aiuto da parte di amici più che speciali (To Rococo Rot, Norman Blake, la fondatrice Annabel
“Aggi” Wright, i Tenniscoats con cui nel 2009
avevano diviso l’LP Two Sunsets). “Sai cantare una
canzone in silenzio?”, invita Katrina nell’iniziale
Secret Music, programmatica e paradigmatica
insieme; l’arte dei Pastels oggi è questa, forma
soffusa e fibre vagamente post-, arricchite da
ritmiche, organi, flauti, fiati, leggere intromissioni
elettroniche (riassumono tutto i sei minuti abbondanti dello strumentale Slow Taking Place, a
dire il vero molto YLT); e naturalmente quelle voci
133
gi u gn o
134
ma ricche di immagini (“I cani stanno ululando
alla luna / ma sono troppo perdutamente innamorato per curarmene”), Turn From The Rain cattura
l’attenzione con un pianoforte saltellante, fiati
sullo sfondo e un’armonica a bocca e Birds è immersa in atmosfere più care ai Calexico che a ciò
cui ci avevano abituati i Veils fino ad ora. La dolce
maestosità della ballad Out From The Valleys &
Into The Stars sigilla quello che, alla fine, si rivela il
disco di un Finn Andrews che forse ha finalmente
trovato una sua dimensione - quella di un maudit impenitente che, parafrasando Oscar Wilde,
vive sì nei bassifondi ma ha finalmente trovato la
serenità e il coraggio di guardare anche le stelle. Il
tempo resta fermo, lui - con i suoi Veils - va avanti.
Se i risultati sono questi, perché mai dovremmo
fermarlo?
(7.1/10)
Alessandro Liccardo
These New Puritans - Field Of
Reeds (Infectious, Giugno 2013)
Genere: orchestral-avant-pop
“Hello, I thought I’d write an email about the new
album. it is called Field of Reeds.The music speaks
for itself more than any other we’ve done before”.
Ecco, non è vero. È un falso mito quello messo in
campo da Jack Barnett. Non il primo inventato
dai These New Puritans. Ma il mito più grosso
non è esterno, ma interno, è il mito di sé che i
TNPS continuano a volersi cucire addosso. Di
nuovo, c’è continuo bisogno di spiegazioni, di
argomentare perché l’ambizione è compiuta e ci
regala quel presunto capolavoro di cui facciamo
fatica ad accorgerci.
Secondo la teoria dei mondi possibili, una storia, un testo, fornisce solo alcuni dettagli di un
mondo immaginario, mentre tutto il resto ce lo
mettiamo noi, riempiendolo della nostra quotidianità di lettori. Detto più semplice, ci facciamo
assorbire da un racconto e lo aiutiamo a funzionare, ma senza che si senta il meccanismo in
r e c e nsi o ni
Le dieci nuove canzoni sono state scelte tra un
centinaio di provini registrati negli ultimi anni,
eppure un fil rouge che le lega c’è - lo ha spiegato lo stesso Finn durante una recente intervista:
“Penso che il concetto che viviamo in un universo
ostile, in cui l’unica certezza è la morte, possa o
farci saltare giù dal letto al mattino oppure desiderare di non svegliarci più; ora come ora, mi fa
venir voglia di alzarmi molto presto”. Nonostante
questa premessa, Time Stays, We Go è il lavoro
meno cupo della band, il più denso, con episodi
maturi e riflessivi alternati ad altri dal fascino
spericolato, come l’incendiario Through The
Deep, Dark Wood, con l’organo della new entry
Uberto Rapisardi in bella evidenza (qualcosa che
vorremmo tanto sentire in un disco degli ultimi
U2), e lo sbilenco Dancing With The Tornado che
guarda a Jack White e a Black Francis. Ottimo
il lavoro di Daniel Rainshbrook alla chitarra e di
Sophia Burn al basso, in un disco che vive stavolta più di nuances - che necessitano di più ascolti
per essere colte - che di sprazzi di bellezza sfacciata: lo si può notare in Train With No Name (si
immagini se Quentin Tarantino ingaggiasse gli
Arcade Fire per il “main theme” del suo nuovo
film), nella melodia spartana di Candy Apple Bed
e nella dondolante The Pearl, alla fine della quale
Andrews gioca a fare il David Byrne della situazione ripetendo “I’m trying to keep real calm, try
not to shake my drinkin’ arm” come un mantra.
Non è una novità che i contrasti siano l’asso nella
manica di Finn e dei suoi compagni, ma stavolta
gli accostamenti arditi (“mi piace l’idea di un Roy
Orbison che trascorre una giornata strampalata
con gli Stooges”), anziché stordire, collaborano
fianco a fianco disegnando sfondi fluidi dai quali
pur emerge, al momento opportuno, l’elemento
che sa cogliere di sorpresa. Le cose vanno ancora meglio nella seconda metà
dell’album: Sign Of Your Love è un brano d’impatto che risalterà ancora di più dal vivo, tra stopand-go di chitarra, tambourines e liriche semplici
r e c e nsi o ni
un capolavoro, o quantomeno un gran disco.
Eppure non possiamo, perché - come dice qualcuno - aldilà della messa in scena delle stranezze
del proprio carattere - è dentro il testo che cerchiamo salvezza. (6.9/10)
Gaspare Caliri
Tricky - False Idols (!K7, Maggio
2013)
Genere: Trip Hop
Se il trip-hop ha avuto un profeta, è stato Tricky.
Un merito che non gli verrà mai disconosciuto, ma anche una bella zavorra da cui pure ha
tentato a disimpegnarsi negli anni Zero del suo
scontento, con album che ce lo hanno mostrato
ringalluzzito (l’afflato bluesy di Knowle West
Boy) oppure velleitario (le espansioni stilistiche
grandi firme di Vulnerable), in ogni caso inevitabilmente sbiadito rispetto ai fasti dei primi lavori
in solitario e in combutta coi Massive Attack.
Del resto il trip-hop è (stato) uno stile fortemente
caratterizzato, sia da un punto di vista geografico
che sonoro, perciò facilmente soggetto a storicizzarsi e complicato da rinnovare senza che inizi a
sembrare qualcos’altro.
Ok, però andatelo a dire all’ormai quarantacinquenne Adrian Thaws, il quale, in occasione del
titolo numero dieci in carriera, si produce in
dichiarazioni mirabolanti ma abbastanza tipiche:
“sono tornato a fare ciò che mi detta l’istinto”, “molti non saranno d’accordo, ma è un album migliore
di Maxinquaye”, “questo disco parla di me che ritrovo me stesso”, eccetera. Sicumera a palla che lo ha
spinto, tra l’altro, a muoversi per conto proprio
fondando un’etichetta, la False Idols, esattamente
come il titolo di questo disco che vede il bristoliano dare vita a una parabola di rinascita e opposizione in quindici tracce. Non a caso il programma
si apre costruendo Somebody’s Sins - sorta di
dub inceppato con riffettino ipnotico di tastiera
e il canto affidato a una Francesca Belmonte in
gi u gn o
azione. In Field Of Reeds spesso non ci si sente
trasportati, si percepiscono anzi tutti i dispositivi
che ci dovrebbero trasportare, gli ingranaggi in
movimento. Quando questa cosa non è tenuta in
considerazione, o c’è ingenuità, o tracotanza. La
pesantezza del disco, del far sentire la concettualità del trasporto, può dipendere da indifferenza
verso l’allineamento con il pubblico: un palcoscenico dove i TNPS stanno di spalle; di fatto, che ci
sia o meno qualcuno a sentirli, l’importante è che
ci sia il palcoscenico.
Il mondo possibile è raccontato con tutti i particolari. André De Ridder, a Berlino, ha seguito
e diretto l’orchestra. Barnett ha co-prodotto con
Graham Sutton, come Hidden. Si fa il pieno di
musicisti di tutto rispetto, orchestrati con piglio
classico, più che contemporaneo. C’è persino
la falchetta Shiloh - una vera predatrice, ci dice
Barnett - e le sue ali registrate.
Fragment Two è tanto efficace nel condurre su
una strada difficile l’accessibilità pop quanto The
Light In Your Name auto-indulge nel voler sottolineare un talento nel comporre, distribuire differenziali di pathos, accasciare in maniera eclatante
temi su innovazioni. Poi, arriva una Spiral semplicemente noiosa, e i limiti di chi non sempre trova
capacità di sintesi, e finisce per indulgere come
David Sylvian, e non di fare il proprio mestiere
con naturalezza come Robert Wyatt (Field of
Reeds). In definitiva, Jack Barnett ci sembra solo,
nonostante un network di persone costruito a
pennello, e raccontato altrettanto bene.
Il finale di V (Island Song), dopo l’insistenza del
tema centrale nel brano, è prova tangibile di quel
talento nel plasmare uno stato d’animo interno
alla musica, e non al discorso su di essa. Una
prova della capacità di toccare: messi in mano
a qualcun altro, questi strumenti (in senso lato)
avrebbero prodotto un rischio pacchianata difficilmente arginabile.
Fosse meno tronfio, James Barnett, ci lasceremmo più andare e chissà forse ci sarebbe sembrato
135
gi u gn o
Stefano Solventi
UnePassante - No Drama (Anna
The Granny, Aprile 2013)
Genere: electro-pop
Ai tempi del primo disco More Than One In Number definimmo la scrittura di Giulia Sarno/UnePassante “totalizzante”, simile a “una St. Vincent
in chiave chamber ma senza le torsioni metropolitane tipiche della musicista americana”. La Sarno
dev’essersi risentita, visto che in No Drama non
solo abbraccia in toto quelle torsioni melodiche
cui si faceva riferimento, ma le plastifica pure
grazie a un’elettronica alle volte vicina alla dance
(Extinction, Xman), più spesso parente dell’ultima
Beatrice Antolini (Seesaw).
Fondamentalmente si tratta di pop, ma ad ampio
spettro ed evoluto rispetto a un già pregevole
esordio in cui si viaggiava su piccole perle acustiche/da camera perfettamente arrangiate. Di
quel disco, in No Drama rimangono spiccioli - le
atmosfere raccolte di Lullaby (The Air We Breathe)
e War & Peace, seppur arricchite da un sentore
dreamy-psichedelico perfettamente in linea con
la modernità linguistica affrontata nel disco - e
un Gianmaria Ciabattari, al solito, ottimo in fase
di co-produzione. Non è finita, perché in Woodworms arrivano gli archi e in Wonderful Robots
si sfiora il noise su certi controtempi trascinanti,
confermando che si tratta non tanto di svolta di
comodo quanto di una curiosità musicale evidentemente da appagare.
Per ora tutto fila liscio e, finché la musica si manterrà su queste coordinate senza lasciar trasparire
dispersioni di sorta, ascoltarla sarà un piacere.
Al disco partecipano, oltre a Michele Staino e a
Emanuele Fiordellisi, parte integrante del progetto UnePassante, Wassilij Kropotkin al violino,
Renato Cantini alla tromba, Tommy Bianchi al sax,
ennesima conferma di un suono che si fa sempre
più ricco e rotondo.
(7/10)
Fabrizio Zampighi
136
r e c e nsi o ni
trance oppiacea - sul celebre incipit pattismithiano “Jesus Died For Somebody’s Sins But Not Mine”
e si chiude con una Passion Of The Christ dove il
Nostro biascica hip hop torvo e madreperlaceo.
La londinese Belmonte è alter-ego vocale nella
maggior parte dei pezzi, forse in quelli più riusciti, come Bonnie & Clide (cassa in quattro sotto
ai retaggi errebì e gli espedienti cinematici), la
radioheadianamente apprensiva Nothing’s Changed e la carezzevole Is That Your Life. Come sua
abitudine, Tricky ama nascondersi dietro interpretazioni altrui, come quella di Fifi Rong (nel
soul jazz sospeso di If Only I Knew), della nigeriana Nneka (nell’ammiccante Nothing Matters, avvampata di fiati e archi, screziata da una chitarra
à la Manzanera) e del soprano androgino di Peter
Silberman (nel soul minaccioso e straniante - la
scansione ritmica ricorda quella di Mama dei Genesis - di Parenthesis), tutti nomi nel roster della
neonata label. Quindi niente guest star, spremitura trickiana in purezza nei modi noti, Bristolsound recuperato nei suoi elementi base. Con
però una voglia di pulizia, di progettualità quasi
ingegneristica, che obbedisca in qualche modo
all’idea sedimentata di trip-hop, alla sua sagoma
mnemonica più che al teso groviglio di astrazioni
electro-cinematiche-black dell’epoca.
Pochi azzardi (la cineseria folk letargica di Chinese
Interlude, il Chet Baker ridotto a blanda icona di
cera in Valentine) e tanta voglia di mostrarsi in
possesso di un codice essenziale ma inimitabile
(vedi il rapimento brumoso di We Don’t Die), saggia inquietudine da sussurrare nei timpani di una
generazione oramai salottiera. Tricky lucida e affila la lama ma evita di affondare troppo il colpo,
come se avesse paura di spezzarla. Si riduce così
ad olografia di se stesso. Piacevole. Accessorio.
Dimenticabile.
(5/10)
Genere: soul, songwriting
Dopo tre album autoprodotti e una discreta
gavetta, l’incontro con Dan Auerbach dei The
Black Keys è stato molto propizio per la trentenne musicista americana Valerie June. Originaria di
Memphis, Tennessee, una cascata di dreadlock su
un viso irresistibile, la nera Valerie mescola blues,
soul, gospel e folk. Pushin’ Against A Stone era stato co-scritto e co-prodotto da Auerbach, insieme
a Kevin Augunas (Edward Sharpe & The Magnetic
Zeros, Florence & The Machine) nel luglio 2011,
ed esce solo ora in UK e Europa su Sunday Best.
C’è freschezza e impeto melodico, espressività e
soul a volontà, folk e rock rivisitato e tanta tanta
anima, in questo ben coadiuvata dal producer.
Va da sé che il disco sappia tanto di Black Keys
in salsa femminile, con il valore aggiunto del
raccontarsi in prima persona da parte di Valerie,
soprattutto riguardo agli esordi difficili.
Il singolo You Can’t Be Told è puro sound vintage
60’s e 70’s, Somebody To Love vede la presenza e
la co-­scrittura della leggenda Booker T. Jones, la
title track odora ancora di vintage e di Phil Spector, il banjo, uno degli strumenti che la Nostra
suona, fa la sua comparsa in più di un’occasione.
Per il resto tanto Van Morrison e Billie Holliday, il
blues delle radici, i Rolling Stones, e in generale
un recupero post come già tanti prima di lei, i
White Stripes per citarne alcuni. Con un fiero
proclama di old school music da parte di Valerie
che sa però di modernismo.
Non un esordio vero e proprio allora, ma una
conferma e la scoperta di un bel talento.
(7.2/10)
Teresa Greco
Wild Nothing - Empty Estate EP
(Captured Tracks, Maggio 2013)
Genere: synth-pop
Punte di diamante di casa Captured Tracks e con
l’ultima recente pubblicazione, Nocturne, che ne
ha definitivamente consacrato le eccelse doti di
scrittura, Jack Tatum e i suoi - ormai al plurale Wild Nothing sfruttano il momento di grazia per
mandare in stampa nuovo materiale. Così come
ad inizio carriera, anche questa volta la scelta
ricade sul formato dell’EP e a far da contraltare
all’esordio Golden Haze c’è ora questo Empty
Estate, risultato di quell’urgenza espressiva che è
spesso chiaro sintomo di cambiamento. Ci sono
novità in casa Wild Nothing e lo si percepisce sin
dalla copertina, un caleidoscopio policromo che
poco si adatta alle scelte (quasi) monocromatiche
delle precedenti uscite. La svolta, seppur ancora
in nuce, si riflette anche nei suoni: il pop abbandona il bianco e nero per abbracciare i colori e
quasi ovunque c’è almeno una sfumatura psichedelica.
Se ne ha subito evidenza con un’iniziale The
Body In Rainfall sbarazzina e caratterizzata da un
incedere psych-pop che, pur riportando talvolta
alla mente addirittura i MGMT, riesce ad amalgamarsi adeguatamente con i marchi di fabbrica
tipici di casa Tatum. Allo stesso tempo è interessante notare il quasi totale abbandono delle
sonorità jangle degli esordi, a favore della scelta
di puntare forte su quelle atmosfere più sintetiche che già facevano capolino su Nocturne. Un
pezzo come Paradise sembra infatti aver posto
le basi per la costruzione dei tre episodi centrali
dell’EP: si ritrovano di nuovo quei synt scintillanti
e patinati che avvolgono prima le chitarre di Ride
e sublimano poi il tiro à la DIIV di Data World e
gli ammiccamenti catchy di Ocean Repeating (Bigeyed Girl), abbracciando un alone che da dreamy
si fa quasi electro-pop. Gli spaccati più dilatati ed
eterei del predecessore vengono invece spinti
al limite e contaminati dalla “deriva” psych, con
l’interlocutoria Hachiko, strumentale pseudoambient poco ispirato che, insieme allo sparringpartner sotto acido - ma forse ancor più insipido
- On Guyot, fa il verso agli Animal Collective più
gi u gn o
r e c e nsi o ni
Valerie June - Pushin’ Against A
Stone (Sunday Best, Maggio 2013)
137
fumosi senza però trovare una via d’uscita degna.
Il tocco finale di nuovo rivitalizzante è dato però
dalla rocambolesca progressione funky di A
Dancing Shell, salmodiante nella strofa e con uno
special di fiati che ci accompagna per direttissima
alla sezione David Byrne della collezione di dischi di Tatum, con la certezza che la strada verso
il prossimo LP - al di là dei mezzi passaggi a vuoto
delle divagazioni ambient - sia già ben spianata e
con la consapevolezza che a lasciare la strada certa per l’incerta, se si hanno talento e idee, spesso
ci si possa guadagnare.
(6.5/10)
Marco Masoli
Genere: industrial
Tre indizi fanno una prova: il noise targato 2013
pare essersi stancato di massacrare i distorsori e
allarga gli orizzonti. Tutta gente di primo piano:
c’è Prurient che dopo anni passati a fracassarci
i timpani se ne esce con un disco techno e gotico, c’è Brian Chippendale, che lascia le tempeste
ormonali dei Lighting Bolt e ritorna con forme quasi coerenti nei Black Pus. E poi ci sono
Wolf Eyes, che avevamo lasciato a quell’Always
Wrong di ispirazione TG - The Second Annual
Report e che ora, tanto per continuare il parallelo, ritroviamo alle prese con il personale 20 Jazz
Funk Greats.
Non è un assalto sonoro, dunque. Si lavora sull’atmosfera, su un paesaggio claustrofobico, sinistro,
desolato. Tutto è ridotto all’osso, i beat sono
scheletrici, il rumore equilibrato nel gioco pieno/
vuoto, con ampio spazio per il silenzio. E in fin dei
conti è proprio il vuoto a marcare il carattere di
No Answer: Lower Floor, un vuoto tanto musicale quanto spirituale perché tutto suona per
essere austero, rarefatto, indifferente. No Answer
appunto, e di nessun genere.
Comunque è il finale del disco a regalare i mo-
138
Stefano Gaz
Wolther Goes Stranger - Love
Can’t Talk (La Barberia Records,
Maggio 2013)
Genere: electro, shoegaze
Love Can’t Talk. Per farlo parlare, stando ai
Wolther Goes Stranger, ci vogliono tre teste, tre
battiti in sincrono, tre passioni pulsanti di musica
fatta col sudore, santificata, metamorfizzata sulla
linea d’ombra dell’indie-tronica. A questo punto,
dopo tre stuzzicanti aperitivi sulla media distanza, il progetto solista di Luca Mazzieri, chitarra
e tatuaggi degli A Classic Education, sente il
bisogno di cambiare pelle, di confrontarsi con gli
spiriti creativi di nuovi colleghi: Massimo “Colla”
Colucci e Linda “Bru” Brusiani.
Love Can’t Talk è il raggio della circonferenza A
Classic Education, è lo spasimo elettronico del
vessillo di His Clancyness. È un’opera bizzarra,
originale, in cui la maestria chitarristica di Mazzieri, la sua impagabile fede nello shoegaze e nelle
chitarre ruggenti, si fonde da un lato con i propulsori elettronici di gusto pienamente Eighties
(anche di quello più “commerciale”), dall’altro con
la forza viva della latta, del marciare secco, spontaneo, inerte e post-industriale di Silence Is Sexy
degli Einstürzende Neubauten.
Ma è un silenzio sexy solo apparente. La malinconia di fondo dettata dai quattro quarti di batteria
che quasi scandiscono le morti dei disco dancer ai
r e c e nsi o ni
gi u gn o
Wolf Eyes - No Answer: Lower
Floor (De Stjil, Aprile 2013)
menti migliori, con la lunga agonia di Warning
Sign, ripetizione infinita di quello che potrebbe
essere un perfetto segnale industrial, e i dodici
minuti di Confession of the Informer, il pezzo più
ragionato, una suite composta da pochissimi elementi (tamburo, voci interrotte, qualche rasoiata
e poco più) in cui viene fuori con grande forza
l’abilità compositiva dei tre. Va tutto bene allora:
la missione è compiuta, lo straniamento è totale.
Lunga vita ai Wolf Eyes.
(7.2/10)
r e c e nsi o ni
quello che abbiamo fra le mani è un lavoro duttile e componibile, dai confini allargati alle maglie
attillate dei sentimenti. Un progetto che equilibra
l’esperienza decennale di chi mastica musica da
sempre, pur rimanendo eccitato e impaziente
come un bambino alle prese col suo primo giocattolo.
(7.4/10)
Nino Ciglio
Won - Isolution (Ample Play,
Maggio 2013)
Genere: techno, dark
Marco Ricci è il leader della Casa Del Mirto, uno
dei gruppi italiani che negli ultimi anni ha fatto
più parlare di sé a livello internazionale grazie a
una buona proposta glo-fi retrofila che piace sia
all’indie rocker che al synth-popper. L’esordio in
solitaria del frontman si stacca completamente
dall’elettronica shoegaze del gruppo madre e si
situa invece nel tunnel oscuro della techno. Won è un viaggio a base di ritmiche darkissime,
roba ipnotica ereditata da Detroit, rivista seguendo la lezione della Berlino di Maurizio & Co. In
questo senso il disco ricorda alla larga la storica
serie dei singoli della Basic Channel, ripensati con
bassi più caldi e con una battuta leggermente
più lenta, in fregola Pan Sonic, gruppo di cui
Ricci ha dichiarato di essere fan. Il quadro dipinto
dall’uomo è cupo, strafatto di alienazioni clubbiste (la title track), senza concessioni alla luce. Il
discorso indaga la dimensione macchina-trance
e la ripetizione ossessiva con spezie industrial,
ma non sfocia in banali prosopopee nordiche,
ripensando invece la matrice primigenia del
genere con la mitteleuropa in testa, costruendo
una delimitazione puntuale del trip (le camere
onirico-progressive di Idyll I e II), tagliando il tempo con inserti post-goa che richiamano i 90 (Face
Symmetry) e chiudendo con cupe svisate acide
(Kiln). Non sorprende che la matrice di questo progetto
gi u gn o
conseguenti rintocchi della mezzanotte di Cenerentola, le battute di piano messe lentamente ad
asciugare in riverberi profondissimi, sono solo
una faccia di questa medaglia silenziosa. È l’amore che la guida, è l’amore che la rende malinconica. Così è nell’uso della lingua: l’italiano diventa
inglese e viceversa, più veloce di quanto non ci
si metta a dire “Indiana Jones”; così è tanto nelle
corde vocali da brivido di Linda Brusiani, quanto
in quelle sprezzanti e velvetiane di Mazzieri.
Non importa che tipo di lingua si usi per parlare
d’amore, non importa se ruggiscano di più le
chitarre o i sintetizzatori: basta un lungo assolo di
sax (quello di Stefano Cristi in Darling) per ritrovare il contatto con la terra; basta l’autorevole
firma di Alessandro Raina degli Amor Fou nel testo di I’m Sorry per far sorridere la voce luminosa
di Linda in un perdono; bastano le metamorfosi
liriche di una Your Name che percorre Italia-Inghilterra in soli tre accordi e tre minuti e quarantacinque; basta il levare apocrifo di Jesus, fatto di
suoni liquidi e un testo fra i più belli (“Nel peccato
non c’è oscenità se fatto con amore”; “a tavola con
me voglio solo i Farisei”).
No, non bastano ai Wolther Goes Stranger
queste caratteristiche che già renderebbero Love
Can’t Talk uno dei dischi italiani più interessanti
del 2013. Questo perché fin troppo si è parlato
d’amore e se n’è parlato male. Per far nascere un
disco che parla d’amore, bisogna vivere le storie
d’amore: come quella di Mazzieri per Fiumani dei
Diaframma, inseguito e intrappolato per sempre
in Sometimes con la sua voce fiammeggiante a
incendiare il passato; come quella che lega indissolubilmente questo progetto al più importante
progetto indie italiano (esportato e riesportato
negli States e non solo), gli A Classic Education,
il cui leader e partner musicale di Mazzieri da
sempre fa la sua comparsa in Sixteen regalando
quello che è forse il brano più intenso del disco.
Cerchio chiuso, come in un film di Lynch o di Von
Trier? Forse sì, ma non sigillato del tutto, perché
139
venga da Trento, sorta di ponte fra nord e sud,
confine di idee fra Germania e Italia. Won parte
bene, il suono è piantato sulla tradizione e verrà
sicuramente apprezzato dai cultori della materia.
Sette singoli che possono trovare casa sia nella
prossima estate ibizenca che in terra d’Albione:
non per niente il disco viene prodotto da Ample
Play Records, etichetta dei Cornershop con base
a Londra. Un side project da tener d’occhio.
(7/10)
Marco Braggion
Genere: happy pop
Lo scorso autunno vi abbiamo presentato i californiani Youngblood Hawke parlando di “ingredienti giusti per finire in high rotation” (riferendoci
al singolo We Come Running) in grado se non altro di “strappare qualche sorriso”, terminando poi
l’excursus con un “aspettiamo l’album - se e quando arriverà - ma l’impressione di essere di fronte ad
un gruppo meteora è tanta”.
Da allora non si è mosso molto all’interno
dell’universo discografico di Simon Katz e soci:
We Come Running ha ingranato abbastanza bene
- è arrivata in airplay anche in Italia con il consueto ritardo - senza però sfondare come avrebbe
potuto e soprattutto fallendo nel tentativo di creare qualsivoglia hype nei confronti dell’album di
debutto intitolato Wake Up (tornano i già espressi riferimenti agli Arcade Fire), uscito piuttosto in
sordina.
All’interno di Wake Up troviamo, oltre alla già
citata We Come Running, anche le altre tre tracce
presenti nell’EP - Rootles, Stars (Hold On) e Forever
-, ovvero quel concentrato di happy-pop corale
che gli Youngblood Hawke hanno dimostrato
di saper maneggiare con abilità e astuzia. L’obiettivo è chiaramente quello di ripetere quanto
fatto dagli Of Monsters And Men nel 2012, cioè
140
Riccardo Zagaglia
ZoCaffe - Noi non siamo figli
(Phonarchia, Marzo 2013)
Genere: rock d’autore
Gli Zocaffe tornano a distanza di un anno dal
precedente Il piglio giusto, con un concept dedicato a una fauna composta dai più disparati
personaggi. Noi non siamo figli racconta storie
diverse, di persone a noi più o meno note, nascoste dietro un nome di battesimo, magari reso
diminutivo, dall’identità rintracciabile solo dopo
r e c e nsi o ni
gi u gn o
Youngblood Hawke - Wake Up
(Universal Republic, Giugno
2013)
mettere in sequenza un’implacabile set di killer
tracks che sia in grado di ricreare questo effetto.
Quale periodo migliore per uscire allo scoperto
con un prodotto smile-inducing se non quello
pre-estivo?
Sono gli Abba che danzano a braccetto tra i fiori
con gli Scissor Sisters o una Régine Chassagne
che tradisce Win Butler con Ben Gibbard durante
un picnic bucolico. Tra freschezza, gioia e spensieratezza, chi nella pop music cerca soprattutto
l’esaltazione della positività troverà senza dubbio nei giochi a due voci della band un perfetto
alleato. Un dinamismo solare che fa ovviamente
perno su ritmiche uptempo, ma che riesce a sprigionare le melodie contagiose anche nei passaggi più “riflessivi” (Dreams).
A minare l’operato, oltre a un eccesso di saccarosio, pensano brani che non riescono a superare
la barriera della mediocrità, rimanendo ancorati
negli abissi della futilità (Dannyboy, scritta per un
amico entrato in coma, o la vana Sleepless Streets
con tanto di tromba) o arrancando nel tentativo spesso con esito negativo - di confezionare brani
orecchiabili quanto We Come Running (Glacier,
Last Time o i synth-bass drops di Blackbeak) e
avvicinandosi solamente in occasione della MGMTiana Say Say.
L’estate fa tanto presto ad arrivare quanto ad andarsene, e con essa gli Youngblood Hawke.
(5/10)
r e c e nsi o ni
Per il seguito, The Bridge Between Life & Death,
in lavorazione sin dal 2009, sono stati usati field
recording catturati in Islanda, e l’intero lavoro è
ispirato all’isola. Il titolo si riferisce a un ponte a
Kópavogur, che viene chiamato così localmente,
perché ha una casa di riposo da un lato e un cimitero dall’altro, e nascita e morte sono leitmotiv.
Il sophomore riflette la fascinazione del Nostro
per l’Islanda, con la possibilità di aver potuto
collaborare con musicisti che ama, come i guest
Amiina in The Potter’s Garden, Sin Fang (Seabear) in The Gaits e Benni Hemm Hemm in Thufur
Thoroughfare (che ha contribuito con un proprio
file recording).
Musica atmosferica che ben riflette gli ambienti
da cui ha tratto ispirazione, suoni e particolari
curatissimi, la melodia sempre in primo piano,
un lato chamber che non può che richiamare
l’Islanda di Sigur Ros e Múm, composizioni nate
dai field e poi sviluppate al piano e con strumenti
acustici, tanti arrangiamenti orchestrali. C’è una
grazia, una malinconia e un’atmosfera che prendono da subito.
(7.1/10)
gi u gn o
attento ascolto. I personaggi di cui racconta
la band toscana sono quelli della quotidianità
mediatica, televisiva, quella in cui chiamiamo per
nome chi popola i piccoli schermi pur non conoscendo nessuno di persona.
Introdotti da una title track in cui si inserisce
la prima delle tante citazioni di quest’album (i
bambini di Another Brick in the Wall e il loro coro
sovversivo dal piglio anarchico), si susseguono
le vicende di Antonello, Donatella, Paoletta fino
a Gianni, che è Gianni Morandi, su cui la band
ironizza senza dolcezza servendosi della musica
di Se perdo anche te, brano del cantante bolognese datato 1967. Mescolando pop rock a influenze
punk, psych, ska, con numerosi inserti di funky e
blues grazie alle parti di fiati, gli Zocaffe si allontanano parzialmente dallo scenario tutto a-laBuscaglione de Il piglio giusto senza però lasciare
da parte le spinte 60s sottolineate da chitarre che
richiamano Celentano e strutture armoniche
italianissime dell’epoca.
Nonostante arrangiamenti e architetture dei brani siano a tratti appassionanti e puramente retrò
(coretti, arpeggi, armonizzazioni vocali), al disco
manca un po’ di sostanza e, una certa bravura
con gli strumenti, non riesce a colmare del tutto
un senso di vuoto lasciato da testi spesso avvolti
da ironia gratuita e un pizzico di superficialità.
(6.4/10)
Teresa Greco
Giulia Cavaliere
Zoon Van Snook - The Bridge
Between Life & Death (Lo
Recordings, Maggio 2013)
Genere: indietronica, IDM
Mescolare folktronica e IDM, usare field recording
catturati dall’ambiente e da oggetti di uso comune, voci dialogate alla Books, avere un taglio
narrativo ambient: stiamo parlando di Alec Snook
alias Zoon Van Snook, musicista, produttore e
dj bristoliano, con all’attivo un album nel 2010,
(Falling From) The Nutty Tree.
141
david
bowie
Le dinamiche
del cambiamento
Ultima parte del monografico
dedicato al Duca Bianco
Testo: G
iulio Pasquali
Giulia Cavaliere
142
Il vi d eo s o n o io
In un’intervista dei primi anni 2000, alla domanda
se, viste le sue originali iniziative (tipo quotarsi
in borsa o essere il primo a distribuire un nuovo
singolo via web) si sentisse più artista o più manager, Bowie rispondeva “100% artista e 100%
manager”. Eppure, se si analizza la sua storia, si
vede come non sempre questi due aspetti siano
andati d’accordo: al netto delle liti con De Fries,
l’aspetto commerciale e quello artistico del Duca
hanno talvolta litigato anche clamorosamente,
e non sempre il Nostro è riuscito a svolgere appieno quel ruolo di mediatore tra l’avanguardia
e le masse che ha costituito, insieme al talento di
songwriter, il tratto distintivo e più forte della sua
carriera. Ne sono testimoni gli stenti iniziali, dagli
esordi 60s più interessanti di quanto dicessero
le vendite a dischi come The Man.. o Hunky Dory
(trainati verso il successo solo dall’esplosione-Ziggy), o un Low andato sì in classifica, ma di cui anni
dopo si sottolineeranno le vendite non eccelse. Il
conflitto tra i due aspetti si fa però eclatante con il
nuovo decennio, nel modo in cui Bowie decide di
rapportarsi agli sconvolgimenti che attraversano il
business del rock tra ‘70s e ‘80s.
Negli anni in cui la discografia comincia a fronteggiare la sua prima crisi di vendite dovuta in parte
alla diffusione delle cassette domestiche (ma
chissà che, data la natura ribelle endemica al rock,
non c’entri pure il riflusso), si colloca la nascita di
una MTV che a quella crisi darà risposta in termini di divismo pop esteso anche alle ex-rockstar,
con una ridefinizione della figura del cantante in
direzione di una superficialità estetica e un primato dell’immagine che estende il presenzialismo
multimediale inventato da(l manager di) Elvis a
forme e canali nuovi. Inizia l’era del videoclip come luogo centrale della
costruzione della fama, e per vari motivi gli artisti
UK arrivano all’appuntamento ben più pronti dei
colleghi USA, anche per una provenienza diffusa
dalle scuole d’arte che li rende per forza di cose
maggiormente propensi ad allargare le forme
espressive, investendo anche il visuale (al riguardo, la differenza qualitativa tra i film di Elvis e
quelli dei Beatles già diceva parecchio). Ma gioca
un ruolo anche una TV americana conformista,
che al rock lascia spazi limitati e controllati mentre
in UK Top of The Pops esisteva da anni e da anni
aveva indotto gli artisti a ricorrere al video anche
come sostituto della performance live. Così, quando la storica emittente di video musicali inizia la
sua attività grazie all’opera di qualche visionario
illuminato, tra cui anche un ex-Monkees (band
in cui militava il David Jones che indirettamente
suggerì al futuro Duca il suo nome d’arte: evidentemente certi cerchi si chiudono sempre), sono il
new romantic e certa new wave inglese a raccoglierne i frutti commerciali. I gruppi USA infatti si dividono tra costosi live e
radio passatiste-classic che non li trasmettono,
mentre gli artisti black vengono esclusi da MTV
per motivi non (ahem) chiari (ufficialmente perché
era un’emittente rock, ma è un’argomentazione
che alla luce degli A Flock of Seagulls fa ridere),
con Bowie tra quelli che ne chiedono ragione. Sul
ritardo degli artisti americani, pesa anche l’incapacità, perfino tra chi aveva intuito l’importanza del
video come promozione, di cogliere certi segnali,
vedi un Michael Jackson che passa sull’emittente
solo dopo le minacce della dirigenza CBS di non
dare più video (con MTV che capirà l’errore e produrrà lei, di fatto, lo storico clip di Thriller). C’entra
anche, però, la piega sintetica presa dal pop inglese, dove la performance live e quella strumentale
contano ormai molto meno, l’autenticità non è più
un valore primario (semmai viene cercata per vie
più oblique) e la messa in scena funziona meglio
su video che non trasportata in giro sui palchi.
Bowie è arrivato a tutto questo da un po’: Scary
Monsters ha rispiegato (in forma più accessibile,
ma sempre art) le implicazioni della rivoluzione
di Low e la videografia del Duca già annovera
risultati significativi, vedi la ribadita celebrazione
143
della maschera e dell’ambiguità nel clip di Boys
Keep Swinging, quella dell’artista-robot nel video
di “Heroes” e soprattutto il capolavoro Ashes To
Ashes, un video che, contemporaneamente ai riformati Roxy Music, nutre e ispira la pur degenere
cucciolata new-romantic (e anche Marc Almond
e Boy George mostravano già di aver studiato la
lezione).
Ma sono anni di cambiamento anche per Bowie
stesso, che oltre alla vecchia casa discografica sta
mollando il vecchio management: approdato alla
EMI nel 1983 con contratto miliardario, decide che
il prossimo disco dovrà essere un blockbuster (ci
torniamo tra poco), e i lusinghieri risultati di cassa
detteranno la linea praticamente a tutto il suo
decennio. Il quale era già iniziato in modo significativo: eliminato il tour per Scary... a causa del
terrore conseguente all’omicidio dell’amico John
Lennon, l’unica produzione discografica del 1981
consiste nella celebre collaborazione con i Queen
per Under Pressure, ovvero un duetto col gruppo
che la vox populi vuole autore del “primo videoclip
della storia” (ovviamente Bohemian Rhapsody, che
in realtà è solo il primo ad esser stato concepito
proprio come promozione diretta di un singolo
- ma forse neanche quello). Una collaborazione emblematica del suo approccio al decennio
della videotv che lo vedrà trasformarsi in una
star multimediale che fa sì dischi, ma soprattutto
diventa personaggio: tra film, colonne sonore,
guests e duetti, l’ex-artista di gusto e avanguardia
si trasforma nella suddetta estensione del tipo di
rockstar alla Elvis, dove “star” prevale nettamente
su “rock” e dove appunto, il manager prevale nettamente sull’artista.
Fu c k a rt. . .
Il pezzo con Mercury e co., baciato da una fama
notevole dovuta a un giro di basso contagioso e al
calibro dei nomi in ballo, è in realtà più importante per queste implicazioni che non per la musica,
che è un collage di melodie improvvisate su una
144
bozza del gruppo, con risultati artisticamente
poco interessanti. Non è il momento peggiore del
suo tourbillon di singoli ‘80, ma annuncia un trend
che può ben essere sintetizzato da una spilletta
creata dal poeta ed editore della beat generation
Lawrence Ferlinghetti che recita “Fuck art, let’s
dance!”. E infatti l’artista se ne starà per lo più in
disparte fino all’89, a parte alcune notevoli interpretazioni da attore al cinema (Merry Christmas
Mr. Lawrence ovvero Furyo su tutte, anche se nulla
batterà mai il ruolo cucitogli addosso da Roeg nel
1976 ne L’uomo che cadde sulla terra) e a teatro, la
comparsata in TV con Klaus Nomi, una penna occasionalmente ispirata, l’EP brechtiano Baal (RCA,
7.2) del 1982 (cinque belle canzoni provenienti da
una messa in scena dell’opera cui aveva partecipato come attore).
Proprio Let’s Dance (EMI, 1983, 6.8) è il titolo del
disco con cui il nostro tenta il botto commerciale,
mettendosi nelle mani di Nile Rodgers degli Chic.
Il quale fa quello che gli viene chiesto - “credevo
facesse arte, invece mi ha chiesto un blockbuster” - e
realizza “l’album di un cantante”, nel quale per la
prima volta il Duca non suona nessuno strumento.
Allo scopo Nile Rodgers mette insieme un misto
di collaboratori già noti e di suoi uomini, più uno
Steve Ray Vaughan che scalpita per emergere
(e infatti la buona performance offerta darà una
spinta fondamentale alla sua carriera) confezionando in tre settimane un prodotto ultra-patinato
allo stato dell’arte: il ritratto sonoro perfetto del
nuovo Bowie per il nuovo decennio, ossia un’affascinante star senza troppe ambiguità o inquietudini, dal suono pulito, che qui però mostra ancora
spunti interessanti.
Rodgers, infatti, conosce il suo mestiere e il disco
suona potente, nitido, capace di non distorcere
neanche ad alti volumi e di incarnare nel suo
funky da classifica qualche spunto new wave,
nascondendo sotto una professionalità altissima
l’inizio della crisi compositiva di Bowie.
Il quale, oltre a non suonare, compone anche
poco: otto canzoni totali di cui una è la versione
normalizzata della Cat People (Puttin’ Out Fire)
scritta con Giorgio Moroder e incisa l’anno prima
per l’omonimo film (Il bacio della pantera), la cui
versione originale (migliore, ma il cui merito principale è inaugurare un certo tipo di canzone del
suo decennio insieme suadente e rabbiosa) non
può essere utilizzata per questioni di diritti; un’altra è la Criminal World degli allievi Metro (il titolo
sembra una citazione da Fantastic Voyage), anche
questa vibrante di eleganti ma svenevoli falsetti (e delle uniche tracce di ambiguità sessuale
riscontrabili nella nuova identità etero del Duca);
un’altra ancora è China Girl, il vecchio pezzo scritto
e inciso per The Idiot dell’amico Iggy (che, come
è noto, userà gli incassi dei diritti d’autore per far
ripartire vita e carriera) e che diventa una delle hit
storiche del nostro nella versione soleggiata e sottilmente inquieta che Rodgers appronta secondo
i dettami massimalisti e facili del pop, stavolta con
la minuscola: “se si chiama China Girl, deve avere
una frase musicale orientale”. Le manca la decadenza e lo sporco disperato dell’originale, ma risulta
un gran pezzo anche così tirato a lucido, nel
sotterraneo tormento che ne increspa l’eleganza e
nel leggendario, torrido video che lascia trapelare
il discorso sull’imperialismo culturale che sarà uno
dei temi bowiani di tutto il decennio.
Non è infatti tutto lustrini ciò che luccica nel
Bowie dell’era-MTV: i testi andranno avanti per
tutto il periodo (anche prima dell’impegno un po’
sguaiato dei Tin Machine) a denunciare una decadenza intesa non come quell’atteggiamento di
critica e distanza dal presente con cui Bowie metteva uno specchio davanti al mondo, ma come
decadenza vera, fatta di rischi di imbarbarimento
(anche il titolo di Criminal World evoca, al di là del
testo, un certo tipo di visione) quando non già
compiuto, ad esempio nella povertà delle città e
nella mentalità chiusa con cui si disprezza lo straniero, l’altro, il diverso (su Tonight sarà “l’alieno”). Ma intanto è un grande singolo pop che trascina
l’album insieme alla title track Let’s Dance, elegante esempio di fusione tra la firma-Chic del produttore, i sabotaggi rock che ci ricama su Vaughan
e l’eleganza baritona e suadente della nuova
maschera bowiana. Un personaggio, quest’ultimo,
che rende credibile anche un apparente invito al
disimpegno come questo, che oltre ad essere un
singolo killer è anche una delle sole cinque canzoni nuove scritte per l’album. Il massimo dell’inedito che esce sui singoli, infatti, sarà una versione
live di Modern Love, il cui originale è l’incontenibile, esplosivo r’n’r che apre il disco alla grande,
col Duca che filosofeggia sulla contemporaneità a
ritmo di rock e dove la pulizia di suono rodgersiana diventa pura potenza.
Il resto degli inediti si divide tra Ricochet, che recupera qualche spunto sperimentale nelle irregolarità ritmiche e nelle occasionali virate beffarde alla
Lodger del cantato, l’insulsa Without You che spreca tra falsetti smielati la guest di Bernard Edwars
e la conclusiva Shake It, variazione innocua ma
anche simpatica sul funky della title track. Il tutto
alla fine tiene, e se la variazione pop è questa, ha
ancora spessore e credibilità ed è un riscuotere
con classe quanto seminato nel favoloso decennio
precedente.
Eloquente, in questo senso, un Serious Moonlight
Tour che consacra sui palchi il momento: la sorridente rockstar snocciola i nuovi successi ma anche una buona selezione del passato - tirata a lucido ma non troppo e che non disdegna escursioni
in Low o la riproposizione di Station To Station - tra
attori, momenti teatrali, coreografie, costumi e
l’esecuzione in sequenza dell’inizio e della fine
della saga del Maggiore Tom, ovvero Space Oddity
e Ashes To Ashes messe in prospettiva storica. E
a proposito di live, la RCA cerca di capitalizzare il
successo del disco pubblicando finalmente film e
disco dell’ultimo concerto di Ziggy Stardust, Ziggy
Stardust: The Motion Picture (RCA, 1983, 7,5), cosa
che aumenta hype ed esposizione: il suono grezzo
di Ronson e co. di dieci anni prima c’entra poco
145
con la star ripulita che è diventato Bowie, ma tutto
non fa che aumentare la risonanza legata all’artista, dando nel contempo la possibilità di visionare
un documento storico (benché per una versione
degna del disco ci sia bisogno ancora di un paio di
edizioni).
Faaame..
In tutta l’operazione Let’s Dance, l’artista e il manager hanno raggiunto un onorevole compromesso,
sia pur leggermente sbilanciato verso il secondo.
Immediatamente dopo quest’ultimo fa lo sgambetto al primo: per contratto, infatti, Bowie deve
fare un nuovo disco nel 1984, appena finito il Serious, ma è a corto di brani anche perché, per sua
stessa ammissione, non riesce a scrivere in tour
(“parla l’autore di Aladdin Sane e Young Americans”,
chiosa ironico l’enciclopedista duchesco Pegg).
Così, mollato Rodgers per dimostrare che può farcela da solo e arruolati alla consolle Derek Bramble (che a detta di molti mostrerà parecchi limiti
in fatto di esperienza) e Hugh Padgham (come
fonico, ma finirà per fare anche altro), Bowie mette insieme per Tonight (EMI, 1984, 4,5) una scaletta
raffazzonata che prevede due soli brani scritti da
lui, un paio buttati giù insieme a Iggy, qualche
ripresa dai dischi solisti di quest’ultimo e un altro
paio di cover.
Davanti alla risposta del pubblico durante il tour
Bowie si è convinto di dover venire incontro ai
suoi gusti, dargli ciò che si aspetta, e così l’uomo
che in studio litigava col batterista Dennis Davis
per fargli suonare Ashes in controtempo come
la voleva lui - usando mani e uno sgabello per
spiegare il ritmo -, stavolta invece sta lì ad assistere al lavoro altrui senza suonare, tutt’al più suggerendo. L’album si gioca col successivo il posto di
peggior disco di Bowie di sempre: lontana l’esuberanza colta di Pinups, quello che esce è un LP pop
anni ‘80 di classe, che sul lato A cerca di sedurre
con i suoi reggae lenti come la title track, presa da
Lust For Life cancellandone il torbido in un duetto
da copertina con Tina Turner (appena tornata al
146
successo col peggior suono FM-rock possibile) o
la God Only Knows dei Beach Boys, piaciona dove
l’originale era innocenza; e che sul lato B prova ad
agitare le acque con un paio di giochi con il solito
Iggy (i cui altri brani in scaletta subiscono lo stesso
imborghesimento di Tonight). Non che manchi
il bello: Loving The Alien è maestosa e raffinata,
Blue Jean smuove come da intenzioni, e qualcosa
si muove anche in Tumble And Twirl o nella cover
di I Keep Forgettin’. Ma è un disco macchiato dal
peggior peccato possibile per un album di Bowie:
non solo è in ritardo sui tempi, ma li segue pedissequamente e per le vie più scontate, finendo per
fare una bella figura accanto ai compagni di classifica (benché venda meno del precedente) ma una
pessima rispetto al resto della discografia.
“Forse avrebbe dovuto sempre essere suonata
così”, dirà Bowie introducendo una versione acustica di Loving The Alien arrangiata da Gerry Leonard durante il Reality Tour del 2003-04 ed emettendo così il verdetto definitivo sulla produzione e
sul suono del disco.
Forse la cosa migliore rimane il video di Blue
Jean, che l’amico Julien Temple estende fino a un
corto di venti minuti, Jazzin’ For Blue Jean, in cui
Bowie si sdoppia nelle parti sia del fan imbranato
che della star ossessionata e inarrivabile, sorta di
Ziggy insieme moderno ed eterno, nonché ironica
auto-consapevolezza della parte che l’artista sta
giocando in quegli anni.
I’ ve not hing mu c h to offer ...
Per i due anni successivi Bowie non fa uscire album,
ma non sta certo fermo: partecipa a film come
attore, si impegna in duetti, lavora a colonne sonore, vedi la sognante ancorché enfatica This Is Not
America con Pat Metheny, nuovo frammento del
discorso critica-amore sull’America iniziato nel ‘75 e
che proseguirà I’m Afraid Of Americans del ‘97 - ma
anche la bouns track del 2013 riprende il tema.
Partecipa anche al grande evento del Live Aid per
il quale, oltre a esibirsi a Wembley coinvolgendo
Thomas Dolby (il quale movimenta una versione
di “Heroes” come al solito inferiore all’originale),
realizza anche un singolo con l’amico Jagger, una
versione del classico R’n’B Dancing In The Street.
Musicalmente la carica dell’originale rimane,
peccato che il sottotesto di rivolta che Jagger
conosceva bene, avendolo riscritto in Street
Fighting Man (mentre Springsteen lo fa, in senso
più desolato, in Racing In The Street), venga completamente tradito dall’interpretazione e da un
video con i due “famosi” amiconi che saltellano
allegri (con Jagger in versione più galletto che
mai) compiaciuti della gran bella idea di cantare
insieme. Altro duetto da copertina, e poco conta
che qui Bowie si tenga un po’ di più dell’altro (o
che Macca, negli anni precedenti, avesse fatto
ben di peggio): siamo in pieno trip da star, che per
chi l’aveva raccontato già nel ‘73 significa davvero
aver perso la bussola, soprattutto del buon gusto.
Non partecipa, invece, a un altro evento, dolorosissimo: la morte, avvenuta in quell’anno, del
fratellastro Terry, figura di riferimento per passioni
musicali condivise e di contrasto per la propria
crescita, presenza continua nella vita e nella
carriera. Per evitare l’assalto dei media sceglie un
profilo bassissimo, e solo nel ‘93, in Jump They Say,
riuscirà a dire qualcosa.
L’anno dopo è ancora e soprattutto anno di colonne sonore. Quella di Absolute Beginners - film in
cui il sunnominato Julien Temple prova ad attualizzare le proteste degli anni ‘50 all’era-Tatcher e
nel quale Bowie interpreta uno spietato manager
- vede tre pezzi del Duca in scaletta: That’s Motivation è esuberanza da titoli di testa che limita
al minimo gli effetti da Fifties visti dagli Eighties
che caratterizzavano Tonight; la nostra Volare,
realizzata in stile d’epoca e che gli anni in cui si
svolge la vicenda rendono non così strana come
scelta. Il contributo principale, però, è la canzone
omonima, dove l’artista torna a battere un colpo
tirando fuori uno dei pezzi migliori dei suoi anni
‘80: coronata da un suggestivo video in b/n, in cui
un Bowie pre-Nathan Adler insegue una donnafelino nella notte urbana, Absolute Beginners
è appassionata e imponente, corale e insieme
leggera, e musicalmente una “love song” che può
“fly over mountains” con un ritornello che si apre a
pieni polmoni. Senza essere “Heroes”, nemmeno
per un giorno, è semplicemente un grande pezzo
pop come Bowie ne ha scritti pochi in questi anni
poco ispirati.
E tutto sommato non va male neanche per la
successiva colonna sonora, quella del bel fantasy di formazione Labyrinth: metà del disco è
composta e cantata da lui (il resto è del veterano
di soundtrack Trevor Jones, allora in ascesa) e il
risultato è consono al contesto di un film destinato a un pubblico adolescente e pre-. Nonostante
il solito suono terribile, Magic Dance e Chilly Down
risultano graziose nel loro saltellare, As The World
Falls Down è una morbida e suggestiva ballata
d’amore e Within You ritrova una profondità di
toni drammatici che, pur venati di Hollywood,
funzionano. Il baldanzoso funk gospel radiofriendly di Underground completa il quadro di un
disco che, senza grandi miracoli, rispetta le sue
premesse.
L’anno si chiude col Nostro che offre al malinconico cartoon sull’incubo nucleare When The Wind
Blows l’omonima canzone, un brano che stilisticamente sintetizza gli elementi tipici del suo decennio, tra synth e batterie fragorose, tra falsetti,
dramma, enfasi e aperture, con una scrittura
articolata che supplisce all’assenza del ritornello
cantabile e che risulta in parte suggestiva, in parte di maniera. Alla fine bilancio più o meno positivo, visto che nel corso dell’anno Bowie ha scritto
più di quanto non abbia fatto per Let’s Dance e
ha messo insieme un album migliore di Tonight.
L’anno dopo andrà diversamente.
147
87 & c ry
gine da risultare perfino divertente; meno lo è
Shining Star (Makin’ My Love), dove una melodia
La capacità di scrivere sembra tornata, è dunque
che poteva andare bene forse per gli Wham! più
ora di un nuovo album. Il Nostro, accortosi che
leggeri viene cantata con la stessa fastidiosa imqualcosa non sta andando, lo annuncia come il
postazione vocale della title track e interrotta da
suo “ritorno al rock”: come se bastasse il genere
musicale a nobilitare un disco, come se negli anni un intervento rap di Mickey Rourke; i “rock” delle
ultime quattro provano ad alzare volume e tiro
migliori non avesse travalicato con disinvoltura i
senza grosse infamie ma nemmeno troppe lodi.
confini tra generi e non avesse contribuito ad alDi queste, l’ultima è una cover di Bang Bang: non
largare il concetto stesso di rock, ibridandolo con
quella di Lee & Nancy bensì l’omonima - toh.. - di
contenuti originali. Se al letale errore concettuale
sul rock aggiungiamo una penna non al massimo Iggy Pop.
e la solita delega quasi totale a musicisti e produt- Non è un bel sentire, soprattutto a causa di una
produzione che invece di salvare abbatte, mescotori (qui David Richards, spesso coi Queen e l’anno prima con lui a fare le prove sul leggerino Blah lando come peggio non potrebbe il sound più
Blah Blah che Iggy mette in piedi coi soldi di China mainstream coi tentativi rock. Glass Spider, che riprende l’idea della fantafavola con intro parlata di
Girl), i risultati non potranno che essere scadenti.
Future Legend, mostra un po’ di tensione vera e di
Probabilmente saremo i milionesimi a dire che
ispirazione, mentre a proposito di pezzi divertenti
Never Let Me Down (EMI 1987, 4,5) non tiene fede
cantati in maniera sciocca (nonostante la voce su
al suo titolo, deludendo invece parecchio; ma le
questo disco sia di rara potenza), va annoverata
aspettative a questo punto non sono neanche
Zeroes, autoritratto personale rock con un inspieal massimo e le fosche previsioni dei pessimisti
gabile sitar e un titolo il cui gioco di parole col
trovano conferma. Il risultato della lunga pausa
ha prodotto dieci canzoni nuove (più due B-sides, celebre inno con le virgolette spiega bene, a dieci
anni di distanza, dove siamo arrivati: a un disco
Julie e Girls, che tra l’altro sull’album avrebbero
fatto una figura migliore di tante altre), ma l’ispira- dalla direzione confusa, dalla penna stremata e
con Peter Frampton alla chitarra. Per capire il
zione è veramente carente e la domanda è se sia
peggio un Tonight tirato via di corsa con le cover o livello di attenzione che Bowie ha messo nel disco,
basti ricordare che si accorge di non volere Too
questo, scritto da lui e preparato per tempo. Day-In Day-Out è un funk la cui spigliatezza fresca Dizzy in scaletta solo con l’album già in stampa: il
brano verrà escluso da ogni edizione successiva,
e il cui testo e video sulla povertà urbana non ne
benché non sia particolarmente peggio di altri.
riscattano i limiti e che fa rivalutare Young Americans ai rockettari; Time Will Crawl è la preferita dai E il Glass Spider Tour che segue non è meglio: non
basta qualche bella coreografia, la potenza visifan ma sconta una certa ripetitività melodica (la
rielaborazione contenuta in iSelect migliorerà però va, la grandiosità della concezione o gli accenni
proto-jungle di alcuni passaggi della citata Glass
la situazione, se non altro a livello sonoro); la title
Spider per riscattare le “alucce” ai piedi della tuta
track, omaggio all’amica e segretaria personale
Coco Schwab, è una ballata lennoniana con un bel rossa, l’intro da metal coatto (affidata ad Alomar,
nemmeno a Frampton), altre prove di cattivo
solo di armonica che però sarebbe stata meglio
gusto ed eccesso o la brutta fine che fanno vecin bocca a Lennon, invece che a un Duca sdolcinato come neanche il Ferry peggiore; Beat Of Your chie, nobili, pagine come All The Madmen o Sons
Of The Silent Age (Frampton che canta il ritornello
Drum parte enfatica prima di mollare tra capo e
con la mano sul petto, mentre Bowie gioca con un
collo un ritornello salterino di una tale scempiag-
148
all’indie e al grunge cui guardava.
Tin Machine (EMI, 1989, 6,8), comunque, nella
sua grezza violenza, risulta un disco esuberante e
divertente che spazza via il precedente senza tanti
complimenti: se di ritorno al rock si deve trattare,
allora è necessario togliere tutto e suonare diretti,
live, pochi overdub, occasionali contributi del solo
Take m e a n y w h e r e . . .
In un 1989 che vede grandi nomi risollevarsi da un Kevin Armstrong e amplificatori sparati. Soprattutto con un sound coerente con se stesso e con
decennio diverso da quello di Bowie, ma spesso
altrettanto incerto (Lou Reed torna con New York, le intenzioni, insieme nitido e violento, spazioso
e aggressivo, messo insieme con la produzione di
Neil Young con Freedom, Dylan con Oh Mercy), il
un Tim Palmer in ascesa. Duca tira fuori un’altra mossa di quelle a sorpreDalla semi-jam boogie dell’iniziale Heaven’s In
sa: conosciuto il chitarrista Reeves Gabrels l’anno
Here, dove Gabrels ci mette poco prima di iniziare
prima e iniziata la collaborazione (che durerà
a scatenare i suoi assalti sonori, al punk antinazidieci anni) approntando una versione di Look
sta di Under The God, dall’umbratilità suggestiva
Back In Anger per uno spettacolo di beneficenza,
di Prisoner Of Love fino alle spensierate Amazing
decide di coinvolgerlo nel suo nuovo progetto, i
e Baby Can Dance c’è parecchio che funziona; ed
Tin Machine. Ovvero, un gruppo rock nel quale
esce fuori anche un po’ di classe nell’eleganza
Bowie sarà semplicemente il cantante e il chitarriflessiva di I Can’t Read, suggestiva nel sottrarre
rista ritmico. Gabrels è invece solista rumoroso e
dove il resto del disco trova la sua forza, diciamoaudace, e la scelta del rock fragoroso, nell’anno
lo, in un salutare “casino”. Poco importa se qua e là
in cui esordiscono i Nirvana e con l’indie-rock
si esagera, col senso della misura che viene diUSA che mostra buona vitalità già da un po’, ha
menticato nelle tasche interne delle giacche nere
il significato di un cambiamento di rotta, di uno
stacco violento con l’era del pop laccato. L’idea del che costituiscono la divisa della band (soprattutto
gruppo e la nuova maschera da semplice cantante per opera dei texani della sezione ritmica), vedi
Sacrifice Yourself; se Pretty Thing non è all’altezza
nascondono l’esigenza di ricominciare ad occudel modello Pixies; se il ritornello di Run sabota
parsi direttamente della propria musica, senza
un po’ una bella strofa o se la cover di Lennon
deleghe, in sala prove con gli altri.
Working Class Hero non è evocativa come quella
Tutto sensato: come detto Bowie ha bisogno di
della Faithfull, insomma se non è un capolavoro:
una mossa radicale per uscire dall’impasse creativa e dalla dittatura con cui il manager ha inaridito il compito della necessaria scrollata è svolto con
successo, il suono incendiario brucia via il pop
l’artista. Peccato che questa venga minata dall’erleccato, e anche se Bowie quando si diverte non
rore fondamentale di chiamare come sezione
viene preso sul serio (vedi Lodger o, in futuro,
ritmica i fratelli Hunt e Tony Sales (già in Lust For
Earthling), l’album viene guardato con simpatia
Life). I due si riveleranno potenti, precisi e capaci
di improvvisare, ma anche legati a un’idea vecchia (probabilmente dovuta anche a un certo sollievo
di critici e fan).
e semplicistica di rock, che rende di fatto la democrazia nella band auspicata dal leader (pardon, Intanto però, scaduti anche i diritti sul vecchio catalogo in possesso della RCA, è tempo di ristampe:
dal cantante) un ostacolo allo sviluppo del prol’allora ancora indipendente Rykodisc, specializzagetto secondo le sue piene potenzialità di vera
ta nell’ambito, si assicura l’operazione, celebrando
avanguardia, rimanendo indietro anche rispetto
attore e il trucco che lo fa rimanere in piedi anche
se si inclina). Il Bowie-manager sorride contando
le montagne di biglietti venduti, l’artista è messo
peggio dell’alieno di Roeg alla fine del film del ‘76.
Urgono provvedimenti drastici.
149
il tutto con preziose bonus tracks - sia nei dischi,
sia nel lussuoso cofanetto Sound + Vision - e con
un greatest hits, Changesbowie (col solo inedito
Fame ‘90, remix - datato davvero - della vecchia
hit). Per promuovere l’operazione parte anche
il tour, annunciato con una delle sue classiche
dichiarazioni-bomba che poi smentirà anni dopo,
ovvero che quelle canzoni non le avrebbe suonate
più; e lancia un’altra delle sue trovate-dimostrazione di approccio avanguardista ai media, ovvero
la possibilità per i fan di telefonare per votare la
canzone che vorrebbero sentire.
La formazione con solo quattro musicisti ad
accompagnarlo è un altro significativo cambiamento rispetto al passato, anche se forse non la
più adatta a riproporre un repertorio così vasto
e variegato; ma tra i quattro c’è Adrian Belew,
col quale Bowie ha collaborato per due pezzi del
suo Young Lions, ossia il rock semplice ma efficace di Pretty Pink Rose e la più belewiana e riuscita
Gunman, duetti di altro calibro rispetto a quelli
mediatici degli anni ‘80. Il tour, anche grazie alla
minaccia che forse si tratterà dell’ultima occasione
per riascoltare i classici, è un successo.
Finito il tour si torna ai Tin Machine con l’idea di
un secondo album, anche se il progetto comincia
a mostrare qualche crepa: al di là di alcuni screzi
interni, il disco in alcuni casi mostra un Bowie che
vuole tornare al suo stile, dall’altra concede qualche uscita, malaugurata, agli altri. Tin Machine II (Victory, 1991, 6.5) parte a bomba
sulla falsariga del primo, col carrarmato Baby Universal tra le migliori uscite dell’intera esperienza e
uno dei pochi pezzi (l’incontenibile A Big Hurt, ad
esempio) a ricordare il suono del Volume Uno. Già
One Shot però torna al Bowie classico addolcendo
l’andamento tipico della band con una chitarra
acustica, come Betty Wrong; e l’acustica guida
anche la bella Shopping For Girls, appassionata e
tesa ballata sul turismo sessuale in oriente, ingiustamente sottovalutata. Le delicatezze tornano
nell’affascinante, eterea Amlapura, così come un
150
beat allegro e potente con accenni di elettronica
quale You Can’t Talk stempera l’approccio monolitico della band per guardare altrove.
L’equilibrio però viene spezzato, e il disco minato,
da un trattamento garage di If There’s Something
dei Roxy Music che rimane un po’ lì, da una You
Belong To Rock’n’Roll che caracolla sorniona senza
decollare più di tanto, dalla Sorry scritta dal sempre più invadente batterista, il quale ammazza un
lento che cantato da Bowie avrebbe avuto qualche chance in più (il cantante ci prova con affascinanti backing vocals). Ma il brano che assesta un
colpo fatale alla credibilità dell’album, e a quella
dell’esperienza stessa del gruppo, è Stateside: un
blues che più banale non si può, cantato grottescamente sempre da Hunt Sales, lungo quasi sei
minuti e che non viene nemmeno salvato da un
ritornello in cui il Duca cerca di sabotare la banalità del pezzo facendo ironia sulla canzone, grazie
anche a una citazione degli America.
È ora di cambiare: Goodbye Mr. Ed dice di un altro
dei bei pezzi di questo disco, buona fusione tra
il suono del gruppo e la scrittura del Nostro, poi
goodbye Tin Machine. Il terzo disco sarà solo
il live Oh Vey Baby (London, 1992, 6.0), ovvero
un’autentica occasione persa. La potenza live del
gruppo era ed è fuori discussione, né qui mancano le prove in questo senso, come la versione di
Heaven’s In Here; ma otto pezzi presi più o meno a
caso, includendo Stateside e lasciando fuori qualche cover interessante come Debaser dei Pixies,
Betty Wrong - che dal vivo beneficiava di una bella
parte centrale con Bowie al sax - o l’inedito Now
(prima bozza della canzone Outside), per di più
col pubblico sfumato tra una canzone e l’altra,
dimostrano che l’intenzione principale è chiudere
la storia più in fretta possibile. D’altronde il compito storico del gruppo è stato portato a termine:
magari l’artista Bowie non ha ancora recuperato la
forma piena dei giorni migliori, ma ha sicuramente ritrovato il metodo e la sicurezza per continuare
ad essere - se non centrale come una volta - alme-
no interessante anche dopo venticinque anni di
carriera. E intanto, sposa la modella Iman Abdulmajid: oltre al divorzio dai Tin Machine, infatti, è
infine arrivato anche quello da Angie. Anche la
vita privata riparte.
Look i n g f o r Dav i d
L’inizio degli anni ‘90 stava dando in un certo senso ragione all’esperienza Tin Machine: due anni
dopo di loro, sia pure in maniera minore come numeri ma maggiore come modernità, anche le classifiche passano al rock fragoroso in un 1991 che
è anno di capolavori e svolte. Bowie c’era arrivato
con Tin Machine II, ok, ma mentre per una breve
stagione le chitarre elettriche tornano protagoniste anche nelle charts (prima e meglio che con i
Green Day), il Nostro sta già guardando altrove:
per esempio dalla finestra della casa di Los Angeles dove, appena arrivato con la nuova moglie,
assiste allo scoppio delle rivolte razziali del ‘92.
L’uomo che in Loving the Alien aveva parlato della
possibilità/necessità di armonia interreligiosa
(“senza sospettare che un giorno avrei sposato una
mussulmana”) e che aveva sposato una somala,
vede in diretta l’ennesima manifestazione di ciò
che sapeva da tempo (la coppia a quel punto si
sposta a NY, dove vive tuttora). Il nuovo album affronterà la questione, a partire
dal titolo per arrivare alla musica e ai collaboratori.
Mentre il grunge impazza, infatti, Bowie guarda
invece a certe tendenze della black, ovvero il funkjazz mescolato all’elettronica, zona Us3, che per
ora non è ancora acid-jazz e ancora non imperversa annacquato in compilation chiamate come il
locale di tendenza.
Ma nel disco c’è anche un elemento di festa,
diremmo: per celebrare matrimonio e ripartenza solista, si mette insieme, più che un album di
figurine-guest celebri, un autentico parterre di
ospiti al fine di tirare le fila di una carriera e insieme guardare avanti, con una visione rinnovata e
coerente tenuta con polso saldo.
La notizia più rilevante di Black Tie White Noise
(Arista, 1993, 7.2) è infatti la chiamata alla produzione di Nile Rodgers a dieci anni da Let’s Dance:
solo che stavolta è cambiato tutto e il Nostro
non ha più nessuna voglia di cedere le redini a
chicchessia. Rodgers cercherà infatti di spingerlo
a fare delle hit, ma una candidata al ruolo come
Lucy Can’t Dance finirà sì su singolo ma sul lato
B, e dalla versione in vinile del disco sarà proprio
esclusa: ovvero “comando io, e stavolta viene
prima l’artista”.
Bowie infatti deve riaffermare e ridiscutere la sua
identità, e al riguardo richiama Mick Ronson a
suonare su I Feel Free (pezzo dei Cream presente nelle scalette degli Spiders From Mars e qui
trasformato in un funk rock elegante in linea con
l’album); omaggia Morrissey riprendendo la sua
I Know It’s Gonna Happen Someday in un gioco di
specchi multipli (l’album in cui compariva l’aveva
prodotto proprio Ronson, e la canzone era un
omaggio a certa teatralità ziggyana); riprende Nite
Flights del maestro Scott Walker - una versione
più eterea e meno ansiosa dell’originale - col risultato di offrire uno dei momenti più affascinanti
del disco, il quale si apre e chiude con due versioni
della musica che ha composto per il matrimonio
con Iman; si autocita nella tesa e drammatica
You’ve Been Around, dal basso sinuoso, per la
quale richiama Gabrels e in cui riflette dicendo
“scivolo da una vista vuota..per amore del denaro
..”; richiama anche Mike Garson per Looking For
Lester. Tutto ha uno scopo e una direzione, comprese le cover e i duetti.
La title-track, sempre parlando di duetti, ospita
il rapper Al-B Sure! ed è un rap-soul elegante e
sereno che a livello di testo è il centro tematico
del disco: “Ci tendiamo le braccia al di là delle razze
e ci teniamo la mano, per poi morire tra le fiamme
cantando We shall overcome”, canta con sguardo
ampio, e “Ci sarà del sangue, non c’è dubbio; ma ce
la faremo, non dubitare. Guardo nei tuoi occhi e so
che non mi ucciderai”, o anche “Ci insegneranno a
151
infrangere le regole, ma mai a dettarle; ci ridurranno
a dei poveri dementi. Urla fasciste, di bianchi e di
neri: chi ha il sangue, chi ha la pistola?”.
Lester invece è Lester Bowie del gruppo jazz
d’avanguardia Art Ensemble of Chicago, insieme
sperimentale e divertente, col quale Bowie voleva suonare da tempo e che in principio era stato
chiamato per intervenire solo su una cover di
Don’t Let Me Down And Down, un pezzo arabo fattogli conoscere da Iman che, per come viene realizzato qui, cancella in un attimo i lenti di Tonight.
Invece si rivela presenza positiva e contagiosa e la
sua tromba rimane a impreziosire di sapida vivacità altri cinque brani: tra questi, appunto, Looking
For Lester, nel quale duetta con un Bowie che ha
ripreso in mano il sax e lo suona estensivamente.
L’artista torna ad avere le idee chiare, ma anche
il manager è moderatamente soddisfatto: Jump
They Say, irruente funk-rock nel quale in pratica
si dichiara che è l’apparato medico-repressivo ad
aver spinto il fratellastro al suicidio, entra nella top
ten UK (ci vorrà il botto mediatico del 2013 perché
accada di nuovo), e lo fa mescolando arte e presa
pop, suggerendo che con un po’ più di oculatezza gli anni ‘80 avrebbero potuto essere diversi e
migliori e che tutto sommato il manager e l’artista
possono andare d’accordo.
Intanto combattono, ma non fra di loro: l’uno con
il fallimento dell’etichetta americana che aveva
pubblicato il disco, la Savage, con grosso danno
alle vendite in loco; l’artista con una certa diffidenza che la frivolezza anni ‘80 e i giochi dei Tin
Machine hanno instillato nel pubblico (tra l’altro
neanche troppo in pace con certo colore house
del disco o con la leggerezza della hit mancata Miracle Goodnight, contagiosa dichiarazione d’amore
per Iman). Pubblico che oltretutto lo vede ormai
come un vecchio e non ha voglia di farsi indicare la strada della nuova elettronica da club dalla
Pallas Athena di un 45enne o da Real Cool World,
altra canzone per film realizzata con staff e stile
dell’album.
152
Da qui in avanti, nonostante la forma ritrovata,
Bowie sconterà infatti questo gap di credibilità
durato un decennio: tornerà ad essere amato
(come peraltro non ha mai smesso di essere) ed
anche stimato, ma l’arbiter tendentiarum non è
più lui. È solo un artista creativamente ritrovato:
neanche poco, neanche scontato.
GP
Sc ream i n’ alone...
La seconda parte dell’anno 1993 procede ancor
di più verso il netto turning point per un Bowie
decisamente stanco degli “avvenimenti intorpiditi
e degradanti dell’ultimo decennio” e stretto nella
volontà, sempre parole sue, “di riequilibrare l’abisso
sovente grossolano” in cui è caduto. Protagonista
di questo tentativo è The Buddha of Suburbia,
album colonna sonora dell’adattamento a serie
per la BBC2 del racconto omonimo dell’autore
Hanif Kureishi che, nel febbraio del 1993, intervistò il musicista per una rivista americana. In quella
sede, inizialmente, la richiesta di Kureishi fu quella
di utilizzare, tra le musiche della serie, alcuni
tra i primi brani di Bowie, idea che ben presto si
trasformerà in una sostanziale collaborazione: il
cantante scriverà dunque nuovi pezzi ad hoc e
darà vita a una vera e propria OST.
Ancora oggi risulta misterioso, almeno agli occhi
di molti fan, il motivo per cui Bowie lavorò con
tanto entusiasmo a quest’album, un disco che
molti, persino parte del suo pubblico più affezionato, non hanno mai ascoltato, preso in considerazione o persino considerato tale. Le motivazioni
vanno senz’altro ricercate in un rinnovato desiderio di lavorare a qualcosa di intellettualmente
forte, nuovamente concettuale, così da ricreare
una sorta di ponte che risulterà essere essenziale
non solo nel legare il precedente BTWN all’immediatamente successivo 1.Outside, ma anche nel
collegare, in un modo all’epoca del tutto inatteso,
la propria contemporaneità agli sperimentalismi
di Low e “Heroes”, saltando e cancellando figu-
rativamente tutti gli “errori” degli ‘80, tentando
metaforicamente di eliminare quell’”abisso grossolano” di cui dicevamo poco fa.
The Buddha of Suburbia è la storia di Karim, un
ragazzino che negli anni Settanta cerca la propria
identità mettendosi in prima linea in alcuni scontri razziali e rendendosi protagonista di marcate
ambiguità sessuali, facendo l’attore e avendo
come migliore amico un rocker che somiglia un
po’ a Sid Vicious e un po’ allo stesso Bowie. Il
racconto è una storia di formazione, di crescita,
di conoscenza di sé e dell’altro da sé, attraverso
le spinte dello scontro con sé stessi e con gli altri,
fino all’esplosione finale di un percorso che conduce dai suburbs alla celebrità. I temi affrontati,
dunque, sono tutti molto cari a Bowie fin dagli
esordi ed appartengono anche intrinsecamente
alla sua stessa vicenda biografica. Inevitabile,
dunque, il balzo nel passato. Se nella titletrack,
addirittura, il Nostro cita la chitarra di Space
Oddity, la chiave scelta per raccontare è quella
dello sperimentalismo che, mescolando synth e
chitarre acustiche, dà felicemente vita a lunghi
brani ambient che non tagliano fuori, comunque,
alcune dense atmosfere pop.
Il disco, non a caso composto e registrato in tempi
brevissimi, rende senza dubbio ben chiara, nei
risultati, l’enorme ispirazione di Bowie durante la
lavorazione. Mike Garson rinnova la propria presenza dopo il recente ritorno in BTWN e sull’intero album aleggia l’ombra di Brian Eno, esplicitamente citato nelle note di copertina. Di Eno il
disco ha la forza compositiva delirante e l’apparente anarchia dei testi totalmente non lineari. Era
non a caso dai tempi della Trilogia che Bowie non
si lanciava in una simile sperimentazione.
1994/1995: the music is...
The Buddha of Suburbia, ascoltato con le orecchie di oggi, si configura in tutto e per tutto come
uno schizzo, un disegno preparatorio di quello
che sarà il Bowie di 1.Outside, quest’ultima
sicuramente la più strutturata e stratificata opera
d’arte del Nostro dai tempi della trilogia. Siamo
nel 1994, immersi in un magma culturale che unisce il cyber-punk alle popolari teorie su cospirazioni extraterrestri, uno sguardo sul futuro filtrato
153
dalle visioni pop à la X-Files avvolto dall’angoscia
pre-nuovo millennio. In termini più strettamente
musicali i nuovi sguardi da ricordare sono quello
art-rock industrial dei Nine Inch Nails e quello
trip-hop e techno di Chemical Brothers, Tricky e
Goldie. E’ in questo spazio ampio, vario e soggetto a scosse ancora tutte da esplorare, che Bowie
colloca le sue nuove mosse, tanto ardite, high
profile, quanto geniali. In questo panorama si
vanno configurando tre macroelementi essenziali
alla lavorazione e alla riuscita finale dell’album:
il ritorno, già preannunciato nemmeno troppo
velatamente in The Buddha of Suburbia, di Brian
Eno, una formazione composta da musicisti con
già più o meno consolidate esperienze con il
Nostro e un permeante enorme numero di riferimenti all’arte contemporanea e alle sue derive più
estreme.
A quindici anni di distanza dalle sessions di
Lodger, Eno e Bowie si danno un nuovo appuntamento ai Mountain Studios pronti a mettere
insieme quelli che Bowie definì negli anni come
due afflati distanti ma facilmente combinabili:
quello romantico e “ottocentesco”, il suo, e quello
del suo compagno, più strettamente inserito nelle
visioni del XX secolo. Con Brian Eno ritornano le
Strategie Oblique, questa volta declinate - come
lo stesso musicista racconta nel suo diario “1995,
A year with swollen appendices” - in una serie di
giochi di ruolo che coinvolge ogni membro della
band. L’idea del gioco di ruolo è fondamentale
per comprendere l’ideologia e la messa a punto
concettuale di 1.Outside: ogni giocatore/musicista si libera di sé stesso seguendo i dettagli di
un personaggio che gli viene assegnato, ne legge
i tratti e può permettersi, stando chiuso in una
stanza con il proprio nome anagrammato e una
nuova personalità, di provare ad aggirare i limiti
del sé e spingersi in territori, anche e soprattutto
creativi, completamente nuovi. Al fianco di Bowie
e Eno si configura una band che è sintesi di vari
stadi della carriera del Nostro: ancora Mike Gar-
154
son al piano, Reeves Gabrels alla chitarra solista
(da ora in poi membro permanente della band),
Erdal Kizilcay - già ospite negli ultimi due lavori
- al basso e f “il creativo” alla batteria. Tutti ricordano quel periodo in studio come uno dei più creativi mai vissuti: all’inizio, per alcuni giorni, Bowie
non toccò musica, limitandosi a dipingere sulla
tela mentre gli altri suonavano, tutti alla ricerca di
snodi interessanti da cui partire o da utilizzare. Le
radici di questa nuova factory trovano terreno in
quella che per Bowie è l’ultima grande passione/
ossessione: l’arte contemporanea, specie nelle
sue derive più macabre e violente, quelle della
della body art, in particolare portate avanti dai
Castrazionisti viennesi di Rudolf Schwarzkogler
e dalle performance del sieropositivo newyorkese Ron Athey, con un’attenzione particolare
anche al neo brutalismo britannico di artisti come
Damien Hirst (che utilizzerà poi l’album come colonna sonora alle sue “mucche sezionate”). A tutto
ciò va aggiunto un generale interesse anche per
le derive pop della body art, che in quegli anni si
diffondono sempre di più: scarnificazioni, piercing
e, naturalmente, tatuaggi. Di tutte le influenze che
abbiamo citato, da 1.Outside, Bowie non lascia
fuori nulla, trasformando così la propria figura
nell’eteronimo di ruolo, detective Nathan Adler,
protagonista di un mondo lynchano vicinissimo a
quello descritto in Twin Peaks, in cui una novella
Laura Palmer, la quattordicenne Baby Grace,
viene uccisa misteriosamente durante un rituale artistico. L’indagine di Adler diventa dunque
l’espediente narrativo attraverso il quale Bowie
dipinge una gran quantità di personaggi bizzarri,
osceni, malati psichici, sospettati dell’assassinio
della ragazza. Oxford Town, città del New Jersey in
cui il Nostro ambienta questo concept, si configura come un’oscura Spoon River cibernetica,
popolata da esseri umani misteriosi, che Bowie/
Nathan Adler svela uno a uno nelle pagine del suo
diario, canzone dopo canzone.
Il disco vede la luce nel settembre del 1995 con
155
il titolo 1.Outside - The Nathan Adler Diaries,
sebbene le sessioni a Montreux fossero già terminate alla fine dell’anno precedente. Nessuna casa
discografica risultò però interessata a pubblicare
la versione originaria del disco, quella del 1994,
doppia, e priva di materiale allineato, pop, vendibile. Brani come We Pick You, l Have Not Been To
Oxford Town, il singolone Strangers When We Meet
e No Control, vennero composti ex novo, mentre
altri, tra cui I’m Deranged e Hallo Spaceboy, vennero ricavati da materiale abbozzato l’anno prima.
Accompagnato da note ai testi - in UK il Nathan
Adler diaries e in Italia, in prima stampa, una
prefazione di Fernanda Pivano accanto ai testi
tradotti - il disco si fregia di un artwork raffinatissimo, nel quale le immagini dipinte, macabre, immerse in un’oscura e dominante tonalità pastello,
accompagnano un’opera complessa, sfaccettata,
stratificata, definita unanimemente difficile, che
la critica ha molto amato ma anche, in alcuni casi,
considerato eccessivamente pretenziosa. Mentre
Ikon parla di un “Bowie che vuole a tutti costi essere
considerato un intellettuale ma ha perduto ogni
potenziale di alchimia naturale”, 1.Outside si impone lentamente come la miglior musica prodotta
da Bowie dai tempi di Scary Monsters. Difficile?
Troppo lunga (75 minuti)? Pretenziosa? Il Nostro
non ha problemi a esplicitare tutto ciò, a definire
i tratti di quest’opera come precise, pregresse
volontà “Io e Brian decidemmo già nei tardi ‘70 che
avevamo sviluppato una nuova scuola di pretenziosità, pensavamo già allora che questa caratteristica
fosse una cosa da ricercare”.
The diaries of Nathan Adler promette un seguito, lascia l’ascoltatore/lettore con un “Continua...”
ma non continuerà mai. Il disco infatti, pensato
come primo di cinque, non avrà mai un seguito. In più occasioni Bowie parlò di circa 25 ore
di materiale inutilizzato e nel 2000 si fa chiaro il
riferimento a una seconda parte dal titolo 2.Contamination che però non vedrà mai luce. Conoscendo gli approcci mai casuali di Bowie a tutte le
156
questioni relative a tempi/continuità nelle proprie
produzioni, è facile immaginare pregresse volontà
di incompiutezza per Outside. Per chiarire l’idea
di fondo si legga questo pensiero di Brian Eno,
assolutamente calzante: “Mi sono sempre piaciuti i
dischi con assolvenze e dissolvenze, così ha l’impressione che ciò che si ascolta faccia parte di qualcosa
di più grande e sconosciuto, qualcosa di già esistente da qualche parte, nell’etere, ma alla quale non si
può avere accesso”.
1997: ti me does fly
Dopo il soddisfacente Outside tour nel 1996,
per Bowie la strada è nuovamente in discesa.
Non mancano ispirazione e voglia di rimettersi al
lavoro su nuovo materiale ma, al tempo stesso, il
clima post 1.Outside è tale da permettergli di vivere un po’ di rendita. Anzitutto è felicissimo della
sua band e decide di condurla al Looking Glass, lo
studio di Philip Glass a Manhattan. Lì, in primis
insieme a Reeves Gabrels e al tecnico Mark Platì
- già, tra gli altri, con Prince in Graffiti Bridge dà il via a sessioni velocissime, molto spontanee,
per un disco che, dirà lui stesso “si strutturava da
solo”, ecco che dunque si cominciano a raccogliere i frutti del lavoro intenso e complesso fatto, in
termini compositivi e strutturali, con 1.Outside:
Earthling, il nuovo album, si configurerà come
perfetto seguito della strada techno già intrapresa in alcuni momenti del disco precedente,
ne enfatizzerà i tratti jungle e tutte quelle spinte
dance che, durante l’Outside tour, erano state
sperimentate live in un costante abbraccio con
le influenze più rock e industrial. Il lavoro con
Gabrels si fa essenziale (e lo sarà, vedremo, sempre di più): con lui Bowie lavora a un metodo di
sovrapposizione di campionamenti di chitarra e
suono analogico. Al centro del discorso musicale
di Earthling c’è proprio questo mix, questa unione, quasi si riaprissero lentamente le porte a una
forma canzone più immediata, pura, a suo modo
pop e commerciale, distesa, pur partita da una
rielaborazione di quei momenti - come quello che
poi si trasformerà in I’m afraid of americans - che
da 1.Outside furono esclusi per eccesso di sperimentalismo. Uscito il 3 febbraio 1997, dopo una
sorta di presentazione ufficiosa l’8 gennaio al live
in occasione del cinquantesimo compleanno di
Bowie, Earthling viene accolto con largo consenso
dalla critica musicale mondiale, nonostante ne
venga un po’ grossolanamente enfatizzato il lato
più strettamente inserito in filoni musicali hype
del periodo: la techno, la jungle e soprattutto il
drum’n’bass mentre, come si accennava poc’anzi,
l’album è in realtà un passo ben radicato in una
nuova sensibilità compositiva tradizionale. Anche
i testi seguono la stessa linea e, dopo le oscurità
ciniche e brutali dei diari di Nathan Adler, ora è
il momento del lento ritorno alla spiritualità con
pezzi duri e commuoventi come Dead Man Walking e Looking For Satellites. Non è un caso che,
all’interno di questa tendenza al ritorno, Earthling
risulti anche l’album più “britannico” del Nostro
da quelli dei 70s. Bowie non esita, nel 1996, a
definirsi “più britannico che mai”, finendo col
confermarlo in modo evidentissimo proprio nella
cover di Earthling, indossando la redingote con
fantasia Union Jack disegnata insieme ad Alexander McQueen - elegante risposta alle bandiere
che coprivano iconograficamente gli eroi del
britpop - mentre ci dà le spalle e osserva davanti
a sé, infinita, una campagna inglese tutta verde, di
blakeiana fluorescenza.
Il nome di Bowie, nel 1997, invade gli articoli di
giornale non solo (e non principalmente) per via
della recente uscita discografica, ma anche per la
notizia sorprendente della quotazione in borsa
del suo patrimonio, operazione di cui è, ancora
una volta, pioniere - Elton John, infatti, lo seguirà
poco dopo. Intanto vende alla EMI il suo vecchio
catalogo che verrà poi ristampato disco dopo
disco nel 1999 e ne approfitta per comprare una
quota dei diritti di pubblicazione trattenuti da
Defries.
1998/1999: 20 t h Cen t ury d ies
Dopo nuovi ruoli nel cinema nel 1998 e la scelta
di investire un po’ di energie artistiche accompagnando live e in studio (in Without You I’m
Nothing) i Placebo, alla fine dell’anno si fa sempre più forte il sodalizio con Reeves Gabrels che
sarà infatti il primo collaboratore di Bowie, nel
momento dell’uscita di Hours.. nell’ottobre 1999,
ad essere citato come co-autore dei brani. I due
compongono quelle che lo stesso Bowie ama definire “normali canzoni”, cioè brani dalla struttura
classica, pezzi fin dall’inizio molto strutturati dove
la chitarra acustica è centrale. Bowie e Gabrels
iniziano a incidere da soli nello studio di Bermuda
suonando la maggior parte degli strumenti, per
poi richiamare Mark Platì, Sterling Campbell e
aggiungere all’organico due nuovi arrivati (Mike
Levesque alle percussioni e il chitarrista Chris
Haskett) e fare dunque ritorno tutti inseme al
Looking glass di Manhattan. A loro si aggrega anche Alex Grant, vincitore su Bowienet - il nuovo
avanguardistico sito del Nostro - del concorso
di scrittura di una cyber-canzone (con lui Bowie
scriverà il testo di What’s Really Happening?).
Nonostante non si configuri apertamente come
un concept album, Hours..., che avrebbe inizialmente dovuto chiamarsi The Dreamers, di fatto,
lo è. Bowie, già durante la lavorazione, dichiara di
star scrivendo alcuni pezzi che vorrebbero raccontare la sua generazione attraverso l’esplorazione
del rapporto di un uomo adulto con il ricordo, il
passato, i propri sogni, la vita com’è e come avrebbe potuto essere. Canzoni sul dubbio della persistenza della memoria (Seven, If I’m Dreaming My
Life) che però risultano incredibilmente pervase
di ottimismo, di serenità. Bowie dichiarerà infatti
di aver lavorato a un album pieno di storie, non
di stretto autobiografismo, di essersi cioè messo figurativamente a disposizione della propria
generazione, per raccontarne l’evoluzione adulta
e un rapporto maturo con il tempo che passa che,
ora, non è più ricco di ansie e timori, ma pacifico.
157
In Hours... si amplifica inoltre quel tratto di spiritualità già evidente in Earthling, tratto che si
mostra apertamente presente non solo nei testi,
ricchi di riferimenti alla vita, alla morte, a figure
come dei e angeli, all’Inferno e al Paradiso, ma anche nella grafica, con un’immagine che richiama
la Pietà: il David di oggi tiene in braccio quello di
ieri (i capelli di chi sta tra le sue braccia sono quelli
del periodo Earthling, i tratti quelli di un bimbo).
Anche lo stesso titolo dell’album, gioco di parole
tra “ours” e “hours” si ispira a The Book Of Hours, un
libro di preghiere medievali che racconta giornate
divise in ‘horae’. L’aspetto grafico, in quest’album,
ha moltissimo rilievo: il logo con il nome David
Bowie scritto in lettere e numeri è la vera e propria immagine di un brand, che si ripete più volte
sul sito e che richiama i recenti sviluppi in Borsa di
cui si diceva su.
La critica, soprattutto quella britannica, accoglie
molto bene l’album che, d’altronde, ha una forte
configurazione pop, melodica, ricco com’è di
introduzioni in chitarra dodici corde che riportano in qualche modo al Bowie di Hunky Dory e
questo, senza crollare in arditi paragoni, proprio
per via dell’approccio soft, addolcito, acustico
ancorché del tutto contemporaneo, impreziosito
con slanci di synth, effetti sibilanti, vocoder.
2001/2002: show me who you are
A partire dal 2000 Bowie si mette a lavorare su
un disco che non vedrà mai luce, il titolo provvisorio è Toy e si tratta di una raccolta di canzoni
del Nostro uscite o nascoste negli anni ‘60, tutte
nuovamente incise per quello che Bowie aveva
dichiarato essere “non tanto un Pin Ups II ma un Up
Date I”. Tra le canzoni figurano The London Boys,
I Dig Everything, Conversation Piece e alcuni pezzi
inediti come Afraid e Uncle Floyd (poi Slip Away)
che, vedremo, finiranno sul disco successivo.
Bowie, coadiuvato in studio da alcuni artisti ospiti
tra cui Lisa Germano, attento e dichiaratamente
appassionato durante le sessioni, racconta di essere entusiasta della freschezza conferita a pezzi
158
così lontani nella sua storia discografica. La EMI/
Virgin però non risulta particolarmente interessata a questo lavoro, tende a farne slittare l’uscita e
infine invita Bowie a lavorare su nuovo materiale:
nonostante l’apparente buongrado dichiarato ai
giornali, Tony Visconti e altre fonti intime, dichiareranno un grande risentimento da parte del
Nostro a proposito della scelta dei discografici,
con i quali i rapporti saranno destinati a incrinarsi
sempre di più, fino alla definitiva rottura nel 2001,
quando Bowie, dopo aver fondato la ISO (un’etichetta indipendente) lascerà la Virgin e firmerà
con la Columbia. A partire dai primi mesi del 2001
partono nuovi lavori, nel segno di una nuova
grande collaborazione con Tony Visconti con il
quale, dopo Scary Monsters, i rapporti si erano
un po’ incrinati a causa della “franchezza di Visconti con gli intervistatori all’inizio degli anni ‘80” La
reunion entusiasma entrambi e il lavoro procede
plasmandosi sulle tempistiche di Bowie, appena
diventato - nuovamente - padre nell’agosto 2000
e assai desideroso di non perdersi nulla della vita
della piccola “Lexie”.
L’idea alla base del nuovo album è, per Bowie,
quella di raccontare grandi interrogativi esistenziali e, ancora una volta, spirituali, senza rinunciare alla cantabilità delle canzoni, senza perdersi
in momenti riflessivi che conferiscano ai pezzi
eccessiva seriosità. Per fare ciò il Nostro dichiara
di voler proseguire nel recupero di una scrittura
classicheggiante che non appartenga in alcun
modo, nella propria struttura creativa, a un mood
del passato. Dopo un lavoro preparatorio ai soliti
Looking Glass Studios, il nuovo percussionista
Matt Chamberlain, insieme al chitarrista David
Torn, suggerisce a David uno studio di registrazione a due ore di macchina da NYC e “assolutamente
incredibile”. Gli Allaire Studios si trovavano nella
lussuosa tenuta anni ‘20 chiamata Glen Tonche,
circondata da prati, animali e da un paesaggio
arido eppure suggestivo che sarà di enorme ispirazione al Nostro durante i mesi di composizione
dell’album. In questi studi dotati di mixer all’avanguardia inseriti in spazi ampi e luminosi, Bowie
lavorerà per mesi e mesi, circa dieci ore al giorno
alla composizione di Heathen che uscirà nel
giugno del 2002 e riuscirà a coniugare l’elemento spirituale e riflessivo presente da 1.Outside in
poi, con la scioltezza acustica di Hours.., di cui si
accentuano i tratti melodici e il cantato da decenni mai così eccellente. Accolto entusiasticamente
dalla critica, Heathen, tutto intriso di interrogativi
spirituali profondi, del rinnovato desiderio di cantare “the way the oldman ride” nonché di citazioni
di Freud, Nietzsche, Einstein e, nella grafica, delle opere di Guido Reni, Raffaello Sanzio, Danilo
Dolci e Duccio di Buoninsegna, è per Bowie una
nascita nuova, la rinascita della maturità e questo
nonostante manchi quasi del tutto di brani immediati, cantabili, come invece era previsto dal
progetto iniziale. Tra una cover di Neil Young (I’ve
Been Waiting For You) e una - riuscitissima - dei
Pixies (Cactus), il disco è ricco di pezzi di forza
sorprendente, capaci di unire l’elemento classico
della forma canzone a un nuova oscurità monumentale, pura (Sunday, Slow Burn, Afraid e pure la
title track in chiusura).
2003 : l et m e disa p p e a r . . .
Il primo ad essere soddisfatto di Heathen è lo
stesso Bowie che dichiara di non sentirsi da molti
anni così ispirato e appagato dalle proprie composizioni. Cavalcando l’onda dell’entusiasmo
dell’Heathen tour, dunque, si rimette quasi immediatamente al lavoro su nuovo materiale, questa
volta con la precisa volontà di incidere un disco
adatto ad essere portato in tour, live, in tutto
il mondo. Le canzoni di Reality, che dovranno
quindi essere dotate di un tiro particolarmente
rock, non vedranno luce nel locus amoenus degli
Allaire Studios ma, prevedibilmente, nei consueti
Looking Glass in piena New York City. In particolare, Bowie, sceglierà lo studio più piccolo, lo studio
B, quasi completamente affidato a Tony Visconti
con cui, dato il successo appena raggiunto, la collaborazione non può che cementarsi e proseguire.
Lo spirito riflessivo di Hours.. e Heathen continua
anche in Reality che, con questo titolo, vorrebbe
essere il disco del confronto umano con la realtà del nuovo secolo: quella storica scaturita da
grandi eventi come l’attentato dell’ 11 settembre
2001 e, soprattutto, quella mediatica. Com’è prevedibile, Bowie è profondamente attratto da tutte
le novità mediatiche del nuovo secolo e da tutte
le loro interazioni con il quotidiano, a partire dal
nuovo eterno confronto tra realtà e Reality Show.
Nonostante l’enorme carico riflessivo e la volontà
di concepire un disco rock dalle ampie prospettive e ispirazioni, Reality è decisamente l’episodio
meno entusiasmante di Bowie da BTWN. La quasi
totale assenza di pezzi d’impatto e immediatezza
è ben poco se si considera la trama molto esile
su cui tutto il disco è costruito, con canzoni quasi
mai brillanti, spesso melodicamente inconcludenti, nei migliori dei casi appena sufficienti. Episodi
retromaniaci come Never Get Old e un paio di
cover (Try Some Buy Some di George Harrison e
Pablo Picasso dei Modern Lovers) non aiutano il
disco a staccarsi da un limbo di pressapochismo
piuttosto ingombrante.
Reality verrà portato sui palchi di tutto il mondo
fino al 25 giugno 2004 quando, sul palco tedesco
del Hurricane Festival, Bowie verrà colpito da un
infarto che lo costringerà ad annullare le quattordici date successive, il tour e, per diversi anni,
qualsiasi attività artistica salvo alcune sporadiche
collaborazioni (live con gli Arcade Fire nel 2005,
ai cori in Province dei TV On The Radio nonché
una partecipazione nel 2008, al disco di Scarlett
Johansson, tutto di cover di Tom Waits). Colpisce
come Bring Me The Disco King, ultima traccia di
Reality in realtà scritta da Bowie ai tempi di BTWN
e lasciata lì tra vari tentativi di arrangiamento
succedutisi negli anni, sia rimasta per un decennio una sorta di testamento musicale, con quel
testo così solennemente desolato, nel ricordare
159
il passato (quello dei 70s) e far coincidere - per la
prima volta nella storia di chi crea personaggi e
poi li uccide - l’idea di morte artistica con quella
della fine fisica dell’esistenza.
2011 / 2 0 1 3 : W h e r e a r e w e n ow ?
Se nel 2011 diventa facile reperire online TOY,
con alcuni dei pezzi, come dicevamo poc’anzi,
che ormai avevamo avuto modo di ascoltare
160
all’interno di Heathen, è il 2013 l’anno del ritorno. Nel giorno del suo 66° compleanno, infatti,
l’8 gennaio, Bowie annuncia di aver pronto un
album che uscirà il 12 marzo. Tutte le voci su che
fine avesse fatto, sulla sua salute, se la scomparsa
fosse dovuta a questa o a un’impasse creativa trovano così risposta. E dopo essere stato in ritardo
sulle tendenze negli anni ‘80 e in pari nei ‘90, ci
si chiedeva come si sarebbe rapportato agli anni
zero, ovvero se avrebbe ricominciato a trovare
tendenze semisotterranee da rivelare al mondo
o se avrebbe continuato a rielaborare il proprio
passato come nella trilogia a cavallo del millennio.
Perché accodarsi alle tendenze filo-’80 del decennio scorso non era possibile per uno che gli ‘80
aveva contribuito ad inventarli nel periodo 19771980 e che poi li aveva seguiti nelle vie più banali
nel decennio vero e proprio.
La risposta musicalmente segue, con altra verve e
con un approccio postmoderno sempre più marcato, la revisione del proprio passato esplorata
nelle ultime uscite; ma rivela anche la capacità di
vedere e rielaborare la vera nuova tendenza degli
ultimi anni, ovvero le nuove forme di fruizione
musicale determinate dalla rete. Anche su quelle
era stato all’avanguardia, ai tempi della creazione
del bowienet, quando era stato il primo artista a
diffondere via web un suo nuovo singolo, (Telling
Lies, 1996); ma nei 2000 che vedono un contatto
diretto, continuo tra artista e pubblico (fatto di
social media, anticipazioni del disco, news in tempo reale, ecc..), Bowie spiazza tutti trasformando
l’assenza da convalescenza in un silenzio che fa
crescere l’attesa (nonché i dubbi su un futuro tout
court) rotto solo dalle ristampe utili a collocarlo
nel limbo dei grandi del passato cui guarda un
pubblico e una stampa sempre più retromaniaca.
Ma soprattutto trasforma quest’assenza in un ciel
sereno nel quale far brillare e tuonare il fulmine
della notizia di un nuovo disco che non si aspettava più nessuno, negando e al contempo esaltando, rinnovandole, le nuove suddette forme di
rapporto dell’artista con i media.
The Next Day è immediatamente anticipato
dal video del primo singolo, Where Are We Now?,
registrato a New York e naturalmente prodotto da
Tony Visconti. La canzone lascia immediatamente intendere come ci si trovi davanti a qualcosa
di diverso ed enorme rispetto a Reality. Straordinario come Bowie sia riuscito a tenere nascosti
i lunghi tempi di lavorazione del nuovo album,
anche smentendo attraverso il proprio sito qualsiasi news vagante per il web secondo la quale,
effettivamente, ci fosse in arrivo nuovo materiale.
Tutto cosparso di venature oscure, melanconiche,
crudeli, The Next Day non è soltanto l’album del
ritorno dopo dieci anni di silenzio, è un grande
disco. L’urgenza dei brani e la totale assenza di
momenti confezionati per compiacere, a distanza
di molti anni, l’ascoltatore, fanno di The Next Day
un disco completo, complesso, stratificato dove il
citazionismo non si esaurisce in sé stesso e l’ispirazione è autentica. Brani come Valentine’s Day ne
sono, formalmente, manifesto: mentre il testo racconta un eccidio in una scuola, la musica procede
dolce, da singolo pop. The Next Day, insomma,
riesce a coniugare il Bowie in grado di raggiungere le masse (quello di Let’s Dance, per intenderci) a
quello più profondamente ispirato, urgente. Dopo
45 anni di carriera, non è poco.
GC
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ru
br
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he
Savages
live report
Magnolia
Milano
21 Maggio 2013
162
Il primo concerto italiano dell’ultima generazione new new wave è un successo. Energie e idee,
grammatica essenziale, tutto al posto giusto pur nell’inevitabile effetto Ian Curtis al femminile
Non fosse stato surclassato dalla reunion dei My Bloody Valentine, questo sarebbe diventato,
con ogni probabilità, il concerto del mese. Le Savages sono infatti il vero cult group esordiente
del 2013. Riscuotono consensi praticamente ovunque: testate specializzate e non solo, articoli
firmati da penne prestigiose e una corposa fila di giornalisti in attesa per l’intervista di rito.
L’album Silence Yourself, ancora fresco di pubblicazione, finirà sicuramente nelle classifiche
di fine anno. Se si tratta di predestinate o solo del fenomeno del momento è presto per dirlo.
Certo, i paragoni ingombranti tirati in ballo portano da Siouxsie a PJ Harvey, e se qualcuno
potrebbe scambiarli per gli abbagli di media eccessivamente benevoli e pronti a lanciare qualsiasi novità arrivi dalla perfida Albione, è comunque un’etichetta come l’americana Matador a
pubblicare insieme alla Pop Noire: non varrà come garanzia assoluta ma è un dettaglio strategico in grado d’attirare l’attenzione anche dei più refrattari alle “novità indie” dagli anni Zero a
oggi, e degli ancor più scettici per quanto riguarda il filone neo post-punk. Filone le cui origini
si perdono addirittura nella metà dei 90s con il fenomeno della new wave of the new wave (vi
ricordate le Elastica? Alle reunion di turno mancano solo loro...). Fortuna per tutti, al di là della
somiglianza molto superficiale, le Savages sembrano fatte di tutt’altra pasta rispetto al gruppo di Justine Frischmann. E da bravi prevenuti - pur fidandoci della Matador - siamo andati a
vederle a mo’ di vero banco di prova di un disco e di una band tutta - ancora - da rispettare.
Il risultato? Più che confortante. A parte quelle canzoni che già sembravano di qualità superiore come Shut Up e soprattutto She Will, le esecuzioni e il mixaggio live restituiscono un’idea
in 3D dell’album d’esordio del quartetto londinese, e la cosa più interessante è che City’s Full,
Strife e Waiting for a Sign si fanno addirittura preferire trasportate sul palco che non in versione
studio. La geometria basso-chitarra-batteria, essenziale e spigolosa, permette d’apprezzare i
singoli contributi e soprattutto il lavoro della chitarrista Gemma Thompson: i suoi interventi
sotto forma di riff, frasi ritmiche, fill rumoristici e arpeggi in punta di dita sono sempre azzeccati oltre a citare più o meno tutti i chitarristi più originali della new wave, da Daniel Ash dei Bauhaus a Robert Smith a Bernard Sumner, John McGeoch, Andy Gill, Keith Levene, Will Sergeant,
Geordie Walker dei Killing Joke, ridotti a una grammatica essenziale e funzionale ai singoli
pezzi, senza ricalcare uno stile particolare ma come in una palette dove prendere ora un colore ora l’altro a seconda di ciò che serve. E’ il segno di un approccio più creativo che calligrafico,
per quanto reverenziale nei confronti di una certa estetica che i filologi hanno già avuto modo
di sviscerare in tutte le sue componenti, e che ha bisogno di idee ed energie fresche per risultare ancora efficace. Energie e idee che le nostre sembrano avere dalla propria parte.
Il repertorio per forza di cose non va oltre una dozzina di brani, quasi tutti dell’album a parte il
lato B Flying to Berlin e la conclusiva Fuckers, ma le esecuzioni hanno tutte quella “grazia sottopressione” che piace tanto a chi non può fare a meno di ascoltare rock chitarristico anche nel
secondo decennio del XXI secolo. Giusto accennare alla presenza vocale di Jhenny Beth, il cui
accento si spiega con le origini francesi e non con la volontà di scimmiottare cadenze proprie
di scene come quella di Manchester (guarda che cattiverie vanno a pensare certi critici da
strapazzo della rete..).
Rimane l’effetto “Ian Curtis al femminile”, ma molto meno accentuato di quello che si potrebbe
pensare e soprattutto per nulla fastidioso: la ragazza ha personalità nonostante i noti riferimenti stilistici. Nessuno si aspettava chissà quali prodezze, piuttosto conferme di una solidità
che alla prova dei fatti c’è. Peccato soltanto per lo spazio scelto dal locale, un po’ angusto per il
pubblico presente.
Tommaso Iannini
live report
Primavera Sound 2013
Barcellona
dal 23 al 25 Maggio 2013
#bestfestivalever? Dipende da come lo si guarda, dipende da come lo si vive
I timori di un possibile flop per la fine della storica partnership con San Miguel e la successiva,
rassicurante conferma di Heineken come nuovo sponsor principale; la lineup - mai così ricolma di “big” - e le consuete defezioni (Fiona Apple, DIIV, Foxygen, Fidlar e Band Of Horses)
riparate alla meglio (o meno peggio); l’ampliamento dell’area agibile del Parc del Fòrum ed il
folcloristico esordio di una ruota panoramica in stile Coachella: tutto ciò che è stato preludio
(e contorno) all’edizione 2013 del Primavera Sound Festival di Barcellona - la più chiacchierata di sempre a livello social - lo conosce bene anche chi non ha presenziato e persino chi non
se ne è proprio (mai) curato. Ci concentreremo dunque, in questa sede, sull’incognita generata
dalla dichiarazione di intenti, violenta ed autocelebrativa, legata all’altrettanto noto hashtag:
#bestfestivalever sì oppure no?
La risposta che ci sentiamo di dare è piuttosto semplice: dipende da come lo si guarda, dipende da come lo si vive. Se infatti si limitasse il giudizio alla sola qualità delle performance
andate in scena nella tre giorni, allora sì, non si incontrerebbe alcuna difficoltà nel parlare del
PS13 come di uno dei migliori festival europei degli ultimi anni. Di più: si potrebbe addirittura
arrivare a circoscrivere il parco delle vere e proprie delusioni ai soli Merchandise, tanto interessanti su disco quanto anonimi dal vivo; ai Daughter, con qualche problema tecnico ma
soprattutto Elena Tonra - emozionatissima, costretta ed affatto pronta a fronteggiare i grandi
pubblici - a fare “disastri” neanche fosse Lana Del Rey; agli Hot Chip, mai così piatti; a degli
Animal Collective che, eccedendo nuovamente in improvvisazione rumoristica e generale
cazzeggio, su suolo catalano sembrano non mancare mai di dar prova di incostanza.
163
live report
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Per il resto, andando palco per palco, c’è stato davvero poco di cui lamentarsi. All’Heineken
stage (che prima era il Mini e quest’anno è il palco principale), tra visuals epilettiche, coriandolerie, crowdsurfing oceanici ed il cameo di J Mascis nell’encore, hanno trionfato soprattutto
i Phoenix. Non è mancata nemmeno l’ennesima conferma del perché i Tame Impala siano da
annoverare, a detta di moltissimi, tra le migliori live band in circolazione e Kurt Vile ha rilanciato la candidatura a papabile disco dell’anno del suo Wakin on a Pretty Daze. Ben Gibbard ha
fatto senz’altro meglio coi suoi Postal Service che coi Death Cab For Cutie nella scorsa edizione ed altrettanto piacevoli sono risultati sia Adam Green & Binki Shapiro, sia Wild Nothing
(con le solite difficoltà a livello canoro, ma anche sempre più progetto organico e rodato). Le
performance di Blur e Jesus & Mary Chain, pur ben lungi dalla memorabilità (fatta eccezione
per l’ospitata di Bilinda Butcher su Just Like Honey), si sono rivelate comunque inattaccabili da
prospettiva festivaliera, mentre Nick Cave ed i My Bloody Valentine sono semplicemente di
un’altra categoria.
Tanta, tantissima bella roba anche al Pitchfork stage. Ottimo il rave new-age messo in scena
da Doldrums, così come la virata d’impatto sullo psych-rock da parte di una Melody’s Echo
Chamber (con full-band) che già ci piaceva ed ora ci piace anche di più. Consigliatissimi anche
i Disclosure ed un imprendibile Dan Deacon, Killer Mike che è un trattore (ed ha confermato
la collab Run The Jewels con El-P), i Local Natives che, quanto a valore aggiunto dallo show
dal vivo, le hanno suonate tranquillamente ai diretti avversari Grizzly Bear. Soprendenti,
infine, le vibrazioni a stampo Motown dei 70s di Solange (che performer!), i Glass Candy che
non hanno fatto rimpiangere i Chromatics (anche perchè Ida No non è traballante quanto
Ruth Radelet ma frontwoman dalle parti di Alexis Krauss), Mac DeMarco che ha dato lezioni di
intrattenimento ed empatia col pubblico (tra lanci di pacchetti di sigarette Viceroy ed immancabile mosh-pit) e suonato pure da dio (almeno rispetto al recente passaggio in Italia). A
quest’ultimo canadese sarebbe andata la palma per il concerto più coinvolgente tenutosi sul
palco del celebre portale, non fosse che da Barcellona son passate anche le Savages a prendersi - nonostante la chitarra fuori gioco per una decina di minuti e la scaletta decurtata - una
enorme standing ovation che ha messo a tacere un po’ tutte le critiche al loro effettivo valore
e all’urgenza comunicativa (per la verità, sorrette da osservazioni dello stesso peso del “non si
sentivano le voci” che ci è toccato sentire dopo il live dei MBV).
Al Primavera Stage (ex-San Miguel) le lodi sperticate sono andate ad un James Blake che ha
pompato a dovere il nuovo Overgrown e si è nuovamente attestato come appuntamento live
imprescindibile; ai Dinosaur Jr, guitar hero intramontabili. Non male anche lo show autocelebrativo dei Wu-Tang Clan (pur sofferente dell’assenza di Method Man) ed i Peace che non ci
aspettavamo tanto divertenti. Non condividiamo, inoltre, le tante lamentele per la performance - in playback coreografato salvo due pezzi - dei The Knife. Più precisamente: non le condividiamo se mosse dall’alto delle tre e mezza del mattino ed all’interno del contesto del festival
(mentre si fosse pagato soltanto per loro, allora sì, lasceremmo voce ai rammarici). Quello che
qua contava era però il “far festa” e, in effetti, lo show di Karin, Olof e compagni di collettivo
artistico (e qui sta la coerenza totale con Shaking The Habitual che ci hanno raccontato in intervista) è stata la più grande festa dell’intero weekend.
live report
Da segnalare, infine, l’irresistibile tiro primordiale di Death Grips e Goat a dominare lo schedule dell’ATP stage, How To Dress Well e Christopher Owens stelle nel firmamento di Vice
Stage ed Auditorium, Dead Can Dance e Camera Obscura i migliori al Ray-Ban (anche se, in
terra dell’indie-pop quale è quella spagnola, Tracyanne Campbell e soci non potevano che
vincere facile).
Dove è, dunque, che il Primavera Sound 2013 ha fallito? È presto detto: nel fornire la vivibilità ottimale all’esperienza. Tralasciando la questione legata ai rifiuti (non ci si farà mai trovare
pronti alla maleducazione) e all’aumento di pressing ed aggressività della security dovuti al
numero sempre maggiore di bigliettati “VIP” ed alla conseguente aggiunta di aree più ampie
riservate a codesti privilegiati (fortunatamente problema contenuto), ciò che è davvero mancata è una corretta gestione deflattiva del carico di pubblico palco per palco. O meglio: quella
condotta imponendo dolorosissime scelte e volta ad evitare la costipazione sotto all’Heineken
stage in occasione del concerto dei Blur è stata perfetta, ma episodio isolato nonché a scapito della programmazione del day-after, stracolma di tempi morti. Purtroppo, insomma, le
170.000 presenze complessive (40.000 in più dello scorso anno, 30.000 in più del 2011) si sono
fatte sentire, ai danni del singolo, ben più del dovuto.
Una prima soluzione - lo fanno notare sottovoce anche Larry Fitzmaurice e Corban Goble di
Pitchfork - potrebbe essere quella di rinunciare (quantomeno all’interno della manifestazione
centrale al Parc del Fòrum) alla gran messa in mostra delle realtà musicali catalane e spagnole.
È sempre stata parte integrante del Primavera, certo, ma non è nei fatti - appunto a livello di
deflazione del pubblico - più utile al festival nella sua attuale (e futura) incarnazione “gigantizzata”. In generale, Gabi Ruiz ed il resto della crew degli organizzatori dovranno spingersi oltre,
trovare il coraggio di fare il salto di qualità definitivo sotto tutti gli aspetti correlati al situazionismo festivaliero. Magari guardando proprio a quel Coachella che stavolta si è soltanto mimato, comunque senza troppo curarsi di quei propri tratti distintivi che sono stati e non possono
più essere.
Nel frattempo, noi già sognamo i Neutral Milk Hotel (annunciati come primo headliner per il
2014 sui maxischermi del palco di Nick Cave). Ed, ancora, il #bestfestivalever.
[Special thanks to Luca Falzetti]
Massimo Rancati
Death Grips
Tunnel
Milano
21 Maggio 2013
Si sente aria di Primavera Sound anche a Milano, i Death Grips fanno tappa al Tunnel
Il 2012 è stato un anno fortunato per l’hip hop. Tra progetti e artisti più o meno rappresenta-
165
live report
tivi della scorsa annata quelli che hanno fatto parlare più di sé in ambito underground sono
stati i Death Grips. Vuoi per il successo di The Money Store via Epic, vuoi per il proverbiale
“dito medio” - se così lo vogliamo chiamare - alzato alla major con NO LOVE DEEP WEB, rilasciato su internet senza tanti complimenti. Necessità e immediatezza del contenuto quanto
soddisfazione di mandare a quel paese l’establishment, fanno entrare a pieno titolo il progetto
nell’immaginario collettivo di ribellione portandolo ad un record di download via web. Trovata promozionale o no i Death Grips si affermano, in ogni caso, come uno gruppo concreto e
credibile, con gli occhi e la mente ben puntati al presente.
Si sente aria di Primavera (Sound) anche a Milano, dove la vicinanza aerea al celebre festival
spagnolo, con relativa facilità di spostamento, porta molti gruppi delle line up catalane a fare
tappe fuori programma anche in Italia senza costi esorbitanti per gli organizzatori. Ad accaparrarsi i Death Grips per due eventi è stato DNA con esecuzioni al Circolo degli Artisti (Roma) e
al Tunnel per Milano. Ma veniamo a noi. La promozione “al dettaglio” per il concerto milanese
viene affidata a Mere.dith, giovane organizzazione locale e appuntamento fisso del Leoncavallo che si sta facendo strada con eventi di nicchia dal buon tasso qualitativo (The Bug feat.
Daddy Freddy su tutti).
Le luci si spengono e sul palco del Tunnel salgono senza troppi proclami “MC Ride” Stefan
Burnett e “Floatlander” Andy Morin alla consolle ma, come previsto, niente Zach Hill alla batteria. Dopo un pomeriggio speso nel silenzio per non compromettere la voce di MC Ride il duo
parte saggiamente con Cut Throat, traccia prevalentemente strumentale pescata dal primo
mixtape Exmilitary. Il ragazzo di colore è un diesel, ma appena si scalda diventa una macchina da guerra. L’attacco di Get Got è folgorante e il concerto prende vita nel delirio totale, con
tanto di stage diving ripetuti tra il pubblico delle prime file per tutta la durata dell’esibizione.
I volumi annunciati altissimi risultano godibili, con un impianto tutto sommato in media con i
(bassi) standard milanesi.
La prestazione di MC Ride è sopra le righe e non si risparmia, nonostante conservi la voce in
ottica Primavera Sound, mentre Floatlander sta dietro una tastierina scimmiottando qualche
accordo scenico. Vengono privilegiati i pezzi di The Money Store ma nei momenti in cui l’aria si
fa pregna di beat saturi e si parte con NO LOVE DEEP WEB la tensione sale alle stelle, in particolare, con Lock Your Door e Deep Web.
I beat sono curati, densi, e la resa su cassa non lascia nulla al caso se non per qualche “fischione” imputabile all’impianto. Dunque un live elettronico, per basi e batteria sintetica, che arriva
dove deve arrivare, alla faccia dei rockettari che vorrebbero Zach Hill alle pelli, con l’unico
grande difetto legato al tempo: tre intensissimi quarti d’ora (ma forse anche meno) per un duo
californiano da fischiare ma soprattutto da ammirare.
Davide Nespoli
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Blixa Bargeld, Teho Teardo
live report
Circolo Degli Artisti
Roma
07 Maggio 2013
Il tour di Still Smiling vede Teho Teardo e Blixa Bargeld in gran forma
Uno dei dischi più attesi genera una delle tournée più attese dell’anno, lapalissiano. Lo dimostra un Circolo degli Artisti praticamente colmo e l’ampiezza del range del pubblico in cui
darkettoni e hipster, attempati noisers e improbabili tailleur & tacco 12 si mischiano con tanta
nonchalance quanta è la classe che i due responsabili mettono sul palco. In realtà è un trio a
scendere in campo, complice il violoncello di una Martina Bertoni sempre più anima affine di
Teardo, tanto da accompagnarlo ormai in pianta stabile anche quando le atmosfere si fanno
più abrasive: vedi alla voce TAM TUUMB! Cento anni di Arte dei Rumori, l’omaggio a Russolo tenutosi all’Istituto Svizzero di Roma a fine aprile in compagnia di Cut Hands, Aaron Dilloway,
Antoine Chessex, Andy Guhl e Dave Phillips.
È infatti l’ottimo interplay tra Teardo e la Bertoni l’asse portante del live, in equilibrio pregevole
nei contrasti tra classica ed elettronica: il primo intento a suonare la chitarra e trattare l’elettronica necessaria per sopperire ad una formazione così ristretta condensando l’ampia tavolozza
del disco; la seconda pronta a far vibrare, scuotere, percuotere, scivolare dolcemente le dita sul
suo violoncello insieme cameristico e disturbante. In mezzo lui, l’istrione tedesco, capace di attrarre magneticamente lo sguardo e le orecchie degli astanti senza rubare la scena ai colleghi,
così come di incenerire il povero fonico per qualche minimo e ovviabile problema di ritorno in
cassa. Roba superabile per tutti, tranne che per il perfezionista Blixa a suo agio nel cantare in
più lingue e scherzare col pubblico, tanto che la sensazione è quella di un gruppo affiatato e
non di una performance (più o meno) estemporanea.
Still Smiling scorre nella sua interezza alternando momenti più ludici e attesi - Mi Scusi, come
prevedibile, solleva scroscio d’applausi e occhiolini a più non posso, mentre a Come Up And
See Me va la palma dell’ovazione -, altri più tesi e vibranti o romantici e pieni di pathos (Alone
With The Moon dei Tiger Lilies, ad esempio) ma è l’insieme a fluire come un tutt’uno organico
e ben equilibrato. Contrappuntato dal sorriso imperituro di Teardo e dagli scambi di battute
di un Blixa incantatore e chiacchierone, (auto)ironico oltre ogni aspettativa. La cover di Soli Si
Muore, poi, impreziosisce il bis e rinsalda il legame dei due con un immaginario italiano d’antan che mai avremmo creduto potesse esistere in siffatte forme. Chapeau.
Stefano Pifferi
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Black Flag
live report
Alcatraz
Milano
15 Maggio 2013
La prima reunion di membri storici dei Black Flag, quella con il nome ufficiale della band, è approdata a Milano
Ecco la reunion dei Black, o meglio una delle due reunion dei Black Flag, o meglio ancora la
più plausibile, data l’imprescindibile presenza di Greg Ginn (anche se concediamo il beneficio
del dubbio ai Flag di Keith Morris, Bill Stevenson e Chuck Dukowski).
Pochi ma buoni, si direbbe al primo colpo d’occhio dentro il locale. Si sta molto larghi all’Alcatraz, sfruttato solamente per metà, e dirottare il concerto su un club più piccolo sarebbe forse
stata la soluzione migliore. Il programma prevede i Good For You come spalla dei Black Flag,
ma nell’organico tra un gruppo e l’altro cambia soltanto il cantante. Oltre a Greg Ginn, che è
l’assoluto mattatore, hanno un doppio ruolo pure il batterista Gregory Moore e il più giovane
bassista Dave Klein.
Good for You è il progetto che la mente dei Black Flag condivide con lo skateboarder e cantante Mike V (Mike Vallely all’anagrafe); è uscito da qualche mese l’album Life Is too Short to Not
Hold a Grudge. Il loro hard rock/grunge ricorda i Black Flag seconda maniera, pionieri di quella
fusione tra punk e metal che è stata il punto di partenza dei vari Melvins e Soundgarden. Si
notano ovviamente più le escursioni soniche di un Ginn (alla faccia di quelli che “i punk non
sanno suonare”) armato pure di theremin, rispetto alle doti sceniche da medio cantante rock
di Mike V. L’esibizione è discreta ma dura troppo, considerando che il set dei Black Flag risulterà per forza di cose più concentrato. Se queste mezze reunion vi sembrano un po’ posticce, non dovreste dirlo ai ragazzi accalcati
a pogare sotto il palco. Se ci si allontana da pur comprensibili pregiudizi, il concerto risulta in
ogni caso più che onesto. La sezione ritmica carica a dovere, Ginn è all’altezza del “fu” ruolo di
macchina da guerra e Ron Reyes è forse la vera sorpresa: c’è con la voce e tiene benissimo il
palco.
Reyes, alias Chavo Pederast è stato il secondo cantante dei Black Flag, dopo Keith Morris e prima di Dez Cadena. In quel periodo la band ha inciso Jealous Again, mentre l’album Everything
Went Black contiene Gimmie Gimmie Gimmie, Depression e Police Story con la sua voce. Per forza di cose un concerto intero richiede un repertorio più ampio, che però si limita con qualche
eccezione (Can’t Decide, Black Coffee) ai Black Flag prima di My War. Avanti tutta con Damaged,
per l’entusiasmo di chi è venuto per lanciarsi a sgomitare al suono di Six Pack, TV Party e Rise
Above, e il sorriso largo di chi è ormai troppo acciaccato per scatenarsi in una slam dance ma
apprezza lo stesso.
Niente bis, si finisce con Louie Louie, come dire per che, gira e rigira, quello eravamo e quello
ritorneremo. It’s only polvere e rock and roll. Only? Siamo proprio sicuri?
Tommaso Iannini
168
Bruno Maderna
live report
Teatro Comunale di Bologna
Bologna
03 Maggio 2013
Maderna celebrato a 40 anni dalla scomparsa. Luci e ombre sulla musica contemporanea oggi
E alla fine si torna sempre ad Adorno. Sembra che non ci sia possibilità di uscire dalle polemiche e dalle discussioni generate dalle riflessioni del musicologo della Scuola di Francoforte o
scaturite dall’intepretazione dei suoi scritti. La dicotomia si ripropone ogni qualvolta la musica
elettronica e la musica elettroacustica fanno capolino in un teatro tradizionale. Da una parte
c’è chi riempie le fila di chi sostiene che le avanguardie novecentesche hanno avuto il merito
di riflettere in maniera profonda sul fare musica, ma non hanno saputo produrre un corpus di
opere capaci di resistere all’invecchiamento: sarebbero, insomma, “invecchiate male”. Considerazioni sostenute anche interpreti, direttori d’orchestra e musicologi in una forma - si passi il
termine - di “restaurazione neoromantica o neoclassica”.
All’altro estremo dell’arco troviamo gli entusiasti di qualsiasi forma musicale eterodossa rispetto all’Ottocento imperante nei teatri, una schiera che i massimalisti di cui sopra vedono come
figli di una degenerazione del post-moderno. Per questi è sufficiente che si possano ascoltare
opere poco consuete nei cartelloni italiani (e internazionali) perché si gridi al miracolo e ci si
prodighi in lodi sperticate. Nel caso del concerto in omaggio a Bruno Maderna nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa, come spesso accade, le cose stanno a metà strada.
Innanzitutto, bisogna sottolineare positivamente l’impegno di Teatro Comunale di Bologna,
Conservatorio di Musica “G. B. Martini”, Archivio Maderna e Università di Bologna che hanno
voluto ricordare un compositore e ricercatore la cui musica non è frequentemente eseguita
dal vivo. La serata del 3 maggio (e la replica del 4) rimane, quindi, un momento (pubblico) di
una serie di eventi (dal 2 al 9 maggio) dedicati a Maderna: conferenze, proposizione di documenti visuali inediti e rari, concerti elettronici, omaggi musicali di varia natura. Uno sforzo
culturale, quindi, che non può essere sminuito dalla scarsa presenza di pubblico (palchi chiusi,
platea piena per metà).
Il programma mette insieme due opere scritte da Maderna in momenti diversi della sua carriera. La prima, Venetian Journal, risale al 1972, in un periodo in cui il musicista sapeva già di
essere vicino alla fine. Il testo si basa sul diario di James Boswell, un letterato inglese che compie il Grand Tour a metà del Settecento. Il risultato è una specie di “Don Giovanni” da osteria (il
tenore Saverio Bambi, molto espressivo) che dialoga con un gruppo di strumenti. Ora sotto
gli effetti della baldoria e dell’alcol, ora vinto da nostalgia e sentimenti meno allegri, il tenore si
esprime in una lingua meticcia, fatta di francese, italiano, veneziano, inglese e uno pseudo-latino, svariando dal registro comico a quello drammatico. Maderna fa riferimenti a Schoenberg
e Stravinsky, in un gioco citazionista post-moderno che comprende anche Ravel e ballate
folcloriche (la Biondina in gondoeta). Dalle parti dell’esercizio di stile, ma pensato con cura e
una leggerezza che contraddistingue Maderna rispetto ad altri contemporanei.
169
live report
La seconda opera è il Don Perimplin (1961) tratto dal testo teatrale di Federico Garcia Lorca e appartenente al periodo RAI. Maderna lo pensa come un radiodramma, in cui alcuni
personaggi sono intepretati non già da un attore o da un cantante, ma dagli strumenti: Don
Perimplin è il flauto (Devis Mariotti), la suocera il gruppo di sassofoni. La vicenda racconta di
un uomo che in tarda età si sposa con una ragazza molto più giovane (interpretata da Sonia
Bergamasco) sotto la spinta dalla governante Marcolfa (Syusy Blady), andando incontro a un
destino tragico. Il cast parlante, chiuso da Patrizio Roversi che interpreta la voce narrante, è il
punto debole della serata. Se Patrizio Roversi può ancora funzionare come narratore, Syusy
Blady non ha le doti attoriali necessarie per reggere questo tipo di opere. Il punto più basso, in
questo senso, è il dialogo tra due folletti nella notte, cuore centrale del radiodramma maderniano, che la Blady e, in parte, anche la Bergamasco rendono con scarsa convinzione.
Le opere scelte non sono tra le più importanti del corpus maderniano, ma questo può non
essere un fatto negativo, soprattutto se inserito in un contesto di celebrazione e studio di una
figura che ancora necessità di ulteriori approfondimenti musicali, musicologici e storici. E’ un
fatto negativo, invece, affiancare alla ottima conduzione di Marco Angius, specializzato nel
repertorio delle avanguardie novecentesche, un cast extramusicale di non sufficiente livello. Il
risultato mostra il fianco alle critiche conservatrici, acuito dal fatto che un radiodramma, reso
in un teatro oggi, non ha lo stesso impatto immaginativo che poteva avere sull’ascoltatore
radiofonico del 1961. Agli entusiasti a prescindere, invece, si può ricordare che attribuire a tutte le opere di un musicista o di un periodo eguale valore (“tutti capolavori”) equivale alla notte senza luna in cui tutte le vacche sono grige. Opera del critico dovrebbe essere quella di vagliare con il chiaroscuro
dell’analisi i pesi relativi in campo, mettendo in evidenza valori e difetti in una prospettiva.
Ma ogni volta che si affronta un autore delle avanguardie novecentesche, specialmente quelli
non ancora storicizzati, ci si imbatte in questo pantano originato da Adorno e alimentato da
decenni di dibattito quasi sempre sterile. L’impressione è che non ci sia ancora una adeguata
distanza storica per giudicare con serenità e che il continuo studio, come nel caso di queste
celebrazioni di Maderna, sia oltremodo necessario.
Marco Boscolo
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Lana Del Rey
live report
Mediolanum Forum
Milano
07 Maggio 2013
A un anno e mezzo dalla nascita dell’hype, l’arrivo del tour in Italia è l’occasione per verificare l’evoluzione socio-musicale del fenomeno Lana Del Rey
L’arrivo di Lana Del Rey in Italia permette di completare l’analisi su un’artista che ha bruciato
le tappe: era infatti solo l’autunno del 2011 quando si iniziò a parlare di lei su Pitchfork e su
altre webzine al di fuori del circuito mainstream, con una mole impressionante di notizie e
aggiornamenti riservata, prima di allora, solo ai musicisti più affermati e ai ritorni più eclatanti.
Un buzz così elevato da creare, di rimbalzo, un sempre crescente numero di hater - il più famoso di tutti è Carles di Hipster Runoff - pronti a coglierla ad ogni passo falso (e ce ne sono stati
diversi) per farsene beffa. A febbraio 2012 esce il debut Born To Die e improvvisamente Lana
Del Rey, da fenomeno “settoriale”, si trasforma in personaggio di massa. Gli streaming delle
pagine web diventano passaggi su radio nazionali e i link di youtube si tramutano in video in
rotazione su MTV. Poco dopo l’annuncio del tour nei palazzetti (la location di Assago è una
conseguenza del sold-out istantaneo dell’Alcatraz) i riflettori si abbassano quasi totalmente,
tanto che in rete l’evento pare - o almeno sembra - snobbato da addetti ai lavori che a dodici
mesi dalla nascita dell’icona pop sembrano averla dimenticata.
Già la vista all’ingresso, sul finire dell’esibizione del supporting act, pare smentire totalmente
quanto traspare dal web. Persa ogni traccia di pseudo-hipster votati all’hype, i partecipanti
sono persone d’ogni estrazione sociale e genere - con una discreta percentuale maschile, in
parte accresciuta dal ruolo di icona gay della Del Rey - venute in contatto con l’artista americana tramite i mass media, fidelizzate e preparate sul repertorio, al punto da far risultare
l’esibizione un continuo singalong col microfono puntato direttamente sulla platea. Alcune
particolarità, come i numeri scritti col pennarello sulle mani in base all’ordine di arrivo, fanno
presupporre una coda cominciata parecchie ore prima dell’apertura dei cancelli.
Lana fa il suo ingresso poco dopo le 21.00 entrando dal lato di un palco volutamente kitsch e
imponente: una sorta di Caesar’s Palace di Las Vegas riprodotto in scala, con palme, colonne
romane e due enormi leoni di bronzo vicino a cui la star spesso indugia, data la presenza di telecamere fisse che la riprendono per proiettarla su due maxi-schermi. I primi passi sul proscenio contrastano con lo sfarzo descritto: l’artista appare meravigliata dal feedback del pubblico
idolatrante, arrivando al limite della commozione; è stupita come se non si aspettasse una tale
reazione, anche se a questo punto del tour dovrebbe essere abituata, lei che da sempre si è
cucita addosso il ruolo di femme fatale. Sembra inoltre che l’affetto dei fan sia la spinta necessaria per ingranare e portare a termine una buona esibizione.
La partenza con Cola concretizza questo paradosso, che sarà il leitmotiv della serata: la Del Rey
risponde con frequenti discese tra il pubblico, strette di mani e una continua comunicazione
durante le pause (ad un certo punto, mentre canta, arriva a inserire un “I love you” rivolto a uno
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spettatore cambiando in corsa il testo del brano). Nell’ora e un quarto di show (esibizione peraltro dignitosa a livello vocale, nonostante si dica che la data del giorno prima a Roma le abbia consumato la voce) questa cosa diventa lampante e si fa sempre più evidente la “forzatura”
di alcuni gesti di scena voluti da chi le ha curato la comunicazione - l’attaccarsi alla schiena del
chitarrista durante un suo assolo, il sollevare leggermente il vestito per fare alzare la gonna dai
ventilatori e mostrare l’intimo per l’encore di Ride - nei quali è palese un certo imbarazzo della
diretta interessata. Nel finale, con National Anthem per l’ennesima e conclusiva discesa verso le
prime file, la Del Rey si attarda oltre venti minuti a dispensare autografi, foto e baci a stampo, il
tutto con la band a farle da colonna sonora: qui l’indugiare del regista su una ragazza (l’unica)
che scoppia in lacrime dopo un breve scambio di parole con il proprio idolo aggiunge un che
di grottesco a una reazione di per sè già esagerata.
L’impressione è che la ex Cenerentola Elizabeth Grant sia a un bivio: ritrovatasi di punto in
bianco nei panni di una principessa, dovrà decidere se mantenere la genuinità che ha dimostrato facendo aderire l’immagine pubblica a ciò che è veramente, oppure permettersi di essere diva a tutti gli effetti senza badare alle critiche. Non a tutti è data una simile opportunità.
live report
Andrea Forti
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G i m m e S o m e I n c h e s #38
La solita ricognizione mensile sui formati “strani” stavolta tratta di 7” reali e virtuali, 10” e digitali di Al Cisneros, Var, Nun, El Torpe, Makhno,
Occults, Rule Of Thirds...
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Nel giro Om sembrano averci preso gusto e molto. Nemmeno il tempo di parlare dei maxi-singoli modalità “dubplate” della casa madre che Al Cisneros torna all’attacco replicando l’uscita
di Dismas. Anzi, aumentando dimensioni e peso specifico della sua intrippante e misticheggiante idea di psych. Certo, l’aver composto le due tracce che compongono il 10” Ark Procession, durante le pause tra la registrazione di Advaitic Songs e quelle dell’upcoming, getta
sicuramente una certa luce sul vinilino. C’è per forza di cose un evidente senso di continuità e
contiguità con la casa madre, di cui queste lunghe tracce - la title track e la sua gemella Jericho, che mai si discostano dall’immaginario spirituale in cui i nostri sono caduti di peso - sono
l’ennesima dimostrazione: ritualistiche suite, dubbose il giusto e evocative nella misura in cui
vi piaccia chiudere gli occhi e sognare mondi lontani, anche se una certa latente atmosfera
urbana e quasi minacciosa qua e là si fa notare.
Altra nostra conoscenza è Makhno che se ne esce con un 7” digitale che è insieme collaborazione e tributo. Collaborazione perché se nel lato A Nevadagaz vede Paolo Cantù in solo di
chitarra e ammennicoli vari, nel lato B accreditato a HaveYouSaidMakhno emerge il lavoro a
6 mani svolto con l’Hysm? Duo aka Jacopo Fiore e Stefano Spataro. E tributo perché se in solo
Makhno stravolge un classicone dell’italo-wave come il pezzone storico dei Gaznevada - molto
electro-rock mutante in linea con l’originale spirito - nel gang bang coi due pugliesi a venir trafitto è She Is Beyond Good And Evil del Pop Group la cui resa, didascalica ma dai tratti originali
e sfrontati (le peripezie strumentali della seconda parte), ci fa venir voglia di una joint venture
più corposa che riscopra perle nascoste della wave nazionale e non.
Visto che siamo sul digitale, segnaliamo un full-length di remix che personaggi del calibro di
Ezra, M16 (aka Alessandro Bocci degli Starfuckers), Otolab, ecc. dedicano al caro El Torpe il cui
Movin’ On avevamo apprezzato per la capacità industriale e groovey di catapultare il blues più
sanguigno in lande di disturbante fascino. Nelle mani dei sapienti manipolatori raggruppati
sotto l’autoironica sigla Various Talented Artists il blues del futuro di El Torpe assume connotati ancor più coinvolgenti, fatti di elaborazioni da dancefloor (Come Back Baby nelle mani di
Mud di Otolab), atmosfere notturne e minacciose (Ezra su Rock Me Baby), crepitii e rifrazioni a
cassa dritta (Baby Mine targata M16), ecc.. La dimostrazione che il blues è la musica da cui tutto
parte?
#38
G i m m e S o m e I n c h e s Andiamo dall’altra parte del globo per segnalare una fitta serie di uscite interessanti in terra
australiana. Già da qualche anno noto ai più attenti follower del sottobosco post-punk (ma
non solo), il Nuovissimo Continente continua a sfornare gruppi e label d’ottima fattura che
hanno certo di che temere dal confronto internazionale. Iniziamo la carrellata ripescando dal
mazzo un singolo uscito da già diversi mesi ma non per questo dimenticato. Debutto per i
misteriosi NUN di Melbourne, Solvents è un 7’’ di soli due pezzi rilasciato dalla locale Nihilistic
Orbs, già artefice dell’edizione domestica di Heat dei White Hex. Sulla carta il gruppo presenta tratti piuttosto diffusi nel giro: synth, drum machine, vocals robotiche e tutto il nécessaire.
Eppure basta dare un paio di ascolti alla title-track per rimanere incollati alle case e rimandare
in play ancora e ancora. Non è da tutti, specialmente al primissimo singulto creativo: c’è di che
ben sperare per un full-length.
Nuovo singolo anche per i gotici Rule Of Thirds. Alla prima uscita sul vinile dopo il demo tape
dell’anno scorso, il quintetto di Adelaide è autore di garage cupo e incalzante che ben mescola
la lezione dei Cramps con la tradizione locale dei vari Beasts Of Bourbon e Scientists. Solo una
decina di minuti per questo 7’’ su No Patience, con l’opener Mouthful a fare da traino e già si intravedono rosee prospettive che speriamo non verranno deluse come a volte accade a gruppi
che nascono e scompaiono con la medesima facilità.
Restiamo su No Patience, ma spostandoci a Brisbane, e incappiamo negli Occults, duo (trio dal
vivo) non troppo dissimile dai sopracitati Rule Of Thirds, anche se con un piglio leggermente
più deathrock. Anche per loro debutto sulla breve distanza a base di sonorità scure e adrenaliniche al contempo, ben dimostrate da un brano come Sex After Death. A onor del vero va detto
(qualora ce ne fosse bisogno) che nessuno di questi gruppi brilla per particolare originalità o
innovazione, ma al contempo ciò non preclude un ascolto intrigante ed efficace. Fatevene una
ragione, dunque: qui non troverete il disco dell’anno ma se siete degli insaziabili digger come
noi, beh, qua c’è di che rosicchiare.
Ancora in estremo oriente, ma spostandoci in territorio nipponico, troviamo ancora una volta
all’opera Big Love, negozio di dischi, etichetta e fornitissimo distributore del sol levante. Non
paga di aver appena pubblicato la stampa giapponese del nuovo, doppio Dirty Beahces (come
ai tempi d’oro della discografia internazionale, verrebbe da pensare), la label di Tokyo rilascia
un 7’’ per i danesi Vår (ex War) con The World Fell, il singolo estratto dal nuovissimo album
No One Dances Quite Like My Brothers (Sacred Bones). Il lato B è quella The Boy or the Boot già
apparsa sull’LP-compilation Five Years of Sacred Bones Records. Solo per i fanatici. Per tutti,
invece, l’edizione in CD del medesimo No One Dances Quite Like My Brothers, sempre su Big
Love. Unica differenza con l’edizione americana? La tracklist in ideogrammi.
Stefano Pifferi, Andrea Napoli
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Massimo Volume
C A MPI M A G NETICI #21
Lungo i bordi (Wea, Gennaio 1995)
Risulta sempre più stupefacente, negli anni e nel procedere delle uscite discografiche, il modo
calibratissimo con il quale i Massimo Volume, band di stanze bolognesi, siano stati in grado di
costruire la propria poetica. Vicende sonore che intrecciano armonie narrative: così potremmo
definire il lavoro di Emidio Clementi, Egle Sommacal, Vittoria Burattini (oltre a Gabriele
Ceci e, ora, Stefano Pilia), dai primi anni ‘90 pionieri di un incrocio magico - e peculiarmente
italiano - tra post-rock (ma non solo) e spoken word. Lungo i bordi è, per i Massimo Volume, il
disco della svolta, dopo un esordio (Stanze, 1993) ancora acerbo e accolto abbastanza tiepidamente. Nel 1995 la band va consolidandosi e affida la produzione di quest’album a Fausto
Rossi, amatissimo da Clementi, artista sfaccettato, dalla poetica ipersensibile fatta da sempre
di sussurri e grida (si pensi al balzo romantico che ha trasformato Faust’O nel Fausto Rossi che
oggi possiamo ancora ascoltare live).
Quelli di Clementi sono racconti autobiografici, storie di amici e compagni di vita bolognese,
narrazioni, forse sogni o ricordi (La notte dell’11 ottobre), storie perlopiù indecifrabili una volta
finite, difficilmente collocabili, solo raramente con un luogo e un tempo precisi. Lungo i bordi
è una raccolta di racconti che sfiora il nodo dell’esistenza mantenendosi a lato, scorrendo introspettiva nelle vie di confine, in una periferia letteraria del raccontarsi. L’album è sorprendente nel dimostrare, per la prima volta, l’incredibile capacità di Egle Sommacal nel non costruire
mai semplici sottofondi per le parole di Clementi: la magia dei Massimo Volume si annida in
questa dote, ancora presente oggi, di non lasciare che la parola schiacci il suono e viceversa. I
testi di Clementi sono piccoli film, brevi videoclip sospesi che chiedono, sempre, una colonna
sonora, poi prontamente fornita dalla chitarra di Sommacal e dal beat pulito e quasi jazzistico
di Vittoria Burattini.
Post rock, si è detto, ma anche reiterazione ragionata delle strutture musicali, qualche elemento noise (Frammento 1), atmosfere sospese, chitarre elettriche tesissime (Fuoco fatuo), accenni swinganti decostruiti (Per farcela). Se negli annali è rimasto Il primo dio, brano dedicato e
ispirato a Emanuel Carnevali - autore la cui poetica risulterà, anche nei dischi successivi, fonte
di costante ispirazione per i testi di Clementi -, la forza di brani come Inverno ‘85, Meglio di
uno specchio e una Nessun ricordo dal carattere quasi pop, fanno, se non la storia della musica
italiana, senz’altro la definizione di un genere.
L’eredità ancora mai raccolta dei Massimo Volume è stata declinata, negli anni, in modi diversi, ma spesso incapaci di rendere con altrettanta efficacia la forza dell’incontro suono-parola
che ha contribuito a fissare, nel tempo e nella Storia, la band di Clementi & co.
(7.8/10)
Giulia Cavaliere
176
The Breeders
c l ass i c a l b u m
Last Splash (4AD, Agosto 1993)
Siamo alla fine degli anni ‘80. Kim Deal cerca nuovi sbocchi creativi e soprattutto un gruppo più “suo”
di cui essere, oltre che cantante e chitarrista, anche la principale compositrice. La leadership delle
Breeders rimane infatti - e rimarrà - saldamente nelle mani della bassista e seconda voce dei Pixies,
nonostante la band viva di fatto una nuova vita a ogni cambio di formazione.
Breeders era innanzitutto il nome del complesso in cui da adolescente la Deal suonava insieme alla sorella Kelley; ma il quartetto titolare di Pod (1990) non comprende la gemella di Kim, bensì Tanya Donnelly (ex Throwing Muses), oltre a Shannon Doughton (alias Britt Walford degli Slint) e alla bassista
Josephine Wiggs (con la partecipazione della violinista Carrie Bradley). Supergruppo? Del folk-punk
delle prime Throwing Muses non ci sono che suggestioni, per non parlare del post-rock degli Slint; l’album prodotto da Steve Albini è - almeno per quanto riguarda la scrittura - una rivisitazione del sound
dei Pixies dal versante Deal. Più asciutta, senza i guizzi nevrastenici di Francis o i fill di Santiago, ma
non per questo meno fantasiosa, tanto che in molti considerano il disco superiore alle ultime prove
dei folletti. Quando i Pixies si sciolgono, Kim può dedicarsi a tempo pieno alla sua creatura, di cui nel
frattempo è uscito l’EP Safari (1992), piuttosto interlocutorio (e sempre molto pixiesiano).
La formazione di Last Splash è cambiata per due quarti: Kelley Deal ha sostituito Tanya Donnelly (che
intanto è andata a formare i Belly) e Jim Macpherson prende il posto di Walford dietro i tamburi. Le
Breeders sono finalmente - sulla carta - un gruppo stabile. Il secondo LP si mantiene sul livello di Pod
ma ha anche qualche freccia in più al suo arco: almeno un paio di potenziali singoli. Non è un caso se
Cannonball arriva al n. 2 della modern rock chart di Billboard. Il brano in sé è un esempio lampante
della semplicità/complessità delle canzoni à la Pixies, costruite su riff a incastro e scarti di dinamica
che stanno alla scrittura pop un po’ come il cubismo geometrico di Braque e Picasso sta alla pittura
moderna: presentare elementi simultanei scomposti per arrivare a una nuova sintesi. Le chitarre sono
diventate più sporche e pesanti, perché nel frattempo gli stop & go e le dissonanze tipici dei Pixies
di Doolittle sono diventati (anche) quelli dei Nirvana di Nevermind. Le altre canzoni hanno meno del
collage; sfilano ballate dal cuore melodico in un guscio di chitarre rumorose (Invisible Man, Do You Love
Me Now?) che non si fanno mancare neppure tentazioni surf (Flipside) e hawaiane (No Aloha), sempre
flirtando con l’esotismo che Deal conosceva bene dalla sua precedente band.
Non chiamatelo college rock, non chiamatelo punk, non chiamatelo noise: Last Splash è una riuscita
combinazione di questi tre aspetti: il power pop del dopo hardcore (gravitiamo pur sempre dalle parti
di Boston) è il format che forse si avvicina di più alle intenzioni delle Breeders, e diventa sublime in un
pezzo come Divine Hammer. Un cofanetto da poco nei negozi celebra il ventennale di questo disco
che fotografa perfettamente uno stato delle cose dell’alt rock del 1993. Un periodo, nel bene e nel
male, assolutamente irripetibile, dove album come Last Splash erano nella norma (oggi non so...). Tra
le curiosità c’è anche S.O.S., lo strumentale da cui i Prodigy hanno campionato il riff di Firestarter.
(8/10)
Tommaso Iannini
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