«VITA D’UN UOMO»
DI GIUSEPPE UNGARETTI
di Mario Allegri
Letteratura italiana Einaudi
1
In:
Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere
Vol. IV.I, a cura di Alberto Asor Rosa,
Einaudi, Torino 1995
Letteratura italiana Einaudi
2
Sommario
1.
Genesi e storia.
4
1.1.
1.2.
L’intellettuale sradicato.
Il poeta italiano.
4
8
2.
Struttura.
14
2.1.
2.2.
2.3.
Il libro senza data.
Gli «stampini» di Ungaretti: le varianti.
Dal versicolo all’endecasillabo.
14
18
20
3.
Il deserto e l’«uomo di pena».
23
4-5.
Dalla parola al discorso.
29
6.
Nota bibliografica.
33
Letteratura italiana Einaudi
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1. Genesi e storia.
1.1. L’intellettuale sradicato.
Quando, nell’estate del 1942, propone a Giuseppe De Robertis di curare l’edizione complessiva delle poesie sino allora pubblicate, Ungaretti ha già bene in mente la struttura e il titolo dell’opera: suddivisa «in due volumetti: L’Allegria e il Sentimento», da considerare però come «la parte prima e la parte seconda d’un unico libro che avrebbe per titolo “Vita d’un Uomo”»1. La dicitura, che d’ora in
avanti campeggerà, con rare eccezioni2 sul frontone d’ogni altra silloge, è già comparsa tuttavia tre anni addietro sulla copertina della più importante raccolta francese delle sue liriche, nella versione di Jean Chuzeville3: considerati gli stretti legami che lo uniscono al suo traduttore4, si può ipotizzare una indettatura dello
stesso Ungaretti, anche perché il lemma «uomo» e la locuzione «vita d’un uomo»
si segnalano per tempo, e con incidenza non trascurabile, nelle riflessioni critiche
o nelle divagazioni giornalistiche del poeta5.
Il titolo-programma sembra ancora scommettere sopra una consustanzialità
di vita e poesia, peraltro accreditata da Ungaretti sin dalle prime confidenze a
Giovanni Papini («Chi sentirà quanta mia vita s’è fermata tremante in una parola?», gli chiede in una lettera dal fronte)6 e in seguito riaffermata ostinatamente
nelle frequenti chiose a se stesso, cui, compiaciuto e non di rado istrionico7, si ab1 G. UNGARETTI e G. DE ROBERTIS, Carteggio. 1931-1962, con un’Appendice di redazioni inedite di poesie di
Ungaretti, a cura di D. De Robertis, Milano 1984, p. 16.
2 Si vedano le raccoltine Derniers Jours. 1919, Milano 1947; La terra promessa, Milano 1950, e Un grido e paesaggi,
Milano 1952. Le ultime due, comunque, nella ristampa milanese del 1954 recheranno il consueto sopratitolo.
3 G. UNGARETTI, Vie d’un homme, traduzione dall’italiano e prefazione di J. Chuzeville, Paris 1939. Già in questa edizione L’Allegria e Sentimento del tempo, presenti in un’ampia scelta, costituivano, rispettivamente, il Livre premier e il Livre second. Due poesie (Mort de mon frère e Chute de l’homme) erano invece inedite e scritte, come recitava l’avvertenza, «direttamente in francese».
4 Jean Chuzeville aveva in precedenza ospitato generosamente Ungaretti nella sua Anthologie des poètes italiens
contemporains (1880-1920), Paris 1920, ed era considerato dagli Italiani uno dei promotori più benemeriti della nostra
letteratura contemporanea in Francia: cfr. G. UNGARETTI, Considérations sur la littérature italienne moderne
(1923), in ID., Vita d’un Uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano 1974, pp. 55-59.
5 Cfr. C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti, Milano 1982 (nuova edizione accresciuta), pp. 27-28, secondo il quale lo
spunto per il frontespizio di Vita d’un Uomo potrebbe risalire addirittura a un articolo del poeta (Italia, Francia, Iugoslavia) scritto per «Il Popolo d’Italia» dell’11 dicembre 1919.
6 G. UNGARETTI, Lettere a Giovanni Papini. 1915-1948, a cura di M. A. Terzoli, introduzione di L. Piccioni, Milano 1988, p. 80.
7 Si pensi, oltre che ai suoi ormai leggendari exploits recitativi, a come il vecchio poeta si conceda di buon grado al
fotografo, in primipiani rugosi e spiritati che mirano a restituire, si direbbe, fisiognomicamente il lambiccare sulla parola del «vecchissimo ossesso»: così si autodefinirà egli stesso nell’ultima sua lirica, L’impietrito e il velluto, ora in G.
UNGARETTI, Vita d’un Uomo. Tutte le poesie (1969), a cura di L. Piccioni, Milano 19715 p. 326. Tutte le citazioni
delle poesie di Ungaretti, e delle note, prefazioni, chiose, ecc. che le accompagnano in questo volume, devono intendersi da tale edizione (tra parentesi, titolo eventuale e indicazione di pagina).
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bandona sempre più volentieri con il procedere degli anni8. Una sorta di novecentesca Dichtung und Wahrheit9, sorretta da un instancabile ammasso di testimonianze biografiche, di attestazioni encomiastiche10 e di aneddoti romanzati, in
special modo circa la giovinezza africana, che da ultimo hanno fatto non poco velo ai testi. La mira alla confessione diaristica, alla biografia in versi di ascendenza
probabilmente petrarchesca, già esplicita nella memoranda premessa all’Allegria
del 1931:
Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha altra ambizione, e crede che anche
i grandi poeti non ne avessero altre, se non quella di lasciare una sua bella biografia. Le
sue poesie rappresentano dunque i suoi tormenti formali, ma vorrebbe si riconoscesse
una buona volta che la forma lo tormenta solo perché la esige aderente alle variazioni
del suo animo, e, se qualche progresso ha fatto come artista, vorrebbe che indicasse anche qualche perfezione raggiunta come uomo. Egli si è maturato uomo in mezzo ad avvenimenti straordinari ai quali non è mai stato estraneo. Senza mai negare le necessità
universali della poesia, ha sempre pensato che, per lasciarsi immaginare, l’universale
deve attraverso un attivo sentimento storico, accordarsi colla voce singolare del poeta
(Note, pp. 527-28)
sarà riaffermata con forza ancora dall’ultimo Ungaretti, ripercorrendo, nella Nota
introduttiva appositamente stesa per l’edizione ormai compiuta del suo libro poetico, i primi e incerti esordi lacerbiani:
Quelle mie poesie sono ciò che saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioè
poesie che hanno fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla
mia biografia: non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta.
(ibid., p. 511).
Tanti pronunciamenti in un’unica direzione insinuano il sospetto di una commessura in qualche modo istituita retrospettivamente, ricomponendo in categorie
astratte (l’amore e la guerra, l’isola e il deserto, l’esilio e la terra promessa) e in
chiave di mitologia personale (il nomade e il soldato, l’uomo di pena e il naufrago) spezzoni di esperienze disorganiche o di segno persino contrario (per tutte,
l’anarchia e il fascismo) della cui successione egli mostrerà di possedere, tutto
sommato, insufficiente coscienza storica. In ogni caso, bisognerà subito intender8 Cfr., per esempio, Ungaretti commenta Ungaretti, in «La Fiera Letteraria», 15 settembre 1963, pp. 1-2, ove si può
leggere: «Il carattere, il primo carattere di tutta la mia attività è autobiografico. Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione» (ora in id., Vita d’un
Uomo. Saggi e interventi cit., p. 815).
9 Il rapporto con Goethe, nome ricorrente nella produzione saggistica di Ungaretti con citazioni anche da più opere, non è stato ancora indagato come forse meriterebbe.
10 Cfr., ma è soltanto il caso più macroscopico, in., Il taccuino del vecchio, con testimonianze di amici stranieri del
poeta raccolte a cura di L. Piccioni, e con uno scritto introduttivo di J. Paulhan, Milano 1960.
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si sul valore da attribuire all’autocertificazione di una esperienza biografica riconosciuta come tale esclusivamente nel suo rapporto con il testo poetico, se si considera l’inesausto lavoro di riscrittura, talvolta di rifondazione vera e propria, cui
Ungaretti, anche a distanza di parecchi anni, sottopone quasi ogni sua lirica, ridistribuendo ordini e precedenze all’interno delle singole raccolte, proscrivendo
antichi componimenti o ammettendone di nuovi, senza alcuna osservanza diacronica: retaggio, forse, di una forma mentale acquisita nei suoi primi vent’anni trascorsi ad Alessandria d’Egitto, ai margini di un deserto «dove la vita non lascia alcun segno di permanenza nel tempo» (ibid., p. 497).
E proprio dal lunghissimo prologo egiziano occorre procedere per sciogliere
l’enigma di un esordio alla poesia in apparenza tardo (i primi versi “ufficiali” risalgono al 1915)11 e per impeto subitaneo: in realtà, predisposto da una assidua e
studiata frequentazione letteraria e da un costante esercizio di scrittura, non necessariamente poetica12, su cui Ungaretti – altre volte sin troppo prodigo di confidenze e di rivelazioni – manterrà invece un velo persistente di segretezza. È certo
che, a dispetto delle precarie condizioni economiche e delle tante occupazioni intraprese (tutte regolarmente fallite) per sbarcare il lunario, la sua vita sembra da
subito muoversi entro quella marcata dimensione letteraria che la caratterizzerà
sino all’ultimo, forse più che per ogni altro poeta del nostro Novecento. Il crogiolo multietnico di Alessandria dove ha modo di frequentare, come già Marinetti,
ottime scuole francesi, gli consente una eterogeneità di esperienze politico-ideologiche (anarchici, socialisti, disertori e rivoluzionari d’ogni specie e d’ogni provenienza si succedono nella Baracca Rossa di Enrico Pea che il giovane poeta
prende per tempo a bazzicare)13 e letterarie (italiane, francesi e, per via obliqua,
tedesche), probabilmente non tutte impossibili nell’Italia del tempo14, ma di fatto
rifuse qui con una effervescenza e con una avventata disinvoltura propiziate in
gran parte dall’extraterritorialità. Il negozio interculturale e la pratica plurilingui11
Si trattava di sedici poesie apparse a più riprese su «Lacerba» nel 1915 e poi riunite, rielaborate nella scrittura e
variate in successive edizioni nel numero, nella sezione Ultime, collocata definitivamente in apertura dell’Allegria.
12 Sull’attività letteraria e sulle letture dell’Ungaretti “egiziano” si vedano L. REBAY, Le origini della poesia di Giuseppe Ungaretti, Roma 1962; L. PICCIONI, Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti, Milano 1970, pp. 11-45; e, ancora,
L. REBAY, Ungaretti: gli scritti egiziani 1909-1912, in Atti del Convegno internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino,
3-6 ottobre 1979), a cura di C. Bo e M. Petrucciani, 2 voll., Urbino 1981, pp. 33-60.
13 Per l’amicizia con Enrico Pea, cfr. G. UNGARETTI, Lettere a Enrico Pea, a cura di J. Soldateschi, con una nota introduttiva di G. Luti, Milano 1983, ricco anche di testimonianze sulla leggendaria Baracca Rossa.
14 Secondo C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti cit., «il poeta fu inevitabilmente, ad Alessandria d’Egitto, per effetto
di una “geografia della letteratura” che vale anche per il Novecento, “lettore di provincia”, lettore attento cioè del più
recente e autorizzato Ottocento francese, da Baudelaire a Mallarmé [...], e anche italiano, da Pascoli a D’Annunzio
[...] e senza escludere puntate su Leopardi e Manzoni. Ed insieme, per uno scrupolo d’aggiornamento tanto più pungente quanto più forte era la distanza dai “laboratori” europei di cultura, volle divenire – prima del gran “balzo” –
spettatore informato delle avanguardie abbonandosi nel 1911 alla “Voce”» (p. 151).
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stica che ad Alessandria si impongono di necessità gli torneranno di aiuto nel disimpegnarsi, più tardi, dagli ordinamenti formali della tradizione italiana.
Nessuna meraviglia che, al momento di lasciare l’Africa, Ungaretti trovi più
congeniale e più coerente con la propria storia proseguire, dopo una sosta fiorentina brevissima ma già densa di implicazioni future15, per Parigi, «un miraggio
[...] per quanti intendevano, e diventavano, o speravano di diventare artisti, scrittori, o solo completarvi gli studi» (ibid., p. 509). Nei due anni che rimane in questa «città santa dell’uomo moderno»16 la sua trasformazione è imponente e tutta
nel segno di un guadagno rapido di autocoscienza intellettuale («Questa è la Senna | e in quel suo torbido | mi sono rimescolato | e mi sono conosciuto»: I Fiumi,
p. 45) e di consapevolezza repentina del proprio talento di poeta, tuttavia men
che esordiente, se, indirizzando nel ’14 a Giuseppe Prezzolini i versi di Primavera,
egli può già dichiararsi in questi termini:
Conosci un altro che in Italia sappia fare meglio di così? Conosco in Italia molti professori; conosco un grandissimo artista, Soffici; un grande scrittore, Papini; un allegro narratore, Baldini; un’anima religiosa, Jahier; ma quanti poeti che senza ripetere Baudelaire o Mallarmé, o Verlaine, o Laforgue, o il diavolo sappiano far poesia ci sono in Italia?
Ho questa certezza; tutte le piccole cantaridi italiane posso scansarle con i piedi, senza
pericolo che riescano a farmi male17.
Al caffè o all’università; nelle conversazioni libere con Apollinaire, Picasso e
Braque, o annotando le lezioni di Bergson, Bédier e Strowski; negli incontri con
Cendrars, Fort e Péguy, o ragionando con Jacob, Léger e Lunacarskij, Ungaretti
affina una conoscenza straordinariamente articolata della cultura europea, non
soltanto letteraria e non soltanto d’avanguardia. Lo interessano in egual misura la
poesia e la politica, le arti figurative e la filosofia, la musica e la scienza, la filologia e la storia. Tutto il suo lavoro successivo di poeta, di critico d’arte, di narratore e persino di insegnante universitario può davvero dirsi già contenuto in questa
densa e concitata esperienza parigina18, durante la quale, tuttavia, Ungaretti sem15 Sui riferimenti fiorentini di Ungaretti tra il ’12 e il ’15 si vedano, oltre che le precisazioni di L. REBAY, Le origini cit., pp. 35-63, e di L. PICCIONI, Vita di un poeta cit., pp. 49-63, le recenti integrazioni di G. LUTI, Ungaretti e «
les compagnons de route» dell’avanguardia fiorentina, in Atti del Convegno internazionale cit., pp. 277-303.
16
G. UNGARETTI, Lettere a Enrico Pea cit., p. 50 (8 marzo 1913).
17 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini, senza data [ma collocabile attorno al ’14], in L. PICCIONI, Vita di un poeta cit., p. 55. Per inciso, la poesia non sarà pubblicata dalla «Voce», bensì, sei anni più tardi, dalla «Rivista di Milano»,
III (1920), n. 39, con qualche variante rispetto al testo spedito a Prezzolini (ora nella sezione Altre poesie ritrovate di
Vita d’un Uomo, p. 400). L’autoconsiderazione di Ungaretti è ben testimoniata anche nelle lettere al «grande fratello
Soffici»; in una di queste (27 maggio 1918), sconosciuto ai più e quasi senza storia letteraria, si spingerà ad affermare:
«in arte non mi sento secondo a nessuno» (G. UNGARETTI, Lettere a Soffici. 1917-1930, a cura di P. Montefoschi e
L. Piccioni, Firenze 1981, p. 24).
18 L. PICCIONI, Ungaretti, la guerra, la poesia, prefazione a G. UNGARETTI, Lettere a Soffici cit., pp. XIV-XV.
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bra non perdere mai di vista il contesto italiano, meticolosamente aggiornato in
un quadro sempre preciso e lucido, specie nell’individuazione dei nuovi referenti
(significativi in questo periodo i rapporti sempre più saldi con vociani e futuristi,
attraverso le mediazioni, soprattutto, di Prezzolini e di Soffici).
Sarà anche vero che egli può «scansare» senza impaccio o rischio alcuno «le
piccole cantaridi» nostrane. Ma è indubbio che, al momento di risolversi con più
determinatezza alla poesia, l’intellettuale cosmopolita e sradicato mostra di avvertire tutto il disagio – quando non proprio la «desolazione»19 – del suo perseguito
déracinement, ravvisando l’urgenza di ridefinire in senso più tradizionale le proprie origini, secondo un epilogo prima nazionalistico e poi anche guerriero tragicamente comune a gran parte dell’avanguardia. È ancora a Prezzolini che, nel
cuore della sua stagione più ecumenica e affrancata, Ungaretti così si descrive:
Le dico: «Sono uno smarrito». A che gente appartengo, di dove sono? Sono senza posto nel mondo, senza prossimo. Mi chino verso qualcuno, e mi faccio male. E come fare a vivere, e continuamente rinchiudersi come una tomba? Alessandria d’Egitto, Parigi, Milano, tre tappe, ventisei anni, e il cantuccio di terra per il mio riposo non me lo
posso trovare. [...] È questa la mia sorte? E chi dovrebbe accorgersi che patisco? Chi
potrebbe ascoltarmi? Chi può dividere il mio patimento? Sono strani i miei discorsi.
Sono un estraneo. Dappertutto. Mi distruggerò al fuoco della mia desolazione? E se la
guerra mi consacrasse italiano? Il medesimo entusiasmo, i medesimi rischi, il medesimo
eroismo, la medesima vittoria. Per me, per il mio caso personale, la bontà della guerra.
Per tutti gli italiani, finalmente una comune passione, una comune certezza, finalmente
l’unità d’Italia20.
Il rientro in patria coincide, non a caso, con l’acquisto più consapevole e definitivo della parola poetica («Chiara Italia, parlasti finalmente | al figlio d’emigranti»: 1914-1915, p. 162).
1.2. Il poeta italiano.
Tra Milano e la Versilia, in attesa della chiamata alle armi e alternando a manifestazioni interventistiche discussioni appassionate con Carrà e Barili, con Viani e
Rebora, con Banfi e Jahier (ma ci sono anche incontri con Mussolini che meriterebbero di essere più approfonditi)21, Ungaretti comincia a scrivere, forse pensando davvero per la prima volta alla loro pubblicazione, poesie per «Lacerba»,
19 L’ammissione è contenuta in una lettera a Giuseppe Prezzolini scritta verosimilmente nel novembre 1914, pubblicata da D. De Robertis nell’«Almanacco dello Specchio», IX (1980), p. 27.
20 Ibid., pp. 23-27.
21 Cfr. L. PICCIONI, Vita di un poeta cit., p. 60. Ancora nessuna indagine ha voluto chiarire questa preistoria dei
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affettuosamente «sollecitato da Papini, da Soffici e da Palazzeschi che la dirigevano» (Note, p. 511). Sedici liriche in tutto, dodici delle quali, composte a Milano,
confluiranno in seguito nella sezione Ultime (in quanto terminali di una esperienza da considerarsi, a questa altezza cronologica, evidentemente conclusa)22 dell’Allegria: altre, con ogni probabilità del periodo, o di poco precedenti, e ricuperate molto più tardi, confluiranno invece nelle appendici Poesie disperse e Altre
poesie ritrovate che sigillano ora Vita d’un Uomo. Prima di trovare, ma non tutte,
sistemazione nell’Allegria del 1931, le liriche milanesi subiranno variazioni radicali e riaggiustamenti interminabili nella forma, nel numero e nella loro collocazione, per così dire, fisica all’interno delle singole raccolte; cosicché, sin dai primi
versi ufficiali può datarsi quel rimaneggiamento instancabile e quasi ossessivo di
testi, di date e di interi comparti poetici che costituisce il tormento di ogni criticolettore, ma che evidentemente Ungaretti riteneva necessario per dare, strada facendo, omogeneità al suo libro-confessione.
La prima raccolta compiuta di versi, Il porto sepolto, esce, semiclandestina e
quasi in zona di guerra, a Udine nel dicembre 1916: trentadue liriche (ora trentatre in Vita d’un Uomo)23, composte tutte al fronte e corredate di precise indicazioni cronologiche e di luogo a farne una sorta di minuzioso diario quotidiano
(non è raro il caso di due, o persino tre, poesie in data dello stesso giorno). Circa
la genesi del libretto – autentico incunabolo della lirica ungarettiana e, per molti,
anche limine di quella novecentesca – ci si è affidati in genere alla testimonianza
dell’autore, tuttavia in questa, come in tante altre memorie della sua storia poetica, non proprio attendibile o comunque non in linea con i dati di cui ormai siamo
in possesso:
Il Porto Sepolto fu stampato a Udine nel 1916, in edizione di 80 esemplari a cura di
Ettore Serra. La colpa fu tutta sua. A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia,
margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute... – sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico. Non avevo idea di pubblico, e non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla guerra per riscuotere applausi,
avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com’è la guerra per
un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione – anche quello di chi, come noi, si fosse trovato in pieno nella mischia. Di più,
m’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinarapporti tra Ungaretti e Mussolini, sui quali la critica più affezionata al poeta si mostra tuttora molto suscettibile.
22 Cfr. ibid., p. 62.
23 Nella prima stesura Universo costituiva soltanto la chiusa della lirica La notte bella.
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ta a concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante, mi sarebbe sembrata un odioso privilegio
e un gesto offensivo verso il popolo al quale, accettando la guerra nello stato più umile,
avevo inteso dare un segno di completa dedizione.
Questo era l’animo del soldato che se ne andava quella mattina per le strade di Versa, portando i suoi pensieri, quando fu accostato da un tenentino. Non ebbi il coraggio
di non confidarmi a quel giovine ufficiale che mi domandò il nome, e gli raccontai che
non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di trovarmi in qualche parola, e ch’era il
mio modo di progredire umanamente. Ettore Serra portò con sé il tascapane, ordinò i
rimasugli di carta, mi portò, un giorno che finalmente scavalcammo il San Michele, le
bozze del mio Porto Sepolto.
(Note, pp. 521-22. I corsivi sono nostri).
A parte la sconfessione dei propri entusiasmi interventistici, sono evidenti gli
sforzi, ancora del vecchio Ungaretti, di accreditare la nascita del suo primo libro
come del tutto fortuita e in una dimensione quasi extraletteraria. La realtà pare
invece diversa.
Alcune liriche del Porto erano già state pubblicate nella primavera-estate precedente: Lindoro di deserto sulla «Voce» di marzo24; altre quattro a Napoli, ospitate sulla «Diana» di Gherardo Marone: Fase (25 maggio), Malinconia (31 luglio),
Monotonia (31 agosto, con il titolo di Paesaggio) e Nostalgia (28 settembre)25. Ma
non solo. Già molti mesi prima Ungaretti aveva sondato lo stesso Marone circa
l’eventualità di radunare in un volumetto l’intera sua produzione poetica, rivelando un progetto editoriale definito sin nei dettagli tipografici:
Caro Marone,
mi potreste dire, voi che v’intendete di cose tipografiche, il prezzo di un volume,
formato della Diana, carta ordinaria, caratteri di questo corpo circa: «IL PORTO SEPOLTO», un centinaio di copie numerate, un migliaio di versi. Sarebbe la raccolta delle mie cose che vorrei distribuire agli amici26.
Se si considera che la raccolta poi pubblicata a Udine assomma a circa seicento versi, l’accenno al «migliaio» contenuto nella lettera fa supporre il proposito originario di includere anche quelli pubblicati su «Lacerba». Dunque, nella
primitiva intenzione di Ungaretti, Il porto si configurava non come solo diario di
guerra estemporaneo, bensì come résumé attentamente vagliato di un po’ tutta
l’esperienza lirica del suo ultimo triennio. Dalle concomitanti lettere a Papini, in24
Lindoro di deserto risaliva addirittura al 22 dicembre del 1915.
Sulla «Diana» erano state pubblicate anche altre due liriche: Bisbigli di singhiozzi e Poesia, nel fascicolo di novembre-dicembre. Verranno ricuperate molto più tardi nelle Poesie disperse, 1945.
26 G. UNGARETTI, Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), Milano 1978, pp. 48-49 (in data del 14 luglio).
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fatti, si può rilevare quell’assiduo esercizio di riscrittura, in chiave prevalentemente di epurazione dei modi più crepuscolari e futuristi («ho ripreso tutte le mie
cose del periodo di guerra, ne ho distrutte mezze, ho rifatto il resto, e ho richiuso»)27 e già di accumulo variantistico («Ho cambiato in qualche punto l’ultima
poesia. Ho mandato le varianti a De Robertis»)28 che, mentre smaschera la retorica del «tascapane», preannunzia il labor limae caratteristico del suo procedere
compositivo. Inoltre, queste stesse lettere – come pure quelle inviate a Soffici e a
Marone – denotano un Ungaretti tutt’altro che disinteressato alle reazioni di almeno un certo pubblico, quello dei critici e dei letterati di professione: consapevole del rivolgimento operato con i suoi versicoli nello stagno della continuità italiana («tra cent’anni si accorgeranno che in fatto di sensibilità, di transfusione lirica della realtà, sono più avanzato di tanti incensati, – di un secolo almeno»)29, il
fante-poeta che in seguito protesterà la sua vocazione all’anonimato promuove,
come meglio può tra i disagi della guerra, la diffusione della piccola silloge («ho
mandato il mio libro in giro»)30, stizzito per l’indifferenza di alcuni lettori
(«Quante copie sprecate del mio “Porto” date certo a gente fatua»)31 e nient’affatto disposto all’accettazione di un eventuale giudizio negativo («è certo il miglior libro: il più sincero: il più puro, di quest’anno: ne dicano pur male i grammatici: il primo esemplare sarà per te: in Francia l’ameranno»)32.
Dal Porto sepolto prende avvio tutta la successiva produzione poetica ungarettiana, che nell’Allegria di naufragi, uscita a Firenze nel 1919 per Vallecchi, trova il suo primo fondamentale punto di approdo e di riferimento. Vi confluiscono,
con qualche esclusione, ma già con parecchie rielaborazioni formali e con significativi riordini cronologici33, tutti i nuclei di liriche compresi tra il debutto lacerbiano e la plaquette in francese Derniers Jours, pubblicata nello stesso anno a Parigi, dopo il suo trasferimento nel 1918 sul fronte di guerra franco-tedesco34. La
sensazione che il libro provoca è grande: i suoi sovvertimenti linguistici, metrici e
sintattici non sfuggono a lettori avveduti quali Soffici, De Robertis o Savinio35. Da
27
ID., Lettere a Giovanni Papini cit., p. 75 (probabilmente scritta verso la fine di novembre 1916).
Ibid., p. 45 (lettera del 7 ottobre 1916).
29 Ibid., p. 80 (lettera degli ultimi giorni di dicembre 1916).
30
Ibid.
31 Ibid., p. 85 (cartolina postale del 10 gennaio 1917).
32 Ibid., p. 76 (cartolina postale del 5 dicembre 1916).
33 Per la struttura e la storia dell’Allegria, cfr. ID., L’Allegria, edizione critica a cura di C. Maggi Romano e D. De
Robertis, Milano 1982.
34 A Parigi Ungaretti collaborava al «Sempre Avanti!», foglio per i soldati italiani sul fronte francese. La sezione La
guerre della raccoltina era dedicata all’amico Guillaume Apollinaire.
35 Cfr. G. FASO, La critica e Ungaretti, Bologna 1977, che testimonia con dovizia le prime reazioni alle novità dell’Allegria di naufragi.
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questo momento e, si può dire, lungo tutta la sua evoluzione, la ricerca di Ungaretti sarà sempre assistita «dalla solidarietà e dalla acribia della migliore critica
militante»36.
Il secondo ritorno in Italia, nel 1920, impiegato a Roma presso il ministero
degli Esteri, coincide con una stagione quanto mai fitta di scrittura (nuove liriche,
contributi a varie riviste letterarie, corrispondenze per giornali, traduzioni) e con
il consenso esplicito al fascismo. Con prefazione di Benito Mussolini, Ungaretti
ripropone a La Spezia nel 1923 Il porto sepolto, abbondantemente ritoccato, ma
pure accresciuto di poesie inedite, che, con il titolo di Prime37, costituiranno il nucleo iniziale della sua seconda grande raccolta, Sentimento del tempo (1933).
Dunque, la storia dell’Allegria e delle sue interminabili revisioni formali e strutturali prende già da questi anni a intrecciarsi con quella del Sentimento, con cui si
accompagnerà, lungo un percorso tribolatissimo di emendamenti continui e di
riassetti sempre nuovi, per quasi un ventennio. La rettifica, il riutilizzo o l’espunzione improvvisa di testi o di intere sezioni poetiche paiono il corrispettivo formale dei mutamenti ideologici e culturali che, nel frattempo, intervengono nella
sua vita: dagli entusiasmi per l’«originalità del fascismo»38, che lo accomunano
nell’involuzione ideologica a tanti altri reduci delusi, alla clamorosa conversione
cattolica del 1928; dalla riscoperta della direttrice più tradizionale italiana (la linea Petrarca-Leopardi, sottoposta, però, «al corto circuito con un barocco prepotentemente rivissuto»39, che Ungaretti comincia ad approfondire per la prima
volta a Roma) ai pronunciamenti in favore dell’ordine e della misura40, maturati in
parte a Parigi e, in grado maggiore, a contatto con gli amici rondisti. Non c’è in
questo periodo verso, o capoverso, di Ungaretti che possa ritenersi al riparo da
ipotesi sempre nuove; non c’è acquisto, o abbandono, che possa dirsi definitivo.
Così, nel 1931 l’Allegria di naufragi guadagna, con l’edizione milanese Preda,
l’intestazione ultima e più accorciata (d’ora in avanti sarà soltanto L’Allegria), ma
vede una volta ancora rimescolarsi l’assetto interno, la sequenza e i titoli stessi
delle singole liriche, nell’«impresa quasi disperata», per ammissione dello stesso
Ungaretti, «di trovare un modo di coincidenza tra due punti lontani di complessità umana e di maturità artistica, ottenendo dalla mano diversa di tenersi nascosta» (Note, p. 527). Il risultato è tutt’altro che acquisito. Tre anni dopo l’appari36 P.
V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento, Milano 1978, p. 383.
Da non confondersi con l’omonima sezione che conclude L’Allegria.
38 G. UNGARETTI, Originalità del fascismo (1927), in ID., Vita d’un Uomo. Saggi e interventi cit., pp. 149-53.
39 P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Seconda serie, Firenze 1987, p. 58.
40 «Noi Italiani siamo figli della misura», affermerà in risposta all’Inchiesta mondiale sulla poesia della «Gazzetta
del Popolo», 21 ottobre 1931, ora ibid., p. 265.
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Letteratura italiana Einaudi
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
zione del Sentimento, per i tipi di «Novissima» escono a Roma contemporaneamente, a sottolinearne – si direbbe – la comune odissea redazionale, due nuove
edizioni di entrambe le raccolte, immancabilmente contraddistinte da ulteriori
varianti41. Dovranno trascorrere altri sette anni perché si possa giungere alla loro
sistemazione conclusiva: un lasso di tempo che il poeta trascorre in Brasile, insegnante di letteratura italiana all’università di San Paolo, dove si è trasferito per ovviare alle crescenti difficoltà economiche. Come già altre volte, lontano dall’Italia
a Ungaretti sembra venir meno la parola poetica42; per cui il lungo intermezzo
brasiliano si segnala soprattutto come una stagione di studio intenso e di approfondimento letterario (articolato anche in direzioni assolutamente inusuali, a
quel tempo, per un europeo)43, oltre che di proficuo lavoro autoanalitico.
Il terzo rimpatrio, nel 1942, accolto dal fascismo nell’Accademia d’Italia e
chiamato alla cattedra universitaria romana di Storia della Letteratura Moderna,
coincide con una frenetica attività di riordino di tutto il proprio lavoro poetico,
quasi Ungaretti lo sentisse minacciato dalla precarietà dei tempi di guerra. Mentre attende alla cernita delle tante sue traduzioni44, presso Mondadori concludono finalmente le loro vicissitudini testuali L’Allegria (1942)45 e Sentimento del
tempo (1943), che, per la prima volta in Italia, recano sul frontespizio la dicitura
Vita d’un Uomo. Il progetto del diario in versi, della biografia allegorica, gli si è
ormai ben delineato sul tavolo e ad esso il poeta lavorerà alacremente negli anni
seguenti.
Uscito indenne, pur se provatissimo, dai processi di epurazione postfascisti46,
41 Sempre per «Novissima», nello stesso anno vedeva la luce anche il primo volume di traduzioni, con scelte da
Saint-John Perse, William Blake, Géngora, Esenin, Jean Paulhan.
42 Fanno eccezione pochi versi, tra cui quelli, memorabili, di Gridasti: Soffoco, scritti in Brasile tra il 1939 e il 1940
perla morte del figlio Antonietto e pubblicati solo più tardi, dapprima in rivista e poi in Un grido e paesaggi, 1952; e le
due liriche per la morte del fratello Costantino, nel 1937: Tutto ho perduto e Se tu mio fratello, che, scritte in francese,
appaiono per la prima volta nella Vie d’un homme del 1939.
43 Oltre che di letteratura brasiliana, allora del tutto sconosciuta in Italia, Ungaretti si interesserà moltissimo di religioni e di riti magici, di musica latina e di tradizioni popolari, traducendo nel frattempo con molto impegno da più
letterature. Sulla sua produzione poetica in questo periodo e sul suo mito brasiliano, cfr. L. STEGAGNO PICCHIO,
il sesto fiume. il Brasile nella poesia di Giuseppe Ungaretti, in Atti del Convegno internazionale cit., pp. 527-79.
44 Già nel 1944 usciranno, per le edizioni Documento, G. UNGARETTI, XXII sonetti di Shakespeare scelti e tradotti, Roma 1944. Due anni più tardi raddoppieranno: ID., Vita d’un Uomo. Quaranta sonetti di Shakespeare tradotti,
Milano 1946.
45 Il volume reca, tuttavia, sul colophon la data del gennaio 1943. Da notare che nella sesta riedizione (1962) dell’Allegria verranno apportati tre lievi ritocchi ai testi, sia pure insignificanti. Divertita la confessione di Ungaretti: «Siccome il lupo perde il pelo, ma non il vizio, l’autore che pure aveva chiamato le sopraddette, edizioni definitive, non ha
saputo resistere [...] a qualche ritocco di forma» (Nota all’Allegria, p. 528).
46 Sottoposto a processo di epurazione da parte del Sindacato Scrittori e sospeso dall’insegnamento, Ungaretti vedrà dopo qualche tempo riconosciuta la sua buona fede, riottenendo sia l’iscrizione al Sindacato sia la cattedra universitaria. Per la fortissima tensione nervosa, tuttavia, si ammalerà gravemente durante il 1946. Significative in questo
periodo le confidenze, molto turbate, all’amico francese Jean Paulhan: cfr. Correspondance Jean Paulhan - Giuseppe
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
Ungaretti si avvia, tra ricuperi di esperienze lontane (le Poesie disperse, pubblicate nel 1945 da Giuseppe De Robertis con apparato di varianti; e le liriche di Derniers Jours. 1919, 1947) e nuove produzioni (una terza raccolta, Il dolore, 1947; La
terra promessa, 1950, e poi Un grido e paesaggi, 1952, scarni compendi di poesie o
di frammenti in parte databili già al finire degli anni Trenta), a convertirsi in una
sorta di nume tutelare delle nostre lettere, con riconoscimenti che ormai gli provengono d’ogni parte d’Italia e del mondo. Molti di questi li vorrà premettere, palesemente compiaciuto (un segno di quella «traboccante vitalità» che pareva indispettire tanto Montale)47, al Taccuino del vecchio (1960), ultima stazione del suo
itinerario compositivo.
Anche se, sino in fondo, continuerà a scrivere48 e a sfornare sempre nuove varianti di liriche già pubblicate o lontane, la stagione più creativa di Ungaretti sembra, a questo punto, esaurirsi in una intensa attività di riepilogo. Ogni suo sforzo
residuo sarà prevalentemente indirizzato, attraverso un abile lavoro di rattoppo
d’ogni trama spezzata, di attenuazione di ogni disfonia o di attondamento di qualche spigolo, a fare della sua composita esperienza di poeta una storia poetica coerentemente conclusa.
2. Struttura.
2.1. Il libro senza data.
La struttura del diario in versi risulta evidente dal riesame diacronico delle due
prime raccolte. Non è far torto alla vitalità sperimentale che caratterizza tutta la
ricerca di Ungaretti, o alla sua curiosità non mai troppo sazia, ravvisare proprio in
esse la dorsale dell’intera Vita d’un Uomo: anche a voler riconoscere nell’opera un
terzo o, addirittura, un quarto tempo (secondo una sua ripartizione in stagioni
non estranea forse a qualche progetto e familiare, semmai, alla cultura musicale e
figurativa del poeta), è indubbio che, pur in un ventaglio molto disteso di ipotesi
sempre nuove e incontrate con fresco entusiasmo, i due poli dell’Allegria e del
Ungaretti. 1921-1968, edizione critica a cura di J. Paulhan, L. Rebay e J.-Ch. Vegliante, prefazione di L. Rebay, Paris
1989. Alle sue trascorse simpatie fasciste, peraltro innegabili (si confronti, per esempio, G. UNGARETTI e G. DE
ROBERTIS, Carteggio, costellato di convinzioni «che il fascismo sia giustizia», p. 9, e di elogi per |Il Duce, buono come sempre», p. 10), Ungaretti imputerà il mancato riconoscimento, da lui ambitissimo, del Nobel per la Letteratura,
abbandonandosi spesso ad autentiche manifestazioni d’ira nei confronti del “rivale” Salvatore Quasimodo.
47 E. MONTALE, La mia testimonianza. Ungaretti (1970), in ID., Sulla poesia, Milano 1976, p. 345.
48 Da segnalare la raccoltina Dialogo (1966-68): nove composizioni d’amore con le Repliche della poetessa Bruna
Bianco.
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
Sentimento continueranno ad esercitare negli anni una forza di attrazione considerevole e a costituire un magistero irrinunciabile. Ripercorrendo le tappe che,
per approssimazione successiva, conducono alla loro stesura finale, si può cogliere il complesso lavoro di rielaborazione critica (ma molto spesso si tratterà di censura vera e propria), di cernita rigorosa e di «lucidissima instancabile sublimazione»49 avviato da Ungaretti sin dal principio per conseguire quella purità assoluta
e perfetta entro cui sigillare, oltre ogni riferimento cronologico, il mito dell’uomopoeta. In questa sequenza tormentatissima («Ungaretti | uomo di pena»: Pellegrinaggio, p. 46, inteso certamente anche come artigiano della parola e del verso),
prolungatasi per oltre un ventennio, appare evidente la centralità dell’Allegria,
dal cui terreno, rivoltato senza posa, germoglieranno via via, pur senza un disegno
preordinato, altre suggestioni per altri percorsi.
Meglio di tutti, e con l’eloquenza delle nude cifre, Carlo Ossola ha pazientemente ricostruito le stazioni di questo calvario di scrittura, alla cui conclusione
tutto, o quasi, risulterà profondamente trasfigurato50. Dai 112 componimenti
pubblicati nei quattro anni intercorsi tra il debutto su «Lacerba» (1915) e la prima edizione dell’Allegria di naufragi (1919), L’Allegria del 1942 si restringerà poco per volta a 7251, distribuiti in cinque nuclei, abbandonandone cioè più di un
terzo per strada. Quest’opera di proscrizione spietata si accompagna a un lavoro
ininterrotto di revisione sintattica, metrica e lessicale interna, che alla fine lascerà
inalterate appena Otto delle settantadue liriche superstiti (Il porto sepolto, C’era
una volta, Italia, In dormiveglia, Lontano, Dal viale di valle, Ritorno e Mattina: le
prime quattro risalenti all’edizione udinese del Porto sepolto). Volendo aggiungere a queste le nove fatte oggetto di ritocchi minimi (Tramonto, Stasera, Destino,
Sono una creatura, Sonnolenza, Tappeto, Natale, Prato e Soldati: le prime cinque
provenienti sempre dalla raccoltina di guerra) e le sette con la variante conclusiva
di un solo verso (Notte di maggio, In galleria, Allegria di naufragi, Inizio di sera,
Veglia, Pellegrinaggio e Lindoro di deserto: le tre ultime prelevate, ancora, dal Porto), si può concludere che addirittura i due terzi delle liriche confluite nell’Allegria hanno dovuto subire nel corso di quasi un quarto di secolo modifiche
profonde nella loro struttura: tali, in ogni caso, da incidere in maniera senz’altro
differente sulle generazioni diverse di lettori-poeti che intanto si avvicendavano
nella loro interpretazione.
Passando poi a considerare il cosiddetto «nucleo invariante» dell’Allegria,
49 C.
OSSOLA, Giuseppe Ungaretti cit., p. 231.
pp. 231-34. Le cifre che qui riportiamo si riconducono all’analisi di Ossola.
51 Ad esse andranno aggiunte Un sogno solito, che appare nell’edizione del 1931, e Universo, costruito con versi
della Notte bella dall’edizione 1923 del Porto sepolto.
50 Ibid.,
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
«tanto più importante quanto più la condizione normale dei testi poetici di quella raccolta è appunto quella della variante»52, balza subito agli occhi che ben dodici delle ventiquattro poesie rimaste pressoché immutate discendono dal Porto.
E, infine, mentre nel 1919 le poesie di questa silloge venivano a costituire meno di
un terzo dei componimenti radunati nell’Allegria di naufragi, nell’edizione definitiva del 1942 esse rappresenteranno circa la metà (33 su 74) di tutte le liriche ritenute idonee al progetto del libro. La struttura del Porto si delinea, dunque, come
il referente più durevole dell’Allegria, un modello linguistico, metrico e simbolico
sopra cui calibrare ogni intervento successivo53.
Di pari passo con questi rivolgimenti tutti interni alla raccolta d’esordio, Ungaretti comincia già ad elaborare, come si è visto, le poesie che daranno luogo in
seguito al Sentimento e che sembrano volersi distinguere piuttosto nettamente dai
precedenti esercizi nella struttura metrico-sintattica e nella scelta lessicale. Alcune
di queste (O notte, Paesaggio, Le stagioni, Silenzio in Liguria, Alla noia, Sirene,
composte in prevalenza tra il 1919 e il 1922 e radunate poi, con l’aggiunta di Ricordo d’Affrica, nella sezione Prime) trovano presto accoglienza nella riedizione
1923 del Porto: mentre viene così ribadita la straordinaria capacità di richiamo del
libriccino, si delinea il procedere, per autoriproduzione e per variazioni endogene, della lirica ungarettiana su due tavoli di lavoro paralleli, ma costantemente in
vista l’uno dell’altro (Montale parlerà di una poesia sempre «in movimento, alla
frontiera di due tempi, di due gusti e persino di due lingue diverse»)54. Sparsi,
nell’arco di un decennio, in riviste italiane e francesi (dalla «Ronda» a «Commerce», dal «Convegno» alla «Fiera Letteraria«, alla «Nouvelle Revue Française»,
all’«Italia Letteraria», «Espero» o «Fronte») e riformati senza posa (Sirene conterà ben sette redazioni; quattro o cinque ne potranno vantare Alla noia, O notte,
Le stagioni: ma quasi ogni componimento sarà in qualche misura ritoccato), i versi del Sentimento si sistemano gradualmente (per agglutinazione, per gemmazione
o per disgregazione) nei sette nuclei che comporranno infine la raccolta, dopo essere stati coinvolti in un furente contenzioso metrico-lessicale che li vedrà più volte smembrarsi e ricomporsi nel passaggio da una rivista all’altra, sino a confondere l’identità d’origine55.
Il procedimento, anche se con esito finale differente, è il medesimo speri52 C.
OSSOLA, Giuseppe Ungaretti Cit., p. 232.
la centralità del Porto nella storia poetica di Ungaretti, cfr. ora G. UNGARETTI, Il Porto Sepolto, a cura di
C. Ossola, Venezia 1990.
54 E. MONTALE, Ungaretti (1958), in ID., Sulla poesia cit., p. 306.
55 Per la composizione del Sentimento, cfr. G. UNGARETTI, Sentimento del tempo, edizione critica a cura di R.
Angelica e C. Maggi Romano, Milano 1988.
53 Per
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
mentato per intanto sull’Allegria, con tutto il carico di possibili interferenze reciproche, dirette o indirette, che la concomitanza cronologica produce. Sia, infatti,
che la poetica più tradizionale del Sentimento abbia suggerito alcune variazioni
apportate in quegli stessi anni all’Allegria; sia che proprio tale discordanza abbia
invece «indotto Ungaretti ad accentuare maggiormente nel tempo l’individualità
differenziale»56 di quest’ultima, le due sillogi si propongono, al termine del loro
turbolento viaggio, quali capitoli diversi di un racconto autobiografico ininterrotto e coeso: livre premier e livre second di un unico diario poetico, secondo quanto
aveva voluto sancire l’edizione parigina del 1939, sottolineandone la diversità, e
non l’antagonismo, soprattutto nella evoluzione del registro stilistico. Conformi
nel numero di liriche che le compongono (74 per L’Allegria, 70 per il Sentimento),
esse risultano saldate ancor più l’una all’altra mediante due sezioni dall’identico
titolo (Prime) e di sette componimenti ciascuna, perfettamente combacianti in
chiusura e in apertura delle rispettive raccolte.
La sproporzione quantitativa e il distacco cronologico di quasi quindici anni
che sembrano poterle separare nettamente da quelle, assai più ridotte nel numero, che seguiranno57, non comportano tuttavia soluzione di continuità. I primi
versi del Dolore (1947), suddiviso al proprio interno in sei esili sezioni, risalgono
infatti al 1937 (Tutto ho perduto e Se tu mio fratello), incuneandosi perciò tra la seconda e la terza edizione del Sentimento e tra la terza e la quarta dell’Allegria. Ma
già al 1932 rimontano gli esperimenti attorno alla fondamentale Canzone, punto
di partenza, come confiderà lo stesso Ungaretti58, della Terra promessa (1950-53),
mentre data al 1939-40 la lirica Gridasti: Soffoco, poi confluita in Un grido e paesaggi (1952). Nel progetto e nella elaborazione dei primi versi La terra promessa
precede dunque, oltre che Il dolore, addirittura la prima edizione finita del Sentimento, e tuttavia sarà portata a termine soltanto vent’anni più tardi, preceduta di
poco (tenendo conto del termine cronologico estremo costituito dal Segreto del
poeta, 1953) anche da Un grido e paesaggi, avviato invece qualche anno dopo.
Concomitanti nei tempi di composizione e strettamente connessi nella tematica (il
dolore, privato, per la morte del figlio e del fratello, e pubblico, per la Roma martoriata dai nazisti, su cui si innesta la Sehnsucht della terra promessa e dell’innocenza edenica), questi tre libriccini formano un nucleo ben definito e subito riconoscibile rispetto a tutti gli esiti precedenti, che prende forma provvisoria proprio
56 P.
V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento cit., p. 386.
suoi ultimi venticinque anni di attività (1945-70) Ungaretti produce non più di cinquanta poesie, contro le
duecento composte invece tra il 1915 e il 1945: cfr. C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti cit., p. 282.
58 Cfr. L. PICCIONI, Le origini della “Terra promessa”, in G. UNGARETTI, Vita d’un Uomo cit., pp. 427-31, e le
Note alla Terra promessa dello stesso Ungaretti, ibid., p. 549.
57 Nei
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
mentre le due prime grandi raccolte stanno per assumere quella definitiva. Un sistema a scatole cinesi, si potrebbe dire, se non fosse che il procedere di Ungaretti
esclude ogni successione graduale e sistematica: sul suo tavolo di lavoro, non mai
sgombro e dove indugiano e persistono anche edizioni già licenziate per la stampa, le ipotesi si accumulano e si contessono vorticosamente, tra ricuperi inaspettati e abbandoni repentini, tra ritrovamenti quasi sorpresi e rigetti sorprendenti,
che potrebbero alla fine anche invalidare o rendere superflua ogni classificazione
cronologica.
Così, a concludere Vita d’un Uomo non saranno le quattro liriche estreme di
Nuove (1968-70), bensì i versi in francese (lingua degli esordi letterari e poetici) di
Derniers Jours e di P-L-M, richiamati dal lontano 1919, nonché le ventitré Poesie
disperse e le sette Altre poesie ritrovate, comprese perlopiù tra gli anni 1916-1927,
ma capaci in qualche caso di retrocedere anche sino al 1914-15 (Viavai e La verdura estenuata dal sole), agli albori cioè della scrittura pubblica di Ungaretti. Se la
sezione che principia il diario in versi porta il titolo di Ultime, le poesie che lo ultimano risultano essere tra le prime scritte. In tal modo il cerchio si è chiuso: il libro compreso tra questi due estremi è ormai un libro senza data, sigillato in una
perfezione atemporale che lo elegge a testimonianza assoluta.
2.2. Gli «stampini» di Ungaretti: le varianti.
Lo abbiamo a più riprese sottolineato: non c’è, quasi, lirica di questo canzoniere
che non sia stata oggetto di una qualche modifica o che non abbia visto correggersi, almeno una volta, la propria collocazione all’interno delle singole raccolte.
L’esercizio variantistico è costitutivo della poesia di Ungaretti e ad essa si accompagna ininterrottamente lungo tutta la sua evoluzione: dai versicoli stesi nelle
trincee del Carso, da dove egli invia agli amici fiorentini anche le prime lezioni alternative, lasciando ampia facoltà di scelta all’editore di turno («Ho mandato le
varianti a De Robertis. Farà secondo il suo gusto«)59 e dunque gratificando di pari dignità i cosiddetti scarti del suo accanito lavorio, sino alle ultime prove registrate e censite dal fedele Leone Piccioni60.
Primo poeta contemporaneo, e per giunta vivente, a sollecitare le attenzioni
della filologia elaborativa61, Ungaretti continuerà ad aggirarsi inquieto tra le pro59 G.
UNGARETTI, Lettere a Giovanni Papini cit., p. 45 (lettera del 7 ottobre 1916 cit.).
Cfr. L. PICCIONI, Vita di un poeta cit., pp. 249-79 (il capitolo Varianti prime e ultime).
61 Nel disegno originario di Giuseppe De Robertis ai due volumi dell’Allegria e del Sentimento se ne sarebbe dovuto accompagnare un terzo con tutte le poesie non più ristampate e con un’appendice comprendente, per l’appunto,
le varianti conservate da Ungaretti o rintracciate altrove: cfr. G. UNGARETTI e G. DE ROBERTIS, Carteggio cit.,
60
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prie pagine, a tutta prima così terse e istintive, producendo alla fine una quantità
di versi respinti equivalente, se non addirittura superiore, a quella dei versi ritenuti invece definitivi. Con qualche ironia, giustificata peraltro dagli atteggiamenti
feticistici di taluni collezionisti-lettori, Montale definirà queste interminabili rielaborazioni «l’insieme degli stampini da lui rotti o buttati via»62 nell’avvicinamento
successivo al prodotto ritenuto ideale, rimarcandone comunque la loro straordinaria prerogativa di saper restituire in atto le oscillazioni anche impercettibili di
una poesia costantemente in progress, il suo inesausto moto magmatico.
Il sistema variantistico della Vita d’un Uomo contempla varie grandezze. Dalla maggiore, quella che Domenico De Robertis definisce la «variante AllegriaSentimento»63, ossia il processo mediante il quale l’una si integra nell’altro in un
cammino protratto per oltre cinque lustri (ma la tendenza investe, come abbiamo
appena visto, anche le altre raccolte e risponde a un preciso disegno di osmosi e,
in parte, di omogeneizzazione), a quelle in apparenza più irrilevanti (l’abrogazione di un articolo, lo spostamento di un aggettivo, l’aggiunta di una congiunzione
o la maiuscolatura di un capoverso) e tuttavia significative di una ricerca di intensità espressiva perseguita allertando sino all’esasperazione ogni singolo elemento
del testo, anche il più marginale. Nel mezzo, tutto un campionario di variazioni
che possono andare dal trasloco di nuclei compatti di liriche alla scissione di un
solo verso oppure di una intera strofe; dalla scelta della misura monosillabica al
ripristino dell’endecasillabo; dalla epurazione radicale dell’ornamento alla sua restaurazione e addirittura alle suggestioni barocche; dalla concentrazione alla distensione sintattica; dalla pausa o dallo stacco provocati soltanto visivamente sulla pagina al ricupero della punteggiatura più tradizionale.
Avvertiva ancora Montale che in genere non di varianti, nel senso più diffuso
del termine, si tratta, bensì di «altre poesie o altre ipotesi di poesie»64, lasciate poi
cadere, ma con sentenza tutt’altro che passata in giudicato, lungo il tragitto di avvicinamento a quel testo definitivo che la lirica di Ungaretti sembra, in realtà, pervicacemente respingere: lo scarto (vale a dire il naufragio) di un verso, di una parola, di una struttura grammaticale o di una immagine come pretesto per riprendere ogni volta il viaggio verso un approdo pure ancora ignoto e non mai ritenuto sicuro. Come se il senso profondo della parola poetica potesse meglio disvelarsi, più che nell’esito conclusivo, nel percorso compiuto per tentare strenuamente,
ma inutilmente, di fissarla.
pp. 27-28.
62 E. MONTALE, Ungaretti cit., p. 306.
63 D. DE ROBERTIS, Ungaretti e le varianti, in Atti del Convegno internazionale cit., p. 101.
64 E. MONTALE, Ungaretti cit., p. 307.
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2.3. Dal versicolo all’endecasillabo.
«La metrica oggi in corso, da Montale a Cardarelli a Saba ai più giovani, è stata
fissata faticosamente dal mio orecchio»65, può confidare con orgoglio Ungaretti a
Giuseppe De Robertis nel 1942. Non v’è dubbio che il nostro Novecento gli debba moltissimo in questo campo. Ritenuto da molti il poeta più rivoluzionario dei
primi cinquant’anni del secolo, egli in realtà mette a frutto meglio di ogni altro la
convulsa stagione sperimentale precedente (dal postsimbolismo alle avanguardie), approfittando di una libertà certamente nell’aria, ma di cui troppi non sapevano servirsi. Da solo e senza proclami, il poeta del Porto sepolto sembra riuscire
in quell’opera di demolizione degli istituti metrici nazionali in cui si erano cimentati con ben altro clamore soprattutto quei futuristi che egli mostrerà sempre di
tenere in scarsa considerazione, probabilmente avendoli osservati e frequentati
più dal côté francese che non da quello italiano: Marinetti, per lui, è soltanto
quell’«adorato Philippe Tommasino»66 di cui ama prendersi gioco nelle lettere
agli amici.
Del resto, è proprio l’atteggiamento nei confronti della tradizione che presto
li distanzia, anche se L’Allegria riutilizza abbondantemente ingredienti futuristici:
la scomposizione del verso di Ungaretti prevede comunque la sua ricostruzione,
dopo averne ricuperato il timbro e la vitalità originaria sotto la crosta di una consuetudine letteraria sicuramente logora, ma ritenuta altresì irrinunciabile («Non
rispettando la nostra tradizione, dando retta a vocazioni che possono portare alla
grandezza popoli d’altra pasta, saremmo condannati a non vedere della realtà se
non l’aspetto provvisorio»)67. I versicoli del Porto e poi quelli dell’Allegria nascono pertanto dalla spezzatura, e non dalla sprezzatura, del metro italiano più tradizionale. La loro lunghezza media si attesta attorno alle cinque sillabe: se non mancano versi molto spesso di tre, di due e persino di un’unica sillaba, magari frammischiati ad altri di lunghezza maggiore («Colle mie mani plasmo il suolo | diffuso di grilli | mi modulo | di | sommesso uguale | cuore»: Annientamento, p. 29;
«Sto | con le quattro | capriole | di fumo | del focolare»: Natale, p. 62; «A ogni |
nuovo | clima | che incontro | mi trovo languente | che | una volta | già gli ero stato | assuefatto»: Girovago, p. 85), se ne possono incontrare altri che debordano
ben oltre le misure consuete («Calante malinconia lungo il corpo avvinto»: Malinconia, p. 37)68.
65 G.
UNGARETTI e G. DE ROBERTIS, Carteggio cit., pp. 18-19 (lettera del 25 luglio 1942).
G. UNGARETTI, Lettere a Giovanni Papini cit., p. 156 (cartolina postale del 3 ottobre 1917).
67 ID., Naufragio senza fine (Risposta a un’inchiesta sulla poesia), in ID., Vita d’un Uomo. Saggi e interventi cit., p. 266.
68 Ancora più esteso («Calante malinconia per il corpo avvinto al suo destino») nelle edizioni del Porto sepolto,
66
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La versificazione franta di questo primo Ungaretti nasce dalla disgregazione
dei versi più tradizionali, soprattutto l’endecasillabo e il settenario, scomposti talvolta in più righe a costituire strofe compiute («Sorpresa | dopo tanto | d’un amore»: Casa mia, p. 12; «Si sta come | d’autunno sugli alberi | le foglie»: Soldati, p.
87; «In veli | varianti | d’azzurr’oro | alga»: Sogno, p. 76). Elementarizzata la sintassi e quasi scomparsa la punteggiatura, sostituita dalla scansione successiva dei
versi («Di che reggimento siete | fratelli? || Parola tremante | nella notte || Foglia
appena nata»: Fratelli, p. 39), viene pressoché azzerato anche l’uso della rima, sostituita preferibilmente dall’iterazione insistita (ad esempio, il lemma questo che
apre sette delle quindici strofe dei Fiumi, pp. 43-45) o spesso dall’anafora («Come
questa pietra | del S. Michele | così fredda | così dura | così prosciugata | così refrattaria | così totalmente | disanimata»: Sono una creatura, p. 41).
Una poesia di silenzi, di pause enfatizzate, di scatti improvvisi, di parole-monadi che, riacquisite nella loro essenzialità primigenia, si connotano di significati
inediti o imprevisti, conseguiti sempre con grande fatica («Quando trovo | in questo mio silenzio | una parola | scavata è nella mia vita | come un abisso»: Commiato, p. 58). Ma la rivoluzione è tutta interna al sistema tradizionale. Scaturito dalla
decostruzione soprattutto dell’endecasillabo («Il quinario, il settenario ed anche
il novenario sono contenuti nell’endecasillabo»69, chiarisce lo stesso Ungaretti,
giustificandone il loro successivo impiego con le «infinite possibilità musicali»
che consentono), il versicolo prelude al suo riacquisto, cui il poeta si applica pazientemente quando ancora sta lavorando all’Allegria di naufragi:
L’endecasillabo nasce subito, nasce nel 1919, nasce immediatamente dopo la guerra.
Cioè, quella preoccupazione che avevo durante la guerra, che era una preoccupazione
dovuta anche alle circostanze di arrivare a dire nel minor tempo possibile il massimo di
quanto si potesse dire – quindi con l’uso più parco di parole che fosse possibile – è un
momento superato. Insomma, io avevo, disponevo di maggior tempo.
E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli. Quindi anche quell’esperienza di
dividere l’endecasillabo nelle sue parti – come è stato fatto nell’Allegria – per sentire
ogni parola nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato, quel dividere, quello
spezzare l’endecasillabo non avevo più bisogno di farlo. Era un’esperienza che avevo
fatto, spinto dalle circostanze se si vuole, ma che avevo fatto. Quindi l’endecasillabo
tornava a costituirsi in un modo normale: cioè le parole venivano a mettersi non una
sotto l’altra o separate da isole di silenzi, ma una accanto all’altra70.
Questo procedimento di ricollocazione orizzontale dell’endecasillabo è ben
Udine 1916, e dell’Allegria di naufragi, Firenze 1919.
69 ID., Difesa dell’endecasillabo, in ID., Vita d’un Uomo. Saggi e interventi cit., p. 156.
70 Ungaretti commenta Ungaretti cit., p. 827.
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
visibile nel Sentimento in alcune liriche di un solo verso («D’altri diluvi una colomba ascolto»: Una colomba, p. 113; «In sé crede e nel vero chi dispera?»: Fine,
p. 132). Più in generale, col Sentimento non soltanto viene incrementata la lunghezza media dei versi, ma questi tendono a farsi anche più regolari (oltre l’endecasillabo, anche novenari, settenari e talvolta quinari, riuniti addirittura tutti assieme nel Canto Quinto della sezione La morte meditata: «Hai chiuso gli occhi. ||
Nasce una notte | piena di finte buche, | di suoni morti | come di sugheri | di reti
calate nell’acqua. || Le tue mani si fanno come un soffio | d’inviolabili lontananze,
| inafferrabili come le idee, || e l’equivoco della luna | e il dondolio, dolcissimi, | se
vuoi posarmele sugli occhi, | toccano l’anima», p. 185). La tendenza sarà ancora
più esplicita nel Dolore e nella Terra promessa (dove il Recitativo di Palinuro, pp.
250-51, ripropone nientemeno che lo schema della sestina provenzale), anche se
non conclusiva: la tentazione del verso irregolare, o addirittura libero, non sarà
mai del tutto ricacciata (Se tu mio fratello, p. 202; Di persona morta divenutami cara sentendone parlare, p. 243, provocatoria già nell’intitolazione; Segreto del poeta,
p. 253; Croazia segreta, p. 324), anche se endecasillabi e settenari saranno sul finire i suoi versi prediletti e più consueti.
È certo che anche Ungaretti abbia in qualche misura dato ascolto alle sirene
dell’ordine che nell’immediato primo dopoguerra cominciavano a farsi sentire un
po’ dappertutto in Europa (e tanto più nell’Italia delle imminenti chiusure culturali fasciste). Tuttavia, quanti ravvisano nel passaggio a una metrica più-tradizionale un brusco atto di restaurazione, e non un prolungamento in altre direzioni
della sua ricerca stilistico-espressiva, non soltanto adattano nel modo più rozzo e
schematico al secondo Ungaretti la formula del cosiddetto “richiamo all’ordine”
(ignorando, come ha osservato Mengaldo, che «al classicismo di Ungaretti non
immane già, nel profondo, il senso della continuità, ma quello della discontinuità
coi classici»)71, ma trascurano altresì una precisa confidenza del poeta:
Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello del Petrarca, o quello di
Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in
loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli,
attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità
e così singolari ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra
disperatamente amata. Nacquero così, dal ’19 al ’25, Le Stagioni, La fine di Crono, Sire71 P.
V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Seconda serie cit., p. 58.
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
ne, Inno alla Morte, e altre poesie nelle quali, aiutandomi quanto più potevo coll’orecchio, e coll’anima, cercai di accordare in chiave d’oggi un antico strumento musicale
che, reso così di nuovo a noi familiare, hanno in seguito, bene o male, adottato tutti.
(Ragioni d’una poesia, pp. LXXI-LXXII).
Ancora Mengaldo ha fatto osservare «come alla metrica più regolare del Sentimento immanga nel profondo la prosodia libera e discontinua dell’Allegria», ricordando opportunamente le dizioni del poeta, «che leggeva il Sentimento esattamente come l’Allegria»72, Del resto, non si dovrebbe mai dimenticare che quella
dell’avanguardia è spesso un’esperienza per molti versi senza ritorno, o perlomeno di lunghissima decantazione73, e abbiamo visto quanto a fondo penetri l’Allegria nel sistema della raccolta successiva.
Sul finire degli anni Venti, l’incontro di Ungaretti con il barocco («Il barocco
è qualche cosa che è saltato in aria, che s’è sbriciolato in mille briciole: è una cosa
nuova, rifatta colle briciole, che ritrova integrità, il vero»: Note al Sentimento del
tempo, p. 530) gli consentirà di esercitare in altro modo – nell’alveo, cioè, di una
tradizione alta e legittimata, ma pur sempre discosta rispetto all’asse principale di
quella italiana – il suo irrequieto sperimentalismo.
3. Il deserto e l’«uomo di pena».
Chi legga le mie poesie, dico chi legga le prime e chi legga anche quelle recentissime,
quelle poche che quando mi illumina ancora l’ispirazione riesco a fare, s’accorgerà che
c’è al principio un’aridità, un’aridità bruciata, e una luce che provoca tale aridità allucinante, carica d’abbagli. Non lo so se lo sentano tutti questo, ma certo questo è l’effetto
che io provo tutte le volte che incontro la Musa. Sono nato al limite del deserto e il miraggio del deserto è il primo stimolo della mia poesia. [...] È il deserto [...] lo stimolo
che dà moto poi alla poesia che può esprimere anche una diversa realtà, una realtà
ubertosa, ma insomma partendo da questo nulla, da questo nulla e da questo sentimento di questo nulla sui quale non si fondano che delle illusioni che portano a perdizione74.
Riferita esplicitamente all’Allegria, la confidenza di Ungaretti si offre in realtà
come chiave di accesso e di interpretazione dell’intero suo canzoniere. Se, per
quanto abbiamo detto sinora, non è possibile ripartire il diario poetico per nuclei
72
ID., Poeti italiani del Novecento cit., p. 389.
Per la dialettica incessante tra avanguardia e restaurazione negli anni Venti e, oltre tutto, nel milieu letterario-artistico frequentato da Ungaretti, assai illuminante ci sembra J. COCTEAU, Le rappel à l’ordre, 1926 (trad. it. di P. Dècina Lombardi, Il ritorno all’ordine, Torino 1990).
74 Ungaretti commenta Ungaretti cit., pp. 816-17.
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tematici definiti e distinti, o collocabili entro precise coordinate spaziotemporali,
si può individuare tuttavia nella costante del deserto il motivo capace forse di significarli e di raccordarli tutti. La circolarità endosemantica in cui Ossola vede offrirsi il canzoniere ungarettiano75 trova nell’ossessiva riproposizione di questo tema il suo riscontro più evidente.
Il deserto e il paesaggio africani gremiscono delle loro suggestioni le prime
poesie di Ultime (Levante, Ricordo d’Affrica, Notte di maggio, Chiaroscuro), ma
riaffiorano anche nelle ultime liriche di Nuove, nelle illusioni d’amore che il «vecchissimo ossesso» riesce ancora a costruirsi («Di continuo ora la vedo bellissima
giovane, Dunja, nell’oasi apparire, e non potrà più attorno a me desolarmi il deserto, dove da tanto erravo»: Croazia segreta, p. 324). Deserto come metafora della condizione umana, con i suoi miraggi ingannevoli («Morire come le allodole assetate | sul miraggio»: Agonia, p. 10) e i suoi intervalli di felicità (l’oasi del «nomade d’amore»: Tramonto, p. 28), capace di trapelare e occultare la meta, di dare
vita e di dissolverla («Il sole rapisce la città || Non si vede più | Neanche le tombe
resistono molto»: Ricordo d’Affrica, p. 11). Il deserto e i suoi abbagli, anche, come
destino del poeta: è un miraggio che sempre svanisce e ogni volta poi si ripropone quel «porto sepolto» cui egli approda per tentare la verità inattingibile della
poesia («Di questa poesia | mi resta | quel nulla | d’inesauribile segreto»: Il porto
sepolto, p. 23).
Ai luoghi della giovinezza e della prima ispirazione poetica Ungaretti si riferirà di continuo lungo tutta L’Allegria, il momento di più esibita memoria africana (si vedano, ancora, Popolo, Lindoro di deserto, Monotonia, Fase, Peso, I fiumi,
Godimento, Un sogno solito), ma anche nel Sentimento (Ricordo d’Affrica II, Il capitano, Canto beduino, ecc.), nel Monologhetto di Un grido e paesaggi, o negli Ultimi cori per la Terra Promessa del Taccuino del Vecchio, fino alle già menzionate liriche di Nuove. L’alternanza di secchezza e di ubertà, di speranza e di disperazione, che il paesaggio essenziale di una Alessandria costantemente “annientata” dal
tempo76 sintetizza in maniera tanto icastica nelle rielaborazioni della sua memoria, verrà trasferita nelle trincee del Carso ai grandi temi della guerra, della vita e
della morte, deprivati tuttavia di ogni connotazione storica. È in una condizione
biologica estrema che il fante-poeta matura la sua atroce lezione esistenziale («La
75 C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti cit., p. 227. Ossola rileva questa circolarità, richiamando l’attenzione sul
«Dondolo di ali in fumo» di Lindoro di deserto (1915) e il «dondolo del vuoto» dell’Impietrito e il velluto (1970).
76 «Alessandria è una città senza un monumento, o meglio senza quasi un monumento che ricordi il suo antico passato. Muta incessantemente. Il tempo la porta sempre via, in ogni tempo. È una città dove il sentimento del tempo, del
tempo distruttore è presente all’immaginazione prima di tutto e soprattutto. E dicendo nulla [«Tra un fiore colto e
l’altro donato | l’inesprimibile nulla»: Eterno, p. 5], in particolare ho pensato, difatti, a quel lavorio di costante annientamento che il tempo vi produce» (Nota introduttiva, p. 497).
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morte | si sconta | vivendo»: Sono una creatura, p. 41); o, vegliando «un compagno
| massacrato | con la sua bocca | digrignata | volta al plenilunio», scrive «lettere
piene d’amore» (Veglia, p. 25); o si ritrova somigliante al beduino egiziano della
sua infanzia («Mi sono accoccolato | vicino ai miei panni | sudici di guerra | e come un beduino | mi sono chinato a ricevere | il sole»: I fiumi, p. 43). All’uno come
all’altro l’illusione-miraggio («Ungaretti | uomo di pena | ti basta un’illusione | per
farti coraggio»: Pellegrinaggio, p. 46) e la sosta-oasi («Cammina cammina | ho ritrovato | il pozzo d’amore || Nell’occhio | di mill’una notte | ho riposato»: Fase, p.
32) consentiranno ogni volta di ritentare il cammino dopo il naufragio nel porto
sepolto: «E subito riprende | il viaggio | come | dopo il naufragio | un superstite |
lupo di mare» (Allegria di naufragi, p. 61). Già in questo Ungaretti, come ha osservato Andrea Zanzotto, il tema del naufragio si affranca dalle più fruste suggestioni simbolistiche, per assumere «quella colorazione, quella particolare consistenza che avrà poi nell’elaborazione poetico-teoretica dell’esistenzialismo»77.
Il libro poetico diventa così la registrazione di stati d’animo elementari, l’autobiografia per istantanee di un «uomo di pena» che la sofferenza ha sospinto oltre ogni contingenza storica (non tragga in inganno la scrupolosa certificazione
cronologica e di luogo delle liriche, parte integrante, come tutti i lettori hanno ormai convenuto, del testo poetico). La condizione «interamente terrestre»78 del
soggetto e l’estinzione, quasi, dei suoi tratti di persona («Ho strascicato | la mia
carcassa | usata dal fango | come una suola | o come un seme | di spinalba»: Pellegrinaggio, p. 46), in una totale aderenza fisica al paesaggio («Fermato a due sassi |
languisco | sotto questa | volta appannata | di cielo»: Monotonia, p. 47), mentre
conducono il poeta (di volta in volta «foglia», «sasso», «stagno», «nuvola») a riconoscersi «una docile fibra | dell’universo» (I fiumi, p. 44), si tendono in una
istanza quasi religiosa di assoluto («ero un uomo che non voleva altro per sé se
non i rapporti con l’assoluto»: Note all’Allegria, p. 520) che avrà poi una funzione decisiva nel prosieguo della ricerca ungarettiana. È da questo rapporto tragico
e totalizzante con la natura che scaturisce infine l’allegria, ovvero la volontà positiva (Contini la definisce «un quasi fisiologico ottimismo»)79 sintetizzata nel titolo
ossimorico della prima silloge.
Il Sentimento e le altre raccolte svilupperanno sostanzialmente gli stessi temi
della solitudine desertica e della pena, ma articolandoli entro un tempo e uno spa77 A. ZANZOTTO, «Ungaretti», in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino 1984,
III, p. 358.
78 F. FORTINI, Da Ungaretti agli Ermetici, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, IX/2. Il
Novecento. Dal decadentismo alla crisi dei modelli, Bari 1976, p. 300.
79 G. CONTINI, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968, Firenze 1968, p. 796.
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zio più dilatati e indistinti, quasi astratti. Venuta meno l’emergenza della guerra e
riacquisita la misura normale del tempo («io avevo, disponevo di maggior tempo»)80, soggetto e natura, prima rifusi in una sorta di «simultaneità preistorica»81
tornano a distanziarsi, evidenziando una crepa metafisica attraverso cui irrompe
nella poesia di Ungaretti il problema religioso. Il Dio-miraggio dell’Allegria («Ma
ben sola e ben nuda | senza miraggio | porto la mia anima»: Peso, p. 34), investigato talora con diffidente inquietudine («Perché bramo Dio?»: Dannazione, p.
35; «Ma Dio cos’è?»: Risvegli, p. 36), guadagna, a partire dal Sentimento, una
concretezza e una pregnanza prima sconosciute (e, a maggior ragione, dopo la
svolta religiosa del ’28), imprimendo tutt’altra direzione alla sua richiesta d’assoluto. Basterà, al proposito, un rapido confronto tra due coppie di liriche che, nelle rispettive raccolte, svolgono un identico tema, e per giunta con il medesimo titolo: Dannazione e Preghiera (più estesamente, La preghiera nel Sentimento). In
Dannazione dell’Allegria, muovendo dall’angustia delle «cose mortali», Ungaretti
può avanzare l’istanza, sebbene ancora indecifrabile, di una qualche divinità che
dia ragione di tanta sofferenza («Perché bramo Dio?», p. 35), mentre specularmente contrario è il percorso nell’omonima poesia del Sentimento, in cui, partendo dal postulato di una entità superiore, egli conclude la fralezza e l’incongruenza di quelle stesse cose. Con procedimento analogo, Preghiera si esaurisce in un
grido finale («di quel giovane giorno al primo grido», p. 97) di concitazione ancora tutta umana, laddove il «sonno felice» che sigla La preghiera del Sentimento
preannunzia invece la comunione dei santi della teologia e dell’osservanza cattoliche («Le anime s’uniranno | e lassù formeranno, | eterna umanità, | il tuo sonno
felice», p. 175).
Al confronto elementare vita/morte delle poesie di guerra si sostituisce nella
produzione lirica successiva la dialettica innocenza/peccato, l’alterno procedere
tra Sehnsucht della purezza originaria perduta e tormento di una memoria che costringe l’uomo in una storia infinita di desolazione. Esauritasi l’emergenza guerresca, l’erotismo ebbro e vitale dell’Allegria evolve verso una carnalità sofferta e
continuamente contrastata dalla ricerca di misura («Il vero amore è una quiete accesa»: Silenzio in Liguria, p. 107) che iscrive in una contraddizione tutta barocca
la religiosità di questo secondo Ungaretti (ancora in Dannazione: «Tu non mi
guardi più, Signore... || E non cerco se non oblio | nella cecità della carne», p.
176), e riattualizza una tradizione letterario-religiosa che da sant’Agostino giunge
sino ai mistici spagnoli e a Pascal (tutti puntualmente attestati nelle sue conside80 Ungaretti
81
commenta Ungaretti cit., p. 827.
F. FORTINI, Da Ungaretti agli Ermetici cit., p. 307.
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razioni filosofico-poetiche). Registrato nell’Allegria come evento soprattutto biologico, il motivo della morte tracima nel Sentimento (si pensi alla centralità dell’Inno alla morte, pp. 117-18, e ai sei canti della Morte meditata, pp. 181-86), incrociandosi con quello del peccato, ma più spesso ancora sovrapponendosi ad esso: e non a caso sarà il tema del ritorno «all’alto» (Sirene, p. 109), vale a dire del
destino post mortem, a occupare prevalentemente la riflessione del poeta.
La consapevolezza del proprio sradicamento, avvertito con pungente ansietà
sin dagli anni milanesi («Sono un estraneo. Dappertutto»)82, si salda, una volta riconquistata la religiosità cristiana, con la coscienza della colpa originaria (di qui,
la richiesta di perdono: esemplari in tal senso i versi, celeberrimi, della Madre, p.
158) e con la nostalgia del paradiso perduto. Allo Schrei del poeta-soldato («Ma le
mie urla | feriscono | come fulmini | la campana fioca | del cielo || Sprofondano |
impaurite»: Solitudine, p. 64) si sostituisce la preghiera («Come dolce prima dell’uomo | doveva andare il mondo»: La preghiera, p. 174). Se già in Girovago dell’Allegria il senso di inappartenenza («In nessuna | parte | di terra | mi posso | accasare», p. 85) cominciava a schiudere il miraggio di una condizione innocente,
sia pure non meglio definita («Godere un solo | minuto di vita | iniziale || Cerco
un paese | innocente», ibid.), nel Sentimento, poi nel Dolore e, in maniera ancora
più esplicita, nella Terra promessa il déracinement viene rielaborato nella forma di
esilio conseguente alla caduta originaria: la vita è resa deserto dal peccato; il viaggio dell’«uomo di pena», che al pari di quello del nomade sempre riprende, è il segno della sua precarietà senza lenimento.
Il motivo dell’Eden (lo sguardo nostalgico all’indietro) e della terra promessa
(il miraggio su cui riprendere il cammino) si fanno prepotentemente spazio a questo punto nella elaborazione lirica di Ungaretti, in un’alternanza continua di memoria e di sogno, di struggimento («Tutto ho perduto dell’infanzia | e non potrò
mai più | smemorarmi in un grido»: Tutto ho perduto, p. 201) e di volontà di annientamento o di stordimento («Ci scorderemo di quaggiù, | e del male e del cielo»: Dove la luce, p. 159). Memoria come «Figlia indiscreta della noia» (Caino, p.
173), e perciò legata al peccato e alle sofferenze che esso induce («La memoria è
figlia della noia perché l’uomo s’è adattato alle fatiche del lavoro, per non accorgersi del tedio della vita. È indiscreta perché tenta di dissimulare la noia. La memoria è storia»: Note al Sentimento del tempo, p. 540); ma anche «fluido simulacro, | malinconico scherno» (Alla noia, p. 108) di un mondo inafferrabile, se non
in «bricioli di ricordi» (Ultimi cori, p. 275). Sogno come illusione letale di felicità
(«Questo sogno è morte»: Canto beduino, p. 189), o addirittura equazione di
82 Dalla
lettera di Ungaretti a Giuseppe Prezzolini del novembre 1914 cit., p. 27 (cfr. § I, nota 19).
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morte («Immemore sorella, morte, | l’uguale mi farai del sogno | baciandomi»: Inno alla morte, p. 117). Sogno e memoria, comunque, sempre profondamente intessuti l’uno nell’altra («il sogno stesso ci riconduce alla memoria», preciserà lo
stesso Ungaretti nel cuore del Sentimento)83: è evidente la suggestione dei poeti
barocchi o “visionari” spagnoli e inglesi da lui incontrati e tradotti in questo periodo.
Sull’ennui e sullo spleen di ascendenza baudelairiana delle prove iniziali e
delle suggestioni giovanili si innesta progressivamente un senso dell’esistenza tragico e universale (soltanto nelle pagine del Dolore più intrise di lutto familiare la
scrittura del poeta tornerà a farsi, in qualche tratto, diaristica), che cerca riscatto
nell’acquiescenza al disegno divino: la fatalità “biologica” dell’Allegria («Si sta come | d’autunno | sugli alberi | le foglie»: Soldati, p. 87) cede il passo ad una fatalità
religiosa di suggestione biblica (e, dunque, ritraducibile in mito); la preghiera tutta insorgenze esclamata in trincea giunge a riprodurre nel Dolore quasi le cadenze
e il formulano della messa liturgica («Ecco, Ti chiamo, Santo, | Santo, Santo che
soffri»: Mio fiume anche tu, p. 230).
«Portati... ad altra esasperazione» (Note alla Terra promessa, p. 552), temi della morte e dell’assenza, dell’innocenza perduta e dell’approdo mitico, trovano
pronuncia alta nei versi della Terra promessa, il libro che, nelle intenzioni del poeta, avrebbe dovuto costituire il sigillo definitivo e più lucido della sua ricerca, il
frutto di «un autunno inoltrato» da cui staccare «per sempre l’ultimo segno di
giovinezza, di giovinezza terrena, l’ultimo appetito carnale» (ibid., p. 546). Per
tante ragioni (quelle, in parte, biografiche accampate da Ungaretti, ibid., p. 551,
ci sembrano le meno convincenti) l’opera rimarrà incompiuta e frammentaria rispetto al disegno originario, incapace forse di contenere davvero tutta la sua tensione sensuale: intermittente, ma ancora in grado di dettare, come nelle estreme
liriche amorose di Dialogo («È ora famelica, l’ora tua, matto»: È ora famelica, p.
301) e di aprirsi quindi un varco in una saggezza faticosamente raggiunta («Poeti,
poeti, ci siamo messi | tutte le maschere; | ma uno non è che la propria persona»:
Monologhetto, p. 261), ma non mai del tutto ratificata, minacciata quantomeno
dall’autoironia (per esempio, nei Proverbi). Su questa ostinata attesa di vita, sull’inesausta querela d’amore, il poeta «matto» e «ossesso» si ritrova a concludere
proprio dove l’«uomo di pena» aveva cominciato.
83
G. UNGARETTI, Innocenza e memoria (1926), in ID., Vita d’un Uomo. Saggi e interventi cit., p. 130.
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4-5. Dalla parola al discorso.
Annunciando a Giuseppe De Robertis il prossimo invio del Sentimento, così scriveva Ungaretti nel 1933:
Lo metterai accanto all’Allegria e vedrai chiaramente ciò che in 19 anni ho fatto per la
nuova poesia italiana: tutto: sentimento, tono, ritmo, immagini, sintassi musicale del
verso, tutto è uscito dal mio sforzo ostinato e disperato. Guarda le date: è molto importante. E vedrai come tutto ciò che è spontaneo e libero e necessario qui, sia spesso negli
altri diventato meccanico, sordo e rettorico84.
Depurato dalle fastidiose smodatezze autocelebrative, caratteristiche peraltro
dell’Ungaretti storico di se stesso, il giudizio resta sostanzialmente condivisibile.
Non c’è, infatti, chi possa dubitare del suo rilievo nella poesia novecentesca, in taluni casi non soltanto italiana, al cui rinnovamento metrico-stilistico egli ha contribuito forse più e meglio di ogni altro, almeno per i primi quarant’anni del secolo (De Robertis lo gratificherà più avanti del riconoscimento di «primo poeta moderno»)85. Per riprendere un’immagine di Contini, tutta la nostra lirica sembra essere uscita dal suo pastrano86: sia quello, logoro di trincea, dell’Allegria, sia quello, riassettato e poi sempre più impreziosito ed elegante, del Sentimento. Ad entrambe le raccolte (tempi differenti di un’unica partitura destinata a rifondare
energicamente la nostra lirica e a riallinearla al più progredito contesto europeo)
andranno quindi attribuiti meriti distinti e specifici, proprio in rapporto a quelle
date su cui Ungaretti richiamava, non a caso, l’attenzione di De Robertis.
Nel primo tempo prevalgono le sollecitazioni eversive, bene assecondate, come si è detto, da una lontananza prolungata dall’Italia e dalla cultura plurilingue
e stravagante del poeta, sempre fresca dei più imprevedibili aggiornamenti. È Ungaretti a introdurre senza alcun preambolo o dichiarazione87 i modi e i temi del
postsimbolismo nella cultura poetica italiana, tuttora impaniata nelle infinite rielaborazioni del simbolismo (in tal senso, anche Maninetti e i futuristi sono già in
ritardo rispetto alle sue ricognizioni) e a farla rapidamente contemporanea di una
cultura poetica europea che intanto aveva maturato altri riferimenti. Due sono in
84
G. UNGARETTI e G. DE ROBERTIS, Carteggio cit., p. 5.
p. 35 (lettera del 14 settembre 1942).
86 Citazione tratta da L. PICCIONI, Per conoscere Ungaretti, Milano 19932, p. 67.
87 «Nella storia di ogni poesia (e non solo della nostra) ogni tanto qualcuno s’affaccia e proclama ch’è tempo di
rompere i vetri e di “rinnovare l’aria chiusa”. Ungaretti, che ha davvero portato una nuova libertà nella lirica d’oggi,
non si è fatto precedere, pubblicando Il porto sepolto (1916), da alcuna dichiarazione di questo genere. Né a rigor di
termini ciò gli era consentito, perché fiumi di parole in libertà e diversi liberi d’altri poeti avevano precorso di poco
quelle sue prove» (E. MONTALE, Sulla poesia cit, p. 306).
85 Ibid.,
Letteratura italiana Einaudi
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
questa fase le direttrici principali della sua scrittura, orientata prevalentemente
sulla lezione linguistica di Mallarmé e su quella metrico-strutturale di Apollinaire
(ma non ignara delle esperienze più nostrane e coeve di un Pascoli, di un D’Annunzio o di un Palazzeschi): la ricerca di una parola nuda ed essenziale, depnivata di ogni convenzionalità letteraria e suscitatrice di un valore magico-evocativo
(«tutto il mio sforzo è stato quello di ridare forza al valore evocativo delle parole»,
confiderà ancora a De Robertis)88; e l’elaborazione di un ritmo nuovo, avviata per
intanto da una decostruzione poderosa del verso tradizionale.
Le due linee, ovviamente, si intersecano e collocano il lavoro di questo primo
Ungaretti tutto nel segno di una riduzione e di una concentrazione che mirano a
restituire anche nel linguaggio la condizione estrema e totalmente prosciugata del
«soldatino del Carso»89 (come dire che la nuova organizzazione retorica del discorso, da lui già intravista o ipotizzata, si definisce nel frangente di guerra anche
in nuovo esistenziale)90. Donde alcune caratteristiche fondamentali della scrittura
dell’Allegria che qui elencheremo succintamente91: diffusa preponderanza paratattica (si veda, per esempio, Il porto sepolto), spesso basata sull’accumulo o sulla
giustapposizione di singole frasi (Lindoro di deserto, A riposo) e con soppressione
quasi dei nessi grammaticali e sintattici (Annientamento); abolizione della punteggiatura (per consenso più, forse, ad Apollinaire che ai futuristi); densità accentuata delle due parti elementari del discorso, il nome («riscoperto come fatto religioso»)92 e il verbo, che lo «carica d’un’estrema significazione»93 (I fiumi, o, ancora, la strofe centrale di Annientamento, o Lindoro di deserto); impiego esclusivo
della prima persona del presente indicativo, in funzione asseverativa e testimoniante (I fiumi, Italia, Godimento); ricorso insistito alle analogie esplicite (Sono
una creatura).
Alla violenta contrazione grammaticale e sintattica si accompagna l’accentuazione di un enunciato sempre molto scarno ed espressionisticamente perentorio,
che trova il corrispettivo metrico nella frantumazione del verso e nella sua progrediente atomizzazione. Il restringimento della sua misura (talvolta, come si è visto, fino al monosillabo) consegue un duplice risultato. Da un lato, elementi del
discorso anche di scarso rilievo semantico guadagnano, grazie al risalto visivo o
88 G.
UNGARETTI e G. DE ROBERTIS, Carteggio cit., p. 42 (lettera del 19 settembre 1942).
Autodefinizione di Ungaretti, ibid., p. 18 (lettera del 25 luglio 1942).
90 Cfr. A. ZANZOTTO, «Ungaretti» cit., p. 358.
91 Per la lingua di Ungaretti e per la sua storia dall’Allegria al Sentimento, cfr. I. GUTIA, Linguaggio di Ungaretti,
Firenze 1959, e lo studio fondamentale di P. SPEZZANI, Per una storia del linguaggio di Ungaretti fino al «Sentimento del Tempo», in AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova 1966, pp. 91-160.
92 G. CONTINI, Esercizi di lettura, Torino 1974, p. 47 (Ungaretti, o dell’Allegria).
93 A. ZANZOTTO, «Ungaretti» cit., p. 358.
89
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
alla pronuncia (si ricordino le recitazioni del poeta), un significato prima sconosciuto, o comunque inatteso: è il caso degli articoli (Sogno), delle congiunzioni
(Giugno, Girovago), degli avverbi (In memoria, Allegria di naugrafi, Natale e ancora Giugno) o delle preposizioni (Annientamento) che i futuristi avevano invece
furibondamente raccomandato di bandire. Dall’altro, l’interruzione (Un sogno solito), l’uso enfatizzato della pausa o gli spazi bianchi più o meno estesi tra un verso e l’altro (Dannazione, Malinconia, Ritorno) si introducono prepotentemente
nella dinamica del testo e ne diventano parte essenziale, contribuendo infine a
prolungare la durata effettiva dei componimenti: procedimenti analoghi si registrano nella musica d’avanguardia di quegli stessi anni, in cui la pausa pretende
d’essere ascoltata, e nella pittura, con il dilatarsi irresistibile degli spazi interstiziali o con il massiccio utilizzo del bianco (la cultura e le frequentazioni parigine e
milanesi di Ungaretti autorizzano il confronto).
Alla massiccia amplificazione espressiva cooperano, dunque, tutti gli effetti
fonici e visivi possibili (tuttavia, senza alcuna intenzione mimetica) e si può ben
comprendere come, in un contesto simile, ogni correzione anche minima (la variante di un’elisione in Veglia; di una virgola in Fratelli; di un’apocope in Universo; di un’aggiunta eufonica in In dormiveglia: cfr. l’Apparato critico delle varianti,
pp. 585-860) sia destinata in realtà a incidere profondamente sugli equilibri interni al testo, obbligandolo di continuo a disfarsi e a ricostituirsi, sino a perdere ogni
riferimento causale94: lo stillicidio dei versicoli sulla pagina bianca, di cui parla
Montale95, va certamente inteso in più sensi. L’isolamento delle parole nel verso,
sino alla coincidenza perfetta (cfr. Dolina notturna, Sogno, Vanità), prelude alla riconquista del loro significato primigenio e alla liberazione della loro potenzialità
creatrice (Marziano Guglielminetti le definisce, con efficacia, «singole monadi
espressive creatrici “ex nihilo” d’un tutto»)96 e preannuncia il ricostituirsi del discorso.
Il secondo tempo della partitura ungarettiana, designato dal poeta come ricerca del canto, vede il ricupero di una comunicazione più complessa e distesa,
nel tentativo di trovare una qualche coincidenza fra tradizione e «necessità
94
Sull’accanimento variantistico di Ungaretti osserva Mengaldo: «Il fenomeno rientra nella più generale corrente
della poesia moderna che si può denominare da Mallarmé e Valéry, per la quale il testo è inteso come progressiva e instabile approssimazione a un valore-limite, ma, al pari che in questi autori o da noi in un altro infaticabile correttore,
Cardarelli, va inteso anche come conseguenza operativa di una concezione della poesia come assolutezza sacrale che
aspira a sottrarsi alle causalità della storia; e che nel caso dell’Allegria urta dialetticamente alla contingenzialità bruciante delle occasioni storico-biografiche che la generano» (P. V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento cit., p.
386).
95 E. MONTALE, Sulla poesia cit., p. 344.
96 M. GUGLIELMINETTI, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano 19672, p. 220.
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
espressive d’oggi» (Note al Sentimento del tempo, p. 541). Riesperita nella sua naturalezza e nella sua profondità, la parola viene ora innestata sulla linea PetrarcaLeopardi della tradizione maestra italiana, articolandosi in dovizia lessicale, preziosità stilistica e complessità metrica. La «lentissima distillazione» (ibid., p. 529)
del Sentimento sconsiglia di rileggere questo secondo percorso in termini di semplice restaurazione (dall’eversione all’ordine, secondo la formula più abusata),
anche perché essa procede di pari passo con quella dell’Allegria e, pur differenziandosene poi a ogni livello, mostra di averne bene assorbito la lezione. I procedimenti messi in atto in quest’altro cammino si collocano tutti nel segno della diffusione e dell’accrescimento in volumi più dilatati che rischiano talora la gessosità
(La madre) e che sollecitano, ancora, il confronto con alcune esperienze similari
della pittura coeva (quella di Sironi, soprattutto, partito da paesaggi scabri ed essenziali, quasi privi di presenza umana, e poi approdato a un classicismo monumentalistico).
Anche in questo caso ci limiteremo a riassumere i fenomeni di maggiore rilevanza. Anzitutto, una sintassi molto più complessa, ora di respiro ampio e cadenzato, ora chiusa «in strutture circolari, incapsulate, ricche di incisi e diverticoli»97
(Memoria di Ofelia d’Alba, Sentimento del tempo, liriche costruite su di un unico
periodo protratto): al presente indicativo dell’Allegria si sostituiscono altri tempi
verbali, e in altri modi, con un valore che punta ad essere prevalentemente liricoevocativo (Le stagioni, Ricordo d’Affrica, Inno alla morte). In secondo luogo, ripristino ovunque delle connessioni grammaticali e sintattiche, nonché della punteggiatura; stemperamento della carica semantica aggressiva o deformante dei
verbi e dei sostantivi a favore di immagini più tradizionali e neutre (si considerino
versi come «Ora anche il sogno tace»: Le stagioni, p. 106; o come «La mano le luceva che mi porse»: Alla noia, p. 108; oppure un incipit del tipo «Dolce declina il
sole»: Auguri per il proprio compleanno, p. 194); preferenza per l’apposizione analogica rispetto all’analogia esplicita prima largamente impiegata («Amore, mio
giovine emblema» e «Morte, arido fiume...»: Inno alla morte, p. 117; «Tempo,
fuggitivo tremito…»: Lago Luna Alba Notte, p. 115). E ancora: reintegrazione
massiccia della funzione aggettivale, di ascendenza molto spesso pascoliano-dannunziana, come ha chiarito l’analisi sistematica di Pietro Spezzani: si pensi ad associazioni come «freschi pensieri» (Paesaggio, p. 104); «notturno meriggio» e «acqua garrula» (Le stagioni, pp. 105 e 106); «stridulo | batticuore» (L’isola, p. 114);
«azzurro inospite» (Apollo, p. 116); «labili rivi» (Nascita d’aurora, p. 121). Infine,
un rilievo tutto nuovo rispetto a prima viene assegnato all’astratto, che acquista
97
P. V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento cit., p. 389.
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
una funzione emblematica «per la sua posizione forte nel verso, per il suo rilievo
allusivo e simbolico e per la sua connotazione mitico-evocativa»98 (si vedano, ad
esempio, O notte, Lago Luna Alba Notte, Eco, ecc.). A questa propensione verso
l’astrattezza, che nel cuore del Sentimento andrà a conseguire ulteriore risalto (cfr.
l’intera sezione degli Inni, pp. 165-78), si accompagna un gusto notevolmente effuso per l’inafferrabile e per l’indefinito (ne terrà gran conto la poesia ermetica),
segnalato anche graficamente dall’uso dilagante dei puntini di sospensione (Un
lembo d’aria, Ogni grigio, Pari a sé).
Nell’insieme, si assiste da parte del secondo Ungaretti a un riacquisto diffuso
di misure più ampie, di spessori e di volumi, tuttavia non mai rigidi o bloccati, ma
pullulanti di forme sempre nuove e imprevedibili, dietro cui s’indovina la forza di
suggestione della cultura barocca. Il verso infinitesimo o parcellizzato ritrova poco per volta grandezze più consuete (il settenario e l’endecasillabo di cui abbiamo
parlato in precedenza), mentre il sistema metaforico riguadagna complessità: il
sublime sensoriale dell’Allegria si dissolve «di fronte al sublime “culturale” della
religiosità e dei miti»99 e l’eloquenza torna così a riempire gli spazi bianchi del
vuoto e le pause del silenzio. Partito alla ricerca della parola, Ungaretti riapproda
al discorso e lo ricompone, ma senza alcun proposito di restaurazione esplicita.
Del resto, decidendo di pubblicare simultaneamente nel 1942/43 l’Allegria e il
Sentimento, aveva soprattutto inteso fissare, e salvaguardare, i risultati di una tormentata ricerca, istituendo egli stesso nella propria lirica una sorta di antinomia
su cui il Novecento si interrogherà e si misurerà a lungo.
6. Nota bibliografica.
Le poesie di Ungaretti, corredate delle prefazioni alle varie edizioni, di note, di
cronologia delle opere, nonché di un fondamentale apparato critico delle varianti, sono state raccolte nel volume G. UNGARETTI, Vita d’un Uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano 1969 (ma 1970 nella sua versione definitiva),
continuamente ristampato, con un elenco minuzioso, alle pagine 865-66, di tutte
le edizioni delle liriche. Ad esso fa da pendant l’altro volume di Ungaretti, Vita
d’un Uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano 1974, che
raccoglie una scelta abbondante e significativa dei contributi in prosa del poeta,
apparsi per lo più su giornali e riviste letterarie: il loro elenco completo, ordinato
98
99
P. SPEZZANI, Per una storia del linguaggio di Ungaretti cit., p. 135.
G. RABONI, Poesia italiana contemporanea, Firenze 1981, p. 76.
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
meticolosamente in successione cronologica, è disponibile nell’appendice Bibliografia degli scritti in prosa di G. Ungaretti, alle pagine 1025-51 dello stesso volume. Una scelta parziale, ma intelligente, di poesie, prose, saggi e traduzioni, è
senz’altro quella curata da L. Piccioni, Per conoscere Ungaretti, Milano 19932.
Mentre le carte giacenti presso la Fondazione Ungaretti a Roma promettono novità per i prossimi anni (interventi pubblici ancora inediti, epistolari, lezioni universitarie, traduzioni, ecc.), da qualche tempo si sono cominciate a pubblicare, in
edizioni critiche o comunque molto accurate, le singole raccolte di poesie: ricordiamo Il porto sepolto, a cura di C. Ossola, Milano 1981 (poi Venezia 1990); L’Allegria, edizione critica a cura di C. Maggi Romano, Milano 1982; e Sentimento del
Tempo, edizione critica a cura di R. Angelica e C. Maggi Romano, Milano 1988.
Ad esse vanno affiancate le Poesie disperse, con apparato critico delle varianti di
tutte le liriche e un saggio di G. De Robertis, Milano 1945 (sino a 19685), e La Terra Promessa (Frammenti), con apparato critico delle varianti e un saggio di L. Piccioni, Milano 1950 (poi aggiornato sino al 19675). Difficile anche dar conto in maniera esaustiva delle tantissime traduzioni ungarettiane: un buon elenco, pure se
incompleto, è a disposizione alle pagine 867-68 di Tutte le poesie cit., assieme ad
un’appendice, anch’essa purtroppo lacunosa, delle opere del poeta tradotte in altre lingue (pp. 868-69).
Un contributo molto importante per capire la genesi e la storia del canzoniere di Ungaretti è senz’altro quello offerto dal suo ricchissimo epistolario, tutt’altro
che esaurito a più di vent’anni dalla morte. Ricordiamo particolarmente G. UNGARETTI, Lettere a un fenomenologo, con un saggio di E. Paci, Milano 1972;
ID., Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), a cura di A. Marone e con
introduzione di L. Piccioni, Milano 1978; ID., Lettere a Mario Novaro, in «OttoNovecento», III (1979), 3-4, pp. 286-92; ID., Cinquantatre lettere a Carlo Carrà, a
cura di P. Bigongiari e M. Carrà, in «Paradigma», III (1980), pp. 415-447; ID.,
Lettere a Soffici. 1917-1930, a cura di P. Montefoschi e L. Piccioni, Firenze 1981;
ID., Lettere a Enrico Pea, a cura di J. Soldateschi, con una nota introduttiva di G.
Luti, Milano 1983; G. UNGARETTI e G. DE ROBERTIS, Carteggio. 1931-1962,
con un‘Appendice di redazioni inedite di poesie di Ungaretti, a cura di D. De Robertis, Milano 1984; G. UNGARETTI, Lettere a Giovanni Papini. 1915-1948, a
cura di M. A. Terzoli, introduzione di L. Piccioni, Milano 1988; Ungaretti, Pea e
altri. Lettere agli amici egiziani, a cura di F. Livi, Napoli 1988; Correspondance
Jean Paulhan - Giuseppe Ungaretti. 1921-1968, edizione critica di J. Paulhan, L.
Rebay e J-Ch. Vegliante, prefazione di L. Rebay, Paris 1989; G. UNGARETTI e
A. PARRONCHI, Carteggio, a cura di A. Parronchi, Napoli 1992. Come si potrà
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
notare, l’epistolario di Ungaretti è in genere vistosamente sbilanciato in direzione
dei destinatari per l’abitudine del poeta di conservare soltanto parte delle lettere
ricevute, alcune delle quali, oltre tutto, sono andate smarrite nei continui cambi
di residenza della sua vita.
A ricostruire minuziosamente questa movimentatissima vicenda biografica ha
pensato soprattutto L. PICCIONI, Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti, Milano
1970, integrata più tardi da ID., Ungarettiana. Lettura della poesia, aneddoti, epistolari inediti, Firenze 1980. A questi due basilari contributi si è affiancato recentemente W. MAURO, Vita di Giuseppe Ungaretti, Milano 1990; ma informazioni
biografiche interessanti si possono ricavare anche dai profili di F. PORTINARI,
Giuseppe Ungaretti, Torino 1967; G. LUTI, Invito alla lettura di Ungaretti, Milano 1974; M. DEL SERRA, Giuseppe Ungaretti, Firenze 1977; G. BARONI, Giuseppe Ungaretti, Firenze 1980. Notizie, ancora, sulla vita e sulle frequentazioni del
poeta, soprattutto durante la prima metà della sua storia, si possono desumere da
L. REBAY, Le origini della poesia di Giuseppe Ungaretti, Roma 1962.
Una buona introduzione critica a tutta l’opera di Ungaretti è stata fornita da
S. DE MARCHI, Guida allo studio di Ungaretti, Bolzano 1976; necessariamente
essenziale, invece, ma assai penetrante, è il profilo tracciato da A. Zanzotto per la
voce «Ungaretti» nel Dizionario critico della letteratura italiana (1973), a cura di
V. Branca, Torino 19862, III, pp. 357-63; lucidissime, una volta di più, le rapide
pagine introduttive dedicate a Giuseppe Ungaretti in P. V. MENGALDO, Poeti
italiani del Novecento, Milano 1978, pp. 380-91. Vere e proprie monografie critiche, invece, sono quelle di G. CAMBON, La poesia di Ungaretti, Torino 1976, e
di C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti, Milano 1982 (nuova edizione accresciuta),
quest’ultima divenuta ormai riferimento fondamentale per chiunque intraprenda
lo studio del poeta. Significativi della sua consacrazione ufficiale a “maestro” nel
secondo dopoguerra sono alcuni numeri monografici dedicatigli in vita da importanti riviste: «La Fiera Letteraria» del 1° novembre 1953; «Letteratura», VI
(1958), nn. 35-36; «Galleria», dicembre 1968; «L’Herne», 1969; «Forum Italicum», VI (1972), n. 2; «Books Abroad» (Oklahoma), n. 44 (1970); ad essi si sono
aggiunti, dopo la sua morte, «L’Approdo Letterario», nuova serie, XVIII (1972),
n. 57, e «Revue des études italiennes» (Ungaretti à Paris), XXXV (1989), n. 14.
Dal 1977, gli «Studi Novecenteschi» provvedono nella loro Rassegna Bibliografica all’aggiornamento sistematico degli studi ungarettiani.
Impossibile qui dar pieno conto di una bibliografia che si è fatta negli anni
sterminata. Le indicazioni che seguono, pertanto, non possono che risultare par-
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
ziali e si riferiscono ai contributi considerati irrinunciabili. Per gli studi sino alla
metà degli anni Settanta può soccorrere, comunque, G. FASO, La critica e Ungaretti, Bologna 1977, utilissimo per raggiungere soprattutto gli interventi “storici”
sul poeta, a partire dal 1917-18, anche se i criteri del loro raggruppamento possono, talvolta, lasciare perplessi. Rapide note bibliografiche si ritrovano anche nelle
monografie, citate, di G. Luti, G. Baroni e C. Ossola, nonché in appendice alla
voce «Ungaretti» di A. Zanzotto. Un ragguaglio fondamentale sugli orientamenti
della critica ungarettiana a cavallo degli anni Settanta-Ottanta è certamente consentito dagli Atti del Convegno internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino, 3-6
ottobre 1979), a cura di C. Bo e M. Petrucciani, 2 voll., Urbino 1981 (con più di
cento tra relazioni e comunicazioni).
La genesi della poesia di Ungaretti è stata ricostruita con estrema puntualità
da L. REBAY, Le origini della poesia cit., poi integrate dallo stesso con Ungaretti:
gli scritti egiziani 1909-1912, in Atti del Convegno internazionale cit., pp. 33-60, e
da G. LUTI, Ungaretti e «les compagnons de route» dell’avanguardia fiorentina,
ibid., pp. 277-303. Contributi importanti sugli esordi del poeta sono stati forniti
anche dai due volumi di L. PICCIONI, Vita di un poeta cit., pp. 11-115, e Ungarettiana cit., passim. Ma rivelatori dei suoi primi progetti di scrittura e delle sue
idee letterarie sono, naturalmente, i carteggi, in special modo le Lettere, citate, a
Papini, Marone, Pea e Soffici. Valutazioni più specialistiche sui primo percorso
della poesia di Ungaretti, e preziosissime perché prodotte dal critico a lui più vicino e fedele, sono quelle di G. DE ROBERTIS, Sulla formazione della poesia di Ungaretti (1945), in G. UNGARETTI, Vita d’un Uomo. Tutte le poesie cit., pp. 405421. Ad esse andranno affiancati gli interventi più interessanti che hanno accompagnato nei primi dieci anni l’opera di Ungaretti (come quelli di Giovanni Papini,
Alberto Savinio, Pietro Pancrazi, Luigi Russo, Francesco Flora, Adriano Tilgher,
Enrico Thovez), leggibili, sia pure in sunto, in G. FASO, La critica e Ungaretti cit.
Sulla struttura di Vita d’un Uomo e sulla sua storia interna sono intervenuti,
con interpretazioni risolutive, soprattutto G. CAMBON, La poesia di Ungaretti
cit., e C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti cit. Un sussidio importante per intenderne l’ordinamento progressivo viene offerto dalle citate edizioni critiche delle singole raccolte, oltre che dalle Concordanze delle poesie di Giuseppe Ungaretti approntate da G. Savoca, con premessa di M. Petrucciani, Firenze 1993. In precedenza, E. Chierici ed E. Paradisi avevano provveduto alle Concordanze dell’«Allegria», Roma 1977. Per l’analisi variantistica delle sillogi e per il significato della
variante in Ungaretti rimandiamo ancora, com’è ovvio, alle introduzioni delle edizioni critiche, con annessa bibliografia sull’argomento. Da segnalare, inoltre, il
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«Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti - Mario Allegri
saggio di D. ARISTODEMO e P. DE MEIJER, Varianti di una stagione francese
di Ungaretti, in Atti del Convegno internazionale cit., pp. 111-60.
Non ci risultano analisi articolate “per motivi” dell’opera poetica di Ungaretti. Un rapidissimo inventano tematico è consultabile in G. LUTI, Invito alla lettura di Ungaretti cit., pp. 103-37, e in G. BARONI, Giuseppe Ungaretti cit., pp. 74104. Singoli temi affrontati per gruppi di liriche o in componimenti isolati si ritrovano in più luoghi dei ricchissimi Atti più volte citati.
Tra gli studi dedicati al linguaggio e allo stile di Ungaretti spiccano quelli raccolti da G. CONTINI, Esercizi di lettura, Torino 1974, pp. 43-65, e ID., Altri esercizi (1942-1971), Torino 1972, pp. 127-35. Ad essi andranno aggiunti, almeno, I.
GUTIA, Linguaggio di Ungaretti, Firenze 1959; P. SPEZZANI, Per una storia del
linguaggio di Ungaretti fino al «Sentimento del Tempo», in AA.VV., Ricerche sulla
lingua poetica contemporanea, Padova 1966, pp. 91-160; G. GÉNOT, Sémantique
du discontinu dans «L’Allegria» d’Ungaretti, Paris 1972; G. BÀRBERI SQUAROTTI, Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale, Bologna 1974, pp. 179-91;
E. GIACHERY, Civiltà e parole: studi ungarettiani, Roma 1974; G. LONARDI,
Leopardismo, Firenze 1974, pp. 113-14; P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Prima serie, Milano 1975, pp. 242-55, e poi in più luoghi della seconda e
della terza serie, rispettivamente, Firenze 1987 e Torino 1991; M. PETRUCCIANI, Il condizionale di Didone. Studi su Ungaretti, Napoli 1985; P. MONTEFOSCHI, Ungaretti. Le eclissi della memoria, Napoli 1986; M. FORTI, Ungaretti girovago e classico, Milano 1991; C. BORONI, Giuseppe Ungaretti dall’«Innocenza»
alla «Memoria», Venezia 1992. Ma considerazioni preziose sulla lingua e sullo stile si ritrovano, naturalmente, anche in G. CAMBON, La poesia di Ungaretti cit., e
C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti cit.
Interessanti paragrafi ungarettiani si trovano sparsi in varie raccolte di studi
(per esempio, M. GUGLIELMINETTI, Struttura e sintassi del romanzo italiano
del primo Novecento, Milano 19672, pp. 211-34), in profili di storia letteraria (R.
LUPERINI, Il Novecento, Torino 1981, pp. 268-84) e nelle innumerevoli storieantologie della poesia e della letteratura italiane contemporanee che qui è impossibile elencare dettagliatamente: ricorderemo soltanto G. POZZI, La poesia italiana del Novecento. Da Gozzano agli ermetici, Torino 1967, pp. 133-59; G. CONTINI, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968, Firenze 1968, pp. 795-97; G. DE BENEDETTI, Poesia italiana del Novecento, Milano 1974, pp. 69-104; L. ANCESCHI, Da Ungaretti a D’Annunzio, Milano 1976, pp. 67-80; S. RAMAT, Storia
della poesia italiana del Novecento, Milano 1976, in più luoghi; G. RABONI, Poesia italiana contemporanea, Firenze 1981, pp. 75-77.
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Un cenno a parte, infine, meritano gli interventi di alcuni critici-poeti, anche
per il ruolo di caposcuola e di punto di riferimento, per almeno due generazioni,
ricoperto da Ungaretti nel panorama della nostra lirica. Alcuni di questi si possono leggere negli Atti del Convegno internazionale cit., in più luoghi dei due volumi; ma un rilievo particolare assumono senz’altro quelli di P. P. PASOLINI, Un
poeta e Dio, in ID., Passione e ideologia, Milano 1973, pp. 354-73; E. MONTALE,
Sulla poesia, Milano 1976, un po’ ovunque, ma soprattutto alle pagine 306-7 e
344-45; F. FORTINI, Da Ungaretti agli ermetici, in La letteratura italiana. Storia e
testi, diretta da C. Muscetta, IX/2. Il Novecento. Dal decadentismo alla crisi dei
modelli, Bari 1976, pp. 299-313; G. RABONI, Poesia italiana cit.; e A. ZANZOTTO, Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Milano 1991, pp. 81-98, oltre alla voce «Ungaretti» cit. nel Dizionario critico della letteratura italiana.
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G.Ungaretti- Vita di un uomo - mcozzapoesie.altervista.org