TAVOLA ROTONDA PERCHE’ LA PSICOANALISI? Vita, morte e miracoli di un sapere non riducibile ad altri saperi Firenze, Istituto di Psicoanalisi Gradiva, 9 aprile 2011 Silvana Caluori (Presid. Psicologia della Rappresentazione, Docente Psicologia Dinamica e Psicodinamica delle Relazioni Familiari, Facoltà di Psicologia – Firenze) INTRODUZIONE AI LAVORI Il tema centrale di questa nostra serata è quello della psicoanalisi laica, che per gli “addetti ai lavori” è una questione già nota, mentre per molti altri - e qui mi riferisco in modo particolare ai giovani studenti di psicologia - non lo è affatto. Per loro questa è un’occasione per conoscere una realtà nuova, anche se vista da vertici diversi. E in questo senso pregavo i nostri relatori di semplificare al massimo il discorso, in modo che possa arrivare a tutti in una maniera un po’ più precisa e diretta, in particolare appunto agli studenti, poiché sono loro la generazione futura ed è bene che di queste cose siano informati, anche perché non ci sono molte sedi dove questi aspetti siano affrontati. Inizierà il discorso Sebastiano Tilli, che è presidente dell’Istituto Gradiva. A seguire Giuliana Bertelloni, che è una psicanalista di Firenze e che fa parte del Laboratorio di Ricerca Freudiana di Firenze, Massimo Caluori, che è uno dei co-fondatori dell’Istituto Gradiva e che presenterà alcuni contributi prodotti dai tirocinanti che nell'ultimo semestre hanno partecipato alle nostre attività; Simone Berti, psicanalista, aderente anche lui al laboratorio di Ricerca Freudiana di Firenze; Alessandra Guerra, psicanalista di Ravenna e referente del ”Manifesto per la Difesa della Psicanalisi”. La psicoanalisi infatti ha necessità di difendersi e questo anche gli studenti lo sanno bene, dato che sono abituati a sentir dire continuamente che la psicoanalisi è morta, che è superata, mentre in realtà le cose non stanno esattamente in questo modo; per cui occorre dare voce alla psicoanalisi, oggi più che mai, e quale migliore occasione per farlo, che attraverso questo Manifesto? A chiudere leggeremo un intervento di Franco Quesito, psicoanalista dell’ “Associazione Sotto La Mole” di Torino, che purtroppo stasera non potrà essere presente. Sebastiano Tilli (Presidente Istituto di Psicoanalisi Gradiva – Firenze) L’occasione è molto particolare, perché unisce più istanze, più desideri, di cui uno specifico è proprio quello di rilanciare un discorso, quello appunto sulla psicoanalisi laica, che forse negli ultimi anni è stato un po’ trascurato, almeno in questa sede. E il Manifesto rappresenta una buona opportunità per farlo. La questione dell’indipendenza della psicoanalisi, cioè della psicoanalisi c.d. “laica”, è una questione che viene da lontano e che in anni passati ci aveva trovati appassionati fautori di molti dibattiti, addirittura già dai tempi in cui era in stesura la Legge sulla psicologia e sulla psicoterapia (L.56/89, nota come Legge Ossicini). Ci rendiamo conto che per gli studenti, soprattutto per quelli dei primi anni, questi sono argomenti abbastanza lontani, quasi alieni, poiché non hanno mai avuto l’occasione di sentirne parlare. Ma dato che ciò di cui discuteremo riguarda la loro formazione e il loro futuro, sono cose che non si possono evitare di incontrare e alle quali è bene interessarsi, e di cui avere una certa conoscenza, un certo sapere. È anche vero che gli studenti oggi si trovano davanti a delle strade già preparate per loro, benché non abbiano ancora chiare le differenze che ci sono tra psicologia, psicoterapia e psicoanalisi. Soprattutto non hanno conoscenza e quindi consapevolezza degli elementi di differenza e di contrasto tra queste discipline; così tendono ad accomunare la loro formazione futura in un percorso che ormai trovano in qualche modo già “prefigurato”, che a livello di legge prevede la Laurea in medicina o in psicologia per poter accedere poi alla formazione in psicoterapia presso Scuole riconosciute dal M.I.U.R., che offrono pacchetti formativi di durata almeno quadriennale e che danno un diploma spendibile sul mercato del lavoro in quanto riconosciuto dallo Stato. Questo diploma inserisce il futuro terapeuta in un settore professionale controllato dalla Sanità, tant’è che gli psicoterapeuti, in quanto iscritti all’Ordine (dei Medici o degli Psicologi), sono esenti da IVA. Questo ha portato all’imposizione di particolari strutture rispetto alla formazione, cioè all’adeguamento della formazione a dei canoni che siano in qualche modo condivisibili, estendibili, ripetibili, tali insomma che lo Stato possa avallarli. Qualunque ordinamento statale ha bisogno di un tipo di iter formativo che sia omologato a determinati criteri presunti “scientifici”. Ora, nel nostro campo la questione è piuttosto complessa e spinosa e richiederebbe più incontri per essere affrontata, magari anche in forma di giornate di studio. In sintesi si può dire che il futuro studioso appassionato di questa materia non sa di trovarsi di fronte ad un colossale equivoco, perché pensa che per formarsi in psicoanalisi debba intraprendere questo tipo di formazione istituzionalizzata, che allo stato dei fatti concerne propriamente la psicoterapia. L’equivoco poggia innanzi tutto sull'idea che psicoterapia e psicoanalisi si occupino dello stesso oggetto, o per meglio dire, dello stesso “soggetto”. Ci tengo però a fare una premessa: non voglio dare giudizi di valore rispetto a singoli professionisti e a singole Scuole, perché il problema non è questo, bensì quello di riuscire a promuovere una chiarezza epistemica, vale a dire una distinzione di paradigmi. Poi, nella pratica, conosco psicoterapeuti che hanno una capacità di ascolto migliore di quella di tanti “analisti”; e conosco tanti psicanalisti che sono più “terapeuti”, nel senso medicalistico, di tanti psicoterapeuti! Perciò quella a cui si arriva è una questione di qualità della formazione soggettiva; vale a dire che rispetto alla questione della cura, del prendersi cura, del problema della sofferenza mentale, del disagio mentale e dei relativi sintomi, ci sono due possibilità, opposte e contrapposte in linea teorica: una è quella che possiamo riassumere nel “modello medicalistico”, che è quell’impostazione che tende a focalizzare l’attenzione sul sintomo inteso come disfunzione, intoppo, malfunzionamento, secondo la filosofia terapeutica del minore sforzo possibile, del risultato più veloce ed efficace, dell’evitamento del dolore e dell’angoscia, che è una mitologia tipica del nostro tempo. In verità questo modello scaturisce da tutto un insieme di teorie e di criteri formativi e sarebbe un po’ penalizzante mettere tutta la medicina al pari di esso - ciò potrebbe infatti venire facilmente e anche giustamente contestato. Tuttavia, in questo senso opera un tipo di paradigma a cui determinate strutture terapeutiche si adeguano - e in modo specifico quelle che per legge devono formare dei terapeuti; l’altra possibilità è quella che si articola a partire dall'esperienza dell'ascolto analitico, ossia l’ascolto dei percorsi soggettivi che, attraverso il disagio e i sintomi della persona, cercano di dar parola a dei tratti misconosciuti di sottile intima verità. A questo criterio si ispira la psicoanalisi, o almeno quella intesa nell’accezione che qui condividiamo, poiché anche nella psicoanalisi troviamo forti e potenti correnti che si avvicinano alla psichiatria e quindi al modello medicalistico; orientamenti, questi, più preoccupati di togliere il sintomo, di farlo tacere nel minor tempo possibile. Già da questo si può intuire come il prendersi cura della soggettività, nelle sue forme della sofferenza, costituisca una modalità di rapporto con la dimensione dell’essere che non può certo essere prevista e coltivata in percorsi istituzionalizzati, omologati a dei criteri presunti scientifici. In un percorso istituzionalizzato infatti il soggetto si eclissa; la complessità umana scompare davanti a dei quadri, a delle categorie, di cui un esempio banale, per rendere l'idea, in medicina sono gli esami clinici. Attraverso gli esami e le risultanze di laboratorio la persona viene scomposta in dati numerici, in indici, in rappresentazioni di parti di tessuto ammalato. Ciò è spesso indispensabile per la diagnosi, ma è chiaro a tutti che la somma di questi dati non è la persona nella sua vivente complessità. Se questo è legittimo e scientificamente coerente per quanto attiene al procedimento medico, causalistico, il problema sorge allorché lo stesso criterio venga applicato nell’ambito di approcci alla cura che pretendono di occuparsi dello psichico. Ne è una conferma il continuo fiorire di approcci semplicistici, come ad esempio quelli diretti alla cura degli attacchi di panico - fra parentesi, il panico è sempre esistito, come mostra l'etimologia stessa del termine, poiché ha a che fare con la paura, con l’angoscia. Comunque, senza entrare nel merito della questione, questi approcci fanno scomparire la soggettività dietro a dei quadri che non di rado altro non sono che delle artificiose diagnosi inventate per giustificare l’impiego di farmaci. Certo, questo è un tipo di possibilità della cura, ma non è quello a cui si ispira la psicoanalisi, che invece mette in primo piano la complessità del soggetto, che necessita di essere ascoltata. Anche quando "non vuole" essere ascoltata, cioè quando produce sintomi che sembrano proprio di rigetto rispetto a un ascolto, di fuga, di evitamento. Però se la persona chiede aiuto, chiede ascolto, allora vuol dire che i suoi rimedi (o “difese”) di evitamento non le bastano per sentirsi al riparo dall’angoscia (purtroppo oggi la nostra cultura abbonda di queste “vie di fuga”!). Ecco dunque perché si pone il problema dell’indipendenza e con essa della sopravvivenza della psicoanalisi. Aggiungo che, per una questione di formazione personale, sarebbe bene conoscere a fondo le differenze tra le due prospettive in rapporto alle quali vengono a disporsi differenti modi di concepire la cura, anche al fine di poter scegliere con maggiore consapevolezza dove andare a collocarsi. Chi si forma secondo percorsi istituzionalizzati, presso strutture dove prevalga l’aspetto scientistico, avrà una formazione teoricotecnica più o meno articolata e appropriata, a seconda della scuola scelta. Ma verrà inevitabilmente il momento in cui scoprirà che rispetto ad una formazione “umana”, critica, in rapporto alla complessità soggettiva, non avrà acquisito nulla rispetto a quelle domande di fondo con le quali chi si occupa di farsi carico del disagio altrui prima o poi viene a contatto. Si tratta di domande che in realtà concernono tutte le persone, ma che molti preferiscono evitare di porsi, evitare di affrontare, perché troppo scomode. Conseguenza di questo è che chi non sa fronteggiare le proprie domande e il proprio disagio, nascondendosi dietro rimedi tecnici, non può essere in grado di accogliere e farsi carico del disagio altrui, perché non lo sa ascoltare. Nel nostro ambito, già il discorso di “voler curare un’altra persona” apre scenari estremamente delicati e complessi; perché mai infatti un essere umano dovrebbe farsi carico di curare un altro suo simile? E poi, in che senso “curare”? Curare che cosa? Per fare un parallelo, in medicina la cura coincide con la terapia, che cerca di restituire all’ammalato l’integrità fisica che aveva prima della malattia, la cosiddetta “restitutio ad integrum”. Ma, in senso psichico, cosa significa restituire all’integrità preesistente? Esiste uno stato precedente al disagio? E a quale disagio? Non illudiamoci, il disagio non è quando una persona sviluppa un sintomo; questo è solo il segnale che avverte che c’è qualcosa che non va. È una comunicazione dell’inconscio al nostro io cosciente, il quale si rifiuta di affrontare un qualcosa di molto spiacevole, di inaccettabile; qualcosa che preferisce “non vedere”. Peraltro ci sono addirittura persone che da sempre hanno dei sintomi, senza però riconoscerli come tali, perché hanno imparato ad evitare la circostanza che li suscita. Un esempio al riguardo è quello della persona che ha la fobia dell’aereo, ma che non sa di averla perché evita semplicemente di prendere l’aereo. E quando di una cosa “non si parla più” è come se essa non esistesse. Questo, per ribadire che il disagio non è limitabile al sintomo. O meglio, lo è secondo il modello scientistico, ma se abbiamo a cuore le ragioni del soggetto e la sua necessità di parlare in modo più profondo, più autentico, di se stesso, allora occorre aprirsi a percorsi formativi che non possano eludere la particolarità dei propri percorsi soggettivi. In altre parole, non si può essere aperti all’ascolto dell’altro se non si è attraversato un proprio percorso analitico, di conoscenza di sé, di esperienza di sé, che sensibilizzi alla conoscenza e all’esperienza dell’altro; benché sia un “percorso”, appunto, non un “sapere completo”. Tutt’altro; si tratta in verità di un percorso che procede per frammenti e quindi di un sapere mai completo, mai esaustivo, ma il non averne fatto esperienza sulla propria pelle preclude all’ascolto e alla comprensione dell’esperienza altrui. Chi si forma secondo il criterio scientistico non sarà poi in grado di ascoltare l’altro, perché sarà anticipato da quei paradigmi, da quelle teorie e presupposti che fanno scomparire la soggettività dietro una griglia. Per cui, la domanda finale è la seguente: se ciò che abbiamo a cuore è il non vedere la psicoanalisi riassorbita e vanificata nelle varie forme di omologazione psicoterapeutica, cosa possiamo fare? Perché di fatto è proprio questo che sta accadendo; e qui si entra nel vivo del problema storico-teorico della Legge Ossicini, che si presta (pur se indirettamente) ad inglobare tra le psicoterapie anche la psicoanalisi. Ci sono al riguardo anche delle sentenze di giudici che hanno interpretato questa Legge nel senso di giudicare la psicoanalisi come una forma di psicoterapia a tutti gli effetti, anzi, come nel recente caso, come la "regina" di tutte le psicoterapie. In conclusione, anche se la suddetta Legge non nomina la psicoanalisi, questa vi viene ri-compresa per interpretazione; perciò il fatto che essa non sia nominata nella Legge non è una grande garanzia, come meglio spiegheranno i colleghi riuniti a questa tavola rotonda. Giuliana Bertelloni (Laboratorio Ricerca Freudiana – Firenze ) Il mio compito oggi è quello di fare una ricostruzione storica della Legge 56/89 sulla Psicologia e sulla Psicoterapia. Molti giovani forse non la conoscono e forse anche noi tendiamo a dimenticarne alcuni passaggi, alcuni snodi che ci hanno fatto abbastanza soffrire. Voglio aprire però con Elisabeth Roudinesco, alla quale ci siamo ispirati per dare il titolo a questa giornata - Perché la Psicanalisi - con una frase che sta particolarmente bene con le questioni sul sintomo sollevate da Sebastiano Tilli. La frase è questa: ”Che si tratti di angoscia, di agitazione, di melanconia o di semplice ansia, si dovrà in un primo momento curare la traccia visibile del male, poi cancellarlo. Ed infine, evitare di ricercarne la causa, in modo da orientare il paziente verso una posizione sempre meno conflittuale, dunque sempre più depressiva. Al posto delle passioni,la calma; al posto del desiderio, l’assenza del desiderio; al posto del soggetto, il nulla; al posto della storia, la fine della storia”. (Perché la psicanalisi, p. 51) A me questo non piace. Passiamo ora ad illustrare la storia della Legge 56/89, evidenziando in che cosa essa riguardi la psicanalisi. Dopo una gestazione durata circa venti anni, frutto di compromessi e di pressioni – in particolare da parte dell’Ordine dei Medici -, nel febbraio del 1989 è entrata in vigore la Legge Ossicini (L.56/89) che riguarda l’ordinamento della professione di psicologo e l’esercizio della psicoterapia. Il nome della Legge deriva da quello del suo promotore principale, il Senatore Adriano Ossicini, Psicanalista e membro della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), associata all’IPA internazionale. Riguardo alla professione di psicologo, questa Legge prevede che può esercitare come psicologo solo chi abbia conseguito una Laurea in Psicologia, effettuato il Tirocinio pratico, ottenuto l’abilitazione mediante l’Esame di Stato e infine si sia iscritto all’Ordine Professionale e all’Albo da esso gestito. Riguardo invece all’esercizio della Psicoterapia, all’art. 3 la suddetta Legge recita: “L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato a una specifica formazione professionale, da acquisirsi dopo il conseguimento di una Laurea in Medicina o in Psicologia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedono adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati con DPR e tenuti presso Scuole di Specializzazione Universitarie o presso Istituti privati a tal fine riconosciuti”. Questa Legge non dà una definizione di cosa si intenda per Psicoterapia; si limita solo a disciplinarne l’esercizio e questo complica le cose, perché non consente di differenziare la figura dello psicologo da quella dello psicoterapeuta. E ancora, nel momento della sua entrata in vigore, questa Legge conteneva delle “Norme Transitorie”(artt. 32, 33 e 35) che prevedevano l’iscrizione all’Albo degli Psicologi e all’elenco degli psicoterapeuti, di coloro che fino a quel momento avevano esercitato un’attività psicologica o psicoterapeutica, a patto che fossero in possesso di certi requisiti specifici. Ciò serviva a sanare la situazione esistente, quella cioè che si era venuta a creare prima dell’entrata in vigore della Legge 56/89, in quanto c’erano professionisti che praticavano pur non essendo in possesso di una Laurea in Medicina o in Psicologia, bensì di altre lauree o di particolari riconoscimenti Nazionali o Internazionali. Va tenuto conto, inoltre, del fatto che in Italia il primo Corso di Laurea in Psicologia è nato a Padova nel 1971, seguito immediatamente da quello di Roma. E riguardo alle diverse Facoltà di Psicologia, esse sono nate tutte negli anni 2000. Un articolo di Repubblica del 2004 diceva che sulle sei Facoltà di Psicologia che esistevano a quel momento, solo quella di Roma aveva più di sei anni! Prima dell’approvazione della Legge Ossicini, chi dopo la Laurea (qualunque tipo di Laurea!) voleva fare lo psicoterapeuta si formava, potremmo dire essendo a Firenze, “andando a bottega ad imparare l’arte”, il che significava intraprendere un proprio percorso di analisi personale presso un analista, un “maestro dell’arte”. La legge 56/89 prevede anche di istituire, all’interno degli Albi, l’elenco degli psicoterapeuti ed anche per questi è prevista una norma transitoria con l’art. 35: “l'esercizio dell'attività psicoterapeutica è consentito a coloro i quali o iscritti all'ordine degli psicologi o medici iscritti all'ordine dei medici e degli odontoiatri, laureati da almeno 5 anni, dichiarino, sotto la propria responsabilità, di aver acquisita una specifica formazione professionale in psicoterapia, documentandone il curriculum formativo con l'indicazione delle sedi, dei tempi e della durata, nonché il curriculum scientifico e professionale, documentando la preminenza e la continuità dell'esercizio della professione psicoterapeutica”. Quindi: prima occorreva effettuare l’ iscrizione all’Albo degli psicologi, dopo era possibile fare richiesta di iscrizione nell’elenco degli psicoterapeuti fornendo gli altri requisiti previsti nella sanatoria. La prima stesura dell’art. 3 della Legge diceva: “L’esercizio delle attività psicoterapeutiche – comprese quelle analitiche – è subordinato ad una specifica formazione professionale […]”. Nella stesura finale dell’art.3 approvata, l’inciso: - comprese quelle analitiche - fu cassato. Due le possibili interpretazioni di questa decisione: Il riferimento all’analisi è stato tolto: quindi la legge non riguarda la psicanalisi; Il riferimento è stato tolto in quanto la psicanalisi fa parte della psicoterapia. Quest’ultima interpretazione è quella che oggi ritroviamo, purtroppo, nelle sentenze della Cassazione. Questa è la legge. Nel 1988 si tenne a Roma nell’auletta dei gruppi parlamentari una riunione della Consulta nazionale permanente delle scuole di psicoterapia con 120 scuole presenti. Era un insieme molto eterogeneo ma numerosissimo e fu l’unico in quel tempo che prese delle iniziative pubbliche di confronto con il legislatore. Dopo l’approvazione della Legge nel 1989 la Consulta raccolse soltanto le scuole a “orientamento analitico”. Gli psicanalisti, a parte qualche rara eccezione, non fecero sentire la loro voce, le piccole associazioni erano mescolate insieme a tutte le altre; le associazioni più grandi ritenevano forse che la legge non li riguardasse o che avrebbero trovato la via per continuare il loro lavoro. Non c’erano e non furono create le condizioni per un’opposizione alla legge. Gran parte degli psicanalisti italiani decise di fare domanda per essere iscritto all’Albo degli psicologi prima, e poi nell’Elenco degli psicoterapeuti. Questo, che per molti – in possesso dei requisiti richiesti a quel momento - ha rappresentato un atteggiamento di autotutela rispetto alla confusione e al silenzio del movimento psicanalitico (soprattutto delle associazioni più forti e consistenti), ha avuto l’effetto di rinforzare – loro malgrado - la seconda interpretazione: se gli psicanalisti si sono iscritti allora la psicoanalisi è psicoterapia. Tale scelta, rafforzando questa interpretazione, potenziava la possibilità che gli psicanalisti non iscritti nell’Albo potessero essere perseguiti per esercizio abusivo della professione terapeutica. Altro elemento che ha giocato a favore della seconda interpretazione ed è venuto a soccorrere la psicoterapia è stato il fatto che Ordine degli Psicologi ha ottenuto, e presentato come una grande vittoria, di rendere “esenti da Iva” e fiscalmente deducibili le prestazioni psicologiche e psicoterapeutiche equiparandole a quelle mediche. Così, gli psicanalisti non iscritti all’Albo hanno l’obbligo di fatturare con IVA al 20% (quindi i pazienti devono pagare sia l’onorario dell’analista che l’IVA che vi si somma), mentre i pazienti non possono detrarre la spesa sostenuta (onorario + Iva) in Dichiarazione dei Redditi (il Fisco infatti prevede che i cittadini abbiano diritto ad un rimborso del 19% sulle spese mediche sostenute). Altra questione che si è aperta in seguito all’entrata in vigore della Legge è stata quella del riconoscimento delle Scuole di Psicoterapia. Se infatti iscriversi o meno all’Albo degli Psicoterapeuti poteva restare una questione “personale” per gli analisti - ed è possibile essere psicologo, psicoterapeuta (ad esempio in istituzione) e psicanalista - ben altra cosa era invece decidere se strutturare o meno le Scuole analitiche secondo i criteri richiesti dal Ministero dell’Istruzione (oggi MIUR), rilasciando il titolo di psicoterapeuta, che avrebbe significato rovesciare completamente l’idea di psicanalisi, di inconscio, quindi di formazione psicanalitica cara a Freud, a meno di avere un forte pragmatismo (o dobbiamo chiamarlo altrimenti?) e ritenere di poter continuare praticare con rigore la psicanalisi, da un lato, e venire a patti con questa legge sulle psicoterapie, dall’altro. Così un certo numero di scuole presentò la candidatura e vennero riconosciute. All’inizio non molte, una ventina: freudiani, junghiani, comportamentisti, cognitivisti, lacaniani (scuola diretta da Miller) e qualche altro indirizzo terapeutico. Attualmente il numero delle scuole riconosciute dal MIUR ammonta a circa duecentocinquanta, da moltiplicare poi per le diverse sedi sparse nelle varie città italiane. Questo dato ci perviene dal sito del MIUR, che possiede un elenco di scuole riconosciute lungo ben trentasette pagine e che inviterei gli studenti a leggere. E secondo il sito Psychomedia, che le classifica contando di tutte le sedi, il loro numero ammonta, all’inizio del 2011, a circa trecentocinquanta! Con il tempo le Scuole si sono rivelate un vero business, sia per l’insegnamento, sia per la supervisione clinica, sia infine perché assicurano un certo numero di domande di formazione. Questi i nodi che si sono posti. Il primo: iscriversi all’Albo degli psicologi, o no? Il secondo: ristrutturare in conformità alla Legge le scuole analitiche e chiederne riconoscimento di stato, o no? Nel 1995, - dopo che alcuni effetti della Legge cominciavano a farsi sentire in modo più evidente - a seguito di una giornata di lavoro sul tema della Psicanalisi e della Legge 56/89 tenutasi a Padova il 22 aprile, nasce il “Movimento Spaziozero” - movimento per una Psicanalisi Laica, costituito da un insieme di persone appartenenti a diverse correnti psicanalitiche che si propongono di insistere sul carattere “laico” della Psicanalisi, coerentemente con le premesse stabilite da Freud nel 1926 sul carattere laico della pratica analitica. Nel primo documento di Spaziozero si specifica inoltre che gli aderenti, indipendentemente dal fatto di praticare o meno come psicanalisti, si impegnino a far pervenire alla segreteria dello stesso un documento riepilogativo del proprio percorso di formazione, consultabile poi attraverso un Archivio pubblico accessibile a chiunque vi abbia interesse. Questo, che può sembrare un dettaglio, in realtà è un aspetto importante, perché prefigura l’idea della formazione analitica come fatto di pubblico interesse nel senso che, ai fini della tutela dell’utenza che sta tanto a cuore allo Stato, chiunque voglia recarsi da un analista deve essere messo nella condizione di informarsi sul percorso formativo di quest’ultimo. Qualcosa quindi di ben diverso dalla semplice indicazione del solo numero di iscrizione all’Albo da parte di un terapeuta, che non dà alcuna garanzia all’utente interessato. Numerose riviste collaborarono alle iniziative di Spaziozero (comprese le nostre), quali ad esempio Il Laboratorio, Il ruolo terapeutico, Insight, Psicoterapia e Scienze Umane, Rappresentazioni, Sic-Simposio, Thelema, Trieb, Ipotesi e Tecniche, e così via. L’attività di Spaziozero continuò con un primo Convegno nel novembre del 1997, intitolato “Verità e Sapere. Libertà nella Psicanalisi/Libertà della Psicanalisi”. Spaziozero è stato l’unico movimento di psicanalisi che ha tenuto alto il confronto sulla psicanalisi, richiedendo anche la redazione – sostenendone il costo - di un parere proveritate sulla Legge Ossicini ad un eminente giurista, il Prof. Galgano, con lo scopo di fare chiarezza sul fatto se tale Legge riguardasse anche la psicanalisi oppure no. Il prof. Galgano si espresse a favore dell’esclusione della Psicanalisi dalla Legge 56/89 – sostenendo cioè che la Legge non riguarda la psicanalisi - e questo suo parere è stato successivamente utilizzato in molte sentenze, risultando molto utile nella sistemazione di varie controversie giudiziarie. Raggiunto questo obiettivo, Spaziozero non trovò più le condizioni per poter proseguire (come è noto gli psicanalisti sono molto litigiosi tra di loro e si lasciano facilmente prendere dal narcisismo delle piccole differenze!). Ci fu anche, da parte del Movimento, la proposta di fondare una Super Università per la formazione di Analisti, che però non è mai andata in porto. Nel 2001 alcuni psicanalisti provenienti da Spaziozero ci provarono di nuovo, dando vita alla “Comunità Italiana di Psicanalisi”, che ha resistito fino al 2004. Si sono comunque mantenuti degli stretti legami di lavoro tra gli psicanalisti, ma sempre al di fuori di associazioni o movimenti. Ad oggi abbiamo almeno quattro fondamentali problemi con i quali confrontarci, che sono: il tentativo dei medici di riaffermare la loro supremazia; è recente infatti l’accorpamento a Roma della Facoltà di Psicologia alla Facoltà di Medicina, e anche a Firenze sembra che lo stesso tipo di accorpamento sia ormai in dirittura d’arrivo; il rischio di denunce per esercizio abusivo della professione agli psicanalisti non iscritti all’Albo degli psicologi e psicoterapeuti, a seguito di due sentenze della Cassazione – una del 2008 e un’altra proprio di questi giorni -, che ribadiscono che la “psicanalisi è una psicoterapia”; la formazione degli analisti ed in particolare la questione del far sì che gli studenti conoscano qualcosa della psicanalisi. Sono rari infatti i corsi universitari nelle Facoltà di Psicologia in cui si insegna la psicanalisi. Come fare in modo dunque che gli studenti possano conoscere la psicanalisi ed incontrare gli psicanalisti, se la Clinica legale è quella psicoterapeutica, la cui formazione in Italia passa solo attraverso le Scuole di Psicoterapia? la stessa sopravvivenza della psicanalisi; sembra infatti che si stia realizzando ciò che diceva Freud nel 1926, nel suo famoso testo sulla psicanalisi laica (Die Frage der Laienanalyse, che l’editore italiano ha erroneamente tradotto con: Il problema dell’analisi condotta da non medici), dove diceva: ”Finora nessuno si è preoccupato di sapere chi esercita la Psicanalisi. Il pubblico non se n’è affatto preoccupato; si è solo trovato d’accordo, anche se in base alle più svariate argomentazioni, su un punto: nell’augurarsi cioè che nessuno dovesse esercitarla!” E sembra proprio che ci stiamo riuscendo! Il “Manifesto per la Difesa della Psicanalisi” sta raccogliendo moltissime adesioni a livello internazionale e questo è indice del fatto che la psicanalisi sta vivendo un grosso disagio. In questo Manifesto c’è un paragrafo che si intitola: “Cosa succederebbe se un giorno...?” [ossia: “cosa succederebbe se un giorno il diventare psicanalisti fosse subordinato al diventare prima psicologi o medici?”]. La situazione italiana purtroppo indica che questo giorno è già iniziato e soltanto una mobilitazione decisa può fermare l’attacco alla psicanalisi, aprendo un dibattito che è innanzitutto una battaglia per la cultura, una lotta, per dirla con Freud, contro il disagio della civiltà. Massimo Caluori (Istituto Gradiva-Firenze) Io vorrei riagganciarmi all’intervento di Giuliana Bertelloni, partendo dal presupposto dell’aspetto pratico, cioè della valutazione della Legge 56/89 sia sul piano giuridico e normativo, che su quello dell’impatto che essa ha non solo sugli addetti ai lavori, ma anche sull’utenza. Questo perché gli psicoterapeuti, per Legge, possono essere di pertinenza professionale medica e psicologica. A livello di utenza però, questo non appare così evidente, così chiaro. Per cui quando ci si rivolge ad un terapeuta è difficile sapere, al di là della formazione in una delle trecentocinquanta Scuole di psicoterapia (alcune delle quali non hanno proprio nulla a che vedere con la psicoterapia!) che questi ha scelto, quale sia il suo background culturale. Questa diatriba tra medici e psicologi risulta essere fondamentale soprattutto per un aspetto in particolare, sul quale la stessa Legge si è pronunciata anche in maniera apparentemente fin troppo eccessiva (ma evidentemente non è stato così… ). Si tratta del fatto secondo cui gli psicoterapeuti di derivazione psicologica hanno il divieto di prescrivere farmaci. Come dire che ci dev’essere una normativa che dica che l’ingegnere non può fare l’avvocato! Però a quanto pare non è così scontato, questo discorso, perché purtroppo nella professione ci si imbatte spesso in medici che sono convinti che gli psicoterapeuti laureati in Psicologia possano prescrivere farmaci. Questo dato importante testimonia l’estrema confusione che c’è non solo sull’estensione della Legge, ma anche sul suo effetto pratico sulle persone. Vi voglio parlare al riguardo di un’esperienza che ho fatto proprio qui all’Istituto Gradiva con i tirocinanti laureati in Psicologia, che vengono qui da noi a fare il semestre di tirocinio post lauream. Parlando con vari gruppi, anche negli anni precedenti, quello che emerge in maniera molto costante è che c’è una sostanziale ignoranza della materia, nel senso che questa Legge è stata fatta apposta per queste persone che dovranno poi fare delle scelte professionali, ma esse ne sanno veramente molto poco, nonostante che a livello dell’Esame di Stato si pretenda, da parte dei docenti, che il candidato conosca alla perfezione i termini della Legge, nonché le varie norme che regolano la deontologia psicologica. L’ignoranza è giustificata però dalla confusione, nel senso che effettivamente, se si dà un’occhiata alla Legge ed in particolare all’art. 1 – dove si tenta di definire la professione di psicologo -, si constata che in esso si dice in sostanza che “psicologo non è altro che chi si occupa di cose psicologiche”! Nel senso che, pur definendo quali sono le applicazioni operative dello psicologo, la definizione che lo stesso art. 1 dà degli interventi di sua competenza rasenta molto la definizione dell’attività dello psicoterapeuta. Basta che lo psicologo non metta sulla ricevuta fiscale la dicitura “prestazione di psicoterapia”, sostituendola ad es. con quella di “sostegno psicologico”. Così, insieme a tre tirocinanti dell’ultimo anno, abbiamo fatto un piccolo lavoro bibliografico per vedere come viene percepita e assorbita questa questione della Legge da parte dei non addetti ai lavori e anche per vedere come questi ultimi l’abbiano messa a torsione rispetto alla questione della psicoanalisi in relazione alla psicoterapia. Ne è uscito fuori un piccolo decalogo intitolato: Legge Ossicini. Quando una Legge non basta per definirsi. Ovvero: si può curare per Legge? Dieci domande per interrogarsi e dieci risposte per cercare di capire. Si è tentato cioè, attraverso queste dieci domande e queste dieci risposte, di definire la questione della Legge dal punto di vista di chi è laureato e sta per abilitarsi. Inviterei a questo punto la Dott.ssa Pacella a leggere qui ora le dieci domande. (Per gli interessati, il loro sviluppo è consultabile nella succitata dispensa). DOMANDE: Quali esigenze hanno portato, nel 1989, alla promulgazione della Legge Ossicini (L. 56/89)? Cosa dice la Legge Ossicini in relazione alla psicoanalisi e alla sua formazione? Quali sono le conseguenze della Legge Ossicini nei confronti della psicoterapia e della psicanalisi? Tenendo presenti i vari passaggi storici che fino ai nostri giorni si sono verificati, come si spiega la forte tendenza alla medicalizzazione della psicologia? Quali sono le differenze tra psicoterapia e psicanalisi che hanno giustificato un differente approccio all’interno della Legge 56/89? La Legge Ossicini è un provvedimento legislativo riuscito o una sanatoria mal riuscita? Quando uno psicoanalista può dirsi veramente tale? Ovvero, perché la Legge Ossicini non ha compreso anche la psicoanalisi? Ha senso parlare di laicità della psicoanalisi? La Legge Ossicini contribuisce ad una visione sana del terapeuta in quanto iscritto all’Albo degli psicoterapeuti? La psicoanalisi sottoscrive questa visione di “normalità psichica” del terapeuta? Nonostante la psicoanalisi non abbia la pretesa di far sparire il sintomo, un effetto collaterale è proprio quello. Alla luce di ciò, può essere definita una psicoterapia? Come si spiega il progressivo tramonto della psicoanalisi nel panorama italiano? E’ possibile la psicoanalisi al giorno d’oggi? (“Qual è il vero merito della Legge Ossicini?”). Simone Berti (Laboratorio di Ricerca Freudiana – Firenze) Il mio intervento si interroga prevalentemente su quella che è stata ed è tuttora la complicità da parte degli analisti e della comunità degli analisti nel determinare la situazione attuale in cui si può parlare di “pericolo di sparizione della psicanalisi”. Giuliana Bertelloni ricordava come gli psicanalisti, nel momento in cui c’è stato il passaggio alla Legge, non hanno fatto abbastanza per difendere la posizione della psicanalisi e tutti i tentativi di promuovere un’azione congiunta tra le scuole che non si riconoscevano in questa legge si sono poi perduti. Per quello che ne so dal 2004 e fino a prima della ripresa della questione nel Manifesto per la Difesa della Psicanalisi, si era fermata qualsiasi azione che andava in direzione non tanto della salvaguardia degli psicanalisti, bensì di una lotta culturale affinché la psicanalisi non venisse completamente ridotta a qualcosa che non è e spazzata via con la complicità degli analisti stessi. Di fatto dal momento in cui abbiamo cominciato ad interrogarci sulla Legge 56/89 ed in particolare sugli aspetti che questa Legge sottolineava ci siamo dimenticati dell’ “atto analitico”. Come qualcuno ha già sottolineato ci siamo preoccupati di garantire l’esistenza dello psicanalista senza preoccuparci se la psicanalisi gli sarebbe sopravvissuta. Non ci siamo dunque curati di garantire che l’atto analitico rimanesse tale; cioè di chiarire cosa determinasse se un atto fosse da considerarsi realmente “analitico” oppure no. Il nostro pensiero è stato: “abbiamo lo psicanalista; se poi avremo anche la psicanalisi è un fatto accessorio, un corollario non essenziale”. Questo ha portato inevitabilmente ad una complicità con il discorso culturale dominante, con il quale ci ritroviamo a fare costantemente i conti, sia come analisti che come esseri umani e cittadini di questo mondo; e cioè quello secondo cui l’universo attraverso il quale si interpreta la sofferenza ,il disagio mentale e il sintomo è ormai quello della “tecnica”: le tecniche psicoterapeutiche che , in quanto “tecniche”, possono garantire un potere, una trasmissione del potere e un’affidabilità in questa trasmissione. Nella famosa lettera del 25 novembre del 1928 al pastore Pfister, che molti prendono come l’atto che sancisce lo statuto laico della psicanalisi Freud afferma di aver voluto mettere (con due sue opere fondamentali come l’analisi laica e l’illusione) la psicanalisi al riparo da medici e da preti e di sognare una «genia» di pastori d’anime mondani «che non avessero bisogno d’essere medici e non potessero essere preti». Ammoniva quindi lo psicanalista di non confondersi con la figura del prete o del medico. In questo modo invitava la psicanalisi a non inseguire i miraggi del discorso salvifico che appartiene alla religione né di enfatizzare gli effetti terapeutici della psicanalisi che l’avrebbero appiattita sul discorso medico o psicoterapico. Qui ci sono i due aspetti portanti della questione: da un lato il prendere le distanze da un discorso salvifico, cioè dal concepire l’analista come qualcuno che è lì a fare il Bene del paziente, che è lì per il Bene del paziente; dall’altro non enfatizzare gli aspetti terapeutici che la psicanalisi ha – e sarebbe assurdo negarlo! -, per non appiattirla su un discorso di tipo medico o psicoterapico, quindi su un tipo di ascolto e rilancio al soggetto che non è quello che la psicanalisi intende fare. Freud dice che “la psicanalisi è semplicemente quello che accade in un’analisi”, che può sembrare una grossa banalità, ma che in realtà è una questione che riguarda proprio l’essenza della psicanalisi. Quello che accade in un’analisi è che due persone si incontrano e lo fanno con una certa regolarità; una persona parla (l’analizzante) e l’altra ascolta (l’analista) e poi, più raramente, viceversa. Richiamando Shakespeare che dice “parole, parole, parole”, sembra che l’analisi sia ben poca cosa. Solo parole, eppure in questo scambio di parole qualcosa di significativo può accadere ma senza quel “prodigioso” che ha la magia , poiché alla psicanalisi mancano quegli effetti di rapidità che per certi versi la magia porta con sé. La psicanalisi infatti è lenta, è faticosa ed è costosa, tutti aspetti questi che sembrano renderla assai poco seduttiva. La psicanalisi è un lavoro sul soggetto, è un percorso di formazione soggettiva che, da un lato, non pretende appunto di agire per il Bene della persona, e dall’altro non ne ricerca una “normalizzazione”, o meglio una “omologazione” a quelle che sono le esigenze sociali. Essa non ha una propria concezione del mondo e quindi non può essere consolatoria o rassicurante, ma interroga il soggetto a partire dal sapere delle sue determinazioni inconsce che lo attraversano a sua insaputa. Questo è un aspetto cruciale: il sapere della psicanalisi è il sapere del soggetto Il sapere con cui ha a che fare la psicanalisi e quindi con cui ha a che fare qualsiasi interrogazione riguardi la formazione dell’analista, è un sapere che è del soggetto che soffre e non un sapere dello specialista sulla sofferenza del soggetto. Tutto ciò segna una spartizione radicale tra psicanalisi e discorso medico e tra psicanalisi e psicoterapia, proprio perché qui non c’è una frattura tra il sapere sulla sofferenza ed il soggetto che soffre e che non sa niente del suo soffrire e che per tale motivo si rivolge ad un’altra persona per esserne illuminato. Il soggetto della Psicanalisi è un soggetto che “sa”, che è attraversato da questo sapere sulla propria sofferenza, ma che “non vuole saperne di sapere”, perché questo sapere non gli si concede in termini di padronanza, di potere su sé stesso e sulla propria sofferenza. Non gli si concede dunque come promessa salvifica. Freud si imbatte nel discorso medico che all’isterica diceva: “lei non ha nulla, perché io posso leggere la sua sofferenza solo se essa si iscrive in quello che è il mio sapere, il sapere medico; altrimenti non posso riconoscerla. La medicina è il sapere sulla malattia. Così lei non è nulla per me tutte le volte che mi parla di qualcosa che non corrisponde al sapere che io possiedo e rappresento”. L’analista invece dice alla stessa paziente: ”Te sai e puoi sapere; invece di raddoppiare la sofferenza cercando di non saperne di quello che è il tuo soffrire, potresti migliorare, avanzare in rapporto a ciò. Mettiamoci in ascolto”. La psicanalisi quindi ha un atteggiamento radicalmente differente da quello medico o religioso, in rapporto alla domanda che il soggetto porta all’analista. Per cui, da un lato (quello medico) c’è l’andare incontro al soggetto con una risposta. E noi viviamo in un mondo di risposte, tanto da avere “specialisti di risposte” in tutti gli ambiti fin dalla nostra nascita, anzi dal nostro concepimento. L’essere umano è sempre meno visto nella sua complessità e unicità, mentre è sempre più visto come un organo, o un dato o una categoria; dall’altro (quello della psicanalisi) si tende a mantenere in vita una domanda che si articola e che produce degli effetti in termini di “sapere”. Così il sapere dell’analisi raccoglie il sapere dell’altro e lo attraversa facendolo diventare qualcosa. Per questo motivo il percorso di formazione dell’analista, che richiede un’analisi personale, non può essere “una volta per tutte”, bensì dev’essere “continuo”,un “percorso di formazione permanente”. E ancora, il sapere dell’analista non è soltanto quello della “competenza” (quello cioè utilizzato per dare “risposte”), ma è anche e soprattutto quello dell’esperienza personale, soggettiva, della conoscenza di sé, che è allo stesso tempo conoscenza e ascolto dell’altro. Allora, dati questi presupposti, come mai è stato così difficile per gli analisti difendere la psicanalisi? Intanto perché la psicanalisi, a livello sociale, non si presenta come un discorso vincente, nel senso che il sociale impone sempre risposte rapide e percorsi di cura sempre più brevi e più controllati. E poi perché l’orizzonte tecnico è qualcosa che permette di misurare la qualità, l’efficacia, della risposta alla domanda di aiuto. Gli analisti avvertono tutto questo come una minaccia, cioè come qualcosa che potrebbe farli apparire meno rispondenti e quindi meno convincenti rispetto alle domande che vengono loro rivolte. E su questo aspetto c’è un grosso lavoro da fare. Ma c’è ancora un’altra questione: Interrogarsi sulla questione della formazione solleva inevitabilmente la questione del legame sociale tra analisti e i suoi rapporti con le forme istituzionali che si sono avvicendate nella storia del movimento psicanalitico. Che l’analista si autorizzi soltanto da sé non significa che lo faccia per conto proprio oppure che sia da solo nell’autorizzarsi. Lacan precisò questo enunciato così abusato, nei termini: l’analista si autorizza da sé e con altri. È il dilemma di cui parla Safouan nel suo testo Jacques Lacan e il problema della formazione degli analisti. Per quanto la psicanalisi sembri ribellarsi a qualsiasi forma di istituzionalizzazione, diventare analista implica il “concorso di molti” e quindi non c’è analista senza istituzione o, per dirla con Freud, senza “formazione sociale”. Freud è partito dal proprio desiderio; l’inizio della formazione psicanalitica sono stati infatti quei famosi “incontri del mercoledì” che lui teneva a casa sua. In lui c’era sì un bisogno di esporsi in quegli incontri settimanali, ma soprattutto c’era il desiderio di raccogliere quello che poteva essere “il rilancio dell’ascolto dell’altro”. Il bisogno che Freud ha inaugurato è un bisogno centrato sul desiderio dell’analista di esporsi e di farsi ascoltare in rapporto a ciò che sta facendo. E’ proprio questo il tratto fondante; così quando Groddeck scrive a Freud dicendogli :”per favore, assicurami che non sono uno psicanalista”, Freud gli risponde:”No, te sei uno psicanalista, perché chiunque riconosce nella resistenza e nel transfert i due cardini dell’analisi appartiene a quella schiera selvaggia che sono gli psicanalisti!”. Non si sceglie però di essere parte di quella schiera selvaggia; gli effetti della formazione sono infatti, per certi versi, effetti che possono giocarsi a nostra insaputa, attraverso un percorso personale estremamente complicato. Un altro psicanalista, Melman, afferma che la storia del movimento psicanalitico dimostra che per gli analisti vi sono solo due modi stare insieme: l’organizzazione burocatica o il legame aleatorio del transfert. Quando parliamo di formazione analitica va ricordato che è difficile uscire da questi due aspetti: o l’organizzazione burocratica oppure qualcosa di molto più aleatorio, il transfert, che da un certo punto di vista presenta degli inconvenienti in più (ad esempio può aprire a tutto il discorso sulle sètte), ma allo stesso tempo ha un’onestà in più rispetto alla prima modalità, quella burocratica appunto, poiché a quest’ultima si richiede solo di aderire ad un modello che viene già indicato agli aspiranti candidati. Occorre allora un deciso passaggio dalla resistenza alla psicanalisi alla resistenza della psicanalisi. Parlare di resistenza della psicanalisi allora assume un nuovo sapore, mi richiama un tratto che spesso abbiamo evocato come politica della psicanalisi: resistenza sì, ma ad una tendenza omogeneizzante e omologante, resistenza all’uniformità della domanda, a un impantanamento che riduce il tutto a qualcosa che non questioni, resistenza dicevamo qualche anno fa alle chimere del migliore dei mondi possibili. Questa è una resistenza che solo la psicanalisi può portare avanti come discorso, intendendo la psicanalisi mettere i bastoni tra le ruote a quella che è una crescente trascuratezza dell’essere umano, a questo apparato di accoglimento per cui non c’è più interesse per la domanda dell’inconscio perché appunto si vive in un mondo di risposte. E in un mondo di risposte la domanda è qualcosa che viene immediatamente o prevalentemente messa a tacere. Chiudo: cosa può significare per noi prendersi cura della domanda? perché prendersi cura della domanda è qualcosa che nella nostra società rimane un fatto inedito, di questo bisogna avere consapevolezza: sprecare questa risorsa della psicanalisi è autolesionismo. Prendersi cura della domanda significa anche non rinchiudersi nel sapere di specialista, nel sapere dell’esperto. Ci troviamo in un mondo di specialisti e iperspecialisti. Per qualunque domanda c’è qualcuno che ha la risposta in vece del soggetto, che finisce per esentarlo dal pensiero. Forse noi non abbiamo nessuna di queste risposte però abbiamo la possibilità di mantenere aperta la domanda che ci è rivolta fino a che l’altro riconosca un desiderio di aprirsi all’infinito del proprio sapere. Roberto Marchi (Istituto Gradiva – Firenze) Quello che mi premeva sottolineare è il fatto che oggi stiamo assistendo ad una deriva per ciò che riguarda il disagio mentale, che a parere mio viene accettata in molti ambienti come un qualcosa di ormai scontato, tanto che non c’è mai un atteggiamento critico verso certi messaggi che ci arrivano. Attualmente, di fronte ad un sintomo psichico che irrompe nella vita di un soggetto e che ne denuncia il disagio in una forma più o meno “intollerabile” – non adatta ad un Uomo Moderno che pretende di avere un controllo assoluto di sé e che è refrattario a qualsivoglia limitazione del suo diritto di efficienza e di piacere -, la psichiatria è vista come la via regia per la cura di quel disagio, che oggi viene definito “disturbo”. Mi interessa evidenziare questo appellativo, perché il sapere forte che è rappresentato dalla psichiatria è in grado oggi di scovare sempre nuovi disturbi, nuove “malattie mentali” - anche partendo dal modificare certe vecchie concezioni - e di dare ad esse un’oggettività scientifica. Ottenuta la diagnosi precisa del disturbo, non resta che scegliere la terapia più opportuna, veloce, efficiente e possibilmente anche più economica, per annullare quel sintomo, mettendone così a tacere tutto il suo potenziale di crescita, poiché lo scopo finale è quello di riallineare la voce discordante, riaffermando così l’assoluta padronanza del soggetto rispetto a tutto questo. All’interno di questa concezione “moderna” del disturbo e del sintomo, si è cercato di dare un posto anche a terapie psicodinamiche e alla psicoanalisi. Quest’ultima però non ha nulla a che vedere con questa concezione, perché sembra che dietro di essa vi sia un Ideale di “Normalità” e quindi di “Salute Mentale” universalmente accettato. Ma qual è questo Ideale? Lo si può ravvisare nell’ampia definizione che l’OMS ha dato del concetto di Salute Mentale, intendendo come tale quella condizione di benessere psichico in cui l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità emozionali e cognitive, di esercitare la propria funzione all’interno della società, di rispondere alle esigenze della vita di ogni giorno, di stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri e di partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente; il tutto attraverso un adattamento alle condizioni esterne e ai conflitti interni. Si sa benissimo che la maggioranza delle persone di tutto il mondo non rientrerebbe in questa idea di salute, di normalità psichica! Pensandoci bene, questa definizione potrebbe risultare un po’ strana. Che significa in fondo “sfruttare le proprie capacità emozionali e cognitive?”. Perché, un nevrotico o uno psicotico non le sfruttano forse? E ancora, chi si sente “perfettamente in grado di rispondere alle esigenze della vita quotidiana?” E in definitiva, di quali esigenze stiamo parlando? Conosco dei paranoici che rispondono benissimo alle esigenze quotidiane della loro vita! Infine, viene posto poi un Ideale “universale” di Salute, di Normalità, per cui deviare da esso è percepito come intollerabile, inaccettabile. Questo modo di considerare il soggetto in realtà lo fa solo scomparire, riassorbendolo in una definizione, in una categoria. Ed è proprio quello a cui la psicoanalisi si ribella. E riguardo al sintomo, per la psicoanalisi esso è espressione dell’Inconscio della persona, quindi un qualcosa che singolarizza il soggetto e che gli dà l’opportunità di crescere, di trasformarsi, di evolvere. Vi leggo ciò che dice una ragazza ad un certo punto della sua analisi, per cercare di farvi capire cosa possa dirsi “psicoanalitico”; dice: “Proprio la mia consapevolezza, confermata dai fatti, che non vi sarebbe stata alcuna risposta, poiché fuori dalle regole del rapporto di analisi, mi ha consentito di concentrarmi sulla domanda alla quale venivo continuamente rimandata nelle mie sedute, fino a farmi capire che non avevo tanto paura della risposta, quanto della domanda stessa, che non accettavo in nessun modo di proferire pur facendolo in continuazione... ”. Un altro fatto, di cui faccio solo un accenno, è quello di accettare ciò che viene fornito dalla moderna psichiatria come qualcosa di assolutamente scientifico. Al riguardo vi inviterei a leggere un libretto di Philippe Pignard intitolato “L’industria della Depressione”, dove troverete qualche esempio descritto per evidenziare come in realtà la diagnosi psichiatrica sia estremamente rozza, in quanto manca di testimoni affidabili, stabilizzati in laboratorio. Cioè, la psichiatria non ha studi pre-clinici, come invece hanno altre branche della medicina; nessuno è mai riuscito a riprodurre in colture cellulari o in organi o in animali, quelle stesse malattie per le quali si producono degli psicofarmaci. Un altro fatto ancora, che distingue la psichiatria dalle altre branche mediche, è che essa scopre prima il farmaco e poi il disturbo, o meglio la diagnosi. Dice ancora P. Pignard: “Nessuno desidera sottolineare l’originalità del campo psichiatrico, che lo distingue dal resto della Medicina, nel momento stesso in cui si vogliono integrare le malattie dell’Anima a quelle di altre branche mediche”. Mi permetto infine di sottolineare come sia perfettamente lecito, per chiunque voglia occuparsi di un suo disagio, di un suo sintomo, optare per un farmaco o per la psicoterapia; però sia chiaro che non sono le uniche due scelte possibili. Anche una scelta diversa, come quella analitica, ha un’eguale dignità. A tale proposito cito altre parole dette dalla paziente di prima, che termina il suo discorso dicendo: “Ho barattato la sicurezza con la felicità, o meglio, con la possibilità di averla… ”. Alessandra Guerra (Manifesto per la Difesa della Psicanalisi) L’organizzazione di questo incontro mi offre la possibilità di presentare il Manifesto per la Difesa della Psicanalisi, che è stato scritto da me, Elena Righini, una collega di Torino, Lorenzo Varaldo e Marco Vecchiato, persone che conoscono e apprezzano la psicanalisi. Si tratta di un Manifesto che è nato fuori da un ambito esclusivamente professionale, poiché è stato scritto anche da persone che non se ne occupano professionalmente. Il Manifesto non vuole essere la difesa di una categoria, bensì quella di un patrimonio della cultura del Novecento. I motivi fondamentali che hanno portato alla redazione di questo Manifesto sono quelli richiamati dai vari relatori e in primis la questione di poter riaffermare l’esistenza della psicanalisi laica, e con questa la possibilità della formazione “laica” dello psicanalista, ovvero l’autenticità di un percorso che, a prescindere dai diplomi e da ogni altra istanza istituzionale, preveda la possibilità di fare un’analisi personale, di potersi iscrivere in un’Associazione e di poter fare una formazione attraverso quest’ultima. In riferimento alla definizione che noi diamo di Psicanalisi, il Manifesto dice: “Non c’è dubbio che qualcosa accomuna tutte queste correnti della Psicanalisi e costituisce il cuore della Psicanalisi stessa, per il riconoscimento della centralità dell’Inconscio; per il riferimento ad uno specifico settino analitico; per la considerazione e la valutazione del transfert; per il fatto che l’analisi personale e quindi la conoscenza del proprio Inconscio costituisce strumento privilegiato e passaggio fondamentale per diventare a propria volta analisti. Si può dire che la Psicanalisi nasce proprio là dove al posto della Terapia, volta ad eliminare il sintomo per ristabilire un ordine più o meno precedente di benessere, si inserisce il cambiamento e specialmente la consapevolezza. Quali che siano le discussioni e le divergenze all’interno del movimento psicanalitico e del dibattito intorno alla Psicanalisi, essa si trova dunque costantemente di fronte ad un bivio: mantenere questa sua specificità e difenderla, oppure scivolare verso la negazione di essa e quindi morire dissolta in una forma di psicoterapia”. Quanto detto implica che la formazione e la pratica psicanalitica non debbano essere sottomesse ad altre discipline del mondo “psi” pena la perdita di autonomia e identità. La legge 56/89 ha istituito l’Albo e l'Ordine degli Psicologi e l’Albo degli Psicoterapeuti. Questa Legge ha avuto una lunga elaborazione e nel momento della sua approvazione certamente non riguardava la psicanalisi; in questo senso ci sono dichiarazioni di parlamentari, di psicologi e psicanalisti, che si possono ritrovare in libri e riviste. Ma questo ora non è più valido a causa di svariati avvenimenti che ne hanno sovvertito la corretta interpretazione. Per questo motivo abbiamo sentito il dovere di difendere la psicanalisi da una interpretazione sbagliata di questa Legge. In questi anni gli psicanalisti non hanno saputo mantenere il loro territorio, non hanno saputo difendere la loro teoria, la loro pratica e la loro autonomia. Quindi è proprio questo il momento di agire; agire a livello culturale – perché il giuridico segue sempre il culturale, e non viceversa! -, cercando di reinserire la psicanalisi al centro del dibattito culturale. A questo riguardo abbiamo iniziato a proporre il manifesto per una sottoscrizione, lo proponiamo non solo agli specialisti, e quindi ai colleghi psicoanalisti, ma anche a chi ama, a chi sostiene, a chi vuole che questo patrimonio culturale sia mantenuto. Non si tratta di un manifesto professionale per due motivi: è stato scritto anche da chi non fa lo psicanalista, Chiediamo a ciascuno di sottoscrivere questo manifesto per difendere un patrimonio della cultura, quale è la psicanalisi. Chiediamo quindi che questo manifesto sia firmato non solo dai colleghi ma anche da coloro che hanno fatto un’analisi, da coloro che fanno una analisi e da coloro che vorranno fare una analisi. Incontrando tanti sostenitori e parlando con loro, mi sono accorta di una cosa importante: la psicoanalisi in Italia ha una mappatura di cui non si conosce tanto, nel senso che ci sono tantissime piccole associazioni di psicoanalisi dove ci si forma, che organizzano molte conferenze, che promuovono un vero dibattito. Questa è una forza notevole perché le piccole associazioni sono tante. A mio parere la geografia della psicoanalisi in Italia oggi è questa: esistono grandi associazioni di psicanalisi, importanti associazioni di psicoterapia psicoanalitica, numerose piccole associazioni di psicoanalisi. Queste associazioni devono firmare il manifesto perché il manifesto deve essere firmato anche dalle associazioni, in quanto la psicoanalisi e gli psicoanalisti si formano all’interno delle loro associazioni, quindi il loro ruolo all’interno della cultura e della diffusione della psicoanalisi è veramente fondamentale. Inoltre questo è un manifesto internazionale, nel senso che abbiamo chiesto adesioni in tutta Europa, e non solo in Europa. Adesso ci sono circa 700 adesioni sia di persone che simpatizzano per la psicoanalisi, e che ringrazio infinitamente, sia di colleghi di nazionalità inglese, belga, olandese, austriaca, tedesca, svizzera, spagnola e francese. Questa è una esperienza unica, infatti anche i francesi hanno fatto un loro manifesto per la difesa della psicoanalisi, ma oggettivamente è rimasto chiuso all’interno del loro paese, invece nel nostro manifesto abbiamo chiesto una ampia adesione internazionale. Quello che noi affermiamo nel manifesto è condiviso da colleghi di tutta Europa, sono questioni teoriche che non hanno confini, ed in questo senso si tratta di una diffusione “europea”, ma non solo, della teoria psicoanalitica. A noi importa affermare che questa questione teorica non ha confini. Come prima dicevo, esiste anche il manifesto francese che si intitola “Manifesto per la psicoanalisi”, scritto nel 2004 in occasione di una questione legale che si è presentata in Francia, e si tratta di un manifesto importante. I colleghi francesi affermano che ogni paese dovrebbe scrivere il suo manifesto, e su questo sono d’accordo, nel senso che sarebbe un bel modo di parlare di psicoanalisi e di affermare alcuni principi di base, per delineare i confini della psicanalisi. Vorrei dire innanzitutto che il lavoro di contatto con colleghi stranieri mi ha dato modo di conoscere come è regolamentata la psicoanalisi in alcuni paesi. In Italia non sappiamo come è regolamentata la psicoanalisi all’estero, e viceversa i paesi europei non sono a conoscenza della nostra organizzazione. Tale questione secondo me andrebbe affrontata: è importante cominciare a valutare le regolamentazioni non solo in termini nazionali ma anche internazionali, per dare un respiro alla questione molto più ampio. Quando arrivano le adesioni dai colleghi europei, capita ogni tanto che qualcuno di loro mi racconti cosa sta succedendo nel proprio paese. Per esempio, in Germania la psicoanalisi ha una regolamentazione particolare e simile a quella della legge 56/89, però il presidente di una associazione lacaniana mi ha scritto dicendo che da poco alcuni colleghi hanno istituito il primo “ambulatorio di psicoanalisi laica”; questo significa che l’istanza di un discorso non medicalizzato evidentemente c’è, è forte ed è portato avanti da questo gruppo a Berlino. In Svizzera a seguito di una riunione presso un’associazione lacaniana si sono verificate 20 adesioni al manifesto, e ciò dimostra che tale istanza è per loro una questione importante. Tralasciamo l’Inghilterra dove c’è stata una questione legale fondamentale ed all’avanguardia. A mio parere il nostro manifesto deve aiutare anche a collegarci con altre situazioni nazionali, a ricordarci che la psicoanalisi è sempre stata internazionale ed a fare in modo che lo resti. Il manifesto vuole ribadire l’esistenza ed i concetti fondamentali della psicoanalisi. La base di un movimento culturale è la voce, ed adesso la voce c’è e ciò è evidente con la presenza della prima collana intitolata “Psicoanalisi laica”, con le edizioni ETS, dove saranno pubblicati libri di politica della psicanalisi laica, il primo dei quali sarà il “Manifesto per la psicanalisi” scritto dai colleghi francesi. “Il manifesto per la psicoanalisi”, un libro scritto da 6 psicoanalisti francesi che parla del loro manifesto e delle tematiche relative alla psicoanalisi laica. Oltre a questa collana abbiamo anche il sito del manifesto: www.manifestoperladifesadellapsicanalisi.it, dove sono presenti interviste sulla formazione, in quanto deve essere chiara la formazione dell’analista, ed in aggiunta metteremo anche una parte giuridica sulla regolamentazione della psicoanalisi anche negli altri paesi affinché la dimensione sia effettivamente internazionale come occorre che sia. A questo punto non mi dilungo sugli aspetti teorici perché lo hanno fatto in modo egregio coloro che mi hanno preceduto. Ringrazio i sostenitori che hanno aderito al manifesto e che sono qui presenti ed invito ciascuno di voi a farlo, grazie. LETTURA di alcuni passi dell'intervento di Franco Quesito (Associazione Psicoanalitica “Sotto la Mole” - Torino) non presente personalmente Noi caparbiamente intendiamo parlare dell’inconscio e magari lo facciamo anche in un discorrere senza parole perché così succede che il nostro analizzante, e pensare che utilizziamo questo significante per sostenere che lui, il nostro interlocutore, si sta analizzando, ci siamo presi anche la briga di teorizzarlo, riesce a chiarirsi tanti pezzi del puzzle della sua vita e riesce a farlo proprio perché riesce a parlarne e poi riesce anche a ricostruire il disegno con una nuova e diversa lettura del suo percorso. Succede così, quando ci va bene, che il nostro analizzante conquisti una diversa posizione rispetto a sé e la adopera per un percorso che spesso ha il potere di sorprenderci per quanto è straordinario nell’essere capace. Signori la psicoanalisi freudiana di cui sto parlando si occupa dell’inconscio, che è una materia effimera, impalpabile, di difficile decifrazione, e nonostante tutto ci troviamo a combattere con la curiosa accusa di praticare una professione che non ci riguarda. Una professione che proviene da un curriculum di studi universitari, in cui la psicoanalisi per altro non esiste, ove si impara quanto di meno vicino alla psicoanalisi, nella stragrande maggioranza dei casi, per poi procedere verso scuole di formazione che hanno posizioni teoriche, metodi di approfondimento diversissimi magari anche in contrapposizione l’una con l’altra. È in questo modo che avviene la trasmissione della psicoanalisi? No, la psicoanalisi non può essere insegnata all’università, in questo modo avviene solo una diffusione culturale, ma la formazione degli analisti passa decisamente ed inequivocabilmente attraverso l’esperienza dell’analisi personale. Tutti coloro che pensano che la formazione e trasmissione della psicoanalisi siano un fatto di scuola, non fanno che favorire un equivoco tragico, quello in cui la ricchezza dell’inconscio come esperienza soggettiva, scompare e resta solo l’esperienza del chierico pronta a riprodurre una sorta scolastica fine a se stessa. Noi sosteniamo che è necessario porre in evidenza tre questioni fondamentali al peso delle quali non è possibile sottrarsi pena la definitiva scomparsa della libertà di psicologia: che cosa è la psicoanalisi? che cosa succede in una analisi? come si trasmette la psicoanalisi? Quindi se tutto questo ha un senso, ha ancora più senso occuparci di difendere la psicoanalisi dal suo stravolgimento e quindi sostenere e sottoscrivere il manifesto per la difesa della psicoanalisi perché quest’ultima esista come disciplina di se stessa. DISCUSSIONE I Intervento Non so se eravate a conoscenza che a partire da Gennaio di questo anno il nostro governo sta pagando delle multe altissime alla Comunità Europea perché non siamo riusciti ad abolire gli albi professionali. Gli albi professionali, in un confronto col resto del mondo, esistono in questa forma solo in Italia, quindi questa è una cosa molto particolare. Tra le altre cose entro cinque anni dobbiamo entrare nelle piattaforme europee e quindi nella legge sulla liberalizzazione professionale, o altrimenti usciamo dalla Comunità Europea. Adesso ci stiamo limitando a pagare delle multe altissime. Un’altra cosa che ha fatto il Governo italiano per entrare nel regime della liberalizzazione professionale è stata quella di individuare una regione pilota per intraprendere questo percorso, la Regione Toscana. Il governo individua delle Regioni per fare delle ricerche sanitarie e sull’urbanistica e crea delle Regioni pilota che portano avanti delle leggi sperimentali. La Regione Toscana ha ultimato il suo percorso con la legge regionale 73 del 2008, ormai una legge e che quindi non può più essere cassata dal governo centrale; questa legge non ha abolito gli ordini professionali ma li ha svuotati di contenuto, cioè in Toscana abbiamo gli ordini professionali come delle scatole vuote che non hanno più le loro specificità. Tutta l’esclusiva l’Ordine professionale non ce l’ha più perché si sono aperti alla costruzione di un Consorzio che eroga servizi ai professionisti. Nella Regione Toscana ci sono quindi le 22 professioni ordinistiche e tutto il mondo associativo delle professioni non regolamentate che, all’interno della Regione Toscana stessa, hanno la stessa parità e dignità professionale. Questo Consorzio dà finanziamenti ai professionisti, sia iscritti all’ordine che non, per aprire l’attività professionale, quindi i vostri studenti potrebbero prendere novemila euro finita la scuola, certificandosi per entrare nelle piattaforme europee, per aprirsi uno studio professionale. La scuola potrebbe accedere a tanti fondi e finanziamenti che sono ruotanti attraverso questo Consorzio regionale che ha sede in via Masaccio. Si tratta di un altro contenzioso che prima veniva esplicato dentro gli ordini professionali e adesso è uscito fuori ed è regionalizzato. Anche il discorso della formazione e dell’educazione continua professionale è uscita dal campo esclusivamente medicale ed è entrato dentro il Consorzio per tutti i professionisti. Oltre alla Regione Toscana è partito tale progetto anche nella Regione Piemonte che ha preso tantissimi finanziamenti dal Governo Centrale per estendere questa legge sulla liberalizzazione professionale, ed altre sei regioni stanno partendo, perché? L’insieme delle professioni non ordinistiche, le professioni nuove, si associano attraverso il riconoscimento delle leggi regionali per formare una Piattaforma Professionale Nazionale. La Piattaforma Professionale Nazionale afferisce alle piattaforme europee laddove ci sono diciotto paesi membri che riconoscono lo stesso tipo di professione nel campo della psicoanalisi, a quel punto la figura professionale viene riconosciuta a livello europeo, quindi non importa più che sia il governo a dire “sì può fare” o “non si può fare”, perché dobbiamo entrare nella logica della liberalizzazione professionale. Con questo intervento spero di aver apportato delle informazioni utili. Intervento di Sebastiano A. Tilli Spero che si sia avvertito che il discorso della psicoanalisi indipendente non è per facilitare le cose, perché soprattutto i giovani nascono all’interno di un’etica che si rappresenta per quello che è, e non hanno il senso della storia precedente, non lo possono avere e non lo avevamo neanche noi. È importante recuperare il senso dello sviluppo delle cose. Quindi uno può fare questo ragionamento: mi sobbarco cinque anni di psicologia o sei-sette di medicina, dipende, oppure tre di psicologia perché faccio la laurea breve e poi mi scrivo all’Albo B, e quindi va bene, poi me ne becco altri 4 minimo di specializzazione e quant’altro, supervisioni… Vuoi vedere che con la psicoanalisi indipendente si fa prima? Forse sono io che ho fatto un pensieraccio o forse potrebbe venire a molti. O per lo meno che la libertà dà complicazioni istituzionali; in realtà non è così. Quando si parla di un percorso di psicoanalisi indipendente vuol dire proprio indipendente dalle logiche dell’istituzione. La posta in gioco di ogni analisi, al di là della felicità, dello stare bene, è la Libertà. La libertà purtroppo costa cara in tutti i sensi. Prendete il concetto di libertà per quello che può valere e per l’intenzione del discorso, però si potrebbe dire libertà dal padrone, dallo schema, dal Super-Io, quel piccolo margine di libertà che è nel modo soggettivo di poter reinterpretare la propria storia; sembra poco ma non è poco, è già un privilegio poter attraversare quel tipo di esperienza. Quel tipo di esperienza per definizione se è di libertà come fa ad essere istituzionalizzata da dei percorsi che invece partono dall’alto? Mentre parlava Alessandra Guerra mi era venuta questa metafora: dall’alto e dal basso, cioè tutti questi percorsi professionali conformano il soggetto a qualcosa che gli viene calato dall’alto o dal collettivo e dal consenso. Il percorso di analisi come uscita del soggetto è qualcosa forse dal basso, anche se non è esatto, ma prendetelo così come una buona metafora per il momento. Però questo percorso dal basso del soggetto non può essere legiferato con istanze che lo costringono in quel senso. Mi ero fotocopiato 2-3 passi, poi per il poco tempo a disposizione non li ho utilizzati, dove il finale della questione dell’analisi laica di Freud, quel libriccino a cui è stato fatto riferimento e che visto che siamo in tema di libertà vi “ordino” di leggere, termina così questa invenzione del dialogo con un interlocutore immaginario: “ma una cosa so: la decisione che verrà presa circa il problema dell’analisi condotta da non medici non ha grande importanza, essa potrà avere un effetto locale, ma le possibilità interne di sviluppo della psicoanalisi, che sono quelle che contano, non devono essere colpite né da imposizioni né da divieti.” Sigmund Freud Questa indicazione, che è presente in tutti gi approfondimenti che abbiamo sentito oggi, è tutt’altro che qualcosa che semplifica la vita; quando le cose vengono insegnate ed i percorsi vengono calati dall’alto, dal generale, ed il singolo per avere quel tipo di qualifica deve conformarsi a quel tipo di percorsi, ci sarà sì una fatica: fatica di studiare, di superare certi esami, c’è chi ce la fa e chi non ce la fa, ma in fondo è semplice perché ognuno sa quale strada deve fare, è prescritta. Ma come si fa a pre-scrivere la libertà, la posta in gioco di un’analisi? Quindi chiaramente non mi semplifica la vita, ma forse è quello che veramente molti esseri umani, spesso senza saperlo, cercano, non trovano. Questo è una scommessa, un rischio, e d’altra parte come si può concepire una psicoanalisi - se la sua scommessa è veramente la libertà - una psicoanalisi istituzionalizzata o trasformata da psicoterapia? Intervento di Silvana Caluori Volevo fare due considerazioni a seguito del tuo discorso, che se è vero che la libertà è il punto di arrivo per una buona analisi, dobbiamo anche sapere che proprio perché è la libertà non è detto che chi inizia un’analisi voglia fare lo psicoanalista. Anzi si accorge che forse è la strada peggiore per lui, o per lei, ma che avrebbe voglia di fare altro, che nel corso del tempo ha chiamato “voglia di fare lo psicoanalista”, ma che magari non è quello. L’altra considerazione -ma questa la lascio come riflessione sopratutto agli studenti: sapete che cos’è che fa più paura all’essere umano? La libertà. Pensateci. II Intervento Ho visto che la discussione di questa Tavola Rotonda si è basata sulla libertà. Ma più che libertà di fare qualcosa è libertà “da” qualcosa. Libertà da istituzioni, libertà di scegliere la propria indipendenza, di farsi una propria identità. Ma la psicoanalisi, in quanto disciplina libera, se di disciplina si può parlare, è libera di fare cosa? Che cosa è che la identifica e che le permette di essere libera da qualsiasi tipo di classificazione e di ordine? Intervento di Sebastiano Tilli Forse c’è un passaggio in più: la psicoanalisi ci fa scoprire che non siamo liberi. Quindi non è così semplice. Guardi ad esempio la cecità che c’è nell’affrontare il sintomo intendiamolo qui come manifestazione del disagio e rappresentante dell’angoscia o qualcosa del genere -da parte dei percorsi cosiddetti istituzionalizzati e terapeutici, che non si pongono quelle domande che all’inizio vi avevo lanciato: “ma perché devo curare un altro, chi me lo fa fare?” Non se lo pongono perché forniscono dall’alto un apparato teoricopratico poco critico per usare degli strumenti ed a priori curare l’altro - a priori intendo dire dove è scontato che si formi un professionista che si fa carico della salute mentale dell’altro. A parte che potremmo dire che questo è un delirio, ma lasciamo perdere - del resto, delirio potrebbe esser qualunque cosa perché noi ci muoviamo nelle idee e nei pensieri ed anche il delirio si muove nelle idee e nei pensieri, ci sono delle piccole differenze ma lasciamole stare, altrimenti il discorso si fa lungo. Io mi ricordo, e questo fa parte della storia e delle cose che i giovani non possono avere incontrato, molti anni fa quando avevamo la passione e il desiderio dell’analisi, c’era molta passione e spesso c’era anche un riconoscimento del bisogno, nel senso che molti si rivolgevano a questa disciplina, a questo cammino, a questo percorso, spinti dalla sensazione di un disagio personale, più o meno sintomatico. E questo capitava in un periodo in cui la situazione era rovesciata, socialmente e culturalmente, rispetto ad oggi: non c’era una psichiatria “forte” che cercava di riaccorpare tutto alla medicina, c’era piuttosto una psicoanalisi forte con proposte interessanti, seducenti, che spesso la medicina e la psichiatria si trovavano a dover rincorrere. Poi pian piano, avendo la medicina, come la Chiesa, un’esperienza secolare di arti, furbizie e strumenti di potere che neanche ne abbiamo l’idea, con il mutare delle condizioni storiche ha recuperato terreno e al momento è dalla parte vincente. Però mi ricordo questo, che anche io da giovane ero fra quelli che dicevano “Io voglio fare l’analista, mi piace”, perché avevo incontrato, in quel luogo ricco di stimoli e di saperi, anche un po’ sconcertante, che era allora l’università, un messaggio che mi appariva finalmente decisivo: la psicoanalisi. Però, quando si passava al vaglio della domanda analitica, spinti dal desiderio di diventare, anche noi con le idee confuse, analisti, terapeuti, ecc.. , la prima domanda che ci sentivamo rimandare – e non perché necessariamente la persona con cui svolgevamo i colloqui o l’analisi ponesse la domanda in questi termini espliciti – era: “ma perché vuoi fare l’analista?” E su questa domanda si lavorava questo sintomo, perché chi lavora su queste cose sa bene che questo desiderio è il più grosso e complesso sintomo che un essere umano può incontrare. Ovviamente lo incontri in tante forme, può operare attraverso la cura dell’anima, diventando il mediatore di un terzo trascendente, come nell’esercizio di una pratica religiosa, può diventare un orientamento (o dis-orientamento?) della propria vita attraverso la medicina, attraverso il servizio, attraverso il diventare crocerossina… Tutto questo è socialmente valido, perché è una di quelle condizioni che rientrano sotto la rubrica “sublimazione”, e che appunto fanno anche funzionare la società. Ma per questo diciamo che l’analisi è diversa, l’analisi è quel percorso che si spera permetta di incontrare per lo meno le implicazioni di questo desiderio. Il desiderio di curare un altro essere umano, da questo punto di vista, contiene la più grossa resistenza che io possa avere rispetto all’occuparmi davvero di me stesso. Perché occuparmi di me stesso mi espone a qualcosa che mi apre, che mi apre ferite, mi apre inconsistenze, mi apre visioni, di verità che è molto più facile esportare, immaginare nell’altro e andare a curare nell’altro. È un potente meccanismo di difesa che nel corso dell’analisi può essere messo a torsione, non è detto che funzioni. Del resto le forme e i sotterfugi con cui si “seduce” il proprio analista sono infinite e comunque ci sono dei punti di resistenza tali, al cuore di questo problema, che probabilmente restano impossibili da analizzare, però almeno che questo tipo di domanda venga tematizzata, nel corso di un’analisi, venga lavorata. Viceversa, trovandosi a dover fare un percorso in scuole di formazione dove te lo danno a priori questo tipo di percorso e di risultato – e tu sai già che arriverai prima o poi, se paghi tot e superi gli esami e allora avrai quel foglio che ti permetterà di “legalizzare” quel che era all’inizio nel tuo desiderio –, come si fa a mettere a torsione questo tipo di domanda? Come si fa a trattare da sintomo quello che invece la scuola, in quanto Istituzione, ha bisogno di spacciare come punto di arrivo, d’onore, e come qualifica professionale? È qui che si è generato questo sottosopra fondamentale, per cui oggi è difficile incontrare l’analisi. Le colleghe prima hanno chiesto in quali luoghi si può incontrare davvero l’analisi. Intervento di Simone Berti La domanda che faceva il ragazzo mi riportava ad una domanda che in altri tempi spesso veniva posta riguardo l’utilità della psicanalisi: a cosa serve la psicanalisi? Domanda rimasta aperta per molto tempo, a cui si è provato a dare diverse risposte. Molto spesso finivamo per sottolineare che forse non è un buon modo di porre la questione chiedere “a cosa serve”, cioè qual è l’utilità. Non sempre è possibile rispondere in termini di utilità. Serve a qualcosa la psicoanalisi? Prima Sebastiano parlava di desiderio, ed io penso che per un soggetto non solo imbattersi in ciò che desidera, ma nel modo con cui desidera, sia un’esperienza fondamentale per la sua esistenza. Non solo “cosa desideri?”, domanda già posta nel sociale in tanti modi, ma “come desideri?”, qual è il tuo modo di desiderare, qual è il tuo modo di prenderti cura del tuo desiderio e di portarlo avanti? Questa è una domanda più difficile da incontrare non perché il soggetto non se la ponga, ma perché nel momento in cui prova a porsela già è messa a tacere da delle risposte che la deviano su altro. Per questo, che la domanda venga tenuta aperta e sostenuta e non chiusa da una risposta è tutt’altro che un elemento di indebolimento della psicanalisi. Inoltre non sono del tutto convinto che la psicanalisi non abbia risposte da dare. Il rapporto su essere uomo o donna è una questione fondamentale, ma che non risponde a cosa serve perché rispetto a tale domanda altre discipline, come la psicoterapia forse hanno risposte più convincenti, più efficaci e più seduttive; però è una seduzione nei confronti della quale siamo talmente già portati ad andare che non ci rendiamo conto che lì abbiamo già una risposta predeterminata, sulla quale la libertà di cui prima parlava Sebastiano non può essere esercitata. In questo senso è rassicurante: abbiamo delle risposte, queste risposte ci vengono preordinate. Questo è molto rassicurante per l’essere umano, però il problema è che spesso l’essere umano fa dei cattivi affari con ciò che lo riguarda. Ci si può rendere conto di aver svenduto qualcosa di fondamentale della propria esistenza per qualcosa a buon mercato. È una esperienza che tanti esseri umani possono fare, ma ad un certo punto possono anche aprirsi ad una interrogazione di fronte a questo ed è un passo prezioso. Io penso che serva. III Intervento Volevo chiedervi una cosa, dal momento che siamo in una società che tutt’altro ha a che fare con la “civiltà”, dove la psicoanalisi a mio avviso ha a che fare con la civiltà perché il soggetto trovando se stesso trova anche la civiltà, in una società dove c’è una grande inciviltà, dove il desiderio non si sa neanche che cosa è perché confuso con il bisogno. Io sto venendo da una scuola di counseling, che e sto finendo, e dove non ci è stata fatta una lezione, nonostante l’avessimo chiesta, sulla differenza tra il desiderio e il bisogno, ci hanno detto che sono cose che per adesso non ci riguardano. Ci viene detto che l’analisi va bene, ma va bene a chi ha intenzione di fare un percorso come terapeuta, per fare questo mestiere; siamo in una società che usa la pubblicità per spostare il desiderio attraverso gli oggetti, desiderando gli oggetti, dove la classe politica usa i sindacati per sistemare la sua … [non udibile] – a Massa la CGIL organizza già la caduta dell’attuale sindaco sfruttando la massa; perché uno se ne renda conto […] è già difficile capire il suo desiderio. Si deve capire come dare credito al tuo desiderio se sono tante le domande, ma mi rendo conto che quello che è difficile è far fermare il soggetto, nella società di oggi. Ho iniziato a fare il consulente editoriale ed ho visto che c’è tanta gente che ha Skype e non ha un libro, solo attraverso la cultura nella società di oggi si può cambiare qualcosa, non attraverso gli oggetti. Vi sto facendo una domanda: vi serve tanta voce perché c’è tanta confusione, non si sa cosa è la psicoanalisi. La gente ha bisogno di cose veloci, la psicoanalisi è una cosa lunga, ma cosa puoi dare ad una persona in un percorso veloce, lasciate la depressione e cambiate la casa, ma se quello non riesce a cambiare casa è colpa della depressione. Prima curiamogli la depressione e poi è libero di fare qualsiasi cosa. Quindi si vedono delle piccole bugie. Io ho iniziato un percorso di psicoanalisi per la scuola di counseling. Tutte e due. Ad un certo punto il soggetto può sentirsi smarrito, poi mano a mano lungo il suo cammino pensa che il suo smarrimento si chiarisce, però nello stesso modo si sente smarrito per la società nella quale vive. Io sono romena, sono arrivata in Italia diciannove anni fa, ed arrivando in Italia vidi tutto questo benessere, arrivai in Friuli, cinque persone in una famiglia e cinque macchine, allora mi venne spontanea una domanda: ma qui hanno tutto e sono così infelici? La risposta non me la sono ancora data. Intervento di Giuliana Bertelloni (Laboratorio Ricerca Freudiana – Firenze) Forse c’è più di un motivo di smarrimento. Smarrimento di chi sa e di chi non sa. Ho preso la parola perché volevo aggiungere una cosa riguardo all’intervento precedente, salvo una precisazione su quello che diceva adesso la signora, a proposito della distinzione tra bisogno e desiderio rispetto alla quale le hanno detto che deve aspettare perché ancora non è il momento. La questione del bisogno e del desiderio fa pensare, soprattutto a chi ha una certa dimestichezza con Lacan, alla differenza e all’articolazione tra bisogno, domanda e desiderio. E’ quindi probabile – trattandosi di una teorizzazione complessa – che sia previsto nel programma dell’anno successivo della scuola cui si riferiva la signora. Oppure che non sia previsto per quel tipo di indirizzo perché - secondo recenti prese di posizione di alcuni Ordini - alcuni allievi devono conoscere le armi del mestiere ed altri no perché non possono essere distribuiti – ai non addetti ai lavori - strumenti che, secondo alcune definizioni, risulterebbero “ armi improprie”. Mi riferisco al fatto che in alcune regioni, l’Ordine degli psicologi ha posto il divieto di insegnare materie psicologiche a non psicologi, ad esempio nelle scuole di counseling. Siccome ha fatto più volte riferimento al sociale, al come stiamo “campando”, al come stiamo nel mondo attuale che i colleghi di Padova hanno chiamato dell’ inciviltà (giornata di studio dal titolo: Il disagio dell’inciviltà), secondo me con un titolo azzeccatissimo, io credo che una delle questioni più attuali sia riflettere sulla differenza tra il “desiderio” e la “voglia”. Noi viviamo in una società in cui si soddisfano tutte le voglie possibili e immaginabili, ma del desiderio, così come della libertà, si ha un enorme orrore. Allora anche perché parlavamo di libri, di teoria, forse dobbiamo “spararle grosse”, come diceva la Dott.ssa Guerra. C’è un lavoro di riflessione che va avanti da anni e da decenni, e non ci fermiamo solo su alcuni aspetti ma ci interroghiamo, scomodando anche la filosofia e le sue domande. A che serve l’analisi? - ci si chiedeva Vi dice qualcosa Sartre che afferma: “l’uomo è una passione inutile”? Allora, utilità/inutilità: la vita si misura in base alle categorie dell’utile? “Che cosa posso sperare, che cosa posso desiderare”? Mi sembra che sia un certo Kant… E’ così lontano dalla nostra vita quotidiana, dalle nostre disperazioni di ogni giorno, riflettere su questo e cercare di immaginarci un futuro meno incivile dove possiamo trovare un piccolo spazio di vita? Prima Sebastiano Tilli diceva, riguardo al tema della libertà, che è complicatissimo, che, forse, possiamo accorgerci che non siamo poi tanto liberi. Effettivamente noi veniamo al mondo, in un mondo che c’è già, ha le sue regole, noi ci inseriamo, e se non facciamo alcune cose, se non ci adeguiamo, rischiamo di non essere neanche riconosciuti come esseri umani, come soggetti. Abbiamo un peso da portare che ci conduce spesso in direzioni non scelte da noi ma che diventano noi, diventano la nostra vita. Allora il semplice accorgersene, che sembra un passaggio da niente, può essere l’inizio di una rivoluzione, per – facendo di nuovo riferimento a Sartre -, “cercare di fare qualcosa di ciò che è stato fatto di noi”. Noi possiamo metterci qualcosa di nostro, anche se piccolo, in questo. Con Freud diciamo che: “ci è consentito tentare”. E’ vicino al passaggio di Quesito, quando scrive che il soggetto “può ricostruire il suo disegno con una nuova e diversa lettura del suo percorso”, e lo fa proprio ascoltandosi parlare a qualcuno che ascolta: non a qualcuno che sa già. IV Intervento Una domanda riguardo a quello che è stato detto prima, che il desiderio di curare l’altro è un sintomo, quindi su questo desideriobisogno qualcosa si riesce a capire oppure è un mistero? Da cosa deriva, una causa esiste? Intervento di Sebastiano Tilli (Presid. Istituto di Psicoanalisi Gradiva – Firenze) Ha detto: è un virus. Probabilmente qualcuno tenterebbe di scoprire la genetica di questo aspetto. Forse c’è un gene. Da cosa deriva? Indubbiamente la questione si può allargare al di là del sintomo nel desiderio di curare il sintomo dell’altro. Siamo fatti così, l’essere umano è così dipendente in tutto dall’Altro, come ricordava ora Giuliana, che quando veniamo al mondo noi ci troviamo in un contesto, in un qualcosa in cui siamo letteralmente immersi, un mondo di segni, voci, rumori e strutture, e non si può sfuggire. Cioè se io parlo italiano è perché io sono nato in un certo contesto, se una persona parla arabo è perché è nata in un altro contesto, non è una questione di fonazione ma un fatto di essere entrati in certe strutture del vivere. In questo senso, ciò che poi chiamiamo Altro, che può avere anche questo riferimento, la cultura in cui nasciamo, la famiglia in cui nasciamo, le credenze, le fantasie dei genitori quando ci aspettavano, quando ci hanno concepiti, ecc. , i desideri, le aspettative, tutto questo ha un tale peso sul soggetto per cui, preso da questo punto di vista, tutto è riferito all’Altro. In questo senso è riferita all’altro anche la nostra fuga da noi stessi, e non vale solo per il desiderio di curare l’altro. Nessuno è trasparente a se stesso, l’Io non è trasparente a se stesso, per raccogliere qualcosa di sé ha sempre bisogno di passare attraverso uno specchio, attraverso l’altro. Questo movimento vale per tutto, ma vale anche per le nostre difese più potenti e radicali. Al tempo stesso, è anche una questione esistenziale da cui non si può prendere le distanze. La società stessa si basa su questo. Faccio un esempio: se ammettiamo che l’ossessività è un tipo di sintomo, però dobbiamo anche ammettere che l’ossessività è la struttura stessa che permette alla società di reggersi. Quindi anche qui fuori e dentro sono metafore per indicare qualcosa che non è così facilmente distinguibile.