Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma
R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A
Editoriale: Il dialogo ebraico-cristiano
I libri della tradizione ebraica
L’Ebraismo in Italia:
profilo plurale, identità comune
Educazione e identità:
l’incontro con l’ebraismo
nella scuola
Ebrei e cristiani in dialogo: per
l’edificazione di una società pacificata
La convivenza alla prova:
il contributo dell’ebraismo
Ebrei e cattolici dal Vaticano II
ad oggi
Educazione e identità:
l’incontro con l’ebraismo
nella catechesi
Educazione e identità:
la conoscenza dell’ebraismo
dal punto di vista ebraico
1/2008
Religione
Scuola
Città
Religione Scuola Città
RIVISTA PER LA SCUOLA
DELLA DIOCESI DI ROMA
Anno XIII (2008) n. 1
Sommario
EDITORIALE
Manlio Asta Il dialogo ebraico-cristiano
3
Direttore responsabile
Angelo Zema
Direttore
Manlio Asta
Consiglio di redazione
Carmine Brienza - Giuseppe Iovino
Filippo Morlacchi - Alessandro
Tarzia - Grazia Palma Testa
Pasquale Troìa
Immagini e didascalie
Pasquale Troìa
Riccardo Di Segni L’Ebraismo in Italia:
7
prifilo plurale, identità comune
Andrea Riccardi Ebrei e cristiani in dialogo:
14
per l’edificazione di una società pacificata
Giorgio Israel La convivenza alla prova:
23
il contributo dell’ebraismo
Registrazione
Tribunale di Roma
Autorizzazione n. 137
del 11.04.1994
Progetto grafico e
impaginazione
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febbraio 2008
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Ambrogio Spreafico Ebrei e cattolici dal Vaticano II ad oggi
30
Benedetto I libri della tradizione ebraica
Carucci Viterbi
43
Orioldo Marson Educazione e identità
52
l’incontro con l’ebraismo nella scuola
Walther Ruspi Educazione e identità:
61
l’incontro con l’ebraismo nella catechesi
Benedetto Educazione e identità:
Carucci Viterbi la conoscenza dell’ebraismo
dal punto di vista ebraico
67
Editoriale
A
Abbiamo voluto fare un numero monografico di RSC dedicato al
dialogo ebraico-cristiano per la rilevanza crescente dell’educazione interreligiosa nelle nostre scuole, ma anche per il significato teologico
del confronto tra ebraismo e cristianesimo. «Sappi che non sei tu che
porti la radice, ma è la radice che porta te» afferma San Paolo (Rm
11,18), in ordine al rapporto tra la ecclesia ex circumcisione e la ecclesia
ex gentibus. La “radice santa” di Israele non è mai stata estirpata, la
prima alleanza «non è stata mai revocata» come ha detto Giovanni
Paolo II in un memorabile incontro con la comunità ebraica di Magonza (17 novembre 1980). A partire da questa consapevolezza si sviluppano il dialogo e l’incontro, che – contrariamente a ciò che alcuni
pensano – non depotenziano, ma approfondiscono e
arricchiscono le rispettive
identità.
Su questa triade di concetti – identità, incontro, dialogo – si è svolto il Convegno promosso dalla Commissione “ecumenismo e
dialogo” della Conferenza
Episcopale del Lazio e svoltosi a Fiuggi il 15 marzo 2007, i cui atti sono raccolti nel presente fascicolo. La concretizzazione geografica del titolo (Ebraismo in Italia) suggeriva poi la finalità operativa del convegno: occasione per la conoscenza non tanto “dell’ebraismo e del cristianesimo”, ma “di ebrei e cristiani”, cioè di persone concrete, che vivono nello stesso territorio, invitate ad un
fraterno scambio di vedute. Per questi motivi il nostro l’Ufficio ha
partecipato attivamente all’organizzazione dell’evento: il mondo
della scuola e l’educazione delle nuove generazioni sono infatti il
primo banco di prova di ogni dialogo che non voglia limitarsi a
conversazioni salottiere o accademiche, ma intenda progettare e
orientare concretamente il futuro.
Il dialogo
ebraico-cristiano
3
E così per una giornata intera esponenti qualificati della comunità
ebraica e della comunità cristiana di Roma si sono confrontati fraternamente, in un dialogo franco, diretto, sincero, secondo lo spirito
suggerito dalla Dichiarazione conciliare Nostra aetate. Volutamente è
stato conservato ai testi lo stile parlato, per consentire a chi non ha
avuto la fortuna di essere presente al Convegno di gustare, almeno attraverso la pubblicazione di questi atti, il sapore della confidenza e
della lealtà che ha caratterizzato l’incontro.
L’intervento di Riccardo Di Segni, che ha inaugurato il dibattito,
ha descritto la vita e la situazione attuale delle diverse comunità
ebraiche italiane, con particolare riferimento a quella romana. Ne
è uscito un profilo vivace e completo dell’ebraismo di oggi: un ritratto brillante, scorrevole nello stile, ironico e garbato, ma anche
affidabile e autorevole per la competenza dell’autore, rabbino capo della comunità romana. Poche pagine che – ne siamo convinti
– costituiscono un autentico punto di riferimento per chi voglia
capire qualcosa dell’ebraismo di oggi, sia dal punto di vista religioso che culturale.
Il legame intrinseco e irrinunciabile del cristianesimo con la sua radice ebraica è stato svelato nelle sue implicazioni più profonde dall’affascinante relazione del prof. Andrea Riccardi: ogni riflessione sull’umanesimo contemporaneo non può prescindere da Israele e dalla sua
storia. Nel corso del Novecento, i tentativi drammatici operati in vista di un “congedo dall’ebraismo” hanno immancabilmente prodotto
conseguenze tragiche e laceranti per l’Europa e il mondo intero. Insieme alla shoah, culmine efferato della violenza antisemita, il relatore
ha rintracciato con scrupolosa finezza tutti i tentativi di emancipare il
cristianesimo dalle sue radici orientali e semite: da Marcione a Von
Harnack, dalla cultura positivista europea all’Action Française, nella
convinta persuasione che «senza ebraismo, il cattolicesimo non sarebbe universalista».
Il prof. Giorgio Israel, sul crinale delle tensioni che percorrono il nostro mondo contemporaneo, ha tracciato i percorsi dell’identità
ebraica tripolare (religiosa, sionista, della diaspora), lasciandola emergere con delicatezza dalla sua stessa storia familiare di ebrei di Salonicco, tristemente costretti a emigrare da una terra dove l’ebraismo,
stabilmente impiantato, conosceva una plurisecolare tradizione di feconda convivenza. La coabitazione nell’oggi richiederebbe un quadro
di riferimento culturale e statuale di maggior coesione. Nella sua analisi sono presenti nel contempo il ricordo di vicende dolorose personali e collettive, il richiamo alla saldezza del profilo identitario europeo e la menzione del rapporto privilegiato tra ebraismo e cristianesi-
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mo: entrambi si presentano come depositari di valori fondanti, quali
il rapporto con la ragione o la centralità della famiglia.
Il rabbino Benedetto Carucci Viterbi, con toni fortemente suggestivi, ha introdotto i partecipanti al convegno nel mistero e nella bellezza dei libri della tradizione ebraica, sviscerando il rapporto dinamico e indissolubile fra tradizione scritta (Tanak) e tradizione orale
(Talmud). La Torah, nella sua duplice forma – Torah shebichtàv,
“Torah che è sulla Scrittura”, e Torah shebealpeh, “Torah che è sulla
bocca” – è stata al centro di una esposizione viva e suggestiva, nella
quale lo stile e la passione dell’interpretazione rabbinica delle Scritture non è stata solo “raccontata”, ma partecipata dalle parole stesse
di Carucci Viterbi.
I temi dell’insegnamento dell’IRC e della corretta presentazione dell’ebraismo nella prassi catechetica della Chiesa cattolica sono stati affrontati dagli interventi di mons. Walther Ruspi e di mons. Orioldo
Marson, intervenuti nella tavola rotonda pomeridiana insieme a rav
Carucci Viterbi, presente stavolta in qualità di dirigente scolastico
della scuole secondarie di primo e secondo grado della comunità
ebraica di Roma. I due relatori cattolici hanno ben messo in luce l’attenzione e l’impegno della Conferenza Episcopale Italiana affinché
l’ebraismo venga presentato nelle aule scolastiche e negli ambienti
parrocchiali in maniera rispettosa e onesta. Del canto suo, Carucci
Viterbi ha sottolineato che «la condizione nella quale si trova l’ebreo
italiano è quello di essere necessariamente etero-presentato» (in particolare, ovviamente, dagli IdR), e dunque ha messo in luce la grande
responsabilità da parte cristiana affinché l’ebraismo sia conosciuto
nella scuola italiana secondo verità, senza pregiudizi o stereotipi.
Il lungo e documentato intervento di mons. Ambrogio Spreafico ha
ricostruito il cammino che ha gradualmente condotto la Chiesa al
superamento dell’“insegnamento del disprezzo” e alla crescente consapevolezza che la Prima Alleanza non è stata mai revocata, secondo
le indicazioni della Nostra aetate e degli strumenti che ne hanno accompagnato la ricezione, quali i Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della
Chiesa Cattolica, come pure Noi ricordiamo: una riflessione sulla
Shoah, o il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana. Ebraicità
di Gesù, rapporto con i testi sacri nella preghiera e nella liturgia – a
partire dalle irrinunciabili diversità – rappresentano il terreno di
una prossimità non disincarnata, ma radicata nella storia: una prossimità alla quale tutti, cristiani ed ebrei insieme, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo.
5
Insieme alle parole pronunciate – pur importantissime, e per questo
qui raccolte –, ciò che ha reso davvero prezioso il Convegno è stato lo
spirito fraterno che ha caratterizzato tutti i partecipanti. Nessun cedimento a irenismi facili e ingenui (la parola “identità” non solo non
era bandita, come talvolta accade in queste occasioni, ma anzi era
specificamente messa a tema!); e tuttavia una sincera disponibilità all’ascolto reciproco e la gioia della conoscenza reciproca hanno animato profondamente le intenzioni dei presenti. La fiducia vicendevole,
motivata dalla consapevolezza di cercare la stessa Verità, può guarire
anche una memoria ferita e aprire nuovi, insperati orizzonti di comunione. Con questi sentimenti invitiamo in nostri lettori a trarre da
queste pagine spunti preziosi per la loro attività didattica. Nel prossimo numero RSC tornerà ad assumere la sua forma consueta, con le
diverse rubriche, alle quali speriamo i nostri lettori siano ormai piacevolmente abituati.
Manlio Asta – Filippo Morlacchi
✃
È uscito il volume n. 4 della collana «Scuola e Sapienza Cristiana»:
F. MORLACCHI (ed.), Fede e storia. IRC e coscienza storica, Lateran University Press, Roma 2008, pp. 160, € 10.00. Per motivi logistici, non è
stato possibile allegare il testo alla rivista, come è stato fatto in passato.
Gli IdR di Roma possono ritirarne gratuitamente una copia presso l’Ufficio per la Pastorale Scolastica e l’IRC presentando il tagliando qui a fianco.
Gli abbonati residenti fuori Roma possono farne richiesta scritta alla Redazione (Ufficio Pastorale Scolastica – Vicariato di Roma – Piazza S.
Giovanni in Lat. 6/a – 00184 ROMA), allegando il tagliando e indicando l’indirizzo completo e chiaramente leggibile a cui inviare il volume.
La Redazione provvederà gratuitamente alla spedizione.
6
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PER
L’Ebraismo in Italia:
profilo plurale, identità comune
di Riccardo Di Segni*
indicato. Queste associazioni, queste comuBuon giorno a tutti e grazie agli organizzatori
nità sono strutture che raccolgono tutti gli
per aver pensato a me in questo convegno coebrei di una determinata zona, per cui la così importante. È per me un onore e un piacemunità ebraica di Roma raccoglie tutti gli
re, tra l’altro incontrando molti volti di amiebrei di Roma, così quella di Milano, quella
ci. Spero di dare delle informazioni utili, afdi Torino, ecc. Ed è
frontando vari argouna forma di aggregamenti collegati al te«Non so se sapete che nel pluralismo ebraizione che deriva da
ma generale che mi è
co, ogni ebreo ha bisogno di due sinagoghe:
un modello molto anstato assegnato e nel
una
nella
quale
va
qualche
volta
a
pregare
tico degli ebrei italiadibattito li potremo
e l’altra dove non metterà mai piede…». «
ni, ma che poi è stata
approfondire a seconPerché
gli
ebrei
italiani
sono
stati
così
recodificata in Europa
da degli interessi.
frattari alla riforma? Perché gli ebrei itada Napoleone. NorDovrei fare una sorta
liani sono… “profondamente cattolici”, nel
malmente gli ebrei, in
di “descrizione anatosenso
che
la
riforma
se
la
fanno
a
casa
promolte altre parti del
mica” sulla composipria».
mondo, sono registrazione e sulle probleti, ovvero iscritti ad
matiche dell’Ebraiuna sinagoga; quindi è una forma di affiliasmo italiano oggi. Questa descrizione probazione religiosa: ciascuno si affilia alla sinagoga
bilmente contribuirà a sfatare molti miti e
che più è rispondente ai suoi desideri.
molte idee che non si riescono a controllare
Non so se sapete che nel pluralismo ebraico,
nel tumultuoso modo di affrontare le realtà
ogni ebreo ha bisogno di due sinagoghe: una
differenti presenti in Italia oggi.
nella quale va qualche volta a pregare e l’alAl momento attuale gli ebrei italiani sono cirtra dove non metterà mai piede… in qualca 25.000, o almeno: questa è la cifra degli
siasi posto del mondo, anche se ci fosse un
ebrei italiani iscritti alle comunità ebraiche in
unico ebreo, ci sono sempre due edifici! L’afItalia. Le comunità ebraiche in Italia sono
filiazione degli ebrei italiani non è secondo
delle associazioni oggi volontarie (non era cola sinagoga, che presuppone già una identità
sì sotto il fascismo!) nelle quali si iscrivono e
religiosa, ma è secondo l’appartenenza ebraialle quali appartengono tutti coloro che sono
ca che non necessariamente è religiosa, anebrei. Verosimilmente esiste anche una fascia
che se poi l’organizzazione della comunità
di ebrei che non sono iscritti alle comunità,
serve a tutelare, garantire e trasmettere alcuma noi li valutiamo come una minoranza
ni punti essenziali dell’aspetto religioso delmolto piccola rispetto al numero che vi ho
* Testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore.
7
l’ebraismo. Quindi abbiamo queste comunità locali, che sono poi unite sotto un “ombrello” che è l’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane, vale a dire l’organismo ufficiale che stabilisce i rapporti con lo Stato e
tutte le altre realtà con cui ci si misura nella
quotidianità.
La metà di questi 25.000 ebrei italiani vive a
Roma, gli altri sono sparsi in una serie di comunità che – a parte un piccolo nucleo a
Napoli – sono tutte al nord. Perché? Perché
ancora noi risentiamo degli effetti della cacciata degli ebrei dalla Spagna (1492). L’Italia
meridionale era dominio spagnolo, perciò
gli effetti della cacciata degli ebrei dalla Spagna si estesero anche all’Italia meridionale:
gli ebrei italiani che vivevano in tutta l’Italia
meridionale vennero cacciati via, e da quel
momento una presenza significativa di ebrei
non c’è stata più. Quindi le comunità italiane rilevanti sono al nord: Torino, Milano,
Genova, Firenze, Bologna, Venezia, Trieste.
Milano è una comunità rilevante dal punto
di vista numerico e anche per la sua vitalità
culturale e religiosa, di circa 8.000 membri.
Le altre comunità non superano ciascuna le
1.000 unità. Purtroppo dobbiamo registrare
problemi demografici estremamente rilevanti: soprattutto nelle piccole e medie comunità la popolazione ebraica sperimenta un
vero tracollo demografico, per cui se quindici o venti anni fa forse gli ebrei italiani erano
35.000, oggi i numeri sono questi. A cosa è
dovuto questo fenomeno? Ci si sposa di meno, i matrimoni durano di meno, si fanno
meno figli e ci sono anche problemi di “fuga
dall’ebraismo”. Sono problemi seri di sopravvivenza, che sono tanto più sentiti in
posti piccoli. Questi problemi di sopravvivenza li abbiamo anche a Roma, anche se a
Roma le dimensioni della comunità attenuano in qualche modo il fenomeno.
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La composizione sociale delle nostre comunità è molto differente a seconda dei luoghi.
Per esempio, Milano è un luogo nel quale la
maggioranza dei residenti non è nata a Milano e proviene dalle parti più disparate del
mondo: dall’Europa orientale, tutti gli ebrei
arrivati a seguito delle persecuzioni naziste
che hanno polverizzato quelle realtà, fino a
una serie di popolazioni ebraiche che vengono dalle comunità che sono state a loro volta
disperse dai paesi islamici. Esistevano infatti
fiorenti comunità ebraiche nei paesi islamici,
e la nascita dello Stato di Israele ha creato
enormi movimenti di migrazione e eliminazione delle comunità: posti in cui c’erano
presenze millenarie sono stati cancellati e
quindi questi ebrei – dalla Siria, dal Libano,
dall’Egitto, dal Nord Africa e da altre parti –
si sono mossi per il mondo, e molti di loro
adesso vivono a Milano. Ciascuno di questi è
organizzato con sinagoghe proprie nelle quali
si mantiene la propria tradizione religiosa. Il
modo in cui prega un ebreo siriano è estremamente differente da come prega un ebreo
di origine polacca, così come lo è rispetto a
quello degli ebrei italiani e romani in particolare. In questi ultimi anni si rileva una trasformazione tumultuosa nell’anatomia dell’ebraismo italiano, a causa di questi consistenti
fenomeni d’immigrazione, perché l’ebraismo
italiano oggi accoglie al suo interno (come
del resto ha sempre fatto nel corso dei secoli)
elementi di origine non italiana “italianizzandoli” violentemente (dopo una generazione sono molto italianizzati); ma al contempo
l’Italia mantiene una sua tradizione originale.
Cos’è questa tradizione originale?
La comunità ebraica di Roma vanta un primato eccezionale rispetto a tutte le altre comunità del mondo, perché è la comunità
più antica del mondo della diaspora occidentale che si sia mantenuta in maniera
ininterrotta: gli ebrei sono presenti a Roma
probabilmente dalla metà del II secolo prima dell’era cristiana, quindi hanno preceduto i cristiani di due secoli (…che poi i primi
cristiani altro non erano che ebrei pure loro…). Stavano là già da due secoli e da allora non si sono mai più spostati da Roma.
Questo è un record assoluto. Questa particolarità ha fatto sì che a Roma si sviluppasse
una tradizione autonoma per vari aspetti, e
soprattutto dal punto di vista liturgico.
Ogni ebreo prega secondo un uso, un rito
particolare. Come voi avete il rito ambrosiano ecc., noi abbiamo riti differenti di preghiere. Cosa significa “rito”? Il testo della
preghiera, benché grossomodo uniforme, ha
delle piccole variazioni: una parola sì una
parola no, questo brano si dice, questo non
si dice, questo si dice prima e questo si dice
dopo e così via. Quindi esiste una molteplicità nell’ambito di una omogeneità. Talvolta
è un testo che può essere differente, ma soprattutto quello che cambia è la tradizione
musicale, la tradizione di recitazione, le modalità di recitazione per cui gli stili sono effettivamente molto differenti: chi entra come visitatore o come turista in una sinagoga
di rito italiano (o romano, come si dice tra
di noi: ma sono la stessa cosa) sentirà dire le
preghiere in una certa maniera, mentre se
entra in una sinagoga di rito ashkenazita
(cioè composto di ebrei di origine tedesca) le
sentirà in modo completamente diverso. A
Roma e in altre parti di Italia abbiamo conservato questo rito del tutto particolare, il
quale poi si suddivide in tanti rivoli diversificati, estremamente interessanti dal punto
di vista dei cultori della liturgia.
Questo poi non è un discorso che dovrebbe
lasciarvi indifferenti, almeno per chi di voi
ha interesse per questi argomenti, perché le
modalità di canto e di recitazione della pre-
ghiera cristiana nascono, appunto come si
diceva prima, da un alveo ebraico e quindi
sono strettamente correlate con le modalità
della liturgia ebraica, con reciproche influenze: le ore, i termini della preghiera, ma
anche le modalità di recitazione e di canto.
Quindi conoscere queste differenze, cercare
di capire quali sono i nuclei più antichi nell’evoluzione autonoma di un singolo rito è
qualcosa che interessa, al di là dell’aspetto di
vita religiosa, anche lo storico della liturgia.
Tra l’altro, di particolare interesse è il modo
in cui noi leggiamo liturgicamente la Bibbia:
anzi, non la leggiamo, ma la cantiamo, usando notazioni musicali – come i neumi nella
tradizione gregoriana. E questi sono dati comuni anche alle tradizioni liturgiche della
chiesa latina, della chiesa greca e così via.
C’è tutto un discorso di scambi e di ascolti
reciproci. Noi sappiamo che c’erano dei cantori ebrei che andavano a origliare dietro le
chiese per imparare le musiche cristiane; tali
melodie poi, in qualche modo adattate, venivano trasportate nelle sinagoghe, e questo
è successo dappertutto, in tutti i secoli. Così
come è frequentissimo d’altro canto che musiche ebraiche vengano prese e “trapiantate”
nelle chiese. Ancora non ho superato la sorpresa del giorno in cui nell’ospedale in cui
lavoro era scomparso un collega e fu celebrata una messa: durante la messa sento un
canto noto… era una variazione, neppure
tanto marcata, di quello che attualmente è
l’inno dello Stato di Israele! Se qualcuno
chiedesse cosa è il dialogo ebraicocristiano…, beh, succedono anche queste cose.
Poi andatelo a spiegare ai fedeli della chiesa
che stanno cantando l’inno dello Stato di
Israele!
Nell’ebraismo italiano abbiamo quindi diverse tradizioni liturgiche; come ebrei romani siamo molto gelosi della nostra, ma con-
9
La pluralità delle forme e delle tipologie degli strumenti musicali evoca la consonanza di identità qualificate,
caratterizzate e condivise. Questi strumenti musicali mostrano una identità visiva che non necessariamente
deve essere quella di ascolto: vedere ed ascoltare non devono qui farci disorientare. L’immagine non intende
mostrare l’identità dei suoni o delle loro composizioni, quanto ampliare l’orizzonte di ascolto mediante quello della visione. Trovando analogie e traslati tra il racconto delle storie bibliche dei personaggi qui rappresentati e la matrice generativa del suono stesso. Ed una delle tante ironie per gli ebrei: due ebrei, tre opinioni; tre
ebrei, cinque opinioni; dieci ebrei, il minyàn (letteralmente “conto”) è completo e la funzione religiosa è considerata un atto pubblico e non più un incontro di private e personali opinioni!
Marc CHAGALL (1887-1985), Dipinto sul coperchio in legno di un clavicembalo sul tema di Isacco e Rebecca al pozzo (Gn 24,1ss), 1980, Museo Nazionale Messaggio Biblico Marc Chagall, Nizza (Francia).
Cembalaro italiano anonimo, Claviciterio inizio XVII
secolo, New York, Metropolitan Museum of Art. A lato del piano armonico sulla quale sono tese le corde
del claviciterio l’artista (non necessariamente il cembalaro) ha rappresentato il musicista (compositore ed
esecutore) più famoso della Bibbia: il re Davide che
suonando la sua cetra (che poi diventerà salterio) canta una preghiera a Dio, qui rappresentato da una luce
che dall’alto a destra lo illumina e lo ispira come compositore di preghiere (i Salmi) da cantare. Davide viene così proposto come il protettore ma anche l’ispiratore e il modello dei musicisti, dei compositori e degli
interpreti strumentali e vocali.
viviamo tranquillamente con altre. Gli ebrei
romani sono come origine profondamente
legati alla loro antichità e quindi una radice
forte dell’ebraismo romano è proprio quella
che sta qui da ventuno secoli. Su questa radice se ne sono inserite tante altre, principalmente gli ebrei provenienti dalla Spagna dopo la cacciata, i quali non sono stati accolti
tanto fraternamente perché venivano ad occupare spazi stretti; ma poi papa Borgia costrinse gli ebrei locali ad accudirli. Ci sono
stati vari flussi migratori, che sono anche testimoniati nei cognomi: un cognome comune come Zarfati, che in ebraico significa
“francese”, indica l’origine francese della famiglia. C’è stata una certa omogeneità in
tutto il periodo in cui gli ebrei romani sono
stati nel ghetto, cioè dal 1555 fino all’arrivo
dei piemontesi nel 1870. Poi sono arrivati
gli ebrei dal nord Italia; ma la grande variazione della struttura degli ebrei romani si ha
purtroppo con gli effetti della persecuzione
nazi-fascista, dove la parte fascista ha avuto
un peso non trascurabile. Considerate che
prima del 1938, anno in cui scattano le leggi
razziali, gli ebrei italiani erano circa 45.000.
Escono dalla guerra avendo perduto almeno
20.000 persone. In che modo sono state
perdute? Circa 7.000-8.000 sono state uccise nei campi di sterminio e in varie stragi locali, una cifra analoga è emigrata dall’Italia
in varie parti del mondo ed è rimasta fuori
dall’Italia e un’altra cifra analoga è passata al
cristianesimo: si sono convertiti e quindi sono usciti dalla comunità ebraica. Ci sono
stati fenomeni pesanti, dal punto di vista
numerico, di conversioni ebraiche al cristianesimo. Non erano conversioni fatte con
grande convinzione: lo facevano per scappare ai rigori delle leggi razziali, che riservavano un trattamento abbastanza favorevole a
chi poteva dimostrare una conversione re-
trodatata, per cui ci fu tutta una serie di facilitazioni e… “chiusura di occhi” da parte
di parroci compiacenti che antedatarono i
certificati. Questo fenomeno fu reale e queste persone sono state in gran parte perdute
per la comunità ebraica.
Dopo la guerra c’è stata una certa – molto
timida – ripresa demografica. Poi sono arrivate le immigrazioni, rilevanti a Roma, del
1967, a seguito della “Guerra dei sei giorni”
e, scomparso l’ebraismo libico perché sono
stati cacciati via da là, si sono riversati in
gran parte in Italia. A Roma sono arrivati e
sono rimasti circa 2.000-3.000 ebrei di origine soprattutto tripolina e anche bengasina,
che hanno dato un’impronta molto variegata alla comunità attuale.
In pratica oggi la struttura demografica dell’ebraismo italiano è molto articolata e diversa a seconda dei luoghi a cui ci si riferisce. Su questa articolazione di origine, di riti
e di costume, si inseriscono tutte le altre articolazioni possibili e immaginabili che riguardano l’identità religiosa, la formazione e
così via.
Un altro dato rilevante è quello dell’aspetto
delle attività sociali: nel nord Italia, la popolazione ebraica, almeno quella più antica, si
caratterizza per una prevalente presenza nelle professioni liberali e in tanti tipi di attività, perfino la carriera militare (cosa che oggi sembrerebbe assolutamente impossibile):
alla fine della prima guerra mondiale il numero dei generali ebrei dell’esercito italiano
era il più alto di tutta Europa. C’è stata anche una partecipazione ebraica alla formazione dell’esercito italiano, sulla quale circolano alcuni studi molto specialistici, ma è
una notizia poco nota. Gli ebrei hanno fatto
della loro identità italiana un elemento fondamentale e poi – è un dramma – è saltato
tutto con le leggi razziali del ’38 e non si è
11
più ricomposto… Ma la presenza nell’esercito era uno strumento fondamentale per dire:
noi siamo come gli altri e più degli altri.
Dunque la struttura sociologica prevalente
nel nord Italia è quella delle professioni liberali e che è cambiata completamente con i
nuovi afflussi che hanno portato persone
che si dedicano prevalentemente ad attività
commerciali e spesso a grandi livelli internazionali, import-export, differenti a seconda
delle divisioni di origine. Ironicamente a
Milano dicono che gli ashkenaziti vendono
pellicce, i libanesi vendono diamanti, i persiani vendono tappeti… Non è strettamente
così, ma questo per dire che ci sono attività
tradizionali.
La situazione a Roma è abbastanza differente perché c’è una assoluta prevalenza di attività commerciali, che però si esercitano a
tutti i livelli possibili, dalla grande distribuzione al piccolo ambulante abusivo: molto
spesso i cosiddetti “ricordari” (cioè quelli
che vendono ricordini per strada) sono
ebrei. C’è anche una categoria particolare
che è chiamata burocraticamente “urtisti”
(quelli che per richiamare l’attenzione urtano la gente) e sono piccoli commercianti di
strada, regolati adesso da regolamenti comunali: anche tra questi c’è una notevole presenza ebraica. Dunque l’immagine del “fine
ebreo intellettuale” ve la dovete togliere dalla
testa quando parlate di questo tipo di fascia
di ebraismo italiano e soprattutto romano…
Chiaramente però ci sono anche quelli dediti alle professioni liberali.
In questo quadro variegato si pone il problema dell’identità religiosa, su cui vorrei offrire il mio punto di vista. Il mondo ebraico
oggi, e da circa un secolo e mezzo, è articolato un vari modi di vivere la religiosità. Esiste un ebraismo che si identifica pienamente
con la tradizione religiosa precedente, ed è
12
l’Ebraismo ortodosso. La parola “ortodosso”
è stata introdotta da fuori: prima quelli che
erano ortodossi non si sarebbero mai definiti
ortodossi, anzi non si definivano neppure.
Poi esistono dei movimenti di riforma, nei
quali l’approccio alla tradizione è, in forma
più o meno moderata, critico. Negli Stati
Uniti, dove questi movimenti hanno oggi il
cuore e sono più rappresentati, abbiamo un
movimento riformato e un movimento
“conservative” che era almeno fino a poco fa
una via di mezzo tra la riforma e l’ortodossia, e altre forme di movimenti di questo tipo. L’Italia è stata storicamente refrattaria alla riforma che è nata in Germania agli inizi
dell’Ottocento. Perché gli ebrei italiani sono
stati così refrattari alla riforma? La risposta,
mezza ironica e mezza reale, è che gli ebrei
italiani sono… “profondamente cattolici”,
nel senso che la riforma se la fanno a casa
propria e quindi hanno, o almeno avevano,
un modo particolare di rapportarsi al sacro.
Il ragionamento che seguono è più o meno
questo: le cose sacre le lasciamo al posto giusto, poi ciascuno se ne distacca quanto basta, ma non tocca le istituzioni. In questo
senso è un “cattolicesimo italiano”. Questo
ha fatto sì che di fronte ai tentativi di introdurre movimenti di riforma in Italia c’è stata
molta resistenza, perché il problema principale degli ebrei italiani non era quello di organizzarsi in forme eterodosse, ma semplicemente di organizzarsi la vita molto spesso
fuggendo dai dettami dell’ebraismo tradizionale, lasciando però le strutture così come
stanno. Il risultato di questa situazione è che
attualmente noi viviamo in base a un compromesso: le comunità ebraiche sono aggregate, nel senso che tutti gli ebrei possono essere iscritti alle comunità, a prescindere dalla
loro forma di identità religiosa, e nessuno va
a controllare a casa se mangiano gli alimenti
consentiti o meno, o se fumano di sabato e
così via; ma il rabbinato, che è quello che
deve garantire le forme di culto e la continuità delle istituzioni e la correttezza dei servizi in conformità della Legge ebraica, è ortodosso. Questo è un modello di compromesso che ci ha consentito di stare tutti insieme per molto tempo, ma che adesso viene
messo abbastanza pesantemente sotto accusa. Con una certa ciclicità e a seconda delle
problematiche esistenti, noi siamo lacerati
da movimenti di critica interna ed esterna
che vogliono fare saltare questa sorta di modello. Quindi nella sua struttura ufficiale l’ebraismo italiano è un ebraismo ortodosso,
anche se altrove dire ortodosso potrebbe significare “son tutti vestiti di nero con grossi
cappelloni e barboni” e così via. Questo non
è quello che succede qua: siamo “onnicomprensivi”, anche se il rabbinato segue regole
ortodosse.
L’ortodossia stessa è una realtà che, al di là
di immagini stereotipate, è estremamente
variegata, perché nell’ambito dell’ortodossia
ebraica ci possono essere quelli che sono
chiamati movimenti ultra-ortodossi, con
modalità di abbigliamento che voi vedete girando per il mondo (perché in Italia ce ne
sono esempi rarissimi), e modalità molto
differenti di vivere la propria esperienza religiosa: si va da coloro che sono pienamente e
apertamente sionisti a quelli che rifiutano il
sionismo per motivi religiosi; si va da coloro
che hanno un approccio moderno rispetto ai
problemi della vita attuale a quelli che rifiutano questi approcci moderni; si hanno forme di integrazione con la società estremamente variegate… In breve, anche il mondo
ebraico ortodosso lungi dall’offrire un’immagine omogenea è riccamente articolato.
In Italia abbiamo un fenomeno interessante
di alcuni speciali gruppi dell’ortodossia, una
rappresentanza del tutto particolare, almeno
come novità in Italia, ma anche in generale
nel mondo. Una delle grandi famiglie del
mondo ortodosso è il movimento chassidico, movimento mistico, nato a metà del Settecento e diffusosi in tutta l’Europa orientale. Il movimento chassidico privilegia l’aspetto di entusiasmo spirituale nella vita e
quindi trasforma l’esistenza in una maniera
del tutto particolare. Fin dalle origini si è articolato in varie famiglie, in vari gruppi ciascuno guidato da un capo carismatico: anche questa è stata una rivoluzione nell’ebraismo, perché nell’ebraismo il capo può essere
carismatico, ma è sempre sottoposto a pesanti critiche e discussioni, mentre nel movimento chassidico diventa una sorta di personalità che possiede la verità. Una di queste
famiglie chassidiche, nata in un posto in cui
il chassidismo non era visto bene dal resto
del mondo che era molto più razionale, cioè
il mondo lituano, si è trasferita in America e
ha iniziato all’interno del mondo ebraico
una attività di tipo missionario che è assolutamente ignota nel mondo ebraico, perché
abbiamo stili completamente differenti di
vivere la nostra religiosità e di trasmetterla, e
anche stili completamente differenti di vivere la stessa funzione rabbinica. Questo movimento ha mandato in giro per il mondo
numerosi suoi rappresentanti ed è il movimento Chabad-Lubavitch, fortemente rappresentato e fortemente attivo in Italia. Alcune manifestazioni pubbliche che organizza
vi sono probabilmente note: ad esempio,
durante la festa di Chanukkah a dicembre
c’è l’accensione delle luci a piazza Barberini.
È un movimento di missione interna per cui
non coinvolge in alcun modo il mondo
esterno se non sporadicamente, e quindi è
un esempio di quanto sia variegata la realtà
ebraica.
13
Ebrei e cristiani in dialogo:
per l’edificazione
di una società pacificata
di Andrea Riccardi
dall’ebraismo, anche se gli ebrei, ormai in
Il Novecento è stato il secolo in cui si è
buona parte emancipati, si sono spesso
tentato di eliminare l’ebraismo dal panorapresentati come cittadini uguali a tutti, soma umano, religioso e culturale del monlo in privato di fede
do, negandogli un
mosaica. Così sono
futuro. Il XX secolo
la gran parte degli
doveva essere la
ebrei nell’occidente
tomba per Israele e
«Senza ebraismo, il cattolicesimo non saeuropeo. Da un’altra
gli ebrei. Balza agli
rebbe universalista. Non è un paradosso,
parte del mondo, la
occhi
evidente,
ma una realtà storica. Per questo Pio XI
rivoluzione sovietica
drammatica, macroafferma con forza: “noi siamo spiritualcon il suo carattere
scopica, la vicenda
mente semiti”. Sradicare il cristianesimo
messianico, produtdella Shoah. Allora
dall’ebraismo è fare della fede di Gesù
trice di una nuova
veramente si è voluqualcosa d’altro».
umanità, assorbe
to eliminare l’ebraitanti ebrei nella sua
smo, distruggere gli
vita politica e nei suoi progetti; finisce per
uomini e le donne, i bambini d’Israele;
perseguitare gli ebrei e l’ebraismo, fino a
cancellare una fede, una presenza, una culridurlo a una nazione tra i popoli sovietici
tura e una memoria dalla terra d’Europa e
(anzi ad uno Stato: quel Birobidjan, fonpersino incendiare le sinagoghe. Per secoli,
dato da Stalin nel 1934 e destinato a vita
vorrei dire per millenni, l’ebreo era stato il
grama nel suo ruolo di Israele sovietico). Il
coabitante di sempre, umiliato, in un confuturo socialista non ha bisogno degli
tinente tutto cristiano senza la presenza di
ebrei in Russia e in Europa.
altri. Ma l’ebreo aveva vissuto accanto alla
La cultura positivista europea nel suo inmaggioranza cristiana. Penso al caso di Rosieme vede nell’ebraismo qualcosa di rema, alla più antica comunità della diaspora
moto e di arcaico, fatto di leggi e prescricon un suo rito particolare, con un vita
zioni irrazionali, sostanzialmente antimodifficile nel cuore della capitale dello Stato
derno. Ma lo stesso mondo cristiano, in
del papa. Eppure questa comunità ha vistaluni suoi settori, sembra non aver bisosuto qui per secoli. L’umanità novecentegno dell’ebraismo. È una storia antica per i
sca ha affermato, in certe sue espressioni,
cristiani che però, nel XX secolo, trova
che non aveva bisogno dell’ebraismo per
espressioni nuove. Su questo vorrei soffercostruire un umanesimo o per realizzare il
marmi un poco. Sembra che un cristianesifuturo del mondo. Ha voluto congedarsi
14
mo migliore, moderno, debba epurarsi dell’ebraismo.
Proprio all’inizio del secolo, a Berlino il
grande e accreditato storico Adolf von
Harnack, lanciava L’essenza del cristianesimo (Das Wesen des Christentums, corso tenuto nel semestre invernale 1899/1900),
un piccolo libro, però dagli effetti detonanti nel dibattito teologico e storico: in
questo testo, di cui si vendono sessantamila copie in pochi anni, tra l’altro, smorzava
fortemente il peso delle radici ebraiche del
cristianesimo o quantomeno riduceva il
rapporto con quella che veniva chiamata
l’«eredità veterotestamentaria». Fu un testo
di riferimento su cui riflettono grandi del
pensiero religioso di inizio secolo, da Ernst
Troeltsch, a Alfred Loisy, a Ernesto Buonaiuti, a Sergej Bulgakov. Al di là del grande dibattito che il libretto suscitò nella
cultura religiosa del primo Novecento, non
fu un evento solo accademico. Riemergeva
l’antica tentazione cristiana da Marcione
in poi, che è “far a meno degli ebrei”. È
una tentazione che coinvolge cattolici e
protestanti proprio ne1 Novecento e che si
colora di modernità.
Nella Francia tra le due guerre, si sviluppa
il movimento cattolico dell’Action Française di Charles Maurras, coinvolgente le giovani generazioni critiche su laicità e positivismo con un forte senso della propria
identità cattolica. Si esalta, da parte loro, il
ruolo storico-politico della Chiesa in Europa e la sua funzione fondante la civiltà:
la politica prima di tutto. Il cattolicesimo è
visto come un fenomeno europeo di potenza, distaccato fortemente dall’ebraismo
e dal mondo orientale che è invece alle sue
origini. Il cattolicesimo diventa tendenzialmente “la grande tradizione europea”, non
la religione di Gesù di Nazareth, dei suoi
apostoli e dei profeti d’Israele. È una posizione su cui si ritrovano tanti europei, ammirati della Chiesa, ma freddi verso il cristianesimo, il Vangelo e la tradizione ebraica. Infatti questo sentire non è solo francese, ma rappresenta un fenomeno europeo.
Mussolini è un esempio chiaro, anche se
emblematicamente rozzo, di questo sentire. Il duce afferma che senza Roma, i cristiani che venivano da Gerusalemme sarebbero rimasti una povera setta tra le tante di
quella terra “arroventata”, non sarebbero
divenuti una religione mondiale. Roma ha
fatto di questa setta palestinese e ebraica
un impero spirituale, che egli ammira. Ne
parla nel discorso per la ratifica dei Patti
Lateranensi del 1929, che chiudono lo
scontro tra la Chiesa e lo Stato in Italia:
«Questa religione – dice del cristianesimo
– è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma. Se fosse rimasta nella Palestina, molto probabilmente sarebbe stata
una delle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato come ad esempio
quella degli Esseni o dei Terapeuti, e molto
probabilmente si sarebbe spenta senza lasciare traccia di sé».
Non è un caso che proprio Mussolini
esprima e volgarizzi il pensiero diffuso tra i
movimenti nazionalisti e di destra in Europa. Egli confida a proposito degli italiani
al suo ministro degli esteri, Galeazzo Ciano: «Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l’anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare a ingurgitare
un Dio ebreo». Mussolini «ripete – annota
Ciano – la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo: per questo
– conclude – io sono cattolico e anticristiano». Il cattolicesimo, espressione somma
della tradizione europea pagana e romana,
dovrebbe smarcarsi dal cristianesimo, tan-
15
to condizionato dall’ebraismo. Il «cattolico
anticristiano» – come non pochi cattolici
nazionalisti dell’epoca – significa antisemita e antiebraico.
In modo più coerente, si compie un itinerario analogo, ma più drammatico, nella
Germania nazista degli anni Trenta, quando la Chiesa del Reich (protestante) accetta il paragrafo ariano discriminatorio, soprattutto il processo epurativo dell’ebraismo dalle Scritture cristiane e dello stesso
apostolo Paolo, perché ebreo. Il principale
ideologo del nazismo, A. Rosenberg, autore de Il Mito del XX secolo (Der Mythus des
zwanzigsten Jahrhunderts, 1930), accusava
Paolo di aver giudaizzato il cristianesimo:
«Paolo ha raccolto in modo del tutto intenzionale i lebbrosi di tutte le nazioni e le
culture in tutti i paesi dell’orbe, per scatenare un’insurrezione dell’inferiore».
Il cristianesimo positivo tedesco – qui sono interessanti e sorprendenti non solo le
posizioni di Hitler o di Goebbels, ma
quelle stesse dei dirigenti evangelici tedeschi che si dicono cristiani – deve emanciparsi, in un modo o nell’altro, dall’eredità
ebraica. Nelle Conversazioni Hitler afferma
non la sua avversione alla religione, ma il
carattere non ebraico di Cristo: «La Galilea
era una colonia in cui i romani insediarono probabilmente legionari gallici e, certamente Gesù non era un ebreo. Gli stessi
ebrei lo considerarono il figlio di una prostituta e di un soldato romano… La falsificazione definitiva della dottrina di Gesù
proviene dall’attività di Paolo… Per il Galileo l’obbiettivo era la liberazione del suo
paese dall’oppressione degli ebrei. Egli si
dichiarò contro il capitalismo ebraico e per
questo gli ebrei lo eliminarono».
Hitler era un politico troppo accorto per
aprire immediatamente la guerra alle Chie-
16
se. Ma Himmler, con più violenza, si mosse nel ripudio del cristianesimo delle Chiese alla ricerca di una saldatura con la tradizione. Perché il nazismo, a differenza del
comunismo, ha bisogno della tradizione.
Non posso ripercorrere tutti questi itinerari, complessi e culturalmente incongruenti: essi si identificano nella ricerca del
“Cristo ariano” al centro di un cristianesimo positivo e di una spiritualità con simboli e motivi indoeuropei. Del resto l’idea
del Cristo ariano, svincolato dalle sue radici ebraiche, risale all’ottocento: si pensi ad
Ernest Renan, autore della Vita di Gesù
(Vie de Jésus, 1863), studioso di ebraismo e
cristianesimo, il quale scrive: «Il compito
speciale di Gesù fu quello di rompere con
lo spirito dell’ebraismo… il compito consiste nel tornare a Gesù, non quello del
giudaismo… La cristianità, originariamente ebrea nel suo nocciolo, – afferma più
avanti – con il tempo ha depurato se stessa
di ogni cosa che potesse provenire dalla
razza, cosicché coloro che considerano il
cristianesimo come la religione ariana sono
per molti aspetti nel giusto».
Ma Renan è l’eroe letterario di tanta parte
della cultura ottocentesca che vede in lui
l’autore di una biografia di Gesù libera,
fondata sulla scienza positiva, svincolata
dai pregiudizi di una ortodossia chiesastica. È insomma l’eroe di una ragione che
afferma la sua libertà. Ma mi permetto di
osservare come la difesa dell’ortodossia da
parte della Chiesa, quindi dell’unità
profonda della rivelazione, delle Scritture
ebraiche e cristiane per il cristianesimo,
non ha solo una funzione dottrinale, ma
diventa la difesa dello spirito da drammatici scivolamenti, come si vede nel passaggio
di queste teorie nel nazismo. Il quale, almeno in un suo versante, si muove alla ri-
cerca di un cristianesimo marcionita, senza
ebraismo. Per i nazisti l’ebraismo deturpa
il cristianesimo. Si afferma il valore dei linguaggi indoeuropei – ariani dunque – per
negare l’ebraicità di Gesù e il semitismo.
Alla ricerca della tradizione, alcuni settori
del nazismo si rivolgono all’India e alla cosiddetta cultura indoeuropea (si pensi alla
simbologia della svastica), all’ampiezza e
alla ricchezza di una tradizione religiosa
che non si vuole limitata dal dogmatismo
ebraico-cristiano. Trovano qui ascolto le
teorie teosofiche (verso cui ha un debito
anche la New Age), che prendono le mosse
da Madame Blavatsky, la quale, discepola
di “maestri superiori”, afferma la sostanziale unità delle tradizioni religiose, tutte
espressioni di una verità unica, percepibile
attraverso l’esperienza esoterica e occulta:
«non c’è nessuna religione più alta della
verità» – è il suo motto.
Nello spaesamento tra le due guerre, riprende la volontà di ritrovare la tradizione.
Il nazismo, legandosi a un’ipotetica filosofia perenne dell’umanità, parlando di cristianesimo positivo e di Cristo ariano,
vuole rappresentare un percorso che nega
quello della tradizione ebraica. Perché –
basta leggere il Mein Kampf – gli ebrei
vanno eliminati e ogni traccia dell’ebraismo deve scomparire dalla modernità del
XX secolo.
Indubbiamente l’emancipazione è più facile quando dell’ebraismo si fa una pura eredità archeologica o libresca; ma l’ebraismo
è invece una realtà attuale in Europa: gli
ebrei sono vivi, con le loro comunità attive. La fede ebraica non è fatto accademico;
ma realtà di ebrei. Così il loro umanesimo
si collega robustamente a donne e uomini
che sono ebrei, a comunità, a pensieri, a
azioni che si incrociano con quelle di cri-
stiani o di laici. È il dramma della Shoah:
l’eliminazione di donne e di uomini, ma
anche di mondi ebraici che avevano segnato la storia della Germania, della Polonia,
dell’Est europeo. Uno dei tratti salienti
dell’ordine nuovo di Hitler è un mondo
senza ebrei. Ma l’eliminazione dell’ebreo
comincia ben prima.
Si colgono i motivi della dura reazione di
Pio XI contro l’antisemitismo, sia quello
tedesco che quello dell’Action Française.
Non è solo difesa degli ebrei, ma impegno
a preservare lo stesso cristianesimo che,
mutilato del rapporto con l’ebraismo, sarebbe destinato a diventare qualcosa d’altro, una religione nazionalista e di civiltà
europea. Il semitismo, per così dire, è vitale per il cristianesimo. La difesa dell’ortodossia, per così dire, diventa sostegno degli
ebrei e anche difesa di un’idea di religione
contro pericolosi scivolamenti. È anche la
difesa della dignità delle persone e della loro fede.
Con la riprovazione dell’antisemitismo si
prendono le distanze da un cristianesimo
che diventa benedizione d’una politica nazionalista e guerresca. Senza ebraismo, il
cattolicesimo non sarebbe universalista.
Non è un paradosso, ma una realtà storica.
Per questo Pio XI afferma con forza: «noi
siamo spiritualmente semiti». In questa
espressione sintetica e geniale, c’è l’intuizione di una grande realtà del cristianesimo nelle sue radici ebraiche, ma anche
orientali. Sradicare il cristianesimo dall’ebraismo è fare della fede di Gesù qualcosa
d’altro. Pio XI lo coglie con grande lucidità. Condanna l’Action Française (che pure professava fedeltà al papa e entusiasmo
per il cattolicesimo) per la riduzione del
cattolicesimo a “religione di civiltà”.
Una risposta forte venne da parte ebraica,
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nello studio di Gesù ebreo, da Joseph
Klausner (1874-1958), a Leo Baeck
(1873-1956), a Jules Isaac (1877-1963) e a
molti altri. Baeck è una grande figura, che
rispose ad Harnack nel 1905. Ma nel 1938
scrisse Il Vangelo: un documento ebraico
(Das Evangelium als Urkunde der jüdischen
Glaubensgeschichte), in cui sosteneva che
l’ebraismo non ha il diritto di ignorare il
cristianesimo e che Gesù non ha mai lasciato la comunità ebraica (anche se alcune
interpretazioni del cristianesimo sono marcate da una visione storicistica). Baeck
pubblicò questo libro appunto nel 1938,
quando assumeva la guida della comunità
ebraica tedesca: «La storia millenaria dell’ebraismo tedesco è alla fine», aveva detto.
Il fatto assume un valore simbolico in un
quadro così drammatico. Jules Isaac, ebreo
laico e assimilato francese, che perse la
moglie e la figlia nello sterminio, autore di
una vita di Gesù, fu colui che chiese a Pio
XII prima e a Giovanni XXIII poi e con
successo, l’abolizione della preghiera «pro
perfidis judaeis» il Venerdì Santo.
Ci troviamo, proprio nel cuore del Novecento, di fronte ad un processo di reintegrazione di Gesù nell’ebraismo, che va da
Claude Montefiore (1858-1938) con i suoi
due volumi The Synoptic Gospels, al Gesù
di Joseph Klausner, sino ai libri dell’ebreo
francese Robert Aron (1898-1975) che negli anni Sessanta pubblicò Gli anni oscuri
di Gesù (Les années obscures de Jésus, 1960)
e Così pregava l’ebreo Gesù (Ainsi priait Jésus enfant, 1968): c’è un ricongiungimento, anche come spiritualità, tra l’ebraismo
e il cristianesimo proprio sulla figura di
Gesù stesso. Come può il cristianesimo
prendere congedo dall’ebraismo?
Anche la rinascita degli studi biblici nel
mondo cattolico e protestante, seppure su
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presupposti diversi, converge nella riaffermazione dell’ebraicità del cristianesimo.
Un cristianesimo senza ebraismo diventa
diverso da se stesso: una religione manipolabile dal nazionalismo europeo, che perde
le sue radici e la sua stessa umanità. Anche
perché Gesù è ebreo. E qui non sottolineo
la forte e diffusa riscoperta dell’ebraicità di
Gesù.
La coscienza di questa connessione vitale è
maturata nel cristianesimo del Novecento
e, anche oggi, trova qui, tra noi, una sua
espressione importante. Chi parla attorno
a questo tavolo ha maturato la profonda
coscienza del legame reale e misterioso tra
la vita cristiana e la realtà d’Israele nel senso più profondo della parola. Parlo della
Comunità di Sant’Egidio che, a partire da
Roma, da questa città così rilevante nel
cristianesimo contemporaneo, ma anche
ospitante la prima comunità della diaspora
ebraica, ha fatto del rapporto con gli ebrei
un punto focale della sua vita. Ricordo solo la «Marcia della memoria» che Sant’Egidio organizza, ogni 16 ottobre, giorno della deportazione degli ebrei di Roma, quando nel 1943 hanno tentato di strappare a
Roma i suoi ebrei. Si svolge sulle due rive
del Tevere con sempre più gente, come un
viaggio all’indietro rispetto a quello che fecero i deportati ebrei.
La storia del Novecento in parte è stata invece contrassegnata dal progetto di eliminare dalla costruzione di una umanità
nuova sia l’ebraismo che gli ebrei. Si potrebbe dire che la storia delle altre religioni
ha subito lo stesso processo di “tentata eliminazione”? Tutte le religioni hanno subito l’epurazione dal cantiere dell’umanità
del Novecento, il secolo più secolarizzato
della storia? Non è avvenuto – va detto –
in un modo uguale per tutte le religioni.
Solo in parte e in alcune regioni (penso al
mondo comunista) per il cristianesimo.
Non tanto per l’islam, soprattutto nella seconda metà del XX secolo.
Per l’islam, c’è da segnalare un fatto drammatico avvenuto proprio nel XX secolo: il
divorzio radicale, con la fine della convivenza secolare, talvolta millenaria, tra ebrei
e mondo musulmano sulle rive del Mediterraneo, in Iran e in altri paesi musulmani. È quella convivenza che aveva prodotto
– così scrive Bernard Lewis – una vera civiltà ebraico-islamica, spazzata via in pochi
anni. Le terre musulmane avevano costituito un grande spazio di accoglienza per
gli ebrei scacciati dalla Spagna: infatti i sefarditi, che sono gli ebrei nel mondo arabo, vengono da Sefarad, la Spagna. Non è
facile in casa musulmana, la vita degli
ebrei; ma ci sono tempi e situazioni di vera
convivenza e incontri culturali. Con la fine
della seconda guerra mondiale, circa un
milione di ebrei lasciano o sono costretti a
lasciare il mondo dell’islam, decretando la
fine di una vita comune, che sopravvive
oggi in qualche limitata isola (circa 3.500
ebrei, laddove poco più di mezzo secolo fa
ce n’era un milione). È un grande esodo,
non solo per il numero, ma per il terremoto culturale che rappresenta. L’islam fa a
meno degli ebrei per costruire il suo futuro. Anzi, con la nascita dello Stato d’Israele, l’ebreo e il suo Stato diventano il nemico per eccellenza nell’immaginario non solo arabo, ma anche dei musulmani nei lontani paesi asiatici (è paradossale, ma vero).
L’ebraismo non è più visto come una realtà
religiosa, ma come un problema politiconazionale. È anche questo un capitolo importante del congedo odierno delle religioni dagli ebrei. Non si vive da soli e si ha
sempre bisogno degli altri. Che cosa sarà
un Medio Oriente dove, eccetto Israele, gli
ebrei sono scomparsi e i cristiani diminuiscono vistosamente? L’augurio di pace con
il mondo arabo, che rivolgo ai miei amici
israeliani è che, con la pace, in un Medio
Oriente di barbarie, si possa dar vita ad
una nuova civiltà che, su basi differenti, riproporrà un rapporto costruttivo con il
mondo dell’islam.
C’è un umanesimo mediterraneo che deve
sorgere lungo questo mare, in un mondo
che, nel XXI secolo, sta spostando il suo
baricentro verso l’Asia e i suoi giganti. L’ebraismo è parte consistente di questo umanesimo mediterraneo, che ha avuto stagioni felici nella storia e che oggi deve rafforzarsi di fronte a nuove sfide.
Ma l’umanesimo ha davvero bisogno dell’ebraismo? Sullo sfondo dell’eliminazione
dell’ebraismo dalla cultura e dalla vita occidentale sta oggi la grande domanda rivolta alle religioni, soprattutto monoteistiche,
se esse non siano all’origine dell’intolleranza con la loro pretesa esclusivistica che
quasi promana dalla fede in un unico Dio.
Dieu-est-il fanatique? – si è domandato nel
fortunato libretto omonimo (1996) l’intellettuale francese Jean Daniel, di origine
ebraica algerina, erede del sentire di Albert
Camus. Questa domanda si rivolge al monoteismo esclusivista, che sarebbe una delle radici dell’intolleranza. È un’accusa vecchia, che viene da lontano, da Celso, ma
che tra Ottocento e Novecento si è fatta
insistente e moderna.
Auguste Comte propose una visione di religione positiva dell’umanità come emancipazione dall’età teologica della storia: per
lui il monoteismo era fondamentalmente
egoista e primitivo. Questo schema soggiace a tanto pensiero dell’ultimo secolo: con
l’avanzata della modernità, il mondo sa-
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rebbe uscito dall’età teologica e si sarebbe
secolarizzato. Insomma più modernità,
meno religione. Su questo modello tanti
hanno mosso critiche alla pretesa monoteistica, come non moderna e non rispettosa
del pluralismo. Era diverso il sentire di
Nietzsche, che invece vedeva nell’ebraismo
un processo emblematico di snaturalizzazione, di allontanamento dalla dimensione
naturale, tipico delle religioni.
Fin da ieri, e oggi con più forza, una critica viene dall’Asia. Al monoteismo e alle
sue pretese considerate irragionevoli e
esclusiviste, vengono contrapposte le religioni orientali, in particolare l’induismo:
un mondo scoperto e praticato dagli occidentali tra Ottocento e Novecento, anzi
proiettato fuori dall’Asia. Il pluralismo intrinseco e la pluralità di figure divine dell’induismo si presentano come un universo
capace di tolleranza in un mondo plurale
come quello contemporaneo. Non va sottovalutata la forza attrattiva di questa visione religiosa, che ben si compenetra con
un sentire plurale e relativista. Anche in
questa visione c’è l’idea del monoteismo
ebraico come qualcosa di “vecchio”, incapace di costruire un mondo più umano.
All’inizio del XX secolo, proprio nel 1900
(poco prima che Harnack pubblicasse il
suo fortunato saggio), moriva a Livorno
un grande rabbino italiano, Elia Benamozegh, cabalista e talmudista, uomo di grande sapienza in cui pulsava l’umanesimo
mediterraneo. Scrisse un’opera in difesa
dell’ebraismo, quando la via indicata agli
ebrei europei era essenzialmente l’assimilazione facendo d’Israele solo il “culto mosaico” e della vita religiosa un fatto privato. Israele e l’umanità. Studio sul problema
della religione universale (Israël et l’humanité. Étude sur le probleme de la religion
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universelle et sa solution, 1914) è l’opera in
cui rispose alle accuse che l’ebraismo non
fosse una religione universale, aprendo una
discussione con il cristianesimo e chiedendo di riflettere sul valore della legge noachica, quella che Dio strinse con Noè dopo il diluvio. Nel quadro della crisi religiosa di fine secolo il grande rabbino proponeva l’ebraismo come popolo messianico e
sacerdotale tra le religioni.
Il libro, pubblicato solo nel 1914, dopo la
morte dell’autore, alla vigilia della prima
guerra, intendeva provocare in cristianesimo ed islam un tiqqûn, un processo di risanamento a partire dall’universalismo e
dall’umanesimo ebraico. In testo non ebbe
grande diffusione: di ben altro si occupava
l’opinione pubblica europea di allora, presa dalle passioni nazionaliste e dalla costruzione di un “uomo nuovo”. Ma fu
scritto per allargare la sapienza, nella logica dello studio ebraico. E oggi, dopo tanto
fallire nella storia, si ritorna a questo punto, all’appuntamento con l’ebraismo. La
proposta di Benamozegh ritorna attuale.
Non è solo il lungo processo di secolarizzazione europeo che ci fa tornare all’ebraismo come fatto vitale dell’umanesimo.
L’universalismo secolarizzato delle organizzazioni internazionali ha introdotto un politically correct, per cui universale è accostare realtà religiose o culturali differenti
quasi in un legame federale che assembla
fenomeni analoghi. C’è anche la proposta
di un mondo religioso asiatico, in particolare induista, dove la spiritualità si esprime
in modo individuale, così diverso dal senso
di destino comune e di comunità che caratterizza le religioni monoteistiche. Un
mondo tanto plurale rende l’ebraismo, con
il suo monoteismo, qualcosa di antiquato,
destinato a una flebile minoranza?
Dopo le guerre religiose di Cinquecento e
Seicento, nacque la dottrina della tolleranza. Oggi c’è bisogno di un nuovo umanesimo: qui si rinnova l’appuntamento con l’ebraismo, che richiama ad un Dio creatore,
ad una comunità di uomini e donne con
un destino unico. Ha scritto André Neher
sull’identità ebraica: «È sulla barca di ogni
ebreo, il quale ripete il gesto di Abramo,
che gli uomini passano sull’altra riva dell’umanità…». E conclude: «l’esilio è la
missione che porta il giudeo dovunque c’è
da fare un passaggio, e così la condizione
ebraica inserisce il giudeo in una specie di
vertigine universale, in quella bella e grande vocazione che fa di lui il fratello d’azione di tutti gli uomini».
Oggi, in un mondo di “scontri di civiltà” e
di religione, ma anche di risposte ad una
globalizzazione schiacciante, non basta far
ricorso all’idea di tolleranza. Abbiamo bisogno di una grande e forte idea che troviamo nelle grandi religioni monoteistiche.
Il relativismo è inadeguato ad un mondo
di conflitti e finisce per confermare la violenza dell’appartenenza. Jonathan Sacks,
rabbino capo del Commonwealth, ne La
dignità della differenza (Dignity of Difference, 2002), trova il fulcro di questa grande
idea nel rinverdire e ripensare il patto di
Noé con tutto il genere umano: «Dio,
creatore di tutto – ha scritto – ha posto la
sua immagine sulla persona in quanto tale,
a priori e indipendentemente dalle nostre
varie culture e civiltà, conferendo così alla
vita umana una dignità e una santità che
trascendono le nostre differenze». Benamozegh, un secolo prima, proponeva qualcosa di simile.
L’unico Dio e l’unica umanità… Il dialogo
tra ebrei e cristiani, questo nostro stesso parlare, non è solo chiuso ad una conversazione
tra religiosi, ma ha un suo valore che va al di
là di noi, in un mondo dalle profonde fratture. Per me, per noi, è l’appuntamento da
cui può scaturire una riflessione sull’umanesimo contemporaneo, che non può prescindere da Israele e dalla sua fede.
21
È una pagina fotostatica dell’edizione originale del 1933-XI
(quando bisognava indicare anche l’era fascista, perché non
bastava quella cristiana, ebraica,
musulmana!). Una pagina dei
Nuovi Sonetti giudaico-romaneschi di Crescenzo Del Monte,
pubblicati dall’editore dott.
Paolo Cremonese, copia 961:
edizione ristampata (insieme ai
Sonetti Postumi giudaico-romaneschi e romaneschi dello stesso
Autore, Casa Editrice “Israel”,
Roma 1955-5716) e rintracciabile presso la libreria Menorah
(Piazza Delle Cinque Scole 36
– 00186 Roma tel: 066879297
– 066864908 Fax: 066864908
E-mail: [email protected]).
In copertina interna il volume
riporta la dichiarazione: «con
note esplicative ed alcune osservazioni preliminari sulle peculiarità e sulla presumibile derivazione del dialetto romano
giudaico».
Questo è un sonetto ormai celebre con cui ogni ebreo romano
con orgoglio può dichiararsi
più romano dei romani di sette
generazioni. È adatto per proporre agli studenti una testimonianza dell’integrazione linguistica, soprattutto nell’ambito del dialetto
e delle sue cadenze specifiche, che gli ebrei hanno sempre praticato anche in altre regioni italiane e paesi europei (cfr analogamente l’ebraico sefardita, in Spagna, askhenazita in Germania e dintorni e lo yiddish nei paesi dell’Est europeo: di queste ultime tradizioni un multiforme esempio di comunicazione
attualizzante da alcuni anni è Moni Ovadia: www.moniovadia.it).
La vita della gente – pur nella diversità religiosa e culturale – è sempre stata dialogante: non fosse altro,
per condividere la faticosa e quotidiana esistenza di “mettere insieme il pranzo con la cena” e per l’educazione dei figli, che giocavano insieme fino a quando gli adulti ideologicizzati non li inducevano a separarli e a ghettizzarli reciprocamente.
Riscoprire anche nei dialetti (la koinè locale) le tracce e le persistenze di tali convivenze permetterà agli
studenti di superare la babele dell’ambizione e dell’assolutismo culturale e religioso e di praticare il dialogo.
La convivenza alla prova:
il contributo dell’ebraismo
di Giorgio Israel
lingua castigliana, ma le usanze e persino, in
Se ci poniamo la domanda di quale possa
taluni casi, le chiavi delle antiche case. La
essere il contributo dell’ebraismo a una
comunità ebraica di Salonicco rappresentava
“convivenza” tra differenti identità, evocirca il settanta per cento della popolazione,
chiamo in modo spontaneo un tema antiper cui la città – in cui erano presenti una
co e difficile: quello del rapporto dell’equarantina di sinagobraismo e degli ebrei
ghe – venne denomicon le società in cui
nata anche la Gerusavivono, ovvero il te.«Il monoculturalismo non è mai esistito.
lemme balcanica. Fu
ma dell’identità
Tutte le società della storia sono formazioun’esperienza che iniebraica. Sappiamo
ni “meticcie”… Ma la storia dimostra che
ziò a dissolversi con il
bene come la quela convivenza funziona soltanto in contesti
crollo dell’Impero
stione fondamentale
caratterizzati da una identità dominante,
Ottomano, che tolleche si pone al rila quale stabilisce i principi generali e le
rava la presenza
guardo è se tale
regole di tale convivenza. Naturalmente,
ebraica pur non conidentità debba inquesta predominanza identitaria … non
cedendo agli ebrei la
tendersi come escludeve cedere alla tentazione di assorbire, ascittadinanza ma solsivamente religiosa o
similare e inglobare, ovvero di annullare
tanto la posizione di
sia qualcosa di più,
l’identità altrui».
“protetti”, e si conovvero un’identità
cluse definitivamente
nazionale. Tenterò
con le deportazioni naziste.
di dare una risposta attraverso alcune conLe vicende della vita di mio padre e della sua
siderazioni autobiografiche: spesso le espefamiglia sono raccontate in un romanzo
rienze personali forniscono le piste più
scritto negli anni Cinquanta, e che è stato di
concrete.
recente pubblicato. Ne citerò alcuni brani
Ritengo di aver maturato un’esperienza che
che descrivono la condizione identitaria dei
mostra la possibilità di conciliare perfettamembri della comunità ebraica di Salonicco
mente l’identità ebraica con l’identità nazioe che forniscono utili elementi di riflessione
nale italiana, anche se sono figlio di madre
sulla questione della natura dell’identità
italiana ma di padre “immigrato” e di cittaebraica in generale.
dinanza italiana acquisita. Mio padre proveniva da Salonicco, una città che aveva visto
per quattro secoli la presenza di una comu[Si trovavano] in una situazione assurda
che non aveva permesso loro di avere una
nità ebraica proveniente dalla Spagna, dopo
nazionalità autentica né di adottarne una.
la cacciata dalla penisola iberica nel 1492, e
Non avevano assunto nessuna caratteristiche aveva conservato non soltanto l’uso della
23
ca che li presentasse come un’entità concreta capace di imporre il proprio peso.
Erano stati delimitati, configurati esclusivamente dalla loro fede religiosa; erano
stati considerati come un popolo sui generis; il popolo dell’Alleanza. Non potevano
avere nemmeno la nazionalità turca perché questa coincideva rigorosamente con
la religione musulmana. Ma anche indipendentemente da questo, essi erano soltanto il popolo di Dio, perciò erano stati
considerati come ospiti più o meno graditi nelle terre dove vivevano. Ma l’ambiguità di questa situazione cominciò a diventare evidente quando, di fronte all’entità astratta che essi rappresentavano, si
alzarono dei popoli che possedevano una
realtà politica concreta indiscutibile. Fu
allora che apparve il vero aspetto della loro situazione: né Francesi, né Tedeschi, né
Greci, né Turchi e nemmeno Ebrei. La loro lingua non era né il greco né il turco,
ma uno spagnolo deteriorato ed imbastardito da contaminazioni di altre lingue,
privo di sintassi precisa e pertanto di letteratura. Non presentavano altra caratteristica particolare che le loro tradizioni religiose e la storia di persecuzioni remote. In
queste condizioni l’unico atteggiamento
comprensibile era quello di Rabbì
Avrahàm Beràha, un rabbino famoso in
tutto il quartiere per la sua pietà religiosa
che lo rendeva assente da qualsiasi fatto
mondano. Due giorni prima dell’occupazione di Salonicco da parte dei Greci, era
stato consigliato di esporre la bandiera
della Nazione alla quale si apparteneva
per premunirsi contro gli eccessi dei soldati eccitati dalla vittoria. Rabbì Avrahàm
si trovava in casa di Samuèl ed ascoltava
molto distrattamente i commenti che facevano i giovani sugli avvenimenti politici. La sua figura patriarcale, solenne nel
suo costume orientale, il volto inquadrato
fra un turbante di seta chiara ed una lun-
24
ga barba che gli scendeva fin sul petto, faceva pensare ad un personaggio balzato
fuori da una tela di Rembrandt. Giacomo
gli aveva chiesto con una lieve sfumatura
di malizia:
— E voi Rabbì Avrahàm che bandiera
esporrete?
Lo sguardo del vecchio rabbino espresse
una sorpresa pacata.
— Di quale nazione siete suddito?
— Io?… Io sono suddito di Dio! — rispose
semplicemente senza enfasi né ironia.
Era l’unico atteggiamento che conveniva a
tutti i suoi concittadini: sudditi di Dio!
Bandiera, esercito, frontiere da difendere,
glorie nazionali… Un mondo sepolto in un
passato remotissimo, completamente cancellato dalla memoria di numerose generazioni. Per essi non esisteva che il Regno di
Dio, quello dei Dieci Comandamenti. Però
tutti gli Ebrei del mondo non potevano
pensarla allo stesso modo… Bisognava, per
vivere fra gli altri popoli, parlare un linguaggio che riuscisse comprensibile al resto
dell’umanità, bisognava parlare come tutti
gli altri, fare della politica, tanto più che si
faceva già del commercio.
[…]
Dovunque noi mettiamo piede siamo considerati degli stranieri e tali rimaniamo perché siamo incapaci di mettere radici… Abbiamo prosperato qui a Salonicco, come
una pianta rigogliosa, per circa quattro secoli; abbiamo dato tanti rami carichi di fiori e di frutti; ma questa pianta, questo albero non ha radici. Le nostre radici, forse, sono rivolte verso il cielo… (Saul Israel, Con
le radici in cielo, Marietti, Milano-Genova
2007).
È certamente per la consapevolezza delle difficoltà della condizione di un “albero senza
radici” che mio padre volle che suo figlio
possedesse delle radici solide, un legame con
questo paese, con la sua cultura, un legame
profondo con la cultura e l’identità italiana
ed europea.
Oggi la condizione dell’ebraismo è molto
diversa da quella precedente la Seconda
guerra mondiale. Il sionismo ha avuto il
merito straordinario di indicare una nuova
soluzione di tipo nazionale al problema
dell’identità ebraica. In tal modo si sono
aperte due vie per gli ebrei: la riscoperta
delle radici nazionali seppellite da secoli, il
riallacciarsi alla storia di Israele attraverso
un ritrovato legame con la terra che ha visto la saldatura tra identità religiosa e identità nazionale ebraica; oppure la scelta di
restare nella Diaspora, fuori da Israele,
conferendo un connotato essenzialmente
religioso e culturale alla propria identità
ebraica. Naturalmente questa seconda scelta non esclude il legame naturale della
Diaspora con quella parte dell’ebraismo
che ha scelto di riscoprire la propria identità nazionale. È un legame rafforzato non
soltanto dall’esistenza di un’unica radice,
ma anche di un comune destino, reso più
evidente dal persistere e persino dall’aggravarsi delle minacce antisemite che fanno
pesare, in particolare sullo stato d’Israele,
l’ombra di una nuova distruzione.
Pertanto, questa duplicità di vie – che non è
una doppiezza – è un retaggio della storia
dell’ebraismo; essa risale al violento sradicamento dalla propria realtà nazionale che gli
ebrei hanno subito e che tuttavia non hanno
mai cancellato dalla propria memoria collettiva. È un punto di importanza centrale, che
deve essere capito, altrimenti è vano parlare
di comprensione reciproca e di convivenza.
Difatti, è proprio nell’incomprensione del
problema dell’identità ebraica e delle sue
lontane radici che si annidano i germi dei
pregiudizi.
Le complesse vicende dell’identità ebraica
insegnano soprattutto una cosa: il carattere
velleitario e astratto del multiculturalismo.
Naturalmente, quando dico questo non mi
riferisco alla multiculturalità, che è un dato di fatto. Il monoculturalismo non è mai
esistito. Tutte le società della storia sono
formazioni “meticcie”, ovvero sono la sintesi di una miriade di apporti diversi. Quel
che conta è che, in date fasi storiche, questi apporti danno luogo a sintesi del tutto
originali che riescono a proporsi come modello sociale e culturale per l’intera società,
almeno fino a quando riescono a conservare una capacità di sviluppo dinamico e una
vitalità. Viceversa, il multiculturalismo è
un progetto di società che prevede la convivenza, fianco a fianco, di gruppi sociali e
culturali diversi, e la cui tolleranza reciproca dovrebbe essere garantita dal fatto che
nessuno di essi eserciti una prevalenza sugli altri e neppure s’impicci di quel che accade nella “zona” occupata dagli “altri”,
nell’indipendenza assoluta di usi, costumi,
religioni, regole di vita e principi etici.
La storia dimostra, al contrario, che la convivenza funziona soltanto in contesti caratterizzati da una identità dominante, la quale
stabilisce i principi generali e le regole di tale
convivenza. Naturalmente, questa predominanza identitaria deve essere improntata alla
tolleranza e non deve cedere alla tentazione
di assorbire, assimilare e inglobare, ovvero di
annullare l’identità altrui. È un equilibrio
difficile, ma una convivenza è impossibile se
non vengono stabilite in qualche modo, e
necessariamente da parte di una maggioranza, le regole generali della vita associata. Per
venire ad un esempio concreto, le società europee sono dominate da una concezione della vita associata che deriva dai principi della
giustizia, della tolleranza e del rispetto della
25
persona che, a loro volta, si radicano nelle
tradizioni ebraico-cristiana e della democrazia liberale. Questa visione della società può
essere aperta a culture diverse e disponibile
ad accoglierle con tolleranza e interesse, ma
senza venir meno a una cornice generale di
principi: ad esempio, non potrebbe accettare
modi di vita o costumi lesivi dei diritti e
della dignità della donna, come la poligamia
o l’infibulazione. Per converso, l’accettazione di una suddivisione della società in zone
in cui ciascuno agisce come meglio crede
porterebbe alla dissoluzione di quella cornice di principi e, in definitiva, alla distruzione di ogni possibile forma accettabile di
convivenza sociale basata sul rispetto reciproco.
Il caso di Salonicco è un buon esempio.
Laggiù gli ebrei erano maggioranza assoluta
e, in qualche modo, improntavano di cultura e religiosità ebraica la vita della città. Ma
non furono mai capaci – e neppure si posero
il problema – di definire in modo esplicito
un tessuto identitario, al limite di trasformare la Gerusalemme dei Balcani in un ministato ebraico. Quindi, con l’ingresso in campo di identità che miravano ad affermarsi in
modo forte – come era quella greca, sebbene
in questo caso si trattasse persino di un’operazione identitaria abbastanza artificiale –
quella esperienza non poteva non concludersi.
Al contrario, chi va in Israele trova qualcosa di ben definito: non soltanto un paese a prevalente presenza ebraica, ma uno
stato di cultura prevalente ebraica, nell’ambito del quale si può ovviamente essere laici o praticare un’altra religione (e, nel
caso di Israele, con un gran margine di
tolleranza), ma in cui l’identità prevalente
definisce la cornice etica e normativa della
convivenza.
26
Chi vive in Italia sa di vivere in un paese
prevalentemente cattolico e le cui forme di
convivenza sono ancora (sebbene in forma
meno accentuata di un tempo) caratterizzate da tale prevalenza. Potrebbe anche accadere, nel futuro, che l’Italia diventi un
paese dominato da una cultura diversa, come fu nel passato: visti i candidati a tale
sostituzione è una prospettiva che non ritengo auspicabile… La peggiore prospettiva sarebbe comunque quella che essa divenisse un mosaico multiculturale, perché di
certo diverrebbe allora un luogo di intolleranze razziali di brutalità inaudita, come
mostrano chiaramente i primi embrioni di
forme di convivenza comunitarista che si
affacciano in Europa, per esempio in
Olanda o nelle periferie londinesi. Oltretutto, una simile disgregazione comunitarista aprirebbe la strada all’affermarsi dell’egemonia delle identità più aggressive e
intolleranti.
Ritengo fermamente che, oggi come ieri,
per un ebreo italiano la questione centrale
nel proprio vivere in questo paese, sia il
rapporto con il cristianesimo e, specificamente, con il cattolicesimo. Del resto è
stato sempre così. La storia dell’ebraismo
in Europa ha questo di caratteristico: che
l’ebraismo è stato sempre un attore delle
vicende culturali, religiose e politiche del
continente e non se ne è mai estraniato,
malgrado sia stato spesso spinto ad estraniarsene e talora in forme di grande violenza. Qui risiede una differenza fondamentale tra l’ebraismo e l’islam, che ha
avuto un ruolo importantissimo nella storia d’Europa ma è ben presto uscito – non
tanto o soltanto espulso, ma volontariamente uscito – dal processo di costituzione
dell’identità europea. Ed ora che tende a
rientrare nella storia d’Europa, tende a far-
lo, a causa del prevalere di correnti integraliste, con un atteggiamento di totale
estraneità e persino di ostilità all’identità
europea, vista come qualcosa da rifiutare e
magari anche distruggere. Le vicende dell’ebraismo europeo, e italiano, sono state
spesso dolorose, dolorosissime, ma non sono mai state estranee a un rapporto
profondo con il mondo cristiano, non sono mai uscite da un dialogo talora molto
difficile, ma comunque particolare e privilegiato, con il cristianesimo.
Cristianesimo ed ebraismo possiedono un
terreno comune, come nessuna altra religione: l’idea messianica. Così come si dice
scherzosamente che americani e inglesi sono “divisi” da una comune lingua, si potrebbe dire che ebraismo e cristianesimo
sono “divisi” dal comune ideale del messianismo. Proprio questa comunanza ideale è
stata fonte dei più gravi dissidi, ma, al
contempo ha rappresentato il terreno di
un rapporto profondo e questo appare più
chiaro oggi che molte incomprensioni e
diffidenze vengono progressivamente gettate alle spalle.
Il tema dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo sulla questione del messianismo è di
enorme complessità, ma merita di essere approfondito. L’interazione delle due religioni
su questo tema ha influito su entrambe, come ha osservato Gershom Scholem: «Se il
giudaismo non ha cessato di instillare nel
cristianesimo un messianismo politico e millenarista, si può osservare, per converso, che
il cristianesimo ha trasmesso all’ebraismo, o
quantomeno ha risvegliato in esso, una tendenza mistica all’interiorizzazione del messianismo». È questa una pista di riflessione
che può essere sviluppata proficuamente oggi, che il terreno appare sempre più sgombro
delle pietre che, nel passato, hanno intralcia-
to il cammino; e ciò nel contesto di un dialogo senza sincretismi come ha detto il Papa
Benedetto XVI nel suo discorso alla sinagoga di Colonia, parlando della necessità di
«un dialogo sincero e fiducioso che non passa sotto silenzio le differenze esistenti» (G.
Scholem, Le messianisme juif, CalmannLévy, Paris 1974).
Non è retorica ripetere che occorre, in primo luogo, ricercare quello che unisce anziché accentuare quello che divide. Fra questi elementi comuni, un aspetto cruciale è
contenuto nel celebre discorso del Papa a
Regensburg. Mi riferisco al tema della ragione. Il rapporto con il pensiero greco è
un tema fondamentale comune al pensiero
ebraico e cristiano. Anche Moshe Idel ha
osservato che la storia dell’evoluzione della
teologia ebraica dai primi secoli dopo Cristo è essenzialmente influenzata dal rapporto e dal confronto con l’ellenismo. Per
questo, non stupisce che il tema del ruolo
della ragione, del suo ruolo nella fede religiosa, nella definizione di una visione
umanistica della società al cui centro si
collochi la persona, sia qualcosa che accomuna profondamente ebraismo e cristianesimo. Entrambi condividono l’aspirazione
a una visione larga e non ristrettamente
positivistica della ragione. Quando si parla
di radici ebraico-cristiane dell’Europa, se
questo termine ha senso è soprattutto per
questo. Non a caso, un grande filosofo
ebreo come Edmund Husserl, ricorrendo
negli anni Trenta a una terminologia quasi
identica a quella usata dal Papa a Regensburg, ha tanto parlato di una «missione filosofica» dell’Europa, consistente nel difendere l’idea di una ragione che non si riduca al naturalismo.
Oggi il senso di questa missione filosofica
appare molto appannato, al punto da evi-
27
La rivista intende coniugare due verbi reciprocamente funzionali: non si può convivere senza conoscersi e non ci si può conoscere se non proviamo a convivere. Il tutto per un “dialogo tra le comunità” (‘titolo’ e ‘sottotitolo’ della pubblicazione). Si qualifica come un “trimestrale di cultura interreligiosa”. È
una iniziativa del Comune di Roma. Ne sono condirettori Benedetto Carucci Viterbi (ebraismo), Abdellah Redouane (islam), Andrea Riccardi (cristianesimo di confessione cattolica), nomi autorevoli delle tre grandi religioni abramitiche.
Il numero “zero” (a sinistra) e il primo numero a destra, dedicato allo “spazio sacro” osservato e visitato
dall’antropologia, dall’architettura, dall’archeologia e dalla teologia.
Roma si progetta come “città del dialogo” riscoprendo la sua memoria e le storie della sua gente: ospitale, affabile, che «vanta una lunga tradizione di pluralismo etnico, culturale e religioso, che si esprime
nella varietà di comunità di fede, di luoghi di culto e di beni culturali tradizionalmente presenti sul suo
territorio».
La rivista è in qualche modo anche l’espressione:
✓ dell’iniziativa tutta romana del tavolo interreligioso della Consulta delle Religioni della città di Roma,
firmato il 16 dicembre 2002 in Campidoglio,
✓ e di quella nazionale della Consulta giovanile per il pluralismo religioso e culturale, l’organismo creato
il 15 dicembre 2006 dal Ministero dell’Interno insieme al Ministero per le Politiche giovanili per
favorire il dialogo tra ragazzi di differenti fedi e culture (www.interno.it).
denziare una drammatica crisi di identità
dell’Europa. Tanto più ebraismo e cristianesimo possono essere naturali alleati nella difesa di una visione umanistica. E qui mi riferisco ancora al discorso del Papa alla Sinagoga di Colonia in cui chiedeva all’ebraismo
una «testimonianza, collaborando per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo e
della sacralità della vita umana, per i valori
della famiglia, per la giustizia sociale e per la
pace nel mondo».
È un terreno del tutto fertile per un discorso
comune, se solo si pensa a quanto sia centrale il ruolo della famiglia nell’ebraismo, nei
suoi riti, nella sua religiosità, nella sua concezione sociale. Come è noto, alcune delle
ricorrenze più solenni dell’ebraismo hanno il
loro luogo naturale nella famiglia. Mi permetterò ancora qui di citare un passaggio
del già menzionato romanzo di mio padre:
[…] chi non ha ricevuto la rivelazione del
sentimento religioso nella famiglia e non
l’ha perfezionato in seno a questa, non riesce a sapere nemmeno di che cosa si tratta.
[…] Fuori della famiglia Dio non è che
un’arida astrazione che può avere anche una
sua bellezza particolare; ma si tratta di una
bellezza priva di umanità: una bellezza tipicamente pagana, fatta di simboli, di esorcismi e di scongiuri. È il Dio degli scapoli e
degli atei. L’amore per questo Dio richiede
uno sforzo di volontà ed uno sforzo mentale appesantito da tante incertezze.
Per parte mia, ritengo che l’ebraismo non
può non essere decisamente schierato in difesa di una visione umanistica e contro un
materialismo dilagante nella società di oggi,
che tende a considerare la persona come una
macchina.
L’ebraismo in cui credo è quello di cui parla Gershom Scholem e voglio concludere
questo intervento con le sue parole, scritte
una trentina di anni fa ma quanto mai attuali:
Un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrà opporsi risolutamente al naturalismo. Dovrà insistere sul fatto
che la nozione tanto diffusa di un mondo
in progresso e che sarebbe lui stesso la fonte
di una libera produzione di senso – che, tra
tutti i fenomeni, è il più difficile da cogliere
– può evidentemente essere proposta, ma
non può essere sostenuta seriamente. Certo,
l’ipotesi secondo cui il mondo è il luogo di
un’assenza di significato è ricevibile, a condizione tuttavia che sia possibile trovare un
solo uomo che sia pronto ad accettarne le
conseguenze. La frivolezza filosofica con la
quale parecchi biologi tentano di ricondurre le categorie morali a categorie biologiche
è una delle caratteristiche più oscure del clima intellettuale della nostra epoca ma non
potrebbe ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. Basta studiare
attentamente uno soltanto di questi lavori
per percepire gli equivoci, le petizioni di
principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifici
intellettuali. Non sarà mai possibile dimostrare l’ipotesi secondo cui il mondo ha un
senso mediante estrapolazioni condotte al
di fuori di contesti di significato determinati, perché questa convinzione è la base della
fede nella creazione.
Ritengo che la credenza incrollabile in un
nucleo morale specifico è quel che conferisce al popolo ebraico il suo senso nella storia del mondo e che essa sia trascendente ad
ogni secolarizzazione. (G. Scholem, Fidelité
et utopie, Calmann-Lévy, Paris 1978).
29
Ebrei e cattolici dal Vaticano II
ad oggi
di Ambrogio Spreafico
dimenticava subito il legame essenziale e
Non si può parlare della svolta conciliare
originario tra Chiesa e Israele.
nel rapporto della Chiesa cattolica con l’eL’interpretazione dei
braismo senza almedati del Nuovo Testano accennare a
mento aveva portato
quanto la storia sia
«Il concilio stabiliva un punto di non riad elaborare, già con
stata segnata da
torno con il quale tutti i cattolici avrebbei primi scrittori criquell’antisemitismo
ro dovuto confrontarsi. Si trattava però
stiani e poi con i Padi cui Jules Isaac
ancora di far passare i dettami conciliari
dri della Chiesa, una
aveva parlato con
nella coscienza comune dei fedeli, che mateologia della sostituGiovanni XXIII e alnifestava notevoli ritardi in questo campo.
zione, secondo la
la cui origine c’era
L’antisemitismo era un problema di menquale l’ebraismo era
“l’insegnamento del
talità, frutto spesso di un’educazione, anstato annullato daldisprezzo”. Esso era
che religiosa, che presentava gli ebrei ancol’evento di Gesù Cril’espressione di una
ra come il popolo responsabile della morte
sto, il nuovo popolo
interpretazione dei
di Cristo».
di Dio aveva sostituidati neotestamentari
to l’antico, la nuova
nata in un periodo
alleanza l’antica, e così via. Questa teologia
di differenziazione e contrapposizione tra
fu all’origine di un’attitudine negativa nei
cristianesimo ed ebraismo e protrattasi nei
confronti dell’ebraismo, che, unita al consosecoli. Tutto era cominciato nei primi selidarsi di antiche pregiudizi, contribuì al forcoli dell’era cristiana, quando l’accusa di
marsi di quell’insegnamento del disprezzo
deicidio iniziò ad apparire nella letteratura
che sfociò persino nella persecuzione. Gli
patristica e poi man mano nella coscienza
episodi da citare sarebbero numerosi. Mi lipopolare cristiana: gli ebrei, considerati i
miterò ad alcuni. Nel secolo XI, a Norwich,
responsabili della morte di Gesù, erano un
piccolo paese dell’Inghilterra, viene trovato
popolo maledetto. Anche il Nuovo Testail corpo ucciso di un bambino. Siamo dumento veniva portato a testimone diretto
rante la settimana santa. Si incolpano gli
di questa accusa. Il Vangelo di Giovanni,
ebrei con l’accusa di omicidio rituale: con
ove la contrapposizione tra i “giudei” e
quell’omicidio avrebbero voluto compiere
Gesù è più marcata, era tra i testi più usati
un sacrilegio nei confronti della morte di
in tal senso; non mancavano ovviamente
Cristo. Alcuni di questi bambini morti, troanche altri riferimenti come quello di
vati in diversi località dell’Europa, vengono
Matteo: «Il suo sangue ricada su di noi e
proclamati santi. Il loro culto, come quello
sui nostri figli» (Mt 27,25). In tal modo si
30
di S. Simonino a Trento, è stato praticato fino al 1965, quando la Santa Sede lo ha proibito. Alla metà del 1300 la peste si diffuse in
varie regioni europee, facendo un gran numero di vittime. La colpa fu addossata agli
ebrei, perché alcuni morti furono trovati in
quartieri abitati da ebrei. La conseguenza fu
lo sterminio di non pochi ebrei in varie
città, Francoforte, Magonza, Colonia,
Bruxelles, Strasburgo e altre. I pogrom nelle
città europee furono ricorrenti e feroci. Nel
1492 gli ebrei che non si convertivano al cristianesimo furono espulsi dalla Spagna.
Gli esempi potrebbero continuare, taluni
con tinte tragiche, tutti comunque rivelatori di un atteggiamento segnato dal pregiudizio. Tale atteggiamento, purtroppo, è
continuato anche nei secoli seguenti per
giungere fino ai nostri giorni. L’ebreo nell’immaginario collettivo fa parte dei “diversi”, che congiurano alle tue spalle, sempre pronti a colpirti o ad organizzare complotti internazionali, come quelli sostenuti
dal libello I protocolli dei savi anziani di
Sion, pubblicati all’inizio del 1900 in Russia, testo pieno di falsità ma facilmente riesumato da rigurgiti di antisemitismo anche
ai giorni nostri. Senza dubbio l’evento più
tragico fu la Shoah, con la barbara uccisione nei campi di sterminio nazisti di circa
6.000.000 di ebrei assieme a 500.000 zingari, oltre a disabili, cristiani, oppositori
politici e uomini di cultura. Lo sterminio,
ad esempio in paesi come la Polonia, la Lituania o la Bielorussia, dove la presenza
ebraica era molto alta e significativa (qui è
nato il chassidismo e si è sviluppato il villaggio ebraico, lo stetl), fu possibile grazie
alla collaborazione e all’azione di gruppi
locali. In Polonia ad esempio su poco più
di 3 milioni di ebrei più del 90% non sopravvisse allo sterminio.
Verso il difficile passaggio conciliare
Durante i secoli passati non mancarono certo voci in difesa degli ebrei, ma non riuscì a
imporsi un generale atteggiamento di dialogo, di incontro, pronto a combattere il pregiudizio che aveva segnato il rapporto ebraico cristiano per secoli. È soprattutto con la
fine della seconda guerra mondiale e dopo il
dramma dell’olocausto che si cominciano a
perseguire in maniera più decisa da parte
cattolica atteggiamenti nuovi. Nel 1950 anche in Italia, e precisamente a Firenze, nasce
l’Amicizia ebraico cristiana, primo segno
concreto di una nuova attenzione verso gli
ebrei, considerati non più estranei o nemici
da combattere, ma un popolo che ha un
rapporto con l’origine della fede cristiana e
che, in quanto tale, non è possibile ignorare.
L’avvento di Giuseppe Roncalli al papato
produsse i primi cambiamenti significativi e
duraturi. Il segno di questo nuovo atteggiamento fu la decisione di Giovanni XXIII di
togliere dalla preghiera del Venerdì Santo la
qualifica di “perfidi”, attribuita agli ebrei,
che ricordava l’accusa di deicidio. Jules Isaac
nello storico incontro con Giovanni XXIII
alle soglie del Concilio Vaticano II aveva
parlato a lungo dell’antisemitismo e del sogno per un futuro nuovo nei rapporti tra
ebraismo e cristianesimo. L’incontro e le parole di Isaac non caddero nel vuoto e certamente contribuirono alla nascita della dichiarazione conciliare Nostra aetate, che ha
rappresentato la vera svolta per i rapporti
ebraico cristiani.
Il documento del Vaticano II ebbe in verità
un iter difficile e lungo. Esso nasce come un
testo che doveva inizialmente riguardare solo
la relazione della Chiesa cattolica con il popolo ebraico. Giovanni XXIII aveva affidato
al Card. Bea l’incarico di elaborare un testo
De Iudaeis, che in seguito, dopo un faticosis-
31
simo percorso, si allargò alle altre religioni,
anzi considerò il rapporto con gli ebrei all’interno della relazione più ampia della
Chiesa con le altre religioni. Si era persino
discusso se di tale rapporto non si dovesse
parlare all’interno della costituzione sulla
Chiesa. I volumi 4 e 5 della Storia del Concilio Vaticano II raccontano ampiamente le
traversie che il documento conciliare dovette
subire prima di essere approvato.1 Appare
tuttavia evidente che il punto di partenza
per il nuovo orientamento conciliare fu il
problema del rapporto ebraico cristiano. La
tragedia della Shoah fu certamente uno dei
motivi che spinse e ripensare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei.
Ma ci furono anche motivi teologici che rallentarono l’elaborazione della Nostra aetate e
ne modificarono l’intento originario. Nel
difficile dibattito conciliare, dentro e soprattutto fuori dall’aula, emergono alcuni tratti
dell’antica e mai superata accusa di “deicidio”, che ha accompagnato la storia del rapporto ebraico cristiano, la cui negazione alla
fine non riuscì ad entrare nella dichiarazione
se non in forma meno forte di quanto avesse
voluto la commissione preparatoria. Al n. 4
della Nostra aetate infatti non si fa accenno
esplicito a tale accusa, benché si dica che,
anche “se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperati per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.”
Il difficile cammino per arrivare all’approvazione della Dichiarazione conciliare non nasceva solo dall’opposizione dei patriarchi
delle Chiese orientali né da quella dei paesi
arabi, ma anche da ragioni teologiche.
La Nostra aetate tuttavia fu all’origine di un
cambiamento profondo delle relazioni tra
cattolici ed ebrei, almeno a livello gerarchico
e teologico. Il concilio stabiliva un punto di
non ritorno con il quale tutti i cattolici
avrebbero dovuto confrontarsi. Si trattava
però ancora di far passare i dettami conciliari nella coscienza comune dei fedeli, che manifestava notevoli ritardi in questo campo.
L’antisemitismo era un problema di mentalità, frutto spesso di un’educazione, anche
religiosa, che presentava gli ebrei ancora come il popolo responsabile della morte di
Cristo. Il 22 ottobre 1974 fu istituita, all’interno dell’allora Segretariato per l’Unione
dei Cristiani, la Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, presieduta dal
Card. J. Willebrands. La commissione ha
elaborato negli anni tre documenti significativi: 1) Orientamenti e Suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra aetate (1 Dicembre 1974); 2) Sussidi per
una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi
della Chiesa Cattolica (24 giugno 1985); 3)
Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah
(16 marzo 1998). I primi due testi spiegano
il senso del rapporto unico esistente tra ebrei
e cristiani e danno una serie di indicazioni
per presentare in modo corretto l’ebraismo
nella catechesi e nella predicazione. Il terzo è
una riflessione storica, in cui si evidenziano
le responsabilità dei cristiani (cattolici) nei
confronti delle persecuzioni contro gli ebrei,
con un riferimento particolare alla Shoah.
Anche il documento Memoria e riconcilia-
1
Storia del Concilio Vaticano II, Volume 4. La chiesa come comunione. Il terzo periodo e la terza intersessione. Settembre 1964-settembre 1965, pp. 119-218, 578-595; volume 5. Concilio di transizione. Il quarto periodo e la conclusione del concilio (1965), pp.
223-232, diretto da Giuseppe Alberigo, Bologna 1999, 2001.
32
zione: la Chiesa e le colpe del passato, elaborato dalla Commissione teologica internazionale durante il Giubileo dell’Anno 2000,
contiene un paragrafo sulle colpe dei cristiani nei confronti degli ebrei (5.4). Non possiamo dimenticare un breve riferimento al
lavoro svolto negli ultimi anni dal Comitato
bilaterale promosso dalla Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo e dal Gran Rabbinato di Israele, che
dal 2003 al 2006, dopo un incontro preliminare nel 2002, ha elaborato in cinque incontri successivi altrettante dichiarazioni su
diversi temi: I. La Santità della vita umana e
i valori della famiglia; II. La rilevanza per la
società contemporanea degli insegnamenti
centrali della Sacra Scrittura che condividiamo e la conseguente educazione della futura
generazione; III. Una visione condivisa della
giustizia sociale e della condotta etica; IV. La
relazione tra l’autorità religiosa e civile nella
tradizione ebraica e cristiana; V. Relazione
tra vita umana e tecnologia. L’ultimo documento della Pontificia Commissione Biblica
Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella
Bibbia cristiana, su cui avremo modo di tornare, ribadisce in modo ancora più esplicito
il rapporto tra Primo e Nuovo Testamento
secondo la prospettiva conciliare, con sviluppi interessanti.
Potremmo dire che il suggello del nuovo
orientamento della Chiesa cattolica prima degli ultimi documenti fu la visita del Papa alla
Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986. Qui Giovanni Paolo II chiama gli ebrei “i nostri fratelli
maggiori”: «La religione ebraica non ci è
estrinseca, ma in un certo qual modo è intrinseca alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con
nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti, e, in un certo modo, si potrebbe dire i
nostri fratelli maggiori».2 Questo appellativo
“fratelli maggiori” fu in verità oggetto di discussione da parte ebraica, tanto che si preferisce oggi parlare di “fratelli prediletti”, come
suggerisce un recente libro di Pierfrancesco
Fumagalli. C’è chi vi ha visto un tono negativo, motivato da un’analisi biblica, che indurrebbe a considerare che il maggiore non è mai
il prediletto e il prescelto da Dio (Ismaele –
Isacco, Esaù – Giacobbe, Giuseppe e i fratelli,
Davide e i fratelli...). Ma occorre leggere questo appellativo innanzitutto all’interno della
Chiesa e del suo modo di intendere il rapporto con l’ebraismo. Dire “fratelli maggiori” significava non solo esprimere stima, ma riconoscere proprio quel legame unico di dipendenza del cristianesimo dall’ebraismo. Nell’immaginario collettivo dei fedeli cattolici
quell’appellativo rovesciava antichi e ancora
diffusi pregiudizi. 3
Occorre tuttavia citare almeno due altri momenti, che hanno riaffermato in tempi più recenti la ferma volontà dei pontefici di sottolineare la peculiarità del rapporto ebraico cristiano e la sua unicità: il pellegrinaggio di
Giovanni Paolo II in Terra Santa nel 2000 e la
visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Colonia durante la Giornata Mondiale della Gioventù nel 2005.4 Nel pellegrinaggio in Terra
Santa la visita a Yad Vashem e al muro del
pianto hanno espresso di nuovo la ferma con-
2
Insegnamenti 1986, IX/1, Nella sinagoga di Roma: «Ringraziamo il Signore per la ritrovata fratellanza e per la profonda intesa
tra la Chiesa e l’Ebraismo», p. 1027.
3
Cfr Messaggio inviato al Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni in occasione della celebrazione del centenario del Tempio
Maggiore il 23 maggio 2004, in Osservatore Romano, 24-25 maggio 2004: «Vorremmo percorrere con un solo cuore le vie della
pace».
4
Cfr Osservatore Romano, 20 agosto 2005.
33
La basilica di san Pietro e
il Tempio Maggiore di Roma: due case di preghiera.
Due simboli. Una sola
città. La riscoperta di un
Dio in comune e di un fratello ebreo come Gesù di
Nazareth. Secoli di separazioni, anni di riavvicinamento, evento di reciproca
ospitalità: 13 aprile 1986:
Giovanni Paolo II incontra
la comunità ebraica nella
sinagoga di Roma.
Ricordare eventi come
questi è come ricordarsi
che prima di noi alcuni
uomini di buona volontà hanno piantato un albero in comune e si sono impegnati per se stessi e per le
future generazioni di convivere e di godere reciprocamente dei frutti di tale economia condivisa. E le
parole di chi ha infranto il muro di separazione devono ancora oggi essere un testamento attualizzante
di quell’alleanza testamentaria di Dio con Israele e con la Chiesa, con i figli di Abramo e i credenti nel
Figlio di Abramo Jehoshu’ah, Gesù di Nazareth, per i cristiani il Cristo.
Dal discorso di Giovanni Paolo II:
Dal discorso del rav Elio Toaff:
Vorrei prima di tutto, insieme con voi, ringraziare e lodare il Signore che ha “disteso il
cielo e fondato la terra” (cfr Is 51,16) e che
ha scelto Abramo per farlo padre di una
moltitudine di figli, numerosa “come le stelle in cielo” e “come la sabbia che è sul lido
del mare” (Gen 22,17; 15,5), perché ha voluto nel mistero della sua provvidenza, che
questa sera si incontrassero in questo vostro
“Tempio maggiore” la comunità ebraica che
vive in questa città, fin dal tempo dei romani antichi, e il Vescovo di Roma e Pastore
universale della Chiesa cattolica.
[…] L’odierna visita vuole recare un deciso
contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre due comunità, sulla scia
degli esempi offerti da tanti uomini e donne, che si sono impegnati e si impegnano
tuttora, dall’una e dall’altra parte, perché
siano superati i vecchi pregiudizi e si faccia
spazio al riconoscimento sempre più pieno
di quel “vincolo” e di quel “comune patrimonio spirituale” che esistono tra ebrei e
cristiani. […]
Grazie quindi a tutti voi. “Todà rabbà” (grazie tante).
Il nostro compito comune nella società dovrebbe essere dunque quello di cercare di
insegnare ai nostri simili il dovere del rispetto dell’uomo per l’uomo, […] raffermiamo la universale paternità di Dio su
tutti gli uomini, ispirandoci ai profeti che
l’hanno insegnata quale amor filiale che
congiunge tutti gli esseri viventi al seno
materno dell’infinito, come alla loro matrice naturale. È quindi l’uomo che deve
essere preso in considerazione. L’uomo che
è stato creato da Dio a Sua immagine e somiglianza nell’intento di conferirgli una
dignità ed una nobiltà che può mantenere
solo se vorrà seguire l’insegnamento del
Padre. […]
Santità, in questo momento così importante
nella storia dei rapporti fra le nostre due religioni, mentre il cuore si apre alla speranza
che alle sciagure del passato si sostituisca un
fruttuoso dialogo che, pur nel rispetto delle
esistenti diversità, dia a noi la possibilità di
un’azione concorde, di una cooperazione
sincera e onesta per il raggiungimento di
quei fini universali che sono nelle nostre comuni radici […].
danna dell’antisemitismo e la richiesta di perdono per le sofferenze del “popolo dell’alleanza”, come lo ha chiamato Giovanni Paolo II
nella preghiera lasciata al muro del pianto:
«Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e
la sua discendenza perché il tuo Nome fosse
portato alle genti: noi siamo profondamente
addolorati per il comportamento di quanti nel
corso della storia hanno fatto soffrire questi
tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo
impegnarci in un’autentica fraternità con il
popolo dell’alleanza. Per Cristo nostro Signore. Amen».5 L’attenzione di Benedetto XVI
per il rapporto ebraico cristiano, precedentemente alla sua elezione a Papa, è stata anche
espressa dagli incontri personali da lui avuti
come prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede con rabbini italiani e
israeliani, come ad esempio Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, David Rosen, direttore dell’ufficio per il Dialogo interreligioso
dell’American Jewish Commitee, Adin Steinsalz, uno dei più grandi esperti di Talmud.
Nel discorso a Colonia Benedetto XVI, dopo
aver richiamato in maniera toccante la memoria delle vittime della Shoah, ricorda il «ricchissimo patrimonio spirituale che ebrei e cristiani condividono» e che deve quindi incoraggiare un «dialogo sincero e fiducioso».6
L’alleanza mai revocata
Tutti i documenti della Chiesa finora citati,
comprese le parole di Giovanni Paolo II alla
Sinagoga di Roma e di Benedetto XVI a
quella di Colonia, mettono in luce l’unicità
del rapporto ebraico cristiano. Il Documento Vaticano del 1985 inizia con queste parole: «I. Nella dichiarazione Nostra aetate (n.
4), il Concilio parla del “vincolo che lega
spiritualmente” cristiani ed ebrei, del “grande patrimonio spirituale comune” agli uni e
agli altri e afferma anche che la Chiesa “riconosce che gli inizi della sua fede e della sua
elezione si trovano già, secondo il mistero
divino della salvezza, nei Patriarchi, in Mosè
e nei Profeti.” 2. In considerazione di questi
rapporti unici esistenti tra il cristianesimo e
l’ebraismo, “legati al livello stesso della loro
identità” (Giovanni Paolo II, 6 marzo
1982), rapporti “fondati sul disegno di Dio
dell’Alleanza” (ibid.), gli ebrei e l’ebraismo
non dovrebbero occupare un posto occasionale e marginale nella catechesi e nella predicazione, ma la loro indispensabile presenza
deve esservi organicamente integrata».7
Nell’incontro con i rappresentanti delle comunità ebraiche della Germania Federale a
Mainz il 17 novembre 1980 Giovanni Paolo
II parla del «popolo ebraico dell’Antica Alleanza, che non è mai stata revocata».8 Si
tratta di un’affermazione che fa considerare
il rapporto tra le due alleanze, l’antica e la
nuova, in termini nuovi. L’antica alleanza
non è qualcosa di caduco, ormai superata e
abolita dalla nuova, ma permane nel suo valore. Il recente documento della Pontificia
Commissione Biblica Il popolo ebraico e le
sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana corregge una comune interpretazione del Nuovo Testamento quando afferma: «Il Nuovo
Insegnamenti 2000, XXIII/1.
Cfr Osservatore Romano, 20 agosto 2005.
COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO, Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella
predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica, I,1-2. Cfr SIDIC (a cura di), Parlare correttamente degli Ebrei e dell’Ebraismo,
Roma s.d.; E. ZENGER, L’alleanza mai revocata. Inizi di una teologia cristiana dell’ebraismo, in Chiesa ed Ebraismo oggi. Percorsi
fatti, questioni aperte, Roma 2005, pp. 111-134.
8
Insegnamenti 1980, III/2, Incontro con gli esponenti della Comunità Ebraica a Magonza: «La ricchezza della comune eredità ci
apre al dialogo e alla collaborazione», pp. 1272-1276.
5
6
7
35
Testamento non afferma mai che Israele è
stato ripudiato. Fin dai primi tempi, la
Chiesa ha ritenuto che gli ebrei restano testimoni importanti dell’economia divina
della salvezza. Essa comprende la propria
esistenza come una partecipazione all’elezione di Israele e alla vocazione che resta, in
primo luogo, quella di Israele, sebbene solo
una piccola parte di Israele l’abbia accettata». E conclude il paragrafo dicendo: «È per
le nostre radici comuni e per questa prospettiva escatologica che la Chiesa riconosce al
popolo ebraico uno status speciale di “fratello maggiore”, il che gli conferisce una posizione unica tra tutte le religioni».9 I documenti sopra citati sottolineano alcuni aspetti
del rapporto privilegiato tra cristiani ed
ebrei, divenuti ormai patrimonio comune
del dialogo ebraico cristiano. Li cito solo,
perché credo sono a tutti noti:
La comune paternità di Abramo. Ebrei e cristiani si riconoscono nella comune fede di
Abramo, padre dei circoncisi e dei non circoncisi, come dice l’Apostolo (cfr Rm 4,912).10 La paternità abramitica raggiunge anche l’Islam e permette di parlare di un patrimonio comune alle tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam. Tuttavia ultimamente si è innescato un dibattito
tra esperti sulla paternità abramitica estesa
anche all’Islam. Secondo alcuni studiosi dal
punto di vista della comprensione cristiana
dell’Islam, si dovrebbe piuttosto intendere
l’Islam, come le altre religioni, all’interno di
quello che secondo la Bibbia si potrebbe
chiamare il noachismo.11
L’ebraicità di Gesù. In modo lapidario i Sussidi affermano che «Gesù è ebreo e lo è per
sempre; …Gesù è pienamente un uomo del
suo tempo e del suo ambiente ebraico palestinese del I secolo, di cui ha condiviso gioie
e angosce. Ciò sottolinea, come ci è stato rivelato nella Bibbia (cfr Rm 1,3-4; Gal 4,45)
sia la realtà dell’incarnazione che il significato stesso della storia della salvezza».12 Come
ebreo Gesù ha vissuto nella tradizione e nella fede del suo popolo: frequentava il tempio, la sinagoga, osservava la legge. L’ebraicità di Gesù fa parte integrante del mistero
divino di salvezza. Noi, si potrebbe dire, siamo discepoli di un ebreo. Certo questo
ebreo, figlio di Dio, ha dato inizio a un modo nuovo di vivere la fede del suo popolo.
Ma ciò non elimina la sua ebraicità. Lo stesso si potrebbe dire degli apostoli, dei primi
discepoli di Gesù e delle prime comunità.
In questa prospettiva bisogna rivedere i dati
del Nuovo Testamento perché non siano interpretati in chiave antiebraica. Il capitolo
quarto dei Sussidi viene dedicato interamente a questo punto. Non dimentichiamoci
che l’accusa di deicidio si basa su un’interpretazione non corretta del Nuovo Testamento. Ma in proposito già la Nostra aetate
aveva detto: «Quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora
viventi, né agli ebrei del nostro tempo... gli
ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che
ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura». «Il catechismo del Concilio di Trento insegna inoltre che i cristiani peccatori sono più colpevoli della morte di Cristo, rispetto ad alcuni
ebrei che vi presero parte: questi ultimi, infatti, “non sapevano quello che facevano”
PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, n. 36.
Sussidi, 2.
11
Cfr G. RIZZI – A. CAGLIONI - R. REDAELLI, Il patto con Noè, Caltanissetta 2001, pp. 26-33.
12
Sussidi, 12; cfr anche Orientamenti, III.
9
10
36
(Lc 23,24), mentre noi lo sappiamo fin
troppo bene».13 L’insegnamento di questi testi è inequivocabilmente chiaro!14 Il recente
documento della Pontificia Commissione
Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana dedica tutto il terzo
capitolo a questo tema. È significativo come
il testo cerchi in tutti i modi di sottolineare
che non si possano interpretare i dati neotestamentari in senso antigiudaico. Leggiamo
ad esempio quanto dice a proposito dell’ostilità dei “giudei” nei confronti di Gesù,
che emerge nel Vangelo di Giovanni: «Non
si tratta affatto di antigiudaismo di principio, poiché — come abbiamo già ricordato
— il vangelo riconosce che “la salvezza viene
dai Giudei” (Gv 4,22). Questo modo di
parlare riflette soltanto una situazione di
netta separazione tra le comunità cristiane e
quelle ebraiche».15 E più avanti: «Nel vangelo l’aspetto polemico è secondario. Ciò che è
di fondamentale importanza è la rivelazione
del “dono di Dio” (4,10; 3,16) offerto a tutti in Gesù Cristo, specialmente a coloro che
“l’hanno trafitto” (19,37)».16 Questa preoccupazione si allarga all’interpretazione di
tutti i dati neotestamentari, contenuti nei
Vangeli e negli altri scritti, a cui è dedicato
l’intero terzo capitolo proprio nell’intento di
reinterpretare i testi alla luce dell’insegnamento recente della Chiesa.
Rapporto tra i testi sacri, nella preghiera e nella liturgia. Sia gli ebrei che i cristiani hanno
come parte dei loro testi sacri il Primo Testamento, per gli ebrei il Tanak, abbreviazione
delle tre parti di cui si compone la Bibbia
ebraica, Torah (Legge), Nebi’im (Profeti),
Ketubim (Scritti). Il Primo Testamento dei
cristiani non coincide del tutto con la Bibbia ebraica. Solo circa due terzi delle nostre
Scritture Sacre sono in comune con l’ebraismo contemporaneo. Infatti i cristiani nei
primi secoli ereditarono la Bibbia greca dei
Settanta dagli ebrei delle comunità della diaspora, mentre gli ebrei, probabilmente tra I
e II secolo della nostra era, definirono la loro Bibbia in modo diverso. Tuttavia anche le
parti in comune sono interpretate all’interno
di due tradizioni religiose cresciute in modo
diversificato. Per un cristiano il Primo Testamento acquista il suo senso pieno solo in
rapporto a Gesù, così come per un ebreo la
Bibbia ebraica ha il suo senso pieno all’interno dell’interpretazione rabbinica. Ciò ovviamente non esclude la comune eredità: quella
Bibbia la continuano a leggere gli ebrei nella
sinagoga e i cristiani nelle chiese. Lo stesso si
può dire della preghiera e della liturgia. Senza dire della grande eredità della preghiera
dei Salmi, lasciataci dalla Bibbia ebraica, si
potrebbe ancora scandagliare il patrimonio
comune della liturgia, sia alla sua origine
che nella sua forma attuale, soprattutto se
facessimo riferimento alle liturgie di alcune
chiese orientali, come quella siro - ortodossa
o quella caldea. Ma per restare al patrimonio
ereditato dalla Chiesa ancora indivisa, basta
ricordare il radicamento dell’eucaristia nel
contesto della cena pasquale ebraica.
Gli aspetti ora evidenziati sono ripresi e
chiariti ancora meglio nel documento Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana. Si tratta di un testo fondamentale, che non solo recepisce quanto affermato dal Concilio e da Giovanni Paolo II, ma
si pone come un documento che esplicita in
Riportato nei Sussidi, 22.
Cfr Orientamenti, III.
15
Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture, n. 76.
16
Ivi, n. 78.
13
14
37
modo inequivocabile il valore permanente
delle Scritture ebraiche sia per la catechesi
che per la riflessione teologica. Infatti quanto è stato affermato finora dal magistero della Chiesa non è sempre rifluito in maniera
evidente nel linguaggio catechetico e teologico. Ad esempio si assiste ancora frequentemente a un uso apologetico dell’Antico Testamento nella teologia, che, oltre a mostrare una scarsa conoscenza del testo biblico,
evidenzia un’interpretazione impropria del
rapporto Primo e Nuovo Testamento. Talvolta la stessa interpretazione cristologica del
Primo Testamento rivela questi limiti tanto
da rasentare concezioni non lontane da un
ritorno di posizioni marcionìte, in cui si nega il valore del Primo Testamento. Addirittura la stessa esegesi del Nuovo Testamento
soffre di una conoscenza talvolta scarsa del
Primo Testamento.
L’importanza della posizione del documento
della Pontificia Commissione Biblica è visibile soprattutto là dove il testo affronta il
problema del rapporto tra Primo e Nuovo
Testamento. Qualche breve citazione lo dimostra: «Il presupposto teologico di base è
che il disegno di Dio, che culmina in Cristo
(cfr Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato
progressivamente attraverso il tempo. L’aspetto unitario e l’aspetto graduale sono entrambi importanti; così come lo sono la
continuità su alcuni aspetti e la discontinuità su altri».17 «Sarebbe… un errore considerare le profezie dell’Antico Testamento
delle fotografie anticipate di eventi futuri.
Tutti i testi, compresi quelli che, in seguito,
sono stati letti come profezie messianiche,
hanno avuto un valore e un significato immediati per i contemporanei, prima di ac17
18
Ivi, n. 21.
Ivi, n. 21.
38
quistare un significato più pieno per gli
ascoltatori futuri. Il messianismo di Gesù ha
un significato nuovo e inedito… È meglio
perciò non insistere eccessivamente, come fa
una certa apologetica, sul valore di prova attribuita al compimento delle profezie».
«Leggere l’Antico Testamento da cristiani
non significa perciò volervi trovare dappertutto dei diretti riferimenti a Gesù e alle
realtà cristiane».18 Una scorsa veloce ai titoli
del documento sarebbe sufficiente per notare come gli aspetti mostrati precedentemente sono ampiamente ripresi, approfonditi e
sviluppati in modo innovativo.
Paradigma e diversità
Vorrei partire da un’affermazione, che potrebbe sembrare contraddittoria con quanto
si è venuto dicendo finora: il dialogo non
elimina la differenza. Pur nel patrimonio comune, ebrei e cristiani si sono differenziati
lungo la storia sino a solidificarsi in due tradizioni religiose ben diverse. Non si deve cadere nell’errore di ritenere che ebrei e cristiani hanno in comune il Primo Testamento,
mentre la differenza nasce solo nel Nuovo
Testamento, per cui gli ebrei sarebbero dei
“cristiani mancati”. Gli ebrei non hanno solo il Primo Testamento e l’ebraismo non si
riduce alla lettura del Primo Testamento, come talvolta un certo dialogo superficiale
sembra intendere. Bisogna tenere ben presente che anche la Mishna, la legge orale,
commentata nella tradizione rabbinica raccolta nel Talmud, è un testo che nella tradizione ebraica è rivelato da Dio a Mosè come
la legge scritta raccolta nel Pentateuco. Nell’interpretazione della Bibbia ebraica molti
rabbini partono dal Talmud e non dalla Bib-
bia, anzi secondo alcuni è il Talmud che rende possibile una corretta lettura della Bibbia.
Se allora si volesse istituire un parallelo tra i
testi sacri delle due tradizioni religiose, bisognerebbe dire: Tanak (Primo Testamento) +
Mishna-Talmud per gli ebrei; Primo Testamento + Nuovo Testamento per i cristiani.
Senza la tradizione rabbinica non esiste
ebraismo, come senza Gesù e quindi senza
Nuovo Testamento non esiste il cristianesimo. Questo non indica un disprezzo di
stampo marcioniano per il Primo Testamento, ma solo che il Primo Testamento, per la
tradizione ebraico-cristiana, non è dato se
non all’interno di una tradizione interpretativa. Credo che uno dei limiti del dialogo è
spesso la misconoscenza della tradizione rabbinica, quasi che l’ebraismo si fosse fermato
alla Bibbia ebraica. Non si comprende a
fondo il patrimonio proprio dell’ebraismo se
non cogliendo come il Primo Testamento è
stato vissuto nella tradizione, così come non
si coglie il cristianesimo se non alla luce del
Nuovo Testamento e della tradizione della
Chiesa. Ciò non sopprime il valore storico
del Primo Testamento. Ma la Parola di Dio è
viva nella storia, è un libro che ha un valore
nella misura in cui è reso vivo nella fede di
coloro che lo leggono e lo interpretano.
Si accenna oggi sempre più alla necessità di
un dialogo teologico tra ebrei e cristiani. Sono stati fatti dei tentativi anche nel passato
per definire da parte ebraica e da quella cristiana il senso del partner all’interno del disegno salvifico divino. Basti pensare, ad
esempio, alla riflessione di Rosenzweig nella
Stella della redenzione19 o del rabbino italiano del secolo scorso Elia Benamozegh in
Israele e l’umanità. 20 Lo stesso Benedetto
XVI a Colonia sembra incoraggiare la riflessione teologica: «Resta ancora molto da fare.
Dobbiamo conoscerci a vicenda molto di
più e molto meglio. Perciò incoraggio un
dialogo sincero e fiducioso tra ebrei e cristiani: solo così sarà possibile giungere ad un’interpretazione condivisa di questioni storiche
ancora discusse e, soprattutto, fare passi
avanti nella valutazione, dal punto di vista
teologico, del rapporto tra ebraismo e cristianesimo».21
In conclusione vorrei sottolineare una dimensione dell’unicità di questo rapporto e della
svolta conciliare. Il cambiamento di attitudine della Chiesa cattolica verso l’ebraismo non
riguarda solo la valorizzazione del patrimonio
comune che unisce ebraismo e cristianesimo.
Nella Chiesa già altre volte nel passato, a cominciare dalla condanna di Marcione o dall’affermazione del Concilio di Trento sulla responsabilità della morte di Cristo che è da attribuire a tutti gli uomini e non agli ebrei, si è
sostenuto il valore della tradizione ebraica.
Con il Vaticano II si afferma in maniera definitiva che è indispensabile e intrinseco per la
vita stessa della Chiesa il rapporto con l’ebraismo vivente, non solo con la sua tradizione.
Pio XI, proprio all’indomani della pubblicazione in Italia delle leggi razziali del 5 settembre 1938, visibilmente scosso ebbe a dire a un
gruppo di giornalisti belgi in visita a Castel
Gandolfo: «L’antisemitismo è inammissibile.
Noi siamo spiritualmente semiti».22 Il teologo
russo Vladimir Solov’ev nel suo libro L’ebraismo e il problema cristiano scrive: «Noi siamo
staccati dagli ebrei solo perché non siamo
completamente cristiani». Questa forse è la
F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, Casale Monferrato 1985 (or. 1921).
E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, Genova 1990 (or. 1914).
21
Cfr Osservatore Romano, 20 agosto 2005.
22
Citato da P.F. FUMAGALLI, Roma e Gerusalemme. La Chiesa Cattolica e il popolo di Israele, Mondatori, Milano 2007, p. 231.
19
20
39
vera novità del Concilio e dell’attitudine dei
Pontefici del postconcilio, che recepisce e formula in maniera chiara quanto era forse stato
sommerso da una storia travagliata e difficile.
La Shoah ha certamente spinto in questa direzione. Gli ebrei erano accanto a noi e molti
di loro sono stati eliminati. Il loro sterminio è
avvenuto proprio nella società cristiana europea. Il cristianesimo si è definito nei secoli in
maniera diversa dall’ebraismo, che ha una sua
storia e una sua vita attuale in numerose comunità. L’esistenza cristiana e la sua stessa
comprensione tuttavia portano in sé, nelle
proprie radici, l’ebraismo vivente quale interlocutore essenziale. Per questo il dialogo
ebraico cristiano è per la Chiesa indispensabile e addirittura si è posto come paradigma del
dialogo interreligioso.
Il rapporto ebraico cristiano infatti è stato
suscitatore involontario della Dichiarazione
conciliare sulla relazione della Chiesa con le
religioni. Si tratta quindi di un rapporto che
è diventato in qualche modo paradigmatico.
È anche emersa la peculiarità di tale rapporto rispetto a quello che la Chiesa intrattiene
con le altre religioni. Qui siamo di fronte a
un problema di fondo che riguarda la rivelazione. Il paradigma relazionale ebraico cristiano si inserisce all’interno di una rivelazione divina del tutto particolare, che si è
sviluppata nell’antico Israele, e di cui sono
testimoni le Scritture ebraiche e il Primo Testamento, e che si è compiuta in Gesù Cristo Figlio di Dio secondo il cristianesimo. Il
compimento, come esprime bene il recente
documento della Pontificia Commissione
Biblica, non annulla il valore storico e rivelativo delle Scritture ebraiche. Questo valore
non è paragonabile in alcun modo ad altri
tipi di testi sacri o di manifestazioni religiose
di nessun altra religione o popolo.
Risulta per questo inappropriata e non giu-
40
stificata teologicamente la relazione che alcuni stabiliscono tra le Scritture Ebraiche e
altri testi ritenuti sacri da altre religioni o
culture. Questi ultimi infatti si inseriscono
piuttosto in quella praeparatio evangelica,
che esprime in modo misterioso la presenza
di Dio e dello Spirito nelle culture e nelle
espressioni religiose dei popoli. Ancor meno
accettabile è la posizione di coloro che, all’interno del pluralismo religioso, pensano al
Cristo come a una delle manifestazioni del
logos divino nella storia. Ci troviamo di
fronte a riduzioni dell’unicità della rivelazione ebraico cristiana che, pur rivestendo gli
aspetti culturali in cui si è andata manifestando e sviluppando, mantiene il suo valore
universale e singolare, che non è possibile
paragonare o sostituire con altri tipi di manifestazioni del sacro, per quanto esse mantengano il loro valore per coloro che le hanno ricevute.
Siamo così di fronte a un paradigma che rivela anche una profonda diversità, a cui non
è possibile rinunciare, pena l’annullamento
del valore salvifico della rivelazione di Dio
in Gesù Cristo. È quanto emerso anche nella faticosa elaborazione della Nostra aetate e
nei successivi e numerosi interventi pontifici
sul problema del rapporto ebraico cristiano.
La diversità rimane anche tra ebraismo vivente e cristianesimo. Il dialogo è possibile
solo nella consapevolezza della propria identità e innegabile differenza. Certo, si potrebbe dire che cristianesimo ed ebraismo si
pongono su un piano asimmetrico, come direbbe il Rabbino Di Segni: mentre infatti
per il cristiano l’ebraismo è indispensabile
per la sua comprensione, per l’ebraismo il
cristianesimo risulta di per sé superfluo. Tuttavia si dovrebbe riflettere proprio a partire
dai dati appena accennati. Se il cristianesimo nasce da ebrei e i dati del Nuovo Testa-
mento sono unanimi nell’affermare l’appartenenza ebraica del cristianesimo, non dovrebbe questa origine interrogare e riguardare anche l’ebraismo? In fondo l’ebraismo del
tempo di Gesù era molto differenziato al
suo interno. Farisei, sadducei, zeloti, nazirei,
esseni, battisti, sono solo alcune delle espressioni dell’ebraismo del primo secolo. Inizialmente il cristianesimo era percepito né più
né meno come uno di queste differenziazioni del mondo ebraico. Anche l’ebraismo di
oggi è differenziato. Che cosa significa per
l’ebreo un cristiano che afferma di essere
parte di Israele, dell’alleanza di Dio con il
suo popolo, che, come avveniva a Qumran,
interpreta la Torah a partire da una propria
autocomprensione? Certo la divina figliolanza di Gesù Cristo risulta inaccettabile per la
fede ebraica, perché metterebbe in discussione il monoteismo. Ma non è così per il cristianesimo, che afferma il monoteismo nonostante parli di un Dio che si manifesta
misteriosamente in tre persone. Mi sembra
un problema aperto.
Un paradigma per una società del convivere
Al di là di questo interrogativo, il rapporto
ebraico cristiano, come ha dimostrato la
Commissione mista Santa Sede – Gran Rabbinato di Israele, condivide una serie di temi
che possono contribuire alla costruzione della società di oggi.
1. Dal particolare all’universale. Viviamo in
un mondo dove i particolarismi, a livello
di popoli, gruppi, individui, stanno segnando la nostra società con processi contrari a ogni ricerca di unità e solidarietà.
Basti pensare alla fatica di arrivare all’unità
europea, alle divisioni etnico religiose all’interno della stessa Europa, alla distanza
23
sempre più forte tra Nord e Sud del mondo. Pur partendo dalla particolarità ed
esclusività dell’elezione di Israele tra i popoli, nella vocazione e nella storia ebraica e
in quella cristiana, anche se in maniera differente, c’è una radice di universalismo,
una vocazione a raggiungere tutti gli uomini, a essere tra tutti segno della presenza
del Dio unico. La particolarità, necessaria
per il costituirsi dell’universalità, non è
cioè fattore di scontro. L’identità non è necessariamente contrapposta, anche se non
si assimila al contesto in cui si trova a vivere. La vocazione stessa di Israele è in funzione di tutta l’umanità, così come la vocazione cristiana. Questa vocazione all’universale, pur vissuta in modi diversi, potrebbe essere una sfida al mondo di oggi,
una sfida verso il riconoscimento di una
unità del genere umano in quanto partecipe di un’unica natura. La vocazione particolare, che non esclude, ma guarda il diverso come espressione dell’immagine di
Dio, contiene una forza di universalità e di
unità.23
2. Memoria del male. La memoria è un
aspetto essenziale della coscienza religiosa
ebraico cristiana. L’imperativo “ricordati” risuona frequentemente nella Bibbia come un
invito a una coscienza vigile della propria
realtà, fragilità e dipendenza da Dio. Soprattutto il credente non può non ricordare i benefici ricevuti e la forza del male presente
nella storia. Di fronte a un Europa in cui
sembra più facile dimenticare o minimizzare
la tragedia della Shoah, la coscienza ebraicocristiana porta in sé una memoria, che significa impegno concreto per aiutare a non dimenticare e ad agire con ogni mezzo per
estirpare dalla cultura occidentale ogni pre-
Cfr J. SACKS, La dignità della differenza, Milano 2004.
41
giudizio non solo nei confronti degli ebrei,
ma di tutte le minoranze.
Da questa memoria deriva concretamente
un impegno contro ogni forma di razzismo
e di antisemitismo. «L’antisemitismo così
come ogni forma di razzismo sono un peccato contro Dio e l’umanità, e come tale
deve essere rigettato e condannato», dichiarava Giovanni Paolo lI il 16 novembre
1990.24 In un momento in cui alcuni attribuiscono i fenomeni di razzismo alla eccessiva presenza degli immigrati in mezzo
a noi, la coscienza ebraico-cristiana dell’Europa non può non ribellarsi ricordando i comandamento biblico: «Quando uno
straniero dimorerà presso di voi nel paese,
non gli farete torto. Lo straniero dimorante in mezzo a voi lo tratterete come colui
che è nato fra di voi; tu lo amerai come te
stesso, perché anche voi siete stati stranieri
25
nel paese d’Egitto» (Lv 19,33-34). Ma
vediamo anche l’insorgere di vecchi stereotipi antisemiti, accanto ad attacchi contro
persone e istituzioni ebraiche. Il conflitto
medio orientale è per alcuni motivo di un
insorgente quanto pericoloso antisemitismo. Ma nessun motivo può essere portato
a giustificazione dell’antisemitismo.
3. La vita per prima cosa. La lotta contro
l’antisemitismo e il razzismo apre la strada a
una collaborazione più stretta di ebrei e cristiani sul piano etico più generale. Pensiamo
alle domande vecchie e nuove della nostra
società: domande di pace e di giustizia salgono da tante parti del mondo, soprattutto
da quello dei poveri. Cristiani ed ebrei potrebbero essere la coscienza di questo appel-
lo alla giustizia che si ode un po’ ovunque.
Giovanni Paolo II ha affermato nel suo incontro con i rabbini capo di Israele durante
il pellegrinaggio in Terra Santa: «Noi (ebrei
e cristiani) dobbiamo cooperare per edificare
un futuro nel quale non vi sia più antigiudaismo tra i cristiani e anticristianesimo fra
gli ebrei. Abbiamo molto in comune. Insieme possiamo fare molto per la pace, per la
giustizia e per un mondo fraterno e
umano».26
Di fronte a una società in cui il valore della
persona dipende da quanto ognuno possiede
o produce, la coscienza ebraico cristiana può
affermare il valore della persona e della vita
di ciascuno al di là di quanto fisicamente o
psichicamente può esprimere. Benedetto
XVI nella Sinagoga di Colonia, richiamando
il Decalogo, ebbe a dire: «Il nostro ricco patrimonio e il nostro rapporto ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti umani e della sacralità
della vita umana, per i valori della famiglia,
per la giustizia sociale e per la pace nel mondo». Ricordiamo il bellissimo racconto della
creazione, dove emerge l’uguaglianza di uomo e donna, modello dell’uguaglianza degli
esseri umani, e l’affermazione che la vita è
solo nelle mani di Dio. Pensiamo ad esempio al problema dell’aborto o dell’eutanasia,
che è diventato o sta divenendo legislazione
in diversi paesi europei. Nella teologia ebraicocristiana l’uomo è immagine di Dio, la
sua vita appartiene solo a Lui e per questo va
difesa dal concepimento fino alla morte.
Insegnamenti XIII, 2, 1990: Ai responsabili del British Council for Christian and Jews. Come ogni forma di razzismo e antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità, pp. 1202-1203.
25
Cfr J. SACKS, La dignità della differenza, cit., pp. 70-75.
26
Insegnamenti XXIII, 1, 2000: L’incontro con i Rabbini Capi di Israele presso l’Hechal Shlomo. La Chiesa condanna l’antisemitismo
e ogni forma di razzismo perché in contrasto con i principi del cristianesimo, p. 433.
24
42
I libri della tradizione ebraica
di Benedetto Carucci Viterbi*
do il tema che mi è stato affidato – a partire
Partirei dal manifesto che si è scelto come ilda una domanda: il popolo ebraico tendenlustrazione di questo Convegno. Vedete che
zialmente viene identificato, anche in masotto c’è un rotolo aperto: che cos’è questo
niera un po’ affrettata, come “il popolo del
rotolo? Il riferimento testuale fondamentale
Libro”; ma è vera questa definizione? È sufdella tradizione ebraica. Il rotolo è un rotolo
ficiente? O invece non è poi tanto funzionadella Torah, cioè un rotolo di pergamena
le per una definizione corretta di quello che
manoscritto dal quale si fa la lettura sinagol’ebraismo e sopratgale settimanale del
tutto per quanto l’ePentateuco. Mi sembraismo si auto-defibra interessante che
«È vero che l’ebraismo è “il popolo del
nisce? In altri termisi sia scelta questa
Libro”
ma,
diciamo
così,
l’ebraismo
è
ni, per evitare un
immagine, piuttosto
anche “il popolo della Voce”, perché sen“congedo dall’ebraiche altre immagini
za
voce
non
c’è
leggibilità
del
libro.
Se
smo”, di cui ha parlaper declinare il tema
dovessimo identificare ciò che fonda l’eto il prof. Riccardi,
“Ebraismo in Italia;
braismo, in realtà non è altro che la fuforse vale la pena di
identità, incontro,
sione
della
tradizione
scritta,
la
Torah
sentire in che modo
dialogo”. Perché? Pershebichtàv, con la Torah shebealpeh, “la
l’ebraismo si autoché questo certamenTorah che è sulla bocca”. Che cos’è quepercepisce. Solamente è l’oggetto rilevansta
Torah
che
è
sulla
bocca?
È
quella
te se si capisce come
te della tradizione
che, in altri termini, possiamo chiamare
l’ebraismo si autoebraica dal punto di
“la
tradizione
rabbinica”».
percepisce si evita il
vista testuale. In quel
congedo dall’ebrairotolo di pergamena
smo. Perché in fonè contenuto il Pentado, anche sovrapporre all’ebraismo una eteteuco, cioè i primi cinque libri della Bibbia
ro-definizione è una forma, forse più raffiche in questo caso coincidono dal punto di
nata, di congedo dall’ebraismo stesso.
vista della scansione con il canone cristiano.
Qual è l’auto-definizione testuale o di relaNon tutto coincide: il canone ebraico e il
zione ai testi che l’ebraismo si dà? Partirei
canone cristiano non sono sovrapponibili
dalle parole stesse, che non sono mai prive
anche per quanto riguarda l’Antico Testadi significato, al di là del significato lessicale
mento. Ma per quanto riguarda i primi cinche hanno. Il testo a cui facciamo riferimenque libri c’è identità di scansione.
to è la Torah. Torah è un termine che, in
Nel breve tempo che abbiamo a disposizione
senso stretto identifica i primi cinque libri
vorrei riflettere sul tema del “Libro” – secon* Testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore.
43
L’alfabeto ebraico rappresenta la visibilità culturale nella quale la Parola
di Dio ha comunicato i suoi eventi
nella sua economia della storia dell’alleanza e della salvezza. Come nella tradizione cristiana, in qualche
modo (e analogamente), è il Logos
Gesù di Nazareth, il Cristo (secondo
l’evangelista Giovanni).
La Torah va studiata in ebraico, la liturgia sinagogale e familiare è in
ebraico (con le specifiche integrazioni linguistiche e culturali locali). L’agiografo scrive nel suo ebraico la Parola che lo spirito di Dio lo muove a
far abitare tra gli uomini (cfr il theopneustos di 2 Tim 3,14-17).
Tradurre l’ebraico della Torah? Certo, pur di comunicare il davar Adonaj-Elohim (la parola-evento del Signore-Dio), ma non pretendere di
definirla in un’altra lingua con una
traduzione scritta (che va fatta, ma
considerata provvisoria, quasi una
siepe linguistica intorno alla Torah).
Perché pretendere di farla contenere
in un’altra lingua potrebbe essere un
tradimento fedele ma anche una traduzione infedele. Perché va sempre
salvaguardata la sua oralità e la sua
origine e il suo Autore.
Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico
(da alef a tau), qui ovviamente scritte nella direzione destra verso sinistra (come la scrittura ebraica) sono
come un albero che il giovane studente ebreo (da notare la sua kippa)
impara a coltivare e mediante il quale aspetta di cogliere qualche frutto.
La valenza simbolica che le tradizioni ebraiche hanno segnato nelle e
con le lettere dell’alfabeto ebraico
(dal tetragramma santo, al sefer yetzira, all’albero della vita, all’albero delle sefirot, al simbolismo del
corpo umano, alla sana e autentica qabbalah, alla ghematria, alla mistica ebraica…) quanto mai affascinante e seducente, ma a volte un po’ arbitraria da parte di chi non ha studiato ma ha soltanto cercato
di rubare il frutto della coltivazione e del lavoro degli altri.
Ogni lettera nasce da storie e genera storie, ogni storia si scrive e si riscrive con le lettere dell’alfabeto ebraico (cfr. la recensione nel numero 3/2007 di RSC di Annick DE SOUZELLE, La lettera,
strada di vita. Il simbolismo delle lettere ebraiche (collana della terra 20), Servitium, Sotto il Monte
(Bg) 2005, pp. 326, ISBN 88-8166-253-1, € 18,00). E per le parole che le lettere compongono,
può essere utile Arthur GREEN, Queste sono le parole. Un dizionario della vita spirituale ebraica,
Editrice La Giuntina, Firenze 20062, pp. 336, ISBN 88-68057-144-3, € 15,00 recensito in RSC
2/2007).
della Bibbia, ma in senso più ampio è ben di
più. La parola da questo punto di vista è
perlomeno assonante o copre un’area semantica piuttosto ampia. Vi elenco le possibilità
di significato: Torah vuol dire “insegnamento”; può essere usato nell’accezione di “dottrina”; è derivato da una radice che significa
“tirare delle frecce”; è parente ad una radice
che indica la pioggia; è assonante con una
radice che indica il concepimento di una
nuova vita. Vedete che lo spazio concettuale
è estremamente ampio. In questo senso si
potrebbe declinare il senso che la Torah ha
per la tradizione ebraica come punto di riferimento fondamentale perché è l’insegnamento e la dottrina, perché è l’indicazione
così come la freccia è una direzione, è un
elemento di pioggia vivificante – e tenete
presente che nella tradizione ebraica la pioggia è sempre parallela al senso della vita e
anche al senso della Torah stessa – e infine è
una forma di “concepire la novità”. Tutto
questo è racchiuso nel senso che la tradizione ebraica dà alla Torah.
Ora la seconda questione è se questa Torah
debba essere esclusivamente identificata
con quella che è la tradizione scritta, ovvero il Pentateuco e con le parole che troviamo in quel rotolo, oppure non debba essere
in realtà ampliata. La prima osservazione
da fare è che la lingua ebraica è una lingua
complessa ed esclusivamente consonantica.
Le vocali sono un’aggiunta successiva. E il
rotolo pergamenaceo da cui si fa la lettura
liturgica, che è un obbligo settimanale – il
Pentateuco è diviso in 54 pericopi, in maniera tale che nell’arco di un anno se ne
faccia una lettura completa e, finita questa
lettura, si riprenda anno dopo anno – è
esclusivamente consonantico. Dunque le
vocali sono l’aggiunta che rende leggibile
un testo che senza le vocali non sarebbe
leggibile. Ora la leggibilità di un gruppo
consonantico dipende evidentemente dalle
vocali che ci metto, perché uno stesso
gruppo consonantico, vocalizzato in maniera diversa dà significati diversi. Questo
cosa ci dice? Che la tradizione ebraica è sì
connessa alla Scrittura – ed è rigorosamente
connessa alla Scrittura: considerate che un
rotolo (sefer) come questo che non fosse
scritto esattamente con tutte le lettere che
sono previste dalla tradizione, nel quale anche una sola lettera mancasse, nella quale
anche una sola lettera fosse mancante di
una sua parte non sarebbe utilizzabile in sede liturgica, cioè sarebbe invalido, pasul in
ebraico (che nel vocabolario italiano corrisponde a “fasullo”), sarebbe un sefer fasullo,
un sefer che non può essere utilizzato.
Quindi l’attenzione alla scrittura è evidentemente rigorosissima: non funziona un libro che non abbia tutte le lettere e le parole
così come sono state determinate dalla tradizione. Ma se non ci sono le vocali, che
sono un’aggiunta, diciamo così, “tradizionale”, la leggibilità di questo testo, anche se
rigorosamente definito, è impossibile. Capite questa necessità di una lettura vocale,
perché nella sinagoga non si fa una lettura
con gli occhi: si esce dall’obbligo della lettura settimanale non ciascuno con il proprio libro, leggendo con gli occhi, ma
ascoltando la lettura vocale che ne fa l’ufficiante. Questo ci dice che da una parte c’è
una tradizione molto rigorosa di scrittura
testuale, dall’altra c’è una tradizione imprescindibile di lettura vocale, di vocalizzazione, di oralità. Se non c’è l’incontro tra queste due dimensioni non c’è leggibilità del
testo fondante.
Questa è una prima riflessione importante
per percepire l’auto-definizione dell’ebraismo. C’è una “costola” scritta, molto pesan-
45
te; ma c’è una “costola”, un lato imprescindibile che è dato dalla tradizione orale, in
questo caso è rappresentata dalla leggibilità
concreta di un testo, che però, capite bene, è
ben diverso da quanto sia la leggibilità di
una lingua che ha consonanti e vocali. Perché – ripeto ancora una volta – lo stesso
gruppo consonantico può dare esiti diversi a
seconda della vocalizzazione. Il senso del testo è dato dalla vocalizzazione e non solamente dalle consonanti. In alcuni casi la tradizione rabbinica stabilisce in che modo si
debba vocalizzare quella parola, piuttosto
che nel modo più ovvio proprio per indirizzare il significato.
Questa è una prima riflessione. Quindi è vero che l’ebraismo è “il popolo del Libro” ma,
diciamo così, che l’ebraismo è anche “il popolo della Voce”, perché senza voce non c’è
leggibilità del libro. E vi dirò che il corrispondente ebraico del termine “Sacre Scritture” (che è quello che nella lingua italiana
probabilmente per influenza cristiana è più
diffuso) è affatto diverso: il termine corrente
è Mikra’, o Mikraòt che anche per assonanza
ci fa sentire la parentela con il Corano, perché Mikra’ vuol dire “lettura”. Allora le mikraòt, le “letture”, sono il riferimento della
tradizione ebraica. Nelle mikraòt c’è la Torah, nelle mikraòt ci sono anche le altre due
componenti della Bibbia, ovvero i Profeti e
gli Scritti, ma è significativo che così vengono chiamati dalla tradizione: mikraòt, cioè
“letture”. Torah, quindi, Torah scritta, ma
l’ebraismo elabora contemporaneamente
quella che chiama Torah shebe’alpeh, “la Torah che è sulla bocca” e che in realtà è il tratto distintivo dell’ebraismo. Se dovessimo
identificare, dal punto di vista dei testi, ciò
che fonda l’ebraismo, in realtà non è altro
che la fusione della tradizione scritta, la Torah shebichtàv, “la Torah che è sulla Scrittu-
46
ra”, con la Torah shebe’alpeh, “la Torah che è
sulla bocca”. Che cos’è questa Torah che è
sulla bocca? È quella che, in altri termini,
possiamo chiamare “la tradizione rabbinica”.
La tradizione rabbinica non è altro che la
concretizzazione di questa Torah orale che,
secondo se stessa, risale direttamente a Mosè
e a Dio. In altri termini la Rivelazione ha
due supporti di comunicazione: uno lo scritto, l’altro l’oralità; è tutti e due hanno la
stessa legittimità, tutti e due hanno la stessa
valenza e tutti e due sono di origine divina.
Perché questo è lo specifico della tradizione
ebraica? Perché in realtà immaginare che l’ebraismo si identifichi solamente con la tradizione scritta ne dà una visione parziale e
di fatto molto deformata.
Vi faccio un paio di esempi che potrebbero
essere indicativi da questo punto di vista. È
abbastanza noto quasi a tutti che c’è un
giorno dell’anno liturgico ebraico, il giorno
di Kippur che è destinato al digiuno. Se andiamo a sfogliare il testo della Torah scritta,
il Pentateuco, che dovrebbe essere la fonte di
questa prescrizione (perché nel Pentateuco
dobbiamo ritrovare tutte le prescrizioni),
non troveremo una linea che ci dica che nel
giorno di Kippur si deve digiunare. D’altra
parte non possiamo immaginare che il digiuno di Kippur sia un portato storico, perché non esiste testimonianza di alcun genere
che ci testimoni che un tempo a Kippur si
celebrava qualche altra cosa e nemmeno che
in alcune aree geografiche si celebri Kippur
digiunando e in altre facendo qualche altra
cosa. Se andiamo a sfogliare il testo, vediamo che di Kippur è scritto: «voi affliggerete
le vostre persone». L’“afflizione” potrebbe essere veicolata da un’infinità di fenomeni.
Abbiamo tradizioni sia in Italia, sia nel
mondo cristiano che nel mondo islamico, di
afflizioni corporali di vario genere. Per quale
ragione dobbiamo immaginare che l’afflizione debba essere proprio l’astenersi dal mangiare o dal bere? La “costola orale” ci riempie
ciò che resta ambiguo o indeterminato nella
“costola scritta”. In questo senso abbiamo la
riprova più evidente che l’ebraismo senza la
tradizione orale sarebbe un’altra cosa: se io
mi attenessi solamente a quello che la Scrittura mi dice,
potrei sostenere
che di Kippur
posso scegliere
quale tipo di afflizione infliggermi. La tradizione orale che
– ripeto – secondo se stessa
è divina e risalente direttamente a Mosè,
ci dice la concretezza di questa afflizione,
che è l’astenersi
dal mangiare e
dal bere.
Altro esempio:
la circoncisione.
Il termine “circoncisione” o
anzi il termine
“prepuzio” è un
termine, orlah,
che nel testo
scritto si riferisce all’organo maschile, ma si
riferisce anche alla bocca, si riferisce al cuore, si riferisce all’orecchio, si riferisce agli alberi. Nel momento in cui il testo prescrive la
circoncisione, il sostantivo orlah ancora non
è chiarito in maniera univoca; così come
qualsiasi bravo studente di liceo fa quando
trova una parola che non conosce bene, una
prima possibilità è contestualizzarla o confrontarla con testi diversi in cui questa stessa
parola compare. Se io faccio questa operazione nel testo biblico, cosa mi viene fuori?
Che ho possibilità di significato diverso in
contesti diversi. Che cosa dovrò fare quando
Dio stabilisce con Abramo che deve essere
circonciso il suo
figlio e lui si deve circoncidere?
Deve essere tagliata la orlah, il
prepuzio? Forse
dovrei tagliare
qualcosa dell’albero che ho sotto casa… oppure, forse, farmi
un’incisione sull’orecchio, perché no? Se procedo secondo
questo criterio
anche qui abbiamo l’apporto
decisivo della
tradizione orale
che in maniera,
in questo senso
definitiva, disambigua la
possibilità testuale scritta. E
capite bene che
anche per quanto riguarda la circoncisione
non c’è ambiguità: non c’è un tempo in cui
la circoncisione veniva fatta sull’albero sotto
casa, o comunità che circoncidono l’orecchio. Il segno del Patto nella carne dell’ebreo
è la circoncisione così come tutti sappiamo
che cos’è.
47
Allora, in questo senso, quando parliamo di
testi dobbiamo capire che la dinamica è
estremamente complessa. La complessità è
data dalla presenza della tradizione scritta,
fondante, fondamentale, anzi decisiva anche
in sede liturgica, ma insieme ad essa dalla
tradizione orale, la Torah che è sulla bocca,
cioè la tradizione rabbinica. (Certo si potrebbe obiettare: «che bravura, la tradizione
rabbinica sta giustificando se stessa! Quale
giustificazione maggiore c’è che non darsi
un’origine divina?» Ma lascio aperta questa
domanda…). In realtà, interpretando alcuni
punti della tradizione scritta, la tradizione
rabbinica sostiene sostanzialmente due cose:
primo, che la tradizione scritta stessa presuppone la tradizione orale, cioè che l’esistenza della tradizione orale “traluce” già
dalla tradizione scritta in sé, se la leggiamo
attentamente, e quindi non è una fonte successiva, una fonte di interpretazione, ma una
fonte coeva, contemporanea. E d’altra parte
– secondo punto – che addirittura, facendo
attenzione alla tradizione scritta, il Patto tra
Dio e il popolo di Israele è un Patto che è
veicolato soprattutto dalla tradizione orale,
più che dalla tradizione scritta.
C’è un punto del testo nel libro dell’Esodo
in cui, traducendo, viene detto: «Secondo
queste parole Io ho stretto un Patto con te».
«Secondo queste parole» in ebraico è espresso dalla locuzione ’alpeh, traducibile “sulla
bocca”. La tradizione dice qual è il fondamento del Patto, quello che passa “sulla bocca”, ovvero la tradizione orale. Questa tradizione orale a un certo momento viene messa
per iscritto – grande paradosso! –, la oralità
diventa scrittura. Diventa scrittura per alcune esigenze di tipo storico e sociale: nel momento in cui, con la dispersione, la distruzione del Santuario di Gerusalemme, ecc. la
diaspora diventa una realtà definitiva, i mae-
48
stri di quel tempo, cioè i farisei… (dico “i
farisei” perché quando parliamo di tradizione rabbinica – bisogna sempre essere chiari
nei termini – stiamo parlando della tradizione farisaica; quando parliamo dell’ebraismo
degli ultimi 2000 anni parliamo dell’ebraismo farisaico. Gli ebrei di oggi sono “farisei”
nel senso che anche chi è laico, anche chi è
secolarizzato, anche chi non si riconosce in
quel modello, ha come modello di confronto il modello dei farisei e non altro. Le altre
componenti dell’ebraismo del tempo di Gesù – gli esseni, gli zeloti, i sadducei – sono
scomparsi dal punto di vista storico, non
hanno avuto un seguito. L’unico seguito l’ha
avuto l’impostazione farisaica, ovvero rabbinica). I farisei, dicevo, cioè i maestri del I secolo dell’era cristiana, stabiliscono con grande coraggio e anche con una decisione non
tanto semplice di mettere per iscritto la tradizione orale. Perché con grande coraggio e
con una decisione non tanto semplice? Perché così come c’è una grandissima attenzione al testo scritto e alla sua assoluta congruenza con il modello – il sefer, il rotolo,
che non va bene se non è scritto esattamente
secondo quelle lettere e quelle parole… e vi
faccio notare che la radice di sefer è anche la
radice di mizpar, numero, e i sopherim che
sono i maestri e coloro che leggono e coloro
che narrano, sono anche quelli che “contano”, contano il numero delle lettere che
compone il libro della Torah in maniera che
sia sempre quello che è prescritto – così come è molto rigorosa l’attenzione alla parte
materiale, scritturistica del testo, così era rigorosamente stabilito che l’oralità deve restare oralità. Ciò che è messo per iscritto
non può essere detto a memoria, ciò che è
trasmesso oralmente non può essere messo
per iscritto. I rabbini decidono a un certo
momento che è meglio mettere per iscritto,
piuttosto che perdere tutto. E lo sapete qual
è il modello che prendono? Il modello è
concettualmente il modello secondo il quale, a volte, l’annullamento di una cosa è la
sua miglior maniera di mantenimento: il
modello è Mosè che rompe le Tavole. Mosè
rompe le “prime” Tavole (cfr Es 32,19) in
realtà per garantire la persistenza e la sussistenza delle Tavole, del loro contenuto, non
per distruggerle. A volte annullare significa
mantenere. Così la tradizione rabbinica annulla il principio di non scrivibilità della tradizione orale proprio per poterla mantenere.
Quale effetto produce questa scrittura della
tradizione orale? In prima istanza, nel II secolo origina la Mishnà, che è un codice di
leggi, e subito dopo, si arriva alla redazione
di una specie di brogliaccio, di verbale delle
discussioni che avvengono nelle Accademie
rabbiniche di Babilonia e di Israele sul testo
della Mishnà, che è il Talmud.
Si potrebbero citare infiniti testi, tante tradizioni esegetiche, si può citare il meccanismo
ermeneutico attraverso il quale i rabbini fanno parlare in maniera articolata il testo scritto, ma dovendo dire quali sono i “classici”, i
riferimenti imprescindibili della tradizione
ebraica segnalerei da una parte evidentemente la Torah scritta, il Pentateuco, la Bibbia, il TaNaK che è sigla per indicare Torah,
Profeti e Scritti, e dall’altra la scrittura della
tradizione orale, la Mishnà e il Talmud (o
semplicemente il Talmud, che comprende in
sé la Mishnà). Si possono fare infiniti altri riferimenti, ma questi mi sembrano i più pertinenti.
Ancora due o tre osservazioni prima di concludere.
La prima. In che modo hanno superato i
maestri che hanno messo per iscritto la tradizione orale l’interdizione di scrivere ciò
che è orale? L’hanno superata in realtà
mantenendo fortissimi tratti di oralità all’interno della scrittura di questa tradizione. Due o tre esempi. La Mishnà è un codice assolutamente anomalo perché riporta le
opinioni di più maestri rispetto a una norma, il che dal punto di vista di un codice
normativo è assolutamente paradossale. In
generale un codice normativo dovrebbe essere il meno ambiguo possibile. C’è una
ambiguità di fondo nel testo della Mishnà
perché sulle norme (non sempre, ma su
quasi tutte le norme) vengono riportate
due o tre opinioni, e questo si moltiplica a
dismisura nella discussione talmudica in
cui il dibattito non è solamente tra contrapposte opinioni coeve, ma anche diacronicamente disposte. Quindi su una stessa
pagina io posso farmi la storia entro un
certo lasso di tempo delle diverse posizioni
su quella norma e poi, a partire dalla norma, l’apertura è verso tutto ciò che anche
di non normativo caratterizza la tradizione
ebraica. Il Talmud non è più solamente un
codice: è, come dicevo, una sorta di verbale
di discussione che a partire dal tentativo di
comprensione della norma contenuta nella
Mishnà, per associazioni complesse e concatenate, arriva ad esprimere quella visione
del mondo, il pensiero sul senso dell’uomo,
il pensiero sulla vita, il pensiero su ciò che
c’è dopo la vita, ecc. Quella è la fonte per
riuscire a capire qual è il pensiero ebraico.
E anche tutte le successive evoluzioni e sviluppi del pensiero ebraico nella tradizione
del pensiero occidentale o dei rapporti con
il pensiero occidentale greco per es. non
possono prescindere da quanto derivi dalla
tradizione rabbinica e dal Talmud. Maimonide, che certamente è uno dei nomi più
noti per il proficuo e d’altra parte complesso rapporto tra tradizione ebraica e tradizione greca, aristotelica in particolare, è nu-
49
trito anche della tradizione rabbinica e del
Talmud. Quindi, quando andiamo a leggere Maimonide nella Guida dei perplessi
dobbiamo tenere presenti le due componenti della sua formazione di pensiero:
quella aristotelica, ma anche quella rabbinica. E anche la tradizione mistica ha le sue
lontane radici nelle discussioni, che scivolano verso il mistico, del Talmud.
Perché è importante riflettere in questi termini? È importante perché ci dà la cifra della specificità, ci dà la cifra della auto-percezione ebraica. L’ebreo, nella sua formulazione tradizionale, ma direi anche in quella secolarizzata e laica, è a questa tradizione che
si riferisce. L’ebreo secolarizzato che osserva
Kippur o l’europeo secolarizzato che fa il Seder di Pesach, la Cena Pasquale, in realtà è a
questa tradizione che si sta connettendo,
non tanto alla tradizione biblica: perché se
vado a leggere nella Bibbia non so come devo celebrare la Cena Pasquale. Mi viene detto che cosa devono fare gli ebrei appena prima dell’uscita dall’Egitto, che è un simulacro, forse un archetipo, ma poi estremamente variato di quello che è il modo di celebrare la Cena Pasquale. Quella che ha celebrato
Gesù coincide con questa lettura rabbinica,
con questo apporto della tradizione orale e
non con il suggerimento della tradizione
scritta dell’Esodo.
In questo senso direi che ci dà uno strumento di auto-percezione dell’ebraismo e
della cultura ebraica, uno strumento per far
conoscere gli ebrei nella loro formulazione
delle origini, uno strumento anche per capire gli aspetti identitari. Dentro l’identità
ebraica è costitutivo, per lo meno nella prospettiva che mi sembra andarsi chiarendo
da queste osservazioni, non solamente il sistema dei valori, cioè i contenuti, ma è costitutivo anche il sistema degli strumenti.
50
Gli strumenti non sono puramente strumentali: i criteri di analisi, i criteri di interpretazione, i modi di leggere il testo o di vedere la realtà non sono mai solamente strutture vuote, ma sono già un significato. E
quindi bisogna essere in grado di veicolare
sia la parte dei contenuti, che è certamente
importante, quanto la parte degli strumenti, perché gli strumenti hanno fatto quei
contenuti. In questo caso la strumentazione
scritta e orale, la tradizione rabbinica che è
l’oralità e la tradizione biblica che è quella
scritta, sono già un contenuto, sono forse il
contenuto essenziale, perché è solo questo
che contribuisce al senso di che cos’è la Torah per la tradizione ebraica.
Concludo con una citazione di una parabola
talmudica che mi sembra assai significativa
per quanto concerne il ruolo dell’uomo in
tutta questa storia. Il testo della Bibbia narra
che nel momento della ricezione delle Tavole Mosè «salì in alto». La parabola talmudica
dice questo: Mosè sale e vede Dio che sta
adornando di coroncine il testo della Torah.
Dovete considerare che nella versione manoscritta (e il rotolo pergamenaceo è rigorosamente manoscritto) le lettere hanno degli
apici che potrebbero sembrare in effetti delle
coroncine. Mosè domanda a Dio: «a cosa
servono queste coroncine?». E Dio risponde:
«Un giorno verrà un uomo, che si chiama
Akiva figlio di Joseph, che da queste coroncine tirerà fuori montagne di regole». Mosè
un po’ stupito dice: «Posso vederlo?» e Dio
dice: «Voltati!». Mosè si volta e si trova nella
scuola di Rabbi Akiva. Rabbi Akiva è un
personaggio storico, vissuto fino alla metà
del II secolo dell’era cristiana, poi è stato
scorticato vivo dai romani. È uno dei grandissimi esponenti della tradizione farisaica.
Mosé si mette nella scuola di Rabbi Akiva,
seduto in un banco, segue la discussione e
non ci capisce niente. Il testo dice… lo tradurrei in una maniera un po’ orientata: Mosè è preso proprio da una depressione
profonda, non capisce niente! Fino a quando un discepolo di Rabbi Akiva alza la mano
e dice a Rabbi Akiva: «Maestro, ma da dove
deriviamo, da dove sappiamo quello che stai
insegnando?» e Rabbi Akiva risponde:
«Questa è una regola che è stata data a Mosè
sul Sinai». E Mosè allora si riprende.
È un po’ un paradosso, no? Mosè che riceve
tutta la tradizione sente una lezione di cui
non capisce niente e come timbro del senso
di questa lezione viene detto “tutto questo è
stato dato a Mosé”! Come si esce da questo
paradosso? Si esce proprio – almeno questa è
una delle linee interpretative di questo testo
che evidentemente apre infinite questioni –
attraverso gli strumenti interpretativi. Una
linea di interpretazione di questo testo dice
sostanzialmente che ciò che Mosè ha ricevuto in fatto di Torah è la Torah nella sua parte
fondamentale e gli strumenti della sua interpretazione. E nel momento in cui questi
strumenti vengono applicati, tutto ciò che
verrà prodotto da questa interpretazione in
realtà è potenzialmente contenuto in quello
che Dio ha dato a Mosè. E quindi non c’è
contraddizione in un certo senso tra l’incapacità di Mosè di comprendere in quel momento ciò di cui sta parlando Rabbi Akiva
con i suoi discepoli e il fatto che questi siano
stati dati già a lui da Dio. Perché Rabbi Akiva non sta facendo altro che utilizzare quegli
strumenti che Dio ha consegnato a Mosè, i
quali, applicati alla Torah che Mosè ha ricevuto, la fanno parlare costantemente, quotidianamente. È il senso dell’interpretazione
autentica, che in qualche modo non è totalmente pazza e totalmente individualistica.
C’è una tradizione di interpretazione, esistono degli strumenti codificati. Nell’applicazione di questi strumenti codificati si produce la Rivelazione. In questo senso, l’ebraismo è come se stesse dicendo che la Rivelazione si rivela un po’ ogni giorno, e la rivelazione della Rivelazione – scusate il gioco di
parole – sta nelle mani degli interpreti che
in maniera autorevole, autorizzata e tradizionale, ma in questo senso anche libera, non
fanno altro che far parlare la Rivelazione di
Dio. Grazie.
51
Educazione e identità:
l’incontro con l’ebraismo
nella scuola
di Orioldo Marson
gnificati e valori radicati nella fede nel
Presento una comunicazione concordata
Dio vivente? Raccogliendo le sollecitaziocon mons. Giosuè Tosoni, responsabile
ni provenienti dai significativi interventi
del Servizio nazionale della CEI per l’Inseche mi hanno precegnamento della Reduto: come questo
ligione Cattolica
incontro-dialogo
(IRC). Mi associo al
«La
responsabilità
degli
IdR
in
ordine
può contribuire alla
suo ringraziamento
all’obiettivo di far conoscere l’ebraismo
costruzione pubblie al plauso per l’inicon sua fisionomia specifica nella scuola
ca di un umanesimo
ziativa. La speranza
agli
studenti,
è
grande.
È
una
responsaplenario e di una raper cui cerchiamo di
bilità non esclusiva, ma condivisa con
zionalità aperta, per
lavorare insieme è
altri
colleghi
di
discipline
storiche
e
filocontrastare il positiquella annunciata
sofiche, letterarie e artistiche; tuttavia,
vismo senz’anima
da Giovanni Paolo
realisticamente parlando, di fatto il ruodei ‘neuroni pensanII a Gerusalemme il
lo
degli
IdR
rimane
prioritario,
con
la
ti’, l’appiattimento
23 mar zo 2000:
delicatezza che quest’onere comporta».
sul presente senza
«Costruiamo un fumemoria e senza
turo nuovo nel quasperanza? Nella fase
le non vi siano più
post-secolare che stiamo vivendo, i racsentimenti antiebraici fra i cristiani o senconti religiosi sono un giacimento preziotimenti anticristiani fra gli ebrei».
so per tutti, soprattutto quando si riesce a
In riferimento al titolo dell’odierno Convetradurli in una lingua comprensibile e
gno, questa è la domanda a cui cercare di
condivisibile. Questo secondo grappolo di
dare risposta: come può l’IRC contribuire a
domande va oltre l’IRC stesso e assume
far conoscere l’identità dell’Ebraismo e i
una portata più generale.
vincoli spirituali che legano ebraismo e criCercherò di affrontare congiuntamente i
stianesimo, per favorirne l’incontro e il diadue campi di interrogativi. La risposta
logo?
avrà uno svolgimento più pratico che teoCredo, però, che il contributo dell’IRC
rico: farò riferimento agli orientamenti e
possa e debba andare oltre: come valorizalle pratiche in vigore, nel cantiere delzare il comune patrimonio e la diversa
l’IRC e della scuola, un cantiere quanto
identità delle due tradizioni per offrire
mai complesso. Sicuramente ci sarà modo
una proposta educativa ricca e attraente
di inserire indicazioni critiche o propositialle nuove generazioni, una tavola di si-
52
ve circa atteggiamenti da superare o da
coltivare.
Solo una premessa, ovvero una considerazione di carattere generale1.
In una scuola che si propone di essere luogo
significativo di istruzione, formazione e educazione, in rapporto vivo con i mondi vitali
della società e dunque in dialogo con le tradizioni e le esperienze religiose degli studenti e delle famiglie, riconoscere, valorizzare e
organizzare in maniera adeguata e, per
quanto possibile, condivisa un insegnamento religioso è molto importante. La questione non riguarda soltanto gli insegnanti di religione (IdR) o la Chiesa cattolica, da cui essi ricevono l’idoneità; riguarda la scuola della Repubblica in quanto tale, dal momento
che la ‘formazione spirituale e morale’ costituisce uno dei ‘principi e criteri direttivi’ del
sistema educativo di istruzione e formazione
(Legge 53/2003, art. 2b). La ricerca di risposte corrette e significative – ad esempio
anche circa l’ebraismo – non potrà non
coinvolgere possibilmente tutti i soggetti in
gioco: dunque la scuola, la società nelle sue
istituzioni e nelle sue articolazioni in qualunque modo interessate, e le aggregazioni
religiose, in primo luogo per l’Italia la Chiesa cattolica.
Sicuramente come IdR ci teniamo a fare la
nostra parte, nella scuola e per la scuola. Ci
sta a cuore la scuola: tutta la scuola e tutte le
scuole. Ci sta a cuore l’educazione, fatica necessaria e insostituibile. Crediamo che la
scuola non sia un contenitore asettico, un’agenzia di istruzioni per utenti, ma un ambiente vivo di persone in relazione e di
scambio di visioni e di esperienze fra generazioni e storie diverse
L’attuale figura dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana è stata
disegnata dall’Accordo di revisione del
Concordato del 1984 e dalle Intese successive. Punto di riferimento fondante e ineludibile rimane l’articolo 9: ‘La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della
cultura religiosa e tenendo conto che i
principi del cattolicesimo fanno parte del
patrimonio storico del popolo italiano,
continuerà ad assicurare, nel quadro delle
finalità della scuola, l’insegnamento della
religione cattolica nelle scuole pubbliche
non universitarie di ogni ordine e grado’.
È un testo chiaro, illuminato e efficace:
chiaro nel linguaggio, illuminato nel contenuto, efficace nella comunicazione. La
scelta adottata, realisticamente, si presenta
come un punto di mediazione e di equilibrio, su un terreno delicato quanto pochi
altri. È prevedibile che la situazione non
possa essere facilmente e rapidamente modificata, a motivo della complessità dei
soggetti e dei fattori in gioco.
La prima conclusione va da sé: la responsabilità degli IdR in ordine all’obiettivo di far
conoscere l’Ebraismo con sua fisionomia
specifica nella scuola agli studenti della varie
età e provenienze, è grande. È una responsabilità non esclusiva, ma condivisa con altri
colleghi di discipline storiche e filosofiche,
letterarie e artistiche; comunque, realisticamente parlando, di fatto il ruolo degli IdR
rimane prioritario, con la delicatezza che
quest’onere comporta.
1
In questa comunicazione, a partire dalla ‘premessa’, riprendo e sviluppo riflessioni che ho presentato in collaborazione con altri
autori nel capitolo ottavo, intitolato Progettare l’insegnamento della religione cattolica in un contesto di pluralismo, di un testo recentemente pubblicato che sta diffondendosi ampiamente fra gli insegnanti di religione: Insegnamento della religione cattolica: il
nuovo profilo. Guida alla lettura degli obiettivi specifici di apprendimento, a cura del Servizio nazionale per l’IRC, La Scuola, Brescia 2006, pp. 188-214 (abbreviazione: Libro-guida).
53
Il Dio di Israele ha avuto spesso
a che fare con la bocca e le labbra dei suoi profeti: è sufficiente ricordare la ritrosia di Geremia e l’insistenza seducente di
Dio: «Il Signore stese la mano,
mi toccò la bocca e il Signore
disse: “Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca…”» (Ger 1,9).
E non sempre le Sue parole sono secondo ‘misura’ tali da essere facilmente digeribili, assuefacenti, fisiologicamente assimilabili… L’immagine propone letterine di pasta (fatta di grano)
da mettere nella bocca per nutrire, quasi a commento (analogo o meno) della mitzvah (precetto mediante il quale è dato
all’uomo di compiere la volontà
di Dio) «non di solo pane vivrà
l’uomo, ma di ogni parola che
esce dalla bocca di Dio. Sta
scritto» (Mt 4,4 - Dt 8,3).
«La parole di Ester (Est 4,17s)
nella traduzione della CEI (Bibbia di Gerusalemme) sono:
“Metti nella mia bocca una parola ben misurata (logon eurytmon, sermonem compositum) di
fronte al leone […]. Il versetto
4, 17s di Ester è uno dei più
difficili a tradursi, per la difficoltà che noi moderni abbiamo
a cogliere le sfumature della retorica antica. L’autore del libro
di Ester, con il termine eurythmos ha voluto, principalmente,
indicare la soavità della voce,
senza trascurare il pensiero e la
disposizione delle parole (per
cui il sermo diventa rectus). La
versione che più si avvicina a
rendere pieno il significato di
eurythmos, un termine tecnico
della retorica, in latino è compositus o concinnus. La traduzione
più fedele sarebbe stata: “un discorso armonioso e suasivo”»
(A. Quacquarelli).
Un insegnamento per gli studenti. Ma prima ancora un insegnamento per i docenti. Per qualunque sapere professino, a qualunque
sapore intendano educare con il sapere i loro studenti. Ricordando sempre che è «dalla pienezza del
cuore che parla la bocca» (Mt 12,34).
Per gli IdR, all’interno degli Istituti Superiori
di Scienze Religiose, che curano la loro formazione teologica e professionale, è previsto
generalmente – all’interno di un corso di introduzione alle grandi tradizioni religiose –
un modulo sull’Ebraismo, che di solito vede
la presenza e il contributo di rappresentanti o
docenti provenienti dall’Ebraismo stesso. Ciò
che conta maggiormente è, però, l’impostazione profonda e complessiva dei grandi trattati di teologia sistematica. Da questa impostazione, oltre che dallo sviluppo delle discipline storiche, dipendono molto le competenze e gli atteggiamenti degli IdR.
L’Ebraismo negli Obiettivi specifici
di apprendimento (OSA) dell’IRC
Secondo le disposizioni oggi in vigore, gli
OSA si presentano come un insieme composito e articolato di ‘conoscenze’ e di ‘abilità’
che le istituzioni scolastiche e gli insegnanti
sono invitati ad organizzare in attività didattiche per promuovere e costruire specifiche
‘competenze’ negli alunni a partire dalle loro
‘capacità’. Essi vanno tradotti operativamente e creativamente, all’interno degli Obiettivi generali del processo formativo (OGPF),
in Obiettivi formativi (OF), in vista della
composizione delle Unità di apprendimento
(UA), diventando dei traguardi di apprendimento accessibili e significativi.
La disciplina che si chiama IRC si propone in
maniera diretta di presentare i dati della tradizione e dell’esperienza dei cristiani.
Contemporaneamente gli OSA invitano ad
informare e a coinvolgere gli studenti, nei vari
ordini di scuola, circa i contenuti, i significati e
i valori delle altre tradizioni religiose, con i loro
libri e i loro segni. In genere il riferimento alle
altre religioni, nella trattazione di questo o di
quel tema, è visto in collegamento o in relazione alla religione cristiano-cattolica. Solo in
qualche caso si parla di ‘confronto’. Un’attenzione speciale è riservata all’Ebraismo, dato il
suo rapporto del tutto singolare con il cristianesimo. A scopo del tutto esemplificativo, vorrei riprendere alcuni contenuti e obiettivi circa
conoscenze e abilità che in modo più diretto
toccano l’Ebraismo.2
SCUOLA DELL’INFANZIA
– Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi
dono di Dio Creatore.
SCUOLA PRIMARIA
– L’origine del mondo e dell’uomo nelle altre religioni e nel cristianesimo.
– Rilevare la continuità nella discontinuità
tra la Pasqua cristiana e la Pasqua ebraica.
– La Bibbia e i testi sacri delle grandi religioni.
– Evidenziare la risposta della Bibbia alle
domande di senso dell’uomo e confrontarla con quella delle principali religioni.
SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
– Ricerca umana e rivelazione di Dio nella
storia: il Cristianesimo a confronto con
l’Ebraismo e le altre religioni.
– Il libro della Bibbia, documento storicoculturale e parola di Dio.
– Evidenziare gli elementi specifici della
dottrina, del culto e dell’etica delle altre
religioni, in particolare dell’Ebraismo e
dell’Islam.
– Ricostruire le tappe della storia di Israele
e della prima comunità cristiana e la
composizione della Bibbia.
2
Nel Libro guida, all’articolo citato, si può trovare un’esposizione più completa, articolata per ordine e grado di scuola, circa conoscenze e abilità relative alle religioni diverse dalla cristiano-cattolica.
55
SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO
– Accogliere, confrontarsi e dialogare con
quanti vivono scelte religiose e impostazioni di vita diverse dalle proprie.
– Il dialogo interreligioso e il suo contributo per la pace fra i popoli.
– Individuare i percorsi sviluppati dalla
Chiesa cattolica per l’ecumenismo e il
dialogo interreligioso.
• La prospettiva della presentazione del
cristianesimo come dell’ebraismo è di tipo culturale con orientamento educativo: per conoscere la realtà del mondo religioso e per un incontro significativo
con esperienze di senso, di speranza e di
vita.
• Dell’Ebraismo si parla al presente e non
solo al passato. Si tratta di una novità, almeno relativa: l’Ebraismo non appartiene soltanto – come poteva apparire nel
passato – all’eziologia o all’archeologia
del cristianesimo, ma costituisce oggi una
realtà religiosa e culturale. È bene, ad
esempio, che i bambini sappiano che la
Pasqua ebraica è oggi per le famiglie
ebraiche memoria e anelito di libertà dai
faraoni e dagli idoli.
• Mi pare che l’esigenza del rispetto
dell’‘identità’ ebraica (e cristiana) come
anche l’attenzione ai vincoli spirituali tra
le due tradizioni siano presenti e rispettate.
• Sicuramente è prevista la presentazione
della Bibbia. Su questo mi permetto alcune sottolineature, con un non nascosto
rammarico. Quello che il poeta inglese
Blake chiamava ‘il grande codice’ della
cultura occidentale, ‘l’alfabeto colorato’ a
cui ha attinto tutta l’arte occidentale al
dire di Chagall, risulta tuttora troppo assente nella scuola e pure gli IdR faticano
a farlo amare e frequentare3. Ancora recentemente Umberto Eco si chiedeva
sconsolatamente: «Perché i ragazzi devono sapere tutto degli dei di Omero e
quasi nulla di Mosè? Perché la Divina
Commedia e non il Cantico dei Cantici?». La scuola italiana è gravemente deficitaria al riguardo, come lo è l’università
italiana. Gli insegnanti in generale sono
ben poco preparati e forse anche poco
interessati. Le responsabilità, per il passato e per il presente, sono di molti. A
quando qualcosa di meglio?
Un punto rilevante riguarda la presentazione dell’Antico o Primo Testamento. La
scelta che, ad esempio, Gianfranco Ravasi
ha compiuto in un suo importante lavoro
storico-esegetico, va riconosciuta come valida e dunque come orientamento preciso
per gli IdR: «Non abbiamo voluto unificare i due Testamenti in un unico testo, non
tanto per motivi pratici di estensione materiale, quanto piuttosto per affermare la specifica identità delle due Scritture unificate
dal cristianesimo. I legami sono certi, di
natura teologica e storico-letteraria, e noi lo
faremo balenare nel nostro discorso. Non è
legittimo, invece, subordinare un Testamento all’altro, indebolendo l’Antico a
vantaggio del Nuovo. L’affascinante esperienza che faranno coloro che vorranno seguirci, divenendo pellegrini stupiti in un
mondo di meraviglie di pensiero, di simboli, di eventi, di paesaggi, di scene, di vicen-
Dal momento che gli alunni del secondo biennio della scuola primaria, a seguito dell’adeguamento alla riforma, hanno già il
testo scolastico, per l’anno scolastico 2007-2008 adotteranno un ‘sussidiario’ elaborato per la circostanza, proprio sulle ‘fonti del
cattolicesimo’. In questo modo la fonte principale, la Bibbia, potrà essere presentata in maniera più completa e l’IRC viene
rafforzato nel suo impianto disciplinare.
3
56
de umane e trascendenti, dimostrerà come
sia rilevante e decisiva già questa prima avventura dello spirito»4.
• Sarà metodologicamente importante che
gli IdR facciano riferimento diretto a fonti
e testi dell’Ebraismo, sia in relazione alla
storia sia in rapporto alla realtà attuale. Le
pubblicazioni a disposizione sono sicuramente cresciute in questi ultimi anni.
Un’idea che rilancio: è possibile avere dalle comunità ebraiche dei materiali o dei
sussidi didatticamente utili, per la presentazione dell’‘identità’ ebraica e per la conoscenza di aspetti importanti dell’esperienza religiosa dell’ebraismo?
L’Ebraismo e il Libro-guida
Il Libro-guida si esprime così:
Un cammino importante è in atto nei rapporti tra cristiani ed ebrei. La svolta decisiva, da parte cattolica, è rappresentata dalla
Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate (28 ottobre 1965)5. Nello storico
e provvidenziale documento conciliare, al
n. 4, si riconosce il legame unico e singolare
tra la Chiesa e l’ebraismo. Il concilio parla
del «vincolo che lega spiritualmente» cristiani ed ebrei, del «grande patrimonio spirituale comune» agli uni e agli altri e afferma anche che la Chiesa «riconosce che gli
inizi della sua fede e della sua elevazione si
trovano già, secondo il mistero divino della
salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti». «Secondo l’apostolo Paolo, gli ebrei restano carissimi a Dio, i cui doni e la cui
chiamata sono irrevocabili (Rm 11,2829)».6
Anche il seguito del capitolo – dal quale
direttamente ricavo quanto esporrò – rivela
una sensibilità viva circa l’identità ebraica e
circa l’incontro-dialogo con il cristianesimo:
così mi pare sicuramente di poter dire.
In particolare [la Nostra aetate] esprime una
posizione finalmente e irreversibilmente
chiarificatrice su un punto delicato e decisivo: «E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Gesù (Gv 19,6), quanto è stato commesso durante la passione non può essere imputato
né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. Gli
ebrei non devono essere presentati né come
rigettati da Dio, né come maledetti, come
se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura’ (n.
4)».
Il Libro-guida richiama e adotta le linee
di due validi documenti, che hanno ripreso e sviluppato l’insegnamento conciliare:
gli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate n. 4, emanato il 1 dicembre
1974 dalla Commissione per le relazioni
religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo, e i Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica,
emanati il 24 giugno 1985 dalla medesima
Commissione 7 . Agli IdR si suggerisce,
dunque, di fare riferimento ai criteri teologici e pure didattici da essi suggerito, tenendo conto della peculiarità della scuola e
delle sue finalità.
G. RAVASI, Il racconto del cielo, Mondadori, Milano 1995, pag. 5-6.
Cfr. P. STEFANI, Introduzione all’ebraismo, Queriniana, Brescia 1995; Chiesa, ebraismo e altre religioni, Messaggero, Padova
1998.
6
Libro-guida, pagg. 207-208.
7
Testo e commento si trovano in M. PESCE, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, EDB, Bologna 1994; anche il Catechismo della
Chiesa cattolica del 1992 dedica ampio spazio al rapporto tra Chiesa e popolo ebraico (paragrafi 754-600), costituendo un punto di riferimento fondamentale a circa trent’anni dal Concilio.
4
5
57
Di quest’ultimo testo è doveroso sottolineare l’importanza del recupero delle radici
ebraiche del cristianesimo, a partire dell’ebraicità di Gesù di Nazareth: «Gesù è ebreo e lo è
per sempre» (III, 1). Le sue relazioni con i
contemporanei, ad esempio con i farisei e gli
altri gruppi del tempo, vengono illustrate al di
fuori dei pregiudizi o degli stereotipi che ancora condizionano una presentazione corretta
della sua missione. Si arriva così a ribadire e
precisare ulteriormente quanto aveva già affermato Nostra aetate circa le responsabilità della
morte di Gesù (IV, 2): gli ebrei del nostro
tempo non sono responsabili della morte di
Gesù; non tutti gli ebrei del tempo di Gesù
sono responsabili della sua morte; la responsabilità è solo di una parte delle autorità ebraiche di Gerusalemme e dei loro seguaci. Si insiste giustamente, infine, sul significato attuale
dell’esperienza ebraica: il popolo ebraico rimane popolo prescelto.
La storia d’Israele non si conclude nel ’70
(cfr. Orientamenti e Suggerimenti, n. 11). Essa
continuerà, in particolare, nella vasta diaspora che permetterà a Israele di portare in tutto
il mondo la testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all’unico Dio e di «esaltarlo di
fronte a tutti i viventi» (Tobia 13,4), conservando sempre nel cuore delle sue speranze il
ricordo della terra degli avi (Seder pasquale). I
cristiani sono invitati a comprendere questo
vincolo religioso che affonda le sue radici nella tradizione biblica, pur non dovendo far
propria un’interpretazione religiosa particolare di tale relazione. […]
Per quanto si riferisce all’esistenza dello stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse
vanno viste in un’ottica che non è di per sé
religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale.
Il permanere di Israele (laddove tanti anti8
chi popoli sono scomparsi senza lasciare
traccia) è un fatto storico e segno da interpretare nel piano di Dio. Occorre in ogni
modo abbandonare la concezione tradizionale del popolo punito, conservato come argomento vivente per l’apologetica cristiana.
Esso resta il popolo prescelto, «l’olivo buono sul quale sono stati innestati i rami dell’olivo selvatico che sono i gentili». Si ricorderà quanto sia stato negativo il bilancio
dei rapporti tra ebrei e cristiani durante due
millenni. Si rileverà come questo permanere di Israele si accompagni ad un’ininterrotta creatività spirituale, nel periodo rabbinico, nel medioevo, e nel tempo moderno, a
partire da un patrimonio che ci fu a lungo
comune, tanto che «la fede e la vita religiosa
del popolo ebraico così come sono professate e vissute ancora oggi (possono) aiutare a
comprendere meglio alcuni aspetti della vita della Chiesa» (Giovanni Paolo II, 6 marzo 1982). La catechesi, d’altra parte, dovrà
aiutare a comprendere il significato che ha,
per gli ebrei, il loro sterminio negli anni
1939-1945 e le sue conseguenze (…).
La formazione e la catechesi debbono occuparsi del problema del razzismo, sempre attivo nelle diverse forme di antisemitismo. Il
concilio lo presenta nel seguente modo: «La
Chiesa inoltre, che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del
patrimonio che essa ha in comune con gli
ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da
religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le
persecuzioni e tutte le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni
tempo e da chiunque» (Nostra aetate, n. 4).8
Le indicazioni offerte dai Sussidi meritano attenta riflessione e sicuramente ancora
numerose ‘conversioni’ didattiche da parte
degli IdR. Riprendo alcune sottolineature
dal capitolo primo dello stesso documento,
Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica VI, 1-2
58
che ha come titolo: ‘Insegnamento religioso
e ebraismo’.
In considerazione di questi rapporti unici
esistenti tra il cristianesimo e l’ebraismo,
«legati al livello stesso della loro identità»
(Giovanni Paolo II, 6 marzo 1982), rapporti «fondati sul disegno di Dio dell’alleanza»
(ibid.), gli ebrei e l’ebraismo non dovrebbero occupare un posto occasionale e marginale nella catechesi e nella predicazione, ma
la loro indispensabile presenza deve esservi
organicamente integrata.
Questo interesse per l’ebraismo nell’insegnamento cattolico non ha solo un fondamento
storico o archeologico. Il Santo Padre, nel discorso sopra citato e dopo aver di nuovo
menzionato il «patrimonio comune» tra
Chiesa ed Ebraismo, patrimonio «considerevole», affermava che, «farne l’inventario in se
stesso, tenendo però anche conto della fede e
della vita religiosa del popolo ebraico, così
come esse sono professate e vissute ancora
adesso, può aiutare a comprendere meglio alcuni aspetti della vita della Chiesa». Si tratta
dunque di una preoccupazione pastorale per
una realtà sempre viva, in stretto rapporto
con la Chiesa. Il Santo Padre ha presentato
questa realtà permanente del Popolo Ebraico
con una formula teologica particolarmente
felice, nell’allocuzione pronunciata per i rappresentanti della comunità ebraica della Germania Federale (Magonza, 17 novembre
1980): «...il popolo ebraico dell’antica alleanza, che non è mai stata revocata…».9
I Sussidi non nascondono alcune difficoltà, soprattutto relative al rapporto fra Antico e Nuovo Testamento, proponendo alcune preziosi orientamenti che ancora mi sembrano piuttosto lontani dalla sensibilità e
dalla prassi dell’insegnamento scolastico cattolico, ma anche dalla mentalità teologica
prevalente10. Dietrich Bonhoeffer, testimone
del Dio vivente di fronte alla follia disumana e all’idolatria antireligiosa del nazismo,
Sussidi, I, 2-3.
«La singolarità e la difficoltà dell’insegnamento cristiano riguardante gli ebrei e l’ebraismo deriva soprattutto dal fatto che in
tale insegnamento è necessario adoperare contemporaneamente, e accoppiandoli insieme, vari termini in cui si esprime il rapporto tra le due economie, dell’Antico e del Nuovo Testamento: promessa e adempimento – continuità e novità – singolarità e
universalità – unicità ed esemplarità. Ciò comporta per il teologo o il catechista, che tratta questi argomenti, la preoccupazione
di mostrare, nell’insegnamento pratico, che: - la promessa e l’adempimento si chiariscono reciprocamente; - la novità consiste in
una metamorfosi di ciò che era prima; - la singolarità del popolo dell’Antico Testamento non è esclusiva, ma aperta, nella visione divina, ad una dilatazione universale; - l’unicità del popolo ebraico è in vista di una esemplarità» (Sussidi, I, 5).
Nel 2001 la Pontificia Commissione Biblica ha pubblicato un documento intitolato Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia
cristiana (non citato nel Libro-guida). Lo scopo dichiarato è quello di contribuire al dialogo fraterno tra cristiani ed ebrei. Il testo è piuttosto lungo, e non sempre di facile accostamento per chi non è specialista. La Commissione Biblica non pretende, evidentemente, di
prendere posizione su tutti gli aspetti della questione delle relazioni tra la Chiesa e il Giudaismo; essa «si limita al punto di vista dell’esegesi biblica, nello stato attuale delle ricerche» (n. 1). Di particolare importanza è la parte terza, che studia i vari modi in cui gli Ebrei
vengono presentati negli scritti nel Nuovo Testamento. Le prospettive del Nuovo Testamento non sono per niente unilaterali in proposito. Anzitutto occorre essere consapevoli della diversità del giudaismo nell’epoca del Nuovo Testamento, come ha commentato Albert
Vanhoye, segretario della Commissione. Gli Ebrei si dividevano in diverse tendenze, tra le quali i rapporti erano talvolta estremamente
tesi. Quindi la situazione di tensione che si è creata tra i discepoli di Gesù e altre tendenze del giudaismo non era un fatto eccezionale.
Nel Nuovo Testamento, la maggioranza dei testi esprime atteggiamenti molto positivi al riguardo del popolo ebraico. Vi si trovano anche testi polemici; il documento li esamina attentamente e constata che non si tratta mai di un vero antigiudaismo, «cioè di un atteggiamento di disprezzo, di ostilità e di persecuzione contro gli Ebrei in quanto Ebrei». Si tratta soltanto di «rimproveri rivolti ad alcune
categorie di Ebrei per motivi religiosi e, d’altra parte, di testi polemici destinati a difendere l’apostolato cristiano contro certi Ebrei che
vi facevano opposizione» (n. 87). Rinunciando a un facile irenismo, il documento non nasconde che, dal punto di vista dottrinale, gravi punti di disaccordo esistono tra il Nuovo Testamento e il giudaismo, ma osserva che tale dissenso non implica per niente una ostilità
reciproca. «Un atteggiamento di rispetto, stima e amore per il popolo ebraico è il solo atteggiamento veramente cristiano». Il dialogo è
possibile ed è molto augurabile. La Commissione Biblica spera di aver contribuito a farlo progredire «nella chiarezza e nella stima e l’affetto vicendevoli» (n. 1). Personalmente consiglio agli IdR il libro, impegnativo ma senz’altro remunerativo, di F. ROSSI DE GASPERIS,
Cominciando da Gerusalemme. La sorgente della fede e dell’esistenza cristiana, Piemme, Casale Monferrato 1997; aiuta a ripensare alcune
delle intuizioni e delle domande che si pongono ad un cristiano quando entra in contatto con il paese e il popolo della Bibbia e in questo contesto rilegge le Scritture.
9
10
59
ucciso nel campo di Flossenbürg – mi permetto questa citazione, anche uscendo dal
seminato – ha ricordato ai cristiani, nelle sue
lettere dal lager raccolte sotto il titolo Resistenza e resa, che hanno bisogno dell’Antico
Testamento.
Solo quando si riconosce l’impronunciabilità del nome di Dio si può anche pronunciare finalmente il nome di Gesù Cristo; solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla risurrezione
dai morti e a un mondo nuovo; solo quando ci si riconosce sottomessi alla legge di
Dio, si può finalmente parlare anche della
grazia, e solo se l’ira e la vendetta di Dio restano realtà valide, qualcosa del perdono e
dell’amore verso i nemici può toccare il nostro cuore. Chi vuol essere e sentire troppo
frettolosamente e troppo direttamente in
maniera neotestamentaria, secondo me non
è cristiano11.
Mi accingo a concludere. Gli IdR sono
chiamati a dare il loro contributo, insieme ai
colleghi, dentro alla scuola, a un’opera culturale e educativa che contrasti ogni forma
di antisemitismo, intolleranza e discriminazione (cfr NA 4; Orientamenti e
suggerimenti, preambolo). Soprattutto a contrastare drasticamente – senza se e senza ma,
con tolleranza zero, a prescindere da tutto –
la banalizzazione del male, perché di semi di
violenza è ancora gonfio il ventre della terra,
anche della nostra terra. Ha detto Giovanni
Paolo II il 12 marzo 1998, nella lettera al
Cardinale Edward Idris Cassidy, Presidente
della Commissione per i rapporti religiosi
con l’Ebraismo:
È mia fervida speranza che il documento:
Noi ricordiamo: una Riflessione sulla Shoah12,
che la Commissione per i rapporti religiosi
con l’Ebraismo ha preparato sotto la Sua
guida, aiuti veramente a guarire le ferite
delle incomprensioni ed ingiustizie del passato. Possa esso abilitare la memoria a svolgere il suo necessario ruolo nel processo di
costruzione di un futuro nel quale l’indicibile iniquità della Shoah non sia mai più
possibile. Possa il Signore della storia guidare gli sforzi di Cattolici ed Ebrei e di tutti
gli uomini e donne di buona volontà così
che lavorino insieme per un mondo di autentico rispetto per la vita e la dignità di
ogni essere umano, poiché tutti sono stati
creati ad immagine e somiglianza di Dio.
Questa mattina, la Liturgia delle ore nella preghiera delle Lodi ha messo in bocca a
tanti cristiani – ministri ordinati, persone
consacrate, fedeli laici – le belle parole del
Salmo 86/87, sotto il titolo: Gerusalemme
madre di tutti i popoli: «Di te si dicono cose
stupende, città di Dio […]. Si dirà di Sion:
“L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la
tiene salda” […]. E danzando canteranno:
“Sono in te tutte le mie sorgenti”». È questa
la certezza e insieme l’invocazione degli uni
e degli altri, popoli eletti e sacerdotali, inviati nel mondo, con le radici che continuano
ad attingere alle perenni sorgenti di Gerusalemme.
D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo 1996, p. 225.
Va ricordato al riguardo anche il documento della Commissione teologica internazionale Memoria e riconciliazione. La Chiesa
e le colpe del passato, preparato in vista della celebrazione del Giubileo dell’anno Duemila.
11
12
60
Educazione e identità:
l’incontro con l’ebraismo
nella catechesi
di Walther Ruspi
fetti del rinnovamento biblico moderno,
Nel 1952, il R. P. Paul Démann, dei Padri
che non avrebbero mancato di farsi sentire
di Sion, pubblicava uno studio sulla catesempre più in seguito; sconfortante, perché
chesi cristiana e il popolo della Bibbia 1,
esponendo i risultati
rivelava nella grande
di un’inchiesta il cui
massa dei catechismi
scopo era di «reperie dei manuali di
«Voglio fare alcune annotazioni intorno
re e studiare in
quegli anni, delle
alla prassi educativa e catechistica, riidee ristrette, inprofondità i veri
chiamando alcuni elementi condivisi e
problemi che pone,
complete o perfino
un comune orientamento pedagogico: 1.
false, che informano
in rapporto ad IsraeLa dimensione dialogica-narrativa-fale, l’insegnamento
male i giovani sui
migliare; 2. La preoccupazione educatidestini d’Israele, e di
religioso cattolico
va verso il popolo per realizzare una
conseguenza
su
quale viene impartiriforma religiosa; 3. L’uso di formule
quelli della Chiesa
to nel nostro tempo»
sintetiche 4. Una pedagogia profondacristiana.
(p. 9). Con questo
mente personalistica».
«esame attento della
L’Antico Testamento, ridotto a brevi
letteratura catechistica» (p. 11) il Démann aveva analizzato ciraccenni, non era presentato in maniera viva, in un contatto serio con i testi medesica duemila volumi in uso nel mondo cattomi, rischiando di non essere altro che un
lico di lingua francese (Francia, Belgio, Caarsenale dal quale trarre alcuni testi, un
nada, Svizzera), rappresentanti dei diversi
periodo oscuro e statico dove emerge qualgeneri letterari dell’insegnamento religioso
(catechismi, manuali di storia sacra, mache fatto o personaggio isolato e di conseguenza sfigurato: il peccato originale ed i
nuali di apologetica, ecc.) nei suoi diversi
livelli (insegnamento elementare, primario,
Patriarchi materia di aneddoto, la Legge
concepita come un codice giuridico che
secondario, ecc.).
Il risultato, concludeva l’autore, era in parinstaura un regime di “timore”.
Il 6 marzo 1982 papa Giovanni Paolo II
te incoraggiante, in parte sconfortante. Inrivolgeva le seguenti parole ai delegati delle
coraggiante, in quanto rivelava in un piccoconferenze episcopali e agli altri esperti
lo numero di opere religiose i benèfici ef1
La Catéchèse chrétienne et le peuple de la Bible. Constatations et perspecfives, par Paul DEMANN avec la collaboration de R.
BLOCH. Prefaz. di S. Em. il Card. Saliège. “Cahiers Sioniens”, numero speciale 3-4, Paris, 1952, pp. 220.
61
Haggadah di Copenaghen, Altona-Hamburg 1739,
di Uri PHEIBUSH, figlio di Isaac Eisikn Segul, scriba
nella comunità giudaica di Altona e di Hamburg,
XVIII secolo.
Le lettere ebraiche in grande e a colori sono quelle
della parola Lefichach (Per questo), iniziale del testo
che segue: Lefichach anachnu chaiavim leodot, leallel,
leshabbeach, lefaer, leromem, leadder, ulkalles lemì shasà
laavotenu velanu et kol annisim aellu, otzianu meavdut
lecherut, umishibbud ligheullà, miiagon lesimchà,
umeevel leiom tov, umeafelà leor gadol venomar lefanav
alleluia. «Per questo noi dobbiamo, ringraziare, lodare, celebrare, glorificare, esaltare, magnificare ed encomiare Colui che ha compiuto per i nostri padri e per
noi tutti questi miracoli; ci ha fatto passare dalla
schiavitù alla libertà, dalla sottomissione alla redenzione, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dall’oscurità alla luce. Diciamo davanti a Lui, Alleluia».
È un testo che si canta. L’ultima lettera, la kaf, è disegnata come se fosse un drappo. Le vocali, poste
sotto le consonanti, sono disegnate a forma di foglie o di fiori.
L’aggadah indica il racconto dell’esodo e della liberazione degli Israeliti dall’Egitto che viene fatto dal padre come risposta alla domanda del figlio più piccolo
durante il seder (ordine, cerimonia) della Pasqua ebraica. Nello stesso tempo si indica con haggadah (haggadah shel Pesach, Haggada di Pasqua) anche il libro rituale che riporta tutta la cerimonia (seder).
ANONIMO, Exultet, XII secolo, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio del Capitolo di san Pietro, B
78, c. 3 r. Sono rotoli di manoscritti che prendono
il nome dall’inizio dell’inno pasquale (Exultet) con
cui il diacono annuncia la risurrezione di Gesù
Cristo.
È un rotolo liturgico per la notte di Pasqua. Le miniature riproducono sia l’ambientazione liturgica (il
diacono che proclama l’Exultet dall’ambone, con il
cero pasquale ben in vista) che il contenuto del testo (la risurrezione di Cristo e le mirofore al sepolcro vuoto, davanti all’angelo). Il testo latino: Benedictio cerei paschalis in sabbato sancto incipit. Exultet
iam angelica turba c(o)elorum. / Exultent divina misteria. / et pro tanti regis victoria tuba insonet salutari
[…]: «Inizia la benedizione del cero pasquale nel sabato santo. Esulti il coro degli angeli / esulti l’assemblea celeste /e una fanfara di gloria saluti il
trionfo di un tale re vittorioso […]».
Due feste, Pasqua ebraica (in inglese Passover) e Pasqua cristiana (in inglese Easter) per celebrare la liberazione e la salvezza che il Signore Dio opera nella storia, allora come ora e come sempre (midor ledor, di generazione in generazione, in saecula saeculorum).
riuniti a Roma per studiare le relazioni tra
Chiesa ed ebraismo: «Voi vi siete preoccupati, durante la vostra sessione, dell’insegnamento cattolico e della catechesi in
rapporto agli ebrei e all’ebraismo […]. Occorrerà fare in modo che questo insegnamento, ai diversi livelli di formazione religiosa, nella catechesi fatta ai bambini e agli
adolescenti, presenti gli ebrei e l’ebraismo
non solo in maniera onesta ed obiettiva,
senza alcun pregiudizio e senza offendere
nessuno, ma ancor più con una viva coscienza del patrimonio comune “agli ebrei
e ai cristiani”».
Sulla scorta di questa testimonianza, di indirizzo magisteriale per la Chiesa cattolica, desidero mettere in luce il tema “Educazione e identità” attraverso tre sottolineature: la correttezza della comunicazione; le radici comuni; la prassi educativa e
catechistica
1. La correttezza della comunicazione
Nel testo precedentemente letto, dal contenuto tanto denso, Giovanni Paolo II si
ispirava chiaramente alla dichiarazione
conciliare Nostra aetate, dove si afferma:
«Curino pertanto tutti che nella catechesi
e nella predicazione della parola di Dio
non insegnino alcunché che non sia
conforme alla verità del Vangelo e allo
Spirito di Cristo», come anche: «Essendo
perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei, questo sacro concilio vuole promuovere e raccomandare loro la mutua conoscenza e
stima» (n. 4).
Allo stesso modo, gli Orientamenti e suggerimenti. per l’applicazione della dichiarazione
conciliare Nostra aetate2, concludono con la
seguente raccomandazione il capitolo III,
intitolato Insegnamento ed educazione, dove è
enumerata una serie di dati concreti da mettere in atto:
L’informazione su queste questioni deve
riguardare tutti i livelli d’insegnamento e
di educazione. Tra i mezzi di informazione, una particolare importanza rivestono
quelli qui di seguito elencati: manuali di
catechesi; libri di storia; mezzi di comunicazione sociale (stampa, radio, cinema,
televisione). L’uso efficace di tali mezzi
presuppone una specifica formazione degli insegnanti e degli educatori nelle
scuole, come pure nei seminari e nelle
università (EV 5/787s).
2. Le comuni radici
Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992
offre una sintesi della teologia cattolica ufficiale su alcuni punti fondamentali ai nn.
574-600 ove si espone nell’articolo 4, paragrafo 1 il rapporto «Gesù e Israele»3.
La revisione teologica resa necessaria dalla
Shoah ha costituito un’occasione unica,
ancora forse troppo poco sfruttata, per
riformulare aspetti fondamentali della teologia cattolica. Tale revisione investe l’identità stessa di Gesù e perciò la cristologia; i rapporti del Nuovo Testamento con
l’Antico e perciò la dottrina della rivelazione, l’ermeneutica e la pneumatologia.
Obbliga ad una revisione critica dell’autodefinizione della Chiesa e dei suoi rappor-
2
I documenti principali della Chiesa cattolica sono gli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione Conciliare Nostra Aetate, n. 4 e i Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della
Chiesa cattolica emanati dalla Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo rispettivamente nel
1974 e nel 1985.
3
Cfr anche i nn. 423; 439; 488; 527-528; 674; 839-840; 1096; 1328; 1334; 1340; 2175.
63
ti con il mondo e la storia così come si sono instaurati nel periodo successivo a Costantino. Questa revisione critica ha dato
luogo ad una nuova visione cattolica dell’ebraismo e degli ebrei, alcuni punti della
quale sono ormai assodati, mentre altri sono ancora in discussione.
La ricerca sulle origini ebraiche del cristianesimo ha dominato gli studi sul cristianesimo primitivo negli ultimi cinquant’anni. I documenti ecclesiastici, più
che prendere posizione su controverse
questioni di inquadramento storico, hanno tratto la conclusione che «la Chiesa e il
cristianesimo, in tutta la loro novità, hanno origine nell’ambiente ebraico del primo secolo della nostra era» (Sussidi III, 9).
Gesù e il cristianesimo delle origini ereditano dal giudaismo del tempo, ad esempio, il monoteismo, la concezione dell’azione di Dio nella storia, della rivelazione,
la visione della storia, dell’escatologia, della redenzione e della risurrezione. Gli stessi riti principali del cristianesimo e le forme della sua preghiera sono originariamente ebraici: così il Padre nostro, così le
principali feste cristiane, la lettura della
Scrittura nella liturgia (Sussidi V; CCC
1096, 1334, 1340).
Ugualmente di origine ebraica è la visione
della morale. Anche i principali sistemi di
classificazione della realtà socio-religiosa
(ad esempio, la divisione tra gli ebrei e i
gentili, che nello schema cristiano diventa
distinzione tra i cristiani e i gentili), come
i sistemi di classificazione del tempo (ad
esempio, la settimana) sono, all’origine,
ebraici.
3. La prassi educativa e catechistica
Senza entrare in specifiche letture, voglio fare alcune annotazioni intorno alla prassi
64
educativa e catechistica, richiamando alcuni
elementi condivisi e un comune orientamento pedagogico in chiave profondamente
personalistica.
Elementi condivisi
1. La dimensione dialogica-narrativa-famigliare
È immediatamente presente alla nostra
memoria la splendida pagina che descrive
l’Haggada pasquale, ove si evidenzia il dialogo familiare tra il padre e il figlio più
piccolo, che domanda spiegazione della
novità presente nella Cena pasquale: «Perché questa notte è diversa dalle altre notti?»; alla domanda segue la risposta attualizzante del padre: «Noi siamo stati liberati».
2. La preoccupazione educativa verso il popolo
per realizzare una riforma religiosa
Alcuni testi della Torah, dei Profeti e degli
Agiografi contengono indicazioni educative
per la formazione del popolo di Dio. Come
afferma Dt 6,6-7: «Questi precetti che oggi
ti do, ti siano fissi nel cuore; li ripeterai ai
tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in
casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» e Dt
6,20: «Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: “Che significano queste istruzioni,
queste leggi e queste norme che il Signore
nostro Dio vi ha dato?” Tu risponderai a tuo
figlio…».
Alla luce della Parola di Dio, l’istruzione
pubblica ha luogo nel tempio con l’ascolto della Torah. Così dispone Dt 31,9:
«quando tutto Israele verrà a presentarsi
davanti al Signore tuo Dio, nel giorno
che avrà scelto, leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti.
Radunerai il popolo, uomini, donne,
bambini, e il forestiero che sarà nelle tue
città, perché ascoltino, imparino a temere
il Signore vostro Dio e si preoccupino di
mettere in pratica tutte le parole di questa
legge».
Si ripete così l’esperienza narrata in 2Re
22 e in particolare Ne 8 che presenta una
generale catechesi al popolo, per attuare
una profonda riforma religiosa: «Essi leggevano il libro della Legge di Dio a brani
distinti e con spiegazioni del senso, e così
f a ce vano comprend ere la lettur a »
(Ne 8,8).
3. Le formule sintetiche
Infine sono comuni gli schemi o le formule sintetiche che diventano strumenti facilitativi alla memorizzazione: i 10 Comandamenti; lo shema’, professione di fede e
insieme comandamento dell’amore, con la
sua triplice ripetizione quotidiana; ed altri
modelli che ritroviamo nel I secolo, come
ci risulta dal libri della Didaché, il libro
delle due vie.
4. Una pedagogia profondamente personalistica
Intendo, tuttavia, concludere leggendo sinteticamente una pagina di un rabbino, che
così esponeva il metodo dell’istruzione religiosa necessaria ai giovani adolescenti. È pagina profondamente condivisa dalla pedagogia catechistica cristiana. Il rabbino I. M.
Choucroun scriveva nel 1947 ad Algeri e, illustrando l’esposizione catechistica4 così raccomandava:
Il ne s’agit pas tant de faire apprendre par
cœur et de façon routinière, des formules,
des textes, de faire retenir des listes… Il
faut surtout toucher et émouvoir les
4
cœurs de jeunes élèves. Il faut leur faire
pénétrer dans l’esprit les croyances essentielles et les porter à pratiquer spontanément les rites qu’ils auront appris à connaitre. Pour atteindre ce but, le maître devra s’astreindre à certaines règles:
l) Il ne devra jamais se contenter de faire
lire le texte… il le développera au besoin,
l’illustrera par des exemples…
2) L’enseignement doit être aussi vivant et
attrayant que possible. Le maître ne parlera jamais de la Bible sans en montrer
une… Il encourages ses élèves à orner
leurs cahiers, les murs de la classe, d’images simples empruntées à la vie religieuse.
3) L’enseignement doit être pratique. Le
maître s’assurera que les élèves ayant appris les bénédictions courantes, du pain,
p. ex., les récitent.
4) L’enseignement doit être rationnel et
simple à la fois. Il faut absolument faciliter
le travail et éviter des confusions fâcheuses. On parlera des jours fériés et des jeunes en leur temps. Ainsi avant Pâque, les
leçons porteront sur cette fête. Après la fête, le maître reprendra cette leçon, en interrogeant ses élèves sur ce qu’ils auront
vu au cours du Séder. En ce qui concerne
certaines questions touchant à la vie morale (l’honnêteté, la pénitence), nous pensons que de tels sujets doivent être traités
en rapport avec des rites, des textes de
prières précis et connus. On parlera ainsi
de l’amour de Dieu quand on étudiera le
Chema.
5) Enfin, l’enseignement devra être progressif, graduel.
Voilà donc dans quel esprit le maître voudra bien utiliser notre “Précis”. S’il s’inspire de ces indications préliminaires,
nous sommes persuadés que l’instruction
religieuse cessera d’être, ce quelle est trop
souvent hélas, un enseignement aride et
I. M. CHOUCROUN, Précis d’instruction religieuse, Editions Biblieurope 2004.
65
abstrait, pour devenir une véritable éducation religieuse de l’enfant, seule méthode
capable d’en faire un fidèle fervent et non
un écolier qui a tôt fait de confondre des
rudiments appris machinalement et sans
grand enthousiasme!5
Molte le citazioni possibili per evidenziare l’ebraicità di Gesù. Memorabili le parole di tale riconoscimento: «Gesù è ebreo e lo è per sempre; […] Gesù è pienamente un uomo del suo tempo e del
suo ambiente ebraico palestinese del I secolo, di
cui ha condiviso gioie e speranze. Ciò sottolinea,
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
come si è stato rivelato nella Bibbia (cfr. Rm 2,3cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
4; Gal 4,4-5), sia la realtà dell’incarnazione che il
tua mente. Questo è il più grande e il primo
significato stesso della storia della salvezza». (Sussidei precetti. Ma il secondo è simile ad esso:
di per la corretta presentazione degli Ebrei e dell’EAmerai il prossimo tuo come te stesso. Da
braismo nella predicazione e nella catechesi della
questi due precetti dipende tutta la legge e i
Chiesa cattolica, commissione per i rapporti reliprofeti» (Mt 22,37-40).
giosi con l’Ebraismo, 24 giugno 1986: cfr.
www.nostreradici.it).
5
«Non si tratta di far imparare a memoria ed in modo ripetitivo le formule e i testi, di ricordare degli elenchi… Occorre soprattutto toccare e commuovere i cuori dei giovani alunni. Occorre far penetrare nello spirito le credenze essenziali e portare a praticare spontaneamente i riti che hanno conosciuto. Per raggiungere questo scopo, il maestro dovrà seguire regole precise:
1) Non dovrà mai accontentarsi di far leggere il testo… ma lo svilupperà al bisogno, lo illustrerà con esempi…
2) L’insegnamento deve essere inoltre vivo e attraente. Il maestro non parlerà mai della Bibbia senza mostrarne una. Inviterà gli
alunni a ornare i quaderni, le pareti dell’aula con immagini semplici ispirate alla vita religiosa.
3) L’insegnamento dovrà essere pratico. Il maestro suggerirà agli alunni di recitare le benedizioni che avranno appreso, ad
esempio quella del pane.
4) L’insegnamento dovrà essere razionale e semplice insieme. Occorre assolutamente facilitare il lavoro ed evitare confusioni. Si parlerà dei giorni di festa e dei digiuni nel tempo in cui sono vissuti… Così prima di Pasqua, le lezioni partiranno da questa festa, e
dopo la festa il maestro riprenderà il tema interrogando gli alunni su ciò che essi hanno vissuto nel seder. Certe questioni riguardanti la vita morale (onestà, penitenza…) pensiamo che debbano essere trattate in relazione con i riti, i testi di preghiera conosciuti. Così si parlerà dell’amore di Dio quando si studierà lo Shema.
5) Infine, l’insegnamento dovrà essere progressivo e graduale.
Ecco con quale spirito il maestro dovrebbe usare il nostro compendio. Se s’ispirerà a queste condizioni preliminari, noi siamo persuasi che l’istruzione religiosa cesserà di essere, come purtroppo troppe volte accade, un insegnamento arido e astratto, per divenire una vera educazione religiosa del fanciullo, solo metodo capace per fare un fedele fervente e non uno scolaro che presto confonde i rudimenti appresi meccanicamente e senza grande entusiasmo!».
66
Educazione e identità:
la conoscenza dell’ebraismo
dal punto di vista ebraico
di Benedetto Carucci Viterbi*
questi termini. E allora, paradossalmente,
Cercherò di essere molto lineare. Il gran
in un certo senso dentro l’IRC può passare
paradosso è la delicatezza dell’argomento
la presentazione dell’ebraismo.
dell’insegnamento della religione cattolica
È chiaro che il pronelle scuole italiane,
blema è estremache di fatto sono il
mente delicato permaggior veicolo di
«La
condizione
nella
quale
si
trova
l’eché storicamente i
conoscenza dell’ebreo italiano è quello di essere necessarapporti tra cristiabraismo. Dobbiamo
riamente etero-presentato, perché gli
nesimo e ebraismo
essere molto sinceri
ebrei non sono numericamente tanti da
non sono sempre
da questo punto di
potersi presentare nelle scuole per proprio
stati semplici, bisovista. Questa è la
conto.
Quindi
la
funzione
dell’insegnangna essere onesti, e
nostra questione.
te di religione cattolica è delicatissima.
soprattutto la contiNon voglio entrare
Credo che sia importante la coscienza di
guità tra ebraismo e
nelle questioni squiquesto
ruolo
che
si
ha».
cristianesimo può
sitamente didattiche
essere da una parte
su cui si potrebbero
un grande strumenevidentemente fare
to facilitatore, dall’altra evidentemente
infinite riflessioni. Però questa è la cifra
può essere anche un enorme problema.
del problema.
Perché la parentela può portare a volte alla
E direi che ancor più che in altre discipline
scarsa chiarezza.
questo è vero nell’IRC. Nelle discipline
Immaginate, in altri termini, che la condistoriche, per esempio gli ebrei sono più o
zione nella quale si trova l’ebreo italiano è
meno presentati insieme ai babilonesi o
quello di essere necessariamente etero-preagli egiziani e ricompaiono dentro i forni
sentato perché non ci sono altre strade ogcrematori. Questa è, di fatto, la presentagettivamente parlando, perché gli ebrei
zione scolastica dell’ebraismo. C’è il vuoto
non sono numericamente tanti da potersi
al centro. Quindi gli ebrei sono o un representare nelle scuole per proprio conto.
perto archeologico – prima opzione – o cePerché in moltissimi luoghi d’Italia non ci
nere. È chiaro che l’ebraismo non può imsono proprio ebrei, quand’anche fosse posmaginare una presentazione di se stesso in
* Testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore.
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ANONIMO, XII sec., Trasfigurazione, Bibbia di
Floreffe, Londra, British
Library, Add. 17738,
fol. 4.
L’evento della trasfigurazione (e quindi le sue
icone) permettono di
evidenziare ancor più la
continuità che Gesù vuole
costituire e stabilire tra
l’Antico e il Nuovo Testamento. Continuità testimoniata qui da due personaggi importanti dell’Antico Testamento:
✓ Mosè, il legislatore, il
liberatore, colui che secondo la tradizione ha
scritto la Torah. Gesù
stesso ad alcuni appare
come un nuovo Mosè;
✓ il profeta Elia. Il nome di questo profeta
sintetizza i nomi di Dio
nell’Antico Testamento: El (Dio) Ja(hwh): il Signore-Jhwh è Dio. «Poiché era stato rapito al cielo invece di morire, si aspettava il suo ritorno come precursore del Messia (Mal 3,23; Lc 1,17); per questo si
credette di riconoscerlo in Gesù (Mt 16,14; Mc 6,15; Mc 8,28; Lc 9,9.19)» (X. Léon –Dufour).
L’evento garantisce la speranza ai cristiani: anche nella loro vita devono trasfigurarsi (metamorfizzarsi,
mediante una metanoia, una conversione) così come insegna Paolo: «Non conformatevi alla mentalità
di questo secolo, ma trasformatevi [in greco c’è il verbo metamorphoûmai] rinnovando la vostra mente,
per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
I cristiani (qui prefigurati dagli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, scelti da Gesù e «condotti in disparte su un alto monte») davanti a questa trasfigurazione e teofania (con i suoi elementi caratteristici:
la nuvola, l’ombra, la voce, lo splendore, le fiamme di fuoco …) e all’ascoltare la voce che proveniva da
«una nuvola luminosa che li avvolge con la sua ombra» «caddero con la faccia a terra e furono presi da
grande timore».
Gesù ha in mano il cartiglio che li assicura: Nolite timere: non abbiate timore.
Il timor Dei era il sentimento profondo che si provava davanti alla ineffabilità della rivelazione teofania
di Dio. È una espressione di fede. Non corrisponde alla paura. Anche se Gesù con la sua assicurazione
è preoccupato di rasserenare la paura che tale timor Dei provoca.
I due apostoli laterali (Giacomo e Giovanni) indicano con la mano Gesù; l’apostolo al centro, Pietro,
ha il coraggio di prendere la parola e dire a Gesù: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui
tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mt 17,4). Sono ancora apostoli senza l’esperienza
della risurrezione di Gesù e soprattutto della Pentecoste, per cui pensano che la tenda possa fermare il
divino e la trasfigurazione come se designasse stabilità, mentre è cammino ed esodo verso un nuovo
ecumene.
sibile questa presentazione diretta. Quindi
in questo senso, la funzione dell’insegnante di religione cattolica (IdR), dal punto di
vista della conoscenza che gli studenti che
passano dal sistema scolastico italiano hanno dell’ebraismo, è delicatissima. Credo
che sia importante la coscienza di questo
ruolo che si ha. Che è un po’, ripeto, sotto
la cifra del paradosso: perché l’IdR, che ha
una funzione di educazione e formazione
religiosa, ma evidentemente educazione e
formazione religiosa cristiana cattolica, si
trova ad essere anche il veicolo della conoscenza dell’ebraismo. E in questo deve essere molto onesto, cercando di non farsi
prendere la mano in una direzione orientata.
Mi rendo conto che è molto, molto difficile. È molto difficile da due punti di vista.
Dal punto di vista specificamente, prettamente teologico e da un punto di vista di
formazione. E sono ambedue componenti
necessarie. Ci vuole in un certo senso una
capacità di distanziamento teologico per
presentare nella maniera più corretta possibile l’ebraismo e d’altra parte bisogna anche conoscere. E non c’è il minimo dubbio
che è chiaro che la conoscenza che dell’ebraismo si ha, spesso è una conoscenza
spostata sul versante biblico, nonostante
tutti i documenti che sono stati citati e in
particolare sia gli Orientamenti che i Sussidi evidentemente sottolineino invece l’importanza non solamente della componente
biblica della tradizione ebraica, ma anche
della componente rabbinica.
Questo credo che sia il punto su cui vale la
pena discutere e questo credo che sia il
grande merito di un convegno come questo che nasce da questo presupposto. Forse
ce ne vorrebbero di più, di convegni di
questo genere… Almeno dal punto di vista
dell’ebraismo, ce ne vorrebbero di più,
proprio nella coscienza che abbandonando
una ideale ipotesi in cui ciascuno può presentarsi direttamente, ipotesi che è oggettivamente impraticabile nella situazione presente, questo trasferimento di compiti di
presentazione può funzionare solamente
nel momento in cui le conoscenze, le competenze degli IdR sono adeguate a questo
compito. Perché è chiaro, e bisogna essere
molto sinceri, che tra le due è preferibile la
non presentazione piuttosto che una presentazione inadeguata o orientata. Devo
essere molto sincero: nella scelta preferisco
niente piuttosto che qualcosa che poi è l’unico, ripeto… immaginate, non parliamo
solamente delle metropoli nelle quali gli
ebrei vivono e per cui se c’è uno studente
curioso che è stato attivato dall’insegnante
potrà andare a visitare la sinagoga o potrà
andare al centro culturale, potrà incontrare
degli ebrei che eventualmente potranno
integrare o anche correggere quello che
l’insegnante ha trasmesso. Ma immaginate
che la presente situazione italiana è di città
in cui gli ebrei non ci sono e in alcuni casi
– in una larga fetta del territorio italiano –
non ci sono da almeno 500 anni. Quindi
questa possibilità non ci sarà. Ora, visto
che nel “borsino dei valori” la curiosità
non è proprio al massimo livello, uno studente medio dobbiamo immaginare che
poi, alla fin fine, non è che si vada ad attivare per ricercare e approfondire, ma gli
sarà sufficiente quello che gli viene trasmesso.
Allora, in questo senso, credo che è in questa direzione che val la pena di riflettere: la
consapevolezza teologica, la consapevolezza delle differenze e delle somiglianze, ma
senza farsi prendere la mano, e la conoscenza. Quindi, se le Diocesi del Lazio, ma
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anche le altre Diocesi di Italia, si attivassero per formazioni sostanziali dal punto di
vista della conoscenza dell’ebraismo, sarebbe, credo, una iniziativa assolutamente importante.
In diverse Università Pontificie ormai esistono corsi di introduzione all’ebraismo.
Da un po’ di anni io collaboro con la Gregoriana, ma esiste la stessa cosa nell’Università Lateranense e in altre; ma evidentemente non è sempre così. Questo credo
che sia il punto che mi preme indicare.
Sarebbe interessante (ma non è il tempo e
forse si potrebbe immaginare un’altra situazione) vedere poi, anche riprendendo
l’ultima relazione, quali sono gli strumenti
didattici che nella trasmissione dei valori
religiosi nell’educazione religiosa e nella
formazione religiosa le nostre tradizioni
utilizzano. Sarebbe interessante perché ritornando sempre alla riflessione su “i metodi sono anche dei contenuti”, forse i
modi di trasmettere potrebbero essere non
certamente sovrapposti, ma oggetto di uno
studio comparato e, se non di una condivisione, perlomeno di un confronto.
Organo positivo, probabilmente di Gottfried F RITZSCHE ,
XVII secolo, Londra, Victoria
and Albert Museum.
Su questo organo positivo,
due immagini dell’Antico Testamento illuminano ‘lo
sguardo che vede’ e l’orecchio
che ascolta il suono dell’organo.
Due rappresentazioni molto
rare e singolari sulle ante del
mobile. che chiudono la vista
delle canne dell’organo, e che
a volte funzionano anche da
regolatori di volume (aprendo
di più o di meno).
Due episodi della vita di Abramo (puntualmente tematizzati
e citati): ma qui forse l’elemento unificante (oltre ad
Abramo) è la voce dei due ragazzi: Ismaele a sinistra e Isacco a destra.
Di loro sono rappresentati due episodi di dolore: Ismaele con sua madre Agar viene allontanata da
Abramo e Isacco che sta per essere sacrificato da suo padre Abramo.
Ma in ambedue gli episodi, vi è la voce di due ragazzi: la voce di invocazione di Ismaele ascoltata da
Dio: «Dio udì la voce del fanciullo [Ismaele]» (Gn 21,17) e la voce di domanda di Isacco ad Abramo (Gn 22,7-8).
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In copertina:
M. CHAGALL (1887-1985), Abramo ospita alla sua mensa tre angeli (Gn 18,1-15), olio su
tela, non datato, ma tra il 1960-1966. Musée National Message Biblique Marc Chagall,
Nizza.
L’ospitalità è la prima testimonianza dell’esodo da se stessi verso le altre identità, le sue
geografie e le sue storie. L’asse di simmetria che caratterizza la verticalità dell’uomo e lo
stabilisce come unità di persona non sempre è riconosciuta come ‘trovato’, ‘acquisito’,
‘donato’. E due verticalità difficilmente potranno intersecarsi se almeno una non accondiscende verso l’altra. L’intersezione avverrà secondo quanto l’una si inclina (si fa disponibile) verso l’altra. Se ambedue cambiano la propria ‘rettitudine’ verticale con l’obliquità verso l’altro, aumenta la possibilità di intersezione e soprattutto potrà avvenire
prima. Provare per credere: due vite parallele sono sempre due storie estranee. La prossemicità geografica e temporale non sempre è prossemicità relazionale. Vicini di casa
che non si conoscono, condomini che si scoprono quando vanno a prendere i loro figli
a scuola!
Tra cristiani ed ebrei le storie spesso sono state quelle di chi ha condizionato l’altro. Le
ragioni della verticalità della ‘ragione’ hanno prevalso su quelle della misericordia e dell’accoglienza e soprattutto del riconoscimento. Perché i cristiani devono agli ebrei il riconoscimento così come ambedue devono a Dio la gratitudine di averli chiamati: eletti
per l’alleanza da iniziare e continuare (gli ebrei), eletti per l’alleanza da continuare e
portare a compimento (i cristiani). Insieme.
L’ospitalità di Abramo presso una geografia di querce (quelle di Mamre) e la soglia e la
tavola della sua tenda sono il paradigma di ogni accoglienza nel nome del Dio di Abramo. La tarda età di Abramo e di Sara rende ancor più memorabile l’accoglienza: se l’anziano è colui che ancora elabora progetti, il vecchio si contorce nella nostalgia di quelli
realizzati e nel cruccio di quelli mancati. Gli anziani Abramo e Sara, nella terra donata
da Dio, sotto una tenda sempre smontabile per altri cammini ed esodi, accolgono questi tre uomini-angeli e da loro ricevono in dono la promessa della discendenza, mediante il sorriso di un figlio. Pur nella provvisorietà del loro tempo futuro, della loro condizione di genitori mancati, però grati (anche se Sara con un sorriso criticato) perché il Signore li ha visitati. Non è l’estraneità degli uomini ospitati che rende merito ad Abramo
(oggi diremmo: che coraggio hanno avuto ad accogliere degli estranei!), ma la gratitudine verso Dio che li ha visitati onorandoli di ospitarlo nella persona dei tre stranieri.
Ospitalità che non è solo rispetto ma amore verso lo straniero (filo-xenia).
Se Dio può avere virtù, la sua prima è stata quella che gli ha permesso di ospitare nella
sua identità l’immagine e la somiglianza dell’uomo. E concretamente praticare l’ospitalità concedendogli una terra creata per lui, gli animali creati per essere dominati da lui,
un eden perché fosse il giardino ospitale dove il Signore-Dio potesse passeggiare con
Adamo e la prima coppia condividere il loro eden.
Tutto questo può essere vanificato. Lo è stato, continua ad esserlo, ancora oggi. Le stesse parole del dialogo saranno inutili se private della speranza di essere ospitate nelle reciproche identità e di essere donate all’altro colme del dono dell’ospitalità reciproca. E
che non accada anche a noi di non saper riconoscere un fratello solo perché ha un’altra
storia, un altro colore della pelle, un’altra identità: saremmo come due verticali che si
scambieranno i «lei non sa chi sono io!» e per quanto all’infinito possano augurarsi belle
cose, continueranno nel presente a non incontrarsi e all’infinito ad essere parallele. E
non accada anche a noi di «dimenticare l’ospitalità (filoxenia, hospitalitas): per mezzo di
questa infatti alcuni, senza saperlo, ospitarono angeli» (cfr Eb 13,2). Ancora persiste,
mascherato e legittimato, il rischio di ridurci l’un l’altro a stranieri, tradendo – in modo
fedele o meno, secondo le proprie potenze argomentative – il privilegio della figliolanza
e la dignità dell’umano che ci sono stati donati. Che «l’amore fraterno sia perseverante»
(Eb 13,1).
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