Fiona Diwan: “L’ebraismo è
costruzione mai finita...”
Milano, maggio 2002
Come sei arrivata
nella tua posizione?
«Potrei rispondere che ci
sono arrivata per caso, come
spesso accadono le cose, anche
quelle importanti.
Ma tutti sappiamo che non
c’è nulla di meno casuale del
caso. Tutto obbedisce a una
logica a volte evidente a volte
occulta. Insomma si diventa
sempre, presto o tardi, quello
che si è. Per quanto mi riguarda ho fatto per dieci anni l’inviato speciale occupandomi di
attualità, inchieste, cultura,
politica....
Nulla di più naturale, quindi,
che l’approdo a una rivista
come Gulliver: un magazine
che ha come “mission” editoriale quella di declinare viaggi e
modernità, spirito contemporaneo e tempo libero, nuove mete
e antropologia, stili di vita con
la cultura, le tendenze...
Certo, mi piaceva molto
scrivere articoli ma amo molto
anche fare il direttore e pensare
a un giornale nella sua interezza, nel suo disegno complessivo.
Diciamo che se prima facevo la “solista” suonando un
solo strumento, oggi faccio un
lavoro che somiglia di più a
quello del direttore d’orchestra: continuando con la metafora musicale, decido i brani e
gli strumenti più adatti per
comporre la partitura che di
volta in volta verrà “suonata”
sul giornale.
E questo è entusiasmante».
Che cosa lega te e il tuo lavoro all’ebraismo?
«Questa è una bella domanda. Difficile. Credo che sia un
fatto sottile, qualcosa che ha a
che fare più con un atteggiamento critico, diciamo disincantato, che non con qualcosa
di preciso e concreto.
L’ebraismo mi ha regalato
“uno sguardo dal ponte”, una
visione più a distanza delle
cose. È un’attitudine: cercare di
non prendersi troppo sul serio,
trovare sempre il lato umoristico delle cose, anche quando
sono drammatiche, mai tradire
una vocazione “morale” o una
dimensione di “impegno”,
come si diceva una volta. Il
giornalismo è prima di tutto
comunicazione: in questo caso
si tratta allora di comunicare
agli altri, sul giornale quando è
il caso di farlo (magari con servizi ad hoc) ma anche ai colleghi, nel mondo del lavoro e
delle relazioni day by day, che
cosa voglia dire essere ebreo e
che cos’è l’ebraismo, così poco
conosciuto e su cui banalità,
luoghi comuni e ovvietà si
sprecano, credetemi, a tutti i
livelli
dell’interlocutore:
medio, basso o alto».
Qual è il legame tra
il tuo senso della famiglia
e l’ebraismo?
«La famiglia è per me l’ambito in cui più di si dispiega l’ebraismo, è la pienezza, la realizzazione tangibile del mio
essere ebrea. Ad esempio cerco
il più possibile di fare kabbalat
shabbat il venerdì sera e di arrivare più presto rispetto alle
altre giornate di lavoro.
Passo ore con le mie figlie a
leggere dei midrashim che mi
hanno particolarmente colpito o
entusiasmato e loro sanno che
la mamma va, un giorno la settimana, da un maestro per studiare la Torah. L’ebraismo è
studio, costruzione mai finita di
una identità su cui tornare e
ritornare in una perenne interrogazione, capacità e volontà di
trasmettere non solo la memoria
storica ma anche la lezione dei
nostri maestri come una linfa
viva a cui attingere sempre, e
sempre suscettibile di essere
reinterpretata, rivisitata. Ma l’ebraismo è per me soprattutto
una cosa: amore per la vita
come valore supremo, amore
per la vita che poi altro non è
che amore per il divino. E lo
dico anche a rischio di sembrare
ovvia o scontata.
Edmond Jabès, un poeta
contemporaneo che ha attraversato tutti gli orrori del secolo
passato, ebreo nato al Cairo nel
1912 fuggito dall’Egitto nel
1957 e morto a Parigi nel 1991,
scrive nel
Libro delle
Interrogazioni: “Distruggeremo
la porta per arrivare alla porta?
Calpesteremo l’erba per arrivare al fiore? Abbatteremo il tronco per arrivare ai rami?
Spezzeremo il ginocchio per
arrivare alle spalle?... La morte
è la monotona ascesa della
morte”. Ecco, dice Jabès, tutto
questo non è mai stato né sarà
mai l’ebraismo. Tutto questo è
l’antitesi della nostra tradizione.
Da non dimenticare, dico io.
Specie di questi tempi.»
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