Sull'arte figurativa contemporanea L'Ottocento vede esaurirsi una ricerca, nelle arti, che sembrava poter procedere senza fine secondo 'norme' introiettate ormai nella cultura occidentale (più propriamente europea), che stabilivano e davano per evidente come contenuto e forma fossero aspetti di uno stesso ed unico processo nella creazione delle opere. La definizione dei contenuti - dei 'soggetti', cioè, che emergevano di volta in volta come 'temi' dell'opera - e l'articolazione formale, che quei contenuti assumevano in relazione alla sensibilità culturale emergente nei singoli periodi della storia (cioè in rapporto alle diverse manifestazioni assunte dalla cultura europea, nell'insieme di una civiltà fortemente unificata), non potevano che essere le facce di un solo modo d'esistere dell'arte. Una unità di forma e di contenuto, che si traduceva, sul piano linguistico delle arti figurative, ma non solo di esse, in una stretta, consolidata correlazione fra scelte semantiche (costitutive anche della ricchezza e dell'ampiezza degli spazi linguistici adoperati per la 'significazione' di quei contenuti) e le articolazioni sintattiche occorrenti alla loro esplicitazione (nella temporalità necessaria, propria del dispiegamento linguistico). Anche Lionello Venturi [1] ebbe a notare come ancora romanticismo e realismo, pur avendo già modificato i tradizionali contenuti, non presentassero ancora diversità di forma, che restava quella neoclassica, almeno nella sua sostanza, tanto che Baudelaire non trovava grandi differenze (formali) tra Ingres e Courbet. Questo fino alla 'svolta' di metà '800 e poi, pubblicamente, con la prima esposizione degli impressionisti, del 1874. È a questo punto che comincia la rivoluzione formale e un lungo percorso di separazione e di distacco, indipendentemente dalle predilezioni per certi contenuti, quand'anche nuovi ed emergenti. Un esempio: per la prima volta, Schınberg scrive la partitura di Moses und Aron su un'unica serie dodecafonica, dalla quale in vario modo ricava poi i diversi temi dell'opera. La forma, di assoluta novità rivoluzionaria, è messa lì ad esprimere un contenuto antico quanto il Vecchio Testamento, anche se Mosè e Aronne possono essere 'letti' modernamente, come gli opposti aspetti della realtà dell'uomo o dell'individuo di fronte alla società o come antitesi di pensiero e azione o del bene e del male. Ma, nonostante la moderna rilettura del significato, il 'tema' non è nuovo: vecchio è, almeno quanto vecchia è la fonte teatrale diretta - l'Osiride di Francesco Ringhieri, da cui deriva quel libretto di Andrea Leone Tottola, il Mosè in Egitto, che viene musicato da Gioacchino Rossini e presentato nel 1818 - e quanto vecchie sono le tante composizioni d'opere teatrali d'argomento biblico alla Corte di Napoli, intorno all'ultimo ventennio del 18° secolo. Altro esempio: l'opera di Castellani - che muove dall'antichissima riflessione sullo spazio in una tela, ma contrassegnata ora da niente più che tensioni formali superficiali create da rilievi o avvallamenti prodotti dai chiodi piantati su di essa - si affaccia alla storia dell'arte con una formalità pura, nuova (op-art), libera da qualsiasi riflessione storica di contenuto: lo spazio diventa nuova forma, staccata da ogni contenuto posto a farlo esistere come spazio. Nell'esempio precedente, di storia musicale, quella forma era lasciata invece convivere con contenuti antichi. Chiare sono le cause storiche di un esaurimento di codici e linguaggi consolidati e 'accademici' e del correlato mutamento rivoluzionario che si produce nelle arti (di dimensioni ben più profonde e vaste di altre analoghe crisi, come accadde ad esempio nel tardo '500): è la cultura dell'Illuminismo che si materializza ora definitivamente in tutte le sue conseguenze, si fa concreta rottura di un'intera tradizione e diventa coscienza 'normale' e condivisa di una prospettiva di trasformazione, che si configura come visione nuova della storia e dei soggetti della storia, della politica e della società, e come nuovo modo di sentire il rapporto dell'uomo alla stessa natura. Supporto 'materiale' e alle spalle di tutto questo sommovimento, la rivoluzione industriale. Contemporaneamente, però, due sono anche i germi dissolutori che minano al fondo la fiducia propriamente illuministica nel progresso dell'uomo e le condivisioni culturali acquisite: uno, interno al soggetto, riconducibile alla corrosione dell'idea della sua unità e della sua centralità (contestualmente alla crisi dell'unità kantiana dell''Io trascendentale' e alla sua storicizzazione nel percorso fenomenologico hegeliano e, per altro verso, alla frantumazione freudiana dell'unità coscenziale di quell''io', seguita alla scoperta delle 'dimensioni' del suo inconscio); l'altro germe, operante invece all'interno della socialità del soggetto, scava verso una revisione critica dei rapporti geopolitici, con il progredire della crisi e del successivo collasso del colonialismo 'storico' e con la conseguente e progressiva messa in discussione dell'eurocentrismo. Ciò che emerge e finisce per contare sempre di più è la necessità del cambiamento, di un mutamento progressivo e della novità. La cultura (e, in essa, l'arte) vuol essere esplicitamente 'espressione del suo tempo', anzi: l'anticipazione di questo. In breve lasso di tempo tutto viene messo in discussione: non solo i risultati storicamente raggiunti nell'ambito di ogni singolo 'carattere' del linguaggio figurativo - colore e luce, armonia della composizione, prospettiva e forme della spazialità (fisica, ottica o geometrica che fossero), dinamismi e 'spazialità relative' proprie del movimento, l'espressione figurativa e tutte le convenzioni sulle liceità della matericità figurativa - ma anche la stabilità stessa del rapporto formacontenuto, la fiducia - cioè - nell'interazione tra ricerca semantica e formalismi sintattici, tra 'significato' e 'senso' dell'opera. Il lessico e le sue strutture perdono in breve spazio di tempo capacità d'interazione, i tempi della sintassi e gli spazi dei codici semantici si 'scollano', si rendono autonomi, fino alla realizzazione di forme che possono esistere senza rapporto a contenuti di sorta, fino alla teorizzazione della possibilità, per la forma, di poter scegliere anche se stessa come suo proprio contenuto, insomma: fino alla nascita di un'arte astratta. E insieme, l'autonomizzazione si spinge anche fino al punto dove il contenuto può tentare il rifiuto di ogni strutturazione formale, togliendo ossigeno alla sua forma, lasciandone come residuo proprio la mancanza d'una forma visibile, decretando così la nascita d'un'arte del tutto informale. Si spezza, da un lato, il rapporto che necessariamente legava l'immagine al contenuto significato (immagine priva di significato, perché questo può esistere anche altrove, anziché in essa e porsi, per esempio, nella Weltanschauung implicita e supposta dell'artista, sebbene non 'dichiarata' nell'immagine stessa); dall'altro, si rompe il nesso che univa insieme forma e immagine (forma priva di immagine, perché quest'ultima può 'rispecchiarsi' anche e ritrovare altra consistenza 'ontologica' già nella pura forma). Centrale nella ricerca artistica diventa la sperimentazione, un ruolo di avanguardia e la necessaria conquista della visibilità di quella auto-proclamata posizione, che di per sé - cioè, nella sua solitudine avanguardistica - non ha e che - ferme restando tutte le esigenze del mercato - neppure avrebbe dovuto essere del tutto voluta per non entrare in contraddizione con la premessa. Centrale, dunque, anche un'idea di 'progressività' dell'arte, il cui motore interno sta nell'idea stessa di 'avanguardia', ma di cui non possono essere dati né 'fine' né 'direzione' del progresso (sembra che Baudelaire non sia riuscito ad insegnare nulla sulla 'grottesca' idea di progresso applicato all'arte). [2] Il rapporto che sempre e senza problemi (e parallelamente alla storia) era esistito fra tradizione e rinnovamento si radicalizza ora, fino ad essere esso stesso inglobato e incluso nella 'storia' (nella 'storicizzazione' propria dello storicismo e dell'idea di un'escatologia dell'arte, parallela ad un presunto 'senso' della storia). Due direzioni cominciano dunque a delinearsi da quello scollamento che si veniva creando: da un lato, crescente ricerca e attrazione verso le modalità di nuova trattazione formale del soggetto; un percorso, che diventa vera e propria esplosione [3] di forme e che in breve inonda ogni campo dell'espressione 'linguistica'. Dall'altro lato, quasi bilanciante controparte, caduta inesorabile d'interesse al contenuto e sua banalizzazione [4] (di cui, paradossalmente, l'informale finisce per esserne l'aspetto principale). Caduta, fino a un'implosione: [5] prima di tutto perché la fotografia era venuta togliendo ogni spazio alla ricerca come imitazione (alla mimesis del reale); poi perché (conseguentemente alla rivoluzione tecnica dello 'sguardo sulla realtà') veniva a contare l'impronta puramente soggettiva dello sguardo (una sorta di mimesis mentale, che chiedeva nuovi linguaggi dell'interiorità, non dell'oggetto tout court, semmai del 'peso' che il mondo oggettivo poteva avere sulla psiche e sullo statuto storico-culturale dell'artista: l'occhio interiore di Blake, lo stato d'animo di Friedrich, l'impressione di Turner, l'espressione dei pittori dell'angoscia e dell'urlo, da Munch a Ensor a Van Gogh); infine, perché la rivoluzione industriale, con l'interesse primario che veniva a suscitare sull'arte, portava alla ribalta i suoi 'temi', i suoi contenuti: materiali seriali, gli oggetti banali e d'uso, banalizzanti prodotti di mercato e di un'epoca definita poi della 'riproducibilità tecnica dell'arte'. Dunque banalizzazione in più sensi, infine: nel rapporto concorrenziale con le tecniche della visione, nel ripiegamento sull'immediatezza della soggettivizzazione della visione, che cancella lo spessore 'storico' dell'icona, impedendone l'interpretabilità iconologica e il conseguente riconoscimento iconografico. [6] Precisiamo: i dizionari definiscono 'icona' l'immagine (l'effigie), in generale, oltre che un segno visivo che abbia somiglianza con la realtà esterna. Atteniamoci alla prima definizione e, con Panofsky, chiamiamo, in generale, 'iconologia' il ramo della storia dell'arte che si occupa del 'soggetto' (del significato) dell'opera, come contrapposto ai valori 'formali' di essa (da intendere come loro controparte unitaria). Panofsky [7] individua anche tre livelli di analisi. Il 'soggetto' può essere considerato come pura 'fattualità' o - modalità di questa fattualità - per i suoi caratteri 'espressivi', quando si abbia a che fare con la sua analisi descrittiva e si resti alla osservazione - ancora pre-iconica - puramente sensibile, della percezione: fin qui si identificano le configurazioni fisiche in quanto tali (linee, colori, espressioni). Tale 'soggetto' entra così nel mondo dell'immagine 'iconica' e poi, se è il caso, 'iconografica', quando esso viene anche inquadrato e riconosciuto o meno come soggetto di una storia o di un'allegoria, tramite l'interpretazione e la sua 'intelligibilità iconografica', raggiungibile (per via di convenzioni) mediante un'analisi ad hoc (iconografica appunto). Il 'soggetto', così 'significato' come oggetto d'iconografia, è dunque l'esito di convenzioni, che fanno riconoscere proprietà iconografiche del soggetto, cioè 'motivi', che la semplice raffigurazione iconica non possiede (le figure dei sette peccati capitali, le immagini degli Apostoli, le allegorie della Prudenza, della Redenzione, della Musica, del Tempo, ecc.). Infine, la ricostruzione dell'interpretazione iconologica del 'soggetto', riferendo questo al mondo dei valori simbolici, fa di esso quello che Panofsky chiama il soggetto intrinseco, cioè il 'contenuto' iconologico, un 'simbolo' insomma, [8] la cui interpretazione si potrebbe chiamare il senso dell'opera. [9] Se inizialmente - come ci viene ricordato da Gombrich [10] - nuovi ambiti di scelte contenutistiche rompono le convenzioni delle Accademie, generando la prima incrinatura nel rapporto tra artista e pubblico e quindi la fine di una felice coincidenza di 'poetiche' e di 'gusti', altri fattori - oltre quelli ora elencati - concorrono a restringere progressivamente lo spazio semantico, quand'anche il numero degli oggetti che si 'affacciano' alla raffigurabilità diventi pressoché sterminato. Tutt'altro che secondaria, ma non ancora centrale, la ricerca della visibilità e dell'imposizione dell'opera sul mercato: un'omologazione, che pone nello sfondo le differenze fra arte di successo ed opera d'arte (così come la demarcazione fra arte e mestiere e, con essa, fra materiali propri e materiali inusitati e, ad un più alto livello, il bisogno di distinguere fra linguaggio strettamente figurativo e linguaggi multimediali), mentre in primo piano balza il nesso, latente ma ben esistente, tra arte e cultura condivisa ed il ruolo esercitato da quest'ultima nella definizione del valore dell'opera. Ma, effettivamente centrale invece (accanto a questi aspetti psico-sociali), quella dimensione strettamente 'soggettivistica' dei temi, responsabile sostanziale della mancata 'intelligibilità iconografica' del soggetto (contenuto o icona raffigurata, che dir si voglia). [11] Anche i temi sociali e politici, da Millet e Courbet in poi e sempre più, non si sottraggono a questa perdita di intelligibilità e di interpretabilità iconologica, verso una immediatezza 'iconica', che è porta (certo non obbligatoria) di banalizzazioni e - a volte - parametro di spessori triti e di piatte semplicità: ad esempio, si può pensare a Michele Cammarano [12], a Pellizza da Volpedo [13], a qualche Guttuso. L'arte, insomma, se è spinta ad adagiarsi sulla divaricazione della coppia di estremi 'astrattoinformale', tende anche a ripiegarsi sulla immediatezza soggettiva dell'icona. E qui, soprattutto quando l'oggetto è preso direttamente dal mondo del mercato, 'all is pretty', come asserisce Warhol a nome di tutta la Pop art. [14] L'aver posto in discussione la tradizione 'formale' e delle accademie, nel nuovo clima rivoluzionario di sperimentazione, di progressività e di avanguardismo permanente, ha generato e si è accompagnato anche ad un equivoco di fondo: che tutto ciò sia e debba essere coerente e conforme all'aspetto di per sé creativo dell'arte. Ma la creazione, con la sua proprietà caratterizzante di determinare 'lateralità' di prassi e di pensiero, a fronte di una 'normatività' data - lateralità, attraverso cui si rompono schemi precostituiti e si istituiscono valori nuovi, fuori 'norma' appunto, che solo a posteriori possono essere assorbiti in una cultura condivisa capace di ricondurre lo 'scarto' così prodotto e la provocazione trasgressiva nuovamente nell'alveo di un''altra' normatività - non implica la necessità di mettere 'in discussione' tutti o anche solo alcuni dei 'caratteri' del linguaggio dell'arte figurativa, perché, in quanto tale, essa (creazione) riguarda essenzialmente il 'modo' dell'esposizione di quei caratteri e non il loro stesso 'essere': la sperimentazione può ben trovare strade di approfondimenti per ciascuno dei caratteri formali del linguaggio, senza il bisogno di negarli, uno o tutti (siano essi la prospettiva o la spazialità o proprietà luministica del colore). Avanguardismo, così come non vuol essere sinonimo di rifondazione globalmente alternativa del linguaggio, non è certo neppure sinonimo di 'creatività'. Con ciò si vuol dire che la 'progressività' dell'arte non riguarda il fatto di essere collocata nel letto della temporalità storica, ma di essere invece proprio nella a-temporale, a-storica, necessità (unica necessità) di rispondere alla creatività. Questa non è producibile quale semplice ed immediato effetto di una non-ripetibilità temporale delle forme, in quanto intrinseca al divenire storico, ma è irripetibilità che nasce, invece, da considerazioni intrinsecamente artistico-creative. Implosione dei contenuti, s'è detto (e non importa se contenuti d'una mimesis reale o mentale): ma approfondiamolo ancora una volta - in che senso? In primo luogo, non c'è dubbio che il percorso dell'avanguardismo - il primo, quello 'storico', contro il passato, contro il mito e la memoria, il secondo 'futurista', verso l'immaginazione e l'utopia, ma poi, l'ultimo, contro ogni ideologizzazione, anche quella futuristica, dell'ottimismo e del progresso, verso una fenomenologia dell''attuale puro' - questo percorso ha contribuito a far indebolire ed esaurire anche interessi all'interiorità, alla psicologizzazione e all'analisi del profondo: e, quand'anche questi siano presenti, decaduto è per lo più l'approfondimento degli aspetti 'tematici' in un orizzonte storico complessivo, di memoria e d'immaginazione. In questo senso si parla qui di 'banalizzazione' dei contenuti 'significati'; cioè: nel senso, stretto, che la prospettiva fenomenologica, senza più pretesa di spessore storico, non ammette approfondimento ulteriore, che non sia quello già fornito dal dato immediato e superficialmente a-storico. Ciò posto, per definire a fondo il fenomeno d'implosione dei contenuti, occorre avere chiara e distinta la differenza che corre tra il contenuto di un'opera (un motivo, un tema, raffigurato come tale, nella sua sostanza iconica) e l'opera stessa, che va presa e dev'essere presa come un tutto, nel suo valore di contenuto iconico: da un lato, poniamo, l'immagine di una donna raffigurante la Fortuna o la Morte o una delle Virtù (tutte icone dentro un quadro), dall'altro, per esempio, Victory Bolgie-Woogie di Piet Mondrian, [15] dove la raffigurazione iconica coincide con il quadro stesso nella sua totalità. Si individuano allora due 'cariche implosive' del contenuto. La prima, quella dell'immediatezza iconica dell'opera, la quale non è affatto in necessario contrasto con la ripetizione (banalizzante) del contenuto significato, cioè con una ripetibilità infinita di un 'tema' (p. es.: una figura femminile) o di un 'motivo' (il 'soggetto' dell'opera: p. es. il volto di Marilyn Monroe, anche quando esso venga esibito in molti modi o forme): anzi, ben può essere coerente e conforme a quella riproducibilità; l' 'immediatezza iconica', per riassumere quel che si è detto, è 1) una conseguenza di situazioni e aspetti psico-sociali sulle arti figurative ed è 2) l'approdo necessario di una dimensione sempre più strettamente 'soggettivistica' che pervade i 'temi', con la conseguente perdita di valore iconologico delle opere. La seconda delle 'cariche' d'implosione, è quella dell'unicità iconografica dell'opera: questa unicità come ben si vede mettendo a confronto opere che portano in sé questa proprietà (p. es., il citato Mondrian) con le altre, cariche invece dell'iconografia storica delle arti figurative (p. es., Et in Arcadia ego, del Guercino) - a fronte della ripetibilità del significato iconico, è caratterizzata invece a) da una irripetibilità del soggetto fisico iconico 'raffigurato' (quell'icona, che è il quadro stesso, coincidente con il suo tema: Bolgie-Woogie), b) da uno spessore meramente fenomenologico del 'contenuto significato', già sopra indicato e c) da un 'senso' (in quanto 'interpretazione' iconologica del contenuto) che è esterno al contenuto stesso. Altro esempio, il Grande Vetro di Duchamp, [16] che - non considerando ora la sua 'forma', che dovrebbe pur essere sempre non più ripetibile - ha significato irripetibile, contenuto fenomenologico e senso esterno all'opera: è cioè un 'unico iconografico' e quindi, per il senso assegnato da Panofsky al termine 'iconografia', diremo meglio essere una pseudo-iconografia, irripetibile proprio nel valore iconico, unica nel suo 'senso' estrinsecamente assegnato, confinata nella sua 'attualità' storica. [17] È nell'immediatezza iconica e nell'unicità iconografica, nei suoi tre aspetti fondamentali (irripetibilità del soggetto fisico raffigurato - ma ripetibilità del contenuto significato fenomenologismo di questo contenuto e senso esterno al contenuto stesso), che si intende qui definibile l'accadimento di una implosione dei contenuti nell'arte figurativa contemporanea. Ma precisiamo ancora quanto detto. Il contenuto iconograficamente simbolico del soggetto-significato ha il senso assegnatogli dalla interpretazione iconologica del contenuto. Tuttavia Panofsky parla anche di 'prospettiva' come forma simbolica: [18] ma ciò non deve confondere, perché il concetto è semplicemente dovuto al prestito equivocante desunto dalla terminologia di Ernst Cassirer. [19] La prospettiva non rientra nell'ordine dei 'valori' artistici (è semplicemente un 'carattere' possibile del linguaggio figurativo, come la luce, il disegno o il colore e appartiene alla 'storia dello stile' e dunque all'analisi preiconografica): è un carattere linguistico (formale), che 'esprime' (connettendo e identificando un 'contenuto simbolico' a un segno 'sensibile'); e per questo, viene definito forma simbolica. La perdita di valore iconologico nell'arte figurativa, [20] specie dall'Ottocento in poi, s'è detta segnata dal privato come 'soggetto' dell'opera; l'arte è sempre più espressione dall'individualità soggettiva, dalla sua privatizzazione sociale e liberale, del predominio dell'interesse per l'analisi introspettiva, psicologica e psicanalitica. [21] L'essenza della rivoluzione artistica, dall'800, non è più, come spesso nel passato, ricerca di una consistenza iconografica, affidamento a una riconoscibilità storica o allegorica, ma la riduzione soggettivistica, psicologica, morale del 'tema' e del soggetto dell'opera. Questa prospettiva 'tematica' cambia, senza dubbio, nel corso di quel secolo e, radicalmente poi, nel corso del successivo, ma quella perdita sembra irreversibile. Una forma d'arte figurativa non va perciò confusa e identificata, già in una sua prima istanza, con modalità iconografiche estrinseche, associabili per valori iconologici assegnati dalla 'visibilità' offerta dal mercato dell'arte: per avere valore iconografico d'immagine, questo valore deve essere riconosciuto, ma - per questo - 'interpretato' iconologicamente. Al di fuori di tale riconoscimento 'culturale', non c'è iconografia. Ora, l'arte figurativa contemporanea, delle avanguardie, non ha alle spalle una iconologia, tanto meno può generarla dall'opera stessa ed anzi la rinnega (sia come rifiuto esplicito della mitologia, sia come proiezione futuristica nemica del passato, sia come neutra fenomenologia del tempo presente e dell'attuale): a priori, non può generare riconoscibilità iconografica, ma solo oggetti iconici. L'iconografia, che ha bisogno di una ermeneutica iconologica alle sue spalle, chiede, per essere tale, la conoscenza culturalmente condivisa del 'tema' concettuale, 'contenuto'dell'opera: l'identificazione d'un'opera con 'contenuto' significante iconografico deve poter avere la sua spiegazione in un background spazio-temporale, sociale e storico: una spiegazione intrinseca, non solamente indotta. [22] Ultime considerazioni: l'attrazione esercitata da certi mezzi, il valore 'materico' dei colori, la novità e l'attribuito valore dei 'materiali nuovi' (dai collages del cubismo all'introduzione di oggetti estranei agli elementi essenziali di un linguaggio), quando non appartengono ai 'caratteri' (che sono forme) del linguaggio, non possono neppure fare parte di riconoscimenti iconografici, in quanto 'forme': in essi non sono rintracciabili poteri iconografici. La proiezione dell'interesse sulla originalità, insomma, per generare 'qualcosa di nuovo', approfondisce semmai il limite puramente iconico dell'arte attuale: i contenuti non sono più desunti, posti e definiti dalla tradizione e dalla cultura socialmente condivisa: restano pertanto ancora pre-simbolici nel senso di Panofsky, privi cioè di riconoscibilità iconografica. Il 'soggetto' dell'opera non è anche, ipso facto, il suo 'significato': il 'contenuto' non è 'simbolo intrinseco' (senso). L'icona appartiene all'analisi iconografica solo entro e attraverso un suo rapporto con la cultura. Anche un quadro astratto - e riprendiamo quanto detto sopra su Mondrian - poniamo, ora, il Quadro con macchia rossa di Kandinskij, pur nella sua riconoscibilità iconica, non può che essere oggetto pseudo-iconografico, in quanto la sua forma, assunta come contenuto, viene introiettata nella cultura socialmente condivisa, come 'opera iconica' (non come contenuto iconico dell'opera): si potrebbe dire, un 'logo' (disegno corrispondente ad una 'nozione'). Questo carattere pseudo-iconografico va tenuto sostanzialmente distinto da quello che attiene ai temi delle Virtù, dell'Accidia o di 'Et in Arcadia ego', innumerevoli volte ripetuti. Quel 'logo' invece non è ripetibile. E così è per l'informale (poniamo: Occhi nel caldo II, di Pollock), irripetibile, senza diventare allora copia-contraffazione. Se così è per il 'Grande Vetro' di Duchamp, che dire dei tanti usi e delle tante repliche dell'immagine di Marilyn Monroe o della Monna Lisa, della Pop-art, ma anche del 'logo' della calandra della Rolls-Roice? [23] Si può tentare, a questo punto, la rappresentazione di un quadro sinottico. L'arte spazia, dal punto di vista formale, dall'astratto (dove la forma va presa come contenuto) all'informale (dove un contenuto, senza alcuna forma, va preso come sua forma). Tutte le altre 'categorie' (o meglio: 'etichette') sono aspetti interni e secondari di questa classificazione. [24] In ogni caso si tratta di icone. Nell'arte astratta, la 'forma' (aniconica, come tale), in quanto contenuto di se stessa, è però anche icona; supposta tuttavia l'unicità creativa della formalità (unicità formale), l'icona è unica e non più ripetibile. L'iconicità propria del contenuto, nell'arte informale, in quanto questo è preso - esso stesso - come 'forma' (cioè: in quanto è anche forma di se stesso), è, come tale (cioè forma), un unico e, per la sua irripetibile unicità formale, aniconico (come se fosse 'forma'). L'arte con un contenuto-'soggetto', come tale sempre iconica, se introiettata culturalmente e interpretata iconologicamente, è allora anche riconoscibile iconograficamente. Il contenuto è ripetibile, perché esso è distinto ed espresso dalla forma. La 'durata' iconologica è invece funzione della cultura. Irripetibile è solo ciò che è da considerare pseudo-iconografico. L'iconologia che sta dietro la riconoscibilità iconografica è la descrizione del senso del 'soggetto'. Ma nell'arte contemporanea, per i motivi descritti: a) l'immagine-logo può essere riconosciuta come tale per convenzione, ma non ha precedenti storici di valore interpretativo. C'è solo la sua attuale descrizione iconologica (p, es., quella del Grande Vetro): non c'è 'storia', non c'è 'allegoria'. Questa sua 'irripetibilità' definisce una situazione di 'riconoscimento' pseudo-iconografico; b) l'interpretazione del contenuto (soggetto intrinseco-significato) non è simbolica nel senso di Panofsky: la simbolicità è infatti 'esterna' all'opera (è un prodotto della cultura attuale): il senso non è nell'opera, ma altrove. Quindi, la differenza iconologica, fra l'arte fino ad ieri e quella susseguente alla sua rivoluzione contemporanea è: a) ripetibilità contro irripetibilità del contenuto; b) iconografia intrinseca di valore storico-allegorico, contro una pseudo-iconografia (iconografia indotta, senza una storia o allegoria che rendano riconoscibile l'opera); c) iconologia con senso interno al contenuto, di contro a un'iconologia dove il senso è esterno; d) iconografia dei 'temi' e dei 'soggetti' dell'opera, contro una pseudo-iconografia dell'opera stessa, come 'logo intero'. Infine, indipendentemente dalla 'forma', che può essere astratta o informale, il 'contenuto' va dalla serialità (Marilyn Monroe) all'unicità (Grande Vetro). Contenuto, sempre iconico, ma se c'è una qualche 'interpretazione' iconologica, resta la differenza fra 'riconoscibilità iconografica (ripetibile, non indotta - perché riconducibile a storie e allegorie iconologiche - e a 'senso' interno) e, per contro, pseudo-iconografia (non ripetibile, indotta e a 'senso' esterno: non riconoscibile, se non tramite questo). Naturalmente non c'è nulla da rammaricarsi per questa situazione e questo stato dell'arte figurativa contemporanea. Le cose stanno così e le 'cause' (se tali) sono ben complesse e lontane. Ma la lotta controcorrente di alcuni artisti interessati ad arginare l'esplosione formale, l'implosione dei contenuti e il baratro di separazione tra forma e contenuto deve essere osservata con molta attenzione. Forse da queste resistenze potrebbe venire a tracciarsi un percorso di ricomposizione, oppure un approdo dell'arte ad un significato di sé del tutto nuovo, dopo un ingresso nella prateria triste degli Asfodeli o nell'impero di Crono, alle fonti (secche) della Memoria. Intanto la osserviamo, quest'arte, come un interessante, avvincente specchio dei guasti della nostra società. [1] L. Venturi, La via dell'impressionismo. Da Manet a Cézanne, Torino, Einaudi 1970. [2] Ch. Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, Torino 1981. Cfr. p. 183 sgg. su Dell'idea moderna del progresso applicata alle belle arti, e poi p. 221, in Il pubblico moderno e la fotografia, p. 217 sgg. [3] Estremi concettuali e 'categoriali' di questa esplosione formale sono, come s'è detto, l'astratto e l'informale, dove, rispettivamente, la forma si riflette come contenuto su se stessa (e, per diversi motivi che verranno considerati, il suo auto-contenuto 'iconico' tende a perdere o a vedere consapevolmente negati i valori iconografici, per trovarne eventualmente altri, non intrinseci all'opera), mentre, all'altro estremo, il contenuto, che prende se stesso come sola forma possibile (la sua auto-forma), negandola quindi come campo specifico e 'correlato' di quel contenuto, per gli stessi motivi da indicare ancora, nella sua sostanza 'iconica' è anch'esso privo di valore iconografico intrinseco. Con l'aiuto di E.H. Gombrich (La storia dell'arte raccontata da E. H. Gombrich, Einaudi, Torino 1984), di F. Popper (L'arte cinetica. L'immagine del movimento nelle arti plastiche dopo il 1860, Einaudi, Torino 1970), di Ch. Bouleau (La geometria segreta dei pittori, Electa, Milano 1996) ed altri, si può cogliere, in prima approssimazione, uno spettro delle nuove aperture in questa esplosione formale: A) quanto al colore: a) suoi nuovi rapporti con il modellato, b) la sua manipolazione, conseguente sia a riflessioni sulla scienza della visione (dal pointillisme di Seurat), sia a posizioni soggettive circa la manualità (p. es. il 'dripping' praticato nella action painting), c) le sue disposizioni non manipolative, fini a se stesse (dal tachisme a Pollock), d) il suo rapporto con gli effetti psicologici (p. es. Kandinskij) o con i suoi 'significati' oggettivi; B) quanto alla luce: i nuovi effetti ottici (da Moholy-Nagy alla op-art di L. Poons, Vasarely, ecc.); C) quanto alla composizione: a) nuove geometrie compositive, b) indifferenza per l'esattezza del disegno e abbandono del modellato, c) dal puro decorativismo (del segno) al puro gioco delle forme (Klee), all'attenzione, invece, per il significato psicologico delle forme, d) predominio di composizione e colore su spazialità e volumi: D) quanto alla spazialità: a) abbandono della prospettiva tridimensionale e ricerca di nuove modalità prospettiche, b) libero rapporto tra prospettiva, profondità e volumi, c) la visione spaziale di quello che non si vede (cubismo); E) quanto al movimento: nuove ricerche dinamiche (arte cinetica); F) quanto alla matericità, interesse per i materiali e per la plasticità del colore; G) quanto all'espressione, a) disinteresse per un'idea di bellezza oggettiva, b) libertà onirica (irrazionale, inconscio, follia) e pura 'creazione' dell'oggetto, c) suggerimento dei significati dagli stessi oggetti significanti (Moore: fare una pietra che suggerisca una donna). [4] Sul senso specifico, qui assegnato al termine 'banalizzazione', si veda poco oltre. [5] Il processo implosivo dei contenuti va di pari passo con la generale tendenza storica ad una perdita di valori iconologici, da cui sopravvive il semplice iconismo dell'immagine. Il rapporto che il termine contenutistico 'icona' conserva con la forma dell'opera è soltanto negativo: la forma è 'essenzialmente' aniconica, anche se e quando essa, come 'carattere' del linguaggio, promuove o condiziona i contenuti dell'opera (con la prospettiva o valori spaziali, per esempio). [6] Quando impressione o espressione radicalizzano le 'forme' dell'astrazione - verso l'impressionismo astratto e la op-art (con le ricerche ottiche di Maholy-Nagy alle sue radici) o verso l'action painting (dunque l'espressionismo astratto e le Weltanschauungen dell'assurdo) - non è nella spinta alla sperimentazione delle forme che si può cercare questa 'caduta' dei contenuti: è il mondo della riproducibilità tecnica del prodotto, come merce e come arte, che 'insiste' su questa situazione. La pop-art (popular art) cade nel buco nero della 'banalità', non per accuse da ascrivere alle sue scelte formali, ma per il suo interesse alle 'espressioni di massa', alla pubblicità, al consumo come forma di civiltà, e quindi a contenuti che sono manipolazioni, infinitamente ripetibili e neutre (nonché silenziosa accusa) del già fatto e del dato (poniamo, un Andy Warhol, come Coca Cola verde, serigrafia su tela, 1962. New York, Whitney Museum): 'banalizzazione' quindi, nel senso qui sottolineato. [7] E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962. [8] Vale a dire: simbolo, non nel senso di 'oggetto' significato (la bandiera) dal termine corrispondente, ma nel senso di un 'contenuto' (estensivamente) denotato o (intensivamente) connotato - per esempio: 'nazione' - per associazione a un dato termine (bandiera). [9] Mettiamo a confronto le copertine di due libri: quello di David Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico (Einaudi, Torino 1993) e quello di F. Zeri, Dietro l'immagine. Conversazioni sull'arte di leggere l'arte (Neri Pozza, Milano 1998). Curiosa somiglianza: Qui il Ritratto di Federico Zeri con Andrea Mantenga laicizzato, di Antonella Cappuccio, lì invece l'Autoportrait en trompe l'oeil, di Jean-Marie Faverjon (Paris, Musée d'Orsay), in entrambi un uomo che tiene una tela con un'immagine, seminascosto da essa e dietro la sua immagine, ma come ad indicarla. Freedberg dichiara che dietro l'immagine c'è un oggetto significato-raffigurato; ma, anche, che l'oggetto denota (un contenuto: p. es. la divinità), ma la relazione denotante non riguarda una 'immanenza' del contenuto nell'oggetto (della divinità, denotata dall'oggetto, nell'oggetto stesso). Se c'è una 'magia' dell'immagine, questa non risiede in una differenza 'ontologica' fra classe di immagini di valore religioso o mistico e classe di valore solo 'estetico', ma risiede nella cultura: insomma, aggiungiamo, la magia dell'immagine non sta nell'identità-indistinzione di nome-cosa, propria del pensiero antico, fino a Platone. Cosa s'intende allora per 'dietro l'immagine'? È l'arte di leggere cosa essa dice, cosa significa, cosa rappresenta come testimonianza di una cultura e di una civiltà: la sua dimensione iconologica. [10] E. H. Gombrich, Op. cit. [11] David Freedberg (Op. cit., p. 87 [Il mito dell'aniconismo]), a fronte dell'iconismo, colloca il termine aniconismo, per farlo spaziare dall'assenza dell'immagine all'assenza dell'immagine figurativa, fino all'astensione della raffigurazione di ciò che viene considerato spirituale. Le 'figure' nelle culture islamiche ed ebraiche si 'contraggono' fino a diventare 'lettere': sono immagini incise proibite e, insieme, sono anche lettere. È tuttavia preferibile assegnare carattere aniconico alla forma e considerare l'ornamentale anch'esso figurativo, senza dover cercare distinzioni impossibili tra figurazione e ornamento (non-figurativo). [12] Michele Cammarano, Carica dei bersaglieri a Porta Pia, 1871, tela, Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte. [13] Giuseppe Pellizza da Volpedo, Fiumana, 1895, Milano, Pinacoteca di Brera, o anche Il Quarto Stato, 1901, tela, Milano, Galleria d'Arte Moderna. [14] La perdita, nelle arti visive, oggi, non è perdita del significato, ma della sua riconoscibilità iconografica e della interpretabilità (intelligibilità) del suo contenuto simbolico intrinseco, cioè del senso. [15] Opera del 1943-44, Meriden, Connecticut, Coll. B. Tremaine. [16] Marine mise a nu par ses célibataires, même, 1915-1923, New York, Metropolitan Museum. [17] Il contenuto, pur essendo sempre iconico (anche quello 'astratto' lo è, in quanto icona di se stesso), può essere dunque privo di valori iconografici, ma venire caratterizzato per valori 'pseudoiconografici'(così come s'è convenuto di chiamarli), cioè di una iconografia 'indotta' dall'esterno. Anche il 'tema' socio-politico, che pure si impone per i suoi valori 'contenutistici', può non raggiungere le condizioni di effettiva iconograficità. [18] E. Panofsky, La prospettiva come 'forma simbolica' e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1994. [19] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3 voll. Einaudi, Torino. [20] La perdita coincide con il prevalere dei nuovi interessi, non più 'oggettivi', ma soggettivi (per natura e nature morte), non più storici in sé, ma per la storia quale 'sfondo' politico o sociale alla grande narrazione borghese (è il privato, nobile o borghese che sia, il vero soggetto iconico di una residuale e ormai spenta iconografia); ma interesse per la fotografia anche - ora però come modello possibile di nuove forme d'immagine, di casualità compositive e di valori prospettici (p. es. il Degas sottolineato da Gombrich, op. cit.) - e per le arti non-europee (nel superamento delle simmetrie, ecc.). [21] L'arte, come espressione dell'individualità, non ha intrinseco interesse a fondarsi su un tessuto iconologico: quel nuovo interesse espressivo genera invece la rivoluzione formale del colore sul disegno, della 'fantasia' a scapito della tecnica accademica e poi, via via, tutte le altre già indicate proprietà formali dell'arte sperimentale. [22] Se, come nel caso del 'Grande Vetro' di Duchamp, l'opera diventa perfino un simbolo iconico (e il contenuto iconico non nega il valore 'simbolico' del soggetto dell'opera: simbolo è infatti il 'contenuto' denotato-connotato di un oggetto significato, sia esso iconico che iconografico): un simbolo, che va oltre le intenzioni dell'autore e assume crescente valore anche in rapporto alla distanza temporale dell'evento della sua esposizione, è certo che non si tratta di contenuto iconografico perché l'essenza (avanguardistica e sperimentale) è quella di essere costitutivamente irripetibile. Così i 'murales' di Haring sono racchiusi nel loro invalicabile iconismo, non avendo egli idea (per dichiarata ammissione), nel farli, di quello che poi sarebbero diventati. Una 'riconoscibilità' iconografica (cioè una sua comprensione storico-iconologica) non c'è; e quella che può essere attribuita all'iconica, se e quando c'è, non sta nell'opera per se stessa, ma nell'intenzione (più o meno consapevole) del creatore o del mercato, cioè altrove, fuori dell'opera: si tratta di espressioni di una Weltanschauung, di una 'filosofia', che non hanno relazione nell'opera e non appartengono all'arte, ma ad un evento culturale (il suo happening), ad una filosofia indirettamente proclamata attraverso qualche altra forma di linguaggio, non interna all'opera, tutt'al più alla 'cultura' dell'epoca. [23] I precedenti ideologici della calandra (1905), come li chiama Panofsky (Tre saggi sullo stile. Il barocco, il cinema e la Rolls Royce, Electa, Milano 1996), non sono precedenti iconologici in senso stretto: così la facciata del tempio palladiano e così la (successiva) sovrapposta Silver Lady di Charles Sykes (1911), di un romantico stile 'art neoveau'. [24] Cfr. il mio Ancora un'estetica?, in 'il cannocchiale'. Rivista di studi filosofici, 3, 2002, pp. 129155.