digital magazine | ottobre 2013 | n. 108
Alias
non alias
sommario
turn on – p. 4
Fennesz
Anna Calvi
tune in – p. 8
Jackson C. Frank
Raime
Factory Floor
Virginiana Miller
Nancy Elizabeth
Watain
His Clancyness
drop out – p. 36
Nine Inch Nails
The Smiths
recensioni – p. 80
rubriche – p. 148
#108
ottobre
Direttore
Edoardo Bridda
Ufficio Stampa
Alberto Lepri
Coordinamento promo
Gaspare Caliri, Stefano Pifferi
Progetto grafico e realizzazione
Nicolas Campagnari
A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito:
Stefano Pifferi, Nino Ciglio, Stefano Solventi, Edoardo Bridda, Giulia Antelli, Marco Braggion,
Tommaso Iannini, Enrica Selvini, Mario Ruggeri, Giulia Cavaliere, Fabrizio Zampighi,
Andrea Forti, Teresa Greco, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Daniele Rigoli,
Massimo Rancati, Riccardo Zagaglia, Luca Barachetti, Luca Falzetti, Alessandro Liccardo,
Alessandro Rabitti, Stefano Gaz, Diego Ballani, Marco Boscolo, Giulio Pasquali, Gaspare Caliri,
Gianluca Carletti, Ilario Galati
Copertina
His Clancyness
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2013 Edoardo Bridda.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,
è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Un nuovo progetto unisce tre musicisti che non hanno certo bisogno di presentazioni come
David Sylvian, Stephan Mathieu e Christian Fennesz.
In esclusiva per SA, il chitarrista di Endless Summer ce ne racconta nascita e caratteristiche in
occasione del tour italiano. Testo di Edoardo Bridda
Fennesz The Kilowatt Hour
Raggiungiamo Christian Fennesz prima via
mail e poi al telefono per comprendere cosa
dobbiamo aspettarci da The Kilowatt Hour,
un neonato progetto che lo vede protagonista
in trio assieme ad amici e collaboratori di lunga
data come David Sylvian, uno che non ha certo
bisogno di presentazioni e tantomeno di riferimenti al suo periodo neo romantico, e Stephan
Mathieu, musicista eletroacustico piuttosto
affermato e già culto tra gli appassionati del
settore.
La creatura è veramente nuova: il trio ha provato nei giorni immediatamente precedenti e
suonato per la prima volta assieme al Festival
norvegese Punkt lo scorso 7 settembre. Ed è la
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prima cosa con la quale dobbiamo fare i conti
vista la labilità di confini e di dinamiche ancora
tutte da tracciare e definire. Figuriamoci se il
progetto è poi di quelli per loro natura aperti,
avvolgenti, dronici e ambientali e grossa parte
dell’interazione tra i tre è affidata all’improvvisazione. Difficile pertanto, anche solo conoscendo il chitarrista austriaco, aspettarci grandi
discorsi filosofici. Soprattutto via mail dove
Christian, che è una delle persone più affabili
al mondo, probabilmente assorbito dalla seconda assoluta del progetto il 18 settembre alle
Officine Grandi Riparazioni di Torino, non ha
intenzione d’investire molto tempo. Decidiamo
quindi di sentirlo al telefono, già che lo abbiamo
conosciuto e intervistato tanti anni fa (era il
2004) a Bologna prima dello show al Link in via
Fioravanti, per scavare più in profondità e conoscere quanti più dettagli possibili riguardo allo
stato delle cose del The Kilowatt Hour.
Innanzittutto si tratta di un progetto che ancora
non ha finalità di pubblicazione alcuna. “E’ ancora troppo presto per pensarci ma sicuramente
se le cose procederanno bene come stanno procedendo questa sarà la più logica delle conseguenze” afferma il chitarrista, che così evade la
domanda più ovvia e classica in questi casi. Lo
incalziamo sul nome dato al progetto dato che
il Kilowatt-hour è di fatto un’unità di misura.
Avete per caso utilizzato formule o equazioni
matematiche gli chiedo? E lui “non proprio e
poi il mio approccio è troppo intuitivo per una
cosa del genere”. Niente teorie o concetti dunque. Qui si suona e semmai le energie le potrà
misurare l’audience sentendo l’estemporanea
interazione sonica dei tre più che scafati musicisti. Il trio baserà la performance su un’unica
traccia di circa un’ora e un quarto, apprendiamo.
“Stephan si prende cura delle frequenze più basse creando una base di atmosfere aperte per il
piano di David Sylvian e le elettroniche e le mie
parti di chitarra” afferma l’austriaco. Quindi un
approccio che, mail alla mano, democraticamente si gioca “un 50/50 tra improvvisazione e parti
preparate”.
La domanda è retorica ma la faccio ugualmente.
E il canto? “David non canta ma ci sono degli
spoken word registati che compariranno nel
flusso. Sono basati su poesie e scritti di Franz
Wright”. Inoltre ci sono dei visuals, immagini
concrete e/o astratte presentate grazie a un maxi
schermo di cui il trio è piuttosto soddisfatto.
Chiedo a Christian della strumentazione, anche
se la sua già la conosciamo da anni (chitarra,
laptop e pedali). Stephan invece si presenta con
zither, e-bow, mixer e laptop. David Sylvian,
infine, è al piano e al laptop. E’ quanto basta per
creare una grossa massa avvolgente, per dirla
nelle parole di uno Stephan Mathieu recentemente intervistato dal Punkt Festival.
L’aspetto interessante che apprendiamo dalla
nota stampa ufficiale è che Sylvian parla di un
ritorno a Plight and Premonition e Flux and Mutability, ovvero ai suoi dischi con il Can Holger
Czukay. Fennesz trova che entrambi i progetti
abbiano un approccio simile, anche se è innegabile, dal suo punto di vista, la differente natura
del sound, anche soltanto per l’interazione in
trio piuttosto che in duo. Di sicuro, il prodromo
di quest’avventura è Wandermude, un album
pubblicato a inizio anno sull’etichetta personale di Sylvian, Samadhi Sound, al quale hanno
lavorato sia l’ex Japan, sia Stephan Mathieu
con cameo, nell’ultima traccia, da parte di Fennesz stesso. Eppure, specifica il chitarrista, quel
progetto, che è un re-work dell’album Blemish,
è nato e si è sviluppato per corrispondenza. Dal
vivo, veramente, i tre hanno provato nei quattro
giorni precedenti alla prima assoluta al Punkt,
festival di settore, di grandi fan dei nostri specifica Christian, dove i musicisti hanno attivato
dinamiche inedite e avventurose che il chitarrista ha definito, nel comunicato apparso sul
sito ufficiale dedicato al progetto, come tuffarsi
nell’acqua gelata.
La serata del roBOt festival (24 settembre), che
con The Kilowatt Hour inaugura la sesta stagione e conclude il tour di cinque date iniziato
alle Officine Grandi Riparazioni di Torino (Mito
Festival), e proseguito all’Alcatraz di Milano,
al Teatro Massimo di Pescara (21 settembre) e
all’Auditorium Parco della Musica di Roma (22
settembre), sarà probabilmente quella che presenterà lo stato più avanzato dell’affiatamento di
questi splendidi musicisti. Chiudiamo al telefono con Christian chiedendogli del nuovo lavoro
solista. Ci sta lavorando dice. Ha suonato recentemente proprio con Mahieu nel ruolo inedito
di batterista, lui che come batterista ha iniziato
la carriera per poi dedicarsi a quel mix di elettroniche e analogiche che lo hanno reso famoso
nell’ambiente elettronico. Sicuramente vuol
tornare a collaborare con Steven Hess, ospite
nel suo ultimo EP Seven Stars, primo lavoro a
introdurre le percussioni in una sua produzione.
“Sto lavorando con alcuni batteristi ma non sono
sicuro che finiranno nel mio prossimo lavoro.
Quello che ti posso dire è che uscirà per Editions Mego nel 2014. E che non ci saranno grossi
stravolgimenti. E’ sempre importante assorbire
nuove influenze ma per me è giunto anche il momento di concentrarmi sui miei fondamentali e
scavare ancora più a fondo”.
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La songwriter Anna Calvi, in occasione della data milanese al Teatro Franco Parenti, ci
racconta la genesi di One Breath. Testo di Enrica Selvini
© Roger Deckker
Anna
Calvi L’amore per gli estremi
La incontriamo nella hall dell’albergo dove
alloggia in vista del concerto, ma anche delle
sfilate della settimana della moda milanese.
Minuta, senza età, con un velo di trucco e i suoi
classici pantaloni a vita alta, Anna Calvi è tanto
garbata quanto timida e schiva: l’unica cosa che
l’accomuna con la carismatica songwriter che
da lì a poche ore apprezzeremo sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano è il suo
magnetismo naturale, unito a un’aria enigmatica, sognante, a tratti distaccata. Non è difficile
intuire che, nonostante si sforzi di farlo al meglio, questa non è la parte del lavoro che più la fa
sentire a suo agio.
Sono passati poco più di due anni dall’omonimo
esordio, che l’ha consacrata astro nascente della
musica d’autore indipendente europea. One
Breath è il suo secondo album, nato sotto la
supervisione di John Congleton e registrato in
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poche, intense settimane presso i BlackBox Studios, in Francia; un lavoro, questo, che si affida a
meno collaborazioni eccellenti, fatta eccezione
per John Baggott (Portishead) alle tastiere. A
tarda sera, dopo aver assistito allo show, i presenti – tra cui Giorgia Poli, un tempo bassista per
Scisma e ora alle prese con John Parish, e un
rapito Umberto Maria Giardini – non potranno che convenire sul fatto che questo nuovo
ingresso abbia aggiunto un tassello importante
in quello che si presenta come uno dei live più
attesi degli ultimi tempi, accolto con incredibile
calore dal pubblico in sala.
Sapresti dirmi quali sono, secondo te, le maggiori differenze tra il tuo primo album e il
nuovo One Breath?
Ho voluto sperimentare diverse trame sonore
nel nuovo disco, con più forza rispetto al passato. Ho fatto in modo che la chitarra rappresenti,
a tratti, il culmine emotivo della canzone. C’è
più incisività, credo, anche nell’uso della mia
voce: ho capito di poterla usare in modi molto
diversi per sottolineare le emozioni che si nascondono dietro ogni canzone, così da rendere
le atmosfere il più particolari possibile. Amo gli
estremi. Suoni sgraziati, e poi “sublimi”, rumore
e melodia.
A proposito delle atmosfere, si è detto che
è stato un album ispirato dalla depressione,
eppure emana una grande forza…
Quello è stato un fraintendimento di NME. Sicuramente la scrittura del disco è coincisa con un
periodo terribile della mia vita. Non si tratta di
depressione, ma volevo che questo disco esprimesse, in parte, quelle sensazioni di disperazione e rabbia, ma anche di liberazione. È come ti
ho detto, mi piacciono gli estremi.
Cosa cambia nel nuovo tour?
Sarà la stessa band che è sempre stata, con Mally
Harpaz ad harmonium e percussioni e Daniel
Maiden-Wook alla batteria, ma avremo un tastierista con noi sul palco.
È stato Brian Eno a suggerirti John Baggott
per gli arrangiamenti di tastiera in studio?
Com’è andata?
Brian mi ha suggerito un paio di nomi che potevano essere in linea con la mia musica. Ho scelto
John perché amo molto le atmosfere dei Portishead; devo dire che ha funzionato molto bene.
Per quanto riguarda la fase di scrittura, come
avete lavorato?
Ho scritto e arrangiato i brani, c’è voluto molto
tempo. Poi, quando siamo andati in studio, c’è
stata una ricerca molto intensa sulle atmosfere
e sui suoni. Volevo che ruotasse tutto intorno
alle atmosfere. Lavorare insieme non è sempre
semplice, devi mostrarti di buon umore e accettare suggerimenti e modifiche…. Però credo di
esserci riuscita e quello è stato il momento più
divertente.
Parliamo della tua amicizia con Brian Eno… è
corretto dire amicizia?
Si, assolutamente. Brian è stata la prima persona
che ha avuto in mano tutto il primo disco, che mi
ha aiutato a scegliere un produttore, che mi ha
incoraggiato ad andare avanti, che si è seduto ad
ascoltare il lavoro completo, brano dopo brano.
È stato incredibile, per me.
Come ti ha scovata?
Ho suonato nel locale di un suo amico e lui gli ha
parlato di me.
Pensi che ci sia una qualche affinità tra la tua
musica e la sua? Più in generale, negli articoli
che ti riguardano si parla spesso del tuo amore per grandi artisti del passato, da Edith Piaf
a Maria Callas e Debussy. Qual è la connessione che senti, se c’è, tra il tuo lavoro e quello
dei tuoi artisti di riferimento?
Vedi, quando penso alla musica dei grandi, è
come vedere una fessura, una porta aperta, e
subito dopo un muro enorme. Credo che la connessione tra qualsiasi genere di musica siano le
emozioni, quello che una canzone ti fa sentire.
Artisti che hanno una personalità tale da riuscire
a trasmetterla alla loro musica, come Edith Piaf
o Maria Callas. Ecco, si, credo che la musica debba saper trasmettere emozioni che trascendano i
testi, o almeno questo è quello che mi interessa.
“La Mer” di Debussy, per esempio, non si limita
a parlare del mare…è il mare.
PJ Harvey, Siouxsie, e mi verrebbe da aggiungere la prima Goldfrapp. Sono molte, e brave,
le musiciste donne a cui sei stata associata. Ti
senti vicina a qualcuna di loro in particolare?
È buffo. Mi accomunano a moltissime grandi
artiste…ma molte di loro non le ho praticamente
mai ascoltate.
Come spenderai il tuo tempo a Milano?
Andrò ad alcune sfilate. La prossima è Gucci.
Amo molto l’Italia e, forse a causa delle mie origini, quando vengo qui o a Roma mi sento a casa.
Credo che mi rilasserò un po’.
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Ascesa e caduta di Jackson C. Frank, uno dei migliori folk-singer dimenticati degli anni '60.
Testo di Giulia Antelli.
Jackson
C. Frank Blues Run The Game
Di artisti sepolti dall’inesorabile polvere del
tempo è piena la Storia. La lista è lunga, ma
basta poco per vedere che, a volte, il destino
restituisce almeno un po’ di quello che si è
preso. Altre volte, invece, succede che il mito e
la leggenda si creino negli anni a venire, quando
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la sorte beffarda decide di consegnare direttamente ai posteri la fama e il successo mai goduti
in vita. Giusto per fare un paio di esempi, potremmo citare due personaggi il cui percorso ha
finito per tracciare eccezionali parabole musicali ed umane, ovvero Sixto Rodriguez e Nick
Drake, entrambi simboli di quel gioco spietato
che, spesso, fa in modo che la musica diventi il
risultato tanto delle logiche commerciali quanto dell’amara ironia dell’esistenza. Tuttavia, ci
sono altre vite, altri musicisti, altri uomini, che,
semplicemente, sono stati toccati soltanto dall’oblio, e allora può volerci solo il caso – o la fortuna – per fare in modo che si possano riscoprire
fantasmi perduti. Ed è qui che entra in scena il
protagonista di questa storia, Jackson C. Frank,
the most famous folksinger of the 1960s that no
one has ever heard of.
sicista, accade qualcosa – un ennesimo scherzo
del destino – che stravolge gli eventi. Dopo dieci
anni, infatti, Frank riceve il risarcimento per
l’incendio di Cheektowaga: oltre 100 mila dollari, una somma più che ingente anche per l’epoca
– il 1964 – che gli permette, appena ventunenne,
di saltare su una nave diretto verso l’Inghilterra. Il viaggio, per molti versi, segnerà in modo
irreversibile non solo la carriera, ma anche tutta
l’esistenza del cantautore: è qui che, a bordo
della Queen Elizabeth, nascono la melodia e le
parole di Blues Run The Game, il suo pezzo più
celebre. Un brano che lui stesso descrisse come
“un racconto sulla mia vita e il mio stato d’aniC atch a boat to Eng l and, maybe
mo di quel periodo”: in altre parole, la storia di
to S pain
Jackson Corey Frank nasce il 2 marzo 1943, nella un ragazzo troppo giovane intrappolato nel suo
passato e con molti soldi in tasca, ma anche uno
gelida cittadina di Buffalo, stato di New York.
dei capolavori più sottovalutati della tradizione
Dopo aver trascorso l’infanzia in Ohio e dopo
folk anni ‘60.
aver mosso già da bambino i primi passi nel
mondo del canto, si trasferisce assieme alla fami- Arrivato in Inghilterra nel pieno della Swingin’
London con mezzi economici praticamente
glia di nuovo nella periferia suburbana di New
illimitati, Frank si inserisce immediatamente
York, questa volta a Cheektowaga. È qui che,
nella scena musicale del periodo. Dopo poche
a soli undici anni, comincia la vicenda umana
settimane, avviene l’incontro che, musicalmente
e musicale del cantautore, segnata tanto dalla
parlando, gli cambia la vita. Grazie ad un’amica
tragedia quanto da un amore profondo e inconin comune, conosce un duo folk newyorchedizionato per la musica folk. A scuola, durante
se di stanza a Londra, il cui album di debutto,
una lezione di musica, avviene un’esplosione
Wednesday Morning, 3 A.M., uscito appena
all’interno di una delle aule, che uccide gran
un anno prima, è stato essenzialmente un flop.
parte dei compagni e ustiona Jackson su oltre il
cinquanta per cento del corpo. Costretto a passa- Si tratta di Paul Simon e Art Garfunkel. Il
successo planetario di Sound Of Silence sarebbe
re i mesi successivi su un letto d’ospedale, è qui
arrivato qualche mese dopo, ma a quell’altezza
che avviene il primo, salvifico, incontro con la
i due erano, allo stesso modo di Jackson, giovachitarra acustica, che lo porterà ad avvicinarsi
ni musicisti che tentavano di far fortuna nella
al rock and roll, in particolare ad Elvis Presley.
Leggenda vuole che il Re in persona, alcuni anni terra madre del folk. Dopo aver ascoltato una
manciata di canzoni, Simon decide immediatadopo, abbia guidato il giovane musicista alla
scoperta di Graceland, anche se è già presente in mente di produrre l’esordio del ventiduenne di
Cheektowaga. Registrato in meno di tre ore nei
Frank una grande passione per il folk, in partiCBS Studios di New Bond Street, Jackson C.
colare per l’old time music e i vecchi traditional
Frank segna il punto di partenza, ma anche di
della Guerra di Secessione.
arrivo della carriera del cantautore: dieci canPoco tempo dopo, con il ragazzo al college e
ormai deciso a lasciar perdere la carriera di mu- zoni inserite perfettamente nella tradizione del
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classic folk inglese, dove minimalismo acustico
e crepuscolarismo blues si fondono per dare vita
ad un disco che, in poco più di trenta minuti, si
trasforma in una sorta di testamento non solo
musicale, ma anche e soprattutto umano.
Dall’archetipo folk di Blues Run The Game, passando per i toni di protesta di Don’t Look Back
– ispirata, pare, a un omicidio a sfondo razzista
nell’Alabama di quegli anni – e gli echi traditional di Kimbie, Jackson C. Frank si colloca, suo
malgrado, all’interno di un genere che esprimerà
tutte le sue potenzialità solo negli anni a venire
(pochi, per la verità). A ben guardare la situazione dell’epoca, infatti, l’Inghilterra si trova nel
pieno della Beatles-mania e non stupisce che
il pubblico, ancora, non sia pronto per le pacate
atmosfere acustiche che caratterizzeranno il
resto del decennio. Scarno, lirico ed essenziale come pochi altri lavori, il qui presente è un
album diviso tra due culture, quella americana
e quella inglese, debitore tanto alla lezione dei
vecchi menestrelli blues ascoltati durante l’infanzia, quanto alla poetica ineluttabilità del folk
britannico. La stessa che avrebbe influenzato un
altro capolavoro del genere, Pink Moon. Pare
che Nick Drake conoscesse molto bene il lavoro
di Frank, tanto da riprenderne alcuni brani, e, a
suo modo, anche lo stesso genio disperato e la
stessa tragica esistenza. Un percorso che li accomunerà sotto molti punti di vista, anche se per
Drake la sorte sarà un po’ più benevola, benché
solo dopo la sua morte: se Pink Moon è la pietra
miliare che tutti conosciamo oggi, forse è anche grazie all’esordio eponimo di Frank, grazie
a quella scrittura sempre tesa nel tentativo di
esorcizzare i propri fantasmi, di curare, inutilmente, le proprie cicatrici. Le stesse che, fin
da bambino, Jackson cercava di cancellare dal
corpo e dall’anima, con brani che riflettono sia
la desolante quiete della disperazione (I Want
To Be Alone), sia l’amara consapevolezza per la
fine di una relazione (You Never Wanted Me).
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Ai tenui arpeggi della chitarra si accompagna
una voce profonda, quasi baritonale, e tuttavia
in grado di esprimere una disincantata innocenza, come ad esempio nel blues spettrale di My
Name Is Carnival o nell’armonia non-sense di
Just Like Anything. Un debutto che, inconsapevolmente, costituirà per il musicista inizio e fine
di una carriera mai davvero cominciata, ma allo
stesso tempo incredibile e senz’altro degna di
una accurata riscoperta.
T he b lues are a ll the same
Sul cammino musicale del personaggio, si può
aggiungere poco altro. Assieme a un paio di
ristampe – Jackson C. Frank Again del 1978
e la raccolta Blues Run The Game del 1996
-, gli esiti commerciali della breve discografia
di Frank si riducono all’apprezzamento di un
pubblico fin troppo ristretto, o meglio, quasi
inesistente. Tutte le uscite, debut compreso,
sono accolte da una generale indifferenza, anche
se, a Simon And Garfunkel, si aggiungono altri
ammiratori illustri tra cui Sandy Denny, Bert
Jansch, John Renbourn, Roy Harper e Al Stewart. In pochissimo tempo, inoltre, gli insuccessi professionali portano Frank al declino personale: la morte del figlio, prima e il conseguente
divorzio dalla moglie Elaine Sedgwick (cugina,
peraltro, della più nota Edie) poi, lo riducono
nel giro di qualche anno all’ombra di se stesso,
talmente disperato da decidere di tornare a New
York nel vano tentativo di ritrovare Paul Simon
e finendo invece a dormire sulle strade di Manhattan. Si aggrava anche la depressione che lo
perseguita fin dall’incidente di Cheektowaga, al
punto da essere ricoverato in un centro psichiatrico con la diagnosi di schizofrenia paranoide.
In sostanza, una lunga parabola discendente,
che culminerà, nel 1994, con la perdita dell’occhio sinistro, a causa di un colpo partito da una
pistola ad aria compressa usata da un gruppo di
ragazzini.
Legacy
A quattordici anni dalla morte, avvenuta per
arresto cardiaco il giorno dopo il suo cinquantaseiesimo compleanno, Jackson C. Frank può
ancora essere considerato come uno dei miglior cantautori dimenticati degli anni ‘60. Se
nel corso degli anni, schiere di musicisti hanno
riscoperto e rivalutato la sua musica – giusto
per fare qualche nome, basti pensare a Mark
Lanegan, Robin Pecknold dei Fleet Foxes e
Laura Marling, ma perfino a degli insospettabili Daft Punk, che hanno riutilizzato I Want
To Be Alone nel film musicale del 2006 Electroma -, ad oggi l’eredità che lascia è per molti
ancora nascosta, e, per certi versi, oscura. Per il
17 settembre è prevista una ristampa del vinile
del primo disco, fino ad ora praticamente introvabile, tramite l’etichetta 4 Men With Beards,
mentre per la primavera 2014 è atteso un box set
contenente brani inediti e demo, via Ba Da Bing.
Unico erede legale di tutto il materiale di Frank
è Jim Abbott, un uomo residente nell’area di
Woodstock che, a metà anni ‘90, scoprì il nome
del musicista grazie ad una dedica fattagli su un
disco da Al Stewart - To Jackson, all the best, Al
Stewart. Abbott ha ritrovato Frank in uno dei
momenti peggiori della sua vita e ha cercato di
rilanciarne la carriera facendolo emergere dalle
nebbie della depressione: l’incontro tra i due è
un altro esempio di come tutta la vita del musicista sia stata scandita da continui momenti di
ascesa e caduta, da perenni tentativi di risalire
la china dell’insuccesso. A differenza di Nick
Drake, però, il Nostro non è riuscito a far sì che
il mondo si accorgesse del suo immenso talento,
nemmeno dopo la sua morte: vale perciò la pena
raccontare la storia di un artista che, con un
solo album, ha ridefinito i canoni di un genere,
anticipando di diversi anni ciò che il pubblico
avrebbe accolto solo in seguito. Un mito avvolto
in egual misura dalla leggenda e dall’oblio, un
eroe byroniano che lascia dietro di sé un capolavoro purtroppo ancora dimenticato, ma senz’altro imprescindibile.
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Hanno suonato live lo scorso giovedì 5 settembre 2013, alla Sala Vanni, all'interno dell'atteso
Nextech Festival fiorentino i due produttori Joe Andrews e Tom Halstead in arte Raime. Per
l'occasione abbiamo scambiato due parole sulla loro musica, sul futuro e sull'importanza del
live. Testo di Stefano Pifferi
Raime Coldest Ever Cold
Sarà un caso, ma uno dei primi risultati in italiano appena si “googla” il termine Raime è il sito
di una società campana che si occupa di refrigerazione industriale. Simpatica coincidenza
se si considera l’alto potenziale del duo inglese,
le cui composizioni raffreddano sino alla stasi
algida una elettronica visionaria, isolazionista e
post-industriale che sulle prime sembra essere
in linea con questa nuova moda da dancefloor
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alternativo.
Nelle musiche di Joe Andrews e Tom Halstead
c’è però la negazione del ritmo, c’è la dilatazione e la frammentazione della wave più oscura
e post-punk – i Cabaret Voltaire, influenza
dichiarata, ma anche i misconosciuti (ma non a
SA) Ike Yard, non a caso remixati proprio dai
due – e l’uso evocativo e disturbante di una elettronica che sfrutta le frequenze basse per impor-
re stati di alterazione e proporre visioni distopiche della realtà contemporanea (vedi anche alla
voce Throbbing Gristle). Ad una triade di EP
che creò l’attesa facendo crescere il nome anche
al di fuori dei confini di genere e a un album,
Quarter Turns Over A Living (per la Blackest
Ever Black), che li ha confermati maestri nel
materializzare incubi metropolitani a forti tinte
soundtrack nutriti con materico dubstep ed elettronica di stampo dark-industrial e rivomitati in
forme disossate e scheletriche, ha fatto seguito
una intensa attività live. Non solo dj-set, stando
a quanto si dice nella chiacchierata che segue,
ma veri e propri concerti in cui la densità del
suono Raime si manifesta nelle sue forme più
disturbanti e occlusive, tanto che chi ha avuto
modo di vederli ne parla come di esperienze totalizzanti in cui industrial, dub, ambient, drone,
minimalismo tribale ed echi (ecatombi) jungle
trovano la loro applicazione rigorosa e insieme
devastante.
In occasione del live fiorentino al Nextech (giovedì 5 settembre 2013, ore 21.15, alla Sala Vanni),
abbiamo scambiato due parole con Joe Andrews
e Tom Halstead.
La vostra musica è cinematica e visionaria,
anche se oscura e minacciosa. Sembra la
versione notturna del Michael Douglas de
Un giorno di ordinaria follia. L’ordinario che
mostra il suo lato inquieto, la minaccia che
giace sul rovescio della medaglia della quotidianità. Quanto c’è di cinematografico nella
musica dei Raime?
Quando componiamo musica pensiamo all’ambiente. Arriviamo sempre ad un punto in cui ci
domandiamo quali atmosfere un certo pezzo arriverà a creare e, in quel momento, c’entra molto
il descrivere le cose in maniera fisica, tangibile.
Anche la letteratura è importante per noi, perciò
il cinema ci rientra in qualche modo. Abbiamo
avuto molti feedback da persone che descrivono
la nostra musica come “visiva” perciò non ho
dubbi che ci sia qualche suggestione simile. Ovviamente questo sta a significare che la musica
tocca la gente in molti modi.
Cosa ci dite dei vostri film preferiti? E delle
relazioni tra il cinema e i vostri gusti musicali?
Entrambi amiamo i film che vadano oltre i tradizionali livelli di lettura, che è un po’ ciò che accade con la musica. Anche se i nostri gusti sono
abbastanza ampi, un film che ci ha molto colpiti
è stato The Piano Teacher di Micheal Haneke.
Questa nuova onda di musica eletronica
sembra essere molto più affine all’isolazionismo anni ‘90 che al classic 4/4, più industrial-oriented che basicamente techno. Voi
avete sorpreso un po’ tutti col vostro suono
disidratato e minimale. C’è e, se c’è, qual è il
futuro per questo tipo di sonorità?
Credo che il futuro stia nel continuare a creare
relazioni tra l’avanguardia e la “dance music”. È
un momento positivo per questo tipo di musica
underground. Questa combinazione tra strutture astratte e quelle più pratiche della dance
music sta aprendo molte possibilità e opportunità per forme nuove e per nuove modalità espressive, per la tensione che questo clash riesce a
creare. Che poi è la tensione tra caos e ordine.
Siete fan di gruppi come Throbbing Gristle,
Cabaret Voltaire e Pan Sonic. Che ruolo hanno avuto nel vostro background musicale?
Certo che siamo fan di queste band, soprattutto
i CV. Torniamo a ciò che dicevamo sopra: esse
sono la perfetta combinazione di caos e struttura. Non sono le uniche ad averci influenzato, ma
alcune delle tante.
Non fate ricorso ad un immaginario pagano
o esoterico come alcuni dei prime movers
dell’area grigia o come band come Demdike
Stare fanno oggi. La vostra musica è urbana,
le sensazioni umane, eppure lo spaesamento
creato è così estremo…
Credo che l’ambito urbano sia quello che ci
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ha sempre ispirati, non perchè lo preferiamo
all’”occulto” ma soltanto perché è ciò che ha
contribuito a creare le atmosfere più stimolanti
in musica. La freddezza e il distacco generati
dall’immaginario urbano sono forse per noi più
minacciosi poiché riflettono la natura della realtà, piuttosto che il terrore del soprannaturale.
La realtà circostante ci è sempre sembrata più
impressionante.
Da dove viene questa nuova, vecchia, fascinazione per il dancefloor? Noiser e artisti
postindustrial sembrano aver scoperto un
nuovo mezzo di espressione.
Questi due ambiti si stanno riavvicinando perchè utilizzano entrambi simili idee, soltanto
espresse in forme diverse. Internet ha contribuito a cambiare il modo in cui le persone usano e
consumano la musica e ha offerto una incredibile circolazione delle idee. Ciò è avvenuto anche
in passato, ma mai con tale portata. È normale
oggi scoprire e ascoltare così tanti tipi diversi
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di musica che i gusti si stanno allargando, tanto
che la musica prodotta è altrettanto “nuova”.
Sembra molto più naturale che le idee diventino
reti di relazioni, piuttosto che elementi esclusivi.
Cosa mi dite delle basse frequenze? E delle
connessioni con alcuni stati della mente?
Credo che le basse ferquenze offrano una esperienza più meditativa, che ci affascina perchè
cerchiamo sempre di sviluppare le cose lentamente. La natura del nostro materiale potrà
cambiare in futuro, ma non credo che abbandoneremo i sub. Sono terribilmente soddisfacenti.
Sappiamo che date molta importanza alla
differenziazione tra dj-set e live. Parlateci
del live al Nextech: strumentazione, synth,
visuals. I visuals sono molto importanti nelle
vostre musiche…
Sì, i visuals sono parte fondamentale nel nostro
lavoro e ci teniamo a curarli con attenzione. Una
cura che va di pari passo con la ricerca musicale,
tanto che speriamo che la sinergia audio-video
funzioni e venga ben recepita dalla audience.
La società che ha girato il film, la Dakus Films,
ha lavorato molto e il risultato ci sembra ottimo.
Abbiamo avuto una parte importante nel processo creativo, che è stato un grosso impegno,
anche se avevamo ben chiaro cosa volevamo
rendere visivamente.
Direzioni future? Qualche interesse per
reiterazioni e modulazioni alla, per fare un
nome caldo, Factory Floor?
Beh, non vorremmo rivelare troppo. Diciamo
che stiamo cercando un modo per svilyppare il
nostro suono e le nostre idee. Ti anticipo che ciò
potrebbe significare usare il ritmo in maniere
diverse. Stiamo per rientrare in studio e cominciare a sperimentare, poi vedremo quel che
succederà.
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Tre art rocker da North London riprendono in mano l'eredità DFA e la attualizzano con
sperimentazione, synth ed elettroniche metronomico kraut, rimpolpando il vuoto che si era
creato in questi ultimi anni nella scena dance rock.
Un esordio che potrebbe aprire molte porte. Testo di Marco Braggion
Factory Floor Factory
come Warhol. Floor come dance
C’è una nuova via rock al ballo, nei festival
internazionali, per sconfiggere la melancolia
di XX, Weeknd o Blake? Un po’ di sano sballo
post-punk electro minimalista? La risposta giusta sembrano averla in tasca tre ragazzi di North
London, che rispondono al nome di Factory
Floor e il cui esordio lungo è sembrato, con il
passar degli anni (alla faccia dell’hype), una vera
e propria chimera.
Il primo embrione del gruppo nasce nel 2005, in
pieno disorientamento Noughties. Inizialmente formata da Gabriel Gurnsey e Mark Harris,
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la band britannica si consolida con l’arrivo di
Dominic Butler. Dopo poco Harris esce e viene
sostituito da Nik Colk (aka Nik Colk Void), già
nei KaitO. Gabe alle ritmiche, Dom ai synth e la
Colk alla voce e chitarra. Una macchinetta da
guerra che sforna poche uscite, ma che ad ogni
tassello del mosaico aumenta l’hype. I primi due
singoli sono di marcata derivazione new wave
(Bipolar e Planning Application del 2008), come
pure il primo mini Talking On Cliffs (2009).
Poi l’ingaggio con la Blast First (nella collana
Blast First Petite) per qualche 12 pollici e altre
chicche in formati underground sparse qua e là
aumentano l’hype e cambiano il suono facendolo virare sul lato dancey machine. Il prosieguo
è già storia contemporanea. Il gruppo manda
infatti un CD a Stephen Morriss (Joy Division /
New Order) con la richiesta di un remix. Dopo
aver trattato Wooden Box, il guru dark-synth si
mette a produrre le loro uscite. La notorietà sale
quando escono su Optimo (con R E A L L O V E)
e sulla mitica DFA con Two Different Ways. Per
chiudere il lungo biglietto da visita, le collaborazioni con Chris Carter e Cosey Fanni Tutti dei
Throbbing Gristle, con Mark Stewart (ex Pop
Group), la residency al prestigioso Institute for
Contemporary Arts di Londra e l’EP Beachcombing con il compositore americano Peter Gordon
(amico del compianto Arthur Russell).
Lo stile dei tre musicisti si rifà all’eredità industriale britannica, all’art rock e al post punk e
mescola tutto questo magma con la musica da
ballo chic della DFA, pur mantenendo un’identità mutante che prescinde e nel contempo attinge dalla Storia in maniera intelligente, restando
sempre a un passo di distanza dal plagio. Il 9 settembre è uscito il loro primo album omonimo:
ritmiche ossessive, pezzi lunghi (dai 6 agli 8 minuti) creati con synth, 808 e altre drum machine
che aiutano a costruire una formula ipnotica,
fatta di echi, pad acidi e suoni che ricordano il
sampling midi d’oltreoceano, illuminato dalle
estetiche minimaliste, dalla prima rivoluzione
technoide di Detroit e dalle frequentazioni arty
degli artisti newyorchesi (no wave in primis).
Un ponte Londra-NY che si rivela fruttuoso,
ricco di idee semplici ma efficaci e che dal vivo
non può che trovare la sede privilegiata. La loro
musica si connette senza sbavature con il macchinico mitteleuropeo kraftwerkiano, inserisce
la qualità della sperimentazione, prova a sfondare su palchi diversi dal dancefloor (ricordiamo
la performance alla Tate londinese) e buca sorprendentemente un panorama dance-rock che
ha detto poco di nuovo dopo Juan MacLean.
Una rivoluzione? Potrebbe essere…
Ci potete raccontare brevemente come vi
siete incontrati?
Ci siamo incontrati a Londra e abbiamo capito di avere un approccio simile nel comporre
musica. La prima volta che abbiamo provato,
abbiamo realizzato di aver acceso qualcosa di
interessante.
Il vostro album di debutto è influenzato da
molte fonti. A mio avviso, le più significative
sono il minimalismo americano (Steve Reich
e Arthur Russell, specialmente nei loop di
percussioni e nella traccia vocale di One) e le
texture jack/house/acid. Vi piacciono questi
suoni? Li avete presi come punto di riferimento o avete considerato altro, all’inizio?
Siamo tutti fan di Arthur Russell e degli artisti
coinvolti in quella scena, come Peter Gordon,
Lizzy Mercier e Laurie Anderson. Ci piacciono i suoni che usavano e gli elementi ritmicodance dei loro pezzi. Inconsciamente abbiamo
preso qualcosa dal feeling di quei brani come
punto di partenza.
Lasciando perdere le macchine, un’altra influenza grossa è il suono dark dei Joy Division e dei Cure. Perché avete utilizzato quelle
atmosfere? Come vi siete connessi a Stephen
Morris?
L’elemento dark della nostra musica viene dal
fatto che volevamo inserire suoni primitivi e
molti dei suoni che finiscono nei nostri pezzi
sono istintivi, quindi non sono propriamente
dark. Li definirei più primitivi.
Ho letto che l’album è stato registrato nel
vostro spazio a North London, su un banco
mixer che è stato usato anche per registrare
le hit degli Eurythmics. Cosa ne pensate della
mossa retrò dei Daft Punk?
Non abbiamo una connessione con i Daft Punk,
né con il loro approccio alla musica, né con il
loro suono. Le influenze dal passato sono inevi-
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tabili quando componi musica. Il fatto è che devi
imparare dal passato, portando le idee più in là e
non semplicemente riproponendole.
Siete stati mixati da Timothy ‘Q’ Wiles, un
produttore losangeliano che ha collaborato
con VCMG, Erasure e Afrika Bambaataa.
Com’è stato farsi mixare da un produttore
esterno al gruppo? Vi è piaciuto il risultato
finale?
Non abbiamo mai incontrato ‘Q’ di persona. Prima di sentire le tracce eravamo un po’ nervosi,
ma lui ha capito totalmente il nostro suono e ha
dato spazio a tutti e tre i componenti del gruppo
nel mix. Quando abbiamo sentito il mix finale,
siamo stati entusiasti.
Ho sentito una connessione forte (non chiedetermi il perché) anche con i Velvet Underground, forse per qualche affinità con la voce
di Nico… e subito dopo ho pensato che questo
album, magari in futuro, potrà essere usato
come installazione nei musei e nelle gallerie d’arte. Avete mai pensato di suonare in
luoghi d’arte (ho letto che avete già suonato
al The Tanks, uno spazio sotto la Tate Modern)?
Nik e Dom hanno un legame forte con i VU e
Nik è un fan di Nico, quindi sicuramente la connessione c’è. Suoniamo in spazi artistici (come
abbiamo fatto per la nostra ICA residency), nei
club e nei festival. Il nostro suono sembra poter trascendere le tipologie di spazi e luoghi e
questo è un’altro modo di sperimentare. In uno
spazio artistico siamo più liberi di sperimentare,
ma l’energia dei festival e delle folle danzanti ci
da comunque feedback per quello che facciamo.
Più di qualcuno sta ipotizzando che questo
sentiero arty sia il nuovo modo di promuovere gli album e la musica. Penso, ad esempio,
all’ultimo video di Lady Gaga (Applause)
e all’aumento di interesse che suscitano le
mostre d’arte sugli artisti pop. Pensate che il
problema fondamentale, per gli artisti con-
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temporanei, sia la politica del vendere musica? O è ancora un modo per parlare di qualcosa di diverso dalla qualità musicale?
Non c’è motivo che i confini tra arte e musica
non debbano essere poco definiti. Almeno per
lasciare possibilità di innovazione alla musica!
La musica e il suono sono solo medium diversi.
Se sono creati e suonati in modo onesto e sono
importanti per uno spazio artistico, perché non
proporli in quel contesto? Ma se gli artisti usano
il crossover fra arte e musica come specchietto
per le allodole, per noi sono falsi.
Avete collaborato anche con componenti dei
Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire, e con
artisti visual come Haroon Mirza e Hannah
Sawtell. Com’è stato lavorare con artisti così
diversi?
Siamo stati disponibili alla collaborazione fin
dall’inizio. Ogni incontro è stato come aprire
una porta in una nuova stanza, dove puoi sperimentare e aggiungere qualcosa in più al tuo
bagaglio di conoscenze. Ci è piaciuto molto
lavorare con queste persone. È un modo per
imparare nuove discipline, serve ad espandere
gli orizzonti.
Restando un attimo su Throbbing Gristle e
Cabaret Voltaire, quanto siete indebitati con
la cultura e i suoni industrial?
I suoni industrial sono quello che tutti sperimentiamo ogni giorno! Passano inevitabilmente
nel subconscio.
Il disco è in qualche modo una meditazione
sul ritmo. È costruito con tracce brevi che si
incollano a quelle più lunghe. È un concept
album su arte e ballo? Pensavo a tutto questo dopo aver riletto il vostro nome: Factory
(come lo studio di Warhol) e Floor (come
dancefloor).
È un modo stupendo di interpretare il nostro
nome! E hai perfettamente ragione. Non abbiamo iniziato a scrivere il disco con l’idea di
renderlo concettuale. Volevamo solo costruire
un album che riflettesse il nostro amore per la
sperimentazione sonora e la volontà di far ballare la gente!
Ci potete dire qualche nome di artisti che vi
piacciono e che state ascoltando?
Fuck Buttons, East India Youth, Daniel Avery,
Forward Strategy Group, Land Observations.
Suonerete in Italia o in Europa?
Sì, abbiamo in programma un breve tour europeo dal 9 ottobre. Ci piace molto venire in
Italia e ci torneremo. Ci siamo divertiti molto lo
scorso anno.
Si dice che stiate lavorando ad un nuovo album…
Ci piacerebbe lavorare a un nuovo disco, ma
prima dobbiamo promuovere questo dal vivo e
spingere sul suono. Nessuno sa come suonerà il
prossimo.
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La band toscana, che è appena tornata con Venga il regno, sesto album di inediti di una storia
discografica lunga e importante, ci racconta del regno che verrà, del passato perduto e delle
grandi bellezze che sono proprio dietro l'angolo. Testo di Giulia Cavaliere
© Franco Catalucci
Virginiana
Miller Sous les pavés, la plage. Ancora.
Nell’ultimo anno abbiamo sentito parlare di
loro soprattutto per l’ultimo film di Paolo Virzì
tratto da La generazione, primo romanzo del
loro frontman Simone Lenzi, autore, insieme
al resto della band, del brano omonimo per la
colonna sonora Tutti i santi giorni, vincitore
del David di Donatello per la “Miglior canzone
originale”. Dopo un secondo libro uscito per
Contromano Laterza in maggio (Sul lungomai di
Livorno) Lenzi, insieme ai suoi Virginana Mil-
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ler, ha scritto un nuovo disco pronto ad uscire
in settembre a distanza di tre anni dall’ultimo
ottimo Il primo lunedì del mondo. Ascoltiamo
il nuovo album Venga il regno nel centro esatto dell’estate, in quel momento – i primissimi
giorni di agosto – che precede la fuga generale
e che si consuma in giorni afosi, umidi, asfittici.
Lo ascoltiamo prevalentemente quando la notte
si fa mattina, su un balcone o camminando per
strada tornando a casa, nel vuoto totale della
città in gran parte partita per le vacanze. E’ un
album perfetto per l’alba, perché, per la prima
volta nella storia della band, in queste canzoni
si parla di umanità risolta (almeno un po’), di
pace forse appena trovata, dell’età adulta che
vuole riappacificarsi con sé stessa: insomma, in
qualche modo, di un’alba nuova che appare un
po’ più in là, dietro la fine. In quegli stessi giorni,
insomma, sono nate queste domande, poi sono
arrivate le risposte e, infine, Venga il regno.
Il vostro nuovo disco si chiama Venga il regno; mentre lo scrivo ora e mentre lo ascolto
mi pare quasi naturale aggiungere al titolo
quel “tuo” a cui la religione cattolica ci ha
abituati quasi di default, anche se qui il pronome non c’è. Qual é, dunque, questo regno a
cui sembrate dire “vieni pure, ti aspetto”?
Simone: Il regno che deve venire non lo conosciamo, purtroppo. Quello che vorremmo, è
quello utopico in cui la bellezza salva il mondo.
Ma anche meno di così: a volte basterebbe un
minimo di buon gusto. Sarebbe bastato nel ‘94
ad esempio: un miliardario travestito da miliardario, con quelle sciarpine di seta bianca da
miliardario. La parodia di se stesso. Finita in
farsa tragicomica, come era inevitabile, date le
premesse. Il regno che sembra venire davvero,
invece, è quello del narcisismo sfrenato, senza
fondamento. L’idea del tutto infondata che ogni
cosa che ci riguarda sia importante e pertinente,
che ogni nostra parola sia oro colato, che si possa pontificare su tutto. L’idea demente per cui
uno vale uno, che è come dire che nessuno vale
più nulla. Leggo post demenziali su quel famoso
blog dove dei poveretti si esprimono sulla necessità o meno di vaccinare i bambini sulla base
di quattro cosine che hanno letto su wikipedia.
Però chissà.. il momento è talmente confuso che
non si può escludere che ne venga fuori anche
qualcosa di buono.
In una canzone dell’album, Nel recinto dei
cani, dici “venga il regno e sia dei cani”; mi
colpisce molto perché in questi anni la figura
del cane torna molto nel cantautorato italiano (il cantautore Iosonouncane, Dei cani – ultimo album dei Non Voglio Che Clara). Com’è
il regno dei cani e perché questo regno che
deve arrivare è il loro? E’ una dichiarazione
d’amore, la tua, alla Martha my dear di Paul
McCartney o più una forma di identificazione dell’uomo, che quando matura e cresce
fa i conti con sé stesso e vuole solo scoprirsi
come un essere puro, animale, empatico con
la natura, gli istinti, oltre i ruoli, oltre la “latrina del mondo”, i ministri, il padre eterno?
Simone: La prima. Solo una pura e semplice
dichiarazione d’amore. Succede infatti che ora,
mentre ti rispondo, Gus, il mio cane, è qui che
mi guarda come a dire: perché non andiamo un
po’ fuori? Che avrai mai da fare, ché non usciamo? E in effetti ha ragione lui. Non c’è nulla di
più importante che uscire là fuori a fare due
passi, visto che c’è anche il sole. Il sole che poi è
gratis e di tutti.
Mi viene in mente che nel tuo ultimo libro Sul
lungomai di Livorno, uscito per Contromano
Laterza, parli moltissimo della tua vita nel
recinto dei canti, uno spazio in cui portavi il
tuo cane in un momento esistenziale non esattamente sereno. La domanda – per la verità
te l’avranno fatta in molti – è questa: come si
coniugano il lavoro di scrittore (La generazione prima e ora questo Contromano) con
quello di cantautore? Quale dei due “ruoli”
senti che ti appartenga maggiormente? Senza
remore mi sento di dire che tu rappresenti un
caso limite, quello in cui un bravissimo cantautore ha la caratura del grande scrittore.
Insomma, si potrebbe dire di te che sei uno
scrittore che scrive canzoni ma anche, ancora
più precisamente, che sei a tutti gli effetti un
intellettuale. Hai, tra le altre cose, tradotto gli
epigrammi di Marziale e portato Lacan in una
canzone (Oggetto piccolo (a))
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Simone: Credo che questo purtroppo sia anche il mio più grosso limite. I letterati (alcuni
dei quali scarsamente alfabetizzati, ma tanto
oggi non se ne accorge nessuno, per cui…) non
ti prendono sul serio perché suoni in un gruppo, invece quelli che suonano non accettano
che tu non ti riconosca nel loro mondo “forever
young”. Mi capita anche con la politica, per
quelli di sinistra sono di destra, per quelli di
destra sono un bolscevico. Alla fine, continuo ad
essere quello che sono, tanto non potrei essere
nulla di diverso. Anche perché, per venire alla
prima parte della tua domanda, non ho mai trovato nessuna forzatura nel passare da una cosa
all’altra. Mi piace lavorare con le parole, non so
fare altro. Con la musica o in prosa, per me fa
poca differenza. Ci sono molti scrittori, anche
di successo, che non hanno orecchio e lo dimostrano quando scrivono. Non riesco a leggerli.
Non ho mai pensato di dover scegliere fra i due
ruoli, mi piacciono entrambi. Forse quello dello
scrittore comincia ad essere un po’ più consono
all’età: le trasferte in furgone per suonare alle
due di notte in un locale cominciano a pesarmi
un po’. Ma per adesso, come si dice, tengo botta.
Tornando al nuovo disco, ho notato che è
un album più sereno, il disco di chi fa un po’
pace forse con il mondo, forse con sé stesso.
Emblematico, in questo senso, il primo singolo Una bella giornata: da anni non si sentiva
nella musica indipendente italiana un singolo
così positivo, lanciato nella vita – forse in
quella adulta, della maturità – in modo totale e puro. Anche Tutti i santi giorni, Pupilla,
Effetti speciali (“e non mi importa più niente
senza di te / ma ti ringrazio comunque / per i
giorni normali, per gli effetti speciali”) hanno questo tiro, sono canzoni d’amore sicure
di sé, della propria forza…
Simone: Sì. C’è infatti tutta una cupezza modaiola e profondamente adolescenziale in cui non
mi riconosco davvero più. Ho 46 anni, se non
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avessi trovato niente di positivo, nulla di buono
nella vita, mi sarei ammazzato, invece sono vivo
e ci tengo a rimanerci.
Due canzoni prendono forma dalla Storia italiana del passato, tutte e due raccontano aspetti controversi dell’Italia anni ‘70: il terrorismo
rosso e il movimento operaio. Sono due pezzi
straordinari, in cui la narrazione è trasversale.
Il primo, Anni di piombo, sembra essere un
racconto sentimentale lanciato nel cielo in un
momento buio della Storia; mi ha ricordato una
di quelle lettere di Moro alla moglie, un messaggio rassicurante che poi, in realtà, nelle sue
linee più emotive potrebbe essere stato scritto
anche oggi. Il secondo brano è onirico, fatato,
eppure oscuro ed è sempre una lettera, da San
Paolo agli operai del Lingotto. Mi racconti di
queste canzoni? La prima così pop, la seconda
dilatata, quasi una preghiera…
Simone: Ho provato a fare i conti con tutto quello che ha determinato la nostra Storia
recente. Anche per capire se sia mai possibile
cominciare davvero una fase nuova. Per me,
per chi ha la mia età, il rapimento Moro è stato
uno spartiacque, forse come il Vietnam per gli
americani. Il mondo non è stato più ingenuo da
allora, la politica si è mostrata per quel che era:
una palude torbida. Restano due canzoni però,
non vogliono cambiare il mondo, solo cantarlo.
La Lettera di San Paolo agli operai del Lingotto,
voglio dirlo, la considero il mio testamento come
autore di canzoni.
In termini generali, le musiche del disco sembrano più immediate, più pop del solito; una
cosa che sento progressivamente più forte e
presente, se penso alla vostra discografia, e
questo è un valore aggiunto. Mi piace pensare che anche in Italia esista un pop capace di
rinunciare ad essere semplicistico, che mantenga una stratificazione sonora che possa
comunque arrivare a tanti…
Giulio: é anche la nostra sensazione. Con l’ar-
rivo di Matteo (Pastorelli, alla chitarra nda.)
abbiamo guadagnato maggiore immediatezza e
una sonorità rock che prima era meno evidente. E poi si, col tempo ci siamo resi conto che
a volte la ricerca dell’originalità a tutti i costi
può compromettere la facilità di ascolto, senza
aggiungere niente di interessante. Quando si
fanno canzoni lo si deve fare cercando una sorta
di linguaggio comune con l’ascoltatore, la comunicazione innanzitutto, sennò che pop è?
Come avete lavorato al disco? So che è pronto da un bel po’. Prima i testi poi la musica o
viceversa? Come lavorate in studio? Credo
che sia sempre interessante provare a indagare su queste fasi del processo creativo,
specie quando si parla di canzone d’autore…
Diciamo che ci sono due metodi. Il primo :
iniziamo da piccoli giri di chitarra, tastiera
o addirittura basso, che registriamo nei mesi
precedenti nel nostro studio; alcuni di questi
hanno caratteristiche da strofa, altri da ritornello o ponte. Successivamente proviamo a fare
un collage di queste parti, magari cambiandone
l’intonazione o modificandoli secondo le necessità musicali. Successivamente Simone lavora
sul testo; una volta che abbiamo testo e musica
insieme lavoriamo sulla integrazione dell’uno
nell’altra, fino a raggiungere un risultato soddisfacente. Il secondo: Simone porta una canzone
completa chitarra e voce che arrangiamo insieme. Questo disco è nato e si é sviluppato con gli
stessi modi (e tempi) di quelli precedenti, ma
con alcune significative differenze. Durante la
composizione delle canzoni il nostro obbiettivo era raggiungere un equilibrio tra testo e
musica, senza entrare in modo profondo nella
realizzazione degli arrangiamenti; Ale Bavo si
è occupato di questo nella fase di produzione.
Questo ultimo lavoro è stato differente rispetto
agli altri perchè Simone, a causa degli impegni
editoriali,era meno presente e quindi la musica
ha avuto uno spazio per crescere e svilupparsi
molto più ampio. Lo considero un plus.
Capita di parlare con alcuni musicisti e di
sentirsi dire che non ascoltano più molta
musica, una cosa che, a dire il vero, stupisce
sempre relativamente ma soprattutto incuriosisce. Voi ascoltate molta musica? Quando
scrivete cogliete la stessa ispirazione che si
ha quando si è giovanissimi e affamati, con
la voglia di mescolare diverse influenze, o la
musica di altri entra poco, oggi, nella vostra?
Giulio: Anche io non ascolto molta musica, ma
altre persone del gruppo ne ascoltano molta. Con
l’arrivo di Spotify, comunque, ho registrato una
inversione di tendenza. Ora ne ascolto decisamente di più. Riguardo alla seconda domanda
.. beh, personalmente non riuscirei a comporre
senza essere influenzato dai gruppi che mi piacciono; sarebbe un po’ come scegliersi un vestito
senza avere modelli a cui rifarsiAntonio: Ascolto
parecchia musica, di molti generi diversi, ma non
seguo molto le nuove uscite. Non ho mai considerato la novità un valore in sé, non ho mai fatto
la coda per comprare il nuovo disco di qualcuno,
non ho mai letto le riviste per seguire le “scene”,
neanche quando, per molti, ascoltare certa musica era parte di un processo di identificazione
forte. Ascolto musica per molti motivi diversi. C’è
musica che mi emoziona profondamente, altra
che mi diverte o che mi piace ascoltare dal vivo,
altra ancora che mi fa interrogare sui contesti o
sui meccanismi che l’hanno fatta nascere. Per tornare alla tua domanda, credo che la musica che
ascoltiamo entri ancora moltissimo nella nostra,
perché la scrittura è un processo anche imitativo;
ascoltare alimenta il desiderio e la capacità di
scrivere. Se vuoi, il mio prototipo di musicista in
questo senso è David Byrne.
Cosa vi aspettate dai prossimi mesi? Partirà
un tour in autunno?
Antonio: Sì. Partirà un tour in ottobre, molte
date sono già definite e saranno presto annunciate. E noi non vediamo l’ora
23
Con ancora nelle orecchie un disco come Dancing, abbiamo intervistato Nancy Elizabeth per
scoprire qualche cosa in più sulla sua musica. Testo di Fabrizio Zampighi
Nancy
Elizabeth Tra passato e modernità
Che il 2013 sia l’anno del folk? Chi può dirlo.
Certo è che negli ultimi mesi sono usciti lavori
notevoli riconducibili al genere. Pensiamo all’ultima Laura Marling, ad esempio, licenziataria
di un Once I Was An Eagle che stupisce per
intensità e trasporto pur non rivoluzionando i
parametri dell’immaginario chiamato in causa;
al confermato Iron & Wine di Ghost On Ghost;
a una Nancy Elizabeth efficace allo stesso
modo nel dare trasversalità e lustro a certi suoni
arrivando a una sintesi assai interessante: da un
lato un patrimonio condiviso che somma Pentangle, Vashti Bunyan, Fairport Convention,
24
dall’altro una definizione piuttosto personale di
un linguaggio in cui rientrano anche elementi di
elettronica e musica contemporanea.
In realtà sembra quasi che lo stesso termine
“folk” ultimamente, per lo meno in qualche sua
declinazione, si sia trasformato assumendo i
caratteri di una modernità in divenire. Abbandonato per un momento ogni riferimento a un
genere specifico fatto di tradizione, strutture riconoscibili, strumentazione caratteristica, parte
di ciò che oggi viene identificato come folk è diventato terreno fertile per un’indagine interiore
sempre più profonda e musicalmente articolata.
Un po’ quello che accadeva a un “rock” che
ormai vent’anni fa diventava una questione di
attitudine più che uno stile preciso, un sovvertire schemi e forme consolidate più che un idioma “classico” fatto di chitarre elettriche, basso
e batteria. Del folk originale, nel nostro caso, rimane il suo essere musica diretta, introspettiva
e senza filtri, oltre a qualche riferimento estetico: il resto è personalizzazione di un sentire mai
così malleabile e di larghe vedute, mai così ibridato e senza confini certi (nella nostra carrellata
vogliamo citare anche la Fiona Apple uscita
lo scorso anno con The Idler Wheel Is Wiser
Than the Driver of the Screw and Whipping
Cords Will Serve You More Than Ropes Will
Ever Do: disco, il suo, di blues destrutturato, fascinazioni africane, approccio “folk” lontano dai
cliché di genere, che pur non rientra appieno in
nessuno di questi stili).
Nel caso della Elizabeth il percorso evolutivo è
tangibile, per una curva ascendente partita da
quella tradizione di cui si diceva con un disco
d’esordio come Battle & Victory (2008, Leaf )
tutto chitarre acustiche, harmonium e arpa,
passando per un Wrought Iron (2009, Leaf )
raccolto attorno al pianoforte e a certe atmosfere scarne e minimali, per arrivare al più recente
Dancing (2013, Leaf ). Quest’ultimo l’episodio
più rotondo e riuscito di tutta la discografia
dell’artista, capace di testimoniare una maturazione ormai giunta a compimento che abbandona i modelli genitoriali per dar spazio a un
Es sospeso tra passato e futuro, tra tradizione e
malinconie oniriche. Un “inner-folk” perfettamente tagliato sulla voce impalpabile e virtuosa
della Elizabeth che riesce a dar vita a un lavoro
che non invecchia nemmeno a mesi di distanza
dalla sua pubblicazione.
Di questo ed altro abbiamo parlato con la musicista di stanza a Manchester, in una chiacchierata che ha rivelato, oltre all’approccio musicale
senza barriere della Elizabeth, anche un’indo-
le affabile e per nulla intonata con la musica
malinconica e introspettiva che caratterizza la
musicista.
Dancing ha un suono molto profondo ed
emozionante. E’ folk, ma anche ambient, musica contemporanea, musica elettronica. Che
differenze ci sono tra questo disco e Battle
And Victory o Wrought Iron?
La strumentazione è diversa. Il primo disco
prediligeva il suono dell’arpa. Il mio secondo disco tendeva a guardare indietro. In Dancing ho
usato di più la tecnologia, ho incorporato alcuni
elementi elettronici. Credo che musicalmente
l’ultimo disco sia molto diverso, ma è un risultato che ho ottenuto senza pormi come obiettivo
il fatto di farlo suonare diverso dagli altri. Credo
che sia stata una progressione naturale.
A leggere i testi, sembra che la tua musica
abbia una connessione forte con la tua biografia. E’ davvero così? In che modo la tua
biografia influenza la musica che suoni e i
testi che scrivi?
Come artista, prendo sempre ispirazione dalla
mia vita, cerco di scrivere di cose che conosco,
senza pensare molto alla provenienza delle
parole. Quello che mi succede, le esperienze che
faccio: finisce tutto nelle canzoni.
Che tipo di relazione hai con la musica folk?
Penso alla tradizione inglese di band come i
Pentangle, Fairpot Convention, Vashti Bunyan, ma anche a musicisti contemporanei
come Josephine Foster, PJ Harvey, Joanna
Newsom…
Credo che non ci sia un genere di musica che
non mi piaccia. Per quanto riguarda il folk,
posso dire che ce ne è di ottimo e ce ne è di
pessimo (specialmente alcune cose tradizionali
inglesi). Lo stesso per gli artisti contemporanei:
ci sono cose che mi piacciono e altre che non
mi piacciono. Delle tre musiciste che hai citato,
amo moltissimo P.J. Harvey e mi piace Joanna Newsom. Con Josephine Foster ho fatto un
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concerto qualche anno fa a Manchester. Le cose
che faceva allora mi piacevano, i suoi lavori più
recenti, invece, non li conosco bene. In genere,
comunque, sono di mentalità molto aperta, mi
piacciono un po’ tutti i tipi di musica.
E questa apertura mentale, in fondo, si sente
anche nella tua musica…
Sì, cerco di assorbire più cose possibili, specialmente in un contemporaneità in cui si può
entrare in contatto davvero con tutti i tipi di
musica. Non ci sono più media che decidono
cosa trasmettere. Un minuto prima sei lì che
ascolti qualche pazza musica dance africana e il
minuto dopo passi al folk irlandese o a un’elettronica che arriva dal Messico. Musicalmente,
viviamo in tempi piuttosto eccitanti. Perché non
dovremmo sfruttarli?
Hai chiamato il tuo ultimo disco Dancing:
che rapporto hai con la musica elettronica?
In realtà il titolo del disco non ha niente a che
vedere con i pochi elementi di elettronica che si
trovano al suo interno. “Dancing”, per me, significa “movimento”, e per “movimento” intendo il
muoversi del suono nella musica. Spesso le persone associano gli elementi elettronici al mondo
della dance music, ma in realtà credo che sia un
ragionamento piuttosto moderno, degli ultimi
tempi. Il fatto di aver usato elementi elettronici
in un disco che poi ho intitolato Dancing immagino che sia stata una semplice coincidenza.
L’immagine di copertina dei tuoi primi EP e
del tuo primo disco hanno a che vedere con
i pesci e l’acqua. Lo stesso si può dire per il
video di Feet Of Courage. E’ tutto legato a un
concept o c’è qualcos’altro sotto?
Anche qui si tratta di una coincidenza. Sulla
copertina di quei dischi c’è una cascata, con
i pesci che nuotano contro corrente. Era una
scena piuttosto rappresentativa di come fosse
la mia vita in quel periodo, delle difficoltà che
si hanno quando sei al primo disco. Il video di
Feet Of Courage invece è legato alle parole della
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canzone, all’immergersi nella vita, nelle situazioni, al cercare di tenere “accesa” la stessa vita.
Nel video abbiamo reso questa metafora con il
tuffarsi in una piscina. La coincidenza è stata
che in quel momento mi è capitato di collaborare con un video producer che voleva filmare
nell’acqua, e così lo abbiamo fatto.
Esteticamente sei molto legata a un immaginario inglese vecchio stile, quasi vittoriano.
Mi riferisco ai vestiti molto eleganti che
indossi quando suoni dal vivo e al video di
Simon Says Dance. Cosa puoi dirmi di questo
aspetto della tua immagine?
In realtà, come persona, non mi sento molto
elegante e non guardo nemmeno troppo a quello
che indosso. Ultimamente però ho incontrato una sarta/stilista che ha deciso di farmi un
vestito rosso in seta, vestito che ho indossato
anche all’ultimo concerto a Manchester e che
mi piace molto.
Che tipo di relazione hai con il passato e la
modernità? Sembri un po’ un’entità in bilico
tra questi due elementi…
Non penso a me stessa come a una persona
vintage. Ho amici che sono fissati con gli anni
Settanta e hanno arredato tutte le loro case in
quello stile, ma io non sono molto interessata,
nemmeno ad avere tutta quella roba moderna
che le persone posseggono. Mi piaccino le cose
carine, di buona qualità. E lo stesso accade con i
miei gusti musicali e la musica che faccio
Che mi dici dei tuoi concerti? Ho visto alcuni
video in rete: sembrano live-set molto intimi
e raccolti. Pochissimi strumenti e la tua voce.
Sarà lo stesso per il tour di Dancing? Suonerai anche in Italia?
Mi piacerebbe passare dall’Italia quest’anno
perché amo il vostro paese, anche se ancora non
c’è nulla di definitivo. Forse verrò in autunno.
Per ora sto girando in Uk con una band – si
fanno chiamare “The Dancers” [ride, ndr] -,
con un batterista, un bassista, qualche cantante
(per rendere al meglio le linee vocali dell’ultimo
disco). Molto spesso dipende dalla situazione,
comunque. Ad esempio in Italia sarebbe difficile, a livello logistico, far suonare tutte queste
persone, anche se mi piacerebbe.
In rete c’è un video di te all’Università di
Manchester che canti e spieghi come scrivere una canzone. In quel video affermi di
ascoltare i suoni che hai attorno, per scrivere musica. Potresti farmi un esempio pratico?
E’ una buona domanda. Per dire, ieri stavo parlando con qualcuno e c’era musica sullo sfondo,
che mi impediva di concentrarmi sulla conversazione. E’ come se le mie orecchie cogliessero
il rumore che ho attorno. Quando ritorna il silenzio riesco a concentrarmi e a creare musica.
E’ vero che quando componi cerchi di isolarti
dalle altre persone?
E’ capitato, sì. Per esempio, Dancing è stato un
disco che ho scritto in maniera abbastanza solitaria, nel tempo libero. Per il mio prossimo disco
vorrei coinvolgere altre persone nel processo
creativo, ma non voglio fare le cose in fretta.
Mi racconti qualcosa della scena musicale
inglese? Come è cambiata negli ultimi anni
con l’avvento delle nuove tecnologie e di
internet?
In Inghilterra ci sono moltissime persone che
suonano dal vivo, e questo dipende sicuramente
anche dal calo delle vendite di dischi. Anche in
Inghilterra, come nel resto del mondo, le persone non comprano più molti CD, come invece
facevano in passato, e così i musicisti suonano
moltissimo dal vivo perché è l’unico modo per
guadagnare denaro. A Manchester, città in cui
vivo, ci sono almeno cinque concerti ogni sera;
c’è molta scelta ma anche molta energia, dal
punto di vista musicale, ed è bello che si suoni
dal vivo. Del resto ormai la tecnologia è arrivata al punto in cui ognuno riesce a crearsi un
buon suono da solo. Non siamo più ai tempi di
Frank Sinatra o Dean Martin, quando si registrava dal vivo e da quella registrazione usciva
fuori la personalità dell’artista. Ora grazie alla
tecnologia, una volta registrato il materiale, si
può tornare su tutto modificando l’intonazione
della voce e qualsiasi altra cosa. E così è bello
che si torni a suonare molto dal vivo, condizione
in cui viene fuori realmente la personalità del
musicista. La comunicazione tra le persone è
certamente meglio di un suono registrato perfettamente.
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Ancora una volta, la Svezia partorisce il male. E' il primo passo verso una nuova costituzione:
quella del Black Metal Scandinavo. Il Testimone passa dalla Norvegia a Uppsala, Swerige,
dove dopo anni di militanza underground, i Watain raccolgono il frutto dei loro sforzi. Erik
Daniellson ci racconta la sua storia artistica.
Largo ai Signori del Caos. Testo di Mario Ruggeri
Watain Signori del caos
Girava a piedi a Stoccolma non più di un mese
fa, Erik Daniellson, partito da Uppsala senza
neppure un alloggio di fortuna, per andare a vedere gli Iron Maiden a Solna. Lo sappiamo perché a piedi giravamo anche noi ed Erik, per chi
lo ha conosciuto in quei giorni, sembrava tutto
tranne che il leader di una delle più importanti,
innovative e sensazionali black metal band del
pianeta. Uno dei tanti, diciamo così, che si raggruppa con fan di diverse nazionalità (qualcuno italiano, e lo potrà confermare) passando la
notte a bere, come se i tour in giro per il mondo
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non gli fossero ancora bastati. Tatuaggi su tutto
il corpo, lo sguardo vitreo (forse di ghiaccio) i
capelli lunghi e un aspetto tutt’altro che tranquillizzante, eppure Erik Daniellson di persona
è un artista molto profondo. Forse addirittura
troppo stretto per gli abiti del black metaller. E
forse, proprio per quello, lui ha deciso di cambiare l’atelier della musica satanica per definizione. Filmmaker, illustratore, musicista, regista
indipendente, frontman, presto editore (ci confesserà che a Gennaio 2014, se tutto andrà per
il verso giusto, inaugurerà la sua piccola casa
editrice “metal fantasy” in compagnia del cantante degli In Solitude), oggi Erik è nella classica
posizione del “To Watch For”, ovvero tra i maggior indiziati per essere tra i protagonisti della
contemporanea scena metal: eppure i Watain
non dovrebbero essere una sorpresa, almeno
per chi segue il metal con passione e attenzione.
Quindici anni di attività, cinque album in studio
e una manciata di live, EP, nonché il documento
meraviglioso di Opus Diaboli. Ed oggi che viene
pubblicato The Wild Hunt, nessuno può ignorare ulteriormente i Watain.
Loro sono i maestri del caos. Visti sotto un’altra
lente, sono l’equivalente materiale e infernale
dell’approccio globale al black metal dei Wolves
In The Throne Room. Black metal e rumorismo. Ma se nei secondi tutto converge verso la
dematerializzazione della materia black, nei
Watain la teoria musicale va verso il disegno
dell’apocalisse. Ancora di più: The Wild Hunt,
oggi, è il confluire di tre teorie musicali: la
prima, originata dalla visione corale degli Emperor, la seconda trascinata dall’efferatezza dei
Dissection di Storm’s Of The Light Bane. La
terza, ancora da codificare, ma forgiata in primis
proprio dai Watain. E’ questa la chiave di lettura
per capire l’importanza dei Watain nel contesto
musicale metal. Importanza di cui discutiamo
proprio con lo stesso Erik Daniellson.
Prima domanda Erik, e si torna immediatamente alle origini: quindici anni dopo, nonostante negli ultimi anni il nome dei Watain
sia cresciuto enormemente, finalmente si
parla di voi in termini di band definitiva. E’
un traguardo, indubbiamente, ma raggiunto
con estrema fatica: come mai?
Dovremmo andare ad analizzare il contesto di
fine anni ‘90, nel quale ci siamo mossi, in cui
ancora non si parlava di neo black metal, né
di ritorno della Nwobhm. Insomma, si stava
uscendo dal metal storico, dalle vere radici, per
entrare in un’epoca sperimentale molto partico-
lare. E noi eravamo indubbiamente, come siamo
ancora, una band classica. Forse abbiamo pagato
quello scotto. Diciamo che a un certo punto della nostra carriera, ci siamo trovati ad un bivio:
mutare anche noi espressione musicale, oppure
rimanere estremamente coerenti e rischiare.
Abbiamo scelto la seconda strada. E questo ci ha
portato a risultati forse inaspettati, ma pieni di
soddisfazioni.
Radici: un elemento che ritorna sempre nella
cultura svedese. Le band scandinave, e in
particolare quelle svedesi, sembrano indissolubilmente legate alla storia dell’heavy
metal. Mi sono sempre domandato come mai,
e passeggiando per Stoccolma, ho notato che
i tabloid nazionali, il giorno dopo il concerto
degli Iron Maiden, hanno dedicato a loro la
copertina di ogni testata giornalistica. Chiedo a te, quindi: è questo il segno di una cultura nazionale legata al metal?
In generale alla musica, in particolare al metal.
E dici bene: i tabloid hanno sempre dedicato
grande spazio al rock e al metal. A Solna è stato
costruito uno stadio attrezzato principalmente
per ospitare concerti rock: un luogo da 70 mila
persone. I negozi di dischi ci sono, si sono storicizzati, hanno un sacco di materiale e tantissima competenza. Ci sono giornali, magazine,
un sacco di band. E tutto questo fa cultura ed è
una cultura metal. Chiaro che, vivendo in questo
contesto, sia praticamente e felicemente impossibile staccarsi dal retroterra metal.
Radici che sono esplose prepotentemente in
Wild Hunt. Rischio, ma dico che questo è il
vostro album più Nwobhm, pur in un contesto black. Sotto certi aspetti, mi avete ricordato molto da vicino gli ultimi Darkthrone…
Sono d’accordo, soprattutto con il paragone con
gli ultimi Darkthrone. E non è una novità che
Fenriz (fondatore e leader del gruppo norvegese) sia un fanatico di Nwobhm. Non tutto il nostro disco è classicamente metal, ma certamente
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quello che si sente in sottofondo e le architetture musicali, lo sono. Eccome. La Nwobhm,
soprattutto quella più oscura – e penso a band
come gli Angel Witch, i Witchfynde, giusto per
citarne alcune, per non parlare dei Sanctuary o
dei Sabbath degli anni ‘80 -, è divenuta un punto
di riferimento per tutti, noi compresi.
E poi c’è il caos, la violenza organizzata,
l’efferatezza della vostra struttura black che,
paradossalmente, si sta allontanando dai
dettami prettamente black per affrontare
territori ancora sconosciuti…
Quello, se ci riflettiamo bene, arriva dai Bathory.
Nessuno come loro ha saputo scrivere, in anticipo di almeno vent’anni, l’equilibrio perfetto tra
heavy metal e furia.
Vi considerate ancora una black metal band?
Sì, forse non totalmente, ma in buona parte sì.
Ciò che mi ha lasciato senza parole, in Wild
Hunt, è la capacità narrativa di ogni vostra
canzone, innanzitutto del concept finale che
emerge, almeno dal punto di vista musicale.
Ma anche la capacità di trasmettere immagini chiaramente legate all’apocalisse biblica…
Beh, questo è decisamente appagante, perché
era proprio quello l’obiettivo in sede di stesura
brani. Scrivere apocalitticamente. So che può
sembrare presuntuoso, ma la mia visione di
Wild Hunt era proprio quella: un grande affresco sull’apocalisse del mondo che, se già non è in
atto, appare molto vicina.
Quindi non andiamo molto lontano se diciamo che Wild Hunt è il disco del romanticismo
black metal. Siamo alla sturm und drang del
metal estremo. Mi vengono in mente alcuni
dipinti di Richter, simbolo del romanticismo
pittorico tedesco. Che ne pensi?
Che so a che quadri ti riferisci, e ne sono lusingato perché amo quel genere di pittura. Sono
molto legato ai classici, alla pittura e all’illustrazione come segno espressivo, e mi ci trovo molto
in questa definizione. Pensa che l’anno prossi-
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mo, se tutto andrà secondo i piani, inaugurerò la
mia piccola casa editrice che pubblicherà libri di
illustrazioni, copertine per cassette e dischi, etc.
Veramente?
Sì, saremo io e il cantante degli In Solitude. Sono
molto eccitato perché è una cosa che volevo fare
da molto. Non so quando troverò il tempo, ma lo
farò.
In effetti il tuo facepainting, a differenza
degli standard black, è sempre stato molto
dinamico e ha sempre rappresentato un punto di rottura rispetto alla tradizione black
stessa. Come se stessi usando il tuo volto
come tela…
E’ esattamente così. Ho sempre considerato l’arte di truccarmi per gli spettacoli, come espressione teatrale greca. Come maschera non per
nascondermi, ma per esprimere altri concetti.
Per essere mutevole, per interpretare la musica.
A proposito di classicismo: The Wild Hunt è
pieno di strutture musicali classiche. Anche
in questo caso azzarderei Bach e Wagner.
Non è la prima volta che il black metal e l’heavy metal in generale si rifanno alla musica
classica, basti pensare a Malmsteen negli
anni ‘80, concentrato su Vivaldi, Mozart e
Bach. Peraltro, vostro conterraneo…
Malmsteen è stato deriso da tutti, ma ha tradotto la musica classica in metal. E’ stato il passo
successivo a Ritchie Blackmore, altro personaggio devoto a Bach. Pensa solo a quello che ha
fatto nei Rainbow. Questo credo che appartenga
alla nostra cultura, e torniamo al punto di prima.
Personalmente, io sono un amante della musica
classica: magari non un cultore, ma sicuramente
ne ascolto tanta. Poi, probabilmente mi mancano
le basi teoriche ma amo quel tipo di suono, amo
la composizione architetturata. Amo il pensiero
prima dell’azione. E la musica classica è quello.
Oggi i Watain escono dal mondo underground, e diventano una band di riferimento.
Questo lo dice l’interesse della stampa nei
vostri confronti, ma anche l’appeal che avete
ottenuto. Eppure, Erik, niente mi toglie dalla
testa che rimarrete sempre una band underground, come mentalità e approccio, e forse
The Wild Hunt è il disco più underground
della vostra storia…
Grazie, questo è veramente un grande complimento, perché nella filosofia underground c’è
tutto quanto è servito a noi per essere ciò che
siamo, per crescere. E’ veramente la nostra base
di partenza. Attenzione per i lati oscuri, per le
piccole band, per le correnti veramente significative. E qualunque livello di fama potremo
raggiungere, anche se non credo che andrà mai
oltre quanto stiamo ottenendo, non usciremo
mai dallo spirito underground. Perché è molto
di più di una definizione. E’ una filosofia, uno
stile di vita, un simbolo, un segno, una precisa
scelta.
E se domani dovesse passare questo interesse per i Watain ?
Continueremo per la nostra strada, come sempre.
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Con Vicious l'entità His Clancyness compie la metamorfosi da alias di Jonathan Clancy a
band vera e propria. Sposando un sound più nervoso e mutante, in obliquo tra wave, kraut e
psichedelie. Testo di Stefano Solventi
His
Clancyness Alias non alias
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A sentirlo parlare, con quell’inflessione ammorbidita da una saggia placidità indiscutibilmente
emiliana, potresti persino pensare che tutta
questa storia delle origini canadesi sia un espediente astuto. Idem dicasi di quel nome un po’
da spia vecchia maniera. E invece no. Jonathan
Clancy è nato effettivamente ad Ottawa, ha fatto
per un po’ il giramondo ed ha finito per accasarsi a Bologna, dove ha messo radici, stretto amicizie e soprattutto formato band, tra cui i rimpianti Settlefish e gli adorati A Classic Education.
Fino all’ultima incarnazione, His Clancyness,
quella in cui sembra giocarsela con il minor numero di filtri, a partire dal nome ironicamente
dylaniano.
Magari non sarà piacevole ammetterlo, ma
l’origine nordamericana è palpabile nella disinvoltura e profondità del suo fare/vivere rock, il
gap rispetto a molti indie rockers nostrani c’è,
eccome se c’è. Non è certo un caso se gli A Classic Education si sono guadagnati apprezzamenti
di primo livello da parte della stampa d’oltremanica e d’oltreoceano, e che gli His Clancyness
abbiano fatto il colpo grosso entrando nel roster
di Fat Cat Records nientemeno. Ecco, questo
sembra un buon punto di partenza per la chiacchierata telefonica con Jonathan ed il batterista
Jacopo Borazzo.
Ha fatto un certo rumore, e non poteva essere altrimenti, la firma con Fat Cat. E’ arrivata
per merito dei tuoi vecchi lavori o perché li
hai convinti col nuovo corso di Vicious?
JONATHAN: È accaduto in maniera abbastanza casuale. Siamo andati a registrare l’album a
Detroit senza accordi con nessuna label, quindi
abbiamo proposto il master a una decina di etichette ricevendo alcune risposte ma non da Fat
Cat, che era tra le nostre preferite. Poi durante
una data a Londra assieme ai Lotus Plaza, il
gruppo di Lockett Pundt dei Deerhunter, siamo
stati notati da uno statista di Fat Cat che suonava in un’altra band prima di noi. Gli è piaciuto
un casino il concerto, ha chiesto informazioni,
gli abbiamo raccontato che avevamo mandato il
disco senza ottenere risposta. Così pochi giorni
dopo abbiamo ricevuto una mail di Fat Cat che
ci chiedeva di aspettare a stringere accordi con
altri perché erano molto interessati. Non conoscevano il materiale precedente, che poi comunque hanno parzialmente ristampato prima
dell’estate…
Veniamo allora al nuovo disco, Vicious: la
calligrafia è diventata più nervosa, concreta, diretta. Ci si può sentire new wave, tardo
garage, particelle kraut e noise, un pizzico di
lo-fi. Questa svolta stilistica è stata dettata
più dalla voglia di dire altro o dalla consapevolezza di dover cambiare?
JONATHAN: É stato naturale. É la prima volta
che registro con una mentalità da band, ovvero
assieme a Jacopo e Paul Pieretto. Come naturale conseguenza il suono é uscito piú potente,
anche se forse potente non è il termine giusto.
Più forte, più massiccio, insomma (ride, n.d.i.).
Inoltre é la prima volta che incido con in testa
l’obiettivo di fare un album, in precedenza avevo
fatto incisioni piú sporadiche, singoli che poi andavano a formare dei 7 pollici o raccolti in long
playing.
Quindi mi pare di capire che dobbiamo considerare His Clancyness non come un alias ma
come una band vera e propria.
JONATHAN: Io ho scritto le canzoni, ma siamo un gruppo. Dal vivo siamo un quartetto, tra
l’altro amici da una vita. Mi piace avere una gang
con cui stare assieme.
Recensire un disco come Vicious espone al
rischio di citare troppe similitudini; ad esempio, per quanto mi riguarda, non ho potuto
fare a meno di citare Wire, Can, Iggy Pop,
Pavement, Scott Walker… Quanto a queste e
altre eventuali fonti ti sei volutamente ispirato?
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JONATHAN: Di sicuro ci sono molti rimandi,
anche se tento di essere piú personale possibile.
Nel periodo in cui compongo cerco di limitare gli ascolti, o almeno di limitarli ai classici.
Certo mi fa molto piacere se citi i Wire, nel caso
di Zenith Diamond sono stati un chiaro riferimento. In altri casi, per certi suoni di batteria
– ad esempio di Miss Out These Days – ci siamo rifatti al suono dei dischi solisti di Lindsey
Buckingham dei Fletwood Mac. Altrove – é il
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caso di Machines – l’obiettivo era avvicinarsi il
più possibile a certi assolo di Neil Young, infatti
abbiamo utilizzato un piccolo ampli da 15 watt
degli anni Quaranta che Young utilizzava nelle
prime incisioni coi Crazy Horse…
JACOPO: Alla fine secondo me quello che conta
sono le canzoni, non tanto quello che ci ricordano. Tutto deve essere finalizzato al fatto che la
canzone funzioni.
JONATHAN: Sono d’accordo. D’altro canto è
vero che mi piace documentarmi sulle tecniche
e gli aneddoti delle band del passato, guardo documentari in continuazione, anche di band che
non mi piacciono. Sono un fanatico di queste
cose, mi piace usare riferimenti precisi in studio,
ad esempio dire a Chris – il nostro produttore –
di far suonare il piano come in quel certo disco
dei Beach Boys. Per me é fondamentale. Ed è
fondamentale avere un produttore in grado di
soddisfarti.
A proposito, è per lavorare con Chris Koltay
che siete andati a registrare a Detroit? Credi
che ci sia ancora un gap di competenze tecniche ed attrezzature tecnologiche con gli
studi italiani?
JONATHAN: Sì, il motivo principale è stato per
registrare con Chris. L’ho conosciuto in tour,
nella data di Detroit con gli A Classic Education.
Gli sono piaciuti i demo di His Clancyness, ne
abbiamo parlato, ci siamo tenuti in contatto. Gli
High Bias Recordings sono molto belli e anche a
buon mercato, visto che purtroppo a causa della
crisi Detroit è una città derelitta… Certo, anche
in Italia abbiamo studi bellissimi, solo che forse
si sta perdendo l’abitudine ad un certo modo di
lavorare, a quel certo atteggiamento che è necessario per produrre un buon disco rock. Forse
perché per sopravvivere gli studi devono incidere tante schifezze, tipo le cover band. Si sta perdendo una tradizione ed è un peccato, pensa alle
cose meravigliose fatte negli studi Rai durante i
Sessanta…
JACOPO: A parte lo studio e Chris, poi c’è la
città, con la sua atmosfera, il suo immaginario.
Incidere a Detroit non è come farlo, che ne so, a
Montebelluno. Viverci è stato importante. Quelle tre settimane che abbiamo passato lì sono
diventate questo disco.
JONATHAN: E’ verissimo, Vicious per me è
quelle tre settimane a Detroit, così lo voglio
ricordare per i quaranta o cinquant’anni che mi
restano da vivere. È anche per questo che amo
fare musica, per l’esperienza che ti lascia.
In occasione del Cassette Day avete fatto
uscire una Covering Up Cassette (con cover
di Gun Club, Julian Cope e The Drifters tra
gli altri), mentre come omaggio a chi prenota
il disco in vinile avete confezionato la Vicious
Fanzine: sembrano un po’ degli adorabili anacronismi, modi di spacciare musica e immaginario musicale di un’epoca che non c’è più.
Senti il bisogno di vivere in un mondo in cui
la musica reciti un ruolo più importante?
JONATHAN: Sicuramente, per me la musica è
ancora importantissima. Questo album non è
una cosa accessoria, deve essere una colonna
portante. Per quanto si tratti di piccole cose che
magari interesseranno pochissimi, una fanzine
e una cassetta devono contribuire a scolpire e a
ricreare quel mistero, quel mondo fatto anche di
sogno che il rock deve essere. Probabilmente ci
perdiamo troppo in questa smania di condividere, mentre le emozioni dell’ascolto rimangono
un po’ in secondo piano.
E degli A Classic Education cosa mi dici?
Esperienza finita o una parentesi lasciata in
sospeso come i Settlefish?
JONATHAN: A Classic Education continuerà
senz’altro, fermarsi è stata una scelta naturale e un po’ obbligata, nel giro di sei mesi a due
membri della band sono nati dei figli… Inoltre,
Luca Mazzieri si è concentrato sul suo progetto
Wolther Goes Stranger, io su His Clancyness,
insomma una pausa normale. Comunque abbiamo suonato moltissimo fino a pochi mesi fa,
abbiamo intenzione di tornare a scrivere presto
assieme, magari già quest’inverno. Per quanto
riguarda i Settlefish, è una questione diversa,
sono fermi dal 2008 per cui… Penso che la gente
tenda a crearci molte storie sopra, ma in realtà
è del tutto normale prendere strade diverse,
senza ragioni particolari. Del resto continuiamo
a vederci, abitiamo a Bologna, siamo tutti amici.
Insomma, la porta è aperta, chissà.
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I Came Back
Haunted
Che cosa rappresenta oggi un artista come Trent
Reznor? Proviamo a rispondere con una breve
panoramica sulla sua carriera musicale
Testo di Tommaso Iannini
Trent Reznor è stato sicuramente un innovatore. Lo è ancora? Se innovatore
fosse una di quelle parole assolute, per cui basta esserlo stato una volta per
rimanerlo per sempre, la risposta sarebbe scontata. Di sicuro c’è una tensione,
nella sua ricerca musicale, che non è mai statica, si proietta sempre in avanti,
verso il presente, e, in parte, il futuro. L’aggiornamento tecnologico. La ricerca
di nuovi canali espressivi, di nuovi mezzi di comunicazione. L’essersi reinventato compositore di colonne sonore. Allo stesso tempo, il rifiuto sdegnoso di
sottomettersi alla novità a tutti i costi: Reznor non si è fatto produrre da Timba-
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land e ha continuato a lavorare in totale autonomia avendo accanto solo persone fidate. Due esempi: Alan Moulder e Atticus Ross.
Quel che è certo, è che parliamo di un fulcro della musica degli
anni ‘90. Che lo era già alla fine degli anni ‘80. Figura unica nel
suo (non) genere quanto obliqua, ha saputo calarsi trasversalmente in più direzioni, calamitare idee (e pubblico) da diversi
ambiti musicali e creare uno stile e un immaginario indiscutibilmente suoi. Se esemplifica come meglio non potrebbe categorie
tipicamente fine anni ‘80/inizio ‘90 – i concetti di musica alternativa e di crossover – è anche l’unicum, la one man band, l’uno e
centomila. Prometeo che ha “rubato” i suoni alienanti della musica industriale per farne un perfetto congegno commerciale. Mago
dello studio di registrazione. Cantante, compositore, polistrumentista, ingegnere del suono, produttore. Creatore puntiglioso,
che cura ogni dettaglio del suo mondo di suoni ma si impone il
buona la seconda (al massimo) per le tracce vocali del suo esordio
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– perché le vuole così, fragili, imperfette e umane. Reznor è anche
questo, un paradosso vincente.
Così è anche la sua affiliazione all’industrial, molto discussa
e contestata dai puristi. Su questo aspetto è bene soffermarsi,
anche solo per poche righe. Limitiamoci ai primordi del genere,
ai cinque punti programmatici dei Throbbing Gristle indicati
nell’Industrial Culture Handbook (citati in Industrial [r]evolution
di Giovanni Rossi, che a Reznor ha dedicato anche un’appassionata monografia): «autonomia organizzativa nella promozione della
propria musica […]», l’abbiamo; «lo shock come modalità espressiva privilegiata […]» idem; «impiego massivo di elementi mediali
diversi, come video e foto», naturalmente c’è; manca, almeno
fino a Year Zero, il discorso sull’«accesso all’informazione come
fonte di potere, anni prima di Internet». Rimane il quinto punto,
la «destrutturazione del concetto classico» di musica. Reznor
destruttura il suono, sperimenta con la forma canzone, non nega
la musicalità. Non siamo agli antipodi ma è qui, se vogliamo, la
divergenza dall’industrial della prima ora. L’altra, ovviamente,
riguarda il canto. A differenza di Genesis P-Orridge che orientava
le proprie scelte «tra lo spoken word e il canto atonale, sgraziato
e disturbato» (sempre Industrial [r]evolution), Trent rispolvera il
canto melodico in una gamma di sfumature vocali che va dal bisbiglio all’urlo disperato, immedesimandosi in testi introspettivi
di ispirazione autobiografica, in cui è il suo Io lirico a dominare.
Per il resto, l’autonomia artistica è stato uno dei suoi punti fermi
dai tempi della diatriba con la TVT, che lo ha portato a svincolarsi
dalle ottiche del rapporto tra musicista e produttore, ma anche
tra produttore e discografico, finendo per assumere in sé tutte
queste figure. La multimedialità è un aspetto che ha sperimentato dagli albori della sua carriera, con video dai contenuti forti,
poi con le attività interattive sul web, dal download dei dischi, ai
remix dei fan, all’Alternative Reality Game di Year Zero. Reznor
ha portato queste istanze della prima musica industriale in un
contesto mainstream: è il suo più grande merito o la sua più grande pecca, a seconda dei punti di vista. Non si può negare però che
l’operazione sia stata un successo artistico e commerciale.
Ai tempi dei primi lavori dei Nine Inch Nails, prosperava la
cultura cyberpunk; il legame potrà apparire superficiale, ma
nel campo della musica Reznor incarna proprio il neuromante
di Gibson, com’è stato descritto da Norman Spinrad: «un mago
contemporaneo […] la cui magia consiste nell’interfacciare direttamente il proprio sistema nervoso con il sistema nervoso elet-
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tronico della sfera dei computer, manipolandolo (e vendendone
manipolato) in modo simile a quello in cui gli sciamani tradizionali interagivano con regni mitici più classici attraverso droghe o
stati di trance» (dalla prefazione a William Gibson, Neuromante,
Oscar Mondadori). Oltre al sistema nervoso, Reznor ha scoperto
un altro elemento della machine music: il cuore. Superomista o
umano, troppo umano, Reznor si è sempre mosso sul crinale tra
emozione e artificio, tra meccanica e anima.
Espressione del clima di malessere della generazione X, il Nostro
è stato un personaggio spesso sopra le righe, un Mr. Self Destruct
che ha flirtato pericolosamente con i suoi demoni fino quasi a
soccombervi nella vita vera. Demoni che ha esorcizzato, però,
per molti suoi ascoltatori. Testardo, maniacale, puntiglioso, il suo
scopo è sempre e solo stato creare la musica che aveva in mente, musica di impatto – fisico, cerebrale, emotivo. Ha creato una
tendenza, ha creato una star (Marilyn Manson), ha creato frotte
di imitatori (e se per questi ultimi non è colpevole, per MM una
mano sulla coscienza se la dovrebbe mettere…). Sperimentatore
pop, è l’uomo che ha “sdoganato” a modo suo synth, campionatori e computer presso un’ampia fascia di appassionati di rock. Un
paradosso? Una contraddizione? Comunque qualcosa di molto
umano che ha segnato il panorama musicale degli ultimi venticinque anni.
M ercer, Pennsylvani a
Nel maggio del 2006 il più celebre ex allievo della Mercer High
School vi ha fatto ritorno una sera soltanto, per una cerimonia. Il
rocker maledetto è stato ammesso con tutti gli onori nella Distinguished Hall of Fame dell’istituto, insieme a un politico e a un’imprenditrice. L’ex preside Hendley Hoge, che è stato il suo vecchio
insegnante di musica e il direttore della banda cittadina, è molto
orgoglioso di lui e lo ricorda come un precoce talento già ai tempi
della scuola. Di tutt’altro avviso il giornale locale, lo Sharon Herald, che ha criticato la scelta di premiare l’autore di dischi controversi e dai temi scabrosi. Ma come si sa, e come dice il vecchio
e abusato proverbio, nessuno è profeta in patria.
Mercer è una small town (molto small) di duemila abitanti nel
cuore… del nulla, a 70 chilometri da Pittsburgh. «Sono cresciuto
in un paesino in mezzo al niente, prima di Internet, di MTV e
delle radio dei college. Fino a sedici, diciassette anni il mio input sono state le radio FM e la musica mainstream». Nonostante
il figlio “degenere”, la famiglia Reznor è molto in vista in quel
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di Mercer; alla fine dell’Ottocento il bisnonno di Trent, George Reznor, inventò un nuovo calorifero a gas e fondò la Reznor
Manufacturing, che produce tuttora impianti di riscaldamento,
climatizzatori e condizionatori. L’azienda non è più di famiglia
dagli anni ‘60, quando fu venduta a una grossa corporation, ma la
dinastia dei Reznor continua in tutt’altro campo con un premio
Oscar. C’è di che essere ugualmente orgogliosi, anche se non tutti
da quelle parti la pensano così.
Mercer non offriva grandi opportunità di scoprire musica alternativa ai top 40, ma non si può dire che intorno a Michael Trent
Reznor, nato il 17 maggio 1965, la musica mancasse. Michael Senior, di professione designer d’interni, oltre a essere un ex rocker
e un discreto musicista bluegrass, gestiva un piccolo negozio di
strumenti. Da bambino Trent prende lezioni di pianoforte. La
sua insegnante, Rita Beglin, si accorge subito che è dotato di un
talento naturale. Michael e Nancy Reznor divorziano poco dopo
l’arrivo della loro secondogenita, Tera, nata nel 1971. Trent viene
affidato ai nonni materni, mentre la sorellina rimane con la madre. Per quanto Trent rimanga in ottimi rapporti con suo padre,
che tra l’altro gli ha trasmesso la passione per il rock portandolo
ai primi concerti (e, a quanto si racconta, facendogli fumare il primo spinello), la separazione dei genitori getta un’ombra sulla sua
infanzia, influenzandone il carattere schivo e solitario.
A scuola dimostra già il suo talento artistico. È il protagonista
dell’allestimento scolastico di The Music Man, recita e canta nel
ruolo di Giuda in Jesus Christ Superstar, suona la tuba e il sassofono nella banda e in complessi jazz e la sua insegnante gli
prospetta la possibilità di diventare un pianista classico, un vero
professionista. Lo studio della musica classica però non lo attrae
quanto la prospettiva di suonare rock. Le materie che più lo interessano e per cui si sente portato sono la matematica e l’informatica, che cerca di applicare alla musica interessandosi alla nuova
cultura dei sintetizzatori. Dopo un piano elettrico acquistatogli
dal padre, che gli insegna anche i primi rudimenti di chitarra e gli
lascia usare il retro del negozio come sala prove, acquista un Mini
Moog per suonare cover dei Cars e altri gruppi di pop elettronico,
la sua maggiore influenza musicale degli anni dall’adolescenza
insieme ai Kiss e a The Wall dei Pink Floyd.
Ottenuto il diploma nel 1983, Trent studia per un anno ingegneria
informatica all’Allegheny College di Meadville, pensando di dedicarsi in futuro al design di sintetizzatori. In questo periodo milita
brevemente negli Option 30, un complesso new wave. Dopo aver
40
lasciato il college, trascorre una sorta di anno sabbatico, vivendo insieme al padre e suonando in cover band. Quindi decide di
trasferirsi a Cleveland e tentare con convinzione la carriera di
musicista.
Cleveland, Oh io
Per riuscire a sfondare nel mondo della musica, a metà anni ‘80
Trent Reznor si trasferisce a Cleveland insieme all’amico Chris
Vrenna. La città dell’Ohio ha una scena piuttosto vivace e molto più da offrire, in termini di negozi di dischi, locali e radio, di
quanto non potesse avere un paesino come Mercer. Comincia una
girandola di band, che porta Trent a registrare prima un disco
con i The Innocent (un tremendo gruppo AOR), poi in una cover
band, gli Urge con cui passa da ZZ Top, Van Halen e Journey a
Eyes Without a Face di Billy Idol, e poi negli Exotic Birds, guidati
da Andy Kubiszewski e abbastanza quotati nella scena cittadina.
L’esperienza con gli Exotic Birds, considerati il miglior complesso
synth pop dance di Cleveland, è di gran lunga la più significativa;
quando Paul Schrader gira a Cleveland il film La luce del giorno,
un dramma familiare ispirato al mondo delle band di provincia,
Trent è tra i musicisti locali chiamati a fare da comparse. Appare
in una breve scena come tastierista dei The Problems, un gruppo fittizio di “rock concettuale” alla prese con una cover di True
Love Ways di Buddy Holly.
Dopo gli Exotic Birds e le sporadiche collaborazioni con Lucky
Pierre e Hot Tin Roof, Trent collabora con Martin Atkins, batterista dei PIL, e con gli Slam Bamboo, improbabili epigoni dei new
romantics stile Duran Duran e Spandau Ballet. Ci rimane giusto
il tempo di incidere un singolo e di partecipare a un programma
televisivo: un Reznor defilato e nerovestito, seminascosto alle
tastiere in mezzo a un tripudio di stu-stu-stu-studio line, mise da
giovani yuppie e acconciature improbabili; il tutto, rigorosamente, in playback. Ma che cosa non si faccia per campare di musica,
il nostro Trent lo deve ancora scoprire in tutte le sue sfaccettatture; gli mancava per esempio, il pulire i bagni dei Right Track
Studios, dove è assunto come inserviente tuttofare.
Il lavoro allo studio e, prima ancora, l’esperienza come commesso in un negozio di strumenti elettronici, sono più importanti di
tutte le effimere esperienze nei complessi di Cleveland. Da PI
Keyboards Trent impara a conoscere tutte le novità nel campo
degli strumenti elettronici, mentre l’impiego ai Right Track è
semplicemente la mossa più azzeccata di tutta la sua vita: oltre a
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imparare le basi del sound engineering lavorando sui dischi altrui
e a togliere peli pubici di musicisti dalla tazza del water, la notte,
d’accordo con il proprietario Bart Koster, ha libero accesso agli
studi per registrare il suo materiale che sta cominciando a prendere forma.
O ne Man Band
La prima composizione originale di Trent Reznor – che sarà anche il primo singolo dei Nine Inch Nails – Down In It, è ricalcata
su Dig It degli Skinny Puppy. La somiglianza è talmente smaccata
che lo stesso Reznor ha sempre ammesso senza remore il debito
nei confronti dei canadesi. Gli Skinny Puppy sono tra i padri di un
nuovo genere musicale, che unisce l’industrial di seconda generazione, meno oltranzista e più contaminato, con ritmi funky ed
elettronici, l’electronic body music (la vigorosa musica sintetica,
antenata della techno, di formazioni europee come DAF e Front
242), il rock e la dance. La Metal Dance degli australiani SPK, prime movers della scena industrial internazionale convertiti al nuovo verbo, e singoli come Headhunter dei belgi Front 242, sono tra
i capisaldi di questo nuovo stile, ma è soprattutto in America con
album come The Land of Rape and Honey dei Ministry (con un po’
di thrash metal nella miscela) e Mind: The Perpetual Intercourse
degli Skinny Puppy che si afferma il filone definito più tardi – in
modo un po’ discutibile, se vogliamo – come industrial metal.
Trent Reznor segue la stessa scia: unire il rumore a ritmi ballabili
e le chitarre distorte alle tastiere elettroniche. Il demo di tre canzoni – Down In It, Twist (una versione embrionale di Ringfinger)
e Head Like A Hole – che Reznor incide come Crown of Thorns
vale l’attenzione di diverse case discografiche. Tra le più interessate c’è la Nettwerk, che ha appena messo sotto contratto Skinny
Puppy e Front 242 e per questo non ha fondi. In attesa di poterlo
ingaggiare, l’etichetta canadese gli propone uno slot di date come
apertura degli Skinny Puppy. Trent accetta, ma sa benissimo di
non essere pronto a replicare il materiale che ha scritto dal vivo e
con un vero gruppo. Infatti i concerti – lui canta e suona la chitarra, Chris Vrenna si occupa di tastiere e programmazione e Ron
Musarra suona la batteria – sono un vero disastro.
Da Crown of Thorns il progetto ha cambiato nome in Nine Inch
Nails, l’unica ragione sociale ad aver passato il “test delle due settimane” (vuol dire che era ancora sopportabile dopo averla adottato per quattordici giorni). Nel novembre 1988, di ritorno dal
fallimentare tour di spalla agli Skinny Puppy, Trent registra nove
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canzoni ai Right Track Studios, pubblicate su diversi bootleg (con titoli come Purest Feeling e Pretty
Hate Machine Sessions), per la maggior parte provini di quelli che saranno i brani dell’esordio. Due
mesi dopo, Reznor, assistito dal manager John Malm, firma un contratto con la TVT, un’etichetta di
New York fin lì specializzata in colonne sonore di serie TV.
D own In It
Nel maggio 1989 cominciano le registrazioni vere e proprie. Dai bootleg si può ascoltare come le
canzoni fossero già finite a livello di strutture e melodie, ma non gli arrangiamenti, ancora in fase
embrionale. L’impostazione di base non cambia: Trent Reznor lavora senza un gruppo di musicisti
e senza session men, passa ore ai Ritgh Track e a casa ha allestito un piccolo studio con un Mac,
un sequencer e un campionatore E-Max. Preziosa è l’assistenza dell’amico Chris Vrenna a partire
dalla scelta delle fonti sonore da campionare. Dal punto di vista strumentale, l’ossatura dei brani è
costruita con suoni programmati, loop e campionamenti presi da brani musicali e film. L’album è il
risultato di questo lavoro compositivo preliminare e dell’apporto di ben quattro produttori diversi,
oltre allo stesso Reznor deus ex machina: si tratta di Flood, Adrian Sherwood, John Fryer e Keith
Leblanc. Reznor avrebbe voluto lavorare solamente con Flood, ma quest’ultimo è troppo impegnato
su Violator dei Depeche Mode e si limita a produrre due pezzi. Il lavoro con Sherwood per Down In
It e quello con John Fyer non soddisfano Trent, rendendo necessario l’intervento di Keith Leblanc.
Anche il mixaggio è un processo durissimo che assorbe il nostro ventiquattro ore su ventiquattro;
Reznor crea ponti sonori tra un brano e l’altro per amalgamarli meglio; le canzoni hanno infatti una
forte individualità, anche se la seconda parte dell’album è più omogenea a livello di suoni e di tipo
di canzoni. Il disco parte con i due pezzi prodotti da Flood. Head Like a Hole è il brano più rock,
ma di un rock meccanizzato e ammantato di ferocia cibernetica: inizia con le mitragliate sconnesse
della batteria elettronica, si assesta sul ritmo sincopato da slam dance delle strofe con il riff di basso
sintetico e le percussioni industriali, e diventa metal ballabile con il ritornello, urlato su uno sbar-
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ramento di chitarre al vetriolo. Lo staccato feroce e all’unisono
di chitarra e batteria, preceduto da suoni percussivi tra Depeche Mode e Einstürzende Neubauten, marchia a fuoco le strofe
di Terrible Lie, sorta di blues stravolto dell’era cyberpunk in cui
Trent si rivolge al Creatore incalzandolo, esigendo scuse, implorandolo. Prodotta da Adrian Sherwood, la versione di Down In
It è in pratica un trip-hop in versione industriale, un paio d’anni
prima che il termine diventi di dominio pubblico; le strofe sono a
tempo di rap, caso unico in un disco che fa del canto melodico il
suo elemento di distinzione dall’industrial propriamente detto, e
allo stesso tempo la pillola per indorare le sonorità di quella scuola e renderle fruibili al pubblico del rock e della dance alternativi.
Pretty Hate Machine è il disco pop dell’epoca cyberpunk, come
un corpo fatto di ossature e cartilagini elettroniche con un cuore
rappresentato dalla voce. La vocalità aspra e volutamente imperfetta al confronto dei suoni sintetici, ma anche l’uso tutt’altro che
leccato o perfettino della componente elettronica, esprimono l’idea di resistenza umana all’avanzata inesorabile delle macchine e
creano un cortocircuito di senso in cui si specchia l’intera estetica
dei Nine Inch Nails, spiegando la loro modernità e il loro impatto
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sul pubblico. Forse era davvero un grande cantante quello che
mancava alla musica industriale per uscire dai ghetti settoriali:
certo, Something I Can Never Have è la canzone sentimentale che
i Throbbing Gristle non hanno mai scritto (se non per farne la
parodia in United). Situata a metà disco dopo la più funky Sanctified, tutta arpionata dal suo singhiozzante giro di basso in slap,
Something I Can Never Have sembra fermare il tempo all’improvviso: il ritmo è pacato e rarefatto, frasi di pianoforte e un pedale
lontano di basso come sfondo per un Trent in versione crooner.
Non mancano i contrappunti industriali come soffi pneumatici
e colpi metallici sul ritornello, ma è facile intuire come nessuna band del genere avesse scritto un pezzo così melodicamente
malinconico. I brani successivi, da Kind I Want To a Ringfinger,
sono più danzerecci e synth-pop oriented, vicini a una versione
più velenosa e muscolare dei Depeche Mode o a un EBM votata
al pop – come in Sin. Con le sue melodie emotive e insidiose e i
ritmi ballabili, il Prince della musica industriale ha creato il disco
perfetto per la generazione crossover, come spiegato da Daphne
Carr nella sua monografia: «Anche se il suo contesto originario
era quello della dance, l’album è stato ascoltato e adottato da appassionati di metal, industrial, rock, punk, musica underground e
college rock, un pubblico eterogeneo che più tardi si sarebbe fuso
sotto la categoria “alternative” nel momento della partecipazione dei Nine Inch Nails al Lollapalooza». Quella di Trent Reznor
non era musica per le masse, ma è uscita nel momento giusto per
diventarlo.
A ffilato come un R eznor
«Il tuo disco è un aborto» tuona Steve Gottlieb. Il patron della
TVT pensava di avere in mano un album pop di successo ed è
convinto che Trent abbia rovinato le canzoni. Secondo i suoi pronostici, il disco fatto in questo modo (c’è giusto il tempo di sistemare alcuni mix) non sarebbe andato oltre le 20.000 copie. Nel
giro di un anno Pretty Hate Machine ne venderà 150.000. Quanto
al rapporto con l’etichetta, siamo soltanto all’inizio. Il 15 ottobre
1989 esce il singolo di Down In It, Halo 1 secondo la numerazione progressiva d’ora in poi comune a tutto il catalogo dei Nine
Inch Nails. Un mese e cinque giorni dopo, Pretty Hate Machine
(Halo 2) fa la sua comparsa nei negozi. Smentendo le profezie di
sventura di Gottlieb, le vendite non sono stellari ma costanti, e
pur non spingendosi mai oltre il numero 70, il debutto di Trent
Reznor rimane per quasi due anni nei primi 200 posti della clas-
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sifica di Billboard.
Per il tour, Trent sceglie i suoi collaboratori stabili: Richard Patrick alle chitarre, Chris Vrenna alla batteria e alle tastiere, Gary
Talpas – il grafico che aveva curato l’artwork di Pretty Hate
Machine - alle tastiere, optando per un mix tra strumenti suonati
dal vivo, nastri preregistrati e campionatori. Più avanti alle tastiere subentra l’ex Exotic Birds Nick Rushe (poi sostituito da David
Haymes), lasciando Vrenna libero di dedicarsi soltanto alla batteria live. Il suono sul palco dei Nine Inch Nails devia verso sonorità molto più dirette e aggressive, ma sono soprattutto le performance a diventare sempre più violente, tra aggressioni fisiche alla
strumentazione, ai musicisti e persino al pubblico. Trent libera
l’animale da palcoscenico che è in lui, e l’intensità delle esibizioni è tale da eclissare facilmente headliner come Peter Murphy e
Jesus And Mary Chain.
Un’astrazione del suo impatto live si può vedere nel video di Head
Like A Hole, pubblicata nel marzo del 1990 come secondo singolo
estratto dall’album, seguita qualche mese più tardi da Sin (con un
video censurato e mai trasmesso in tv). Nel 1991 la partecipazione
al Lollapalooza è un passo decisivo per l’affermazione su larga
scala dei Nine Inch Nails, capaci, grazie proprio alla potenza dei
concerti, di conquistare il pubblico rock e di entrare a pieno diritto nella crema della musica alternativa americana. Vrenna intanto
ha lasciato la band per screzi con Reznor, rimpiazzato alla batteria da Jeff Ward. Le date in Europa sono meno soddisfacenti e
Trent ha modo – chi l’avrebbe mai detto – di litigare con la stampa inglese… E lui, che non ha peli sulla lingua, non si fa scrupolo
di rispondere per le rime.
I ’ d Rather Di e T han G i ve You C ontro l
I problemi veri non arrivano dalla stampa, ma dalla casa discografica con cui è sotto contratto. Reznor ha all’attivo diverse
collaborazioni esterne ai Nine Inch Nails; una di queste riguarda
un progetto di Al Jourgensen, 1000 Homo DJs, per cui canta in
una cover di Supernaut dei Black Sabbath. La TVT si rifiuta di
firmare una liberatoria per il disco alla Wax Trax! Da lì al reciproco ostruzionismo il passo è breve, e in un attimo siamo alla
guerra aperta. La casa discografica vuole spremere la sua gallina
dalle uova d’oro e lo sollecita a entrare in studio per realizzare il
seguito di Pretty Hate Machine, ma Reznor non ci sta, non vuole
piegarsi alle direttive di Gottlieb, che dal canto suo non ha nessun interesse a ridiscutere il contratto. La situazione di impasse
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sta diventando drammatica e si risolve soltanto grazie al provvidenziale interessamento della Interscope. La casa discografica
fondata da Jimmy Iovine accetta non solo di scritturare Trent
Reznor concedendogli la totale libertà artistica, ma gli propone
una joint venture per la pubblicazione dei dischi e, soprattutto,
rileva il contratto dalla TVT, a cui corrisponderà parte dei diritti
sulle vendite fino alla scadenza dell’accordo. La soluzione Interscope si rivelerà alla fine vantaggiosa per tutti. Mentre la TVT
ha il denaro necessario per acquisire il catalogo della Wax Trax,
Reznor ottiene la liberta che cercava e la Interscope un musicista
di talento su cui puntare. Dopo la firma dell’accordo nel 1992, nei
dischi successivi dei Nine Inch Nails compariranno tre marchi:
TVT, Interscope, e Nothing, la nuova etichetta fondata da Trent
Reznor e dal suo manager John Malm. La Nothing lavora nei
budget stabiliti dalla Interscope, ma in piena autonomia creativa,
e può anche mettere sotto contratto altri artisti. In un colpo solo
Trent ottiene la libertà artistica e una propria etichetta indipendente, con cui pubblicherà vecchi amici del giro di Cleveland ma
anche band prestigiose, dai The The agli Einstürzende Neubauten, Pop Will Eat Itself e Meat Beat Manifesto, e distribuirà artisti
della Warp come Autechre e Squarepusher. Anche se il nome più
celebre legato all’etichetta sarà quello di Marilyn Manson.
St ill C annot Fi x Thi s Broken M achine
Nel 1992 Trent Reznor può finalmente incidere le canzoni a cui
stava lavorando in segreto. Il risultato, Broken, è un mini album
dalle sonorità molto più pesanti di Pretty Hate Machine, più
vicine all’impatto live della band e fomentate dalle tensioni degli
ultimi mesi. La chitarra distorta, di cui il primo LP faceva un
uso decisamente modico, diventa protagonista. Non è un suono
naturale, perché le parti sono decostruite come al solito in loop,
lo strumento è filtrato pesantemente con il pedale Zoom 2030 e
processato al computer con il software Turbosynth, ma la stratificazione e la pesantezza del sound è tale da creare sonorità
potentissime che non temono il confronto con un qualsiasi disco
heavy metal. I ritmi sono decisamente più squadrati, un 4/4 che,
quando non adotta metronomie da infarto come in Wish, è scandito con la mano pesante di una Happiness in Slavery. Per Wish
(Grammy Award nel 1993 come Best Metal Performance) e Gave
Up si possono azzardare termini come cyber thrash e affini, e il
riff monstre di chitarra è la prima cosa che colpisce anche di Last.
Rimangono da citare i due minacciosi strumentali, Pinion e Help
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Me I Am in Hell, e le due tracce fantasma, la numero 98 e 99 del
CD: una cover di Psysical di Adam Ant e Suck, frutto della collaborazione con Martin Atkins e già in scaletta al Lollapalooza, che
unisce le ritmiche funky a un riff hard blues.
Per Broken Reznor pensa ad alcuni dei videoclip più disturbanti
che siano mai stati concepiti, e che MTV non trasmetterà mai. In
particolare, Happiness In Slavery, che ha per protagonista il performer estremo Bill Flanagan torturato da una macchina, e il film
girato dall’ex Throbbing Gristle Peter Cristopherson, sono sconsigliati ai deboli cuore e di stomaco. A pochi mesi di distanza dall’uscita di Broken, esce Fixed, un disco di remix a cura di Foetus, Coil
e degli stessi Reznor e Vrenna. Già da qualche qualche mese Trent
si è stabilito a Los Angeles, dove sta registrando il suo secondo full
length.
1 0 0 5 0 C ielo Dri ve
Sembrava soltanto una bellissima villa sulla montagne di Santa
Monica. Reznor l’aveva affittata ignorando che fosse la casa di
Roman Polanski, proprio quella dove Sharon Tate era stata uccisa
nel 1969. In quella magione isolata che dominava su Los Angeles,
allestisce lo studio Le Pig, per registrare quello che la maggioranza degli appassionati considera il suo capolavoro. Insieme al fido
Chris Vrenna, a Flood e ad Alan Moulder, reinventa ancora una
volta il processo produttivo. In realtà torna di nuovo a scrivere partendo da sintetizzatore e batteria; rispetto a Pretty Hate Machine, il
taglio dei nuovi pezzi è più claustrofobico e sperimentale.
Se il segreto di Pretty Hate Machine era unire ritmi ballabili e
melodie catchy a suoni terrificanti, il rumore rimane un elemento
centrale sfruttato in modo ancora più versatile, non soltanto per la
sua valenza timbrica e ritmica ma anche per quella atmosferica e
strutturale di bordoni e texture. Non è in discussione la forma canzone, che si sviluppa in strutture più aperte e progressive: è il caso,
per esempio, di The Becoming o Eraser, o di Ruiner, che si concede
qualche apertura all’hip-hop come la vecchia Down In It. Più che
al progressive in senso lato, l’ispirazione per The Downward Spiral
guarda al Bowie del periodo berlinese e al Roger Waters di The
Wall. L’insolito strumentale A Warm Place ha un motivo simile a
Crystal Japan di Bowie, inserito tra note lunghe e drone ambientali
che fanno pensare ai This Mortal Coil ma anche all’Angelo Badalamenti di Twin Peaks.
Il secondo LP dei Nine Inch Nails contiene alcuni dei pezzi più
acclamati del loro repertorio. Mr. Self Destruct sfida Foetus sulla
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via dell’inventiva più perversa e polimorfa, oltre che del rumore
for arts sake. La blasfema Heresy ha un ritornello che suona come
una voragine. March of the Pigs rovescia le consuetudini dinamiche del rock moderno: tensione assoluta nelle strofe e rilascio
nel ritornello. L’assalto sonoro è anche la parte più tecnica: lo
sfasamento ritmico – con le due battute del riff scandite su tempi diversi (4/4 e 7/8) a 130 bpm – è geniale e bizzarro, quanto gli
stop & go che lo tagliano di netto. Closer è memorabile non solo
per il ritornello (I want to fuck you like an animal) ma per tutto
l’arrangiamento, compreso il ronzante finale. Da brividi il suono
del macchinario campionato in Reptile e il climax costruito con
chitarre acustiche e drones nella lunga introduzione, fino all’urlo agghiacciante che accompagna in sottofondo le strofe della
title-track. Infine Hurt, per molti la canzone più importante del
disco, sicuramente la più toccante: la costruzione ricorda quella
di Something I Can Never Have, tra gli arpeggi di chitarra classica,
le note discendenti di pianoforte, i drones sullo sfondo e rumori –
simili a suoni di ottoni – che mettono i puntini sul ritornello.
Se la linea di demarcazione tra musica suonata e loop si fa sempre
più labile per il genio dell’autore, l’alienazione è il sentimento dominante di un contesto in cui l’uomo annaspa in balia delle macchine ma anche la macchina implora di essere distrutta (Eraser)
e con lei il demiurgo che l’ha costruita e ha trasformato se stesso
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in macchina per fare musica. Rispetto ai diari personali di Pretty
Hate Machine i testi scavano ancora più in profondità. La spirale
discendente evocata dal titolo è quella della perdita di sé, della
tossicodipendenza e del suicidio, ma i toni dell’io testuale vanno dai deliri di onnipotenza al superomismo nietzschiano, fino
all’autodenigrazione che si unisce allo spleen cosmico di Reptile
e Hurt. Uscito l’8 marzo 1994, The Downward Spiral è il disco che
porta i suoni postindustriali nei piani alti delle classifiche, debuttando direttamente al secondo posto.
I Nine Inch Nails diventano i Nirvana della musica elettronica.
Le similitudini tra Kurt Cobain e Trent Reznor non sono poche:
entrambi hanno preso due generi underground (rispettivamente
il punk e l’industrial), li hanno contaminati e inseriti in strutture
orecchiabili mostrando come il rumore e la melodia potessero
compenetrarsi a vicenda e hanno ottenuto riscontri commerciali
un tempo impensabili per chi veniva dal loro background musicale. I sentimenti che li animano sono molto simili, e anche le loro
storie personali mostrano qualche parallelismo; entrambi vengono da anonime città, sono figli di genitori divorziati che hanno
trovato nella musica una valvola di sfogo. Entrambi subiscono la
pressione del successo, le critiche dei media commerciali quanto
dei puristi dell’underground. Entrambi scrivono testi personali
pieni di emozioni negative, rabbia, frustrazione, dolore, in cui
tanti ragazzi sembrano trovare la loro catarsi. Sono gli ultimi romantici, sotto un certo punto di vista. The Downward Spiral sta a
Pretty Hate Machine come In Utero a Nevermind: è l’atteso sequel
di un disco di successo che reagisce al suo predecessore con suoni
più ostici e scomodi. E come In Utero, tratta da vicino temi come
la depressione, la paranoia, il suicidio.
Reznor non è ancora arrivato alla soglia del non ritorno, o perlomeno non ancora così vicino. Al contrario, sembra che la sua
carriera sia all’apice, con quella sorta di consacrazione collettiva rappresentata dal concerto di Woodstock 1994 in cui tutta la
formazione dei Nine Inch Nails live (Reznor, Robin Finck, Danny
Lohner, James Woolley e Chris Vrenna) si esibisce coperta di
fango dando vita a uno show rimasto negli annali.
F urther Down T he Spi ra l
Durante il tour di The Downward Spiral, proseguito per oltre
un anno, Reznor e Charlie Clouser editano la colonna sonora di
Natural Born Killers, presentata in modo molto innovativo come
un collage di brani preesistenti usati nel film di Oliver Stone e dei
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dialoghi tratti dalla pellicola. Il disco contiene tre brani dei Nine
Inch Nails: A Warm Place, un remix di Something I Can Never
Have e l’inedita Burn. Nel 1995 anche The Downward Spiral subisce lo stesso trattamento di Broken: esce Further Down The Spiral, decisamente più originale delle classiche raccolte di remix.
Oltre a Foetus e ai Coil, Trent dà carta bianca anche a Rick Rubin,
Aphex Twin e Dave Ogilvie.
Nel 1995 Trent ha modo di condividere il palco con David Bowie.
Un incontro che ha rievocato di recente sulle pagine di Rolling
Stone: «Ho incontrato Bowie in un momento non bello della
mia vita. Lui si era disintossicato, io no. Mi prese sotto la sua ala
protettrice e mi offrì pillole di saggezza che mi perseguitarono, in
un primo momento, ma alla fine mi hanno aiutato […]. In uno dei
nostri primi incontri disse “Voi ragazzi ci spazzerete letteralmente dal palco perché suoneremo musica che nessuno nel pubblico
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vuole sentire, canzoni dall’album nuovo [Outside, ndr]. Questa
è la cosa che devo fare in questo momento”. Fu una frase che su
di me ebbe un grosso impatto. Nel senso che ci vuole del vero
coraggio per fare una cosa del genere, anche se mi sembrava un
po’ stupida. All’epoca non l’avrei mai fatta. Ma allo stesso tempo
pensavo fra me e me “Voglio essere il tipo di persona che non ha
paura di sperimentare”». Trent non vive un momento felice, il
tour lo ha completamente esaurito e pensa che la sua creatura gli
si sia rivoltata contro, diventando la parodia di se stessa (e di se
stesso). L’autoanalisi, come nei suoi testi, è spietata: si odia per
quello che è diventato.
T he F rag ile
Per cinque anni i Nine Inch Nails non pubblicano un vero nuovo
album. Reznor, esausto dopo il tour, ha scelto di ritirarsi a New
Orleans, dove ha costruito il proprio studio ultramoderno in un
palazzo un tempo di sede di un’agenzia di pompe funebri, facendone come a Cielo Drive la sua casa e il suo luogo di lavoro. I suoi
primi progetti nella nuova location sono la musica per il videogioco Quake (Trent è un patito dei videogame), la produzione di
Antichrist Superstar (rampa di lancio per la carriera di Marilyn
Manson), del progetto 2wo di Rob Halford dei Judas Priest e
della colonna sonora di Lost Highway di David Lynch. The Perfect
Drug, il brano inedito dei Nine Inch Nails presente nel disco (nel
film se ne ascolta appena qualche frammento), è una prima incursione di Reznor nei territori del drum’n’bass. Nei mesi successivi lavora a un pessimo remix di Puff Daddy e, decisamente più
interessante, al remix di un nuovo brano di un David Bowie a cui
lo lega una reciproca stima e una forte amicizia. I Am Afraid of
Americans è tuttora parte della scaletta live dei Nine Inch Nails.
Sembra quasi che Reznor lavori su progetti diversi per ritardare il
momento in cui dovrà creare il nuovo album dei Nine Inch Nails.
Perché Trent sta perdendo pezzi, della sua band e della sua vita.
Decisamente traumatica è la fine del sodalizio con Chris Vrenna,
il suo braccio destro. Più fastidiosa, ma molto meno significativa,
quella dell’amicizia con Manson. Brian Warner è nel pieno del
proprio trip da celebrità e ha platealmente scaricato il suo mentore, che l’ha aiutato a incidere il suo disco più interessante (forse
l’unico che valga la pena di essere ascoltato fino in fondo). Il problema di Trent è molto più profondo e personale: da anni la musica ha assorbito tutto il suo essere, è in crisi d’identità, la spirale
gli ha lasciato dentro un buco nero, ora amplificato dalla perdita
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della persona che lo aveva cresciuto, la nonna, e dalla dipendenza
da alcool, cocaina e antidepressivi.
La gestazione di The Fragile è persino più faticosa di quella dei
dischi precedenti. Trent riesce a venirne a capo grazie ad Alan
Moulder e a Bob Ezrin, il produttore di The Wall, che lo aiuta a
mettere ordine nella scaletta e dare al doppio compact disc la forma definitiva. The Fragile è una continuazione di The Downward
Spiral, delle sue atmosfere più disparate e dei suoi arrangiamenti più rifiniti. Ci sono più ospiti e parti suonate, dal ritorno di
Adrian Belew, che già aveva suonato in The Downward Spiral, ai
cori del Buddha Boys Choir (!). Tra i crediti figurano pure Steve
Albini e Dr. Dre. Ci sono architetture più pompose che il predecessore escludeva nella sua tagliente inesorabilità; le mettono
in mostra l’iniziale Somewhat Damaged e i singoli The Day The
World Went Away e We’re In This Together. I punti di riferimento sembrano scivolare di qualche anno indietro, dal metal e dal
post-punk in chiave synth-industriale al rock anni ‘70 in veste più
rumorosa e alternativa.
In molti hanno sottolineato il parallelo ancora più scoperto con il
The Wall dei Pink Floyd o le assonanze sempre più evidenti con
il lavoro di David Bowie. Le melodie più tornite della title-track o
le rotondità ritmiche di The Wretched e Even Deeper rispetto alla
secchezza di una Closer, o il riff hard di No, You Don’t dicono di
una forma più “classica” in questo senso. Il pianismo impressionista di La Mer (quasi alla Debussy) e la ballata atmosferica The
Great Below (splendido incrocio tra A Warm Place e Something
I Can Never Have) suggellano il primo disco. Il secondo, leggermente inferiore, colpisce più per le “deviazioni”, come il dance
pop di Please, l’irruenza di Starfuckers Inc. e la singolarità di
Underneath It All. È un’opera in cui ci si immerge come per The
Downward Spiral, di cui The Fragile è il degno successore senza
averne l’aura epocale.
Del monumentale doppio CD esce un nuovo gemello remixato,
Things Falling Apart, molto meno interessante di Fixed e Further
Down the Spiral, mentre dal tour è tratto il primo disco dal vivo
dei Nine Inch Nails, And All That Could Have Been. Nell’edizione doppia il live è accompagnato da Still, un disco di strumentali
composti in origine per il film di Mark Romanek One Hour Photo,
ma mai utilizzati. Nonostante The Fragile debutti al primo posto
in classifica, le vendite dell’album cadono presto in picchiata, al
punto che Trent sarà costretto a finanziarsi il tour promozionale,
da cui esce ancora una volta stremato. A Londra rischia di morire
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per un’overdose accidentale di eroina. Se quello è un episodio, le
costanti sono alcool, cocaina, depressione e attacchi di panico, un
mix insostenibile che lo trascina in fondo a un buco nero. L’ennesima goccia che fa traboccare il vaso è l’assassinio di un suo giovane amico e aiutante, Rodney Robertson, coinvolto in una sparatoria legata al traffico di droga. Probabilmente per la prima nella
sua vita, Trent Reznor si rende conto che le canzoni non bastano
come terapia e intraprende un lungo periodo di cure per disintossicarsi. Una volta pulito, apre gli occhi sulla gestione dei suoi
conti economici. Alla fine della lunga e dolorosa diatriba legale
con il suo manager John Malm, ottiene un risarcimento di quasi 3
milioni di dollari. La causa segna però anche la fine della Nothing
Records e di una lunga amicizia. Reznor cambia management e
lascia New Orleans per tornare in California.
55
W ill You Bite the Hand that F eeds?
Quindi lavora al successore di The Fragile, uscito a ben sei anni di
distanza, uno in più di quelli che separavano il doppio CD da The
Downward Spiral. With Teeth nasce da un processo di scrittura
molto diverso, i brani sono stati composti e suonati al pianoforte
e nelle registrazioni sono coinvolti i musicisti della band, quasi
tutti volti nuovi, da Aaron North all’italiano Alessandro Cortini.
Ospite d’eccezione, Dave Grohl. Con il quarto full length in sedici
anni andiamo incontro alla prima parziale delusione; è un disco
che non ha la capacità di incidere sul panorama musicale dei
primi due lavori e manca anche dell’ambizione del terzo. Reznor
sembra volersi mettere in gioco con un’elettronica più “normale”
a discapito della componente industrial, che viene decisamente
meno. È un lavoro molto curato, ma con suoni meno originali o
che semplicemente sorprendono meno perché sono diventati
familiari: il brutale drum’n’bass di You know What You Are? l’r&b
pestone di Collector e Sunspots, la dance pesante di The Hand
that Feeds - il primo pezzo politico dei Nine Inch Nails – o il funk
rumoroso di Only.
Recuperato nel fisico e nel morale, Reznor è anche molto più
libero mentalmente e risoluto nelle sue idee. Abituati ad attese
bibliche, cogliamo con una certa sorpresa il suo ritorno dopo
soli due anni. Il concept alla base del nuovo album è un racconto
di fantascienza ambientato nel futuro, con un mondo sull’orlo
del collasso, una sorta di 1984 attualizzato agli scenari del dopo
11 settembre, dove un governo teocratico esercita un controllo
coercitivo sulle menti dei cittadini attraverso una droga diffusa
nei condotti dell’acqua. Al contrario di With Teeth, Year Zero è
composto al computer e ripropone un tipo di elettronica grezza e
distorta, che in parte richiama le timbriche della prima fase creativa. Siamo ben lontani dall’originalità di The Downward Spiral o
The Fragile, che non significa proprio disaffezione da parte di chi
lo ha sostenuto ma naturale declino artistico, accettato come tale.
Oltretutto, in un mondo come quello dell’elettronica – per quanto
rockeggiante – basta poco perché un innovatore possa diventare obsoleto, un relitto di un’epoca passata come gli anni ‘90, più
lontani allora di quanto non lo siano oggi. E fa male pensare che
questo sia Trent Reznor.
Per promuovere questa sua fatica fantascientifica, Trent inventa
un nuovo canale creativo, commissionando un ARG (Alternate
Reality Game) che finanzia di tasca sua e lancia con un’inedita
strategia di marketing virale. Per un artista attento in maniera
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maniacale alla tecnologia come è sempre stato Reznor, era impossibile non cogliere la novità di Internet ma anche capirne implicazione e problematiche. È in questo momento che, sull’esempio
dei Radiohead, pur criticando alcuni aspetti della loro operazione, affida alla rete il suo lavoro con Saul Williams, The Inevitable
Rise and Liberation of NiggyTardust. Intanto sperimenta con
i siti ninremixes.com e remix.nin.com la possibilità di interagire
creativamente con il pubblico. “Scaricato” dalla Interscope, si
decide a diffondere la propria musica direttamente sul web.
Così nel 2008 esce Ghosts I-IV, un album di musica strumentale,
pubblicato con licenza Creative Commons in sei formati: dall’mp3
gratuito (della sola parte I) al disco in edizione limitata, al quadruplo LP. I 36 brani strumentali, firmati da Reznor e Atticus Ross, il
musicista inglese che diventerà la sua spalla, sviluppano soluzioni
sonore molto diverse, accomunate prevalentemente da un visionario minimalismo, e possono essere considerati la prova generale
per il lavoro sulle colonne sonore. In modo analogo è distribuito
anche The Slip, un disco che aggiunge poco alla storia dei Nine
Inch Nails. Sembra quasi un regalo d’addio agli ammiratori. Infatti
nel 2009 un comunicato sul sito ufficiale annuncia che i concerti
in programma saranno gli ultimi della sua creatura. L’aria che si
respira ai concerti è quella del rompete le righe. È stato bello.
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H ow To D estroy Angel s ( and Win…)
La fine (apparente) dei Nine Inch Nails non significa che Trent
Reznor voglia smettere di fare musica. Già nel 2010 si delineano i
contorni del nuovo progetto, chiamato How To Destroy Angels
in onore dei Coil, come il titolo un loro disco del 1984. La presenza di Atticus Ross non è una novità; lo è, ma solo a livello artistico, quella di Mariqueen Maandig, l’ex cantante dei West Indian
Girl che Trent ha sposato qualche mese prima. Nei due EP e nel
recente album Welcome Oblivion, gli HTDA propongono musica
più varia e soft dei Nine Inch Nails, da un lato una canzone elettronica più lineare, con sfumature soul e ambient, dall’altra una
sorta di trip hop o trance pop, dalle strutture più circolari e atmosferiche. È il primo vero side project di Reznor a vedere la luce
– cosa che non era successa ai più volte annunciati Tapeworm – e
propone alcune (poche) stimolanti novità, a partire dalla voce
femminile.
Tuttavia, la vera grande novità del Reznor 2.0 è la carriera di
compositore per il cinema che si è saputo costruire nel giro di un
solo lavoro: il suo primo score cinematografico. Per Natural Born
Killers e Lost Highway Trent aveva prodotto raccolte di brani di
musica preesistente e registrato qualche inedito. Niente di tutto
questo avviene in The Social Network di David Fincher, dove il
nostro si cimenta, per la prima volta, con un commento sonoro
originale. La musica di Reznor e Atticus Ross elude le scelte più
classiche delle colonne sonore hollywoodiane, come l’orchestra o
i motivi conduttori, ragionando a modo suo in termini di struttura e di tono emotivo e portando una ventata di novità nello stesso
rapporto con le immagini. «Credo che la mia sfida come compositore sia stata scrivere dei pezzi che potessero in qualche modo
attirare l’attenzione dello spettatore. Non cerco di contribuire a
qualcosa. Non voglio essere di supporto al film, ai dialoghi o ad
altri elementi. Spero che la mia musica sia fine a se stessa, sia solo
da ascoltare. Avvolgo il set con un suono, un’atmosfera, una sensazione e lascio che l’attore si cali dentro… Lascio che sia la mia
voce o un pezzo melodico a diventare il centro dell’attenzione».
Le fonti d’ispirazione vanno da Walter Carlos a Vangelis ai drones ambientali di David Lynch, ma si tratta di un lavoro originale, scevro da qualsiasi cliché. Hand Covers Bruise, il motivo
principale del film, è un brano in cui una melodia malinconica al
pianoforte emerge da cluster di dissonanze alla Lygeti. Il brano
ritorna tre volte in forma leggermente diversa. Come racconta
David Fincher, Trent ha fatto una cosa interessante, cercando di
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utilizzare tre differenti sonorità prodotte al piano: una tastiera,
un piano verticale e uno a coda, in diverse ambientazioni; nel film
si crea una progressione narrativa usando la stessa melodia. «La
nostra colonna sonora dava l’idea che sotto la superficie vi fosse
tensione, vulnerabilità, e quindi cambiava tutto il tono del film»,
una storia di vita da college e amicizie tradite all’ombra di una
delle più grandi idee di business della storia recente: l’invenzione di Facebook. Per orchestrare i pezzi, è stato usato anche uno
strumento elettronico artigianale, lo swarmatron, che produce
sonorità più organiche, imperfette di un normale sintetizzatore. A sorpresa, The Social Network vince il Golden Globe per la
colonna sonora e il 27 febbraio 2011 arriva il premio più ambito:
l’Oscar. Anche l’Academy ha riconosciuto l’originalità del contributo di Reznor e Ross, che non si fanno pregare per buttarsi
anche nel nuovo progetto di Fincher, The Girl With the Dragon
Tattoo (Uomini che odiano le donne). Oltre a scrivere le partiture
strumentali, il team riarrangia Immigrant Song dei Led Zeppelin
con la voce di Karen O; sono presenti anche gli How To Destroy
Angels, con la cover di Is Your Long Strong Enough? di Brian Ferry. Lo score è più cupo e ambientale, ispirato al freddo e al ghiaccio. Nelle colonne sonore composte insieme a Ross, Trent Reznor
ripropone il connubio organico/macchina tipico tipico della sua
arte – soprattutto nel rapporto tra il pianoforte e i sintetizzatori – ma lo fa con nuove sfumature, rinunciando alla sua voce per
cercare nuove tonalità espressive.
I Nine Inch Nails sono un ricordo del passato? Niente affatto.
Eccoli riemergere con un nuovo tour e un nuovo disco. Padre di
famiglia, lontano dagli eccessi di una volta, capelli corti e corpo
massiccio, Trent è tornato meno haunted di prima, per quanto ci
voglia far credere il contrario. A un primo ascolto Hesitation Marks, uscito per Columbia, stupisce per i toni pop dei suoi brani di
punta e non è molto più di uno dei tanti dischi di comeback degli
ultimi anni. Ritorniamo al quesito di partenza. Reznor è ancora
un innovatore? La one man band non lo è come ai tempi belli.
D’altro canto, il compositore ha dimostrato di sapersi reinventare
benissimo in un’arte delicata come la musica da film. Il musicista
rimane un’intelligenza creativa con cui bisogna fare i conti. E il
performer visto a Milano ha ancora pochi rivali. Dopo venticinque anni di carriera Trent Reznor è una presenza ancora viva, di
cui ritorneremo sicuramente a discutere.
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Gli Smiths, la band più influente e meno originale
degli anni Ottanta, si calano magnificamente in
un contesto storico difficile, popolato da figure
controverse come Margaret Thatcher o animali da
classifica come i Frankie Goes To Hollywood. Qui
si racconta la loro storia senza fronzoli, cercando
di buttare sempre uno sguardo al presente e uno
ai sentieri pericolosi dell'animo di Steven Patrick
Morrissey, l'ultima popstar.
Testo di Nino Ciglio
60
A Mystical Time Zone
pt. 1
T he rain fall s hard on a hundrum town
Coronation Street non è semplice da raggiungere. Coronation
Street non è neppure quella fiction degli anni Sessanta – prodotta da Granada TV – che appassionò le casalinghe di mezza
Inghilterra. È semplicemente una strada non troppo lunga, costeggiata da case basse, di un mattone rosso come quel sole che
manca a queste latitudini. Si trova a Salford, nel Nord Ovest di
Manchester. Non è facile spiegare a chi non è di Manchester che
tipo di rapporti intercorrono fra i mancuniani residenti a destra
dell’Irwell e Salford, con i suoi statuti, i suoi lunghi quartieri
residenziali, le zone desolate, i capannoni industriali abbandonati
e la passione per lo United. Nessuno di Salford si definirà mai di
Manchester e viceversa, eppure risiedono sotto la stessa legislazione. Li divide solo un misero fiume. La donna che ci dà indicazioni quando chiediamo di poter raggiungere Coronation Street
è di colore, con il velo calato sotto il mento e pochissime parole
in bocca. Ci chiede di seguirla. Le luci del tramonto fanno interferenza con quelle della grande città industriale, “the rain falls
hard on a hundrum town”. Arriviamo in fondo alla via dove, nella
totale indifferenza e desolazione di un gennaio troppo freddo per
le mire turistiche, si erge il Salford Lads Club, l’edificio che fa da
sfondo alla celebre prima di copertina di The Queen Is Dead. Sì,
stiamo parlando di nuovo degli Smiths, la band più influente e
meno originale che gli anni Ottanta mai ricorderanno.
Un tizio di nome Leslie ci vede incuriositi, si avvicina e si pro-
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pone spontaneamente di farci realizzare il tour del Club. Apre
le porte della Smiths Room, la grande sala dedicata al quartetto
mancuniano, che raccoglie fotografie di fan, autografi, camicie
di Moz, passaggi di personaggi famosi e un arcobaleno di post-it,
recanti frasi d’amore sconsiderato verso la band, desideri di seduzione, citazioni di canzoni, una fiumana colorata di venerazione
e fedeltà. Questo è quello che più colpisce degli Smiths. Quanti
gruppi al mondo possono contare su questo tipo di devozione,
questa silenziosa e continua eucarestia, che porta anno dopo
anno i fan a visitare i luoghi – anche quelli ipotizzati –, come
si fa con i grandi poeti dell’Ottocento? Quante band – nell’arco
ridotto di cinque anni e quattro LP – hanno rivoluzionato così dal
profondo l’idea stessa di pop-band, la musica, certo, ma anche le
sfumature estetiche, lo stile, la moda, le passioni, i gusti poetici di
tutte le generazioni a venire, in qualsiasi angolo del globo? E si sa
che il lettore malizioso sta già pensando ai baronetti di Liverpool,
ma – con un piccolo sforzo – chiunque si accorgerebbe che non
è lo stesso sfondo, che non è lo stesso pane, che “nel 1983, l’unica
cosa che conta, è essere belli”.
W ho put the M i n Manchester?
Nel 2005 la Manchester Evening News Arena è una bolgia. Il
figliol prodigo è tornato. L’uomo che ha odiato e amato la città
e l’ha portata al culmine della popolarità, è di nuovo in città. Il
suo più celebre cittadino, scappato già nel 1984 a Londra, era poi
rimasto esule prima in California (nella villa che Clark Gable
aveva regalato a Carole Lombard), poi nella “tranquilla Roma”, a
Trastevere, che l’avrebbe riconciliato con il neorealismo cinematografico, con idoli di una vita come Anna Magnani o Pier Paolo
Pasolini. Durante lo show alla MEN si concede in una scaletta
parzialmente ruffiana, cambia d’abito tre volte, lancia camicie a
un pubblico in visibilio, rispolvera pochi brani della sua carriera
da Smiths. Certo, le invasioni di palco (diventate ormai punto
cardine e indispensabile) sono molto più controllate, ma ciò non
impedisce al re dei bassifondi di esclamare un memorabile: “Oh
Manchester, please don’t forget me”.
Manchester non è una città indispensabile. La sua architettura è
al limite dell’osceno. Gli scempi compiuti negli anni dell’espansione urbanistica hanno visto una parziale riqualificazione negli
ultimi anni. Nella politica ingegneristica e edile della città, campeggia una sola parola d’ordine: riconversione. Ovunque ti giri, gli
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edifici d’imitazione neoclassica, greca o latina, neogotica o vittoriana hanno nuovi usi. Che si tratti di locali, di centri commerciali
o semplicemente di abitazioni. Ma sembra persistere il medesimo
problema di sempre: poco fuori, un’umanità dissestata si aggira in
un’uniformità sconcertante, fra case basse dai mattoni rossi erette
dall’edilizia popolare degli anni Sessanta. E’ la lower-middleclass delle periferie, spesso animata da un senso di appartenenza
(quello nordico, s’intende) che si porta dietro dai secoli dell’Impero. Quello stesso Impero che, con la sua disfatta, ha fornito
nuovi migranti, che si sono aggiunti a quelli di origine irlandese
di inizio Novecento. Il tutto ha creato un mosaico imperfetto di
decadenza e meraviglia, che scuote i cuori degli animi inquieti e
sensibili.
E quale miglior animo inquieto e sensibile di quello di un giovane,
Steven Patrick Morrissey, figlio di genitori irlandesi irish blood,
english heart. Un animo che ha reso la sua timidezza, un’elegante
arma da taglio, da scagliare contro le idiosincrasie di un tempo
imperfetto, fatto di Hit manie, di dancefloor e di ecstasy, di sesso,
bugie ed efferati delitti. Fatto di “wake-me-up-before-you-go-
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go”, di kajagoogoo, di Reagan e del suo fondo tinta, di Bob Marley e delle sue lotte contro i mulini a vento, dei Duran Duran
e delle guerre atomiche, di Lady D, ma soprattutto di lei, l’Iron
Lady, ladies and gentlemen, Mrs. Margaret Thatcher. Morrissey,
dal canto suo, – come il suo alter ego del Diciannovesimo secolo,
Oscar Wilde -, incarna l’archetipo della popstar. Anzi, è l’ultimo
baluardo di una sanissima fusione fra popolare e colto; è la mente
che è riuscita a rendere il pop una cosa per letterati; è la star sulla
cui vita privata si sa pochissimo, pur essendo sempre sulla bocca
di tutti; è, come ogni dandy che si rispetti, l’incarnazione romantica di una vita per l’arte e dell’arte per la vita. Non gli si può
chiedere di separare i due campi. Lui è la sua arte, la sua poesia
e i fan lo sanno; è il figlio e l’erede di nulla in particolare, anche
se poi questo nulla l’ha reso padre del britpop e, stando ad NME
(tra l’altro, suo dichiarato nemico), l’artista più influente di tutti
i tempi. In altre parole, per citare il titolo della migliore biografia
morrisseyana, Moz è a tutti gli effetti l’ultima popstar.
Già si annusava da tempo che la sua città di nascita fosse una
città speciale. Negli anni Sessanta era la capitale ante litteram
del clubbing, con i suoi locali R’n’B, i suoi Dj che passavano soul
americano, il Twisted Wheel che nel 1963 era il cuore della scena Northern Soul. Naturalmente fu una rapida ascesa che passò
attraverso i The Hollied di Graham Nash, i Bee Gees, gli Herman’s Hermits e Wayne Fontana nei Sixties. Poi, se si eccettua il
pop da classifica che regalarono i singoli dei 10cc, gli anni Settanta rappresentarono il digiuno della musica mancuniana. Da lì in
poi sarà solo party hard, 24 Party People, come reciterà il titolo
del film di Winterbottom. Tutto questo per spianare la strada
a due loschi figuri che di nome fanno Howard Trafford e Pete
McNeish che, ammaliati dai Velvet Underground d’oltremanica, cambiarono i cognomi rispettivamente in Devoto e Shelley
e partorirono i Buzzcocks. La prima opera di bene del primo
gruppo punk di Manchester fu quella di volare a Londra, incontrare Malcolm McLaren e tornarsene indietro con i Sex Pistols,
che nel frattempo stavano mettendo a fuoco la capitale. Così,
il 4 giugno 1976, al Free Trade Hall di Manchester, l’ex palazzo
del Commercio (abbiamo già parlato di riconversione, vero?),
si tenne il primo concerto dei Sex Pistols in città. Pubblico: 42
persone, fra cui Peter Hook, Devoto, Shelley e Paul Morley, mente
giornalistica e futuro Art Of Noise. Al concerto seguente, il 20
luglio, le persone furono leggermente di più, ma tutte destinate
a lasciare in qualche modo una traccia indelebile nella storia del
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rock. Fra queste, soprattutto Tony Wilson di Granada TV e futuro
fondatore con Rob Gretton della Factory (Joy Division, New
Order, Happy Mondays) e dell’Hacienda. Non passa inosservato nemmeno Mick Hucknall, leader dei Simply Red, con la sua
chioma fiammante. Ma quel che conta è che, nonostante molti
abbiano reclamato la propria presenza a una delle due serate che
cambiarono per sempre il rock, Steven Patrick Morrissey fosse lì
presente, da buon diciassettenne curioso e istruito, non tanto per
i Pistols, quanto perché sapeva che Malcolm McLaren era stato
manager delle New York Dolls per un po’.
Questo è il personaggio. Figlio dei 200.000 irlandesi immigrati
nel Nord dell’Inghilterra e di quell’integrazione mancata che
fece intitolare l’autobiografia di un altro irish blood – Johnny
Lydon - “No Irish, No Blacks, No Dogs”, Morrissey nasce il 22
maggio 1959 a Stretford, al 384 di King’s Road. Domanda: “Qual
è il momento in cui sei stato più felice?”. Risposta: “il 21 maggio
1959”. Bum. La madre, Elisabeth Dweyer, bibliotecaria, avrà un
ruolo fondamentale nella sua vita. Ecco, a mo’ di lista, solo alcune
citazioni riguardanti la figura materna, vista o come idilliaca o
come asfissiante: Rubber Ring: “Oh, soffocami, madre…”; Shakespeare’s Sister: “No Mamma, lasciami andare!”; I Nnow It’s Over:
“Oh Madre, sento la terra che mi cade sulla testa”. Il padre, talento
mancato del Manchester United, è un semplice operaio. “Ho avuto un’infanzia abbastanza felice fino a sei o sette anni, dopo di che
la vita è stata orrenda”: questo perché i suoi smettono di andare
d’accordo e “se, da bambino, ti ritrovi in un ambiente in cui i tuoi
genitori non vanno d’accordo, inizi a credere che questo sia un
microcosmo del resto del mondo, che la vita sia fatta così”. Così,
il piccolo Steven si chiude nel suo mondo di plastica, fatto delle
sue passioni più profonde: i libri e la musica. A sei anni, infatti,
compra Come And Stay With Me di Marianne Faithfull, che è
solo l’inizio della sua insana passione per la musica cantata, possibilmente al femminile: Francoise Hardy, Dusty Springfield,
Twinkle, Cilla Black e, in particolare, Sandie Shaw. Si appassiona ai gruppi femminili degli anni Cinquanta, prima, al glam rock,
dopo il 1972: prima Bowie, poi i T. Rex di Marc Bolan, che suonano quello stesso anno al Bellevue Theatre di Manchester, il primo
concerto a cui assiste il piccolo Moz. Cresce in lui uno spirito
critico, che lo porta a voler comunicare scoperte e contenuti con
tutti: dopo il concerto dei Pistols alla Free Trade Hall scrive al
New Musical Express e a Melody Maker una recensione in forma
di lettera; quando scopre che Tony Wilson terrà un programma
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musicale a Granada TV, Steven è entusiasta, impacchetta un disco
delle New York Dolls e lo spedisce per posta agli studi televisivi:
“Caro Wilson, ho sentito del suo show. È una notizia fantastica.
Per favore potremmo avere musica di questo tipo?”.
La fine degli anni Settanta è il periodo più delicato. Peter lascia
Betty e la casa di Stretford, Steven è costretto a iscriversi alle liste
di disoccupazione (i famosi dole), affinché gli venga proposto un
impiego qualunque. È l’inizio di un difficile rapporto con il mondo del lavoro, che avrà in Morrissey un ostinato oppositore: se appartieni alla working class e non svolgi un lavoro manifatturiero o
comunque esecutivo, sei considerato a tutti gli effetti un outsider,
un buono a nulla o, nel peggiore dei casi, un effeminato. Così doveva sentirsi Steven, appassionato d’arte e di letteratura, costretto
ora a lavorare al Civil Service, ora all’Inland Revenue per poche
sterline, tralasciando le sue letture femministe: The Facts of Rape
di Barbara Toner, Dialogue With Mother di Bruno Bettelheim e
molti altri su questa scia.
Nel frattempo, si concretizza l’ipotesti, finora solo accarezzata, di entrare in una band. Corteggiato prima da Phil Fletcher
(che riconosce in lui un fan delle Dolls), poi dal suo amico Billy
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Duffy, Moz dà vita ai Nosebleeds. Il glam l’aveva salvato (e aveva
salvato molti come lui) da una vita da perdente: se il rock aveva
fatto capire a una generazione che si poteva essere spensierati,
fare sesso e fare soldi, il glam aveva consegnato loro una qualità
inimitabile: la consapevolezza di poter anche essere belli. Così
Moz, al suo primo concerto con i Nosebleeds, si presenta con
i capelli lunghi a permanente e un trucco alla David Johansen.
L’esibizione è prorompente, la scaletta si muove fra cover delle Dolls, delle Shangri-Las e alcuni brani dei cui testi è autore
lo stesso Morrissey: (I Think) I’m Ready For The Electric Chair,
The Living Juke-Box e un Peppermint Heaven durante il quale
distribuisce caramelle al pubblico. L’esperienza dei Nosebleeds,
nonostante qualche apprezzamento iniziale, finisce nell’arco di
un anno. Dopo di loro, per Morrissey, ci sono gli Slaughter And
The Dogs, che testimoniano la sovrapponibilità del punk con il
glam, in quegli anni. Fulminato dal fatidico concerto dei Pistols, il
gruppo nato come emulo degli Spiders From Mars, si trasforma
in un’autentica band punk-rock o proto-wave. Con Steven, però,
le cose non vanno nel verso giusto.
Nel 1978 Morrissey riesce a realizzare il suo primo viaggio negli
Stati Uniti, da alcuni parenti in Colorado. È per lo più un nomade in cerca di ispirazione e, soprattutto, in fuga dal destino che
vuole risucchiarlo sul sentiero piatto e monotono dell’esistenza
del padre. Betty, la madre, lo asseconda nei suoi capricci artistici.
Steven cresce come una casalinga ben istruita del Nord. Si appassiona ai kitchen-sink drama, sottogenere del teatro realista inglese, come Coronation Street; invia a Granada Tv pagine e pagine
in cui propone sceneggiature e nuovi personaggi. Se quella della
famiglia normale del nord poteva essere realtà all’interno del
tubo catodico, Steven sentiva che c’era ancora speranza, per un
mammone come lui, di sfondare le barriere della cultura popolare. E lo sentiva, protetto com’era da una pila di libri di e su Oscar
Wilde, dai programmi pomeridiani delle famiglie matriarcali di
Channel 4, dalle repliche pomeridiane dei film con Bette Davis o
James Dean. Ma Steven è soprattutto protetto dal dramma familiare per eccellenza e dal fascino sognatore di Jo, la protagonista
di A Taste Of Honey, piece scritta da Selagh Delaney nel 1956 e
portata sullo schermo nel 1961 da Tony Richardson. Razza, classe,
sessualità, genere: tutti argomenti che in A Taste Of Honey scardinano la visione reazionaria e piatta dell’Inghilterra del dopo
guerra e s’impongono nello stile di Morrissey e degli Smiths più
di ogni altra fonte. A fornire una lista ristretta ed esplicita, ecco
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l’elenco di alcuni dei testi ispirati alla piece: Hand In Glove, Reel
Around The Fountain, You’ve Got Everything Now, Shoplifters Of
The World Unite, I Don’t Owe You Anything. Discorso a parte per
This Night Has Opened My Eyes che, più che un prestito, è una
parafrasi musicale dell’intera opera della Delaney; e discorso a
parte anche per Sheila Take A Bow, la cui protagonista è probabilmente la stessa Shelagh (“Come può qualcuno così giovane cantare
parole tanto tristi?” – canta Morrissey, riferendosi alla giovane età
– 18 anni – in cui la Delaney pubblicò l’opera). L’adolescenza di
Morrissey è segnata da questa figura, come la sua infanzia lo era
stata da Sandie Shaw. Arriva a sovrapporre enormemente i piani
di scrittura ed ispirazione, arriva a confondere se stesso con quel
mondo, che la critica ha azzardato a definire l’unico valido esempio di Neorealismo inglese. Jo, l’adolescente abbandonata da una
madre troppo distratta, instaura delle relazioni “sbagliate”: prima
con un marinaio di colore, poi con un omosessuale. Jo, nella
Stretford cupa e malinconica degli anni Cinquanta, rappresenta la
disadattata, la figlia illegittima di Madre Natura, la vittima relegata ai margini di una società meschina. “In altre parole – scrive
Mark Simpson – A Taste Of Honey, è il paesaggio, la madrepatria,
il cuore di molte opere di Morrissey […]: è una rappresentazione
lirica la cui poesia commovente ma schietta è ispirata dalla gente
comune, ne mostra il lato straordinario, l’ordinarietà nella straordinarietà”.
Se la Delaney tirò fuori la vox populi da Morrissey e Wilde fece
sì che l’altalena testuale del cantante degli Smiths si rivolgesse
tanto al cuore, quanto alla mente delle persone, è certamente James Dean a dargli la consapevolezza di un’arma potentissima: la
bellezza. La bellezza selvaggia di James Dean, però, (esattamente come l’estetismo magnanimo di Wilde) non coincide con un
mito neoclassico di perfezione. La bellezza di Dean fa male per
almeno due motivi: 1. Steven coltiva con essa un rapporto malato
e perverso, al limite del sessuale, tappezzando la sua stanza/prigione di immagini, poster e frasi dell’attore americano, nutrendo
un’idolatria sconsiderata destinata ad incidere l’immagine deviata che appare nelle sue opere; 2. Dean è in realtà un freak: è un
mammone anche lui, solo che è tremendamente virile, è bisessuale, ma anche un gradasso americano, è insicuro ma bello in modo
assurdo. Dopo Wilde, c’è Dean a restituire il mito narcisistico
della vanità maschile di cui Morrissey e gli Smiths si servono
nelle loro opera ancora oggi. Come Caravaggio e come Narciso
(la copertina del singolo This Charming Man – ovvero l’attore
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omosessuale Jean Marais nel film Orfeo di Jean Cocteau – ricorda in maniera impressionante il Narciso pseudocaravaggesco),
come gli Esteti e i Decadenti, Morrissey voleva sfidare la morte,
anzi, aveva deciso di andare oltre la cristallizzazione della popstar nell’Olimpo. Morrissey “avrebbe portato a termine l’impresa
di congelare la propria adolescenza, aggirando l’inconveniente
di dover morire”. Non c’era bisogno di alcuna identificazione in
nessun personaggio: esattamente come Dean, che rimase un tenero bastardo perpetuando se stesso nei ruoli che recitava, anche
Moz non sente la necessità di separare se stesso – quel se stesso
condito e imbastardito da pile e pile di letteratura, arte, musica e
cinema – dalle sue parole.
Non sorprende dunque, che, prima di ritentare nel difficile mondo della musica, Steven, nel 1981, pubblichi due volumetti per la
piccola casa editrice Babylon Books. Si tratta di un pamphlet
sulle New York Dolls di appena 24 pagine (3000 copie vendute,
mica poche!) e un’opera dal titolo James Dean Is Not Dead, che
vende più di 5000 copie. Questi inaspettati successi editoriali
avrebbero potuto spingere il giovane Morrissey verso una strada
spianata di scrittura (aveva in lavorazione una disanima dei gruppi femminili degli anni Cinquanta), ma, si sa, certe volte il successo non basta. Moz non si sente realizzato, ha perso i contatti con
i suoi amici musicisti e, soprattutto, il 1982 è iniziato con diete di
pillole e barbiturici. C’è decisamente bisogno di una scossa…
D on’t be a jerk , Johnny!
“Comparve in un momento in cui io stavo toccando il fondo, per
così dire. E mi diede questa massiccia iniezione di energia. Potevo
sentire l’energia di Johnny ribollire dentro di me”. Quando Jacqueline, la sorella di Steven, apre la porta al 384 di King’s Road,
Johnny Maher ha l’aria di chi ha qualcosa di veramente importante da comunicare. Si siede in soggiorno e Morrissey non esita
ad ingaggiare con lui una disputa musicale. Magari si parte dalle
influenze più basilari, dal punk, dalla scena newyorkese, per poi
passare alla Motown, al country, che ha segnato l’odio-amore
della chitarra di Johnny. Figlio anche lui di immigrati irlandesi,
Johnny Maher cresce in un ambiente povero, ma affettuoso, con
l’ingombrante figura dello zio chitarrista che gli mette a disposizione una Stratocaster e un po’ di dischi. Cresce in un quartiere di
Manchester denominato Little Ireland, dove tutti si conoscono e
la musica è una componente essenziale dei momenti di convivialità: ai battesimi, ai matrimoni, si suonano canzoni della tradizio-
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ne irlandese, magari aggiornate al gusto del tempo, con un pizzico di country che non guasta mai. In TV scopre Rory Gallagher
che diventerà il principale modello di riferimento nei brani degli
Smiths. Col tempo si lascerà influenzare dal funky e – attraverso
l’uso della Rickenbacker e l’ascolto dei Beatles – anche dal sound
jangled tipico dei Byrds o di Tom Petty. Da non sottovalutare
nemmeno l’apporto definitivo dei consigli di James HoneymanScott dei Pretenders, musicista che si rifaceva a sua volta al
piglio scanzonato di Nick Lowe ed Elvis Costello. Certo, anche
il punk fa irruzione nella sua vita a tempo debito, ma Johnny non
sarà mai un punk: ne rifiuta l’approccio semplicistico e distruttivo, preferendogli invece la complessità dei brani ricamati di una
Joni Mitchell o di Ronnie Wood, chitarrista di Rod Stewart.
La vera svolta, però, arriverà quando (già parte integrante degli
Smiths) lavorerà con John Porter e scoprirà le gioie dell’overdubbing, la scrittura a più tracce, la modulazione, la tessitura perfetta
e armonica, vera chiave di volta delle melodie smithsiane.
A scuola, nel frattempo, conosce Andy Rourke. Con lui, come ogni
adolescente musicofilo che si rispetti, mette su i Paris Valentinos, prima, e i Sister Ray poi. Nulla più di semplici esperienze
parrocchiali, in cui, fra l’altro Andy suona ancora la chitarra. Sarà
Johnny a spingerlo successivamente verso il basso. Segue una
piccola parentesi con i White Dice, di matrice british-folk e –
scoperto l’immenso universo funky – con i Freak Party, che però
sentono la carenza di una voce adatta per il progetto. Johnny, intanto, trova lavoro presso il negozio di abbigliamento X-Clothes a
Chapel Walks, dove svolge il ruolo di ragazzo-immagine, modello
e, se capita, anche commesso. Dal negozio passano personaggi di
spicco: Mike Joyce, Tony Wilson, Mike Pickering e, soprattutto,
Joe Moss. Joe, al pari di Malcolm McLaren e Brian Epstein, è un
imprenditore nel campo della moda e convince Johnny a cercare
un autore di testi valido, oltre ad offrirsi come finanziatore del
progetto.
Più giovane di quattro anni rispetto a Steven, Johnny è il seduttore, l’uomo di mondo, il virtuoso, l’anima furente del duo che, da
quel fatale 1982, avrebbe cambiato la storia del pop. Mentre Steven è il mingherlino sociopatico, che non è in grado di suonare un
accordo nemmeno a pagarlo, Johnny, con il suo essere apparentemente a suo agio in quel mondo difficile, fornisce a Morrissey la
materia necessaria per sbloccare quel fiume poetico che gli scorre
nelle vene. E Steven, a sua volta, canta come se dalla musica di
Johnny dipendesse la sua stessa vita. È così che si consuma il ma-
70
trimonio. Il bellissimo matrimonio a cui presto aderiscono anche
Andy Rourke al basso e Mike Joyce alla batteria. A cui presto si
unisce una schiera sterminata non solo di fan, ma di veri devoti. È
così che Steven diventa Morrissey e Johnny diventa Marr.
La famiglia, in quanto tale, deve portare un cognome unico. La
scelta, appare scontata: The Smiths. Il cognome più diffuso in
Inghilterra (soprattutto nel nord) è il modo che hanno questi
quattro ragazzi di dirci che non vogliono essere i nuovi Frankie
Goes To Hollywood, che non vogliono essere ascritti ad alcuna
categoria, che sono persone comuni con ruoli comuni, di pura
estrazione working class. In più, Patti Smith è certamente punto
di incontro fra Steven e Johnny, così come la famiglia Smith di
Beyond Belief, il libro sui Moor Murders su cui ritorneremo. Più
problematica la spiegazione che ricollega il nome al concittadino,
leader dei Falls, Mark E. Smith, o a Robert Smiths dei Cure. Con
entrambi non corre buon sangue.
A nd you must be looki ng very o ld ton ight
Sembra un racconto di fantasia, ma è vero che Steven e Johnny
inizialmente non hanno alcuna intenzione di mettere su una band
71
in proprio. La loro ambizione è quella di mettere la loro musica a
disposizione di alcuni interpreti, proprio come si faceva ai tempi
del Brill Building. Inutile dire che il progetto non prende piede
(in questa fase), forse proprio grazie allo stile di scrittura di Morrissey, che si dipinge di altre tinte una volta attivato il processo
creativo nei brani. Marr fa ascoltare a Steven una base di chitarra;
Steven immagina una melodia e scrive un testo. Poi, nel momento
dell’arrangiamento vero e proprio, Marr riaggiusta nuovamente
la struttura. È così che nascono i primi brani: da These Things
Take Time a What Difference Does It Makes?, da Handsome Devil a
Miserable Lie.
A questo punto occorre premere per un momento il tasto “pausa”. La carriera degli Smiths segna, nelle fasi iniziali, un punto
di non ritorno, nella musica contemporanea. Alcuni avvenimenti
saranno poi perpetuati nell’indie-music odierna fino allo sfinimento. Stiamo parlando della rivelazione, del boom mediatico
incondizionato, con alle spalle poco più che un 45 giri e qualche
live. Gli Smiths fanno il botto ben prima del loro album d’esordio. Come succederà (con molto meno impatto) in anni recenti
a band come Drums, Haim, Dum Dum Girls, Palma Violets e
altri nomi indieavolati che calcheranno palcoscenici più grandi
delle loro medie ambizioni. Eppure, per gli Smiths, i tentativi con
i discografici sono frequenti: un Drone Demo viene registrato
nel dicembre del 1982 e spedito agli uffici della EMI, che però si
dichiara disinteressata al progetto. Pochi mesi prima, intanto (il 4
ottobre), gli Smiths tengono il loro primo concerto al Ritz, come
spalla dei Blue Rondo A La Turk. Ancora senza Rourke, lo show
conta quattro brani, tra cui una cover di un pezzo dei Cookies.
Ovviamente la cosa più divertente è quella meno attesa. Un amico
di Morrissey, James Maker, sale sul palco come go-go dancer e
aizza il pubblico con il suo ballo effeminato. Un po’ come farà Bez
degli Happy Mondays, il cui unico ruolo riconosciuto sarà quello
di suonare le maracas e aizzare il pubblico. Le cose vanno meglio
il 25 gennaio 1983, al Manhattan Club, quando, Rourke è definitivamente in formazione e Moz rispolvera i suoi trucchetti da incantatore, lanciando caramelle e confetti al pubblico durante l’esibizione di Miserable Lie. Tra il pubblico è presente anche Tony
Wilson, titolare della Factory, che riceve dalla band un demo.
Ed ecco uno degli scherzi più strambi della storia: la band che
avrebbe potuto risollevare l’etichetta dal post-Joy Division, viene
miseramente rifiutata: “vennero alla Factory – commenta Wilson
– quando non eravamo in condizione di metterli sotto contratto –
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non era il momento giusto. […] La band più Factory del mondo […],
gli Smiths, vennero proprio quando stavamo pensando di chiudere
baracca”. O, se volete, in maniera più lapidaria e fantasiosa, in 24
Hours Party People, Dio appare a Wilson (Steve Coogan) pronunciando queste parole: “Tony, hai fatto un buon lavoro. E in fondo
avevi ragione. Shaun [Happy Mondays] è il più grande poeta dai
tempi di W.B. Yeats; i Joy Division sono stati la più grande band di
tutti i tempi; probabilmente avresti dovuto mettere sotto contratto
gli Smiths, ma avevi ragione su Mick Hucknall. La sua musica è
spazzatura ed è un fottutto roscio”.
Prima che i rapporti fra Smiths e Factory rasentino l’odio (Moz
definirà Wilson “un maiale intrappolato nel corpo di un uomo” e
Wilson su Moz: “una donna intrappolata nel corpo di un uomo”),
gli Smiths tengono un memorabile concerto all’Hacienda il 4
febbraio 1983. Memorabile per almeno due motivi: in primis
consegnerà definitivamente gli Smiths alla Storia musicale della
città di Manchester, e poi inaugurerà il rapporto ossessivo della
band con il mondo floreale. Quello dei fiori non è solo un trucco da palcoscenico: è un vero e proprio omaggio. Omaggio alla
libertà di esprimersi, alla libertà di sentire e comunicare i propri
stati d’animo, soprattutto in una città (Manchester) e in un locale
(l’Hacienda) che – a detta di Moz – avevano disperato bisogno
di recuperare il proprio rapporto con la Natura. I fiori, sostanzialmente, offrono speranza. E sono un palese omaggio ad Oscar
Wilde, che li usava in qualsiasi situazione. Moz li tiene nella tasca
di dietro dei jeans o nella patta, li usa a mo’ di frusta, ci fa letteralmente il bagno. Un atteggiamento destinato ad essere riutilizzato da band di quegli anni come Echo & The Bunnyment, Big
Country o Cure.
Sono i Buzzcocks ad introdurre Morrissey e Marr a Geoff Travis
di Rough Trade. L’etichetta londinese è decisamente il simbolo
del mercato indipendente, quello che ricercano gli Smiths in quel
periodo. Geoff stava portando nel Regno Unito dischi destinati a
non attraversare l’Atlantico per via di un “commercio losco” che
fornì il nome dell’etichetta: il rough trade è infatti un espressione
gergale omosessuale che sta per rapporto maschile a pagamento.
Dal 1978 in poi, la Rough Trade fa firmare contratti fruttuosi, mantenendo intatta la politica del do-it-yourself : Pere Ubu,
Cabaret Voltaire, Pop Group, Young Marble Giant riassettano
la scena wave di quegli anni. Con Hand In Glove registrata pochi
giorni prima (le spese – 200 sterline – sono a carico di Joe Moss),
gli Smiths bussano alla porta di Geoff Travis. “Aspettammo delle
73
ore, per poi sentirci dire che che Geoff non poteva riceverci.
Allora Johnny chiese ‘ Chi è Geoff Travis?’. Qualcuno indicò una
figura in lontananza in fondo al corridoio, Johnny lo inseguì e lo
obbligò ad ascoltare. Due ore dopo il disco era in stampa”.
Gli Smiths chiedono ed ottengono 22.000 sterline di anticipo per
la registrazione, la somma più alta mai sborsata da Rough Trade.
Il contratto è firmato dai soli Morrissey e Marr, mentre Rourke
e Joyce non si pongono il problema dei ricavati, mettendo le basi
per quella che sarà la lunga azione legale che seguirà lo scioglimento della band. Dopo i primi concerti a Londra, gli Smiths
vengono ingaggiati per le famose John Peel Session della BBC,
lanciandosi sempre più a capofitto nell’Olimpo musicale britannico. Ci sono almeno altri due motivi alla base della fama senza precedenti che coinvolge la band ben prima dell’uscita del primo Lp.
Innanzitutto l’aura scandalistica e compromettente che circonda
il primo singolo, Hand In Glove. La copertina, tratta da The Nude
Male di Margaret Walters, ritrae un uomo nudo di spalle e serve
forse come commento al verso “the sun shines out of our behinds”,
il sole splende dai nostri sederi. Hand In Glove, inoltre, è un’espressione che letteralmente significa “mano nel guanto”, ma può
essere usata per indicare rapporti stretti di complicità, probabilmente sessuali. La canzone, in fin dei conti, è una canzone d’amo-
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re, pur sottraendosi agli stilemi del genere. C’è l’invito a rifiutare
le convenzioni sociali, c’è l’ammicco all’omoerotismo (quel “se la
gente fissa, lasciala fissare” sa veramente tanto di dichiarazione
anti-omofobica), c’è il riferimento ad A Taste Of Honey (“I probably never see you again”) e, molto più in generico, il riferimento
ad una sessualità pura, senza limiti di razza o orientamento. Hand
In Glove, in breve, ha vita facile a diventare oggetto di dispute
infinite su tali tematiche, ma anche, l’oggetto proibito, da fruire di
nascosto dai genitori. Moz ha la forza di risvegliare questo potentissimo sentimento adolescenziale in chi l’ascolta. La storia della
composizione è persino divertente: Marr strimpella a casa della
sua futura moglie Angie e viene fulminato da una serie di accordi
interessanti. A quel punto obbliga Angie a guidarlo da Moz, mentre lui, sul sedile di dietro, continua a suonare quella successione
per paura che sfumi via.
L’inclusione di Handsome Devil, come lato B del singolo, inoltre, causa non pochi problemi. Per i detrattori, il brano inneggia
alla pedofilia. Il Sun, padre di tutti i tabloid scandalistici, titola
con “Canzone pedofila imbarazza la BBC”. I fatti, naturalmente,
scuotono l’interesse dell’opinione pubblica per gli Smiths, pur
causando problemi alla band e alle logiche di marketing. Sotto
accusa, infatti, è anche Reel Around The Fountain, che non viene
più scelta come secondo singolo, in favore di This Charming Man.
E’ una scelta che si rivelerà assai fortunata. Nonostante i possibili
appigli scandalistici ci siano tutti (il brano è la cronaca di un incontro fra un bel ciclista e un uomo in una macchina dai sedili in
pelle), la critica lascia passare e This Charming Man si guadagna
il venticinquesimo posto delle classifiche ufficiali, spianando al
gruppo la strada per Top Of The Pops. Quel giorno è memorabile
per gli Smiths: il pubblico in visibilio, l’esibizione live prorompente, la sera, headliners all’Hacienda. E’ l’inizio del successo.
L’album, che ancora tarda ad arrivare, è stato nel frattempo annunciato come The Hand That Rock The Cradle. Le registrazioni
avvengono nell’estate del 1983, ma, una volta nelle mani di John
Porter – che si sarebbe dovuto occupare solo del missaggio – ,
crolla il castello: è tutto da rifare. Marr e Porter inaugurano un
connubio felice, destinato a ridisegnare lo stile chitarristico di
Marr e del pop in generale. This Charming Man, ad esempio, ha
una cosa come quindici tracce di chitarra, di cui una suonata
lasciando cadere un coltello da cucina sul manico, una con una
Telecaster ad accordatura aperta, una con un vibrato acceso e
così via…
75
Il 1983 si chiude con due singoli fortissimi e una manciata di live.
L’84 si apre, invece, con il primo vero singolo proveniente dalle
registrazioni dell’imminente The Smiths: What Difference Does
It Makes?. “Tutti gli uomini hanno segreti, e questo è il mio”: questo l’esordio del brano, che viene condito da un senso di corruzione e rassegnazione palpabile a cui, come per molti altri brani
degli Smiths, è stata data una lettura gay-oriented. L’esibizione
a Top Of The Pops rimane memorabile, con Morrissey che stringe un solo gladiolo in mano e, udite udite, porta un apparecchio
acustico all’orecchio. Il disabiliy chic che esce fuori è in realtà un
omaggio ad un rocker americano, Johnnie Ray, arrestato nel ‘59
per omosessualità. Nello stesso periodo spunta fuori un altro tratto identificativo di Moz, destinato ad essere imitato nei decenni
a venire: i tipici occhiali della mutua, con montatura nera spessa.
Forniti dal National Health System inglese, erano già allora cifra
stilistica anche di Elvis Costello e Buddy Holly.
It ’s time to tale were told
Nell’autunno del 1965, la polizia di Manchester arresta Ian Brady e Myra Hindley, rei di aver rapito, violentato e assassinato
tre bambini dal ‘63 in poi. I corpi di Edward Evans (sedici anni),
John Kilbride (dodici) e Lesley Ann Downey (dieci) vengono
rinvenuti sulle colline di Saddleworth Moor, seppelliti sotto terra.
Alcuni anni dopo, nel 1987, Brady confessa altri due infanticidi,
sconvolgendo ancora di più l’opinione pubblica mancuniana.
Morrissey al tempo è appena un bambino, ma queste vicende – riprese nel libro Beyond Belief di Emlyn Williams – lo impressionano particolarmente. La morte, in questo senso, fa irruzione nella
vena poetica degli Smiths, caratterizzando, in particolare, uno
dei brani dell’imminente The Smiths (ma il primo a cui lavorano
Johnny e Steven dopo il loro incontro): Suffer Little Children.
Quando The Smiths vede finalmente la luce, siamo nel febbraio
del 1984. La copertina dell’LP ritrae un giovane Joe Dellissandro in Flesh, un film del 1968 di Paul Morrissey, esponente della
Factory newyorkese di Andy Warhol. Naturalmente, la pellicola
è una storia di prostituzione maschile, di un rough trade omosessuale. I fatti di morte riguardanti i Moors Murderers non sono
l’unica linfa vitale di The Smiths. Bisogna aggiungere almeno il
macrocosmo della sessualità e del cosiddetto “quarto sesso”. Ma
procediamo con ordine.
Suffer Little Children, che chiude il primo disco degli Smiths, è
76
un vero esempio di maestria compositiva. Dal punto di vista dei
testi, Morrissey si affida alla polifonia bachtiniana: entrano in
scena, come attori di un dramma, i bambini vittime degli omicidi, gli assassini, le madri straziate, Steven stesso che si immagina
vittima. La scena è per certi versi raccapricciante: dai piccoli
chiamati per nome, alle perle bianche della collana di Lesley Ann,
dal “solido odore di morte”, alle buche scavate per seppellire i
corpi. Il finale è degno delle migliori tragedie greche: sarà l’intera città, Manchester, a dover rispondere di questi efferati delitti
(“Oh Manchester, so much to answer for”). Marr accompagna il
tutto con la flemma di una ballata folk che assomiglia più a una
ninnananna inquieta, degno sottofondo per una storia tragica che
non risparmierà il brano da accuse di aver sfruttato la materia
“stupro e pedofilia” per una canzone pop. Interverrà addirittura
un parente delle vittime dei Moors Murderers a placare gli animi, sostenendo la giustezza della causa di Morrissey e compagni.
Sulla stessa lunghezza d’onda musicale e tematica, anche The
Hand That Rocks The Cradle, ufficialmente il primo brano composto da Moz-Marr. La ballata tessuta su un arpeggio folk e ispirata
a Kimberly di Patti Smith, sfiora vette d’inquietudine impagabili.
77
Mentre un padre dondola una culla, “i fantasmi e la tempesta”
devastano il mondo fuori dal “sacro santuario”, “un piano suona in
una stanza vuota/ ci sarà sangue sulla mannaia stanotte”. Sul finale, Moz canticchia Sonny Boy di Al Jolson, “salimi sulle ginocchia,
Sonny Boy”, aggiungendo “tua madre non lo saprà mai”: facile,
anche qui, ricollegarsi a un discorso sulla pedofilia. E altrettanto
facile alimentare dibattiti e scandali su di esso.
Altro campo d’azione di questo disco d’esordio è il macrotema
della sessualità, dentro il quale finiscono anche le turbolenze di
amori indecisi, adolescenziali o apparentemente deviati. Così è
l’amore di Hand In Glove e di This Charming Man. Ma così è anche la torbida storia d’incontri di Reel Around The Fountain, che
accompagna la timidezza del protagonista sul “patio”, dove viene
schiaffeggiato e spinto, fino a perdere l’innocenza, pur restando
una figura impalpabile e fuggevole, da poter infilzare e mettere
dentro “una teca come una farfalla”, come ne Il Collezionista di
Fowles. Sulla stessa linea anche You’ve Got Everything Now, che
tra la confusione e lo spaesamento per una relazione sbagliata,
trova persino la forza di dichiarare al mondo: “Non voglio un
amante, voglio solo essere legato/nella tua macchina”.
Miserable Lie ci dà l’assist per provare ad avventurarci in quel
nervoso coacervo di tensioni che è il mondo sentimentale di
Morrissey. Insieme a Wonderful Woman e Jeane (mai incise su disco), è infatti dedicata a Linder Sterling, ex fidanzata di Howard
Devoto e convivente di Morrissey dal 1976 in poi. Quali siano stati
(o siano) i loro legami, non ci è dato saperlo. Ciò che conta è che
Linder svolge un ruolo determinante nelle dinamiche creative di
Steven. E Miserable Lie – seppure rovinata da un pessimo missaggio – ne è l’esempio. Il brano inizia con un lungo addio (“C’è qualcosa contro di noi/non è il momento/perciò addio…”) a cui segue,
attraverso un dignitoso esempio di schizofrenia musicale, un urlo
disperato sull’impossibilità di un amore sincero (“l’amore è solo
una bugia meschina”), perché devastato nella sua purezza come
un fiore mai sbocciato (con riferimenti impliciti al De Profundis di
Wilde). Sono i passi che porteranno a Pretty Girls Make Grave, in
cui si dichiara: “ho perso la mia fiducia nel sesso femminile”. Come
dire: sulla mascolinità stendiamo un velo pietoso, ma ora persino
l’ultimo residuo di interesse che possedeva il sesso femminile, è
sfumato via. Questo perché – e sarà Morrissey stesso a ribadirlo
più volte – si proclamerà profeta del quarto sesso. “Il terzo sesso è
già stato provato ed ha fallito. Quello che fa Marc Almond [dei Soft
Cell] è patetico. […] desidero avvicinarmi alla liberazione dell’uo-
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mo. […] Sono annoiato da uomini e donne. Tutta questa segregazione sessuale, anche nel rock, è veramente spregevole”. Naturalmente, non è facile cogliere la profondità del discorso di Morrissey,
così spesso viene frainteso per una dichiarazione di omosessualità. Gli viene persino chiesto di farsi promotore di una campagna
per i diritti gay. La risposta scontata è: “No, proprio no. […] ho una
posizione molto non-sessuale e guardo alla gente con un approccio
umanista. […] Mi rifiuto di accettare etichette come etero- bi- e
omo-sessuale. Tutti hanno le stesse identiche necessità sessuali. La
gente è solo –sessuale, il prefisso è irrilevante”. Fuori dagli schemi,
fuori da Tarzan-maschio e Jane-femmina, Steven vuole presentarsi come una persona semplicemente sensibile, che vede l’altro
sesso non in maniera sessuale, anzi, disprezza chi tende a farlo.
Alla faccia di band dichiaratamente o non gay-oriented (Soft
Cell, Frankie Goes, Culture Club, Pet Shop Boys), Morrissey
e gli Smiths creano questo piccolo universo di malizia ed equilibrio, che vede il corpo come un tempio maoista, che professa il
celibato, ma non si pente di trattare tematiche piccanti. “Toccò a
Morrissey – scrive Simpson – rappresentare un ‘omoerotismo’ che
non fosse ‘camp’ o ‘travestito’, congenito o per ciò che conta ‘omo’.
Era semplicemente bello”. Moz plasma, crea sui testi linguaggi e
sentimenti comuni per esprimere la forza della straordinarietà, le
condizioni inusuali della vita. Insomma, quello che tutti vedono
come straordinario o strambo, come una relazione omosessuale,
viene descritto con una purezza e una naturalezza inarrivabile.
79
Genere: post-rock
Il teaser Taipei rilasciato non più di un mese
fa ha creato non poca curiosità attorno a Wild
Light, release in full lenght numero sei per
una band arrivata ai dieci anni di carriera. Due
erano gli aspetti che più incuriosivano: la forte
presenza delle chitarre nelle immagini dallo
studio di registrazione – con addirittura scene
di archetti a strofinare le corde degli strumenti – e le derive elettroniche iniziate con We
Were Exploding Anyway, continuate nel successivo eppì Heavy Sky e culminate nella poco
esaltante sonorizzazione di Silent Running.
L’opener Heat Death Infinity Splitter – ripresa
poi nella conclusiva Safe Passage – è spiazzante: il brano rievoca le sonorizzazioni più sintetiche composte da Vangelis per le numerose
colonne sonore, ha un suono massiccio e corposamente elettronico; solo con la successiva
Prism si inizia a capire dove andrà a parare il
sound dei 65daysofstatic: tolte le esplosioni e
i frenetici muri sonori a cui il gruppo ci aveva
abituati, la continuità è rappresentata solamente dall’incalzante incedere della batteria di Rob
Jones. Tastiera e chitarre si intrecciano in un
connubio di giochi di volumi e di inserimenti graduali con apice nella doppietta Taipei/
Unveil The Wild Light, dove la band piazza il
paio di melodie a presa rapida alla God Is An
Astronaut.
Accade di rado che nel panorama post-rock una
band possa stupire in positivo per un rinnovamento nel proprio percorso artistico: come con
80
Kveikur per i Sigur Rós, in Wild Light ritroviamo un gruppo che ha saputo evolversi da una
forma multisfaccettata di musica, farne sintesi e
fondere il bagaglio di esperienze accumulato nel
lavoro più solido e maturo della propria carriera.
Un disco capace di essere evocativo senza trucchi o troppo mestiere. Non è da tutti.
7/10
Andrea Forti
AaVv - Scared To Get Happy. A Story
Of Indie-Pop 1980-1989 (Cherry Red
Records,2013)
Genere: pop, indie
A ragione definita come la Nuggets dell’indiepop, Scared To Get Happy è una super-mega
compilation maniacalmente curata da John
Reed e che si ispira alla mitica fanzine di mr.
Sarah Records Matt Haynes per indagare in
maniera pressoché completa – scarse le eccezioni e spesso solo per questioni di diritti, vedi
alla voce Smiths, My Bloody Valentine, Orange
Juice e pochi altri – il fenomeno “indie-pop”.
Virgolettato d’obbligo quando si traffica con
una materia così scivolosa, dato che nei cinque
CD per 134 tracce e quasi sei ore di musica
racchiusa nell’arco temporale del sottotitolo,
ritroviamo nomi storici e illustri (semi)sconosciuti accomunati da un qualcosa che non è un
suono, quanto più una suggestione. Anzi, ad
esser precisi, una maniera di intendere la vita
oltre che la musica. I tempi d’oro delle vacche
grasse post-Nevermind con le major a buttare
le reti e tirar su contratti praticamente per tutti
– un esempio? i Melvins! – per prontamente
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
65daysofstatic - Wild Light (Hassle
Records,2013)
Stefano Pifferi
r e c e n s i o n i
Agnes Obel - Aventine (Pias,2013)
Genere: cantautori, contemporanea
Dopo il successo ottenuto con il debut Philharmonics quasi tre anni fa, sia nella natia Danimarca che poi in Europa, si aspettava la prova
del difficile secondo album per Agnes Obel, di
stanza a Berlino. Un successo, il suo, fulminante, causa anche l’utilizzo di un brano, Just So,
per alcune campagne pubblicitarie. In realtà
la Nostra è autrice di sostanza, che ha fatto del
suo songwriting delicato, tra classico e moderno, e di una buona scrittura al piano la sua
cifra.
Aventine consta quasi esclusivamente di
pezzi per piano, voce e violoncello (quest’ultimo suonato da Anne Müller, presente anche
in Philharmonics e dal vivo, già all’attivo
con Nils Frahm), violino e viola compaiono
in alcuni pezzi (The Curse, Pass Them By e
Fivefold ad opera di Mika Posen dei canadesi
Timber Timbre), così come la chitarra (Pass
Them By di Robert Kondorossi dei Budzillus)
e l’arpa scozzese (Fuel To Fire); si apre con lo
strumentale per piano Chords Left, un ideale
seguito delle atmosfere liquide del primo, per
poi proseguire in modo piuttosto cinematico, si
vedano le atmosfere sospese alla Twin Peaks di
Run Cried The Crawling. Altrove sono richiami
alla classica e alla contemporanea a fare capolino, rielaborati e fatti propri alla maniera di un
John Cale (e non a caso, nel debut, era presente la cover di Close Watch dello scozzese, che
non sfigurava affatto nel contesto). Un’esplorazione la sua – come dichiarato – sul suono degli
strumenti a corda.
Un album melodico, sospeso e intenso, che si
concretizza nella accessibilità di alcuni pezzi – come accadeva nel precedente – mentre
si dispiega totalmente negli strumentali. Una
conferma di classe e di semplicità.
7.2/10
Teresa Greco
81
o t t o b r e
liberarsene una volta capito il non-potenziale
commerciale, erano ancora distanti e, sinceramente, inimmaginabili. Questa bibbietta però
ci dice molto dell’underground che, volente o
nolente, contribuì a creare quel mostro a metà
tra mainstream e underground, il cui sperpero
insensato di denaro fu al tempo stesso la dimostrazione vivente della miopia delle major e il
primo grosso colpo all’industria discografica
istituzionalizzata, molto prima dell’mp3.
Tornando su Scared To Get Happy, nomen omen
si dirà, a scorrere la monumentale tracklist si
noteranno un paio di cose: in primis come si
alternino nomi conosciuti a emeriti sconosciuti,
band dalla vita breve e dal successo wahroliano (siamo grossomodo in Inghilterra, dove un
singolo di successo non si è mai negato a nessuno) e altre pronte a spiccare il volo verso lidi
di notorietà indubitabile (Stone Roses, Inspiral
Carpets, Prefab Sprout, Aztec Camera, Lloyd
Cole, James, JandMC, Pop Will Eat Itself ), in un
frullatone generale dall’indubbio fascino per il
neofita come per lo speleologo musicale. L’altra
cosa che balza agli occhi è come il suono “indie”
sia in realtà inesistente, per lo meno per come
lo si è poi codificato – anche in termini se non
dispregiativi, per lo meno non accondiscendenti
– nei decenni successivi. Proto brit-pop, shoegaze, dream pop, post-punk, c-86, ethereal-wave,
noise-pop, pre-grunge, twee-pop e non si sa
quante altre sigle ancora potremmo tirar fuori
per dar conto dei suoni che si snodano lungo i
cinque dischi di questa collezione, obbligatoria
per comprendere uno dei fenomeni più rilevanti
dell’underground.
Con un booklet di 56 pagine pieno zeppo di
foto, immagini, flyer e informazioni dettagliate
per ogni singola traccia, Scared To Get Happy si
candida a compilation dell’anno. Bisogna solo
decidere quale anno.
8/10
Genere: wave, dark
Basterebbe confrontare le copertine degli album principali di Chelsea
Wolfe per intuirne l’evoluzione. O per lo meno per sgranare tutti i grani
di quel rosario di sofferenza che dalle prime mosse nel pantano dell’underground “goth” virato folk più melmoso e declinato di volta in volta in
forme doomy, apocalittiche o catartiche, si è via via spostato verso una
elegante forma di rock virato noir.
Se all’epoca degli esordi era facile comprendere la nostra nel calderone
witch- o addirittura moan-wave – complice anche un immaginario piuttosto decrittabile – o incastrarla con difficoltà all’altezza della dislessica accoppiata Apokalypsis/
Unknown Rooms, ora la faccenda si fa più lineare ma, al tempo stesso, più complessa. Dalle prime
criptiche prove – l’occhio che non vede in Apokalypsis, le figure femminili travisate di The Grime
And The Glow e Unknown Rooms – a questa prova matura, effigiata da una Chelsea elegantemente luciferina, l’ammorbidimento, o meglio, l’allontanamento dal pantano di cui sopra è palese. Le
atmosfere plumbee sono più rarefatte, i contorni più delineati e nitidi, la produzione molto più
curata e le canzoni dosate ed equilibrate, senza mai lasciare elementi fuori posto o eccedere in
solipsismi fini a se stessi. Che sia l’ambientazione notturna e gloomy sorretta da beat incalzanti di
Feral Love, i rimandi ad una sorta di incrocio tra una PJ Harvey mefitica e una Bozulich visionaria ed epica (Kings), il romanticismo ferino di The Waves Have Come - tra archi e sospiri heavenly
– o quello cranesiano di House Of Metal, le controparti in nero di Ancestors, The Ancients, c’è su
tutto un senso di austera eleganza e decadente poesia che ne denota la ormai raggiunta maturità.
Alla ragazza, però, piace mischiare le carte e, pur mantenendo il collante gloomy e nero, nella eterogeneità di fondo dell’album alterna alcuni momenti tipicamente da pop-(cold)-wave 80s come
in The Warden (primo singolo scelto dall’album) – ennesima, emergente stella del mattino nell’universo della Wolfe –, riprese di zuccherose melodie 60s che tante altre coetanee stanno rivalutando – solo trattate con una colata di nero pece (Destruction Makes The World Burn Brighter) – e
dosi di cinematiche attrazioni noir (Sick e Reins, con quest’ultima oscura e ossessiva) che forse
suggeriscono future evoluzioni.
Pain Is Beauty è il disco in assoluto più riuscito della Wolfe, libero da schematismi di genere e dotato di una scrittura, anche a livello testuale, “popular” nel senso di attrattive e potenzialità “commerciali”. Certo, c’è di fondo una sensazione di eccessiva pulizia e “patinatura” del tutto, specie
in sede di produzione, ma di sicuro gli orfani della Zola Jesus di mezzo – per fare un nome affine
– troveranno riparo tra le cortine scure e le cappe fumose di questo disco.
7.4/10
Stefano Pifferi
82
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Chelsea Wolfe - Pain Is Beauty (Sargent House,2013)
Genere: elettroacustica
Uno split che vale e significa molto più di una
semplice condivisione delle due facce del
vinile. In primis, perché mette il nostro Boccardi sul piano di un mostro sacro del calibro di
Lawrence English; in secundis, perché dimostra se ancora ce ne fosse bisogno lo spessore
della scena ambient/elettronica/elettroacustica
italiana; infine, perché non di semplice split si
tratta, quanto di lavoro d’insieme (e nello stesso tempo, individuale).
Tutto nasce dalle fonti sonore curate da Boccardi per il progetto, ambizioso anzichenò, San
Lupo, che il nostro curò l’anno scorso in combutta con altri “nuovi elettronici” come Nicola
Ratti e Attilio Novellino: l’elettronica dei tre
ad interagire col violoncello di Matteo Bennici
e col coro Antonio LaMotta diretto da Davide
Mainetti per un set dall’indubbia valenza suggestiva oltre che di possibilità di nuovi affondi
sul fronte dell’interazione digitale e non.
Il lavoro in questione vive proprio della rielaborazione o degli echi di quella esperienza. Per
Boccardi, manifestandosi in una lunga traccia
(Drops, Salt, Ask Me Next Life) in cui l’interazione tra elementi acustici – voci, basso, sax,
ecc. – ed elettronici – synth, effettistica varia,
ecc. – produce una suite in tre sezioni (che definiremmo moviementi) dal fortissimo sapore
visivo/visionario e in cui riecheggia la perizia
e l’equilibrio tra le diverse fonti in gioco. Spesso giocati sul crescendo, gli elementi “altri”
rispetto alla tradizione di genere sono posti su
un piano di diversa calibratura che rende il tutto, e nello stesso tempo, riconoscibile ed alieno:
la parte centrale è memorabile in questo senso,
tra l’astrazione del coro e le abrasioni elettroniche. Sul lato opposto, il redivivo Lawrence English lavora sul materiale inviatogli da Boccardi
per elaborare una traccia in quattro parti (The
Rocks That Tear The Ocean) che è una versione
altrettanto “fusa” degli elementi in gioco, ma
virata più su ambientazioni estatiche e rarefatte in cui il peso del coro viene via via diluito
verso ambient sognante e insieme oscura. La
risultante è un lavoro di grande spessore che
ribadisce la bontà della “scena” italiana, l’accuratezza della ricerca sonora di Boccardi e la
lungimiranza della Fratto9.
7.2/10
Stefano Pifferi
Anna Calvi - One Breath (Domino,2013)
Genere: rock
C’era molta attesa per il secondo album di
Anna Calvi, prodotto da John Congleton,
scritto nel corso di un anno e registrato in poche settimane tra la Francia e Dallas. L’artista
inglese di origini italiane, con l’omonimo debut
del 2011 prodotto da Rob Ellis, aveva ricevuto
una nomination per il Mercury Prize 2011 e per
i Brit Awards 2012, riuscendo a mescolare con
irruenza PJ Harvey, l’impeto punk di Siouxsie e
languori sparsi wave e post wave (dagli Smiths
a Jeff Buckley, passando per Edith Piaf ).
Per fortuna la Calvi non ama ripetersi e consegna con One Breath un album abbastanza
diverso dal precedente, nel quale l’aggressività
è stata in parte sostituita dalla riflessività, mediata da recenti esperienze che le sono capitate. L’attitudine resta inalterata, quel che cambia
è il suo approccio musicale, più soft con la voce
per esempio, usata anche come uno strumento
espressivo, e con un maggiore ventaglio sonoro,
si veda l’uso delle tastiere (c’è John Baggott dei
Portishead, consigliatole da Brian Eno) e delle
chitarre, non più spalmate ma adoperate soprattutto come climax emotivo.
L’album irrompe con fragore (Suddenly, un
pezzo che avrebbe potuto essere nel precedente disco), continua sulla falsariga con il primo
singolo Eliza - tumultuosa cavalcata rock (su
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Lawrence English - Split 12 (Fratto9
Under The Sky,2013)
83
o t t o b r e
Teresa Greco
Àsgeir - In The Silence (One Little
Indian,2013)
Genere: pop, cantautori, art, indie, folk
É il Bon Iver dei ghiacci, il Nick Drake delle
aurore boreali. Vera e propria pop star nella
sua Islanda, ma ancora sconosciuto al resto del
mondo, il ventunenne chitarrista e cantautore
Àsgeir ha ben pensato di riadattare in lingua
inglese il disco di platino Dyrd í Dauðathogn
del 2012, record assoluto per il debutto di un
artista locale, già nello stereo di un islandese su
dieci.
84
In The Silence (questo il titolo della versione
worldwide) vanta la collaborazione di John
Grant (co-protagonista, per altro, nel video
del singolo King and Cross), che ne ha curato
la traduzione dei testi, offrendo al ragazzo una
sponsorizzazione non da poco; e sebbene non
compaia in alcuna nota, sembrerebbe di sentire lo zampino di Mr. Grant anche nella produzione, nell’equilibrio tra brezza folk, sottili
modernità elettroniche e pensiero sinfonicooccidentale. Già, perché rispetto alla prima
edizione, questa release porta arrangiamenti
più ricchi e sonorità più sontuose, in taluni casi
piene di un’energia tutta nuova (Torrent), con
la chitarra acustica a fungere da fulcro, talvolta su tappeti ritmici elettronici (Higher, Head
In the Snow), talvolta con la sola voce o quasi
(Was There Nothing?), più spesso alternando
strofe intimiste e ariose aperture (In Harmony), in un continuo contendersi tra autorialità
folk e art-pop.
La voce perennemente in falsetto, malinconica, sommessa e costantemente armonizzata,
ricorda in maniera inequivocabile il già citato
Justin Vernon, ma la qualità delle canzoni
non da adito a futili accuse di plagio stilistico,
lasciandosi anzi apprezzare per la sensazione
di grazia e leggerezza, per le melodie ispirate
e per una certa familiarità che si rivela certamente utile a prendere l’ascoltatore per mano
fin dal primo ascolto.
Nell’esportare questo ennesimo successo
annunciato, la terra del ghiaccio si conferma
fucina di talenti, quasi sempre giovanissimi,
dettando le regole di un stile che da tempo
possiamo definire nordico, capace di rinnovarsi
continuamente nel contrasto tra armonie azzurrine e una sensibilità musicale che di freddo
ha invece ben poco.
7.1/10
Antonio Laudazi
r e c e n s i o n i
“una donna forte che ricorda la persona che
ero e che vorrei che ritornasse“) – ma decelera
via via (passando per la wave piena di distorsioni di Love Of My Life) per culminare in Sing
To Me, nell’omaggio a uno dei suoi idoli, Maria Callas: una ballad spettrale e ampiamente
lirica, a suo modo anche anni Settanta nelle
atmosfere “sinfoniche” alla Morricone e la voce
alla Goldfrapp, che nelle intenzioni paga pegno
anche al compositore John Adams, indicando
uno dei futuri musicali possibili per la Calvi. La
title track procede nella stessa linea di grandeur, per finire con la delicata e eterea The
Bridge e così chiudere il cerchio.
One Breath, nelle parole dell’autrice, rappresenta un turning point, “il momento in cui tutto
sta per cambiare e ci si sente sospesi sull’orlo
di qualcosa“, come canta nella title track, “la
sensazione di stare per aprirsi che terrorizza
ma dà anche forza perché si avverte la speranza“. Quindi la voglia di uscirne che si fa strada
su tutto: la personalità della Nostra, ancora
una volta, è la sua forza. Non tutto nell’album
funziona allo stesso modo, qua e là si avverte
incertezza sulla strada da prendere, ma si è
fatto un altro passo avanti verso una maggiore
personalizzazione.
7.2/10
Genere: pop, synthpop, electro
Next big thing annunciata già sul finire dello scorso anno, per una serie
di congiunzioni astrali – ed in particolare per la firma con la label che
arriva inusualmente tardi e con le vele della ribalta già spiegate – i Chvrches giungono al debutto lungo quando manca da fare soltanto il victory
lap. Non stupisce, dunque, che buona parte della tracklist di The Bones Of
What You Believe abbia natura di greatest hits, con tutti i singoloni che ci
hanno tenuto compagnia dal maggio 2012 ad oggi che vengono riproposti, eventualmente rinnovati da un nuovo missaggio.
Attenzione, però, a liquidare questo disco come la classica giocata facile per capitalizzare tutto il
capitalizzabile con il minimo dello sforzo. È senz’altro vero, infatti, che la struttura dei brani presenta una marcata ricorsività attorno al classico schema strofa-ritornello-strofa-chorus-ritornello
e che più volte si indugia sul gioco al contrasto tra la voce bubblegum, acuta e fanciullesca (indiepop!) di Lauren Mayberry, testi che la dipingono in pose vendicativo-sanguinarie ed il sostegno
strumentale, fatto di raffiche di synth sci-fi e ritmiche heavy step, a chiudere un immaginario che
al cinema starebbe nel Sucker Punch di Zack Snyder. Ma è allo stesso modo innegabile che la reiterazione della formula vincente, combinata ad un evidente sforzo in selezione volto a mantenere il
più alta possibile la qualità della proposta, finisce per accodare alle killer track già note altrettante
killer track, per un raccolta priva di riempitivi e, per giunta, stratosfericamente prodotta (dalla
combo Iain Cook-Rich Costey, già al lavoro con i Nine Inch Nails).
I tre scozzesi, poi, oltre a ribadire la bontà del loro elettropop – che, in definitiva, fa la cresta a
quello dei Purity Ring, sostituendo l’iper-melodicità a tutto ciò che nei canadesi rimandava al
goth –, dimostrano – lo avevano già fatto nel Recover EP – di essere i migliori sulla piazza nel coniugare Chromatics ed M83 senza risultare surrogati né degli uni, né dell’altro (Tether), di saper
rivitalizzare i traballanti Passion Pit (By The Throat) e che l’arduo compito di aprire i concerti dei
Depeche Mode è stato loro affidato per una ragione ben precisa (Science/Visions). Sottolineare
i leggeri cali di tensione che si verificano quando Martin Doherty si avvicenda al microfono e
va ad omologarsi dove sarebbe meglio non omologarsi mai (leggi: i Coldplay, in You Caught The
Light), significa stare a cercare il pelo nell’uovo.
Godiamoceli senza mezzi termini questi Chvrches, finché durano, ovvero finché le canzoni non si
rovineranno per i troppi ascolti. È il loro anno.
7.5/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Chvrches - The Bones Of What You Believe (Glassnote Records,2013)
Massimo Rancati
85
Genere: ambient, techno, elettronica, idm
Donato ‘Dozzy’ Scaramuzzi è una metà dei Voices From The Lake.
Insieme a Giuseppe Tillieci ha raggiunto nel 2012 la notorietà ed il giusto
riconoscimento internazionale per un eccellente lavoro che assemblava
ambient e techno con gusto e savoir faire da maestri. Il nuovo disco nasce
come rivisitazione di Vaporware, un pezzo di Chris Madak aka Bee Mask
(musicista cresciuto nella scena sperimentale di Cleveland e ora residente a Philadelphia) pubblicato lo scorso anno come singolo su Room40, la
label del compositore australiano Lawrence English.
Dozzy e Madak si incontrano al Labyrinth Festival nipponico, uno degli eventi mondiali per gli appassionati di elettronica di frontiera, psichedelica e goa-ambient. Dopo uno scambio fruttuoso di
idee, il romano decide di rendere omaggio all’amico con un ampliamento del singolo. I punti di vista sul pezzo sono in totale sette e ognuno prende spunto da una particolare sonorità dell’originale
– che viaggiava su coordinate ambient giocattolo – tagliando con loop minimal e field recordings.
Fin qui nulla di strano. Sembrerebbe la solita operazione per addetti ai lavori. Invece quando gusti
l’ambient che ti rimette in pace col mondo, le sonorità ispirate che non sentivi dai Settanta dei
Tangerine Dream con quel tocco che coniugava sperimentazione, prog, elettronica e loopismo
spinto, basilare per tutto quello che sarebbe stata la techno (Vaporware 07), quando ti tuffi in
teorie acquatiche e piogge idratanti (Vaporware 01) o in vocalizzi minimal-angelici à la The Field
(Vaporware 03), in ritmiche naive-pop (Vaporware 04), non puoi che essere contento, appagato e
in un certo qual modo tornare bambino.
Dozzy sa esattamente cosa prendere dall’originale, costruisce loop che non stancano, perché
proprio nel momento in cui sembrano essere arrivati alla ripetitività, scattano con la variazione
propositiva. Il suo mondo è la colonna sonora di un’aurora boreale che spazza via gli hangover
post-club e ci rinfranca, ci fa capire che i Selected Ambient Works di Aphex Twin non sono poi
così distanti. Si viaggia su una qualità altissima, che sorprende. Uno dei migliori dischi dell’anno.
8/10
Marco Braggion
Belle And Sebastian - The Third Eye
Centre (Rough Trade,2013)
Genere: pop, indie
Uno degli elementi fondanti della quasi ventennale (!) epopea dei Belle And Sebastian è lo
speciale, strettissimo rapporto con i fan, ieri
come oggi. In questo senso, a dispetto degli
inevitabili cambi stilistici, estetici e di formazione che hanno costellato l’avventura di Stuart
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Murdoch and co., dagli esordi ad oggi nulla è
cambiato. Il pubblico cui continuano a guardare è quello dei singoli, degli EP, di tutte quelle
uscite collaterali al full length dove spesso,
invero, si annidano le perle da custodire più
gelosamente; un’estetica da inguaribili romantici, la stessa del caro vecchio pop dei Sixties,
di Morrissey e dell’indie anni ’80. Roba da
collezionisti e completisti, da adepti di un culto
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Donato Dozzy - Plays Bee Mask (Mego,2013)
r e c e n s i o n i
goffi, a volte stucchevoli, ma sempre adorabili,
su.
7/10
Antonio Pancamo Puglia
Body/Head - Coming Apart
(Matador,2013)
Genere: rock
Rispetto a Lee Ranaldo e all’ex marito Thurston Moore, Kim Gordon è l’ultima degli ex
Sonic Youth a pubblicare un disco dopo la fine
della band. Confrontando Between the Times
and the Tides di Ranaldo, il debutto dei Chelsea Light Moving e quello dei Body/Head, è
evidente che Lee Ranaldo ha prodotto la migliore raccolta di canzoni (da cui emerge tutto
il suo amore per il folk-rock e la psichedelia
degli anni ’60), che il progetto di Moore è più
quadrato ma anche più prevedibile e che infine
è Kim Gordon a essersi spinta più lontano.
Kim, considerata in genere la meno “musicista” del terzetto, è l’unica ad aver rinnovato in
proprio la vena sperimentale dei Sonic Youth.
Il frutto discografico del suo sodalizio con Bill
Nash – sotto la sigla Body/Head – è un album a
cui si addice in senso positivo l’abusato aggettivo “sperimentale”, innervato da una tensione palpabile tra un minimo appiglio formale
lasciato dalle litanie e dai monologhi di Kim
Gordon e il flusso sonoro spezzato, decorticato e sostanzialmente free che li accompagna e
contrappunta, ma che da quelle parti vocali più
spesso si libera per seguire le proprie traiettorie.
L’iniziale Abstract suona come se l’intro di
Teenage Riot non fosse mai arrivata al riff e
si fosse invece sfrangiata e dissolta nel caos.
Se qui la metrica del canto cadenzato di Kim
fa pensare a una forma di guida vocale, non
è così in molti altri pezzi in cui la voce viene
sommersa dai rumori o manipolata in loop
(Ain’t). Senza batteria, le partiture oscillano
o t t o b r e
segretamente condiviso con pochi altri eletti.
È quindi all’audience cosiddetta “generalista”
che si rivolgono raccolte come Push Barman
To Open Old Wounds (2005, relativa al periodo
Jeepster) o questa, che mette meticolosamente
insieme tutte le canzoni pubblicate nei singoli
editi da Rough Trade dal 2003 al 2010.
E l’ascoltatore medio e (più o meno) casuale
cosa potrebbe tirare fuori da questo ascolto
più di quanto non gli abbiano già detto sui
BandS i tre LP di riferimento del periodo in
oggetto, ovvero Dear Catastrophe Waitress
(2003), The Life Pursuit (2006) e Write About
Love (2010)? Troverebbe la conferma di un
eclettismo enciclopedico, di una confidenza
– a volte sin troppo sfacciata, ai limiti dell’improbabilità – con pressoché tutto lo scibile
pop: dalla bossanova (Love On The March)
al power pop (Suicide Girl), dal country (I
Believe In Travellin’ Light) al reggae (The
Eighth Station Of The Cross Kebab House), dal
synthpop (la rilettura di I Didn’t See It Coming
fatta da Richard X) al folk alla Simon and
Garfunkel (Stop, Look And Listen), dal night
club (Long Black Scarf) all’afro alla Graceland
(il remix degli Avalanches di I’m A Cuckoo),
dal twang (Passion Fruit) alla ballad anni ’50
(Meat And Potatoes)… fino alla summa di questo percorso, il già singolo Your Cover’s Blown
(qui presentato in un inedito Miaoux Miaoux Remix), coi suoi cambi di tempo, genere
e atmosfera volutamente carichi e forzati.
L’orecchio ne ha da goderne (specie nei momenti in cui l’ispirazione sovrasta la ricerca
formale, come il sax irresistibile su tappeto di
synth in Heaven In The Afternoon), e nondimeno si sorride spesso, perché in fondo questi
ex-ragazzi scozzesi sono sempre rimasti loro.
Immaginatevi un nerd in smoking catapultato
a una festa di gala in mezzo alle star di Hollywood: l’effetto dei Belle And Sebastian “seconda maniera” è più o meno quello. Un po’
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o t t o b r e
Tommaso Iannini
Braids - Flourish // Perish (Arbutus
Records,2013)
Genere: dream, elettronica, experimental
“We have come so far / Don’t throw this / […] /
She’s thrown it.”
La dipartita della tastierista (e collaboratrice dai tempi del liceo) Katie Lee ha colpito i
Braids al cuore e nelle fondamenta, tanto che
in questo Flourish // Perish li ritroviamo non
solo ridotti a trio, ma anche come band “nuova” in (quasi) tutto e per tutto. Andate sono,
infatti, le tematiche passionali (ed erotiche) di
Native Speaker (2011), così come andata è la
neo-psichedelia che ce li aveva presentati come
corrispettivo degli Animal Collective con base
a Montréal. I Nostri, ora, scrivono per introspezione e si limitano ad un’artronica minimale.
Si stringono, insomma, al side-project Blue
Hawaii (dal quale restano separati praticamente soltanto per la perpetuata predilizione per i
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toni organici).
Il nuovo lavoro non può, ovviamente, avere lo
stesso impatto del predecessore nei riguardi
di una scena canadese ormai consolidata su
affini sonorità (si vedano anche, ad esempio, i
Majical Cloudz) e, per giunta, la tracklist non è
scevra di episodi impalpabili (Girl, Ebben). Eppure la perizia dei Braids musicisti, nonostante
il loro “suonar meno”, resta evidente. L’album,
nel suo essere monolitico, si muove comunque
in un range dinamico di soluzioni che vanno
dalla Björk possibilmente più sottovalutata
(quella di Vespertine, in Victoria) al “mozart
dei nostri tempi” (Aphex Twin, in Together),
passando per riletture subliminali del trip hop
di stampo Portishead (Hossak).
Raphaelle Standell-Preston, poi, gode tantissimo del maggior spazio lasciatole dalla
direzione qui intrapresa e si (ri)conferma tra le
voci più versatili e, di fatto, “uniche” del postJoanna Newsom. Calata nell’apoteosi di logiche math (assimilate nel corso della tournée a
fianco dei Battles) che caratterizzano In Kind,
risulta autenticamente imprendibile, diremmo
addirittura clamorosa, tanto da incastonare la
gemma più luminosa in repertorio dove meno
te l’aspetti, ovvero nel disco di transizione. Non
era facile. Così come non era facile compierla,
questa transizione. E presentarcela in fioritura avanzata, a rassicurarci che in casa Braids,
a dispetto di premesse ed apparenze, nulla è
davvero perito.
7/10
Massimo Rancati
Califone - Stitches (Dead Oceans,2013)
Genere: rock, avant, folk
Il difetto più grosso dei Califone fin dai loro
primi passi – cioè dalla fine dello scorso secolo – è stata una certa indeterminatezza, un
muoversi sparso e accorto tra tremori roots e
sperimentazione post, che a gioco lungo non
r e c e n s i o n i
tra il puro rumorismo (Everything Left) e una
scansione interna che fa a pensare a una forma
di progressione drammatica, se non a un rock
comunque sradicato e reso l’astrazione di se
stesso - come in Actress e Can’t Help You, dove
si possono riconoscere accordi e un’ombra di
sviluppo, o ancora in Ain’t, con l’accenno di un
ritmo elettronico. Se il riferimento più vicino
possono essere i Royal Trux di Twin Infintives
e certo post-rock (l’arpeggio di Last Mistress
potrebbe addirittura far pensare agli Slint),
i Body/Head si riallacciano comunque a una
linea nobile che va dai primissimi Pink Floyd,
ai Can, ai Throbbing Gristle e naturalmente
ai Velvet Underground, l’eco delle cui chitarre
è quasi un pedale costante. Disco ostico, non
un capolavoro, ma decisamente stimolante, in
attesa di sentirne l’annunciata “mutazione” dal
vivo.
7/10
Genere: rock, indie, dream
Abbiamo lasciato l’entità His Clancyness alle prese col proprio “journey
through the past” un anno e mezzo fa in occasione di quel Always Mist
Revisited che sembrava chiudere i conti con le fatamorgane dreamy degli A Classic Education, residui di un’avventura lasciata in sospeso per
far posto a qualcosa di diverso. Che accade oggi, dopo la firma in calce ad
un contratto per la Fat Cat Records e la missione in quel di Detroit presso
lo studio di Chris Koltay (già al lavoro con Akron Family e Liars). Il risultato è sorprendente fin dal titolo, un Vicious che rievoca senza dubbio
alcuno il pezzo cardine del glam intossicato targato Lou Reed.
Più che musicali, i collegamenti col caro vecchio ex-Velvet Underground sono atmosferici: i dodici
pezzi in scaletta filano nervosi e scuri, scossi da un lirismo febbrile e una tensione assieme feroce
e indolenzita. Come se Clancy si fosse iniettato inchiostro nelle vene per poi concedersi sogni a
cuore nero con The Idiot e Tago Mago sotto il cuscino, ferma restando la propensione alle ugge
caliginose nelle quali ben si mescolano i rimandi psych e le palpitazioni 80s. L’alternarsi di ballate
indolenti e uptempo kraut-wave sembra fatto apposta per tratteggiare una dimensione irrequieta,
dominata da un’apprensione febbrile che spesso collassa in languore agrodolce.
Tra le tracce migliori c’è una Slash The Night che plastifica residui Scott Walker con ceruleo sgomento Lower Dens, una Zenith Diamond che scalpita frenesia Wire e una Machines dal motorik
crepuscolare e struggimenti Eno, cantata con nella gola un groppo acidulo Jeffrey Lee Pierce.
Non male anche le suggestioni allampanate Teardrop Explodes di Safe Around The Edges, il
caracollare quasi Malkmus di Miss Out These Days o la breve Avenue che rincula verso radici folk
sofferte come una foschia Mark Kozelek. E’ bravo Clancy a fare in modo che questo carosello eterogeneo di influenze sembri una danza macabra che gli accade in testa, l’inverno del suo sconcerto
mentre il mondo gli impazzisce intorno e non gli resta che tenersi a galla aggrappato allo specchio
infranto delle proprie passioni/ossessioni.
In qualche strano modo, si sente che lo sente davvero oltre il velo della pantomima retronostalgica. Segnando la differenza in positivo.
7.2/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
His Clancyness - Vicious (Fat Cat,2013)
Stefano Solventi
li ha resi riconoscibili quanto invece avrebbe
meritato il loro talento. Eppure proprio questo stare in mezzo a tante cose imprecisate è
il motivo per cui oggi, giunti al settimo album,
Rutili e compagni suonano integri, intensi, persino godibili, capaci come non mai di spacciarti
complessità per leggerezza, e viceversa.
Dieci pezzi che procedono tra crepuscoli di
tenere inquietudini elettroacustiche (la diversamente wilchiana Moonbath.brainsalt.a.holy.
fool, il disincanto sornione e rapito tra miraggi
floydiani di We Are A Payphone), switchano
con paciosa disinvoltura tra fregole motoristiche (l’agrodolce Frosted Tips, la robo-psych
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Genere: pop, orchestrale_sinfonica
Arrivati al fatidico terzo album, gli islandesi Hjaltalin si trovano davanti
a una prova importante. Finora il loro percorso è stato abbastanza scorrevole, avendo ricevuto prima in patria e poi al di fuori, successo e considerazione. Un chamber pop il loro che partito in leggerezza e sensibilità
con Sleepdrunk Seasons - con una piccola orchestra sinfonica – si è poi
declinato, con il secondo lavoro Terminal, tra tentazioni soul funk, disco
e pop sixties, memore dei maestri Burt Bacharach e Lee Hazlewood.
Si aggiunga il cantato spesso a due voci, maschile e femminile, con grandi variazioni in tempi e
mood.
Enter 4, già uscito in patria a fine 2012, ha visto una gestazione difficile, a causa di problemi
mentali del leader, Hogni Egilsson, che hanno messo in serio stand by l’attività del gruppo. Questo
stato si riflette per forza di cose nel disco, che in superficie mostra una struttura composita e pop
in senso lato. Ma è in realtà album cupo e riflessivo, doloroso nei temi, che esplora spesso il confine tra malattia e salute, normalità e “anormalità”, di quel che si può fare esperienza entrando in
una quarta dimensione, che il Nostro ha provato.
I pezzi sono più lunghi, quasi mini suite tematiche, e rieccheggiano gli ultimi Efterklang e i Radiohead, con echi di Robert Wyatt e Brian Eno (la spettrale I Feel You). L’elettronica è preponderante, il mood è oscuro, fino ad arrivare dalle parti dei Portishead di Third (Myself ), ritornare
al pop del singolo Crack In A Stone, con echi del Gabriel melodico in più di un’occasione (Letter
To…), per concludere con la soffusa ballad per voce e piano Ethereal, nella quale Hogni Egilsson
tocca le corde più personali e sofferte. Un degno finale per un album mai così personale.
7.3/10
Teresa Greco
minimale di A Thin Skin of Bullfight Dust),
liberando spesso e volentieri un afflato melodico deliziosamente obliquo (una Magdalene che
ciondola dolciastra tra Gram Parsons ed Elton
John, quella Moses che stropiccia solennità
cinematica come una plausibile via di mezzo
tra M. Ward e Roger Waters).
A volte ti sembrano i cuginetti timidi dei Flaming Lips, altrove dei Neutral Milk Hotel
sonnacchiosi, oppure dei Wilco che non si
decidono a zompare fuori dal laboratorio alchemico. In ogni caso, è sempre un ascolto che
nasconde il germe della sorpresa. Tastiere, sax,
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armonica, sintetizzatori, chitarre scorticate,
slide lumacose: tutto può accadere e infatti accade, evitando con cura il clamore a vantaggio
di una terapia di vibrazioni lunghe e amniotiche (la quasi eniana Turtle eggs/an optimist),
tra vecchie carabattole e modernità (Movie
Music Kills A Kiss). Al solito, è poco probabile
che lascino un segno profondo nell’immaginario collettivo. Ma, ancora una volta, bravi.
7/10
Stefano Solventi
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Hjaltalín - Enter 4 (Goodfellas,2013)
Genere: pop, indie
A prescindere dai generi (psych-rock, synthpop
o indie pop), le band australiane più blasonate
degli ultimi anni hanno un filo conduttore: un
grande istinto melodico. Rientrano pienamente
in questa categoria i Cloud Control, vincitori
dell’Australian Music Prize 2010 per l’album di
debutto Bliss Release.
Le sonorità tanto acerbe quanto trascinanti
dei primi tempi – l’omonimo EP del 2007 e il
singolo Death Cloud del 2008, riproposto poi
super ripulito in Bliss Release - hanno con il
tempo subito un addolcimento dettato sia da
una produzione ovviamente più patinata, sia da
una direzione sonora più distesa e dilatata. Il
piacevole fluttuare dell’opera seconda Dream
Cave ha traghettato il gruppo di Alister Wright
e Heidi Lenffer nella top 10 della classifica
australiana, ennesima conferma di come – contrariamente al nostro “bel paese” impantanato
tra pensionati della canzone, talent e rapper
accecati dal riflesso dell’oro – nel nuovissimo
continente ci sia sempre spazio per giovani
band dall’appeal internazionale (Tame Impala,
Gypsy and The Cat, Atlas Genius, The Jezabels, San Cisco ecc.).
I loop, gli space-synths e l’intreccio di cori in
echo di Scream Rave introducono un disco
coeso nella sua perfezione stilistica, nonostante
le diverse sfumature caratterizzanti i singoli
brani. Moonrabbit pesca dal sixties-pop californiano, Island Living si appoggia al corposo
groove ritmico e sembra figlia di un certo modo
anni ’90 di intendere il synth-pop (oscuro e
rock-friendly), Dojo Rising è pura e contagiosa
indolenza mentre Happy Birthday si aggrappa
ad una strofa a cavallo tra spensieratezza e malinconia. Meno immediata ma indubbiamente
degna di essere citata è Promises che, come la
titletrack, è un brano d’altri tempi con un Ali-
ster Wright in grande spolvero – qui si muove
tra Evans Kati e Alex Ebert – e un bel gioco di
cori in supporto. Se le armonie a due voci della
coppia Wright+Lenffer possono spesso ricordare quelle della coppia Buckingham+Nicks
(Fleetwood Mac), i riferimenti temporali –
esclusa la furba Scar - sembrano essere comunque altri, cioè quelli di un post-modernismo
che sfrutta gli anni Sessanta, non solo per
cavalcare l’onda neo-psichedelica (la lisergica
Tombstone ad esempio), ma anche per rievocare le suggestioni meno battute di quell’epoca.
Ciò nonostante (e sebbene sia giusto apprezzare l’evoluzione di un progetto) Dream Cave
non è incisivo quanto il predecessore: le canzoni non mancano e l’eterogeneità neanche, ma
tutto sembra rimanere confinato all’interno di
un disco incapace di lasciare una traccia all’esterno, tanto che – con un po’ di cattiveria – si
potrebbe affermare che l’aspetto dell’intero
lavoro che rimane maggiormente impresso sia
l’artwork.
6.3/10
Riccardo Zagaglia
Cordepazze - L’arte della fuga
(Autoprodotto,2013)
Genere: pop, cantautori, wave
I palermitani Cordepazze sono una di quelle
band – potremmo far rientrare nella categoria
anche gli Io?Drama – che riescono a creare
una musica intrigante, pur non affidandosi a
chissà quali velleità sperimentali. Anzi, nel
caso specifico, custodendo un pop-rock con
qualche chitarra wave giusto un po’ più pungente, attraversato da un’agile attitudine cantautorale. E’ tutto qui l’universo della band, con
la voce limpida di Alfonso Moscato a ricordarci
che il “bel canto all’italiana” è lì a un passo,
senza che prenda mai il sopravvento su una
formula che evita con gusto le banalità gratuite. Un “mainindie” che funziona, innanzitut-
91
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Cloud Control - Dream Cave (Ivy
League,2013)
o t t o b r e
Fabrizio Zampighi
David Yow - Tonight You Look Like A
Spider (Joyful Noise,2013)
Genere: avant, classica
E così anche il caro David Yow ha messo su il
suo personale Metal Machine Music. No, non
siamo a quelle altezze di rumore bianco, ma
l’idea di fondo è valida lo stesso: ribaltare totalmente la prospettiva su cui si basa la propria
materia musicale. Tonight You Look Like A Spider è un disco su cui l’ex cantante di Scratch
Acid e soprattutto Jesus Lizard ha lavorato
nell’ultimo quindicennio, stando a quanto si
legge nella press. E visto che spesso parliamo
92
di “monolite” per descrivere un lavoro “peso”,
sappiate che nella edizione limitata a 50 copie
del vinile screziato grigio e nero c’è un vero
e proprio monolite scolpito da Yow stesso, a
dimostrare non si sa bene cosa. Forse la corrispondenza col contenuto del vinile, dato che
fatte salve le ovvie distinzioni, qui siamo sul
versante dell’ultimo Scott Walker. Zero noiserock, zero abrasioni vocali, zero chitarre imbizzarrite e spazio a follie strumentali d’impianto
classicheggiante-contemporaneo senza troppo
costrutto, tra sberleffi da carillon impazzito
(Roundhouse), lugubri passaggi (ehm) darkcameristici (Lawrence Of A Labia), matasse
di noise elettronico modulate in maniera un
po’ arruffona (Uncle) se non proprio fine a se
stessa (The Door), soundtrack chiesastiche
dalle velleità horror alla Goblin (Thee Itch). Anche nei pezzi “forti” dell’album Opening Suite
e Visualize This, tracce che da sole sommano a
metà dell’intero minutaggio, la sensazione è di
molta fuffa e poca sostanza, nonostante alcuni
passaggi qua e là – l’approccio teatrale e avanguardista alla ultimo Walker della prima, il droning sospeso e notturno della seconda – tentino di risollevare il tutto ammantando di un
certo velleitarismo intellettualoide una materia
invero noiosa.
Buona dose di iconoclastia, perversioni sonore
in quantità soddisfacente, scelte a volte prescindibili fanno di questo Tonight You Look
Like A Spider un divertissement totalmente
inutile. Da ricordare solo come parto folle di
uno schizzato come Yow.
5/10
Stefano Pifferi
Dent May - Warm Blanket (Paw
tracks,2013)
Genere: wave
Dal fatidico incontro con gli Animal Collective, il nerd del Mississipi, Dent May, non è più
r e c e n s i o n i
to perché chi scrive è bravo a far coincidere
profondità e semplicità in versi come “imparare a mendicare / per fare risultare margini”
(La Digos) oppure nelle amare riflessioni di
una Credi a me in cui si canta “trecento libbre
/ sono il campione del comparto alimentare /
quando cammino agli altri viene il mal di mare
/ risatine / e forse un cenno di pietà”; e poi perché musicalmente si rimane sempre su ritmi
sostenuti e ganci melodici assassini, unendo
però certe tastiere frizzanti in stile I Cani (La
rivoluzione), chitarre elettriche che non sarebbero dispiaciute ai Radiohead di Pablo Honey
(Ora Pro No), o magari un Franco Califano
aggiornato e inaspettato (l’ottima e surreale
Quello che vorrei).
C’è spazio anche per un violino nel parco strumenti del disco, per un suono che gli “intellettualodi” prestati all’indie disprezzeranno a
priori, ma che noi – e a quanto pare anche il
Premio Fabrizio De Andrè, che li ha scelti nel
2007 – promuoviamo senza troppe remore. Se
nei palinsesti delle radio commerciali ci fossero meno Negramaro e più Cordepazze, forse
vivremmo in un mondo migliore, non perdendo
nulla, tra l’altro, in termini di orecchiabilità.
6.7/10
r e c e n s i o n i
dirti che ti amo, piccola”). E, allargando il discorso, è la stessa profondità poetica, in fin dei
conti, a risentirne, venendo a creare un gap non
indifferente con le armonie superbe.
Se si sia dato alla musica per matrimoni (come
immaginava già in tempi non sospetti) o stia
concependo una carriera polimorfa e solitaria (come Divine Comedy, per dirne una) o,
ancora, si sia servito di questo radio-sound
magicamente retromaniaco per prenderci tutti
per i fondelli, non possiamo saperlo. Di certo,
le melodie contenute in Warm Blanket difficilmente si schiodano dai padiglioni auricolari
e, se proprio lo si vuole vedere come un disco
superficiale, lo si faccia rilassandosi e preparandosi a staccare la spina per un po’.
6.9/10
Nino Ciglio
Destruction Unit - Deep Trip (Sacred
Bones,2013)
Genere: psych, garagerock
Dicono che la loro è “brooding American psychedelia, modern psych, debt and war psych”
ma in realtà sono affini a soggetti sporchi e
lerci come i Fucked Up. Magari non proprio
limitrofi per sonorità o punti di partenza, ma di
sicuro come metodologia e risultati: non sono
rassicuranti, non sono accomodanti, non sono
leggeri né tantomeno carini. Sono punk fino al
midollo e iconoclasti quanto basta per metter
su un disco in cui, in maniera irriverente, si
fanno beffe dell’establishment, dei suoni curati,
delle forme levigate e di quant’altro rientri nel
manuale del giovane musicista 2.0. Riverberano tutto, distorcono ancor di più, dilatano
le forme e suonano sgraziati come se non ci
fosse un domani. E più che un deep trip quello dei cinque dall’Arizona è un bad trip in cui
tutto suona esattamente come dovrebbe suonare: tra cingolati noise, riverberi di feedback,
echi cavernosi e motorik sfrenato (Slow Death
o t t o b r e
lo stesso. Le sue avventure precedenti, quelle
licenziate con i più svariati moniker e generi,
dal power pop dei Rockwells alla dance dei
Dent Sweat, al country dei Cowboy Moloney’s Electric City, sembravano giunte a una
svolta, quando, con The Good Feeling Music
Of Dent May and His Magnificent Ukulele,
aveva trovato nel nume di Brian Wilson e nel
virtuosismo dello strumento a quattro corde
una propria dimensione. Ma, quando uno è
un personaggio (e questo certo non glielo si
può negare), lo è fino in fondo e ad attenderlo
c’era un pugno di svolte, di cui l’ultima (quella
funky-tropical-wedding dance) è racchiusa nel
suo terzo lavoro Warm Blanket.
Stando al titolo, ci saremmo aspettati una manciata di canzoni riflessive, degno sottofondo
di un inverno da passare al caminetto con un
buon libro, sotto una calda coperta. Eppure,
l’eredità che Dent si porta dietro, l’ha spinto a
non cedere alle sirene della malinconia e farsi
guidare, piuttosto, dritto tra le braccia del suo
mentore Wilson. Così facendo, Warm Blanket
si differenzia dai precedenti solo per il livello
degli arrangiamenti e delle melodie, che qui
toccano vette di altissima orecchiabilità. Si va
dalle aperture sixties in stile Motown (Born
Too Late, Corner Piece) al surf-pop alla Beach
Boys (Yazoo, It Takes A Long Time), lasciando
persino spazio alla sperimentazione vagamente catchy (Do I Cross Your Mind?) e al country
(Summer Is Gone).
Arrivato ad una massima consapevolezza dei
propri mezzi di arrangiatore, è probabile che
Dent debba ancora mettere a punto la vena
testuale del songwriting. Numerosi sono i richiami ad epoche non vissute, alla difficoltà di
accettarsi come parte di questo tempo (“Credo
che in futuro mi sentirò meglio di quanto mi sento ora” in Ready To Be Old) o inni al disfattismo
contemporaneo, filtrato in chiave sentimentale
in Born Too Late (“Sono nato troppo tardi per
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Genere: pop, soul, rnb
L’avvento di Janelle Monáe ha indubbiamente portato una ventata d’aria
fresca nel panorama R’n’B contemporaneo, a partire dalll’EP Metropolis e passando per un debutto, The ArchAndroid, che, attraverso temi
di afro-futursimo ed un tocco di sci-fi nelle narrative, ha parzialmente
ridefinito l’immaginario di ciò che si intende per art-pop in questo nuovo
decennio. Attraverso un ventaglio impressionante di soluzioni che vanno
dal funk, al soul, passando per un tocco di psichedelia e una buona dose
di hip-hop, Janelle si è posta l’obiettivo di svecchiare certi canoni che,
fino ai 00’s, hanno visto l’immagine femminile essere progressivamente
svilita e svuotata da tutti quei significati – anche sociali – che nei Sessanta erano molto più forti e
consapevoli. Un percorso che continua fedelmente con The Electric Lady e porta le parti IV e V
del lungo progetto a compimento, lasciando anche intendere che ci sarà spazio per altri capitoli.
È ancora tutto sospeso tra tradizione ed avanspettacolo, tra analogico e digitale, tra realtà e finzione, con Janelle che si lancia in varie dimensioni temporali affrontando – a testa alta – differenti stili e periodi dell’R’n’B. Un’omaggio ed un messaggio forte di empowerment, una di presa di
coscienza razziale, sociale, politica, umana, religiosa e sentimentale. Le carte messe sul tavolo dai
testi dalla Monáe sono veramente tante, ma allo stesso tempo sono giocate in maniera astuta e del
tutto immerse nella sua personalissima narrativa. Il display di feat nelle tracce iniziali parla chiaro e delinea lo stile e la forma di questo LP, dal funk di Givin ‘Em What They Love con Prince, al
soul-pop in compagnia di Erykah Badu di Q.U.E.E.N., passando per l’alt-R’n’B con il volto nuovo
Solange Knowles nella title-track e la bella, bellissima, ballad con Miguel, Primetime.
Performance vocale ricca e trasformista quella della Monáe, che sa giostrare liberamente tra un
rap di scuola Outkast e la Motown di Diana Ross, toccando parecchi alti (Victory) pur essendo
priva di quella pastosità e di quel calore prettamente black, essendo di natura ben definita e lineare. Abbracciati i pregi e le qualità tematiche e stilistiche di questo disco, ne va forse sottolineata
la lacuna, che per alcuni potrebbe essere addirittura un pregio, ovvero quell’essere upbeat senza
compromessi, come d’altronde lo era anche il precedente The ArchAndroid. Passaggi come la hit
single Dance Apocalyptic avranno forse un grande appeal radiofonico, ma rischiano di consumarsi
in fretta rasentando territori pop da un morso e via, trattamento che The Electric Lady di certo
non merita. Ben vengano allora le suite più calde e funky come It’s Code e Ghetto Woman, oppure
le atmosfere 80’s jazz di Dorothy Dandridge Eyes con Esperanza Spalding. Un ritorno graditissimo che è, sopratutto, anche una conferma di tutte quelle voci che si sono rincorse negli ultimi anni
e che vedrebbero in Janelle Monáe una degna erede delle grandi icone pop del passato. Sperando
che una volta raggiunta la piena maturità musicale, la sua vena creativa sia ancora intatta.
7.4/10
Luca Falzetti
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r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Janelle Monáe - The Electric Lady (Atlantic Records,2013)
Sounds), hardcore old e new-school, paranoia
in quantità industrial, lentezze pachidermiche
che ringiovaniscono i Melvins dell’affaire Jello
Biafra (Bumpy Road), garage-rock sfascione
(Control The Light) e un’aura di puzzolente
disagio che ce li fa apprezzare da subito. Cover
allucinogeno-psichedelica, inclusa.
Destruction Unit in realtà è tutta farina del
sacco dell’ex Reatards Ryan Rousseau; il Nostro ha all’attivo una buona manciata di album
autoprodotti e uno krautissimo di un paio di
mesi fa, Void, su Jolly Dream. Nella formazione
iniziale, parliamo di una decina abbondante di
anni fa, c’erano un paio di Lost Sounds: Alicja
Trout e Jay Reatard. Come dire, tutto torna.
7/10
Drake - Nothing Was the Same
(Republic Records,2013)
Genere: hiphop
Se Take Care ci ha insegnato qualcosa, è che nel
mercato hip-hop, lo spazio per i sentimenti è
più di quello che l’industria immaginasse. Drake non risponde totalmente alle caratteristiche
tipiche del rapper, ma prova a reinventarle – e
ne paga lo scotto con la frangia di pubblico più
hardcore e tradizionalista – muovendosi su
contorni ibridi che spaziano dall’R’nB al pop,
tra canto e rappato, con una forte propensione
al ritornello killer (Take Care con Rihanna),
ma sopratutto allontanandosi dalla classica
figura del gangsta a muso duro. Drake è un tenerone, e non fa nulla per nasconderlo.
Il disco precedente offriva non poche soddisfazioni dal punto di vista dell’intrattenimento, lavorando sodo con singoli straordinari e
vantando una compattezza stilistica invidiabile
per un sophomore. Il nuovo Nothing Was The
Same, dal canto suo, pur muovendosi in una
direzione simile, non raggiunge gli stessi livelli
di intensità e divertimento.
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Stefano Pifferi
“Just give it time, we’ll see who’s still around a
decade from now”, avverte Drake in Tuscan Leather, opening track di questo terzo LP, ostentando una sicurezza ormai necessaria nell’ambiente per poter essere presi sul serio (Yeezus,
ma anche Magna Carta). Ma, anche se non
assolutamente un rapper mediocre, Drake non
è nemmeno tecnico come Kendrick Lamar;
deve quindi tenere il piede in due scarpe e fare
il The Weeknd – senza luci rosse – di volta in
volta, senza voler rinunciare a qualche episodio testosteronico in stile Jay-Z, nel tentativo
di non sbilanciarsi troppo né da una parte né
dell’altra. Al suo meglio, Drake riesce ad essere
incalzante e confidenziale.
Le lacune di questo approccio però ci sono e
si vedono, specie quando i singoli episodi non
sono così irresistibili e le tematiche proposte
sono già state approfondite in precedenza. Nonostante Hold On, We’re Going Home – un popR’n’B in salsa M83 – sia piuttosto avvincente,
il beat del singolo Started From The Bottom è
pressoché deludente, in una traccia che, dal
flow al testo, sembra tornare sui livelli mediocri dell’esordioThank Me Later. Il tentativo di
inserire nuovi elementi nell’impasto sonoro
è indubbiamente incoraggiante, ma le involuzioni trap tentate in alcuni episodi (Worst
Behaviour, Connect, 3.05 My City) coincidono
purtroppo con i pezzi peggiori che Nothing
Was The Same sa offrire. Molto meglio quando Drake si tuffa senza remore nei beat più
soul (Too Much, con Sampha dei SBTRKT) già
sentiti ed apprezzati in Take Care, dove il Nostro non sembra affatto un pesce fuor d’acqua,
suonando anzi come l’ibrido perfetto tra rap e
soul a cui il canadese ambisce.
Ma, da contraltare, la scelta di titolare un
pezzo Wu-Tang Forever – senza che parli del
Wu-Tang – è una paraculata quasi imperdonabile, così come inopportuno è il sample di
C.R.E.A.M. in Pound Cake – con l’inascoltabile
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Genere: elettronica, beats
La base di ciò che s’è detto a proposito di Room(s) vale grossomodo anche qui: quel crocevia di uk-garagismi, chopped soulful vocal e altre creatività ritmiche anima ancora le trame dell’atteso nuovo lavoro di Travis
Stewart. La differenza sta semmai nella visione di sintesi, in una formula
più a fuoco e “pop”, come una personale risposta a Moderat II.
Dopo la zampata sulla media distanza a firma Sepalcure con Praveen
Sharma, Make You, l’altra freschezza con Jets (in combutta con Jimmy
Edgar), l’eppì su LuckyMe SXLND e quello su The Index Nastyfuckk, Machinedrum propone le
sue dinamiche in un 2013 che a livello di fermenti e possiblità, può esser paragonato al 2010, ovvero ai mesi propedeutici all’esplosione dell’ondata post-dubstep o soul-step. Del resto, Travis ha
una storia sua, un background di IDM, folktroniche e astrazioni HH che non vengono mai dimenticate, un filo rosso che dalla future garage (vedi anche quel Falty Dl – sempre accasato Ninja Tune
– che remixò la sua U Don’t Survive) porta diretti alle convergenze UK attualmente sulla piazza.
Per lui, sempre ricettivo e attento al presente, mescolare questi ingredienti è stato un gioco da ragazzi, tanto che l’obbiettivo di Vapor City - e il cambio d’etichetta già lo evidenzia – è, ancor prima
che nello studio dei ritmi, in un interesse per gli umori e gli spazi, e da lì il parallelo con l’album
dei Moderat (e in Rise N Fall il riferimento a Apparat è anche diretto, peraltro) e tanto più a fuoco,
se il lavoro è un concept sui sogni ricorrenti.
Nella nuova scaletta non troviamo più gli smalti vintage rave della Future, né la piano house; interessante notare come il caracollare ritmico della footwork sia stato confinato (SeeSea, Eyesdontlie) e come, in generale, tutti quegli aspetti laboratoriali che avevano fatto di Room(s) il fiore
all’occhiello di molta critica specializzata abbiano lasciato il posto a un nuovo livello di raffinazione, magari tornando a guardare certo LA HH e ancor di più a certi fermenti ’94. Il producer di
stanza a New York punta a dinamiche che ricordano da vicino le produzioni jungliste, quelle che
allora condussero alle gabbie dorate della drum’n'bass e che, da queste parti, riavvolgono il nastro
su glo-fi e la coda elettronica della witch house. Del resto, non è un caso che la possibilità junglista
accarezzata nella precedente prova diventi qui una strategica iniezione, inforcando così un altro
trend di ritorno.
Machinedrum fa il suo e lo fa ancora di più pensandosi come un Burial americano in controluce
(Dont 1 2 Lose U, Vizion), un Holy Other a Venice Beach o uno Scuba in fregola Om Unit. Poi è
chiaro, la sua impronta non è né profonda come quella lasciata da Untrue, né in formato graffitti
come quella di un SBTRKT. Come dire: dove non arriva il Travis autore, c’è la scafatissima produzione di uno Stewart che trova la via maestra, oltre che nella citata Eyesdontlie, negli scambi tra
2 step e jungle di Gunshotta o in quelli con la dark HH di Eyesdontlie, nel retrogusto Boards Of
Canada circa 2000 di Center Your Love o nell’omaggio synth-nostalgico 80s à la Washed Out di U
Still Lie.
7.3/10
Edoardo Bridda
96
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Machinedrum - Vapor City (Ninja Tune,2013)
feat di Jay-Z –, come se i riferimenti old-school
andassero a validare lo status di Drake o aggiungessero spessore al suo personaggio. Al
contrario, lo portano più lontano dalla sua forma migliore. Se solo si decidesse ad abbracciare
una volta per tutte la sua figura di orsacchiotto
R’n’B , potremmo metterci una pietra sopra e
non decretare questo terzo LP un’esperienza a
tratti poco gratificante.
5.8/10
Luca Falzetti
Genere: pop, cantautori
Da una decina d’anni, ogni volta in cui sir
Elton John pubblica un nuovo album, si parla
di “ritorno ai bei tempi di Madman Across
The Water, Goodbye Yellow Brick Road e
Captain Fantastic“. Se da una parte è positivo
leggere tanti elogi a una delle più grandi star
del pop anglosassone del Novecento, il discorso
sottintende che, quindi, fino al 2002 l’artista
abbia inciso dischi insignificanti o brutti, e
che oggi ci sia la stessa ispirazione di quando
il nostro scalava le classifica con i suoi capolavori dei “classic years”: una doppia bugia, visto
che dopo un decennio problematico (gli anni
Ottanta, specialmente per via di scivoloni come
Ice On Fire e Leather Jackets) la sua carriera
si è risollevata con album più che dignitosi,
magari in parte penalizzati da una produzione troppo “leccata” (The One) o da un eccesso
di ballad (The Big Picture), e visto che per sua
stessa ammissione Bernie Taupin, il vecchio
sodale, l’amico fraterno e il compagno di scorribande in più di quattro intensi e travagliati
decenni, considera ormai comporre i testi un
semplice hobby.
Detto questo, si deve riconoscere che a sessantott’anni Reginald Kenneth Dwight non
ha perso l’ispirazione né la voglia di proporre
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Elton John - The Diving Board
(Capitol,2013)
buona musica, arrangiata con gusto e, stavolta,
spogliata di qualche orpello di troppo. Merito
del produttore T-Bone Burnett, nome storicamente legato a dischi di Elvis Costello, Roy
Orbison, John Mellencamp ma anche Tony
Bennett e Diana Krall (e lavorò già con Elton John e Leon Russell per The Union), che
ha messo saggiamente il pianoforte in primo
piano. The Diving Board è un “back to basics”
più di quanto lo fosse il già ottimo Songs From
The West Coast un decennio fa, seppure con
un cast di musicisti rinnovato, giovane ma con
una solidissima gavetta alle spalle (il chitarrista Doyle Bramhall II, già con Eric Clapton e
Roger Waters, il tastierista Keefus Ciancia e il
bassista Raphael Saadiq, un tempo nei Tony!
Toni! Toné!). La voce di Elton John non è più la
stessa, la sua estensione si era ridotta già dopo
i polipi alle corde vocali nel lontano ’86 e oggi
è ancora più sofferta, roca, ma sempre ricca di
pathos.
Le dodici nuove canzoni (ci sono anche tre
onirici intermezzi strumentali di ispirazione
classica e jazzistica) sono spesso legate, più o
meno direttamente, con le vite di Reg e Bernie:
Oceans Away è un toccante tributo al padre del
paroliere, Oscar Wilde Gets Out fa pensare a
un parallelo con le vicissitudini di Elton John,
in lotta con se stesso per molti anni. C’è molta America, in The Diving Board: molto blues,
più di una punta di country, cori gospel, fiati,
persino il Tom Waits edulcorato nelle atmosfere da jazz club della title-track. C’è molto
Elton John del passato, prossimo e remoto, che
riemerge negli arpeggi e nelle linee melodiche
di più di un brano (ai fan storici Can’t Stay Alone Tonight ricorderà I Guess That’s Why They
Call It The Blues e I Never Knew Her Name,
ci sono evidenti richiami a Cry To Heaven e I
Fall Apart nella malinconica My Quicksand e
al classico Someone Saved My Life Tonight nel
primo singolo Home Again, quest’ultimo cor-
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Genere: elettronica
Grandioso non è sinonimo di ambizioso. Grandioso è l’organo con cui
chiude Boring Angel, primo brano di R Plus Seven, come un witz freudiano ma senza nessuno spirito, nel motto. Quell’organo è uno specchio
per allodole – e R Plus Seven è seriamente ambizioso, pur non essendo
grandioso. E’ un’operazione intellettuale, che sarà accolta in modo manicheo.
Breve non vuol dire meno complesso. Ce lo insegna Lopatin, stringendo
le durate – lo aveva già fatto in Replica – e riducendo le stratificazioni di R Plus Seven, ma raggiungendo un programma davvero avveniristico – asciugando la parola dalle connotazioni positive. Asciugare è il verbo, portare la musica dell’anoressia emotiva. Lapotin si asciuga ulteriormente
dell’enfasi gotica e dei tic new-age (ormai sono marionette nel teatrino), adottando semmai tecniche più vicine al minimalismo, come naturale evoluzione della rincorsa all’essenza. Fa di tutto
– non sempre ci riesce – per uscire dai propri gusti più triti e per perdere il carattere di glitcher
cosmico, pur facendo a tratti una glitch trascinante (l’inizio di Zebra, così come Up lo era in Replica). Sviluppa una brevitas non tanto effettiva, quanto percepita. Scompone i brani e li rimpinza di
pause. Sembrano cut-up ma sono interruzioni, come si fosse in un’opera che ci descrive (Along),
dando il minimo tempo indispensabile per riflettere. Pause fumanti, di vapore.
Questa vaporwave è il fumo degli uomini grigi di Momo: non è la reale protagonista di una pianificazione, come per James Ferraro in Far Side Virtual, anzi una risultante di un mondo oltre il reale.
Come dicemmo per i Blues Control, questa è in qualche modo una AOR del duemila, ma mancano gli adulti che sappiano affrontarla. Nella vaporwave cogliamo proprio la capacità di un gruppo
più o meno coeso di autori di musica di immaginare e realizzare uno Zeitgeist alternativo a quello
oggi presente, certo non molto piacevole da accettare, ma più realista del re muzak-ista. Non c’è
bisogno di essere Debord per capire che noi siamo quelle persone lì.
La questione è anche compositiva, dal momento che ci sembra sempre incredibile che gli autori
di musica continuino da sessant’anni a scrivere le canzoni nello stesso modo. L’uomo del presente
vive nel passato, il futuro promesso e mai arrivato che ci eravamo proposti è rimasto allo stato di
progetto. Oneohtrix Point Never propone altre forme narrative nella forma canzone. È strano constatare che questo è disumano, perché è umano sempre e solo quello che riconosciamo.
Ecco la vera impresa di R Plus Seven: costruire un mondo poco riconoscibile. Un mondo “incompossibile” con il nostro. Di certo ci sono gli esseri umani, o post-umani, di certo ci sono forme
animali e vegetali. Ci sono dialoghi (He She) incomprensibili (e ce li fa sentire dentro un brano
intitolato Inside World). Impossibile da posizionare: è un paradiso o un inferno. Ma chissà dove (e
quando) si trova quel mondo.
7.6/10
Gaspare Caliri
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r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Oneohtrix Point Never - R Plus Seven (Warp Records,2013)
Alessandro Liccardo
Elvis Costello - Wise Up Ghost And
Other Songs (Blue Note,2013)
Genere: cantautori, soul, hiphop
Era molto atteso il risultato della collaborazione tra The Roots e il songwriter inglese, nata da
un incontro nello show Late Night with Jimmy Fallon, in cui la band è di casa. L’incontro
sarebbe dovuto servire per realizzare un singolo per il Record Store Day e si è trasformato
invece in un full length. Tanta stima ed entusiasmo da parte di entrambi hanno portato a
Wise Up Ghost and Other Songs: un riuscito
esperimento nel quale non si tratta più di Elvis
Costello né degli americani, ma di un particolare connubio nel quale la base hip hop diventa
soul magmatico e programmatico, con la voce
r e c e n s i o n i
riottosa del veterano e ineffabile MacManus.
Per la verità c’è da dire che trattasi forse più di
un’opera costelliana che viceversa, nel senso
che Questlove e soci, insieme al loro ingegnere
del suono Steven Mandel si sono letteralmente
messi al suo servizio: ecco che alcuni dei nuovi
pezzi sono in realtà un mash-up di vecchi testi
di Costello, si veda l’antesignano hip hop di
Pills And Soap che troviamo nella furiosa Stick
Out Your Tongue, così come succede in Wake
Me Up con Bedlam e The River In Reverse, in
un gioco stratificato di rimandi e citazioni.
Soul, funky, ballad (Tripwire, Viceroy’s Row),
atmosfere scure roventi e battagliere e in
chiusura un classico accorato songwriting (If I
Could Believe): gli elementi per una rivitalizzazione reciproca ci sono proprio tutti e ben distribuiti. Un piacere per le orecchie, un mix di
sensibilità musicale, lirica e critica. Un album
molto denso.
7.2/10
Teresa Greco
o t t o b r e
redato da un video azzeccatissimo); c’è persino
qualche giocosa citazione di opere altrui, dal
Piazzolla dell’introduzione di The Ballad Of
Blind Tom al Grieg di Peer Gynt.
The Diving Board è un disco che scorre fluido,
con momenti d’eccellenza, senza inventare
nulla di nuovo. Disponibile in varie configurazioni, con un discreto numero di tracce aggiunte a seconda dei territori e delle catene che
forniscono edizioni esclusive, è ben registrato
(si sente il fruscio del nastro, coerente alla
natura vintage del progetto, e non si avverte
alcuna distorsione) ma si poteva fare qualcosa
di meglio con il suono delle percussioni, spesso
stranamente impastato. Stride il trattamento
con l’auto-tune della voce di Elton John in un
contesto prevalentemente acustico e così piacevolmente “naturale”, e i testi di Bernie Taupin tendono spesso alla verbosità. Non saranno
poche piccole pecche, tuttavia, a far scendere
il re dal trono: The Diving Board è un ritorno a
casa e, al tempo stesso, l’Elton John che non ti
aspetti. He’s still standing, senza dubbio.
7.1/10
Emiliana Torrini - Tookah (Rough
Trade,2013)
Genere: pop, electro, folk
Sono passati cinque anni dall’ultimo album in
studio di Emiliana Torrini, Me And Armini,
un disco che lei stessa aveva definito “di transizione”. Oggi la ritroviamo con Tookah, un
lavoro che la ripresenta sicuramente cambiata,
ma anche irrimediabilmente cresciuta. Più che
nelle prove precedenti, infatti, stavolta la musicista islandese ha deciso di mettere al centro
della propria musica se stessa e la sua vita, già
a partire dal titolo dell’album: “tookah” vuole
esprimere nientemeno che l’essenza della cantante, qualcosa che “ti connette con tutto e con
tutti“, e il motivo di tale scelta è da ricercarsi
nella nascita del primo figlio. Un evento che ha
spinto la Torrini a raccontarsi in modo nuovo,
con la precisa volontà di mostrare una maturità
99
o t t o b r e
Giulia Antelli
100
Empire Of The Sun - Ice on the Dune
(Astralwerks,2013)
Genere: synthpop
Recensione un po’ tardiva, sì, per il secondo
album del duo australiano, alla ribalta grazie
al singolo Alive, uno dei tormentoni di questa
estate oramai in via di conclusione.
Ebbene, questo “arrivare dopo” rispetto alla
data di pubblicazione ci consente di leggere e
insieme rileggere a freddo Ice On The Dune, tenendo anche conto di come ha saputo spendersi nel tempo, del suo decorso sulla media-lunga
distanza, cercando di fare un piccolo bilancio
di uno dei fenomeni pop più chiacchierati e
controversi della stagione in corso.
Già, perché molta stampa sembra non aver gradito l’ultima fatica di Luke Steele (lo ricordiamo, già negli Sleepy Jackson) e Nick Littlemore, denunciando poca sostanza su una formula
già ampiamente esplorata. Ma d’altro canto
non si può negare che il successo di pubblico di
Alive, forte di innumerevoli passaggi radiofonici e onnipresente nelle playlist da beach-party,
rappresenti un indicatore di cui tener conto.
Rispetto al lavoro precedente, Walking On A
Dream, del 2008, l’audience certamente si è
spostato da un popolo distrattamente indie ad
un più generico mainstream: quello, per intendersi, che conosce il ritornello ma non il nome
del gruppo, né tantomeno i suoi trascorsi.
Entrando nello specifico, ciò che ci si para
davanti è un sapiente collage di chincaglieria
synth-pop tra MGMT (precisiamolo: di molto
superiori) e Nicky and The Dove (in comune con questi anche l’apparato iconografico
fantasy), con un occhio agli ottanta e un piede
sempre in pista.
Ma l’anima eccessiva, plastificata e futuristicobarocca con elementi tribal-ambientalisti è
mostrata con grande disinvoltura e proprietà di
linguaggio; un blockbuster che non cerca mediazioni per sembrare autoriale, ma anzi palesa
r e c e n s i o n i
diversa non solo a livello personale ma anche
musicale, quasi a voler suggerire la presenza di
un concept.
Ottime intenzioni che però si perdono nella
direzione che prende il disco, quest’ultimo,
come i precedenti, orientato verso una formula
electro/folk in cui è protagonista la voce. Dunque, già a partire dai languori dance-pop di una
title-track che ricorda molto da vicino un’altra
regina del genere, Kylie Minogue, Tookah
mostra subito la propria anima, ovvero una
serie di brani in bilico tra spirito disco e dolcezza acustica: è il caso di Caterpillar, uno degli
episodi più riusciti, che sintetizza al meglio
questo paradigma, come anche l’essenzialità
di Autumn Sun ed Elisabet, in tutto e per tutto
debitrice verso l’emotività del songwriter per
eccellenza, Nick Drake. La seconda parte del
disco prosegue invece sui binari dell’elettronica, come ad esempio in Speed Of The Dark,
scelta non a caso come singolo di lancio, con
tastiere in salsa eighties e stratificazioni vocali
che si susseguono lungo la melodia catchy del
brano. La stessa ipnosi electro che ritroviamo
nella When Fever Breaks che chiude il disco e
che per molti versi tira le somme sulla riuscita
complessiva di Tookah: mancano molta della
sostanza emotiva di Fisherman’s Woman, così
come vere e proprie vette d’ispirazione, in favore di brani più orientati all’orecchiabilità melodica. Atmosfere che, forse, si discostano molto
dallo spirito con cui Emiliana ha registrato
l’album, anche se, nel complesso, Tookah può
essere senza dubbio considerato come il degno
ritorno di una personalità di tutto rispetto nel
panorama del female-pop contemporaneo.
7.2/10
Genere: cantautori, rock
Dal rebetico al robotico, verrebbe da scrivere innanzitutto di questo lavoro dei Santo Niente – il quarto in quasi venti anni- per sottolineare quanto la band rappresenti una prosecuzione del percorso del suo leader con
altri mezzi. Non ce ne vorranno i tre compagni di viaggio (nel frattempo
tutti cambiati), ma sosteniamo con convinzione che la band altro non
sia che la proiezione rock della peraltro mutevole attitudine musicale di
Umberto Palazzo. Il quale dai tempi de Il fiore dell’agave – otto anni
fa – ha esercitato intensamente l’attività di DJ, si è concesso scorribande desertiche come El Santo Nada, si è aggirato nello spleen balcanico in solitario con Canzoni
della notte e della controra.
Un’attitudine a scavalcare gli steccati che oggi piega la barra del Santo Niente verso un rock ibridato di elettronica, minaccioso e beffardo, allusivo e cupo, sensuale e cinico, sorretto soprattutto
da una forte convinzione nei propri mezzi e possibilità, che lo porta ad eleggersi cronista autorevole ancorché scomodo e per nulla retorico della frana socioculturale in atto. Tipo quando in
Maria Callas – non un omaggio alla divina soprano ma lo struggente dramma di un travestito –
azzecca la giusta misura tra asprezza e compassione, disimpegnandosi in una bella mistura di ugge
folk-psych, languori french e palpitazioni sintetiche. O come quando nella incalzante Le ragazze
italiane ti racconta il collasso dell’innocenza senza salire su nessun pulpito, pura a-moralità in
sella ad un riff ossessivo e svalvolate acide (notevole il sax elettrico di Sergio Pomante) da nipotini disincantati di zio Iggy Pop. E’ questo l’unico pezzo che Palazzo interpreta cantando, altrove
difatti predilige un reading che rimanda ai trascorsi Massimo Volume (band di cui – vale la pena
ricordare – è stato tra i fondatori) sfiorando altresì il mood di certi quadretti paradigmatici Offlaga Disco Pax.
Soltanto sei le tracce in programma che comunque assicurano i canonici quaranta minuti di durata, cui contribuisce soprattutto Primo sangue, cavalcata che si avvia asciutta e basale prima di
inforcare una pulsazione androide squarciata da strepiti radenti, pennellate noise e una sconcertante digressione balcanica, più o meno la raffigurazione sonora del racconto di ordinaria scelleratezza ivi narrato. Questi forse i momenti più preziosi, senza nulla togliere all’iniziale Cristo nel
cemento che è invettiva ingrugnita dal piglio hardcore-blues narcotizzato (rivolta senza tanti giri
di parole all’America che divora vite, speranze, cultura), alla sordida Un certo tipo di problema col
suo riesumare soluzioni anni Novanta tra uno sfarfallare di pentatoniche e sfrigolii asprigni come
certe ballate acide CSI, mentre Sabato Simon Rodia chiude la scaletta (e i conti col moloch statunitense) sciorinando una insidiosa trama post, plumbea e arty (trovate sintetiche, la zufolata di
flauto…), inquietante e stranamente sorniona.
L’impressione è che il disco abbia centrato gli obiettivi prefissati con la sobrietà delle idee chiare e
una cruda, tenace ispirazione. Disco riuscito, in altre parole, perché sostenuto da una ragguardevole intelligenza di sé.
7.4/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Santo Niente - Mare Tranquillitatis (Twelve Records,2013)
Stefano Solventi
101
Genere: fieldrecordings, ambient
Questa primavera, vedendo Terry Riley all’organo nella basilica di Santa Maria dei Servi, a Bologna, ho pensato per un attimo alla chiesa di Ravedeath, 1972. Proseguendo il pensiero, qualche giorno dopo, ho riflettuto un poco sulla direzione.
Riley tornava a far giacere il raga indiano su una linea, senza pensarlo in
termini generativi. Su quella strada ho percepito l’affinità con il trittico di
In The Fog, dal capolavoro di Tim Hecker.
In Virgins accade in qualche modo viceversa. Tim Hecker pubblica uno
scientifico ma sentito tributo alle origini del minimalismo, traendone a
piene mani le capacità ascensionali e cicliche di autorigenerazione. In
quel preciso attimo in cui l’orecchio viene rapito dal gioco minimalista,
ecco le staffilate. I colpi teatrali. La consapevolezza del musicista elettronico che prevale sull’artigiano dei livelli. Virginal I funziona come un piccolo esempio-manifesto. Si regge sull’iterazione
di un piano (che sembra un cembalo) e su un clarinetto basso (sullo sfondo), che prende il sopravvento sul finale, lasciando a sua volta il posto a soffiate droniche. Nel mezzo, il caosmo elettronico.
Dall’altra parte dello specchio, Stab Variation nasce come un mixing alla Holden e si chiude con
droni che sottendono quella medesima tastiera di Virginal I.
Virgins sembra reggersi sulla tensione tra elettronica e chamber “suonata”, facendo proprio un
metodo. Il modello minimalista crea pattern timici, su cui sovraiscrivere (per esempio scelte
cosmico-wagneriane, come avrebbe fatto Klaus Schulze, in Live Room) dronici o i suddetti colpi
scena, glitchando (a volte senza grande originalità: Amps, Drugs, Harmonium) anziché glissando.
Oltretutto il “blocco” minimalista nei brani è come se fosse un tutt’uno, uno strumento unico in
una logica “cameristica” dell’elettronica di Hecker (questa non è una novità): in quel tutt’uno vale
l’impasto degli strumenti analogici, che sono come un campione trattato (preparato, se preferite),
trattati alla stregua di una traccia da missare con le altre (grazie all’aiuto di Valgeir Sigurðsson,
con l’assistenza di Randall Dunn e del solito Ben Frost).
Uscendo dal metodo, Hecker in un caso sembra Basinski (Black Refraction), nell’altro centra un
piccolo capolavoro (il monologo marziano di Stigmata II). Detta così, sembra un esercizio retorico. Ma ciò che ha dimostrato Ravedeath e che Virgins sigilla è il talento timico di Tim Hecker. Al
contrario di Lopatin – con il quale peraltro l’anno scorso ha co-firmato Instrumental Tourist,
per la Software Records – e della recentissima uscita a nome Oneohtrix (R Plus Seven, sempre
per Warp, label in eccellente stato di forma), l’operazione di Hecker non è punto intellettuale. Va
comunque alla pancia, o a quella parte del cervello che ha bisogno di un sostegno passionale.
Il cervello è nutrito dalla maestria, dal gioco su ciò che è noto ma anche sul ruolo demiurgico del
musicista elettronico. Perché, in conclusione, questa musica è definitivamente elettronica e non
elettroacustica.
7.5/10
Gaspare Caliri
102
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Tim Hecker - Virgins (Kranky,2013)
r e c e n s i o n i
fondamentale di radicamento presso il pubblico di “influencer” costituito prevalentemente
da certa stampa di settore, media on-line e
ascoltatori di prima categoria, senza l’appoggio dei quali si rischia l’effetto ”skip” prima e il
disinteresse poi.
5.8/10
Antonio Laudazi
Felpa - Abbandono (Sussidiaria,2013)
Genere: cantautori, shoegaze
Daniele Carretti non ce la fa proprio a dormire
sonni tranquilli e così, non pago del successo
ottenuto con gli Offlaga Disco Pax, ritenta la
sorte dopo aver già dimostrato con il suo progetto Magpie di saperci fare con lo shoegaze
– quello di inizio anni ’90 – e di saper tessere trame delicate e buie che si disperdono in
riverberi lontani (Milk), in echi ipnotici (Tell
Me), dentro soffocanti ambientazioni emotive (Bitter and Sad), disponendo anche di una
certa capacità reinterpretativa nel riproporre
cover (da incorniciare Keys Of Life di Klaus
Nomi per la sua amara dolcezza). Nel 2013
tocca allora all’esordio da solista con Felpa ed
il suo Abbandono. Daniele sa che lo shoegaze
è il suo terreno favorito, e prosegue in maniera
più matura e cantautorale il percorso iniziato
con i Magpie, ma questa volta in italiano. Lo
fa da solo, incidendo quasi esclusivamente di
notte.
Un ciclo vitale che nato, sta per morire, dalla
prima traccia Di Giorno (L’Inizio) all’ultima Di
Notte (La Fine). Felpa, come si evince già dal
titolo, parla di letterali abbandoni e di conseguenza punta a stimolare certi sentimenti che
sanciscono una sorta di bad-ending empatica
tra binomi. L’intreccio tra le languide chitarre
gaze di fattura tipicamente Slowdive-iana sono
un po’ il fulcro di questo Abbandono, assieme
a una voce morbida, soffusa, ma tagliente per i
suoi contenuti; entrambi gli elementi fanno sì
o t t o b r e
trucco e parrucco rivelando persino i materiali
posticci dei quali si compone (e non sono forse
casuali in questo senso alcune scelte legate
ai costumi e alle scenografie del videoclip di
Alive).
Rispetto al passato, là dove Walking On A Dream si presentava più timidamente, con il pudore giovanile di chi cerca di dosare gli ingredienti sonori in maniera equilibrata, Ice On The
Dune appare quasi volgare nel suono saturo,
immediato e sfrontato, sia esso scelta stilistica
o, più probabilmente, ricerca di un consenso
facile e diffuso.
L’introduzione dell’album ci apre un mondo a
tre lune e piramidi scintillanti (pare quasi di
veder spuntare Brendan Fraser da dietro una
duna), per sfociare nei beat rigonfi di synth e
nel buon ritornello di DNA. Alive è un pezzo
fortissimo, lo abbiamo già detto, mentre Concert Pitch già denota una certa stanchezza della
scrittura, appoggiandosi su stilemi da ultimi
The Killers che nulla aggiungono al già risentito.
La title track si lascia ascoltare con i suoi lustrini e il romanticume anni ’80, dove ogni
cosa emana riflessi di luce abbagliante; e se il
mid tempo funkeggiante di Awakening risale
su falsetti di voce, I’ll Be Around uno dei pezzi
migliori del lotto, evoca i Pet Shop Boys più
meditabondi.
Tutto il resto, ad eccezione di qualche suono
azzeccato e melodie sulla sufficienza, suona
fiacco e datato. Difficile dunque che il disco
riesca a sopravvivere a sé stesso, ed è probabile
che il forte traino di Alive (di certo sufficiente a
rimpinguare le tasche del duo) possa costituire
la base per un consenso duraturo.
Al di là del giro d’affari che, sull’onda lunga del
successo, probabilmente continuerà ad essere
consistente ancora per un po’, l’impressione
è che artisticamente la band si sia bruciata
troppo in fretta, senza aspettare quel processo
103
Genere: pop, cantautori
Per celebrare il suo ventesimo anniversario la band inglese è ritornata a
registrare – in questo caso nel leggendario Studio 2 di Abbey Road – non
un nuovo album, ma dieci versioni di pezzi che voleva in qualche modo
recuperare per dare loro nuova vita, non certo greatest hits. Brani di cui
Stuart Staples e soci non erano del tutto soddisfatti o che non erano ancora usciti, e che rappresentano il punto di congiunzione tra quello che i
Tindersticks sono stati e quel che sono diventati.
Quale migliore modo, allora, di festeggiare la storia dell’elegante gruppo, che tra chamber e indie
pop ha fatto la storia del genere trainato da Stuart Staples e David Boulter? Il disco, scevro di qualsiasi retorica, offre la preziosa opportunità di riascoltarli con lo spirito di oggi, in attesa forse di un
nuovo lavoro originale dopo il recente The Something Rain.
Ogni pezzo racconta una storia e nell’insieme i brani trovano perfetta unità di intenti, a dimostrazione della vitalità di un gruppo che avrebbe ancora da dire. Si va da pezzi apparsi nei dischi
solisti di Staples (l’opener Friday Night, 2002, già in una versione scarna in Lucky Dog Recordings e legata alla colonna sonora per i film di Claire Denis) a brani dei primi dischi della band
(She’s Gone, A Night In, Sleepy Song, 1994, dal secondo album, a cui i Tindersticks hanno voluto
dare una veste più matura), passando da tracce tratte da Simple Pleasure (If You Are Looking
For A Way Out, I Know That Loving, 1999) ai più recenti What are you fighting for? (2006) - che
avrebbe dovuto trovare posto in The Hungry Saw -, Say Goodbye To The City (2003), Marseilles
Sunshine (2003), Dying slowly (2001).
Un gran lavoro di archivio guardando avanti. Sempre di gran classe.
7.4/10
Teresa Greco
che si raggiungano alti e struggenti momenti di
emotività (Perdono o L’Ultima Estate), vellutati estratti tra softpop e dreampop (Di Notte (La
Fine)), inflessioni lo-fi (Come Mi Vuoi) e intermezzi strumentali ((Interno Notte)). Felpa,
da solo, descrive un viaggio malinconico, che
prima o poi tutti noi affronteremo nella vita.
Cosa manca ad Abbandono? Poco, forse
solo quel distacco sonoro dal passato targato
Magpie, anche se un’evoluzione stilistica è avvenuta e questo per ora basta. Felpa ha dimostrato che è possibile tornare su certe sonorità
con nuova inventiva, anche se non si ricrea un
104
genere, e che se si realizza un album stilisticamente abbastanza omogeneo, il songwriting
può comunque avere un valore.
7.1/10
Alessandro Rabitti
FKA Twigs - EP2 (Young Turks,2013)
Genere: pop, art, rnb, elettronica, triphop,
downtempo
È passato circa un anno dall’esordio su queste
pagine del “volto misterioso del future-randb“.
All’epoca i brani disponibili erano solamente
due – Hide e Ache – e Tahliah Barnett/Twigs
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Tindersticks - Across Six Leap Years (City Slang,2013)
r e c e n s i o n i
gelo a James Blake in versione female) in un
progetto sempre più credibile e identificabile,
apparecchiando la tavola per un album d’esordio destinato a lasciare il segno.
7.2/10
Riccardo Zagaglia
Fuzz - Fuzz (Trouble In Mind,2013)
Genere: hardrock
Non ci stupisce l’ennesima uscita di Segall, il
più frenetico tra i garager della Bay Area. Dopo
la prova songwriting di Sleeper, ecco un nuovo
gruppo e un nuovo moniker, Fuzz, un progetto
che nasce dalla collaborazione con Rolando
Cosio al basso e Charlie Mootheart, compagno
musicale sin dagli esordi in quel di Laguna
Beach. E siccome si ritorna al casino, a un hard
rock tutto rumore e feedback, era logico lasciare momentaneamente la Drag City a favore
della più piccola e lo-fi Trouble in Mind.
Fuzz fa parte di quella che potremmo definire
una discografia di scoperta, ovvero: scopri un
gruppo che ti piace magari ripescandolo dai
60-70, ti esalti, e ci fai un album. Ecco stavolta
è il giro del classico, i Black Sabbath. Segall
si sposta alla batteria, Mootheart alla chitarra
e i due (perché Cosio pare un po’ lo sparring
partner) iniziano a sparare le cartucce: pezzi
tirati, con assoli hard che svolazzano qua e là,
i riffoni di Tony Iommi sempre dietro l’angolo,
la batteria pestata. Brani in cui il risultato va
oltre le modeste premesse per la naturalezza
con cui i due si intendono e non a caso il meglio
arriva quando i due abbozzano qualche jam
come in HazeMaze o la conclusiva One, segnalando quindi la buona prova di Mootheart alla
chitarra. E poi non si trovano punti deboli nello
scorrere delle otto tracce: il ritmo è forsennato,
si gioca con il pieno/vuoto per rafforzare il senso di energia e vitalità, con la sola What’s in my
head destinata a spezzare un po’ la trama con
cadenze più lente ma sempre heavy.
o t t o b r e
si apprestava a pubblicare l’ep d’esordio intitolato semplicemente EP: tanto bastava per
includere l’astro nascente della scena di South
London all’interno della lista Ones To Watch
2013.
Un cambio di moniker – da Twigs a FKA
Twigs – e un contratto discografico con la
Young Turks (e di conseguenza XL Recordings) hanno tenuto vive negli scorsi mesi
quelle attese per un grande debutto lungo che
Tahliah ha saputo alimentare, di volta in volta,
tramite videoclip d’impatto a corredo di brani
dalle soluzioni sonore sempre affascinanti.
Quello di FKA Twigs è il sodalizio perfetto tra
una vocalist e un producer – quell’Arca già dietro ai beat poderosi di Yeezus di Kanye West
– che sembrano avere appiccicato in fronte il
termine “futuro”. Alla corte di Tahliah Barnett,
Arca vira sull’astratto giocando con il tempo
tra accelerazioni e decelerazioni (uno dei più
lampanti marchi di fabbrica del progetto), beat
sinuosi e non sempre composti, bassi profondi
e suoni dall’”aspetto” quasi alieno.
Nascono così le quattro tracce di EP2 in cui
l’estrema sensualità del timbro di Tahliah si
intreccia magistralmente con il lavoro certosino di Arca: How’s That e il suo lento incedere
trip-hop – tra snare in echo e oscuri tappeti di
synth – impreziosito da assurdi ticchettii, Papi
Pacify in cui vengono messe in mostra tutte
le doti canore capaci di sprigionare un calore
soul/randb che scioglie l’algida e marziana
base, il piccolo gioiello art-pop Water Me emblema delle capacità tecniche del giovane produttore e Ultraviolet, punto di incontro tra un
certo randb anni ’90 e le idee del primo Tricky
androidizzate in un contesto iper-digitale.
FKA Twigs – padre giamaicano e un passato
nella danza – continua a condensare l’eccentricità di Björk, il post-trip hop da bass generation del primo disco di Emika, il future-pop dei
Purity Ring e la black più minimale (da D’An-
105
Un disco che si innesta sulla scia di Slaugtherhouse della Ty Segall Band pur con un canovaccio più ristretto e ripetitivo. A trasparire
con più forza è invece il divertimento e l’immediatezza della composizione, ed è questo in fin
dei conti il valore aggiunto che permette a Fuzz
di innalzarsi al di sopra della mediocrità.
7.1/10
Stefano Gaz
Genere: pop
Non dev’essere facile mettersi nei panni di
Gary Numan. Riconosciuto come pioniere
del pop elettronico, emerso alla fine degli anni
Settanta con i Tubeaway Army e Are Friends
Electric? (campionata parecchi anni dopo dalle
Sugababes per Freak Like Me), è stimato da
colleghi come David Bowie, Prince e Kanye
West, è amico di Alan Wilder, ispiratore tanto
di Trent Reznor quanto di Lady Gaga, ma la
critica non ha perso occasioni per bastonarlo,
anche ingiustamente. Ha continuato a guardare
avanti anche quando i suoi colleghi vivevano di
rendita nei tour-nostalgia (ha ceduto solo nel
2010, con la riproposizione integrale dal vivo
di The Pleasure Principle), eppure per molti lui
resta “quello di Cars“, canzone che negli States
ebbe ancora più successo che in Inghilterra.
Colpa forse del suo carattere schivo, di una
timidezza che all’esordio fu un bel problema
(come oggi ammette nelle interviste), della sua
insicurezza che lo spinge da sempre a filtrare
e modificare elettronicamente la propria voce.
Erano sette anni, inoltre, che non si faceva vivo,
escludendo la parentesi di Dead Son Rising che
raccoglieva idee rimaste nel cassetto e rielaborate per la fanbase più tenace: questo perché
non se l’è passata molto bene, il buon Gary,
sotto antidepressivi nel bel mezzo di una crisi
di mezza età, e la gestazione del nuovo Splinter
106
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Gary Numan - Splinter (Songs From A
Broken Mind) (Edel,2013)
si è rivelata dunque lenta e non priva di intoppi. Il sottotitolo del disco, Songs From A Broken Mind dice parecchio sul suo calvario degli
ultimi anni, sulle sue difficoltà nel risollevare
le sorti della propria vita coniugale e sull’accettare il ruolo inedito di padre di famiglia. Sono
canzoni terapeutiche, queste, che affrontano i
demoni di petto e che partono quasi da appunti
scritti su un Moleskine – e sono quanto di più
introspettivo Numan abbia mai scritto in una
carriera che procede ormai da trentacinque
anni.
Ade Fenton condivide con Gary la cabina di
regia e, come ci si può accorgere ascoltando il
risultato finale, gli ha dato i consigli giusti. La
voce è meno artefatta del solito, e alcune canzoni sono provini limati quanto basta per non
perderci in spontaneità (ad esempio Lost, nata
come molte altre al pianoforte); alle tenebre
industrial alla Nine Inch Nails di Here In The
Black si alternano sapienti tour-de-force al
limite della dance come Who Are You e Love
Hurt Bleed, quasi una più trascinante rilettura
di A Pain That I’m Used To dei Depeche Mode,
in un album che vede la melodia riconquistarsi
il ruolo meritato di protagonista. I sintetizzatori e la chitarra di Robin Finck (NIN, Guns ‘n
Roses) si compenetrano in I Am Dust così come
in We’re The Unforgiven, altra chicca affettuosamente depechemodiana (stavolta dalle parti
di Barrel Of A Gun). Una menzione a parte la
merita il brano di chiusura, My Last Day, che
è stato ispirato dall’incontro con una signora a
Los Angeles – città in cui nel frattempo l’artista
si è trasferito – che stando alla prognosi sarebbe potuta morire da un momento all’altro. “Le
parlai a lungo, e il suo era un coraggio incredibile che io mai avrei avuto“.
Tornato in pista dopo molto tempo, Gary
Numan promette di terminare i lavori per una
colonna sonora e di partire per un tour che lo
terrà occupato per due, massimo tre settimane
alla volta per poter occuparsi dei suoi figli, e
di comporre una canzone nuova durante ogni
settimana di riposo dalle fatiche “live” in modo
tale da poter avere un altro album pronto per la
fine del 2014 o all’inizio dell’anno successivo.
Intanto, Splinter è un disco adulto, un arcobaleno dopo una tempesta, che ci restituisce un
artista in più che discreta forma.
6.9/10
Alessandro Liccardo
aggiustamento, mantiene inalterato il proprio
fascino. Così, se Let’s Get Killed si lascia scappare qualche concessione pop di troppo, è sul
finale che arriva il colpo di coda.
Kick è un dub industriale che fra archi, carillon e squarci di luce apocalittica, possiede la
tensione dei più sadici romanzi thriller. Inoltre
attualizza i NIN meglio di quanto gli stessi
NIN abbiano saputo fare.
6.6/10
Diego Ballani
Genere: indie
Quando attacca quel basso granitico, la batteria
materica e la voce strozzata di Scott McCloud,
ci ritroviamo nuovamente invischiati nel noir
metropolitano dei GVsB, quello che per troppo
tempo ci era mancato e che credevamo sepolto dopo il pallido You Can’t Fight What You
Can’t See. Poi certo, l’opener Diamond Life ha
una paraculaggine tutta anni ’10. La stessa che
trasforma degli sgorbi informi come i Pixies,
in cherubini indie da fare ascoltare a mamma e
papà.
I GVsB non hanno mai voluto irretire nessuno.
Per stenderti gli bastava metterti un cappio
intorno al collo e stringerlo lentamente. Poi ti
toglievano l’aria e ti finivano facendoti inalare
venefici vapori industriali. Ecco perché assalti
punk come Fade Out sembrano persino fuori
luogo, una volgare quanto inutile dimostrazione di potenza. Quando arriva 60 Is Greater
Than 15, al netto di una certa rilassatezza di
fondo, si ritorna a respirare l’aria viziata di
un tempo, con le chitarre come scariche elettrostatiche, ritmica da catena di montaggio e
atmosfera malsana. E’ dunque vero che i GVsB
aderiscono alla regola non scritta che vuole i
ritorni delle band anni ’90 con un sound più
pettinato. E’ anche vero che la loro formula
era talmente interessante che, pur con qualche
Golden Suits - Golden Suits (Yep
Roc,2013)
Genere: pop, cantautori, lo-fi
Fred Nicolaus, ovvero la metà dei Department
of Eagles (l’altro è Daniel Rossen dei Grizzly
Bear), ci prova in solitario, spinto sembra da
una serie di vicissitudini troppo personali per
poterle ponderare in condominio. Così, fidando
nella spiritual guidance dello scrittore John
Cheever e nell’aiuto di Rossen più qualche
altro grizzly, sforna una raccolta di dieci tracce sotto il disarmante moniker Golden Suits.
Ovunque volesse andare a parare, ci è riuscito
piuttosto bene.
Le canzoni non sono di quelle che squarciano
l’airplay, ma funzionano in virtù d’un trasporto
soffuso George Harrison tra vaghezze umorali Randy Newman, il tutto glassato da una
stralunatezza degna del più placido Robyn
Hitchcock, tale da determinare un accadere
emotivo differito, ciondolante su vibrazioni
un po’ (di)storte e rallentate. Quel tanto che
basta a spostare il baricentro dall’asse della
consuetudine, costruendo siparietti intriganti,
stranamente poetici. C’è qualcosa del caracollare balzano Pavement (Find A Way), seppure
spesso immerso in un liquido amniotico Radar
Bros (You Can’t Make Your Mind Up); altrove
persino avverti un retrogusto da Sea and Cake
irretiti Mark Kozelek (Dearly Belove).
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Girls Against Boys - Ghost List
(Epitonic,2013)
107
Ma è soprattutto questo piglio diversamente
leggero – l’inquietudine appena dietro la cortina
fumogena, una nostalgia che s’insinua strisciando e svicola come è venuta – a costituire il quiz
prezioso di pezzi melodicamente non eccelsi
eppure contagiosi, come la opening Swimming
In ‘99 o la languida Under Your Wing.
6.9/10
Stefano Solventi
Genere: pop, mainstream, alt, indie
Nell’era internet-centrica della long-tail globalizzata le major continuano a sopravvivere e
lo fanno passando dai vecchi canali, purtroppo
ancora forti di quell’ascolto passivo intrinseco
della maggioranza della popolazione. Infatti,
tra passaggi radio e jingle pubblicitari è ancora il dio denaro a dettare legge e il successo
a volte è la mera conseguenza di attività di
marketing mirate. Lo sanno bene i Grouplove, giovani pupilli dell’Atlantic Records prima
inseriti nelle soundtrack dei milionari videogame targati EA Sports (Colours) e poi lanciati,
grazie allo spot dell’iPod Touch, nelle stazioni
fm di larga scala (Tongue Tied).
Tongue Tied aveva probabilmente le carte in
regola per funzionare anche senza il supporto
promozionale, ma se siamo qui a parlare dei
Grouplove come uno dei probabili gruppi
bestseller della prossima stagione è perché i
californiani capitanati da Christian Zucconi
(sempre più figlio dell’immaginario 90s alternative) e Hannah Hooper (pittrice, tra le altre
cose) possono contare su investimenti di un
certo tipo.
Esponenti dell’ala meno folkish dell’invasione
happypop/fake-indie dello scorso biennio in
compagnia di Walk The Moon e Youngblood
Hawke, i Grouplove danno seguito al mediocre debutto Never Trust a Happy Song (un
108
Riccardo Zagaglia
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Grouplove - Spreading Rumours
(Atlantic Records,2013)
titolo che era tutto un programma) confezionando e plastificando il tredici tracce Spreading Rumours, lanciato adeguatamente da un
singolo - Ways to Go - con un appeal radiofonico quasi comparabile a quello di Tongue Tied e
la Hooper che insegue i Barenaked Ladies di
One Week.
L’effervescente power-pop a due voci dei cinque
di Los Angeles oscilla continuamente tra il “banale, ma almeno è orecchiabile” e il “ma fanno
sul serio?”. In questa seconda categoria finiscono senza se e senza ma episodi quali il passaggio
in quasi-solitaria di Hannah Hooper in Didn’t
Have To Go, il pasticcio indietronico in cassa
dritta Shark Attack – osceno quanto l’omonima
saga di film – e tutta una serie di tinte teen spesso anonime (Sit Still). Gli anni ’90 sono invece
protagonisti nell’attacco rock-funk e nella strofa
(la melodia di All Apologies è dietro l’angolo)
di Borderlines And Aliens, in What I Know e in
quella Raspberry che suona come un “hey, proviamo a fare una canzone alla Pixies?”
Se i toni tra folk e country di Save The Party For Me non sorprendono, riescono invece
nell’impresa la semiacustica Hippy Hill – atmosfera californiana e bel cambio di verve a
metà brano – e I’m With You: un minuto di solo
pianoforte, un altro minuto di cavalcata avvolgente e poi virata disco-funk – a quanto pare
un must di questo 2013 – decisamente penalizzata dall’eccesso di ah-ah-ah e oh-oh-oh.
Una produzione in grande spolvero e una
tecnica sopra alla media per il genere (miracoli
da studio a parte, strumentalmente sono senza dubbio precisi) che applaudiremmo maggiormente se venisse abbandonata la smodata
esuberanza jump-inducing da high school
party estivo e se i Nostri iniziassero a capire
che l’autoironia di chi non si prende troppo sul
serio non giustifica certe produzioni.
5.3/10
Genere: pop
Nel mondo musicale non è così raro trovare
band a gestione familiare: dalle Corrs agli
Hanson, passando per la folkloristica meteora
The Kelly Family, ci si è sempre domandati
più che lecitamente quanto questa particolarità influisse sul loro successo, confrontata
con la reale sostanza. Appare dunque molto
facile porre gli stessi interrogativi nel caso
delle losangeline Haim, in parte mitigati dalla
biografia: con una madre cantante e un padre
batterista – entrambi per passione e con discreta abilità, vedere per credere – per Este (27),
Danielle (24) ed Alana (21) è risultato naturale
apprendere l’uso degli strumenti rimanenti (basso, chitarra e synth) per fare musica e
completare le jam casalinghe che derivavano
dagli ascolti familiari fatti di americana, Rolling Stones e Fleetwood Mac. Sessioni che,
col passare del tempo, si sono tramutate in un
EP digitale di inediti rilasciato gratuitamente a
febbraio dello scorso anno. Forever conteneva
tre brani che sarebbero poi confluiti in Days
Are Gone: Go Slow, Better Off ma soprattutto la
title track, autentico tormentone dal basso funk
che ha prima rapito blogger di spicco come
Jarri di disco naïveté, poi i magazine musicali
e infine la Polydor, che ne santifica il debutto
direttamente su major.
Sarebbe deplorevole ridurre le 11 tracce a
semplice natura pop – che rimane comunque
la matrice del disco – senza menzionare tutto
il calderone di influenze che le tre musiciste hanno fatto proprio. Gran parte del disco
non avrebbe lo stesso impatto senza l’indole
funk che Este – la più ribelle e scatenata sul
palco – ha introdotto nelle linee dei pezzi più
ritmati; alla babyhaim Alana vanno tributati i
meriti principali per i brani più d’ispirazione
wave, dove si mette in luce nelle composizioni
in synth e tastiera (le Carsiane Running If You
Call My Name e Go Slow), mentre la forza rock
che Danielle imprime con la chitarra poggia
radici sul rock tradizionale, come quello di
Santana (Let Me Go, The Wire). Questa distinzione di personalità ha riflessi anche sulle parti
cantate, dove è ben riconoscibile l’ariosa vocalità della leader Danielle – spesso e volentieri
così incalzante da sfiorare performance degne
delle migliori artiste nu randb, per esempio
in Don’t Save Me – rispetto alle altre due, con
timbri più sottili.
Alla luce di tutto ciò emerge un quadro più che
positivo: le Haim sono giovani artiste dotate di
un ottimo potenziale, con un esordio che convince in personalità e con la capacità di vivere
il momento senza badare tanto alle apparenze
(non ci troviamo di fronte a nuovi modelli di
stile o sex symbol, non ce ne vogliano) preferendo concentrarsi sulle possibilità che la vita
da musicista le offre, divertendosi giù dal palco
e convincendo sopra. In fondo era ciò che
sognavano quando, da bambine, passavano i pomeriggi provando nella loro casa.
7.1/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
HAIM - Days Are Gone (Polydor,2013)
Andrea Forti
Huerco S - Colonial Patterns
(Software,2013)
Genere: elettronica
Giusto il tempo di spegnere i loop e layer sonori del ritorno di The Field (Cupid’s Head)
che in cuffia un album come Colonial Patterns
non può che continuare egregiamente la qualità del viaggio sonico lì intrapreso con altri
densi e variegati strati sonori. Huerco S., progetto del producer di Kansas City Brian Leeds,
già attivo su una serie di piccole label tra cui
Opal Tapes, Wicked Bass, Other Heights, e un
alias (Royal Crown Of Sweden), ha progressivamente abbandonato il clubbing house per
approdare su territori differenti. Sentirlo in
questo lavoro al debutto lungo su Software è
109
o t t o b r e
Edoardo Bridda
Icona Pop - This Is… Icona Pop (Record
Company Ten,2013)
Genere: pop, mainstream, dance-pop, synthpop,
electro
Andiamo con ordine. Quando I Love It uscì era
il maggio del 2012. In Svezia, paese natale di
Caroline Hjelt e Aino Jawo, in arte Icona Pop,
fece il botto e in breve tempo la mania si diffu-
110
se. Prima venne usato nel videgioco Need For
Speed: Most Wanted, poi in Germania per uno
spot Coca-Cola Light, poi nel reality americano Snooki and JWoww, in una puntata di Girls
e in una di The Vampire Diaries. Il vero exploit, però, arrivò con la celebre pubblicità del
Samsung Galaxy S4, in cui l’electro pop velato
punk del singolone dell’estate 2013 sfondava i
televisori di tutti e arrivava in qualsiasi discoteca o balera: dall’indie-snob alla commerciale.
Sbarcò nel nostro quotidiano, ossessionandoci
anche nei posti di villeggiatura più improbabili
e, come ogni tormentone che si rispetti, quel
non-so-che di intrigante che ci avevamo scovato
inizialmente, finì per perdersi nel fastidio, nel
mal di denti.
Ecco perché l’arrivo di un intero album avrebbe dovuto finalmente svelare il mistero Icona
Pop. Avrebbe dovuto schiarirci le idee e farci
comprendere perché gente come Titus Andronicus, Cookie Monster e Florence and The
Machine (non certo il punto più alto del mainstream) avevano sentito il bisogno di fare cover
del brano più famoso della band. Ma la storia
del duo parla da sola. Conosciutesi ad una
festa (e dove sennò?) in un periodo difficile per
entrambe (una appena mollata dal boyfriend,
l’altra zoppa per – parole sue – essere caduta
da un trampolino dopo una sbronza), Caroline
e Aino volevano sfondare in un modo semplice
ed efficace. Il techno pop, l’EDM da college
movie, sembrava la strada più sicura. Ma, mentre l’EP Iconic (2012) e la release svedese omonima (2012) conservavano alcuni suoni sporchi
e terrigni, s’allevavano su certi Crystal Castles
e Kap Bambino indorati per adolescenti (sì,
ancora più adolescenti), l’album definitivo This
Is… risulta già manicheo, troppo MTV-oriented
per suscitare l’interesse necessario, è il trionfo
della banalità. È come se la fretta d’arrivare (e
di sfondare) avesse prevalso sulle (poche) idee
buone. O, molto più probabilmente, è come se
r e c e n s i o n i
un po’ come sublimare la Kompakt nell’estetica della label curata da Daniel Lopatin in arte
Oneohtrix Point Never. Ma c’è di più: è anche
un ottima scusa per calarci nel (para)clubbing
più elitario, tra un Marcel Dettman in bilico tra
Dettmann e Dettmann II e più vicino a Basic
Channel e Maurizio, i lavori di Shed e tutto
uno spettro d’astrazioni basate su fruibilità 4/4
house e techno.
È un lavoro con un suo mood, molto variegato, fatto con synth, cassette e altro materiale
analogico, e soprattutto con moltissimi punti di
fuga, tanto che il producer americano non poteva che racchiuderlo in una geografia sonora
sbandierata fin dal titolo. Il concept del lavoro
fa infatti riferimento allo spettro di fascinazioni di una storia americana pre-europea,
come sottolinea Leeds a Dummy. E se la press
ufficiale calca su ganci illustri – il Basinski dei
tape ritrovati e l’ambient di Eno e Hassell -, andando un po’ più a fondo si nota come l’orientamento sia rivolto al contemporaneo. Quello
che si va a toccare è un ampio spettro di suggestioni elettroniche vaporose, in particolare, gli
ultimi due album di Lopatin (certamente più in
“sezione verticale” sullo zeitgeist) o, perché no,
l’ottimo Donato Dozzy (sicuramente più in versante new age), pensando il tutto alla luce di un
revisionismo dancefloor, magari con l’ombra di
Actress in senso panoramico, liberandolo cioé
dall’oscurità degli scantinati. Da avere.
7.3/10
r e c e n s i o n i
solo per un attimo, prende il posto della cascata
vulcanica e ribelle a cui le Icona Pop sembrano
doversi appigliare coattamente. Insomma, per
fare l’icona pop o, più semplicemente, per fare
un disco pop non c’è bisogno di forzare la mano
su quelle che non sono le proprie caratteristiche. Basta avere carisma e un pugno di melodie. E alle Icona Pop non mancano né l’uno né
le altre.
5.8/10
Nino Ciglio
Il nido - I piedi della follia (Gaiden
Records,2013)
Genere: wave, rap, orchestrale_sinfonica, progmetal
Chissà cosa avrebbe pensato Frank Zappa dei
Il nido. O per meglio dire, dell’universo a cui la
band riesce a dar vita nel suo disco d’esordio I
piedi della follia. Certo è che in questo mondo
inventato c’è qualcosa che non va: le lancette
dell’orologio girano al contrario, il telegiornale
trasmette videomessaggi del Presidente del
Consiglio 24 ore su 24, i banchieri sono pallidi
e hanno canini aguzzi, vostra nonna balla la
dubstep a Palazzo Grazioli. Sì, insomma, tutto
è sottosopra, allucinante, spaventoso. L’avesse
fatto Wayne Coyne dei Flaming Lips, un disco
del genere, sarebbe stato un tripudio di quei
suoni fantascentifici, spacey e psichedelici che
solo lui riesce a concepire; Il nido, invece, dà
la propria versione dei fatti accelerando sul
versante del surrealismo da loser e mettendo
insieme dieci tracce dadaiste e squilibrate.
Ci pare di poter dire che la base di tutto sia una
no wave/prog in bilico tra chitarre elettriche
taglienti e fiati (Lex Intro, Metronotte, L’indegno Vito, Stimoli avversivi), ma alla fine non ne
siamo neanche troppo sicuri, tale è la centrifuga di stili cui si è sottoposti una volta schiacciato play. Per dire, un brano come Operazione
Nido unisce elettropop, crossover, hip hop,
reggae e certe trombe messicane in sordina;
o t t o b r e
qualche produttore furbetto avesse scorto nel
nome il presagio benefico di smuovere le casse.
D’altronde, cosa fa un’icona pop se non questo?
Fatte le dovute precisazioni, This Is… è un disco
che potrebbe funzionare bene nel circuito
mainstream. È di certo più irruento e fresco di
una Ke$ha, più electro di quanto punk fosse
Avril Lavigne ai tempi, ma meno centrato della figura scoppiettante di una Christina Aguilera e ancora meno emotivo di una Rihanna,
che, se non altro, ha una voce da rispettare.
La tematizzazione, poi, è quella classica dello
pseudo rrriot-electro, con le due tutte prese a
recriminare spazi del girl power (Hold On, We
Got The World), a pretendere un divertimento
che sembra non arrivare mai da un party qualunque (All Night, On A Roll), a rivolgere preghiere ecumeniche al Santissimo Fine Settimana (Ready For The Weekend). I brani puzzano
tutti di festini hard, di sbronze colossali e successive amnesie da hangover. Le ragazze hanno
capito che la techno va per la maggiore, ma non
sono state in grado di filtrarne l’essenza in un
disco pop. D’altronde è normale aspettarselo
da chi dichiara di essere una “nineties bitch”,
perché è in quel periodo che dobbiamo cercare
i fiori non sbocciati. Gli stessi fiori di un brano
come Girlfriend, che fa esercizi – come Jay Z
nel 2002 – sulla variazione del tema di Me and
My Girlfriend di 2Pac del 1996. Solo che, mentre Jay Z stravolgeva l’apparato narrativo con
la storia di Bonnie e Clyde e amplificava i sample della base con chitarre acustiche destinate
a consegnare la canzone alle vette delle classifiche, le Icona Pop, ça va sans dire, non hanno
questo potenziale e finiscono per scimmiottare
il pezzo originale e condirlo in salsa Phoenix.
Non è tutto da buttare, in questo This Is… Brani
come Then We Kiss o In The Stars (ma la stessa
I Love It) funzionano bene con il loro retrogusto estivo e con la loro cadenza biascicata (for
the record: la cadenza pop per eccellenza) che,
111
o t t o b r e
Fabrizio Zampighi
Ishome - Confession (Fuselab,2013)
Genere: ambient, electronica, beat
Dalla Russia la poco più che ventenne Mirabella Karianova aka Ishome arriva finalmente
al disco di debutto, dopo quasi dieci anni di
gavetta tra studi di musica elettronica ed EP,
singoli e mixtape. Alle prese con sintetizzatori
di ogni sorta, la Nostra ha spaziato e sperimentato l’elettronica più varia, esperienza che le
ha permesso di crescere e di essere poi presa
negli anni ’10 sotto l’ala protettrice dell’etichetta ucraina Indeks Music, con la quale ha
112
realizzato le sue prime produzioni, Caraboo
e Al Capone, che hanno un sapore elettronico
condito da beat scuri e incasellati in un deep
ambient minimal. Col cambio di label (direzione Proton Music), in Eva il minimal ambient
di Ishome rimane ma le sue sonorità si avvicinano a beat downtempo, compaiono voci
effettate, si acquisisce quella luminosità che era
mancata agli esordi. E nel 2013 Ishome ritorna
in madrepatria approdando alla russa Fuselab
– etichetta che oltre alla cura del suono è molto
legata all’aspetto visual-art dei suoi artisti – ed
esordisce su full length con Confession. Ed è
qui che Ishome mostra la sua maturità, perchè
la proposta sfocia in un elettronica del tutto
multiforme, amplifica il coinvolgimento emotivo, abbraccia un beat più vivace, lo comprime
offuscandolo in una deep ambient, ne estende
le forme andando a toccare motivi sia dance sia
techno.
Nulla di sconnesso in Confession, groove
variegati che nei pomposi electrobeat ricreano
strutture house ambient, non troppo distanti da
suoni a-là Boards Of Canada (Tetra 94 (Part
1), Tetra 94 (Part 2)). Il disco mostra capacità
nel saper ricreare atmosfere minimali, tremoli
e tappeti synth in un ambient che ricorda il più
morbido Apparat (Wildness, Earth), melodie
techno à la Aphex Twin e atmosfere Holy
Other, private però di quel loro glitch. In certe
situazioni si spinge fino a sfiorare lente oscurità ammalate di witch house (It Exists).
Questo lavoro elettronico, nonostante non goda
di brevetti di alcun genere, riesce comunque ad
attrarre. Le capacità di Ishome di ripercorrere
con bravura retro-strade di una elettronica già
assimilata non la pongono in una posizione di
demerito; non rompe con vecchi schemi ma
ci gioca a dovere, ricreando un immaginario
synth eterogeneo e molto personale.
7.2/10
Alessandro Rabitti
r e c e n s i o n i
L’inutile epicità richiama la musica classica; Il
Parenormale annusa il metal. Ogni tanto vengono in mente i No Guru di Milano Original
Soundtrack, altre volte dei Casa meno intellettuali e più cazzoni, più spesso l’idea che Il
Nido si stia divertendo un mondo a prenderci
in giro. Convinzione suffragata dalla presenza
di alcune parentesi ironiche parlate inserite in
mezzo a una tale cacofonia disturbante: spiegazioni tecniche dei brani, dialoghi tra personaggi assurdi, persino una rubrica della posta
di una inventata Radio Squaquerone. Con tanto
di crediti del disco cantati in forma di ragtime
nell’ultima traccia.
In realtà, il quartetto non ha nulla di improvvisato e, oltre a dimostrare buona perizia tecnica, conosce la materia; tolta tutta la facciata
demenziale, rimane un disco divertente – un
po’ alla maniera delle produzioni di Musica
per bambini, se ci passate il paragone azzardato -, che mira esclusivamente all’originalità
e a superare ogni tipo di barriera di genere. Il
risultato è una bella boccata di ossigeno che
tuttavia non fa scorgere, in lontananza, segni
di una progettualità organica e ben definita.
Che sia proprio questo lo scopo finale di tutta
l’operazione?
6.7/10
Genere: impro, freejazz, jazz-core
Il trio è ben assortito: da una parte la batteria fisica, sudatissima, instancabile di Balazs
Pandi, uno che è free anche quando suona con
Merzbow e Gustafsson, figuriamoci in un
combo che indaga lo stile jazzistico “istituzionalizzato” da Ornette Coleman dandone una
propria, personalissima, versione; dall’altra il
sax brasiliano di Ivo Perelman, frantumato in
mille riflessi di acuti, strettoie e deflagrazioni;
in mezzo il basso elettrico di Joe Morris, col
suo borbottare tellurico e indecifrabile che fa
da collante tra gli acuti dei primi due. Quest’ultimo minaccioso sulle frequenze basse, almeno
quanto Perelman e Pandi sono anfetamina su
quelle alte e nella parte ritmica, in una ricerca
di significati che ha a che fare esclusivamente
con l’interplay e l’improvvisazione.
Il risultato è un incalzare continuo, un vibrare saturo di piatti, rullante e note stritolate,
un gorgogliare di link sonori solo supposti e
ai confini con l’esaurimento fisico e mentale;
musica che scrive manifesti (Freedom), accenna a momenti di stasi (What Love Can Lead
To), macina statement rarefatti ma insistenti
più di un’emicrania senza ibuprofene (Universal Truth). In chiusura i diciassette minuti di
Stigma sembrano aprire per un attimo, per poi
stamparti sul grugno l’ennesima cavalcata assordante in cui ipotizzare fatemorgane di break
hip hop in mezzo al “noise” generato dal sax di
Perelman.
Autoreferenziale? Forse. Affascinante? Senza
dubbio. Ma solo per veri cultori.
6.7/10
Fabrizio Zampighi
Jackson And His Computer Band - Glow
(Warp Records,2013)
Genere: elettronica
Nel 2005 il giovane Jackson Forgeaud esordiva
con uno Smash centrato in pieno: l’album parlava del disorientamento dell’elettronica mid’00 (noi avevamo parlato di electroshifting)
e coniugava molte anime, lasciando dubbi
irrisolti su quelle che sarebbero state le sorti
della musica composta con le macchine. Di
propositivo in quel disco si coglieva la voglia di
mescolare il passato col presente e di riuscire a
non far cadere il piatto della bilancia nè sull’una, nè sull’altra parte. Dopo quell’anno ne sono
successe di cose: Forgeaud si è messo a remixare come un forsennato (pezzi di Kavinsky, Kap
Bambino, Charlotte Gainsbourg, Planningotorock, Surkin e molti altri), la bolla dubstep è
scoppiata (anche) nel massimalismo à la Rustie
/ Ferraro, l’autotune è diventato pane per tutti
gli artisti pop mainstream (una a caso Madonna), e a tutti è venuta voglia di vestirsi con
paillettes e di attaccare al soffitto sfere stroboscopiche (Daft Punk) o di ripiegare sul prog
Seventies (Justice).
Anche se rimane pur qualche rimando alle
atmosfere Warp (in particolare i pianoforti dei
Boards of Canada in Dead Living Things),
in questo nuovo album la connessione con il
rock suonato si fa più stretta. Si sentono infatti
gli echi francesi degli Air (Orgysteria), dei già
citati Justice (nella teatralità barocca di Pump),
qualche posa massimalista (Seal e Vista, forse i
pezzi più riusciti), e pure tocchi di Simian Mobile Disco (Arp #1). Il calderone aumenta di
consistenza (ma non di qualità) con un prescindibile accenno industrial à la Nine Inch Nails
anni ’90 (Blood Bust) e con un ricordo vintage
degli Stereolab (Memory).
Un disco che si ascolta bene, che viaggia veloce
con un’estetica da singolo più che da album,
operazione probabilmente influenzata dalla
massiva esperienza di remixing di Forgeaud.
Stare con un piede su più staffe può essere un
plus, soprattutto per un esordiente, ma l’eterogeneità non focalizzata su un binario – se
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Balazs Pandi - One (RareNoise,2013)
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iterata – può risultare spiazzante. L’insostenibile leggerezza del postmoderno elettronico
viene esplicitata involontariamente in queste
12 tracce, mosaico frastagliato che pone più
quesiti che risposte. Glow è una bella casa degli
specchi, pulita, tirata a lucido (anche dal punto
di vista produttivo), ma qualche volta ci si va
a sbattere la testa. Occhio a non farsi troppo
male.
6.8/10
Marco Braggion
Genere: folk
A dieci anni dall’esordio e dopo quattro anni
di silenzio musicale, la cantante residente a
Newcastle torna sulle scene con il secondo
album per One Little Indian. Il titolo è ispirato alla compagnia elettrica per cui un giovane
Elvis Presley faceva le consegne sessant’anni
fa, poco prima di diventare una star planetaria.
Il folk della Williams è, fin da queste promesse, molto più americano di quello di molte sue
colleghe britanniche. E pure questo decimo
mattone nella carriera la fa guardare più al
pop-folk americano e alla polvere delle strade
USA, che alla tradizione europea.
Funziona tutto, grazie anche a una eccellente
produzione e a una band che sostiene la sua
fragile voce di velluto. Tra i musicisti vale la
pena ricordare Jon Thorne dei Lamb che suona il contrabbasso e la batteria di Luke Flowers
direttamente dalla Cinematic Orchestra. Perfetto per le giornate autunnali che stanno per
arrivare, ma se cercate qualcosa che vi stupisca,
andate altrove: qui non si esce, con classe senza
dubbio, dal seminato.
6.5/10
Marco Boscolo
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Genere: world_etnica, folk, electronica
Kevin Blechdom torna alla ribalta con un’altra collaborazione ed ancora una volta riesce
a toccare sonorità alle quali non ci aveva minimamente abituato. Tutto questo grazie a un
incontro con Hamdi Makhlouf avvenuto in
Tunisia presso l’Ennejma Ezzahra, un centro di
musica araba e mediterranea, per un seminario
tenutosi alla fine del 2011. Il risultato è questo
7+1, un lavoro il cui significato va innazitutto
ricondotto a una frase chiave che leggiamo
nella press: “7 spices symbol of the presidency
of Ben Ali and 1 popular revolution made ​​a few
months auparavants”, un chiaro riferimento,
dunque, alla caduta del regime dittatoriale
che ha dominato la Tunisia per più di vent’anni. L’approccio edonista di Kevin Blechdom
trova così nuovi modi e modalità nelle musiche
arabo-tunisine di Hamdi Makhlouf, una tabula rasa per chi la ricorda terrrorista sonica con
Matmos e J Lesser, nel duo Blectum From
Blechdom, ma anche per chi aveva apprezzato
il folk country solista di Gentlemania.
Il banjo e l’oud in veste del tutto arabeggiante
aprono ad una sorta di ballad western-mediorientale (Hasir Ho Down), in cui anche le voci
sussultorie, soprattutto quella di Hamdi, fungono da strumento melodico (Meditation). Il loro
girovagare sonoro sembra ispirato, nello stile,
all’avanguarda di Glenn Branca, e dietro questa ricerca si giunge a momenti che mescolano
classicismi alla Wim Mertens, “acusticismi”
alla Thurston Moore (Phalanges) e sonorità di
stampo popolare sudeuropeo. Le tastiere non
sono del tutto abbandonate, qua e là fanno da
contorno in tappeti wave ambient (Into Waves)
o si bagnano di sapori prog rock su (Thk) a
supporto di virtuosismi decadenti acustici. C’è
anche spazio per una revisitazione tributo ai
Dueling Banjos di Arthur Smith e Don Reno
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Kathryn Williams - Crown Electric (One
Little Indian,2013)
Kevin Blechdom - 7+1 (Tsuku Boshi
Records,2013)
(Deliverants) e per una cover di Tim Buckley e
Larry Beckett (Song To The Siren) che dilatata i tempi dell’originale, mantenendo alto il
livello di emotività anche grazie alla bravura
canora di Kevin Blechdom e Hamdi.
7+1 è un disco senza confini, arabo e americano
assieme. Da un lato, l’elettronica e il countryfolk con quel retroterra di performance teatrali
visual-art ed elucubrazioni digitali, dall’altra
le ricerche e il jazz del tunisino. Innegabile un
discorso didattico e un poco di nostalgia anche
per l’irriverenza creativa degli esordi, anche
se per quella c’è già una reunion in atto con
Blevin Blectum. Le Blectum From Blechdom
stanno per tornare.
7.1/10
King Khan and His Shrines - Idle no
More (Merge,2013)
Genere: garagerock
Erano sei anni che King Khan non si faceva
vivo con gli Shrines, i quali avevano lasciato
spazio al sodalizio con il Bbq Mark Sultan per
un ritorno al grezzume del rock’n'roll stampo
’90s. Poi dal 2009 una serie di sfortune, amici
persi tra suicidi droga e malattie, ed ecco puntuale arrivare la depressione con conseguenti
cure psichiatriche. Idle no more ha dunque il
sapore della rinascita e del cambio di rotta, la
trasformazione del negativo in positivo.
L’album esce per la Merge, anche questa una
novità. Per l’etichetta americana dovremmo
immaginarci un Roky Erickson che jamma con
la Su Ra Arkestra o ancora un Wilson Pickett
insieme ai Velvet Underground, discorsi che
appaiono po’ esagerati. La realtà è che Idle no
more è un disco curato, con canzoni in ottimo
equilibrio tra la chitarra di Kahn e i fiati degli
Shrines e con i piedi nel garage rock di sempre.
C’è più gospel magari, nella ballata Pray for
Lil ma ancora di più nella stupenda Darkness
Stefano Gaz
La metralli - Qualche grammo di gravità
(A Buzz Supreme,2013)
Genere: pop, folk, jazz
Torna il collettivo modenese La Metralli, a
due anni di distanza dal debut Del mondo che
vi lascio che aveva fatto presagire sonorità
jazz unite ad una forma-canzone tipicamente
d’autore. Con la seconda prova Qualche grammo di gravità, il gruppo prosegue con la stessa
formula, arricchendola ulteriormente di atmosfere folk-mediterranee, soprattutto grazie al
cantato di Meike Clarelli, sempre più orientato
ad un canone interpretativo in salsa world e
latin.
Nonostante la grande cura per gli arrangiamenti, divisi tra anima pop-folk e ricercatezza
jazz, i quindici brani di Qualche grammo di
gravità non riescono tuttavia a catturare in
pieno l’attenzione dell’ascoltatore, disperdendosi in una sovrabbondanza di influenze e stili
che rimandano, da un lato, al primo Capossela
(in particolare quello di Modì), dall’altro a un
mix che spazia dallo swing al tango, dal rock
al mambo. Il tutto, però, senza una direzione
precisa in grado di diversificare la sostanza
delle singole canzoni, nonostante la presenza
di alcuni buoni episodi, ad esempio nel ritmo
spagnoleggiante di Ruggine e carie o nella malinconica nenia di Sognando senza denti; stesso
discorso per la grazia avant-folk di Merìdies,
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Alessandro Rabitti
in cui King Kahn tira fuori tutta la sua abilità
di crooner ed è il momento in cui si respira il
sapore della confessione personale, del dolore
che passa ma rimane sottopelle.
Il resto serve ad accertare la ritrovata forma del
nostro ed è la scusa per tornare in scena tirando fuori dall’armadio stramberie in paillettes,
parrucche e copricapi faraonici. Non vediamo
l’ora.
7/10
115
che, con la sua lunga coda strumentale, spezza
l’incedere un po’ troppo monotono di un album
la cui la maggior parte dei brani segue la scia di
un folclore esotizzante, ad esempio in Cesarina
l’incendiaria o La sciancata. Non basta dunque
l’ottima voce di Meike, sempre in primo piano,
a fare in modo che i pezzi di Qualche grammo
di gravità si distacchino da questo paradigma,
per un disco che, nonostante alcune intuizioni e buone abilità tecniche, pecca di eccessiva
uniformità, senza mostrare la propria personalità a chi ascolta.
6/10
Giulia Antelli
Genere: pop, rock
A sentire i giri di basso in stile U2, le chitarre
taglienti rubate ai Joy Division (Cash) e quei
riverberi che sembrano ammiccare agli onnipresenti Jesus and Mary Chains (Milano),
potresti tacciarli di facile revivalismo i Les Enfants. E invece il secondo EP – il primo, omonimo, è uscito nel 2012 – di Marco Manini (voce,
batteria), Francesco Di Pierro (chitarra), Umberto Del Gobbo (farfisa and synth, chitarra,
metallofono) e Michele Oggioni (basso) è tutto
fuorché una replica fine a se stessa. Dentro ci
trovi persino scampoli di un cantautorato essenziale, intelligente, non per forza di cose aderente agli standard di genere, capace tuttavia
di suonare credibile con quelle malinconie un
po’ teatrali in bella vista. In realtà è proprio la
commistione tra una voce che ricorda le intensità moltheniane – o per meglio dire umbertomariagiardiniane – senza scimmiottarle e una
parte musicale curatissima in ogni dettaglio e
con qualche reminiscenza anni Ottanta, che
funziona. Quanto basta per creare un disco forse non particolarmente innovativo, ma in grado
di descrivere un piccolo universo di sentimenti
116
Fabrizio Zampighi
Lorde - Pure Heroine (Universal,2013)
Genere: pop, mainstream, art
Quando, a inizio luglio, vi abbiamo parlato di
The Love Club EP, la neozelandese Lorde
era pressoché sconosciuta fuori dai confini
nazionali, all’interno dei quali, invece, stava già
spopolando. Da allora, quella della sedicenne
Ella Yelich-O’Connor/Lorde è stata una vera e
propria invasione degli USA: una rapida scalata, prima al vertice della classifica “alternative”
(dove staziona da ormai un mese, con tanto di
copertina Billboard) e poi di quelle generaliste
dove in questo momento la sua Royals sembra
avere poche rivali.
La classica teen-diva dallo scarso talento? Non
proprio. Come si poteva già evincere da The
Love Club EP, la Universal – con la quale
lavora da ormai due anni – ha trovato qualcosa di più della tipica gallina dalle uova d’oro
da sfruttare nell’immediato: non capita tutti
i giorni, infatti, di scovare una ragazza della
sua età che inizia a fare musica ispirandosi a
nomi quali Burial, SBTRKT e The Weeknd.
Segno dei tempi? Probabile, ma è indubbio che
ci sia passione e di conseguenza margini per
una maturazione artistica in un contesto meno
bubblegum.
Per il momento bisogna accontentarsi di un
album d’esordio – Pure Heroine – che non
aggiunge troppo alle qualità che già conoscevamo: 400 Lux è una sorta di Royals con meno
appeal, mentre Team e Tennis Court mettono
ancora più in evidenza la tendenza – qui più
chiara rispetto all’EP – ad avvicinarsi a una
Lana Del Rey (con la quale condivide una
certa indolenza melodica). È però nel minimalismo dell’accoppiata beat scandito+voce (magari supportata da un harmonizer) che Lorde
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Les Enfants - Persi nella notte EP
(Autoprodotto,2013)
e spazi capace di rapirti con garbo.
6.5/10
Riccardo Zagaglia
M+A - These Days (Audioglobe,2013)
Genere: dance-pop, elettronica
Nel momento dell’uscita di When, singolo di
lancio di These Days, avevamo avuto una sensazione unica: quella di aver finalmente trovato
la colonna sonora perfetta dell’estate ormai
alle porte, più dei gorgheggi di Pharrel in Get
Lucky o dei brutti remixoni su brutti pezzi di
Rihanna. When ce la siamo portata dietro nei
viaggi in macchina con il mare da un finestrino e il litorale dall’altro. L’abbiamo cantata e
ballata nelle feste con gli amici e nei pomeriggi
di pioggia torrenziale in montagna. Una cosa
che non capita tutti i giorni, con certa musica
italiana. E alla fine è cresciuta così tanto nelle
orecchie che siamo riusciti a rendere la pubblicazione di These Days (previsto per l’imminente autunno) un countdown curioso e ansioso.
Quando SA ha incontrato gli M+A in occasione
del loro esordio Things.Yes, loro hanno risposto
così a una domanda sulla presunta ballabilità
di alcuni brani del disco: “non siamo assolutamente tipi da party. Abbiamo voluto fare musica
dance ma non ci siamo riusciti, perché in realtà
non riusciamo a lasciarci alle spalle gli anni di
grunge e post-rock”. Ebbene, These Days ha
l’onorato compito di superare quell’ostacolo
che solo nel 2011 sembrava insormontabile. Ha,
cioè, il compito di sacrificare i padri delle camicie a scacchi sull’altare di ritmi tropicali e di
abbassare le latitudini referenziali nei pressi di
certa Florida RandB non troppo distante dalla
black music o dal soul.
Date le aspettative, il rischio delusione era
dietro l’angolo. Alessandro Degli Angioli e Michele Ducci, divisi fra Bologna e Londra, hanno
suonato tutti gli strumenti del disco, tenendo
gli occhi puntati sulle tendenze musicali più
in voga e sorretti dall’autorevole Monotreme Records, label britannica di tutto rispetto.
Anche se ai più maliziosi potrebbe sfuggire
qualche commento arguto riguardo a un’operazione che, visti i tempi, si direbbe ruffiana,
l’impatto di These Days non è da poco. Innanzitutto, in ottica nazionale, serve finalmente a
scrollarci di dosso un certo clima di cupezza
metropolitana, che finiva per star stretto a un
panorama che avrebbe potuto dar molto di più,
rischiarando le tinte fosche e recuperando la
vena melodica. Il trucco, si sa, l’hanno scoperto
i Daft Punk di Random Access Memories: l’italo
disco (che i francesi sono andati a scovare nelle
produzioni di Giorgio Moroder) è un terreno
fertile che merita una riscoperta, una valorizzazione e un aggiornamento. Ora, senza nulla
togliere a band importantissime in quest’ottica come i Casa del Mirto, questo approccio
finalmente torna a casa. Secondariamente c’è
quel ghetto-style che, attraverso una forzatura
che alcuni potrebbero definire inappropriata, è
in verità un surrogato scherzoso e convincente
di quel binario che parte dai suoni funk della
Motown, passa per l’hip hop e conclude il suo
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
riesce a dare il meglio di sé, ritagliandosi il
proprio trademark sound per il futuro.
Nonostante alcune situazioni post-moderniste
di White Teeth Teens (la prima metà ha un
retrogusto anni ’60) e una Ribs che suona come
un club-anthem volutamente mancato (e proprio per questo convincente), Pure Heroine è
tuttavia un disco che soffre di una certa monotonia di fondo e della mancanza di quel gusto
arty che siamo certi possa appartenere alla musicista (se non oggi, tra qualche anno). Le dieci
tracce – scritte in parte con la collaborazione
del connazionale Joel Little – dell’opera prima
di Lorde sono probabilmente più interessanti
della maggior parte delle canzoni che gli ascoltatori passivi di mezzo mondo sono abituati a
fagocitare, ma da qui a far scattare la standing
ovation ce ne passa.
6/10
117
o t t o b r e
Nino Ciglio
Manic Street Preachers - Rewind The
Film (Columbia Records,2013)
Genere: pop, brit, alt
“I can’t fight this war anymore / Time to
surrender, time to move on”. Siamo abituati
118
a farci spiazzare dalle virate dei Manic Street
Preachers, dai loro album spesso diversissimi l’uno dall’altro usciti in oltre vent’anni di
onorata carriera, dalla sempre splendida voce
di James Dean Bradfield e dalle sortite della
lingua biforcuta di Nicky Wire. Mentre molti
loro colleghi sono spariti dalla circolazione
per poi riformare la band dopo molti anni, loro
sono sempre stati tra noi. E l’uscita di un loro
nuovo lavoro, come questo Rewind The Film, è
ancora a suo modo da considerarsi un evento
– specialmente perché il seguito, Futurology,
sarà lanciato tra pochi mesi e sarà qualcosa di
totalmente diverso, con la promessa di influenze new wave e kraut-rock. I Manics li si perdona anche dopo l’uscita di un album zoppicante
come Postcards From A Young Man, cui sono
seguiti un’eccellente doppia raccolta di singoli
e la ristampa del debutto Generation Terrorists.
Abili da sempre nel mescolare amore e rabbia, energia e malinconia, i tre questa volta
consegnano un disco dimesso, segno tangibile
del fatto che i tempi sono cambiati e che la
generazione ribelle di cui hanno fatto parte ha
perso, o almeno teme di aver perso. Parte con
una frase lapidaria – “Non voglio che i miei
figli crescano come me” – l’opener This Sullen
Welsh Heart, con la partecipazione di Lucy
Rose: è il momento, dunque, di riavvolgere la
pellicola e guardarsi indietro con animo (spesso solo apparentemente) mite, di attingere dal
proprio bagaglio di esperienze e dalle proprie
influenze. Così, se in Anthem For A Lost Cause
(un titolo che è tutto un programma) riemergono i Manics di A Design For Life, in Builder
Of Routines si gioca a rievocare i Beach Boys
spectoriani di God Only Knows. Della partita è
anche l’ex Pulp e Longpigs Richard Hawley,
con il calore di una voce che ammalia e conquista nel tripudio d’archi della title-track, così
come Cate Le Bon (cui James lascia il campo
libero in 4 Lonely Roads).
r e c e n s i o n i
viaggio nell’RandB west coast, in un modo che
– a nostra memoria – pochi erano riusciti a fare
da queste parti.
Il disco, poi. Down The West Side, Freetown
Solo, che già da sole sostengono l’impalcatura
dell’opera, pullulano di armonia e orecchiabilità, con innesti hip hop e curvature di chitarre
acustiche da tramonto a Palm Beach. E anche
se al mic non c’è una Mary J Blige a singhiozzare, la voce di A, più consapevole (anche se
palesemente più rauca), fa una certa figura. Ci
sono Game, De-light e Pratical Friday che sono
più vicine alle produzioni precedenti, macchiate di Royksopp, ma che qui compaiono in una
veste più melodica. E in questo senso potrebbero dirci qualcosa Neon Indian, Washed Out
o Toro Y Moi. C’è il gusto vagamente jam-jazz
d’effetto radiofonico di L.E.M.O.N. o Midnight
Radio, che riprende il discorso lasciato in
sospeso da Touch dei Daft Punk. Menzione
a parte merita il binario B Song – Slow, che
omaggia egregiamente il retro funk graffiato
sui piatti di Beck, anche questo un nome che
non si fa spesso quando si parla di musica italiana.
Il classico pelo nell’uovo è rappresentato da
canzoni fin troppo ripetitive. Il main theme (se
così vogliamo chiamarlo) di When è utilizzato,
con le dovute minime variazioni, in almeno
quattro brani, relegando l’ampio respiro delle
melodie ad una sorta di mantra rituale, che
qualcuno potrebbe apprezzare proprio per
questa sua ossessività. Poca cosa, comunque,
per chi ha davanti a sé un grande futuro.
7.3/10
Alessandro Liccardo
r e c e n s i o n i
Marianne Faithfull - Broken English
(Deluxe edition) (Universal,2013)
Genere: post-punk
Con un anno d’anticipo sul 25ennale, si celebra
con l’edizione deluxe quello che è il centro e lo
snodo fondamentale della carriera di Marianne
Faithfull, il disco con cui nel ’79 si scrollò di
dosso anni di vagabondaggi artistici e biografici.
Come ormai è noto, uscita dalla cerchia Stones
e dalle sue seduzioni letali, l’icona della Swinging London non era tornata davvero ad una
vita regolare, imboccando anzi una via fatta di
nomadismo, abusi, stravizi, vagabond ways sul
serio (come intitolerà un album più tardi) che
ne avevano messo a repentaglio salute e carriera. La quale, peraltro, languiva tra un disco
non pubblicato, un segno di vita come guest nel
1980 Floor Show di Bowie e un dimenticatoio
interrotto da un contratto arrivato “non so neanche io perché” per un disco country, Dreamin’
My Dreams, che altrettanto misteriosamente
finisce per vendere bene in Irlanda. Ma come
aveva dimostrato l’ospitata dal Duca, Marianne
non aveva perso la capacità di trovarsi dove si
muovevano le cose nuove, e in quegli anni bazzica musicisti del nascente giro new wave: con
uno, Ben Brierley dei Vibrators, intraprende
una relazione che arriverà al matrimonio, mentre con il chitarrista Barry Reynolds realizza
un paio di canzoni che suscitano l’interesse di
Chris Blackwell, il quale la mette sotto contratto ma soprattutto nelle condizioni di rinascere
artisticamente.
Perciò niente tentativi di bissare il successo del
precedente disco replicandone lo stile: il gruppo viene dal nuovo ambiente musicale, parla la
lingua dell’epoca sapendo cogliere e rielaborare le tendenze più vive e fervide del momento,
sia stilisticamente che come capacità di raccontare il mood di quegli anni, e in quel senso
Marianne e co. dirigono gli sforzi. Il risultato
o t t o b r e
Rewind The Film è un insieme di frammenti, di
riprese che disposte in ordine sparso formano
un racconto. Canzoni come parole estratte da un
cappello burroughsiano, talvolta grintose (Show
Me The Wonder è un felice pop tutto melodia e
fiati in primo piano, quasi à-la Divine Comedy) e talvolta depresse (è il caso della marcia
funebre As Holy As The Soil), spesso con il gusto
immutato per la citazione colta – Manorbier è
un cinematico brano strumentale, con tanto di
theremin che rievoca il luogo che Giraldus Cambrensis definì “il punto più gradevole del Galles”
e in cui una giovane Virginia Woolf e Siegfried
Sassoon si recavano per trarre ispirazione per
le proprie opere letterarie. Quindici anni dopo
Tsunami tornano le suggestioni orientaleggianti
nell’elegante (I Miss The) Tokyo Skyline, un potenziale singolo in un album che funziona meglio in modalità “shuffle” piuttosto che nel poco
scorrevole ordine originale della sua scaletta:
i duetti sono tutti all’inizio, e ci sono troppe
ballate acustiche una dopo l’altra che tendono a
formare un unicum indistinto.
Le si promuove con riserva, queste dodici canzoni dal gusto dolceamaro che spesso non seducono, se non con ascolti ripetuti. È come se
si avvertisse una certa stanchezza nella penna
di Nicky Wire, come se alcune tracce stessero
qui a fare numero (i Manics hanno relegato al
rango di B-side brani più incisivi di alcuni di
quelli che troverete qui). Chissà, forse una selezione più accorta dei pezzi migliori di questo
episodio e del prossimo, già praticamente pronto, avrebbe giovato. I tempi di The Holy Bible
non torneranno più, ma a quanto pare neppure
quelli di This Is My Truth, Tell Me Yours - più
volte accostato a questo nuovo album durante
le interviste. Rewind The Film è un disco un po’
così, di passaggio, a tratti anche un po’ bolso,
che riesce a convincere solo in parte.
6/10
119
o t t o b r e
120
sboccatezza scritta dall’enfant terrible Heathcote Williams, la quale diventa un sermone
d’accusa e gelosia nei confronti del suo famoso
ex-fidanzato.
Un disco epocale, dopo il quale però non
vissero tutti felici e contenti – almeno non
subito: per la salute ci sarà ancora la battaglia
contro l’alcool, mentre artisticamente il disco
successivo sarà un passo indietro. Ci vorrà l’87
circa perché le cose si stabilizzino: intanto
le basi sono state gettate. L’edizione include
anche materiale dai singoli (l’aggiornamento
alla nuova vocalità di Sister Morphine, qualche
remix 12) e il mix originale del disco, preferito
dall’autrice ma sacrificato a un suono meno
classico e più asciutto, secondo i dettami della
“freddezza” wave (peccato però per certe chitarre argute della title-track…), oltre ai promo
video girati all’epoca da Derek Jarman.
9/10
Giulio Pasquali
Mark Kozelek and Desertshore - Mark
Kozelek and Desertshore (Caldo Verde
Records,2013)
Genere: rock, blues, folk
Detto fatto. Arriva puntuale come un orologio
svizzero l’ennesima produzione di Mark Kozelek in questo 2013 fortunato. Creatura multiforme che sembra aver momentaneamente
accantonato il moniker Sun Kil Moon, Kozelek è tornato alla carica dopo aver sperimentato i pattern elettronici conditi all’occasione
dal figlioccio Album Leaf. Ed è tornato come
meglio sa fare: con al suo fianco la band strumentale Desertshore, composta dal compagno
di sempre Phil Carney (già insieme nei Red
House Painters e Sun Kil Moon) e dal pianista classico Chris Connelly, ai quali si aggiunge,
in fase di registrazione, il batterista dei Sun Kil
Moon Mike Stevens. Il risultato, musicalmente
parlando, è una nuova linfa per brani slow che
r e c e n s i o n i
è un disco che fa sembrare lontano anni luce il
country di poco tempo prima: è il disco di una
reduce dagli inferi, a partire dalla foto virata
blu in copertina, dove “broken english” sembra indicare lei stessa, e dove quella voce che
per alcuni era stata rovinata dalla sregolatezza
diventa mezzo principale per il racconto dei
travagli attraversati.
Attraverso il rock robotico e insieme accorato
della title track, dedicata alla terrorista Ulrike
Menhof e vibrante delle ansie più oscure di
fine ’70, una Witches’ Song che ricorda l’appellativo dato da sempre alle donne che escono
dalla norma e in cui canta “Danger is great
joy, dark is bright as fire”, il blues meccanico
vagamente Nightclubbing di Brain Drain che,
come la successiva Guilt continua ad alludere
ai suoi recenti trascorsi e ai giudizi che suscitavano, l’autrice ridefinisce una sua nuova identità, seppellendo definitivamente la vecchia
Marianne-usignolo sotto quella di una donna
che a 33 anni sembra aver vissuto e visto tutto.
Non come Lucy Jordan, la cui ballata apriva il
lato B del vinile: pescata dal repertorio dei Dr.
Hook and the Medicine Show (tipica rock
band post-west coast che a un tratto passa armi
e bagagli alla disco), vibra maestosa nel narrare la vita frustrata e tranquilla di una Emma
Bovary a stelle e strisce, specchio al negativo
della cantante. La quale, dopo la corsa spacedisco-boogie di What’s The Hurry, chiude il
disco con due botti da leggenda. Il primo è una
cover spettrale – e definitiva – della lennoniana
Working Class Hero (i Green Day con la loro
versione fanno una figura da ragazzini, benché
ai tempi delle rispettive incisioni loro fossero
quattro anni più vecchi), un blues minaccioso squarciato da lame di chitarra, in cui le 12
battute vengono ridiscusse non ignorando la
lezione dei Pink Floyd di Money. Il secondo è
Why D’Ya Do It?, un reggae lurido e punkeggiante che mette in musica una poesia di rara
r e c e n s i o n i
Cloud che mette nella stessa strofa la mancanza lacerante che si prova per il piccolo gatto
morto nel 2011 e… “slipped off to kitty heaven”,
con la dipartita dell’amico Tim Mooney degli
American Music Club, che sprigiona in Kozelek un senso di tenerezza e di consapevolezza
amara sulla vita.
Musicalmente intenso e orchestrato secondo
metodi vagamente chamber rock, Desertshore
riserva ancora sorprese per gli amanti di Kozelek. Perché la scrittura personalissima non
omette racconti e storie degne delle migliori
sceneggiature hollywoodiane. Come quella
di Hey You Bastard I’m Still Here, nella quale
Mark racconta di aver letto la Bibbia Satanica
da bambino e di aver incontrato Anton LaVey,
leader della Chiesa di Satana, in un supermercato dell’Ohio. Non dobbiamo crederci, ma
l’impatto è potentissimo. Così come lo è nel ritratto anaforico di Jason Molina, citato in Sometimes I Can’t Stop o nelle parole rassicuranti
del padre dopo la morte di uno zio in Brothers,
alle quali si aggiungono un falsetto singolare e
una coda di pianoforte che spegne il disco nel
silenzio della morte.
Non è certo l’opera che consegna Kozelek alla
Storia, questa con i Desertshore, perché lui
nella Storia c’è già. E il nuovo lavoro lo conferma semplicemente, consegnandosi ai posteri
nello splendore intatto di un ennesimo masterpiece. Così ormai ci ha abituato e il rischio di
viziarci rimane alto. Assetato di storie e impavido, però, Kozelek rimane il ragazzo insicuro
di un tempo, con la differenza che ora è capace
di dirlo al mondo, senza temere le conseguenze. Così semplifica in Tavoris Cloud: “At the age
of 46 I’m still one fucked-up little kid who cannot figure anything out”.
7.3/10
o t t o b r e
non sfigurerebbero nelle tracklist degli album
di gioventù delle varie formazioni del cantautore di San Francisco. Ma non solo: i lunghi tappeti di piano e i ritmi spesso sincopati rendono
Desertshore uno degli album più “movimentati”
della sua carriera.
Come spesso accade quando si parla dell’aura
monotona e coinvolgente delle corde vocali di
Kozelek, la vera virtù del disco si nasconde nei
testi. Sembra – ora più che mai – che il nostro non abbia più paura di nulla. L’attitudine
timida e spersonalizzante che aveva toccato, a
volte, la sua produzione, lascia il posto ad un
autobiografismo spiazzante, di quelli che quasi
imbarazzano l’ascoltatore. Ci troviamo immersi in particolari intimi della vita dell’autore,
che come vene pulsanti, ritrasmettono nero su
bianco storie, ricordi e i sentimenti di sempre.
Come in Livingstone Bramble, dove una scenetta di insonnia si incrocia con ricordi di vita
d’artista in contesti difficili (“Ho telefonato al
mio promoter spagnolo riguardo l’imminente
tour in ottobre / erano le quattro del mattino
quando mi sono rilassato e ho stretto a me il mio
amore”) che finiscono nel più umile (e forse
triste) dei modi: guardando un incontro fra Ray
“Boom Boom” Mancini e Livingstone Bramble
sul canale ESPN Classic.
E Livingstone Bramble ci permette di parlare
dell’ispirazione quanto mai giocosa e divertita
che regna, sia musicalmente (con i Desertshore a fare il verso ai Crazy Horse), sia dal punto
di vista del songwriting. Leggete qua: “Posso
suonare come Fripp o come Johnny Marr / fare
giri come Jay Ferrar”. Non sembra Kozelek.
O forse sì, perché subito dopo spunta il solito
dentino avvelenato: “I hate Nels Cline” sentenzia nella canzone, mentre Carney si cimenta
in un assolo terribile, che dovrebbe parodiare i
Wilco. Ma la vena ironica non si esaurisce qui,
perché viene condensata e mixata egregiamente a un fingerpicking malinconico di Tavoris
Nino Ciglio
121
Genere: rock, post
“Noi che accendiamo lumi, / per nasconderci
le luci”. Sta forse tutto in quel “noi” ripetuto
più volte nell’iniziale Dio delle zecche – stranamente l’unico testo non scritto da Emidio
Clementi, l’autore è Danilo Dolci – il significato
del nuovo disco dei Massimo Volume. Quasi
si trattasse di una condivisione d’intenti con
chi ascolta, di un capirsi senza parlare, lontani da un quotidiano che fa paura (vince chi
resiste alla nausea / chi perde meno / chi non
ha da perdere) e ben saldi a un passato che in
qualche maniera ritorna. Sempre lungo i bordi,
a leccarci le ferite tra stanze in affitto e personaggi da romanzo, qui forse ancor più che in
quel Cattive abitudini che tre anni fa aveva
sancito un ritorno convincente per una band
amatissima dal pubblico e mai dimenticata.
Disco raffinato, calibrato, analogico e per certi
versi anche “innovativo” quello (atmosfere in
molti casi più lente, riflessive), almeno quanto
Aspettando i Barbari – grazie anche a suoni
più scuri e decisamente elettrici – ci sembra
fisico, ortodosso, rappresentativo dell’immaginario più “riconoscibile” dei Massimo Volume. Soprattutto nei testi, tanto che quando si
racconta dell’abitare stanco di Silvia Camagni o
si collezionano fotogrammi di vite vissute alla
mercé del destino in La notte, sembra quasi di
stare ai tempi di Stanze o Da Qui.
Del resto, se anche Clementi, intervistato qualche tempo fa da Radio Città del Capo, si sbilanciava definendo il nuovo parto come qualcosa
di più “freddo” rispetto all’album precedente,
un motivo ci sarà. Da ricondurre, certo, alle
registrazioni in digitale che hanno caratterizzato le session dell’ultimo disco (diversamente
da quanto accaduto con Cattive abitudini),
alla circostanza che ha visto i musicisti lavorare spesso sui brani ognuno per conto proprio,
122
ma forse anche al periodo storico in cui i due
album sono stati concepiti. Là si parlava di un
mettere insieme i cocci dopo otto anni di latitanza, di un tentativo di rinascita niente affatto
scontato da consumare (magari) tra equilibrismi sottili; qui il passo sembra deciso e veloce,
con tre anni pieni di concerti – e, crediamo, di
soddisfazioni – alle spalle. Un disco più diretto
del predecessore, insomma, profondo come
sa essere ogni cosa partorita da quel marchio
registrato che è ormai la band bolognese, ma al
tempo stesso senza troppi livelli interpretativi
da diradare. Anche dal punto di vista musicale,
a giudicare da un suono che non cerca intermediari, leggermente arricchito nei timbri –
spuntano anche aromi di synth – ma comunque
riconoscibile: post rock stratificato e a suo
modo metodico nelle progressioni più evocative (Il nemico che avanza), noise in certe chitarre taglienti (Compound), con sprazzi sorprendenti come i For Carnation di Vic Chesnutt
o il Clementi in “versione John Lydon” negli
acuti di Dymaxion Song.
Consolatorio in tempi grami come sono quelli che stiamo vivendo (la notte / è una lama
illuminata / che taglia il buio / e la paura / e
punta avanti / dove tutto / riposa immacolato
/ e giusto / e nostro / e puro / prima dell’arrivo
dei barbari, si canta nella title track) e ricco di
ricordi personali (la San Benedetto del Tronto
di Clementi citata in La cena), Aspettando
i barbari è in fondo un disco consapevole.
Quella consapevolezza da artigiano che serve a
tradurre con onestà e etica del lavoro un immaginario in tutte le sue declinazioni, conoscendone alla perfezione tempi e modi. In questo
i Massimo Volume sono sempre stati bravi e il
loro sesto album ne è l’ennesima conferma.
7.2/10
Fabrizio Zampighi
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Massimo Volume - Aspettando i barbari
(La Tempesta Dischi,2013)
Genere: pop, dream
I Mazzy Star non sono tipi da intervista. Nella
loro storia ne hanno rilasciate pochissime e
sempre molto laconiche. Solo due (per ora)
servono ad aprire la campagna pubblicitaria
del loro ritorno dopo diciassette lunghi anni.
Al Guardian, però, le cose sfuggono un po’ di
mano e l’intervistatore in difficoltà si trova a
confrontarsi con il muro di timidezza (c’è chi,
nei commenti, la definisce arroganza) di Hope
e David e sperimenta sulla propria pelle quanto
scriverà nel prosieguo: “Intervistare i Mazzy
Star è come gettare sassi in un pozzo profondo
e aspettarsi di ricevere deboli spruzzi di ritorno”. Si ha a che fare con questo quando si parla
di Mazzy Star. Di una band che si è ritrovata
catapultata nel culto Nineties dello slow core,
del dream pop di matrice più acustica, di quel
clima di malinconica decadenza che nei Novanta faceva da contrappunto agli amplificatori
ridotti in macerie del grunge.
Ma i Mazzy Star non hanno taciuto per questi
diciassette anni che separano Seasons Of Your
Day dal 1996 di Among My Swan. Dai progetti collaterali di Hope Sandoval (quei Warm
Inventions in cui ha militato anche l’amicopartner Colm Ó Cíosóig dei My Bloody Valentine) all’assiduo lavoro in studio, che ha
portato la band a raccogliere i dieci episodi di
Seasons Of Your Day. Si avverte palese più che
mai una linea di continuità, in effetti, soprattutto con il loro canto del cigno del 1996. Se
l’esordio She Hangs Brightly (datato 1990!),
infatti, sembra invecchiare meglio ad ogni
ascolto con la sua freddissma lucentezza e So
Tonight That I Might See presenta sprazzi di
animata wave che al tempo facevano il verso a
quanto di più prolifico avesse prodotto da un
lato il Regno Unito in campo dream (Jesus and
Mary Chain), dall’altro gli USA in campo slow
core (Low), l’asse Among My Swan – Seasons
Of Your Day ripesca soprattutto dal calderone
blues-country-americana le armi più convincenti.
A primo acchito, sembra che il tempo si sia fermato. Il songwriting è potente, la voce di Hope
– nonostante i suoi 47 anni – più soave che mai,
le risposte sulla sei corde di Roback sempre
più pure di fingerpicking e slide. L’apertura,
affidata a In The Kingdom, è giocata sui modelli
folk di una scrittura paragonabile a Dylan o
Neil Young, come se la nativa messicana Hope
sentisse il bisogno di ripescare le radici più incontaminate, scrivendo sull’organo, sugli slide
lisergici di Roback e sui ticchettii di glockenspiel, un nuovo passato. Elettricità e acustico
trovano una fusione molto interessante, un
equilibrio nel quale tutti gli strumenti suonati
nel disco (moltissimi, ma appiattiti nel solito
gioco di monotonia del genere) restituiscono
un clima “morfinico” di cui California (singolo
prescelto, ma forse il brano meno rappresentativo) è l’esempio più palpabile. Canta come una
Joni Mitchell del Mississippi, la Hope, che in
I’ve Gotta Stop si riscopre blues-girl sorretta
dai lick soffusi della distorsione di Roback e
dalle rade percussioni di Colm Ó Cíosóig. E
canta di passioni bruciate nel fuoco del tempo in Common Burns, unico brano (insieme a
Lay Myself Down) edito in un 12’ del 2011. Non
sfigura, in quest’ottica, il cameo di Bert Jansch
– leggenda scozzese della sei corde, recentemente scomparso – che, per Spoon, intesse un
fragile mantra di slide e arpeggiato come quelli
che si sentivano nelle dark ballads dei Velvet
Undeground and Nico. C’è tempo persino di
ricordarsi i referenti psycho pop nella cavalcata
interminabile che chiude il disco, Flying Low.
Un tocco di armonica, la voce spinta sempre
più in profondità e qualche giro che potrebbe
accendere l’interesse dei fan della chitarra di
Jimmy Page.
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Mazzy Star - Seasons Of Your Day
(Rhymes Of An Hour,2013)
123
o t t o b r e
Nino Ciglio
MGMT - MGMT (Columbia
Records,2013)
Genere: pop
Tornano gli MGMT di Andrew VanWyngarden
e Ben Goldwasser con un nuovo disco, questa
volta omonimo, registrato ai Tarbox Road Studios ancora una volta con Dave Fridmann (coproduttore e già dietro al mixer nel precedente
Oracular Spectacular) e accompagnato nella
versione Deluxe da un software (“Optimizer”)
a integrare musica e immagini video.
Tre i singoli previsti (a Your Life Is A Lie seguiranno Alien Days e Cool Song No. 2) per un
album che tradisce fin dall’incipit un’ispirazione squisitamente sixties, in un magma sonoro
che si destreggia tra la psichedelia sghemba dei
Pink Floyd di The Piper At The Gates Of Dawn
e l’eleganza elettronica e retrò degli Air, passando per il Brian Eno di Here Come the Warm
Jets e certe atmosfere dei Mercury Rev di
124
Yerself is Steam. I Nostri si lasciano così definitivamene alle spalle l’elettro-pop e la naturale
vocazione all’anthem da dancefloor delle varie
Kids e Time To Pretend, e abbandonano qualsiasi struttura canonica nel nome di una ricercaomaggio alle loro radici musicali: con le voci
quasi mai in primo piano sono i suoni a farla da
padrone, dando all’intero lavoro una coerenza
che travalica i singoli episodi (davvero difficile
estrapolare una canzone piuttosto che un’altra, tanta è l’impressione di trovarsi di fronte
a un’unica, inscindibile massa sonora), minimizzando le differenze che intercorrono tra i
brani; facile così scovare, nella marcetta garage
di Your Life is a Lie e nel marziale incedere
della cover Introspection il fantasma del solito
Syd Barrett, mentre sono i Beach Boys in LSD
uniti ai Beatles di Sgt. Pepper’s e del Magical
Mistery Tour a far capolino nella cantilena pop
Plenty Of Girls In The Sea, a cui fa da contraltare la cupa – e flaminglipsiana – Mistery Disease.
Se Congratulations, privo com’era dei singoli
che avevano fatto la fortuna del suo predecessore, era stato forse oggetto di delusione per
i sostenitori di Oracular Spectacular, questo
terzo lavoro in studio si sposta un gradino più
in là, lasciando un gap difficilmente colmabile tra i Nostri e chi, in loro, ricerca ancora la
geniale spensieratezza di Electric Feel. MGMT
è un album prezioso, netto nel suo tagliare ogni
ormeggio con la monotonia della realtà moderna, decisamente interessante, sicuramente
pretenzioso, figlio di una band che però, forse,
sotto questa attitudine ha sepolto una piccola
parte di anima.
7.3/10
Enrica Selvini
Moby - Innocents (Mute,2013)
Genere: elettronica
A Moby va riconosciuto un gran talento nel
r e c e n s i o n i
Strana storia, quella dei Mazzy Star. Una
storia che – nonostante il culto nato con brani come Fade Into You che li ha catapultati
nell’Empireo del genere – i Nostri sembrava
non avessero intenzione di vivere, di sfruttare.
Rinchiusi in una gabbia di timidezza e fragilità che li ha un po’ resi un enigma da risolvere,
forse ricavavano attrattiva precisamente da
quella. Ora che sono diventati tangibili, qualcosa è sfuggito. E Seasons Of Your Day ne è un
po’ la conferma, dal momento che le canzoni
non sono state pensate per un exploit di ritorno
(o per una reunion, come molti penserebbero),
bensì centellinate punto per punto in questi
diciassette anni. Un disco, in fin dei conti, che
non aggiunge nulla alla loro carriera, che non si
preoccupa del tempo che passa, ma si difende
egregiamente attraverso una scrittura che solo
loro avrebbero saputo concepire.
7/10
r e c e n s i o n i
zione sorniona nella pantomima gospel – quasi
dei Polyphonic Spree in sollucchero – di The
Perfect Life, mentre l’ex-Screaming Trees mastica la filastrocca piana di The Lonely Night
come se non avesse alcuna consapevolezza di
quanto gli sta accadendo intorno (per inciso:
un blando cincischio sintetico che azzecca un
crescendo dalla delicata bellezza).
In definitiva è un disco ambizioso, dal quale
potrebbero decollare due o tre singoli da alta
classifica, che purtuttavia tradisce una insanabile distanza tra intenzione e possibilità. Prendi la traccia conclusiva, quella The Dogs cantata dallo stesso Moby in un tremolio malfermo
di tastierine 80s, un po’ come potrebbero dei
Depeche Mode visti attraverso una caramella
eniana: comunica un senso di smarrimento gradevole, quasi confortante, ma scivola via proprio come l’aurea mediocritas del suo fortunato
autore.
6.2/10
Stefano Solventi
o t t o b r e
confondere i piani tra complesso e facile, tra dimensione radiofonica e retroterra alternativo,
tra fatamorgane vintage e pulsione futuristica.
Ciò che gli ha permesso (e ancora gli permette) di confezionare ordigni pop tanto fascinosi
quanto didascalici, che nei casi più riusciti
sembrano naturalmente destinati ad occupare l’airplay. Merito del metodo, quel ricorso
sistematico – al limite dell’ossessivo – ad un
espediente in loop (spesso un sample) su cui la
canzone si sviluppa e a cui l’ascolto s’aggrappa.
Modalità tanto efficace quanto ripetitiva,
proprio il motivo per cui non riesco ad andare
oltre un moderato apprezzamento per l’arte
di Richard Melville Hall. Il quale in occasione
dell’album numero undici ha pensato di accantonare quasi del tutto la pulsione danzereccia,
per confezionare una sorta di concept sul tema
della vulnerabilità, quanto mai attuale in questi
tempi di precariato incipiente e progressivo. Ed
ecco quindi che, chiamato Mark “Spike” Stent
a co-produrre e una pattuglia eterogenea di
ospiti ad interpretare, ci propone una collana
di ballate malinconiche e visionarie, sclerotizzate d’imperfezioni calcolatissime, esercizi
di nazionalpopolariato evoluto con sospetti di
alternativo strisciante.
Qualche strumentale che vaporizza evanescenze siderali da qualche parte tra Air, Eno
e Terry Riley (Going Wrong, Everything that
Rises), downtempo languidi con implicazioni
spacey un po’ Morcheeba e un po’ Zero 7 (The
Last Day, per la mestamente sensuale Skylar
Grey, oppure A Case for Shame, cantata da una
intensa Cold Specks), così come acidità noir
asperse di funk cinematico (Don’t Love Me,
affidata alla grinta allusiva di Inyang Bassey).
Incuriosiva parecchio, sulla carta, la presenza
di Damien Jurado, Wayne Coyne e Mark
Lanegan: ebbene, il primo regala vibrazioni
lunari alla toccante ma invero sempliciotta
Almost Home, il secondo sfodera una presta-
M.O.F. - Fried Generation (Auand,2013)
Genere: elettronica, jazz, fusion
Rispetto all’esordio Embarrassing Days –
correva l’anno 2009 – il quintetto ferrarese
sfronda dalla ragione sociale il “5tet”, rinunciando così ad una connotazione di chiara
matrice jazzistica. Quasi a voler sottolineare
ciò che i Nostri fanno in musica, ovvero la fuga
dal recinto (aureo) jazz per infilarsi in un solco
freneticamente indefinibile tra fusion e rock,
mossi da un piglio di concitata sperimentazione su suoni e strutture. Chiamateli più semplicemente MOF quindi, e aspettatevi caroselli
adrenalinici di trame funk-rock e sinuose trepidazioni cyber-blues, venate soprattutto dalla
chitarra e dagli ordigni elettronici di Frank
Martino (bravo sia nel lavoro di fino, che nelle
sfuriate ipercinetiche à la Scofield in overdose
bop), senza nulla togliere alla sezione ritmica e
125
o t t o b r e
Stefano Solventi
Neve Naive - The Inner Peace Of Cat
And Bird (Sonar Kollektiv,2013)
Genere: pop
I Neve Naive sono un duo composto dalla cantante Alexa Voss (attiva come corista, nonché
da sola come Miss Flint) e da Stefan “Merse”
Ulrich, produttore nonché trombonista nei
Ruffcats e nella live band dei Jazzanova.
All’esordio ma non debuttanti, dunque, come
mostra un sound che già risulta compiutamente definito: contrariamente a quanto suggerirebbe una copertina da folk-pop fricchettone,
lo stile segue le linee di un mix tra elettronica
e soul, tra swing e occasionali glitch; dove se si
eccettuano le ballate Anti Realist e Goodnight
My Friend o quelle in battuta bassa di Hands
e Maybes, o l’ospitata di Blake Wormell in
Bubblegum (sorta di soul-hip hop radiofonico
126
dalle frenesie p-funk – o Django Django), per
il resto il boogie risulta il tratto dominante, da
30 Years, che apre le danze dopo l’intro glitchambient, al vaudeville solare di How I Learned
To Fly, da Junkyard al gran bel singolo Dancer.
L’umbratile cocktail tra vintage e contemporaneità risulta legato ai suddetti Jazzanova
solo alla lontana e presenta sia ingredienti che
risultati diversi tanto da Matthew Herbert in
versione big band che, per dire, da una Caro
Emerald: non che i nostri non siano pop, ma
lo fanno scivolando lungo swing notturni per i
quali risultano più calzanti richiami come i Micatone o il Tricky che rielabora Billie Holiday
sul primo volume di Verve Remixed, con il triphop che affiora anche in alcune cadenze Laika
o nel modo in cui la voce sa emergere impudente come certa Beth Gibbons (ma volendo
anche sbarazzino alla Whigfield).
Un pop dunque che sa poggiarsi su elementi
che in teoria pop lo sono poco, come le batterie
scorticate e i controtempi, e che non sacrifica
alla cantabilità la costruzione di un paesaggio
sonoro peculiare e sempre in movimento.
7.3/10
Giulio Pasquali
Nightmares On Wax - Feelin’ Good
(Warp Records,2013)
Genere: elettronica
Settimo album per George Evelyn, in arte
Nightmares On Wax. Prima generazione
Warp che ritorna sul luogo del delitto e continua la missione musicale degli esordi sheffieldiani della label inglese con una dolcissima
miscela di downtempo, funk e slow motion di
classe (a voler essere precisi, i primi singoli
dell’uomo erano sperimentazioni bleep, ma il
biglietto da visita che lo ha reso famoso è sempre stato su coordinate trip).
Il disco è un buon mix di chill-out music con
ritmiche che vanno a pescare da un dub in-
r e c e n s i o n i
al lavoro generoso di sax e trombone.
Ne esce un interplay evocativo (il mistero febbrile di You’re Doing It Wrong, la cinematica
Leo Rising) e incendiario (l’incalzante The One
Who Met, la convulsa A.M.), un delirio lucido
scritto sui nervi (la pungente apprensione di
Dramma in B.) e non senza ironia (il lirismo
sonnacchioso di Morning). Il jazz è ancora un
sostrato evidente, ma l’approccio è libero, senza preconcetti, la scrittura esce agilmente dalle
pagine (vedi la scattante mutevolezza avantbop di Pay Pray Play), i mostri sacri vengono rievocati con disinvoltura (le particelle Weather
Report nella sincopata Eureka, in sella ad una
formidabile tensione cubista di piano) mentre
le radici blues diventano un respiro denso e
necessario (la mesta, bellissima Finally Fried).
Probabilmente il diaframma tra jazz e pop-rock
non si dissolverà mai, ma dischi del genere
autorizzano a pensare che sia soprattutto un
problema di chi (non) ascolta.
7.2/10
r e c e n s i o n i
Marco Braggion
of Montreal - Lousy With Sylvianbriar
(Polyvinyl Records,2013)
Genere: pop, psych, indie
Kevin Barnes si dà al classic rock? Sì e no.
Come sempre non c’è una visione univoca e
coerente nel mondo scombinato degli of Montreal. Nel senso che se è vero, come dice la cartella stampa, che il folletto di Athens accantona
funk e strumentazione sintetica per abbracciare un sound più organico, se pure la polverosa
ombra dei Flying Burrito Brothers si estende
su brani dal taglio folk rock come Belle Glade
Missionaries, è anche vero che, alla prima svolta, la ruvidezza Seventies si nebulizza nel solito
effluvio di colori e profumi speziati.
Nell’esilio auto-imposto a San Francisco, Barnes è andato alla ricerca delle radici artistiche,
ma non necessariamente di quelle West Coast.
Diciamo che dopo le mossette alla Prince,
la sbandata R’n'B e le geometrie variabili dei
precedenti album, si ritorna agli amori di un
tempo: alla narrativa kinksiana, alla malizia
decadente del glam. Una maggior linearità fa
affiorare le influenze in tutta la loro evidenza
(in Imbecille Rages e She Ain’t Speakin’ Now è
come se Syd Barrett fosse alla guida degli Spiders From Mars) e permette a Barnes di dimostrarsi autore di canzoni in senso stretto, senza
dover spiazzare l’ascoltatore ad ogni costo. Ci
sono almeno due canzoni che danno il metro di
quanto riesca nel suo intento: la prima è la toccante Sirens Of Your Toxic Spirit, delicata ballata che accarezza i timpani come uno stormo
di cherubini che cantano 13 dei Big Star; l’altra
è Hegira Emigré, un boogie sudista attraversato
longitudinalmente da lampi psichedelici.
È così che la seriosa prosopopea del 70s rock,
a base di ritmiche granitiche e slide guitar, si
infrange contro l’approccio surreale a cui eravamo stati abituati, trasformandosi in un’irresistibile farsa. In fondo è questo il filo rosso che
attraversa l’album, peraltro uno dei più solidi
dell’intero catalogo. Perché se è vero che gli of
Montreal più ammirati sono i Fregoli dell’indie
pop, capaci di sovrapporre senza posa ritmi
e melodie, sono poi i lavori più regolari come
Hissing Fauna, Are You The Destroyer? a
consolidarne lo status. Insieme a quest’ultimo,
Lousy With Sylvianbriar è un album che può
fungere da entry point anche per nuovi adepti
al culto degli of Montreal. Sappiano, però, che
un Kevin Barnes altrettanto accomodante non
lo troveranno tanto facilmente.
7.3/10
o t t o b r e
farcito di ottoni (Tapestry), soul in battuta
bassa (Give Thx), reggae (Be, I Do), jazz chic
di scuola viennese (con il featuring di Wolfgang Haffner in Luna 2) e ambient (Om Sweet
H(Om)e). La differenza con i lavori precedenti
sta nell’uso di suoni orchestrali, che riflettono
la collaborazione con Sebastian Studnitzky,
l’arrangiatore di Jazzanova. Non a caso ci sono
archi, qualche fiato e tappetini melodici balearic (There 4u) a far da collante ai brani.
Roba da pre-club Novanta, quando si aspettava
di andare al rave e ci si doveva scaricare, cose
che sentivamo in Funki Porcini, DJ Vadim,
Herbaliser o nella migliore Thievery Corporation (Now Is The Time). L’album suona
retrò, ma è compatto, ben prodotto e viaggia
senza problemi dall’inizio alla fine. Insieme a
Tosca, Evelyn è uno dei pochi sopravvissuti (e
non sputtanati) di quell’epoca, così distante, ma
anche così vicina. L’uomo usa bene la nostalgia
del passato, senza risultare patetico. Viaggione.
7/10
Diego Ballani
Okkervil River - The Silver Gymnasium
(ATO,2013)
Genere: rock, indie
Per l’ottava fatica di studio della band che deve
127
o t t o b r e
Marco Boscolo
128
Peter Gabriel - And I’ll Scratch Yours
(Real World,2013)
Genere: rock
Ci sono voluti tre anni per far sì che gli artisti
omaggiati da Peter Gabriel in Scratch My
Back ricambiassero il favore. Era già tutto nei
piani dell’ex Genesis: al suo volume dedicato
alle cover, reinterpretate in uno stile sobrio,
con arrangiamenti orchestrali tra il sublime
e l’ampolloso, tra il moribondo e il solenne,
sarebbe dovuto seguire subito il gemello And
I’ll Scratch Yours – tant’è che molti brani qui
presenti sono già noti ai più, perché diffusi in
release speciali per il Record Store Day o su
YouTube e SoundCloud. Troppo bello per essere vero: molti rifacimenti in risposta tardavano
ad arrivare, e qualcuno ha rinunciato a inviare
contributi dopo aver storto il naso (è il caso dei
Radiohead, inizialmente previsti in scaletta
con Wallflower) ascoltando la bizzarra trasformazione del proprio pezzo. Incassati i “no”
anche da David Bowie (Heroes), Neil Young
(Philadelphia) e Ray Davies, tutto è rimasto in
standby per un bel po’ di tempo.
Dopo aver rivisitato il proprio passato in New
Blood, sempre accompagnato dall’orchestra, e
dopo aver celebrato con un anno di ritardo le
venticinque primavere di So, Gabriel raccoglie
ciò che ha ricevuto e pubblica una compilation con dodici cover, con i nove più entusiasti
destinatari della sua missiva e tre sorprese
dell’ultimo momento – al posto di Bowie c’è
Brian Eno, che fa propria Mother Of Violence;
c’è Joseph Arthur (sulle cui capacità il Nostro
ha creduto sin dall’inizio, e del quale interpretò
In The Sun per un album-tributo a Lady Diana)
alle prese con una sinistra e rallentata Shock
The Monkey che lascia a casa trucco, tastiere e
drum machine e che al contempo suona diversissima dall’omaggio dei Coal Chamber e Ozzy
Osbourne già in circolazione; c’è Feist che fatica a dare una lettura “altra” di un classico come
r e c e n s i o n i
il proprio nome al titolo di un racconto di una
discendente di Aleksei Nikolaevich Tolstoi, gli
Okkervil River tornano a calcare il solco del
concept album come già avvenne con Stage
Names (dove però si osava di più sul fronte di
un rock ruspante ma barocco, quasi privo di
ritornelli) e Black Sheep Boy (che aveva dalla
sua una maggiore ispirazione generale). Qui la
produzione è affidata a John Agnello, già al servizio di Cyndi Lauper e John Mellencamp:
non proprio idoli dell’indie-folk. Il suono
rimane quello di sempre, ma per le cartoline
da Meriden (New Hampshire), la città natale
del Will Shelf che le firma tutte, l’attitudine è
meno sanguigna e meno folk che mai. L’operazione è quella di un album di solida tradizione
americana, al confine (forse si tenta il salto,
visto il produttore) di un mainstream mai così
alla portata di major indie come gli Okkervil
River.
Il problema è che tolta l’aura hipster della
presentazione del disco in grafica 8-bit e delle
atmosfere d’antan della copertina, si ha l’impressione di un disco scritto con il pilota automatico e, come già si notava da queste parti, costruito artificialmente attorno ad elementi che
funzionano, strizzando contemporaneamente
l’occhio ai fan di vecchia data e a un potenziale
pubblico da stadio. Quello, per intenderci, di
un Bruce Springsteen cantore dell’America
media (Meridien come il New Jersey?) o degli
Arcade Fire e di tutti i loro Suburbs. Dovrebbe essere significativo che il brano più riuscito
sia una cavalcata krauta (Walking Without
Frankie, che fin dal titolo rimanda ai Suicide
di Frankie Teardrop a cui sembra aver rubato
la base). Da galera, invece, le tastierone Ottanta messe in apertura di Stay Young: farebbero
vergognare anche Boy George.
5.5/10
r e c e n s i o n i
hanno qualcosa con cui spezzare l’appetito.
6.2/10
Alessandro Liccardo
PINS - Girls Like Us (Bella Union,2013)
Genere: rock, indie, post-punk, lo-fi, garagerock
Continua la stagione dei debutti all-female:
dopo l’ottimo tiro rock filtrato dal revivalismo post-punk delle Savages, dopo i cliché da
strappona portati avanti dalle evitabili Deap
Vally e il recentissimo Days Are Gone delle
ormai dive Haim, è arrivato il momento delle
mancuniane PINS. Attese da un anno – precisamente dalla pubblicazione dell’EP Luvu4lyf
– alla prova del nove, le quattro ragazze guidate
da Faith Holgate pubblicano su Bella Union il
proprio manifesto intitolato Girls Like Us, un
lavoro che si concentra su proclami (vedi il “we
wanted to kick off the album by letting listeners know that we are ready for a fight if they
want to take us on“, ma anche il titolo stesso
del disco) che oltre ad essere stereotipati, sono
anche decisamente anacronistici, figli di un
concettto – il riot grrrl – che ormai ha già fatto
il suo tempo. Non basta un look modaiolo – e
apparentemente dissociato dalle sonorità del
disco – a tappare le lacune compositive di un
progetto che sembra nascere e morire nell’inseguimento di un successo che probabilmente
faricherà ad arrivare: se da un lato è giusto appoggiare la convinzione nelle scelte DIY (l’album è stato realizzato in una sola settimana)
e la dialettica garage, dall’altro lato non si può
chiudere un occhio su una mancanza di idee
piuttosto lampante.
Che le fuzz-guitar del garage americano marchiato Vivian Girls abbiano ancora qualcosa
da dire è tutto da decidere; nel dubbio le PINS
arricchiscono a proprio modo quell’universo
con influenze geograficamente più vicine a
loro, dal periodo C86 a linee di basso di derivazione post-punk in zona Siouxsie and the
o t t o b r e
Don’t Give Up (già rielaborato anni fa da Willie
Nelson e Sinéad O’Connor), perfetto così com’è
nel già citato So.
La buona notizia è che And I’ll Scratch Yours
non suona mai come una serata karaoke tra
VIP annoiati: c’è chi grattando lascia segni
sulla pelle (Lou Reed stravolge Solsbury Hill
come lui solo sa fare, Randy Newman regala
una versione insolita, sbilenca e rudimentale di
Big Time) e chi si limita a fare un po’ di solletico (Regina Spektor offre un’interpretazione
delicata di una Blood Of Eden già delicata di
suo, Paul Simon asciuga Biko con una chitarra
acustica e appena accennate suggestioni world,
quasi in punta di piedi), ma il più delle volte
i brani sono scelti dal songbook con criterio
e ben si addicono alle personalità della sfilata. Per un David Byrne che delude, c’è una
Games Without Frontiers che suona come se
fosse stata scritta proprio per gli Arcade Fire,
e succede che Bon Iver e gli Elbow si trovino
perfettamente a proprio agio nelle rispettose
Come Talk To Me e Mercy Street e che Stephin
Merritt - colui che tanti anni fa si ritrovò il
veterano Gabriel tra il pubblico pagante di un
concerto dei Magnetic Fields e che raggiunse
una fetta di pubblico nuova grazie all’inclusione di The Book Of Love nella colonna sonora
di Shall We Dance - torni all’amata elettronica
lo-fi dei suoi esordi in una minimale Not One
Of Us.
Sarebbe potuto essere un vero pasticcio e invece And I’ll Scratch Yours alterna riuscite iniezioni di nuova linfa e piccoli momenti di noia.
Un progetto imperfetto, concretizzatosi in
ritardo, senza dubbio periferico in una carriera
che dopo Up si sta purtroppo macchiando con
qualche opera interlocutoria di troppo; Peter
Gabriel può permettersi di vivere di rendita,
ma attendiamo con ansia la zampata che – ne
siamo certi – è ancora alla portata di un vecchio leone come lui. Intanto, i fan impazienti
129
o t t o b r e
Riccardo Zagaglia
Pixies - EP-1 (Autoprodotto,2013)
Genere: rock
“Non ci sono Pixies in questi Pixies”, dice
Pitchfork. “Non so se mi accetterete. Non so se
vi accetterò. Ma abbiamo questo ricordo. Possiamo riprovarci?”, dice Black Francis. Nessuna
via di mezzo. O, con l’uscita definitiva di Kim
Deal, facciamo finire la storia con Trompe Le
Monde. Oppure diamo una possibilità ai Pixies
del 2013. Tertium non datur.
Senza entrare, volutamente, nel merito delle
implicazioni artistiche, biografiche, economiche e persino discografiche di questa vicenda (si ricorderà, iniziata con la rimpatriata
trionfale di nove anni fa), il dovere di cronaca
130
ci impone di dire che queste quattro canzoni
sono le prime pubblicate dai Pixies negli ultimi ventidue anni (se si eccettuano Bam Twock
e Bagboy, uscite sul web rispettivamente nel
2004 e nel giugno scorso, due settimane dopo
l’annuncio dell’abbandono della bassista), e
costituiscono la testa di un’annunciata serie di
EP che troverà diffusione esclusivamente attraverso il web. Ed è adesso che il nostro compito
si fa arduo, perché avremmo preferito fermarci
qui e lasciarvi alla messe di recensioni e pareri
a dir poco controversi già ampiamente disponibili in rete.
Ora, pur non abbracciando l’integralismo dei
nostri colleghi d’Oltreoceano (l’1.0 di P4k è del
tutto ideologico, risposta secca e implacabile al
patetico “I beg for you to carry me” che Francis piagnucola in Indie Cindy implorando, di
fatto, il pubblico indie a non abbandonarlo…),
fatichiamo davvero a trovare qualcosa che sia
degno del nome Pixies in questo EP. O meglio,
qualcosa che sia degno d’essere ascoltato.
Mettiamo pure da parte l’ingombrante passato,
nonché gli inevitabili imbarazzi di ripresentarsi oggi, senza un membro fondatore e per di più
con il ferro inesorabilmente raffreddatosi dopo
interminabili e logoranti tour autocelebrativi.
Semplicemente, questo EP-1 non è proprio una
gioia per le orecchie. Brani fiacchi, senza tiro,
neanche particolarmente efficaci dal punto
di vista melodico. Andro Queen è una ballata
eterea e bizzarra che poteva andar bene, al
massimo, per un album solista di Charles, e non
saranno certo i richiami alla fantascienza, la
chitarra acustica indolente o le frasi in esperanto a far venire in mente i Pixies. Nel suonare
né più né meno come un pezzo minore dei Weezer, Another Toe In The Ocean è quasi paradigmatica di quanto il tempo a volte sia tutt’altro
che galantuomo e, anzi, possa riservare scherzi
beffardi e crudeli. A parte i versi imbarazzanti
cui si faceva riferimento un po’ più su (cui ag-
r e c e n s i o n i
Banshees. Brevi tracce (solo la conclusiva The
Darkest Day supera i quattro minuti) segnate
dai limiti di un progetto la cui preoccupazione
maggiore sembra essere quella di rispettare
canoni estetici ben definiti, invece che stimolare l’ascolto (come invece fanno i non troppo
distanti gallesi Joanna Gruesome guidati da
Alanna McArdle, anch’essi all’esordio in questi
giorni). Nelle rare occasioni in cui invece questo succede, si è purtroppo di fronte ad abbozzi
(il psy-surf di un minuto Play With Fire, i cori
incrociati di Waiting For The End e Velvet
Morning, uno spoken su un riverbero chitarristo, guarda un po’, alla Velvet Underground),
mentre si presenta di frequente quella sensazione da band alle prime armi, ancora acerba,
da formarsi (I Want It All, la Lost Lost Lost di
“I feel alright, I feel so young. There’s nothing
else I want to become” e Stay True) e soprattutto priva di fantasia.
Possono solo migliorare le PINS, per il momento ancora intrappolate nella fase “suoniamo in una band, siamo cool”. Le attendiamo
alla seconda prova, senza rovinarci il fegato.
5.5/10
r e c e n s i o n i
Antonio Pancamo Puglia
Placebo - Loud Like Love
(Mercury,2013)
Genere: rock
Davvero difficile riconoscere in questo nuovo
lavoro targato Placebo la verve autoriale del
miglior Brian Molko, quello, per intenderci,
dei brani più amati e acclamati della band, da
Nancy Boy a Pure Morning, passando per Without You I’m Nothing. Per quanto l’ensemble
britannico non si sia mai realmente allontanato dalle coordinate che da poco meno di un
ventennio ne contraddistinguono il percorso,
in Loud Like Love tutto risulta annacquato e
privo di reale urgenza creativa.
Certo, il terzetto inglese si dimostra ancora
avvezzo a ritornelli-killer tra il rock e il pop più
accattivante (esemplificativa, in questo senso,
la title track), ma in episodi quali Too Many
Friends – potenzialmente, va detto, un singolo
micidiale – tutto suona pericolosamente vicino
a certa paccottiglia da spot pubblicitario, che
davvero poco conserva della carica degli esordi.
Anche l’ambiguità sessuale, tema portante dei
primi anni di successo, e l’androginia di Molko
sopravvivono solo in qualche accenno testuale (o visivo, se contiamo il video di Too Many
Friends, scritto in collaborazione con Bret
Easton Ellis) che però, a tratti, appare fine a se
stesso (“Il mio computer pensa che io sia gay /
ho buttato via quel rottame giù per gli Champs
Èlysées“) tra eccessi “emo” e una buona dose di
retorica.
Arrivata al settimo album, la band di Brian
Molko e Stefan Olsdal costituisce oggi più che
mai una proposta sempre uguale a se stessa,
che non rischia mai troppo per non deludere
i fan affezionati e che non sembra in grado (o
non ha intenzione) di rinnovarsi e di accaparrarsene di nuovi: ben confezionati esercizi di
stile, buone aperture per una formula furba,
con ritornelli e costruzioni melodiche che per
quanto funzionino, sanno fin troppo di già
sentito (Scene of Crime, Hold On To Me). Ed è
così che canzoni tutto sommato piacevoli come
Purify, la già citata Loud Like Love e Rob The
Bank finiscono per essere l’ennesima prova che
sì, i Placebo sono ancora in grado di muoversi
alla grande, ma solo sulle solite, collaudatissime strutture.
5.9/10
o t t o b r e
giungeremmo un non proprio memorabile “you
put the cock in cocktail”), Indie Cindy è quella
che si gioca – si brucia – più chance: parte alla
Where Is My Mind?, riprende anche interessanti schemi sghembi alla Surfer Rosa ma si perde
in un testo prolisso e in una struttura che l’affossa decisamente, per non parlare della ridicola melassa che sommerge il ritornello. In coda,
What Goes Boom forse è la più probabile del
lotto in quanto pare riprendere esattamente da
dove avevano lasciato Bossanova e Trompe Le
Monde: certi riffacci hard rock, aperture melodiche surf e un Joey Santiago in gran spolvero
(la sua è la prova più credibile, a ben vedere).
Un po’ poco, e non esattamente da manuale.
Invecchiati male, ridondanti, stucchevoli, francamente imbarazzanti: ai Pixies del 2013 non
possiamo nemmeno fare l’augurio che indirizzammo ai Bauhaus del 2007, quando definimmo il loro Go Away White “una macchia che
verrà coperta dalle sabbie del tempo”. Il secondo EP uscirà a novembre.
4.5/10
Enrica Selvini
Samuele Bersani - Nuvola numero
nove (Fuori Classifica Edizioni
Musicali,2013)
Genere: pop, cantautori
Dovessimo menzionare un cantautore italiano
che non è riuscito ad avere, in termini di seguito e di attenzione, ciò che ha sempre meritato,
131
o t t o b r e
132
gio Pardo e Diego Palazzo (il secondo già alla
chitarra con i Baustelle). Non si perde la cifra
stilistica classica di Bersani, ma sembra aprirsi, concedersi qualche lusso pop in più, senza
tralasciare mai la qualità, riuscendo insomma a
non perdersi in ingenuità. Resta il fatto che uno
come Samuele Bersani va ascoltato e riascoltato perché la sua è una penna capace di andare
a fondo, di rendere stratificato ogni pezzo, ogni
racconto, con uno stile connotato e definitissimo in grado di aprire a molti universi autoriali
degni di tanta musica d’autore italiana che fu.
6.8/10
Giulia Cavaliere
Siriusmo - Enthusiast (Monkeytown
Records,2013)
Genere: 80s, wonky, elettronica
Da una parte abbiamo Siriusmo ovvero Moritz
Friedrich, un tipo che nelle foto è spesso sommerso letteralmente dalle tastiere; dall’altra un
collettivo capitanato da John Withers. Il primo è un producer tedesco con già una corposa
carriera alle spalle fatta più che altro di singoli
e collaborazioni anche grosse (Boys Noize e
Snoop Dogg tra tutti), il secondo è esordiente e
si fa ritrarre con altri ragazzi in giro per Cape
Town o con Emmanuel Nzaramba con sfondi
basic photoshop; al centro ci sono questi due
lavori caldi ed estivi che tastano il polso di
un presente ancora dominato da 80s sound,
wonky beat e, in generale, da un’attitudine
frulla-tutto figlia di questi anni di giri attorno
al mondo internettari.
Per fare un paragone con la Paw Tracks degli
Animal Collective, Friedrich è un po’ l’Ariel Pink
della Monkeytown dei Modeselektor; per il
duo tedesco, infatti, questo producer è un autentico genio ed è proprio per produrre la sua
musica che è nata la loro etichetta (da quanto
apprendiamo dai ragazzi di Resident Advisor
che hanno visto il documentario We Are Mode-
r e c e n s i o n i
di certo diremmo Samuele Bersani. Nonostante la strada pop percorsa sin dall’inizio, complice un battesimo e uno svezzamento sotto
l’ala protettiva del suo pigmalione Lucio Dalla,
Bersani sarebbe forse riuscito a farsi ascoltare
meglio integrandosi in quello che oggi chiameremmo “circuito indie”. Al di là delle hit note,
delle quali Giudizi Universali e Replay sono i
capofamiglia capolavori, la sensazione è che gli
album di Bersani, intesi come struttura finita di
un insieme di brani, non siano mai stati realmente accolti dal grande pubblico. Dedicato
proprio a Dalla, Nuvola numero nove è un
ennesimo tentativo di cercare di affondare un
colpo netto nella produzione d’autore italiana,
un ennesimo album capace di non tradire mai
la poetica estremamente incisiva del suo autore
pur aprendosi, in termini di sonorità, ad orizzonti contemporanei più recenti.
Un disco di rinascita che riesce a mantenere
toni lievi, delicati, anche nel parlare amaramente della società e dei mali del nostro tempo
(Chiamami Napoleone, D.A.M.S. sulla disillusione della vita di uno studente fuorisede
a Bologna). Nuvola numero nove è infatti la
traduzione di quello che in inglese è ”cloud
nine“, ovvero il nostro “settimo cielo”. E’ lì che
sta oggi Samuele Bersani, dopo aver trovato
un amore nuovo, Desirée - che poi è la metà
di EN and Xanax, prima hit di quest’album -,
romanticissima rappresentazione in forma psicofarmacologica dell’incontro perfetto, quello
pronto a sopportare e lenire in termini reciproci ogni ansia, ogni attacco di panico: “In due si
può lottare come dei giganti contro ogni dolore
/ e su di me puoi contare per una rivoluzione.”
Se i giochi melodici sono quelli tipici del cantato a cui Bersani ci ha abituati sin dall’inizio,
l’album è ricchissimo di momenti che fanno
pensare all’ultimo lavoro dei Baustelle, cosa
evidentissima ne Il re nudo che non a caso vede
la collaborazione degli Egokid di Piergior-
Edoardo Bridda
r e c e n s i o n i
Sleigh Bells - Bitter Rivals (Lucky
Number,2013)
Genere: pop, noise
Il terzo disco degli Sleigh Bells arriva dopo un
anno e mezzo dal buon Reign Of Terror. Da
loro non ci aspettavamo una vena compositiva così prolifica, ma tant’è: Derek E. Miller
e Alexis Krauss son tornati con il loro shredpop chitarroso e pompante. Stando alle poche
dichiarazioni che hanno preceduto l’uscita, i
primi pezzi sono stati registrati a febbraio e il
pacchetto è stato finalizzato in poco tempo.
Quest’urgenza è un marchio di fabbrica del
duo di Brooklyn e viene tradotta in ritmiche
semplici ma efficaci, ostinati pestaggi percussivi che ricordano i Nine Inch Nails, qualche
distorsione alle chitarre e metriche che si
rifanno all’hip hop. I principali riferimenti, già
pienamente utilizzati nei precedenti episodi,
sono M.I.A. (Sugarcane), i Beastie Boys (la
titletrack), le riot grrrl e il pop ubermainstream
(To Hell With You, vedi alla voce Katy Perry o
Miley Cyrus). In più si dice che il tutto sia stato
ispirato anche da Michael Jackson (Sing Like
A Wire) e Beyoncé, quindi ancora pop e randb
commerciale.
Miller è cresciuto e dice di essersi stancato
di uscire ogni sera, di fare le ore piccole e di
sbronzarsi. Alexis ha dichiarato che il compagno di band è diventato quasi straight-edge.
I due raccontano anche di aver iniziato a fare
boxe in una palestra vicino allo studio di registrazione. Sveglia alle 7, allenamento e poi in
studio. Siamo diventati grandi? Pare proprio di
sì. Non solo cambiamenti di routine, però. Lutti
familiari (Derek Miller ha perso il padre) e una
successiva rinascita su un mood più positivo
sono gli ingredienti che aprono una nuova strada alla band.
Dal punto di vista musicale non ci sono grosse novità. Il disco è una buona prova di rock
con chitarre noisy filtrate wave ’80 e qualche
o t t o b r e
selektor). Il producer tedesco però, al contrario
di un Pink che va diritto al punto quando si
tratta di produrre, ha faticato non poco per realizzare Enthusiast, l’atteso seguito di un esordio,
Mosaik, che si muoveva su territori a lui familiari quali electro, house e french-touch.
Il risultato è tanto eccentrico – e, come suo solito, ricco di punti di fuga – quanto riuscito, generoso e ubriacante. Ascoltare le sue acrobazie di
Doctor Break, Congratulator, Itchy e soprattutto
l’omonima Enthusiast (pensate a un frullato di
electro, hip hop, 80s, prog-idm, house, sushi à
la James Ferraro in salsa fusion, Chemical Bros,
bozzetti cabaret ecc.) è come ascoltare il disco di
un produttore di LA a cui hanno somministrato
l’intero catalogo Planet Mu degli esordi. E non è
di poco conto che la cosa funzioni e fili via fluida. Curioso che anche l’esordio di John Wizards,
altra miscela altamente variegata e instabile,
goda degli stessi pregi. Qui parliamo di uno sviluppo floreale più che scatologico o “proggheggiante”, e troviamo una one man band – duo con
Nzaramba in alcuni episodi e infine – live – band
vera e propria – che con mentalità elettronica e
laptop pastura 15 brevi intingoli che sono l’equivalente del primo album dei Vampire Weekend
(quelli che guardavano diritti a Paul Simon) o
all’Africa immaginata da Tune-Yards immaginati da un’angolazione da zapping televisivo 80s
(iYoungwe). Mentre Enthusiast rappresenta
un ritorno all’eccentrica prima fase di Rephlex e
Planet Mu, l’omonimo di Withers è l’avamposto
più lontano dal suono dell’etichetta di Mike Paradinas. Eppure, entrambi i lavori, al pari delle
incursioni post-garagiste analizzate in un’altra
recensione comparata, fotografano un’estate
2013 che non punta a stupire con futuri possibili
ma, ancora una volta, con la continua ricombinazione di possibilità e tradizioni differenti.
7.2/10
133
inserto di tastiere (recentissimo anche per loro
un bel remix per Chloroform dei Phoenix). Il
risultato suona bene, si ascolta molto volentieri
e c’è pure qualche singolo che spacca (Young
Legends). Dieci pezzi che non rivoluzionano
la storia del rock, ma che fanno passare una
mezz’ora piacevole. Presi a piccole dosi non
fanno poi così male.
6.8/10
Marco Braggion
Genere: electro, techno, rave
Bob Rifo l’abbiamo trattato sempre bene. In
Romborama ci eravamo gasati per la freschezza dell’esordio, ed eravamo anche un po’
orgogliosi del fatto che fosse marcato Made in
Italy. Nel secondo album (che poi non era un
disco vero e proprio ma un Best Of di singoli),
avevamo riconosciuto l’autorialità, la statura e
la forza degli arrangiamenti del bassanese.
Hide arriva dopo una lunga sequenza di singoli, stampati dopo il best of, che hanno spaziato
fra noise (Church of Noise, 2011), rimescolamenti fidget del french-touch (Rocksteady,
2012), ballad da arena (Chronicles of a Fallen Love, 2012), anthem noisy-EDM (Spank,
2013) e una ridefinizione del moniker per i
live a seconda della direzione dello show (The
Bloody Beetroots Death Crew 77, The Bloody
Beetroots DJ Set e The Bloody Beetroots Live,
che hanno aggiunto al gruppo Dennis Lyxzén
alla voce, Battle ai synth, Edward Grinch e Mad
Harris alla batteria).
Il disco, a parte le canzoni già pubblicate, è
una resa dei conti personale e generazionale.
Rifo è nato nel ‘77 e come molti di quelli che
leggono, ha vissuto le stagioni del rave Nineties, il declino dell’acid nei ’00 e la rinascita del
movimento con l’EDM contemporanea. Il suo
punto di vista è quello di un buon costrutto-
134
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
The Bloody Beetroots - Hide (Ultra
Music,2013)
re di suoni, miti ed atmosfere che cerca di far
meglio degli altri amici/nemici di scuderia. Ma
non solo. Hide è stato spinto da una strategia di
promozione musicale che riflette (ovviamente
in tono minore) la bomba Daft Punk. Anche
qui si punta infatti sui featuring d’eccellenza,
magari d’antan. E allora vai con il batterista dei
Mötley Crüe Tommy Lee (in Raw), il rapper
di Trinidad ora newyorchese Theophilus
London, la talkbox di Peter Frampton (quello
di Show Me The Way) e nientemeno che l’ex
beatle Paul McCartney, uno in gran spolvero
dopo la recente collaborazione con Dave Grohl,
Krist Novoselich e il chitarrista/turnista Pat
Smear nella reunion dei Nirvana battezzata
ironicamente Sirvana (la sorpresa non è proprio totale, dato che il singolo con Macca era
stato pubblicato qualche settimana fa, infarcito
di gustosi remix da parte di Riva Starr, Aucan
e altri).
Questo non è però l’ennesimo disco che copiaincolla i trucchi ben noti insegnati dalla crew
Ed Banger o dall’electro house dell’inizio
noughties. Rifo prende in giro lo sballo, si maschera su tagli acidi in contrapposizione alla
voce angelica di Greta Svabo Bech, impasta la
storia (con la pseudoballad Out of Sight), ci ricorda che si può far di meglio di Kavinsky nella bomba strumentale di Reactivated, si sputtana con la cover dello Zecchino d’oro (Volevo un
gatto nero), cerca qualche ammodernamento
della proposta pure nel soul-hop (All the Girls)
e va a parare anche nella noise tech da arena
(The Source). È quindi la visione di un (anche
se da poco) over 35 che fa ballare i giovani e
utilizza trucchi rodatissimi che hanno radici
nella semplicità massimalista del rock.
Rifo non rischia nulla (potrebbe azzardare
qualcosa vicino all’UK bass più ballabile ad
esempio), ma è comunque sempre fra i primi
della classe, con una spocchia che piace, uno di
quelli che può permettersi di fare lo sbruffone
e sbaragliare i vari Aoki, Benassi, Guetta e Avicii di turno. Per chi si attendeva una deviazione
dal prodotto ubercapitalistico, ci sarà ancora da
aspettare qualche album, quando il producer
non sarà più in grado di saltare dietro la consolle e magari si toglierà la maschera di Venom.
Per ora, Dioniso trionfa ancora su Apollo e gli
altri stiano a guardare, mangiando pure un po’
di polvere.
7/10
Marco Braggion
Genere: ambient, techno, elettronica
Con Looping State of Mind, terzo album del
produttore svedese residente a Berlino Axel
Wilner, la formula The Field aveva raggiunto
un perfetto punto di sintesi tra riconoscibilità
e concisione, cementando così un marchio che
ha fatto scuola ed ha, direttamente o indirettamente, influenzato un ampia schiera di produttori, non ultimi Caribou a Jon Hopkins. In
quell’album shoegaze, minimal e minimalismo
colto, dream e dance avevano raggiunto un’invidiabile quadratura ma anche un alto grado di
spendibilità live, un aspetto quest’ultimo che,
ricordiamolo, aveva dato il la all’intero progetto fin dalla sua prima comparsa, nel 2007, con
l’esordio Here We Go Sublime.
Naturale che il producer, trovandosi di nuovo
in studio per dar un seguito a quella prova,
dopo la parentesi krauta con il moniker Loops
of Your Heart in And Never Ending Nights, si
sia trovato in una condizione d’iniziale empasse e dark feeling. Empasse rotta soltanto dopo
aver trovato la via nelle note di No. No… che
altro non è se non un tuffo nei territori della
memoria sui quali il Nostro si era concentrato
nel precedente lavoro. Interesse che, tornando
all’attività dell’utlimo triennio, lo ha portato
anche a remissare Luneburg Heath di Harmo-
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
The Field - Cupid’s Head
(Kompakt,2013)
nia and Eno ’76 (Tracks And Traces Remixed)
e a far parte dei Cologne Tape. Il nuovo album
non prosegue per direzioni motorik e in generale tedesche nel senso più ovvio, ma senz’altro
ne fa propria la polpa più intima, quella romantica germanicità che è poi il cuore pulsante di
un intero spettro di producer germanici di ieri
ma anche di oggi, da Moderat a Kalkbrenner.
Cupid’s Head, quindi, come seguito di un
terzo compiutissimo e osannato lavoro, pensato (pare) con meno strumentazione al seguito
ma, di fatto, il primo prodotto esclusivamente
grazie all’utilizzo di vario hardware. Nessun
latop impiegato dunque, e questo perché la naturalezza del suonato, il surfing tra e sui loop,
deve risultare il più organico possibile. Vien
fuori che 20 Seconds Of Affections è un mezzo
capolavoro. La traccia conclusiva dell’album
è una nuvola di vapori folk-pop che sembrano
diluire le produzioni del Brian Eno conto terzi
degli 80s e 90s (ci sentiamo persino Joshua
Tree) in un polveroso loop wave-shoegazetronico che cresce come la panna montata. E’
il momento estatico infinito lavorato in grana
fina, umoralità quasi impercettibili, ruvidità
del groove impolverate ad hoc. La chiosa di un
lavoro che regala ai posteri un disco non agli
stessi livelli, ma che segue gli standard (già alti)
dell’episodio precedente: They won’t See Mee
è il ritorno a certe tribalità techno come base
per esplorazioni synth 70s in taglio rock, pura
ermeneutica dancefloor; Black Sea pastura,
sul finale, una felpata techno in punta acid su
un perno d’elittica electro; l’omonima Cupid’s
Head ci va di chopped vocal elegiache/pop in
raffinata mestieranza Machinedrum (avercene!); No.No… raddoppia con signorilità wavey
à la Underworld. Ascolti e riascolti l’album e
ti perdi nuovamente in questi loop, carichi di
suggestione e Storia.
7.2/10
Edoardo Bridda
135
Genere: soul, rnb, funk, black, hiphop
Ci siamo sempre chiesti come abbia potuto
nascere un piccolo gioiello RandB come Frank
Ocean in seno al collettivo hip hop Odd Future, le cui uscite sono sempre state segnate
da irruenza, volgarità demenziale e misoginia.
Ma forse il segreto meglio custodito del gruppo
era, almeno fino ad oggi, The Internet, un duo
composto dalla moderna crooner Syd the Kyd e
dal produttore Matt Martians. Per i più attenti, Kyd e Martians si erano già fatti notare con
l’esordio Purple Naked Ladies, album ampiamente snobbato dalla critica e dal pubblico, che
lasciava intendere, con picchi come il singoloanthem Cocaine, alcuni segnali di genuino
talento offuscati, purtroppo, dall’inesperienza.
Così, parallelamente alle recenti uscite dell’Off
Future – che hanno mostrato un grande sviluppo e maturazione anche artistica dei singoli -,
The Internet si presentano alla seconda prova
con un’accresciuta consapevolezza dei loro
mezzi. La sostanza, beninteso, non cambia: la
voce sussurrata e fragile di Syd dipinge scenari
da crooner 2.0 fatti di innamoramenti e droghe sintetiche, mentre il bravo Matt Martians
provvede con languide basi RandB. Rispetto al
precedente lavoro però, in cui a farla da padrone era un sound più club-oriented, in questa
nuova prova il linguaggio del duo si arricchisce
di riferimenti ‘70s, accogliendo al suo interno
una più spiccata anima neo-soul. Il risultato
è qualcosa di veramente prezioso che unisce
funk, soul e jazz da aperitivo in un randb moderno ed elettronico, ma anche vicino al (neo)
soul più letargico; quel mood oppiaceo che
attraverso Voodoo di D’angelo si riconnette al
Marvin Gaye anni Settanta, capace di creare
coi suoi tocchi leggeri un’atmosfera sensuale e
stonata allo stesso tempo.
Syd, che probabilmente non ha il talento di un
136
Frank Ocean, non sarà una voce particolarmente tecnica o un personaggio di grande carisma,
ma appare più padrona dei propri limiti, tanto
da renderli meno appariscenti. Persino la sua
tendenza a scrivere testi piuttosto ingenui e
banali viene superata dalla scelta del duo di
concentrarsi sulla creazione di canzoni particolarmente trippy e distese, in cui la dolcezza
fiabesca del cantato, che spesso esce di scena,
fa solo da aiuto al viaggio, invece che cercare il
ritornello memorabile.
Se mai vi è un aspetto tipicamente Odd Future
nella poetica di Feel Good, è proprio quell’atteggiamento i don’t give a fuck, quell’approccio
quasi amatoriale, sprezzante, verso le strutture ben riconoscibili, i ritornelli e le levigature
pop, che caratterizza anche le più fortunate
uscite targate OF – si veda ad esempio il taglio radicale di un disco come Doris, sul quale
invece pesavano tutte le pressioni di un disco
mainstream. Un rifiuto di adagiarsi sul formato “radiofonico” che distingue l’album dalle
contemporeanee uscite di settore, una su tutte
The Electric Lady di Janelle Monáe e la sua
irresistibile vena pop. Una scelta coraggiosa,
che probabilmente aveva tagliato le gambe a
Purple Naked Ladies e che, seppur addolcita,
impedirà a questo disco di raggiungere le vette
delle classifiche RandB.
Le frequenti parti strumentali invece faranno
la gioia degli ascoltatori più interessati a immergersi in queste jam psichedeliche eccellenti e trascinanti, come la funky ‘Pupil/The
Patience‘. Purtroppo diversi brani più generici
e monotoni fanno da intoppi in un viaggio che
rimane sicuramente appagante. Soprattutto se
in buona compagnia.
7/10
Gianluca Carletti
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
The Internet - Feel Good (Odd Future
Records,2013)
Genere: indie, synthpop
Di album d’esordio baciati da un immediato
successo – spesso alimentato da un singolo
tormentone – ne abbiamo visti molti e di flop
artistico-mediatici dovuti al classico, esasperato, tentativo di ripetere l’impresa una seconda
volta, ne contiamo altrettanti. L’obiettivo dei
neozelandesi The Naked And Famous era
quello di sfuggire a questa rodata parabola
discografica con un secondo disco che fosse
non solo all’altezza di un debutto – Passive
Me, Aggressive You, 2010 – che all’epoca fece
piuttosto scalpore (Young Blood n.1 in Nuova
Zelanda e riempipista negli indie club), ma
anche in grado di portare avanti un percorso
di caratterizzazione stilistica degno di una
band che volesse lasciare, in qualche modo, un
segno.
Il gruppo di Alisa Xayalith e Thom Powers in
parte è riuscito nell’intento: frutto di un periodo trascorso in una abitazione del Laurel
Canyon (e la mente vola alla haunted house
di Blood Sugar Sex Magik), In Rolling Waves riesce a toccare varie sfaccettature sonore
senza mai dare l’impressione di essere il parto
di una band che, non sapendo che pesci pigliare, le tenta tutte. Non sono rari gli episodi in
cui mondi lontani, quasi agli antipodi, riescono
a trovare un punto di congiunzione esemplare quanto funzionale. È il caso dell’iniziale A
Stillness, capace di unire un approccio acustico
di matrice country-pop con un’elettronica notturna in grado di generare sensazioni piuttosto
evocative. Anche altrove si tenta la via semiacustica con risultati però alterni: il crescendo dreampop di scuola ’90s della conclusiva
A Small Reunion è uno dei passaggi più alti
del disco, praticamente l’opposto di What We
Want, invece banale e anonima.
C’è poi una produzione di grande impatto che
funge da motore a curvatura in direzione epic
rock, apportando mutazioni all’anima synthpop e modellando trame in parte inedite in
casa The Naked And Famous: dal post-rock
(la chitarra sul finale della titletrack) a quel
minimalismo-wave di derivazione The XX
presente nel quasi tributo Waltz (e si potrebbero scomodare anche i nostrani Wolther Goes
Stranger per le sovrapposizioni vocali e per la
melodia sinuosamente ciclica su cassa dritta).
La ricerca del perfetto pop-anthem dà vita a
brani caratterizzati da una energia tanto trascinante quanto bombastica: il patinato singolo Hearts Like Ours e le guitar-driven I Kill
Giants e Grow Old – quest’ultima non troppo
distante da certe cose targate Joy Formidable
– sono piacevoli tracce dall’appeal immediato,
che tuttavia non lasciano a bocca aperta, soprattutto se la post-adolescenza è un ricordo
lontano.
All’interno di In Rolling Waves si fanno largo facili tentazioni mainstream (The Mess ad
esempio) e, con esse, alcune facilonerie evitabili; a conti fatti, tuttavia, la sintesi di contemporaneità pop mascherata indie portata avanti
dai The Naked And Famous convince più di
quella, fin troppo sfacciata, dei Grouplove di
Spreading Rumours.
6.5/10
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
The Naked and Famous - In Rolling
Waves (Somewhat Damaged,2013)
Riccardo Zagaglia
The Royal Concept - Goldrushed
(Universal Republic,2013)
Genere: pop
In ambito pop pochi paesi possono vantare il
continuo ricambio di newcomers della Svezia,
probabilmente il territorio non anglofono con
la maggiore prospettiva internazionale a livello
musicale. Tra le decine di artisti e band svedesi – qui trovate una playlist creata ad hoc – che
ogni anno si affacciano sul mercato, ultimamente sono probabilmente due i nomi destinati
137
Riccardo Zagaglia
138
The Stranglers - Feel It Live (On Tour
2012) (Edel,2013)
Genere: post-punk
Quando Hugh Cornwell mollò il gruppo nel ’90,
il rapporto tra i dischi di studio e quelli dal vivo
era di dieci a due. Negli anni successivi il numero dei live è aumentato, ma in genere riguardavano per lo più eventi particolari, anniversari,
concerti memorabili oppure testimoniavano
cambi di formazione (e comunque nulla rispetto al profluvio di antologie, specialmente degli
anni ’90: la piccola label per cui incidevano
monetizzava così il grande nome). Negli ultimi
anni poi si sono aggiunte le pubblicazioni da
fan club o del sito personale, in genere souvenir
delle tournée recenti (anche negli anni ’00, in
cui erano tornati sotto contratto con la Sony) e il
monte totale è cresciuto ulteriormente.
In una carriera così lunga ci sta, d’accordo, ma
forse ora si esagera: negli anni ’10, a fronte del
solo Giants come album di studio, sono già usciti due live (acustici, uno dei quali era il bonus
dell’edizione speciale del suddetto Giants) e ora
questo Feel It Live. Oltre ai prevedibili classici
(manca Golden Brown, forse poco in linea col
recente suono aggressivo) e alle canzoni dell’ultimo (peccato però per l’assenza della suggestiva My Fickle Resolve), esce fuori anche qualche
vecchia perla assente da tempo (vedi Sometimes
o The Raven) ed è ben rappresentato anche il
precedente Suite XVI (un solo brano invece da
Norfolk Coast).
Dal vivo i Nostri sono ormai delle macchine da
guerra, anche le sbavature e i limiti sono quelli
giusti del live (benché la recente Mercury Rising
perda inaspettatamente in potenza rispetto alla
versione da studio), i pezzi vengono resi a dovere, anche nel modo in cui si armonizzano quelli
di epoche lontane (la voce di Baz Warne non
avrà il fascino di quella di Cornwell, ma accusa
meno il palco).
Quindi un senso ce l’ha questo disco, anche per
r e c e n s i o n i
a sfondare le barriere “indie” e a raccogliere i
consensi del grande pubblico: i NONONO di
Pumpin Blood e i The Royal Concept.
Per questi ultimi non lo diciamo sulla base di solide prove (il loro album di debutto Goldrushed
ha da poco esordito “solamente” in 25° posizione in patria), ma sul potenziale radiofonico di
un brano in particolare: On Our Way. Rimane
solo da sperare che in zona mainstream-FM sia
rimasto un briciolo di buongusto, altrimenti è
probabile che nei prossimi mesi quel mix tra
Bastille e Fun. abbia la meglio sul nostro povero udito: a memoria, è difficile ricordare un
chorus così becero. Il resto di Goldrushed si distacca in parte da certi contesti totalmente privi
di gusto, ripartendo dal The Royal Concept
EP dello scorso anno, con il quale condivide tre
brani – Goldrushed, In The End e D-D-Dance
– che mostrano l’altro grande punto di domanda che sorge spontaneo durante l’ascolto della
band guidata da David Larson: che obiettivi
artistici può avere un gruppo che, nella maggioranza dei casi, non si sforza minimamente per
non essere scambiato – ancora più degli Atlas
Genius – per una cover band dei Phoenix?
In questo panorama frivolo e Phoenix-centrico
(Busy Busy e Girls Girls Girls ruotano attorno alla
stessa formula) è possibile comunque rintracciare
qualche spunto meno deplorevole: il riffino acustico di Radio (altro probabile singolo) e il sax di Cabin Down Below, apparentemente ad opera di quel
Kenny G – su Facebook ha annunciato “Check out
my new favorite band from Sweden… and guess
who is playing sax on their new album?” – spesso
oggetto di derisione durante gli anni ’90.
Goldrushed, al momento pubblicato solamente
in Svezia, è un album che sentiamo di consigliare esclusivamente ai fan dei Phoenix, i quali
potrebbero avere così modo di rivalutare in
positivo il mediocre Bankrupt!.
4.5/10
i non-fan; l’ascolto è piacevole come era per gli
altri,e tutto testimonia efficacemente la longeva tenuta live: detto questo, però, adesso basta.
6.7/10
Giulio Pasquali
Genere: rnb
Nonostante il progetto The Weeknd sia in giro
solamente da un paio d’anni, e questo rappresenti appena il debutto su scala major, la
formula R’n'B retro-futurista proposta da Abel
Tesfaye sta già correndo il rischio di finire nel
tritacarne. E non per dire che questo album sia
un buco nell’acqua per il producer canadese,
anzi. Kiss Land è ancora pieno di tutti quegli
elementi che ci hanno fatto innamorare dei primi tre mixtape di Abel – raccolti poi in Trilogy
lo scorso anno – ma in questo nuovo lavoro si
fatica a trovare la progressione che era invece
lecita aspettarsi, visti i capitoli trascorsi.
Ci troviamo più che altro di fronte ad una
riproposizione, tematica e stilistica, di quanto
fatto finora, feat con Drake compresi. Se due
anni fa Abel era avvolto nel mistero e si muoveva a piacimento tra le ombre del web, The
Weeknd oggi ha un volto con cui fare i conti,
ed il salto di Tesfaye nel mainstream sembra
quantomeno riluttante. Passata per forza di
cose la sbornia da culto per i primi mixtape,
adesso è arrivato il momento di diventare
grandi. Lui non sembra invece il tipo disposto
a scende a compromessi, ama giocare da solo,
e questo disco lo riconferma come l’animale
strano dell’R'n’B.
L’amore come commercio, dettagliato come
una transazione e immerso in una realtà lussuriosa e disperata; questa la spirale tematica
– già ampiamente trattata nei lavori precedenti
– da cui Abel non sembra volersi allontanare.
La produzione dal canto suo non delude ed è
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
The Weeknd - Kiss Land (Republic
Records,2013)
ricca di elementi, pur rimanendo oscura e tenebrosa, con tinte industrial, tanto soul e chitarre
languide che richiamano le chart 80′s, simili a
quelle usate da Twin Shadow nel suo Confess.
I suoni, seppur narcotici, non mollano la presa
neanche nei pezzi con un minutaggio elevato,
con transizioni strumentali quasi atmosferiche
(Professional), oppure passaggi senza soluzione di continuità tra un pezzo e l’altro, che
rendono Kiss Land un (quasi)concept davvero
solido. Forse troppo.
“I’m not a fool, I just like that you’re dead
inside/I’m not a fool, I’m just lifeless too” canta
Abel in Belong To The World, il perno centrale
di un disco intriso di desolazione – sopratutto
emozionale – reso vivido da testi molto grafici, spesso spinti all’eccesso. Ma Tesfaye non è
certo la prima popstar a fare leva su certi temi
per catturare l’attenzione, tutti i suoi illustri
predecessori, tra cui l’idolo Micheal Jackson,
hanno ampiamente cavalcato l’onda. Il vero
problema di questo disco sembra risiedere
nell’insistenza e nel modo in cui Abel presenta
le sue storie, una carrellata di situazioni erotiche al limite dello stucchevole, che sul finire
del disco rischiano seriamente di disinteressare
anche l’ascoltatore più morboso. Invece che
entrare nel suo mondo, ci si ritrova spesso a
guardare da fuori una vetrina, un voyeurismo
che sa di scabroso, scene a cui non avremmo
voluto assistere.
Live For con Drake è quasi una riscrittura di
Crew Love, con poche variazioni sul tema,
mentre Wanderlust gioca a nascondino riadattando la pop-wave anni Ottanta, con risultati
anche discreti. E se Adaptation usa un sample
dei Police, il cerchio sembra chiudersi attorno
al personaggio The Weeknd, intrappolato tra
calde nostalgie strumentali e raffinati sintetismi moderni, mai appagato né dagli uni, né
dagli altri. Appurato il suo talento nel produrre
suoni che rievocano vividamente un imma-
139
ginario notturno e disinibito, resta da verificare quanto veramente Abel sappia essere un
songwriter abile a smarcarsi da certi clichè da
badboy maledetto, ruolo che fin troppo accuratamente si è voluto ritagliare in Kiss Land.
Se da una parte l’identità e il suono ormai riconoscibile di The Weeknd non sembrano stati
compromessi nel passaggio alla Republic, è forse l’ambizione del progetto ad essersi arrestata,
rischiando di deludere tutti coloro che in The
Weeknd hanno deciso di investire, se non soldi,
almeno sentimenti.
6.4/10
Luca Falzetti
Genere: alt, indie, post-punk, kraut
Si dice da qualche parte che le maggiori attività
di Chichester, West Sussex, siano camminare,
andare in bici e visitare la bellissima cattedrale. Roba da impazzire, scappare o – perché
no? – formare un power trio post-punk. Di
quelli cupi, rudi, con le chitarre altissime e una
bacchetta a sfondare i tamburi ad ogni concerto. Una band che dia fuoco a tutta la provincia
e persino alla cattedrale. Di certo, quando i
TRAAMS si sono formati ci hanno pensato e
forse è per questo che il loro disco suona così
urgente, così massiccio, indelebile nella sua
sporcizia, eppure estremamente calibrato.
Certo, per questo e anche perché dietro il mixer di Grin (il loro debutto) c’è uno come Rory
Attwell dei Test Icicles e, soprattutto MJ degli
Hookworms.
Di base, c’è un doppio binario in Grin, come
se la band avesse un’anima a due facce la cui
immaturità non permettesse ancora di scegliere. Da una parte c’è la deriva post-punk, quella della pura energia incapsulata in brani dal
minutaggio scarsissimo, che si fonde con una
dose di art anni Novanta debitrice verso la vena
di band come Modest Mouse, Bright Eyes o
140
Nino Ciglio
Trentemøller - Lost (In My Room,2013)
Genere: dance, elettronica
La carriera di Trentemøller si è sempre smar-
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Traams - Grin (Fat Cat,2013)
Decemberist. È la vena che catapulterebbe i
Nostri sotto i riflettori in men che non si dica,
quella che farebbe saltare i fan ai concerti e
che, a dire la verità, regalerebbe meno soddisfazioni. Perché è una pista battuta che potrebbe sembrare una risposta britannica ai Parquet
Courts di Brooklyn; perché, anche se lo sanno
fare bene, il verse-chorus-verse rischia di durare un disco e niente più. Ma è bene dire che
brani come Demons, Flowers, Fibbist o Loose
hanno il giusto piglio. Pop, ma non troppo,
ossessive e ossessionate, ripetitive quanto
basta da suscitare curiosità. Sembra di sentire
l’esplosività dei Metz, mitigata da ritornelli
cantabili (“I don’t even know your number / and
you don’t even know my name” di Flowes rimane memorabile) e testi di un gustoso disagio di
provincia (i Demons della canzone sono i soldi
per vivere).
E poi c’è l’altra anima. Quella roboante e martellante della jam in salsa kraut. E qui i tre ragazzi di Chichester si superano, dimostrando di
non essere una semplice band da power chord,
ma artisti capaci di costruire le giuste atmosfere asfissianti, assimilando referenti e fonti
fino a nasconderli nelle linee di basso o nella
chitarra distorta. È qui che il muro del suono
si alza, la voce si fa rada (e rauca) e le pulsioni
semplicemente essenziali. E questa sensazione
si avverte già in apertura con Swimming Pool (a
dir la verità, il brano meno intenso del disco),
si lascia accarezzare in Head Roll con il suo
lento incedere monocorde ed esplode in Klaus,
il monolite che chiude il disco, che già da solo
vale il prezzo del biglietto. Il biglietto da visita
dei TRAAMS, s’intende.
7/10
r e c e n s i o n i
Redhead), Sune Rose Wagner (The Raveonettes). Quando non chiede aiuto a qualche amico,
Anders se la cava egregiamente con toni cupi
che richiamano i già nominati Depeche Mode
(Still On Fire, Trails), visioni trip-onirico-blues
(Morphine, appunto), medio-oriental-etniche
(Costantinople) e suite ambient (Hazed).
Proprio qualche settimana fa avevamo mosso
qualche critica ad un altro protagonista della
musica elettronica (Jackson and His Computer Band, Glow) per quell’intestardirsi su
un’attitudine eterodossa. Trentemøller fa
esattamente il contrario: pur variando, trova
nel dark un’unità e una coesione da manuale.
Disco maturo, che conferma il danese come
uno dei più importanti artisti elettronici contemporanei. Il fatto che abbia tanto successo,
per una volta, non è sintomo di bassa qualità.
7.2/10
Marco Braggion
Tropic Of Cancer - Restless Idylls
(Blackest Ever Black,2013)
o t t o b r e
cata fra dance e minimal, fra attenzione a suono e atmosfera da un lato e al ballo dall’altro.
Tra le tappe che hanno contribuito a costruire
il mito dell’uomo di Copenhagen c’è il 2003,
con quell’esordio storico (Trentemøller EP)
che chiamava Roulèe da un lato (Le Champagne) e Metro Area dall’altro (In Progress), ma
anche il 2005 del singolo Physical Fraction,
quando ci aveva abituato a suoni orientali
(Prana) o – sempre nello stesso anno – a suoni
minimal con tagli psichedelici (Sunstroke). In
seguito i richiami al maestro Richie Hawtin
(Polar Shift, 2005) e ad altre coordinate, vedi il
blues in Vamp di The Last Resort (full d’esordio del 2006) o l’ambient (/pop/IDM) in Into
The Great Wide Yonder.
L’uomo di Copenhagen riesce a far contenti un
po’ tutti, sia i clubbers più “pesi”, sia gli indie
rockers con velleità electro-dance, sia chi di
elettronica non vuol sentir parlare, ma magari
vuole ascoltare “buona musica”. Una tattica
piaciona, che da sempre sta nel mezzo. Il nuovo
disco richiama già dal titolo lo smarrimento e
la problematicità della sua proposta. Come risolvere l’eterno conflitto minimal vs maximal?
L’ipotesi testata su questo nuovo album è
quella di puntare sulla melodia – proposta
attraverso chitarre, synth o linee vocali – e su
un mood dark-nordico-intimista. Sia dipeso o
meno dall’affiancamento ai Depeche Mode
nel loro Delta Machine Tour dell’estate 2013
o dalle comparsate nei più importanti festival
internazionali (Melt, Dour, Pitch, Zurich Open
Air, già iniziate però nel 2007 e immortalate
nel buon Live In Concert), il cambio di rotta
sembra comunque tenere. In gran parte grazie
anche ai featuring d’eccezione: i Low, Jana
Hunter (amica di Devendra Banhart e attualmente nei Lower Dens), la bella voce della folk
singer Marie Fisker (già sentita in Sycamore
Feeling e accompagnatrice del tour), Jonny
Pierce (The Drums), Kazu Makino (Blonde
Genere: synthpop, dark
E’ arrivato il momento del debutto sulla lunga distanza per Camilla Lobo a.k.a. Tropic of
cancer, artista losagelina che ha passato anni
disseminando singoli ed EP per Downwards,
Ghostly international, l’italiana Mannequin e
naturalmente Blackest ever black. Un percorso
che ha permesso alla Lobo di nutrire un folto
seguito negli ambienti wave già pronti a incoronarla tra le nuove dark-queen stile Chelsea
Wolfe e Zola Jesus, nonchè una certa attesa
per l’uscita di Restless Idylls che, diciamolo
subito, è buon debutto ma non fa il botto.
Partiamo col dire che il ritorno in casa B.e.b. è
segnato dalla supervisione dei due compagni
di sempre: il Silent Servant Juan Mendez, nel
2007 membro effettivo dei Tropic of cancer,
ma soprattutto Regis, boss Downwards con
alle spalle parecchie intrusioni nell’etichetta
141
o t t o b r e
Stefano Gaz
U-God - The Keynote Speaker (Soul
Temple,2013)
Genere: hiphop
Se esistesse un tribunale d’appello della Storia, probabilmente Lamont Jody Hawkins, in
arte U-God, farebbe bene a fare ricorso: pur
essendo a tutti gli effetti un membro del nucleo
142
originario del Wu-Tang Clan, ha potuto partecipare solo marginalmente alla registrazione di
Enter the Wu-Tang perché impegnato a scontare una condanna in carcere per possesso di
stupefacenti. Questo, però, non gli ha impedito,
con la partecipazione ad altri storici album
come Liquid Swords e Triumph, di ritagliarsi
un posto nel cuore dei tanti wu-fanatici sparsi
nel mondo, che hanno avuto modo di appassionarsi alla voce profonda di U-God.
Nel 1999, sulla scia di altri membri leggendari,
ha anche tentato la carriera solista con Golden
Arms Redemption, un album di buon livello supervisionato da RZA, a cui però hanno
fatto seguito un paio di uscite discutibili e con
credits meno rilevanti, tanto che sembrava
ormai destinato a non scrollarsi più di dosso la
nomea di membro di secondaria importanza
all’interno dello storico collettivo hip hop. Con
Keynote Speaker, U-God sembra provare più
seriamente a spezzare la serie negativa, ricorrendo nuovamente all’aiuto di vecchi amici
come RZA per assemblare un cast di ospiti più
che nutrito: GZA, Method Man, Inspectah
Deck, Elzhi (Slum Village) e Kool Keith.
Le premesse sarebbero buone – e in effetti non
mancano momenti in cui l’alchimia funziona e
il delivery martellante di U-God ci fa tornare
alla memoria visioni di neri nel blocco con il
ghetto blaster in spalla – ma nella maggior parte dei casi il disco riesce a suonare solamente
datato. In buona parte per colpa di U-God stesso che non riesce a impostare un wordplay di
livello un poco superiore al generico machismo
di strada, ma soprattutto perché, a parte le tre
tracce by RZA, la produzione è quasi del tutto
affidata a produttori semi-sconosciuti che non
riescono a smarcarsi da un sound boom bap
generico capace di stancare persino il pubblico
più reazionario.
Da parte mia mi sento di consigliare altri lidi
per gli amanti del cassa/rullante, come Doris
r e c e n s i o n i
di Kiran Sande, e capace dunque di garantire
senso di appartenenza e qualità. A uscirne è un
suono decadente tra Joy Division e influenze
’80s ma, a differenza del passato, si trovano
anche riferimenti a quello shoegaze etereo che
è marchio di fabbrica della concittadina Tamaryn. Questo perché oltre al binomio drumming/synth dal puro sapore analogico che è
alla base dei rimandi wave, la Lobo si diletta
abbondando con suoni drone, inabissando la
sua voce lasciva sotto una moltitudine di echi e
riverberi.
Le iniziali Plant Lilies in my Head e Court of
Devotion hanno il polso dell’intero album:
suono circolare e geometrico, dream-wave imbottita di oscurità, approccio sempre minimale
con o senza beat. Non si va oltre perché Restless Idylls è un lavoro concepito monocorde
e al massimo può offrire variazioni sul tema:
Hardest Day e More Alone con un 4/4 leggermente più spinto, Wake at Night che in contraltare gioca quasi esclusivamente sulla saturazione del suono, in mezzo i giusti punti di fusione
suggestivi e forse ridondanti come Chidren of a
Lesser God.
Ok quindi, la Lobo debutta bene, ma è difficile preferirla ad altre artiste sui generis. Non
parliamo tanto del binomio Wolfe/Jesus che
rimane sullo sfondo, quanto del parallelo con la
nostrana Mushy: lei è esattamente sullo stesso
tracciato e alla resa dei conti propone lavoro
più vario e affascinante.
6.9/10
per una versione più originale e contemporanea del boom bap, oppure Twelve Reasons to
Die per chi si vuole affidare a schemi rodati
con un tocco appena più sofisticato. Vale forse
la pena un ascolto soltanto se siete quel tipo di
persone che sanno a memoria tutti i dischi di
Ghostface Killah e hanno un libretto su cui si
segnano le rime migliori.
5/10
Gianluca Carletti
Genere: cantautori, rock
Cinque brani che riconfermano Umberto Maria Giardini elemento prezioso del panorama
cantautorale nostrano: questo e molto altro si
nasconde in Ognuno di noi è un po’ anticristo, EP che anticipa il nuovo lavoro (previsto
per il 2014) dell’ormai ex-Moltheni, dopo il
fortunato esordio La dieta dell’imperatrice
(La Tempesta / 2012).
Diretto, crudo, tanto onesto quanto graffiante,
l’autore marchigiano prende le distanze dal
minimalismo moltheniano per accostarsi a
nuove sonorità – forse memore dell’esperienza
nel progetto Pineda – sotto il segno dell’eclettismo di stampo internazionale. Melodie inquiete e incalzanti, organi che segnano il passo,
incedere ora nervoso ora più morbido, ritmiche
in tensione costante con le chitarre in primo
piano ad intrecciare delicati arpeggi dal gusto
post-rock. Geometrie taglienti, squarciate da
distorsioni acide, a creare dinamiche quasi
progressive: un tappeto sonoro che racconta
il bisogno di andare oltre tutto, anche oltre se
stessi, passando tra delicatezza e volgarità,
decadenza e idillio, metamorfosi e rinascita.
Notevole la strumentale Oh Gioventù, figlia
di un sound decisamente anni ’70, che ben
si aggancia alla digressione finale di Omega,
Enrica Selvini
Venom P. Stinger - 1986 – 1991 (Drag
City,2013)
Genere: punk
Una gran botta di energia. A un primo ascolto, verrebbe da definirli così questi Venom P.
Stinger, band che nella seconda metà degli
anni Ottanta scorrazzava per Melbourne (ma
ha anche girato in tour per gli States, nel 1991)
proponendo una formula punk-rock che, nonostante abbia sempre prediletto ritmo ed energia
alla melodia, non si può dire fosse comunque
da tre accordi e via.
Se per attitudine ricordano band come gli
Agnostic Front, sul fronte musicale i Nostri
richiamano i primi Wire, per l’alternanza di
ritmiche marziali ed esplosioni di energia.
Certo, manca tutta la raffinata estetica della
band inglese, ma in certi brani qui contenuti
c’è un’attitudine avanguardistica che non era e
non è merce comune. I Venom P. Stinger sono
una testimonianza di come gli anni Ottanta
siano stati un laboratorio fuori dal comune per
l’attitudine punk e oltre, anche in Australia.
Poco prima gli Hüsker Dü avevano già definito
nuovi territori – hardcore punk – trascinandosi
o t t o b r e
r e c e n s i o n i
Umberto Maria Giardini - Ognuno
di noi è un po’ anticristo EP
(Woodworm,2013)
tra Stereolab e i Tortoise di TNT, fil rouge
dell’intero EP. Non mancano tuttavia i richiami
al panorama nostrano nella battistiana Tutto
è anticristo, costantemente in bilico tra pop
deviato, cantautorato e psichedelia.
Un EP in cui Umberto Maria Giardini si rivolge
all’ascoltatore con quell’approccio visionario e
imprevedibile che, tra eleganza poetica e caustica disillusione – pur se accompagnato da una
maggiore complessità musicale – non può che
rimandare al suo recente passato e al Moltheni
de I segreti del corallo. Un percorso artistico
di cui questo lavoro pare la naturale prosecuzione.
6.9/10
143
o t t o b r e
da a I Cani e Zen Circus, ammiccando però
con decisione ad un brit-pop che ha barattato
la sbruffonaggine con un fatalismo parecchio indolenzito (Povero Cristo, Odio quando
mi guardi). Altrove rivangano la sguaiatezza
dell’italian-beat come fosse un antidoto per
la desolazione esistenziale (Una canzone per
perdere tempo, Giusy), mentre con La Ballata
degli ostinati e Dormire smazzano malanimo
tra il bucolico e l’acidulo come dei cuginastri
dimessi degli A Toys Orchestra.
C’è maturità in questa loro freschezza, portata
in dono forse dall’esperto producer Manuele
“Max Stirner” Fusaroli o più probabilmente
dall’inclemenza dei tempi. E c’è ancora, ovviamente, da crescere, iniziando magari con
l’evitare certa retorica giovanilista un po’ a
gratis (Il quartiere). Ma il dado è tratto e questi
disincantatissimi lucchesi sembrano tipi che si
giocano la partita fino in fondo.
6.8/10
Marco Boscolo
Stefano Solventi
Violacida - Storie mancate
(Audioglobe,2013)
Visioni di Cody - Appennino libero
(Autoprodotto,2013)
Genere: pop, rock, alt
Lucca vista da fuori è una città adagiata su una
tranquillità sorniona e persino un po’ conservatrice. Ma se allunghi lo sguardo ad altezza
d’uomo fin dentro le antiche mura, le cose
assumono una piega diversa. Ad esempio che la
generazione iperconnessa dei circa ventenni si
riveli qualcosa in più di un ammasso di cervelli
intenti a scambiarsi status e figaggine effimera, come tende a pensare chi è uso a liquidare
con una certa fretta la questione. I Violacida,
ad esempio, sono quattro più o meno ventenni
che si sono messi in testa di rappresentare in
formato indie rock uno spaccato di scoramento, rabbia e amarezza tipico della loro generazione.
Lo fanno col tono aspro e umorale che riman-
Genere: rock
Si sono scelti un nome letterario, mutuandolo dal padre della beat generation, ma la loro
musica è una miscela diretta di punk-rock in
italiano mediato da uno spiccato senso dell’umorismo. Le Visioni di Cody, quartetto proveniente da quell’appennino tosco romagnolo
evocato sin dal titolo di questo agile EP – la
quarta loro fatica – hanno dalla loro la capacità
non comune di scrivere qualcosa di sensato e
originale, senza per questo tracciare necessariamente nuovi solchi.
Le sei canzoni del lotto, nervose come si conviene, vivono di intuizioni di non poco conto,
sia per quanto riguarda le linee melodiche che
le ritmiche, serrate e aspre. Il sound generale, con le chitarre in prima fila, è debitore
144
r e c e n s i o n i
dietro tutta una scena californiana che ha dato
poi frutti succulenti. Ma la band australiana si
porta dentro anche influenze post-punk, come
i già citati Wire, e per questo risulta comunque
più arty di una classica punk band. Un’evoluzione del sound che questa raccolta permette
di seguire step by step.
Nella ristampa Drag City trovate l’LP dell’86,
Meet My Friend Venom, e il successivo
What’s Yours Is Mine del 1990, accompagnati dagli EP Walking About dell’88 e Waiting
Room del 1991 (tutto ristampato anche in
vinile, sempre per Drag City). La band si è riformata nel 1993 e ha dato alle stampe un altro
singolo e un album, Tear Bucket (1994), prima
dell’addio definitivo. Oltre che nei già noti Dirty Three, comunque, il resto della formazione
ha continuato a suonare in svariate band (troppe per citarle tutte), portandosi appresso un
po’ dell’energia dei Venom P. Stinger.
7/10
Ilario Galati
Volcano Choir - Repave
(Jagjaguwar,2013)
Genere: rock, prog, art, indie
Se Unmap del 2009 era un tentativo grezzo di
collaborazione, questo secondo sforzo sotto la
sigla Volcano Choir dovrebbe dire definitivamente dove la collaborazione tra l’ossessivo
falsetto di Justin Vernon (Bon Iver) e i loop
post-rock dei Collections of Colonies of Bees
voglia portare. La risposta secca e – qualcuno
dirà fin troppo – tranchant che ci sentiamo di
dare, è che pare che non lo sappiano nemmeno
i diretti interessati. Ma andiamo con ordine.
r e c e n s i o n i
Unmap, oramai quattro anni fa, era stato scritto a distanza, con pezzetti di musica e testi che
si scambiavano di posto via email. Per questo
secondo album, il modus operandi è stato più
simile a quello di una band: si è lavorato alacremente sulle canzoni – tutti assieme – finché
il risultato non è stato soddisfacente per tutti.
Un disco, quindi, che risulta coeso sul fronte
formale e tecnico, ma che sacrifica la naivetè
dell’esordio (perché tale è da considerarsi
Unmap). Dopo il bagno di critiche positive per
il suo ultimo lavoro a firma Bon Iver, Justin
Vernon aveva tutta la voglia di aprire un’altra
direzione, parallela, alla propria musica.
Il problema, qui, è che la personalità dello
stesso Vernon (praticamente un intoccabile del
folk indie a stelle e strisce dopo For Emma,
Forever Ago) ha spinto i Collections a limitarsi al ruolo di comparse o di semplice backing
band, per un progetto più rock, ma anche
più vicino all’effetto sentimental-furbo dei
Coldplay (che riecheggiano abbondantemente
nel singolo Byegone). Non è presente nemmeno quella marcatura maggiore di atmosfere
ambient che era lecito attendersi dal connubio
tra i musicisti, in favore di un approccio più
“muscolare” (Comrade su tutte) che fa pensare
che anche i Volcano Choir pensino a venue un
po’ più grandi per il prossimo tour, almeno negli USA. Non diciamo, ovviamente, che siamo
di fronte a musica da stadio, ma nemmeno ci
pare di poter cogliere l’intimità del folk o l’intellettualismo del post-rock. Ecco, cari Volcano
Choir: a che cosa siamo di fronte? Nel disco
non c’è traccia di una risposta.
6/10
o t t o b r e
di certo rock nostrano, ma è la componente
letteraria che colpisce in primis: testi barricaderi non banali, appunto perché filtrati massicciamente da quell’(auto)ironia che difetta a
molti colleghi. A partire dalla traccia che apre
il disco, Il Manifesto, lucida disamina – tra le
altre cose – sullo stato della stampa italiana
in generale, e di quella “controculturale” e
d’opposizione in particolare, col quotidiano
comunista del titolo e il Mucchio Selvaggio a
rischio chiusura. Ma non è tutto qui, visto che
ce n’è anche per Marchionne e il suo golfino,
per Fazio e il suo buonismo, Saviano, l’articolo
18 e per tanto altro. Dello stesso tono, anche
qui con alcune intuizioni davvero notevoli,
il canto partigiano sui generis Ritorneranno
(“Eran partiti per la guerra, si son fermati al
bar a bere”) e Augias, scelto come singolo,
dove lo scrittore è immaginato come un punkabbestia con tanto di piercing e immancabile
cane a seguire. Meno interessanti gli altri tre
brani, che ripropongono in sostanza la formula già espressa, ma con meno dinamismo e
pagando maggiore tributo ai modelli nazionali
(gli Zen Circus meno buskers). Ma la sostanza c’è. Eccome.
6.8/10
Marco Boscolo
145
Genere: lo-fi, soul, blues
Chiudevamo la recensione di Acousmatic
Sorcery con la facile profezia del rientro nei
ranghi della normalità produttiva per Willis
Earl Beal, precario della black music sfuggito
ai meccanismi dello showbiz solo per entrarvi
dalla finestra dell’hype 2.0, notoriamente avido
di anomalie intriganti. Così è stato, ed eccoci
al sophomore per questo ex busker a domicilio col lo-fi quale orizzonte esistenziale prima
che estetico, oggi ovviamente convertito ad un
estro gospel-blues dai tratti ancora “stregoneschi” ma frutto di un preciso processo ingegneristico. Possiamo, insomma, misurarlo in una
competizione di alto profilo, nella quale dimostra di potersela giocare.
E pure bene.
Sprigiona fascino insidioso come un’allucinazione Tom Waits in Too Dry To Cry, consuma gravità cinematica come un’uggia turgida
TV On The Radio in Burning Bridges, chiama Cat Power – spirito borderline affine?
– a condire di languore felpato il classic soul
di Coming Through, fa schioccare dita tra
pensose irrequietezze jazzy (la title track). E
poi via tra patchwork spiazzanti (le chincaglierie rumoristiche, la densità trip-hop e il
blues soul dalla polpa roots di Ain’t Got No
Love), drammi cyber-chiesastici (What’s The
Deal?), swing stradaioli (Hole In The Roof,
con una febbre che scava rabbia nella voce)
ed ectoplasmi folk-errebì (la vagamente
bossa White Noise, una Everything Unwinds
che reinventa Terry Callier nel futuro prossimo).
Willis è ossessionato come Cody ChesnuTT
però meno devoto al canone soul, più incline
a mescolare le carte anche di mazzi diversi fin
quasi a far saltare il banco, arrestandosi giusto
un attimo prima di abbandonare l’alveo della
146
black. Regalandoci nuove ragioni per ascoltarne in questi anni Dieci del nostro scontento.
Nobody Knows non otterrà l’impatto dell’esordio, che in effetti somigliava alla nascita di
un bizzarro prodigio. Tuttavia, per quanto mi
riguarda, la sorpresa vera è oggi.
7.4/10
Stefano Solventi
r e c e n s i o n i
o t t o b r e
Willis Earl Beal - Nobody Knows
(XL,2013)
G imme
S o me
I nches # 4 1
Il nostro appuntamento mensile coi vinili stavolta allunga lo sguardo su una delle etichette
più cool del momento, la Blackest Ever Black,
senza dimenticare di passare in rassegna le
uscite del sottobosco italiano
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Diamo inizio all’appuntamento di questo mese con una breve rendicontazione delle ultime uscite
di una delle label più in vista del momento, la Blackest Ever Black di Kiran Sande. Nota ai più per
le pubblicazioni di Vatican Shadow, Tropic Of Cancer e compagnia caliginosa, l’etichetta inglese
(da poco trapiantata a Berlino, ma tu guarda) è altrettanto rinomata per il ritmo forsennato delle
sue pubblicazioni nonché per quello altrettanto breve in cui queste vanno sold-out. Una breve
rendicontazione, dicevamo, sembra necessaria per mettersi in pari. Dei sopracitati Tropic Of
Cancer è appena uscito il doppioLP Restless Idylls in anticipazione del quale è stato pubblicato
il 7” one-sided More Alone. Piccolo oggetto di culto tirato in 300 copie già a prezzi discretamente
elevati su Discogs, contiene una versione diversa (ma neanche più di tanto) da quella presente
sull’album, il quale ovviamente vi consigliamo di sentire. Il 7” lo lasciamo ai soli integralisti del
progetto di Camella Lobo. In contemporanea, sempre su BEB, è uscito anche un nuovo 12” per
i Black Rain. Padrini dell’elettronica più cyperpunk fin dai primi anni Novanta, il gruppo di
Stuart Argabright (già Ike Yard, Dominatrix, Death Comet Crew) è tornato a incidere da un anno
a questa parte e Protoplasm è la prima pubblicazione di questo nuovo ciclo. Quattro tracce che
mescolano industrial, techno, darkwave e ambient con un tocco e un’attitudine da vecchia scuola
che suona più fresca che mai. Per loro è previsto un nuovo full-length con l’anno venturo. Per ora
godetevi questo EP e fate un tuffo nel passato prossimo, solo per rendervi conto – ovviamente –
di quanto sia ancora presente.
Tornano anche i britannici Tom Halstead and Joe Andrews, non come Raime, bensì col misterioso side-project tanto interessante quanto ben custodito Moin. Dopo il 7” split con Pete Swanson
dell’anno passato, ecco pronto un 12” omonimo in cui i due impugnano gli strumenti più tradizionali (sì proprio chitarra, basso e batteria) per dar vita a un post-rock da contorni vagamente
mathematici e dal retrogusto dub/industriale. Molto early 90’s, ma non c’è di che stupirsi, no?
Restiamo su sonorità vagamente simili, ma andiamo in casa Connelly e troviamo un nuovissimo
e promettente duo composto niente meno che da moglie e marito. Sì, la coppia assassina Mike
(Wolf Eyes, Hair Police, Failing Lights) e Tara (The Haunting e The Pool at Metz) Connelly ha
partorito una nuova, ferale creatura dal nome Clay Rendering. Per loro un singolo su 12” pubblicato dalla Hospital Productions di Dominick Fernow e massicce dosi di malessere. Due tracce
su questo Vengeance Candle per chitarre blackmetal/shoegaze, ritmiche putrescenti, whispers da
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una stanza buia e, se non bastasse, anche la fisarmonica (sic) di Tara ad aggiungere drammatica
solennità a un dei pastoni più tetri che ci sia capitato di incontrare di recente. Immaginate una
colonna sonora per un film di Dreyer con le premesse appena accennate e capirete come sia il
caso che li teniate d’occhio.
Chiudiamo il cerchio dei side-project e delle sperimentazioni limitrofe con Burma Camp, ovvero
lo spin-off technoise degli inglesi KVB. Già noto per gli album su Cland Destine e Cititrax, il duo
di Londra rilascia ora tre tracce con questo nuovo moniker in cui indaga il lato più versatile del
proprio sound, radicalizzandone i tratti ed estremizzandone le prospettive. Così i beat darkwave
diventano techno, i riverberi shoegaze si dilatano fino a divenire industrial, le reiterazioni postpunk si allargano fino ai limiti della musica rituale/occultista. Repulsion esce per Mira, sottoetichetta di Avian, in formato 10” con una tiratura limitata e artwork seriale.
Ah, non possiamo dimenticarci di segnalare la ristampa del primissimo singolo di Dark Day (il
progetto post-DNA di Robin Lee Crutchfield) ad opera dell’infallibile Dark Entries. In questa
nuova versione di Hands In The Dark troviamo i due pezzi originariamente sul 7” e, sul lato B, The
Exterminations (1 Thru 6), ovvero quel che a suo tempo (A.D. 1981) su il B-side del 12” Trapped.
Saltando verso lidi più pacati, segnalazione obbligatoria per lo strambo e “local” vinile 12” a firma
Dany Greggio. Cantautorato triste da spiaggia riminese a fine settembre, Ritratti oltre ad essere
impreziosito da una splendida copertina di Marco Neri – l’opera “La casa delle bandiere” che da
anche il titolo ad una canzone – è la perfetta realizzazione di un lavoro sentito, malinconico, essenziale nelle strutture e poetico nella realizzazione. Riecheggia la Rimini di Greggio, non quella
felliniana tutta abbondante ed eccessiva; l’agiografia di San Giuliano della Ballata di San Giuliano
diviene l’occasione per celebrare i luoghi dell’autore, il borgo omonimo di Rimini, tra miracoli
e storie (extra)ordinarie esposte in punta di chitarra acustica e con una verve cantautorale che
rimpiangiamo sempre più. È però tutto il resto del lavoro ad essere registrato in loco, mentre
l’universo personale di Greggio viene esposto (La Casa Delle Bandiere, ritratto amical-personale
cucito sulla persona di Marco Neri, l’ispirazione Handkeiana di Canto Alla Durata, l’alone De
Andrè a svolazzare sul tutto) alla maniera malinconica delle preziosissime foto dell’inlay.
A scalare di giri, tocca all’ep 10” in formato deluxe (copertina sagomata a mo’ di busta, cd in allegato e toppa in regalo) dei Cayman The Animal. Aquafelix prende il nome da un parco acquatico
e mostra i 4 in discese mozzafiato da scivolo di sangue, centrifughe hc di quello vecchia maniera
in un misto-frutta con r’n’r, noise e quant’altro, ironia a fiotti (check sui fantastici titoli dei pezzi,
come Shiny Happy People Dying), mestizia da consapevolezza (quella di “essere troppo vecchi per
morire giovani” del precedente disco). Illustra Ratigher, produce Valerio Fisik, trionfano i Cayman.
In conclusione, il 7” degli Psycho Kinder, progetto ruotante intorno a Alessandro Camilletti
(voce, testi) e alle musiche di Luca Barchiesi e Michele Caserta. Al di fuori di ogni catalogazione,
lucidi nella propria visione poetica, restii ad ogni tipo di moda o trend, ci offrono due brani abrasivi il giusto per poter rinverdire l’ossessione per la wave più robotica con un cantato in italiano
che mangia in testa agli Offlaga. Se L’incomunicabile è la premessa, bisogna metterli in riga e
richiedere a gran voce altre “canzoni d’autarchia”.
Stefano Pifferi
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CSI
campi
magnetici
Linea gotica (Black Out,1996)
“Anche la disperazione impone dei doveri e l’infelicità può essere preziosa”
Questo il monito che, a circa sei anni dallo scioglimento dei CCCP, caduti insieme al muro di
Berlino, si nasconde e si ripete nel libretto che accompagna Linea Gotica: un disco oscuro,
meditativo, che mescola le epoche dei conflitti (la guerra mondiale come quella nei Balcani) riuscendo nella difficile impresa di trasformarle in un luogo di riflessione senza spazio né tempo.
Il verbo, il suo peso e il suo fascino – tanto ammaliante quanto sibillino e oscuro – capace di
innalzare i popoli come di fargli da alibi per le più crudeli finalità: è la parola la vera protagonista di Linea Gotica, unica bussola in un mare sonoro mai così buio: le onde scandite dal basso
regolare, semplice e insieme monolitico di Maroccolo, increspate dalle graffianti scariche elettriche a sei corde di Canali (o dal violino, come nel folk dal sapore apocalittico di Cupe vampe,
probabilmente vertice massimo del disco), carezzate dalle tastiere di Francesco Magnelli, solcate dall’indispensabile chitarra guida di uno Zamboni mai tanto minimale. Su tutto si staglia,
funerea e salmodiante, la voce di Ferretti, che trova nelle armonie di Ginevra Di Marco il suo
perfetto contraltare, quasi a gettare una fioca luce in questa notte dell’anima, oscillando tra cruda narrazione e un rinnovato bisogno di spiritualità (L’ora delle tentazioni). È una paradigmatica
messa al rogo dei luoghi sacri dell’umano raziocinio che, insieme al sapere, trasforma in cenere
le zone più profonde dell’essere umano, rendendo persino i sogni terreno minato, come riflesso
di un mondo indecifrabile (Sogni e sintomi). Straniante, in questo contesto, la cover di E ti vengo
a cercare (circa tre minuti più lunga dell’originale), dove il crepitio delle chitarre si contrappone
ancora una volta alla sacralità delle voci, prima che proprio l’autore – Franco Battiato – faccia
il suo ingresso a chiudere i giochi con una leggerezza tanto liberatoria quanto solenne.
È in questo ipotetico triangolo tra ricerca del divino, cronache di guerra e meraviglia animale
– dove il buon senso e la ragione si piegano a puro istinto, unica risorsa quando è l’instabilità a
renderci saldi (Esco, Io e Tancredi) – che Sarajevo diventa metafora di una Storia agonizzante, in
cui Lindo Ferretti traccia la sua personale strada, riprendendo in parte quell’atmosfera rarefatta e anelante all’assoluto già presente in brani come Madre (CCCP, Canzoni, Preghiere, Danze
del II Millennio – Sezione Europa, 1989) e Annarella (Epica Etica Etnica e Pathos, ultimo
album dei CCCP, 1990).
Scritto tra il grano maturo della Val d’Orcia e chiuso dai versi di un attualissimo Pier Paolo Pasolini (Irata), Linea Gotica è un tassello unico e irripetibile all’interno della discografia italiana,
zenith creativo e vicolo cieco del percorso CCCP/CSI, tanto estremo negli intenti da non poter
rappresentare altro che un cortocircuito, un punto di rottura tra ciò che si è stati e ciò che non si
potrà più essere: “Non tornerò mai dov’ero già/ non tornerò mai a prima/ mai”.
Enrica Selvini
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Liz Phair
Exile In Guyville (Matador,1993)
classic
alb u m
Liz Phair Genere: cantautori, alt, indie
Ci sono tanti tipi di “classici”. Ci sono i dischi storici, punto di riferimento per qualsiasi
appassionato. Ci sono i dischi di culto che hanno individuato una nuova direzione o un
nuovo genere di musica e che continuano a far sentire la loro influenza. Ma esistono anche
altre pietre miliari, simbolo dell’epoca in cui sono state realizzate oppure “classici” perché
rappresentano qualcosa di unico. A questa categoria appartiene il più clamoroso esordio
dell’indie rock americano dei primi anni ’90.
Una perfetta sintesi di diverse anime del rock indipendente post-grunge, dove il college
rock incontra la bassa fedeltà e il nuovo cantautorato folk, ma anche l’opera di un personaggio che non rientrava appieno in nessuna di queste categorie. Grintosa, sagace, caustica,
impudica, sexy e vulnerabile, po’ Kristin Hersh, un po’ Chrissie Hynde, un po’ PJ Harvey,
un po’ Courtney Love, Liz Phair non era una riot grrrl né una folksinger classica. Dove le
Bikini Kill in Double Dare Ya prendono in giro la parola girlfriend per invitare le ragazze a
darsi una svegliata, Liz in Fuck and Run racconta di volere un fidanzato e di sentirsi nelle
ossa la solitudine; è mossa da un senso di rivalsa nei confronti dell’universo maschile ma
senza i toni velenosi delle ragazze di Olympia. Scrive, Liz, da una prospettiva postfemminista, decisamente più personale che politica, post Sassy e pre Sex and the City, trasversalmente indie e pop nello stesso tempo. Rockeuse smaliziata senza tabù quando parla
esplicitamente di sesso, ma anche cantautrice confessionale e intima, con la freschezza del
suo repertorio sapeva sfuggire alle classificazioni troppo facili e catturare immedtatamente
l’attenzione.
Un’ambivalenza che non è riuscita a sfruttare nella sua carriera mainstream finendo per
accodarsi alle dive più giovani di lei, ma che in questo debutto per la Matador garantisce
equilibrio tra suono indie e melodie orecchiabili e soprattutto permette a tante persone
di riconoscersi in lei. Altro aspetto clamoroso di Exile In Guyville, che nel 2013 compie
vent’anni e che già nel 2008 aveva festeggiato i quindici con una nuova edizione, è il suo
essere un doppio LP di 18 canzoni per un’esordiente che aveva sì inciso i nastri a nome
Girlysound (di fatto dei demo del disco finito), ma non aveva ancora suonato dal vivo. Più
clamoroso ancora, Exile è una risposta punto per punto a un classico – assoluto – come
Exile On Main Street dei Rolling Stones: «una fonte d’ispirazione, come un amico immaginario; tutto ciò che cantava Mick Jagger è diventato una conversazione o una discussione
con lui che diventava un insieme di tutti gli uomini della mia vita».
Non una ripresa filologica quindi, ma un concept (l’altra metà del titolo si ispira a Goodbye
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To Guyville degli amici Urge Overkill), da cui Liz Phair trae una raccolta di canzoni eclettica, che non ricopia lo stile del gruppo inglese ma riprende la stessa varietà e libertà in un
contesto lo-fi, esattamente com’era stato per l’album più enigmatico di Jagger e Richards.
In Exile in Guyville, tutto gira come dovrebbe intorno alla voce di Liz e alle sue scarne linee
di chitarra – vedi gli accordi cadenzati e nervosi di Fuck and Run, il giro squillante di Divorce Song – a cui si aggiunge un suono smart casual cucito sulle canzoni, informale il giusto
per “sbozzare” i demo di Girlysound ma anche per esaltare l’eclettismo di una scrittura
semplice e già completa, che si tratti del folk rock di Help Me Mary, della delicata psichedelia di Dance of the Seven Veils, Canary e Shatter, del soul sui generis di Never Said, del
rockblues di Mesmerizing, dell’elettronica fai da te di Flower. A modo suo, un classico che
l’autrice non ha mai superato e che nel suo piccolo ha pochi termini di paragone.
Tommaso Iannini
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