Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente.
ano V - numero 40
La Nascita
del Guarany
Gennaio / 2005
Gennaio / 2005
Aprile / 2007
Istituto Italiano di Cultura
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
www.comunitaitaliana.com
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Rubens Piovano
Editore
Marco Lucchesi
Grafico
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Gruppo di Traduzioni
NUPLITT - Núcleo de pesquisa
em literatura e tradução da UFSC
(Universidade Federal de Santa Catarina):
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Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan,
Walter Carlos Costa e Werner Heidermann.
Alba
Paulo Ferraz
Traduzione di Laura Minervini
Non la resistenza
del vento, bensì la
densità dell’acqua
che avvolge, che prende il
corpo, inoculando il
veleno dell’attesa fino
a trasformare pelle in
pensiero, meno,
in voci udite,
altre mai dette.
Ciò che si vede ha del
sogno quasi nulla, appena il desiderio
di averla di nuovo alla
distanza delle dita;
lei sarebbe vicina, non fossero le grida
del mondo e del corpo,
Ricerca
Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino
Caputo; Università Roma II “Tor Vergata”
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ISSN 1676-3220
non fosse quell’oriente,
non fosse quella musica che viene dagli alberi, non fosse ascoltare il
materasso, il lenzuolo e il
cuscino: ritorno alla
realtà, di traverso nel letto
ti reclama la fatica.
Massimiliano
Palmese e la
gestazione del
primo romanzo
Giovanni Zambito
M
assimiliano Palese è
nato a Napoli e vive
da quindici anni a Roma dove si occupa di teatro.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesia e ricevuto nello
stesso anno i premi Eugenio
Montale e Sandro Penna; nel
2000 il suo testo Questa disperazione felice è stato incluso nel «Settimo Quaderno
Italiano» di Poesia Contemporanea edito da Marcos y
Marcos. Ha scritto molti testi
teatrali e una traduzione in
versi del Sogno di una notte
di mezza estate. Il suo primo
romanzo, L’amante proibita
(Newton Compton, 2006, pp.
173) si è classificato terzo al
Premio Strega e si è aggiudicato il Premio Città di Santa
Marinella.
Com’è nato il tuo primo romanzo “L’amante proibita”?
“Ci ho messo molto tempo
per scriverlo probabilmente perché è una storia che mi
apparteneva parecchio anche
a livello autobiografico ma
soprattutto perché non lo sapevo scrivere. La storia è rimasta sempre quella per me,
concepita molti anni prima
ed era rimasta quella che volevo scrivere pur non sapendola narrare. Ero consapevole della sua esistenza ma non
sapevo come scriverla e questo può essere un incoraggiamento per tutti quelli che vogliono scrivere”.
In che senso?
“Nel senso che si hanno dei
progetti in mente ma che non
si riesce a realizzare perché
ci si imbatte in degli ostacoli come il non avere i mezzi
o le tecniche per poterli mettere per iscritto. Io consiglio
assolutamente di provare: se
la storia ha un senso per chi
scrive a un certo punto verrà
sicuramente fuori e si riuscirà
a metterla su carta in maniera
soddisfacente. A mio avviso
non bisogna mai forzare qualcosa altrimenti viene fuori in
modo artificioso e artificiale.
Personalmente non avevo la
smania di dover pubblicare:
credo bisogna superare questa forma di narcisismo. Il mio
spirito critico ha deciso di lasciar passare il tempo fino a
quando non ho avuto i mezzi
per scrivere”.
E in che maniera hai poi ovviato
alle iniziali difficoltà?
“Mi sono esercitato e nel frattempo ho scritto racconti, alcuni mai pubblicati altri impubblicabili, teatro e sin da
giovanissimo molta poesia, la
mia prima passione”.
In particolare, in che cosa ti ha
agevolato la poesia?
“La poesia mi ha aiutato facendomi scrollare di un linguaggio assolutamente artificiale quale può essere quello
di un romanzo anche se gli
echi poetici possono arric-
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chirlo: in verità per me è difficile che un poeta possa poi
riuscire allo stesso modo in
un romanzo”.
Rispetto alla libertà narrativa
che offre un romanzo, la poesia non ha rappresentato per te
una sorta di gabbia?
“Per me la poesia è un frammento di un’esperienza autobiografica: c’è la chiarezza, l’essere molto diretto; ha
delle qualità che io rispetto
e che voglio siano presenti nei miei testi. Certo, non
ti offre la possibilità di raccontare una grande storia come un romanzo però ti aiuta
dandoti delle gabbie intese
come parametri. Anche nel
romanzo io ho dovuto assolutamente darmi dei recinti e
avere subito chiaro il senso
della storia: per questo i capitoli sono molto brevi, intensi, sintetici; le possibilità
erano amplissime e si potevano disperdere”.
Per te quali sono le sostanziali differenze tra poesia e romanzo?
“Non hai mai il progetto di
scrivere una poesia. È un frutto spontaneo e rapido con cui
raccontare un’impressione,
un istante, un momento, quasi una condizione naturale
che emerge in due tempi diversi: il primo è quello in cui
si mette sulla carta e l’altro è
quello di una rielaborazione
anche abbastanza veloce del
testo. Se necessita di parecchi aggiustamenti e lavorio a
mio avviso non è quasi mai
un testo valido. Il romanzo
ha bisogno di una maturazione che ti possa permettere di
dare un’idea del mondo. Una
volta acquisite le tecniche
spero di non metterci di nuovo tanti anni per il secondo:
ho già cominciato a lavorarci
e tutto quello che mi ha aiutato finora mi aiuterà anche per
il prossimo libro”.
E la scrittura teatrale?
“Nei miei racconti c’erano
moltissimi dialoghi e un regista mi ha stimolato a scrivere
pure per il teatro e l’ho fatto
per diversi anni. Tutte queste
tipologie di scrittura piuttosto
che allontanarmi dal progetto
iniziale della storia mi hanno invece aiutato nella sua
composizione che è risultata
più ricca grazie all’apporto di
queste diverse esperienze che
ho voluto fare. Ognuno deve
capire i propri limiti e giocare un po’ sulle debolezze e
cercare di sforzarsi a migliorare”.
Quale
sentimento
anima
“L’amante probita”?
“Per non mancare di intensità
- un difetto riscontrato in uno
dei miei primi scritti teatrali ho voluto inserire la passione,
l’amore tormentato di Carlo e
Paola fatto di scontri e litigi,
separazioni; il tormento antico che il protagonista si porta
dentro sia nei confronti dell’amante proibita che verso il
padre. Insomma, volevo che
il protagonista fosse un personaggio molto denso e - visto
che parla in prima persona che desse tutto di sé e facesse
scoprire tutte le sue ferite”.
Quali altri elementi lo compongono?
“Nel romanzo confluiscono
le proprie esperienze autobiografiche e il proprio percorso di scrittore: ci sono le
storie familiari, storie d’amore e di passioni, un viaggio: il
romanzo come forma letteraria ben si presta ad accogliere
molteplici elementi. A differenza del teatro e della poesia ti dà questa possibilità di
ricchezza e contenere e fare
sviluppare più aspetti”.
A che viaggio ti riferisci?
“Ai miei viaggi in Grecia che
hanno contribuito moltissimo
a questa storia. La mia amica fotografa mi ha insegnato
molto a guardare le cose sotto
aspetti diversi e da quel mo-
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mento ho deciso di ambientare la storia in un’isola greca. Alla fine abbiamo scoperto che a quest’isola era legato
il mito di Perseo, che aldilà
dell’episodio con la Medusa, si portava dietro delle forti
storie familiari: era stato cacciato via dal nonno, aveva un
rapporto molto stretto con la
madre; insomma, vi ho ritrovato delle cose che corrispondevano alla trama del romanzo e mi sono accorto di quanto i miti greci ancora ci parlano di noi stessi”.
Perché non ambientarlo nella
tua città natale?
“Napoli è una città figlia della Grecia e ha degli spazi
molto simili come la costa e
il mare. La Grecia è un posto importante per la nostra
cultura e in questa maniera si
può contribuire a rivitalizzarla, per capire che cosa ancora oggi ci può dire attraverso
luoghi assolutamente affascinanti, ascetici, dalla natura
aspra non sempre accogliente, cruda”.
La stesura come la storia è rimasta fedele al progetto iniziale?
“Ci sono state molte versioni del romanzo: all’inizio era
veramente illeggibile. Mentre
si compone bisogna selezionare, riuscire a capire quale
può essere una pagina valida
o meno, dove si è fatto bene,
un momento particolarmente
riuscito. Quando c’è una pagina che si ritiene abbia valore, occorre analizzare gli
aspetti validi di quella pagina
e studiarli e andare a fondo
ad essi, piuttosto che scartare
e così facendo si possono capire le cose riuscite, che parlano del meglio che c’è in un
autore, anche inconsapevolmente: gradualmente si prende una strada sempre più personale”.
Nella composizione avevi davanti a te una sorta di lettore
ideale?
“Non ho avuto in mente alcun lettore ideale: secondo
me non è proprio possibile. Il
primo lettore sei tu che leggi
quello che hai scritto magari il giorno prima visto che al
momento non si riesce a leggerlo con serenità: vuoi che il
romanzo risponda a determinate esigenze, ma non puoi
avere in mente un
estraneo e piegarti alle sue
aspettative,
a meno che
non si tratti di
quei romanzi costruiti con in
mente
un tipo
di target preciso per
rispondere a una
pura operazione commerciale”.
La
descrizione
dei personaggi a volte
sembra rimanere sospesa…
“Mi piace lasciare dei
margini di interpretazione
per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi:
è una tecnica acquisita nel
teatro quella di non dire e
dare tutto e lasciare che un
lettore o uno spettatore a suo
modo possa far vivere un carattere. Se raccontassi tutto di
ognuno non ci sarebbe spazio per il lettore che al contrario può entrare nella vita
stessa dei personaggi e farla
propria. Nel momento in cui
riempi tutti i buchi non c’è
più possibilità per gli altri: si
guarda una storia col rischio
di vedere una cosa tutta ottu-
rata nella quale non c’è alcuno spazio da attraversare.
Volevo assolutamente che
non fosse tutto chiaro, lasciando degli indizi e delle
sospensioni: il protagonista
parla in prima persona e già
di per sé questo rappresenta
un limite alla possibilità del
personaggio di sviscerare il
proprio carattere e raccontare
tutto di sé”.
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Gennaio / 2005
È
Il Guarany,
dal romanzo
all’opera lirica:
un caso di traduzione
intersemiotica
O Gomes fez do meu Guarani uma embrulhada sem nome, cheia de
disparates, obrigando a pobrezinha da Ceci a cantar duetos com o
Cacique dos Aimorés que lhe oferece o trono da sua tribo... Desculpolhe, porém, tudo, porque daqui a tempos, por causa talvez das suas
espontâneas e inspiradas harmonias, não poucos hão de ir ler esse livro,
senão relê-lo; esse é o maior favor que pode merecer um autor.
José de Alencar
Tânia Mara Moisés
difficile trovare un brasiliano che non conosca
la musica sigla della Voz
do Brasil. Forse non saprà informarne il nome, ma saprà
naturalmente canticchiarla: si
tratta della Sinfonia dell’opera lirica brasiliana Il Guarany,
composta dal maestro Antonio Carlos Gomes, introduzione del programma A voz
do Brasil, la più antica trasmissione radiofonica in Brasile, in onda ormai da settanta
anni, poiché venne trasmessa per la prima volta il 22 luglio 1935, durante il governo
Getúlio Vargas .
Con il passare del tempo,
la Sinfonia è diventata in molte occasioni quasi un sostituto dell’inno nazionale brasiliano, a causa del citato programma radiofonico, eseguita
frequentemente dalle bande
municipali nelle cerimonie
civiche. Chissà quanti saranno i brasiliani consapevoli del
legame esistente tra la Sinfonia, l’opera lirica Il Guarany e
il romanzo O Guarani, di José
Alencar (1829-1877). Legame
che riguarda la traduzione.
Jakobson, nel 1959, ha stabilito i tre modi di interpreta-
zione di un segno linguistico,
nominando tre tipi di traduzione: la traduzione intralinguistica, la traduzione interlinguistica e la traduzione intersemiotica. La prima occorre soltanto fra segni verbali di
una stessa lingua; la seconda,
quando un testo in una lingua
di partenza è reso nella lingua
d’arrivo; e la terza occorre tra
due sistemi di segni diversi
(2002: p. 53).
È quindi intersemiotica la
traduzione che coinvolge, ad
esempio, tutti e due i capolavori dell’arte brasiliana presi in considerazione: l’opera
lirica Il Guarany, di Carlos
Gomes (1836-1896), basata
sul romanzo O Guarani, di
José de Alencar (1829-1877).
Lo stesso accade quando un
film nasce da un libro, una
canzone da una poesia, una
pittura da una poesia e via di
seguito.
Segre riferisce che la parola testo deriva dal latino
tĕxtu(m) che, nel suo senso
comune, “sviluppa una metafora in cui le parole che costituiscono un’opera sono viste, dati i legami che le congiungono, come un tessuto”,
ossia,
sarebbe un’allusione specificamente rivolta al
concetto di contenuto. Se si
pensa a “tessuto” in forma figurativa e al di là della “parola scritta”, tale concetto può
essere trasferito a qualsiasi
opera sia musicale, che pittorica, cinematografica, teatrale ecc, perché perfino esse
hanno il loro carattere testuale, come “tessuto coerente e
coeso” , per la disposizione
degli elementi coinvolti nella
loro creazione.
O Guarani (1857), il primo della triade di romanzi
indianisti di José de Alencar
(gli altri sono Iracema (1865)
e Ubirajara (1874)), è uno dei
principali simboli romantici
del romanzo brasiliano che
ha ricevuto, oltre alle tante altre esperienze di lettura nelle
scuole brasiliane, tre traduzioni intersemiotiche famose:
l’opera lirica Il Guarany (l870)
di Antonio Carlos Gomes; gli
adattamenti per il cinema nel
1916 e nel 1926 (regia di Vittorio Capellaro), nel 1920
(regia di João de Deus) e nel
1995 (regia di Norma Bengell); l’adattamento per la TV
nel 1991 (novella dell’estinta
TV Mancete) .
Anche le idee di Torop sulla traduzione filmica
sembrano appropriate per
un’opera lirica, poiché, se
nella letteratura la traduzione
“viene fissata sotto forma di
parola scritta, [nell’opera lirica] l’immagine (rappresentazione) è sostenuta dal suono, sotto forma di musica o
Carlos Gomes
e José de Alencar
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di parole”. Il piano d’espressione sarebbe più complesso dal punto di vista del contenuto, perché i suoni della
musica e del canto si realizzano nell’insieme delle immagini in movimento, cioè la
rappresentazione è multipla e
in forma simultanea, come in
un film o in teatro .
Lotman, quando si riferisce anche lui all’etimologia della parola “testo” come “tessuto”, afferma “la
ricchezza delle opposizioni
sul piano dell’espressione”
che conferisce al testo una
individualità che supera la
somma degli elementi del
piano del contenuto (2002:
pp. 92-93).
Non ci sono nella rappresentazione sul palcoscenico un tempo per la lettura
e un’altro per riflettere sull’opera letta, come succede
con un libro. Farne la traduzione interlinguistica presuppone numerose traduzioni diverse una dall’altra, però, in
principio, corrispondenti al
contenuto, ossia “ potenzialmente adeguate” come analizza Torop.
Nella traduzione intersemiotica invece c’è una “potenzialità amplificata”, dal
momento che “è impossibile
riconoscere il testo che sia
stato ritradotto all’inverso,
poiché risulta un testo nuovo” . Ne è un altro esempio
la serie Lendas dos índios,
delle stampe Eucalol, che
fecero parte della strategia
di marketing della Perfumaria Myrta S/A. (1917-1980),
nella Rio de Janeiro della
prima metà del secolo scorso. Vale la pena vedere la
leggenda di Peri e Ceci, trasformata nelle dodici stampe, oggigiorno appartenenti
a un collezionista privato,
dato che rappresentano un
oggetto di ricerca e interesse, soprattutto per la cultura
brasiliana .
Fra le tante e diverse traduzioni intersemiotiche, è
importante dire che la bellezza dell’opera lirica nasce
anche dalla qualità narrativa
romantica del libro. Pertanto
sono tutti e due i grandi autori brasiliani che si moltiplicano l’uno nell’altro. Ciò si
percepisce nella rilettura del
romanzo Il Guarani, di José
de Alencar; nella lettura del
libretto dell’opera Il Guarany
di Carlos Gomes e nell’ennesimo e gratificante ascolto
della Sinfonia che, oltre alla
presenza diaria in A voz do
Brasil, si trova anche in Internet, come parte dell’immaginario collettivo del popolo
brasiliano.
Il libro si trova con facilità:
a casa, come “ricordo della
scuola media”, nelle biblioteche, nelle librerie ed anche in recentissime edizioni
integrali e tascabili, come è
il caso del volume utilizzato in questo lavoro. Purtroppo non si può dire lo stesso
dell’opera lirica. Nonostante
l’iniziativa di brasiliani che
valorizzano la musica classica nazionale con la creazione del Projeto Carlos Gomes,
con un sito che divulga la vita e l’opera del musicista in
Brasile e all’estero (<http://
www2.uol.com.br/spimagem/cgomes/projeto.html>.),
l’opera ancora non si trova
nè in CD e nè in DVD, mentre i negozi specializzati ne
informano l’assenza nei cataloghi di musica da almeno
tre anni .
Purtroppo tale assenza
non permette di sentire la
musicalità dei dialoghi del
libretto di Scalvini e Carlo
d’Ormeville . Il linguaggio
del libretto è molto diver-
so da quello del libro, certamente anche per una questione di dimensione. Circa
gli usi del linguaggio dentro
la prospettiva più ampia della traduzione intersemiotica,
vale la pena una pausa di riflessione sul significato della “potenzialità amplificata”
che si può riconoscere tramite il confronto di tutti e due i
testi. È ciò che si capisce per
mezzo dell’intenzione del testo (Eco, 2003), che serve a
una traduzione intersemiotica di una grande opera letteraria come è O Guarani, che
necessariamente deve essere
ridotta a una rappresentazione di circa due ore.
La narrativa di O Guarani
si sviluppa in cinquantaquattro capitoli, distribuiti in quattro parti (Os aventureiros; Peri; Os aimorés; A catástrofe).
Il linguaggio è ricco, colorato,
esuberante come la natura,
come le passioni e sentimenti che pervadono il romanzo,
pieno di metafore e di immagini grandiose, esotiche e di
grande bellezza plastica realmente degno di un’opera come Il Guarany:
Gennaio / 2005
D. Antônio de Mariz: Este
personagem é histórico,
assim como os fatos que
se referem ao seu passado,
antes da época em começa
o romance. Nos Anais do
Rio de Janeiro, tomo 1.o,
página 328, lê-se uma breve
notícia sobre sua vida (nota
05, p. 16).
Para se conhecer a exatidão
dessa descrição do rio
Paquequer naquela época,
leia-se B. da Silva Lisboa.
Anais do Rio de Janeiro, 1.o
tomo, pág. 162. Hoje as
grandes plantações de café
transformaram inteiramente
aqueles lunares outrora
virgens e desertos (nota 03,
p. 13).
[...] “Há uma árvore meã
que se chama “ibiriba” a
qual os índios fazem em fios
para fachos, com que vão
mariscar e para andarem
de noite; e ainda que seja
verde, cortada daquela
hora, pega o fogo nela
como em alcatrão, e não
apaga o vento os fachos
dela; e em casa servemse os índios de achas
dessa madeira, como de
candeias” (nota 47, p.
117) .
Riprendendo i concetti
delle Lezioni americane, di
Italo Calvino, se ne capisce
l’ampiezza con l’analisi della “traduzione intersemiotica” poiché, nel libretto dell’opera , si possono riscontrare la rapidità (“che cosa
[è] abbastanza veloce per inserirsi nello spazio fra la domanda e la risposta, separando l’una dall’altra?”) e l’esattezza, attraverso “il giusto
uso del linguaggio [...] che
permette di avvicinarsi alle
cose”:
GONZALES
Non più!... l’impongo!... seguimi...
(per afferrarla)
CECILIA
Invano!
(mentre Gonzales alza la destra per afferrarla,
una freccia entra dalla finestra,
e ferisce Gonzales alla mano)
GONZALES
(gettando un grido)
Oh rio dolor!...
sono ferito!
(Atto II/VII)
Tutte e due queste caratteristiche servono alla visibilità
dell’opera lirica che, essendo arte visibile e udibile (“la
fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità [...]), è pure molteplice nella sua “idea
d’infiniti universi contemporanei [...]” :
PERY
Deh! Mia signora, arrenditi
al genitore, a dio;
vieni, mi segui, involati,
torna al tuo suol natio.
Schiavo fedele ed umile
ognor m’avrai, tel giuro;
rigenerato e puro
io ti consacro il cor.
(Atto IV/IV)
O hálito ardente de Peri
bafejou-lhe a face. Fez-se
no semblante da virgem
um ninho de castos rubores
e lânguidos sorrisos: os
lábios abriram como as
asas purpúreas de um beijo
soltando o vôo. A palmeira
arrastada pela torrente
impetuosa fugia... E sumiu-se
no horizonte ( p. 279) .
José de Alencar è molto
zelante nelle sessantasei note
dell’autore, poiché per mezzo
di esse spiega gli elementi del
suo romanzo: personaggi storici, luoghi, termini nativi per
gli animali e le piante, i modi
di fare e di vivere ecc:
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10
Si vede da lungi il campo
degli Aimorè e sopra una
collina Cecilia, che alla
catastrofe del castello cade
in ginocchio sorretta da Pery,
che le addita il cielo.
(Scena sesta e ultima).
Nella traduzione intersemiotica è necessario che ci
sia un’azione traduttiva che
“razionalmente consenta di
decidere quali “parti” del testo” sono più distintive e quali sono le perdite accettabili
che possono essere sopportate in nome della traducibilità
richiesta dal sistema di segni
in cui si darà la traduzione .
Perciò le lezioni di Calvino sembrano adeguate per
l’analisi del linguaggio del
libretto e anche per quella
del romanzo, tutti e due sotto l’egida dell’ideale romantico, in cui tutto è questione di
“peso”:
A questo punto dobbiamo
ricordarci che l’idea del
mondo come costituito
d’atomi senza peso ci
colpisce perché abbiamo
esperienza del peso delle
cose; così come non
potremmo ammirare la
leggerezza del linguaggio
se non sapessimo ammirare
anche il linguaggio dotato di
peso (2002: p. 19).
Nel caso dell’opera in
analisi, il testo è passato per
un adattamento a causa della rappresentazione ed è stata
composta la musica che ne è
l’essenza: si sa che gli effetti suscitati sono molti, come
quelli di plasticità e sonorità,
oltre alle esigenze riguardo
alla deontologia professionale e di editoria che molte volte sfuggono al “rispetto giuridico del detto altrui” (Eco,
2003: p. 20).
10
Il proprio Jakobson riconosce che la traduzione intersemiotica è una “interpretazione dei segni linguistici
per mezzo di sistemi di segni
non linguistici”. È importante
mettere in rilievo il fatto che
il caso dell’opera lirica basata
su un libro riguarda, oltre alla
traduzione intersemiotica, anche la traduzione interlinguistica, rappresentata dal libretto, poiché, ancora secondo i
concetti sviluppati dal linguista citato, “le lingue differiscono essenzialmente per ciò
che devono esprimere, non
per ciò che possono esprimere”( 2002, pp. 53; 59).
Il libretto dell’opera-ballo, in quattro atti, che riesce
a mantenere l’intensità della
storia raccontata da Alencar,
accentua la grandezza della
musica di Carlos Gomes, che
“si inserisce pienamente nella
storia dell’opera italiana del
secondo Ottocento, per formazione e produzione; con Il
Guarany il compositore emerse sulla scena internazionale
ottenendo, fra gli altri, il plauso di Verdi” .
L’interpretazione dei due
musicisti della storia raccontata da Alencar ne ha tralasciato
una parte che manca quando
si legge prima il libro e dopo
il libretto, come nel caso presente. La storia d’amore che
coinvolge il triangolo Peri–Ceci–Álvaro è più o meno presente, nonostante non sia dato
ad Álvaro lo stesso ruolo che
rappresenta nel romanzo. Ci
sono alcune parti dell’opera
che lasciano soltanto intravederlo: in un primo momento,
Ceci l’amava e la sua morte
nell’opera non corrisponde al
cordoglio esistente nel libro.
Ciò accade a causa dell’assenza di un personaggio
essenziale, Isabel, che semplicemente non esiste nell’opera
e che é la protagonista del secondo triangolo amoroso del
romanzo, Álvaro–Ceci–Isabel,
responsabile dell’indimenticabile capitolo di gusto perfettamente romantico, Noiva, che
riferisce la fine tragica della
coppia dei due innamorati Álvaro–Isabel (Quarta parte, capitolo VIII, pp. 244-248), che
fa ricordare la storia di Romeo
e Giulietta di Shakespeare. I
motivi dell’assenza di Isabel
certamente non saranno di
perdita di fronte all’amore di
un nobile con la figlia illegitima e meticcia di Don Antonio, poiché l’opera segue il
romanzo quando finisce con
l’unione dell’indio Peri con la
bianca e nobile Ceci.
Forse anche i personaggi
di D. Lauriana e Don Rodrigo,
rispettivamente la madre e il
fratello di Ceci, avrebbero dovuto apparire in piccoli ruoli,
per rialzare il carattere di “famiglia”, tanto presente nel libro, mentre l’opera lirica è totalmente incentrata nella figura di Don Antonio, il padre.
La differenza più significativa è quella che sconvolge
l’origine nazionale dell’antagonista Loredano, un ex-prete
italiano (Fr.Angelo di Luca), la
cui storia criminosa è raccon-
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tata nella parte seconda del
romanzo O Guarani (Capitolo
I – O carmelita, 2005: pp. 8187): nell’opera Il Guarany, il
ruolo dell’antagonista è vissuto da Gonzales, un avventuriere spagnolo (ciò è comprensibile poiché dal 1580 al 1640
il Portogallo fu dominato dalla Spagna e, in conseguenza,
anche la sua colonia, il Brasile, mentre la famiglia Mariz
era fedele alla corona portoghese). Non c’è nessun riferimento all’origine religiosa di
Gonzales, fatto ugualmente
concepibile per un’opera presentata in Italia, dato il riguardo dovuto alla Chiesa.
La sceneggiatura , come
riconosce la propria critica
musicale trovata in Rete, ubbidisce al modello romantico
europeo, con un castello medioevale e gli indios come figure esotiche. Purtroppo, il
mito del buon selvaggio non
si è ancora realizzato come
attestano i massacri degli indios in Brasile, e che la storia
dei cinquecento anni ancora
tenta nascondere .
Il grande merito della letteratura indianista romantica
e delle opere derivate è quello di mostrare, nonostante dal
punto di vista del colonizzatore, la bellezza del Brasile remoto, che negli albori già faceva destare il desiderio della
terra senza mali, sogno eterno
del popolo Guarani, simbolo
dell’indiano brasiliano.
José de Alencar e Carlos
Gomes continuano a provocare riflessioni e questa è una delle caratteristiche dell’arte in genere: far pensare, con coscienza etica ed estetica e, in questo
caso di traduzione intersemiotica, la Sinfonia dell’opera lirica Il Guarany può rappresentare un’esortazione affinché “la
voce del Brasil”, prima di tutto
indiana, non si taccia.
11
BIBLIOGRAFIA
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11
Gennaio / 2005
12
I
l dono della percezione
del fenomeno letterario richiede una sensibilità in
grado di captare e indagare
le zone più significative, gli
strati più suggestivi; e occorre
procedere con un’analisi che
abbracci sia il contenuto che
la parola nella sua efficacia
estetico-letteraria: il significato e il significante.
José Mário dimostra di essere cosciente del fatto che
la letteratura non si esprime
pienamente in cerchie circoscritte di addetti ai lavori che
scrivono gli uni per gli altri,
come se si trattasse di un’attività elitaria. Anche perchè
non è necessario che il codice linguistico del critico (in
questo caso) sia inaccessibile nella sua specificità perchè
le sue analisi dei segni verbali
siano profonde; l’importante
è rispettare il triangolo critico-libro-lettore. Superfluo è,
invece, il dilettantismo che si
serve del libro come pretesto
per commenti personali che
fluttuano in periferiche generalizzazioni.
José Mário si occupa dell’esegesi di produzioni genuine e dimostra infatti che non
è necessario tessere intricate
argomentazioni critiche per
dimostrare un’accurata comprensione delle nuances che
contraddistinguono i generi letterari, tracciando confini netti. È sufficiente, qualsiasi sia il genere preso in
esame, che ci si muova con
equilibrio, disinvoltura e onestà fra i meandri dei testi. Ecco il motivo per cui i saggi di
questo libro rappresentano
una guida preziosa di autori
di valore incontestabile, non
importa se prossimi o distanti
nella geografia fisica, dal momento che tutti condividiamo
quella fraternità che innalza
lo spirito.
12
Immune ai preconcetti
formalisti, la comunicabilità delle capacità critiche del
professore José Mário è ammirevole perchè egli non si
limita agli schemi né alla rigidità di modelli inalterabili. La
sua metodologia è determinata dalla relazione ontologica
che intrattiene con il libro:
quest’ultimo suggerisce, nella
sua singolarità, il metodo e la
scala di valori adatti a commentarlo; singolarità evidente
se si considera che ogni opera di creazione letteraria è un
mondo che non si può ripetere. Una migliore identificazione con il testo si ottiene,
infatti, assimilando i riflessi
emotivi della lettura in senso
profondo, assieme all’analisi
linguistica. L’analisi testuale
risulta più completa se si indagano le intenzioni che animano l’intimo della creazione letteraria.
La critica, così come la
esercita José Mário, è utile
agli autori da lui analizzati
perchè illumina aspetti che
eventualmente non erano
ancora stati notati. Una dote
naturale, trattandosi di qualcuno che conosce la storia
della critica nel nostro paese
e capisce, dunque, che la fase di auge dell’ermetismo ci
ha lasciato ben poco, a parte il senso di liberazione per
il suo superamento. Ricordiamo, infatti, l’epoca in cui
gli studi letterari si divisero
in due correnti: quella che
si concentrava sugli aspetti
formali, secondo l’esempio
di Afrânio Coutinho; e quella che preferiva gli elementi
sociologici, sotto la guida di
Antônio Candido. Dopo questi due orientamenti, dilagò,
come sappiamo, la polverizzazione dei metodi: ce n’era
per tutti i gusti, importati e
accolti con entusiasmo e sen-
Gennaio / 2005
Minime
Letture
Ricardo Soares
za esitazioni. Era l’epoca del
linguaggio gravido di tecnicismi, il cui consolidamento ha emarginato gli studiosi
limpidi e obiettivi. Si ricordi,
a questo proposito, che il flagello dello strutturalismo in
Brasile prese piede in una fa-
se di chiusura cultuale (sono
magistrali, a questo riguardo, le considerazioni di José
Mário su Antônio Candido
e sulle idee centrali di Paulo Freire, che suggerivano la
possibilità di un’educazione
liberatrice).
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Sarà pure una coincidenza, ma quando i critici risorsero come osservatori ascoltabili, l’apertura democratica
favorì il giornalismo critico
brasiliano. I supplementi, che
verso la fine della prima metà
del secolo scorso erano andati diminuendo fino ad essere
banditi, ritornarono con il vigore evocativo di nomi paradigmatici come Álvaro Lins,
Otto Maria Carpeaux, Wilson
Martins e i loro insigni predecessori: Agripino Grieco,
Mário de Andrade, Octávio
de Faria e Alceu Amoroso
Lima (o Tristão de Athayde,
l’unico che, durante il modernismo e il postmodernismo, si
occupò della cultura classica,
senza la quale l’essere umano
è un ente mutilato). Rileggerli rafforza ancora una volta la
certezza del fatto che la critica letteraria non fu mai né mai
sarà un qualcosa di superfluo
che si va ad aggiungere alla
libreria delle nullità culturali. Prova tassativa di questo è
il fatto che la cultura estetica
moderna tendente all’universalismo si rifece a Sílvio Romero il quale, nel XIX secolo,
aveva rinnovato la militanza
critica in Brasile, portandola a un livello di riflessione
scientifica che la arricchiva e
la trasmutava.
Mínimas Leituras, Múltiplos Interlúdios è un libro piacevole da degustare grazie all’insieme delle riflessioni che
ci propone. José Mário recupera i criteri di eleganza della
saggistica di Paraíba, contrari
a ogni sproloquio malpensato e, quindi, permeato di gravi arbitrarietà. Si è soliti dire
che l’erudizione ha assunto
ai nostri giorni un’accezione
negativa; tuttavia, affermare
che si possa acquisire sapere,
facendo a meno di uno sforzo d’erudizione, pare difficile
da provare, a meno che non
si pensi questo sapere come
dono di grazia. Gli scritti di
José Mário ci mostrano come
l’ottica feconda delle indagini letterarie sia inerente alla
destrezza che colloca il dettaglio espressivo in latitudini
vaste. Questa prevalenza di
criteri derivanti da un eruditismo ragionato permette all’autore di coniugare il lavoro
critico con il saggio analitico
e interpretativo (sebbene queste siano due cose distinte),
ottenendo risultati magnifici e
illuminanti riguardo agli autori presi in esame.
È indubitabile che la letteratura pura è quella in cui
la parola può ridursi alla sua
essenza e è, allo stesso tempo, un codice comprensibile a qualsiasi destinatario.
Diceva Erza Pound, “Literature is news, but new that
stays news” (in: ABC of Reading). Questa perenne attualità è estremamente significativa quando si riferisce, per
esempio, alla divagazione,
alla vivacità, al mistero e alla drammaticità che si agitano nelle opere di Shakespeare. È questa letteratura che insegna a scoprire ogni giorno
con occhi nuovi, più nitidi
di ieri, meno chiari di domani; insomma, è la letteratura
nella quale la perfezione irrompe solamente quando si
arriva a riconoscerla come
incompleta, perchè sempre
possa rinascere. Cosciente di
tutto questo, lettore sottile e
penetrante, esigente e rigoroso con se stesso, il professore
José Mário da Silva è un intellettuale che questo brillantissimo testo, Mínimas Leituras,
Múltiplos Interlúdios, definitivamente consacra.
Traduzione di
Laura Minervini
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Rappresentare
Pirandello
Carla Minuzzi e Eduardo Coutinho
I
n principio, l’idea di rappresentare Pirandello come
un passaggio graduale ci
sembrò strana. Non potrebbe
essere differente poiché non
si trattava di un lavoro comune per essere svolto in un’aula
di una classe. Siamo abituati ad apprendere una lingua
straniera di forma più tecnica,
imparando a memoria regole
grammaticali, riempiendo lacune, coniugando verbi, e alla
fine di tutto, facendo una prova nel quale percepiamo tutto
ciò che apprendiamo.
In un primo momento, la
maggior parte della classe di
Italiano VII del secondo semestre del 2006 sembrava negare questa idea interiore, fino a
quando alcuni si rifiutarono di
rappresentare l’opera teatrale.
Ormai avevamo letto Sei personaggi in cerca d’autore e fi-
no a quel momento era stato
fatto un lavoro sull’opera, ma
rappresentare il dramma vissuto dai personaggi era ancora
qualcosa di talmente indefinito, non immaginavamo quale
sarebbe stato il risultato.
Ci cimentammo durante le
lezioni, le idee nacquero ed
emersero dalla carta. Alla fine
avevamo qualcosa di concreto, potevamo immaginare la
rappresentazione finale. Tutta
la classe che si propose a mettere in scena l’opera, si adoperò e fece un ottimo lavoro.
Nonostante le discussioni sui
dettagli della messa in scena, possiamo dire che vi era
la collaborazione di tutti. Con
il passare del tempo, fummo
presi dal piacere delle scene
scelte e dai personaggi.
Dal nostro punto di vista
era cambiato il rapporto con
Lo Sguardo di Pirandello
4 dicembre 2006
alle ore 8:00
Aula João do Rio
UFRJ - Facoltà di Lettere
14
questo lavoro. Divenne un
compromesso vivere i personaggi come essi sono realmente, con i loro drammi personali e con le loro caratteristiche
psicologiche. Nonostante la
nostra devozione fino alla data scelta nel mostrare l’opera
al pubblico, non eravamo sicuri di aver raggiunto le aspettative per la rappresentazione
dei nostri personaggi.
Alla fine dell’ interpretazione, udimmo degli spettatori che
avevamo realmente convinto
del dramma vissuto dai personaggi, ci elogiavamo gli uni
con gli altri, ognuno che entrava in scena superava se stesso.
Fu gradevole sentir questo, perché rappresentare i personaggi con verità e vigore, dando
il meglio di noi, era il nostro
stesso proposito. Possiamo dire
che tutti raggiunsero questo obbiettivo e superarono le attese,
è questo ciò che fece della nostra opera un successo. Valse la
pena rappresentarla! Il nostro
gruppo, insieme al nostro professore fece un buon lavoro.
Traduzione di
Antonella Gemma
Lo Sguardo di Pirandello
Scenografia: Eduardo Coutinho
Costumi: Simone Hissae
I personaggi – gli attori
La figliastra:
Simone Hissae (1)
Lívia Giammattey (2)
Carla Minuzzi (3)
Il padre:
Mozilene Neri (1)
Simone Carrano (2)
Weverton Pereira (3)
Il capocomico:
Eduardo Coutinho
Il figlio:
Helena Rossi
La madre:
Alice Batista
Parodos: Eduardo Coutinho
Exodos: Mozilene Neri
Direttore e controdirettore: Marco Lucchesi
(Lingua Italiana VII) – 2006/2
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La Roma
degli storici
I
l fascino esercitato sugli storici dall’Italia, e in
particolare da Roma, è
facilmente
comprensibile.
Polo dell’Antichità classica
e del mondo cristiano, Roma
rappresentò due sintesi prodigiose: quella dell’Impero
che canalizzò l’eredità dei
popoli del Mediterraneo e
del vicino Oriente, e quella
della Chiesa, che fece sì che
la sede della nuova religione
universale fosse l’antica capitale imperiale e non Gerusalemme.
Se avesse realizzato solo
la prima sintesi, Roma avrebbe avuto un significato simile
ad altre città che si affermarono come guide di stati multiformi, per esempio Ninive e
Babilonia. Invece, fra il suo
apogeo e la sua decadenza si
diffuse e sviluppò la religione
cristiana, in un periodo in cui
questa contendeva fedeli ad
altri culti orientali, per esempio quello di Iside o il Mitraismo. Roma allora si trasfigurò
e realizzò una nuova sintesi,
questa volta di natura più religiosa e culturale rispetto alla precedente, che era stata
essenzialmente politica ed
economica.
Questo persistere nel suo
ruolo agglutinatore fa della
città di Roma un’esperienza
storica assolutamente unica
e la autorizza ad essere l’urbs
dell’Occidente.
Dalla sua unicità, tradotta
in molteplici realizzazioni di
inestimabile valore culturale,
è nato il fascino di Roma. In-
Arno Wehling
numerevoli artisti ed intellettuali, e non solo storici, hanno subito questa attrazione.
Quando fu saccheggiata
nel 1527 dalle truppe di Carlo
V, si ripeté rispetto alla “Roma dei Papi” ciò che era accaduto alla “Roma degli Imperatori” nelle invasioni del V
secolo. Il trauma fu simile in
entrambe le situazioni e colpì
in ugual misura i contemporanei e i posteri. Molti sentirono che era stato commesso
un sacrilegio e che si chiudeva un’epoca. Periodizzando,
gli storici individuarono nel
primo caso la fine dell’Antichità, nel secondo la fine del
Rinascimento italiano e l’inizio del Barocco.
Goethe si riferì all’unicità
di Roma per quanto riguarda l’arte, ma ciò che egli disse all’arciduca Carlo Augusto
nel 1788 si può certamente estendere a tutto il campo
della cultura, intesa nella dimensione più ampia possibile: “Quando andai per la prima volta a Roma sentii che
non capivo nulla di arte, […]
qui mi si rivelò un’altra natura, una dimensione più vasta
dell’arte …”
Tre storici rappresentano
bene il modo in cui i discepoli di Clio vedono Roma e i
suoi molteplici significati. Se
ne potrebbero scegliere tanti,
ma Edward Gibbon, nel XVIII
secolo, e Ferdinand Gregorovius e Jacob Burckhardt, nel
XIX secolo, furono certamente emblematici del modo di
concepire il ruolo storico di
Roma nei diversi periodi. In
altri termini, si deve a loro la
parte sostanziale dell’immagine che noi oggi abbiamo del
significato storico di Roma.
Benché di origini culturali
e sociali differenti, essendo il
primo un uomo dell’Illuminismo e gli altri due appartenenti all’epoca del Romanticismo
e del Nazionalismo, essi ebbero alcuni punti in comune
ed esperienze di vita in parte
analoghe. Tutti e tre credevano nell’importanza della conoscenza storica per la comprensione del funzionamento
delle società e la formazione
dell’uomo colto, il “gebildete
Mensch”.
Gibbon, Gregorovius e
Burckhardt intendevano Roma come una specie di sintesi o “Carrefour” di culture
ed esperienze storiche e sulla base di questa concezione
elaborarono i loro temi specifici. Ma in primo luogo tutti e
tre gli storici visitarono l’Italia e, naturalmente, Roma.
Quest’esperienza li segnò per
sempre, determinando l’indirizzo dei loro studi.
Edward Gibbon, quando conobbe Roma nel 1764,
aveva ventisette anni. Era già
stato a Parigi, che gli era piaciuta molto. La capitale enciclopedista di Luigi XV, del
“Café Procope” e del pontificato di Voltaire, lo spinse a
dire: “Se fossi stato ricco e indipendente, avrei prolungato
la mia permanenza e forse mi
sarei stabilito a Parigi”.
Ma la visita a Roma superò le sue aspettative e divenne il “turning point” della sua
vita. Riferendosi a quel momento venticinque anni più
tardi, nonostante non fosse di
temperamento facile agli entusiasmi - il che era non solo
molto inglese, ma anche molto illuminista - disse: “Non
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Gennaio / 2005
16
riuscivo a dimenticare né ad
esprimere le forti emozioni
che agitarono il mio spirito
quando giunsi per la prima
volta nella Città Eterna”.
Egli racconta che l’idea di
scrivere sul declino e la caduta della città gli venne durante una passeggiata in mezzo alle rovine, il 15 ottobre
1764, da cui uscì fortemente
emozionato.
Dodici anni dopo, nel
1776, realizzerà il suo disegno pubblicando il primo volume della Decadenza e caduta dell’Impero Romano.
Quasi un secolo più tardi,
nel 1833, un altro viaggiatore,
questa volta lo svizzero-tedesco Jacob Burckhardt (1818 1897) visitò l’Italia. Egli ripeté
l’esperienza nel 1846 e nel
1853, con crescente entusiasmo, e nel 1860 pubblicò il
libro, anch’esso divenuto un
classico, La Civiltà del Rinascimento in Italia.
Ferdinand
Gregorovius
(1821 - 1891), quasi contemporaneo di Burckhardt, completa la trilogia. Questo polacco di cultura tedesca nac-
16
que nella Prussia orientale e
studiò a Königsberg. Visse in
Italia fra il 1852 e il 1874, diventò cittadino onorario di
Roma nel 1876 e, dopo aver
raccolto con passione, nel libro Wanderjahre in Italien,
dati sul canzoniere popolare,
il folklore, momenti storici e
paesaggi naturali, pubblicò la
sua Storia della Città di Roma
nel Medioevo dal secolo V al
XV, in tedesco fra il 1859 e
1873 e in italiano fra il 1872
e il 1876.
Non sappiamo se i tre storici, nel visitare Roma, furono colpiti dalla “sindrome di
Stendhal”, cioè il profondo
choc causato dall’imponente massa di monumenti storici che provocano un senso di
confusione e perdita di orientamento. Ma conosciamo
l’impatto che ebbero su di loro le rovine romane e il loro
tragico significato in quanto
testimonianze silenziose ed
eloquenti di grandezze succedutesi e poi svanite, in obbedienza alla formula del “sic
transit…”.
L’esperienza comune del
viaggio e soggiorno in Italia
e a Roma si riflette nelle tre
opere ma in forme e con risultati differenti. La personalità, l’epoca e il vissuto di ciascuno
produssero tre visioni diiverse di Roma.
Gibbon vede la decadenza di Roma come un illuminista che raccoglie la tradizione erudita degli storici dei secoli precedenti, a partire dall’Umanesimo rinascimentale, e la incorpora alla critica
razionalista della sua epoca.
In quanto intellettuale tipico
del Settecento egli s’identificò coi valori della Roma classica, quelli repubblicani piuttosto che quelli imperiali, e il
suo libro riflette l’interrogativo del “gebildete Mensch” illuminato: in che modo i valori dell’ordine senatoriale
andarono perdendosi durante l’Impero, causandone la
decadenza? Sta di fatto che,
secondo Gibbon, la caduta di
Roma è profondamente legata, e in forma decisiva, all’indebolimento di quei valori
che l’aristocrazia romana era
riuscita nel corso dei secoli a
trasformare in amalgama della società.
Questi valori, che rappresentarono l’essenza della civiltà romana, furono sconfitti
dalla barbarie dei popoli dominati e di quelli che premevano ai suoi confini. La dicotomia civiltà vs barbarie, che
Gibbon mutuò dagli autori
classici come Tacito, era destinata a dare inizio, nel secolo XIX, ad una lunga tradizione nella stessa Inghilterra ed
in altri paesi, all’epoca di un
altro Impero: quello britannico. Non c’è dunque da meravigliarsi del fatto che uomini così diversi come
l’argentino Domingos Sarmiento, che
studiava proprio
il tema della
civiltà e della barbarie
nel suo
paese,
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e l’inglese Rudiard Kipling,
il quale parlava del “fardello
dell’uomo bianco”, fossero
lettori di Gibbon ed eredi della sua visione “romana” della
storia.
Gregorovius rappresentò
allo stesso tempo il liberalismo protestante e il romanticismo. Scelse come tema
d’indagine un aspetto fino ad
allora poco conosciuto, nonostante fosse stato trattato
anche dallo stesso Gibbon e
da altri autori: la Roma medievale o la “Roma dei Papi”,
che corrisponde a un periodo
differente e ad un’altra topografia dell’urbe.
I temi da lui affrontati sono di rilievo non inferiore rispetto a quelli trattati da Gibbon, benché a prima vista
gli ultimi secoli e la caduta
dell’Impero fossero “più importanti” rispetto agli avvenimenti molte volte oscuri verificatisi a Roma nel corso dei
mille anni studiati da Gregorovius. Egli si occupò dunque
dell’azione del papato medievale, delle relazioni fra il
potere civile e quello ecclesiastico, dei conflitti fra l’Italia e la Germania - fra i Papi e
gli Imperatori del Sacro Impero Romano Germanico.
Il papato, la vita municipale e comunale romana
e l’Impero sono i tre grandi
temi che contrassegnarono
non solo Roma e l’Italia ma
l’intero mondo occidentale, condizionandone lo sviluppo nel Basso Medioevo
e all’inizio dell’Assolutismo.
Per quanto riguarda la vita
del municipio, Gregorovius
sottolinea l’importanza della legislazione medievale romana, dimostrando che non
fu solo il diritto romano repubblicano o imperiale a trasmettere all’Occidente le basi del suo ordinamento giu-
17
ridico: anche la “Roma dei
Papi” contribuì alla rinascita
urbana del Medioevo, diventando la culla delle libertà
municipali.
La tematica sviluppata da
Gregorovius, quindi, non è
soltanto la storia di una città
nel Medioevo. Gregorovius
ha dimostrato che Roma, più
di qualsiasi altra città, rappresentò paradigmaticamente il
microcosmo della vita urbana
medievale.
Se Costantinopoli diventò
la “Seconda Roma”, sostiene
Gregorovius, la Roma medievale, incorporando e rinnovando la tradizione storica, fu
anch’essa una vera “Seconda
Roma”.
Burckhardt è stato il più
accademico dei tre studiosi di
Roma. Influenzato dall’incipiente scienza sociale, lo studioso svizzero non si preoccupò, nella sua opera, della
singolarità degli avvenimenti
o della “narratività” storica,
come facevano i suoi contemporanei, in primo luogo
Ranke e i suoi discepoli.
La sua prospettiva metodologica, secondo i principi
dello storicismo tedesco, lo
spinge ad intepretare la storia
ermeneuticamente, puntando a dipingere, nel quadro di
un’epoca, gli elementi tipici
e ricorrenti, anziché la singolarità dell’evento. La sua tematica, vale a dire la storia
dell’arte e della cultura e non
la storia politica ed economica, certamente favoriva questa prospettiva. E le connessioni da lui stabilite con altre aree erano contrassegnate dall’idea herderiana dello
Zeitgeist, il principio-guida
che lo mette in condizione di
interpretare le relazioni politiche dell’epoca del Rinascimento considerando lo Stato
come opera d’arte.
Il suo oggetto d’indagine, posteriore rispetto a quello di Gregorovius che a sua
volta veniva dopo quello di
Gibbon, era il Rinascimento italiano. In questo contesto, viene da lui fortemente sottolineato il ruolo culturale e in particolar modo
quello estetico di Roma, soprattutto durante i papati di
Sisto V, Giulio II e Leone X.
La ricostruzione della Roma
rinascimentale operata da
Burckhardt, che completa la
nostra trilogia, fu pubblicata
l’anno dopo l’uscita del primo volume del libro di Gregorovius.
È un’altra Roma, la Roma
delle guerre d’Italia che ormai sono le guerre del mondo moderno, cioè fra stati e
non più le piccole guerre dei
signori medievali, né i conflitti fra il Papato e l’Impero.
Questa “terza Roma”, quella
del Rinascimento, con le sue
peculiarità, arriva fino al barocco. È la Roma della Cappella Sistina.
Tre storici, tre visioni cronologicamente successive di
Roma: il declino dell’impero,
la Roma medievale e la Roma
rinascimentale. Un pensatore
illuminista, un giornalista liberale e romantico, e un professore universitario scrissero opere che hanno costruito
l’immagine da cui deriva la
nostra visione del senso storico e simbolico della città
di Roma, in tre epoche differenti. Tre classici, profondamente diversi nella concezione, nel metodo e nei risultati,
ma che sono contrassegnati
da una profondissima empatia. Ciò sarebbe impossibile
anche al più raffinato esercizio ermeneutico se questo
non poggiasse su un’ispirazione assolutamente speciale:
l’amore per Roma.
17
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18
Pavese sotto
la luce del
meriggio sacro
Eugenia Maria Galeffi
A
soli due anni dal centenario della nascita di Cesare Pavese applaudiamo con entusiasmo la pubblicazione del saggio di Pierpaolo Pracca (antropologo e
psicoterapeuta) e Francesca
Lagomarsini (saggista) Cesare
Pavese: il meriggio e il sacro,
18
introduzione di Franco Vaccaneo, direttore del Centro
Studi Cesare Pavese. La presentazione avverrà il prossimo 7 ottobre proprio a S. Stefano Belbo, luogo natale del
poeta.
I due autori hanno saputo
dare all’opera dello scrittore
uno sguardo mitico punteggiato dal fulgore della luce
meridiana. Sono riusciti a intravedere tra il bagliore della
canicola delle langhe descritta dal poeta di Lavorare stanca la vera essenza della sua
anima. Il loro saggio veste di
nuovi abiti la critica su Pavese e getta una luce solare
all’universo critico del poeta
spesso lunare, ricavandone
l’essenza del sacro in quanto incarnazione dell’energia
vitale. Il loro sguardo porta
il lettore ad intraprendere un
viaggio tra i simboli, miti ed
archetipi dell’opera pavesiana in cui il reale è un dato
di fatto.
Secondo Pracca la luce
meridiana in Pavese sarebbe
la chiave di “accesso ad uno
stato modificato di coscienza” perché, dicono gli autori
del saggio, “nell’ora suprema,
nel diafano incendio del sole
le difese della mente razionale vengono meno e tra parossismo ed abbandono si ha accesso alla dimensione sacra
degli dei.”
Pavese è visto, allora, con
gli occhi scrutatori di chi è
abituato a percorrere l’intimo delle emozioni umane e,
con maestria, porta alla luce
un’interpretazione antropologica, quasi sciamanica, della
sua opera, in cui la comunione del mondo naturale è la
strada verso il sacro.
Ciò che è considerato profano da un’ottica religiosa di
stampo cristiano come il sesso, interpretato come l’istinto
selvaggio e primitivo, animale, si traveste ed è in preparazione per la catarsi sacrale.
Nelle culture asiatiche, come le culture che seguono il
Tao (il cammino) gli esercizi
di grounding servono non solo ad aumentare l’energia Jing
(quella vitale), sinonimo di
Gennaio / 2005
energia sessuale, che è poi il
segreto della lunga vita ; ma,
allo stesso tempo, danno accesso all’energia Schen (quella spirituale). E, ín Pavese, è
l’estate, con il bagliore della
sua luce, che porta la gente
a riscoprire il contatto con la
natura; appunto perché è la
stagione in cui ci si spoglia e
si è più liberi per il raccoglimento di questa energia che,
molte volte carica a tal punto da fare scaturire la follia,
quando non la si sa indirizzare bene.
Temi come il sole, il selvaggio, il sesso, l’accidia e il
sacrificio, talvolta col significato di violenza e sangue, irrompono dall’opera pavesiana quasi come un “oscuro destino”, dicono gli autori.
Nella loro ottica il sole
agisce sui personaggi come
una specie di “rito battesimale” portandoli allo stato di mimetizzazione con la natura,
imbestialendoli e facendone
scaturire l’istinto puro, erotizzandoli e portandoli al punto
massimo che è il sesso. Nel tema del sesso, la donna è vista
come sacerdotessa,
ma anche “ispiratrice
della trasformazione
dell’uomo civilizzato in uomo primitivo,
rendendolo creatura
eminentemente mitologica arrendevole
ai ritmi e ai cicli delle
stagioni” .
19
Da questo punto di vista,
il vecchio binomio città-campagna prende una luce diversa quando le forze ctonie
possono essere trasformate
in luce, ma non la luce della razionalità, come quella
de I dialoghi con Leucò, ma
la luce accecante del meriggio, come ricongiungimento
dell’uomo con la natura in
quanto allontanamento dalla ragione e ritorno alle forze
istintive spontanee e naturali, come sinonimo di vita, come è il caso di Feria d’agosto,
quasi a voler scuotere dalla
mente il razionale e poter tornare allo stato primitivo dell’Eden (Il diavolo sulle colline
in La bella estate).
D’altro canto,
“[...] uno dei motivi mitologici che Pavese riprende
nelle proprie opere è quello
dell’abbandono delle forze e
della volontà che avviene sotto il sole […] Ogni cosa sembra essere dominata dalla
rinuncia, dal sonno e dall’accidia, come se la volontà di
vivere si ritirasse cedendo all’inerzia esistenziale, alla psicoastenia che fatalmente conduce all’immobilità” .
La figura del dio-caprone,
essere metà divino e metà bestiale, presente nell’omonima
poesia pavesiana del 1933,
viene interpretata come la “[...]
trasposizione notturna di Dioniso, capace di sconvolgere,
in un sabba sfrenato, l’intera
campagna.” Questa energia
fa risvegliare i sensi che conducono ad un contatto con la
natura attraverso i suoi prati,
boschi, ruscelli e simili, facendoli impossessare da uno spirito pansessuale. La descrizione di questo mondo epifanico
ed olimpico cattura Pavese affascinandolo. “Il sacro per Pavese è l’orizzonte entro il quale coincidono gli opposti ed
è collocato in un urzeit dove
l’anima primitiva non è ancora approdata agli schemi consequenziali della ragione.”
Di lettura assai gradevole,
l’analisi dell’opera pavesiana
in questione ci porta via via
per i meandri del mito, del
simbolo, degli archetipi, fino a rompere la dimensione
spazio-temporale facendoci
raggiungere la sfera della luce. Infatti, gli autori danno al
testo un’aura brillante e peculiare in cui il sacro è messo
come un involucro sulla figura di Pavese facendola brillare come un astro e riportando
la sua critica alla dimensione
stellare. Per altri versi, Pracca
e Lagomarsini hanno fatto un
tuffo profondo nello stato inconscio delle opere pavesiane per poterne estrarre un’interpretazione più luminosa.
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Fasi dell’eclipsi lunare totale
il tre marzo 2007
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Foto 1: alle 18.42
Foto 2: alle 18.54
Foto 3: alle 19:17
Apparecchio: macchina fotografica digitale Canon PowerShot A430 / Zoom totale 14x.
Fotografa: Mozilene Neri
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Un compito
in classe
di italiano
L
Ermanno Minuto*
e mie notti insonni sono
spesso popolate da strane suggestioni: figure
evanescenti e fatti improbabili, immersi in un’atmosfera
illusoria che, a poco a poco,
si trasformano in esseri e voci di una realtà misteriosa e
mi sussurrano con monotona ripetitività parole come di
un ritornello interrotto mentre io, un po’ intimorito, tento invano di coglierne un significato che mi sfugge. Ma,
non appena la fetta di cielo
costretta nel rettangolo della finestra della mia camera comincia a sbiancare annunciando l’imminenza del
giorno, i miei vaghi timori
terminano all’improvviso e
lasciano il campo a pensieri, a tutta prima arruffati, che
poi via via si snodano a rincorrere ricordi ormai lontani
nel tempo.
Da molto, io passo gran
parte della notte inseguendo le ombre che si stendono sui muri e si addensano
negli angoli, quasi vigilando il buio che sempre suscita in me sensazioni di incertezza e di dubbio che forse
non si possono definire timori. Quando provo durante le
lunghe ore di buio passate
ad occhi aperti è infatti solo il frutto di vaneggiamenti
ricorrenti, quasi delle alluci-
22
nazioni, che si ripetono per
un certo tempo e poi, risolte o meno, si dissolvono da
sole per essere magari sostituite da altre, spesso futili,
ma ugualmente inquietanti.
Recentemente la causa delle mie ansie notturne è stata per alcun tempo rappresentata dai primi due versi,
ripetuti con un’esasperante
cantilena, di una poesia della quale non ricordo né il titolo né l’autore. Può parere
una sciocchezza, ma spesse
volte sono proprio le sciocchezze, le cose insignificanti che, mulinandomi in capo, riempiono tutto il vuoto
delle mie notti bianche. Forse è una conseguenza della
vecchiaia: “Il lungo e magro
professor di greco / che tanto odiar mi fece il divo Omero”.
Questi erano i versi (della
poesia altro non ricordo) che
non riuscivo a cacciare dalla
mente, sicché iniziai a ricercare una possibile ragione di
quel ripetersi ossessivo. Mi
parve logico che essa potesse nascondersi tra lontani ricordi di scuola e tra questi
cominciai a scavare. Il personaggio della poesia non
poteva in alcun modo riguardarmi; io non ho frequentato
il liceo e non ho mai studiato il greco, ma un professo-
re che riuscì a farmi odiare
la disciplina da lui insegnata
era esistito davvero. Si trattava però di un “grosso e tondo professore di ragioneria”,
un insegnante dell’Istituto
Commerciale che tentò invano, per lunghi cinque anni,
di suscitare in me un sia pur
minimo interesse per i conti
correnti, i bilanci e la contabilità in genere. Io capitai in
quell’Istituto spinto da motivi familiari e da una serie di
priorità che mi obbligarono
a una scelta non desiderata.
Sarebbe troppo lungo e fuori luogo elencare ora i motivi
che spinsero mio padre, un
povero operaio, a sollecitare
la mia immatricolazione in
quella scuola, ma le poche
parole che usò per spiegar-
meli basteranno a ricordare il più importante: “Io non
potrò permettermi di farti seguire gli studi universitari,
sono prossimo alla pensione. Devi accontentarti di un
diploma che ti sia di aiuto
al momento della ricerca di
un impiego. Scegli tu quale,
ma il liceo, che tu vorresti,
proprio non potrai frequentarlo”. La priorità, nel caso,
fu quella del conseguimento del “pezzo di carta” – come si usava definirlo – che
poneva fine agli anni dello
studio per dare inizio a quelli del lavoro. Così mi trovai,
triste e insoddisfatto, seduto
rai banchi di un’aula che per
me rappresentava il confine,
non solo fisico, tra la scuola che stavo frequentando e
quella che avrei voluto frequentare.
A modo mio mi “vendicai” della mala sorte dedicando alle materie basiche
del corso il minimo di tempo
indispensabile, forse meno, e
destinai tutta la mia attenzione ed il mio impegno a quelle che erano rimaste relegate
tra le mie speranze deluse. La
lettura, quasi ossessiva, dei
classici italiani e delle opere
più note degli autori stranieri in voga all’epoca, occupò per lungo tempo tutte le
ore libere delle mie giornate,
mentre i testi di ragioneria e
tecnica bancaria giacevano
trascurati e chiusi sul mio tavolino. Letture disordinate,
senza guida né sostegno didattici, che non raggiunse-
ro risultati apprezzabili ma
erano pur sempre preferibili allo studio di noiosissime
regole di computazione e di
quelle che io consideravo
inutili dissertazioni sui metodi da seguire (allora si parlava di un sistema patrimoniale contrapposto a quello
del reddito) per arrivare alla
stesura di consuntivi esatti e
preventivi affidabili.
Non so dire quante volte, allora, io maledissi in
cuor mio un povero religioso: quel fra Luca Pacioli che
si vuole abbia inventato la
partita doppia per usarla nella tenuta dei conti dell’antichissimo Banco di San Giorgio in Genova. Tanto meno
ricordo quante volte m sono
chiesto se il buon francesca-
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24
no non avrebbe fatto meglio
a dedicare l’opera sua alla
cura delle anime piuttosto
che a quella dei conti dei
banchieri genovesi. Sfoghi
un po’ sciocchi della mia ribellione giovanile dei quali
un po’ mi vergogno. Ma pur
rimestando in quella antica
situazione mortificante non
riuscii a trovare un nesso, se
pur labile, tra “il lungo e magro professor di greco” e lo
stato d’animo che mi accompagnò per tutti gli anni della
mia permanenza all’Istituto
Commerciale.
L’occasione del mio assillo notturno doveva quindi
essere ricercata altrove, non
nel personaggio ma nella
poesia in sé che poteva suscitare in me ricordi di altre
poesie, altri autori, altri fatti
ed altri insegnanti. Così all’improvviso mi son tornati
alla mente immagini e fatti che da tanto tempo avevo riposto tra le pieghe della
memoria; in primis la figura di un’insegnante di lettere capitata al Commerciale
quando frequentavo l’ultimo
anno del corso: quello dell’esame di Stato e del diploma. Non era più giovane ed
era bravissima, bonariamente severa, esigente e precisa.
Quella cattedra le era stata
assegnata dopo molti anni
di insegnamento nei licei e
le sue lezioni, improntate ad
un metodo e ad uno stile ci
non eravamo abituati, erano
sempre delle dotte palestre
sul tema del giorno e tutta la
classe ne restava affascinata.
Mi ricordai in particolare
di un giorno destinato al temutissimo “compito in classe”. La prof., entrando, ci
aveva salutato con una proposta sconcertante: “Oggi
– aveva detto – voglio farvi un regalo, oggi il tema ve
24
lo sceglierete voi, suggeritemene alcuni e vi dirò quale
svolgere”. I temi suggeriti furono molti. Io, timidamente
e sottovoce, ne proposi uno
che la classe intera considerò troppo impegnativo: “Sfogliando Myricae”. Mi pareva
un tema molto bello, ma la
prof. ne scelse un altro, poi,
forse leggendomi in viso la
delusione, aggiunse: “Lei Minuto svolga pure il tema sul
Pascoli (si rivolgeva agli studenti con il lei, come ancora
si usava), sono curiosa di vedere… beh, buona fortuna!”
Quasi subito, mentre con la
testa china sul banco osservavo timoroso il foglio bianco che mi attendeva all’opera, mi resi conto di quanto
fosse stata ambiziosa la mia
proposta. Tuttavia cominciai
a scrivere unendo allo sforzo
mentale necessario a ricordare quanto avevo letto sul
Pascoli a quello di riuscire
ad esprimere, correttamente ed in bella forma, quanto avevo ritenuto e capito di
quelle letture. Risfogliai con
la mente le pagine lette tante
volte, ritrovai i componimenti poetici che pi mi avevano
colpito e che, con quelle ripetute letture avevo mandato
a memoria ed, infine, anche
le note a piè di pagina che
mi avevano aiutato a capirne
i significati reconditi.
Mi galleggiarono in capo
i versi di molte poesie delle
Myricae, magari brevissime
e tutte improntate al gusto
prevalente nell’opera intera,
cioè quello dell’impressione
coloristica e del quadretto
inciso e definito con pochi
tocchi, con taglio misurato,
piuttosto che con lunghe descrizioni poetiche che pure il
soggetto cantato avrebbe potuto suggerire. Ho riguastato
il sapore primitivo e frugale
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25
di: lavandaie, temporale, novembre, tutti sprazzi poetici
nati da quello che fu spesso
definito “il sentimento georgico e idillico del Pascoli” e che è uno degli aspetti
essenziali della sua poesia:
l’amore per le cose umili e
semplici della campagna.
Sentimento dal quale scaturiscono le espressioni più vive e personali dell’arte sua e
che sono anche gli esempi
più puri dell’impressionismo
pittorico pascoliano. Strofe concise ed incisive, versi
usati come macchie di colore con la sola preoccupazione di rappresentare, con uno
scatto fotografico, gli aspetti
del mondo contemplato immerso nella particolare atmosfera del presente.
Mano a mano che procedevo nello svolgimento del
tema, la mia iniziale preoccupazione svaniva, mi sentivo sicuro e riprovavo quelle
sensazioni sottili che, quasi
fossero vibrazioni musicali, avevano sempre invaso
l’animo mio ogni volta che
rileggevo Myricae. Tutto preso dal mio fervore creativo
(il Pascoli è sempre stato il
mio poeta preferito), non mi
resi conto che avevo riempito fogli su fogli ma avevo la
consapevolezza, o meglio la
speranza, di non aver scritto
delle sciocchezze. Quando
alcuni giorni dopo la prof.
mi restituì il tema, me lo porse con un sorriso che, al momento, non seppi se era di
complimento o di semplice
comprensione. “Come al solito Lei è stato l’unico a tentare di scrivere qualcosa di suo
senza ripercorrere pedissequamente strade già percorse da altri. Per questo Le ho
dato un voto molto alto, come vedrà. Lei, Minuto, scrive
fluentemente e correttamen-
te, ma la sua prosa spesso
indulge a toni crepuscolari,
quasi decadenti. Non è del
tutto un male, ma è necessario saper usare con maggiore
proprietà e parsimonia questi toni. Ha mai letto il Gozzano? Se no, lo faccia; torni
a leggerlo con maggiore attenzione e apprenderà a dire
le cose con più freschezza e
sincerità”.
Lo stesso giorno, appena
tornato a casa, rilessi “con il
cuore in tumulto” il poemetto dedicato dall’”avvocato
che non fa ritorno”, come
Gozzano definisce se stesso, alla Signorina Felicita e
a Villa Amarena. Rimescolai
tra “la bellezza riposata dei
solai dove il rifiuto secolare dorme” ed in essa scoprii
tante cose da dire ed il modo
in cui dovevano essere dette.
E, qui, come in Myricae, ritrovai quella “vaga musica di
risonanze e di echi” (R. Serra, Il verso del Pascoli) che
da sempre sognavo di padroneggiare per accompagnare nuovi canti, magari miei,
che, come dice il poeta romagnolo “cantano come non
sanno / cantare che i sogni
del cuore / che cantano forte
e non fanno / rumore”.
Bibliografia:
F. Montanari, M. Puppo.
Antologia della letteratura italiana. Torino: Società Editrice Internazionale,
1962.
*Ermanno Minuto, laureato in economia e commercio,
è poeta dialettale savonese e
scrittore di racconti in lingua,
che vive nell’Espírito Santo
dal 1982.
25
Manuale per riconoscere
tutti i trucchi del vostro capo
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do semplicissi mo » . Talvolta funziona.
Ci sono poi quelli che non vi
informano col metodo dell’ « eccesso di informazioni » , cioè inondandovi di carte, o facendo proiezioni asfissianti dove le questioni
essenziali sono nascoste dalla gran
massa di dati irrilevanti. È un metodo spesso usato dalla burocrazia,
ma anche nelle imprese private da
uffici che vogliono valorizzare il
loro ruolo. A costoro bisogna chiedere qual è il vero problema, la cosa più importante da decidere e di
scriverlo in una pagina o dirlo in
pochi minuti.
Vi sono anche persone che riescono a non informarvi « creando
confusione » .
Anche se ponete loro domande
chiarissime vi rispondono citando
fatti ed argomenti che non c’entrano, e mescolando proteste e richieste senza connessioni logiche.
La perso na razionale che cerca di
venire a capo di questo ginepraio
dove c’è tutto e il contrario di tutto
si logora inutilmente.
Se chiede chiarimenti l’altro risponde nello stesso modo e deve rinunciare. Ci sono, da ultimo,
quelli che, molto semplicemente,
non dicono niente. Raccolgono informazioni, captano idee, suggerimenti, invenzioni, ma li tengono
per sé. Di solito si tratta di personalità autoritarie che non lavorano
in gruppo, non sopportano critiche,
si attribuiscono tutti i meriti, decidono da sole e pretendono immediata ubbidienza. Personalmente
sono convinto che tutti coloro che
non danno informazioni, qualunque metodo usino, sono dei cattivi capi. Con il loro comportamento
impoveriscono quelli che lavorano
con loro, ne tarpano la creatività e
finiscono sempre per provocare dei
danni all’impresa che dirigono.
Cruciverba critt.
C
i sono delle persone che
occupano posizioni di potere, dei dirigenti che non
danno informazioni né ai loro dipendenti né a coloro a cui devono
fornirle. Ed è incredibile il numero
di tecniche che possono usare. Incomincerò da quella che chiamerò « siamo amiconi » partendo da
un esempio personale. Anni fa dirigevo un istituto dove è arrivato
un nuovo presidente.
Costui mi trattava nel modo più
cordiale. Era tanto amichevole che,
quando mi informava sulle decisioni che aveva preso, lo faceva come
se le avessimo prese insieme: « Sai,
è d’accordo tutta la Commissione,
Piero, che è un amico, Andrea, Luciano e Marco che adesso è presidente di... » . Nei primi tempi mi
sforzavo di ricordare quando avevamo creato una Commissione e
cercavo di ricostruire chi fossero
quel Piero, Andrea, Luciano che
avrei dovuto conoscere così bene.
Poi ho capito che non ne avevamo mai parlato, che costoro erano
tutti amici suoi a me sconosciuti.
C’è poi un modo di non informarvi
che chiamerei « dare per scontato
la tua competenza » .
Qui chi parla vi riferisce tutto
come se foste già informatissimi e
molto competenti. Nomina rapidamente ditte, personaggi, operazioni usando una grande quantità
di termini tecnici che voi non conoscete sapendo che vi vergognate
a domandare spiegazioni davanti
agli altri. E, se lo fate, vi spara addosso una serie di ragioni tecnicissime che vi ammutoliscono.
Così, poiché tutti temono di fare cattiva figura, riesce sempre ad
imporre ciò che gli pare. Io, per
resistere, a volte dico: « Guardi,
io ho fatto solo la prima elementare e, se vuole che capisca, deve
ripetere tutto lentamente e in mo-
Cruciverba Crittografato
SOLUZIONI
Francesco
Alberoni
— Be’? È ciò che ti avevo promesso: una casetta tutta per noi.
Curiosità: È stato fondato recentemente, a Londra, il
“Club delle fumatrici di sigaro”. Tra le mura del club,
che sorge dalle parti di Piccadilly Circus, sarà viedata la presenza a tutti gli uomini, senza eccezioni, e
alle donne che non fumano sigarette.
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ano V - n umero 40 - Comunità italiana