Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano V - numero 40 La Nascita del Guarany Gennaio / 2005 Gennaio / 2005 Aprile / 2007 Istituto Italiano di Cultura Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com [email protected] Direttore dell’IIC Rubens Piovano Editore Marco Lucchesi Grafico Alberto Carvalho Copertina Riproduzione COMITATO DI REDAZIONE Andrea Lombardi (UFRJ); Anna Palma; Annita Gullo (UFRJ); Arcangelo Carrera; Constança Hertz (UFRJ); Cristiana Cocco (UFF); Doris Natia Cavallari (USP); Esman Dias (UFPE); Eugenia Maria Galeffi (UFBA); Fabio Andrade (UFPE); Fabrizio Fassio; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Giuseppe Fusco; Giuzy D’Alconzo; Hilário Antonio Amaral (UNESP); Katia d’Errico; Maria Lizete dos Santos (UFRJ); Maria Pace Chiavari (IIC-RJ); Mauro Porru (UFBA); Paola Micheli (Siena); Paolo Spedicato (UFES); Sonia Cristina Reis (UFRJ); Wander Melo Miranda (UFMG); Rubens Piovano; Débora Ramos (stagista); Mozilene Neri Barbosa (stagista); Weverton Pereira (stagista) COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Sergio Michele; Victor Mateus Gruppo di Traduzioni NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann. Alba Paulo Ferraz Traduzione di Laura Minervini Non la resistenza del vento, bensì la densità dell’acqua che avvolge, che prende il corpo, inoculando il veleno dell’attesa fino a trasformare pelle in pensiero, meno, in voci udite, altre mai dette. Ciò che si vede ha del sogno quasi nulla, appena il desiderio di averla di nuovo alla distanza delle dita; lei sarebbe vicina, non fossero le grida del mondo e del corpo, Ricerca Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino Caputo; Università Roma II “Tor Vergata” ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. SI RINGRAZIAno ABPI, ACIB, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro, UFBA, UFF, UFRJ, IIC, USP. STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 1676-3220 non fosse quell’oriente, non fosse quella musica che viene dagli alberi, non fosse ascoltare il materasso, il lenzuolo e il cuscino: ritorno alla realtà, di traverso nel letto ti reclama la fatica. Massimiliano Palmese e la gestazione del primo romanzo Giovanni Zambito M assimiliano Palese è nato a Napoli e vive da quindici anni a Roma dove si occupa di teatro. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia e ricevuto nello stesso anno i premi Eugenio Montale e Sandro Penna; nel 2000 il suo testo Questa disperazione felice è stato incluso nel «Settimo Quaderno Italiano» di Poesia Contemporanea edito da Marcos y Marcos. Ha scritto molti testi teatrali e una traduzione in versi del Sogno di una notte di mezza estate. Il suo primo romanzo, L’amante proibita (Newton Compton, 2006, pp. 173) si è classificato terzo al Premio Strega e si è aggiudicato il Premio Città di Santa Marinella. Com’è nato il tuo primo romanzo “L’amante proibita”? “Ci ho messo molto tempo per scriverlo probabilmente perché è una storia che mi apparteneva parecchio anche a livello autobiografico ma soprattutto perché non lo sapevo scrivere. La storia è rimasta sempre quella per me, concepita molti anni prima ed era rimasta quella che volevo scrivere pur non sapendola narrare. Ero consapevole della sua esistenza ma non sapevo come scriverla e questo può essere un incoraggiamento per tutti quelli che vogliono scrivere”. In che senso? “Nel senso che si hanno dei progetti in mente ma che non si riesce a realizzare perché ci si imbatte in degli ostacoli come il non avere i mezzi o le tecniche per poterli mettere per iscritto. Io consiglio assolutamente di provare: se la storia ha un senso per chi scrive a un certo punto verrà sicuramente fuori e si riuscirà a metterla su carta in maniera soddisfacente. A mio avviso non bisogna mai forzare qualcosa altrimenti viene fuori in modo artificioso e artificiale. Personalmente non avevo la smania di dover pubblicare: credo bisogna superare questa forma di narcisismo. Il mio spirito critico ha deciso di lasciar passare il tempo fino a quando non ho avuto i mezzi per scrivere”. E in che maniera hai poi ovviato alle iniziali difficoltà? “Mi sono esercitato e nel frattempo ho scritto racconti, alcuni mai pubblicati altri impubblicabili, teatro e sin da giovanissimo molta poesia, la mia prima passione”. In particolare, in che cosa ti ha agevolato la poesia? “La poesia mi ha aiutato facendomi scrollare di un linguaggio assolutamente artificiale quale può essere quello di un romanzo anche se gli echi poetici possono arric- Gennaio / 2005 chirlo: in verità per me è difficile che un poeta possa poi riuscire allo stesso modo in un romanzo”. Rispetto alla libertà narrativa che offre un romanzo, la poesia non ha rappresentato per te una sorta di gabbia? “Per me la poesia è un frammento di un’esperienza autobiografica: c’è la chiarezza, l’essere molto diretto; ha delle qualità che io rispetto e che voglio siano presenti nei miei testi. Certo, non ti offre la possibilità di raccontare una grande storia come un romanzo però ti aiuta dandoti delle gabbie intese come parametri. Anche nel romanzo io ho dovuto assolutamente darmi dei recinti e avere subito chiaro il senso della storia: per questo i capitoli sono molto brevi, intensi, sintetici; le possibilità erano amplissime e si potevano disperdere”. Per te quali sono le sostanziali differenze tra poesia e romanzo? “Non hai mai il progetto di scrivere una poesia. È un frutto spontaneo e rapido con cui raccontare un’impressione, un istante, un momento, quasi una condizione naturale che emerge in due tempi diversi: il primo è quello in cui si mette sulla carta e l’altro è quello di una rielaborazione anche abbastanza veloce del testo. Se necessita di parecchi aggiustamenti e lavorio a mio avviso non è quasi mai un testo valido. Il romanzo ha bisogno di una maturazione che ti possa permettere di dare un’idea del mondo. Una volta acquisite le tecniche spero di non metterci di nuovo tanti anni per il secondo: ho già cominciato a lavorarci e tutto quello che mi ha aiutato finora mi aiuterà anche per il prossimo libro”. E la scrittura teatrale? “Nei miei racconti c’erano moltissimi dialoghi e un regista mi ha stimolato a scrivere pure per il teatro e l’ho fatto per diversi anni. Tutte queste tipologie di scrittura piuttosto che allontanarmi dal progetto iniziale della storia mi hanno invece aiutato nella sua composizione che è risultata più ricca grazie all’apporto di queste diverse esperienze che ho voluto fare. Ognuno deve capire i propri limiti e giocare un po’ sulle debolezze e cercare di sforzarsi a migliorare”. Quale sentimento anima “L’amante probita”? “Per non mancare di intensità - un difetto riscontrato in uno dei miei primi scritti teatrali ho voluto inserire la passione, l’amore tormentato di Carlo e Paola fatto di scontri e litigi, separazioni; il tormento antico che il protagonista si porta dentro sia nei confronti dell’amante proibita che verso il padre. Insomma, volevo che il protagonista fosse un personaggio molto denso e - visto che parla in prima persona che desse tutto di sé e facesse scoprire tutte le sue ferite”. Quali altri elementi lo compongono? “Nel romanzo confluiscono le proprie esperienze autobiografiche e il proprio percorso di scrittore: ci sono le storie familiari, storie d’amore e di passioni, un viaggio: il romanzo come forma letteraria ben si presta ad accogliere molteplici elementi. A differenza del teatro e della poesia ti dà questa possibilità di ricchezza e contenere e fare sviluppare più aspetti”. A che viaggio ti riferisci? “Ai miei viaggi in Grecia che hanno contribuito moltissimo a questa storia. La mia amica fotografa mi ha insegnato molto a guardare le cose sotto aspetti diversi e da quel mo- Gennaio / 2005 mento ho deciso di ambientare la storia in un’isola greca. Alla fine abbiamo scoperto che a quest’isola era legato il mito di Perseo, che aldilà dell’episodio con la Medusa, si portava dietro delle forti storie familiari: era stato cacciato via dal nonno, aveva un rapporto molto stretto con la madre; insomma, vi ho ritrovato delle cose che corrispondevano alla trama del romanzo e mi sono accorto di quanto i miti greci ancora ci parlano di noi stessi”. Perché non ambientarlo nella tua città natale? “Napoli è una città figlia della Grecia e ha degli spazi molto simili come la costa e il mare. La Grecia è un posto importante per la nostra cultura e in questa maniera si può contribuire a rivitalizzarla, per capire che cosa ancora oggi ci può dire attraverso luoghi assolutamente affascinanti, ascetici, dalla natura aspra non sempre accogliente, cruda”. La stesura come la storia è rimasta fedele al progetto iniziale? “Ci sono state molte versioni del romanzo: all’inizio era veramente illeggibile. Mentre si compone bisogna selezionare, riuscire a capire quale può essere una pagina valida o meno, dove si è fatto bene, un momento particolarmente riuscito. Quando c’è una pagina che si ritiene abbia valore, occorre analizzare gli aspetti validi di quella pagina e studiarli e andare a fondo ad essi, piuttosto che scartare e così facendo si possono capire le cose riuscite, che parlano del meglio che c’è in un autore, anche inconsapevolmente: gradualmente si prende una strada sempre più personale”. Nella composizione avevi davanti a te una sorta di lettore ideale? “Non ho avuto in mente alcun lettore ideale: secondo me non è proprio possibile. Il primo lettore sei tu che leggi quello che hai scritto magari il giorno prima visto che al momento non si riesce a leggerlo con serenità: vuoi che il romanzo risponda a determinate esigenze, ma non puoi avere in mente un estraneo e piegarti alle sue aspettative, a meno che non si tratti di quei romanzi costruiti con in mente un tipo di target preciso per rispondere a una pura operazione commerciale”. La descrizione dei personaggi a volte sembra rimanere sospesa… “Mi piace lasciare dei margini di interpretazione per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi: è una tecnica acquisita nel teatro quella di non dire e dare tutto e lasciare che un lettore o uno spettatore a suo modo possa far vivere un carattere. Se raccontassi tutto di ognuno non ci sarebbe spazio per il lettore che al contrario può entrare nella vita stessa dei personaggi e farla propria. Nel momento in cui riempi tutti i buchi non c’è più possibilità per gli altri: si guarda una storia col rischio di vedere una cosa tutta ottu- rata nella quale non c’è alcuno spazio da attraversare. Volevo assolutamente che non fosse tutto chiaro, lasciando degli indizi e delle sospensioni: il protagonista parla in prima persona e già di per sé questo rappresenta un limite alla possibilità del personaggio di sviscerare il proprio carattere e raccontare tutto di sé”. Gennaio / 2005 Gennaio / 2005 È Il Guarany, dal romanzo all’opera lirica: un caso di traduzione intersemiotica O Gomes fez do meu Guarani uma embrulhada sem nome, cheia de disparates, obrigando a pobrezinha da Ceci a cantar duetos com o Cacique dos Aimorés que lhe oferece o trono da sua tribo... Desculpolhe, porém, tudo, porque daqui a tempos, por causa talvez das suas espontâneas e inspiradas harmonias, não poucos hão de ir ler esse livro, senão relê-lo; esse é o maior favor que pode merecer um autor. José de Alencar Tânia Mara Moisés difficile trovare un brasiliano che non conosca la musica sigla della Voz do Brasil. Forse non saprà informarne il nome, ma saprà naturalmente canticchiarla: si tratta della Sinfonia dell’opera lirica brasiliana Il Guarany, composta dal maestro Antonio Carlos Gomes, introduzione del programma A voz do Brasil, la più antica trasmissione radiofonica in Brasile, in onda ormai da settanta anni, poiché venne trasmessa per la prima volta il 22 luglio 1935, durante il governo Getúlio Vargas . Con il passare del tempo, la Sinfonia è diventata in molte occasioni quasi un sostituto dell’inno nazionale brasiliano, a causa del citato programma radiofonico, eseguita frequentemente dalle bande municipali nelle cerimonie civiche. Chissà quanti saranno i brasiliani consapevoli del legame esistente tra la Sinfonia, l’opera lirica Il Guarany e il romanzo O Guarani, di José Alencar (1829-1877). Legame che riguarda la traduzione. Jakobson, nel 1959, ha stabilito i tre modi di interpreta- zione di un segno linguistico, nominando tre tipi di traduzione: la traduzione intralinguistica, la traduzione interlinguistica e la traduzione intersemiotica. La prima occorre soltanto fra segni verbali di una stessa lingua; la seconda, quando un testo in una lingua di partenza è reso nella lingua d’arrivo; e la terza occorre tra due sistemi di segni diversi (2002: p. 53). È quindi intersemiotica la traduzione che coinvolge, ad esempio, tutti e due i capolavori dell’arte brasiliana presi in considerazione: l’opera lirica Il Guarany, di Carlos Gomes (1836-1896), basata sul romanzo O Guarani, di José de Alencar (1829-1877). Lo stesso accade quando un film nasce da un libro, una canzone da una poesia, una pittura da una poesia e via di seguito. Segre riferisce che la parola testo deriva dal latino tĕxtu(m) che, nel suo senso comune, “sviluppa una metafora in cui le parole che costituiscono un’opera sono viste, dati i legami che le congiungono, come un tessuto”, ossia, sarebbe un’allusione specificamente rivolta al concetto di contenuto. Se si pensa a “tessuto” in forma figurativa e al di là della “parola scritta”, tale concetto può essere trasferito a qualsiasi opera sia musicale, che pittorica, cinematografica, teatrale ecc, perché perfino esse hanno il loro carattere testuale, come “tessuto coerente e coeso” , per la disposizione degli elementi coinvolti nella loro creazione. O Guarani (1857), il primo della triade di romanzi indianisti di José de Alencar (gli altri sono Iracema (1865) e Ubirajara (1874)), è uno dei principali simboli romantici del romanzo brasiliano che ha ricevuto, oltre alle tante altre esperienze di lettura nelle scuole brasiliane, tre traduzioni intersemiotiche famose: l’opera lirica Il Guarany (l870) di Antonio Carlos Gomes; gli adattamenti per il cinema nel 1916 e nel 1926 (regia di Vittorio Capellaro), nel 1920 (regia di João de Deus) e nel 1995 (regia di Norma Bengell); l’adattamento per la TV nel 1991 (novella dell’estinta TV Mancete) . Anche le idee di Torop sulla traduzione filmica sembrano appropriate per un’opera lirica, poiché, se nella letteratura la traduzione “viene fissata sotto forma di parola scritta, [nell’opera lirica] l’immagine (rappresentazione) è sostenuta dal suono, sotto forma di musica o Carlos Gomes e José de Alencar Gennaio / 2005 di parole”. Il piano d’espressione sarebbe più complesso dal punto di vista del contenuto, perché i suoni della musica e del canto si realizzano nell’insieme delle immagini in movimento, cioè la rappresentazione è multipla e in forma simultanea, come in un film o in teatro . Lotman, quando si riferisce anche lui all’etimologia della parola “testo” come “tessuto”, afferma “la ricchezza delle opposizioni sul piano dell’espressione” che conferisce al testo una individualità che supera la somma degli elementi del piano del contenuto (2002: pp. 92-93). Non ci sono nella rappresentazione sul palcoscenico un tempo per la lettura e un’altro per riflettere sull’opera letta, come succede con un libro. Farne la traduzione interlinguistica presuppone numerose traduzioni diverse una dall’altra, però, in principio, corrispondenti al contenuto, ossia “ potenzialmente adeguate” come analizza Torop. Nella traduzione intersemiotica invece c’è una “potenzialità amplificata”, dal momento che “è impossibile riconoscere il testo che sia stato ritradotto all’inverso, poiché risulta un testo nuovo” . Ne è un altro esempio la serie Lendas dos índios, delle stampe Eucalol, che fecero parte della strategia di marketing della Perfumaria Myrta S/A. (1917-1980), nella Rio de Janeiro della prima metà del secolo scorso. Vale la pena vedere la leggenda di Peri e Ceci, trasformata nelle dodici stampe, oggigiorno appartenenti a un collezionista privato, dato che rappresentano un oggetto di ricerca e interesse, soprattutto per la cultura brasiliana . Fra le tante e diverse traduzioni intersemiotiche, è importante dire che la bellezza dell’opera lirica nasce anche dalla qualità narrativa romantica del libro. Pertanto sono tutti e due i grandi autori brasiliani che si moltiplicano l’uno nell’altro. Ciò si percepisce nella rilettura del romanzo Il Guarani, di José de Alencar; nella lettura del libretto dell’opera Il Guarany di Carlos Gomes e nell’ennesimo e gratificante ascolto della Sinfonia che, oltre alla presenza diaria in A voz do Brasil, si trova anche in Internet, come parte dell’immaginario collettivo del popolo brasiliano. Il libro si trova con facilità: a casa, come “ricordo della scuola media”, nelle biblioteche, nelle librerie ed anche in recentissime edizioni integrali e tascabili, come è il caso del volume utilizzato in questo lavoro. Purtroppo non si può dire lo stesso dell’opera lirica. Nonostante l’iniziativa di brasiliani che valorizzano la musica classica nazionale con la creazione del Projeto Carlos Gomes, con un sito che divulga la vita e l’opera del musicista in Brasile e all’estero (<http:// www2.uol.com.br/spimagem/cgomes/projeto.html>.), l’opera ancora non si trova nè in CD e nè in DVD, mentre i negozi specializzati ne informano l’assenza nei cataloghi di musica da almeno tre anni . Purtroppo tale assenza non permette di sentire la musicalità dei dialoghi del libretto di Scalvini e Carlo d’Ormeville . Il linguaggio del libretto è molto diver- so da quello del libro, certamente anche per una questione di dimensione. Circa gli usi del linguaggio dentro la prospettiva più ampia della traduzione intersemiotica, vale la pena una pausa di riflessione sul significato della “potenzialità amplificata” che si può riconoscere tramite il confronto di tutti e due i testi. È ciò che si capisce per mezzo dell’intenzione del testo (Eco, 2003), che serve a una traduzione intersemiotica di una grande opera letteraria come è O Guarani, che necessariamente deve essere ridotta a una rappresentazione di circa due ore. La narrativa di O Guarani si sviluppa in cinquantaquattro capitoli, distribuiti in quattro parti (Os aventureiros; Peri; Os aimorés; A catástrofe). Il linguaggio è ricco, colorato, esuberante come la natura, come le passioni e sentimenti che pervadono il romanzo, pieno di metafore e di immagini grandiose, esotiche e di grande bellezza plastica realmente degno di un’opera come Il Guarany: Gennaio / 2005 D. Antônio de Mariz: Este personagem é histórico, assim como os fatos que se referem ao seu passado, antes da época em começa o romance. Nos Anais do Rio de Janeiro, tomo 1.o, página 328, lê-se uma breve notícia sobre sua vida (nota 05, p. 16). Para se conhecer a exatidão dessa descrição do rio Paquequer naquela época, leia-se B. da Silva Lisboa. Anais do Rio de Janeiro, 1.o tomo, pág. 162. Hoje as grandes plantações de café transformaram inteiramente aqueles lunares outrora virgens e desertos (nota 03, p. 13). [...] “Há uma árvore meã que se chama “ibiriba” a qual os índios fazem em fios para fachos, com que vão mariscar e para andarem de noite; e ainda que seja verde, cortada daquela hora, pega o fogo nela como em alcatrão, e não apaga o vento os fachos dela; e em casa servemse os índios de achas dessa madeira, como de candeias” (nota 47, p. 117) . Riprendendo i concetti delle Lezioni americane, di Italo Calvino, se ne capisce l’ampiezza con l’analisi della “traduzione intersemiotica” poiché, nel libretto dell’opera , si possono riscontrare la rapidità (“che cosa [è] abbastanza veloce per inserirsi nello spazio fra la domanda e la risposta, separando l’una dall’altra?”) e l’esattezza, attraverso “il giusto uso del linguaggio [...] che permette di avvicinarsi alle cose”: GONZALES Non più!... l’impongo!... seguimi... (per afferrarla) CECILIA Invano! (mentre Gonzales alza la destra per afferrarla, una freccia entra dalla finestra, e ferisce Gonzales alla mano) GONZALES (gettando un grido) Oh rio dolor!... sono ferito! (Atto II/VII) Tutte e due queste caratteristiche servono alla visibilità dell’opera lirica che, essendo arte visibile e udibile (“la fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità [...]), è pure molteplice nella sua “idea d’infiniti universi contemporanei [...]” : PERY Deh! Mia signora, arrenditi al genitore, a dio; vieni, mi segui, involati, torna al tuo suol natio. Schiavo fedele ed umile ognor m’avrai, tel giuro; rigenerato e puro io ti consacro il cor. (Atto IV/IV) O hálito ardente de Peri bafejou-lhe a face. Fez-se no semblante da virgem um ninho de castos rubores e lânguidos sorrisos: os lábios abriram como as asas purpúreas de um beijo soltando o vôo. A palmeira arrastada pela torrente impetuosa fugia... E sumiu-se no horizonte ( p. 279) . José de Alencar è molto zelante nelle sessantasei note dell’autore, poiché per mezzo di esse spiega gli elementi del suo romanzo: personaggi storici, luoghi, termini nativi per gli animali e le piante, i modi di fare e di vivere ecc: Gennaio / 2005 10 Si vede da lungi il campo degli Aimorè e sopra una collina Cecilia, che alla catastrofe del castello cade in ginocchio sorretta da Pery, che le addita il cielo. (Scena sesta e ultima). Nella traduzione intersemiotica è necessario che ci sia un’azione traduttiva che “razionalmente consenta di decidere quali “parti” del testo” sono più distintive e quali sono le perdite accettabili che possono essere sopportate in nome della traducibilità richiesta dal sistema di segni in cui si darà la traduzione . Perciò le lezioni di Calvino sembrano adeguate per l’analisi del linguaggio del libretto e anche per quella del romanzo, tutti e due sotto l’egida dell’ideale romantico, in cui tutto è questione di “peso”: A questo punto dobbiamo ricordarci che l’idea del mondo come costituito d’atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso (2002: p. 19). Nel caso dell’opera in analisi, il testo è passato per un adattamento a causa della rappresentazione ed è stata composta la musica che ne è l’essenza: si sa che gli effetti suscitati sono molti, come quelli di plasticità e sonorità, oltre alle esigenze riguardo alla deontologia professionale e di editoria che molte volte sfuggono al “rispetto giuridico del detto altrui” (Eco, 2003: p. 20). 10 Il proprio Jakobson riconosce che la traduzione intersemiotica è una “interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici”. È importante mettere in rilievo il fatto che il caso dell’opera lirica basata su un libro riguarda, oltre alla traduzione intersemiotica, anche la traduzione interlinguistica, rappresentata dal libretto, poiché, ancora secondo i concetti sviluppati dal linguista citato, “le lingue differiscono essenzialmente per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere”( 2002, pp. 53; 59). Il libretto dell’opera-ballo, in quattro atti, che riesce a mantenere l’intensità della storia raccontata da Alencar, accentua la grandezza della musica di Carlos Gomes, che “si inserisce pienamente nella storia dell’opera italiana del secondo Ottocento, per formazione e produzione; con Il Guarany il compositore emerse sulla scena internazionale ottenendo, fra gli altri, il plauso di Verdi” . L’interpretazione dei due musicisti della storia raccontata da Alencar ne ha tralasciato una parte che manca quando si legge prima il libro e dopo il libretto, come nel caso presente. La storia d’amore che coinvolge il triangolo Peri–Ceci–Álvaro è più o meno presente, nonostante non sia dato ad Álvaro lo stesso ruolo che rappresenta nel romanzo. Ci sono alcune parti dell’opera che lasciano soltanto intravederlo: in un primo momento, Ceci l’amava e la sua morte nell’opera non corrisponde al cordoglio esistente nel libro. Ciò accade a causa dell’assenza di un personaggio essenziale, Isabel, che semplicemente non esiste nell’opera e che é la protagonista del secondo triangolo amoroso del romanzo, Álvaro–Ceci–Isabel, responsabile dell’indimenticabile capitolo di gusto perfettamente romantico, Noiva, che riferisce la fine tragica della coppia dei due innamorati Álvaro–Isabel (Quarta parte, capitolo VIII, pp. 244-248), che fa ricordare la storia di Romeo e Giulietta di Shakespeare. I motivi dell’assenza di Isabel certamente non saranno di perdita di fronte all’amore di un nobile con la figlia illegitima e meticcia di Don Antonio, poiché l’opera segue il romanzo quando finisce con l’unione dell’indio Peri con la bianca e nobile Ceci. Forse anche i personaggi di D. Lauriana e Don Rodrigo, rispettivamente la madre e il fratello di Ceci, avrebbero dovuto apparire in piccoli ruoli, per rialzare il carattere di “famiglia”, tanto presente nel libro, mentre l’opera lirica è totalmente incentrata nella figura di Don Antonio, il padre. La differenza più significativa è quella che sconvolge l’origine nazionale dell’antagonista Loredano, un ex-prete italiano (Fr.Angelo di Luca), la cui storia criminosa è raccon- Gennaio / 2005 tata nella parte seconda del romanzo O Guarani (Capitolo I – O carmelita, 2005: pp. 8187): nell’opera Il Guarany, il ruolo dell’antagonista è vissuto da Gonzales, un avventuriere spagnolo (ciò è comprensibile poiché dal 1580 al 1640 il Portogallo fu dominato dalla Spagna e, in conseguenza, anche la sua colonia, il Brasile, mentre la famiglia Mariz era fedele alla corona portoghese). Non c’è nessun riferimento all’origine religiosa di Gonzales, fatto ugualmente concepibile per un’opera presentata in Italia, dato il riguardo dovuto alla Chiesa. La sceneggiatura , come riconosce la propria critica musicale trovata in Rete, ubbidisce al modello romantico europeo, con un castello medioevale e gli indios come figure esotiche. Purtroppo, il mito del buon selvaggio non si è ancora realizzato come attestano i massacri degli indios in Brasile, e che la storia dei cinquecento anni ancora tenta nascondere . Il grande merito della letteratura indianista romantica e delle opere derivate è quello di mostrare, nonostante dal punto di vista del colonizzatore, la bellezza del Brasile remoto, che negli albori già faceva destare il desiderio della terra senza mali, sogno eterno del popolo Guarani, simbolo dell’indiano brasiliano. José de Alencar e Carlos Gomes continuano a provocare riflessioni e questa è una delle caratteristiche dell’arte in genere: far pensare, con coscienza etica ed estetica e, in questo caso di traduzione intersemiotica, la Sinfonia dell’opera lirica Il Guarany può rappresentare un’esortazione affinché “la voce del Brasil”, prima di tutto indiana, non si taccia. 11 BIBLIOGRAFIA ALENCAR, José. O Guarani. São Paulo: Martin Claret, 2005. BANDECCHI, Brasil et al. Departamento Editorial das Edições Melhoramentos (org.). Novo dicionário de História do Brasil. São Paulo: Melhoramentos, 1970. CALVINO, Italo. Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio. Milano: Mondadori, 2002. ECO. Umberto. Dire quasi la stessa cosa: esperienze di traduione Milano: Bompiani, 2003. ISAACS, Alan; MARTIN, Elizabeth (orgs.) Dicionário de música Zahar. Tradução de Álvaro Cabral. Título original: Dictionary of Music. Rio de janeiro: Zahar, 1985. JAKOBSON, Roman. “Aspetti linguistici della traduzione”. In: NERGAARD, Siri (A cura). Teorie contemporanee della traduzione. 2.a ed. Traduzione di Luigi Heilmann e Letizia Grassi. Milano: Bompiani, 2002, pp. 51-62. LOTMAN, Jurij. “Il problema del texto”. In: NERGAARD, Siri (A cura). Teorie contemporanee della traduzione. 2. a ed. Traduzione di Margherita De Michiel. Milano: Bompiani, 2002, pp. 85-102. RISORSE ON LINE AGUIAR, Maciel. “Memória de um genocídio: O Guarani no palco do sítio histórico de São Mateus. Sonhos de liberdade”. Século Diário – O Espírito Santo em Revista. In: <http://www.seculodiario.com.br/seculo/2001/seculo15/index3. htm>. Sito visitato il 20 ottobre 2006. “A voz do Brasil”. In: <http://www.radiobras.gov.br/radioagencia/historico_voz.php>. Sito visitato il 25 ottobre 2006. CUNHA, Edgar Teodoro da. “A imagem do índio no cinema brasileiro”. In: <www.cfh.ufsc.br/~labhin/sug.htm - 21k>; link: < http://www.mnemocine.com.br/osbrasisindigenas/edgar. htm>. Sito visitato il 20 ottobre 2006. GORBERG, Samuel. “O que são estampas Eucalol”. In: <http://www.brasilcult.pro.br/eucalol/index.htm>. Sito visitato il 25 ottobre 2006. “Il Guarany: curtain call in Bonn, June 1994”. In: <http://www.tenorissimo.com/domingo/Pictures/pery.htm>. Sito visitato il 20 ottobre 2006. “Il Guarany”. Dizionario dell’Opera. <http://www.delteatro.it/hdoc/result_opera.asp?idopera=1783>. Sito visitato il 06 ottobre 2006. “José de Alencar”. In: <http://www.bn.br/fbn/musica/cgjalenc.htm>. Sito visitato il 20 ottobre 2006. “Lenda dos índios”. Coleção Paulo Bodmer. <http://www.brasilcult. pro.br/indios/lendas.htm>. Sito visitato il 25 ottobre 2006. “Libretti d’Opera”. Il Guarany. In: <www.librettidopera.it>. Sito visitato il 08 ottobre 2006. LOBO, Narciso Julio Freire. “Mapa da mina ficcional: cenários e emoções nas minisséries”. In: <http://reposcom.portcom.intercom.org.br/bitstream/1904/5034/1/ NP14LOBO.pdf>. Sito visitato il 19 ottobre 2006. MAKOWICH, Aristides A. J. “Carlos Gomes: a sinfonia O Guarani”. In: <http://www.movimento.com/site_movimento>. Sito visitato il 25 ottobre 2006. NEPOMUCENO, Sergio. “Operas by Carlos Gomes: Il Guarany.” In: <http://www.bn.br/fbn/musica/ecgguar.htm>. Sito visitato il 25 ottobre 2006. OSIMO, Bruno (a cura di). “Corso di traduzione: traduzione intersemiotica” (parte prima). In: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_1_36?lang=it>. Sito visitato il 24 ottobre 2006. 11 Gennaio / 2005 12 I l dono della percezione del fenomeno letterario richiede una sensibilità in grado di captare e indagare le zone più significative, gli strati più suggestivi; e occorre procedere con un’analisi che abbracci sia il contenuto che la parola nella sua efficacia estetico-letteraria: il significato e il significante. José Mário dimostra di essere cosciente del fatto che la letteratura non si esprime pienamente in cerchie circoscritte di addetti ai lavori che scrivono gli uni per gli altri, come se si trattasse di un’attività elitaria. Anche perchè non è necessario che il codice linguistico del critico (in questo caso) sia inaccessibile nella sua specificità perchè le sue analisi dei segni verbali siano profonde; l’importante è rispettare il triangolo critico-libro-lettore. Superfluo è, invece, il dilettantismo che si serve del libro come pretesto per commenti personali che fluttuano in periferiche generalizzazioni. José Mário si occupa dell’esegesi di produzioni genuine e dimostra infatti che non è necessario tessere intricate argomentazioni critiche per dimostrare un’accurata comprensione delle nuances che contraddistinguono i generi letterari, tracciando confini netti. È sufficiente, qualsiasi sia il genere preso in esame, che ci si muova con equilibrio, disinvoltura e onestà fra i meandri dei testi. Ecco il motivo per cui i saggi di questo libro rappresentano una guida preziosa di autori di valore incontestabile, non importa se prossimi o distanti nella geografia fisica, dal momento che tutti condividiamo quella fraternità che innalza lo spirito. 12 Immune ai preconcetti formalisti, la comunicabilità delle capacità critiche del professore José Mário è ammirevole perchè egli non si limita agli schemi né alla rigidità di modelli inalterabili. La sua metodologia è determinata dalla relazione ontologica che intrattiene con il libro: quest’ultimo suggerisce, nella sua singolarità, il metodo e la scala di valori adatti a commentarlo; singolarità evidente se si considera che ogni opera di creazione letteraria è un mondo che non si può ripetere. Una migliore identificazione con il testo si ottiene, infatti, assimilando i riflessi emotivi della lettura in senso profondo, assieme all’analisi linguistica. L’analisi testuale risulta più completa se si indagano le intenzioni che animano l’intimo della creazione letteraria. La critica, così come la esercita José Mário, è utile agli autori da lui analizzati perchè illumina aspetti che eventualmente non erano ancora stati notati. Una dote naturale, trattandosi di qualcuno che conosce la storia della critica nel nostro paese e capisce, dunque, che la fase di auge dell’ermetismo ci ha lasciato ben poco, a parte il senso di liberazione per il suo superamento. Ricordiamo, infatti, l’epoca in cui gli studi letterari si divisero in due correnti: quella che si concentrava sugli aspetti formali, secondo l’esempio di Afrânio Coutinho; e quella che preferiva gli elementi sociologici, sotto la guida di Antônio Candido. Dopo questi due orientamenti, dilagò, come sappiamo, la polverizzazione dei metodi: ce n’era per tutti i gusti, importati e accolti con entusiasmo e sen- Gennaio / 2005 Minime Letture Ricardo Soares za esitazioni. Era l’epoca del linguaggio gravido di tecnicismi, il cui consolidamento ha emarginato gli studiosi limpidi e obiettivi. Si ricordi, a questo proposito, che il flagello dello strutturalismo in Brasile prese piede in una fa- se di chiusura cultuale (sono magistrali, a questo riguardo, le considerazioni di José Mário su Antônio Candido e sulle idee centrali di Paulo Freire, che suggerivano la possibilità di un’educazione liberatrice). 13 Sarà pure una coincidenza, ma quando i critici risorsero come osservatori ascoltabili, l’apertura democratica favorì il giornalismo critico brasiliano. I supplementi, che verso la fine della prima metà del secolo scorso erano andati diminuendo fino ad essere banditi, ritornarono con il vigore evocativo di nomi paradigmatici come Álvaro Lins, Otto Maria Carpeaux, Wilson Martins e i loro insigni predecessori: Agripino Grieco, Mário de Andrade, Octávio de Faria e Alceu Amoroso Lima (o Tristão de Athayde, l’unico che, durante il modernismo e il postmodernismo, si occupò della cultura classica, senza la quale l’essere umano è un ente mutilato). Rileggerli rafforza ancora una volta la certezza del fatto che la critica letteraria non fu mai né mai sarà un qualcosa di superfluo che si va ad aggiungere alla libreria delle nullità culturali. Prova tassativa di questo è il fatto che la cultura estetica moderna tendente all’universalismo si rifece a Sílvio Romero il quale, nel XIX secolo, aveva rinnovato la militanza critica in Brasile, portandola a un livello di riflessione scientifica che la arricchiva e la trasmutava. Mínimas Leituras, Múltiplos Interlúdios è un libro piacevole da degustare grazie all’insieme delle riflessioni che ci propone. José Mário recupera i criteri di eleganza della saggistica di Paraíba, contrari a ogni sproloquio malpensato e, quindi, permeato di gravi arbitrarietà. Si è soliti dire che l’erudizione ha assunto ai nostri giorni un’accezione negativa; tuttavia, affermare che si possa acquisire sapere, facendo a meno di uno sforzo d’erudizione, pare difficile da provare, a meno che non si pensi questo sapere come dono di grazia. Gli scritti di José Mário ci mostrano come l’ottica feconda delle indagini letterarie sia inerente alla destrezza che colloca il dettaglio espressivo in latitudini vaste. Questa prevalenza di criteri derivanti da un eruditismo ragionato permette all’autore di coniugare il lavoro critico con il saggio analitico e interpretativo (sebbene queste siano due cose distinte), ottenendo risultati magnifici e illuminanti riguardo agli autori presi in esame. È indubitabile che la letteratura pura è quella in cui la parola può ridursi alla sua essenza e è, allo stesso tempo, un codice comprensibile a qualsiasi destinatario. Diceva Erza Pound, “Literature is news, but new that stays news” (in: ABC of Reading). Questa perenne attualità è estremamente significativa quando si riferisce, per esempio, alla divagazione, alla vivacità, al mistero e alla drammaticità che si agitano nelle opere di Shakespeare. È questa letteratura che insegna a scoprire ogni giorno con occhi nuovi, più nitidi di ieri, meno chiari di domani; insomma, è la letteratura nella quale la perfezione irrompe solamente quando si arriva a riconoscerla come incompleta, perchè sempre possa rinascere. Cosciente di tutto questo, lettore sottile e penetrante, esigente e rigoroso con se stesso, il professore José Mário da Silva è un intellettuale che questo brillantissimo testo, Mínimas Leituras, Múltiplos Interlúdios, definitivamente consacra. Traduzione di Laura Minervini 13 Gennaio / 2005 14 Rappresentare Pirandello Carla Minuzzi e Eduardo Coutinho I n principio, l’idea di rappresentare Pirandello come un passaggio graduale ci sembrò strana. Non potrebbe essere differente poiché non si trattava di un lavoro comune per essere svolto in un’aula di una classe. Siamo abituati ad apprendere una lingua straniera di forma più tecnica, imparando a memoria regole grammaticali, riempiendo lacune, coniugando verbi, e alla fine di tutto, facendo una prova nel quale percepiamo tutto ciò che apprendiamo. In un primo momento, la maggior parte della classe di Italiano VII del secondo semestre del 2006 sembrava negare questa idea interiore, fino a quando alcuni si rifiutarono di rappresentare l’opera teatrale. Ormai avevamo letto Sei personaggi in cerca d’autore e fi- no a quel momento era stato fatto un lavoro sull’opera, ma rappresentare il dramma vissuto dai personaggi era ancora qualcosa di talmente indefinito, non immaginavamo quale sarebbe stato il risultato. Ci cimentammo durante le lezioni, le idee nacquero ed emersero dalla carta. Alla fine avevamo qualcosa di concreto, potevamo immaginare la rappresentazione finale. Tutta la classe che si propose a mettere in scena l’opera, si adoperò e fece un ottimo lavoro. Nonostante le discussioni sui dettagli della messa in scena, possiamo dire che vi era la collaborazione di tutti. Con il passare del tempo, fummo presi dal piacere delle scene scelte e dai personaggi. Dal nostro punto di vista era cambiato il rapporto con Lo Sguardo di Pirandello 4 dicembre 2006 alle ore 8:00 Aula João do Rio UFRJ - Facoltà di Lettere 14 questo lavoro. Divenne un compromesso vivere i personaggi come essi sono realmente, con i loro drammi personali e con le loro caratteristiche psicologiche. Nonostante la nostra devozione fino alla data scelta nel mostrare l’opera al pubblico, non eravamo sicuri di aver raggiunto le aspettative per la rappresentazione dei nostri personaggi. Alla fine dell’ interpretazione, udimmo degli spettatori che avevamo realmente convinto del dramma vissuto dai personaggi, ci elogiavamo gli uni con gli altri, ognuno che entrava in scena superava se stesso. Fu gradevole sentir questo, perché rappresentare i personaggi con verità e vigore, dando il meglio di noi, era il nostro stesso proposito. Possiamo dire che tutti raggiunsero questo obbiettivo e superarono le attese, è questo ciò che fece della nostra opera un successo. Valse la pena rappresentarla! Il nostro gruppo, insieme al nostro professore fece un buon lavoro. Traduzione di Antonella Gemma Lo Sguardo di Pirandello Scenografia: Eduardo Coutinho Costumi: Simone Hissae I personaggi – gli attori La figliastra: Simone Hissae (1) Lívia Giammattey (2) Carla Minuzzi (3) Il padre: Mozilene Neri (1) Simone Carrano (2) Weverton Pereira (3) Il capocomico: Eduardo Coutinho Il figlio: Helena Rossi La madre: Alice Batista Parodos: Eduardo Coutinho Exodos: Mozilene Neri Direttore e controdirettore: Marco Lucchesi (Lingua Italiana VII) – 2006/2 Gennaio / 2005 15 La Roma degli storici I l fascino esercitato sugli storici dall’Italia, e in particolare da Roma, è facilmente comprensibile. Polo dell’Antichità classica e del mondo cristiano, Roma rappresentò due sintesi prodigiose: quella dell’Impero che canalizzò l’eredità dei popoli del Mediterraneo e del vicino Oriente, e quella della Chiesa, che fece sì che la sede della nuova religione universale fosse l’antica capitale imperiale e non Gerusalemme. Se avesse realizzato solo la prima sintesi, Roma avrebbe avuto un significato simile ad altre città che si affermarono come guide di stati multiformi, per esempio Ninive e Babilonia. Invece, fra il suo apogeo e la sua decadenza si diffuse e sviluppò la religione cristiana, in un periodo in cui questa contendeva fedeli ad altri culti orientali, per esempio quello di Iside o il Mitraismo. Roma allora si trasfigurò e realizzò una nuova sintesi, questa volta di natura più religiosa e culturale rispetto alla precedente, che era stata essenzialmente politica ed economica. Questo persistere nel suo ruolo agglutinatore fa della città di Roma un’esperienza storica assolutamente unica e la autorizza ad essere l’urbs dell’Occidente. Dalla sua unicità, tradotta in molteplici realizzazioni di inestimabile valore culturale, è nato il fascino di Roma. In- Arno Wehling numerevoli artisti ed intellettuali, e non solo storici, hanno subito questa attrazione. Quando fu saccheggiata nel 1527 dalle truppe di Carlo V, si ripeté rispetto alla “Roma dei Papi” ciò che era accaduto alla “Roma degli Imperatori” nelle invasioni del V secolo. Il trauma fu simile in entrambe le situazioni e colpì in ugual misura i contemporanei e i posteri. Molti sentirono che era stato commesso un sacrilegio e che si chiudeva un’epoca. Periodizzando, gli storici individuarono nel primo caso la fine dell’Antichità, nel secondo la fine del Rinascimento italiano e l’inizio del Barocco. Goethe si riferì all’unicità di Roma per quanto riguarda l’arte, ma ciò che egli disse all’arciduca Carlo Augusto nel 1788 si può certamente estendere a tutto il campo della cultura, intesa nella dimensione più ampia possibile: “Quando andai per la prima volta a Roma sentii che non capivo nulla di arte, […] qui mi si rivelò un’altra natura, una dimensione più vasta dell’arte …” Tre storici rappresentano bene il modo in cui i discepoli di Clio vedono Roma e i suoi molteplici significati. Se ne potrebbero scegliere tanti, ma Edward Gibbon, nel XVIII secolo, e Ferdinand Gregorovius e Jacob Burckhardt, nel XIX secolo, furono certamente emblematici del modo di concepire il ruolo storico di Roma nei diversi periodi. In altri termini, si deve a loro la parte sostanziale dell’immagine che noi oggi abbiamo del significato storico di Roma. Benché di origini culturali e sociali differenti, essendo il primo un uomo dell’Illuminismo e gli altri due appartenenti all’epoca del Romanticismo e del Nazionalismo, essi ebbero alcuni punti in comune ed esperienze di vita in parte analoghe. Tutti e tre credevano nell’importanza della conoscenza storica per la comprensione del funzionamento delle società e la formazione dell’uomo colto, il “gebildete Mensch”. Gibbon, Gregorovius e Burckhardt intendevano Roma come una specie di sintesi o “Carrefour” di culture ed esperienze storiche e sulla base di questa concezione elaborarono i loro temi specifici. Ma in primo luogo tutti e tre gli storici visitarono l’Italia e, naturalmente, Roma. Quest’esperienza li segnò per sempre, determinando l’indirizzo dei loro studi. Edward Gibbon, quando conobbe Roma nel 1764, aveva ventisette anni. Era già stato a Parigi, che gli era piaciuta molto. La capitale enciclopedista di Luigi XV, del “Café Procope” e del pontificato di Voltaire, lo spinse a dire: “Se fossi stato ricco e indipendente, avrei prolungato la mia permanenza e forse mi sarei stabilito a Parigi”. Ma la visita a Roma superò le sue aspettative e divenne il “turning point” della sua vita. Riferendosi a quel momento venticinque anni più tardi, nonostante non fosse di temperamento facile agli entusiasmi - il che era non solo molto inglese, ma anche molto illuminista - disse: “Non 15 Gennaio / 2005 16 riuscivo a dimenticare né ad esprimere le forti emozioni che agitarono il mio spirito quando giunsi per la prima volta nella Città Eterna”. Egli racconta che l’idea di scrivere sul declino e la caduta della città gli venne durante una passeggiata in mezzo alle rovine, il 15 ottobre 1764, da cui uscì fortemente emozionato. Dodici anni dopo, nel 1776, realizzerà il suo disegno pubblicando il primo volume della Decadenza e caduta dell’Impero Romano. Quasi un secolo più tardi, nel 1833, un altro viaggiatore, questa volta lo svizzero-tedesco Jacob Burckhardt (1818 1897) visitò l’Italia. Egli ripeté l’esperienza nel 1846 e nel 1853, con crescente entusiasmo, e nel 1860 pubblicò il libro, anch’esso divenuto un classico, La Civiltà del Rinascimento in Italia. Ferdinand Gregorovius (1821 - 1891), quasi contemporaneo di Burckhardt, completa la trilogia. Questo polacco di cultura tedesca nac- 16 que nella Prussia orientale e studiò a Königsberg. Visse in Italia fra il 1852 e il 1874, diventò cittadino onorario di Roma nel 1876 e, dopo aver raccolto con passione, nel libro Wanderjahre in Italien, dati sul canzoniere popolare, il folklore, momenti storici e paesaggi naturali, pubblicò la sua Storia della Città di Roma nel Medioevo dal secolo V al XV, in tedesco fra il 1859 e 1873 e in italiano fra il 1872 e il 1876. Non sappiamo se i tre storici, nel visitare Roma, furono colpiti dalla “sindrome di Stendhal”, cioè il profondo choc causato dall’imponente massa di monumenti storici che provocano un senso di confusione e perdita di orientamento. Ma conosciamo l’impatto che ebbero su di loro le rovine romane e il loro tragico significato in quanto testimonianze silenziose ed eloquenti di grandezze succedutesi e poi svanite, in obbedienza alla formula del “sic transit…”. L’esperienza comune del viaggio e soggiorno in Italia e a Roma si riflette nelle tre opere ma in forme e con risultati differenti. La personalità, l’epoca e il vissuto di ciascuno produssero tre visioni diiverse di Roma. Gibbon vede la decadenza di Roma come un illuminista che raccoglie la tradizione erudita degli storici dei secoli precedenti, a partire dall’Umanesimo rinascimentale, e la incorpora alla critica razionalista della sua epoca. In quanto intellettuale tipico del Settecento egli s’identificò coi valori della Roma classica, quelli repubblicani piuttosto che quelli imperiali, e il suo libro riflette l’interrogativo del “gebildete Mensch” illuminato: in che modo i valori dell’ordine senatoriale andarono perdendosi durante l’Impero, causandone la decadenza? Sta di fatto che, secondo Gibbon, la caduta di Roma è profondamente legata, e in forma decisiva, all’indebolimento di quei valori che l’aristocrazia romana era riuscita nel corso dei secoli a trasformare in amalgama della società. Questi valori, che rappresentarono l’essenza della civiltà romana, furono sconfitti dalla barbarie dei popoli dominati e di quelli che premevano ai suoi confini. La dicotomia civiltà vs barbarie, che Gibbon mutuò dagli autori classici come Tacito, era destinata a dare inizio, nel secolo XIX, ad una lunga tradizione nella stessa Inghilterra ed in altri paesi, all’epoca di un altro Impero: quello britannico. Non c’è dunque da meravigliarsi del fatto che uomini così diversi come l’argentino Domingos Sarmiento, che studiava proprio il tema della civiltà e della barbarie nel suo paese, Gennaio / 2005 e l’inglese Rudiard Kipling, il quale parlava del “fardello dell’uomo bianco”, fossero lettori di Gibbon ed eredi della sua visione “romana” della storia. Gregorovius rappresentò allo stesso tempo il liberalismo protestante e il romanticismo. Scelse come tema d’indagine un aspetto fino ad allora poco conosciuto, nonostante fosse stato trattato anche dallo stesso Gibbon e da altri autori: la Roma medievale o la “Roma dei Papi”, che corrisponde a un periodo differente e ad un’altra topografia dell’urbe. I temi da lui affrontati sono di rilievo non inferiore rispetto a quelli trattati da Gibbon, benché a prima vista gli ultimi secoli e la caduta dell’Impero fossero “più importanti” rispetto agli avvenimenti molte volte oscuri verificatisi a Roma nel corso dei mille anni studiati da Gregorovius. Egli si occupò dunque dell’azione del papato medievale, delle relazioni fra il potere civile e quello ecclesiastico, dei conflitti fra l’Italia e la Germania - fra i Papi e gli Imperatori del Sacro Impero Romano Germanico. Il papato, la vita municipale e comunale romana e l’Impero sono i tre grandi temi che contrassegnarono non solo Roma e l’Italia ma l’intero mondo occidentale, condizionandone lo sviluppo nel Basso Medioevo e all’inizio dell’Assolutismo. Per quanto riguarda la vita del municipio, Gregorovius sottolinea l’importanza della legislazione medievale romana, dimostrando che non fu solo il diritto romano repubblicano o imperiale a trasmettere all’Occidente le basi del suo ordinamento giu- 17 ridico: anche la “Roma dei Papi” contribuì alla rinascita urbana del Medioevo, diventando la culla delle libertà municipali. La tematica sviluppata da Gregorovius, quindi, non è soltanto la storia di una città nel Medioevo. Gregorovius ha dimostrato che Roma, più di qualsiasi altra città, rappresentò paradigmaticamente il microcosmo della vita urbana medievale. Se Costantinopoli diventò la “Seconda Roma”, sostiene Gregorovius, la Roma medievale, incorporando e rinnovando la tradizione storica, fu anch’essa una vera “Seconda Roma”. Burckhardt è stato il più accademico dei tre studiosi di Roma. Influenzato dall’incipiente scienza sociale, lo studioso svizzero non si preoccupò, nella sua opera, della singolarità degli avvenimenti o della “narratività” storica, come facevano i suoi contemporanei, in primo luogo Ranke e i suoi discepoli. La sua prospettiva metodologica, secondo i principi dello storicismo tedesco, lo spinge ad intepretare la storia ermeneuticamente, puntando a dipingere, nel quadro di un’epoca, gli elementi tipici e ricorrenti, anziché la singolarità dell’evento. La sua tematica, vale a dire la storia dell’arte e della cultura e non la storia politica ed economica, certamente favoriva questa prospettiva. E le connessioni da lui stabilite con altre aree erano contrassegnate dall’idea herderiana dello Zeitgeist, il principio-guida che lo mette in condizione di interpretare le relazioni politiche dell’epoca del Rinascimento considerando lo Stato come opera d’arte. Il suo oggetto d’indagine, posteriore rispetto a quello di Gregorovius che a sua volta veniva dopo quello di Gibbon, era il Rinascimento italiano. In questo contesto, viene da lui fortemente sottolineato il ruolo culturale e in particolar modo quello estetico di Roma, soprattutto durante i papati di Sisto V, Giulio II e Leone X. La ricostruzione della Roma rinascimentale operata da Burckhardt, che completa la nostra trilogia, fu pubblicata l’anno dopo l’uscita del primo volume del libro di Gregorovius. È un’altra Roma, la Roma delle guerre d’Italia che ormai sono le guerre del mondo moderno, cioè fra stati e non più le piccole guerre dei signori medievali, né i conflitti fra il Papato e l’Impero. Questa “terza Roma”, quella del Rinascimento, con le sue peculiarità, arriva fino al barocco. È la Roma della Cappella Sistina. Tre storici, tre visioni cronologicamente successive di Roma: il declino dell’impero, la Roma medievale e la Roma rinascimentale. Un pensatore illuminista, un giornalista liberale e romantico, e un professore universitario scrissero opere che hanno costruito l’immagine da cui deriva la nostra visione del senso storico e simbolico della città di Roma, in tre epoche differenti. Tre classici, profondamente diversi nella concezione, nel metodo e nei risultati, ma che sono contrassegnati da una profondissima empatia. Ciò sarebbe impossibile anche al più raffinato esercizio ermeneutico se questo non poggiasse su un’ispirazione assolutamente speciale: l’amore per Roma. 17 Gennaio / 2005 18 Pavese sotto la luce del meriggio sacro Eugenia Maria Galeffi A soli due anni dal centenario della nascita di Cesare Pavese applaudiamo con entusiasmo la pubblicazione del saggio di Pierpaolo Pracca (antropologo e psicoterapeuta) e Francesca Lagomarsini (saggista) Cesare Pavese: il meriggio e il sacro, 18 introduzione di Franco Vaccaneo, direttore del Centro Studi Cesare Pavese. La presentazione avverrà il prossimo 7 ottobre proprio a S. Stefano Belbo, luogo natale del poeta. I due autori hanno saputo dare all’opera dello scrittore uno sguardo mitico punteggiato dal fulgore della luce meridiana. Sono riusciti a intravedere tra il bagliore della canicola delle langhe descritta dal poeta di Lavorare stanca la vera essenza della sua anima. Il loro saggio veste di nuovi abiti la critica su Pavese e getta una luce solare all’universo critico del poeta spesso lunare, ricavandone l’essenza del sacro in quanto incarnazione dell’energia vitale. Il loro sguardo porta il lettore ad intraprendere un viaggio tra i simboli, miti ed archetipi dell’opera pavesiana in cui il reale è un dato di fatto. Secondo Pracca la luce meridiana in Pavese sarebbe la chiave di “accesso ad uno stato modificato di coscienza” perché, dicono gli autori del saggio, “nell’ora suprema, nel diafano incendio del sole le difese della mente razionale vengono meno e tra parossismo ed abbandono si ha accesso alla dimensione sacra degli dei.” Pavese è visto, allora, con gli occhi scrutatori di chi è abituato a percorrere l’intimo delle emozioni umane e, con maestria, porta alla luce un’interpretazione antropologica, quasi sciamanica, della sua opera, in cui la comunione del mondo naturale è la strada verso il sacro. Ciò che è considerato profano da un’ottica religiosa di stampo cristiano come il sesso, interpretato come l’istinto selvaggio e primitivo, animale, si traveste ed è in preparazione per la catarsi sacrale. Nelle culture asiatiche, come le culture che seguono il Tao (il cammino) gli esercizi di grounding servono non solo ad aumentare l’energia Jing (quella vitale), sinonimo di Gennaio / 2005 energia sessuale, che è poi il segreto della lunga vita ; ma, allo stesso tempo, danno accesso all’energia Schen (quella spirituale). E, ín Pavese, è l’estate, con il bagliore della sua luce, che porta la gente a riscoprire il contatto con la natura; appunto perché è la stagione in cui ci si spoglia e si è più liberi per il raccoglimento di questa energia che, molte volte carica a tal punto da fare scaturire la follia, quando non la si sa indirizzare bene. Temi come il sole, il selvaggio, il sesso, l’accidia e il sacrificio, talvolta col significato di violenza e sangue, irrompono dall’opera pavesiana quasi come un “oscuro destino”, dicono gli autori. Nella loro ottica il sole agisce sui personaggi come una specie di “rito battesimale” portandoli allo stato di mimetizzazione con la natura, imbestialendoli e facendone scaturire l’istinto puro, erotizzandoli e portandoli al punto massimo che è il sesso. Nel tema del sesso, la donna è vista come sacerdotessa, ma anche “ispiratrice della trasformazione dell’uomo civilizzato in uomo primitivo, rendendolo creatura eminentemente mitologica arrendevole ai ritmi e ai cicli delle stagioni” . 19 Da questo punto di vista, il vecchio binomio città-campagna prende una luce diversa quando le forze ctonie possono essere trasformate in luce, ma non la luce della razionalità, come quella de I dialoghi con Leucò, ma la luce accecante del meriggio, come ricongiungimento dell’uomo con la natura in quanto allontanamento dalla ragione e ritorno alle forze istintive spontanee e naturali, come sinonimo di vita, come è il caso di Feria d’agosto, quasi a voler scuotere dalla mente il razionale e poter tornare allo stato primitivo dell’Eden (Il diavolo sulle colline in La bella estate). D’altro canto, “[...] uno dei motivi mitologici che Pavese riprende nelle proprie opere è quello dell’abbandono delle forze e della volontà che avviene sotto il sole […] Ogni cosa sembra essere dominata dalla rinuncia, dal sonno e dall’accidia, come se la volontà di vivere si ritirasse cedendo all’inerzia esistenziale, alla psicoastenia che fatalmente conduce all’immobilità” . La figura del dio-caprone, essere metà divino e metà bestiale, presente nell’omonima poesia pavesiana del 1933, viene interpretata come la “[...] trasposizione notturna di Dioniso, capace di sconvolgere, in un sabba sfrenato, l’intera campagna.” Questa energia fa risvegliare i sensi che conducono ad un contatto con la natura attraverso i suoi prati, boschi, ruscelli e simili, facendoli impossessare da uno spirito pansessuale. La descrizione di questo mondo epifanico ed olimpico cattura Pavese affascinandolo. “Il sacro per Pavese è l’orizzonte entro il quale coincidono gli opposti ed è collocato in un urzeit dove l’anima primitiva non è ancora approdata agli schemi consequenziali della ragione.” Di lettura assai gradevole, l’analisi dell’opera pavesiana in questione ci porta via via per i meandri del mito, del simbolo, degli archetipi, fino a rompere la dimensione spazio-temporale facendoci raggiungere la sfera della luce. Infatti, gli autori danno al testo un’aura brillante e peculiare in cui il sacro è messo come un involucro sulla figura di Pavese facendola brillare come un astro e riportando la sua critica alla dimensione stellare. Per altri versi, Pracca e Lagomarsini hanno fatto un tuffo profondo nello stato inconscio delle opere pavesiane per poterne estrarre un’interpretazione più luminosa. 19 Gennaio / 2005 201 Gennaio / 2005 Fasi dell’eclipsi lunare totale il tre marzo 2007 21 Foto 1: alle 18.42 Foto 2: alle 18.54 Foto 3: alle 19:17 Apparecchio: macchina fotografica digitale Canon PowerShot A430 / Zoom totale 14x. Fotografa: Mozilene Neri 2 3 20 21 Gennaio / 2005 22 Gennaio / 2005 23 Un compito in classe di italiano L Ermanno Minuto* e mie notti insonni sono spesso popolate da strane suggestioni: figure evanescenti e fatti improbabili, immersi in un’atmosfera illusoria che, a poco a poco, si trasformano in esseri e voci di una realtà misteriosa e mi sussurrano con monotona ripetitività parole come di un ritornello interrotto mentre io, un po’ intimorito, tento invano di coglierne un significato che mi sfugge. Ma, non appena la fetta di cielo costretta nel rettangolo della finestra della mia camera comincia a sbiancare annunciando l’imminenza del giorno, i miei vaghi timori terminano all’improvviso e lasciano il campo a pensieri, a tutta prima arruffati, che poi via via si snodano a rincorrere ricordi ormai lontani nel tempo. Da molto, io passo gran parte della notte inseguendo le ombre che si stendono sui muri e si addensano negli angoli, quasi vigilando il buio che sempre suscita in me sensazioni di incertezza e di dubbio che forse non si possono definire timori. Quando provo durante le lunghe ore di buio passate ad occhi aperti è infatti solo il frutto di vaneggiamenti ricorrenti, quasi delle alluci- 22 nazioni, che si ripetono per un certo tempo e poi, risolte o meno, si dissolvono da sole per essere magari sostituite da altre, spesso futili, ma ugualmente inquietanti. Recentemente la causa delle mie ansie notturne è stata per alcun tempo rappresentata dai primi due versi, ripetuti con un’esasperante cantilena, di una poesia della quale non ricordo né il titolo né l’autore. Può parere una sciocchezza, ma spesse volte sono proprio le sciocchezze, le cose insignificanti che, mulinandomi in capo, riempiono tutto il vuoto delle mie notti bianche. Forse è una conseguenza della vecchiaia: “Il lungo e magro professor di greco / che tanto odiar mi fece il divo Omero”. Questi erano i versi (della poesia altro non ricordo) che non riuscivo a cacciare dalla mente, sicché iniziai a ricercare una possibile ragione di quel ripetersi ossessivo. Mi parve logico che essa potesse nascondersi tra lontani ricordi di scuola e tra questi cominciai a scavare. Il personaggio della poesia non poteva in alcun modo riguardarmi; io non ho frequentato il liceo e non ho mai studiato il greco, ma un professo- re che riuscì a farmi odiare la disciplina da lui insegnata era esistito davvero. Si trattava però di un “grosso e tondo professore di ragioneria”, un insegnante dell’Istituto Commerciale che tentò invano, per lunghi cinque anni, di suscitare in me un sia pur minimo interesse per i conti correnti, i bilanci e la contabilità in genere. Io capitai in quell’Istituto spinto da motivi familiari e da una serie di priorità che mi obbligarono a una scelta non desiderata. Sarebbe troppo lungo e fuori luogo elencare ora i motivi che spinsero mio padre, un povero operaio, a sollecitare la mia immatricolazione in quella scuola, ma le poche parole che usò per spiegar- meli basteranno a ricordare il più importante: “Io non potrò permettermi di farti seguire gli studi universitari, sono prossimo alla pensione. Devi accontentarti di un diploma che ti sia di aiuto al momento della ricerca di un impiego. Scegli tu quale, ma il liceo, che tu vorresti, proprio non potrai frequentarlo”. La priorità, nel caso, fu quella del conseguimento del “pezzo di carta” – come si usava definirlo – che poneva fine agli anni dello studio per dare inizio a quelli del lavoro. Così mi trovai, triste e insoddisfatto, seduto rai banchi di un’aula che per me rappresentava il confine, non solo fisico, tra la scuola che stavo frequentando e quella che avrei voluto frequentare. A modo mio mi “vendicai” della mala sorte dedicando alle materie basiche del corso il minimo di tempo indispensabile, forse meno, e destinai tutta la mia attenzione ed il mio impegno a quelle che erano rimaste relegate tra le mie speranze deluse. La lettura, quasi ossessiva, dei classici italiani e delle opere più note degli autori stranieri in voga all’epoca, occupò per lungo tempo tutte le ore libere delle mie giornate, mentre i testi di ragioneria e tecnica bancaria giacevano trascurati e chiusi sul mio tavolino. Letture disordinate, senza guida né sostegno didattici, che non raggiunse- ro risultati apprezzabili ma erano pur sempre preferibili allo studio di noiosissime regole di computazione e di quelle che io consideravo inutili dissertazioni sui metodi da seguire (allora si parlava di un sistema patrimoniale contrapposto a quello del reddito) per arrivare alla stesura di consuntivi esatti e preventivi affidabili. Non so dire quante volte, allora, io maledissi in cuor mio un povero religioso: quel fra Luca Pacioli che si vuole abbia inventato la partita doppia per usarla nella tenuta dei conti dell’antichissimo Banco di San Giorgio in Genova. Tanto meno ricordo quante volte m sono chiesto se il buon francesca- 23 Gennaio / 2005 24 no non avrebbe fatto meglio a dedicare l’opera sua alla cura delle anime piuttosto che a quella dei conti dei banchieri genovesi. Sfoghi un po’ sciocchi della mia ribellione giovanile dei quali un po’ mi vergogno. Ma pur rimestando in quella antica situazione mortificante non riuscii a trovare un nesso, se pur labile, tra “il lungo e magro professor di greco” e lo stato d’animo che mi accompagnò per tutti gli anni della mia permanenza all’Istituto Commerciale. L’occasione del mio assillo notturno doveva quindi essere ricercata altrove, non nel personaggio ma nella poesia in sé che poteva suscitare in me ricordi di altre poesie, altri autori, altri fatti ed altri insegnanti. Così all’improvviso mi son tornati alla mente immagini e fatti che da tanto tempo avevo riposto tra le pieghe della memoria; in primis la figura di un’insegnante di lettere capitata al Commerciale quando frequentavo l’ultimo anno del corso: quello dell’esame di Stato e del diploma. Non era più giovane ed era bravissima, bonariamente severa, esigente e precisa. Quella cattedra le era stata assegnata dopo molti anni di insegnamento nei licei e le sue lezioni, improntate ad un metodo e ad uno stile ci non eravamo abituati, erano sempre delle dotte palestre sul tema del giorno e tutta la classe ne restava affascinata. Mi ricordai in particolare di un giorno destinato al temutissimo “compito in classe”. La prof., entrando, ci aveva salutato con una proposta sconcertante: “Oggi – aveva detto – voglio farvi un regalo, oggi il tema ve 24 lo sceglierete voi, suggeritemene alcuni e vi dirò quale svolgere”. I temi suggeriti furono molti. Io, timidamente e sottovoce, ne proposi uno che la classe intera considerò troppo impegnativo: “Sfogliando Myricae”. Mi pareva un tema molto bello, ma la prof. ne scelse un altro, poi, forse leggendomi in viso la delusione, aggiunse: “Lei Minuto svolga pure il tema sul Pascoli (si rivolgeva agli studenti con il lei, come ancora si usava), sono curiosa di vedere… beh, buona fortuna!” Quasi subito, mentre con la testa china sul banco osservavo timoroso il foglio bianco che mi attendeva all’opera, mi resi conto di quanto fosse stata ambiziosa la mia proposta. Tuttavia cominciai a scrivere unendo allo sforzo mentale necessario a ricordare quanto avevo letto sul Pascoli a quello di riuscire ad esprimere, correttamente ed in bella forma, quanto avevo ritenuto e capito di quelle letture. Risfogliai con la mente le pagine lette tante volte, ritrovai i componimenti poetici che pi mi avevano colpito e che, con quelle ripetute letture avevo mandato a memoria ed, infine, anche le note a piè di pagina che mi avevano aiutato a capirne i significati reconditi. Mi galleggiarono in capo i versi di molte poesie delle Myricae, magari brevissime e tutte improntate al gusto prevalente nell’opera intera, cioè quello dell’impressione coloristica e del quadretto inciso e definito con pochi tocchi, con taglio misurato, piuttosto che con lunghe descrizioni poetiche che pure il soggetto cantato avrebbe potuto suggerire. Ho riguastato il sapore primitivo e frugale Gennaio / 2005 25 di: lavandaie, temporale, novembre, tutti sprazzi poetici nati da quello che fu spesso definito “il sentimento georgico e idillico del Pascoli” e che è uno degli aspetti essenziali della sua poesia: l’amore per le cose umili e semplici della campagna. Sentimento dal quale scaturiscono le espressioni più vive e personali dell’arte sua e che sono anche gli esempi più puri dell’impressionismo pittorico pascoliano. Strofe concise ed incisive, versi usati come macchie di colore con la sola preoccupazione di rappresentare, con uno scatto fotografico, gli aspetti del mondo contemplato immerso nella particolare atmosfera del presente. Mano a mano che procedevo nello svolgimento del tema, la mia iniziale preoccupazione svaniva, mi sentivo sicuro e riprovavo quelle sensazioni sottili che, quasi fossero vibrazioni musicali, avevano sempre invaso l’animo mio ogni volta che rileggevo Myricae. Tutto preso dal mio fervore creativo (il Pascoli è sempre stato il mio poeta preferito), non mi resi conto che avevo riempito fogli su fogli ma avevo la consapevolezza, o meglio la speranza, di non aver scritto delle sciocchezze. Quando alcuni giorni dopo la prof. mi restituì il tema, me lo porse con un sorriso che, al momento, non seppi se era di complimento o di semplice comprensione. “Come al solito Lei è stato l’unico a tentare di scrivere qualcosa di suo senza ripercorrere pedissequamente strade già percorse da altri. Per questo Le ho dato un voto molto alto, come vedrà. Lei, Minuto, scrive fluentemente e correttamen- te, ma la sua prosa spesso indulge a toni crepuscolari, quasi decadenti. Non è del tutto un male, ma è necessario saper usare con maggiore proprietà e parsimonia questi toni. Ha mai letto il Gozzano? Se no, lo faccia; torni a leggerlo con maggiore attenzione e apprenderà a dire le cose con più freschezza e sincerità”. Lo stesso giorno, appena tornato a casa, rilessi “con il cuore in tumulto” il poemetto dedicato dall’”avvocato che non fa ritorno”, come Gozzano definisce se stesso, alla Signorina Felicita e a Villa Amarena. Rimescolai tra “la bellezza riposata dei solai dove il rifiuto secolare dorme” ed in essa scoprii tante cose da dire ed il modo in cui dovevano essere dette. E, qui, come in Myricae, ritrovai quella “vaga musica di risonanze e di echi” (R. Serra, Il verso del Pascoli) che da sempre sognavo di padroneggiare per accompagnare nuovi canti, magari miei, che, come dice il poeta romagnolo “cantano come non sanno / cantare che i sogni del cuore / che cantano forte e non fanno / rumore”. Bibliografia: F. Montanari, M. Puppo. Antologia della letteratura italiana. Torino: Società Editrice Internazionale, 1962. *Ermanno Minuto, laureato in economia e commercio, è poeta dialettale savonese e scrittore di racconti in lingua, che vive nell’Espírito Santo dal 1982. 25 Manuale per riconoscere tutti i trucchi del vostro capo 26 do semplicissi mo » . Talvolta funziona. Ci sono poi quelli che non vi informano col metodo dell’ « eccesso di informazioni » , cioè inondandovi di carte, o facendo proiezioni asfissianti dove le questioni essenziali sono nascoste dalla gran massa di dati irrilevanti. È un metodo spesso usato dalla burocrazia, ma anche nelle imprese private da uffici che vogliono valorizzare il loro ruolo. A costoro bisogna chiedere qual è il vero problema, la cosa più importante da decidere e di scriverlo in una pagina o dirlo in pochi minuti. Vi sono anche persone che riescono a non informarvi « creando confusione » . Anche se ponete loro domande chiarissime vi rispondono citando fatti ed argomenti che non c’entrano, e mescolando proteste e richieste senza connessioni logiche. La perso na razionale che cerca di venire a capo di questo ginepraio dove c’è tutto e il contrario di tutto si logora inutilmente. Se chiede chiarimenti l’altro risponde nello stesso modo e deve rinunciare. Ci sono, da ultimo, quelli che, molto semplicemente, non dicono niente. Raccolgono informazioni, captano idee, suggerimenti, invenzioni, ma li tengono per sé. Di solito si tratta di personalità autoritarie che non lavorano in gruppo, non sopportano critiche, si attribuiscono tutti i meriti, decidono da sole e pretendono immediata ubbidienza. Personalmente sono convinto che tutti coloro che non danno informazioni, qualunque metodo usino, sono dei cattivi capi. Con il loro comportamento impoveriscono quelli che lavorano con loro, ne tarpano la creatività e finiscono sempre per provocare dei danni all’impresa che dirigono. Cruciverba critt. C i sono delle persone che occupano posizioni di potere, dei dirigenti che non danno informazioni né ai loro dipendenti né a coloro a cui devono fornirle. Ed è incredibile il numero di tecniche che possono usare. Incomincerò da quella che chiamerò « siamo amiconi » partendo da un esempio personale. Anni fa dirigevo un istituto dove è arrivato un nuovo presidente. Costui mi trattava nel modo più cordiale. Era tanto amichevole che, quando mi informava sulle decisioni che aveva preso, lo faceva come se le avessimo prese insieme: « Sai, è d’accordo tutta la Commissione, Piero, che è un amico, Andrea, Luciano e Marco che adesso è presidente di... » . Nei primi tempi mi sforzavo di ricordare quando avevamo creato una Commissione e cercavo di ricostruire chi fossero quel Piero, Andrea, Luciano che avrei dovuto conoscere così bene. Poi ho capito che non ne avevamo mai parlato, che costoro erano tutti amici suoi a me sconosciuti. C’è poi un modo di non informarvi che chiamerei « dare per scontato la tua competenza » . Qui chi parla vi riferisce tutto come se foste già informatissimi e molto competenti. Nomina rapidamente ditte, personaggi, operazioni usando una grande quantità di termini tecnici che voi non conoscete sapendo che vi vergognate a domandare spiegazioni davanti agli altri. E, se lo fate, vi spara addosso una serie di ragioni tecnicissime che vi ammutoliscono. Così, poiché tutti temono di fare cattiva figura, riesce sempre ad imporre ciò che gli pare. Io, per resistere, a volte dico: « Guardi, io ho fatto solo la prima elementare e, se vuole che capisca, deve ripetere tutto lentamente e in mo- Cruciverba Crittografato SOLUZIONI Francesco Alberoni — Be’? È ciò che ti avevo promesso: una casetta tutta per noi. Curiosità: È stato fondato recentemente, a Londra, il “Club delle fumatrici di sigaro”. Tra le mura del club, che sorge dalle parti di Piccadilly Circus, sarà viedata la presenza a tutti gli uomini, senza eccezioni, e alle donne che non fumano sigarette. 27