Anno XIX, n. 6 Giugno, Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. Gli Ebrei nell’Ovadese tra Cinque e Seicento. L’Editto del Vescovo Bicuti fissa regole ferree. Verso la fine del Cinquecento si hanno notizie in zona della presenza di Ebrei alcuni dei quali, pur umiliati e perseguitati, si erano imposti all’attenzione dei potenti come medici e nella pratica invisa ma rilevante dell’usura. C’erano israeliti a Gavi, Voltaggio, Capriata e a Ovada dove si erano bene integrati come Mastro Joseph Hakohen hebreo fisico, medico, benvoluto e stimato dagli Ovadesi ai quali aveva prestato le proprie cure. La Repubblica di Genova voleva scacciarlo dal territorio genovese di cui Ovada faceva parte ma gli abitanti riconoscenti, tramite il podestà del luogo, si opposero fermamente alla iniqua disposizione e la loro istanza venne esaudita. Inutile ricordare quanto fossero fiorenti le Comunità Ebraiche di Acqui Terme, di Casale Monferrato, ecc., sulle quali non mancano studi approfonditi. Nota inoltre la leggenda dell’ Ebreo Errante di Eugenio Sue, argomento che ha affascinato anche altri scrittori. Tollerati o bene accetti dunque gli Ebrei ma coll’obbligo di osservare disposizioni rigorose riconfermate, in occasione del Sinodo Diocesano del 1657, da Ambrogio Bicuti Vescovo (immagine a corredo, dipinto presso il Palazzo Vescovile). Gli esiti del Consiglio Ecclesiastico furono pubblicati in Genova nel 1659 con i tipi di Pietro Giovanni Calenzani e uno specifico Editto riguarda appunto gli Ebrei. Se ne riporta una trascrizione più o meno conforme ai tempi che corrono: Avendo Noi, più e più volte, sentite doglianze da diverse persone , sì ecclesiastiche che secolari, che tanto si sia inoltrata, e inoltri la temerarietà di alcuni Ebrei, e di alcuni mali Cristiani, che non ricordandosi gli uni di essere tollerati per pietà nella Repubblica Cristiana, come servi d’essa, e gli altri scordandosi il rispetto dovuto a Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, abbiano ardito ed ardiscano contro le Costituzioni e Bolle Apostoliche della felice memoria di Pio IV del 1555 e Pio V del 1567 e Gregorio XIII del 1581 (…) di commerciare, vivere, mangiare, ballare e giocare unitamente con detti Ebrei (…) ordiniamo e proibiamo agli uni e agli altri: I - Primo Comandiamo che gli Ebrei debbano portare abito distinto dai Cristiani, cioè il cappello o altro segno di color giallo, e lo stesso le Ebree debbano portare un segno distintivo dalle Donne Cristiane, sotto pena di due scudi d’oro, ogni volta che saranno ritrovati fuori dalle case loro senza tal segno. II – Non potranno avere uffici pubblici, o dignità, ne esercire commerci che siano di aggravio ai Cristiani, né altra mercanzia, fuori che della strazzeria (compravendita di stracci) senza nostra particolare licenza. III – Non si dia credito ai loro libri (contabili) se le varie partite non saranno scritte in lingua latina o volgare. IV – Computeranno i mesi di trenta giorni e il pegno che avranno ricevuto dai Cristiani lo potranno vendere solamente dopo diciotto mesi interamente trascorsi. V Non potranno abitare nelle case vicine alla Chiesa e in giorni di Festa non lavoreranno in pubblico, né si farà alcun contratto con essi. VI – Proibiamo ai Cristiani di mangiare in casa loro, sotto qualsivoglia pretesto, come anche di mangiare fuori dalle loro case le loro focacce di pane azzimo. VII – Proibiamo alle Nutrici di allattare i figli degli Ebrei in casa dei medesimi e anche in case delle Nutrici stesse, senza nostra speciale licenza. VIII – Proibiamo agli Ebrei di esercitare l’arte della medicina e ai Cristiani di servirsi di loro in tali arti o in trattati di matrimonio. IX – Proibiamo ai Cristiani di andare nelle Sinagoghe degli Ebrei e alle loro nozze, conviti e balli, aiutando gli Ebrei ad ornarsi o a fargli altra servitù continuata. X – Avvertiamo che non devono uscire in pubblico nel Mercoledì, Giovedì e Venerdì della Settimana Santa e che nel Venerdì Santo devono anche tenere serrate le porte e le finestre delle loro case. XI - Quando saranno invitati alla Predica dovranno intervenirvi tutti quelli da dodici anni in su e almeno la terza parte di loro. XII – Non potranno vendersi, affittarsi o darsi in pegno ai medesimi Ebrei campi, case o altri beni di Chiesa, ne suppellettili sacre. XIII – E ogni volta che un Ebreo o un Cristiano contravverranno siano puniti alla pena di due scudi d’oro. E perché nessuno possa per ignoranza disconoscere quanto comandiamo questo nostro editto sia pubblicato nella solennità della Messa nella nostra Cattedrale e nelle altre Chiese della Diocesi dove gli Ebrei sogliono abitare, ed una copia sia anche affissa nella casa dove gli Ebrei solitamente si riuniscono. Dato in Acqui nel nostro Palazzo Episcopale. Anno XIX, n. 7 Luglio , Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. Il Vecchio Campo da Foot Ball dell’Unione Sportiva Ovadese. Inaugurato nel 1912, madrina la figlia del Ministro Costa. Dove oggi c’è l’edificio scolastico delle Scuole Medie, fino ai primi anni Sessanta c’era un campo da foot - ball inaugurato domenica 30 giugno 1912 dai soci dell’Unione Sportiva Ovadese fondata nel 1907. Grazie alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che ci ha inviato la riproduzione del giornale con la cronaca dell’avvenimento, abbiamo la possibilità di riprenderne le parti essenziali. (,,,) una bella e simpatica festa sportiva ha attirato sul campo una folla di forestieri e concittadini, curiosa di assistere gli avvenimenti annunciati. Noto l’onorevole Brizzolesi, il sindaco Grillo, il pretore avv. Meale, l’avv. Costa, l’avv. Cestino, il presidente del Genoa sig. Icardi e signor E. Pasteur, il sig. Parodi, ing. Chirella, E. Corsanego, Lorenzi, Torrazzi e molti altri sportmans genovesi di cui mi sfugge il nome attorno alla signorina Rosetta Costa, madrina del battesimo del campo, sta una larga rappresentanza di eleganti e belle signorine ovadesi. Terminato il match U.S.O. – Italia si procede al battesimo ufficiale del Campo Sportivo. Madrina la signorina Rosetta Costa, padrino l’on. Brizzolesi. Parla per l’U.S.O. l’avv. Costa che con parola bella saluta tutti i presenti e ringrazia a nome della società le autorità intervenute. Dopo l’on. Brizzolesi dice parole di lode e di ringraziamento per l’U.S.O. inneggiando caldamente allo sport e termina mandando un saluto ai fratelli che combattono in Libia. E siamo alla cerimonia. Legata da un bianco nastro al palo superiore del goal pende la tradizionale bottiglia di spumante: la mano gentile della Madrina la spinge con dolce violenza contro il palo laterale; resiste a un primo ed a un secondo colpo e finalmente ad un terzo s’infrange e frammentandosi abbandona sull’erba il liquido inebriante. Pare la bottiglia incantata sprigioni dal seno una voce trattenuta che libera si svolga in un urrah fragoroso di gioia e di letizia; infatti simultaneamente un grido di evviva s’alza dalla folla festante. Alle autorità ed alle gentili signore e signorine venne subito offerto uno champagne d’onore. Alla gentile e graziosa madrina signorina Rosetta Costa il sig. Giovanni Oberti offre a nome dell’U.S.O. una artistica medaglia d’oro ed un’elegante mazzo di fiori. Alle 15, 10 l’arbitro sig. Torazzi del Liguria fischia l’inizio. La partita si svolge subito disordinatamente da ambo le parti: poi gli avanti dell’Italia si ritrovano e muovono con precisi passaggi all’assalto della difesa estrema ovadese, e segnano il primo goal. Ora sono gli ovadesi che muovono all’assalto della porta avversaria e tentano il pareggio. Giangrandi tira un forte calcio da venti metri ma il portiere può parare. Ravera non è pronto a ricacciare la palla e così gli Ovadesi perdono la migliore occasione per segnare e non vi riusciranno più per tutta la partita. L’Italia riesce ancora a segnare a proprio vantaggio un goal. La partita si chiude così con la vittoria di questa per due goals a zero. Fra tutti i giocatori si distinse Grillo portiere dell’U.S.O. massimamente nella parata di due bellissimi penality. L’arbitro fu imparziale ed energico. Le squadre erano così composte: Italia: Dasso, Remotti, Cereseto, Pienoni, Fossati (cap.), Dapelo, Molinari, Melandri, Gnagnini, Bardea, Toselli I. U.S.O.: Grillo, Brunoldi, Scassi-Buffa, Perfumo, Aloisio I, Snitzer, Ivaldi, Ravera, Giangrandi (cap.), Montaiuti, Viotti. Alle ore 17. 30 venne ancora disputata una partita tra la squadra del Genoa contro la Liguria. Anno XIX, n. 8 Agosto, Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. Cent’anni fa sorgevano Villa Gabrieli e il suo Parco Furono donati dall’armatore genovese Odero alla bella Lola. È trascorso esattamente un secolo da quando Villa Gabrieli e il suo accogliente Parco sono sorti e diventati una realtà sempre cara agli ovadesi. Infatti ne hanno libero accesso dal 13 giugno 1982 e se parlate con chi è un po’ avanti negli anni vi dirà in schietto dialetto che si tratta della villa dia scià Lola (della signora Lola) e una motivazione esiste L’anno di apertura al pubblico del parco l’architetto Giorgio Oddini, figlio del progettista della villa e allora presidente dell’Accademia Urbense, raccolse con lo scrivente, per un comunicato stampa, curiose informazioni che per l’occasione meritano di essere rispolverate e riassunte. Il sito dove sorse la villa era un terreno agricolo a campi e vigne di proprietà dei signori Gandini e faceva parte del Bettolino ossia una vecchia casa - osteria, con cantina e terreni, posta sulla strada che portava, attraverso la vecchia pianca dei Carlini in legno sull'Orba, dal borgo di Ovada alla Frazione di Grillano. Poi il signor Gandini si fece costruire una villa (quella prospiciente via Ruffini e successivamente acquistata dagli Oddini) e vendette la maggior parte del suo terreno, oltre 22.000 metri quadri, al cav. Attilio Odero che ne fece grazioso regalo alla sua bellissima amica Dolores Gabrieli - Oses detta Lola. E questo appunto è il nome con cui è ancor conosciuta la villa, anche se ufficialmente fu Villa Gabrieli, poi dell'avvocato Scarsi, quindi della C.I.E.L.I. e infine dell' ENEL. Attilio Odero, nato a Genova nel 1854, si costruì sin da giovane, con accanito lavoro e rara intelligenza, una posizione davvero invidiabile: fondò il cantiere Odero a Sestri Ponente, vi costruì le prime navi con scafo in ferro fabbricate in Italia e, nel 1884, il primo cacciatorpediniere. Costruì a Genova il cantiere della Foce (e dai suoi due cantieri varò diverse centinaia di navi), fondò la San Giorgio di Sestri Ponente e, nel 1905, fu nominato Cavaliere del Lavoro. Fu poi ancora presidente della Terni, dei Cantieri Riuniti Odero – Terni - Orlando, armatore, Senatore del Regno dal 1929 e quando mori, ultraottantenne, lasciò i suoi beni alla Fondazione Odero per la beneficenza e l'istruzione professionale, in particolare dei sestresi suoi concittadini. É intorno al 1910 che decise di fare cosi munifico regalo alla sua bella Lola; non si sa perché abbia scelto proprio Ovada; forse perché ben servita dalla ferrovia Genova Acqui allora inaugurata da pochi anni; forse perché era un piacevole luogo di villeggiatura, con dolci colline e bei panorami distensivi, ma più riservato e meno frequentato di quanto lo fossero Busalla o Arquata, Serravalle o Savignone, sempre strapiene in estate di famiglie genovesi. Sta di fatto che, acquistato il terreno, dette incarico all'ingegnere Michele Oddini (1882 - 1964), da pochi anni laureato al Politecnico di Milano e diplomato architetto all'Accademia di Brera, di eseguire il progetto della villa residenziale e della sistemazione del terreno. L'architetto Oddini (nella foto con la Scià Lola) progettò e diresse i lavori di costruzione della villa, che fu terminata nel 1912, in uno stile per allora moderno, ma sobrio e senza eccessive indulgenze al floreale o liberty, allora in voga. Per il parco fu interessata la ditta Rodi di Torino, specializzata in paesaggistica e in costruzione di giardini e parchi. In accordo con il progettista e secondo il desiderio dei committenti una parte del terreno fu riservata a frutteto ed orto, furono costruite serre .per i fiori e le piante più delicate, un rustico per magazzeno e attrezzi, un villino per il giardiniere e la sua famiglia. Nel parco ebbe posto, proprio innanzi all'ingresso della villa, un ampio laghetto e un bel pergolato. Le piante furono accuratamente scelte per dare contrasto di colori e di forme; conifere anche rare, tigli e ippocastani furono messi a dimora ed oggi, dopo un secolo, formano una superba macchia di verde che da i suoi benefici alle abitazioni fronteggianti sorte in seguito. Un cenno a parte merita la grandissima cancellata di recinzione su Via Carducci, pure disegnata dall'architetto Oddini e tutta eseguita in ferro battuto a mano. Questa cancellata è un'opera veramente artistica e di grande pregio, oltre che di grande valore; e infatti quando, dopo le Sanzioni della Società delle Nazioni contro l'Italia il governo, nel 1936, ordinò la rimozione di tutte le cancellate per recuperarne il metallo, questa fu salvata dalla demolizione proprio perché dichiarata di interesse e valore artistico, anche per il fattivo impegno dell'allora Podestà di Ovada ing. Angelo Lorandini. Pochi anni dopo, al tempo delle requisizioni tedesche, fu il Commissario Prefettizio cav. Vincenzo Alloisio che riuscì ad evitare un altro ordine di demolizione e cosi ancor oggi la cancellata fa bella mostra di sé, a ricordo degli anni felici in cui fu costruita e ad ornamento della nostra cittadina. Anno XIX, n 9 Settembre, Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. Come è nata la Circonvallazione Stura, poi intitolata ad Antonio Gramsci. Iniziata nel 1939 è stata ultimata nel secondo dopoguerra Il 18 Agosto 1932, anno X della dittatura fascista, il Capo Ufficio Tecnico Comunale ing. Pietro Carlevaro, firmava un primo progetto per la costruzione di un tronco di strada raccordante Via al Cimitero con Via al Molino. Nella relazione allegata al progetto si specifica meglio che da molto tempo era sentita la necessità di aprire una nuova via nel concentrico che deviasse il transito dei carri pesanti, facenti servizio al Molino Moccagatta, dalle Vie Cairoli, San Paolo della Croce e Via dell’Oratorio. Tale necessità era fortemente sentita perché considerata la ristrettezza di dette vie il passaggio dei pesanti veicoli di Moccagatta rappresentava un continuo pericolo per l’incolumità dei passanti ed anche perché il passaggio obbligatorio delle ruote sempre nel medesimo punto logorava le strade in maniera difficilmente riparabili. I fratelli sig.ri Moccagatta, bene interpretando il loro interesse e nel contempo quello del Comune, colla offerta di L. 15.000 (quindicimila) fatta per l’esecuzione della strada che raccordi Via del Cimitero con Via al Molino hanno dato finalmente al Comune la possibilità di eseguire l’opera. Questo ufficio ha redatto un progetto di strada che partendo da Via al Cimitero (all’inizio del Viale della Rimembranza) va alla Via del Molino, strada per cui i carri pesanti possono andare dal Molino alla Stazione Ferroviaria passando per Via S. Antonio oppure per Via Vittorio Emanuele (ora Via Torino) senza passare nelle vie strette dell’abitato. La strada progettata ha la lunghezza di m. 183.70 per la larghezza di m. 10 di cui m. 7 di carreggiabile e m. 1.50 per lato di stradini per pedoni. La pendenza è di m. 2.76 per cento. La costruzione del nuovo tronco di strada veniva intrapreso negli anni dal 1939 al 1941 allo scopo di utilizzare il materiale degli scavi in quel tempo eseguiti dall’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato in relazione alla sistemazione della viabilità (sottopassaggi) nei pressi della stazione San Gaudenzio. Detto materiale, per una speciale convenzione stipulata fra il Comune e le Ferrovie dello Stato, veniva trasportato dall’Amministrazione Ferroviaria nella sede della strada in oggetto, restando al Comune la cura della esecuzione delle necessarie opere d’arte e della sistemazione del rilevato che costituisce la quasi totalità del corpo stradale in questione. A causa però della deficienza del materiale ricavato dai sottopassaggi di cui sopra, che in parte veniva destinato ad altri usi, tale arteria stradale restava incompiuta. A guerra finita, in data 20 luglio 1946, l’ing. Rinaldo Tagliafico firmava un altro progetto relativo alla ultimazione del secondo tronco della strada, denominata allora Circonvallazione Stura. Nella relazione allegata vien precisato fra l’altro che tale lavoro è ritenuto di prima necessità anche per alleviare la disoccupazione locale. Oltre a creare occupazione, la costruzione del secondo tronco della nuova arteria stradale cittadina, - sottolinea il progettista - riveste un notevole carattere di pubblica utilità in quanto serve ad effettuare il collegamento del Lungo Stura Oddini con il primo tratto della Circonvallazione Stura, e indirettamente la Piazza Castello, nella quale confluiscono la provinciale da Alessandria e da Novi Ligure, con il Corso Cavour da cui si dipartono le strade per Acqui e per Genova. Con l’apertura di detto tronco di strada il transito, le comunicazioni nella zona verrebbero grandemente avvantaggiate in quanto il grande traffico tra Alessandria – Novi e Genova – Acqui verrebbe ivi convogliato senza toccare il centro cittadino di Ovada di cui è nota la poco felice viabilità in relazione ai mezzi moderni di trasporto. Il tronco di strada è costituito, come già detto, nella quasi totalità in rilevato, attualmente in gran parte compiuto, e che deve essere ultimato. La lunghezza del tronco è di m. 335,20, la sua larghezza di m. 10 di cui 7 verrebbero sistemati a carreggiata e 3 in due marciapiedi laterali. L’ultimazione vera e propria della strada però avvenne nei decenni successivi. Anno XIX, n. 10 Ottobre, Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. Domenico Pesci: un vecchio esercente sulla piazza di Ovada. Alla sua drogheria accorrevano anche gli abitanti dei paesi vicini. Le pagine di un voluminoso registro di conti relativi all'uva vendemmiata in diverse vigne di una cospicua famiglia ovadese, hanno celato per decenni alcuni foglietti contenenti note di spesa che ci tramandano memoria di un certo Domenico Pesci, droghiere in Ovada verso la metà dell’Ottocento. Non si riesce invece a sapere su quale piazza o contrada prospettasse tale rivendita. Per il suo negozio il Pesci si riforniva anche da un certo Luigi Bacigalupi di Chiavari, fabbricante liquorista nella città di Genova, sulla Piazza di S. Matteo, Palazzo Centurioni n 138, il quale già pubblicizzava i vari prodotti attraverso uno stampato e ci teneva a far sapere che vendeva a prezzi fissi una grande varietà di rosoli e liquori. Ne indicava quindi a comodo degli acquirenti, le diverse denominazioni: Cannella, Garofani, Latte di Vecchia, Latte di Giovine, Latte di Venere, Anici Stellati, Anisette così detta di Bordeaux, Alkermes, Arancino, Vaniglia, Rosa Bianca e Rossa, Olio di Venere, Punch, Mandorla Amara China Calissaria, Cioccolata, Perfetto Amore, Persico Reale, Labbro di Rubino, Menta, Menta Peperita, Verdolino, Cedrato di Firenze, Acqua Turca, Curacao, Acqua Reale, Piacer di Dame, Amor Geniale, Maraschino, Nettare de’ Dei, Acqua d’Oro, Caffè di Moka, Diavoloni, Estratto d’Anici, Olio di Rhum, Cerase, Albicocche, Gelsomino, Framboises, Trifoli, Accaccia, Pomi, Appiole. Il 23 febbraio 1836, per esempio, il caffettiere ovadese Lorenzo Soldi certificava di aver acquisito a credito i seguenti prodotti: Io sottoscritto dichiaro d’aver ricevuto a respiro di consumazione da Pesci droghiere. la qui sotto numerata di rosogli, cui m’obbligo in ogni settimana pagare la consumazione al prezzo convenuto, e qui segnato. Lorenzo Soldi caffettiere: 5 Bottiglie alla Bordolese Rosoglio 1a £ 2 - £. 10. Altre 7 Piccole bottiglie detto di 1a £. 1.20 - £. 8.40. 12 Bottiglie alla Bordolese 3a £. 1.20 - £. 14.40. 20 Piccole Bottiglie detto di 3a £. 0.90 - £. 18. 6 Bottiglie rosoglio amaro £. 1.50 - £. 9. 6 Piccole Bottiglie idem £. 1. - £. 6. 4 Bottiglie di Rhum di 2a £. 1.65 - £. 6.60. 2 Dette alla Bordolese di Rhum 1a £. 1.80 - £. 3.60. 4 Bottiglie Vespetto £. 1.50 - £. 6. 4 Dette Whermout (sic) £. 0.80 - £. 3.20. 1 Detta di China £. 1.80. Bottiglie n. 71 per un totale di £. 87.00. Il 6 luglio 1845 è invece il signor Giovanni Battista Rossi di Trisobbio a rifornirsi dal nostro eserecente, annotando nel biglietto esibito da una sua persona di fiducia: Carissimo Sig.r Amico. Il Sig.r Domenico Pesce, droghiere in Ovada. Favorirà di far empire la bottiglia che li presenta la donna, di spirito da bruciare ed altro uso, più una bottiglia di rosolio, e che sarà da me soddisfatto, e lo saluto e sono Suo Amico… In altra occasione lo stesso signor Rossi per mezzo di un certo Giovanni Turco avrebbe richiesto all’amico droghiere: di empire una bottiglia di spirito di vino del migliore come pure una scatola di caffè in polvere recente macinato mezza libbra. Secondo il solito favorirà bombace (cotone) da bruciare fino che sarà da me pagato e Lo saluto caramente… Trisobbio, 11 8bre 1845. In altra nota entra in scena un certa Rosa Durante, che prestava i propri servizi come pedona, e per mezzo della quale lo stesso Rossi chiede a credito al droghiere ovadese una bottiglia di vespetro,? una di rosolio andante, una libbra di amaretti, libbre quattro di zuccaro fino; caffè in polvere, oncie due specie fina, e quanto prima sarà pagato. Si tratta di testimonianze di poco conto che però risultano significative per quanto riguarda la ricostruzione dei trascorsi commerciali dell’Ovada del tempo, una cittadina che stava avviandosi verso il proprio destino economico, connotando il proprio ruolo di centro zona, e alla quale, dopo la caduta degli antichi confini feudali, iniziavano a fare riferimento tutti gli abitanti dei paesi vicini. Anno XIX, n. 11 Novembre, Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. Piazza Castello crocevia di traffici e di ricordi. I lavori in corso ci restituiranno parte delle tradizioni perdute I lavori di riassetto e abbellimento di Piazza Castello offrono lo spunto per ricostruire le origini di uno spazio che, come tutti sanno. è legato alle vicende millenarie dell'antico castello, che sorgeva alla confluenza dei torrenti Orba e Stura e che è stato smantellato verso la metà dell'Ottocento. L'area ricavata prese subito il nome di Piazza Castello quando stava per essere realizzata salita Stura Michele Oddini, intitolata al sindaco che l'ha progettata e fatta costruire (1857 circa), e Via Lung'Orba attuata solamente nel 1899. Nel novembre 1858 il castello era ormai solo un ricordo e i consiglieri comunali, presieduti dal sindaco avvocato Francesco Gilardini, allora anche deputato al Parlamento Subalpino, si riuniscono per chiedere al Governo di essere svincolati dal pagamento di trentasei lire annue, quale canone enfiteutico, per un edificio non più esistente. Nella delibera consiliare si specifica inoltre che i pochi dirupati muri del castello che ancora esistevano si dovettero, per tutelare la pubblica sicurezza, demolire onde togliere il pericolo che colla loro caduta minacciavano i viandanti... Si evidenzia poi che gran parte del sotto piano, su cui era il Castello, in seguito ad una grossa frana venne asportato dai due torrenti Orba e Stura che lo costeggiano, e lo corrodono, per cui non rimane più che un ammasso di terra, di tufo e di ciottoli. Che non solo non presentano alcuna rendita, ma rendono sommamente difforme l’ingresso dell’abitato e servono pur anco d’ingombro al libero passaggio dei carri. Adottando le proposte del signor Sindaco il Consiglio delibera quindi e con voti unanimi di ricorrere al Governo del Re, supplicandolo a volere, in vista delle circostanze di cui sopra, esonerare questo Municipio dal pagamento del canone anzidetto. Con i materiali di recupero nel 1857 venne costruito l'argine a levante verso il torrente Stura che ad ogni piena minacciava la stabilità delle case e venne realizzata salita Stura che per la ragguardevole ampiezza, rispetto ai tempi, venne subito popolarmente battezzata U stradoun. Sul luogo dove sorgevano il torrione del fortilizio ed il fossato venne consolidata l'odierna Salita Roma, in origine Salita Torrione. La caratteristica scalinata, detta "d'Lanza", tramite la quale si sale verso Via Roma non esisteva e viceversa da Via Roma, che prima era chiamata Via Castello si doveva salire, anziché scendere, verso l'antico maniero posto sulla rocca tufacea in posizione più elevata. Per alcuni decenni la piazza ospitò solamente una fontana e il peso pubblico ma poi venne costruita la stazione della linea tranviaria Ovada - Novi (sei corse giornaliere andata e ritorno) entrata in esercizio nel 1881 e in funzione fino al 1953. Grazie alla strada ferrata, la prima della valle dell'Orba, anche le attività economiche ebbero un buon incremento e di ciò ne fa fede la pubblicità del tempo. Nel 1896 prospettavano sulla piazza il rinomato Albergo Europa gestito dalla vedova Gioncada, il Caffè della Stazione Tram di Elia Beccaria, mentre la vedova Romano, in Salita Torrione inaugurava, sempre in quel torno di tempo, il Caffè del Commercio poi Trattoria della Pace aperta nel 1919 e per tanti anni condotta da Leo Pola, apprezzato fotografo e organizzatore di gite. Un episodio degno della copertina della Domenica del Corriere, accaduto a mezzo agosto del 1906, si conclude felicemente proprio sulla piazza in questione, grazie ad un giovane coraggioso: Circa le 18 di mercoledì un ortolano di Rivalta Bormida di ritorno da Campo Ligure giungeva in piazza XX Settembre col suo carro a due ruote cui era attaccato un cavallo. Mentre era intento a farlo dissetare alla fontana pubblica il cavallo, forse morsicato da qualche bestia, o spaurito per altro, improvvisamente si mise a correre per via di Circonvallazione. Intanto l’ortolano tentò di fermarlo, ma l’animale sempre più inferocito lo lanciò rotoloni a terra, e sempre precipitosamente si dirigeva verso piazza Castello che in quell’ora era affollata da molto pubblico che assisteva al ballo pubblico. Sopra il carro era rimasta la figlia quindicenne dell’ortolano che con mirabile sangue freddo riafferrò le redini abbandonate dal padre, ma inutilmente, il cavallo correva sempre più velocemente. Giunto in piazza Castello l’animale si diresse dove maggiore era la folla, ma alcuni animosi fattiglisi d’innanzi, lo fecero voltare verso il ponte, e certamente carro e cavallo sarebbero precipitati giù dal muraglione, se in quel punto il signor Frascara Michele, toltosi la giacca, e presentandogliela contro non fosse riuscito a fargli cambiare rotta e a fargli imboccare il ponte. Quindi un giovane ventenne di Roccagrimalda, certo Perfumo Giacomo, coraggiosamente si avventò contro il cavallo, gli si appese alla narici, e dopo non pochi sforzi riuscì a domarlo. Lasciamo immaginare in quale stato d’animo si trovava la ragazza che era sopra il carro. Un bravo di cuore a questo giovane che a rischio evidente delle propria vita, perché fu un vero miracolo se non rimase schiacciato fra il muricciolo ed il carro, riuscì ad evitare chissà quali disgrazie. Speriamo che la sua nobile azione venga premiata. Anno XIX, n. 12 Dicembre, Ovada, 2012, pag. 2. Cronache del passato. La Madonnina dorata sul campanile di Belforte. Opera dello scultore Andricco sta a guardia della vallata dal 1969. La rivista della Provincia di Alessandria del tempo pubblicava: domenica 14 settembre 1969, nel momento in cui l'unica schiarita di sole rompeva il cielo plumbeo e piovoso, la statua di bronzo della Madonna, sollevata da una gru gigantesca, s'insediava sul culmine del campanile di Belforte in una maestosa cornice naturale, mentre le note della banda musicale davano sonora risonanza ai sentimenti della grande folla che applaudiva l'evento straordinario degnamente celebrato, poco prima, dal prof. don Carlo Pastorino. Il pensiero di porre sul campanile della Parrocchia di N.S. una madonnina a protezione della vallata venne a don Wandro Pollarolo, nato a Ovada nel 1915 e parroco di Belforte dal 1952 al 2007. Lo stesso in occasione del restauro della sacra immagine, avvenuto nel 1994, si premurò di trasmetterne gli esiti ai redattori e corrispondenti delle diverse testate giornaliste diffuse in zona. Tali memorie meritano di essere pubblicate anche per accontentare chi, scorgendo da lontano la bella immagine risplendente ai raggi del sole, ha il desiderio di conoscerne la storia. Scriveva infatti don Wandro, il 22 Luglio 1994, al giornalista Lorenzo Bottero, che ringrazio per la preziosa collaborazione: ...per mezzo di una gru della SME, di Alessandria abbiamo prelevato la statua bronzea della Madonna della Rosa che 25 anni fa ho fatto collocare sul campanile a guardia della Valle Stura. Era ormai diventata il simbolo della zona infatti molte telefonate sono giunte chiedendo cosa fosse successo, poichè non vedevano più la Immagine brillare la in alto. Dopo 25 anni aveva bisogno di un restauro poiché sia la grandine e ancor più la sabbiatura causata dal vento avevano deteriorato molto la doratura. Si tratta di doratura a lamina d'oro zecchino 24 carati pesante. Doratura che avevo fatto io stesso 25 anni fa ed ora dopo 22 giorni di lavoro certosino ho terminato e, a Dio piacendo. sarà ricollocata per settembre nel campanile della chiesa dedicata alla Natività di M. V. Il restauro mi pare perfettamente riuscito, anche se con spese non indifferenti, ci sono su tre etti di oro purissimo fatto arrivare dalla Germania; mentre la "missione a dorè" è la classica, brevettata da una antica fabbrica di Parigi. (La statua è opera dello scultore Luigi Andricco della Accademia di Brera). Un po' di storia. Come è andata questa iniziativa: nel 1963 una grossa industria pesante di Albissola Capo - la Ditta Grandi - necessitava di una apparecchiatura elettronica che potesse misurare lo sbraccio di una grossa gru (alta 85 metri). Aveva interpellato una ditta tedesca che le aveva consigliato come soluzione: un computer da collocare nella cabina di guida; oltre essere una grossa spesa (i computer di quei tempi erano grandi e ingombranti e pio richiedevano un tecnico a fianco al conduttore). Non so come sia, che un lunedì viene a bussare alla mia canonica un tecnico di quella Ditta (forse richiamato dal fatto che ero noto come radioamatore e costruttore) il quale mi fece presente il suo problema; mi feci dare i dati di calcolo dl braccio della gru e in 8 giorni preparai il prototipo. Quando ritornò il lunedì dopo il tecnico, io avevo già il modellino della gru e l'apparecchiatura che dava i segni di un funzionamento perfetto. La Ditta mi chiese di fare una apparecchiatura adeguata e io stesso andai ad installare il tutto sulla gru che fece la prima prova sul grato del torrente di Albissola su terreno accidentato, Dopo l'esito favorevole la Ditta mi fece la proposta di volerlo brevettare. Io i soldi per far ciò non li avrei avuti: accettai in cambio di poter restaurare il vecchio campanile che fra l'altro era stato colpito anni addietro dal fulmine. La Ditta mi consegnò un foglio della Società in bianco con la firma del Titolare in calce su cui dovevo mettere le spese incontrate. Fu allora che restaurai il campanile e feci modellare a Milano la bella immagine che venne fusa il 20 luglio 1969, proprio il giorno in cui il primo uomo metteva i piedi sulla luna. Anno XX, n. 1 Gennaio, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. L’Unione Ovadese Escursionisti “per la montagna contro l’alcool”. Fondata un secolo fa nella Società Operaia di Mutuo Soccorso. Anno XX, n. 2 Febbraio, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. E’ nato a Silvano d’Orba il pittore realista Natale Morzenti. Ha dipinto la disperazione dei miseri e gli animali. Anno XX, n. 3 Marzo, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. I quartieri popolari e i loro abitanti. Le condizioni igienico sanitarie dell’Ovada del Ventennio. Anno XX, n. 4 Aprile, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. Una gara ciclistica d'altri tempi: la Torino - Ovada. L'edizione 1913 vinta dall'ovadese Mario Gigi Ottonello. Nella tradizione sportiva ovadese c'è da registrare una gara ciclistica, la Torino Ovada che si svolse per diversi anni e della quale si trovano anche cronache nella rosea Gazzetta dello Sport. Un secolo fa il ciclismo contava in zona numerosi affiliati e un buon numero di giovani atleti lo praticavano con ottimi piazzamenti. Cercando fra le immagini d'epoca ecco spuntare quella che vede fra i ciclisti in posa, in occasione di una riunione in pista ad Alessandria, l'emiliana Alfonsina Strada fra le prime donne che, sfidando i pregiudizi e le critiche dei tradizionalisti, ardirono gareggiare su strada e in pista a fianco del sesso forte. Un secolo fa invece il foglio locale L'Alto Monferrato (20 aprile) dava conto della corsa ciclistica Torino - Ovada: Fra i partenti i migliori dilettanti d'Italia: l'ovadese Ottonello, Cassini, Abellonio, Costa, Savino, Molino. Si forma subito un gruppo serrato e velocissimo; insofferenti del freddo e del vento che hanno contrario i corridori procedono d'un passo molto forte. A Moncalieri il nostro simpatico Limone è vittima della prima foratura; si ferma impazientito imprecando alla guigne ed è poi costretto a un terribile inseguimento del gruppo ch'egli non riuscirà a raggiungere che in Asti. Per buona parte del percorso sempre in testa Cassini e con lui l'Ottonello, Sussio, Molino, Savini, il giovane Noris e Crivello, ma senza alcun che di lotta, per quanto fin da principio si fosse compreso che fra due specialmente avrebbe dovuto ingaggiarsi, tra il Cassini che non abbandonava il comando e l'Ottonello, impassibile, calmo, dietro di lui. Il campione di Ovada, per ben due volte incorre in forature: prima verso Alessandria e poi al posto di controllo di Acqui, ma riesce sempre a rimettersi in gruppo. Ad Alessandria, è stabilito il controllo a firma sul viale della stazione, per cura del locale Circolo Velocipedistico. Giunge primo Cassini, alle 11,59. Dopo Alessandria sono al comando Abellonio, Cassini, Molino e si prosegue fino alla salita di Gamalero dove avviene il completo disgregamento del gruppo. Ottonello, il simpatico Gigi, si mantiene per un buon tratto in gruppo ma giunto quasi alla vetta dell'aspro dislivello con uno spunto velocissimo si distacca prendendo un vantaggio non indifferente. Nella discesa seguente l'ovadese continua la fuga a distanzia in breve di due chilometri gli altri concorrenti. Il suo piano è completamente riuscito, ma quando forse incomincia a pregustare la gioia di sicura vittoria strepitosa un pneumatico maligno si affloscia costringendolo ad un'andatura mitissima che lo porterà sino ad Acqui, dove al posto di rifornimento potrà rifornirsi di gomme, raggiunto da Sussio. Mentre Ottonello s' attarda ad aggiustare la macchina Sussio parte da solo con un vantaggio di tre minuti. Ci avviciniamo alla Caramagna. Sussio continua nella sua audacia ed attacca risolutamente la rude salita che, interminabile, porta a Cremolino. Lo segue a distanza un gruppo di cinque concorrenti con Ottonello e Cassini alla testa. Ma Sussio assai presto rivela segni di stanchezza ed ad un terzo della salita è costretto a scendere dalla macchina. Gli altri gli sono sopra, guadagnano la cima ad un'andatura sostenuta e si buttano poi all'impazzata per la discesa delle Cappellette in fondo alla quale Ovada attende impaziente l'arrivo dei campioni che ha chiamati al cimento. L'arrivo previsto in piazza XX Settembre, offre un magnifico colpo d'occhio. Una vera folla di popolo rotta ogni tratto dalla graziosa nota del sesso gentile è assiepata dietro i cordoni. Una domanda unica ci è rivolta da tutti, un nome solo corre sulle labbra dei presenti. Gigi è in gruppo? E' andato bene? Ha forato? si risponde ch'è in gruppo con Cassini, Abellonio, Costa e Castellaro. Ed infatti dopo pochi minuti sono avvistati in circonvallazione... spuntano dal giro... il simpatico nero maglione che guida la decimata legione dei più forti, aumenta gradatamente il suo vantaggio e taglia, vittorioso di una decina di metri, il traguardo finale battendo nettamente con baldanza i terribili competitori. Ed è una bella vittoria, una vittoria contesa palmo a palmo conquistata con forza. L'applaudito Gigi, il bel fanciullone nero s'è fatto onore. La simpatica stella dell'U.S.O. brilla così oggi per la vittoria del suo figlio prediletto. 1° Ottonello Mario Gigi, 2° Cassini, 3° Abellonio, 4° Castellaro, 5° Costa. Anno XX, n. 5 Maggio, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. Boschi millenari e dolci colline coltivate a vigneto. A fine Ottocento la stampa locale difendeva la Selvicoltura. Tra le curiose lettere della rubrica Voci del Pubblico, pubblicate sul Corriere d'Ovada, una, forse connessa al gelido inverno del 1907, a firma Montanino, riguarda la selvicoltura della zona, tema caro ai redattori del foglio cittadino e trattato, come vedremo, in varie occasioni con informazioni sempre interessanti: Signor Direttore, é già da qualche anno che si vedono pei nostri monti individui a raccogliere il frutto dei pini a sacchi e sacchi; però ora questo lavoro ha preso proporzioni troppo allarmanti, e si vedono tutti i giorni a passare carovane cariche di questi frutti. Questa raccolta è una vera distruzione delle piantagioni perchè non rimangono più semi che dovrebbero essere destinati a produrre nuove pianticelle. Adesso se si va a girare nelle pinete non si trovano più questi nuovi germogli. Mi pare sarebbe bene che l’autorità competente prendesse in considerazione questa osservazione, e che anche le guardie forestali facessero qualche passeggiata alle pinete per un’opera tanto vantaggiosa e benefica per il rimboschimento dei monti.... Della lenta distruzione da parte dell'uomo delle risorse boschive si era anche occupato ancor prima dell'Unità d'Italia il padre scolopio Giovanni Battista Perrando ed il Comune di Ovada gli aveva persino fatto stampare uno studio che indicava come utilizzare al meglio i boschi di proprietà comunale. Pro Silvicoltura il 10 Gennaio 1898 il Corriere prende nuovamente posizione: La smania di estendere la coltura della vite anche in terreni che non saranno mai produttivi, l'utile del momento che rappresenta l'irrimediabile rovina del domani, la insufficienza della legge e la nessuna diligenza nell'applicazione delle poche disposizioni utili in essa contenute, hanno prodotto o stanno producendo il deserto dove pochi anni fa i boschi si elevavano in tutto il loro rigoglio. Il fascicolo del primo gennaio della Rassegna Nazionale contiene uno splendido articolo del signor P. Manassei da cui riprendiamo il seguente brano: "Quanta ricchezza di bellezze naturali! di querce gigantesche e di cerri annosi, ciascuno dei quali era un quadro! Quanto tesoro di vegetazione e di produzione legnosa accumulata da secoli, in gran parte disperso: quante limpide sorgenti e corsi d'acqua. perenni, da impiegarsi nelle irrigazioni e nelle industrie come forze motrici, che per effetto del disboscamento si assottigliano, e in parte sparirono, e in parte sparirebbero, continuando il malvezzo di abbattere i boschi, e di non curarli. Le antiche foreste erano una capigliatura di Sansone, che rappresentava nella economia geografica ed agraria del nostro vecchio pianeta la forza di lottare con l'impeto delle meteore. Col pretesto della coltivazione si spinge a disboscare ogni vetta ed ogni altura, cosicché le piogge ne dilavino i terricci, i torrenti divengano irrefrenabili e riempiano di ciottoli i piani, le acque sorgive si impoveriscano, le famiglie dei volatili non più si moltiplichino per mancanza di sicuro albergo e gli insetti e i bruchi si accrescano impunemente a miriadi, e in taluna regione il legnane da costruzione, e lo stesso combustibile, di cui ha tanto bisogno la civiltà, si riduca ai minimi termini. Ecco per esempio come parla il relatore della regione ligure a cui noi apparteniamo. «Ai bei tempi di Roma i boschi erano numerosi e folti tanto, che pugnando per la patria libertà, trovavano in essi i liguri riparo validissimo contro le legioni Romane. Per cui solevano i capitani Romani dire che il Ligure era assai più difficile trovarlo che vincerlo. Nel secolo XI e più ancora nei gloriosi secoli XII e XII queste selve provvidero la materia prima alla costruzione delle numerose flotte, colle quali la Repubblica Genovese tenne i mari in soggezione. Nei successivi secoli continuò incessante il taglio ed ora quelle vette già chiomate sono fatte interamente nude». E noi purtroppo abbiamo sott' occhio la conferma di quanto asserisce il relatore. I gioghi appenninici che fanno corona alla nostra valle erano in tempi non molto lontani ricoperti di ricca vegetazione, ed ora, malgrado l'opera di alcuni benemeriti fra cui è dover nostro di ricordare, honoris causa, il compianto marchese Giacomo Cattaneo di Belforte. sono in gran parte nudi e desolati. È tempo di arrestarci sul fatale pendio se non vogliamo assistere alla totale distruzione dei nostri boschi con danno gravissimo dell'agricoltura e dell'igiene. E' tempo di imitare i nostri vicini di Francia, della Svizzera, dell'Austria che dedicano ai boschi un vero culto. Anno XX, n. 6 Giugno, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. S. Giovanni Battista: fede, folclore e tradizione nella festa del 24 giugno. Anche il falò della vigilia richiama tante persone in piazza. La festività di San Giovanni Battista è molto sentita dagli ovadesi. C'è sempre tanta gente nella strade per vedere passare i rossi, i confratelli che portano a spalla i preziosi gruppi lignei e crocefissi di grandi artisti che hanno operato soprattutto nella vicina Liguria come Anton Maria Maragliano del quale, la decollazione del Battista va considerato il capolavoro. Macchina processionale, o cassa acquistata nel 1826 dalla Confraternita della SS. Trinità che fin dalla nascita ha anche promosso la solidarietà fra gli iscritti. A tale proposito, a fine Settecento, i confratelli raccoglievano anche fondi per il riscatto dei poveretti caduti in mano ai pirati che ancora terrorizzavano e rapivano gli abitanti dei paesi della riviera ligure. Puntualmente, il 24 giugno, Ovada riscopre uno stralcio di storia che gli appartiene e si rinnova da tempo immemorabile. Strade tappezzate di rami di rovere e di castagno, luminarie multicolori, la processione con i suoi rituali d'uso, dove tradizione e religione tendono a fondersi per un momento. Un tempo sacro e profano rimanevano due cose ben distinte ma inevitabilmente vicine. Oltre alla processione in onore del Santo e alle celebrazioni liturgiche alle quali prendevano parte numerosi fedeli, a complemento dei festeggiamenti venivano organizzate manifestazioni di piazza che rallegravano l'estate ovadese, Una piccola fiera, istituita su invito degli esercenti ne 1898. il ballo a palchetto ed altro. Il Corriere del 1901 dava conto dei preparativi: Baracche, baracconi, giostre, cinematografi, serragli, altalene, tiri a segno e che so io d'altro ancora hanno invaso per l'occasione dell'imminente festa la nostra cittadina. Fu un accorrere di gente superiore ad ogni previsione che apportò una grande animazione per le nostre vie. Il ballo fu animatissimo, le belle e simpatiche ragazze ovadesi e dei dintorni hanno sfidato il caldo davvero tropicale ed in gran copia sono accorse a gustare gli inebrianti valzer che la brava orchestrina molarese sotto l'elegante padiglione ci regalava. Le danze si protrassero tutte le sere fino a tardissima ora: era un via vai continuo, allegro, graziosissimo. Si deplorò la mancanza di un concerto buono quale tutti gli anni scorsi in questa occasione abbiamo gustato e che era diventato il più geniale e riuscito dei divertimenti. La fiera fu miseruccia assai, ed è inutile forse darne il motivo ora che tutti quanto incombano i lavori campestri. Nel 1903 il signor Demetrio Beltrami da Castelnuovo Scrivia fu incaricato di movimentare la serata impiegando per la bisogna un gran numero di fuochi d'artificio, accuratamente predisposti nella spaziosa piazza XX Settembre (Ia Fera). Al termine del tradizionale concerto tenuto dalla Società Filarmonica in piazza Parrocchiale, il "valente pirotecnico" diede fuoco alle micce ed è ancora il Corriere d'Ovada ad illuminarci sugli effetti fantasmagorici dello spettacolo riportando la lista dei vai fuochi artificiali accesi: Per introduzione numero 50 tonanti a crescenza con fortissimo tonante aereo per invito del pubblico. Quaranta razzi volanti con pioggia di stelle assortite e di nuovo genere. Due fulgoroni di grosso calibro con paracadute e stella colorata appesa. Una corona ascendente illuminata. Numero dieci bombe di grosso calibro con spaccate di stelle colorate a disegni, serpentelli e quindi pioggia d'oro a ripetizione. Razzi matti con granata ecc. Inoltre numero sei macchine pirotecniche ben fornite di pioggia di fuoco nell'alto della medesima terminando con accompagnamento di quattro placche di candele romane, ad intreccio, formando combattimento aereo di stelle. Per ultimo: illuminazione istantanea e bengala nel recinto dei fuochi" Per la festa del 1907 il Corriere annunciava: In chiesa farà servizio la Schola Cantorum con scelta musica diretta dal M.R. Don Buffa Alessandro Buffa e accompagnata dal Maestro Pietro Peloso. Vi sarà illuminazione alla veneziana delle adiacenze dell’Oratorio, e la nostra brava Filarmonica eseguirà due scelti concerti in Piazza Parrocchiale uno il giorno 23, vigilia, e l’altro il 24 giorno in cui il Tranvia Novi Ovada effettuerà un treno in partenza da Ovada alle 23. Anche la Ditta Ferrari e Papa effettuerà corse straordinarie di tram a cavalli per Molare, Silvano e Castelletto. Vi sarà pure un grandioso ballo pubblico a palchetto in Piazza Castello. (le immagini a corredo documentano la processione del 1942 con i militari che portano il sangiovannino, e un'altra degli anni cinquanta dei portatori della cassa della decollazione) Anno XX, n. 7 Luglio, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. Nino Bixio e la marchesina Bice Pareto a Castelletto d’Orba. Il Castello dei Botta – Adorno. I tagliaborse del bosco Gazzolo. Anno XX, n. 7 Luglio, Ovada, 2013. Il Clown Tata di Ovada premiato dal Lions Club. Gli anni della gavetta di un artista che si è fatto tutto da solo. Sabato 22 Maggio, nelle Cantine di Palazzo Delfino Alessandro Bruno presidente del Lions Club Ovada ha consegnato a Giovanni Taffone, il noto clown Tata, il Premio Rinaldo Carosio assegnato a quei concittadini che si sono particolarmente distinti in ogni campo e hanno fatto conoscere il nome di Ovada nel mondo. Questa in sintesi la motivazione principale del Premio che, nel caso di “Tata di Ovada”, proprio così si fa chiamare quando si esibisce in veste di clown, è più che mai pertinente e azzeccata. Tata ha ricevuto questo bel riconoscimento con gli applausi di un pubblico caloroso e subito è entrato in sintonia con i presenti e in particolare con i ragazzi d’alcuni Istituti Scolastici cittadini, anch’essi premiati per aver concorso con disegni ed elaborati ad un’iniziativa del Lions sulla Pace. Ha scherzato in dialetto ovadese facendo così intendere che pur vivendo a Roma e in giro per il mondo, nel suo cuore porta sempre un po’ della sua Ovada. La storia di Tata è davvero singolare e meriterebbe di essere trasposta in un romanzo o in un film d’avventure. Nato in Via Novi il 3 aprile 1941, il padre artigiano, la madre casalinga, è uno di quei ragazzi che negli anni difficili del secondo dopoguerra cercavano di farsi strada nella vita e ai quali una modesta occupazione lavorativa a lungo andare sarebbe andata sempre più stretta. Gianni Taffone trova lavoro come tornitore meccanico ma si accorge presto che la sua vocazione è quella di intrattenere i ragazzi e d’essere capace, con poco, a farli divertire e ridere a crepapelle. Sperimenta questa sua disposizione con gli orfanelli di un istituto vicino a casa sua e completa queste prime performance comiche con proiezioni cinematografiche che si susseguono nelle serate estive nei cortili dei rioni popolari, nelle piazze cittadine ancora poco trafficate: comiche di Stanlio e Ollio, vecchi spezzoni di film di Tom Mix e qualche cartone animato. Un bel giorno profittando delle ferie decide di giocare la sua carta, parte per Roma, con l’intenzione di iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia dove non è accettato. Indietro non si torna, si arrangia alla meglio per alcuni giorni, poi viene a sapere che in uno dei locali pubblici più conosciuti della capitale, la Casina delle Rose, c’è un concittadino che conta, Nino Peruzzi, imprenditore edile e uomo d’affari, nato a Molare, che ha fatto fortuna con le opere del regime (Stazione Termini ecc .). Si fa ricevere e ottiene un lavoro momentaneo come barista. Non è il massimo ma almeno può rimanere a Roma e guardarsi intorno. Una sera si siedono ad un tavolo del locale Liana Orfei e Vittorio Gasmann. Gianni Taffone si presenta, chiede consiglio, un indirizzo per quello che gli sta più a cuore e Liana Orfei lo fa entrare nel suo circo dove Tata inizia la sua lunga avventura di clown. Lavora duro insieme alla gente del circo, prova, sbaglia, impara, entra a contatto con artisti navigati nell’arte di far ridere e pian piano s’impossessa del nuovo mestiere. Tata piace e la sua comicità entusiasma il pubblico. Si perfeziona ancora in Svizzera, dove lavora con artisti del circo di stato di Mosca e, nel volgere di pochi anni, riesce a diventare: giocoliere, imitatore, funambolo equilibrista, mimico. La svolta importante della sua vita avviene quando, nel 1966, si aggiudica a Campione d’Italia la Maschera di Bronzo al Festival Internazionale del Clown, con un numero che, con grande soddisfazione, proporrà qualche tempo dopo ai suoi concittadini, quando la grande Tenda Rossa del Circo Togni verrà piantata Ovada. Tappa indimenticabile (nella foto Tata imita una signora ovadese seduta accanto a lui fra le risate del pubblico), un vero trionfo, la prova che chi con tenacia crede in quello che fa può davvero raggiungere l’obiettivo sognato. Dopo gli anni del circo Tata è pronto a giocare una nuova carta. Conscio dei tempi che cambiano con una famiglia numerosa a carico, decide di mettersi in proprio e diventa l’impresario di se stesso. Partecipa a spettacoli televisivi, è conosciuto e tiene spettacoli un po’ dappertutto e in molte capitali europee. Nel 1975 ottiene il gran premio della simpatia al Festival internazionale del clown 1975 Biancherberge sur Mar (Belgio); quindi la medaglia d’oro alla rassegna della comicità 1° Festival del folclore di Caltanisetta, la maschera d’oro al festival di Siracusa. Continua ad essere parte integrativa di spettacoli che lo vedono esibirsi accanto a cantanti e attori primo piano (nella foto a Madrid). Per coglierne appieno la simpatia, lo stile e la bravura è sufficiente vedere il filmato in internet che lo vede protagonista di uno spettacolo in Francia a metà degli anni novanta. Nel corso degli anni, a Ladispoli e Velletri, da vita a scuole di clownerie e costruisce un teatrino nella Fattoria degli Animali. Oggi Tata, che è presidente della Associazione Italiana Clown, può ritenersi soddisfatto solo per il fatto che anche i suoi cinque figli hanno scelto come papà il mestiere di far ridere. Intervistato da Salvatore Taverna de Il Messaggero, con una punta d’orgoglio afferma: ho cinque cuccioli creati da me che si sono trasformati in clown: Loris, Vittorio, Daniele, Emanuela e Deborah. I miei figli lavorano in questa fattoria tra conigli, tacchini, pecorelle e caprette. Qui arrivano le scolaresche da Roma per assistere ai nostri spettacoli e, in questo spazio, appaiono i clown più famosi d’Italia. (Per le foto un grazie al signor Mario Marchelli). Anno XX, n. 8 Agosto, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. La gita del poeta – ciclista Olindo Guerrini nell’Ovadese. Nel 1902 il controverso autore del Canzoniere sosta al Caffè della Posta. Anno XX, n. 9 Settembre, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. Il disastro ferroviario di Campo Ligure del 10 Settembre 1899. Un treno merci si scontra con un convoglio viaggiatori fermo in stazione. Anno XX, n. 10 Ottobre, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. Piazzetta Cappuccini e la fontana di San Francesco. Memorie sul Convento e il giardino dei frati. Anno XX, n. 11 Novembre, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. I festeggiamenti a ricordo del patriota esule in Ovada. Da Contrada Cappuccini a Via Benedetto Cairoli. Anno XX, n. 12 Dicembre, Ovada, 2013, pag. 2. Cronache del passato. Le prime proiezioni a Palazzo Comunale. Nicola e Giuseppe Ferraris pionieri del Cinematografo a Molare. Ovada Sport. Dicembre 2013. Il ciclista Emilio Grillo detto Mario Salta. Con la perdita del fratello rinunciò ad una promettente carriera. Anno XXI, n. 1 Gennaio, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. In città nei mesi invernali un pasto caldo per i più bisognosi. Una iniziativa che trova esempi nel passato Il 9 dicembre scorso il Consorzio Servizi Sociali, la Caritas e la San Vincenzo di Ovada, facendo fronte all'emergenza, hanno dato avvio al progetto Un amico a pranzo che durante i mesi invernali assicurerà a circa 35 persone un pasto caldo gratis. Plaudendo all'iniziativa vogliamo ricordare che anche in passato provvedimenti del genere furono presi. Ovada ha sempre risposto con slancio a iniziative caritatevoli anche quando lo Stato si mostrò assente. Essa risulta fra le prime cittadine del Piemonte a fondare la Società di San Vincenzo De Paoli (1854), una istituzione che continua ancora oggi la propria azione benefica e che ha assolto straordinariamente e senza troppo rumore al proprio scopo, come testimoniano i documenti, anche durante il primo e il secondo conflitto mondiale. Le cronache ottocentesche segnalano che le famiglie abbienti del luogo contribuivano con lasciti finalizzati all'allestimento, durante l'invernata, di mense pubbliche che prevedevano la distribuzione di generi di prima necessità. A volte in piazza e in un capiente calderone veniva preparata e offerta a chi si presentava una minestra calda a base di fagioli. A stretti bisogni di sostentamento è forse nata l'usanza, nel tempo invalsa, di donare una michetta di pane in occasione delle messe a suffragio dei defunti. Una azione determinante per le famiglie bisognose lo svolgevano le Dame di Carità, mentre l’Amministrazione Comunale faceva fronte alle richieste d’aiuto con il proverbiale Libretto dei Poveri, che mantenne la propria validità fino agli ultimi decenni del secolo da poco concluso. Fra le disposizioni testamentarie del pio benefattore Domenico Grillo, in data 27 dicembre 1856, figura quella relativa alla istituzione delle Cucine Economiche, davvero provvidenziali nell'invernata 1884 - 85, periodo di gravi penurie economiche dovute al colera dell'estate precedente e alla peronospora, la malattia della vite che per diversi anni annientò il principale raccolto della zona. Riproposte annualmente sino al primo Novecento, le Cucine Economiche, con il contributo finanziario comunale, vennero gestite dalla Congregazione di Carità dalla quale dipendeva anche l'Ospedale S. Antonio. Nell'inverno 1897 i pasti giornalmente in distribuzione furono mediamente 300 e per usufruirne bastavano pochi centesimi. Negli annali della beneficenza locale troviamo la spiccante figura di don Giuseppe Salvi il quale con le proprie risorse e con l’aiuto persone generose fondò il Ricreatorio Festivo, istituì la refezione, il patronato scolastico e il dopo scuola per i ragazzi delle famiglie bisognose in tempi in cui la povertà non faceva vergogna a nessuno. Il Papa venuto a conoscenza dell'opera benefica e continuativa del buon sacerdote inviò un contributo unito a calde parole. Nel darne notizia, nella primavera del 1911, il Corriere pubblicava: Il Pontefice Pio X ha mandato a don Giuseppe Salvi, con una lettera di accompagnamento, 500 lire a beneficio del Ricreatorio Festivo. Nella lettera, che ci è stata cortesemente comunicata è detto tra l’altro che il Papa è “dolente di non poter nelle presenti circostanze soccorrere più largamente la pia opera che benedice”. Le parole del Pontefice sono veramente lusinghiere e noi che conosciamo tutta l’opera del reverendo don Salvi spesa a vantaggio dell’infanzia, sappiamo quanto siano meritare. Una così alta approvazione lo compensa certamente dei gravi sacrifici che egli ha dovuto incontrare. Ci rallegriamo vivamente con lui ed auguriamo, mentre è afflitto da grave malattia, che presto possa tornare a dare l’infaticabile opera sua all’incremento di quelle istituzioni che, senza di lui, mancherebbero certamente nella nostra Ovada. Spulciature di cronache centenarie che purtroppo hanno una diretta relazione con il presente, cosa che per certi versi sgomenta. Anno XXI, n. 2 Febbraio , Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Un secolo fa l'esplosione della polveriera di Forte Aresci. La piccola roccaforte costruita a protezione di Genova. Verso la fine dell'Ottocento sulle alture di Genova e in alcuni rilievi dell'entroterra vennero costruite varie fortezze militari a scopo difensivo. In territorio di Masone, ad esempio, il forte Geremia, restaurato e nuovamente reso accessibile il 15 settembre 2002, meta, nella bella stagione, di numerosi visitatori. Poco lontano, sul Bric Aresci, che si raggiunge, provenendo da Masone, tramite la strada che reca ad Acquasanta, si trovano invece i resti del forte omonimo. Esso era dotato di una caserma che poteva alloggiare 93 uomini, di alcuni cannoni e di un deposito di munizioni saltato in aria il 28 gennaio 1914. Sul posto oggi alcuni ruderi da tempo conquistati dalla vegetazione. Dell'immane sciagura accaduta un secolo fa riferisce il foglio ovadese L'Alto Monferrato Corriere della Democrazia.... Quasi sulla vetta del monte Aresci, nella catena che forma il gruppo appenninico del Turchino, una trentina d'anni or sono veniva costruito un forte che dal monte prendeva il nome e che aveva lo scopo di impedire un'invasione dal mare o dalla valle che dall'Appennino scende dolcemente verso Ovada. Si tratta d'un fabbricato d'una ventina di metri di lunghezza, nel quale, oltre varie camerate pei soldati, erano installati i magazzini dei materiali di artiglieria. Dirimpetto al forte, più in basso, stava il corpo di guardia che si trovava presso il cancello d'accesso, e poco più lungi sorgevano due polveriere dove era custodita una quantità considerevole di munizioni. L'aspetto di un cataclisma. Questo forte che attualmente era presidiato da un turno di sei soldati e un caporale dell'89 fanteria, è ora quasi completamente smantellato da un terribile scoppio, e la candida neve che copre la montagna è cosparsa di rottami di affusti di cannone e di ogni sorta di detriti. Il fatto è avvenuto mercoledì verso le 14,30. Lo scoppio ha scosso violentemente la montagna e le colline circostanti, gettando in tutti gli abitanti uno spavento indicibile. Il cielo si è oscurato per il denso fumo e pel terriccio proiettato in aria. Sul posto sono accorsi il maresciallo Bucchi comandante il forte che abita a Masone, il maresciallo di Campoligure, parecchi medici e moltissima gente, i quali raccolsero fra le macerie i due feriti che sono stati trasportati all'Ospedale di Campoligure. I miseri avanzi umani. Intraprese le ricerche dei soldati scomparsi, sull'orlo d'una delle buche scavate dallo scoppio nel luogo delle polveriere si sono trovati due fucili, due zappe e un'ascia. Presso la riservetta si è veduta spuntare dalle macerie una testa dai lineamenti trasfigurati e irriconoscibili; dall'ammasso di rottami emergeva pure un braccio, e dalla manica della giubba, che portava ancora dei galloni, si è potuto constatare che si trattava del disgraziato caporale che comandava il piccolo carpo di guardia. Nel mezzo della strada che sale al forte, ricoperto da lembi di una tenda lacerata dallo scoppio formidabile, i dottori Fornaro e Mignone hanno scoperto ed esaminato un tronco orribilmente mutilato di tutti gli arti. Una gamba, dalla carne spappolata, è stata rinvenuta a oltre 25 metri di distanza dal tronco e l'altra, pure a grande distanza dalla parte opposta. Da qualche brandello di indumenti che vestiva ancora il misero avanzo umano, si è constatato subito che si trattava di un borghese, cioè il guardiano del forte, certo Pietro Pastorino, d'anni 34, di Masone, ammogliato e padre di tre figli in tenera età. Quattro soldati rimasero uccisi e sepolti sotto le macerie. Sono pure accorsi dalla vicina Voltri e da altre cittadine della riviera, molti cittadini richiamati dalla terribile detonazione. I nomi dei morti r feriti. I due feriti si chiamano Augusto Geri di Domenico di anni 21, soldato dell'89 reggimento fanteria e Alessandro Massara di Tommaso, di anni 21, pure dell'89. I morti sono i seguenti; caporale maggiore Primo Guerro, veneziano; soldati; Domenico Di Rocco del distretto di Roma, Nicolò Rocco di Reggio Calabria, Pasquale Negro pure di Reggio Calabria, Marchetti piemontese e il Pastorino, guardiano del forte. Il fatto dolorosissimo ha prodotto una grande commozione. Il generale Ricci accorso subito sul posto, ha dato disposizioni perchè la forza pubblica vigili attorno al luogo dell'esplosione per impedire l'avvicinarsi di curiosi. Questa misura è stata presa perchè attorno al forte vi sono altre polveriere contenenti esplosivi. Anno XXI, n. 3 Marzo, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Squadre ciclistiche in allenamento al Caffè Albergo Trieste. Nella 1937 il grande Giuseppe Olmo si prepara per il Giro d'Italia. Il Caffè Trieste, un tempo anche Albergo, prima della Milano - Sanremo alloggiava squadre di corridori che in fase di allenamento affrontavano giornalmente le rampe del Turchino. Nel 1937, nelle settimane precedenti il quindicesimo Giro d'Italia, il Trieste ospita l'asso del pedale Giuseppe Olmo il quale sul filo del traguardo sanremese, nel 1935, supera in volata Guerra, come testimonia l'immagine allegata tratta dalla Domenica del Corriere . Ad intervistarlo durante il soggiorno ovadese giunge appositamente Giovanni Battista Ferro, corrispondente de Il Littoriale di Roma: ...per chi l'avesse dimenticato Ovada è il paese di Giuseppe Olivieri, il noto massaggiatore e amico di Olmo: e proprio Olivieri l'ha consigliato di abbandonare Celle - dal clima troppo dolce e molle - per questo paesone grigio a cavallo tra la zona piemontese e quella ligure. Ma Olmo, non è nuovo ad Ovada, la Pensione Trieste, nella quale alloggia, è quella stessa alla quale scende da alcuni anni nel mese di settembre per trascorrervi una quindicina di giorni di villeggiatura, assieme con Giuseppe Olivieri e la famiglia di costui. Noi veniamo da Celle per trovarlo, e per portargli i saluti degli amici. I proprietari ci informano che il cellese è uscito di buon mattino per l'allenamento e che non sarebbe rientrato prima di mezzogiorno. Appreso lo scopo della nostra visita, incominciarono a parlarci di Olmo, con tanto ardore, che non fummo in grado di poterli interrompere. Olmo, ovunque si rechi, suscita sempre ammirazione: e ce ne accorgiamo quando, nell'attesa, giriamo per Ovada. In un caffè, per esempio, spicca un bel ritratto del campione di Celle: e per via ascolto le discussioni di gruppi di ragazzi: Giro d'Italia, corse, campionato: questo è l'argomento delle dispute. E ogni tanto: Vincerà Olmo, vedrete! Grande ammirazione per Olmo, dunque. Ammirazione che Olmo merita. In gran salute. Lo troviamo poco dopo di ritorno dall'allenamento e ci lancia un "oh!" di meraviglia. E aggiunge "Qui?". - Sicuro, qui - gli rispondiamo - Giù a Celle siamo senza tue nuove. Possibile un si stretto e severo ritiro? Sorride. E' tornato da una gita di venti chilometri attraverso strade dure. Constatammo subito con gioia che il suo aspetto era enormemente migliorato da due settimane a questa parte. Un altro sembrava. L'appetito - e lo noto nella colazione - non gli manca di certo e nemmeno la voglia di scherzare ed è stato questo deambulare tra il serio e il faceto che l'intervista è venuta fuori. Ci confida che il senso di benessere accusato da qualche tempo, da quando cioè aveva cominciato a curarsi, aumenta di giorno in giorno e con esso cresce il riposo calmo e la preoccupazione nervosa di tutto e di tutti che si era di lui impossessata. Insonnia, nervosismo, stranezze: tutto sta tramontando. Circa l'allenamento praticato in vista della sua ricomparsa alle gare col Giro d'Italia, usa un sistema razionale e sicuro, che, di comune intesa con Olivieri, ha preferito continuare e ultimare qui a Ovada, ove rimarrà sino alla vigilia della massima, e tanto attesa competizione ciclistica italiana". (Cronaca trovata in rete da Ivo Gaggero a cui sono grato). Tuttavia del Giro d'Italia 1937 Giuseppe Olmo vinse solo la sesta tappa la Livorno -Arezzo di 190 chilometri, disputata il 14 maggio. La corsa prese il via l'8 maggio (tappa Milano - Torino) e, il 9 maggio, toccò Acqui Terme, il 10 Genova, fino all'ultima tappa con arrivo a Milano il 30 maggio. Vinse Gino Bartali e fu detto anche il Giro di Bartali. Anno XXI, n. 4 Aprile , Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Il Monumento ai Caduti di tutte le guerre di piazza XX Settembre. Opera dello scultore Andrea Campi. Inaugurato il 17 luglio 1932. Il 25 aprile, anniversario della Liberazione e il 4 novembre, festa delle Forze Armate, in Piazza XX Settembre, al momento solenne della deposizione delle corone d’alloro a ricordo dei Caduti ovadesi di tutte le guerre, in molti sorge spontaneo il desiderio di conoscere qualche notizia in più circa un’opera così ricca di significati e di fronte alla quale, fin dai tempi della scuola, tutti noi abbiamo sostato più di una volta in silenzioso raccoglimento. Sorto per onorare la memoria dei 125 concittadini Caduti nella Grande Guerra, risale al 1932 ed è opera dello scultore Andrea Campi, (nella foto) residente a Torino ma ovadese di adozione. Un’interessante ma assai retorica descrizione del monumento e della cerimonia inaugurale, avvenuta il 17 luglio di quell’anno, domenica, si trova in un importante quotidiano dell’epoca Il Giornale di Genova. Il pezzo giornalistico è firmato da Emilio Isnaldi, di origini ovadesi, il quale usava anche siglare le proprie corrispondenze con l’abbreviativo di Emisna: ….Quello che fino a pochi mesi or sono era un desiderio ed un voto di tutta la popolazione ovadese, è oggi un fatto compiuto. Dopo 14 anni, è stata realizzata l’opera che ricorda ai posteri il sacrificio di coloro che hanno combattuto per la salvezza e la grandezza dell’Italia e nel nome della Patria sacra gloriosamente sono caduti. La realizzazione dell’opera è costata non pochi sacrifici ed è passata attraverso vicissitudini di non pochi anni. Il continuo, fervido interessamento delle autorità locali ed il nobile slancio con cui la cittadinanza tutta ha risposto agli appelli lanciati per raccogliere i fondi necessari, hanno portato al raggiungimento di una realtà della quale tutta Ovada va ora fiera ed orgogliosa. Come abbiamo detto i fondi necessari per l’erezione del monumento sono stati raccolti dai proventi delle varie feste di beneficenza, organizzate a iniziare dal 23 settembre del 1919, non escluso qualche contributo di munifici cittadini. Il monumento è posto tra ombrosi castagni e la posizione ci sembra delle più indovinate, essendo nell'incrocio delle principali diramazioni stradali. Costruito sotto la direzione dell'ing. Pietro Carlevaro, è opera pregevolissima dovuta all'arte di Andrea Campi, scultore di fama, allievo di Rubino, e autore di altre numerosissime opere. Si compone di un vasto piedestallo in granito sul quale, al centro, sorge una magnifica Vittoria alata in bronzo. Ai lati, pure in bronzo, sono due gruppi che raffigurano rispettivamente tre Fanti e tre Madri. La figura centrale rappresenta la Vittoria, col braccio destro levato in segno di pace e quello sinistro che scosta lo scudo dal petto che più non difende. Il gruppo dei fanti porta in primo piano la figura di un ufficiale, che impugnante la pistola si spinge all'attacco. Dietro di lui si profilano due fanti; l'espressione dei loro visi ci dice che uno è la recluta titubante, se non pauroso, ignaro, forse, del pericolo; l'altro è il vecchio combattente, rude nel viso, duro nell'espressione. Guarda la morte con lo sguardo che sa il pericolo e non lo paventa. Il gruppo delle Madri è forse quello che più colpisce la nostra passione ed il nostro eroico martirio. La figura di primo piano è quella della Madre, che innanzi protende le mani vuote eppure in gesto di offerta; tutto ha dato; i figli sono morti, il marito è morto, più nulla può dare e pare che offra al sacrificio supremo il suo corpo, serenamente, eroicamente. Dietro si profilano due altre figure di donna: è la vera offerta; una tiene tra le braccia un bambino, pare offra anche quello, oppure non offre, forse, al piccolo orfano che già conobbe il sacrifico del padre, la visione della morte e della gloria? Al centro, sotto la Vittoria, sta scritta la seguente epigrafe, dettata dal dott. Cortella, padre di un grande Caduto: «UVADA - Militibus suis Quibus pro Patria Fortiter pugnando - Contigit oppetere - Quispis ades Memoria magna vetera repetens Romane saluta». Al gruppo dei fanti si riferisce la seguente epigrafe: «Non morirono, scomparvero trasumanati nella luce del loro valore. Riapparvero balenati in ogni trincea, in ogni battaglia - Folgorarono nella Vittoria immortalmente vivi per le fortune della Patria combattono ancora». Al gruppo delle madri si riferisce la seguente: «Offerse ogni madre una vita che era la sua vita, ogni sposa una vita che era la vita dei suoi piccoli figli. Guerriere e sante la Patria le esalta e le adora». Le due epigrafi sono state dettate dall'avv. Orazio Quaglia, principe del Foro Torinese. Nel fante a sinistra con la pistola in mano si è raffigurato la scultore Campi che vediamo nella immagine a corredo. Anno XXI, n. 5 Maggio, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Il Lions Club di Ovada per il Cinema Teatro Don Salvi. Storie e ricordi di un locale nel cuore di tutti L’iniziativa del Lions Club Ovada a favore del Cinema Teatro Splendor terminerà il 22 maggio, nel teatro stesso, con l’estrazione dei premi in lotteria fra i 30.000 biglietti messi in vendita allo scopo di raccogliere fondi a parziale copertura delle spese sostenute (50.000 euro) per l’acquisto di un proiettore digitale. Molti sono i ricordi legati a questo locale pubblico cittadino. E’ una storia per molti risaputa ma è sempre piacevole ripeterla. Poco più un secolo fa, infatti, il sacerdote don Giuseppe Salvi (1871 - 1934) seguendo la strada a lui indicata da don Bosco, si fece prete e, come il Santo piemontese, spese la propria esistenza a favore dei giovani. Figlio d’imprenditori dell’industria serica, Giuseppe, intorno al 1902, investì la sua parte di eredità nella costruzione di un Oratorio Festivo comprendente una cappella, il teatro e un piccolo campo da gioco. Con l’aiuto caritatevole di molti nella struttura da lui creata istituì la refezione scolastica, il doposcuola, il catechismo seguito da momenti ricreativi che, la domenica pomeriggio, comprendevano all’inizio proiezioni luminose poi film veri e propri. Ne godranno e ne parleranno svariate generazioni tanto che dal prete buono, com’era chiamato, ha preso il nomee il largo situato tra Via Gilardini e Via Buffa. Il Don Salvi è rimasto l’unico locale a svolgere la propria funzione quando città come Acqui e Novi non hanno più in funzione alcuna sala cinematografica; ma il Don Salvi è stato anche il primo stabile cinematografo di Ovada, prima ancora del Torrielli (1910), del Moderno (1932) del Lux (Enal e poi Comunale 1933). La tragedia del Cinema Statuto di Torino e i film a luci rosse degli anni Ottanta - Novanta hanno decretato la chiusura dei primi due locali, il moltiplicarsi delle reti televisive e l’informatica hanno fatto il resto. Lo Splendor, o il Don Salvi, è “sopravvissuto” alla bufera e merita quindi tutta la nostra attenzione. Già all’epoca del cinema muto, la domenica pomeriggio, il teatrino accoglieva centinaia di ragazzi per la visione di film adatti alla loro età, controllati personalmente da don Salvi il quale solito illustrare le varie parti che si svolgevano sullo schermo in schietto dialetto ovadese. Le proiezioni serali invece erano rivolte ad un pubblico adulto ma la scelta dei film doveva sempre tener conto della moralità e del motto Divertendo educo, educando diverto frase proverbiale che ancora si legge in alto sul proscenio. Abbiamo sott’occhio un discorso senza data che don Salvi tenne ai suoi ragazzi in apertura delle attività ricreative annuali: Inauguriamo si può dire oggi il nuovo anno nel Ricreatorio Festivo perché vi vedo in bel numero e me ne rallegro tanto e tanto perché vi voglio un gran bene (…) Si continuerà con il cinematografo che come vedete do a voi soli e da cui potete imparare molto sia per i racconti come per la geografia e la storia. Tutto questo riguarda la vostra istruzione che come vedete mi sta tanto a cuore e me ne occupo grandemente; ma non basta l’istruzione ci vuole anche l’educazione, la religione, e questa importa più ancora che l’istruzione. L’istruzione vi serve per la vita la religione per l’eternità. Volerebbe un uccello che avesse un’ala sola? Così voi non farete profitto se penserete solo all’istruzione ed io non vi vorrei bene se pensassi solo alla vostra istruzione e non anche alla religione quindi come vi dico con tutto il cuore studiate, studiate vi dico anche più forte pregate, pregate perché chi prega si salva, chi non prega si danna. Quindi prima di tutto voglio che veniate in tanti al Catechismo la Domenica e che veniate non solo per il Cinematografo ma per istruirvi e distinguervi bene. Esattamente un secolo fa si proiettava il colossal: Quo Vadis? Grandi manifesti pubblicitari furono affissi alle cantonate cittadine. Uno si nota anche in una cartolina del tempo che riproduce lo scorrere della vita quotidiana in Piazza Loggia Vecchia, ora Piazza Mazzini. La stampa cittadina invece sottolineava: Stante le enormi spese e la buona volontà della Casa fornitrice che la concesse, speriamo che questa film straordinaria otterrà un vero successo e nessuno vorrà rinunziare alla occasione di vederla. Verrà proiettato il più colossale capolavoro della cinematografia a prezzi addirittura popolari e alla portata di tutti. Tre ore di spettacolo per soli 20 cent. ai secondi posti, e 40 cent. ai primi. Domenica nelle ore pomeridiane (ore 2) verrà data una rappresentazione per soli ragazzi e ragazze con ingresso di 10 cent. Tutti al Ricreatorio Festivo. Anno XXI, n. 6 Giugno, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Giugno 1893, L’inaugurazione della tratta ferroviaria Ovada – Acqui - Asti. Cronaca e storia dalle colonne del quotidiano Il Secolo Per la costruzione della linea ferroviaria Genova Ovada Acqui Asti ci vollero cinque anni. Iniziata nel 1890 il primo importante traguardo fu rappresentato dall’apertura della Galleria Cremolino (m. 3410) tra Prasco e Molare (14 novembre 1892). L’anno successivo, il 19 giugno si inaugurava la tratta Asti – Ovada e il 14 giugno 1894 la Sampierdarena - Ovada. In occasione dell’apertura del primo tronco da Ovada ad Asti Il Secolo, pubblica il pezzo qui riassunto che ripercorre anche eventi salienti precedenti la realizzazione dell’importante linea ferrata. Oggi ha luogo, in forma solenne, l’inaugurazione del primo tronco di quella linea Genova – Ovada – Asti che l’arguzia popolare designa talora col titolo di Genova – Ovada – Saracco – Asti, per rammentare l’uomo che strenuamente ne propugnò in Parlamento, come deputato, ministro e senatore, la pronta attuazione. Certo le popolazioni delle valli dell’Orba e del Tanaro, i viticoltori dell’agro astigiano ed acquese devono unicamente al senatore Saracco se ogni ostacolo fu rimosso, se la vaporiera, che in un giorno non troppo lontano si spingerà fino a Genova superba, oggi potrà percorrere festante tre quarti del lungo tragitto che divide la patria di Alfieri da quella di Colombo. Colla legge 29 luglio 1879 sulle ferrovie complementari, il Parlamento decretava la costruzione “d’una ferrovia succursale dei Giovi inquantoché fosse stato riconosciuto che la vecchia linea in esercizio, Genova – Novi, causa la forte sua pendenza del 35 per mille, più non bastava per soddisfare al traffico che si andava sempre più maggiormente sviluppando fra il porto di Genova, il Piemonte e la Germania”., Però il Parlamento, grazie all’intervento dell’on. Saracco nella discussione, lasciò con detta legge impregiudicata la questione se, per tale nuova ferrovia, si dovesse adottare una linea succursale propriamente detta o prossima a quella già in esercizio, oppure una linea affatto nuova che, oltre a dar sfogo all’aumentato commercio di Genova, avesse pur favorito il commercio locale fra nuovi paesi e contrade fino allora vergini di ferrovie. La grave questione fu risolta colla legge del 6 luglio 1882 inquantoché con essa mentre veniva definitivamente stabilito che si sarebbe costruita una linea succursale a quella dei Giovi, si prendeva impegno di provvedere – con altra legge speciale – alla costruzione di una nuova linea da Genova per Ovada ed Asti quando si fossero verificate alcune della condizioni specificate in detta legge e principalmente quando il prodotto lordo chilometrico sulla Genova – Novi avesse raggiunto le lire centocinquantamila annue. Intanto il Governo faceva intraprendere agli studi della nuova ferrovia per Ovada ed Asti che vennero compiuti in sul principio del 1887. E poiché era per verificarsi la principale delle condizioni sopra specificate, e vivissimi si facevano i voti e le istanze delle provincie e comuni interessati, per la costruzione della nuova linea, sulla scorta dei progetti già predisposti si iniziarono trattative colla Società delle ferrovie Mediterranee per affidarle la esecuzione dei lavori, e tali trattative condussero a far comprendere la nuova linea, grazie alle istanze dell’on. Saracco, fra quelle che vennero concesse alla Società suddetta colla Convenzione 21 Giugno 1888 approvata colla legge del 20 luglio successivo. In adempimento dell’art. 5 della succitata convenzione la Società concessionaria presentò poi nel maggio 1889 il progetto definitivo di esecuzione della intera linea Genova – Ovada – Asti che fu approvato con Ministeriale Decreto del 17 giugno 1889, giorno dal quale decorrono i termini contrattuali per l’apertura all’esercizio dei diversi tronchi e cioè: Asti – Acqui – Ovada, anni 4, 17 giugno 1893; Ovada – Campoligure, anni 5, 17 giugno 1894; Polcevera – Mele, anni 6, 17 giugno 1895; Mele – Campoligure, anni 8, 17 giugno 1898. La ferrovia Genova – Ovada – Asti, che oggi s’inaugura, per il suo tratto maggiore, passa con ragione fra le linee di grande importanza militare e commerciale. Infatti, dal punto di vista militare, va ricordato che questa ferrovia varrà a facilitare i trasporti di vettovaglie e la concentrazione di truppe nella zona d’operazione in cui si difende l’Appennino Ligure, e servirà al più facile armamento e vettovagliamento dei forti di sbarramento e dei passi per i quali dalla Riviera si discende in Piemonte. Circa l’importanza agricola commerciale della Genova – Ovada – Asti non v’ha dubbio che sarà grandissima in ragione delle industriose contrade che percorre, dei ricchi e popolosi centri abitati che è destinata a servire, nonché per le valli che a tali centri fanno capo ed ove hanno vita fabbriche d’ogni specie, setifici, cotonifici, ferriere e cave di calce. Il solo fatto ch’essa metterà le rinomate terme d’Acqui in più diretta comunicazione con Genova e Torino basta per far comprendere che non saranno i viaggiatori quelli che mancheranno alla nuova ferrovia. Anno XXI, n. 7 Luglio , Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Nel 1914 Calcio e Ciclismo conquistano il cuore degli Ovadesi. Lo storico Giuoco del Pallone cede il passo alle mode agonistiche del momento Nell’estate del 1914 il foglio locale L'Alto Monferrato - Corriere della Democrazia, stenuo sostenitore dell’entrata in guerra dell’Italia, e che anche a causa della stessa avrebbe cessato per sempre la pubblicazione, dedicò diversi articoli al giuoco del pallone, una attività agonista molto popolare nelle nostre vallate ma che stava per essere soppiantata dal gioco del calcio e dalle gare ciclistiche fra le quali persino una Milano – Ovada disputata per alcuni anni. Nei primi anni del Novecento si era fatta sentire la necessità di uno sferisterio poiché Piazza Garibaldi, secondo i nuovi regolamenti urbanistici e il moderno assetto della viabilità cittadina, non poteva continuare ad assolvere lo scopo. Le partite e gli allenamenti trovarono per qualche tempo svolgimento in Piazza San Domenico, la più spaziosa della città, e nel 1906 gli esercenti, che dalla disputa festiva delle partite traevano profitto per la grande affluenza di pubblico, vagheggiarono persino la loro diponibilità a finanziare la costruzione di una nuova arena. Il campo da gioco però, per ovvie ragioni di spazio, avrebbe portato lontano i tifosi dal centro storico e quindi le buone intenzioni a sostegno dell’opera ben presto sfumarono nel nulla. Riprendiamo a questo punto le interessanti considerazioni dell’articolista del tempo già preoccupato d’incombenti degenerazioni in campo sportivo: Il giuoco del pallone coltivato in Piemonte ed in Liguria con caldo entusiasmo nelle sue varie forme - pallone elastico, pallone al bracciale e al tamburello - dovè soccombere all'irruente passione che in questi ultimi anni trascinò tutti al giuoco del calcio ed al ciclismo. Due rami dello sport di grande fascino, e di alto coefficiente della buona educazione fisica, ma che presto degenerarono trasformando la loro missione sportiva - miglioramento fisico ed educativo dei giovani - in vero esercizio di lucrosa professione o cadendo negli artigli dell'industria. Le interessanti partite di foot ball, infatti, nelle grandi città si giuocano quasi esclusivamente da professionisti stipendiati, più o meno palesemente; il ciclismo poi consiste nello svolgimento di corse massacranti a benefico dell'industria ciclistica, di alcuni giornali e nell'ostentato interessamento degli sportman da caffè che cianciano per ore e ore di corse, di corridori… Lo sport inteso in questo senso ed esercitato in questi modi non arreca all'educazione e al fisico dei giovani quei benefici che si era promessi, che gli sono attribuiti ed a ragione riconosciuti. Non vorremmo però che queste parole suonassero spregio al ciclismo o al gioco del calcio e tanto meno ai loro appassionati, ma servissero a ridestare un po' di interessamento al giuoco del pallone; giuoco facile, che richiede poco allenamento e che nello stesso tempo dà all'organismo elasticità, forza ed eleganza. E' qui superfluo enumerare i pregi e le bellezze di questo gioco ma è solo degno di nota il risveglio avvenuto in suo favore in tutti i grandi e piccoli centri piemontesi e liguri. Nello sferisterio torinese intitolato ad Edmondo De Amicis - l'appassionato ammiratore del giuoco del pallone che ne eternò le glorie, i fasti e il nome dei più valenti nelle pagine degli Azzurri e Rossi si sta svolgendo il campionato italiano al pallone elastico organizzato dallo Sport del Popolo. A Savona s’inaugura lo sferisterio intitolato anch'esso a Edmondo De Amicis; a Casale, Alba, Ceva, Moncalvo, Genova, Sanremo, Sampierdarena si giuocano interessanti partite. E quale fascino ed entusiasmo destino queste gare è affermato dall'affluenza continua e crescente di pubblico che appassionato applaude allo svolgersi di fasi emozionanti di cui è ricco questo gioco. Perchè mai in Ovada, centro cui affluisce un numero non indifferente di paesi, e dove pochi anni fa ancora si sono goduti spettacoli di grandiose gare di pallone non si otterrà simile risveglio? Anno XXI, n. 8 Agosto, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Non pubblicato. Anno XXI, n. 9 Settembre, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. La vendemmia e il buon vino delle nostre colline. Quando le osterie esponevano come insegna un ramo di pino. Sulle colline dell’Ovadese la vendemmia è sempre una festa: oggi forse un po’ diversa di un tempo, quando ad esempio, molti proprietari di vigneti residenti a Genova, approfittavano del periodo per tornare in campagna a curare i propri interessi e per trascorrervi le cosiddette "ferie vendemmiali. Vi era anche chi sceglieva le nostre colline per la cura dell'uva che poteva durare da tre a sei settimane. C’erano persino alberghi, come il Bue Rosso in Via Sant’Antonio, dotati di un annesso pergolato che ben avrebbe assolto lo scopo. La cura iniziava con la consumazione progressiva da uno a tre chilogrammi al giorno di uva, divisi in tre momenti della giornata: al mattino, tra colazione e pranzo, prima di cena, senza però ingerire le buccia e i semi. Alla fine dell’ottocento come insegna di osteria si usava ancora appendere un ramo di pino o una frasca di quercia e, a tale proposito, parecchi anni prima, addirittura il 7 agosto 1653, il fiscalissimo capitano genovese Di Negro; "conoscendo che molti tenevano osteria di nascosto per non pagare le tasse", ordinava agli osti di esporre "la solita rama in pubblico e palese a tutti, sotto pena di 4 scudi" di multa. Nell'anno del Signore milleottocento il prezzo del buon nettare all'ettolitro fu molto elevato e ciò conseguentemente alle "scarsissime vendemmie dei precedenti anni". Alcuni valori del secolo scorso. Pare che il rialzo del prezzo negli anni 1815 e 1817 sia stato determinato da scarsi raccolti e da "richieste eccezionali" per "passaggio di truppe e forniture di armate". Il periodo di anni tra il 1839 e il 1853 è ricordato viceversa come particolarmente calmo, con la viticoltura in espansione, i mezzi di comunicazione e di trasporto in aumento, non guerre né passaggi di truppe, risultato: il prezzo del vino in fase stabile. Periodo negativo, invece, tra il 1854, l'anno del colera, ed il 1885. La causa principale fu la comparsa della crittogama, l'oidio, allora non ancora combattuta. Negative furono pure le vendemmie negli anni 1860, 1873, 1876. Il 20 settembre 1914 una corrispondenza da San Cristoforo informava: ….verso la fine dell’entrante settimana una parte dei proprietari coronerà le fatiche della campagna viticola inaugurando la vendemmia. Ne prendano buona nota i compratori, i genovesi specialmente che hanno l’abitudine di non muoversi per gli acquisti prima delle tempora. Sacrificando alle usanze, essi corrono il rischio, quest’anno, di rimanere sacrificati, perchè toccherebbe loro di arrivare tra noi quando le uve migliori sono state accaparrate. E la merce veramente bella non manca, sebbene non sia molto abbondante. Certamente si troverà meglio chi arriva primo. La raccolta dell’uva, che è quasi finita sulle colline più precoci di Roccagrimalda, fu iniziata in qualche terreno più soleggiato del nostro territorio. I compratori accorsi sulla nostra piazza però sono scarsissimi. Per fortuna che quasi tutti sono provvisti di vasi vinari, altrimenti i nostri viticoltori dovrebbero cedere la loro merce a prezzi veramente disastrosi. Ai primi di ottobre la vendemmia si concluse e, nonostante le sinistre previsioni, andò meglio di quanto si credeva. La quantità dell’uva fu un poco inferiore a quella dello scorso anno, sebbene in qualche località verso la montagna e nei terreni più asciutti e meno lavorati, si sia raggiunto ed anche oltrepassato il raccolto della precedente annata. La gradazione dei mosti riuscì soddisfacente, tanto che è certo che la qualità dei vini sarà superiore a quella del 1913. I contratti d’uva, specialmente in piccole partite, furono abbastanza numerosi e si aggirarono da £ 1,30 a 1,50. Ecco le pesate d’uva fino alle ore 11 di sabato: peso Piazza XX Settembre n. 1880, peso di Piazza Castello n. 1180. (Nell’immagine le feste vendemmiali del 1946. Uno dei tanti carri allegorici, trainato da una quadriglia di buoi bardati a festa, sfila in Via Lung’Orba) Anno XXI, n. 10 Ottobre, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Roccagrimalda a fine Ottocento vista da un maestro di scuola. L’occhiata che s’ha di questi colli….è sopra ogni altra dilettevole Il primo ottobre 1872 sul sagrato della parrocchia di San Giovanni di Roccagrimalda un gran numero di paesani e qualche forestiero attendono che la porta della chiesa sia spalancata ed escano gli sposi. La cerimonia nuziale questa volta si è protratta più del solito perché sono convolati a nozze due giovani conosciuti e stimati da tutti in paese. Paolo Scarsi, lo sposo, appartiene a una delle famiglie più antiche del luogo; la sposa, Maddalena Emilia Zancani, è forse figlia di un rocchese di adozione. Entrambi hanno frequentato la scuola di Rocca e hanno avuto come maestro Giacomo Morbelli, invitato al matrimonio e al successivo pranzo di nozze. Al brindisi finale tocca a lui intrattenere i presenti con un discorso di circostanza, persino stampato in Acqui presso la Tipografia Borghi. L’anziano maestro inizia il suo dire con una bella panoramica della terra rocchese: La terra di Roccagrimalda, anticamente e più propriamente detta Rocca Val d’Orba, dal torrente di questo nome che la bagna e in cui si specchia meravigliosamente, s’aderge sulla eminenza di scosceso poggio, circonvallato all’intorno a guisa di fortissima rocca, ed era luogo già munito di valide fortificazioni di cui se ne veggono ancora oggidì gli avanzi. La vaghezza e l’amenità di codesta piccola terra solo può essere compresa a chi ne abbia fatta esperienza. Qui non è come in Piemonte, né come in Lombardia, ove le pianure stendonsi a tratta d’occhi, e lo sguardo o si smarrisce in una monotonia stucchevole, o s’intoppa ne’ sassi spaventosi delle Alpi; ma per contro è un vario e grazioso succedersi di vallicelle le une rientranti nelle altre, da cui come tanti punti d’appoggio si levano colli deliziosi su e giù a clemente pendio, ricchi di bella coltura; sicché i vigneti con lunghi filari frammettonsi e si svariano in verdi e non paurosi boschi; e nel fondo delle non larghe valli i campi di grano e di formentone s’avvicendano con gli orti e con i prati. Torrentelli poi e rivi di piccolo corso, ma di limpide acque, qui e la serpeggiano per rendere la campagna fresca e piacevole. Onde non essendovi 1’interposto di alte montagne, tu da un’eminenza scopri infiniti piani e infiniti colli, e l’occhio, per la curva de’ monti, di vetta in vetta, corre fino a distinguere in mezzo a certa nebbiuzza e vaporelli la chiostra delle Alpi, che nell’ultimo orizzonte stanno come a cornice del quadro, quasi confine della terra e del cielo, del tempo e dell’eternità. L’occhiata che s’ha da questi colli o dalla maestosa torre del castello che è all’entrata del paese, ed è signoria di quell’egregia e cara persona di Alfonso De’ Marchesi Landi, è sopra ogni altra dilettevole: basti il dire che meglio di cinquanta paeselli qua e là sullo scarco degli Appennini e sulle pendici stanno attelati al suo prospetto: e ne’ mattini sereni e ne’ vespri limpidi e puri si vede sulla lontana giogaia delle Alpi torreggiare, come una cupola smisurata, il Monviso. E come è pur dilettevole da questo sommo far scorrere l’occhio giù per quegli sfondi della deliziosa Valle dell’Orba! All’aspetto di quelle fresche e verzicanti vallette una segreta contentezza ci tenta il cuore, ed amorevolmente ci dice: questa è terra nostra: qui è la nostra casetta, qui sono i nostri congiunti, gli amici; qui i nostri desideri e le nostre speranze stanno racchiuse! Che cosa è mai il paese natio! Queste vette, queste vaghe colline ci fanno battere il cuore in forma insolita; ed un sentimento gentile ed infinito, com’è 1’amore, piglia possesso dell’animo nostro e tuttora ci diletta segretamente, facendoci amare fino il più spinoso sterpo. E a chi non esce dal petto un grido d’ammirazione mirando la fosca torre del Castello illuminata dai raggi della luna? Quanta sventura; quanta gloria in quel monumento! Le generazioni succedono alle generazioni, ed egli rimane lì a ricordare ai presenti le gesta dei passati! Anno XXI, n. 11 Novembre, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Arturo Toscanini al Teatro del Popolo di Alessandria. Una comitiva di ovadesi sfida la bufera per assistere al concerto. Lunedì primo novembre 1920 vi fu ad Alessandria l’atteso concerto diretto dal grande Arturo Toscanini, fra le prime esibizioni di una ricca e applaudita tournée iniziata a Milano e conclusa a Napoli il ventinove dello stesso mese. Fu annunciato come un Concerto popolare e quindi non poteva che svolgersi nel Teatro del Popolo (prima Finzi poi Verdi), distrutto da un bombardamento nel 1944. L’eco dell’esibizione musicale si estese in tutta la provincia. Ovada vide partire alla volta del capoluogo provinciale un nutrito numero di concittadini smaniosi di applaudire il grande maestro, noto la forte personalità e per la sua fede socialista che, con l’affermarsi del fascismo, lo costringerà all’esilio. A divulgare la notizia dell’evento alessandrino fu L’Emancipazione, foglio ovadese dei rossi, il cui cronista, oltre a scrivere del concerto, menziona anche il viaggio avventuroso affrontato dai partecipanti. Il giorno prima, domenica 30 ottobre, cadde un’abbondante nevicata ma i gitanti non si diedero per vinti. Preso posto sul “capace”, si fa per dire, torpedone dei Fratelli Bisio, (nella immagine uno dei mezzi della Ditta) eccoli pronti a sfidare il tempo avverso, confidando sull’antico proverbio locale che recita: quande ù fioca avanci ai Santi tuci i meixi us vega i campi, vale a dire: se la neve cade prima del giorno dei Santi, presto squaglia. In merito allo svolgimento del concerto, nulla di meglio che cedere la parola al cronista, presente alla memorabile serata. Bastò l'annuncio perché nella nostra Ovada si formasse subito un’eletta comitiva di amatori dell'arte per assistere allo spettacolo. Un concerto Toscanini rappresentava un avvenimento artistico non solo grandioso, ma che non si sarebbe potuto gustare, specie per gli ovadesi, con molta facilità come in questa occasione, era necessario approfittare. Infatti, con l'aiuto della Ditta Bisio, con un tempo indiavolato e con strade pessime, verso le 19, 20 la comitiva partiva alla volta di Alessandria. Dopo un viaggio, esso pure artistico e… romantico, alle 20,40 si arriva al Teatro del Popolo, dove il compagno e amico Rossi, il nostro consigliere provinciale, ci accoglieva fraternamente conducendoci nel palco assegnatoci, dal quale si poteva gustare, nel modo più assoluto, il concerto in parola. Parlare di Toscanini non è di nostra competenza; siamo riusciti a gustarlo con non lieve sforzo di volontà, non riusciremo certo a descriverlo. Il “fenomeno” Toscanini del resto non ha bisogno di descrizioni, ormai è universale. Dal Concerto in la minore per orchestra d’archi, di Antonio Vivaldi dove si poté apprezzare la squisita arte del primo violoncellista, alla poetica suggestiva Sinfonia Va in do maggiore di Van Beethoven, al Poema sinfonico, le Fontane di Roma del Respighi, dove lo scorrere limpido dell’acqua è imitato con una fine e meravigliosa naturalezza, alle graziose e dolci sfumature di Claude Debussy, fra le quali: les parfums da la nuit, al grandioso preludio e morte di Isotta del Wagner dove sono fuse tutte le sensazioni di un amore senza fine, fu tutta una gamma di suoni, di motivi che sembrava scaturissero da forze ignote e invisibili, anziché essere esecuzione della eletta falange di artisti che il Toscanini dirige con la sua unica valentia. Seguì fuori programma la nota sinfonia I Vespri Siciliani di Verdi, che il Maestro Toscanini eseguiva per l’omaggio ricevuto dagli organizzatori dello spettacolo. Inutile dire che alla fine di ogni esecuzione il numeroso pubblico che stipava il vasto Teatro del Popolo prorompeva in applausi entusiastici e prolungati. Un bravo alla Impresa Bisio e un cordiale ringraziamento al compagno Carlo Rossi per il suo interessamento, e un augurio ai dirigenti del Teatro perché preparino altri spettacoli artistici per la elevazione morale e intellettuale dei lavoratori. Una serata quindi meravigliosa, artistica, che lasciò nei partecipanti un ricordo incancellabile. Anno XXI, n. 12 Dicembre, Ovada, 2014, pag. 2. Cronache del passato. Film, presepi e burattini per le festività di fine ’49. In cartellone Dumbo, King Kong e Jess il bandito. Delle festività di fine anno 1949, ci restituiscono in parte il clima ed i problemi sociali i cronisti del tempo. Benchè la guerra fosse finita da circa quattro anni e gli italiani avessero scelto la Repubblica, impegnandosi attivamente nella ricostruzione della nuova Italia libera, era ancora in vigore la carta annonaria, la tessera, che, data la scarsità di generi di prima necessità, disciplinava il razionamento viveri in contrasto con l’incetta alimentare dovuta alla cosiddetta borsa nera. Il numero di disoccupati era elevato e la situazione economica precaria attanagliava il Paese. In concomitanza con le festività natalizie però alcuni quotidiani e settimanali diffusi in zona iniziarono a pubblicare svariate inserzioni pubblicitarie legate a nuove attività economiche cittadine. Segnali positivi indicanti che qualcosa stava cambiando: da poco, infatti, erano stati aperti nuovi negozi, le botteghe artigianali stavano moltiplicandosi, aumentava il numero dei locali pubblici: i bar, i caffè, i ristoranti, le sale da ballo e rifunzionavano, affollatissimi, anche i quattro cinematografi che mettevano in vista locandine di film indimenticabili. Il Cinema Moderno di Via Gilardini programmava Dumbo, (per tutti) e Preferisco la vacca (per adulti), il Cinema Teatro Lux di Corso della Libertà pubblicizzava invece Sarabanda tragica e Il vendicatore di Jess il bandito, lungometraggi questi vietati ai minori, lo Splendor di Via Buffa si era invece assicurato il noleggio del tanto atteso capolavoro King Kong e di Sesta colonna, classificati però come spettacoli adatti a un pubblico adulto. All’Augustus, denominazione data dalla nuova gestione al Teatro Torrielli di Via Cairoli, mietevano successi i burattini del savonese Giuseppe Gambarutti la cui Compagnia rappresentò una briosa commedia per i più piccini. Il pubblico, tra il quale molti erano gli adulti, ha con continue risa dimostrato di gradire lo spettacolo, ed ha vivamente applaudito il burattinaio, che da solo manovra e fa parlare con grande abilità i suoi sorprendenti fantocci. Auguriamogli che tali applausi possano ancora moltiplicarsi in Liguria ove presto egli si recherà… La tradizione natalizia si rinnovò anche con i presepi, come sottolinea un certo Lupo di Sant’Evasio il fantomatico corrispondente de: Il Nuovo Cittadino, (Genova 23 Dicembre 1949). Scriveva tra l’altro: Tagliolo, Cremolino, Roccagrimalda, le colline di S. Evasio, tutta Ovada e vallata si presentano come un grandissimo, bizzarro, nevoso paesaggio presepiale. Basterebbe quindi per i tenaci nipoti di S. Paolo della Croce e del ministro Giacomo Costa una breve passeggiata nei dintorni per ammirare un presepe suggestivo quanto mai. Presepe che appagherebbe senza dubbio lo sguardo, ma non completamente l’anima. Quest’anno si potranno ammirare solo quattro presepi. Pochi se non si pensasse a decine di altri costruiti in famiglia dai papà o dagli stessi bambini. Il presepio dei frati non sarà come molti anni fa con le statuine alte ed imponenti quali li aveva modellate l’impareggiabile Maragliano. Avremo, quest’anno ai Cappuccini, le nuove, umili statuine, squisitamente monastiche nella loro glabra deformità di gesso. Due abili scanzonati pittori Proto e Resecco, rispettivamente zio e nipote, hanno realizzato in poche ore il telone di sfondo, semplice, soave poesia di piani e collinette verdeggianti. Penseranno a far camminare l’asino e il mulino, a far lavorare il fabbro e il legnaiolo le industriose orfanelle del S. Anna. Esse sono dotate di figurine ben scolpite e proporzionate tra di loro. La vedremo il ciclo dei tramonti, delle notti, delle aurore e dei giorni. Presiederanno sullo sfondo, montagne ariose e tranquille. L’unico presepe fornito di laghi e ruscelli, indispensabili quale elemento di poesia georgica, sarà quello dell’asilo di Via Gilardini, realizzato dalle Madri Pie. Gli Scolopi hanno affidato il compito all’intrepida fierezza dei Boys Scouts i quali, oltre ad avvalersi della propria esperienza professionale, attingeranno alla viva fantasia propria degli assuefatti alle lunghe attese del bivacco, per offrirci un pezzo di campagna improntata e giovanile realismo. Qui certamente presiederà, sullo sfondo lontano, un bivacco di tende. In tutti ci commuoverà ancora lo squallore di una grotta o d’una capanna, mentre si diffonderà, tiepido e preoccupato, il fiatare di due quadrupedi. Ovada Sport, Dicembre 2014 Il Motovelodromo - Sferisterio del Lavagello. Inaugurato dal Gira, confermò corridori come Antonio Negrini. La stampa locale nei primi mesi del 1924 diffondeva la notizia che a Castelletto d’Orba stavano per essere realizzati uno sferisterio ed una pista in terra battuta, opere che, secondo le previsioni, dovevano terminarsi verso la fine di maggio. Quasi tutti i paesi dell’Ovadese lo sferisterio per il gioco della palla a pugno e del tamburello lo avevano, ma la novità lanciata da Castelletto, motivo di grande curiosità e aspettativa per gli sportivi, era rappresentata da un circuito di circa 400 metri che una volta in funzione, oltre alle gare ciclistiche, avrebbe visto esibirsi anche gli assi del motociclismo italiano rispondenti al nome di Achille Varzi, Guido Mentasti, Angelo Arzano, Gherzi, Merlo e altri. Il 9 marzo si dava conto del proseguimento dei lavori seguiti con impegno dai promotori, i fratelli Tacchino, da un certo Casella, anche noto come allibratore nella gare di tamburello, e dal geometra Secondino i quali, audacemente, si misero all’opera per fare di Castelletto il vero centro ginnico sportivo di tutte le nostre vallate. Il cronista aggiungeva: ….gli amanti dello sport e tutti coloro che vogliono godere le vacanze estive, la campagna, la cura delle acque solforose, dovranno per forza far capo a Castelletto, - dove - oltre a tutto ciò, troveranno un albergo di primissimo ordine, munito di tutti i confort, trasporti in auto, a prezzi eccezionali. Circa un mese dopo la struttura in via di ultimazione avrebbe assunto la denominazione di Moto Velodromo – Sferisterio Lavagello. Un parere sui lavori fu chiesto all’allora massimo esponente del ciclismo nazionale: ...abbiamo avuto la visita del Campionissimo Girardengo, il quale ha espresso la sua ammirazione, gli elogi ed auguri ai signori Tacchino, di vedere lavori così ben organizzati e che fanno onore a tutto il Circondario. A suo parere la pista è una delle più belle fatte in Italia. L’inaugurazione avvenne sabato 24 maggio con la partecipazione di Girardengo. A lui l’onore di percorre in bicicletta il giro inaugurale della pista. Poi le corse disputate da numerose compagini di corridori dilettanti. Riporta la cronaca: Le gare di apertura hanno avuto un esito superiore ad ogni aspettativa. Grande folla di corridori vi ha preso parte dimostrando un forte senso di organizzazione, lieto indizio delle successive gare. Grandissima la folla degli spettatori accorsa da ogni parte della Liguria e del Piemonte. La stagione fu pure caratterizzata da gare ad inseguimento su bici denominate all’Americana, e altre che segnarono la partecipazione di professionisti quali Rossignoli di Pavia, Oddone di Acqui e, fra gli altri, dei dilettanti: Angelo Manfredi di Milano, Rodolfo Lardi di Legnano, Remotti Pio di Boscomarengo, Zuccotti Giuseppe di Basaluzzo, Rossi Felice di Genova, Zunino Arturo di Sestri, gli ovadesi fratelli Carlo ed Emilio Grillo, Torrielli, Carlo Soldi e ancora Antonio Negrini, indicato come nativo di Genova ma molarese a tutti gli effetti. Quest’ultimo stava facendosi conoscere, tanto che Il Corriere delle Valli Stura e Orba del 27 aprile 1924 lo classificava già bravo pedalatore: Lunedì 21, il nostro Negrini Antonio, l’atleta membruto e simpaticissimo dalla pelle bronzeo scura e dalla chioma corvina, ha conseguita una brillante vittoria classificandosi primo arrivato nella corsa ciclistica Pra – Noli e ritorno, impiegando sole ore 3 e 34 minuti per coprire un percorso di 105 chilometri. Il Gira molarese, da qualche anno, passando di trionfo in trionfo, va realizzando davvero notevoli progressi, e noi ci auguriamo di vederlo presto intruppato fra i migliori astri del pedale a contendere l’onore dei traguardi allo stesso Campionissimo di Novi Ligure. Un augurio che presto sarebbe diventato realtà. A fine settembre il corrispondente da Castelletto annotava: La stagione climatica si avvicina alla fine, e colla fine la smania delle grandi feste, voi per salutare la colonia numerosissima dei villeggianti, voi per scacciare la musoneria della prossima stagione invernale. Inutile dire che l’anima di tutto il movimento è il Lavagello, la fonte delle acque salutari, i cui proprietari, gl’intraprendenti fratelli Tacchino, non tralasciano ogni mezzo e non guardano a spese, perché i numerosi accorrenti trovino tutto ciò che può occorrere. Oggi sabato e domani domenica grandi riunioni ciclistiche colla conquista del bracciale Girardengo ed altri numerosi premi. Alla sera, orchestre, fuochi d’artificio ed illuminazioni fantastiche coroneranno le feste. (L’immagine ritrae il campione molarese Antonio Negrini e l’ovadese Carletto Soldi in occasione di una Corsa all’Americana a Coppie, svoltasi nel Motovelodromo del Lavagello). Anno XXII, n. 1 Gennaio, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915. Da Ovada e dall’Ovadese soccorsi alle zone devastate. Verso la metà di gennaio 1915 le prime pagine dei due giornali locali riservarono ampio spazio alla notizia del terremoto che la mattina di mercoledì 13 distrusse interi paesi della Marsica. Immediatamente anche nell’Ovadese scoccò la scintilla della solidarietà a favore delle popolazioni colpite dal sisma, grazie all’opera di sensibilizzazione di un Comitato che lanciò il seguente appello: Il terremoto che ha devastato una delle più belle regioni d’Italia, radendo al suolo fiorenti città e ameni paeselli e mietendo migliaia di vittime, ha lasciato senza tetto, senza pane, senza indumenti migliaia di superstiti. Avezzano, Sora, Pescina… sono ormai che mucchi di macerie fra cui, con i superstiti spauriti e doloranti, si aggirano i coraggiosi salvatori accorsi da ogni parte d’Italia. Tutti gli italiani, quasi scossi da un comune fremito di dolore, vanno a gara nel portare soccorso ai nostri sventurati fratelli! Nella gara di pietà, in tale affermazione nobilissima di solidarietà nazionale, Ovada non deve dimenticare le sue generose e patriottiche tradizioni. Un comitato, sorto per iniziativa di un gruppo di cittadini e sotto gli auspici dell’Amministrazione comunale, si propone di raccogliere fra noi fondi a favore dei miseri con tutti quei mezzi che parranno maggiormente idonei. Esso intanto ha stabilito di inviare nelle vostre case e nelle vostre botteghe dei volenterosi incaricati di ritirare dalle vostre mani l’obolo della pietà. Qualunque offerta, anche modesta, sarà bene accetta…. La cittadinanza rispose all’invito con grande partecipazione e gli esiti della raccolta furono esemplari. Non solo, alla gara di solidarietà si affiancarono iniziative spontanee alcune delle quali meritano di essere ricordate: in particolare due spettacoli di beneficenza organizzati al Teatro del Ricreatorio Festivo e nel Salone della Società Operaia di Mutuo Soccorso Unione Ovadese. Al Teatro del Ricreatorio fu rappresentato Il Principe Azzurro di Sabatino Lopez, commedia rosa, interpretata da un gruppo di dilettanti filodrammatici dove l’elemento femminile primeggiava: Le signorine ovadesi in un’armoniosa troupe - riferiva il cronista - avevano fatto appello alla cittadinanza perché numerosa accorresse ad assistere alla rappresentazione multiforme che si dava a profitto dei danneggiati dal terremoto. La sala era gremitissima, tutti si erano dati convegno, oltre che per passare una bella serata, anche per dimostrare che si univano solidali agli italiani per alleviare le grande sciagura che ha colpito i fratelli d’Abruzzo. All’Unione Operaia invece, in occasione del tradizionale Veglione di Carnevale, che ebbe per titolo Il Giardino di Flora, si stabilì di devolvere l’incasso della serata per metà a beneficio delle vittime del terremoto e per metà a favore della Cassa Inabili al lavoro. Fra i promotori della benefica iniziativa il ben noto artista. Marcello Gorgni al quale fu affidata la decorazione della sala da ballo mentre la parte musicale toccò all’eccellente Orchestra Ovadese diretta da maestro Italo Baldi, allora direttore della Filarmonica. I prezzi d’ingresso furono fissati il £ 2 per gli uomini e in £ 1 per le donne. Tra le sottoscrizioni in denaro a favore dei terremotati che coinvolsero tutti i paesi dell’Ovadese riportate nel lungo elenco, è compresa anche la seguente notazione: I ragazzi che frequentano il Ricreatorio Festivo hanno fatto un’offerta complessiva di lire 25, offerta che ci è stata trasmessa e che teniamo a disposizione del Comitato. Anno XXII, n. 2 Febbraio, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Le straordinarie nevicate del gennaio - febbraio 1915 Armati di badile per scaricare i tetti delle case Oltre il terremoto della Marsica l’inverno precedente la Grande Guerra si fece a lungo ricordare per le abbondanti nevicate che, iniziate in dicembre, proseguirono quasi senza interruzione nei primi due mesi del nuovo anno. Da sempre il proverbio definisce SS. Antonio e Sebastiano mercanti da neve ben forniti di merce e davvero il detto popolare quell’inverno fu veritiero perché di neve ne fioccò più di metro e mezzo. Così il Corriere del 27 gennaio 1915: venerdì mattina, ricominciò a cadere, fitta continua, lenta la neve. Già da parecchi anni, nella cruda stagione invernale, non si è visto in Ovada un così spesso bianco lenzuolo. Fu iniziato subito lo sgombro nelle vie e piazze pubbliche, e questo è continuato tutta la notte, ciò che non si poté fare per le due prime nevicate, avvenute la vigilia di due giorni festivi, per cui i braccianti non si adattarono a lavorare. Il treno che doveva giungere in Ovada da Genova alle ore 19,43 subì un ritardo di circa sei ore. Il tram a vapore in arrivo da Novi alle nove circa s’incagliò sul ponte di Silvano, e si dovette inviare una macchina di soccorso per sgombrare la strada ferrata. Coinvolto nell’intoppo anche l’anonimo viaggiatore che, nonostante la disavventura, nella lettera inviata al giornale si complimenta con il personale viaggiante: A causa delle nevicate si ebbero a lamentare molti inconvenienti, specialmente da noi poveri viaggiatori che si trovavamo spesso bloccati a metà strada o peggio in aperta campagna perché i poveri treni, per quanto sbuffassero e ansassero faticosamente, non potevano avanzare di un passo... è doveroso però rivolgere una sentita parola di lode ai ferrovieri del Tramvia. Infatti, lo zelante e attivo personale disimpegna le sue funzioni in modo superiore ad ogni aspettativa riuscendo così a sormontare i non indifferenti ostacoli che impedivano il cammino. A San Valentino, come recita l’antico proverbio, invece di soffiare il Marino, vento di mare che presto scioglie la neve, continuò a fioccare. La neve caduta caricò eccessivamente i tetti tanto da provocare qualche incidente per fortuna senza conseguenze. In Piazza Parrocchiale un blocco di neve precipitava dal tetto della casa Costa con rumore fortissimo. Anche in Via Nicolò Vela procurò la rottura di un tetto: mentre altri furono sgomberati d’urgenza per evitare inconvenienti. Fra questi ricordiamo quello di una tettoia della nostra caserma. Alcuni paesi restano isolati: A Cassinelle con lodevole sollecitudine si procede, da parte degli addetti municipali, allo sgombro della neve nelle vie del paese. È questo un provvedimento di non poca importanza per la configurazione topografica del paese attraversato da un’unica e lunga via, dove tutti sono costretti a passare. In certi punti esposti a nord in cui la strada è serrata fra i due muri di case vicine, la neve, se non fosse tolta e trasportata via con i carri, con molta probabilità ci sarebbe ancora del mese di maggio! Il giornale del 14 febbraio annota: La settimana che finisce rappresentò il trionfo della neve. E che trionfo! Cadendo a varie riprese, abbondante ed insistente, aggiunse un altro denso strato a quella già esistente, tanto da oltrepassare complessivamente in qualche punto un metro d’altezza e da raggiungere generalmente circa 80 centimetri. Nei punti più elevati ed in montagna si parla di quantità anche maggiori: a Campoligure i giornali denunciano perfino un metro e mezzo di neve! Molte piante furono abbattute e sfrondate. Soffersero le linee telegrafiche telefoniche ed elettriche. Malgrado la straordinaria nevicata il servizio nella linea Genova - Ovada - Asti ed Alessandria – Ovada, mediante l’assiduo lavoro degli spazzaneve, fu mantenuto regolare. La Tranvia Novi – Ovada venerdì non poté riprendere le corse che verso la sera. E ancora il 28 febbraio si annotava: anche questa settimana la neve è fioccata abbondante, tantoché ormai il totale della neve caduta in sedici riprese dal principio dell’inverno raggiunge l’altezza di ben 3 metri. Di tale grande quantità ne rimane nelle nostre campagne oltre un metro, più o meno a seconda dell’esposizione. Anno XXII, n. 3 Marzo, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Cent’anni fa la nona Milano – Sanremo. Girardengo accorcia il percorso, la Giuria assegna la vittoria a Corlaita Il 28 marzo 1915 si disputò la nona Milano – Sanremo alla quale non parteciparono molti corridori stranieri per l’incombente guerra. Nelle settimane precedenti la corsa Ovada vide transitare per i tradizionali allenamenti i migliori corridori italiani del momento: Girardengo, Lucotti, Galetti, Agostoni, Oriani, Belloni. Rossignoli, Vigoni, Canepari, Ganna, Erba e Bertorelli. Il 21 Marzo il Corriere pubblicava: L’elenco degli iscritti a questa grande corsa va sempre più ingrossandosi, e siamo sicuri che prima della chiusura delle iscrizioni molti altri saranno ancora della partita. La mattina del 28 marzo i tifosi che aspettavano il passaggio della corsa, assiepati lungo la via, avrebbero letto sul giornale locale, distribuito a cinque centesimi la copia dallo strillone Vincenzo Tasca, le seguenti considerazioni: ... la grande corsa internazionale, quest’anno riveste un carattere di nazionalità, mancando all’appello i forti campioni stranieri, che tanta animazione e tanto entusiasmo solevano portare nella disputa della gara. All’appello della Gazzetta dello Sport però hanno risposto tutti i nostri grandi campioni ma anche i più forti e ardimentosi dilettanti hanno voluto affrontare i disagi e le asprezze della classica prova. Il servizio del controllo a firma nella nostra città sarà disimpegnato dai soci dell’Unione Sportiva Ovadese. Ecco la cronaca dello svolgimento della gara: La Milano – Sanremo è stata una corsa davvero interessante, disputata palmo a palmo con accanimento fin sulla linea del traguardo. Dei 68 inscritti solo 41 presero la partenza. Nel tratto Milano – Ovada non si ebbe nulla di notevole tranne qualche sgroppata di Girardengo e di Agostoni, per cui al controllo e firma di Ovada, giunge un gruppo compatto, forte di una trentina di corridori con in testa il minuscolo Galletti. Durante i tre minuti di neutralizzazione concessa per la firma, quasi tutti i corridori cambiano la ruota della moltiplica per poter affrontare meglio la dura salita del Turchino. Il passo da Ovada al Turchino è andato aumentando, come in un crescendo rossiniano, per cui più si saliva e più la corsa si faceva dura per le sgroppate di Aimo prima, Corlaita poi, infine di Gremo, che sulla faticosa rampa del Turchino stacca tutti di forza e raggiunge per primo la vetta con 200 metri di vantaggio su Belloni e Luccotti, che precedono d’altrettanto un numeroso gruppo d’inseguitori. Nella discesa le cadute di Gremo e Belloni e gli scoppi di gomme di altri falsano completamente l’andamento della corsa com’era prospettato dalla salita del Turchino. Da Voltri a San Remo la lotta fu continua, vivace e palpitante, resa più dura dall’insistenza della pioggia e dallo stato orribile della strade. Gremo, Galletti, Luccotti, Corlaita furono i più brillanti attori e furono superiori ad ogni elogio. Girardengo ritardatosi per incidenti verso la fine ebbe un ritorno superbo, impressionante. Infatti dopo Laigueglia parte deciso, riagguanta Gremo prima, poi Luccotti e Galletti sorpassa Corlaita fermo per incidente e dopo qualche chilometro fatto in compagnia di quelli scatta fulmineo, distacca tutti e giunge primo a San Remo ancora freschissimo, tra le più entusiastiche acclamazioni del pubblico. L’ordine d’arrivo. 1° Girardengo Costante di Novi Ligure, che ha coperto il percorso di 299 km. alla velocità media oraria di km. 27,230 cioè alle ore 16,54,10 impiegando ore 10,2,45. Corlaita Ezio di Bologna; Lucotti Luigi di Voghera; Gremo Angelo di Torino; Galetti Carlo di Milano. La squalifica di Girardengo. Nella seduta di lunedì 29 marzo la Giuria riunitasi d’urgenza, su reclamo di Corlaita presentato dalla Casa Dei, squalificava ingiustamente Girardengo per avere abbreviato di 500 metri il percorso durante la traversata di Porto Maurizio. Benchè la Giuria della Milano – Sanremo, con un atto inconsulto, abbia voluto strappare la bella vittoria a Costante Girardengo, pure la splendida corsa da lui fatta ed i 6 minuti guadagnati agli altri corridori, sono più significativi ed eloquenti di un cervellotico responso di una Giuria. Anno XXII, n. 4 Aprile, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. 1945: da Grillano alla Madonna della Guardia per sciogliere un voto Storie di guerra e di pace: un libro del Maestro del Lavoro Francesco Lantero. Sotto il segno della casa editrice Le zagare Ibiskos – Ulivieri di Empoli è uscito un tascabile di racconti incentrati sul territorio a cavallo tra il Piemonte e la Liguria e quindi che ci toccano da vicino. Il titolo è Storie di guerra e di pace, l’autore risponde al nome di Francesco Lantero, classe 1926, Maestro del Lavoro d’Italia in pensione, attivo ed operoso sempre, sia manualmente che intellettualmente: agricoltore tenace per tradizione è pure poeta e scrittore genuino comprensibile a tutti. Dalla propria esperienza di vita e dall’osservazione giornaliera attinge quanto di meglio la sua musa gli continua ad ispirare. Alcune sue poesie sono state musicate e cantate; quest’ultimo libro poi è stato riconosciuto di grande interesse da un noto docente universitario, il prof. Pardini, che lo ha proposto come valido testo scolastico di lettura proprio in occasione del 70° anniversario della Liberazione ricorrente quest’anno. Lo spazio temporale della narrazione, suddivisa in brevi capitoli, è delimitato dal viaggio compiuto a piedi da un gruppo di giovani, fino al Santuario della Madonna della Guardia sul monte Figogna, dove sono diretti per sciogliere un voto fatto alla madre celeste durante la guerra. I partecipanti, tra cui l’autore, muovono il passo da Grillano, frazione di Ovada, dove i più sono nati. É l’agosto 1945, stagione propizia per una bella passeggiata forse altre volte compiuta ma ora intrapresa con animo diverso e, soprattutto, come evidenzia la narrazione, con grande fede nel cuore. La stessa strada percorsa all’andata e al ritorno è fonte di innumerevoli considerazioni e riflessioni. Per chi conosce il percorso già i titoli a capo dei brevi capitoli ne anticipano l’ambientazione e le fasi salienti di un viaggio che lasciamo scoprire al lettore, passo dopo passo, sosta dopo sosta dei giovani camminatori, senza altro dire. Nella prefazione la scrittrice e critico letterario Bruna Carlevaro Sbisà scrive: «Una rievocazione che emerge tra le pagine in un lessico perfetto, un viaggio attraverso conosciute località ma anche un viaggio del cuore e della mente. Storie di vita, di una gioventù funestata da una guerra, che ha portato distruzione e morte, da un periodo che non dovrà mai più ripetersi. Un volume che attira il lettore e fa sì che si immedesimi nella vicenda e ne tragga un'intensa commozione e anche un profondo conforto nel constatare l'amicizia, la solidarietà e l'affetto fraterno che trapelano da queste righe e sono essi i veri, autentici valori dell'esistenza umana». In occasione di un concorso letterario dove il testo non ancora dato alle stampe venne premiato il dott. Angelo Garavagno nella motivazione al riguardo scriveva: «Spicca la semplice efficacia del linguaggio e la saldezza etica nata dalla consapevolezza di appartenere ad un popolo di antiche virtù e sincera tradizione popolare. Guardo con grande affetto uomini come Lantero e come i suoi compagni d'avventura, rendendomi conto che ancora esistono persone pure di cuore ed è forse per questo che il nostro mondo, nonostante tutto, è ancora da salvare». Il prof. Nazario Pardini, ordinario di Letteratura Italiana, critico letterario e blogger, che ha segnalato il volume nel sito Alla volta di Leucade, in una recente lettera si complimenta con l’autore: Carissimo (...) la ringrazio di cuore per avermi fatto leggere le emozionanti vicissitudini della sua vita. Quelle di un periodo difficile e complicato che lei ha saputo descrivere con grande tatto ed urgente stesura narrativa. Fatti distesi in una trama di forte impatto emotivo; di generosa vis creativa, piena, folta, scorrevole, fluente ed energica, dove personaggi, luoghi, caverne, preghiere, torrenti, gallerie scavate nel monte, candele votive, stradicciole e mulattiere fanno da contorno a vicende di grande umanità. Un testo costruito su valori etici e su saldi principi umani. Quelli che dovrebbero essere alla base di una società; della nostra società che sembra averli smarriti, con le conseguenze che tutti notiamo. Un libro che dovrebbe girare per le scuole, perché i giovani hanno bisogno di ricostruire il loro tessuto morale e civile. Anno XXII, n. 5 Maggio, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Mancano 45 nomi sulla lapide degli ovadesi Caduti nella Grande Guerra Un’accurata indagine ha dato inaspettati risultati Ogni località, anche la più piccola della nostra bella Italia ha un monumento e un viale della rimembranza dedicati ai Caduti della Grande Guerra. Dappertutto, cippi e lapidi commemorative portano incisi un numero impressionante di nomi. A cent’anni dal primo conflitto mondiale è emerso però che all’elenco dei 125 combattenti ovadesi periti in guerra ne andrebbero aggiunti altri 45. Si tratta di Caduti completamente dimenticati e oggi ritrovati “sulla carta” da Ivo Gaggero dell’Accademia Urbense di Ovada, il quale, in preparazione della mostra sulla Grande Guerra, che si terrà nella Loggia dall’11 ottobre al 4 novembre, dopo aver visionato registri anagrafici e liste di leva è giunto a tale conclusione. Per raggiungere lo scopo si è pure avvalso dell’Albo d’Oro dei Caduti in guerra italiani, (volume relativo al Piemonte) pubblicato dal Ministero della Guerra nel 1935, con prefazione di Benito Mussolini e messo in rete a cura dall’Istituto della Resistenza e della Società Contemporanea di Reggio Emilia. Chi sono gli ovadesi caduti a causa della guerra ma anche nell’oblio? Si tratta in massima parte di fanti e artiglieri, nati e residenti in Ovada, i cui nomi, allo scoprimento della lapide commemorativa, posta nella primavera del 1924 all’interno del palazzo comunale, non furono riportati per motivi sconosciuti. Probabilmente a quella data era ancora presto per stabilire l’esatto numero dei morti in guerra in quanto molti combattenti risultavano fra i dispersi. Tanti di loro però non tornarono mai più a casa e tuttora riposano nei vari cimiteri monumentali sorti nei luoghi teatro della guerra. Errori e omissioni non si riscontrano solo per quanto riguarda Ovada e i paesi che la circondano ma in tutta Italia. Il centenario della Grande Guerra ha risollevato la questione, incentivato le ricerche e finalmente sta per essere resa giustizia anche a tutti quei combattenti ingiustamente accusati di tradimento, decimati e fucilati per ordine del generale Cadorna dopo la disfatta di Caporetto. Anche i diplomi d’onore dedicati alle vittime e ai reduci, stampati durante il ventennio, contengono dati parziali e inesatti. In quello edito a Venezia nel 1935 e relativo a Ovada figurano appena 40 fotografie dei 125 caduti e 270 di reduci. Se Ovada sembra avere il triste primato delle vittime, in quanto centro maggiore della vallata, i paesi limitrofi, come testimoniano le varie lapidi commemorative, in proporzione versarono alla Patria un tributo anche maggiore: Belforte 18; Campo Ligure 67, Capriata 62, Carpeneto 40, Casaleggio 16, Castelletto d’Orba 55, Cremolino 45, Lerma 29, Masone 89, Molare 61, Montaldo Bormida 31, Morbello 35, Mornese 34, Rocca Grimalda 56, Rossiglione 85, Silvano 37, Tagliolo 51, Tiglieto 35. Rocca Grimalda, ad esempio, con una popolazione di poco superiore ai 3000 abitanti, allo scoppio della guerra vide partire per il fronte 350 dei suoi figli; la stessa percentuale vale per gli altri paesi mentre da Ovada nel solo 1915 finirono nel vortice del conflitto oltre 600 tra militari di leva e richiamati. Nel triennio partirono poi e scaglionati nel tempo i nati tra il 1877 e il 1900. Per rendere l’idea, seppur vaga e approssimativa, di quanti ovadesi furono coinvolti nel conflitto mondiale basti pensare che nel 1968, quando agli ex combattenti venne concesso il cavalierato di Vittorio Veneto e relativa medaglia, risposero all’appello ancora 435 concittadini di un’età compresa fra i 74 e i 97 anni. Fra le lodevoli iniziative connesse al centenario della Grande Guerra riveste un particolare significato quella del LEO CLUB di OVADA composto di giovani tra i 18 e i 30 anni. Essi si sono presi l’impegno di far restaurare le targhette commemorative dei Caduti poste sugli alberi del viale della rimembranza e di aggiungere a queste le altre 45 con i nominativi dei caduti dimenticati. Non corrispondendo però più il numero degli alberi a disposizione è stata avanzata l’ipotesi di realizzare all’interno del Cimitero urbano una struttura sulla quale apporre le varie targhette giungendo cosi ad una sistemazione più confacente e definitiva. Anno XXII, n. 6 Giugno, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Sono dal Sudamerica a Ovada alla ricerca delle orme degli Avi. Le nipoti di Carlos Alberto Siri in visita alla città descritta dal nonno. Dal 1903 una via cittadina è intitolata al generale napoleonico Rocco Giacinto Siri, nato a Ovada nel 1751, morto a Parigi nel 1826, decorato della Legion d’onore, governatore di Roma, aiutante di campo di S. M. Gioacchino Murat re di Napoli. Così stringata la vicenda terrena di un ovadese illustre, suscita ben poca attrattiva se non la curiosità di saperne qualcosa in più. A tal proposito basta leggere quanto scrisse a suo tempo Gino Borsari, storico locale, esperto in araldica, che trattò con cognizione di causa la genealogia della famiglia Siri, originaria di Urbe, ma presente in Ovada fin dal 1600. Anche un toponimo tramanda la memoria del casato tanto che su vecchie mappe catastali sono segnate le tufacee Rocche di Siri tra l’Orba e la Regione Carlovini. La storia però continua e un discendente del valoroso generale, il giovane Paolo Siri - Frixione, nell’Ottocento parte per il Nicaragua. In El Salvador si sposa con Anna Vitelli e nascono sette figli. Si dedica agli affari bancari collegati al commercio del caffè. Un suo figlio, Carlos Alberto, nato nel 1905, dopo un lungo viaggio per mare, nel 1913, per ragioni di salute, giunge Ovada accompagnato dal padre. E’ ospitato dalla zia Angiolina, abitante in un palazzotto con ampio terrazzo prospicente la piazza del mercato (Piazza Mazzini). Di quel periodo Carlos conserverà sempre buona memoria. Nel suo libro in lingua spagnola, Asi fue mi vida, (Recuerdos de la adolescensia), pubblicato nel 1972 su iniziativa del Ministero dell’Educazione salvadoregno, del soggiorno ovadese parla a lungo e con felici espressioni. In seguito si affermerà come bravo scrittore e rivestirà incarichi diplomatici importanti. Negli anni Cinquanta e Sessanta sarà anche ambasciatore di El Salvador presso il Governo degli Stati Uniti. Una vita intensa, insomma, e ricca di soddisfazioni. A un secolo di distanza il filo della memoria che unisce la famiglia Siri alla nostra terra sta per riannodarsi nuovamente. Alcuni discendenti di Carlos, infatti, giungeranno a giorni dalla Costa Rica in città alla ricerca delle orme degli Avi. Si tratta di Julia Siri De Unamuno, di sua cugina Roxana Reyes e della figlia. Il 22 giugno, nel pomeriggio, saranno ricevute nella sala delle quattro stagioni di Palazzo Delfino e si fermeranno in città per qualche giorno. Coglieranno poi l’occasione per assistere alla tradizionale festa di san Giovanni Battista, della quale in famiglia hanno sempre sentito parlare. Nel libro di Carlos Alberto Siri la nostra città è descritta come era cent’anni or sono. Egli ne seppe cogliere e memorizzare gli aspetti più veri e popolari. Al suo arrivo in treno da Genova, ad esempio, si stupisce delle numerose gallerie che bucano la montagna. Fa tenerezza immaginarlo ragazzo spaesato, ancora senza amici, che non comprende la lingua e tanto meno il dialetto parlato dalla maggior parte della popolazione. Pian piano però si adatta alla nuova vita, al rigido inverno, fa amicizia con i compagni di scuola, gioca a palle di neve e a football, mangia polenta caliente ma preferisce la croccante farinata; assaggia per la prima volta i ravioli, le succulenti lasagne e i taglierini della zia Angiolina, cuoca eccellente: Tra le specialità mangerecce autunnali non scorda le castagne arrostite in padella; non beve però vino pur essendovene in cantina in abbondanza ed exquisito; annota dei tartufi e delle frittate di pesci alla genovesa. Giunto un po’ gracilino sotto il cielo ovadese, Carlos riacquista ben presto la salute e il vigore dei suoi anni: d’estate compie lunghe passeggiate, diventa buon nuotatore nel mare di Sestri, pescatore lungo le rive dell’Orba e dello Stura; se la spassa in bici percorrendo le strade sterrate del centro e della periferia. La sua famiglia è benestante e rispetto a molti suoi compagni ha certo maggiori possibilità di svago. La nostalgia per i famigliari oltre oceano e per El Salvador è però sempre grande e tocca a zia Angelina confortarlo: fortunatamente per lui è una lalla, siempre afectuosa, siempre comprensiva, siempre generosa, insomma una seconda madre. Con lo scoppio della guerra il desiderio di far ritorno a casa sfuma nel nulla e la permanenza in Ovada si protrae fino al 1919. Carlos racconta della scuola frequentata presso i padri Scolopi, gli tornano in mente i maestri Turco, Bensi e Carlini e anche il buon don Salvi nel cui ricreatorio festivo ha sicuramente giocato a pallone. Della Chiesa Parrocchiale ricorda il concerto delle sue campane: vibrazioni che si propagano all’unisono in lontananza fino ai campi nei giorni delle grandi festività religiose. Vive la vendemmia e descrive le grandi riunioni sulle aie delle cascine, dove accorrono giovani ragazzi e ragazze per prestare aiuto. A sera poi si divertono ballando polche e valzer al suono della fisarmonica, di un violino o di un mandolino, accompagnati dalla chitarra. Flash di vita ovadese del passato fissati da un testimone di grande sensibilità. Un libro di oltre 200 pagine che, per essere gustato al meglio, come già nel lontano 1974 Gino Borsari notava in una bella recensione pubblicata sul bollettino parrocchiale Voce Fraterna, meriterebbe una traduzione in lingua italiana. Auspicio che ci auguriamo possa presto tradursi in realtà, per la gioia dagli appassionati di letteratura nostrana. (L’immagine di gruppo si riferisce al SIRI MEETING in Salvador del dicembre 2014). Anno XXII, n. 7 Luglio, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Omnibus e vetture a cavalli nell’Ovada di un secolo fa. Giorno e notte si potevano raggiungere anche i vicini paesi Nella seduta del Consiglio Comunale d’Ovada della primavera 1913, si discute la tassazione delle vetture pubbliche e, nel 1915, è approvato in via definitiva un regolamento che disciplina tale servizio in città, frazioni e paesi dintorni. In archivio storico un fascicolo ci permette di saperne di più. Intanto si può affermare che allora chi giungeva alle due stazioni ferroviarie, soprattutto a quella centrale, trovava a disposizione, giorno e notte, vetture a cavalli che lo avrebbero portato a destinazione anche nei paesi vicini. Dati i costi di percorrenza però, era un lusso accessibile a pochi. Il funzionamento del servizio pubblico era affidato a un concessionario (per lungo tempo alla Ditta Ferrari e Papa, con sede in piazza Garibaldi, che gestiva gli omnibus, questi sì a prezzi più popolari, e le pompe funebri). Fra le figure più originali sulla piazza vi erano i vetturini, che erano sempre a caccia di clienti da far salire in vettura e a volte fin troppo insistentemente. Affronta l’argomento con note di colore il Corriere dell’11 aprile 1915: «Non abbiamo che a congratularci con i vari impresari e proprietari di vetture che disimpegnano il servizio nella nostra stazione centrale, sia per l’eleganza che per il numero di carrozze che mettono a disposizione del pubblico. Il servizio è degno di Ovada che durante l’estate, presenta un discreto movimento di forestieri e di villeggianti. Altrettanto però non possiamo dire dei vetturini, i quali per gelosia di mestiere, attaccano briga fra loro ogni momento e importunano fuori misura all’uscita dalla stazione i passeggeri. Questo riesce a disdoro della nostra Ovada e costituisce un inconveniente grande che si deve eliminare. Non potrebbero i vetturini starsene in cassetta e attendere che i forestieri stessi, cerchino la vettura che più a loro piace conformemente al decreto municipale? E gli stessi padroni potrebbero tenerli all’ordine? Giacché, in conclusione finiscono per fare il proprio danno, poiché chi arriva e vede e assiste a tanto baccano, finisce per rimanerne stomacato addirittura, e per non servirsi più della vettura. Abbiamo insistito altre volte su questo, e lo facciamo ancora, invitando le autorità a provvedere coll’invio all’arrivo dei treni delle guardie per l’ordine, ed infine ancora un piccolo regolamento che serva allo scopo». L’auspicato regolamento è approvato dalla Giunta in seduta del 13 ottobre 1915. Quanto costava un viaggio in vettura a cavalli verso le varie destinazioni? Ecco il tariffario di riferimento: Per ogni ora percorribile entro il territorio comunale lire 2. Per ogni successiva mezzora lire 1. Per ogni ora percorribile oltre il territorio comunale lire 2,50. Per ogni successiva mezz’ora lire 1. 25. Per raggiungere Belforte, Molare, la Regione Panicata, Tagliolo, Silvano si pagava due lire, per la frazione Gnocchetto il costo del biglietto saliva a due lire e cinquanta centesimi. Una corsa per Pratalborato costava tre lire, mentre occorreva sborsarne quattro per farsi portare alle frazioni di Costa, Grillano e San Lorenzo, al Santuario della Madonna delle Rocche e nei paesi di Casaleggio, Castelletto, Lerma e San Cristoforo. Per località in collina, considerando le strade in salita anche la tariffa saliva: a cinque lire per Cremolino, Cassinelle Roccagrimalda, Trisobbio e fino a sei lire per Mornese. A fine 1923 però gli omnibus sembrano aver fatto il loro tempo e sono messi in discussione: «Nonostante tutte le buone intenzioni del concessionario, il servizio tramviario alla stazione ormai non è più all'altezza dei tempi. Quei carrozzoni lenti e traballanti in cui i viaggiatori si stipano come le tradizionali acciughe sul non meno tradizionale barile, non corrispondono assolutamente più alle esigenze di una cittadina moderna. Ora, se le nostre informazioni sono esatte, si potrebbero iniziare trattative per sostituire i carrozzoni attuali con moderni autobus i quali avrebbero il vantaggio, oltreché di avvicinare lo scalo ferroviario al centro, di soddisfare i requisiti del traffico e del decoro cittadino. Speriamo ben presto veder inaugurato il nuovo servizio». Tre anni dopo il problema non era ancora risolto: «…tolti di circolazione tram a giardiniera, speravamo di vedere inaugurato un servizio di autobus fra la stazione e la città, invece siamo tornati al barile di acciughe; che non si può altrimenti classificare il traballante veicolo che trascina, pigiati come le tradizionali acciughe, i poveri viaggiatori. Via, a parte gli scherzi, una cittadina per quanto modesta, non tollererebbe un simile servizio lurido, insufficiente, disonorante in faccia al forestiero; quindi chi deve provvedere provveda una buona volta ad eliminare lo sconcio». Anno XXII, n. 8 Agosto, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Appunti estivi sull’acqua sulfurea della Volpina ….correvano le genti come stormi di uccelli alla fonte salutare. Da ragazzi raccoglievamo le pietre del rio Volpina e le usavamo per tracciare sull’asfalto sinuosi percorsi per il gioco delle grette, ossia i tappi di latta delle bibite, che in abbondanza rimediavamo nei bar cittadini… Questo il primo ricordo della Volpina dove c’era e c’è tuttora, ma un poco più a valle rispetto ad allora, a lato dell’omonimo rio, una sorgente di acqua solforosa con una storia tutta da scoprire. Oggi la sorgente è poco frequentata ma un tempo, e in ogni stagione dell’anno, era meta di numerosi accorrenti, spesso in snervante attesa prima di poterne bere un bicchiere o riempire la propria fiaschetta. Era anche fonte di guadagno per le Pasquare, sorelle acquaiole, che vi attingevano giorno e notte tra i mugugni di chi doveva attendere in coda il proprio turno. Le Pasquare l’acqua la smerciavano, a modico prezzo, consegnandola su richiesta anche a domicilio. Acqua decantata e, se non proprio miracolosa, efficace per purgare ostruiti intestini e risanare le viscere provate dei bevitori più accaniti: per cui si poteva alzare il gomito a piacimento, che poi l’acqua della Volpina avrebbe posto rimedio a tutto. Questa la teoria che girava per il paese, ma a noi ragazzi poco importava e continuavamo a pizzicare i tappi di latta lungo la via o in qualche piazzetta tranquilla fino al calar del sole. Solo più avanti la voglia di saperne qualcosa di più circa la storica sorgente. Una spiegazione scientifica ce la fornisce il geologo Giuseppe Pipino il quale rileva che la sorgente, sgorgante da sedimenti cenozoici, per la sua vicinanza ai litotipi del Gruppo di Voltri, fuoriesce in più punti, da marne fogliettate con frustoli carboniosi appartenenti alla Formazione di Rigoroso, di età oligo – miocenica. Si tratta però di una polla non classificata nei vecchi studi di idrologia minerale, come quello del Bertini, pubblicato a Torino nel 1822, ricco di informazioni su tutte le sorgenti d’acque minerali allora note negli Stati di S.M. il Re di Sardegna. Il motivo è che la fonte è stata scoperta per caso da alcuni ragazzi delle cascine vicine che stavano giocando lungo il rio. Fra essi Angelo Parodi, classe 1870, che ha tramandato la notizia ai propri discendenti e fino ad oggi. Si tratta però della prima fonte sulfurea, mentre la captazione di quella tuttora sgorgante, meno puzzolente della prima, presso l’entrata della Cascina S. Ambrogio, rimonta primi anni Sessanta del secolo scorso. Il sito è di particolare interesse geologico e il terreno circostante è ricco di zolfo. Spulciando fra le vecchie cronache giornalistiche, la prima notizia circa la Volpina riguarda una poesia in dialetto pubblicata nel 1897 dal Corriere di Ovada il cui redattore ironicamente osserva: ….il nostro bravo poeta si è ispirato alla fontana che ottenne tanto favore specialmente fra le nostre belle e vispe fanciulle, che vi accorrono a sciami gai e rumorosi. Egli la proclama addirittura la piscina probatica, la fontana di Dulcamara buona per tutti i mali. Veramente per la massima parte delle accorrenti basterebbe una sola delle virtù attribuite alla magica fonte, e cioè che valesse per acchiappare "quel pesciu reru cus ciama marì" ossia quel pesce raro che si chiama marito… Nel 1905 si legge: Secondando un vivo desiderio dei numerosi accorrenti, i proprietari della fontana Volpina, fratelli Forno, hanno provveduto ad una costruzione comoda ed allo stesso tempo decorosa che raccoglie l’acqua solforosa che finora sgorgava disordinatamente dalla collina. Il lavoro eseguito, che costituisce una seria garanzia per la pulizia e salubrità dell’acqua, aumenterà il già notevole concorso della popolazione. Ai signori proprietari dunque una lode per l’ottima idea avuta. Nell’estate 1921 invece si annotava: In questi giorni canicolari corrono le genti come stormi di uccelli alla fonte salutare. Solo che gli accorrenti restano delusi appena giunti, perché non possono appagare il forte desiderio, e l’acuto bisogno di dissetarsi, se non dopo una lunga e paziente aspettativa e in minime proporzioni. Crediamo opportuno rilevare un abuso praticato da alcuni abituè di questa fonte i quali vi si recano addirittura con damigiane, tanto che ai poveri diavoli che arrivano dopo un minuto devono attendere delle ore e ore prima di poterne bere qualche bicchiere, questo abuso provoca soventi alterchi e vive proteste da parte degli altri più modesti accorrenti, e non è improbabile che qualche volta abbiano a succedere gravi fatti. La cronaca del successivo Ferragosto riporta: I nostri ripetuti richiami circa la fonte Volpina hanno ottenuto benefici effetti. Infatti veniamo informati che l’egregio sig. Forno G.B. proprietario di detta località, ha già preparato un progetto grandioso per la sistemazione della fontana, che per la sua vastità non può essere costruito in poco tempo sicchè verrà effettuato per la prossima primavera. Fra l’altro permetterà di fare pagare una piccola tangente, il ricavo della quale andrà a beneficio di qualche istituto Ovadese di beneficenza. Il progetto è degno della massima considerazione, e formuliamo i nostri migliori auguri di vederlo sorgere nel più breve tempo possibile anticipando all’egregio proprietario le nostre vive congratulazioni e meritate lodi. Così anche Ovada avrà il suo piccolo comodo e igienico stabilimento termale, si da far correre le genti bisognose di quiete e di refrigerio come a Montecatini o a Salsomaggiore. Anno XXII, n.9 Settembre, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Da Novi a Voltri per il Passo del Turchino 1914: dalla Guida Bertarelli del Touring Il turista tipico porta in tasca la dotta guida del Touring Club Italiano, sempre valida dal punto di vista informativo ma che, come tutte le cose nel tempo, sta per essere vinta dalla tecnologia. Le prime edizioni di questi volumetti, dalla copertina rossa o granata e pieni d‘informazioni per il viaggiatore, oggi si possono acquistare per pochi euro al mercatino delle cose vecchie. L’ideatore e autore delle prime diciassette guide dedicate alle varie regioni italiane risponde al nome di Luigi Vittorio Bertarelli, milanese. Iniziò a pubblicarle nel 1914. Prima, nel 1894, con Federico Johnson e altri 57 sportivi e esperti di come impiegare il tempo libero, aveva fondato il Touring Club Ciclistico Italiano all’interno del quale si formò un gruppo di studiosi del territorio: geografia, toponomastica, speleologia, arte e storia, che giunsero poi alla realizzazione di carte, atlanti e di numerose pubblicazioni del TCI, ben conosciute a apprezzate da tutti come nel nostro caso le guide. Il nome del fratello di Luigi Vittorio, Achille Bertarelli, è generalmente associato alla sua grandiosa raccolta di stampe antiche oggi presso il Castello Sforzesco di Milano. Nel primo volume della guida TCI dedicata al Piemonte e alla Lombardia figura l’itinerario da Novi a Voltri per il Passo del Turchino. Sono trascorsi poco più di cent’anni e proprio per questo la descrizione, per alcuni tratti, non è priva di un certo interesse: (...) Tram a vapore da Novi a Ovada km. 24, ore 1,20. 5 corse al giorno, prima classe £ 2,50. seconda classe £ 1,35, andata e ritorno 2,65 e 1,75; ferrovia con pochi accessi dalla strada ordinaria da Silvano d’Orba a Ovada (linea Alessandria-Ovada) e da Ovada a Campo Ligure (linea Ovada-Genova). Una carrozzabile piana risale il Torrente Lemme che scende da Gavi. Si passa il Lemme (che a poca distanza affluisce nell’Orba) in campagna piana a gelsi e praterie; Capriata d’Orba appare sulla collina colla chiesa e la torre. Le ondulazioni del terreno cominciano subito dopo a presentare belle vedute sui vicini contrafforti dell’Appennino. Bella vista, a destra, su Rocca Grimalda, fieramente accampata in altura; a sinistra su Silvano. Km 18,1 Silvano d’Orba m. 171. Con due Castelli già dei Botta Adorno, il più moderno abitato. Escursioni: per carrozzabile a Castelletto d’Orba m. 180 circa, km. 3,1, con Castello degli Adorno restaurato nel 1903, e a Montaldeo km. 6,5, con Castello in buono stato dei Doria. Altra carrozzabile da Castelletto a S. Cristoforo m. 301, km. 8 da Silvano con Castello degli Spinola, e a Gavi km. 14,6. Dopo Silvano ponte sul Torrente Piota, indi sul colle a sinistra Tagliolo, Km. 23,8. Ovada m. 186 (Albergo Universo, semplice, raccomandato, camere £ 2. Omnibus, dalla stazione al paese centesimi 15. Vettura postale per Trisobbio, 2 corse al giorno, ore 1,15, £ 0,50, per Carpeneto 2 corse, ore 1,30, £ 0,80). Al confluente di Orba e Stura, in posizione pittoresca, vi comincia la parlata dialettale genovese. Commercio importante di vini. Escursione a parecchi interessanti castelli nel pittoresco Alto Monferrato, regione ferace di vigneti. (…). La strada entra ora nella più stretta Valle Stura, serpeggiando sul suo fondo lungo la ferrovia; bellissimo il paesaggio; la montagna è a qualche altezza chiomata di pini, in basso di grandi castagneti d’aspetto ben diverso dai prealpini; piante più piccole, potate con cura. La valle si fa gradatamente più brulla, tocca km. 36,3 Rossiglione inferiore (poco più avanti Rossiglione superiore) sperduto nella solitudine verde di un fertile breve piano alla confluenza di una vallecola. Grande cotonificio sotto un’alta briglia della Stura. (…) Più avanti la natura del terreno si rifà dolce e fertile. Km. 40,3 Campo Ligure (Vettura postale per Masone all’arrivo dei treni, 1 ora centesimi 30); la chiesa (affreschi di Orgero e Gaionotti e tele di Gaudenzio Ferrari e dello Strozzi detto il Cappuccino), la torre e il vecchio ponte fanno un quadretto incantevole, Villini, stazione estiva genovese. Tra grassi pascoli es estesi castagneti si giunge con un bel colpo d’occhio retrospettivo al (km. 48,7) valico nella Galleria del Turchino m. 532, lunghezza 180 metri. Vi si trova un’osteria e una cantoniera. All’uscire di galleria lo sguardo cade nella breve valle e scende al mare vicino. Tra castagni la strada serpeggia in ripida discesa a grandi curve. Ricompare più avanti in una forra la ferrovia che passa l’Appennino con un traforo di 7447 m. Man mano si scende la vegetazione si fa più rara e vivace; citisi, eriche si frammischiano alle piante da frutta sulla montagna tutta a campicelli e scaglioni, che si sostengono senza muricciuoli. Le abitazioni si moltiplicano intorno alle ville in gruppi pittoreschi, ai piedi di chiese bizzarre. I primi camini annunciano la diffusa industria ligure che invade ogni piano di valletta che sbocchi al mare. Ma già, anche qui, sono penetrate le palificazioni a traliccio che adducono l’agile corrente elettrica. Anno XXII, n.9 Settembre, Ovada, 2015. La prima edizione del “Premio Ubaldo Arata”, “il principe del bianco e nero”. Riconoscimenti agli attori Massimo Poggio e Simone Barbato Il Cinema Teatro Splendor di Ovada, venerdì 18 settembre alle ore 21, ospiterà la prima edizione del “Premio Ubaldo Arata”, l’operatore definito il principe del bianco e nero del cinema italiano, nato a Ovada nel 1895. La manifestazione è allo start di partenza con gli auspici dell’Associazione Ovada Due Stelle Onlus e del Rotaract Club di Ovada. E’pure sostenuta dalla Film Commission Piemonte, dal Comune di Ovada e dalla Enoteca Regionale di Ovada e del Monferrato. Lo scorso anno ci fu una prima presentazione di quello che oggi assurge ufficialmente a Premio, che tiene e terrà conto dei talenti della nostra provincia, impegnati non solo nel mondo del cinema ma dello spettacolo in generale. L’iniziativa, come informa il programma, parte bene perchè nasce nel nome e nel ricordo di uno dei massimi operatori del cinema nazionale. Arata ha lavorato a Torino all'epoca del muto, ha contribuito alla rinascita sonora e ha posto la propria professionalità al servizio del cinema fino agli esordi del neorealismo, che doveva riportare all'attenzione internazionale la cinematografia italiana del dopoguerra con il capolavoro Roma Città Aperta di Rossellini. Arata ne fu direttore della fotografia. Quel film epocale lo rese famoso e molto richiesto, ma la sua carriera – come si sa iniziò molto prima, nel 1918, nella capitale subalpina. Tra le prime attrici da lui inquadrate la diva del momento Italia Almirante Manzini, fra i suoi maestri l’operatore Roberto Roberti, padre del regista western Sergio Leone. Girò Maciste all’inferno interpretato dal forzuto Bartolomeo Pagano, da scaricatore nel porto di Genova a divo del muto. Tra i direttori che vollero Arata nei loro film ricordiamo Mario Camerini, Guido Brignone, Goffredo Alessandrini, Gennaro Righelli, Augusto Genina, Alessandro Blasetti e per finire Mario Mattoli, che tutti ricordano come regista di Totò. Girò il primo film sonoro italiano La Canzone dell’Amore e divenne anche scopritore di talenti. Nella città del cinema “Arata operatore” costituiva una garanzia perchè era il mago dei provini. Conoscendo la sua abilità nel dosare luci e ombre, attori e attrici in erba si affidavano a lui. Fotografò e rivelò al mondo della celluloide Isa Miranda e Alida Valli. Nel 1947, mentre Arata si concedeva qualche giorno di relax in quel di Cremolino, andò a trovarlo Orson Welles, l’interprete di Quarto Potere, che lo volle come esperto della fotografia nel film Cagliosto. Ma Arata era malato di cuore e quel film gli fu fatale, si dice, a causa dei ritmi di lavorazione che la casa di produzione americana aveva imposto. Morì a soli 52 anni in ospedale, ma praticamente sul set, dopo avere insegnato i trucchi del mestiere a tanti che, alla macchina da presa, si sarebbero imposti nei decenni successivi; soprattutto nel periodo del neorealismo, quando il bianco e nero tenne banco per tanti anni ancora. Suo allievo prediletto, per citare un icona fra gli operatori italiani, fu Tonino Delli Colli vincitore del David di Donatello nel 1998 per il film di Benigni La Vita è Bella. Al “Premio Ubaldo Arata”, che nasce con pochi mezzi ma con tanto entusiasmo da parte dei promotori, auguriamo i migliori successi e un luminoso avvenire. Il programma della serata, presentata da Francesca Colao, prevede l’esecuzione di colonne sonore da film eseguite da Carlo e Nao Quartet, un breve ritratto di Ubaldo Arata, la visione e premiazione del video concorso “Anno Zero”; l’assegnazione del Premio Carlo Leva e l’assegnazione Premio Ubaldo Arata. Fra gli ospiti: Asia Cestelli, Massimiliano Fisicaro e Giorgio Ratto. Nel frattempo l’Associazione Ovada Due Stelle Onlus, presieduta da Loredana Puppo, ha deciso di conferire all’attore alessandrino Massimo Poggio il “Premio Ubaldo Arata 2015” per l’importante risultato ottenuto nel mondo dello spettacolo. La sua attività professionale, che si alterna tra cinema, teatro e televisione, ha fatto si che alla Provincia di Alessandria sia ancora una volta riconosciuto il ruolo di fucina di importanti talenti artistici. Il Rotarac Ovada del Centenario invece assegnerà il “Premio Carlo Leva” all’attore ovadese Simone Barbato, pianista, cantante lirico, che ha intrapreso con successo la carriera di attore comico e di cabarettista. La sua fama è infatti dovuta soprattutto al personaggio del mimo da lui ideato, che gli ha permesso di lavorare in Zelig - Off – Zelig e Avanti un Altro e far parte del cast del film Colpi di Fulmine con la regia di Neri Parenti. Anno XXII, n. 10 Ottobre, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. In altri tempi il Monte Colma rifugio di banditi e di assassini La storia di Pin della Cascinassa graziato dopo 30 anni di latitanza Le boscaglie del monte Colma nei tempi passati diedero sicuro rifugio a contumaci e banditi sui quali sono nate perfino delle curiose leggende. Negli anni venti del Novecento, nelle selve della montagna tra Tagliolo e Rossiglione, caratterizzata da tre protuberanze, imperversava ancora una banda di ladri che fu sgominata da parte delle forze dell’ordine dopo studiati appostamenti. A fine Ottocento invece il Caffaro, giornale genovese riferiva delle vicende giudiziarie di un tagliolese, più comunemente noto col nomignolo di Pin della Cascinassa, reo confesso di aver assassinato la propria amante. Si trattava di tal Giuseppe Massari che, con sentenza della Corte d’Assise di Alessandria in data 23 Marzo 1869, venne condannato in contumacia alla pena di morte pel reato di assassinio commesso in Alessandria nel vicolo dell’Erba il 1 Febbraio 1868, in persona di Teresa Zarra. Il Massari, che secondo il Codice Sardo poteva invocare a suo favore la forza maggiore, per sfuggire al carcere preventivo fuggì in America ma lo stesso fu condannato alla pena di morte mediante capestro. Desideroso di ritornare in patria invocò il patrocinio dell’avv. Persi di Alessandria, il quale potè provocare, dalla Corte d’Assise di Alessandria, in data 18 aprile 1899, una sentenza colla quale si dichiarava estinta la condanna per prescrizione. Il Corriere di Ovada invece precisava: la notizia del foglio genovese è sostanzialmente vera, è inesatto però che il Massari, prima della pronuncia della Corte d’Assise si trovasse in America. Egli viveva bandito sulle nostre montagne nelle quali si rifugiò poco tempo dopo aver commesso il delitto. E’ giusto aggiungere che nei trenta lunghi anni in cui fu uccel di bosco nel nostro e vicini territori tenne un contegno tale da meritarsi il compatimento ed anche la simpatia dei nostri bravi villici, che gli erano larghi di servigi e di aiuti. L’arma dei Reali Carabinieri, dopo averlo inutilmente perseguitato per un lungo periodo di anni, in questi ultimi tempi, vista l’inutilità dei suoi sforzi e tenuto conto del contegno corretto del latitante, lo lasciava quasi vivere in pace. Quando il figlio gli comunicò la lieta notizia non ci volle prestar fede temendo qualche tranello dell'autorità, e fu necessario che il Sindaco di Tagliolo Marchese Pinelli gliela confermasse con lettera. A Tagliolo la grazia fatta al Massari è l’argomento di tutti i discorsi: gli amici ed i parenti vollero festeggiare il lieto avvenimento con un pranzo di oltre trenta coperti offertogli alla trattoria esercita dal suo nipote, il bravo e simpatico Barillo. Fin qui la cronaca dai giornali. La tradizione vuole che del caso se ne fosse interessato anche il vescovo salesiano Marenco originario di Gnocchetto e che per mezzo di lui la grazia venne finalmente concessa. C’è di più. Sempre in quel torno di tempo un altro contadino di Tagliolo uccise invece la moglie e, dopo aver commesso il delitto, chiese consiglio nientemeno che al ministro di grazia e giustizia Giacomo Costa recandosi presso la sua abitazione di Ovada. Così la racconta Fausto Bima in un vecchio articolo dedicato al ministro guardasigilli ovadese. “Stabilitosi con la famiglia a Roma, il Costa, conservava la casa di Ovada come un buen ritiro, come meta di vacanze, come oasi di pace e di ristoro. Quand’era a Ovada c’era corte bandita ed era famosa la frase, che rivolgeva al maggiordomo, a prova della sua cordiale ospitalità, mentre entrava un visitatore: “Marco, un altro posto a tavola”. Dai paesi e dalla città la gente lo veniva a consultare ed egli non negava a nessuno il suo parere, naturalmente gratuito. Anzi, quand’era in vacanza, dimenticava di essere magistrato e si ricordava solo di essere avvocato. Fu così che una sera, mentre era a tavola, il buon Marco venne a dirgli che un contadino di Tagliolo desiderava parlargli subito. Giacomo Costa va a sentire il caso e apprende che il contadino, che aveva una moglie assai cattiva, esasperato in un eccesso di furore, l’aveva poc’anzi uccisa. Bisogna ricordare che Costa era buon cattolico e buon avvocato e certo quella sera dovette avere un caso di coscienza come cittadino. Alla fine, considerando che il contadino era un brav’uomo, noto e benvoluto da tutti ed al delitto era stato tirato per i capelli, gli dette consiglio di darsi alla macchia. E così fece e pare che non fu mai preso, i monti sopra Tagliolo e Lerma essendo a lui ospitali e noti”. (Nella foto i massi che costellano la cima del Monte Colma). Anno XXII, n.11 Novembre, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Appunti storici sulla Fiera di Sant’Andrea “Regina” dell’evento ancora e sempre la tradizionale farinata Della fiera di Sant'Andrea di fine novembre, la più frequentata dell’anno, si hanno scarse notizie ma si può tranquillamente affermare che fin dai tempi antichi si svolgesse a Ovada e alle soglie dell'inverno, un mercato “grosso” che consentiva alle popolazioni delle valli dell'Orba e dello Stura di provvedersi del necessario per la stagione invernale. Le prime notizie sulla fiera si trovano in un documento del 1807 nel quale sono ricordati appena due appuntamenti fieristici annuali. Il Maire di allora, equivalente al Sindaco di oggi, rispondendo alle domande di un questionario scriveva: Si fa nella Comune di Ovada una fiera di bestiame, e qualunque genere di mercanzie sulla fine del mese di agosto e sulla fine del mese di novembre d'ogni anno. L’informatore non cita altre occasioni commerciali come la fiera di Santa Croce (immagine a corredo) che tuttavia si svolgeva in primavera, sul piazzale dove poi sorsero le scuole elementari, e la cui istituzione risale al XIII secolo. Nel 1845 si affermava: …ogni giorno si fa in Ovada un piccolo mercato e si tengono tre annue fiere: la prima in agosto, di s. Giacinto patrono del luogo; la seconda di s. Simone in ottobre; l'ultima in novembre, di s. Andrea. Per agevolare le relazioni commerciali tra Ovada e Genova vi si trovano duecento e più muli. A Sant'Andrea le strade brulicavano di persone giunte dai paesi vicini e in molti casi a piedi a far provviste per l’inverno che avrebbe limitato gli spostamenti e che proprio in quei giorni metteva fuori gli artigli. Un proverbio locale dice: «A Sant'Andrea l'invernu u monta an careia», in quanto proprio nei giorni della fiera re inverno s’insedia in trono e il freddo comincia a farsi sentire. Con l’avvento della ferrovia per chi giungeva col treno, c’erano speciali agevolazioni e lo stesso biglietto era valido parecchi giorni per consentire agli accorrenti di arrivare in città nei giorni dei preparativi e in caso di necessità di rimanere ancora un po’ a mercato concluso. Gli abitanti dei paesi dintorni acquistavano sale, olio, tabacco e quei pochi generi di primaria necessità che i coltivi non erano in grado fornire; insomma l’occorrente essenziale per trascorrere ben forniti i tre lunghi mesi dell'invernata. La neve, a causa della quale sovente la fiera subiva rinvii, sarebbe caduta presto sull'Appennino, coprendo sentieri e vallate e nessuno voleva rimanere senza una buona scorta di generi alimentari. Sulla fiera esiste un’aneddotica copiosa. Giungevano ambulanti di ogni genere ma le cronache giornalistiche del tempo segnalano anche la presenza di un numero impressionante di borseggiatori sempre nel mirino delle Guardie Municipali e dei Reali Carabinieri. Giungevano i librai ambulanti da Pontremoli, i venditori di almanacchi, come il Chiaravalle, e di canzonette stampate su carta velina a Fiorenzuola d’Arda. Tipici i venditori dei biglietti della fortuna multicolori, con l'oroscopo e i numeri del lotto. Agivano sulla piazza i ciarlatani che magnificavano l’efficacia d’intrugli medicinali per la cura di tutti i mali. I giochi d’azzardo pur proibiti erano esercitati di frodo tenendo d’occhio la via e smobilitando il banco al sopraggiungere improvviso delle forze dell’ordine. La meta obbligatoria per un sicuro divertimento era Piazza XX Settembre, per antonomasia “ia fera” dove si acquartieravano i giostranti, le famiglie circensi, dove sostavano i serragli delle belve feroci e si esibivano domatori, saltimbanchi (i trancigni), clown e giocolieri. Specialità culinaria locale, tuttora associata alla fiera era ed è la croccante farinata di ceci cotta nei caratteristici “testi”, nessuno, infatti, sa resistere alla tentazione di acquistarne una buona porzione per gustarla sposandola con un buon bicchiere di vino dolcetto. Nel 1899 il pubblico si divertiva un mondo ai salti della famiglia Coletto e dei lazzi dei due bravi clowns Giulio e Buton, e ad ammirare il celebre fachiro Giulio Schoufend che si trafiggeva i muscoli da parte a parte senza versare una goccia di sangue e senza provare alcun dolore: era pure sceltissimo tiratore di carabina e ottimo equilibrista. Nei primi anni del secolo arrivarono anche i fratelli Mannucci di Torino, cinematografari ambulanti, che allestirono un padiglione meccanizzato e coloratissimo. Ai lati della biglietteria due orsi di cartapesta, attivati meccanicamente, battevano piatti di latta allo scopo di incuriosire e di attirare la folla. Nel 1901, favorita da un magnifico sole e da un tempo splendido – scrive il cronista - la prima giornata di fiera riuscì oltremodo brillante ed animata per il numeroso concorso di gente dai paesi circonvicini. Si conclusero molti contratti e gli esercenti fecero affaroni. Tra le numerose e svariate baracche e baracconi, degno d'essere visitato è il cinematografo del signor Bertini Giuseppe in Piazza Garibaldi. Quivi si possono ammirare le più belle proiezioni di vera attualità fra cui la macchina per volare in azione. Anno XXII, n.12 Dicembre, Ovada, 2015, pag. 2. Cronache del passato. Natale d’altri tempi tra divagazioni e cronaca. Usanze tipiche delle Festività Il pranzo di Natale per molti significa ancora tradizione ed ecco che per prepararlo e far colpo sui commensali si chiede consiglio alle mamme e alle nonne, che di festività natalizie ne hanno vissute parecchie e sono depositarie delle fondamentali ricette. Dal 24 dicembre fino al 6 di gennaio diventano così “regine dei fornelli” e, data la lunga esperienza in cucina, si rivelano cuoche straordinarie nel preparare il ripieno per i ravioli come una volta, le lasagne della vigilia, gli andarini, il cappone, il tacchino o bibein, la gallina ripiena, la salsa verde, (localmente il bagnetto), i maccheroni o “mostaccioli” in brodo e infine il pandolce alla genovese. Viene davvero l’acquolina in bocca enumerando anche solo mentalmente le vivande tipiche delle festività di fine anno. Qualcuno potrà obiettare che i ravioli salgono in auge a Carnevale ma per quanto ne so, nel quartiere popolare dove abitavo, averne avuto, sempre, per gustarli in tazza con il barbera o il dolcetto sturati da bottiglie stravecchie e, dopo, nel piatto conditi con il sugo di carne. In famiglia li chiamavano anche anloti ma l’agnello non c’entrava. L’usanza, che non credo sia andata perduta, era di metterne una zuppiera (grilletto) colma al centro della tavola imbandita e ognuno si serviva, “tirava giù”, a piacimento fino a sazietà. Con gli avanzi, le rigalie, le creste di cappone e di tacchino, nonchè altre interiora, lasciate per qualche tempo a bagno nell’aceto, si preparava la fricassea. La ritualità era di servirla come colazione la mattina di Natale. Nell’Ovadese, un territorio di confine con tradizioni che si sovrappongono, la cena della vigilia, il pranzo di Natale e il cenone di Capodanno, apparecchiati rispettando la tradizione, un po’si assomigliano ma variano secondo i gusti da famiglia a famiglia, da paese a paese. A separare e confondere per secoli culture e tradizioni influì perfino il torrente Orba alla sinistra del quale sorgevano i borghi monferrini, mentre sull’opposta sponda, Ovada e i Paesi a valle, il dominio dei genovesi oltre alla parlata dialettale trasmise anche abitudini mangerecce più vicine alla tradizione rivierasca. Le stesse testimonianze orali e scritte riguardanti l’area ligure piemontese in merito alle consuetudini gastronomiche non solo natalizie appaiono discordi e lasciano un poco perplessi sull’originalità degli usi alimentari riportati. Forse sono trascorsi troppi anni da quando (1878) il folclorista Giuseppe Ferraro di Carpeneto, borgo monferrino, a sinistra dell’Orba scriveva: ...Nella Vigilia di Natale, si usa circondare un cerchio di legno di aranci, castagne, pomi, salami e si attacca al soffitto delle stalle. Davvero una vigilia frugale in attesa della nascita del Bambin Gesù, nella stalla, si, perchè nelle stalle, al sopraggiungere dell’inverno, si stava a vegliare fino tardi filando la rocca e raccontando fole. Tra la frutta elencata dal Ferraro le arance, chiamate anche portugoi, dovevano essere davvero rare perchè più care rispetto alle castagne vegette, alla noci alle mandorle. alle nocciuole e ai fichi secchi infarinati e non più a buon mercato. Dei Natali dell’infanzia non dimentico, ad esempio, le acciughe arrotolate nel burro, la focaccia dolce da gustare a fine pranzo con il vino moscato e la filastrocca dialettale che si cantava giorni prima e che annunciava gioiosamente: a Natole a mangiuma ei bibein, ia fuossa duxe pucioia an tei vein, verso di facile comprensione. Come buon augurio si piluccava l’uva verdera ormai appassita, fatta rinvenire in acqua tiepida, dolcissima. Ce la portava a casa nel cavagno dopo la vendemmia la lattivendola di fiducia ed i grappoli si appendevano con i gancetti di fil di ferro agli spaghi di corda tesi da una parte all’altra del soffitto. Si sceglieva la stanza più asciutta e refrigerata ma allora, con il riscaldamento a stufa a legna, in quanto a temperatura le stanze in inverno presentavano la medesima condizione termica: erano ghiacciate come i Poli. Altra filastrocca che si cantava in occasione del Santo Natale era dedicata alla salciccia preferibile di qualità morbida e con la goccia: ia sausissa di quela ca stissa salamin de porcu, e ricordo bene che per infondere maggiore enfasi alla tiritera, era ripetuta più volte e con una certa ironia che pareva un canto liturgico. A Natale fichi secchi, mostarda e torrone ma anche il pandolce un tempo confezionato in casa e portato a cuocere nel forno a legna pubblico, golosità che verso la fine dell’Ottocento stava per essere soppiantata dal panetun milanese. A tale proposito è curiosa la lettera spedita l’antivigilia di Natale da un ovadese, a Milano per affari di commercio, il quale pensò bene di donare ad amici e parenti il classico panettone: Milano 23, Dicembre 1877. Carissimo Zio, ieri sera ho spedito a Novi una cesta contenente nove panettoni. Ho scritto a Robbiano di aprire la cesta e tenersene uno per esso e consegnarne uno alla cugina Rosina nel caso che essa si fermasse a Novi a fare il Natale. Vi spedisco gli altri sette o otto da destinarsi: uno per voi, uno per Lerma, uno per Ambrogio Gandini, uno all’Agente, uno per Bozzano Bartolomeo, uno per Benedetto Restano, uno per Vincenzo. Se Rosina non avesse ritirato quello per essa lo consegnerete allo zio Matteo, ed in caso diverso allo zio Matteo ce lo spediremo per il primo dell’anno. (L’incisione di Ovada sotto la neve e di G. Diani, 1896 circa). Anno XXIII, n.1 Gennaio, Ovada, 2016, pag. 2. Cronache del passato. Primi del Novecento. Ovada e i paesi di collina. Un ponte sull’Orba per gli scambi commerciali Per Ovada e l’Ovadese agli inizi del Novecento uno dei problemi più pressanti da risolvere era quello della mancanza di collegamenti stradali con i paesi posti in collina come Cremolino, Carpeneto e Trisobbio, compresa la frazione di Grillano. La strada che dal Borgo Oltre Orba (oggi Piazza Antonio Nervi) saliva su per le colline delle Cappellette, sterrata e carreggiabile a partire dalla metà dell’Ottocento, presentando ardue salite, sopperiva malamente ai piccoli scambi commerciali che giornalmente avvenivano tra Ovada e le citate località. L’esigenza di poter avere collegamenti viari al passo con i tempi si era resa ancora più evidente con l’apertura delle tre linee ferrate, veramente innovative sul piano commerciale per le vallate dell’Orba e dello Stura: tramvia Ovada – Novi (1881) e le tratte Ovada – Genova (1893) e Ovada – Alessandria (1907). L’impedimento maggiore rimaneva l’attraversamento del torrente Orba, guadabile a piedi e con i carriaggi nel periodo di secca ma pressoché impraticabile al sopraggiungere della stagione autunnale e fino a primavera inoltrata. I dati statistici registrano ripetuti eventi alluvionali, sovente con effetti disastrosi, avvenuti massimamente nei mesi di maggio e di ottobre. Per l’attraversamento dell’Orba verso Cremolino esisteva prima del ponte la pedanca detta dei Carlini in Regione Recarlini e in seguito Carlovini e un’altra poco più a monte in località Rebba utilissima per le relazioni con l’antico molino di Monteggio spazzato via dall’eccezionale piena del 13 agosto 1935 (Diga di Molare). Cent’anni or sono quindi la situazione di transitabilità a corto raggio era pressochè invariata da secoli. Un viaggiatore francese capitato da queste parti verso la fine del Settecento, passando per la strada del Faiello, era giunto al guado di Monteggio diretto a Cremolino-Acqui Terme. Citando tale tragitto nelle sue memorie di viaggio ne attesta l’importanza avuta fin dai tempi antichi. Nel gennaio 1911 il Corriere di Ovada pubblicò due corrispondenze da Cremolino siglate Ceno ricche d’informazioni: ne riassumiamo alcuni passi dimostranti l’evoluzione che c’è stata nei decenni successivi in tema di manufatti e strade. L’idea di una comunicazione diretta Cremolino Ovada con un ponte sull’Orba data dal 1891 circa quando il Comune di Cremolino per ottenere uno sbocco verso Ovada con gravi sacrifizi, coadiuvato dai proprietari interessati più vicini, che dettero largo contributo in danaro, prestazioni d’opera e cessione gratuita di terreni, addivenne alla sistemazione della strada attuale della Priarona, la quale sebbene non abbia pendenze eccessivamente miti si trova ora in discrete condizioni di viabilità. Il Comune di Ovada (...) dava serio affidamento di continuare da parte sua la strada Rebba Colzero senza della quale il tronco costrutto in territorio di Cremolino rimaneva inutile perchè sbarrato al limite del fiume Orba. Nell’autunno 1909 si riunirono nella Sala Comunale di Ovada i rappresentanti dei Comuni di Carpeneto, Montaldo e Trisobbio per gettare le basi di un nuovo progetto di strada che partendo da Santo Stefano e svolgendosi in miti pendenze a mezzogiorno delle colline Guardia e Grillano doveva raggiungere la Stazione Ferroviaria con un grandioso ponte sull’Orba dal Manzolo alla rocca delle Anime. A parte la poco probabilità di riuscita di un tale progetto, dato il fatto che un ponte sull’Orba alla rocca delle Anime non costa meno di trecento mila lire ed altre centomila almeno costerebbe la strada svolgentesi in terreno ripido scosceso, il Comune di Cremolino per raggiungere il ponte in formazione verrebbe contro suo interesse ad allungare il cammino che si vuole invece abbreviare, costruendo un tronco nuovo, il cui ammontare equivale se non oltrepassa il suo contributo per il ponte di Monteggio. Infatti il ponte si costruì più valle ma solo nel 1928 e non è altro che quello popolarmente chiamato il ponte di San Paolo della Croce, sorto al guado dei Carlovini dove i fratelli Daneo a fine Settecento, cadendo dalla pedanca nel torrente in piena e invocando il soccorso della Madre Celeste, come vuole la tradizione, furono esauditi e tratti a salvamento. Una piccola cappella posta all’inizio del ponte, dalla parte di Ovada, ricorda infatti il miracoloso evento. (Nell’immagine: lavandaie all’opera sul greto dell’Orba nei pressi della retrostante pedanca dei Carlini). Un po' di storia del Parco pubblico intitolato a Sandro Pertini. La località dove oggi si apre al pubblico il Parco intitolato a Sandro Pertini aveva già una propria denominazione nel XIII secolo. Infatti in alcuni atti notarili del tempo viene citato il toponimo Grattarole riferito al sito in questione: una zona pianeggiante al di fuori delle antiche mura di cinta del Borgo medievale, caratterizzata da prati, campi coltivati e rustici ad uso agricolo con stalle e fienili. La tradizione orale vuole che sul posto abbia predicato San Bernardino da Siena, evento assai improbabile, mentre corrisponde al vero che in suo onore venne innalzata una cappella e nel contempo ne prese il nome la contrada che ad essa conduceva. Della cappella campestre, oggi Bar delle Corriere, dai fabbri ferrai successivamente dedicata a Santa Lucia, ne testimoniano l'antichità alcuni particolari architettonici e un affresco ormai sbiadito raffigurante appunto la Santa invocata a protezione della vista. Cessata l'epidemia pestilenziale del 1630 nelle vicinanze e per Voto comunitario vennero innalzati la chiesa della Immacolata Concezione e il convento dei Padri Cappuccini. Presto l'antica Contrada San Bernardino mutò denominazione in Contrada Cappuccini e, nel 1890, venne intitolata a Benedetto Cairoli. Ai lati della antica contrada iniziarono a sorgere case e edifici e, tra quelli di maggior pregio architettonico il Palazzo Maineri del '700, oggi sede della Biblioteca Civica Coniugi Ighina, passato poi in proprietà alla famiglia Raggi (1805) e quindi alla famiglia Oddini (1828). Le Rev. de Madri Pie franzoniane chiamate in Ovada nel 1826 dal marchese Giacomo Spinola per l'apertura di una scuola indirizzata alle fanciulle povere, giunsero nel 1827 e nel 1835 acquistarono il palazzo dalla famiglia Oddini stabilendovi scuole e il proprio monastero. Un'altro palazzo sorto nella prima metà dell'800, quasi di fronte alla Chiesa dei Padri Cappuccini, apparteneva alla famiglia Dania e Padre Giovanni Battista Perrando delle Scuole Pie, in una sua storia di Ovada della metà del secolo scorso, ne ricorda "l'ampio e ameno giardino ricco di frutta d'ogni genere". Un'interessante ricerca svolta dall'arch Giorgio Oddini e recentemente pubblicata su Urbs, rivista dell'Accademia Urbense, reca ulteriori informazioni al riguardo la dove dice: "forse intorno al 1820 - 1830, fu costruita la bella villa che si vede in una stampa dell'Orsolino (1838), di fronte alla Chiesa dei Padri Cappuccini. Vi era in quel sito una villa dei Dania e questa ne fu la ricostruzione (o forse l'ampliamento) eseguito da Francesco Buffa (1756 - 1835) dal quale passò al figlio Pier Domenico (1816 - 1879) e al nipote Paolo Scassi Buffa (1848 - 1921). Vi veniva a villeggiare il Comm. Belimbau, prima di acquistare i Castelli di Silvano e di Castelletto d'Orba. Essa fu acquistata, nel 1900, dalle Rev. Madri Pie che rialzarono la costruzione, adibita a collegio, con un risultato molto antiestetico ed ora è di proprietà dell'Istituto Bancario San Paolo di Torino che lo usa per la propria attività. Con l'andar del tempo l'istituto Madri Pie potè disporre dei mezzi sufficienti per accrescere il proprio patrimonio immobiliare. Il 20 maggio 1840 acquistarono un'altra casa e varie porzioni di terreno, entrando in possesso così di tutto il numero di mappa 1794 - 1834 e parte del 1867; numeri riscontrabili nel catasto figurato del 1798. Tra il 1864 e il 1882 sarebbe sorto il vasto agglomerato di edifici dell'Istituto, delimitante le attuali Via Cairoli, Piazza XX Settembre, Via Torino, Via Buffa, un tratto di Via Bisagno e Piazza Cereseto. Sorsero infatti l'Asilo Infantile (1869), la chiesa di Piazza Cereseto consacrata nel 1877, il palazzo di Santa Caterina Alessandrina, in Via Buffa, costruito nel 1882. Le Madri Pie divennero quindi proprietarie dei giardini di palazzo Maineri e di villa Dania e dalla fusione dei due appezzamenti di terreno avrebbe avuto origine il vasto parco che oggi viene inaugurato. Al 1875 risale invece una convenzione tra le Madri Pie e il Comune in base alla quale quest'ultimo avrebbe adibito a propria sede il Palazzo che oggi ospita la Biblioteca Civica e l'Accademia Urbense, acquistato però dal Comune solo nel 1913. L'attuale Palazzo Comunale edificato invece nell'ultimo decennio del secolo scorso, e progettato per ospitare una banca, finì all'asta e nel 1896 venne acquistato dalla famiglia Delfino e solamente nel 1925 divenne sede comunale. Queste le vicende salienti succedutesi nel corso degli anni intorno al Parco oggi consegnato ai cittadini che ne godranno la frescura e vi trascorreranno momenti di piacevole distensione. C'è però una storia più recente che lo riguarda e che merita di essere ricordata: Con l'approvazione del Piano Regolatore Generale avvenuta con delibera consiliare del 24 Aprile 1975 il Parco Madri Pie viene destinato a verde pubblico. Il 23 settembre 1976 l'Istituto Madri Pie vende l'area del Parco alla Società GR. IM. ED Gruppo Imprese Edili e l'immobile, dal 1900 adibito a collegio, vale a dire l'antica villa Dania - Scassi - Buffa, all'Istituto Bancario San Paolo di Torino. Il 9 marzo 1990 il Comune intavola le prime trattative con la Società GR. IM. ED per l'acquisto del Parco (superficie Mq 9.175) e, nella seduta consiliare del 15 marzo successivo il Comune ne delibera l'acquisto, autorizzato con Decreto Prefettizio in data 13 luglio dello stesso anno. Dei 650 milioni richiesti al Comune dalla Società proprietaria del Parco, poco più di un terzo (280.000.000) equivalgono alla eredità Marie Ighina. L'atto ufficiale di acquisto dell'area porta la data del 12 Luglio 1991. Presentazione del libro di Mario Canepa. Giorno di mercato, le nove passate; la finestra che si affaccia su Via Cairoli è spalancata e giungono netti all’orecchio i rumori dalla strada. Gente che va in fretta con le borse della spesa, qualcuno in bicicletta passa fischiando e un amico lo saluta. Benedetto ci osserva serioso ma ormai fa parte del panorama famigliare e non sembra neppure un uomo importante del Risorgimento. E’ tutto normale, Ovada scorre, si esprime a pochi metri sotto di noi e ci troviamo in postazione privilegiata per coglierne le sfumature più vere. Di fronte al monitor Mario focalizza e riquadra le immagini del nuovo album di fotografie, il terzo di una serie che promette bene; ci lavora da parecchie settimane e la conclusione sembra vicina. Giacomo passa in rassegna foto e negative che una volta riprodotte andranno restituite ai legittimi proprietari. Piero commenta la notizia del giorno mentre sfoglia il giornale. Nel corridoio si avvertono sempre più vicini i passi di Sandro che il giornale l’ha piegato sotto l’ascella, impegnato come è tra un morso di focaccia e un sorso coca cola. Riconosce un volto in una foto, azzarda una data e tutti concordano: l’interessato, fratello di Pino e cugino della Wanda, è proprio della leva del quarantotto. Siamo quasi tutti presenti stamattina all’Accademia per fare il punto su una prossima iniziativa. L’ufficio di presidenza però assomiglia più ad uno studio dove si sta montando un film, unica differenza che al posto delle pizze ci stanno le pile di fotografie, in ordine sparso e di vario formato. E’ agosto e, dato l’ambiente che sa tanto di cinematografo, il pensiero vola sulle rive del Tevere dove in questi giorni le troupe approfittano dell’esodo dei romani per girare scene in esterni. Fa caldo ma invece delle spiagge assolate, vengono in mente vecchi film in bianco e nero con protagonisti dalla voce inconfondibile e volti da celluloide che, é certo, mai hanno avuto a che fare con i personaggi che si avvicendano sul monitor. Eppure queste facce conosciute e dal bel sorriso, sembrano avere gli stessi lineamenti degli attori dei western della Metro e della Paramount. Chiedo a Mario se ha in mente un titolo e lui risponde “Bala giainte”: Mi sembra un’ottima scelta e sono certo che sarà condivisa anche da quelli che gli hanno affidato gli effetti più cari: vale a dire centinaia di foto di famiglia sapendo di metterle in buone mani. Esse hanno sonnecchiato a lungo nei cassetti e in vecchi comò, hanno traslocato da un mobile all’altro, da una casa all’altra; poi, un bel giorno, uscite dalla scatola di latta hanno deciso di partecipare a questo convegno estivo organizzato dall’Accademia. Alcune foto hanno persino solcato l’oceano e per una serie di circostanze sono ritornate dopo decenni là da dove erano partite: ingiallite, sfregiate, coi bordi rosicchiati, ripiegate, odorose di muffa e di naftalina. Grazie ai nuovi ritrovati dell’informatica sono state restaurate e ora sono pronte per la gran parata. Piccoli, medi e grandi formati, scattate in Ovada e fuori Ovada, da dilettanti e professionisti, in occasione di memorabili abbuffate, di un tuffo nelle fresche acque dell’Orba con belle gambe messe in fila, durante una gita, oppure a testimonianza di cerimonie civili e religiose ed eventi piacevoli e non di vita cittadina. Poi ci sono i ritratti, le foto di gruppo, i bambini che ormai sono adulti e c’è solamente da scegliere. Credo che sfogliando questo libro ognuno proverà emozioni diverse ma non potrà fare a meno di ricordare la sua gente, rivedere i vecchi quartieri, i vicoli, le contrade affollate nei giorni di festa. Sfileranno volti famigliari, torneranno in mente storie vissute o ascoltate, un’Ovada con le strade sterrate, con campi di grano e giardini a lato delle vie principali e nei dintorni del Bar Stella dove Mario ha lasciato un pezzo di cuore. Le immagini inizieranno lentamente ad animarsi; le voci e i rumori di allora giungeranno all’orecchio sempre più veri per far da colonna sonora ad un film pronto a partire. Basterà chiedere a Franchin del Cinema Moderno, presente tra i mille volti del libro, di prendere ancora una volta il suo posto in cabina e avviare il motore. Il fascio di luce fenderà il buio della sala e quando sullo schermo leggeremo “Bala giainte” allora potremo iniziare a sognare. La camicia rossa di capitan Marchelli e altri ricordi risorgimentali In questi primi mesi del 2011 ogni paese italiano, piccolo a grande che sia, va scovando i propri ricordi risorgimentali per partecipare degnamente all’evento celebrativo dei 150 anni dell’Unità d’Italia. L’Accademia Urbense sta riunendo coccarde e bandiere, uniformi e diari, documenti da esporre in una mostra che si terrà alla Loggia San Sebastiano dal 16 aprile e 26 giugno. Si presenta quindi l’occasione per uno sguardo sul periodo e sull’apporto dato da un buon numero di figli dell’Ovadese, uomini d’azione e di pensiero, alla causa del Risorgimento. La parola evoca sventolanti vessilli e camice rosse, l’immagine trasfigurata di Garibaldi, biondo eroe al cui appello risposero anche alcuni giovani dei nostri paesi. In prima fila il capitano garibaldino, prestigiatore e argonauta, Bartolomeo Marchelli, detto Bazara, ma anche i compagni d’avventura Emilio Buffa di Ovada, barbiere e Domenico Repetto di Tagliolo, contadino. Mentre di questi ultimi poco si sa, di Marchelli sono invece rimaste rilevanti testimonianze: il diario in cui narra le vicende vissute durante la mitica spedizione in Sicilia, interamente pubblicato negli anni ‘80 dall’Istituto Mazziniano di Genova a cura di Emilio Costa e Leo Morabito, un taccuino contente altre memorie, la spada, le medaglie, il bastone di Garibaldi, stampe autografe e un buon numero di documenti il tutto sovrastato dalla mitica camicia rossa continuamente in mostra presso l’Accademia Urbense, dove in tanti l’hanno vista ma soprattutto gli alunni delle scuole che, per più generazioni, hanno appreso la leggendaria storia di capitan Marchelli dall’appassionata parola del pittore Natale Proto il quale, alle vicende narrate, aggiungeva sempre aneddoti nuovi. Fu lui a ritrovare il cimelio perduto mezzo secolo fa ed è un avvenimento che merita di essere ricordato. Fin dai primi mesi del 1960, il Comune di Ovada, sindaco Giuseppe Vignolo, in collaborazione con l’Accademia Urbense da poco ricostituita e a cura del prof. Emilio Costa, eletto nel novembre di quell’anno assessore alla cultura e alla pubblica istruzione, aveva promosso una commemorazione e una mostra sul Risorgimento da tenersi nel 1961 nella Sala Consigliare: Costa sapeva di poter contare su preziosi collaboratori: Franco Resecco pittore, Franco Pesce tipografo, Pierino Cristini fotografo e l’onnipresente fac totum Nino Natale Proto, il quale, ormai da mesi, aveva in testa un unico pensiero fisso: ritrovare la camicia rossa e la spada del capitano Marchelli, reliquie andate disperse negli anni della guerra. Gli effetti personali di questo garibaldino, scomparso nel 1903, erano stati donati verso il 1912 dalla seconda moglie Elena Soda, di origine napoletana, al Comune di Ovada con sede in Piazza Cereseto. Gli amministratori avevano procurato di farli sistemare in opportuna teca. Dopo il 1925, con il trasferimento del Comune a Palazzo Delfino, la divisa del Marchelli, completa di pantaloni e di spada, fu quasi del tutto dimenticata per finire, negli anni trenta, nella nuova Casa del Fascio, oggi sede della Guardia di Finanza. Durante la seconda guerra mondiale, con l’occupazione della città da parte delle truppe germaniche, l’anziano calzolaio Aloisio, custode della casa, per timore che l’uniforme garibaldina potesse essere sottratta, o peggio ancora distrutta, la nascose accuratamente. Con la sua scomparsa avvenuta qualche anno dopo, della camicia rossa non si parlò più. Preparando però l’Accademia, che allora aveva sede nel Palazzo della Scuola di Musica, la mostra dedicata al centenario dell’Unità d’Italia, il dinamico Proto continuava a chiedere ai famigliari, e in particolare alla signora Elisa Olivieri vedova Alloisio, lumi sulla divisa garibaldina, senza però venirne a capo di nulla. Tenace e determinato com’era pregò di cercare meglio e un bel giorno il suo desiderio fu soddisfatto; finalmente, come annota Proto stesso nel suo diario, la signora Elisa gli fece una bella sorpresa. Il 27 maggio 1960 lo mandò a chiamare e gli consegnò un involto che conteneva la camicia rossa tanto fantasticata. Per diversi anni era rimasta nascosta sotto una catasta di fascine nella vicina legnaia. Il berretto e i pantaloni però erano del tutto rovinati e inservibili. La notizia del ritrovamento della camicia rossa fu diffusa da Radio Sera il 27 ottobre 1960 e ne parlarono un po’ tutti i giornali dell’area ligure piemontese. L’interesse suscitato dal ritrovamento e dalla commemorazione storica in itinere, portò al recupero, nei mesi seguenti, anche della spada del garibaldino e d’altri documenti del Marchelli, donati all’Accademia dall’artigiano ovadese Aristide Ravera che a sua volta li aveva ricevuti da parenti prossimi del Marchelli. Con le elezioni amministrative del novembre 1960 al sindaco Vignolo succedeva Angelo Ferrari il quale ebbe l’onore di annunciare la commemorazione tanto attesa con le seguenti belle e significative parole: “Ovada è orgogliosa di celebrare il primo centenario dell'Unità d'Italia ricordando i suoi figli che offrirono al nostro Risorgimento amore e azione. Domenica 2 luglio alle ore 10 nella Sala del Consiglio Comunale, l'Assessore alla Pubblica Istruzione Emilio Costa terrà l'orazione ufficiale sul tema: «Il contributo di illustri ovadesi al Risorgimento Italiano». Sarà presentata l'urna contenente la Camicia Rossa, le decorazioni e altri cimeli del Capitano Garibaldino Bartolomeo Marchelli”, sulla cui figura per l’occasione venne distribuita una breve biografia.