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A giudicare dall’incipit di questo suo libro, potremmo definirla un grande talento in “esercizi di stile” alla Queneau, dal momento che l’autrice parla del proprio oggetto con il tono, i colori e il ritmo di una novella di Giovanni Verga, e lo fa con originalità ma anche con un perfetto esito di assimilazione e di eloquio rivissuto. A dire il vero, aggiunge un grado in più d’ironia molto elegante, incline al divertissement (poiché la vicenda narrata ha il movimento e l’intrico narrativo di una commedia intellettualistica e acre), ma possiede anche una linea di fatalità che ci appare essenzialmente tragica. No, non è la tragedia che termina con apocalittici crolli, con morti e catastrofi, ciò che sarebbe ancora il meno, poiché, come ci suggeriscono le parole di un perseguitato (credo, di Gilberto Fuentes, un cubano oppresso da Castro), «è meglio una fine con orrore che un orrore senza fine». La storia (vera, ahinoi!) narrata da Chiara Di Dino ha colori di tragedia tristissima, malinconica, e sa di sconfitta graduale, di progressivo perdersi di ogni speranza, di iniqua morte civile, di esilio in patria: soprattutto, è uno mostruosa iniquità, plausibile in una plaga barbarica e immersa nelle superstizione e nello spirito arcaico di rapina e di prevaricazione, ma intollerabile in un’area di civiltà occidentale. Probabilmente, era destino che la giovane ricercatrice palermitana, già autrice di lavori di gran pregio (sulla storia della musica in Sicilia, sull’archetipo di Turandot…), cantante liederistica e impegnata nel costruirsi un repertorio originale e assolutamente insolito, prima o poi nella sua vita s’imbattesse nel “caso Monleone”. Un caso eccentrico e strano, tanto romanzesco da apparire immaginario, e perciò congeniale all’indole analitica e indagatrice della studiosa. Un caso complesso, anche perché già nelle premesse storiche fu una realtà doppia. Pronunciare quel cognome significa chiamare in causa due figure del Novecento storico. La prima delle due è il protagonista della presente ricerca storica e biografica: il compositore Domenico Monleone, nato a Genova lunedì 4 gennaio 1875, morto giovedì 15 gennaio 1942 nella sua stessa città natale. 3 L’altra figura è il fratello di Domenico, ossia Giovanni Monleone (Genova, venerdì 11 aprile 1879 – ivi, giovedì 30 gennaio 1947), che per molti anni, prima di essere obnubilato dal trascorrere del tempo, appartenne al novero dei genovesi illustri e memorabili. Giovanni fu scrittore, e in pubblico ebbe l’immagine prevalente di giornalista-scrittore (diresse dal 1914 al 1922 la «Gazzetta di Genova»). In realtà, fu intellettuale estroso e di eccellente cultura. Giovanni Monleone conosceva le lingue e le letterature dell’antichità classica così come gli uomini di buona cultura, anche non specialisti, le conoscevano un tempo (oggi, in Italia, il medico, l’avvocato, il magistrato, l’economista, il fisico, il matematico, sono magari bravissimi nella professione ma ignorano del tutto il latino e il greco o ne conservano un miserando barlume). Il fratello di Domenico fu apprezzato in ambito universitario per avere egli tradotto un dramma satiresco ellenico, uno fra i rarissimi superstiti, Il Ciclope di Euripide (Del Maino, Piacenza 1907). Giovanni coltivò un’attività di filologo e storiografo: attratto dalla figura dell’antico cronista cittadino Caffaro di Rustico di Caschifellone (1080 o 1081 – ca. 1164), considerato in tempi moderni un vero maestro nel campo della storiografia locale d’Italia nel medioevo, Il più giovane dei fratelli Monleone curò gli Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, un’opera notevolmente plausibile per qualità storiografica, documentatrice, per mano di Caffaro, di eventi genovesi dal 1099 al 1163, e conclusa da Jacopo Doria con una narrazione che giunge al 1293. Giovanni Monleone ne completò la traduzione che l’illustre poeta ligure Ceccardo Roccatagliata Ceccardi aveva lasciato interrotta (Comune di Genova, Genova 1923). Giovanni Monleone fu operoso librettista, e lo fu con particolare generosità per suo fratello Domenico. In quella sua attività d’autore, Giovanni mostrò una viva predilezione per soggetti non convenzionali, e fu sostenuto da una cultura letteraria e teatrale alquanto superiore a quella media dei librettisti italiani della sua epoca. Per Domenico scrisse Alba eroica (1910), Arabesca (1913), La giostra dei falchi (1914), Suona la ritirata (1916), Il mistero (1921, opera che incredibilmente è apparsa al Teatro dell’Opera di Tirana in Albania), La ronda di notte (1933). Ma ecco, siamo arrivati al nucleo spinoso della questione. Di Giovanni fu anche il libretto per la prima delle opere teatrali di Domenico, con un soggetto tratto da una celebre novella di Giovanni Verga che a sua volta era stata trasformata in veste teatrale dallo scrittore siciliano: Cavalleria rusticana. Com’è arcinoto, una “crux” della critica e della storiografia in campo musicale e teatrale è l’esistenza di “stelle doppie”, ossia di coppie di opere per il teatro musicale che abbiano lo stesso soggetto e lo stesso titolo, e tali che uno dei due lavori sia storicamente portatore di immensi successi e l’altro sia stato interamente eclissato: le due Bohème di Puccini e di Leoncavallo, i due Wozzeck di Berg e di Gurlitt, la Salome di Strauss e la Salomé di Mariotte, i due Tannhäuser di Wagner e di Mangold. Malinconica, sempre, e talvolta ingiustificata, la penombra che è scesa 4 sull’una delle due opere di ciascuna coppia. Ma la vicenda di Domenico Monleone, con l’impossibile coesistenza tra la sua Cavalleria e la fortunatissima Cavalleria di Mascagni, è completamente diverso: è fosco, crudele e iniquo, da gridar vendetta. Sulla negazione dei diritti all’esistenza (almeno in Italia) dell’opera di Monleone, che pure viene rappresentata all’estero con successo e curiosità da parte del pubblico più diverso, si esercitano la ricerca magistrale e il giudizio “sine ira et studio” di Chiara Di Dino. Dalla figura archetipica e “preistorica” di Santa Pulvirenti fu Nicola, nata nel 1860 (guarda caso, nell’anno in cui Verga cominciava a diventare ufficialmente italiano) e diciassettenne nei giorni della “mala Pasqua” 1877, alla rappresentazione di Cavalleria rusticana di Verga, divenuta dramma da novella che era, al Teatro Carignano di Torino il 14 gennaio 1884, alla gestualità sopra le righe di Giovanni Grasso che arrivava in scena con il coltello insanguinato, alla musica di Giuseppe Perrotta pioniere dell’associazione tra quella trama e il pentagramma, fino ai momenti di acuta nevrosi: le rappresentazioni ad Amsterdam e a Torino della Cavalleria di Domenico Monleone nel 1907, fino allo scontro giudiziario con Mascagni e alla proibizione di rappresentazione in Italia, a termini “di legge”, per la sfortunata opera del musicista genovese, Chiara Di Dino sdipana la complicata sequenza di avvenimenti con velocità, leggerezza e incisività, ponendo in opera la straordinaria quantità di conoscenze da lei acquisite anche tramite le diretta frequentazione degli attuali discendenti di Monleone, che con illuminata generosità le hanno offerto a disposizione tutti i documenti necessari. Chiara Di Dino ci regala così la prima monografia oggettiva e documentata su questo affascinante e tormentoso episodio della nostra storia musicale e teatrale. Pensiamo all’odierna riapparizione catanese di Cassandra del redivivo Vittorio Gnecchi, anch’egli vittima dell’ingiustizia per decenni, e ci sembra di cogliere forti affinità tra il destino del compositore lombardo e quello del valoroso Monleone, combattente intrepido e mai arreso. Sia questo un promettente segno di novità, di prossimo ritorno della giustizia nei molti settori della “Wertungsforschung” italiana che dall’iniquità è soffocata. In senso figurato, ma anche, oramai, in senso letterale, dopo il libro che presentiamo in queste pagine sarebbe da attendere, con qualche impazienza, il Giorno del Giudizio. Quirino Principe 5 CAPITOLO I VERGA E LA SUA CAVALLERIA Probabilmente di quella Santa e della sua storia aveva sentito parlare durante qualche discussione fra comari. Uno di quei discorsi che le donne fanno all’uscita dalla messa quando, dopo essersi confessate e aver fatto la comunione, essendosi appena lasciato il portone della chiesa alle spalle, abbassano il tono della voce e raccontano - non per cattiveria ma per puro “dovere di cronaca”gli avvenimenti più importanti della vita di un qualunque vicino di casa, arricchendo la storia con qualche commento salace, perfido, che finisce per mescolarsi alla realtà confondendosi con essa. È virtù estrema delle donne di paese quella di fare del pettegolezzo un’arte: animate dalla voglia di “compatire il prossimo” ne raccontano la vita, terminando puntualmente la narrazione con frasi come “Mischino, però era un bravu cristianu, idda fu”. Sempre colpevoli le donne, sin dalla Genesi eterne tentatrici! E di certo quella donna era stata a lungo sulla bocca di tutti. L’eco della sua storia era arrivata certo anche alle orecchie di Verga che, alla stregua delle “brave e prudenti” donne dell’entroterra siciliano, raccontò quella vicenda e fu così che tutto il mondo ne venne a conoscenza. Potenza dell’arte! Sicuramente lo scrittore non aveva agito perché animato dal desiderio di pettegolare, e non perché questa sia una peculiarità esclusivamente femminile, tutt’altro! Siamo certi che egli parlò, o meglio scrisse, soltanto perché intento fondamentale del programma del verismo era quello di rendere la pagina scritta un vero e proprio “specchio del reale”. Anche Domenico Manzella, il 2 aprile del 1946, aveva raccontato sulla rivista «L’osservatore politico letterario», quanto narrato da Nunzio Cossu riguardo al fattaccio successo nel Vizzinese: Nel 1946, si spense a 86 anni una delle protagoniste: Santuzza, la gnà Santa di massaro Cola, al secolo Santa Pulvirenti fu Nicola. A scoprirla, nel 1936, era stato il giornalista e scrittore Titomanlio Manzella, il quale scrisse di lei su «L’Espresso»: «Dieci anni fa, avendo per caso sentito parlare a Vizzini di una certa Santuzza di 76 anni, ci recammo a trovarla. Sì, era proprio lei, la protagonista di Cavalleria rusticana. È di importanza decisiva la risposta di Santa Pulvirenti alla domanda della giornalista che la stuzzicava sulle responsabilità della gnà Lola: la colpa è stata mia e di compare Alfio. Quando lo informai… speravo che egli sarebbe corso a scannare quella mala femmina… ma non fu così. Compare Alfio invece si trascinò Turiddu Macca fra le macchie di fichi d’India della Carinzia e gli diede tre coltellate che non lo fecero tornare più. Quella fu la mala Pasqua di Vizzini, quell’anno! Per me la Mala Pasqua di tutta la vita». Durante la sua intervista il Manzella vedeva, appesa ad una parete, la fotografia di Santuzza (nella Mala Pasqua del 1877 aveva appena diciassette anni) e quella di Turiddu Macca. Quanto a compare Alfio: «Compare Alfio non doveva sposare una donna che aveva vent’anni meno di lui, una donna così bella… Se Compare Alfio avesse sposato una donna adatta alla sua età, Turiddu non se ne sarebbe innamorato e non avrebbe fatto la mala sorte che fece… Io e Turiddu ora saremmo certamente nonni felici. La colpa è stata di Compar Alfio! Il quale è morto all’ergastolo…. Lo ha consumato il rimorso di aver ucciso un giovane bello come un apostolo».1 9 Di sicuro a Verga questa storia non sarà sembrata poi così insolita. La cronaca della vita siciliana per tanti anni è stata stracolma di vicende di tal genere. Nulla più che il fatto di essere apostrofato “cornuto” è stato per lunghissimo tempo in grado di ferire maggiormente un uomo siciliano nella sua virilità. Del resto il cosiddetto “delitto d’onore” per la legge italiana è stato abolito da pochi decenni, mentre prima era autorizzato, legittimo agli occhi di tutti, quasi dovuto! La vicenda successa a quella Santa era proprio lo spunto ideale per un racconto, era fatta su misura per essere narrata in un testo verista. Ma Verga non era fermamente convinto dell’efficacia del testo teatrale ispirato a questo soggetto.2 Del resto era la prima volta che lo scrittore spaziava nell’ambito teatrale e pertanto assai intimorito dagli esiti che questa Cavalleria rusticana potesse avere, per cercare conforto, scriveva da Catania all’amico Giacosa: La compagnia nella quale recita la Duse quanto sarà ancora al Valle? Vorrà e potrà recitare una cosa mia in un atto o due a Roma nel prossimo novembre? Se sì quando dovrei venire a Roma col copione? Vedi che divengo ambizioso e mi butto nella mischia anch’io, a condizione che tu, mio fratello d’armi, mi faccia da padrino.3 Giacosa letto il testo, l’8 ottobre 1883 così rispondeva all’amico: Carissimo Verga, giunsi a Roma stamani e trovo ora al Fanfulla la tua lettera dell’8 (ottobre) corrente. Eccomi qui dolente di non possedere che due mani per applaudirti e per invogliarti alle scene. Ti giuro che con un’attrice come la Duse si possono fare meraviglie. La compagnia Rossi sta a Roma tutto Ottobre, Novembre a Torino, donde non si muoverà per sei mesi. Se vieni subito e se il lavoro non ha più di due atti, lo si può mettere in scena subito. A Torino il pubblico è poco propenso alle novità. Ma la tua piacerà anche là. Purché beninteso ci sia gran parte per la Duse4 Soltanto Giacosa ed il giornalista Torelli - Viollier, in realtà, compresero quali potessero essere le potenzialità del testo, mentre la critica mossa da tutti gli altri amici cui fu sottoposto lo scritto fu oltremodo aspra. Non si trattò però semplicemente di una pioggia di “amichevoli” critiche: alle voci di Boito5, e Treves che avevano bocciato il testo, si unì poi anche quella del capocomico Cesare Rossi e del suo portavoce Andò, ai quali l’opera fu proposta con l’intento di metterla in scena al teatro Carignano di Torino. I commenti del capocomico e del suo assistente, seduti una sera allo stesso tavolo con Verga e Giacosa per discutere sull’eventuale messinscena del dramma, furono assai più caustici di quelli espressi dagli amici intellettuali che erano stati invitati a giudicare l’opera. 10 Il capocomico, con modi assai rozzi, asserì di trovare il testo assolutamente inadatto alle scene ma, la perseveranza e l’ostinazione dei due letterati riuscì a fargli mutare opinione tanto che, alla fine del pasto, esausto per l’insistenza delle parole di Giacosa e Verga, acconsentì a mettere in scena l’opera soltanto per una sera, asserendo:«Se non sarà un fiasco vorrà dire che la mia esperienza da uomo di teatro non sarà servita a nulla...6 ». Inoltre poiché si era dichiarato contrario ad investire denaro per i costumi e le scenografie che non sarebbero state di certo mai più usati, il “taccagnissimo” Verga, “l’uomo della Roba”, si disse pronto a sostenere le spese per la rappresentazione. Fu così che le sarte di Vizzini tagliarono e cucirono gli abiti di scena, anche quelli destinati ad Eleonora Duse le cui misure furono comunicate da Verga alla sartoria: Lunghezza dal fianco al piede, centimetri 100. Lunghezza della cintola: centimetri 58 o 59. Lunghezza delle maniche, dalla spalla al polso: centimetri 61. Lunghezza del corpo o spenser, dal collo alla cintola, centimetri 36 o 37.7 La sera del 14 gennaio 1884, al Carignano di Torino, si aprì il sipario per la prima rappresentazione della Cavalleria di Giovanni Verga. Sul palco c’era la Sicilia, quel mondo lontano che la città piemontese non conosceva, c’era la storia di Santa Pulvirenti interpretata dalla Duse, protagonista di quel dramma forte del tutto estraneo alla mentalità del Settentrione. Ebbene, nonostante il succedersi di scene di vita quotidiana che ai torinesi potevano apparire violente, gli spettatori furono rapiti dall’evolversi della vicenda e coinvolti dal carattere ancestrale espresso dallo sviluppo di quella storia vera che, assai lontana dal gusto consolidato fino a quei giorni, squarciate le tele di cartone ed i merletti del teatro allora contemporaneo, si era imposta energicamente con la propria brutale efficacia. Il successo fu clamoroso, Verga però quella sera non era in sala. La paura che le parole del capocomico Rossi potessero trasformarsi in profezia, lo avevano tenuto lontano dal teatro. Fu presente allo spettacolo il giorno successivo per assistere alla seconda recita ed accogliere così gli scroscianti applausi e l’onore che gli vennero tributati come testimonianza del più grande successo e favore di pubblico mai accordatogli in tutta la sua vita. Cavalleria rusticana continuò ad essere rappresentata in giro per l’Italia. Il consenso del pubblico ogni sera era garantito8. Verga assisteva felice al successo della propria creazione, era persino riuscito a guadagnare qualcosa (ben poco invero rispetto alle potenzialità del testo). 11 Il carattere dell’opera, però, se da un lato aveva attirato il massimo consenso delle platee, fu anche una delle cause che provocò la degenerazione del dramma. Il testo infatti cominciò ben presto ad essere stravolto con nuovi e “originali” elementi che, a cornice della trama, venivano inseriti ad ogni rappresentazione da qualche attore un po’ troppo intraprendente. Fra questi, ad esempio Giovanni Grasso, che, probabilmente, calatosi in maniera assai perfetta nei panni dei personaggi truculenti che rappresentava, ogni sera inseriva qualche scena in più nel testo, “arricchendo” il carattere feroce del soggetto con ulteriori atti di violenza assai gratuiti e poco funzionali all’evolversi della vicenda. […] Grasso, dopo l’annuncio della morte di Turiddu, ricompariva sulla scena, inseguito da due carabinieri, con i capelli scomposti ed il coltello insanguinato in mano, che mostra agli atterriti spettatori!9 Alcune rappresentazioni del dramma, messe in scena nei mesi successivi al debutto, accanto a questa variante deprecabile apportata da Grasso, ad apertura del sipario, erano accompagnate da un motivo che possedeva “ un carattere assai siciliano”. Si trattava di musica commissionata da Verga a Giuseppe Perrotta, compositore catanese10, al fine di ricreare, in modo assolutamente immediato il carattere “rustico” e verista dell’ambientazione. Il 22 marzo Verga scriveva all’amico musicista: Caro Peppino, Giacchè la “Cavalleria rusticana” ha avuto tanta fortuna, superiore al merito di certo, fammi un pezzo per piccola orchestra d’introduzione alla commedia: una specie di piccola sinfonia e di epilogo musicale della commedia, da suonarsi prima di alzare il sipario, che sia semplice soprattutto, chiara, ed efficace, intonata al soggetto, senza astruserie, né difficoltà, qualcosa che abbia il colore, il soffio veramente Siciliano e campestre […] Un canto d’amore che sospiri nella notte, quasi il caldo anelito di Turiddu che va a lagnarsi sotto le finestre della Gnà Lola e il lamento di Santuzza che attende invano. Poi la vita nel villaggio che si desta, il suono delle campane a festa, la nota di gelosia e di amore che torna ed insiste e forma pedale, ed infine lo scoppio furibondo dell’ira della gelosia, le grida dell’accorruomo, della madre, dell’amante.11 Si trattava della prima Siciliana che avrebbe aperto la Cavalleria rusticana, anche se non sarà questo, di certo, il motivo musicale che riecheggia nella memoria di chi sente fare menzione della “Siciliana” di Cavalleria. Al suono di queste parole la mente puntualmente torna ai versi ... 12 O Lola c’hai di latti la cammisa Si bianca e russa comu’na cirasa Quannu t’affacci fai la vucca a risu Beatu cui ti da lu primu vasu Ntra’ la porta tua lu sangu è sparsu E nun me’mporta si ce muoru accisu E siddu muoru e vaju’n paradisu Si nun ci truovu a’ ttia mancu ci trasu ... accompagnati da una musica scritta in 6/8 da Pietro Mascagni, colui che rese immortale il testo di quella Cavalleria che, messa in bocca ad attori troppo intraprendenti sarebbe uscita di scena assai presto, lasciando traccia di sé semplicemente su qualche accurata antologia, destinata all’attenzione di un gruppo ristretto di studiosi. Ma il destino riservato al testo teatrale fu sicuramente più fausto. 13 NOTE 1 Domenico Manzella, Verga e la personalità in arte, «Sipario», XLV/ 507-508, Milano gennaio-febbraio 1991, p.41. 2 Giovanni Verga, Cavalleria rusticana, novella pubblicata nel«Fanfulla della domenica» (14 marzo 1880), poi nella raccolta Vita dei Campi, Treves, Milano 1880. 3 Giulio Cattaneo, Giovanni Verga, U.T.E.T., Torino 1963, p. 222. 4 Ibidem. 5 La reazione di Boito era comunque facilmente prevedibile data la ben nota avversione dello scrittore per il genere verista. Qualche anno dopo nell’asserire che la Boheme di Puccini era basata su una trama non adatta alla scena, avrebbe dato ampia dimostrazione di quanto il suo giudizio non fosse dettato da “buon fiuto.” 6 Domenico Manzella, Verga e la personalità in arte, «Sipario», XLV/507-508, Milano gennaio-febbraio 1991, op.cit., p. 41. 7 Giulio Cattaneo, Giovanni Verga, p. 229. 8 Unica eccezione nel cammino trionfale di “Cavalleria” fu l’insuccesso che l’opera ebbe a Trieste il 10 marzo del 1888. Fu però l’unico caso in cui il consenso assoluto non fu accordato all’opera. 9 Nino Genovese, Per una storia di Cavalleria rusticana: dalla novella al film in Verga e il cinema, Maimone, Catania, 1996, p. 93. 10 Giuseppe Perrotta fu compositore al quale non fu mai concessa grande fama. Suoi sostenitori furono Verga e Giocosa, su un libretto scritto da quest’ultimo letterato, Perrotta scrisse l’opera Il trionfo d’amore alla quale non fu accordata alcuna fama. Del resto anche il componimento per piccola orchestra, composto dal musicista catanese, al fine di farlo eseguire come pezzo d’apertura del dramma Cavalleria, a causa di una scrittura per nulla facile, ed incomprensibile per il pubblico, fu eseguita per poche serate, poi cadde nell’oblio. 11 Giulio Cattaneo, Giovanni Verga, op. cit., p. 241. 14 CAPITOLO II MASCAGNI E LA “CAVALLERIA IN MUSICA” Il giovane artista di Livorno, Pietro Mascagni, avendo letto il testo di Verga intuì immediatamente e senza alcuna esitazione che nell’opera letteraria erano presenti tutte le potenzialità necessarie ad assicurare a coloro i quali avessero lavorato su quel soggetto, musicandolo o traendone un libretto operistico, gloria, fama e denaro. Pertanto, avendo deciso di partecipare al concorso bandito da Sonzogno l’anno 1889, su consiglio dell’amico Targioni-Tozzetti, scelse il testo del “dramma rusticano” per comporre un’opera di un atto1. L’esordio di questa nuova Cavalleria subì le stesse critiche che avevano accompagnato la prima della Cavalleria di Verga. L’editore Ricordi, al cui esame l’opera fu sottoposta dal giovane Mascagni su suggerimento del suo amico Puccini (con il quale Mascagni divideva la stanza in affitto a Milano), aveva trovato l’opera assai inadatta alle scene. Ma la storia di Cavalleria rusticana, procedendo incessante nel suo andamento ciclico, era destinata a ripetersi in maniera identica. Infatti anche questa nuova versione del testo, a dispetto di quanto asserito dall’editore, fu accolta con mirabile successo tale da garantirla e difenderla dal rischio di cadere completamente nell’oblio. Mascagni vinse il concorso Sonzogno e subito si adoperò per ottenere da Verga il nullaosta alle rappresentazioni dell’opera. A tal fine si rivolse allo scrittore come testimoniano le due lettere a lui inviate a breve distanza di tempo: Illustrissimo Sig. Cav. re Giovanni Verga, mi perdoni la libertà che mi prendo nello scriverle questa mia chiedendole un favore che la sua gentilezza, spero, non vorrà rifiutarmi. - Credo che il sig. Giovanni Silvestri le avrà scritto che io presentai al Concorso Sonzogno un’opera dal titolo Cavalleria Rusticana tolta completamente dal Suo tanto noto lavoro; io avevo pregato di ottenere da Lei il permesso per la proprietà letteraria; ma Silvestri mi disse allora che non c’era fretta, poiché il Concorso era a schede chiuse e si poteva aspettare fintantoché non fossero conosciuti i lavori premiati. - Adesso le cose son precipitate: un telegramma mi chiamò a Roma dove la Commissione del Concorso mi annunziò che la mia opera era risultata la migliore e perciò si sarebbe messa in scena al Teatro Costanzi di Roma. - Si figuri la mia sorpresa: uscire primo fra settantatré concorrenti! - La mia commozione fu profonda. - Mi vedo un avvenire!Ma attendo da lei, gentilissimo signore, una parola che mi conforti maggiormente: attendo il suo consenso; e sono certo che non vorrà interrompere un sogno dorato di chi vede in questo fatto il principio di una carriera.2 Nel prosieguo della lettera Mascagni autorizzava Verga a imporre patti utili e necessari alla concessione del proprio assenso alla messa in scena dell’opera. La risposta di Verga fu positiva: dava il proprio assenso. 17 Mascagni il 27 marzo indirizzava a Verga questa nuova lettera: Illustre Signore, la sua gentilissima lettera mi giunse in ritardo, poiché mi trovavo a Livorno presso mio padre. - Non può credere però con quanta ansia attendessi questa lettera e come rimasi contento della Sua cortesia e bontà a mio riguardo. - Io la ringrazio dal profondo del mio animo; e l’assicuro dalla mia eterna riconoscenza e devozione. - Rimasi però mortificatissimo sapendo che Lei avrebbe volentieri prestato l’opera Sua, unendo il Suo nome illustre al mio meschino nome. - Dio mio se l’avessi almeno supposto! […] - io mi auguro di vederla a Roma per la rappresentazione che sarà nella seconda quindicina di Aprile. - Allora vedremo cosa ci sarà da fare e stia sicuro che io come Targioni accetteremo i suoi consigli e magari (fosse vero!) la sua collaborazione.- In quanto agli interessi, Ella mi mostra ancora una volta la sua gentilezza. - Io le parlo schiettamente. - Oggi mi sembra impossibile muovere anche il più piccolo passo. - Ma ho tutta la speranza di vendere la mia opera dopo la prima rappresentazione ed allora potremo intenderci come Ella dice nella lettera […] Le rinnovo i sensi della mia devozione e mi segno umilmente Pietro Mascagni.3 Chiaro ed evidente appare lo spirito che anima questa corrispondenza epistolare: l’ardore giovanile, commisto al timore di non ottenere i diritti per utilizzare il testo di Cavalleria spinsero il musicista ad adoperare quelle frasi che avrebbero dovuto convincere Verga a cedere tanti, troppi diritti da esercitare sul testo. Ma è inutile dirlo, Verga non aveva bisogno di suggerimenti, era perfettamente al corrente riguardo ad ogni modalità di azione in ambito legale, ad ogni atto da compiere per riuscire ad ottenere ciò che gli era dovuto. Talora, invero, le pretese che lo scrittore accampava miravano all’acquisizione di ciò che non era legalmente a lui attribuibile ma, agguerrito ed ostinato nei propri intenti, il Catanese conduceva sempre in maniera vigorosa le proprie battaglie. Alla lettera scritta da Mascagni, dunque rispose con un contratto stipulato con scrittura privata fra il 7 ed il 9 aprile concedendo al giovane musicista la possibilità di «versificare o far versificare, ridurre per musica o far versificare il proprio dramma». A sua volta Mascagni si impegnava a corrispondere a Verga la parte degli utili a lui spettanti in conformità alla legge sul diritto d’autore. La sera della prima rappresentazione dell’opera, il 17 maggio 1890 Verga, presente in sala, fu diretto testimone del trionfo. Dalle reazioni del pubblico la sera egli percepì che il testo dell’opera gli avrebbe garantito serenità assoluta, liberandolo da tutti gli affanni generati dall’indigenza nella quale versava, come si evince dalla corrispondenza che lo scrittore inviò ai suoi amici. A breve distanza di tempo, prendendo le mosse da quanto sancito dal contratto, lo scrittore siciliano, noto soprattutto per la propria insaziabile brama di denaro, cominciò ad avanzare ri18