Salorno nei ricordi di Johanna Schuchter Infanzia in Sudtirolo STORIE A cura di Milena Cossetto, Magda Delugan e Elena Farruggia Johanna Schuchter nasce a Zell am See il 2 marzo 1884, dove il padre Josef Fill era borgomastro. La madre muore quando Johanna aveva un anno e mezzo; a cinque anni viene affidata, inizialmente per qualche mese all’anno, Benjamin Kofler, agiato commerciante di Salorno. Con la morte prematura anche del padre, quando Johanna aveva 7 anni, si stabilisce a Salorno, presso la famiglia Kofler. A 22 anni lascia defintivamente Salorno e si sposa con il medico Franz Schuchter di Salisburgo. I coniugi Schuchter visitano molte città dell’Europa centrale, prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Durante la guerra Johanna si occupa dell’assistenza ai militari feriti, coadiuvando il marito medico all’ospedale militare e organizzando per i convalescenti serate letterarie, concerti di musica. La sua passione per la scrittura e la lingua italiana le permette, dagli anni Venti in poi, di fre4 quentare pittori e musicisti di fama, tra i quali Oskar A. H. Schmitz, il pittore Alfred Kubin, l’autore teatrale Max Mell, il filosofo e sociologo Othmar Spann, il direttore del teatro dell’opera di Salisburgo Franz Schalk, la poetessa Erna Blaas, docenti universitari e numerosi esponenti della cosiddetta intelligentia mitteleuropea. Nel 1925, su sollecitazione dello scrittore Hermann Bahr, traduce in lingua tedesca i “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni; fu membro del direttivo della attivissima Associazione “Dante Alighieri” di Salisburgo, fondata nel 1935, poco dopo la firma dell’accordo culturale fra l’Austria e l‘Italia. Fondatore e primo presidente è l’Agente Consolare italiano a Salisburgo, il Tenente Co- 6 storiae lonnello Floro Berardo, che aveva riunito nella sua casa sul Mönchsberg un circolo di amici e amanti dell’Italia. Già nel novembre del 1935 vengono istituiti 7 corsi di lingua tenuti da insegnanti italiani e frequentati da 27 italiani e 78 austriaci. Le lezioni si svolgevano in un’aula delle scuole comunali concessa dal Borgomastro, poi all’Hotel Bristol. Riunioni e conferenze si tenevano nella casa del console Fra i soci e i membri del Consiglio direttivo si ritrovano nel corso degli anni numerose personalità di spicco, tra cui il pittore Alberto Susat, il Maestro Bernhard Baumgartner che diresse per lungo tempo le iniziative musicali della “Dante”, lo scultore Toni Schneider-Manzell, autore del portale di sinistra e del pulpito del Duomo di Salisburgo, e Johanna Schuchter. Johanna scrive, inoltre, due libri di memorie, uno dedicato alla vita quotidiana a Salisburgo nella prima metà del Novecento e uno dedicato alla sua infanzia e giovinezza a Salorno negli anni tra il XIX e XX secolo, tradotto in lingua italiana ed edito a Salorno dalla Fondazione Kofler nel 2006. Ne pubblichiamo alcuni stralci, accompagnati da immagini d’epoca. Johanna Schuchter muore a Salisburgo il 14 agosto 1985. 4. Johanna Schuchter. 5. Benjamin Kofler. 6. Veduta di Salorno dall’alto. La Fondazione Benjamin Kofler di Salorno Il nome di Benjamin Kofler è legato al paese di Salorno non solo perché vi nacque il 18 gennaio 1833, ma anche e soprattutto per la fondazione a scopo benefico che ne porta il nome. Qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 22 dicembre 1905, Kofler espresse alla figlia Emma il desiderio di fare del bene ai poveri di Salorno creando un istituto di assistenza. Emma, donna schiva e discreta, provvide ad esaudire la volontà paterna e il 21 marzo 1906, poco prima della sua morte, lasciò disposizioni chiare e tassative che diedero vita alla “Fondazione Benjamin Kofler”. La popolazione di Salorno accolse con grande entusiasmo l’atto di grande generosità di Emma, dietro il quale si celava il desiderio della donna di riscattare la figura del padre che, di carattere forte e volitivo, aveva avuto forti contrasti con qualche maggiorente del paese e con la stessa amministrazione comunale. Fin dall’inizio la direzione della casa e l’assistenza degli ammalati e dei bambini fu affidata a tre suore dell’Istituto di Santa Croce di Hall e, a partire dal 1923, dopo l’annessione al Regno d’Italia subentrarono quattro suore della Sacra Famiglia di Castelletto sul Garda. La Fondazione vis5 se un momento difficile durante la dittatura fascista: il podestà di Salorno infatti, maggiore Pietro Calandra, tentò di incamerare la Fondazione Kofler e di farne un ente comunale. La cosa non riuscì anche grazie alla tenacia di don Bertoldi che, sostenuto anche dalla Curia Arcivescovile di Trento, difese strenuamente l’autonomia della Fondazione. Nel dopoguerra e nei decenni successivi la Fondazione e le sue strutture vennero rimodernate ed adeguate alle nuove normative. Rimangono un punto di riferimento fondamentale per la popolazione e per i Servizi Socio-Assistenziali del territorio di Salorno. Johanna Schuchter: i miei ricordi I miei ricordi più remoti non sono legati al Sudtirolo ma alla patria natia Zell am See, allora ancora un borghetto idilliaco nell’entroterra salisburghese. Giacchè una strana sorte mi sradicò appena quinquenne dalla patria, la memoria ha conservato soltanto sporadiche impressioni; tuttavia alcuni avvenimenti sono rimasti impressi con maggiore intensità e, con essi, la casa, le viuzze e l’intero ambiente paesano di cui formavano la cornice. La mediana delle tre vecchie case con il frontone nel vicolo della Trinità, con Dio Figlio sotto il tetto ampiamente sporgente era la mia casa natia. Guardavo spesso con piacere in alto all’immagine soffusa dal caldo color giallo della facciata di casa. Trovavo sorprendente Dio Padre alla destra, sulla casa del pasticcere e mi riusciva ancora più strano lo Spirito Santo in figura di colomba a sinistra, sulla casa del conciapelle. […] Di fronte c’era un giardino con una casetta estiva, lì giocavo di frequente, assistita dalla mia bambinaia Kathi. Più tardi fui spesso addolorata che in me non fosse potuta rimanere viva alcuna immagine di mia madre: Ella morì quando io avevo un anno e mezzo. Avevo cinque sorelle più grandi ed ero quattro anni più giovane 6 7 storiae 7 7. Johanna Schuchter da bambina. 8. Salorno, pulizia delle botti per il vino nuovo, fine Ottocento. 9. Copertina del libro di memorie di Johanna Schuchter. 8 8 storiae della sorella più vicina per età. Noi figli riuscivamo di rado a vedere il padre rimasto presto vedovo, oppresso da preoccupazioni e fatiche. Io l’amavo teneramente. Talvolta c’era bisogno anche del timore della sua severità per indurmi ad obbedire a Kathi. Un’esperienza di tale specie sta ancora chiara nella mia memoria. Noi bambini sedevamo nella stanza dei ragazzi attorno alla tavola con il paralume. Ero inginocchita sul grande sofà di cuoio ed ero sprofondata in estasi nella lettura di “Pierino Porcospino”. Allora Kathi mi invitò ad andare a letto per prima. Irritata per il disturbo, cacciai il capo ancora più giù nel libro illustrato e non mi mossi. Quando ella mi sollecitò di nuovo, montai d’un tratto in un tale accesso di collera che mi sfilai una pantofola dal piede e gliela tirai in faccia. Allora ella andò a prendere mio padre. Vedo ancora quando la porta si aprì e mio padre dal buio entrò nella luce. Tremante come una foglia, celai il viso dietro il libro di “Pierino Porcospino”. Subito dopo si rovesciò su di me una veemente predica in cui con mio spavento comparve addirittura la parola “verga”. All’epoca della mia infanzia decorava il centro dell’allora graziosissima piazza Mercato di Zell una deliziosa, vetusta fontana di pietra che nel mio ricordo è sempre strettamente leata alla figura di mio nonno. Vedevo infatti questo uomo canuto ma ancora assai agile spesso appoggiato alla vasca marmorea della fontana. A questo nonno materno apparteneva pure l’insegna di Zell, la torre incombente e la casa costruitavi addosso. Una volta lo andai a trovare con i fratelli e le 9 sorelle che gli portarono le loro pagelle. Mi ricordo di una stanza ingombra di oggetti antichi. Il nonno stava ritto davanti a una scrivania, aprì con precauzione i cassettini e assegnò a ognuno con una certa solennità una moneta d’argento. Mentre egli esaminava le pagelle io sedevo indifferente su uno sgabellino -infatti non andavo ancora a scuola - e osservavo incuriosita mia nonna che stava immobile su di un sofà. Forse ella era travagliata da qualche malattia, giacché non ricordo di averla mai vista altrimenti che seduta immobile sul sofà. Soltanto qualche volta si trascinava fino alla stanza attigua per portare a noi bambini un piccolo dono. Quando poi sedeva di nuovo al suo posto nello strano costume con maniche a sbuffo ed una catenina a più giri, provavo davanti a lei una certa timidezza, mi sentivo tuttavia nello stesso tempo singolarmente attratta dalla sua figura dignitosa con gli occhi infossati ed eloquenti. Era caratteristica dei miei nonni e conforme alla loro generazione una tendenza alla perseveranza mentre mio padre, immigrato dal Tirolo, era una natura intraprendente e sembra avere avuto costantemente davanti agli occhi il “progresso”. Egli era borgomastro di Zell e deputato liberale. Conservava alla Chiesa una certa fedeltà nelle pratiche domenicali ma soltanto per il suocero. Sentii spesso dire che il comune di Zell molto doveva al suo spirito attivo, anzitutto per il forte incremento del movimento turistico. Costruì la strada rotabile sulla Schmittenhöhe e creò a beneficio del paese passeggiate e giardini ombrosi. Nell’inverno del 1884, eccezionalmente mite, ebbe l’idea allora insolita di offrire in vendita il ghiaccio del lago, aprendo così al comune un lucroso cespite di entrata fino allora mai utilizzato. La casa accanto il “Lebzelter” nei miei anni infantili non era ancora l’Hotel a più piani, ma una rustica locanda patriarcale. L’ostessa al “Lebzelter” veniva spesso da noi per consigliare mio pa- dre vedovo in problemi di economia domestica. La sentivo spesso lamentare la precoce morte di nostra madre e deplorare l’economia domestica abbandonata a sé stessa. E in realtà non ricordo di averla mai vista se non con occhi gonfi di lacrime, commossa per qualcosa o di lieto o di doloroso. Era di dimensioni corporee imponenti e portava sempre alcuni garofani sullo scialle. Quando rientravo con Kathi dalla passeggiata dovevamo attraversare l’ampio vestibolo. Là, attorno ad una lunga tavola i nostri domestici consumavano il pasto di mezzodì. Quando nell’atrio di casa sentivo il “Benedicite-“che essi borbottavano insieme in piedi con voci basse un po’ rauche ogni volta prendevo paura già sulle scale. Infatti uno di essi, alto, biondo, che si chiamava Gottlieb e che secondo una superstizione popolare portava un orecchino a protezione dalle malattie, soltanto raramente ci lasciava passare oltre indisturbate. Conservo il ricordo del mio quinto compleanno come di un felice risveglio da uno stato crepuscolare. Nella mia piccola mente bambina balenò il pensiero di essere diventata qualcuno e che da allora in poi tutto sarebbe stato diverso. Questo futuro nuovo e diverso non tardò a venirmi incontro. Mentre un giorno giocavo in giardino con i miei fratelli, giunse improvvisamente da noi in compagnia di mio padre una signora straniera1 . Era alta e slanciata, aveva occhi scuri, capelli neri e portava un lezioso cappello estivo, ornato di fiori e nastri. Porse cordialmente la mano a tutti, si chinò poi sorridendo su di me e chiese: “Vuoi venire con me in Sudtirolo?”. Tacqui confusa mentre mia sorella maggiore, meno timida, ci si avvicinò e cominciò a parlare con vivacità. “No” udii fra il resto dire da mio padre alla signora straniera, “la piccina non le darà noie”. Cos’era accaduto? Benjamin Kofler, ricco proprietario di Salorno, in Sudtirolo, che considerava mio padre il suo miglior amico, mi aveva invitato per un anno presso di sé: il clima più mite doveva rafforzare la mia salute. Benjamin Kofler aveva soltanto una figlia adulta di primo letto. Il suo secondo matrimonio era rimasto senza figli. Iniziai così in settembre con mio padre e mia sorella maggiore, che mi faceva da madre, quello che oggi mi appare come un viaggio antidiluviano verso il Sud. Con la ferrovia occidentale che allora era ancora detta Giselabahn, giungemmo verso sera a Innsbruck dove pernottammo in una delle vecchie case chiamata Hotel Tirolo. Il giorno successivo prendemmo la ferrovia meridio- 9 storiae pietrita con il capo chinato indietro perché da un alto pergolato sopra di noi pendevano grevi grappoli azzurri. Allora Benjamin Kofler mi sollevò ridendo, in modo che li potessi raggiungere da me. Indi ci condusse oltre le logge ricoperte di edera in casa e, attraverso la lunga altana, alla terrazza ricoperta di agave e oleandri. Dalla terrazza illustrò a mio padre il panorama dell’ampia vallata dell’Adige. [...] 10 nale e, dopo un viaggio di molte ore, scendemmo, dato che Salorno non era stazione per un treno diretto, in una stazione chiamata San Michele. Qui, mentre gli occhi mi cadevano per la stanchezza, dovemmo attendere a lungo un altro treno. Proprio nell’attesa devo essermi addormentata. A questo punto riemerge l’immagine della signora straniera che durante l’estate era venuta da noi a Zell am See. Ella ci aveva atteso alla stazio- 11 ne di Salorno e prese posto con noi in un calesse che era pronto sotto le acacie. Non avevamo ancora percorso un lungo tratto, quando il vetturino arrestò di colpo i cavalli. A lato della strada l’aveva chiamato un signore d’alta statura che stava ritto nei lunghi stivali, una frusta di cuoio piegata sotto braccio e con a lato un cane da caccia. Era Benjamin Kofler. Si avvicinò, ci strinse calorosamente le mani e salì in carrozza. Il calesse percorse, strepitando, il ponte sull’Adige e si lanciò rumoroso sul selciato accidentato del paese. Passò accanto a case patrizie e davanti a una chiesa e finalmente ci fermammo presso il lungo muro che circondava la proprietà di Benjamin Kofler. Alcuni cani latranti ci si precipitarono incontro. Non appena entrai in giardino, io mi fermai come im- 10. Salorno, bambine in calesse, fine Ottocento. 11. Salorno, bambine in calesse, fine Ottocento. 12. Salorno, asilo infantile, fine Ottocento. 13. Salorno, alluvione,1889. 10 storiae Salorno era un fiorente centro commerciale. Giorno dopo giorno treni stracarichi lasciavano la stazione. I numerosi clienti delle cantine venivano spesso da lontano per presenziare all’amata vendemmia. In tale clima nessuno aveva tempo per me. Così si prese la decisione di liberarsi di me e di mandarmi all’asilo. Venni introdotta in un alta sala dove ci accolse un chiasso assordante. Frugoli ancora più minuscoli di me giocavano, ridevano, gridavano e cantavano, mescolando italiano e tedesco2 . Nella mia condizio- ne di “nuova”, mi aggredì in questa folla un terribile sgomento: in preda alla paura mi aggrappai alla mano della signora Kofler. Di colpo, a un segno della suora, si precipitarono tutti nei banchi, incrociarono le braccia e recitarono in coro un saluto. Questa trasformazione della scena, avvenuta come per un colpo di bacchetta magica, finì con lo spaventarmi del tutto. Lanciai un urlo angoscioso e tentai di divincolarmi con violenza. Allora fui affidata a Fanni, la quattordicenne figlia del cantiniere Soppelsa. [...] A Salorno la vendemmia impegnava tutti. Dovunque venivano trasportati raspato3, frutti e gra- noturco. In compagnia di Fanni e dei suoi fratelli mi recavo spesso dopo la vendemmia nei vigneti a “spigolare” come si chiamava in Sudtirolo la ricerca nelle vigne dell’uva dimenticata. Un giorno ci recammo a “spigolare” nei vigneti del Roßlauf. Essi si estendevano presso la strada postale e appartenevano su entrambi i lati a Benjamin Kofler. Avevamo già passato in rassegna il lato sinistro del Roßlauf e ci venimmo a trovare di botto dinanzi all’alto margine della riva. In basso si avvoltolavano lenti flutti scuri nei quali galleggiavano pezzi di legno e rami. Fanni disse che quello 12 era l’Adige vecchio. Forse quella fiumana fangosa era il segno precursore della sciagurata inondazione da cui il Sudtirolo doveva essere funestato negli ultimi giorni di ottobre di quell’anno4. Allorché, più tardi, lessi nella storia biblica il racconto del diluvio universale, mi si ripresentò dinanzi alla memoria la gigantesca fiumana che allora potei vedere dalla nostra terrazza. Essa ricopriva ovunque l’intera valle dell’Adige così che si vedevano sporgere soltanto le chiome degli alberi. Noi abitavamo nel paese alto che era stato risparmiato, tuttavia mi ricordo ancora assai bene come si era trasmessa anche a noi l’emozione generale. Lavoratori che calzavano alti stivali andavano e venivano ancora nelle ore di notte fonda. Essi riferivano che le case del paese basso erano immerse nell’acqua fino al primo piano, che un ponte e una casa erano stati portati via, che un ragazzo era stato travolto dall’acqua e l’uomo che aveva tentato di salvarlo era annegato con lui. Il giorno dopo andai in paese con la signora Kofler la quale voleva visitarne la parte più colpita. Non arrivammo tuttavia molto lontano perché ovunque si agitava acqua melmosa. Si raggrupparono intorno a noi figure lamentose che si torcevano le mani angosciate e parlavano in una grande confusione. A me, tuttavia, interessava soltanto l’acqua. Spinsi avanti il piede per farmi lambire la scarpa. La pioggia era cessata però cielo e paese erano ancora avvolti in una oscurità paurosa. Dinanzi alla locanda all’uscita del paese si vedevano uomini passare in barca e, d’improvviso, avvertii io pure qualcosa della generale disperazione che era calata nella notte sul viso di tutti. I nuovi avvenimenti avevano fugato tutto ciò che li aveva preceduti. Non ricordo di avere avvertito nostalgia nemmeno quando, dopo le gioie della vendemmia, la casa divenne silenziosa e la sorveglianza su di me si fece più severa. A tavola dovevo sedere eretta e potevo parlare soltanto quando venivo interpellata. I figli di Soppesa, Ma- ria e il fratello Toni con cui avevo fino allora così allegramente impazzato, sembrarono improvvisamente essere caduti in disgrazia… Non potevo più frequentarli. Mi adattai a fatica a queste nuove regole. Di nascosto, corsi allora di frequente col nostro cane Lion al portoncino e al seguito dell’omino dell’organetto quando passava davanti casa perché a me piaceva moltissimo la sua musica delicata e malinconica. Io ero una bimba sbadata e amavo lasciarmi andare a vaghe immaginazioni. [...] Dopo l’insuccesso all’asilo, mi vedo finalmente con tavoletta e stilo nella vicina scuola elementare. Là ero lieta e animosa e spesso già nel percorso verso casa aprivo l’abbecedario per divertirmi con le lettere. Raggiante, recitavo a tutti i nuovi suoni e le parole che via via avevamo imparato. Benjamin Kofler mi veniva spesso a prendere a letto, mi sedeva in camicia da notte presso di sé sul sofà e mi interrogava sulle lettere e sui numeri. Quando però mi chiedeva della calza allora in lavoro arrossivo perché in questa materia dovevo aspettarmi un voto appena sufficiente. Nel frattempo a causa dei ripetuti tentativi le calze in lavorazione avevano assunto già da tempo un colore grigiastro. “Colpa di questo insuccesso”, dis- 13 storiae 11 se la signora Kofler, “era sol14 tanto l’insensata maniera tedesca di fare la maglia che pretendeva di fare muovere le mani così tanto e che posava il filo sopra la mano sinistra. A destra sopra la mano doveva essere posato il filo e venir allacciato attorno al mignolo. Questa era la ragionevole tecnica italiana con la quale si ottenevano maglie uguali e regolari”. Dunque ristrutturai le mie conoscenze in questo campo e provai a fare la maglia all’italiana. La suora a scuola, però, era di Caldaro e propendeva più per il procedimento tedesco. Così ero tormentata dal conflitto e non facevo onore né all’una né all’altra delle due maestre. [...] Nella lettura e nella pronuncia del buon tedesco sopravanzai invece ben presto, senza mio merito, l’intera classe. Salorno era nella vecchia Austria l’ultima scuola tedesca ai confini linguistici. Spesso aveva luogo una vera e propria gara a indovinare se si dovesse dire “warte mir” oppure “warte mich” nel significato di aspettare. Quando io come ultima e unica in classe deliberavo che si dovesse dire “warte auf mich”, allora la maestra, confortata nei suoi sforzi, esclamava con un sospiro: “È proprio l’unica scolara autenticamente tedesca della classe”. [...] Mi sentivo ora sempre più sicura di me sul suolo di Salorno, venni a poco a poco a conoscere i nomi dei dipendenti e lavoratori di casa e anche delle persone del vicinato. I ragazzi mi riuscivano sgradevoli. Avevo spesso osservato che ero bersaglio dei loro scherni. Non sapevo immaginare che cosa trovassero in me di ridicolo. Era forse il manicotto da me importato da Zell am See e inusitato a Salorno che io portavo in giro in maniera spasmodica, la mantellina con la pelliccia oppure la forma del mio berretto? Una volta arrivai in ritardo in chiesa nella mia tenuta invernale, con le mani sepolte nel manicotto. Tutti sedevano da lungo tempo nei banchi e il padre cappuccino stava già sul pulpito. Allora inciampai in alcune assi collocate sul pavimento e stramazzai davanti ai primi banchi quant’ero lunga sul pavimento. Il manicotto era volato fin quasi ai gradini del cancelletto. Dallo spavento, non potei muovermi finché una suora venne ad aiutarmi, mi alzò e mi condusse al mio posto nei bassi banchi della prima classe femminile. Là sedetti allora di lato rispetto ai ragazzi, rossa scarlatta e velata di pianto. Quantunque guardassi con una apparente, faticosa indifferenza sopra le loro teste verso il pulpito, tuttavia osservai di soppiatto che si urtavano nei gomiti e si prendevano gioco di me. Allora mi feci con decisione e una volta 12 storiae per tutte l’idea che i ragazzi fossero più stupidi delle ragazze e, da allora, non mi curai più dei loro motteggi. [...] Il giorno di Natale eravamo invitati dal signor Cäsar von Gelmini ed egli aveva un grande albero di Natale. Tuttavia era, secondo quanto mi sembra di ricordare, l’unico allora a Salorno. [...] L’intensa calura del luglio salornese, particolarmente penetrante a motivo della vicinanza del brullo monte di Favogna, non mi era salutare perciò mi si portò ancora prima della canicola a Zell.5 [...] Deve essere stato settembre quando un giorno mi si disse che fuori c’era Benjamin Kofler. Arrossii dalla gioia e gli corsi incontro. Allora egli mi disse che voleva riprendermi con sé a Salorno. [...] dopo Vipiteno e Bressanone arrivammo infine a Salorno dove c’erano ancora vendemmia e cielo azzurro e dove ogni casa e ogni maso odoravano di frutta e di vino in fermento. Andavo con Kathi Kofler nei campi. Spesso usciva fuori uno dei quattro barbuti Saltner (saltari) che da luglio a ottobre facevano la guardia ai frutteti e ai vigneti pubblici. Non mi saziavo mai di ammirare queste guardie dei campi nel loro strano costume con alabarda, cappello piumato e con la pistola arrugginita nella cintura di cuoio decorato che essi portavano sopra i pantaloni. [...] Dato che Salorno era sede di grandi cantine, venivano acquistate presso gli agricoltori del vicinato grandi quantità di brascato (mosto). Da ogni direzione si vedevano giungere in paese carri di brascato. Nem- 14. Salorno, vendemmia, primi del Novecento. 15. Salorno, vendemmia, 1921. 16. Salorno, lavori davanti alla cantina vinicola, 1921. visto un palcoscenico e sedevo con il batticuore nella penombra della sala fra gli spettatori. Quando, dopo misteriosi preparativi finalmente il sipario si aprì, vidi per la prima volta il fantastico mondo della scena. [...] 15 meno per Benjamin Kofler bastava il prodotto proprio per la sua grande azienda. Egli acquistava molto dalle zone più alte di Pochi, una piccola località italiana sul monte dove si estendevano i vigneti di quota più alta; in questa località solatia cresceva un vino di straordinaria delicatezza. I carri di buoi degli abitanti di Pochi erano formati per lo più da due aste frenanti che posavano anteriormente su un supporto di ruota. Sopra questi carri, su un fondo di paglia, era legata una lunga botte. In lunga fila stavano spesso da otto a dieci di questi carri nei nostri cortili. Quando il primo aveva finito, dal grande Ansetz o locale per la fermentazione seguivano gli ultimi dalla via murata. Assai spesso nei giorni di questa febbrile attività, stavo ancora a sera inoltrata sulla terrazza e osservavo il continuo movimento nel cortile. Benjamin Kofler stava vicino alle botti, con la bilancia del mosto in mano, esaminava al lume della lanterna il contenuto zuccherino del mosto che egli annotava con gran cura in un libretto. Anche l’anno scolastico era cominciato. Come un tempo l’abbecedario, così entravo ora con la storia sacra spalancata fuori dal portone della scuola nella stretta viuzza, mi sedevo sul sasso più vicino e cominciavo, dimentica del tempo e del ritorno a casa, a leggere avidamente. Le mirabili storie del Vecchio Testamento esercitavano su di me un incanto mai conosciuto prima. Ciò che il signor parroco narrava nelle brevi ore scolastiche non mi bastava mai. Per lo più, leggendo, lo avevo di molto preceduto. [...] Una volta era venuto a Salorno un teatro di marionette che dava rappresentazioni nel paese basso in una vasta sala d’albergo. Non avevo mai Poco tempo dopo un altro avvenimento arrecò molta felicità nella mia solitudine di bambina. Venni a conoscere Steffele, il ragazzino della vedova di un contadino dei dintorni. Eravamo coetanei e, dopo lunghi dialoghi dapprima un poco timidi, diventammo presto compagni di gioco. La sua amabile leggiadria e la sua nativa gentilezza avevano guadagnato a Steffele la simpatia di tutta la casa. (…) la stagione alta della nostra felicità era però il tempo della maturazione dei frutti. Ancora oggi vedo Steffele arrampicarsi sul ciliegio di marasche davanti alla casa. Docile, io lo imitavo, tenendo accuratamente d’occhio i suoi piedi bruni sopra di me finché, con un ultimo atto di bravura, ci lanciavamo sul tetto del cortile. Là sedevamo in mezzo ai rami dell’albero, ci riempivamo la bocca dei frutti rossi e succosi e banchettavamo, sopra di noi l’aperto cielo, in uno stato di sovrano benessere. [...] Quando arrivava la gran calura ci preparavamo ogni anno ad una camminata di più giornate della quale io mi rallegravo in maniera particolare. Per lasciarci alle spalle il nudo monte Calvario prima del sorgere del sole, partivamo sempre per tempo e facevamo una breve pausa a mezza montagna nel paesino italiano di Pochi. Dinanzi alla casa nella quale sostavamo, sedeva ogni volta un vegliardo novantenne che ancora pochi anni prima era sceso arzillo a Salorno. I suoi figli, nipoti 16 13 storiae e pronipoti ci 17 vennero incontro gentilmente. Erano infatti questi contadini che in autunno ci portavano il mosto. Dietro Pochi finivano a poco a poco le vigne e la via portava in dolce pendio attraverso i primi verdi prati montani. Quale piacere respirare il profumo del vicino bosco, dopo aver languito per settimane intere laggiù nell’arsura. Benjamin Kofler non si stancava di impartire insegnamenti e di richiamare l’attenzione sui dintorni, sui terreni esposti al sole e sui vigneti di Termeno, sul Monte di Mezzo, sui monti che presso la chiusa di Salorno si accostavano gli uni agli altri e sulle pareti brulle del monte di Favogna che, in piena estate, decuplicavano la calura ardente e che per notti intere non consentivano refrigerio agli abitanti di Salorno. Il versante opposto a Salorno, la recondita valle d’alta montagna di Favogna di Sopra era, secondo la descrizione di Benjamin Kofler. Un vero paradiso di prati e larici e fitti boschi d’abete bianco. [...] Così raggiungevamo a poco a poco la cima e vedevamo emergere davanti a noi il nostro primo traguardo, il paesino montano di Cauria. Dopo la immutabile monotonia di un anno a Salorno, mi sentivo qui sopra come trasformata e sarei rimasta volentieri per giorni e giorni. Tutto qui era diverso rispetto alla valle: l’aria, le piante, le case, le graziose, arcaiche suppellettili domestiche e pure le persone. Anche la stessa lingua si distingueva dai Salornesi, come se non ci fossero tre ore ma tre giorni di viaggio fra loro. [...] Ricordo soprattutto la gente povera di Salorno. Mi ricordo di un’usanza che per me era sempre un’occasione di grande gioia. Nel giorno di tutti i defunti, nelle case dei benestanti venivano messe a disposizione dei poveri due grandi sacchi: l’uno era pieno di farina di polenta, l’altro di sale. Il pomeriggio, venivano alle porte i poveri a raccogliere l’elemosina. In casa Kofler fui incaricata della equa distribuzione, ad ognuno due misure di farina da polenta e una misura di sale. Per evitare ingiustizie, dovevo badare soprattutto a coloro che tornavano due o tre volte e contavano sulla speranza di non essere riconosciuti. Aprivo dunque entrambi i battenti della porta di casa e disponevo i sacchi. Ben presto udivo lo strepito 14 storiae delle scarpe di legno sulle lastre di pietra e vedevo le donne, i vecchi e i bambini venire attraverso il giardino. Erano proprio i più poveri di tutto il paese, quelli che abitavano nelle poverissime case tutte fessure e screpolature in basso lungo il fiume oppure lungo la parete senza sole della montagna presso la cascata. Portavano un sacco sulle spalle che aprivano per la farina da polenta. Per il sale mi porgevano con entrambe le mani le cocche dei loro grembiuli. Di volta in volta mi risonava incontro allora un “Vergelt’s Gott” ovvero un “Dio ghel meriti”. Ai più miseri versavo con misura più abbondante, anche alla vedova di Verona perché era a servizio da noi con il figlio ventenne Bernardo. [...] di umile condizione erano pure i giovani e le giovani che di sera passavano cantando nelle viuzze e animavano con la loro gioia il silenzio del paese. Io stavo volentieri ad ascoltare i loro canti quando si trovavano in autunno dopo il raccolto del mais a “sfoiar”. Così si chiamava lo sfogliare la pannocchia prima di appenderla alle stanghe per l’essiccatura. Allora tutti aiutavano in comunità nelle case, vicini e conoscenti, soprattutto però giovani e ragazze, attirati dalla generale allegrezza e talvolta anche da qualche segreto amore. La vasta soffitta sopra la mia stanza sembrava essere il punto d’incontro preferito. Spesso udivo ancora a tarda ora nella notte canti, danze, musica, talvolta anche storie raccontate a lungo con tono narrativo ritmico, storie che mi affascinavano assai. Erano forse 17. Salorno, d’autunno dopo la raccolta del mais i contadini (uomini, donne, bambini) si riuniscono per sfoiar, per ripulire le pannocchie dalle foglie, primi del Novecento. 18. Salorno, la torchiatura dell’uva, primi del Novecento. tesori di una tradizione orale conservata dal popolo? Non potevo sentirne il contenuto, mi figuravo però che dovesse essere assai bello, emozionante, delicato o appassionante, a seconda di come mi sentivo in quel momento. Allora non c’era in paese alcun odio fra tedeschi e italiani. Nella parrocchiale si tenevano prediche in tedesco, nella chiesa di San Giuseppe in italiano. Nella gente semplice sopravviveva ancora la tradizione universalistica dell’antica Austria. Soltanto più tardi un piccolo ceto di intellettuali e l’istigazione organizzata di un giornale riuscirono a turbare anche nei centri più piccoli quella pace felice. Durante la mia permanenza a Salorno non sentii mai parlare di contrasti nazionalistici. Sapevo soltanto che, tramite l’influsso di una rivista tedesca portata in casa nostra dall’avvocatuccio6 , per Benjamin Kofler Bismark era una specie di Giove e che l’ “Alto Adige” era un giornale irredentistico. Il commerciante P. nel paese basso era uno dei pochi che vi era abbonato. Quando sedeva dinanzi al proprio negozio nella frescura della sera, spalancava in modo vistoso l’ampio formato del suo giornale prediletto. Inforcava di traverso sulla parte bassa del naso le lenti a molla e durante la lettura fissava i passanti, sorridendo amabilmente oppure piuttosto aggressivo a seconda che essi erano suoi clienti oppure si servivano presso la vicina cooperativa. [...] Quando tornai a Salorno l’uva era stata già messa in cantina. Gli abitanti di Pochi portavano le loro castagne in paese e le giornate si erano di nuovo accorciate. Già vedevo un lungo anno davanti a me. Dopo poco Benjamin Kofler avrebbe ripetuto ad ogni pasto : “Oh, fosse finalmente già il 22 dicembre”. [...] Si augurava ardentemente il primo raggio di sole che in tale giorno sarebbe entrato dalle nostre finestre. Dopo il bramato 22 18 sarebbero venute le feste che in casa nostra non venivano mai celebrate in maniera speciale. Ci sarebbe stata un po’ di neve; nel gelido gennaio avremmo sofferto il freddo nelle stanze mal riscaldate. [...] Di tanto in tanto giungevano ospiti che provenivano da altre città e che allora venivano accompagnati nelle cantine dei dintorni, giacché erano proprio venuti per assaggiare il vino. Io dovevo allora accompagnarli con una lampada a petrolio e porgere loro su un vassoio i calici e il pane bianco. Pure in occasione della macellazione annuale dei maiali, quando veniva il macellaio con la macchina per fabbricare i salami e le salsicce, c’era molto lavoro per me. Dovevo andare a prendere questo e quello e alla sera – com’era comune uso – dovevo recare alle famiglie amiche assaggi di sanguinacci e di salami di fegato che andavano consumati subito. Nelle settimane successive mi veniva affidata anche l’affumicatura dei salami. Essi pendevano in fila dal soffitto della grande dispensa dove c’erano gli scaffali della frutta e dove stavano i sacchi di noci e castagne appoggiati al muro. Ogni sera accendevo al suolo, su supporto antincendio, un fuoco di sarmenti e ne sorvegliavo il fumo abbondante e il crepitio fino alla estinzione. In seguito, con gli occhi arrossati e doloranti per il fumo, chiudevo la camera. Prima del mezzodì scendevo in cantina per prendere i vini da varie botti, il vino da tavola per il nostro pasto e il leggero “Piccolo” o “vinello” per i dipendenti. Gli uomini ricevevano due litri di vino al giorno a testa, le donne che lavoravano nei campi uno. Tutti preparavano alla mattina, prima di recarsi al lavoro, le loro bottiglie impagliate vuote, con il loro laccio di cuoio. Riempire e trasportare le pesanti fiasche costava una certa fatica e quel compito si affidava preferibilmente a me. Giovane e robusta come ero, mi provocava gioia il mettere alla prova le mie forze. [...] Un manifesto annunciò un giorno l’inaugurazione di un collegio a Mezzocorona, diretto da suore Salesiane francesi. In seguito alla separazione verificatasi in Francia tra Stato e Chiesa, le suore di Aurillac erano emigrate, avevano da lì portato con sé una parte delle loro alunne e si erano stabilite a Mezzocorona. Il bell’immobile del conte Firmian da loro preso in locazione era distante circa venti minuti a piedi da San Michele, la stazione ferroviaria più vicina a Salorno. Decisi in poci istanti. Avrei ripreso là i miei studi. [...] 15 storiae Di colpo ero per così dire capitata all’estero, in Francia, dove nessuno parlava tedesco. Sicuramente le compagne francesi sarebbero state delle maestre “naturali” nella lingua d’uso. […] Tramite lo studio della letteratura francese mi si aprì un nuovo mondo. A Bolzano mi comprai una edizione dei classici. Con i grigi volumetti della libreria Hachette stavo dunque nei fine settimana sulla nostra terrazza immersa nello studio e potei ben presto recitare a memoria i versi di Racine e Corneille. […] Quell’anno […] mentre di buon ora percorrevo in bicicletta la scorciatoia attraverso i vigneti in direzione di 19 Mezzocorona, balzò improvvisamente un gendarme fuori dal vigneto e mi sbarrò la strada. Spaventata, saltai giù dalla bicicletta. Mi chiese dove fossi diretta; io dovevo tornare sulla strada provinciale, là tutta la zona era chiusa al traffico. Dovetti rifare la strada fino quasi a Salorno e venni a sapere che l’intero Sudtirolo era in grande eccitazione: si temeva un attentato contro l’imperatore Franz Josef che in quel giorno era atteso in val di Non per manovre militari. Circolavano voci allarmistiche, nessuno sapeva con precisione ma tutti erano molto tesi e a me sembrava di aver udito il rombo di un tuono lontano. […] Il 23 agosto l’imperatore doveva scendere dalla Val di Non e il treno percorrere la strada fra Mezzolombardo e San Michele. Le Francesi decisero di godere questo raro spettacolo dall’alto del loro vigneto. Noi ci accampammo sul ripido vigneto. Il momento mi sembrò eccitante e significativo, conservo ancora particolari in mente. Per esempio che il cielo si coperse di nuvole quando l’equipaggio di corte scortato da militari a cavallo divenne visibile in lontananza e che vicino a me Suor Anne Marie disse:”Oh! Com’è triste questa musica tedesca!” Proprio allora risonò fino a noi il rullo di tamburi. Ancora oggi nel mio ricordo esso conserva qualcosa di triste, come se fosse stata l’elegia per l’imminente sussulto del potente impero. [...] A tavola narravo spesso le mie esperienze di Mezzocorona e cercavo così di rasserenare Benjamin Kofler, giacché sembrava essere calata improvvisa malinconia sul suo temperamento di per sé così gaio. Negli ultimi anni egli era visibilmente invecchiato, i capelli erano diventati più bianchi, i movimenti più lenti. Quando si alzava dopo i pasti dal suo posto, lo faceva faticosamente e sospirando. Come era la frase che lo udii rivolgere a Emma mentre passeggiavamo nel prato di casa? Mi ero un poco allontanata, quando si fer- 16 storiae mò di colpo e lasciò vagare lo sguardo sulle sue proprietà, le cantine e la casa che egli decenni prima si era costruito. “Questa casa”, disse poi in maniera appena percettibile a sua figlia, arrestandosi ogni tanto, “più tardi... per poveri vecchi... di Salorno”. Senza volerlo, avevo udito anch’io. Questa parole erano echeggiate così commoventi, malinconiche, che mi prese un’ardente compassione. Presentiva forse quanto presto Emma avrebbe dovuto fare uso di questa disposizione? Involontariamente il mio pensiero corse agli anni precedenti. I lineamenti di Benjamin Kofler erano stati sempre improntati a forza di volontà e ad allegria. Era una figura che faceva impressione e un tipico abitante della Bassa Atesina. Lo vidi arrivare dalla stazione un giorno di primavera, indossava il suo vestito a doppio petto e col cappello a larghe tese (non mutava mai moda), si piantò davanti a me come una quercia e disse: “Mi sono preso il vestito dal sarto a Bolzano e sono stato dal barbiere”. Così denominava il suo figaro bolzanino che gli aveva asportato il pizzo, cioè la sua abituale barba invernale e che gli aveva lasciato soltanto i baffi e un ciuffo sul mento. Tutto ciò mi venne di colpo in mente allora. Ma ora molte cose sembravano essere divenute oscure e opprimenti. Mi si stringeva il cuore. Donde potevo prendere l’animo di dirgli che avrei lasciato Salorno per sei mesi? Faceva ora parte dei miei compiti quello di accompagnare Benjamin Kofler quando egli andava a passeggio con Lion. Con l’accorciarsi delle giornate, qualche volta era già notte quando rincasavamo e nel cielo si accendeva brillando la Via Lattea. Allora Benjamin Kofler mi interrogava, per vedere se conoscevo ancora le costellazioni che egli aveva insegnato alla piccola bimba. “Sai ancora dove sone il Piccolo e il Grande Carro?” Assai numerosi furono i fenomeni e le cose naturali che egli mi fece osservare. Gli orsi nel gruppo di Brenta erano un suo tema preferi- to. Una volta lo accompagnai a piedi verso Carnedo per il compleanno del signor von Mörl. Il pranzo abbondante durò a lungo e al posto della frutta ci furono caldarroste e vino Teroldego. Quando ci avviammo verso casa il crepuscolo era già prossimo. Avevamo fatto appena qualche centinaio di metri quando Benjamin Kofler cadde improvvisamente a terra vicino a me, rimanendovi immobile. Il mio grido di spavento fu inutile, giacché in lungo e in largo non si vedeva anima viva. Tornai indietro a chiedere aiuto, correndo il più rapidamente possibile. Poi venne la si- 20 gnora Muri con due uomini che trasportarono lo svenuto a Carnedo. Quando egli ritornò in sé e dopo un po’ di tempo si riebbe, suo cognato von Mörl fece attraccare i cavalli e ci fece accompagnare a casa. Il giorno seguente vidi per la prima volta arrivare un medico a casa nostra, il giovane nipote di Benjamin Kofler che esercitava nella vicina Egna. Gli cavò sangue e raccomandò di aver riguardo in ogni attività. Tutto ciò mi aveva fatto grande impressione e la signora Kofler, sempre oberata di lavoro, mi affidò ancora di più il compito di seguirlo costantemente. Ci furono momenti nei quali io sarei stata pronta a qualsiasi sacrificio, giacché amavo Benjamin Kofler proprio come mio padre. Perdurava in me, però, il tormentoso dissidio interiore che Salorno non mi avvicinava al traguardo di una professione da me desiderata.[…] Dovunque nel paese ricercavo antiche tracce; non misi però piede nel quartiere appena costruito sotto la chiesa7 . Uno sguardo in quella direzione mi diede l’angosciosa consapevolezza che l’an- 19. Salorno, il trasporto delle botti per il vino, primi del Novecento. 20. Salorno, vendemmia, dalla vigna al tino, primi del Novecento. tico ordine di Salorno era stato rovesciato. Mi recai da vecchi conoscenti e amici, conversai con loro e cercai di apprendere che cosa avessero fatto nei lunghi anni dopo che l’Austria con l’infelice guerra e le sue tristi conseguenze era stata recisa completamente dal Sudtirolo. Chi era morto nel frattempo, chi era ancora in vita, come stavano gli abitanti di Salorno nella nuova situazione? Non finivano mai di raccontare e tutti erano felici della mia visita. Avevo appreso dei giorni di terrore trascorsi alla fine della guerra già da una lettera di Kathi Kofler che avevo ricevuto incensurata nel gennaio 1919 per mezzo di un messo. Il passaggio degli ungheresi era stato particolarmente terribile per la parte bassa del paese, come ella mi scrisse allora; erano avvenute rapine, saccheggi e sparatorie e in questo tumulto erano morte delle persone per lo spavento, fra esse anche una sua nipote. Per il momento era ritornata la quiete e tutti speravano in una qualche accettabile decisione politica. Dunque anche qui la guerra aveva arrecato distruzione e miseria. E non appena ciò fu passato, venne l’imposizione della pace di Saint-Germain che precipitò tutti gli austriaci nello sconforto. [...] Dieci anni dopo dal treno lanciato in corsa vidi Salorno come attraverso un velo. Era alle prime luci dell’alba di uno dei primi giorni di maggio, proprio quando una pioggia lieve ristorava i campi. Quando avemmo oltrepassato la Chiusa, un profluvio di luce penetrata tra la pioggia produsse improvvisamente per incantesimo davanti ai miei occhi un quadro oltremodo leggiadro. Come se pendesse d’un tratto dal cielo una cortina intessuta d’aria, si ergeva dietro di essa, delicatamente velato, il campanile di Salorno attorno al quale erano accampate le case indistinte del paese. Per tale rara immagine naturale, bello non è la parola adatta; dopo la mia intensa attesa, l’immagine mi commosse come un simbolo simile a una apparizione. Quasi mi spaventai, ma già dopo alcuni istanti, come una fata morgana, l’apparizione era svanita nel nulla. JOHANNA SCHUCHTER, Così ricodo il Sudtirolo. Dall’infanzia e gioventù, trad. it. V. Mattevi, Pergine Valsugana (Trento), 2006. Note Kathi Kofler, la seconda moglie di Benjamin Kofler. Salorno, infatti, pur appartenendo all’Impero Austroungarico, presentava una popolazione in gran parte italofona. 3 Grappoli d’uva privati dei chicchi. 4 1889. 5 Siamo nell’estate del 1890, Johanna ha sei anni. 6 Il consulente legale di Benjamin Kofler. 7 Siamo nel 1925. 1 2 17 storiae