Numero monografico salute globale sessantaquattro NUMERO 64 FEBBRAIO 2005 ISSN 1720-9714 Redazione Via Mellerio, 2 Milano tel. 02/ 8692913 Autorizzazione Tribunale di Milano n. 416 del 25.7.1986 Tariffa Assoc. senza scopo di lucro: Poste Italiane SpA sped. in abb. post. DL353/2003(conv. in L. 27/02/2004 n.46)art. 1, comma 2, DCB Milano Rivista trimestrale della società nazionale degli operatori della prevenzione Rivista della società nazionale degli operatori della prevenzione SOMMARIO DIRETTIVO SNOP FEBBRAIO 2005 NUMERO 64 FEBBRAIO 2005 EDITORIALE Salute globale di Alberto Baldasseroni 1 SALUTE GLOBALE Perché è necessario allargare i nostri orizzonti professionali di Angelo Stefanini Quale l’influenza del reddito di Gavino Maciocco Le produzioni animali, la fame e la povertà nel mondo di Adriano Mantovani Migrazione e salute di Salvatore Geraci 2 Autoriz.Trib. di Milano n. 416 del 25/7/86 Direttore respons. Giancarlo D’Adda Direttore Alberto Baldasseroni Prog. grafico e disegni Roberto Maremmani Redaz. Milano, via Mellerio 2 Tariffa Associazioni senza scopo di lucro: Poste Italiane SpA sped. in abb. post. DL353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 2, DCB Milano stampa:Tipografia Alfredo Colombo LECCO Proprietà - Editore: Snop - Società Nazionale Operatori della Prevenzione Via Prospero Finzi, 15 20126 Milano In copertina Sorting Manganese Ore, di G. Spencer Pryse, (1928), stampa su carta. ESPERIENZE INTERNAZIONALI Conoscenze e risorse locali nei paesi del sud del mondo di Luciano Venturi e Patrizia Parodi Commercio e salute nei paesi in via di sviluppo di Patrizia Parodi e altri Progetto di sanità pubblica veterinaria in Angola di Patrizia Parodi e altri Italia-Nicaragua di Manuela Peruzzi e altri Commercio e salute nei paesi in via di sviluppo di Patrizia Parodi e altri Amine aromatiche globalizzate di Francesco Carnevale Problematiche sanitarie nei lavoratori italiani all’estero di Celestino Piz e altri 5 29 ESPERIENZE NAZIONALI Abitazioni malsane di Lucia De Noni e Silvana Manservisi Assistenza agli emarginati, nomadi e immigrati irregolari di Mauro Palazzi e altri Perogetto scalo migranti di Alessandro Filoni e altri Due recensioni di Roberto Calisti RISCHIO CHIMICO Silice cristallina: vecchio problema e nuove prospettive di F. Cavariani e altri La banca dati ISCS a cura di G. Cotti e altri 38 SCHEDE INFORMATIVE Il testo unico a cura di Roberto Calisti 45 Newsnop Il lavoro nero, il lavoro nero, il lavoro nero. E poi il lavoro scuro anche se non propriamente nero dei neri, dei marroni, dei gialli, dei cioccolata, dei beige e pure quello dei bianchi sporchi. Ecco il lavoro forse più nocivo dei nostri tempi. Questo a casa nostra e in ogni posto del pianeta dove si lavori. Si dice sempre che le norme tutelano solo i tutelati e noi cosa facciamo? Per aiutarvi a pensare, mentre sfogliate questo numero, alcuni volti vi osserveranno. Campagna nazionale sottoscrizione per finanziare lo sviluppo del sito web. Si possono inviare contributi per la rivista (articoli, notizie, lettere, ecc.) a [email protected] materiali per il web a [email protected] indirizzo del sito della nostra associazione www.snop.it Abbonamenti Euro 26,00 per tre numeri Tramite versamento postale c/c n. 36886208 SOCIETÀ NAZIONALE OPERATORI DELLA PREVENZIONE Via P. Finzi, 15 20126 MILANO Indicando la causale del versamento e l’indirizzo a cui spedire la rivista. Prezzo di un numero Euro 10,00 Dallo statuto SNOP Art. 1 È costituita l’Associazione denominata “Società Nazionale Operatori della Prevenzione”, in sigla SNOP, con finalità scientifiche e culturali. L’Associazione, in quanto ente non commerciale, si propone di: ● sostenere l’impegno politico e culturale per lo sviluppo di un sistema integrato di prevenzione, finalizzato alla rimozione dei rischi e alla promozione della salute negli ambienti di vita e di lavoro, con particolare attenzione alla rete dei Servizi e Presidi pubblici; ● promuovere conoscenze ed attività che sviluppino la prevenzione e la promozione della salute dei lavoratori e della popolazione in relazione ai rischi derivanti dallo stato dell’ambiente e dalle condizioni di vita e di lavoro; ● favorire lo scambio di esperienze ed informazioni fra gli operatori ed il confronto sulla metodologia ed i contenuti dell’attività, per raggiungere l’omogeneità delle modalità di intervento perseguendo il miglioramento continuo di qualità e l’appropriatezza delle attività di prevenzione a livello nazionale; ● promuovere il confronto e l’integrazione tra sistema di prevenzione pubblico e sistema di prevenzione delle imprese; ● promuovere un ampio confronto con le Istituzioni, le Forze Sociali e le altre Associazioni Scientifiche su questi temi; ● diffondere l’informazione e la cultura della prevenzione. L’Associazione non ha fini di lucro. REGIONE ABRUZZO Annamaria Di Giammarco Ufficio TSL ASL Pescara piazza della Stazione 1 65020 Alanno PE tel 085.8542995 fax 085.9898800 [email protected] REGIONE CALABRIA Bernardo Cirillo USL Catanzaro via Discesa Poerio 3 88100 CATANZARO tel 0961.703318 fax 0961.747566 [email protected] REGIONE CAMPANIA Giovanni Lama (segretario regionale) Dipartimento Igiene e Medicina del Lavoro ASL Caserta 2 via Linguidi 54 81031 Aversa CE tel 081.5001327 fax 081.5001327 0823.812355 [email protected] REGIONE LIGURIA Claudio Calabresi INAIL via D'Annunzio 76 16121 GENOVA tel. 010.5463251 [email protected] Andrea Tozzi U.O.Psal ASL 3 Genovese via Bonghi 6 16162 GENOVA Tel. 010.6449479 [email protected] REGIONE LOMBARDIA Enrico Cigada (tesoriere) ARPA Monza via Oslavia 1 20099 Sesto S.Giovanni MI tel 02.24982725 fax 02.26223083 [email protected] REGIONE MARCHE Roberto Calisti (segretario regionale) ASUR Marche Zona Territ. 8 SPReSAL via Ginocchi 1/a 62012 Civitanova Marche MC tel 0733.823805/841 fax 0733.823815 [email protected] Fulvio Longo ASL BA 5 via Lapenna 39 70010 Casamassima BA tel 080.4050545 fax 080.4050545 [email protected] REGIONE TOSCANA • Domenico Taddeo (presidente SNOP, segretario CPE) UO Pisll zona Valdera ASL 5 Pisa via Fantozzi 2/A 52025 Pontedera PI tel 0587.273662 fax 0587.273660 [email protected] [email protected] Alberto Baldasseroni (ufficio di presidenza, coord. redazione rivista SNOP) Unità di epidemiologia ASL Firenze via San Salvi 12 50125 FIRENZE tel 055.6263378 fax 055.6263375 [email protected] [email protected] REGIONE EMILIA ROMAGNA Aligi Gardini (vicepresidente) Dipart. di Sanità Pubblica via della Rocca 19 47100 FORLÌ tel 0543.733556 fax 0543.733501 [email protected] [email protected] REGIONE PIEMONTE VALLE D’AOSTA Andrea Dotti (tesoriere CPE) SPreSAL ASL 7 Chivasso via Regio Parco 64 10036 Settimo T.se TO tel 011.8212335 fax dir 011.8212300 segr 323 [email protected] Luigi Salizzato (ufficio di presidenza coordinatore redazione sito web) Dipart. di Sanità Pubblica via Moretti 99 47023 Cesena FO tel 0547.352083/70 fax 0547.304719 [email protected] REGIONE PUGLIA Domenico Spinazzola (vicepresidente) ASL BA 2 Via Cavour 19 70051 Barletta BA tel 0883.577921 fax 0883.577908 [email protected] REGIONE VENETO Manuela Peruzzi (vicepresidente) SPISAL ULSS 20 Verona via Salvo D’Acquisto n. 7 Palazzo della Sanità 37134 VERONA tel. 045.8075045 fax 045.8075017 [email protected] Maria Elisa Damiani (segretario regionale) Dipart. di Sanità Pubblica via Gramsci 12 40121 BOLOGNA tel 051.6079930 fax 051.6079800 [email protected] Giorgio Di Leone (segretario regionale) Spresal Ausl BA 3 via Vittime di via Fani 70021 Acquaviva delle Fonti BA tel 080.3077022 fax 080.3077001 [email protected] Antonella Zangirolami (segretario regionale) SPISAL ULSS 18 viale Tre Martiri 89 45100 ROVIGO tel 0425.393787-393790 [email protected] REGIONE SICILIA Paolo Ravalli AZ.USL 7 Ragusa Spresal zona industriale 1fase 97100 RAGUSA tel fax 0932.667647 [email protected] Celestino Piz (presidente CPE) SPISAL ULSS 6 via IV Novembre 46 36100 VICENZA tel. 0444.992213 fax 0444.511127 [email protected] RIFERIMENTI NAZIONALI Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione Domenico Taddeo Andrea Dotti Emilio Cipriani Spisal Ulss 22 via Foro Boario 28 37012 Bussolengo VR tel 045.6769445/408 fax 045.6769457 [email protected] Evidence Based Prevention Alberto Baldasseroni Aligi Gardini Consulta Nazionale Tabagismo Mauro Palazzi Dipart. di Sanità Pubblica via Moretti 99 47023 Cesena FO tel 0547.352083 fax 0547.304719 [email protected] Arpa Anpa Enrico Cigada Roberto Merloni ARPA ER Sezione Prov. Rimini Via Gambalunga 83 47037 RIMINI tel 0547.367274 fax 0541.367275 [email protected] Prevenzione nei Luoghi di Lavoro e CPE Celestino Piz Andrea Dotti Domenico Taddeo Premio “Alessandro Martignani” Luigi Salizzato (Segreteria del premio) EDITORIALE PENSARE GLOBALE PER I SOCI SNOP Quote sociali socio ordinario 30,00 (trenta euro) socio sostenitore 50,00 (cinquanta euro) di Alberto Baldasseroni direttore SNOP QUESTO NUMERO Questo numero è stato coordinato, per la parte monografica su “Salute Globale”, da Luigi Salizzato. SUL PROSSIMO NUMERO Si annuncia un inserto monografico su “alimenti e salute” che affronterà, anche alla luce degli sviluppi creatisi dopo la battaglia, vinta, per l’abolizione dell’obsoleto Libretto Sanitario per alimentaristi, le nuove politiche di sanità pubblica per una prevenzione efficace, rivolte alla promozione di stili di vita sani ed allo sviluppo di un ambiente di vita favorevole alla salute. Verranno presentati approfondimenti sul tema, risultati di studi e ricerche, esperienze esemplari da diverse realtà Regionali. Nel numero avranno anche ampio spazio altri contributi che riguarderanno il TU in discussione delle normative sulla sicurezza e igiene del lavoro, il rischio chimico e altri articoli su vari argomenti di prevenzione primaria. Il numero 64 della nostra rivista contiene due sezioni. La prima si occupa di Salute Globale, tema di attualità che vede coinvolti ed interessati molti operatori della sanità pubblica italiana. La seconda invece conclude l’argomento del numero monografico precedente sul Rischio Chimico nei luoghi di lavoro. Il connubio è virtuoso: da una parte i risvolti sanitari (in senso molto lato) di un mondo che sempre più si scopre interconnesso. Dall’altra le frontiere avanzate (ma minacciate) della protezione della salute di chi lavora nei confronti degli “xenobiotici” del mondo moderno. E le convergenze tra i due argomenti sono tante. Le troviamo negli articoli che costituiscono la materia del numero (basti pensare a quelli della sezione sulla salute globale che si riferiscono alle esperienze di promozione e protezione della salute di lavoratori in altri continenti o dei lavoratori che da altri continenti giungono nel nostro paese), ma anche nelle implicazioni concettuali che ne contraddistinguono lo sfondo. L’influenza del modo di vita (qualcuno parla di “stili di vita”) adottato dai cittadini del “primo” mondo rischia di travolgere anche i nuovi arrivati alla soglia del benessere, creando squilibri globali che si riflettono sull’intera umanità. Il pensiero va subito a quel terzo della popolazione mondiale rappresentato dai cinesi, ormai avviati a una svolta epidemiologica straordinaria. Esposizioni professionali, degrado ambientale, rischi per l’ecosistema, adozione di abitudini deleterie per la salute sono tutte sfide che si pongono di fronte alla sanità pubblica e che influiranno su tutti gli scenari del futuro. Anche quei paesi che invece si trovano ancora lontani dalla svolta (basti pensare alle condizioni di molte popolazioni africane) finiscono per avere rilievo sempre maggiore negli scenari di salute a noi vicini, quelli europei, non fosse altro per le ondate immigratorie crescenti verso i nostri paesi. È quindi essenziale abituarci a pensare “globale” (ricordandoci di un antico, ma modernissimo slogan dell’OMS), pur agendo nel nostro quotidiano locale. E i testi di questo numero possono essere veramente utili a questo fine. Con questo numero del Bollettino la SNOP ribadisce la sua attuale vocazione 1 NUMERO DOPPIO SALUTE GLOBALE ad offrire una visione della sanità pubblica di ampio orizzonte. Le sfide che ci attendono possono essere affrontate solamente rinnovando il nostro bagaglio culturale e i relativi strumenti di lavoro. Per chi volesse comunque seguire le vicende più quotidiane del nostro campo di lavoro, ricordiamo che abbiamo a disposizione altri due importanti media, la Newsletter SNOP InForma, giunta al suo ottavo numero e che trovate scaricabile nel sito societario e il sito stesso della Società all’indirizzo www.snop.it dove con aggiornamento frequentissimo riportiamo l’evolversi degli avvenimenti della sanità pubblica italiana. Buona navigazione. SALUTE GLOBALE PERCHÉ È NECESSARIO ALLARGARE I NOSTRI ORIZZONTI PROFESSIONALI di Angelo Stefanini In un momento in cui le forze della globalizzazione si fanno sempre più evidenti, nessuno può più permettersi di isolarsi dalle problematiche internazionali. Tanto meno un professionista della salute. La crescente quantità di letteratura medico-scientifica che affronta temi globali dalle diverse prospettive disciplinari è indicativa delle pressanti richieste a cui l’operatore d’oggi è sottoposto, sia dal punto di vista professionale che umano. Ma fino a che punto la formazione e l’informazione corrente in campo sanitario forniscono strumenti e conoscenze adeguate in questo settore? “La formazione e la crescita continua del medico e dell’operatore sanitario nel XXI secolo deve farsi carico di creare professionisti, soprattutto nel campo della salute pubblica, che abbiano la sensibilità umana e le conoscenze scientifiche adeguate per far fronte alle nuove problematiche poste dal fenomeno della globalizzazione.”1 Le ragioni di tale necessità vanno dalla natura multiculturale delle società moderne alla presenza nel nostro Paese di rifugiati economici e di vittime di tortura e di conflitti; dalla 2 progressiva domanda sanitaria creata dalla diffusione del turismo internazionale alle conseguenze sulla salute dei cambiamenti demografici, ambientali, tecnologici e delle disuguaglianze socio-economiche. Il ruolo che è necessario assumere, sia come singoli operatori che come appartenenti ad organizzazioni professionali, è quello di promozione della salute non soltanto influenzando gli stili di vita dei singoli individui ma anche cercando di avere un impatto sulle scelte politiche che hanno implicazioni sulla salute. Dall’orrore della pandemia dell’HIV/AIDS alla controversia sull’accesso ai farmaci essenziali e ai servizi sanitari di base suscitata dagli accordi commerciali globali promossi dalla Organizzazione Mondiale del Commercio, per aiutare a crescere questo tipo di professionista non basta più il bagaglio tradizionale di conoscenze improntato ai problemi sanitari di casa nostra; è necessario qualcosa di più.2 I profondi cambiamenti demografici, epidemiologici e sociali di questi ultimi decenni stanno infatti facendo perdere ogni significato alle differenziazioni sto- riche e tradizionali tra sanità “a casa nostra” e sanità “altrove”, compresi i Paesi in Via di Sviluppo (PVS). Un tempo la cosiddetta medicina e igiene tropicale veniva vista come una eredità del periodo coloniale ed in genere identificata con distinti contesti di arretratezza economica e culturale, dotata di una sua specificità regionale, ambientale e climatica e carica di una forte componente esotica e di folklore. Soltanto in un secondo tempo è emersa la consapevolezza che la discriminante fondamentale tra le due realtà è rappresentata essenzialmente dalla evidente enorme disparità di risorse che i diversi Paesi possono mobilizzare a favore non soltanto del settore sanitario ma di uno sviluppo globale delle proprie popolazioni.3, 4 Il concetto forse un po' troppo bucolico di Villaggio Globale non dà sufficientemente l’idea della intensità delle nuove pressioni sia qualitative che quantitative provenienti dai PVS con cui le infrastrutture dei Paesi del Nord si stanno ora confrontando. Tutto ciò conduce ad un inevitabile parallelismo e mutualità tra ricerca, pratica e comuni interessi tra la nostra sanità pubblica, i nostri sistemi sanitari e quelli dei Paesi del Sud del mondo. Molti dei problemi con cui oggigiorno ci confrontiamo, a cominciare da quelli sopra elencati, hanno carattere inter-settoriale colpendo le aree più o meno sviluppate in modo uniforme e relativamente indifferenziato. Anche se ciascuna area possiede ovviamente implicazioni e caratteri regionali o culturali distintivi, presupponendo effetti e potenziali interventi di diversa natura, le strategie utilizzate in una determinata realtà possono rivelarsi esperienze istruttive per l’altra. Ne sono esempi i programmi di immunizzazione, di pianificazione familiare, di prevenzione degli incidenti, delle malattie da fumo, di contenimento dei costi crescenti del settore sanitario. Aree tra loro indipendenti o in un rapporto di reciprocità non si escludono necessariamente a vicenda né sono di per sé esaustive; possono anzi porsi in un tipo di relazione dinamica giocando ruoli a volte complementari, a volte autonomi. Se il mondo diventa sempre più piccolo in rapporto ai problemi sanitari, deve allora crescere anche la consapevolezza che la cooperazione internazionale e l’assistenza tecnica in sanità va a vantaggio di entrambi i partners.5 È necessario quindi attenuare i toni filantropici che stanno in genere alla base delle politiche di aiuto allo sviluppo e sottolineare invece sempre più i benefici vicendevoli a cui conducono i programmi di sanità internazionale. Se vogliamo potenziare le moda- lità di difesa e promozione della nostra salute non possiamo astenerci dal mettere al centro delle politiche sanitarie a casa nostra una visione internazionale di interdipendenza globale, economica, ambientale ed epidemiologica. Gli operatori di sanità pubblica hanno l’obbligo di apportare un contributo in questo senso nella formulazione delle politiche e nella attuazione dei programmi. La distinzione tra sanità nazionale ed internazionale è sempre più anacronistica e segno di angustia culturale e scientifica. La mutualità e il parallelismo esistenti tra esse rappresenta ormai un soggetto più che legittimo di studio e di pratica da perseguire con lo stesso rigore scientifico ed intellettuale dovuto alle altre aree di studio nel settore sanitario. Contributi fattivi Cooperazione internazionale • Lista ONG italiane www.soci.unimondo.org/ong • Informazione, formazione, opportunità www.ihe.org.uk • Volontari cercasi www.focsiv.it/ricvol.htm • Cooperazione decentrata Regione EmiliaRomagna www.regione.emilia-romagna.it/cooperazio nedecentrata/contattaci Salute Globale • Organizzazione Mondiale della Sanità www.who.int • Obbiettivi dello Sviluppo www.paris21.org/betterworld/home.htm • Risorse in rete www.lib.berkeley.edu/PUBL/IntHealth.html • Un sito per medici “globali” www.medact.org • Medici senza Frontiere (versione italiana) www.msf.it • Una miniera di informazioni “globali” www.oneworld.net (Versione italiana www.unimondo.org) • Telematica per la pace www.peacelink.it • People’s Health Movement http://phmovement.org • Politics of Health www.politicsofhealth.org • Osservatorio Italiano sulla Salute Globale www.saluteglobale.it sono necessari per dare un apporto alla riduzione del divario esistente tra Nord e Sud del pianeta nei settori della ricerca, della formazione e dei finanziamenti6. Speciali sezioni dovrebbero essere istituite nelle conferenze a livello nazionale ed internazionale per presentare e disseminare ricerche originali in quest’area. Nel campo della formazione è importante rafforzare ed espandere nuovi curricula nei corsi sanitari pre e post-laurea e di formazione continua. Programmi di scambio culturale e scientifico possono facilitare la nascita di operatori competenti nell’affrontare e gestire le nuove realtà globali della salute. I professionisti della salute pubblica dovrebbero partecipare in prima persona ad una strategia ben disegnata e adeguatamente finanziata per educare leader, legislatori e decisori politici nazionali e internazionali, e soprattutto il pubblico dei Paesi del Nord, nella utilità e benefici reciproci derivanti dall’attenuare sempre più la distinzione tra sanità nazionale ed internazionale. Prestigiose riviste scientifiche7, 8, 9 esortano a riavvicinare sanità pubblica, epidemiologia e società globalizzata “riorientando l’interesse su problemi globali quali guerre, povertà, cambiamenti climatici e aspetti sociali di salute e malattia.” Un tale approccio necessita di una profonda disponibilità alla collaborazione inter-settoriale e multi-disciplinare, al coinvolgimento delle comunità, all’uso di metodi di analisi quantitativa e qualitativa, e ad una nuova prospettiva che dallo studio di una singola popolazione (la nostra) passi a confrontare tra loro popolazioni, società e Paesi diversi. Angelo Stefanini Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica Università di Bologna NOTE 1. Stefanini A.“Perché una rubrica sulla Salute Globale?” www.snop.it 2. Editorial (2001) Educating doctors for world health. The Lancet 358: 1471. 3. Editorial (2004) Tropical medicine: a brittle tool of the new imperialism The Lancet 363( 9415): 1087. 4. Stefanini A. (1998), Medicina tropicale e patologia della povertà. Nuovi paradigmi in politica sanitaria internazionale. Annali d’Igiene, Medicina Preventiva e di Comunità 10: 387-393. 5. Abell C, Taylor S. (1995), The NHS benefits from doctors working abroad. BMJ 311: 133-134. 6. Editorial (2000) Enabling research in developing countries. The Lancet 356 9235:104. 7. Editorial (1997), Putting public health back into epidemiology.The Lancet 350: 229. 8. Bateman C, Baker T, Hoornenborg E, Ericsson U. (2001), Bringing global issues to medical teaching. The Lancet 358: 1539-1542. 9. Smith R. (2002), Editorial. A time for global health. BMJ 325: 54 - 55. 3 I DETERMINANTI DELLA SALUTE QUALE L’INFLUENZA DEL REDDITO? di Gavino Maciocco INTRODUZIONE Tra le varie rappresentazioni dei determinanti della salute quella socio-strutturale è probabilmente la più suggestiva. Il modello, elaborato da G. Dahlgren e M. Whitehaed1, descrive una serie di strati concentrici, corrispondenti ciascuno a differenti livelli di influenza (Figura 1). 1. Al centro c’è l’individuo, con le sue caratteristiche biologiche: il sesso, l’età, il patrimonio genetico. 2. Lo strato successivo riguarda il comportamento, lo stile di vita, degli individui, che includono fattori come l’abitudine al fumo e all’alcol, i comportamenti alimentari e sessuali, l’attività fisica, che possono promuovere o danneggiare la salute. 3. Ma l’individuo non esiste da solo: egli interagisce con i familiari, gli amici, la comunità circostante. Così la qualità degli affetti e delle relazioni sociali influenza la qualità della vita delle singole persone e può determinare un diverso stato di salute sia attraverso meccanismi psicologici (la depressione e l’ansia), che attraverso condizioni materiali favorevoli o avverse (es: la presenza o l’assenza di una rete di supporto familiare o sociale). 4. Il quarto livello concerne un insieme complesso di fattori che riguardano l’ambiente di vita e di lavoro delle persone: l’istruzione, l’alimentazione, l’abitazione, le condizioni igieniche, i trasporti e il traffico, l’occupazione, il reddito, i servizi sanitari e sociali. 5. Lo strato più esterno si riferisce alle condizioni generali – politiche, sociali, culturali, economiche, ambientali – in cui gli individui e le comunità vivono. Di questa serie di determinanti, alcuni – le caratteristiche biologiche dell’individuo (il sesso, l’età, il patrimonio genetico) – sono immodificabili, mentre tutti 4 gli altri sono suscettibili di essere trasformati o corretti. Il destino di salute di una persona, di una comunità o di una popolazione dipende quindi da una molteplicità di situazioni e di livelli di responsabilità: • la responsabilità individuale circa i comportamenti e gli stili di vita; • la responsabilità familiare o di gruppo circa le relazioni affettive e sociali; • la responsabilità di una comunità o un governo locale o nazionale circa le politiche sociali, del lavoro e dell’assetto del territorio (da cui dipende la disponibilità e accessibilità dei servizi sanitari, sociali ed educativi, l’occupazione, la fruibilità delle infrastrutture); • la responsabilità infine dei soggetti sovranazionali – come Nazioni Unite, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, etc. – che hanno il potere di regolare i rapporti tra gli stati, tra gli stati e le imprese economiche e finanziarie multinazionali, e di influenzare i meccanismi macroeconomici che sono alla base della ricchezza e dello sviluppo di alcuni, e della povertà e del sottosviluppo di altri. Il modello enfatizza inoltre le interazioni tra diversi livelli. Per esempio, gli stili di vita individuali sono collocati all’interno e interagiscono con le reti sociali e comunitarie e con le condizioni di vita e di lavoro, che a loro volta sono strettamente legate all’ambiente culturale e socio-economico. In questa cornice concettuale il determinante “reddito” assume un fondamentale rilievo: lo troviamo, infatti, sia come componente del terzo strato – condizioni di vita e di lavoro – e quindi inteso come reddito individuale e familiare, sia come elemento costitutivo del quarto – condizioni generali socio-economiche, ambientali e culturali – quale espressione delle risorse economico-finanziarie di un paese (generalmente rappresentate dal Prodotto Interno Lordo). SALUTE E REDDITO NAZIONALE La Figura 2 descrive la classica correlazione tra reddito di una nazione (espresso in PIL pro-capite in US$) e stato di salute della popolazione (espresso in DALE – Disability Adjusted Life Expectancy = Anni di speranza di vita alla nascita in buona salute)2. Questo tipo di grafico (e la relativa curva di regressione) ha il pregio di mostrare con immediatezza alcuni fenomeni: 1. Agli estremi della scala la correlazione tra reddito e stato di salute è molto forte: la Svizzera con un PIL/Pro-capite di 38.350 US$ registra un DALE di 72 anni, mentre la Sierra Leone con un PIL/Pro-capite di 130 US$ registra un DALE di 26 anni. 2. Per bassi livelli di PIL, un piccolo incremento del PIL corrisponde a un forte incremento della speranza di vita. Figura 1 I determinanti per la salute – Il modello socio-ecinomico Figura 2 Stato di salute e livello di reddito – 126 Paesi, 1999 Figura 3 Gap nella mortalità tra gruppi socio-economici – Inghilterra e Galles, 1930 - 1993 3. Oltre a un determinato livello di reddito, 5.000/10.000 US$ di PIL/Pro-capite, la correlazione con lo stato di salute tende a svanire: all’aumentare del reddito delle nazioni lo stato di salute delle popolazioni non aumenta in misura significativa. 4. Tra i paesi a reddito basso/medio vi sono macroscopiche differenze nello stato di salute della popolazione e in certi casi si registra addirittura una diversa correlazione tra ricchezza nazionale e stato di salute della popolazione; ad esempio, paesi come Sudafrica, Botswana e Brasile con PIL molto più elevati di Cuba, Sri Lanka e Armenia, presentano rispetto a questi ultimi livelli di sopravvivenza simili o nettamente inferiori. Tale fenomeno in parte è da attribuire all’epidemia di Hiv/Aids che ha flagellato molti paesi, e in particolare dell’Africa sub-Sahariana, facendo crollare nell’arco di pochi anni il livello di speranza di vita. Ma, come osserva Amartya Sen3, tale fenomeno trova una spiegazione anche nei differenti livelli di sviluppo dei servizi sanitari ed educativi di base e nel grado di distribuzione del reddito: paesi poveri con facilità di accesso ai servizi di base, con alti livelli di scolarizzazione femminile, e con una più equa distribuzione del reddito registrano livelli di salute superiori rispetto ad altri paesi con reddito uguale o più elevato. SALUTE E REDDITO FAMILIARE Figura 4 Rischio di morte correlato con il reddito familiare, come Odd Ratio con e senza aggiustamento per educazione – Usa, soggetti di età 45-64 anni La correlazione tra stato di salute della popolazione e reddito delle famiglie richiede l’esistenza di sistemi informativi evoluti. L’Inghilterra è certamente il paese con la più consolidata tradizione in questo campo, da quando fin dalla prima metà dell’ottocento – per iniziativa di William Farr (1807-1883), epidemiologo e statistico – i dati di mortalità degli individui erano associati all’appartenenza a una determinata classe sociale. La Figura 3 documenta la relazione tra mortalità e classe sociale (Group 1 = Professionisti; Group 5 = Manovali) nell’arco di 70 anni: nei primi anni 30 il gruppo meno favorito presentava un eccesso di mortalità di 1,2 ; negli anni 90 le differenze tra i due gruppi sono cresciute enormemente, fino a raggiungere il livello di +2,9. The higher the income, the lower the mortality: più alto è il reddito, più bassa è la mortalità. Questa è la chiara evidenza che si trae dall’analisi di tutte le ricerche sull’associazione tra condizione socio-economica e stato di salute, effettuate nei paesi al top del benessere (per intendersi quel gruppo di paesi con un reddito pro-capite al di sopra dei 10.000 US$ - Figura 4). Il dato è abbastanza sorprendente per due ordini di motivi: 5 a) mentre nella relazione tra ricchezza nazionale e stato di salute si registra una soglia oltre quale lo stato di salute della popolazione non aumenta con l’incremento del PIL, non è possibile identificare una tale soglia nella relazione tra condizione socio-economica e salute (“più alto è il reddito, più bassa è la mortalità”); b) nei paesi ricchi – tranne che in aree marginali della società – differenze nella mortalità tra fasce di popolazione non possono essere attribuite a condizioni di deprivazione materiale. Attraverso quali meccanismi, dunque, le differenze di reddito influenzano la sopravvivenza degli individui appartenenti a differenti classi sociali? Michael Marmot in un recente articolo su Health Affairs4 affronta tale questione, arrivando alla conclusione che “in una popolazione al di sopra della soglia di povertà, il reddito è importante quale predittore di cattiva salute, perchè è una misura di dove si trova una persona nella scala sociale. Più che il denaro in quanto tale, ciò che conta è la posizione sociale”. M. Marmot (con R.G. Wilkinson) è sostenitore della teoria “psico-sociale”5 per spiegare i gradienti di salute nei paesi ricchi, dove si realizzano forme di deprivazione “non materiale” o di povertà “relativa” (scarse opportunità di partecipare alla vita sociale, non avere un hobby o un’attività piacevole, non portare i figli in piscina, non potersi godere le ferie con la famiglia, etc.) che determinano ansietà, insicurezza, isolamento sociale, scarso controllo sulla propria vita, comportamenti rischiosi, depressione. Nel lavoro, redditi elevati sono associati con minore subordinazione, più autonomia e minore insicurezza lavorativa (e il Whitehall Study6, effettuato in Gran Bretagna tra i dipendenti pubblici, rafforza tale tesi, dove la sola differenza gerarchica all’interno del pubblico impiego comporta significative differenze nella mortalità tra i dipendenti). Lo stesso paleo-materialismo di Marx – osservano Marmot e Wilkinson – riconosceva gli effetti psicosociali delle diseguaglianze: “Una casa può essere piccola o grande; finchè le case circostanti sono ugualmente piccole ciò soddisfa ogni domanda sociale di tipo abitativo. Ma se un palazzo cresce accanto a una piccola casa, la piccola casa diventa un tugurio e chi vi abita si sentirà sempre più a disagio, insoddisfatto e ristretto in quelle quattro mura”7. Il reddito in quanto tale, se non misura il grado di condizione sociale, non è un buon predittore di buona o cattiva salute, come dimostra il confronto nella speranza di vita tra uomini americani neri e uomini del Costarica. Il PIL pro-capite in Costarica è intorno ai 2.800 US$ e la speranza di vita per gli uomini è di 74 anni; tra gli afro-americani il reddito 6 medio è intorno ai 26.000 US$ e la speranza di vita è di 66 anni. Tenendo conto che il potere di acquisto di un dollaro in Costarica è maggiore che in USA (2.800 US$ corrispondono a 6.600 US$), si potrebbe concludere che un reddito quattro volte maggiore produce una riduzione nella speranza di vita di otto anni. Il (relativamente) precario stato di salute della popolazione nera americana ha a che fare con gli effetti psico-sociali della deprivazione “relativa”, quali gli svantaggi nell’istruzione, il razzismo, le discriminazioni di genere, la disgregazione sociale e familiare. Pregiudizi razziali e discriminazioni che non risparmiano il settore sanitario, dato che “una crescente quantità di dati, inconfutabili e inquietanti, testimonia la peggiore qualità delle prestazioni sanitarie erogate alla popolazione nera americana, rispetto ai bianchi, anche a parità di livello socio-economico”8. “Noi abbiamo bisogno – osserva Marmot – di andare oltre le misure assolute di reddito per comprendere le relazioni tra posizione sociale e salute, per comprendere come il fattore sociale influenza la posizione in cui le persone si trovano e di conseguenza la loro salute”. Che il miglioramento delle condizioni di salute possa avvenire per ragioni indipendenti dal reddito era già stato enfatizzato da A. Sen9. Egli ha analizzato i miglioramenti nella speranza di vita in Gran Bretagna dal 1901 al 1960. Le decadi 1911-1921 e 1940-1951 (che includono le due guerre mondiali) ebbero i più rapidi incrementi nella speranza di vita. Queste decadi di rapida espansione della speranza di vita corrisposero tuttavia a una lenta crescita del PIL procapite. Sen attribuisce il rapido miglioramento dello stato di salute della popolazione alle politiche di supporto promos- se dai governi di allora: la condivisione dei mezzi di sopravvivenza, inclusa la condivisione dell’assistenza sanitaria e delle limitate risorse alimentari (attraverso il razionamento e i sussidi nutrizionali). La “psicologia della condivisione” nella Gran Bretagna assediata rese i radicali provvedimenti del governo per l’equa distribuzione del cibo e dell’assistenza sanitaria accettabili e efficaci (va anche ricordato che l’istituzione del servizio sanitario nazionale avvenne subito dopo la seconda guerra mondiale). La misura con cui differenti livelli di reddito si riflettono sullo stato di salute della popolazione dipende dal contesto. È stato osservato, ad esempio, che le aree metropolitane statunitensi con maggiori diseguaglianze nel reddito hanno una più alta mortalità rispetto ad aree metropolitane con una più equa distribuzione del reddito, indipendentemente dal reddito medio dell’area metropolitana10. Uno studio analogo è stato condotto negli Stati Uniti e Canada, analizzando le rispettive aree metropolitane, nonchè i 50 stati US e le 10 province canadesi11. I risultati della ricerca mettono in evidenza una netta differenza tra la realtà statunitense e quella canadese: 1) Le diseguaglianze nel reddito e i tassi di mortalità tra la popolazione in età lavorativa sono nettamente superiori negli USA rispetta al Canada; 2) Non c’è una significativa associazione tra diseguaglianza nel reddito e mortalità in Canada, mentre questa è evidente negli USA. Gli autori attribuiscono queste differenze alle diverse politiche sociali e fiscali praticate nei due paesi, ed in particolare: a) C’è un maggior grado di segregazione economica negli USA rispetto al Canada: questo porta a una concentrazione di per- sone con elevati bisogni sociali in municipalità con bassi contributi fiscali, che determina a sua volta una minore disponibilità di beni e servizi pubblici, quali scuole, trasporti, assistenza sanitaria, abitazioni; b) Un’altra importante differenza tra i due paesi consiste nel modo con cui le risorse sociali (come l’assistenza sanitaria e l’istruzione) sono distribuite: negli USA queste risorse sono distribuite secondo le regole del mercato, cosicchè la loro utilizzazione tende ad essere associata con la capacità di pagare, mentre in Canada queste sono finanziate dal settore pubblico e universalmente disponibili. Tutto ciò indica che politiche rivolte a rendere più equa la distribuzione del reddito possono ridurre gli effetti delle ineguaglianze nella salute. Nei paesi a basso e medio livello di sviluppo le correlazioni tra stato di salute e livello di reddito delle famiglie sono state oggetto di studi solo recentemente, attraverso specifiche survey, dimostrando – come era prevedibile – profonde differenze nei livelli di mortalità, in relazione a differenti livelli di reddito (Figura 5). REDDITO E ACCESSIBILITÀ AI SERVIZI SANITARI THE INVERSE CARE LAW La misura in cui l’accessibilità e la fruizione dei servizi sanitari influenza lo stato di salute della popolazione è stato ed è tuttora oggetto di discussione. Negli anni ’70 destò grande interesse un libro di Tom McKeown12 dove si sosteneva che negli ultimi cento anni nel Regno Unito i servizi sanitari avevano svolto un ruolo marginale nel miglioramento della salute della popo- lazione. Tuttavia, come osserva G. Watt in un recente articolo su Lancet13, se oggi guardiamo indietro di 50 anni constatiamo che molte delle affermazioni di McKeown non sono più vere dato che oggi abbiamo a disposizione un armamentario di interventi di provata efficacia nel modificare la storia naturale di gravi malattie. Coloro che, in condizioni di bisogno, non possono accedere a questi interventi subiscono un danno certo per la loro salute. Secondo un’analisi della Banca Mondiale, recepita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’utilizzazione delle nuove tecnologie (farmaci, dispositivi diagnostici e terapeutici, etc.) è responsabile – nei paesi a basso e medio livello di sviluppo - del 49% della riduzione della mortalità dei maschi adulti, del 39% della riduzione della mortalità delle femmine adulte e del 45% della mortalità dei soggetti al di sotto dei 5 anni14. Con grande lungimiranza Julian Tudor Hart scrisse su Lancet nel 1971 un articolo memorabile dal titolo “The inverse care law”15 (“La legge dell’assistenza inversa”), in cui si sosteneva che la disponibilità di servizi sanitari di qualità varia inversamente con il bisogno di essi nella popolazione servita. Questa legge opera più decisamente dove l’assistenza medica è più esposta alle leggi del mercato, e meno dove questa esposizione è più ridotta. Scriveva Hart nel 1971: “l’assistenza medica distribuita secondo le leggi del mercato è una forma sociale primitiva e storicamente sorpassata, e ogni ritorno al passato non farebbe altro che ingigantire la maldistribuzione delle risorse mediche”. Il ritorno al passato si è purtroppo avverato ed ha acquisito forza e slancio negli ultimi due decenni: le leggi del mercato regolano quasi ovunque la distribuzione delle risorse sanitarie e la “inverse care law” è ormai applicata su scala planetaria. Basta volgere lo sguardo a ciò che Figura 4 Mortalità (x 1000) nella popìolazione al di sotto dei 5 anni, per classi di reddito delle famiglie – Indonesia, Brasile, India, Kenia avviene nei paesi poveri colpiti dall’epidemia dell’Hiv/Aids, dove almeno tre milioni di persone all’anno muoiono per l’impossibilità di accedere ai farmaci indispensabili per la cura e per la mancanza di servizi sanitari adeguati. Ma la legge opera (in forma assai più mitigata) anche dove esistono sistemi sanitari ricchi e universalistici: ad esempio, nel Regno Unito è stato documentato che i medici dedicano meno tempo ai pazienti appartenenti alle classi sociali più basse e che li riferiscono con minore frequenza ai servizi specialistici16. È interessante notare che Julian Tudor Hart dedicò tutta la sua vita professionale di medico di famiglia a contrastare le diseguaglianze nell’accesso ai servizi, dimostrando che in una zona socialmente deprivata del Galles (dove lavorava) era possibile incidere sulla mortalità della popolazione (riducendone in misura significativa i tassi) attraverso un miglioramento dei servizi sanitari di base17. Gavino Maciocco Dipartimento di Sanità Pubblica Università di Firenze NOTE 1. G. Dahlgren, M. Whitehaed, Policies and strategies to promote social equity in health, Stockholm: Institute of Futures Studies,1991,cit.in Department of Health, Inequality in Health, Report (Chairman: Sir Donald Acheson),The Stationary Office, London, 1998 2. G. Maciocco, Le diseguaglianze nella salute tra nazioni, Salute e Territorio 2001, n. 127, pp. 167-172 3. A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, 2000. 4. M. Marmot, The influence of income on health: view of an epidemiologist, Health Affairs 2002,Vol. 21, N.2, pp. 31-46. 5. M. Marmot, RG Wilkinson, Psychosocial and material pathways in the relation between income and health: a response to Lynch et al, BMJ 2001; 322: 1233-6. 6. C.Van Rossum et al. Employment Grade Differences in Cause Specific Mortality: twenty-five Follow-up of Civil Servants from the First Whitehall Study, Journal of Epidemiology and Community Health (March 2000): 178-184. 7. K. Marx, Wage, labour and capital, In: Selected work,Vol.1. London, Lawrence and Wishart, 1942, In ”M. Marmot, RG Wilkinson, Ibidem”. 8. H.P. Freeman, R. Payne, Racial Injustice in Health Care, N Engl J Med 2000; 232:1045-47 9. A. Sen, ibidem 10. JW Linch et al., Income inequality and mortality in metropolitan areas of the United States, Am J Public Health, 1998; 1074-80. 11 NA Ross et al., Relation between income inequality and mortality in Canada and in the United States: cross sectional assessment using census data and vital statistics, BMJ 2000; 320; 898-902. 12. T. McKeown, La medicina: mito, miraggio o nemesi? Sellerio editore Palermo, 1978. 13. G.Watt, The inverse care law today, Lancet 2002; 360:252-54. 14. WHO, The World Health Report, Making a Difference, Geneva, 1999. Pag. 5. 15. J.T. Hart, The Inverse Care Law, Lancet 1971, i, 404-12. 16. M. Blaxter, Equity and consultation rates in general practice, BMJ 1984; 288; 1963-67. 17. J.T. Hart, Twenty five years of case finding and audit in a socially deprived community, BMJ 1991; 302: 1509-13. 7 FATTORI DEPRIMENTI LE PRODUZIONI ANIMALI COME CAUSE DI POVERTÀ E FAME NEL MONDO di Adriano Mantovani Si dice che il Mahatma Gandhi affermasse che una vedova poteva sopravvivere se possedeva una vacca, altrimenti era condannata a morire. Questo ricordo ci aiuta a introdurre i tanti aspetti del rapporto tra le persone e gli animali (e le loro malattie) in una varietà di habitat che comprendono differenti situazioni del rurale, del silvopastorale e dell’urbano e periurbano, ed altre, le quali hanno in comune condizioni di povertà, più o meno marcata e contrastata. Cercheremo di esaminare vari aspetti connessi con le malattie degli animali in relazione al ruolo di mantenere una povertà stabile, di provocarla o di impedirne il superamento. Si deve premettere che ci riferiamo alle varie specie di animali utilizzati al fine di consentire la sopravvivenza umana in condizioni generalmente difficili e comunque al di sotto degli standard di vita che vengono definititi “normali” o “accettabili” dalla nostra cultura. Va tenuto presente che in diverse situazioni lo stato di povertà è talmente endemico (e per gli abitanti “abituale”) da essere percepito come situazione anormale solo da osservatori esterni, con differenti parametri di riferimento. Va anche tenuto presente che a volte chi si occupa di povertà non tiene conto dei limiti locali e ipotizza situazioni velleitarie, non basate sullo sviluppo possibile nell’ambiente specifico. La definizione di “povero che possiede animali” cambia con le differenti culture. Nella nostra cultura italiana un povero può possedere pochi polli, pochi conigli,un maiale, un asino, poche pecore o capre. La valutazione cambia con il luogo (vi sono tanti “Sud”) e le specie animali. Vi sono lavoratori che sono addetti ad animali senza possederne: braccianti, mandriani, pastori, ecc.; a volte appartengono a livelli molto bassi della scala sociale (ad es. i “servi pastori”). Il recente Comitato 8 Esperti della FAO (Expert Consultation on Community – based Veterinary Public Health Systems – FAO Animal Production and Health Proceedings, 2004) nel capitolo “Le zoonosi e il povero” (zoonoses and the poor, pag. 51) cita: proprietari di bestiame (livestock keepers), lavoratori impegnati con bestiame o in attività agricole (labourers working with livestock or engaged in agricultural production), mercanti di prodotti animali (traders in livestock products), produttori di bestiame che consumano prodotti dei propri animali o non proprietari che consumano prodotti di origine animale dei propri vicini o di altre comunità povere (livestock owners consuming products from their animals or non-livestock owners consuming the livestock products of their neighbour or of other poor communities). Nelle tabelle abbiamo elencato i prodotti di origine animale utilizzati nel mondo, le risorse condivise da persone e animali che possono anche essere causa di competizione per la sopravvivenza ed i fattori che possono causare povertà in economie fondate sulle produzioni animali. Nel testo discuteremo i problemi degli allevamenti nelle zone desertiche, il ruolo delle malattie endemiche, le zoonosi dei poveri e dei ricchi e le malattie degli animali portatrici di povertà, cercando di trarre conclusioni generali. PROBLEMI DELLE ZONE DESERTICHE Vi sono zone in cui l’allevamento è particolarmente difficile, praticato in situazioni estreme. Ne sono un esempio le zone desertiche o semidesertiche di diverse parti del mondo. Le popolazioni che vivono in queste zone sono forte- mente legate a (forse sarebbe più esatto dire “sostenute da”) tradizioni che permettono di superare le durezze ambientali: allevano animali adatti all’ambiente e ne accettano i limiti produttivi, praticano quasi sempre il nomadismo. La secolare consuetudine al loro tipo di vita porta a chiedersi se si possa parlare realmente di “povertà”, oppure se si tratti del solo modo di sopravvivere in quegli ambienti. Molte difficoltà derivano dai frequenti conflitti, che possono portare a sottrazione di pascoli o ad abigeato, oppure dalla importazione di malattie animali e conseguenti blocchi sanitari; infatti quando arrivano malattie degli animali (ad es. peste bovina, afta epizootica, vaiolo ovino o altre) queste decimano gli allevamenti e/o limitano le possibilità di spostamento e di commercio: in pratica distruggono l’economia per un lungo periodo, in certi casi annullando le possibilità di recupero. MALATTIE ENDEMICHE CHE OSTACOLANO L’ALLEVAMENTO Vi sono zone dell’Africa in cui mosche tse-tse (glossine) e tripanosomi rendono particolarmente difficile, a volte impossibile, l’allevamento e condizionano la vita di persone ed animali. La selezione delle specie e razze allevate e le tecnologie d’allevamento sono condizionate non dalle capacità produttive, ma dalla possibilità di sopravvivenza. In tali ambienti, alle malattie degli animali fanno riscontro analoghe malattie dell’uomo (malaria, tripanosomiasi, ecc.), per cui la povertà è causata e sostenuta dalle malattie ed è essa stessa fattore di queste. Danni gravi, anche se non paragonabili alle tripanosomiasi, sono causati dagli emoprotozoi trasmessi da zecche, che impongono una pesante “tassa” sia perché riducono le produzioni animali, sia perché impongono forti spese per il loro controllo. A questi “campi maledetti”* di natura infettiva se ne vanno progressivamente (e inesorabilmente) aggiungendo altri per cause chimicoindustriali (ad es. diossine) e nucleari che rendono impossibile agricoltura, allevamento e sviluppo umano in zone che, prima della contaminazione, permettevano insediamenti umani e tecnologie agro-zootecniche di buon livello. ZOONOSI DEI POVERI E ZOONOSI DEI RICCHI Con la BSE abbiamo conosciuto un modello di “zoonosi dei ricchi”, cioè legate al consumo di carne prodotta da bovini alimentati a loro volta con carne, che col- pisce popolazioni che possono prendersi il lusso di allarmarsi (e come!) per infezioni che colpiscono una persona su un milione. Abbiamo visto anche che popolazioni per le quali la carne e il cibo in genere scarseggiano, accetterebbero volentieri quei bovini che nei paesi ricchi vengono distrutti perché appartengono ad allevamenti dove è stato trovato un caso di BSE. Il comportamento nei riguardi delle zoonosi costituisce infatti una linea di demarcazione tra paesi che possono permettersi il lusso di investire grosse somme per evitare rischi anche minimi e paesi che debbono subire la presenza di zoonosi anche frequenti. Abbiamo già citato la BSE come “zoonosi dei ricchi”. Prendiamo l’esempio della rabbia. Vi sono paesi, come l’Italia, dove con grossi investimenti (tempo, organizzazione dei servizi, finanziamenti) la rabbia è stata eradicata non solo nei cani, ma anche nelle volpi. In molti paesi poveri, invece, la rabbia, non diagnosticata e/o non segnalata, continua a uccidere persone e animali, senza che il problema venga considerato degno di attenzione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità calcola che ogni anno muoiano di rabbia 1.000-1.500 persone (tra cui qualche turista), ma certamente sono molti di più, in luoghi ove mancano i servizi sanitari e il problema passa del tutto inosservato e comunque non è ritenuto degno di investimenti. La promiscuità uomo-suino che osserviamo nelle favelas latino-americane e uomo-bovino che troviamo in diverse baraccopoli porta a rendere endemici i cicli delle teniosi (Taenia solium legata al suino e T. saginata al bovino) per cui troviamo le tenie nelle persone e i cisticerchi negli animali, il tutto accettato come abituale: suini e bovini sono infatti spazzini abituali, assieme ai cani che diffondono l’echinococcosi cistica. Nei paesi dove il latte viene pastorizzato e dove sono stati organizzati piani di profilassi, la brucellosi è fortemente diminuita o addirittura eliminata. Dove invece il latte e i latticini vengono consumati crudi, e dove vi è stretta promiscuità tra persone e animali (bovini, bufalini, ovini, caprini) la brucellosi è frequente, solo che non viene quasi mai diagnosticata e rientra in quel “complesso malarico” che accumula febbri di lunga durata in diversi paesi poveri. Negli ultimi anni, poi, l’AIDS è diventata “la malattia”, assumendo il ruolo di priorità assoluta, causa, effetto, indicatore e cimitero delle speranze delle zone più povere, nonché causa di abbandono delle attività agricole. L’AIDS non é una zoonosi, ma può essere complicata da coinfezioni di origine animale. MALATTIE DEGLI ANIMALI PORTATRICI DI POVERTÀ Vi sono malattie degli animali che possono sconvolgere l’economia di un paese (o di un continente) portando miseria e fame. Consideriamo, ad esempio, quello che potrebbe succedere in Europa se si diffondesse su vasta scala il virus dell’afta epizootica, capace di infettare bovini, ovini, caprini, suini e ungulati selvatici. E ci sono diversi altri agenti di infezioni altrettanto temibili o quasi. Ricordiamo la grande pandemia di peste bovina che impoverì l’Europa nel diciottesimo secolo. Gli esempi potrebbero essere molti: ne sceglierò alcuni che ci interessano direttamente. L’Etiopia ha una storia millenaria e per molti anni ha goduto di un relativo benessere. Nel 1889 il paese fu aggredito dall’esercito italiano che, per rifornirsi di carne, importò dall’Asia bovini infetti di peste bovina, la quale così penetrò in Africa, che in precedenza ne era rimasta indenne. L’infezione si diffuse rapidamente in una popolazione bovina fortemente recettiva, provocando la morte del 90% dei bovini; la resistenza etiopica cadde. Si ebbero perdita della forza lavoro e fame. Un popolo di pastori e mercanti fu costretto ad adattarsi ad una agricoltura di sopravvivenza. Si verificò un grave sconvolgimento sociale, aumento dei prezzi di 100-200 volte, morte di un terzo della popolazione ed infine libero accesso all’invasione coloniale. Ancora oggi la peste bovina costituisce un fattore limitante per diverse zone africane ed interessa animali domestici e selvatici. Le malattie animali che incidono pesantemente sulla povertà sono state divise in tre categorie: 1. malattie epidemiche (peste bovina, afta epizootica, pleuropolmonite contagiosa bovina, peste dei piccoli ruminanti, pesti suine classica e africana, pseudopeste aviare); 2. malattie endemiche (mastiti, polmoniti, malattie da emoprotozoi, infezioni da elminti); 3. zoonosi (febbre della valle del Rift, brucellosi, echinococcosi cistica, rabbia, tubercolosi bovina, malattia da virus Nipah, teniosi/cisticercosi) ed altre trasmesse con gli alimenti, come fasciolosi, trichinellosi e gastroenteriti quali salmonellosi e colibacillosi. Le malattie endemiche incidono sul singolo allevatore; le epidemiche hanno un forte impatto economico su scala globale. Ad es. la peste bovina negli anni ’80 provocò in Africa la perdita di più di 40 milioni di capi. Nel 1995 la pleuropolmonite contagiosa fu reintrodotta in Botswana dopo 46 anni e causò la perdita di 320.000 bovini solo nel nord del paese, con un costo diretto di 100 milioni di dollari e perdite indirette per più di 400 milioni di dollari. Nel 1994 la peste suina africana decimò l’80% della popolazione suina del Nord Maputo (Mozambico) e nel 1996 portò alla perdita di un quarto dei suini della Costa d’Avorio, causando da 12 a 32 milioni di dollari di danni diretti e indiretti. In India nel 1971 si è calcolato che la lotta contro le malattie dei polli (soprattutto vaccinazione contro la pseudopeste) abbia permesso di passare da 2 a 12 uova disponibili annualmente per ogni abitante. E infine una testimonianza dei “tempi moderni”, la pandemia di influenza aviaria nel Sud Est asiatico. La Thailandia aveva sviluppato l’ambizione di diventare la “cucina del mondo”, permettendo così a migliaia di piccoli allevatori e di lavoratori di uscire da uno stato di relativa povertà. L’epidemia di influenza aviaria che ha 9 portato alla distruzione di centinaia di milioni di polli ed ha colpito alcune decine di persone ha portato all’embargo della Thailandia da parte dei paesi industrializzati, alcuni dei quali (con avicoltura sviluppata) temono la concorrenza thailandese. Circa 670.000 famiglie di piccoli allevatori sono state colpite dall’epidemia: la loro speranza di benessere è stata demolita, come pure è stata abbattuta l’ambizione del paese di allinearsi con le altre nazioni che gli fanno da modello. Si è ribadito che il ruolo dei paesi poveri è quello di “mercato”: quando cercano di uscirne, soprattutto invadendo aree già occupate, trovano forti opposizioni. E le malattie degli animali (quelle della lista A dell’OIE ed altre) forniscono un valido e frequente motivo per proteggere i mercati importanti da invasioni esterne. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Le malattie degli animali (e delle piante) hanno accompagnato la storia umana, ricevendo scarse attenzioni, come determinanti di carestie, sconvolgimenti sociali, migrazioni, eventi politici. Forse più nota è la loro influenza su eventi militari, ma tale aspetto non interessa in questa sede. Pure trascurata è la loro rilevanza in una paventata guerra batteriologica che, se rivolta verso gli animali, potrebbe sconvolgere economie e resistenze. Oggi le malattie degli animali continuano la loro presenza e i loro effetti. Parlando in senso biologico, la capacità di adattamento degli agenti di malattia animale continua a dimostrarsi efficiente e l’azione umana nel contrastarli si è rivelata efficace solo in determinati casi. Notiamo che i successi nella lotta si sono avuti soprattutto nei confronti di malattie economicamente importanti, che colpiscono gli interessi delle nazioni e delle zone che possono disporre di mezzi per campagne di lotta adeguate, mentre gli agenti di malattie che si sono annidati in zone povere di mezzi e di tecnologie possono contare su una lunga sopravvivenza. In pratica (e sempre biologicamente parlando) la povertà costituisce una nicchia che protegge e perpetua (endemizza) gli agenti patogeni animali (e umani). Nel sistema economico attuale le malattie degli animali costituiscono uno strumento ed una giustificazione per stabilizzare il ruolo delle varie nazioni nel commercio dei prodotti di origine animale e nel “rango” che occupano nella scala delle economie nazionali. Le nazioni con tecnologie avanzate subiscono una “tassa da malattie degli animali” in partenza bassa (si calcola circa il 10% del reddito della 10 zootecnia o meno) che possono permettersi di elevare con continui inserimenti di nuove esigenze e campagne di lotta (vedasi ad es. la BSE) per migliorare la sanità del proprio bestiame, ma anche per proteggere il proprio mercato. Se nei paesi che cercano di emergere nel settore delle produzioni zootecniche sono presenti o compaiono infezioni ritenute importanti dai paesi avanzati, le speranze del paese emergente vengono accantonate. Vi sono infine popoli in cui la “tassa da malattia degli animali” si porta via una grossa fetta (si è valutato la metà, e a volte oltre) del reddito dell’allevamento. Piccole economie zootecniche sono cronicamente limitate dalle malattie endemiche e, a volte, vengono distrutte da epidemie. Le zoonosi possono contribuire a peggiorare uno stato di salute già precario delle persone. Il tutto viene quasi sempre subito come “normale”, con la rassegnazione del povero. La maggior parte dei tentativi di superamento della situazione sono rivolti all’abbandono delle attività agricole. Le malattie degli animali contribuiscono alla povertà di molte parti del mondo sottraendo alimenti (a volte si arriva a carestie) ed altri beni di consumo, riducendo lo scarso reddito e portando malattie all’uomo. Vorrei concludere ricordando una recente raccomandazione della FAO (2004) che recita “…le zoonosi e gli altri problemi di sanità pubblica veterinaria debbono essere presi in considerazione nel contesto della lotta contro la povertà”. Adriano Mantovani Centro di Collaborazione OMS/FAO per la Sanità Pubblica Veterinaria Dipartimento di Sanità Alimentare e Animale Istituto Superiore di Sanità Roma NOTE * Si usa lo stesso termine “campi maledetti” che un tempo veniva usato per le zone contaminate da spore carbonchiose, per cui non vi era possibile l’allevamento. Tab 1 Prodotti di origine animale Da animali vivi latte sangue letame (concime, combustibile, ecc.) lavoro uova miele lana penne seta compagnia sport prestigio attività emergenti (educazione, riabilitazione...) Da animali morti carne e visceri pelli ossa, unghie, corna olii e grassi farmaci prodotti artigianali prodotti industriali Tab 2 Risorse condivise da persone e animali Possibili cause di competizioni Alimenti Acqua Spazio (rurale, urbano, acquatico) Cure sanitarie e farmaci Tecnologie e conoscenze Disponibilità economiche Tab 3 Cause di povertà in economie fondate sulle produzioni animali Scarsa produzione/mortalità Infezioni croniche/endemie Carenze alimentari/carestie/siccità Cataclismi (alluvioni/desertificazioni/terremoti/guerre, ecc.) Invasioni di predatori (locuste, topi, ecc) Cambiamenti di clima Inquinamento delle acque Scadimento ambientale (contaminazione chimica o nucleare) Malattia/inquinamento di piante foraggiere Blocco di pascoli e/o rifornimento di mangimi Mancato accesso mercati nazionali e/o internazionali Malattie infettive (zoonosi incluse) Contaminazione (farmaci, disinfettanti, ecc.) Carenze igieniche Carenze tecniche di commercializzazione Difficoltaàdi trasporto e comunicazione Inadeguatezza del prodotto Influenza di prodotti importati (concorrenza) Conflitti politici e/o etnici Deficienze tecniche Metodi di allevamento Selezione genetica Sovraccarico del pascolo Abuso di medicamenti Insufficienti tecnologie Uso irrazionale delle risorse/prelievo irrazionale (pesca, ecc.) Concorrenza di prodotti importati Mancanza di assistenza, strumenti e strutture Scarso credito Problemi legislativi/consuetudinari Regolamentazione del pascolo Disponibilità acque Regolamentazioni forestali Regolamentazione di pesca e caccia Ostilità verso zootecnia urbana Deficienti metodi di preparazione e conservazione Carenti metodi di conservazione Deterioramento o sottrazione da infestanti (insetti,topi,ecc) Problemi sanitari del personale addetto AIDS, malaria, ecc. Malattie varie Zoonosi Carenze alimentari Insufficiente reddito Inadeguata qualità della vita MIGRAZIONE E SALUTE di Salvatore Geraci GLI IMMIGRATI IN ITALIA La migrazione da paesi non appartenenti all’Unione europea è uno dei fenomeni che maggiormente sta condizionando la nostra epoca: in poco più di venti anni l'Italia è diventata e si è consolidata come meta più o meno definitiva per un flusso di cittadini stranieri in costante aumento. Anzi il nostro paese partecipa a questo fenomeno mondiale sia come paese di origine, con 4 milioni di persone, che come paese di accoglienza: attualmente si stima la presenza di oltre 2 milioni e mezzo di stranieri regolarmente presenti, con una incidenza sulla popolazione residente del 4,5%, al di sotto di circa un punto della media dell’Unione Europea. Per via di questo “effetto doppio” (paese di emigrazione e paese di immigrazione) l’Italia assume una rilevante dimensione internazionale con un ventaglio di paesi di origine degli immigrati più allargato anche rispetto a paesi come la Germania che accoglie più di 7 milioni di stranieri. Un altro fattore che non manca di reclamare l’attenzione nel nostro paese, come anche in Spagna, è l’accentuato ritmo di aumento, dovuto all’intreccio tra declino demografico e mancanze di forze lavoro specialmente in determinati settori. Se gli immigrati nel mondo raddoppiano ogni 35 anni, questo in Italia è avvenuto ogni 10 anni e ultimamente ci sono voluti solo 4 anni per raddoppiare ulteriormente. Gli ultimi dati disponibili indicano come oltre il 58% degli immigrati regolarmente presenti abbia una età compresa tra 19 e 40 anni e circa il 48,4% sia di genere femminile. Il 40,9% proviene da paesi europei non appartenenti all’Unione Europea, il 23,5% dall’Africa, il 16,8% dall’Asia ed l’11,5% dall’America (compresa la folta presenza di statunitensi: quasi 50.000). Ben tre comunità hanno superato le 200.000 presenze (rumeni, albanesi, marocchini) e altre 2 le 100.000 (ucraini e cinesi): complessivamente sono quasi 190 le nazionalità rappresentate. Oltre il 66% degli immigrati in Italia è presente per motivi di lavoro, circa il 24% per motivi di famiglia, e per un altro 6,7% per vari motivi, anch’essi stabili o comunque di una certa durata (adozione, motivi religiosi, residenza elettiva): nel complesso si tratta di quasi il 97% del totale dei permessi di soggiorno e ciò caratterizza il fenomeno migratorio non come qualche cosa di provvisorio ed estemporaneo ma ormai come componente strutturale del tessuto sociale, economico e culturale del nostro paese. La presenza di minori, oltre 400.000 di cui la metà nati in Italia, e di famiglie ricongiunte inoltre, fa sì che si passi da una condizione di tendenziale invisibilità sociale a una relazione più intensa con il paese d'accoglienza, imponendo un rapporto più serrato tra le culture. LE POLITICHE SANITARIE Solo in tempi relativamente recenti l'Italia ha definito delle chiare politiche per garantire l'accesso e la fruibilità delle prestazioni sanitarie ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale. Dal 1998, con il Testo unico sull'immigrazione e con gli atti ad esso conseguenti nello specifico sanitario è da segnalare una corposa Circolare ministeriale datata 24 marzo 2000 e pubblicata su G.U. n. 126 Serie generale del 1 giugno 2000 - e con le indicazioni contenute nelle ultime due edizioni del Piano sanitario nazionale (Psn) si è evidenziata una politica sanitaria estremamente attenta e pragmatica. Si è così definita l'inclusione a pieno titolo degli immigrati in condizione di regolarità giuridica nel sistema di diritti e doveri per quanto attiene all'assistenza sanitaria a parità di condizioni ed a pari opportunità con il cittadino italiano: sono stati rimossi alcuni requisiti che nel passato erano ostativi (la residenza, il limite temporale, le aliquote diversificate per l'iscrizione al Servizio sanitario nazionale - Ssn, ...) e introdotti principi di equità (obbligatorietà estesa all'iscrizione al di là del perfezionamento formale delle pratiche, esenzione per situazioni di maggior disagio: richiedenti asilo, detenuti, ...). Il diritto all'assistenza è stato esteso per legge anche a coloro presenti in Italia in condizione di irregolarità giuridica e clandestinità (decreti legge prima e ordinanze ministeriali poi avevano introdotto e sostenuto tale norma dal 1995), garantendo loro oltre le cure urgenti anche quelle essenziali, continuative ed i programmi di medicina preventiva in una logica solidaristica, di cui è permeato ad oggi il nostro sistema sanitario, ma anche in termini di tutela della collettività e di prevenzione della comunità che passa necessariamente dalla promozione della salute individuale indipendentemente dalla status giuridico, sociale e culturale. IL PROFILO DI SALUTE I dati sulle condizioni di salute degli immigrati, fino ad un recente passato, sono stati legati ad esperienze locali (alcune Regioni hanno prodotto statistiche in particolare sui ricoveri ospedalieri, alcune Aziende sanitarie sui propri assistiti), a reti di strutture di volontariato o comunque sostenute dal privato sociale o da società scientifiche, o a singole situazioni di patologia (malattie infettive) o di bisogno specifico (interruzione volontaria di gravidanza). Dati comunque significativi perché hanno permesso di tratteggiare un profilo di salute dello straniero nel nostro paese credibile e scientificamente attendibile e hanno potuto individuare alcune aree critiche dove destinare maggiori attenzioni e risorse. Il profilo sanitario così tracciato, sotto l’impulso degli input del Psn e della strutturazione del fenomeno migratorio, oggi trova conferma e si arricchisce di un maggior numero di ricerche statisticoepidemiologiche e di flussi di dati seppur ancora frammentari e non omogenei. Ad esempio l’analisi delle Sdo sono coerenti con quanto ci si poteva attendere sia per un aumento assoluto degli stranieri in Italia, sia come auspicabile conseguenza di politiche tese a dare maggiore permeabilità alle strutture sanitarie pubbliche: in questo senso può essere letta la tendenza alla diminuzione della differenza in particolare tra i ricoveri di un giorno e sull’utilizzo del day hospital, trend da valutare attentamene negli anni 11 a venire per capite se ciò indichi una maggiore appropriatezza dei percorsi assistenziali. Che una tendenza in questo senso ci sia stata è evidenziato da una ricerca recentemente pubblicata dall’Istituto Superiore della Sanità (Rapporto Istisan 03/4 del 2003) che ha indagato e monitorato nel tempo alcuni punti critici del percorso nascita tra le donne immigrate provenienti da paesi ad economia meno avanzata ed in particolare si è proposta di misurare il loro grado di accessibilità in gravidanza ai servizi sanitari pubblici. Lo studio partito nel 1995-96 è stato riproposto nel 2000-01 al fine di valutare i cambiamenti avvenuti nel tempo e l’influenza della normativa introdotta nel 1998. In generale si è osservato un miglioramento dell’assistenza in gravidanza, al parto e puerperio. Ad esempio è diminuita la percentuale di donne che hanno effettuato la prima visita dopo il 1° trimestre (da 25% a 16%), il numero di ecografie è quello raccomandato dai protocolli nazionali e il mese della prima ecografia è risultato essere in media con il 3°, come tra le italiane. Altre rilevazioni sugli esiti della nascita su diversi campioni di popolazione a livello nazionale confermano questa tendenza al miglioramento dei percorsi assistenziali e degli esiti sulla salute da quando l’Italia ha scelto chiare politiche di accesso ai servizi per tutti gli immigrati. I dati sanitari disponibili evidenziano quindi un superamento delle situazioni di esclusione dai servizi da parte degli immigrati ma indicano anche una fragilità sociale di questa popolazione che, pur nella sua eterogeneità, mostra ambiti di sofferenza sanitaria (malattie da disagio, infortunistica soprattutto sul lavoro, alto ricorso all’ivg, alcune malattie infettive prevenibili, ...) in gran parte imputabile a incerte politiche di integrazione soprattutto in ambito locale, a difficoltà persistenti di accesso ai servizi, a problematiche relazionali-comunicative. IL PREGIUDIZIO “IMMIGRATI UNTORI” Tuttavia il pregiudizio sugli immigrati come “untori”, portatori di malattie infettive e tropicali (oggi il numero maggiormente significativo di immigrati in Italia proviene dall’Europa dell’Est!) sembra essere ancora radicato, non solo nella popolazione italiana condizionata da un dibattito sull’immigrazione sempre dai toni troppo accesi, ma anche tra gli stessi operatori sanitari: un nostro studio su un ampio campione di operatori sanitari italiani (circa 3.000) ha evidenziato che oltre il 50% ritiene le malattie più frequenti tra gli stranieri in Italia essere proprio le malattie infettive, in particolare la tubercolosi, la malaria o 12 quelle sessualmente trasmesse e l’Aids (per quest’ultima condizione patologica, è da evidenziare come a fronte di un aumento assoluto e relativo dei nuovi casi in cittadini stranieri, in realtà i tassi, cioè i casi rapportati alla popolazione di riferimento, indicano un trend di chiara diminuzione nel tempo). Questo pregiudizio, spesso alimentato da semplificazioni pseudoscientifiche, è purtroppo trasversale in tutte le professionalità sanitarie (medici, infermieri ed altri operatori socio-sanitari) e costante nel tempo (la rilevazione è iniziata dieci anni fa ed è tuttora in corso). A completamento di quanto detto va anche rilevato come un altro 30% del campione attribuisce a problematiche psichiatriche, che di per sé sono stigma di alienità, i quadri patologici più frequenti tra la popolazione straniera e solo una minoranza ha inquadrato il fenomeno nei termini corretti (malattie routinarie o condizioni patologiche espressione di un disagio socio-economico e culturale). LA MEDICINA TRANSCULTURALE È LA MEDICINA Queste considerazioni ci suggeriscono in modo chiaro l'importanza di continuare lungo la strada intrapresa di certezza del diritto alla salute e di progettualità per garantire a tutti l'accesso alle strutture sanitarie e la fruibilità delle prestazioni con particolare riferimento a quelle di primo livello e l'adozione di iniziative e programmi di promozione ed educazione alla salute. Oggi è fondamentale garantire realmente agli stranieri pari opportunità, rispetto ai cittadini italiani, per l’accesso ai servizi e per la fruibilità delle prestazioni sanitarie come sancito dalle leggi in vigore. La medicina transculturale diventa aspetto ordinario della medicina a partire dall’ambito infermieristico e della medicina di primo livello (medici di medicina generale e pediatri di libera scelta) con percorsi formativi inseriti nella formazione di base e nell’aggiornamento professionale. Ciò è suffragato dal fatto che ormai viviamo in una società dove il 4,5% della popolazione è straniera con indici di raddoppio sempre più ravvicinati; nel Lazio gli immigrati sono il 7,5% ed in alcuni quartieri di Roma superano il 10% (quasi il 18% nel I municipio) della popolazione residente; in alcuni lavori l’80% degli occupati sono stranieri; un nuovo assunto su 6 è straniero; in alcuni grandi ospedali del nord 1 neonato su 4 ha almeno un genitore straniero; il 7,4% degli aborti spontanei sono di donne straniere così come il 20% delle interruzioni volontarie di gravidanza; nelle grandi città oltre il 40% dell’utenza consultoriale è di origine straniera; i figli di immigrati sono oltre il 3% della popolazione scolastica nazionale, a Roma oltre il 9% ed in alcune scuole superano il 50%; alcuni medici di medicina generale hanno il 30% di pazienti stranieri. In una società multietnica come la nostra, la medicina transculturale è la medicina. Salvatore Geraci Area sanitaria Caritas Roma Società Italiana di Medicina delle Migrazioni BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE • Caritas e Migrantes: Dossier Statistico Immigrazione (anni 2001, 2003 e 2004). Roma, edizione Nuova Anterem, 2001, 2003 e 2004 • Commissione per le Politiche di integrazione degli immigrati. Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia. A cura di G. Zincone. Il Mulino, Bologna, 2001, pp.215-242 • Fortino A., Pennazza F., Boldrini R., Randazzo M., Marceca M., Geraci S.: Rapporto nazionale sui ricoveri ospedalieri degli stranieri in Italia (dati Sdo 1998). In Agenzia Sanitaria Italiana (ASI), n. 18, 8 marzo 2001 • Geraci S: Esclusione, fragilità sociale e reciprocità: un percorso da compiere. In Atti VIII Consensus Conference sull’immigrazione. VI Congresso nazionale SIMM. Lampedusa (Ag), 2004 – 6:9 • Geraci S, Marceca M. La promozione della salute per gli stranieri: normativa nazionale sull’accesso ai servizi e politiche locali. 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Rapporti Istisan 2003; 03/4: 11-23 ESPERIENZE INTERNAZIONALI nucleo famigliare nel tempo. Per questo offre grandi possibilità in termini di creazione di opportunità di lavoro e generazione di reddito durevole. Di conseguenza la promozione di programmi tendenti a rafforzare l'organizzazione delle comunità locali in ambito rurale è esplicitamente riconosciuta, dalle autorità pubbliche e da altri soggetti economici ed istituzionali, come principio per il futuro dell'agricoltura in Africa. Da questo punto di vista si rende indispensabile per le organizzazioni degli allevatori, come per altre categorie, acquisire conoscenze approfondite per sviluppare le proprie capacità tecniche in modo da poter influenzare le politiche agricole fino ai più elevati livelli decisionali (locali, nazionali e sub-regionali). COSTRUIRE IN SITUAZIONI LOCALI, CONOSCENZE E RISORSE SANITÀ PUBBLICA VETERINARIA CONOSCENZE E RISORSE LOCALI PER I BISOGNI DELLE COMUNITÀ NEI PAESI DEL SUD DEL MONDO di Luciano Venturi e Patrizia Parodi Negli ultimi anni l’approccio ai problemi di salute e produzione animale ha subito profondi cambiamenti: da una parte le politiche di aggiustamento strutturale, in specifico quelle di privatizzazione e “disimpegno” dei vari Governi, hanno creato aspettative di una presa in carico, da parte delle associazioni dei produttori, di un sistema di servizi che gli Stati non sono più in grado di assicurare; dall’altra il contesto politico, istituzionale ed economico dei Paesi in via di sviluppo (PVS) si è caratterizzato per la forte volontà dei Governi di costruire e sviluppare alcune aree economiche, sociali e politiche comuni tramite meccanismi di integrazione sub-regionale e regionale. Uno dei nodi centrali di questo processo di riassetto organizzativo degli apparati e servizi riguarda lo sviluppo dell'agricoltura basata sulle microeconomie familiari rurali nel contesto politico mondiale che fa riferimento a meccanismi di deregolamentazione e liberalizzazione delle economie nazionali e di globalizzazione degli scambi commerciali. L'agricoltura basata sulla famiglia rurale è essenziale per uno sviluppo sostenibi- le, implica l’integrazione di attività diversificate ed è basata su di una varietà di valori (inclusa la solidarietà); il suo scopo essenziale è garantire la sicurezza alimentare e l'integrità del La sicurezza alimentare è valore che nei PVS assume un significato assai diverso da quello applicabile alle società economicamente evolute; in situazioni svantaggiate, economicamente e socialmente compromesse, il governo dei processi di produzione alimentare, drammaticamente ed inesorabilmente, fa assumere ai principi di tracciabilità e controllo del rischio connotazioni più vicine a quello di “riduzione del danno”, come conseguenza della pratica di “adattamento” delle tecnologie, più che di un loro inappropriato o pericoloso miope trasferimento. La definizione del fenomeno - ampiamente analizzato, nella sua più estesa accezione che fa riferimento a tutti i determinanti delle condizioni di vita delle popolazioni svantaggiate, da esponenti di quella linea di pensiero “neosviluppista” che rigetta gran parte degli interventi di cooperazione internazionale evidenzian- La Discussione telematica della FAO su temi di Sanità Pubblica Veterinaria Dal 2 al 13 Febbraio 2004 la FAO ha organizzato una discussione telematica su temi di Sanità Pubblica Veterinaria (SPV). L’evento ha registrato la partecipazione di circa 150 ricercatori ed esperti di ogni continente con oltre 50 contributi originali di cui 7 da parte di italiani. La discussione si è sviluppata secondo due sostanziali modalità. 1. Da un canto i partecipanti hanno presentato opinioni e considerazioni inscrivibili nelle tematiche prefissate in una griglia di argomenti (Allegato1); alcuni interventi hanno provocato reazioni, anche molto vivaci. Questa prima tipologia di contributi è generalmente rimasta nelle dimensioni sintetiche. 2. Dall’altro canto sono stati presentati documenti ad argomento libero, ma inscrivibile nel contesto della SPV. I tre contributi che sono riportati in questo numero appartengono rispettivamente: alla prima tipologia: • Sanità Pubblica Veterinaria - conoscenze e risorse locali per i bisogni delle comunità nei Paesi del Sud del Mondo; alla seconda tipologia: • Commercio e salute nei Paesi in via di Sviluppo – alcuni aspetti di interesse Veterinario; • Alcune note su un progetto di sanità pubblica veterinaria realizzato in Angola, nella regione di Namibe. La Discussione, coordinata da Katinka de Balogh e Maarten Hoek, ha ricevuto notevole attenzione e considerazione in ambiente FAO; i materiali sono in elaborazione per una loro disponibilità in forma elettronica e/o cartacea. 13 do il fallimento di tutta la storia degli aiuti allo sviluppo - può essere significativamente riaggiustata condividendo l'espressione: "... non è più il caso per parlare di sviluppo ma solamente di rettifica strutturale.. " (S. Latouche, 2001). L'abuso di risorse non rinnovabili, le migrazioni, la frenetica corsa produttivistica, la diffusione di specie animali e di tecnologie di allevamento improprie, l'uso di molecole chimiche ormai vietate nei paesi industrializzati rappresentano alcune delle più importanti cause dell'inefficienza dei sistemi di garanzia di approvvigionamento alimentare. Assumendo quindi il concetto "riduzione del danno" come la trasposizione, ai livelli di sviluppo economico/sociale dei PVS, dei principi di “gestione del rischio”, la Sanità Pubblica Veterinaria (SPV) assume un ruolo preminente nel campo della produzione alimentare concorrendo alla costruzione di un sistema strutturale/organizzativo – in cui il miglioramento quali/quantitativo del cibo gioca un ruolo di importanza primaria e ove ricerca e servizi vanno considerati una risorsa (capitale immateriale) e non un costo – per il conseguimento dell’ obiettivo "Salute". Cibo, in specifico l’alimento di origine animale, e salute sono quindi così inseparabilmente connessi ed interdipendenti da esigere movimenti diffusi e partecipati di cooperazione internazionale che, coinvolgendo le comunità locali, partano dalla identificazione dei veri bisogni, passino per la valutazione delle opportunità giungendo a selezionare specifiche misure operative capaci di promuovere programmi di SPV - basati su principi di sussidiarietà - che individuino priorità e strategie comuni, incoraggino la partecipazione di tutti i portatori di interesse, con particolare attenzione alle forme associate ed organizzazioni dei lavoratori del Sud del mondo. Tenere conto delle risorse e dei bisogni percepiti localmente, oltrechè facilitare lo scambio di informazioni e conoscenze, concorre a far sì che le comunità rurali siano messe al centro delle politiche di Sanità Pubblica Veterinaria e che i programmi di sviluppo poggino su principi di democraticità e appropriatezza degli interventi. Luciano Venturi Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna e ALISEI [ONG], Milano Patrizia Parodi Ministero della Salute, Roma 14 COMMERCIO E SALUTE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO ALCUNI ASPETTI DI INTERESSE VETERINARIO di Patrizia Parodi, Adriano Mantovani e Luciano Venturi INTRODUZIONE “Salute per tutti” rappresenta un obiettivo di sviluppo accettato internazionalmente e, sin dall’inizio, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) ha riconosciuto la sua importanza per garantire uno sviluppo economico sostenibile. Negli accordi dell’OMC sono previsti casi in cui gli Stati membri possono subordinare le considerazioni economiche ad altri fattori legittimi come la salute; in diverse occasioni infatti, la giurisprudenza ha confermato che i Paesi membri dell’OMC hanno il diritto di determinare il livello di protezione sanitaria che ritengono più appropriato. Più recentemente la Dichiarazione Ministeriale di Doha ha nuovamente affermato che, in base alle regole dell’OMC, ai Paesi membri non può essere impedito di adottare le misure per la protezione della salute umana, animale, delle piante o dell’ambiente che ritengano necessarie, a condizione che queste non assumano carattere discriminatorio. GLI ACCORDI OMC ALCUNI ASPETTI DI SANITÀ PUBBLICA VETERINARIA L’Accordo OMC più rilevante dal punto di vista della Sanità Pubblica Veterinaria (SPV) è quello sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS)1 che ha finalità di tutela della sicurezza alimentare e della sanità animale e vegetale. I punti principali di questo Accordo sono: • lo scambio di informazioni, sulle misure SPS, prima della loro entrata in vigore in modo da consentire ai membri la possibilità di presentare commenti (trasparenza); • l’applicazione dello stesso trattamento per tutti i partners commerciali e per le merci prodotte sia localmente che importate (non discriminazione); • l’adozione di misure SPS basate su standard internazionali (armonizzazione); • l’uso del metodo di analisi del rischio (risk assessment); • l’accettazione di misure differenti se egualmente efficaci nel garantire lo stesso livello di protezione (equivalenza). Secondo alcuni recenti studi l’applicazione dell’Accordo SPS ha imposto standard di salute pubblica molto rigorosi che rischiano di essere percepiti come barriere al commercio; molti Paesi in via di sviluppo (PVS) sostengono che gli standard internazionali sono troppo elevati perché essi li possano applicare non permettendo, di conseguenza, l’esportazione dei loro prodotti. In effetti anche se gli standard internazionali sono approvati tramite procedure che cercano di garantire un’ampia partecipazione, molti PVS non possono garantire la presenza di un loro rappresentante nelle riunioni decisionali oppure mancano dei dati e delle competenze tecniche per contribuire attivamente alle discussioni. Al contrario, l’adozione di standard internazionali può anche essere interpretata come un mezzo per migliorare le politiche di sanità pubblica nei PVS esportatori, andrebbe inoltre tenuto conto che l’Accordo SPS riguarda solo i prodotti destinati all’esportazione e non quelli commercializzati e consumati localmente. Poiché è largamente riconosciuto che per i PVS, talvolta, può essere difficile applicare gli standard internazionali, l’Accordo SPS incoraggia l’adozione di attività di assistenza tecnica da parte degli Organismi internazionali e dei Paesi sviluppati. La realizzazione di tali iniziative, in forza della loro crescente rilevanza, è soggetta a monitoraggio costante essendo inclusa nell’agenda di tutti i Comitati SPS. Altri accordi dell’OMC aventi riflessi ed implicazioni che coinvolgono temi di SPV sono l’Accordo sulle barriere tecniche al commercio (TBT)2, che tratta delle misure volte a proteggere il consumatore contro le frodi commerciali [fra queste misure rientrano le direttive sull’etichettatura ed i requisiti qualitativi degli alimenti]; l’Accordo sull’agricoltura (AoA)3; l’Accordo generale sul commercio e servizi (GATS)4, che fa riferimento alla liberalizzazione del settore privato e infine, l’Accordo sugli aspetti commerciali correlati ai diritti di proprietà intellettuale (TRIPS)5, che si occupa, fra l’altro, dei brevetti farmaceutici e del sapere tradizionale. È inoltre auspicabile che un Paese, esercitando le “libertà” di rifiutare l’importazione di prodotti ottenuti attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile o con metodi che inquinano e impoveriscono l’ambiente, prenda in esame, nell’assumere decisioni che consentano importazioni di nuovi prodotti, gli obblighi derivanti da altri accordi internazionali quali la Convenzione internazionale sui diritti del bambino, la Convenzione ILO6, sull’eliminazione delle forme peggiori di lavoro minorile e gli Accordi sulla protezione dell’ambiente. CONTROLLO DELLE MALATTIE INFETTIVE, COMPRESE LE ZOONOSI La FAO ha stimato che 675 milioni di persone, che vivono in zone rurali, dipendono dal bestiame per la loro sopravvivenza e che il 70% dei poveri, che vivono in tali aree, sono allevatori tradizionali di bestiame. Tale forte dipendenza dal patrimonio animale evidenzia come il bestiame allevato tradizionalmente, molto vulnerabile di fronte a calamità quali la siccità, le inondazioni, il degrado delle risorse naturali e le malattie infettive, rappresenti una risorsa di vitale e straordinaria importanza per combattere la povertà. Il rischio del verificarsi di una malattia infettiva cresce in seguito all’aumento della mobilità delle persone e degli animali, al commercio degli alimenti e di altri prodotti derivati, oltre che in conseguenza di mutamenti sociali ed ambientali; un esempio molto recente, verificatosi in alcuni Paesi a sviluppo avanzato, viene offerto dal “caso” Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE) in cui il commercio di animali infetti e/o farine animali contaminate ha determinato il diffondersi della malattia nel mondo. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità Animale (OIE) è l’Organismo internazionale riconosciuto dall’Accordo SPS per determinare standard, linee guida e raccomandazioni nel campo della sanità animale e delle zoonosi. Questi provvedimenti sono raccolti in alcuni documenti a cui gli Stati dovrebbero far riferimento nello stabilire misure sanitarie per il commercio internazionale degli animali e dei loro prodotti: • il Codice sanitario degli animali terrestri • il Codice sanitario degli animali acquatici • il Manuale dei test diagnostici e vaccini per gli animali terrestri • il Manuale dei test diagnostici per gli animali acquatici Molte malattie di interesse dell’OIE (Lista A e B) hanno il loro serbatoio negli animali selvatici ed in caso di focolai il commercio internazionale di animali e dei loro prodotti può essere limitato o anche interrotto. Negli Atti della Conferenza sull’Eliminazione ed Eradicazione Globale delle Malattie, a proposito delle strategie di Sanità Pubblica viene sottolineato che l’infezione umana non è eradicabile quando, come per la malattia di Chagas, la filariosi causata da Brugia malayi, la rabbia, la febbre gialla e l’encefalite giapponese, esiste un serbatoio animale; merita sia evidenziato, in ogni caso, che la rabbia può essere eliminata quando – come in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia – si dispone di cospicue risorse. La missione dell’OIE include inoltre essendo accettato che uno dei mezzi più appropriati per prevenire e controllare le malattie infettive è costituito dall’implementazione di un sistema efficace di sorveglianza ed allerta che permetta un rapido scambio di informazioni - la raccolta e diffusione di informazioni concernenti le malattie animali e le zoonosi; nei PVS questi dati, tuttavia, sono frequentemente incompleti o totalmente indisponibili non permettendo così l’applicazione di misure sanitarie e di programmi di controllo efficaci. Un altro importante strumento previsto dall’Accordo SPS, per ridurre le restrizioni agli scambi commerciali, è il meccanismo di regionalizzazione che consente il riconoscimento di aree geografiche indenni o a bassa prevalenza per determinate malattie. In passato il controllo dei focolai di malattie animali si basava prevalente- mente sull’applicazione di misure quarantenarie o di embargo commerciali; più recentemente l’applicazione di combinazioni di diverse misure sanitarie ha ridotto la necessità di ricorrere a provvedimenti così restrittivi; attualmente l’intero sistema di garanzie fra Paesi, teso al riconoscimento dell’equivalenza delle misure sanitarie, si basa su alcuni pilastri fondamentali, i più importanti dei quali sono la predisposizione di sistemi di analisi del rischio, oppure dall’essere in grado di fornire giustificazioni tecniche basate su standard, linee guida o raccomandazioni riconosciute a livello internazionale. Un esempio in tal senso è costituito dalle restrizioni commerciali all’importazione di pesce proveniente da paesi affetti da colera che potrebbero essere sostituite da altre misure, adottate in accordo con le linee-guida OMS in cui si sottolinea che:“sebbene vi sia un rischio teorico di trasmissione del colera associato ad alcuni prodotti alimentari commercializzati a livello internazionale, questo raramente si è rivelato significativo e pertanto le autorità dovrebbero cercare mezzi per controllarlo diversi dall’applicazione di un embargo alle importazioni”. SICUREZZA ALIMENTARE E NUTRIZIONE Fra i diritti umani universalmente riconosciuti figura quello ad una adeguata alimentazione, così come definito nella “Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” in cui si afferma che “…il diritto ad un’alimentazione adeguata si realizza quando ogni uomo, donna e bambino, soli o in comunità, hanno sempre garantito l’accesso fisico ed economico ad un’alimentazione adeguata o ai mezzi per procurarsela”. Sulla base di questa dichiarazione, il Summit Mondiale sull’Alimentazione del 1996 ha stabilito alcuni impegni, confermati durante il Millenium Summit del 2000 e più recentemente nell’ultimo Summit Mondiale sull’Alimentazione del 2002, per rendere disponibili risorse e convogliare le iniziative necessarie a dare risposta ai bisogni di sicurezza alimentare più impellenti. Questi impegni includono: • l’assicurare e rendere disponibile un ambiente politico, sociale ed economico idoneo a creare le migliori condizioni, per garantire una pace durevole e la riduzione/eradicazione della povertà basata su di una piena ed uguale partecipazione delle donne e degli uomini; • lo stabilire e mettere in opera politiche efficaci per la riduzione della povertà e delle disuguaglianze e per il miglioramento dell’accesso permanente di tutta la popolazione ad un’alimentazione sufficiente, nutrizionalmente adeguata, sicura e disponibile; 15 • il compiere ogni sforzo per prevenire ed essere preparati ad affrontare disastri naturali ed emergenze di origine umana e rispondere alle emergenze alimentari con modalità tali da incoraggiare la ricostruzione, la riabilitazione, lo sviluppo e la risposta a futuri bisogni; • il perseguire politiche per uno sviluppo sostenibile rurale, agricolo, forestale, alimentare, della pesca che incoraggino la produzione di alimenti in maniera adeguata e sicura a livello locale, regionale, nazionale e globale; • l’assicurare che le politiche per il commercio di prodotti agricoli ed alimentari e per il commercio in generale, tenendo in considerazione lo sviluppo delle produzioni nazionali, rendano più efficace la sicurezza alimentare per tutti. • il promuovere investimenti appropriati per tutelare le risorse umane, i sistemi agricoli e alimentari sostenibili e lo sviluppo rurale; ottimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili a livello nazionale ed internazionale sia in aree ad elevato che limitato potenziale. I dati presentati dal Regno Unito nel Libro bianco sullo sviluppo internazionale mostrano che, a livello mondiale, una persona ogni cinque – di cui i due terzi sono donne – vive in grave stato di povertà, senza un’adeguata alimentazione ed accesso all’acqua potabile. Secondo la FAO, negli ultimi 12 anni e solo in 19 paesi fra i quali Cina e Brasile, il numero di persone cronicamente denutrite è diminuito mentre il numero totale di persone sottonutrite nei PVS, specialmente in Africa e nei Paesi in Transizione7, sta ancora aumentando. In Africa poi l’HIV/AIDS ha un impatto devastante sulla sicurezza alimentare e sull’agricoltura a causa della perdita di quote di forza-lavoro, conoscenze e risorse locali, abbandono delle proprietà agricole, aumento dell’urbanizzazione, etc. L’Istituto Internazionale per la Ricerca sulle Politiche Alimentari (IFPRI) ha messo in evidenza numerosi rischi e fattori di precarietà per l’agricoltura che comportano implicazioni significative per la sicurezza alimentare e la sopravvivenza delle popolazioni interessate: • una gestione non appropriata delle risorse e delle tecnologie, fra cui rientrano i rapidi cambiamenti climatici, la cattiva gestione delle risorse idriche, forestali e agricole, la riduzione delle risorse marine, la comparsa di nuove malattie delle piante e degli animali; • crisi alimentari correlate a fattori sanitari, fra cui l’ulteriore diffusione dell’HIV/AIDS, come l’insorgere di altre epidemie che hanno effetti significativi diretti o indiretti sull’agricoltura e la diffusione di diete poco sane;. • fattori politici, fa cui disordini civili e 16 guerre, che causano un declino della qualità delle politiche legate all’agricoltura e all’alimentazione, modifiche nel sistema di commercio mondiale e collasso della piccola produzione agricola. L’Accordo SPS è inoltre strumento di armonizzazione delle misure sanitarie per gli alimenti tramite l’uso degli standard internazionali adottati dalla Commissione del Codex Alimentarius (CAC) che riguarda gli additivi alimentari, i residui di farmaci veterinari e pesticidi, i contaminanti, i metodi analitici e di campionamento, i codici e linee guida sulle corrette prassi igieniche e sull’analisi dei rischi. Alcuni argomenti particolarmente importanti del Codex sono: • l’approccio orizzontale che permette una più facile applicazione delle regole generali ad un’ampia gamma di prodotti, piuttosto che standard specifici per ogni alimento; • il concetto di controllo di processo che si sostituisce a quello di controllo dei prodotti finiti; • l’uso del sistema HACCP 8 che permette la compartecipazione alle responsabilità, da parte dei servizi pubblici e dei produttori, per garantire la protezione dei consumatori e la sicurezza alimentare. Il Comitato SPS dal 1995, anno in cui è entrato in vigore l’Accordo, al 2003 ha preso in esame 183 problemi commerciali dei quali 50 circa direttamente correlati alla sicurezza alimentare; fra di essi anche il cosiddetto “caso ormoni” che ha coinvolto la Comunità europea ed ha subito tutto il processo di risoluzione delle dispute previsto dall’OMC riaffermando, in tal modo, il diritto di ogni paese di determinare specifici e appropriati livelli di protezione. Nel determinismo di tali misure, per quanto riguarda la sicurezza alimentare, è divenuta opinione comune che andrebbero presi in considerazione anche fattori estrinseci al prodotto quali la possibilità di cattivo utilizzo degli alimenti importati in condizioni ambientali, sanitarie o sociali difficili. Al riguardo le tossinfezioni alimentari rappresentano una delle più importanti cause di malattia e morte sia nei Paesi sviluppati che nei PVS. Secondo l’OMS, nel 2000, sono morte in tutto il mondo, a causa di malattie diarroiche, 2.1 milioni di persone, la maggior parte dei quali costituita da bambini con meno di 5 anni d’età; una elevata percentuale di questi casi è attribuita all’assunzione di alimenti e acqua contaminati. Nei paesi industrializzati la percentuale di persone che ogni anno soffrono di tossinfezioni alimentari è stimata intorno al 30%; secondo i dati forniti dal sistema di sorveglianza del Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta (CDC), negli USA ogni anno vengono notificati oltre 1.000 focolai di tossinfezioni alimentari, si stimano oltre 76 milioni di casi clinici e sono registrate 325.000 ospedalizzazioni con 5.200 morti; i costi sanitari e le perdite causate dalla salmonellosi, che costituisce solo uno dei numerosi agenti tossinfettivi, sono valutati in oltre 1 miliardo di dollari l’anno. Anche se meno documentato, l’impatto delle tossinfezioni alimentari nei PVS, ove le persone hanno limitato accesso ai servizi sanitari e uno stato di nutrizione precario, è molto più grave: una ridotta immunità, dovuta ad uno scadente stato di nutrizione, rende le persone, in particolare lattanti e bambini, più suscettibili alle tossinfezioni alimentari; un’altra categoria di persone ad alta sensibilità per tali patologie è rappresentata, inoltre, da rifugiati ed immigrati. Dati OMS dimostrano, infine, che nelle persone gravemente ammalate, per esempio di cancro o di AIDS, è aumentata la mortalità dovuta ad infezioni da Salmonella, Campylobacter, Listeria, Toxoplasma, Cryptosporidium e altri agenti causa di tossinfezioni. Un altro problema di sanità pubblica che sta emergendo è costituito dai trematodi trasmissibili con gli alimenti; tali parassitosi colpiscono specialmente l’Asia sud orientale, ma anche l’America Latina, e sono in parte dovute ad un aumento delle produzioni in acquacoltura, spesso ottenute in condizioni non igieniche ed in parte alle abitudini di consumare pesce e prodotti ittici crudi o scarsamente processati; si stima che le persone che ne soffrono siano circa 40 milioni in tutto il mondo. La mancanza di un sistema di sorveglianza efficace è una delle maggiori limitazioni per definire e valutare la rilevanza globale delle tossinfezioni alimentari, per stimare il numero di persone che ne soffrono e stabilire misure di prevenzione appropriate. Per colmare questo vuoto l’OMS coordina diversi programmi fra i quali il Global Salm-Surv (GSS) e il Global Environment Monitoring System–Food Contamination Monitoring and Assessment Programme (GEMS/Food). Come è stato sottolineato in alcuni recenti documenti l’agricoltura ed il commercio di alimenti sono essenziali per la maggior parte dei PVS perché introducono un’ampia scelta di prodotti nella dieta e generano valuta pregiata tramite le esportazioni. Importazioni eccessive di alimenti da parte dei PVS possono provocare effetti negativi di due ordini: il primo consistente in una riduzione della produzione locale in quanto la maggior parte degli agricoltori è di piccole dimensioni (oltre il 90% nell’Africa sub sahariana) e non può competere per qualità, disponibilità e prezzo con i prodotti importati; il secondo come conseguenza di un’eccessiva dipendenza dei consumatori dai cibi importati con modificazione delle abitudini e tradizioni alimentari. Un altro elemento sfavorevole che costituisce un rischio non trascurabile – tenuto conto del fondamentale ruolo delle produzioni agricole e zootecniche nella sopravvivenza giornaliera delle popolazioni svantaggiate – è rappresentato dal fatto che mentre l’esportazione dai PVS di alimenti non processati, quali il pesce fresco, è caratterizzata da prezzi bassi, questi ultimi aumentano notevolmente a seguito di trasformazioni e lavorazioni che avvengono principalmente nei Paesi sviluppati. Nei PVS andrebbero messi in opera meccanismi che favoriscano le lavorazioni locali, permettano una maggiore flessibilità e garantiscano l’adozione di clausole di salvaguardia senza che siano interpretate come misure protezionistiche. Un nuovo argomento di notevole interesse è la sicurezza degli alimenti derivati da biotecnologie. La loro applicazione, in alcuni casi, ha reso le produzioni alimentari più efficienti ed ha contribuito all’aumento dei raccolti: la varietà di riso geneticamente modificato “Golden Rice” che produce betacarotene può contribuire, per esempio, ad alleviare la carenza di vitamina A che è una delle cause maggiori di cecità nei PVS; tuttavia non sono ancora disponibili informazioni complete circa costi ed effetti sulla salute comparati a metodi alternativi volti alla riduzione della cecità. D’altra parte esistono motivate preoccupazioni riguardo agli effetti, a lungo termine, della diffusione degli alimenti geneticamente modificati quali, per esempio, il potenziale trasferimento di geni, da piante geneticamente modificate, a cellule animali o microrganismi; il trasferimento e l’espressione, a cellule umane od animali, di un gene legato all’antibioticoresistenza e infine di essere causa di fenomeni allergici. Si impone la necessità di trovare un accordo a livello internazionale su nuovi metodi e politiche per la valutazione di tali alimenti e quindi fornire le basi scientifiche a supportare decisioni in merito; molte Organizzazioni internazionali hanno già preparato alcuni standard, linee guida e raccomandazioni mentre altri strumenti sono in via di definizione. All’interno dell’ OMC la discussione più completa sugli alimenti geneticamente modificati si è tenuta in seno al Comitato TBT ove sono stati esaminati i requisiti di etichettatura; altri aspetti quali la sicurezza alimentare e la potenziale disseminazione nell’ambiente di semi geneticamente modificati ricadono nell’ambito dell’Accordo SPS. Un concetto, infine, a cui l’OMC riconosce un ruolo centrale, nella gestione dei rischi, in situazioni di limitate conoscenze scientifiche, è il “principio di precau- zione”: poiché la sua applicazione non è scontata è in corso un dibattito, all’interno delle Organizzazioni internazionali, per trovare principi comuni e produrre linee guida per una sua corretta implementazione; un notevole contributo all’interpretazione e applicazione del principio di precauzione è stato fornito dalla Unione Europea. AMBIENTE Nel preambolo all’Accordo di Marrakesh, con cui l’OMC venne istituito, i Governi affermano di volersi impegnare per uno sviluppo sostenibile; lo stesso principio è stato riconfermato nella Dichiarazione ministeriale di Doha. Il degrado ambientale rende i poveri più vulnerabili ai disastri naturali; nel Rapporto annuale 1998 della Croce Rossa, per la prima volta, il numero di rifugiati dovuti a disastri naturali è stimato superiore a quello causato dalle guerre. Occorre, tramite l’adozione di criteri e metodi di prevenzione in campo ambientale, potenziare ogni azione possibile per invertire la tendenza generalizzata di utilizzare pratiche che contribuiscono al peggioramento della qualità dell’ecosistema. In questo campo uno dei metodi più efficaci ed affermati è costituito dalla valutazione di impatto ambientale (VIA) che può essere definita come “la individuazione, qualificazione, descrizione e quantificazione degli effetti causati sull’ambiente dalla realizzazione di attività di un determinato intervento o progetto”. Trasferendo il metodo agli interventi di lotta alla povertà non si può che riconoscere come la VIA riaffermi il concetto che la valutazione dei progetti non può essere limitata ad un semplice calcolo costi/benefici, al contrario tutte le azioni devono essere integrate all’interno di una valutazione dell’impatto politico, sociale, sanitario ed ambientale dell’intervento. Da questo punto di vista i progetti di produzione e sanità animale realizzati nei PVS possono essere aggregati in alcune principali categorie: • Progetti volti alla modifica dell’ambiente. Le modifiche dei sistemi di irrigazione, dei pascoli e delle metodologie agricole, la bonifica di pascoli infestati da vettori di malattie, l’introduzione di tecnologie appropriate e auto-prodotte, volte ad un uso migliore dei prodotti e sottoprodotti di origine animale, possono incidere in maniera devastante sia sui sistemi tradizionali di allevamento e sui modelli di vita, sia sulle caratteristiche geografiche dell’area di intervento e di quelle confinanti. Le modifiche della flora spontanea e della fauna selvatica o le variazioni del numero di persone che abitano un territorio, provocate da fenomeni migratori, 17 dovranno essere sempre valutate molto attentamente; esistono infatti innumerevoli esempi in cui sono stati provocati problemi igienici, di sopravvivenza e disordini sociali. • Progetti per il miglioramento dello stato sanitario del bestiame. Le patologie presenti andranno registrate in un inventario, facendo attenzione a quelle mascherate da fenomeni di malnutrizione. E’ indispensabile valutare la situazione esistente che, generalmente, rappresenta un equilibrio fra le condizioni sfavorevoli e l’adattamento degli animali, fra gli agenti di malattia o i loro vettori e la capacità degli animali di coesistere con essi. Andrà determinato se tali malattie costituiscono un rischio reale per la popolazione animale e, in caso affermativo, se il loro controllo rappresenta una priorità o al contrario, se il possibile successo delle misure di controllo non possa creare le condizioni per lo svilupparsi di altre malattie. Lo studio del patrimonio genetico del bestiame autoctono dovrà permettere la realizzazione di un programma di selezione, considerando l’attitudine alle produzioni zootecniche, l’adattabilità all’ambiente, la sensibilità alle malattie, la resistenza alle condizioni climatiche, ecc. In particolare, la genetica deve essere oggetto di ulteriori studi prendendo in considerazione: la conservazione e gestione, in loco e non, dei patrimoni genetici, le risorse gnomiche, l’uso delle risorse genetiche animali legato alla conservazione della biodiversità in relazione ad alcune tradizioni culturali delle popolazioni locali. In un tale contesto le biotecnologie possono essere viste non come un’espropriazione delle risorse biologiche locali, ma come un mezzo per la loro conservazione e miglioramento. • Progetti per il miglioramento dei modelli di gestione tradizionali. “La realtà pastorale implica una relazione dialettica fra le circostanze, le pratiche, i miti, i simboli e le allegorie che appartengono intimamente alla sensibilità e identità pastorali”. Andranno pertanto valutati attentamente - tenendo in considerazione le conoscenze, attitudini e capacità della popolazione - gli interventi diretti a modificare il sistema dei pascoli, le spinte alla “sedentarizzazione”, l’introduzione di specie e/o razze animali alternative, le modifiche delle tradizioni alimentari della popolazione e dei circuiti di commercio locale. • Progetti per lo sviluppo di infrastrutture. La riabilitazione di strutture deteriorate piuttosto che la costruzione di nuove, fra cui mercati, macelli, reti di 18 trasporto, laboratori veterinari, ecc. sono interventi di forte impatto ambientale che dovrebbero essere realizzati in un contesto integrato, considerando il possibile futuro sviluppo del territorio. E’ molto importante realizzare un inventario delle risorse umane, in collaborazione con le autorità locali per raggiungere l’obiettivo “partecipazione”; prospettive di lavoro irreali possono creare fughe di professionalità da settori occupazionali con perdite di notevoli potenzialità. Secondo alcune ricerche, nei Paesi in cui la povertà è una delle maggiori criticità ed un importante ostacolo alla protezione ambientale, l’apertura dei mercati mondiali alle loro esportazioni può essere vista come una soluzione: la liberalizzazione delle esportazioni dai PVS, insieme ad aiuti finanziari e assistenza tecnica, può infatti contribuire a generare risorse utilizzabili nella protezione dell’ambiente e nella promozione di uno sviluppo sostenibile. Non va tuttavia sottovalutato che la liberalizzazione del commercio è anche causa di numerosi dissesti ambientali; nel 1982, ad esempio, l’OMC ha preso in esame il problema sollevato da alcuni PVS, del commercio di merci “proibite”: merci prodotte in paesi sviluppati ove la commercializzazione e l’uso sono vietati o soggetti a misure restrittive per proteggere salute e ambiente (nel settore veterinario, ad esempio, possono rientrare in questo gruppo alcuni farmaci veterinari, pesticidi, ecc.); per risolvere il problema sono state adottate diverse misure (sistema di notifica, istituzione di gruppi di lavoro,…) ma la soluzione pare ancora lontana. L’incidenza della povertà nei PVS è più acuta nel settore rurale ove la filiera agrozootecnica rappresenta la principale componente produttiva; poiché il 75% dei poveri vive nelle aree rurali non è possibile una riduzione della povertà senza migliorare le condizioni di lavoro in queste aree: i produttori, adottando tecnologie zootecniche sostenibili devono essere aiutati ad acquisire nuove capacità gestionali e commerciali tendendo, come raccomandato dall’Accordo SPS, al rispetto degli standard internazionali. Un esempio molto recente è costituito dal “Projecto Fome Zero”, realizzato dal Governo brasiliano, che include attività di distribuzione, gratuitamente o a basso costo, di alimenti e pasti e la riduzione della povertà rurale attraverso un incremento dell’accesso al credito, alle assicurazioni e alle attività di formazione. In molte situazioni un ruolo rilevante viene giocato dalle Organizzazioni Non Governative (ONG), dalle cooperative e dalle associazioni che, realizzando interventi formativi, di riqualificazione, di microcredito, promuovono le possibilità di esportazione e la conseguente generazione di utili. Nel settore zootecnico sono disponibili esempi di progetti basati sui principi di cooperazione etica, caratterizzati da alcuni dei valori fondamentali dell’appropriatezza e della qualità delle azioni: • adeguatezza: le motivazioni dell’intervento derivano dalle necessità della popolazione; l’integrazione ed il rispetto delle conoscenze locali del sistema (agro-ecologiche, tecnologiche e socio economiche) devono essere garantite assicurandosi che le innovazioni non aumentino il livello di rischio per i soggetti interessati. • centralità delle comunità rurali: l’attenzione, la partecipazione e le pratiche professionali devono tendere a sviluppare relazioni di fiducia fra i partecipanti al progetto, superando il concetto di beneficiari. Va assicurata una particolare attenzione agli ambienti marginali ed agli ecosistemi più fragili. Le popolazioni locali dovrebbero sempre partecipare contribuendo allo sviluppo ed alla valutazione delle innovazioni. • efficacia: l’identificazione delle priorità deve basarsi su metodologie partecipative rispettose dell’appropriatezza delle proposte emergenti in modo che significative sinergie siano il prodotto di un lavoro portato avanti in stretta collaborazione. • flessibilità: i programmi devono rispondere a meccanismi di innovazione (adattabilità, possibilità di introdurre modifiche, migliorie e risposte a nuove esigenze) e di verifica. • trasparenza: i programmi devono garantire la libera circolazione delle idee, risorse, informazioni, procedure, e risultati; il processo di gestione deve essere assolutamente visibile e comprensibile. • applicabilità immediata: l’iniziativa deve essere finalizzata all’applicazione pratica ed immediata nel processo produttivo. Altro tema di grande rilievo, in materia ambientale, è rappresentato dalle relazioni che intercorrono fra l’OMC e gli accordi multilaterali; sono in corso di realizzazione numerose iniziative e programmi nazionali su questi argomenti fra i quali possono essere inclusi il miglioramento del commercio delle erbe medicinali e l’ecoturismo. Elemento fondante comune è la salvaguardia della biodiversità che implica, fra l’altro, l’ esigenza di mantenere un’alta varietà di medicine e prodotti alimentari che, salvaguardando un’elevata variabilità genetica, riduca la vulnerabilità alle malattie. L’uso delle piante medicinali è stato notevolmente studiato in medicina umana; secondo l’OMS circa l’80% della popolazione mondiale ricorre alla medicina tradizionale per soddisfare i bisogni primari di salute; al contrario si sa molto poco della medicina veterinaria tradizionale: una maggiore attenzione alla preservazione delle conoscenze tradizionali e locali, una raccolta sistematica di informazioni e maggiori studi scientifici sono alcuni dei soggetti in cui i veterinari possono giocare un ruolo importante. Per quanto riguarda l’ecoturismo viene stimato dall’UNCTAD9 che il turismo sia una delle prime cinque fonti di valuta straniera per 31 dei 49 Paesi meno sviluppati e la principale fonte di introiti di valuta per 24 di essi; fra il 1992 e il 2000 le entrate generate dal turismo sono più che raddoppiate passando da 1,0 a 2,2 miliardi di dollari. La conservazione delle specie selvatiche è un aspetto essenziale nella promozione turistica: come mostra l’esperienza di Angola e Mozambico la guerra può provocare alcuni dei maggiori danni alla conservazione della fauna selvatica In altri Paesi africani come il Kenya, che vanta una lunga tradizione nella protezione della fauna selvatica, l’ecoturismo è una delle più importanti fonti di valuta straniera; secondo tuttavia quanto riportato da uno studio di “Le Monde Diplomatique” nella riserva nazionale dei Masai Mara solo l’8% delle entrate generate dal turismo arriva agli abitanti, il resto spetta agli operatori turistici, agli hotels e altre strutture turistiche. Secondo altri studi questa percentuale è variabile, in relazione al paese, fra il 10 e il 60%. DISPONIBILITÀ DI FARMACI VETERINARI E VACCINI L’Accordo TRIPS dell’OMC si occupa anche di farmaci e vaccini veterinari: al proprietario viene garantito il monopolio del brevetto per 20 anni ma i Governi ne possono rifiutare l’eleggibilità per tre ragioni correlabili alla sanità pubblica: • invenzioni il cui sfruttamento commerciale non deve essere permesso per proteggere la vita e la salute dell’uomo, degli animali e delle piante; • metodi diagnostici, terapeutici e chirurgici per il trattamento di malattie umane ed animali; • invenzioni, diverse dai microrganismi, frutto di processi biotecnologici su animali e vegetali. L’Accordo è molto criticato perché nega ai PVS il diritto di produrre o comprare versioni generiche di prodotti brevettati e perché i brevetti monopolizzano la produzione contribuendo all’aumento dei prezzi. Si è stimato che il 25-65% del totale delle spese sanitarie dei PVS sia destinato ai prodotti farmaceutici ma il budget destinato alla sanità da molti Governi risulta sovente troppo esiguo per acquistare tutte le medicine necessarie; l’OMS sta monitorando l’effetto dell’Accordo TRIPS sui prezzi delle medicine per uso umano mentre un’iniziativa simile non risulta essere stata intrapresa per i farmaci veterinari. Nel settore veterinario la mancanza di farmaci veterinari e di vaccini è uno dei maggiori ostacoli al miglioramento dello stato sanitario del bestiame dei PVS; ad esempio si riporta un’esperienza realizzata recentemente nel sud dell’Angola. in cui un approccio coordinato ha favorito l’ottimizzazione delle risorse: un programma di cooperazione della Comunità europea ha affrontato il problema tramite l’istituzione di un fondo rotatorio per finanziare kit di farmaci di prima necessità per tecnici veterinari e di campo mentre, contemporaneamente, l’ONG italiana Alisei ha fornito farmaci veterinari ai Servizi Veterinari pubblici ed ha supportato l’apertura di una farmacia nella cooperativa agro-zootecnica locale. Lo sviluppo ed il trasferimento all’uomo di ceppi batterici resistenti, legato al mal-uso di antibiotici ad ampio spettro somministrati senza un’appropriata supervisione è, infine, un ulteriore fattore di rischio per i consumatori. In molti PVS spesso mancano un piano efficace di controllo dei residui negli alimenti ed una attività di sorveglianza sul rispetto dei tempi di sospensione. Mentre l’OMS ha preparato una lista di farmaci essenziali per uso umano, nel settore veterinario linee guida su questo argomento sono state discusse durante una Tavola rotonda sulla gestione dei farmaci essenziali e vaccini per progetti di sviluppo in Africa, tenutasi a Roma nel 1994. Riguardo ai vaccini infine occorre valutare, prima di impiegare risorse preziose nel loro acquisto, le condizioni di utilizzo in relazione alla possibilità di assicurare un’appropriata catena del freddo. SERVIZI VETERINARI Sebbene quasi ovunque i Servizi Veterinari facciano parte dei Ministeri dell’Agricoltura il loro contributo alla salute pubblica è essenziale (Marabelli e Mantovani,1997). La sanità pubblica veterinaria è stata definite dall’OMS come “la somma di tutti i contributi al benessere fisico, mentale e sociale delle persone attraverso la conoscenza e l’applicazione delle scienze veterinarie”; la Federazione Veterinaria Europea afferma, inoltre, che “I medici veterinari devono mettere al primo posto, fra le loro competenze, la sanità pubblica veterinaria insieme al benessere e alla sanità animale”. Anche se a livello globale il rapporto numerico tra veterinari pubblici e privati è piuttosto stabile, in molti Paesi svantaggiati il settore privato, quasi assente in passato, sta aumentando rapidamente come conseguenza di cambiamenti politici e strategici della cooperazione internazionale; in alcuni di essi, anche se il numero di veterinari privati è in continuo aumento, la domanda non è ancora sufficientemente soddisfatta (Tab. 1). Tab 1 Numero di veterinari pubblici e privati nel mondo Regione N. di veterinari 2002 Veterinari pubblici Totale Africa Americhe Asia Europa Oceania TOTALE Veterinari privati Altri 39.103 19.680 (50%) 9.954 (25%) 9.469 (25%) 197.764 26.006 (13%) 144.257 (73%) 27.501 (14%) 192.229 105.162 (56%) 45.498 (24%) 41.569 (22%) 200.109 46.335 (23%) 94.424 (47%) 59.350 (30%) 9.781 796 (8%) 6.875 (70%) 2.110 (22%) 638.986 197.979 (31%) 301.008 (47%) 139.999 (22%) N.di veterinari 1997 Totale Veterinari pubblici Veterinari privati Altri 37.470 21.982 (59%) 4.858 (13%) 10.630 (28%) 180.335 41.602 (23%) 105.779 (59%) 32.954 (18%) 92.156 55.785 (60%) 23.706 (26%) 12.665 (14%) 158.096 38.273 (25%) 78.115 (49%) 41.708 (26%) 7 .883 836 (10%) 5.982 (76%) 1.065 (14%) 475.940 158478 (33%) 218.440 (46%) 99.022 (21%) (Fonte: OIE, Handistatus II) 19 Al contrario di quanto avviene per le funzioni di SPV, parte delle attività dei veterinari privati ricade nell’ambito delle regole del commercio internazionale quali quelle del GATS. Una delle più forti critiche rivoltagli consiste nel fatto che l’accelerazione della privatizzazione nel sistema sanitario porta vantaggi sproporzionati alle corporazioni multinazionali e mina la capacità di paesi a basso reddito di mettere in opera le proprie politiche di sanità pubblica. In questo quadro, ai Paesi che liberalizzano i servizi veterinari rimangono possibilità più limitate di regolare il settore e di garantire le stesse opportunità di accesso a tutti; un aumento del ruolo dei veterinari privati non può, di conseguenza, che sfociare in non eque forme di accesso e fruizione delle prestazioni sanitarie. Patrizia Parodi Ministero della Salute, Roma Adriano Mantovani Centro di Collaborazione OMS/FAO per la Sanità Pubblica Veterinaria Dipartimento di Sanità Alimentare e Animale Istituto Superiore di Sanità, Roma Luciano Venturi Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna e ALISEI [ONG], Milano NOTE 1. SPS: Agreement on the Application of Sanitary and Phytosanitary Measures 2.TBT: Technical Barriers to Trade 3. AoA: Agreement on Agriculture 4. GATS: General Agreement on Trade and Services 5. TRIPS: Agreement between the World Intellectual Property Organisation and the World Trade Organisation 6. ILO: International Labour Organisation 7. Countries in Transition: Commonwealth of Indipendent States (CIS), Baltic States, Eastern Europe 8. Hazard Analysis Critical Control Point 9. United Nations Conference on Trade and Development 20 BIBLIOGRAFIA Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1989). Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia Bijlmakers L., Lindner M. (2003). The World Bank’s Private Sector Development Strategy: Key Issues and Risks. ETC Crystal Caremani M. (2003). La globalizzazione nelle malattie infettive. Atti del Seminario sulla Prevenzione: obiettivo salute, quale politica della prevenzione oggi. 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Mantovani POPOLAZIONE E AMBIENTE Il progetto, volto al miglioramento del circuito produttivo della carne è iniziato nel 2002 ed è tuttora in corso. Si realizza nel sud dell’Angola, in un’area abitata principalmente dalla popolazione Kuvale, appartenente al gruppo Herero, per la quale, in base alla cultura tradizionale, l’allevamento del bestiame rappresenta il vero simbolo della ricchezza e l’unica possibile fonte di sopravvivenza e di reddito. La regione ha un’estensione di 57.091 km2, suddivisa in 5 Municipi (Namibe, Bibala, Camacuio, Tombwa, Virei), e una popolazione stimata di 255.000 abitanti: 26,6 persone per km2. La città di Namibe*, la capitale, è uno dei più importanti porti angolani con una popolazione di circa 100.000 persone. Deserto e savana sono gli habitat maggiormente rappresentati, anche se sono presenti alcune valli irrigate in prossimità dei fiumi Bero, Bentiaba, Carujamba, Curoca e Giraul. La stagione delle piogge va da gennaio a marzo, mentre l’inverno è molto secco e dura per tutti i restanti mesi dell’anno. L’allevamento del bestiame rappresenta tradizionalmente l’attività predominante. Si stima che siano presenti 315.000 bovini e 1.500.000 ovi-caprini, allevati in modo promiscuo, che rappresentano fonti complementari di reddito di ogni famiglia. In questo contesto è fondamentale l’equilibrio basato principalmente sul bestiame e sulla produzione di latte che rappresenNOTA * La suddivisione amministrativa territoriale in Angola individua la Provincia come unità immediatamente sottordinata al Governo centrale in analogia a quanto avviene in Italia con le autonomie regionali. ta la base per l’alimentazione umana: la maggior parte è consumato fresco o trasformato in "leite azedo", simile allo yogurt, durante i pasti insieme a polenta di miglio. Quello che rimane è venduto al mercato e permette l’acquisto di alcune merci di prima necessità, il formaggio non viene prodotto dai Kuvale. Se i bovini possono essere considerati l’unica forma di accumulo di ricchezza di cui dispongono, gli ovini e i caprini rappresentano il “denaro spicciolo” che permette gli scambi con altre comunità. Il latte ovi-caprino non sempre è usato per l’alimentazione umana; quando ciò accade, è riservato solo ai bambini e alle persone anziane. In tutto il territorio dei Kuvale l’organizzazione sociale, incluso l’allevamento del bestiame e la ripartizione del lavoro, riconosce tre categorie di gruppi sociali divise in base all’età, il sesso e la posizione sociale. Il primo gruppo è costituito da uomini adulti, con le loro mogli (è comune la poligamia), che vivono nella ”onganda”, uno spazio ampio fino a 70 metri, recintato da una barriera di rami, in cui sono disposte le capanne e i recinti in cui trascorrono la notte anche il bestiame e i vitelli; un secondo gruppo è costituito da figli adulti e sposati che vivono in altre “onganda” simili a quelle dei genitori, con il proprio bestiame, la maggior parte del quale è stato loro ceduto dai padri; un terzo gruppo, infine, costituito da giovani di 12-25 anni che si radunano in gruppi numerosi e vivono permanentemente al di fuori della “onganda” prendendosi cura della maggior parte degli animali anche durante le migrazioni nella stagione secca. Solo gli animali che sono necessari per il lavoro o la produzione di latte rimangono infatti nella “onganda”, mentre gli altri migrano in 21 cerca di pascoli migliori secondo linee pastorali tradizionali. Per quanto riguarda il lavoro, le donne, aiutate dai bambini, si occupano della mungitura, della preparazione dei latticini (burro e yogurt) e si prendono cura dei vitelli; durante la stagione delle piogge, si occupano dei lavori agricoli, soprattutto della produzione del miglio. Anche i bambini si occupano dei vitelli, ma il loro compito principale consiste nel governo di pecore e capre. La carne è tradizionalmente consumata solo in occasioni speciali: funerali, matrimoni e altre feste; nella stagione fresca, a cominciare dalla fine di giugno e per tutto luglio, nel corso di grandi raduni, i Kuvale si cibano di carne bovina attribuendovi significati rituali. L’ISPEZIONE DELLE CARNI Il fulcro del progetto è rappresentato dal macello pubblico di Namibe, di conseguenza una delle attività principali realizzate è quella di sostegno della ispezione delle carni. Le patologie più frequentemente riscontrate sono rappresentate da: pneumopatie (13%), echinococcosi-idatidosi (7%), pleuropolmonite contagiosa dei bovini (6%), tubercolosi (2%), cisticercosi (2% nei bovini, 4% nei suini).Tenuto conto che l’echinococcosi-idatidosi pare essere una delle zoonosi più rilevanti, sono stati analizzati 26 campioni di feci di cane, raccolte durante visite domiciliari, per la ricerca di Taenia sp: tutti i campioni sono risultati negativi. Ciò nonostante sono state realizzate diverse attività di informazione e sensibilizzazione su questa zoonosi. COLLABORAZIONE INTERSETTORIALE In Angola i Servizi di Sanità Pubblica e di Veterinaria hanno una lunga storia di collaborazione: nel 1998, in piena guerra civile, venne organizzato a Lubango – dalla ONG italiana NuovaFrontiera, su finanziamento della Commissione Europea – il 1° Workshop Nazionale “L’impatto della medicina veterinaria sulla salute pubblica”, a cui parteciparono oltre 30 medici e veterinari pubblici; evento di ridotte dimensioni se guardato da un punto di vista eurocentrico ma di grande rilievo – per il carattere di innovazione delle tematiche affrontate, per lo sforzo organizzativo impiegato, per gli strumenti didattici utilizzati - se visto nell’ottica di un paese collocato, fra tutti, negli ultimi posti per qualità della vita, servizi e reddito disponibili per abitante. Merita di essere notato inoltre che, attual- 22 mente, in Provincia di Namibe, il Direttore del Servizio di Sanità Pubblica, confermando così quanto il Governo consideri estremamente utile agire in collaborazione, è un veterinario che, in precedenza, ha diretto il Servizio Veterinario. Nel corso dei primi due anni del progetto sono state realizzate periodicamente riunioni di coordinamento e valutazione a cui hanno partecipato rappresentanti dei Servizi di Sanità Pubblica e Veterinario, del Ministero dell’Agricoltura, dell’Amministrazione Municipale, della cooperativa agro-zootecnica e della gestione del macello pubblico concorrendo rispettivamente alla costruzione di un importante momento del locale processo di promozione della “sicurezza alimentare”. Preso atto di tale priorità, in cui medici e veterinari trovano terreno comune per contribuire al miglioramento della qualità della vita, i casi di zoonosi diagnosticati al macello, durante le attività ispettive, sono stati comunicati ai Servizi di Sanità Pubblica e Veterinario; allo stesso modo sono stati notificati ad entrambi i Servizi i casi di patologia trasmissibile riscontrati durante i controlli del personale del macello, dei macellai e dei venditori di strada. In totale sono state sottoposte a controlli medici 114 persone delle quali una è risultata sospetta di tubercolosi che, in seguito ad ulteriori controlli, non ha avuto conferma; una è risultata positiva per lebbra, una per ulcere cutanee e tre per infezioni della pelle.Tutte queste persone sono state sospese dalla loro attività. Durante i corsi di formazione sulle zoonosi, a cui hanno partecipato tecnici di entrambi i Servizi, sono stati trattati sia gli aspetti medici che veterinari. In occasione di queste attività la collaborazione intersettoriale è stata ulteriormente rafforzata: infatti, l’affrontare insieme lo stesso problema permette l’elaborazione di un linguaggio comune e lo scambio di esperienze realmente vissute che pongono le basi di una più incisiva collaborazione sul lavoro ed una migliore conoscenza dei rispettivi compiti e responsabilità. FORMAZIONE ED EDUCAZIONE SANITARIA Il macello di Namibe, sede di tirocini pratici dei tecnici dei Servizi di Sanità Pubblica e Veterinario, ha rappresentato il punto centrale per le attività di formazione e di educazione sanitaria ed ha consentito la raccolta di dati che sono stati utilizzati per preparare il materiale didattico ed informativo: • linee guida illustrate sulle buone pratiche di macellazione, utilizzate durante i corsi di formazione dei tecnici di veterinaria e di sanità pubblica, che descrivono l’intero processo di macellazione, dal trasporto degli animali vivi al macello alla vendita delle carni; • un atlante fotografico delle lesioni anatomo-patologiche con fotografie realizzate durante l’ispezione delle carni ed una breve descrizione delle diverse patologie. (l’atlante è stato usato durante i corsi di formazione del personale medico e veterinario); • diversi poster sulle lesioni anatomo patologiche (prodotto tramite collage di fotografie originali), ogni ufficio del Servizio Veterinario provinciale e municipale, oltre che del Macello, ne ha ricevuto copia; • poster sul ciclo biologico della cisticercosi e dell’echinococcosi-idatidosi, utilizzati durante seminari e corsi di formazione e distribuiti a numerosi Servizi Veterinari municipali per la prosecuzione delle attività di informazione; • alcuni pieghevoli inerenti a diverse zoonosi (carbonchio ematico, brucellosi, echinococcosi-idatidosi, rabbia, igiene delle carni), utilizzati nelle attività di sensibilizzazione; • un calendario sanitario con testo e illustrazioni su igiene degli alimenti, zoonosi, malattie del bestiame. Tenendo conto che la radio è il mezzo di comunicazione di massa più diffuso sono inoltre state realizzate, sia in portoghese che negli idiomi locali, campagne radiofoniche sull’igiene degli alimenti e su diverse malattie: quattro spot - sull’igiene delle carni, la brucellosi, il carbonchio ematico e la cisticercosi - sono stati messi in onda, per un totale di 1.320 trasmissioni, due volte al giorno per quattro mesi. Sono infine stati organizzati seminari su alcune zoonosi considerate particolarmente importanti nella Provincia di Namibe. Come menzionato in precedenza, l’echinococcosi-idatidosi è stata diagnosticata frequentemente durante l’ispezione delle carni. Poiché la maggior parte del bestiame macellato a Namibe proviene da Virei, sono stati realizzati, in questo Municipio, un incontro con le autorità pubbliche e due seminari sulla infestazione e sulle misure preventive. Il primo si è svolto nella località di Cainde, ed ha visto la partecipazione di parte della popolazione, circa 50 persone, delle autorità locali, dei leader tradizionali “soba”, degli allevatori di bestiame e dei tecnici; il secondo è stato realizzato a Virei, con una partecipazione di circa 20 persone, fra cui gli insegnanti, gli operatori sanitari e tecnici veterinari. In entrambe i casi è stato consegnato il poster con il ciclo biologico del parassita e a tutti i partecipanti è stato distribuito un pieghevole realizzato appositamente. La Brucellosi, della quale si è avuto un quadro epidemiologico alla fine dello studio condotto durante la realizzazione del progetto, è stata il tema di due workshops realizzati rispettivamente a Bibala e Virei. I dati sono stati presentati e discussi con le autorità locali e tradizionali, il personale sanitario e veterinario, i venditori di carne e gli allevatori di bestiame. Anche in questo caso sono stati distribuiti i pieghevoli sull’argomento. P. Parodi Ministero della salute, Roma F. T. Felgueiras Servizio Veterinario Regionale Namibe, Angola G. F. Felix Servizio di Sanità Pubblica Regionale Namibe, Angola L. Venturi Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna & ALISEI [ONG] A. Mantovani Centro di Collaborazione OMS/FAO per la Sanità Pubblica Veterinaria Roma COOPERAZIONE SANITARIA TRA ITALIA E NICARAGUA PER LO SVILUPPO DELLA MEDICINA DEL LAVORO di Manuela Peruzzi, Luciano Marchiori, Luciano Romeo, Gianluca Marangi, Lucio Rossini “El trabajo y la salud laboral es mi derecho! Empelo si.. ..pero con dignidad”: queste sono le parole d’ordine della sesta assemblea delle oltre 1.200 lavoratrici che il Movimento “Maria Elena Cuadra” ha riunito a Managua il 7 marzo c.a. in occasione del loro appuntamento annuale. Sono stati discussi temi estremamente attuali come l’impatto della globalizzazione sulla vita delle donne lavoratrici, le conseguenze possibili del trattato di libero commercio rispetto all’occupazione nel comparto del tessile, e l’impatto sulle condizioni di sicurezza e salute nelle maquilas. Le maquilas sono installazioni di impianti industriali in regime di zona franca, dove viene effettuato l’assemblaggio e la trasformazione di beni, soprattutto tessili, destinati ai mercati esteri, con costi molto bassi grazie alle agevolazioni fiscali di cui godono le imprese che investono nelle zone franche dei paesi in via di sviluppo. La maggioranza della manodopera è costituita appunto da lavoratrici. In Nicaragua in questo settore sono occupate quasi 60.000 persone, di età media intorno ai 20-22 anni, che lavorano 10 ore al giorno, 6 giorni la settimana. Il salario medio è di 50-60 dollari al mese. In queste realtà lavorative, caratterizzate da grandi facilitazioni economiche e politiche è facile immaginare che anche sul piano dei diritti fondamentali siano presenti violazioni gravi. I ritmi di lavoro sono intensi, le pause inesistenti e per effettuare i bisogni fisiologici occorre il permesso del capo; guardie supervisori alle linee di montaggio assicurano che le lavoratrici non si distraggano e rallentino la produzione. Sono inoltre presenti altri fattori di nocività come rumore, polveri e posto di lavoro non idoneo dal punto di vista ergonomico. Il Movimento di donne lavoratrici e disoccupate del Nicaragua “Maria Elena Cuadra” è impegnato sia sul piano politico che sul piano culturale e formativo in materia di diritti fondamentali. È un movimento forte, tuttavia gli obiettivi appaiono difficili da raggiungere, se non adeguatamente sostenuti dalla cooperazione internazionale, se pensiamo che non vengono svolte ispezioni negli ambienti di lavoro dalle autorità preposte e che nel paese manca ogni competenza sanitaria nell’ambito della medicina del lavoro in grado di supportare le lavoratrici. Il pensiero corre agli anni ’70 in Italia, quando il movimento di lavoratori esprimeva una forte domanda di salute in fabbrica, ma le istituzioni pubbliche non erano in grado di rispondere adeguatamente. Poi la riforma sanitaria attraverso i servizi di prevenzione delle Ulss ha mutato radicalmente la situazione. La riflessione è che la globalizzazione del mercato comporti prima di tutto la globalizazione dei rischi ambientali e occupazionali, e in misura più grave e dannosa in quanto nei paesi poveri le regole di contenimento e contrasto degli stessi sono molto più attenuate, se non inesistenti. Per tutti questi motivi, al settore delle maquilas è stata data particolare attenzione nella definizione di un progetto di cooperazione sanitaria internazionale per la prevenzione dei rischi per la salute dei lavoratori del Nicaragua sviluppato dalla Regione Veneto, l'ULSS di Verona, l'Istituto di Medicina del Lavoro dell'Università di Verona e con la collaborazione della Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione. L’obiettivo generale di questo progetto è quello di migliorare le condizioni di 23 salute della popolazione lavorativa del Nicaragua attraverso corsi di formazione indirizzati a medici (affinché siano in grado di correlare le patologie con gli eventuali fattori di rischio lavorativi presenti), a tecnici della prevenzione (finalizzati alla valutazione dei rischi presenti negli ambienti di lavoro e delle misure di prevenzione) e a lavoratrici delle maquilas (sui fattori di rischio per la salute e sulla prevenzione e tutela della salute riproduttiva). Importante supporto alle differenti azioni del progetto è la presenza della Red de Salud de los Trabajadores de Nicaragua, un sistema di coordinamento e collaborazione costituita da rappresentanti delle realtà più importanti del paese nel campo della Salute Occupazionale: OPS/OMS Nicaragua (Organizzazione Panamericana della Salute), UNAN (Università Nazionale Autonoma del Nicaragua) di Leòn e Managua, Sezione di Tossicologia del MINSA (Ministero della Salute), Direzione di Igiene del MITRAB (Ministero del lavoro), Direzione Rischi Professionali dell’INSS (Istituto Nicaraguense di Sicurezza Sociale), Movimento “Maria Elena Cuadra” e Centrale Sandinista dei Lavoratori “José Benito Escobar”. Il progetto prevede inoltre la sperimentazione di un sistema di vigilanza epidemiologica nel Dipartimento di León, attraverso la partecipazione alla progettazione di un sistema di registrazione dei fattori di rischio, delle malattie professionali e degli infortuni. Infine prevede la divulgazione, a livello locale e internazionale, di informazioni sulla salute dei lavoratori, sulle principali problematiche inerenti la medicina del lavoro in Nicaragua, e su eventuali progetti, iniziative e collaborazioni promosse dalle diverse organizzazioni e istituzioni attive in Nicaragua in questo particolare ambito della Sanità pubblica. Il progetto è attualmente in fase di esecuzione. Il corso di formazione post-universitaria indirizzato a medici della UNAN di León e Managua, e del MINSA e dell’INSS si sta realizzando mediante un Diplomado en Medicina Laboral, e ha visto la partecipazione diretta, come docenti, di professionisti della Scuola di Specialità di Medicina del Lavoro dell’Università di Verona, dello SPISAL della ULSS 20 Verona, oltre che dell’Università di Washington, di Chiriquì (Panama) e della OPS/OMS Nicaragua. L’obiettivo è rafforzare le conoscenze di questi medici nella valutazione e prevenzione dei rischi per la salute nei luoghi di lavoro, e rafforzare le capacità diagnostiche con il fine di riconoscere le patologie lavoro-correlate. Il corso intende inoltre preparare formatori per una seguente azione formativa a cascata. 24 Inoltre, si sta progettando un intervento per un Diplomado en Higiene y Seguridad – rivolto a ispettori di Igiene e Sicurezza – e per un corso di formazione per medici dei Centri di Salute del Territorio e delle Unità di Salute Accreditate dall’INSS. Sul versante delle lavoratrici, sono state programmate giornate di informazione massiva rivolte a 1.000 lavoratrici (con circa 100 lavoratrici per giorno) su differenti temi: rischi lavorativi, mezzi di protezione individuale, infortuni e malattie professionali, legislazione esistente. Inoltre è stata effettuata una formazione più sostenuta attraverso un ciclo di quattro domeniche rivolta a 35 promotrici del Movimento “Maria Elena Cuadra”, sulle tematiche di tutela della salute sessuale e riproduttiva. Questi incontri sono stati tenuti dai rappresentanti delle istituzioni appartenenti alla Red de Salud de los Trabajadores, permettendo così un contatto diretto tra le lavoratrici e le istituzioni dello Stato: le lavoratrici hanno potuto alzare la propria voce, parlare dei loro diritti negati, delle loro esigenze e delle loro inquietudini; hanno potuto apprendere importanti informazioni legate alla prevenzione negli ambienti di lavoro e conoscere i loro diritti e doveri; dall’altra parte le istituzioni hanno potuto ascoltare quali sono le principali e le più urgenti problematiche delle lavoratrici e allo stesso tempo impegnarsi in prima persona nella loro formazione. Il progetto indicato è iniziato nel 2002 a seguito di un protocollo d’intesa tra l'Istituto di Medicina del lavoro e il Servi- zio di Prevenzione negli ambienti di lavoro e l’Organizzazione Panamericana della Salute (OPS) nell’ambito di un progetto di promozione della salute nei luoghi di lavoro rivolto alle lavoratrici delle maquilas. L’attività si è concentrata nella conoscenza della realtà locale, nello studio dei problemi delle maquilas, dei fattori di rischio del settore agricolo, e nella formazione della Red de Salud de los Trabajadores de Nicaragua. In seguito si è arrivati alla definizione del progetto di Salute Occupazionale nell’ambito della cooperazione sanitaria internazionale, per la prevenzione dei rischi per la salute dei lavoratori, insieme alla Red de Salud de los Trabajadores de Nicaragua. La Regione Veneto sta finanziando il progetto, in conformità alle proprie linee strategiche di politica sanitaria in materia di cooperazione internazionale nel campo della sanità pubblica, ponendo a disposizione competenze professionali, con l'obiettivo finale di creare un centro di salute occupazionale di riferimento per l'intera regione del Nicaragua. Peruzzi Manuela medico del lavoro ULSS 20 di Verona Marchiori Luciano medico del lavoro ULSS 20 di Verona Romeo Luciano medico del lavoro Università di Verona Marangi Gianluca medico del lavoro ULSS 20 di Verona Lucio Rossini medico del lavoro in Nicaragua AMMINE AROMATICHE E TUMORI DELLA VESCICA TRA I LAVORATORI PRODUTTORI DI COLORANTI I “TEMPI GEOGRAFICI” DELLA GLOBALIZZAZIONE di Francesco Carnevale negli anni più recenti, dalla relativa epidemia di tumori della vescica. Nulla, se non in termini aneddotici, è dato sapere su eccessi di tumori della vescica tra i lavoratori dei coloranti di paesi diversi dalla Cina dove generalmente la produzione è iniziata o è aumentata in coincidenza con l’adozione in paesi già industrializzati di specifiche normative protettive. Il fenomeno della riallocazione, in questo frangente, della produzione di coloranti a base di benzidina è ben illustrato dai dati riportati nella Tabella 2 alla pagina seguente, che mostrano le importazione negli Stati Uniti, negli anni 1974-1979 [Samuels S.W. The international context of carcinogen regulation: Benzidine, in: Peto R. and Schneiderman M. (Editors), Quantification of occupational cancer, Banbury Report 9, Cold Spring Harbor Laboratory, 1981]. Un quadro più aggiornato dei produttori può essere stimato solo indirettamente prendendo come riferimento la produzione di orto-toluidina, ancora non messa al bando in alcuni paesi di vecchia industrializzazione. Questa sostanza, utilizzata diffusamente come intermedio di coloranti, pesticidi, sostanze utilizzate nell’industria della gomma ed in quella farmaceutica veniva prodotta, almeno sino al 1999, da 50 compagnie, due terzi delle quali dislocate in paesi così detti in via di sviluppo. [Markowitz S.B. and Levin K., Continued epidemic of bladder cancer in workers exposed to Ortho-Toluidine in a chemical factory, J. Occup. Environ. Med., 2004; 46: 154-160.]. Ancora molti anni dopo l’inizio del massiccio flusso migratorio della produzione industriale nei paesi in via di sviluppo (e non soltanto a Bhopal sino al 1984) risultava diffusamente applicato il criterio del “doppio standard”, il quale Il tumore della vescica da “coloranti all’anilina” deve essere visto come il primo, il più eclatante, il più duraturo ed il più indebito esempio di malattia imposto ai lavoratori sin dalla nascita dell’industria chimica e poi, nell’arco di oltre 150 anni, in ognuna delle sue fasi di sviluppo. La storia dell’epidemia di tumori della vescica nei lavoratori addetti alla produzione di coloranti è caratterizzata dalla completa subordinazione della salute dei produttori al beneficio economico. “La sequenza dei fatti si ripete in maniera sempre uguale e cronologicamente segue questo schema: vengono impiantate le aziende che producono intermedi e prodotti finiti per coloranti sintetici, trascorre un necessario tempo di latenza (circa 15-17 anni) durante il quale si verificano casi di intossicazione acuta e insorgono le inevitabili “cistiti”, finalmente inizia l’epidemia con i primi casi sporadici, che poi si moltiplicano nel corso del tempo. L’epidemia dura molti anni, anche dopo che le lavorazioni vengono bonificate o sospese. Ciò che cambia da paese a paese è la data di inizio della produzione industriale di coloranti sintetici e, cosa molto importante, la tempestività degli interventi della comunità scientifica tesi a sollevare il problema e la rapidità e l’intensità degli interventi tesi a porre rimedio alle prevedibili conseguenze” [Carnevale F. e Baldasseroni A., Esperienza operaia osservazione epidemiologica ed evidenze scientifiche: gli effetti nocivi della produzione e dell’impiego di amine aromatiche in Italia, Epid. Prev. 1999; 23: 277-285.]. duzione i soggetti “predisposti al cancro” cedette il passo, nel corso della guerra, a un’altra idea, quella di far svolgere il lavoro, a questo punto liberato delle norme preventive pur introdotte per i lavoratori di razza ariana, ai “nemici dello Stato tedesco”, “schiavi” e “stranieri”. Soltanto alla I.G. Farben (major dei coloranti oltre che di Cyclon B) a Ludwigshafen vengono costretti a lavorare, solitamente con le mansioni più pericolose, 63.000 stranieri, 10.000 prigionieri dei campi di concentramento e 10.000 prigionieri di guerra (Proctor R.N., La guerra di Hitler al cancro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.). La storia della produzione delle amine aromatiche non è tuttavia sempre riducibile allo stesso paradigma. Nella Germania nazista l’idea di escludere dalla pro- 1960-70 Viene adotta, nei paesi industrializzati occidentali una normativa protettiva (regolamentazione e/o divieto) per i lavoratori dell’industria dei coloranti; La Tabella 1 permette di dare uno sguardo d’insieme alla inarrestabile espansione della produzione di coloranti a base di benzidina che mai si disgiunge, neppure Tabella 1 “Tempi storici” e “tempi geografici” dei tumori della vescica tra i lavoratori produttori di coloranti a base di amine aromatiche (Carnevale F., Esposizione a cancerogeni chimici; sviluppo storico e situazione attuale, in: Atti del Convegno Nazionale, I Cancerogeni: la definizione dell’esposizione in ambienti di vita e di lavoro, Siena 24-26 Settembre 2003, in corso di stampa) 1870 Nasce in Germania l’industria chimica dei coloranti; 1895 Rehn riporta i prima casi di tumori della vescica in una fabbrica tedesca di fucsina; 1917 Nasce negli USA l’industria chimica dei coloranti; 1920 Nasce in altri paesi europei ed anche in Italia l’industria chimica dei coloranti; 1930 Vengono riportati i primi casi di tumori della vescica negli USA; 1940 Vengono riportati i primi casi di tumori della vescica in Italia come in altri paesi industrializzati; 1950-60 Nasce o viene trasferita in Cina ed in altri paesi (India, Egitto, Polonia, Romania, ecc.) l’industria chimica dei coloranti; 1990 Vengono riportati i primi casi di tumori della vescica in Cina. 25 comincia a diventare operante quando un paese mette al bando un determinato fattore di rischio e gli altri paesi non fanno (non possono o sono costretti a non fare) la stessa cosa [Castleman B., The double standard in industrial hazard, in: Ives J.I. (Editor), The export of hazard, Routledge & Kegan Paul, Boston 1985.]. Negli anni ’90 del Novecento tale situazione si è effettivamente evoluta nel senso che molte aziende multinazionali impegnate direttamente con il proprio marchio nella produzione in paesi del sud del mondo sono state costrette a dimostrare che facevano di tutto per non approfittare dei vantaggi economici del “doppio standard”, appagati semplicemente dai vantaggi derivanti dal minor costo del lavoro. In alcuni casi infatti quegli stessi marchi erano stati additati al pubblico ludibrio da vari movimenti di opinione producendosi così ripercussioni negative in termini di immagine e quindi di perdite sul mercato. Più di recente e non soltanto nella Repubblica Popolare Cinese, alcune aziende sono e la maggioranza appaiono autoctone e slegate dai grandi marchi. In questo modo la “responsabilità sociale” dei grandi gruppi finanziari e dei marchi che dominano il mercato è salva ed indipendente dal modo di produrre dei paesi in via di sviluppo che diventano sempre più industriali. Le materie prime e i composti chimici possono comunque essere importati da quei paesi e commercializzati in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti. È in genere chi si incarica della commercializzazione che sa percorre l’iter dello sdoganamento e poi dell’etichettatura di quelle sostanze e di quei prodotti e lo fa con una certa “competenza” e autonomia tecnica che risulterà per alcuni versi rafforzata in Unione Europea una volta approvata la normativa conosciuta con l’acronimo di REACH. Deve essere considerato anche come conseguenza di tale processo il fatto che, a differenza di alcuni anni addietro, si parla poco, in termini preventivi, di coloranti di sintesi e della loro composizione. Certo ne viene impiegata una quantità sempre maggiore in una varietà di industrie ancora presenti in Italia, come quella della concia, del tessile, della carta, della gomma e plastica e tutte hanno una etichetta con valore legale, ma poco o punto vengono studiate e verificate per la loro veridicità. La provenienza dei coloranti non è quasi mai garantita per la loro origine e allora possono essere stati prodotti anche nella Costa d’Avorio, nelle condizioni delle quali ci informa uno strano ma preoccupante articolo passato inosservato benchè pubblicato (senza alcun commento) nella più importante rivista francese di medicina del lavoro [Tchicaya A.F., Bonny J.S., Yeboue-Kouame Y.B., Wognin S.B., Kouassi M.Y., Etude de l’exposition aux amines aromatiques dans les industries chimiques à Abidjan, Arch. Mal. Prof., 2004; 65: 36-40.]. Lo studio è stato condotto mediante un questionario ed un successivo sopralluogo in 12 aziende (aderenti volontariamente all’iniziativa) da operatori di un “Servizio di medicina del lavoro e di patologie professionali” di Abidjan ed ha permesso di accertare (tra le altre cose) che: • tra le sostanze prodotte o utilizzate c’erano benzidina, beta-naftilamina e amino-4-bifenile (sic!); • nel 75% delle aziende la ventilazione era soltanto quella naturale; • il 98% dei lavoratori (su un totale di 362) erano allo scuro dei rischi rappresentati dall’uso delle amine aromatiche; Tabella 2 Importazione negli USA di coloranti a base di benzidina, 1974-1979 (Samuels, 1981) Paese Quantità (in pounds) 1974 1976 1979 India Egitto Polonia Romania Francia* Canada 16.193 nessuna 3.910 nessuna 259 nessuna 23.149 nessuna 32.684 79.365 17.750 440 47.733 86.641 21.714 11.023 220.018 2.205 Totale 20.353 153.388 389.334 * La Francia è il paese, tra quelli industrializzati europei, che più a lungo ha resistito prima di regolamentare con maggior rigore la produzione di amine aromatiche valutate come cancerogene dalla letteratura scientifica e da agenzie nazionali o internazionali (IARC) 26 • i dispositivi di protezione individuale risultavano essere insufficienti e non adatti; • i “comitati d’igiene e di sicurezza e delle condizioni di lavoro” erano ignorati o non funzionanti; • la sorveglianza sanitaria era limitata a una radiografia annuale del torace. Gli autori nelle loro conclusioni scrivono (speriamo non soltanto a futura memoria) cose già scritte ormai in (quasi) tutte le lingue, anche se in periodi diversi: “Le conditions d’exposition aux amines aromatiques ainsi que le facteurs de risque de cancer de la vessie existent et sont retrouvés dans toutes les 12 entreprises visitées. Le déficit de formation des médecins exerçant en entreprise, le déficit de fonctionnement des organismes de prévention des risques professionnels (CNPS, Direction de la médecine du travail et Inspection du travail), associés à des textes réglementaires non adaptés en matière de sécurité contre le cancer en milieu professionnel, expliquent les insuffisances constatées sur le terrain. Au regard de la gravité de cette pathologie, il serait impératif de créer une société scientifique multidisciplinaire composé des départements d’urologie, de biochimie, d’anatomie pathologique e de médecine du travail. Elle aurait pour objectif de sensibiliser, d’informer, d’éduquer les pouvoirs publics, le patronat et les organisations syndicales. Ceci permettrait de mener des études de grande envergure, de réduire les facteurs d’exposition aux amines aromatiques en milieu industriel et de mettre en œuvre des méthodes de dépistage et de prise en charge efficaces". In presenza di una tale situazione ogni commento non può che essere amaro. Ne sia concesso uno sarcastico: è possibile ipotizzare che il recente intervento militare (oltre che l’abituale patronage economico e culturale) della Francia (sotto l’egida dell’ONU) abbia avuto almeno l’effetto di velocizzare l’attuazione di alcune delle proposte degli autori ivoriani? F. Carnevale [email protected] Azienda Sanitaria di Firenze LAVORATORI ITALIANI CHE RISIEDONO PER LUNGHI PERIODI ALL’ESTERO IN AREE IN VIA DI SVILUPPO STUDIO DELLE PROBLEMATICHE SANITARIE di Celestino Piz, Gianluca Marangi, Marco Albertini e Luciano Marchiori L’ISPESL ha approvato questo contratto di ricerca per cui è stato predisposto un progetto da parte dello SPISAL dell’ULSS 6 di Vicenza a cui collaborano lo SPISAL della ULSS 20 di Verona, gli uffici vaccinazioni internazionali della due ULSS, il Centro per le Malattie Tropicali dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar (VR) e la Ong Movimondo, che rappresenta una base logistica per l’area del Centro America e per i contatti istituzionali in loco. I motivi che hanno determinato questa ricerca sono: • la carenza di dati in merito a patologie derivanti dallo svolgimento di attività lavorativa in zone geografiche che presentano caratteristiche diverse da quelle del nostro paese (endemia infettiva, basso livello socioeconomico, scadenti condizioni igieniche, altri rischi ambientali); • la necessità di chiarire gli obblighi di prevenzione in capo ai datori di lavoro; • la volontà di censire le modalità con cui le aziende organizzano la prevenzione e attuano l’informazione e la formazione dei lavoratori prima di attivare le lavorazioni in loco; • il desiderio di verificare il funzionamento delle strutture di appoggio per attività di informazione, assistenza e obblighi assicurativi; • l’intenzione di trasformare i riscontri derivanti dalla ricerca in indicazioni operative per tutti gli interessati pubblici e privati. PREMESSA Nell’ultimo decennio l’Italia è diventata una delle principali mete Europee della migrazione di cittadini di Paesi in via di sviluppo che vengono in Europa alla ricerca di lavoro e di migliori condizioni di vita. Tuttavia, nel passato l’Italia è stato un Paese di emigrazione, anche consistente sia dal punto di vista economico che da quello culturale e sociale (fa il 1876 ed il 1976 più di 24 milioni di italiani emigrarono in altri Paesi, europei ed extraeuropei). Ancora oggi, gli italiani sono al primo posto tra i migranti della Comunità Europea seguiti da portoghesi, spagnoli e greci. Nel 1994 si sono cancellati all’anagrafe per l’estero 59.402 italiani; la maggioranza di questi italiani parte dall’Italia meridionale ed insulare. Nei Paesi di destinazione gli emigranti italiani si trovavano spesso in condizioni socio economiche di grande disagio: • le condizioni di vita dei lavoratori all’estero erano miserevoli; il contesto abitativo e le condizioni igieniche erano delle peggiori: nella maggioranza dei casi vivevano in abitazioni malsane e di piccole dimensioni che spesso venivano subaffittate e occupavano da un numero elevatissimo di persone: Si può facilmente capire come tra gli emigranti dilagassero malattie quali TBC, colera e tifo. • le condizioni di lavoro degli emigranti erano altrettanto scadenti: lavori pesanti e rischiosi (ad es. nelle miniere del Belgio o nelle saline Francesi) e molti lavoratori erano vittime di incidenti sul lavoro. Una parte rilevante di lavoratori all’estero era costituita da bambini al di sotto dei 16 anni. Oltre ad essere spesso sfruttati da intermediatori che procuravano loro il lavoro, erano generalmente impiegati in lavori pesanti e rischiosi: nelle vetrerie in Francia; nelle fornaci della Baviera, dell’Austria, della Croazia e dell’Ungheria; nel settore edilizio in Svizzera; nelle costruzioni di Detroit; nei marmifici del Canton Ticino; nelle miniere del Gandt; nel settore tessile di S. Paolo del Brasile. La caratteristica del cittadino italiano che si reca all’estero per motivi di lavoro che più è cambiata rispetto al passato è la qualifica professionale: gli “emigranti” non sono più operai senza qualifica, ma tecnici, operai specializzati, funzionari, imprenditori, oltre che cooperanti di organismi internazionali e missionari. Insieme al profilo professionale, sono comunque migliorate anche le condizioni di vita. COME SI È SVOLTA E SI SVOLGERÀ LA RICERCA Le attività di ricerca saranno: • il censimento delle attività lavorative italiane all’estero nei Paesi in via di sviluppo, • lo studio della legislazione sanitaria internazionale a tutela dei lavoratori e della legislazione di interesse per il lavoratore italiano • lo studio dei rischi ambientali e professionali per i lavoratori italiani all’estero correlabili alla situazione sanitaria in Paesi in via di sviluppo • la definizione di procedure di prevenzione e protezione valide anche all’estero. Come area geografica da cui partire per un maggior approfondimento della materia indicata dagli obiettivi della ricerca è stata individuata l’area omogenea in via di sviluppo dell’America Centrale (Nicaragua, El Salvador, Guatemala, Honduras) dove sono già presenti Enti e persone con conoscenza dei luoghi e con contatti che permettono l’approfondimento dello studio. Indispensabile è stato il contatto con Movimondo, organizzazione non governativa che da anni lavora in America latina con interventi di sanità pubblica e sociali, che conosce bene le problematiche del lavoro all’estero, le documentazioni necessarie, le difficoltà burocratiche, gli obblighi di legge e la casistica delle malattie contratte all’estero. Lo studio delle normative sanitarie dei Paesi esteri e delle modalità di applicazione del D.Lgs. 626/94 in queste situazioni rappresenta il passo necessario per definire poi i compiti del datore di lavoro, gli obblighi di sorveglianza sanitaria, gli interventi medico legali ed assicurativi nonché gli interventi conseguenti di tutela sanitaria con particolare riguardo al rischio biologico, ma anche alle pro- 27 blematiche correlate allo stress, all’ambiente, al clima, al lavoro specifico. Si stanno approfondendo le conoscenze sulle normative internazionali e nazionali dei diversi Paesi, per poi valutare la necessità di armonizzare la nostra normativa ed in particolare l’applicazione del D. Lgs. 626/94 con le diverse normative nazionali. I fattori di rischio relazionati all’attività lavorativa degli italiani nel Centro America non sono solo quelli legati al comparto produttivo dell’azienda o alla mansione specifica (se non per quel che riguarda la componente psicologica e lo stress): i rischi per la salute di questi lavoratori sono soprattutto legati al clima tropicale, alle condizioni di sicurezza, alla disponibilità di servizi di emergenza, di strutture sanitarie e di personale qualificato, alle condizioni abitative e dei servizi igienici, alla presenza di vettori veicolo di infezioni, alla sicurezza di acqua e cibo, allo smaltimento dei rifiuti, alle condizioni igieniche generali. A tutto ciò si aggiunge il fatto che, in anni recenti, il Centro America, per la sua stessa conformazione e per la sua posizione geografica, è stato spesso teatro di uragani, terremoti, alluvioni, con conseguenti problemi di approvvigionamento idrico, di scarsa igiene ed epidemie. L’epidemiologia delle malattie infettive nel mondo del lavoro riflette i cambiamenti sociali, culturali, e demografici indotti dalla globalizzazione dell’economia. Il rischio biologico può essere connesso all’attività lavorativa (lavori in ambito sanitario, veterinario, agricolo), ma deriva principalmente dallo svolgimento di attività lavorative in zone geografiche endemiche. Per molti agenti biologici il rischio di infezione è presente solo in paesi extraeuropei (malaria e altre malattie “tropicali” in senso stretto); per molti altri, che sono ubiquitari - tubercolosi, epatiti, febbre tifoide e altre salmonellosi - il rischio è comunque maggiore nei paesi a basso livello socioeconomico e con condizioni igieniche scadenti. Il lavoratore all’estero in aree tropicali o sub-tropicali è sottoposto ad un rischio biologico ambientale che è largamente indipendente dalle mansioni cui è adibito: si configura quindi una nuova tipologia di rischio biologico professionale in cui il fattore di rischio è rappresentato proprio dal fatto di risiedere (per motivi di lavoro/missione) in aree ad elevata endemia per malattie trasmissibili. I quattro paesi del Centro America scelti sono caratterizzati dalla presenza di aree epidemiche per quel che riguarda malattie trasmissibili quali colera, dissenteria, congiuntivite, meningite e malattie trasmesse da vettori quali malaria, dengue, 28 leishmaniosi, malattia di Chagas e leptospirosi, che tutt’oggi costituiscono un serio problema sanitario. La disponibilità di dati epidemiologici sulle malattie contratte all’estero per motivi di lavoro è alquanto carente, ad eccezione della malaria per la quale esiste un flusso informativo specifico. Nel quadriennio 1994-1997, i casi di malaria notificati in Italia in lavoratori all’estero sono stati 780, che arrivano a 962 se si aggiungono 182 casi in religiosi-missionari, mentre nello stesso periodo i casi in turisti sono stati 753. Per utilizzare dati più recenti citiamo quelli della Regione Veneto (sovrapponibili ai nazionali): in questi ultimi anni si è verificato un continuo incremento dei casi di malattia che ha interessato soprattutto persone provenienti da zone ad alta endemia. Dal 1993 al 2001 sono stati registrati nel Veneto 1960 casi di malaria con un’incidenza media di 215 casi/anno e un andamento in crescita abbastanza regolare. Dall’analisi delle schede di notifica emerge che i casi di malaria riguardano quasi esclusivamente immigrati, che sono rientrati temporaneamente nel loro paese per visitare i parenti oppure i missionari e i volontari, che vivono per molto tempo in situazioni non confortevoli. È lecito supporre, ed è confermato dall’esperienza dei Centri di Medicina Tropicale, che il rischio sia elevato anche per altre patologie trasmissibili per le quali non esiste un flusso informativo altrettanto dettagliato. Da dati americani (Frame et al., 1992) e francesi (Larouze B et al., 1987), le epatiti sono la prima causa di morte infettiva in lavoratori/missionari in Africa. Il problema della carenza di dati epidemiologici è grave: il flusso informativo in merito a malattie quali le epatiti, la tubercolosi ed altre malattie di rilievo sociale non permette di suddividere i dati per categorie a rischio, e in particolare non vi sono dati attendibili sulla percentuale di casi contratti all’estero, né sui casi tra lavoratori stranieri in Italia. I problemi legati alle malattie infettive e tropicali non sono comunque i soli problemi per il lavoro all’estero; il rapporto tra durata della permanenza fuori dall’Italia, numero di viaggi all’estero in un certo periodo, possibilità di riposo durante le missioni, situazione ambientale e lo stress legato al viaggio e al lavoro sono obiettivi di analisi e studio della ricerca. A fronte di un rischio sanitario a volte molto elevato, si deve prendere atto di un’azione di prevenzione inadeguata. Accanto ad esperienze importanti realizzate da grandi imprese e dall’Esercito Italiano, sono frequenti i casi di lavoratori inviati all’estero senza alcuna tutela preventiva, né informazione corretta nei confronti di patologie sicuramente evitabili. La tutela sanitaria dei cittadini che si recano all’estero si sta configurando sempre di più come una disciplina specialistica, la cosiddetta “Travel medicine” o “Medicina dei viaggi”, che prevede la presenza sul territorio di strutture qualificate a fornire consulenze preventive: ASL, soprattutto quelle con un servizio di vaccinazioni internazionali, i Sevizi di Malattie Tropicali e/o di Malattie Infettive. A tutte queste strutture ed in particolare a chi si interessa della prevenzione nei luoghi di lavoro speriamo che la ricerca riesca a fornire tutte le indicazioni necessarie. Celestino Piz Medico del lavoro ULSS 6 Vicenza Gianluca Marangi Medico del lavoro ULSS 20 Verona Marco Albertini dottorando Ist. Univ. Europeo Fiesole Luciano Marchiori Medico del lavoro ULSS 20 Verona ESPERIENZE NAZIONALI VERONA POPOLAZIONE DISAGIATA E INTERVENTI SULLE ABITAZIONI MALSANE di Lucia De Noni e Silvana Manservisi SALUBRITÀ DELLE ABITAZIONI E DETERMINANTI SOCIALI I Servizi d’Igiene e Sanità Pubblica hanno tradizionalmente ricoperto il ruolo di controllori-garanti del rispetto di norme igieniche codificate da leggi e regolamenti, avvalendosi soprattutto di strumenti di carattere impositivo/repressivo. L’attività certificativa inerente lo stato igienico delle abitazioni, pur rientrando in questo compito tradizionale, costituisce un osservatorio privilegiato che costringe gli operatori a confrontarsi quotidianamente con la realtà del territorio in cui operano. In particolare tale attività ha permesso di evidenziare che sono diffusamente presenti determinanti ambientali negativi per la salute in fasce di popolazione (soprattutto immigrati) particolarmente svantaggiate dal punto di vista socio-economico. FABBISOGNO ABITATIVO Con l’obiettivo di mettere in atto interventi preventivi efficaci e praticabili il Servizio Igiene e Sanità Pubblica dell'A- zienda Sanitaria n.20 di Verona, in accordo con il Comune di Verona, ha progettato ed attuato un nuovo approccio partecipativo al problema delle abitazioni malsane con l’intento di ottenere un effettivo miglioramento della salubrità delle case abitate da fasce deboli di popolazione1. Questo progetto nasce dalla consapevolezza che, nonostante la disponibilità di una casa sia un prerequisito della salute, il fabbisogno abitativo costituisce spesso una vera e propria emergenza sociale. Le risposte a questo bisogno non sono sempre adeguate, basti pensare che in una città di piccole-medie dimensioni come Verona nel 2000 sono stati assegnati solo 271 alloggi di edilizia residenziale pubblica (le cosiddette case popolari) a fronte di 1699 richieste; nel 2003 le assegnazioni sono state ancora inferiori: 129 assegnazioni su 1462 richieste. Il numero di domande non è sicuramente esaustivo delle situazioni di bisogno in quanto possono concorrere all’assegnazione solo i nuclei famigliari che possiedono determinati requisiti; non si tiene conto, ad esempio, di situazioni di necessità temporanea come l’immigrazione stagionale o le residenze transitorie. In questo ambito non si intravede la possibilità di mettere in atto soluzioni immediate, l’emergenza casa è un problema complesso ma in linea di massima non è dovuto a scarsità di edifici quanto piuttosto all’indisponibilità del bene per alcune fasce di popolazione: nel solo comune di Verona con l’ultimo censimento venivano registrati 2845 alloggi non occupati mentre risultavano abitati 260 alloggi non classificabili come abitazioni (ripari del tutto precari o privi di qualsiasi requisito igienico-sanitario) e si può ragionevolmente ritenere che questo dato rappresenti solo la punta d’iceberg di situazioni difficilmente censibili. In aggiunta alcune fasce disagiate ed emarginate, in particolare gli stranieri, sono spesso costrette ad accettare in locazione immobili di bassa qualità, spesso addirittura fatiscenti, pagando canoni simili o anche superiori a quelli previsti per un appartamento normale; questi alloggi rappresentano spesso la componente residuale del mercato rifiutata dagli autoctoni (2). Difficoltà ancora maggiori ha la manodopera stagionale, spesso questi lavoratori devono utilizzare rifugi “di fortuna” del tutto precari nonostante il DPR 303/56 preveda la possibilità di mettere a loro disposizione alloggi temporanei con requisiti inferiori rispetto alle abitazioni normali. Per inciso va ricordato che in questo contesto le norme sull’immigrazione, com’è noto, vincolano alla disponibilità di un’abitazione idonea l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari arrivando in alcuni casi a dare indicazioni sulle dimensioni dell’abitazione; l’incoerenza consiste nel fatto che non si adottano per questi alloggi i requisiti minimi di riferimento già operanti per le abitazioni normali: in Veneto, ad esempio, per il ricongiungimento famigliare o per il rilascio della carta di soggiorno è richiesta una superficie utile di 60 mq per una famiglia di due persone quando per la normativa sanitaria sarebbero sufficienti 38 mq. PROGETTO "DISAGIO ABITATIVO". La constatazione che, nonostante l’evidenza di gravi e certificate carenze igieniche delle abitazioni, molte persone (spesso famiglie numerose) continuassero ad abitare in condizioni di grave disagio per l’assenza di alternative praticabili ha dato il via ad un progetto il cui obiettivo centrale è quello di rilevare le situazioni di degrado abitativo, individuandone le componenti potenzialmente pericolose per la salute allo scopo di rimuovere in tempi brevi i fattori più importanti di insalubrità. 29 RISULTATI 2002/2003 Per quanto riguarda i risultati degli accertamenti, nel 2002 sono state rilevate 181 abitazioni insalubri 2/3 delle quali abitate da immigrati extracomunitari, a fronte di una loro presenza sul territorio del 5% circa sulla popolazione totale. In circa il 14% dei casi la condizione igienico-sanitaria della casa è stata giudicata così grave da richiedere la dichiarazione di inabitabilità e la ricerca immediata di un alloggio alternativo a cura del comune, in accordo con quanto previsto dal protocollo d’intesa. Il sovraffollamento grave, solo o in combinazione con altri fattori di insalubrità, era presente nel 6% delle case abitate da residenti italiani e nel 47% di quelle occupate da immigrati extracomunitari. Nel 2003 sono state visitate 413 abitazioni che presentavano inconvenienti igienici, 375 di queste erano abitate da immigrati. Le abitazioni malsane presentavano non solo problemi strutturali (umidità, muffa, infiltrazioni meteoriche, servizi igienici carenti..) ma anche impiantistici: nel 99% erano presenti infatti irregolarità degli impianti termici ed elettrici che almeno nella metà dei casi potevano costituire un pericolo immediato per la salute e l’incolumità dei presenti. Questo dato diventa significativo se messo in relazione ai dati rilevati dall’Osservatorio Provinciale sulle intossicazioni domestiche da monossido di carbonio (3) in quanto più di 1/3 degli avvelenamenti verificatisi nel 2003 è a carico di immigrati. INTERVENTI DI RISANAMENTO Per quanto riguarda le modalità di risanamento il progetto prevede un colloquio con i proprietari delle abitazioni malsane partendo dai casi che richiedono interventi più urgenti. Nel corso di questo colloquio vengono fornite preventivamente informazioni sul progetto, sui motivi che l’hanno generato e sulle azioni ivi previste passando quindi a illustrare i fattori d’insalubrità riscontrati e i rischi sanitari per gli abitanti degli alloggi, vengono anche fatte presenti le rispettive responsabilità. Circa l’80% dei proprietari invitati si è finora presentato al colloquio ed una elevata percentuale di essi (94%) ha sottoscritto l’impegno ad eliminare le situazioni di maggior pericolo. In più della metà dei casi a questo impegno ha fatto seguito un atto notorio con cui il proprietario comunica di aver eliminato gli inconvenienti come richiesto. I controlli a campione effettuati dal personale del Dipartimento di Prevenzione hanno evidenziato l’effettiva realizzazione dei lavori nella quasi totalità dei casi mentre sono in corso gli accertamenti nelle abi- 30 tazioni su cui non si hanno ulteriori notizie. Nei (finora pochi) casi in cui è mancata in modo evidente la collaborazione dei proprietari il comune ha provveduto all’esecuzione d’ufficio dei lavori con spese a carico dei proprietari. Nel corso dei sopralluoghi vengono anche fornite agli inquilini informazioni sui rischi rilevati e indicazioni di tipo igienico relativamente alla conduzione dell’abitazione (necessità di arieggiare frequentemente i locali, di mantenere una idonea temperatura interna per prevenire la formazione di condensa, precauzioni da adottare in caso di infestazione da insetti antropici, pericoli connessi all’uso di impianti difettosi); nei casi più gravi si prescrive di non utilizzare gli impianti pericolosi indicando mezzi alternativi sicuri. A latere del progetto è stato anche concordata la segnalazione alla Guardia di Finanza dei contratti d’affitto irregolari. I risultati finora raggiunti evidenziano che in buona parte è stato raggiunto l’obiettivo di eliminare i maggiori rischi ambientali dalle abitazioni di bassa qualità affittate a fasce disagiate della popolazione, che difficilmente possono accedere ad abitazioni sicure e confortevoli. Altrettanto rilevante è l’esito indiretto dell’attività che ha consentito in molti casi di interrompere il circolo vizioso che vede dilatarsi l’acquisto di locali fatiscenti ad uso speculativo con il denaro stornato dagli interventi di risanamento e messa in sicurezza delle abitazioni. AREE URBANE DEGRADATE. Accanto al fenomeno, già di per sé preoccupante, dello sfruttamento abitativo e della scadente qualità delle abitazioni l’area urbana è interessata da una vera e propria emergenza sanitaria e sociale che interessa parecchie centinaia di persone: si tratta di aree degradate o marginali dove vengono erette baracche con materiali di recupero o di edifici dismessi occupati abusivamente in assenza di qualsiasi garanzia di tipo igienico. Ancora una volta il fenomeno interessa soprattutto gli immigrati; non si tratta solo di irregolari ma anche di lavoratori regolari con l’intero nucleo famigliare in genere residente ad un indirizzo fittizio. I numeri di questa emergenza variano in continuazione e dipendono da varie circostanze: migrazioni dei nomadi, densità dei controlli, sgomberi effettuati in altre aree della città, fabbisogno di manodopera stagionale o semplicemente si tratta di situazioni improvvise che rompono un equilibrio economico precario (1 famiglia su 10 secondo l’ISTAT vive sotto la soglia della povertà). In definitiva centinaia di persone a Verona, ma sicuramente anche in altre realtà urbane, vivono senza acqua potabile, senza servizi igienici e reti fognarie, senza servizi di asportazione dei rifiuti, senza riscaldamento invernale, con ripari insufficienti anche a garantire la sicurezza personale; si studia giustamente di cambiare il testo unico delle leggi sanitarie per renderlo più adatto a una società moderna e al nuovo contesto epidemiologico ma per gruppi consistenti di popolazione, confinati in una sorta di penombra, è come se non fosse mai esistito. FLUSSO IMMIGRATORIO IN COSTANTE AUMENTO Secondo i dati riportati dalla Caritas (4) gli immigrati regolari extracomunitari in Italia sono raddoppiati dal 2000 a oggi (da 1.300.000 a 2.600.000) e si prevede un ulteriore raddoppio nei prossimi 10 anni. Le stime più prudenti indicano anche la presenza di 200.000 irregolari. Per il 2004 è stato programmato un flusso di 79500 stranieri, 50.000 dei quali da impiegarsi in lavoro subordinato a carattere stagionale. Com’è noto da più parti si sostiene che queste quote siano insufficienti al fabbisogno di manodopera e che un numero limitato di ingressi legali possa favorire un aumento di quelli irregolari. Basandosi su stime relative agli anni scorsi nel territorio di Verona il numero di tessere sanitarie per stranieri irregolari rilasciate annualmente interessa un numero pari a circa l’1% della popolazione e si tratta, com’è noto, di una stima per difetto in quanto riguarda quella che possiamo ritenere un’elite (stranieri che sono privi di permesso di soggiorno ma che sono dotati di particolari requisiti burocratici): per gli altri anche prestazioni mediche d’emergenza diventano molto problematiche. Nonostante l’Italia sia paese d’immigrazione ormai da un trentennio e nonostante la sempre maggior consistenza del flusso immigratorio l’approccio al problema abitativo e ad altre problematiche sociali è rimasto confinato in gran parte in un’ottica temporanea ed emergenziale. Eppure la memoria dei problemi legati alla nostra immigrazione è ancora viva. Gian Antonio Stella nel suo libro “L’Orda” riporta la descrizione fatta nel 1906 dal New York Times sulle condizioni di vita degli immigrati italiani “In celle oscure sotto le strade, dove i raggi del sole divino si rifiutano di entrare….[…]Lo sporco che li circonda, l’odore di muffa delle loro abitazioni umide è per loro piacevole e fa la loro felicità, come fossero in un appartamento lussuoso”(5). A cent’anni di distanza esistono situazioni del tutto simili nel nostro territorio che la storia non ci ha insegnato ad affrontare. INDIVIDUAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE DI SALUTE Per quel che riguarda gli organi della sanità pubblica c’è da chiedersi se siano in grado sempre di interpretare i dati epidemiologici correnti tenendo conto della realtà da cui emergono. Le statistiche evidenziano che la popolazione del Veneto non ha mai goduto di condizioni di salute migliori di quelle attuali (6) e che la mortalità infantile, al 3,2 per mille, non è mai stata così bassa (7). Tuttavia la cronaca ci rimanda periodicamente notizie meno confortanti che fanno intravedere una situazione più complessa: in provincia di Verona dall’inizio dell’anno sono stati abbandonati quattro neonati: due di questi, partoriti di nascosto da giovanissime immigrate dell’est impiegate stagionalmente in agricoltura, sono morti; un immigrato è stato compattato insieme ai rifiuti del cassonetto dove aveva trovato riparo durante la notte, lo stesso è accaduto in altre città italiane; persone senza documenti vengono falcidiate nelle strade; malattie infettive importanti insorte in carcere giungono alla ribalta perché la struttura ospita 800 detenuti mentre potrebbe contenerne un terzo; circa metà dei casi degli episodi di tbc notificati nel territorio dell’Azienda Sanitaria risultano a carico di immigrati ma ad una parte consistente di essi è impossibile applicare le usuali misure profilattiche perchè sono irregolari o senza fissa dimora. C’è quindi la sensazione che i morti senza età, nome e residenza, i bambini nati da madri non iscritte all’anagrafe sanitaria restino ai margini delle nostre statistiche e che malattie non curate nell’ambito del servizio sanitario nazionale o insorte in comunità chiuse fatichino ad emergere. quanto asserito da Acheson e cioè che i maggiori risultati contro le disuguaglianze sono ottenibili orientando le iniziative verso i problemi che si presentano con maggior frequenza. (9) Lucia De Noni Silvana Manservisi Servizio Igiene e Sanità Pubblica Dipartimento di Prevenzione Azienda ULSS 20 Verona BIBLIOGRAFIA. 1. “Case insalubri e fasce deboli di popolazione. Ricerca di un approccio efficace per il risanamento” presentato al convegno La prevenzione basata su prove di efficacia. Esperienze di valutazione in Italia, Verona, 14-15 aprile 2003 pubblicato su Epicentro 2. Il fabbisogno di alloggi per lavoratori extracomunitari nella Provincia di Verona A cura di Raffaello Zonin su commis- sione della CCIAA di Verona Aprile 2003 3. Intossicazione da monossido di carbonio. S.Manservisi, M.Valsecchi, L.De Noni - Dipartimento di Prevenzione ULSS 20 Verona Dialogo sui farmaci. 6/2002 Anno 5 Novembre-Dicembre 2002 4. Rapporto Caritas 2004 5. L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Gian Antonio Stella BUR Saggi Ed. Rizzoli 2004 6. R. Gnesotto e S. Forni “La mortalità e le sue cause nel Veneto”, Bollettino epidemiologico regionale, numero 0, novembre 2000 7. Relazione sanitaria anno 2003 Dipartimento di Prevenzione ULSS 20 Verona www.ulss20.verona.it 8. European Sustainable Development and Health Series: Book 1 9. Inchiesta condotta da Sir Donald Acheson per il Dipartimento inglese della Sanità Independent Inquiry into Inequalities in Health Report London:TSO 2003 www.tso.co.uk/bookshop In questo contesto diventa obbligatorio occuparsi della distribuzione delle malattie all’interno della nostra società individuando modalità operative che facciano emergere le disuguaglianze, anche perchè l’obiettivo “salute per tutti” è una componente essenziale del processo finalizzato allo sviluppo sostenibile (8). Per diversi parametri sanitari nelle ultime decadi le disuguaglianze sono rimaste invariate o si sono addirittura approfondite. L’esperienza di Verona evidenzia come, malgrado i vincoli presenti nella pratica quotidiana, sia possibile mettere in atto interventi di prevenzione efficaci approfondendo la distribuzione di alcuni fattori di rischio ambientale e di alcune patologie in relazione a fattori socio-economici e cercando di far emergere dal sistema informativo sanitario corrente il peso dei determinanti sociali della salute e delle malattie. Questo risultato sembra confermare 31 PROGETTO SALEM ASSISTENZA AGLI EMARGINATI, NOMADI E IMMIGRATI IRREGOLARI di Mauro Palazzi, Francesca Righi, Patrizia Vitali, Elizabeth Bakken, Antonella Bazzocchi, Sabrina Guidi PREMESSA Nell’ottobre 1996, in occasione dell’organizzazione di un intervento di prevenzione della tubercolosi, il nostro Dipartimento di Prevenzione (oggi di Sanità Pubblica) aveva riunito intorno al tavolo le associazioni che si occupavano di tutela delle fasce di popolazione più a rischio (anziani, tossicodipendenti e immigrati). Durante una di queste riunioni ci avvicinò il coordinatore del Centro di Ascolto e Prima Accoglienza descrivendoci come era difficile, per loro, dare una risposta ai bisogni di salute degli immigrati irregolari e ci chiese una mano. In quel periodo non erano ancora state promulgate leggi di tutela come la Legge 40/98 e non era prevista l’assistenza a questi soggetti da parte delle Aziende Sanitarie. Le risposte erano affidate alla disponibilità di alcuni medici che, contattati dalle associazioni, offrivano gratuitamente il loro servizio, ma se erano necessarie terapie o accertamenti diagnostici, i costi rappresentavano un ostacolo spesso insormontabile per chi aveva poco o niente. La conseguenza di tutto ciò si traduceva nella negazione a centinaia di persone del diritto alla salute e all’assistenza, previsto dall’art. 32 della nostra Costituzione e dall’art.25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (ONU 1948). Questa situazione rappresentava anche un problema di sanità pubblica, perché favoriva la possibile diffusione di malattie infettive nella collettività. Il dipartimento si fece quindi promotore di un progetto volto a garantire l’accesso ai servizi sanitari alle fasce di popolazione che ne erano escluse: immigrati irregolari, nomadi e senza fissa dimora. Prima di tutto si cercarono esperienze che potevano dare esempi da seguire. Esistevano a Roma e a Milano importan- 32 ti iniziative di assistenza, gestite rispettivamente dalla Caritas e dall’Associazione NAGA, e anche nella nostra regione, l’AUSL di Bologna Città aveva avviato una convenzione con il Centro Biavati e l’associazione SOKOS. Ci mettemmo in contatto con questi ultimi, ottenendo preziosi consigli su come impostare l’intervento. In particolare fu utilissima l’esperienza della Dott.ssa Giovanna Dallari dell’AUSL di Bologna e del Dr. Rabih Chattat dell’associazione Sokos, in quanto si adeguava bene al nostro contesto. Il nostro Dipartimento di Sanità Pubblica definì, in accordo con le altre strutture dell’AUSL (il Distretto e l’Ospedale) e con i rappresentati delle associazioni di tutela degli immigrati, un progetto che intitolammo a Salem Ramovic un piccolo nomade Rom, morto il 25 Gennaio 1999 nella baraccopoli “Casilino 700” di Roma. Contemporaneamente promosse la costituzione di un’associazione di volontariato (Associazione Salem) con lo scopo di raccogliere tutti i medici e le persone che si occupavano, da soli o all’interno di organizzazioni, di immigrati irregolari e senza fissa dimora. IL CONTESTO DI PARTENZA Il Piano Sanitario Nazionale 1998/2000 indicava tra i suoi obiettivi il rafforzamento della tutela dei soggetti deboli e invitava le Regioni ad elaborare progetti finalizzati a contrastare le diseguaglianze di accesso ai servizi. Sono soggetti deboli, coloro che, trovandosi in condizioni di bisogno, vivono situazioni di particolare svantaggio e sono costretti a forme di dipendenza assistenziale. Tra questi sono compresi gli stranieri immigrati (in particolare quelli non regolari), i tossicodipendenti, i malati mentali, i bambini, gli adolescenti, gli anziani e i malati terminali. Per quanto riguarda gli stranieri immigrati, come sottolinea anche il PSN, vi sono numerosi fattori epidemiologici e condizioni socio-economiche che rendono la salute di questi soggetti meritevole di una particolare tutela: l’alimentazione, l’abitazione e il lavoro inadeguati; le difficoltà economiche, di comunicazione e di inserimento sociale; la discriminazione nell’accesso ai servizi. Il PSN, vista questa situazione, poneva quindi il seguente obiettivo da raggiungere entro il triennio 1998/2000: • l’accesso all’assistenza sanitaria deve essere garantito a tutti gli immigrati, secondo la normativa vigente, in tutto il territorio nazionale. Il PSN invitava, in particolare a sviluppare le seguenti attività: • implementazione di strumenti sistematici di riconoscimento, monitoraggio e valutazione dei bisogni di salute degli immigrati, anche valorizzando le esperienze più qualificate del volontariato; • formazione degli operatori sanitari finalizzata ad approcci interculturali nella tutela della salute; • organizzazione dell’offerta di assistenza volta a favorire la tempestività del ricorso ai servizi e la compatibilità con l’identità culturale degli immigrati. Anche il Piano Sanitario Regionale 1999/2001 prevedeva un “Progetto speciale per la tutela della salute degli stranieri immigrati” e invitava ad attuare iniziative volte a facilitare l’accesso ai servizi sanitari, a diffondere informazioni e conoscenze, a formare e sensibilizzare gli operatori sanitari. Il progetto realizzato nel nostro territorio si è, quindi, orientato alla tutela della salute degli stranieri immigrati non iscrivibili al SSN e di quei soggetti ( nomadi, senza casa…..) che per motivi sociali, culturali ed economici vengono ad essere privati della possibilità di avere accesso ad una assistenza sanitaria che tuteli la loro salute. Nel territorio dell’Azienda sanitaria di Cesena il fenomeno dell’immigrazione da paesi dell’Est Europeo e da Paesi in via di sviluppo era presente con dimensioni in crescita da diversi anni: gli stranieri con regolare permesso di soggiorno sono passati da circa 2.300 (anno 1997) corrispondente all’1,2% della popolazione residente, a 4364 nel 2000. Il numero di immigrati clandestini (Stranieri Temporaneamente Presenti - STP) è impossibile da definire, sia per la stessa natura della condizione, sia per le variazioni legate alla stagionalità: nel periodo estivo si assiste a una crescita esponenziale, di questi soggetti attratti dalle possibilità di lavoro legate al turismo e all’agricoltura. La quota di STP viene quanti- ficata, dagli enti più accreditati, intorno al 25% dei regolari (nel nostro territorio si stimano circa 1000 persone). IL PROGETTO Nella nostra realtà l’assistenza sanitaria a queste persone era affidata ad estemporanei interventi di solidarietà da parte di organizzazioni umanitarie (circa 800 interventi nel 1998 secondo i dati Caritas) o singoli che, con non poche difficoltà, offrivano un aiuto contando sulle loro risorse personali. Altre volte il bisogno di assistenza spingeva questi soggetti a rivolgersi ai servizi pubblici (Pronto Soccorso, Guardia Medica…) che rispondevano, pur trattandosi spesso di accessi inappropriati e non coperti da alcun finanziamento pubblico o privato. L’assistenza a immigrati clandestini era difficoltosa, anche, per la poca chiarezza normativa presente fino alla emanazione della Legge 40/98, che definisce in modo più chiaro le modalità di assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al SSN (art. 33). L’AUSL di Cesena, sensibile a tali problematiche e già attiva in interventi di tipo preventivo e assistenziale, collaborando con gli enti locali e le associazioni di volontariato operanti nel territorio, ha pensato di ideare e realizzare il seguente progetto anche al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi del PSN sopra citati. La proposta di progetto è stata elaborata partendo dall’analisi delle criticità e dei punti di forza presenti nella realtà in cui si voleva operare. L’analisi della situazione ha evidenziato, oltre ai già citati ostacoli all’accesso ai servizi per motivi sociali, culturali ed economici, la presenza di una serie di fattori ostacolanti riconducibili a problematiche interne all’organizzazione aziendale: • inadeguata preparazione da parte degli operatori sanitari relativamente ai contenuti e alle modalità applicative della legge vigente, con il rischio di rendere inefficace e inefficiente la risposta alla domanda di assistenza, lasciando inevaso il diritto alla salute degli immigrati e creando negli operatori frustrazione e inutile consumo di tempo; • mancanza di un adeguato sistema informativo in grado di aumentare le conoscenze sulle caratteristiche del fenomeno (quantità e qualità dei bisogni, risorse necessarie…) utili a programmare gli interventi; inadeguata raccolta delle prestazioni erogate rimborsabili dagli enti deputati (Prefettura); • inadeguata formazione del personale per la gestione di soggetti che presentano culture diverse e particolari problemi sanitari che richiedono impegno e conoscenze specifiche. Tra i fattori favorenti la realizzazione del progetto: • collaborazione già attivata con enti pubblici e organizzazioni del volontariato che si interessano del fenomeno; • presenza a Cesena di una Associazione di volontariato con finalità coerenti col progetto; • presenza di un gruppo aziendale di lavoro (Distretto, Ospedale, Prevenzione e Sociale) OBIETTIVO GENERALE Garantire la tutela della salute degli stranieri immigrati non iscrivibili al SSN e di quei soggetti (nomadi, senza casa…..) che per motivi sociali, culturali ed economici vengono ad essere privati della possibilità di avere accesso ad una assistenza sanitaria. Il gruppo di progetto e gli altri soggetti coinvolti Per la predisposizione e la gestione del progetto si è costituito un apposito gruppo di lavoro multiprofessionale (Medici, Amministrativi, Psicologi, Assistenti Sociali , Infermieri…) composto da 12 operatori provenienti dal Distretto, dall’Ospedale, dal Dipartimento di Prevenzione, Sociale e Amministrativo. Il gruppo ha coinvolto attivamente nella gestione complessiva del progetto alcune Amministrazioni Comunali (Centro Stranieri di Cesena e Cesenatico) e Associazioni di Volontariato operanti nel territorio della AUSL di Cesena (Caritas Cesena, Centro di ascolto e prima accoglienza, Associazione Salem… ). OBIETTIVI SPECIFICI DEL PROGETTO OBIETTIVO 1 Definire per l’Azienda Sanitaria di Cesena le modalità di erogazione dei Servizi Sanitari alle diverse tipologie di immigrati secondo quanto previsto dalla normativa vigente ( legge 40/98) e informarne la popolazione interessata, gli operatori dei servizi sanitari e degli enti e associazioni che si occupano di immigrazione. AZIONI REALIZZATE Nel 2000 è stato elaborato, a cura del Gruppo aziendale di progetto, un protocollo che contiene per ogni tipologia di assistito, l’assistenza sanitaria offerta dalla Azienda Sanitaria e le modalità per riceverla (documentazione, indirizzi, costi….). Il documento è stato inserito nel sito internet della AUSL di Cesena (www.ausl-cesena.emr.it/Edu_Salute/ percorso_stranieri.htm) dal quale è scaricabile ed è stato presentato, attraverso due iniziative di formazione, agli operatori dall’Ausl, dei centri stranieri, delle associazioni di immigrati, dei comuni. E’ stata inoltre elaborata e diffusa, in collaborazione con la Ausl di Forlì e la Provincia, anche una Guida ai Servizi rivolta ai cittadini stranieri, tradotta in più lingue e distribuita presso le associazioni e i punti informativi. OBIETTIVO 2 Creare, collaborando con le esperienze più qualificate del volontariato presenti nel territorio, dei percorsi specifici volti a facilitare l’accesso ai Servizi Sanitari per offrire un servizio di assistenza sanitaria di base e specialistica ai cittadini stranieri non iscritti al SSN e alle persone che vivono in condizioni di particolare disagio economico, sociale e culturale (indi- 33 genti, emarginati, nomadi e immigrati clandestini) e presentano bisogni che necessitano (per tipo di patologia, per le difficoltà di comunicazione…..) di interventi specifici di assistenza sanitaria. AZIONI REALIZZATE L’assistenza agli stranieri immigrati non iscritti al SSN è stata organizzata attraverso una rete di ambulatori di medici di medicina generale aderenti alla associazione di volontariato “Salem” convenzionata con l’AUSL. I medici erogano l’assistenza sanitaria accogliendo gli stranieri nei loro ambulatori, distribuiti nel territorio aziendale. L’originalità del sistema di erogazione dei servizi sta proprio nel fatto di non prevedere un ambulatorio specifico per la cura degli immigrati irregolari, ma di favorire la loro integrazione offrendo gli stessi percorsi sanitari del cittadino italiano: medico di famiglia, strutture distrettuali e ospedaliere. Le patologie oggetto di tutela sono quelle giudicate urgenti o essenziali e prevedono la prescrizione di farmaci, di approfondimenti diagnostici e specialistici qualora non forniti direttamente dall’Associazione di volontariato. La prescrizione di farmaci e prestazioni specialistiche urgenti ed essenziali, previste dagli accordi con la AUSL, viene fatta sul ricettario contrassegnato da un apposito timbro (assistenza sanitaria erogata ai sensi dell’articolo 33 della Legge 40/98- Associazione Salem). L’accesso alla rete dei medici volontari è avvenuta, nelle prime fasi, attraverso il “filtro“ (o la mediazione) operata dalle associazioni di volontariato (Caritas, Centro di ascolto…) e Centri per Stranieri. Successivamente, anche grazie a una maggiore diffusione dell’informazione circa l’esistenza di questo servizio, l’accesso è avvenuto direttamente o dopo l’iscrizione STP al competente ufficio aziendale. Naturalmente oltre a questi ambulatori le prestazioni vengono erogate anche dagli ambulatori del Dipartimento MaternoInfantile e del Dipartimento di Prevenzione per quanto di loro competenza. I medici e il personale che eroga assistenza è tenuto a raccogliere i dati relativi all’attività svolta che saranno poi elaborati dall’Associazione con la collaborazione del Servizio di Epidemiologia e Comunicazione dell’AUSL e periodicamente diffusi. Sono stati organizzati due corsi di formazione per gli operatori socio-sanitari finalizzati a migliorare la loro capacità agli approcci interculturali nella tutela della salute. Hanno partecipato circa 100 operatori impegnati in attività di consultorio, assistenza sociale, ambulatorio distrettuale e di sportello. 34 OBIETTIVO 3 Aumentare le conoscenze sulle caratteristiche del fenomeno dell’immigrazione clandestina nel territorio della Azienda Sanitaria di Cesena con particolare riguardo agli aspetti di natura sanitaria. AZIONI REALIZZATE A partire dall’anno 2000 è stato predisposto ed attivato un sistema di raccolta e analisi dei dati relativi alla domanda di assistenza sanitaria espressa da parte degli immigrati non iscritti al SSN (numero e caratteristiche dei soggetti assistiti, tipo di patologia, prestazioni richieste, ….). Il sistema di raccolta dati era inizialmente, di natura cartacea (a parte i ricoveri ospedalieri afferenti al flusso informativo SDO e le prescrizioni farmaceutiche) e solo a partire dal 2003 è stato predisposto un sistema informatico per la registrazione dei dati anagrafici degli STP. Gli altri flussi dei dati (esami, prestazioni specialistiche e prestazioni dei consultori, attività dei medici Salem) sono ancora cartacei. Annualmente viene prodotto un report (scaricabile al sito http://www.ausl-cesena.emr.it/DipPrev/epicomnews.htm ) che si compone di due parti: la prima relativa alle caratteristiche delle persone che hanno richiesto la tessera STP e all’attività erogata dai servizi dell’Azienda Sanitaria; la seconda riguarda il lavoro svolto dai medici dell’associazione Salem. Il sistema di raccolta dati mostra alcune criticità legate alla difficoltà a raccogliere e trasmettere i dati da parte dei medici (poco tempo, trascrizione cartacea,…) e alla presenza di flussi di raccolta ancora da perfezionare (dati di Pronto Soccorso, di esami e visite specialistiche erogati). I dati relativi agli immigrati regolari mostrano un trend crescente del numero di soggetti assistiti attraverso il percorso STP fino al 2002 con un numero complessivo di soggetti iscritti pari a 1000. Si nota una flessione del dato dei nuovi iscritti nel 2003 (263) come probabile effetto della legge n.189/02 (grafico1). Si tratta di soggetti giovani infatti più del 50% ha un’età compresa tra i 20 e i 34 GRAFICO 1 Numero iscritti STP GRAFICO 2 Numero iscritti STP per sesso ed età RISULTATI E CONSIDERAZIONI FINALI Gli operatori socio-sanitari e gli utenti hanno mostrato grande soddisfazione per la semplificazione e chiarezza dei percorsi. Il progetto Salem ha, infatti definito in modo chiaro i percorsi di assistenza per questa particolare fascia di popolazione ad alto rischio di esclusione e ad elevato bisogno assistenziale. L’assistenza resa più efficace ed efficiente, ha permesso di ridurre o evitare le difficoltà e gli indugi di tipo burocratico-amministrativo, che a volte compromettevano la qualità della risposta al bisogno assistenziale. La diffusione delle informazioni sui servizi e sulle modalità di accesso ha contribuito inoltre a ridurre gli accessi inappropriati al pronto soccorso, che, prima dell’avvio del progetto, rappresentava il principale punto di raccolta della domanda di assistenza, anche in condizioni di non emergenza. GRAFICO 3 Numero iscritti STP per provenienza anni (grafico 2). L’analisi delle aree geografiche di provenienza evidenzia una predominanza dei Paesi della Penisola Balcanica (42%), a cui fanno seguito i Paesi dell’ex-URSS (22%) e i Paesi Africani (19%) (grafico 3). Anche il numero delle visite effettuate dai Medici dell’Associazione Salem è progressivamente aumentato, passando da 186 nel 2000 a 485 nel 2002. Le patologie per cui viene richiesta la visita riguardano soprattutto l’apparato osteomuscolare (12% delle visite), il digerente (10%) e problematiche dermatologiche (9%). I quadri clinici emersi hanno richiesto nella metà dei casi un trattamento farmacologico. I medici hanno provveduto, quando era possibile, alla distribuzione diretta dei farmaci (campionatura) oppure alla prescrizione nell’apposito ricettario contrassegnato da un apposito timbro. Il servizio erogato dalla rete degli ambulatori dei medici volontari Salem ha avuto un costo minimo per l’Azienda Sanitaria legato, essenzialmente, all’assicurazione obbligatoria per i 30 medici attivi (circa 2000- 2500 Euro all’anno). Il progetto, partito nel 1999, ha dato origine ad un servizio di assistenza ancora attivo. La valutazione è stata molto buona sia per l’efficacia con la quale risponde al bisogno che per i bassi costi del servizio. Nel 2000 è stato selezionato tra i migliori progetti al servizio del cittadino dalla Giuria del Premio Alesini di Roma, ma oltre agli apprezzamenti non sono mancati gli attacchi politici, da parte di rappresentanti di partiti della coalizione di centrodestra, che hanno contestato e richiesto, senza successo, la sua soppressione. L’intervento si è rivelato inoltre un’importante occasione per confrontare senza imposizioni e senza coercizioni, la nostra cultura sanitaria, i nostri metodi e i nostri obiettivi, con quelli di altri Paesi, cercando di capire, cogliere e fare nostro quanto di positivo la conoscenza di altre “verità” può proporci. Questa esperienza può attivare un processo di crescita umana e professionale e accelerare i processi di integrazione reale in un contesto sociale non sempre disposto alla tolleranza e alla solidarietà. Mauro Palazzi, Francesca Righi, Patrizia Vitali, Elizabeth Bakken, Antonella Bazzocchi, Sabrina Guidi Servizio Epidemiologia e Comunicazione Dipartimento di Sanità Pubblica AUSL di Cesena PROGETTO ”SCALO INTERNAZIONALE MIGRANTI” di Alessandro Filoni, Ardigò Martino, Antonio Curti, Ilaria Tarricone e Tommaso Zambelli INTRODUZIONE Lo scenario in cui lo Scalo Internazionale Migranti si inserisce è molto dinamico, i flussi migratori si modificano continuamente, in relazione ai fattori di espulsione dai paesi di origine, ed al mutare dei fattori di attrazione e scelta sul nostro territorio. I dati relativi agli stranieri presenti regolarmente vengono desunti dal numero di permessi di soggiorno rilasciati e dai residenti iscritti alle anagrafi. Il processo di raccolta ed elaborazione compone l'immagine del fenomeno migratorio quando questo per molti versi si è già modificato. I dati relativi ai vari comuni, alla provincia ed alla regione inoltre possono non essere raccolti omogeneamente e contemporaneamente, e questo li rende per molti versi difficilmente comparabili, specialmente nella ricerca o conferma di indicazioni tendenziali. Ancora più difficile è conteggiare il numero degli immigrati irregolarmente soggiornanti sul territorio, su questi soggetti è possibile unicamente effettuare delle stime. Gli operatori che lavorano direttamente sul territorio si trovano perciò ad affrontare delle condizioni imprevedibili su cui è difficile richiamare l'attenzione delle istituzioni. Questo è il caso della comunità Rumena e dello “scalo internazionale migranti”. A Bologna la comunità Rumena è molto numerosa, la quinta se si considerano i dati del comune sui residenti, ancora più consistente se si considerano i dati sui permessi di soggiorno e i rumeni irregolarmente presenti sul territorio. Questa forte presenza è correlata ai percorsi di migrazione facilitati, in passato più legati a organizzazioni criminali, oggi principalmente dovuti alle facilitazioni che i Rumeni hanno nel recarsi con il visto turistico in area Shenghen. Invece non sono chiari i fattori di scelta che spingono i rumeni verso Bologna. Sicuramente un ruolo decisivo è ricoperto dalla facilità nel trovare occupazione. Anche se non esistono dati in merito e quindi possiamo basarci solo sulla nostra esperienza, la maggior parte dei maschi rumeni irregolarmente presenti trova impiego, al nero, nel campo dell'edilizia. L'impressione è che, per questo gruppo di immigrati, il lavoro maschile sia maggiormente rappresentato rispetto a quello femminile. La relativa facilità con cui i Rumeni posso arrivare in Italia e la disponibilità di lavoro anche per gli irregolari si è però scontrata con la difficoltà di trovare degli alloggi. In queste condizioni singoli o interi gruppi familiari non hanno trovato migliore soluzione che “colonizzare” le aree più isolate della città, in particolare stabili abbandonati o le rive dei fiumi in cui le condizioni di vita sono pessime. Gli stabili occupati, generalmente fatiscenti, privi di servizi e sovraffollati rappresentano comunque una soluzione migliore rispetto agli accampamenti nati sulle rive dei fiumi. Tali accampamenti, vere e proprie bidonville, sorgono in aree separate dalla comunità, in mezzo alla fitta vegetazione, rappresentati da capanne di teli e sacchi della spazzatura, in cui vivono, per terra o su stracci recuperati nei cassonetti della spazzatura, diverse decine di persone, comprese donne e bambini, senza che esista alcun tipo di servizio. Drammaticamente, nella nostra esperienza, abbiamo accertato in questi contesti anche la presenza di immigrati con regolare permesso di soggiorno. Le forze dell'ordine ciclicamente provvedono allo sgombero degli edifici occu- 35 pati ed all'abbattimento delle capanne. Alcuni irregolari fermati durante gli sgomberi vengono espulsi dopo essere stati avviati ai Centri di Permanenza Temporanea (CPT), la maggior parte però o sfugge ai fermi o viene rilasciata senza che avvenga l'espulsione. Il destino di queste persone è tornare, in breve, alle stesse aree ad agli stessi accampamenti. Lo Scalo Internazionale Migranti nasce a Bologna il 16 ottobre 2002, quando viene occupato l’ex ferro-hotel di via Casarini 23, di proprietà di Trenitalia abbandonato da anni. L’occupazione del Ferro Hotel rappresenta innanzitutto il tentativo, di cittadini italiani e migranti, di intraprendere un’esperienza comune di autogestione, che in primo luogo dia una risposta ai bisogni materiali di decine di migranti. Nei mesi precedenti l’occupazione, alcune spedizioni nelle campagne di Borgo Panigale ed in altre zone periferiche di Bologna avevano documentato diversi sgomberi e violente intimidazioni effettuate dalla polizia ma taciute dai mezzi di comunicazione. Con l'ultimo sgombero, alle porte dell'inverno e senza alternative istituzionali, in un clima di grande chiusura, ai Rumeni viene offerta l’ospitalità del centro sociale ex-mercato 24 di via Fioravanti dove avvocati, medici (dell’associazione Sokos), studenti lavorano coi i migranti, per garantire assistenza legale, sanitaria, sindacale e per seguire le pratiche della contemporanea “regolarizzazione”. Molti degli sgombrati, infatti, lavorano in nero come manovali nei cantieri di Bologna e dintorni, sfruttati dai datori di lavoro, e subiscono, con il miraggio delle regolarizzazioni, una lunga serie di truffe e raggiri. Nel frattempo si avvia una trattativa con il comune per proporre soluzioni abitative. Inizia così un rapporto e una crescita politica importante che porta italiani e rumeni ad occupare e gestire assieme lo spazio di via Casarini. La vita allo scalo è segnata, soprattutto durante i mesi invernali, da una pesante situazione di disagio, a causa della mancanza di luce e riscaldamento, tagliati da Trenitalia dopo l’occupazione, e dell’aumento impressionante degli abitanti. Il ferro-hotel infatti funziona da richiamo per altre decine di rumeni, mettendo in luce come la situazione abitativa drammatica per gli immigrati a Bologna vada ben oltre i casi degli sfollati dal Lungo Reno. Questo non impedisce che dallo Scalo si avviino numerosi bambini alle scuole materne ed elementari, che si metta in piedi una scuola d’italiano per uomini e donne rumene e che si iscrivano alcuni adolescenti a corsi di formazione professionale. 36 ATTIVITÀ SANITARIA È stata curata dai medici volontari dell’associazione Sokos. Fra i primi passaggi c’è stato il rilascio di 93 tesserini STP (straniero temporaneamente presente), strumento previsto dalla legislazione vigente per garantire assistenza sanitaria a persone sprovviste di permesso di soggiorno. L’attività sanitaria è stata strutturata in relazione alle diverse età e problematiche. Gravidanza. Sono state seguite 20 donne in gravidanza, garantendo loro un adeguato monitoraggio attraverso esami ematici ed ecografie. L’intervento di assistenza alla gravidanza è stato effettuato in collaborazione con il Centro per la Salute delle Donne Straniere e i diversi presidi ospedalieri della città. Neonati ed adolescenti. Tutti i neonati (17)sono stati avviati alla pediatria di comunità ed hanno intrapreso un percorso di vaccinazioni(vaccino hexavac esavalente);a 12 di loro è stata effettuata la Mantoux per contatto Tbc. A 20 bambini in età scolare è stato completato il ciclo di vaccino DPT. Adulti. Le patologie più frequentemente riscontrate sono state: dolori addominali riferibili a patologia gastroduodenale che hanno richiesto approfondimenti diagnostici di tipo strumentale, patologie respiratorie, patologie dermatologiche, patologie in ambito ginecologico (infezioni della sfera genitale, menometrorragie in un caso riferibili a fibromatosi uterina), patologie odontostomatologiche, dolori al rachide dorso-lombare di natura posturale (origine lavorativa) e traumatica, infezioni delle vie urinarie. In seguito ad una notifica di sospetta malattia tubercolare è stato intrapreso, in collaborazione con i servizi di Igiene e Sanità Pubblica, un percorso di monitoraggio, prevenzione e cura della TBC in comunità ad alto rischio come quella rumena. La Romania è infatti un paese ad alta endemia per la malattia tubercolare nella quale circa l’80% delle persone risulta aver incontrato il bacillo di Koch. Dopo l’esecuzione delle Mantoux, nei casi positivi è stato effettuato uno screening da parte dell’unità mobile del Presidio Pneumotisiologico mediante l’esecuzione di 80 radiografie del torace, otto delle quali hanno richiesto ulteriore approfondimento mediante TAC del torace. Disagio psichico. Infine ma non per ultimo, per valutare e dare risposta al disagio psichico e alle problematiche sociali inerenti, è stata condotta l’esperienza di un incontro settimanale con le donne. I temi espliciti degli incontri sono stati ad es. la difficoltà di accedere ai servizi socio-sanitari, la precaria situazione abitativa, le necessità legate alla salute (contraccezione, igiene della gravidanza, puericultura).Le assemblee sono state strutturate in modo tale che i problemi fossero analizzati insieme per trovare soluzioni praticabili appoggiandosi a strutture ed enti esistenti(scuola per i bambini, ambulatorio Sokos di medicina generale per Straniere senza assistenza sanitaria, Centro per la salute delle donne straniere) e sperimentando percorsi di solidarietà reciproca fra le donne rumene e l’interazione con altre donne. CONCLUSIONI Attorno allo Scalo si è coagulata un’attenzione importante,sia da parte del movimento locale e nazionale di sostegno ai migranti, sia da parte dei migranti stessi presenti sul territorio bolognese. L’intervento dei medici, educatori, legali, singoli individui e gruppi politici, una volta esaurita l’emergenza,grazie ad un’opera di sollecitazione alle istituzioni e di aiuto alle famiglie straniere, avrebbe voluto dedicarsi pienamente alla costruzione di uno spazio di accoglienza che limitasse il più possibile la condizione di emarginazione e disagio, ma tale progetto privo di appoggio adeguato, sia politico che istituzionale, e privo di risorse finanziarie, ha portato ad accentrare ogni energia al sostegno degli attuali abitanti e degli altri migranti che allo scalo hanno trovato un loro punto di riferimento. Detto ciò non si nega la presenza, oltre che di problemi e di contraddizioni, anche di errori che hanno portato a rivalutare questa esperienza con spirito critico e a prendere coscienza della fragilità di un progetto accerchiato da una parte dalla sordità delle istituzioni e dal disagio estremo contro cui i migranti quotidianamente devono combattere, e dall’altra dall’inesperienza di chi si è esposto in prima persona nella sua realizzazione. Tutto ciò ha determinato la creazione di fenomeni di “degenerazione e disagio” che forse si sarebbero realizzati comunque in altre forme e luoghi, ma che il concentramento di così tante persone, indotto dall’occupazione, ha amplificato. E’ d’obbligo quindi una riflessione autocritica che possa servire da esempio, per imparare dagli errori commessi, e da slancio per programmare iniziative future. Alessandro Filoni, Ardigò Martino, Antonio Curti, Ilaria Tarricone, Tommaso Zambelli Medici associazione Sokos DUE RECENSIONI di Roberto Calisti Anche per i lavoratori del mondo globalizzato, condizioni di lavoro diverse, esposizioni diverse, rischi e danni diversi. Servono anche strumenti di ricerca ad hoc. Che, nelle diverse parti del mondo, i lavoratori non siano uguali (nel senso non di identici, ma di garantiti per pari condizioni di lavoro e pari tutele) appare cosa scontata. Altro è però avere un’immagine documentata e una quantificazione (misura o stima) di cosa ciò significhi realmente: non ce lo insegnano a scuola (nel senso dei corsi di laurea per Medici, Tecnici della Prevenzione e Assistenti Sanitari, del corso di specializzazione in Medicina del Lavoro, di master e corsi vari certificanti le nostre più disparate capacità e conoscenze) e non è del tutto facile sapere dove possiamo cercare e trovare informazioni. Rimedia per l’intanto, su un piano complessivo (globale, per l’appunto), il bellissimo testo curato da Jody HEYMANN e pubblicato da Oxford nel 2003 il cui titolo “Ineguaglianze globali sul lavoro” è ben completato dal sottotitolo “Impatto del lavoro sulla salute degli individui, delle famiglie e delle società”. Il primo risvolto di copertina ci lancia subito all’interno del tema: “Il campo della salute occupazionale ha mappato un continente – quello degli individui nei paesi industrializzati – estremamente bene, ma molti territori sono stati lasciati ancora non cartografati. Una mappa delle relazioni tra lavoro e salute che sia realmente globale – sia in senso geografico sia come copertura dell’impatto del lavoro sulla salute di individui, famiglie, società – non è stata mai tracciata in precedenza.” A pag. 19 apprendiamo ad esempio che, a fronte della riduzione (ma non della scomparsa) della silicosi nei cosiddetti Paesi industrializzati, la situazione nei Paesi cosiddetti in via di industrializzazione è molto diversa. “Sulla base di una survey epidemiologica cinese del 1986 che copriva l’intera nazione, vi erano stati circa 400.000 pazienti con silicosi verificata in tutta la Cina fino al 1949. In seguito, da 10.000 a 15.000 nuovi casi venivano riportati ogni anno. Il numero cumulativo dei casi avrebbe raggiunto i 600.000 per il 2000 (He, 1998) (…) Alla fine degli anni ’80 la prevalenza della pneumoconiosi dei lavoratori del carbone variava, per quanto riportato, dal 5.6 % in Brasile al 20 % in Zimbabwe (Van, 1990). In alcuni paesi, come l’India, i livelli di polveri di quarzo respirabili possono superare i 10 mg/m3, facendo sì che la maggioranza delle maestranze soffra di silicosi (compresa la silicosi acuta) e di silicotubercolosi (Jindal e Whigg, 1998)” Quindi l’articolo di CAVARIANI, BEDINI e LEONORI su questa rivista tocca un problema persistente (per quanto misconosciuto) e niente affatto limitato alla piccola Italia. Capitoli successivi ci parlano di rischi biologici e “rischi sociali”, di rischi specificamente connessi al lavoro infantile, a quello degli anziani, a quello dei disabili, di effetti del lavoro dei genitori sui bambini, di effetti della povertà, di disuguaglianze di genere, di rischi (per la salute) e opportunità (per la salute) determinati dalla globalizzazione. Dal complessivo allo specifico. Lo scorso 2 novembre è stato siglato a Roma un accordo di cooperazione tecnico-scientifica nel settore degli studi su ambiente e salute fra l’Istituto Superiore di Sanità e l’IFA (Corporacion para el Desarollo de la Producciòn y el Medio Ambiente Laboral) di Quito (Ecuador). La firma dell’accordo è giunta a coronamento di un primo biennio di collaborazione scientifica fra le due istituzioni il cui primo prodotto “materiale” è il volume “El ambiente y la salud. Epidemiologia ambiental” curato da Raùl HARARI e Pietro COMBA, presentato nell’occasione. Benedetto TERRACINI ha provveduto all’introduzione di questo manuale non solo editorialmente “nuovo”, chiarendo il contesto culturale e operativo in cui esso si inserisce. L’epidemiologia occupazionale (e ambientale in genere) studia in larga prevalenza situazioni di Paesi da lungo tempo industrializzati e classificabili come “ricchi” (anche quando, studiando ad esempio i lavoratori siderurgici o quelli “chimici”, valuta alcune tra le frazioni meno favorite e più a rischio della popolazione di tali Paesi). Nei Paesi di recente industrializzazione e/o a basso reddito complessivo il panorama istituzionale e sociale è diverso, i rischi sono meno conosciuti, più difficilmente conoscibili e verosimilmente, almeno in parte, anch’essi diversi. Soprattutto, con le risorse a disposizione in Paesi tutt’altro che ricchi, i parametri metodologici normalmente richiesti per l’epidemiologia nei Paesi ad alto reddito complessivo possono risultare troppo severi, tanto da scoraggiare o finanche impedire la ricerca eziologica. Servono, quindi, strumenti di determinazione delle esposizioni e di analisi delle ricadute di Sanità Pubblica specifici (o specificamente ri-pensati e adattati) che a un rigore scientifico adeguato affianchino da un lato rispondenza alle esigenze locali effettive dei Paesi che li devono utilizzare, dall’altro costi organizzativi e finanziari contenuti. Il manuale curato da HARARI e COMBA, pratico e mirato, si muove esattamente in questa direzione; si compone: • di una iniziale sezione metodologica e di “filosofia scientifica”; • di una sezione “Ecuador” che descrive alcune importanti esperienze condotte in tale Paese per la valutazione di esposizioni occupazionali e ambientali (ad esempio, ai metalli emessi da un complesso petrolchimico e ai pesticidi in floricoltura: ma anche alla povertà, quale co-determinante dell’asma infantile) e delle loro conseguenze in termini di Sanità Pubblica; • di una sezione “Italia” ove si dà conto di studi epidemiologici causali assumibili come riferimento (ad esempio, sugli effetti delle esposizioni occupazionali ad amianto e CVM) e si forniscono strumenti per la conduzione di ulteriore ricerca. Volete sapere di più su questo testo affascinante e sui progetti di collaborazione Italia-Ecuador? Scrivete a [email protected]. Un particolare: l’accordo tra Istituto Superiore di Sanità e IFA non prevede copertura finanziaria per le prossime attività di progetto; è quindi essenziale inserire la cooperazione Italia - Ecuador in materia di ambiente, salute e sicurezza nei circuiti dei finanziamenti per la cooperazione allo sviluppo. Riferimenti bibliografici HEYMANN J. Global inequalities at work.Work’s impact on the health of individuals, families and societies. New York, Oxford University Press (2003) HARARI R., COMBA P. El ambiente y la salud. Epidemiologia ambiental. Quito, IFA – Roma, Istituto Superiore di Sanità (ed.) (2004) 37 RISCHIO CHIMICO PARTE SECONDA RISCHI E DANNI DA ESPOSIZIONE A SILICE CRISTALLINA UN VECCHIO PROBLEMA, NUOVE PROSPETTIVE di F. Cavariani, L. Bedini e R. Leonori INTRODUZIONE La silice o biossido di silicio, componente ubiquitario della crosta terrestre, costituisce dal 90 al 30% delle principali rocce (arenaria, granito, ardesia) e può presentarsi in forma amorfa o cristallina. La silice cristallina a sua volta si presenta in quattro forme principali: quarzo alfa e beta, tridimite e cristobalite, di cui l’alfa quarzo costituisce la forma mineralogica più diffusa, tanto che tale termine viene utilizzato come sinonimo per definire la silice cristallina. Si parla in particolare di silice libera cristallina, soprattutto in campo igienistico industriale, per indicare fasi cristalline del biossido di silicio non combinato ad altri elementi, con i quali usualmente dà luogo a silicati più o meno complessi (Figura1). La forma cristallina è responsabile dei noti effetti sclerogeni a livello polmonare che portano al quadro clinico della silicosi. La silicosi era conosciuta sin dai tempi dell’antica Grecia e dell’antica Roma, 38 infatti Ippocrate descriveva lo scavatore di metalli che respirava con difficoltà e Plinio menzionava presidi di protezione respiratoria per evitare l’inalazione di polvere (Plinius, 1929). Nel 1556 Agricola raccontò in “De re metallica” i rischi legati all’attività mineraria e alla necessità di rivolgere maggiore attenzione alla salvaguardia della salute (Agricola, 1912). Nel 1703 Ramazzini descrisse per la prima volta in modo sistematico i caratteri morbosi essenziali della silicosi e le prime rilevazioni scientifiche, che risalgono al XVII secolo, ad opera di un medico olandese, il Diemerbrock (Ramazzini, 1908). Sempre nel XVIII secolo, la malattia venne studiata dal punto di vista descrittivo in Francia dove veniva chiamata “cailloute” o “malattia di S. Rocco” o “tisi dei tagliatori di pietra” e vennero effettuate le prime autopsie che permisero di differenziare la silicosi dalla tubercolosi. Nel XIX secolo le ricerche si estesero ad altri paesi quali l’Inghilterra e il Sud Africa, ma fu solo nel 1915 che Collis avanzò Tabella 1 Principali industrie e attività con esposizione lavorativa a silice libera cristallina per la prima volta l’ipotesi del quarzo come causa della malattia (Collis, 1915). L’enorme diffusione in natura della silice cristallina fa sì che si possa avere esposizione a tali polveri in moltissime attività lavorative: l’industria mineraria e i lavori di perforazione rocce, l’industria siderurgica, l’industria ceramica, l’industria del vetro e del cristallo, l’edilizia e i lavori di movimento terra, la carpenteria meccanica, i cantieri navali, l’industria della gomma, della plastica e delle vernici (silice presente nelle cariche inerti), la produzione di gioielli (Tabella 1). Fino ad attività in cui l’esposizione è meno nota e quindi meno indagata, o nota, ma sottovalutata rispetto ad altri rischi come nel caso dell’edilizia (Figura 2). Come altri esempi, si possono citare i lavori di sabbiatura dei jeans per ottenere l’effetto delavé e la produzione delle suole in plastica per scarpe dove la silice è utilizzata come carica inerte; ma anche l’agricoltura nelle attività di aratura, mietitura, nell’utilizzo di macchinari o nel bruciare i residui agricoli o gli scarti dei cereali, in particolare la pula del riso. Rispetto ai tempi di Agricola sono stati fatti grandi passi in avanti relativamente alle conoscenze sui meccanismi patogenetici della silice cristallina, ma la silicosi rimane comunque un problema rilevanFig. 1 Silice cristallina (SiO2)n Fig. 2 Movimentazione terra in edilizia Industria o attività Fase lavorativa o mansione Origine del materiale Agricoltura Aratura, semina, mietitura, uso di macchine agricole, incenerimento rifiuti agricoli Suolo Mineraria e attività connesse Tutte le attività di scavo (superficie, sottoterra, macinazioni e raffinazione materiale) e minerarie (metalli e non metalli, carbone, perforazioni, dragaggio) Minerali, rocce Cave ed attività connesse Processi di frantumazione di rocce, ghiaie e sabbie, taglio dei blocchi lapidei, abrasione. Lavorazione di ardesie e lavagne (manifattura delle matite), calcinazione delle diatomiti Arenarie, graniti, selci, sabbie, ghiaie, ardesie e lavagne, farina fossile Edilizia Distruzione e abrasione di strutture ed edifici, costruzione di strade, gallerie, scavi, movimentazione ed escavazione delle terre, lavori di muratura, lavori in calcestruzzo e/o cemento armato, demolizioni, spazzare e spennellare a secco, uso dell’aria compressa, uso del martello pneumatico, posa in opera del tracciato stradale, rimozione di ruggini o vernici, disincrostazioni e smerigliature; asfalto: rideposizione della pavimentazione stradale, trasporto, colate, miscelazione o accumulazione di materiali contenenti silice Sabbie, calcestruzzo, rocce, suolo, ghiaie e ciottoli, intonaci, malte Vetri e fibre di vetro Lavorazione del materiale grezzo, rimozione e riparazione di refrattari Sabbie, quarzo frantumato, materiali refrattari Cementi Lavorazione del materiale grezzo Argille, sabbia, calce, farina fossile Abrasivi Produzione del carburo di silicio, fabbricazione dei prodotti abrasivi Sabbie, tripoli, arenarie Ceramiche compresi i mattoni, piastrelle, articoli sanitari, porcellane, stoviglie, materiali refrattari, smalto vetroso Miscelazione, modellatura, vetrificazione o smaltatura a spruzzo, rifinitura, scultura, cottura Argille, argilliti, selci, sabbie, quarzite, farina fossile Acciaierie e lavorazione del ferro Preparazione dei refrattari e riparazione delle fornaci Materiali refrattari Fonderie del silicio e del ferro-silicio (ferroso e non ferroso) Trattamento dei materiali grezzi, colatura, modellatura e rimozione abrasione, installazione e riparazione delle fornaci Sabbie, materiali refrattari Produzione di metalli inclusi metalli strutturali, macchinario, attrezzatura da trasporto Abrasione Sabbie Cantieri navali Abrasione Sabbie Rivestimenti e plastiche Trattamento dei materiali grezzi Stucchi (tripoli, diatomiti) Vernici Trattamento dei materiali grezzi, preparazione del sito Fondi e stucchi (tripoli, diatomiti), polveri silicee Saponi e cosmetici Manifattura o utilizzo di saponi abrasivi e polveri abrasive Polveri silicee Asfaltatura Applicazione di riempitivi e granellato Sabbie e derivati Chimica agricola Frantumazione, trattamento e stoccaggio dei materiali grezzi; o accumulazione di prodotto o materie prime Minerali e rocce fosfatici Gioielleria Taglio, molatura, levigatura, lucidatura, incisione, cesellatura, colatura, scriccatura, affilatura, scultura Pietre e gemme semipreziose, abrasivi, vetri Arti, artigianato e scultura Cottura di stoviglie, ceramiche, miscelazione di argilla, riparazione dei forni, abrasioni (con sabbia e non), molatura, levigatura, lucidatura, incisione, cesellatura, colatura, scriccatura, affilatura, scultura Argille, smalti, mattoni, pietre, rocce, minerali, sabbie, polveri silicee Materiali odontoiatrici Smerigliatura a sabbia, lucidatura Sabbie, abrasivi Disincrostazione caldaie Caldaie a carbone Cenere e concrezioni Abbigliamento Jeans delavè Sabbie Calzaturiera Suole in plastica Polveri silicee Termoidraulica Vasche in resina Polveri silicee Componenti elettriche Interruttori Polveri silicee 39 te a livello mondiale tanto da indurre l’ILO e il WHO a indire una campagna per l’eliminazione di questa grave pneumoconiosi entro il 2015 e per il raggiungimento di una significativa riduzione della sua incidenza entro l’anno 2005 (WHO, 1990). Il Comitato ha invitato ogni paese a predisporre un programma nazionale per l’eliminazione della silicosi che dovrebbe contenere: • l’identificazione dei gruppi di lavoratori a rischio; • la definizione delle strategie di prevenzione; • il coinvolgimento delle parti sociali; • i provvedimenti legislativi e le scelte istituzionali per lanciare il programma; • i criteri di rilevamento dei dati e di valutazione del programma per l’eliminazione della silicosi; • la correlazione con i programmi di protezione ambientale. La necessità ed importanza di tale intervento sono rafforzate dal riconoscimento della cancerogenicità della silice cristallina operata, dopo numerosi studi, dalla Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC, 1997). Questa ha affermato che “la silice cristallina inalata sotto forma di quarzo o di cristobalite da sorgenti occupazionali è cancerogena per gli umani” (gruppo I). Inoltre studi epidemiologici relativi all’esposizione occupazionale a silice cristallina hanno confermato una aumentata incidenza di patologie extrapolmonari quali sclerodermia, artrite reumatoide, altre patologie autoimmuni e patologie renali (ATS, 1997). LE PATOLOGIE DA SILICE EFFETTI POLMONARI Silicosi È noto che il termine di silicosi definisce una fibrosi polmonare evolutiva causata dall’inalazione di particelle di silice cristallina aventi un diametro compreso tra 5 e 0,5 micron che raggiungono gli alveoli polmonari e qui si depositano. La silicosi può manifestarsi in tre forme a seconda della concentrazione di silice cristallina respirabile presente nell’ambiente di lavoro: • La forma a decorso cronico che si manifesta di solito dopo almeno 10 anni di esposizione a concentrazioni relativamente basse. La lesione caratteristica è il nodulo silicotico costituito da un’area centrale acellulare ricca di fibre collagene jalinizzate e una esterna costituita da fibre collagene e da macrofagi, granulociti, linfociti e cellule giganti; • La silicosi accelerata che si manifesta con un quadro sintomatologico simile a quello della silicosi cronica, ma con 40 un’evoluzione clinica e radiografica molto più rapida e anche con un tempo di latenza delle manifestazioni cliniche rispetto alla prima esposizione molto più ridotto. Inoltre spesso la fibrosi può essere irregolare e presentarsi in forma più diffusa o non apparente all’esame radiografico. • La silicosi acuta (proteinosi alveolare silicotica) che insorge dopo un’esposizione ad elevate concentrazioni in mansioni lavorative che implicano la produzione di piccole particelle di polvere aerodispersa ad elevato contenuto di SiO2. La patologia diventa clinicamente manifesta dopo poche settimane fino a cinque anni dalla prima esposizione e si presenta con il quadro clinico di una proteinosi alveolare. A conferma dell’attualità di tale patologia un recente studio (Mannetje, 2002), effettuato dalla IARC su sei coorti di soggetti con esposizione professionale a silice cristallina, ha evidenziato un rischio stimato di morte per silicosi pari a 6 per 1000, ad un’età superiore a 65, dopo 45 anni di esposizione a 0,05 mg/m3. Tale rischio è al di sopra del rischio considerato “socialmente accettabile” secondo l’OSHA. Silicotubercolosi e altre infezioni Più di 25000 persone si ammalano ogni anno di TBC negli USA, ma il problema è di dimensioni mondiali: si calcolano oltre 2 miliardi di persone con infezione tubercolare, otto milioni di nuovi casi all'anno, con circa 3 milioni di morti (WHO, 1996). In Italia la TBC è diffusa a macchia di leopardo, il tasso di malattia è stimato, nonostante la sottonotifica, attorno ai 1015 casi per 100.000 abitanti, e la malattia, come in tutti i paesi a bassa endemia, si concentra nei gruppi a rischio. Le cause dell’inversione epidemiologica del calo avvenuto negli anni ottanta, sono state l’immigrazione, la diffusione della infezione da Hiv e lo smantellamento della rete di controllo. La prevalenza nella popolazione autoctona è invece stabile o in lieve discesa (Zorzut, 2003). I soggetti affetti da silicosi polmonare fanno parte del gruppo a rischio in quanto possono con più facilità e frequenza contrarre severe infezioni da micobatteri o, meno frequentemente, infezioni fungine (Parker, 1998). Circa il 50% delle infezioni che si manifestano nei lavoratori esposti a SiO2 sono dovute al Mycobatterium tuberculosis e la restante metà ad altri micobatteri. In alcuni casi l’infezione può essere sostenuta anche da Nocardia Asteroides e da Cryptococcus (Ziskind, 1976). Nel nostro paese non sono disponibili dati sulla relazione tra esposizione a silice e tubercolosi polmonare, mentre negli Stati Uniti sono stati effettuati diversi studi su popolazioni di esposti a silice cristallina: uno dei più recenti (Chen, 1997) ha evidenziato una mortalità per tubercolosi polmonare superiore del 30 % nei soggetti con una potenziale esposizione a silice rispetto ai non esposti (NIOSH, 2002). Tale maggiore suscettibilità ha spinto l’American Thoracic Society a raccomandare che i soggetti affetti da silicosi e i soggetti non silicotici, ma con una storia occupazionale di almeno 25 anni di esposizione a silice, venissero sottoposti al test tubercolinico. Vista la maggiore diffusione dei casi di tubercolosi nella popolazione immigrata e il notevole impiego che i lavoratori appartenenti a tale gruppo hanno nelle nostre realtà industriali, andrebbe quindi considerato, in linea con quanto suggerito dall’ATS, l’inserimento nei protocolli di sorveglianza sanitaria degli esposti a SiO2 del test tubercolinico. Altri effetti polmonari La COPD (chronic obscructive pulmonary disease) è una sindrome clinica eterogenea in cui possono coesistere bronchite cronica, enfisema e asma. Il fumo è sicuramente il principale agente etiologico, ma l’inquinamento atmosferico e l’esposizione professionale a polveri (in particolare tra i fumatori) può contribuire alla sua insorgenza (Becklake, 1992; Hnizdo, 2002). EFFETTI EXTRAPOLMONARI Malattie renali ed autoimmuni La comparsa di varie patologie su base autoimmune in soggetti professionalmente esposti a silice cristallina è stata da tempo descritta in numerosi case-reports in cui veniva riportata la comparsa di sclerodermia, LES, artrite reumatoide, anemia emolitica autoimmune, dermatomiosite, dermatopolimiosite e patologie renali croniche. Sono invece più recenti le evidenze scientifiche relative al possibile effetto dell’esposizione a silice nel favorire malattie autoimmuni comprese le malattie renali (Forestiere, 2001). Il meccanismo cellulare che porta dall’esposizione a silice cristallina all’insorgenza di patologie autoimmuni non è ben chiaro: un’ipotesi è che quando le particelle di silice vengono inglobate dai macrofagi si abbia la produzione di proteine fibrogeniche e di fattori della crescita ed infine attivazione del sistema immunitario. Sicuramente sono necessari ulteriori studi clinici ed immunologici per ben definire la relazione tra l’esposizione a silice cristallina e patologie autoimmuni. CANCEROGENESI Tumore polmonare Già nel 1987 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione (IARC, 1987) si era espressa, dopo aver effettuato una revisione sistematica della letteratura scientifica, a favore di una “sufficiente” evidenza della cancerogenicità della silice cristallina negli animali e di una “limitata” evidenza di cancerogenicità nell’uomo. Nell’ottobre 1996 un gruppo di lavoro della IARC composto da 19 esperti di 11 paesi ed 8 osservatori, hanno nuovamente valutato gli effetti cancerogeni della silice libera cristallina. Sulla base della evidenza scientifica, nella monografia pubblicata nel 1997, la IARC ha classificato la silice cristallina come cancerogeno occupazionale, inserendola nel gruppo 1. L’ affermazione era però preceduta, per la prima volta, da un commento nel quale si affermava che la silice non è cancerogena in tutte le circostanze. Infatti caratteristiche intrinseche delle polveri che la contengono, come origine e stato della superficie (margini, imperfezioni, radicali liberi superficiali) e fattori esterni, come contatto, contaminazione da altre sostanze, possono attivarne/potenziarne la cancerogenicità. Molto controversi sono i pareri sui possibili meccanismi biologici attraverso i quali la silice può contribuire al processo di cancerogenesi. Il suo meccanismo di azione non è ancora ben conosciuto anche se è nota la sua azione sui meccanismi del sistema immunitario; si ipotizza che il processo infiammatorio cronico giochi un ruolo chiave sia nello sviluppo della fibrosi che del tumore polmonare. Un ipotetico meccanismo per lo sviluppo di tumore polmonare nei ratti esposti a silice cristallina considera infatti proprio l’innesco del processo infiammatorio con produzione di ossidanti e successive alterazioni genetiche, questo spiegherebbe anche la diversa tossicità a seconda delle caratteristiche fisico-chimiche (IARC, 1997; Finkelstein, 2000). Infatti la silice risulta più tossica quanto maggiore è la sua reattività di superficie, cioè la sua capacità di produrre radicali liberi, e quindi è: • meno reattiva, se riscaldata in quanto il riscaldamento aumenta le sue caratteristiche idrofobe e riduce la capacità di produrre radicali liberi; • più reattiva, se presenta superfici ”fresche” in confronto a polveri vecchie, in quanto nelle fasi di macinazione si ha generazione di radicali di superficie per rottura dei legami covalenti Si-O (Fubini, 2001). Al di là dell’incertezza sui meccanismi patogenetici, numerosi studi di coorte effettuati a partire dagli anni ’80 hanno evidenziato in diversi casi un maggior rischio di sviluppare un tumore polmonare tra i silicotici rispetto ai non silicotici: • nel 1997 una meta-analisi di 16 studi aveva evidenziato una correlazione positiva tra esposizione a silice e tumore polmonare, con un Rischio Relativo (RR, esposti vs. non esposti) pari a 1.3 (Steenland, 1997); • in 19 studi su silicotici si aveva invece un RR pari a 2.3 (Steenland, 1997). gare gli effetti dell’esposizione a basse dosi, in quanto le popolazioni studiate erano esposte, nella maggior parte dei casi, a valori ben più elevati dell’attuale TLV-TWA dell’ACGIH (Acgih, 2004). Tali dati avevano portato ad ipotizzare che l’aumentato rischio di insorgenza di neoplasia polmonare fosse limitato ai soggetti affetti da silicosi, essendo però la silicosi un marker di alta esposizione è logico rilevare che i silicotici mostrino un maggior rischio rispetto ai non silicotici. NIS NETWORK ITALIANO SILICE PROBLEMI DA AFFRONTARE Sostanzialmente si può affermare che diversi studi hanno evidenziato che il rischio di insorgenza di tumore polmonare aumenta con: • l’esposizione cumulativa a silice cristallina (Checkoway, 1993, 1996); o la durata dell’esposizione (Merlo, 1991; Partenen, 1994; Costello, 1995; Dong, 1995); • i picchi di intensità di esposizione (Burgess., 1997; Cherry, 1997; McDonald, 1997); • la presenza di un quadro di silicosi definito radiograficamente (Amandus, 1992; Dong, 1995); • la distanza del follow-up dalla diagnosi di silicosi (Partenen, 1994). D’altra parte, ad ulteriore conferma, uno studio più recente (Steenland, 2001), che aveva rianalizzato con una analisi “pooled”, (che ha il vantaggio di permettere la costruzione di misure comuni di esposizione e un uniforme approccio ai dati, riducendo le differenze interpretative degli studi dovute alle differenze nei metodi analitici) dieci coorti per un totale di 65.980 esposti, evidenziava un rischio relativo di eccesso di insorgenza di tumore polmonare, per lavoratori esposti per oltre 40 anni ad una concentrazione di SiO2 di 0,1 mg/m3, pari a 1.1 - 1.7. Nello studio non vengono forniti dati sulla diversa prevalenza di tumori polmonari tra silicotici e non silicotici, né sul diverso potere cancerogeno tra le due forme di silice cristallina (cristobalite e quarzo) sottolineato in altre ricerche. Non si ha conferma anche all’aumentata comparsa di tumori polmonari all’aumentare dell’esposizione cumulativa e alla durata di esposizione, mentre si evidenzia il diverso potere patogeno della silice a seconda che questa si presenti con superfici “fresche” o meno. Da quanto emerso si può ragionevolmente affermare che la silice cristallina è un cancerogeno per il polmone, anche se il suo effetto non è così forte come quello di altri agenti conosciuti. Ulteriori studi sono necessari per indagare se l’aumentata insorgenza riscontrata nei silicotici si riscontra con certezza anche nei non silicotici; inoltre restano da inda- La diffusione dell’esposizione a SiO2 e la rilevanza dei danni da questa causata, in particolare l’evidenza della sua cancerogenicità, si scontrano con l’inadeguatezza degli strumenti finora messi in atto per contenere e limitare l’esposizione. Permangono notevoli carenze nella identificazione e nella definizione del rischio nei settori e nelle attività lavorative che impiegano materiali contenenti silice cristallina; mancano inoltre riferimenti consolidati per una definizione di matrici di esposizione specifiche delle mansioni a rischio. Non esistono banche dati fruibili per la gestione del rischio e per le bonifiche, né sono state emanati dagli enti competenti valori limite di riferimento o linee guida per una corretta etichettatura dei prodotti e per apporre una segnaletica di pericolo in presenza di dispersione di tali polveri. Tutto ciò è reso ancora più difficoltoso dal fatto che, pur essendo stata riconosciuta come sostanza cancerogena da parte di enti accreditati a livello internazionale, la silice non rientra tra le sostanze classificate ufficialmente dalle UE e ricade nel regime della classificazione provvisoria che deve essere effettuata a cura del responsabile dell’immissione sul mercato. Questi nell’effettuare l’autoclassificazione e nella compilazione della scheda di sicurezza dovrebbe tener conto di tutte le conoscenze scientifiche disponibili sulla sostanza in questione. In realtà nelle schede di sicurezza che accompagnano i preparati contenenti SiO2 (la cui presenza andrebbe segnalata se superiore allo 0,1 %, come è prescritto per tutti i cancerogeni) vengono classificati in modo molto diverso tra di loro e ciò continua ad ingenerare una ben differente applicazione della normativa di tutela dei lavoratori esposti. A tutt’oggi, inoltre, viene ignorato il problema della sorveglianza sanitaria dei lavoratori ex-esposti. Tale questione di nodale importanza trova i suoi punti critici nella definizione del campo di applicazione normativo che giustificherebbe la sorveglianza sanitaria (campo di applicazione titolo VII e/o VII Bis), nella mancanza di chiarezza su chi si dovrebbe far carico dei costi degli accertamenti e anche nella incompletezza dei dati sulle esposizioni lavorative che non permetterebbero di reclutare tutti i lavoratori con pregresse esposizioni. Negli ultimi anni in 41 Italia tali problematiche hanno sollecitato diversi operatori della prevenzione a promuovere un’azione proattiva degli istituti nazionali (Istituto superiore di sanità, Istituto per la sicurezza e la prevenzione nei luoghi di lavoro, Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) per istituire un gruppo di lavoro di esperti, finalizzato alla definizione di linee guida, disciplinari tecnici e normative di riferimento per la prevenzione dei rischi legati alla esposizione, professionale e non, a silice cristallina, partendo dalla definizione dei settori produttivi attualmente a rischio, nonché dalla descrizione del quadro italiano dei danni ai lavoratori dovuti ad esposizioni pregresse. Su questi temi è stato avviato un progetto nazionale, denominato “Network Italiano Silice”, che vede il coinvolgimento di soggetti istituzionali (Ispesl, ISS, Inail) ed il Coordinamento Tecnico delle Regioni, organizzato in 5 gruppi di lavoro: 1. Epidemiologia. Il gruppo ha lavorato con l’obiettivo di dare una definizione univoca dei rischi per la salute associati a specifiche esposizioni alla luce dei dati di letteratura più recenti e una definizione di standard di esposizione che garantiscano la salute dei lavoratori; allo stesso tempo il gruppo ha inteso delineare le priorità di studi specifici per l’avvio di iniziative su gruppi di popolazione esposta. 2. Igiene Industriale. Il lavoro ha avuto lo scopo formulare delle linee guida condivise sulle metodiche di campionamento ed analisi e sulle misure di prevenzione e protezione: è stato prodotto un documento contenente quelli che possono essere considerati i requisiti minimi di qualità di campionamento e analisi, assieme ad una serie di allegati di approfondimento sulle criticità della misurazione dell’esposizione a silice cristallina alla luce delle norme UNI EN 481/1994 e 689/1997. 3. Normativa. Il gruppo ha il compito di definire nell’insieme le norme e quali sono gli obblighi di legge da rispettare per chi commercializza e utilizza materiali che contengano silice libera cristallina: le criticità sono ovviamente nella definizione di cancerogenicità dei materiali e dei prodotti che la contengono (e per quali utilizzi) e la loro applicabilità negli ambienti di lavoro. 4. Repertorio rischio silice nei comparti. Il primo obiettivo che il gruppo si è posto è stato quello di mettere a disposizione dei soggetti interessati un repertorio di livelli espositivi misurati, a partire dalla banca dati della Contarp-Inail, ed avviare una raccolta tra i Servizi di Prevenzione dei dati registrati nel tempo. Èstata predisposta una stringa di informazioni che sarà diffusa per permettere l’implementazione di una banca dati nazionale al fine di stimare l’esposizione 42 delle attività lavorative con una solida definizione e i gruppi di lavoratori a rischio, attuali e pregressi. Gli altri obiettivi riguardano l’avvio di una sorta di sistema di allarme per attività a rischio poco note ed, infine, la raccolta di soluzioni e possibili alternative all’uso di materiali contenenti silice, ad iniziare dai trattamenti di sabbiatura. 5. Sorveglianza sanitaria. Lo scopo è stato quello di proporre dei criteri di buona pratica per la sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti ed ex-esposti, alla luce di criteri di omogeneità metodologica e qualitativa degli accertamenti, anche in funzione dei livelli di esposizione attuali. Sono attualmente in definizione linee guida per la diagnosi (PFR, RX torace, TAC polmonare) e per le visite periodiche, che tengano conto di criteri di qualità nell’effettuazione e nella refertazione degli accertamenti (con particolare attenzione alla formazione di “B-Reader”, secondo le indicazioni dell’ILO, per la lettura di radiogrammi del torace) (ILO, 2000). Questo lavoro, che ha visto, forse per la prima volta, interagire gli Operatori dei Servizi Territoriali delle ASL e i Tecnici degli Enti nazionali, permetterà di definire le linee guida necessarie per affrontare i problemi legati a un rischio ancora diffuso in molti settori lavorativi e in parte sottovalutato, ma ha anche aperto la strada a forme di sinergia, da sempre invocate e mai pienamente realizzate, tra i soggetti interessati. Gli obiettivi del NIS non solo coincidono quindi con quelli posti dall’OMS, che ha come scopo finale l’eradicazione della silicosi, ma possono prefigurare una più attuale metodologia di intervento, condiviso e concordato, per giungere a chiare e praticabili strategie di prevenzione ai vari livelli. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE La silicosi negli unici dati ancor oggi disponibili in Italia, provenienti soprattutto dall’Istituto assicuratore, sembra rappresentare ancora drammaticamente più del 5% di tutte le patologie professionali (Tabella II; Inail, 2001). La gra- Tabella 1 Serie storica italiana dei casi di silicosi e di morti per silicosi denunciati ed indennizzati dall’Inail (1974–2000) CASI DI SILICOSI DENUNCIATI IN CIASCUN ANNO CASI DI SILICOSI INDENNIZZATI IN CIASCUN ANNO Anno denuncia Anno indennizzo 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Numero casi 24.640 28.970 25.316 21.021 17.531 14.833 14.462 14.076 10.472 8.398 8.062 8.506 7.547 9.339 8.729 6.782 5.900 5.880 6.430 4.235 4.508 3.030 1.991 1.423 1.232 1.194 1.036 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Casi indennizzati Permanente Morte 5.899 5.653 7.163 6.462 5.008 3.966 3.491 3.264 2.938 2.035 2.287 1.656 1.091 1.381 1.719 1.479 933 1.063 1.149 696 497 304 212 230 183 155 164 (Fonte: Consulenza Statistica Attuariale Inail, da archivi informatizzati) 524 502 542 574 488 556 535 506 543 468 432 480 532 539 395 412 256 183 92 70 51 42 28 35 34 33 33 Totale 6.423 6.155 7.705 7.036 5.496 4.522 4.026 3.770 3.481 2.503 2.719 2.136 1.623 1.920 2.114 1.891 1.189 1.246 1.241 766 548 346 240 265 217 188 197 vità anche dal punto di vista economicosociale del fenomeno, che potrebbe essere sottostimata per i limiti impliciti in tali dati, si ritrova sintetizzata in una pubblicazione dello stesso Istituto, in cui si afferma (Verdel, 1998) che: “…La questione della silicosi, tra tutte quelle suscitate dalle malattie professionali, è certamente la più pesante quanto a gravità ed estensione delle conseguenze invalidanti. L’Inail ha attualmente in gestione 80.000 rendite dirette o versate a superstiti ed i costi assicurativi che ne conseguono sono dell’ordine di 1000 miliardi l’anno, sfiorando il 10% dell’intero costo degli infortuni e delle malattie professionali.” Emerge inoltre, analizzando i dati ISTAT della mortalità per causa (codici 500 – 502 della IX ICD: 7027 decessi tra i maschi italiani nel periodo 1990-1999) che la silicosi causa in Italia oltre 700 decessi ogni anno (Mastrantonio, 2003). Senza tenere conto degli ormai riconosciuti effetti cancerogenici della silice (su cui non sono disponibili dati), queste ultime ed altre considerazioni sarebbero oltremodo sufficienti a rendere ineludibile l’avvio di programmi e piani di prevenzione mirata: in tal senso il lavoro del NIS va seguito, supportato e i suoi risultati diffusi quanto possibile. F. Cavariani, L. Bedini, R. Leonori Laboratorio di Igiene Industriale, Dipartimento di Prevenzione ASL Viterbo BIBLIOGRAFIA • ACGIH: 2004 TLVs and BEIs based on documentation of the threshold limit values for chemicals substances and physical agents & biological exposure indices. Cincinnati, Ohio, 2004 • Agricola G., De Re Metallica I, Trans. From 1st Latin ed. 1556, by Herbert Clark Hoover and Lou Henry Hoover, 1.6. 1912 • Amandus H.E.., Castellan R.M., Shy C., Heineman E.F., Blair A. Reevaluation of silicosis and lung cancer in North Carolina dusty trades workers. American journal of industrial medicine, 22, 147-153. 1992 • ATS, American Thoracic Society. Adverse Effects of Crystalline Silica Exposure Am. J. Respir. Crit. Care Med., Vol. 155., pp 761-765. 1997 • Becklake M.R., The mineral dust diseases, Tuber. Lung Dis., Feb.; 73 (1), 13-20. 1992 • Burgess G.L., Turner S., McDonald J.C., Cherry N.M. 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Lambiase INTRODUZIONE La produzione complessiva di sostanze chimiche è passata da 1 milione di tonnellate del 1930, a 400 milioni di tonnellate del 2001, e il numero di sostanze nuove immesse sul mercato ogni anno è dell’ordine di alcune migliaia. In quest’ambito è necessario avere la possibilità di accedere velocemente a informazioni complete e affidabili sulle differenti sostanze chimiche. Negli ultimi 30 anni siamo passati da una gestione esclusivamente cartacea a una gestione informatica e lo sviluppo di Internet ha reso più facile l’accesso a database specifici. Non sempre la molteplicità delle fonti a disposizione facilita il compito di coloro che devono trovare informazioni. Scopo di questa comunicazione è quello di illustrare un database che può velocizzare i tempi di ricerca di queste informazioni, sia in campo sanitario che ambientale, con un uso facile del programma di interrogazione/ricerca, e può costituire inoltre un primo screening di notizie basilari da utilizzare in prima battuta in attesa di successivi approfondimenti. La diffusione su vasta scala di conoscenze sulle precauzioni da adottare nell’uso delle sostanze chimiche e sui possibili residui rischi per l’uomo e l’ambiente, mediante strumenti informativi semplici, può inoltre favorire un ciclo virtuoso di competitività e di capacità di innovazione nell’industria chimica verso tipi di prodotti in linea con uno sviluppo più sostenibile. DESCRIZIONE DELL’ICSC Nel 1980 tra WHO (World Healtl Organization), ILO (International Labour Office) e UNEP (United Nation Environment Programme) venne siglato un 44 accordo per la gestione degli effetti sanitari ed ambientali, acuti e cronici, dovuti alla pericolosità delle sostanze chimiche denominato IPCS (International Programme on Chemical Safety). In collaborazione con l’EU e con gli obbiettivi specifici dell’IPCS (effettuare valutazioni, divulgare informazioni sul rischio da sostanze chimiche, promuovere una cooperazione internazionale per le emergenze e gli incidenti causati dalle sostanze chimiche), è stata costituita una banca dati denominata ICSC (International Safety Chemical Cards). A questo progetto aderiscono varie istituzioni europee e americane che si occupano di problemi emergenti dalla pratica della medicina del lavoro, della tossicologia e della prevenzione in generale. Questo database è formato da schede informative, che, per ogni sostanza, comprendono informazioni: • sulle caratteristiche chimico-fisiche; • sulle vie di esposizione ( inalatoria, cutanea, oculare, investiva); • sugli effetti sanitari a breve e lungo termine, sulla pericolosità ambientale; • sui rischi e sulle relative misure di prevenzione per: incendio e esplosione; • sull’imballaggio, immagazzinamento, etichettatura e trasporto. Come per la maggior parte dei database non specifici, le schede non sono esaustive di tutti i problemi che possono verificarsi nelle diverse situazioni, ma possono dare una conoscenza di base per gestire in maniera transitoria l’emergenza di quel momento specifico, oppure per un approfondimento sui pericoli connessi all’uso di una particolare sostanza. D’altronde le schede sono il risultato di un processo valutativo sulle informazioni e sui dati scientifici disponibili che prevede diversi confronti e step di valutazione che coinvolgono diversi Enti/Organizzazioni, comprese quelle degli industriali e quelle sindacali. Le schede sono suddivise in undici sezioni e le sostanze vengono scelte da una lista predefinita, fornita da IPCS, privilegiando quelle che hanno maggiori volumi di produzione oppure quelle sostanze che coinvolgono popolazioni, lavorative o non, potenzialmente esposte. Altro fattore determinante la scelta è il grado di pericolosità della sostanza. Per poter essere il più possibile semplici e comprensibili, le schede vengono redatte utilizzando una serie di frasi (frasi standard in Inglese), già codificate e specifiche per ogni sezione in cui la scheda si divide. Ogni Istituto/Ente estensore utilizza solo queste frasi per redigere la scheda selezionando quelle corrispondenti alle caratteristiche e proprietà della sostanza in esame e, a cadenza semestrale, sottopone il suo lavoro alla discussione degli altri Istituti/Enti che partecipano al progetto. È fattore qualificante il fatto che la emissione di una scheda non è il frutto di un singolo, ma è condiviso da altri (PeerReview). L’uso di frasi standard facilita anche la divulgazione delle informazioni, rendendo le schede omogenee fra di loro. Inoltre l’adozione di frasi semplici e dirette, favorisce la possibilità di realizzare versioni in più lingue, facilmente confrontabili fra di loro. La possibilità di esprimere questi concetti in maniera chiara e nella lingua nazionale, facilita infine l’adozione delle azioni di prevenzione/istruzione soprattutto nei paesi meno sviluppati, mentre nei paesi più industrializzati aiuta la diffusione delle informazioni, migliorando la percezione e la gestione del rischio. Un appunto che viene fatto alle ICSC è che, a differenza delle schede di sicurezza, esse non hanno valore legale. Questo è vero, ma per un Servizio avere a disposizione un archivio autorevole con 1364 sostanze chimiche e non innumerevoli repertori di diverse Ditte produttrici, può tradursi in un vantaggio. Bisogna infatti ricordare che l’estensione della scheda di sicurezza è a carico del produttore/importatore, mentre le ICSC sono il frutto di un processo valutativo sulla qualità e scientificità dei dati inseriti, con uniformità di linguaggio. Nelle schede ICSC, vengono fornite informazioni più dettagliate sui mezzi di contenimento in caso di sversamento, di corretto stoccaggio delle sostanze, riportando, infine, indicazioni relative alla etichettatura e al trasporto internazionale (classi di rischio, Transport Emergency cards, codice NFPA), che possono rendere più facile la ricerca di ulteriori informazioni o permettere un controllo più accurato della documentazione. La completezza e la validità delle schede ICSC è suffragata anche da un recente lavoro di analisi di database sulle sostanze chimiche, che colloca ICSC al quarto posto, su 22 database analizzati, per potenza informativa dopo HSDB, IPCSINCHEM e NTP. Per favorire la diffusione di questo strumento informativo, l’Area di Epidemiologia Ambientale, partecipando a pieno titolo alla redazione di schede, ha coordinato un Gruppo di lavoro composto da operatori dalle ARPA delle regioni Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Veneto. Il gruppo ha tradotto e reso disponibile, la versione italiana delle schede ICSC, sul sito internet del NIOSH (www.cdc.gov/niosh/ipcs/icstart.html) che rende disponibile, per conto dell’IPCS, le versioni nelle diverse lingue nazionali delle schede. È, inoltre, previsto un aggiornamento annuale del la traduzione in Cd-Rom CONCLUSIONI Riteniamo con questa traduzione di aver predisposto uno strumento nuovo, di facile lettura e consultazione per tutti gli operatori che possono essere chiamati a rispondere in caso di “emergenze” , sia della Sanità che dell’Ambiente, compresi anche i Vigili del Fuoco e la Protezione Civile. Nel campo specifico della Medicina del Lavoro, le schede forniscono informazioni su una serie di effetti sanitari a breve e a lungo termine, sui pericoli chimici, sui metodi di prevenzione/pronto soccorso che possono aiutare l’operatore a prendere decisioni in tempi molto brevi. Non va, inoltre, dimenticato che oltre all’etichettatura europea, vengono riportate anche codici di classificazione USA (NFPA), UN e da ultimo il riferimento corretto alle TEC (Transport Emergency Card). Infine, per rispondere al quesito: “Cosa me ne faccio di uno strumento che contiene informazioni presenti nella scheda di sicurezza? che è obbligatoria per legge?”, riteniamo che l’organizzazione dei dati, l’uso di frasi semplici e comprensibili da chiunque e comunque il processo valutativo delle informazioni inserite, rendono molto più agevole l’uso e l’utilizzo di queste schede, senza togliere nulla a strumenti informativi e legislativi già in possesso dei vari enti(?). G. Cotti(1), A. Armitano(2), D. Scala(3), C. Visentin(4), F. Daris(5), P. Lauriola(1), M. Mariottini(6), C. Sala(7), A. Andriuolo(8) e P. Lambiase(8) Arpa (1)Emilia-Romagna (2)Piemonte (3)Toscana (4)Veneto (5)Friuli-Venezia Giulia (6)Marche (7)Lombardia (8)Campania SCHEDE INFORMATIVE LA BANCA DATI IN ITALIANO IL PROGETTO GOVERNATIVO DI TESTO UNICO PER LA PREVENZIONE NEGLI AMBIENTI DI LAVORO a cura di Roberto Calisti A metà degli anni ’50 del secolo scorso la normativa italiana di igiene e sicurezza del lavoro venne definita principalmente con una serie di Decreti del Presidente della Repubblica i cui assi portanti furono il DPR 547/55 (sulla “sicurezza del lavoro”) e il DPR 303/56 (sulla “igiene del lavoro”). I DPR di corredo ai due suddetti furono per certi versi disomogenei (ad esempio, per dimensione del campo di applicazione: uno dedicato a un campo vasto come l’edilizia e un altro dedicato a un campo circoscritto come l’industria cinematografica e della televisione), ma rispondevano a un impianto e una “filosofia” comuni e coerenti. Altre norme specifiche regolarono l’uso e/o la dismissione di singoli agenti quali la biacca di piombo, il benzene, il quarzo e l’amianto. Dall’inizio degli anni ’90 si è aperta una stagione di recepimento (tramite Decreti Legislativi) di direttive della Comunità Europea, inaugurata dal DLgs 277/91 relativo a piombo, rumore e amianto e alla ri-definizione e normazione della figura del “medico competente” che era stata istituita dal DPR 303/56. L’asse centrale del percorso era ed è costituito dal DLgs 626/94, che ha stabilito un nuovo impianto regolatorio generale. Peraltro, il persistere delle vecchie norme (in parte modificate o abrogate) a fianco di quelle recenti e il pressoché continuo processo di revisione del DLgs 626/94, avviatosi già dal 1996, hanno creato una piccola giungla di norme e reali difficoltà di conoscenza, comprensione ed applicazione delle medesime. L’esigenza di un “testo unico” che semplifichi la programmazione e la gestione quotidiana della prevenzione negli ambienti di lavoro è per questi motivi sentita da tempo, in modo diffuso e da parte di chiunque opera nel mondo italiano della prevenzione. Al seguito (e al 45 coperto) della “motrice” della semplificazione e della riduzione degli obblighi meramente formali viaggia peraltro anche la volontà di numerosi soggetti, di parte sia istituzionale sia imprenditoriale, affinché venga alleggeriti in misura importante la posizione di garanzia dei datori di lavoro nei confronti dei lavoratori loro dipendenti (o assimilabili a loro dipendenti) e gli obblighi sostanziali che ne conseguono. Alcuni anni or sono, il lavoro della commissione guidata dal prof. Smuraglia fornì tutti gli elementi tecnici e giuridici per una revisione legislativa che salvasse le esigenze di linearità, efficacia ed economicità del “sistema prevenzione negli ambienti di lavoro” rafforzandone il sistema di garanzie e la finalizzazione all’efficacia. Tale lavoro rimase peraltro senza esito compiuto nelle sedi parlamentari e governative di allora. Ora, il progetto di “testo unico” avanzato dal governo attuale (in una prima versione datata 13 ottobre 2004, seguita da una seconda poco diversa a novembre) si muove in direzione affatto diversa da quella prefigurata dalla “Commissione Smuraglia”. CONSIDERAZIONI GENERALI Il “testo unico” del governo attuale presenta caratteri complessivi da leggersi anche in modo integrato con la sua relazione di accompagnamento e con alcune evidenze di cronaca: li si riassume di seguito. a) Il campo di applicazione della normativa prevenzionistica si vuole esteso a figure sinora escluse dalla tutela di legge (come i lavoratori autonomi). Però c’è un però: dal computo degli addetti in base al quale un’azienda può essere definita tanto “piccola” da venire esentata da molti obblighi, vengono escluse tipologie di lavoratori importanti sia dal punto di vista della consistenza numerica sia da quella dei rischi a cui sono esposti. Nel calcolo per la definizione della “dimensione aziendale” l’art. 4 esclude infatti: gli studenti, anche quando facciano uso di apparecchiature di laboratorio, macchine, “agenti chimici, fisici e biologici”; i lavoratori a progetto e simili in regime temporaneo e più o meno precario, sempre più presenti nel mercato del lavoro italiano; gli stagisti; i volontari toutcourt; in molti e importanti casi, gli stagionali (quando, per essi, basterebbe che venissero tenuti computi differenziati per le diverse stagioni dell’anno e, laddove serva un contatore unico della dimensio- 46 ne aziendale, dare una media ponderata della manodopera nel corso dell’anno). b) La riforma conseguente all’approvazione del “testo unico” dovrà attuarsi “a costo zero” per lo Stato e per gli altri soggetti pubblici coinvolti, quindi senza alcun investimento aggiuntivo rispetto alla piattissima situazione attuale. c) Le funzioni di programmazione, indirizzo e verifica delle attività di prevenzione negli ambienti di lavoro italiani vengono fortemente riportate in capo al Ministero del Lavoro (con un sostanziale disimpegno del Ministero della Salute). d) A ciò (con un’unica eccezione: ci si tornerà più avanti) si affianca un forte ridimensionamento del ruolo delle Regioni e Provincie Autonome e del loro Coordinamento, in termini sia di consultazione sia di proposizione attiva. e) Viene affermato un ruolo relazionale rilevante degli organismi bilaterali costituiti o da costituirsi tra associazioni imprenditoriali e sindacati dei lavoratori (per quanto detto più sopra, conservando i costi necessari al funzionamento di tali organismi in capo a chi dovrebbe sostenerli già oggi, cioè le imprese: si consideri che proprio tali costi hanno fortemente limitato le adesioni della parte datoriale a questi organismi, così che di fatto essi, che si sia d’accordo o meno su cosa devono essere e cosa devono fare, nella maggior parte delle realtà del nostro Paese esistono soltanto sulla carta). f) Vengono fortemente ridimensionati gli obblighi dei datori di lavoro: su ciò si tornerà in dettaglio più oltre. g) In base all’art. 12 risultano molto tenui gli obblighi di fabbricanti e fornitori (ad esempio, nulla si stabilisce a questo punto riguardo a loro obblighi di fornire automaticamente le schede di sicurezza – SDS - di sostanze e preparati, senza necessità di un’esplicita richiesta dell’acquirente, e altresì di fornire, a richiesta dell’acquirente medesimo, un quid di informazione in più). h) Seppure per una frazione molto piccola del totale di ciò di cui vengono alleggeriti i datori di lavoro, vengono maggiormente responsabilizzati i dirigenti e i preposti. i) Viene ridimensionata l’autonomia operativa dei Responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione aziendali (RSPP). j) Il ruolo dei “medici competenti” viene appiattito verso una produzione seriale di viste mediche e, soprattutto, di giudizi di idoneità come esito e scopo dichiaratamente principale di ogni loro accertamento sulla persona (diviene flebile la funzione del “medico competente” nella valutazione dei rischi e nella ricerca e proposta di soluzioni, ad esempio ergonomiche, riguardo ai problemi evidenziati). Perlomeno l’art. 6 chiarisce che la sorveglianza sanitaria non diviene una misura generale di prevenzione: quindi la si può e la si deve fare se serve, non come automatismo afinalistico. k) Viene fortemente ridimensionato il ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), anche con uno slittamento semantico nella loro denominazione che diverrebbe quella, semplicemente, di Rappresentanti per la Sicurezza (RL). E’ verosimile che si intenda riportare queste figure da una posizione centrale di consultazione e ricerca congiunta di soluzioni a una funzione “sindacale subodinata”, di esclusiva natura contrattualistico-rivendicativa (la consultazione degli “RS”, già gravata da un certo ritualismo nell’impianto attuale, sembra venire ulteriormente ritualizzata e svuotata di importanza; essi nemmeno potrebbero più ricevere copia del documento di valutazione dei rischi redatto dal datore di lavoro). l) Viene mantenuta una molteplicità di organi di vigilanza, pur con un ruolo preminente dei Servizi per la Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro delle ASL. Non compare alcuna norma che sostituisca l’art. 64 del DPR 303/56, il quale chiariva i poteri dell’organo di vigilanza in termini di accesso ai luoghi di lavoro e alla documentazione esistente (compresa quella sanitaria individuale) nonché di richiesta di dati ulteriori e, se del caso, di visite mirate al rischio per i lavoratori esposti: ciò certo non aiuta la chiarezza e la semplificazione normativa. m) Viene chiarito e valorizzato il ruolo della disposizione, quale ordine amministrativo impartito dall’organo di vigilanza per risolvere problemi prevenzionistici quando non vi sia violazione di legge. Intuitivamente vale il principio che avverso un ordine amministrativo sono ammessi sia il ricorso per il merito sia quello per la forma dell’atto. Il secondo comma dell’art. 2 lascia intendere, ma non chiarisce espressamente chi sia l’autorità gerarchicamente sovraordinata all’organo di vigilanza ASL alla quale sarà possibile fare ricorso amministrativo avverso la disposizione: sarebbe utile dire esplicitamente che esso è il presidente della Giunta Regionale ovvero della Giunta della Provincia Autonoma. Anche riguardo al ricorso avverso la forma dell’atto amministrativo risponderebbe a una coerente logica di semplificazione e trasparenza esplicitare che il corrispondente ricorso va inoltrato al Tribunale Amministrativo Regionale o suo equivalente. n) Il sistema sanzionatorio configurato dal DLgs 758/94 resta in vigore, anche se il “testo unico” non ne fa espressa menzione (al che si potrebbe facilmente rimediare tramite un articolo di “raccordo” immediatamente antecedente quello sulla disposizione). OBBLIGHI DEI DATORI DI LAVORO E DEI DIRIGENTI Riguardo alla apparente e “sola“ semplificazione degli obblighi dei datori di lavoro (in realtà, come si è accennato, al forte alleggerimento di quelli sostanziali ben più che di quelli burocratico-formali), si evidenziano diversi punti critici. • Le regole dettate dai DPR degli anni ’50 e dai DLgs degli anni ’90 del secolo scorso vengono derubricate a norme di “buona tecnica” e di “buona prassi”: per certe cose è una misura di buon senso, per altre un disastro. Ma c’è anche una novità importante e positiva (una delle poche): tramite l’art. 5 lettera m, le soluzioni organizzative e procedurali “raccolte e validate dalle Regioni” (quindi, a logica, le linee-guida da loro elaborate e ancor più quelle elaborate dal loro Coordinamento) divengono “buone prassi” ai sensi di legge. • Il terzo comma dell’art. 3 garantisce ai lavoratori a domicilio, da parte del datore di lavoro, solo informazione, formazione e dispositivi di protezione individuale (DPI), senza tener conto del fatto che molto spesso essi ricevono non solo attrezzature, ma anche sostanze e preparati (ad esempio, nel caso delle orlatrici di tomaie: collanti, agenti di pulizia e ritocco); sarebbe necessario prevedere una norma di tutela affinché chi fornisce loro sostanze e preparati sia anche tenuto a fornirglieli sicuri, etichettati come si deve, corredati da “buone” schede di sicurezza (SDS). • Riguardo all’art. 7 nel suo complesso: gli obblighi dei dirigenti appaiono nel titolo, ma non nel testo salvo che in modo un po’ ambiguo all’inizio del comma secondo; è, seppur ridotto, lo stesso difetto delle “vecchie” norme di legge che qui si trascina: andrebbe corretto. Soprattutto, andrebbe chiarito bene chi sono quei dirigenti che di fatto vicariano il datore di lavoro, come vanno nominati, quali sono i confini delle loro attribuzioni e quali sono gli strumenti finanziari e di comando di cui devono essere dotati affinché il loro incarico ai fini di garanzia della salute e della sicurezza dei lavoratori sia valido ed efficace (non è logico attendere nell’incertezza che maturi una nuova giurisprudenza in materia e, comunque, non si capisce perché si debba rimandare alla giurisprudenza una definizione che si può chiarire in poche righe di testo di legge). • Con il primo comma dell’art. 7 semplicemente scompare ciò che costituiva la “lettera c)” del secondo comma dell’art. 4 del DLgs 626/94, vale a dire l’obbligo del datore di lavoro di stabilire in modo formalizzato un “programma per il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza dei lavoratori”: è cosa grave e sommamente improduttiva per il “sistema impresa”, grave e sommamente ingiusta per i lavoratori. Pare che sia stato assunto acriticamente (e con scarso senso della realtà) il principio che, siccome il datore di lavoro dovrebbe aver già fatto / fare “qui ed ora” il meglio che sia possibile, gli sia poi impossibile programmare per iscritto miglioramenti di sorta, senza di fatto auto-denunciarsi per violazione delle norme prevenzionistiche (ovviamente, i miglioramenti in realtà si può e si deve farli: ma a questo punto, di nascosto). Ciò significa immaginare, in un’ottica formalmente rigorista ma che ammette il lassismo e il raccontar fole nei fatti, che, non appena la scienza e/o la tecnologia hanno scoperto un nuovo rischio e/o proposto qualche intervento efficace, ipso facto ciò debba essere / venga tradotto in conseguenze compiute da chiunque, ovunque e soprattutto con un intervallo di induzione-latenza pari a zero (niente tempi di ricerca di mercato e confronto tra soluzioni alternative, di progettazione, di realizzazione, di collaudo, di verifica di efficacia post-factum). In ogni caso: è grave che la violazione del primo comma dell’art. 7 non sia sanzionata (vedi l’art. 174 comma secondo lettera a). • Ma ancor più del documento di valutazione dei rischi è il processo di valutazione dei rischi che, secondo il testo unico governativo, risulta banalizzato e svuotato. Ciò che di buono hanno fatto a questo riguardo, negli ultimi dieci anni, molte aziende grandi, medie e piccole (investendo risorse quali soldi, tempo, intelligenza) risulterà non più necessario: quindi sono loro che verranno penalizzate e messe sullo stesso piano di quelle che hanno prodotto solo processi di valutazione mimati e documenti di valutazione clonati. Ad esempio, per il rischio chimico con il testo unico governativo scompaiono molti obblighi metodologici di valutazione igienistico-industriale scientificamente rigorosa: ed è questa la vera novità, ben più del (solo lessicale) superamento del concetto di “rischio chimico moderato”. Del resto, ciò va di pari passo con l’attenuazione, nel testo unico governativo, dell’obbligo di aspirare gli inquinanti alla fonte e di sostituire gli agenti pericolosi con quelli che non lo sono o lo sono meno, mentre lo standard di riferimento obbligatorio diviene non più il meglio offerto dalla 47 tecnica ma quello che “mediamente” viene fatto in un dato comparto produttivo, in una certa epoca, in uno specifico contesto. Unica prospettiva positiva: dovrebbe ridursi il mercato dei consulenti inventati, perché per scaricare un file-matrice, apporvi il logo e i dati anagrafici di un’azienda e chiamarlo “documento di valutazione dei rischi” molti datori di lavoro imparerebbero a cavarsela da soli, senza dover pagare un “esperto” esterno. • Al secondo comma dell’art. 7 la lista degli obblighi del datore di lavoro (o del dirigente, come detto più sopra definito in modo un po’ vago e comunque ambiguo) risulta ancor più disordinata e disomogenea che nel DLgs 626/94; obblighi generali e “grandi” vengono messi sullo stesso piano gerarchico di adempimenti applicativi quali la regolare tenuta del registro degli infortuni; l’ordine degli obblighi in lista non ha alcuna sequenzialità cronologica e soprattutto logica; ci sono sia ridondanze sia “buchi”. Si espone di seguito una serie di rilievi critici. La voce “(i datori di lavoro devono) aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione, secondo le applicazioni tecnologiche generalmente praticate nel settore di attività dell’azienda o dell’unità produttiva” dovrebbe essere la prima della lista ed esordire, prima del verbo “aggiornare”, con un bel verbo “attuare”. Tra “in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza del lavoro” e “in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione” dovrebbe esserci una e congiuntiva, non una o alternativa. Tra le fonti che determinano la necessità dell’aggiornamento dovrebbero esservi non solo “l’evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”, ma anche “l’evoluzione delle conoscenze sui rischi prodotte e socializzate dalla comunità scientifica”. “L’evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione” di cui è obbligatorio tener conto dovrebbe essere non solo quella limitata alle “applicazioni tecnologiche generalmente praticate nel settore di attività dell’azienda o dell’unità produttiva”, ma quella della miglior tecnica concretamente disponibile. L’obbligo di nominare il medico competente non dovrebbe essere finalizzato solo alla sorveglianza sanitaria, ma ad ogni esigenza di valutazione che comporti la necessità di una competenza sanitaria specialistica. Tra gli obblighi della lista 48 vi dovrebbe essere quello di fornire al RSPP e al medico competente (quando la sua presenza è utile) informazioni e documentazione necessari a un corretto svolgimento del loro ruolo. Tra gli obblighi della lista vi dovrebbe essere quello della consultazione: del RSPP, del medico competente (quando la sua presenza è utile), del RLS/RS. In ogni caso: è grave che la violazione del secondo comma dell’art. sia sanzionata solo per alcune voci (vedi l’art. 174 comma secondo lettera a). • Non compare nulla che assomigli all’art. 48 del DPR 303/56, che prevede l’obbligo di notifica preventiva dell’apertura, modifica o ampliamento di attività lavorative con (presumibilmente) più di tre operai: questa norma configura un momento pressoché unico di interlocuzione “soft” tra aziende e organo di vigilanza e fornisce uno strumento di prevenzione efficace ed economico (per quanto sporadicamente e male utilizzato dal 1956 ad oggi), per il fatto che consente di intervenire su progetti anziché su strutture materiali e organizzazioni già realizzate. Qualora si cambiasse idea e si volesse mantenere qualcosa del genere l’art. 48 del DPR 303/56 potrebbe essere aggiornato e chiarito, ad esempio, così: “Chi intende costruire, ampliare o modificare in maniera significativa la struttura e gli impianti di fabbricati o parti di fabbricati da adibirsi ad attività lavorative a cui è ragionevole presumere che saranno addetti più di tre lavoratori, è tenuto a darne notifica all’organo di vigilanza competente per territorio prima dell’inizio delle attività medesime. La notifica dovrà contenere informazioni esaurienti circa la localiz- zazione dell’attività, il fabbricato in cui essa dovrebbe svolgersi, la natura delle lavorazioni e quanto altro richieda una valutazione preliminare dei rischi ai sensi di legge. Entro trenta giorni dalla ricezione della notifica, l’organo di vigilanza può richiedere ulteriori informazioni che ritenga necessarie ed eventualmente emanare prescrizioni amministrative del caso”. • Art. 20: per la PREVENZIONE degli incendi sembra che non sia obbligatorio più nulla. • Art. 26: perché mai, secondo il testo unico governativo, i datori di lavoro dovrebbero essere esentati dall’obbligo, oggi per buona regola vigente, di fornire agli RLS/RS il documento di valutazione dei rischi? Qualcuno obietta che il documento può essere troppo voluminoso da fotocopiare e/o troppo ricco di “segreti industriali” per poter essere divulgato agli RLS/RS: ma laddove problemi di questo genere ci fossero, per risolverli basterebbe che, se il documento è troppo voluminoso per essere fotocopiato, lo si consegni su supporto informatico e che, se esso contiene delle informazioni davvero riservate (per motivate e documentabili esigenze di tutela del segreto industriale), la copia “socializzata” contenga degli omissis “mirati”. Molti altri temi meritano commenti etici e tecnici, ma essi non possono essere esposti e discussi altri che in testi ben più ampi di una scheda introduttiva. Quindi, per ora, ci fermiamo qui. Roberto Calisti SNOP Marche