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Teatro
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© il Saggiatore S.p.A., Milano 2011
Titolo originale: The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark­­
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William Shakespeare
La tragica storia di Amleto,
principe di Danimarca
Traduzione e cura di Luca Fontana
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An Sabino gewidmet
But if the while I think on thee, dear friend,
All losses are restor’d and sorrows end.
William Shakespeare, Sonetto xxx
Doch denk ich, teurer Freund, an dich dieweil,
Sind Sorgen ferne und Verluste heil.
(traduzione di Stefan George)
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Sommario
Premessa. Una traduzione per il teatro
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Introduzione. Un eccellente attore
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
di William Shakespeare
Dramatis Personae
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
Atto V
49
51
79
101
129
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Appendici
La questione testuale
I tre Amleti
Nota bibliografica
Amleto in dvd
Note
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Premessa
Una traduzione per il teatro
La traduzione non è il trasferimento di un «significato»
distaccabile da una lingua all’altra. È un dialogo tra due
lingue. Accade nello spazio tra due lingue e il più spesso anche tra due momenti storici. Gran parte del valore
reale della traduzione come arte deriva da questa particolarissima situazione.
Richard Pevear, Introduzione alla sua traduzione
in inglese di Guerra e pace di Tolstoj (London, 2007)
Una traduzione per il teatro? Va certo chiarito: una traduzione nata per e dalla pratica teatrale. Soprattutto per testi come quelli shakespeariani, che per la pratica teatrale sono nati
e nella pratica teatrale si sono venuti sedimentando, alterando e costituendo.1
La traduzione teatrale dovrebbe essere una specializzazione a sé. Il traduttore in generale dovrebbe avere una conoscenza vissuta e vitale di una o più lingue, oltre alla propria
di partenza. Idealmente, dovrebbe non avere più una lingua
madre, ma molte lingue amiche e sorelle. Il traduttore teatrale dovrebbe avere un di più, sapere come quelle lingue
suonino in teatro, ossia cosa avvenga tra emissione, da parte
dell’attore, e ricezione, da parte del pubblico. Dovrebbe avere esperienza di lavoro sui testi teatrali. Non guastano anche
esperienze di regista e d’attore. La perfezione la si raggiungerebbe se il traduttore fosse anche dramaturg.2
La traduzione dovrebbe essere discussa passo passo col
regista, poiché il lavoro di traduzione è al tempo stesso la
più minuta indagine drammaturgica possibile. Meglio se il
regista è disposto a partire in compagnia del dramaturg-tra-
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duttore nel viaggio di scoperta o riscoperta del testo senza
idee preconcette, senza Konzept-inszenierung già premasticata.
Una verifica fondamentale della comunicatività del testo
è il lavoro cogli attori. Ogni traduzione di un testo teatrale,
tanto più se creato in epoche in cui la trasmissione culturale
era per lo più orale – e questo era certo il caso di Shakespeare – dovrebbe essere una traduzione per la bocca dell’attore
e l’orecchio dello spettatore. La verifica ultima non è mai sulla carta; è sedersi in platea e ascoltare cosa ti arriva dagli attori, notando minutamente al tempo stesso le difficoltà tecniche
che l’attore incontra a veicolare quel testo fino all’ultima fila
di spettatori. Le prove segnano quindi il momento dell’ultima
verifica e correzione del testo tradotto.
Il breve ritratto sin qui tracciato è quello di una figura ideale. Per quel che mi riguarda, sono perfettamente cosciente di
aver soddisfatto solo in minima parte i criteri qui sopra esposti. Ma se ci son riuscito è grazie all’esperienza che mi son
fatto – a partire dai remoti anni ottanta del secolo scorso –
con registi e attori. Tanti e di cui, non certo per ingratitudine, ma per incipiente senilità, posso ricordare solo alcuni. In
primo luogo, Marco Sciaccaluga, del Teatro Stabile di Genova, che mi ha iniziato al mestiere; Terry Hands, già direttore
della Royal Shakespeare Company; Dominique Pitoiset, oggi direttore del Théâtre national de Bordeaux en Aquitaine;
Luca Ronconi, con cui ho avuto alcuni motivi di disaccordo,
radicali e – almeno per me, non so per lui – fecondi. Due attori da ricordare per quel che mi hanno insegnato in anni di
collaborazione, Elisabetta Pozzi, per cui ho tradotto espressamente Amleto, pensando a cosa avrebbe potuto dare, e ha
dato, nei panni del protagonista, e Michele De Marchi, attore musicista e talento comico innato. Nelle molte letture pub-
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Premessa 11
bliche di testi curati da me mi è stata e mi sarà utilissima una
giovane e brava attrice, Paola De Crescenzo.
La gran parte dei testi che uscirà in questa serie è il risultato della collaborazione col Teatro Due di Parma e con Walter
Le Moli. Se esistono è perché, sin da molto prima della loro
realizzazione sulla scena, iniziamo un lungo lavoro al testo. È
idea comune che, per fare un esempio, ci si debba chiedere
cosa Amleto possa dire a noi; mai che ci si ponga il problema
opposto, e serio: cosa possiamo dire noi ad Amleto? Siamo
in grado di parlargli ancora, ci vorrà ancora come interlocutori delle sue riflessioni ad alta voce, che chiamiamo impropriamente monologhi? Ci vorrà ancora guardare negli occhi?
Siamo abbastanza attuali per lui, abbastanza contemporanei
a lui?
Esprimere gratitudine al Teatro e a Walter è un esercizio
ozioso. Siamo ancora in corso d’opera.
Un grazie affettuoso va infine ai miei allievi – di ormai undici anni – dei corsi di Fondamenti di pratica del teatro e di
Strutture drammaturgiche del teatro – i titoli dei corsi sono
di mano burocratica, non mia – e ai partecipanti ai laboratori di Regia di Walter Le Moli presso l’Istituto universitario di
Architettura di Venezia (Iuav). Con loro uso spesso testi da
me tradotti, o testi in corso di traduzione, come materiale didattico. Dalle loro reazioni o perplessità, dalle loro domande
– e in alcuni casi dalle loro tesi – ho spesso tratto utili suggerimenti per revisioni, politure, messe a punto delle traduzioni.
Nel contesto dell’attività didattica mi è stata di grande utilità
la collaborazione del dottor Filippo Bruschi. La conversazione con lui, da amici, mi è indispensabile.
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Introduzione
Un eccellente attore
Tutto quel che c’è di commendevole in un grave Oratore tocca squisita perfezione in lui; con l’azione ricca ed espressiva del corpo affascina la nostra attenzione; sedete in un teatro pieno, e crederete di vedere
linee che si dipartono dalla circonferenza di così tante orecchie, di cui
l’Attore è il Centro.
dai New Charachters, 1615, pubblicati anonimi, ma attribuiti a Sir
Thomas Overbury; altra e più probabile attribuzione a John Webster.
Alta probabilità che l’attore di cui si parla sia Richard Burbage.
Un attore può rappresentare qualunque cosa eccetto un attore. Amleto
dovrebbe essere impersonato da un attore preso dalla strada, e gli altri
personaggi da attori professionisti. Il problema è che Amleto è un attore, e non si può impersonare se stessi. Si può solo essere se stessi.
W.H. Auden, Lezioni su Shakespeare
Io sono il pallido prence danese,
che parla solo, che veste a nero.
Che si diverte nelle contese,
che per diporto va al cimitero…
Si può essere più afflitti, più lagnosi, più melanconici di Amleto? Poteva essere felice, no! Poteva essere amato, no! Io non ho mai capito che
cosa voleva Amleto. Ma che voleva Amleto?…
Ettore Petrolini, Amleto
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Scheda
La trama
Dai racconti frammentari di un corpo di guardia atterrito veniamo a sapere che ogni notte una cosa appare, somiglia al
vecchio re Amleto, ora defunto. Lo spettro muto si manifesta
forse perché il paese è minacciato d’invasione dalla Norvegia
e si prepara alla guerra. Bisogna che se ne informi il giovane
Amleto, figlio del vecchio re, a lui forse lo spettro parlerà. A
corte, Amleto il giovane esprime il proprio dolore per la morte
del padre e disgusto per il frettoloso matrimonio della madre
e regina vedova, Gertrude, col fratello del re, Claudio, che ora
regna. Amleto incontra lo spettro del padre, che lo informa
che la morte non fu naturale, fu avvelenato dal proprio fratello, colui che ora regna. Amleto giura vendetta. Per mascherare
le proprie intenzioni si fingerà pazzo. Polonio, consigliere dello stato di Danimarca, ha due figli. Laerte, che sta iniziando un
destino quasi parallelo a quello d’Amleto – andrà all’estero, a
Parigi, a studiare (Amleto è da poco tornato da Wittemberg,
dove ha compiuto i suoi studi) –, e Ofelia, che ha un’infatuazione adolescenziale, probabilmente mezzo incoraggiata, per
Amleto. Polonio si convince che la pazzia di Amleto sia una
pazzia d’amore. Due compagni d’università di Amleto, dai nomi tedeschi, Rosencrantz and Guildenstern, arrivano a corte,
mandati a chiamare da Re e Regina, perché spiino Amleto e
ne scoprano i piani reconditi. Arriva a corte anche una compagnia d’attori. Amleto concorda con loro che mettano in scena
un dramma in cui narra d’un fratello che uccide un re per impadronirsi della corona con la connivenza della moglie di questi: spera che la recita induca il re a tradire la sua colpa. Spiati
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Introduzione 15
da Re e Polonio, Amleto e Ofelia si incontrano; in un tormentato dialogo, Amleto la respinge con violenza. Nel corso della
recita i sospetti di Amleto trovano conferma. Mentre va dalla madre che ha chiesto un colloquio con lui, si imbatte nel re
sprofondato in preghiera; è tentato di compiere lì e subito la
vendetta, ma desiste, perché ucciderlo mentre prega potrebbe guadagnarli ingiustamente la salvezza. In un agitato colloquio con la madre, la accusa dell’impudica fretta con cui si è
risposata col cognato. Udendo un rumore dietro una tenda,
vi si lancia contro a spada sguainata: non era il re come aveva
sperato, ma Polonio che spiava. Ricompare lo spettro, invisibile alla madre, che gli raccomanda clemenza verso di lei. Il re
spedisce Amleto in Inghilterra, chiedendo in una lettera segreta al re di quel paese di eliminarlo al suo arrivo. Laerte, tornato in Danimarca, chiede vendetta per il padre morto. Intanto,
Ofelia, impazzita di dolore, muore annegata. Amleto sventa il
compotto inglese e torna in tempo per il funerale di Ofelia, e
per avere un primo conflittuale incontro con Laerte. Il re organizza con Laerte un complotto contro Amleto: Laerte lo sfiderà a duello, ma con una spada dalla punta avvelenata. Amleto
è superiore nel duello, ma Laerte lo ferisce a tradimento con
la spada avvelenata, che ha ferito lui stesso. Gertrude beve
da una coppa avvelenata destinata ad Amleto. Alla vista della madre morente, e avvertito da Laerte morente che la spada
era avvelenata, Amleto ha il tempo di uccidere il re, poi muore. Arriva il giovane Fortinbras di Norvegia e rivendica a sé il
trono di Danimarca.
Media1 linguistici
75 per cento versi; 25 per cento prosa, frequenti distici rimati; 2 songs cantati da Ofelia.
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Si direbbe sia lui l’origine stessa della nostra armonia tragica
inglese, ossia, l’armonia del blank verse, variata spesso da terminazioni disillabe o trisillabe. E proprio questa varietà la distingue dall’armonia eroica, e avvicinando così il verso all’uso
comune lo rende più appropriato ad attrarre attenzione e più
adatto all’azione e al dialogo. Sono i versi che facciamo quando scriviamo prosa; anche nella comune conversazione facciamo versi simili.
John Dennis, An Essay on the Genius and Writings
of Shakespeare (1712)
Perché mai l’alternanza di diversi moduli ritmici, o fonici nel
caso della rima? Anche chi non sappia una parola d’inglese la
coglie a occhio scorrendo il testo. Verso sciolto, prosa, rima e
canto sono quattro media espressivi di cui il traduttore deve
conoscere la funzione espressiva e sforzarsi il più possibile di
ricrearla. A una lettura approfondita – certo, in inglese – risulterà subito che non sono casuali alternanze, bensì calcolate
transizioni da un modo d’enunciazione a un altro. Lo strumento espressivo principale di cui Shakespeare dispone è il
verso sciolto o blank verse: pentametro giambico, se descritto
in metrica quantitativa, o decasillabo con cinque accenti forti, in metrica accentuativa. Vi sono larghi tratti di prosa, sia
pure fortemente ritmica, di cui vedremo le funzioni, e inoltre
usi particolari, sempre espressivamente funzionali, della rima.
Mediamente, un testo shakespeariano è per il 70 per cento in
versi e per il 30 per cento in prosa. Ai due estremi della scala
si collocano, da un lato The Merry Wives of Windsor, con un
10 per cento di versi e ben un 90 per cento di prosa e al lato
opposto, The Comedy of Errors (La commedia degli equivoci) con 85 per cento di versi e 15 per cento di prosa, e subito
dopo A Midsummer Night’s Dream (Sogno della prima not-
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Introduzione 17
te d’estate), con, rispettivamente 80 e 20. Il Sogno, assieme a
Love’s Labour’s Lost (che io ho tradotto come Doglie d’amor
sprecate), è la commedia a più alto contenuto di rime.
Se si dovesse paragonare la lingua inglese a uno strumento musicale, il pianoforte sarebbe il più giusto: strumento per
natura percussivo da cui però con una serie di artifici tecnici si può raggiungere un assoluto legato melodico, strumento
di infinita ricchezza timbrica che può evocare i colori di altri
strumenti e di un’intera orchestra. La sequenza di cinque piedi giambici che troviamo nel blank verse – breve-lunga, brevelunga, breve-lunga, breve-lunga, breve-lunga – coglie l’essenza
ritmica stessa della lingua inglese. Il più palese – visibile a occhio – progresso stilistico compiuto da Shakespeare nell’uso
del blank verse è un movimento continuo dal verso martellante – una sorta di fanfara guerresca – del blank verse marlowiano – Marlow’s mighty line (il verso possente di Marlowe, come
dice Ben Jonson, non senza una punta di ironia nella scelta
dell’aggettivo, allusivo di pomposità) – a un libero arioso melodico, quasi un recitativo monteverdiano, un recitar cantando, che può suggerire la più complessa articolazione interiore
del pensiero nel personaggio. Sentiamolo in bocca ad Amleto
(Hamlet, Atto i, scena seconda):
HAMLET – O, that this too too solid flesh would melt
Thaw and resolve itself into a dew!
Or that the Everlasting had not fix’d
His canon ’gainst self-slaughter! O God! God!
How weary, stale, flat and unprofitable,
Seem to me all the uses of this world!
Fie on’t! ah fie! ’tis an unweeded garden,
That grows to seed; things rank and gross in nature
Possess it merely. That it should come to this!
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But two months dead: nay, not so much, not two:
So excellent a king; that was, to this,
Hyperion to a satyr; so loving to my mother
That he might not beteem the winds of heaven
Visit her face too roughly. Heaven and earth!
Must I remember? why, she would hang on him,
As if increase of appetite had grown
By what it fed on: and yet, within a month –
Let me not think on’t – Frailty, thy name is woman! –
Una sottile alternanza di enjambements e versi end-stopped, la
cesura continuamente mobile creano un gioco di ritmi spezzati, un abile ibrido verso-prosa, che permette al pubblico una
felice allucinazione: l’attore in quel momento non sta ri-citando un discorso imparato a memoria, sta pensando: ora e qui,
noi avvertiamo i moti interiori del suo pensiero. E la varietà ritmica è ulteriormente accresciuta dalle tante feminine endings –
le terminazioni disillabe e trisillabe menzionate da Dennis, qui
sopra: unprofitable, garden, nature, mother, woman – che lasciano aperto il verso dandogli continuità nel seguente. Anche in
italiano l’attore deve produrre l’impressione di un ritmo interiore del pensiero che si viene articolando sul momento. Spero di esserci, almeno in minima parte, riuscito, usando come
schema metrico di partenza l’endecasillabo e giocando di irregolarità e ipermetrie:
AMLETO – Ah, se questa carne troppo, troppo salda
si sciogliesse, squagliasse, vaporando in rugiada!
E se l’Eterno non avesse scritto
la sua legge contro chi s’uccide. Oh, Dio,
Dio! Sfatti, muffiti, piatti, inutili
paiono a me gli usi di questo mondo!
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Introduzione 19
Che schifo! Sì, che schifo! Un giardino
non curato che va in seme: erbacce marce
e brutte che tutte lo conquistano. – E a questo poi s’arriva?!
Lui morto da due mesi – no, neanche, neanche due –
un re così eccelso, che sta a questo
come Iperione a un satiro, e che tanto amava
mia madre, da non poter permetter che quel viso
fosse toccato da brezze celestiali troppo brusche. –
Sant’Iddio, che sia io a dover ricordare!? – E lei… che
gli stava addosso
come se le crescesse l’appetito
più di lui si nutriva – Eppure, dopo un mese…
Ah, non voglio pensarci – Fragilità, il tuo nome è donna!
Tra i testi shakespeariani, Amleto è forse quello dove più complesse e sottili sono le transizioni verso-prosa. Amleto parla in
versi a se stesso o, meglio detto, quando convenzionalmente
finge di parlare a se stesso nei soliloqui, che sono in realtà discorso pubblico, in cui rende noi pubblico spettatori e complici; parla in versi nei dialoghi in cui è mosso da violenta
passione come nell’incontro a tu per tu con la madre – Atto iii,
scena quarta. Potremmo dire che parla in versi laddove ha bisogno del massimo possibile di ambiguità sintattica e metaforica, dove il pensiero è più denso. Parla generalmente in prosa
a tutti gli altri personaggi in scena, salvo una volta a Orazio
– Atto iii, scena seconda – nel bellissimo elogio che rivolge a
lui e all’amicizia, e una seconda volta nel congedo prima della
morte, poi, per Amleto, il resto è silenzio. A Laerte, prima del
duello, chiede perdono in versi. E il tratto comune di questi è
che Amleto sta esprimendo sentimenti molto fortemente sentiti e, quelli rivolti a Orazio, quasi prossimi all’amore.
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Non parla mai in prosa invece il re, anzi, il verso, molto
formale, e spesso pomposo, caratterizzato da un sintassi tortuosa e serpentina in cui l’oggetto del verbo principale, e delle sue voglie, è continuamente posposto in fine di periodo,
sotto raffiche di relative e distinguo, diviene emblema perfetto dell’identità usurpata e posticcia che si sente addosso e che
deve giustificare in primo luogo a se stesso e dissimulare agli
altri, maestro com’è di vaselinosa e gesuitica ipocrisia.
In Polonio, la transizione verso-prosa ha tutt’altra funzione drammaturgica. Parlerà sempre in versi nelle situazioni formali, quando si rivolge a Re, a Regina, e anche ad Amleto; o
quando affligge i figli con lunghi elenchi di utili consigli, che
non sono affatto ubbie di vecchio barbogio, sono quella politica quotidiana da ottimo e prudente machiavello di provincia
che in un mondo di pura violenza gli ha permesso di arrivare vivo a veneranda età. Parla in prosa quando suo malgrado
si trova a dover fare da spalla al principe nei momenti di simulata pazzia, quando Amleto fa il matto, ossia diventa lui il
fool, il buffone di corte, che in questo play manca affatto – e
forse proprio perché Amleto gli ruba la parte –, e i due divengono double act, coppia comica, che troveranno più avanti il
proprio riflesso speculare nell’altro double act del testo, quello del becchino e dell’assistente, i quali, essendo naturalmente
clowns, parlano in prosa. In questi momenti, le battute in prosa di Polonio sono a parte rivolti al pubblico, il bravo attore
saprà che l’effetto comico lo raggiunge se recita tutto sul pubblico, se ne cerca la complicità e l’assenso, se solletica il Polonio reazionario e gretto che coviamo in noi.
C’è un altro uso della prosa per Amleto quando ha bisogno di maggiore linearità sintattica per enunciare sue profonde convinzioni. Due momenti tipici, e due momenti chiave del
testo – che non per caso sono diventati due dei passi più cita-
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Introduzione 21
ti da tutta la tradizione romantica – sono la sua dichiarazione
di assoluto antiumanesimo melanconico, detta a Rosencrantz
e Guildenstern, nel secondo Atto, al culmine di un dialogo tesissimo e guardingo in cui Amleto vuol scoprire se i due suoi
ex compagni d’università sono stati mandati a chiamare non
per distrarlo dalle sue malinconie, ma per spiarlo (Atto ii, scena seconda):
Amleto – […] – Da qualche tempo, e non so perché, ho perso ogni allegria, smesso ogni abitudine
all’esercizio fisico, anzi, così gravato è il mio umore che questa mirabile macchina, la Terra, mi par
soltanto un promontorio sterile, quest’eccelsa volta
d’aria, macché, lo stesso stupendo firmamento che
lassù incombe, questo maestoso tetto incastonato di
fuochi d’oro, a me sembran nient’altro che uno schifoso e pestifero aggregato di vapori. Che capolavoro è l’uomo, e così nobile nella ragione, così infinito
nelle facoltà, e per forma e moto così perfetto e ammirevole, e nell’azione così simile a un angelo, e a
un dio nell’intelletto: lui, la bellezza del mondo, il
paragone degli animali… però, cos’è per me questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi dà alcun piacere…
E poco prima del duello e della catastrofe, nell’ultimo dialogo in confidenza con l’amico Orazio, Amleto enuncia in prosa, la convinzione ultima, che ha raggiunto, l’insegnamento
che ha appreso dal suo tragico destino: ha imparato a essere
un perfetto stoico, ha imparato la lezione della morte. Orazio
lo esorta a rifiutare il duello con Laerte, se un presagio nefasto lo tormenta (Atto V, scena seconda):
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Amleto – Ma neanche per sogno. Noi sfidiamo i presagi. C’è
una speciale provvidenza anche nella morte di un passero. Se deve essere ora, che sia; non sarà poi; e se non sarà
poi, sarà ora; e se non ora, verrà pur sempre un’ora. Essere
pronti: è tutto! Nessun uomo sa che cosa lascia, e che importa il momento in cui si lascia? Ma basti!
In breve sintesi, le transizioni prosa-verso sono modulazioni
armoniche, come nella sonata classica, che offrono allo Shakespeare maturo, partito da una convenzione formale rigida del
teatro a lui precedente, una tavolozza di tonalità espressive
ricchissma; la drammaturgia si viene costruendo tramite sottili procedimenti di transizione e sviluppo tra registri espressivi diversi.
Anche l’uso del distico finale rimato in chiusura di scena è
una convenzione tipica del teatro elisabettiano e giacobita, ed
è anch’essa un segnale per le orecchie degli spettatori-ascoltatori. Paragone perfetto è la cadenza nella musica tonale: marca
la fine di un movimento. Nello Shakespeare maturo, la funzione di marcatore di transizione da un movimento all’altro
è mantenuta, ma diviene infinitamente più ricca che nei suoi
predecessori o rivali. Può condensare l’intero senso drammatico di una scena in una rapida formula, enunciare una sorta
di programma per l’azione successiva del personaggio. Si veda la chiusa della seconda scena del primo Atto, a conclusione del dialogo con le spettro del padre:
HAMLET – The time is out of joint; O cursed spite
That ever I was born to set it right!
Capolavoro di autoironia di Amleto che nel momento stesso
in cui si pone un compito, una missione, sorride amaro sulle
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Introduzione 23
proprie impari forze, e rende noi spettatori complici consapevoli della propria autoironia.
AMLETO – L’epoca è sconnessa; sarcasmo ingrato:
che a ripararla proprio io sia nato!
Se il distico rimato compare nel mezzo di una scena, o di una
singola battuta di un personaggio è invece quasi sempre una
sintesi morale, una frase gnomica che suona come sentenza citata, ed è proprio la costrizione della rima che le dà il carattere
di proverbio, carattere che deve essere percepito dal pubblico, e quindi trasmesso dal traduttore. Un esempio tra i più calzanti si ha nella prima scena del terzo Atto, immediatamente
dopo il terzo soliloquio di Amleto, quello che nella percezione diffusa è divenuto l’aria celebre dell’Amleto – quel che «La
Pira» è per Manrico nel Trovatore, il «qui ti voglio» di ogni attore trombone e poco pensante –, intendo l’«Essere o non essere». Si noti innanzi tutto che il soliloquio non è chiuso da un
distico rimato e che transisce insensibilmente nel breve dialogo in versi in cui Ofelia restituisce ad Amleto i piccoli pegni
d’affetto ricevuti da lui, e che Amleto respinge:
HAMLET – No, not I. I never gave you aught.
OPHELIA – My honoured lord, you know right well you did,
And with them words of so sweet breath composed
As made these things more rich. Their perfume lost,
Take these again, for to the noble mind
Rich gifts wax poor when givers prove unkind.
There, my lord.
Amleto – No, non miei.
Io non ti ho dato nulla.
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24 La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Ofelia – Ma Vostra Grazia sa bene che sì,
e impreziositi d’un alito dolcissimo
di parole. Perso quel profumo, riprendeteli;
per nobil mente un don non ha valore
se ingrato si dimostra il donatore.
Ecco, Principe.
A mio parere è di enorme importanza conservare il carattere di frase fatta, di proverbio – effetto sottolineato in italiano
dall’uso delle parole apocopate – e il patetico effetto di candore infantile che comunica, tenendo conto soprattutto dello
stridente contrasto con la brusca transizione a prosa del dialogo che immediatamente segue, vero e proprio atto di tortura a cui Amleto sottopone Ofelia, ricco di sarcasmi feroci e
doppi sensi osceni.
I songs, di cui sono costellati tutti testi di Shakespeare, in
Italia vengono in genere tagliati: i due songs di Ofelia – del
primo do traduzione ritmica nel testo – il malinconico «How
Should I Your True Love Know» (Chi sa dir se sia vero amor)
e l’osceno «Tomorrow is Saint Valentin’s Day» (Domani è il
giorno di san Valentino). Questi songs – del primo si possiede anche la bellissima musica, di anonimo – non sono affatto due piccoli dettagli decorativi, sono musica in scena affatto
funzionale alla drammaturgia. Si noti, nel primo, lo straziante
scambio di persona tra padre morto e amante che abbandona
il suo amore, o i crudi doppisensi sulla verginità perduta nel
secondo. Da considerare che canto unito a lascivia erano elementi costitutivi del topos teatrale della pazzia. Si ritiene probabile che il ragazzo che impersonava Ofelia entrasse in scena
con un liuto in mano col quale accompagnava il suo canto, aggiungendosi alla stravaganza inquietante della scena.
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Introduzione 25
Temi metaforici
Vero e proprio tema a sviluppo – nel senso musicale del termine – è la malattia. Lanciato dall’osservazione di Marcello
– Atto I, scena quarta, «Qualcosa è marcio nello stato danese…» – intesse tutto il testo. Esemplare la terribile quarta scena del terzo Atto, il dialogo con la madre, colpevole d’un atto
che «scambia la rosa / sulla bella fronte d’un innocente amore
/ con una vescica». Colpa che «d’una sottile crosta copre l’ulcera, / ma sotto cresce putredine che rode / e tutto infetta, invisibile». Poco prima – Atto iii, scena terza – Amleto, quando
sorprende Claudio in preghiera, vinta la tentazione di ucciderlo lì sul momento, così chiude in distico rimato la sua riflessione: «La preghiera è buona cura a mente pia, / ma a te allunga
solo un po’ la malattia». Amleto stesso per Claudio è malattia.
Non far nulla per disfarsi di quell’angosciosa presenza – Atto
iv, scena prima – è: «Come chi soffra d’un male vergognoso,
/ e, perché non si sappia in giro, lascia / che gli roda il midollo della vita». La decisione di sbarazzarsene in tutti i modi è
presa con un’eco di una frase proverbiale: «A mali disperati,
/ disperata è la cura che li allevia». La malattia pervade anche
tutto il corpo sociale – Atto iv, scena quarta: la guerra è l’improvviso manifestarsi di un male invisibile: «Molta ricchezza
e pace / e dentro un cancro che rode, mentre fuori / non appare causa alcuna del perché / l’uomo muoia».
Su 279 immagini complessive nel testo, ben 20 sono di malattia. Temi secondari sono: astronomia; personaggi del mondo classico; cibo, quest’ultimo nella consueta associazione in
tutto Shakespeare con la sessualità – Atto i, scena seconda:
così Amleto riassume l’attrazione erotica che Gertrude provava per il primo Amleto: «E lei… che gli stava addosso / come se le crescesse l’appetito / più di lui si nutriva». C’è però
anche una grande metafora latente, che è a un tempo cornice
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e nodo centrale di tutto il play: il teatro, nella sua paradossale
ambiguità di finzione menzognera e finzione veritiera. Latente perché a partire dal primo Atto si esprime nell’uso insistito
di termini tecnici specifici del lavoro teatrale, diviene patente e lampante nel soliloquio che chiude il secondo Atto: «Ma
cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba». Al lettore, e all’ascoltatore teatrale attento, consiglio di tener ben dritte le orecchie;
che gli diventi abitudine cogliere il testo subliminale che l’immaginario particolare di ogni play shakespeariano viene costruendo, con un procedimento assai simile a quello di tema
e sviluppo in musica.
Data
Data di composizione ed esecuzione più probabile: 1600. Registrato per la pubblicazione nell’autunno del 1602. Allusioni
nel testo al Giulio Cesare (1599) fanno pensare che sia andato
in scena dopo quel play. La disputa tra Amleto, Rosencrantz
e Guildenstern sulle compagnie di bambini allude a rivalità tra
compagnie che ebbero luogo tra il 1600 e il 1601 (il passo è assente da Q2).2 L’Ur-Hamlet di autore ignoto – oggi perduto –,
di cui alcune prove documentali e tanti indizi fanno supporre
l’esistenza, con qualche certezza ancora esisteva tra la fine degli anni ottanta del Cinquecento e la metà dei novanta. Nessun indizio che Shakespeare vi abbia collaborato.
Fonti
È però legittimo pensare, considerando che di frequente i plays
shakespeariani sono rielaborazioni di testi precedenti, che fonte primaria del suo Hamlet, sia il congetturale Ur-Hamlet, il cui
congetturale autore o coautore sarebbe stato Thomas Kyd. La
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derivazione della vicenda dalle Gesta Danorum, scritte in latino
dal cronista danese Saxo Grammaticus (circa 1150-1220), tramite la rielaborazione in francese contenuta nelle Histoires tragiques di François de Belleforest (1530-1583) sarebbe quindi di
seconda o terza o, forse ennesima, mano. La trama centrale – la
vendetta familiare – si incontra già in Saxo Grammaticus. Sono interessanti due discrepanze: il danese Amleth, per nascondere le proprie intenzioni, non si finge pazzo, bensì scemo. Da
tenere in conto per ogni possibile parodia ventura. In Belleforest la madre è chiaramente l’amante del fratello del re già prima dell’omicidio, e quindi sospettata di complicità.
La tirata dell’Attore sulla morte di Priamo è, a mio parere, parodia – in senso triplice: trasferimento di un testo da un
genere all’altro; imitazione d’uno stile altrui; imitazione d’uno
stile altrui con intenti caricaturali – della Didone Regina di
Cartagine di Chistopher Marlowe.
È stato più volte notato che quando Amleto filosofeggia
sembra citare Montaigne. La stessa natura fluida, discontinua
e contraddittoria del personaggio sembra ispirarsi alla rivoluzionaria concezione dell’individualità che incontriamo in
Montaigne. Temi montaigneschi si incontrano un po’ dovunque: da «Ci son più cose, Orazio, in cielo e in terra / di quante sa sognar filosofia» (Atto i, scena quinta) – per inciso, quel
your, nel testo inglese, è da intendersi come un articolo determinativo enfatico, non come possessivo riferito a Orazio, non
è la sua filosofia che si mette in questione, ma la filosofia in generale – al controumanesimo di «Che capolavoro è l’uomo, e
così nobile nella ragione, così infinito nelle facoltà, e per forma
e moto così perfetto e ammirevole, e nell’azione così simile a
un angelo, e a un dio nell’intelletto: lui, la bellezza del mondo,
il paragone degli animali… però, cos’è per me questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi dà alcun piacere…» (Atto
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ii,
scena seconda), in cui sembra di cogliere un’eco dell’Apologie de Raymond Sebond. Al lettore curioso raccomando, inoltre, un gioco che può riempire di divertimento un pomeriggio:
cercare echi amletici in quattro Essais del secondo volume: il
iii, «Coustume de l’isle de Cea»; il xx, «Nous ne goustons rien
de pur»; il xxi, «Contre la fainéantise» e il xxiii, «Des mauvais
moyen employéz à bonne fin».
Malgrado le somiglianze sorprendenti sinora non è stata dimostrata una filiazione diretta della filosofia personale d’Amleto da Montaigne, mentre è certa per l’utopia personale di
Gonzalo nella Tempesta. Gli Essais, nella traduzione inglese
di John Florio sono pubblicati nel 1603. Ossia, due o tre anni più tardi, almeno, della prima di Amleto. Ma questo non
è un argomento a sfavore: non considera la vasta circolazione manoscritta dei testi all’epoca. È inoltre quasi certo che
Shakespeare conoscesse John Florio, da cui avrebbe tratto
ispirazione per l’amabile parodia dell’erudito nel Sir Nathanael di Doglie d’amor sprecate. Indizio assai interessante è che
Florio traduca con consummation la parola anéantissement di
Montaigne – con forse un’eco nelle orecchie del protestante
Florio, figlio di un rifugiato protestante toscano, del Consummatum est dal Vangelo di Giovanni (19, 30). Ciò mi ha indotto a così tradurre il celebre frammento di due versi dell’ahimè
troppo celebre monologo – Atto iii, scena prima: «’tis a consummation / devoutly to be wished»: «annientamento / in cui
sperar con fede». L’ironia dovrebbe essere chiara.
Testo
Enorme e, direi, affascinante quanto una detective story, la
questione che pone ogni edizione, e traduzione, dei testi shakespeariani, e in appendice cerco di spiegarla col dovuto su-
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spense.3 La traduzione che trovate qui è stata condotta sul
testo integrale di Q2 quale appare nell’edizione critica Arden
1982, a cura di Harold Jenkins, e verificata e limata sulla nuova edizione Arden del 2006, a cura di Ann Thompson e Neil
Taylor.
Le metamorfosi dell’Io solista
Ci vorrebbe una sorta di testamento biologico anche per i
personaggi letterari o teatrali, per difenderli da ogni accanimento esegetico, quando non possano più essere difesi dal
loro autore, o una volta estinta la temperie, la sensibilità del
tempo in cui sono nati. Le tre più celebri vittime di accanimento esegetico sono di certo Don Chisciotte, Don Giovanni, e lo sventurato principe di Danimarca. Accanimento che
non solo si è abbattuto sui vari testi che li hanno generati –
il romanzo di Cervantes o il play di Shakespeare, o sulla più
complessa genealogia del seduttore spagnolo: la comedia attribuita a Tirso de Molina, o la comédie di Molière, o, dal romanticismo tedesco in poi, con sempre maggior preminenza,
il dramma giocoso di Mozart e Da Ponte. Ma che continua
sui personaggi stessi, che per effetto perverso ha reso autonomi rispetto alle opere, alle parole o alle note che li creano,
mandandoli pirandellianamente in cerca d’autori di seconda
o terza mano, e sovraccaricandone le fragili spalle di greve
paccottiglia simbolica e allegorica nei più svariati stili. Amleto e gli altri due, dopo il sequestro di persona subito da parte
dei romantici, in particolare tedeschi – pallida eco provinciale e tardiva, come sempre, l’appropriazione italiana nel secondo Ottocento –, da circa duecento anni vanno per il mondo
come l’Ebreo errante, di volta in volta indossando il costu-
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me ed esibendo il trovarobato dei pregiudizi e delle voghe
del momento.
Poco prima della sua morte, Pio xii lasciò che i giornali diffondessero la notizia che Gesù in persona gli era apparso. Riferita a Roberto Longhi, la notizia suscitò nel grande storico
dell’arte una reazione fulminea: «Ah sì? E in che stile?». Lo
stesso, lo stessissimo problema si pone anche per Amleto – e
qui col nome non in corsivo intendo il personaggio dell’aneddotica, non certo il personaggio di parole al centro del play
shakespeariano. Dagli anni quaranta del Settecento, da quando cioè ricompare stabilmente sulla scena resuscitato dal grande attore David Garrick, Amleto è stato tutto e il contrario
di tutto: Amleto vendicatore, Amleto plutarcheo, Amleto romantico – il pallido Prence danese, appunto –, Amleto deciso
a tutto, Amleto cacadubbi par excellence, Amleto anticipatore della libertà di coscienza, Amleto nazista, Amleto edipico,
Amleto criptocattolico, Amleto gay, Amleto donna, Amleto
Don Giovanni, Amleto Don Chisciotte.
Soprattutto, Amleto, questa volta intendo il personaggio
costruito dalle parole del testo, è vittima di quella che potremmo chiamare la «fallacia psicologica». Non solo da oggi, o non
solo a partire da Konstantin Stanislavskij, si piglia sul serio
l’abbaglio che i personaggi abbiano una loro vita interiore, oltre lo spessore della carta, e una loro vita anteriore, precedente la loro comparsa sulla carta e, da lì, sulla scena. Fallacia che
è anch’essa figlia del romanticismo, che è stato poi una grande
psicologizzazione del mondo. E ancora oggi, soprattutto nel
teatro italiano, per gli attori, è una scorciatoia, un appiglio facilitante chiedere al regista quale sia la «motivazione», ossia il
movente psicologico che sta dietro il senso diretto delle parole che sta pronunciando. Dietro, naturalmente, non c’è niente.
Posso dire all’attore che interpreta Claudio che il personaggio
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è subdolo, che ha sempre secondi fini, e gravi e, a un tempo,
ipocriti tormenti di coscienza. Esercizio ozioso sarebbe chiedere all’attore che trovasse in sé, per analogia, nella propria
psiche – qualunque cosa significhi questa parola – le «motivazioni» di Claudio. Come poter ridurre un grande aristocratico regicida elisabettiano – perché questo è il personaggio
di Claudio: la stilizzazione verbale di un grande aristocratico
regicida, contemporaneo di Shakespeare – a dimensioni piccolo borghesi nella società di massa del nostro oggi? È certo meglio suggerire, raccomandare, forse imporre agli attori,
che dovrebbero essere dei tecnici esperti della comunicazione verbale, di trovare le ragioni del personaggio nel solo testo, nella lingua che articola e che lo articola. Per continuare
l’esempio dell’usurpatore Claudio, la sua prima lunga battuta
nella seconda scena del primo Atto lo definisce tutto, in ogni
dettaglio, in base a tre tratti puramente linguistici: sintassi, retorica e tic verbali. La sintassi serpentina e dilatoria: un accumulo di frasi dipendenti che ritardano il più possibile l’arrivo
della frase principale:
Re – Verde com’è ancora la memoria della morte
di Amleto, nostro caro fratello, e a noi si addica
serbar contratti in un solo groppo di pena
i nostri cuori in lutto, e il nostro regno intero,
pure, ormai, il decoro ha sconfitto la natura,
se ora pensiamo a lui con più temperato cordoglio,
senza scordar peraltro quel che conviene a noi.
E quindi, la nostra un tempo sorella, e ora nostra regina,
e imperial congiunta di questo stato guerriero,
abbiamo noi… come dire, con gioia angosciata,
con occhio lieto e l’altro lacrimante,
con giubilo alle esequie, requiem a nozze,
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bilanciando in misura equa diletto e dolore…
preso in moglie.
È una strategia di offuscamento, dilazione e diluizione del
senso che a noi italiani è ben nota: si pensi a certi politici di
vecchia scuola demo e cristiana, a certo stile omiletico cattolico. La frase principale è naturalmente: «abbiamo preso in
moglie». Ma arrivato al verbo, introduce una seconda tattica
dilatoria, una raffica di ossimori, che hanno però anche un ulteriore fine: tentare di normalizzare la frettolosità delle nozze
subito dopo la morte del re e del matrimonio con la di lui vedova, temendo già la possibile reazione di Amleto. Risposta
di bruciante sarcasmo alla facondia ossimorica di Claudio darà Amleto, nella stessa scena, a Orazio, che gli aveva appunto
fatto notare la brevità del periodo di vedovanza. È un meraviglioso gioco di parole macabro, a più strati (Atto I, scena seconda):
AMLETO – Risparmio, risparmio, Orazio. Con la carne fredda
del banchetto funebre ci abbiam guarnito il tavolo nuziale.
Chiaro che la carne fredda sia il cadavere del legittimo re. Da
cogliere in Claudio è anche un tic linguistico tutto suo, la ripetizione ossessiva del possessivo nostro – di rado abbandona il pluralis maiestatis – basti un piccolo elenco: «il nostro
regno intero», «la nostra un tempo sorella, e ora nostra regina», «il nostro Stato»; lo usa per ben otto volte. Quel potere che ha usurpato gli sta addosso come un cappotto rubato
al guardaroba; è lui il primo a doversi convincere che ora sia
suo. Ottimo retore il nostro Claudio, fautore di uno stoicismo
temperato, alla Seneca, in cui ragione e giudizio sopiscono volontà e passione (Atto i, scena seconda):
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Re – Buono e lodevole nella tua natura, Amleto,
che tu dia onori funebri a tuo padre,
ma ben lo sai: tuo padre perse il padre,
e quel padre perduto perse il suo – e a noi, sopravvissuti,
per qualche tempo è obbligo mostrar pietà filiale,
dolente ossequio. Ma il perseverare
in ostinata pena… ecco una scelta
empia e caparbia: un dolore poco maschio;
mostra una volontà ribelle al Cielo,
un cuore non fortificato, una mente impaziente,
un intelletto rozzo e senza studi.
Ciò accade, lo sappiamo, ed è comune
quanto la cosa più banale ai nostri sensi;
perché mai opporvisi con sciocca ostinazione?
Perché farsene un cruccio? – Vergogna! È un’offesa al
Cielo,
un’offesa al morto, un’offesa alla natura,
assurdissimo insulto alla ragione – il cui senso comune è
la morte dei padri, e che sempre ha gridato,
dal primo cadavere sino a colui che è morto proprio ieri,
«Così deve essere».
E altrettanto buon retore è Polonio, nell’esporre al figlio Laerte la morale cortese senechiana, quella che gli ha permesso di
conservarsi vivo e prospero sin lì, in un mondo di pura ferocia;
morale costruita coi luoghi comuni dell’etica stoica, sententiae
tratte da un commonplace book, taccuino di citazioni pronte
all’uso. Sino alla più abusata: to thine own self be true, sii fedele a te stesso. Il primo livello di sovversione in Amleto consiste
proprio in un sistematico rovesciamento di tale morale, in una
ironica decostruzione della retorica che la esprime. La ragione,
il senso comune, vuole che la morte dei padri, comunque avve-
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nuta, sia da accettarsi, sia normale. Attenti a questo breve dialogo tra Amleto e la Regina (Atto I, scena seconda):
Regina – Amleto, caro, togliti quel color di notte,
e guarda con occhi amici al regno danese.
Non puoi frugar per sempre a occhi bassi
tra la polvere in cerca di tuo padre,
lo sai?! è normale: chi è vivo morrà
passando da natura a eternità.
Amleto – Come no, signora, è normale!
Regina –
Normale, sì,
Perché soltanto a te sembra speciale?
Amleto – «Sembra», signora? No, è! Io non conosco «sembra».
Non è solo il mio manto nero-inchiostro – mamma cara,
né il lutto consueto dei vestiti,
né il vento di sospiri emessi a forza,
né un fiume che dagli occhi sgorga in piena,
né sembianza d’angoscia sulla faccia
e ogni forma immagine parvenza d’un soffrire
No! Niente di questo mi denota. E tutto questo
sì che infatti «sembra»: azioni che si posson recitare.
Per quel che io ho dentro qui non c’è l’attore,
non son scene e costumi del dolore.
È una morale dell’apparire, è teatro. E lui la decostruisce
proprio ricorrendo, per la prima volta nel testo, alla metafora del teatro, alla sua paradossale ambiguità di costruzione di menzogne e rivelatore di verità. Amleto, come ci dirà
tra poco, dopo l’incontro rivelatore con lo spettro – che gli
ha ingiunto di non dimenticare: «Remember me…» – sta costruendosi un commonplace book alternativo, fondato sulle
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sue terribili esperienze, una morale della verità (Atto i, scena quinta):
AMLETO – Ricordarmi di te?! Ma certo!
Dalla lavagna della mia memoria
cancello ogni ricordo vile e sciocco,
le massime dei libri, ogni forma, ogni impressione
che dai libri giovinezza e osservazione hanno copiato.
E il tuo comandamento vivrà unico
nel libro, nel volume del cervello,
non commisto a materia più vile. Sì, lo giuro!
Oh, perniciosa donna!
E lui, carogna, carogna, maledetta, sorridente carogna!
Il mio taccuino. Bisogna che lo appunti:
che uno può sorridere e sorridere e esser carogna –
o almeno così è in Danimarca.
E così, zio, ti ho colto. E ora il mio motto
sia «Addio, addio, ricordati di me!».
Io l’ho giurato.
Per salvare Amleto dalla sua riduzione a kitsch, ad aneddoto, a bignamico riassunto, il ritorno al testo è quindi fondamentale. Se non è più possibile per la Gioconda di Leonardo,
perché ormai il testo originario è un ectoplasma verdastro e
craquelé, appena intravvedibile dietro uno spesso vetro antiproiettile su cui sparano migliaia di flash turistici – e c’è quasi
da essere grati che di quell’immagine sopravviverà almeno il
fantasma su tovagliette di plastica e portaceneri – di Amleto,
grazie a stampatori, forse disonesti, e a una compagnia d’attori nostalgici di un collega che non c’è più e del loro maggior
autore di copioni, il testo, anzi, ancora meglio, i testi li possediamo.4 E per di più oggi abbiamo anche un meraviglioso stru-
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mento di studio: possiamo montarli a ipertesto sullo schermo
del nostro computer, e studiarne concordanze e discrepanze,
tagli o aggiunte, errori e corruzione di parole; costruirci un
nostro piccolo laboratorio filologico domestico per arrivare a
una comprensione più minuta e approfondita della ricchissima drammaturgia di questo play, certo tra i più complessi del
canone shakespeariano. Per l’enorme varietà di stili, dal sublime all’infimo; dalle più fiammeggianti metafore a uno stile
piano e conversativo, ai surreali qui pro quo linguistici di Amleto quando fa il pazzo; a piccoli gioielli lirici incastonati nel
flusso dell’azione, come, ad esempio, la descrizione che dà la
regina della morte d’Ofelia – «C’è un salice che sporge su un
ruscello», fine del quarto Atto –, una di quelle melodie verbali di cui è ricco il linguaggio delle fate, nel Sogno della prima
notte d’estate; ai doppi sensi osceni di Amleto, in aggressivi
colloqui – vere e proprie scene di tortura – con Ofelia; al linguaggio da farsa, verrebbe fatto di dire, quasi napoletana, dei
becchini: un perfetto duetto comico per Totò e Peppino De
Filippo, e che mirabili interpreti ne sarebbero stati; sino al linguaggio intimo, abbreviato e allusivo dei colloqui con Orazio,
la lingua che si parla tra amici. Ed è su questo tono che Amleto ci consegna l’apprendimento finale della sua Bildung – perché, fra le tante cose, Amleto è anche un Bildungsroman (un
romanzo di formazione) –, quel che il suo destino, si potrebbe
dire, con romantico scambio fallace tra personaggio e persona reale, ma, meglio dire, la drammaturgia del testo gli ha fatto capire: una spoglia accettazione epicurea di ogni momento
della vita e del più duro ad accettarsi, la morte: «Essere pronti: è tutto!». La sua parabola è stata una scuola della morte, e
ora, poco prima del duello truccato, la fiuta vicina.
Play tra i più complessi anche per la varietà di tecniche
drammatiche, in pratica tutte. Ogni forma possibile di dialogo
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teatrale, a due, a tre, a quattro, o, rubando il termine all’opera
mozartiana o verdiana, i grandi concertati d’azione come la scena del teatro nel teatro del terzo Atto: sei personaggi che interagiscono con l’azione teatrale interna – a play within a play,
un gioco dentro un gioco, è molto più espressivo –, prima la
pantomima, che era sicuramente su accompagnamento musicale, poi il piccolo dramma in versi rimati. E l’azione principale si sviluppa a specchio sui due piani con un crescendo di
tensione che con un voluto anacronismo definirei verdiano. E,
incastonate nel tessuto drammatico, sequenze narrative, racconti di azioni precedenti che non vediamo. L’intero antefatto, l’assassinio di Amleto Senior, è narrato dal suo spettro ad
Amleto Junior. Ma, fra tutte le tecniche drammatiche, la prevalente, nell’Amleto, è di certo il soliloquio. Ne abbiamo già
contati tre: «Ah, se questa carne troppo, troppo salda…» (Atto i, scena seconda); «Oh, ora son solo! / E che carogna, che
cialtrone sono!…» (Atto ii, scena seconda); il troppo celebre
«Essere o non essere…» (Atto iii, scena prima) volutamente
negletto sino a questo punto del libro. Quattro se si accetta
anche «In ogni incontro c’è per me un’accusa» (Atto iv, scena quarta), che appare nel solo Q2. Alcuni studiosi ne contano addirittura cinque, considerando come soliloquio il breve
a parte alla fine della seconda scena del terzo Atto, che precede la lunga carrellata in tempo reale che accompagna Amleto alla stanza della madre, prima di incontrare per via il re in
preghiera, e meditare di ucciderlo. È il tratto più nero che il
nostro eroe ci rivela di sé, quasi eccessivo rispetto all’insieme
dei tocchi che ne han disegnato sin qui il carattere – si noti che
in inglese character vuol dire personaggio – e il destino. Si direbbe un inserto di maledettismo marlowiano, o forse, come è
più probabile, è una reliquia del revenge play da cui l’Amleto
shakespeariano trae origine, e di tutte le revenge tragedies è un
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topos caratteristico del genere: il vendicatore, prima dell’atto
sanguinario, si caratterizza tramite un iperbolico immaginario
di macabra terribilità (Atto II, scena seconda):
AMLETO – È l’ora più stregata della notte,
sbadigliano le tombe e anche l’inferno
álita sul mondo il suo contagio.
Potrei bere sangue caldo, far nefasti
da far tremare il giorno, se li vede.
Ma calma! Arrivo, mamma. O cuore,
non perder tua natura. Impedisci
che l’anima di Nerone mi entri in petto;
crudele sì, ma non da snaturato.
Pugnali parlerò, ma senza usarli,
con lingua e anima, almen con lei, ipocrite:
e se parola infligge la ferita
risparmi l’atto l’anima contrita.
Non sorprende che i romantici vi abbiano letto un’anticipazione di cainismo byroniano.
Se ne accettino tre, quattro o cinque, è comunque chiaro
che mai come in nessun altro play il soliloquio sia qui la tecnica drammatica principale con cui si viene disegnando il personaggio. Ed è certo la graduazione fra i tre soliloqui principali
che articola una transizione dalla finzione di un’identità interiore privata, sia pure agita in pubblico e con la collaborazione del pubblico, a un’enunciazione affatto pubblica, poiché
questo è l’«Essere o non essere» all’inizio del terzo Atto. E
come vedete si è sostantivato, addirittura, proprio come accade per le arie celebri, strappate al loro contesto; si noti anche, che come aria di baule compare nei recital e nelle serate
d’addio di tutti gli attori, specialmente i tromboni, da almeno
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centocinquant’anni. Ora la concezione che si ha del celeberrimo soliloquio denuncia già l’intera impostazione di una regia
e di una interpretazione d’attore. Nel suo film del 1948, Laurence Olivier ne fa la chiave di volta di tutto il dramma. Fortemente influenzato dalla lettura psicoanalitica del personaggio
fatta da Ernest Jones, allievo e biografo di Freud,5 Olivier, regista e attore, ci consegna un Amleto, appunto, edipico – si
consideri in particolare la scena con la madre del terzo Atto –
«Amleto, hai molto offeso tuo padre…» – «consumata», verrebbe da dire, perché sovraccarica di ipertoni erotici, sul letto
coniugale di Gertrude e Claudio. Ma non si contenta di questo, la psicoanalisi diventa la chiave di lettura per una visione estremo-romantica del personaggio. A prefazione del film,
pone una sintesi, tagliando in pratica un verso su due, delle
parole pronunciate da Amleto un’istante prima che gli appaia lo spettro per la prima volta (Atto i, scena quarta). Il testo
che ne risulta, e che udiamo dalla voce fuori campo di OlivierAmleto è questo:
E così avviene a volte per alcuni,
che per un malvagio neo di natura,
per un eccesso di temperamento
che a volte abbatte pali e fortilizi
della ragione, o per un’abitudine
che troppo va al di là delle maniere
accettate – questi uomini, dicevo,
che recano lo stampo di un difetto, uno solo,
se han virtù limpide come la grazia,
e infinite, oltre ogni umano calcolo,
se le vedran corrotte dal pubblico
biasimo di quel solo difetto.
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L’outsider, il Wanderer romantico è già in scena. Ma non gli
basta. Su un’inquadratura che anticipa il funerale finale di
Amleto, Olivier aggiunge una frase sua: «This is the tragedy
of a man who could not make up his mind» (Questa è la tragedia di un uomo che non sapeva decidersi). Siamo all’estremo
dell’interpretazione romantica di Amleto: scissione tra pensiero e azione, a un pelo dall’inconsapevole parodia. Spostando scene a volontà, Olivier arriva a fare di To be or not to be
il centro perfetto dell’intero dramma. Un vertiginoso dolly ci
conduce su per una scala a chiocciola astratta e ingenuamente simbolica, alla Gordon Craig: i meandri della mente. Sugli
spalti del castello in vista d’un gelido, nordico mare in tempesta – romantic fallacy: «Rugge il mare e rugge implacata l’anima mia» – la camera in lento zoom s’avvicina da dietro alla
nuca ossigenata di Sir Laurence – allora quarantunenne, ma
ringiovanito anche dai capelli imbionditi – sino a perdere il
fuoco: entriamo nel cranio del grande attore, e qui sull’immagine che si sfalda, la sublime voce di baritono chiaro intona il magico emistichio – «To be or not to be» – senza pause,
ma con un mirabile legato melodico, e con un tono di infinita,
languida stanchezza. Si noti che, per più della metà del soliloquio, Olivier usa di un tipico mezzo cinematografico, la voce fuori campo, segno convenzionale del pensiero interiore.
L’anima romantica trova la sua ultima spiaggia, il lettino dello psicoanalista, e lì si estingue.
Nel 1964, Sir John Gielgud diresse a Broadway un Amleto che fece epoca, e che la stampa americana definì in coro
«storico» e «rivoluzionario».6 Riservando a se stesso il ruolo dello spettro – che una tradizione spuria vorrebbe interpretato all’epoca dallo stesso Shakespeare – Sir John costruì
l’intera regia sulla personalità, sulla voce, sul fisico di Richard Burton, allora ancora attore grandissimo, prima che dosi
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letali di alcol, droghe ed Elizabeth Taylor lo distruggessero.
Banditi scene – un semplice praticabile di assi, di sghembo
al palcoscenico – e costumi – i vestiti che si portano in prova; per Amleto un paio di calzonacci stazzonati e un maglione nero – tutto si concentrava sul gioco degli attori; respinti
anche effetti ed effettacci di luce, unica preoccupazione: che
gli attori fossero sempre in luce. Anche nella versione filmata,
con rigida tecnica televisiva anni sessanta, è possibile rendersi conto che di continuo Richard Burton usa i suoi magnifici
occhi azzurri per sedurre il pubblico e cercarne la complicità.
Giunto al troppo famoso soliloquio, è capace di distruggerne
subito l’alone e l’attesa kitsch che lo circonda con la sua sola entrata in scena. Entra trafelato, quasi di corsa, portando a
parossismo un tic che lo ha caratterizzato sin lì: si guarda di
continuo attorno, si sente spiato e inseguito. Poi i suoi occhi
azzurri scoprono il pubblico e a loro, a noi, pone la domanda,
senza emozione: è una tesi astratta da dimostrare.
E infatti, così argomenterebbe un filosofo scolastico che
volesse dimostrare la peccaminosità del suicidio e l’immortalità dell’anima (lo sviluppo retorico è quello di una lezione
universitaria): posto il problema, lo si sostiene con un serie di
exempla, poi si trae la conclusione – stile argomentativo magari appreso a Wittemberg. Solo che è una paradossale lezione: vi si pongono in grave dubbio entrambi i punti che il
nostro ipotetico filosofo scolastico avrebbe sostenuto. E forse quel che ci si propone di dimostrare è la suprema ironia di
quell’«annientamento in cui sperar con fede». Tra i soliloqui
d’Amleto, questo, diventato nella visione romantica del personaggio una sorta di mon cœur mis à nu, e che noi possiamo
sentire e vedere come fosse crollata non solo l’immaginaria
quarta parete, ma anche la calotta cranica dell’attore, è in realtà il meno privato, è discorso assolutamente pubblico. Quel
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noi che regge tutto il soliloquio ha il medesimo valore del nostra vita di Dante, nella prima riga della Commedia: ci abbraccia tutti in una medesima sorte umana. «Chi / reggerebbe
frustate e scherno di quest’epoca…» Quei chi a cui l’interrogazione è posta son seduti tra il pubblico; il bravo attore dovrebbe sceglierne le facce, una per una, e non meravigliarsi se
lo spettatore interrogato – come ho visto succedere – è tentato di rispondere.
Già, ma che voleva Amleto? Ricordo un cineforum bolognese anni sessanta; dopo la proiezione dell’Amleto russo
con regia di Grigorij Kozintsev (1965) nella bella traduzione
di Boris Pasternak,7 seguì, com’era di rito allora, il ferale dibattito. Si alzò il locale Zdanov, e con grevissimo accento bolognese ci inflisse una sua lunghissima esegesi del testo, che
in nuce suonava pressappoco così: «Amléto, rappreshenta il
dramma dell’intelletuale dishtaccato dalle masshe, non organico alle masshe, in cui pensiéro e atzione sono sissi» – si intenda: scissi – «sholo l’avanguardia rivolutzionaria permette
all’intelletuale di diventare organico alle masshe…», e così
via, pattinando sul nulla verbale. Caso estremo di una tendenza tutta italiana ereditata dal teatro gesuitico: quella di ridurre tutto ad allegoria secondo la devozione del momento.
Risultato negativo di questo atteggiamento è che si metterà in
scena, o si leggerà, sempre e soltanto l’aneddoto e mai il testo.
Testo che non ci presenta affatto un senso univoco riducibile a una formula, ma una galassia di significati possibili e tutti
compresenti, più proteiformi e labili della nuvola che Amleto
mostra a Polonio, nuvola che ora è cammello, ora faina, ora
balena. Polonio, per servilismo, assente. Il buon spettatore,
lo spettatore esperto, non si ferma all’aneddoto, di fronte a
quell’enorme e perfetta macchina di parole che è The Tragedy
of Hamlet, Prince of Denmark, accetta invece il ruolo collabo-
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rativo alla costruzione del senso, che Gombrich, per le immagini dipinte, definisce appunto «la parte dello spettatore», e
di cui Coleridge, per lo spettatore teatrale, dà la condizione
preliminare: a willing suspension of disbelief, una volontaria
sospensione dell’incredulità. Ed ecco che dal solo testo, senza alcuna interpretazione – oh, Dio ce ne guardi! –, Konzeptinszenierung, si generano decine di sensi possibili spesso tra
loro contrastanti.
Cos’è l’Amleto? – questa è la domanda legittima, non certo chi è Amleto? È in primo luogo un grande dramma politico su un tema che traversa tutta l’opera shakespeariana,
l’usurpazione,8 e su cui Shakespeare, probabilmente influenzato dal Discours de la servitude volontaire (letto o riferitogli)
di Étienne de La Boétie, amico di Montaigne, si rivela ambiguo se non possibilista, di contro alla teoria politica anglicana
che sosteneva fermamente la sacralità dei re legittimi. Il tema
era assai dibattuto e assai delicato, considerando la dubbia legittimità della dinastia Tudor e l’ancor più problematica successione a questa della dinastia Stuart, tarata di cattolicesimo.
A questo proposito, un dubbio legittimo è che l’Amleto sia imbevuto delle dispute dottrinali tra Riforma e Controriforma,
che si collochi sul crinale di due concezioni religiose in conflitto. E i segni di questa possibile lettura sono tanti: l’Università
di Wittemberg, dove Amleto ha studiato, con Rosencrantz e
Guildenstern (due nomi tedeschi), centro intellettuale della
rivoluzione protestante di Lutero, e Amleto del resto desidera
tornarci; la sincerità, l’autenticità dei sentimenti è un concetto
fondamentale del luteranesimo, che si lega all’idea di libertà
di coscienza; e coscienza è una parola chiave della teologia
luterana e del testo. E si tenga conto che in inglese, in epoca elisabettiana, la parola significava tanto scrupolo morale,
conoscenza del bene e del male e financo rimorso, ma anche
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consapevolezza. Un dizionario del periodo definisce coscience
come «percetto della propria mente, conoscenza, rimorso».
Pluralità di sensi che in parte ricopre la parola italiana coscienza. Inoltre, in più luoghi del testo, l’ambiguità o l’indecisione
tra le due visioni religiose è palese, per citarne due radicalmente opposte e determinanti per l’azione: lo spettro racconta
in chiari termini di esser condannato al purgatorio, credenza
affatto cattolica; protestante è l’atteggiamento di Amleto nella terza scena del terzo Atto, quando sorprende Claudio sprofondato in preghiera e si trattiene dal primo impulso, quello
di ucciderlo, nel dubbio che in tal modo contribuirebbe alla
sua salvazione. Il dubbio è che Claudio, tramite il pentimento, possa aver fatto quel «salto verso la grazia» che è dottrina luterana.9
Altra lettura possibile. È una tragedia familiare, la pesante eredità dei vecchi casca sulle spalle a volte troppo esili
dei giovani. Si notino le simmetrie di coppie genitori-figli: il
vecchio Fortinbras di Norvegia e Fortinbras figlio; il vecchio
Amleto, ridotto a spettro, e il giovane Amleto figlio; Polonio e il figlio Laerte, la cui storia, come nota lo stesso Amleto, scorre in parallelo alla sua, un subplot che forse si sarebbe
sviluppato di più se Shakespeare si fosse attenuto allo schema della revenge tragedy: Laerte parte per l’università, torna
per vendicare padre e sorella. In una doppia messinscena, in
inglese e francese – la versione inglese col grande attore nero
Adrian Lester nel ruolo –, nel 2000 Peter Brook, sfrondando il testo della cornice politica, proprio a un’essenziale tragedia familiare lo riduceva, messa in scena con l’essenzialità
di racconto di una leggenda orientale. Dissipata ogni idea di
vendetta, era invece una tragedia del ricordo e del lutto; «Remember me», l’ingiunzione dello spettro diveniva un motto,
un’insegna per un Amleto intensamente commosso che, guar-
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dandoci negli occhi, chiedeva a noi una risposta a «To be or
not to be?» mentre calde lacrime di intenso dolore gli rigavano il viso.
Certo, qualunque sia la chiave di lettura che si sceglie – e il
meglio assoluto sarebbe che a una scelta per esclusione, a un
questo o quello, si scegliesse un questo e quello e quello, una
messinscena che riuscisse ad abbracciare l’enorme pluralità di
significati del testo – al centro di ogni realizzazione teatrale o
cinematografica di Amleto c’è un personaggio, un Io autoriflessivo, fluido, impermanente che sembra uscito dalle pagine
di Montaigne – «Car c’est moy que je peins … Ainsi, lecteur,
je suis moy mesmes la matière de mon livre…» –, un personaggio che se non nostro contemporaneo è di sicuro nostro
antenato, in cui è facile per ognuno riconoscersi.
Resta da esplorare l’ultimo paradosso, quello così felicemente espresso da W.H. Auden nelle sue lezioni americane:
che Amleto sia un attore, o forse meglio, un attore-regista che
mette in scena la propria storia e se stesso. Da domandarsi
quindi: cos’è Amleto per lui o lui per Amleto? Ce lo spiega
con un complesso discorso sul teatro articolato in vari momenti, in cui di volta in volta impersona l’attore, il prompter,
e l’autore – è da ritenersi che il piccolo dramma didascalico
in versi sia suo –, unici momenti in cui vediamo Amleto sulla
scena in uno stato di compiuta felicità. Cosa sia il teatro, quella dimensione in cui è perfetto padrone di sé, ce lo dice con
un’immagine: uno specchio porto alla natura. Non è affatto
una dichiarazione di «realismo» o «naturalismo» – per quel
che vogliono dire simili termini – ante litteram. Amleto, uomo
del tardo Rinascimento, epoca il cui immaginario è ossessionato dagli specchi, sa benissimo che lo specchio non riflette
affatto la realtà così com’è, ne riflette l’immagine rovesciata.
Tanti pittori, da Leonardo a Rembrandt, hanno usato lo spec-
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chio per verificare nella simmetria rovesciata se nel quadro
c’erano dissimetrie, sproporzioni, errori di composizione.
A questo serve appunto il teatro, rovescio speculare della
vita, e quindi sua critica.
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di William Shakespeare
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Dramatis Personae
Amleto – Principe di Danimarca
Spettro – Padre d’Amleto e defunto re Amleto di Danimarca
Claudio – Re di Danimarca, fratello del re defunto
Gertrude – Madre d’Amleto e vedova di suo padre, ora moglie di re Claudio
Polonio – Consigliere di re Claudio
Laerte – Figlio di Polonio
Ofelia – Figlia di Polonio
Rinaldo – Uomo di Polonio
Seguito di Laerte
Orazio – Amico e compagno di studio d’Amleto
Rosencrantz, Guildenstern – Altri compagni di studi
Voltemand, Cornelio – Inviati danesi in Norvegia
Francesco, Bernardo, Marcello – Sentinelle
Osric – Cortigiano
Attori – Impersonano Prologo, Re sulla scena, Regina sulla scena e Luciano
Becchino – Clown
Altro – Aiutante, un altro clown
Prete, Nobili, Cortigiani, Messaggeri, Marinai
Fortinbras – Principe di Norvegia
Capitano – Dell’esercito norvegese
Ambasciatori – Dall’Inghilterra
Atto I
Scena prima
Entrano Bernardo e Francesco, due sentinelle, da porte diverse.
Bernardo – Chi è là?
Francesco – Lo chiedo io, piuttosto. Fermo là, e di’ chi sei!
Bernardo – Lunga vita al re!
Francesco – Sei Bernardo?
Bernardo – Sì, son io.
Francesco – Sei venuto puntuale.
Bernardo – Son suonate ora le dodici. Vai pure a letto, Francesco.
Francesco – Grazie che mi dai il cambio. Fa un gran freddo,
e ho un’angoscia addosso...
Bernardo – Tutto tranquillo durante la guardia?
Francesco – Non s’è mosso un topo...
Bernardo – Be’, buonanotte...
Ah... e se incontri Orazio e Marcello
– son di guardia con me – di’ che li aspetto.
Francesco – Mi sembra che sian loro.
[Entrano Orazio e Marcello.]1
Fermi, chi è?
Orazio – Amici del nostro Regno...
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Marcello –
... sudditi del Danese.
Francesco – Salve a voi.
Marcello – A te, bravo soldato, chi ti dà il cambio?
Francesco – C’è Bernardo al mio posto, salve a te...
Marcello – Ehi, Bernardo?!
Bernardo – Dì, c’è anche Orazio con te?
Orazio – Quel poco che ne vedi, almeno...
Bernardo – Cari Orazio e Marcello, benvenuti.
Orazio – Dite, la cosa è apparsa anche stanotte?
Bernardo – Io non ho visto niente.
Marcello – Secondo Orazio è solo fantasia:
lui proprio non crede a cose simili,
a orrori che abbiam visto ben due volte.
Ecco perché io ho chiesto proprio a lui
di far con noi la guardia tutta notte,
così che se verrà l’apparizione
si convinca che l’abbiam vista, e a quella parli.
Orazio – Ma va là! Non appare.
Bernardo –
Su, seduti,
t’assedierem le orecchie ancora un poco
così fortificate a ogni racconto
di quel che abbiamo visto per due notti.
Orazio – Be’ sediamoci e ascoltiamo,
e che sia Bernardo a raccontare.
Bernardo – Proprio la notte scorsa...
Già la stella lassù a ovest del Polo,
compiuto il corso, illuminava il cielo
dove adesso arde, quando Marcello e io...
– La campana stava battendo l’una...
(Entra lo Spettro.)
Marcello – Zitti... smetti... guardate... eccolo ancora.
Bernardo – E d’aspetto somiglia al re che è morto.
Marcello – Tu che sai molto, parlagli, Orazio.
Bernardo – Di’, non somiglia al re? Guardalo, Orazio!
Atto i, scena prima
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Orazio – Somiglia eccome! E tra stupore e paura mi lacera.
Bernardo – Vuol che gli si parli.
Marcello –
Chiedigli, Orazio...
Orazio – Chi sei tu? Usurpi la notte e la forma
bella e guerriera in cui un tempo marciava,
il re di Danimarca, il re sepolto? Ti impongo, parla!
Orazio – S’è offeso...
Bernardo –
Vedi che scivola via.
Esce lo Spettro.
Orazio – Fermati, parla, parla, te l’impongo!
Marcello – È sparito, e non ti vuol rispondere.
Bernardo – E allora, Orazio? Tremi e sei pallido.
Forse non è soltanto fantasia?
Che ne pensi?
Orazio – Davanti a Dio! Che non potrei mai crederlo,
Non avessi la prova sensibile
e veridica dei miei occhi.
Marcello – Di’, ma non somiglia al re!?
Orazio – Come te a te stesso.
Proprio con l’armatura che indossava
in guerra con l’ambiziosa Norvegia;
stesso corruccio, quando in scontro furioso
schiacciò sul ghiaccio i polacchi, slitte e tutto...
È strano!
Marcello – E già due volte, proprio in quest’ora morta,
lento e marziale, è apparso a noi di guardia.
Orazio – Come classificarlo col pensiero? Non saprei...
Mia opinione però è che sia un presagio
di strane sovversioni nello stato.
Marcello – Un momento, seduti, e chi sa parli:
perché queste guardie, la stretta sorveglianza
imposta ogni notte ai nostri sudditi,
perché di giorno è tutto un fonder di cannoni,
e strumenti di guerra che si compran da stranieri,
e maestri d’ascia che si piagano a far navi,
senza più distinguere dai giorni le domeniche?
Per qual scopo questa fretta trasudata
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
che fa la notte operaia accanto al giorno?
Chi mi può informare?
Orazio –
Io, o almeno
così si mormora: che il re, quello morto,
la cui immagine ci è apparsa poco fa
fu da Fortinbras re di Norvegia – lo sapete! –
spronato a emulazione nell’orgoglio,
e vi fu un duello. Amleto il valoroso
(così chiamato da tutto l’Occidente)
uccise Fortinbras, e in base al patto,
per legge e per l’onore legalissimo,
questi perse con la vita le terre,
che tutte andarono al conquistatore.
Il patto statuiva altresì
che il re cedesse una porzione congrua
di nostre terre a Fortinbras,
nel caso il vincitore fosse lui.
Clausola dal tenore in tutto simile
a quella per cui le terre vinse Amleto.
Succede ora che Fortinbras il giovane,
di tempra rozza, ardente e senza freni,
nelle province estreme di Norvegia,
predando in giro ha messo su una banda
di disperati senza legge pronti
per una minestra a far da carne
da macello a ogni impresa che richieda
un gran stomaco, che altro non sarebbe
– com’è chiaro dalla nostra situazione –
che riprendersi con man forte e imperio
quelle suddette terre che suo padre perse.
E questo, credo, è il motivo primo
dei preparativi; è la ragione
delle nostre guardie, ciò da cui origina
ogni fretta e trambusto nel paese.
Bernardo – E qual’altra semmai?! Così si spiega
perché quella figura portentosa
Atto i, scena prima
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ci appaia in armi e simile a quel re
che di queste guerre fu ed è causa.
Orazio – Un bruscolo nell’occhio della mente!...
Anche a Roma impalmata di vittorie
prima che il grande Giulio fosse ucciso,
le tombe rimasero vacanti e i morti in fasce
squittivano e biasciavano per strada;
stelle caudate di fiamma, rugiade
di sangue, e portenti nel sole; e l’acquea luna
che fa muover l’impero di Nettuno,
malata s’eclissò in un dies irae.
Sono araldi che annunciano il destino,
sono prologhi al male che s’avvera,
cielo e terra uniti ora lo mostrano
ai nostri climi, alla nostra gente...
[Entra lo Spettro.]
... Zitti, guardate, eccolo che torna...
Gli taglio la strada, anche se è malaugurio... Fermati, illusione:
Lo Spettro spalanca le braccia.
se hai un suono una voce che tu usi,
parlami!
Se qualcosa di buono può esser fatto
per dare a te la quiete e a me la grazia,
Parlami!
Se ti è noto il destino del paese,
e se prescienza è il modo d’evitarlo,
oh, parla!
O se in vita tu hai estorto gran tesori
che hai sepolto nel ventre della terra
– spesso per questo vagano gli spiriti –
parlane, resta e parla...
Il gallo canta.
... Oh fermalo, Marcello.
Marcello – Lo colpisco con la mia alabarda?
Orazio – Fallo, se non si ferma...
56
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Bernardo – È qui...
Orazio – È qui...
Marcello – È sparito...
Facciamo offesa, a tanta maestà
con questo spettacolo di violenza,
lui è come l’aria: invulnerabile
e la nostra ferocia è solo finta.
Bernardo – Stava per parlare, ma ha cantato il gallo.
Orazio – S’è scosso tutto come un colpevole
a un richiamo pauroso. Mi hanno detto
che il gallo, che è la tromba del mattino,
col suo squillo acuto e stridulo, svegli
il dio del giorno, e a quell’appello
da mare o fuoco, da terra o aria
gli spiriti vaganti ed errabondi
tornano tutti alle tane loro.
Di ciò sia prova la cosa che abbiam visto.
Marcello – È svanito al cantar del gallo.
Dicono che quando è vicino il tempo
del Natale del nostro Salvatore,
l’uccello dell’alba canti tutta notte,
e allora nessun spirito osa uscire,
salúbri son le notti, benigni i pianeti,
né fate fanno incanti, né streghe fan fatture,
tanto santo e pien di grazia è quel periodo.
Orazio – Così ho sentito, e, in parte, credo anch’io.
Guardate: il giorno di rossiccio intabarrato
già scala a Oriente il colle rugiadoso.
Smettiamo questa guardia, e a mio parere,
di quel che abbiamo visto questa notte
si informi il giovane Amleto. Io ci giuro:
lo spirito è muto a noi, ma con lui parla.
Siete d’accordo che tutto gli sia detto,
per l’amore che abbiam per lui, per il dovere?
Marcello – Sì, per favore, io so dove sia facile
trovarlo stamattina.
Escono.
Atto i, scena seconda
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Scena seconda
Fanfara. Entrano Claudio, re di Danimarca, Gertrude, la regina, il Consiglio,
che include Voltemand, Cornelio, Polonio, il figlio di questi Laerte, Amleto
(vestito di nero) e Altri.
Re – Verde com’è ancora la memoria della morte
di Amleto, nostro caro fratello, e a noi si addica
serbar contratti in un solo groppo di pena
i nostri cuori in lutto, e il nostro regno intero,
pure, ormai, il decoro ha sconfitto la natura,
se ora pensiamo a lui con più temperato cordoglio,
senza scordar peraltro quel che conviene a noi.
E quindi la nostra un tempo sorella, e ora nostra regina,
e imperial congiunta di questo stato guerriero,
abbiamo noi... come dire, con gioia angosciata,
con occhio lieto e l’altro lacrimante,
con giubilo alle esequie, requiem a nozze,
bilanciando in misura equa diletto e dolore...
preso in moglie. Né abbiamo negletto
il vostro miglior consiglio, da voi liberalmente
dato in queste transazioni. A voi tutti, il nostro grazie.
Succede ora che il giovin Fortinbras – come sapete –
illuso da una bassa opinione del valore nostro,
o convinto forse che con la morte del nostro fratello caro
il nostro stato sia preda a ogni disordine e dissesto,
e sognando per sé ogni possibile vantaggio,
non cessi di infastidirci con dispacci
che impongono la resa delle terre,
perse, con tutti i crismi della legge, dal padre suo a favore
del nostro valorosissimo fratello. – Sin qui, lui.
Ora quanto a noi, e a questo nostro incontro,
il punto è: al sire di Norvegia, zio del giovane
– un vecchio invalido, confinato a letto, che a malapena sa
gli intenti del nipote – abbiamo scritto noi dicendo
di impedire ogni passo in questo senso,
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
dato che quello recluta le truppe
tra i suoi sudditi di questi; e noi inviamo
te, buon Cornelio, e te Voltemand,
a recare il saluto al Norvegese,
senza alcun vostro potere personale
di negoziar col re: niente di più
di quanto dettagliato nello scritto.
Addio, e vi sia d’encomio il vostro zelo.
Cornelio,Voltemand – Agiamo in ogni cosa col massimo di zelo
Re – Non lo dubitiamo, addio di cuore. Escono Voltemand e Cornelio.
E ora, Laerte, dicci, che cos’hai?
D’una supplica ci hai detto? Su, Laerte,
se parli con ragione al re danese
non sprechi il fiato. Su, Laerte chiedi!
Ma prima che tu chieda io offro, no?!
La testa, si sa, è congiunta al cuore,
la mano è lo strumento della bocca,
e così è il nostro trono per tuo padre.
Di’, Laerte!
Laerte – Mio temuto signore,
il permesso e il favore di tornar in Francia.
Volentieri son venuto a farvi omaggi.
all’incoronazione vostra, in Danimarca.
Ma ora, compiuto quel dovere,
pensieri e desideri miei si volgono
ancora alla Francia, soggetti alla bontà vostra.
Re – Hai il permesso di tuo padre? Che dice Polonio?
Polonio – Ce l’ha, signore. Me l’ha estorto a forza
di continue richieste, e alla fine,
riluttante, ho apposto il mio sigillo
al suo volere. Vi prego, dategli licenza.
Re – Cogli l’età che è in fiore, Laerte, e il tempo è tuo,
e spendi a volontà i tuoi talenti.
Ma ora, Amleto, figliolo mio, e mio solo affine...
Amleto – Figliolo? Mai! Affine, men che meno!
Re – Perché ti gravano addosso queste nuvole?
Atto i, scena seconda
Amleto – Oh, no, signore... chi è solo è in pieno sole.
Regina – Amleto, caro, togliti quel color di notte,
e guarda con occhi amici al regno danese.
Non puoi frugar per sempre a occhi bassi
tra la polvere in cerca di tuo padre,
lo sai?! È normale: chi è vivo morrà
passando da natura a eternità.
Amleto – Come no, signora, è normale!
Regina –
Normale, sì,
Perché soltanto a te sembra speciale?
Amleto – «Sembra», signora? No, è! Io non conosco «sembra»
Non è solo il mio manto nero-inchiostro – mamma cara,
né il lutto consueto dei vestiti,
né il vento di sospiri emessi a forza,
né un fiume che dagli occhi sgorga in piena,
né sembianza d’angoscia sulla faccia
e ogni forma immagine parvenza d’un soffrire.
No! Niente di questo mi denota. E tutto questo
sì che infatti «sembra»: azioni che si posson recitare.
Per quel che io ho dentro qui non c’è l’attore,
non son scene e costumi del dolore.
Re – Buono e lodevole nella tua natura, Amleto,
che tu dia onori funebri a tuo padre,
ma ben lo sai: tuo padre perse il padre,
e quel padre perduto perse il suo – e a noi, sopravvissuti,
per qualche tempo è obbligo mostrar pietà filiale,
dolente ossequio. Ma il perseverare
in ostinata pena... ecco una scelta
empia e caparbia: un dolore poco maschio;
mostra una volontà ribelle al Cielo,
un cuore non fortificato, una mente impaziente,
un intelletto rozzo e senza studi.
Ciò accade, lo sappiamo, ed è comune
quanto la cosa più banale ai nostri sensi;
perché mai opporvisi con sciocca ostinazione?
Perché farsene un cruccio? – Vergogna! È un’offesa al Cielo,
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
un’offesa al morto, un’offesa alla natura,
assurdissimo insulto alla ragione – il cui senso comune è
la morte dei padri, e che sempre ha gridato,
dal primo cadavere sino a colui che è morto proprio ieri,
«Così deve essere». E noi ti preghiamo:
sotterra quest’inutile cordoglio, e pensa a noi
come a un padre; e sappia il mondo
che al nostro trono sei tu il più prossimo,
e che non meno nobile di quello
che il padre più affettuoso reca al figlio
è l’amore che io ho per te. Quanto alla tua intenzione
di ritornare a scuola a Wittemberg
è l’opposto del nostro desiderio, e noi ti preghiamo
che tu ti sottometta e qui rimanga,
degli occhi nostri a conforto e gioia,
tu, primo a corte, mio affine e nostro figlio.
Regina – Che tua madre non sprechi le preghiere, Amleto.
Non andare a Wittemberg, stai con noi.
Amleto – Per quel che posso, vi obbedirò, signora.
Re – Ecco una risposta amorevole e gentile.
In Danimarca sii come noi stessi. Signora, andiamo.
Questo assenso spontaneo e garbato
mi sorride al cuore; su risuoni un brindisi
giocondo che il re di Danimarca berrà oggi,
e il gran cannone lo dirà alle nuvole,
e i regali evviva dai cieli torneranno in eco
rimbombando in un terrestre tuono. Su andiamo.
Fanfara. Escono tutti salvo Amleto.
Amleto – Ah, se questa carne troppo, troppo salda
si sciogliesse, squagliasse, vaporando in rugiada!
E se l’Eterno non avesse scritto
la sua legge contro chi s’uccide. Oh, Dio,
Dio! Sfatti, muffiti, piatti, inutili
paiono a me gli usi di questo mondo!
Che schifo! Sì, che schifo! Un giardino
non curato che va in seme: erbacce marce
Atto i, scena seconda
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e brutte che tutte lo conquistano. – E a questo poi s’arriva?!
Lui morto da due mesi – no, neanche, neanche due –
un re così eccelso, che sta a questo
come Iperione a un satiro, e che tanto amava
mia madre, da non poter permetter che quel viso
fosse toccato da brezze celestiali troppo brusche. – Sant’Iddio, che sia
io a dover ricordare!? – E lei... che gli stava addosso
come se le crescesse l’appetito
più di lui si nutriva – eppure, dopo un mese...
Ah, non voglio pensarci. – Fragilità, il tuo nome è donna!
Un mesetto neanche... prima ancora di consumar le scarpe
con cui seguiva il corpo di mio padre...
Come Niobe, tutta lacrime – lei, proprio lei –
ma sì, una bestia priva d’ogni parola di ragione
avrebbe sofferto un po’ di più – lei, sposata con mio zio,
fratello di mio padre – simile a mio padre
non più di quanto io somigli a Ercole – le è bastato un mese,
prima ancora che il sale di lacrime simulate
avesse smesso di arrossarle gli occhi,
e si è sposata – che perfida fretta! – Infilarsi
con tale agilità tra lenzuola incestuose!
Niente di buono ne è venuto, niente di buono ne verrà.
Ma spezzati cuore: perché la lingua, quella, va frenata.
Entrano Orazio, Marcello e Bernardo.
Orazio – Salve, signore.
Amleto –
Ti vedo bene, e ne son contento.
Ma tu sei Orazio, se non sbaglio.
Orazio – Sì sono io, signore, e servo vostro sempre.
Amleto – Non servo, amico; tra noi sia questo il titolo.
Ma cosa ti porta qui da Wittemberg?
– [salutando Marcello] – Marcello...
Marcello – Mio buon signore.
Amleto – Son molto felice di vederti. – [a Bernardo] – Benvenuto
anche a te...
62
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Ma insomma, cosa ti porta qui da Wittemberg?
Orazio – La poca voglia di studiare, Principe.
Amleto – Neanche se me lo dicesse un tuo nemico;
e non dovresti far violenza alle mie orecchie
con un giudizio così negativo
su te stesso: non sei un fannullone, lo so.
Ma quali affari ti portano a Elsinore?
T’insegneremo a bere alla danese, prima che tu parta.
Orazio – Son venuto per il funerale di tuo padre, Principe.
Amleto – Non prendermi in giro, ti prego, compagno di studi.
Sarai venuto per le nozze di mia madre.
Orazio – Be’ sì; son seguite poco dopo.
Amleto – Risparmio, risparmio, Orazio. Con la carne fredda
del banchetto funebre ci abbiam guarnito il tavolo nuziale.
Meglio se incontravo il mio peggior nemico in Cielo,
piuttosto che vedere mai quel giorno, Orazio...
Mio padre – mi sembra di veder mio padre...
Orazio – Dove, Principe?
Amleto – Con l’occhio della mente, Orazio.
Orazio – L’ho visto un tempo; era un re imponente.
Amleto – Era un uomo... perfetto in ogni cosa;
né mai più si vedrà chi gli stia a pari.
Orazio – Principe, credo d’averlo visto ieri notte.
Amleto – Visto? Chi?
Orazio –
Il re tuo padre, Principe.
Amleto – Il re mio padre?
Orazio – Modera il tuo sgomento per un attimo,
e porgi orecchio attento: ti racconto
del prodigio a cui anche loro due
hanno assitito.
Amleto –
Oh, per l’amor di Dio, fammi sapere!
Orazio – Già da due notti, insieme, loro due,
Marcello e lui, Bernardo, eran di guardia,
nel cuore desolato della notte,
quando gli si fa incontro una figura: somigliava...
a tuo padre, di tutto punto armato, proprio lui,
Atto i, scena seconda
63
che in marcia solenne appare e si allontana,
maestoso; per tre volte si mostra
agli occhi loro stravolti di terrore;
così vicino che li sfiora con lo scettro, e loro,
quasi disciolti in gelatina di paura,
se ne stan muti, e a lui non parlano. Questo
m’han riferito in trepido segreto
e io, la terza notte sto di guardia anch’io,
ed ecco – proprio come han detto, sia per l’ora,
sia l’aspetto della Cosa – tutto esatto –
ecco l’apparizione. Conoscevo tuo padre: gli somiglia,
come somiglia all’altra questa mano.
Amleto – Dove?
Marcello – Signore, al posto di guardia, sugli spalti.
Amleto – E tu non gli hai parlato, a quella Cosa?
Orazio –
Principe, io ho parlato,
ma non ha risposto. Eppure a un tratto,
m’è parso che alzasse la testa come
per parlare, ma proprio allora il gallo
del mattino ha cantato forte, e lui
si è ritratto in fretta ed è svanito
alla vista.
Amleto – Che cosa strana!
Orazio – Sulla mia vita, Principe onorato, è tutto vero:
E ci è parso un dovere a tutti noi
di riferirlo a te.
Amleto – Giusto, signori; ma per me è un’angoscia.
Siete di guardia stanotte?
Tutti – Sissignore.
Amleto – Armato, avete detto?
Tutti –
Sì, armato!
Amleto – Da capo a piedi?
Tutti –
Sì, da capo a piedi!
Amleto – E quindi non l’avete visto in faccia?!
Orazio – Oh sì, Principe, aveva la visiera alzata.
Amleto – E che espressione aveva, minacciosa?
64
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Orazio – No, sembrava più di dolore che di rabbia.
Amleto – Pallido o rosso in viso?
Orazio –
Molto pallido.
Amleto – E ti guardava fisso?
Orazio –
Di continuo.
Amleto – Ma perché non c’ero anch’io?
Orazio – T’avrebbe sgomentato.
Amleto –
È possibile.
Ed è rimasto a lungo?
Orazio – Quanto basta a contare in fretta fino a cento.
Marcello, Bernardo – No, di più, di più.
Orazio – Non quando l’ho visto io.
Amleto – La barba brizzolata, non è vero?
Orazio – Come l’ho vista io quand’era in vita:
bruno-argentea.
Amleto – Sarò di guardia anch’io, stanotte.
Forse riapparirà.
Orazio –
Ah, di sicuro!
Amleto – Se assume la figura di mio padre,
io gli parlo – l’inferno a bocca aperta
non mi farà tacere! Ora, vi prego:
della visione niente avete detto
sinora: continuate nel silenzio;
qualunque cosa accada questa notte,
capitela col pensiero, non la lingua.
Ripagherò l’amore vostro. Addio.
Tra le undici e le dodici, agli spalti.
Vi farò visita.
Tutti –
Ti rendremo onore.
Amleto – Amore, piuttosto, e il mio do a voi. Addio.
Escono [Orazio, Marcello e Bernardo].
Lo spirito di mio padre – e armato! Non tutto è sano allora. Lo
sento,
c’è un delitto. Oh fosse già notte. E intanto, zitta tu, mia anima.
Pur sepolti a noi tornano i crimini,
a rivelarsi agli occhi di noi uomini.
Atto i, scena terza
Scena terza
Entrano Laerte e Ofelia, sorella di questi.
Laerte – I bagagli son già imbarcati. Addio.
Ma se è propizio il vento, e un convoglio
salpa in rada, sorella, non dormire:
mandami tue notizie.
Ofelia –
E ne dubiti?
Laerte – Quanto ad Amleto, e ai suoi affetti labili,
prendili come un capriccio, un bollore del sangue,
una violetta della prima età,
precoce, non permanente, dolce, ma non durevole,
profumo o surrogato di un minuto,
niente di più.
Ofelia – Niente di più?
Laerte –
No, non pensarci più.
La natura in crescita non sviluppa
solo muscoli e volume; s’accresce il tempio,
e con esso l’interiore capacità di intelletto e anima
si fa più ampia. Forse ora ti ama,
E ora, nessun sudiciume o inganno insozza
la virtù del suo volere; ma attenta:
se consideri chi è, il suo volere non è suo.
Poiché anche lui è suddito della sua nascita,
e non può, come fa chi è di bassa condizione,
far quel che vuole, poiché dalle sue scelte dipende
benessere e salvezza dello stato;
e quindi quelle scelte verranno limitate
dalla voce e dal consenso di quel corpo
di cui lui è il capo. Se dice che ti ama,
sta al tuo buon senso crederlo,
almeno fin là dove il suo rango
gli permette di accordar parola e atto;
ossia, fin là dove concede l’assenso generale dei danesi.
Soppesa quindi quale perdita per l’onor tuo sarebbe
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66
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
se tu porgessi orecchio troppo credulo alle sue canzoni,
o ci perdessi il cuore, o il tuo casto tesoro
schiudessi alla sua licenza sregolata.
Temilo, Ofelia, temi, sorella cara,
il desiderio, il pericolo; tienti fuori tiro.
La più pudica vergine è già prodiga
se solo svela alla luna le sue grazie.
La più pura virtù non sfugge alla calunnia.
E il cancro guasta l’infante primavera
prima ancora che i bocci sian dischiusi,
e sul mattin di gioventù, con le sue liquide rugiade,
già incombono folate di contagio. – Temilo, e sta attenta:
nella paura è la miglior salvezza,
le voglie fan ribelle giovinezza.
Ofelia – Farò buon conto della tua lezione,
la terrò a guardia del cuore. Però, fratello,
non far come quei preti senza grazia,
che mostran la via erta e spinosa al paradiso,
e poi, tronfi e screanzati libertini,
si colgono ogni primula sui viali del piacere,
e alle proprie prediche non badano.
Laerte – Oh, non temere. È tardi.
Entra Polonio.
Ecco mio padre.
Due benedizioni sono una doppia grazia:
ottima occasione per un secondo abbraccio.
Polonio – Ancora qui, Laerte? A bordo, a bordo.
Il vento gonfia le spalle alle tue vele,
E tu stai qui? Ti do la mia benedizione.
E qualche precetto da scolpire in mente:
che i tuoi pensieri mai sciolgan la lingua,
né idea imprudente mai divenga atto.
Schietto con tutti, senza esser volgare;
amici ne hai, di cui hai ben provato l’amicizia,
Atto i, scena terza
vincolali a te con grappe d’acciaio;
non sprecar strette di mano con perdigiorno
o parvenus di primo pelo. Attento,
non attaccar mai lite; se ti ci tiran dentro,
Fai che il tuo oppositore abbia paura.
Porgi orecchio a ognuno, ma a pochi la tua voce;
ascolta ogni parere, ma riserva il tuo giudizio.
Véstiti come la borsa ti permette:
in modo non vistoso, chic, ma non volgare:
è l’abito, si dice, che fa l’uomo,
e in Francia quelli di rango altissimo
è in questo che si distinguono dagli altri.
Non prendere né fare mai un prestito:
col prestito ci perdi anche gli amici,
coi debiti perdi il senso del risparmio.
Ma questo soprattutto: sii fedele a te stesso,
e come notte segue a giorno,
non potrai esser falso con nessuno.
Addio, e ti rafforzi la mia benedizione.
Laerte – Chiedo umile congedo, mio signore.
Polonio – Il tempo preme; va’, i servi attendono.
Laerte – Addio, Ofelia, e ricorda bene
quel che ho detto.
Ofelia –
L’ho chiuso nella mente,
e la chiave la serberai tu.
Laerte – Addio.
Polonio – Ofelia, cosa aveva da dirti?
Ofelia – Qualcosa a proposito del signor Amleto.
Polonio – Oh perbacco, idea opportuna.
Mi si dice che da qualche tempo lui ami
dedicarti molto del suo tempo – in privato,
e tu stessa, del tuo, sei molto prodiga con lui,
e assai libera. Se è così – perché così mi dicono – io ti dico
che forse non ti è chiaro, non capisci
cosa s’addica a mia figlia, e al tuo onore.
Cosa c’è tra voi? Dimmi la verità, tutta.
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Ofelia – Da qualche tempo compensa il mio
col suo affetto.
Polonio – Affetto? Parli come una mammola,
del tutto ignara di simili pericoli.
e questi compensi, come li chiami tu, ti vanno bene?
Ofelia – Non so, papà, cosa dovrei pensare?
Polonio – Ah no? Te l’insegno io. Pensa
che sei bambina, e i compensi che accetti,
son moneta falsa. A tuo compenso invece,
offriti a prezzo più alto, o rimarrò
– ma poi basta, che la parola mi si sfianca –
con una figlia scema, a mio compenso.
Ofelia – Signore, mi ha fatto un poco la corte
ma con garbo, in modo onorevole.
Polonio – Ah, con garbo?! Se lo dici tu. Ma andiamo!
Ofelia – E a conferma delle sue parole
ha giurato su tutti i sacri voti.
Polonio – Trappole per cacciar beccacce. Vuoi che non sappia?
Quando il sangue bolle l’anima prodiga
scioglie la lingua in sacri voti. Fuochi fatui, figliola,
che dan più luce che calore, estinti
in entrambi, non appena la promessa è pronunciata;
Non prenderli per fuoco vero. D’ora in poi
sii più avara del tuo virgineo aspetto,
poni più alta posta al negoziato,
non accettar colloqui su comando. Quanto al principe,
credimi, è giovane, e può camminare
con un guinzaglio lungo assai di più di quello
che si può lasciare a te. In breve, Ofelia,
non credere ai suoi voti, son mezzani,
malgrado i loro abiti sgargianti,
procacciatori di unioni empie,
ruffiani che sospiran devozione
per meglio ingannare. Basti questo.
Detto in chiaro: io non vorrei che d’ora in poi tu
abusassi d’ogni attimo di agio
Atto i, scena quarta
per scambiar parole con il principe.
Bada: è un ordine. Vieni.
Ofelia –
Obbedirò.
69
Escono.
Scena quarta
Entrano Amleto, Orazio e Marcello.
Amleto – L’aria morde cattiva, è molto freddo.
Orazio – Sì, aria che punge aspra.
Amleto –
Che ora è?
Orazio – Manca poco alla mezzanotte, credo.
Marcello – No, è suonata.
Orazio –
Di già? Non l’ho sentita.
S’avvicina il momento in cui lo spettro,
com’è suo uso, appare.
Squillo di tromba, poi due colpi di cannone.
Che vuol dire, Principe?
Amleto – Il re veglia stanotte, in gran baldoria;
ci si sbronza, turbina spavalda la gagliarda,
e mentre lui si scola vin del Reno,
timpani e trombe sbraitano il trionfo
a ogni suo brindisi.
Orazio –
È un’usanza?
Amleto – Come no!? E benché io sia nativo
di qui, cresciuto in questi usi, è un costume
ch’è meglio infrangere che rispettare.
Queste torpide orge a est e ovest
ci attiran critiche da ogni paese –
ci chiaman ubriaconi, e di noi parlano
con attributi che alludono al maiale,
e ogni nostra impresa, anche perfetta,
perde ogni nerbo, per la nostra fama.
E così avviene a volte per alcuni,
che per un malvagio neo di natura,
70
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
che han dalla nascita, senza alcuna colpa
(l’origine in natura non si sceglie),
per un eccesso di temperamento
che a volte abbatte pali e fortilizi
della ragione, o per un’abitudine
che troppo va al di là delle maniere
accettate – questi uomini, dicevo,
che recano lo stampo di un difetto, uno solo,
sia segno di Natura o delle Stelle,
se han virtù limpide come la grazia,
e infinite, oltre ogni umano calcolo,
se le vedran corrotte dal pubblico
biasimo di quel solo difetto.
Una goccia di male spesso oscura
ogni più nobile sostanza, e ne fa scandalo.
Entra lo Spettro.
Orazio – Eccolo, Principe, che viene.
Amleto – Angeli e ministri di grazia, difendeteci!
Spirito di salvezza o lemure dannato che tu sia,
che tu rechi brezze celesti o vampe d’inferno,
che i tuoi intenti sian caritatevoli o malvagi,
tu m’appari in forma così desiderosa di domande
che io ti parlerò. Ti chiamerò Amleto,
Re, padre, sovrano danese. Oh, rispondimi,
non lasciar ch’io scoppi d’ignoranza; dimmi,
perché le tue ossa benedette e catafratte nella morte
han fatto scoppiare il sudario, perché il sepolcro
in cui t’abbiam visto deposto, così zitto,
spalanca ganasce marmoree e pesanti
per rigettarti in su? Che può voler dire
che tu, corpo morto, d’acciaio di nuovo armato
rivisiti così questi balenii di luna
facendo della notte un terrore e noi, prede sciocche
di natura, orribilmente scossi nella mente
Atto i, scena quarta
71
da pensieri ben oltre la presa delle nostre anime?
Dimmi, perché? A che scopo? E noi, che fare?
Lo Spettro fa cenno con la testa ad Amleto.
Orazio – Ti fa cenno con la testa di seguirlo,
come avesse qualcosa da dire a te
soltanto.
Marcello – Guardate con che gesto gentile
gli fa cenno di appartarsi con lui.
Signore, non lo segua.
Orazio –
Non seguirlo.
Amleto – Ma qui non parla. E io lo seguirò.
Orazio – No, non farlo.
Amleto –
Di cosa aver paura?
La mia vita costa meno di uno spillo,
e quanto all’anima, cosa può farle
se è cosa immortale come lui?
Mi fa cenno ancora. Io lo seguo.
Orazio – E se ti tenta verso i flutti, oppure
in cima a quello scoglio spaventoso
che par fronte aggrottata sopra il mare,
e qui lui assume forma così orribile
da privarti d’ogni dominio di ragione
e spingerti alla pazzia? Pensaci.
Quel posto basta da solo a mettere
tarli di disperazione in ogni mente
che guardi giù per tante tese al mare
e laggiù lo senta ruggire.
Amleto –
Mi fa cenno ancora.
Vai avanti, io ti seguo.
Marcello – Signore, non ci vada.
Amleto –
Giù le mani.
Orazio – Fatti guidare, Principe.
Amleto –
È il mio destino che mi urla e fa
ogni minima arteria in questo corpo
decisa come i nervi del leone
neméo. E ancora chiama! Lasciatemi, signori,
72
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
o, perdio, farò uno spettro di chi mi trattiene!
Giù le mani, vi ho detto. – Tu precedimi e io seguo.
Escono Spettro e Amleto.
Orazio – È l’immaginazione che lo sperde.
Marcello – Seguiamolo. Non è il caso d’obbedirgli.
Orazio – Andiamo. E a che s’arriverà da tutto questo?
Marcello – Qualcosa è marcio nello stato danese.
Orazio – Il cielo ne avrà cura.
Marcello –
Per intanto, seguiamolo però.
Scena quinta
Entrano Spettro e Amleto.
Amleto – Dove mi porti? Parla, o resto qui.
Spettro – Ascoltami.
Amleto –
T’ascolto.
Spettro –
È l’ora ormai:
alle sulfuree fiamme del tormento
tra poco dovrò arrendermi.
Amleto –
Tu, povero spettro.
Spettro – Non mi compiangere, ma ascolta attento
quel che ti svelerò.
Amleto –
Parla, t’ascolto, devo...
Spettro – Pronto a vendicare quel che udrai.
Amleto – Cosa?
Spettro – Io sono lo spirito di tuo padre,
dannato per un tempo dato a vagare nelle notti,
e di giorno confinato al digiuno nelle fiamme,
sinché gli sconci crimini dei tempi di natura
sian arsi e purgati. Non fosse che mi è proibito
dire i segreti della mia prigione, un racconto
ti potrei fare in cui la più innocua parola
ti tortura l’anima, ti gela quel sangue giovane,
ti fa schizzare quegli occhi stellati dalle orbite,
Atto i, scena quinta
ti scioglie e scombina i ricci e in piedi drizza
separato ogni capello, come aculei
sul dorso d’impaurito porcospino.
Ma questo emblema d’eterno non si può svelare
a orecchie di carne e sangue. Ascolta, sentimi!
Se tu hai amato il caro padre...
Amleto –
E come! Oh, Dio.
Spettro – Vendicane lo sconcio, snaturato assassinio.
Amleto – Assassinio!
Spettro – Assassinio sconcio, com’è in genere,
ma il mio, sconcissimo, strano e snaturato.
Amleto – Affrettati a dirmelo, e io con ali più rapide
dell’intuizione o dei pensieri amorosi
corro alla vendetta.
Spettro –
Ti vedo pronto.
Saresti più torpido delle alghe grasse
e molli lungo le rive del Lete
se tu non reagissi a questo. Ora, Amleto, ascolta.
Si disse che dormivo nel giardino,
e un serpente mi punse – e ogni orecchio
in Danimarca, con un verbale falso sulla morte
fu così ingannato impunemente – ma tu nobile ragazzo ora saprai:
il serpente che punse e tolse al padre tuo la vita
ora ne porta la corona.
Amleto – Oh mia anima profetica! Mio zio!
Spettro – Sì, quell’incestuoso, quella bestia adultera,
con magie del suo ingegno e doni traditori –
oh malefico ingegno, e doni che san come sedurre! –
vinse a vergognosa libidine il volere
della mia regina, tutta virtù all’aspetto.
Oh Amleto, quale caduta in basso:
Da me – il cui amore fu di tale dignità
da tener fede, mano nella mano,
al voto che le feci in matrimonio –
a un furfante, i cui doni naturali
son ben misera cosa a petto ai miei.
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74
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Ma così come la virtù non cede,
la tenti pure in divine sembianze la lascivia,
così libidine, sia pur unita a un angelo radioso,
si sazierà in un letto celestiale,
sempre però anelando al letame.
Ma zitto! Già fiuto l’aria del mattino:
dovrò esser breve. Dormivo dunque,
nel giardino, com’era mio costume al pomeriggio,
nell’ora di pace; furtivo entra tuo zio,
col nocivo succo di giusquiamo in una fiala;
versa nei padiglioni delle orecchie
quel distillato di lebbra il cui effetto
tanto è nemico al sangue di noi umani
che corre rapido come mercurio
per porte naturali e vicoli del corpo,
e coagula con subito vigore,
caglia, come acido che cada dentro il latte,
il sangue fluido e sano. E così fece al mio,
e all’istante, mi crebbe una corteccia sulla pelle,
come a un lebbroso, schifose croste
sul mio corpo liscio.
Dormivo, e per mano d’un fratello
mi fu tolta la vita, la regina, la corona,
spento così nel fior dei miei peccati,
impreparato, senza olio santo o ostia,
senza esame di coscienza, spedito a render conto
di ogni imperfezione sul mio capo.
Orribile! Orribile! Troppo orribile!
Se natura parla in te, non tollerare
che il regal letto danese sia una cuccia
di lussuria e incesto maledetti. Ma comunque
tu decida di punire questo atto,
non ti sporcar la mente e l’anima
con pensieri e complotti contro tua madre. Lasciala al cielo,
e a quelle spine che ha conficcate in seno
e la pungono e straziano. Addio, per ora!
Atto i, scena quinta
75
La lucciola mostra ch’è già mattina,
con la sua luce inane pallidissima.
Addio, addio, addio, ricordati di me.
Amleto – Oh, eserciti del Cielo! Oh, Terra! E cosa poi?!
Ci aggiungo anche l’inferno?? Oh, che schifo! Reggi, reggi, mio cuore,
e anche voi nervi, non invecchiate a un tratto,
tenetemi rigido in piedi. Ricordarti?!
Ma sì, povero spettro, finché memoria avrà un seggio
in questo pazzo globo. Ricordarmi di te?! Ma certo!
Dalla lavagna della mia memoria
cancello ogni ricordo vile e sciocco,
le massime dei libri, ogni forma, ogni impressione
che dai libri giovinezza e osservazione hanno copiato.
E il tuo comandamento vivrà unico
nel libro, nel volume del cervello,
non commisto a materia più vile. Sì, lo giuro!
Oh, perniciosa donna!
E lui, carogna, carogna, maledetta, sorridente carogna!
Il mio taccuino. Bisogna che lo appunti:
che uno può sorridere e sorridere e esser carogna –
o almeno così è in Danimarca.
E così, zio, ti ho colto. E ora il mio motto
sia «Addio, addio, ricordati di me!».
Io l’ho giurato.
Entrano Orazio e Marcello [chiamando].
Orazio – Principe, signore
Marcello – Principe Amleto.
Orazio – Che il cielo lo protegga.
Amleto – [a parte] – E così sia.
Marcello – Ehilà, ehilà, signore.
Amleto – Ehilà, ehilà, vieni, uccellino, vieni! Pio...pio...pio!
Marcello – Che c’è, nobile signore?
Orazio – Che notizie, Principe?
Amleto – Oh, meravigliose!
76
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Orazio – Diccele, buon Principe.
Amleto – No, perché poi tu le racconti.
Orazio – Non io, Principe, lo giuro.
Marcello – E neanch’io, signore: non lo racconto.
Amleto – Raccontare cosa? Ma quale cuore umano
può immaginar simili cose? – Ma terrete il segreto?
Orazio, Marcello – Sì, lo giuro.
Amleto – Non c’è carogna schifosa in Danimarca...
che non sia anche un poco mascalzone.
Orazio – Non servono spettri, Principe, tornati dalla tomba.
per venirci a dir questo.
Amleto –
Giusto, hai ragione;
e dunque, senz’altra formalità
è opportuno stringerci la mano e separarci,
voi dove i vostri affari e desideri
comandano – perché ogni uomo ha affari e desideri,
qual che siano – quanto a me, al mio povero me,
andrò a pregare.
Orazio – Principe, son parole pazze, scombinate.
Amleto – Mi dispiace che t’offendano – di cuore,
sì, di cuore.
Orazio –
Non c’è offesa, Principe.
Amleto – Per san Patrizio, sì che c’è Orazio!
E grande offesa anche. Quanto alla visione, qui stanotte,
è uno spettro onesto, ve lo dico io.
E quanto al desiderio di sapere cosa c’è tra noi due,
reprimetelo come meglio potete. E ora, amici,
poiché amici siete, e studiosi e soldati,
fatemi un piccolo favore.
Orazio –
Che favore, Principe? Volentieri!
Amleto – Mai raccontare a nessuno quel che qui avete visto stanotte.
Orazio, Marcello – Mai, signore.
Amleto – Certo, ma giuratelo.
Orazio – Lo giuro, Principe
Marcello – Anch’io, signore.
Amleto – Sulla spada.
Atto i, scena quinta
77
Marcello – Lo abbiamo già giurato, signore.
Amleto – No, sulla mia spada, giuratelo.
Spettro – [gridando da sotto il palcoscenico] – Giurate!
Amleto – Ah ha, ragazzo, se lo dici anche tu?! Di’, sei laggiù, mio fido?
Ehi, lo sentite quello nello scantinato?!
Consentite a giurare.
Orazio –
Proponi il giuramento.
Amleto – Non parlerete mai di quel che avete visto.
Giurate sulla mia spada.
Spettro – Giurate!
[Giurano.]
Amleto – Hic et ubique? A turno.
Venite qui, signori,
e ponete le mani sulla spada.
Giurate sulla spada
di non parlare mai di quel che avete udito.
Spettro – Giurate sulla sua spada.
[Giurano.]
Amleto – Ben detto, vecchia talpa. E scavi svelto sotto terra?!
Che bravo minatore! Su tutti assieme amici.
[Giurano.]
Orazio – Oh santo cielo! Ma tutto ciò è stranissimo!
Amleto – Strano... straniero, e quindi va ben accolto.
Ci son più cose, Orazio, in cielo e in terra
di quante sa sognar filosofia.
Ma ancora,
qui, come prima, giurerete che «mai e poi mai»...
che se io mi comporto in modo strano o strambo,
a volte, e a volte crederò opportuno
assumere un carattere bizzarro –
voi, vedendomi così, mai, dico mai,
o incrociando così le braccia, o scuotendo il capo,
o con frasi allusive tipo: «Be’, noi sappiamo...»,
o «Ah se solo potessimo...», o «Ah se solo volessimo...».
o «E certuni poi...»
o enunciati ambigui come questi,
mai dovrete far notare che voi
sapete qualcosa su di me – bene, giurate,
78
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
e grazia e compassione v’assistan nel bisogno.
Spettro – Giurate!
Amleto – Riposa, riposa, spirito turbato. E così, signori,
con tutto il mio affetto mi raccomando a voi;
E quel ch’è dato al pover’uomo Amleto
d’esprimervi in amore e amicizia,
se Dio vorrà, non vi verrà a mancare.
Ma entriamo adesso. E «dito sul labbro», prego.
L’epoca è sconnessa; sarcasmo ingrato:
che a ripararla proprio io sia nato!
No, no, usciamo insieme.
[Giurano.]
Atto II
Scena prima
Entrano il vecchio Polonio e il suo uomo Rinaldo.
Polonio – Dagli questi soldi e queste carte, Rinaldo.
Rinaldo – Sissignore.
Polonio – E farai cosa saggia, buon Rinaldo,
se prima d’andar da lui indaghi un po’
su come si comporta.
Rinaldo –
È mia intenzione.
Polonio – Oh perbacco! Ben detto, molto ben detto!
Senti un po’, prima indaga sui danesi di Parigi:
chi, come, quali mezzi e dove stanno,
le compagnie, le spese; e poi, per vie
traverse, sempre, e domande incalzanti,
quando sai che conoscono mio figlio, vai
più vicino di quel che lasci intendere.
Fai finta, insomma, che lo conosci poco:
«Conosco il padre, qualche suo amico,
e un po’ anche lui... – Mi stai attento, Rinaldo?
Rinaldo – E come no, signore!
Polonio – ... e un po’ anche lui. Ma, pochissimo» puoi dire;
«E se è quello che dico io, è scapestrato, molto,
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
ha vari vizi» – ma sì, gettagli addosso
le falsità che t’aggradan – ma perbacco,
niente di sconcio che lo disonori – fai attenzione! –
solo quegli sbagli che per libidine e disordine
come ben si sa, s’accompagnano
a giovinezza e libertà.
Rinaldo – Come il gioco, signore?
Polonio – Ma sì, il bere, tirar di spada, bestemmiare,
baruffe, puttane – fin lì ecco!
Rinaldo – E questo non lo disonora?
Polonio – Ma no, se dosi bene le tue accuse,
non c’è bisogno d’esagerar lo scandalo,
facendone un corrotto libertino. –
Non è questo che voglio; ma recita
i suoi difetti con arte, così che sembrino
piccole pecche d’una vita libera,
guizzi e vampe d’uno spirito focoso,
selvaggeria d’un sangue non domato,
a cui tutti siam proni.
Rinaldo – Ma, signore...
Polonio –
E perché devi far questo?!
Rinaldo – Appunto, e perché?!
Polonio – Ma perbacco, proprio qui è il mio fine,
e i mezzi, credo, ne son giustificati.
Dunque, tu avanzi lievi calunnie su mio figlio,
solo un po’ sporcato dal contatto col mondo...
Mi stai attento!?
Il tizio con cui parli, quello che vuoi sondare,
se ha visto impegnato in detti crimini
il giovane di cui spettegoli le colpe,
stai ben certo che si dirà d’accordo.
«Signore», ti dirà, o, che so?, «Amico», o «Eccellenza»,
secondo usi e convenienze dell’uomo
e del paese...
Rinaldo –
Ho capito, signore.
Polonio – ... e lui ti dirà così, ti dirà... ti dirà... ma cosa stavo
Atto ii, scena prima
dicendo?... Santiddio, stavo per dire qualcosa...
Dov’ero rimasto?
Rinaldo – A «stai ben certo che si dirà d’accordo».
Polonio – A «stai ben certo che si dirà d’accordo», ma sì, perbacco!
Ma sì, dirà: «Conosco il gentiluomo,
l’ho visto ieri o l’altro ieri o il tale
o tal’altro giorno, assieme al tale o tal’altro,
è proprio come ha detto lei: e giocavano,
si sbronzavano a gara, litigavan per il tennis»
o persino «L’ho visto entrare in case di piacere». –
Videlicet: bordelli, o così via.
Mi capisci ora?
Alle falsità che getti come esca abbocca
la carpa della verità, e così noi che abbiam
saggezza e previdenza, con qualche finta
e sotterfugio, scopriam per via traversa
cosa è il vero. E così farai tu, figliolo,
coi consigli e i principî che ti ho dato. Mi hai seguito?
Rinaldo – Sissignore.
Polonio – Dio sia con te, a presto.
Rinaldo – Ai vostri ordini.
Polonio – Secondalo, e ne capirai il carattere.
Rinaldo – Lo farò, signore.
Polonio –
E che si applichi alla musica.
Rinaldo – Certo, signore.
Entra Ofelia.
Polonio – Addio. – Ofelia, che c’è? che accade?
Ofelia – Ah papà, papà, son così spaventata.
Polonio – Da cosa, santo dio?
Ofelia – Cucivo nel mio studiolo, e il principe
Amleto, col panciotto sbottonato,
a testa scoperta, calze sudice
che giù gli cascan come ceppi ai piedi,
pallido come la camicia, trema
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82
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
nei ginocchi, e un’aria così sofferta
come l’avesser sciolto dall’inferno
per contarcene gli orrori: così mi sta davanti.
Polonio – Pazzo d’amore per te!?
Ofelia –
Signore, non saprei,
ma ne ho paura.
Polonio –
E cos’ha detto?
Ofelia – M’ha preso per un polso e ha stretto forte,
scostandomi da sé con l’altro braccio,
poi si posa una mano sulla fronte – così –
e si mette a scrutarmi intento il viso
come volesse disegnarmi. E a lungo.
E poi mi scuote il braccio, e per tre volte
con la testa annuisce lentamente – così –
e gli sfugge un gemito, penoso e profondissimo
che quasi gli frantuma il corpo e tronca
in lui ogni essere. E qui, mi lascia andare,
e con la testa voltata verso me,
sembra trovar la strada senza occhi,
passar la porta senza il loro aiuto,
ché sino all’ultimo la loro luce è fissa su di me.
Polonio – Vieni, seguimi, parliamone col e.
Ecco quel che si dice follia d’amore,
che per sua insita violenza eccede
e può condurre a disperate imprese,
più d’ogni altra passione sotto il cielo,
tra quelle che ci affliggon per natura... Mi dispiace... –
Hai per caso avuto per lui parole aspre, ultimamente?
Ofelia – No, signore, ma come hai comandato,
ho respinto tutte le sue lettere
e gli ho negato accesso alle mie stanze.
Polonio – E per questo lui è impazzito!
Mi dispiace... avrei dovuto osservarlo meglio,
con più attento giudizio. Ma temevo si volesse divertire,
e ti potesse sciupare. Accidenti ai miei sospetti!
È tipico della nostra età fiutar
Atto ii, scena seconda
gatta che cova un poco in ogni cosa,
mentre ai giovani invece quel che manca
è la prudenza. Vieni, andiam dal re.
Si sveli dunque il suo segreto amore,
Celato, può causar maggior dolore!
Escono.
Scena seconda
Fanfara. Entrano Re, Regina, Rosencrantz e Guildenstern, con Seguito.
Re – Benvenuti, Rosencrantz e Guildenstern, miei cari.
Oltre al gran desiderio di vedervi,
è perché mi servite, che vi ho mandato
a chiamare in tutta fretta. Qualcosa avrete udito
della trasformazione di Amleto – così la chiamo io,
dato che né l’uomo esterno né l’uomo interiore
somigliano più a quel che era. Cosa poi sia stato,
oltre alla morte del padre, a separarlo,
e così tanto, dalla coscienza di sé,
neanche immagino. Vi prego, quindi: –
essendo voi cresciuti insieme a lui,
intimi dei suoi anni giovani, del suo carattere –
restate qualche tempo a questa corte,
così che possa la vostra compagnia
attirarlo ancora ai piaceri, e intanto
andrete spigolando ogni segno, per coglier
quel qualcosa, a noi ignoto, che lo affligge
e a cui, una volta svelato, stia poi a me porre rimedio.
Regina – Cari signori, parla molto di voi,
e al mondo, son sicura, non ci sono altri
ai quali lui sia più legato. Se vorrete
aver la cortesia e la bontà
di passar con noi un po’ del vostro tempo
per aiutarci, spingerci a sperare,
ne avrete in cambio quella gratitudine
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
che si racconta dei re.
Rosencrantz –
Le vostre Maestà,
per il potere sovrano che avete
su di noi, basta un comando
non una supplica, a esprimere
i Vostri sacri desideri.
Guildenstern – Entrambi obbediamo,
e tutto ciò che è in potere nostro
deponiamo ai Vostri piedi – servi Vostri
umilissimi. Comandate!
Re – Grazie, Rosencrantz, e a te, gentile Guildenstern.
Regina – Grazie, Guildenstern, e a te, gentile Rosencrantz.
E vi chiedo di far visita all’istante
al mio, troppo cambiato, figlio. Che qualcuno
accompagni i due signori dal mio Amleto!
Guildenstern – Voglia il cielo che la presenza nostra
e le nostre azioni gli giovino.
Regina –
Che lo voglia. Amen.
Escono Rosencrantz e Guildenstern [e un Paggio].
Entra Polonio.
Polonio – Dalla Norvegia, mio signore, e felicemente,
son tornati gli ambasciatori.
Re – Sei sempre padre di buone notizie, tu.
Polonio – Davvero, Sire? Vi assicuro,
ogni dovere mio, la stessa anima
dedico a Dio e al mio grazioso Re;
e ora credo – se non ho perso il cervello,
e assieme il fiuto dell’uomo politico che sono –
di aver scoperto la vera causa
della pazzia di Amleto.
Re – Oh dimmela: nient’altro voglio sentire!
Polonio – Date udienza agli ambasciatori, prima,
e quel che vi dirò sarà il dessert d’un simile banchetto.
Re – Fagli tu onore – introducili.
[Esce Polonio.]
Atto ii, scena seconda
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Mi ha detto, mia Regina, che ha trovato
capo e coda e cause d’ogni follia di tuo figlio.
Regina – Sospetto ve ne sia soltanto una: la morte del padre,
e il nostro matrimonio frettoloso.
Re – Inquisiremo.
Entrano Polonio, Voltemand e Cornelio.
Benvenuti, amici.
Voltemand, che nuove dal nostro fratello norvegese?
Voltemand – Ricambia ogni saluto e ogni augurio.
È bastato dirlo e subito ha soppresso
ogni leva militare del nipote – lui credeva
che fossero da mandar contro i polacchi;
Poi ha indagato meglio e ha scoperto
che servivano ad attaccare Vostra Altezza; e, addolorato
al veder che s’approfittan di malattia, età,
impotenza per ingannarlo, impone a Fortinbras
di smettere ogni cosa, e questi, in breve,
obbedisce, accetta ogni rimprovero dal re, e, infine,
giura allo zio che mai più prenderà
l’armi contro la Maestà Vostra; e il vecchio
re norvegese, ricolmo di gioia,
gli dà tremila corone in rendita
annua, e lo impegna a usare i soldati già coscritti
contro i polacchi; acclude una supplica: – qui in dettaglio,
[Porge un foglio.]
Si compiaccia Vostra Maestà di far passare
per i suoi dominî le truppe dirette a questa impresa.
con ogni garanzia e sicurezza
come qui si specifica.
Re –
Per ora ci soddisfa,
e quando avrem più tempo, leggeremo,
daremo una risposta, e penseremo
alla questione. Intanto, grazie
del risultato. Andate a riposare. E questa notte
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
si farà una gran festa. Benvenuti.
[Escono Voltemand e Cornelio.]
Polonio – Esito buono ha avuto la questione.
Sire, e Consorte, se argomentassimo
cosa sia la Maestà, e cosa il Dovere,
e perché il giorno sia giorno, notte la notte e tempo il tempo,
sprecheremmo e notte e giorno e tempo.
Quindi, poiché la brevità è l’anima del pensier sottile,
e il tedio ne è esteriore addobbo e abbellimento,
io sarò breve. Il vostro nobile figlio è pazzo.
Pazzo, senz’altra definizione; chi altri infatti
potrebbe definire la pazzia se non i veri pazzi?!
Ma ciò basti.
Regina – Più fatti e meno arte.
Polonio – Signora, giuro, non sto usando arte.
Che sia pazzo è vero; è vero ed è un peccato;
ed è un peccato che sia vero – bizzarra figura retorica! –
ma lasciamola perdere; ho detto: niente arte.
Lo si definisca quindi pazzo. Ora rimane
da trovar la causa a un tal effetto,
O meglio, la causa a un tal difetto.
Rimane quindi... e dunque rimanendo... resta...
No, attenti bene,
io ho una figlia – ossia ce l’ho fintanto che è con me –
la quale, per dovere d’obbedienza – attenti! –
mi ha dato questo. Ora ascoltate e ponderate bene:
– [legge] – Al celeste idolo dell’alma mia, Ofelia, d’ogni bellezza fregiata.
– Che stile goffo, bassissimo, quel «fregiata», che goffaggine! Ma c’è ben
altro – questa mia... tra i tuoi eccelsi candidi seni ... poni... et cetera...
Regina – E gliel’ha mandata Amleto?
Polonio – Signora, pazientate. Leggo letteralmente:
Dubita che le stelle sian di foco,
Dubita del Sol fisso in suo fulgore,
Dubita pur del vero: è solo un gioco,
Ma mai non dubitare del mio amore
O cara Ofelia, son negato alla metrica. E non ho arte alcuna per contar
Atto ii, scena seconda
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le sillabe dei miei gemiti. Ma che io ti amo più d’ogni altra cosa, Tu, o
migliore, credilo. Addio.
Tuo per sempre, donna a me carissima, finché
questa macchina sarà lui,
Amleto
Per obbedienza, mia figlia, l’ha mostrata a me,
Ma ha fatto ben di più, ha confidato
al mio orecchio tutti i corteggiamenti
e i modi e il luogo e l’ora
in cui son avvenuti.
Re – E lei come ha accolto questo amore?
Polonio – Cosa pensate di me?
Re – Che siete un uomo fedele e degno.
Polonio – E che tale mi dimostri! Ma cosa pensereste,
se avendo io visto quest’amore in pieno volo –
già me n’ero accorto, a dirla tutta,
prima che mia figlia lo ammettesse –, insomma, Voi,
e la cara Maestà della Vostra Regina qui presente, cosa pensereste
se avessi fatto da scrivano e messaggero,
o chiuso un occhio e ammutolito il cuore,
o visto quell’amore con sguardo indifferente? –
Cosa pensereste Voi? No, mi son messo subito al lavoro,
e alla ragazza così ho parlato:
«Amleto è un principe fuor della tua stella;
non s’ha da fare». E poi l’ho istruita:
che si chiuda a chiave ed eviti ogni incontro,
che repinga i messaggeri, e niente doni;
ciò fatto, i miei consigli han dato frutti:
lui, respinto – lo si racconta in breve –
è passato da tristezza a innapetenza,
poi a insonnia, e da qui a debilità,
quindi a confusione, e via declinando
sino alla pazzia e ai suoi deliri
che tutti compiangiamo.
Re –
Credete che sia così?
Regina – Forse, è probabile.
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Polonio – C’è mai stata una volta – gradirei saperlo –
in cui io abbia detto «È così» e poi
si è provato che non era vero?
Re –
No, ch’ io sappia.
Polonio – Se succede, staccatemi la testa dalle spalle.
Se il momento è propizio scoprirò
dove si nasconde la verità,
sia pur nascosta al centro della terra.
Re –
Quali altri modi tentare?
Polonio – Sapete che a volte lui per ore passeggia
qui nella galleria.
Regina –
Sì, è vero.
Polonio – Appena lo vedo, gli butto addosso mia figlia;
Voi e io nascosti dietro un arazzo
spieremo l’incontro; se non l’ama,
e non è per questo che ha perduto la ragione,
non sarò più segretario di stato:
m’occuperò di campi e carrettieri.
Re –
Proviamo.
Entra Amleto, leggendo un libro.
Regina – Povero infelice, guardate com’è triste mentre legge.
Polonio – Via, ve ne supplico, nascondetevi.
Attacco subito bottone. Via, vi prego.
Escono Re e Regina [e Seguito].
Come sta il mio buon Principe Amleto?
Amleto – Bene, grazie a Dio.
Polonio – Mi conoscete, signore?
Amleto – Uh benissimo! Tu sei un macellaio, vendi carne.
Polonio – Io no, signore.
Amleto – Magari tu fossi onesto e costumato come uno di loro!
Polonio – Onesto e costumato, signore?
Amleto – Ma certo, caro. Perché di onesti e costumati, così come va il
mondo, ne conti uno su diecimila.
Polonio – Oh com’è vero, signore.
Atto ii, scena seconda
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Amleto – Sì, perché il sole genera vermi in un cane morto, e figurati in
una carne buona da baciare... Hai una figlia?
Polonio – Ce l’ho, signore.
Amleto – Fai che non vada a spasso sotto il sole. Un alto concepire è una
grazia, ma a tua figlia meglio evitare ogni concepimento... caro mio,
stacci attento.
Polonio – [a parte] – E che dicevo!? E dai che ricasca sempre su mia figlia. Eppure all’inizio non mi ha riconosciuto; ha detto che ero un macellaio. È proprio andato! E dire che in gioventù ho sofferto anch’io
gli spasimi d’amore; ci sono andato molto vicino. Ma io gli parlo ancora. – Cosa legge il mio signore?
Amleto – Parole, parole, parole.
Polonio – E qual è la questione, signore?
Amleto – Fra chi?
Polonio – Voglio dire l’argomento di cui leggete.
Amleto – Calunnie, caro. Un satirico carogna qui dice che i vecchi han
barbe grige, e facce rugose, e occhi che spurgano ambra spessa e resina
di susini, e una copiosa mancanza d’ingegno, oltre a gonadi fiacchissime... cose, mio caro, che io fortemente e fermamente credo, eppure
non mi pare decoroso renderle pubbliche così. Quanto a te, mio caro, anche tu puoi raggiunger la mia età, se cammini all’indietro come
un gambero.
Polonio – [a parte] – Se è pazzia ha però un suo metodo – ripariamoci
dall’aria, signore.
Amleto – Nella tomba?
Polonio – Eh già, più riparata di quella!... – [a parte] – E che risposte
pregne dà a volte... è una grazia che spesso tocca alla pazzia, e che ragione e mente sana non saprebbero in così gran copia partorire. Ma
ora lo lascio, e andrò subito a combinar l’incontro con mia figlia...
Signore, prendo congedo.
Amleto – Nient’altro che tu possa prendere da me da cui più volentieri
io mi separi... salvo la vita, salvo la vita, salvo la vita...
Polonio – Abbiatevi cura, mio signore.
Amleto – Che noia questi vecchi scemi!
Entrano Rosencrantz e Guildenstern.
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Polonio – Cercate il principe Amleto? Eccolo lì.
Rosencrantz – Grazie.
Guildenstern – Onoratissimo Principe.
Rosencrantz – Dilettissimo Principe.
Amleto – Oh miei ottimi amici. Come stai tu Guildenstern? E tu Rosencrantz?
Come va, ragazzi?
Rosencrantz – Come ai figli qualunque della terra.
Guildenstern – Felici di non esser troppo felici: sul cappello della fortuna noi non siam certo il pennacchio.
Amleto – E neanche le suole delle sue scarpe?
Rosencrantz – Né in alto, né in basso, Principe.
Amleto – Quindi le arrivate al bacino, ne godete i favori?
Guildenstern – Proprio, stiamo tra i sottoposti.
Amleto – Nelle parti più intime della Fortuna?! Eh sì, la Fortuna è una
troia. Che c’è di nuovo?
Rosencrantz – Niente, Principe, salvo che il mondo s’è fatto onesto.
Amleto – Ma allora il Giudizio universale è vicino?! La notizia che mi date, però, non è vera. Vi faccio una domanda più precisa. Cosa mai le
avete fatto alla Fortuna per meritarvi di esser spediti qui in prigione?
Guildenstern – Prigione, Principe?
Amleto – La Danimarca è una prigione.
Rosencrantz – E allora lo è il mondo intero.
Amleto – Una grande prigione, con molte celle, secondini e segrete: la
Danimarca è una delle peggiori.
Rosencrantz – Non la pensiamo così, Principe.
Amleto – Sì, non la pensate così; e infatti niente è in sé buono o malvagio
se non per il pensiero che lo rende tale. Per me è una prigione.
Rosencrantz – Lo è per le vostre ambizioni: è troppo stretta per la vostra mente.
Amleto – Oddio no, potrebbero confinarmi dentro un guscio di noce, e
mi sentirei re dell’infinito spazio... non fosse che faccio brutti sogni.
Guildenstern – Sogni che nascon certo da ambizione: la meta stessa
dell’ambizioso che altro è se non l’ombra di un sogno?!
Amleto – E un sogno in sé è solo un’ombra
Rosencrantz – Vero, e a mio parere l’ambizione è per sua qualità così aerea e lieve da non esser altro che l’ombra di un’ombra.
Atto ii, scena seconda
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Amleto – E allora cos’è il corpo? È un pezzente, e un monarca o l’eroe
più ingigantito son solo ombre di pezzenti. Ma andiamo a corte. A esser sinceri, oggi non riesco a ragionare.
Rosencrantz, Guildenstern – Saremo al tuo servizio.
Amleto – Ma neanche per idea. Non voglio certo contarvi nel numero dei miei servi; a parlarvi da uomo onesto, qui sono servito in modo orribile. Ma, per l’antica via battuta d’amicizia, perché siete venuti
a Elsinore?
Rosencrantz – Per farti visita, Principe, nessun’altra ragione.
Amleto – Son proprio un pezzente, povero persino di gratitudine. Vi ringrazio, però. E i miei ringraziamenti a pagarli un mezzo penny ci si perde. Ma... vi ha mandato a chiamare qualcuno? O siete venuti per vostro
desiderio? È una visita libera? Su, via, siate onesti con me. Su, parlate!
Guildenstern – E che dovremmo dire, Principe?
Amleto – Qualsiasi cosa, salvo il vero. Vi han mandato a chiamare, e c’è
una sorta di confessione nei vostri sguardi, che il pudore non è abbastanza bravo a mascherare. Io so che il buon re e la regina vi hanno
mandato a chiamare.
Rosencrantz – E a quale scopo, Principe?
Amleto – Questo siete voi a dovermelo dire. Ma permettemi di scongiurarvi, per i diritti della nostra comune vita di studenti, per la consonanza delle nostre giovinezze, per gli obblighi del nostro sempre serbato
amore, e per tutto quel che di più caro miglior oratore di me saprebbe esprimere, siate franchi e diretti con me: vi hanno mandato a chiamare o no?
Rosencrantz – [a parte a Guildenstern] – Che dici?
Amleto – Be’, allora?! Vi tengo d’occhio! Se mi amate, niente esitazioni.
Guildenstern – Signore, ci hanno mandato a chiamare.
Amleto – Ve lo dirò io perché, così, dicendolo io per primo, voi non me lo
avrete rivelato, e il vostro patto di segretezza col re e la regina non dovrà
cambiar bandiera. –Da qualche tempo, e non so perché, ho perso ogni allegria, smesso ogni abitudine all’esercizio fisico, anzi, così gravato è il mio
umore che questa mirabile macchina la terra mi par soltanto un promontorio sterile, quest’eccelsa volta d’aria, macché, lo stesso stupendo firmamento che lassù incombe, questo maestoso tetto incastonato di fuochi d’oro, a
me sembran nient’altro che uno schifoso e pestifero aggregato di vapori.
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Che capolavoro è l’uomo, e così nobile nella ragione, così infinito nelle
facoltà, e per forma e moto così perfetto e ammirevole, e nell’azione così simile a un angelo, e a un dio nell’intelletto: lui, la bellezza del mondo, il paragone degli animali... Però, cos’è per me questa quintessenza
di polvere? L’uomo non mi dà alcun piacere... e neanche la donna; anche se dai vostri sorrisetti sembrerebbe di sì.
Rosencrantz – Signore, non ci ha neanche sfiorato il pensiero.
Amleto – E perché avete riso allora, quando ho detto che l’uomo non mi
dà piacere?
Rosencrantz – Pensavamo, Principe, che se non vi dan piacere gli uomini,
chissà quale accoglienza quaresimale riserverete agli attori? Li abbiamo
sorpassati lungo la strada, e stanno venendo qui a offrire i loro servigi.
Amleto – Quello che fa il re sarà ben accolto... Sua Maestà avrà il mio
tributo; il cavaliere avventuroso userà fioretto e scudo, l’amoroso non
sospirerà gratis, il fantastico urlerà in pace la sua parte, il buffo farà ridere quelli con polmoni sensibili al solletico, e la prima donna potrà
esser sciolta di modi e di pensiero... a meno che il ragazzo non inciampi nei versi. Che attori sono?
Rosencrantz – Proprio quelli che vi piacevan tanto: i Tragici della
Città.
Amleto – E com’è che ora son di giro? Una sede stabile, per il profitto e
la fama, era assai meglio.
Rosencrantz – Credo che gli abbian tolto la licenza in seguito agli ultimi sviluppi.
Amleto – Hanno ancora il successo che avevano quando ero io in città?
Hanno ancora tanto pubblico?
Rosencrantz – No, purtroppo.
Amleto – E perché? Si sono arrugginiti?
Rosencrantz – No, il livello è sempre alto; ma ci sono, Principe, delle nidiate di bambini, ancora implumi, che pigolano a squarciagola e li si
applaude con vero fanatismo. La moda ora è questa, e sta sconvolgendo il «teatro popolare» – lo chiamano così – al punto che i gentiluomini con spada hanno ormai paura della penna e neanche osano più
andarci.
Amleto – Cosa? I bambini? E chi li finanzia? Chi gli fa da patrono? E
poi, continueranno nel mestiere anche dopo che gli si è rotta la voce?
Atto ii, scena seconda
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E non diranno, se per caso diventano attori «popolari» – com’è probabile, se non hanno altre risorse – che gli autori gli hanno fatto torto
obbligandoli a insultare la loro futura professione?
Rosencrantz – A dire il vero si è fatto un gran baccano da entrambe le
parti; e il pubblico non si fa certo riguardo di incanaglire l’una contro
l’altra. Per un periodo, i drammi di cassetta eran solo quelli in cui autore e attore discutevan la questione a cazzotti.
Amleto – Ma davvero?
Guildenstern – Oh sì, c’è stato un grande spreco di cervelli.
Amleto – E chi sta vincendo? Il teatro dei ragazzini?
Rosencrantz – Certo! E atterreranno anche Ercole col suo Globo in
spalla.
Amleto – Non è poi così strano; mio zio, a esempio, è re di Danimarca, e
quelli che gli facevan le boccacce quando mio padre era vivo, oggi darebbero venti, quaranta, cinquanta, cento ducati per un suo ritratto in
miniatura. Sì, perdio, in tutto questo c’è qualcosa che ci fa toccare a
fondo la natura, se la filosofia riuscisse a spiegarlo.
Squilli di trombe.
Guildenstern – Ecco gli attori.
Amleto – Insomma, Rosencrantz e Guildenstern, siate i benvenuti a
Elsinore. Su, datemi la mano, avanti! O se preferite un saluto formale mi ci conformo anch’io; con gli attori mi vedrete più spontaneo, ma
non vi appaia una recita. Siate i benvenuti. Ma il mio zio-padre e madre-zia si sbagliano.
Guildenstern – In cosa, signore?
Amleto – Io sono matto solo da nord-nordovest. Quando il vento soffia
da sud, so distinguere tra un falco e un airone.
Entra Polonio.
Polonio – Ogni bene, signori.
Amleto – Senti un po’, Guildenstern, e anche tu – venite qui, uno per
orecchia. Quel gran bambino che vedete lì non l’hanno ancora tolto
dalle fasce.
Rosencrantz – Forse c’è ritornato; dicono che un vecchio è due volte
bambino.
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Amleto – Faccio una profezia: sta venendo a dirmi degli attori... Sì, sì...
come no, è stato proprio un lunedì mattina... avete ragione...
Polonio – Signore, ho notizie per voi.
Amleto – Signore, ho notizie per voi. Quando Roscio era attore a Roma...
Polonio – Sono arrivati gli attori, signore.
Amleto – E bla bla bla bla bla...
Polonio – Sul mio onore!...
Amleto – Allora sono arrivati a dorso d’asino...
Polonio – Gli attori migliori del mondo, sia per la tragedia, sia per la
commedia, per il genere storico, per il pastorale, il comico-pastorale, il pastoral-storico, il tragi-storico, il tragi-comico-pastoral-storico,
il dramma unitario, o l’antiaristotelico-multigenere. Seneca non sarà
mai per loro troppo peso, né Plauto troppo leggero. Sia per fedeltà al
testo che per l’improvvisazione sono unici.
Amleto – Oh Jefte, giudice d’Israele, che tesoro avevi tu!
Polonio – Che tesoro aveva, signore?
Amleto – Ma sì... Una bella figlia e niente più
Che più d’ogni altra cosa amava al mondo...
Polonio – [a parte] – E dai con mia figlia!
Amleto – Dico bene, vecchio Jefte?
Polonio – Se mi chiamate Jefte, mio signore, io ho una figlia che più
d’ogni altra cosa amo al mondo.
Amleto – L’una cosa non consegue dall’altra.
Polonio – Cosa consegue?...
Amleto – Quello che Dio vorrà ed è prescritto,
e poi, la sai
Avvenne quel che avvenne, e s’aspettava.
La prima strofa della pia ballata ti dirà che cosa, perché ecco che vedo arrivare chi mi accorcia il tempo.
Entrano gli Attori.
Benvenuti, maestri, benvenuti tutti. – Son felice di trovarvi bene. –
Benvenuti, cari amici. – Oh, vecchio amico, la tua faccia ha spuntato
la frangia, Non sarai mica venuto in Danimarca per far venire la barba
anche a me?... Toh, e la nostra giovane primadonna e signora del mio
Atto ii, scena seconda
95
cuore! Santa Madonna, dall’ultima volta che ti ho visto, ragazzo, ti sei
avvicinato al cielo di un buon paio di tacchi alti. Speriamo che non ti
si sia rotta la voce e che non suoni come moneta falsa... Signori, siete tutti benvenuti. Su diamoci dentro, buttiamoci come un falconiere
francese, su qualsiasi preda. Dateci subito un assaggio del vostro mestiere. Su, un bel soliloquio appassionato.
Primo attore – Quale soliloquio, mio buon signore?
Amleto – Tu una volta me ne hai recitato uno, ma non è mai andato in
scena, o se c’è andato è stato per una sola replica – perché il dramma, lo ricordo, non era di quelli che piacciono alle masse: per il grosso pubblico era caviale. Ma era, almeno così l’ho capito io – e altri il
cui giudizio in questo campo vale più del mio –, un dramma eccellente, ben costruito nella successione delle scene, scritto in stile sobrio
ma efficace. Mi ricordo che qualcuno disse che nei versi non c’eran
spezie forti, tanto per render più gustoso l’argomento, né sintassi elaborata che potesse far accusar l’autore di affettazione. Lo definì un lavoro onesto, ben composto e gradevole, pieno più di grazia naturale
che di artificio E c’era una tirata che a me piaceva tanto – era il racconto di Enea a Didone – e soprattutto il punto in cui parla dell’assassinio di Priamo. Se ce l’hai ancora viva nella memoria, attacca dal
verso... aspetta, aspetta...
Il crudo Pirro, come bestia ircana...
No, non è così. Comincia con Pirro...
Il crudel Pirro d’atre armi cinto,
Teso a un intento fosco come notte,
Allor che attese nel fatal cavallo,
Ora quel nero aspetto ha decorato
D’araldica più atroce, e lo scarlatto
L’ingemma tutto da usbergo a scudo:
Sangue di padri, madri, spose e figli,
Rappreso a grumi sotto il sol che avvampa,
E in una luce cruda e maledetta
Di qua di là cercando il vecchio re,
Pirro corrusco avanza, acceso d’ira,
Con occhi di carbonchio a Priamo incontro.
Su, continua tu...
96
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Polonio – Ma perbacco, signore, ben detto, con buon accento e grande sobrietà.
Primo attore – ... Ed eccolo, lo vede,
Che mena ai greci colpi troppo corti.
L’antica spada al braccio suo ribelle
Ricade e giace sorda a ogni comando.
Oh, impari duello! Pirro affonda,
Fallisce per la rabbia e schiva Priamo;
Ma basta la folata di quel ferro
A far cader quel vecchio indebolito.
Ilio, attonita, par sentir quel colpo;
Di fiamme incoronata crolla a terra,
Con schianto orrendo, e a quel rumore Pirro
Riman come smagato e la sua spada,
Che già calava su quel capo niveo,
Pare fissarsi in aria, arma dipinta
Di dipinto tiran, che annichilito
Senz’atto né voler immoto sta.
Ma come a volte innanzi la tempesta
Cala un silenzio in cielo, e resta il nembo,
E ammutolisce il vento, e l’orbe tace
Come morto, poi la folgore scoppia
D’un subito bagliore lacerando
La terra; così Pirro si anima
E si riavventa a compier sua vendetta.
Martello dei Ciclopi mai inferse,
Nel forgiar l’armi del divino Marte,
Un più spietato colpo della spada
Sanguinante ch’ora su Priamo cade.
Fortuna meretrice! E voi Dei
A sinodo riuniti: spodestatela!
Frangete i raggi della sua gran ruota,
E il tondo mozzo giù precipitate
All’imo dei demòni.
Polonio – È troppo lunga.
Amleto – Gli faremo una spuntatina dal barbiere, e anche alla barba che
Atto ii, scena seconda
97
fai venire tu. – Ti prego, continua. A lui piacciono solo intermezzi farseschi o storie sconce, se no s’addormenta. Su, dai, veniamo a Ecuba.
Primo attore – Ma chi – oh dolore! – ha visto la Regina
Velata e scalza...
Amleto – ... velata e scalza...
Polonio – Questo è bello!
Primo attore – ... correre qua e là
Minacciar le fiamme col suo pianto?
Un cencio in capo, e un tempo fu un diadema,
E gli stremati lombi cinge un panno
Che nel primo sgomento ha rinvenuto.
Chi questo avesse visto, nel veleno
Intinta avria la lingua a maledire
Fortuna traditrice e il suo dominio.
Ma se gli stessi Dei la vedon ora
Guardar Pirro che per maligno gusto
Il corpo dello sposo trancia e smembra,
E l’alto grido che da lei s’effonde,
(A men che mortal cosa non li mova)
Di latte darian lacrime le stelle.
Polonio – Guardate, ha cambiato colore, e ha le lacrime agli occhi. Basta,
vi prego.
Amleto – Va bene, basta. Ti farò recitare il resto in seguito. – Per favore,
signore, volete occuparvi voi dell’ospitalità agli attori. Mi hai sentito?
Che sian trattati bene! Perché loro sono summa e cronaca del tempo. Meglio per te un cattivo epitaffio da morto, che una loro lamentela contro te da vivo.
Polonio – Mio signore, li tratterò secondo il loro merito.
Amleto – Per la lama di Dio, no molto meglio! Se si trattasse ciascuno secondo il proprio merito, chi sfuggirebbe alla frusta? Trattali piuttosto
secondo onor ti detta e dignità: meno meritano, e più merito c’è nella
tua generosità. Fai loro strada.
Polonio – Venite, signori.
Amleto – Seguitelo, amici. Si farà spettacolo domani. – [al Primo attore] – Vecchio amico, senti un po’! Avete in repertorio il dramma
L’assassinio di Gonzalo?
98
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Primo attore – Sissignore.
Amleto – Ce lo reciterete domani. Senti, nel caso serva, potresti studiarti una battuta di un dodici sedici versi, che butterei giù io stesso e inserirei al punto giusto?
Primo attore – Ma certo, Principe.
Amleto – Molto bene. – [a tutti gli attori] – Seguite quel signore, e badate
di non prenderlo in giro.
Escono Polonio e Attori.
– [a Rosencrantz e Guildenstern] – Miei cari amici, vi lascio sino a stasera. Siete i benvenuti a Elsinore.
Escono Rosencrantz e Guildenstern.
Rosencrantz – Buon Principe...
Amleto – Dio sia con voi. – Oh, ora son solo!
E che carogna, che cialtrone sono!
Non è mostruoso che l’attore riesca,
solo fingendo, un sogno di passione,
a forzar l’anima a esprimere un’idea,
e per effetto aver pallore al viso,
lacrime agli occhi, angoscia nell’aspetto,
la voce rotta, e tutto il suo agire
che sposa forma a idea? E tutto per niente?
Per Ecuba!
Ma cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba
da farlo tanto piangere per lei? Che farebbe,
se avesse lui il motivo, il copione
d’angoscia che ho io? Allagherebbe di pianto
il palcoscenico, e spaccherebbe
al pubblico le orecchie con monologhi
tremendi, farebbe impazzire i colpevoli,
sgomentar gli innocenti, sbalordire
gli ignari, e confondere infine
le stesse facoltà di occhi e orecchie.
e io, invece,
torpido e moscio stronzo, io cincischio,
son Ham il sognatore, spompato d’ogni motivo,
e non ho niente, niente da dire... neanche di quel re,
contro il cui regno, e la cui vita cara
Atto ii, scena seconda
un’infame disfatta fu tramata. Sono un vigliacco?
Chi mi dice di sì? E anche carogna?
Chi mi spacca in due il cranio? Mi strappa
la barba e me la soffia in faccia? Chi di voi?
Chi mi ricaccia in gola le bugie
fino in fondo ai polmoni?... Chi lo fa?
Eh!?
Cristodiddio, io lo accetterei! È che
ho un cuore di coniglio, non ho fegato
e non sento il fiele amaro dell’insulto,
altrimenti con queste trippe di cialtrone
ci avrei ingrassato gli avvoltoi qui intorno.
Un mascalzone, sanguinario e puttaniere!
Spietato, sleale, lascivo e snaturato: una carogna!
E poi anche scemo! E questo è il miglior esempio,
che io, figlio d’un caro padre assassinato,
spinto a vendetta da Cielo e terra assieme,
debba sgravarmi il cuore di parole
come una puttana; come una troia
sfogarmi in parolacce, una sguattera...
Che schifo! Oh, che schifo! Puh...
Ma su, cervello mio, lavora... Mmmm... Ho sentito
che a volte a teatro i criminali,
colpiti sin nell’anima dall’arte
degli attori, han confessato lì il delitto.
Se l’omicidio non ha lingua parlerà
con più miracoloso organo. Agli attori
farò rappresentare una scena
simile all’assassinio di mio padre,
con mio zio che assiste. Lo osserverò,
lo sonderò nel vivo, se sussulta,
so cosa fare. Forse lo spirito
che ho visto è il diavolo, lui che ha il potere
di assumer belle forme, e forse usa
anche del melanconico che è in me,
Lui che di melanconia è signore,
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100
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
per perdermi e dannarmi. Voglio basi
più solide. Il copione è scritto, c’è:
io ci catturo il rimorso del re.
[Esce.]
Atto III
Scena prima
Entrano Re, Regina, Ofelia, Rosencrantz e Guildenstern.
Re – E coi giusti giri di frase non potreste
tirargli fuori perché mai esibisca questo delirio,
questo render sgradevole la quiete d’ogni giorno
con una turbolenta, pericolosa follia.
Rosencrantz – Ammette anche lui di sentirsi confuso,
ma della causa non vuol parlare affatto.
Guildenstern – Né è disposto a farsi interrogare;
ogni volta che stiamo per indurlo a confessioni
sulla vera natura del suo stato, subito
si ritira in una pazzia guardinga.
Regina –
Vi ha accolto bene?
Rosencrantz – Da gentiluomo.
Guildenstern – Ma forzando di molto il suo umore.
Rosencrantz – Avaro di domande, ma prodigo
assai nelle risposte.
Regina –
Avete tentato di interessarlo
a qualche intrattenimento?
Rosencrantz – Signora, ci è accaduto per strada d’incrociare
un gruppo d’attori, e gliel’abbiamo detto,
102
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
e questo è sembrato dargli una specie di gioia.
Gli attori sono già qui a corte, e credo
che già abbian l’ordine stasera
di recitar per lui.
Polonio –
Vero,
e mi ha supplicato di invitare le Maestà Vostre
ad ascoltare e vedere lo spettacolo.
Re – Ben volentieri, e mi fa piacere
che coltivi questi interessi.
Ma spronatelo anche di più, cari signori,
indirizzatelo a questi piaceri.
Rosencrantz – Non mancheremo, Sire. [Escono Rosencrantz e Guildenstern.]
Re – Cara, Gertrude, lasciaci anche tu;
abbiamo attirato qui Amleto, in modo
che come per caso si trovi di fronte
a un tratto Ofelia.
Il padre e io, spie più che legittime,
nascosti così da veder non visti,
giudicheremo equanimi l’incontro,
per capire, da come si comporta,
se sia amore che lo affligge,
e così lo fa soffrire, o no.
Regina –
Ti obbedisco.
E quanto a te, Ofelia, vorrei proprio
che fossero le tue grazie la felice causa
del delirio di Amleto; e spero anche
che le tue virtù lo riportino alla vita consueta,
a onore di entrambi.
Ofelia –
Signora, lo vorrei anch’io.
[Esce la Regina.]
Polonio – Ofelia, tu passeggi qui... Graziosissimo Sire, prego,
noi ci nascondiamo qua... E tu leggi questo libro:
un’esibita devozione darà un senso
alla tua solitudine. Deplorevole, ma spesso
– e lo prova l’esperienza – un’espressione
e atteggiamenti pii riescono a inzuccherare
il diavolo in persona.
Atto iii, scena prima
Re – [a parte] – Parole vere!
E che frustata per la mia coscienza!
Guance di puttana stuccate di cerone
son meno brutte sotto quel belletto
dell’atto che io copro di cosmetiche parole.
Che grave peso!
Polonio – Lo sento arrivare. Ritiriamoci, signore.
Amleto – Essere, o non essere: la domanda
è questa: se sia più degno soffrire nella mente
fiondate e frecce della labile fortuna,
o prender l’armi contro un mar di guai
e resistendo farsene travolgere. Morire... dormire,
è tutto; e con quel sonno smette
il crepacuore, i mille assalti che per natura
toccano a ogni carne: annientamento
in cui sperar con fede. Morire; dormire;
dormire, sognare, magari – e qui è l’ostacolo:
perché l’idea di sogni che ci colgano
in quel sonno di morte, sfilati che ci siam di dosso
ogni mortal gravame, ci ferma – e questo
prolunga in noi e vita e angoscia. Chi
reggerebbe frustate e scherno di quest’epoca,
torti degli oppressori, insulti dei superbi,
fitte d’amor sprezzato, lungaggini dei giudici,
insolenza dei burocrati, e il sarcasmo
che il merito paziente ottiene dagli indegni,
quando da sé può chiuder quel conto in quiete:
basta un pugnale!? Chi, con grugniti e sudore,
porterebbe il peso di una vita stanca,
non fosse la paura di qualcosa
dopo la morte, il paese mai scoperto
dai cui confini nessun viaggiatore mai ritorna;
e così la volontà si smaga e pare meglio
sopportare i mali che già abbiamo
piuttosto che fuggire ad altri ignoti?
È la coscienza che ci fa vigliacchi, tutti,
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
e il color rosso della decisione illividisce
alla pallida ombra del pensiero;
e in grandi imprese di gran forza e scopo
si perde ogni corrente fuorviata
perdendo dell’azione il nome stesso... Ma zitti ora!
La bella Ofelia! Ninfa, nelle tue orazioni,
ricorda i miei peccati.
Ofelia –
Mio Principe,
Com’è stato Vostra Grazia in questi giorni?
Amleto – Ti ringrazio umilmente, bene assai.
Ofelia – Signore, ho dei ricordi Vostri
che da tempo desidero rendervi.
Vi prego, accettateli ora.
Amleto – No, non miei.
Io non ti ho dato nulla.
Ofelia – Ma Vostra Grazia sa bene che sì,
e impreziositi d’un alito dolcissimo
di parole. Perso quel profumo, riprendeteli;
per nobil mente un don non ha valore
se ingrato si dimostra il donatore.
Ecco, Principe.
Amleto – Ah, ah! Sei casta?
Ofelia – Signore?
Amleto – Sei bella?
Ofelia – Che vuol dire, Vostra Signoria?
Amleto – Che se sei casta e bella, la tua castità non dovrebbe patteggiare con la tua bellezza.
Ofelia – E come meglio si può accoppiare la bellezza se non con l’onestà?
Amleto – E appunto, il potere della bellezza trasformerà la castità in una
ruffiana ben prima che la forza della castità possa plasmar la bellezza
a sua immagine. Una volta questo era un paradosso, ma coi tempi che
corrono è ormai normale. Io ti ho amato un tempo.
Ofelia – Così mi hai fatto credere, Principe.
Amleto – Non avresti dovuto credermi: non puoi innestare la virtù nella nostra vecchia natura: ce ne rimane con nostalgia il gusto in bocca.
Io non ti ho amato.
Atto iii, scena prima
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Ofelia – E allora son stata anche più ingannata.
Amleto – Vattene in convento. Perché mai vuoi essere una fattrice di peccatori? Io stesso sono passabilmente onesto... e casto, eppure potrei
accusarmi di tali cose che sarebbe meglio mia madre non mi avesse
partorito. Sono molto orgoglioso, vendicativo, ambizioso, e ho più crimini sulla punta della lingua di quanto non abbia pensieri per pensarli,
fantasia per immaginarli, o tempo per commetterli. Che altro dobbiam
fare noi poveracci che strisciamo tra cielo e terra? Siamo tutti carogne;
non devi credere a nessuno di noi. Segui il tuo cammino: va’ in convento! Dov’è tuo padre?
Ofelia – A casa, signore.
Amleto – Che ce lo rinchiudano, meglio che faccia il buffone solo a casa sua! Addio.
Ofelia – Oh Cielo, aiutalo.
Amleto – E se ti sposi, ti do in dote questa disgrazia: sii casta come il
ghiaccio, pura come la neve: non riuscirai a sfuggire alla calunnia.
Vattene in convento, addio. O se proprio devi sposarti, sposa uno scemo: gli intelligenti sanno bene quali mostri sapete far di loro. In convento, vai!... un bel bordello di vergini... e presto. Addio.
Ofelia – Poteri celesti, guaritelo.
Amleto – E poi, credi non sappia dei restauri che vi fate in faccia? Dio
ve n’ha data una, e voi ve ne fate un’altra. E sculettate, sgonnellate,
parlate con la lisca, date soprannomi carini alle creature di Dio, e la
vostra affettata seduttività la date per candore. Ma va’ là! Io ne ho abbastanza; è questo che mi ha reso pazzo. Io dico che non ci saranno
più matrimoni. Quelli già sposati – tutti meno uno – vivranno; gli altri
rimarranno spaiati. Via, in convento!
Ofelia – Che grande mente crolla qui in frantumi!
Occhio, lingua, spada, di politico, studioso, di guerriero
speranza e rosa d’un più giusto stato,
specchio e misura d’ogni eleganza e gusto,
tra tutti il più onorato, e a pezzi, a pezzi!
E io, la più angosciata tra le donne,
che come miele e musica bevvi le sue promesse
ora vedo la sua ragion sovrana
dar strepito stonato di campana rotta
106
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
e corpo e viso in fiore e senza pari
piagati di follia. Oddio, che chiedo?
Non veder quel che ho visto, quel che vedo.
Entrano il Re e Polonio.
Re – Amore? Non vi inclinan certo i suoi sentimenti,
né quel che ha detto, sia pur un po’ privo di forma,
pareva pazzia. Ha qualcosa nell’anima,
su cui cova la sua malinconia;
temo che alla schiusa possa nascerne
un pericolo. Per prevenirlo,
con decisione rapida ho disposto:
parta per l’Inghilterra e al più presto,
per reclamare il nostro tributo antico;
la novità dei luoghi, espellerà
quel qualcosa che si porta in fondo al cuore,
e su cui batte e ribatte col cervello
e che così lo strania. Che ne pensi?
Polonio – Gli farà bene. Eppure io credo
che origine e inizio del suo male
sia nell’amor sprezzato. Ebbene, Ofelia?
Quel che ha detto il principe non dircelo,
tutto abbiam sentito. Sire, fate come vi piace,
ma se dopo lo spettacolo vi parrà opportuno
che la madre lo supplichi di aprirle
il suo dolore – e che sia franca con lui! –,
io, se v’aggrada, sarò l’orecchio
a ogni loro parola. Se non lo scopre lei,
sia l’Inghilterra, o confinatelo, in vostra saggezza,
dove meglio starà.
Re –
Idea assennata.
Nei grandi la pazzia va vigilata.
Escono.
Atto iii, scena seconda
107
Scena seconda
Entrano Amleto e tre Attori della compagnia.
Amleto – Di’ la battuta, ti prego, come l’ho detta io, danzata sulla lingua;
ma se tromboneggi come fanno molti attori, meglio chiamare il banditore a dire i miei versi. E non segate troppo l’aria con le mani, così,
ma fate tutto con garbo; perché anche nel torrente, nella tempesta, nel
vortice, diciamo, della passione, devi rendere quel che hai acquistato
con la pratica: una misura che dia fluidità a ogni cosa. Oh, m’offende
fino all’anima sentire un attore pomposo imparruccato sbranar passioni, ridurle a stracci, spaccar le orecchie al pubblico ingenuo, che per
la gran parte apprezza solo insensati effetti scenici e rumore. Uno così, che strafà più di Matamoro, lo farei frustare: più Erode d’un Erode
da teatro. Per favore, evitiamo tutto questo.
Primo attore – Vostra Grazia, lo garantisco.
Amleto – E neanche siate troppo sottotono, fatevi guidare dal vostro gusto. Sposate l’azione alla parola, la parola all’azione, con questo speciale criterio: non oltrepassate mai la modestia della natura. Ogni eccesso
di recitazione è ben lontano dal vero scopo del teatro, che, dai suoi inizi sino ad ora, era ed è porgere, per così dire, uno specchio alla natura; mostrare alla virtù il proprio aspetto, al vizio la propria immagine,
e all’epoca nostra, al corpo intimo del tempo la propria forma, l’impronta che stampa. Ma provate a recitar sopra le righe, o in modo fiacco: potrete strappare una risata agli ingenui, ma sarete un’afflizione
per il pubblico esperto, e dovreste valutare di più la critica di questo
che non un teatro pieno di quelli. Oh, ci son degli attori che ho visto
in scena – e che molti altri lodano, e con ammirazione – i quali – non
avendo né accento, né portamento di cristiani, né di pagani, o addirittura uomini, smanazzavano e sbraitavano in tal modo da farmi pensare che l’uomo sia stato fatto, e neanche bene, da un qualche manovale
di natura, tanto abominevole era la loro imitazione dell’umano.
Primo attore – Quanto a noi, spero che in questo ci siamo un po’
corretti.
Amleto – Ma correggetevi del tutto. E fate in modo che quelli che fanno
le parti di clown non dicano di più di quanto è scritto nel copione... Ce
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
ne son di quelli che si ridono addosso pur di far scoppiare a ridere qualche spettatore scemo, anche se in quel punto una svolta del dramma richiede l’ascolto più attento. È un crimine, e rivela soltanto una penosa
ambizione nell’idiota che vi ricorre. Ma su, andate a prepararvi.
Escono gli Attori.
Entrano Polonio, Rosencrantz e Guildenstern.
E allora? Verrà il re allo spettacolo?
Polonio – E anche la regina, e saran qui tra poco.
Amleto – Di’ agli attori di fare in fretta.
Esce Polonio.
E anche voi due, aiutate gli attori a sbrigarsi.
Rosencrantz – Subito, signore.
Escono Rosencrantz e Guildenstern.
Amleto – Oh, Orazio!
Entra Orazio.
Orazio – Principe carissimo, al tuo servizio.
Amleto – Tu sei la persona con più equilibrio
che io abbia mai incontrato in vita mia.
Orazio – Principe...
Amleto –
Non lo dico per blandirti,
che vantaggi vuoi che speri da te
che per rendita hai solo intelligenza,
e di questa ti nutri e vesti? Perché adulare i poveri?
No, lascia che le lingue zuccherine lecchino
il più vacuo potere, e pieghino ginocchia ben oliate
là dove il servilismo dà profitto. Mi capisci?
Da quando la mia anima è padrona di sue scelte
e sa distinguer uomini a lei affini,
ha posto il suo sigillo su di te; perché tu sei
uno che molto soffrendo poco può soffrire,
uno che schiaffi e premi di Fortuna
li prende con grazia eguale, e benedetto sia
chi ha sangue e senno così ben commisti
che mai può far da zufolo a Fortuna,
Atto iii, scena seconda
109
passivo sotto le dita che lo suonano. Datemi un uomo
non schiavo di passioni: lo terrò
nel cuore, no, meglio, nel cuor del cuore,
come faccio con te. Ma si è detto anche troppo.
Tra poco si dà un dramma innanzi al re:
c’è una scena che si avvicina assai
a quel che t’ho detto sulla morte di mio padre.
Ti prego, appena inizia quest’azione,
coi sensi più acuti che hai nell’anima,
osserva mio zio. Se la sua colpa occulta
non sbuca dalla tana a una certa battuta,
quel che abbiam visto è uno spettro dannato,
e le mie immaginazioni son più fosche
della fucina di Vulcano. Scrutalo attentamente;
quanto a me, gli inchiodo gli occhi in faccia;
dopo confronteremo i due giudizi
sul modo in cui ha reagito.
Orazio –
Bene, Principe.
E se mi ruba qualcosa all’attenzione
mentre il dramma è in corso, pagherò io il furto.
Entrano Trombe e Timpani e suonano una fanfara.
Amleto – Arrivano. Devo fare il matto.
Tu trovati un posto.
Entrano Re, Regina, Polonio, Ofelia, Rosencrantz, Guildenstern e altri
Gentiluomini del seguito, con la Guardia del re che reca torce.
Re – Come sta in salute il nostro nipote Amleto?
Amleto – Benissimo, mangiando il piatto del camaleonte. Io mangio aria,
imbottita di promesse. Non ci si ingrassan capponi, però.
Re – Non so che dire di questa risposta, Amleto. Queste parole non mi
arrivano.
Amleto – E neanche più a me, ormai. – [a Polonio] – Signor mio, tu un
tempo hai recitato, all’Università, tu dici?
110
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Polonio – Oh sì, mio Principe, ed ero considerato un buon attore.
Amleto – E che parti facevi?
Polonio – Ho fatto Giulio Cesare; mi uccidevano nel Campidoglio. Era
Bruto che mi uccideva.
Amleto – E infatti è da bruti uccidere un simile bue. Son pronti gli
attori?
Rosencrantz – Sì Principe, aspettano un vostro comando.
Regina – Vieni mio caro Amleto, siediti accanto a me.
Amleto – No, mamma, qui c’è un metallo che m’attrae di più.
[Va verso Ofelia.]
Polonio – [a parte, al Re] – Oh oh! Avete còlto?!
Amleto – [accomodandosi ai piedi di Ofelia] – Signora, posso giacervi in
grembo?
Ofelia – No, signore.
Amleto – Volevo dire: poggiarvi la testa in grembo.
Ofelia – Certo, signore.
Amleto – Hai pensato che intendessi in fig... ura?
Ofelia – Io non pensavo a nessuna cosa...
Amleto – Casto pensiero: non pensare alla cosa giacendosi tra le gambe
di voi ragazze.
Ofelia – Cosa, signore?
Amleto – Nessuna cosa.
Ofelia – Siete allegro, signore?
Amleto – Chi, io?
Ofelia – Sì, voi.
Amleto – Oddio, sì: la farsa l’ho scritta io! E che dovrebbe fare uno se
non essere allegro?! Guarda che aria briosa ha mia madre, e mio padre è morto da neanche due ore.
Ofelia – Ma no, fa due volte due mesi, Principe.
Amleto – Così tanto?! Be’, già il diavolo, si sa, veste di nero; per me
ci vuol di più, il lutto dei príncipi: zibellino nero. Oh cieli, sei morto da due mesi, e ancora non dimenticato!? Ma allora c’è speranza che la memoria d’un grand’uomo possa sopravvivergli almeno di
sei mesi! E Cristodiddio, ne dovrà costruire di chiese e cappelle!
Se no, passata la festa gabbato lo santo, e chi muore giace... e quel
che segue!
Atto iii, scena seconda
111
Le trombe suonano. Segue una pantomima.
Entrano un Re e una Regina, e si abbracciano a vicenda. Lei si inginocchia e fa mostra d’amore. Lui la rialza e le appoggia la testa sulla spalla.
Lui si stende su un’aiola fiorita. Lei, vedendo che s’addormenta, lo lascia.
Subito entra un altro Uomo, che gli toglie la corona, la bacia, e poi versa
veleno nelle orecchie del dormiente e se ne va. Ritorna la Regina, e scopre
il Re morto e fa gesti di disperazione. L’Avvelenatore ritorna con altri Tre
o Quattro. Sembrano condolersi con lei. Il corpo morto viene portato via.
L’Avvelenatore corteggia la Regina facendole doni. Lei all’inizio sembra
scontrosa, ma alla fine ne accetta l’amore.
Escono.
Ofelia – Cosa significa, Principe?
Amleto – Perdio, questa è vile perfidia viperina. Significa crimine.
Ofelia – Ma c’entra poi con la trama del dramma?
Entra il Prologo.
Amleto – Ce lo dirà questo qui. Gli attori non tengono segreti: in genere dicono tutto.
Ofelia – Ci diranno che cosa voleva mostrare la pantomima?
Amleto – Ma certo, l’importante è voler mostrare. Tu mostragliela, e vedrai che lui non avrà vergogna di dirti cosa vuol dire.
Ofelia – Sei volgare, sei volgare. Lasciami seguir la scena.
Prologo – Ci inchiniamo chiedendo indulgenza,
per noi e per la tragedia,
e speriam nella vostra pazienza.
Amleto – Cos’è un prologo o un motto inciso in un anello?
Ofelia – È breve.
Amleto – Come amor di donna.
Entrano gli Attori che impersonano Re e Regina.
Re – Di Febo il Carro trenta volte cinse
L’orbe terraqueo, e in trenta anni avvinse,
112
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
E trenta volte dodici la luna,
Mutevole restando sempre una,
Da quando Imen i nostri cuori ha unito
Legandoli per sempre in sacro rito.
Regina – Sole e luna ci dian ancor tant’anni
Prima che amor s’estingua negli affanni.
Ma ahimè! Da tempo un male ti divora;
Triste ti vedo, muto, e ciò m’accora,
E in ogni istante un crudo fato temo;
Donna son io, ti guardo e in cor mio tremo:
Per donna non c’è amor senza paura,
Dell’un dell’altra eguale è la misura.
E del mio amor conosci la grandezza:
Tale è il timor che provo, abbi certezza.
Se grande è amore, è grande lo spavento,
Grande in un solo cor gioia e tormento.
Re – Regina, è vero, la mia vita è al fine
Esausto sono, e quasi a morte incline.
Ma tu de’i viver qui nel lieto mondo,
Per te, d’amor, d’onor ancor fecondo,
E dunque ti sia sposo...
Regina –
Oh no, non più!
Non voglio più sposi: non cede virtù!
Di vedova sposa ben trista è la sorte,
Lei sola risposa che al primo die’ morte!
Amleto – [a parte] – Quest’è arsenico!
Regina – A nuove nozze muove un reo appetito
D’oro e d’onori, non amor squisito.
E vero omicidio saria se m’abbraccia
Un nuovo consorte cui accanto mi giaccia.
Re – Ti credo sincera, eppur spesso abiura
Chi in cuore sincero la fede sua giura.
È di memoria schiava la ferma volontà,
Ma il labile ricordo, non trova eternità.
Atto iii, scena seconda
Il frutto ancor verde s’aggrappa al suo ramo,
Se è passo giù cade: scordato è ogni «T’amo!».
L’oblio è necessario, cancella ogni debito,
Da colpa t’assolve, rinnova il tuo credito.
Passione che arde ha ferma parola
Passione già spesa, e il giuro è una fola.
Hanno gran forza in sé e gioia e pena
Tal forza all’eccesso ne estingue la vena;
E gioia gioisce, se pena è in tormento,
E un attimo sol sta tra riso e lamento,
Perché il mondo si muta al passar degli istanti
E al mutar di Fortuna così mutan gli amanti.
Chi è più forte tra i due, la Fortuna o l’amore?
È incerto che l’un sia dell’altra signore.
Per un grande che cade si fan radi gli amici
Ma Fortuna che sale rende amici i nemici.
Fedele e l’amico se non sei nel bisogno
Ma chiedi e vedrai, svanirà come un sogno.
Ma per chiudere qui dov’ho iniziato:
Son contrari tra lor volere e fato,
Scinde il pensier dall’atto un grande abisso,
E lì s’annienta ogni scopo prefisso.
Tu dici che non vuoi nuovo consorte?
Questo pensier morrà con la mia morte.
Regina – Non nutrirmi più terra, e tu, o cielo,
Offuschi la tua luce un nero velo,
E sia mia vita rigida clausura,
Volga speranza in trepida paura,
E gli opposti che sconciano il diletto
Lacerino ogni desire nel mio petto,
Né più mai abbian fine le mie doglie:
Vedova sì, ma per sempre tua moglie.
Amleto – Qui sarebbe lei a dover interrompere!
Re – Oh fermo giuramento! Lasciami, amore.
113
114
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Già m’invade ogni senso un gran torpore;
Nel sonno anneghi il tedio...
Regina –
Sì, mio sposo.
Che nulla ci separi! Buon riposo.
Esce. Il Re s’addormenta.
Amleto – Mamma, ti piace lo spettacolo?
Regina – La donna è un po’ prodiga di giuramenti, mi sembra.
Amleto – Oh, ma li mantiene, anche!
Re – Conosci già la trama? Spero non ci sia offesa per nessuno?
Amleto – Oh no, è tutto per finta... avvelenano, ma per finta. Il pudore è salvo.
Re – E come si chiama il dramma?
Amleto – La trappola per topi... e cavolo!... che metafora azzeccata!
Mette in scena un assassinio compiuto a Vienna – il nome del duca è Gonzago, e la moglie si chiama Battista – ma vedrete fra poco.
È un piccolo capolavoro del crimine. Non inquietamoci però. Vostra
Maestà, e tutti noi che abbiamo la coscienza pulita, non ci tocca proprio. Lasciamo pur grattar dov’è la rogna.
Entra Luciano.
Questo è Luciano, nipote del Re.
Ofelia – Siete bravissimo a far da coro, Principe.
Amleto – Sono come un burattinaio: se vedessi due burattini che pomiciano potrei dargli la voce tua e del tuo amante.
Ofelia – Così pungente, così pungente, Principe.
Amleto – Oh sì, smussami la punta! Un paio di gemiti te li strapperei.
Ofelia – E dai! Nella buona e nella cattiva sorte...
Amleto – Questo è quel che dite voi quando vi malmaritate... – Su, comincia, assassino. Piantala di far smorfie da malvagio. Dai, gracchia
corvo bramoso di vendetta.
Luciano – Neri pensier, abili mani, droga nociva
Ora propizia, e non anima viva.
Mistura putrida d’erbe notturne,
Ch’Ecate fa crescer tra le urne
Atto iii, scena seconda
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Opera la tua funesta magia
Usurpa vita sana. Spenta sia!
Versa il veleno nelle orecchie del dormiente.
Amleto – Lo avvelena in giardino per ereditarne i possedimenti. Si chiamava Gonzago. La storia ci è stata tramandata, scritta in un italiano molto elegante. Come vedrete adesso, l’assassino si prende anche
l’amore della moglie di Gonzago.
Ofelia – Il re si sta alzando.
Amleto – Cos’è, gli fa paura uno sparo a salve?
Regina – Non ti senti bene, mio signore?
Polonio – Interrompete lo spettacolo.
Re – Fatemi luce. Andiamo.
Polonio – Luce, luce, luce.
Escono tutti, salvo Amleto e Orazio.
Amleto – S’imboschi a piangere il cervo ferito
Ma il cerbiatto lieto sia.
Alcun vigila, alcun dorme sfinito,
E il mondo corre via.
Un successo, Orazio! Se la fortuna mi è infedele, mi metto un bosco
di piume in testa, coturni ai piedi e mi do al teatro.
Orazio – Di giro?
Amleto – Oh no! Stabile!
Perché tu ben lo sai, Dámone caro,
Caddero regni più saldi del bronzo,
Giove fu usurpato, e, caso non raro,
Qui ora regna un grande... grande... birbacciuolo.
Orazio – Avresti potuto far la rima.
Amleto – Oh caro Orazio, ora son disposto a puntar mille sterline sulle
parole dello spettro! Hai visto tutto?
Orazio – Tutto.
Amleto – E proprio sulla battuta del veleno.
Orazio – Lo osservavo bene.
Amleto – Ah ha! Su, un po’ di musica; vengano i flautisti.
E se il Re ha la commedia in odio,
Se la faccia piacere, pardieu!
Su, un po’ di musica, via.
116
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Entrano Rosencrantz e Guildenstern.
Guildenstern – Ottimo Principe, concedetemi una parola.
Amleto – Anche tutto un discorso, caro.
Guildenstern – Il re, si...
Amleto – Ah sì, il re? E che dice?
Guildenstern – Si è ritirato nelle sue stanze, orribilmente alterato.
Amleto – Dal vino?
Guildenstern – No, dalla collera.
Amleto – Faresti cosa più saggia se tu l’andassi a dire al medico, perché
se dovessi purgarlo io dei suoi umori forse lo annegherei in ancor più
collera.
Guildenstern – Signore, un po’ più di serietà nelle vostre parole, e non
divagate con tanta stravaganza dalla mia questione.
Amleto – Farò il buono. Dimmi, caro.
Guildenstern – È la regina vostra madre, in grandissima afflizione di spirito, che mi manda da voi.
Amleto – Ma sei il benvenuto!
Guildenstern – No, signore, questa cortesia non è degna dei vostri natali. Degnatevi, vi prego, di darmi una risposta assennata, e io porterò a
fine l’ordine di vostra madre; altrimenti, con vostra licenza, mi ritiro e
il mio compito finisce qui.
Amleto – Caro, non posso.
Rosencrantz – Cosa, signore?
Amleto – Darvi una risposta assennata. Il mio senno è malato. Ma cari,
ogni risposta che vi darò sarà ai vostri ordini – anzi, a quelli di mia madre. Ma ciò basti. Veniamo al dunque. Mia madre, dicevate...
Rosencrantz – Sì, dunque, dice così: il vostro comportamento l’ha lasciata sbalordita e sgomenta.
Amleto – Oh mirabile figlio, quello che ancor sa stupire sua madre! Ma
non c’è alcun seguito a questo sgomento materno? Avanti, dite.
Rosencrantz – Desidera parlar con voi nel suo studiolo, prima che voi
andiate a letto.
Amleto – E noi, noi obbediremo. Andremo dalle nostre mamme: una decina, almeno. Avete nient’altro per noi?
Rosencrantz – Mio signore, un tempo m’avete voluto bene.
Atto iii, scena seconda
117
Amleto – E te ne voglio ancora, per queste mie mani dedite al peccato.
Rosencrantz – Perché così sconvolto, buon signore? Vi sbarrate da solo
la porta della libertà, se vi negate di confidar le pene ai vostri amici.
Amleto – Caro, non vedo altra possibilità di carriera per me.
Rosencrantz – Ma come è possibile, quando avete la parola stessa del re
che la successione in Danimarca spetta a voi?
Amleto – Eh sì, caro, ma mentre l’erba cresce che fa il cavallo? – sa di
muffa ormai questo proverbio.
Entrano Attori con flauti a becco.
Ah, i flauti! Datemene uno. – E per concluder con voi, perché mi state sempre addosso, fiutando ogni mia traccia, come se voleste spingermi nella rete?
Guildenstern – Oh, mio Principe, se il dovere mi rende fastidioso, è il
mio affetto per voi che mi fa commetter goffaggini.
Amleto – Questa poi non la capisco. Suonami qualcosa su questo
zufolo!
Guildenstern – Ma io non so suonare.
Amleto – Ti prego.
Guildenstern – Davvero, non so suonare.
Amleto – Ti supplico.
Guildenstern – Ma non so neanche come si tiene in mano.
Amleto – È facile come mentire. Controlli questi buchi con dita e pollice e ci soffi dentro con la bocca, e lui parlerà musica eloquentissima.
Guarda, queste sono le chiavi.
G uildenstern – Ma non saprei trarne alcuna melodia. Non ho la
tecnica.
Amleto – Ecco, vedete voi che bassa idea avete di me?! Pretendete di
suonarmi, pretendete di conoscer le mie chiavi, di cavarmi fuori il cuore del mio mistero, di farmi cantare dalla nota più grave alla più acuta della mia tessitura: e in questo strumentino c’è molta musica, e voce
eccelsa, eppure non sapete farlo parlare. Ma, porco boia, mi credete più facile da suonare di uno zufolo?! Prendetemi per lo strumento
che vi pare, fregatemi qua e là dove vi pare, ma mai ne caverete alcun
suono.
118
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Entra Polonio.
Oh, che Dio ti benedica, caro.
Polonio – Signore, la regina vorrebbe parlarvi, e subito.
Amleto – La vedi quella nuvola lassù che ha quasi la forma di un
cammello?
Polonio – Oh, perbacco, ma sì! – somiglia davvero a un cammello.
Amleto – Direi che pare proprio una faina.
Polonio – Ha una schiena da faina.
Amleto – No, somiglia a una balena.
Polonio – Eccome, proprio una balena.
Amleto – Be’, andrò da mia madre, tra breve.
– [a parte] – Mi fanno fesso dalla testa ai piedi –
ci andrò, tra breve.
Polonio – Riferirò.
Amleto – «Tra breve» è breve a dirsi. – Lasciatemi, amici.
[Escono tutti tranne Amleto.]
È l’ora più stregata della notte,
sbadigliano le tombe e anche l’inferno
álita sul mondo il suo contagio.
Potrei ber sangue caldo, far nefasti
da far tremare il giorno, se li vede.
Ma calma! Arrivo, mamma. O cuore,
non perder tua natura. Impedisci
che l’anima di Nerone mi entri in petto;
crudele sì, ma non da snaturato.
Pugnali parlerò, ma senza usarli,
con lingua e anima, almen con lei, ipocrite:
e se parola infligge la ferita
risparmi l’atto l’anima contrita.
Esce.
Atto iii, scena terza
119
Scena terza
Entrano Re, Rosencrantz e Guildenstern.
Re – Non lo sopporto, e poi è pericoloso
lasciare in libertà la sua pazzia. Su, state pronti,
presto vi fornirò le credenziali,
e lui verrà con voi in Inghilterra.
Il nostro regno non può tollerare
un rischio così vicino a noi, e le trovate
che d’ora in ora gli escon dalla testa.
Guildenstern – Ci andiamo a preparare.
Scrupolo giusto e santo è preoccuparsi
di dare sicurezza ai tanti corpi
che ricevon vita e nutrimento dalla Maestà Vostra.
Rosencrantz – Ogni individuo singolo è tenuto,
con ogni forza o arma della mente,
a proteggersi dal danno. Tanto più
colui dal cui benessere dipendono
le vite di così tanti. La Maestà
non muore mai sola, come un vortice
attira quel che ha vicino. O come ruota
massiccia, ferma sulla cima del più alto monte,
nei cui raggi enormi s’infiggono migliaia
di cose più minute, e quando cade
ogni piccola appendice lo segue
in quell’immenso tonfo. Mai da solo
sospira il re: a gemere son tutti.
Re – Preparatevi, vi prego, a questo viaggio, e di fretta.
La metteremo in ceppi questa paura
che ora se ne va troppo a piede libero.
Rosencrantz – Ci affrettiamo.
Escono Rosencrantz e Guildenstern.
Entra Polonio.
Polonio – Sire, sta andando allo studiolo di sua madre.
120
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Dietro l’arazzo mi ci infilo io
e udrò l’incontro. Son sicuro: lo riporterà a ragione;
e come avete detto voi – e saggiamente! –
è bene ci sia altro pubblico ad ascoltare
oltre la madre – natura, si sa, le fa parziali.
A presto, mio Sovrano, tornerò
da voi prima che andiate a letto
a dirvi quel che ho appreso.
Re –
Grazie, mio fedele.
Esce Polonio.
È sconcio il mio delitto, e appesta il cielo;
È la maledizione primigenia:
il fratricidio. E a pregare non riesco;
acuta è l’intenzione e il desiderio,
ma la colpa sconfigge anche l’intento.
E come chi è diviso tra due obblighi,
sono incerto da quale cominciare,
e trascuro entrambi. Oh mano maledetta,
fosse anche più incrostata di fraterno sangue;
possibile che lassù nei lieti cieli,
non ci sia pioggia abbastanza
per farla bianca come neve? A che serve la grazia,
se non a guardar la propria colpa in faccia?
E cosa c’è nella preghiera se non la forza duplice
che ci trattiene prima che cadiamo,
e ci perdona quando siamo a terra? E allora, guarda in su!
La mia colpa è nel passato. – Che forma di preghiera
può giovarmi? «Perdona il mio laido delitto?»
Non può andare, perché ancora possiedo
gli effetti di quell’omicidio che ho compiuto –
la mia corona, la mia ambizione, la mia regina.
Possibile il perdono, tenendosi il delitto?
Nelle derive corrotte di quest’epoca,
la mano d’oro del delitto può scostar da sé ogni giustizia,
e si vede spesso che il maltolto
serve a comprar la legge. Ma lassù, lassù non è così:
non si può barare, l’atto permane
Atto iii, scena terza
121
nella sua natura vera, e siam costretti
faccia a faccia, denti contro denti con le nostre colpe
a dar testimonianza contro noi. E cosa allora? Che mi resta?
Tentare cosa possa il pentimento? Cosa non può?
Ma cosa può, se non ci si sa pentire!?
Orrendo stato! Nero di morte in petto!
Oh anima invischiata, che più lotti
per liberarti e più ti imprigioni! Aiuto, angeli! Datemi soccorso!
E piegatevi, ginocchia superbe! E tu cuore con corde d’acciaio,
falle ténere come tendini d’infante.
Tutto andrà bene, forse.
Si inginocchia.
Entra Amleto.
Amleto – Ora è il momento giusto, ora che prega,
potrei farlo, lo faccio – [estrae la spada] – e lui va in cielo;
e che vendetta è mai, a pensarci bene?!
Un malvagio m’uccide il padre, e io per questo,
io, l’unico figlio, quel malvagio lo mando
in paradiso.
Ma questa è ricompensa, è un salario, non vendetta.
Lui mio padre l’ha ucciso sporco, pien di cibo,
con tutti i peccati in fiore, in pieno fulgor di maggio;
e come sia lassù il suo bilancio, lo sanno in cielo.
Ma da quaggiù, per quanto noi capiamo
gli va male. Ed è vendetta allora
se l’uccido mentre si purga l’anima,
quando al trapasso è pronto e ben provvisto?
No. – Rientra, spada.
Serbati a una stoccata ben più orrida:
quando dorme sbronzo, o è in piena furia,
o tra i piacer d’incesto del suo letto,
oppur bestemmi al gioco, o in altro atto
che non abbia conforto di salvezza, allora abbattilo,
e che caschi scalciando al cielo, e la sua anima
nera e dannata sia come il suo inferno. – Mamma aspetta.
122
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
La preghiera è buona cura a mente pia,
ma a te allunga solo un po’ la malattia.
Re – Volan le mie parole, ma il pensiero resta in basso:
pensier che da parola sia diviso
mai giunge sino all’alto paradiso.
Esce.
Esce.
Scena quarta
Entrano Regina e Polonio.
Polonio – Sta arrivando. State attenta, toccatelo sul vivo.
Ditegli che le sue scelleratezze
non si sopportan più. Ditegli che Vostra Grazia
ha fatto da schermo, si è frapposta
fra lui e grandi guai. Io, qui dietro, taccio. Siate franca.
Regina – Non temete, sarò franca. Ritiratevi.
Lo sento arrivare.
[Polonio si nasconde dietro l’arazzo.]
Entra Amleto.
Amleto – Dimmi, mamma, cosa c’è?
Regina – Amleto, hai molto offeso tuo padre.
Amleto – Madre, tu hai molto offeso mio padre!
Regina – Andiamo, andiamo, è insensato quel che dici.
Amleto – E vai, vai, è perverso quel che chiedi.
Regina – Su dimmi, Amleto, dimmi, cosa c’è?
Amleto – Perché, c’è qualcosa? Già, che c’è di nuovo.
Regina – Hai dimenticato chi sono?
Amleto –
No, per la santa croce, certo no!
Sei la regina, moglie del fratello di tuo marito,
e, così non fosse, anche mia madre.
Regina – No, così non va. Chiamerò qualcuno che ti saprà parlare.
Amleto – Ma su, ma su, siediti qui. E non ti muovere,
sinché non t’avrò porto uno specchio in cui vedrai
al fondo più profondo di te stessa.
Atto iii, scena quarta
123
Regina – Che vuoi fare? Mi vuoi uccidere?
Aiuto! Aiuto!
Polonio – [dietro l’arazzo] – Aiuto! aiuto!
Amleto – Che c’è? Un ratto! Te l’ammazzo per un ducato. Morto!
[Trapassa l’arazzo con la spada.]
Polonio – [da dietro] – Ah, mi hanno ucciso!
Regina – Oddio, che cosa hai fatto?!
Amleto –
Già, cosa? Non lo so.
È il re?
[Solleva l’arazzo e scopre Polonio morto.]
Regina – Ah che atto impulsivo e sanguinoso!
Amleto – Un atto sanguinoso!? Quasi quanto, cara mamma,
uccidere un re e sposarne il fratello.
Regina – Uccidere un re?
Amleto –
Signora, sì, proprio così, l’ho detto. –
E tu, povero scemo, sconsiderato ficcanaso, addio.
Ti ho preso per il tuo padrone. Accetta la tua sorte:
hai imparato che l’intrigo ha i suoi rischi. –
Smettila di torcerti le mani. Calma, e siediti,
e lascia che ti torca il cuore; sì che te lo torca,
se ancora è fatto di materia malleabile,
se la porca abitudine non l’ha reso bronzeo,
fortificato contro i sentimenti.
Regina – Cosa ho fatto, che ti fa sparlare
in toni così aspri contro me?
Amleto –
Un atto
che sconcia rossore e grazia del pudore,
chiama ipocrita la virtù, scambia la rosa
sulla bella fronte d’un innocente amore
con una vescica, e falso, come le promesse
d’un baro a dadi, fa ogni voto nuziale. – Oh, un atto
che d’ogni contratto lacera il senso intimo,
che riduce la buona religione a rapsodia
di parole. Ne avvampa in faccia il cielo
al veder questa massa dissonante e solida,
e s’attrista, quasi l’Apocalisse fosse qui,
smagato nel pensiero di fronte a un tale atto.
124
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Regina – Ma quale atto infine, che così ruggisce
e tuona già fin dal preambolo?
Amleto – Guarda questo ritratto, e ora questo,
immagini dipinte e somiglianti di fratelli.
Vedi che grazia posa sul suo viso,
ricci d’Iperione, la fronte è Giove stesso,
e l’occhio è di Marte, minaccia e comanda,
e dell’araldo Mercurio il portamento:
appena atterrato su un colle che il cielo bacia,
un’armonia, un corpo su cui sembra davvero
che ogni dio abbia impresso il suo sigillo
per garantire al mondo: ecco un uomo!
Questo era tuo marito. E ora guarda l’altro.
Questo è tuo marito, una spiga ammuffita
che appesta il fratello sano. Ce l’hai gli occhi?
Ma come!? Ti sei pasciuta su questo monte verde
e ora scrocchi su questa landa squallida? Ma ce l’hai gli occhi!?
Non me lo chiamerai amore; alla tua età
il fulgor del sangue è ammansito, e umile
s’assoggetta al giudizio. E che giudizio
s’abbasserebbe mai da questo a questo? I sensi
ce li hai, altrimenti non avresti moto; ma sensi
paralitici! Mai s’è vista pazzia
né sensi allucinati sbagliar così di grosso;
un minimo rimane di criterio
per notar la differenza?! Quale diavolo
ti ha fregato giocando a moscacieca?!
Occhi senza tatto, tatto senza vista, orecchie
senza mani e senz’occhi, olfatto senza tutto;
se si ha un senso vero, anche minuscolo, e malato,
mai t’ingannerebbe così tanto! Oh, vergogna,
dov’è il tuo rossore?! Oh, inferno ribelle,
se nelle ossa d’una tardona anche t’ammutini,
in gioventù che avvampa fa’ che virtù
come la cera squagli al proprio fuoco.
Proclama che niente è più vergogna,
Atto iii, scena quarta
quando l’impulso ardente va all’attacco,
se anche il gelo stesso può bruciare
e ragione a volontà fa da ruffiana.
Regina –
Oh, Amleto, basta.
Mi forzi gli occhi a guardar nell’anima,
e vedo macchie così nere e incancrenite
che mai sbiadiranno.
Amleto –
Ah sì!? Ma come puoi vivere
tra i sudori e umori rancidi d’un letto
intanfito nella corruzione, e far coccole, e far l’amore
in quel lercio porcile!
Regina –
Basta, non voglio sentir altro.
Parole come pugnali m’entrano nelle orecchie.
Basta, Amleto caro.
Amleto –
Un assassino, una carogna,
un servo che non vale un milionesimo
del tuo primo signore, un re orco dei burattini,
un borsaiolo del potere e della legge,
che il prezioso diadema rubò da uno scaffale
per metterselo in tasca...
Regina –
Basta!
Amleto – ... l’Arlecchino dei re, tutto toppe...
Entra lo Spettro.
Salvatemi, stendete le ali su di me, guardie celesti!
Che chiede la tua benigna immagine?
Regina – Oddio, è pazzo.
Amleto – Vieni a sgridar tuo figlio perché indugia,
e perde tempo, e passione, e trascura
l’esecuzione urgente del tuo comando atroce?
Oh dimmi.
Spettro – Ricorda, ricorda. Io ti visito
per riaffilar la spada del tuo intento.
Ma guarda lo sgomento di tua madre;
falle scudo dall’anima che ha in lotta:
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126
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
più forte immagina un fragile corpo.
Parlale, Amleto.
Amleto – Come stai, Regina?
Regina –
Ahimè, come stai tu!?
Giri nel vuoto lo sguardo e con l’aria
incorporea conversi? E la mente sconvolta
ti s’affaccia spiritata agli occhi,
e come i soldati balzan su alla sveglia,
così i capelli escrescenze vive
s’alzan dritti. Oh figlio caro,
sulla fiamma di questo tuo delirio
spargi fresca pazienza. Cosa guardi?
Amleto – Lui, lui. Guarda, ci fissa, fosco e pallido.
Il suo aspetto e assieme la sua causa
renderebbero sensibili le pietre. – No, non guardarmi, tu,
quel tuo sguardo pietoso può infiacchire
la mia fermezza. E quel che devo fare
sbiadirebbe in colore – lacrime sarebbero e non sangue.
Regina – Ma a chi parli così?
Amleto – Non vedi niente là?
Regina – No, niente. Vedo quel che c’è.
Amleto – E neanche hai sentito niente?
Regina – No, niente. Noi due.
Amleto – Ma guarda là, guardalo, scivola via in silenzio.
Mio padre, coll’armatura che portava da vivo.
Guarda, proprio ora sta uscendo dalla porta.
Esce lo Spettro.
Regina – Ma è tutto conio del tuo cervello.
La follia è brava a inventare
queste cose senza corpo.
Amleto – Ho il polso regolare, come il tuo,
va a tempo, e fa musica sana. No, non è pazzia
quel che ho detto. Mettimi alla prova,
e te lo ridico parola per parola. La pazzia
manca ogni bersaglio; per Dio, mamma,
non spargerti anestetici sull’anima:
sia pur pazzia, ma ascolta lei, non la tua colpa:
Atto iii, scena quarta
d’una sottile crosta copre l’ulcera,
ma sotto cresce putredine che rode
e tutto infetta, invisibile. – Confessati al Cielo,
péntiti del passato, evita quel che verrà;
E non spargere concime sulle erbacce,
per dare più rigoglio a piante fetide. – Perdonami la mia virtù;
in tempi bolsi e tronfi come questi
è la virtù che chiede scusa al vizio – eccome! –
e lo corteggia e striscia per rendergli favori.
Regina – Oh, Amleto, mi hai spezzato il cuore in due.
Amleto – E tu butta via la parte peggiore,
e vivi con la metà più pura.
Buonanotte. E non andare a letto con mio zio.
Fingi una virtù, se tu non l’hai.
Quel mostro, l’abitudine, che del male ci toglie percezione,
e fino il senso stesso che il vero male è lei,
in una cosa è un angelo: che anche
ad azioni buone e giuste sa dar la sua livrea,
e a sé asservirle. Astieniti stanotte,
e ti sarà più agevole la prossima
astinenza, e più ancor la prossima;
abituandoci, mutiamo il sigillo di natura,
possiam decidere di ospitare il diavolo,
o di buttarlo fuori con mirabil forza. – Ancora, buonanotte.
E se vorrai da me benedizione,
sarò io che da te l’imploro. Per il signore qui,
certo mi pento; ma è piaciuto al cielo,
punire me con lui e lui con me,
fare di me flagello e suo ministro.
Ora me ne sbarazzo, e poi risponderò
della morte che gli ho dato. Di nuovo, buonanotte.
Devo esser crudele per esser buono.
È cominciato male, e il peggio segue.
Ancora una parola, mia signora.
Regina – Che devo fare?
Amleto – Non quel che t’ho detto io, per carità!
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Lascia che il re dei flaccidi ti attiri ancora a letto,
ti pizzichi lubrico sulla guancia, ti chiami «mia topina»,
ti dia un par di baci vomitevoli,
ti solletichi il collo con quelle zozze dita,
e tu magari intanto tiri fuori tutto questo:
che in essenza io non sono pazzo,
ma pazzo ad arte. Ma sì, ti dici, sarebbe bene
farglielo sapere. Qual mai Regina, bella,
sobria e saggia nasconderebbe a un simil rospo,
a un pipistrello, al suo micione, questioni cosi gravi?
Chi lo farebbe? No, contro ogni buon senso, ogni segreto,
apri il cesto sul tetto della casa
e lasci che scappino gli uccelli,
e come la scimmia della favola provi anche tu a volare
ma cadi giù e ti rompi il collo.
Regina – Stai sicuro, se la parola è fiato
e il fiato è vita, non ho più fiato in me per riferire
quel che tu mi hai detto.
Amleto – Devo partir per l’Inghilterra, lo sai?
Regina –
Oddio,
me n’ero dimenticata. È già deciso?
Amleto – La lettera è sigillata e i miei due compagni
di cui mi fido come di due vipere cornute –
avendone mandato, mi faran da battistrada,
mi scorteranno alla dissoluzione. Purché così funzioni.
È una gioia veder l’artificiere
scoppiare assieme al suo petardo: e io gioco duro;
scaverò un par di metri sotto alle loro mine
e li farò saltar sino alla luna. Oh com’è bello,
quando due trame si scontrano tra loro!
Il tizio qui mi obbliga a levar le tende,
scarico le sue trippe. Eh, consigliere?!,
ora stai zitto e tieni ogni segreto,
e in vita fosti sol servo indiscreto.
Vieni, caro, con me, chiudiam la scena.
Buonanotte, mamma. Esce trascinando Polonio [la Regina resta in scena].
Atto IV
Scena prima
[Alla] Regina, entra il Re, con Rosencrantz e Guildenstern.
Re – Questi sospiri, questi ansimi profondi hanno un senso.
Tu devi tradurlo. È bene che noi lo si capisca.
Dov’è tuo figlio?
Regina – Lasciateci soli, per un momento.
[Escono Rosencrantz e Guildenstern.]
Ah, mio sposo, che cosa non ho visto questa notte!
Re – Oh, Gertrude, perché, come sta Amleto?!
Regina – Pazzo come il mare e il vento in lotta
per superarsi in forza. In un eccesso
di furia – sente dietro l’arazzo un rumore,
sguaina la spada, grida «Un ratto, un ratto!»
e allucinato nel cervello uccide
il povero vecchio lì nascosto.
Re –
Grave crimine!
Toccava a noi, se eravamo lì.
La sua libertà per noi tutti è una minaccia –
anche per te, per la persona nostra, per chiunque.
Come rispondere poi di questo crimine?
Accuseranno noi, la cui cautela
130
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
doveva tener a freno, contenere, segregare
questo pazzo giovane. Ma tanto l’amavamo
da non capire cosa fosse giusto.
Come chi soffra d’un male vergognoso,
e, perché non si sappia in giro, lascia
che gli roda il midollo della vita. Dov’è andato?
Regina – A portar via quel corpo che ha ucciso.
E su quel corpo – in sua pazzia restando puro,
come oro che tra metalli vili splenda –
piange per il misfatto.
Re – Oh, Gertrude, vieni con me.
Appena il sole tocca le montagne,
via per nave, lo spediamo; e questo turpe crimine,
con tutta la Maestà Nostra, e abilità,
riusciremo a coprire, a scusare. – Ehi, Guildenstern!
Entrano Rosencrantz e Guildenstern.
Voi due, amici, vi serve altro aiuto.
Amleto, nella pazzia, ha ucciso Polonio,
e poi ne ha trascinato via il corpo.
Andate a cercarlo – parlategli con grazia – e il cadavere
portatelo in cappella. Vi prego, subito.
Escono Rosencrantz e Guildenstern.
Vieni, Gertrude, chiamiamo i nostri più saggi amici,
per dire loro sia quel che intendiamo fare,
sia ciò che intempestivamente è stato fatto. – E la Calunnia
sussurri pur nel mondo invidiosa,
punti pur dritta al segno il suo cannone
di veleno, ma manchi il nostro nome,
e spari all’aria illesa. Vieni via!
Ho l’anima in discordia e agonia.
Escono.
Atto iv, scena seconda
131
Scena seconda
Entra Amleto.
[Lo chiamano da dentro.]
Amleto – Messo via per bene, al sicuro.
Ehi, piano! Cosa sono queste urla? Chi chiama Amleto? Ah, eccoli qui.
Entrano Rosencrantz, Guildenstern e Altri.
Rosencrantz – Che ne avete fatto del cadavere, Principe?
Amleto – Impastato con la polvere, di cui è parente.
Rosencrantz – Diteci dov’è. Lo andiamo a prendere e lo portiamo in
cappella.
Amleto – Non ci credere.
Rosencrantz – Credere cosa?
Amleto – Che io riesca a tenere i tuoi segreti e non i miei. E poi, che venga qui una spugna a interrogarmi – che risposte deve dare il figlio di
un re?
Rosencrantz – Mi prendete per una spugna, Principe?
Amleto – Ma certo, caro. Tu succhi i favori del re, le sue ricompense, la
sua influenza. E lui, con quei suoi agenti che l’han servito meglio, sai
che fa? Se li tien nella guancia, come fan le scimmie con le noccióle,
– per gustarseli, prima di trangugiarli. Ma se a lui serve quel che ti sei
ciucciato, basta che ti strizzi, e tu, spugna, tu torni a secco.
Rosencrantz – Non vi capisco, Principe.
Amleto – E ne son lieto. Discorso astuto a orecchio di cretino cade nel
nulla.
Rosencrantz – Principe, dovete dirci dov’è il corpo e venir con noi dal
re.
Amleto – Il corpo è con il re, ma il re che incorpora non è con lui. Il re
è una cosa in sé.
Guildenstern – Una cosa, Principe?
Amleto – Una cosa da nulla, Portatemi da lui.
Escono.
132
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Scena terza
Entrano il Re e due o tre [Gentiluomini].
Re – Ho mandato a cercarlo, e a cercare il corpo.
È un pericolo che vada in giro libero!
Ma non dobbiamo usar con lui metodi forti:
è amato dalla folla irrazionale,
che non sceglie con criterio ma con gli occhi,
e qui vedrebbe il castigo, non la colpa.
Perché tutto vada liscio, l’improvvisa
partenza forzata, sembrerà una vacanza
pensata a lungo. A mali disperati,
disperata è la cura che li allevia,
nient’altro.
Entrano Rosencrantz, [Guildenstern] e Altri.
E allora, che è successo?
Rosencrantz – Dove sia nascosto il corpo, Sire,
non siamo riusciti a cavarglielo.
Re –
E lui dov’è?
Rosencrantz – Qua fuori, Sire, sotto scorta, e ai Vostri ordini.
Re – Portatelo qui, di fronte a noi.
Rosencrantz – Portate qui il principe.
Entra Amleto con Guardie.
Re – Allora, Amleto, dov’è Polonio?
Amleto – A cena.
Re – A cena? dove?
Amleto – Non dove mangia, ma dove lo mangiano. Un congresso di vermi intriganti è già all’opera. Il verme è il solo imperatore che presiede alla dieta:
noi ingrassiamo ogni altra creatura per ingrassare noi, e quanto a noi, ci ingrassiamo per i vermi. Un re grasso e un mendicante magro non sono che
due menu diversi – due piatti, per una stessa tavola. E sì finisce lì.
Atto iv, scena terza
133
Re – Oddio.
Amleto – Un uomo può pescare col verme che si è nutrito di un re, e
mangiare il pesce che ha ingoiato quel verme.
Re – Che vuoi dire?
Amleto – Niente. Volevo solo dimostrarti che un re può avanzare in corteo solenne lungo il budello d’un mendicante.
Re – Dov’è Polonio?
Amleto – In cielo. Mandalo a cercare lassù. E se il tuo messo non ce lo
trova, vallo a cercare in quell’altro posto tu stesso. Ma se non riesci a
trovarlo entro un mese almeno, lo troverai a naso salendo le scale della galleria.
Re – [ai Gentiluomini del seguito] – Andate a cercarlo là.
Amleto – Non ha nessuna fretta, aspetterà.
[Escono Gentiluomini.]
Re – Quest’atto, Amleto, e la tua sicurezza –
che ci sta a cuore, come ci addolora
il tuo misfatto – t’obbliga a partire
rapido come il fuoco. Preparati;
la nave è pronta e propizio è il vento,
i tuoi compagni aspettano. Andrai
in Inghilterra.
Amleto – Già, in Inghilterra?
Re – Sì, Amleto.
Amleto – Bene.
Re – Sì, è un bene, se ti fosse chiaro il mio intento.
Amleto – Vedo un cherubino che lo vede chiaro. Ma sì, andiamo in
Inghilterra. Addio, mamma cara.
Re – Il tuo affettuoso padre, Amleto.
Amleto – No, mamma. Padre e madre son marito e moglie, e marito e moglie sono una sola carne; quindi, mamma. Sì, andiamo in Inghilterra.
Re – Stategli alle calcagna, e in fretta a bordo,
presto – lo voglio via di qui stanotte.
Andate, tutto è pronto, ogni carta col sigillo,
non resta altro per chiuder la faccenda. Ma fate presto.
Escono tutti salvo il Re.
Oh Re inglese, se ti è caro il mio amore –
e così consiglia la mia gran potenza,
134
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
perché ancor viva e rossa è la ferita
della spada danese, e libero paghi a noi
il tuo tributo di paura – non dar risposta tiepida
al nostro mandato sovrano, espresso
in lettere dal chiaro contenuto:
la morte immediata d’Amleto. Fallo, Re inglese!
Come una tisi lui m’appesta il sangue,
e tu sarai la cura. Fallo, boia!
Oppur sempre guastata è ogni mia gioia.
Esce.
Scena quarta
Entra Fortinbras col suo Esercito [in marcia] sulla scena.
Fortinbras – Vai, capitano, saluta a nome mio il re danese.
Digli che per sua licenza Fortinbras
chiede libero passo sul suo regno,
e scorta armata. Tu sai il luogo d’incontro,
se sua Maestà con noi vuol conferire,
gli renderemo omaggio in sua presenza.
Capitano – Eseguirò, signore.
Fortinbras – Avanti, piano.
Escono tutti [salvo il Capitano].
Entrano Amleto, Rosencrantz, [Guildenstern] e Altri.
Amleto – Di chi sono queste truppe, capo?
Capitano – Del re di Norvegia, capo.
Amleto – Distaccate dove?
Capitano – Da qualche parte in Polonia.
Amleto – E chi le comanda?
Capitano – Il nipote del vecchio sovrano, Fortinbras.
Amleto – E vanno a invadere tutta la Polonia,
o è solo una questione di frontiera?
Capitano – A dire il vero, e senza esagerare,
la vittoria è una zolla di terra, una zolletta,
Atto iv, scena quarta
135
il cui guadagno è solo un po’ di fama.
Neanche come podere lo vorrei, a cinque ducati – cinque, dico –
ed è già tanto se al re polacco o al norvegese,
ne darà cinque se venduto in feudo.
Amleto – E allora il re polacco non la difenderà?!
Capitano – Ma sì, c’è già una guarnigione.
Amleto – Duemila anime e ventimila ducati
non bastano a risolver la questione
per un bruscolo di terra! Molta ricchezza e pace,
e dentro un cancro che rode, e intanto fuori
non appare causa alcuna del perché
l’uomo muoia. Grazie tante, capo.
Capitano – Arrivederci, capo.
Rosencrantz –
Vogliamo andare, Principe.
Amleto – Arrivo subito. Avviati.
[Escono tutti salvo Amleto.]
In ogni incontro c’è qualcosa che m’accusa,
che sprona la mia torpida vendetta. Cos’è un uomo,
se del suo tempo fa mercato e poi il guadagno è solo
dormire e mangiare? Una bestia, niente più.
Lui che ci ha dato intelletto così alto,
capace di vedere e cause e effetti, non ci ha dato
tale facoltà, la divina ragione, perché in noi ammuffisca
non usata. Ora, per un qualche oblio bestiale,
o scrupolo codardo che mi fa pensare ogni minuzia
dell’azione – un pensiero che spaccato in quattro
si mostra sensato per un quarto e per tre vigliacco – io non so
perché continuo a vivere dicendomi: tu devi, fallo!
Ne hai causa, mezzi, forza e volontà: fallo!
Esempi grandi come il mondo mi ci spingono:
guarda quest’esercito, così ingente e costoso,
condotto da un principe di fine sentimento e così giovane,
il cui spirito, gonfio di divina ambizione,
fa boccacce all’evento imprevedibile,
esponendo quel che è mortale e incerto
a tutto ciò che fama e morte e rischio osano.
E tutto per un guscio d’uovo rotto, una corona. Sì, esser grandi
136
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
non vuol dire muoversi per grandi cause,
ma in un bruscolo trovar giusto motivo di una lotta,
se l’onore è in gioco. E io che faccio?
Io che ho un padre ucciso, una madre sporcata,
a pungolo del sangue e della mente,
lascio che tutto dorma e a mia vergogna vedo
imminente la morte di ventimila uomini,
che per una fantasia, una voglia di gloria,
vanno verso la tomba come a letto, lottano per una zolla,
che certo non dà causa a tali numeri, e non c’è tomba
o fossa così grande che contenga e nasconda un tal massacro.
D’ora in poi non avrò pensiero in mente
che non sia sangue; ogni altro vale niente.
Scena quinta
Entrano la Regina, Orazio e un Gentiluomo.
Regina – No, non le parlerò.
Gentiluomo –
Ma è insistente,
anzi fuori di sé. Il suo stato chiede pietà.
Regina – Ma cosa vuole?
Gentiluomo – Parla molto del padre, dice che sente
che tutto è inganno al mondo, parla esitando, e si batte il petto,
s’arrabbia per un niente, fa discorsi vaghi
solo a metà sensati. Le sue parole sono vuote
eppure l’uso informe che ne fa muove
chi l’ascolta a raccoglierle quei cocci,
a riaggiustarli, a creder di capire,
tra i cenni, ammicchi e gesti che lei fa,
che dietro ci sia un pensiero,
pur perverso, ma un pensiero.
Orazio – Meglio forse parlarle. Che non susciti
sospetti pericolosi in menti maliziose.
Regina – Che venga.
[Esce Gentiluomo.]
Atto iv, scena quinta
137
– [a parte, citando] – Così è del peccatore per natura:
Tutto per lui è preludio di sventura,
E l’anima dall’ansia ha rósa tutta:
Da sé si strugge per non esser strutta.
Entra Ofelia.
Ofelia – Dov’è la bella Maestà di Danimarca?
Regina – Cosa c’è, Ofelia?
Ofelia – (canta) – Chi sa dir se sia vero amor
Quello che hai per me?
Pellegrin di gentil fervor
Del mio cuor sei re.
Regina – Ahimè, cara bambina, che vuol dire questa canzone?
Ofelia – Che vuol dire? State attenta.
(canta) – Poi partì e per sempre fu
partì per morir.
Sotto l’erba riposi tu,
Spento è il tuo soffrir...
Ohhhh...
Regina – Ofelia, insomma...
Ofelia – Attenti qui.
(canta) – Bianca neve ti copre il cuor...
Entra il Re.
Regina – Ahimè, guardala.
Ofelia – Bianco fior che amai.
Stille calde del mio dolor
Più non senti ormai...
Re – Come stai, bambina?
Ofelia – Bene, grazie a Dio. Dicono che non è vero: il dottore non s’arrabbiò con la figlia, e le tre civette non eran civette. Ora noi sappiamo
quel che siamo, ma non sappiamo quel che saremo. Dio sieda anche
alla vostra tavola.
Re – Fantastica sul padre.
138
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Ofelia – Per favore, non ne parliamo più, ma se ti chiedono cosa vuol dire, tu rispondi così.
(canta) – Domani è il giorno di san Valentino
Mi alzo presto dal letto
E alla finestra dal primo mattino
Aspetto te o mio diletto,
Te solo mio Valentino.
E lui sentì e aprì la porta.
V’entrò la vergine, e quando uscì
Vergin non era più e tutta smorta,
Se ne fuggì, via se ne fuggì...
Re – Ofelia, bambina!
Ofelia – No, no, fammela finire. Non dico parolacce.
E per Gesù e santa Bisognosa,
A che val donna esser vergognosa?!
I ragazzi lo fanno se gli viene,
Dio sa che i maschi non temon pene.
E dice lei: «Ma m’hai tutta sgualcita.
Ma prima hai detto tu che mi sposavi!».
e lui risponde:
«Ma sì, mia cara, io te l’ho giurato,
ma sol se a letto tu non ci venivi.»
Re – Da quanto è in questo stato?
Ofelia – Spero che tutto andrà bene. Dobbiamo aver pazienza. Ma a me
vien proprio da piangere a pensare che lo metteranno nella terra fredda. Bisogna che mio fratello lo sappia. E grazie tante del vostro buon
consiglio. Su, chiamatemi la carrozza. Buonanotte, care signore, buonanotte, buonanotte.
Esce.
Re – Seguila da vicino, tienla d’occhio, ti prego.
[Esce Orazio].
È il veleno d’un lutto profondo, nasce dalla morte del padre. O Gertrude,
o Gertrude,
i dolori mai vengono isolati esploratori,
segue l’esercito. Prima, il padre ucciso,
poi, tuo figlio parte, lui stesso violenta causa
del proprio giusto esilio; il popolo stupefatto,
tonto e malizioso in sospetti e voci
Atto iv, scena quinta
139
sulla morte del buon Polonio – abbiam fatto
cosa stupida a seppellirlo di nascosto.
Povera Ofelia, straniata da se stessa e dalla chiara ragione,
senza la quale noi siamo solo immagini, mere bestie;
e poi, ultimo, ma che tutti somma, torna il fratello
in segreto, dalla Francia, confuso dal tumulto,
sguazza in torbide nuvole di dubbio, né mancano
i mosconi che gli infettan le orecchie con discorsi
pestiferi sulla morte del padre; e senza fondamento
senza materia alcuna, spargon da bocca a orecchio
accuse contro noi, contro la nostra persona.
Oh, cara Gertrude, è una mitraglia
che mi fa morir di morti innumeri!
Rumore interno.
Zitta!
Dove sono i miei svizzeri? Che guardino le porte!
Entra un Messaggero.
Messaggero – Salvatevi, Sire.
L’oceano trabocca dalle sponde,
né divora pianure con più impeto
del giovane Laerte, che a capo d’un manipolo ribelle,
travolge le tue guardie. La marmaglia lo chiama Re,
e come il mondo cominciasse adesso,
scordato ogni passato, ogni costume –
senso e verifica d’ogni parola e atto –
gridano: «Eleggiamolo! Sia Laerte il re!».
Berretti, mani, lingue lo applaudon sino al cielo:
«Laerte sarà re, Laerte è re».
Regina – E con che gioia abbaiano dietro a tracce false;
no, sbagliate pista, cani danesi!
Rumore interno.
Re – Han sfondato le porte.
Entra Laerte con Seguaci.
Laerte – Dov’è questo re? – Signori, uscite tutti.
140
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Seguaci – No, noi entriamo.
Laerte – Per favore, lasciatemi.
Seguaci – Sta bene, usciamo.
Laerte – Grazie. Guardate la porta.
Escono Seguaci.
Oh re abietto,
dammi mio padre!
Regina – [trattenendolo] – Con calma, buon Laerte.
Laerte – Una sola goccia di sangue calmo
e sarei un bastardo, un cornuto mio padre,
e il marchio di puttana sconcerebbe
la fronte immacolata di mia madre.
Re – Qual è la causa, Laerte, dimmi, di questa ribellione,
così simile a quella dei Giganti? – Gertrude,
non temere per la nostra persona; ai re
fa muro la divinità, e il tradimento
può solo sbirciar di sguincio quel che brama,
e agir ben poco del suo desiderio. – Dimmi, Laerte,
perché così infuriato? – Lascialo, Gertrude –
parla, da uomo.
Laerte – Dov’è mio padre?
Re –
Morto.
Regina –
Lui non c’entra!
Re – E come è morto? E non voglio storie!
All’inferno, lealtà, e voti e impegni al più nero diavolo!
Coscienza e grazia, nel più profondo pozzo!
Sfido la dannazione! E sto a un tal punto
che d’entrambi i mondi ho gran disprezzo.
Accada quel che accada, avrò vendetta
per mio padre, e intera.
Re –
E chi ti può fermare?
Laerte – La mia volontà; il mondo da solo
non ce la farebbe, e quanto ai mezzi
gli darò tal forza che basteranno.
Re –
Buon Laerte,
se desideri saper la verità
sul tuo caro padre, non con la tua vendetta.
Atto iv, scena quinta
141
In questa è scritto che travolga nemici e amici insieme,
e il vinto e il vincitore.
Laerte – Solo i nemici.
Re –
E allora, vuoi saper chi sono?
Laerte – Ai suoi buoni amici spalancherò le braccia;
come fa il pellicano che dà vita con vita,
li nutrirò del mio sangue.
Re –
Ecco, ora parli
da bravo figlio, da vero gentiluomo.
Che io della morte di tuo padre non ho colpa,
e che anzi per me è un sentito lutto,
ti sarà chiaro agli occhi come il giorno.
Un rumore interno [si sente Ofelia cantare].
Fatela entrare.
Laerte – Cos’è? Cos’è questo canto?
Entra Ofelia.
Oh fuoco, divorami il cervello! Lacrime di sale,
bruciate senso e immagine negli occhi.
La tua pazzia sarà pagata a peso,
fino a piegar l’asse della bilancia – giuro! Oh, rosa di maggio,
bambina cara – buona sorella – dolce Ofelia...
È mai possibile che il senno in una bimba
sia mortale come lo è nei vecchi il corpo?
Natura innamorata è cosa tenera,
e per bontà se perde amato oggetto
gli manda dietro in pegno un ben prezioso.
Ofelia – (canta) – Il viso avea scoperto nella bara,
Un pianto lo bagnò di pioggia amara...
Addio, mia colomba...
Laerte – Anche se ragionando tu mi chiedessi vendetta,
non sapresti commuovermi così.
Ofelia – Tu devi cantare E giù e giù e giù, e tu Chiamalo giù, chiamalo
giù. Vedete come vien bene a canone?! Fu il falso maggiordomo a rapire la figlia del padrone.
142
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Laerte – Non vuol dire nulla e dice molto.
Ofelia – Ecco a te il rosmarino, che è per il ricordo – ti prego, amore, ricorda. E qui le viole, quelle del pensiero.
Laerte – Ecco, ci fa comprender la pazzia: pensieri e ricordo vanno dritti al segno, a me.
Ofelia – E per te il finocchio, e l’aquilegia – erbe d’infedeltà. E a te la ruta. E un po’ anche a me. Erba del pentimento, o della grazia, possiam
chiamarla la domenica. Tu la ruta dovresti aggiungerla al tuo blasone.
La margherita, fiore d’amor sprezzato, eccola. Volevo darvi anche violette, fior di fedeltà, ma son tutte appassite quando mio padre è morto. Dicono che abbia fatto una buona fine.
(canta) – Oh caro il mio Robin per me sei una gioia...
Laerte – Tristi pensieri e angoscia, passione, anche l’inferno
lei traduce in grazia figurata.
Ofelia – (canta) – Dimmi tu se tornerà?
Dimmi tu se tornerà?
No, mai più, morì.
Nella tomba ora dormi anche tu,
Poi, mai più, mai più.
Come neve era il biancor
Di sua barba e chiome,
Poi sparì, e io intanto
Mi consumo in pianto.
Dio perdoni il suo nome.
Poi, mai più, mai più...
E che perdoni anche tutte le anime cristiane. E Dio sia con voi.
Laerte – Tu lo vedi, o Dio?
Re – Laerte, vorrei partecipare al tuo dolore,
o me ne neghi il diritto? Ma ora, Laerte,
scegli gli amici che reputi più saggi:
saranno loro a giudicare tra te e me.
E se, per via indiretta o nostra mano,
ci scopron colpevoli, noi daremo il nostro regno,
la nostra corona, la nostra vita e tutto
quel che chiamiam nostro a te, per risarcirti.
Altrimenti, concedici per favore la pazienza,
Atto iv, scena sesta
e noi, congiunti nelle doglie alla tua anima,
le daremo la verità che vuole.
Laerte –
E sia.
La causa della morte, il funerale di nascosto –
niente lapide, o spada, o blasone sulla cassa,
né riti solenni, o cerimonia pia –
tutto questo grida dal cielo a qui
che io chieda conto.
Re –
Così sia, oppure
se c’è il crimine, giudichi la scure.
Ti prego, vieni con me.
143
Escono.
Scena sesta
Entrano Orazio e un Servo.
Orazio – Chi sono questi che vogliono parlare con me?
Servo – Son marinai, signore. Dicono che hanno una lettera per voi.
Orazio – Falli entrare.
[Esce il Servo.]
Quale parte del mondo mi può mandar
saluti, se non Amleto, il principe.
Entrano Marinai.
Primo marinaio – Dio benedica Vostra Signoria.
Orazio – E benedica anche te, direi.
Primo marinaio – Lo farà, signore, se gli va. C’è una lettera per voi. Viene
dall’ambasciatore che era destinato in Inghilterra – se di nome fate
Orazio, come poi mi hanno detto.
Orazio – [legge la lettera] – Orazio, quando avrai letto bene questa lettera,
fai in modo che questi uomini sian ricevuti dal re. Hanno alcune lettere per lui. Eravamo in mare da due giorni soli, quando una nave pirata, in pieno assetto d’armi, ci ha dato la caccia. Capendo d’esser di vela
troppo lenta, ci abbiam messo un sovrappiù di valore, e nell’arrembaggio
io son saltato a bordo. In quell’istante, la nave si è scostata d’un tratto
144
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
dalla nostra, e io sono rimasto unico prigioniero. Mi han trattato con la
misericordia che è dei ladri. Ma sapevano quello che facevano. E ora sono io in debito con loro. Fa’ avere al Re queste mie lettere, poi raggiungimi, veloce come tu scappassi da morte. Ho parole da dirti all’orecchio
che ti assorderanno, ma son leggere rispetto al botto che farà l’intera
storia. Questi bravi ragazzi ti porteranno dove sono io. Rosencrantz e
Guildenstern continuano la traversata verso l’Inghilterra; di loro ho molto poi da dirti. A presto.
Quello che tu sai tuo,
Amleto
Vieni, ti introduco da quello a cui darai queste lettere,
ma fai in fretta, e poi più in fretta guidami
da quello che te le ha date.
Escono.
Scena settima
Entrano Re e Laerte.
Re – Ora la tua coscienza mi scagiona –
mi porrai nel tuo cuore tra gli amici –
ora che hai udito, e hai orecchie fini,
che chi ha tolto la vita al tuo buon padre,
minacciava anche la mia.
Laerte –
Tutto è chiaro,
ma ditemi, contro tali misfatti così gravi,
così criminosi per natura, perché non avere agito?
In nome della sicurezza, della preveggenza,
di tutto ciò che vi spingeva a farlo?
Re – Oh, per due ragioni speciali
che a te parrano forse segno di poco nerbo
ma a me sembrano forti. La regina, sua madre,
non vive che per i suoi occhi, e quanto a me –
sia virtù o disgrazia, l’una e l’altra insieme –
lei è così consustanziale di mia vita e anima
che, come ogni stella in sua sfera è fissa, io
Atto iv, scena settima
145
mi muovo solo nella sua. L’altro motivo
per non scegliere un pubblico confronto,
è il grande amore che la gente bassa ha per lui,
un affetto che tutti i suoi difetti trasfigura
e fa come la fonte che trasmuta il ferro in pietra:
i suoi impacci a loro sembran grazia. E le mie frecce,
di legno troppo leggero per vento così forte,
si sarebbero volte contro l’arciere
mancando a ogni tiro il lor bersaglio.
Laerte – E a me rimane un padre morto,
una sorella pazza per disperazione, una
che, se lodi postume hanno un senso,
per sue virtù, per le sue perfezioni
avrebbe fatto invidia a ogni età.
Ma saprò vendicarmi.
Re – Non sprecarci il sonno. Non pensare
che noi siam d’una stoffa così moscia e tonta
che chiunque ci può tirar la barba impunemente,
e noi diciamo: «Che bel gioco!». Ben presto avrai notizie.
Amavo tuo padre, e amiamo noi stessi,
e allora, spero, capirai cosa dover pensare...
Entra un Messaggero con due lettere.
Messaggero – Questa per Vostra Maestà, questa per la regina.
Re – Son di Amleto! Chi le ha portate?
Messaggero – Dei marinai, Sire. Così mi han detto. Io non li visti.
A me le ha date Claudio, e lui le ha ricevute
da quello che le ha portate.
Re –
Laerte,
devi sentirla anche tu – lasciaci.
Esce il Messaggero.
[legge] – Altissimo e Possente, sappiate che sbarcai nudo sul Vostro regal
suolo. Domani, implorerò licenza di presentarmi al Vostro regal cospetto, e sul momento impetrerò il regal perdono, per poi narrarVi le circostanze del mio improvviso e bizzarrissimo ritorno.
Amleto
146
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Ma che vuol dire? Anche gli altri son tornati?
O è un inganno, e non è vero niente?
Laerte – La scrittura è la sua?
Re –
Sì, è d’Amleto.
«Nudo»?...
E in un poscritto qui dice «Solo».
Mi puoi illuminare?
Laerte – No, mi son perso, Sire. Ma che venga.
Allevia ogni sofferenza che ho nel cuore
sapere che vivrò per dirgli nei denti
«Così tu muori!».
Re –
Se è così, Laerte –
ed è così! Come potrebbe essere altrimenti? –
ti farai guidare da me?
Laerte –
Certo, Sire,
purchè non mi forziate a far la pace.
Re – La tua pace, Laerte. Se è tornato,
interrompendo il viaggio, ciò vuol dire,
per restare qui, e io l’attiro
a un’impresa, che ho già matura in mente,
nella quale la sola scelta per lui è cadere;
e per la sua morte neanche un alito
di biasimo si avrà. Persin sua madre
non l’imputerà a nessuno:
dirà che è stato un incidente.
Laerte –
Sire, mi lascerò guidare
tanto più se farete in modo che io
sia lo strumento.
Re –
Perfetto!
Da quando sei partito, si è parlato
molto di te qui, presente Amleto,
di una abilità in cui tu brilli. Nessuna
delle tue doti, suscita in lui tanta invidia
quanto quella – invidia questa
degna di gente bassa.
Laerte –
Che dote, Sire?
Atto iv, scena settima
Re – Oh, è solo una coccarda vivace sul cappello di gioventù,
eppure necessaria. Sì ai giovani s’addicono
i vestiti chiari e disinvolti, e all’età matura,
tinte smorte e fosche che denotano
equilibrio e gravità. Due mesi fa
era qui un gentiluomo normanno –
ho visto i francesi, ci ho anche combattuto,
e so che stanno bene in sella, ma questo prode
a cavallo pareva stregato. Tutt’uno con la sella,
eseguiva mirabili evoluzioni,
quasi fuso con la bestia in un sol corpo,
una natura anfibia. E di tanto superava
le mie attese, che per quanto escogitassi
passi e trucchi, restavo molto al di qua
del suo livello.
Laerte – Un normanno, avete detto?
Re – Un normanno.
Laerte – Ci giurerei che è Lamord.
Re –
Lui, appunto.
Laerte – Lo conosco bene. È ornamento
e gemma di tutta la nazione.
Re – Ci ha detto molte cose di te,
e ci ha riferito della tua maestria
nell’arte e nella pratica del fioretto,
in particolare. E ha esclamato:
«Che spettacolo sarebbe se trovasse
un degno avversario». Al suo paese, ha detto,
non c’è chi abbia affondo, guardia, occhio
da starti a pari. Sai, i suoi discorsi,
hanno così invelenito di pura invidia Amleto
che subito ha avuto voglia
che tu tornassi presto per sfidarti.
Da cosa nasce cosa...
Laerte –
Cosa, Sire?
Re – Laerte, tuo padre ti era caro?
O sei solo un ritratto del cordoglio,
147
148
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
una faccia senza un cuore?
Laerte – Perché chiedete questo?
Re – Oh, non certo perché pensi che non amavi il padre,
ma so che amore nasce dal suo tempo,
e ne vedo ovunque chiari esempi:
il Tempo ne decide la scintilla e il fuoco.
Nella fiamma d’amore c’è come uno stoppino,
che la fuligine a poco a poco spegne;
e nulla di ciò che è buono dura tanto,
poiché ciò che è buono muore del proprio eccesso.
Quel che vogliamo fare dovremmo farlo nel momento
in cui vogliamo: perché questo «vogliamo» cambia,
e ha fasi di declino e di rinvio, tante
quante sono le lingue, le mani, le occasioni.
E quel «dovremmo» è un sospiro sprecato,
che allevia ma ti ammala. Ma veniamo al vivo
della piaga: Amleto è tornato; tu
di cosa saresti capace per mostrarti negli atti
figlio di tuo padre, non a parole?!
Laerte – Tagliargli la gola in chiesa.
Re – Non ci dovrebbe essere asilo per un assassino, infatti,
né limiti alla vendetta. Ma, caro Laerte,
se sei pronto a questo, tienti un po’ nascosto per un po’;
Amleto, dato che è qui, saprà che sei tornato;
gli metteremo alle costole qualcuno che esalti
la tua bravura e ridia lustro alla fama
che t’ha creato quel francese. E alla fine,
vi faremo incontrare, per scommetter
sulle vostre teste. Lui, fiducioso com’è,
e generoso, e incapace di doppiezza,
non controlla i fioretti, e noi con agio –
e un po’ barando – facciamo scegliere
a te il fioretto senza puntale, e tu, con destrezza,
gli darai ricompensa per tuo padre.
Laerte – Lo farò, e anzi meglio, ungerò la spada.
Comprai da un ciarlatano un certo unguento
Atto iv, scena settima
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così mortale che a intingerci un coltello,
laddove punge a sangue, non basta cataplasma
commisto d’ogni erba curativa che cresce
sotto la luna: è sicura morte. Basta uno sgraffio.
Questa peste la spalmo sulla punta,
poi basta che lo sfiori, e sarà morte.
Re – Ponderiamolo bene, soppesiamo
l’opportunità di tempo e mezzi,
e come recitare il giusto ruolo. E se fallisce,
perché da attori cani mostriamo la finzione,
meglio sarebbe non aver provato.
Quindi il progetto ne richiede un altro,
se il primo ci scoppia in faccia. Aspetta,
vediamo: vi inciteremo scommettendo forte. –
Ah, ci sono!
Quando per il moto avrete caldo e sete –
e tu per questo attacca con sempre più violenza –
e lui chiede da bere, gli preparo io
il calice giusto: gli basterà un sorso,
e se per caso sfugge alla stoccata velenosa,
lo scopo lo otteniam lo stesso. – Ma, aspetta, cos’è questo trambusto?
Entra la Regina.
Regina – A un lutto ne segue un altro in corsa,
e così rapidi. Tua sorella è annegata, Laerte.
Laerte – Annegata, e dove?
Regina – C’è un salice che sporge su un ruscello
e foglie color brina specchia in acqua vitrea,
foglie che lei intreccia in fantastiche ghirlande
con ranuncoli, ortiche, primule, e orchidee
– chiamate con ben più rude nome dai pastori,
ma da ragazze ingenue dette dita di morto –
qui s’arrampica per appender corone d’erba
ai rami penduli. Uno, invidioso, si spezza,
e lei, coi suoi trofei erbosi cade giù
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La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
in quel piangente rio. E le vesti intorno sparse
per un po’ tengono a galla lei quasi sirena
cantante che accenna brani d’inni antichi,
quasi insensibile al pericolo imminente,
o creatura nativa all’elemento.
Ma durò poco, durò finché le vesti appesantite
non trascinaron giù quell’infelice,
dal canto melodioso a una fangosa morte.
Laerte – Oddio, annegata.
Regina –
Annegata, annegata.
Laerte – Troppa acqua hai avuto, povera Ofelia,
e quindi mi proibisco il pianto. Eppure,
la natura di noi umani ha i suoi usi,
e dica la vergogna quel che vuole. – [piange] – Sparite le lacrime,
sparirà anche la donna che è in me. Addio, Sire.
Ho parole di fuoco da provocare incendi,
ma questo insensato pianto le spegne.
Re – Seguiamolo, Gertrude.
Tanto ho penato a calmar la sua rabbia.
Ma ora ho paura che gli ricominci.
Quindi, seguiamolo.
Escono.
Atto V
Scena prima
Entrano due Clown [il Becchino e un Altro].
Becchino – E le danno sepoltura cristiana!? Una che se la vuol dar da sé
la salvezza!?
Altro – Ti dico che sì. Quindi, falle una tomba, svelta e stretta. Il coroner
è stato in seduta su di lei e trova che sì: sepoltura cristiana.
Becchino – Ma come!? Cristiana sì, ma solo se t’anneghi per legittima
difesa!
Altro – Insomma, ha deciso così.
Becchino – Ma deve essere come dico io: in latino: se offendendo! Perché
qui sta il punto: se io m’annego apposta, questo, instrinsegamente, è un
atto, e ora un atto si divide in tre rami: agire, fare e disfare; tant mergo: s’è annegata apposta.
Altro – Di’, avvocato Vanga, mi lasci finire –
Becchino – Aspetta un po’. Attento! Qui ci sta l’acqua – bene!? E qui
ci sta l’uomo – bene!? Se l’uomo va in quest’acqua qui e ci si annega, vuol dire che, volente e dolente lui c’è andato, no?! Mi stai attento!? Ma se è l’acqua che va da lui e lo annega, lui non s’è annegato da
sé, no!? Tantu mergo, chi non è colpevole della sua propia morte non
s’accorcia la vita.
Altro – E questa sarebbe legge?
152
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Becchino – La Madonna se è legge! È la sentenza del coroner: è giuri
prudenza.
Altro – La vuoi tutta la verità? Se quella lì non era una signora, altro che
sepoltura cristiana, la seppellivano fuori!
Becchino – Ah, e lì ti volevo! La vergogna è che in questo mondo i signori
hanno il permesso di annegarsi e impiccarsi come pare a loro, mentre
noi poveri cristiani... Dai, passami la vanga. In antico non c’erano i signori; i signori erano i giardinieri, gli scavafossi e i becchini – noi continuiamo la professione di Adamo.
[Scava.]
Altro – Era un signore, lui?
Becchino – È stato il primo che ha avuto uno stemma: una vanga e braccia incrociate; e lui vangava, vangava...
Altro – Con le braccia incrociate?
Becchino – Cretino, sullo stemma! Ma sei proprio un pagano! Ma che ci capisci tu della Scrittura. La Scrittura dice: «Adamo scavava». Mo’ scavava
con le braccia incrociate?! Le scrociava, no!? Aspetta, ti faccio una domanda. E se non rispondi, va’ a farti impiccare, ma prima confessati.
Altro – Dai, son pronto.
Becchino – Chi costruisce più solido del muratore, del mastro d’ascia e
del carpentiere?
Altro – Il forcaiolo: le forche sopravvivono a migliaia di inquilini.
Becchino – Ma senti questo che vuol far lo spiritoso! La forca sì, te la do
buona. Ma perché è buona? Perché fa del bene! Fa bene a quelli che
fanno male. Ora, tu fai male a dire che la forca è più solida della chiesa; tantu mergo: la forca potrebbe farti bene. Dai, tocca a te.
Altro – Chi costruisce più solido di un muratore, un mastro d’ascia e un
carpentiere?
Becchino – Dai, dimmelo tu, e diamoci un taglio.
Altro – E va be’, allora te lo dico io.
Becchino – Dai!
Altro – Ostia, non me lo ricordo più.
Becchino – Ma piantala; non sforzarti il cervello: un asino lento non è che
va più forte se lo bastoni. E la prossima volta che ti fanno la stessa domanda, rispondi: il becchino. Le case che lui fa durano fino al giorno del
Giudizio. Su, vai al pub qui accanto e portami qualcosa di forte.
[Esce l’Altro Clown. Il Becchino continua a scavare.]
Atto v, scena prima
153
(canta) – Da giovane l’amoooooooor
Mi dava un gusto cheeeeee
Volevo che durasseeeee
Per un’eternitààààààààààààààààà...
[Mentre canta] entrano Amleto e Orazio.
Amleto – Questo non ha il minimo sentimento del lavoro che fa: canta
mentre scava le fosse?!
Orazio – L’abitudine fa diventare tutto facile.
Amleto – È vero. Mani che lavoran poco han sentimenti più raffinati.
Becchino – (canta) – Ma ladra lei com’èèèèèèèèèèè
Vecchiaia m’afferròòòòòòòò
E mi spedì in quel postooooooo
Dove non torni tuuuuuuuu...
[Butta su un teschio]
Amleto – Quel teschio aveva una lingua, una volta, e sapeva cantare. E tu
guarda, quel disgraziato come lo sbatacchia; come se fosse la ganascia
di Caino, il primo omicida. Potrebbe essere il testone di un politicante, quella che quest’asino manipola così; uno di quelli che ti imbrogliano anche Dio; potrebbe, no?
Orazio – Forse, sì, Principe.
A mleto – O di un cortigiano, che magari diceva: «Buongiorno,
Eccellentissimo Signore. Quai nuove, Eccellentissimo Signore?». O
magari di Lord Vattelapesca, che adulava il cavallo d’un altro Lord
Vattelapesca perché sperava che glielo regalasse. No?
Orazio – Potrebbe, Principe.
Amleto – E ora? Ora se lo tiene Lady Verme: smascellato, picchiato sulla crapa dalla vanga del becchino. Ha girato bene qui la Ruota della
Fortuna – se ci fosse dato vederla in anticipo! E cosa non è costato nutrire e crescere queste ossa, e ora ci puoi giocare a birilli. Se ci penso,
anche le mie dolgono un po’.
Becchino – (canta) – Piccone e vanga sìììììììììììì
Scavano un lieto asiiiiilllll
La creta o bimba miiiiiaaa
Il cuor ti copriràààààà...
[Butta su un altro teschio.]
Amleto – Eccone un altro. Questo lo si direbbe il teschio di un avvocato,
154
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
no? Dove sono ora i suoi cavilli, e codicilli, e cause, e tutele e trucchi?
Perché ora sopporta che questo balordo qui lo picchi sul cranio con
un badile sporco, e non gli dice: «Guardi che io la denuncio per lesioni gravi!!»? Mmmm... lui un tempo era un gran compratore di terre – sperava in un titolo di nobiltà – e comprava, comprava; e titoli, e
ipoteche, ed enfiteusi, e cambiali, e comodati. E che gli comoda ora?
Voleva diventare una persona fine? La finezza è che ora al posto del
suo fine cervello c’è della finissima terra. E i suoi titoli di proprietà ora
l’intitolano a possedere un’area di terra minore di un paio delle sue
scartoffie, che tutte insieme entrebbero a stento nella sua fossa. Né terra più vasta toccherà al nuovo proprietario.
Orazio – No, non molto di più.
Amleto – Di’, ma la pergamena non si fa con pelli di pecora?
Orazio – Sì, Principe; e anche con pelli di vitello.
Amleto – Son pecore e vitelli che si fan garanti del diritto di proprietà. Ho voglia di parlare al nostro becchino. – Di’, capo, di chi è questa tomba?
Becchino – Mia, signore.
(canta) – ... la creta o bimba miiiiaaaaa...
Amleto – Lo vedo che è tua; ci stai dentro. Questo tira a cimento.
Becchino – Io non ci mento, ci scavo. Ci sto dentro e quindi è mia. Lei,
signore, ci sta fuori e mente dicendo che non è mia.
Amleto – Tu menti e tiri a cimento: dici che è tua, ma questa è per i morti non per i vivi, e tu sei vivo.
Becchino – Mentire è vivere, signore. Presto anche Lei dirà la verità.
Amleto – E chi è l’uomo per cui la scavi, capo?
Becchino – Non è un uomo.
Amleto – La donna, allora?
Becchino – Neanche. Nessuno dei due.
Amleto – Chi ci va seppellito, insomma?
Becchino – Una che fu donna, ma – pace alla sua anima! – è morta.
Amleto – Com’è sempre letterale, il nostro furbastro. Dobbiamo stare attenti alle virgole, altrimenti di ambiguità in ambiguità questo ci
frega. Sai, Orazio, ho notato che in questi ultimi tre anni si è diffusa
una tale passione per la cavillosità sottile che ormai l’alluce del contadino è così vicino al calcagno del cortigiano da grattargli i geloni.
Atto v, scena prima
155
– Da quanto tempo fai il becchino?
Becchino – Di tutti i giorni dell’anno, per cominciare ho scelto quello in
cui il nostro re Amleto, il vecchio, sconfisse Fortinbras.
Amleto – E quanto tempo è passato?
Becchino – Non lo sa? Ma lo sa anche un cretino! Proprio il giorno in
cui è nato il giovane Amleto – quello che è pazzo e che han mandato
in Inghilterra.
Amleto – Ma guarda!? E perché l’han mandato in Inghilterra?
Becchino – Perché? Perché era pazzo. E forse là ritrova la ragione; ma
anche se non la ritrova, là non è un problema.
Amleto – Perché?
Becchino – Non se ne accorgono: là son tutti pazzi come lui.
Amleto – E come è diventato pazzo?
Becchino – In modo stranissimo, dicono.
Amleto – Come «stranissimo»?
Becchino – Ma sì... smettendo di esser sano.
Amleto – E dove l’ha colpito la pazzia, nel cuore o nella mente?
Becchino – Dove? Qui, in Danimarca. Tra ragazzo e uomo, qui come
becchino ci sono da trent’anni.
Amleto – Quanto tempo ci mette un uomo a marcire del tutto nella
terra?
Becchino – Be’, se non è già marcio prima di morire – oggi ci arrivano dei
cadaveri già così spappolati che neanche stan più insieme – ci metterà
da otto a nove anni. Un conciapelli ci mette nove anni.
Amleto – Perché lui più di un altro?
Becchino – Perché la sua pellaccia è così conciata dal suo mestiere che
tien fuori l’acqua per molto, ed è l’acqua che fa marcire questi figli di
troia di corpi morti. Ecco, qui c’è un teschio che è stato sotto terra per
ventitré anni.
Amleto – Di chi era?
Becchino – Di un figlio di troia, una carogna, un matto. Lei di chi
crede?
Amleto – Non saprei.
Becchino – Che gli venga la peste, era proprio una carogna pazza! Una
volta mi ha rovesciato una bottiglia di vino del Reno in testa. Questo
teschio qui, signore, era il teschio di Yorik, il buffone del re.
156
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Amleto – Questo qui?
[Prende il teschio.]
Becchino – Proprio lui.
Amleto – Oddio, povero Yorik. Lo conoscevo, Orazio; era un uomo di
infinita gioia, di fantasia altissima. Mi avrà portato in spalla migliaia di
volte, e ora – ora, solo pensar che è lui mi fa orrore. Mi si rovescia lo
stomaco. Qui sporgevano quelle labbra che ho baciato, chissà quante volte. Dov’è ora la tua ironia, le tue capriole, le tue canzoni, i tuoi
guizzi d’allegria, che facevano ruggire di risa intere tavolate? Nessuno
ora che rida di questo tuo ghigno? Ti sei smascellato, eh? Senti, vai da
mia madre, e, se si trucca, e dille che si dia due dita di fondotinta in
faccia, perché presto sarà come te. Vedi un po’ se ride. – Orazio, per
favore, dimmi una cosa.
Orazio – Cosa, Principe?
Amleto – Pensi che Alessandro sottoterra avesse questo aspetto?
Orazio – Direi di sì.
Amleto – E questa puzza? Puhhh!
Orazio – Direi di sì, Principe.
Amleto – A quali vili usi ritorniamo, Orazio! Dimmi un po’, con l’immaginazione non potremmo ripercorrere la sorte della nobile polvere di
Alessandro finché la troviamo usata come tappo di una botte?
Orazio – Strana e ossessiva immaginazione, Principe.
Amleto – No, davvero. Vorrebbe dire, seguirlo in tutto il suo percorso con attenzione, e in base a un criterio di probabilità. Alessandro è
morto, Alessandro è stato sepolto, Alessandro è tornato alla polvere,
la polvere è terra, e dalla terra vien creta da vasaio, e da questa non è
forse possibile fare tappi per barili di birra?
Oh Cesare, tu morto e sciolto in creta,
a tappar buchi? Tu che il pianeta
credesti dominare in sempiterno
chiudi le crepe ai soffi dell’inverno?
Ma zitti, un momento, arriva il re,
regina e cortigiani...
Entrano [portatori] con una bara, un Prete, Re, Regina, Laerte, Gentiluomini
del seguito.
Atto v, scena prima
157
e seguon chi,
con rito così spoglio? Ciò vuol dire
che il morto che accompagnano s’è tolto
la vita di sua mano disperata, ed è un morto
che conta. Nascondiamoci a osservare.
Laerte – Funerale così povero?
Amleto – È Laerte, è un giovane leale. Stiamo attenti.
Laerte – Così povero? E nient’altro?
Prete – Le esequie son solenni tanto quanto
ci è permesso. La morte è stata dubbia;
ma ai grandi poco importa delle regole,
se no starebbe in terra sconsacrata
sino all’ultima tromba, e per preghiere
avrebbe sassi e ciotoli gettati.
Ma qui le si permette la corona
virginea e fiori sparsi, e corteo funebre
con campane e riti.
Laerte – Ma qualcos’altro si poteva fare?
Prete – No, nient’altro. Profaneremmo il rito,
cantando un requiem e dandole il riposo
degno d’un’anima dipartita in pace.
Laerte – E sia, si metta in terra; e dalla carne
di lei, incontaminata e candida
spuntino viole. E tu prete malnato, io ti dico:
mia sorella sarà l’angelo che giudica,
e tu starai ululando nell’inferno.
Amleto – Come, la tenera Ofelia?!
Regina – [spargendo fiori] – Ultime grazie a te graziosa. Addio.
Sperai tu fossi sposa del mio Amleto,
sperai di sparger fiori sul tuo letto,
ora li spargo qui sulla tua tomba.
Laerte – Oh triplice dolore, ricada triplicato
dieci volte sul capo maledetto del malvagio
che ti tolse il senno, spirito eletto. – No, niente terra, un attimo:
che la prenda tra le braccia ancora un poco.
Salta nella fossa.
E ora su vivo e morta butta terra,
158
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
finché di questa piana farai un monte
alto quanto il Pelio o l’eccelsa cima
dell’Olimpo azzurro.
Amleto –
Chi è che esibisce
il suo dolore con tale enfasi, con frasi
che chiaman le stelle erranti a restar fisse
come un pubblico trafitto da stupore? Anch’io
sto qui, Amleto, il Danese.
Laerte – [gettandoglisi addosso] – Che il diavolo ti strappi l’anima!
Amleto – È così che preghi?
Di grazia, toglimi le dita dalla gola!
Anche se non splenetico e impulsivo,
c’è qualcosa di pericoloso in me
di cui la tua prudenza avrà paura. – Toglimi le mani di dosso!
Re – Separateli!
Regina – Amleto! Amleto!
Tutti – Signori!
Orazio – Calmati, Principe, per favore.
Amleto – No, sull’argomento lotterò con lui
sino all’ultimo battito di palpebre.
Regina – Figlio, quale argomento?
Amleto – Amavo Ofelia. Quarantamila fratelli,
sommando insieme tutto il loro amore,
sfiorano appena il mio totale. Di’, che sei pronto a fare
per lei?
Re – Oh, Laerte, è pazzo.
Amleto – Dimmi, Cristo!, che farai?
Piangi? Ti batti? Digiuni? Ti fai a pezzi?
trangugi fiele? O mangi un coccodrillo?! Lo farò anch’io.
O vieni qui e piagnucoli, e in gara
con me ti butti nella fossa?
Vuoi essere con lei sepolto vivo? Ma allora anch’io!
E se blateri di monti, ce ne buttino
addosso tonellate, sinché la terra
si strina il cranio contro le stelle ardenti,
e il monte Ossa par solo una verruca. No, se sbraiti,
Atto v, scena seconda
strepito anch’io, e quanto te.
Regina –
È pazzia pura,
ma sono accessi brevi. Presto, ritorna mite
come la colomba che s’appisola
sui suoi pulcini d’oro.
Amleto –
Senti un po’,
perché mi tratti così? Ti ho sempre
amato. Però poco m’importa.
Ercole non sopporta un altro prode,
miagola il gatto, e il cane se la gode.
Re – Ti prego, caro Orazio, stagli accanto.
– [a Laerte] – Nutri la tua pazienza del discorso
che ci siam fatti ieri notte: agiremo, e subito. –
Cara Gertrude, fai sorvegliar tuo figlio.
Per noi la pace ormai è solo assenza.
Presto verrà. Ci guidi la pazienza.
Scena seconda
Entrano Amleto e Orazio.
Amleto – Ma di questo basti. Ora capirai il resto.
Ti ricordi tutta la situazione?
Orazio – Mi ricordo benissimo, Principe.
Amleto – Sai, avevo come una lotta in cuore
che non mi lasciava dormire. Stavo peggio
di un ammutinato in ceppi. D’impulso –
e lode sia all’impulso: a volte
un gesto avventato ci serve meglio
laddove minuziosi piani falliscono; e questo insegna
che c’è una deità che dà forma ai nostri fini,
per quanto appena sbozzati...
Orazio –
Questo è certo.
Amleto – Bene, esco dalla cabina,
imbacuccato nella giacca a vento, e nel buio,
159
[Esce.]
[Esce Orazio.]
[Escono.]
160
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
tastando attorno trovo quei due, e trovo
quel che desidero: rubo la busta, e torno
nelle mie stanze, e qui son così audace
– dimenticando nei timori la buona educazione –
da infrangere i sigilli del loro gran mandato;
e che ci trovo, Orazio?! – proprio da re carogna! – l’ordine,
netto, sia pure decorato di tante e tal ragioni,
e la salvezza della Danimarca, e perché no, dell’Inghilterra,
e io – attento qui! – io dunque sarei un mostro, un tal babau,
che al legger questa lettera, all’istante,
senza perder tempo ad affilare l’ascia,
un bel taglio e via la testa.
Orazio –
Ma è possibile?
Amleto – Qui è la lettera, leggila con comodo,
ma ascolta prima cosa ho fatto io.
Orazio – Ti prego, dimmi.
Amleto – Irretito com’ero in questi intrighi –
prima ancora d’aver scritto il mio copione
la mente già l’aveva messo in scena! – io mi siedo,
riscrivo il mandato, e lo scrivo in bella –
e dire che una volta, come i nostri politici,
pensavo che la calligrafia fosse una noia,
e ho faticato a dimenticar quell’arte, e ora, Orazio,
mi tornava proprio buona. Vuoi sapere
il succo di quel che avevo scritto?
Orazio –
Certo, Principe.
Amleto – Una dura ingiunzione da parte del re:
visto che il re inglese è a noi fedele tributario,
e affinché tra noi qual palma amor germogli,
e affinché pace prospero serto indossi,
né tra noi sorga neanche un bisbiglio di conflitto,
e tale raffica di «affinché» e «né» da farlo stramazzare;
insomma: letto il contenuto della lettera,
voglia il re inglese, senza indugio alcuno,
metter a morte i latori della stessa, subito,
senza dar loro il tempo di pentirsi.
Atto v, scena seconda
161
Orazio – E come hai fatto a sigillarla?
Amleto – Anche in questo il cielo mi è benigno.
Nella borsa ho il sigillo di mio padre,
l’originale del sigillo regio;
ho piegato lo scritto come l’altro:
firmato, sigillato, rimesso dove stava.
E del figlio cambiato non si sono accorti. Il giorno dopo
ci fu lo scontro coi pirati in mare, e il resto
già lo sai.
Orazio – E così Rosencrantz e Guildenstern stanno andando a morte!
Amleto – Be’, sai, s’eran così affezionati a quest’incarico!
Non mi toccan da vicino la coscienza, la disfatta
vien dalla loro mania d’intrufolarsi.
È sempre un male per nature basse
mettersi tra possenti spade in lotta,
rischi stoccate e affondi.
Orazio – Ma che razza di re è mai questo?!
Amleto – E allora – pensaci! – non è per me un obbligo –
con uno che m’ha ucciso il padre, imputtanito la madre,
uno che s’è intromesso tra il mio diritto e il trono,
uno che tende trappole alla mia stessa vita
e sempre con l’inganno – non è per me
assoluto dovere di coscienza ripagarlo
con quest’arma? È non è un peccato forse
lasciar che questo cancro di natura
faccia altro male?
Orazio – Presto verrà a sapere dagli inglesi
com’è andata la faccenda là.
Amleto – Sì, prestissimo. E questo breve tempo è tutto mio.
Ma breve è il tempo di una vita; dici: «E uno...» e tutto è già finito.
Ma sai, Orazio, mi dispiace
d’aver perso il controllo con Laerte:
la sua storia è l’immagine perfetta della mia, lo vedo.
Dovrò riguadagnarmi il suo favore.
Ma quel suo dolore così tanto esibito
m’aveva messo addosso vera furia.
162
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Orazio – Zitto, arriva qualcuno!
Entra Osric, un cortigiano.
Osric – Vostra Altezza s’abbia il benvenuto al Suo ritorno in Danimarca.
A mleto – Umilmente ti ringrazio, caro – Conosci questa mosca
stercoraria?
Orazio – No, Principe.
Amleto – Beato te, perché conoscerlo è un vizio. È uno che ha molte terre e anche fertili. Bestia qual è, è signore di molte altre bestie, e quindi
tiene mangiatoia alla mensa del re. È il rampollo di un bifolco arricchito che si dà arie di gran finezza, con vaste distese di terra e sterco.
Osric – Ottimo Signore, se nulla occupa l’Altezza Vostra avrei una comunicazione da parte di Sua Maestà.
Amleto – L’ascolterò, nella migliore disposizione di spirito. Caro, il giusto uso del cappello è in testa.
Osric – Ringrazio Vostra Altezza: fa alquanto caldo.
Amleto – No, credimi, fa molto freddo, c’è vento di tramontana.
Osric – È vero, è vero, fa un alito di freddo, Altezza.
Amleto – E invece io avverto troppa afa e caldo per la mia costituzione.
Osric – In eccesso, si soffoca per l’afa, c’è un’aria – non saprei come
dire – greve?, forse. – Altezza, Sua Maesta mi comanda di significare
a Voi che ha posto una gran quota di denaro sulla Vostra testa – una
scommessa, intendo. Ecco la questione...
Amleto – [facendogli segno di rimettersi il cappello in testa] – Ti imploro, non dimenticare...
Osric – Oh no, Vi giuro, sono a mio perfetto agio. Altezza, da poco è
giunto a corte Laerte – credetemi: il perfetto gentiluomo, così pieno
delle più squisite distinzioni, di compagnia così gradevole e polita, e
di così splendida figura. Anzi, per dir di lui col giusto sentimento, egli
è modello e paragone d’ogni nobiltà; ogni membro compone in lui il
ritratto di ciò che un gentiluomo deve essere.
Amleto – Mio caro, tal definitoria descrizione non soffre in te diminuzione alcuna, pur ben sapendo che inventarial suddivisione sgomenterebbe l’aritmetica del ricordo, e che arduo ne è seguirne il corso, tanto
rapida è la vela che lo muove. Ma, per esaltarlo con veridiche parole,
Atto v, scena seconda
163
in lui discopro un’anima di tal poliedricità, di tali e tante virtù infusa, e così rare, che per aver di lui la vera immagine, sol specular riflesso ne renderà il sembiante, poiché in lui ombra e sostanza sono una.
E ciò basti!
Osric – L’Altezza Vostra dà di lui infallibile ritratto.
Amleto – Ma ciò di qual rilevanza è poi per noi? Perché mai paludiamo
il giovin signore dei nostri fiati tanto rozzi e vani?
Osric – Prego, Altezza?
Orazio – Insomma, non potremmo parlarci, e capirci, in un’altra lingua?!
Se ti applichi, son sicuro che ci riesci, caro.
Amleto – Perché mai festi menzione di detto gentiluomo? Questo è il
punto!
Osric – Di Laerte?
Orazio – Ha la borsa vuota, ormai, le sue parole indorate le ha spese
tutte.
Amleto – Sì, di lui, mio caro.
Osric – So bene che l’Altezza Vostra non è ignorante...
Amleto – Spero bene! E che tu lo sappia o meno non è poi di gran conto. Bene, caro?
Osric – ... che l’Altezza Vostra non è ignorante delle eccellenze di Laerte...
Amleto – Non oso confessare che mi è nota, per paura di dover paragonar le
mia alla sua; – ma conoscere un uomo vuol poi dire conoscere se stessi.
Osric – ... nel maneggiare l’arma, intendevo io, Altezza; ma dalla fama
che si è meritato tra le persone del suo entourage, non c’è chi gli stia
a pari.
Amleto – E qual è la sua arma?
Osric – Fioretto e pugnale.
Amleto – Queste sono due armi! Ma vada.
Osric – Il re, Altezza, ha scommesso con lui sei cavalli berberi, contro i
quali Laerte mette in palio sei fioretti francesi e sei pugnali, con ogni
lor accessoria appartenenza, e fodero e cintola e fibbie per appenderveli. Tre di questi affusti sono un amore a vedersi, intonatissimi all’elsa, e di tal vago disegno...
Amleto – Che cosa chiami tu «affusti»?
Orazio – Lo sapevo che per capirlo fino in fondo c’è bisogno di note a
pie’ di pagina.
164
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Osric – Gli affusti, Altezza, sono le fibbie cui s’appendono.
Amleto – L’espressione sarebbe più appropriata se andassimo in giro con
cannoni in cintola – sino allora, per favore, chiamiamoli fibbie. Ma andiamo avanti. Sei cavalli berberi contro sei lame francesi, le accessorie
appartenenze, e i tre affusti vagamente disegnati – scommessa francese contro scommessa danese. Perché tutto questo viene «messo in palio», come dici tu?
Osric – Perché il re, Altezza, ha scommesso, Altezza, che in tre dozzine d’assalti tra voi due, Laerte non vi supererà di tre stoccate; e vi dà nove a dodici; e
immediata verifica s’avrebbe se Vostra Altezza si degnasse di rispondere.
Amleto – E se io rispondo di no?
Osric – Voglio dire, rispondere alla sfida di persona.
Amleto – Mio caro, sarò qui in questa sala a far due passi. Sua Maestà
permettendo, è questa l’ora del giorno in cui prendo un po’ d’aria. Si
portino i fioretti; e se il gentiluomo è disposto, e il re tiene fede alla sua
parola, accetto di vincere per lui, se riesco. Se no, in premio avrò vergogna, e qualche stoccata a segno.
Osric – Dovrò riferire in questi termini?
Amleto – Sì, caro, in sostanza questo, con tutti i trilli e abbellimenti che
la tua natura ti suggerisce.
Osric – Mi lusingo di considerarmi servitore umilissimo dell’Altezza
Vostra.
Amleto – E io il tuo.
[Esce Osric.]
Fa bene a lusingarsi da solo, non troverebbe molte
lingue disposte a farlo.
Orazio – È il luccichio che attrae le gazze sciocche.
Amleto – Quello da piccolo faceva convenevoli al capezzolo prima di
succhiarlo. Lui – come molti altri della sua stessa nidiata, che han così successo in quest’epoca di merda – s’è impadronito a orecchio della
chiacchiera alla moda, grazie alla frequentazione assidua; ne ha raccolto tutta la schiuma, e questo gli permette di imporsi alle opinioni più incensate e reputate. Ma soffia su quella schiuma e le bolle scoppiano.
Entra un Gentiluomo.
Gentiluomo – Signore, Sua Maestà si è compiaciuta di inviare a voi il
Atto v, scena seconda
165
giovane Osric, il quale è ritornato a riferire che voi lo attendete qui
nella sala. Vi manda a chiedere se gradite ora subito tirar di scherma
con Laerte, o se desiderate aver più tempo.
Amleto – Sono fermo nei miei propositi, che del resto s’accordano con
quelli del re. Se a lui così conviene, io son pronto. Ora o in qualsiasi
altro momento. Purché mi senta forte come ora.
Gentiluomo – Il re e la regina, la corte intera, stanno scendendo.
Amleto – Al momento giusto.
Gentiluomo – La regina gradirebbe che voi diceste qualche parola garbata a Laerte prima della prova.
Amleto – Mi dà sempre buoni consigli.
[Esce il Gentiluomo.]
Orazio – Perderai, Principe.
Amleto – Non credo. Da quando lui è partito per la Francia, mi son sempre tenuto in esercizio. Vincerò sul vantaggio. Tu non immagini la pena che mi sento in cuore; ma non importa.
Orazio – Importa, importa, Principe.
Amleto – Sì, ma è una scemenza. È una di quelle premonizioni che angosciano le donne.
Orazio – Se la tua mente recalcitra di fronte a qualcosa, obbediscile. Andrò
ad avvertirli che non scendano e che tu non sei del giusto umore.
Amleto – Ma neanche per sogno. Noi sfidiamo i presagi. C’è una speciale
provvidenza anche nella morte di un passero. Se deve essere ora, che
sia; non sarà poi; e se non sarà poi, sarà ora; e se non ora, verrà pur
sempre un’ora. Essere pronti: è tutto! Nessun uomo sa che cosa lascia,
e che importa il momento in cui si lascia? Ma basti.
Una tavola imbandita: Trombe, Tamburi, e Paggi con cuscini. Entrano Re,
Regina, Laerte, [Osric] e tutta la Corte, e Gentiluomini del seguito con fioretti e pugnali.
Re – Vieni, Amleto, vieni, e prendi questa mano dalla mia.
[Mette la mano di Laerte in quella di Amleto.]
Amleto –Ti ho fatto torto. Dammi il tuo perdono.
E poiché sei un gentiluomo, so che mi perdoni.
I presenti qui sanno, e anche tu l’avrai sentito dire,
che io son punito da una follia atroce.
166
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Qualunque cosa abbia fatto io
per urtare in te natura e onore,
io qui dichiaro ch’è stato per pazzia.
Amleto a Laerte ha fatto torto? No, non lui:
Amleto da sé è straniato. E Amleto nega.
E chi dunque? La sua pazzia. E se è così,
è Amleto stesso a esser parte offesa,
e del povero Amleto la pazzia è il peggior nemico.
Laerte, davanti a questo pubblico,
permetti che io sconfessi ogni intento malvagio,
e tu, con gesto magnanimo, assolvimi:
ho scoccato una freccia contro la mia casa
e ho ferito mio fratello.
Laerte –
Quanto a natura, dico qui,
son soddisfatto; anche se avrei motivo di vendetta.
Sul punto d’onore mantengo una riserva,
almeno finché un esperto dell’onore
non mi dia un parere, un precedente
per far pace, che lasci il mio nome senza macchia.
Ma sino allora, accetto come amore l’amore che mi offri,
e non gli farò torto.
Amleto –
Accetto anch’io.
E che questa scommessa tra fratelli sia leale. –
Dateci i fioretti.
Laerte – Dai, uno a me.
Amleto – La mia inesperienza ti farà da sfondo, Laerte;
di contro a essa la tua abilità sarà la stella fulgida
che risalta nel più buio cielo.
Laerte –
Mi prendi in giro.
Amleto – No, per niente.
Re – Giovane Osric, dategli i fioretti. Amleto, nipote,
tu conosci i termini della scommessa?
Amleto – Benissimo, Sire. Vostra Grazia
scommette sul più debole.
Re – Non ho timori. Vi ho visto tutti e due; ma per voce pubblica
lui è il migliore, per questo gli ho dato lo svantaggio.
Atto v, scena seconda
167
Laerte – Questo è troppo pesante. Dammene un altro.
Amleto – Questo va bene. Son lunghi eguali questi fioretti?
Osric – Oh, sì, Altezza!
[Si preparano all’incontro.]
[Entrano Servi con] caraffe di vino.
Mettete in tavola le coppe.
Se Amleto tocca al primo e poi al secondo assalto,
o al terzo scontro ne esce pari,
sparino i cannoni dagli spalti:
il re berrà ad Amleto: a lui nuovo vigore!
E nella coppa getterà una perla
più rara di quella che sta in cima alla corona
di quattro re danesi in successione – presto, le coppe! –
e parli il timpano alla tromba,
la tromba al cannoniere che sta fuori,
e i cannoni al cielo, e cielo a terra,
«Ora, il re brinda ad Amleto». Su, iniziamo.
E i giudici siano occhiuti.
Amleto – Su, vieni. Dai.
Laerte – Fatti avanti. Dai.
Amleto – E una.
Laerte – No.
Amleto – Arbitro.
Osric – Toccato, palpabilmente toccato.
Laerte – Va bene, avanti.
Re – Fermi un attimo, datemi da bere. Amleto, questa perla è tua.
Alla tua salute!
Timpani, Trombe e salve di cannone.
Porgetegli la coppa.
Amleto – Un altro assalto, prima. Tenetela da parte.
Dai, vieni.
Si battono di nuovo.
Toccato, ancora. Che ne dici?
Laerte – Lo ammetto.
Re – Vince nostro figlio.
Regina –
È tutto sudato, e ha il fiato grosso.
Amleto, prendi il mio fazzoletto, asciugati la fronte.
168
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
La Regina brinda al tuo successo, Amleto.
Amleto – Sei buona.
Re – Gertrude, non bere.
Regina – No, voglio bere, scusami.
Beve [e offre la coppa ad Amleto].
Re – [a parte] – È la coppa avvelenata. Troppo tardi.
Amleto – Non posso bere adesso, mamma – tra un po’.
Regina – Vieni, che ti asciugo la faccia.
Laerte – Sire, ora lo tocco io.
Re –
Non credo.
Laerte – [a parte] – Però, quasi mi ripugna alla cocienza.
Amleto – Vieni; terzo assalto, Laerte. Che fai, ti gingilli?
Ma mettici tutta la tua grinta!
Mi tratti come un bambino viziato?!
Laerte – Se lo dici tu? Dai, vieni.
Si battono.
Osric – Niente dalle due parti.
Laerte – Prenditi questa, ora.
[Laerte ferisce Amleto; poi] nel corpo a corpo si scambiano i fioretti.
Re – Separateli. Sono infuriati.
Amleto – No, continua, vieni.
[Ferisce Laerte,] la Regina cade.
Osric – Attenti alla regina. Fermi!
Orazio – Sanguinano tutti e due. Come va, Principe?
Osric – Come va, Laerte?
Laerte – Preso al laccio come una beccaccia,
e la trappola l’ho messa io, e m’uccide, giustamente.
Amleto – Come sta la regina?
Re –
Si sente svenire alla vista del sangue.
Regina – No, no, è la coppa, è il vino. Oh caro Amleto!
È il vino, il vino! Mi hanno avvelenata.
Muore.
Amleto – Oh infamia! Fermi tutti! Sprangate le porte.
C’è un assassino! Cercatelo.
[Esce Osric.]
Laerte – È qui, Amleto. Amleto, sei già morto,
né c’è farmaco al mondo che ti salvi.
In te di vita hai meno di mezz’ora,
e l’arma traditrice tu l’hai in mano,
affilata in punta e avvelenata. E l’orrendo inganno
mi si è ritorto contro. Guarda, qui cado
Atto v, scena seconda
169
per non rialzarmi più. Tua madre è avvelenata.
Non ho più forze. Il re – il re è il colpevole.
Amleto – Anche la punta avvelenata! E sia. Veleno, su, lavora!
Ferisce il Re.
Tutti – Tradimento! Tradimento!
Re – Amici, difendetemi ancora. Son solo ferito.
Amleto – Tieni, incestuoso, omicida, dannato danese,
bevi la tua pozione! La tua perla è qui, santifica l’unione!
Segui mia madre.
Il Re muore.
Laerte –
È giusta ricompensa.
Il veleno l’ha mischiato lui.
Scambiamoci il perdono, nobile Amleto.
la morte mia, la morte di mio padre
non ricadan su te, né la tua su me...
Muore.
Amleto – Il Cielo ti liberi. Ti seguo.
Muoio, Orazio. Sventurata Regina, addio.
Voi che pallidi e tremanti guardate questa scena,
né siete parte muta, siete pubblico,
se solo avessi il tempo – ma il sergente Morte
se t’arresta non desiste – oh, quante cose avrei da dirvi –
Ma basti. Orazio, muoio.
Tu vivi. Racconta tu di me, del caso mio
a chi non ne sa ancora.
Orazio –
Non sperarci.
Son più un romano antico che un danese.
E qui c’è un fondo del veleno.
Amleto –
Se sei un uomo,
dammi quella coppa. Su, lasciala, la finisco io.
Mio Dio, Orazio, che nome ferito
mi lascio dietro, se tutto resta ignoto!
Se mai ho avuto posto nel tuo cuore,
rinunzia per un po’ all’ultima gioia,
nell’aspro mondo trai con pena il fiato
per raccontare la mia storia.
Marcia in distanza [e suono di spari].
Che suono di guerra è questo?
170
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Entra Osric.
Osric – Il giovin Fortinbras, tornato vittorioso di Polonia,
agli ambascitori inglesi fa l’onore
di una guerresca salva.
Amleto –
Oh, muoio, Orazio.
Il veleno è forte, trionfa sul mio spirito.
Non ho vita per sentir notizie d’Inghilterra,
ma profetizzo che il re eletto è Fortinbras
che con voce morente scelgo anch’io.
Diglielo, e digli i fatti gravi o infimi
che mi han spinto a... il resto è silenzio.
Muore.
Orazio – Un cuore nobile si spacca ora. – Buonanotte, dolce Principe,
e sciami d’angeli ti cantino il riposo.
Marcia interna.
Perché i tamburi si avvicinano?
Entrano Fortinbras, Ambasciatori inglesi, Soldati con tamburi e stendardi.
Fortinbras – Dov’è la scena?
Orazio –
Cosa vuoi vedere?
Se è dolore e stupore, cessa la tua ricerca.
Fortinbras – È uno sterminio! Oh superba morte,
che festa ti prepari nella dimora eterna,
se così tanti príncipi in un colpo
hai macellato?
Primo ambasciatore – Spettacolo atroce!
E le notizie d’Inghilterra giungon tardi,
a orecchie che non più ci danno udienza.
Che dirgli? Che il suo ordine è eseguito,
e Rosencrantz e Guildenstern son morti.
E chi ce ne ringrazia?
Orazio –
Non la sua bocca,
se pure avesse vita per dir grazie.
Quell’ordine di morte non fu suo.
Ma poiché qui arrivate in mezzo al sangue,
uno dalle guerre polacche, e d’Inghilterra l’altro,
Atto v, scena seconda
171
ordinate che questi corpi siano
posti in alto, su un palco ben in vista,
e consentite ch’io dica al mondo ignaro
come sia successo tutto questo. Udrete
di atti lascivi, cruenti, snaturati,
di accidentalità volute in cielo,
di massacri che avvengono per caso,
di omicidi compiuti con l’astuzia e con l’inganno,
e, in questo finale, di complotti vani
che ricadono addosso a chi li trama.
Di tutto questo io posso raccontare.
Fortinbras – Su presto, ascoltiamolo,
e sia davanti al pubblico più scelto.
Quanto a me, con dolore, abbraccio la mia sorte.
Su questo regno ho diritti tramandati,
ed è esso stesso che m’invita a reclamarli.
Orazio – Anche di questo io racconterò,
e alla voce che ha scelto Fortinbras,
altre s’aggiungeranno. Ma subito, parliamone,
ora che abbiam la mente scossa, per paura
che altre trame, altri errori, altre sventure
possan seguire.
Fortinbras –
Che quattro capitani
portino Amleto al palco, da soldato.
Se messo alla prova, son sicuro,
sarebbe stato un vero re. Risuoni
musica marziale e riti di guerra
parlino forte per lui.
Su, via quei corpi; questa vista è oscena,
da campo di battaglia, non da scena!
Ordinate ai soldati di sparare.
Escono marciando [portando via i corpi], dopo di che si ode una salva di
cannoni.
Finis
Appendici
Libro_Amleto.indb 173
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Libro_Amleto.indb 174
7-06-2011 12:46:24
La questione testuale
Copioni teatrali, questo era il primo stato dei testi che oggi
chiamiamo William Shakespeare. E in quanto copioni, testi
allo stato fluido che si venivano componendo per aggiunte,
tagli, errori, improvvisazioni d’attore fissate sulla carta – perché durante lo spettacolo avevano funzionato – assenza o abbassamento di voce di un attore, lite e successiva fuga dello
stesso; insomma le mille accidentalità di cui è fatto il teatro,
arte del possibile per eccellenza. Quel che interessa a noi è
capire come arrivassero a coagularsi in testi stampati. E inoltre i testi, una volta pubblicati, sono da considerarsi «opera
di», secondo quel concetto di autorialità forte – il Poeta con
maiuscola – che ereditiamo dal liceo? Scrive Jonathan Bate,
nella prefazione all’edizione del Folio (si veda più avanti) da
lui curata: «Shakespeare inizialmente scrisse i suoi plays come
un copione per l’esecuzione pubblica, non come opere letterarie rifinite per la pubblicazione. Per poter capire lo status
dei suoi testi e i problemi editoriali che presentano, dobbiamo cominciare ad abbandonare il modello moderno dell’autorialità letteraria, col suo movimento dalla figura solitaria
dello scrittore con davanti un pezzo di carta (o una macchina da scrivere o lo schermo di un computer) alla consegna di
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176 La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
un manoscritto, o dattiloscritto, o file di computer all’editore, cui segue l’editing e la correzione delle bozze. Il segno tradizionale dell’autorizzazione di uno scrittore o scrittrice alla
pubblicazione del proprio testo finale è la riconsegna delle
bozze corrette all’editore, il quale le affida a uno stampatore
per la produzione in serie, la rilegatura etc. e poi alla distribuzione per la vendita sul mercato librario. È probabile che
Shakespeare abbia corretto di persona soltanto le bozze di
due delle sue circa quaranta opere: i poemi narrativi Venere
e Adone e Lo stupro di Lucrezia. In tutti gli altri casi, è sempre
necessario un processo congetturale per stabilire un testo di
una certa autorevolezza». E poco più avanti fa un interessante
paragone. «I plays non sono come romanzi, poesie o biografie. Non sono “di proprietà” di un singolo autore. La migliore
analogia moderna per lo status di un copione teatrale elisabettiano è la sceneggiatura cinematografica. Gli sceneggiatori tradizionalmente occupano una posizione assai bassa nella
catena alimentare hollywoodiana. Il più delle volte, si assume una squadra di scrittori. A volte una squadra viene licenziata e un’altra assunta per rimaneggiare una sceneggiatura. I
produttori chiederanno poi cambiamenti sulla base della loro percezione di ciò che avrà successo commerciale. I registi
chiederanno cambiamenti sulla base della propria visione artistica, le star chiederanno cambiamenti che diano rilievo ai
loro ruoli. Gli scrittori finiranno poi molto in coda ai titoli di
testa. Solo dopo che l’industria è maturata, l’idea di pubblicare sceneggiature ha cominciato a esser presa in considerazione: la pubblicazione rimane però l’eccezione, non la regola,
riservata ai classici, o a film di straordinario successo, o a film
insolitamente “artistici”».1
L’uso di pubblicare in edizione economica e in formato
quasi tascabile – volumi in quarto, dalla piegatura del foglio
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La questione testuale 177
in quattro, da cui si ottengono otto pagine – i plays di maggior
successo era già ben affermato. Va considerato che in assenza
d’ogni legislazione moderna su copyright e diritto d’autore, il
testo era considerato proprietà della compagnia. La pubblicazione in quarto spesso avveniva senza l’autorizzazione della
compagnia, edizione pirata quindi, spesso sciatta, con battute
mal attribuite, o inserti di brani ricostruiti a memoria da attori
o suggeritori fedifraghi, errori di paginazione, o crasi tra scene
tra loro distanti ma simili per argomento o situazione. In questi casi le compagnie si affrettavano a pubblicare una loro edizione per così dire autorizzata, specificando sul frontespizio
che si trattava di un’edizione corrected o augmented o as it was
performed by – così come è stata eseguita da – e seguiva il nome della compagnia. Niente però impediva a stampatori poco
scrupolosi di fare altrettanto. Dal xviii secolo a oggi, la critica
si è sforzata di distinguere tra Quartos buoni – good –, ossia
più o meno autorizzati dalla compagnia e stampati sulla base
del promptbook, e Quartos cattivi – bad – vale a dire piratati e
quindi soggetti a lacune, ricostruzioni avventurose, interpolazioni, errata attribuzione di battute o di scene. I risultati non
sono sempre concordi, e proprio in questi ultimi vent’anni
certezze che parevano ormai raggiunte in epoca vittoriana sono state messe in seria questione. Crescente è il consenso critico sull’ipotesi che i bad Quartos non siano soltanto edizioni
pirata, ma documentino anche una fase primitiva di testi che
organicamente venivano crescendo – i bad Quartos sono spesso assai più brevi – e organizzandosi tramite correzioni o addizioni nel corso della pratica teatrale. Testi aperti quindi e in
perenne flusso e mutazione.
I Quartos non si rivolgevano certo all’erudito o al bibliofilo, ma ai theatregoers, al pubblico variegato del teatro e in particolare agli appassionati; avevano una funzione assai simile a
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178 La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
quello del libretto stampato per l’opera veneziana del primo
Seicento e poi per tutta l’opera italiana fino a fine Ottocento:
veniva venduto per pochi soldi agli appassionati che volevano leggersi i drammi per musica prima di vederli in scena, o
dopo averli visti, per conservarne il ricordo. Erano quindi un
sussidio a quell’ascolto attento cui abbiamo accennato. Ci sarà stato chi dava una scorsa per impadronirsi della trama, e chi
andava a cercare nel libro frasi, immagini, detti che l’avevano
impressionato durante la rappresentazione. Quanti tra quel
pubblico potevano permettersi l’ulteriore curiosità di portarsi
a casa il testo di un play? Siamo nella prima metropoli dell’età
moderna, con circa 200 000 abitanti, nel primo decennio del
xvii secolo. I teatri che agiscono ogni pomeriggio sono circa
una decina; contengono un numero variabile di spettatori: da
circa 600, il Blackfriars, a circa 2800 – ma spesso ve ne si infilano più di 3000 –, il Globe. È un pubblico assai composito per classe sociale e istruzione. Così descrivibile secondo un
poeta del tempo, Sir John Davies: «Un migliaio di borghesi,
gentiluomini e puttane / Facchini e servitù». La ricerca storica è giunta alla conclusione che di quel pubblico circa un 30
per cento degli uomini e un 10 per cento delle donne sapessero leggere – è una proporzione assai alta rispetto ad altri paesi
dell’Europa continentale. Enorme se paragonata all’Italia arrivata al 1950 con circa il 70 per cento di analfabeti. Ma come
si saprà il nesso tra Riforma protestante – con la sua primaria
esigenza che la Bibbia sia sottratta al monopolio dell’autorità
ecclesiastica e affidata alla lettura, e alla coscienza, individuale – e alfabetizzazione è molto forte. Bene, sappiamo per certo che tra quel pubblico i plays di maggior successo vendevano
circa un migliaio di copie per edizione.
Per noi, in assenza di una contabilità del botteghino del
Globe, sono anche una misura della popolarità di Shake-
Libro_Amleto.indb 178
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La questione testuale 179
speare; dal 1594 fino al 1598, testi a cui ha lavorato in tutto
o in parte appaiono in quarto col solo nome della compagnia
che li rappresenta. Dal 1598 il suo nome comincia ad apparire a partire da Love’s Labour’s Lost, Riccardo ii e Riccardo iii.
Sono anche un quasi certo indizio sui plays shakespeariani di
maggior successo presso il pubblico. Alla morte di Shakespeare, nel 1616, esistevano sei stampe in quarto della prima parte dell’Enrico iv, del Riccardo iii, e tre dell’Amleto, del Pericle,
di Romeo e Giulietta e del Tito Andronico. Ciascuna naturalmente con varianti che potevano andare dal microscopico al
macroscopico.
Shakespeare vivo, 18 dei suoi copioni per la scena furono
stampati in quarto. E questo sarebbe stato il suo lascito, che
avrebbe anche potuto rimanere silenzioso fino a una tardiva
riscoperta novecentesca, come è avvenuto per altri playwrights
del suo tempo. Ma l’anno stesso della morte di Shakespeare, il
1616, Ben Jonson, il più colto dei playwrights, perché ricco di
una formazione universitaria e il più inserito nell’establishment
del tempo, come autore di molti masques per la corte, aveva
pubblicato – per la primissima volta – la raccolta dei suoi plays
in un unico volume da lui stesso curato. Benché nobilitati dalla presenza nello stesso volume di poemetti e libretti per masques – ritenuto genere più nobile, perché spettacolo di corte –,
plays pubblicati con la cura che si dedicava ai generi alti parvero un eccesso di superbia ai letterati di qualità che difatti lo
ripagarono col loro sarcasmo.
Ma la fama, o meglio la fama dell’eccellenza di Shakespeare doveva persistere anche dopo la sua morte, se nel 1619
lo stampatore Thomas Pavier mette in cantiere quella che doveva essere una raccolta di plays shakespeariani e pubblica dieci testi. L’impresa si ferma perché tre attori della compagnia
di Shakespeare, i King’s Men, Richard Burbage – quello che
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fu forse il primo grande interprete dei ruoli tragici shakespeariani –, John Heminges e Henry Condell ottengono un’ordinanza giudiziaria che impedisce il seguito della pubblicazione.
Probabile avessero già in mente di curare loro stessi una pubblicazione per così dire autorizzata e canonica. E infatti, nel
1623, morto nel frattempo Richard Burbage, dopo un’attenta cura che aveva comportato la trascrizione in bella, per così dire, di parecchi promptbooks in possesso della compagnia,
la raccolta di quartos sparsi ai quattro venti, e il confronto tra
questi e copioni di compagnia, i due devoti attori diedero alle
stampe un possente tomo in folio su doppia colonna – detto
per antonomasia Folio – che conteneva ben trentasei testi – ne
era escluso Pericles – ossia diciotto in più di quelli già apparsi in quarto. Sul frontespizio: Mr William Shakespeares Comedies, Histories, & Tragedies Published according to the True
Originall Copies. Da notare subito l’organizzazione dei plays
per generi, i due della tradizione classica, tragedia e commedia, e un terzo, Histories, quel genere tutto inglese, e centrale
al teatro elisabettiano, in cui Shakespeare eccelle, sia per numero che per qualità di Histories. Al pubblico moderno potranno apparire storie remote, quanto King Lear o Macbeth,
ma in realtà l’intera sequenza shakespeariana disegna i presupposti dell’avvento al trono della monarchia Tudor; per il pubblico d’allora era storia politica di immediata urgenza. In una
frase acida rivolta a Polonio, Amleto lo esorta a trattare bene
gli attori: «Perché loro sono summa e cronaca del tempo». È
un autoelogio che ricade sul suo teatro. «Pubblicato secondo
le vere copie originali» richiede un’interpretazione: con ogni
probabilità si intende che l’edizione è stata condotta sui copioni in possesso della compagnia, o trascrizioni di questi. In
alcuni casi è documentabile che laddove il copione di compagnia era poco chiaro si è fatto ricorso ai quartos. Tra le novi-
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tà di presentazione editoriale, la divisione in cinque atti2 – già
adottata da Ben Jonson per i suoi Opera Omnia, a imitazione
dotta delle edizioni umanistiche delle tragedie di Seneca –, e
la conservazione delle brevi didascalie d’azione tratte dai copioni di scena. Tra i testi maggiori che compaiono soltanto tra
i diciotto del Folio: The Tempest, As You Like It (Come vi piace), The Twelfth Night (La notte dell’Epifania), Julius Caesar,
Macbeth e Antony and Cleopatra.
Tra gli apparati che aprono il grosso volume, alla dedica
dei due curatori al patrono della compagnia dei King’s Men,
William Conte di Pembroke, Lord Chamberlain del re, e al
fratello Philip Conte di Montgomery, segue una dedica ai lettori, anzi, alla «più gran varietà di lettori. Dai più capaci a
coloro che sanno a malapena compitare … [Shakespeare] è
vostro, di voi che lo leggete. E qui, speriamo, a seconda delle vostre diverse capacità, troverete abbastanza da ritenere e a
un tempo intrattenervi; il suo ingegno infatti non può più rimanere nascosto né andar perso. Leggetelo, dunque, e più e
più volte, e se non vi piace di certo siete in manifesto pericolo di non capirlo». Segno affettuoso di perfetta coscienza che
nel ricordo grato dei suoi attori – e in chiusura agli apparati
vengono elencati i nomi di ventisei dei principall actors in all
these plays – in quella quasi industria dello spettacolo fortemente competitiva che era il teatro inglese del tempo – Shakespeare meritava un posto d’eccellenza.
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Tutto chiaro quindi: assenza assoluta di fonti manoscritte, solo fonti a stampa, e in questo caso, per diciotto testi ne abbiamo due e in alcuni casi – Romeo and Juliet, per esempio – tre,
per altri diciotto soltanto una, il Folio. Come si dovrebbe comportare il curatore di un’edizione critica dei testi shakespeariani? O, per quel che più interessa il mio lavoro, come deve
comportarsi il traduttore-teatrante? L’esempio che può meglio chiarire il problema è appunto quello di Hamlet, o, meglio, dei tre Hamlet.
Tra il 1709 e il 1714, Nicholas Rowe, poeta e playwright,
pubblica in nove volumi quella che è forse la prima edizione
critica delle opere teatrali e poetiche di Shakespeare. Anche
se in modo non sistematico, adotta alcuni dei criteri delle edizioni filologiche di testi classici o scritturali. In primo luogo,
supporre che il testo più antico sia più vicino a un ipotetico
Ur-text. Per Rowe, quindi il Quarto di cui disponeva – in seguito noto come Secondo Quarto, in abbreviazione Q2, e vedremo perché – doveva per forza essere più «d’autore» del
Folio curato dai suoi attori. Tra le centinaia di integrazioni,
correzioni, emendamenti introdotti da Rowe nella sua edizione, val la pena di soffermarsi su una macroscopica alterazione
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del testo del Folio, che ne modifica radicalmente la drammaturgia. Nel Folio, Amleto ha tre soliloqui. Per orientarci in
un’edizione moderna, useremo come punto di riferimento gli
atti, suddivisi in scene. Il primo compare nella seconda scena del primo Atto, il secondo, in chiusura del secondo Atto, il
terzo, il celebre «To be or not to be», l’aria più famosa di tutto l’Amleto, nella prima scena del terzo Atto. In Q2, che come ricordo non è diviso in atti ma è una sequenza continua di
scene, alla quindicesima scena – nelle edizioni moderne Atto
iv, scena quarta – si incontra un lungo soliloquio. Amleto vede sfilare in distanza l’esercito norvegese comandato da Fortinbras, che ha chiesto diritto di passaggio sulla terra danese e
va a combattere in Polonia, e così commenta:
Exeunt all except Hamlet
HAMLET — How all occasions do inform against me,
And spur my dull revenge! What is a man,
If his chief good and market of his time
Be but to sleep and feed? a beast – no more.
Sure, he that made us with such large discourse,
Looking before and after, gave us not
That capability and godlike reason
To fust in us unused.
[Escono tutti salvo Amleto.]
Amleto – In ogni incontro c’è per me un’accusa,
che sprona la mia torpida vendetta. Cos’è un uomo,
se del suo tempo fa mercato e poi il guadagno è solo
dormire e mangiare? Una bestia, niente più.
Lui che ci ha dato intelletto così alto,
capace di vedere e cause e effetti, non ci ha dato
tale facoltà, la divina ragione, perché in noi ammuffisca
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non usata. Ora, per un qualche oblio bestiale,
o scrupolo codardo che mi fa pensare ogni minuzia
dell’azione – un pensiero che spaccato in quattro
si mostra sensato per un quarto e per tre vigliacco – io
non so
perché continuo a vivere dicendomi: tu devi, fallo!
Ne hai causa, mezzi, forza e volontà: fallo!
Esempi grandi come il mondo mi ci spingono:
guarda quest’esercito, così ingente e costoso,
condotto da un principe di fine sentimento e così giovane,
il cui spirito, gonfio di divina ambizione,
fa boccacce all’evento imprevedibile,
esponendo quel che è mortale e incerto
a tutto ciò che fama e morte e rischio osano.
E tutto per un guscio d’uovo rotto, una corona. Sì, esser grandi
non vuol dire muoversi per grandi cause,
ma in un bruscolo trovar giusto motivo di una lotta,
se l’onore è in gioco. E io che faccio?
Io che ho un padre ucciso, una madre sporcata,
a pungolo del sangue e della mente,
lascio che tutto dorma e a mia vergogna vedo
imminente la morte di ventimila uomini,
che per una fantasia, una voglia di gloria,
van verso la tomba come a letto, lottano per una zolla,
che certo non dà causa a tali numeri, e non c’è tomba
o fossa così grande che contenga e nasconda un tal massacro.
D’ora in poi non avrò pensiero in mente
che non sia sangue; ogni altro vale niente.
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È bello, certo. Ma se si conosce bene l’Amleto, parecchie cose circa la propria indecisione le ha già dette e con ben maggior vigore, nel primo, secondo e terzo dei suoi soliloqui; per
certi aspetti, parrebbe una sorta di «riassunto delle puntate
precedenti». Inoltre, nella prima parte, Amleto si rivela assai meno scettico, à la Montaigne, ben più umanista e certo
della «divina ragione», lui che qualche tempo prima aveva
definito l’uomo «quintessenza di polvere», e persino si direbbe un po’ più sicuro dell’esistenza di un qualche dio di
quanto non appaia nel resto della sua tragedia. Potente l’immagine dei ventimila uomini che «van verso la tomba come
a letto», ma in realtà questo bel soliloquio aggiunge ben poco e ritarda la catastrofe. Per Nicholas Rowe, però, l’assenza di questo soliloquio era da interpretarsi come una lacuna,
quindi l’unica via era la collazione tra i due testi. E così, sino a poco fa, ci si è sempre comportati, per tutti i testi con
una, o alcuni due, fonti a stampa precedenti al Folio. Piano
piano il Folio si è venuto rimpolpando ed emendando sulla
base dei quartos.
A complicare le cose, nel 1823, si fece una scoperta che
venne a turbare i sonni della già agguerrita legione di editors
shakespeariani, arricchiti, rispetto a Rowe, di nuova acribia
filologica germanica. Un gentiluomo di campagna trovò in un
ripostiglio un vecchio libro, mancante dell’ultima pagina. Sul
frontespizio, il seguente titolo:
The Tragicall Historie of Hamlet, Prince of Denmarke. By William Shake-speare. As it hath beene diverse times acted by His
Hignesse servants in the Cittie of London: as also in the two
Universities of Cambridge and Oxford, and else-where. At London printed for N.L. and Iohn Trundell. 1603
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L’apparizione di questo testo causò forse maggior sconcerto
di quella del padre di Amleto. In primo luogo, predatava di
un anno o poco più quella del Quarto sin qui conosciuto – e
da quel momento divenuto Q2, e Q1 il testo ritrovato. Poi,
anche se parecchi erano i punti di coincidenza con i due Amleti noti, radicale era la differenza di struttura drammaturgica. Articolato in diciotto scene continue, in media più brevi,
spesso presentava sequenze di azioni rovesciate rispetto a Q2
e Folio (F). Ne viene fuori una drammaturgia rapida e rozza
– ma a mio parere efficacissima – in cui farsa e tragedia si rincorrono in veloce alternanza. Diversi i nomi dei personaggi:
Polonio, si chiama Corambis, Laertes è anagrammato in Leartes, Rosencrantz e Guildenstern appaiono meno tedeschi
e più anglicizzati come Rossencraft e Gilderstone. E i luoghi
che diverranno col Romanticismo le «arie celebri» d’Amleto, vi compaiono, ma profondamente diversi per linguaggio e
immagini.1 Cos’era questo strano oggetto che si era conservato in una capsula di tempo? Per chiarire le enormi differenze
che esistono tra il testo ritrovato e i due già noti, basti un criterio quantitativo. Q1 contiene 2154 righi di testo – contando
come tali parti in versi e parti in prosa – mentre Q2 ne contiene 3723. F include invece 70 righi che non appaiono in Q2,
ma ne esclude ben 230 di Q2. Si scatenò una questione critica accesissima, che in parte, anche se molto affievolita, dura
sino a oggi. Per l’argomento che vado articolando, basti citare
le diverse ipotesi che si sono fatte, in quasi due secoli, nessuna delle quali ha trovato conferma documentale. Testo spurio; canovaccio shakespeariano pesantemente, a un tempo,
tagliato e interpolato, e in parte riscritto; ricostruzione mnemonica da parte di un prompter o uno o più attori fedifraghi;
prima stesura di mano di Shakespeare, pesantemente corrotta, ma in cui permane uno scheletro d’autore, indizio di un
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Ur-Hamlet, quindi, che si sarebbe successivamente arricchito e perfezionato nella drammaturgia in successive riscritture
d’autore; un Ur-Hamlet come riscrittura o rimaneggiamento
di un Ur-ur-Hamlet di Thomas Kyd, sull’esistenza del quale
esistono vari indizi documentali.
La storia dell’accanimento critico sui tre testi d’Amleto decampa affatto dal mio discorso, che si vuol mantenere strettamente entro i limiti del mio mestiere di dramaturg e
traduttore specificamente teatrale. Quel che mi interessa far
notare è che a partire dalla scoperta di Q1 – divenuto il bad
Quarto per antonomasia – un piccolo grano di dubbio si è
insinuato nella mente dei curatori e critici testuali dell’opera shakespeariana, dubbio che è andato crescendo in questi
ultimi vent’anni sino a dar luogo a una diversa posizione critica. Lo si può così riassumere: è legittimo applicare a testi teatrali, rimasti a lungo allo stadio di copione soggetto a tutte
le accidentalità e variazioni della pratica teatrale – riscritture,
adattamenti a seconda dei diversi pubblici, improvvisazioni
d’attore aggiunte al testo perché apprezzate dal suggeritore
o dall’autore stesso, tagli etc. –, i criteri della cura filologica
nata per emendare testi da errori accumulatisi attraverso le
successive trascrizioni di interi lignaggi di amanuensi? Negli
ultimi trent’anni del secolo appena scorso, in Gran Bretagna
e negli Stati Uniti, si è andato sviluppando lo studio delle pratiche rappresentative – performance studies – del teatro elisabettiano e giacobita, movimento in un certo senso affine allo
studio delle pratiche esecutive originarie nella musica cólta.
È su impulso di questo tipo di studio che è andato mutando anche, e radicalmente, l’atteggiamento dei curatori delle
più recenti edizioni critiche. Non si mira più a ritornare a un
ipotetico manoscritto autorale, al presunto stato del testo al
momento in cui Shakespeare lo consegnava agli attori della
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compagnia, ma a una possibile rappresentazione originaria, al
copione che ne era alla base, con tutti i mutamenti che questo aveva subito nel corso della pratica teatrale.
La verifica pratica di quanto ho appena detto è qui davanti a me sulla mia scrivania. È una mia traduzione di Amleto per la stagione 2012-2013. Un Amleto rigorosamente
secondo il Folio, perché sono sempre più convinto della tesi sostenuta da Jonathan Bate, il curatore dell’ultima edizione moderna, che così esprime citando due mirabili pioniere
della causa Folio, due studiose bostoniane, Charlotte Porter
e Helen Clarke, che nel 1903 ne curarono un’edizione con
grafia originale, cioè non modernizzata: «Il primo Folio rimane, di fatto, il testo più vicino alla scena di Shakespeare, alla proprietà di Shakespeare, all’autorialità di Shakespeare».2
Al tempo stesso, io e il Teatro Due di Parma avremmo3 deciso di mettere in scena in parallelo come esercitazioni per
giovani attori e allievi dei miei corsi veneziani il bad Quarto, che a mio parere offre un’interessante chiave di lettura
dell’Amleto maggiore. Bene, per procedere in questo lavoro, che per ironia consiste nell’emendare a rovescio il testo
tradotto da tutte le accrezioni derivate da Q2, ho davanti a
me ben tre testi: The Rsc Shakespeare, Complete Works, ossia il Folio (2007), e i due volumi separati dell’Amleto nella
nuova edizione critica della Arden,4 l’uno che presenta il testo di Q2 (1604-05), addizionato dei passaggi che compaiono
solo sul Folio sempre segnalati in nota – e l’altro che presenta integrali due testi: il Quarto del 1603 e il Folio del 1623.
In un certo senso, un ciclo si compie, dalla ricerca di un Urtext d’autore si è tornati ai tre copioni originari visti come
tre tappe di un complesso processo generativo. Se ho qui riassunto in rapido scorcio l’enorme questione testuale è solo per far capire che quel testo cui deve tornare un regista o
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un traduttore è più simile a una stratificazione geologica di
scritture e riscritture generate nel corso di varie rappresentazioni, sotto l’impulso di pratiche e convenzioni teatrali, che
a un testo letterario perfettamente coordinato dalla volontà
sovrana di un autore.
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Nota bibliografica
Testi di riferimento in lingua originale
Per chi voglia cominciare a orientarsi nel continente Shakespeare, fornisco qui di seguito una bibliografia minima.
Le due edizioni di riferimento, con divergenze di metodo e di
scelte editoriali, sono:
– la Arden Shakespeare che sin dalla fine del xix secolo
pubblica in singoli volumi, oggi anche in paperback, tutti i
testi shakespeariani con ricchi apparati critici. Ciò che rende
di particolare valore le edizioni Arden è la decisione, presa
molti anni fa, di pubblicare nuove edizioni critiche dei testi
con una scadenza circa trentennale; curati dai migliori studiosi, sono quindi sempre aggiornati alla filologia, alla critica più recente, e oggi a quella nuova e fondamentale branca
degli studi sul teatro elisabettiano che sono i performance
studies. Non sono quindi testi soltanto per filologi e critici
accademici, ma per uomini di teatro che agiscono entro una
tradizione cólta.
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– The Oxford Shakespeare, The Complete Works, pubblicato dalla Oxford University Press: l’intero corpus shakespeariano, in edizione critica, con note e apparati contenuti in un
monumentale volume separato. Dell’opus completo esiste sia
un’edizione mammuth che un’edizione compact. La prima edizione, a cura di Stanley Wells e Gary Taylor, è apparsa nel
1988. Una nuova edizione, riveduta e aggiornata alla luce degli studi più recenti, è uscita nel 2005, a cura di Stanley Wells,
Gary Taylor, John Jowett, William Montgomery.
Acquisizione recente al canone delle edizioni critiche indispensabili è l’edizione integrale, nel 2007, dell’in folio del
1623, a cura di Jonathan Bate e Eric Rasmussen, pubblicato dalla MacMillan in associazione con la Royal Shakespeare
Company, e già comunemente chiamato The Rsc Shakespeare. Questo fondamentale libro che probabilmente ci mostra
– è la tesi sostenuta da Bate nella sua introduzione – i testi
shakespeariani come realmente andarono in scena, o che cosa
di essi andò in scena, è la prova decisiva che gli studi shakespeariani si sono finalmente e del tutto spostati dalla muffa delle accademie alla vita dei teatri. La Royal Shakespeare
Company è infatti al momento impegnata a mettere in scena, nel corso di qualche anno, tutti i testi nella versione che
il Folio ci propone.
Shakespeare in italiano
L’edizione di riferimento di un «tutto Shakespeare con testo
a fronte» è quella dei Meridiani Mondadori, in dieci volumi,
per la cura esemplare di Giorgio Melchiori, insigne studioso
e traduttore. Purtroppo, le traduzioni sono di autori diversi
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Nota bibliografica 193
e quindi con risultati assai diversi. Una curiosa frase redazionale nel testo di presentazione dell’opera ci dà quest’informazione: «Traduzioni eseguite da scrittori come Montale, Luzi,
Quasimodo, Wilcock o da insigni specialisti». Di chi fidarsi di
più degli scrittori o degli insigni specialisti? Le più affidabili traduzioni ad alto grado di leggibilità le troviamo nei molti
testi tradotti e curati da Agostino Lombardo e Nadia Fusini,
in gran parte disponibili in libreria nell’Universale economica Feltrinelli.
Shakespeare in rete
Se si chiede a Google di dirci qualcosa su Shakespeare, ci risponde con 46 milioni di siti. Affidarsi con serendipica indolenza alla ricerca casuale può essere un sottile piacere e spesso
un utile passatempo. Qui si offrono alcuni siti indicativi per
un inizio di ricerca motivata.
Per iniziare a orientarsi nel labirinto, il motore di ricerca di
più facile consultazione su Shakespeare è:
http://shakespeare.palomar.edu
A un livello assai più specialistico, il sito della British Library
– richiede un login:
http://www.bl.uk
Da consultarsi i siti, qui di seguito, delle due compagnie nazionali inglesi:
Royal Shakespeare Company:
http://www.rsc.org.uk/
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194 La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
National Theatre:
http://www.nationaltheatre.org.uk/
Per chi possiede iPhone o iPad, un consiglio utile è scaricare da Apple Store l’applicazione Shakespeare Pro, con tutti i
testi di Shakespeare a portata di dito. È un ottimo sistema di
ricerca. È un buon passatempo da treno, e assai istruttivo, cercare occorrenze e concordanze: straordinaria scuola di critica
stilistica e di lettura ravvicinata del testo. In tempi non remoti
servivano quintali di schede perforate e computer grandi come grattacieli.
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Amleto in dvd
Cito nel saggio introduttivo quasi tutti gli Amleti che, a mio
giudizio bisognerebbe avere in dvd. E qui li elenco di nuovo.
Tutto quel che non menziono – quasi tutti i più noti e notori
Amleti in versione film – ha la mia disapprovazione.
Hamlet (1948) – film con regia di Laurence Olivier, e lui medesimo nel ruolo del titolo. Si trova nella bella e indispensabile serie di film restaurati, The Criterion Collection.
Hamlet (1964) – ripresa televisiva dello spettacolo teatrale
diretto da John Gielgud, con Richard Burton nel ruolo del
titolo, Image Entertainment. Di difficile, ma possibile, reperibilità. amazon.com rinvia ad altri venditori. Attenzione, lo si
trova soltanto in regione 1.
L’Amleto in russo, nella traduzione di Boris Pasternak e con
la regia di Grigorij Kosintsev (1964, Facets Video) è anch’esso difficile da reperirsi. amazon.com rinvia ad altri venditori.
Anche in questo caso, il dvd è di regione 1.
Con regia di Peter Brook (2005), la rielaborazione per video
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dello spettacolo teatrale del 2001 è un dvd Arte video, distribuito dalla Facets Video. Regione 0, quindi universale. Il
dvd contiene anche un ottimo film-intervista con Peter Brook,
Brook by Brook, realizzato dal figlio Simon Brook.
Un Amleto assai interessante che gronda ironici, ma anche
dolorosi, disgusti e ribellioni sessanta è quello con la regia di
Tony Richardson, e il Principe di Nicol Williamson, che respingendo The Queen’s English, fa parlare il suo Amleto con
marcato accento proletario (1969). Stupirà l’antiaulica Ofelia di Marianne Faithfull. Distribuzione Columbia Picture; regione 2.
Per un Amleto più recente – anch’esso, come inevitabile, intriso di Zeitgeist, spirito dei tempi – lo spettacolo della Royal
Shakespeare Company del 2009, con la regia di Gregory Doran, ottimamente ripreso dalla Bbc. Avanza in crescendo come un avvincente thriller psicologico. Il protagonista, David
Tennant, è stralunato e sofferto, ma anche straordinariamente
comico (finalmente!). Distribuzione Bbc-Rsc; regione 0.
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Note
Premessa
1 Sulla particolarissima natura dei testi shakespeariani si veda l’appendice «La questione testuale».
2 Dramaturg: che in italiano si usi la parola tedesca – senza però la maiuscola che un sostantivo vorrebbe – è indicativo della scarsa familiarità che si ha
con questa figura professionale ritenuta ormai indispensabile nei teatri europei
e americani. La definizione minima che se ne può dare è: esperto di testi teatrali e di tutti i tipi di lavoro testuale che il teatro comporta: traduzione, riduzione, rielaborazione, trasposizione da un altro medium – ad esempio romanzo, racconto o, spesso oggi, sceneggiatura cinematografica. E inoltre, scelta dei
testi, proposte, viaggi esplorativi per conoscere altre tradizioni teatrali etc. Se si
vuole trovare un capostipite al mestiere, non se ne potrebbe incontrare di più
illustri: Goethe, negli anni in cui fu Intendant al Teatro di Corte di Weimar.
Un altro illustre esempio, fuori dalla tradizione tedesca, Vladimir NemirovičDančenko, che per anni lavorò in tandem con Konstantin Stanislavskij.
Introduzione. Un eccellente attore
1
Nell’Italia dei nostri giorni c’è un rivelatore infallibile per capire se abbia-
mo davanti un cretino, o cretina: pronuncia midia, credendo sia parola ingle-
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198 La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
se e lo riferisce soltanto ai mezzi di comunicazione di massa, tv e, nel caso
leggesse, giornali. Attinge al capolavoro quando dice un midia. Naturalmente la parola è latina, ed è un neutro plurale che dà medium al singolare. Per
convenzione in italiano trasponiamo il neutro latino al maschile. E per lunga
consuetudine pronunciamo il latino all’italiana. Così come gli inglesi, all’inglese, e i francesi alla francese – mediòm, media. Inoltre, medium ha numerosi significati, determinati dal contesto, ma qui ce ne interessa uno: un
mezzo, un procedimento linguistico, stilistico, che veicola significato.
2 Sulla questione dei testi di Amleto, si vedano le appendici «La questio-
ne testuale» e «I tre Amleti», alle pp. 175 e 183.
3 Si veda l’appendice «La questione testuale», p. 175.
4 Si vedano le appendici «La questione testuale» e «I tre Amleti», alle
pp. 175 e 183.
5 Il primo studio di Ernest Jones su Amleto apparve in The American
Journal of Psychology, nel gennaio del 1910. Il titolo era significativo «The
Oedipus Complex as an Explanation of Hamlet’s Mistery». Come si nota,
si dà per scontato che Amleto – personaggio, poiché l’analisi è tutta sui
moventi inconsci del signor Amleto – sia un mistero che richiede una spiegazione. Gli studi successivi, in tedesco e inglese, sono revisioni e estensioni di quel primo. Pubblicati poi in volume, col titolo Hamlet and Oedipus,
dopo ulteriori revisioni ed estensioni, nel 1949.
6 Dello spettacolo fu girato un film in bianco e nero, stampato in due sole
copie, che avrebbero dovuto essere mostrate in cinema del normale circuito per due soli giorni e poi, per contratto, distrutte. Richard Burton se ne
appropriò – e gli dobbiamo tutta la nostra gratitudine postuma. Una copià
la spedì al British Film Institute. La seconda la tenne per sé. Quest’ultima,
ritrovata nel 1988 dalla vedova, Sally Hay, è stata riversata in dvd. Facilmente ottenibile da amazon.com. Più di quarant’anni dopo, gli aggettivi «storico» e «rivoluzionario» si rivelano ancora tutt’altro che iperbolici.
7 Come posso dire che una traduzione in una lingua che non conosco affatto
come il russo è bella? Ho più volte visto, e ascoltato, in dvd il film di Kozintsev,
e quel che percepisco sono puri valori fonici del testo di Pasternak. Ebbene,
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Note 199
ho l’impressione che si tratti di una di quelle traduzioni-trascrizione, nel senso
musicale del termine, e che con tutt’altra strumentazione conservi molto dei
valori melodici, timbrici e ritmici dell’originale. Tra i più grandi esempi di trascrizioni musicali, e le cito per dare un esempio solido della mia idea di traduzione-trascrizione, le Sinfonie di Beethoven trascritte per pianoforte da Liszt.
Tra le ragioni per cui vorrei trascorrere i miei ultimi anni imparando il russo,
c’è il desiderio di poter valutare le traduzioni shakespeariane di Pasternak, e la
mitica traduzione di Alice’s Adventures in Wonderland di Vladimir Nabokov.
8 Un elenco sommario delle opere in cui questo tema è centrale include,
tutte le Histories, in particolare Richard ii, e Richard iii, quest’ultima ritratto a grandezza naturale di un usurpatore; certo Macbeth e King Lear, ma
anche, e forse soprattutto, The Tempest. Sull’argomento si veda il saggio
di Stephen Greenblatt, «Shakespeare and the Uses of Power» su The New
York Review of Books, vol. 54, n. 6, April 12, 2007.
9 Sulla presenza di temi cattolici in Amleto, si veda lo studio di Stephen
Greenblatt, Hamlet in Purgatory, Princeton University Press, Princeton 2001.
Trad. it., Amleto in purgatorio. Figure dell’Aldilà, Carocci, Roma 2002.
La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
1
È da segnalare al lettore e ancor più all’attore e al regista che è conven-
zione grafica adottata nelle edizioni critiche shakespeariane distinguere le
molte didascalie decise dal curatore, e tutte intese a chiarire l’azione scenica, con parentesi quadre, dalle rade didascalie che compaiono nelle fonti,
in massima parte nel Folio.
La questione testuale
1 The Rsc Shakespeare, Complete Works, pp. 50-52.
2 La divisione in atti, già per alcuni testi di Shakespeare scritti per il
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200 La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca
Blackfriars, che era un teatro coperto, e sempre più per rappresentazioni
in teatro al chiuso, avrà inoltre una necessità pratica per sostituire le candele o rimboccare i lumi a olio.
I tre Amleti
1 Hamlet – To be, or not to be, I there’s the point, / To Die, to sleep, is
that all? I all: / No, to sleep, to dreame, I mary there it goes, / For in that
dreame of death, when wee awake, / And borne before an everlasting Judge,
/ From whence no passenger ever returned, / The undiscovered country, at
whose sight / The happy smile, and the accursed damn’d… (Hamlet, da Q1,
detto anche Bad Quarto).
Amleto – Essere, o, non essere, sì, questo è il punto: / morire, dormire,
ed è tutto? Sì, tutto. / No, dormire, sognare, sì, certo qui è il nodo, / poiché in quel sogno di morte, quando ci svegliamo / e siamo condotti davanti
a un Giudice eterno, / da cui nessun passeggero è mai ritornato, / il paese
inesplorato, alla cui vista / i giusti sorridono e i maledetti sono dannati…
(Traduzione di Alessandro Serpieri. Cito da Il primo Amleto, a cura di Alessandro Serpieri, Marsilio, Venezia 1997. Ottimo e fondamentale contributo agli studi shakespeariani in italiano.)
2 La citazione compare nell’articolo di Jonathan Bate, «The Folio resto-
red», sul Times Literary Supplement del 20 aprile 2007. L’edizione curata
da Charlotte Porter e Helen Clarke apparve in dodici volumi per l’editore
Thomas Crowell, New York 1903.
3 Tagli al Fus (Fondo unico per lo spettacolo) permettendo.
4 Hamlet, a cura di Ann Thompson e Neil Taylor, The Arden Shakespe-
are, London 2006; Hamlet. The Texts of 1603 e 1623, The Arden Shakespeare, London 2006.
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