Laicità e ruolo dello Stato
III seminario: Scienza, Ricerca, Libertà Individuale, Laicità
Venerdì 13 aprile 2007 ore 9,30-17,30 Sala Santi- CGIL nazionale, Corso d'Italia, 25 - Roma
Gilda Ricci
Presidente di Proteo Fare Sapere Campania
Siamo al momento conclusivo dei tre seminari che si sono svolti da novembre ad oggi e poi ci sarà
la fase conclusiva, del forum conclusivo, che si terrà a settembre, in modo da dar modo a noi tutti
di riflettere e a coloro che ci seguiranno, anche attraverso la documentazione via internet, la
registrazione video e con i documenti pubblicati, di interagire con le tematiche di cui ci siamo
occupati. Il nostro progetto è partito appunto per interrogarci, per studiare i nodi principali di una
società della conoscenza, ma volevamo soprattutto ascoltare, per formare una coscienza critica e
poter portare anche nelle scelte politico sindacali quella sensibilità e quello spessore culturale,
quella apertura che ci contraddistingue e che riteniamo siano necessarie ad un salto di qualità, sia
di Proteo, sia di un sindacato che vuole sempre più approfondire il nesso tra la libertà, i diritti e i
principi costituzionali del nostro Stato, con un tentativo forse un po’ immodesto di riscrivere le
regole di convivenza e di rispetto di tutte le etnie. Forse è molto presuntuoso quello che vogliamo
fare, ma siamo in un contesto in cui è importante chiarire, ma soprattutto rinnovarci, mettersi in
discussione, confrontarci soprattutto con chi non la pensa come noi.
Oggi concludiamo questa triade di seminari affrontando soprattutto il ruolo dello Stato rispetto al
concetto di laicità. Avevamo un sottotitolo, lo vorrei precisare: “guardando ad una legislazione per
la società multietnica, multivaloriale e multiculturale”.
Siamo partiti dal concetto di laicità, non solo in quanto autonomia, indipendenza dello Stato dalla
religione, ma come pluralismo, come valorizzazione dell’integrazione nelle differenze, nei generi,
tenendo sempre presente il nostro dettato costituzionale, in particolare gli articoli 2, 3, 7, 8, 33 ed
altri.
Una delle questioni che è venuta fuori nel dibattito anche nelle varie regioni d’Italia, nel dibattito
che si è svolto nei mesi scorsi e che ci ha portato fin qui è il problema dell’ora di religione cattolica
nelle scuole, che ci mette in crisi quotidianamente, almeno per quanto riguarda il mondo della
scuola di ogni ordine e grado. Questo binomio scienza-fede, stato-religione, potrebbe raggiungere
forse un compromesso, una mediazione importante con una proposta, che è partita proprio dalla
Campania, (da dove anch’io provengo e dove si è creato molto dibattito attorno a questo), di dare
la possibilità ai colleghi di religione di fare una formazione seria, collegata a quello che è il senso
della religione e il senso religioso, per rafforzare però una scelta di metodo e di studio sulla storia
delle religioni, fatta in modo serio, anche perché non è possibile certo e né riteniamo
sindacalmente sia opportuno, mandare a casa 22 mila docenti.
E quindi si deve pensare per loro a una formazione che parta dal concetto di laicità del nostro
Stato, per arrivare alla conoscenza delle religioni e del senso della fede in qualsiasi religione, che
non crei differenze, ma valorizzi invece la conoscenza dell’altro.
Io prendo spunto da un testo che abbiamo letto in tanti di Giovanni Boniolo, “Laicità, una geografia
delle nostre radici”, dove il concetto di laicità, viene inteso come un atteggiamento intellettuale
caratterizzato dalla libertà di coscienza, intesa quale libertà di conoscenza, credenza, critica e
autocritica.
Il concetto di laicità è la base del convivere moderno, è alla radice del nostro essere una comunità
libera e responsabile, eppure, mai come oggi sembra lontano il consenso sul significato autentico
della laicità, sui suoi limiti e sui suoi obblighi. È sempre più urgente ritrovarne le ragioni, per
rispondere alle nuove sfide della convivenza e della modernità. Pensiamo che la laicità sia un
problema di cultura, e aggiungerei di culture .
Il mio talento, diceva Galilei, è di proporre una nuovissima scienza che tratta di un antichissimo
argomento. Ecco, siamo, credo, qui per questo. Per ripartire dalla nostra storia, da un Umanesimo
non molto lontano, antico, ma moderno allo stesso tempo, ma soprattutto per interrogarci e per
non fermarci al passato, se non per recuperarne spunti, insegnamenti, per guardare avanti, per
conquistare ogni giorno la libertà di scegliere, di essere responsabili e coscienti delle nostre scelte.
Voglio rubare una frase a don Luigi Merola, il famoso prete di Forcella, che ha pubblicato un libro
interessantissimo, sociologico e non di carattere religioso. Lui chiede: dovremmo forse essere
anziché più credenti, più credibili, in un’epoca in cui la laicità sia davvero garanzia di convivenza?
Vi vorrei lasciare anch’io con delle domande:
La libertà è un atteggiamento intellettuale? La libertà di credenza, di conoscenza e di critica si
concilia con un principio di laicità? Esiste una costruzione storica della laicità? Il modello della
laicità va adattato, tarato alle circostanze e ai contesti in una società multi etnica, multiculturale? Vi
lascio con queste domande che sono anche le mie personali. Grazie
Nicola Colajanni
Professore Straordinario di Diritto Ecclesiastico all'Università di Bari
Vorrei provare a spiegare perché, accanto al termine “laicità” si è inserito in questo seminario
anche il ruolo dello Stato.
La laicità è normalmente da noi interpretata come un atteggiamento, una corrente di carattere
filosofico, la indaghiamo poi sotto il profilo storico, riteniamo che non abbia normalmente un valore
giuridico.
La laicità, in questa maniera, diventa una sorta di optional riservato ai politici, alla scuola,quindi ai
professori, ma non è una condizione dello Stato, un precetto di carattere giuridico, con relative
sanzioni, nel caso che esso venga violato, e neppure un criterio orientativo dell’azione dello Stato.
Invece, c’è una laicità che ha ormai assunto un valore giuridico e che pertanto deve essere da noi
tenuta presente, perché è il portato di questo grande movimento storico che potremmo definire,
con una parola, il laicismo, degli ultimi due secoli, almeno dall’Illuminismo in poi, ma anche prima,
certamente da Galileo e che quindi rappresenta il precetto giuridico scaturito da queste correnti
storiche e filosofiche.
Quando diciamo laicità, noi spesso vogliamo intendere un valore positivo mentre attribuiamo un
valore negativo al laicismo. Si sente dire: noi siamo per la laicità, non per il laicismo. Ma in realtà
sono due cose non omogenee.
La laicità è un profilo, per dirla con la Corte Costituzionale in una sentenza che adesso citerò
abbondantemente, la numero 203 dell’ ’89: la laicità è un profilo della forma di Stato, quindi è una
nota caratteristica del nostro Stato italiano.
Il laicismo è una corrente filosofica che cerca di approfondire, di propagandare anche, i valori della
laicità, cioè cerca di informare le istituzioni dello Stato e la vita civile in generale della nostra
società, appunto, al valore della laicità. Quindi, non ha assolutamente un significato negativo.
Poi naturalmente, ci possono essere all’interno del laicismo correnti che possiamo non
condividere, ma questo è il dibattito delle idee che normalmente avviene per qualsiasi altra
corrente ideologica, filosofica o religiosa. Può avvenire per il socialismo, per il liberalismo, per il
cristianismo, per il protestantismo. In ognuna di queste correnti di pensiero ci possono essere delle
posizioni che condividiamo, altre che non condividiamo. Ma non c’è invece una laicità sana, giusta,
positiva, che si contrappone invece ad un laicismo negativo.
Ecco allora noi parliamo di laicità, senza volerla riferire per opposizione al laicismo e ci riferiamo ad
una laicità come nozione giuridica. Non è, sotto questo profilo, la laicità, una nozione tradizionale
della nostra storia, della storia delle nostre istituzioni.
Il termine laicità noi lo troviamo per la prima volta nei documenti giuridici italiani soltanto nell’ ’89
con questa sentenza di cui ho indicato gli estremi, la numero 203 del 1989 della Corte
Costituzionale. E all’origine di questa sentenza c’era proprio il problema dell’insegnamento della
religione cattolica nelle scuole pubbliche, problema che era stato affrontato cinque anni prima da
due documenti giuridici: l’atto di revisione del Concordato lateranense con la Chiesa Cattolica e la
prima intesa dello Stato italiano con una confessione non cattolica, cioè con i Valdesi.
Il problema dell’insegnamento della religione venne affrontato in questi due atti giuridici, in maniera
direi diametralmente opposta.
Nella intesa con i Valdesi c’è una chiara affermazione del fatto che la Chiesa valdese ritiene che la
religione debba essere insegnata nella famiglie e nelle chiese, quindi non nella sfera pubblica; la
Chiesa valdese ricusava un insegnamento della religione pubblica e pertanto chiedeva che i suoi
appartenenti avessero il diritto di non partecipare ad eventuali insegnamenti di religione cattolica o
pratiche religiose di questo culto. Quindi questa è una prima posizione, è il contributo di una
minoranza all’affermazione nel nostro ordinamento dell’idea di laicità. Del resto, l’intesa fu
interpretata dai valdesi, in modo particolare da quello che fu il vero facitore per i valdesi dell’intesa,
il professor Giorgio Peirò, appunto come un contributo, non soltanto come una richiesta di garanzie
per la Chiesa valdese, ma come un contributo culturale, giuridico, che questa piccola minoranza
significativa della storia religiosa italiana dava allo Stato. Poi le cose sono un po’ cambiate anche
da parte loro, ma inizialmente era questo il senso dell’intesa dei valdesi.
E’ evidente che una posizione di questo genere aveva una forte ascendenza culturale-giuridica:
Dietro la posizione della chiesa valdese c’era la laicità “alla francese”. Una laicità che, appunto,
mette al bando dallo spazio pubblico l’idea religiosa, i segni religiosi, l’insegnamento della religione
e così via.
Una posizione del tutto opposta è quella che vediamo nella revisione del Concordato con la Chiesa
cattolica: il cattolicesimo fa parte del patrimonio storico e culturale della nazione italiana. E quindi
va insegnato. Lo Stato continua ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica.
Anche qui però c’è un inizio di laicità, perché si riconosce senz’altro il diritto degli studenti di
avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Non degli studenti
appartenenti ad altre confessioni religiose, il diritto degli studenti in generale. È il primo
riconoscimento che quindi, di questo insegnamento possono non avvalersi tutti gli studenti,
appartenenti ad altre confessioni, ma anche non credenti, indifferenti, agnostici, anche, perché non
c’è nessun obbligo per lo studente battezzato nella Chiesa cattolica di seguire l’insegnamento della
religione. Quindi c’è un ingresso di laicità. Si tratta di un diritto, non è un esonero come nel vecchio
Concordato e quindi non è un atto amministrativo nella discrezionalità della Pubblica
Amministrazione, del dirigente scolastico in modo particolare, ma è un diritto soggettivo perfetto,
quindi un diritto che lo studente può far valere anche davanti al giudice ordinario. E poi, la
Cassazione a sezioni unite ha detto anche che, laddove questo diritto venga violato, appunto, la
competenza, la giurisdizione è del giudice ordinario anche in ordine ad eventuali risarcimenti del
danno morale che lo studente possa subire a seguito della violazione di questo diritto da parte
dell’amministrazione scolastica.
Il problema del Concordato naturalmente però riguardava la scelta dei non avvalentesi, che cosa
dovessero fare questi. La posizione dell’amministrazione scolastica era che costoro dovevano
comunque svolgere della attività alternative, anche uno studio individuale, ma dovevano
comunque rimanere nella scuola, l’importante era che non uscissero da scuola, cioè che non ci
fosse una riduzione dell’orario scolastico, il che appariva abbastanza grottesco perché, se
l’insegnamento di religione cattolica è una materia facoltativa dal punto di vista dello studente, il
quale aveva un diritto pieno di non frequentarla, non si capisce perché debba comunque far parte
di un monte ore che riguarda tutti. È evidente che, chi vuole avvalersi di una materia facoltativa fa
un ora in più e quindi il monte ore era da calcolare sottraendo alle ore di insegnamenti curriculari
quello di religione cattolica, in quanto facoltativa. Però, questa era la situazione. Se volessimo
anche qui cercare un’ascendenza culturale di questa idea di laicità che si affacciava, nel
Concordato, nell’Accordo di revisione di Concordato dell’’84, potremmo dire che, sia pure alla
lontana, un’influenza culturale si potrebbe vedere nel sistema inglese, nel sistema della
multireligiosità, della multi culturalità.
Nella tradizione imperiale di Londra, in questa grande capitale mondiale che ha conosciuto
sempre, da secoli, la confluenza di etnie, di religioni, di culture diverse, si lascia in qualche modo
una delega alle stesse comunità sulle materie eticamente sensibili, come oggi usa definirle, per cui
noi possiamo avere, per esempio delle classi omogenee, delle scuole islamiche, delle classi
islamiche, possiamo avere la tolleranza di pratiche di mutilazioni sessuali genitali femminili,
possiamo avere un riconoscimento di effetti civili ai matrimoni fatti secondo il rito di una particolare
religione e così via. Ecco, un’ideologia, questa del comunitarismo, per cui, su queste materie si
lascia una certa giurisdizione alle stesse comunità. In questo senso, la posizione del Concordato
dell’ 84 riconosceva agli studenti che non si avvalevano dell’insegnamento della religione cattolica
il diritto di farsi eventualmente un altro studio del fatto religioso, di farsi altre attività alternative,
l’importante è che il monte ore, in questo caso il monte ore scolastico, rimanesse perfettamente
uguale.
Una posizione simile a quella della Chiesa cattolica quando ci fu l’introduzione del divorzio nel
nostro Paese. Anche allora la Chiesa Cattolica, un po’ come adesso per quanto riguarda i Dico,
era comunque contraria al divorzio, per motivi di carattere “civile”, non per posizione fideistica;
però, in subordine, la posizione era quella di dire: chi ha sposato religiosamente, in Chiesa, non
può poi divorziare, perché ha fatto una scelta che è definitiva, mentre il divorzio dovrebbe invece
essere ammissibile per chi ha sposato civilmente o comunque con altri riti religiosi. Questa
posizione fu giustamente battuta nel 1970, prima di tutto dal Parlamento che non ritenne di dover
differenziare i cittadini per motivi di religione, a seconda del rito matrimoniale.
Però, nella concezione della Chiesa Cattolica quando avanzò questa proposta c’era appunto una
visione di carattere comunitaristico: qui ognuno “si fa i fatti suoi” nel proprio campo e noi, per
quanto riguarda i cattolici, diciamo che il divorzio o la cessazione degli effetti civili del matrimonio
non ci possono essere.
La sentenza 203/’89 è importante allora, perché affronta il problema dei non avvalentesi.
Sappiamo che lo affronta nel senso che ognuno può far quello che gli pare, può anche uscirsene di
scuola, ma pone per la prima volta la laicità come profilo fondamentale della nostra forma di Stato.
Un’affermazione importantissima, perché la laicità è un profilo fondamentale della forma di Stato,
noi pensavamo finora, della Francia. La Francia ha nelle prime parole: la Repubblica francese è
una repubblica laica. Quindi era abbastanza stupefacente questa affermazione della Corte
Costituzionale italiana. Tra l’altro, la sentenza fu fatta da un cattolico di sicura fede, riconosciuto,
come il professor Casavola che è stato anche presidente del movimento dei laureati cattolici. E
appunto lui dice che la laicità è un profilo fondamentale della forma di Stato. Questo profilo
fondamentale lo è al punto che la laicità diventa un principio supremo dell’ordinamento
costituzionale. Per i giuristi questo termine è molto significativo perché, i principi supremi sono quei
principi costituzionali che stanno a fondamento della coesione di tutta quanta la nazione e che,
addirittura, non possono essere assoggettati a procedimento di revisione costituzionale. Le norme
costituzionali possono essere assoggettate a procedimento di revisione costituzionale, c’è l‘articolo
138 che stabilisce questo procedimento, però i principi supremi no. Perché, se si cambiano i
principi supremi, diceva un nostro grande costituzionalista, Costantino Mortati, si viene a sovvertire
il fondamento stesso dello Stato. Quindi cambiare i principi supremi significa fare una rivoluzione.
Si possono cambiare, però si deve sapere che a questo punto c’è un cambiamento di regime. Il
principio supremo esplicito nella Costituzione è il 139, cioè la Repubblica. La forma repubblicana
non è soggetta a revisione costituzionale, però la dottrina ha poi specificato che forma
repubblicana non significa soltanto la forma di Stato: repubblica versus monarchia o altro genere.
Ma significa anche repubblica con tutte le note che caratterizzano questa nostra repubblica e sono
appunto i principi supremi che la caratterizzano. Uno è il diritto di difesa. Secondo la
giurisprudenza della Corte Costituzionale, poi ci sono tutti i principi fondamentali espressi nei primi
12 articoli della Costituzione e poi c’è anche il principio di laicità.
Quindi, se la nostra repubblica dovesse modificare, cambiare il principio di laicità, noi faremmo
appunto una rivoluzione, cambieremmo regime, entreremmo in una repubblica di tipo diverso.
Questa nostra laicità, così come disegnata dalla Corte Costituzionale, diciamo che non è una
laicità né alla francese, neanche però una laicità di tipo comunitaristico come quella inglese: non è
la republique,ma non è neanche il “londonistan” come è stato definito questo comunitarismo
all’inglese, ma anche canadese.
È una laicità che non è cieca alle differenze e quindi ammette che le religioni, le culture in
generale, stiano nello spazio pubblico, però non ammette che lo spazio pubblico venga occupato
da una sola di queste religioni o di queste culture. Quindi è una laicità che dà un riconoscimento
pubblico, a differenza di quella francese, ma non scompone lo spazio pubblico, diciamo
proporzionalmente alla capacità di influenza delle varie culture e religioni, ma ammette che tutte le
religioni possano competere nello spazio pubblico e, come ha specificato poi la Cassazione, in una
sentenza successiva del 6 aprile 2000, riprendendo gli stessi concetti, impedisce che chi
momentaneamente abbia acquisito una posizione di maggioranza nell’ambito dello spazio
pubblico, possa poi godere di una rendita di posizione, in modo da escludere che altri, un domani,
possano appunto prevalere in questo spazio.
Quindi è una laicità, di carattere inclusivo, in un certo senso, non esclude nessuno; non è una
laicità ostile, appunto come in Francia, dove per esempio, con una legge recente del 2004, viene
impedito che le ragazze musulmane vadano con un velo, con un foulard a scuola.
Il senso della laicità, ha specificato poi la Corte Costituzionale in altre successive sentenze, è
appunto nel senso di una non identificazione dello Stato con una religione o una cultura, principio
questo molto presente specialmente nella giurisprudenza della Corte Suprema americana, e che
quindi implica anche una neutralità dello spazio una neutralità non soltanto al momento, ma anche
proiettata nel futuro, nel senso di escludere che si possano verificare rendite di posizione, e quindi
una equidistanza da tutte le concezioni, da tutti i sistemi di senso, i sistemi di valore che si hanno
nella società.
Ha specificato la Corte Costituzionale in una successiva sentenza che riguardava la bestemmia, la
440 del ’95, che il nostro è un sistema di pluralismo religioso e culturale, una società in cui
debbono convivere insieme religioni e credenze. E questo significa che la laicità non è un concetto
interno alle religioni, per cui noi cerchiamo di evitare i conflitti religiosi che si sono avuti nella storia
cercando una equidistanza, la laicità riguarda anche il pluralismo culturale.
Quindi riguarda anche le posizioni negative nei confronti della credenza religiosa. E questo è un
problema molto importante.
Al giorno d’oggi noi siamo alle prese, veramente è dall’ ’89 che stiamo alle prese, con un disegno
di legge che dia attuazione alla libertà di religione della nostra Costituzione, quindi un disegno di
legge sulla libertà religiosa, termine ambiguo che sostituisco sempre, quando scrivo, con il termine
libertà di religione, proprio per dire che c’è una libertà di avere una religione, ma c’è anche una
libertà verso la religione, una libertà dalla religione, quindi anche le posizioni negative hanno la
stessa nobiltà, importante è che non ci sia l’indifferentismo, ma se si arriva a certe conclusioni in
merito al senso ultimo della nostra vita, tutte le posizioni hanno uguale nobiltà per lo Stato, non ci
sono posizioni più credibili, più nobili di altre.
Ecco, allora questa laicità riguarda anche l’equidistanza, la neutralità rispetto alle posizioni di
carattere non religioso, quindi negative sul fatto religioso. Quindi è una laicità che consente questa
equidistanza tra religioni e non religioni.
Questo è molto importante, perché è depositato alla Camera, un disegno di legge sulla libertà
religiosa, di religione, che tuttavia non prende in considerazione il fenomeno dell’ateismo, il
fenomeno della non credenza, che ormai raggiunge cifre abbastanza notevoli nel nostro Paese.
Probabilmente non è organizzato alla stessa maniera delle confessioni religiose, tuttavia c’è per
esempio una unione, la Uaar, Unione Atei Agnostici Razionalisti, che ha chiesto addirittura
un’intesa. Possiamo discutere, io credo di no, se sia necessaria un’intesa anche con le confessioni
non religiose, questo è un altro discorso, però, per quanto riguarda una serie di diritti, pensiamo
anche al sistema di finanziamento dell’ 8 per mille, visto che c’è, non vedo perché non si debba
dare anche a chi abbia una concezione negativa, oppure una serie di diritti fondamentali, le
esequie in un luogo idoneo, oppure l’assistenza spirituale al non credente terminale che stia in
ospedale. Per quale motivo questa persona non deve aver diritto che uno che la pensi come lui lo
aiuti e si deve trovare vicino in quel momento soltanto la suora, l prete? In Olanda viene finanziato
anche l’appartenente all’organizzazione filosofica non confessionale che faccia assistenza a
queste persone. Quindi non sono concetti estranei ad almeno alcuni paesi dell’Unione Europea.
Quindi, questa è la concezione della laicità, di questa laicità che potremmo dire inclusiva, una
laicità di carattere pluralistico che esiste secondo la sentenza della Corte Costituzionale.
La laicità, in quanto tale, si sposa necessariamente con il relativismo della vita pubblica. Altra
brutta parola. Ormai da qualche anno a questa parte sembra che sia una bestia nera questo
relativismo. Ma, in realtà, il relativismo è connaturato con la democrazia; Hans Kelsen, che forse è
stato il più grande giurista del secolo scorso, dice, in una delle sue opere fondamentali, che è
appunto “La Democrazia”, che la democrazia si può opporre all’assolutismo politico soltanto
perché è l’espressione di un relativismo politico. Pare una cosa direi quasi banale, però è
fondamentale come vedete. E non soltanto lo era cento anni fa quando Kelsen scriveva queste
cose, come vedete continua ad essere importante. È ovvio. Naturalmente, per relativismo non si
intende il relativismo etico, non si intende insomma: “questo o quello per me pari sono”. Non è
questo. Ognuno di noi ha diritto, direi anche il dovere a perseguire determinati valori, cercare di
affermarli. È un modo per affermare la propria identità, ma anche un modo di contribuire alla
crescita della società. Ma dal punto di vista della democrazia, dal punto di vista dello Stato tutte
queste varie posizioni hanno il diritto di competere tra loro, ma non ci può essere una
identificazione della democrazia con uno di questi valori o con una somma di questi valori. Quindi,
questo il concetto di relativismo, che è il relativismo dell’insieme, non il relativismo delle singole
posizioni personali, che invece ognuno di noi ha il giusto diritto, io ritengo anche il dovere, di avere
come assoluto.
Chi è credente ha giustamente l’idea dell’assolutezza della sua verità. Però, nel momento in cui va
insieme ad altre persone, deve cercare di vedere, di individuare un minimo comun denominatore
che non è nella propria idea di bene. Il giusto risulta dall’intersezione di tutti i vari concetti di bene
che ognuno di noi persegue e ritiene, giustamente, dal suo punto di vista che siano invece un
assoluto. Da questo punto di vista, la laicità va insieme al relativismo e, se non stanno insieme,
cadono insieme e, se cadono insieme, noi avremo l’assolutismo, non avremo più laicità, perché ci
sarà l’assolutismo dal punto di vista dello Stato.
Quando poi noi sentiamo parlare di laicità sana, laicità giusta, specialmente nei documenti della
Chiesa cattolica compare questo termine, diciamo una cosa positiva. È bene che la laicità sia
sana, sia giusta, ma la sanità, la giustezza della laicità, dipende dalla sua conformità a queste
regole procedurali, non dipende dall’avere un parametro esterno a cui fare riferimento, perché
altrimenti si ricasca di nuovo nell’assolutismo. Oggi noi abbiamo una serie di terreni sui quali
confrontare queste idee.
Abbiamo avuto un referendum sulla procreazione medica assistita, abbiamo adesso le varie
posizioni sui Dico, altre volte abbiamo avuto una forma di religione civile, per esempio
emblematicamente nella messa che il cardinale Ruini fece per i caduti di Nassirya. Ci sono forme
di religione civile quindi che cominciano a entrare nella nostra società.
Quando Zapatero non è andato alla messa del Papa, probabilmente ha creduto, nella sua
coscienza, che non era il caso di andare a una messa che non lo riguardava. Però fu criticato
pubblicamente.
Ci sono una serie di esempi che possono illuminarci sul concetto di laicità che noi abbiamo. In un
recente libretto a mio avviso molto bello: “La differenza cristiana” uscito per Einaudi, Enzo Bianchi
ha fatto riferimento a una lettera del terzo secolo, una Lettera a Diogneto e ha detto che i cristiani
debbono avere un atteggiamento positivo nel rappacificarsi con chi cristiano non è. Lui dice: “non
rinneghino nulla del Vangelo, ma restino insieme agli altri uomini con simpatia, senza separarsi da
loro, solidali, tesi a costruire insieme una città più umana”.
Io credo che questo sia un concetto forte di laicità, che non consiste neppure, da parte di chi è
cristiano, da parte di chi ha una determinata identità religiosa o culturale, nel cercare di affermare
con tanti documenti quella che è la propria posizione, come abbiamo visto fare nel documento del
Consiglio di Presidenza della Cei sui Dico, con una serie di citazioni di vari documenti della
Congregazione per la dottrina della fede, di encicliche, di altri documenti.
Davanti a tutto questo verrebbe veramente da dire, con le parole del protagonista del film di
Ermanno Olmi che “c’è più verità in una carezza che non in tutti questi documenti che sono stati
citati”.
Edoardo Tortarolo
Docente di Storia Moderna all'Università del Piemonte Orientale di Vercelli
In un film famoso, ad un certo punto, Nanni Moretti dice che, chi ragiona male parla male o
viceversa, cioè che, l’uso delle parole, deve essere accurato e un uso scorretto, sviante delle
parole, indica una concezione della vita, del nostro passato altrettanto sbagliata. Faccio mia
questa osservazione che mi sembra di evidenza assoluta e mi ricollego a quello che è stato detto
prima a proposito di laico, laicismo, laicità. Perché, osservando la discussione italiana, non solo di
ieri o di oggi, c’è un’evidente eccedenza di presenza del termine laico in tutti i suoi derivati. È
certamente corretto quello che Colajanni sosteneva prima, cioè dell’esigenza di usare la parola,
ma credo che un contributo che si può dare, che deve essere dato ad una prospettiva storica su
tutta questa discussione, è proprio cercare di capire perché c’è questa onnipresenza della laicità:
tutti sono laici, alcuni buoni, altri cattivi, tutti devono essere più laici, chiediamoci che cosa vuol dire
tutto questo, sia nel contesto italiano, sia nel paragone con altri stati europei. Io confesso la mia
diffidenza, per non dire antipatia nei confronti di tutti i derivati di laico nella varie derivazioni.
Perché laico è innanzitutto un termine che viene dal vocabolario della Chiesa e cioè un termine
che comporta una appartenenza al sistema organizzativo ecclesiastico. I laici sono
sostanzialmente, all’origine quanto meno, i fedeli che non hanno ricevuto gli ordini. Laico è
Formigoni, laico è Andreotti, così come siamo laici tutti noi. Quindi, la mia prima obiezione al
termine laico è che, alla sua origine, ha una scarsa capacità di definire l’atteggiamento vero,
pratico, quotidiano, di differenziazione tra ambito ecclesiastico e ambito civile nei confronti delle
questioni che sono eminentemente pubbliche.
Seconda obiezione è che il termine è entrato nella discussione politica delle riviste, dei libri di
storia, come termine sostanzialmente peggiorativo. In particolare laicismo. Laicismo, che è una
parola tutta italiana, che esiste solo nel vocabolario di italiano, laicisme è quasi assente nella
discussione francese e non mi risulta che ci sia nelle altre lingue europee. E’ venuto fuori nel corso
degli anni ’70, quando il mondo cattolico italiano ha cercato una parola per indicare i nemici. Allora
i nemici sono diventati appunto i laicisti e il laicismo, questo fino agli anni ’60, è stato un termine
usato nelle dichiarazioni pubbliche del papato per indicare i laici cattivi, “laicisti- si ripete più e più
volte dalla fine dell’Ottocento sino agli anni ’60 – sono coloro i quali credono di poter fare a meno
dell’insegnamento della Chiesa nella discussione, nella determinazione di questioni morali, etiche,
civili,” che invece ,-sempre secondo i documenti ufficiali- devono essere decisioni prese alla luce
dell’insegnamento della Chiesa.
Quindi, tutta questa discussione su laici buoni e laici cattivi, laicità contro laicismo, laicisti eccetera,
pone un problema di vocabolario.
È assolutamente corretto sostenere il fatto che i termini alternativi sono talmente carichi, nella
discussione italiana, di connotazioni negative da rendere molto difficile una sostituzione. È difficile
pensare che si possa parlare di uno stato ateo, che sarebbe un’opzione per sostituire l’idea di uno
stato laico, che appunto, secondo me continua a mantenere una forte sfumatura confessionale, ed
è altrettanto difficile pensare che si possa far passare nella discussione pubblica l’idea di uno stato
agnostico o non interventista o post secolare, e forse sarebbero termini più adatti.
Di qui si può passare ad un secondo punto, collegato a questo problema di vocabolario, di
inflessioni che sono connaturate all’uso di certe parole. E cioè, chiedersi perché, in Italia, anno
2007, il tema della laicità dello Stato, qualunque significato si voglia dare a questa coppia di
sostantivo e aggettivo, sia ancora un tema così discusso. Se è discusso, è evidente che questo
costituisce ancora un problema molto forte. Costituisce, evidentemente, un problema discutibile, è
al centro di discussioni parlamentari e direi soprattutto di discussione pubblica nei giornali,
costituendo questo in qualche modo un’ironia, una situazione che non può mancare di suscitare
qualche meraviglia. Perché lo Stato, l’Italia come paese che conosciamo noi, in cui viviamo, in cui
ci muoviamo, è un Paese in cui tutti gli indici sociologici, comportamentali, indicano una
secolarizzazione molto avanzata.
I comportamenti sono molto distanti dall’immagine di un Paese a maggioranza cattolica, e alla fine
tornerò su alcuni di questi indicatori sulle tre fasi fondamentali della vita: la nascita,la riproduzione
cioè il matrimonio e la morte. Tutti questi tre indicatori sono molto concordi nell’indicare un Paese
che è molto più secolarizzato, molto più agnostico se volete, per non dire che è decisamente ateo,
di quanto la discussione pubblica ci porti a pensare. Il problema è costituito, naturalmente, dalla
presenza storica, sostanzialmente dalle origini della storia d’Italia, anzi in qualche modo anche
molto prima, di un’istituzione ecclesiastica molto forte, in cui la commistione tra potere religioso e
potere civile e secolare è stata sin dall’inizio molto stretta e che crea una situazione per cui c’è
difficoltà da entrambe le parti, dalla parte statale e dalla parte ecclesiastica, dalla parte civile e
dalla parte religiosa a vedere, in tutta la sua lunghezza il trend di sviluppo.
Il trend di sviluppo credo comporti una crescente separazione tra le due entità e un adattamento di
cui abbiamo sentito prima tutte le difficoltà e tutti i campi su cui questo adattamento si pone come
un problema. Che cosa si può dire di questo trend? L’osservazione, forse per una deformazione
professionale, che faccio è la difficoltà, nella discussione italiana e per discussione italiana intendo
soprattutto i giornali, i quotidiani, nonché le trasmissioni televisive, di mettersi in una prospettiva
storica che dia valore agli elementi di trasformazione degli ultimi, diciamo almeno due secoli.
Aveva ragione Colajanni a dire che. tutta questa questione inizia ad essere vitale, a parlare alle
persone, ai gruppi dirigenti, ai ceti più o meno educati a partire dalla fine del Settecento, quando
c’è un discorso pubblico sulla secolarizzazione, che più o meno facilmente penetra. In realtà, nella
discussione attuale, si tende a schiacciare fenomeni che sono di periodo, se non lungo, almeno
medio - lungo, in un’idea di immobilità.
Per cui, si scelgono dei momenti, del tutto ideologici, li si proclama momenti naturali, momenti
originari, momenti di fondazione dell’identità e li si identifica anche un po’ come punti di arrivo,
come obiettivo a cui si deve arrivare. Di qui tutta l’idea dell’Italia come paese cattolico e anche di
proiettare sulle funzioni dello Stato nel campo della laicità, della secolarizzazione istituzionale,
un’immagine di rapporti tra Stato e Chiesa che è sostanzialmente modellata sulla vicenda
ottocentesca, sulla vicenda risorgimentale di costruzione dello Stato italiano, che diventa quindi
una sorta di punto di riferimento. Allora, quelli che stanno dalla parte della secolarizzazione dello
stato, i laici o laicisti o comunque li si voglia chiamare che affrontano questo tema, di solito
tendono a guardare come un esempio alla vicenda ottocentesca, del Risorgimento e perdono di
vista molte novità che si sono verificate nel frattempo, alcune delle quali sono state ricordate
prima, quindi tutte le opzioni di multiculturalismo e le opzioni in cui i confini tra convinzione
religiosa e comportamenti pubblici possono venire a collisione su una quantità di questioni, dalla
bioetica sino alle nuove forme di convivenza.
Il terzo punto quindi è questa centralità, per non dire ossessione risorgimentalista, di cui siamo un
po’ tutti prigionieri. È naturale che i problemi, dal punto di vista storico dei rapporti tra Stato e
Chiesa, sono nati in quel momento e che le modalità con cui sono stati affrontati, se non proprio
risolti questi problemi derivano dalla specifica strada che l’Italia ha preso per farsi Stato. Molti dei
problemi, a incominciare naturalmente dall’ 8 per mille a cui si accennava prima, sono nati dal
modo in cui l’Italia è diventata uno stato unitario; l’Italia è diventata uno Stato unitario e quindi ha
dovuto affrontare il problema dei rapporti con i poteri religiosi molto tardi rispetto agli altri paesi
europei. Molto tardi intendo diversi secoli, mancando, né per merito né per demerito, ma perché le
cose sono andate così, di affrontare ad uno stadio storicamente precedente il problema di una
pluralità confessionale. Nell’Ottocento lo Stato si è creato in un Paese che non aveva avuto una
Riforma protestante, i tentativi furono modesti e rapidissimamente con successo repressi, l’Italia
affronta la costruzione dello Stato nazionale senza avere un’esperienza di tipo rivoluzionario come
è stato per la Francia, per cui si creano degli squilibri evidenti nel rapporto tra Stato e Chiesa.
Manca completamente un’esperienza di convivenza tra confessioni e orientamenti diversi dal
punto di vista religioso e dal punto di vista morale.
La Francia, che è stata ricordata giustamente prima come uno dei modelli di trattamento dei
rapporti tra Stato e Chiesa, passò attraverso una rivoluzione, di cui gli echi italiani furono
estremamente pallidi, estremamente limitati e nessuna di queste vicende, dalla Repubblica
Partenopea al dominio napoleonico in Italia settentrionale, creò delle basi per una convivenza su
pari fondamenti, su pari dignità tra istituzioni civili e istituzioni ecclesiastiche. Quando il problema,
alla metà dell’Ottocento, dell’unità d’Italia si pone, si pone in termini estremamente radicali, nel
senso che la costruzione di uno stato unitario, largamente sentita dai ceti colti di buona parte
dell’Italia, poteva essere affrontata soltanto attraverso una emarginazione della Chiesa cattolica in
quanto potere temporale. I tentativi che ci furono e che hanno avuto poi dei momenti di revival un
po’ nostalgico anche in tempi recenti di neo guelfismo, di cercare cioè di combinare costruzione
dello Stato e guida papale fallirono naturalmente e quello che di fatto successe fu che l’unità
nazionale fu conquistata togliendo allo Stato della Chiesa il suo dominio territoriale, cosa che è
rimasta come vulnus profondo per molti e molti decenni, e creando degli squilibri all’interno anche
dei ceti colti italiani, divisi tra l’appartenenza, in qualche caso estremamente sincera,
estremamente compiuta, all’obbedienza cattolica e contemporaneamente, anche sostenitori di
questa forma di modernizzazione della vita nazionale. Il vettore istituzionale di tutto questo fu una
curiosa istituzione, una monarchia parlamentare che sviluppò tra gli anni ’50 e il ’60-61 una distinta
ideologia anticlericale, attraverso provvedimenti che fecero di tutto per trasformare il movimento di
unità nazionale in un movimento, se non anticattolico, quanto meno non cattolico e fu allora,
appunto, in questo che è stato anche mitizzato come decennio di preparazione che si iniziò ad
intervenire legislativamente su alcune delle questioni più spinose nel rapporto tra Stato e Chiesa,
in particolare, naturalmente, sul settore dell’istruzione.
La legge Coppino, dell’ottobre del 1848 è la prima ad iniziare prudentemente a riorganizzare il
settore dell’istruzione elementare, dichiarando però, evidentemente c’era necessità di dichiararlo,
che l’istruzione nelle scuole pubbliche è materia di tipo civile e non ecclesiastico. E da lì inizia un
lungo processo che non ha la nettezza e la chiarezza dei provvedimenti legislativi, ma ha tutte le
ambiguità, i compromessi, le difficoltà della realizzazione istituzionale che porta, nel caso
dell’istruzione, che è ovviamente uno dei temi perno di tutta questa discussione, ad avere uno
Stato bizzarramente diviso tra una retorica fortemente anticlericale nazional - statalista ed una
pratica molto più accomodante, per forza di cose, nei confronti dell’educazione religiosa e della
presenza dell’insegnamento della religione: Si abolirono, nel 1873 le facoltà di teologia con l’idea di
togliere alla Chiesa una sede di formazione dell’alto clero, cosa che fu probabilmente un errore,
dettato da una qualche cecità o mancanza di prospettiva lunga, ma d’altro canto, lo Stato che non
voleva essere teologo, finì per essere catechista, perché, l’insegnamento della religione cristiana,
come abbiamo appena sentito, è durato a lungo e anche le diverse leggi di riordino della scuola
elementare non abolirono l’insegnamento della religione, della religione sotto forma di catechismo,
cercarono di canalizzarlo, di trasformarlo in una sorta di paternalismo rispettoso delle gerarchie
sociali, sotto l’ombra, della sanzione religiosa. E tutto il problema dell’insegnamento della religione
è rimasto come un problema aperto. Un secondo punto su cui si vide questo paradosso di uno
stato monarchico che realizza l’unità contro la Chiesa e con modalità che le erano poco consone, è
tutta la questione dell’esercizio dei diritti politici. In Italia, molto in ritardo rispetto alle altre nazioni
europee, alla Francia e perfino all’Inghilterra, che fu molto lenta in tutto questo, sono le costituzioni
del ’48 a riconoscere appunto a Valdesi ed Ebrei l’esercizio dei diritti politici, creando situazioni
molto diverse. La creazione di questa retorica anticattolica, anticlericale, attraverso le istituzioni
dello Stato nazionale è però in gran parte una sorta di distorsione ottica. Un effetto di distorsione
ottica che fa parte della retorica storiografica italiana e che difficilmente viene corroborata
dall’analisi della storia italiana anche dopo il 1870. Naturalmente non mancarono momenti di
scontro. La liquidazione dell’asse ecclesiastico fu un momento di contrasto molto forte, ma c’era
sotto le ceneri, e poi venne fuori, una convergenza naturale tra la classe politica liberale
socialmente conservatrice e la Chiesa cattolica. Per cui, già nel corso degli anni’80-’90, molto
prima del Patto Gentiloni che recupera alla vita pubblica, politica, i cattolici, una sorta di accordo
appunto tra liberali e conservatori e cattolici, esiste, attivo, si vede ad esempio nella blandissima
esecuzione delle leggi sull’interferenza tra potere civile e potere clericale. Le leggi sono
estremamente severe su tutto questo, ma di fatto, i tribunali e i magistrati sono in qualche modo
alla periferia e sono estremamente restii ad applicarle. Per cui, una discussione sui limiti reciproci
tra potere civile e potere secolare, diventa, a partire dagli ani ’80- ’90 dell’Ottocento, un patrimonio
riservato di alcuni gruppi estremamente presenti nella vita pubblica. Naturalmente, tutto il
movimento socialista di ispirazione positivista fa appunto della laicità dello Stato, uno dei punti
fondamentali, assieme a settori ampi di borghesia e di piccola borghesia che danno vita ad un
movimento che si connota essenzialmente come anticlericalismo e contenimento del potere della
Chiesa nelle vicende civili. Il Novecento è storia troppo recente, riprendo poi brevemente in sede di
conclusione che cosa è successo.
Detto questo, il bilancio che si può trarre della vicenda ottocentesca, a cui appunto si possono
attribuire dei caratteri esemplari, può facilmente essere considerato un bilancio deficitario. Credo
che non sia così se guardiamo alcuni punti.
Il cammino fatto dall’Italia nel corso dell’Ottocento, sul tema della separazione dell’ambito tra
potere civile e potere ecclesiastico è stato apprezzabile. Non ha risolto tutti i problemi, che infatti
sono ancora qui con noi, ma certamente fu compiuto uno sforzo in questo senso. Innanzitutto la
costruzione di un sistema di istruzione, dai livelli di scuola elementare sino all’università, sotto
forma di istruzione pubblica e statale è stata una realizzazione titanica considerando il punto di
partenza. Lo Stato non volle essere teologo, ma fu catechista, ma fu comunque uno Stato che creò
un ceto professionale di insegnanti che non erano insegnanti così educati al senso della laicità
come nel caso francese. La Francia inventa un ceto di insegnanti che sono i profeti dello Stato
laico tra Otto e Novecento, come non succede in Italia, ma gli insegnanti, attraverso tutti i vari gradi
di istruzione, sono stati, da un punto di vista sociologico, certamente dei sostenitori della funzione
pubblica e laica dello Stato. Certamente lo Stato italiano, attraverso i sistemi di istruzione, compì
una straordinaria diffusione di modelli di interpretazione scientifica della vita della natura e della
vita sociale.
La diffusione dell’Evoluzionismo positivista è stata una grande stagione della vita culturale italiana
e sono cambiate meno di quello che i suoi promotori avrebbero voluto alcune delle istituzioni
fondamentali della convivenza. Si fecero dei tentativi già nel corso degli anni ’70 dell’Ottocento di
introdurre il divorzio ad esempio. Questi tentativi, come è noto, non ebbero successo, ma si
crearono, ad esempio, le fondamenta legislative per permettere, tra Otto e Novecento, una vasta
opera di mecenatismo di tipo laico socialista ebreo, fondato da istituzioni ebraiche per creare delle
forme di assistenza reciproca, di mutuo soccorso che rappresentarono un’evidente alternativa alla
rete di assistenza della Chiesa cattolica che naturalmente continuò ad essere estremamente
fiorente. Si tentò, ad esempio, di affrontare il problema del giuramento, che è un momento
simbolico fondamentale della vita pubblica. Con esiti sino agli anni ’70 del Novecento, ma si pose il
problema. Io credo che questa complicata e poco chiara storia delle opinioni secolari, delle opinioni
laiche in Italia nel corso dell’Ottocento, sia stata la piattaforma per il successo degli anni ’60 e ’70
sui due punti che in parte erano un’eredità non risolta dello Stato unitario, in parte presentavano un
problema nuovo. E cioè il divorzio, che rappresentò un compimento di discussioni ottocentesche e
la legislazione sull’aborto. Da questo punto di vista, il Novecento ha rappresentato, se noi lo
guardiamo da un punto di vista complessivo, di storia di un secolo, cosa ovviamente molto difficile
da fare, un secolo di trasformazione nascosta, soprattutto, ovviamente a partire dagli anni ’50, dal
dopoguerra. I tre indicatori cui accennavo prima credo indichino il fatto che la società italiana ha
proseguito sullo slancio ottocentesco, ha cambiato le sue modalità di convivenza molto più di
quanto l’impalcatura legislativa sia stata in grado di adeguarvisi, a parte i due esempi che citavo
prima.
Nel caso del primo dei momenti fondamentali, cioè la nostra nascita, il trend di nascite indica due
cose: indica un decremento di natalità, che è un evidente allontanamento dal principio del
“crescete e moltiplicatevi” e dalla polemica contro gli anticoncezionali a cui la Chiesa cattolica si è,
dal suo punto di vista, correttamente mantenuta fedele sino ad oggi e quindi la diminuzione, il
decremento demografico è un evidente segno di secolarizzazione, se volete di laicizzazione della
vita nazionale, così come la crescente percentuale di neonati fuori dal matrimonio. Il dato che ho
trovato per il 2006 è quasi del 10 per cento, che è una percentuale, tutto sommato, non indifferente
di popolazione italiana che decide di avere bambini al di fuori del matrimonio. Così come sono in
crescita costante i numeri dei neonati non battezzati, su cui è difficile avere dei dati. Il sito che
Colajanni giustamente ricordava prima dell’Uaar, che è questa molto combattiva e militante
associazione atea, porta un saggio che analizza i criteri di statistica delle parrocchie italiane, con il
risultato non so quanto condivisibile, che queste statistiche sono totalmente fittizie e inaffidabili e
che, in realtà, le modalità di registrazione dei battesimi sopravvalutano il numero dei battesimi, ma
non ho fatto nessun genere di analisi su tutto questo. Quindi, dal punto di vista della nascita, credo
l’Italia sia un Paese assolutamente secolarizzato come gli altri paesi europei. Secondo indicatore,
quello in qualche modo a metà della vita, anzi tende a superare la metà della vita, ed è il
matrimonio. Non soltanto i Dico sono già praticati in gran parte in Italia, senza ovviamente
sanzione legislativa, ma la percentuale di matrimoni civili si sta avvicinando al 50 per cento nella
media nazionale. È ancora abbastanza sotto, siamo attorno al 30 per cento, ma il trend indica che
ci si avvia alla parità in tempi abbastanza rapidi e ci sono importanti realtà locali, a volte anche un
po’ sorprendenti, in cui, la stragrande maggioranza dei matrimoni è civile e non più religiosa. A
Bolzano, con mia sorpresa, il 74 per cento dei matrimoni sono civili, Siena e Firenze, questo è
meno sorprendente, 67 per cento, cosa dovuta, come è facile immaginare, non tanto ad una scelta
consapevole di ricerca di un legame non religioso, ma dal fatto che si risposano i divorziati che
possono farlo, ovviamente, soltanto in forma civile, ma questo credo indichi a maggior ragione la
secolarizzazione dei comportamenti. Il terzo, inevitabile momento nella vita di tutti noi, la morte. Le
statistiche sulla cremazione indicano anche in questo caso un trend in ascesa, in qualche caso
assolutamente straordinario. La cremazione non è più condannata dalla Chiesa dal 1961, con
alcune clausole: che il rito non comporti un’evidente simbologia antireligiosa, ed ha una sanzione
legislativa. In Italia, spero di non sbagliare, a differenza ad esempio della Germania, non è
possibile essere cremati con la disposizione che le ceneri siano o disperse o in qualche modo
disperse nella terra. In Germania, una parte di tutti i cimiteri è rappresentata da un prato in cui,
senza lapide, le ceneri dei cremati vengono trasformate nella loro vera natura, cioè tornare ad
essere terra ed erba. In Italia la cremazione comporta comunque una permanenza di identità, una
conservazione che ha un evidente riferimento religioso alla resurrezione dei morti alla fine dei
tempi. Perché tutto questo?
Vi lascio con una tesi da storico, in un qualche modo spericolata. Per questa spericolatezza vi
chiedo scusa. Credo che i problemi che si stanno manifestando, con cui noi abbiamo a che fare
derivino dalla scarsa e breve esperienza di pluriconfessionalità, che è tipica delle storia italiana.
Questo ha portato, a differenza di altri paesi, ma similmente alla Spagna che veniva ricordata
prima, ad una esperienza limitata di pluriconfessionalità, non all’interno dello spettro delle
confessioni cristiane, che è tipico degli altri Paesi europei, ma ad una difficile e ostile, a volte sorda
convivenza tra quelli che vengono impropriamente definiti credenti e non credenti, tra atei e
cattolici.
Credo che questo sia stato il problema storico che si pone all’Italia, credo che ora il problema si sia
trasformato, abbia avuto una sorta di metamorfosi, che è di fronte a noi, ed è il fatto che noi siamo
di fronte a problemi posti dalla pluriconfessionalità, che non è una pluriconfessionalità binaria: atei
e cattolici, ma è atei, cattolici e tutte le confessioni che in parte sono state riconosciute attraverso
le intese cui si accennava prima e che in parte stanno crescendo tra di noi come fatti sociali. Gli
scontri di Milano della polizia con i cinesi ci hanno rivelato il fatto che a Milano ci sono 15 mila
cinesi che, a Milano vivono tutti nello stesso quartiere, cosa di cui io ignoravo l’esistenza almeno in
quelle modalità. I cinesi, da un punto di vista religioso sono, beati loro, estremamente poco
combattivi. Il buddismo è, di fatto, una religione atea, civile, ma certamente, come è successo ieri,
ci saranno sempre di più situazioni in cui le forme di convivenza scontano difficoltà sociali su cui,
inevitabilmente si inseriranno motivazioni religiose e forme di identità e di identificazione e credo
che, dal punto di vista storico, il problema si ponga adesso, nella prospettiva del passaggio da un
paese monoconfessionale, a un Paese biconfessionale, a un Paese pluriconfessionale, che è un
tragitto non dico unico, ma certamente raro e che meriterà, ovviamente, tutta l’attenzione dei
legislatori e naturalmente di chi agisce nel sociale.Vi ringrazio
Maria Gigliola Toniollo
Responsabile nazionale del Dipartimento Nuovi Diritti CGIL
Il professor Tortarolo mi da la possibilità di vantare un’operazione che il nostro dipartimento sta
conducendo da tre anni, assieme agli amici di Critica Liberale e cioè lo studio di un indice unico di
secolarizzazione, che viene poi calcolato dall’Istituto di Statistica della Sapienza, e ho riscontrato
nella sua relazione molti punti che hanno dato ragione anche alle nostre ricerche. Noi ci muoviamo
soltanto su dati certi, cioè dell’Istat oppure dell’Annuarium Ecclesiae, non su interviste, opinioni
eccetera. A giorni dovrebbe uscire il terzo fascicolo, nel primo fascicolo abbiamo avuto una forte
impennata della cosiddetta secolarizzazione, ovverosia del distacco delle persone dalla ritualità:
meno matrimoni in chiesa, meno comunioni, meno cresime. Poi c’è stata una leggera flessione
nella seconda ricerca, che andava a combinarsi con l’anno del Giubileo, con gli anni connessi
comunque al Giubileo e adesso, di nuovo, siamo andati molto avanti.
Riguardo i matrimoni c’è un esempio romano che noi facciamo sempre. Quando il sindaco di
Roma mise a disposizione una sede elegante e rappresentativa per i matrimoni civili, ci fu un crollo
dei matrimoni religiosi e questo la dice lunga sulla profondità della fede e del modo di credere di
molte persone e anche sull’importanza di un’operazione che ci riporti alla verità..
Ora apriamo il dibattito.
Marina Mengarelli
Professore Associato di Sociologia della Comunicazione all'Università Carlo Bo di Urbino
Intervengo a nome dell’Associazione per la Rosa nel Pugno. Noi siamo, intendo dire
l’Associazione, un’esperienza particolare. Con Gigliola ci siamo conosciute durante la campagna
referendaria post Legge 40. La mia adesione all’Associazione e al progetto della Rosa nel Pugno è
nata in quel periodo. Sono una persona che non ha mai fatto politica, lo ripeto sempre questo, in
tutte le occasioni, perché, secondo me, questo può essere utile non tanto per dire quello che
penso io, che non mi sembra fondamentale, ma perché penso possa essere un punto di
riferimento per gli altri, per tante altre persone come me che forse che si sono trovate
improvvisamente a rendersi conto che c’erano delle cose, che magari fino a quel momento non
erano state prese in considerazione e che invece avevano bisogno di essere prese in mano. Io, tra
l’altro, sono una sociologa, quindi mi occupo di questioni collegate con l’informazione e la
comunicazione scientifica in particolare, quindi i rapporti scienza e sociale sono una questione che
mi interessa, non solo personalmente, ma anche professionalmente
Era ora, finalmente che si riparlasse di laicità dello Stato. Il tema della laicità dello Stato, vorrei
però ricordarlo, torna sul tavolo del dibattito collettivo, non per opera o per merito della politica, del
sistema politico nel suo senso più generale, a parte alcune eccezioni. Questo ritorno sulla scena
del dibattito pubblico della questione della laicità dello Stato l’hanno voluta i cittadini, l’ hanno
sollecitata dal basso le domande di soluzione e di regolazione di alcune questioni che sono nate
dal basso.Questioni che hanno un comune denominatore, cioè la scienza, l’innovazione
tecnologica e scientifica e i problemi che la scienza ci ha messo sul tavolo, che sono infiniti e che
io, negli ultimi vent’anni, vedevo tutti i giorni, sempre più importanti, sempre meno presi in carico
dal sistema della politica, ripeto, salvo qualche assolutamente meritoria eccezione, soprattutto
alcune, molte donne nelle varie legislature che si sono succedute.
Però io vedevo, dal mio punto di osservazione, una serie infinita di argomenti, che vanno dalla
Legge 40, alla questione della fine della vita, alla questione della ricerca scientifica in generale,
che si sarebbero presto o tardi tradotti in nuovi problemi e che avrebbero chiesto di essere presi in
carico.
Nuovi diritti. Voi vi occupate da un bel numero di anni di questa questione. La questione dei nuovi
diritti, però, porta con sé, dato che in campo sociale non esiste mai uno spazio vuoto, che questi
supposti nuovi diritti o proposti nuovi diritti si vadano a scontrare automaticamente con territori
confinanti, diritti confinanti, interessi confinanti, rappresentazioni sociali in contrasto.
Ci sono inevitabilmente, nell’emergere di nuovi diritti, conflitti nascenti e crescenti. Un esempio
solo di questo corto circuito con grandi conseguenze potenziali. La questione della ricerca
scientifica legata alla salute, all’informazione e al piano dell’individuo, quindi l’autonomia e
l’autodeterminazione e lo sviluppo di questo genere di prospettive che oggi sono sempre più
presenti nella nostra società. Quindi territori confinanti tra diritti con sovrapposizioni di problemi.
Anche perché, gli strumenti, le strategie, gli obiettivi, non coincidono, anzi si possono danneggiare
reciprocamente.
Faccio un brevissimo esempio: appena si prende in carico, si ipotizza, anche solo semplicemente
in via teorica, che si possa ragionare sull’informazione che riguarda la salute delle persone, la
questione della libertà di informazione va a scontrarsi direttamente ed automaticamente con una
vocazione di “messa in ordine” della comunicazione scientifica. Andiamo subito a scontrarci con la
libertà d’espressione. Allora, io non ho nessun tipo di ricetta, ma dico che questo è un problema
che esiste se pensiamo che esista una responsabilità sociale collettiva rispetto a queste questioni.
E naturalmente, il fatto che esista o non esista, dipende dal nostro sguardo, da ciò che noi
consideriamo le nostre priorità in un contesto sociale. Quanto è importante, per esempio, il
cammino che un cittadino deve intraprendere verso l’esercizio della sua autonomia e l’assunzione
della sua responsabilità. Se questa è una delle priorità, noi, per questa priorità ci impegniamo e
facciamo delle cose, mettiamo in campo delle risorse, se questa non è una priorità, o ci sono altre
priorità che sono più forti, le scelte saranno diverse. Poi ci sono alcune variabili critiche che
perturbano tutto il campo e che mettono continuamente in crisi anche il sistema delle relazioni tra
portatori di diritti, conoscenze, per dirla in termini sociologici, e gli attori sociali, i sottosistemi
funzionali e quel che ne segue. I fattori sono: la velocità con la quale si produce continuamente
nuova conoscenza scientifica e l’ampiezza della rete delle comunicazioni attraverso la quale le
conoscenze scientifiche si diffondono. Cioè oggi la conoscenza è immediata, trasformata su un
livello planetario in tempi brevissimi, i sassi nello stagno sono sempre più veloci, sempre più vicini,
le conseguenze che generano nello stagno sono sempre più una dentro l’altra, la possibilità di
accesso di ciascuno di noi alla conoscenza e alla comprensione è sempre più limitata. Quindi, dal
mio punto di vista, il problema in fondo è sempre lo stesso, quello della difficile elaborazione
culturale dell’innovazione tecnica-scientifica.
C’è sempre stato un problema di questo genere, è un problema di impatto sociale del nuovo,
dell’innovazione, della tecnica e della scienza. Solo che oggi la tecnica e la scienza sono diverse,
gli strumenti che hanno a disposizione sono diversi, sono più pervasivi, la possibilità che hanno di
coinvolgere un numero grandissimo di cittadini nello stesso istante, porta con sé delle
conseguenze, che naturalmente non ho il tempo qui di approfondire. Sono variabili di contesto
legate al momento storico nel quale viviamo che oggi sono diverse, di altro genere da quel che
erano nel passato. Certamente quindi si sta aprendo uno spazio di influenza e di responsabilità,
per tornare all’esempio che ho fatto cioè “informazione e scienza”, per le questioni che oggi si
chiamano scienza comunicata o comunicazione della scienza, una volta si chiamavano
divulgazione scientifica. Un tema molto poco praticato, questo, che invece propone a mio avviso
riflessioni e anche possibili azioni per la responsabilità sociale, e un campo per il quale mi sembra
perfino pleonastico dire che sia necessario, opportuno, appropriato, utile uno sguardo sociale di
tipo laico.
Solo un’annotazione sulla questione della laicità. Sono partita dicendo: meno male che torniamo a
parlare della laicità dello Stato, però attenzione a come ne parliamo. Perché, il rischio che io vedo,
credo che tutti noi già lo vediamo è che qui, la laicità la stiamo tutti aggettivando, è già diventata
una cosa intorno alla quale non siamo d’accordo neanche sul piano della nominazione; non ci
bastano più le parole, perché stiamo già, ciascuno di noi, specificando in modo diverso le cose di
cui parliamo e questa è una situazione di difficile soluzione.. Non è così semplice mettere ordine
proprio alla luce delle due variabili di cui dicevo prima, la velocità e un contesto comunicativo così
allargato e pervasivo. Però questo, secondo me è un problema. Quello del linguaggio, quello del
come usare le parole. E quindi, la questione di che cosa significa laicità, quali sono i contenuti,
anche perché, se è vero che esiste una distanza crescente dei cittadini dalla politica, e se è vero
(oggi leggevo su questo l’ennesimo articolo) che non conta più destra e sinistra, contano i
contenuti, non i contenitori, c’è la crisi del sistema politico e così via, allora è importante che cosa
vogliono dire le parole, che cosa vuol dire laicità, cosa c’è dentro, perché siamo diventati tutti laici,
però c’è una laicità sana, una laicità buona e una che, evidentemente di conseguenza è malata o
non è più degna di essere accolta. Quindi, l’uso dei termini.
Mi ricordo con sofferenza la campagna sulla legge 40, nella quale, secondo me, ci sono stati molti
errori anche di linguaggio, quindi cerchiamo di far capire fuori dalle stanze di coloro che di questi
argomenti si occupano, per interesse, per voglia, per una serie di vocazioni professionali e
personali, a che cosa alludiamo quando vogliamo rimettere in campo la questione della laicità dello
Stato. Perché se è vero, che la laicità interessa solo, sembra, l’uno per cento dell’elettorato
italiano, cioè è un tema molto poco appetibile, però allora chiamiamola in un modo diverso,
alludiamo a quello che c’è intorno. Cosa c’è intorno? Diritti civili, libertà individuali, la salute, la
cura, la ricerca scientifica. La laicità, in questo caso, diventa una sorta di parola chiave per alludere
a una serie di altri temi. Io credo che dovremo cercare di lavorare anche su questo piano, per far
penetrare l’idea che la laicità è una sorta di parola chiave. Quando entri su Google e cerchi
qualcosa, laicità, dopo ti si devono aprire delle scatole. Queste scatole, secondo me, noi
dovremmo occuparci anche, non solo di elaborarle culturalmente, ma di farle aprire nelle teste
delle persone, quando ne parliamo.
Giuseppe Bortone
Cgil Nazionale
Intervengo volentieri in questo dibattito soprattutto in relazione alla esposizione del professor
Tortarolo e a un episodio della sua vita personale che io credo utilmente Morena Piccinini, ha
voluto esporci qualche giorno fa sull’Unità. Questo episodio abbastanza drammatico della sua vita
personale, io lo accenno appena. Riguarda uno dei momenti chiave della vita umana di ciascuno di
noi, la nascita e anche un altro, per dire la verità, il matrimonio. Cioè la sua propria nascita, di
Morena Piccinini e il matrimonio dei suoi genitori. In sintesi, Morena nasce vicino a Modena, in un
posto dove la lotta di classe e la battaglia politica e culturale sui temi che abbiamo toccato è
sempre stata molto forte. Nasce nel corso degli anni ’50. I genitori si sposano solo in Comune. Il
padre parte militare e gli viene rifiutata la licenza che a tutti veniva invece consentita, per andare a
trovare la figlia che nasce mentre lui fa il militare. Quindi lui non la può vedere, se non poi con un
artificio abbastanza pesante, cioè facendosi operare di appendicite pur non avendo in realtà
l’appendicite, cioè una cosa abbastanza crudele. Questo ci richiama ad un intreccio, che io qui
vorrei brevemente sottolineare, fra quello che è, in quella parte di lotta di classe, particolarmente
acuta del nostro Paese, la battaglia culturale e religiosa sui temi della laicità e, come si dice oggi,
dei valori. In una sede sindacale è bene, secondo me che noi questo intreccio ce lo ricordiamo.
Morena, di fatto ce l’ha ricordato con questo articolo uscito sull’Unità circa una settimana fa.
Abbiamo un caso in cui tutte queste cose si intrecciano, matrimonio, nascita, movimento sindacale
e scontro sui valori. Tortarolo ha detto una cosa molto importante, che fra gli intellettuali italiani e
anche fra i cittadini è sempre discussa e ridiscussa: noi siamo così come siamo, cioè oggi piuttosto
malmessi, perché non abbiamo avuto i grandi movimenti popolari anticlericali che sono stati altrove
la Riforma protestante e la Rivoluzione Francese. Tutto questo è innegabile. Io però vorrei dire che
l’episodio della vita di Morena ci richiama a un movimento di massa, di popolo, anticlericale e
laicista che nel nostro Paese c’è stato. E c’è stato, guarda caso, in corrispondenza della nascita
del movimento sindacale italiano. Questo non possiamo nascondercelo. Quando si dice,
l’Evoluzionismo positivista dell’Ottocento, ateo, anticlericale e laicista, Tortarolo l’ha accennato è
bene ripetere che questo confluisce poi, all’inizio del secolo scorso, del Novecento, in un
potentissimo movimento di base e di popolo, il movimento socialista e sindacale, particolarmente
forte proprio, nella bassa padana, il movimento bracciantile, le leghe, le camere del lavoro di quelle
regioni, di una parte dell’Emilia, di una parte della Lombardia. Ed è un movimento, nello stesso
tempo laicista, anticlericale, in forme anche violente, peraltro, va detto, sempre pacifiche, è un
movimento di classe che, io azzardo qui, mi sembra si possa dire, dà per la prima volta un
fondamento popolare e di massa alla democrazia italiana. Tortarolo giustamente diceva, come si
dice sempre in sede storiografiche, che il Risorgimento che fonda lo Stato italiano è però un
movimento d’èlite, non di base, non di popolo, non di massa. E’ laicista, è laico in gran parte:
mazziniani, garibaldini, ma anche l’area di Cavour e della classe dirigente piemontese. È laico, ma
d’èlite. È per certi aspetti, il Risorgimento, come è stato detto, un movimento senza base popolare,
che invece la Riforma e la Rivoluzione francese ebbero. Ora, con qualche forzatura, io credo che,
per la democrazia italiana, una base popolare, in certa misura arriva , soprattutto nel centro nord
d’Italia, proprio col movimento sindacale e col movimento socialista fra loro intrecciati. Io penso
che noi non possiamo, come sindacato e come cultura laica e anche come sinistra italiana,
dimenticare questa tradizione e questo passaggio anche traumatico, né possiamo, e concludo,
dimenticarci che noi arriviamo alla Modena degli anni ’50, di cui ci ha parlato Morena Piccinini nel
suo articolo sull’Unità, perché quella grande esperienza di leghe bracciantili, di organizzazioni
sindacali, di amministrazioni socialiste, non è che scompare nel nulla così, perché i braccianti si
annoiano e i dirigenti socialisti tornano a casa e perché la chiesa cattolica italiana si conquista un
nuovo radicamento popolare. Si arriva da quel mondo a cui ho appena fatto riferimento, ai Patti
Lateranensi del ’29, in occasione dei quali, è bene ricordarlo, la Chiesa definisce Benito Mussolini
uomo della provvidenza e risalda quindi un’alleanza trasparente e solidissima fra regime fascista e
chiesa cattolica, si arriva a quei Patti Lateranensi del ’29 perché il mondo socialista, sindacale,
anticlericale, della Bassa padana, delle Camere del Lavoro, ma anche della Lombardia, del
Piemonte, della Toscana è stato distrutto violentemente da una vera e propria guerra civile, che
come sappiamo, dura grosso modo dal’20 al ’26 e vede quel mondo fisicamente demolito, non
dalla Chiesa cattolica, ma dalle squadre fasciste, dall’assassinio dei sindacalisti, dai roghi delle
camere del lavoro, dalla vera e propria guerra civile che devasta, in quegli anni, soprattutto quelle
regioni in cui ritroveremo il clima da guerra civile che appunto Morena descrive nel suo articolo
negli anni ’50, molti decenni successivi dopo la caduta del Fascismo. Io penso che tutta questa
storia ce la dobbiamo ricordare bene e per motivi che forse in questa sede, a questo punto non mi
sembra neanche necessario troppo che siano sottolineati.
Antonia Sani
Coordinatrice nazionale Associazione Nazione per la Scuola della Repubblica
Io volevo incentrare queste poche cose che dirò su una differenza-intreccio, intreccio-differenza tra
secolarizzazione e laicità. Cioè, la secolarizzazione, è innegabile, è un fatto che avviene. Avviene
per forza di cose, perché man mano che si affermano i diritti della persona, l’autonomia della
persona, è chiaro che avviene un processo di secolarizzazione, cioè un interesse per tutto quello
che riguarda la nostra vita terrena, cioè l’informazione, la ricerca scientifica,l’istruzione, i diritti a
sposarsi,ad avere figli e ad avere anche il proprio funerale legato a questa vita terrena. Questa
secolarizzazione, però non comporta, e lo abbiamo visto e lo sappiamo, è sotto gli occhi di tutti, un
accrescimento del livello di laicità in ognuno di noi.
Perché laicità significa molte altre cose. Laicità ha diversi sensi, diversi significati, ma soprattutto è
un fatto di consapevolezza, di riflessione critica su tutto ciò, e questo non è secolarizzazione.
Secolarizzazione possiamo dire che è la ricerca di risposte immediate a dei bisogni, a dei diritti che
sono stati nei secoli sottovalutati, di cui hanno goduto coloro che potevano permetterselo e non le
grandi masse , del resto ancora oggi è così in molte parti del mondo. La laicità invece, è una
riflessione che dovrebbe accompagnare questi processi. Questo ha molto a che fare con le
religioni, con la religiosità. Fino a che punto, l’affermazione di certi diritti che noi riteniamo
indiscutibili, indivisibili determina uno scontro con le religioni. Questo è un punto fondamentale.
L’intervento che mi ha preceduto metteva in evidenza le lotte bracciantili. Io sono di quelle parti,
perché vengo da Ferrara e ricordo benissimo, per esempio, quando, nell’immediato dopoguerra, ci
fu la scomunica nei confronti dei dirigenti comunisti e c’era sui confessionali scritto che chiunque
ricopriva cariche di un certo rilievo nel Partito Comunista non poteva accostarsi ai sacramenti. È
stato il ringraziamento per le mediazioni fatte da Togliatti. Ora, io ricordo che questo era
quantomeno un motivo di grande disappunto. I bambini di tanti comunisti facevano la prima
comunione, tenevano a fare la cresima e questi genitori erano i primi. L’ intervento del professor
Tortarolo parlava del laicismo alla fine dell’Ottocento. Ma quanti seguivano le regole del Sillabo tra
coloro anche che ritenevano di essere poi anticlericali? Quello che mi preoccupa un po’è che la
laicità, nel nostro Paese in particolare, è una forma bassa, di liberazione certamente della propria
individualità, ma di sudditanza a quella parte che è la parte peggiore delle religioni, che è la parte
più esteriore, legata ai riti di passaggio. Ecco, perché tanti funerali ancora religiosi in confronto
invece ai matrimoni e ai battesimi? Perché poche sono le sedi messe a disposizione per le morti.
Cioè, chi ha avuto un ruolo importante in un partito, in un sindacato, può avere, ad esempio una
camera ardente in un luogo dignitoso, chi invece non ha avuto un ruolo particolare, ma non
vorrebbe un funerale religioso, non ce l’ha. Magari si scende a compromessi: Si va in chiesa però
non si fa il rito. Molti sacerdoti oggi lo fanno, lasciano che vengano espresse delle memorie, dei
ricordi. Tutto questo però dimostra che c’è un attaccamento ai riti che è la parte che resta delle
religioni e che è una parte che ricorda le nostre radici, come i ricordi della nostra infanzia sono
legati a molti eventi del passato. Le religioni rischiano di essere questo ormai, un insieme di riti a
cui non ci si sente di rinunciare, poi viene però il momento in cui c’è uno scontro vero tra quella
che è una fede, che non si sa più se si ha o no, e quelle che sono invece le acquisizioni che la
nostra natura umana ha fatto in tutto questo tempo. E questo è un aspetto. Voglio dire ancora
un’altra cosa in riferimento alla relazione di Nicola Colajanni, con cui abbiamo fatto tante battaglie
negli anni precedenti. Mi ha fatto piacere sentire che Nicola ricordava la famosa sentenza 203
dell’89, che è stata frutto nostro, del nostro impegno di insegnanti e genitori che abbiamo
provocato quel ricorso sull’insegnamento della religione cattolica che ha dato poi luogo a quella
sentenza. L’uscita dalla scuola, però non era prevista in quella sentenza. È venuta poi in una
sentenza successiva, la sentenza numero 13 del ’91, che ha voluto significare che il colmo del non
obbligo che hanno coloro che non seguono l’insegnamento della religione cattolica è appunto
quello: si può perfino uscire dall’edificio scolastico, perché, in quel momento, la tua ora, alla quale
avresti diritto, perché è dentro l’orario, è occupata da un privilegio. Allora è qui il punto. Tutte le
cose sulla laicità dello Stato dette in teoria vanno bene, ma nella pratica, abbiamo avuto proprio
non il pluralismo religioso, ma il permanere di una materia, di un insegnamento confessionale
facoltativo nell’orario scolastico di tutti. Ora, il fatto che ci siano tutte queste altre attività che
vengono fatte, a tampone di un privilegio che non deve essere messo in discussione, è un fatto
gravissimo, è tutt’altro che il pluralismo che la laicità dovrebbe comportare, è proprio il prevalere
forte, pesante, di una religione con i suoi privilegi, che si impone nella scuola. Si impone con ben
25 mila immissioni in ruolo di insegnanti per religione cattolica. E’ una cosa gravissima che sia
avvenuto questo nel nostro Parlamento, con una legge secondo cui poi queste persone restano
nei ruoli dello Stato anche se l’ordinario diocesano, cioè l’autorità ecclesiastica ritira l’idoneità della
quale è arbitra assoluta, queste persone restano a carico dello Stato e possono coprire i posti liberi
nella scuola nella materia in cui loro sono abilitati o laureati, scavalcando le persone che in
graduatoria aspettano da tempo. Questo è gravissimo, come è grave, per esempio che la religione
cattolica non sia rappresentata mai nei tavoli dei dialoghi interreligiosi. A Roma c’è un tavolo
interreligioso, ma i rappresentanti della Chiesa cattolica non siedono mai alla pari degli altri, il
dialogo ecumenico lo fanno per conto loro, come vogliono loro, conducendo il gioco. Nel tavolo
interreligioso di Roma non c’è una loro presenza. Io, in definitiva, vorrei che lo stato fosse laico
veramente dove ha il compito di esserlo. Prima di tutto nella scuola, l’istruzione. Che cosa
aspettiamo ad esempio, a fare veramente una battaglia perché non siano i ragazzi che non
seguono l’insegnamento religioso a uscire, ma perché, intanto, poi vedremo obiettivi più ambiziosi,
questo insegnamento non sia dentro l’orario scolastico obbligatorio. Abbiamo fatto un terzo ricorso
per ottenere questo, la Corte Costituzionale ci ha risposto che non è compito suo, perché fare
l’orario è compito dell’amministrazione scolastica. Allora facciamo in modo che si faccia, così come
dobbiamo fare in modo che due ore di insegnamento religioso cattolico vengano escluse dalla
scuola dell’infanzia. Neanche Mussolini aveva messo religione nella scuola dell’infanzia, neanche
la Chiesa, che dispone che il catechismo cominci a sei anni. Allora perché dobbiamo avere dei
bambini di tre anni che, per due ore a settimana devono, a scelta dei genitori, svolgere un
insegnamento che li separa dagli altri, quando invece l’insegnante è in grado benissimo di parlare
alla fantasia dei bambini e di svolgere un discorso comune per tutti, che comprenda ovviamente
anche la sfera spirituale. Quindi, ci sono queste battaglie concrete perché lo Stato sia davvero,
almeno in questi così plateali risvolti, un po’ laico.
Isabella Filippi
Proteo Emilia Romagna. Proteo Bologna
Volevo fare alcune riflessioni prendendo spunto da quanto è stato detto e da queste due relazioni
che mi hanno interessato entrambe, per motivi diversi, e che trovo sarebbe molto utile cercare di
portare nelle scuole, fra i giovani. Partirei da quello che diceva Il professor Tartarolo, e che è
anche una mia preoccupazione: il problema delle parole. E’ un problema che va tenuto presente e
va molto osservato. Si parla ormai dappertutto, negli ultimi tempi in modo particolare, del concetto
di laicità, rischiamo di inflazionare le parole, il dibattito, prima ancora che questo poi divenga
qualche cosa di agito e si concretizzi nel fare quotidiano. Occupandomi io di scuola, naturalmente,
mentre parlo ho ben presente questo mondo di riferimento. Allora, attenzione proprio a parlarne e
a non inflazionare questo dibattito prima ancora che divenga qualche cosa di operativo, presente
nei luoghi là dove forse più necessita, nei luoghi dove noi ci occupiamo della formazione delle
nuove generazioni. Un altro punto estremamente legato a questo, su cui è stato molto preciso il
professor Colajanni: la laicità è il profilo della forma dello Stato, e questo è già nella nostra
Costituzione. E quindi noi possiamo dibattere, ma almeno una chiarezza ce l’abbiamo, la possiamo
sostenere. Non ne parliamo da oggi, non è un problema che deriva da oggi, ma è un problema che
deriva da tanto tempo e la nostra Costituzione c’aveva gia pensato, e tra l’altro questo concetto è
assolutamente inscindibile, il concetto di laicità, dal concetto di complessità, che non può che
legarsi alla relatività. Quindi mi ha molto confortato sentire questa riflessione. Oggi viviamo, in tutto
il Novecento, ma soprattutto a partire dagli anni ’50 in avanti, con un aumento crescente di
complessità in tutti i campi, determinato anche dallo sviluppo e dalla crescita della scienza, che
non può essere pensato, affrontato, che con il relativismo, perché la complessità, per definizione è
dicotomica con il concetto di razionalità limitata. Quindi l’assioma, il ragionamento assiomatico,
dogmatico, precettistico, si può tentare di smontarlo quasi filosoficamente, ma perseguendo un
livello di pensiero e di dibattito continuo e sistematico, e con un pensiero che sia veramente che
pensi. Perché la percezione che si ha è che, soprattutto in situazioni laddove noi dovremmo
veramente fare in modo di portare avanti delle riflessioni che aiutino le nuove generazioni a
pensare, non sempre questo avviene. Spesso, proprio nel mondo della scuola, nel mondo della
formazione, si procede per ricette, nel tentativo di dare delle pseudo-certezze o delle pseudorassicurazioni o delle pseudo-ricette che, ripeto, oggi non hanno più senso. Perché giustamente, è
tale la pluralità culturale rispetto alla quale noi faticosamente in Italia, e forse più tardivamente di
altri ci stiamo confrontando e non possiamo più evitare di confrontarci. Penso che noi dovremmo
tenere presente questi concetti e perseguirli anche nei luoghi dove ognuno di noi opera; mi è
piaciuto anche molto questo concetto, che anche questo andrebbe credo molto ribadito, ribadito e
praticato, perché le convinzioni, i pensieri, le riflessioni, occorre ribadirle ma occorre anche
praticarle. Il concetto di democrazia legato al concetto di laicità. E il concetto di laicità legato alla
comprensione, riflessione, dibattito e anche, cerco di dire esattamente quello che ha detto il
professor Colajanni, equidistanza anche da posizioni di carattere non religioso. Ecco questo è un
modo di pensare, di approcciarsi alle cose, al mondo complesso che noi ci troviamo di fronte, che
non può arrivare a nessuna soluzione definitiva, perché questa non è probabilmente data,
nell’ottica appunto della nostra esistenza fatta di nascita, di matrimonio e di morte, però è
sicuramente un modo di procedere, un modo di atteggiarsi alle problematiche che ci può spingere
a risvegliare le coscienze dal basso e cercare anche di incidere dal baso verso l’alto.
Umberto Saleri
Cgil nazionale Ufficio Immigrazione
Faccio delle domande ai relatori. Al professor Colajanni, la cui relazione introduttiva mi è piaciuta
assai. Sull’ultimissimo punto chiederei che sviluppi di più cosa si intende per laicità e procedure.
Sul penultimo punto, sul relativismo, che è connaturato alla democrazia, ha citato Kelsen. Lei “en
passant” dice: no al relativismo etico. Ecco vorrei che lei sviluppasse di più, perché, relativismo
etico è una parola anche quella da approfondire. Perché no e perché si. E anche la parola
relativismo; io apro una parentesi, i sindacalisti parlano troppo poco di questi argomenti, ma alcuni
li approfondiscono, alludo a Riccardo Terzi che ha fatto l’elogio del relativismo, come sinonimo
della razionalità. E fin qui siamo d’accordo, cioè la ragione è relativa, non può essere assoluta, è
una continua ricerca, in questo senso si può fare l’elogio del relativismo, ma mi sembra che non
sia molto produttivo perché il relativismo nella cultura italiana è già tassativamente connotato
negativamente, usiamo razionalità, usiamo la parola democrazia, perché altrimenti dobbiamo
combattere contro secoli in cui il relativismo era connotato negativamente. Noi dobbiamo
presentare la laicità non in senso negativo, ma propositivo, come pienezza, come positività, non
contrapposizione. La seconda domanda invece al professor Tortarolo. Nella sua analisi storica, lei
ha fatto l’esempio che i tribunali che interpretano il sensus comune non mettevano in pratica le
leggi anticlericali, non è che in genere i tribunali sono così staccati, erano più vicini al popolo i
tribunali che le stesse leggi, questo per me è abbastanza importante. Questo è il limite del
Risorgimento italiano che, nonostante cose positive, lei le ha elencate, è fondamentalmente un
po’elitario, nel senso nobile, ma non ha inciso in profondità, anche se i maestri, come lei ha detto,
hanno cercato di diffondere valori positivi
Questa situazione che si è creata nel Risorgimento mi permette di fare una riflessione sull’attualità.
Facciamo l’esempio del referendum legge 40 di due anni fa. Secondo alcuni amici nostri, è stato
positivo raccogliere le firme e quant’altro, l’esito è stato quello. Non pecchiamo anche noi di
elitarismo? Adesso ci guardiamo in casa. Questi temi riusciamo a farli arrivare al popolo, ai
lavoratori? A proposito del Referendum, io abito nei castelli anche se sono un immigrato interno,
non si riesce a entrare nelle fabbriche. Per la gente normale, questo tema che per noi è
fondamentale, questi temi, non hanno ascolto. È inutile poi accusare Ruini, ma che cosa c’entra
questo. Un mese e mezzo fa in Portogallo, non c’era Ruini. Il referendum, su un tema grosso come
una montagna, non elitario, tra parentesi come il nostro, sull’ aborto come reato, in Portogallo,
sono andati a votare il 40 per cento solo, su un tema scottantissimo che interessa la nostra gente,
perché la gente che ha un po’ di possibilità l’aborto lo va a fare in Spagna. Sono andati a votare
solo il 40 per cento e di questo 40 per cento, solo il 57 per cento ha detto di togliere il reato
dell’aborto. Ecco, questo è un grande lavoro che dobbiamo fare noi. Riusciamo anche qui in
questo palazzo e nel nostro mondo a far entrare questi temi o invece sono temi non importanti? Il
referendum è andato come è andato, là c’era un’occasione per riuscire ad andare a parlare e non
l’abbiamo sfruttata. Ecco, la mia preoccupazione come sindacalista, è: se questi temi sono
importanti, l’impegno nostro è di trovare concreti strumenti per portarli avanti. Poi, come ufficio
immigrazione, noi abbiamo un problema enorme che non è ancora scoppiato perché
tendenzialmente gli immigrati hanno problemi ancora più importanti e l’aspetto religioso non è
ancora esploso. Però bisogna aspettarseli questi scontri perché se non riusciamo a fare
l’integrazione è chiaro che l’identità verrà, diciamo, assorbita dall’identità religiosa, creando
problemi enormi. Ho fatto delle domande, vorrei degli approfondimenti e poi abbiamo degli
impegni, perché questi temi non devono essere elitari. Perchè se sono elitari, allora noi, come
sindacato, facciamo un passo indietro, ma se sono fondamentali, perché, l’ha detto il professore, la
laicità è un principio supremo, fondamentale, fa parte della democrazia, fa parte del movimento
sindacale, dobbiamo darci gli strumenti, graduali, ma dobbiamo farli penetrare nel nostro mondo
Simonetta Arnone
Docente e vice presidente provinciale Proteo Fare Sapere
Militando anch’io nel mondo della scuola, io mi chiedo: laicità e Stato, laicità nello Stato, ma perché
questo avvenga, probabilmente, anche il concetto di laicità dev’essere fortemente affermato nella
formazione e non mi pare che questo avvenga come dovrebbe .
E non parlo solo dell’Italia. Mi ha molto colpito l’articolo che ho letto ieri su Repubblica sulla
questione creazionismo e darwinismo in America. Mi ha molto colpito e per vari motivi anche in
relazione alla risposta che lo Stato americano attraverso la Corte voleva dare. Mi è sembrato che,
a 400 anni dall’Ipse dixit, da Galileo, da Bruno, non abbiamo risolto il conflitto, che continua ad
essere tale, tra scienza e fede, ma soprattutto mi ha colpito che un sistema formativo come quello
americano, molto diverso dal nostro, e non in senso positivo, possa consentire di insegnare, in
alternativa al darwinismo, una teoria che di scientifico non ha nulla come il creazionismo. E mi ha
colpito soprattutto perché i miei alunni, qualche giorno prima, avevano visto un cartone animato, i
Simpson, dove si parlava di creazionismo e darwinismo nella scuola. E partendo da questa
occasione io ho tenuto una lezione, parlando anche col loro linguaggio.
Quindi, cosa significa complessità, cosa significa diritto, cosa significa poi formazione, cosa
significa scienza e fede. Sono concetti che devono partire dal basso, e il basso significa prima di
tutto la formazione. E la domanda che io volevo fare in relazione a questo, soprattutto al professor
Colajanni è: il diritto, lo Stato, che ruolo dovrebbe avere in questi casi. L’America, nell’esempio che
vi ho fatto, si è pronunciata attraverso la Corte, ha detto no al creazionismo perché non è una
scienza; al di là del discorso dogmatico, perché tutto può essere dogma, c’è un relativismo positivo
che poi contraddice l’ipse dixit. Però in questo caso? Laicità e Stato come interagiscono in
problemi come scienza, fede e formazione? Cosa significa poi che la laicità è un valore supremo, è
la forma del profilo dello Stato, cosa significa anche in relazione al fatto che da noi, in Italia c’è uno
Stato che è laico, ma di fatto, è profondamente influenzato dalle scelte in materia religiosa,
cattolica? L’America ha questa caratteristica poi di avere gli integralismi cattolici, noi
fortunatamente no, però, in maniera più o meno subdola, anche le scelte dello Stato italiano sono
fortemente influenzate dalle posizioni cattoliche. Anche Su questi tre aspetti differenti, ma
assolutamente interagenti, che sono Stato, laicità e formazione, (poi dalla formazione nasce Stato
e laicità), vorrei sapere che posizione ha il diritto ha rispetto a questioni del genere.
Nicola Colajanni
Avevo appuntato anche un altro tipo di osservazione sulla quale volevo intervenire, ed era quella di
Antonia Sani prima di queste domande più puntuali. La secolarizzazione non da luogo senz’altro a
laicità, questo è verissimo, perché la secolarizzazione può comportare, anche politicamente un uso
strumentale della religione e delle sue categorie. Questo noi vediamo, ne ho fatto un cenno molto
sommario precedentemente, affermarsi, per esempio, quando trattiamo di una religione civile. Ho
fatto l’esempio prima dei caduti di Nassrya, in cui tutto lo Stato si è ritrovato davanti ad una messa,
credenti e non credenti, come per esempio anche il caso dei funerali che veniva citato e ripreso
precedentemente. Il fenomeno degli atei devoti è un fenomeno nuovo, al quale il laicismo a cui noi
eravamo abituati a pensare non pensava neppure. Adesso c’è un fenomeno vastissimo, lo
dobbiamo considerare, perché è una posizione politica. Abbiamo avuto un presidente del Senato,
purtroppo, meno male che le cose poi cambiano un po,’ che ha difeso, dalla seconda carica dello
Stato, una posizione di devozionismo ateo, fra l’altro, insegnando anche al Papa quello che
doveva dire e quello che non doveva dire. Perché gli andava bene, per esempio, tutta la posizione
del Papa sulle radici dell’occidente cristiano, non gli andava bene il discorso sulla pace. E allora è
andato alla Pontificia Università Lateranense a dire perché il Papa sbagliava, che non era quello il
cristianesimo. Siamo a questo livello. Si chiamava Pera, nomen est homen, come si diceva, quel
tale presidente del Senato, però le ha dette queste cose.
C’è poi il problema del riconoscimento pubblico delle religioni. Vedete, quella posizione valdese a
cui ho accennato prima, a mio avviso molto significativa, però era una posizione datata, in un
contesto in cui le religioni nel nostro Paese erano sostanzialmente religione cattolica e poi le altre
religioni, protestanti ed ebraismo. E quindi si trattava di una norma quasi di difesa rispetto alla
religione cattolica. Il problema è stato che, negli ultimi vent’anni, dall’’84 in poi, il panorama
religioso è mutato completamente. E quindi c’è la seconda confessione religiosa adesso, l’Islam,
nel nostro Paese come in tutto l’Occidente e l’Islam ha una posizione direi abbastanza simile, forse
più oltranzista di quella della Chiesa cattolica. Perché, se la Chiesa cattolica è disposta almeno a
riconoscere che la religione fa parte del patrimonio storico, ma insomma non è di tutti, tant’è che
ammette il diritto di non avvalersi dell’insegnamento, l’Islam non è ancora in quella posizione e
quindi vuole classi islamiche per esempio, e quindi il riconoscimento pubblico, in questo caso,
passa attraverso una serie di richieste a cui non eravamo più abituati nell’occidente europeo, ma
che queste nuove religioni, che queste nuove culture ci chiedono come un riconoscimento di
identità, come un riconoscimento delle loro diversità.
E una tendenza costituzionalistica moderna, prima ancora che nel nostro Paese si è affermata
anche in altri paesi, per esempio in Germania, non a caso toccata da fenomeni di immigrazione in
misura molto più consistente che da noi e da molti più anni che da noi. Una posizione
costituzionale in quei paesi è quella di dire che l’attuale declinazione del principio di uguaglianza
della Rivoluzione Francese, così come lo conosciamo noi è in realtà il principio del riconoscimento
delle diversità, cioè delle diversità culturali, delle diversità religiose e così via. Sono costituzionalisti
assolutamente democratici come Denninger, assolutamente non sospetto. Però si tende ormai a
dare più spazio al tema del riconoscimento delle diversità. Quindi, il panorama è molto complicato.
E allora, quando parlavo prima della laicità come procedura, che cosa possiamo fare? Una delle
risposte è quella di carattere comunitaristico: ci sono queste diversità, il modo migliore per
riconoscerle è dare a ciascuno il suo, ognuno, almeno in questi campi fa quello che crede. E poi ci
sono invece dei campi, più o meno quelli della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della patria
e così via, che invece devono accomunare tutti. Michael Walzer, in America sostiene una cosa più
o meno di questo genere. Che significa essere americani? Afro americani, italo americani, anglo
americani, eccetera, eccetera? Significa che, la parte più importante, è quella a sinistra del trattino,
anglo, afro, e questa va riconosciuta pubblicamente. Poi c’è la parte americano, quella che sta a
destra del trattino, e sono appunto tutti quei valori che debbono accomunare le persone a
prescindere dalle comunità. La procedura, la laicità come procedura, implica invece che non ci
siano dei compartimenti stagni, che ci siano delle interrelazioni, delle procedure discorsive, come
le chiama Habermas, delle procedure discorsive comunicative in cui tutti quanti possano
annunciare quella che è la propria identità, ma anche essere capaci di fare silenzio, di ascoltare le
identità degli altri. E’ non soltanto un problema di annuncio, è un problema anche di attenzione.
Ecco, la procedura dovrebbe servire a questo. E’ tutto negoziabile? Ci sta tutto nelle procedure?
Non c’è un limite? Noi diciamo che il limite ci deve essere, perché altrimenti il pluralismo continuo,
eccessivo, poi non si arresterebbe mai davanti a nessun valore. Ma è un limite di carattere
costituzionale quello che noi pensiamo, cioè un limite che è anche di carattere storico e che
possiamo in qualche modo individuare nel principio della dignità umana. Non a caso è il primo
pilastro della Costituzione europea o comunque della Carta di Nizza, della Carta dei diritti dei
cittadini europei, il principio della dignità umana. Ovviamente ci ritroviamo davanti a chi dice, ma il
principio della dignità umana l’ho scoperto io per primo:, allora prendete questi documenti e
leggete che cosa è la dignità umana. Questa è un po’ la posizione della Chiesa cattolica, ma non
soltanto della Chiesa cattolica, se andiamo all’Islam è anche un po’ peggio. Peggio nel senso non
dei contenuti, ma peggio nel senso dell’assolutismo, dell’assolutezza con cui si vogliono difendere.
Per esempio, sul problema della procedura Papa Wojtila aveva riconosciuto che la procedura
comunicativa era un fatto positivo. A un discorso a un corpo diplomatico del 2004 Wojtila dice che
lo Stato è il luogo di comunicazione tra le diverse tradizioni spirituali e la nazione. Quindi riconosce
perfettamente. In un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta
all’epoca dall’attuale Papa, quindi che ha un’importanza anche per questo ruolo assunto dal suo
presidente nel corso degli anni, si dice che la laicità non ignora la procedura comunicativa, però la
laicità indica in primo luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla
conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se tali verità siano nello stesso tempo
insegnate da una religione specifica, perché la verità è una.
Vedete come si aggroviglia allora, in questo caso il discorso. Allora, quello che cercavo di dire
prima: è chiaro che la laicità è una procedura e la laicità è anche relativa, però quando diciamo
relativa, il relativismo significa il relativismo dell’insieme, il relativismo che è proprio della
democrazia, non il relativismo etico. Non perché questo significhi negare la esistenza di diverse
etiche nella società: ce ne sono, sono diverse, ma nel senso di negare l’indifferentismo individuale,
l’indifferentismo per cui, per una persona interrompere la gravidanza o non interromperla è
indifferente. No, mi pare ovvio che uno debba avere una posizione. Io, quando ho fatto la
campagna, sono andato in giro per il referendum sulla procreazione medica assistita e dicevo pure
che, a mio avviso, personalissimo, chi non riusciva ad avere figli era bene che adottasse. Io ero
per l’adozione in quei casi piuttosto che per la procreazione medica assistita. Però, davanti alle
obiezioni di chi mi dice: perché io non debbo avere la possibilità della maternità, io che faccio
davanti a questa posizione? Io sarei per l’adozione, però non posso non riconoscere l’importanza
che può avere per una donna l’esperienza proprio della maternità. E allora quello ti porta a favorire
in certi limiti, certo evitando tutti i pericoli che ci possono essere, ma a favorire la procreazione,
non invece, come abbiamo letto sui giornali qualche giorno fa, la fuga verso Barcellona dove trovi
una segretaria qualsiasi che ti dice chiaramente, pagando naturalmente, che cosa devi fare, quali
ormoni devi prendere, di farti rivedere dopo un certo periodo di tempo, in una maniera del tutto
anonima, dove questa donna che raccontava la sua esperienza metteva subito in evidenza la
fragilità che le è derivata da quel colloquio, non solo da questa esperienza personale di non poter
avere figli, ma anche quello che le è venuto dopo questo colloquio. È questo che abbiamo ottenuto
con il referendum sulla procreazione medico assistita? Allora, se è questo il tipo di società che noi
vogliamo, le cose evidentemente non quadrano. La stessa cosa potremmo dire per quanto
riguarda i Dico. Vedete, nella posizione della Cei sui Dico c’è un punto, ci sono molte cose che si
possono anche accettare. Quel documento, tutto sommato, è meno oltranzista di quanto si
potesse temere. Si dice, per esempio, ad un certo punto: la storia. Il pericolo maggiore che
lamentano i vescovi è che la storia insegna che ogni legge crea mentalità e costume. Allora, quello
di cui loro si preoccupano è appunto il relativismo etico, per cui, una volta che io metto i Dico,
legalizzo i Dico insieme al matrimonio religioso, al matrimonio civile è come se offrissi una specie
di menù alle persone. Dico: volete mettervi insieme? Potete scegliere questo, quello o quell’altro. E
allora in questo menù è ben possibile, è probabile, è verosimile che le persone scelgano secondo
un criterio economico cioè il raggiungimento del massimo profitto con il minimo mezzo e magari
andranno a scegliere i Dico a questo punto, perché sotto molti profili, li vincola ma non come il
matrimonio. Questo è ben possibile, ma è il costo che noi paghiamo, e su questo punto, la Chiesa
cattolica non ha fatto ancora bene i conti, è il costo che noi paghiamo alla democrazia. Cioè è il
costo della libertà. Se noi facessimo un ragionamento come quello dei Dico: se crea mentalità e
costume a proposito dei diritti fondamentali, noi arriveremmo esattamente alla stessa posizione di
Pio IX con il Sillabo. Cioè, perché io devo dire è abolita la pena di morte, in Italia la Costituzione
abolisce la pena di morte. Ma questo è un incentivo a fare anche delitti efferati. Tanto, seppure mi
scoprono non mi condannano alla pena di morte. E così per altri, non so, il ripudio della guerra.
L’Italia ripudia la guerra: benissimo, allora tutti quanti si sentiranno autorizzati, tanto l’Italia ripudia
la guerra, possiamo fare quello che crediamo. Vedete, sono tutta una serie di diritti, di libertà
fondamentali che noi riteniamo connaturati alla democrazia, ma che se andiamo ad esaminare
secondo il criterio: questo crea mentalità e costume, allora li dovremmo abolire. Non a caso, il
grande inquisitore di Dostoevskij rimproverava Gesù proprio per la libertà: ma non ti rendi conto
che, nel momento in cui tu riconoscerai libertà ai credenti, il primo ad essere ripudiato sarai proprio
tu? Lascia fare noi, noi sappiamo come dover portare le persone sempre in chiesa. Vedete, è
questo il discorso.
L’ultima domanda era: creazionismo, evoluzionismo, fede, formazione. L’America non conosce il
principio di laicità, in America c’è il separatismo. Loro sono molto più concreti, non hanno di queste
ideologie tutte particolari nate nel nostro occidente europeo. Loro hanno il separatismo, però è un
separatismo un po’ strano, perché uno che fa il separatismo ammette il principio di non
identificazione, poi ha la moneta su cui sta scritto: In God we trust….Quindi capitano di più
questioni come quella che è stata poi analizzata dalle corti giudiziarie. Io ritengo che da noi non
succederebbe. Se comunque dovesse succedere, c’è il grande diritto fondamentale, la grande
libertà sancita dall’articolo 33 della Costituzione: l’arte e la scienza sono libere e libero ne è
l’insegnamento. Non è possibile mettere paletti alla libertà del docente. Questa è la grande
garanzia che ha il docente, ma non per privilegio suo, per la formazione degli alunni. Perché ogni
alunno deve sapere che, dietro quel docente non c’è una ideologia di Stato che gli dice cosa deve
insegnare, ma c’è soltanto la sua coscienza e conoscenza delle cose, soltanto il suo sapere.
Questa è l’unica garanzia della libertà della ricerca e della libertà dell’insegnamento. E quindi, io
ricordo che la Moratti inserì ad un certo punto il fatto del creazionismo, poi subito, già in via
amministrativa, dovette ritornare sui suoi passi, perché non era proprio ammissibile
costituzionalmente. Quindi una questione del genere, da noi, si è fermata già a livello
amministrativo del Ministero e quindi io ritengo che non andrebbe mai a finire davanti alle corti. E
comunque il principio fondamentale è quello che ho detto.
Edoardo Tortarolo
Un punto fondamentale su cui, anche nella discussione attuale, non si hanno forse le idee molto
chiare è sulle competenze dello Stato. Da una parte vogliamo che lo Stato sia forte per garantire i
diritti, per ampliare l’ambito di espressione dei diritti eccetera, dall’altra parte quello che è sotto gli
occhi di tutti è un processo di indebolimento dello Stato, delle competenze statali, delle funzioni
dello Stato e il modello americano che è stato evocato prima è il modello di uno Stato che è
fortissimo, anche troppo, ma che, al proprio interno, ha delle competenze assai ben delimitate. Per
cui molta influenza che si esercita sull’esercizio dei diritti, ad esempio arte e insegnamento, che
nella Costituzione Italiana sono tutelati, nel sistema americano vengono regolati attraverso dei
sistemi non statali, tipico (e sta arrivando anche da noi) è il finanziamento. La libertà di ricerca, la
libertà di espressione artistica, la libertà di insegnamento è e speriamo lo sia per molto tempo
ancora garantita dalla Costituzione, ma di fatto, dal punto di vista non soltanto squisitamente
giuridico, ma poi della pratica delle cose, avviene attraverso canalizzazione dei finanziamenti,
avviene attraverso la creazione di istituti di ricerca e di insegnamento che non sono statali e
quant’altro.
Per cui, molto brevemente, vorrei arrivare al punto che credo fosse un po’il presupposto
inespresso di tutto quello che ho detto, cioè che, naturalmente la vicenda legislativa, la vicenda
giuridica, la vicenda istituzionale è estremamente importante, ma un approccio che sia fruttuoso e
che porti a qualche risultato, (ritorniamo alla parola) di laicizzazione, perché lo Stato sia più laico,
più equidistante e più garantista dei diritti di tutti di quanto sia adesso, avviene non soltanto
nell’azione legislativa, giuridica, istituzionale, ma avviene attraverso una trasformazione del tessuto
culturale o a livello di società civile.
Cioè, tutto questo discorso, a mio modo di vedere e per la prospettiva storica da cui ho cercato di
prendere le mosse, avviene attraverso una trasformazione della società civile, attraverso una
trasformazione delle abitudini, delle consuetudini, delle forme culturali. Questo porta ad alcune
delle suggestioni che sono state avanzate a proposito ad esempio della ritualità. È naturale che c’è
stata una tradizione molto forte, che ha avuto delle vicende drammatiche , ma è anche un dato di
fatto, ed è stato ricordato che, tutta questa tradizione non ha, per una qualche ragione, avuto la
capacità di radicarsi in una ritualità. Si ricordavano… Il battesimo può scomparire, perdere un po’
di appeal, ma certamente io non mi ricordo di avere assistito a molti funerali laici. Anche persone
notoriamente assai poco religiose, per una serie di ragioni, finivano poi per essere seppellite con
forme di religiosità. Perché l’ambiente, perché la famiglia, perché il contesto ha una sua inerzia o
non ha desiderio di drammatizzare una rottura che invece è stata vissuta durante la vita. Questo
tema della società civile, delle forme culturali, della ritualità, investe un altro aspetto di tutto questo
discorso e che è stato, in questa discussione, poco evidenziato, cioè le trasformazioni interne alla
Chiesa cattolica in Italia.
Noi parliamo sempre di posizione della Chiesa e ci riferiamo giustamente a Ratzinger, a Ruini alla
Cei, ma esiste poi un mondo dell’associazionismo cattolico, il mondo delle parrocchie, in cui le
posizioni sono infinitamente più secolari di quanto le alte gerarchie cattoliche impongano. C’era
stato questo servizio, non simpaticissimo, comparso sull’Espresso del finto fedele che va a
confessarsi con alcuni problemi di convivenza, di omosessualità, non mi ricordo nemmeno più e
ovviamente nelle diverse parrocchie in cui va a confessarsi riceve ricette e istruzioni molto diverse
e sempre, di solito, molto più vicine al vissuto di quanto volessero le alte gerarchie. Questo perché
credo che, molto laicamente, la Chiesa cattolica sia stata coinvolta in questo processo di
secolarizzazione.
Sul nesso laicità- secolarizzazione che è stato sollevato: naturalmente si tratta di due fenomeni
molto diversi, ma non credo sia possibile pensare ad un processo di laicizzazione delle istituzioni
se non in presenza e attraverso la constatazione, la rielaborazione intellettuale di una società che
si è secolarizzata nel tempo. L’unica alternativa storica alla secolarizzazione come motore della
laicità dello Stato è qualche cosa che noi non vogliamo, cioè una guerra di religione. Storicamente
lo Stato laico è nato dalle guerre di religione. Dove ci sono state guerre di religione ci si è accorti
della necessità per lo Stato di garantire, se non un’equidistanza, almeno ambiti di convivenza,
questo in una forma così evidente in Italia non è successo, ma credo che l’effetto sia poi
sostanzialmente uguale, riconoscendo e accompagnando un processo di secolarizzazione e di
pluralismo delle confessioni.
Un ultimissimo punto che mi ero segnato che è emerso anche a proposito dell’immigrazione e che
aggiunge drammaticità ai compiti che ci stanno davanti è naturalmente il fatto che questo
pluralismo confessionale e i compiti che lo Stato si deve porre per governare il pluralismo
confessionale è in qualche modo aggravato dal fatto che le religioni, o meglio la religione islamica,
perché è quello che costituisce il problema, si associa ad una situazione generale di privazione
sociale, di povertà, per cui, facilmente nel discorso comune, si associano forme di radicalismo
religioso a forme di povertà, creando una doppia situazione di marginalità e di marginalizzazione.
Questo credo che sia un problema che va quantomeno tematizzato visto che la soluzione del
problema è temo, in gran parte sottratta alle possibilità legislative.
Gianna Cioni
Coordinatrice Consulta Ricercatori e Tecnologi della FLC (CGIL)
Io presento le persone della tavola rotonda che sono già arrivate. Sono Caterina Gammaldi,
cattolica, componente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, Ferdinando Liuzzi, del
Gruppo Martin Buber, Ebrei per la pace, Ali Baba Faye, sociologo, firmatario del manifesto per
l’Islam moderato e Domenico Maselli, presidente della Federazione Chiese Evangeliche in Italia.
Manca, ma spero che stia arrivando Franco Di Maria, presidente dell’Unione Induista Italiana e io
propongo, se non ci sono obiezioni, di far sedere alla tavola rotonda un’altra persona che è dom
Franzoni, che probabilmente molti conoscono. Lo dico prima, perché non voglio che appaia che ci
sono due rappresentanti della religione cattolica.
Vorrei in due parole spiegare il perché di questa tavola rotonda, quali erano le motivazioni e che
cosa intendiamo cercare di approfondire. Il titolo della tavola rotonda è: “Credere da laici. È
possibile?” e cerca di sintetizzare in poche parole un concetto, che è quello di dire: abbiamo
parlato di laicità e ruolo dello Stato, crediamo tutti qui che la laicità sia nello Stato, per lo Stato un
fatto importante. Ci è stato spiegato nelle relazioni stamattina come laicità sia, in fin dei conti, un
elemento di democrazia, senza quello non esiste una democrazia. E questo vale in Italia, dove noi
siamo, ma vale in qualunque altra nazione del mondo, con le diversità con cui la democrazia deve
esistere, può esistere nelle diverse culture e anche religioni.
Laicità, è stato detto, almeno come l’Italia l’ha voluta. La laicità italiana è diversa dalla laicità di una
nazione come la Francia, non è lasciare fuori, ignorare le religioni e le culture, ma cercare di
essere attenti a queste, di inglobarle, per trovare una posizione di diverse religioni e culture.
Continuo ad usare i due termini perché religioni e culture sono un qualcosa di strettamente
collegato, in alcuni casi maggiormente, in altri meno, ma esistono culture che non hanno
necessariamente una religione, esistono religioni che hanno solo parzialmente una cultura, ma
esistono l’insieme delle due cose, religioni e culture che sono fondamentali.
In Italia, la religione, la cultura cristiana e cattolica sono la religione che per secoli si è diffusa di
più.
Il problema è che noi crediamo debba esistere uno Stato laico, che sa rispettare i valori di coloro
che vogliono essere, cristiani, cattolici, così come sa rispettare i valori di quelli che non si
considerano di quella religione, ma di altre religioni o non si considerano di nessuna religione,
perché anche questa è una scelta libera delle persone.
Mi è stata fatta una critica stamattina, perché in questa tavola rotonda non è presente un ateo. Io
ho detto che mi sembrava inutile far essere presente qui un ateo perché la domanda che io porrò
ai presenti alla tavola rotonda, non la potrei porre a un ateo. Perché, per un ateo,non esiste
nessun problema a conciliare quello in cui crede con la laicità dello Stato, perché per definizione,
ateismo e laicità possono andare d’accordo
La domanda che vorrei porre a tutti voi presenti è: è possibile appartenere ad una comunità
religiosa, e credere in un Dio trascendente ed essere cittadini pienamente di uno Stato laico? Quali
difficoltà esistono non dico per rimanere credente, perché questo probabilmente non crea nessuna
difficoltà, ma a rimanere in una comunità di una Chiesa e a continuare a voler essere, magari
anche con ruoli attivi, di diverso tipo, non necessariamente la politica, ma anche quella, cittadini di
uno stato laico? E esiste, c’è una necessità oggi, in questo Paese, di andare a definire, visto che
vogliamo uno Stato laico, un’etica laica che dia delle basi, dei fondamenti per un modo di vivere
civile, cioè che le leggi si appoggino anche su degli elementi che i cittadini riescono a riconoscere
per scegliere quando è giusta o non è giusta una cosa, non perché viene detto da un dio, da un
testo sacro, ma perché, in quella società, viene considerata sbagliata una certa scelta?
Caterina Gammaldi
Componente del CNPI
Io voglio fare una premessa. Il termine laico appartiene alla mia storia personale e quindi alla mia
famiglia, di tradizione cattolica da sempre, e quindi io ho sempre vissuto la laicità come una
condizione di appartenenza familiare benché vissuta in una famiglia che è cattolica da sempre.
Io sono cattolica, non rappresento la chiesa cattolica ma sono un’ insegnante cattolica, iscritta alla
Cgil tra l’altro, per cui sono un’anomalia nel mondo dei cattolici probabilmente e quindi voglio dire
pure che i cattolici sono dappertutto, da Cl fino ai partiti comunisti.
Rifiuto di pensare che il termine laico appartenga solo a chi non è credente in una fede o in
un’altra. Laico, per me è sempre stato non prete, così mi insegnavano da cattolica. Nella mia
famiglia, scusate se faccio l’incursione familiare, ma mi serve per spiegarmi, la religiosità era
sempre riservata, mai esibita, aveva a che fare con la coscienza e corrispondeva anche ad un
agire pubblico. Mio padre era medico condotto, quindi si occupava della salute pubblica. Noi
abbiamo sempre pensato che l’agire pubblico, che corrisponde al mestiere di insegnante, al
mestiere del medico, al mestiere dello scienziato eccetera, è un interesse sia della Chiesa che
dello Stato. Non può essere sottratto all’interesse della Chiesa, né può essere sottratto
all’interesse dello Stato. Lo dico perché io sono molto inflessibile nell’anteporre l’interesse generale
a qualunque ragione di convenienza. E, dal mio punto di vista, salvaguardare l’interesse dello
Stato, nel caso specifico di insegnante nella scuola della Repubblica, significa garantire che,
indipendentemente dalla fede religiosa, indipendentemente dalle culture di appartenenza, tutti i
ragazzi e le ragazze hanno diritto ad avere una istruzione di qualità pubblica eccetera, fino a che lo
Stato decide di investire su questo bene. Allora il tema, dal mio punto di vista, che ho avuto una
cultura religiosa, laica, fortemente ancorata alla cultura costituzionale, non vedo questa come una
diminuzio, una divisione, vedo, nella mia impostazione, nel mio ragionamento,che proprio la difesa
dei principi costituzionali, stare in questo Stato italiano significa anche fare del mio lavoro, del mio
mestiere, un lavoro che ha queste cifre forti. Io credo che noi, per esempio, siamo abbastanza
colpevoli di avere abbandonato l’attenzione alla cultura costituzionale dovunque ci troviamo nei
luoghi di lavoro. Lo dico con grande franchezza, perché credo che questo sia anche lo scopo di
questo incontro fra di noi e perché penso anche che noi paghiamo invece lo scotto su questi temi,
di scelte che sono altrove, sono nell’interesse individuale, nel familismo, nel neo liberismo
esagerato, cioè sono nei tratti della politica quotidiana, che poi si esprime in modi non sempre
coerenti con i principi che noi riteniamo essere fondanti del nostro lavoro dentro la società italiana.
Nella mia esperienza di insegnante, mi è capitato di dover contrastare la partecipazione al Precetto
pasquale, l’altarino nel mese mariano, le attività alternative, ritenendo, come altri ritengono, che la
catechesi non può essere allocata nella scuola dello Stato. Purtroppo però, l’Irc, cioè
l’insegnamento della religione cattolica, che non è catechesi, è diventata ancora una cosa
peggiore, è diventato invece investimento su temi sensibili, etici, che alla fine finiscono per
diventare, per i ragazzi sottoposti a questo trattamento, sia che facciano le attività alternative, sia
che facciano le ore di insegnamento della religione cattolica, non un elemento che include, ma un
elemento che divide. Allora io credo di avere risposto alla domanda che mi veniva posta dal mio
punto di vista. Credere, da laico, è possibile, perché questo non ha nessuna influenza sulla mia
idea di laico, ma contemporaneamente io devo registrare, da cattolica, la difficoltà di continuare a
stare dentro la Chiesa cattolica perché, dopo l’esperienza bellissima, (i miei maestri sono stati dom
Franzoni, Balducci, don Milani, i Salesiani, i Francescani democratici, cioè tutto un mondo che si
muoveva, io facevo parte dei gruppi ecclesiali del dissenso…), a un certo punto, il mio agire
pubblico è diventato un agire privato rispetto al fatto religioso. Cioè, il mio agire religioso è
diventata una scelta di chi vuole continuare ad essere cattolica praticante dentro la comunità
religiosa, ma che non ha più un agire pubblico che rappresenta questo
Perché, evidentemente, noi viviamo in uno Stato che non è riuscito ancora a risolvere
legislativamente, normativamente, fino in fondo, la questione dei rapporti fra le fedi religiose. In più
aggiungo che,la diaspora dei cattolici, rende sempre più complicato il rapporto fra i cattolici dentro
lo Stato italiano e non vorrei che questo dire poi contraddicesse delle scelte che si vanno facendo.
Abbiamo combattuto la Moratti perché aveva fatto l’incursione sulle tradizioni giudaico-cristiane e
sul darwinismo, però è anche vero che c’è strisciante un’idea, anche rispetto a questo, che non è
solo derivata dal governo precedente. Io ho paura dei fondamentalismi da qualunque parte essi
vengono. Lo dico con grande chiarezza. Gilda che mi conosce sa che io sono netta e decisa nelle
cose che dico, me ne assumo anche, evidentemente tutta la responsabilità.
Fernando Liuzzi
Membro del Gruppo Martin Buber - Ebrei per la Pace
Io, in una precedente riunione, proprio in questa stessa sala, avevo sostenuto una cosa che
adesso vorrei riprendere e che credo che sia una delle cose più utili che si possano dire in questo
contesto e cioè che le religioni, uso questa immagine, non sono simmetriche. Se noi potessimo
rappresentare le religioni come delle figure geometriche, e le disponessimo nello spazio in un
qualche modo, si vedrebbe che ciò che differenzia alcune delle principali religioni conosciute non è
il fatto che sono in diversi piani, ma che sono figure non coincidenti, cioè dove ci sono dei pieni in
una, ci sono dei vuoti in un’altra e viceversa. Questa è un’immagine che mi si è formata in testa,
per me è molto chiara, non so se sia chiara per chi la ascolta. Quello che voglio dire è che,da un
punto di vista pratico e da un punto di vista teorico, la domanda che è posta in questa tavola
rotonda darebbe luogo, in me a due risposte diverse. Perché, da un punto di vista pratico io dovrei
dire una cosa molto semplice: che siccome gli ebrei sono una minoranza, tolto lo stato di Israele, in
tutti gli altri paesi dove vivono, hanno una estrema facilità a comprendere quanto sia importante la
laicità dello Stato. Per ovvi motivi. Impersonalmente dico che preferirei usare l’espressione
aconfessionalità, che mi sembra più precisa. Io credo che una minoranza abbia bisogno di uno
Stato aconfessionale e solo lo Stato aconfessionale è quello che può garantire una cosa che,
secondo me è più importante del dialogo o della comprensione o di altre espressioni che a volte si
usano: la convivenza. La convivenza tra diversi, implica un punto di neutralità che è lo Stato. Per
cui gli ebrei, almeno nel caso italiano, sono fautori della laicità o della aconfessionalità dello Stato
e quindi, non solo non hanno difficoltà, ma sarebbero dei partigiani della laicità dello Stato.
Semmai il punto di difficoltà nasce nel fatto che, per i motivi,che ci sono stati illustrati stamani, nella
prima parte di questo seminario, specie nel terreno, come è stato già detto da altri, delicatissimo
della scuola, la laicità dello Stato, in Italia, è debole, una laicità problematica, una laicità
continuamente in crisi. Però, detto questo, allora il mio intervento sarebbe finito, non ci sono
problemi, siamo tutti d’accordo; invece c’è un problema. E il problema è che, sempre per restare in
ambito scolastico, io dovrei andare fuori tema, dovrei contestare la domanda. Perché, in termini
ebraici, questa è una domanda quasi priva di senso. Io ho una conoscenza estremamente
sommaria dell’ebraico, ma credo che in ebraico non sarebbe nemmeno traducibile. E se manca la
parola, vuol dire che manca il concetto. Perché, innanzitutto, il fatto di essere credenti, è meno
importante nel giudaismo di quanto non sia in altre religioni. Questo potrà sorprendere, ma credo
che sia così. In secondo luogo, la parola laico, non esiste neppure. Non esiste neppure per un
motivo, ricorrerò ad una citazione non religiosa che potrà esserci forse più familiare, che Marx
suggerisce in apertura di uno dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 parlando del
Protestantesimo, anche se, ma questa è solo una mia ipotesi, siccome lui apparteneva ad una
famiglia di ebrei freschi convertiti al Protestantesimo, forse aveva nelle orecchie qualcosa del suo
retaggio familiare. E cioè, dice Marx, adesso non mi ricordo in quale manoscritto che Lutero,
abolendo il clero, ha messo un prete in ogni protestante. Se non c’è il clero, non c’è la distinzione
tra clero e laico. Non so quanto questo sia vero sul Protestantesimo, c’è una persona più esperta
di me, ma sicuramente, nel caso del Giudaismo è abbastanza vero. Si potrebbe argomentare
questa tesi a diversi livelli di profondità di analisi, ma per andare sul concreto e sullo storico, senza
approfondire i significati più profondi delle cose, basterebbe dire che il Giudaismo è una religione
antica, che aveva un unico luogo di culto, il famoso Santuario di Gerusalemme, distrutto per la
seconda volta nella sua storia dai romani, nel 70 dopo Cristo, e dopo questo unico luogo di culto
non c’è più stato. Quindi, non esistendo più il culto, (che non è la preghiera, il culto è una cosa
diversa dalla preghiera, il culto sarebbe il sacrificio, come facevano i Romani, come facevano i
Greci, il sacrificio dell’agnello o di quel che fosse), scomparso storicamente il culto, sono
scomparsi storicamente i sacerdoti. È rimasto solo il nome, Cohen, che è diventato un cognome e
quindi un cognome come un altro, per cui i sacerdoti non esistono più. Non esistendo più i
sacerdoti, non c’è la differenza tra due livelli di rapporto con la divinità, che è una cosa tipica del
cattolicesimo. In Italia, che è un Paese profondissimamente cattolico, più di quanto gli italiani non
sappiano e non pensino, voglio dire da un punto di vista culturale, poi magari sarà stato
secolarizzato, come ci è stato detto stamattina, ma è profondamente cattolico, questa distinzione
che io adesso ho fatto non viene quasi concepita e questo è un problema quando si fanno dei
ragionamenti politici in un ambito di sinistra. Perché lo schema concettuale con cui un partito di
sinistra, un sindacato di sinistra o comunque di fautori della laicità si rapportano a questo
problema, a queste tematiche, è sempre concepito all’interno di questa cultura. E quindi nasce una
domanda come quella di oggi: credente, laico, Stato. Da un punto di vista ebraico, che io sappia
non esiste neanche la parola laico, come credo che non esista neanche in arabo. Da questo punto
di vista, Giudaismo e Islam sarebbero due figure abbastanza simmetriche. Certo, nell’Islam è
molto importante la parola credente, ma questo che cosa ci dice? Ci dice che, da un punto di vista
ebraico il rapporto degli ebrei con lo stato laico non è un rapporto individuale, questo è molto
importante, ma è un rapporto comunitario. Questo è molto importante, perché questo è un altro
punto di conflitto. Nel senso che, come è noto, dopo la Rivoluzione francese, quando in Francia si
pose il problema dell’emancipazione, dell’eguaglianza e quindi di togliere la legislazione che dava
agli ebrei meno diritti degli altri, non ricordo quale celebre intellettuale degli anni della rivoluzione
francese disse: che cosa possiamo dare noi agli ebrei come individui: tutto. Che cosa possiamo
dare noi agli ebrei come comunità: nulla. Perché lo schema è esattamente quello che dicevo
prima.
Se noi comprendiamo che, le storie dei rapporti tra religione e cultura sono diversi in ambiti diversi,
comprendiamo anche che la struttura del rapporto non può essere la stessa in casi diversi e
quindi, cerco di spiegarmi, non è un caso che, se voi guardate il foglio dell’8 per mille, c’è scritto
Unione delle Comunità Ebraiche. Le Comunità non sono una struttura religiosa. Le comunità sono,
come dice la parola stessa, comunità, cioè una parola simile a comune. Infatti, comune nel senso
di piccola unità amministrativa. Le comunità, in pratica, sono delle strutture che svolgono funzioni
assimilabili a quelle dei comuni, cioè anagrafe, istruzione elementare, gestione di un cimitero e
cose di questo genere. E questo proprio perché, essendo diversa la struttura del rapporto tra
religione, religiosità, individuo, storia, cultura eccetera, nel caso dell’ebraismo, quello che conta è
una società ebraica, magari anche piccola, ma una società. L’individuo in quanto ebreo, uno non
potrebbe fare l’ebreo da solo, l’anacoresi è inconcepibile dal punto di vista ebraico. Uno che va a
pregare da solo in un posto, non ha senso dal punto di vista religioso, perché, al posto del
sacerdote che non c’è, ci dev’essere la comunità. Il fatto che debbano essere almeno dieci ebrei,
questa è la tradizione, ci dice appunto che ci dev’essere un gruppo di persone che condividono
questa cosa per fare una funzione. Le distinzioni poi sarebbero tante…il senso del sacro è diverso,
molte altre cose sono diverse, ma qui non stiamo in un seminario di studi religiosi, quindi non entro
in questa tematica. Però, dal punto di vista del rapporto tra individuo, comunità, Stato, eccetera,
credo che queste siano cose che bisogna avere presenti. Per cui, il soggetto che entra in un
rapporto dinamico in questo caso con lo Stato, che io direi aconfessionale è la comunità, che ha
bisogno di avere di fronte a sé un soggetto che io ho definito prima aconfessionale. L’ultimo punto
che vorrei toccare è che il modello “pattizio” che noi abbiamo in Italia non credo che sia quello
migliore, questo come opinione assolutamente soggettiva. Io credo che, noi come europei, specie
di sinistra, siamo sempre orgogliosi del modello sociale europeo, che poi è un incrocio tra il welfare
britannico e l’economia sociale di mercato del compromesso storico tedesco Cdu e Spe, nei
confronti del modello sociale statunitense che ci sembra meno preferibile di quello che noi
chiamiamo con un po’ una forzatura modello sociale europeo. Però, per queste questioni, io credo
che il modello politico statunitense sia invece un modello che va, non dico preso ad esempio
perché la storia europea è diversa, ma almeno tenuto presente come modello teorico, per certi
aspetti illuminante. Perché, essendo l’unico stato al mondo che è stato fondato da minoranze
religiose, non da una, da gente che aveva fatto l’esperienza delle persecuzioni subite in
Europa,ognuno la sua e comunque dentro una cultura politica che era poi quella del deismo, l’idea
che quello che era importante era avere una fede, una confessione, poi ognuno ha la sua, non ci
interessa sapere quale, il modello non “pattizio” secondo me è di grande interesse. L’idea
insomma, che corrisponde alla famosa frase di Cavour: libera Chiesa in libero Stato. L’idea è
semplicemente che lo Stato garantisce la libertà e poi ognuno si regola come meglio crede, senza
bisogno di fare poi una serie di precisazioni che possono essere nel nostro caso il Concordato
Stato – Chiesa. Una volta che si fa il Concordato con la Chiesa cattolica, ne deriva che devono
farlo anche le altre confessio.ni Hai creato uno schema, stai dentro quello schema. Non credo che
questo, in tempi politici, questo schema che la storia italiana ha prodotto possa essere oggetto di
importanti revisioni. Questo è quello che la storia ci consegna e questo è quello che abbiamo. Però
può essere utile avere in mente quell’altro, che è uno schema diverso, almeno se non altro per
avere in mente due modelli, in modo che uno illumina l’altro.
Ali Baba Faye
Responsabile Nazionale Immigrazione e Coordinatore del Forum "Fratelli d'Italia" (DS)
Mi domandavo, anche in prospettiva di questo mio intervento di che cosa stiamo parlando e
perché oggi ne stiamo parlando.Teoricamente le risposte possono essere semplici e le domande
possono apparire banali. Si sta parlando di laicità. Ma per il numero di definizioni che sono state
date da stamattina, credo che, come diceva qualcuno, un’operazione di pulizia semantica ci
aiuterebbe a capire di più. Sulla scia di quella riflessione dicevo: ma perché ne stiamo parlando
oggi. E questo per sottolineare la pertinenza del tema.. Perché come si diceva e traspariva dalle
relazioni, non è un tema nuovo, ma il rinnovato interesse rispetto ai temi della laicità o del laicismo
che dir si voglia credo che abbia a che fare con un dato della modernità, di oggi, che io individuo
nel ritorno alla religiosità, ammesso che di ritorno si tratti. Perché sospetto che la religiosità non sia
mai stata così assente. A discapito di un ragionamento che deriva da una scuola positivista, che
dopo l’Illuminismo pensava che, con il progresso della scienza, dell’educazione di massa, si
sarebbe andati man mano a confinare la religione come un aspetto marginale della società, perché
essa è il dominio non della ragione, ma dell’intuizione, del non definito, della non chiarezza. Invece
i fatti di oggi e l’importanza, il fatto che ne discutiamo oggi, dimostra che la religiosità sia non solo
presente, ma viva e vegeta. Se questa cosa è vera, questa considerazione è vera, allora occorre
sfatare il mito che il Positivismo e l’Illuminismo, il progresso della scienza, confinerebbe le religioni,
come aspetti destinati se non a scomparire, comunque ad avere un aspetto marginale. Io cito solo
un dato, un paese. A parte che è un paese che amo moltissimo, ma è la democrazia più avanzata
del mondo e più grande del mondo, gli Stati Uniti d’America, dove il grado di innovazione è molto
forte. Un paese all’avanguardia su determinate cose, in termini di ricerca, di scienza. Siamo lì di
fronte ad una popolazione di persone che, al 95 per cento si dichiarano credenti. Di quel 95 per
cento, il 70 per cento ritiene utile che i valori della propria religione, che siano quelli del
cristianesimo, dell’ebraismo o dell’Islam siano importanti anche nella regolazione dei rapporti
sociali. Questo dice una cosa molto importante. Se la più grande democrazia del mondo, il paese
dove c’è la possibilità di innovare, il paese moderno per eccellenza ha queste cose vuol dire che
fare i conti con la religiosità e con le religioni è importante. Dicevo questo a mo’ di premessa
perché, l’idea che sottosta al dibattito cosiddetto filosofico che pone una sorta di dicotomia fra fede
e ragione va ridimensionata, dal mio punto di vista. Non è che la ragione è una cosa e la fede è
un’altra. Io penso, come gli interventi che mi hanno preceduto, che le due cose possono dialogare.
E qui bisogna partire anche per capire e cominciare ad entrare nel merito delle domande che mi
sono state poste. E rispondere sui temi della laicità. Al di là delle definizioni, io la dico così
semplicemente. La laicità come profilo di uno Stato, si diceva stamattina, un profilo che garantisce
libertà religiosa e di culto, autonomia dello Stato e del potere civile rispetto a queste, e, in un
quadro di pluralismo, una sostanziale neutralità rispetto alle varie confessioni. Quindi, nel menù, ho
scelto quello che a me piacerebbe essere la laicità. Per la religione a cui io faccio riferimento, il
dibattito nasce sulla base di un sospetto fondamentale. E c’è stato, dopo l’11 settembre fior fior di
editoriali, di articoli sull’Islam, che vanno nella direzione di dire che l’Islam è incompatibile con la
democrazia, che è portatore di un progetto quasi totalitario, l’integralismo e non c’è la distinzione
fra sfera civile e sfera religiosa. Che è una grandissima sciocchezza. Perché, la differenza, su cui
noi dobbiamo muoverci, la linea di demarcazione è distinguere tra il dogma in sé, che è quello che
nell’Islam è contenuto nel libro sacro che è il Corano, e accanto al Libro Sacro, tutta la
giurisprudenza, il cosiddetto Fiqh che vara le cosiddette leggi islamiche, la Sharia, che regolano i
rapporti sociali. Da questo punto di vista è chiaro che va contestualizzato il Fiqh rispetto al Corano,
che è un dogma che si vuole universale rispetto agli altri libri sacri, ma nel Fiqh c’è un concetto
importante rispetto alla domanda: si parlava di comunità, c’è quello che si chiama la Umma, la
comunità islamica, che è praticamente la fonte principale del diritto in campo islamico. Mi spiego. Il
concetto, dell’interesse generale è un dato fondamentale nella risoluzione dei problemi anche
nell’ambito del diritto islamico. Questo mi pare un dato fondamentale, che il dibattito politico o
ignora o fa finta di ignorare. Poi è chiaro che tutto non è solo colpa degli altri. Ci sono state
persone che, a nome di una religione, hanno fatto le mostruosità che tutti noi sappiamo. Anche
interpretando e facendo allusione anche a dei passi del Corano in sé. Salvo poi che qui
l’ermeneutica può essere usata a piacere e anche per fini meno nobili di quanto sia la stessa
regola o dogma compresa nel Testo Sacro. Dico un esempio, non parlo dell’Arabia Saudita,
perché, per me è come parlare di Israele e quindi parlando di laicità può non fare testo. Gli altri
paesi a maggioranza musulmana, islamica. Abbiamo il caso della Tunisia, che viene spesso citato
come un paese quasi al 95 per cento musulmano, con tradizione molto radicata, che ha una
concezione della laicità che sfiora l’anticlericalismo. Per cui le moschee sono aperte in determinate
ore della preghiera, dopo un po’ c’è un tempo in cui vanno chiuse, le donne non possono andare in
giro con il velo e via dicendo. E questo è la laicità nel mondo islamico? È chiaro di no. C’è una
separazione, c’è una volontà di separazione, se si usa il termine di separazione, tra potere
temporale e potere spirituale. Però non mi pare che, questa concezione della laicità, possa
diventare una regola..
Se prendo il mio paese di origine, stiamo sulla stessa cifra, circa l’85 per cento di musulmani, però,
essendo stati noi, non so se per fortuna o per disgrazia, ma per quel che mi riguarda è una fortuna,
almeno rispetto ai temi di cui discutiamo oggi, una colonia un Territorio d’Oltremare della Francia,
abbiamo assorbito tutto il modello francese di laicità. Per cui, quando all’indipendenza, nacque la
Repubblica Senegalese noi avevamo una fotocopia conforme della Costituzione della Quinta
Repubblica. Non perché sia stata solo un’imposizione, perché essendo Territorio d’Oltremare
abbiamo anche, in qualche modo, partecipato a diverse cose, anche quelle della Quarta
Repubblica, quando c’erano già degli eletti senegalesi al Parlamento francese. Nasce quindi una
repubblica indipendente dalla Francia che un punto di vista sociologico ha l’85 per cento di
musulmani e il padre fondatore eletto è Senghor, un cattolico. E questo è molto importante perché
avviene nonostante la forza dei numeri, nonostante noi siamo un popolo di praticanti, non solo di
credenti.
Io sono praticante. Sono nato e cresciuto in un paese dove si pratica molto l’Islam, certo, con i
sincretismi vari che sappiamo, però fondamentalmente il rapporto tra religione e sfera civile è di
autonomia, e non così di separazione netta. Vedo una piccola differenza tra i due concetti. È vero
che i deputati, quando sono votati e devono fare le leggi, non hanno nessun tipo di costrizione da
parte delle confraternite religiose, però è chiaro che rimangono sempre dentro i loro cuori i valori
della propria religione. Noi non abbiamo, per esempio, legiferato sull’aborto e io mi domando
perché. Perché non esiste l’aborto da noi? Esiste l’aborto, anche clandestino, non in dimensioni
fortissime, perché ci sono tante cosiddette nascite naturali che la gente preferisce farli nascere e
poi farsene occupare da un altro, c’è una cultura diversa. E in questo, il peso della religione c’è,
ma lo stato, la sfera civile, non ha mai pensato di intervenire su questo. Eppure il governo
senegalese ha fatto una cosa abbastanza coraggiosa, secondo me, quando si è trattato delle
mutilazioni genitali femminili, forse perchè non c’entra affatto con la religione, con l’Islam, allora
hanno avuto la forza di legiferare per vietarlo e condannare chiunque pratichi una mutilazione
genitale femminile. Allora è anche qui un modello di laicità avanzata? Non lo so, siamo nel campo
di quello che si sta discutendo, però il punto è che il dibattito attuale, nei paesi occidentali non può
evitare questa realtà.
Dire che siamo in Italia, c’è il Vaticano, però alla gente non gliene frega niente della religione,
secondo me è un modo sbagliato di porre la questione. Cioè, che pratichino o non pratichino può
essere importante fino ad un certo punto, il numero di matrimoni civili rispetto ai matrimoni religiosi
sicuramente da un punto di vista cognitivo e della processualità può essere indicativo ed
importante, però, da un punto di vista di chi deve decidere, chi esercita il potere legislativo e di
governo, io penso che questo dato è del tutto insignificante. Perché, anche se fossero il 10 per
cento della popolazione che pratica, io credo che uno Stato democratico, in nome proprio di quello
che dev’essere un substrato della laicità, cioè il rispetto del pluralismo e delle libertà, deve in
qualche modo occuparsi di questa questione della religione.
Certo, non entro sulla storia del rapporto in Italia perché è particolare, però in generale, parlando
per qualunque società, la questione si pone non in termini di negazione delle libertà, né di
occupazione del potere politico da parte delle religioni per affermare i propri valori. Anche qui si era
toccato il tema del relativismo. Io me la cavo con una citazione di Martin Luther King, che, come
tutti conoscono, è stato un credente e nel ruolo che ha giocato, anche per la liberazione del
dominio delle popolazioni afro americane, certamente posso dire, da musulmano, che l’ha aiutato
la fede cristiana, i valori della dignità della persona, però con questo non voglio dire che la
religione abbia il monopolio di una morale e di una etica pubblica, perché si può non essere
neanche credente e avere gli stessi valori. Però dire che chi si avvicina, perché è portatore di valori
religiosi deve lasciare i propri valori fuori dalla porta se si deve impegnare in politica è un’altra
impostazione della laicità che a me non piace. Perché poi, non parlo dell’Islam, una delle cose
sulle quali ad esempio, io da musulmano, per anni non ho avuto dubbio riguarda l’8 per mille, ho
sempre firmato per darlo alla Chiesa cattolica, non perché mi piace, non do giudizio di merito, ma
perché io vedo dietro questa fede delle articolazioni che io ho ritrovato nel mio impegno civile:
Quando ho fatto il segretario nazionale dei senegalesi, prima di entrare in Cgil occupandomi di
immigrazione, ho incontrato un sacco di persone che erano portatori di fede, che stavano nel
sociale occupandosi della gente povera, della gente marginalizzata e io lì, non so se un laico o un
non credente può avere gli stessi valori, ma può rifiutare questi aspetti solo perché lo fa un
cattolico o un religioso? Non credo. Quindi anche qui, cerchiamo di vedere le convergenze
possibili tra un’etica pubblica e un’etica religiosa. Concludo con una domanda che faccio a me
stesso e porto a questo dibattito, e che è la domanda delle domande, non possiamo far finta di
niente. Dopo l’11 settembre, la domanda, per quanto riguarda l’Islam è se gli immigrati musulmani
sono integrabili o no. Sull’Islam passa l’idea tranquillamente che l’Islam sia incompatibile con i
valori dell’occidente e questo giustifica anche una sorta di fastidiosa islamofobia, secondo me, che
non rende giustizia a milioni di credenti, che è controproducente dal punto di vista della convivenza
sociale, perché tende a spingere la gente nelle proprie comunità, invece bisogna trovare una sfera
civile per il dialogo. Io del Corano vorrei citare solo il capitolo 112 sulle libertà religiose, perché
questo è stato per me una guida che mi ha permesso di non avere nessun tipo di problemi per
l’aborto pur se la mia religione mi dice che l’aborto non è legale, però io sono per la libertà di
scelta. Qui subentra la libertà della donna di scegliere e trovo insopportabile vedere certe immagini
negli Stati Uniti, quindi il massimo del massimo, folle di persone che, a nome della religione,
stanno di fuori dagli ospedali insultando le donne e chiamandole assassine. Questo no, questo va
bandito. Io posso anche capire che la mia religione mi dice che questa cosa qui è inaccettabile,
però la mia libertà religiosa non mi può spingere a negare la libertà della donna di scegliere quello
che deve fare della propria vita. Cioè stabilire una linea di confine netta mi pare un discorso che
valga per tutti, Islam o non Islam.
Se i musulmani sono integrabili o meno. Io in Italia, non cito la Francia o l’Olanda in cui sono stati
da più tempo, in Italia do un dato, noi qui siamo in una sede sindacale, io in questa casa ho speso
tredici anni della mia vita, è stata una scuola grandiosa per me, quando nel ’91 entrai nel Direttivo
Nazionale della Cgil e cominciai ad avere la responsabilità dell’immigrazione avevo fatto
un’assemblea, la prima grande assemblea che rimane secondo me nella storia del movimento
sindacale come una pagina importante; nella piattaforma ormai famosa come la piattaforma di
Ferrara c’erano alcuni punti che affrontavano proprio il nodo della religione. Quindi se che la Cgil
ignora questa questione, l’affronta o non l’affronta, non lo so, se la porta nei luoghi di lavoro, non
so, e quanta forza ha, però nel ’93 la Cgil, attraverso la sua struttura di immigrati, aveva posto
degli elementi che erano completamente religiosi: la diversificazione dei pasti nelle mense
aziendali, la pausa preghiera e le negoziazione di accordi di flessibilità nel mese del Ramadan.
Eravamo nel 1993, questo è un dato fondamentale. L’altro dato fondamentale è il responsabile
dell’immigrazione: noi, gruppo di pionieri, chiamiamolo così, quando abbiamo cominciato, i primi
stranieri che sono entrati nel movimento sindacale, paradossalmente venivamo tutti da paesi che
si dicono paesi islamici: marocchini, iraniani, senegalesi e i primi 111 quadri della Cgil erano tutte
persone che venivano da lì.. Allora, sono integrati questi, oppure subito dopo che è passato un Bin
Laden, cambiano testa e non diventano integrabili? Quindi anche qui, uscire fuori un po’
dall’emotivismo, guardare la realtà nella sua processualità, perché c’è un rischio che vedo.
Quando sento che in Italia si discute di carta dei valori, nata all’interno della Consulta Islamica, mi
veniva il sospetto che si trattava di dire: questi bisogna tenerli buoni, perché altrimenti sono tutti dei
fondamentalisti. Vuol dire che Kurosh, che è il responsabile dell’immigrazione della cgil, Ali Baba
Faye dei Ds, che sarei io, possiamo, perché veniamo dal Senegal, dall’Iran essere una minaccia e
rinnegare i valori di questa Repubblica? Dicendo questo non dico che non ci sono problemi. Anzi i
problemi ci sono, si chiamano moschee sotterranee di cui non si capisce chi entra e chi non entra,
mancanza di un riconoscimento, perché questa è la parola chiave quando si parla di laicità.
L’Olanda, che ha avuto i problemi che ha avuto, sul tema del riconoscimento sta facendo un
dibattito da due o tre anni, riguardo non solo l’Islam, ma questa è la storia della laicità in Olanda,
dagli ebrei ai protestanti, ai calvinisti, per secoli, fino alla Costituzione del 1948 che ha sancito un
modello olandese che, in termini di riconoscimento, dava persino i finanziamenti, non solo alle
scuole, ma anche per altre cose, quindi riconoscendo anche alle religioni una propria capacità di
produrre valore, senso, che può essere utile anche per la convivenza sociale. Ecco, questo è un
ragionamento fondamentale che deve far riflettere. Io chiudo dicendo soltanto che c’è una
questione non negoziabile da un punto di vista civile e delle libertà.
Se è sacrosanta la libertà di religione, non c’è motivo per cui questa possa diventare
un’imposizione per gli altri.
Domenico Maselli
Presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
La veste con cui vengo qui non rappresenta tutta la storia della mia vita. Sono stato relatore della
Turco Napoletano, la legge sulla libertà religiosa che, ahimè, sta ancora nel grembo di Giobbe, ero
relatore della legge sulle minoranze linguistiche, che è l’unica che è passata, non so fino a che
punto è riuscita, però almeno quella è passata. Questo dopo 46 anni di insegnamento di storia
delle religioni e di storia del Cristianesimo all’Università di Firenze. Quindi, come capite, gli
interessi qui sono vari, poi c’è parte della mia vita, c’è Franzoni, c’è il ricordo di Balducci, che è
stato uno dei più intimi miei amici, quindi per me la cosa è molto complessa. Parlerò anche
naturalmente come Presidente di un ente, che è una comunità cristiana di servizio essendo stato
tutta la vita un ribelle. La prima domanda è la domanda che voi avete fatto a tutti, generale:
credere da laici è possibile? Io mi chiedo: essere laici, da credenti, è possibile? Si, non soltanto è
possibile, ma è doveroso perché? Perché solo chi ha dei valori…. Veri valori non sono quelli che si
impongono ad altri, veri valori sono quelli che rientrano nella morale laica, kantiana, (che neanche
a farlo apposta era un credente), cioè l’imperativo categorico che mai una donna e un uomo
possano essere mezzo della mia azione, ma debbono essere soltanto fine della mia azione e che
nessuna mia azione può non essere universale. Questi sono i veri valori che devono distinguere
chi ha autenticamente dei rapporti che poi diventano rapporti religiosi. Tutte le religioni tutte hanno
esperienze fondamentaliste, ahimè anche il Protestantesimo, c’è un certo signor Bush che, mi
sembra, dice di essere protestante. Parliamoci francamente, nessuno può dire che una religione
ha valori fondamentalisti e un’altra no. Tutti li hanno e viceversa, tutte le religioni, quando sono
autentiche e moralmente autentiche hanno il valore della libertà personale e della ricerca della
libertà dell’altro. Questo rende, per esempio, molto difficile oggi, in un momento in cui ci sono,
qualche volta, anche dalla Chiesa cattolica, dei diktat, per me per esempio, che devo prendere una
posizione di laicità in quel momento e non devo dimenticare la mia fratellanza con i membri di
quella Chiesa, indipendentemente dal fatto che la gerarchia di quella Chiesa ponga, in quel
momento dei vincoli che io non posso accettare. Le due cose non si possono mai dimenticare.
Vorrei ricordare che il primo esempio di stato laico della storia, non era uno stato, era una colonia
in America, era nel Rhode Island la colonia di Roger Williams, pastore battista, fuggito dalle
colonie puritane che imponevano una religione, che fonda la città di Providence e dice: siete tutti
liberi di avere la religione che volete e la città deve tutelare la vostra possibilità di esprimere i vostri
valori. Data? 1635. Quindi prima del cosiddetto Illuminismo più o meno ateo o più o meno
religioso. Immediatamente dopo, i cattolici creando il Maryland, hanno applicato questa laicità dello
Stato, che serviva ai cattolici come era servita ai battisti e che da quel momento è diventata
importante. Gandhi si preoccupò moltissimo quando seppe che l’ultimo califfo era scappato in Libia
e poi si era perduto, nella Libia fascista. Ebbene, Gandhi diceva: tra settant’anni il mondo vedrà
che cosa significa avere umiliato una grande religione internazionale. E cercò, lui, hindù di fondare
il califfato in India, questo perché si rendeva conto del problema che nasceva per tutti.
Ora io mi pongo questo problema. Lo Stato deve garantire la libertà religiosa, ma non solo
religiosa, di tutti. Ma è vera libertà quella di chi non ha conoscenza dell’altro? Se in questo Stato
non si è mai insegnato storia delle religioni nelle scuole in modo scientifico, come facciamo a
pensare che ci sia autentica tolleranza tra i cittadini e autentica conoscenza tra i cittadini? Questo
della scuola è il primo grande problema. L’Inghilterra, a cui io sono molto affezionato, ha provato
su di sé che cosa è successo con le scuole private confessionali, che hanno formato i terroristi.
Perché, se nella scuola non c’è una reciproca conoscenza, una reciproca crescita e un autentico
rispetto l’uno dell’altro, di valori che diventano davvero valori condivisi e che nessuno impone a un
altro, non ci può essere questo. Ora è strato citato Senghor. Quando La Pira invitava Senghor a
Firenze, c’era questo tentativo almeno di riconoscere almeno l’unità dei figli di Abramo. Io credo
che il tentativo vada molto più in là, l’unità è l’unità degli uomini. Quando l’amico Balducci parlava
del mondo planetario, dell’uomo planetario, aveva perfettamente ragione e da cristiano,
permettetemi di ricordarvi, qualcuno gli diceva che il suo messaggio doveva essere un lievito che
si annullava nella pasta. Un lievito è buono se non lo si sente più. Se veramente crediamo per
esempio al Cristianesimo come lievito o all’Islam come lievito, diventa un lievito nel momento in cui
non si sa più chi è che lo porta perché fa montare la pasta. Ecco, io sono convinto che questo sia
un momento molto decisivo per noi. E siamo in grandi difficoltà. Mai il nostro governo ha agito con
più rapidità sul problema religioso che adesso. Devo dire che ci sono state fatte sei intese, che
attendevano alcune da 25 anni, alcune da 15 anni, alcune da 7 anni, sono state approvate dal
governo in tre mesi. Si è passasti rapidamente e adesso bisognerà vedere cosa succederà in
Parlamento. Noi attendiamo quel momento, perché quelle intese portano il nome Buddismo,
Induismo, portano nomi che ci fanno capire che usciamo da questo Occidente prevaricatore, per
avere una visione generale del mondo. E per sentire le voci del mondo che giungono fino a noi. È
in questo spirito che io credo noi dobbiamo in questo momento lottare. Lottare perché l’Italia abbia
una scuola veramente libera, veramente formativa, abbia la possibilità che tutti possano davvero
godere dei diritti fondamentali. Amici miei, se le moschee sono in cantina, in cantina diventeranno
prima o poi terroristi, ma se le moschee sono al pian terreno, belle, aperte, con diritti per tutti è
anche più facile il controllo. Perché non capirlo? Perché non capire che, se si fanno martiri, poi i
martiri tirano le bombe. Io non dico che i doveri non debbono essere sentiti. Dico che i diritti
devono essere dati. E, attenzione alla ricerca. Ecco un altro punto che secondo me, per un
credente è fondamentale. Se io posso vincere l’Alzhaimer lo devo vincere, perché devo amare gli
altri. Non posso, per un mio presunto pensiero, fermare quello che può togliere a qualcuno un
grande dolore. Ecco, questo credo che sia il credente, il credente laico, perché, come è stato detto
prima, anche per noi, non esiste il sacerdozio oppure tutti sono sacerdoti. E io credo di più, che
tutti gli uomini sono sacerdoti di quella unità che è l’umanità in una natura che dovrebbe essere
madre e non matrigna, ma che noi rendiamo matrigna.
Franco Di Maria
Presidente dell'Unione Induista Italiana
Il problema della scuola è un problema fondamentale.Forse non tutti sanno, che per esempio, qui
a Roma, c’è una convenzione con il Comune, alla quale partecipiamo anche noi, per cui in tutte le
scuole romane che ne facciano richiesta e sono una infinità, si insegnano i rudimenti delle varie
religioni. È un impegno gravoso, che occupa tutte le religioni coinvolte, dal lunedì al venerdì tutte le
mattine. Io ci vado spesso, e sapete cosa mi colpisce? Mi colpisce, non che non sappiano i
rudimenti dell’Induismo, questo lo ritengo assolutamente scontato. Mi colpisce che, non solo nelle
scuole medie inferiori, ma anche nelle scuole medie superiori, salvo qualche liceo, ma pochi, un
paio, gli studenti non sappiano neanche i rudimenti, ma proprio i rudimenti della religione cattolica.
Se voi parlate a uno studente delle scuole medie superiori, che non sia liceo classico o scientifico,
a me capita spessissimo, e parlate di monoteismo, ti guardano come se tu avessi detto una
bestemmia, non sanno i rudimenti, quindi figurarsi se conoscono i rudimenti dell’Islam,
dell’Induismo e così via. Quindi i problemi sono veramente tanti.
Voglio provare ad essere chiaro ed avere anche tutte le critiche che voi riterrete di muovermi. Per
me il tema della laicità è un tema cruciale, anche se, forse, pochi ne avvertono veramente e fino in
fondo l’importanza. Una laicità debole comporta una democrazia debole. Dire laicità è dire
democrazia. E’ raccontare come vogliamo abitare il mondo, come vogliamo vivere, morire, soffrire,
amare, in piena libertà di coscienza, da adulti, direbbe il nostro Presidente del Consiglio, ma nel
rispetto di quel principio fondamentalissimo che è il neminem ledere, il non recar danno ad alcuno.
Principio che comporta, necessariamente, però, il passaggio dalla sfera dell’etica a quella del
diritto. Ed è questo, badate bene, un passaggio ineludibile, è un passaggio fondamentale quello
dall’etica al diritto. Per molte ragioni. Innanzitutto, perché non esiste un’etica, ma esiste una
pluralità di opzioni etiche e dunque non esiste nessuno che abbia il monopolio dell’etica, il
monopolio della rettitudine, il monopolio della vita buona, come ama dire il patriarca di Venezia.
Nessuno. E, anzi, un’etica, qualsiasi etica, che pretendesse di utilizzare il diritto come proprio
braccio armato, quest’etica negherebbe sin dalle fondamenta uno stato di diritto, negherebbe sin
dalle fondamenta uno stato laico. E questo è tanto più vero oggi. Oggi, in questo nostro mondo
sempre più globale, in cui convivono sulla stessa area geografica una pluralità di religioni e quindi
di etiche. Per non parlare, come è stato detto prima, delle persone che non credono, che non sono
perciò stesso degli indifferenti, ma sono dei credenti in altro. Si ricordavano giustamente i valori
kantiani, dell’uomo inteso sempre come fine e mai come mezzo. Dunque un problema di metaetica
semmai, più che di etica. Ecco, questa coesistenza di realtà religiose diverse sulla stessa area
geografica ci impone di pensare ad un pluralismo, ad una laicità che non sia tanto la notarile
registrazione delle diversità, ma sia piuttosto uno strumento di coesione, di conoscenza dell’altro.
La conoscenza è fondamentale, perché, se io non conosco l’altro, come potrò mai dialogare con
l’altro? Ma allora, se la sfida, storicamente inedita, che la globalizzazione ci pone, questa sfida che
consiste nella convivenza sullo stesso territorio di più religioni, che si confrontano quotidianamente
in una sorta di extraterritorialità, come piace dire spesso ai sociologi, se questa è la sfida, allora la
domanda di questo nostro dibattito e cioè, se noi dobbiamo essere, se possiamo essere credenti e
laici, la risposta non può che essere: dobbiamo, come è stato detto, essere laici e credenti. Se
veramente vogliamo evitare quei conflitti e quelle guerre di cui le religioni sono insuperabili
maestre. Il fondamentalismo poi alligna in tutte le religioni. Ecco, ma ci dobbiamo chiedere anche
se è veramente così. Oggi, il credente è laico? Ma soprattutto, oggi, la gerarchia è laica? Il
problema, secondo me, come cercherò di spiegare, non è di oggi, ma di sempre. Ciascuno cerca
di tirare questa coperta corta della laicità dalla propria parte, con tanti se, molti ma, parecchi però,
pronto subito a lanciare l’accusa di laicismo, se qualcuno di questi se, di questi ma o di questi
però, non fosse eventualmente accolto. Ora, certamente, la laicità può essere variamente
declinata, alla francese, all’inglese, all’olandese, però ci sono alcuni principi sui quali non possiamo
scherzare. Questi principi fondamentalissimi sono, innanzitutto e direi forse solo, essenzialmente,
quello che forse a Ratzinger non piace, ma è il relativismo. Una laicità deve essere relativistica,
non può mai essere assolutistica. La laicità non deve avere nessun valore assoluto che non sia la
credenza in se stessa, che non sia il credere e il propugnare quei valori democratici in cui appunto
si riconosce. Questo è l’unico valore assoluto, secondo me, della laicità. D’altra parte Bobbio
diceva che, in fondo, la laicità esprime più un metodo che un contenuto. Il metodo della laicità in
cosa consiste, se non proprio nel suo relativismo, nel non consegnarci mai dei valori definiti una
volta per tutti, una volta per sempre, ma dei valori liquidi, che cambiano con il mutare dei tempi
come è giusto. In realtà, diceva Bobbio, la laicità istituzionalizza ciò che le religioni normalmente
attuano di fatto, soprattutto in tema di morale. Basta pensare alla guerra giusta, alla pena di morte
e così via. Per laicismo, continuava ancora Bobbio, s’intende invece una pretesa difesa dei valori
laici. Pretesa, perché in realtà, il laicismo rinnega fino in fondo e totalmente la laicità, perché
ancora, soggiungeva Bobbio, in realtà, la laicità non è una cultura essa stessa, ma è la condizione
per la convivenza di tutte le culture. E quindi noi dovremmo avere a cuore la laicità. Dovremmo
avere a cuore la laicità perché, senza laicità le varie culture, quindi anche le culture religiose, non
possono convivere. E allora vedete, laicità e valori assoluti, laicità e dogma, piaccia o non piaccia,
sono incompatibili, secondo me. Il che non significa, ovviamente, che al relativismo, per così dire,
della struttura, al relativismo del contenitore, debba, per forza di cose, corrispondere il relativismo
dei valori dei singoli, anzi tutt’altro. È proprio l’elasticità della struttura del contenitore che consente
a ciascuno di lavorare in pace per conseguire i propri obiettivi. Ove si volessero imporre questi
obiettivi, ove si volessero imporre questi valori, e normalmente si impongono in base al binomio
verità – natura, verità - diritto naturale, un binomio che troppi teologi introducono, secondo me, con
una disinvolta acriticità., se questo dovesse accadere, allora saremmo totalmente al di fuori del
perimetro della laicità e anche della democrazia. Ecco, io temo fortemente la minacciosa
sicurezza, non vi sembri una contraddizione, ma temo la minacciosa sicurezza di troppi uomini di
fede, temo la minacciosa sicurezza di troppi teologi, in grado di pensare l’impensabile, di attingere
l’inattingibile, di coniugare fede e ragione, a condizione però che la seconda segua sempre la
prima, di svelare gli insondabili misteri, di sciogliere l’enigma. Ecco, li temo perché hanno solo
certezze, li temo perché sedicenti depositari di verità assolute. E la verità, lo sappiamo bene, non
ammette la propria negazione e dunque è intollerante per antonomasia. Intolleranza che può
essere vestita con maggiore o minore educazione e in questo momento a me sembra che giri
nuda. Allora però io penso che noi con rigore, anche intellettuale, ci dobbiamo porre un problema
che è poi il problema che emerge forse con maggior forza ma non è un problema di oggi. Rodotà
scriveva qualche settimana fa che non possiamo più parlare, non possiamo più interpretare, per
esempio, le azioni della chiesa cattolica con le vecchie categorie, non si tratta più di invadenza si
tratta di qualcosa di altro. Io non sono d’accordo. Le categorie sono sempre esattamente le stesse.
E allora noi dovremmo chiederci con umiltà ma anche, ripeto, con rigore intellettuale quale sia e se
ci sia, quale sia la visione della chiesa cattolica e parlo della chiesa cattolica perché noi viviamo in
Italia. Io sono induista ma non faccio l’indiano. Vivo in Italia. È un problema che mi interessa. Ecco,
qual è la visione della chiesa cattolica? Qual è il rapporto della chiesa cattolica con il pluralismo,
con la libertà, con la democrazia? E questo è un problema che ci riguarda tutti perché la chiesa
cattolica è una realtà che non possiamo certamente ignorare, dimenticare. Allora che la chiesa
cattolica manifesti oggi la sua intenzione di essere democratica è fuori di dubbio. Tuttavia molti, ad
esempio Emanuele Severino, si chiedono se, a questa intenzione e al di là di questa intenzione, la
logica oggettiva della sua fede non la porti invece in direzione diametralmente opposta. In altri
termini, la fede cattolica, nella sua essenza autentica, può essere effettivamente, al di là delle
enunciazioni di principio, delle adesioni, amante della libertà e della democrazia? E questo è un
interrogativo tremendo. Allora quali conclusioni noi dobbiamo trarre dal monito ultimativo e
perentorio di Ratzinger a proposito delle unioni di fatto? Ha detto il Papa: “La famiglia ha la sua
stabilità nell’ordinamento divino. Il bene sia della società che dei coniugi non dipende dall’arbitrio.
Nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società
con leggi in netto contrasto con il diritto naturale. “
Allora io dinnanzi a queste dichiarazioni mi chiedo quale sia la conseguenza logica che uno deve
trarre. Esistono, secondo il Pontefice, dei valori etici universali al cui fondamento c’è una verità
ultima, cioè l’ordinamento divino che guida e orienta tutto l’agire umano, dunque anche l’azione
politica. L’esistenza di questa verità ultima esclude che una qualsiasi legge possa sovvertire le
norme del Creatore. E qui però a me pare che il cerchio si chiuda perché la verità ultima coincide
con la verità cristiana, anzi mi correggo, cattolica; quest’ultima deve guidare l’agire umano nella
sua globalità e dunque anche l’azione politica. Lo stato quindi, almeno quello italiano, non può che
approvare, diciamo, non può che essere cattolico, non può cioè che approvare delle leggi che
vietino di infrangere questi principi. Ma poiché, lo sappiamo tutti, non esiste una norma che non
preveda una sanzione per chi la violi, allora a me pare, che la sola conclusione possibile è che la
Chiesa miri a costruire una società in cui la trasgressione ai suoi principi e ai suoi valori e ai suoi
insegnamenti riceva una punizione: qui, ora, subito sulla terra prima ancora di quella prevista per
l’aldilà. Però, francamente, non so se una simile visione possa articolarsi e possa coniugarsi con la
democrazia. A me parrebbe di no. E allora noi laici, e credo che qui nessuno si scandalizzi se un
religioso si definisce laico, questo è il tema del nostro incontro, io credo che noi abbiamo il dovere,
se condividiamo questa analisi, di prendere atto di questa realtà e, dunque, di una
contrapposizione che, a mio parere, è una contrapposizione frontale con la gerarchia della Chiesa.
La gerarchia, perché, guardate io di cattolici ne conosco tantissimi e devo dire che non ho mai
trovato uno che si identifichi con la gerarchia…mia madre ha 88 anni, è una cattolica combattiva,
intelligente, farebbe l’avvocato meglio di quanto lo faccio io, e lei resta perplessa di fronte ad alcuni
atteggiamenti del vertice della Chiesa. E, alla fine, quando è proprio messa in un angolo, quelle
volte che ci riesco, mi dice: Sì, va bene, ma esiste pur sempre la libertà di coscienza, i dogmi sono
pochi e quindi io questo non lo accetto. Per questo io ci tengo a specificare che una cosa è la
gerarchia, il magistero, altra sono i cattolici. Io direi che della verità non si possa dir troppo. Questa
è almeno la mia impressione. Meno si dice, forse, e meglio è. Della verità bisognerebbe parlare
forse con il silenzio. Un mio amico buddista dice una frase che a me piace tantissimo, tanto che mi
piacerebbe averla detta io, dice che la teologia, che parla di ciò che sappiamo, non può essere
espressa, che parla di ciò che sappiamo non si può dire, assomiglia ad una lunga prefazione
senza libro. Io lo trovo bellissimo questo, perché, in realtà di Dio, dell’Assoluto, non si può
veramente parlare. E allora, ecco, forse la formulazione della verità come ambivalenza, come
luogo di tutti i possibili opposti, come coincidentia oppositorum, così cara al pensiero Hindu, ecco
allora forse, questa formulazione della verità ci potrebbe aiutare ad essere un tantino più laici e ci
potrebbe aiutare ad instaurare un vero dialogo con le altre religioni, il cui presupposto ineludibile è
la rinunzia a qualunque rivendicazione assoluta. Recita Rigveda, che è il testo sacro, come sapete,
degli Hindu, recita: la verità è una, ma i saggi la chiamano con molti nomi. A me pare che questa
sia una formulazione laica di oltre 4000 anni fa. E forse da questa formulazione, potremmo aver
qualcosa da imparare. Forse, magari qualcuno potrebbe pensare che si tratta di relativismo, una
concezione relativistica della verità, ma io penso invece che la pretesa di possedere un sapere
incontrovertibile, che dica l’ultima parola sul mondo e sull’uomo, sia una pura illusione che lascio a
chi la coltiva. Questi recinti del pensiero, che non consentono più ulteriori interrogazioni, che
credono di afferrare l’inafferrabile, l’inattingibile, l’incomprensibile, feriscono, a mio avviso
gravemente, feriscono a morte la verità, che se c’è sta al di là, sta altrove e che quei recinti non
riusciranno mai a catturare.
Dom Giovanni Franzoni
Scrittore e teologo
Penso che sia stato detto già moltissimo. Quindi, una delle conclusioni a cui, strada facendo, si è
arrivati è che alla domanda se si possa essere laici e credenti si è risposto quasi da tutti che si
deve essere. E una delle garanzie fondamentali dell’essere credenti è di non riposare su un
assoluto acritico. Antonia Sani, per esempio, già proponeva di mettere questo criticismo quasi al
posto della parola laicità. Non so che cosa resti da dire. Personalmente, nella mia vita, questa
scelta di credere in un contesto di laicità rivendicata, non soltanto come rispetto, ma anche come
controprova di cosa significava essere credente ha avuto varie componenti. La prima è stata mia
madre. Non c’era problema di famiglia, perché mio padre è morto molto giovane, la famiglia di mia
madre era austriaca, cattolica credente e così via. Tornati dalla Bulgaria stavamo a Firenze, e
quando io tornavo da scuola, e ci avevano imbottito la testa col fatto che gli ebrei erano sfruttatori
del popolo, una razza inferiore eccetera, mia madre, immediatamente, mi inoculò: strano, in
Bulgaria, le mie migliori amiche erano ebree. Fin dall’inizio, nella mia storia, tutto si è svolto così, a
partire da un cattolicesimo fondamentalista; da lì in poi, la mia professoressa di filosofia, la De
Domenico, era kantiana, proprio le debbo moltissimo per questo rispetto reciproco che aveva e
questo suo interrogativo che mi ha seminato dentro: chi è credente può avere alcune indicazioni,
ma bisognerà pur che ci sia un etica per i non credenti.
E allora, a proposito di fede, di teologia e filosofia, mi pare giusto ricordare quelle che credo siano
le ultime parole scritte da Kant, prima di morire nella pace perpetua. Lui aveva avuto le bacchettate
dal ministero prussiano perché aveva scritto: “La religione nei limiti della ragione” e quindi aveva
promesso di non scrivere più di religione. Allora dice: si dice sempre che la filosofia è ancella della
teologia, ma questa ancella precede la sua nobile signora con la fiaccola della luce o la segue per
tirargli lo strascico? Poi la generazione di Balducci, La Pira, ci ha insegnato che fede era mettersi
in gioco personalmente. Non era tenere un gruppo di credenze, ma era continuamente essere
disponibili a mettersi in gioco e anche mettere in gioco tutto. Forse qualcosina dovevamo anche al
fascismo. A ciò che c’era di meno peggio del fascismo e cioè la disponibilità a giocare alla vita,
dopo c’erano gli orrori gli orrori del nazionalismo esasperato, dello spirito patriottardo, poi si infilò
dentro anche il razzismo e così via. Certo anche la violenza e tutto quello che volete, ma mettersi
in gioco personalmente, io ricordo a Beirut, mi sono fermato, mi sono commosso, quando gli amici
palestinesi mi hanno portato sotto un albergo dal quale, dall’ottavo piano, tre falangisti fascisti si
erano suicidati per non cadere vivi nelle mani dei palestinesi. Come fai a non fermarti di fronte a
questo e a non rispettare la morte. Capisci la morfologia di ciò che significa essere credenti e
deponi la corteccia, la scorza dei contenuti dogmatici. Un altro padre, per me, è stato Alfonso Di
Nola, dal punto di vista antropologico. Se andate a prendere i suoi scritti sulla religione, sui
fondamentalismi trovate delle contraddizioni. Lui acquisisce il fatto che per Bart l’essere stati
religiosi è stato addirittura un peccato. Quindi il credente deve chiedere perdono a Dio di essere
stato religioso o di essere religioso. Però dice anche che dal punto di vista antropologico ed
etnografico, religione e cultura si intrecciano profondamente in tutte le popolazioni. Poi i
fondamentalismi nascono come reazione alla rottura di questa unità antropologica che c’è stata.
Quindi lui ammira questo fatto, però poi dice: i protestanti sono andati avanti su questo, ma hanno
le chiese vuote. E’ un’avventura seguire queste grandi menti, questi grandi profeti. La cosa su cui
io vorrei dire qualche cosina un po’ diversa è: è uscito questo discorso della coesistenza, quindi
del rispetto delle varie culture, delle varie religioni. Ecco, qui sono debitore a Lorenz del concetto di
sussulto. Lui ne parla per altri motivi, nel contesto evoluzionistico. Un conto, è chiaro, è il rifiuto,
l’ostilità, la guerra, un conto è la contaminazione o il sincretismo, che è un pasticcio che si può
fare, un conto è il fatto che una determinata area culturale, religiosa, dalla quale poi sprizza, esce
fuori anche la vita che si mette in gioco e si spende completamente, quindi la fede, quando entra in
contatto con un altro sussulta, cioè non si converte, ma sussulta su se stesso, cioè scopre che
c’erano delle sedimentazioni, degli invecchiamenti nel proprio essere ciò che era, per cui se ne
libera: si potrebbe dire che la libertà non soltanto finisce dove comincia la libertà di chi ti sta
accanto, ma per così dire invece comincia. Perché la libertà mia si nutre della libertà tua. Come
nella foresta dell’Amazzonia la vegetazione si nutre a vicenda. Ora lo Stato, e qui è emerso
quando si è detto da parte di qualcuno che non soltanto, per così dire, fa l’arbitro col fischietto per
consentire che le varie forme di religiosità o di cultura stiano una accanto all’altra come stanno i
faldoni dentro un archivio, stanno lì per ordine alfabetico e non rispondono fra di loro. Mentre
invece, uno stato che favorisce l’incontro favorisce che esista una sorta di ringiovanimento di ogni
religione dentro a se stessa. Però questo lavoro, in questo momento, come diversi di voi hanno
notato, non è facile. Non è facile perché esistono interferenze di carattere politico, timori e così via.
Di per sé, è chiaro, che uno potrebbe riscoprire le proprie radici proprio a contatto con un altro.
Non so, a proposito di induismo, è indubbio che Gandhi ebbe un sussulto sul suo induismo in
contatto con altri, apprese molto dalle forme di lotta non violenta degli irlandesi, oppure in
Sudafrica e così via. Quindi apprese molto e si guardò bene dal convertirsi però. Si guardò bene
dal convertirsi e sussultò su se stesso andando a scoprire che, per esempio, tutto il sistema delle
caste non è poi essenziale nell’Induismo. Lui poi era Jain, quindi ha insegnato la strada. Io negli
scritti sull’eutanasia lo utilizzo molto, perché qui siamo tutti assediati da questo fatto che le cure, la
terapia del dolore, la terapia del morire sia una forma per sfuggire al dolore. Ma nel Jainismo non è
solo questo. Al momento in cui la vita di una persona, particolarmente di un monaco, nel caso di
un Jain, arriva in contraddizione con se stessa, c’è l’assottigliamento, c’è il digiuno, c’è
l’assottigliamento della forma corporea fino, in alcuni casi, all’estinzione o con la capacità anche di
tornare indietro. In ogni caso c’è una maestria fondamentale nel tenere sempre il timone in mano.
Quindi non è nessuno, né il medico, né un indottrinamento o un ordinamento gerarchico che ti
viene a dire cosa devi fare. E su tutte queste cose io direi che c’è una grande pigrizia. Termino
dicendo che purtroppo, se la Chiesa cattolica gerarchica si allarga tanto è perché ci sono degli
spazi vuoti che sono lasciati vuoti dalla pigrizia e dalla paura, sia delle forme religiose, per esempio
il Luteranesimo credo abbia grosse responsabilità perché ha un grosso messaggio. Se non
sbaglio, quando Lutero morì, gli fu trovato un biglietto accanto, in cui lui, di pugno suo aveva
scritto: siamo mendicanti. Cioè, nei confronti della verità siamo alla ricerca. L’importante è che non
si rallenti questa ricerca, questa andrebbe stimolata, andrebbe fatta. Negli spazi vuoti si inserisce
tutto quanto. E qui finisco con una storiella simpatica. Nel ’74, quando ci fu il referendum sul
divorzio, il 12 maggio, eravamo in casa di compagni, di amici.. E io dicevo, il 12 maggio c’è stata
una vittoria della sinistra. È stata anche guidata, dal Pci e così via. Perché non se ne fa un punto di
riferimento, di memoria. Allora intervenne uno molto importante del Pci e mi disse: compagno
Franzoni, il Partito, questo referendum, non lo voleva. C’è stato, l’ha guidato, l’ha vinto, dunque
l’ha perso. Io ammutolii. Fra l’altro essendo novizio in questo ambiente ammutolii di fronte a tanta
sapienza. Adesso il 12 maggio verrà occupato dal Family day. L’abbiamo lasciato vuoto, fate un
po’.
Gianna Cioni
Mi sembra di poter dire che c’è stato, lo sintetizzo con una frase, un accordo sostanziale sul tema
della laicità, anche se arricchito da una varietà che porta anche ad usare termini diversi, che però
è una ricchezza. E noi non vogliamo assolutamente uccidere queste ricchezze. Mi sembra allora di
poter dire, faccio una provocazione, almeno per tre persone, non per tutti che, se noi crediamo
nella laicità, noi dovremmo dire che, in uno Stato laico, la scuola deve essere una scuola pubblica,
laica e non una scuola religiosa, di nessun tipo di religione.
Caterina Gammaldi
Io sono invitata a nozze da questa domanda. Perché non credo ci sia possibilità, almeno per
quanto mi riguarda, di spazi per scuole confessionali dentro questo discorso del pubblico. È anche
uno dei motivi per i quali, prima, criticavo la presenza dell’insegnamento della religione cattolica
nella scuola dello Stato. Lo dico da cattolica, lo dico nel rispetto della Costituzione italiana, le
scuole confessionali hanno spazi all’interno della Costituzione, ben chiari, nel senso che senza
oneri per lo Stato significa senza oneri per lo Stato. La libertà è garantita, a chi volesse utilizzare
questa possibilità. Io credo che sia storia importante del nostro Paese, quello di avere scelto la
scuola statale e l’impegno dello Stato per garantire la pubblicità della scuola. È chiaro che abbiamo
una legge di parità. E quindi, dentro questa legge di parità, per giunta voluta da un ministro che
non era sicuramente cattolico, noi dobbiamo muoverci e abbiamo tutta una serie di problemi. Gilda
si poneva il problema degli insegnanti di religione cattolica nella scuola dello Stato, che ahimè,
sono diventati di ruolo, massicciamente, in numero preponderante. Allora, io credo che questo
tema non ci debba far dimenticare che questi lavoratori della scuola, li voglio chiamare così, non li
voglio chiamare insegnanti di religione cattolica, purtroppo, nel momento in cui entrano nel sistema
pubblico, usufruiscono di tutta una serie di vantaggi e scorciatoie. Gilda si chiedeva: li possiamo
trasformare in insegnanti di storia delle religioni e affidare a questo insegnamento..? No. Perché
loro insegnano Irc: insegnamento della religione cattolica. E sono soggetti alla curia per quanto
riguarda questo insegnamento. Tanto è vero che quegli insegnanti di religione cattolica che
dovessero divorziare o avere un figlio fuori dal matrimonio, vengono mandati via dal sistema
pubblico dell’istruzione. Allora il mio problema in questo momento è difendere una prerogativa: che
nella scuola pubblica si entra con un concorso pubblico avendo fatto un percorso dignitoso e
rispettabile per accedere ai ruoli e personalmente sono convinta che non possiamo privilegiare
scorciatoie in questa direzione. Questo non significa che il tema della storia delle religioni non sia
un tema attuale, però allora ragioniamoci rispetto a discipline ahimè, speso sacrificate, penso alla
storia, penso alla filosofia, penso agli studi sociali eccetera, che invece dovrebbero trovare uno
specifico in questa direzione, con tutto il rispetto che si deve a chi lavora dentro la scuola.
Fernando Liuzzi
Posso raccontare un piccolo episodio.alcuni anni fa mi telefonò un redattore di Liberal, una rivista
nota, che si rivolgeva a me, in quanto ebreo attivo nel mondo ebraico, nella speranza, questa
l’impressione che ebbi, che io gli facessi una dichiarazione contro la scuola pubblica. Nel senso
che essendo io esponente di una minoranza dovevo essere secondo lui per le scuole private. E
invece io gli spiegai esattamente il contrario. Perché, pur essendo chiaro che io sono ovviamente a
favore di questa libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione, e quindi, se qualcuno vuole
fare una scuola privata, ivi compresa una comunità ebraica, deve essere del tutto libero di poterlo
fare, però a fortiori, per una minoranza, è più importante l’esistenza di una scuola pubblica.
Perché, per fare scuola privata, ci vuole una massa critica, che per esempio, gli ebrei a Roma
hanno e a Forlì no, ma neanche a Ferrara. Anche dove ci sono antiche comunità, magari non c’è
la quantità sufficiente per fare una scuola. Quindi, avere ovunque la scuola pubblica che
garantisce a tutti la stessa base di cultura e di informazione.
Io credo che la scuola pubblica non dovrebbe avere, lo uso con moderazione questo condizionale,
non dovrebbe avere un insegnamento di una particolare religione. E devo dire che, al di là dei
grandi principi nell’ambito di una esperienza di vita, io non sarei molto favorevole alla istituzione di
un insegnamento di storia delle religioni a fianco o in sostituzione dell’insegnamento della religione
cattolica. Perché credo che, come è stato appena detto, sia molto più importante che la scuola
pubblica insegni, se ci riesce, la storia, quindi quelle grandi linee e la storia del pensiero e dentro la
storia del pensiero c’è un po’ tutto, piuttosto che avere un insegnamento di storia delle religioni che
rischierebbe di essere un insegnamento delle religioni viste da un punto di vista cattolico senza
dichiararlo. Perché, io quando andavo nella scuola pubblica, ero esonerato dall’ora di religione
essendo ebreo, però magari andavo, se volevo restavo. E se c’erano, come mi è capitato al liceo,
un paio di gesuiti di valore, io magari restavo in classe e sapevo che quello era un sacerdote
cattolico, che faceva finta di non esserlo, era tutto chiaro, alla luce del sole. Mentre invece, avere
un insegnante che si presenta come un funzionario dello Stato che ti racconta una verità obiettiva
che invece è un punto di vista mascherato, credo che sarebbe una cosa disastrosa.
Ali Baba Faye
Faccio solo una battuta, perché prima non ho potuto, per insistere su un aspetto che riguarda per
esempio le unioni civili e i matrimoni dei gay che sono una cosa di cui si discute. Mi è venuta in
mente una cosa che ripeteva mia nonna, perché qui ciascuno ricorda. Mia nonna mi diceva
spesso: guarda che dio è onnipotente – lei è musulmana- è dio che ha creato l’uomo.
Creazionismo. Dico: che cosa mi vuoi dire rispetto a questo. Mi dice: perché devi avere l’umiltà,
quando parli del concetto di peccato. Perché se dio è onnipotente e dio ha creato l’uomo e l’uomo
è un peccatore, dio contempla il peccato.
Domenico Maselli
La scuola deve essere scuola di Stato, scuola pubblica e devono evitarsi i ghetti. Quando io parlo
di insegnamento di storia delle religioni c’è una ragione: che, venendo in Italia persone diverse,
con culture e religioni diverse, bisogna riuscire a conoscerle. Naturalmente io parlo di insegnanti
che siano usciti da un insegnamento universitario, laico, scientifico e non mi interessano gli
insegnanti Irc. Se c’è l’Irc, questo va a fianco. Perché, la storia delle idee non basta? Perché
dobbiamo sapere, le persone che arrivano che cosa ci portano e chi sono. Quanta gente è in
galera perché, il carabiniere non conosceva un’usanza islamica della persona che aveva di fronte
e l’ha preso come una mancanza di rispetto. Ci sono centinaia di persone in galera per queste
ragioni. Ci sono centinaia di bambini nelle scuole che si sentono emarginati perché la maestra non
li conosce. Amici miei, qui è il problema. Come c’è un problema linguistico, e nessuno di noi può
dire che possiamo non tener conto del fatto che non sanno la lingua e quindi, per insegnare la
lingua, dobbiamo partire dalle loro lingue. La stessa cosa vale per l’antropologia e per la religione.
Abbiamo milioni di persone che vengono, dobbiamo accoglierle. È una cosa nuova per noi.
Franco Di Maria
Noi abbiamo firmato, come Unione Induista l’intesa e, me nolente, sono stato costretto ad inserire
anche la possibilità di scuole induiste. Io non sono assolutamente d’accordo, ma le regole della
democrazia sono le regole della democrazia. Anche io sono contrario ai ghetti, io non manderei
mai mio figlio in una scuola induista. Trovo che, come dice mia moglie, che è un insegnante di
scuola pubblica, la scuola pubblica è comunque sempre, la migliore. È una terra di confronto con
la diversità, con gli altri, quindi personalmente pur avendo firmato la possibilità di istituire delle
scuole confessionali, la cosa non mi piace minimamente. Sull’insegnamento della storia delle
religioni io sarei d’accordo. Certo, alle condizioni a cui Domenico Maselli faceva riferimento. Devo
anche dire però una cosa in relazione agli insegnanti di religione cattolica. Innanzitutto, faccio
riferimento proprio a questa esperienza di Roma, a questo tavolo interreligioso, istituito dal comune
di Roma e quindi a queste lezioni che, sei o sette religioni fanno alle scuole che ne facciano
richiesta, che come dicevo sono un’infinità. Il 90, 95 per cento delle richieste provengono dagli
insegnanti di religione cattolica, che dimostrano una grandissima curiosità, e nello stesso tempo
una grandissima, ma questo è più che legittimo, ignoranza. Proprio per questo ci chiamano. Ve ne
dico una e con questo chiudo. Voi sentite sempre parlare dei tre grandi monoteismi Voi leggete
anche persone che potrebbero essere non giornalisti, non che abbia niente contro i giornalisti, un
giornalista chiaramente è superficiale, ma voi leggete, faccio un nome a caso, Messori, per
esempio: vi dirà che l’induismo è religione assolutamente politeista. Quindi c’è bisogno di grande
chiarezza
Dom Franzoni
Sono scettico nei confronti dell’insegnamento della storia delle religioni e lo debbo questo proprio
ad Alfonso Di Nola, perché lui pensava che la storia delle religioni corra il grosso rischio del falso.
Perché, facendo la storia delle religioni, c’è il grosso rischio che si parta appunto dal politeismo,
dalle religioni animiste, feticiste. Bisogna pensarci. Per esempio Algonchini e Winnebago,
nell’America del Nord erano monoteisti, invece. Poi dopo Akenaton in Egitto, poi la monolatria, poi
il monoteismo, poi il cristianesimo, piano, piano si costruisce una piramide che sfocia nella
religione…questo rischio c’è.
Quindi io preferirei, l’ho proposto tante volte, sempre inascoltato e anche contrastato nella mia
stessa area, perché mi dicono che l’antropologia culturale sarebbe troppo difficile. Ma sapere per
esempio quali sono i riti di sepoltura o i riti, gli atteggiamenti culturali e anche religiosi nei confronti
del parto o della nascita, il sorgere e il tramontare del sole, una serie quindi di archetipi si
potrebbero studiare, sarebbe dare ai giovani le chiavi di accesso. Cosa significa togliersi i sandali.
Mosè davanti al roveto ardente si toglie i sandali, anche gli islamici se li tolgono. Cosa significa
l’aniconismo. Tu dici i monoteisti. Ma il cattolicesimo è monoteista? Ma l’Ebraismo è aniconico, non
rappresenta, l’Islam è aniconico, non rappresenta, né animali, né umani, né volti. I Protestanti sono
aniconici, al massimo i Luterani la croce, ma non il crocifisso, perché c’è un’immagine umana
sopra. I nostri ragazzi sono inzeppati di padri Pii, di madonne, di crocifissi, di santi di tutti i tipi e
così via. Dov’è il loro rapporto monoteistico? È un interrogativo.. Allora dare le chiavi. Io propongo
invece l’antropologia culturale, che naturalmente, essendo antropologia culturale, è
necessariamente anche religiosa. Ma io dubito che, per esempio, gli islamici gradirebbero che ci
fosse un insegnante, magari ateo o cattolico, che insegna Islam o Corano. D’accordo
assolutamente che si accede alla cattedra per laurea e concorso, che quindi la scuola deve essere
statale. In quanto alla materia per occupare quell’ora, lasciarla vuota, di nuovo tremo. Quindi,
secondo me, la lotta contro l’ora di religione confessionale e la cultura antropologica che
naturalmente dà le chiavi di accesso per poter interpretare domani e rispettare i vari atteggiamenti
religiosi che uno riscopre.
Giulio Giorello
Docente di Filosofia della Scienza all'Università Statale di Milano
Vi prego di scusare il fatto che sono arrivato tardi, non ho potuto sentire tutta questa interessante
tavola rotonda perché avevo un impegno precedente a Foligno, dove abbiamo presentato un libro
di Bruno De Finetti, il grande matematico e militante radicale fra l’altro. Il titolo del libro di De
Finetti, anno 1934 era “L’invenzione della verità”, scritto rigorosamente con la “v” minuscola, tanto
per mostrare di verità di quelle che non ammettono negazioni. Queste sono verità della vita di tutti i
giorni o della scienza come si fa quotidianamente, che ammettono negazioni e talvolta negare una
verità, mica sempre, permette però di andare abbastanza avanti rispetto quello che si era prima
stabilito. Io Prima ho sentito citare Norberto Bobbio. L’ho sentito citare, devo dire, con grande
soddisfazione e piacere personale. Mi viene in mente una dichiarazione di Bobbio, resa a un
giornalista cattolico che lo ha intervistato pochi mesi prima della sua morte. Norberto diceva,
proprio riguardo a molti temi toccati qui, che il problema non è tanto quello di contrapporre fede o
fedi al plurale e ragione o forme diverse di declinare la ragione, quanto di tener conto che in una
concezione laica della cultura, come noi la pratichiamo oggi o dovremmo praticarla in paesi
avanzati sotto il profilo tecnico - scientifico, la contrapposizione è semmai tra l’impresa tecnico scientifica, con tutte le sue capacità di cambiare il mondo e di operare nella vita quotidiana, con i
ritorni che ha l’impresa tecnico - scientifica nei confronti della nostra stessa esistenza e dall’altra
parte, alcuni tentativi di normare, di sbarrare, di chiudere, la libertà della ricerca. E’da questo che
vorrei prendere le mosse. Perché circolano purtroppo delle curiose caricature del pensiero
scientifico e queste caricature sono interessanti o anche divertenti da un punto di vista
antropologico, meno divertenti quando poi sostanziano delle politiche. Mi spiego subito con un
esempio. Giovedì 12 aprile 2007, pagina 20 della Repubblica: “Benedetto XVI rilegge Darwin:
L’evoluzionismo non basta per spiegare la creazione”. Darwin non aveva mai avuto l’intenzione di
spiegare la creazione, ma più interessante è il modo con cui viene respinto l’evoluzionismo
darwiniano dal dotto Joseph Ratzingher: si tratterebbe di una teoria che non è completamente
dimostrabile, perché mutazioni di centinaia di migliaia di anni, non possono essere riprodotte in
laboratorio. Fine della citazione. Ora supponendo che il resoconto di Repubblica sia un resoconto
veritiero, c’è da domandarsi quale concezione della scienza abbia il dottor Ratzinger. Il pretendere
che siano riproducibili in laboratorio mutazioni che prendono migliaia e più di anni, è una richiesta
assurda. In questo modo non sarebbe nemmeno scientifica la teoria della deriva dei continenti di
Wegener o la tettonica a zolle, che ha tra l’altro dato forti appoggi alla teoria di Wegener, per non
parlare della cosmologia scientifica. Chi è che è in grado, in laboratorio di riprodurre la nascita di
un universo o un mini big bang? E poi, se anche lo potessero fare, sarebbe meglio che non lo
facessero, per tutta una serie di ovvie conseguenze. Mi scuserete, io sono un fisico di formazione,
matematico-fisico di formazione e quindi sono molto sensibile a questo tipo di cose. Mi viene da
dire che se c’è oggi una concezione positivistica, vetero positivistica, scientistica, non scientista,
ma scientistica, pesantemente scientistica dell’impresa scientifica, è proprio quella che Ratzinger
ha esposto in queste righe. Liberissimo naturalmente, io lo dico sempre anche ai miei studenti,
ognuno di esprimere le proprie idee, però, se uno mi mette Galileo Galilei nel 1400 e fa di
Emmanuel Kant un seguace stretto di Aristotele, normalmente lo boccio. Quindi, io credo che si
dovrebbe, di fronte ad enunciazioni come queste, da parte delle persone che hanno competenze
scientifiche, e ce ne sono in Italia, avere il coraggio che alcuni hanno avuto, peraltro anche nel
nostro Paese, di dire che queste sono concezioni caricaturali dell’impresa scientifica, che possono
suscitare il divertimento, ma sono molto meno divertenti quando si va a scoprire che, nella famosa
contrapposizione tra disegno intelligente da una parte, e invece il programma di ricerca darwiniano
o neo darwiniano, c’è una bella differenza. Che il programma di ricerca darwiniano è un
programma che è un grande laboratorio a cielo aperto, che promuove una serie di ricerche che
vanno a toccare, non soltanto gli sviluppi della vita vegetale e animale, ma anche, per esempio la
struttura del nostro cervello e quindi sono dei programmi di ricerca estremamente interessanti e
guarda caso, pace a Ratzinger, molto confermati da una serie di evidenze che vengono raccolte
anche in laboratorio, si veda il caso della genetica e della biologia molecolare, mentre se si
applicasse questo tipo di pensiero alle cose che normalmente uno sente dire dalla Chiesa
cattolica, direbbe come un comico americano, che ad un certo punto, dopo aver visto molte
fotografie del Papa che in ginocchio pregava il Signore perché non avvenissero le guerre,
aggiunge: ma il fatto che le guerre avvengano e non lo tengano in considerazione, non lo fa
pensare un po’ che anche Dio forse le sue preghiere non le considera più di tanto? Se uno volesse
usare questi criteri che Ratzinger usa quando parla o straparla del darwinismo, potremmo anche
rendere la pariglia e usare del sarcasmo pesante. Qualcuno lo fa. Il mio amico Piergiorgio
Odifreddi, per esempio è piuttosto bravo in questo tipo di cose. Io però non ritengo che si debba
andare più di tanto dentro le questioni se la preghiera giovi, come giovi. Penso piuttosto che
ognuno fa quello che ritiene meglio, ma il problema diventa che non vengano messe in
discussione le scelte legittime delle persone, in particolare, nel caso dell’impresa scientifica, che
non ci siano discriminazioni su cittadine e su cittadini, né per quanto riguarda l’adire a servizi che
lo sviluppo della tecnologia, in particolare della tecnologia biologica ha messo a disposizione.
Queste sono cose concrete, dietro a questo dibattito pro o contro Darwin che ha avuto nel nostro
Paese esiti comici, come la richiesta della signora Moratti di togliere il darwinismo
dall’insegnamento scolastico, perché la crudeltà darwiniana turba i bambini. Insegnamogli i miti
greci o magari la storia della Bibbia, perché lì di crudeltà non ce n’è, come è noto! Informarsi bene
sulla storia degli Atridi, tanto per dirne una, oppure sulle vicende dei Tebani per dirne un’altra.
Lasciamo perdere alcune piacevolezze tra Sansone e i Filistei: lì andavamo a colpi di mascella di
asino con cui ne ammazzò qualche migliaio. Allora effettivamente, non è che la crudeltà della
natura darwiniana ci debba spaventare più di tanto. Però, vedete che, sotto questi discorsi
generali, generici, in cui si usa una caricatura della cultura scientifica e non una descrizione
minimamente verosimile di che cos’è l’impresa scientifica, dietro di questo, poi ci sono delle scelte
politiche, che sono scelte di potere, che finiscono per minare la libertà delle cittadine e dei cittadini,
creando cittadine e cittadini di seconda classe rispetto ad altri. L’esempio della famigerata legge
sulla procreazione assistita o legge 40 è di questo tipo come ha scritto recentemente riprendendo
la questione, il mio amico Umberto Veronesi: finirà come è fatale che finisca, che persone che in
Italia non possono adire a certi servizi, andranno in Gran Bretagna e quindi ritorneremo a, non so
se sia meglio chiamare una sorta di discriminazione di classe o discriminazione di casta. Quindi
sotto tutto questo discorso, sotto questa pesante invadenza della Chiesa cattolica romana nel
nostro Paese e non solo, ci sono delle questioni ovvie di potere e questioni di discriminazione
molto forti. Certo, rese adesso più drammatiche dal fatto che la scienza di oggi non è più, perché si
è sviluppata e ha avuto grandi successi, semplicemente le congetture ardite e coraggiose di
Galileo Galilei, per cui Galileo fu messo di fronte al Tribunale dell’Inquisizione e minacciato di
tortura o nemmeno quelle idee di Charles Darwin sulle scimmie e generi affini che
scandalizzavano tanto la buona società vittoriana britannica.
Quindi è per quello che l’invadenza oggi è la stessa ed è diversa nello stesso tempo, almeno ai
miei occhi. Naturalmente, qui non è in discussione minimamente il diritto di alcune persone di
esprimere idee curiose sull’impresa scientifica. Ne sento alcune dai miei studenti in un liceo, molto
peggio e non ritengo di passare a sanzioni più gravi del dargli quattro, trentesimi naturalmente, e
quindi le cose vanno viste con buon senso. Però mi domando perché non possa rispondere con
altrettanta chiarezza quando vengono fuori cose di questo tipo. Faccio un esempio che mi
colpisce. Viene scritto “vergogna” sul duomo di Genova,questo si è una cosa sgradevole, perché
macchiano un bel portale. Vi prego di credermi che macchiano sempre con scritte di vario tipo la
ben più modesta anticamera dove io entro in casa mia, l’ingresso di casa mia, a Milano. Non è un
capolavoro come il duomo di Genova. Le scritte non le capisco neanche, se non un deplorevole
viva Inter, ma comunque trovo che sia un danno alla proprietà privata e quindi andrebbe represso,
non ho però ancora chiesto, perché hanno scritto vergogna o viva l’Inter o vai all’inferno fottuto
milanista, una scorta armata da parte dello Stato, non vedo perché a quei signori dovremmo
pagarla noi di tasca nostra. Perché, se uno scrive Benedetto XVI rileggiti Darwin e cerca di capire,
possibilmente, di fare lo “sforzuccio” di capire, non vedo perché questa sia una minaccia. Neanche
vergogna! col punto esclamativo, è una minaccia. È un giudizio morale io me ne son prese di
quelle dai sacerdoti nella mia vita, fin da quando uno scoprì che non andavo a messa e mi disse:
vergogna! Ecco, non chiamai la polizia in quel momento. Quindi, queste sembrano, insisto, battute,
ma non sono battute, ciò che c’è sotto, è stato detto bene da una delle persone che ho avuto il
piacere prima di sentire è che, quei signori, vorrebbero costruire un certo tipo di società, in quella
società io non voglio starci. Quindi, lo so, sono una minoranza evidentemente, ma non voglio
starci. Forse qualcuno di voi non vuole starci nemmeno lui o lei e quindi, varrebbe la pena di
andare avanti e approfondire alcuni aspetti di tale questione. Il titolo che mi era stato comunicato
era un titolo abbastanza curioso: “Principio di laicità da un punto di vista filosofico”. Io non so se
laicità abbia un principio, perché è sempre difficile definire in modo persuasivo e definitivo un
movimento di idee. Laicità, è stato detto giustamente qui, non è una particolare dottrina, è un
atteggiamento mentale, una disposizione ad apprendere dagli altri, è un modo di essere. E allora,
se la laicità è qualcosa di questo genere, io non saprei dare un principio, se non fare una
classificazione di azioni che rientrano nella laicità. Per esempio, dal punto di vista proprio dei
filosofi, fa parte di un atteggiamento laico il fare domande, ma qualche volta domande sgradevoli,
quando si ritiene interessante farle. Socrate, andava a chiedere: cosa significava al ciabattino far le
scarpe, al generale cosa significava guidare i soldati ed eventualmente farli crepare, al sacerdote
cosa ritenesse mai per sacro e come mai lui potesse condannare gli altri come empi. Cartesio
riteneva che ogni cosa deve essere messa in dubbio, preliminarmente nelle sue indagini. Cartesio
se l’è cavata abbastanza, per fortuna è riparato in Olanda, Socrate no. Quindi, uno potrebbe dire
che l’atteggiamento critico, il dubbio è l’elemento che rinforza, è la linfa vitale dell’atteggiamento
laico. Io farei un discorso ancora prima. C’è una bella vignetta di Dylan Dog credo di due o tre mesi
fa, in cui un personaggio dice: “nella mia scuola religiosa” -e parla credo di un’esperienza
buddistica- dice “il principio di ogni atteggiamento è il dubbio”. E un altro gli risponde: “no, stai
attenta, il principio non è il dubbio, ma la scelta e anche la scelta di dubitare”. E anche la scelta di
dubitare è una scelta. Questo direi che è raccolto bene in una bella prolusione di Giordano Bruno
in una università tedesca, quando dice appunto: io, non come teologo, come commerciante, come
legnaiolo, ma come filosofo, quando faccio il filosofo, dubiterò di tutto. Scelgo di dubitare di tutto e
le cose che vengono spacciate come non controverse, evidenti e da tutti accettate, queste prima di
tutto voglio mettere in discussione.Questo è proprio l’esempio della scelta del dubbio. Non ha
portato fortuna nemmeno a Giordano Bruno, come voi sapete. Però questa scelta del dubbio
mostra l’interesse di quella che io chiamo, perché la chiamavano allora così, libertà del filosofo.
Libertà della filosofia. Che è una libertà che ogni filosofo, in quanto filosofo esercita, anche se poi
finisce a costruire dei sistemi piuttosto chiusi e dogmatici, come l’ultimo Platone o un certo
Heidegger per esempio. Ma, questa scelta del dubbio, mi pare un elemento costitutivo proprio
della esperienza filosofica. E direi che esperienza filosofica e laicità, non dico che sono la stessa
cosa, ma camminano abbastanza insieme, camminano, non dico mano nella mano, però
abbastanza qualche volta. Naturalmente perché ci sia la possibilità di scegliere, appunto ci devono
essere cose diverse da scegliere. Non so, per esempio, vogliamo scegliere il whisky piuttosto che
la vodka, oppure andare a vedere un western piuttosto che un film iraniano o viceversa. Ecco noi
chiediamo da questo punto di vista, libertà di scelta, anche una libertà banalmente economica,
quella che gli economisti del welfare state chiamano sovranità del consumatore che non è il
consumismo, è il contrario, è il non farsi imporre dagli altri, ma scegliere quello che si può. Certo,
quello che si può, perché le opzioni, in molti casi non sono infinite, ma sono limitate. Proprio per
questo, proprio perché le opzioni sono limitate, è bello, è piacevole, è corroborante, come
osservava il buon vecchio John Stuart Mill, vivere in una società pluralista, in una società dove dio
si dice in molti modi o felicità si può dire in molti modi o anche giustizia si può dire in molti modi.
Dove il mio vicino non ha esattamente i miei gusti, sennò pensate che noia. Dove posso scegliere
di leggere Tex Willer invece di dedicarmi a Bruno De Finetti. Però, se mi mettessero Tex Willer
come imposizione mi verrebbe dopo un po’ alquanto noioso. Allora, quando uno dice così, sempre
dall’umorista che sta in Vaticano, viene considerato un relativista, anzi, ci sarebbe oggi una
pericolosa dittatura del relativismo. Questo è il grande male che annienta, per Ratzinger, il nostro
mondo. Questa volta non è riportato da Repubblica, lo riportano tutti i giornali nell’omelia Pro
Eligendo Romano Pontifice quindi a poche ore da quella che chiamerei la promozione ed è
curioso, perché io pensavo che i grandi mali del mondo fossero il razzismo, la discrepanza nord
sud, il diffondersi di epidemie pesanti anche perché i farmaci non ci sono o se ci sono non
vengono venduti, ricordiamo la coraggiosa denuncia qualche mese fa di Nelson Mandela, io
credevo che fossero questi i mali del mondo. Invece si scopre che è il relativismo. Anzi, rischiamo
la dittatura del relativismo. Così ho appreso che i relativisti sono dei dittatori oppure che i dittatori
sono dei relativisti. Hitler, notoriamente, un grande relativista, Stalin, Mao Tze Dong. Tutti dei
relativisti, come è ben noto. Infatti, i massacri, gli stermini, li fanno i relativisti. Io credevo che li
facessero i dogmatici, i fondamentalismi, i razzisti eccetera, invece li fanno i relativisti. E sarà.
Dittatura del relativismo. Qualcuno ha detto poi alcune piacevolezze ancora più divertenti. Un ex
presidente del Senato che si chiama come un albero, ha dichiarato una volta che il relativismo
mette tutto insieme. Tutte le vacche sono nere. Io gli ho una volta obiettato che il relativista sceglie
la vacca che più gli piace. E lì sarà che uno fa il proprio egoismo, però sceglie secondo alcuni
parametri. Io preferisco le bianco nero pezzate a quelle di color omogeneo biondastro, ma in
Svizzera, mi dicono, che invece la biondastra, mucca intendo, va molto bene. Allora, è la stessa
cosa per le religioni o tutte le religioni sono messe sullo stesso piano? No. Io per esempio, obiettai
una volta a Pera che preferisco il vudu al cristianesimo dal mio punto di vista strettamente
personale. Preferisco una serata con una Mambo che una serata con il cardinale Ruini, in altri
termini. Dopodiché, ognuno decida secondo le proprie preferenze, le proprie inclinazioni,
l’educazione che ha avuta e può qualche volta, tentare un diritto di exit. Non credo di dire una
sciocchezza, se dico che, mentre il reato di apostasia viene criticato da molti codici islamici, non
c’è una parola nel Santo Corano che autorizzi ad eliminare quello che ad un certo punto cambia
idea e se ne va, anche perché c’è una sura nel Corano che suona: o genti del Libro state attente,
se Allah clemente e misericordioso avesse voluto che voi foste tutti di una stessa religione, così
avrebbe disposto. Ma le cose sono andate -aggiunge il testo del Corano- diversamente. Dico
questo perché la contrapposizione e la condanna del relativismo sta diventando un refrain
insopportabile. Proprio perché cancella le differenze reali, annebbia la vera questione, che è
proprio quella che qualcuno diceva prima: costruire un certo tipo di società che esclude delle forme
di vita differenti. Questo è il nucleo di fondo. Questo, naturalmente tocca questioni che riguardano
il rapporto tra questo tipo di libertà filosofica e lo Stato e l’apparato statale. Ora, qui non credo che
ci sia molto di più da aggiungere. La concezione di giustizia di uno Stato, (ci dev’essere una
concezione di giustizia perché è quella di dare a ciascuno il suo), non è naturalmente schiacciabile
su un ideale di vita buona, rispetto al quale tutti gli altri sono diventati esempi di peccato, di
negazione, di tradimento. Lo ricordava molto opportunamente Zagrebelski in un recente intervento
sulla natura della democrazia. Una giustizia politica non è la stessa cosa di una concezione
religiosa o moralistica privata di cosa sia la vita buona. Questo è il punto da cui dobbiamo partire.
E essere relativisti non vuol dire che bisogna lavare il cervello a quelli che hanno delle idee
dell’assoluto. Bisogna lasciare che queste persone si esprimano liberamente, come diceva il buon
vecchio Leopardi, Zibaldone, nel 1825 se non vado errato, che diceva: la mia filosofia, il
relativismo, non è nemica nemmeno dell’assoluto, perché vuole così tanto bene all’assoluto, che lo
lascia che si moltiplichi. Che ne vengano tanti, si contrastino e poi noi sceglieremo se avremo
voglia di scegliere. Quindi, questa posizione relativistica, in realtà, è anche una buona posizione
per chi è assolutista, anzi è la migliore garanzia per chi è assolutista. Lo diceva molto bene in un
intervento a dieci giorni più o meno dall’elezione di Ratzinger il cardinale Carlo Maria Martini, in un
articolo che fu intitolato sul Corriere: “State attenti: esiste pure un relativismo cristiano”. Allora, se
riusciamo un po’ a decontestualizzare, a rendere meno emotivo il dibattito sul relativismo, resta
ben chiaro l’aspetto che riguarda lo Stato. Lo Stato è indifferente alle morali di ciascuno, alle
rivelazioni religiose, alle pratiche religiose, purché queste credenze, queste morali, queste pratiche
non danneggino il prossimo. Non mi importa –scriveva Thomas Jefferson nelle sue riflessioni sullo
stato della Virginia, capitolo credo XVI che suona On religion, cioè sulla religione - “ non mi
interessa se il mio vicino creda in un dio solo, in tre dei, o in zero dei, l’importante è che non mi
azzoppi e non mi derubi” ed evidentemente che non mi metta anche al rogo. Mi sembra che
quell’atteggiamento indifferentista che è stato ribadito in maniera molto esplicita nel Bill of Rights,
cioè negli emendamenti alla Costituzione americana, sia un elemento di traduzione della laicità
nell’istituzione. Non c’è bisogno di nessun Concordato, non c’è bisogno di nessun’intesa
particolare, non c’è bisogno di nessun riconoscimento di patteggiamento. Come scriveva Goethe.
A New York pare che ci siano più di diecimila denomination, cioè denominazioni religiose. Pensate
che fatica se uno Stato fa un concordato con diecimila. L’importante è che non mi si azzoppi o non
mi si derubi ed evidentemente si passi anche a misure più pesanti. L’indifferenza è un altro termine
che da fastidio, come dà fastidio evoluzionismo, come dà fastidio relativismo. Anche l’indifferenza.
Sarai indifferente alle cose più belle e più sublimi che la vita ti propone, sei indifferente alla
proposta cristiana piuttosto che a quella ebraica, musulmana, vuduista? In un qualche senso si.
Voglio avere il diritto di interessarmi di altre cose. Se mi sento un povero di spirito sarò beato e se
comunque ne ho tanto bisogno vado al pub, senza bisogno di aderire a questa o a quella ritualità
codificata. Ma, salvo il diritto di uno, appunto, ad essere totalmente indifferente al fatto religioso, io
non ho personalmente nulla contro la proposta cristiana o per quella musulmana, ma ho molto da
dire se la proposta diventa un’imposta. Nel doppio senso di un’imposizione e di una struttura a cui
io devo, in un qualche modo, pagando le tasse, contribuire. Questo mi sembra il punto di fondo.
Non siamo andati molto lontani dai problemi che tormentavano Thomas Jefferson. Una volta uno
che polemizzava con me mi ha detto: ma tu citi sempre gli anglosassoni. Apposta, perché
l’Inghilterra ha una grande tradizione di libertà, ma una libertà che è stata strappata, con dure lotte,
dalle masse britanniche, contro un sistema che era un sistema teocratico. Era un sistema in cui il
capo dello Stato era il capo della Chiesa. E questo, naturalmente aveva delle pesanti
conseguenze. Ne sanno qualcosa i “dissenter” protestanti da una parte e i cattolici irlandesi
dall’altra. Quindi, fare l’esempio in questo senso dell’Inghilterra non è dei migliori. Oggi c’è
qualcuno in campo laico, direi in campo che si dice laico, che dice: ma la religione, una religione,
dovrebbe andar bene come religione civile. È un elemento di comunanza, di unità del Paese,
permette di escludere, è stato detto anche questo, quelli che devono starsene fuori e in questo
modo, la religione diventa strumento del regno, strumento di governo. Naturalmente questo tipo di
atteggiamento è molto curioso. A me sembra che questo prostituisca la religione e ne faccia
semplicemente uno strumento di governo come tanti altri. Devo dire che ho sentito pochi laici
protestare contro questa idea della religione di stato o della religione civile, dicendo civile sembra
che suoni meglio. L’unico che ho sentito arrabbiarsi parecchio è stato Enzo Bianchi, che non mi
pare esattamente un laico, ma comunque.. Ha detto delle cose molto giuste secondo me su questo
equivoco della religione civile. Non c’è nessun bisogno di alcuna religione civile. Bastano appunto i
diritti messi in una carta costituzionale, e siccome le carte costituzionali non sono eterne si fanno
gli emendamenti, come la lezione di Jefferson. Mi dicono sempre: ma tu citi sempre Jefferson che
era del 1700. Va bene, vuol dire che noi siamo dietro, come livello civile, gli americani di Jefferson
e siamo indietro, come livello civile, a quelle che erano le colonie ex britanniche che presero le
armi e risolutamente spiegarono agli inglesi che era meglio che se ne stessero a casa loro.
Dopodiché, vorrei ricordare brevemente che queste considerazioni non ci sono soltanto in Thomas
Jefferson. Tanto per dire, in Italia, c’era un tal Cesare Beccaria che, su queste cose, ha detto più o
meno le cose che diceva Jefferson. Solo che credo interessante che Jefferson è stato un
legislatore, un uomo politico che ha creato un sistema laico, che adesso, l’attuale presidente degli
Stati Uniti sta facendo di tutto per smantellare, ma come mostrano alcune recenti sentenze della
Corte Federale, proprio per quanto riguarda i tentativi dei creazionisti di far star zitti i darwiniani, la
Corte Federale è intervenuta difendendo ovviamente il diritto alla libera ricerca scientifica,
l’insegnamento della biologia quando è biologia.
Quindi, l’elogio dell’indifferenza, vorrei che fosse chiaro, riguarda appunto l’indifferenza degli
organismi statali, delle istituzioni, non delle singole persone le quali siamo tutti contenti se sono
incoraggiate nelle singole tradizioni religiose. Ci saranno anche quei particolari religiosi che sono
gli atei militanti dell’Uaar, vanno bene anche loro. La cosa importante è quella che diceva prima
Franzoni quando ha detto: la libertà mia si alimenta della tua, ho possibilità di conoscere di più. Per
usare una battuta del poeta Ezra Paund: se io ho una candela, ci vedo un po’. Se un altro ha
un’altra candela, magari di colore diverso, non è che la luce della mia candela, che so io, rossa,
distrugge quella della candela bianca. No. Le due candele insieme fanno un po’ più di luce e ne
guadagniamo tutti. Quindi, io credo che questo vada detto per distinguere dall’atteggiamento
filosofico laico, quel tentativo che è, diciamo così, più che di laicismo, di statalismo che vorrebbe
normare, in nome della pace sociale, alcune manifestazioni contro altre. Per esempio, l’ho anche
scritto più volte, non ho mai apprezzato la “Loi Stasi” la legge sul divieto di simboli religiosi
“evidenti” che dovrebbero essere tolti a mussulmani, ad ebrei, a cristiani. E’ come il seno di Jane
Russel ne “Il mio corpo ti scalderà”, poteva essere inquadrato di profilo, perché non era evidente,
mentre invece se inquadrato davanti…e ci fu una lunga questione, dopodiché i produttori vinsero
contro la commissione di censura. Questo per dire come leggi proibizioniste sono in generale
sempre leggi un po’ che finiscono a mordersi la coda. Questo è diverso che imporre agli altri un
simbolo religioso in una scuola pubblica, perché, se io professore ad un certo punto tiro fuori, un
gallo e lo sgozzo e poi me lo faccio sanguinare sulla schiena come, è più folklore che pratica,
capita nel vudu, qualcuno potrebbe essere comprensibilmente seccato. Il gallo per esempio, tanto
per dirne uno. Quindi, è molto importante distinguere da che parte si è nella collocazione dello
spazio dell’ istituzione, questo era il punto serio a cui volevo arrivare.
Ultimo punto questa questione francamente noiosa delle pretese radici dell’Italia, dell’Europa,
magari del mondo. Qui non si capisce bene cosa siano queste radici. Qualcuno dice radici
cristiane. Protestanti? Cattoliche? Non andate a dire che non c’è differenza tra Protestanti e
Cattolici al reverendo Paisley dell’Irlanda del Nord, poi non so se ne uscite nemmeno vivi dai ghetti
orangisti di Belfast. Quindi, attenzione con queste radici. Poi ci hanno messo cristiane lineetta
davanti ebraico. Non ho altro da dire su questo che far mia la protesta che è stata pubblicata ieri
sul Corriere della Sera in un’intervista di Amos Luzzatto sull’argomento. Ha detto: piuttosto che
quel trattino cancelliamo tutto. Io sono d’accordo con lui. Perché non islamiche? Dopotutto l’Islam
è stato non soltanto il nostro Oriente, ma il nostro Occidente. Si veda per esempio la vicenda della
Sicilia o quella della penisola iberica. La penisola iberica godette un grande momento di tolleranza
e di pluralismo quando il califfato di Cordoba aveva perfettamente autorizzato la forma di vita
cristiana e la forma di vita ebraica accanto a quella della moschea di Cordoba. Finché sono rimasti
gli islamici, le cose sono andate bene, poi sono arrivati i cristiani. Le conseguenze si vedono
ancora oggi. Entrate nella moschea di Cordoba e trovate sconciata la meravigliosa moschea da
una cattedrale cristiana; la moschea è una moschea molto più grande e questa costruzione
gliel’hanno fatta dentro, viene tenuta spenta quando ci sono i riti cattolici di modo che la gente che
va lì non veda la moschea. Se voi volete vedere la moschea pagate il biglietto come si paga per un
bene culturale. La richiesta di uno dei rappresentanti della comunità islamica in Spagna di poterla
utilizzare, non quando c’è la funzione cattolica, ma per le funzioni loro in altri giorni, è stata
bocciata dal vescovo locale dicendo che così le religioni si confondono. Questo per dire che le
radici sono tante, sono molteplici. Adesso si discute, io credo che sia una barzelletta, se un partito
politico debba mettere nella sua carta le radici cristiane e illuministiche. Come dice giustamente
con grande buon senso Amos Luzzatto è come cercare di far accoppiare cani e gatti. Cane
maschio e gatta femmina o viceversa. Ne vengono fuori, semmai ci riesce, degli animali sterili. Gli
ibridi sono sterili. Quindi, io credo che, questa ricerca delle radici sia una ricerca di impotenza, di
sterilità, nella migliore delle ipotesi un penoso pateracchio politico, tanto per esser chiari. Credo
che da questo venga fuori veramente molto poco. Le radici sono molto pericolose quando vengono
usate in questo modo retorico. Ricorderei l’ha ricordato il naturalista e genetista britannico Richard
Dawkins che in tutta una serie di discorsi fatti da Adolf Hitler, in Baviera e in Austria, cioè in zone
cattoliche, continuamente, Adolfo tirava fuori le sue radici cattoliche. Io non credo che un cattolico
sia molto soddisfatto, io non lo sarei. Con i protestanti luterani come è noto andava peggio. Hitler
detestava i protestanti, ne sa qualcosa sulla sua pelle un cristiano coraggioso come Dietrich
Bonhoeffer, che non è l’unico protestante che si oppose alla dittatura hitleriana, ma forse quello più
noto e più famoso e quello anche più coraggioso dal punto di vista intellettuale. Quindi, questa
cosa delle radici è veramente curiosa anche perché non si ferma più. Volete togliere le radici
unne? Volete togliere quelle arabe? Volete togliere quelle vichinghe? Perché il vichingo no. Il
vichingo ha fatto parecchio nella storia europea. In bene e in male. Quindi la questione delle radici
è una questione che porta a bizantinismi insopportabili, a meno che appunto, non serva come
gioco politico, come meccanismo di esclusione: noi contro loro. I buoni contro i cattivi. La comunità
con i valori profondi e gli altri, che al più possono essere tollerati, purché si comportino da buoni.
Anche i laici possono essere tollerati dal dottor Ratzinger e dai suoi amici teodem, teocon
eccetera, eccetera, purché siano buoni, siano laici, se sono laicisti no, allora sono cattivacci. È un
po’ come i pellerossa nel film di Peckimpack: “perché quello è così duro e cattivo? Perché quello è
un indiano che combatte. E perché tu che sei una guida indiana non sei così? Perché io sono
diventato un indiano cristiano.” Quindi non combatte più per la sua libertà e per la sua terra. Ecco
invece, io credo che noi laici dovremmo prendere l’abitudine di combattere con decisione e rispetto
queste invasioni, combatterle con la forza delle idee, qualche volta anche con il coraggio di
manifestare pubblicamente quando è il caso. Non sono d’accordo con quel signore che citava
Franzoni prima che diceva: abbiamo vinto e quindi abbiamo perso. È troppo sottile per la mia
mente di positivista e di empirista logico limitato e quindi preferirei essere sconfitto vincendo che,
invece dover dire: che bello, abbiamo vinto veramente, perché hanno vinto loro e quindi hanno
perso e quindi abbiamo vinto noi… Voi capite che si può andare anche all’infinito di questo. Sono
lieto di dire queste cose in una sede come quella della Cgil, perché appunto, un grande sindacato
non sta tanto a far l’elenco delle radici, ma lotta concretamente per i diritti di donne e uomini,
portando avanti la battaglia dei lavoratori. E questo mi sembra l’elemento di fondo. E la battaglia
dei lavoratori oggi è anche una battaglia perché i beni prodotti dalla ricerca spregiudicata in campo
scientifico e in campo tecnico, non vengano tolti a cittadine e cittadini.
Morena Piccinini
Segretaria confederale CGIL
Questa mattina veniva ricordato nella presentazione che questo è il nostro terzo seminario. Il primo
seminario è stato sul tema: Libertà e responsabilità della ricerca. Il secondo seminario è stato sul
tema delle libertà: Nascere, vivere e morire. E oggi, il terzo seminario rispetto alla Laicità e il ruolo
dello Stato. Quindi un filo conduttore. Quando abbiamo deciso insieme a Proteo, con l’ufficio nuovi
diritti, insieme all’Flc di sviluppare queste tematiche, di approfondire queste tematiche, all’interno
dell’organizzazione confederale mi hanno detto: ma non è il nostro mestiere, per giunta ne
capiamo pure poco. Che ne capiamo poco è verissimo. Il fatto che non sia il nostro mestiere
invece, non lo considero pertinente. Perché, dietro a tutto questo ragionamento, ci sono i diritti
delle persone, cosa significa, per le ripercussioni che ha nella vita quotidiana delle persone. E
quindi abbiamo voluto sviluppare questi temi e faremo seguito, appunto, con una iniziativa di
carattere più ampio e più generale, con il nostro segretario generale, che dirà nello specifico anche
la posizione della Cgil in modo molto netto su queste tematiche. Io cerco di soffermarmi su alcuni
elementi. In primo luogo: la complessità nella quale ci troviamo sul piano sociale, credo che non
sia stata, da tutti noi, ben, fino in fondo, valutata. Il processo migratorio. Vent’anni fa, quando si è
fatta la prima regolarizzazione, si ragionava di qualche centinaio di migliaia di persone. Vent’anni
fa, la battaglia che ci ricordava Ali Baba, per la Cgil è stata una battaglia molto forte, per la mensa,
per il riconoscimento di alcuni elementi di libertà religiosa, ma è stato molto più facile di quanto non
sia oggi, e forse di quanto non sarà in futuro, a fronte degli oltre tre milioni di persone che oggi
sono portatori di tante diverse religioni, di tante diverse culture. Noi sappiamo che ci dobbiamo
preparare e dobbiamo lavorare perché, il tema della multiculturalità e della interazione tra le culture
possa diventare un patrimonio comune. Oggi sentiamo che, a mano a mano che aumentano i
numeri, è sempre meno un patrimonio comune. E si stanno correndo dei rischi. Ieri a Milano erano
i cinesi. Se fosse stata un’altra etnia, il collegamento con l’appartenenza religiosa sarebbe stato
presumibilmente immediato. Non lo so, se fra qualche anno, anche per i cinesi, più che l’aspetto
economico, non verrà interpretato, anche per loro, l’aspetto religioso o culturale.
Culturale/economico/religioso. Questa è la prima grande complessità che abbiamo. La seconda
grande complessità deriva dal progresso della scienza, quali limiti, quali opportunità ma anche
quale regolamentazione reciproca a questo.
Oggi è stato detto: essere laici da credenti non è solo possibile ma doveroso. Io non solo lo
condivido molto, ma proprio perchè è un principio molto forte, mentre veniva espresso in tutto il
dibattito, io mi chiedevo cosa invece sta succedendo nella nostra società oggi, da qualche anno a
questa parte.
Caterina diceva: il mio essere religioso è, in primo luogo, un fattore personale. Perfetto. Oggi
vediamo che, nella politica, l’affermazione di sé, la enunciazione di quanto si è religiosi
personalmente, è diventato uno status politico. Ora, quando diventa questo e tutti sembrano
essere alla rincorsa del rivendicare quante sono le proprie radici religiose di un tipo, di un altro, di
una confessione di un’altra…che ripercussioni ha questo rispetto al ruolo dello Stato e quindi di
quelle medesime persone nella veste di legislatori o di soggetti che hanno un ruolo pubblico? Io in
cinquant’anni della mia vita non ho mai sentito il bisogno di esplicitare il mio non essere credente.
Perché ho sempre pensato a diritto, a un processo legislativo che, pur con tutte le sue difficoltà, e
in Italia le difficoltà le ha avute, tuttavia fosse in grado di contemplare progressivamente, come
processo di accrescimento anche il pluralismo, compreso quello dei non credenti. Oggi sento il
bisogno di dichiararlo e sento il bisogno di una autodifesa nel momento in cui una parte sempre più
consistente della politica usa la religione per farne una visione politica e per farne legge dello
Stato. Ora, torniamo al punto dell’indifferenza. Come ha detto prima in maniera davvero molto
efficace Giorello, il fatto che Ratzinger esprima una dottrina con questo integralismo, mi farebbe
dire da non credente: se la vedranno loro. Nel momento in cui però questi precetti vengono recepiti
in modo più o meno forzato, forzoso e strumentale da una parte sempre più consistente della
politica per farne un’azione legislativa o per condurla, come battaglia politica finalizzata ad
un’azione legislativa, a questo punto si esce dall’ambito della indifferenza e si entra in un ambito
completamente diverso, che si chiama per alcuni, penso per alcune religioni, una profondissima
invasione di campo, per quanto riguarda i diritti delle persone si parla, invece, di una
pericolosissima invasione rispetto a principi basilari. Non a caso stamattina è stato detto che la
laicità può essere interpretata come, soprattutto, una procedura. Una procedura di ascolto, una
procedura di confronto, una procedura di dialogo. Oggi siamo alla negazione della procedura di
ascolto e di dialogo. Siamo, per altro anche alla negazione di quello che dovrebbe essere il limite
fondante, quindi i limiti di carattere costituzionale individuati nella difesa della dignità umana e
dell’integrità della persona. Torniamo ad un altro passaggio che è stato fatto. Noi siamo molto
interessati a seguire quella ricerca sulla secolarizzazione. Siamo molto interessati a seguire quel
processo perché, guarda caso, a mano a mano che le persone singole, anche credenti, si
allontanano da alcuni elementi che costituiscono dei precetti per quanto riguarda la nascita, per
quanto riguarda il matrimonio e anche per quanto riguarda la morte, nel momento in cui si
allontanano in numeri consistenti, il problema non è più della difesa di coloro che mantengono fede
al precetto. Il problema sta diventando, secondo noi, quello che quanto non viene più seguito per
azione individuale si cerca di imporlo con legge. E quando questo si cerca di imporlo con legge e
diventa l’imposizione sulla nascita, l’imposizione sul matrimonio ovvero sul modello di famiglia e
l’imposizioni sulle morti ed abbiamo esempi a non finire, questo sta diventando un grosso
problema. E, a mano a mano che entreranno sempre più persone nel nostro paese rischiamo che
questo modello diventi sempre più forte, radicato e che, anziché aprire una fase di dialogo e di
confronto, ci si radicalizzi sempre di più. Allora, il problema del ruolo dello Stato e, in primo luogo in
questo senso, di chi interpreta come legislatore, come funzione pubblica il ruolo di rappresentante
dello Stato, diventa essenziale. E, quel concetto di indifferenza, di neutralità, di rispetto
dell’insieme delle culture e delle religioni o si riesce a riaffermarlo o precipitiamo verso l’altra china.
Noi abbiamo fatto, abbiamo tentare di fare, la battaglia sulla fecondazione assistita. Chi ci ha
lavorato, ci ha lavorato in modo convinto ma non posso dire che ci abbiamo lavorato tutti. Chi ci ha
lavorato, ci ha lavorato a titolo personale, usando gli strumenti dell’organizzazione. Quello che a
me ha colpito moltissimo in quella fase, nel dibattito che ha preceduto il referendum, non era tanto
il sollecitare il voto si/no, era il sollecitare l’astensionismo dei cittadini, con un messaggio molto
forte C’era l’astensionismo utilitaristico di chi temeva che si raggiungesse il quorum, ma credo che
abbia giocato un ruolo molto grosso il messaggio di chi ha detto ai cittadini: sono cose difficili, sono
cose complicate, questa legge è complicata, lasciate che ce la vediamo noi come legislatori. Se,
su questioni di questo tipo,si coniuga il “lasciate che ce la vediamo noi come legislatori” a “in
quanto persona/legislatore sono succube di questi processi”, beh noi abbiamo chiuso.Anche per
quanto riguarda il tema diritti. E sto parlando di diritti della persona e sto parlando di diritti, anche in
campo sociale, che arrivano a diventare anche diritti sul lavoro. Noi per questo vogliamo tanto
approfondire questa riflessione, e io davvero vi ringrazio molto dei contributi che ci sono stati
portati. Un’ultima cosa. Fino ad ora, il confronto prevalente nel nostro Paese, in realtà, aveva un
suo equilibrio tra la prevalente religione cattolica, qualche minoranza e qualche non credente, che
comunque si adeguava. Vediamo ora nella scuola. Abbiamo delle classi con il 15, il 20, 25 per
cento, forse più in alcune situazioni, di bambini che provengono da altri paesi, spesso con altre
religioni. Ho ascoltato davvero con molto interesse la discussione sul fatto che non solo è utile
superare l’ora di religione, ma anche su con che cosa questa potrebbe essere sostituita. E quindi il
ragionamento circa la storia delle religioni piuttosto che la cultura che è dietro ad ogni religione,
piuttosto che il togliere completamente quell’ora. Faccio però un passo indietro. Noi abbiamo avuto
di recente una sentenza del Consiglio di Stato che ha recepito una sentenza di un Tar del Veneto,
che arriva a dire come il crocefisso in classe sia un simbolo di laicità e il simbolo primario della
nostra collettività, del nostro Paese. Io credo che si debba ripartire da lì, e questo vuol dire anche
che dobbiamo fare i conti col fatto che quando un’insegnante dice che oltre al presepe c’è una
festività di un’altra religione e quindi approfondiamo il tema di quest’altra religione, si ritrova la
prevalenza di genitori di quella classe che mettono su una campagna contro. Io credo si debba
ripartire da lì. Perché l’equilibrio vecchio non regge più con quello che sta avanzando. Allora, non
solo la scuola deve essere pubblica, non solo abbiamo convenuto tutti che non è opportuna, che
non accettiamo l’idea di una scuola confessionale, ma come si rideclina oggi il tema del rispetto
delle diverse culture, del dialogo tra le diverse culture, credo sia un tema ancora molto aperto. E io
arrivo a chiedermi se, come immagino, sarà molto complicato ottenere per esempio, la
eliminazione dell’ora di religione, la alternativa all’insegnamento dell’ora di religione cattolica può
essere solo l’attività alternativa o l’uscire? O non può essere anche l’affermazione che, se quella
ora è una ora nella quale si parla di religione ognuno può avere anche l’affermazione della
propria? Non lo so. Io lo pongo come quesito. La battaglia sull’ora di religione, siamo franchi, non
riusciamo più a farla e rimane aperto il tema di come, a partire dal primo luogo di socializzazione,
che è il luogo di socializzazione dei bambini, si riesce ad affrontare questo tema. E aggiungo:
quanto maggiore e quanto più gravosa è oggi la responsabilità in capo ai singoli insegnanti, e una
responsabilità che ha una caratteristica completamente diversa rispetto al passato. Io
assolutamente non do ricette. Non a caso ho fatto quella proposta appunto in modo provocatorio
perché è ovvio che si sta discutendo anche di questo. E lo dico perché la nostra ricerca è una
ricerca davvero aperta rispetto a questo insieme di tematiche. Ultimissima cosa rispetto al ruolo del
legislatore. O su queste tematiche si recepisce un’idea di diritto mite, che il più possibile lasci alla
libertà e alla responsabilità individuale oppure l’incontro, quella procedura di ascolto non riuscirà
ad esperire risultati. Il diritto mite, su materie eticamente sensibili, credo sia oggi uno degli scogli
più grossi, in relazione al quadro che cercavo di disegnare prima.
Antonia Sani
Mi chiamo Antonia Sani dell’Associazione della Scuola per la Repubblica. Io volevo far presente
che, nei programmi della scuola elementare del 1985 è entrata una materia che si chiama religione
e che è l’insegnamento dei fatto religioso. Ora io penso che molti di voi qui ricorderanno che è
stato il frutto, l’approdo di anni e anni di discussione, seguiti soprattutto agli anni del Concilio
Vaticano II. Ora, questo insegnamento del fatto religioso, che riguarda i nuovi programmi della
scuola elementare pubblicati nel 1985, non viene fatto assolutamente rispettare nella scuola
perché nella scuola, chi sceglie religione sceglie religione cattolica. Questo programma invece
svolto dall’insegnante di classe è un po’ quello che si diceva adesso, diciamo di antropologia ma
nel caso di una scuola elementare ovviamente con elementi accessibili ai bambini. Ed è molto
bello. Io adesso non ho portato qui i testi, le parole di questo insegnamento in cui l’insegnante si
propone di suscitare nel bambino la curiosità per un fenomeno come è quello del fatto religioso, a
partire da letture di elementi mitologici, della preistoria. Cioè, non privilegia nessuna religione, non
è un insegnamento su cui un insegnante mette le mani da un’ottica che è quella della propria
appartenenza religiosa, anche se non ufficialmente sancita. E’ semplicemente l’educazione alla
spiritualità. Io ho anche degli esempi concreti nella scuola dell’infanzia, fatti da un insegnante che
aveva coinvolto i genitori: nessuno di quella classe ha più scelto l’insegnamento della religione
cattolica. Prima di tutto, per non dividere i bambini, che non capiscono perché una parte di loro
vada da una parte e una parte dall’altra. È veramente disumano. E poi, perché questo
insegnamento è proprio una preparazione a quello che manca poi invece nella scuola secondaria,
anche nella scuola media non c’è più, è unicamente relativo ai programmi della scuola elementare.
Perciò, far valere questo sarebbe già un punto molto forte. E sarebbe un incoraggiamento ad
andare in quella direzione che si diceva. Un altro piccolo racconto, io lo voglio fare, in merito ad
una mostra che c’è stata a Roma quattro o cinque anni fa, si chiamava “Viaggio senza ritorno”. Era
organizzata dall’Associazione Senza Confini. Ed era un viaggio che si faceva con le classi, forse
qualcuno di voi l’ha fatto e si passava attraverso tutte le difficoltà linguistiche che subiscono tutti
coloro che vengono nel nostro Paese ed era capovolto il ruolo, cioè, noi eravamo quelli che
venivano nel Paese e venivamo aggrediti da chi aggredisce coloro che vengono e non capiscono
le domande che gli sono rivolte. Questa esperienza è stata importantissima per alunni razzisti che
io avevo in classe e che si sono sentiti coinvolti in prima persona in questo dramma. Si scendeva,
ad esempio, a Fiumicino e veniva chiesto: tu quante ore hai volato? Uno non sapeva che
rispondere e allora: allora imbrogli, non vieni di lì, vieni subito in polizia. Una cosa del genere sulla
pelle di ragazzi e ragazze ha avuto un’influenza molto forte. Quindi, queste sono esperienze vive,
che possono proprio servire a rompere certi pregiudizi, per lo meno a mitigarli e ad avviare un
discorso più costruttivo nei confronti delle diversità.
Ali Baba Faye
Mi dispiace che Morena sia andata via. Era per precisare, perché non sono stato chiaro quando ho
citato la cosa degli indici di secolarizzazione. Il mio intendimento era quello di dire che non è che
col crescere di questi indici automaticamente c’è una minore forza dei valori religiosi nella sfera
pubblica.
Franco Di Maria
Una cosa fondamentalmente. Io non sono un politico, non ho neanche la mentalità del politico e
forse si vede immediatamente. Però c’è una cosa che a me colpisce. Quello che mi colpisce è la
timidezza che a volte rasenta la sudditanza e molto spesso, a mio parere la incarna: la timidezza
dei nostri politici rispetto a temi sui quali dovrebbero essere, non sensibili, sensibilissimi. Faccio un
esempio tanto per capirci. Io non posso leggere, mi cadono le braccia quando leggo che Fassino
ha criticato alcuni punti della nota della Cei. Ma come fai a criticare alcuni punti. È il metodo che è
inaccettabile. Non ho neanche da discutere quello che dici. E’ come lo dici che è irricevibile. Ecco,
quando io leggo questo, dico la verità, penso che non avremo mai più speranza. E quindi è molto
giusto quello che dice Giorello. Certo, bisognerebbe reagire. Ma come fai a reagire se nessuno ti
dà voce? Quando io al processo di Ustica assistevo la parte civile, Repubblica mi dava sempre
spazio,. Come avvocato mi ha sempre dato spazio, quando invece scrivo delle lettere su questioni
come queste, ecco, lo spazio non c’è, non sono mai pubblicate. Allora, la Repubblica non ti da
spazio, per citare un esempio, Fassino alza il ditino. Che speranze abbiamo?
Dom Franzoni
Diceva Antonia Sani poco fa: non è stato fatto nulla intorno all’introduzione di una ricerca sul fatto
religioso nelle scuole. Anche perché mancavano gli strumenti. Varie volte ho proposto: perché non
produrre una collana su vari temi. Io seguiterei ad insistere, perché, se non si insiste poi non si
esiste, insisterei sul fatto che non dev’essere informazione sul fatto religioso, ma antropologia, sul
fatto culturale. Quando si dice sul fatto culturale Di Nola avrebbe immediatamente detto: il fatto
culturale poi ingloba il fatto religioso, perché perfino nella Bibbia, quando si parla dell’empio,
dell’ateo, non è l’ateo che afferma che non esiste dio, è che si comporta dicendo: dio non può far
niente per te, io ti metto i piedi sulla pancia. Questo è l’ateo nei libri sapienziali, quindi la cultura
implica questo. Per esempio, tutto ciò che è successo nell’umanità da millenni intorno al fuoco. Il
fuoco rubato, il fuoco donato, il fuoco per autocombustione, il fuoco come fonte di vita. Lo stesso le
acque. Poi, intorno alla nascita. Che cosa è successo quando, allungando la vita, il gruppo sociale
ha scoperto la menopausa. Perché fin quando si moriva a trentacinque anni non lo sapevano.
Come è nato il culto di Astart(?) delle divinità della fecondità, se non al momento in cui si è
scoperto che la fecondità terminava. Che cosa era successo? L’influsso maligno di qualche
demone? Non lo sapevano che cos’era la menopausa. E lo stesso quando succede agli uomini. E
la follia che cos’è. Il sogno. Taylor, tutte le ricerche di Taylor sul sogno. Che cos’è il sogno.
Racconti, storie, miti fiabe. Quindi, se la Cgil ha un po’ di soldi li butti fuori. Faccio un bando per
produrre antologie a disposizione di insegnanti che vogliono occupare questo vuoto, perché i vuoti,
come ho detto già fino alla nausea, mi fanno paura. Non il vuoto, il sunyatta, dei buddisti, che
quella è tutta un’altra cosa, il vuoto politico, il vuoto sociale, quello mi fa paura, perché verrà
indubbiamente occupato da chi ha il potere e l’ambizione di occupare tutti gli spazi.
Enrico Modigliani
Democrazia Laica
Intanto è difficile fare un dibattito in questo contesto, perché siamo tutti d’accordo. Il dibattito non
c’è. Quello che credo possa essere importantissimo nelle scuole è non tanto storia delle religioni,
ma l’aspetto sociologico di quelle che sono le diverse religioni che stanno cominciando ad affluire
in questo Paese con l’aumento dell’immigrazione. Quello che ricordava Antonia Sani era un
qualcosa che si riferiva al Concilio Vaticano, che era quindi tutto un altro contesto, oggi ci
prepariamo ad affrontare uno sviluppo della società completamente diverso. Quindi, quello che
potrebbe essere molto importante, (forse in ambito di Cgil potrebbe essere un’iniziativa che si
possa prendere) è soprattutto un insegnamento culturale, storico e sociologico delle religioni agli
insegnanti. Non tanto ai ragazzi, ma soprattutto agli insegnanti, perché possano essere loro in
grado di gestire questa dinamica culturale e sociale che si sta verificando. Un altro aspetto di cui si
è parlato ed è un aspetto pericolosissimo, è la strumentalizzazione dell’argomento religioso in
chiave politica e lo sentiamo da tutte le parti, sia da destra che da sinistra. Poco tempo fa c’è stato
un grave inconveniente, che ha creato anche dei grossi problemi alla Consulta della laicità delle
istituzioni e del libero pensiero del comune di Roma: è stata l’idea del sindaco di Roma di cambiare
il nome della stazione Termini in Giovanni Paolo II, come se chiunque arrivasse, da ogni parte del
mondo, arrivasse nello stato della Città del Vaticano, questo era un problema. Ma questo perché,
perché evidentemente molti politici, proprio per motivi elettorali e adesso la legge elettorale
probabilmente sarà molto influente su questo argomento, per motivi elettorali hanno fatto un
sogno. Si sono sognati “In hoc signo vinces”.
Colajanni
Per dare suggerimenti, perché siamo in una sede sindacale dove è possibile dare un orientamento
anche agli iscritti insegnanti. Allora, cosa si può fare a legislazione invariata, per rendere
obbligatorio uno studio di carattere antropologico, filosofico e con insegnanti che vengono formati
dall’università. Una è la proposta, la memoria che faceva prima Antonia Sani, per quanto riguarda
lo studio del fatto religioso obbligatorio nella scuola elementare. Si tratta di ricordare a tutti gli
insegnanti che hanno il dovere di svolgere anche quell’insegnamento in maniera evidentemente
non confessionale. Con la loro libertà di insegnamento, però devono fare quello. In modo da
rendere a questo punto superfluo l’insegnamento di religione cattolica, che appunto è facoltativo.
Due. Anche nelle scuole medie inferiori e superiori, è possibile fare lo studio del fatto religioso, che
è previsto da alcune intese con Valdesi, con le varie confessioni. Quello è uno studio che non è
riservato agli appartenenti alla Chiesa Valdese, agli appartenenti all’Unione delle Comunità
Ebraiche o altro. È uno studio che può essere richiesto alla scuola da tutti quanti gli studenti, da
tutti quanti i genitori per quanto riguarda le scuole medie inferiori. È una possibilità che abbiamo e
che potrebbe essere messa in atto laddove ci fosse una task force di volontariato di tutti quanti noi
che volessimo corrispondere a questo tipo di richieste. È un’attività facoltativa, però sarebbe
un’utile alternativa rispetto all’insegnamento di religione cattolica e dipende davvero dalla nostra
capacità di fare volontariato. Terzo. La legge sull’immigrazione, Testo Unico del ’98, prevede
all’articolo 42 o 43 l’obbligo delle dirigenze scolastiche di fornire, allo scopo di favorire
l’integrazione tra studenti provenienti da culture, etnie, religioni diverse, l’obbligo della scuola di
dotarsi di libri, di materiale didattico, che testimonino queste varie esigenze. Questo è un
adempimento di legge, che però non viene normalmente seguito in quasi tutte le scuole, che a me
risulti. Nella mia situazione a Bari non ci sono neanche biblioteche nelle scuole, figuriamoci se poi
vanno a comprare libri, dvd o cose di questo genere. Si tratterebbe di fare un’azione sindacale
però. Ecco perché mi permetto di ricordarlo in questa sede, perché altrimenti davvero ci facciamo
prendere dal pessimismo cosmico che ho sentito in qualche intervento: cosa dobbiamo fare se la
situazione è questa. Non è vero. C’è una legislazione. Si tratta davvero, anche attraverso l’azione
sindacale oltre che quella politica di carattere generale di cercare di forzare un po’ la situazione in
questa direzione.
Gianna Cioni
Mi sembra importante dire che c’è qualcosa che si può fare. Si può fare come singoli, si può fare
come sindacato. Io ho detto prima, si può fare come Proteo, essendo un’associazione culturale
che opera dentro la scuola e che è riuscita a vincere tante battaglie. la Cgil l’aiuta e molte altre
cose le può fare la Cgil direttamente, in particolare l’Flc perché, nel mondo della scuola vengano
rispettate le leggi, sicuramente lo può fare. E poi ciascuno di noi può fare un’opera di crescita, di
diffusione, a cui io personalmente credo moltissimo, perché queste cose si fanno attraverso un po’
tutta la nostra vita, le persone che incontriamo, i discorsi che vengono fatti e così via.
Maselli
Io sono molto d’accordo su questo, ma proprio perché è un sindacato, c’è un altro settore ed è il
fare, per tutti coloro che hanno contatto con gli emigranti una richiesta ufficiale di poter avere una
specie di preparazione sui paesi da dove arrivano gli emigranti. Preparazione antropologica,
sociale, religiosa, in modo che poliziotti, carabinieri, sociologi, eccetera, abbiano almeno alcune
notizie e questo, con i nostri iscritti lo possiamo chiedere. Possiamo chiedere che ci sia una
preparazione. Io poi vorrei fare una piccola provocazione, che ho fatto per tanti anni con i miei
studenti e ho visto che è estremamente utile. Abolire la parola pagano. Perché noi continuiamo
chiamare cafoni quelli che hanno perso una battaglia religiosa. Semplicemente li continuiamo a
chiamare cafoni, li chiamiamo tutti cafoni e ci riempiamo la bocca. Incominciare a dire nelle scuole
che la parola pagano è una parola sbagliata, che non si può usare. Quelli erano politeisti,
definiamoli come erano. Religione greco- romana eccetera. E ridare a queste vecchie cose la loro
dignità perché parlando del passato si presenta, in questo modo il presente. Questa è una piccola
provocazione, tante altre possono essere fatte così, facendole in tanti incominciamo ad agire.
Marco Valerio Broccati
Segreteria Nazionale FLC Cgil
Laicità e conoscenza
Quando si parla di laicità e conoscenza, il nostro pensiero corre subito ai riferimenti storici che
hanno segnato tappe nell' evoluzione faticosa del pensiero occidentale: da Galileo alla clonazione.
Casi emblematici: nel caso di Galileo, di conflitto tra verità rivelata e ricerca libera del pensiero, nel
caso delle bio-tecnologie di sottile messa a punto dei confini del potere dell'uomo sulla natura.
In verità, davvero queste citazioni sono emblematiche, perchè paiono racchiudere l'essenza del
conflitto filosofico tra scienza e religione, nei suoi aspetti spirituali, morali, religiosi, deontologici, e,
in senso lato, esistenziali. La storia degli ultimi cinque secoli, dalla nascita dei paradigmi
fondamentali della scienza moderna in poi, è storia della ricerca del limite, della frontiera del
sapere e del dominio dell'uomo sugli elementi costitutivi del mondo fisico.
La questione del rapporto tra il sapere e la sua dimensione laica, cioè di una separazione tra la
dimensione fisica e quella spirituale, è in gran parte un problema della cultura occidentale.
L'autonomia della scienza sorge e comincia a porsi nel Rinascimento, rompendo il nesso unitario
che aveva fino a quel momento tenuto inscindibilmente insieme verità rivelata e avanzamento delle
conoscenze. Solo in Occidente la storia del pensiero ha subìto una tale svolta radicale,
gradualmente allontanandosi da una dimensione totalizzante della spiegazione del mondo, che
univa in modo indissolubile spirito e materia, religione e scienza, per praticare una rottura profonda
di questi aspetti fondamentali costitutivi dell'essere umano.
In realtà, gli uomini hanno sempre saputo, o intuito, quello che c'è scritto oggi nella Risoluzione
europea di Lisbona: che sapere e conoscenza sono una leva potente di libertà e potere; libertà
delle persone nel conoscere e nel dominare gli esiti del sapere, potere che deriva dall'accumulo di
conoscenze e dal loro monopolio in ambito sociale e scientifico. La dialettica tra lo sviluppo del
sapere e il suo controllo ha dominato la storia umana da sempre, dall'epoca degli stregoni.
Pensiamo all'inestricabile intreccio tra sapere e dominio religioso tra i sacerdoti dell'antico Egitto, o
il monopolio matematico e astronomico presso gli Assiri o i Maya, non a caso sempre detenuto
dalle caste sacerdotali.
La laicità invece è un concetto recente: appartiene al dominio di un pensiero che dà per scontata la
separazione tra i grandi poteri della società. Laicità, secondo il Devoto-Oli, significa "assoluta
indipendenza e autonomia nei confronti della Chiesa cattolica o di altra confessione religiosa, o
anche, estensivamente, nei confronti di qualsiasi ideologia". Si comprende bene, dunque, che
un'idea simile non può maturare che in un contesto culturale che ha operato la separazione netta
tra società civile e apparato religioso, o, meglio, tra identità della società e suo controllo
organizzato da parte degli apparati confessionali e religiosi.
Per molto tempo religione e scienza si tengono insieme, sottoponendo la scienza alla religione:
fino a quando, con uno strumento fisico, gli astronomi possono guardare il cielo. A quel punto la
contraddizione è esplosiva, e non è più mediabile nell'ambito della teoretica dell'epoca. Ciò che si
vede nel vetro non è conciliabile con i dogmi vigenti, e Galileo deve ritrattare, poichè in quel
contesto storico i sensi umani dovevano cedere al dogma. Ma il gatto è fuori dal sacco, come
dicono gli inglesi, e nessuno sarà in grado di rimettercelo.
Da quel momento in avanti, cambiano lentamente le regole del gioco: alla graduale costituzione di
una società laica, che trova i suoi riferimenti nei grandi statuti politici della democrazia inglese, di
quella americana, della Rivoluzione francese, corrisponde una dialettica permanentemente
difensiva delle istituzioni religiose nei confronti della scienza, istituzioni che sono ormai ad una
graduale ma costante ritirata dall'affermazione dell' identificazione tra verità scientifica e verità
delle scritture. La società laica è ormai una realtà: una società perlopiù di credenti sinceri, perfino
integralisti in molti casi, ma non più disponibili ad una resa senza condizioni nel rapporto tra dogma
e progresso scientifico. Il tarlo del dubbio è qui, e ci resterà.
L'800 segna un'accelerazione di questo processo; non solo le tante conquiste tecnologiche, a
comiciare dalla ferrovia per arrivare al telefono e alla lampadina, conquiste molto materiali che
cambiano lo scenario quotidiano e l'immaginario delle persone: pensiamo all'impatto che poteva
avere sulla psicologia e cultura collettiva la disponibilità di luce in casa e per strada, la possibilità di
movimento e di comunicazione per treno e nave a vapore.
E alla fine dell'800 la nascita dell'apparato industriale e delle sue appendici politicoespansionistiche è sostenuto ideologicamente dal positivismo, un orientamento di pensiero che
celebra con entusiasmo il nuovo potere dell'uomo. Ma soprattutto, l'entrata in scena di Darwin e la
fondazione di un nuovo filone di scienze umane disegnano una sfida diretta alla religione e ai suoi
fondamentali.
Il '900 fa storia a sè: una gigantesca accelerazione qualitativa e quantitativa sia nel progresso
scientifico sia nelle scienze umane, tale da disegnare una nuova metafisica della scienza e da
porre il problema di una rifondazione dei suoi statuti epistemologici. Matematica e fisica sempre
più vicine alla filosofia e alla metafisica, universi e dimensioni parallele. La nascita della psicanalisi,
un terremoto concettuale che silenziosamente, senza rivendicare a se stesso statuti di primato,
inserisce un cuneo non eliminabile nel cuore della domanda più importante della storia: chi siamo?
E' appena il caso di notare che tre dei pensatori post-hegeliani più influenti, quelli che hanno
contribuito a rovesciare la visione del mondo, fossero ebrei: Marx, Freud ed Einstein. Una nuova
descrizione dei rapporti sociali e di potere, una nuova visione dell'interiorità e del rapporto dell'Io
con il mondo, una nuova descrizione rivoluzionaria del mondo fisico. A parte il grande contributo in
generale della cultura ebraica alle arti e scienze, ci sarà una ragione specifica per
quest'addensamento di intelligenze?
Ad un certo punto, è la religione a dover lentamente adeguare la dottrina all'avanzamento di un
sapere scientifico difficilmente smentibile. Lo farà ingegnosamente. Se non può più sostenere il
primato della verità rivelata come fonte diretta della conoscenza scientifica, la tesi principale
diventa: ma al fondo di tutto cosa c'è? C'è sempre il Primo Motore. In questo modo si aggira
l'ostacolo, mettendo in corsa una lepre imprendibile che è sempre la ragione prima, che non può
essere raggiunta nè confutata, perchè la sua stessa natura si definisce come oggetto non
conoscibile, non dimostrabile, non riconducibile ai terreni dell'indagine scientifica. Una bella
mossa, un bel passo avanti, rispetto al primo, istintivo rifiuto di guardare dentro al canocchiale
perchè non c'è bisogno di vedere ciò che è già noto e scritto. Per molti anni, nel '900, scienza e
religione, dall'interno dei rispettivi campi trincerati, si sono attestate sulla linea di una divisione di
ruoli accettata reciprocamente, magari di malavoglia, nella convenzione, tacita o esplicitamente
dichiarata, che si tratta di due strade parallele, che hanno oggetti, regole, punti di vista peculiari e
non coincidenti. Una situazione che, a mio avviso, va considerata come un grande passo avanti:
l'esplicito riconoscimento reciproco di statuti fondativi diversi ma che convivono, ognuno per il
proprio dominio, rappresenta una maturazione per l'intera società, e il segno che l'idea di laicità è
stata metabolizzata. Una laicità che non è l'anticlericalismo di stampo ottocentesco, ma che
traduce nel campo del sapere l'idea di separazione delle fonti di autorità.
Oggi, da alcuni anni a questa parte, lo scenario sta mutando. Il crescere dei vari integralismi,
dentro e fuori l'Italia, è fattore moltiplicatore di chiusura settaria, fonte di ritorsioni ed esclusione
culturale, così come il rinchiudersi delle comunità straniere al proprio interno per perpetuare e
garantire le proprie tradizioni, lingua, abitudini e costumi è inevitabilmente visto con sospetto dalle
comunità ospitanti. Gli esempi di intolleranza, di violenza religiosa, di medievale sovrapposizione
tra Stato e religione che vengono dai Paesi integralisti arabi, di torsione strumentale delle
contraddizioni in direzione del fanatismo e del terrorismo, sono fonte di grande preoccupazione
che ci riporta a tempi auspicabilmente cancellati per sempre dalla nostra storia.
Assistiamo peraltro ad un irrigidimento dottrinario diffuso da parte della Chiesa su molte materie, e
ad espliciti e reiterati tentativi di condizionare pesantemente il dibattito politico nazionale e le
decisioni conseguenti. L'iniziativa è come sempre supportata da un discreto e colorito
schieramento di politici e opinione pubblica culturalmente connotati. Il settore della conoscenza
pare tra quelli più interessati a quest'esercizio di ingerenza, dalla scuola, al revisionismo storico,
alla ricerca. La polemica dell'anno scorso sull'insegnamento del darwinismo mi pare una spia
evidentissima di un'accelerazione emblematica in questo senso, a meno che non la si attribuisca
ad un'antipatia personale della signora Moratti verso lo sfortunato studioso inglese, ed era seguita
a settembre dalle dichiarazioni del Papa circa il fatto che l'evoluzionismo non è dimostrabile.
Le ragioni di quest'irrigidimento sono sicuramente complesse, ma provo a citare le due che mi
paiono prevalenti.
1) In Occidente, almeno in Europa, c'è un visibile processo di decristianizzazione diffusa, checchè
ne dica Pietro Citati. Se non si vuole usare un termine così drastico, diciamo allora che c'è una
caduta della capacità di presa delle Chiese, delle istituzioni religiose, su una parte consistente
della popolazione, a cominciare proprio da insediamenti storicamente forti, che non coincide
necessariamente con una caduta di senso del sacro. Il crollo del blocco orientale e l'affermarsi di
un capitalismo rampante non hanno favorito una ripresa di spiritualità, ma, anzi, contribuito a
diffondere modelli e comportamenti, se non anticristiani, certamente a-cristiani. La visione di una
vita in cui Dio non entra è ormai, più che una scelta consapevole, una pratica naturalmente diffusa
in ampi strati della popolazione europea. Da questo punto di vista, la posizione della Chiesa
cattolica è difficile: si capisce anche che un irrigidimento dottrinario consistente possa essere il
portato di un tentativo di consolidare un'identità forte e certa. Del resto questa è una costante della
storia della Chiesa: nei tempi bui ci si rifugia nelle certezze; "una Chiesa turrita per tempi di ferro".
E' un dilemma che vivono tutte le grandi organizzazioni; quando gli scenari si complicano, è meglio
nuotare in mare aperto, provare a ricostruire le tracce e le sensibilità di un'elaborazione collettiva
vissuta e partecipata, cogliere il "segno dei tempi", con tutte le cautele e gradualità; o è meglio
mettere l'elmetto, rafforzare l'organizzazione, moltiplicare le parole d'ordine e stringere i ranghi?
Mi pare che la Chiesa abbia scelto la seconda strada. Questo ovviamente comporta un ridisegno
delle strategie di posizionamento ideologico, una maggiore aggressività nell'affermazione degli
ideali e delle identità; in quest'economia le scelte, più sono nette e intransigenti, più consegnano
un messaggio di polarizzazione identitaria che, nelle intenzioni, dovrebbe presumibilmente
ricompattare il disperso gregge dei disattenti e indecisi. E' questo, credo, il target fondamentale:
non i convinti, credenti o non credenti, non i peccatori per scelta, ma quell'ampia fascia di sedotti
per debolezza, per comodità, per convenienza, che possono tornare ad essere maggioranza
attiva.
Ci sono, nell'ambito di questa strategia, punti di particolare rilevanza.
I settori della conoscenza sono tra questi, scuola e ricerca in modo particolare. Sulla scuola, le
ragioni sono auto-evidenti; ragioni economiche ma, soprattutto ragioni che attengono alla volontà
di costituire in Italia un polo significativo di scuole confessionali da contrapporre alla scuola
pubblica e laica. Formare in età precoce è sempre stato il motto dei gesuiti; formare per
impadronirsi delle anime. Forse sono un po' crudo, ma questa è la sostanza. Posso dirla in termini
anche più tecnici: in aziendalese si chiama "fidelizzare il consumatore".
Sulla ricerca le questioni sono di altro peso quantitativo e altro taglio, e hanno ovviamente un
impatto minore, ma hanno un valore simbolico e di messaggio altissimo. Nelle scienze umane,
dalla storia, alla giurisprudenza, all'antropologia sono in atto derive revisionistiche non sostenute
da un valido apparato scientifico. Basta guardare al dibattito sul tema della vita per capire che,
accanto alla giusta cautela dello scienziato, si propongono e si vorrebbero imporre tesi e argomenti
superati dall'evidenza scientifica, dalla cultura diffusa e perfino dal buon senso comune, e su
queste orientare l'attività delle grandi istituzioni di ricerca.
Se questa fosse una chiave di lettura credibile dell'irrigidimento dottrinario cui assistiamo in questi
anni, la trovo una prospettiva preoccupante, anche se considero molto dubbi gli esiti di una simile
scelta. Essa sconta infatti una sottovalutazione dell'autonomia critica delle persone e soprattutto
della loro invidualità che in questi anni sono andati crescendo. Il principio tradizionale di autorità, il
richiamo del pastore in quanto tale, non sono più accettati da quote importanti del mondo
occidentale. Si vuole capire, discutere, misurare il valore dei precetti anche su un'etica individuale
e collettiva più ampia, meno prescrittiva e meno autoreferenziale di quella dell'istituzione Chiesa;
l'esempio più eclatante è l'intero tema della sessualità nelle sue varie declinazioni, dalla
contraccezione alla famiglia, dall'omosessualità al matrimonio dei religiosi, al ruolo delle donne
nella comunità ecclesiale. Entrano qui in gioco valori umani di tipo generale, che fanno parte delle
acquisizioni culturali degli ultimi due secoli, e che sono ormai profondamente interiorizzati da una
parte importante della società: l'idea di libertà delle persone e delle collettività; l'idea di diritti
inalienabili di fonte naturale, non disponibili a mediazioni prescrittive unilaterali. Penso che su
questi temi la maggioranza degli italiani non sia per niente d'accordo con il Vaticano. Vedo
aumentare nella nostra società una richiesta crescente di auto determinazione: le reti,
l'internazionalizzazione, la disponibilità di informazioni incoraggiano l'idea di una vita da plasmare,
aperta a mille possibilità, che non vuole farsi rinchiudere nel qui e ora, e neppure nei muri di
precetti estranei all'esperienza concreta delle persone. Non la negazione dell'etica o dei precetti in
sè, per quanto capisco: ma un'etica più umana e non libresca, che aderisca più ad una visione
caritatevole e compassionevole che ad un'astratta decretazione.
Mi guardo bene dall'esprimere giudizi conclusivi su questo fenomeno: esso contiene in potenza
tutti gli esiti possibili. Spetta ai sapienti veri, storici, filosofi, sociologi, giuristi, ma anche fisici e
matematici, nel loro lavoro comune, indicare il modo di evitare le minacce e sfruttare le opportunità
di questo stato di cose.
2) In pochi anni, lo sviluppo della conoscenza sta portando la scienza sempre più vicina a decifrare
i meccanismi fondamentali del creato, sia quelli del mondo fisico sia quelli degli esseri viventi.
Siamo alla vigilia annunciata di un nuovo balzo scientifico. Nel campo delle scienze della vita, in
particolare, dalla biologia alla medicina, il progresso ci mette in condizioni oggi di cambiare la
natura del vivente. Non solo di curare o mettere riparo ai danni degli organismi: ma di progettare e
realizzare nuove forme di vita, da quelle monocellulari fino agli organismi complessi. Se
quest'evoluzione del sapere pone già oggi problemi nuovi di straordinaria complessità e
delicatezza etica, è facile prevedere che i prossimi sviluppi della scienza impatteranno sul nostro
apparato culturale, filosofico e legislativo con la forza di un ciclone. Siamo di fronte ad un nuovo
salto di qualità della conoscenza, ad una svolta che alza l'asticella qualitativa della scienza di un
ordine di grandezza. Come sempre, l'accelerazione in una disciplina importante trascina poi con sè
mutamenti di approccio anche in discipline apparentemente lontane; per dirne una: se si modifica il
modo di guardare alla vita biologica, quali mutamenti si produrranno in sociologia e in
giurisprudenza, dapprima nella registrazione e ridefinizione dei fenomeni, alla lunga negli stessi
paradigmi fondanti ?
Di fronte a questo terremoto annunciato, c'è evidentemente bisogno di una chiamata a raccolta
delle energie intellettuali e morali disponibili, in modo tale da sezionare in tutti i suoi aspetti e le sue
implicazioni il problema, e tentare di definire i lineamenti di un sistema di regole utili a gestirlo.
Le uniche cose di cui certamente in questo momento non si sente il bisogno sono i lanciatori di
anatemi e i semplificatori di professione. E' umanamente comprensibile, tuttavia, che i portatori di
forti sistemi dottrinari si sentano i più minacciati da scoperte che possono mettere in discussione i
sistemi stessi dalle fondamenta. Ma, di nuovo, i problemi non si esorcizzano negandoli,
nascondendoli sotto il tappeto, o, peggio, vietando di occuparsene. La politica dei divieti si è
rivelata storicamente marginale, perdente, travolta dai fatti. Gli "hard facts" hanno la cattiva
abitudine di non farsi cancellare dalle opinioni nè dalle scomuniche.
Se tutto questo ha un fondamento, siamo di nuovo di fronte ad un corto circuito sociale: i
rappresentanti delle istituzioni religiose, o spirituali, o confessionali in senso lato, in molti casi
chiusi a riccio nei confronti di un sapere che si presenta minaccioso come non mai per gli equilibri
culturali e spirituali esistenti (oppure determinati a ristabilire lo status quo ed un primato del
dogma) ; gli scienziati, come professionisti e come persone, privati di qualsiasi corredo di regole
certe e condivise; l'opinione pubblica affascinata e spaventata dagli scenari che in buona o
malafede vengono evocati dagli attori in campo.
Qualcuno potrebbe legittimamente chiedere: ma cosa c'entra il sindacato con tutto questo? Lo dico
in due parole: noi siamo qualcosa di più e di diverso da un'associazione di dipendenti che controlla
un'equa distribuzione di salari ed eque condizioni di lavoro. Siamo, da sempre, uno dei soggetti
collettivi che partecipano alla dinamica sociale del nostro Paese, ai suoi grandi processi di
orientamento culturale, non solo sul terreno del lavoro. Siamo interessati all'esito di una dinamica
che, visibilmente, non riguarda solo la relazione specifica tra la scienza e la sua accettabilità
sociale, cosa di per sè importantissima; ma che riguarda il modo, le regole, le scelte con cui un
Paese che si vuole democratico decide di libertà fondamentali. E non c'è dubbio che
l'avanzamento del sapere rappresenta uno di quei patrimoni collettivi di rilevanza costituzionale su
cui non sono permessi nè arbitrii nè invasioni di campo.
Che fare, allora? Io credo che dobbiamo puntare ad arrivare ad un sistema nel quale un'etica laica,
fatta di regole convenzionali condivise dica alle persone e alla collettività quali comportamenti sono
accettabili e quali no nel campo della ricerca e della produzione di sapere, quali limiti sono
eventualmente necessari, quali pratiche sono da evitare. Un sistema di regole in grado di garantire
il punto di vista di un non credente, che non ha maniglie metafisiche cui ancorarsi, e che non
riconosce statuti precettivi esterni alla vita morale dell'individuo e ai suoi assunti etici liberamente
scelti; e garantire la libertà del credente che vuole attenersi al rispetto di principi religiosi. Mi è
chiaro che non può essere un codice di norme rigidamente prescrittive ma, piuttosto, un
vademecum di principi, la cui applicazione va sottoposta al controllo di una o più sedi di
valutazione trasparente. Mi è chiaro che non può essere un elenco di discipline o campi vietati.
A questo scopo non credo che sia utile tornare a discutere dei massimi sistemi, che, in quanto tali,
rischiano di essere inconciliabili, ma piuttosto della natura del patto sociale che sostiene le regole
comuni: dove si deve attestare, con quali obiettivi; qual è il significato condivisibile del termine
Stato laico. Il punto irrinunciabile sta proprio su questa frontiera: il patto sociale non può nascere
dall'assunzione di principi mutuati sic et simpliciter da attori confessionali, a meno che essi non
abbiano la forza e l'evidenza condivisa di principi che travalicano l'ambito confessionale per la loro
portata generale. Faccio un esempio concreto: in Italia vige una legge sull'interruzione di
gravidanza. Credo che nessuno pratichi aborti per diletto, l'aborto è sempre un dolore, ma se la
maggioranza degli italiani sostiene questa legge, questo significa che anche l'altissimo valore della
vita conosce condizioni in presenza delle quali, nell'opinione generale, è lecito e opportuno
derogare. Il valore della vita si presenta in questo caso come valore tra i valori, da contestualizzare
e su cui esercitare scelta consapevole. Usare il valore della vita come un alibi ideologico per
vietare la ricerca sulle cellule staminali o sugli embrioni è un'operazione sfacciatamente truffaldina.
Il suo unico, vero, obiettivo è quello di marcare il territorio tentando di imporre una norma
scopertamente ideologica, e veicolare nel patto sociale del Paese un surplus di identità
confessionale.
Non so come arrivare alle regole necessarie, anche se mi è chiaro che molti e diversi saranno i
percorsi che conducono all'obiettivo.
Se penso al mondo della ricerca e dell'università, credo per esempio che ci sia bisogno di una
Carta di chi opera in questi settori, ma forse di tutti coloro che fanno ricerca, ovunque siano
collocati, che fissi per legge principi di deontologia professionale, delinei doveri, restrizioni e
soprattutto diritti. Perchè, se devo dirla tutta, ciò di cui si sente più bisogno oggi nella ricerca è la
cosa che dovrebbe inscindibilmente accompagnarla: la libertà. Non solo astratta libertà
intellettuale, ma libertà dalle gerarchie, dalle lobby, dai condizionamenti e dai ricatti economici ed
esistenziali, da un intreccio con il mercato che può fare bene, ma che può fare anche tanto danno
se assunto come principio ordinatore.
Ci sono, credo, alla base di tutto questo, almeno due idee che dovremmo condividere senza
riserve: la prima è che tutti gli integralismi sono la difesa disperata di un'identità minacciata:
minacciata dal cambiamento e dall'ignoto, minacciata da una modernità che non si padroneggia,
minacciata da un'economia che ti spinge sempre più in basso. La seconda, che in Italia ha un peso
molto grande, è che la paura è sempre figlia dell'ignoranza: educare vuol dire davvero rendere più
liberi.
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protocollo d`intesa