Sala Verdi del Conservatorio Martedì 11 ottobre 2005, ore 20.30 S TA G I O N E 2 0 0 5 • 2 0 0 6 Orchestre de Chambre de Lausanne Christian Zacharias direttore e pianista 1 Consiglieri di turno Prof. Francesco Cesarini Sig. Harry Richter Sponsor istituzionali Con il patrocinio e il sostegno di Con il sostegno di FONDAZIONE CARIPLO Per assicurare agli artisti la migliore accoglienza e concentrazione e al pubblico il clima più favorevole all’ascolto, si prega di: • spegnere i telefoni cellulari e altri apparecchi con dispositivi acustici; • limitare qualsiasi rumore, anche involontario (fruscio di programmi, tosse ...); • non lasciare la sala prima del congedo dell’artista. Si ricorda inoltre che registrazioni e fotografie non sono consentite. Orchestre de Chambre de Lausanne Christian Zacharias direttore e pianista Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 – Vienna 1827) Brani dal balletto “Le creature di Prometeo” op. 43 Concerto n. 1 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 15 Intervallo Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60 Si ringrazia per il sostegno particolare a questo concerto Ludwig van Beethoven Brani dal balletto “Le creature di Prometeo” op. 43 Ouverture, Adagio-Allegro molto con brio 1. Poco adagio 3. Allegro vivace 5. Adagio-Andante quasi Allegretto 16. Finale: Allegretto Classico o romantico? Anzi: post-classico o pre-romantico? Insomma: con quale aggettivo si può incasellare Beethoven in un compendio di storia della musica? Ebbene: il programma di stasera sembra pensato proprio per dare una risposta precisa a domande poste in questo modo. Ascolteremo tre lavori profondamente diversi fra loro, per stile e destinazione, ma che tutti pongono con forza il tema del rapporto fra presente arruffato (rivoluzionario, romantico appunto) e passato ordinato (classico), con le complicazioni che conseguono, interpretative e critiche. Si prenda per esempio il caso del balletto Le creature di Prometeo. Di solito interpreti e studiosi lo trascurano, perché lo ritengono lavoro minore e poco innovativo in quanto legato alle manierate movenze neoclassiche. Il che è vero solo in parte. Sul versante dell’azione scenica, l’origine classica del lavoro è indubbia. Nel preparare il libretto, il grande coreografo italiano Salvatore Viganò (1769-1821), maestro di ballo della corte viennese, si era esplicitamente ispirato alla mitologia greca, alla tragedia di Eschilo, a poeti francesi del Settecento, anche al poema Prometeo (1797) del neoclassico italiano Vincenzo Monti. La vicenda si riassume bene. In una notte buia e tempestosa, inseguito dai fulmini di Giove, il trafelato Prometeo riesce a raggiungere le due creature di argilla che prima aveva modellato e a portare loro il fuoco della vita. Ma l’uomo e la donna che così nascono si rivelano privi di sentimenti. Prometeo allora porta le sue creature senz’anima sul Parnaso, dove Apollo e le muse le trasformano in persone vere, insegnando loro a padroneggiare le arti e le passioni. C’è un momento drammatico, in cui la musa della tragedia Melpomene, per eccesso di zelo, pugnala a morte il povero Prometeo. Ma il bravo Pan rimedia con il suo flauto resuscitante e tutto finisce in gloria, con una grande danza generale. Diversa è la sostanza musicale. Non è vero che nel Prometeo manchino gli strappi drammatici e che l’intero balletto (sedici numeri oltre a Overtura e Introduzione, durata complessiva di circa un’ora) proceda con classica compostezza. L’ouverture, che è il pezzo più noto, non è affatto “normale” in senso classico. L’“Adagio” introduttivo attacca con otto robusti e dissonanti accordi a piena orchestra che subito attraggono l’attenzione e aprono a una sezione lirica in cui sensibile è la lezione del sinfonismo di Haydn. L’“Allegro molto con brio” che subito s’innesta è un bel primo tempo di sinfonia da giovane Beethoven, quello della Prima e (meno) della Seconda, tanto per intenderci. La struttura è snella, la dinamica incessante, i fiati sono opposizione e alternativa agli archi, il finale è a grande effetto. I pezzi che seguono, praticamente sconosciuti, hanno tutti un loro grado di interesse e originalità. La bravura del Beethoven orchestratore si nota nell’introduzione all’azione vera e propria, intitolata La Tempesta: tuoni e lampi escono da timpani e archi con successivi rinforzi di legni e ottoni in una specie di prova generale della bufera della grande Sesta sinfonia “Pastorale”. Ci sono sorprese musicali anche negli altri sedici pezzi che accompagnano l’azione coreografica, con alti e bassi nell’invenzione ma con risultato sempre efficace e piacevole. Ne sono un buon esempio i quattro brani selezionati per stasera. Più che il primo numero (un “Adagio” che accompagna Prometeo quando il fuoco accende la vita alle sue creature) e il terzo (i tre che vanno sul Parnaso) sono interessanti il quinto e il sedicesimo (e ultimo). Non solo perché sono le scene più lunghe dell’intera partitura, circa sette minuti ciascuna, più della stessa ouverture, ma perché vi troviamo le più incisive valenze musicali. Nella quinta infatti abbiamo la presentazione di Euterpe, la musa della lirica e della musica, di Tersicore ossia la danza, dello stesso Apollo; figure cui Beethoven associa un bell’assolo di flauto, un lieve inciso ritmico, una cadenza di violoncello, in un quadro timbrico di singolare trasparenza. Nell’ultima scena giunge, a sorpresa, come conduttore di un articolato incastro di motivi diversi, il tema che sarà ripreso pochi mesi dopo per le grandi variazioni che costituiscono il finale della Terza sinfonia “Eroica”. Ci sono insomma tanti elementi che rendono non secondario il ruolo del Prometeo nell’evoluzione della musica e del pensiero di Beethoven. Anzi tutta una serie di indizi portano a una conclusione inattesa. Riassumiamo. Sia Beethoven che Viganò s’impegnarono a fondo nel balletto. Entrambi inseguivano il mito della classicità ma erano fautori decisi del rinnovamento artistico e civile, come dire dello spirito rivoluzionario che arrivava dalla Francia. Una delle fonti del lavoro, il Prometeo di Monti è dedicato al “cittadino Napoleone Bonaparte”. Il balletto è definito “eroico-allegorico”. L’ azione descrive un eroe-demiurgo che, rischiando la propria vita, anima figure umane inerti. La musica è classica nella forma ma anche attenta alle nuove “maniere” (timpani, fanfare, marce militari) che arrivavano a Vienna dalla Francia rivoluzionaria. E poi c’è il finale, che pare una prova generale della monumentale sinfonia “Eroica”, originariamente dedicata al Primo Console. Insomma, non ci dovrebbero essere dubbi: il Prometeo di Viganò e di Beethoven non può che essere Napoleone Bonaparte. La prima rappresentazione si ebbe al Burgtheater di Vienna il 28 marzo 1801 e fu replicata per oltre venti volte, per quei tempi un successo straordinario. Concerto n. 1 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 15 Allegro con brio Largo Rondò: Allegro scherzando Incisiva proposizione degli archi, rinforzo immediato dei fiati, vigorosi squilli di trombe e forti rulli di tamburo, sicuro passo militare: è davvero folgorante l’attacco del primo concerto per pianoforte e orchestra che Beethoven decise di dare alle stampe. Tecnicamente non si tratta di una novità assoluta. Complice la tonalità di do maggiore, cose simili erano state scritte tante altre volte sia da Mozart che da Haydn. Però Beethoven mette quel tocco di aggressività, quel senso dell’urgenza che sappiamo essere il sigillo del suo stile eroico, rivoluzionario, romantico. Ci si aspetta dunque uno sviluppo pieno di drammi e di contrasti, con il pianoforte impegnato in un impervio ruolo di “uno contro tutti”. Invece non è così. Dopo le (poche) battute iniziali, quasi per magia, dal tema principale scaturisce la melodia secondaria, che è dolce e incantata, esempio perfetto di quel lirismo sognante che Beethoven aveva appreso dall’amatissimo Mozart e fatto proprio fin dagli anni della giovinezza. Su questo tema lirico l’orchestra indugia a lungo, fiorendolo dei timbri preziosi che nascono dai dialoghi fra archi e fiati. Il motivo iniziale torna solo alla fine dell’esposizione, in una variante che ha il suono di una banda militare. Del tema lirico si impossessa subito il solista, che comunque rinuncia a ogni contrasto con l’orchestra; semmai ne ammorbidisce i toni marziali con scintillanti giochi di arpeggi e trilli ogni volta che torna il motivo d’apertura. Non c’è vera dialettica neppure nell’ampia sezione di sviluppo, solo severa integrazione di timbri in un intenso passaggio in tonalità minore. La riesposizione segue le simmetrie classiche e solo nella lunga coda ritroviamo un minimo di piglio “eroico”, che la cadenza lasciata all’improvvisazione del solista può esaltare o temperare. Il solista tiene in pugno il materiale espressivo anche nel “Largo” centrale e lo dispiega con la forza interiore che possiede solo una preghiera. L’orchestra accompagna sottovoce, spesso lascia emergere la voce scura del clarinetto per integrare i timbri gravi del pianoforte, altre volte si riserva il ruolo di incidere con inaspettati “fortissimi” la trasfigurata staticità del canto. Ancora una volta non c’è dialettica vera, ma solo sequenza di stati d’animo, che infine riassume una coda di ampie proporzioni, ripetitiva, ipnotica. La tensione si scioglie nel terzo movimento, concepito come classicissimo rondò, incentrato su un vivace tema di danza che coordina una serie di strofe ora vivaci ora riservate, comunque rese brillanti dalla insuperabile (in quei tempi) qualità dell’inventiva pianistica di Beethoven. Non a caso, la parte del pianoforte fu fissata definitivamente sulla carta pochi giorni prima della pubblicazione. Di regola, infatti, Beethoven scriveva nel dettaglio le parti orchestrali mentre si riservava il diritto di liberamente improvvisare la sua parte di solista. Così era successo le numerose volte che aveva presentato, sempre con grande successo, questo suo concerto impostato già nel 1795 e pubblicato solo nel 1800, dopo vari collaudi a Vienna e in altre città dell’Impero. Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60 Adagio, Allegro vivace Adagio Allegro vivace Allegro ma non troppo Beethoven si impegnò davvero a fondo per passare direttamente dalla Terza alla Quinta sinfonia, facendosi guidare da quell’adrenalina che lo sosteneva quando era impegnato nei cimenti eroici. Ma non ci riuscì. Fu la sua stessa natura, di uomo e di artista, a imporgli uno stacco. Anzi: a pretendere il ripristino delle simmetrie e degli equilibri di matrice classica. La cronologia non lascia margini di dubbio. Sappiamo che Beethoven lavorò assiduamente alla Quarta sinfonia nell’estate del 1806, a seguito di una specifica commissione dell’amico e protettore conte Oppersdorf, che gli aveva offerto 500 fiorini per un nuovo lavoro, con diritto di esecuzione privata in esclusiva per sei mesi. La composizione fu terminata in poche settimane e ai primi di ottobre la partitura era pronta, anche se la prima esecuzione in pubblico avvenne solo nel marzo del 1807. Dunque è netto il distacco dalla Terza sinfonia “Eroica”, composta nel 18021804 e subito eseguita in privato, in casa del principe Lobkowitz (la prima pubblica è datata 7 aprile 1805). Invece è ben documentata una certa sovrapposizione con la Quinta, i cui primi due movimenti erano già in fase di avanzata realizzazione mentre Beethoven stava terminando la Quarta. È appena il caso di ricordare che il 1806 fu per lui uno degli anni più prolifici, per quantità, oltre che per qualità: videro la luce infatti nientemeno che la Sonata “Appassionata” op. 57, il Quarto concerto per pianoforte op. 58, i tre Quartetti op. 59, il Concerto per violino op. 61. Che la Quarta sia uno specifico frutto del suo tempo è documentato anche dal fatto che, scrivendola, Beethoven utilizzò materiali del tutto nuovi, nel senso che non recuperò appunti giovanili come aveva fatto in altri casi, e che solo nelle carte utilizzate l’anno precedente per l’opera Leonore (prima versione di Fidelio) si possono rintracciare vaghe idee poi confluite nella sinfonia. È dunque chiara la volontà di Beethoven di cambiare registro rispetto al linguaggio sinfonico sperimentato nell’“Eroica”, ovvero di allentare la tensione dialettica e di recuperare gli equilibri classici. Ma non si tratta davvero di un ritorno a Mozart e Haydn. Le novità di architettura e di scrittura della Quarta sono molte, segnano progressi importanti anche rispetto alla pur rivoluzionaria Terza. Si osservi l’“Adagio” posto come introduzione al primo movimento. Non è solo un omaggio al Caos sinfonico con cui si apre l’oratorio La Creazione di Haydn (di cui tutto si può dire, tranne che sia “classico”) e neppure una metafora musicale dell’emergere dal profondo. È soprattutto una presentazione di materiali musicali che ritroveremo nel resto della grande partitura. Per esempio, è dialettica fra archi e fiati, fatta di alternanza e sovrapposizione, ossia di dialogo e integrazione, il tutto ridotto ai termini elementari delle linee e dei punti, all’insegna della massima economia dei mezzi. Ora gli uni tengono note lunghe mentre gli altri si muovono appena, ora comunicano per cenni rarefatti in quanto essenziali. Su questi elementi, più ancora che sui temi espliciti che pure sono facilmente riconoscibili, è costruito il successivo “Allegro vivace”, con il suo magnifico gioco in eco fra violini acuti e gravi, in rapporto con ottoni e legni, questi ultimi disposti in perfette sequenze di timbri, dove i fagotti anticipano oboi che cedono il passo ai clarinetti mentre corni e trombe, sostenuti dai timpani, rendono esplosivo il pieno orchestrale. In particolare è il timpano a dare un tocco magico alla partitura, quando, alla fine dello sviluppo, improvvisamente il suono del “tutti” si alleggerisce fino a quasi scomparire ed è appunto il suo “pianissimo” che diventa il punto di riferimento tonale, tira le fila dell’intero movimento, prepara la ripresa e la smagliante conclusione. Siamo in una situazione perfettamente speculare rispetto alla Terza sinfonia, quando è invece il “fortissimo” degli ottoni a dominare lo sviluppo e l’assolo del corno che porta alla ripresa. La distanza timbrica sembra siderale, ma è tutta dovuta alla qualità della scrittura, tanto densa nella Terza quanto rarefatta nella Quarta, pur essendo l’organico orchestrale praticamente identico. La Terza chiede in più soltanto un terzo corno a integrare la coppia usuale, che troviamo di regola anche nelle sinfonie di Mozart e Haydn. L’attenzione al dettaglio timbrico è costante anche nei tre movimenti successivi, che svelano il loro valore soprattutto se riletti con il senno di poi, cioè tenendo conto delle sinfonie che vengono dopo. Del secondo movimento non sfuggirà l’accurata valorizzazione della dolcissima melodia principale, sottoposta a quel tipo di sminuzzamento di intervalli e di durate che renderanno indimenticabili gli “adagio” dell’ormai prossima Sesta e dell’ancora lontana Nona. Evidente è la contiguità dei due ultimi movimenti della Quarta con i corrispondenti della Settima, se non altro per l’incisività del ritmo e la costante vocazione danzante. Ma è ovviamente con la Quinta che le simmetrie risaltano di più: la funzione strutturale del timpano, per esempio; l’architettura dei relativi “Scherzi”; la fusione a caldo dei due ultimi movimenti; la costruzione basata su incisi elementari. Si scoprono anche i dettagli che rendono tanto diverse le percezioni delle due sinfonie: il si bemolle maggiore verso il do minore; il dionisiaco contro il demoniaco; la velocità opposta all’urgenza. Non è dunque strano e neppure casuale che le due sinfonie siano state composte nello stesso tempo. La Quinta fu infatti impostata subito dopo il completamento della Terza, ma la stesura si protrasse a lungo, sbloccandosi subito dopo la veloce realizzazione della Quarta. Beethoven si rese ben conto di aver davvero bisogno di inserire un anello diverso nella collana delle sue sinfonie, e che doveva essere anche tecnico, non solo emotivo. Ecco perché è indispensabile che la Quarta stia fra Terza e Quinta. E se non si conosce il valore della Quarta sfugge la sinfonia delle nove sinfonie. Si capisce anche perché la domanda che ci facevamo all’inizio era mal posta. Non ha senso infatti cercare astratte classificazioni stilistiche di Beethoven (e in generale di ciascun grande artista) nel gran fiume del proprio tempo. Perché è l’artista stesso il padrone del suo Tempo, il moderno Prometeo che con la forza e con le contraddizioni della propria immaginazione impone quei cambiamenti radicali che confondono i sostenitori della continuità evolutiva della storia e degli stili. Enzo Beacco CHRISTIAN ZACHARIAS direttore e pianista Christian Zacharias è nato nel 1950 a Jamshedpur, in India. Nel 1952 si è trasferito con la famiglia in Germania. Allievo dal 1961 della pianista russa Irene Slavin alla Musikhochschule di Karlsruhe, si è poi perfezionato con Vlado Perlemuter a Parigi. Vincitore del secondo premio ai concorsi internazionali di Ginevra nel 1969 e Van Cliburn nel 1973, nel 1975 ha vinto il primo premio al Concorso Ravel di Parigi. Da allora Christian Zacharias ha suonato con le maggiori orchestre del mondo (Berliner Philharmoniker, London Symphony, Concertgebouw di Amsterdam, Boston Symphony, New York Philharmonic, NHK di Tokyo) con direttori di primo piano quali Sergiu Celibidache, Colin Davis, Eugen Jochum, Ferdinand Leitner, Neville Marriner, Kurt Sanderling, Horst Stein. È inoltre ospite regolare di importanti festival (Salisburgo, Edimburgo) sia come solista sia in formazioni cameristiche. Rigorosa è la scelta di Christian Zacharias sul repertorio, che si concentra su una stretta cerchia di compositori: Scarlatti, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann e Ravel. Dal 1992 si dedica alla direzione d’orchestra. Ospite regolare di orchestre quali English e Scottish Chamber Orchestra, Nederlands Kammerorkest, Orchestra Filarmonica di Dresda, Orchestra di Santa Cecilia, Orchestre Philharmonique de Radio-France, Orquesta Nacional de España, Los Angeles Philharmonic e Bamberger Symphoniker, nel 2002-03 è stato direttore ospite principale dell’Orchestra sinfonica di Göteborg e dal 2000 è direttore artistico e direttore principale dell’Orchestre de Chambre de Lausanne. Nel 2000 ha eseguito nella duplice veste di direttore e solista l’integrale dei concerti di Mozart con orchestre di primo piano quali Concertgebouw di Amsterdam, Orchestre de la Suisse Romande, St. Luke’s Orchestra, English Chamber Orchestra, Los Angeles Philharmonic, Orchestra di Santa Cecilia, Orchestre de Chambre de Lausanne e Berliner Philharmoniker. Per la stagione in corso ha in programma il debutto con la New York Philharmonic Orchestra, Staatskapelle Dresden, le orchestre della Radio di Colonia e Amburgo, il ritorno al festival di Tanglewood e La Clemenza di Tito di Mozart al Teatro dell’Opera di Ginevra. In campo discografico sono particolarmente conosciute le sue interpretazioni di opere di Domenico Scarlatti (nel 1990 ha partecipato alla realizzazione di un film sul grande compositore per tastiera napoletano) e di Mozart, del quale ha inciso tutte le sonate e i concerti. Dal 1985 collabora in qualità di presentatore e moderatore di programmi radiofonici musicali con France-Musique. È stato ospite della nostra Società nel 1997 e 2004. Orchestre de Chambre de Lausanne L’orchestre de Chambre de Lausanne è stata fondata nel 1942 dal violinista e direttore Victor Desarzens che nei suoi 30 anni alla guida dell’orchestra ha dato grande spazio alla musica contemporanea con numerose prime di opere di compositori quali Frank ° In origine ensemble di soli archi, l’orchestra comprende Martin e Bohuslav Martinu. oggi 44 musicisti. Alla guida dell’orchestra si sono alternati direttori di primo piano quali Otto Ackermann, Ernest Ansermet, Ernst Bour, André Cluytens, Antal Dorati, Ferenc Fricsay, Lovro von Matac̆ić, Witold Rowicki, Günter Wand e compositori quali Paul Hindemith e Frank Martin. Nel 1949 si è esibita per la prima volta all’estero debuttando al festival di Aix-en-Provence. Dalla stagione 2000-01 Christian Zacharias è direttore artistico e direttore stabile dell’orchestra, succeduto a Armin Jordan (1973-1985), Lawrence Foster (1985-1990) e Jesús López Cobos (1990-2000). Il repertorio dell’orchestra, grazie anche al lavoro di direttori ospiti principali quali Heinz Holliger, Okko Kamu, Jean-Jacques Kantorow e Ton Koopman, comprende quasi quattro secoli di musica, dal periodo barocco a quello contemporaneo. Oltre ai circa 90 concerti all’anno a Losanna, l’orchestra si esibisce con regolarità in Svizzera e all’estero con tournée in Estremo Oriente e Sud America, ospite di festival di primo piano (Evian, La Roque d’Anthéron, Edimburgo, Tibor Varga a Sion, Mentone, Enesco a Bucarest, BBC Proms di Londra) e di istituzioni musicali quali Maggio Musicale Fiorentino, Musikverein di Vienna, Alte Oper di Francoforte e Théâtre des Champs-Elysées a Parigi. La sua discografia, che conta più di 250 incisioni, comprende le recenti incisioni di opere di Mozart, Schumann e Michael Haydn con Christian Zacharias nel duplice ruolo di pianista e direttore. La Radio de la Suisse Romande, partner dell’Orchestra fin dalla fondazione, registra e trasmette la maggior parte dei suoi concerti, contribuendo al successo internazionale dell’ensemble. L’attività dell’orchestra è sostenuta dalla Città di Losanna e dal Cantone di Vaud oltre che da alcune fondazioni private. È per la prima volta ospite della nostra Società. Gyula Stuller, Julie Lafontaine, Delia Bugarin, Irène Carneiro, Stéphanie Décaillet, Edouard Jaccottet, Piotr Kajdasz, Janet Loerkens, violini primi Alexandre Orban, Isabel Demenga, Gabor Barta, Stéphanie Joseph, José Madera, Catherine Suter, violini secondi Eli Karanfilova, Nicolas Pache, Caio Carneiro, Michael Wolf, viole Joël Marosi, Catherine Tunnell, Philippe Schiltknecht, Daniel Suter, violoncelli Marc-Antoine Bonanomi, Daniel Spörri, contrabbassi José Daniel Castellon, Anne Moreau, flauti Lucas Macias Navarro, Markus Haeberling, oboi Thomas Friedli, Curzio Petraglio, clarinetti Dagmar Eise, François Dinkel, contrabbassi Ivan Ortiz Motos, Andrea Zardini, corni Marc-Olivier Broillet, André Besançon, trombe Arnaud Stachnick, timpani Anne Bassand, arpa Prossimo concerto: martedì 25 ottobre 2005, ore 20.30 Sala Verdi del Conservatorio Orchestra del ‘700 Frans Brüggen direttore Thomas Zehetmair violino Società del Quartetto di Milano, via Durini 24 - 20122 Milano tel. 02.795.393 – fax 02.7601.4281 www.quartettomilano.it – e-mail: [email protected] Il gran dilemma fra classico e romantico torna in grande evidenza anche nel prossimo concerto, con un programma tutto dedicato a quel Mendelssohn che, allevato nel culto della classicità, amico di Goethe e genio precocissimo, visse nel turbine del primo romanticismo tedesco e segnò in modo definitivo il linguaggio orchestrale dell’intero Ottocento. Ascolteremo tre capolavori che nascono dai tre critici elementi di formazione di Mendelssohn: l’educazione berlinese, il viaggio in Scozia e il soggiorno in Italia, ovvero il fascino delle nebbie nordiche, l’amore per il sole mediterraneo, la mediazione della cultura germanica. L’interpretazione è affidata a maestri che conosciamo bene: Thomas Zehetmair, il cui strepitoso violino è perfetto in musiche di ogni epoca e stile e Frans Brüggen che, con la sua Orchestra del ‘700, ha dimostrato che si può fare filologia musicale senza compromessi artistici anche nel grande repertorio ottocentesco. Programma (Discografia minima) F. Mendelssohn-Bartholdy Ouverture op. 26 Concerto in mi minore “La grotta di Fingal” op. 64 per violino e (Abbado, London orchestra Symphony Orchestra (Milstein, Abbado DG Dig. 415 353-2) Wiener Philharmoniker DG 419 067-2) Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 “Scozzese” (Abbado, London Symphony Orchestra DG Dig. 415 353-2)