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europa lavoro economia
newsletter di approfondimento su occupazione, affari sociali e politica economica
EDITORIALE
Carlo Dell’Aringa
APPROFONDIMENTI
Federalismo
Giuseppe Della Rocca
Giovanni Faverin
Fabio Pammolli
Mario Romeri
Nicola Salerno
Gilberto Turati
I N D I C E
EDITORIALE
di Carlo Dell’Aringa ..........................................................................................................
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OSSERVATORIO
Italia
Pomigliano e le prospettive delle relazioni industriali, di Maurizio Ballistreri................
Ammortizzatori sociali, una riforma che non decolla. La proposta della Cgil.................
Certezza delle regole, formazione e rappresentanza secondo Confindustria.................
Ires-Cgil, potere d'acquisto e redistribuzione del reddito variabili non indipendenti ....
Formazione, intesa a tre in Lombardia sull'apprendistato ...............................................
Fisco, se il fattore famiglia eliminasse le distorsioni del quoziente familiare?................
Per l'Isril la partecipazione azionaria collettiva è il modello da preferire .......................
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Unione europea
Europa 2020, in futuro largo ai colletti verdi.....................................................................
Assistenza domiciliare, l'accesso delle famiglie meno abbienti in Italia e Germania......
La mobilità dei giovani europei passa anche per i social network ...................................
Eurofound, l'inclusione sociale degli anziani è possibile con il volontariato...................
Europa Lavoro Economia
Supplemento mensile di AREL
Attività Parlamentare e Legislativa
Numero di Ottobre 2010
Periodico mensile
edito da Arel Servizi srl
Registrazione al Tribunale Civile
di Roma n. 402 del 22/06/1990
Direttore
Enrico Letta
Vicedirettore responsabile
Mariantonietta Colimberti
Coordinamento scientifico
Carlo Dell’Aringa e Tiziano Treu
Coordinamento redazionale
Carla Bassu, Raffaella Cascioli,
Marianna Madìa
Redazione
Carmine Russo (responsabile scientifico)
Lucio Cafarelli
Eugenio Carlucci
Maite Carpio
Angela Cipollone
Francesca Di Benedetto
Davide Integlia
Federico Smidile
Con la collaborazione di
Salvatore Pirrone
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Internazionale
Qual è la definizione ufficiale dei cosiddetti green jobs?.................................................
Ecco qual è il ruolo di Internet nella ricerca di un'occupazione .......................................
Flessicurezza, paradigma dell'euromercato del lavoro .....................................................
Le strategie inglesi per combattere la in-work poverty ....................................................
Apprendistato, percorso non sempre ad ostacoli ..............................................................
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Saggi
I fattori regionali determinanti nel distribuire disuguaglianze........................................
A fronte dell'invecchiamento qual è la generosità dei sistemi pensionistici? .................
I salari minimi riducono l'incentivo a partecipare al mercato del lavoro.........................
I lavoratori meno istruiti sono anche i meno disposti a partecipare alla formazione.....
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APPROFONDIMENTI
Lea e spesa standard, nuove frontiere della sanità, di Giuseppe Della Rocca .................
Oltre ai costi standard, i bisogni di salute di domani, di Giovanni Faverin......................
Gli standard di fabbisogno nella sanità italiana, di Fabio Pammolli e Nicola Salerno ....
Fabbisogni e costi standard nella giungla del decreto, di Mario Romeri.........................
Costi standard, cinque questioni per un decreto, di Gilberto Turati................................
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STATISTICHE (a cura di Angela Cipollone)
Lavoro, per i giovani il grado di istruzione è la linea di frattura tra Nord e Sud ............
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IN LIBRERIA (a cura di Carla Bassu) ...................................................................................
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DAL PARLAMENTO (a cura di Carla Bassu) ......................................................................
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EDITORIALE
di Carlo Dell’Aringa
G
li approfondimenti di questo numero della Newsletter includono
le relazioni e gli interventi che si
sono svolti nel seminario organizzato presso l’Arel sul federalismo fiscale e,
in particolare sullo schema di decreto sui
costi standard in sanità. Si tratta dello
«Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di determinazione dei
costi e dei fabbisogni standard nel settore
sanitario». Alcune parti di questo decreto
vanno innanzitutto ricordate. Verranno poi
discussi alcuni dei commenti critici che sono
stati scritti e qui di seguito riportati.
Innanzitutto il decreto fissa il fabbisogno sanitario nazionale standard, che è determinato in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo e nel rispetto
dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria. Per gli anni prossimi, questo fabbisogno – viene precisato nel Decreto – corrisponde al livello di finanziamento che è
stato già determinato, d’accordo con le Regioni, e in ossequio ai requisiti di stabilità
macroeconomica. E già con questa affermazione-definizione si sgombra subito il
campo dall’idea che il fabbisogno nazionale possa essere il frutto di un processo che
sale dal basso attraverso la determinazione
puntuale dei famosi livelli essenziali di assistenza (Lea). Il vincolo di bilancio viene imposto dall’alto.
Il fabbisogno nazionale deve poi articolarsi nei fabbisogni standard regionali.
Questo avviene (almeno in via di prima applicazione e a partire dal 2013) applicando
a tutte le regioni i valori di costo rilevati
nelle regioni di riferimento (benchmark).
Tre sono le regioni di riferimento e sono
quelle che garantiscono l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza – in condizioni
di efficienza e di appropriatezza – avvalendosi delle risorse ordinarie stabilite dalla vigente legislazione a livello nazionale, ivi
comprese le entrate proprie regionali effettive. Se la definizione è questa è difficile
negare che il benchmark risponde più ad
un criterio di equilibrio economico tra entrate e spese, che a un criterio di qualità e
di efficienza delle prestazioni. Come vedremo è su questo punto che si addensano le
critiche dei partecipanti al seminario dell’Arel. Vediamo comunque come si snoda
ulteriormente il discorso del decreto sulla
suddivisione del fabbisogno nazionale nei
fabbisogni regionali.
I costi standard sono calcolati a livello
aggregato per ciascuno dei tre macrolivelli
di assistenza: 1) assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro; 2) l’assistenza distrettuale; 3) l’assistenza ospedaliera. Il valore di costo standard è dato, per
ciascuno dei tre macrolivelli – sempre erogati in condizione di efficienza e di appropriatezza – dalla media pro-capite pesata
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del costo registrato nelle regioni benchmark. Ora mentre è abbastanza chiaro il
concetto di costo medio e di come si può
calcolarlo, meno chiaro è il concetto di «in
condizione di efficienza e di appropriatezza». Come verranno indicate e misurate
queste condizioni? In quali aspetti di qualità e efficienza si articoleranno? Quali indicatori verranno utilizzati? Senza queste e
altre indicazioni è facile arrivare alla conclusione che i costi standard saranno semplicemente ricavati dai costi storici delle regioni più virtuose dal punto di vista degli
equilibri di bilancio. Certamente i costi dipendono dalla composizione della popolazione per classe di età e di questo il decreto
tiene ampiamente conto. Passando, per
dare chiarezza all’algoritmo, dall’aggregato al pro-capite, i costi standard (da intendersi essenzialmente come fabbisogni standard) dovrebbero consistere, per ciascun
macrolivello di assistenza, in valori pro-capite per fascia di età, calcolati come media
della spesa pro-capite per fascia di età registrata nelle regioni benchmark.
Viene così individuato il valore percentuale del fabbisogno regionale il quale, rispetto al valore totale, costituisce il fabbisogno standard regionale. A sua volta il
fabbisogno standard regionale è annualmente applicato al fabbisogno standard nazionale definito sulla base dei requisiti di
equilibrio macroeconomico. E il cerchio,
così si chiude.
Il cerchio però si chiude, secondo Turati
in un modo che, come spiega nel suo approfondimento, lascia del tutto scoperto e
nel vago il concetto stesso di “costo standard”. Quel che occorre determinare, infatti, è la quota dei fondi complessivi destinati
alla sanità per ciascuna regione. Questa
quota (o frazione) viene determinata attraverso il costo standard, il quale moltiplica
sia la popolazione pesata di una qualsiasi
delle regioni (il numeratore della frazione)
sia la popolazione pesata complessiva (il
denominatore). È così evidente – spiega Turati – che il costo standard è una semplice
costante che moltiplica sia il numeratore
che il denominatore della frazione. Aggiunge ben poco al valore della frazione, cioè al
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valore della quota della spesa regionale sulla spesa nazionale. Quello che rileva è solo
la popolazione pesata, quella regionale rispetto a quella nazionale, e si tratta di un
indicatore di bisogno, non di costo standard. Ma questo – sostiene Turati – è più o
meno quello che si fa già oggi. Ben poco,
secondo Turati si aggiunge al concetto di
“spesa storica”.
Va ricordato, invece, che il superamento
del concetto di spesa storica era un chiaro
obiettivo della legge 42/2009. Il costo standard fa riferimento ad un concetto di costo
medio delle regioni con bilanci virtuosi. Ma
che fine ha fatto, si chiede Turati, la qualità
delle prestazioni erogate? Come distinguere
le regioni efficienti da quelle non efficienti?
Che ne è della salute dei cittadini come
obiettivo dei sistemi sanitari regionali sulla
base del quale valutare la loro attività?
Turati comunque condivide la impostazione del decreto laddove evita di cascare
nella trappola di un approccio bottom-up,
cioè di una definizione di un costo standard
che parta dalla valutazione del costo di ciascuna prestazione. Aver scelto invece un
metodo top-down è uno dei meriti del decreto, secondo Pamolli e Salerno. A parte la
eccessiva laboriosità di un procedimento di
questo tipo, come si fa a garantire la compatibilità macroeconomica quando si standardizzano i costi e si ricostruiscono i fabbisogni regionali dal basso? Chi garantisce
che la somma di tutti i fabbisogni costruiti
attraverso un processo dal basso sia uguale
al vincolo di bilancio che deve scendere dall’alto? Se questa scelta sarà confermata
– sostengono giustamente Pamolli e Salerno nel loro approfondimento – e applicata
in toto, sarà superata la cosiddetta sindrome dei soft budget constraints, all’origine
dei ripiani generalizzati a piè di lista e dell’inseguimento tra finanziamenti e consuntivi di spesa dell’anno prima, cui si è quasi
metodicamente assistito. Circoscrivere la finestra temporale in cui deve svolgersi e finalizzarsi il dibattito non è una diminutio
per la politica; al contrario, significa dare il
massimo rilievo alle scelte che la politica
deve compiere e di cui deve assumere la responsabilità. E fissare i tempi della politica
non implica neppure una prevalenza dell’obiettivo della sostenibilità finanziaria su
quello della redistribuzione e dell’adeguatezza dell’offerta sanitaria; implica, invece,
che le scelte su come coordinare questi due
obiettivi debbano essere prese in maniera
trasparente e rigorosa, con una visione di
programma non affetta da opportunismi.
Fra l’altro – dice Turati – i costi per prestazione in sanità esistono già – le tariffe
DRG-ROD –, e anche queste hanno poco a
che vedere con un vero e proprio costo efficiente. Una volta detto che non si può partire dal costo di ogni prestazione, non si
può nemmeno rinunciare, tuttavia, al giusto obiettivo di valutare e apprezzare i
comportamenti delle diverse regioni quando esse cercano di realizzare «condizioni di
appropriatezza e di efficienza». Secondo
Turati non si può rinunciare ad una valutazione della attività delle regioni nel perseguire i risultati programmati in termini di
salute dei cittadini, qualità dei servizi,
equità nell’accesso ai servizi, e di altre
performance che si volessero misurare. Dagli scostamenti dei risultati raggiunti rispetto ad una media generale, si potrebbero
ordinare e fare una graduatoria delle regioni e utilizzare le differenze di ogni regione rispetto alla media generale per individuare degli standard di riferimento. In
definitiva uscire, come si deve, dalla logica
senza sbocco di una standardizzazione minuta, prestazione per prestazione, non
deve significare, rinunciare alla individuazione di uno standard di qualità, facendo
riferimento al grado di raggiungimento di
obiettivi, sia pure di carattere generale, ma
che riflettano gli sforzi compiuti dalle regioni verso «l’appropriatezza e l’efficienza
delle prestazioni».
In questa logica si muove anche l’intervento di Della Rocca, che lamenta come anche nella sanità, come in tutta la pubblica
amministrazione manchino procedure efficaci di valutazione. Il tema degli indicatori
di prestazione come output rispetto alla
spesa (input) è da tempo nella pubblica amministrazione il tema “cenerentola”, spesso
eluso ed emarginato e limitato ad una logica solo formale, tra l’altro di scarso succes-
so, di sola valutazione del personale. Da
questo punto di vista Della Rocca vede il
parallelismo tra il lavoro sui costi standard
e la legge 150/2009 (la cosiddetta “riforma
Brunetta”) la quale sia pure intestardendosi
sulla necessità di valutare i singoli lavoratori, apre uno spazio alla valutazione dei risultati raggiunti da ogni singola amministrazione, legando questi ai compensi dei
dirigenti responsabili della gestione delle
unità amministrative.
Un tema di rilevante importanza è come
governare la dinamica del costo del lavoro
come parte di gran lunga più consistente
dei bilanci sanitari. Lo stabilire costi standard significa anche dare maggiore autonomia e responsabilizzare il governo regionale nella attribuzione delle risorse per la
contrattazione integrativa delle aziende sanitarie. Secondo alcuni dovrebbe essere
esclusa una ipotesi di tre livelli di contrattazione (nazionale, regionale, aziendale)
onde evitare una proliferazione delle trattative, pur tuttavia non si può non considerare il paradosso che ciascuna regione è
chiamata a rendere conto della spesa sanitaria e delle prestazioni, ma allo stesso tempo deve anche rispondere di incrementi retributivi per la contrattazione nelle aziende
sanitarie del suo territorio che vengono definiti in modo uniforme a livello nazionale.
Lungo questa linea si muove anche l’intervento di Faverin quando sostiene nel suo
approfondimento che la priorità rispetto
alla recente manovra del governo è fare sì
che al blocco forzato dei contratti nazionali, di per sé negativo, non si sommi quello
della contrattazione di secondo livello. E
non solo per un’ovvia ragione economica
– cercare di ottenere miglioramenti nelle
buste paga dei lavoratori pubblici proporzionali all’aumento di produttività ed efficienza – ma perché alla contrattazione integrativa è legato a doppio filo quel processo
di rinnovamento del settore pubblico che è
iniziato con la riforma del modello contrattuale. L’accordo del 30 aprile 2009 è infatti
dotato di un potenziale di innovazione del
quale non si può fare a meno se l’obiettivo
non è semplicemente “tagliare” ma bensì
“ottimizzare” la spesa per i servizi. Spostan-
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do il baricentro della contrattazione sul secondo livello, è possibile rendere più concreta la prospettiva di una riqualificazione
delle amministrazioni, e collocare la questione del riconoscimento professionale dei
lavoratori e l’azione del sindacato a tal fine
diretta, in ogni singolo ente, azienda, amministrazione e territorio.
Attraverso un negoziato regionale – osserva Della Rocca – possono essere attribuiti
incrementi di risorse sui fondi di ciascuna
azienda sulla base dei criteri di prestazione
e di efficienza economica anche ottenuti e
monitorati per mezzo dei costi standard. La
contrattazione regionale sarebbe in tale
modo circoscritta alla sola funzione di redistribuzione delle risorse, come già di fatto
avviene nel settore privato della sanità in
cui da tempo la contrattazione regionale
svolge un ruolo determinante.
I SEMINARI
1/2007. Programmazione, costi e finanziamenti delle infrastrutture in Italia
2/2007. Norme in materia ambientale - Decreto legislativo n. 152/2006
3/2007. Offerte pubbliche d’acquisto e recepimento della direttiva europea
4/2007. Class action
5/2007. È possibile contrastare l’antipolitica?
1/2008. Costituzione e regolazione
2/2008. Mercato del credito e indebitamento delle famiglie in Italia
3/2008. Fondi sovrani
1/2009. La nuova cassa depositi e prestiti
2/2009. La strada per Kabul
3/2009. Dalla «Caritas in Veritate» la chiave di lettura della crisi
1/2010. Le riforme che mancano. Trentaquattro proposte per il welfare del futuro
2/2010. La ripartenza. Analisi e proposte per restituire competitività all’industria del calcio in
Italia
3/2010. Oltre guerra e pace. Il Vietnam nel Terzo Millennio
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numero di ottobre 2010
OSSERVATORIO
In questo numero
A
nche se la crisi colpisce ancora in modo significativo il sistema industriale e il mercato del
lavoro del nostro Paese, si comincia a riflettere su quali potrebbero essere le direttrici per il
futuro; in questa scia si collocano alcune delle schede che presentiamo quali la proposta
della Cgil sugli ammortizzatori sociali e quella della Confindustria sul lavoro; anche in
una prospettiva di crescita si colloca il sostegno di molti Paesi ai cd. green job dei quali l’Ufficio di
statistica statunitense fornisce una definizione ufficiale e ancora all’apprendistato è dedicato lo studio
comparato della London school. Sembre sotto il profilo della formazione presentiamo uno studio Iza
sulle regioni per cui i lavoratori con basso livello di istruzione partecipano meno alle occasioni
formative.
Ma gli effetti della crisi non possono essere dimenticati e a questa funzione sembra assolvere l’indagine
Ires sulla crisi dell’occupazione e dei redditi negli anni Duemila, uno studio inglese sui fattori che possono
determinare povertà nell’esperienza dell’ultimo biennio ed uno comparato sulle misure adottate per
combattere la povertà e la disuguaglianza.
Alle politiche del lavoro da una risposta l’intesa tra ministeri dell’istruzione e del Lavoro e Regione
Lombardia sull’apprendistato, ma anche l’analisi dell’Isril sulla partecipazione finanziaria dei lavoratori;
e la ricerca di lavoro può essere favorita anche dalle nuove tecnologie come spiega lo studio sul ruolo che
può svolgere Internet, mentre uno studio francese compara le esperienza europee sulle politiche adottate
per l’occupazione ed uno tedesco verifica gli effetti del salario minimo sull’occupazione femminile.
Per le politiche sociali, presentiamo la proposta del Forum delle associazioni familiari sulle politiche
fiscali a favore delle famiglie, lo studio comparato dell’European Centre sui servizi di cura destinati agli
anziani; ma agli anziani è dedicata anche la scheda che valorizza il ruolo del volontariato in termini di
inclusione sociale ed uno studio comparato che esamina i fattori che hanno spinto quattordici paesi a
ridurre la spesa pensionistica negli ultimi trent’anni.
Per seguire le politiche di sviluppo e integrazione dei giovani esaminiamo la proposta della
Commissione europea per favorire la mobilità internazionale per l’istruzione dei giovani.
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ITALIA
Pomigliano e le prospettive
delle relazioni industriali
di Maurizio Ballistreri*
Si è detto che la Fiat non aveva alternative rispetto al piano presentato ai sindacati, per rilanciare lo stabilimento di Pomigliano d’Arco.
Un tentativo di aumentare la competitività di una realtà manifatturiera di grandi
dimensioni (certamente segnata storicamente da pessime pratiche di assenteismo
di massa), nello scenario globale basato su
produzioni standardizzate e delocalizzate,
in cui l’industria dell’auto è caratterizzata
da una eccedenza di capacità produttiva,
stimata intorno al 40%, che finisce per colpire gli anelli più deboli della catena: i fornitori (che ormai producono oltre due terzi
del valore di un auto), le comunità locali
che subiscono le riduzioni del personale e i
lavoratori addetti all’assemblaggio, i cui diritti sociali vengono ridotti.
L’intesa sottoscritta con la Fiat dai sindacati Cisl e Uil (e da altre organizzazioni minori) è imperniata sull’utilizzazione per 24
ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, degli impianti di Pomigliano,
ristrutturato nelle sue linee di montaggio.
Le condizioni, nei fatti imposte ai sindacati (tranne la Cgil che non ha firmato l’accordo), per il rilancio dello stabilimento di
Pomigliano d’Arco, si è detto sono conseguenza delle esigenze di competitività dell’azienda su scala planetaria, e, quindi, della globalizzazione, per una riconsiderazione dei diritti del lavoro e di quelli sindacali
(Pessi R., Ordinamento giuridico ed economia di mercato, Padova, Cedam, 2010).
* Ricercatore e Professore aggregato di diritto del
lavoro, Facoltà di Economia, Università di Messina.
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Con il “modello-Marchionne” il potere
di contrattazione del sindacato sull’organizzazione del lavoro in fabbrica subisce un
notevole ridimensionamento, a causa dei
profili derogatori determinati al contratto
collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici. Deroghe che sono state lette anche
in termini di dumping sociale, eccepite sulla
base della considerazione «che il nostro ordinamento intersindacale tradizionale, fondato sulla regola della rigida inderogabilità
del contratto collettivo nazionale, non impedisce soltanto il dumping sociale, la concorrenza al ribasso, bensì impedisce anche
l’innovazione che fa star tutti meglio» (Ichino P., Un case study sull’uso politico della
disinformazione, in «Arel europa lavoro
economia», 8-9/2010, pag. 35).
In ogni caso l’imposizione del nuovo
modello produttivo a Pomigliano è una
cancellazione di quella contrattazione
“strumentale” del sindacato (Giugni G., Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2010), affermatasi dopo l’autunno caldo (per un’ampia
panoramica storico-sindacale di quella stagione si veda Benvenuto G., Millenovecentosessantanove. I metalmeccanici e l’autunno caldo, Fondazione Bruno Buozzi, 2009),
che ha consentito al sindacato il rafforzamento del potere contrattuale e alla gestione del contratto collettivo nazionale di lavoro nelle aziende (Romagnoli U., Treu T.,
I sindacati in Italia: storia di una strategia
1945-1976, il Mulino, Bologna, 1977, pag.
262). Il risultato potrebbe essere una disarticolazione dell’attuale assetto del sistema di
contrattazione collettiva, tra fuoriuscita del
settore auto dal CCNL dei metalmeccanici,
per un contratto di settore (che significherebbe un contratto solo per l’azienda torinese), nel mentre Federmeccanica ha già disdettato il contratto di lavoro del 2008.
In questa prospettiva è stato evidenziato che l’accordo per Pomigliano costituirebbe una ibridizzazione tra la parte normativa e la parte obbligatoria di un contratto
collettivo, che dottrina e giurisprudenza in
Italia hanno sempre tenuto distinte. Infatti,
la prima riguarda la regolazione dei rapporti individuali, mentre la seconda gli obblighi reciproci tra i soggetti stipulanti: tale
distinzione deve ritenersi inviolabile, poiché sostanzialmente costituzionalizzata, a
mente del comma 1 dell’art. 39 della nostra
Carta fondamentale, posto a garanzia dei
principi di libertà sindacale positiva e negativa (così Mariucci L., Note su un accordo
singolare, in www.lavoce.info, 21/06/2010).
Si è affermato inoltre, che il nuovo modello “produttivistico” della Fiat, arreca un
vulnus anche al diritto di sciopero: con l’accordo “imposto” si prevedono sanzioni disciplinari per i lavoratori che scioperano
contro di esso.
Tale punto dell’accordo sembrerebbe
porsi è in contrasto con la previsione dell’art. 40 della Costituzione, che attribuisce
allo sciopero lo status di diritto costituzionalmente garantito e sembra trovare sostegno nelle tendenze giuridiche europee: «la
prospettiva dalla quale si muove si traduce
in termini giuridici nel riconoscere allo sciopero valore di diritto fondamentale (…)
tanto da indurre a considerare lo sciopero
un diritto “a rischio di estinzione”» (Orlandini G., Sciopero e servizi pubblici essenziali
nel processo di integrazione europea. Uno
studio di diritto comunitario comparato,
Giappichelli, Torino, 2003).
L’introduzione di tale clausola, nel quadro dei limiti interni all’esercizio dello sciopero (per un’ampia disamina sulla tematica
dei limiti allo sciopero v. Pera G., Serrata e
diritto di sciopero, Milano, 1969, pag. 81 e
segg.), ha già provocato un dibattito circa
l’eventuale lesione del diritto costituzionalmente previsto, sotto il profilo della «libertà dei singoli di astenersi dal lavoro»
(Ballistreri M., Le tendenze giuridiche delle
relazioni industriali italiane, in «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti»,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2010,
pag. 343), anche alla luce della consolidata
dottrina e giurisprudenza in materia (in
particolare v. Corte di Cassazione 23 luglio
1991, n. 8234) con la limitazione alle funzioni dello sciopero come strumento per la
promozione dell’effettiva partecipazione
dei lavoratori alla trasformazione dei rapporti economici e sociali (Calamandrei P., Il
significato costituzionale del diritto di sciopero, in «Rivista Giuridica Lavoro e Previ-
denza sociale», 1952, I; Corte Costituzionale, sentenza n. 290 del 27 dicembre 1974).
D’altronde, già prima dell’entrata in vigore della nostra Carta costituzionale, lo
sciopero aveva ottenuto, de facto, un riconoscimento dalla giurisprudenza (Persiani
M., Osservazioni sulla dottrina giuslavoristica
nel trentennio dopo la Costituzione, in «Argomenti di Diritto del Lavoro», 2/2010, pag.
336). I giudici avevano percepito che la
realtà sociale il diritto di sciopero veniva ad
essere già ritenuto un requisito essenziale e
indeclinabile di una società che volesse essere libera e matura (Suppiej G., Diritto di sciopero e potestà di sciopero nel sistema della
Costituzione, in «Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile», 1971, pag. 9 e segg.).
Tale clausola (si veda per una generale
configurazione giuridica delle clausole di
tregua Mancini F., Giugni G., La rilevanza
giuridica delle clausole di pace sindacale, in I
diritti dei lavoratori. Contrattazione collettiva, diritti sindacali e forme di lotta, Mazzotta, Milano,1976, pp. 107-119) dell’accordo
per la Fiat di Pomigliano è possibile configurarla in termini di tregua sindacale, con la
possibilità di sanzionarne giuridicamente
l’inosservanza? Sul piano dell’evoluzione
storico-giuridica del diritto di sciopero, una
parte significativa della dottrina giuridica
«propone una non irrilevante distinzione
circa l’efficacia delle clausole di tregua, sostenendo che esse potevano ritenersi impegnative solo per i sindacati stipulanti, e non
per i lavoratori singoli: con la conseguenza
che, in caso di sciopero, questi ultimi non sarebbero in nessun caso sanzionabili dal datore di lavoro per violazione delle clausole,
ma semmai dovrebbero rispondere, se iscritti, nei riguardi delle rispettive organizzazioni sindacali, per averne violato le (eventuali)
direttive contrarie allo sciopero» (Romagnoli U., Treu T., I sindacati in Italia: storia di una
strategia 1945-1976, op. cit., pag. 226-227).
Settori significati della dottrina giuslavoristica impegnata sul terreno della modernizzazione delle relazioni industriali, hanno
declinato tale parte dell’intesa in termini di
«sanzioni disciplinari per comportamenti individuali ostruzionistici o di violazione delle
clausole dell’accordo non coperti da sciope-
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ro» (De Luca Tamajo R., Le criticità del sistema di relazioni industriali, in «Arel europa
lavoro economia», 8-9 2010, pag. 32).
Così come, sul tema delle deroghe, è
stata rappresentata l’esigenza di «ripensare
il ruolo tradizionale del contratto nazionale
di lavoro. Non è nuova, ma oggi è acutizzata per il fatto che le deroghe possono essere richieste per fronteggiare non solo casi
isolati di sostegno allo sviluppo in aree depresse, ma criticità aziendali diffuse causate
dalla competizione globale. Non a caso le
richiesta di piena agibilità delle deroghe al
contratto nazionale è stata fondamentale
per la Fiat, fino al punto di spingerla a minacciare l’uscita da Confindustria al fine di
liberarsi dal vincolo dello stesso contratto»
(Treu T., Editoriale in «Arel europa lavoro
economia», 8-9/2010, pag. 4).
Al fondo rimane l’esigenza di una riregolazione del nostro sistema di contrattazione collettiva, delle relazioni industriali e
del conflitto sociale in grado di tenere in
equilibrio i diritti sindacali e del lavoro con
le esigenze di competitività delle imprese,
per garantire eguaglianza ed efficienza
(Okun A.M., Eguaglianza ed efficienza Il
grande Trade off, Liguori, Napoli, 1990),
poiché «le democrazie capitalistiche si caratterizzano per due diversi livelli di dominio,
il dominio dei diritti e quello del mercato».
Ammortizzatori sociali,
una riforma che non decolla.
La proposta della Cgil
Lo scorso ottobre la Cgil ha presentato una
proposta sulla Riforma degli ammortizzatori sociali, curata da Giovanna Altieri, Lorenzo Birindelli, Ferdinando Di Nicola, Michele
Raitano, Claudio Treves.
La Cgil osserva preliminarmente che da
troppo tempo si parla di riforma degli ammortizzatori sociali, senza che nulla di concreto venga messo in cantiere. Ora, la crisi
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rende necessario un intervento sulla questione. Positivo è stato l’effetto della legge
numero 2 del 2009, l’accordo Governo-Regioni con il contributo delle parti sociali,
che ha dilatato enormemente gli ammortizzatori in deroga, ma queste misure cessano
alla fine del 2010. È, evidente, quindi, che
per rispondere ad una crisi che di fatto continua, colpendo imprese e posti di lavoro,
ed al costante peggioramento delle forme
dei nuovi rapporti di lavoro, è necessario
agire in maniera sistemica, e su due fronti.
Da un lato, infatti, si devono assicurare risorse e misure adeguate per la copertura,
almeno per tutto il 2011; dall’altro, è necessaria una riforma organica dell’intero sistema degli ammortizzatori sociali.
Citando fonti autorevoli, quali la Banca
d’Italia, il documento della Cgil osserva che
il sistema attuale sia scarsamente inclusivo,
come dimostrano i requisiti di accesso necessari per usufruire dell’indennità di disoccupazione, e la limitazione di fatto delle
misure ai soli lavoratori dipendenti. Ma anche costoro sono spesso discriminati dall’attuale sistema degli ammortizzatori sociali,
così come sono escluse le donne, i giovani,
gli immigrati, ossia le fasce deboli del mercato. La proposta della Cgil, allora, si basa
su un concetto di inclusione attraverso un
sistema pubblico ed universale, senza differenze, per tutti i lavoratori. La proposta
della Cgil, quindi, intende eliminare il requisivo del biennio assicurativo, considerato il fattore primario di esclusione. Al suo
posto verrebbe fissato un minimo di 78
giornate di versamento di contributi quale
unico requisito per accedere al sussidio di
disoccupazione. Scomparirebbero così le indennità di disoccupazione ridotta e di mobilità. Inclusi tra i beneficiari sarebbero anche coloro che operano autonomamente
nei confronti delle imprese, in condizioni di
“influsso gestionale prevalente” (articolo
12 legge 223/91). Di conseguenza, verrebbe
allargata la contribuzione per queste figure
professionali, che potrebbe toccare l’1%
del compenso. Anche i lavoratori della Pubblica Amministrazione sarebbero coinvolti.
Lo stesso 1% di incremento contributivo sarebbe dovuto da chi ricorra a lavoro a ter-
mine, Pubblica Amministrazione inclusa,
mentre sarebbe escluso il lavoro stagionale.
Nel sistema proposto dalla Cgil, verrebbero
compresi anche i lavoratori in somministrazione, computando le giornate svolte senza
tener conto né dell’agenzia di fornitura né
dell’utilizzatore. Questi elementi sono necessari per attuare effettivamente il principio di un sistema incentrato su due tipo di
istituti, come previsto dalla legge delega
247/07, che esclude distinzioni di qualifica,
appartenenza settoriale, dimensione di impresa, tipologia di contratti.
La Cgil osserva che dal 2003 il legislatore
italiano risponde alla segmentazione del
mercato del lavoro con la mera proliferazione di tipologie d’impiego sempre diverse
e senza un indirizzo complessivo che facesse della stabilità dell’impiego la regola e
non l’eccezione. La crisi, ha, ovviamente accentuato questa tendenza, accelerando la
sostituzione di forme di lavoro stabili con
un precariato sempre più accentuato. Per
questo la Cgil ha messo in campo la sua
concreta proposta pensata per tutti i lavoratori. Sono previste anche integrazioni tramite la bilateralità ma le misure pubbliche
sono imprescindibili, e devono regolare tre
aspetti fondamentali: requisiti d’accesso,
durata massima della fruizione, importo
dell’indennità. Le Regioni avranno anche
loro un ruolo importante, qualora venisse
accolto il progetto della Cgil, dovendo gestire l’intreccio delle politiche attive, in coerenza con il modello di politiche del lavoro
scelto dalla singola Regione.
Andando nel dettaglio, per quel che riguarda l’indennità di disoccupazione, essa
andrebbe, come detto, unificata; il requisito di accesso (78 giorni di contribuzione) è,
come detto, allargato mentre la durata non
supererebbe mai l’anzianità aziendale del
lavoratore. Entro i primi 6 mesi di beneficio, sarà obbligatorio per i servizi all’impiego curare la compilazione delle competenze del lavoratore. Dal sesto mese di fruizione in poi, il beneficiario, nel progetto Cgil,
sarà obbligato ad accettare offerte di formazione coerenti con il bilancio di competenze ed offerte di lavoro congrue, secondo
la legge regionale applicata. In caso di se-
condo rifiuto non motivato, il lavoratore
vedrà decurtata la sua indennità, soppressa
qualora ve ne fosse un successivo terzo.
L’importo dell’indennità dovrebbe essere
l’80% effettivo (sino ad un tetto di 1800
euro netti), con un successivo decalage al
64% entro 12 mesi ed al 50% entro 24. In
ogni caso sarebbe possibile integrare l’indennità tramite bilateralità. Quindi, la durata
massima dell’indennità di disoccupazione è
fissata in 24 mesi per chi ha meno di 50 anni
ed il 30 per gli over 50. Per i residenti nel Sud
sono previsti sei mesi aggiuntivi. Ulteriori misure sono previste per gli immigrati, per gli
apprendisti e per i soci di cooperative.
Si deve, poi, prevedere un unico strumento di sostegno al reddito in costanza di
lavoro, valido per tutti i lavoratori, rivedendo, quindi, le procedure. In particolare, sarebbe necessario stabilire un confronto preventivo tra sindacati ed imprese prima della
richiesta avanzata da quest’ultima per l’attivazione delle procedure di cassa integrazione; inoltre l’impresa, tranne quelle di
piccole dimensioni, contestualmente alla richiesta di cassa integrazione, l’impresa sarebbe tenuta a presentare una dichiarazione di apertura sul futuro dell’impresa stessa
e sulle ragioni del ricorso alla cassa integrazione, prevedendo il rientro dei lavoratori
posti in cassa integrazione, pur ammettendo una possibilità di risoluzione dei rapporti di lavoro, qualora la situazione presentasse difficoltà strutturali insormontabili o
connesse a ristrutturazioni profonde e sostanziali; Come per i beneficiati da indennità, anche per i cassaintegrati andrebbe
previsto l’utilizzo dello strumento della formazione, soprattutto qualora fosse prevista
una risoluzione del contratto di lavoro al
termine della Cassa Integrazione.
Secondo la Cgil le necessità ordinarie stimabili per questo tipo di riforma sono rappresentate dagli stanziamenti pubblici per
gli ammortizzatori in deroga previsti per gli
anni 2004-2008, valutabili in circa 600 milioni annui. Si tratta di procedere gradualmente (dopo una fase transitoria di stabilizzazione di questo concorso pubblico) alla universalizzazione della contribuzione per qualunque attività economica. Queste contribu-
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zioni dovrebbero tutte affluire all’Inps, con
una gestione economica distinta da quella
relativa al fondo cassa integrazione. La Cgil
propone, inoltre, di superare la frammentazione tra le diverse forme di contribuzione.
Un altro punto fondamentale della proposta della Cgil riguarda il collegamento
con le politiche attive. Si tratta di un tema
fondamentale ma che richiede condivisione
tra tutte le parti coinvolte, in modo da finalizzare all’effettivo rafforzamento delle
competenze e del capitale umano i periodi
di fruizione degli ammortizzatori sociali.
Secondo la Cgil va riaffermata la primazia
del soggetto pubblico, il quale deve indirizzare il lavoratore verso iniziative di politica
attiva più adatte a lui. Occorre, comunque,
rivedere gli incentivi, anche affrontando il
tema di un beneficio fiscale per le imprese
disposte ad assumere a tempo indeterminato beneficiari di indennità di disoccupazione. Non si nega, infine, valore alla bilateralità, che però deve essere di natura integrativa e non condizionante.
La riforma coprirebbe i suoi costi tramite l’allargamento della base contributiva
per la disoccupazione e la cassa integrazione a tutti i settori ed a tutte le tipologie
coinvolte; inoltre, si opererebbe all’interno
delle attuali coperture contributive, in
modo da ridurne la frammentazione.
Il rapporto e le slides della relazione illustrata da Giovanna Altieri durante la conferenza stampa sono consultabili sul sito:
http://www.ires.it/files/upload/ammortizzatori
sociali_testo definitivo.pdf
http://www.ires.it/files/upload/presentazione
ammortiz_soc. 4ott10.pdf
Certezza delle regole,
formazione e rappresentanza,
secondo Confindustria
Un patto per la crescita, l’occupazione e
la competitività. Sono queste le proposte
12
numero di ottobre 2010
avanzate dagli industriali italiani nel corso
di un convegno organizzato a Genova da
Viale dell’Astronomia a fine settembre. Ad
illustrale è stato nell’occasione Alberto
Bombassei, vicepresidente di Confindustria
per le relazioni industriali, affari sociali e
previdenza di Confindustria e sono state
successivamente sintetizzate da Giorgio
Usai, direttore Confindustria relazioni industriali, sicurezza, affari sociali.
La crisi di questi anni ha accelerato cambiamenti già in atto ed ha acuito la consapevolezza della necessità e dell’urgenza di
questi cambiamenti. Secondo Bombassei,
per continuare a generare ricchezza ed occupazione si deve puntare su due grandi direttrici: internazionalizzazione e innalzamento delle conoscenze, entrambe legate
alla crescita dimensionale delle imprese. Per
questo serve un maggior controllo produttivo, capitale umano all’altezza e regole
semplici. Un punto fondamentale è, poi,
quello della flessibilità organizzativa, che
consenta un miglior utilizzo degli impianti
produttivi, e che dovrebbe essere collegata
ad una retribuzione del lavoro legata al
merito ed ai risultati. Nei giorni precedenti
il convegno, la presidente Marcegaglia aveva rivolto un invito a tutte le organizzazioni di rappresentanza delle imprese e a tutti
i sindacati per ragionare assieme sulle priorità della politica economica per il rilancio
della crescita del Paese. Confindustria ritiene necessario che tutti, politici e sindacati
compresi, siano chiamati a collaborare per
realizzare convergenze per la crescita, la
competitività e l’occupazione. Secondo
Confindustria è prioritario per le imprese
ottenere: 1) normali livelli di produttività;
2) normali condizioni operative per il maggior utilizzo degli impianti; 3) certezza dell’attuazione degli accordi sottoscritti.
Le parole d’ordine quindi sono normalità e certezza. Senza queste non c’è, per
Confindustria, possibilità di crescita e di sviluppo. Per questo Confindustria propone
un Patto di convergenza con tutte le parti
sociali, chiedendo che nel frattempo si metta in atto concretamente ciò che già esiste,
non essendo, infatti, possibile pensare che
lo status quo sia soddisfacente per le imprese, ma anche per lo stesso sistema Paese.
Essenziale per Confindustria è la possibilità di reperire persone qualificate e formate secondo le esigenze del mercato. Attualmente, invece, le imprese sono costrette a
formare loro i neo-assunti, che spesso partono da zero avendo scelto indirizzi di studio non richiesti dal mercato del lavoro.
Confindustria propone che le parti sociali
lavorino per rimediare a questo gap di formazione, favorendo la formazione continua attraverso fondi paritetici, ma anche
tramite contrattazione collettiva e gestione
degli ammortizzatori sociali. Anche gli enti
locali e lo Stato devono fare la loro parte,
così come le istituzioni di ricerca. Si deve,
però, evitare che le esigenze di crescita formativa diventino occasione di nuovi conflitti. Bombassei ricorda che l’occupazione non
si crea per decreto ma solo realizzando un
effettivo incontro tra domanda ed offerta
di lavoro. E per fare questo è necessaria la
collaborazione di governo, Regioni, imprese e sindacati per superare una serie di deficienze che attualmente limitano in maniera
pesante l’incontro di cui Bombassei parla.
Si deve, quindi, lavorare con serietà per
superare gli ostacoli alla crescita, ma è anche necessario attuare ciò che già esiste.
Non è, infatti, possibile continuare ad affermare che la flessibilità altri non è che precarietà. La flessibilità, invece, è fondamentale
per la competitività. Confindustria ricorda
che il lavoro non standard non è né precario né privo di tutele, se non quando viene
usato in maniera impropria. Quel che è urgente è un sostegno per i lavoratori costretti a periodi di inattività, periodi che devono
diventare sempre più brevi grazie a quel
miglior incontro domanda-offerta di lavoro
di cui si diceva. Ma quel che deve contare
non è il “posto di lavoro”, ma il “lavoro”,
individuando per esso forme di garanzia e
tutela non ideologiche. Un’idea importante
e da portare avanti è quella del Contratto
di apprendistato, che deve essere la strada
per inserire i giovani nel mercato del lavoro. Questo tipo di contratto deve fare perno sull’impresa che deve essere invogliata a
formare un giovane da inserire poi nel suo
organico. Serve un quadro normativo semplificato per poter sviluppare questo tipo di
contratto, come quello a tempo determinato e quello di somministrazione a termine.
Ed è necessario che passi il principio, sostenuto da Confindustria, secondo il quale
ogni giorno di lavoro deve essere utile per
la pensione, superando quei requisiti minimi di anzianità necessari oggi per acquisire
il diritto alla pensione.
Per quel che riguarda il fondamentale
capitolo della formazione, Confindustria
propone un interessante rovesciamento di
prospettiva. Le imprese potrebbero assumere i migliori talenti con contratto a tempo
indeterminato, iscrivendoli poi, con costi a
carico dell’azienda, ad un corso di Dottorato di ricerca o ad un Master universitario
con un progetto concordato tra azienda ed
Università. Conseguito il Dottorato o il Master, toccherà al giovane scegliere se rimanere nell’azienda che lo ha fatto formare,
accettando le condizioni che questa sarà tenuta a proporgli, o “licenziare” l’azienda
stessa sfruttando le competenze acquisite
altrove. In questo modo vincerebbero tutti
gli attori coinvolti. I giovani perché acquisirebbero competenze specializzate con una
ricerca applicata all’industria, competenze
facilmente spendibili sul mercato; le imprese perché investirebbero risorse per formare propri ricercatori (qualora questi fossero
invogliati a rimanere); lo stato perché sostenendo le imprese e la ricerca con forme
di fiscalizzazione mirata favorirebbe la crescita competitiva del Paese, trattenendo
quei “cervelli” che oggi fuggono all’estero.
Ma tutto questo non può realizzarsi se
non si ha certezza delle regole. Nessuna impresa di Confindustria, afferma Bombassei,
ha mai violato o intendo violare i diritti dei
lavoratori. Ma bisogna chiarirsi su concetti
fondamentali. Si viola qualche diritto se si
cerca di evitare (con accordi sindacali) che
pochi furbi danneggino imprese e lavoratori
con i loro comportamenti scorretti? Chi si
dice malato non essendolo esercita un diritto o imbroglia? Inoltre, gli accordi firmati
hanno valore o sono semplice cartaccia?
Dato che non è possibile avere unanimità
dei consensi, l’impresa può garantirsi l’effet-
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tività dell’accordo individuando “sanzioni”
che scatteranno solo se venissero messi in
atto comportamenti scorretti? Nel 2009 si è
concluso un accordo che ha riformato gli assetti della contrattazione nazionale, accordo
che conferma il valore del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. Quindi, si chiede ancora Bombassei, perché insistere a sostenere che Confindustria intende
cancellare i contratti nazionali? L’accordo del
2009 è di “tipo partecipativo” e può essere
sviluppato nella sua attuazione pratica e sta
dando prova positiva. Ma se non si ha la certezza di un rispetto dell’accordo non è possibile pensare a nessuno sviluppo.
È ora necessario “fare un primo tagliando” all’accordo del 2009, confrontandosi
con i sindacati, sia che abbiano firmato o
meno (come la Cgil) l’accordo suddetto. Secondo Confindustria non si potrà non ammettere che l’accordo del 2009 risponde
proprio all’esigenza, indicata dalla Cgil, di
costruire un contratto nazionale “più largo
e generale”. Confindustria osserva che per
una migliore competizione, che andrà a vantaggio di tutti, è necessario assicurare alle
imprese un miglior utilizzo degli impianti,
con un orario di lavoro più flessibile (concordato ovviamente con i sindacati). Sarebbe,
inoltre, necessaria una nuova flessibilità delle retribuzioni, che andrebbero sempre più
legate ai risultati conseguiti dall’impresa,
tramite premi variabili di produttività.
Mancano però effettive regole sulla rappresentanza. E molti problemi nascono proprio da qui. È, dunque, necessario, mettere
concretamente in atto quanto deciso da
Confindustria e da tutti e tre in sindacati
Confederali nel 2008 (principi inseriti nell’accordo del 2009 non firmato da Cgil). Si
deve quindi giungere a nuove regole di
rappresentanza, tramite accordo interconfederale e non tramite legge. Confindustria
è pronta a raccogliere la sfida, perché da
sempre ritiene “momento intrinseco” della
relazioni di lavoro il rapporto di collaborazione fra imprese e sindacati.
Occupazione e competitività. Le proposte di
Confindustria per crescere, adesso, Genova
24-25 settembre 2010, Magazzini del Cotone.
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Le proposte di Confindustria sul lavoro
sono consultabili su:
http://www.adapt.it/acm-online/Home/BollettinoAdapt/Ordinario/4ottobre2010n3
3/documento8739.html
http://www.adapt.it/acm-online/Home/BollettinoAdapt/Ordinario/4ottobre2010n3
3/documento8740.html
Ires-Cgil, potere d’acquisto
e redistribuzione del reddito
variabili non indipendenti
Rispetto agli altri Paesi industrializzati l’Italia sconta debolezze strutturali del sistema
economico-produttivo che hanno reso l’attuale crisi più profonda in termini di crescita. È quanto emerge da un rapporto dell’Ires Cgil che ha analizzato le perdite accumulate nelle retribuzioni nel corso degli ultimi due anni. L’aggiornamento dell’analisi
sui salari e la produttività: La crisi dei salari:
crescita, occupazione e redditi perduti negli
anni Duemila è stata presentata a Roma a
fine settembre dal presidente dell’Ires-Cgil,
Agostino Megale.
Il presidente dell’Ires-Cgil nell’occasione
ha ricordato che nel 2009 l’analisi si era concentrata sulla dinamica dei salari durante la
fase acuta della crisi economica. Oggi, dopo
due anni dall’esplosione della crisi stessa
nell’economia reale, il rapporto studia le
perdite accumulate nelle retribuzioni, ed in
generale nella nostra economia. Sono, poi,
evidenziate le debolezze strutturali non risolte, anzi spesso accentuate, del sistema
economico-produttivo italiano. Queste debolezze non sono certo di oggi, ma sono
emerse almeno nell’ultimo decennio ed
hanno reso la crisi più profonda rispetto a
quanto accaduto negli altri Paesi industrializzati. Risultato di queste debolezze, a parere di Ires-Cgil, è che si è perso un decennio
in fatto di crescita, occupazione, produttività e salari netti. Dal 2001 al 2010, infatti, il
Pil, l’occupazione e la produzione hanno registrato una crescita pari a zero con un’inflazione assai più alta di quella degli altri Paesi
europei, un aumento del debito pubblico ed
un saldo negativo della bilancia dei pagamenti. Tutto questo porterà a recuperare i
livelli di Pil del 2007 (già molto bassi rispetto
agli altri Paesi) solo nel 2015, mentre l’occupazione non risalirà prima del 2017. Tutto
questo non può non ripercuotersi sui salari
netti. Secondo le stime di Ires-Cgil, le retribuzioni contrattuali rispetto ad un’inflazione dell’1,7% nel 2010 crescono del 2,1%,
così come le retribuzioni di fatto, mentre
quelle nette crescono solo dell’1,9%. Si evidenzia, quindi, un aumento della pressione
fiscale pari allo 0,2% in corso d’anno. Nel
biennio della crisi, però, la pressione cresce
dello 0,4% mentre l’incremento medio reale
dei salari nel 2009-2010 risulta essere di soli
16,4 euro mensili. Ma se si prende in considerazione anche la crescita delle retribuzioni calcolando l’abbattimento del reddito dovuto al massiccio ricorso alla cassa integrazione, si osserva che l’aumento netto reale
in busta paga, per tutti i lavoratori dipendenti, è pari a soli 5,9 euro al mese.
Il rapporto osserva, inoltre, che se è vero
che analizzando la dinamica dei salari in
confronto all’inflazione (Ipca) nel decennio
2000-2101 si riscontra una sostanziale tenuta del potere d’acquisto, è anche vero che
raffrontando la dinamica delle retribuzioni
lorde e nette con l’inflazione effettiva (deflatore dei consumi), non si può non notare
che la questione salariale ha generato, sempre tra il 2000 ed il 2010, una perdita cumulata di potere d’acquisto dei salari lordi di
fatto di 3384 euro (nel 2002 e 2003 si sono
persi addirittura 6000 euro). Se a questo
dato si somma la mancata restituzione del
fiscal drag si giunge alla cifra di 5453 euro
in meno per ogni lavoratore dipendente
alla fine del decennio. Inoltre, tra il 2000 ed
il 2008, a parità di potere d’acquisto, le retribuzioni lorde italiane sono cresciute del
2,3%, quindi molto meno rispetto a quanto
verificatosi nello stesso periodo per i lavoratori inglesi (+ 17,40%), francesi (+ 11,1%)
ed americani (+ 4.5%). In Italia, secondo i
dato Ocse, inoltre, si registra un’iniqua di-
stribuzione del reddito. 15 milioni di lavoratori dipendenti guadagno oggi meno di
1300 euro netti al mese; circa 7 milioni ne
guadagno meno di 1000 (il 60% di questi
lavoratori sono donne). Inoltre, oltre 7 milioni di pensionati di vecchiaia o anzianità
guadagnano meno di 1000 euro netti al
mese. Si tratta di dati significativi che evidenziano una crisi dei salari, messa anche in
evidenza dalla flessione del reddito delle
famiglie italiane che supera il 6% (meno
1100 euro netti l’anno). Causa e conseguenza della crisi è proprio la caduta della quota
distributiva del lavoro sul reddito nazionale. Secondo dati di Mediobanca, tra il 1995
ed il 2008 i profitti netti sono cresciuti del
75,4% circa; dal 1990 ad oggi, si è, inoltre,
registrata una forte crescita dei redditi da
capitale (rendite), crescita che ha toccato
l’87%. Al contrario, i salari netti sono rimasti al di sotto del loro valore reale dell’anno
2000. Cade anche, ed è molto grave, la
quota di investimenti in rapporti ai profitti
dell’intera economia. Questa quota, negli
ultimi trent’anni, ha infatti perso il 38,7%.
Caduta dei redditi reali dei lavoratori e
mancanza di investimenti e produttività
non possono che mettere in crisi tutto il sistema Italia, il quale arranca rispetto a
quelli dei Paesi europei più competitivi.
Ires-Cgil, La crisi dei salari: crescita, occupazione e redditi perduti negli anni Duemila,
Roma, settembre 2010.
Una sintesi del rapporto è reperibile su:
http://www.adapt.it/acm-online/Home/BollettinoAdapt/Ordinario/4ottobre2010n3
3/documento8720.html
Formazione, intesa
a tre in Lombardia
sull’apprendistato
A settembre il ministero del Lavoro, il ministero dell’Istruzione e la Regione Lombar-
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dia hanno firmato l’Intesa Percorsi formativi in apprendistato per l’espletamento del
diritto dovere di istruzione e formazione,
dando così il via all’apprendistato di primo
livello in Lombardia.
Obiettivo dell’intesa è l’attivazione di
percorsi formativi in apprendistato volti al
contrasto della dispersione scolastica e contro le forme di sfruttamento del lavoro minorile, tramite contratti irregolari o altre
forme di negoziato non legali. L’intesa
pone al centro la persona ed intende valorizzare tutti i modi, siano essi formali o
meno, di apprendimento, compresi i percorsi formativi in azienda. Inoltre, l’intesa si
propone di fornire nuovo valore educativo
e formativo al lavoro manuale. Si intende
mettere concretamente in atto il dettato
dell’articolo 35 della Costituzione per quel
che riguarda l’elevazione professionale dei
lavoratori, e questo tramite forme di apprendistato che rendano il lavoro vero mezzo formativo della persona, sia sul piano
tecnico professionale, sia su quello educativo e culturale.
L’intesa ha per oggetto la regolamentazione dei profili formativi e delle varie modalità di apprendimento, anche in assetto
da lavoro. Sarà questo il modo per consentire ai giovani di raggiungere qualifiche professionali utili per l’inserimento nel mercato
del lavoro. Per questo scopo, verranno sviluppati strumenti adatti, modalità organizzative e didattiche nuove, integrando sempre di più il sistema educativo di istruzione
e formazione con il mercato del lavoro. La
Regione avrà il compito di verificare gli esiti
e la qualità del percorso formativo ed educativo mentre libero sarà il diritto di scelta
da parte del singolo per quel che riguardale
sedi e le modalità del percorso formativo.
Destinatari dei percorsi formativi sono i
giovani (l’età è stabilita dalla normativa
generale vigente), che saranno assunti con
contratto di apprendistato per l’espletamento del “diritto-dovere di istruzione e
formazione”, per una durata che l’intesa
genericamente definisce “congrua” alla
qualifica da conseguire, sulla base dei crediti formativi acquisiti, e verrà stabilita dal
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numero di ottobre 2010
piano formativo individuale, che è parte
integrante del contratto di apprendistato.
Il giovane che completerà il percorso formativo di apprendistato di primo livello,
conseguirà il riconoscimento di una qualifica professionale, secondo le leggi vigenti.
È, inoltre, possibile, che il giovane consegua il riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali, sulla base dei
risultati conseguiti all’interno del percorso
formativo, sia esso interno all’azienda o
esterno ad essa.
Per quel che riguarda più in dettaglio il
piano formativo, l’intesa stabilisce che il
monte ore è di regola fissato in 400 ore di
formazione annua, interna o esterna all’azienda, secondo quanto previsto dal piano
formativo individuale, certificato dalle istituzioni accreditate, anche per il tramite di
enti bilaterali. Il Piano formativo individuale è parte integrante del contratto di apprendistato, e comprende il bilancio delle
competenze del giovane apprendista, gli
obiettivi da raggiungere, le modalità ed i
tempi necessari per il raggiungimento di
questi obiettivi; è previsto non solo il coinvolgimento del giovane ma anche quello,
fondamentale, della sua famiglia. Le modalità di erogazione della formazione aziendale sono demandate ai contratti collettivi
di lavoro, stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale, da associazioni di datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, fermi restando gli standard generali fissati dalle regioni
competenti (qui la Lombardia).
La certificazione delle competenze è rilasciata secondo le modalità previste per i
percorsi in diritto e dovere di istruzione e
formazione previste dalle normative regionali e nazionali, e può essere sia intermedia, qualora il giovane non completi il percorso formativo o non venga ammesso agli
esami finali, sia finale, con superamento
dell’esame finale. La formazione così certificata viene iscritta nel libretto formativo
personale.
Viene, infine, istituita la figura del tutor,
a cui è affidato il coordinamento generale
delle diverse attività previste dal percorso
formativo. Il tutor deve essere in possesso
dei requisiti richiesti dall’accreditamento
regionale o dal DM 28 febbraio 2000. In alternativa, può essere un maestro artigiano,
riconosciuto come tale dalla normativa o
dalle associazioni di categoria più rappresentative a livello nazionale, anche nell’ambito della bilateralità per i percorsi di istruzione e formazione professionale. Al tutor
è demandato il compito di affiancare l’apprendista durante tutto il percorso formativo, tramite azioni di sostegno individuale. Il
tutor deve, inoltre, monitorare e valutare le
attività dell’apprendista ed il raggiungimento degli obiettivi formativi previsti dal
piano formativo individuale del giovane.
Il testo dell’intesa si trova in:
http://89.96.217.172/public/portalefp/allegati/SCARICA
%20IL%20TESTO%20INTESA%20ART%2048.pdf
Fisco, se il fattore famiglia
eliminasse le distorsioni
del quoziente familiare?
Il Forum delle associazioni familiari interviene sul tema del quoziente familiare proponendo l’introduzione del cosiddetto fattore familiare. Infatti il Forum delle associazioni familiari rileva come il quoziente familiare di cui si parla nel dibattito italiano,
fondato sul modello francese, rischia di favorire i redditi più alti. Il Forum al riguardo
presenta una sua proposta.
La riforma fiscale annunciata dal governo si pone l’obiettivo di alleggerire il carico
fiscale prima di tutto sulle famiglie e sul lavoro dipendente. Per fare ciò il governo è
tornato a parlare di quoziente familiare,
impostato sul modello attuato in Francia. Il
Forum delle associazioni familiari contesta
che il modello cui vorrebbe ispirarsi il governo rischierebbe di favorire i redditi alti e
quindi necessiterebbe di alcuni correttivi.
Ed è per questo che al riguardo il Forum
avanza una sua proposta: il fattore fami-
glia. Il principio-cardine alla base del fattore poggia infatti sul correttivo per cui la
quota di reddito esentasse si “sottrae” dal
basso, cioè dalla parte bassa del reddito,
quella oggi tassata al 23%, anziché dalle
fasce più elevate (e, quindi, più tassate). Insomma, per tutti il risparmio fiscale sarebbe
uguale e commisurato appunto alla misura
del 23%, cancellando quei limiti dovuti alla
progressività dell’Irpef che finivano (nel sistema del quoziente) per premiare di più i
redditi maggiori. La quota di reddito che
viene a costituire la parte esentasse e quindi la No Tax Area familiare che è costituita
stabilendo e quantificando i costi di mantenimento e accrescimento di ogni componente il nucleo familiare, ai quali si sommano il costo del mantenimento del percettore del reddito. Nel fattore famiglia determinanti per stabilire la riduzione del reddito
imponibile sarebbero il costo dei figli, costo
del coniuge a carico, il numero dei componenti il nucleo, situazioni di non autosufficienza, disabilità, vedovanza ed altri eventuali parametri utili. Il fattore famiglia, nella proposta del Forum, potrebbe risultare
superiore al reddito, questa parte eccedente il reddito viene tassata in modo negativo
per cui può diventare un credito d’imposta
o in alternativa un assegno. Questa tassazione negativa si collega inevitabilmente al
sistema attuale degli assegni familiari. Il
meccanismo della tassazione però non supplisce e quindi non parifica l’attuale sistema
misto delle detrazioni più assegni familiari,
se non per i redditi alti. Per ottenere questa
parificazione si renderebbero necessari correttivi. Il Forum avanza la proposta di prevedere un “Contributo di sostegno” legato
al reddito familiare che si aggiungerebbe
alla detrazione per la No Tax Area. Il Forum
calcola anche il costo eventuale del fattore
famiglia, e lo calcola come differenza rispetto all’attuale sistema Irpef. Immaginando un’applicazione graduale partendo dalle famiglie con carichi familiari maggiori,
per esempio numero di figli superiore a 3 il
costo sarebbe di 0,9 miliardi di euro. Il costo invece salirebbe a 16 miliardi di euro a
regime e quindi per tutti i figli. La proposta
infine prevede che il sistema della No Tax
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Area rimanga tale a tutti i livelli quindi
esente da tassazione locale, ma ovviamente
al contrario ogni regione potrebbe aumentarne la soglia o aumentare i fondi per gli
assegni familiari specie nelle regioni dove ci
siano situazioni di svantaggio delle famiglie
rispetto ad altre aree.
La proposta è disponibile online:
http://www.forumfamiglie.org/tema/Fisco/allegati/doc
umento_467.pdf
Per l’Isril la partecipazione
azionaria collettiva è
il modello da preferire
Nella nota pubblicata nel n. 26 della Rivista
on-line dell’Isril, Giuseppe e Marcello Bianchi si soffermano su quali possano essere le
prospettive della partecipazione finanziaria
dei lavoratori in Italia, alla luce delle esperienze straniere e del quadro normativo nazionale.
Gli autori precisano in primo luogo
l’ambito dell’indagine sottolineando che si
può avere “partecipazione dei lavoratori”
quando ad essi siano attribuiti diritti di proprietà e/o di controllo; e che per “diritto di
proprietà” si deve intendere il diritto a percepire una quota prefissata del reddito residuale dell’impresa, mentre per “diritto di
controllo” si intende il diritto a partecipare
alle scelte di gestione dell’impresa.
Fatta questa distinzione, lo scritto distingue tre funzioni/obiettivi a cui la partecipazione finanziaria può tendere e per ognuna
di esse individua possibili elementi positivi o
problematici per la sua realizzazione.
In particolare:
– la partecipazione quale strumento di
produttività può mirare a risolvere situazioni conflittuali tra capitale e lavoro e a responsabilizzare maggiormente i lavoratori
“allineando” gli incentivi tra azionisti e la18
numero di ottobre 2010
voratori attribuendo a questi ultimi azioni
o in alternativa retribuzioni correlate al risultato d’impresa;
– la partecipazione quale strumento
per il controllo dell’impresa risponde sia ad
esigenze di democrazia economica, sia ad
esigenze di ampliare l’orizzonte delle scelte
imprenditoriali ad una dimensione non solo
di breve redditività degli investimenti. Ma
questa tipologia di partecipazione è di
fronte ad un bivio dal momento che se la
partecipazione al controllo è svincolata dal
possesso di azioni, si ripropone il problema
del disallineamento di obiettivi tra dipendenti e azionisti; ma se la partecipazione al
controllo dipende dal possesso di azioni,
emerge il problema dell’azione collettiva,
cioè della difficoltà di trovare forme di
coordinamento efficaci tra i dipendenti
azionisti in grado di evitare i rischi di freeriding e più in generale di inefficacia della
partecipazione dei dipendenti;
– la partecipazione quale canale di finanziamento speciale per l’impresa può riuscire a rendere più credibile la politica
aziendale agli occhi del mercato o di finanziatori esterni; essa può però realizzarsi
solo in aziende di minori dimensioni che
rendano possibile e significativo il contributo dei lavoratori.
Dal confronto delle diverse funzioni, gli
autori ricavano la convinzione che sia da
privilegiare il modello di partecipazione
azionaria collettiva in grado di garantire
l’equilibrio e la complementarietà tra le caratteristiche di strumento di produttività,
strumento di controllo e strumento di finanziamento, che possono essere assicurate
dalla seguenti caratteristiche:
– la natura azionaria della partecipazione e la conseguente proporzionalità tra diritti di partecipazione al controllo e diritti
di proprietà;
– la gestione collettiva delle azioni, eliminando, o almeno riducendo al minimo,
costi di esercizio comune dei diritti di voto,
e la non alienabilità nel breve periodo delle
azioni;
– la previsione di misure agevolative,
che favoriscano il contributo dei lavoratori
al finanziamento dell’impresa attraverso lo
strumento dell’azionariato collettivo.
L’articolo è consultabile alla pagina:
http://www.isril.it/newsletter/2010/pdf/isril_newsletter_
2010_26.pdf
UNIONE EUROPEA
Europa 2020, in futuro
largo ai colletti verdi
Nei tre obiettivi cardine della nuova strategia dell’Unione europea “Europa 2020” vi è
anche quello di favorire la transizione a un
modello di crescita sostenibile. In un discussion paper, preparato dalla Commissione europea per la Conferenza ministeriale della
Presidenza belga, si affrontano i risvolti occupazionali del cammino verso un’economia
più “verde” più efficiente e più competitiva.
Gli stati membri, in concerto con la Commissione europea, hanno già avanzato una
serie di proposte nell’ambito dell’efficienza
energetica, dello sviluppo delle fonti rinnovabili, del carbon capture, della modernizzazione delle infrastrutture, della ricerca e
dell’agricoltura sostenibile. Nella fase di implementazione di queste iniziative sarà necessario individuarne gli effetti sulla distribuzione e sull’organizzazione del lavoro.
Alla luce di una crisi economica che nel
2009 ha determinato la perdita di 4 milioni
di posti di lavoro, l’Europa è chiamata ad
assicurarsi che la transizione verso una
green economy sia portatrice di un miglioramento del panorama occupazionale. In
questo contesto, gli stati membri e le istituzioni comunitarie devono agire nel solco
tracciato dalla strategia “Europa 2020”,
nella quale la sostenibilità ambientale e
l’elevazione del target occupazionale al
75% della popolazione sono indicati come
obiettivi paralleli. In aggiunta, le molteplici
e spesso contrastanti interpretazioni della
nozione di green jobs hanno portato la
Commissione a suggerire di concentrare gli
sforzi sull’individuazione di una strategia
per assicurare all’Europa un livello di capitale umano adeguato alla inevitabile modernizzazione del mercato del lavoro.
La Commissione prevede che la transizione verso un’economia più sostenibile
comporterà una redistribuzione intra-settoriale nel mercato del lavoro, senza però determinare una variazione significativa dei
livelli occupazionali. Nei settori più espostienergetico e manifatturiero ad alta intensità energetica- vi sarà però una contrazione delle opportunità lavorative, con una riduzione che interesserà prevalentemente le
aree dell’Europa meridionale.
Il nuovo quadro economico comporterà
un aumento delle richieste provenienti dalle
imprese di manodopera e professionalità
ambientali, i cosiddetti “colletti verdi”. In
una prima fase, la Commissione prevede che
l’introduzione di nuove tecnologie favorirà
il segmento ad alto tasso di formazione. Tuttavia, una volta completata la transizione
tecnologica, le fasce meno specializzate potranno beneficiare della probabile nascita
ed espansione di un nuovo tessuto industriale. I governi saranno chiamati a mettere in
campo politiche formative volte alla preparazione di profili professionali maggiormente consoni a un mercato del lavoro “verde”.
La dimensione qualitativa della transizione verso la sostenibilità non è ancora
ben chiara. Tuttavia, la Commissione ha individuato alcune potenziali criticità. L’impatto sarà concentrato su professioni esercitate prevalentemente da uomini: occorre
quindi vigilare sui eventuali squilibri di genere. Inoltre, l’elevato tasso di perfezionamento delle tecnologie potrebbe, nel medio-lungo termine, comportare una contrazione della domanda occupazionale
L’obiettivo principale delle istituzioni, a
livello nazionale ed europeo, dovrà essere
quello di evitare che i risvolti negativi del
passaggio a un’economia sostenibile diven-
numero di ottobre 2010
19
tino strutturali. Un precoce e costante dialogo con le parti sociali potrebbe, in questo
contesto, favorire l’individuazione di risposte condivise. La condivisione tra soggetti
istituzionali delle attività di monitoraggio e
delle informazioni da esse derivanti potrà
innescare dei processi virtuosi di policy learning. A livello comunitario, le risorse finanziarie provenienti dal Fondo Sociale Europeo per lo sviluppo sostenibile sono impegnate dal 2000 a sostenere iniziative e interventi in questo campo.
Background paper, Belgian Presidency Ministerial Conference on Promoting Green
Employment: a major indispensable driver
behind a successful transition towards a
competitive low carbon economy, Brussels,
28-29 September 2010
Il rapporto è disponibile sul sito:
http://www.adapt.it/acm-online/Home/BollettinoAdapt/Ordinario/4ottobre2010n3
3/documento8728.html
Assistenza domiciliare,
l’accesso delle famiglie meno
abbienti in Italia e Germania
In uno studio dal titolo Paying for longterm care, i due autori R. Rodrigues and
A. Schmidt affrontano il tema della spesa
pubblica e privata per i servizi di assistenza destinati alle persone anziane nei Paesi
europei e analizzano i fattori socio-economici che renderanno sempre più necessario per tali paesi un maggiore investimento nel settore e nelle nuove modalità di
assistenza.
L’invecchiamento demografico dell’Europa e l’allungamento delle aspettative medie di vita chiamano in causa la sostenibilità
dei sistemi di protezione sociale e, in particolare, dei regimi di assistenza di lungo ter20
numero di ottobre 2010
mine agli anziani, non solo perché aumenterà il numero degli assistiti, ma perché si
prevede una riduzione dell’offerta di assistenza. Già oggi, in molti Paesi europei la
carenza di professionalità di questo tipo è
compensata dagli influssi migratori.
In aggiunta, il progressivo aumento dell’età pensionabile e la crescente apertura
del mercato del lavoro alle donne rendono
più difficile l’assistenza degli anziani non
autosufficienti all’interno del contesto familiare. Aumenterà di conseguenza il ricorso al mercato per questo genere di servizi.
Questi fenomeni richiedono, alla luce
del ruolo chiave dei sistemi sanitari nazionali, un approfondimento delle possibili ricadute sulla spesa pubblica. Nella maggior
parte dei Paesi europei, i servizi sanitari
prevedono regimi di assistenza gratuita o
sovvenzionata su base universale. Raramente, tuttavia, questi regimi riescono a soddisfare interamente la domanda di assistenza
e ricorrono quindi a meccanismi progressivi
di perequazione sulla base di requisiti di
reddito.
Un’analisi della spesa assistenziale attuale rivela che la maggior parte dei paesi
europei impiegano tra l’1 e il 2% del Pil, e
che nessun paese supera la soglia del 4%. I
livelli di spesa sono generalmente più alti
laddove è più alta la percentuale di anziani
che ricorrono a forme di assistenza professionale. Dai dati emerge inoltre una forte
propensione a privilegiare le modalità di
assistenza c.d. “istituzionali” (ricovero in
strutture ospedaliere, ospizi), anche se soltanto una minima parte degli anziani usufruisce di questi servizi (il 3,3% in media).
I dati rivelano inoltre che gli oneri sostenuti dalle famiglie che usufruiscono di un
contributo pubblico parziale per i servizi assistenziali sono spesso molto significativi, e
soprattutto molto più alti rispetto ai servizi
sanitari: in Austria, ad esempio, l’onere può
raggiungere anche l’80% della pensione.
Per compensare, alcuni Paesi hanno introdotto soglie massime di incidenza sul reddito e sistemi di entrate progressivi.
Tuttavia, la preponderanza di soggetti a
basso reddito nella categoria di coloro che
usufruiscono di servizi assistenziali in alcuni
paesi rivela la presenza di alcuni aspetti regressivi. In particolare, si evidenzia che in
alcuni paesi (Germania, Italia, Austria), ossia quei Paesi dove il settore pubblico non
fornisce direttamente servizi ma eroga un
contributo di sostegno, le famiglie meno
abbienti hanno un accesso molto più limitato alla assistenza domiciliare. Questo dato
dimostrerebbe che in questi Paesi il ricorso
a metodi di assistenza informale (familiare
o in nero) è molto più diffuso, rendendo la
possibilità di ricevere assistenza domiciliare
fortemente contingente alla sua economicità e disponibilità.
R. Rodrigues and A. Schmidt, Paying for
long-term care, European Centre, Vienna,
Policy brief, September, 21 p., (2010)
Il rapporto è disponibile sul sito:
http://www.euro.centre.org/data/1283437589_95069.p
df
cazione, compresi i social network, le istituzioni di qualsiasi livello, gli insegnanti e gli
stessi studenti; ma è anche importante affinare gli strumenti di apprendimento delle
lingue per consentire un’ottimale fruizione
dell’esperienza di vita e studio all’estero.
Ulteriori ostacoli individuati all’espansione dell’esperienza formativa sono le differenze delle regole di accesso tra alcuni
paesi e la spendibilità dei crediti nelle strutture formative di appartenenza, al punto
tale che si propone l’idea di predisporre
una guida a livello europeo che sia applicabile da tutti gli Stati membri.
Ulteriore problema posto è quello di poter fruire di strumenti di valutazione che
attestino e garantiscano l’alto livello della
formazione erogata.
Youth on the Move, Communication of the
European Commission, COM(2010) 477,15
September 2010.
Il rapporto completo è consultabile alla
pagina:
La mobilità dei giovani
europei passa anche
per i social network
Nel luglio del 2009 la Commissione europea
aveva pubblicato un Libro verde per lanciare una consultazione sulle modalità per superare le difficoltà della promozione della
mobilità per l’istruzione dei giovani, anche
come strumento per combattere l’isolamento, il protezionismo e la xenofobia. Il rapporto che proponiamo contiene i risultati di
quella consultazione.
L’aspetto maggiormente apprezzato delle politiche di educazione collegate alla mobilità tra paesi è quello di favorire l’acquisizione di competenze internazionali ed interculturali che favoriscono l’occupabilità
dei giovani.
Il rapporto sottolinea come sia necessario incrementare l’utilizzo di questa risorsa
coinvolgendo tutti gli strumenti di comuni-
http://ec.europa.eu/education/yom/wpconsult_en.pdf
Eurofound, l’inclusione
sociale degli anziani è
possibile con il volontariato
In occasione della giornata mondiale dell’anziano, Eurofound ha pubblicato uno
studio sul ruolo che può svolgere il volontariato per facilitare l’inclusione sociale degli
anziani: un’inclusione fondamentale considerando anche i cambiamenti demografici
che interesseranno tutti i Paesi dell’Europa
nei prossimi anni e che vedranno un incremento della popolazione appartenente alla
fascia di età tra i 65 e i 79 anni.
Lo studio della Fondazione europea si
basa sull’analisi della situazione presente in
diversi Paesi e mira a valorizzare il ruolo del
volontariato anche come strumento gene-
numero di ottobre 2010
21
rale di inclusione sociale, anche a prescindere dalle diverse condizioni storiche, culturali, socio-economiche e politiche che caratterizzano le diverse realtà nazionali.
Il coinvolgimento degli anziani e soprattutto quello dei più vecchi in attività di volontariato è però anche un problema di
motivazione ad aggregarsi in gruppi di attività e ad abbandonare una situazione di
isolamento che rischia di essere più gravosa
soprattutto nei paesi in cui più elevata e
lunga è l’aspettativa di vita.
Un ulteriore aspetto sottolineato è che
il coinvolgimento nell’attività di volontariato è anche un problema culturale, dal momento che gli anziani sono considerati di
solito i destinatari di queste organizzazioni,
mentre occorrerebbe sviluppare e utilizzare
competenze e capacità di questa fascia di
popolazione; in questo senso, il coinvolgimento attivo degli anziani, proprio perché
aumenta il senso di autostima ed autopercezione può considerarsi di per sé un obiettivo perseguito.
Del resto questo processo di autostima
ed autofiducia rafforza le energie e le competenze dei soggetti coinvolti che si trasformano in risorse per la stessa attività delle
organizzazioni di volontariato.
Secondo lo studio il coinvolgimento nell’attività di volontariato può avere un effetto positivo per:
– prevenire il senso di isolamento che è
spesso considerato uno dei più seri problemi legati all’esclusione sociale;
– migliorare lo status di salute individuale considerato uno dei maggiori rischi
di esclusione sociale;
– costruire nuovi contatti e reti sociali
che possono costituire un supporto sociale
e possono essere visti come una precondizione per promuovere l’inclusione sociale in
tutta la società;
– sviluppare nuove capacità e competenze a livello individuale e di società che
possono facilitare l’accesso ai servizi sociali;
– riguadagnare nuova fiducia e autostima attraverso lo sviluppo individuale e il riconoscimento pubblico del proprio lavoro e
della propria attività.
22
numero di ottobre 2010
Il rapporto è consultabile alla pagina:
http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2010/55/en/
1/EF1055EN.pdf
INTERNAZIONALE
Qual è la definizione ufficiale
dei cosiddetti green jobs?
L’Ufficio nazionale di statistica statunitense
ha destinato 8 milioni di euro di fondi per
lo stimolo per l’economia alla elaborazione
di una definizione ufficiale di “green jobs”,
che è stata diffusa per la prima volta alla
fine di settembre.
Negli Stati Uniti centinaia di milioni di
dollari in fondi federali per lo stimolo dell’economia sono stati indirizzati verso il
Massachusetts per creare i cosiddetti green
jobs. Tuttavia non esiste alcuna definizione
ufficiale di green jobs e questo rende le autorità di controllo sospettose che soldi pubblici possano essere destinati a progetti che
hanno poco a che fare con l’ambiente.
L’Ufficio nazionale di statistica statunitense ha destinato così 8 milioni di euro di
fondi per lo stimolo per l’economia alla elaborazione di una definizione ufficiale di
green jobs, che è stata diffusa per la prima
volta alla fine di settembre. I green jobs
comprendono dunque: 1) i lavori nelle attività imprenditoriali che producono beni o
servizi a beneficio dell’ambiente o per la
tutela delle risorse naturali; 2) i lavori nei
quali le mansioni comprendono rendere i
processi di produzione più rispettosi dell’ambiente e delle risorse naturali.
La prima tipologia di lavori comprende
beni e servizi venduti ai consumatori, incluse anche le attività ricerca e sviluppo, installazione e servizi di mantenimento. Tra que-
sti sono contemplati: a) Energia da fonti
rinnovabili, quali evento, biomassa, sole,
oceano, acqua, gas naturale e rifiuti solidi
municipali; b) Prodotti e servizi che stimolino l’efficienza energetica e la sua immagazinazione, come ad esempio le tecnologie
Smart Grid; c) Prodotti o servizi finalizzati
alla riduzione dell’inquinamento e dei gas
di scarico, riciclaggio dei rifiuti e riutilizzo
dei materiali; d) Prodotti e servizi finalizzati
alla conservazione delle risorse naturali,
come quelli legati all’agricoltura organica e
biologica, alla gestione della terra, delle foreste e delle acque (di mare, fiume, pioggia); e) Attività legate alla sensibilizzazione
pubblica, all’istruzione e al training sui temi
della tutela ambientale.
La seconda tipologia di lavori comprende coloro che si occupano della ricerca di
tecnologie e pratiche più rispettose dell’ambiente, del loro sviluppo, manutenzione e utilizzo, nonché della loro diffusione
presso gli stabilimenti produttivi. Tra queste sono contemplate: a) Tecnologie e pratiche che generano energia da fonti rinnovabili, quali vento, biomassa, sole, oceano,
acqua, gas naturale e rifiuti solidi municipali; b) Tecnologie e pratiche per promuovere l’efficienza energetica negli stabilimenti, come ad esempio la cogenerazione;
c) Tecnologie e pratiche finalizzate alla riduzione dell’inquinamento e dei gas di scarico,
riciclaggio dei rifiuti e riutilizzo dei materiali; d) Tecnologie e pratiche finalizzate alla
conservazione delle risorse naturali come
quelle legate all’agricoltura organica e biologica, alla gestione della terra, delle foreste e delle acque (di mare, fiume, pioggia).
Adottando questa definizione, l’Ufficio statistico statunitense ha individuato
2.154.700 stabilimenti, operanti negli Stati
Uniti, che producono beni e servizi a beneficio dell’ambiente o per la tutela delle risorse naturali su un totale di 9 milioni di imprese censite dall’ufficio statistico nel 2009.
La maggior parte di questi stabilimenti si
configura nel settore delle costruzioni
(38,1%), seguito da quello dei servizi professionali a privati e imprese (36.2%). Bassa è
invece la presenza dei green jobs nel settore
delle risorse naturali e minerarie (8,5%), nel
manifatturiero (3,6%), nel commercio e trasporto (2,3%) e nell’istruzione (1,2%).
Notice of comments received and final definition of green jobs, U.S. Bureau of Labor
Statistics, 21 September 2010.
Testo disponibile online su:
http://webapps.dol.gov/FederalRegister//HtmlDisplay.as
px?DocId=24258&AgencyId=6
Ecco qual è il ruolo
di Internet nella ricerca
di un’occupazione
L’analisi indica non solo che l’uso di Internet aumenta la probabilità di trovare un lavoro nei 12 mesi seguenti ma anche che
tale aumento è significativo e maggiore per
i gruppi di minoranza etnica. Tale effetto
potrebbe essere dovuto alla maggiore disponibilità di informazioni online oppure
con il minore costo di ricerca di un’occupazione tramite Internet.
Nell’ultima decade, il tasso di diffusione
di Internet ha conosciuto un sensibile aumento. Internet ha cambiato significativamente il percorso di reclutamento e di ricerca di un lavoro e ha migliorato i canali di comunicazione tra datori di lavoro e le persone in cerca di un’occupazione. Questo studio usa dati per Stati Uniti, Germani e Corea
del Sud per analizzare il ruolo di internet
nel processo di ricerca di un’occupazione.
La prima parte del lavoro analizza il
profilo demografico e socio-economico di
coloro che cercano un lavoro tramite Internet e valuta come questo profilo sia cambiato nel tempo (in particolare dalla fine
degli anni Novanta). I risultati dai dati statunitensi (per il periodo 1998-2003), dai
dati tedeschi (per il periodo 2003-2007), e
dai dati sud-corani (per il periodo 19992006) indicano che l’utilizzo di Internet a
numero di ottobre 2010
23
scopo di ricerca di un posto di lavoro è fortemente correlato con le caratteristiche demografiche e socio-economiche osservabili.
In particolare, coloro che cercano lavoro su
Internet sono mediamente più giovani,
vengono da famiglie con redditi più elevati
e sono caratterizzati da più alti tassi di
istruzione. Lo studio mostra anche che, negli Stati Uniti e in Germania, l’uso di Internet è meno frequente tra i disoccupati che
appartengono a gruppi di minoranza (come ad esempio, gli immigrati).
La seconda parte del lavoro fornisce una
stima dell’impatto della ricerca di un’occupazione tramite Internet e la probabilità di trovare un lavoro e uscire dalla disoccupazione.
L’analisi indica non solo che l’uso di Internet aumenta la probabilità di trovare un
lavoro nei 12 mesi seguenti ma anche che
tale aumento è significativo: +5% in Germania, +6,7% nella Corea del Sud e +7,1%
negli Stati Uniti rispetto a chi non utilizza
Internet per cercare lavoro.
Tale impatto sembra più positivo alla
fine degli anni Novanta (nel 1998 per gli
Stati Uniti e nel 1999-2000 per la Corea del
Sud) e maggiore per i gruppi di minoranza
etnica, quali gli afro-americani e gli ispanici
negli Stati Uniti e gli immigrati in Germania.
Per gli afro-americani che sono alla ricerca
di un lavoro su Internet, la probabilità di occupazione nei 12 mesi seguenti è maggiore
di 10,2% rispetto a coloro che non usano Internet, mentre per gli ispanici tale percentuale sale al 12,3%. Per il gruppo di immigrati in Germania, l’impatto di Internet sulla
probabilità di trovare un’occupazione è circa tre volte maggiore rispetto allo stesso impatto stimato sulla popolazione totale.
Questi risultati potrebbero essere dovuti
alla maggiore disponibilità di informazioni
online oppure al minore costo di ricerca di
un’occupazione tramite Internet. Più bassi
costi di ricerca potrebbero infatti indurre
un maggior numero di disoccupati appartenenti alle minoranze (che sono più sensibili
ai costi rispetto ad altri gruppi nella popolazione) a cercare lavoro più intensamente.
In altre parole, sostengono gli autori, Internet potrebbe aiutare a ridurre i costi
barriera della ricerca di un’occupazione.
24
numero di ottobre 2010
Farrukh Suvankulov, 2010, Job Search on
the Internet, E-Recruitment, and Labor
Market Outcomes, RAND project
L’analisi è consultabile su:
http://rand.org/staff/RAND_RGSD271.pdf
Flessicurezza, paradigma
dell’euromercato del lavoro
Di fronte alla crisi del 2007 i governi degli
stati membri dell’Ue hanno avuto risposte
ambigue nei confronti del mercato del lavoro e della disoccupazione. La tendenza
generale è stata quella continuare con la
riforma del mercato del lavoro, secondo il
paradigma della flessicurezza. Ma l’adozione di politiche di protezione del salario minimo e dell’occupazione da parte di alcuni
stati, ha contribuito enormemente a reintrodurre un dibattito su questi strumenti
che sembrava dimenticato.
Il Cee – Centre d’etude de l’emploi, ha
pubblicato lo scorso settembre, uno studio
dal titolo «la politicha per l’impiego in Europa: quali reazioni alla crisi?». Le politiche
d’impiego in europa hanno ricevuto sono
state oggetto di profonde modifiche a partire dal 1990. Ma le politiche per l’impiego
messe in campo da ogni stato membro negli ultimi anni, grazie anche alla spinta propulsiva della Strategia europea per l’impiego a partire dal 1997, hanno dovuto far
fronte ora alla crisi recente. Tali politiche
negli scorsi anni consistevano in misure
d’attivazione e incentivazione al lavoro, e
tenevano conto del compromesso tra flessibilità del mercato del lavoro e sicurezza, facendo riferimento appunto al paradigma
della flessicurezza. La bassa congiuntura
del 2007 si è tradotta, come è noto, con un
peggioramento rapido della situazione del
mercato del lavoro, con un aumento consistente di disoccupazione concentrata soprattutto tra i lavoratori giovani e poco
qualificati. L’autore Erhel constata che di
fronte a questa situazione la risposta dei
governi europei è stata ambigua dal momento che si è continuato ad attuare riforme precedentemente prefissate, soprattutto in ambito di politiche attive del lavoro,
senza considerare tempestivamente la necessità di un cambio di strategia al fine di
contenere gli effetti della crisi sul mercato
del lavoro. Nonostante questa tendenza
generale negli stati membri dell’Ue, alcuni
paesi hanno fatto comunque ricorso da una
parte a degli strumenti di protezione del lavoro attraverso la disoccupazione parziale,
e dall’altra a politiche di sostegno del reddito (interventi sul reddito minimo). Il ricorso a tali strumenti ha sicuramente limitato
il peggioramento della situazione del mercato del lavoro, soprattutto – constata
Erhel – nei paesi continentali. Inoltre, la
reintroduzione di tali politiche di intervento a sostegno dei lavoratori e del reddito
ha contribuito enormemente a riaccendere
il dibattito su questi strumenti, dibattito
che sembrava quasi del tutto dimenticato,
soprattutto nei nuovi stati membri dell’Ue.
C. Erhel, Les politiques de l’emploi en Europe: quelles réactions face à la crise?,Centre
d’études de l’Emploi, Noisy-le-Grand, Document de travail, n° 129, septembre, 29 p.,
(2010).
Reperibile al sito:
http://www.cee-recherche.fr/fr/doctrav/129politique_emploi_europe_reactions_crise.pdf
Le strategie inglesi
per combattere
la in-work poverty
Nel Regno Unito il numero di famiglie povere in cui sono presenti lavoratori è aumentato negli ultimi 10 anni. Nonostante
ciò gli effetti della crisi sul mercato del lavoro non sono stati così marcati come previsto, e sicuramente più contenuti rispetto
alle crisi precedenti. Questo grazie alla capacità di contrattazione tra le parti sociali.
Per diminuire il rischio di povertà tra le famiglie “lavoratrici”, bisogna mettere in
atto politiche ad hoc, orientate ad aumentare il salario orario, allungare le ore lavorate dai lavoratori part-time, e accrescere il
valore dei benefit e del credito d’imposta.
La nota presentata dall’Ippr – Institute
for public policy research – effettua una
analisi sulla in-work poverty, ossia su quella
fascia di lavoratori che guadagnando un salario molto basso non riescono ad emergere con la loro famiglia oltre la linea della
povertà. Con questo studio si effettua una
analisi delle dinamiche di povertà tra la popolazione inglese osservando le caratteristiche socio-economiche individuali e familiari. La ricerca condotta attraverso dati aggiornati che fanno riferimento a due periodi: 1996/97, e 2008/09, rileva che negli ultimi 10 anni in Uk il numero di famiglie classificate come povere tra quelle in cui sono
presenti lavoratori è aumentato. Scendendo nel dettaglio, si osserva che la percentuale di bambini poveri che vivono in famiglie lavoratrici è passata dal 50% del totale
dei bambini poveri registrati nel 2005/06
(per la precisione 1,1 milioni) al 61% registrati invece nel 2008/2009 (1,7 milioni). Per
quanto riguarda gli adulti invece, ai dati
aggiornati al 2008/09, il 60% di loro vive in
famiglie “lavoratrici” povere. Chiaramente
il rischio di in-work poverty è più alto nelle
famiglie in cui lavora un solo membro del
nucleo familiare. Ma nonostante ciò, gli autori affermano che gli effetti negativi della
recente crisi sul mercato del lavoro del Regno unito sono stati più contenuti rispetto
alle precedenti crisi. Questo è dovuto alla
capacità di coordinamento e contrattazione
delle parti sociali, raggiungendo intese sui
dilazionamenti di pagamento e sulle riduzioni di orario di lavoro. Per far fronte alla
povertà di famiglie in cui son presenti lavoratori, gli autori (considerando le misure di
successo che sono state adottate per far
fronte alla crisi) individuano quattro specifiche aree di intervento per allontanare
tale rischio. La prima strategia è quella di
numero di ottobre 2010
25
aumentare il salario orario, puntando a politiche di incremento della produttività del
lavoro. Particolarmente importante per
quelle coppie in cui nessuno dei due partner lavora full-time ed ambedue hanno paghe molto bassi, è l’opzione di allungare
l’orario di lavoro mantenendo la stessa
paga oraria, anche se questo indurrebbe il
rischio di riduzione del tempo libero, rischio che dovrebbe essere controbilanciato
dalla predisposizione di maggiori servizi di
assistenza ai figli. Le altre due strategie riguardano la possibilità di prevedere incentivi per i lavoratori che vivono in coppia,
aumentando il valore dei benefit come
pure quello del credito d’imposta.
G. Gottfreid and K. Lawton, In-work poverty in the recession, Institute for Public
Policy Research, London, Briefing note, September, 12 p., (2010).
Reperibile al sito:
http://www.ippr.org.uk/members/download.asp?f=/eco
mm/files/inwork+poverty+sep2010.pdf
Apprendistato, percorso
non sempre ad ostacoli
Il percorso di apprendistato di solito dura
tre anni tranne che in Irlanda dove la durata
è di quattro anni; il periodo di durata più breve si registra in Inghilterra dove l’apprendistato si conclude in uno o al massimo due anni.
Quasi tutti i paesi prevedono periodi di
formazione fuori dall’attività lavorativa che
di solito si aggira intorno ad un giorno alla
settimana e in alcuni casi (Francia) questo periodo di studio è assicurato da strutture pubbliche deputate proprio a questo scopo, mentre in altri Paesi (Irlanda, ma anche Francia)
c’è un coinvolgimento diretto di strutture dei
datori di lavoro per perfezionare le competenze acquisite durante l’attività lavorativa.
La Svizzera è il paese con il maggior numero di apprendisti (43 su 1000); seguono
la Germania con 40, l’Australia con 39, l’Austria con 33, la Francia con 17, l’Inghilterra
e l’Irlanda con 11.
Australia, Austria, Inghilterra e Svizzera
concentrano le iniziative di apprendistato
nel settore dei servizi; in Francia è sviluppato anche il settore delle costruzioni e dell’industria; in tutti i casi le giovani donne sono
sovrarappresentate nel settore dei servizi.
The state of apprenticeship in 2010: International comparisons, Australia, Austria,
England, France, Germany, Ireland, Sweden,
Switzerland, Centre for Economic Performance, London, 40 p., (2010).
Lo studio è disponibile online su:
La London School of Economics and Political science ha pubblicato un rapporto sullo
stato dell’apprendistato nel 2010 in sette
Paesi (Australia, Austria, Inghilterra, Francia, Germania, Irlanda e Svizzera).
http://cep.lse.ac.uk/pubs/download/special/cepsp22.pdf
Lo studio distingue tra Paesi che privilegiano l’apprendistato come principale percorso formativo post-obbligo, paesi che
puntano sia sull’apprendistato che sui corsi
di formazione professionale (Austria, Germania, Svizzera) e paesi che non hanno l’istituto dell’apprendistato anche se intendono introdurlo (Svezia) e sottolinea come il
maggior coinvolgimento dei datori di lavoro in termini di ore, energie e risorse si verifichi nei paesi a modello duale.
SAGGI
26
numero di ottobre 2010
I fattori regionali determinanti
nel distribuire disuguaglianze
Attraverso i dati Eu-Silc per l’anno 2006, il
working paper dal titolo Measures of po-
verty and inequality in the countries and
regions of EU presenta una mappa dei livelli di povertà e disuguaglianza nei Paesi europei, a livello nazionale e regionale. Gli indicatori considerati sono: reddito mediano,
coefficiente di Gini e curva di Lorenz, tassi
di povertà.
L’indagine dell’Unione europea sul reddito e sulle condizioni di vita è la principale
fonte di informazioni sugli standard di vita
e di povertà nei paesi membri. Essa è stata
effettuata per l’Ue 15 nel 2004 e dal 2005
coinvolge tutti gli stati membri. L’indagine
è finalizzata ad ottenere campioni rappresentativi sia a livello Ue sia a livello nazionale, ed è articolata per diversi sottogruppi:
sesso, dimensione della famiglia, tipologia
della stessa e gruppi socio economici. Il limite della metodologia è che per campioni
e dimensione non è sufficiente a fornire
statistiche, stime e raffronti a livello sub nazionale, o almeno non lo è per tutte le nazioni. I dati che emergono dal rapporto evidenziano un basso reddito medio in Paesi
quali Portogallo, Lettonia e Lituania. Tra
queste il valore medio più basso di reddito
si trova in Lettonia, mentre il valore più
alto è in Lussemburgo. La Lettonia si distingue anche per il suo alto tasso stimato di
povertà, la Repubblica Ceca invece si caratterizza per il suo più basso tasso di povertà
stimato, anche se il suo reddito medio è
piuttosto basso. Il rapporto invece per
quattro nazioni, Francia, Italia, Spagna e
Repubblica Ceca, si è spinto a misurare la
povertà, il reddito medio, le disuguaglianze
a livello regionali attraverso sub campioni.
Il risultato più evidente e abbastanza omogeneo per le quattro nazioni è che i fattori
regionali svolgono un ruolo determinante
nel distribuire o creare le disuguaglianze.
Infatti la maggior parte di esse sono riscontrate all’interno delle regioni dei singoli
stati, ovviamente in alcuni in maniera più
evidente rispetto ad altre. Questo dimostra
come le politiche nazionali che distribuiscono le risorse a livello regionale sono strumento fondamentale per eliminare o ridurre le disuguaglianze e la povertà. Dai dati si
evidenzia come l’Italia e la Francia abbiano
i differenziali di povertà più estremi tra le
varie regioni, nel caso della Francia soprattutto fra le singole aree all’interno delle
stesse regioni, mentre le altre due nazioni,
Spagna e Repubblica Ceca hanno valori più
omogenei. Per esempio in Italia il tasso di
povertà nelle regioni del nord varia da un
tasso del 8,10% a Trento, al 16,54% di Bolzano. Nel centro Italia la forbice si ampia e
infatti si passa da un minimo di tasso pari al
10,58% della Toscana al 27,88% del Molise.
Nel Sud invece il divario rispetto alle altre
aree del paese si accentua e si passa da un
tasso minimo di povertà pari al 30,81% della Basilicata al 35,74% della Puglia. La Sicilia invece ha un tasso pari al 39,79% mentre la Sardegna del 19,04%. Dai dati si evince come tra le varie macro aree del Paese,
Sud, Nord, centro il differenziale in termini
di tasso di povertà è netto sia in termini assoluti che in termini medi.
N.T. Longford, Measures of poverty and
inequality in the countries and regions of
EU, Palma de Mallorca, Ecineq working papers, n° 2010/182, 30 p., (2010).
Testo disponibile online su:
http://ideas.repec.org/p/inq/inqwps/ecineq2010182.html
A fronte dell’invecchiamento
qual è la generosità
dei sistemi pensionistici?
Il paper del Max Planck Institute for the
Study of Societies esamina le determinanti
della tempistica delle riforme pensionistiche di segno restrittivo che negli ultimi tre
decenni hanno caratterizzato i Paesi più industrializzati.
La tendenza ad introdurre riforme di carattere restrittivo è comunemente spiegata
in termini di preoccupazione nei confronti
numero di ottobre 2010
27
dell’invecchiamento della popolazione e
delle conseguenze che questo potrebbe
avere sulla spesa pubblica. Lo stesso invecchiamento potrebbe porre un freno alle
riforme, dato il crescente peso elettorale
delle classi di età più anziane. In altri termini, ad avviso dell’autore, la ricerca quantitativa non ha ancora dimostrato una relazione positiva tra l’invecchiamento della popolazione e la tendenza a ridurre la generosità dei sistemi pensionistici.
Focalizzando l’attenzione su 14 dei Paesi più industrializzati (tra cui Italia, Germania, Francia, Svezia, Stati Uniti), l’autore ha
identificato e classificato 118 riforme intervenute tra il 1981 ed il 2005. Tali interventi
di riforma sono stati classificati, come retrittivi o espansivi sulla base di tre principali dimensioni: i requisiti per l’accesso alla pensione; la formula alla base del calcolo della
stessa; i meccanismi di indicizzazione. Delle
118 misure, 2 sono state scartate, non avendo avuto alcuna efficacia; 51 hanno una caratterizzazione esclusivamente espansiva;
65 una tendenza retrittiva. Tra queste ultime 62 possono essere considerate complessivamente restrittive e 43 di queste hanno
esclusivamente un carattere restrittivo
(mentre le restanti 19 combinano elementi
restrittivi con altri, di tipo espansivo).
L’analisi econometrica è condotta con
diversi modelli, che analizzano la potenziale correlazione della probabilità di introdurre una riforma restrittiva, rispetto a numerose variabili indipendenti, di tipo economico e politico.
Dal punto di vista della dimensione economica, si conferma che la scarsa crescita
esercita una importante influenza sulla probabilità di introdurre misure restrittive; al
contrario la correlazione con il tasso di disoccupazione non è statisticamente significativa. Contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati, inoltre, sembra non significativa anche l’influenza dell’invecchiamento
della popolazione, sia nella sua caratterizzazione attuale, sia nelle previsioni future.
Con riguardo ai fattori politici, invece,
risulta piuttosto evidente la maggiore probabilità di effettuare tale tipo di riforma
durante il primo anno di legislatura (quan28
numero di ottobre 2010
do le elezioni sono ancora lontane e si possono prendere decisioni impopolari). Al
contrario non sembrano esercitare una influenza importante né il tipo di partiti al
governo, né la forma costituzionale o la
frammentazione del quadro politico. Neanche la condizione che il Paese sia candidato
ad entrare nell’Unione Monetaria Europea
sembra essere di grande rilievo.
J.J. Fernandez, Economic crisis, high public
pension spending and blame-avoidance
strategies: Pension policy retrenchments in
14 social-insurance countries, 1981-2005,
Max Planck Institute for the Study of Societies, Cologne, MPIfG discussion paper,
n° 10/9, 45 p., (2010).
Il paper è disponibile on line, all’indirizzo:
http://www.mpifg.de/pu/mpifg_dp/dp10-9.pdf
I salari minimi riducono
l’incentivo a partecipare
al mercato del lavoro
Lo studio di J.T Addison e O. Demet Ozturk
dal titolo Minimum wages, labor market institutions and female employment and
unemployment: a cross-country analysis
prende spunto da un analogo paper di
Neumark e Wascher’s del 2004 e valuta l’impatto dei salari minimi su occupazione e disoccupazione femminile in 16 Paesi Ocse
(tra i quali l’Italia) tra il 1970 e il 2008. La
presenza di salari minimi sembra ridurre
l’incentivo alla partecipazione al mercato
del lavoro, e tale effetto non sembra maggiore nei Paesi con mercati meno regolamentati (come sostenuto nel paper di Neumark e Wascher’s (2004).
Il rapporto in esame analizza gli effetti
del salario minimo nel periodo 1970-2008
in 16 paesi Ocse partendo dai dati di un im-
portante studio del 2004 che ne stima gli
effetti tra gli adolescenti e giovani adulti.
La differenza tra i rapporti però non consiste solamente nel diverso e più ampio periodo in esame ma sostanzialmente nell’esaminarne gli effetti su di un gruppo specifico che generalmente viene trascurato nella letteratura in materia, cioè la donna in
età adulta. Il campione quindi è rappresentato da persone di sesso femminile tra i 25
e i 54 anni. Questo gruppo specifico costituisce un gruppo cd. di bassa produttività
del lavoro e quindi a basso salario per il suo
storico basso accumulo di capitale umano
derivante dalle frequenti interruzioni delle
esperienze lavorative e il suo limitato accesso all’istruzione e alla formazione; i dati
e le valutazioni sono interpretate con l’aggiunta del dato della disparità salariale di
genere. Nonostante i dati al riguardo fossero pochi il rapporto evidenzia che gli
aumenti dei salari minimi si traducono in
bassa occupazione e scarsa partecipazione.
Infatti i dati testimoniano coerentemente,
a prescindere dal metodo utilizzato, che
l’elasticità del tasso di occupazione femminile in riferimento ad aumenti del salario
minimo varia da un –0,051 a un –0,102 nel
caso in cui si analizza il tasso di occupazione solo femminile. Nel caso in cui invece il
dato femminile lo si considera insieme a
quello dei giovani la sostanza dell’esito
non cambia e il tasso varia da un –0,174 a
un –0,209. Altro dato che emerge dalla valutazione dei dati è che nei paesi ad alta
regolamentazione del mercato del lavoro,
divario salariale alto (soprattutto a causa di
bassa produttività delle donne o occupazione femminile concentrata nei settori a
bassa retribuzione), tassi di fecondità alti e
salari minimi alti, corrispondono al contrario effetti negativi sia sull’occupazione
femminile che sulla loro partecipazione alla
vita lavorativa. Inoltre risulta anche che
agli effetti sull’occupazione femminile derivanti dall’introduzione di un salario minimo non influiscono altri fattori quali le modalità di fissazione del salario stesso, attraverso contrattazione o stabiliti per legge, il
grado di sindacalizzazione dei rispettivi
mercati del lavoro.
J.T Addison and O. Demet Ozturk, Minimum wages, labor market institutions and
female employment and unemployment:
a cross-country analysis, Institute for the
Study of Labor, Bonn, Discussion paper,
n° 5162, September, 32 p., (2010).
Il documento è disponibile online su:
http://ftp.iza.org/dp5162.pdf
I lavoratori meno istruiti
sono anche i meno disposti
a partecipare alla formazione
In uno studio redatto per l’Iza dal titolo
Why Do Low-Educated Workers Invest Less
in Further Training? gli autori Didier Fouarge, Trudie Schils e Andries de Grip analizzano le ragioni della minore partecipazione dei lavoratori con basso livello di istruzione rispetto a quella dei lavoratori con
elevato livello di istruzione. I risultati mostrano che due sono le ragioni fondamentali: il basso ritorno economico dell’investimento e la loro più bassa propensione alla
formazione.
Lo studio in esame analizza le ragioni
della minore partecipazione dei lavoratori
con un livello di istruzione basso alla formazione professionale. La novità dello studio in esame è che rispetto ai precedenti
analizza le eterogeneità dei rendimenti di
formazione tra lavoratori istruiti e non. La
seconda novità è che lo studio in esame cerca anche di risalire alle cause di questa minore partecipazione mentre la letteratura
precedente si limitava a fotografare il dato.
I dati che emergono evidenziano due
cause principali nella minore partecipazione dei lavoratori non istruiti rispetto a
quelli istruiti: basso ritorno economico derivante da formazione e minore disponibilità
dei lavoratori poco istruiti a partecipare
alla formazione avendo altre preferenze o
numero di ottobre 2010
29
per tratti caratteriali. Altre preferenze significa che questi lavoratori preferiscono al
futuro, all’orientamento professionale il
tempo libero, mentre i tratti caratteriali
fanno riferimento per esempio all’ansia da
esame ecc. Rispetto al ritorno economico lo
studio evidenzia come i dati dei lavoratori
olandesi smentiscono questa motivazione.
Infatti il ritorno economico in entrambi i
casi è positivo e comunque non è generalmente differente, in termini di salari più
elevati, per i lavoratori altamente istruiti rispetto a quelli con bassa istruzione. Invece
risulta più fondata la seconda motivazione.
Infatti la formazione richiede l’investimento di tempo individuale che i lavoratori con
bassa istruzione sono meno propensi a sacrificare. Le motivazioni come detto sono
chiaramente le differenti preferenze economiche cioè la differente prospettiva di crescita professionale e quindi la propensione
a utilizzare il tempo della formazione come
tempo libero. Incidono anche precedenti
esperienze negative dei lavoratori nonché
l’ansia da esame e l’apertura a nuove esperienze. Secondo la precedente letteratura
un’altra causa è che i lavoratori con bassa
istruzione partecipano meno alla formazione on the job rispetto alla formazione iniziale e questo perché la formazione iniziale
serve a imparare, lavorando, un mestiere e
30
numero di ottobre 2010
quindi come chiave d’ingresso mentre la seconda chiama in causa le prospettive di carriera e spesso si attua attraverso canali
informali che non necessariamente insegnano lavorando. Lo studio attraverso un
sondaggio smentisce questa teoria. Infatti
analizzando la percentuale di tempo che i
lavoratori con bassa istruzione e quelli
istruiti dedicano ad attività da cui si può
imparare evidenzia come i primi spendono
il 22% del proprio tempo contro un 32%
dei lavoratori istruiti. Quindi la scarsa partecipazione non dipende dall’apprendimento informale. I risultati del rapporto
evidenziano come sarà difficile aumentare
questa loro partecipazione alla formazione
permanente. Tuttavia si possono aiutare i
lavoratori a superare i loro tratti caratteriali, o alcuni di essi, superando la paura da
esame o evitando di sottoporli a prove selettive e magari aumentando la loro consapevolezza degli effetti economici positivi
della formazione.
Didier Fouarge, Trudie Schils, Andries de
Grip, Why Do Low-Educated Workers Invest
Less in Further Training?, IZA Discussion
Paper, n. 5180, September 2010, 32 p.
Il paper è disponibile on-line su:
http://ftp.iza.org/dp5180.pdf
APPROFONDIMENTI
Lea e spesa standard,
nuove frontiere della sanità
di Giuseppe Della Rocca*
Costi e fabbisogni standard
È stato di recente diffuso lo schema del
decreto legislativo recante disposizioni in
materia di costi e di fabbisogni standard
nel settore sanitario. Da alcuni commenti
(Cerm 2010) si evince che le principali innovazioni sono due, la prima di aver esplicitato il rapporto tra le risorse disponibili per
finanziare i livelli essenziali di assistenza
(Lea) e la capacità di finanziamento della
sanità regionale, tenuto conto dei vincoli
della finanza pubblica; la seconda il richiamo alla standardizzazione e al confronto di
efficienza e di appropriatezza dei macro capitoli del rapporto spesa prestazioni. Gli
standard vengono assunti da alcune regioni, dichiarate virtuose; sono le regioni che
erogano i Lea in condizioni di efficienza e
appropriatezza avvalendosi delle risorse ordinarie stabilite dalla legislazione in corso,
* Professore di sociologia dell'organizzazione e
del lavoro esperto di organizzazione e valutazione
delle prestazioni nella Pubblica Amministrazione.
comprese le entrate regionali. Come debbano intendersi le condizioni di efficienza e
di appropriatezza è però descritto solo in
parte; si introduce direttamente il principio
di equilibrio economico del sistema sanitario regionale, ma non vengono esplicitati
gli standard di qualità e di appropriatezza.
Questo intervento non si propone di entrare nel merito su tutti gli aspetti inerenti
l’utilizzo degli standard, si limita invece a
discutere il rapporto tra costi standard ed
efficienza organizzativa e alcune possibili
condizioni per una loro implementazione
virtuosa.
Le disposizioni sui costi e fabbisogni
standard costituiscono un passaggio ulteriore di un percorso, iniziato ormai molti anni
fa, rivolto a definire il grado di autonomia,
la responsabilità di ruolo dell’amministrazione regionale e con l’autonomia il principio della governance, del coordinamento
orizzontale tra regioni, attraverso la logica
del benchmarking. La definizione degli
standard, come è noto, costituisce una componente essenziale del federalismo che prevede allo stesso tempo finanziamenti alla
sanità con risorse provenienti dal territorio,
nuovi criteri per la redistribuzione perequativa delle risorse tra regioni attraverso la
definizione di standard, nuovi rapporti tra
governi (nazionale e regionali) attraverso
incentivi, controlli e sanzioni, estensione
dell’autonomia gestionale delle regioni.
numero di ottobre 2010
31
Criteri e indicatori di prestazione
Queste quattro dimensioni, risorse proprie – perequazione – incentivi e sanzioni –
capacità gestionale, hanno come snodo essenziale, per il loro successo, il tema dell’accordo tra amministrazioni ma anche tra
parti sociali per definire indicatori di prestazione e procedure di valutazione congiunta. Il tema degli indicatori di prestazione come output rispetto alla spesa (input) è
da tempo nella pubblica amministrazione il
tema “cenerentola”, spesso eluso ed emarginato in tutta l’amministrazione pubblica,
limitato ad una logica solo formale, tra l’altro con scarso successo, di sola valutazione
del personale. Da questo punto di vista va
segnalato il parallelismo tra il lavoro sui costi standard e la legge 150/2009, o legge
“Brunetta” che propone un salto di qualità,
affermando che la valutazione del personale, e in particolare della dirigenza, deve essere dipendente da quella delle prestazioni
di ciascuna amministrazione.
Entrambi i percorsi, pur partendo da logiche diverse, la prima più di tipo macro di
disegno istituzionale, la seconda di tipo
middle out con riferimento specifico alla
gestione del personale e alla contrattazione collettiva, arrivano a convergere sulla
necessita di valutare e rendere conto dei
risultati delle politiche amministrative e di
governo. Convergenza non solo nei fini,
ma anche nelle procedure e nei contenuti
per cui gli standard regionali, nel caso della sanità, danno luogo ad una attività di
perequazione, ma anche a sanzioni e incentivi in grado di riconoscere la buona
gestione, da un lato, dall’altro spingono,
per logica conseguenza, il governo regionale a monitorare e valutare le aziende sanitarie e i Direttori Generali prima di dare
luogo ad una valutazione (che non sia puramente virtuale come sino ad oggi è avvenuto) della dirigenza medico sanitaria e
amministrativa.
Ai fini di qualsiasi attività di valutazione
assumono rilevanza i criteri e gli indicatori
di prestazione che, sia per il federalismo
che per la 150, sono tutti ancora da discutere e da definire. Difficoltà confermata pro32
numero di ottobre 2010
prio dallo stesso schema sui costi standard,
in cui rimangono da discutere e da esplicitare quali siano gli indicatori e i criteri di
tipo qualitativo. Questo limite, segnalato
dal Cerm e da altri commentatori, non è
dovuto alla mancanza o alla povertà di dati
sulle prestazioni sanitarie come in altri settori del pubblico impiego (si pensi solo a
Comuni e Province). In questo caso la sanità
ha l’indubbio vantaggio di possedere un
data base completo e in parte anche aggiornato di indicatori di prestazione, ma
proprio l’elevato numero di indicatori, che
premiano il monitoraggio costante del servizio su gran parte delle attività, non consentono, per ora, di convergere su indicatori di prestazione di sintesi (regionali e
aziendali). Difficoltà di sintesi che non è
solo di tipo tecnico, ma anche dovuto alla
diversa percezione che ciascun attore (governo centrale, amministrazioni regionali,
parti sociali, associazioni professionali, cittadini) ha dell’efficienza e dell’efficacia del
servizio sanitario.
L’efficienza dell’organizzazione sanitaria
L’importanza degli indicatori di prestazione è ripresa dalle indagini di Banca
d’Italia in una sua recente pubblicazione
del seminario tenuto a Roma a fine 2009 su
politica economica e Mezzogiorno. L’istituto mette in rilievo come le differenze nella
erogazione dei servizi e nella qualità non
siano dovute ai divari nelle risorse finanziarie attribuite alle regioni meridionali
rispetto al fabbisogno dei cittadini ma all’efficienza organizzativa. Secondo il rapporto la ripartizione delle risorse finanziarie tra regioni nella sanità è abbastanza
omogenea, mentre il tasso di crescita medio annuo della spesa nella sanità pubblica
dal 1995, valutata in termini procapite e
a pressi costanti, è stato nel Mezzogiorno
pari al 4,3%, circa il doppio che nel resto
del paese (Alampi ed altri 2010, Franco
2010).
Le differenze nella spesa sono in gran
parte dovute al tipo si offerta dei servizi
con il numero elevato di ospedali di piccola
dimensione, di posti letto e di medici1. Differenze rilevanti tra regioni (non solo meridionali) si hanno anche con l’elevato numero di ricoveri e di giornate di degenza e con
il persistere, al contrario, di bassi indici qualitativi di complessità degli interventi e alti
indici di inappropriatezza delle cure. Indicatori di in inappropriatezza, ma anche di
struttura, come il numero di ospedali e di
ricoveri, misurano la qualità delle prestazioni. I primi2 sono, in modo esplicito, indicatori della prestazione medico sanitaria, i secondi sono invece indicatori di efficacia dell’organizzazione sanitaria, in quanto una
maggiore assistenza ospedaliera è in parte
conseguenza del minore sviluppo di quella
distrettuale, in particolare dell’assistenza
domiciliare.
Considerazioni simili a quelle di Banca
Italia sono confermate da altre indagini che
mettono in rilevo come gli andamenti di alcuni indici di qualità sono correlati con indicatori economici di spesa. Sono le regioni
che hanno una spesa per abitante inferiore
rispetto alle altre quelle che hanno indici di
qualità superiori (Buchi e altri 2009, Cerm
2009), solo per alcune regioni autonome, a
statuto speciale, come Valle d’Aosta o Alto
Adige tale tipo di correlazione non esiste,
in quanto sono regioni che hanno allo stesso tempo alti indici di spesa e di qualità.
La governance
La definizione e l’implementazione di
costi e fabbisogni standard riporta ai temi
1
Differenze che non sono solo tra regioni ma tra
l’Italia e altri paesi europei, in particolare con Francia,
Germania, Regno Unito. Il nostro paese si distingue per
un numero elevato, rispetto a questi paesi, di ospedali
di piccola dimensione, posti letto, medici, ricoveri e
giornate di degenza e per una scarsa presenza di personale infermieristico specializzato (Iuzzolino 2007).
2
Sono esempi di inappropriatezza il numero di
trasferimenti di pazienti tra reparti ospedalieri per
diagnosi e assegnazioni incomplete in entrata; il ritorno di pazienti in ospedale per lo stesso tipo di
cura, dopo un mese dal primo intervento; il numero
eccessivo di parti cesarei.
sul governo del sistema del suo insieme. Innanzitutto come si fissano gli indicatori,
come si misurano e quale rapporto deve
esistere tra risultati, incentivi e sanzioni.
Come è implicito in tutto il percorso, le risorse possono essere date o trasferite solo
sulla base della valutazione delle prestazioni nazionali, regionali, aziendali; fattore
che risulta essere critico in tutte le proposte
sino ad oggi avanzate. È quindi auspicabile
che maturi un processo di affinamento della qualità e tempestività degli strumenti di
rilevazione dei dati numerici ed economici
di misurazione, grazie anche al coinvolgimento di agenzie o commissioni autonome.
Altro tema di rilievo è di conseguenza
chi deve essere il garante dell’intero processo di implementazione. La politica naturalmente; tuttavia come la stessa esperienza
della sanità dimostra la politica non sembra
la soluzione ma causa del problema del deficit sanitario in alcune regioni. Alla politica
è quindi necessario affiancare e dare rilievo
istituzionale ad autonomi organismi tecnici
con risorse, tutele e poteri adeguati per
l’implementazione di standard, il monitoraggio e la valutazione delle attività e delle
prestazioni della sanità. In Italia già esiste la
Corte dei Conti che cerca di estendere le sue
indagini al di là del semplice audit amministrativo e contabile in senso stretto. Tuttavia
la distanza, in termini di poteri, di ambiti di
intervento, di indagine e di sanzione, è piuttosto rilevante da quella acquisita da organismi simili in altri paesi appartenenti all’Oecd, soprattutto i paesi anglosassoni.
Un secondo tema di rilevante importanza è come governare la dinamica del costo
del lavoro come parte di gran lunga più
consistente dei bilanci sanitari. Queste osservazione riportano ad altre considerazioni già riprese in un precedente numero della rivista (Della Rocca 2010) sull’efficacia
della contrattazione collettiva, se con questa definizione si intende la capacità della
contrattazione di stabilire una equa distribuzione delle risorse per gli incrementi retributivi sulla base dei risultati economici e
di prestazione conseguiti.
Lo stabilire costi standard significa anche dare maggiore autonomia e responsa-
numero di ottobre 2010
33
bilizzare il governo regionale nella attribuzione delle risorse per la contrattazione integrativa delle aziende sanitarie. Secondo
alcuni dovrebbe essere esclusa una ipotesi
di tre livelli di contrattazione (nazionale,
regionale, aziendale) onde evitare una proliferazione delle trattative, pur tuttavia non
si può non considerare il paradosso che ciascuna regione è chiamata a rendere conto
della spesa sanitaria e delle prestazioni, ma
allo stesso tempo deve anche rispondere di
incrementi retributivi per la contrattazione
nelle aziende sanitarie del suo territorio
che vengono definiti in modo uniforme a livello nazionale.
L’opzione regionale può quindi essere assunta attraverso due possibili versioni entro
una disciplina che stabilisce che gli incrementi retributivi nazionali permangono per l’adeguamento della retribuzione base all’inflazione e per la necessaria salvaguarda dei
principi di omogeneità e compatibilità degli
aspetti stipendiali dei dipendenti. La prima
in cui è il Contratto Nazionale della sanità,
sia di comparto che per la dirigenza, a stabilire gli incrementi dei fondi per la contrattazione aziendale, questa volta non a cascata e
uniformi ma sulla base di indicatori economici e di prestazione sanitaria. La seconda che
ciascuna regione decida in modo autonomo
quante risorse dedicare alla contrattazione
integrativa del salario variabile entro una disciplina di variabili di spesa complessiva o di
costi standard stabiliti a livello nazionale.
In quest’ultimo caso, attraverso negoziato regionale con le OOSS, vengono attribuiti
incrementi di risorse sui fondi di ciascuna
azienda sulla base dei criteri di prestazione
e di efficienza economica anche ottenuti e
monitorati per mezzo dei costi standard. La
contrattazione regionale sarebbe in tale
modo circoscritta alla sola funzione di redistribuzione delle risorse, come già di fatto
avviene nel settore privato della sanità in
cui da tempo la contrattazione regionale
svolge un ruolo determinante.
lizzo dei fattori in sanità; benchmarking tra
regioni italiane. In Il lavoro nelle pubbliche
amministrazioni, Giuffrè.
Alampi D., Iuzzolino G., Lozzi M., Shiavone A.,
La Sanità in Il mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, Banca d’Italia, Seminari e
convegni.
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Franco D. (2010), L’economia del mezzogiorno.
In Il mezzogiorno e la politica economica
dell’Italia, Banca d’Italia, Seminari e convegni.
Iuzzolino G. (2008), Domanda e offerta di servizi ospedalieri, tendenze internazionali. In
Questioni di economia e finanza n° 27.
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sanitaria pubblica in Italia: dentro la scatola
nera delle differenze regionali. Quaderni
Cerm n° 2.
Pammolli F., Salerno N. (2010), Commento allo
schema di decreto sugli standard in sanità,
CERM short note n° 9.
Oltre ai costi standard,
i bisogni di salute di domani
di Giovanni Faverin*
Il governo ha approvato l’atteso schema
di decreto legislativo con le indicazioni per
la determinazione di costi e fabbisogni
standard nel settore sanitario secondo i
nuovi criteri previsti dalla legge delega sul
federalismo (L. 42/2009).
Si tratta di una ipotesi di provvedimento
che comprende tre materie: insieme al modello di finanziamento del sistema di salute, sono inserite nel testo anche le norme
che dovranno regolare l’autonomia di entrata delle regioni e quelle delle provincie.
Segno questo dell’intenzione politica di tenere insieme, nella prospettiva di attuazione della riforma federale, la partita relativa
Referenze
Allais R., Buchi G., Della Rocca G., Passarelli G.,
Testa M. (2009), Efficienza economica ed uti-
34
numero di ottobre 2010
* Segretario generale della Cisl Fp.
al Sistema sanitario nazionale dopo la fase
dei patti per la salute e dei piani di rientro.
Il tentativo è raccogliere un’esigenza di
lungo periodo del nostro sistema di salute,
come quella del riequilibrio dei bilanci e
della riorganizzazione dei servizi sanitari in
direzione di un maggior decentramento e
di una maggiore responsabilità delle singole aziende in cui si articolano i sistemi sanitari regionali. Il criterio dei costi standard è
lo strumento individuato per rispondere a
questa sollecitazione, ma nella configurazione attuale, contenuta in soli 4 articoli
del capo IV dello schema di decreto, la soluzione non appare affatto esaustiva.
La prima preoccupazione, nella trasposizione del dettato legislativo alla realtà concreta, è quella di rispondere alla domanda:
cosa possono determinare i costi standard
una volta resi effettivi?
Intanto, come già molti osservatori hanno notato, la scelta di un meccanismo di finanziamento di tipo top-down, in cui cioè
la quantificazione della spesa sanitaria resta un dato esogeno rispetto al modello
(definito a livello di scelta politica «in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo e nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica») e in cui anche la percentuale di
spesa destinata ai tre macrolivelli di assistenza (sanitaria collettiva, distrettuale,
ospedaliera) è fissata per legge, limita l’applicazione degli standard alla sola definizione del riparto tra regioni. Senza peraltro
favorire nell’immediato un percorso di premio alle amministrazioni migliori e di stimolo a quelle rimaste indietro. Si rischia in
questo modo di rendere il nuovo strumento
utile in prevalenza ad una analisi statistica
dei costi e non ad un vero superamento del
criterio della spesa storica, come era nelle
più apprezzabili intenzioni della legge delega. Dal testo del decreto balza infatti agli
occhi che la rilevazione dei costi standard
non determinerà a breve un sostanziale
spostamento di risorse tra regioni virtuose
e regioni non virtuose: le risorse rimarranno come sono con un impegno a non aumentare i costi (salvo le vistose eccezioni
concesse dai vari governi alle amministrazioni amiche).
Secondo poi, anche in conseguenza di
ciò, il vero problema resta quello di assicurare una perequazione effettiva tra i servizi offerti ai cittadini delle diverse realtà
territoriali. Una perequazione (non solo di
spesa) tra sistemi sanitari regionali quanto
mai necessaria, visto che in 30 anni (dalla
L. 833/78) e nonostante riforme consistenti,
il Ssn ha dato vita a 21 modelli diversi, con
21 livelli diversi di assistenza a persone e
comunità.
Se è dunque condivisibile il tentativo di
stringere i tempi sulla riqualificazione di
servizi sanitari (o meglio socio-sanitari), attraverso uno dei nodi cruciali come il modello di finanziamento, resta sospeso il giudizio sul vero salto di qualità: il passaggio
ad una filosofia ed una regolamentazione
della responsabilità delle Regioni e delle
comunità regionali in grado di riformare il
sistema e assicurare una buona amministrazione della salute per i cittadini.
Non convince, in generale, la mancanza
di uno scenario su cui muovere i fili del
cambiamento, proprio quando si intrecciano riforme istituzionali e nuova attenzione
ai meccanismi di funzionamento e organizzazione dei servizi. C’è in altre parole la necessità di legare la questione dei costi standard all’individuazione di obiettivi che vadano oltre la misurabilità e verificabilità dei
costi. Per andare al punto occorre tracciare
un quadro realistico e possibile dei fabbisogni di salute di qui al 2015, 2020, 2030, in
base ai cambiamenti demografici, economici e sociali e indirizzare l’azione di conseguenza. Altrimenti ragionare di costi standard senza capire come vada riorganizzato
l’investimento per la salute, finisce per restare un esercizio di corto respiro.
Altro elemento problematico riguardo
all’ipotesi di decreto è la mancanza di un
coinvolgimento sostanziale (e fuori dagli
schemi istituzionali) delle Regioni. Vale a
dire che senza un’analisi di come si è arrivati
alla situazione attuale, alla frammentazione
estrema dei modelli di offerta di servizi sanitari, è ben difficile affidare ad una nuova
riforma, dopo vari altri tentativi, il compito
di riallineare i sistemi sanitari regionali su
obiettivi che garantiscano buone cure e pro-
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mozione del benessere a tutti i cittadini. Si
sconta su questo punto da una parte l’errore
dei governi che hanno impostato su basi formali il rapporto con le Regioni. E dall’altro
quello delle regioni che hanno spesso considerato la Conferenza come un tavolo rivendicativo alternativo al lavoro del governo,
senza avanzare proposte in grado di aiutare
o anticipare i cambiamenti necessari.
In questo contesto l’orizzonte di ragionamento per il sindacato è quello di riprendere con decisione la funzione di pungolo
verso la politica e di leva di cambiamento
rispetto tanto alla costruzione degli scenari,
quanto al decentramento solidale, all’organizzazione complessiva, alla gestione della
spesa e ai bilanci delle singole aziende.
Con un obiettivo strategico che appare
oggi decisamente prioritario: restituire fiducia ai cittadini. Laddove restituire fiducia
in un Ssn messo in discussione non solo dai
mutamenti demografici ma anche dall’eccessiva litigiosità della classe dirigente e dagli appetiti delle potenti lobby che gravitano intorno vuol dire per esempio passare
ad un sistema di vera e propria “presa in
carico” del paziente, ad una forte integrazione tra servizi sanitari e sociali e ad una
riconfigurazione dell’assistenza in una scala
più territoriale-domiciliare e meno ospedaliera. Vuol dire, cioè, costruire tutti insieme,
un servizio sanitario all’altezza di una società più sana, più attiva, più solidale.
Gli standard di fabbisogno
nella sanità italiana
di Fabio Pammolli e Nicola Salerno*
È stato diffuso il decreto che affronta anche il tema dei fabbisogni sanitari standard,
adesso in visione nelle Commissioni parlamentari e nella Conferenza Stato-Regioni.
* CeRM.
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Definire i fabbisogni standard è necessario
per riconoscere alle Regioni risorse adeguate
ad erogare, in condizioni di efficienza, le
prestazioni rientranti nei livelli essenziali di
assistenza (i Lea). La sovraspesa rispetto allo
standard sarà a carico della Regione che la
compie, che nasca dalla fornitura di prestazioni extra Lea o da sacche di inefficienza.
Il decreto introduce due innovazioni molto importanti, che segnano una discontinuità
rispetto alle indecisioni che il Legislatore ha
mostrato, su questo specifico argomento, almeno nel corso degli ultimi dieci anni (dal
D. Lgs. 56/2000 in poi): la scelta del metodo
top-down e il benchmarking interregionale.
Si compie una scelta precisa, quella di
adottare una prospettiva di tipo top-down,
in cui il confronto politico (tra partiti, tra
Stato e Regioni, etc.) si svolge all’inizio e,
definite le risorse da dedicare ai Lea sanitari su scala nazionale, il Fsn, esso non ricompare più per ricontrattazioni e aggiustamenti. Se questa scelta sarà confermata e
applicata in toto, sarà superata la cosiddetta sindrome dei soft budget constraint, all’origine dei ripiani generalizzati a piè di lista e dell’inseguimento tra finanziamenti e
consuntivi di spesa dell’anno prima, cui si è
quasi metodicamente assistito. Circoscrivere
la finestra temporale in cui deve svolgersi e
finalizzarsi il dibattito non è una diminutio
per la politica; al contrario, significa dare il
massimo rilievo alle scelte che la politica
deve compiere e di cui deve assumere la responsabilità. E fissare i tempi della politica
non implica neppure una prevalenza dell’obiettivo della sostenibilità finanziaria su
quello della redistribuzione e dell’adeguatezza dell’offerta sanitaria; implica, invece,
che le scelte su come coordinare questi due
obiettivi debbano essere prese in maniera
trasparente e rigorosa, con una visione di
programma non affetta da opportunismi.
Il decreto avvia anche il superamento del
finanziamento a costo storico della sanità,
introducendo il concetto di efficienza relativa dei fabbisogni. Il fabbisogno riconoscibile
alla singola Regione deriva dal benchmarking rispetto alle Regioni più virtuose.
Assieme, le due innovazioni – top-down e
benchmarking – comportano che, per data
programmazione del Fsn, la sua suddivisione in quote regionali debba avvenire secondo regole codificate e stabili, che tengano
conto del fabbisogno sanitario relativo tra
individui appartenenti a diverse fasce di età,
valutato in condizioni di efficienza.
Vi sono tuttavia quattro ambiti di riflessione che è utile considerare.
In primo luogo, nel decreto non emerge
con chiarezza quali regole saranno valide a
regime per la ripartizione del Fsn. Il riferimento ai criteri di riparto usati due anni
prima rimanda ai Patti della Salute, l’ultimo
siglato e quelli che arriveranno, in una sequenza che di fatto lascia aperta ogni soluzione. Il problema è che, senza un’affermazione inequivocabile delle regole a regime,
manca il punto di riferimento per il disegno
del processo di transizione e delle traiettorie che le singole Regioni dovranno compiere per convergere.
In secondo luogo, il testo potrebbe essere riformulato nei passaggi in cui è descritto il meccanismo di benchmarking, lì dove,
in effetti, si sono creati degli equivoci come
testimoniato dai commenti che sono pervenuti. Si dovrebbe chiarire che l’obiettivo
non è quello di prendere a modello le Regioni benchmark per calcolare spese medie
pro-capite efficienti per fascia di età in Euro
assoluti (un vettore di spese pro-capite), e
applicare queste medie alla demografia di
tutte le Regioni. Se così fosse, rimarrebbero
insoluti due snodi: a) come aggiornare a
scadenze prefissate questi valori assoluti
(inflazione? inflazione settoriale? modifiche dei consumi sanitari?); b) come garantire la quadratura macrofinanziaria rispettando il vincolo di risorse del Fsn. Dal primo
snodo potrebbe derivare un proseguimento, sotto altre vesti, della logica del costo
storico (non meno del pro-capite dell’anno
precedente più un aggiustamento); il secondo snodo mette a repentaglio uno degli
obiettivi della riforma federalista, la consapevolezza del vincolo di bilancio e la sua
condivisione leale tra livelli di governo.
La spesa pro-capite efficiente per fasce di
età è solo un passaggio intermedio per arrivare a definire rapporti di spesa pro-capite
tra fasce di età. Quando calcolati in capo
alle Regioni benchmark, i rapporti possono
essere intesi come tra fabbisogni efficienti,
dal momento che queste Regioni rispettano
la programmazione di spesa e forniscono
un’offerta adeguata e di qualità (sempre in
senso relativo, rispetto al resto del Paese). In
altri termini, le Regioni benchmark identificano un “punto di pareggio” tra programmazione delle risorse dedicate alla sanità (di
qualunque provenienza), spesa contabilizzata a consuntivo, e adeguatezza dell’offerta.
In virtù di questo equilibrio finanziamentospesa-fabbisogno, a partire da queste Regioni si possono calcolare i rapporti di fabbisogno tra individui appartenenti alle diverse
fasce di età; e su questi rapporti di fabbisogno pro-capite impostare la ripartizione del
Fsn, utilizzandoli per la pesatura della popolazione. I rapporti di fabbisogno pro-capite
potrebbero avere una revisione quinquennale. Questa appena descritta potrebbe essere una soluzione praticabile e, se condivisa
dal Legislatore, andrebbe adeguatamente
esplicitata nell’articolato.
Il terzo punto critico riguarda la selezione delle Regioni benchmark. Requisiti troppo stringenti, come il perfetto pareggio di
bilancio sanitario, potrebbero in alcuni anni
non essere rispettati da nessuna Regione.
Meglio sarebbe optare per il requisito di sostanziale pareggio di bilancio nel corso degli ultimi quattro-cinque anni (una sorta di
almost close to balance clause che già trova
applicazione per le valutazioni delle politiche di bilancio tra Partner Ue). Ma al di là
di questo, è la definizione stessa di pareggio di bilancio che andrebbe ridiscussa. Nel
decreto il pareggio è tra, da un lato, le risorse del finanziamento ordinario che non
comprende quelle aggiunte autonomamente dalle Regioni e, dall’altro, le spese depurate dagli ammortamenti e dalla quota parte delle stesse sostenuta dalla risorse aggiuntive regionali. Si ritiene, invece, che il
pareggio dovrebbe riguardare le risorse dedicate ai Lea, indipendentemente dall’origine delle stesse, e le spese per prestazioni
Lea, onnicomprensive di tutto, anche degli
ammortamenti e delle spese si manutenzione del capitale che rappresentano costi di
funzionamento rispetto ai quali responsabi-
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lizzare la governance. Tra l’altro, l’attuale
stato della contabilità dei sistemi sanitari
regionali neppure permetterebbe lo scorporo degli ammortamenti secondo criteri
affidabili e omogenei su tutto il territorio
nazionale. Adottata la soluzione di non
scorporare quote di spesa, si potrebbe fare
riferimento direttamente ai valori di cassa
(quanto transita sui conti di tesoreria), indipendenti dalla riforma della contabilità ancora in corso e soprattutto inequivocabili.
Il quarto ed ultimo punto critico riguarda
le regole di aggiornamento degli standard.
Si tratta di parametri strutturali e, dopo la
definizione iniziale, la revisione dovrebbe
avvenire o a scadenze lunghe (non meno di
cinque anni), o in presenza di eventi macroscopici che facciano davvero ritenere che i
valori in vigore non siano più espressivi dei
sottostanti fabbisogni. Qui il decreto ha, invece, un cedimento, perché lascia uno spazio
indefinito, sia nella frequenza che nella cifra
degli aggiustamenti, alle intese Stato-Regioni, con unico vincolo il rispetto del coordinamento della finanza pubblica. Il cambiamento auspicato all’inizio dello stesso decreto,
con l’approccio top-down e il superamento
del bargaining sui rifinanziamenti, renderebbe necessario un livello di più alta salvaguardia delle regole rispetto a tentazioni
contingenti di politici e amministratori.
Fabbisogni e costi standard
nella giungla del decreto
di Mario Romeri*
Lo schema di decreto legislativo recante
disposizioni in materia di autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario non-
ché di determinazione dei costi e del fabbisogno standard nel settore sanitario si articola nei seguenti cinque capi:
– Autonomia di entrata e di spesa delle
Regioni e statuto ordinario;
– Autonomia di entrata delle province;
– Perequazione per comuni e province;
– Costi e fabbisogni standard nel settore sanitario;
– Norme finali ed abrogazioni;
tale impianto ha consentito di unificare
nello stesso provvedimento le disposizioni
di carattere generali relative alla disciplina
finanziaria e contabile degli enti interessati
al nuovo sistema federale e quelle specifiche relative al settore sanitario.
Per le disposizioni del settore sanitario
lo schema di decreto legislativo interviene
nella definizione:
– del fabbisogno standard nazionale
nel settore sanitario per l’anno 2012 (articolo 2 commi 2 e 3, Capo primo);
– di indicatori standard della programmazione strategica nazionale (articolo 22);
– delle regioni di riferimento al fine
della determinazione degli standard (articolo 22);
– del procedimento per la definizione
dei costi standard (articoli 20, 21, 22 e 23
del Capo quarto).
Anche se l’accorpamento di tutte le funzioni soggette presenti alle disposizioni generali del federalismo fiscale tende ad
uniformarne il trattamento, occorre comunque sottolineare la peculiarità del settore sanitario nel contesto più generale
della legge 42 del 2009, specificità che scaturisce in modo particolare dall’esperienza
acquisita dalla governance del sistema – governo e regioni – attraverso l’attuazione
del Patto per la salute.
Il fabbisogno sanitario standard
* Esperto nel settore delle relazioni interregionali in Sanità. Svolge attività direzionali nello staff dell'Azienda Ospedaliero - Universitaria Careggi di Firenze e funzioni di rappresentanza della Regione Toscana presso la Commissione salute.
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All’articolo 2 viene confermata per l’anno 2112 la regola attuale in materia di determinazione concertata sul fabbisogno sanitario nazionale e sui meccanismi di eroga-
zione del fondo, compreso quello di premialità; sembra pertanto confermato il percorso instaurato a seguito del Patto per la
salute di cui è da confermarsi la centralità.
Tale concetto di determinazione concertata
del fabbisogno sanitario va pertanto esplicitamente inserito nelle disposizioni del
capo quarto, nel quale invece si parla a decorrere dal 2013 di “fabbisogno esogeno”.
È inoltre indispensabile che tutte le intese previste per la parte sanitaria nel capo
quarto del provvedimento in esame siano
da intendersi come “intese forti” ai sensi
dell’articolo 8, comma 6 della legge 131 del
2003, a partire da quella relativa alla determinazione dei criteri di riparto.
In merito al meccanismo di determinazione del fabbisogno va precisato che tra le
risorse che concorrono devono essere ricomprese oltre quelle indistinte, anche
quelle per gli obiettivi di piano e quelle vincolate (indennizzi ex lege 210/1992, sanità
penitenziaria, cittadini extracomunitari,
AIDS, fibrosi cistica, alter vincolate), attribuite al fine di garantire il mantenimento
dell’attuale livello di finanziamento.
Le criticità
L’esame dell’articolo 22 evidenzia inoltre le seguenti criticità:
– comma 3, indicatori della programmazione nazionale: vengono riportati gli
indicatori di fabbisogno per macrofunzione
assistenziale riportati in allegato al Piano di
salute senza indicarne né finalità ne obiettivi da perseguire. In caso il loro raggiungimento venga considerato mero adempimento le Regioni che presentassero valori
diversi da quelli indicati potrebbero essere
considerate inadempienti; dovrebbe essere
invece evidenziato che, essendo il 5% della
prevenzione vincolo normativo da raggiungere, il vero obiettivo strategico è quello di
perseguire progressivamente la “deospedalizzazione”, ovvero di perseguire l’implementazione di un sistema salute che individua la centralità dello sviluppo dei servizi
socio-sanitari territoriali e riserva all’ospe-
dale un ruolo preminente nel trattamento
delle fasi acute delle patologie ed in quello
di alta criticità, di emergenza e di compromissione delle condizioni di salute. In tale
ottica il 44% è l’indicatore di un massimo di
incidenza percentuale della ospedalizzazione nelle erogazione dei servizi ed il 51%
costituisce un minimo di incidenza dell’assistenza distrettuale da implementare progressivamente. Tali indicatori potrebbero
quindi essere assunti nel procedimento di
valutazione della corretta attuazione degli
obiettivi della Programmazione sanitaria
nazionale;
– comma 5, campione per il benchmark:
la necessità di attribuire ai processi di riorganizzazione dei servizi ed a quelli di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia
dei risultati conseguiti con i servizi sanitari
la concreta fattibilità e la consapevolezza
della matrice delle diversità presenti nei sistemi regionali, consiglia di prevedere l’allargamento del campione da assumere a riferimento per il processo di attuazione degli obiettivi strategici con l’obiettivo di effettuare la determinazione con almeno il
20% della popolazione di riferimento, di
conferire la richiesta rappresentatività al
campione medesimo, allargando la base del
procedimento di valutazione e magari utilizzando un tempo di riferimento superiore
ad un singolo anno;
– comma 6, livello di costo standard per
le regioni del campione aggregati per ciascuno dei macrolivelli assistenziali depurato
delle quote di seguito indicate:
lettera b): viene previsto di depurare dai
costi la quota delle entrate proprie superiori a quella utilizzata per la determinazione
del finanziamento nazionale, in quota proporzionale per ciascuna delle tre macroaree. Quanto sopra è in contrasto con le previsioni del Patto per la salute (vedi articolo
1, comma 6 «Si conviene che eventuali risparmi nella gestione del servizio sanitario
nazionale effettuati dalle regioni rimangono nella disponibilità delle regioni stesse».
lettera c): viene previsto di depurare la
quota di spesa che finanzia livelli di assi-
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stenza superiori a quelli essenziali. Tale
previsione è corretta a condizione che vengano assunti i nuovi Lea, già concordati
con il ministero della salute e non ancora
assentiti dal Mef; quanto sopra consente di
eliminare gli equivoci derivanti da prestazioni attualmente erogate dalle regioni,
anche se non previste dal vecchio Dpcm
(comunicatori elettronici per i pazienti ammalati di Sla ed assimilabili, previsti dagli
obiettivi di Psn, e cure palliative). Tra l’altro
l’adozione del nuovo Dpcm Lea consentirebbe di poter adottare i meccanismi di
controllo clinico dell’appropriatezza delle
prestazioni specialistiche e di ricovero, ivi
previsti, obiettivamente validi anche per il
governo della spesa;
lettera d): viene previsto di depurare le
quote di ammortamento. Tale previsione
costituisce una gravissima sottovalutazione
in un settore, come quello delle opere di
adeguamento a norma di un patrimonio
obsoleto che ha visto impegnate le regioni,
più consapevoli ed adempienti, a provvedere, ad integrazione degli investimenti finanziati ex articolo 20 della legge 67/88, all’utilizzo di quote derivanti dall’alienazione
del patrimonio o dall’indebitamento con
mutui, di consistenza non superiore a quella stabilita per legge, proprio per consentire l’adeguamento a norme delle strutture
sanitarie ed il loro mantenimento in regolare esercizio;
lettera e): Il valore del fabbisogno standard regionale è determinato applicando a
tutte le regioni i valori di costo rilevati nelle
regioni di riferimento, utilizzando come pesatura le classi di età e tenendo conto di indicatori relativi a particolari situazioni territoriali ritenuti utili al fine di definire i bisogni sanitari. Sino al raggiungimento dell’intesa si applicano i criteri adottati per il riparto delle annualità 2010-2012. Tale previsione, unita a quella di cui all’articolo 23,
comma 1, ove si prevede che «Al fine di
conferire continuità ed efficacia al processo
di efficientamenti dei servizi sanitari regionali, i criteri di cui all’articolo 22 possono
essere rideterminati previa intesa in sede di
Conferenza Stato-Regioni, comunque sempre nel rispetto del fabbisogno standard
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nazionale come definito all’articolo 21»,
genera le seguenti ulteriori criticità:
– non si qualificano le matrici di indicatori da utilizzare, ampliando il dibattito dai
criteri di pesatura della popolazione (fattori di età?, fattori di deprivazione?, entrambi?) alla territorialità (?), che finisce per
creare elementi forti di ambiguità;
– stabilisce de facto che per il 2011 si
applicano i criteri di riparto 2010, compromettendo la ricerca di alternative, in corso
da parte delle regioni;
– quanto sopra rischia di far partire la
negoziazione estrema tra regioni e annulla
quanto detto in precedenza in termini di
coesione e collaborazione istituzionale.
Costi standard, cinque
questioni per un decreto
di Gilberto Turati*
In questa breve nota proverò a proporre
qualche osservazione sulla bozza di Decreto
Legislativo su costi e fabbisogni standard
nel settore sanitario, peraltro con poche novità rispetto a quanto già si è letto sul tema,
visti i tanti che si sono cimentati nell’esercizio del commento della proposta; a partire
da queste osservazioni proverò poi a definire i problemi che a mio avviso rimangono
irrisolti e a tratteggiare alcune possibili soluzioni agli stessi: qui, c’è – forse – qualche
idea nuova. L’ottica con cui guardo alla
questione è – a scanso di equivoci – quella
dell’accademico, del ricercatore. Cercherò
quindi di capire se e come la bozza di decreto risolve il problema che si propone,
cioè la riduzione delle inefficienze nel settore sanitario attraverso la definizione di
costi standard. Questo è quel che si evince
* Ricercatore di Economia Pubblica presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Finanziarie dell'Università di Torino.
per esempio dalla presentazione della Legge 42/2009, quando si dice che i «principi
fondamentali del federalismo fiscale sono
– da una parte – il coordinamento dei centri
di spesa con i centri di prelievo, che comporterà automaticamente maggiore responsabilità da parte degli enti nel gestire
le risorse; dall’altra parte, la sostituzione
della spesa storica, basata sulla continuità
dei livelli di spesa raggiunti l’anno precedente, con la spesa standard» (il grassetto
non è mio ma è nell’originale).
In merito al decreto, ci sono almeno cinque questioni rilevanti che vorrei sottolineare. La prima – quella fondamentale – è
che, almeno al momento, il costo standard
non gioca alcun ruolo nell’allocazione delle
risorse. È sorprendente ma è proprio così; a
meno di “interpretazioni autentiche” da
parte degli estensori della legge che sinora
non si sono però manifestate. Per come è
stato scritto il decreto, se quel che occorre
determinare è la quota dei fondi complessivi destinati alla sanità per ciascuna regione
e il costo standard moltiplica sia la popolazione pesata della Regione i-esima, sia la
popolazione pesata complessiva, allora è
evidente che il costo standard è una semplice costante che moltiplica numeratore e denominatore della frazione; quindi quel che
rileva è solo la popolazione pesata, un indicatore di bisogno. Si tratta forse di un errore non voluto, forse di una imprecisione, o
forse di una precisa scelta politica; in ogni
caso è evidente che uno dei «principi fondamentali del federalismo» (almeno nelle
parole del governo) viene a mancare.
La seconda questione – che tuttavia perde di significato se il costo standard non
gioca nessun ruolo – è quella relativa all’identificazione del benchmark, cioè del riferimento (dello standard) contro il quale
valutare le Regioni che da tale riferimento
si discostano. Al momento si identificano
come benchmark “le Regioni che abbiano
garantito l’erogazione dei Lea in condizioni
di equilibrio economico” cioè le Regioni
che garantiscono l’erogazione dei Lea in
condizioni di efficienza e appropriatezza
con le risorse ordinarie (entrate proprie effettive incluse). Da quel che si capisce, sen-
za tema di fraintendimento, il decreto propone come criterio chiave per l’individuazione dei benchmark un criterio di tipo economico. Ne deriva che lo standard è – nei
fatti – un “costo pro-capite” delle regioni
virtuose, cioè quelle che non registrano disavanzi nell’erogazione dei Lea. Al di là del
problema di quante regioni prendere come
benchmark (tre? Cinque? Tutte quelle in
equilibrio?) e di chi le sceglie, ci sono questioni importanti dietro l’unico criterio economico: che ne è per esempio della salute
dei cittadini come obiettivo dei sistemi sanitari regionali sulla base del quale valutare
la loro attività? Che ne è della qualità delle
prestazioni erogate? Inoltre, in assenza di
regole contabili comuni sui bilanci regionali, siamo sicuri che quel criterio economico
sia “il” criterio da privilegiare? Che cosa
succede quando qualche regione registra
quella che è spesa sanitaria come spesa assistenziale, viste le difficoltà – oggettive –
nello stabilire i confini fra le due tipologie
di spesa? Si tratta di una pratica che è un
po’ diventata il “segreto di Pulcinella” fra
le regioni e che – di fatto – rende l’identificazione delle regioni “in equilibrio economico” difficile, quando non discrezionale
per le regioni stesse.
La terza questione è connessa alla situazione delineata dalla bozza di decreto: se
– come sembra – si vogliono definire dei
“criteri di riparto” delle risorse destinate
alla sanità, allora sarebbe stato lecito attendersi qualche miglioria rispetto al passato, visto che questo è stato il modo col
quale si sono divisi i denari fra le regioni in
passato. La determinazione del “fabbisogno standard regionale” è di fatto basata
sui bisogni “misurati” in base alla struttura
per età della popolazione; questa ultima riflette i bisogni della popolazione vista la
relazione tra consumi di servizi ed età. È
quel che già si faceva in passato per alcuni
livelli di assistenza, con una serie di problemi: il più importante, l’incapacità di distinguere i consumi inappropriati, così che la
misura di “bisogno” non era quella “reale”, ma una misura sporcata anche da una
parte di domanda “indotta” e inappropriata. Vi è poi l’annosa questione delle “de-
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terminanti sociali” della salute come indicatore di bisogno: non è chiaro se per tali
determinanti è la sanità a dover essere
chiamata in causa, o qualche altra forma di
spesa sociale. Di tutto ciò nulla sappiamo
però dal Decreto.
Quarta questione è che non è affatto
chiara la dinamica degli aggiustamenti richiesti alle Regioni. In particolare, quella
lunga transizione prevista nel Decreto Legislativo 56/2000 qui non c’è. E non c’è nemmeno una indicazione di quel che accadrà
dopo la “prima applicazione” del Decreto.
È chiaro però che se davvero si vuole provare ad incidere sulle inefficienze, occorre
dare alle Regioni un tempo adeguato per
adattarsi: per esempio, la rete ospedaliera
non si ristruttura in due anni. E forse va
pensata sui bisogni di qui a dieci anni, non
sui bisogni di oggi che domani saranno già
“sorpassati”.
Quinta questione – che forse consente
di interpretare un po’ tutto l’impianto legislativo della bozza di Decreto – è che si
sono introdotti nomi nuovi per cose che già
esistevano e conoscevamo bene dal passato, peraltro con qualche imprecisione. Per
esempio, il Fabbisogno Nazionale Sanitario
Standard è né più né meno che il vecchio
Fondo Sanitario Nazionale; il Fabbisogno
Standard Regionale è la vecchia “quota di
riparto”; i costi standard sono – in modo
impreciso – identificati attraverso la spesa
pro-capite media delle Regioni virtuose. Diciamo che siamo lontani dalla definizione
da manuale.
Alla luce di queste osservazioni vedo almeno tre problemi da risolvere. Ne discuto
brevemente nel seguito, accompagnandoli
con qualche suggerimento. Il primo problema è quello di riconoscere l’importanza
della valutazione. Abbiamo un’occasione
storica, non so quando ci ricapiterà. Credo
sia cruciale non buttarla al vento e riconoscere l’importanza della valutazione dell’attività regionale (e, più in generale, dell’attività delle Pubbliche Amministrazioni), del
benchmarking, della definizione dei costi
standard. Le inefficienze ci sono, sono diffuse, non solo tra Regioni ma a tutti i livelli
di governo. La domanda chiave – ineludibi42
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le – è capire che ne è stato delle risorse che
sono state spese: che cosa se ne è ottenuto,
per esempio in termini di servizi (o di salute) per i cittadini? Perché qualcuno ha ottenuto di più e qualcun altro di meno?
Secondo problema: se la valutazione è
importante, allora il legislatore dovrebbe
evitare di cascare nella trappola di un approccio di tipo bottom-up, cioè della definizione di un costo per ciascuna prestazione. Ci sono troppi problemi da risolvere: a
livello contabile, come si uniformano per
esempio le regole contabili se è difficile
farlo a livello regionale e come si ribaltano
i costi comuni sulle singole prestazioni. Chi
garantisce poi la compatibilità macroeconomica della spesa se – standardizzando i
costi – ricostruiamo i fabbisogni regionali
dal basso. Non da ultimo, la “manutenzione” è costosa: i costi per prestazione in sanità ci sono già e sono – forse meglio dire,
dovrebbero essere – le tariffe Drg-Rod.
Nessuno però – mi pare – ha mai proposto
di utilizzarle; forse perché poco hanno a
che vedere con un vero e proprio “costo efficiente”. La strada intrapresa con la bozza
di Decreto, quella di partire da un vincolo
macroeconomico sulle risorse disponibili è
convincente. Quel che occorre fare ora, ed
è il terzo problema, è dare davvero importanza al costo standard.
Su questo aspetto ci sono tre questioni
strettamente interconnesse: a) come definire il benchmark; b) come collegare il benchmark alle regole di riparto; c) come sanzionare chi si discosta dall’efficienza. In merito
alla definizione del benchmark, è a mio avviso necessario chiarire che le risorse del
Fabbisogno Sanitario Standard sono in
realtà le risorse che ci possiamo permettere,
non quelle che servono per finanziare i Lea,
per determinare le quali in modo corretto
dovremmo appunto partire da una valutazione bottom-up dei fabbisogni in termini
attuariali. Detto in altre parole, lo Stato riesce a metterci un certo ammontare di denari, che possiamo stabilire anche in quota di
Pil; sono poi le singole regioni che decideranno come utilizzare i quattrini che avranno a disposizione: qualcuno farà meglio,
qualcuno peggio. Il benchmark è chi ottie-
ne i migliori risultati con le risorse che ha a
disposizione, naturalmente “a parità di
condizioni”. È evidente quindi che per stabilire chi abbia ottenuto i migliori risultati
si debba preliminarmente identificare quali
sono i risultati, cioè quali sono gli obiettivi
da perseguire da parte delle Regioni: la salute dei cittadini? La qualità dei servizi?
L’equità nell’accesso ai servizi? Su questi
aspetti c’è ancora tanto lavoro da fare e
questo lavoro va fatto con gradualità; ma è
altrettanto evidente come sia necessario
partire e disegnare il sentiero.
Una volta identificato il benchmark,
questo deve essere poi collegato alle regole
di riparto. Ci sono naturalmente tante possibili soluzioni, ma forse è possibile sfruttare l’intuizione del Decreto Legislativo
56/2000 e le proprietà della media aritmetica. Molto semplicemente, si potrebbero
identificare le percentuali di inefficienza rispetto allo standard che caratterizzano ciascuna Regione e calcolare poi l’inefficienza
media. Per ciascuna Regione questo consentirebbe di determinare lo scarto dalla
media. A questo punto potremmo considerare gli scarti (percentuali) dalla media
come “correttivi” delle quote di riparto determinate in base ai bisogni (la popolazione pesata): i più efficienti vedrebbero aumentare la propria quota a scapito dei
meno efficienti. C’è un problema politico
serio, inutile negarselo, lo stesso che ha
affossato il famoso Decreto Legislativo
56/2000: le Regioni che ci perdono quattrini
possono ricorrere alla Corte Costituzionale
per vedere sancite le proprie ragioni. Forse
qualcosa su questo punto si può imparare
dal passato, applicando queste regole di
standardizzazione solo sulla variazione del
finanziamento. Il corollario è che se le risorse a disposizione della sanità si riducono
(perché si è ridotto il Pil), allora i tagli non
dovrebbero essere lineari, ma colpire di più
i meno efficienti.
Il meccanismo può funzionare? Forse.
Una conditio sine qua non è che chi non rispetta le regole e spende male i danari
pubblici deve “pagare” davvero. Su questo
punto già si è detto e scritto molto: è necessario puntare con decisione sul “fallimento politico” ed evitare i Presidenti commissari di sé stessi; occorre provare ad introdurre la “certificazione” di fine mandato;
occorre mantenere un insieme di sanzioni
automatiche sulle imposte locali; occorre
pensare anche ad un insieme di sanzioni sui
politici locali, come l’interruzione del finanziamento pubblico dei partiti locali, la sospensione degli emolumenti per i componenti della Giunta, l’impossibilità di ricoprire qualunque altra carica pubblica a qualsiasi livello di governo per un congruo periodo di tempo. È evidente che – se il costo
standard non avrà alcun ruolo – il messaggio per i governanti locali andrà nella direzione esattamente opposta. Con effetti palesemente nefasti sull’efficienza.
numero di ottobre 2010
43
STATISTICHE
a cura di Angela Cipollone
Lavoro, per i giovani il grado
di istruzione è la linea
di frattura tra Nord e Sud
G
li esiti dei percorsi verso il lavoro
sono ampiamente influenzati da
variabili di contesto e socio-economiche, come l’area di residenza, l’istruzione dei genitori e il sesso. La
transizione verso l’inattività è un fenomeno
ancora drammaticamente diffuso tra le
donne, nonostante i più elevati livelli di
istruzione conseguiti, e tra i giovani che si
affacciano al mercato del lavoro senza nessuna esperienza di lavoro significativa durante il percorso di studi.
L’Istat presenta i principali risultati dell’indagine Ingresso dei giovani nel mercato
del lavoro, tratti da un modulo ad hoc, somministrato nel secondo trimestre 2009 all’interno della rilevazione sulle forze di lavoro.
Tale indagine fornisce un ampio spettro di
informazione sui tempi e le modalità dell’inserimento lavorativo dei giovani.
L’indagine raccoglie informazioni sulle
eventuali esperienze di lavoro, stage e tiro44
numero di ottobre 2010
cini maturate dai 15-34enni nel corso degli
studi. Per i giovani usciti dal sistema educativo, sono rilevati gli aspetti fondamentali
della transizione al mercato del lavoro: la
data di uscita dagli studi, comprensiva delle
eventuali interruzioni, le modalità e i canali
di accesso al primo impiego, la data di inizio del primo lavoro, la professione e la tipologia della prima esperienza lavorativa.
Nel secondo trimestre 2009 erano fuori
dal sistema di istruzione regolare 9.320.000
giovani tra i 15 e i 34 anni, di cui il 23,7%
presenta un’età compresa tra 15 e 24 anni,
e il 76,3% tra i 25 e i 34 anni (Figura 1). Tra
i giovani fino a 24 anni, il 43% ha conseguito al più la licenza media, il 53% il diploma
e solamente il 4,5% un titolo di studio terziario (laurea o specializzazione). La percentuale dei laureati aumenta a 18,3% tra i
giovani tra i 25 e i 29 anni non più in istruzione (Figura 1).
Tra i 15-34enni non più in istruzione,
emergono significative differenze di genere
sulla base del titolo di studio conseguito: la
percentuale di donne con un titolo di studio
terziario è pari a 19,3%, rispetto al 10,9%
per gli uomini. Il maggiore livello d’istruzione delle giovani donne è, peraltro, un fenomeno diffuso sull’insieme del territorio nazionale. Nel Mezzogiorno una quota signifi-
Istruzione
Area
dei
Gruppi di età Sesso geografica genitori Tot
Figura 1 – Giovani 15-34 anni non più in istruzione per titolo di studio conseguito, classe
di età, sesso, ripartizione geografica e grado d’istruzione dei genitori – II trimestre 2009 (valori percentuali)
Laurea
Diploma
Fino alla licenza media
Mezzogiorno
Centro
Nord
Femmine
Maschi
30-34
25-29
20-24
15-19
Fino alla licenza media
Diploma
Laurea
0
10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Fonte: Istat, 2010.
cativa di giovani si presenta nel mercato del
lavoro con al più la licenza media (44,7%);
nel Centro e nel Nord è prevalente la quota
dei giovani con il diploma di scuola secondaria superiore (52% e 53,5%, rispettivamente). Il livello di istruzione dei genitori è
una variabile determinante nel grado di
istruzione conseguito da un giovane tra i 15
e i 34 anni. Tra coloro che hanno almeno un
genitore laureato, il 56,8% consegue un titolo di istruzione terziario; tale percentuale
scende al 22,9% per coloro che hanno almeno un genitore con al più il diploma e al
7,5% per coloro i cui genitori hanno conseguito al più la licenza media (Figura 1).
Circa il 73% (6.713.000 individui) dei
giovani tra i 15 e i 34 anni usciti dal sistema
educativo formale ha avuto almeno una
esperienza di lavoro superiore ai tre mesi
consecutivi, ovvero – con le parole della tavola 1 – con esperienza significativa. In tre
quarti dei casi l’esperienza di lavoro è iniziata dopo oltre tre mesi dalla conclusione
degli studi.
Tra i giovani residenti nelle regioni meridionali in età compresa tra i 15 e i 34 anni,
le percentuali di ingresso nel mercato del
lavoro sono decisamente inferiori al resto
del territorio, segnalando la presenza in
tale area del maggiore disagio nell’inserimento occupazionale. Infatti, guardando ai
due indicatori di inserimento nel mercato
del lavoro, quali la percentuale di giovani
con esperienza significativa e il tasso di occupazione degli stessi, si evince che: i) poco
meno del 56 per cento dei giovani del Mezzogiorno ha avuto esperienze lavorative
dopo l’uscita dal sistema d’istruzione, incidenza che sale all’83 per cento nel Centronord; ii) il tasso di occupazione dei giovani
con esperienza significativa è nel Mezzogiorno inferiore di oltre 30 punti percentuali rispetto al Centro (46,3% e 77,2% rispettivamente) e inferiore di circa 26 punti
percentuali rispetto al Centro (Tavola 1).
La probabilità di trovare lavoro crescono
all’aumentare del livello formativo conseguito. Nonostante la maggiore disponibilità
di tempo ed energie per la ricerca di un lavoro, i giovani con un basso livello di istruzione presentano una minore probabilità di
aver avuto una significativa esperienza la-
numero di ottobre 2010
45
Tavola 1 – Giovani 15-34 anni non più in istruzione con o senza un’esperienza di lavoro
significativa per attuale condizione, sesso, ripartizione geografica e titolo di
studio conseguito – II trimestre 2009 (valori percentuali e assoluti)
Fonte: Istat, 2010.
vorativa rispetto ai giovani diplomati o laureati (64,3% a fronte di 77,8% per i diplomati e 76,8% per i laureati). Non solo, il
tasso di occupazione sembra crescere monotonicamente con il livello di istruzione,
indipendentemente dalla presenza di un’esperienza lavorativa precedente. Allo stesso
modo, il tasso di disoccupazione ed in tasso
di inattività sono più elevati per i giovani
meno istruiti, di nuovo, indipendentemente
dalla presenza di un’esperienza lavorativa
precedente (Tavola 1).
Nonostante i più elevati livelli di istruzione, le donne hanno una minore probabilità di aver avuto esperienze lavorative significative e di essere occupate, e tassi di
inattività sensibilmente più alti rispetto agli
uomini. In particolare, lo svantaggio delle
donne in termini occupazionali sembra
maggiore tra coloro che vantano un’esperienza lavorativa precedente: il 73,9% degli
uomini è occupato rispetto al 54,7% delle
donne, e il 2,3% degli uomini in tale gruppo è inattivo rispetto al 7,3% delle donne.
Dunque, l’esperienza acquisita nel mercato
del lavoro sembra giovare meno le donne
che gli uomini nell’inserimento occupazionale (Tavola 1).
46
numero di ottobre 2010
Il conseguimento del titolo universitario
o di un diploma non è sempre garanzia dell’inserimento in professioni a media e alta
specializzazione. Infatti, spesso, si verificano fenomeni di sotto-inquadramento o sotto-utilizzo del capitale umano disponibile,
dovuto alla mancata corrispondenza tra il
titolo di studio e la professione svolta. Nel
secondo trimestre 2009 circa 2,2 milioni
giovani fino a 34 anni non più in istruzione
laureati e diplomati (il 47,1% del totale)
possiede un titolo superiore a quello maggiormente richiesto per svolgere quella
professione.
Il fenomeno del sotto-inquadramento
riguarda il 49,2% dei laureati e il 46,5% dei
diplomati. Per il gruppo dei giovani diplomati, il fenomeno è più diffuso tra gli uomini che tra le donne (50,1% e 41,5%, rispettivamente); mentre la situazione si ribalta nel gruppo di laureati (46,4% per gli
uomini e 50,8% per le donne). Sia tra i laureati che tra i diplomati, il sotto-inquadramento è più diffuso nel Centro, ed è il più
basso tra i laureati nel Mezzogiorno e tra i
diplomati nel Nord (Figura 2).
Infine, i giovani diplomati che hanno
fatto ingresso nel mercato del lavoro con
Area
Tipologie
Sesso geografica lavorative Tot
Figura 2 – Giovani 15-34 anni sottoinquadrati al primo lavoro per titolo di studio conseguito, sesso, ripartizione geografica, tipologia lavorativa e grado d’istruzione
dei genitori (valori assoluti e percentuali)
Atipici
Dipendenti a temp. ind.
Autonomi
Mezzogiorno
Centro
Nord
Femmine
Maschi
Totale
Diploma
Laurea
0
10
20
30
40
50
60
Fonte: Istat, 2010.
lavori atipici hanno un’elevata probabilità
di essere inquadrati in posizioni che richiedono una qualifica meno elevata di quella
effettivamente posseduta (50,9%); mentre
il fenomeno nel sotto-inquadramento dei
laureati è più diffuso tra coloro che hanno
un contratto dipendente a tempo indeterminato (57%, Figura 2).
Tra i giovani che hanno denunciato una
prima esperienza di lavoro di oltre tre mesi
consecutivi, 2.869.000 persone (il 42,7% del
totale) hanno concluso quella esperienza e
si trovano, nel secondo trimestre 2009, in
un’altra situazione, cioè hanno un lavoro
diverso dal primo o si trovano in una condizione di non occupazione (Tavola 2).
Tra i giovani il cui primo impiego era
alle dipendenze a tempo indeterminato, il
52% è rimasto nella condizione iniziale, il
9,3% è transitato verso la disoccupazione,
mentre il 15,9% verso inattività. Il tasso di
permanenza nella condizione di dipendenza a tempo indeterminato è maggiore per
gli uomini che per le donne (57,7% e
45,5%, rispettivamente); al contrario, il
flusso verso la condizione di inattività è decisamente più elevato tra le donne, indipendentemente dalla tipologia contrattuale al primo impiego (24,1% per le donne rispetto al 7% per gli uomini, Tavola 2).
Per quelli affacciatisi per la prima volta
sul mercato del lavoro con un’occupazione
temporanea, il flusso verso la non-occupazione è maggiore, pari al 27% dei casi,
equamente distribuiti tra disoccupazione e
inattività. In sede di ingresso nel mercato
del lavoro, il 47% dei giovani viene assunto
con un contratto atipico, senza particolari
diversità di genere. In molti casi comunque
questi giovani raggiungono un’occupazione stabile: nel 7,4% un’attività autonoma e
nel 46,6% un lavoro dipendente a tempo
indeterminato (Tavola 2).
Gli esiti dei percorsi verso il lavoro sono
ampiamente influenzati da variabili di
contesto e socio-economiche, come l’area
di residenza, l’istruzione dei genitori e il
sesso.
Ad esempio, nel Nord la quota dei giovani in entrata nel mercato del lavoro con
un impiego temporaneo e successivamente
passata ad un’occupazione a tempo indeterminato è doppia in confronto al Mezzogiorno. Al contempo, il flusso dal lavoro
atipico verso la disoccupazione o l’inattività è pari al 20% nelle regioni settentrionali e sale fino al 48% nelle regioni meridionali.
La transizione verso l’inattività è un fenomeno ancora drammaticamente diffuso
numero di ottobre 2010
47
Tavola 2 – Giovani 15-34 anni non più in istruzione che hanno concluso la prima esperienza
lavorativa per condizione professionale attuale, sesso e tipologia lavorativa al
primo impiego – II trimestre 2009 (incidenze percentuali e valori assoluti)
Fonte: Istat, 2010.
tra le donne, nonostante i più elevati livelli
di istruzione conseguiti, e tra i giovani che
si affacciano al mercato del lavoro senza
nessuna esperienza di lavoro significativa
durante il percorso di studi.
I servizi di sostegno all’inserimento lavorativo dei giovani che si apprestano a
completare gli studi e i periodi di stage
possono dunque costituire un valido con-
48
numero di ottobre 2010
tributo ad una migliore transizione scuolalavoro.
Istat, L’ingresso dei giovani nel mercato del
lavoro Statistiche in breve, Periodo di riferimento: II trimestre 2009, Diffuso il: 30 settembre 2010.
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calenda
rio/20100930_00/
IN LIBRERIA
a cura di Carla Bassu
V. Cardinali, M. Lucidi (a cura di), Le
nuove politiche per l’immigrazione,
Marsilio, Venezia 2010.
Questo lavoro collettaneo raccoglie gli
interventi tenuti in occasione della seconda
edizione dei «Dialoghi asolani», in tema di
«Le nuove politiche per l’immigrazione. Sfide e opportunità».
Si tratta di un’iniziativa congiunta delle
fondazioni Farefuturo e Italianieuropei rispondente all’esigenza di determinare un
percorso di riflessione congiunta in merito a
una tematica di importanza focale nella
realtà sociale ed economica del Paese.
L’obiettivo è quello di giungere alla condivisione di un modello di integrazione coerente con le peculiarità del tessuto socio economico italiano e conforme alla disciplina interna e internazionale sui diritti umani.
Prioritaria, ai fini del conseguimento di
tale finalità, è dunque la necessità di svincolare la questione migratoria dal peso degli elementi di natura politica che influenzano l’analisi del problema condizionandone gli esiti.
I contributi confluiti nel libro, pur toccando profili molto diversi tra loro, sono
congiunti da un filo rosso rappresentato
dalla presa di coscienza del fatto che il fenomeno migratorio costituisca oramai un
dato strutturale e non eliminabile nelle so-
cietà contemporanee. Ciò non significa, naturalmente, negare l’esistenza di difficoltà
serie che possono essere superate, appunto,
solo grazie all’introduzione di politiche
ponderate e il più possibile condivise.
AA.VV., Politiche di attivazione dei disoccupati in Europa. Le esperienze realizzate in Belgio, Danimarca, Francia,
Germania, Inghilterra, Spagna e Svezia,
Ediesse, Roma 2010.
Questo volume si rivela un utile strumento ai fini dell’analisi della situazione
europea nel settore delle politiche rivolte ai
disoccupati. Nel libro si presenta infatti una
prospettiva comparata delle politiche di attivazione adottate nei più importanti paesi
europei, che può servire per evidenziare i
profili di efficienza importabili nel nostro
ordinamento e gli aspetti negativi che sarà
opportuno evitare.
L’esempio delle realtà straniere si rivela
particolarmente importante perché il nostro
Paese si trova attualmente piuttosto indietro nella gestione della problematica, nonostante lo stato dei fatti denunci l’esigenza di
agire con forza e tempestività. In Italia, infatti, si conta che ogni anno alle prestazioni
di disoccupazione hanno accesso oltre un
milione di lavoratori precari, con un mecca-
numero di ottobre 2010
49
nismo di funzionamento che si presta ad
infoltire le fila del lavoro nero, assorbendo
sempre più risorse pubbliche. La panoramica europea riportata nel libro mostra invece
come nel resto di Europa sistemi di ammortizzazione sociale particolarmente generosi
con i disoccupati possano addirittura ostacolare un organico sviluppo economico dei
singoli Paesi. Siamo in presenza del fenomeno che nel volume viene indicato come
«trappola della disoccupazione», che attira
numerosi lavoratori che stentano a reinserirsi nel mondo del lavoro, trovando più conveniente essere assistiti dal welfare. Proprio
per scongiurare il manifestarsi di tale eventualità, l’Unione europea invita gli Stati ad
adottare politiche nazionali che promuovano le possibilità di ritorno al lavoro, piuttosto che incentrarsi esclusivamente sull’indennizzo della disoccupazione.
L. Moschera, S. Consiglio, Le agenzie
per il lavoro e le risposte strategiche e
organizzative alla crisi economica, Editore Franco Angeli.
Il settore delle agenzie del lavoro non è
venuto fuori indenne dalla crisi economica
50
numero di ottobre 2010
che, partita dal mercato finanziario statunitense, ha investito le principali economie
mondiali trasformandosi in una questione
globale. Nel volume in oggetto confluiscono i risultati di una ricerca sull’evoluzione
del settore delle agenzie per il lavoro italiane commissionato dall’Osservatorio nazionale e comunicazione dell’Ente bilaterale nazionale per il lavoro temporaneo
(E.Bi.Temp.).
Il lavoro, diviso in quattro sezioni, presenta in prima istanza il prospetto aggiornato della situazione del comparto, tenendo conto del fatturato, del grado di concentrazione, dell’andamento delle quote
di mercato, dei dipendenti e delle filiali.
Si dà atto altresì del numero di operatori,
dei nuovi ingressi e delle performance collettive. Vengono poi esaminate le misure
adottate dalle agenzie per il lavoro italiane per affrontare la crisi che ha colpito il
settore nel corso del 2008, soffermandosi
sull’analisi del modo in cui il management
delle agenzie è intervenuto sulla struttura
organizzativa e sulla gestione del personale interno.
Da ultimo si profilano ipotesi strategiche volte alla definizione delle opportunità
future del comparto.
DAL PARLAMENTO
Selezione delle attività delle Commissioni
di Camera e Senato attinenti al mondo del lavoro
a cura di Carla Bassu
Provvedimenti approvati
Camera dei Deputati – XI Commissione
Lavoro
•
Disposizioni concernenti la sospensione e la revoca del trattamento
pensionistico per i soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale o condannati per
reati di terrorismo o di criminalità
organizzata.
C. 3541
L’esame del provvedimento in titolo si è
concluso nella seduta del 27 ottobre con
l’approvazione da parte della XI Commissione Lavoro.
Il documento risponde alla denuncia
presentata recentemente dalla Commissione antimafia in merito al percepimento da
parte dei mafiosi della pensione sociale, ovvero del trattamento pensionistico spettante per l’attività lavorativa svolta come copertura della loro carriera criminosa.
Sembrerebbe, addirittura, che alcuni
mafiosi abbiano ottenuto l’indennità di di-
soccupazione durante i periodi in cui si
sono resi latitanti. In sede di esame del
provvedimento si evidenzia la gravità di
questo dato, soprattutto con riferimento ai
sentimenti dei familiari delle vittime e alla
percezione di ingiustizia da parte dei cittadini onesti. Al fine di evitare il perpetrarsi
di questa prassi inaccettabile, il testo approvato prevede che per le persone in regime di detenzione o comunque sottoposte a
misure cautelari restrittive della libertà personale, per atti di terrorismo e di criminalità organizzata, sia sospesa l’erogazione di
ogni trattamento pensionistico loro spettante ai sensi della vigente normativa in
materia. Ancora, si dispone a carico dei
condannati, con sentenza passata in giudicato, per i medesimi reati, la perdita del diritto al trattamento pensionistico.
Il testo del provvedimento approvato è
reperibile al sito:
http://www.camera.it/view/doc_viewer_full?url=http%
3A//www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTele
comando_wai.asp%3Fcodice%3D16PDL0039450&back
_to=http%3A//www.camera.it/126%3FPDL%3D3541%
26leg%3D16%26tab%3D2%26stralcio%3D%26navett
e%3D
numero di ottobre 2010
51
In itinere
SEDE REFERENTE
Senato della Repubblica – XI Commissione Lavoro
•
•
Norme per un lavoro stabile, sicuro
e di qualità; misure per il contrasto
alla precarietà del lavoro, nonché
deleghe in materia di apprendimento permanente, apprendistato e
contratto di inserimento.
S. 1110
Disposizioni in materia di riduzione
dell’orario di lavoro, nonché delega
al Governo in materia di apprendimento permanente e di autoaggiornamento.
S. 2261
Prosegue in seno alla Commissione Lavoro del Senato l’esame congiunto dei
provvedimenti in titolo, con cui si intende
ottenere il riconoscimento dell’apprendimento permanente, quale espressione dei
diritti costituzionali all’istruzione, alla formazione ed elevazione professionale.
La formazione continua deve costituire
uno strumento di valorizzazione della persona, oltre che un metodo finalizzato al miglioramento delle potenzialità occupazionali dei lavoratori, alla mobilità professionale e alla coesione sociale.
Allo scopo di conseguire l’obiettivo prefissato, in ottemperanza alla delega disposta dal Governo, con i provvedimenti in oggetto si dispone l’introduzione di agevolazioni specifiche e la previsione di percorsi
normativi volti a garantire l’affermazione
della cultura dell’apprendimento permanente.
I testi dei provvedimenti in titolo sono
reperibili ai siti:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipo
doc=Ddlpres&leg=16&id=315947
52
numero di ottobre 2010
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipo
doc=Ddlpres&leg=16&id=492661
Camera dei Deputati – XI Commissione
Lavoro
•
Libro verde: Verso sistemi pensionistici adeguati, sostenibili e sicuri in
Europa.
COM(2010)365 def.
Prosegue, in seno alla Commissione Lavoro della Camera l’esame del provvedimento in titolo. Nel corso della discussione
emerge una sostanziale concordanza di vedute tra i membri della Commissione circa
l’opportunità di adottare quanto prima un
documento che tenga conto degli elementi
emersi nel dibattito. La Commissione attende di acquisire il parere della XIV Commissione Politiche dell’Unione europea per poter trasmettere un testo alla Commissione
europea entro il prossimo 15 novembre.
Tra i profili di maggiore interesse toccati
dal dibattito si registrano questioni richiamate dal Libro verde, quali l’armonizzazione e la modernizzazione dei sistemi pensionistici, l’adeguatezza e la sostenibilità delle
prestazioni, con particolare riferimento alle
competenze dell’Unione europea.
Il resoconto di questa seduta di esame
del provvedimento è reperibile al sito:
http://www.camera.it/453?shadow_organo_parlament
are=1504&bollet=_dati/leg16/lavori/bollet/201010/1028
/html/11#27n1
SEDE CONSULTIVA
Camera dei Deputati – XI Commissione
Lavoro
•
Norme per la tutela della libertà
d’impresa. Statuto delle imprese.
Testo unificato C. 2754 Vignali, C. 98
La Loggia, C. 1225 Bersani, C. 1284
Pelino, C. 1325 Vignali, C. 2680 Jannone e C. 3191 Borghesi
La Commissione Lavoro della Camera
dei Deputati è chiamata, dalla X Commissione Attività produttive, a esprimere un
parere in merito al provvedimento in titolo.
Il presupposto di partenza del documento è rappresentato dal ruolo centrale svolto
nel nostro Paese dal settore imprenditoriale. Si segnala, in particolare, l’importanza
delle piccole e medie imprese, che contribuiscono in maniera sostanziale al benessere del Paese, sia in termini di creazione di
PIL che sotto il profilo dell’occupazione. Le
esperienze imprenditoriali italiane sono definite nel provvedimento come un «modello di flessibilità e di agilità economica,
espressione del valore della famiglia; dimostrano nei comportamenti quotidiani una
dimensione di naturale coesione e respon-
sabilità sociali». Nonostante il sistema produttivo italiano si presenti caratterizzato
prevalentemente da attività medio piccole,
il legislatore si è nel tempo concentrato su
provvedimenti riguardanti la grande impresa, determinando il consolidamento di oneri burocratici talvolta insostenibili.
Con il provvedimento in oggetto si intende determinare una cornice normativa
favorevole alle imprese di piccole e medie
dimensioni, che valorizzi le preziose peculiarità del sistema imprenditoriale italiano.
Il testo del provvedimento è reperibile
al sito:
http://www.camera.it/view/doc_viewer_full?url=http%
3A//www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTele
comando_wai.asp%3Fcodice%3D16PDL0029780&back
_to=http%3A//www.camera.it/126%3FPDL%3D2754%
26leg%3D16%26tab%3D2%26stralcio%3D%26navett
e%3D
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53
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europa lavoro economia