1-2/2007 Religione Scuola Città Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma + supplemento R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A Editoriale Didattica e agiografia: a scuola con i santi L'attenzione della pastorale scolastica ai cinque "ambiti" del Convegno di Verona La nuova evangelizzazione e la pastorale dell’educazione e della scuola La spiritualità dell’IdR L’identità e la formazione della personalità Tutta un’altra storia: L’inquisizione Le opere e i giorni Riprese & dettagli: Le cronache di Narnia Insegnare IRC felici A classi aperte: Disturbi della memoria Notizie legali e sindacali: Credito scolastico Diario scolastico Materiali e documenti: 1) Cultura, scuola, persona: verso le indicazioni nazionali. 2) Il curricolo nella scuola dell’autonomia 3) Teologia e cultura terre di confine supplemento: Fede e scienza. L’IRC in dialogo con le scienze matematiche, fisiche e naturali Religione Scuola Città RIVISTA PER LA SCUOLA DELLA DIOCESI DI ROMA Anno XII (2007) n. 1-2 Sommario EDITORIALE Manlio Asta Fragilità redenta 3 Direttore responsabile Angelo Zema Direttore Manlio Asta Consiglio di redazione Carmine Brienza - Giuseppe Iovino Filippo Morlacchi - Alessandro Tarzia - Grazia Palma Testa Pasquale Troìa Alessandro Di Marco Didattica e agiografia: a scuola con i santi Sergio Cicatelli L'attenzione della pastorale scolastica ai cinque "ambiti" 6 13 del Convegno di Verona Sergio Lanza La nuova evangelizzazione e la pastorale dell’educazione 21 e della scuola Immagini e didascalie Pasquale Troìa Registrazione Tribunale di Roma Autorizzazione n. 137 del 11.04.1994 Progetto grafico e impaginazione Studio PardiniApostoliMaggi www.pardiniapostolimaggi.it Stampa Tipolitografia Trullo S.r.l. Via Idrovore della Magliana, 173 00148 Roma Finito di stampare nel mese di luglio 2007 www.tipolitografiatrullo.it Contributo per le spese di stampa e 15,00 in c.c.p. n. 30214001 intestato a: Amministrazione Ufficio Catechistico Vicariato di Roma indicare la causale del versamento Editore Diocesi di Roma Direzione, redazione e amministrazione Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a 00184 ROMA tel. 06.69886178 [email protected] www.diocesidiroma.it/scuola Paolo Tammi La spiritualità dell’IdR Flavia Posabella L’identità e la formazione della personalità 33 39 TUTTA UN’ALTRA STORIA Federico Corrubolo L’inquisizione 44 LE OPERE E I GIORNI Pasquale Troia Le opere e i giorni 47 RIPRESE & DETTAGLI Andrea Monda Le cronache di Narnia 61 INSEGNARE FELICI 66 Gennaro Zucchero A CLASSI APERTE Ferragina & Basile E dai. Ce l’ho fatta. Sono un grande! 69 NOTIZIE LEGALI E SINDACALI Angelo Zappelli La vicenda del credito scolastico 73 DIARIO SCOLASTICO Filippo Morlacchi Convegno sull’ebraismo 80 La Cei e l’Irc MATERIALI E DOCUMENTI 1) Cultura, scuola, persona: verso le indicazioni nazionali 2) Il curricolo nella scuola dell’autonomia 3) C. Ruini, Teologia e cultura terre di confine 84 89 105 Editoriale Q Questo fascicolo di RSC esce con un numero “doppio”. I diversi impegni di quest’anno ci hanno costretto a fare questa scelta. Del resto, le persone vengono prima delle cose, e in fondo una rivista è pur sempre una cosa. Con ciò non vogliamo affatto ridurre il dialogo con i nostri lettori! Al contrario, saremmo sempre lietissimi di raccogliere le opinioni di chi giorno dopo giorno fatica “in prima linea” nel campo dell’educazione scolastica. Non è un caso dunque se come fil rouge di questo fascicolo abbiamo voluto scegliere il tema della fragilità, uno dei cinque “ambiti” prescelti dal Convegno di Verona per avviare un rinnovamento della pastorale in Italia. Come avevamo rilevato nel precedente editoriale, tutti e cinque gli ambiti di Verona trovano un preciso riscontro nel mondo della scuola; ma forse è proprio la fragilità il tratto che qualifica in maniera più distintiva la scuola di oggi. Fragilità che non risparmia nessuna delle sue componenti: gli alunni di qualunque fascia d’età, la cui scarsa resistenza personale è sempre più sotto gli occhi di tutti; i docenti, che – stando agli studi medici più accreditati – risultano essere tra le categorie professionali maggiormente a rischio di sviluppare una patologia depressiva o una sindrome di burn-out; le famiglie, quotidianamente sfidate dalla vita stressante a costruire relazioni educative positive ed efficaci; infine le istituzioni formative, a partire dalla più piccola scuola di provincia fino al Ministero di Viale Trastevere nel suo insieme, la cui credibilità subisce un crollo verticale a cui nessuno sembra saper porre rimedio. Per evitare di cadere in uno sterile piagnisteo sulle misere condizioni della scuola italiana, abbiamo voluto innanzi tutto puntare in alto e presentare il significato della santità come esempio di «fragilità supe- Fragilità redenta 3 rata». I santi non sono superuomini, ma creature fragili che hanno accolto la grazia della salvezza senza sprecarla. Pertanto proponiamo l’articolo di un giovane IdR sull’importanza dell’agiografia come risorsa pedagogico-didattica: uno strumento che andava di moda qualche decennio fa e che oggi sembra (a torto) alquanto trascurato. Diamo poi alle stampe un paio di contributi di Sergio Cicatelli e Sergio Lanza, che riprendono le riflessioni che i due docenti hanno offerto nel corso del Convegno regionale dei Docenti Cattolici del Lazio (30 marzo 2007: vedi la rubrica Diario scolastico, p. 82). Si tratta di riflessioni che spronano ad un salto di qualità nell’organizzazione della pastorale scolastica. Non mancano le iniziative lodevoli, ma ancora quella “rete” di cui da tempo ormai si parla non sembra esser stata annodata, e i pesciolini… sfuggono! È un invito a elaborare strategie condivise, a partire dalle indicazioni che il Convegno di Verona ha offerto come linee guida per la pastorale dell’immediato futuro. Don Paolo Tammi, IdR “impenitente” (o forse sarebbe giù giusto dire “appassionato”!) nonostante sia da tanti anni parroco a Roma, ha riassunto in pochi punti le caratteristiche imprescindibili della spiritualità dell’IdR. In fondo, l’unica “solidità” possibile per un insegnante di religione – sia laico che sacerdote o religioso – è quella che si àncora alla roccia di Dio che «addestra le nostre mani alla quotidiana “battaglia”» tra i banchi (cfr Sal 143,1). I contributi del gruppo di lavoro guidato dalla prof. Flavia Posabella si è dedicato all’approfondimento del rapporto tra identità fragile e accoglienza della diversità. Vengono presentati brevi riassunti dei lavori prodotti da questo gruppo di ricerca composto da IdR romani; la versione completa dei testi è consultabile sul sito www.diocesidiroma.it/scuola. La rubrica «A classi aperte»curata da Caterina Basile e Massimiliano Ferragina intende prendersi cura in maniera sistematica delle difficoltà dei più piccoli, e ci sembra riscuotere un discreto interesse. Don Rino Zucchero ci aiuta a prendere con un sorriso le piccole “tragedie” della scuola: un tocco di leggerezza non fa mai male. Una delle “riscritture” moderne del Discorso della montagna dice: «beati quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di divertirsi». E allora, ridere delle nostre fragilità e povertà non può che far bene… Nella sezione di Materiali e documenti abbiamo voluto pubblicare alcuni testi che si sembra debbano esser conosciuti da tutti coloro che bazzicano nella scuola. Si tratta dei nuovi orientamenti del MPI sul futuro della riforma scolastica: come già notato in passato, la 4 “strategia del cacciavite” promessa dal ministro Fioroni all’inizio del suo incarico si è nel tempo dimostrata più incisiva di quanto non si pensasse. È bene conoscere questi nuovi orientamenti. Per una corretta valutazione, abbiamo aggiunto una nota critica prodotta dell’Ufficio Scuola della CEI; pur non condividendo in solido le riflessioni che vi si elaborano, ci sembra un testo su cui riflettere. Da ultimo, pubblichiamo una recente conferenza che il card. Ruini ha pronunciato all’ultimo Salone del Libro di Torino (11 maggio 2007). Il cardinale Vicario, lasciato l’incarico di presidente della CEI dopo un mandato rinnovato ben due volte, sembra volersi dedicare con maggior libertà di tempo alla promozione del “progetto culturale” da lui stesso proposto anni fa, attivando un dialogo sempre più serrato con la cultura italiana. La panoramica del rapporto tra teologia e cultura delineata in questa conferenza ci sembra meritevole di una lettura attenta da parte di tutti gli IdR non sprovveduti. Infine, una nota sul fascicolo allegato alla presente rivista: è il secondo volumetto della serie «Scuola e sapienza cristiana», che riproduce gli atti dei Corsi di aggiornamento proposti dall’ISSR Ecclesia Mater e dall’Ufficio scuola del Vicariato di Roma per l’aggiornamento dei docenti Lazio. Ci sembra un’opportunità preziosa per ricordare che, anche ora che il famoso concorso è alle spalle, gli IdR non possono venire meno al dovere di una formazione permanente, per raccogliere le sfide della scuola di oggi. A tutti gli insegnanti auguriamo il meritato riposo estivo, con l’auspicio di farne un tempo di ricarica interiore e di sereno riposo. Manlio Asta In copertina: Domenico GNOLI, Bottone 1967, Amburgo, Hamburger Kunsthalle. Non è un bottone. È ciò che permette di contenere una circonferenza di abito intorno ad un corpo. La tensione dei movimenti accentua la sua fragilità. Anche perché la sua sussistenza è governata da due ordini di fili che attraversano la stoffa su e giù per quei buchi che il bottone ostenta ed è irrobustita da una giravolta dello stesso filo intorno. Il tutto termina con un bacio (che infrange il filo e lo separa). Ed un ago finalmente libero di non attraversare più resistenze di stoffe e di non stare lì tenuto da un pollice ed un indice e appoggiato ad un ditale nel medio. Che tutto ciò sia traslazione di altro? Te ne accorgi quando una giacca è privata di quel bottone che le dà forma o quella camicetta si sbottona proprio lì dove tutto potrebbe insorgere e non restare più nascosto. Il potere di un bottone è anche questo. Prima di essere quel bottone che premuto cambia la realtà. 5 Didattica e agiografia1: a scuola con i santi di Alessandro Di Marco ne, la commozione e la suggestione che queSe vi è capitato di recarvi ad una mostra dediste narrazioni sono in grado di scatenare hancata ad un artista di cui siete appassionati, osno in passato contribuito a generare le illuservando i suoi capolavori e rimanendo a postri conversioni, fra gli altri, di un Agostino e co a poco catturati dalla sua genialità, dal suo di un Ignazio di Loyola3. Ma queste narrazioestro, dalla sua personalità, vi sarete sentiti come “rapiti” in una sorta di meravigliata ni non parlano in modo efficace solo ai big; ammirazione; detta altrimenti, questa espeinfatti è importante sottolineare che i racconrienza estetica genera una sorta di affettività ti delle vite dei santi sono in grado di comuin cui, tramite il contatto vissuto con qualconicare a tutti in modo chiaro, semplice ma sa di bello, si “risale” a qualcosa che è “oltre” anche entusiasmante: «L’agiografia, in qual(la bellezza stessa) e si mettono in moto dei che modo, volgarizza le conclusioni della teoveri e propri sentilogia dotta. È una letmenti, in cui le cateteratura popolare, che gorie di spazio e temuna funzione svolge Alessandro Di Marco, dottorando di ricerca po tendono a dissoldidattica sostitutiva e in Storia del Cristianesimo – Agiografia versi e l’autore sembra complementare. Il presso l’università di Tor Vergata ci presenta essere lì, a mostrarci, racconto agiografico, una proposta didattica nuova e vecchia indescriverci e sopratillustrato eventualsieme: utilizzare la vita dei santi come strumento per la presentazione di un cristianetutto farci amare le mente nell’iconogranella storia degli e rilevante simo vivente opere del suo genio. fia, si adegua al livello uomini. Allo stesso modo, le elementare di ogni vite dei santi possono pubblico; un racconessere considerate alla stregua di tanti capolato diventato intelligibile inculca gli elementi vori compiuti da un medesimo Artista, una più difficili della fede e della religione. Così “innumerevole galleria di quadri viventi2” in l’agiografo è quasi un teologo popolare! Questa grado di svelarci con grande potenza evocatimetodologia è stata decisiva per la trasmissiova chi è l’Autore, rendercelo più vicino e a ne della dottrina, per la preservazione della volergli più bene: non è un caso se l’emoziosua ortodossia e per la sua integrità4». Non esiste una definizione univoca di agiografia come rileva, facendo massiccio ricorso a dizionari specialistici, K. STANTCHEV, Agiografia e agiologia nella tradizione slavo – ortodossa, in (ed.) S. BOESCH GAJANO, Santità, culti, agiografia, Viella, Roma 1997, pp. 27-47. In base a tale studio per agiografia è (forse) possibile intendere sia le narrazioni delle vite dei santi, sia l’ insieme degli studi critici di queste narrazioni (in questa sede mi riferirò al primo dei due contesti). Più tecnico è il significato del termine agiologia, definita come disciplina scientifica e metodologia interpretativa. 2 G.M. MEDICA, Catechesi di “incarnazione”, in «Catechesi», 37 (1968), p. 8. 3 Cfr. G. GATTI, Agiografia e teologia morale, in «Salesianum», 63 (2001), p. 102. 4 R. GRÉGOIRE, Manuale di Agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Monastero San Salvatore abate, Fabriano, 1996, p. 16. 1 6 C’è anche un altro aspetto preliminare che ritengo importante per l’utilizzo didattico (e non solo) dei racconti agiografici: nell’era della postmodernità, in cui il concetto di sistema è vissuto come insoddisfacente e soffocante, ecco che emerge in tutta la sua rilevanza l’evento; il postmoderno “rigetta i meta-racconti perchè li considera ingannati dall’inevitabile bisogno umano di trovare un senso centrale per l’esistenza […] la fede cristiana, nel momento in cui sembra un esempio di meta-racconto, cade sotto la critica del post-modernismo e viene giudicata totalizzante, perché pretenderebbe di poter abbracciare tutto e di poter proporre un senso per tutto5”. Di conseguenza, nel contesto culturale attuale, può essere opportuno e conveniente proporre un cristianesimo partendo dai fatti, esperienze, appunto eventi in grado poi di rimandare l’ascoltatore a quei principi che li hanno generati. In fin dei conti, non servivano i cultori del postmoderno a ricordarcelo… Si tratta di copiare lo stile di Gesù Cristo, che con le parabole ricorre a personaggi e a situazioni semplici, tratte dalla vita quotidiana, che mettono l’uditore nella condizione di dover scegliere pro o contro non tanto un insegnamento e/o dei valori, ma a proposito dello stesso Cristo6, ed è questo è il modello da percorrere. Dei racconti, delle storie che suscitano in noi emozione, immedesimazione, ammirazione, accettazione ma anche rifiuto: e qui si arriva alla dimensione più propriamente narrativa dell’agiografia. In ogni caso si tratta di racconti in cui è la stessa narrazione, per la sua intrinseca costituzione, a dare a chi ascolta lo spazio di libertà in cui muoversi: essa non impone, non costringe, ma lascia uno spazio in cui l’uditore può muoversi e decidersi. Didatticamente ritengo necessaria questa capacità della narrazione (e in particolare di quella agiografica) di porre questo aut-aut, di mettere lo studente di fronte ad una scelta. Non va infatti dimenticata la dimensione comunicativa dei racconti agiografici, e cioè che queste narrazioni sono chiamate ad essere esse stesse un messaggio: «Una buona narrazione è essa stessa messaggio: sono scelti quei racconti che più facilmente possono diventare messaggio e sono narrati in modo da facilitare la loro interiorizzazione come messaggi. Il messaggio, in altre parole, deve scaturire naturalmente dal racconto. Non ha assolutamente senso terminare il racconto con una sua spiegazione e interpretazione, per tirare alla conclusione7». Per tradurre queste conclusioni in ambito scolastico, è bene lasciare agli studenti il compito di tradurre il racconto agiografico che hanno ascoltato in un messaggio di tipo più teorico, e già questa può essere un’attività didattica da accostare alla narrazione. Noi infatti «non possiamo narrare una bella storia di vita e poi concludere con una batteria di suggerimenti morali: il racconto deve essere già messaggio. Il racconto diventa messaggio perché sulla forza provocatoria del racconto, i giovani sono aiutati a riflettere e ad interiorizzare ciò verso cui il racconto sollecita8». Fin qui, sulla narrazione agiografica in sé. Sul come narrare (perché narrare non è leggere), elenco alcuni punti qui di seguito9, te- R. TONELLI, La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile, LDC, Leumann, (TO) 2002, p. 145. Cfr. V. FUSCO, “Parabola/parabole”, in Nuovo dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 1081-1097. 7 R. TONELLI, La narrazione… cit. p. 78. 8 R. TONELLI, La narrazione…cit., p. 147. 9 Contenuti in G. NOSENGO, La vita religiosa dell’adolescente, AVE, Roma 1944 e in M. CARROUGES, L’avenir de l’hagiographie, in «La Maison-Dieu» (1957) 52, due opere non certo recenti ma sempre validissime, in questo settore veri spartiacque tra due epoche, che hanno poi influenzato in modo determinante tutto il dibattito successivo; non c’è oggi pubblicazione agiografica rivolta a bambini ragazzi e adolescenti che non si ispiri, più o meno inconsapevolmente, alle loro indicazioni. 5 6 7 nendo presente che è per prima cosa indispensabile “maneggiare” la biografia di un santo e il suo contesto storico con una autorevolezza direttamente proporzionale all’età degli studenti: evidenziare i momenti decisivi delle vite dei santi, i grandi bivi in cui la scelta di una via piuttosto che di un’altra li ha condotti progressivamente verso la santità, facendo rilevare le potenziali conseguenze di un’eventuale scelta negativa. In altri termini, mettere in evidenza la libertà dei santi che non sono marionette nelle mani di Dio predestinate a compiere chissà quale mission impossible. In altri termini, bisogna evitare di presentare il santo come una figura avvolta da un’aura mistica, che non ha di fatto vissuto i nostri drammi, dubbi ed angosce quotidiane: «Presentando questi uomini come creature che non ebbero mai da combattere le nostre quotidiane battaglie e volarono sempre sulle vette, si disanima qualunque lettore e in special modo l’adolescente che vuol sempre vedere nell’eroe uno che egli possa almeno illudersi di imitare10». una maggiore attenzione alla vita quotidiana del loro tempo, al particolare apparentemente insignificante, quindi una maggiore sensibilità storiografica che permetta di inquadrare più precisamente il santo nella sua epoca. iniziare i racconti agiografici nel pieno dell’azione, in medias res, come avviene nei romanzi. evitare le narrazioni cariche di elementi fantastici e impossibili, narrazioni di cui abbonda una certa letteratura agiografica11 e che rischiano di minare già in partenza ogni intento pedagogico e didattico12. Da un punto di vista psico-pedagogico, riprendo in questa sede le conclusioni di precedenti studi realizzati soprattutto in ambito salesiano13 in cui ci si è avvalsi massicciamente di analisi desunte dalle scienze sociali ed in particolare della psicologia dell’età evolutiva. In base a tali studi si ritiene che l’idea di Dio verso i 12 anni passa da un immediato e semplice antropomorfismo infantile ad un concetto spirituale, impenetrabile e non raffigurabile caratteristico della giovinezza che rende notevolmente arduo interessarsi, parlare e/o pensare Dio. La conclusione è che può tornare utile una via alternativa basata sull’esperienza; infatti «è difficile con questi ragazzi la discussione di veri problemi umani o fondarsi su una morale della legge. Però è facile presentare loro degli esempi nei quali si riconoscano identificati e quindi, in questo modo, raggiungere il loro io che cresce e aiutarlo a crescere. Il ragazzo sente fortemente il richiamo dell’eroe14». In secondo luogo, si è unito da parte di questi ricercatori questo aspetto con un’altra considerazione fondamentale che emerge da questi studi, e cioè che nell’età evolutiva si ha un’altra importante modificazione: il preadolescente in particolare infatti è capace di una certa in- G. NOSENGO, La vita…, p. 321. Sulla differenza tra le “passioni storiche” e le c.d. “passioni epiche” cfr., tra gli altri, V. SAXER, La figura del santo nell’antichità cristiana, in G. D. GORDINI (ed.), Santità e agiografia, Marietti, Genova, 1991. Non ignoro certo che spesso dietro all’elemento fantastico si possa celare una dimensione simbolico-allegorica, che ritengo tuttavia un appesantimento nella narrazione; dietro ogni simbolo, dovremmo spiegare il significato facendo perdere in ritmo, pathos e comprensibilità la narrazione stessa. 12 G. GATTI, Agiografia e teologia morale, cit., p. 104. 13 J. COLOMB, Al servizio della fede, voll. 1-2, Elle Di Ci, Leumann (TO), 1969 e J. BOURNIQUE ET AL. La pedagogia dell’eroe, Leumann (TO), 1964; G. LUTTE, Le dèvelloppement du Moi-ideal. Recherche interculturelle sur 32.000 adolescents de sept nations d’Europe, in «Orientamenti pedagogici», 14 (1967) 1, p. 14. Tutte queste opere sono già citate in R. GIACOMETTI, La vita racconta la fede: l’agiografia nella catechesi. Università salesiana editrice, Roma 2002, cui si rimanda per approfondimenti. 14 N. SUFFI, Alla scuola di uomini veri. La pedagogia dell’eroe, in «Catechesi» 40 (1971) p. 3. 10 11 8 trospezione e si vede limitato, percependo la carenza di una vera personalità. Per questo gli è più facile vivere alla luce di una forte personalità altrui, immedesimandosi in essa ed identificandosi con chi gli possa far dimenticare i suoi limiti consentendogli di sentirsi a proprio agio. Se inizialmente il preadolescente può ancora vedere nell’adulto una sorta di eroe, successivamente viene escluso a beneficio del gruppo di amici il cui leader carismatico ripropone a modo suo la fisionomia dell’eroe15: si assiste perciò ad una crescente tendenza all’evasione dalla realtà, che accende una spiccata simpatia per l’eroe, protagonista di avventure audaci e impossibili, di cui abbondano fumetti e personaggi televisivi. Partendo da queste considerazioni si è così sviluppata a partire dagli anni ’70 la c.d. “pedagogia dell’eroe” la quale pone a mio avviso alcuni problemi di contenuto, che mi pare siano ancora presenti in diversi libri di testo per l’IRC, in cui si pone la scelta se privilegiare il messaggio o il Messaggero16. La c.d. “pedagogia dell’eroe” storicamente ha purtroppo abbracciato la prima strada: infatti si afferma chiaramente che «questi eroi che presenteremo ai ragazzi forse non saranno ufficialmente cristiani o cattolici […] ma saranno tutti degli uomini in linea con la scelta del Vangelo che è una scelta di amore del prossimo. Questi uomini sono, dunque, reali manifestazioni del volto di Dio e quindi via alla sua scoperta […] dovunque si viva un amore veramente autentico, là si trova e si vive qualcosa dello stesso Dio, anche se si pensa che egli non c’è. Dove c’è amore e bontà, c’è Dio. Questi uomini forse non giungeranno mai su questa terra ad una fede esplicita in Dio, ma essendo aperti all’uomo che sta al vertice della creazione, sono aperti anche a tutto ciò che esiste, sono aperti verso il Dio vero, il Dio vivente. Questi uomini possono essere dunque, per i nostri ragazzi, una strada verso Dio17». Una applicazione pratica di queste affermazioni la si ha ogni volta che capita di vedere, in testi per l’IRC o in pubblicazioni indirizzate ai ragazzi, a fianco a Santi della Chiesa altri personaggi, magari dal “curriculum vitae” eccellente ma non cristiani (un esempio su tutti: Gandhi); questo in nome del fatto che tutte queste persone hanno comunque vissuto in nome degli stessi valori. In realtà non è questo il problema: nel presentare un qualunque santo non va mai accantonata la prospettiva cristocentrica, ossia che al centro del cristianesimo non ci sono dei valori ma una Persona: Cristo, che ha fondato una Chiesa nella cui storia sono incastonati, come gemme preziose di una corona, alcuni dei suoi più ardenti imitatori, i Santi appunto. A questo punto bisogna scegliere, consapevoli del fatto che si ha a disposizione un’ora a settimana (massimo due alla Primaria): o si assecondano le mode culturali imperanti, parlando di ciò che alle orecchie dei nostri contemporanei risulta sempre gradevole, sfondando porte già aperte e impostando lezioni di buonismo; o si possono utilizzare le narrazioni agiografiche, magari per aprire degli squarci inediti sulla stessa storia della Chiesa e G.B. BOSCO, I santi e gli eroi hanno ancora qualcosa da dire al preadolescente?, in «Catechesi» 39 (1970) pp. 3-13. Si ripete in questa sede l’annoso contrasto fra coloro che ritengono che il messaggio cristiano debba per così dire piegarsi ai destinatari, per cui se si parla a bambini occorrerà necessariamente “limare” qualche aspetto della “Buona Notizia” per risultare più comprensibili e accettati, mentre l’altro gruppo ritiene che la purezza dei contenuti venga al primo posto, a prescindere dai destinatari, e non si può col pretesto di parlare a persone dal non ancora compiuto sviluppo intellettuale modificare anche solo parzialmente aspetti essenziali del messaggio cristiano. 17 N. SUFFI, Alla scuola di uomini veri. La pedagogia dell’eroe, cit. 15 16 9 del Cristianesimo in generale… Non si dimentichi che è la profonda ignoranza della storia della Chiesa far sì che possano ancora circolare ipotesi aberranti e storicamente infondate (alcune delle quali lette da milioni di persone ne Il Codice da Vinci). Un uso corretto delle narrazioni agiografiche può essere invece un modo inedito ed avvincente per avvicinarsi alla storia partendo dal caso particolare per risalire induttivamente al generale. Da un punto di vista didattico le vite dei santi offrono perciò innumerevoli occasioni per sviluppare varie Unità di Apprendimento basata su una serie di lezioni, da realizzare e calibrare a seconda dell’età degli alunni, quindi dal rispettivo ciclo scolastico, dai vari OSA e dalle possibili connessioni interdisciplinari. Anche per le fasce di età più difficili, con cui siamo abituati quotidianamente ad avere a che fare, è possibile utilizzare la letteratura agiografica con successo, come del resto dimostra la mia, sia pur modesta ma positiva esperienza con ragazzi del Biennio della scuola secondaria di II grado e con una V classe della scuola Primaria. L’esperienza di immedesimazione parte da fattori apparentemente banali, e l’Unità di Apprendimento può iniziare a seconda delle età degli studenti partendo ad esempio da una ricerca sul santo/a che porta il proprio nome, o dal patrono dalla propria città/regione, o dal santo/a cui è dedicata la propria chiesa parrocchiale. Rimandando ad eventuali successivi interventi su come possano essere concretamente utilizzate le narrazioni agiografiche da un punto vista didattico, e quindi alla rea- lizzazione di eventuali Unità di Apprendimento differenziate a seconda dell’età, ho espresso in questa sede solo alcuni principi di carattere teorico che ribadiscono l’utilità se non la necessità di recuperare la bimillenaria tradizione agiografica. In effetti, basta pensare a figure come Massimiliano Kolbe, Madre Teresa di Calcutta, Don Bosco, Giuseppe Cottolengo, Camillo de Lellis, Ignazio di Loyola, Brigida (di Svezia), Teresa d’Avila, Giovanna d’Arco, Tommaso d’Aquino tanto per dirne alcuni (e per non ricorrere sempre al “solito” Francesco d’Assisi): i raccordi interdisciplinari con la Storia, la Storia dell’Arte, la Filosofia, l’educazione Civica sono pressoché infiniti, così come molteplici sono i supporti utilizzabili (audio, DVD18, ecc.) e li lascio alle capacità immaginative del lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui. Concludo con alcune dichiarazioni del Concilio Vaticano II, che ha inserito appositamente i Santi e il culto a loro prestato in una Costituzione dogmatica, la Lumen Gentium. In questo documento, approvato il 21/XI/1964, si ricorda che «tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità. […] Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l’effusione del loro sangue avevano dato la suprema testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto, e li ha con particolare affetto venerati con la beata vergine Maria e i santi angeli, e ha pienamente implorato l’aiuto della loro intercessione. A questi in breve furono aggiunti anche altri, che avevano più da vicino imitato la vergi- 18 Spie indicative della costante importanza dell’agiografia sono l’iniziativa di uno dei più importanti quotidiani italiani che ha diffuso in allegato un’imponente raccolta di Vite dei Santi in più volumi; o anche l’album di figurine, che riproduce più di 400 capolavori dell’arte sacra italiani ed europei, con tanto di testi di accompagnamento. Tale iniziativa segue il successo editoriale dell’“Album di Natale” che ha venduto in Italia più di 100.000 copie. 10 nità e la povertà di Cristo, e infine gli altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane, e i divini carismi li raccomandavano alla pia devozione e all’imitazione dei fedeli19». Ogni santo ha una sua storia da conoscere, una storia affascinante costellata di gioie, dolore, dubbi, ansie ma anche coraggio, forza, determinazione; in una parola, ritorna una luce, quell’idea di bellezza da cui ero partito e da cui penso sia indispensabile ripartire oggi. 19 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI GIACOMETTI, R., La vita racconta la fede, Università salesiana editrice, Roma 2002 TONELLI, R. La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile, E LLEDICI , Leumann (TO) 2002 GATTI, G. Agiografia e teologia morale, in «Salesianum» 63 (2001) 97-125 GRÉGOIRE, R., Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Monastero San Silvestro Abate, Fabriano 1996 LG 50. 11 Dio-Gesù accompagna Adamo ed Eva fuori dal Paradiso, mosaico dell’atrio della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. La fragilità punita. Proviamo a pensarci ognuno nel ruolo di Adamo e di Eva. Richiederemmo al buon Dio almeno il diritto all’appellabilità. O almeno intercedere alla Sua misericordia. O almeno confessare la nostra debolezza. La fragilità dei nostri ‘nonni’ sta proprio qui: nel non aver saputo invocare. Le loro uniche parole sono state quelle di accusarsi reciprocamente della loro debolezza. La fragilità avrebbe richiesto loro di saper confessare la propria debolezza. Perché la giustizia non compensa la fragilità ma la orienta, la sostiene. E punisce invece chi non riconoscendo la propria fragilità si ostina nella propria debolezza. Adamo ed Eva non riconoscendo la propria fragilità fanno violenza a Dio imponendogli la propria incapacità di saper rispondere adeguatamente alla sua domanda e quindi di aver preteso che quell’adamah con la quale li aveva plasmati potesse essere più forte dell’alito vivente con cui Dio li aveva vivificati. Anzi avevano ‘vanificato’ quell’alito vivente spegnendolo in quell’adamah che ora è ridotto a polvere del suolo. La fragilità non consiste nell’aver disobbedito, ma nel non essere stati capaci di assumersi la responsabilità di quanto hanno fatto. E quindi di aver sbagliato la risposta alla domanda di Dio. Dio non punisce la loro fragilità ma la loro pretesa di voler essere meno fragili di Dio, lasciandosi indebolire dalla tentazione dell’«eritis sicut Deus». L’attenzione della pastorale scolastica ai cinque “ambiti” del Convegno di Verona di Sergio Cicatelli scusso sui testi delle relazioni che hanno Il Convegno di Verona1 è un evento che ha scandito le cinque giornate di lavoro. Non è segnato e, ancora più, segnerà la vita e la quindi il caso di ripercorrere per l’ennesima storia della Chiesa italiana in questo avvio volta quei testi. Ma del Terzo Millennio. sento il bisogno di Il tema del Convefissare almeno alcuni gno, “Testimoni di Riportiamo integralmente la relazione che punti di riferimento Gesù Risorto, speil prof. Cicatelli, dirigente scolastico e noto cui ancorare le riflesranza del mondo” esperto del mondo della scuola, ha offerto sioni più specifiche propone una serie di ai partecipanti al Convegno degli Inseche qui sono chiamacontenuti all’attengnanti cattolici del Lazio. to a svolgere, nel tenzione della Chiesa e tativo di collegare la di ciascun credente: pastorale scolastica ai cinque ambiti in cui si la testimonianza, la risurrezione, la speranza. è articolata parte dei lavori del Convegno2. Tutti e tre questi oggetti non possono non interpellare chi vive e lavora nella scuola: in primo luogo perché la relazione educativa è, Le parole illuminanti del papa anche contro la nostra volontà, una forma di Il documento centrale e più significativo è testimonianza; in secondo luogo perché la senz’altro il discorso di Benedetto XVI, che risurrezione è il nucleo fondante della fede e in poche pagine è riuscito a raccogliere e dell’essere del cristiano (che è e rimane tale sintetizzare una serie di spunti essenziali per anche all’interno della scuola); infine perché l’azione pastorale dei cattolici italiani. senza speranza non avrebbe senso dedicarsi Il nucleo del discorso è la risurrezione di all’educazione dei giovani (rinunciare ad Cristo, «la più grande ‘mutazione’ mai accaeducare significa rinunciare al futuro e chiuduta, il ‘salto’ decisivo verso una dimensione dersi in un orizzonte disperato). di vita profondamente nuova» 3. L’evento Tutti abbiamo letto i resoconti del Convenon è limitato a Gesù, ma – come ci ricorda gno, ma soprattutto abbiamo riflettuto e diSan Paolo (1Cor 15, 12-19) – riguarda ciaIV Convegno Ecclesiale Nazionale, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, Verona 16-20 ottobre 2006. I cinque ambiti, con i rispettivi coordinatori, erano i seguenti: Vita affettiva, prof. Raffaella Iafrate, professore associato di Psicologia sociale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore; Lavoro e festa, prof. Adriano Fabris, professore ordinario di Filosofia morale e direttore del Master in Comunicazione pubblica e politica nell’Università di Pisa; Fragilità, dott. Augusto Sabatini, giudice e presidente vicario del Tribunale per i minori di Reggio Calabria; Tradizione, prof. Costantino Esposito, professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Bari; Cittadinanza, prof. Luca Diotallevi, professore associato di Sociologia nell’Università di Roma Tre. 3 Il discorso del Santo Padre, come gli altri interventi citati, sono qui riportati secondo il testo distribuito al Convegno. 1 2 13 scuno di noi. «È stata cambiata così a mia identità essenziale – commenta il papa – e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento». Sono queste le basi su cui impostare la questione antropologica che si manifesta concretamente in tanti aspetti particolari nella nostra vita di tutti i giorni e che costituisce un motivo ricorrente in tutto il Convegno di Verona. Da un lato siamo tutti vittime «di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente», ma che ha prodotto «una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura». Dall’altro, avvertiamo «con crescente chiarezza l’insufficienza di una razionalità chiusa in se stessa» e puntiamo ad «allargare gli spazi della nostra razionalità» coniugandola con le dimensioni pratiche e vitali della nostra esistenza, perché «la persona umana non è soltanto ragione e intelligenza» ma «porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta». Ecco allora che «una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali». In queste poche ma dense parole del Pontefice sono già indicati compiti importanti per chi si occupa professionalmente di educazione, lavora nella scuola e cerca di realizzare progetti di pastorale scolastica. Per restituire un senso all’azione educativa della Chiesa e dei cristiani il Papa ci ricorda che «un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita». In altre parole, un progetto educativo non può ridursi a trasmissione di informazioni ma deve saper trasmettere anche valori attraverso la testimonianza convinta e convincente degli educatori: già Paolo VI diceva oltre trent’anni fa che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni»4. La debolezza e limitatezza degli orizzonti in cui si muove spesso la scuola, non solo in Italia, devono quindi essere superate dalla capacità di guardare più lontano, di proporre ai giovani prospettive impegnative perché impegnate nel confronto con l’assoluto e non solo con le piccole necessità della vita quotidiana in cui le risposte della tecnica (con le sue mille soluzioni pratiche) tende a prevalere sulle domande della scienza, della volontà di capire e di misurarsi con i confini stessi della condizione umana. In questo può consistere l’invito che nella Novo Millennio Ineunte, alla fine del grande Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II ci rivolgeva con le parole di Gesù: «Duc in altum, prendi il largo» (Lc 5,4). L’applicazione dei principi Sulla base di queste premesse dobbiamo ora cercare di declinare l’impegno educativo nei cinque ambiti in cui si articolava il Convegno di Verona. Come è noto essi riguardava- Paolo VI, Discorso ai membri del Consilium de laicis (2-10-1974), citato nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 41 (8-12-1975). 4 14 no la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità, la tradizione, la cittadinanza. In primo luogo credo sia opportuno chiarire che non si tratta di ambienti ma di ambiti; non sono settori operativi della pastorale (di ambiente) ma dimensioni in cui l’azione pastorale può svilupparsi (anche in ambienti diversi). In un certo senso, la trasversalità deve essere il tratto caratteristico di questi ambiti, che la traccia di riflessione preparatoria tendeva a definire come «grandi aree dell’esperienza personale e sociale»5 e di cui don Franco Giulio Brambilla, nella sua relazione introduttiva sull’orizzonte teologico-pastorale a Verona ha sottolineato l’«interdipendenza orizzontale e verticale»6. La scelta di questi cinque ambiti non può, a mio parere, considerarsi esaustiva di tutte le possibili aree di esperienza (altre se ne potrebbero aggiungere o potrebbero sostituirvisi: relazione, contemplazione, razionalità, giustizia, educazione…) ma la selezione è senz’altro indicativa di prospettive rilevanti che le diverse iniziative pastorali dovrebbero tenere sempre presenti, con l’obiettivo di ricondurre ogni volta la parte al tutto. In una logica del genere, alla trasversalità degli ambiti può (e, a mio parere, deve) a sua volta corrispondere la trasversalità della dimensione scolastico-educativa a tutti gli ambiti. Mi sia permesso un ricordo personale sul Convegno di Verona. Quando mi fu chiesto di iscrivermi a un ambito (per essere poi suddivisi in uno dei gruppi di lavoro in cui ciascun ambito si articolava a sua volta), scelsi l’ambito della tradizione perché era quello cui sembrava più facile ricondurre il tema dell’educazione e della scuola (a me più congeniale). Nel corso dei lavori di gruppo, però, mi sono accorto che sotto l’etichetta della tradizione si erano raccolti interessi quanto mai eterogenei, che (almeno nel mio gruppo) presentavano istanze di carattere catechetico, spirituale, teologico, pastorale, sociale, liturgico: la scuola era praticamente assente dal dibattito. Ho sentito perciò il bisogno di richiamare l’attenzione dei colleghi del gruppo su questa dimensione, avendo peraltro verificato che una buona metà dei componenti dello stesso gruppo proveniva proprio dalla scuola o dall’università. Mi sono così trovato a riflettere sulla trasversalità dell’educazione scolastica ai cinque ambiti, superando la sua angusta collocazione nel solo (anche se più specifico) ambito della tradizione. La scuola tocca tutti gli ambiti La scuola appartiene senz’altro all’ambito della vita affettiva, quanto meno perché è nella scuola che si forma la persona anche nella sua dimensione emotiva, relazionale e spirituale. Le parole del papa ci hanno appena invitato a guardare alla persona nella sua globalità, fatta di intelligenza e di libertà, di logos e di amore. Ma soprattutto, credo che sia sotto gli occhi di tutti noi la domanda di affetto, più che di cultura, che ci viene dai nostri alunni, probabilmente privi di altri solidi punti di riferimento affettivi (la famiglia, il gruppo dei pari, i mass media…). Tocca a noi, perciò, colmare questo vuoto e costruire una comunità scolastica accogliente e significativa per la crescita completa dei nostri ragazzi. Comitato preparatorio del IV Convegno ecclesiale nazionale, Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo. Traccia di riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona, 16-20 ottobre 2006, Roma 2005, n. 15. 6 «Il confronto che avverrà dentro gli ambiti dovrà essere preoccupato di mantenere una sorta di interdipendenza orizzontale e verticale. Orizzontale, perché la discussione dovrà mostrare l’intreccio del nostro tema con le altre sfere di esperienza della vita umana e cristiana. Verticale, perché dovrà sempre mettere il tema sotto la luce luminosa della speranza cristiana che viene dall’incontro con il Risorto». 5 15 La scuola interseca anche l’ambito della fragilità, perché è la condizione dell’alunno (bambino, ragazzo, adolescente) ad essere fragile per definizione: una fragilità forse non sempre riconosciuta perché fisiologica e inevitabile, ma non per questo meno fragile. A volte su questa fragilità di base si innestano altre fragilità più specifiche e riconoscibili (disabilità, insuccessi…), che possono sottrarre attenzione alla condizione di base ma non devono indurci a trascurare la debolezza con cui gli alunni si presentano alla scuola: essa va considerata un valore perché espressiva della specificità della persona, di ogni persona. La scuola ha anche a che fare con l’ambito del lavoro e della festa, non tanto perché il calendario scolastico scandisce i tempi del lavoro e della festa di chi lavora nella scuola, quanto perché l’alunno apprende a scuola a scandire le proprie giornate secondo ritmi sensati e significativi (c’è un tempo per lo studio e un tempo per il gioco, un tempo per l’impegno e un tempo per il riposo…). Se il lavoro sembra essere l’oggetto più immediato dell’attività scolastica, anche la festa va recuperata come momento significativo, quanto meno per la complementarità che esprime: se fosse sempre festa, la festa stessa non avrebbe significato, e se si lavorasse sempre non si comprenderebbe la finalità del lavoro. Non è un caso che la festa, secondo il comandamento cristiano, deve essere “santificata”, cioè deve trovare il suo significato in un riferimento alto, molto alto. Anche questo può essere il compito della scuola. In modo più specifico e diretto, la scuola appartiene all’ambito della tradizione, intesa come atto del tramandare da una generazione all’altra i contenuti fondamentali di una cultura e di un’identità. È in gioco la traditio fidei, ma anche il processo di acculturazione e inculturazione delle nuove generazioni, che è compito proprio della scuola assicurare. Tradizione non vuol dire solo guardare al passato per ripeterlo pedissequamente, ma confrontarsi con la propria memoria per ricavarne motivi di progresso7. In questo compito la scuola gioca un ruolo fondamentale e deve mantenere la consapevolezza della necessità di una proposta vitale e significativa per dei ragazzi che sanno capire immediatamente se il messaggio loro rivolto è solo un atto burocratico o un convinto esercizio di comunicazione personale. Infine, la cittadinanza interpella ugualmente la scuola in quanto luogo in cui si pongono le basi per l’esercizio di gran parte dei diritti e doveri. Questa dimensione ci costringe a ancora una volta a ripensare l’idea stessa di scuola: non come luogo di trasmissione di saperi o nozioni ma come occasione di formazione delle persone (anche attraverso quelle nozioni). In altre parole si tratta di avere ben chiaro quale sia il fine (l’educazione della persona nella sua interezza) e quali i mezzi (le singole discipline, le cose insegnate); troppo spesso, invece, le materie d’insegnamento diventano il fine della nostra azione didattica e gli alunni si trasformano in mezzi per realizzare quel travaso di conoscenze. Occorre quindi ricollocare la persona dell’alunno al centro della scuola, insieme alla rete di relazioni in cui egli si deve andare a collocare (rapporti sociali, interpersonali, professionali, civili…): la recente introduzione nella scuola dell’educazione alla convivenza civile si pone proprio in questa direzione, ma bisogna ve- 7 Può essere interessante andare a rileggere alcune parole dell’allora cardinale Ratzinger, nella lunga intervista fattagli da V. Messori (J. Ratzinger – V. Messori, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 36), sull’impossibilità per la Chiesa di una restaurazione come semplice ripetizione del passato e sulla necessità della restaurazione come aggiornamento dell’equilibrio dottrinale. 16 dere quale futuro potrà avere concretamente nella scuola di domani. La scuola della persona Se ora proviamo a riassumere gli spunti offerti dalla relazione che l’educazione scolastica può avere con ognuno dei cinque ambiti di Verona, mi sembra facile vedere emergere una profonda e sostanziale unità. L’obiettivo è proprio quello di fare sintesi, affinché la persona non si disperda nelle parcellizzazioni disciplinari, specialistiche o settoriali. La principale raccomandazione, quindi, prima ancora che organizzativa o pratica, è pedagogica: riscoprire la finalità educativa della scuola ed affermare un’idea forte dell’educazione. Parlare di educazione significa parlare della persona cui l’azione educativa si rivolge, con la sua varietà, debolezza, complessità e pluralità. La scuola deve dunque tornare ad essere luogo di educazione oltre che di sola istruzione, socializzazione o certificazione. E l’educazione comporta un progetto alto, la chiara affermazione dei fini e dei valori che si intendono promuovere: priorità alle persone, rispetto delle differenze, ricerca dell’unità. Tocca alla scuola offrire gli strumenti per affrontare le diverse situazioni che la vita quotidiana ci propone, ma tocca anche alla scuola arginare la frammentazione che una simile strumentazione può produrre, tentare cioè di ricondurre sempre a sintesi e ad unità le singole attività proposte dalla scuola, sia per dare ad esse un senso, sia per accertarsi della loro efficacia e compatibilità. Il compito della pastorale scolastica è quindi quello di promuovere anzitutto un’idea di scuola fatta da persone per le persone, una comunità educativa in cui i soggetti prevalgano sulle funzioni e le finalità siano sempre chiare a tutti, così da rendere accettabili anche oneri non sempre graditi. In una prospettiva del genere l’azione pastorale deve essere unitaria esattamente come è unitario il soggetto/persona/alunno cui si rivolge la scuola. Il messaggio che proviene da Verona, quindi, non è tanto quello di articolare e suddividere la pastorale scolastica in coincidenza con i cinque ambiti (avremmo solo contribuito all’ulteriore frammentazione funzionalistica della cultura e della vita). Piuttosto si tratta di ripensare la pastorale scolastica al servizio di un progetto educativo globale, che non appartiene solo alla scuola cattolica ma alla scuola in genere. L’obiettivo non può essere quello di andare ad occupare degli spazi, in una logica spartitoria o – peggio – conflittuale, ma di costruire lo spazio scolastico nel suo insieme, sapendo prestare la dovuta attenzione alle istanze suggerite dai cinque ambiti, che non voglio considerare esaustivi del panorama scolastico o sociale ma solo indicativi di uno stile di lavoro, di presenza e di annuncio. Insomma, una pastorale scolastica che non sia solo pastorale di ambiente, separata o indipendente dagli altri ambienti. Proprio l’unitarietà dell’azione educativa deve sollecitare un’attenzione altrettanto unitaria per una pastorale del servizio educativo alla persona. Indicazioni pratiche A questo punto, siccome il richiamo alle grandi finalità istitutive rischia di risolversi solo in un esercizio retorico, suggestivo ma sterile, proviamo a delineare qualche spunto per occasioni di approfondimento concreto e operativo della pastorale scolastica tradizionalmente intesa. 1. In relazione alla vita affettiva l’obiettivo può essere quello di non concentrare l’attenzione sugli aspetti “tecnici” della relazione interpersonale, dai suggerimenti degli psicologi alle soluzioni offerte per esempio da una sbri- 17 Torre di Babele, le storie della Bibbia, mosaico dell’atrio della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. La fragilità sospesa ad un punto fisso verso l’alto. Tra chi ha i piedi per terra e chi salta dall’alto certamente il primo si sente più stabile o almeno corre meno rischi. Se però pensi di cogliere il frutto più in alto di un albero senza volerti innalzare ma pretendendo che il frutto venga alla tua portata, dimentichi che l’altezza, come ogni distanza tra le cose, esprime la loro diversità. I costruttori della torre di Babele vogliono di innalzare una torre pretendendo di abbassare l’alto alla loro altezza. La loro fragilità è sospesa ad un punto fisso verso l’alto. Tentano di allontanare da sé questa fragilità e la proiettano in alto, pensando che il loro desiderio – la loro ambizione – indurrà alla fragilità chi viene scelto. Dimenticano che la fragilità per l’uomo è nella sua pelle, che può cambiare colore, aumentare in superficie con l’età, ma non può separarsi dal suo spazio. La fragilità è questa pelle che confina ogni uomo e non lo distanzia dagli altri, bensì lo afferma nella sua identità. Questi costruttori intendono dimenticare la loro fragilità invadendo quella di chi sta più in alto di loro. La torre permette loro di avvicinare la loro fragilità a quella di colui che abita oltre la torre e di affidare alla torre la possibilità dell’incontro, come se la mano potesse accarezzare un volto separandosi dal suo braccio e dal suo corpo. Come se potessi distaccare la mia fragilità da me e porla accanto a quella di un altro senza esserne presente. Non c’è distanza che si supera né in altezza né in lunghezza se la propria fragilità non parla la stessa lingua di coloro con cui devi condividerla. gativa educazione sessuale. Questi sono mezzi da ricondurre sempre ai fini cui servono, esaltandone perciò la dimensione etica e costitutiva della persona. 2. In relazione alla festa e al lavoro l’attenzione può rivolgersi al valore dell’impegno (da intendere non come fatica ma come contrario di disimpegno e quindi di superficialità). È un luogo comune ripetere che lo studio è il lavoro di ogni ragazzo/alunno. Ma anche in questo caso occorre dare al lavoro un senso non puramente strumentale di occupazione da assolvere per poter poi fare altro, ma il valore di occasione per la propria realizzazione personale. In una prospettiva del genere può trovare spazio adeguato un’attività di orientamento scolastico e professionale, da intendere non come mera informazione o collocamento ma come accompagnamento nella scoperta di sé, delle proprie capacità e delle proprie prospettive. 3. In relazione alla fragilità la pastorale scolastica non può limitarsi al pur lodevole impegno per i più deboli e svantaggiati, perché i giovani vivono una condizione costitutiva di fragilità e hanno bisogno di essere guidati con affetto e sicurezza, autorevolezza e discrezione. C’è forse bisogno di tematizzare meglio questa condizione giovanile, evitando le facili denunce giornalistiche e impegnandosi in un lavoro sistematico di recupero delle difficoltà e di promozione delle potenzialità. La pastorale scolastica potrebbe allora offrire occasioni di formazione a tutti gli operatori del mondo della scuola per far comprendere meglio le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei giovani d’oggi, così diversi dai giovani di qualche decennio fa eppure così simili nelle loro dinamiche di fondo. 4. In relazione alla tradizione si potrebbe avviare una seria riflessione sul patrimonio (di cultura, di valori e di fede) che stiamo tra- smettendo alle nuove generazioni, interrogandoci sì sui contenuti ma anche e soprattutto sul linguaggio che adoperiamo, sulla capacità di intercettare le domande giovanili al di là di mode effimere e di campagne mediatiche. Per una tradizione che non sia mero tradizionalismo occorre rifocalizzare il nucleo della proposta cristiana, separando il grano dal loglio e l’essenziale dall’accessorio, al fine di concentrare l’attenzione su ciò che davvero conta. 5. In relazione alla cittadinanza, terreno d’elezione di una sana laicità, le iniziative pastorali potranno intraprendere la strada del confronto e del dialogo interculturale ma anche della comprensione e condivisone del sistema di diritti e (soprattutto) di doveri su cui si fonda la nostra civile convivenza, sapendo trovare in essa spazio per Cesare e per Dio e dando luogo a una pratica della politica nel senso più nobile. Alla fine di questa sommaria rassegna, è facile notare come risulti comune a tutti gli ambiti una spiccata sensibilità etica. Non può essere altrimenti, se davvero vogliamo porre al centro la persona dell’alunno e curare la sua formazione integrale. Alla base di tutto c’è dunque quella questione antropologica più volte evocata a Verona negli interventi del card. Tettamanzi, del card. Ruini e, ovviamente, del Papa. La realtà umana, se si guarda al paradigma di Gesù risorto, è troppo ricca e complessa per essere ridotta a singole prestazioni o a orizzonti settoriali. Alla integralità di questa realtà umana, alla persona dell’alunno, deve puntare la pastorale scolastica, facendo tesoro della lezione veronese che non separa i cinque ambiti ma invita ad attraversarli tutti per incontrare i destinatari della nostra attenzione nella concretezza delle loro esperienze di vita. 19 Giuseppe e la moglie del suo padrone in Egitto, Le storie della Genesi, mosaici dell’atrio della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. La fragilità assediata e non tradita. L’episodio fa parte della storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe. La disparità sociale crea un privilegio di opzione per la bella moglie di Putifarre, Zuleika (Gn 39,7-20). Giuseppe come schiavo non potrebbe rifiutarsi a nulla. Quindi la sua fragilità non è nemmeno personale, quanto istituzionale: lo schiavo non deve e non può avere la volontà di scegliere, ma come un buon oggetto farsi scegliere. E se una fragilità gli è concessa potrebbe essere soltanto quella di ‘rimediare’ qualche piacere in qualcosa di cui non potrà essere responsabile. Come colui che agisce ‘in buona fede’ perché si sente schiavo di decisioni altrui. Maschera la sua fragilità con l’obbedienza. E qui spesso la fragilità è nel non saper scegliere. Nel caso di Giuseppe è nel non avere la possibilità giuridica e sociale di scegliere. Giuseppe infrange questa fragilità sociale e culturale ed afferma la sua fragilità di credente: acconsentire alla moglie di Putifarre significherebbe essere fragile nella fede nel Dio dei Padri. La sua virtù è nel dichiarare più valore al rischio della fragilità all’idolatria che al naturale consenso ad un rapporto che lo avrebbe visto soltanto oggetto di desideri e oggetto che induce altri, in questo caso la moglie di Putifarre, alla fragilità. Perché non c’è fragilità personale che non induca in tentazione quella del tuo prossimo. La nuova evangelizzazione e la pastorale dell’educazione e della scuola di Sergio Lanza diato, assenza di sacrificio, dedizione, pazienRilevanza della questione educativa in un za, attesa). Anche sotto il profilo educativo: mondo che cambia non appare più normativa e sufficiente l’assiL’istanza educativa è da sempre nel cuore delmilazione di conoscenze date e di comportal’azione ecclesiale: una attenzione e una espementi codificati… Si è tentati di affondare nel rienza che si radicano nel profondo, esprimodubbio. no una sollecitudine originaria e appaiono La stessa istituzione facoestese alla storia, ormai bimillenaria, della miliare, poi, appare Il prof. Lanza, che ha tenuto la prima reChiesa di Cristo. La sempre meno rilevanlazione al convegno degli Insegnanti cattoconcreta vicenda della te sotto il profilo solici del Lazio (cfr in questo fascicolo p. 82) comunità cristiana, ciale, in una trama di presenta in questo ampio contributo le sue infatti, ha visto sorgerapporti che sempre riflessioni di pedagogista e pastoralista atre nel tempo forme più si volge ‘direttatento al mondo della scuola, invitando ad molteplici e diversifimente’ all’individuo, un urgente quanto indispensabile ripensacate di scuole, in ririconoscendolo come mento delle consuete modalità dell’azione sposta alle problemainterlocutore privilepastorale dinanzi ai mutamenti profondi tiche del tempo. giato, disinteressandodel mondo giovanile. La scuola è crocevia si delle forme delle sensibile delle problesue relazioni personamatiche che agitano questo inquieto scorcio li, che si vedono così riconosciuto (di fatto, e a di fine millennio e in modo particolarmente volte anche legislativamente) il diritto alle più acuto si addensano sul terreno delicatissimo e diverse e azzardate combinazioni di relazione cruciale delle responsabilità educative. interpersonale stretta e di ‘coppia’. Il mondo della comunicazione appare sempre Viene meno la grammatica elementare dell’esistenza umana. In tanti campi dell’esistenza, e più come luogo di scambio (illusoriamente?) in particolare per le giovani generazioni, non è interattivo, svincolato comunque da ogni rifepiù possibile contare tranquillamente sulle trarimento nemmeno tendenziale alla verità e aldizioni e le consuetudini ricevute: la società è la carità. Cultura di massa, del frammento, in costante movimento, si presenta policentrica dell’istante, ricca di prodotti, infarcita di pia(culturalmente, religiosamente, etnicamente), ni, scarsa di progetti e di opere: cultura di costringe ad una inquietante mobilità delle reconsumo, della provvisorietà. La televisione, lazioni (fedeltà a tempo, “storie a segmenti”), per esempio, è specchio della realtà, ma anche produce spaesamento (“società dell’incertezagente potentissimo che la modella e la deterza”), esige efficienza e pragmatismo (società mina. della soddisfazione istantanea: risultato immeTutto questo rende precaria, incerta o inerte 21 l’educazione. Dalla nativa responsabilità familiare, al monopolio scolastico, alla dispersione policentrica: la società dei sistemi separati ed autoreferenziali conduce la scuola nel mondo delle forme burocratizzate impersonali (i sistemi), mentre sospinge la famiglia nell’ambito ristretto delle relazioni primarie, relegate nel privato. Nel tempo – il nostro – in cui la mobilità è cifra interpretativa del reale e dinamica emblematica del vissuto, appare del tutto insufficiente una strategia dei piccoli adattamenti marginali. Occorre pensare in grande. Uscire, inoltre, dal rincorrere i problemi, col fiato corto, affannosamente, dispersivamente e frammentariamente. È necessaria una nuova progettualità che investa a tutto campo la missione educativa della Chiesa. Attenuatasi la requisitoria marxiana (religione come alienazione), permangono forti venature di ascendenza freudiana (religione illusione, atteggiamento/stadio infantile e irrazionale), in un orizzonte in cui il relativismo – conclamato o strisciante – fa della neutralità la bandiera della libertà e la forma paradossale della (mancata) reciprocità. L’estendersi pervasivo dei moderni secolarismi, il predominio della mentalità critica sperimentale con il suo pratico rifiuto di ogni prospettiva veritativa e metafisica, il progressivo (e ultimamente rapidissimo) sfaldarsi dei quadri di riferimento culturale che per secoli avevano garantito processi armonici (o quanto meno efficienti) di socializzazione incidono in maniera rilevantissima sui processi educativi, che ne risultano profondamente scossi. È sotto gli occhi di tutti la difficoltà delle famiglie, il disagio delle istituzioni scolastiche, l’influenza non sempre positiva dei mezzi di comunicazione di massa; è sotto gli occhi di tutti la crescente marginalizzazione della fede cristiana come riferimento e luce nell’interpretazione 22 effettiva e convinta dell’esistenza, così come la crescente difficoltà ad attivare processi educativi cristiani efficaci, che garantiscano la formazione di personalità cristiane mature (sono ben note le difficoltà e i disagi della catechesi, nonostante gli intensi sforzi di rinnovamento): ed è sotto gli occhi di tutti, quasi da apparire luogo comune, lo smarrimento delle giovani generazioni, con i processi di dispersione, involuzione, e perfino di autoannientamento che vi sono drammaticamente connessi. Problemi che la scuola vive e soffre nella propria carne. I profondi cambiamenti in atto pongono esigenze di adeguamento istituzionale e strutturale, per rispondere alle nuove istanze che attraversano tutti i livelli della società e per preparare le nuove generazioni ad affrontare responsabilmente il futuro. Esigenze di rinnovamento In questo quadro si colloca la più attenta e puntuale considerazione del significato e del ruolo della scuola per la responsabilità ecclesiale: di fronte a mutate e più rilevanti esigenze, essa è chiamata a un coraggioso rinnovamento. È necessario che anche nel tempo presente la Chiesa sappia dire in maniera efficace, convincente – attuale e al tempo stesso portatrice di quella tradizione di cui essa vive e quotidianamente si nutre – la parola della fede. È il dovere fondamentale dell’evangelizzazione, dell’andare là dove è l’uomo, perché accolga il dono della salvezza. L’educazione è da sempre uno dei grandi campi di azione della missione salvifica della Chiesa; lo è, specificamente, in quella situazione caratteristica che è la scuola. Deve essere perciò respinta con decisione la tesi che considera la scuola mondo separato ed estraneo alla missione propria della comunità cristiana. Luogo decisivo della formazione integrale della persona, essa è forma saliente e specifica di quella missionarietà, che si rinvigorisce nella prospettiva della nuova evangelizzazione. Per questo, è necessario oggi dar vita a nuove forme di incisività educativa, soprattutto nella famiglia, nella comunicazione, nella scuola. La centralità dell’educazione, l’idea di scuola per la persona e di scuola delle persone come fulcro del progetto educativo, la prospettiva di una conoscenza intesa soprattutto come sapere per la vita, la formazione all’impegno nella società, la partecipazione degli studenti, la collaborazione tra scuola e famiglia, la valorizzazione della fede cristiana come prospettiva e orizzonte e non solo come materia aggiuntiva: in una parola, la formazione dell’uomo nuovo in Cristo. Ecco i punti salienti – che si possono raccogliere nel trinomio verità, libertà, carità – attorno ai quali aprire il dibattito culturale sulla scuola. Questo è impegno costitutivo dell’azione ecclesiale. Rilevanza culturale La fede vive e si esprime nelle culture, dà vitalità e autenticità alle culture. Posto in orizzonte di fede, il sapere diventa visione della vita, sapienza. Il suo articolarsi competente nelle diverse discipline non ne viene in alcun modo coartato; valorizzato, piuttosto, oltre la frammentazione strumentale. In tal modo tutte le discipline collaborano, con il loro sapere specifico e proprio, alla costruzione della personalità matura. La tensione a coniugare ragione e fede divenuta l’anima delle singole discipline, dà loro unità, articolazione e coordinazione, facendo emergere dall’interno stesso del sapere scolastico la visione cristiana sul mondo, sulla vita, sulla cultura, sulla società e sulla storia. La comunità cristiana non diserta i nuovi areo1 2 paghi della cultura. Vi si fa presente e chiede di essere riconosciuta e apprezzata unicamente in forza della validità culturale della propria proposta. E sa di compiere, con questo, autentica opera missionaria: «Di fronte allo sviluppo di una cultura che si configura dissociata non solo dalla fede cristiana, ma persino dagli stessi valori umani, come pure di fronte a una certa cultura scientifica e tecnologica impotente a dare risposta alla pressante domanda di verità e di bene che brucia nel cuore degli uomini, la Chiesa è pienamente consapevole dell’urgenza pastorale che alla cultura venga riservata un’attenzione del tutto speciale»1. Tutto questo conduce alle dimensioni proprie della cultura. Le culture diventano oggi campo di una pastorale specifica: le culture diventano nuova terra di missione. Una prospettiva della missione non più identificata solo geograficamente. La valenza culturale della fede è senz’altro uno degli elementi più espressivi di quella originalità pedagogica che deve trovare espressione idonea ad essere valorizzata e accolta nei progetti educativi della scuola. Non si dà, in essa, separazione tra momenti di apprendimento e momenti di educazione, momenti della nozione e momenti della sapienza. In modi diversi, tutto concorre all’unico scopo. Le singole discipline, infatti, non presentano solo conoscenze da acquisire, ma anche valori da assimilare e verità da scoprire2. Questo esige un ambiente che non si precluda, ma al contrario si apra con fiducia intellettuale alla ricerca della verità. Il nostro tempo è snervato dalla inflessione debole del pensiero, che spesso declina fatalmente in disilluso scetticismo. La visione cristiana della scuola non vi contrappone una verità declamata, ma la passione per la ricerca, il gusto del sapere che si allarga e si approfondisce, la gioia della sco- Christifideles Laici (1988) n. 44. Cfr CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola Cattolica (1977), n. 39. 23 perta e della contemplazione del creato; un sano e costruttivo senso critico, antidoto sicuro contro le suggestioni dei fatalismi, pragmatismi, credulismi e fondamentalismi, che, paradossalmente, si diffondono proprio nell’era dell’uomo tecnologico. La tensione di ricerca della verità è distintivo e atmosfera culturale e ha una intrinseca qualità di evangelizzazione. Perché è porta aperta all’incontro con Dio. La scuola cessa di essere il luogo pedante della nozioni slegate o quella funzionale delle acquisizioni ‘utili’, e si distingue per la capacità di cogliere le dinamiche profonde della storia e le pieghe riposte degli eventi e dei fenomeni umani: questo dà profilo e spessore alla sua identità culturale. Essa, dunque, si configura secondo una concezione di scuola intesa «come luogo di formazione integrale attraverso l’assimilazione sistematica e critica della cultura. La scuola infatti è luogo privilegiato di promozione integrale mediante l’incontro vivo e vitale con il patrimonio culturale»3. Questo intensifica la capacità di dialogo culturale. L’identità chiara e manifesta non comporta atteggiamento pregiudiziale di contrapposizione e conflitto. È improprio e falsante, infatti, porre in alternativa identità e dialogo: ogni dialogo autentico e fruttuoso comporta chiara coscienza della propria identità, mentre viene svuotato e tradito dalle mimetizzazioni e dagli irenismi di compromesso. La comune preoccupazione per la formazione degli alunni costituisce piuttosto fattore consistente di incontro e relazione costruttiva, pur nella differenza delle prospettive, inevitabile in una cultura segmentata e plurale. In essa l’alunno apprende ed esercita la capacità di interpretare gli avvenimenti della esistenza quotidiana, esercitando un sapiente discernimento nei confronti delle agenzie informative; sviluppa l’attitudine ad accostare e in3 Ivi n. 26 24 teriorizzare le eredità storiche e culturali come luoghi preziosi di significato per la vita; assume uno sguardo penetrante che si spinge oltre l’immediatezza delle contingenze e si apre su orizzonti più compiuti di significato. È in questo contesto che trova rilievo l’insegnamento della religione cattolica, che deve sempre più configurarsi e sapersi presentare secondo rigorosi e convincenti profili culturali. Problematicità pedagogica Nel contesto culturale odierno, il riferimento della scuola alla educazione, diffusamente riconosciuto a parole, suona di fatto molto problematico, per la evanescenza sfuggente dei significati e la sfumata latitanza dei riferimenti: l’appello generico ai valori, infatti, ottiene ampio e facile consenso, ma a prezzo di un pericoloso appannamento dei contenuti. In una situazione fortemente segnata da un pluralismo divaricato e non di rado conflittuale, la scuola tende a ripiegare in un presunto neutralismo, dove alcune eredità culturali della modernità razionalista trovano paradossale consonanza con la recente teorizzazione debole del pensiero. Tale asserita neutralità snerva il potenziale educativo della scuola e si riflette negativamente sulla consistenza delle identità dei soggetti. Benché si sia fortemente attenuata, nell’odierno segmento della modernità declinante, la fiducia illuministica nella bontà ‘naturale’ dell’uomo e quindi nella sua spontaneità e creatività primigenie, non si è fatta strada l’esigenza di ancorare l’educazione a un saldo ethos condiviso; al contrario, si è proceduto a restringerne sempre più i parametri normativi e veritativi di riferimento. In realtà, il residuale ottimismo illuministico che tributa al libero gioco delle forze in campo una autogena capacità costruttiva mostra il tipico carattere della proiezione ideologica. La cultura, quella scolastica anzitutto, coinvolge sempre una determinata – anche se spesso non dichiarata – concezione dell’uomo e della vita; e la scuola, di fatto, ha sempre valenza educativa (positiva o negativa): non si può quindi restare indifferenti di fronte al ruolo così rilevante che essa riveste nella formazione dei ragazzi e dei giovani. Il prevalere, invece, della visione di pretesa neutralità, conduce di fatto a forme di socializzazione manipolatrice ad opera delle agenzie prevalenti sul piano emotivo-simbolico, con la conseguente creazione di personalità fragili e instabili. Nel recente passato, le stesse scienze pedagogiche sono apparse più inclinate sul versante della ricognizione fenomenologica e della pratica didattica, che non su quello della valenza propriamente educativa, centrata su valori e orizzonti forti di significato. Anche le discipline filosofiche e teologiche sono apparse, a questo riguardo, piuttosto latitanti. Sullo sfondo, si coglie l’influsso negativo prodotto dall’insistito ostracismo della questione antropologica dalla cultura pubblica, e del suo confinamento, in figura esistenziale indebolita, nello stretto recinto del privato. Alla pretesa neutralità scolastica che ne consegue, corrisponde, inoltre, la pratica rimozione, dal campo della cultura e della educazione, del riferimento religioso, respinto nella sfera del privato. Una corretta prospettiva pedagogica, al contrario, non si accontenta di una impostazione strumentale, ristretta entro il perimetro della ricerca dei mezzi; essa è chiamata a spaziare nel territorio più decisivo dei fini: non si occupa solo del ‘come’, ma anche del ‘perché’; evadendo di fatto dalle strettoie che ne contrabbandano la scientificità al prezzo di una presunta neutralità culturale e di una illusoria oggettività scientifica. 4 E viene superato il fraintendimento di una società culturalmente asettica, mentre la dimensione religiosa appare efficacemente come punto di intersezione tra la concezione antropologica e quella umanistica della cultura: «È tempo di comprendere più profondamente che il nucleo generatore di ogni autentica cultura è costituito dal suo approccio al mistero di Dio, nel quale soltanto trova il suo fondamento incrollabile un ordine sociale incentrato sulla dignità e responsabilità personale…»4. La dimensione religiosa, infatti, non è soltanto un tema squisitamente teologico, ma costituisce fattore qualitativo dell’esperienza vitale. In tal modo il processo educativo recupera quella unitarietà che impedisce la dispersione nei rivoli delle diverse conoscenze e acquisizioni, e mantiene al centro la persona, nella complessità dinamica della sua identità trascendentale e storica. Se è vero, infatti, che il processo educativo non è determinabile per mera applicazione deduttiva dai valori e dai principi generali, è altrettanto vero che non può essere abbandonato alla empirica e frammentata emergenza del momento. Esso non ha luogo in assenza di significati e di valori oggettivi: li assume, piuttosto, come riferimento antropologico normativo esplicito, e, ponendoli entro le coordinate di una specifica situazione, li fa agenti efficaci di una elaborazione pedagogica non generica e astratta, ma contestuale e culturale. L’educazione, allora, non si riduce a un insieme di procedure e di tecniche, benché ne faccia uso ampio e sapiente, ma si qualifica anzitutto come trasmissione testimoniale e argomentata di valori, entro il quadro di una elaborazione pedagogica umanistica. Può essere davvero educativa, del resto, la comunicazione meramente cumulativa di contenuti e nozioni, magari ristretti nelle maglie di una specializzazione esasperata? La restrizione funzionale GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995, 4. 25 e strumentale degli obiettivi pedagogici della scuola si mostra, alla prova dei fatti, come scarsamente efficace anche ai fini economici e produttivi per cui è stata invocata: non è la qualità pedagogica, infatti, a rallentare la correlazione dell’insegnamento con la società, quanto piuttosto quella impostazione pragmatica che mortifica le relazioni e svuota di significato l’attività dell’uomo. Infatti, solo respingendo la tentazione di una convivenza passiva dei diversi orientamenti e della loro pretesa neutralità quanto alla valenza educativa e al sistema dei significati è possibile superare la frammentarietà e la dispersione, riconducendo percorsi e obiettivi scolastici a un quadro di riferimento unitario adeguato. L’educazione richiede apporti diversificati, ma non divergenti; espressivi, ma non dispersivi: un concorrere armonico che struttura la personalità in maniera non rigida, ma ugualmente robusta. In una società segmentata, plurale, incerta e dispersa, assume inoltre rilevanza decisiva la formazione al pensiero critico, come percezione esperienziale e atteggiamento positivo di libertà. Questa prospettiva è confermata dalla più attenta esplorazione pedagogica. La tematica e la dimensione religiosa appartengono pertanto ai saperi essenziali della educazione e formazione della persona. L’impegno della comunità cristiana La sensibilità delle nostre comunità cristiane sul territorio rimane, in relazione alla scuola, piuttosto vaga: «proprio nelle parrocchie generalmente la preoccupazione per la scuola non esiste, salvo episodicamente. Non c’è traccia della scuola nella catechesi, nella predicazione, negli impegni concreti della comunità»5. Un giudizio troppo drastico? Piuttosto, una seria autocritica volta a promuovere una presa di coscienza necessaria, che a distanza di quasi 5 CEI, Fare pastorale della scuola oggi in Italia, Roma 1990, n. 27b. 26 vent’anni non sembra aver perso la sua validità. Ciò non dipende anzitutto da negligenza, quanto, piuttosto, da una precomprensione teologica scorretta che assegna al campo della pastorale solo o prevalentemente l’azione ecclesiale ad intra. Magari riducendola ulteriormente alla declinazione (nominalisticamente variabile) del trinomio ‘catechesi – liturgia – carità’, Al contrario, il mistero della Chiesa comunione e missione comporta la chiara delineazione ad intra e ad extra come costitutiva dell’azione pastorale. La pastorale ordinaria, perciò, non si riduce in alcun modo alle configurazioni datate del suo svolgersi in contesto di omogeneità cristiana, ma si determina di volta in volta a partire dalle esigenze costitutive che le sono proprie, in relazione alla situazione socioculturale. La ‘nuova evangelizzazione’ esprime con formula felice tale necessario spostamento di baricentro dell’azione pastorale. Il dovere fondamentale dell’evangelizzazione è andare incontro all’uomo perché accolga il dono della salvezza. La scuola è capitolo importantissimo di questa missionarietà rinnovata: essa, infatti, è luogo decisivo della formazione della persona. La pastorale della scuola è servizio alla salvezza dell’uomo; è proprio a partire da ciò che è autenticamente umano che i cristiani potranno rendere testimonianza esplicita a Cristo nella vita della scuola, mostrando come la fede in Lui arricchisca la vita dell’uomo in tutte le sue manifestazioni positive e la riscatti dai decadimenti che la insidiano. Se la realtà scolastica va rispettata per la sua natura di istituzione pubblica a cui accedono tutti i cittadini, verso di essa la comunità cristiana oggi guarda con rinnovato interesse, con lealtà e con spirito democratico e costrut- tivo. Nessun cristiano, nessuna comunità ecclesiale può considerarsi estranea allo sforzo per far sì che la politica educativa rifletta il più possibile, nella legislazione e nella pratica, i principi cristiani sull’educazione. Ecco, dunque, la necessità di ravvivare un’organica pastorale della scuola che, raccogliendo le numerose esortazioni emanate in materia dal Magistero, si traduca in itinerari articolati ed incisivi di impegno e sappia offrire il doveroso sostegno a tutti gli operatori del settore. Come dare vitalità ed efficacia a questa consapevolezza pastorale? Quali strutture e iniziative (concrete e fattibili!) promuovere? Con quali forme e modalità, così che non appaia una indebita ingerenza, ma un contributo di alta qualità? Nella complessità dell’ora presente, è necessario dischiudere una nuova sensibilità delle comunità parrocchiali e diocesane, perché si sentano chiamate in prima persona a prendersi cura dell’educazione e della scuola. È necessario dischiudere orizzonti più vasti e rilanciare la pastorale della scuola come uno dei percorsi da privilegiare per la nuova evangelizzazione nel nostro Paese. Ciò comporta una nuova sensibilità pastorale, una vera e propria conversione pastorale. La dislocazione delle istituzioni scolastiche sul territorio chiede anche concretamente l’integrazione della pastorale parrocchiale (sempre necessaria) in un quadro più idoneo, zonale e diocesano. L’attenzione alla scuola, infatti, può dare frutti consistenti solo se viene compresa e posta nel contesto di una pastorale organica della comunità cristiana, e specificamente, nell’ambito dell’azione della comunità per l’educazione dei suoi figli. Essa riceve il respiro ampio della ecclesialità dall’inserimento nel tessuto dell’azione pastorale della Chiesa locale; reciprocamente, contribuisce in maniera vitale a sostanziare la di- mensione culturale della pastorale sul territorio. Questa reciprocità pastorale feconda è oggi requisito indispensabile dell’azione ecclesiale. La situazione si presenta variegata, non priva di problematicità. Spesso si registrano incertezze sul piano teoretico e indebolimenti su quello educativo concreto. In molte realtà ecclesiali, la scuola non è sentita come parte integrante della realtà pastorale, campo ‘naturale’ e imprescindibile di viva attenzione della comunità cristiana sul territorio. Come per altre istituzioni ecclesiali, la specializzazione (per altro ineludibile) rischia di generare estraneità e, in qualche modo, disaffezione; o, comunque, delega. La sensibilità delle comunità cristiane sul territorio appare, a questo proposito, piuttosto vaga, o appannata. Deve pertanto essere confermata e irrobustita là dove è ancor ricca di esperienze e patrimoni secolari, e tuttavia subisce inevitabilmente l’impatto corrosivo di ideologie destabilizzanti e, a volte, il disagio di prospettive teologiche e pedagogiche non corrette. Ed è da incoraggiare e incrementare dove, per diverse circostanze storiche, è stata e rimane più limitata, spesso ricondotta alla iniziativa, benemerita e lodevole ma inevitabilmente parziale e frammentata, di singoli. Ciò conduce a considerazioni di carattere squisitamente operativo, non meno essenziali delle grandi prospettive di riferimento. In particolare, si mostra necessario: dare attenzione e spazio (psicologico prima ancora che materiale) alla conoscenza della situazione scolastica sul territorio; fare oggetto di attenzione e di discernimento i libri di testo, alle linee di impostazione didattica dei Docenti, la situazione degli ambienti (‘ecologia’ materiale, funzionale, morale) dove i ragazzi trascorrono tante ore della loro giornata; prevedere la costituzione di idonei organismi 27 pastorali, perché questa attenzione pastorale non rimanga circoscritta alla sensibilità di alcuni o a emergenze episodiche; integrare l’azione pastorale sul territorio: la scuola è tema tipicamente interparrocchiale, nel quale si coinvolgono anche opportunamente le energie di gruppi e movimenti specifici. Comunità educante e aperta Grande è l’importanza del clima relazionale e dello stile dei rapporti: la condizione essenziale del processo educativo è la relazione, anche se le altre componenti del processo sono ugualmente necessarie. Perciò i rischi più gravi per la crescita umana derivano da inadeguate o insufficienti relazioni personali con adulti significativi nel corso dell’età evolutiva. Le stesse conoscenze comunicate hanno significato per lo studente se sono poste in un contesto di reciprocità autentica (non solo strumentale o pragmatica): nessun guadagno cognitivo, se lo studente non è posto nella condizione di apprezzare un reale coinvolgimento personale, verificato nelle sue intenzioni e, soprattutto nella coerenza degli atteggiamenti, degli stili e dei comportamenti quotidiani. È quanto comunemente si intende con la figura socio-pedagogica della comunità educante: «La concezione della scuola come comunità, sebbene non si esaurisca in essa, e la coscienza diffusa di questa realtà è una delle conquiste più arricchenti dell’istituzione scolastica contemporanea»6. La prospettiva della comunità educante è portatrice di valori rilevanti. Essa si presenta come figura capace di sintetizzare, in valenze pedagogiche largamente condivise, alcuni aspetti fondamentali, che qualificano da un punto di vista cristiano la scuola nel nostro tempo. Appare quindi la forma idonea a realizzare l’obiettivo di una scuola come luogo di forma6 zione integrale attraverso la relazione interpersonale e l’acquisizione critica della cultura. La comunità educante opera tanto più efficacemente, quanto più si rafforza nell’ambiente la volontà di partecipazione. È tale, la comunità educante, quando vengono poste in essere opportune iniziative, atte a interessare i giovani, gli educatori e le famiglie al compito e al progetto educativo. L’attiva partecipazione può sbloccare difficoltà sul piano delle relazioni interpersonali e dello stesso apprendimento scolastico, abitua alla fatica e alla gioia della collaborazione, dispone al dialogo in cui punti di vista diversi non solo si confrontano, ma si arricchiscono reciprocamente e, quando possibile, opportunamente si integrano. Abituare e abilitare al lavoro in équipe è arte non facile e richiede perseveranza paziente; ma tanto più necessaria in un mondo in cui l’anonimato sociale favorisce il ripiegamento individualistico. La scuola deve essere anche comunità aperta. Al proprio interno favorisce un clima di confidenza e spontaneità, dove l’evangelica schiettezza della parola e del tratto stabilisce quelle condizioni di familiarità che sostengono una buona relazione educativa, senza peraltro sottrarla a quei caratteri di autorevolezza e ‘asimmetria’ che consentono all’alunno di sviluppare armonicamente e liberamente se stesso. Ciò permette, inoltre, di evitare che l’alunno (e anche, rispettivamente, i genitori e i docenti) si senta isolato, incompreso e, quindi, tentato di scoraggiamento, di abbandono della frequenza e di abdicazione alle proprie responsabilità. All’esterno, la scuola stabilisce canali di comunicazione a vasto raggio e senza preclusione alcuna. Essa cerca la collaborazione critica e costruttiva, nell’intento di far progredire il processo educativo verso una verità più piena e CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Il laico cattolico testimone della fede nella scuola, n. 21. 28 condivisa, nell’intento di non far mancare il proprio apporto al dibattito culturale e alla formazione della opinione pubblica: non limitandosi agli aspetti amministrativi, ma puntando a far convergere le diverse istituzioni nella elaborazione di piattaforme comuni e condivise sul piano della progettualità educativa. La comunità educante non si limita quindi a creare un ambiente gradevole e confortevole e tantomeno ripiega in forme autoreferenziali di gratificazione emozionale, ma si sforza di orientare l’alunno alla socializzazione verso le altre comunità di cui fa parte o con cui viene in contatto, e verso l’intera comunità umana. La scuola è chiamata a respingere la tentazione di considerarsi come realtà ‘a parte’, e a uscire da quella separatezza che troppe volte la caratterizza. L’ideazione, formulazione e attuazione del progetto educativo non è pensabile, infatti, nel recinto chiuso della istituzione scolastica, senza tenere in debito conto le tematiche macrosociali, che con essa indissolubilmente si intrecciano. La scuola cattolica In questo contesto, la scuola cattolica è chiamata a dare, attraverso il suo progetto educativo, il proprio contributo allo sviluppo ed alla crescita di cittadini capaci di servire il bene comune. Il clima di dialogo e di collaborazione deve basarsi sul mutuo rispetto, sul riconoscimento reciproco del proprio ruolo e sul servizio comune all’uomo. Con il dovuto rispetto per gli ordinamenti scolastici delle diverse nazioni e nella legislazione dei singoli Stati, quando questa sia rispettosa dei diritti fondamentali della persona, a cominciare dal rispetto per la vita e per la libertà religiosa. Ma senza rinunciare per questo alla propria peculiare fisionomia, sul piano sia della impostazione pedagogica complessiva, sia della elaborazione dei programmi: rispetto non significa infatti omologazione culturale. Deve essere in ogni caso fermamente respinto, come contrario alla civiltà giuridica e ai principi della democrazia, il monopolio della scuola da parte dello Stato, che è chiamato a garantire e promuovere le istituzioni educative (a cominciare dalla famiglia) e non necessariamente ad assumerne la gestione diretta. In questo quadro trova collocazione adeguata la questione spesso dibattuta – con alternanza di toni e soluzioni secondo le diverse temperie socioculturali – del rapporto tra Scuola cattolica e Stato: a partire, cioè, non dalle relazioni istituzionali, ma dal diritto della persona a ricevere una educazione adeguata, secondo libera scelta. Diritto cui rispondono, secondo il principio di sussidiarietà, i rispettivi compiti e doveri della famiglia, delle aggregazioni sociali e dello Stato. Poiché dunque si tratta non di concessione, ma di un diritto fondamentale dell’uomo e della sua libertà («non negoziabile»7), lo Stato ha il dovere di garantirne l’esercizio non solo 7 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo, 30 marzo 2006: «Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, l’interesse principale dei suoi interventi nell’arena pubblica è la tutela e la promozione della dignità della persona e quindi essa richiama consapevolmente una particolare attenzione su principi che non sono negoziabili. Fra questi ultimi, oggi emergono particolarmente i seguenti: a) tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale; b) riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra un uomo e una donna basata sul matrimonio, e sua difesa dai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale; c) tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli. Questi principi non sono verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Al contrario, tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia stessa». 29 La preghiera di Gesù nel Getsemani. Gli Apostoli addormentati e il rimprovero a Pietro, mosaico della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. La fragilità ripresa e rimproverata. Ogni trasformazione sorprende, specialmente se inaspettata e imprevista. Lo stesso muoversi della realtà intorno a noi ci disorienta e ci obbliga a cambiare orientamento per poterla contestualizzare. C’è sempre qualche evento che ci fa sentire stranieri. Lo straniero sa quanto deve faticare ad approdare sulla terra degli altri e a farsene interprete per conviverci. Pietro qui si sente estraneo, perché non si è reso conto di ciò che di nuovo sta per accadere e vorrebbe imporre una quotidianità che è fuori luogo. La sua fragilità è nel non aver saputo percepire la novità dell’evento e trasformare il suo comportamento, nel non aver saputo convertire la quotidianità nell’eternità degli eventi che stanno cominciando ad avvenire davanti a lui. Propone il comportamento che avviene in una notte, quando davanti a lui la notte si è trasformata in un preludio liturgico, in una preghiera ‘sudante’. E soprattutto nel non essersi reso conto che Gesù lo aveva privilegiato rispetto agli altri scegliendolo per esserne testimone. La sua fragilità viene qui ripresa e rimproverata da Gesù. Ma Pietro ancora una volta si fa supplice ed alza le mani della sua fragilità verso quel Maestro che con la sua mano lo benedice (come si può evincere nella terza scena, qui non riportata, in cui Pietro eleva le sue mani a Gesù che lo benedice). La preghiera di Gesù nel Getsemani. Gli Apostoli addormentati e il rimprovero a Pietro, mosaico della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. La fragilità disincantata degli apostoli dormienti durante la preghiera ‘sudante sangue’ di Gesù. La fragilità di questi apostoli dormienti è nel disincanto, nell’abitudine, nel lasciarsi essere uomini abitudinari. È più umano dormire che vegliare davanti a Dio con la preghiera. Non c’è speranza. Il sonno è la conseguenza della loro fragilità. È difficile anche essere comprensivi e compassionevoli verso di loro perché non sanno di non sapere. La fragilità di questi dormienti in fondo non è tanto nel sonno, quando nell’affermare il loro diritto a dormire più che nella debolezza di lasciarsi andare a questa quotidiana umanità. Un diritto affermato davanti ad un dono e ad un privilegio. È fragile colui che rifiuta il dono per affermare se stesso. Il sonno li sprofonda in altri mondi, in altre trasfigurazioni la cui responsabilità non è richiesta. Resistere al sonno non equivale a non dormire, quanto al vigilare e al vegliare. Quante ‘metamorfosi’ dell’umano avvengono intorno a noi e di cui la fragilità della nostra assenza – di svegli dormienti – ci impedisce di percepire il kairòs e il dono della diversità, del cambiamento, della metanoia? con proclamazione formale, ma rendendone effettive le condizioni. Si tratta infatti di un diritto originario (diritto della persona e della famiglia) e ribadito dalle attuali esigenze sociopedagogiche dell’educazione e formazione permanente, impensabile senza l’apporto di una pluralità di soggetti. Si pone qui la questione delicata e, in alcune situazioni cruciale, del riconoscimento economico della Scuola non statale. O, più precisamente, dell’obbligo dello Stato di mettere in condizione le famiglie e le persone di operare nella libertà effettiva quelle scelte che ritengono necessarie all’armonico e costruttivo sviluppo della propria personalità e al conseguimento di favorevoli prospettive professionali e di vita: «i pubblici poteri, a cui incombe la tutela e la difesa della libertà dei cittadini, nel rispetto della giustizia distributiva debbono preoccuparsi che le sovvenzioni pubbliche siano erogate in maniera che i genitori possano scegliere le scuole per i loro figli in piena libertà, secondo la loro coscienza»8. Nessun privilegio, perciò, ma il giusto riconoscimento di un diritto nativo della persona e della famiglia. Conclusione Come si è notato, molto è cambiato, e rapidamente, nel campo della educazione. La famiglia non appare più in grado, da sola, di gestire una problematica educativa complessa e attraversata da pressioni e tensioni molteplici. Tende quindi a delegare: non per pigrizia, di solito, ma per avvertita (e sofferta) sensazione di inadeguatezza. Ma anche la scuola, cui per prima la famiglia tacitamente si rivolge, non è più riconosciuta, oggi, quale agenzia simbolicamente forte e capace di integrare le dinamiche aggrovigliate dei messaggi e degli impulsi, caratterizzate da quella dispersione e marcata frammentazione, che rende difficile individuare riferimenti personali e istituzionali si- 32 gnificativi per i processi di formazione della identità della persona. Ciò impone, certamente, una ridefinizione dell’intero sistema formativo e, al suo interno, del ruolo specifico della scuola, nella sua valenza di educazione e socializzazione: né la scuola può essere pensata separatamente dalla altre agenzie educative e dall’intero contesto socioculturale, né può essere gestita come corpo separato. Il che impone una serie di considerazioni e problemi di non piccolo momento, nei rapporti tra educazione ed economia, politica, cultura, integrazione sociale. Questa complessità, che si ripercuote anche sulla scuola, può facilmente ingenerare senso di sfiducia e di stanchezza. Tocca alle comunità cristiane affrontare le nuove e gravi responsabilità che la temperie socioculturale impone alle istituzioni scolastiche, senza permettere che essa decada in luogo di stanche ripetizioni o diventi area di parcheggio, in attesa di collocazione professionale; con una presenza qualificata sul territorio e con la disponibilità a condividere con le altre realtà socioculturali l’assillo di una autentica crescita e maturazione della persona nell’orizzonte della fede. La comunità cristiana si fa così protagonista di dialogo sereno e costruttivo con la comunità civile, ai diversi livelli. È di grande importanza, perciò, che, nel quadro di una forte integrazione pastorale della scuola, gli insegnanti – in particolare gli insegnanti laici – siano visti come espressione della vitalità della comunità cristiana, di cui fanno parte e a cui sempre fanno fondamentale riferimento, con una ripresa di dinamismo e di impegno che ne qualifichi il rilievo ecclesiale della figura. Chi opera nella scuola esprime una specifica vocazione cristiana e una specifica partecipazione alla missione della Chiesa. La spiritualità dell’IdR di Paolo Tammi • è soggetto alla valutazione e al “gradiPossiamo considerare la spiritualità da due mento” degli alunni, che lo sottopone punti di vista. Uno è più “religioso”: spiriad un certo stress legato alla competituale è ciò che riguarda lo spirito, l’anima zione; questo è un elemento che – a dif(psyché) intesa come sostegno della persona ferenza dei paesi ane sua componente glosassoni – si appliessenziale, il princica nel campo della pio incorporeo che Don Paolo Tammi, parroco romano e IdR scuola solo ed escluci lega direttamente da numerosi anni, ci presenta un “breviario sivamente all’IdR a Dio come Assoludella spiritualità dell’IdR” che può interes• è considerato natuto. L’altro è più sare non solo i sacerdoti, ma anche i laici. “umanistico” o “lairaliter l’«insegnante L’articolo riprende, con minime modifiche co”: spirituale è amico», l’educatore ed integrazioni, i contenuti della relazione qualcosa che riguarda «tiro un respiro di tenuta il 1° marzo scorso presso il Vicariato sollievo», quando non da la ragione, cioè di Roma dinanzi ai membri della «Comaddirittura l’«edul’insieme di quelle missione per la pastorale scolastica e l’IRC» catore baby sitter»; facoltà umane che ci della Conferenza Episcopale del Lazio. • last but non least – permettono di relaè l’unico che insegna zionarci agli altri, al una materia nella quale non può non mondo, alla cultura, all’etica e via dicendo, farsi strumento di un pensiero forte: isticioè – in breve – alle altre persone in quanto essere umani. tuzionalmente egli insegna una materia Ebbene, entrambe le dimensioni sono es“forte”, insegna “certezze”. Tutti gli altri docenti sono strumenti del sapere, lui è senziali all’IdR. Affermiamo dunque che strumento di Qualcos’altro. un IdR non può e non deve essere solo un Per questi motivi è impensabile un IdR che mestierante. Non può occupare posto di lanon abbia e non coltivi una dimensione voro solo perché tiene famiglia, non può spirituale, una spiritualità nel senso religioessere privo di una sua spiritualità, vitalità so e nel senso laico. Una spiritualità che deinteriore, fecondità. Questo è vero per un ve edificarsi a tre livelli: educatore di qualunque tipo o disciplina: a 1) Spiritualità dell’uomo di fede, perché maggior ragione per l’IdR. l’IdR è un credente; Cosa rende particolarmente importante e del tutto singolare la spiritualità caratteri2) Spiritualità dell’educatore, perché l’IdR stica dell’IdR? è un maestro e testimone • la sua posizione è istituzionalmente de3) Spiritualità del docente, perché l’IdR è bole, e dunque ha bisogno di sostegno un uomo di cultura. personale; Questi tre livelli sono espressi in un ordine 33 di importanza decrescente; tuttavia penso sia più utile partire dal basso verso l’alto, dall’umano al soprannaturale. Partiamo dall’uomo di cultura. In questo senso l’IdR si caratterizza come uomo curioso e attento. Ci vuole una curiosità nativa, una certa capacità di analisi e di sintesi, ed in particolare una grande attenzione al mondo in cui vive, in vista dell’integrazione tra fede e vita. Mons. Pietro Rossano soleva dire che c’è una cultura in senso oggettivo (bagaglio del sapere umano: “hai una cultura immensa”) e una in senso soggettivo (capacità di coltivare la propria persona e la propria storia, preservandola dall’ignoranza): questa è quella più fedele alla etimologia = colěre se ipsum. È un primo livello, molto laico, di spiritualità dell’IdR; ma non è secondario, perché la cultura dell’insegnante è il suo biglietto da visita. Gli alunni apprezzano il docente che «si sta coltivando in modo permanente» e che si confronta costantemente con il mondo intero in uno scambio aperto e leale. La motivazione è evidente. La prima salvezza, la prima dignità dell’insegnamento di religione sta nella cultura dell’insegnante. La scuola non pretende niente di titanico, di gigantesco o di saccente. Piuttosto i ragazzi tendono a rifiutare questo proporsi. Ma certo non fa sconti su quell’atteggiamento che, ancora una volta, fa ritenere che la religione sia collocabile nell’armadio delle cose a basso prezzo, sia riducibile – perfino dentro la scuola – a favolette o a devozioni insignificanti. Quali sono gli strumenti a disposizione per coltivare questa “spiritualità della cultura”? Difficile e forse anche inopportuno darne un elenco esaustivo, dato che le situazioni personali e scolastiche dell’IdR sono differenti da caso a caso. Tuttavia se ne possono 34 elencare alcuni “universali”. Ci sono strumenti: • propri dell’insegnamento. Più si vedrà un IdR divorare testi, libri, riviste, articoli, ecc. che lo mettono a contatto col vasto mondo della religione e delle religioni, più l’insegnamento sarà intrigante e interessante; • propri della cultura in generale. Credo che da questo punto di vista la conoscenza della storia e la letteratura siano tra gli ambiti più in linea con ciò che insegniamo (senza ovviamente escluderne altri); • propri dell’attenzione al mondo, in particolare il mondo dei giovani. Dunque un IdR che sa dove vive, e soprattutto che vive anche lui le tensioni del mondo, le assapora, sa trarne conclusioni, elaborare sintesi personali e poi proporle con una certa autorevolezza e credibilità. Sulla base di un costante impegno in linea con queste indicazioni dovrebbe anche essere effettuata la selezione dei candidati all’insegnamento della religione. Il secondo livello di spiritualità vede l’IdR come maestro e testimone. Tutti coloro che insegnano nella scuola italiana sanno bene che questo servizio comporta una serie non indifferente di frustrazioni. Una volta era più facile. I ragazzi di oggi arrivano alla scuola sempre più come “prodotto di fabbrica non finito”. Escono da una fabbrica incompleta e di scarsa qualità (la famiglia) e arrivano a noi senza alcun rodaggio (non hanno provato la vita) e senza chiarezza sugli obiettivi (non sanno cosa vogliono fare e realizzare), anche dal punto di vista scolastico. Molti insegnanti rifiutano il ruolo dell’educatore, e hanno scelto per una freddezza emotiva totale, impermeabile ai sentimenti. In troppi hanno La lavanda dei piedi, mosaico della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo. La fragilità stupìta. Durante la lavanda dei piedi di Gesù agli apostoli (Gv 13,1-20) Pietro porta la sua mano destra alla fronte. È sconcertato. Non si aspettava di vedere certe cose. Lo stupore è nel non aver previsto. Nell’essersi fatto cogliere sprovveduto, sorpreso, anticipato da una modalità che non avrebbe mai potuto prefigurare. Ed è in questo stupore passivo che Pietro esprime tutta la sua ‘simpatica’ fragilità. Che non è debolezza. Ma capacità di saper portare la sua mano destra alla fronte e dichiarare il suo stupore. Con quella lealtà e sincerità che lo caratterizza. È lo stupore dei giusti, la cui fragilità è nell’accettare di essere sorpresi dal mistero e nel dichiarare che oltre ogni profezia umana e prefigurazione mondana il mistero di Dio infrange la logica e la stupisce, la stordisce, la rende friabile. Senza umiliarla. Con questo gesto Pietro confessa la sua fragilità di uomo e professa la sua fragilità di credente, la cui forza è asimmetrica alla sua fragilità perché dal suo Maestro viene la verità che onora il dubbio e infrange l’errore. Perché quella di Pietro – nonostante tutto – è una fragilità pensosa, stupefatta, che ora, soltanto ora, ma almeno da ora, lo interroga. Ed è lo stupore di chi si lascia sorprendere da un amore così grande come quello del suo Maestro e Signore e dichiara la sua fragilità a comprendere e a capire. Qui la fragilità dell’uomo è sovvertita e stupìta dalla ‘stoltezza’ di Dio: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14). delegato l’aspetto “educativo” alla quantità di psicologi che affollano le scuole, con un grave errore: lo psicologo non è educatore. Lo psicologo è al massimo un interprete e un fornitore di strumenti di analisi, non un educatore! L’IdR che invece non abbandona il ruolo di educatore, ma anzi lo svolge con competenza e responsabilità, “acquista punti”, sia con gli alunni che con i genitori. Cosa deve fare allora l’IdR? • Innanzitutto è uno che sa parlare. Abbiamo eliminato il parlare, forse stanchi delle troppe parole. Ora, è vero che la comunicazione non verbale è importantissima, ma la parola è il veicolo ordinario dell’educazione. La testimonianza sono anzitutto parole. Parole bene dette, sobrie, misurate: ma un maestro si riconosce da come parla. Non è questione di eleganza o retorica. Ovviamente conta anche il come si parla e soprattutto anche il tacere a tempo opportuno. Qui rientra anche l’aspetto del dialogo con le differenti opzioni di vita o con quelle di non fede. Dialogo che deve essere prudente e sincero (già lo diceva Paolo VI), ma soprattutto non deve diventare sciocca moltiplicazione di parole per dimostrare che “diciamo tutti la stessa cosa”. • Poi è uno che sa vedere, anzi uno che sa scrutare cosa accade, sa cogliere i segni, sa rendersi conto delle situazioni. Questo non significa spiritualità dell’indulgenza o del buonismo. Significa rendersi conto di chi hai davanti senza illudersi né scoraggiarsi. Significa cogliere al volo le situazioni. I ragazzi amano essere guardati e capiti “dentro” (l’em-blèpein del giovane ricco: cfr Mc 10,21). Specie i più difficili. Non danno molte soddisfazioni, ma capiscono chi li capisce. 36 • Poi è uno che sa guidare, cioè autorevole; talvolta anche autoritario, ma soprattutto autorevole nel senso che si assume responsabilità. • Infine l’IdR è uno che sa faticare. In poche parole, che non sia un lavativo. Fama che spesso gli IdR si guadagnano, purtroppo, non senza ragione… Queste quattro capacità (o almeno le prime tre) esprimono proprio le tre grandi assenze della famiglia di oggi, che non dialoga (perché è impreparata e spesso ignorante), non sa vedere se non in ritardo (non ha il tempo di vedere, e se casomai si accorge di qualcosa, percepisce solo sintomi generali, ma non sa vedere il perché), non ha il coraggio di guidare i figli (perché l’istanza libertaria ha ormai invaso il campo educativo, proponendosi come modernità). Gli strumenti fondamentali per diventare buoni testimoni? Soprattutto amare la vita. Migliore è il rapporto con la vita, migliore è la capacità di educare. Don Bosco era il perfetto educatore perché univa all’appassionata gioia di vivere la serietà ed il rigore degli obiettivi. Da ultimo, l’IdR non può non essere uomo di fede. Forse si potrebbe ridurre tutto qui. E non sarebbe una riduzione! I ragazzi, i genitori, ma anche i colleghi vogliono l’uomo di fede. Uomo di entrambe le fedi: fides quae creditur e fides qua creditur, cioè che conosce bene il deposito della fede e che si abbandona liberamente fiducioso a Dio. Il card. Martini disse di Giovanni Paolo II: «quest’uomo non ha la fede, è posseduto dalla fede». Questo è il campo in cui si chiede maggiormente una costruzione graduale, seria e impegnativa. Può sembrare irriverente, ma queste sono questioni decisive: davvero l’IdR si alimenta con gli strumenti della fede (che sono poi quelli ordinari e tradizionali: la pratica dei sacramenti, della lectio, ecc.)? E quanto lavoro da fare ancora per una piena integrazione vita/fede, cioè ciò che concerne le questioni morali!… Qui è in gioco l’immagine di Dio. Che significa anche il rapporto con Dio, l’intimità con Dio. Meglio ancora: è in gioco in quale Dio si crede: se il Dio di Gesù Cristo risorto, o una delle tante divinità che affollano il pantheon pagano dei giorni nostri. E da cosa si vede la fede? Da cosa si vede che uno è un vero credente? • L’IdR credente è sicuro che la fede sia la vera risposta per l’uomo. È l’uomo che dice: Credo, aiutami nella mia incredulità! Dunque uno capace di convincere della piena cittadinanza di Dio in questa vita e in questa storia. • Ma è anche una persona sufficientemente serena, anche se tormentata e sempre in ricerca. Mediamente è uno contento, non lamentoso, non insoddisfatto. Diciamo una persona che possiede la speranza. • Infine l’IdR credente si rivela coraggioso, disposto a una specie di jihad (in senso positivo) cristiana, che gli viene dalla certezza di cercare proprio perché ha già trovato. In conclusione, come passare da dover essere all’essere? Come accompagnare gli IdR nell’acquisizione di una vera spiritualità? Forse proprio ora, con il concorso alle spalle e senza più la necessità di fare corsi di aggiornamento didattici, è possibile aprire una nuova stagione in cui proporre una vera e propria formazione spirituale ed ecclesiale. Ci vuole una maggiore audacia da parte degli IdR, anche sul piano della fede profetica, della fede personale e profonda. Bisogna anche ricordare che c’è una professionalità che è santità. E questa è la spiritualità specifica dei laici, che si acquista con l’impegno e la fatica. 37 Marc CHAGALL, 1887-1985, La passeggiata, San Pietroburgo, Museo Statale d’Arte. La fragilità volante. La fragilità è una virtù identitaria per chi si riconosce di essere uomo. Ed una prerogativa della relazione umana. Non per questo induce alla debolezza. Anzi innalza a nuovi equilibri. Le mani non rafforzano le due fragilità, ma soltanto non estraniano la reciprocità. «Il piano segreto del Santo Benedetto, il Signore di tutti gli esili, avrebbe mostrato a Chagall, profeta dei colori, che nulla vi è di più sublime dell’uomo fragile e goffo che vola perché si protende verso una spiritualità senza garanzie ai limiti dell’impossibile, dove l’Onnipotente fa capolino dall’angolo della casa di Ahasverus, il cordonnier de Jérusalem non più l’ebreo errante della maledizione “cristiana”, ma il goles yid, l’ebreo santificato dall’esilio e dove Gesù è anch’egli “solo” un goles yid con la sua veste rituale, crocifisso insieme al suo popolo dagli antisemiti odiatori dell’uomo nella sua più intima ed indifesa verità». (Moni Ovadia) L’identità e la cultura tra processo di crescita e formazione della personalità di Flavia Posabella L’effettiva processualità che caratterizza queIl gruppo psicopedagogico quest’anno si è sto stadio dello sviluppo è proprio la comparoccupato di trovare delle definizioni e dei sa ed il consolidarsi di un compito maturatipercorsi condivisibili sul tema della formavo non indifferente, zione dell’identità, cioè la formazione di avendo come scopo una chiara identità ultimo quello di troCome abbiamo già fatto lo scorso anno (cfr vare spunti di riflesconsolidata. Correlato RSC 2006/1, pp. 68-70), presentiamo i risione su di un argocon il processo di desultati del gruppo di ricerca psicopedagogica guidato dalla prof. Posabella. Quest’anno la mento molto discusfinizione dell’identità ricerca si è concentrata sul tema del delicato so in questo momene di differenziazione rapporto tra identità personale e accogliento: l’integrazione muldal gruppo familiare za del diverso. Il testo completo dei singoli c’è quello dell’acquisiticulturale e religiosa. lavori, qui brevemente riassunti, è disponizione della competenSi è partiti dalla nebile sul sito www.diocesidiroma.it/scuola. za sociale che permetcessità di dover tratte all’individuo di tare l’argomento delsentirsi parte di un altro gruppo più grande: l’identità come sviluppo della personalità a la società. «La competenza sociale implica il tre livelli: personale, sociale e morale. riconoscimento di sé stesso come uno fra gli Brevemente potremmo definire l’adolescenza altri, la capacità di entrare in relazione con gli il periodo in cui finisce e si definisce il proaltri, sia di altre generazioni (rapporto genitogressivo sviluppo dell’identità. È l’età del ri-figlio), sia della stessa generazione (rapporcambiamento: la parola adolescere significa in to con i pari). (...) La competenza sociale rilatino «crescere», adolescenza quindi indica chiede una certa comprensione, implicita o «crescere verso la maturità» o comunque «diesplicita, della struttura della società di cui ventare adulto». Tra l’infanzia e l’età adulta si l’individuo fa parte; delle funzioni dei diffesitua questo periodo di passaggio che come renti ruoli che l’individuo può ricoprire o con fenomeno universale ha in sé la caratteristica cui può interagire all’interno di quella strutdi essere segnato da grandissimi cambiamentura e dei costumi prevalenti e dei valori che ti fisiologici e anatomici; dal dover assumere governano le relazioni tra i ruoli» (Mc Gurk). uno status sociale; dal dover acquisire nuove Quindi una competenza che sottende uno responsabilità, valori ed indipendenza. Tutto sviluppo completo in tutte le aree: cognitiva, ciò comporta la sperimentazione di un nuofisica, personale e sociale. In questa prima vo modo di adattarsi a queste nuove richieste parte cercheremo di comprendere come e disfarsi pian piano dei legami familiari, cambiano e si strutturano le relazioni intertanto da potersi staccare da essi e diventare personali e sociali (la famiglia, gli amici, un individuo adulto e libero. 39 ecc.) e seguire l’evoluzione della formazione dell’identità, sapendo che l’adolescenza più di altre fasi dello sviluppo è segnata appunto dal muoversi e dal contribuire di moltissime concause che faranno di un ragazzo un individuo adulto e sociale. Erikson descrive la formazione dell’identità utilizzando la descrizione del “pensiero operativo formale” di Piaget – la capacità cioè di prendere il proprio pensiero come oggetto e ragionarci sopra – come momento fondante del periodo adolescenziale. Inoltre afferma che questo è un momento di passaggio, in cui l’individuo vive la crisi d’identità che si evolverà in maniera positiva o negativa a seconda della modalità con cui nel periodo infantile egli ha integrato i diversi elementi di questa. Ma il superamento della crisi dipenderà anche dal modo in cui la società permetterà all’adolescente di sviluppare o integrare le diverse tappe di questo sviluppo, pena la strutturazione di una identità confusa che può diventare una crisi d’identità, ove i confini con la patologia non sono marcati (Erikson). Ma possiamo chiederci come si prepara questo processo? Dove rintracciarne le radici? Abbiamo detto che attraverso le esperienze che, prima bambino e poi preadolescente, l’individuo fa all’interno delle relazioni significative (famiglia, scuola, gruppo dei pari) saranno le basi di un modellamento successivo. Da qui l’importanza di rintracciare i contesti educativi, etici e relazionali su cui si fonda una chiara identità, che nell’incontro con altre realtà culturali o religiose, può divenire un’occasione di allargare e costruire in maniera più integrata, già nelle fasi precedenti, un’identità tesa all’accoglienza delle diversità. Ma per accogliere la diversità bisogna definire sia cosa è la cultura e sia qual è l’atteggiamento usuale che si assume nell’incontro con altre culture. 40 Definisco cultura come «un insieme di linee guida… che gli individui ereditano come membri di una società particolare e che indica loro come vedere il mondo, come sperimentarlo sul piano affettivo e come comportarsi in relazione ad altre persone, alle forze soprannaturali o agli dei ed all’ambiente naturale» (Cecil Helmann). Penso sia molto utile quindi una traduzione culturale, cioè lo sforzo di tradurre e lavorare sulle differenze (invece che tollerarle), che può incoraggiare la comunicazione e la curiosità. Non è facile però prepararsi a questo incontro. Infatti in genere vi sono quattro modi di porsi nel confronto con altre culture: 1) la posizione etnocentrica, ovvero interpretare le differenze peculiari solo rispetto alla diversa etnia; il limite è quello di avere una nozione stereotipata dei significati condivisi all’interno dello stesso gruppo etnico; 2) quella universalista, dove prevale la considerazione della similarità di ogni famiglia del genere umano, ovvero asettica rispetto al valore della cultura; 3) quella particolarista, dove ogni famiglia è considerata un nucleo a sé stante, dove cultura ha un significato peculiare per quella specifica famiglia; 4) infine quella multidimensionale che offre un approccio pluralistico e comparativo della cultura, ovvero creare uno spazio di incontro per forgiare un linguaggio comune sulla base delle visioni condivise del mondo, dei significati e dei comportamenti adattivi (Falicov). Pur mantenendo una netta appartenenza alla propria cultura definita, attraverso concezioni, lingua e modelli di comportamento condivisi, che è il necessario punto di riferimento per un confronto che alimenta un senso di identità reciproco. Troveremo certamente degli spunti importanti per ragionare sia sulla nostra posizione nel confronto con le altre culture e religioni, sia nel nostro modo di entrare in relazione con i bambini e gli adolescenti che si trovano ad oggi in un difficile percorso di integrazione: pionieri di una società multietnica e primi attivatori di un dialogo interreligioso. Potremo anche riflettere sulla possibilità di costruire insieme a loro come insegnanti di religione un percorso di conoscenza e di sviluppo dell’identità che si ponga come “accogliente” della diversità nel rispetto dei valori della dignità della persona che abbiamo dentro e di fronte a noi. esistano al mondo due identità identiche: ognuno è individuo singolo ed inconfondibile. Ma l’aspetto che è altrettanto importante è quello di sentire che la propria identità è forte, sana, accettabile, buona e di valore. La struttura dell’identità, inoltre, può nel corso degli anni variare collegandosi ai diversi sistemi sociali di cui ognuno di noi fa parte. All’interno dell’identità personale vengono distinti l’Io ed il Me come elementi costruttivi del Sé. Da una parte vi è l’Io attivo (il soggetto che conosce), dall’altra il soggetto conosciuto, il Me. Le due dimensioni sono concomitanti e rappresentano la base di ogni possibile concezione dell’identità personale. Abstracts Cristina CARNEVALE Per un’identità religiosa accogliente La caratterizzazione multietnica della nostra società vede una compresenza culturale e religiosa. In questo contesto, l’esigenza di una pedagogia della reciprocità, dell’incontro, del dialogo, va di pari passo con il bisogno di educare all’identità. Oggi, infatti, la scuola italiana si dà obiettivi di interculturalità, ma cura poco il senso di identità, di appartenenza culturale, che invece è la base per un autentico dialogo nel rispetto reciproco. Ci si chiede, allora, come, in tutto questo, rientra l’IRC? Come può un insegnamento confessionale educare la persona ad un’identità che sia accogliente? Per tracciare almeno i contorni di una risposta a tali interrogativi, la relazione propone alcuni spunti sulle dimensioni educative di un’identità religiosa accogliente. Luisa CASTRO La nostra identità L’importanza dell’identità personale viene spiegata dall’autrice sottolineando come non Simone FOLCHI Persona e relazione Parlare di identità accogliente significa interrogarsi sul concetto di persona, il quale ha avuto un ampio sviluppo nella storia del pensiero filosofico e teologico. Occorrerebbe distinguere in partenza tra persona (il nostro essere posti nell’essere) e personalità (il divenire della persona nella storia attraverso un percorso unico e irripetibile, ossia il far-essere se stesso così come è presentato nella parabola di talenti). Pensiamo al nostro ruolo di educatori inseriti nelle dinamiche di mediazione e formazione dell’altro, in cui è richiesto spesso implicitamente un percorso di protezione e custodia dell’essere. Il gioco della responsabilità reciproca significa che siamo posti dentro una vita di relazione, dove la relazione è fondativa del nostro essere persona. La dinamica fondamentale della relazione è il desiderio: «voglio l’altro nella prossimità, ma lo lascio essere nel suo essere» direbbe Lévinas. L’essere-per-gli-altri mi dà una sorta di piacere profondo, mi dà vita mentre cerco di spen- 41 dermi nelle relazioni: ho il piacere dell’altro in quanto mi sta a cuore e non in quanto mi dà piacere. Questo tipo di relazione presuppone e tende alla comunità che, come tale, dev’essere fondata sulla comunione: questo è fare il bene, è amare, ossia essere dentro una dinamica che viene dalla vita e porta ad essa. Tiziana FORZANO Il Sé e la diversità Il confronto con la diversità/alterità porta con sé non solo un fattore di crisi ma anche un’esigenza ineludibile di riflessione sulla propria identità, personale e culturale, soprattutto se non ci si vuole arrendere di fronte agli scenari apocalittici che si sono progressivamente delineati nel corso del Novecento e che alle soglie del terzo millennio sembrano essere ancora più foschi (scontro fra civiltà, adolescenza senza identità, relativismo culturale e morale…). Prima ancora del “che fare?”, è utile fermarsi e porre attenzione a quei segnali o germi di rinnovamento che possiamo scoprire nella situazione attuale. Già il fatto stesso di interrogarci sullo status quaestionis può essere interpretato in questa prospettiva. A ciò si aggiunga che siamo educatori, ed educatori cristiani, e la speranza appartiene al nostro essere, costituisce il senso della nostra fede, della nostra esistenza e attività. Punto di partenza di questa riflessione sull’identità è l’assunto personalista della persona intesa come auto ed eterorelazione in una duplice direzione: verticale (con la trascendenza) e orizzontale (con gli altri). Paola LO RUSSO Riflessioni su “L’identità aperta”. Riflessioni sul volume di Ignazio Sanna L’Identità Aperta. Il cristiano e la questione an- 42 tropologica (Queriniana 2006). Il testo affronta il problema dell’identità e della sua formazione, anche attraverso la analisi del peso che attualmente hanno i fenomeni della globalizzazione e la rivoluzione tecnologica, coniugando poi questi fattori dell’identità, che potremmo definire culturali, con quelli naturali, determinati dalle concezioni di corpo, persona, dignità dell’uomo. Identità aperta può significare debolezza, precarietà, impersonalità, o assumere un carattere forte, universalistico, esemplare, non esclusivo, adattabile ad ogni tempo e ad ogni cultura. Il passaggio dall’una all’altra modalità viene proposto attraverso il riferimento all’uomo come immagine di Dio, nella considerazione dell’antropologia cristiana: alla crisi di Dio corrisponde una inevitabile crisi dell’uomo, per cui una rifondazione della identità profonda dell’uomo necessita di un ritrovato senso positivo di Dio e della relazione con il Trascendente. La lettura del testo è fatta alla ricerca di indicazioni che possano contribuire ad una specifica riflessione sul tema nell’ambito della situazione educativa scolastica. Gianluca MARLETTA “Anti-identità” – Il dramma della dissoluzione adolescenziale contemporanea, tra crisi della persona e soluzioni possibili L’articolo affronta il problema della dissoluzione dell’identità personale nel mondo giovanile contemporaneo. L’autore passa in rassegna quelli che definisce “miti di dissoluzione”, ossia le “idee-base” che scandiscono le tappe dissolutive della coscienza e che vengono ampiamente veicolati dai massmedia e dalla cultura dominante. A questi miti di dissoluzione vanno dunque contrapposti dei miti costruttivi, che abbiano forza e fascino e possano conquistare il giovane: non dunque dei codici morali, che risultano alla lunga inefficaci, ma modelli emotivamente coinvolgenti sono la chiave per entrare nel cuore delle persone, veicolando così un contenuto di valori in un’ottica dove è l’estetica ad aprire le porte all’etica. Eleonora MOSTI Scuola e accoglienza dei bambini stranieri Il fenomeno dei bambini immigrati nella scuola è stato studiato soprattutto indagando il punto di vista degli insegnanti, dei bambini e delle famiglie italiane. Una ricerca partita a seguito di un Protocollo d’Intesa tra il MIUR e il VIS nel giugno del 2000 ha focalizzato l’attenzione sul vissuto del bambino straniero, protagonista del processo d’interazione/integrazione. L’indagine è stata svolta su Roma e Provincia nell’ambito dell’ex secondo ciclo (4a e 5a elementare) attraverso interviste, somministrazione di questionari, simulazioni e giochi di ruolo, osservazioni silenziose in classe. Interessanti i risultati per tutte quelle figure scolastiche che si occupano dell’inserimento degli alunni stranieri a scuola, in particolare le proposte e le piste di orientamento per una scuola interculturale. Isabella ROTONDO Fragili identità Quante volte educatori e genitori si sono trovati d’accordo nel lagnarsi di “non riconoscere più” quel certo ragazzo… E se non ci riescono loro, come può riuscirci il soggetto stesso, che sta nel bel mezzo dei suoi problemi e non sa neanche perché, visto che non li ha cercati: lui non l’ha già superata l’adolescenza, anzi, ci è appena arrivato! Perchè chiedere a lui risposte che non ha, o forse che non sa di avere? È da quando è nato che tutti gli dicono che parla co- me suo padre e si muove come sua madre (quasi che fosse un complimento) ma che di sicuro non ha ripreso nulla della bravura del fratello. Sfido io che ad un certo punto uno comincia a guardarsi intorno e cerca di capire se può cominciare a camminare come quell’amico, vestirsi e pettinarsi come l’altro compagno più grande, ed arrivare un giorno ad essere come qualcuno di importante in televisione. Non è un bel progetto di vita?! Andateglielo a dire a quale ragazzo! Ezio SEGATORI Identità dell’insegnante di religione cattolica A partire dalla consapevolezza di cosa vuol dire essere un insegnante, è responsabilità propria di chi è investito di tale ruolo il riflettere sulla propria identità. Il percorso attraversa una dimensione antropologica generale per raggiungere quella psicologica personale dove il lavoro sulla ricerca della propria identità diventa urgente ed imprescindibile. L’essere colui che “porta il segno” e ha il potere di “segnare” il discente impone una continua analisi e verifica del proprio lavoro attraverso la relazione con l’alter appunto che dice il “chi sono” proprio nel suo rimando di immagine. Nello specifico dell’IdR si deve dare risposta al lavoro interiore di ricerca sulle domande di senso e sul valore delle cose. Questo plus di carico di responsabilità può divenire motivo di crisi in quanto è esigita una corrispondenza (non simulabile) tra le risposte che si offrono e quelle che si sono trovate in sé. Tale delicata, aperta e peculiare dinamica comunicativa si realizza in un’identità che accoglie (“sé” anzitutto, la propria missione) ed educa all’accoglienza dell’altro nella prospettiva di considerarlo come fine. 43 T U T T A U N ’ A LT R A S T O R I A Una vera tortura: parlare dell’Inquisizione durante l’ora di religione Manuale di sopravvivenza per l’IdR di Federico Corrubolo L’ombra lunga dell’inquisizione Tutti gli insegnanti di religione conoscono quanto sia difficile affrontare certi capitoli di storia della Chiesa. L’inquisizione è fra questi. Tutti ragazzi sono affascinati dalla cosiddetta “leggenda nera” e sono molto inclini a credere agli inquisitori come dei diavoli vestiti da domenicani, a torture terrificanti e a schiere di condannati a morte fra atroci supplizi. E si slanciano con entusiasmo in appassionate denunce e clamorosi atti d’accusa contro la Chiesa oscurantista (un aggettivo che sta tornando di moda), o – come ama ripetere Emma Bonino – «crudele ed arroccata». Siamo d’accordo che guardare con gli occhi di oggi la storia dei secoli XVXVII non è certamente facile e che sicuramente alcune cose sono di fatto inaccettabili: ma la facilità con cui i nostri alunni indulgono a giudizi spietati, taglienti e irreversibili, fatta salva la loro naturale irruenza, rende alle volte irrespirabile l’aria dell’ora di religione (specie se si trova ad essere l’ultima della giornata). Ecco perciò un piccolo prontuario per affrontare con serenità il difficile argomento, cercando di far ragionare anche i più accalorati (anche se è piuttosto improbabile riuscirci…). Prima regola: capire il contesto Per prima cosa occorre dire che l’idea dei 44 “diritti dell’uomo e del cittadino” nel Rinascimento non esisteva: la società era pensata come un unico corpo vivente, con una dualità funzionale del tutto simmetrica a quella di un corpo fisico: in altre parole tutta la società era pensata come una personalità corporativa dotata per l’appunto di un corpo (il cui governo spettava al re, imperatore, quello che noi oggi chiamiamo potere civile e che era comunque considerato un potere sacro) e di un’anima (governata dal potere spirituale: il Papa, i vescovi, la Chiesa). Caratteristica di questo corpo è la solidarietà: nessun gruppo sociale può vivere senza gli altri gruppi. Come il corpo ha le sue malattie dovute a batteri, virus ecc., così anche il corpo sociale poteva ammalarsi. In un contesto in cui la solidarietà stava al primo posto, le malattie erano fondamentalmente due: la ribellione nell’ambito del potere civile; l’eresia in campo spirituale: talvolta tutte due le cose insieme perché (altro punto importante) non c’è distinzione tra l’una e l’altra sfera (così come nel corpo dell’uomo non si può dividere con chiarezza il corpo dall’anima). In poche parole niente di simile a quelli che oggi noi chiamiamo i diritti dell’uomo o i diritti della persona: per tutto il medioevo e per buona parte dell’età moderna è il corpo sociale che è considerato soggetto di diritto, e T U T T A U N ’ A LT R A non il singolo individuo. Qualcosa del genere succede ancor oggi nelle società islamiche dove è la umma (= il corpo sociale in arabo) che fonda il diritto musulmano. In Europa i diritti dell’uomo vengono affermati in forma pubblica e solenne solamente a partire dal 1789, quando la rivoluzione francese pone termine non solo a un regime, ma anche a una concezione politica morale, religiosa in qualche modo universale dell’uomo. Ecco perché nel giudicare la storia passata non possiamo usare i nostri frames, i nostri schemi mentali ma dobbiamo sforzarci di ricostruire come i protagonisti di quei secoli vedevano loro stessi la loro storia. Un esercizio che certamente non serve per giustificare ma per capire, e capire non è mai un fatto immediato: richiede tempo pazienza e soprattutto umiltà. Ovvio che una infamia rimane una infamia anche se è stata fatta nel secolo XIV; ma il fatto di vivere nel XXI secolo non ci autorizza a bollare come infamie quello che ci fa comodo, semplicemente perché ci infastidisce o non lo vogliamo studiare con calma. I medici del corpo sociale Torniamo ora la nostra età moderna, dal Rinascimento fino alla rivoluzione francese. Chi sono i medici che devono garantire la salute del corpo sociale? Sono le due massime autorità della christianitas europea cioè dire l’imperatore del Sacro Romano Impero, e il Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica romana. Entrambi si avvalgono di collaboratori e di esperti che li aiutano in questo compito fondamentale per la sopravvivenza del mondo: l’imperatore deve garantire l’ordine la pace sociale e la prosperità dello Stato, senza il quale non è possibile la salvezza eterna: anche se noi questo S T O R I A sembra un pio pensiero, per l’uomo medievale prima e rinascimentale dopo, questa è la prima preoccupazione di tutta la vita, lo scopo dell’intera esistenza: non “far soldi” o “avere successo”, ma “andare in paradiso”. E ci crede davvero. I fattori morali non hanno un’importanza secondaria rispetto a quelli economici, come noi eredi del marxismo siamo indotti a credere. Carlo V si batté con tutte le sue forze contro il protestantesimo anche perché era il difensore della fede cristiana, non solo per motivi politici o economici. Anche il Papa aveva bisogno di collaboratori, e questi erano gli specialisti ai quali si affidava: gli inquisitori. Questo significa che un inquisitore non era pensato come uno che deve condannare a morte gli eretici, ma con un medico che deve curare il corpo sociale, ricorrendo in casi estremi all’amputazione dell’arto malato, perché non infetti le altre membra. Pensare a un inquisitore come a un giudice che non vede l’ora di condannare a morte, equivale a credere che ogni visita dal medico debba concludersi con una amputazione… Condanna o assoluzione? A riprova di questo posso testimoniare che gli archivi della Santa Inquisizione del Tribunale di Aquileia (uno dei meglio conservati, dove ho studiato per la mia tesi di licenza in storia ecclesiastica), contengono circa 1000 processi celebrati fra il 1551 e 1798: di essi solo quattro si concludono con l’esecuzione della condanna a morte dell’imputato. Scopo dell’inquisitore infatti era quello di reintegrare il membro malato, cioè di curarlo, non di eliminarlo. A riprova di questo, sempre nello stesso tribunale si può osservare che la stragrande maggioranza dei processi si conclude con la ritrattazione dell’imputato e la sua assoluzione piena. 45 T U T T A U N ’ A LT R A Certo non dobbiamo dimenticare che non si trattava di un processo sereno, che l’imputato non era veramente libero di dire ciò che pensava, che l’uso della tortura era malauguratamente ritenuto legittimo, e questi elementi devono essere sempre ricordati per evitare di cadere in un revisionismo ridicolo quanto inopportuno: tuttavia le fonti non lasciano dubbi: lo scopo dell’inquisitore era la guarigione del membro malato. Il Sacro arsenale e la tortura Veniamo ora al capitolo più spinoso: l’uso della tortura. Come era inteso nella mentalità dell’epoca? ce lo spiega bene il Sacro Arsenale di fra Eliseo Masini, un vero e proprio manuale ad uso degli inquisitori, uscito in prima edizione a Genova nel 1625 e continuamente ristampato (ancora a Roma nel 1730, fra l’altro)1: la tortura è intesa come extrema ratio: ci si ricorre soltanto se i testimoni non sono sufficienti oppure gli indizi raccolti contro un imputato non risultano probanti, e l’imputato stesso continua a proclamarsi innocente. Per avvicinarci alla concezione che ne avevano gli inquisitori dei secoli passati dobbiamo immaginarla come una specie di rozza “macchina della verità”: ciò che oggi si cerca di dimostrare con l’analisi dell’aumento del battito cardiaco e della pressione sanguigna (che dovrebbero verificarsi in chi sta mentendo), allora si dimostrava con la coercizione fisica. Quanto alle forme di questa coercizione fisica, sebbene siano attestate nell’inquisizione spagnola pratiche di tortura abbastanza cruente – del resto non dissimili da quelle in uso presso il potere civile – il nostro manuale conosce un’unica forma di S T O R I A tortura: la sospensione da terra dell’imputato tramite una corda legata ai polsi, ad un’altezza di pochi centimetri dal suolo, e per un tempo massimo di mezz’ora alla volta. Procedimento che pur rimanendo inaccettabile ai nostri occhi è molto meno cruento di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Questa note dovrebbero aiutare il povero IdR sottoposto alla “tortura” dei discorsi sull’Inquisizione, se non altro, a mitigare gli infuocati dibattiti sull’oscurantismo della Chiesa: certo non abbiamo la pretesa di convincere i nostri alunni, ma è forse sufficiente trasmettere il messaggio che la storia è sempre molto più complessa di quanto può apparire a prima vista, e che ciò che sembra evidente a una prima occhiata lo è molto meno dopo uno studio attento e paziente. Figli dell’inquisizione Per chiudere vale forse la pena di ricordare un fatto che tutti gli storici conoscono bene e che quasi tutti i giornalisti e i polemisti ignorano: che l’intera procedura penale attualmente in uso nel sistema giudiziario italiano è figlia diretta della procedura inquisitoriale romana. A confermarlo basta una scorsa anche superficiale all’indice del manuale di cui sopra. In altre parole, un verbale di denuncia di un furto o di un interrogatorio in una qualunque stazione dei carabinieri viene ancora oggi stilato tenendo presente di stessi elementi individuati dagli inquisitori di quattro secoli fa. L’unica notevole differenza è che in assenza di prove nessuno viene legato per i polsi e sospeso da terra, neppure per un minuto… 1 L’edizione da me consultata è a cura di Attilio Agnoletto e si intitola Il manuale degli inquisitori ovvero pratica dell’Officio della Santa Inquisizione, Xenia edizioni, Milano 1990. Pur non essendo l’edizione scientifica né un’edizione critica tuttavia presenta il testo integrale di quest’opera importante per la storia del inquisizione moderna: il capitolo sulla tortura si trova a pag. 115 e ss. 46 L E O P E R E E I G I O R N I Le opere e i giorni di Pasquale Troìa Lucia Bonfiglioli, Ferdinando Costa, Giorgia Montanari, Stefano Ottani, Armonie del Tao. Il Confucianesimo e il Taoismo raccontati ai bambini, «Nuovi amici» Collana ideata e curata da Mara Scarpa, EDB, Bologna 2007, pp. 80, ISBN 978-8810-76505-0, € 6,00. È il quinto volumetto della collana “Nuovi Il protagonista, Manù, conosce un nuovo compagno di scuola, Yao, di nazionalità cinese e con lui si appassiona alle arti marziali. Attraverso la frequentazione del maestro di Wushu e dello zio di Yao, Jin Jin, i ragazzini e i loro amici scoprono la profondità e complessità delle filosofie tradizionali cinesi. I personaggi delle storie sono un gruppo di amichetti italiani di varie fasce d’età che si trovano a vivere esperienze d’incontro con bambini taoisti e confuciani. Le narrazioni sono tratte il più possibile dalla vita reale affinché il bambino possa riconoscervi il proprio vissuto e identificarsi con i vari protagonisti e conoscerne alcune parole-chiave presenti nel lessico confuciano e taoista. La storia si chiude con dei giochi per divertirsi e insieme verificare la comprensione dei contenuti. Il volumetto è stato letto e approvato da Andrea Hung Yuan, presidente dell’associazione cinese di Bologna, al fine di garantire una rispondenza tra la descrizione offerta e la realtà della fede, così com’è vissuta dai credenti taoisti e confuciani. amici” [sono stati già pubblicati quelli sull’Islam (maggio 2005), Ebraismo (settembre 2005), Buddhismo (febbraio 2006), Cristianesimo (settembre 2006) e sono previsti ancora l’Induismo e lo Shintoismo]. È la collana di narrativa per bambini dagli 8 ai 12 anni che, partendo da un dato dell’esperienza, mira a far emergere, attraverso avventure, notizie e giochi, i tratti caratteristici delle religioni. Particolarmente interessante il confronto spiegato ai ragazzi tra il Tao Te Ching (un testo autorevole della tradizione cinese) e il Vangelo, con citazioni molto belle e significative. Il volumetto, come gli altri, è gioioso, graficamente ‘mosso’, a colori, con un layout molto efficace e accattivante. Sarà proprio vero quanto sant’Agostino scrive: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra» (Confessioni, XIII libro). Speriamo che i colleghi che hanno avuto modo di sperimentare queste tipologie di narrazione ci facciano conoscere la loro funzionalità e l’efficacia in classe o nella lettura personale dei ragazzi. Conoscersi e convivere. la rivista (trimestrale) del dialogo interreligioso, edita da il Campidoglio. Il numero zero è una monografia di 82 pagine su La città in dialogo: è Roma la città che per la sua storia antica e recente si propone come la città dove tutti ed 47 L E O P E R E ognuno possono e devono trovare la loro identità culturale e religiosa. La rivista è stata simbolicamente presentata nel giorno del secondo anniversario della morte di papa Giovanni Paolo II (il più citato durante la presentazione, insieme alle parole “dialogo” e “pace”) nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio. Erano presenti il sindaco Walter Veltroni, Abdallah Redouane, segretario del Centro culturale islamico di Roma, l’imam della Moschea di Roma (Alaa di Eddin Al-Gobashy), il cardinal Paul Poupard (presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e di quello per il dialogo interreligioso), e il rabbino capo della comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni. La rivista è introdotta da un messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Tre i condirettori della rivista: Benedetto Carucci Viterbi, rabbino, esperto talmudista, studioso e direttore dell’insegnamento delle materie ebraiche nelle scuole della comunità di Roma; Abdallah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico; e Andrea Riccardi, ordinario di Storia contemporanea e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Le prossime uscite saranno dedicate ai temi spazio sacro, tempo, ragione e fede. La rivista è gratuita, e viene dichiarato che sarà distribuita presso le comunità religiose, nei Municipi e nel circuito delle biblioteche comunali (luoghi in cui si spera di trovarla!). Immaginate che vi venga concesso di fotografare “la Pietà” di Michela ngelo. Nel tempo di una notte. Siete soli nella penombra ed avete davanti il marmo che incarna la 48 E I G I O R N I Vergine Madre e suo Figlio morto così come creato dal Buonarroti, mentre canti gregoriani amplificano lo spazio che la penombra rende invisibile… È quanto è stato concesso al fotografo Robert Hupka nell’aprile del 2000. Fece centinaia di fotografie in bianco e nero da tutti gli angoli possibili. Il fotografo disse che gli era capitato qualcosa che davvero aveva sostanzialmente cambiato la sua vita. Ora alcune foto sono visibili sul sito http://193.48.70.125/arstella/en/sommaire/index.dim sia in diaporama sia in fototeca e sia in tematiche (la Pietà, Gesù Cristo, Maria). Il b/n della scelta fotografica esalta la luminosità delle curve del marmo e le angolazioni di una stesso particolare – come il volto di Maria – viste di seguito ne danno quel movimento impresso nel marmo che la staticità di molti non riesce a contemplare. La fotografia ricrea e mette in luce, evidenzia l’ispirazione e ne mostra le intenzioni. Il fotografo dona all’opera d’arte quella contemporaneità che l’artista ha incarnato nel suo tempo; il fotograto è un esegeta della materia e dello spazio immersi nel tempo. Dagli studenti molte immagini del patrimonio artistico scolastico sono ‘subite’, passivamente accolte, ridotte ad una citazione o ad un argomento di interrogazione.... Niente potrà mai coinvolgerli ed empatizzarli se l’immagine visiva come il testo della parola non sono da loro stessi reinventati e riscritti. E qui ha inizio il ‘miracolo’ dell’invenzione e della strategia didattica del docente. In questo caso gli studenti potrebbero esseri rimandati a visitare questo sito. Invitati a scegliere e riportare in carta alcuni scatti fotografici, a spiegarne i motivi della scelta, a riscriverli o a ridisegnarli, a... Ma potrebbero anche costruire un power point secondo alcuni criteri proposti dal docente: per esempio assemblando su una stessa diapositiva i L E O P E R E particolari delle diverse parti del corpo di ogni personaggio, commentandoli con sue parole o con una sua proposta grafica o con qualche musica, confrontando le espressioni del volto di Maria e di Gesù secondo Michelangelo con quelle di un altro artista... o con qualche ‘pietà contemporanea’, .... Sul sito altre informazioni: anche per acquistare on line il catalogo (ISBN: 2.912687.01.2) di 150 foto (al costo di € 18,50), o un portfolio (ISBN: 2.912687.00.4 ) delle dodici migliori foto scattate o di singole cartoline (al costo di € 1,00 ciascuna). Particolarmente affascinante l’ipotesi – proposta anche matematicamente nel sito – secondo cui la Pietà di Michelangelo (come ogni capolavoro artistico e musicale) gode del fascino e delle proprietà del segmento aureo e del suo numero aureo nelle sue molteplici configurazioni. Un altro modo di far scoprire ‘il mistero’ della creazione e della ‘plasmazione’ compositive di un’opera d’arte secondo molti artisti. Perché anche il numero e la linea inventano la bellezza. Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro, Contro il logorio del laicismo moderno. Manuale di sopravvivenza per cattolici, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al) 2006, pp. 206, ISBN 88-384-7730-2, € 12,50. Ci sono dei libri che vanno letti all’incontrario per poterne comprendere la reale portata degli argomenti che espongono. E questo sia per chi ne condivide la lettura in un verso, sia per chi, per onestà di ricerca, deve pur legger- E I G I O R N I li e sia per chi vuole scoprire quanta nascosta parte di sé asseconda quella tesi che il massimalismo mediatico e buonista non lascia trasparire perché oggi è di moda non ritenerlo ‘politically correct’, cioè deterso di quanto possa essere considerato, nel linguaggio e nei suoi termini, discriminante e pregiudiziale verso ogni tipologia differenziata dell’umanità (da quella razziale, religiosa, politica, sessista…). È il caso di un libro come questo. Pregevole nello stile: sottile, efficace, ben costruito, simmetrico, tagliente, memorizzabile, di grande effetto… Studiato nella redazione: domande comuni per gente comune e per gente che comunemente non vuole porsele o le scarta a priori; domande che sono inabissate in ognuno di noi e che ogni tanto merita riconsiderare. Con affermazioni che sono veicolate su costanti di comune conoscenza sfruttandone l’assonanza per captare consensi e per confondere il testo con la sua musica ed il contenuto con il suo ‘incartamento’: già il titolo evoca una pubblicità (in verità riconoscibile solo a chi ha qualche anno). E non mancano anche espedienti di grande effetto pubblicitario: il sottotitolo “manuale di sopravvivenza per cattolici” o la ‘ricetta’ in quarta di copertina che mimetizza questa pubblicazione confezionandola come “un medicinale da usare con cautela” di cui fornisce il principio attivo (dottrina cattolica 100%), gli eccipienti (ironia, umorismo, riflessione, analisi, arrabbiatura, quanto basta), le indicazioni (azione antibatterica contro infezioni da relativismo, laicismo, nichilismo, indifferentismo, cattocomunismo) e le controindicazioni (ipersensibilità alla dottrina cattolica, insufficienza catechistica grave, scompenso liturgico conclamato…). Un libro scritto per tanti che non vogliono ammettere e per quei pochi che non potranno che compiacersi che certe case editrici (di per sé onnivore), pubblicano anche ‘di que49 L E O P E R E ste cose’. In realtà il menù è più promettente delle pietanze e del sapore del ‘servito’. Certamente molti colleghi lo troveranno ‘bello’ (espressione vaga simile a quella salottiera di ‘carinissimo’ o a ‘interessante’ che svela quel vago sguardo di convenienza gettato su un libro o su un evento culturale). Alcuni (se disposti ad investire 12,50 euro), ne condivideranno molte o alcune affermazioni e ne saranno anche ‘entusiasti’ del modo con cui sono espresse e grazie a questa fascinazione potranno anche approvare l’“inspiegato” che vi si nasconde. Per esempio come non condividere a prima vista considerazioni come «compro l’agenda e scopro che i santi non ci sono più; sono sposato e fedele e mi dovrei sentire a disagio; entro in ufficio e sono invitato a lasciare la mia fede in guardaroba; dovete smetterla di ostentare crocifissi e immaginetta; se parla un cattolico è ingerenza, se parla un teoprogressista è profezia; la Chiesa non deve intromettersi negli affari civili; il Crocifisso sta bene tra la stella di Davide e il Corano»….Queste le considerazioni. Che meritano altre considerazioni. Che in realtà non si trovano. Perché ad ognuna di queste considerazioni seguono altre fenomenologie di realtà simili con risposte assertive che mai si pregiano – come dovrebbe fare un ‘cattolico’ se è un ‘cristiano’ – di porsi la domanda come mai l’altro mi percepisce in un modo diverso dalla mia identità. E come fare per poter stabilire modalità di comunicazione. Qui si fa fronte. Si afferma la propria identità (cattolica o cristiana? Si parla più di cattolicesimo che di cristianesimo. Si parla molto di Chiesa e poco di Gesù Cristo. Si tende ad affermare più il primato di un comportamento che la priorità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni). E soprattutto la laicità: non è tanto chiaro e dichiarato che sia un valore (anche per i cattolici), spesso sembra identificata con il laicismo. 50 E I G I O R N I In realtà alcune affermazioni rilevano situazioni reali, ‘ipocrisie’ di sinistra (per chi rimane fermo, su due piedi, perché basta guardarsi dietro e quindi ruotare di 180° per scoprire che altre affermazioni sono ipocrisie di destra!). La lettura è veramente ‘seducente’. E se non viene letto con l’ombra con cui tutto ciò che si afferma va letto, quando il sole che illumina è la propria coscienza e la fedeltà garantisce ciò che si sta cercando, certamente trovi in queste pagine quel qualcuno che finalmente ha avuto il coraggio di scrivere (e scrivere bene, ma non per questo scritto ‘bene’) quello che molti non dicono ma pensano. E se poi veramente vuoi metterti alla prova, gli autori offrono un “test per scoprire se sei un cattolico”. Ma se scopri di non esserlo, puoi anche trovare un posto (magari di riserva, perché quelli di ruolo sono già occupati) nelle “schede della nazionale dei laicisti” in cui trovi J.L. Rodriguez Zapatero (commissario tecnico), Umberto Eco (portiere), Piero Angela (terzino destro), Marco Pannella (terzino sinistro), Fabio Fazio (mediano), Emma Bonino (stopper), Paolo Mieli (libero), Jovanotti (ala destra), Maurizio Costanzo (regista dietro le punte), Corrado Augias (centravanti), Eugenio Scalfari (regista!), Margherita Hack (ala sinistra). Non mancano le riserve (Umberto Veronesi, Gianfranco Fini, Dario Fo, Giulio Giorello) e i ‘raccattapalle’ (come Romano Prodi, Rosy Bindi, Enzo Bianchi, Giuseppe Alberigo). Buona lettura e non vi meravigliate se poi anche questa pubblicazione contribuisce a constatare che “non c’è più religione”. E non soltanto quella cattolica ormai logorata dal laicismo moderno. Secondo Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (gli autori) che insieme ad altri scrivono su Il Timone («Il mensile dei cattolici»!) (www.iltimone.org), o tengono rubriche su Radio Maria o collaborano ad una stampa non sempre di imme- L E O P E R E diata visibilità, ma sempre di persistente presenza. Da considerare e da confrontarsi. Liberamente e laicamente? Con quell’est modus in rebus e possibilmente un modus dialogico, civile, fraterno… cristiano. Contro il logorio del sentirsi vittime per una sana laicità di sentirsi protagonisti. Hafez Haidar (a cura di), Maometto e i diamanti del Corano. Storie di saggezza e detti del Profeta, Oscar Mondadori, Milano 2007, pp. 138, ISBN 978-88-04-55909-2, € 8,80. Si parla molto di islamismo quando si dovrebbe invece citare l’islam e si confonde l’islam con l’islamismo. Ma ciò che caratterizza la nostra (in)civiltà è l’analfabetismo noetico sostituito da quello verbale: molti (troppi) utilizzano parole di cui non comprendono il significato. Ma questo sarebbe normale ‘nescienza’ se non riguardasse chi è tenuto a conoscere quel che dice: ed allora il comportamento si responsabilizza e si qualifica come ‘ignoranza’. Per non ignorarla, è necessario praticare l’arte del domandare e quella pratica dello studio che induce a porsi le domande. Questa pubblicazione induce a porsi domande, chiedendo di ascoltare “storie di saggezza e detti” di Muhammad (latinizzato in Maometto), il Profeta dell’Islam, secondo gli ahadith (è il plurale arabo di hadith che indica “i detti e le azioni del Profeta” così come tramandati oralmente) e la sunnah (“linee essenziali della vita, della pratica e della condotta di Maometto”). Il suo Autore, Hafez Haidar, nato in Libano, attualmente insegna letteratura araba presso E I G I O R N I l’Università di Pavia, nella breve introduzione si raccomanda al “benevolo lettore”: «dopo tante ricerche spese sui manoscritti e sui libri depositati nelle varie biblioteche e archivi del Libano e della Siria: consegno nelle tue mani i racconti di una miriade di autori […] che hanno raffinato i diamanti di Maometto, come abili orefici del sapere. Ti affido questi racconti che costituiscono il sorriso dell’Islam». L’autore intende introdurre il lettore «in quello scrigno magico sul quale il tempo ha depositato la polvere per scoprire i veri diamanti di quel pastore analfabeta al quale Dio ha rivelato il suo Verbo e che cambiò le sorti di quel mondo, trasformando le tribù beduine in una sola comunità, o Ummah, unita dalla fede e sottomessa a un solo Dio, sommo creatore dei mondi, del giorno e della notte». Nessun uomo è un vero credente se non ama ciò che ama suo fratello. Il miglior regalo per un credente è avere un bisognoso alla soglia della porta. Il Paradiso è sotto i piedi delle madri. Chi non ama i bambini non riceverà l’amore di Dio. Una massaia chiese al Profeta: «parlaci del desiderio!». Anas narrò: il Profeta aveva detto ai suoi fedeli: «Nessuno di voi è un vero credente se non desidera per suo fratello ciò che desidera per se stesso». Uno scienziato non si sazia di ciò che conosce finché non solca la porta del Paradiso. Un’ora di insegnamento è meglio di una notte di preghiera. Haritha ben Wahab narrò: Ho sentito il Profeta dire: «Fedeli, fate la carità poiché verrà un tempo in cui l’uomo camminerà portando la sua elemosina d’oro e non troverà nessuno che la accetterà. Nell’Aldilà incontrerà un uomo che obietterà: “Se me l’avessi portata ieri, l’avrei accettata, però oggi non ho alcun bisogno di essa”». 51 L E O P E R E La raccolta offre la possibilità di avere a disposizione racconti, parabole, insegnamenti, detti, risposte di Muhammad ad alcune domande della gente… Strumenti e documentazioni quanto mai utili nel nostro insegnare. Ne riportiamo in modo esemplificativo alcuni esempi nel box. Tra le numerose opere di letteratura araba curate da Hafez Haidar ricordiamo Le ali spezzate di Gibran, Fiabe arabe, Le mille e una notte, Quando l’amore chiama, seguilo, e Il custode del Corano (edizioni Piemme), un viaggio fantastico attraverso le avventure di profeti e re, principi e fanciulle, angeli e demoni che popolano il Corano, alla scoperta della vera storia del testo sacro dell’Islam. Vittorino Andreoli, Lettera a un adolescente, Bur, collana Saggi, Milano 2006, pp. 142, ISBN 88-1700699-8, € 6,20. Gli adolescenti anagrafici sono quelli che ogni giorno sfidano la nostra professionalità e davanti ai quali rappresentiamo tutto ciò che nel loro immaginario può significare passato, istituzione, cultura, autorità e autorevolezza e quant’altro ancora non riusciamo a decifrare! Conoscerli (fin a quanto è possibile, con la discrezionalità rispettosa della loro ‘spiritualità’) è un dovere professionale del docente e un dovere parentale di tutti coloro che costituiscono la sua riconosciuta o meno famiglia. Molte le opere e molti gli studiosi che ne hanno fatto oggetto di ricerca. Vittorino Andreoli non si interessa ai loro comportamenti come oggetto di studio ma alla loro persona che si comporta e pensa in modo ‘seriamente’ adolescenziale. Perciò una lette52 E I G I O R N I Ricordati di criticare tuo padre e tua madre, di difendere i tuoi diritti, compreso quello del rischio e dell’errore. Ma amali sempre. Non buttarti via, non farti del male perché, così facendo, ma colpisci il mondo intero. Non ti appartieni, sei. Sei come è il mondo attorno a te. Sei mistero, e nel mistero del tuo esserci forse vali più di quanto tu immagini. Hai un senso che va oltre il senso. ra non agli adolescenti ma a un adolescente (quello che non esiste mai e che in qualche modo è il paradigma di tutti). Si presenta con una leale dichiarazione di identità (anagrafica): «Carissimo, è bene ti dica subito che sono vecchio, ma faccio parte non solo della categoria dei padri ma anche di quella dei nonni». Ma un «vecchio convinto che non sia accettabile il mutismo tra generazioni… è meglio parlare che stare muti…». Per cui «ho molte cose da dirti, emozioni e sentimenti da trasmetterti. Mi rivolgo a te senza giovanilismi forzati, semplicemente da vecchio. Incarnerò insomma il mio ruolo e lo farò fino in fondo. Di fronte a te, con tutte la forza delle mie convinzioni, con la consapevolezza che non sono “la verità”, ma semplicemente ciò in cui credo, perché tu sappia come la penso e quindi quale sia la mia visione della vita e di quella di un adolescente in particolare» (pp. 7-8). Tutta la lettera coniuga considerazioni, osservazioni, confidenze, esperienze e soprattutto emozioni. L’Autore è convinto che «non serve scambiare ragionamenti se non si colgono le motivazioni che ci portano a esprimerli e i legami che si vorrebbero attivare mentre ne parliamo. […] sono dunque i sentimenti a guidare e persino a condizionare il procedere della ragione, capovolgendo la confine per cui la ragione rappresenta il “freno inibitore” della nostra “irrazionalità”» (pp. 8-9). L E O P E R E Tra le pagine di questa lettera, si ritrova l’animo e la passione di quell’Andreoli che dichiarò di essere «uno psichiatra, cioè uno che si occupa di comportamenti anomali, se volete di follia del mondo giovanile. E quindi mi pongo tante domande: perché i giovani hanno alcuni comportamenti che non sono accettati, perché spesso sono contro, per esempio, contro le regole, contro la società, contro la famiglia, contro il Codice Penale». Ed il docente tra queste pagine trova riferimenti a quei frammenti di storie quotidiane che a scuola si coniugano e si declinano tra emozioni, paure, sentimenti, noia, voglia e quant’altra fenomenologia che gli adolescenti inventano e manifestano. Tra noi adulti e professori la cui istituzionale autorità non sempre si complementa con l’autorevolezza, ma che già sarebbe tanto se l’una fosse l’epifenomeno o il fenotipo dell’altra. Leggere queste pagine significa anche imparare ad osservare e ad ascoltare coloro che per noi rappresentano il futuro in questo presente da condividere quotidianamente. L’ultima opera di Vittorino Andreoli è Principia. La caduta delle certezze (Rizzoli, Milano 2007, pp. 665, € 12,50): la raccolta e la rielaborazione di quelle due ampie pagine di “Principia” che per un anno sono state pubblicate su Avvenire nella interessantissima sezione “Agorà domenica”. Geminiello Preterossi (a cura), Le ragioni dei laici, editori Laterza, collana economica laterza 404, Bari 2006, pp. 192, ISBN 88420-8093-4, € 7,50. Si parla molto di laicità. Una parola astratta che ha usurpato la E I G I O R N I sua origine etimologica, anche quella ecclesiale, per significare altro, diversamente altro. Ma sempre come un diritto. Ma se nell’ambito del lessico civile la laicità è una garanzia, in quello ecclesiale è una vocazione. E se la parola vocazione ha uno spazio nel lessico civile, la laicità è anch’essa una vocazione nel senso che tutti sono chiamati ad esserlo ed è un diritto costitutivo ed identitario della persona. Ma nel lessico ecclesiale tale chiamata proviene da Dio e si ‘codifica’ nel battesimo. Senza eccedere in analogismi ed irenismi, bisogna anche constatare che laicità e laico sono tra le parole più ambigue e “personalizzate” che oggi vengono utilizzate. E che ogni nazione ha una sua storia di laicità. E tutti ovviamente offrono ragioni per schierarsi tra quelli che possono essere considerati i due limiti dell’oscillazione semantica, esistenziale, culturale, politica del termine: tra una laicità intesa come garanzia ed un’altra intesa come neutralità. Indice Contro le nuove teologie della politica (G. Preterossi) L’etica dei laici (R. Bodei) Libertà e laicità (C. Galli) Il pregio di ciò che manca e la laicità degli altri (F. Remotti) Le radici illuministiche della libertà religiosa (V. Ferrone) La laicità dello Stato (F. Margiotta Broglio) Scuola e cultura laica (T. De Mauro) Laicità e religione (C. Magris) Cristianesimo e laicità (P. Scoppola) Perché non possiamo non dirci laici (A. Riccardi) Islam e laicità (K. Fouad Allam) Le radici meticcie dell’Europa (A. Foa) Corpo e laicità: il caso della legge sul velo (I. Dominijanni) Scienza e laicismo (U. Veronesi) 53 L E O P E R E Laico non significa affatto, come spesso ignorantemente si presuppone, l’opposto di ‘cattolico’ e non indica, di per sé, né un credente né un agnostico o un ateo. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì un abito mentale, la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che invece è oggetto di fede – a prescindere dall’adesione o meno a tale fede – e di stingere le sfere di ambiti delle diverse competenze, per esempio delle della Chiesa e quelle dello Stato, ciò che – secondo il detto evangelico – bisogna dare a Dio e ciò che bisogna dare a Cesare. […] Laico è chi sa aderire a un’idea senza restarne succube, impegnarsi politicamente conservando l’indipendenza critica, ridere e sorridere di ciò che ama continuando ad amarlo; chi è libero dal bisogno di idolatrare e di dissacrare, chi non la dà a bere a se stesso trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze, chi è libero dal culto di sé. Una volta mio figlio, vedendomi troppo coinvolto da un astioso attacco personale, i rimproverò dicendomi: “Sii più laico!”. Non solo il clericalismo invadente e intollerante, ma anche la dominante cultura o pseudocultura radicaloide e secolarizzata è l’opposto di questa laicità, in quanto è caratterizzata da un narcisismo petulante, smanioso di rivestirsi di una nobile aureola ideologica e di declamare nobili battaglie. (Claudio Magris, Laicità e religione, pp. 109-110). Ciò che conta sono le ragioni che i laici adducono. Conoscerle significa anche avere qualche strumento in più per poter interpretare questa nostra storia quotidiana che è presente nella scuola molto più di quanto noi la consideriamo. E ci permetterà anche di ampliare gli orizzonti di quelle tematiche – che a scuola non possiamo non decodificare, problematizzare e analizzare – che ri54 E I G I O R N I guardano le interazioni fede-politica, fedescienza, Chiesa-Stato, morale-etica, bioetica, radici cristiane dell’Europa, crocifisso in classe e…IRC nella scuola! Questa raccolta di “ragioni dei laici” è eccellente. Ed indispensabile per un IdR (e non solo): è sufficiente leggere l’indice proposto nel box. Nella onesta brevità dei loro saggi, gli autorevoli studiosi che intervengono (dei quali si offre sempre un breve curriculum vitae e bibliografico) espongono e rivendicano, in modo critico, le ragioni della laicità. Ma il suo Curatore ci tiene anche a sottolineare, in conclusione alla sua interessante introduzione che «questo non è solo un libro sulla laicità, ma anche un libro laico. Perché è un lavoro pluralista, che coinvolge molte voci autorevoli e diverse, di studiosi impegnati – con orientamenti, linguaggi e metodi differenti – a prendere sul serio le condizioni di una convivenza consapevolmente democratica». ————— I colleghi ormai vedono che ci ostiniamo a segnare l’ISBN per ogni pubblicazione proposta. L’ISBN (International Standard Book Number) è un sistema unificato per la numerazione dei libri adottato su scala internazionale che permette l’immediata e inequivocabile identificazione di un titolo o di un’edizione di un titolo di un determinato editore. L’Agenzia per l’area di lingua italiana, di cui è titolare l’AIE, è gestita da Ediser srl (per maggiori informazioni consulta il sito www.isbn.it). Abbiamo già avuto modo alcuni anni fa di spiegare quale funzione ha questa sigla. Ora si presenta l’occasione di riproporla perché dal 1 gennaio è in vigore il codice non più a 10 cifre ma a 13 e con il codice a barre. Al codice ISBN a 10 cifre viene anteposto il prefisso 978 (in seguito è previsto anche il 979) che nella rappresentazione a L E O P E R E barre del codice ISBN nel sistema GS1 identificano il mondo del libro. Cambia inoltre l’ultimo numero – il numero di controllo – in quanto viene calcolato utilizzando un algoritmo diverso rispetto a quello con cui si calcola il numero di controllo di un ISBN a 10 cifre. La struttura dell’ISBN a 13 cifre, quindi, è suddivisa in 5 parti: Rino Cammilleri, Il Quadrato Magico. Un misero che dura da duemila anni, prefazione di Vittorio Messori, Bur, collana Saggi, Milano 2004/2006, pp. 231, ISBN 88-17-000655, € 8,50. Si sa la curiosità è tipica dell’adolescenza. Anche di questa nostra adolescenza con la quale ogni giorno interagiamo professionalmente. E di quella che permane in ogni adulto. Questa pubblicazione organizza ipotesi, ricerche, interpretazioni intorno ad un curioso e affascinante (= magico) graffito ritrovato negli scavi di Pompei, nel 1936 nella casa di Paquio Proculo, duumviro intorno al 74 d.C. Ed ora tre di queste parole sono state scoperte dopo i restauri anche nel mosaico “Sansone squarcia e uccide il leone” nel coro della collegiata di Sant’Orso ad Aosta, opera di un anonimo della metà del XII secolo. È stato riscontrato in molte altre località italiane, europee e mesopotamiche, su decine di chiese europee, E I G I O R N I usato come talismano dagli alchimisti, su papiri e amuleti copti ed etiopici, questo quadrato magico non smette di incuriosire ed affascinare. Sono quattro parole di quattro lettere che formano un quadrato magico (come quello formato da numeri che danno sempre la stessa somma in ogni direzione) e un palindromo (cioè leggibile da sinistra a destra e viceversa). Infatti le parole, poste una sotto l’altra, possono essere lette da sinistra a destra, da destra a sinistra, dall’alto in basso, dal basso in alto, e la parola della terza riga, tenet, letta a rovescio, rimane identica. Se, poi, si scrivono tutte e cinque le parole una di seguito all’altra (rotas opera tenet arepo sator), la frase risultante può essere letta ugualmente bene anche in senso contrario, costituendo, quindi, un palindromo. Una semplice trovata! Un gioco erudito? Probabilmente sì, se non si indaga sulla sua magia o almeno sulle intenzioni di chi l’ha inventato. Un’ipotesi affascinante è quella di Felix Grosser, pastore evangelista, il quale trovò che le venticinque lettere del quadrato possono essere disposte in modo da formare le parole PATERNOSTER incrociate, fra una A ed una O, corrispondenti latine dell’Alfa e dell’Omega greci, principio e fine di tutte le cose. Inoltre, nel quadrato stesso, le parole TENET formano una croce, e la T ad ogni estremità può essere interpretata come una lettera greca tau, anch’essa simbolo della croce. Infine, ai lati di ogni T appare sempre una A (alfa) ed O (omega). Dunque il quadrato potrebbe essere un simbolo cristiano assunto da precedenti tradizioni e che qui andava per coincidenza ad esprimere bene la preghiera del Signore dell’Alfa e dell’Omega. Altri risultati e interpretazioni sono possibili dalla lettura continua delle cinque parole: 55 L E O P E R E • Iddio (SATOR, il creatore) - domina e regge (TENET) - le opere del creato (ROTAS OPERA) e quanto la terra produce (AREPO, aratro). • Il seminatore (SATOR) sul suo carro (AREPO è parola di origine celtica il cui significato è simile a carro) dirige (TENET) con perizia (OPERA) le ruote (ROTAS, qui le ruote stanno a significare le orbite dei corpi celesti). Ma altre interpretazioni sono possibili. Lo scrittore e giornalista Rino Cammilleri «per la prima volta in Italia costruisce la storia del Quadrato magico evidenziando gli sconcertanti interrogativi che pone, svelandone la miniera di simboli, correlazioni significati, rapporti numerici. Un’indagine rigorosa, stupefacente e avvincente» (dalla quarta di copertina) Nella lealtà del nostro insegnare, la magia di un simbolo o di un’invenzione non deve esaurirsi nello stupore e negli infiniti possibili suoi significati, ma deve essere sempre un ‘medium’ di comunicazione che elaborando codici in modo misterioso e affascinante ne permette di scoprire le possibili comprensioni del Mistero. Lasciato solo a se stesso un simbolo è come una trottola che non riconosce il suo centro di gravità e continua a prendersi in giro e a prendere in giro. Irwin Abrams (a cura), Parole per la Pace. I premi Nobel per la Pace del Ventesimo secolo, (premessa di Jimmy Carter); edizioni Gribaudi, Torino 2006, pp. 158, ISBN 88-7152-8735, € 8,00. 56 E I G I O R N I Un piccolo strumento. Ma con grandi parole di autorevoli testimoni. È una selezione dai discorsi di accettazione del premio Nobel da parte delle personalità che dal 1901 sono stati onorate di questo titolo. La scelta è stata curata dalla maggiore autorità sulla storia dei Premi Nobel, Irwin Abrams, professore emerito dell’Università di Antiochia. Pensieri e parole di pace utili come tracce di un percorso, come immagini di parole vissute, che si incarnano nei loro protagonisti, come eredità di testimoni che ci interpellano. La loro fruizione didattica è immediata, anche per un insieme di strumenti come la cronologia dei Premi Nobel, la loro breve biografia e la tematizzazione dei loro pensieri (la pace, i legami dell’umanità, fede e speranza, la tragedia della guerra, violenza e non-violenza, i diritti umani, politica e leadership). Arthur Green, Queste sono le parole. Un dizionari della vita spiratale ebraica, Editrice La Giuntina, Firenze 2002.2006, pp. 336, ISBN 8868057-144-3, € 15. «Il giudaismo ha avuto molte lingue – dall’aramaico al greco della diaspora alessandrina e all’arabo, dai volgari europei sino all’intimità sentimentale dell’yiddish – ma in ciascuno di questi idiomi si è conservato un deposito più o meno ristretto di parole ebraiche, come un nucleo più pesante in cui rifugiarsi e a cui tornare» (Giulio Busi). Questo dizionario è un’opera pregevole, pratica, utilissima. È un vademecum di 149 parole che ricorrono frequentemente nell’uni- L E O P E R E verso dell’ebraismo o meglio della “vita spirituale ebraica” (come indica il sottotitolo). Parole che ci permettono di essere fedeli, di testimoniare l’ospitalità nella nostra comunicazione: nessuno si sente più straniero quando è ospitato già nelle parole che per lui sono ‘vitali’. Anche perché «a dire il vero Le 149 parole sono fatte abitare in 8 stanze di argomenti: 1. Dio e i mondo superni 2. Torah: testo e metodo 3. Pratica religiosa 4. Vita spirituale 5. Comunità, vita con gli altri 6. Cose sacre 7. Luoghi sacri 8. Tempi sacri. è difficile vivere una vita ebraica seria in traduzione» (p. 17). E d’altra parte nel nostro insegnare costituiscono anche una proprietà di linguaggio: è più corretto dire Torah e spiegarla anziché Legge e lasciare che ognuno intenda quello che poi (effettivamente) non è equivalente a Torah. Molte parole qui presentate sono indispensabili per parlare fedelmente e correttamente di ebraismo. E di alcune vengono anche indagate quelle trame che sottendono la ricerca rabbinica fin nella loro valenza più kabbalistica e a volte ghematrica. Le parole qui sono presentate come ‘persone vive’ delle quali viene ricostruita la loro identità ‘anagrafica’ (etimologia, filologia), la loro storia, le loro ‘abitazioni’ liturgiche, bibliche, spirituali, culturali ….la loro quotidianità. Con queste parole gli ebrei hanno vissuto e convivono e mediante queste parole è stato tramandato una toràt chayyìm (un “insegnamento vivo”). Per un ebreo nella lingua e nelle sue parole abita la sua fede e la sua alleanza con Dio. Green – do- E I G I O R N I Attàh è la parola ebraica che traduce “tu”. Ma “tu” è anche “Tu”, il pronome con cui ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Le prime due lettere di attàh sono alef e tav. Queste formano l’inizio e la fine dell’alfabeto ebraico. Poiché i maestri della mistica credono che Dio abbia creato tutti i mondi con la combinazione delle lettere, alef e tav si possono considerare come simbolo di tutta la Creazione. Tutto ciò che è stato o mai sarà accade solo attraverso le lettere dall’alef alla tav (si tratta di qualcosa di simile al detto di Gesù, in greco, «Io sono l’alfa e l’omega», intendendo con ciò «Io sono l’inizio e la fine»). Tuttavia, combinare insieme queste due lettere ci dà soltanto la parola et, una particella usata per il complemento oggetto. Alef e tav fanno riferimento al mondo soltanto come ad un oggetto. La terza lettera in attàh, è usata qui per rappresentare il nome di Dio. Aggiungere il nome di Dio alla alef e alla tav e la parola prende vita. Con l’aggiunta della he (anche se la he in realtà non è altro che un soffio!) la parola non è più il segno dell’oggetto, ma “Tu”! Il suono finale “aaahh” ci porta all’esterno, ci connette con l’altro. Con attàh noi ci rivolgiamo al Soggetto vivente, non all’oggetto inanimato o astratto (pp. 31-32). cente di pensiero giudaico alla Brandeis University e ‘guru’ del movimento neochassidico statunitense – è convinto che l’ebraismo stesso sia “una lingua”, ovvero «la maniera di una collettività di esprimere fede, desideri, aspirazioni, sogni». Non a caso il titolo riprende l’incipit dell’ultimo libro della Torah, il Deuteronomio (in ebraico Elleh haddebarim, «Queste [sono] le parole»), quasi ad insinuare che la lingua ebraica è un ulteriore modo di parlare e di scrivere, oggi e per noi, quanto è già codificato nella Torah. 57 L E O P E R E htttp://www.prato.linux.it/~lmasetti/canzonicontrola guerra/ Canzoni contro la guerra è un lavoro corale di raccolta di testi relativi a canti di tutto il mondo e di tutte le epoche a contenuto pacifista ed antimilitarista, in forma di database e strutturato su contributi liberi da parte di lettori e collaboratori. Questo sito è on-line dal 20 marzo 2003, giorno in cui sono iniziati i bombardamenti anglo-americani sull’Iraq: è quindi una reazione spontanea da parte di tutti coloro che intendevano opporsi alla guerra mediante le canzoni. Ogni canzone ha ovviamente un autore e per ogni autore spesso si trovano anche delle informazioni biografiche. Il testo della canzone è in lingua originale ed ogni traduzione segue sempre il testo originale ed è inserito sotto l’autore o l’interprete originale. A volte per gli autori più importanti è presente anche un video. Per contribuire all’archivio si deve utilizzare esclusivamente l’apposita pagina. L’unica caratteristica che questa canzone deve soddisfare è che sia contro la guerra. La maggior parte delle canzoni è seguita da una o più versioni e/o traduzioni in italiano o in varie lingue. Poiché questo sito si trova in Italia ed è gestito da italiani, l’italiano è la lingua più frequente, specialmente nei commenti (che sono tradotti solo raramente). In ogni caso, ognuno può inviare i propri commenti in inglese o nella propria lingua. Le canzoni sono generalmente inserite sotto il loro autore effettivo e non sotto il loro più famoso interprete (quindi When have all the Flowers gone è inserita sotto Pete Seeger e non sotto Joan Baez che la canta). L’archivio 58 E I G I O R N I contiene fino ad ora 5628 canzoni di 2156 autori diversi in 75 lingue e 5719 versioni, traduzioni e commenti in 99 lingue. Sa bene un insegnante che cosa si può ‘fare’ con le canzoni. E la loro collocazione in rete permette anche di gestire un patrimonio così immenso, alla portata di ogni studente che a casa ha un computer ed una connessione internet così che gli si possa assegnare un compito in prima persona che lo abiliterà a cercare, a scegliere, a documentare la musica, il testo ed a selezionare i commenti. Ovviamente senza dimenticare di chiedergli che cosa pensa di quel che legge, ascolta e documenta. Possibilmente invitandolo a scrivere anche lui una canzone per la pace, o magari un testo, una poesia. Comincia anche di qui la lunga via di formazione che lo porterà da cittadino ad essere un testimone e un protagonista per la pace. C. Giuntini – B. Lotti (edd.), Scienza e teologia fra Seicento e Ottocento, Studi in memoria di Maurizio Mamiani, Olschki, Firenze 2006, pp. 147, ISBN 88-2225516-X, € 16,00. Il volume raccoglie gli atti di un convegno tenutosi nel maggio 2004 presso l’Università di Udine per onorare la memoria del grande storico della scienza Maurizio Mamiani. I saggi affrontano temi decisivi per la storia del pensiero filosofico, scientifico e teologico dall’età di Galilei a quella di Darwin. Come saggiamente rilevano i curatori nella Prefazione, «sarebbe arbitrario, oltre che inutile, cercare di indicare una prospettiva unitaria fra i diversi stili e risultati delle analisi condotte nei singoli saggi» (p. L E VIII). O P E R E E tuttavia val la pena descrivere brevemente i contenuti dei singoli contributi, la cui lettura si raccomanda per la ricchezza di documentazione ed il rigore scientifico. Paolo Rossi (Due interpretazioni di Daniele 12,4, pp. 1-14) ripercorre le vicende dell’interpretazione di un versetto scritturistico che nella Vulgata suona: «plurimi pertransibunt, et multiplex erit scientia» e che Francis Bacon trasformò nel motto «Multi pertransibunt et augebitur scientia», posto sul frontespizio dell’Instauratio Magna a commento di un’immagine simbolica: un vascello che si accinge a passare a vele spiegate oltre le Colonne d’Ercole. Ma il passaggio trionfale dei multi verso una scientia sempre più vasta non corrisponde al senso originario del testo: i plurimi che “passeranno oltre” (pertransibunt) lo faranno perché non riescono a cogliere il vero senso delle profezie, e la scientia multiplex indica solo la varietà delle opinioni incerte. Così interpreta infatti il testo il gesuita portoghese Antònio Vieira. E tuttavia, leggendo con attenzione gli scritti di Bacon risulta evidente che neppure lui fu un “teorico del progresso” nel senso che questa espressione ha acquistato nel tardo Settecento; al contrario, egli vedeva piuttosto la storia come un percorso tortuoso ed incerto, così come faticosa è tutta la storia della salvezza. Il contributo di William Shea (Galileo a Roma: incontri e scontri, pp. 15-38) ricostruisce il rapporto ambivalente tra Galileo e le autorità dell’Urbe. L’autore narra i sei viaggi a Roma dello scienziato, ansioso di ottenere l’approvazione degli ambienti romani, e che invece vi trovò alla fine il rifiuto e la condanna. Franco Giudice (Isaac Newton e la tradizione dei principi attivi nella filosofia naturale inglese del XVII secolo, pp. 39-55) descrive il deciso superamento del meccanicismo cartesiano da parte di Newton mediante l’attribuzione al cosmo di poteri, forze e “prin- E I G I O R N I cipi attivi” capaci di agire a distanza. Ma l’impiego di “principi attivi” o “qualità occulte” non è un’innovazione radicale, bensì uno degli aspetti più caratteristici e documentabili della tradizione inglese del XVII secolo. Newton sottolinea solo che non si tratta di qualità individuali (come le “qualità occulte” di matrice scolastica), bensì di “cause occulte universali”, derivabili dall’osservazione dei fenomeni naturali, come ad esempio la forza di gravità, invisibile ma verificabile. Ancora del grande inglese si occupa nel suo avvincente saggio Brunello Lotti (Filosofia naturale e teologia nello Scholium Generale di Newton, pp. 57-80). L’autore si chiede: è corretta la corrente tendenza storiografica, secondo cui lo Scholium Generale aggiunto nella seconda edizione dei Principia mathematica mette radicalmente la fede cristiana a fondamento della scienza? L’autore mostra che lo Scholium presenta opinioni teologiche non necessariamente legate al pensiero fisico di Newton, frutto piuttosto della sua passione esegetica: la “cornice teologica” non deve trarre in inganno come se si trattasse di una fondazione teologico-metafisica del sapere scientifico. Tra teologia e scienza in Newton non c’è alcuna dipendenza fondativa, ma solo una costante preoccupazione di armonizzare le due discipline. Proprio per questo motivo «rimuovere lo sfondo e lasciar cadere il pinnacolo teologico non è stato difficile per i successori» (p. 79). Chiara Giuntini (Locke, Newton e la scienza della scrittura, pp. 81-104) si occupa degli scritti esegetici maggiori dei due filosofi anglosassoni. È vero che entrambi apprezzano i nuovi strumenti di critica testuale e combattono contro gli stessi avversari filosofici; ma avere gli stessi nemici non significa essere sempre dalla stessa parte. Le divergenze si accentuano soprattutto nella valutazione delle profezie: decisive per Newton, che le studia nel 59 L E O P E R E tentativo di ricondurre ad un piano razionale gli schemi della provvidenza; trascurate da Locke, perché la loro insuperabile “ebraicità” rende più difficile un percorso di tolleranza e di avvicinamento tra diverse confessione cristiane. Paola Dessì (I cattolici di fronte alla scienza: strategie apologetiche nella Francia di fine Ottocento, pp. 105119) ricostruisce le intricate vicende dell’apologetica cattolica dinanzi all’avanzata del pensiero laicista e naturalista. «I nuovi avversari della fede si appoggiano sulla nuova scienza della natura… per dichiarare Dio inutile, il miracolo impossibile, il mistero inammissibile, e per relegare il Cristianesimo tra le vestigia di un passato morto per sempre»: così si esprimeva Mons. Maurice d’Hulst, rettore l’Institut Catholique di Parigi nel 1883. Il suo progetto – e quello non dissimile dell’abate Paul De Broglie – non era però quello di rigettare la scienza in nome della teologia; al contrario egli mirava a scardinare l’alleanza tra spirito laico e spirito scientifico, cercando di guadagnare la scienza alla causa della religione, mostrando quanto la scienza sia intimamente intrisa di metafisica. Per questo si attirò le ire del tomismo più tradizionalista, rappresentato dalle «Nouvelles annales de philosophie catholique»; di lì a poco la Pascendi di Pio X avrebbe paralizzato ogni iniziativa che andasse nella direzione auspicata da d’Hulst. Chiude il volume il saggio di Antonello La Vergata (Darwinismo, scienza, religione, pp. 121-139) sulla figura, ancora altamente controversa, di Darwin. L’autore ripercorre le vie seguite da coloro che hanno cercato di conciliare l’evoluzionismo con la credenza in un Dio creatore, mostrando uno scetticismo talvolta venato di sarcasmo (si veda l’impietosa satira nei confronti di Antonino Zichichi a p. 123, o la serrata critica alle affermazioni di Giuseppe Bertagna a pag. 128). Nonostante la solenne sepoltura nella 60 E I G I O R N I Cattedrale di Westminster, interpretata da alcuni come simbolo della riconciliazione tra chiesa anglicana e scienza, Darwin fu un credente tiepido e confuso («la mia teologia è semplicemente un pasticcio», confessava nel 1870). Le conclusioni dell’articolo (pp. 134-139) eccedono la semplice ricostruzione storiografica e si estendono a importanti considerazioni teoretiche sul rapporto tra scienza e religione cristiana. Ne segnaliamo – a malincuore – solo una: la confutazione della tesi della “coesistenza pacifica”, secondo cui scienza e religione non possono essere in conflitto perché hanno ambiti distinti e compiti diversi: «la prima indagherebbe infatti il ‘come’, la seconda il ‘perché’». Infatti anche la scienza deve chiedersi il perché (anche se non può dire a che scopo): essa non è meramente descrittiva, ma vuole scire per causas. Dissentiamo poi dall’idea che «la coesistenza [di scienza e religione] è sempre possibile [solo] sul piano personale, sul quale ogni conflitto può essere risolto con mezzi più o meno ingegnosi, o messo a tacere, o semplicemente ignorato»; concordiamo invece con la conclusione, secondo cui «c’è almeno un senso in cui il conflitto tra scienza e religione è, oltre che inevitabile, utile: quando mantiene viva la “tensione essenziale” sulle grandi domande» (p. 139). Ecco: se si parlasse – con Th. Kuhn – di tensione invece che di conflitto, credo che le considerazioni di La Vergata sarebbero più condivisibili. I conflitti si creano al massimo tra uomini che sostengono, a volte in maniera ideologica, un sapere contro un altro; ma il vero sapere non può che essere unico. In conclusione, si tratta di un volume serio, rigoroso, che partendo dall’indagine storica induce alla riflessione sulla storia delle idee, ricco anche di spunti didatticamente interessanti per l’IdR che voglia presentare in maniera consapevole ed aggiornata questi temi (F.M.). R I P R E S E & D E T T A G L I Le Cronache di Narnia. Il leone, la strega e l’armadio di Andrew Adamson (USA, 2005) di Andrea Monda Al pari de Il Signore degli Anelli di Tolkien anche Le Cronache di Narnia di C.S.Lewis, che di Tolkien era grande amico, sono diventate uno dei libri più letti e amati del mondo. Questa saga fantasy in sette volumi realizzata negli anni ’50 che ha appassionato i lettori di tutto il mondo è diventato subito un “classico” della letteratura per l’infanzia e quindi non ha sorpreso che la Disney se ne impossessasse per realizzare un bel film d’azione che ha facilmente conseguito un enorme successo internazionale. Il regista Andrew Adamson, lo stesso della fortunata serie Shrek, ha realizzato un film fedele alla lettera e allo spirito dell’opera di Lewis, che si rivela, come il “parallelo” film tratto dal Signore degli Anelli (già presentato in questa rivista nel numero 4/2005), un ottimo strumento didattico per l’IRC. Il film in realtà è molto lungo e quindi è consigliabile far vedere agli studenti solo alcune sequenze puntando anche su un fatto molto interessante: una buona parte degli studenti ha già visto il film. Ecco brevemente la trama. Londra 1940: quattro bambini inglesi si trovano in una casa di campagna, la città infatti, a causa dei bombardamenti, è poco sicura, e la più piccola del gruppo, Lucy, entrando casualmente (provvidenzialmente?) in un grande armadio si trova in un altro mondo, Narnia, per certi versi simile all’Inghilterra del 1940: anche Narnia infatti è nel pieno di un conflitto mondiale. Da qui partono le avventure dei quattro fratelli Pevency che si troveranno a dover scegliere tra la terribile Strega Bianca e il mite, maestoso, leone Aslan. Uno dei bambini, Edmund, ammaliato dalla Strega tradirà la causa di Aslan e sarà condannato a morte, ma il leone, sorprendendo tutti, si offrirà in riscatto e si sostituirà al bambino traditore. Dopo una morte “sacrificale” Aslan risorgerà dalla morte e tornerà a guidare l’esercito degli uomini liberi contro la potente e spaventosa armata della Strega Bianca. Al termine di una grande battaglia i quattro bambini verranno nominati re e regine e governeranno Narnia per molto tempo finché, casualmente (provvidenzialmente?) torneranno a casa, passando per il magico armadio, e ritrovandosi i bambini del 1940. Il leone Aslan, ovvero Cristo Vorrei ora concentrare l’attenzione su due aspetti della storia, evidenziati già nel titolo di questo che è stato il primo (in senso cronologico) degli episodi scritti dallo scrittore anglo-irlandese: il leone e l’armadio (così lasciamo da parte l’odiosa Strega Bianca). Il leone, chiamato Aslan (che significa ap61 R I P R E S E punto “leone” in turco), è una evidente figura di Cristo. Nel momento in cui lui e i suoi amici vengono traditi da Edmund ecco che offre la sua vita in riscatto del traditore stesso. L’espediente letterario permette di capire che l’amore di Cristo non è un vago amore universale, ma è il concretissimo dono che Egli fa per ogni singolo uomo. Come Cristo anche Aslan muore, attraverso una vera e propria via crucis, e risorge. La sequenza nel film è molto intensa. Abbandonato da tutti Aslan sale le scale che lo portano all’altare (la cosiddetta Tavola di Pietra) dove dovrà soccombere: è un calvario che porta lui, “cuore di carne”, a donare la propria vita e a lasciarsi uccidere su un altare che è “di pietra”(ma il nome, Tavola di Pietra, fa pensare proprio alla figura della Legge Antica, scritta sulla pietra, sostituita dalla nuova Legge dell’amore; gli echi paolini e veterotestamentari, Ezechiele e Isaia, sono fin troppo evidenti). Aslan muore da solo ma in realtà c’è qualcuno che osserva il suo supplizio e lo accompagna con lo sguardo e con il cuore: sono Lucy e sua sorella Susan che, proprio come le donne sotto la croce, assisteranno alla morte di Aslan e andranno a onorarne le spoglie per poi rimanere senza parole davanti al prodigio della “resurrezione”, simboleggiata dal fatto che l’altare di pietra si spacca in due parti. La simbologia cristiana è fin troppo evidente. Nel romanzo, più bello e ricco del film, si avverte tutta la forza di questa invenzione letteraria del personaggio di Aslan, un leone “divino” che permette di capire che in Dio e in Cristo amore e regalità, misericordia e potenza, carità e maestà sono fuse insieme, in perfetta armonia. Noi uomini, esseri mortali e limitati, siamo portati sempre a vedere le cose tra loro contrapposte, ma così non è per Dio che è ad un tempo mite e forte. Terribile è Aslan quando infuria la battaglia ma è sempre dolce e caloroso nei rap62 & D E T T A G L I porti con chi ha bisogno di lui e del suo incoraggiamento. E poi c’è un’altra idea efficacissima in questa versione “felina” di Dio, un’idea che risulta chiara se riprendiamo l’affermazione di Sant’Agostino a sua volta ripresa da Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est: «Si comprehendis, non est Deus», «se lo comprendi non è Dio». Infatti il leone è l’animale per eccellenza non addomesticabile, controllabile; Aslan non è mai “a disposizione”, non è mai sotto il controllo di qualcuno; è lui che sceglie di darsi se e quando vuole. Simbolo della grazia che si può solo ricevere, non acquisire, Aslan sceglierà lui di donarsi e di morire in riscatto per il bambino “peccatore” Edmund. È lui che “ama per primo”. Dio, proprio come un leone, non lo puoi “comprendere”, non lo puoi bloccare, ingabbiare in un’idea, o peggio in un’ideologia; come Aslan egli irrompe nella vita degli uomini (come racconta Lewis nei suoi testi autobiografici) e appare e sta dove meno te lo aspetti; non è mai fisso in un posto. Cristo, proprio come Aslan, sceglie la strada paradossale della morte e del sacrificio rivelando così il volto più autentico di Dio, quello dell’amore. Solo allora Dio lo puoi trovare, fisso, in un luogo e quel luogo è la croce, lì Dio è croci-fisso, il Dio-amore, il Dio-Carità. Lucy, il cuore che vede. Lewis e la fantasia come “visione”. Sempre nell’enciclica Deus Caritas est il Papa Benedetto XVI ha affermato che quello di cui l’uomo ha bisogno è «un cuore che vede» (n. 31) cogliendo, ancora una volta, una delle profonde “morali” della favola raccontata da Lewis. Non c’è da meravigliarsi: il giovane Joseph Ratzinger è stato a suo tempo lettore delle opere di Lewis che, oltre a Narnia, ha pubblicato libri formidabili di apologetica cristiana che spesso Ratzinger ha R I P R E S E citato anche una volta diventato Papa (e infatti Lewis è presente anche nel libro Gesù di Nazaret di Benedetto XVI di recente pubblicato). Ma Ratzinger-Benedetto XVI non è stato ovviamente il solo cattolico illustre a rendere omaggio al geniale scrittore anglicano, come dimostrano la corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e il prete veronese (poi proclamato santo) Giovanni Calabria, gli elogi di Urs von Balthasar (che definì Il grande divorzio un vero capolavoro) o le più recenti citazioni del cardinale Christoph Schönborn nei suoi testi a commento del catechismo della Chiesa Cattolica o, per finire, l’elogio indiretto che Giovanni Paolo II rivolse al segretario dello scrittore inglese, Walter Hopper. Come Chesterton, anche Lewis fu un geniale convertito d’Inghilterra capace di trattare argomenti sommi con somma levità, animato da un’imponente forza dialettica, un gusto del paradosso che non diventa mai sarcasmo ma sempre stimolo per una riflessione ulteriore e uno sguardo più aperto e franco su quel mistero chiamato uomo. Autore molto prolifico, Lewis è oggi famoso in tutto il mondo come maestro del genere fantastico ma forse i saggi sulla fede cristiana rappresentano le sue pagine più belle e vitali, come nel caso de I quattro amori, Il cristianesimo così com’è e L’abolizione dell’uomo. Quet’ultimo libro fu elogiato esplicitamente da Ratzinger, così come un altro best seller di Lewis, Le Lettere di Berlicche, in cui lo scrittore “osa” mescolare teologia e sbrigliata immaginazione. Di questo libro, l’allora cardinale Ratzinger nel 1999 disse: «Quanto sia oggi antimoderno interrogarsi sulla verità lo ha genialmente esposto lo scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis». Ma torniamo all’enciclica Deus Caritas est e a quel “cuore che vede”. Nella saga di Lewis e nel film di Adamson noi leggiamo e vediamo una bambina, Lucy (cioè “luce”) che si imbatte in un grande ar- & D E T T A G L I madio coperto da un pesante telone. Forse è la scena migliore del film che peraltro ha aggiunto il particolare del telone a sottolineare che è un momento di “rivelazione”. Lucy vede l’armadio e ci entra dentro, forse le due cose sono la stessa cosa: vedere è “entrare dentro” le cose, diventare “intelligenti”, intus-legere. Lucy quindi attraversa l’armadio, in tutta la sua lunghezza e si trova nel magico mondo di Narnia che però, è giusto ripetere, è un mondo solo apparentemente diverso perché poi si scopre essere semplicemente il nostro, ma a un grado superiore di intensità e profondità. Lucy lascia l’Inghilterra dilaniata dalla Seconda guerra mondiale per entrare in Narnia, che è anch’essa un mondo in guerra e il passaggio attraverso l’armadio sta a significare che è nella quotidianità più comune (un armadio chi lo nota?) che si cela la meraviglia e il mistero dell’esistente. Non serve cercare il mistero o il miracolo, basta vederlo, saperlo vedere. È questa una “lezione” cara alla tradizione cattolica, da San Francesco a Peguy fino a Chesterton. Di recente ha colto questa la lezione in un suo bell’articolo il giornalista lucano Camillo Langone quando ha scritto: «C’è un mio amico che per far colpo sulle donne dice di essere “un uomo in ricerca”. Quando lo sento mi viene da ridere. Io credo nel Creatore perché ho sotto gli occhi la Creazione e non ho mai avuto bisogno di cercare i mari e le montagne, le grandi querce, il vento sull’Appennino, il bambino dentro l’ecografia, le cicale assordanti nei pomeriggi delle estati pugliesi, il vitello che cerca il capezzolo di una madre dagli occhi dolcissimi, il vino rosso, il corpo della donna. Me li sono trovati davanti. Senza ricerca né fatica. Nessuna macerazione, nessuna conversione: solo visione». Per questa capacità di visione non è necessario essere “colti”, “intellettuali” ma è sufficiente avere un cuore che vede, un cuore semplice come quello di un bambino. 63 R I P R E S E I bambini sono naturalmente fantasiosi e aperti allo stupore, capaci cioè di vedere il mondo ogni volta come se fosse la prima volta; in questo senso la fantasia, parola che deriva dal greco “fos”, luce, non è quindi un’evasione alienante ma una visione più profonda e intensa della realtà. È questa la fantasia di Lewis ma anche di Tolkien, due autori accusati spesso di “escapismo”, cioè di praticare una letteratura “dis-impegnata”, una sorta di “droga” utilizzata per estraniarsi dal mondo e dal suo dolore. Ma le cose non stanno così. Contro l’accusa di escapismo, estesa di fatto alla letteratura fantastica toutcourt, Lewis rispose in diverse occasioni; nel 1961, in occasione di un saggio lungo (pubblicato in Italia col titolo di Lettori e Letture) Lewis si soffermerà più diffusamente sull’argomento e ribalterà l’accusa che le favole e i romanzi d’avventure ingannino i lettori: «È la fantasia dichiarata il tipo di letteratura che non inganna mai», e questo perché «nessuno riesce a ingannarvi a meno che vi faccia pensare che stia dicendo la verità. Chi è spudoratamente romantico ha molta meno forza di ingannare di chi è apparentemente realistico». Così come i bambini non sono ingannati dalle favole anche gli adulti non lo sono dalla fantascienza perché «Nessuno di noi è ingannato dall’Odissea, dal Kalevala, Beowulf o dalle opere di Malory. Il vero pericolo è nascosto nei romanzi apparentemente realistici dove tutto sembra essere molto verosimile ma tutto, in effetti, è costruito per far passare qualche ‘insegnamento di vita’ di tipo sociale, etico, religioso o antireligioso. E alcuni di questi insegnamenti sono falsi». La letteratura fantastica, quella “alta”, dotata della “qualità mitica”, non solo «commenta la vita» ma realizza una «vera aggiunta alla vita» che finisce per allargare «le nostre idee sull’estensione dell’esperienza possibile». Il tanto vituperato “paese delle fate” secondo lo scrittore inglese fa nascere nel lettore «una 64 & D E T T A G L I brama per non sa che cosa. Lo agita e lo turba (arricchendolo per la vita) con l’oscuro senso di qualcosa al di là della sua portata e che, lungi dall’offuscare e svuotare il mondo attuale, gli dà una nuova dimensione di profondità. Egli non disprezza i boschi reali per aver letto di boschi incantati…». La visione delle Cronache di Narnia non è quindi consigliabile come “mera evasione” ma come spinta verso la “meraviglia”, quella capacità che porta in sé il germe della gratitudine e della lode. Lo stupore è, secondo Aristotele, l’origine della filosofia perché “solo lo stupore conosce” come dicevano i Padri della Chiesa. E se lo stupore è conoscenza è anche ri-conoscenza, secondo Chesterton la vera misura della felicità. Lewis ha ragione: nessun lettore è ingannato dall’Odissea, semmai i lettori/spettatori di oggi sono ingannati da una forma di pseudo-realismo che invece impoverisce lo sguardo, la capacità di visione; basti pensare ai cosiddetti reality-show che trasformano il verbo vedere in un mero “guardare”: dalla visione al “guardonismo”. Ai tempi di Lewis non c’erano i reality-show ma tutta una letteratura (ancora oggi in voga) che egli definisce “school-story” (simili alle attuali soap opera o a certe fiction televisive); ecco come ne parla l’acuto scrittore inglese: «Il ragazzo che legge una school-story desidera il successo ed è infelice, una volta finito il libro, perché non può ottenerlo; il ragazzo che legge la fiaba desidera ed è felice dello stesso fatto di desiderare. Perché la sua mente non si è concentrata su se stesso, come spesso succede nel racconto più realistico. La fantasia pericolosa è sempre superficialmente realistica. La vera vittima di fantasticherie piene di desideri non si pasce di Odissea […]: egli preferisce racconti su miliardari, su bellezze irresistibili, su alberghi di lusso, su spiagge alla moda… cose che possono accadere realmente, che dovrebbero R I P R E S E accadere, che sarebbero accadute, se il lettore avesse avuto un’occasione favorevole. Come dico, ci sono due generi di bramosie: la prima è un’askesis, un esercizio spirituale, la seconda una malattia». Vagare nel paese delle fate, insomma, è un’evasione connaturata (e benefica) con l’esperienza stessa della lettura. «Infine, cosa possiamo dire sull’onta dell’escapismo?», si chiede Lewis in Lettori e letture, e si risponde: «In un certo senso, evidentemente, tutta la letteratura è comunque evasione: essa implica un temporaneo passaggio della mente da ciò che ci circonda realmente a cosa solamente immaginate o pensate. Questo succe- & D E T T A G L I de quando leggiamo un testo storico o scientifico non meno di quando leggiamo un romanzo. Questi tipi di evasione costituiscono una fuga dalla stessa cosa: dall’attualità immediata, concreta. La questione importante è verso cosa orientiamo la nostra evasione». Lewis, con i suoi romanzi, comprese Le Cronache di Narnia, ha orientato la sua “evasione” verso una più profonda visione della realtà che è vista come simbolo, come segno della Verità che soggiace all’intera creazione, una verità che ha il nome di Aslan, il nome che la bambina Lucy prima di ogni altro riesce a intuire, a cogliere, e questo nome è Carità. Per chi volesse approfondire i contenuti di questo articolo e conoscere meglio la personalità di C.S. Lewis, suggeriamo il volume: Andrea MONDA – Paolo GULISANO, Il mondo di Narnia Edizioni San Paolo Cinisello Balsamo, 2005, pp. 192, 14 euro. 65 I N S E G N A R E F E L I C I E dai. Ce l’ho fatta. Sono un grande! Memorie angosciate di un docente IRC durante la prima notte delle vacanze di Pasqua. di Rino Zucchero Sono qui che mi rigiro tra le lenzuola non ancora convinto che sia riuscito a sopravvivere fino a Pasqua. Evviva, da adesso in poi è tutta in discesa. Domani non dovrò andare a scuola; che bello! Ma non sono tranquillo. Pensieri angosciosi turbinano nella mia mente. Sono tanti. Cerco di rilassarmi con il training autogeno. Niente da fare. Think pink. No way. Mi accerto di aver spento la sveglia e la radiosveglia. Si, perché dovendomi alzare troppo presto la mattina avevo due sistemi indipendenti per risorgere al mattino. Il primo era costituito da una normale sveglia quasi a portata di mano. Dopo quattro minuti entrava in funzione la radiosveglia posta a distanza di sicurezza: dovevo alzarmi e attraversare tutta la stanza per spegnerla. È un sistema testato; l’unico per arrivare in orario a scuola. Bene. Questo è sistemato; mi dico con tono rassicurante. Domani non sarai costretto ad alzarti all’alba. Dormi tranquillo; è finita. Ma non ce la faccio. Troppi ricordi angosciosi si spingono l’un l’altro per venire alla ribalta della mente. Mi sembra di essere a scuola alla fine della sesta ora, quando è indispensabile aprire in tempo le due ante della porta della classe onde evitare che gli allievi, euforici per la fine delle lezioni, si massacrino nel tentativo di essere i primi ad uscire. Allora, per evitare questo pericoloso affollamento della mia psiche, apro la censura dell’inconscio e li lascio fuoriuscire. 66 Prepotente e diretto esce alla ribalta il primo; forte e doloroso. Perché anche quest’anno nessuna delle mie 18 classi ha mai chiesto di avere il collettivo nella mia ora? Perché latino, greco e matematica fanno la parte del leone? Cosa hanno loro più di me? Angosciato mi stritolo tra le lenzuola. È un’ingiustizia. Sono stato socialmente e professionalmente discriminato dalla collettività studentesca. Certo, non poter andare al bar durante il collettivo e passare lì un’ora felice non è una perdita da poco. Un’ora passata a chattare con le mie colleghe, ad inzuppare il cappuccino con l’ultimo gossip. Hai saputo… Hai fatto caso… Lo confido solo a te…. Ad essere sincero, se fosse solo questo riuscirei a sopportarlo; anche se a fatica. Quello che proprio non mi va giù è il non poter godere di quella dolce soddisfazione che si prova a non lavorare e ad essere pagati lo stesso. Tenera soddisfazione, tanto comune nel pubblico impiego. Eppure me lo aveva detto quella santa donna di mia madre: «Studia lettere ed avrai la vita facile!». Ma io no. Duro. Errori di gioventù che si pagano in vecchiaia. Affrontata e tenuta sotto controllo questa prima angoscia, un’altra si presenta in tutta chiarezza. È davanti ai miei occhi. La vivo e la rivivo come in un film visto innumerevoli volte. Sì, perché vissuta e rivissuta è questa angoscia. La rivivo come se accadesse in quest’istante. Sono in classe, al punto clou della lezione, the climax. Sono tutti attenti – evento ra- I N S E G N A R E rissimo!–. Un colpo alla porta ed entra con aria sorniona la bidella. A questo punto è obbligatoria una piccola e dolorosa parentesi. Perché il personale ATA deve entrare in classe quando io sono al meglio, nella fase cruciale, importante? Sembra che stiano ad origliare dietro alla porta per interrompere la lezione proprio nel momento meno opportuno. Mai che entrassero all’inizio o alle fine delle lezioni. Mai. In dodici anni d’insegnamento non è capitato nessuna volta. Accantonata questa dolorosa riflessione, ritorno alla sequenza del mio inquietante film. La bidella, quindi, con aria sorniona, annuncia che la classe domani uscirà due ore prima. Questa affermazione innesta una reazione a catena che segue un suo ben sperimentato protocollo.1 Lo svolgimento è il seguente. Attimo di sbigottimento. Poi in rapida successione la domanda: «Chi manca?». Latino, greco, inglese o qualsiasi altra materia. Non importa quale essa sia. Alla determinazione della disciplina che l’indomani viene evitata, le mani si rivolgono al cielo. Le prime volte, ingenuamente, avevo creduto che, prese dal fervore della mia lezione, volessero pregare, niente affatto. Mani al cielo ed esclamano: «E dai, si è ammalato/a, niente interrogazioni/compito!». Poi, salti, abbracci e grida di gioia. Addio lezione. Ero sul più bello e tutta la mia costruzione didattica è andata a farsi benedire. Mannaggia la miseria: è l’espressione più carina che mi viene in mente. La gioia degli allievi è così incontenibile che posso tranquillamente abbandonare l’idea di far lezione. Riportare l’ordine dopo tale F E L I C I annunzio è impresa da John Wayne e i suoi Green Berets. Ma, a dire il vero, anch’io non me la cavo poi così male in questi casi. Tiro fuori dalla borsa il mio gatto a nove code. Alla vista di questo strumento di punizione in voga sui vascelli inglesi e poi abbandonato, perché ritenuto troppo crudele – dopo la decima frustata il marinaio inevitabilmente moriva –, la calma ritorna istantanea. E fin qui tutto nella norma; mi dico. Ma la domanda angosciosa è lì in agguato e subito mi colpisce vigliaccamente al fianco. Perché non succede lo stesso quando sono assente io? Ecco, invece, cosa succede quando mi assento da scuola. Al ritorno, dopo una delle mie rarissimissime assenze, appena esco dalla macchina sono attorniato da un nugolo di allieve. Le prime volte, vedendole precipitarsi verso di me mi commuovevo e, asciugata frettolosamente qualche lacrimuccia, andavo loro incontro pensando dentro di me: «Che carucce, mi vogliono bene, si sono preoccupate non vedendomi. Che tesorucci». Invece, le allieve mi vengono incontro con aria truce e mi apostrofano, cattive, dicendo: «Ma lo sa che non essendoci lei abbiamo dovuto fare un’ora in più di greco? Mica ci può trattare così! Noi abbiamo bisogno della sua lezione altrimenti… povere noi! Mi raccomando non si assenti più altrimenti l’anno prossimo non scegliamo di fare religione». Dopo strazianti delusioni e ricatti vari, ora, capita l’antifona, quando ritorno a scuola dopo un’assenza per malattia attuo anch’io un particolare protocollo. Arrivo prestissimo, almeno 40 minuti prima del suono della campanella d’inizio. Parcheggio lontano. Cappello sugli occhi e bavero al- 1 Si definisce protocollo quella serie di procedimenti tesi a risolvere una situazione di crisi. Famosi sono i protocolli nelle situazioni di attacco terroristico messi in atto da Green Berets, Navy Seals e le nostre più caserecce Teste di cuoio. 67 I N S E G N A R E zato. Con circospezione mi avvicino furtivo ad un ingresso secondario dove, dietro lauta mancia, mi attende il custode che mi lascia scivolare dentro senza che nessuno mi veda. Cosi almeno per 5 giorni. È questo il periodo minimo affinché le allieve metabolizzino la mia assenza. Scuola crudele. Ancora una volta sperimento sulla mia pelle e vivo frustrazione, depressione ed emarginazione. Cosa hanno le altre colleghe che io non ho? Eppure ce la metto tutta. Mi sono inventato anche i compiti in classe con tanto di votI2. Non basta. Devo trovare altre soluzioni; non posso certo andare a scuola ammalato grave con tanto di febbre a 37 e 1. Non è giusto. Anch’io sono un dipendente pubblico e devo stare attento a salvaguardare la mia salute per il delicato ed importante compito che svolgo: l’educazione delle giovani leve, unica e sola speranza per un miglior futuro della nazione. Guardo l’ora. È tardissimo. Il sonno non arriva; l’angoscia sì. Cosa fare? Ultima spiaggia: un goccio di Jack Daniel’s. Ho detto un goccio; sia ben chiaro! Mi alzo, torno a letto e me lo centellino lentamente. È veramente buono. Assisto ad un fenomeno piacevole: sembra affiorare qualche dolce ricordo. Sarà il buon Jack: chissà? L’aiuto a venire fuori. Sì è proprio lui. Lo ricordo perfettamente, anche se è accaduto ad ottobre. Si era rotto in maniera irrecuperabile il cellulare. Poverino, era conciato proprio male. Aveva resistito fino alla fine come un guerriero che, pur ferito mortalmente, continua a lottare per far sì che i compagni possano mettersi in salvo. Aveva esalato il suo ultimo bit nel corso di una conversazione; non importante, per fortuna. 2 Vedi il mio articolo nel numero precedente. 68 F E L I C I Fatta una ricerca di mercato su internet, ne avevo comprato uno che a parità di prestazioni aveva un prezzo conveniente. Gli acquisti via internet nascondono talvolta delle sorprese. Il telefono era quello che avevo scelto; il libretto d’istruzione no. Centocinquanta pagine fittamente scritte in giapponese. Mi attivo per il cambio. Niente da fare. Il prodotto è conforme a quanto dichiarato dal venditore; quindi niente da fare. La prospettiva era agghiacciante: imparare il giapponese. Non se ne parla proprio. Conosco già troppe lingue, e poi odio fare qualcosa su imposizione. Punto. Mi sono detto con ferma determinazione. Ma ecco venirmi in aiuto a questo punto la vocina del santo protettore dei docenti IRC che mi suggerisce: «Chiedi chiarificazioni alle tue allieve». È vero. Che stupido a non pensarci subito! Il mattino successivo, in prima ora, entro in classe e dopo aver espletato le fatiche burocratiche della prima ora, chiedo con aria innocente e disinteressata: «Chi di voi ha un cellulare simile a questo?». Cinque, sei mani scattano al cielo. Chiedo loro di spiegarmi le funzioni principali. Che bello, si siedono intorno alla cattedra e in trenta minuti riesco a capire come utilizzare quest’ultima diavoleria elettronica. Ma non finisce qui. Quei tesorucci mi promettono di prepararmi un promemoria di tutte le possibilità offertimi dal cellulare. Promessa regolarmente mantenuta alla data convenuta. I compiti per casa no; il promemoria si. E va bene; non si può avere tutto nella vita. Ecco, sta arrivando. È dolce e riposante. Non so se devo ringraziare il Jack Daniel’s o il ricordo del telefonino. Poco importa. Il sonno… arriv… A C L A S S I A P E R T E I disturbi della memoria e della rappresentazione video-spaziale di Massimiliano Ferragina e Caterina Basile Tra tutti i disturbi fin qui analizzati, il disturbo della memoria e della rappresentazione video-spaziale è quello sul quale non esistono molti studi se non recentissimi. Riconoscere il bambino con questa specifica sindrome è difficilissimo, in quanto si ha a che fare, il più delle volte, con un bambino molto bravo. Questo bambino parla molto bene, con proprietà lessicale, ricorda a memoria poesie e tabelline, persino intere pagine di libro, legge speditamente, parla molto e interviene spesso, tanto che è difficile farlo stare zitto anche se si distrae con facilità e sembra indifferente ai propri errori che ripete continuamente. Eppure questo bambino facilmente innervosisce l’insegnante. Non lega con i compagni, tende ad isolarsi, non possiede autostima, ha sempre paura di sbagliare, è il classico imbranato che se gli dici di andare a destra fa il contrario e non riesce mai a rispettare le regole di un gioco, tanto che il più delle volte preferisce guardare i compagni giocare; difficilmente comprende l’ironia in un discorso e non capisce quando una domanda è retorica; in matematica è un disastro, specialmente quando deve risolvere un problema a più operazioni per il quale è necessario un processo mentale di costruzione dei percorsi di risoluzione. L’insegnante è disperato: gli può spiegare mille volte come mettere in colonna una moltiplicazione, senza risultato: fa sempre gli stessi errori; la matematica e la geometria sono il suo incubo; il suo quaderno è disordinato e il disegno è scoordinato e in- fantile, con case che volano in spazi indefiniti e persone che non si rapportano in alcuna proporzione; in palestra i compagni lo prendono facilmente in giro: è lento, imbambolato nelle partite, inciampa, non sa arrampicarsi, cade spesso, scoordinato nei movimenti; quando deve eseguire un compito non sa organizzarsi e il suo banco è sempre il più disordinato, le novità lo spaventano. Col passare del tempo rimane sempre più solo ed avulso dal contesto sociale, non cerca neppure più di fare amicizia e la vita affettiva è un disastro… fino alla depressione. Eppure nessuno pensa che abbia bisogno di aiuto. Sarebbe troppo semplicistico dire che in tutti questi sintomi su elencati dobbiamo riconoscere un disturbo della memoria e della rappresentazione video-spaziale, più noto come sindrome non verbale; ma come educatori dobbiamo almeno farci venire il dubbio e non liquidare la vita di un bambino con un giudizio frettoloso e superficiale. Gli studiosi pensano che alla base di tale disturbo ci siano delle compromissioni della materia bianca a livello delle fibre lunghe mieliniche, nell’emisfero destro del cervello, quello che controlla la sfera emotiva e le attività non verbali; ma il trattamento, a tutt’oggi, è solo sui sintomi per cercare di spingere il bambino ad adottare quelle strategie che sono alla sua portata, senza che un senso di frustrazione lo renda rinunciatario di fronte ad un problema. In pratica bisogna fargli capire che abbiamo compreso le sue difficoltà e che gli possiamo insegnare 69 A C L A S S I alcuni “trucchetti” con i quali può risolvere le situazioni per lui problematiche. Se le abilità verbali sono il campo preferito di azione gratifichiamolo facendolo parlare di quanto sa o ricorda sull’argomento trattato, invitandolo ad organizzare il discorso prima di esporlo alla classe; permettiamogli di usare quaderni a quadretti grandi, anche se i suoi compagni usano le righe o i quadretti piccoli, per aiutarlo a gestire lo spazio sul foglio; segniamo con colori diversi gli spazi del foglio dove vogliamo che inserisca disegni o sequenze o frasi particolari; organizziamo giochi di ruolo nei quali abbia compiti facilmente riconoscibili: la pecorella smarrita, uno dei re magi, ecc.; giochiamo alla rappresentazione delle parabole attraverso i segni gestuali, senza l’uso delle parole, come per il vecchio gioco di società dell’“indovina il titolo del film”. Questo veicolerà, attraverso la forma ludica, uno sforzo di comprensione dei messaggi non verbali, ambito deficitario del bambino con questa sindrome, favorendo, contemporaneamente la socializzazione con il gruppo classe. La bibliografia, in questo campo, è estremamente specialistica, per cui si preferisce rimandare direttamente ad alcuni siti, come quello del Laboratorio di ricerca e sviluppo in psicologia (www.psicolab.net); oppure quello della rivista telematica Educare.it (http://www.educare.it/Handicap/handicap_index.htm). Testi specialistici, per chi vuole proprio approfondire: C. CORNOLDI – G. FRISO – L. GIORDANO – A. MOLIN – S. POLI – P. TRESSOLDI, Abilità visuospaziali, Erickson, Trento 1996; oppure F. RIGONI – C. CORNOLDI – A. ALCETI, Difficoltà nella comprensione e rappresentazione di descrizioni visuospaziali in bambini con disturbi nonverbali nell’apprendimento, in «Psicologia Clinica dello Sviluppo» 1 (1997) 189218. Si suggerisce, comunque, di riferirsi 70 A P E R T E sempre ad uno specialista che saprà indirizzare e suggerire. All’insegnante e alla sua sensibilità sono affidate tutte quelle strategie che possono far sentire al bambino che lui sta al centro di interessi umani e affettivi importanti. Suggeriamo di seguito alcune possibili schede per i bambini più piccoli, con disegni scaricati e leggermente modificati dal sito www.Midisegni.it, il cui Autore (Sebastiano B. – [email protected]) si mette gentilmente a disposizione per preparare i disegni richiestigli dagli insegnanti. Possiamo anche proporre, ai più grandicelli, di completare una “cartina-muta” della Palestina nella quale sistemare, al posto giusto, le principali località citate nel Vangelo, dopo averla studiata insieme sul libro di testo. Costruiamo un percorso-labirinto ai cui capi mettiamo, ad esempio, Maria e Giuseppe e dall’altro la grotta di Betlemme, chiedendo di trovare la strada e di colorarla con il rosso. Possiamo, infine, costruire una scheda citando le principali religioni a cui affiancheremo, a caso, le caratteristiche peculiari di ognuna chiedendo all’alunno di fare gli abbinamenti collegandoli con una freccia. Rimane chiaro che l’apprendimento può essere stimolato e potenziato attivando diverse modalità di elaborazione e soprattutto la loro integrazione. Oggi la tecnologia didattica è in grado di offrire stimoli didattici con un’alta efficacia cognitiva che facilitano l’apprendimento coinvolgendo l’alunno nella costruzione attiva del suo apprendimento. Bibliografia aggiuntiva A.D. BADDLEY (1986) The working memory, Oxford. A. DE LA GUARANDERIE, I profili pedagogici, La Nuova Italia 1991. «Focus» numero 89, Marzo 2000. A C L A S S I In pratica… L’insegnante di religione veramente professionale, non tralascia mai l’attenzione verso l’alunno che presenta riconosciuti disturbi dell’apprendimento. Può capitare che chi è specialista deleghi all’insegnante di classe la costruzione dell’apprendimento dell’alunno DSA sotto false scuse come le due ore settimanali, la mancanza di programmazione comune, la disinformazione, ecc. Questo rende l’IdR un alieno che fa la sua lezioncina una volta a settimana; ma è assolutamente inefficace per quanto riguarda la crescita dell’alunno con disturbi. Tutti i soggetti educanti che ruotano intorno all’alunno devono avere una comune metodologia didattica e conoscenza degli strumenti più adeguati alle particolarità dell’alunno. È importante essere presenti e attivi sulla classe e sugli alunni, programmare attività interdisciplinari, interessarsi e chiedere del vissuto dell’alunno. L’insegnante di religione nelle sue due ore può continuare o cominciare attività di potenziamento dell’apprendimento come tutti gli altri insegnanti di classe. Nel caso specifico suggeriamo alcuni esercizi mirati a far fronte e correggere se pur parzialmente il disturbo appena esaminato. Esercizi da proporre nelle classi della scuola primaria A P E R T E magini, precedentemente preparate (disegnate, colorate e tagliate dall’alunno stesso) anche di diverse dimensioni, piacevoli da maneggiare … Esercizio n. 2 – Il percorso… Si disegna su di una grande tabella un percorso stabilito, disegnandolo insieme a indicatori di direzione (frecce) con delle tappe che raffigurino i momenti studiati della vita di Gesù (atti, miracoli, parabole) tenendo come punti di riferimento la nascita, la morte, la Resurrezione. Ogni alunno disegnerà la propria tappa senza dire verbalmente di quale episodio o racconto di Gesù si tratti. A turno gli alunni (e Esercizio n. 1 – Afferrare… L’insegnante fa sperimentare giochi che consentono una migliore organizzazione percettiva tramite uso di oggetti, giochi di presa nelle varie direzioni che consentano il controllo dell’oggetto con gli arti superiori e con la vista. Gli oggetti saranno legati alla disciplina specifica; per l’IRC useremo delle palle di spugna o diversi materiali con sopra delle im71 A C L A S S I in particolare il nostro alunno con difficoltà) saranno chiamati ad incollare sul tabellone l’episodio disegnato cercando sul percorso la giusta collocazione: prima o dopo il Natale? Prima o dopo la resurrezione? 72 A P E R T E Prima o dopo la morte? Molto utili possono risultare anche esercizi mirati allo sviluppo delle capacità di scelta che richiedono buon uso della memoria visiva. N O T I Z I E L E G A L I E S I N D A C A L I La vicenda infinita del credito di Angelo Zappelli RICONGIUNZIONI PER GLI IDR DI RUOLO Il sistema informatico del Ministero della Pubblica Istruzione è pronto ad acquisire le domande di ricongiunzione dei docenti di religione immessi e confermati in ruolo. Lo rende noto la Direzione Generale dei Sistemi Informativi del MPI attraverso la nota prot. n. 468 del 13 febbraio 2007 allegata qui di seguito. Si tratta della seconda funzione informatica che si apre agli IdR di ruolo dopo quella relativa ai riscatti comunicata dalla stessa Direzione con l’analoga nota del 21 dicembre scorso (vedi la specifica notizia). La questione è sempre la stessa. Non è che le domande di ricongiunzione (unificazione di più versamenti contributivi presenti in diverse casse pensionistiche) siano presentabili solo da questo momento né che sia questo il momento di presentarle. Le domande sono state prodotte a suo tempo dagli IdR non di ruolo (anche 20-30 anni fa) e da allora giacciono negli Uffici Scolastici Provinciali in attesa di essere lavorate manualmente all’interno della pratica di pensionamento. La novità è che ora, trattandosi di docenti di ruolo, le stesse domande possono essere acquisite e lavorate in modo informatico dal sistema ministeriale come tutte le altre domande degli altri docenti. Ovviamente nell’immediato verranno travasate nel sistema solo quelle giacenti, già presentate dagli attuali IdR di ruolo, mano a mano che essi vanno in pensione e che quindi si renderà necessaria l’operazione. Restiamo in attesa che il sistema si apra per l’operazione più attesa dagli IdR oggi in ruolo (circa 12 mila docenti) cioè quella relativa alle ricostruzioni di carriera, da rinnovare in connessione con l’immissione in ruolo. A partire da quest’ultima data, 1.9.05 o 1.9.06 a seconda del contingente concorsuale, la vecchia progressione di carriera è sospesa e ne spetta una nuova a carico del sistema. Nel frattempo le posizioni stipendiali restano ferme e così, purtroppo, gli avanzamenti nei gradoni per anzianità. L’esigenza nasce dal fatto che non si tratta di docenti al primo anno o in via di pensionamento ma di docenti in servizio attivo con le loro giuste e dovute aspettative di valorizzazione professionale. CONFERMATO L’IRC NEL CREDITO SCOLASTICO Il voto sull’IRC va tenuto presente all’interno della procedura di assegnazione del credito scolastico agli alunni della secondaria superiore. Lo ha appena confermato l’Ordinanza Ministeriale n. 26 del 15 marzo 2007 sulle istruzioni operative riguardanti il riformato esame di stato della secondaria di secondo grado. Si tratta di una norma già vigente, emanata nell’O.M. n. 128 del 1999, all’art. 3 c. 3, ma da allora abbastanza dimenticata, non più riproposta nella normativa sugli esami, per quanto confermata nella sua legittimità da una specifica sentenza del Tar del Lazio (la n. 7101 del 2000). Le difficoltà sono nate non solo dai pregiudizi ideologico-politici diffusi nel mondo scolastico ma anche dalla obiettiva complessità e impraticabilità della norma in un già pesante lavoro dell’organo collegiale in fase di approssimazione all’esame. 73 N O T I Z I E L E G A L I L’Ordinanza del 2007 ripropone la stessa soluzione del 1999 collocandola però in un contesto nuovo, non a parte dalla restante normativa sul credito ma all’interno dell’art. 8, quello rivolto interamente al credito scolastico. Al comma 13, innanzitutto, si affronta la questione della presenza del docente di religione nel consiglio di classe che delibera l’ammissione all’esame, affermando: «I docenti che svolgono l’insegnamento della religione cattolica partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento. Analoga posizione compete, in sede di attribuzione del credito scolastico, ai docenti delle attività didattiche e formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime». Come si può notare, il comma si compone di due proposizioni riguardanti l’una la partecipazione dell’IdR, peraltro non in discussione, l’altra quella del docente delle attività alternative. Sembrano due affermazioni poste in parallelo a connotare una parità di funzioni basate su una parità di attività. Il comma 14 dello stesso art. 8 è invece dedicato al tema in questione, quello del valore del voto dell’IRC. Anche qui è bene esaminare il testo completo che recita: «L’attribuzione del punteggio, nell’ambito della banda di oscillazione, tiene conto, oltre che degli elementi di cui all’art. 11, comma 2, del DPR n. 323 del 23.7.1998, del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto, ovvero di altre attività, ivi compreso lo studio individuale che si sia tradotto in un arricchimento culturale o disciplinare specifico, perché cer74 E S I N D A C A L I tificato e valutato dalla scuola secondo modalità deliberate dalla istituzione scolastica medesima. Nel caso in cui l’alunno abbia scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare ad iniziative formative in ambito extrascolastico, potrà far valere tali attività come crediti formativi se presentino i requisiti previsti dal D.M. n. 49 del 24-2-2000». L’andamento del testo è dello stesso tipo del precedente comma, distribuendo modalità valutative sia sull’IRC sia su altre tre delle quattro alternative (escludendo soltanto la libera attività senza assistenza). Alla conferma della presenza dell’IRC e dell’attività alternativa nell’ambito della banda di oscillazione, come già nel 1999, segue la novità dell’Ordinanza del 2007: la possibilità di valutazione e certificazione dell’attività di studio individuale, in caso che si sia tradotta in “arricchimento culturale o disciplinare specifico”. In tal caso la scuola, sulla base di un’apposita delibera del collegio docenti, può valutare e certificare l’attività per tenerne conto nel credito scolastico. La procedura è abbastanza complessa e di valore prettamente ‘politico’ piuttosto che scolastico. Come si fa infatti a valutare un’attività che è del tutto individuale, pur se assistita? Quale collegio docenti e quale consiglio di classe, organi già carichi di funzioni, si sentiranno di entrare in una operazione così delicata? Più che altro sembra fatto per impedire lamentele e accuse di discriminazione. L’ultima accortezza, inoltre viene usata per ricordare la possibilità di far valere appositi crediti formativi per chi abbia scelto di uscire dalla scuola per partecipare ad iniziative esterne (sic!). In questo caso non si tratta di novità in quanto tutte le esperienze esterne sono state sempre accolte quali crediti formativi. Il riferimento, anche qui, sembra essenzialmente ‘politico’. In sintesi, la lettura del testo dei due com- N O T I Z I E L E G A L I mi induce ad almeno tre riflessioni: la conferma del peso dell’IRC nel credito scolastico; la parità valutativa tra l’IRC e le sue alternative; la praticabilità di tali norme sul credito. Sul primo punto non si può che concordare ed approvare con gioia che la valutazione di una specifica disciplina scolastica quale l’IRC, per quanto limitata nella disponibilità oraria e nella scelta degli alunni, conosca un suo peso specifico, altrettanto limitato, all’interno della procedura di assegnazione del credito scolastico riconosciuto agli studenti. La limitazione nasce dalla collocazione del giudizio all’interno della banda di oscillazione, con tutte le discrezionalità del caso singolo a disposizione del consiglio. Altro sarebbe stato se si fosse data la possibilità di contare su di un numero all’interno della media aritmetica. Sul secondo punto, tuttavia, non si può non osservare che tale visione sia in un certo attrito con l’impianto concordatario e soprattutto con le due sentenze della Corte Costituzionale del 1989 e del 1991, da cui si deduce una sostanziale distinzione tra una disciplina vera e propria (l’IRC) e le mere attività (o non) sostitutive. Il modello dell’opzionalità è implicitamente superato dall’alta Corte nel momento in cui rigetta l’obbligatorietà delle alternative ed apre alla possibilità dell’uscita dalla scuola. D’altra parte si può obiettare che l’ordinanza si muove in un livello di attenzione inferiore, non tanto ai principi costituzionali quanto alle mere modalità valutative delle conseguenze apportate dalle scelte sull’IRC. Il dubbio principale, infine, si pone a livello della praticabilità di tali disposizioni. Se già prima l’operazione di attribuzione del credito era complicata per un consiglio di classe formato da una decina di persone con circa un’ora a disposizione, ora è peg- E S I N D A C A L I gio. Nella procedura ciò che è certo è solo il calcolo della media numerica dei voti nelle singole materie, da cui discende la collocazione nella banda d’oscillazione. Il resto diventa facoltà del consiglio e risultato di un insieme di spinte contrapposte dall’esito non sempre prevedibile né verbalizzabile: stato d’animo dei partecipanti, orientamento ideologico, simpatie-antipatie, superficialità o puntigliosità nel rispetto delle procedure. Il rischio è che il peso dell’I RC , così come delle sue alternative, resti solo teorico e non pratico. Dispiace dover rilevare, in conclusione, come l’analoga disposizione riguardante l’esame di stato conclusivo del primo ciclo di istruzione (C.M. n. 28 del 15.3.2007) non preveda assolutamente nulla sull’IRC, come se niente fosse accaduto in Italia dal 1930 ad oggi. AUTORIZZATO IL TERZO CONTINGENTE Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 16 marzo 2007, ha autorizzato il Ministro della Pubblica Istruzione ad assumere a tempo indeterminato il terzo contingente dei docenti di religione vincitori del concorso effettuato in base alla legge 186 del 2003. Si tratta di un formale Decreto del Presidente della Repubblica, necessario per l’assunzione dei 3.060 docenti mancanti ai fini del completamento dell’organico di 15 mila posti di ruolo previsti per l’IRC. Con un ritardo di quasi tre mesi rispetto all’analoga operazione rivolta ai primi due contingenti (autorizzati nel mese di dicembre rispettivamente del 2004 e 2005) il governo ha concluso la procedura di autorizzazione consistente nella raccolta dei pareri favorevoli di più ministeri, tra cui ovviamente quello decisivo del Ministero dell’Economia. Il ritardo iniziava a destare qual75 N O T I Z I E L E G A L I che preoccupazione in ragione del mutato orientamento politico governativo rispetto ai due anni precedenti, nonché in ragione del rispetto dei tempi tecnici necessari alla stipula dei contratti entro la fine del prossimo mese di luglio. Ora inizia infatti la procedura interna al MPI di individuazione del numero complessivo del contingente e di ripartizione del numero dei vincitori tra le diverse dotazioni organiche regionali. Trattandosi di un contingente analogo al secondo in quanto a quota spettante (il 20% dei vincitori), è da ritenersi che ciò possa agevolare le operazioni, essendo sufficiente rifarsi alla ripartizione dello scorso anno. Al passaggio regionale seguirà poi il passaggio diocesano. Ogni diocesi conoscerà il numero esatto dei docenti che entrano in ruolo solo al termine di questa operazione di competenza degli uffici scolastici regionali. Per tutto ciò è prevedibile che occorrano ancora almeno un paio di mesi. Si giunge così facilmente ai primi di giugno, appena in tempo per la predisposizione dei nuovi contratti a tempo indeterminato. Con questo atto si conclude la prima fase attuativa della legge 186, l’effettuazione del concorso e la copertura con docenti di ruolo del 70% dei posti esistenti e disponibili. Tuttavia le graduatorie concorsuali contengono nella maggior parte delle regioni ancora molti più docenti di quanti siano riusciti ad entrare in ruolo. Solo in alcune regioni dell’Italia settentrionale le graduatorie sono esaurite, peraltro già con il secondo contingente, a motivo delle alte bocciature effettuate nel concorso. Si apre quindi il problema della validità delle graduatorie, normalmente triennali. Saranno ritenute concluse, e si dovrà pensare ad un secondo concorso, o saranno prorogate nel tempo per permettere di coprire annualmente le nuove esigenze? 76 E S I N D A C A L I TENTATE POLEMICHE SUGLI SCRUTINI Come negli ultimi anni, in vista degli scrutini finali dell’anno scolastico la “lobby antiIRC” è tornata a farsi viva. L’anno scorso lo aveva fatto attraverso le pagine di una nota rivista scolastica, quest’anno lo fa sul sito web di una tra le maggiori organizzazioni sindacali della scuola, la Flc-Cgil. Poche settimane fa, tra le news del giorno, è apparso un argomentato articolo contro il valore del voto del docente di religione in sede di scrutinio finale. L’autore della nota, dopo aver citato il noto brano tratto dalla seconda versione dell’Intesa MPI-CEI del 1990 (Dpr 202/90), al secondo comma del punto 2.7, lo interpreta nel senso di una diminuzione delle facoltà del docente di I RC , il quale sarebbe privato del voto in caso di una sua determinanza per la promozione o bocciatura dell’alunno. Ovviamente ne è nata subito una piccola polemica. Il senso anti-I RC dell’articolo è stato ripreso dai quotidiani vicini a quella organizzazione per ampliarne la diffusione, mentre sui siti web cattolici e delle organizzazioni sindacali più vicine al mondo cattolico è stata sottolineata la faziosità della notizia. La segreteria nazionale della Cisl-scuola, in una nota del 9 maggio, ha osservato che «di tutto si sentiva il bisogno, tranne che di una nuova puntata della querelle sull’insegnamento della religione cattolica e sui suoi insegnanti». Di quale querelle si tratta e qual è lo stato della questione? Brevemente si può affermare che la questione prende avvio ben 22 anni fa dalle polemiche seguite alla firma dell’Intesa MPI-CEI del 14 dicembre 1985 (Dpr 751/85) nella quale, al punto 2.7 si afferma che «Gli insegnanti incaricati di religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli al- N O T I Z I E L E G A L I tri insegnanti». Da alcune parti dello schieramento governativo si pretendeva che non ci fosse alcuna parità tra il docente di IRC e gli altri docenti ma che anzi fosse chiara la sua inferiorità in occasione degli scrutini, privandolo del tutto del potere di votare. La soluzione cui si pervenne cinque anni più tardi, con la nuova formulazione dell’Intesa del 23 giugno 1990, aggiungeva in effetti un secondo comma a quello precedente, affermando che «nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale». Nell’immediato, e così nei quattro anni successivi, tale brano venne interpretato in termini di deminutio dei poteri del docente di IRC. Pur in presenza di numerose e complesse discettazioni riguardo il concetto di ‘determinanza’ ed il significato del verbo ‘divenire’, l’interpretazione maggiore fu che la facoltà di voto, in date occasioni e solo in date circostanze, sia limitata. Tale interpretazione, tuttavia durò pochi anni, almeno finché sopravvisse la cosiddetta ‘prima repubblica’ dal cui clima politico discendeva. Una seconda fase si apre infatti poco dopo con la sentenza del Tar di Lecce del 5 gennaio 1994. L’interpretazione cambiò, dapprima lentamente e poi con la conferma di altre sentenze analoghe dei Tar della Sicilia (Catania, 19.9.1995 e CGA 14.2.1996), Toscana (10.12.1998 e 3.11.2005), Lombardia (7.5.1999), Trento (27.10.2000), Veneto (10.2.2005), fino addirittura ad un’ordinanza del Consiglio di Stato (3.11.2004). In questa seconda fase la tendenza giurisprudenziale è divenuta quella opposta, non quella ‘escludente’ il voto ma quella ‘includente’ il voto del docente di IRC. Tali sentenze fanno leva sulla portata del primo comma del punto 2.7 dell’Intesa, ove si sot- E S I N D A C A L I tolinea la parità dei diritti e doveri tra docenti di IRC e gli altri docenti, per farne derivare una lettura diversa del secondo comma, alla luce della quale in caso di determinanza il voto del docente di IRC non solo non perde alcun valore ma, pur mantenendo la propria rilevanza, richiede di esser motivato e iscritto a verbale. Da più di dieci anni, quindi, la tendenza interpretativa è rimasta sempre la stessa. Nelle scuole ormai non se ne discute più. Agli scrutini finali il docente di IRC vota sempre e comunque, in qualsiasi circostanza, anche se il suo voto risulta determinante. Il numero e la chiarezza delle sentenze che dichiarano illegittime le deliberazioni prese senza il voto del docente di IRC annullano in partenza ogni dubbio. Ecco che si comprende meglio il senso delle iniziative di questi ultimi anni da parte della stessa lobby. Pur utilizzando strumenti diversi ed in anni diversi il tentativo è sempre lo stesso: invertire tale tendenza giurisprudenziale, sperando che nelle scuole nasca e proliferi un contenzioso tale da rimettere in discussione l’attuale interpretazione favorevole all’IRC. Attenzione quindi a non cadere in tentazione. Sarebbe meglio non partecipare all’azione tesa a sollevare un polverone, per non ricreare il clima di scontro ideologico tipico della ‘prima repubblica’. In caso di dubbi e perplessità sollevate da qualcuno nell’occasione degli scrutini finali è bene evitare ogni polemica facendo subito riferimento alle sentenze succitate, eventualmente verbalizzando attentamente la propria posizione e parlandone con il dirigente scolastico. SOSPESO IL CREDITO SCOLASTICO PER L’IRC Il Tar del Lazio ha sospeso in via cautelare la validità dei commi 13 e 14 dell’art. 8 del77 N O T I Z I E L E G A L I l’Ordinanza Ministeriale n. 26 del 15 marzo 2007 sugli esami di stato della scuola secondaria di secondo grado. I commi in questione riguardano la partecipazione del docente di religione e del docente delle attività alternative all’attribuzione del credito scolastico in sede di scrutinio finale delle ultime classi (comma 13) e l’incidenza dei loro giudizi sull’interesse e profitto riportato dagli alunni nel corso dell’attività annuale (comma 14). Le motivazioni addotte dalla sezione Terza Quater del Tar risiedono nella presunta violazione dell’art. 309 comma 4 del Testo Unico (D. L.vo 297/94), in quanto: 1) sul piano giuridico, tale norma configurerebbe l’IRC «come una materia extracurricolare, come è dimostrato dal fatto che il relativo giudizio – per coloro che se ne avvalgono – non fa parte della pagella ma deve essere comunicato con una separata ‘speciale nota’»; 2) sul piano didattico, l’IRC non potrebbe «concorrere alla formazione del ‘credito scolastico’ per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l’insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive». I ricorrenti contro la norma contenuta nell’O.M. sono una trentina di sigle associative afferenti sostanzialmente a due aree: quella ateo-radicale e quella delle chiese cristiane riformate (evangelici, avventisti, luterani, valdesi, pentecostali). I giudici della sezione Terza Quater del Tar del Lazio sono quasi gli stessi già artefici dell’analoga ordinanza di sospensione della C.M. 84/05 del ministro Moratti sulla presenza dell’IRC nella scheda di valutazione, pronunciata il 1° febbraio 2006. Solo uno dei consiglieri è diverso; il presidente, Mario Di Giuseppe, ed il relatore, Umberto Realfonzo, sono sempre gli stessi. Altre analogie con la precedente 78 E S I N D A C A L I ordinanza sono rilevabili nella norma ritenuta violata, sempre lo stesso art. 309 del Testo Unico, e nei tempi scelti per la pronuncia, sempre in prossimità degli scrutini, quadrimestrali lo scorso anno e finali ora, in modo da creare immediatamente delle conseguenze operative senza che vi si possa porre rimedio. Mentre lo scorso anno, tuttavia, il Ministero ormai in disarmo per la prossimità delle elezioni non fece alcun ricorso, stavolta intende ricorrere al Consiglio di Stato contro l’ordinanza. Gli scrutini, tuttavia, incombono nelle scuole e non è prevedibile che si faccia in tempo a bloccare la sospensione del Tar. Le motivazioni giuridiche addotte stavolta paiono piuttosto deboli e inadeguate al merito del contendere. L’art. 309, al quarto comma, si limita a stabilire che la valutazione sull’IRC sia comunicata con «una speciale nota da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica». Non, quindi, al di fuori della pagella; e comunque la norma non riguarda la curricolarità della disciplina bensì la mera modalità di comunicazione alle famiglie. Da questa semplice e secondaria affermazione i giudici deducono una extracurricolarità della disciplina che appare invece di ben altra portata. Allo stesso tempo i tre giudici del Tar ignorano o eludono quanto invece affermato dalla ben più elevata Corte Costituzionale nella sentenza n. 203 del 1989, e cioè che l’IRC è «compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari dignità culturale». La presunta extracurricolarità, quindi è fuor di dubbio senza fondamento. Riguardo il secondo punto, cioè le motivazioni didattiche, i giudici della sezione Terza Quater del Tar del Lazio hanno dimenticato che i loro colleghi della sezione Terza Bis hanno già affrontato sette anni fa, con la sentenza n. 7101 del 2000, lo stesso tema a proposito dell’analogo ricorso contro la N O T I Z I E L E G A L I prima Ordinanza Ministeriale favorevole alla presenza dell’IRC nel credito scolastico, la 128 del 1999. In quella sentenza, che non accolse la richiesta di sospensiva dei medesimi ricorrenti, i giudici ritenevano che «la base che costituisce materia di maturazione del credito scolastico e del parallelo istituto del credito formativo è talmente ampia che non è richiesta identità di posizione degli alunni dinnanzi alle occasioni prospettate», e che «a coloro che non maturano crediti nel seguire l’IRC, o materie alternative, non è affatto impedito di guadagnare crediti con altre iniziative». Del resto, la motivazione didattica del credito scolastico e formativo, introdotto dalla legge di riforma che ha sostituito gli esami di maturità (citati erroneamente nell’ordinanza della sezione Terza Quater) con gli esami di stato n. 425 del 1997, include la valutazione di tutte le attività svolte dagli alunni, anche di quelle extrascolastiche, perfino di quelle sportive e di volontariato sociale. Come potrebbe escludere proprio un’attività disciplinare interna E S I N D A C A L I alla scuola? Non solo non è ravvisabile alcuna disparità di trattamento per gli alunni che non s’avvalgono della religione e che sono liberi nel frattempo di svolgere altre attività pienamente valutabili ai sensi dello stesso comma 14, ma addirittura la disparità di trattamento è un principio facilmente ribaltabile a carico degli alunni che si avvalgono dell’IRC nell’ipotesi che non risulti valutabile ai fini del credito scolastico. In conclusione, viste le fragili e improprie motivazioni dell’ordinanza della sezione Terza Quater del Tar del Lazio, restiamo fiduciosi nell’analisi più ponderata, con delle solide basi giuridiche e non solo politiche, da parte del Consiglio di Stato. Resta l’amarezza per una vicenda che mette di nuovo in luce la vulnerabilità dell’IRC, rinnova il risentimento da parte di alcuni e la superficialità da parte di altri nel tutelare una disciplina pur nata all’interno di un accordo di portata non incidentale ma addirittura costituzionale in un paese pur fondato sulla Costituzione. Mentre la rivista va in stampa, la vicenda descritta in questa rubrica ha trovato un suo primo punto fermo: come auspicato, il Consiglio di Stato ha dapprima bloccato l’esecutività dell’ordinanza del Tar del Lazio con il Decreto presidenziale cautelare n. 2699/2007 di effetto immediato, poi, con l’Ordinanza 12 giugno 2007 n. 2920, ha respinto l’istanza cautelare emessa dal Tar in primo grado. L’ordinanza del Consiglio di Stato, consultabile anche tramite internet (www.giustizia-amministrativa.it/ordinanze/CDS_200702920_OO.doc oppure www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4250) afferma che l’ordinanza ministeriale sul credito scolastico impugnata dal Tar reitera, nei tratti essenziali, l’o.m. 21 maggio 2001 n. 90, che in precedenza ha disciplinato la materia e che non risulta essere stata oggetto di gravame; pertanto il ricorso proposto non appare dotato di sufficiente consistenza giuridica ed è stato respinto. Non possiamo che rallegrarcene, sperando che un po’ di serena equanimità restituisca alla religione nelle scuole un suo spazio legittimo, senza bisogno di difendersi da aggressioni a suon di avvocati. 79 D I A R I O S C O L A S T I C O Diario scolastico di Filippo Morlacchi Convegno delle Diocesi del Lazio sull’ebraismo Il 15 marzo scorso si è svolto a Fiuggi un importante convegno promosso dall’Ufficio per l’Ecumenismo e il Dialogo del Vicariato di Roma. Il tema prescelto era Ebraismo in Italia: identità, incontro, dialogo. Vi hanno partecipano esponenti di spicco della comunità ebraica romana ed eminenti personalità del mondo cattolico, dando vita ad un confronto serio e leale, rispettoso e amichevole, che ha lasciato pienamente soddisfatti tutti i partecipanti. I convenuti erano oltre seicento, provenienti dalle 18 diocesi della regione: molti erano IdR, ma c’erano anche tantissime altre persone a vario titolo interessate al dialogo tra cristianesimo ed ebraismo. I relatori sono stati ringraziati per i loro interventi con applausi calorosi e convinti. Dopo il saluto di S.E. Mons. Petrocchi, il primo a prendere la parola è stato il prof. Giorgio Israel, matematico, studioso dell’ebraismo e saggista. Partendo dalla sua esperienza personale e familiare, si è interrogato sulla natura dell’identità ebraica: esclusivamente religiosa o anche nazionale? Sia l’ebreo che sceglie il ritorno in Israele che quello che rimane nella diaspora è chiamato a confrontarsi con le altre culture e nazioni, senza illusioni di multiculturalismo irenico, ma in una coabitazione saggia e tollerante: «la convivenza funziona soltanto in contesti caratterizzati da una identità dominante, la quale stabilisce i principi generali e le regole di tale convivenza». La lunga e affascinante relazione del prof. Andrea Riccardi, storico e fondatore della comunità di Sant’Egidio, ha ripercorso la sto80 ria del Novecento, esaminando i numerosi tentativi di “congedo dall’ebraismo” culminati nella Sho’ah. Anche il cristianesimo si è talora lasciato affascinare da questo pernicioso errore, ad esempio con l’Action Française, tesa ad emancipare il cattolicesimo dalle sue radici semite. Proprio questo fenomeno testimonia che il dialogo con l’ebraismo rimane per il cristianesimo di vitale importanza. Il rabbino Benedetto Carucci Viterbi ha presentato i libri della tradizione ebraica a partire dalla distinzione tra Torah scritta e Torah orale. Ha poi aggiunto, forte della sua esperienza di direttore della scuola ebraica, che il ruolo degli IdR è fondamentale per la diffusione di una corretta conoscenza dell’ebraismo in Italia, dal momento che la maggioranza dei giovani acquisisce le informazioni relative alla religione ebraica tramite l’IRC. In rappresentanza della CEI, Mons. Walter Ruspi e Mons. Olindo Marson hanno appunto illustrato quanto la Chiesa italiana ha finora fatto e quanto intende fare per consegnare alle nuove generazioni un’immagine corretta dell’ebraismo nel mondo della scuola. Il Rabbino Riccardo Di Segni ha poi descritto il profilo variegato delle comunità ebraiche italiane, invitando a riconoscerne insieme l’identità comune: ne è uscito un quadro tanto articolato quanto inedito e stimolante, seguito da un serrato dialogo con il pubblico schietto e costruttivo. Mons. Ambrogio Spreafico, rettore dell’Università Urbaniana, ha reso ragione del capovolgimento di prospettive operato a partire dal Concilio Vaticano II, passando dall’«insegnamento del disprezzo» all’apprezzamento per l’alleanza mai revocata D I A R I O S C O L A S T I C O (cfr Nostra Aetate n. 4). La giornata, intensa ma gradevolissima, si è svolta in un clima di grande serenità e fraternità, anche grazie al pasto comune, che ha favorito l’intrecciarsi di rapporti personali tra i non pochi ebrei presenti e gli altri convegnisti. Si attende a breve la pubblicazione degli Atti, che potranno costituire un vero punto di riferimento per l’evoluzione del dialogo ebraico-cristiano in Italia. La CEI e l’IRC La sessione primaverile del Consiglio Episcopale Permanente si è svolta come di consueto, a Roma, presso la sede della CEI, dal 26 al 29 marzo ed è stata presieduta da Mons. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova, nominato lo scorso 7 marzo da Benedetto XVI quale Presidente della CEI, succedendo così al Card. Camillo Ruini che per sedici anni ne è stato alla guida. I membri del Consiglio Permanente hanno manifestato gratitudine al Card. Ruini per il lungo e generoso servizio, formulando nel contempo un augurio cordiale a Mons. Bagnasco, con la disponibilità alla collaborazione per il bene della Chiesa in Italia. Nel corso dei lavori i presuli hanno pubblicato una “Nota a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unione di fatto”, della quale i mezzi di comunicazione hanno fornito ampio resoconto. Risonanza assai minore è stata invece concessa ad un altro tema all’ordine del giorno dell’assemblea: il contributo specifico offerto dall’IRC nell’ambito della scuola. Ecco le parole del Comunicato finale: «Riflettendo sulla situazione dell’insegnamento della religione cattolica, i vescovi hanno voluto sottolineare il notevole contributo da esso arrecato alla formazione delle giovani generazioni, grati per la dedizione competente e appassionata dei docenti, con il particolare auspicio che non venga meno in questo ambito la presenza dei sacerdoti. L’alta percentuale (91, 6%) di alunni che anche nell’anno scolastico 2005-2006 ha scelto di avvalersi di tale insegnamento nella scuola statale sta a dimostrare, infatti, che genitori e studenti ritengono che esso possa aiutare a una corretta conoscenza della fede in Cristo e a maturare una personalità in grado di comprendere i processi culturali in atto, in un momento in cui si assiste anche in Italia a un rinnovato interesse nei confronti delle religioni. In definitiva, si tratta di un insegnamento quanto mai pertinente in vista della formazione globale della persona, perché favorisce la ricerca di senso, il confronto con la proprie radici storiche e l’apertura alla spiritualità. In tale prospettiva, i vescovi hanno altresì confermato la necessità che le potenzialità dell’insegnamento della religione, non solo nella scuola statale ma anche in quella cattolica, siano adeguatamente valorizzate nell’azione pastorale, invitando le Chiese particolari a impegnarsi nella formazione iniziale e nell’aggiornamento permanente dei docenti, a loro volta chiamati a sentirsi parte viva e integrante della comunità diocesana e a dare uno specifico contributo nel campo dell’educazione e della “inculturazione” della fede, con particolare attenzione alla pastorale della cultura, a quella giovanile e vocazionale. Non dovrà inoltre mancare attenzione specifica e disponibilità a offrire collaborazione alla vita della scuola da parte delle stesse comunità parrocchiali, soggetti sociali significativi del territorio». Con viva soddisfazione possiamo osservare che le tematiche – a noi particolarmente care – della «valorizzazione degli esiti formativi dell’IRC nella catechesi» e dell’urgente necessità di elaborare una “pastorale di rete” che includa organicamente il mondo della scuola hanno trovato un’autorevolissima 81 D I A R I O S C O L A S T I C O conferma. Speriamo che queste idee diventino gradualmente realtà, grazie all’impegno congiunto di tutti gli operatori scolastici. Il Convegno dei Docenti cattolici del Lazio Il 30 marzo si è tenuto al santuario del Divino Amore di Roma il Convegno regionale dei Docenti Cattolici del Lazio. Vi hanno preso parte oltre 150 docenti, in maggioranza IdR, ma anche di altre discipline, provenienti dalle scuole statali e cattoliche di tutto il Lazio. Il tema prescelto (La Chiesa italiana e l’impegno educativo. Il laico cattolico testimone della speranza nella scuola) intendeva volutamente riecheggiare il Convegno di Verona. La mattinata è trascorsa veloce ascoltando le due vivaci relazioni di Mons. Sergio Lanza e del prof. Sergio Cicatelli. La prima (La persona e la sua vita quotidiana al centro dell’azione pastorale. Fra gli ambienti e le persone) ha ripercorso con spigliatezza i tratti salienti del mondo giovanile nell’Europa di oggi, offrendo uno sguardo prospettico verso il futuro e offrendo 82 suggestive riflessioni per una rinnovata articolazione dell’azione pastorale. Il secondo intervento (L’attenzione della pastorale scolastica ai cinque “ambiti” del Convegno di Verona) ha invece offerto interessanti chiavi di lettura “trasversali”, individuando nel mondo della scuola un vero crocevia di tutti e cinque gli “ambiti” trattati a Verona (il testo completo dell’intervento in questo fascicolo alle pagine 13-19). Dopo pranzo, il pomeriggio ha visto i docenti presenti suddivisi in cinque gruppi, impegnati in una fruttuosa discussione collegiale sugli argomenti presentati dai relatori. Ogni insegnante ha condiviso la propria esperienza educativa a partire dal proprio personale punto di vista, consentendo alla fine del lavoro di ricostruire una interessante panoramica sulla situazione della scuola nel Lazio e sulla presenza dei docenti cattolici, in vista di un più efficace impegno educativo. Un resoconto delle relazioni e dei lavori dei cinque gruppi è disponibile sul sito internet dell’Ufficio Scuola del Vicariato di Roma (www.diocesidiroma.it/scuola). M A T E R I A L I E D O C U M E N T I Documenti di avvio del processo di revisione delle ‘Indicazioni Nazionali’ Presentiamo il materiali che il Ministero della Pubblica Istruzione ha recentemente diffuso sulla futura evoluzione della riforma scolastica. La scelta di un deciso recupero della dimensione squisitamente educativa della scuola – acquisizione pedagogica ormai condivisa da tutti, indipendentemente dall’appartenenza politica e culturale – ci conforta e ci sprona nel nostro impegno di IdR. In questi documenti, l’educazione degli alunni viene dichiarata responsabilità condivisa di tutti i docenti e gli operatori scolastici, nessuno escluso; pertanto non può né deve essere delegata al solo insegnante di religione, considerato un docente “a statuto speciale”. Ciò conferma il ruolo paritetico che gli IdR hanno finalmente acquisito e – d’altro canto – la necessità di una adeguata professionalizzazione delle loro competenze pedagogiche. Altro aspetto decisivo è la valorizzazione dell’autonomia delle scuole, chiamate a organizzare creativamente i propri curricoli in relazione alle esigenze del territorio, pur nel rispetto delle Indicazioni nazionali che garantiscono la conformità agli standard europei. Sempre di più l’insegnante del futuro si profila come un professionista in costante aggiornamento, un creativo imprenditore di sé stesso e della propria competenza pedagogico-didattica, chiamato a collaborare sistematicamente in spirito di équipe con i colleghi. Gli aspetti strettamente pedagogici verranno quindi sottratti alle prescrizioni burocratiche centralizzate per essere riconsegnati all’inventiva locale dei docenti – il che non dovrà significare all’improvvisazione o al pressappochismo – in vista di una progettazione pedagogica consapevole, personalizzata e condivisa tra colleghi. Possiamo serenamente confidare che gli IdR saranno tra i primi docenti ad affrontare con passione e competenze queste sfide. Presentazione Come è noto, il Ministro della P.I. ha avviato il processo di revisione delle attuali ‘Indicazioni Nazionali’ per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione. Si tratta di un processo che prevede due principali fasi. La prima è a breve termine, e nasce dall’esigenza di superare l’attuale fase di provvisorietà, consentendo alle scuole di disporre un quadro di riferimento definito già a partire dal prossimo anno scolastico. La seconda è invece posizionata nel medio periodo, dopo che il nuovo testo sarà stato validato dall’esperienza. In questo modo si intende raggiungere un duplice obiettivo. In primo luogo dare una concreta risposta alle attese del mondo della scuola, che si aspettava in tempi rapidi il superamento di una situazione di incertezza legata alla provvisorietà del testo delle ‘Indicazioni’ lasciate in eredità dal precedente Governo e che auspicava un maggior riconoscimento della propria autonomia progettuale. Le ‘Indicazioni’ che si intende varare saranno molto attente a non ledere tale autonomia, ma a valorizzarla al massimo. Ma, come molti hanno fatto notare, una revisione condotta in tempi brevi porta con sé il rischio di non favorire la partecipazione e il giusto protagonismo degli insegnanti, dei dirigenti, dei soggetti associativi, delle forze sociali. Pur senza voler nascondere le difficoltà, si pensa però che tale rischio possa essere evitato grazie alla metodologia che si è deciso di adottare, che prevede un secondo momento di revisione delle ‘Indicazioni’, dopo un anno della loro messa alla prova dell’aula. In altre parole, come più volte è stato detto, si rinuncia alla ‘Grande Riforma’, che ha bisogno di tempi di elaborazione troppo lunghi e che finisce per invecchiare prima di realizzarsi, in favore di un processo costante di innovazione, fatto da piccoli passi concreti di migliora83 M A T E R I A L I mento. Ed è questo il secondo obiettivo: cambiare il modo di fare riforme, rendere l’innovazione azione costante, fare dell’insegnamento una pratica ricca di riflessività e di ricerca. Avviare un processo di riforma graduale apre alla più larga partecipazione, che non si esaurisce nel momento del dibattito preliminare, ma si sviluppa lungo tutto il percorso della loro messa alla prova e si svolge in dialogo costante con la quotidianità del lavoro didattico ed educativo. Questa scelta porta necessariamente con sé l’impegno del centro di fornire un adeguato sostegno all’innovazione, di garantire un costante monitoraggio, di valorizzare le buone pratiche e di correggere gli inevitabili punti di debolezza. Agendo in questo modo si capisce che il testo delle Indicazioni che a breve verrà messo a disposizione delle scuole e alla prova dell’esperienza non avrà la pretesa di essere esaustivo né quella di sfidare il tempo, ma sarà, molto più concretamente, uno strumento di lavoro a disposizione della scuola. La Commissione Nazionale che è stata insediata ha, al momento, elaborato due documenti di carattere generale, il primo (Cultura, scuola, persona) finalizzato a delineare la cornice culturale entro la quale si svolge l’azione educativa e didattica della scuola; il secondo (Il curricolo nella E D O C U M E N T I scuola dell’autonomia) di carattere pedagogico-didattico, indirizzato a delineare l’idea di scuola, quale oggi si presenta nel nuovo quadro dell’autonomia. I due testi di indirizzo sono stati sottoposti all’analisi dei principali soggetti culturali e professionali che operano nel mondo dell’istruzione e della ricerca, che si sono espressi attraverso numerose audizioni e produzione di propri documenti, fornendo alla Commissione importanti elementi di riflessione. Pur apprezzando l’apporto dei diversi soggetti interpellati, con i quali si intende mantenere un dialogo costante, appare indispensabile fornire a tutti gli insegnanti e i dirigenti scolastici la più completa informazione sull’evoluzione dei lavori in corso. Anche se c’è la consapevolezza dei tempi ristretti di questa prima fase, si desidera comunque favorire la riflessione che dirigenti e docenti potranno sviluppare nelle più diverse modalità ritenute utili, a livello di istituzione scolastica, di reti di scuole, o in altro modo. Oltre a rendere disponibili sul sito1 tali documenti, insieme all’intervento svolto dal Ministro della P.I. al citato Convegno, vengono ora trasmessi alle istituzioni scolastiche, con l’intento di favorire una riflessione larga e partecipata, nelle modalità che più saranno ritenute opportune e praticabili. […]. CULTURA SCUOLA PERSONA. Verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione. Roma, 3 aprile 2007 LA SCUOLA NEL NUOVO SCENARIO In un tempo molto breve abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si moltiplicano sia i rischi che le opportunità. Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche più contraddittori. Oggi l’apprendimento 1 scolastico è solo una delle tante esperienze di formazione che i bambini e gli adolescenti vivono e per acquisire competenze specifiche spesso non vi è bisogno dei contesti scolastici. Ma proprio per questo la scuola non può e non deve abdicare al compito di scoprire la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti. Il materiale è scaricabile sul sito del MPI: www.pubblica.istruzione.it, che anche noi abbiamo usato come fonte 84 M A T E R I A L I L’orizzonte territoriale della scuola si allarga. Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con ciò stesso costituisce un microcosmo che su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni, convivenze globali. Anche ogni singola persona, nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto di informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si deve confrontare con la pluralità delle culture. Nel suo itinerario formativo ed esistenziale lo studente si trova a interagire con culture diverse, senza tuttavia avere strumenti adatti per comprenderle e metterle in relazione con la propria. Alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta. Non dobbiamo però dimenticare che in questa situazione di potenziale ricchezza formativa permangono vecchie forme di analfabetismo e di emarginazione culturale. Queste si intrecciano con analfabetismi di ritorno, che rischiano di impedire a molti l’esercizio di una piena cittadinanza. Inoltre, la diffusione delle tecnologie di informazione e di comunicazione, insieme a grandi opportunità, rischia di introdurre anche serie penalizzazioni nelle possibilità di espressione di chi non ha ancora accesso a tali tecnologie. Questa situazione nella scuola è ancora più evidente. Allo stato attuale delle cose, infatti, le relazioni con gli strumenti informatici sono assai diseguali fra gli studenti come fra gli insegnanti. Anche le relazioni fra il sistema formativo e il mondo del lavoro stanno rapidamente cambiando. Ogni persona si trova ricorrentemente nella necessità di riorganizzare e reinventare i propri saperi, le proprie competenze e persino il proprio stesso lavoro. Le tecniche e le competenze diventano obsolete nel volgere di pochi anni. Per questo l’obiettivo della scuola non può essere soprattutto quello di inseguire lo sviluppo di singole tecniche e competenze; piuttosto, è quello di formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza de- E D O C U M E N T I gli scenari sociali e professionali, presenti e futuri. Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al contrario, la scuola può e deve realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno. In tale scenario, alla scuola spettano alcune finalità specifiche. La scuola deve offrire agli studenti occasioni di apprendimento dei saperi e dei linguaggi culturali di base; deve far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a selezionare le informazioni; deve promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e categorie che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali; deve favorire l’autonomia di pensiero degli studenti, orientando la propria didattica alla costruzione di saperi a partire da concreti bisogni formativi. La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa prospettiva, per il successo scolastico di tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità o di svantaggio. Questo comporta saper accettare la sfida che la diversità pone: innanzi tutto nella classe, dove le diverse situazioni individuali vanno riconosciute e valorizzate, evitando che la differenza si trasformi in disuguaglianza; inoltre nel Paese, affinché le penalizzazioni sociali, economiche, culturali non impediscano il raggiungimento degli essenziali obiettivi di qualità che è doveroso garantire. CENTRALITÀ DELLA PERSONA Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e con l’unicità della rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti sociali. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche de- 85 M A T E R I A L I vono sempre tener conto della singolarità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato. Sin dai primi anni di scolarizzazione è importante che i docenti definiscano le loro proposte in una relazione costante con i bisogni fondamentali e i desideri dei bambini e degli adolescenti. È altrettanto importante valorizzare simbolicamente i momenti di passaggio che segnano le tappe principali di apprendimento e di crescita di ogni studente. Particolare cura deve essere contemporaneamente posta alla formazione della classe come gruppo, alla promozione dei legami cooperativi fra i suoi componenti, alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La scuola si deve costruire come luogo accogliente, coinvolgendo in questo compito gli studenti stessi. Si deve esplicitare l’importanza delle condizioni che favoriscono lo star bene a scuola, al fine di ottenere la partecipazione più ampia dei bambini e degli adolescenti a un progetto educativo condiviso. La formazione di importanti legami di gruppo non contraddice la scelta di porre la persona al centro dell’azione educativa, ma è al contrario condizione indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno. La scuola deve porre le basi del percorso formativo dei bambini e degli adolescenti sapendo che esso proseguirà in tutte le fasi successive della vita. In tal modo deve fornire le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e per trasformare le mappe dei saperi rendendole continuamente coerenti con la rapida e spesso imprevedibile evoluzione delle conoscenze e dei loro oggetti. Si tratta di elaborare gli 86 E D O C U M E N T I strumenti di conoscenza necessari per comprendere i contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si troveranno a vivere e ad operare. PER UNA NUOVA CITTADINANZA La scuola persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea verticale esprime l’esigenza di impostare una formazione che possa poi continuare lungo l’intero arco della vita; quella orizzontale indica la necessità di un’attenta collaborazione fra la scuola e gli attori extrascolastici con funzioni a vario titolo educative: la famiglia in primo luogo. Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo. La scuola non può interpretare questo compito come semplice risposta a un’emergenza. Non deve trasformare le sollecitazioni che le provengono da vari ambiti della società in un moltiplicarsi di microprogetti che investano gli aspetti più disparati della vita degli studenti, con l’intento di definire norme di comportamento specifiche per ogni situazione. L’obiettivo non è di accompagnare passo dopo passo lo studente nella quotidianità di tutte le sue esperienze, bensì di proporre un’educazione che lo spinga a fare scelte autonome e feconde, quale risultato di un confronto continuo della sua progettualità con i valori che orientano la società in cui vive. La scuola perseguirà costantemente l’obiettivo di costruire un’alleanza educativa con i genitori. Non si tratta di rapporti da stringere solo in momenti critici, ma di relazioni costanti che riconoscano i reciproci ruoli e che si supportino vicendevolmente nelle comuni finalità educative. La scuola si apre alle famiglie e al territorio circostante, facendo perno sugli strumenti forniti dall’autonomia scolastica, che prima di essere un insieme di norme è un modo di concepire il rapporto delle scuole con le comunità di appartenenza, M A T E R I A L I locali e nazionali. L’acquisizione dell’autonomia rappresenta un momento decisivo per le istituzioni scolastiche. Grazie ad essa si è già avviato un processo di sempre maggiore responsabilizzazione condiviso dai docenti e dai dirigenti, che favorisce altresì la stretta connessione di ogni scuola con il suo territorio. In quanto comunità educante, la scuola deve generare una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed essere anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola può affiancare al compito dell’«insegnare ad apprendere» anche quello dell’«insegnare a essere». L’obiettivo è quello di valorizzare l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un’opportunità per tutti. Non basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti, nella loro pura e semplice autonomia. Si deve, invece, sostenere attivamente la loro interazione e la loro integrazione attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture, in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere. La promozione e lo sviluppo di ogni persona deve stimolare in maniera vicendevole la promozione e lo sviluppo delle altre persone: ognuno impara meglio nella relazione con gli altri. Non basta convivere nella società, ma questa stessa società bisogna crearla continuamente insieme. Il sistema educativo deve formare cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e composite, siano esse quella nazionale, quella europea, quella mondiale. Non dobbiamo dimenticare che fino a tempi assai recenti la scuola ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea. Oggi, invece, può porsi il compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione E D O C U M E N T I delle diverse identità e radici culturali di ogni studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e vincolata ai valori fondanti della tradizione nazionale, ma che può essere alimentata da una varietà di espressioni ed esperienze personali molto più ricca che in passato. Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale ad un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare appieno le possibilità del presente senza una profonda memoria e condivisione delle radici storiche. A tal fine sarà indispensabile una piena valorizzazione dei beni culturali presenti sul territorio nazionale, proprio per arricchire l’esperienza quotidiana dello studente con culture materiali, espressioni artistiche, idee, valori che sono il lascito vitale di altri tempi e di altri luoghi. La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo. I problemi più importanti che oggi toccano il nostro continente e l’umanità tutta intera non possono essere affrontati e risolti all’interno dei confini nazionali tradizionali, ma solo attraverso la comprensione di far parte di grandi tradizioni comuni, di un’unica comunità di destino europea così come di un’unica comunità di destino planetaria. Perché gli studenti acquisiscano una tale comprensione, è necessario che la scuola li aiuti a mettere in relazione le molteplici esperienze culturali emerse nei diversi spazi e nei diversi tempi della storia europea e della storia dell’umanità. La scuola è luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto. PER UN NUOVO UMANESIMO Le relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità e del pianeta oggi devono essere intese in un duplice senso. Da un lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona; dall’altro, ogni persona tiene nelle sue stes- 87 M A T E R I A L I se mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità. La scuola può e deve educare a questa consapevolezza e a questa responsabilità i bambini e gli adolescenti, in tutte le fasi della loro formazione. A questo scopo si deve comprendere che il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni. E’ quindi decisiva una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo. In tale prospettiva, la scuola potrà perseguire alcuni obiettivi, oggi prioritari. Dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia - in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme. Dovrà promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo: la capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; la capacità di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie; la capacità di valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; la capacità di vivere e di agire in un mondo in continuo cambiamento. Dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture. Tutti questi obiettivi possono essere realizzati sin dalle prime fasi della formazione. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le espressioni artistiche e musicali sono infatti altrettante occasioni privilegiate per apprende- 88 E D O C U M E N T I re per via pratica quello che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più elaborate conoscenze teoriche e sperimentali. Nel contempo, lo studio dei contesti storici, sociali, culturali nei quali si sono sviluppate le conoscenze è condizione di una loro piena comprensione. Inoltre, le esperienze personali che i bambini e gli adolescenti hanno degli aspetti a loro prossimi della natura, della cultura, della società e della storia sono una via di accesso importante per la sensibilizzazione ai problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo. Ma condizione indispensabile per raggiungere questo obiettivo è ricostruire insieme agli studenti le coordinate spaziali e temporali necessarie per comprendere la loro collocazione rispetto agli spazi e ai tempi assai ampi della geografia e della storia umane, così come rispetto agli spazi e ai tempi ancora più ampi della natura e del cosmo. Definire un tale quadro d’insieme è compito sia della formazione scientifica (chi sono e dove sono io nell’universo, sulla terra, nell’evoluzione?) sia della formazione umanistica (chi sono e dove sono io nelle culture umane, nelle società, nella storia?). Negli ultimi decenni, infatti, discipline una volta distanti hanno collaborato nel ricostruire un albero genealogico delle popolazioni umane e nel tracciare i tempi e i percorsi delle grandi migrazioni con cui il pianeta è stato popolato. La genetica, la linguistica, l’archeologia, l’antropologia, la climatologia, la storia comparata dei miti e delle religioni hanno cominciato a delineare una storia globale dell’umanità. Da parte loro, la filosofia, le arti, l’economia, la storia delle idee, delle società, delle scienze e delle tecnologie stanno mettendo in evidenza come le popolazioni umane abbiano sempre comunicato fra loro e come le innovazioni materiali e culturali siano sempre state prodotte da una lunga storia di scambi, interazioni, traduzioni. A loro volta, le scienze del vivente oggi allargano ancora di più questo quadro: le collaborazioni fra genetica, paleontologia, embriologia, ecologia, etologia, geologia, biochimica, biofisica, M A T E R I A L I ci danno per la prima volta un quadro delle grandi tappe della storia della vita sulla terra e mostrano la stretta interdipendenza fra tutte le forme viventi. L’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria. Oggi la scuola italiana può proporsi concretamente un tale obiettivo, contribuendo con ciò a creare le condizioni propizie per rivitaliz- E D O C U M E N T I zare gli aspetti più alti e fecondi della nostra tradizione. Questa ,infatti, è stata ricorrentemente caratterizzata da momenti di intensa creatività – come la civiltà classica greca e latina, la Cristianità, il Rinascimento e, più in generale, l’apporto degli artisti, dei musicisti, degli scienziati, degli esploratori e degli artigiani in tutto il mondo e per tutta l’età moderna – nei quali l’incontro fra culture diverse ha saputo generare l’idea di un essere umano integrale, capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano. IL CURRICOLO NELLA SCUOLA DELL’AUTONOMIA 1. La tradizione italiana dei Programmi per la scuola La tradizione italiana di orientamenti e programmi, lunga e diversificata, ha negli anni segnato l’evoluzione del pensiero pedagogico e della storia della scuola. Per la scuola dell’infanzia i primi Orientamenti delle attività educative del 1969 sono stati seguiti dagli Orientamenti del 1991. Per la scuola primaria i Programmi didattici del 1955 sono stati sostituiti dai nuovi Programmi didattici del 1985. Per la scuola secondaria di I Grado i Programmi del 1963 sono stati seguiti da quelli del 1979. Tutti questi Orientamenti e Programmi sono rimasti in vigore fino alla emanazione delle Indicazioni nazionali del 2004. Come si vede, cambiare programmi ha richiesto tempi lunghi e si è sempre trattato di riforme settoriali. L’asincronia degli interventi e la mancanza di raccordo tra i programmi dei diversi ordini di scuola rappresentano evidenti limiti, per di più aggravati dall’assenza di un effettivo collegamento ai programmi della scuola secondaria di II grado, nella quale – in attesa di una organica riforma di struttura – si andava intanto sviluppando, a partire dagli anni Novanta, una complessa e articolata sperimentazione, che ha inciso nei diversi ordini e indirizzi soprattutto sul piano curricolare. A cavallo degli anni 2000 si è aperta una fase nuova contraddistinta: a) dall’avvio dell’autonomia scolastica (l. 59/1997, art. 21) e dalla sua successiva regolamentazione (DPR 275/1999), che hanno condotto a una attenuazione del tradizionale centralismo dei programmi e a una loro rivisitazione in più duttili termini curricolari; b) dai tentativi che – nell’ambito del più ampio concerto europeo dei Libri Bianchi e di Lisbona 2000 – hanno teso ad avviare una riforma di sistema della scuola mirata a investire l’intero ordinamento degli studi, i contenuti dell’insegnamento, le metodologie didattiche e organizzative (l. 30/2000 e l. 53/2003). Nei primi anni 2000 l’iniziativa ha portato: a) in connessione con la “riforma dei cicli” (legge 30/2000), alla predisposizione, seppur provvisoria, degli Indirizzi curricolari nazionali per la scuola dell’infanzia e per la scuola di base del 2001; b) in connessione con la legge 53/2003, alle Indicazioni nazionali del 2004 rispettivamente per la scuola dell’infanzia e per la scuola secondaria di I grado (D.lgs 192-2004 n. 59), anche queste da considerarsi provvisorie. 2. Dare alla scuola un quadro di riferimento definito Superare la provvisorietà delle attuali Indicazioni è necessario, se si vuol offrire alla 89 M A T E R I A L I scuola dell’infanzia e a quella del primo ciclo di istruzione un quadro di riferimento definito, portando a compimento quanto richiesto dal Regolamento sull’autonomia. Il processo di predisposizione delle Indicazioni richiede che: • si tenga presente il nuovo quadro normativo che nel frattempo si è andato definendo; • si faccia riferimento alle linee di indirizzo che caratterizzano l’azione di Governo nel settore della scuola; • si assumano parametri e criteri condivisi per le nuove Indicazioni nazionali del curricolo di scuola, tenendo in attenta considerazione quanto è emerso dall’esperienza degli insegnanti e dalla riflessione culturale che si è sviluppata. 3. ‘Indicazioni’ e curricolo Nel rispetto e nella valorizzazione dell’autonomia delle Istituzioni Scolastiche, le Indicazioni Nazionali costituiscono il quadro di riferimento delle scelte affidate alla progettazione delle scuole. In questo senso sono un testo volutamente aperto che la comunità professionale è chiamata ad assumere e a contestualizzare tenendo conto dei bisogni di sviluppo degli alunni, delle aspettative della società, delle risorse disponibili all’interno delle scuole e nel territorio. Con il riconoscimento dell’autonomia alle istituzioni scolastiche il posto che era dei programmi nazionali viene preso dal Piano dell’Offerta Formativa che, come è affermato nella vigente normativa, è «il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche». Il cuore didattico del Piano dell’Offerta Formativa è il curricolo, che viene predisposto dalla comunità professionale nel rispetto degli orientamenti e dei vincoli posti dalle ‘Indicazioni’ e la sua elaborazione è il terreno su cui si misura concretamente la capacità progettuale di ogni scuola. Una conseguenza dell’introduzione dell’autonomia è che il luogo delle decisioni si sposta, almeno in parte, 90 E D O C U M E N T I dal centro alla singola istituzione scolastica ed è per questa ragione che il curricolo si afferma come principale strumento della progettualità didattica. La nozione di curricolo consente di guardare all’educazione a scuola come un processo complesso di trasmissione culturale e di orientamento personale e al tempo stesso di focalizzarne le diverse componenti. Si impara in un contesto sociale che è tale non soltanto perché avviene in una specifica situazione storica e culturale, ma anche perché si impara con gli altri, che sono gli adulti insegnanti responsabili dei processi educativi che innescano e i pari che con le loro diverse caratteristiche contribuiscono alla presa d’atto progressiva delle proprie e delle altrui specificità. Si impara inoltre mediante l’ausilio di strumenti, materiali (libri, quaderni, computer…) e simbolici (i diversi alfabeti della conoscenza) che consentono la progressiva appropriazione del patrimonio culturale della società in cui si vive. Mediante l’acquisizione di contenuti e di abilità a scuola si attivano e si promuovono processi di elaborazione che rappresentano l’aspetto più specifico della complessa attività scolastica. La scuola è un ambiente particolare di apprendimento, che, molto più di altri ambienti, offre non solo continue occasioni di imparare, ma anche di sbagliare, analizzare i propri errori, emendarli e continuare o riprendere ad imparare. Ciò rappresenta una specificità propria della scuola che costituisce perciò un luogo salvo, al riparo dai ritmi, dalle urgenze e dalle pressioni esterne e in cui tutto questo può avvenire con il monitoraggio e l’accompagnamento di un adulto competente. Nella società della conoscenza, che sembrerebbe rendere marginale la funzione educativa della scuola, per la concomitante presenza di un numero progressivamente maggiore di altre agenzie educative, va, invece, riconosciuta una funzione fondamentale a questa istituzione delegata alla acquisizione di processi di elaborazione, difficilmente acquisibili altrove, ove insegnanti ed alunni riconoscono piena- M A T E R I A L I mente il senso del loro trovarsi quotidianamente insieme. Il curricolo organizza e descrive l’intero percorso formativo che uno studente compie, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria, nel quale si intrecciano e si fondono i processi cognitivi e quelli relazionali. L’unitarietà del percorso non dimentica la peculiarità dei diversi momenti evolutivi nei quali l’avventura dell’apprendimento si svolge, che vedono un progressivo passaggio dall’imparare facendo, alla capacità sempre maggiore di riflettere e formalizzare l’esperienza, attraverso la ri-costruzione degli strumenti culturali e la capacità di utilizzarli consapevolmente come chiavi di lettura della realtà. Gli itinerari dell’istruzione, che sono finalizzati all’alfabetizzazione linguistico-letteraria, storicogeografica-sociale, matematico-scientifica-tecnologica, artistico-creativa), sono inscindibilmente intrecciati con quelli della relazione, che riguardano l’interazione emotivo-affettiva, la comunicazione sociale ed i vissuti valoriali che si generano nella vita della scuola. 4. Tra istanze nazionali e istanze della comunità scolastica Il curricolo che ogni singola scuola elabora, pur nella originalità che lo contraddistingue, deve tenere conto delle richieste che il centro fa attraverso le Indicazioni, ma questo non significa che il progetto della scuola sia altra cosa, che si giustappone alle richieste del centro senza integrarsi. In realtà, Indicazioni nazionali e scelte della scuola si fondono in un unico progetto. Così inteso, il curricolo costituisce un mosaico dal disegno unitario eppure articolato, risultato dell’integrazione delle esigenze che ogni scuola ha saputo far emergere nel dialogo con la propria realtà di appartenenza e le richieste che, attraverso le Indicazioni, la comunità nazionale esprime. Indicare i processi di alfabetizzazione culturale comuni all’intero sistema scolastico italiano – in termini di conoscenze e di E D O C U M E N T I competenze – è compito del centro, cui compete stabilire i principali assi culturali del curricolo, le discipline che ad essi si riferiscono, le competenze da sviluppare. Spetta poi ad ogni istituzione scolastica meglio specificare gli obiettivi da raggiungere, eventualmente integrando la gamma degli insegnamenti proposti agli studenti, prestando particolare attenzione alle specificità del contesto di riferimento, alle attese e ai problemi che lo caratterizzano, alle risorse che si possono utilizzare. Questo comporta il possibile arricchimento del monteore di alcuni insegnamenti già previsti a livello centrale, l’utilizzazione della flessibilità oraria consentita, l’introduzione di modalità organizzative che si ritengono più rispondenti agli scopi. La scuola dell’autonomia viene così a realizzare un curricolo che si costruisce in un rapporto di reciprocità culturale e didattica con l’ambiente, fino a considerarlo aula decentrata, nella quale imparare ad essere ed imparare a vivere è possibile, contestualmente all’ imparare ad imparare e ad imparare a inventare. È evidente la differenza che la logica del curricolo introduce rispetto ai programmi nazionali anche per quanto riguarda la considerazione della professionalità dei docenti e dei dirigenti scolastici. Il programma prescrive una lista di obiettivi e di contenuti definiti centralmente ed a prescindere da ogni riferimento alle realtà locali: ad essi il docente deve riferirsi ed applicarli nel suo insegnamento. Anche il curricolo propone obiettivi e contenuti, compresi quelli definiti dal centro e prescrittivi, che garantiscono l’unitarietà del sistema nazionale, ma in essi trova spazio l’attenzione alla realtà sociale nella quale la scuola è inserita, la sua cultura, le specifiche esigenze rilevate nell’ascolto dei bisogni degli alunni e nel confronto con le richieste e le attese delle famiglie e del territorio. Se, nel caso del programma, agli insegnanti si richiedeva di essere dei buoni esecutori di un testo elaborato altrove, nel caso invece del curricolo si chiede loro di essere coelaboratori, protagonisti e responsabili delle scelte effettuate. La professionalità è dunque fortemente valo- 91 M A T E R I A L I rizzata e responsabilizzata, poiché la comunità professionale è chiamata ad assumersi significative responsabilità progettuali, nel quadro di un pieno riconoscimento della libertà culturale di ciascuno, all’interno di una dimensione sociale di collaborazione, negoziazione delle scelte, condivisione di una peculiare idea di scuola. Attraverso il lavorare insieme, al di là di modalità burocratiche e formali, si costruisce una comunità professionale ed educativa nella quale la libertà culturale di ciascuno è rispettata e valorizzata, in un confronto responsabile, finalizzato alla delineazione di un progetto alto di scuola, impegnativo per tutti, per tutti significativo. Il processo di costruzione del curricolo non si conclude una volta per tutte, ma si configura come ricerca continua, grazie all’azione dei docenti, professionisti riflessivi impegnati in un costante lavoro di analisi e di rielaborazione delle loro pratiche didattiche. Criteri per l’elaborazione del curricolo Il Regolamento sull’autonomia fissa i criteri che le istituzioni scolastiche devono osservare per l’elaborazione del curricolo. In particolare stabilisce quali siano i riferimenti prescrittivi che il centro deve fornire e che riguardano, in particolare, i seguenti aspetti: • gli obiettivi generali del processo formativo; • gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni; • le discipline e attività costituenti la quota nazionale dei curricoli e il relativo monteore annuale. a) Per quanto riguarda gli obiettivi generali, il richiamo centrale è dato dalla piena valorizzazione della persona umana, le cui capacità vanno potenziate in modo armonico ed integrale grazie all’apporto degli strumenti culturali propri della scuola e della qualità dell’esperienza che tale ambiente è chiamato a coltivare. Il riferimento alla persona, non va inteso astrattamente, ma va visto nella concretezza della situazione evolutiva, sociale, cultu- 92 E D O C U M E N T I rale in cui si trova. Inoltre, il processo educativo che la formazione scolastica promuove va oltre la dimensione del sapere e del saper fare aprendosi anche agli alfabeti dell’imparare a vivere ed a convivere in una società della quale si è parte e del cui miglioramento ci si sente responsabili. La competenza alla quale la scuola di base mira è, prima di tutto, generale e riferita all’essere persona e cittadino responsabile, nei confronti di se stesso, degli altri, della città (polis) e dell’ambiente in cui si vive. Non è solo alla scuola che compete la responsabilità educativa né solo nella scuola avvengono i percorsi dell’apprendimento, ma essa concorre con gli strumenti che le sono propri e che sono gli strumenti della cultura. Le attività e le discipline di cui la scuola si avvale, mentre forniscono strumenti metodologici, mappe concettuali e chiavi di comprensione specifiche della realtà, rappresentano esse stesse potenti mezzi di educazione. b) Gli obiettivi di apprendimento che la scuola persegue sono finalizzati allo sviluppo delle competenze. Il Regolamento dell’Autonomia li chiama ‘specifici’ con una duplice accezione. Sono specifici della scuola, e quindi si riferiscono alle attività e alle discipline che in ambito scolastico vengono utilizzati; sono specificamente collegati alle competenze di cui la scuola deve promuovere lo sviluppo. c) Un ulteriore elemento di prescrittività riguarda le discipline e le attività obbligatorie. Spetta al centro indicare quali insegnamenti debbano essere impartiti da tutte le istituzioni scolastiche, pur nel rispetto della loro autonomia didattica. È questa una condizione indispensabile per la tenuta unitaria del sistema nazionale di istruzione, che prevede che il curricolo integri i contenuti culturali prescritti a livello nazionale e quelli scelti da ogni singola scuola, che può decidere di dedicare loro un maggior spazio di approfondimento o di integrarli con altri ritenuti opportuni in relazione alle peculiarità del contesto. La progettazione curricolare è una operazione complessa che coinvolge tutti i fat- M A T E R I A L I tori connessi con il processo educativo, dai contenuti agli esiti formativi, dalla modalità di realizzazione ai condizionamenti dovuti alle situazioni socioambientali. Il processo di costruzione del curricolo non può prescindere da una riconsiderazione critica degli elementi essenziali del rapporto educativo. In conclusione: • il curricolo va costruito nella scuola, non viene emanato dal centro per essere applicato; • tale costruzione deve permettere l’accordo tra istanza centrale, normativa e unitaria, ed istanza locale, pragmatica e flessibile; • la costruzione del curricolo implica una considerazione della scuola come luogo di ricerca, in rapporto dialettico con le istanze provenienti dalla comunità scientifica, le istanze provenienti dalla comunità sociale e quelle etiche e che caratterizzano l’orizzonte dei valori condivisi rappresentati sia a livello centrale sia a livello locale; • la problematica curricolare è il terreno su cui si muove l’innovazione educativa. Ambiti, discipline, unitarietà del sapere L’itinerario formativo che dalla scuola dell’infanzia si sviluppa fino al termine del primo ciclo è caratterizzato dal progressivo passaggio dagli ambiti e campi dell’esperienza all’emergere e definirsi delle aree disciplinari e delle singole discipline, in una prospettiva che deve sempre tendere all’unitarietà del sapere. Nella scuola dell’infanzia e nei primi anni della scuola primaria le esperienze e le scoperte che i bambini compiono, pure nella loro profonda unitarietà, portano progressivamente all’emergere di alcuni ambiti che via via assumono una sempre maggiore riconoscibilità. Il termine ‘ambito’ serve a designare queste prime forme di aggregazione che, senza fare ancora esplicito riferimento agli statuti delle diverse discipline, consentono tuttavia agli insegnanti di promuovere esperienze ed attività significati- E D O C U M E N T I ve ed orientate alla scoperta dei sistemi simbolico culturali. Nella scuola dell’infanzia l’azione educativa colloca in una prospettiva evolutiva i vissuti e le esperienze dei bambini, mediandoli culturalmente all’interno di un contesto sociale ed educativo intenzionalmente orientato alla progressiva costruzione delle conoscenze e allo sviluppo della competenza. Gli obiettivi di apprendimento della scuola dell’infanzia vanno visti come traguardi relativi a dimensioni di sviluppo irrinunciabili e per meglio consentire di identificarli il curricolo si struttura in ambiti e campi di esperienza che possono essere considerati la mappa del percorso formativo da promuovere e consolidare nel passaggio che conduce alla scuola primaria. Nei primi anni della scuola primaria l’iniziale organizzazione degli apprendimenti si struttura in maniera più esplicitamente orientata ai saperi disciplinari, raggruppandosi in tre grandi ambiti: a) linguisticoespressivo; b) antropologico; c) matematico-scientifico. Progressivamente, attraverso attività di ricerca e di riflessione a partire dalle esperienze condotte, emergerà sempre più consapevolmente la nozione di disciplina, intesa non semplicemente come ‘materia scolastica’ (insieme di nozioni), ma come strumento di indagine, che dispone di metodi, linguaggi, concetti specifici e caratterizzanti. Il possesso di un buon livello di padronanza disciplinare è non ostacolo, ma condizione indispensabile per il raggiungimento di una visione unitaria del sapere, frutto del dialogo e dell’integrazione dei diversi punti di vista disciplinari. In prospettiva formativa, l’insegnamento mira a favorire un apprendimento unitario, cioè capace di dare senso alla molteplicità delle informazioni e delle esperienze. Unità, in questo caso, significa unità del sapere, superamento delle conoscenze frammentate, dell’enciclopedismo nozionistico, capacità di comporre in un quadro organico e dotato di senso le conoscenze acquisite. Questo processo avviene tanto a livello disciplinare che interdisciplinare. A livello disciplinare si tratta di conquistare modelli 93 M A T E R I A L I di spiegazione dei fenomeni particolari, quadri di idee capaci di conferire alle singole informazioni un senso, all’interno di campi di indagine ben identificati. A livello pluridisciplinare vanno colte le interazioni reciproche che le discipline hanno ed il valore dell’integrazione di diversi apporti scientifici. L’interdisciplinarità, infine, si configura come sapere di sintesi, modalità di soluzione di problemi complessi. Ma quando ci si riferisce all’unitarietà non è in gioco solo una prospettiva o un metodo di insegnamento. In termini ancora più profondi, sotto il profilo educativo, l’unitarietà riguarda il processo di personale costruzione di significato che ogni alunno è chiamato a compiere. L’accompagnamento culturale della scuola ha successo quando aiuta l’alunno a fare personale sintesi di quanto gli viene proposto, a trovare il nesso tra la sua esperienza, i suoi bisogni e quanto la cultura gli offre, a dare senso all’esperienza di apprendimento realizzata e farne risorsa per la costruzione del suo progetto di vita. Promuovere le competenze essenziali La scuola dell’autonomia ha il compito di favorire la conquista dell’autonomia dell’alunno. Autonomo è chi sa fronteggiare le situazioni problematiche, possiede strategie di soluzione dei problemi, sa vivere con gli altri cooperando, difendere con argomentazioni il proprio punto di vista, ma anche ascoltare il punto di vista degli altri e, se è il caso, modificare il proprio convincimento. Autonomo è anche chi sa chiedere aiuto, avendo la consapevolezza del proprio limite e sa offrire aiuto compe- E D O C U M E N T I tente. Autonomo è, in definitiva, chi di fronte ai problemi che incontra sa fronteggiarli facendo ricorso e mobilizzando tutte le proprie risorse interiori: conoscenze e abilità, emozioni e impegno personale. L’autonomia riguarda tutte le dimensioni della persona e il grado di autonomia è in relazione al livello di competenza posseduta. La scuola che è orientata a promuovere l’imparare ad apprendere, più che a trasmettere conoscenze da memorizzare o insegnare automatismi da applicare meccanicamente, finalizza il proprio curricolo allo sviluppo delle competenze fondamentali. In un curricolo centrato sulle competenze le conoscenze hanno un peso importante, ma non sono fine a se stesse, sapere inerte, spendibile solo nei confini di un’aula scolastica, ma non significativo per la vita. Una concezione non nozionistica del sapere è interessata non tanto a ciò che un alunno sa, ma a quello che sa fare e sa diventare con quello che sa.2 Nel curricolo conoscenze e competenze sono tra loro in stretta relazione. Ogni ambiente educativo contribuisce a sviluppare competenza, ma la scuola lo fa secondo la propria natura e si serve degli strumenti culturali che le sono propri. Le competenze che si sviluppano grazie all’apprendimento scolastico sono, certamente, legate alla specificità dei saperi che vengono fatti incontrare all’alunno e sono, perciò intimamente intessute di contenuti culturali. In questo senso, le discipline sono potenti mezzi formativi, per i metodi che forniscono e per i sistemi concettuali che consentono di costruire. Ancora di più lo sono per la loro capacità di intro- 2 «Fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi comporta non solo il possesso di conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggiamenti adeguati a un’efficace gestione di tali componenti. Pertanto la nozione di competenze include componenti cognitive ma anche componenti motivazionali, etiche, sociali, risultati di apprendimento (conoscenze e abilità), sistemi di valori e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche. Da tale punto di vista, leggere, scrivere e far di conto sono abilità che, ai livelli di base, rappresentano le componenti critiche di numerose competenze. Mentre il concetto di competenza si riferisce alla capacità di far fronte a richieste di un elevato livello di complessità e comporta sistemi di azione complessi, il termine conoscenze è riferito ai fatti o alle idee acquisiti attraverso lo studio, la ricerca, l’osservazione o l’esperienza e designa un insieme di informazioni che sono state comprese. Il termine abilità viene usato per designare la capacità di utilizzare le proprie conoscenze in modo relativamente agevole per l’esecuzione di compiti semplici». Cfr: OECD, The definition and selection of key competencies (DeSeCo): theorical and conceptual foundations. Strategic paper, 07 Oct. 2002. 94 M A T E R I A L I durre, attraverso lo stupore che nasce dal misurarsi con le grandi domande, alla dimensione della scoperta. La scuola che mira allo sviluppo delle competenze è un vero laboratorio del pensiero, centro di ricerca e spazio di sperimentazione, di cooperazione, di relazioni significative che impegna gli insegnanti ad essere ‘maestri’, cioè adulti competenti che testimoniano con la loro passione l’autenticità delle richieste che fanno ai loro alunni. Orientamenti per l’azione didattica Le modalità attraverso le quali promuovere lo sviluppo delle competenze rientrano nella autonomia delle scuole e dei docenti, soprattutto per quanto riguarda le scelte di ordine didattico e organizzativo. Spetta, infatti, alla comunità professionale stabilire la concreta organizzazione degli ambiti di insegnamento, individuando le soluzioni che, nello specifico contesto della situazione in cui si opera, delle risorse disponibili e del progetto pedagogico elaborato appaiano le più efficaci, salvaguardando in ogni caso il principio della collegialità e corresponsabilità del gruppo docente. Funzioni quali quelle della progettazione, organizzazione, gestione delle attività didattiche, valutazione, orientamento, rapporti con i genitori, sono di pertinenza di tutti i docenti che operano collegialmente all’interno della comunità professionale e del gruppo docente, (compresi gli insegnanti specializzati sul sostegno) in un quadro di pari responsabilità tra i docenti contitolari, senza dar luogo ad alcuna figura docente gerarchicamente distinta o sovraordinata e la responsabilità è condivisa, quale che siano le modalità stabilite per assicurarla. L’organizzazione dell’orario scolastico e della suddivisione dei relativi compiti didattici va ricondotta ad una coerenza ed unitarietà di impianto, evitando la frammentazione in una miriade di attività di scarso significato culturale. In ogni caso l’attribuzione del monte ore per le diverse attività didattiche, l’articolazione dei tempi dedicati ai laboratori o ad altre attività progettate, i ti- E D O C U M E N T I pi e i modi delle corresponsabilità previste in relazione alla conduzione delle attività didattiche di aula e di laboratorio, con il gruppo classe o con gruppi diversamente formati, tutto questo attiene all’autonomia progettuale della scuola e trova i suoi criteri esplicitati nel Piano dell’Offerta Formativa. Non spetta al Ministero prescrivere come organizzare la didattica e come distribuire le responsabilità all’interno della scuola, nei rapporti tra docenti, con gli alunni o con i genitori. Prescrittivo, invece, né potrebbe essere diversamente, è che sia garantito il coordinamento didattico nel gruppo docente, sia assicurata una funzione di accompagnamento e di orientamento nei confronti di ciascun alunno e venga curato un rapporto costante e non burocratizzato con le famiglie, riconoscendo nei genitori degli alunni, senza che vi sia alcuna confusione di ruolo, degli importanti partner nell’educazione e delle risorse per la comunità scolastica. Il restituire all’autonomia della scuola la piena responsabilità didattica non significa legittimare qualsiasi impostazione pedagogica, metodologica, organizzativa, valutativa. Le finalità del processo formativo, le competenze da sviluppare, gli obiettivi di apprendimento da garantire sono definiti con chiarezza nelle Indicazioni nazionali ed hanno piena forza prescrittiva, il che implica che le autonome scelte curricolari delle istituzioni scolastiche devono essere coerenti con tali prioritari riferimenti. Le impostazioni metodologiche e didattiche non possono essere prescritte centralisticamente, ma è evidente che le diverse scelte possibili, e che attengono al campo della libertà didattica e della ricerca, devono essere orientate a rispondere ai bisogni fondamentali di apprendimento e di senso degli alunni. Non è, pertanto, vincolante l’adozione di una particolare forma progettuale rispetto ad altre possibili e diverse, ma è vincolante che le progettazioni dei percorsi didattici siano orientate a sviluppare le competenze fondamentali, a garantire il raggiungimento degli standard stabiliti, siano attente a promuovere il protagoni- 95 M A T E R I A L I smo dell’alunno, chiamato ad “apprendere ad apprendere”, siano sufficientemente flessibili per consentire un insegnamento individualizzato negli obiettivi da raggiungere ed un apprendimento personalizzato nei modi per conseguirli. In questa ottica, la responsabilità della valutazione e la cura della documentazione educativa appartengono a tutti i docenti e rappresentano tratti essenziali della funzione docente. La valutazione, nella scuola di base, assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo. Ogni forma di documentazione dei processi formativi di supporto ai processi di apprendimento degli allievi (dossier, cartelle, portfolio, ecc.) sono rimesse alla piena autonomia delle scuole. Non si vuole svalutare la preziosa esperienza di ricerca e sperimentazione che molti docenti hanno avviato, ma riconsegnare tali pratiche alla dimensione pedagogica, sottraendole a quella burocratica ed amministrativa, nella quale in troppi casi è stata utilizzata. Crescere in una comunità di apprendimento L’alunno cresce e sviluppa le proprie competenze in un ambiente culturalmente caratterizzato, altamente simbolico, e nell’interazione continua con gli altri apprende a muoversi nelle diverse situazioni di vita grazie all’uso di strumenti culturali. Se nessuno può sostituirsi al compito evolutivo del quale ogni persona è portatrice, tale compito può essere opportunamente sostenuto grazie a molteplici forme di mediazione. Già i materiali, gli ambienti, lo spazio fisico fungono da mediatori, ma la principale, insostituibile mediazione è data dall’interazione sociale, da cui si possono sviluppare varie forme di apprendimento collaborativo, nelle quali la qualità della relazione educativa è centrale. È in questo clima che si costruisce la comunità scolastica, che si configura come: a) Comunità di pratiche: gli alunni imparano l’uno dall’altro, quando sono insieme 96 E D O C U M E N T I impegnati in un compito comune, come possono essere quelle della ricerca, o della progettazione e realizzazione di un prodotto. Il lavorare insieme promuove diverse forme di collaborazione, consente di mettere in comune conoscenze tacite altrimenti non svelate, fa emergere ruoli, evidenzia la mutua rilevanza perché tutti concorrono all’obiettivo condiviso. b) Comunità di dialogo: gli studenti discutono, mettendo a confronto le loro idee e le loro “visioni del mondo”. Scoprono altri punti di vista rispetto al proprio e sperimentano resistenza alle loro convinzioni. L’ altro è il limite contro il quale naufraga l’egocentrismo cognitivo e quello sociale ed è la condizione per il loro superamento. La disputa inevitabile apre la strada alla discussione e questa all’argomentazione. Si impara grazie al dover rendere ragione delle proprie convinzioni e in tal modo si scopre che esistono anche altre ragioni, altri punti di vista, che possono migliorare o arricchire il nostro. Come nella vita democratica adulta, anche nelle prime esperienze di interazione con gli altri, l’opposizione gioca un ruolo fondamentale perché non consente di coltivare l’illusione infantile di avere sempre ragione. c) Comunità di diversità: in una realtà sempre più multiculturale e caratterizzata da una molteplicità di diverse situazioni individuali, le pratiche didattiche collaborative svolgono una insostituibile funzione sociale. Le personali convinzioni sono legate alla cultura di appartenenza e poterle manifestare e condividerle in un clima favorevole costituisce un’esperienza di valorizzazione che accresce l’autostima e favorisce l’integrazione. Il gruppo è formato da diversità, che non si irrigidiscono o si chiudono nella difensiva. Ma agire come membri di un gruppo collaborativo rappresenta una buona occasione di inclusione per molti alunni con bisogni educativi speciali e con rilevanti difficoltà di apprendimento. Il gruppo stesso funge da sostegno, offrendo la possibilità di partecipare con il proprio peculiare modo di essere. Ognuno può scoprire che tutti siamo differenti, e possiamo dare e ricevere aiuto. M A T E R I A L I d) Comunità di persone la dimensione sociale dell’esperienza non cancella l’originalità della persona. La scuola intesa come comunità è qualcosa di più di una organizzazione, sia pure efficiente. Se si assume come punto di riferimento quanto è solennemente affermato nella nostra Costituzione, ribadito e posto a fondamento della legge sull’autonomia scolastica e cioè la valorizzazione delle persona umana, vista non come individuo ma come appartenente ad una società, non ci dovrebbero essere dubbi: è all’interno della comunità che la persona è pienamente accolta, riconosciuta, sostenuta nel suo processo di crescita, di conoscenza di sé, rispettosa dell’altro, abilitata a diventare responsabile e autonoma. Al suo interno gli insegnanti e i dirigenti non sono ridotti al ruolo di tecnici dell’istruzione o di manager dell’organizzazione, ma sono riconosciuti e responsabilizzati come educatori e i genitori non sono percepiti, a loro volta, semplicemente come clienti o utenti, ma come partner in una impresa condivisa. E’ dentro la scuola intesa come comunità che i discorsi sulla persona, sulla personalizzazione, sull’inclusione, trovano il loro pieno significato. Ed è, soprattutto, dentro la scuola comunità professionale ed educativa che può essere offerta agli studenti una prospettiva non solo in termini di preparazione alle professioni, ma di sviluppo della propria personale identità e del proprio progetto di vita. Discorso del ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni Roma, 3 aprile 2007 È importante chiarire il metodo che intendiamo seguire. Oggi non si presenteranno le nuove indicazioni nazionali, ma la cornice culturale entro cui rileggerle e ripensare all’esperienza del fare scuola. Il seminario di oggi non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza per far nascere una discussione approfondita all’interno del mondo della scuola. Dare senso alla fram- E D O C U M E N T I mentazione del sapere: questa è la sfida. Una scuola che intende educare istruendo non può ridurre tutto il percorso della conoscenza alla semplice acquisizione di competenze. Compito della scuola è educare istruendo le nuove generazioni, e questo è impossibile senza accettare la sfida della trasmissione di un senso dentro la trasmissione delle competenze. La prima domanda che dobbiamo porci riguarda “chi educhiamo”. Se c’è un punto su cui non possiamo non trovarci d’accordo è che il nostro compito è quello di educare “la persona”. Un essere unico ed irripetibile. Ogni bambino, ogni ragazzo ha la necessità di essere educato, nel senso etimologico del termine, che deriva dal latino e-ducere, tirar fuori: ha bisogno di essere aiutato a scoprire il valore di se stesso, delle cose e della realtà. Questa persona unica ed irripetibile può essere educata a conoscere, accettare, tirar fuori e costruire sé, solo entrando in rapporto con la realtà che la circonda. E la realtà è fatta di persone, di fatti, di eventi, del presente e del passato, di cui il presente è figlio. L’arte, la storia, la letteratura, le scienze, non sono che strade tracciate da uomini per capire, scoprire, conoscere questa realtà: per questo possono essere interessanti, (interesse), aiutare a scoprire sé. Questa persona unica ed irripetibile, poi, non vive da sola, ha bisogno di essere educata anche a conoscere ed apprezzare gli altri. La difficoltà di questo percorso è data dal disagio che molti giovani vivono: le paure, le incertezze, la solitudine, l’idea di una vita vuota e senza senso sono il sottofondo di quel malessere diffuso, che è anche espressione di un eccesso di avere e di una carenza di essere. Quell’essere che è ciò che siamo in connessione e continuità con le cose in cui crediamo, con i valori che riteniamo fondanti. Una ragazza di 16 anni, suicidatasi a Roma anni fa, aveva lasciato questo biglietto: «Ho avuto tutto nella vita, il necessario e il superfluo ma non l’indispensabile». La scuola deve essere in prima linea nella battaglia contro questo vuoto: deve essere un luogo dove si riconosce significato a ciò che si fa e 97 M A T E R I A L I dov’è possibile la trasmissione di quei valori che corrispondono al cuore perché danno appartenenza, identità, passione. Primo fra tutti il rispetto di sé e degli altri, che nasce dalla consapevolezza che esiste un valore intangibile che è la dignità di tutti e di ciascuno. Nessuno escluso. Questo chiede alla scuola un surplus: educare istruendo è un’aggiunta di responsabilità dell’adulto persona docente come dell’adulto persona genitore che si declina nell’essere maestri di vita, testimoni di ciò che si trasmette. Il primo rispetto della cultura della legalità è quello di incarnare ciò che trasmettiamo, di dimostrare che a fare il bene corrisponde un premio e che a fare il male corrisponde una punizione. La scuola è un luogo di incontro e di crescita di persone. Persone sono gli insegnanti e persone sono gli allievi. Educare istruendo significa essenzialmente tre cose: • consegnare il patrimonio culturale che ci viene dal passato perché non vada disperso e possa essere messo a frutto • preparare al futuro introducendo i giovani alla vita adulta, fornendo loro quelle competenze indispensabili per essere protagonisti all’interno del contesto economico e sociale in cui vivono • accompagnare il percorso di formazione personale che uno studente compie mentre frequenta la scuola, sostenendo la sua ricerca di senso e il faticoso processo di costruzione della propria personalità. Questa è la via italiana all’Europa e all’acquisizione delle competenze indicate a Lisbona. Nell’“educere”, nel tirar fuori ciò che si è e nella relazione con gli altri, si impara ad apprendere. Obiettivo della scuola è quello di far nascere “il tarlo” della curiosità, lo stupore della conoscenza, la voglia di declinare il sapere con la fantasia, la creatività, l’ingegno, la pluralità delle applicazioni delle proprie capacità, abilità e competenze. Tradotto in termini semplici: mi ostino a pensare a una scuola che non abbia come obiettivo solo l’essere in funzione della richiesta del 98 E D O C U M E N T I mercato. Solo se non si rinuncia ad educare istruendo si può mettere veramente a frutto l’unicità e l’irripetibilità di ogni singolo individuo. Solo così ogni persona può essere protagonista e costruire il proprio futuro in modi plurali, diversi ed innovativi. Per raggiungere questi obiettivi resta centrale l’acquisizione della cultura scientifica così come la valorizzazione dell’istruzione tecnica e professionale, campi nei quali il nostro Paese ha costruito le fondamenta del proprio sviluppo. Il preside di un liceo americano sopravvissuto alla Shoah scriveva ogni anno ai suoi insegnanti: «Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleni da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido quindi dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani». La nostra scuola deve essere un luogo in cui nelle diversità e nelle differenze si condivide l’unico obiettivo che è la crescita della persona. Solo così si capisce che cosa significa una scuola capace di consegnare il patrimonio culturale che ci viene dal passato, di accompagnare il bambino ed il ragazzo nella scoperta del senso, e di promuovere la capacità di innovare e di costruire il futuro che ogni singola persona ha. Io mi ostino a non accettare una scuola che persegue soltanto l’utilità del momento storico e dell’attimo fuggente, rinunciando ad aiutare lo studente ad essere ciò che è e a costruire nei diversi contesti. Occorre sottolineare con forza, nella scuola, la centralità della persona-studente. Farlo significa realizzare una rete di azioni integrate atte a valorizzare lo stile cognitivo unico ed irripetibile proprio di M A T E R I A L I quello specifico studente, uscendo da ogni genericità e standardizzazione. Educare istruendo significa incrociare lo stile cognitivo del bambino o del ragazzo. Non è pensabile una scuola costruita su di un modello unico di studente astratto. La scuola dell’autonomia è una scuola che concentra la propria proposta formativa ed il percorso curriculare nell’attenzione a quell’essere unico ed irripetibile che si ha in classe. Non c’è un “drop out” generico, c’è il drop out della rinuncia, dell’inadeguatezza e dell’abbandono. Non c’è nessuna sindrome di burn out nell’insegnante che non sia figlia del difficile incrocio fra ciò che dovremmo saper essere e saper fare e la straordinaria complessità che richiede l’educare istruendo proprio quella persona lì che, nella propria unicità, dà la misura della complessità dell’intrapresa e dell’ineludibilità del limite del nostro operare. Questa è la sfida. È questo il rischio educativo che gli insegnanti assumono sulla propria professionalità. Oltre alle risorse economiche necessarie ed indispensabili esistono altre risorse fondamentali, che consistono nella condivisione del progetto educativo da parte E D O C U M E N T I della famiglia e della società. Ci sono oggi famiglie in crisi, famiglie che più sono in difficoltà, più chiedono e pretendono dalla scuola. Occorre che il patto tra la scuola e la famiglia diventi l’elemento portante della cornice culturale che ho appena delineato. Non c’è possibilità che la scuola realizzi il proprio compito di educare istruendo senza la condivisione della famiglia. Cercare di educare-istruendo in opposizione o nell’indifferenza della famiglia depotenzia il lavoro che si fa a scuola, genera drop out tra i ragazzi e disagio, burn out tra gli insegnanti. La scuola siamo noi, nelle buone pratiche, nel lavoro quotidiano. Non vogliamo concederci facili assoluzioni, ci assumiamo la responsabilità del dover essere migliori, dell’andare oltre i nostri limiti, del rispondere al compito che ci è affidato. Questo capitale umano di docenti e studenti, questa multiforme pluralità di persone, uomini e donne può accettare questa scommessa e può dare al Paese il motore che tutto muove e tutto genera. Resta a noi saper coltivare questa passione, questa voglia di esserci e di mettersi in gioco: vogliamo assumerci la responsabilità di costruire il futuro. 99 M A T E R I A L I E D O C U M E N T I Contributo del Servizio Nazionale IRC della CEI sulla Premessa alle nuove Indicazioni Nazionali e la Traccia di idee base per l’elaborazione del curricolo A complemento di questi documenti del MPI, presentiamo anche una nota diffusa del Servizio per l’IRC della CEI. Questo contributo esprime una valutazione alquanto severa dei recenti documenti ministeriali e della direzione che l’attuale governo sembra voler imprimere alla Riforma della scuola. Si lamenta infatti un distacco piuttosto marcato rispetto agli orientamenti della precedente legislatura, un rispetto solo parziale delle indicazioni legislative già varate, una ridotta sensibilità per la dimensione religiosa della cultura, una restrizione ingiustificata e pericolosa del ruolo delle famiglie. Il documento avanza anche alcune proposte di correzione, in cui sembra di leggere un rigido attaccamento ad alcuni elementi dell’«epoca Moratti» (portfolio, tutor…) e una nostalgia forse eccessiva ed anacronistica per la precedente stagione di riforme. A nostro giudizio, una critica così serrata degli orientamenti attuali risulta alla fine scarsamente produttiva; forse sarebbe più feconda un’apertura maggiore e una più generosa disponibilità a valorizzare gli elementi positivi degli indirizzi attuali, pur senza farsi illusioni e conservando un salutare occhio critico dinanzi ad ogni posizione. I problemi non si possono mai superare con un cammino all’indietro: occorre sempre lavorare per il futuro. Tuttavia le osservazioni formulate non sono prive di fondamento e fanno riflettere: per questo le pubblichiamo. Affidiamo poi alla coscienza del lettore il compito – non facile – di formulare un ponderato giudizio personale. Sintetica riflessione sui documenti Da una prima analisi dei documenti si apprezza lo sforzo di cercare una linea di continuità che colleghi i provvedimenti attualmente allo studio con ciò che è stato fatto nelle precedenti legislature, ricollegandosi in modo molto esplicito ai dispositivi normativi sull’autonomia scolastica come pure – almeno in parte – alla Legge 53/2003. È opportuno procedere con maggiore decisione sulla linea di tale sforzo. Non sempre il lessico e la sostanza dei documenti presi in esame si ispirano alla Legge 53 (normativa in vigore). Si trovano anche riferimenti a norme abrogate, che potrebbero generare ulteriore confusione. D’altra parte i docenti di tutte le discipline, compresi gli insegnanti di religione, stanno operando sulle attuali Indicazioni e, da quanto ci risulta, certamente per gli insegnanti di religione, anche con buon profitto. Centralità della persona Tra gli elementi di continuità il più importante è senz’altro il riferimento esplicito (più volte reiterato) alla centralità della persona, anche se il significato attribuito al termine “persona” non risulta presentato in maniera chiara: si sottolinea in diversi passaggi la concretezza del vivere della persona, a partire dalla originalità del suo percorso individuale e della sua rete di relazioni, non si incontra mai un’affermazione esplicita in ordine alla sua identità/dignità. Mentre si coglie la comprensibile preoccupazione di formare la persona «sul piano cognitivo e culturale» (CSP1, p. 4), ci sembra riduttivo invece finalizzare tale formazione a che il soggetto «possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali» (ibidem). “Incertezza” e “mutevolez- I due documenti del MPI saranno indicati con le abbreviazioni: CSP (Cultura Scuola Persona. Verso le Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione) e CSA (Il curricolo nella scuola dell’autonomia), seguirà il numero di pagina dell’originale diffuso dal Ministero. 1 100 M A T E R I A L I za” che vengono chiamate in causa numerose volte, come constatazione di un dato di realtà sul piano culturale se non addirittura come parole chiave di un vero e proprio paradigma di riferimento. Meglio sarebbe stato finalizzare gli strumenti culturali (disciplinari, metodologici, interdisciplinari) alla costruzione dell’identità personale e alla convivenza civile, come si conviene a soggetti in età evolutiva. L’enumerazione di tutti gli aspetti costitutivi dell’identità dello studente2 ha una sua ampiezza che consente di superare il rischio di un eccessivo riduzionismo, anche se risulta evidente l’omissione della dimensione religiosa, esclusa dalle dimensioni costitutive dell’identità personale per essere relegata tra gli aspetti puramente culturali e accessori. Tale omissione appare in modo ancora più eclatante, se si considera un testo “parallelo” del D. L.vo 59/2004, in cui tra gli Obiettivi generali del processo formativo della scuola Primaria, dove si parla della corporeità come valore, si afferma che «l’avvaloramento dell’espressione corporea è allo stesso tempo condizione e risultato dell’avvaloramento di tutte le altre dimensioni della persona: la razionale, l’estetica, la sociale, l’operativa, l’affettiva, la morale e la spirituale religiosa»3. La dimensione religiosa della cultura La dimensione religiosa, oltre a non comparire tra gli aspetti costitutivi di cui si è detto sopra, viene relativamente considerata anche sul piano culturale, vi è un riferimento fugace alle “convinzioni religiose” (CSP, p. 9) nel passo in cui si parla dell’integrazione interculturale, come aspetto che non è possibile eludere. Altrettanto debole appare il modo in cui viene presentata la “nostra tradizione”, in cui l’unico cenno alla dimensione religiosa ad essa intrinseca è quello alla “Cristianità” (CSP, p. 15). Non si menziona neppure il E D O C U M E N T I “Cristianesimo” come realtà vivente, né specie il “Cattolicesimo” per il nostro Paese. Oltretutto il riferimento alla “Cristianità” viene collocato in una scansione cronologica tra antichità e Rinascimento (con una implicita allusione al Medioevo), quasi relegandola nel passato. Ci sembra utile ricordare qui le espressioni, di ben altro tenore, che si trovano nel PECUP, in cui si afferma che: «[il ragazzo] ha consapevolezza, sia pure in modo introduttivo, delle radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa; colloca, in questo contesto, la riflessione sulla dimensione religiosa dell’esperienza umana e l’insegnamento della religione cattolica, impartito secondo gli accordi concordatari e le successive Intese»4. L’assenza di un riferimento esplicito alla “dimensione religiosa” e al “Cristianesimo-Cattolicesimo” porta a interpretare il “nuovo umanesimo”, che rappresenta l’anima ideale del documento di base, come una generica visione filantropica dei rapporti umani, dettata più dall’esigenza di trovare uno spazio di incontro nella complessità che dal rispetto e dalla ricerca della identità profonda della persona. Si corre il rischio di avvallare un ingenuo ottimismo, in cui la nuova cultura umanistica verrebbe investita di una “missione” per la quale «dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia – in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme» (CSP, p. 12). Va da sé che, in questo quadro culturale, in nessun caso si faccia cenno a termini come “realtà” o “verità”, il che fa pensare che il conferimento di significato dipenda esclusivamente dalle avvertenze epistemologiche messe in atto, come si legge «Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali» (CSP, p. 6). 3 Decr. L.vo n. 59 del 19 febbraio 2004, allegato B. 4 Decr. L.vo n. 59 del 19 febbraio 2004, allegato C. 2 101 M A T E R I A L I poco oltre nel testo citato, in cui si afferma che la scuola «dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e le culture» (ivi, p. 13). L’idea che un determinato approccio metodologico, senza nessun riferimento di tipo etico-valoriale o religioso, possa risultare anche “risolutore” rispetto ai grandi problemi dell’umanità sembra investire la scuola – per giunta con un imperativo molto rafforzante – di un ruolo ridondante rispetto alla sua missione sociale. La conclusione stessa del documento, che presenta la sintesi culturale dei momenti più creativi della nostra tradizione nella figura di un «essere umano integrale», «capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano» (CSP, p. 15), conferma come il riferimento alla “centralità della persona” venga in realtà diluito dentro una cornice culturale che di fatto ne condiziona l’immagine. Il ruolo dei genitori e la famiglia Per quanto riguarda il rapporto scuola e famiglia sembra importante l’affermazione per cui «la scuola perseguirà l’obiettivo di costituire un’alleanza educativa con i genitori» (CSP, p. 8), anche se questa formulazione può dare adito ad una lettura riduttiva del rapporto, in cui la scuola si percepisce come primo soggetto e “regista” delle modalità di costruzione di tale alleanza, mentre la famiglia avrebbe il ruolo di interlocutore desiderabile, ma non indispensabile. Tale lettura viene rafforzata anche da alcuni passaggi del documento sul curricolo, in cui nel ribadire la necessità di «un rapporto costante e non burocratizzato con le famiglie» (CSA, p. 7), si limita subito la portata dell’affermazione, «riconoscendo nei genitori degli alunni, senza che vi sia confusione di ruo- 102 E D O C U M E N T I lo, degli importanti partner nell’educazione e delle risorse per la comunità scolastica» (ivi, pp. 7-8). Anche nel momento in cui si sente il bisogno di prendere le distanze dall’ipotesi di percepire i genitori «semplicemente come clienti o utenti» (CSA, p. 9), li si avvalora semplicemente come «partner in una impresa condivisa». Del resto nel documento di base stesso si afferma che il compito di insegnare le regole del vivere e del convivere si presenta oggi, per la scuola, «ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo» (CSP, p. 8) L’idea di partnership in una impresa che rimane sostanzialmente della scuola (per la quale i genitori possono anche essere considerati “risorse”), non coincide con l’idea di una effettiva “alleanza” o una autentica “cooperazione” con le famiglie, che sarebbe una modalità più forte di concepire anche il loro ruolo in fase di “regia” della progettualità educativa. Per migliorare l’impressione culturale che viene generata dalla lettura congiunta dei due testi sarebbe opportuno sbilanciarsi in termini più coraggiosi (soprattutto nelle Indicazioni che devono ancora essere redatte), in ordine ad una collaborazione sussidiaria tra scuola e famiglia, in cui appaia con chiarezza come la prima sia al servizio dell’impresa educativa di cui la seconda mantenga una piena titolarità. In questa maniera si esplicita più coerentemente l’“autonomia” scolastica come rapporto vivo con il territorio, a partire appunto dalla famiglia e dalla sua rete di relazioni. Scelte pedagogiche e logica educativa Nell’impianto complessivo dei due documenti, in particolare nel documento sul “curricolo”, si colgono interessanti aperture alla dimensione educativa, anche se la logica pedagogica complessiva resta molto centrata sugli aspetti cognitivi, il fulcro attorno a cui tutto ruota. Un riferimento molto significativo si riscontra nel documento di base, in cui si afferma che «la scuola può affiancare al compito dell’‘insegnare ad apprendere’ anche quello dell’‘insegnare ad essere’» (CSP, p. 9). Se M A T E R I A L I l’affermazione va presa alla lettera, essa risulta un ribaltamento speculare e programmatico di quanto si può leggere nel PECUP, il quale «rappresenta ciò che un ragazzo di 14 anni dovrebbe sapere e fare per essere l’uomo e il cittadino che è giusto attendersi da lui al termine del Primo Ciclo di istruzione»: il rapporto tra sapere, fare ed essere è tracciato con una precisa linea di orientamento finalistico all’essere, mentre nel documento di base si centra l’attenzione sul sapere, mentre resta opzionale la cura dell’essere. Un secondo nodo concettuale dal quale si evidenzia la centratura sulla dimensione culturale è il modo in cui si configura il riferimento all’unità del sapere: esso è centrato più sulla unificazione dei “contenuti” attraverso calibrati dinamismi epistemologici, piuttosto che sulla “unità di senso” che ogni persona è chiamata ad attribuire al suo percorso formativo. Infatti nel “documento sul curricolo” si legge che l’unità del sapere va intesa come un «superamento delle conoscenze frammentate, dell’enciclopedismo nozionistico, capacità di comporre un quadro organico e dotato di senso le conoscenze acquisite. Tale processo avviene tanto a livello disciplinare che interdisciplinare» (CSA, p. 6). Immediatamente dopo si precisa che l’unità di senso comporta l’accompagnamento del ragazzo a fare sintesi personale di quanto gli viene proposto, ma il meccanismo complessivo dimostra un andamento “top down” o andamento discendente, per cui prima vi è una proposta culturale (disciplinarmente e interdisciplinarmente pre-strutturata in modo da generare “unità del sapere”), poi si accompagnano gli allievi in un processo in cui ciascuno di essi possa elaborare una sintesi personale. Per questo la parte più significativa del documento di base è dedicata – come si è visto – ai nuovi orizzonti culturali che si intendono proporre. Se ci si pone in tale ottica si resta in effetti colpiti dalla scom- E D O C U M E N T I parsa – soprattutto nel documento sul curricolo (CSA) – di ogni riferimento a quelli che la Legge 53/2003 identifica come “Piani di studio personalizzati” (art. 2, lettera l), concepiti come strumenti per l’attuazione delle affermazioni in merito alla centralità della persona, non dei contenuti disciplinari. La centratura sui contenuti culturali, che abbiamo rilevato nel “documento di base” (CSP), offre una precisa chiave di lettura di alcune affermazioni sull’impianto pedagogico che si prefigura per le nuove Indicazioni: «il cuore didattico del Piano dell’Offerta Formativa è il curricolo, che viene predisposto dalla comunità professionale nel rispetto degli orientamenti e dei vincoli posti dalle Indicazioni» (CSA, p. 2). In un approccio di tal genere gli spazi di personalizzazione vengono eliminati, anche perché «la scuola (…) finalizza il proprio curricolo allo sviluppo delle competenze fondamentali» (CSA, p. 6), le quali competenze – si precisa in nota – hanno sì una notevole ampiezza di componenti5, ma restano a loro volta finalizzate a «fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi»6. In ogni caso, è importante, e certamente da valorizzare e sviluppare, quanto risulta implicito nell’affermazione per cui «in un curricolo centrato sulle competenze le conoscenze hanno un peso importante, ma non sono fine a se stesse, sapere inerte, spendibile solo nei confini di un’aula scolastica, ma non significativo per la vita» (CSA, p.6). Tale apertura focalizza l’interesse di chi progetta gli interventi didattici non tanto o non solo su ciò che un alunno sa, ma anche su «quello che sa fare e sa diventare con quello che sa» (Ibidem). Suggerimenti correttivi per le attuali Indicazioni Senz’altro sarà opportuno, nelle attuali Indicazioni, alleggerire i riferimenti di tipo metodologico/didattico (le consapevolez- Si enumerano «componenti cognitive, ma anche componenti motivazionali, etiche, sociali, risultati di apprendimento (conoscenze e abilità), sistemi di valori e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche» (CSA, p. 6, nota 1). 6 Ibidem. 5 103 M A T E R I A L I ze preliminari agli OSA) che possono avere avuto una funzione in fase di prima attuazione ma che ora ne appesantiscono la lettura. Le scelte metodologiche certamente possono essere demandate all’autonomia delle scuole, pur nel riferimento unitario ad alcuni “vincoli” che non siano solo sul piano dei contenuti culturali, anche sul piano dei “generi letterari” con cui i documenti di scuola potranno accompagnare i percorsi di studio dei bambini e dei ragazzi, come, ad esempio, il Portfolio, comunque elaborato. Se ci è consentito esprimere un suggerimento anche per altre discipline rispetto all’IRC, si potrebbero essenzializzare anche gli OSA disciplinari, laddove siano stati redatti in termini troppo minuziosi, in modo da rendere più flessibile il lavoro di progettazione dei docenti ed accogliere le curvature personalizzanti che potranno venire dalla capacità di farsi carico delle aspettative, capacità e attitudini dei propri allievi. Alcuni elementi irrinunciabili Sulla base dell’operato che il Servizio nazionale IRC ha messo in atto in questi anni di applicazione della riforma scolastica, visti i positivi risultati ottenuti, riteniamo che tra gli elementi irrinunciabili, che sarebbe importante non disperdere in questa fase di revisione, vi sia innanzitutto il PECUP, che ha consentito e più ancora può consentire una focalizzazione più esplicita della centralità della persona dello studente. Esso, infatti, avendo come “soggetto logico” lo studente, si configura come strumento essenziale perché tutti gli attori coinvolti (docenti, studenti, genitori) abbiano un punto di riferimento preciso in ordine alle finalità educative “personalizzanti” a cui dovranno essere orientati tutti gli “strumenti culturali”: tanto quelli disciplinari, come quelli interdisciplinari e sistemici del “nuovo umanesimo”, prefigurato dal “documento di base”. Altri elementi che dalla nostra esperienza si sono dimostrati pedagogicamente validi sono: il Portfolio e le funzioni tutoriali, perché, sia il primo che le seconde, garantiscono un accompagnamento del processo di personalizzazione del percor- 104 E D O C U M E N T I so formativo, oltre che una effettiva cooperazione con le famiglie. Per quanto riguarda l’IRC, questi elementi favoriscono la valorizzazione del suo apporto disciplinare in vista sia della collaborazione interdisciplinare fra docenti che per il contributo specifico alla crescita della persona. Un altro elemento importante è dato dal quadro complessivo dell’Educazione alla convivenza civile, con alcune articolazioni esplicite (che possono anche essere diverse, rispetto alle sei che sono state individuate nelle precedenti Indicazioni), che ha avuto il merito di esplicitare la valenza culturale (in dialogo con le discipline, pur nella loro trasversalità) delle modalità con cui la scuola – negli ultimi decenni – si è strutturata per rispondere alla domanda sociale di educazione, oggi resa ancora più urgente. Azioni da attivare in sostegno alle innovazioni proposte Il primo punto su cui far leva è certamente quello della formazione insegnanti, per la quale si dovrebbero privilegiare modalità di tipo laboratoriale, consentendo di sperimentare anche formule creative in grado di “integrare” diversi approcci possibili e diverse logiche di progettazione, anche per coloro che – come gli insegnanti di religione cattolica – hanno sondato con buoni risultati le modalità di lavoro per Unità di apprendimento, attraverso l’articolazione di Obiettivi formativi, significativi e motivanti. A cura del Servizio Nazionale per l’IRC della Conferenza Episcopale Italiana Roma, 18 aprile 2007 M A T E R I A L I E D O C U M E N T I TEOLOGIA E CULTURA TERRE DI CONFINE Relazione del Card. Camillo Ruini Torino 11 maggio 2007 L’ultima Fiera Internazionale del Libro di Torino (10-14 maggio 2007) ha scelto come tema di confronto «I Confini». Tra gli ospiti illustri, il Card. Ruini ha tenuto la lectio magistralis che presentiamo. Il porporato ha offerto una brillante sintesi del rapporto tra cultura moderna e pensiero teologico, evidenziando i nodi critici e indicando gli elementi chiave per un discernimento sapiente e lungimirante. Ci sembra una lettura preziosa per l’aggiornamento di tutti gli IdR. 1. Le radici storiche Il rapporto tra teologia e cultura è stato fondamentale nel passato, sia per la teologia, e più ampiamente per il cristianesimo e la sua espansione missionaria, sia per la cultura, o meglio per le varie culture e civiltà nelle quali il cristianesimo si è inserito e che ha esso stesso in larga misura plasmato o anche generato. Ciò è avvenuto già nell’epoca neotestamentaria, quando la fede in Gesù Cristo è nata nel mondo culturale giudaico e subito dopo è entrata in quello ellenistico-romano, iniziando a trasformare entrambe queste culture, che del resto non erano rigidamente separate ma già tra loro assai intrecciate. Poi questo processo ha caratterizzato tutta l’epoca patristica, attraverso un confronto serrato della teologia dei Padri (non solo gli Apologeti) con la filosofia e gli stili di vita allora dominanti. Ciò è andato di pari passo con l’affermarsi della missione cristiana e ne ha anzi costituito una dimensione essenziale. Al termine di questo itinerario la fede cristiana era diventata il fattore più influente e determinante di quella cultura, che pure manteneva i suoi tratti propri e specifici e naturalmente il suo dinamismo di evoluzione storica. A lungo, e attraverso complesse fasi successive che hanno a che fare con le grandi migrazioni di popoli avvenute al passaggio tra l’Antichità e il Medioevo e con le ulteriori fasi di espansione missionaria del cristianesimo tra i popoli germanici e slavi, è perdurato e si è per vari aspetti esteso e anche istituzionalizzato questo ruolo centrale del cristianesimo nella cultura. Una formulazione classica ed esemplare di tale centralità si può vedere nella prima questione della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, dedicata alla Sacra doctrina, dove si afferma non solo che questa dottrina è scienza, in un senso superiore, e sapienza, ma che, essendo una in se stessa, essa si estende a tutto ciò che appartiene alle diverse scienze filosofiche, speculative e pratiche, e al contempo ha rispetto ad esse una dignità che le trascende e un radicale primato, e tuttavia deve avvalersi di loro, secondo il principio che la grazia non toglie ma perfeziona la natura. Sappiamo bene come non solo questo primato ma il rapporto stesso tra cristianesimo e cultura, teologia e cultura, sia progressivamente entrato in crisi fin dai primi inizi dell’epoca moderna, a partire da quella che è stata chiamata la “svolta antropologica”, che ha posto l’uomo al centro, oltre che dalla nascita della scienza detta “galileiana” e dalle guerre di religione europee, che hanno reso in qualche modo necessario concepire e gestire la sfera pubblica etsi Deus non daretur. Non è il caso di soffermarsi qui su queste ben note problematiche. Vorrei piuttosto ricordare che all’interno della teologia medievale, e in forma eminente con San Tommaso, la distinzione e nella distinzione il rapporto reciproco tra ragione e fede, filosofia e teologia, sono stati oggetto di approfondimento sistematico: come ha mostrato magistralmente É. Gilson in uno studio pubblicato già nel 1927 sui motivi per i quali San 105 M A T E R I A L I Tommaso ha criticato Sant’Agostino (Pourquoi saint Thomas a critiqué saint Augustin, in AHDLM, 1, pp. 5-127), la base teoretica di questo approfondimento è da ritrovarsi nella gnoseologia ed ontologia di matrice aristotelica, che ha consentito appunto una distinzione più chiara e sistematica tra le capacità conoscitive intrinseche all’uomo e la luce che egli riceve dalla presenza divina in lui. Una tesi storico-teologica largamente diffusa, e sviluppata soprattutto da un autore della portata di H. de Lubac, sulle orme di M. Blondel, ritiene che l’insistenza unilaterale su questa distinzione, affermatasi nella “seconda scolastica”, cioè appunto ai primi inizi dell’età moderna, abbia contribuito all’emarginazione del cristianesimo e della teologia dagli sviluppi della cultura, rappresentandone involontariamente una legittimazione teologica. Personalmente posso concordare con questa valutazione, a patto di non esagerare il suo concreto peso storico. Mi preme sottolineare però che essa non deve portare a un giudizio negativo sulla validità intrinseca, e anche sulla necessità e fecondità storica, di quella distinzione sistematica. Essa infatti nasce in ultima analisi dal riconoscimento del carattere divino e trascendente della rivelazione cristiana, anzitutto nel suo centro che è Gesù Cristo ma anche per quanto riguarda la vocazione dell’umanità a partecipare gratuitamente, nello Spirito Santo, al rapporto filiale che Cristo ha con il Padre. Dall’altra parte essa scaturisce dal riconoscimento della consistenza interna delle creature, proprio perché esse sono opera di Dio (cfr Gaudium et spes, 36). Soltanto sulla base di questa distinzione, inoltre, è possibile un rapporto con la ragione moderna e contemporanea e con la rivendicazione di libertà che pervade la nostra cultura, rispettando e valorizzando quei loro dinamismi che hanno consentito di conseguire, negli ultimi secoli, risultati straordinari. 106 E D O C U M E N T I 2. L’età moderna Nella crisi dei rapporti tra cristianesimo e cultura occidentale è comunque importante distinguere almeno due principali fasi storiche. La prima riconosce ancora il valore e l’importanza della fede cristiana e a suo modo cerca di salvarne anche la verità. Ancora in Hegel si riscontra in qualche modo questo atteggiamento, sebbene in lui appaia particolarmente chiaro che la verità e validità del cristianesimo è subordinata al primato della filosofia e comporta in realtà uno svuotamento dall’interno del cristianesimo stesso, ossia il suo “trascendimento” filosofico. Già prima di Hegel però l’illuminismo, soprattutto in Francia, aveva visto l’emergere di una critica radicale alla Chiesa e alla fede cristiana. Questa critica, che si conclude nella negazione della divinità di Cristo e dell’esistenza stessa di Dio, con la riconduzione dell’uomo a un semplice essere del mondo, ha però il suo sviluppo culturalmente più significativo in Germania, nella parabola storica che va da Hegel a Nietzsche e che è stata descritta da K. Löwith con rara profondità (Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, ed. Einaudi). Il secolo XIX è anche il tempo nel quale il cristianesimo occidentale ha preso piena coscienza della radicalità di questa minaccia ed ha cercato di reagirvi, secondo due grandi direttrici che, semplificando, possono ricondursi l’una principalmente al protestantesimo e l’altra soprattutto al cattolicesimo. La prima è caratterizzata dal tentativo di riformulare il cristianesimo, in modo da renderlo accettabile al nuovo contesto culturale ed idoneo non solo a sopravvivere in esso ma a porsi come la sua dimensione più alta: è la linea del protestantesimo liberale, da Schleiermacher ad Harnack, che ha avuto certamente notevole influsso anche in ambito cattolico, soprattutto nella vicenda del modernismo. Questa linea ha comportato in realtà uno svuotamento del centro vitale del M A T E R I A L I cristianesimo, cioè del suo contenuto di fede, di quello che possiamo chiamare il “cristianesimo credente”. Dal punto di vista storico essa si è conclusa, in realtà provvisoriamente, con la prima guerra mondiale e con la forte affermazione della fede promossa soprattutto da K. Barth. L’altra direttrice, che ha trovato la sua espressione più significativa ed autorevole nel Concilio Vaticano I, particolarmente nella Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica, è consistita invece nel riproporre quelle verità fondamentali del cristianesimo che apparivano negate o messe in dubbio dalle forme di pensiero allora prevalenti. L’approccio a tali forme di pensiero fu pertanto fortemente dialettico, improntato alla contestazione e alla critica assai più che all’impegno di valorizzare gli aspetti positivi che possono esservi presenti. Un impegno di questo genere certamente non è mancato nel cattolicesimo del secolo XIX, basti ricordare la scuola teologica cattolica di Tubinga, o due pensatori come J. H. Newman ed Antonio Rosmini, ma la linea prevalente è stata diversa. Vorrei evitare però le caricature e le semplificazioni sommarie: in realtà il lavoro teologico e filosofico sotteso al Concilio Vaticano I e continuato poi con l’affermarsi del neotomismo ha avuto una grande vivacità culturale, esplicatasi per un verso nel mettere a nudo limiti e contraddizioni presenti nel pensiero moderno, per l’altro nel ricuperare e ripensare la grande eredità della teologia medievale, in dialogo con le problematiche del nostro tempo. 3. Concilio e dopo-Concilio Nel periodo tra le due guerre mondiali il cristianesimo occidentale, sia cattolico che protestante, ha conosciuto un periodo complessivamente più favorevole, come interna vitalità religiosa e come accoglienza nel contesto generale della cultura. Proprio in questo periodo sono avvenute quella svolta all’interno della E D O C U M E N T I teologia e filosofia neotomista e contestualmente quell’opera di riappropriazione e valorizzazione delle grandi ricchezze bibliche, patristiche e liturgiche, che hanno costituito la piattaforma di base del decisivo e per molti versi inatteso sviluppo costituito dal Concilio Vaticano II. Con esso è cambiato profondamente l’approccio alla cultura del nostro tempo, passando da un atteggiamento prevalentemente critico alla ricerca di un terreno di incontro, attraverso un dialogo improntato alla simpatia e all’apprezzamento, che non ha significato però un’accettazione unilaterale e acritica. Ciò riguardo alla centralità dell’uomo, cardine della svolta antropologica dell’epoca moderna, all’autonomia delle realtà terrene, alla libertà religiosa e alla valutazione favorevole della democrazia e dello Stato di diritto. La forza del Vaticano II è consistita nell’aver operato quest’apertura proprio a partire dal centro vitale del cristianesimo, ripensato nella sua straordinaria fecondità anche umana e culturale. Subito dopo la conclusione del Vaticano II, e non senza rapporto con quel fenomeno storico e culturale che viene indicato facendo riferimento all’anno 1968, si è posto acutamente il problema dell’interpretazione del Concilio stesso, con l’affermarsi di linee divergenti che hanno diviso la teologia cattolica e fortemente influenzato la vita stessa della Chiesa. Così, mentre vi erano coloro che sostanzialmente, o anche apertamente e frontalmente, rifiutavano il Concilio come una rottura della tradizione cattolica, altri, assai più numerosi ed influenti, ritenevano che la novità portata dal Vaticano II dovesse condurre ad un’apertura radicale verso la cultura del nostro tempo, come anche al superamento ad ogni costo delle differenze tra le diverse confessioni cristiane, fino a quella che a mio avviso avrebbe rappresentato una rottura della “forma cattolica” del cristianesimo. Viene spontaneo ricordare in proposito il libro Infallibile? Una domanda di H. Küng, uscito nel 1970, ma è indicativo anche ciò che 107 M A T E R I A L I scriveva un teologo come O. H. Pesch nel nono volume del Mysterium Salutis, pubblicato in tedesco nel 1973 e in italiano nel 1975: «Rispetto al concetto corrente di ortodossia si deve dire oggi che nessuno può più ignorare la quantità di eresia, non solo materiale ma anche ‘for male’, che esiste oggi nella Chiesa» (pp. 388-389 dell’edizione italiana). Si tratta per lui di una situazione positiva, che consente in particolare di affermare finalmente, anche all’interno della Chiesa cattolica, il primato della fede personale che salva rispetto ad ogni norma o condizione ecclesiale. In effetti è iniziata e si è diffusa rapidamente subito dopo il Concilio la prassi di un’interpretazione assai disinvolta, riduttiva e anche elusiva delle stesse verità essenziali della fede. Si è verificata così, inevitabilmente, una frattura tra quei teologi che più avevano contribuito a far maturare le premesse del Concilio, oltre che al suo svolgimento. Nei decenni più recenti questa situazione si sta, sia pure faticosamente, ricomponendo: per il suo pieno e positivo superamento, che non significa affatto la soppressione della giusta e indispensabile libertà di ricerca e di un sano pluralismo teologico, è assai importante quella linea di ermeneutica del Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e che egli stesso ha qualificato come “ermeneutica della riforma”. Come ha detto molto nettamente il Papa in quel discorso, il grande programma del Concilio di un “sì” fondamentale, anche se non acritico, all’età moderna non è assolutamente da abbandonare, anzi è da sviluppare e concretizzare nei suoi diversi versanti, da quello dei rapporti con le scienze empiriche e con le scienze storiche a quello delle relazioni tra la Chiesa e le istituzioni politiche. Su questi versanti Benedetto XVI rileva che non mancano positivi sviluppi, come la maggiore consapevolezza acquisita dalle scienze empiriche dei limiti intrinseci ai loro metodi o come la percezione diffusa che escludere il contributo della reli- 108 E D O C U M E N T I gione dalla vita sociale e pubblica risulta dannoso per la società stessa e alla fine anacronistico. 4. Per un discernimento del tempo che stiamo vivendo Per procedere su questa strada occorre tentare un discernimento, sempre difficile e azzardato, del tempo in cui stiamo vivendo. L’allora Prof. W. Kasper, nel libro Introduzione alla fede uscito nel 1972 (pp. 27-31), parlava del nostro tempo come di “un secondo illuminismo”, cioè di uno “svelamento dell’illuminismo a se stesso”, di una “metacritica” della critica illuministica, che si esercita riguardo ad entrambe le grandi rivendicazioni dell’illuminismo, la ragione e la libertà, in quanto la critica stessa ha mostrato come ambedue siano largamente condizionate e gravate da molteplici presupposti, alla fine dunque altamente problematiche. Così ci siamo resi di nuovo consapevoli della fondamentale finitezza dell’uomo, della storicità e fatticità irriducibile della realtà in cui viviamo e della provvisorietà dei nostri schemi di pensiero e progetti di vita, personale e pubblica. In una tale situazione, a giudizio di Kasper si aprono davanti all’umanità occidentale due strade possibili. Una è quella di attestarsi dentro ai propri limiti, accontentandosi per così dire di essi e ritenendoli invalicabili; rifiutando pertanto come prive di senso le problematiche religiose come quelle metafisiche. L’altra riconosce la propria limitatezza, anzi miseria profonda, ma resta anche aperta agli interrogativi e alle aspirazioni che l’uomo continua a portare dentro di sé, in ultima analisi al bisogno di salvezza, all’esigenza di cercare un’esistenza felice e compiuta e una risposta alle domande sul senso della propria vita e sull’origine della realtà. A mio parere questa diagnosi di W. Kasper, a suo tempo anticipatrice – basti pensare a quanto diffusa fosse allora la convinzione del primato culturale del M A T E R I A L I marxismo – a distanza di 35 anni rimane ancora in buona parte valida. Nel frattempo sono intervenute però novità importanti, non solo negli atteggiamenti dello spirito ma nei fatti della storia. Mi riferisco all’emergere della nuova “questione antropologica” e delle connesse problematiche di “etica pubblica”, a seguito di quegli sviluppi delle scienze e delle biotecnologie che hanno reso possibili interventi diretti sulla realtà fisica e biologica del nostro essere, come anche ai grandi mutamenti degli scenari mondiali, che hanno una loro data emblematica nell’11 settembre 2001 ma che riguardano assai più ampiamente il rapido affermarsi di grandi nazioni e civiltà sempre meno disposte ad accettare il predominio dell’Occidente. Quanto agli atteggiamenti dello spirito, nei decenni successivi a quella diagnosi di W. Kasper sono diventate più evidenti la pretesa del relativismo di porsi come criterio insuperabile, e paradossalmente “assoluto”, sia della verità sia del bene morale e al contempo la sua parentela con il fenomeno, forse ancora più ampio e più profondo, del nichilismo, che sembra quasi inverare storicamente la tesi di Nietzsche e Heidegger secondo la quale esso costituirebbe il destino del nostro tempo, intimamente connesso con la “mor te di Dio”. Un esempio recentissimo dell’influsso pervasivo del nichilismo in un ambito come quello del diritto è rappresentato dal libro di N. Irti Il salvagente della forma (ed. Laterza) e dal dialogo dello stesso Irti con Claudio Magris pubblicato sul Corriere della Sera del 6 aprile scorso. Le forme nelle quali la “morte di Dio” si fa strada nella cultura occidentale di oggi sono però tra loro diverse. Una è quella dell’affermazione dell’ateismo che viene motivata soprattutto sulla base di un’assolutizzazione dell’interpretazione evoluzionistica dell’universo, come se essa fosse, ben più di una teoria scientifica, «una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non siano più lecite né necessa- E D O C U M E N T I rie» (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, ed. Cantagalli, pp. 189-190). L’affermazione dell’ateismo viene però ritenuta da molti troppo impegnativa rispetto ai limiti delle nostre conoscenze. Ben più diffuse sono quindi posizioni agnostiche, che si riconducono a quell’idea, o a quell’atteggiamento dello spirito, secondo cui latet omne verum, ogni verità è nascosta (ivi, pp. 184-186). Si potrebbe dire che il nichilismo prende così un volto relativistico, apparentemente più benigno e tollerante e alla fine forse più coerente con la sua natura profonda. In ogni caso però ci allontaniamo radicalmente dal contenuto essenziale e dall’orizzonte stesso del cristianesimo, perché un Dio del quale non si può sapere nulla non è certamente il Dio che parla a noi ed entra nella nostra storia. Nei decenni più recenti vi sono stati tuttavia anche sviluppi di segno molto diverso, con un forte ricupero del senso religioso e con il declino dell’idea che la secolarizzazione sia un processo irreversibile, destinato a portare, se non alla scomparsa, all’irrilevanza della religione, almeno in Occidente e a livello pubblico. La ragione intrinseca di tale declino sta anzitutto nell’incapacità di rispondere, da parte di una cultura secolaristica, alle domande fondamentali e concretamente ineludibili sul senso e la direzione della nostra esistenza. Soprattutto a partire dall’11 settembre 2001 si è aggiunta un’altra motivazione, legata alla percezione diffusa della minaccia che sembra provenire dalla deriva fondamentalista dell’islamismo: questa percezione ha orientato il risveglio del senso religioso ad assumere un più preciso profilo identitario cristiano e, in un Paese come l’Italia, cattolico. Si tratta di un fenomeno ampiamente presente e fortemente sentito nelle popolazioni, ma che sta assumendo grande rilievo anche sul piano della cultura pubblica. Tra il risveglio religioso e le tendenze relativistiche e nichilistiche esiste obiettivamente un profondo contrasto: è que- 109 M A T E R I A L I sta la ragione sostanziale per la quale, in Italia come in moltissimi altri Paesi, quello della religione, e in particolare del cristianesimo – e per altri versi dell’Islam – è diventato ormai, nella cultura e nella società, uno dei più rilevanti terreni di confronto e anche di polemica, reso ancora più concreto e coinvolgente dall’emergere della nuova questione antropologica, con le sue implicazioni nell’etica pubblica. 5. Tentativi di risposta teologica In una situazione di questo genere è assai grande lo spazio, anzi il bisogno dell’apporto della teologia. Per delineare la fisionomia che esso potrebbe assumere sembra utile richiamare anzitutto i limiti di alcuni tentativi già attuati e, almeno in parte, ancora in atto. Uno di essi, ormai desueto a motivo dei limiti emersi nei processi di secolarizzazione, è quella che è stata chiamata “teologia della secolarizzazione”, di matrice soprattutto protestante ma penetrata anche in ambito cattolico. Essa ratificava, come il risultato della dinamica interna del cristianesimo, la separazione crescente tra fede e cultura e affidava la mediazione tra di esse soltanto alla rivendicazione dell’origine cristiana di tale processo. Così però rimane aperta la strada all’emarginazione progressiva del cristianesimo, man mano che i processi di secolarizzazione si sviluppano e si allontanano dalla propria origine, come normalmente avviene nella storia. Un altro approccio teologico, oggi ancora abbastanza presente, sebbene colpito alla radice dagli eventi dell’anno 1989, che hanno messo in evidenza l’insostenibilità non solo politica ed economica ma antropologica ed etica dei modelli di vita associata che si richiamano al marxismo, è quello delle teologie della liberazione e anche delle teologie politiche. Alla loro base vi è l’intenzione, ampiamente condivisibile, di ricuperare, in vista del futuro, il ruolo storico del cristianesimo. Il loro limite sostanziale con- 110 E D O C U M E N T I siste però nell’affidare questo ruolo principalmente alla prassi politica, mettendo così a carico della politica il problema stesso della salvezza dell’uomo e del senso dell’esistenza, ciò che comporta fatalmente un’assolutizzazione falsa e distruttiva della politica stessa. La profonda disillusione prodotta nell’ambito delle teologie della liberazione dai fatti del 1989 ha spinto vari loro esponenti verso posizioni improntate al relativismo. Essi sono confluiti così, insieme a non pochi altri teologi, in quell’orientamento, che prende vari nomi tra cui quello di teologia delle religioni, secondo il quale fondamentalmente non solo il cristianesimo ma anche le altre molteplici religioni del mondo, con i popoli e le culture che ad esse si riferiscono – e che spesso sarebbero stati oggetto da parte dei cristiani di un imperialismo e colonialismo non solo politico ma anche religioso –, costituirebbero in realtà, accanto al cristianesimo storico, autonome e legittime vie di salvezza. Viene abbandonata così quella fondamentale e davvero originaria verità della fede, evidentissima nel Nuovo Testamento e fonte primaria del dinamismo missionario della Chiesa dei primi secoli, secondo la quale Gesù Cristo, nella sua concretezza di Figlio di Dio che si è fatto uomo ed ha vissuto nella storia, è l’unico Salvatore dell’intero genere umano, anzi di tutto l’universo. La Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, riaffermando con forza questa verità, non ha fatto che dare voce alla missione essenziale della Chiesa. Il libro che ho già citato dell’allora Cardinale Ratzinger mette in luce come in determinate forme di teologia delle religioni sia all’opera quel principio del latet omne verum che accomuna per certi aspetti il relativismo attualmente diffuso in Occidente con l’approccio al divino delle grandi religioni orientali, e anche del pensiero tardoantico che proprio in questi termini si opponeva al cristianesimo. In vari teologi questa svolta relativistica si accompagna con la rivendicazione, non ab- M A T E R I A L I bandonata, del primato della prassi: dove cioè la conoscenza non può arrivare potrebbe invece giungere la prassi; essa sola sarebbe decisiva per la salvezza e il dialogo, anzi l’unità tra le religioni, dovrebbe risolversi in essa. 6. Contributi da valorizzare ulteriormente Naturalmente in ciascuna di queste tre impostazioni teologiche sono presenti istanze che non possono essere lasciate cadere, dalla volontà di superare una visione “catastrofale” della modernità al rapporto che la fede cristiana non può non avere con l’umanizzazione del mondo, fino alla necessità di una prospettiva davvero universale che faccia spazio concreto, in seno al cristianesimo, alla pluralità delle culture e delle civiltà. Da quest’ultimo punto di vista l’allora Cardinale Ratzinger ha avanzato (op. cit., pp. 57-82) una proposta assai innovativa rispetto all’ipotesi teologiche oggi più diffuse e per me davvero convincente: abbandonare l’idea dell’inculturazione di una fede di per sé culturalmente spoglia, che si trasporrebbe in diverse culture religiosamente indifferenti, e riferirsi invece all’incontro delle culture (o “interculturalità”), che si basa su due punti di forza. Da una parte l’incontro delle culture è possibile e avviene continuamente perché, nonostante tutte le loro differenze, gli uomini che le producono hanno in comune la stessa natura e la medesima apertura della ragione alla verità. Dall’altra parte la fede cristiana, che nasce dal rivelarsi della verità stessa, produce quella che possiamo chiamare la “cultura della fede”, la cui caratteristica è di non appartenere a un popolo singolo e determinato, ma di poter sussistere in ogni popolo o soggetto culturale, entrando in relazione con la sua cultura propria ed incontrandosi e compenetrandosi con essa. Questa è in concreto l’unità e insieme la molteplicità e l’universalità culturale del cristianesimo. E D O C U M E N T I Un contributo tuttora assai rilevante all’adempimento dei compiti che la teologia ha oggi davanti a sé può venire, a mio giudizio, da quel grande moto di rinnovamento che ha percorso la teologia stessa negli anni che hanno preceduto il Vaticano II, e anche dall’eredità della teologia neotomista, nonostante i suoi limiti, che possono individuarsi più precisamente da una parte nella sottovalutazione della distanza storica che separa San Tommaso e tutta la grande scolastica dal nostro tempo, e in concreto dei grandi sviluppi, teoretici e pratici, realizzatisi attraverso i secoli; dall’altra parte nel tentativo di dimostrare la verità delle premesse del cristianesimo (i praeambula fidei) mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede stessa. Questo tentativo è sostanzialmente fallito, come osservava il Cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp. 141-142), e appaiono destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi, già per il motivo che le grandi questioni dell’uomo e di Dio (ed ugualmente la questione di Gesù Cristo), riguardando e coinvolgendo inevitabilmente il senso e la direzione della nostra vita, mettono in gioco noi stessi e quindi, pur richiedendo tutto il rigore e le capacità critiche della nostra intelligenza, non possono esser decise indipendentemente dalle scelte secondo le quali orientiamo la nostra stessa esistenza. Reciprocamente però, e in sostanza per un motivo analogo, è fallito anche il tentativo opposto di K. Barth di presentare la fede come un puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale indipendenza dalla ragione. A questo proposito, non solo riguardo a Barth ma a tutto il pur importantissimo filone della “teologia kérygmatica”, si può osservare che è sì fondamentale e irrinunciabile, ma non è sufficiente, presentare l’enorme ricchezza e la bellezza del mistero cristiano, quali emergono dalle fonti bibliche, patristiche e liturgiche e quali si sono via via arricchite nel corso della storia. Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti nel 111 M A T E R I A L I nostro tempo è necessario infatti che entrino in dialogo con la ragione critica e con la ricerca di libertà che lo caratterizzano, in modo da aprire questa ragione e questa libertà, per così dire “dall’interno”, e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono. 7. Una teologia cristocentrica e pertanto davvero teologica e antropologica Al centro e al cuore di un approccio teologico meglio adeguato agli interrogativi del tempo che sta davanti a noi rimane, a mio parere, quella forma di teologia radicalmente cristologica e cristocentrica, e proprio perciò altrettanto radicalmente teologica e antropologica, che è implicitamente proposta nel n. 22 della Gaudium et spes: «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore per noi [Cristo] svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». Perciò l’attenzione del teologo deve concentrarsi anzitutto su Gesù Cristo, cogliendo insieme la sua realtà storica e la profondità del suo mistero. Con il suo libro Gesù di Nazaret Benedetto XVI ci ha indicato una via e un metodo di lavoro che possono rivelarsi molto fecondi per lo sviluppo della teologia, specialmente su quella frontiera ineludibile che è rappresentata dalla saldatura tra le esigenze della critica storica e quelle di un’ermeneutica autenticamente teologica. Nella luce della realtà e del mistero di Gesù Cristo si possono affrontare i due poli essenziali del discorso teologico, Dio e l’uomo, che sono poi, in maniera esplicita o implicita, i veri nodi della cultura del nostro tempo. Rispetto ad entrambi questi nodi l’attuale contesto culturale – nel quale le scienze empiriche, con la loro forma di razionalità e con la mentalità che esse generano, esercita- 112 E D O C U M E N T I no un ruolo trainante e per certi versi egemone – impegna la teologia ad un confronto con tali scienze ben più approfondito di quel che sia stato realizzato fino adesso: confronto per altro che non può fare a meno di un’autentica e non riduttiva dimensione filosofica. Perciò, riguardo a Dio, assume particolare importanza quella riflessione che si concentra sulla struttura e sui presupposti della conoscenza scientifica, per mostrare che proprio a partire da essi si pone di nuovo la domanda sull’intelligenza creatrice. Analogamente riguardo all’uomo è decisivo il confronto sia con la teoria dell’evoluzione sia con le neuroscienze, per mostrare, anzitutto alla luce delle sue capacità proprie ed esclusive di produrre cultura, che l’uomo emerge dalla natura non nel senso di una semplice provenienza ma di un autentico trascendimento. Solo su questa base antropologica diventa possibile e coerente quella promozione e difesa della dignità umana a cui la teologia è chiamata, oggi par ticolar mente sul piano dell’etica pubblica. È questo il senso di quel programma di “allargare gli spazi della razionalità” che Benedetto XVI propone con insistenza e che riguarda sia la ragione scientifica sia la ragione storica. Questo programma implica il duplice convincimento che la rivelazione di Dio in Gesù Cristo offre alla ragione un aiuto prezioso per proseguire il suo cammino, sempre più articolato, complesso e specialistico, senza perdere di vista il suo orizzonte globale e gli interrogativi di fondo, e d’altra parte che proprio attraverso il confronto con la ragione contemporanea la fede e la teologia sono stimolate ad approfondire ulteriormente quella novità riguardo al mistero di Dio e dell’uomo che ci è venuta incontro in Gesù Cristo. Nel contribuire a un simile programma la teologia non deve avere la pretesa razionalistica di dimostrazioni cogenti, come già accennavo riguardo ai praeambula fidei, ma piuttosto essere consapevole dei limiti del proprio discorso: così, M A T E R I A L I a proposito del Lógos creatore J. Ratzinger afferma che esso dal punto di vista razionale rimane “l’ipotesi migliore”, un’ipotesi che richiede da parte dell’uomo e della sua ragione di rinunciare a propria volta ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed. Cantagalli, pp. 115-124). 8. Rivelazione, Chiesa, teologia In sostanza viene proposta così una grande e coraggiosa uscita della teologia dai discorsi autoreferenziali, dai propri orti e recinti, che possono inavvertitamente sussistere anche quando si assumono interlocutori “esterni” a loro volta piuttosto estranei ai reali problemi di oggi. Questa apertura coincide in realtà con la piena coerenza della teologia cristiana e cattolica con se stessa e si alimenta di una tale coerenza. Ne abbiamo avuto un grande esempio nella dinamica spirituale, culturale e storica del pontificato di Giovanni Paolo II e ne abbiamo ora un esempio altrettanto significativo e più direttamente teologico nel pontificato di Benedetto XVI. Concludo cercando di esplicitare il senso e il fondamento teologico di tale coerenza, e così anche di indicare la via per superare dall’interno quella frattura che si è verificata nella teologia cattolica subito dopo il Concilio Vaticano II. Lo faccio richiamandomi all’analisi della E D O C U M E N T I natura della divina rivelazione che J. Ratzinger aveva elaborato nello studio su San Bonaventura con cui intendeva conseguire l’abilitazione all’insegnamento accademico e che è riproposta sinteticamente nel suo libro La mia vita (ed. San Paolo, pp. 72 e 88-93). La rivelazione è cioè anzitutto l’atto con cui Dio manifesta se stesso, non il risultato oggettivato (scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di rivelazione fa parte il soggetto che la riceve e la comprende – in concreto il popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento –, dato che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato, nessuna rivelazione sarebbe avvenuta. Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica ad essa, e la Scrittura stessa è legata al soggetto che accoglie e comprende sia la rivelazione sia la Scrittura, ossia alla Chiesa. Concretamente la Scrittura nasce e vive all’interno di questo soggetto. Con ciò è dato il significato essenziale della tradizione ed anche il motivo profondo del carattere ecclesiale della fede e della teologia, oltre che il fondamento della validità di un approccio alla Scrittura che sia al contempo storico e teologico. È dunque con buona coscienza e consapevolezza critica che possiamo accogliere, come teologi, quell’intima relazione della Scrittura e della tradizione con tutta la Chiesa e con il suo magistero di cui ci parla il n. 10 della Dei Verbum. 113 In quarta di copertina: Entri nella stazione Termini a Roma. Ti accoglie un albero. Bello nella sua linearità e riccioluto nella sua chioma. Lo hanno fatto nascere in un Natale di calendario. Lo hanno ‘battezzato’ «l’Albero dei Desideri». Ora è là, oltre la sua data di nascita. Non cresce se non con i tanti biglietti e desideri che ogni passante e viaggiatore in partenza (più che in arrivo) trova il tempo di lasciare, segnalando la propria presenza con una frase, un verso, un disegno… Parole in tutti gli alfabeti, desideri nella stessa koiné dell’uomo che ha bisogno, che non trova altra speranza che in un Babbo Natale che obbliga a fare lo straordinario e a passare anche fuori tempo-natale a prendere quei sospiri e a cercare di alleviarli o di trasformarli in realtà per adempiere alle speranze di chi li ha espressi. Ma perché proprio un albero? Non si racconta nulla su questa origine. Né nella pubblicazione su questo albero dei desideri, che si può trovare in un angolo nascosto della stazione romana, all’ingresso della libreria. Pubblicazione gratuita. Nella sua edizione che raccoglie i desideri del 2005. Leggere i desideri è come conoscere una parte di noi stessi e quell’altra umanità che nemmeno il telegiornale più ‘infedele’ potrà mai svelare. Un albero a Natale è come un panettone. Non c’è Natale senza albero. Ecco allora che l’albero incarna tutto ciò che di nuovo l’uomo vorrebbe che nascesse. Eppure l’albero ha la sua stagionalità, segue quel cerchio stagionale dell’esistenza che ha sempre quattro ritmi e un anno intero di tempo. La novità forse non è nel ritmo naturale delle stagioni che l’anno vive, quanto in quel suo alzarsi e ampliarsi, quel suo occupare spazi per ospitare e il tutto innalzare verso l’alto. In questo suo trascendere la terra che lo radica e lo alimenta. Nel suo farsi più alto di chi in basso lo coltiva e ne attende i suoi frutti. E se quest’albero fosse la rappresentazione, tradotta nello spazio della natura e del cosmo, di quell’evento della Pentecoste cristiana? E se nessuno lo sapesse perché nessuno pensa che lo Spirito abita anche nei desideri di chi non lo invoca, e di chi non sapendo affida alla forza della natura ciò che i cristiani riconoscono nella forza dello Spirito? E se lo Spirito si effonde come i rami di questo albero per ospitare le nostre ansie e farsi Consolatore, così come sono consolati gli uccelli ospitati dai rami di un grande albero? Non sono parabole laiche, né poetiche trasmigrazioni di immagini, né tentativi di ridefinire tutto ricapitolandolo nel divino. La realtà è che le frasi scritte sui biglietti sono appesi a questo albero come frutti, come attesa che diventino frutto che nutre le speranze e alimenta la vita di chi li appende. E se ognuno di noi fosse un albero per gli altri: saremmo una foresta come i cedri del Libano. I nostri frutti e la loro fragranza donerebbe un ricordo a chi arriva a Roma o a chi la lascia per altre mete. O ad ognuno di noi che ogni giorno è impegnato in una partenza e in una ripartenza, in un continuare o nell’iniziare: nuovi percorsi che avranno all’orizzonte quell’albero di speranza che avremmo piantato nella terra della condivisione e dell’ospitalità. E che sarà l’ultima ombra che vedremo all’orizzonte del nostro esistere.