1-2/2007
Religione
Scuola
Città
Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma + supplemento
R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A
Editoriale
Didattica e agiografia: a scuola con i santi
L'attenzione della pastorale scolastica ai
cinque "ambiti" del Convegno di Verona
La nuova evangelizzazione e la pastorale
dell’educazione e della scuola
La spiritualità dell’IdR
L’identità e la formazione della personalità
Tutta un’altra storia: L’inquisizione
Le opere e i giorni
Riprese & dettagli: Le cronache di Narnia
Insegnare IRC felici
A classi aperte: Disturbi della memoria
Notizie legali e sindacali: Credito scolastico
Diario scolastico
Materiali e documenti:
1) Cultura, scuola, persona: verso le
indicazioni nazionali.
2) Il curricolo nella scuola dell’autonomia
3) Teologia e cultura terre di confine
supplemento: Fede e scienza. L’IRC in dialogo con le scienze matematiche, fisiche e naturali
Religione Scuola Città
RIVISTA PER LA SCUOLA
DELLA DIOCESI DI ROMA
Anno XII (2007) n. 1-2
Sommario
EDITORIALE
Manlio Asta Fragilità redenta
3
Direttore responsabile
Angelo Zema
Direttore
Manlio Asta
Consiglio di redazione
Carmine Brienza - Giuseppe Iovino
Filippo Morlacchi - Alessandro
Tarzia - Grazia Palma Testa
Pasquale Troìa
Alessandro Di Marco Didattica e agiografia: a scuola con i santi
Sergio Cicatelli L'attenzione della pastorale scolastica ai cinque "ambiti"
6
13
del Convegno di Verona
Sergio Lanza La nuova evangelizzazione e la pastorale dell’educazione
21
e della scuola
Immagini e didascalie
Pasquale Troìa
Registrazione
Tribunale di Roma
Autorizzazione n. 137
del 11.04.1994
Progetto grafico e
impaginazione
Studio PardiniApostoliMaggi
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luglio 2007
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Paolo Tammi La spiritualità dell’IdR
Flavia Posabella L’identità e la formazione della personalità
33
39
TUTTA UN’ALTRA STORIA
Federico Corrubolo L’inquisizione
44
LE OPERE E I GIORNI
Pasquale Troia Le opere e i giorni
47
RIPRESE & DETTAGLI
Andrea Monda Le cronache di Narnia
61
INSEGNARE FELICI
66
Gennaro Zucchero
A CLASSI APERTE
Ferragina & Basile E dai. Ce l’ho fatta. Sono un grande!
69
NOTIZIE LEGALI E SINDACALI
Angelo Zappelli La vicenda del credito scolastico
73
DIARIO SCOLASTICO
Filippo Morlacchi Convegno sull’ebraismo
80
La Cei e l’Irc
MATERIALI E DOCUMENTI
1) Cultura, scuola, persona: verso le indicazioni nazionali
2) Il curricolo nella scuola dell’autonomia
3) C. Ruini, Teologia e cultura terre di confine
84
89
105
Editoriale
Q
Questo fascicolo di RSC esce con un numero “doppio”. I diversi
impegni di quest’anno ci hanno costretto a fare questa scelta. Del
resto, le persone vengono prima delle cose, e in fondo una rivista è
pur sempre una cosa. Con ciò non vogliamo affatto ridurre il dialogo con i nostri lettori! Al contrario, saremmo sempre lietissimi di
raccogliere le opinioni di chi giorno dopo giorno fatica “in prima linea” nel campo dell’educazione scolastica.
Non è un caso dunque se come fil rouge di questo fascicolo abbiamo
voluto scegliere il tema della fragilità, uno dei cinque “ambiti” prescelti dal Convegno di Verona per avviare un rinnovamento della
pastorale in Italia. Come avevamo rilevato nel precedente editoriale,
tutti e cinque gli ambiti di
Verona trovano un preciso
riscontro nel mondo della
scuola; ma forse è proprio
la fragilità il tratto che qualifica in maniera più distintiva la scuola di oggi. Fragilità che non risparmia nessuna delle sue componenti:
gli alunni di qualunque fascia d’età, la cui scarsa resistenza personale è sempre più sotto gli occhi di tutti; i docenti, che – stando agli studi medici più accreditati –
risultano essere tra le categorie professionali maggiormente a rischio
di sviluppare una patologia depressiva o una sindrome di burn-out;
le famiglie, quotidianamente sfidate dalla vita stressante a costruire
relazioni educative positive ed efficaci; infine le istituzioni formative, a partire dalla più piccola scuola di provincia fino al Ministero
di Viale Trastevere nel suo insieme, la cui credibilità subisce un crollo verticale a cui nessuno sembra saper porre rimedio.
Per evitare di cadere in uno sterile piagnisteo sulle misere condizioni
della scuola italiana, abbiamo voluto innanzi tutto puntare in alto e
presentare il significato della santità come esempio di «fragilità supe-
Fragilità
redenta
3
rata». I santi non sono superuomini, ma creature fragili che hanno
accolto la grazia della salvezza senza sprecarla. Pertanto proponiamo
l’articolo di un giovane IdR sull’importanza dell’agiografia come risorsa pedagogico-didattica: uno strumento che andava di moda
qualche decennio fa e che oggi sembra (a torto) alquanto trascurato.
Diamo poi alle stampe un paio di contributi di Sergio Cicatelli e
Sergio Lanza, che riprendono le riflessioni che i due docenti hanno
offerto nel corso del Convegno regionale dei Docenti Cattolici del
Lazio (30 marzo 2007: vedi la rubrica Diario scolastico, p. 82). Si
tratta di riflessioni che spronano ad un salto di qualità nell’organizzazione della pastorale scolastica. Non mancano le iniziative lodevoli, ma ancora quella “rete” di cui da tempo ormai si parla non sembra esser stata annodata, e i pesciolini… sfuggono! È un invito a
elaborare strategie condivise, a partire dalle indicazioni che il Convegno di Verona ha offerto come linee guida per la pastorale dell’immediato futuro.
Don Paolo Tammi, IdR “impenitente” (o forse sarebbe giù giusto
dire “appassionato”!) nonostante sia da tanti anni parroco a Roma,
ha riassunto in pochi punti le caratteristiche imprescindibili della
spiritualità dell’IdR. In fondo, l’unica “solidità” possibile per un insegnante di religione – sia laico che sacerdote o religioso – è quella
che si àncora alla roccia di Dio che «addestra le nostre mani alla
quotidiana “battaglia”» tra i banchi (cfr Sal 143,1).
I contributi del gruppo di lavoro guidato dalla prof. Flavia Posabella
si è dedicato all’approfondimento del rapporto tra identità fragile e
accoglienza della diversità. Vengono presentati brevi riassunti dei lavori prodotti da questo gruppo di ricerca composto da IdR romani;
la versione completa dei testi è consultabile sul sito www.diocesidiroma.it/scuola. La rubrica «A classi aperte»curata da Caterina Basile
e Massimiliano Ferragina intende prendersi cura in maniera sistematica delle difficoltà dei più piccoli, e ci sembra riscuotere un discreto interesse.
Don Rino Zucchero ci aiuta a prendere con un sorriso le piccole
“tragedie” della scuola: un tocco di leggerezza non fa mai male. Una
delle “riscritture” moderne del Discorso della montagna dice: «beati
quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di divertirsi».
E allora, ridere delle nostre fragilità e povertà non può che far bene…
Nella sezione di Materiali e documenti abbiamo voluto pubblicare
alcuni testi che si sembra debbano esser conosciuti da tutti coloro
che bazzicano nella scuola. Si tratta dei nuovi orientamenti del MPI
sul futuro della riforma scolastica: come già notato in passato, la
4
“strategia del cacciavite” promessa dal ministro Fioroni all’inizio del
suo incarico si è nel tempo dimostrata più incisiva di quanto non si
pensasse. È bene conoscere questi nuovi orientamenti. Per una corretta valutazione, abbiamo aggiunto una nota critica prodotta dell’Ufficio Scuola della CEI; pur non condividendo in solido le riflessioni che vi si elaborano, ci sembra un testo su cui riflettere. Da ultimo, pubblichiamo una recente conferenza che il card. Ruini ha
pronunciato all’ultimo Salone del Libro di Torino (11 maggio
2007). Il cardinale Vicario, lasciato l’incarico di presidente della
CEI dopo un mandato rinnovato ben due volte, sembra volersi dedicare con maggior libertà di tempo alla promozione del “progetto
culturale” da lui stesso proposto anni fa, attivando un dialogo sempre più serrato con la cultura italiana. La panoramica del rapporto
tra teologia e cultura delineata in questa conferenza ci sembra meritevole di una lettura attenta da parte di tutti gli IdR non sprovveduti.
Infine, una nota sul fascicolo allegato alla presente rivista: è il secondo volumetto della serie «Scuola e sapienza cristiana», che riproduce
gli atti dei Corsi di aggiornamento proposti dall’ISSR Ecclesia Mater e dall’Ufficio scuola del Vicariato di Roma per l’aggiornamento
dei docenti Lazio. Ci sembra un’opportunità preziosa per ricordare
che, anche ora che il famoso concorso è alle spalle, gli IdR non possono venire meno al dovere di una formazione permanente, per raccogliere le sfide della scuola di oggi.
A tutti gli insegnanti auguriamo il meritato riposo estivo, con l’auspicio di farne un tempo di ricarica interiore e di sereno riposo.
Manlio Asta
In copertina: Domenico GNOLI, Bottone 1967, Amburgo, Hamburger Kunsthalle.
Non è un bottone. È ciò che permette di contenere una circonferenza di abito intorno ad un corpo. La tensione dei movimenti accentua la sua fragilità. Anche perché la sua sussistenza è governata da due ordini di fili che attraversano la stoffa su e
giù per quei buchi che il bottone ostenta ed è irrobustita da una giravolta dello stesso filo intorno. Il tutto termina con un bacio (che infrange il filo e lo separa). Ed
un ago finalmente libero di non attraversare più resistenze di stoffe e di non stare lì
tenuto da un pollice ed un indice e appoggiato ad un ditale nel medio. Che tutto
ciò sia traslazione di altro? Te ne accorgi quando una giacca è privata di quel bottone che le dà forma o
quella camicetta si sbottona proprio lì dove tutto potrebbe insorgere e non restare più nascosto. Il potere di un bottone è anche questo. Prima di essere quel bottone che premuto cambia la realtà.
5
Didattica e agiografia1:
a scuola con i santi
di Alessandro Di Marco
ne, la commozione e la suggestione che queSe vi è capitato di recarvi ad una mostra dediste narrazioni sono in grado di scatenare hancata ad un artista di cui siete appassionati, osno in passato contribuito a generare le illuservando i suoi capolavori e rimanendo a postri conversioni, fra gli altri, di un Agostino e
co a poco catturati dalla sua genialità, dal suo
di un Ignazio di Loyola3. Ma queste narrazioestro, dalla sua personalità, vi sarete sentiti
come “rapiti” in una sorta di meravigliata
ni non parlano in modo efficace solo ai big;
ammirazione; detta altrimenti, questa espeinfatti è importante sottolineare che i racconrienza estetica genera una sorta di affettività
ti delle vite dei santi sono in grado di comuin cui, tramite il contatto vissuto con qualconicare a tutti in modo chiaro, semplice ma
sa di bello, si “risale” a qualcosa che è “oltre”
anche entusiasmante: «L’agiografia, in qual(la bellezza stessa) e si mettono in moto dei
che modo, volgarizza le conclusioni della teoveri e propri sentilogia dotta. È una letmenti, in cui le cateteratura popolare, che
gorie di spazio e temuna funzione
svolge
Alessandro Di Marco, dottorando di ricerca
po tendono a dissoldidattica sostitutiva e
in Storia del Cristianesimo – Agiografia
versi e l’autore sembra
complementare. Il
presso l’università di Tor Vergata ci presenta
essere lì, a mostrarci,
racconto agiografico,
una proposta didattica nuova e vecchia indescriverci e sopratillustrato eventualsieme: utilizzare la vita dei santi come strumento per la presentazione di un cristianetutto farci amare le
mente nell’iconogranella
storia
degli
e
rilevante
simo
vivente
opere del suo genio.
fia, si adegua al livello
uomini.
Allo stesso modo, le
elementare di ogni
vite dei santi possono
pubblico; un racconessere considerate alla stregua di tanti capolato diventato intelligibile inculca gli elementi
vori compiuti da un medesimo Artista, una
più difficili della fede e della religione. Così
“innumerevole galleria di quadri viventi2” in
l’agiografo è quasi un teologo popolare! Questa
grado di svelarci con grande potenza evocatimetodologia è stata decisiva per la trasmissiova chi è l’Autore, rendercelo più vicino e a
ne della dottrina, per la preservazione della
volergli più bene: non è un caso se l’emoziosua ortodossia e per la sua integrità4».
Non esiste una definizione univoca di agiografia come rileva, facendo massiccio ricorso a dizionari specialistici, K. STANTCHEV,
Agiografia e agiologia nella tradizione slavo – ortodossa, in (ed.) S. BOESCH GAJANO, Santità, culti, agiografia, Viella, Roma 1997,
pp. 27-47. In base a tale studio per agiografia è (forse) possibile intendere sia le narrazioni delle vite dei santi, sia l’ insieme degli
studi critici di queste narrazioni (in questa sede mi riferirò al primo dei due contesti). Più tecnico è il significato del termine
agiologia, definita come disciplina scientifica e metodologia interpretativa.
2
G.M. MEDICA, Catechesi di “incarnazione”, in «Catechesi», 37 (1968), p. 8.
3
Cfr. G. GATTI, Agiografia e teologia morale, in «Salesianum», 63 (2001), p. 102.
4
R. GRÉGOIRE, Manuale di Agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Monastero San Salvatore abate, Fabriano, 1996, p. 16.
1
6
C’è anche un altro aspetto preliminare che
ritengo importante per l’utilizzo didattico (e
non solo) dei racconti agiografici: nell’era
della postmodernità, in cui il concetto di sistema è vissuto come insoddisfacente e soffocante, ecco che emerge in tutta la sua rilevanza l’evento; il postmoderno “rigetta i meta-racconti perchè li considera ingannati dall’inevitabile bisogno umano di trovare un
senso centrale per l’esistenza […] la fede cristiana, nel momento in cui sembra un esempio di meta-racconto, cade sotto la critica del
post-modernismo e viene giudicata totalizzante, perché pretenderebbe di poter abbracciare tutto e di poter proporre un senso per
tutto5”. Di conseguenza, nel contesto culturale attuale, può essere opportuno e conveniente proporre un cristianesimo partendo
dai fatti, esperienze, appunto eventi in grado
poi di rimandare l’ascoltatore a quei principi
che li hanno generati. In fin dei conti, non
servivano i cultori del postmoderno a ricordarcelo… Si tratta di copiare lo stile di Gesù
Cristo, che con le parabole ricorre a personaggi e a situazioni semplici, tratte dalla vita
quotidiana, che mettono l’uditore nella condizione di dover scegliere pro o contro non
tanto un insegnamento e/o dei valori, ma a
proposito dello stesso Cristo6, ed è questo è il
modello da percorrere. Dei racconti, delle
storie che suscitano in noi emozione, immedesimazione, ammirazione, accettazione ma
anche rifiuto: e qui si arriva alla dimensione
più propriamente narrativa dell’agiografia. In
ogni caso si tratta di racconti in cui è la stessa
narrazione, per la sua intrinseca costituzione,
a dare a chi ascolta lo spazio di libertà in cui
muoversi: essa non impone, non costringe,
ma lascia uno spazio in cui l’uditore può
muoversi e decidersi. Didatticamente ritengo
necessaria questa capacità della narrazione (e
in particolare di quella agiografica) di porre
questo aut-aut, di mettere lo studente di
fronte ad una scelta. Non va infatti dimenticata la dimensione comunicativa dei racconti
agiografici, e cioè che queste narrazioni sono
chiamate ad essere esse stesse un messaggio:
«Una buona narrazione è essa stessa messaggio: sono scelti quei racconti che più facilmente possono diventare messaggio e sono
narrati in modo da facilitare la loro interiorizzazione come messaggi. Il messaggio, in
altre parole, deve scaturire naturalmente dal
racconto. Non ha assolutamente senso terminare il racconto con una sua spiegazione e
interpretazione, per tirare alla conclusione7».
Per tradurre queste conclusioni in ambito
scolastico, è bene lasciare agli studenti il
compito di tradurre il racconto agiografico
che hanno ascoltato in un messaggio di tipo
più teorico, e già questa può essere un’attività
didattica da accostare alla narrazione. Noi infatti «non possiamo narrare una bella storia
di vita e poi concludere con una batteria di
suggerimenti morali: il racconto deve essere
già messaggio. Il racconto diventa messaggio
perché sulla forza provocatoria del racconto,
i giovani sono aiutati a riflettere e ad interiorizzare ciò verso cui il racconto sollecita8».
Fin qui, sulla narrazione agiografica in sé.
Sul come narrare (perché narrare non è leggere), elenco alcuni punti qui di seguito9, te-
R. TONELLI, La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile, LDC, Leumann, (TO) 2002, p. 145.
Cfr. V. FUSCO, “Parabola/parabole”, in Nuovo dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 1081-1097.
7
R. TONELLI, La narrazione… cit. p. 78.
8
R. TONELLI, La narrazione…cit., p. 147.
9
Contenuti in G. NOSENGO, La vita religiosa dell’adolescente, AVE, Roma 1944 e in M. CARROUGES, L’avenir de l’hagiographie,
in «La Maison-Dieu» (1957) 52, due opere non certo recenti ma sempre validissime, in questo settore veri spartiacque tra due
epoche, che hanno poi influenzato in modo determinante tutto il dibattito successivo; non c’è oggi pubblicazione agiografica rivolta a bambini ragazzi e adolescenti che non si ispiri, più o meno inconsapevolmente, alle loro indicazioni.
5
6
7
nendo presente che è per prima cosa indispensabile “maneggiare” la biografia di un
santo e il suo contesto storico con una autorevolezza direttamente proporzionale all’età
degli studenti:
evidenziare i momenti decisivi delle vite dei
santi, i grandi bivi in cui la scelta di una via
piuttosto che di un’altra li ha condotti progressivamente verso la santità, facendo rilevare le potenziali conseguenze di un’eventuale scelta negativa. In altri termini, mettere in evidenza la libertà dei santi che non
sono marionette nelle mani di Dio predestinate a compiere chissà quale mission impossible. In altri termini, bisogna evitare di presentare il santo come una figura avvolta da
un’aura mistica, che non ha di fatto vissuto
i nostri drammi, dubbi ed angosce quotidiane: «Presentando questi uomini come
creature che non ebbero mai da combattere
le nostre quotidiane battaglie e volarono
sempre sulle vette, si disanima qualunque
lettore e in special modo l’adolescente che
vuol sempre vedere nell’eroe uno che egli
possa almeno illudersi di imitare10».
una maggiore attenzione alla vita quotidiana del loro tempo, al particolare apparentemente insignificante, quindi una maggiore
sensibilità storiografica che permetta di inquadrare più precisamente il santo nella
sua epoca.
iniziare i racconti agiografici nel pieno dell’azione, in medias res, come avviene nei romanzi.
evitare le narrazioni cariche di elementi
fantastici e impossibili, narrazioni di cui
abbonda una certa letteratura agiografica11
e che rischiano di minare già in partenza
ogni intento pedagogico e didattico12.
Da un punto di vista psico-pedagogico, riprendo in questa sede le conclusioni di precedenti studi realizzati soprattutto in ambito salesiano13 in cui ci si è avvalsi massicciamente di analisi desunte dalle scienze sociali ed in particolare della psicologia dell’età
evolutiva. In base a tali studi si ritiene che
l’idea di Dio verso i 12 anni passa da un
immediato e semplice antropomorfismo
infantile ad un concetto spirituale, impenetrabile e non raffigurabile caratteristico della giovinezza che rende notevolmente arduo interessarsi, parlare e/o pensare Dio.
La conclusione è che può tornare utile una
via alternativa basata sull’esperienza; infatti
«è difficile con questi ragazzi la discussione
di veri problemi umani o fondarsi su una
morale della legge. Però è facile presentare
loro degli esempi nei quali si riconoscano
identificati e quindi, in questo modo, raggiungere il loro io che cresce e aiutarlo a
crescere. Il ragazzo sente fortemente il richiamo dell’eroe14». In secondo luogo, si è
unito da parte di questi ricercatori questo
aspetto con un’altra considerazione fondamentale che emerge da questi studi, e cioè
che nell’età evolutiva si ha un’altra importante modificazione: il preadolescente in
particolare infatti è capace di una certa in-
G. NOSENGO, La vita…, p. 321.
Sulla differenza tra le “passioni storiche” e le c.d. “passioni epiche” cfr., tra gli altri, V. SAXER, La figura del santo nell’antichità
cristiana, in G. D. GORDINI (ed.), Santità e agiografia, Marietti, Genova, 1991. Non ignoro certo che spesso dietro all’elemento
fantastico si possa celare una dimensione simbolico-allegorica, che ritengo tuttavia un appesantimento nella narrazione; dietro
ogni simbolo, dovremmo spiegare il significato facendo perdere in ritmo, pathos e comprensibilità la narrazione stessa.
12
G. GATTI, Agiografia e teologia morale, cit., p. 104.
13
J. COLOMB, Al servizio della fede, voll. 1-2, Elle Di Ci, Leumann (TO), 1969 e J. BOURNIQUE ET AL. La pedagogia dell’eroe,
Leumann (TO), 1964; G. LUTTE, Le dèvelloppement du Moi-ideal. Recherche interculturelle sur 32.000 adolescents de sept nations
d’Europe, in «Orientamenti pedagogici», 14 (1967) 1, p. 14. Tutte queste opere sono già citate in R. GIACOMETTI, La vita racconta la fede: l’agiografia nella catechesi. Università salesiana editrice, Roma 2002, cui si rimanda per approfondimenti.
14
N. SUFFI, Alla scuola di uomini veri. La pedagogia dell’eroe, in «Catechesi» 40 (1971) p. 3.
10
11
8
trospezione e si vede limitato, percependo
la carenza di una vera personalità. Per questo gli è più facile vivere alla luce di una
forte personalità altrui, immedesimandosi
in essa ed identificandosi con chi gli possa
far dimenticare i suoi limiti consentendogli
di sentirsi a proprio agio. Se inizialmente il
preadolescente può ancora vedere nell’adulto una sorta di eroe, successivamente viene
escluso a beneficio del gruppo di amici il
cui leader carismatico ripropone a modo
suo la fisionomia dell’eroe15: si assiste perciò ad una crescente tendenza all’evasione
dalla realtà, che accende una spiccata simpatia per l’eroe, protagonista di avventure
audaci e impossibili, di cui abbondano fumetti e personaggi televisivi. Partendo da
queste considerazioni si è così sviluppata a
partire dagli anni ’70 la c.d. “pedagogia
dell’eroe” la quale pone a mio avviso alcuni
problemi di contenuto, che mi pare siano
ancora presenti in diversi libri di testo per
l’IRC, in cui si pone la scelta se privilegiare
il messaggio o il Messaggero16.
La c.d. “pedagogia dell’eroe” storicamente
ha purtroppo abbracciato la prima strada:
infatti si afferma chiaramente che «questi
eroi che presenteremo ai ragazzi forse non
saranno ufficialmente cristiani o cattolici
[…] ma saranno tutti degli uomini in linea
con la scelta del Vangelo che è una scelta di
amore del prossimo. Questi uomini sono,
dunque, reali manifestazioni del volto di
Dio e quindi via alla sua scoperta […] dovunque si viva un amore veramente autentico, là si trova e si vive qualcosa dello stesso Dio, anche se si pensa che egli non c’è.
Dove c’è amore e bontà, c’è Dio. Questi
uomini forse non giungeranno mai su questa terra ad una fede esplicita in Dio, ma
essendo aperti all’uomo che sta al vertice
della creazione, sono aperti anche a tutto
ciò che esiste, sono aperti verso il Dio vero,
il Dio vivente. Questi uomini possono essere dunque, per i nostri ragazzi, una strada
verso Dio17». Una applicazione pratica di
queste affermazioni la si ha ogni volta che
capita di vedere, in testi per l’IRC o in
pubblicazioni indirizzate ai ragazzi, a fianco a Santi della Chiesa altri personaggi,
magari dal “curriculum vitae” eccellente ma
non cristiani (un esempio su tutti:
Gandhi); questo in nome del fatto che tutte queste persone hanno comunque vissuto
in nome degli stessi valori.
In realtà non è questo il problema: nel presentare un qualunque santo non va mai accantonata la prospettiva cristocentrica, ossia
che al centro del cristianesimo non ci sono
dei valori ma una Persona: Cristo, che ha
fondato una Chiesa nella cui storia sono
incastonati, come gemme preziose di una
corona, alcuni dei suoi più ardenti imitatori, i Santi appunto. A questo punto bisogna
scegliere, consapevoli del fatto che si ha a
disposizione un’ora a settimana (massimo
due alla Primaria): o si assecondano le mode culturali imperanti, parlando di ciò che
alle orecchie dei nostri contemporanei risulta sempre gradevole, sfondando porte
già aperte e impostando lezioni di buonismo; o si possono utilizzare le narrazioni
agiografiche, magari per aprire degli squarci inediti sulla stessa storia della Chiesa e
G.B. BOSCO, I santi e gli eroi hanno ancora qualcosa da dire al preadolescente?, in «Catechesi» 39 (1970) pp. 3-13.
Si ripete in questa sede l’annoso contrasto fra coloro che ritengono che il messaggio cristiano debba per così dire piegarsi ai destinatari, per cui se si parla a bambini occorrerà necessariamente “limare” qualche aspetto della “Buona Notizia” per risultare più
comprensibili e accettati, mentre l’altro gruppo ritiene che la purezza dei contenuti venga al primo posto, a prescindere dai destinatari, e non si può col pretesto di parlare a persone dal non ancora compiuto sviluppo intellettuale modificare anche solo
parzialmente aspetti essenziali del messaggio cristiano.
17
N. SUFFI, Alla scuola di uomini veri. La pedagogia dell’eroe, cit.
15
16
9
del Cristianesimo in generale… Non si dimentichi che è la profonda ignoranza della
storia della Chiesa far sì che possano ancora circolare ipotesi aberranti e storicamente
infondate (alcune delle quali lette da milioni di persone ne Il Codice da Vinci). Un uso
corretto delle narrazioni agiografiche può
essere invece un modo inedito ed avvincente per avvicinarsi alla storia partendo dal
caso particolare per risalire induttivamente
al generale.
Da un punto di vista didattico le vite dei
santi offrono perciò innumerevoli occasioni
per sviluppare varie Unità di Apprendimento basata su una serie di lezioni, da
realizzare e calibrare a seconda dell’età degli
alunni, quindi dal rispettivo ciclo scolastico, dai vari OSA e dalle possibili connessioni interdisciplinari. Anche per le fasce di
età più difficili, con cui siamo abituati
quotidianamente ad avere a che fare, è possibile utilizzare la letteratura agiografica
con successo, come del resto dimostra la
mia, sia pur modesta ma positiva esperienza con ragazzi del Biennio della scuola secondaria di II grado e con una V classe della scuola Primaria. L’esperienza di immedesimazione parte da fattori apparentemente
banali, e l’Unità di Apprendimento può
iniziare a seconda delle età degli studenti
partendo ad esempio da una ricerca sul
santo/a che porta il proprio nome, o dal
patrono dalla propria città/regione, o dal
santo/a cui è dedicata la propria chiesa parrocchiale.
Rimandando ad eventuali successivi interventi su come possano essere concretamente utilizzate le narrazioni agiografiche da
un punto vista didattico, e quindi alla rea-
lizzazione di eventuali Unità di Apprendimento differenziate a seconda dell’età, ho
espresso in questa sede solo alcuni principi
di carattere teorico che ribadiscono l’utilità
se non la necessità di recuperare la bimillenaria tradizione agiografica. In effetti, basta
pensare a figure come Massimiliano Kolbe,
Madre Teresa di Calcutta, Don Bosco,
Giuseppe Cottolengo, Camillo de Lellis,
Ignazio di Loyola, Brigida (di Svezia), Teresa d’Avila, Giovanna d’Arco, Tommaso
d’Aquino tanto per dirne alcuni (e per non
ricorrere sempre al “solito” Francesco d’Assisi): i raccordi interdisciplinari con la Storia, la Storia dell’Arte, la Filosofia, l’educazione Civica sono pressoché infiniti, così
come molteplici sono i supporti utilizzabili
(audio, DVD18, ecc.) e li lascio alle capacità
immaginative del lettore che ha avuto la
pazienza di seguirmi fin qui.
Concludo con alcune dichiarazioni del
Concilio Vaticano II, che ha inserito appositamente i Santi e il culto a loro prestato
in una Costituzione dogmatica, la Lumen
Gentium. In questo documento, approvato
il 21/XI/1964, si ricorda che «tutti i fedeli
di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla
pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità. […] Che gli apostoli e i
martiri di Cristo, i quali con l’effusione del
loro sangue avevano dato la suprema testimonianza della fede e della carità, siano
con noi strettamente uniti in Cristo, la
Chiesa lo ha sempre creduto, e li ha con
particolare affetto venerati con la beata vergine Maria e i santi angeli, e ha pienamente
implorato l’aiuto della loro intercessione. A
questi in breve furono aggiunti anche altri,
che avevano più da vicino imitato la vergi-
18
Spie indicative della costante importanza dell’agiografia sono l’iniziativa di uno dei più importanti quotidiani italiani che ha
diffuso in allegato un’imponente raccolta di Vite dei Santi in più volumi; o anche l’album di figurine, che riproduce più di 400
capolavori dell’arte sacra italiani ed europei, con tanto di testi di accompagnamento. Tale iniziativa segue il successo editoriale
dell’“Album di Natale” che ha venduto in Italia più di 100.000 copie.
10
nità e la povertà di Cristo, e infine gli altri,
il cui singolare esercizio delle virtù cristiane, e i divini carismi li raccomandavano alla pia devozione e all’imitazione dei
fedeli19».
Ogni santo ha una sua storia da conoscere,
una storia affascinante costellata di gioie,
dolore, dubbi, ansie ma anche coraggio,
forza, determinazione; in una parola, ritorna una luce, quell’idea di bellezza da cui
ero partito e da cui penso sia indispensabile
ripartire oggi.
19
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
GIACOMETTI, R., La vita racconta la fede,
Università salesiana editrice, Roma 2002
TONELLI, R. La narrazione nella catechesi e
nella pastorale giovanile, E LLEDICI , Leumann (TO) 2002
GATTI, G. Agiografia e teologia morale, in
«Salesianum» 63 (2001) 97-125
GRÉGOIRE, R., Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Monastero San Silvestro Abate, Fabriano 1996
LG 50.
11
Dio-Gesù accompagna Adamo ed Eva fuori dal Paradiso, mosaico dell’atrio della basilica di San Marco a
Venezia, XIII secolo.
La fragilità punita. Proviamo a pensarci ognuno nel ruolo di Adamo e di Eva. Richiederemmo al buon
Dio almeno il diritto all’appellabilità. O almeno intercedere alla Sua misericordia. O almeno confessare
la nostra debolezza. La fragilità dei nostri ‘nonni’ sta proprio qui: nel non aver saputo invocare. Le loro
uniche parole sono state quelle di accusarsi reciprocamente della loro debolezza. La fragilità avrebbe richiesto loro di saper confessare la propria debolezza. Perché la giustizia non compensa la fragilità ma la
orienta, la sostiene. E punisce invece chi non riconoscendo la propria fragilità si ostina nella propria
debolezza. Adamo ed Eva non riconoscendo la propria fragilità fanno violenza a Dio imponendogli la
propria incapacità di saper rispondere adeguatamente alla sua domanda e quindi di aver preteso che
quell’adamah con la quale li aveva plasmati potesse essere più forte dell’alito vivente con cui Dio li aveva vivificati. Anzi avevano ‘vanificato’ quell’alito vivente spegnendolo in quell’adamah che ora è ridotto
a polvere del suolo. La fragilità non consiste nell’aver disobbedito, ma nel non essere stati capaci di assumersi la responsabilità di quanto hanno fatto. E quindi di aver sbagliato la risposta alla domanda di
Dio. Dio non punisce la loro fragilità ma la loro pretesa di voler essere meno fragili di Dio, lasciandosi
indebolire dalla tentazione dell’«eritis sicut Deus».
L’attenzione della pastorale
scolastica ai cinque “ambiti”
del Convegno di Verona
di Sergio Cicatelli
scusso sui testi delle relazioni che hanno
Il Convegno di Verona1 è un evento che ha
scandito le cinque giornate di lavoro. Non è
segnato e, ancora più, segnerà la vita e la
quindi il caso di ripercorrere per l’ennesima
storia della Chiesa italiana in questo avvio
volta quei testi. Ma
del Terzo Millennio.
sento il bisogno di
Il tema del Convefissare almeno alcuni
gno, “Testimoni di
Riportiamo integralmente la relazione che
punti di riferimento
Gesù Risorto, speil prof. Cicatelli, dirigente scolastico e noto
cui ancorare le riflesranza del mondo”
esperto del mondo della scuola, ha offerto
sioni più specifiche
propone una serie di
ai partecipanti al Convegno degli Inseche qui sono chiamacontenuti all’attengnanti cattolici del Lazio.
to a svolgere, nel tenzione della Chiesa e
tativo di collegare la
di ciascun credente:
pastorale scolastica ai cinque ambiti in cui si
la testimonianza, la risurrezione, la speranza.
è articolata parte dei lavori del Convegno2.
Tutti e tre questi oggetti non possono non
interpellare chi vive e lavora nella scuola: in
primo luogo perché la relazione educativa è,
Le parole illuminanti del papa
anche contro la nostra volontà, una forma di
Il documento centrale e più significativo è
testimonianza; in secondo luogo perché la
senz’altro il discorso di Benedetto XVI, che
risurrezione è il nucleo fondante della fede e
in poche pagine è riuscito a raccogliere e
dell’essere del cristiano (che è e rimane tale
sintetizzare una serie di spunti essenziali per
anche all’interno della scuola); infine perché
l’azione pastorale dei cattolici italiani.
senza speranza non avrebbe senso dedicarsi
Il nucleo del discorso è la risurrezione di
all’educazione dei giovani (rinunciare ad
Cristo, «la più grande ‘mutazione’ mai accaeducare significa rinunciare al futuro e chiuduta, il ‘salto’ decisivo verso una dimensione
dersi in un orizzonte disperato).
di vita profondamente nuova» 3. L’evento
Tutti abbiamo letto i resoconti del Convenon è limitato a Gesù, ma – come ci ricorda
gno, ma soprattutto abbiamo riflettuto e diSan Paolo (1Cor 15, 12-19) – riguarda ciaIV Convegno Ecclesiale Nazionale, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, Verona 16-20 ottobre 2006.
I cinque ambiti, con i rispettivi coordinatori, erano i seguenti: Vita affettiva, prof. Raffaella Iafrate, professore associato di Psicologia sociale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore; Lavoro e festa, prof. Adriano Fabris, professore ordinario di Filosofia
morale e direttore del Master in Comunicazione pubblica e politica nell’Università di Pisa; Fragilità, dott. Augusto Sabatini,
giudice e presidente vicario del Tribunale per i minori di Reggio Calabria; Tradizione, prof. Costantino Esposito, professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Bari; Cittadinanza, prof. Luca Diotallevi, professore associato di Sociologia nell’Università di Roma Tre.
3
Il discorso del Santo Padre, come gli altri interventi citati, sono qui riportati secondo il testo distribuito al Convegno.
1
2
13
scuno di noi. «È stata cambiata così a mia
identità essenziale – commenta il papa – e io
continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento». Sono queste le basi su cui impostare la questione antropologica che si manifesta concretamente in tanti aspetti particolari nella nostra vita di tutti i giorni e che
costituisce un motivo ricorrente in tutto il
Convegno di Verona.
Da un lato siamo tutti vittime «di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente», ma che ha prodotto «una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice
prodotto della natura». Dall’altro, avvertiamo
«con crescente chiarezza l’insufficienza di una
razionalità chiusa in se stessa» e puntiamo ad
«allargare gli spazi della nostra razionalità»
coniugandola con le dimensioni pratiche e
vitali della nostra esistenza, perché «la persona umana non è soltanto ragione e intelligenza» ma «porta dentro di sé, iscritto nel più
profondo del suo essere, il bisogno di amore,
di essere amata e di amare a sua volta».
Ecco allora che «una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della
persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare
quella della sua libertà e capacità di amare.
E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si
potrà contrastare efficacemente quel rischio
per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita
ben più faticosa delle nostre risorse morali».
In queste poche ma dense parole del Pontefice sono già indicati compiti importanti per
chi si occupa professionalmente di educazione, lavora nella scuola e cerca di realizzare
progetti di pastorale scolastica. Per restituire
un senso all’azione educativa della Chiesa e
dei cristiani il Papa ci ricorda che «un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la
nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di
grande nella vita». In altre parole, un progetto educativo non può ridursi a trasmissione
di informazioni ma deve saper trasmettere
anche valori attraverso la testimonianza convinta e convincente degli educatori: già Paolo VI diceva oltre trent’anni fa che «l’uomo
contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri lo
fa perché sono dei testimoni»4.
La debolezza e limitatezza degli orizzonti in
cui si muove spesso la scuola, non solo in Italia, devono quindi essere superate dalla capacità di guardare più lontano, di proporre ai
giovani prospettive impegnative perché impegnate nel confronto con l’assoluto e non
solo con le piccole necessità della vita quotidiana in cui le risposte della tecnica (con le
sue mille soluzioni pratiche) tende a prevalere sulle domande della scienza, della volontà
di capire e di misurarsi con i confini stessi
della condizione umana. In questo può consistere l’invito che nella Novo Millennio
Ineunte, alla fine del grande Giubileo del
2000, Giovanni Paolo II ci rivolgeva con le
parole di Gesù: «Duc in altum, prendi il largo» (Lc 5,4).
L’applicazione dei principi
Sulla base di queste premesse dobbiamo ora
cercare di declinare l’impegno educativo nei
cinque ambiti in cui si articolava il Convegno di Verona. Come è noto essi riguardava-
Paolo VI, Discorso ai membri del Consilium de laicis (2-10-1974), citato nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 41
(8-12-1975).
4
14
no la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità, la tradizione, la cittadinanza.
In primo luogo credo sia opportuno chiarire
che non si tratta di ambienti ma di ambiti;
non sono settori operativi della pastorale (di
ambiente) ma dimensioni in cui l’azione pastorale può svilupparsi (anche in ambienti diversi). In un certo senso, la trasversalità deve
essere il tratto caratteristico di questi ambiti,
che la traccia di riflessione preparatoria tendeva a definire come «grandi aree dell’esperienza personale e sociale»5 e di cui don Franco Giulio Brambilla, nella sua relazione introduttiva sull’orizzonte teologico-pastorale a
Verona ha sottolineato l’«interdipendenza
orizzontale e verticale»6.
La scelta di questi cinque ambiti non può, a
mio parere, considerarsi esaustiva di tutte le
possibili aree di esperienza (altre se ne potrebbero aggiungere o potrebbero sostituirvisi: relazione, contemplazione, razionalità,
giustizia, educazione…) ma la selezione è
senz’altro indicativa di prospettive rilevanti
che le diverse iniziative pastorali dovrebbero
tenere sempre presenti, con l’obiettivo di ricondurre ogni volta la parte al tutto. In una logica del genere, alla trasversalità degli ambiti
può (e, a mio parere, deve) a sua volta corrispondere la trasversalità della dimensione
scolastico-educativa a tutti gli ambiti.
Mi sia permesso un ricordo personale sul
Convegno di Verona. Quando mi fu chiesto
di iscrivermi a un ambito (per essere poi suddivisi in uno dei gruppi di lavoro in cui ciascun ambito si articolava a sua volta), scelsi
l’ambito della tradizione perché era quello
cui sembrava più facile ricondurre il tema
dell’educazione e della scuola (a me più congeniale). Nel corso dei lavori di gruppo, però,
mi sono accorto che sotto l’etichetta della
tradizione si erano raccolti interessi quanto
mai eterogenei, che (almeno nel mio gruppo)
presentavano istanze di carattere catechetico,
spirituale, teologico, pastorale, sociale, liturgico: la scuola era praticamente assente dal
dibattito. Ho sentito perciò il bisogno di richiamare l’attenzione dei colleghi del gruppo
su questa dimensione, avendo peraltro verificato che una buona metà dei componenti
dello stesso gruppo proveniva proprio dalla
scuola o dall’università.
Mi sono così trovato a riflettere sulla trasversalità dell’educazione scolastica ai cinque ambiti, superando la sua angusta collocazione
nel solo (anche se più specifico) ambito della
tradizione.
La scuola tocca tutti gli ambiti
La scuola appartiene senz’altro all’ambito della vita affettiva, quanto meno perché è nella
scuola che si forma la persona anche nella sua
dimensione emotiva, relazionale e spirituale.
Le parole del papa ci hanno appena invitato a
guardare alla persona nella sua globalità, fatta
di intelligenza e di libertà, di logos e di amore.
Ma soprattutto, credo che sia sotto gli occhi
di tutti noi la domanda di affetto, più che di
cultura, che ci viene dai nostri alunni, probabilmente privi di altri solidi punti di riferimento affettivi (la famiglia, il gruppo dei pari, i mass media…). Tocca a noi, perciò, colmare questo vuoto e costruire una comunità
scolastica accogliente e significativa per la
crescita completa dei nostri ragazzi.
Comitato preparatorio del IV Convegno ecclesiale nazionale, Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo. Traccia di riflessione
in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona, 16-20 ottobre 2006, Roma 2005, n. 15.
6
«Il confronto che avverrà dentro gli ambiti dovrà essere preoccupato di mantenere una sorta di interdipendenza orizzontale e
verticale. Orizzontale, perché la discussione dovrà mostrare l’intreccio del nostro tema con le altre sfere di esperienza della vita
umana e cristiana. Verticale, perché dovrà sempre mettere il tema sotto la luce luminosa della speranza cristiana che viene dall’incontro con il Risorto».
5
15
La scuola interseca anche l’ambito della fragilità, perché è la condizione dell’alunno (bambino, ragazzo, adolescente) ad essere fragile
per definizione: una fragilità forse non sempre riconosciuta perché fisiologica e inevitabile, ma non per questo meno fragile. A volte
su questa fragilità di base si innestano altre
fragilità più specifiche e riconoscibili (disabilità, insuccessi…), che possono sottrarre attenzione alla condizione di base ma non devono indurci a trascurare la debolezza con
cui gli alunni si presentano alla scuola: essa
va considerata un valore perché espressiva
della specificità della persona, di ogni persona.
La scuola ha anche a che fare con l’ambito
del lavoro e della festa, non tanto perché il calendario scolastico scandisce i tempi del lavoro e della festa di chi lavora nella scuola,
quanto perché l’alunno apprende a scuola a
scandire le proprie giornate secondo ritmi
sensati e significativi (c’è un tempo per lo
studio e un tempo per il gioco, un tempo per
l’impegno e un tempo per il riposo…). Se il
lavoro sembra essere l’oggetto più immediato
dell’attività scolastica, anche la festa va recuperata come momento significativo, quanto
meno per la complementarità che esprime: se
fosse sempre festa, la festa stessa non avrebbe
significato, e se si lavorasse sempre non si
comprenderebbe la finalità del lavoro. Non è
un caso che la festa, secondo il comandamento cristiano, deve essere “santificata”, cioè
deve trovare il suo significato in un riferimento alto, molto alto. Anche questo può essere il compito della scuola.
In modo più specifico e diretto, la scuola appartiene all’ambito della tradizione, intesa come atto del tramandare da una generazione
all’altra i contenuti fondamentali di una cultura e di un’identità. È in gioco la traditio fidei, ma anche il processo di acculturazione e
inculturazione delle nuove generazioni, che è
compito proprio della scuola assicurare. Tradizione non vuol dire solo guardare al passato
per ripeterlo pedissequamente, ma confrontarsi con la propria memoria per ricavarne
motivi di progresso7. In questo compito la
scuola gioca un ruolo fondamentale e deve
mantenere la consapevolezza della necessità
di una proposta vitale e significativa per dei
ragazzi che sanno capire immediatamente se
il messaggio loro rivolto è solo un atto burocratico o un convinto esercizio di comunicazione personale.
Infine, la cittadinanza interpella ugualmente
la scuola in quanto luogo in cui si pongono
le basi per l’esercizio di gran parte dei diritti e
doveri. Questa dimensione ci costringe a ancora una volta a ripensare l’idea stessa di
scuola: non come luogo di trasmissione di saperi o nozioni ma come occasione di formazione delle persone (anche attraverso quelle
nozioni). In altre parole si tratta di avere ben
chiaro quale sia il fine (l’educazione della
persona nella sua interezza) e quali i mezzi (le
singole discipline, le cose insegnate); troppo
spesso, invece, le materie d’insegnamento diventano il fine della nostra azione didattica e
gli alunni si trasformano in mezzi per realizzare quel travaso di conoscenze. Occorre
quindi ricollocare la persona dell’alunno al
centro della scuola, insieme alla rete di relazioni in cui egli si deve andare a collocare
(rapporti sociali, interpersonali, professionali,
civili…): la recente introduzione nella scuola
dell’educazione alla convivenza civile si pone
proprio in questa direzione, ma bisogna ve-
7
Può essere interessante andare a rileggere alcune parole dell’allora cardinale Ratzinger, nella lunga intervista fattagli da V. Messori (J. Ratzinger – V. Messori, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 36), sull’impossibilità per la
Chiesa di una restaurazione come semplice ripetizione del passato e sulla necessità della restaurazione come aggiornamento dell’equilibrio dottrinale.
16
dere quale futuro potrà avere concretamente
nella scuola di domani.
La scuola della persona
Se ora proviamo a riassumere gli spunti offerti dalla relazione che l’educazione scolastica
può avere con ognuno dei cinque ambiti di
Verona, mi sembra facile vedere emergere
una profonda e sostanziale unità. L’obiettivo
è proprio quello di fare sintesi, affinché la persona non si disperda nelle parcellizzazioni disciplinari, specialistiche o settoriali. La principale raccomandazione, quindi, prima ancora che organizzativa o pratica, è pedagogica:
riscoprire la finalità educativa della scuola ed
affermare un’idea forte dell’educazione.
Parlare di educazione significa parlare della
persona cui l’azione educativa si rivolge, con
la sua varietà, debolezza, complessità e pluralità. La scuola deve dunque tornare ad essere
luogo di educazione oltre che di sola istruzione, socializzazione o certificazione. E l’educazione comporta un progetto alto, la chiara affermazione dei fini e dei valori che si intendono promuovere: priorità alle persone, rispetto delle differenze, ricerca dell’unità.
Tocca alla scuola offrire gli strumenti per affrontare le diverse situazioni che la vita quotidiana ci propone, ma tocca anche alla scuola
arginare la frammentazione che una simile
strumentazione può produrre, tentare cioè di
ricondurre sempre a sintesi e ad unità le singole attività proposte dalla scuola, sia per dare ad esse un senso, sia per accertarsi della loro efficacia e compatibilità.
Il compito della pastorale scolastica è quindi
quello di promuovere anzitutto un’idea di
scuola fatta da persone per le persone, una comunità educativa in cui i soggetti prevalgano
sulle funzioni e le finalità siano sempre chiare
a tutti, così da rendere accettabili anche oneri
non sempre graditi. In una prospettiva del
genere l’azione pastorale deve essere unitaria
esattamente come è unitario il soggetto/persona/alunno cui si rivolge la scuola.
Il messaggio che proviene da Verona, quindi,
non è tanto quello di articolare e suddividere
la pastorale scolastica in coincidenza con i
cinque ambiti (avremmo solo contribuito all’ulteriore frammentazione funzionalistica
della cultura e della vita). Piuttosto si tratta
di ripensare la pastorale scolastica al servizio
di un progetto educativo globale, che non
appartiene solo alla scuola cattolica ma alla
scuola in genere.
L’obiettivo non può essere quello di andare
ad occupare degli spazi, in una logica spartitoria o – peggio – conflittuale, ma di costruire lo spazio scolastico nel suo insieme, sapendo prestare la dovuta attenzione alle istanze
suggerite dai cinque ambiti, che non voglio
considerare esaustivi del panorama scolastico
o sociale ma solo indicativi di uno stile di lavoro, di presenza e di annuncio. Insomma,
una pastorale scolastica che non sia solo pastorale di ambiente, separata o indipendente
dagli altri ambienti. Proprio l’unitarietà dell’azione educativa deve sollecitare un’attenzione altrettanto unitaria per una pastorale del
servizio educativo alla persona.
Indicazioni pratiche
A questo punto, siccome il richiamo alle
grandi finalità istitutive rischia di risolversi
solo in un esercizio retorico, suggestivo ma
sterile, proviamo a delineare qualche spunto
per occasioni di approfondimento concreto e
operativo della pastorale scolastica tradizionalmente intesa.
1. In relazione alla vita affettiva l’obiettivo
può essere quello di non concentrare l’attenzione sugli aspetti “tecnici” della relazione interpersonale, dai suggerimenti degli psicologi
alle soluzioni offerte per esempio da una sbri-
17
Torre di Babele, le storie della Bibbia, mosaico dell’atrio della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo.
La fragilità sospesa ad un punto fisso verso l’alto. Tra chi ha i piedi per terra e chi salta dall’alto certamente il primo si sente più stabile o almeno corre meno rischi. Se però pensi di cogliere il frutto più in
alto di un albero senza volerti innalzare ma pretendendo che il frutto venga alla tua portata, dimentichi
che l’altezza, come ogni distanza tra le cose, esprime la loro diversità.
I costruttori della torre di Babele vogliono di innalzare una torre pretendendo di abbassare l’alto alla
loro altezza. La loro fragilità è sospesa ad un punto fisso verso l’alto. Tentano di allontanare da sé questa fragilità e la proiettano in alto, pensando che il loro desiderio – la loro ambizione – indurrà alla fragilità chi viene scelto. Dimenticano che la fragilità per l’uomo è nella sua pelle, che può cambiare colore, aumentare in superficie con l’età, ma non può separarsi dal suo spazio. La fragilità è questa pelle che
confina ogni uomo e non lo distanzia dagli altri, bensì lo afferma nella sua identità. Questi costruttori
intendono dimenticare la loro fragilità invadendo quella di chi sta più in alto di loro. La torre permette
loro di avvicinare la loro fragilità a quella di colui che abita oltre la torre e di affidare alla torre la possibilità dell’incontro, come se la mano potesse accarezzare un volto separandosi dal suo braccio e dal suo
corpo. Come se potessi distaccare la mia fragilità da me e porla accanto a quella di un altro senza esserne presente. Non c’è distanza che si supera né in altezza né in lunghezza se la propria fragilità non parla
la stessa lingua di coloro con cui devi condividerla.
gativa educazione sessuale. Questi sono mezzi da ricondurre sempre ai fini cui servono,
esaltandone perciò la dimensione etica e costitutiva della persona.
2. In relazione alla festa e al lavoro l’attenzione può rivolgersi al valore dell’impegno (da
intendere non come fatica ma come contrario di disimpegno e quindi di superficialità).
È un luogo comune ripetere che lo studio è il
lavoro di ogni ragazzo/alunno. Ma anche in
questo caso occorre dare al lavoro un senso
non puramente strumentale di occupazione
da assolvere per poter poi fare altro, ma il valore di occasione per la propria realizzazione
personale. In una prospettiva del genere può
trovare spazio adeguato un’attività di orientamento scolastico e professionale, da intendere non come mera informazione o collocamento ma come accompagnamento nella
scoperta di sé, delle proprie capacità e delle
proprie prospettive.
3. In relazione alla fragilità la pastorale scolastica non può limitarsi al pur lodevole impegno per i più deboli e svantaggiati, perché i
giovani vivono una condizione costitutiva di
fragilità e hanno bisogno di essere guidati
con affetto e sicurezza, autorevolezza e discrezione. C’è forse bisogno di tematizzare meglio questa condizione giovanile, evitando le
facili denunce giornalistiche e impegnandosi
in un lavoro sistematico di recupero delle difficoltà e di promozione delle potenzialità. La
pastorale scolastica potrebbe allora offrire occasioni di formazione a tutti gli operatori del
mondo della scuola per far comprendere meglio le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei giovani d’oggi, così diversi dai giovani di qualche decennio fa eppure così simili nelle loro dinamiche di fondo.
4. In relazione alla tradizione si potrebbe avviare una seria riflessione sul patrimonio (di
cultura, di valori e di fede) che stiamo tra-
smettendo alle nuove generazioni, interrogandoci sì sui contenuti ma anche e soprattutto sul linguaggio che adoperiamo, sulla capacità di intercettare le domande giovanili al
di là di mode effimere e di campagne mediatiche. Per una tradizione che non sia mero
tradizionalismo occorre rifocalizzare il nucleo
della proposta cristiana, separando il grano
dal loglio e l’essenziale dall’accessorio, al fine
di concentrare l’attenzione su ciò che davvero
conta.
5. In relazione alla cittadinanza, terreno d’elezione di una sana laicità, le iniziative pastorali potranno intraprendere la strada del confronto e del dialogo interculturale ma anche
della comprensione e condivisone del sistema
di diritti e (soprattutto) di doveri su cui si
fonda la nostra civile convivenza, sapendo
trovare in essa spazio per Cesare e per Dio e
dando luogo a una pratica della politica nel
senso più nobile.
Alla fine di questa sommaria rassegna, è facile
notare come risulti comune a tutti gli ambiti
una spiccata sensibilità etica. Non può essere
altrimenti, se davvero vogliamo porre al centro la persona dell’alunno e curare la sua formazione integrale. Alla base di tutto c’è dunque quella questione antropologica più volte
evocata a Verona negli interventi del card.
Tettamanzi, del card. Ruini e, ovviamente,
del Papa.
La realtà umana, se si guarda al paradigma di
Gesù risorto, è troppo ricca e complessa per
essere ridotta a singole prestazioni o a orizzonti settoriali. Alla integralità di questa
realtà umana, alla persona dell’alunno, deve
puntare la pastorale scolastica, facendo tesoro
della lezione veronese che non separa i cinque ambiti ma invita ad attraversarli tutti per
incontrare i destinatari della nostra attenzione nella concretezza delle loro esperienze di
vita.
19
Giuseppe e la moglie del suo padrone in Egitto, Le storie della Genesi, mosaici dell’atrio della basilica di
San Marco a Venezia, XIII secolo.
La fragilità assediata e non tradita. L’episodio fa parte della storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe. La
disparità sociale crea un privilegio di opzione per la bella moglie di Putifarre, Zuleika (Gn 39,7-20).
Giuseppe come schiavo non potrebbe rifiutarsi a nulla. Quindi la sua fragilità non è nemmeno personale, quanto istituzionale: lo schiavo non deve e non può avere la volontà di scegliere, ma come un
buon oggetto farsi scegliere. E se una fragilità gli è concessa potrebbe essere soltanto quella di ‘rimediare’ qualche piacere in qualcosa di cui non potrà essere responsabile. Come colui che agisce ‘in buona
fede’ perché si sente schiavo di decisioni altrui. Maschera la sua fragilità con l’obbedienza. E qui spesso
la fragilità è nel non saper scegliere. Nel caso di Giuseppe è nel non avere la possibilità giuridica e sociale di scegliere. Giuseppe infrange questa fragilità sociale e culturale ed afferma la sua fragilità di credente: acconsentire alla moglie di Putifarre significherebbe essere fragile nella fede nel Dio dei Padri. La
sua virtù è nel dichiarare più valore al rischio della fragilità all’idolatria che al naturale consenso ad un
rapporto che lo avrebbe visto soltanto oggetto di desideri e oggetto che induce altri, in questo caso la
moglie di Putifarre, alla fragilità. Perché non c’è fragilità personale che non induca in tentazione quella
del tuo prossimo.
La nuova evangelizzazione e la pastorale
dell’educazione e della scuola
di Sergio Lanza
diato, assenza di sacrificio, dedizione, pazienRilevanza della questione educativa in un
za, attesa). Anche sotto il profilo educativo:
mondo che cambia
non appare più normativa e sufficiente l’assiL’istanza educativa è da sempre nel cuore delmilazione di conoscenze date e di comportal’azione ecclesiale: una attenzione e una espementi codificati… Si è tentati di affondare nel
rienza che si radicano nel profondo, esprimodubbio.
no una sollecitudine originaria e appaiono
La stessa istituzione facoestese alla storia, ormai bimillenaria, della
miliare, poi, appare
Il prof. Lanza, che ha tenuto la prima reChiesa di Cristo. La
sempre meno rilevanlazione al convegno degli Insegnanti cattoconcreta vicenda della
te sotto il profilo solici del Lazio (cfr in questo fascicolo p. 82)
comunità cristiana,
ciale, in una trama di
presenta in questo ampio contributo le sue
infatti, ha visto sorgerapporti che sempre
riflessioni di pedagogista e pastoralista atre nel tempo forme
più si volge ‘direttatento al mondo della scuola, invitando ad
molteplici e diversifimente’ all’individuo,
un urgente quanto indispensabile ripensacate di scuole, in ririconoscendolo come
mento delle consuete modalità dell’azione
sposta alle problemainterlocutore privilepastorale dinanzi ai mutamenti profondi
tiche del tempo.
giato, disinteressandodel mondo giovanile.
La scuola è crocevia
si delle forme delle
sensibile delle problesue relazioni personamatiche che agitano questo inquieto scorcio
li, che si vedono così riconosciuto (di fatto, e a
di fine millennio e in modo particolarmente
volte anche legislativamente) il diritto alle più
acuto si addensano sul terreno delicatissimo e
diverse e azzardate combinazioni di relazione
cruciale delle responsabilità educative.
interpersonale stretta e di ‘coppia’.
Il mondo della comunicazione appare sempre
Viene meno la grammatica elementare dell’esistenza umana. In tanti campi dell’esistenza, e
più come luogo di scambio (illusoriamente?)
in particolare per le giovani generazioni, non è
interattivo, svincolato comunque da ogni rifepiù possibile contare tranquillamente sulle trarimento nemmeno tendenziale alla verità e aldizioni e le consuetudini ricevute: la società è
la carità. Cultura di massa, del frammento,
in costante movimento, si presenta policentrica
dell’istante, ricca di prodotti, infarcita di pia(culturalmente, religiosamente, etnicamente),
ni, scarsa di progetti e di opere: cultura di
costringe ad una inquietante mobilità delle reconsumo, della provvisorietà. La televisione,
lazioni (fedeltà a tempo, “storie a segmenti”),
per esempio, è specchio della realtà, ma anche
produce spaesamento (“società dell’incertezagente potentissimo che la modella e la deterza”), esige efficienza e pragmatismo (società
mina.
della soddisfazione istantanea: risultato immeTutto questo rende precaria, incerta o inerte
21
l’educazione. Dalla nativa responsabilità familiare, al monopolio scolastico, alla dispersione
policentrica: la società dei sistemi separati ed
autoreferenziali conduce la scuola nel mondo
delle forme burocratizzate impersonali (i sistemi), mentre sospinge la famiglia nell’ambito
ristretto delle relazioni primarie, relegate nel
privato.
Nel tempo – il nostro – in cui la mobilità è cifra interpretativa del reale e dinamica emblematica del vissuto, appare del tutto insufficiente una strategia dei piccoli adattamenti
marginali. Occorre pensare in grande. Uscire,
inoltre, dal rincorrere i problemi, col fiato corto, affannosamente, dispersivamente e frammentariamente. È necessaria una nuova progettualità che investa a tutto campo la missione educativa della Chiesa.
Attenuatasi la requisitoria marxiana (religione
come alienazione), permangono forti venature
di ascendenza freudiana (religione illusione,
atteggiamento/stadio infantile e irrazionale),
in un orizzonte in cui il relativismo – conclamato o strisciante – fa della neutralità la bandiera della libertà e la forma paradossale della
(mancata) reciprocità.
L’estendersi pervasivo dei moderni secolarismi,
il predominio della mentalità critica sperimentale con il suo pratico rifiuto di ogni prospettiva veritativa e metafisica, il progressivo (e ultimamente rapidissimo) sfaldarsi dei quadri di
riferimento culturale che per secoli avevano
garantito processi armonici (o quanto meno
efficienti) di socializzazione incidono in maniera rilevantissima sui processi educativi, che
ne risultano profondamente scossi. È sotto gli
occhi di tutti la difficoltà delle famiglie, il disagio delle istituzioni scolastiche, l’influenza
non sempre positiva dei mezzi di comunicazione di massa; è sotto gli occhi di tutti la crescente marginalizzazione della fede cristiana
come riferimento e luce nell’interpretazione
22
effettiva e convinta dell’esistenza, così come la
crescente difficoltà ad attivare processi educativi
cristiani efficaci, che garantiscano la formazione di personalità cristiane mature (sono ben
note le difficoltà e i disagi della catechesi, nonostante gli intensi sforzi di rinnovamento):
ed è sotto gli occhi di tutti, quasi da apparire
luogo comune, lo smarrimento delle giovani
generazioni, con i processi di dispersione, involuzione, e perfino di autoannientamento
che vi sono drammaticamente connessi. Problemi che la scuola vive e soffre nella propria
carne.
I profondi cambiamenti in atto pongono esigenze di adeguamento istituzionale e strutturale, per rispondere alle nuove istanze che attraversano tutti i livelli della società e per preparare le nuove generazioni ad affrontare responsabilmente il futuro.
Esigenze di rinnovamento
In questo quadro si colloca la più attenta e
puntuale considerazione del significato e del
ruolo della scuola per la responsabilità ecclesiale: di fronte a mutate e più rilevanti esigenze, essa è chiamata a un coraggioso rinnovamento. È necessario che anche nel tempo presente la Chiesa sappia dire in maniera efficace,
convincente – attuale e al tempo stesso portatrice di quella tradizione di cui essa vive e
quotidianamente si nutre – la parola della fede. È il dovere fondamentale dell’evangelizzazione, dell’andare là dove è l’uomo, perché accolga il dono della salvezza.
L’educazione è da sempre uno dei grandi campi di azione della missione salvifica della Chiesa; lo è, specificamente, in quella situazione
caratteristica che è la scuola. Deve essere perciò respinta con decisione la tesi che considera
la scuola mondo separato ed estraneo alla missione propria della comunità cristiana. Luogo decisivo della formazione integrale della persona,
essa è forma saliente e specifica di quella missionarietà, che si rinvigorisce nella prospettiva
della nuova evangelizzazione.
Per questo, è necessario oggi dar vita a nuove
forme di incisività educativa, soprattutto nella
famiglia, nella comunicazione, nella scuola. La
centralità dell’educazione, l’idea di scuola per
la persona e di scuola delle persone come fulcro del progetto educativo, la prospettiva di
una conoscenza intesa soprattutto come sapere per la vita, la formazione all’impegno nella
società, la partecipazione degli studenti, la collaborazione tra scuola e famiglia, la valorizzazione della fede cristiana come prospettiva e
orizzonte e non solo come materia aggiuntiva:
in una parola, la formazione dell’uomo nuovo
in Cristo. Ecco i punti salienti – che si possono raccogliere nel trinomio verità, libertà, carità – attorno ai quali aprire il dibattito culturale sulla scuola. Questo è impegno costitutivo dell’azione ecclesiale.
Rilevanza culturale
La fede vive e si esprime nelle culture, dà vitalità e autenticità alle culture. Posto in orizzonte di fede, il sapere diventa visione della vita,
sapienza. Il suo articolarsi competente nelle
diverse discipline non ne viene in alcun modo
coartato; valorizzato, piuttosto, oltre la frammentazione strumentale. In tal modo tutte le
discipline collaborano, con il loro sapere specifico e proprio, alla costruzione della personalità matura. La tensione a coniugare ragione
e fede divenuta l’anima delle singole discipline, dà loro unità, articolazione e coordinazione, facendo emergere dall’interno stesso del
sapere scolastico la visione cristiana sul mondo, sulla vita, sulla cultura, sulla società e sulla
storia.
La comunità cristiana non diserta i nuovi areo1
2
paghi della cultura. Vi si fa presente e chiede di
essere riconosciuta e apprezzata unicamente in
forza della validità culturale della propria proposta. E sa di compiere, con questo, autentica
opera missionaria: «Di fronte allo sviluppo di
una cultura che si configura dissociata non solo dalla fede cristiana, ma persino dagli stessi
valori umani, come pure di fronte a una certa
cultura scientifica e tecnologica impotente a
dare risposta alla pressante domanda di verità
e di bene che brucia nel cuore degli uomini, la
Chiesa è pienamente consapevole dell’urgenza
pastorale che alla cultura venga riservata un’attenzione del tutto speciale»1. Tutto questo
conduce alle dimensioni proprie della cultura.
Le culture diventano oggi campo di una pastorale specifica: le culture diventano nuova terra di missione. Una prospettiva della missione
non più identificata solo geograficamente.
La valenza culturale della fede è senz’altro uno
degli elementi più espressivi di quella originalità pedagogica che deve trovare espressione
idonea ad essere valorizzata e accolta nei progetti educativi della scuola. Non si dà, in essa,
separazione tra momenti di apprendimento e
momenti di educazione, momenti della nozione e momenti della sapienza. In modi diversi, tutto concorre all’unico scopo. Le singole discipline, infatti, non presentano solo conoscenze da acquisire, ma anche valori da assimilare e verità da scoprire2.
Questo esige un ambiente che non si precluda, ma al contrario si apra con fiducia intellettuale alla ricerca della verità. Il nostro tempo è
snervato dalla inflessione debole del pensiero,
che spesso declina fatalmente in disilluso scetticismo. La visione cristiana della scuola non
vi contrappone una verità declamata, ma la
passione per la ricerca, il gusto del sapere che
si allarga e si approfondisce, la gioia della sco-
Christifideles Laici (1988) n. 44.
Cfr CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola Cattolica (1977), n. 39.
23
perta e della contemplazione del creato; un sano e costruttivo senso critico, antidoto sicuro
contro le suggestioni dei fatalismi, pragmatismi, credulismi e fondamentalismi, che, paradossalmente, si diffondono proprio nell’era
dell’uomo tecnologico. La tensione di ricerca
della verità è distintivo e atmosfera culturale e
ha una intrinseca qualità di evangelizzazione.
Perché è porta aperta all’incontro con Dio.
La scuola cessa di essere il luogo pedante della
nozioni slegate o quella funzionale delle acquisizioni ‘utili’, e si distingue per la capacità
di cogliere le dinamiche profonde della storia
e le pieghe riposte degli eventi e dei fenomeni
umani: questo dà profilo e spessore alla sua
identità culturale. Essa, dunque, si configura
secondo una concezione di scuola intesa «come luogo di formazione integrale attraverso l’assimilazione sistematica e critica della cultura.
La scuola infatti è luogo privilegiato di promozione integrale mediante l’incontro vivo e
vitale con il patrimonio culturale»3.
Questo intensifica la capacità di dialogo culturale. L’identità chiara e manifesta non comporta atteggiamento pregiudiziale di contrapposizione e conflitto. È improprio e falsante,
infatti, porre in alternativa identità e dialogo:
ogni dialogo autentico e fruttuoso comporta
chiara coscienza della propria identità, mentre
viene svuotato e tradito dalle mimetizzazioni e
dagli irenismi di compromesso. La comune
preoccupazione per la formazione degli alunni
costituisce piuttosto fattore consistente di incontro e relazione costruttiva, pur nella differenza delle prospettive, inevitabile in una cultura segmentata e plurale.
In essa l’alunno apprende ed esercita la capacità di interpretare gli avvenimenti della esistenza quotidiana, esercitando un sapiente discernimento nei confronti delle agenzie informative; sviluppa l’attitudine ad accostare e in3
Ivi n. 26
24
teriorizzare le eredità storiche e culturali come
luoghi preziosi di significato per la vita; assume uno sguardo penetrante che si spinge oltre
l’immediatezza delle contingenze e si apre su
orizzonti più compiuti di significato. È in
questo contesto che trova rilievo l’insegnamento della religione cattolica, che deve sempre più
configurarsi e sapersi presentare secondo rigorosi e convincenti profili culturali.
Problematicità pedagogica
Nel contesto culturale odierno, il riferimento
della scuola alla educazione, diffusamente riconosciuto a parole, suona di fatto molto problematico, per la evanescenza sfuggente dei significati e la sfumata latitanza dei riferimenti:
l’appello generico ai valori, infatti, ottiene ampio e facile consenso, ma a prezzo di un pericoloso appannamento dei contenuti. In una
situazione fortemente segnata da un pluralismo divaricato e non di rado conflittuale, la
scuola tende a ripiegare in un presunto neutralismo, dove alcune eredità culturali della
modernità razionalista trovano paradossale
consonanza con la recente teorizzazione debole del pensiero.
Tale asserita neutralità snerva il potenziale
educativo della scuola e si riflette negativamente sulla consistenza delle identità dei soggetti. Benché si sia fortemente attenuata, nell’odierno segmento della modernità declinante, la fiducia illuministica nella bontà ‘naturale’ dell’uomo e quindi nella sua spontaneità e
creatività primigenie, non si è fatta strada l’esigenza di ancorare l’educazione a un saldo
ethos condiviso; al contrario, si è proceduto a
restringerne sempre più i parametri normativi
e veritativi di riferimento.
In realtà, il residuale ottimismo illuministico
che tributa al libero gioco delle forze in campo una autogena capacità costruttiva mostra il
tipico carattere della proiezione ideologica. La
cultura, quella scolastica anzitutto, coinvolge
sempre una determinata – anche se spesso non
dichiarata – concezione dell’uomo e della vita; e
la scuola, di fatto, ha sempre valenza educativa
(positiva o negativa): non si può quindi restare indifferenti di fronte al ruolo così rilevante
che essa riveste nella formazione dei ragazzi e
dei giovani. Il prevalere, invece, della visione
di pretesa neutralità, conduce di fatto a forme
di socializzazione manipolatrice ad opera delle
agenzie prevalenti sul piano emotivo-simbolico, con la conseguente creazione di personalità fragili e instabili.
Nel recente passato, le stesse scienze pedagogiche sono apparse più inclinate sul versante
della ricognizione fenomenologica e della pratica didattica, che non su quello della valenza
propriamente educativa, centrata su valori e
orizzonti forti di significato. Anche le discipline filosofiche e teologiche sono apparse, a
questo riguardo, piuttosto latitanti.
Sullo sfondo, si coglie l’influsso negativo prodotto dall’insistito ostracismo della questione
antropologica dalla cultura pubblica, e del suo
confinamento, in figura esistenziale indebolita, nello stretto recinto del privato. Alla pretesa neutralità scolastica che ne consegue, corrisponde, inoltre, la pratica rimozione, dal campo della cultura e della educazione, del riferimento religioso, respinto nella sfera del privato.
Una corretta prospettiva pedagogica, al contrario, non si accontenta di una impostazione
strumentale, ristretta entro il perimetro della
ricerca dei mezzi; essa è chiamata a spaziare
nel territorio più decisivo dei fini: non si occupa solo del ‘come’, ma anche del ‘perché’;
evadendo di fatto dalle strettoie che ne contrabbandano la scientificità al prezzo di una
presunta neutralità culturale e di una illusoria
oggettività scientifica.
4
E viene superato il fraintendimento di una società culturalmente asettica, mentre la dimensione religiosa appare efficacemente come
punto di intersezione tra la concezione antropologica e quella umanistica della cultura: «È
tempo di comprendere più profondamente
che il nucleo generatore di ogni autentica cultura è costituito dal suo approccio al mistero
di Dio, nel quale soltanto trova il suo fondamento incrollabile un ordine sociale incentrato sulla dignità e responsabilità personale…»4.
La dimensione religiosa, infatti, non è soltanto un tema squisitamente teologico, ma costituisce fattore qualitativo dell’esperienza vitale.
In tal modo il processo educativo recupera
quella unitarietà che impedisce la dispersione
nei rivoli delle diverse conoscenze e acquisizioni, e mantiene al centro la persona, nella complessità dinamica della sua identità trascendentale e storica. Se è vero, infatti, che il processo educativo non è determinabile per mera
applicazione deduttiva dai valori e dai principi
generali, è altrettanto vero che non può essere
abbandonato alla empirica e frammentata
emergenza del momento. Esso non ha luogo
in assenza di significati e di valori oggettivi: li
assume, piuttosto, come riferimento antropologico normativo esplicito, e, ponendoli entro
le coordinate di una specifica situazione, li fa
agenti efficaci di una elaborazione pedagogica
non generica e astratta, ma contestuale e culturale. L’educazione, allora, non si riduce a un
insieme di procedure e di tecniche, benché ne
faccia uso ampio e sapiente, ma si qualifica
anzitutto come trasmissione testimoniale e argomentata di valori, entro il quadro di una elaborazione pedagogica umanistica. Può essere
davvero educativa, del resto, la comunicazione
meramente cumulativa di contenuti e nozioni, magari ristretti nelle maglie di una specializzazione esasperata? La restrizione funzionale
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995, 4.
25
e strumentale degli obiettivi pedagogici della
scuola si mostra, alla prova dei fatti, come
scarsamente efficace anche ai fini economici e
produttivi per cui è stata invocata: non è la
qualità pedagogica, infatti, a rallentare la correlazione dell’insegnamento con la società,
quanto piuttosto quella impostazione pragmatica che mortifica le relazioni e svuota di significato l’attività dell’uomo.
Infatti, solo respingendo la tentazione di una
convivenza passiva dei diversi orientamenti e
della loro pretesa neutralità quanto alla valenza educativa e al sistema dei significati è possibile superare la frammentarietà e la dispersione, riconducendo percorsi e obiettivi scolastici
a un quadro di riferimento unitario adeguato.
L’educazione richiede apporti diversificati, ma
non divergenti; espressivi, ma non dispersivi:
un concorrere armonico che struttura la personalità in maniera non rigida, ma ugualmente robusta. In una società segmentata, plurale,
incerta e dispersa, assume inoltre rilevanza decisiva la formazione al pensiero critico, come
percezione esperienziale e atteggiamento positivo di libertà. Questa prospettiva è confermata dalla più attenta esplorazione pedagogica.
La tematica e la dimensione religiosa appartengono pertanto ai saperi essenziali della educazione e formazione della persona.
L’impegno della comunità cristiana
La sensibilità delle nostre comunità cristiane
sul territorio rimane, in relazione alla scuola,
piuttosto vaga: «proprio nelle parrocchie generalmente la preoccupazione per la scuola non
esiste, salvo episodicamente. Non c’è traccia
della scuola nella catechesi, nella predicazione,
negli impegni concreti della comunità»5. Un
giudizio troppo drastico? Piuttosto, una seria
autocritica volta a promuovere una presa di
coscienza necessaria, che a distanza di quasi
5
CEI, Fare pastorale della scuola oggi in Italia, Roma 1990, n. 27b.
26
vent’anni non sembra aver perso la sua validità.
Ciò non dipende anzitutto da negligenza,
quanto, piuttosto, da una precomprensione teologica scorretta che assegna al campo della pastorale solo o prevalentemente l’azione ecclesiale ad intra. Magari riducendola ulteriormente alla declinazione (nominalisticamente
variabile) del trinomio ‘catechesi – liturgia –
carità’,
Al contrario, il mistero della Chiesa comunione e missione comporta la chiara delineazione
ad intra e ad extra come costitutiva dell’azione
pastorale. La pastorale ordinaria, perciò, non
si riduce in alcun modo alle configurazioni
datate del suo svolgersi in contesto di omogeneità cristiana, ma si determina di volta in
volta a partire dalle esigenze costitutive che le
sono proprie, in relazione alla situazione socioculturale. La ‘nuova evangelizzazione’ esprime con formula felice tale necessario spostamento di baricentro dell’azione pastorale. Il
dovere fondamentale dell’evangelizzazione è
andare incontro all’uomo perché accolga il
dono della salvezza. La scuola è capitolo importantissimo di questa missionarietà rinnovata: essa, infatti, è luogo decisivo della formazione della persona. La pastorale della scuola è
servizio alla salvezza dell’uomo; è proprio a
partire da ciò che è autenticamente umano
che i cristiani potranno rendere testimonianza
esplicita a Cristo nella vita della scuola, mostrando come la fede in Lui arricchisca la vita
dell’uomo in tutte le sue manifestazioni positive e la riscatti dai decadimenti che la insidiano.
Se la realtà scolastica va rispettata per la sua
natura di istituzione pubblica a cui accedono
tutti i cittadini, verso di essa la comunità cristiana oggi guarda con rinnovato interesse,
con lealtà e con spirito democratico e costrut-
tivo. Nessun cristiano, nessuna comunità ecclesiale può considerarsi estranea allo sforzo
per far sì che la politica educativa rifletta il più
possibile, nella legislazione e nella pratica, i
principi cristiani sull’educazione.
Ecco, dunque, la necessità di ravvivare un’organica pastorale della scuola che, raccogliendo
le numerose esortazioni emanate in materia
dal Magistero, si traduca in itinerari articolati
ed incisivi di impegno e sappia offrire il doveroso sostegno a tutti gli operatori del settore.
Come dare vitalità ed efficacia a questa consapevolezza pastorale? Quali strutture e iniziative (concrete e fattibili!) promuovere? Con
quali forme e modalità, così che non appaia
una indebita ingerenza, ma un contributo di
alta qualità?
Nella complessità dell’ora presente, è necessario dischiudere una nuova sensibilità delle comunità parrocchiali e diocesane, perché si sentano chiamate in prima persona a prendersi
cura dell’educazione e della scuola. È necessario dischiudere orizzonti più vasti e rilanciare
la pastorale della scuola come uno dei percorsi da
privilegiare per la nuova evangelizzazione nel
nostro Paese.
Ciò comporta una nuova sensibilità pastorale,
una vera e propria conversione pastorale.
La dislocazione delle istituzioni scolastiche sul
territorio chiede anche concretamente l’integrazione della pastorale parrocchiale (sempre
necessaria) in un quadro più idoneo, zonale e
diocesano. L’attenzione alla scuola, infatti,
può dare frutti consistenti solo se viene compresa e posta nel contesto di una pastorale organica della comunità cristiana, e specificamente, nell’ambito dell’azione della comunità
per l’educazione dei suoi figli.
Essa riceve il respiro ampio della ecclesialità
dall’inserimento nel tessuto dell’azione pastorale della Chiesa locale; reciprocamente, contribuisce in maniera vitale a sostanziare la di-
mensione culturale della pastorale sul territorio. Questa reciprocità pastorale feconda è oggi requisito indispensabile dell’azione ecclesiale. La situazione si presenta variegata, non priva di problematicità.
Spesso si registrano incertezze sul piano teoretico e indebolimenti su quello educativo concreto. In molte realtà ecclesiali, la scuola non è
sentita come parte integrante della realtà pastorale, campo ‘naturale’ e imprescindibile di
viva attenzione della comunità cristiana sul
territorio. Come per altre istituzioni ecclesiali,
la specializzazione (per altro ineludibile) rischia di generare estraneità e, in qualche modo, disaffezione; o, comunque, delega. La sensibilità delle comunità cristiane sul territorio
appare, a questo proposito, piuttosto vaga, o
appannata.
Deve pertanto essere confermata e irrobustita
là dove è ancor ricca di esperienze e patrimoni
secolari, e tuttavia subisce inevitabilmente
l’impatto corrosivo di ideologie destabilizzanti
e, a volte, il disagio di prospettive teologiche e
pedagogiche non corrette. Ed è da incoraggiare e incrementare dove, per diverse circostanze
storiche, è stata e rimane più limitata, spesso
ricondotta alla iniziativa, benemerita e lodevole ma inevitabilmente parziale e frammentata,
di singoli.
Ciò conduce a considerazioni di carattere
squisitamente operativo, non meno essenziali
delle grandi prospettive di riferimento. In particolare, si mostra necessario:
dare attenzione e spazio (psicologico prima
ancora che materiale) alla conoscenza della situazione scolastica sul territorio;
fare oggetto di attenzione e di discernimento i
libri di testo, alle linee di impostazione didattica
dei Docenti, la situazione degli ambienti (‘ecologia’ materiale, funzionale, morale) dove i ragazzi trascorrono tante ore della loro giornata;
prevedere la costituzione di idonei organismi
27
pastorali, perché questa attenzione pastorale
non rimanga circoscritta alla sensibilità di alcuni o a emergenze episodiche;
integrare l’azione pastorale sul territorio: la
scuola è tema tipicamente interparrocchiale, nel
quale si coinvolgono anche opportunamente le
energie di gruppi e movimenti specifici.
Comunità educante e aperta
Grande è l’importanza del clima relazionale e
dello stile dei rapporti: la condizione essenziale del processo educativo è la relazione, anche
se le altre componenti del processo sono
ugualmente necessarie. Perciò i rischi più gravi
per la crescita umana derivano da inadeguate
o insufficienti relazioni personali con adulti significativi nel corso dell’età evolutiva. Le stesse conoscenze comunicate hanno significato
per lo studente se sono poste in un contesto di
reciprocità autentica (non solo strumentale o
pragmatica): nessun guadagno cognitivo, se lo
studente non è posto nella condizione di apprezzare un reale coinvolgimento personale,
verificato nelle sue intenzioni e, soprattutto
nella coerenza degli atteggiamenti, degli stili e
dei comportamenti quotidiani. È quanto comunemente si intende con la figura socio-pedagogica della comunità educante: «La concezione della scuola come comunità, sebbene
non si esaurisca in essa, e la coscienza diffusa
di questa realtà è una delle conquiste più arricchenti dell’istituzione scolastica contemporanea»6.
La prospettiva della comunità educante è portatrice di valori rilevanti. Essa si presenta come figura capace di sintetizzare, in valenze pedagogiche largamente condivise, alcuni aspetti
fondamentali, che qualificano da un punto di
vista cristiano la scuola nel nostro tempo. Appare quindi la forma idonea a realizzare l’obiettivo di una scuola come luogo di forma6
zione integrale attraverso la relazione interpersonale e l’acquisizione critica della cultura.
La comunità educante opera tanto più efficacemente, quanto più si rafforza nell’ambiente
la volontà di partecipazione. È tale, la comunità educante, quando vengono poste in essere opportune iniziative, atte a interessare i giovani, gli educatori e le famiglie al compito e al
progetto educativo. L’attiva partecipazione
può sbloccare difficoltà sul piano delle relazioni interpersonali e dello stesso apprendimento
scolastico, abitua alla fatica e alla gioia della
collaborazione, dispone al dialogo in cui punti
di vista diversi non solo si confrontano, ma si
arricchiscono reciprocamente e, quando possibile, opportunamente si integrano. Abituare e
abilitare al lavoro in équipe è arte non facile e
richiede perseveranza paziente; ma tanto più
necessaria in un mondo in cui l’anonimato
sociale favorisce il ripiegamento individualistico.
La scuola deve essere anche comunità aperta.
Al proprio interno favorisce un clima di confidenza e spontaneità, dove l’evangelica schiettezza della parola e del tratto stabilisce quelle
condizioni di familiarità che sostengono una
buona relazione educativa, senza peraltro sottrarla a quei caratteri di autorevolezza e ‘asimmetria’ che consentono all’alunno di sviluppare armonicamente e liberamente se stesso. Ciò
permette, inoltre, di evitare che l’alunno (e
anche, rispettivamente, i genitori e i docenti)
si senta isolato, incompreso e, quindi, tentato
di scoraggiamento, di abbandono della frequenza e di abdicazione alle proprie responsabilità.
All’esterno, la scuola stabilisce canali di comunicazione a vasto raggio e senza preclusione alcuna. Essa cerca la collaborazione critica e costruttiva, nell’intento di far progredire il processo educativo verso una verità più piena e
CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Il laico cattolico testimone della fede nella scuola, n. 21.
28
condivisa, nell’intento di non far mancare il
proprio apporto al dibattito culturale e alla
formazione della opinione pubblica: non limitandosi agli aspetti amministrativi, ma puntando a far convergere le diverse istituzioni
nella elaborazione di piattaforme comuni e
condivise sul piano della progettualità educativa.
La comunità educante non si limita quindi a
creare un ambiente gradevole e confortevole e
tantomeno ripiega in forme autoreferenziali di
gratificazione emozionale, ma si sforza di
orientare l’alunno alla socializzazione verso le
altre comunità di cui fa parte o con cui viene
in contatto, e verso l’intera comunità umana.
La scuola è chiamata a respingere la tentazione
di considerarsi come realtà ‘a parte’, e a uscire
da quella separatezza che troppe volte la caratterizza. L’ideazione, formulazione e attuazione
del progetto educativo non è pensabile, infatti, nel recinto chiuso della istituzione scolastica, senza tenere in debito conto le tematiche
macrosociali, che con essa indissolubilmente si
intrecciano.
La scuola cattolica
In questo contesto, la scuola cattolica è chiamata a dare, attraverso il suo progetto
educativo, il proprio contributo allo sviluppo
ed alla crescita di cittadini capaci di servire il
bene comune. Il clima di dialogo e di collaborazione deve basarsi sul mutuo rispetto, sul riconoscimento reciproco del proprio ruolo e
sul servizio comune all’uomo. Con il dovuto
rispetto per gli ordinamenti scolastici delle diverse nazioni e nella legislazione dei singoli
Stati, quando questa sia rispettosa dei diritti
fondamentali della persona, a cominciare dal
rispetto per la vita e per la libertà religiosa. Ma
senza rinunciare per questo alla propria peculiare fisionomia, sul piano sia della impostazione pedagogica complessiva, sia della elaborazione dei programmi: rispetto non significa
infatti omologazione culturale.
Deve essere in ogni caso fermamente respinto,
come contrario alla civiltà giuridica e ai principi della democrazia, il monopolio della
scuola da parte dello Stato, che è chiamato a
garantire e promuovere le istituzioni educative
(a cominciare dalla famiglia) e non necessariamente ad assumerne la gestione diretta.
In questo quadro trova collocazione adeguata
la questione spesso dibattuta – con alternanza
di toni e soluzioni secondo le diverse temperie
socioculturali – del rapporto tra Scuola cattolica e Stato: a partire, cioè, non dalle relazioni
istituzionali, ma dal diritto della persona a ricevere una educazione adeguata, secondo libera
scelta. Diritto cui rispondono, secondo il
principio di sussidiarietà, i rispettivi compiti e
doveri della famiglia, delle aggregazioni sociali
e dello Stato.
Poiché dunque si tratta non di concessione,
ma di un diritto fondamentale dell’uomo e
della sua libertà («non negoziabile»7), lo Stato
ha il dovere di garantirne l’esercizio non solo
7
BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo, 30 marzo 2006: «Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, l’interesse principale dei suoi interventi nell’arena pubblica è la tutela e la promozione della dignità
della persona e quindi essa richiama consapevolmente una particolare attenzione su principi che non sono negoziabili. Fra questi
ultimi, oggi emergono particolarmente i seguenti: a) tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del concepimento
fino alla morte naturale; b) riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra un uomo e
una donna basata sul matrimonio, e sua difesa dai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse
di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo
insostituibile ruolo sociale; c) tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli. Questi principi non sono verità di fede anche
se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo
dalla loro affiliazione religiosa. Al contrario, tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal
compresi perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia stessa».
29
La preghiera di Gesù nel Getsemani. Gli Apostoli addormentati e il rimprovero a Pietro, mosaico della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo.
La fragilità ripresa e rimproverata. Ogni trasformazione sorprende, specialmente se inaspettata e imprevista. Lo stesso muoversi della realtà intorno a noi ci disorienta e ci obbliga a cambiare orientamento per poterla contestualizzare. C’è sempre qualche evento che ci fa sentire stranieri. Lo straniero sa
quanto deve faticare ad approdare sulla terra degli altri e a farsene interprete per conviverci. Pietro qui
si sente estraneo, perché non si è reso conto di ciò che di nuovo sta per accadere e vorrebbe imporre
una quotidianità che è fuori luogo. La sua fragilità è nel non aver saputo percepire la novità dell’evento
e trasformare il suo comportamento, nel non aver saputo convertire la quotidianità nell’eternità degli
eventi che stanno cominciando ad avvenire davanti a lui. Propone il comportamento che avviene in
una notte, quando davanti a lui la notte si è trasformata in un preludio liturgico, in una preghiera ‘sudante’. E soprattutto nel non essersi reso conto che Gesù lo aveva privilegiato rispetto agli altri scegliendolo per esserne testimone. La sua fragilità viene qui ripresa e rimproverata da Gesù. Ma Pietro
ancora una volta si fa supplice ed alza le mani della sua fragilità verso quel Maestro che con la sua mano lo benedice (come si può evincere nella terza scena, qui non riportata, in cui Pietro eleva le sue mani a Gesù che lo benedice).
La preghiera di Gesù nel Getsemani. Gli Apostoli addormentati e il rimprovero a Pietro, mosaico della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo.
La fragilità disincantata degli apostoli dormienti durante la preghiera ‘sudante sangue’ di Gesù. La fragilità di questi apostoli dormienti è nel disincanto, nell’abitudine, nel lasciarsi essere uomini abitudinari. È più umano dormire che vegliare davanti a Dio con la preghiera. Non c’è speranza. Il sonno è la
conseguenza della loro fragilità. È difficile anche essere comprensivi e compassionevoli verso di loro
perché non sanno di non sapere. La fragilità di questi dormienti in fondo non è tanto nel sonno, quando nell’affermare il loro diritto a dormire più che nella debolezza di lasciarsi andare a questa quotidiana
umanità. Un diritto affermato davanti ad un dono e ad un privilegio. È fragile colui che rifiuta il dono
per affermare se stesso. Il sonno li sprofonda in altri mondi, in altre trasfigurazioni la cui responsabilità
non è richiesta. Resistere al sonno non equivale a non dormire, quanto al vigilare e al vegliare. Quante
‘metamorfosi’ dell’umano avvengono intorno a noi e di cui la fragilità della nostra assenza – di svegli
dormienti – ci impedisce di percepire il kairòs e il dono della diversità, del cambiamento, della metanoia?
con proclamazione formale, ma rendendone effettive le condizioni. Si tratta infatti di un diritto originario (diritto della persona e della famiglia) e ribadito dalle attuali esigenze sociopedagogiche dell’educazione e formazione
permanente, impensabile senza l’apporto di
una pluralità di soggetti.
Si pone qui la questione delicata e, in alcune
situazioni cruciale, del riconoscimento economico della Scuola non statale. O, più precisamente, dell’obbligo dello Stato di mettere in condizione le famiglie e le persone di operare nella
libertà effettiva quelle scelte che ritengono necessarie all’armonico e costruttivo sviluppo
della propria personalità e al conseguimento di
favorevoli prospettive professionali e di vita: «i
pubblici poteri, a cui incombe la tutela e la difesa della libertà dei cittadini, nel rispetto della
giustizia distributiva debbono preoccuparsi
che le sovvenzioni pubbliche siano erogate in
maniera che i genitori possano scegliere le
scuole per i loro figli in piena libertà, secondo
la loro coscienza»8. Nessun privilegio, perciò,
ma il giusto riconoscimento di un diritto nativo della persona e della famiglia.
Conclusione
Come si è notato, molto è cambiato, e rapidamente, nel campo della educazione. La famiglia non appare più in grado, da sola, di gestire una problematica educativa complessa e attraversata da pressioni e tensioni molteplici.
Tende quindi a delegare: non per pigrizia, di
solito, ma per avvertita (e sofferta) sensazione
di inadeguatezza. Ma anche la scuola, cui per
prima la famiglia tacitamente si rivolge, non è
più riconosciuta, oggi, quale agenzia simbolicamente forte e capace di integrare le dinamiche aggrovigliate dei messaggi e degli impulsi,
caratterizzate da quella dispersione e marcata
frammentazione, che rende difficile individuare riferimenti personali e istituzionali si-
32
gnificativi per i processi di formazione della
identità della persona.
Ciò impone, certamente, una ridefinizione
dell’intero sistema formativo e, al suo interno,
del ruolo specifico della scuola, nella sua valenza di educazione e socializzazione: né la
scuola può essere pensata separatamente dalla
altre agenzie educative e dall’intero contesto
socioculturale, né può essere gestita come corpo separato. Il che impone una serie di considerazioni e problemi di non piccolo momento, nei rapporti tra educazione ed economia,
politica, cultura, integrazione sociale.
Questa complessità, che si ripercuote anche
sulla scuola, può facilmente ingenerare senso
di sfiducia e di stanchezza. Tocca alle comunità cristiane affrontare le nuove e gravi responsabilità che la temperie socioculturale
impone alle istituzioni scolastiche, senza
permettere che essa decada in luogo di stanche ripetizioni o diventi area di parcheggio,
in attesa di collocazione professionale; con
una presenza qualificata sul territorio e con
la disponibilità a condividere con le altre
realtà socioculturali l’assillo di una autentica
crescita e maturazione della persona nell’orizzonte della fede. La comunità cristiana si
fa così protagonista di dialogo sereno e costruttivo con la comunità civile, ai diversi livelli.
È di grande importanza, perciò, che, nel
quadro di una forte integrazione pastorale
della scuola, gli insegnanti – in particolare gli
insegnanti laici – siano visti come espressione
della vitalità della comunità cristiana, di cui
fanno parte e a cui sempre fanno fondamentale riferimento, con una ripresa di dinamismo e di impegno che ne qualifichi il rilievo
ecclesiale della figura. Chi opera nella scuola
esprime una specifica vocazione cristiana e
una specifica partecipazione alla missione
della Chiesa.
La spiritualità dell’IdR
di Paolo Tammi
• è soggetto alla valutazione e al “gradiPossiamo considerare la spiritualità da due
mento” degli alunni, che lo sottopone
punti di vista. Uno è più “religioso”: spiriad un certo stress legato alla competituale è ciò che riguarda lo spirito, l’anima
zione; questo è un elemento che – a dif(psyché) intesa come sostegno della persona
ferenza dei paesi ane sua componente
glosassoni – si appliessenziale, il princica nel campo della
pio incorporeo che
Don Paolo Tammi, parroco romano e IdR
scuola solo ed escluci lega direttamente
da numerosi anni, ci presenta un “breviario
sivamente all’IdR
a Dio come Assoludella spiritualità dell’IdR” che può interes• è considerato natuto. L’altro è più
sare non solo i sacerdoti, ma anche i laici.
“umanistico” o “lairaliter l’«insegnante
L’articolo riprende, con minime modifiche
co”: spirituale è
amico»,
l’educatore
ed integrazioni, i contenuti della relazione
qualcosa che riguarda «tiro un respiro di
tenuta il 1° marzo scorso presso il Vicariato
sollievo», quando non
da la ragione, cioè
di Roma dinanzi ai membri della «Comaddirittura l’«edul’insieme di quelle
missione per la pastorale scolastica e l’IRC»
catore baby sitter»;
facoltà umane che ci
della Conferenza Episcopale del Lazio.
• last but non least –
permettono di relaè l’unico che insegna
zionarci agli altri, al
una materia nella quale non può non
mondo, alla cultura, all’etica e via dicendo,
farsi strumento di un pensiero forte: isticioè – in breve – alle altre persone in quanto essere umani.
tuzionalmente egli insegna una materia
Ebbene, entrambe le dimensioni sono es“forte”, insegna “certezze”. Tutti gli altri
docenti sono strumenti del sapere, lui è
senziali all’IdR. Affermiamo dunque che
strumento di Qualcos’altro.
un IdR non può e non deve essere solo un
Per questi motivi è impensabile un IdR che
mestierante. Non può occupare posto di lanon abbia e non coltivi una dimensione
voro solo perché tiene famiglia, non può
spirituale, una spiritualità nel senso religioessere privo di una sua spiritualità, vitalità
so e nel senso laico. Una spiritualità che deinteriore, fecondità. Questo è vero per un
ve edificarsi a tre livelli:
educatore di qualunque tipo o disciplina: a
1) Spiritualità dell’uomo di fede, perché
maggior ragione per l’IdR.
l’IdR è un credente;
Cosa rende particolarmente importante e
del tutto singolare la spiritualità caratteri2) Spiritualità dell’educatore, perché l’IdR
stica dell’IdR?
è un maestro e testimone
• la sua posizione è istituzionalmente de3) Spiritualità del docente, perché l’IdR è
bole, e dunque ha bisogno di sostegno
un uomo di cultura.
personale;
Questi tre livelli sono espressi in un ordine
33
di importanza decrescente; tuttavia penso
sia più utile partire dal basso verso l’alto,
dall’umano al soprannaturale. Partiamo
dall’uomo di cultura.
In questo senso l’IdR si caratterizza come
uomo curioso e attento. Ci vuole una curiosità nativa, una certa capacità di analisi e
di sintesi, ed in particolare una grande attenzione al mondo in cui vive, in vista dell’integrazione tra fede e vita. Mons. Pietro
Rossano soleva dire che c’è una cultura in
senso oggettivo (bagaglio del sapere umano: “hai una cultura immensa”) e una in
senso soggettivo (capacità di coltivare la
propria persona e la propria storia, preservandola dall’ignoranza): questa è quella più
fedele alla etimologia = colěre se ipsum. È
un primo livello, molto laico, di spiritualità
dell’IdR; ma non è secondario, perché la
cultura dell’insegnante è il suo biglietto da
visita. Gli alunni apprezzano il docente che
«si sta coltivando in modo permanente» e
che si confronta costantemente con il mondo intero in uno scambio aperto e leale.
La motivazione è evidente. La prima salvezza, la prima dignità dell’insegnamento
di religione sta nella cultura dell’insegnante. La scuola non pretende niente di titanico, di gigantesco o di saccente. Piuttosto i
ragazzi tendono a rifiutare questo proporsi.
Ma certo non fa sconti su quell’atteggiamento che, ancora una volta, fa ritenere
che la religione sia collocabile nell’armadio
delle cose a basso prezzo, sia riducibile –
perfino dentro la scuola – a favolette o a
devozioni insignificanti.
Quali sono gli strumenti a disposizione per
coltivare questa “spiritualità della cultura”?
Difficile e forse anche inopportuno darne
un elenco esaustivo, dato che le situazioni
personali e scolastiche dell’IdR sono differenti da caso a caso. Tuttavia se ne possono
34
elencare alcuni “universali”. Ci sono strumenti:
• propri dell’insegnamento. Più si vedrà
un IdR divorare testi, libri, riviste, articoli, ecc. che lo mettono a contatto col
vasto mondo della religione e delle religioni, più l’insegnamento sarà intrigante e interessante;
• propri della cultura in generale. Credo
che da questo punto di vista la conoscenza della storia e la letteratura siano
tra gli ambiti più in linea con ciò che
insegniamo (senza ovviamente escluderne altri);
• propri dell’attenzione al mondo, in particolare il mondo dei giovani. Dunque un
IdR che sa dove vive, e soprattutto che
vive anche lui le tensioni del mondo, le
assapora, sa trarne conclusioni, elaborare sintesi personali e poi proporle con
una certa autorevolezza e credibilità.
Sulla base di un costante impegno in linea
con queste indicazioni dovrebbe anche essere effettuata la selezione dei candidati all’insegnamento della religione.
Il secondo livello di spiritualità vede l’IdR
come maestro e testimone.
Tutti coloro che insegnano nella scuola italiana sanno bene che questo servizio comporta una serie non indifferente di frustrazioni. Una volta era più facile. I ragazzi di
oggi arrivano alla scuola sempre più come
“prodotto di fabbrica non finito”. Escono
da una fabbrica incompleta e di scarsa qualità (la famiglia) e arrivano a noi senza alcun rodaggio (non hanno provato la vita) e
senza chiarezza sugli obiettivi (non sanno
cosa vogliono fare e realizzare), anche dal
punto di vista scolastico. Molti insegnanti
rifiutano il ruolo dell’educatore, e hanno
scelto per una freddezza emotiva totale, impermeabile ai sentimenti. In troppi hanno
La lavanda dei piedi, mosaico della basilica di San Marco a Venezia, XIII secolo.
La fragilità stupìta. Durante la lavanda dei piedi di Gesù agli apostoli (Gv 13,1-20) Pietro porta la sua
mano destra alla fronte. È sconcertato. Non si aspettava di vedere certe cose. Lo stupore è nel non aver
previsto. Nell’essersi fatto cogliere sprovveduto, sorpreso, anticipato da una modalità che non avrebbe
mai potuto prefigurare. Ed è in questo stupore passivo che Pietro esprime tutta la sua ‘simpatica’ fragilità. Che non è debolezza. Ma capacità di saper portare la sua mano destra alla fronte e dichiarare il suo
stupore. Con quella lealtà e sincerità che lo caratterizza. È lo stupore dei giusti, la cui fragilità è nell’accettare di essere sorpresi dal mistero e nel dichiarare che oltre ogni profezia umana e prefigurazione
mondana il mistero di Dio infrange la logica e la stupisce, la stordisce, la rende friabile. Senza umiliarla. Con questo gesto Pietro confessa la sua fragilità di uomo e professa la sua fragilità di credente, la cui
forza è asimmetrica alla sua fragilità perché dal suo Maestro viene la verità che onora il dubbio e infrange l’errore. Perché quella di Pietro – nonostante tutto – è una fragilità pensosa, stupefatta, che ora,
soltanto ora, ma almeno da ora, lo interroga. Ed è lo stupore di chi si lascia sorprendere da un amore
così grande come quello del suo Maestro e Signore e dichiara la sua fragilità a comprendere e a capire.
Qui la fragilità dell’uomo è sovvertita e stupìta dalla ‘stoltezza’ di Dio: «Se dunque io, il Signore e il
Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14).
delegato l’aspetto “educativo” alla quantità
di psicologi che affollano le scuole, con un
grave errore: lo psicologo non è educatore.
Lo psicologo è al massimo un interprete e
un fornitore di strumenti di analisi, non un
educatore! L’IdR che invece non abbandona il ruolo di educatore, ma anzi lo svolge
con competenza e responsabilità, “acquista
punti”, sia con gli alunni che con i genitori. Cosa deve fare allora l’IdR?
• Innanzitutto è uno che sa parlare. Abbiamo eliminato il parlare, forse stanchi
delle troppe parole. Ora, è vero che la
comunicazione non verbale è importantissima, ma la parola è il veicolo ordinario dell’educazione. La testimonianza
sono anzitutto parole. Parole bene dette, sobrie, misurate: ma un maestro si
riconosce da come parla. Non è questione di eleganza o retorica. Ovviamente
conta anche il come si parla e soprattutto anche il tacere a tempo opportuno.
Qui rientra anche l’aspetto del dialogo
con le differenti opzioni di vita o con
quelle di non fede. Dialogo che deve essere prudente e sincero (già lo diceva
Paolo VI), ma soprattutto non deve diventare sciocca moltiplicazione di parole per dimostrare che “diciamo tutti la
stessa cosa”.
• Poi è uno che sa vedere, anzi uno che sa
scrutare cosa accade, sa cogliere i segni,
sa rendersi conto delle situazioni. Questo non significa spiritualità dell’indulgenza o del buonismo. Significa rendersi conto di chi hai davanti senza illudersi né scoraggiarsi. Significa cogliere al
volo le situazioni. I ragazzi amano essere
guardati e capiti “dentro” (l’em-blèpein
del giovane ricco: cfr Mc 10,21). Specie
i più difficili. Non danno molte soddisfazioni, ma capiscono chi li capisce.
36
• Poi è uno che sa guidare, cioè autorevole; talvolta anche autoritario, ma soprattutto autorevole nel senso che si assume
responsabilità.
• Infine l’IdR è uno che sa faticare. In poche parole, che non sia un lavativo. Fama che spesso gli IdR si guadagnano,
purtroppo, non senza ragione…
Queste quattro capacità (o almeno le prime
tre) esprimono proprio le tre grandi assenze
della famiglia di oggi, che non dialoga (perché è impreparata e spesso ignorante), non
sa vedere se non in ritardo (non ha il tempo di vedere, e se casomai si accorge di
qualcosa, percepisce solo sintomi generali,
ma non sa vedere il perché), non ha il coraggio di guidare i figli (perché l’istanza libertaria ha ormai invaso il campo educativo, proponendosi come modernità).
Gli strumenti fondamentali per diventare
buoni testimoni? Soprattutto amare la vita.
Migliore è il rapporto con la vita, migliore
è la capacità di educare. Don Bosco era il
perfetto educatore perché univa all’appassionata gioia di vivere la serietà ed il rigore
degli obiettivi.
Da ultimo, l’IdR non può non essere uomo
di fede. Forse si potrebbe ridurre tutto qui.
E non sarebbe una riduzione! I ragazzi, i
genitori, ma anche i colleghi vogliono l’uomo di fede. Uomo di entrambe le fedi: fides quae creditur e fides qua creditur, cioè
che conosce bene il deposito della fede e
che si abbandona liberamente fiducioso a
Dio. Il card. Martini disse di Giovanni
Paolo II: «quest’uomo non ha la fede, è posseduto dalla fede». Questo è il campo in cui
si chiede maggiormente una costruzione
graduale, seria e impegnativa. Può sembrare irriverente, ma queste sono questioni decisive: davvero l’IdR si alimenta con gli
strumenti della fede (che sono poi quelli
ordinari e tradizionali: la pratica dei sacramenti, della lectio, ecc.)?
E quanto lavoro da fare ancora per una piena integrazione vita/fede, cioè ciò che concerne le questioni morali!… Qui è in gioco
l’immagine di Dio. Che significa anche il
rapporto con Dio, l’intimità con Dio. Meglio ancora: è in gioco in quale Dio si crede: se il Dio di Gesù Cristo risorto, o una
delle tante divinità che affollano il
pantheon pagano dei giorni nostri. E da
cosa si vede la fede? Da cosa si vede che
uno è un vero credente?
• L’IdR credente è sicuro che la fede sia la
vera risposta per l’uomo. È l’uomo che
dice: Credo, aiutami nella mia incredulità! Dunque uno capace di convincere
della piena cittadinanza di Dio in questa vita e in questa storia.
• Ma è anche una persona sufficientemente serena, anche se tormentata e
sempre in ricerca. Mediamente è uno
contento, non lamentoso, non insoddisfatto. Diciamo una persona che possiede la speranza.
• Infine l’IdR credente si rivela coraggioso,
disposto a una specie di jihad (in senso
positivo) cristiana, che gli viene dalla
certezza di cercare proprio perché ha già
trovato.
In conclusione, come passare da dover essere
all’essere? Come accompagnare gli IdR nell’acquisizione di una vera spiritualità? Forse
proprio ora, con il concorso alle spalle e
senza più la necessità di fare corsi di aggiornamento didattici, è possibile aprire una
nuova stagione in cui proporre una vera e
propria formazione spirituale ed ecclesiale.
Ci vuole una maggiore audacia da parte degli IdR, anche sul piano della fede profetica, della fede personale e profonda. Bisogna anche ricordare che c’è una professionalità che è santità. E questa è la spiritualità
specifica dei laici, che si acquista con l’impegno e la fatica.
37
Marc CHAGALL, 1887-1985, La passeggiata, San Pietroburgo, Museo Statale d’Arte.
La fragilità volante. La fragilità è una virtù identitaria per chi si riconosce di essere uomo. Ed una prerogativa della relazione umana. Non per questo induce alla debolezza. Anzi innalza a nuovi equilibri.
Le mani non rafforzano le due fragilità, ma soltanto non estraniano la reciprocità. «Il piano segreto del
Santo Benedetto, il Signore di tutti gli esili, avrebbe mostrato a Chagall, profeta dei colori, che nulla vi
è di più sublime dell’uomo fragile e goffo che vola perché si protende verso una spiritualità senza garanzie ai limiti dell’impossibile, dove l’Onnipotente fa capolino dall’angolo della casa di Ahasverus, il
cordonnier de Jérusalem non più l’ebreo errante della maledizione “cristiana”, ma il goles yid, l’ebreo santificato dall’esilio e dove Gesù è anch’egli “solo” un goles yid con la sua veste rituale, crocifisso insieme
al suo popolo dagli antisemiti odiatori dell’uomo nella sua più intima ed indifesa verità». (Moni Ovadia)
L’identità e la cultura tra processo di
crescita e formazione della personalità
di Flavia Posabella
L’effettiva processualità che caratterizza queIl gruppo psicopedagogico quest’anno si è
sto stadio dello sviluppo è proprio la comparoccupato di trovare delle definizioni e dei
sa ed il consolidarsi di un compito maturatipercorsi condivisibili sul tema della formavo non indifferente,
zione dell’identità,
cioè la formazione di
avendo come scopo
una chiara identità
ultimo quello di troCome abbiamo già fatto lo scorso anno (cfr
vare spunti di riflesconsolidata. Correlato
RSC 2006/1, pp. 68-70), presentiamo i risione su di un argocon il processo di desultati del gruppo di ricerca psicopedagogica
guidato dalla prof. Posabella. Quest’anno la
mento molto discusfinizione dell’identità
ricerca si è concentrata sul tema del delicato
so in questo momene di differenziazione
rapporto tra identità personale e accogliento: l’integrazione muldal gruppo familiare
za
del
diverso.
Il
testo
completo
dei
singoli
c’è quello dell’acquisiticulturale e religiosa.
lavori, qui brevemente riassunti, è disponizione della competenSi è partiti dalla nebile
sul
sito
www.diocesidiroma.it/scuola.
za sociale che permetcessità di dover tratte all’individuo di
tare l’argomento delsentirsi parte di un altro gruppo più grande:
l’identità come sviluppo della personalità a
la società. «La competenza sociale implica il
tre livelli: personale, sociale e morale.
riconoscimento di sé stesso come uno fra gli
Brevemente potremmo definire l’adolescenza
altri, la capacità di entrare in relazione con gli
il periodo in cui finisce e si definisce il proaltri, sia di altre generazioni (rapporto genitogressivo sviluppo dell’identità. È l’età del
ri-figlio), sia della stessa generazione (rapporcambiamento: la parola adolescere significa in
to con i pari). (...) La competenza sociale rilatino «crescere», adolescenza quindi indica
chiede una certa comprensione, implicita o
«crescere verso la maturità» o comunque «diesplicita, della struttura della società di cui
ventare adulto». Tra l’infanzia e l’età adulta si
l’individuo fa parte; delle funzioni dei diffesitua questo periodo di passaggio che come
renti ruoli che l’individuo può ricoprire o con
fenomeno universale ha in sé la caratteristica
cui può interagire all’interno di quella strutdi essere segnato da grandissimi cambiamentura e dei costumi prevalenti e dei valori che
ti fisiologici e anatomici; dal dover assumere
governano le relazioni tra i ruoli» (Mc Gurk).
uno status sociale; dal dover acquisire nuove
Quindi una competenza che sottende uno
responsabilità, valori ed indipendenza. Tutto
sviluppo completo in tutte le aree: cognitiva,
ciò comporta la sperimentazione di un nuofisica, personale e sociale. In questa prima
vo modo di adattarsi a queste nuove richieste
parte cercheremo di comprendere come
e disfarsi pian piano dei legami familiari,
cambiano e si strutturano le relazioni intertanto da potersi staccare da essi e diventare
personali e sociali (la famiglia, gli amici,
un individuo adulto e libero.
39
ecc.) e seguire l’evoluzione della formazione
dell’identità, sapendo che l’adolescenza più
di altre fasi dello sviluppo è segnata appunto
dal muoversi e dal contribuire di moltissime
concause che faranno di un ragazzo un individuo adulto e sociale. Erikson descrive la
formazione dell’identità utilizzando la descrizione del “pensiero operativo formale” di
Piaget – la capacità cioè di prendere il proprio pensiero come oggetto e ragionarci sopra – come momento fondante del periodo
adolescenziale. Inoltre afferma che questo è
un momento di passaggio, in cui l’individuo
vive la crisi d’identità che si evolverà in maniera positiva o negativa a seconda della modalità con cui nel periodo infantile egli ha
integrato i diversi elementi di questa. Ma il
superamento della crisi dipenderà anche dal
modo in cui la società permetterà all’adolescente di sviluppare o integrare le diverse
tappe di questo sviluppo, pena la strutturazione di una identità confusa che può diventare una crisi d’identità, ove i confini con la
patologia non sono marcati (Erikson).
Ma possiamo chiederci come si prepara questo processo? Dove rintracciarne le radici?
Abbiamo detto che attraverso le esperienze
che, prima bambino e poi preadolescente,
l’individuo fa all’interno delle relazioni significative (famiglia, scuola, gruppo dei pari) saranno le basi di un modellamento successivo. Da qui l’importanza di rintracciare i
contesti educativi, etici e relazionali su cui si
fonda una chiara identità, che nell’incontro
con altre realtà culturali o religiose, può divenire un’occasione di allargare e costruire
in maniera più integrata, già nelle fasi precedenti, un’identità tesa all’accoglienza delle
diversità. Ma per accogliere la diversità bisogna definire sia cosa è la cultura e sia qual è
l’atteggiamento usuale che si assume nell’incontro con altre culture.
40
Definisco cultura come «un insieme di linee
guida… che gli individui ereditano come
membri di una società particolare e che indica loro come vedere il mondo, come sperimentarlo sul piano affettivo e come comportarsi in relazione ad altre persone, alle
forze soprannaturali o agli dei ed all’ambiente naturale» (Cecil Helmann). Penso sia
molto utile quindi una traduzione culturale,
cioè lo sforzo di tradurre e lavorare sulle differenze (invece che tollerarle), che può incoraggiare la comunicazione e la curiosità.
Non è facile però prepararsi a questo incontro. Infatti in genere vi sono quattro modi
di porsi nel confronto con altre culture:
1) la posizione etnocentrica, ovvero interpretare le differenze peculiari solo rispetto
alla diversa etnia; il limite è quello di
avere una nozione stereotipata dei significati condivisi all’interno dello stesso
gruppo etnico;
2) quella universalista, dove prevale la considerazione della similarità di ogni famiglia
del genere umano, ovvero asettica rispetto al valore della cultura;
3) quella particolarista, dove ogni famiglia è
considerata un nucleo a sé stante, dove
cultura ha un significato peculiare per
quella specifica famiglia;
4) infine quella multidimensionale che offre
un approccio pluralistico e comparativo
della cultura, ovvero creare uno spazio di
incontro per forgiare un linguaggio comune sulla base delle visioni condivise
del mondo, dei significati e dei comportamenti adattivi (Falicov). Pur mantenendo una netta appartenenza alla propria cultura definita, attraverso concezioni, lingua e modelli di comportamento
condivisi, che è il necessario punto di riferimento per un confronto che alimenta
un senso di identità reciproco.
Troveremo certamente degli spunti importanti per ragionare sia sulla nostra posizione
nel confronto con le altre culture e religioni,
sia nel nostro modo di entrare in relazione
con i bambini e gli adolescenti che si trovano ad oggi in un difficile percorso di integrazione: pionieri di una società multietnica e
primi attivatori di un dialogo interreligioso.
Potremo anche riflettere sulla possibilità di
costruire insieme a loro come insegnanti di
religione un percorso di conoscenza e di sviluppo dell’identità che si ponga come “accogliente” della diversità nel rispetto dei valori
della dignità della persona che abbiamo dentro e di fronte a noi.
esistano al mondo due identità identiche:
ognuno è individuo singolo ed inconfondibile. Ma l’aspetto che è altrettanto importante è quello di sentire che la propria identità è forte, sana, accettabile, buona e di valore. La struttura dell’identità, inoltre, può
nel corso degli anni variare collegandosi ai
diversi sistemi sociali di cui ognuno di noi fa
parte. All’interno dell’identità personale
vengono distinti l’Io ed il Me come elementi
costruttivi del Sé. Da una parte vi è l’Io attivo (il soggetto che conosce), dall’altra il soggetto conosciuto, il Me. Le due dimensioni
sono concomitanti e rappresentano la base
di ogni possibile concezione dell’identità
personale.
Abstracts
Cristina CARNEVALE
Per un’identità religiosa accogliente
La caratterizzazione multietnica della nostra
società vede una compresenza culturale e religiosa. In questo contesto, l’esigenza di una
pedagogia della reciprocità, dell’incontro, del
dialogo, va di pari passo con il bisogno di
educare all’identità. Oggi, infatti, la scuola
italiana si dà obiettivi di interculturalità, ma
cura poco il senso di identità, di appartenenza culturale, che invece è la base per un autentico dialogo nel rispetto reciproco. Ci si
chiede, allora, come, in tutto questo, rientra
l’IRC? Come può un insegnamento confessionale educare la persona ad un’identità che
sia accogliente? Per tracciare almeno i contorni di una risposta a tali interrogativi, la relazione propone alcuni spunti sulle dimensioni educative di un’identità religiosa accogliente.
Luisa CASTRO
La nostra identità
L’importanza dell’identità personale viene
spiegata dall’autrice sottolineando come non
Simone FOLCHI
Persona e relazione
Parlare di identità accogliente significa interrogarsi sul concetto di persona, il quale
ha avuto un ampio sviluppo nella storia del
pensiero filosofico e teologico. Occorrerebbe distinguere in partenza tra persona (il
nostro essere posti nell’essere) e personalità
(il divenire della persona nella storia attraverso un percorso unico e irripetibile, ossia
il far-essere se stesso così come è presentato
nella parabola di talenti). Pensiamo al nostro ruolo di educatori inseriti nelle dinamiche di mediazione e formazione dell’altro, in cui è richiesto spesso implicitamente
un percorso di protezione e custodia dell’essere. Il gioco della responsabilità reciproca significa che siamo posti dentro una
vita di relazione, dove la relazione è fondativa del nostro essere persona. La dinamica
fondamentale della relazione è il desiderio:
«voglio l’altro nella prossimità, ma lo lascio
essere nel suo essere» direbbe Lévinas. L’essere-per-gli-altri mi dà una sorta di piacere
profondo, mi dà vita mentre cerco di spen-
41
dermi nelle relazioni: ho il piacere dell’altro
in quanto mi sta a cuore e non in quanto
mi dà piacere. Questo tipo di relazione presuppone e tende alla comunità che, come
tale, dev’essere fondata sulla comunione:
questo è fare il bene, è amare, ossia essere
dentro una dinamica che viene dalla vita e
porta ad essa.
Tiziana FORZANO
Il Sé e la diversità
Il confronto con la diversità/alterità porta
con sé non solo un fattore di crisi ma anche
un’esigenza ineludibile di riflessione sulla
propria identità, personale e culturale, soprattutto se non ci si vuole arrendere di
fronte agli scenari apocalittici che si sono
progressivamente delineati nel corso del Novecento e che alle soglie del terzo millennio
sembrano essere ancora più foschi (scontro
fra civiltà, adolescenza senza identità, relativismo culturale e morale…). Prima ancora
del “che fare?”, è utile fermarsi e porre attenzione a quei segnali o germi di rinnovamento che possiamo scoprire nella situazione attuale. Già il fatto stesso di interrogarci sullo
status quaestionis può essere interpretato in
questa prospettiva. A ciò si aggiunga che siamo educatori, ed educatori cristiani, e la
speranza appartiene al nostro essere, costituisce il senso della nostra fede, della nostra
esistenza e attività. Punto di partenza di
questa riflessione sull’identità è l’assunto
personalista della persona intesa come auto
ed eterorelazione in una duplice direzione:
verticale (con la trascendenza) e orizzontale
(con gli altri).
Paola LO RUSSO
Riflessioni su “L’identità aperta”.
Riflessioni sul volume di Ignazio Sanna L’Identità Aperta. Il cristiano e la questione an-
42
tropologica (Queriniana 2006). Il testo affronta il problema dell’identità e della sua
formazione, anche attraverso la analisi del
peso che attualmente hanno i fenomeni della globalizzazione e la rivoluzione tecnologica, coniugando poi questi fattori dell’identità, che potremmo definire culturali, con
quelli naturali, determinati dalle concezioni
di corpo, persona, dignità dell’uomo. Identità aperta può significare debolezza, precarietà, impersonalità, o assumere un carattere
forte, universalistico, esemplare, non esclusivo, adattabile ad ogni tempo e ad ogni cultura. Il passaggio dall’una all’altra modalità
viene proposto attraverso il riferimento all’uomo come immagine di Dio, nella considerazione dell’antropologia cristiana: alla
crisi di Dio corrisponde una inevitabile crisi
dell’uomo, per cui una rifondazione della
identità profonda dell’uomo necessita di un
ritrovato senso positivo di Dio e della relazione con il Trascendente. La lettura del testo è fatta alla ricerca di indicazioni che possano contribuire ad una specifica riflessione
sul tema nell’ambito della situazione educativa scolastica.
Gianluca MARLETTA
“Anti-identità” – Il dramma della dissoluzione adolescenziale contemporanea, tra
crisi della persona e soluzioni possibili
L’articolo affronta il problema della dissoluzione dell’identità personale nel mondo giovanile contemporaneo. L’autore passa in
rassegna quelli che definisce “miti di dissoluzione”, ossia le “idee-base” che scandiscono le tappe dissolutive della coscienza e che
vengono ampiamente veicolati dai massmedia e dalla cultura dominante. A questi miti
di dissoluzione vanno dunque contrapposti
dei miti costruttivi, che abbiano forza e fascino e possano conquistare il giovane: non
dunque dei codici morali, che risultano alla
lunga inefficaci, ma modelli emotivamente
coinvolgenti sono la chiave per entrare nel
cuore delle persone, veicolando così un
contenuto di valori in un’ottica dove è l’estetica ad aprire le porte all’etica.
Eleonora MOSTI
Scuola e accoglienza dei bambini stranieri
Il fenomeno dei bambini immigrati nella
scuola è stato studiato soprattutto indagando il punto di vista degli insegnanti, dei
bambini e delle famiglie italiane. Una ricerca partita a seguito di un Protocollo d’Intesa
tra il MIUR e il VIS nel giugno del 2000 ha
focalizzato l’attenzione sul vissuto del bambino straniero, protagonista del processo
d’interazione/integrazione. L’indagine è stata
svolta su Roma e Provincia nell’ambito dell’ex secondo ciclo (4a e 5a elementare) attraverso interviste, somministrazione di questionari, simulazioni e giochi di ruolo, osservazioni silenziose in classe. Interessanti i risultati per tutte quelle figure scolastiche che
si occupano dell’inserimento degli alunni
stranieri a scuola, in particolare le proposte e
le piste di orientamento per una scuola interculturale.
Isabella ROTONDO
Fragili identità
Quante volte educatori e genitori si sono
trovati d’accordo nel lagnarsi di “non riconoscere più” quel certo ragazzo… E se non
ci riescono loro, come può riuscirci il soggetto stesso, che sta nel bel mezzo dei suoi
problemi e non sa neanche perché, visto
che non li ha cercati: lui non l’ha già superata l’adolescenza, anzi, ci è appena arrivato! Perchè chiedere a lui risposte che non
ha, o forse che non sa di avere? È da quando è nato che tutti gli dicono che parla co-
me suo padre e si muove come sua madre
(quasi che fosse un complimento) ma che
di sicuro non ha ripreso nulla della bravura
del fratello. Sfido io che ad un certo punto
uno comincia a guardarsi intorno e cerca
di capire se può cominciare a camminare
come quell’amico, vestirsi e pettinarsi come l’altro compagno più grande, ed arrivare un giorno ad essere come qualcuno di
importante in televisione. Non è un bel
progetto di vita?! Andateglielo a dire a
quale ragazzo!
Ezio SEGATORI
Identità dell’insegnante di religione cattolica
A partire dalla consapevolezza di cosa vuol
dire essere un insegnante, è responsabilità
propria di chi è investito di tale ruolo il riflettere sulla propria identità. Il percorso
attraversa una dimensione antropologica
generale per raggiungere quella psicologica
personale dove il lavoro sulla ricerca della
propria identità diventa urgente ed imprescindibile. L’essere colui che “porta il segno” e ha il potere di “segnare” il discente
impone una continua analisi e verifica del
proprio lavoro attraverso la relazione con
l’alter appunto che dice il “chi sono” proprio nel suo rimando di immagine. Nello
specifico dell’IdR si deve dare risposta al
lavoro interiore di ricerca sulle domande di
senso e sul valore delle cose. Questo plus di
carico di responsabilità può divenire motivo di crisi in quanto è esigita una corrispondenza (non simulabile) tra le risposte
che si offrono e quelle che si sono trovate
in sé. Tale delicata, aperta e peculiare dinamica comunicativa si realizza in un’identità che accoglie (“sé” anzitutto, la propria
missione) ed educa all’accoglienza dell’altro nella prospettiva di considerarlo come
fine.
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Una vera tortura:
parlare dell’Inquisizione
durante l’ora di religione
Manuale di sopravvivenza per l’IdR
di Federico Corrubolo
L’ombra lunga dell’inquisizione
Tutti gli insegnanti di religione conoscono
quanto sia difficile affrontare certi capitoli
di storia della Chiesa. L’inquisizione è fra
questi. Tutti ragazzi sono affascinati dalla
cosiddetta “leggenda nera” e sono molto inclini a credere agli inquisitori come dei diavoli vestiti da domenicani, a torture terrificanti e a schiere di condannati a morte fra
atroci supplizi. E si slanciano con entusiasmo in appassionate denunce e clamorosi atti d’accusa contro la Chiesa oscurantista (un
aggettivo che sta tornando di moda), o – come ama ripetere Emma Bonino – «crudele
ed arroccata». Siamo d’accordo che guardare
con gli occhi di oggi la storia dei secoli XVXVII non è certamente facile e che sicuramente alcune cose sono di fatto inaccettabili: ma la facilità con cui i nostri alunni indulgono a giudizi spietati, taglienti e irreversibili, fatta salva la loro naturale irruenza,
rende alle volte irrespirabile l’aria dell’ora di
religione (specie se si trova ad essere l’ultima
della giornata). Ecco perciò un piccolo
prontuario per affrontare con serenità il difficile argomento, cercando di far ragionare
anche i più accalorati (anche se è piuttosto
improbabile riuscirci…).
Prima regola: capire il contesto
Per prima cosa occorre dire che l’idea dei
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“diritti dell’uomo e del cittadino” nel Rinascimento non esisteva: la società era pensata
come un unico corpo vivente, con una dualità funzionale del tutto simmetrica a quella
di un corpo fisico: in altre parole tutta la
società era pensata come una personalità
corporativa dotata per l’appunto di un corpo (il cui governo spettava al re, imperatore, quello che noi oggi chiamiamo potere
civile e che era comunque considerato un
potere sacro) e di un’anima (governata dal
potere spirituale: il Papa, i vescovi, la Chiesa). Caratteristica di questo corpo è la solidarietà: nessun gruppo sociale può vivere
senza gli altri gruppi. Come il corpo ha le
sue malattie dovute a batteri, virus ecc., così anche il corpo sociale poteva ammalarsi.
In un contesto in cui la solidarietà stava al
primo posto, le malattie erano fondamentalmente due: la ribellione nell’ambito del
potere civile; l’eresia in campo spirituale:
talvolta tutte due le cose insieme perché
(altro punto importante) non c’è distinzione tra l’una e l’altra sfera (così come nel
corpo dell’uomo non si può dividere con
chiarezza il corpo dall’anima). In poche parole niente di simile a quelli che oggi noi
chiamiamo i diritti dell’uomo o i diritti
della persona: per tutto il medioevo e per
buona parte dell’età moderna è il corpo sociale che è considerato soggetto di diritto, e
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non il singolo individuo. Qualcosa del genere succede ancor oggi nelle società islamiche dove è la umma (= il corpo sociale in
arabo) che fonda il diritto musulmano. In
Europa i diritti dell’uomo vengono affermati in forma pubblica e solenne solamente
a partire dal 1789, quando la rivoluzione
francese pone termine non solo a un regime, ma anche a una concezione politica
morale, religiosa in qualche modo universale dell’uomo. Ecco perché nel giudicare la
storia passata non possiamo usare i nostri
frames, i nostri schemi mentali ma dobbiamo sforzarci di ricostruire come i protagonisti di quei secoli vedevano loro stessi la
loro storia. Un esercizio che certamente
non serve per giustificare ma per capire, e
capire non è mai un fatto immediato: richiede tempo pazienza e soprattutto
umiltà. Ovvio che una infamia rimane una
infamia anche se è stata fatta nel secolo
XIV; ma il fatto di vivere nel XXI secolo
non ci autorizza a bollare come infamie
quello che ci fa comodo, semplicemente
perché ci infastidisce o non lo vogliamo
studiare con calma.
I medici del corpo sociale
Torniamo ora la nostra età moderna, dal
Rinascimento fino alla rivoluzione francese.
Chi sono i medici che devono garantire la
salute del corpo sociale? Sono le due massime autorità della christianitas europea cioè
dire l’imperatore del Sacro Romano Impero, e il Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica romana. Entrambi si avvalgono di
collaboratori e di esperti che li aiutano in
questo compito fondamentale per la sopravvivenza del mondo: l’imperatore deve
garantire l’ordine la pace sociale e la prosperità dello Stato, senza il quale non è possibile la salvezza eterna: anche se noi questo
S T O R I A
sembra un pio pensiero, per l’uomo medievale prima e rinascimentale dopo, questa è
la prima preoccupazione di tutta la vita, lo
scopo dell’intera esistenza: non “far soldi” o
“avere successo”, ma “andare in paradiso”. E
ci crede davvero. I fattori morali non hanno
un’importanza secondaria rispetto a quelli
economici, come noi eredi del marxismo
siamo indotti a credere. Carlo V si batté
con tutte le sue forze contro il protestantesimo anche perché era il difensore della fede
cristiana, non solo per motivi politici o economici. Anche il Papa aveva bisogno di collaboratori, e questi erano gli specialisti ai
quali si affidava: gli inquisitori. Questo significa che un inquisitore non era pensato
come uno che deve condannare a morte gli
eretici, ma con un medico che deve curare
il corpo sociale, ricorrendo in casi estremi
all’amputazione dell’arto malato, perché
non infetti le altre membra. Pensare a un
inquisitore come a un giudice che non vede
l’ora di condannare a morte, equivale a credere che ogni visita dal medico debba concludersi con una amputazione…
Condanna o assoluzione?
A riprova di questo posso testimoniare che
gli archivi della Santa Inquisizione del Tribunale di Aquileia (uno dei meglio conservati, dove ho studiato per la mia tesi di licenza in storia ecclesiastica), contengono
circa 1000 processi celebrati fra il 1551 e
1798: di essi solo quattro si concludono
con l’esecuzione della condanna a morte
dell’imputato. Scopo dell’inquisitore infatti
era quello di reintegrare il membro malato,
cioè di curarlo, non di eliminarlo. A riprova
di questo, sempre nello stesso tribunale si
può osservare che la stragrande maggioranza
dei processi si conclude con la ritrattazione
dell’imputato e la sua assoluzione piena.
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Certo non dobbiamo dimenticare che non
si trattava di un processo sereno, che l’imputato non era veramente libero di dire ciò
che pensava, che l’uso della tortura era malauguratamente ritenuto legittimo, e questi
elementi devono essere sempre ricordati per
evitare di cadere in un revisionismo ridicolo
quanto inopportuno: tuttavia le fonti non
lasciano dubbi: lo scopo dell’inquisitore era
la guarigione del membro malato.
Il Sacro arsenale e la tortura
Veniamo ora al capitolo più spinoso: l’uso
della tortura. Come era inteso nella mentalità dell’epoca? ce lo spiega bene il Sacro Arsenale di fra Eliseo Masini, un vero e proprio manuale ad uso degli inquisitori, uscito in prima edizione a Genova nel 1625 e
continuamente ristampato (ancora a Roma
nel 1730, fra l’altro)1: la tortura è intesa come extrema ratio: ci si ricorre soltanto se i
testimoni non sono sufficienti oppure gli
indizi raccolti contro un imputato non risultano probanti, e l’imputato stesso continua a proclamarsi innocente. Per avvicinarci alla concezione che ne avevano gli inquisitori dei secoli passati dobbiamo immaginarla come una specie di rozza “macchina
della verità”: ciò che oggi si cerca di dimostrare con l’analisi dell’aumento del battito
cardiaco e della pressione sanguigna (che
dovrebbero verificarsi in chi sta mentendo),
allora si dimostrava con la coercizione fisica. Quanto alle forme di questa coercizione
fisica, sebbene siano attestate nell’inquisizione spagnola pratiche di tortura abbastanza cruente – del resto non dissimili da
quelle in uso presso il potere civile – il nostro manuale conosce un’unica forma di
S T O R I A
tortura: la sospensione da terra dell’imputato tramite una corda legata ai polsi, ad
un’altezza di pochi centimetri dal suolo, e
per un tempo massimo di mezz’ora alla volta. Procedimento che pur rimanendo inaccettabile ai nostri occhi è molto meno
cruento di quanto ci si sarebbe potuto
aspettare.
Questa note dovrebbero aiutare il povero
IdR sottoposto alla “tortura” dei discorsi
sull’Inquisizione, se non altro, a mitigare
gli infuocati dibattiti sull’oscurantismo della Chiesa: certo non abbiamo la pretesa di
convincere i nostri alunni, ma è forse sufficiente trasmettere il messaggio che la storia
è sempre molto più complessa di quanto
può apparire a prima vista, e che ciò che
sembra evidente a una prima occhiata lo è
molto meno dopo uno studio attento e paziente.
Figli dell’inquisizione
Per chiudere vale forse la pena di ricordare
un fatto che tutti gli storici conoscono bene
e che quasi tutti i giornalisti e i polemisti
ignorano: che l’intera procedura penale attualmente in uso nel sistema giudiziario italiano è figlia diretta della procedura inquisitoriale romana. A confermarlo basta una
scorsa anche superficiale all’indice del manuale di cui sopra. In altre parole, un verbale di denuncia di un furto o di un interrogatorio in una qualunque stazione dei carabinieri viene ancora oggi stilato tenendo
presente di stessi elementi individuati dagli
inquisitori di quattro secoli fa. L’unica notevole differenza è che in assenza di prove
nessuno viene legato per i polsi e sospeso da
terra, neppure per un minuto…
1
L’edizione da me consultata è a cura di Attilio Agnoletto e si intitola Il manuale degli inquisitori ovvero pratica dell’Officio della
Santa Inquisizione, Xenia edizioni, Milano 1990. Pur non essendo l’edizione scientifica né un’edizione critica tuttavia presenta il
testo integrale di quest’opera importante per la storia del inquisizione moderna: il capitolo sulla tortura si trova a pag. 115 e ss.
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Le opere e i giorni
di Pasquale Troìa
Lucia Bonfiglioli,
Ferdinando Costa,
Giorgia Montanari,
Stefano Ottani, Armonie del Tao. Il Confucianesimo e il Taoismo raccontati ai bambini, «Nuovi amici»
Collana ideata e curata da Mara Scarpa,
EDB, Bologna 2007, pp. 80, ISBN 978-8810-76505-0, € 6,00.
È il quinto volumetto della collana “Nuovi
Il protagonista, Manù, conosce un nuovo
compagno di scuola, Yao, di nazionalità cinese e con lui si appassiona alle arti marziali.
Attraverso la frequentazione del maestro di
Wushu e dello zio di Yao, Jin Jin, i ragazzini
e i loro amici scoprono la profondità e complessità delle filosofie tradizionali cinesi.
I personaggi delle storie sono un gruppo di
amichetti italiani di varie fasce d’età che si
trovano a vivere esperienze d’incontro con
bambini taoisti e confuciani. Le narrazioni
sono tratte il più possibile dalla vita reale affinché il bambino possa riconoscervi il proprio vissuto e identificarsi con i vari protagonisti e conoscerne alcune parole-chiave
presenti nel lessico confuciano e taoista.
La storia si chiude con dei giochi per divertirsi e insieme verificare la comprensione
dei contenuti.
Il volumetto è stato letto e approvato da
Andrea Hung Yuan, presidente dell’associazione cinese di Bologna, al fine di garantire
una rispondenza tra la descrizione offerta e
la realtà della fede, così com’è vissuta dai
credenti taoisti e confuciani.
amici” [sono stati già pubblicati quelli sull’Islam (maggio 2005), Ebraismo (settembre
2005), Buddhismo (febbraio 2006), Cristianesimo (settembre 2006) e sono previsti ancora l’Induismo e lo Shintoismo].
È la collana di narrativa per bambini dagli 8
ai 12 anni che, partendo da un dato dell’esperienza, mira a far emergere, attraverso avventure, notizie e giochi, i tratti caratteristici
delle religioni.
Particolarmente interessante il confronto
spiegato ai ragazzi tra il Tao Te Ching (un
testo autorevole della tradizione cinese) e il
Vangelo, con citazioni molto belle e significative.
Il volumetto, come gli altri, è gioioso, graficamente ‘mosso’, a colori, con un layout
molto efficace e accattivante. Sarà proprio
vero quanto sant’Agostino scrive: «Nutre la
mente soltanto ciò che la rallegra» (Confessioni, XIII libro).
Speriamo che i colleghi che hanno avuto
modo di sperimentare queste tipologie di
narrazione ci facciano conoscere la loro funzionalità e l’efficacia in classe o nella lettura
personale dei ragazzi.
Conoscersi e convivere. la rivista (trimestrale) del dialogo interreligioso, edita da il
Campidoglio.
Il numero zero è una
monografia di 82 pagine su La città in
dialogo: è Roma la
città che per la sua
storia antica e recente
si propone come la
città dove tutti ed
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ognuno possono e devono trovare la loro
identità culturale e religiosa.
La rivista è stata simbolicamente presentata
nel giorno del secondo anniversario della
morte di papa Giovanni Paolo II (il più citato durante la presentazione, insieme alle parole “dialogo” e “pace”) nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio. Erano presenti il sindaco Walter Veltroni, Abdallah Redouane,
segretario del Centro culturale islamico di
Roma, l’imam della Moschea di Roma (Alaa
di Eddin Al-Gobashy), il cardinal Paul Poupard (presidente del Pontificio Consiglio
della Cultura e di quello per il dialogo interreligioso), e il rabbino capo della comunità
ebraica di Roma Riccardo Di Segni.
La rivista è introdotta da un messaggio del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Tre i condirettori della rivista: Benedetto
Carucci Viterbi, rabbino, esperto talmudista, studioso e direttore dell’insegnamento
delle materie ebraiche nelle scuole della comunità di Roma; Abdallah Redouane, segretario generale del Centro culturale islamico;
e Andrea Riccardi, ordinario di Storia contemporanea e fondatore della Comunità di
Sant’Egidio. Le prossime uscite saranno dedicate ai temi spazio sacro, tempo, ragione e
fede. La rivista è gratuita, e viene dichiarato
che sarà distribuita presso le comunità religiose, nei Municipi e nel circuito delle biblioteche comunali (luoghi in cui si spera di
trovarla!).
Immaginate
che vi venga
concesso di
fotografare
“la Pietà” di
Michela ngelo. Nel
tempo di una notte. Siete soli nella penombra ed avete davanti il marmo che incarna la
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Vergine Madre e suo Figlio morto così come
creato dal Buonarroti, mentre canti gregoriani amplificano lo spazio che la penombra
rende invisibile… È quanto è stato concesso
al fotografo Robert Hupka nell’aprile del
2000. Fece centinaia di fotografie in bianco
e nero da tutti gli angoli possibili. Il fotografo disse che gli era capitato qualcosa che
davvero aveva sostanzialmente cambiato la
sua vita.
Ora alcune foto sono visibili sul sito
http://193.48.70.125/arstella/en/sommaire/index.dim sia in diaporama sia in fototeca e sia in tematiche (la Pietà, Gesù Cristo,
Maria).
Il b/n della scelta fotografica esalta la luminosità delle curve del marmo e le angolazioni di una stesso particolare – come il volto
di Maria – viste di seguito ne danno quel
movimento impresso nel marmo che la staticità di molti non riesce a contemplare. La
fotografia ricrea e mette in luce, evidenzia
l’ispirazione e ne mostra le intenzioni. Il fotografo dona all’opera d’arte quella contemporaneità che l’artista ha incarnato nel suo
tempo; il fotograto è un esegeta della materia e dello spazio immersi nel tempo.
Dagli studenti molte immagini del patrimonio artistico scolastico sono ‘subite’, passivamente accolte, ridotte ad una citazione o ad
un argomento di interrogazione.... Niente
potrà mai coinvolgerli ed empatizzarli se
l’immagine visiva come il testo della parola
non sono da loro stessi reinventati e riscritti.
E qui ha inizio il ‘miracolo’ dell’invenzione e
della strategia didattica del docente.
In questo caso gli studenti potrebbero esseri
rimandati a visitare questo sito. Invitati a
scegliere e riportare in carta alcuni scatti fotografici, a spiegarne i motivi della scelta, a
riscriverli o a ridisegnarli, a... Ma potrebbero
anche costruire un power point secondo alcuni criteri proposti dal docente: per esempio assemblando su una stessa diapositiva i
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particolari delle diverse parti del corpo di
ogni personaggio, commentandoli con sue
parole o con una sua proposta grafica o con
qualche musica, confrontando le espressioni
del volto di Maria e di Gesù secondo Michelangelo con quelle di un altro artista... o
con qualche ‘pietà contemporanea’, ....
Sul sito altre informazioni: anche per acquistare on line il catalogo (ISBN:
2.912687.01.2) di 150 foto (al costo di €
18,50), o un portfolio (ISBN:
2.912687.00.4 ) delle dodici migliori foto
scattate o di singole cartoline (al costo di €
1,00 ciascuna).
Particolarmente affascinante l’ipotesi – proposta anche matematicamente nel sito – secondo cui la Pietà di Michelangelo (come
ogni capolavoro artistico e musicale) gode
del fascino e delle proprietà del segmento
aureo e del suo numero aureo nelle sue molteplici configurazioni. Un altro modo di far
scoprire ‘il mistero’ della creazione e della
‘plasmazione’ compositive di un’opera d’arte
secondo molti artisti. Perché anche il numero e la linea inventano la bellezza.
Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro, Contro il logorio del laicismo moderno. Manuale
di sopravvivenza per cattolici, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al) 2006, pp. 206,
ISBN 88-384-7730-2, € 12,50.
Ci sono dei libri che
vanno letti all’incontrario per poterne
comprendere la reale
portata degli argomenti che espongono.
E questo sia per chi
ne condivide la lettura
in un verso, sia per
chi, per onestà di ricerca, deve pur legger-
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li e sia per chi vuole scoprire quanta nascosta parte di sé asseconda quella tesi che il
massimalismo mediatico e buonista non lascia trasparire perché oggi è di moda non ritenerlo ‘politically correct’, cioè deterso di
quanto possa essere considerato, nel linguaggio e nei suoi termini, discriminante e pregiudiziale verso ogni tipologia differenziata
dell’umanità (da quella razziale, religiosa,
politica, sessista…).
È il caso di un libro come questo. Pregevole
nello stile: sottile, efficace, ben costruito,
simmetrico, tagliente, memorizzabile, di
grande effetto… Studiato nella redazione:
domande comuni per gente comune e per
gente che comunemente non vuole porsele o
le scarta a priori; domande che sono inabissate in ognuno di noi e che ogni tanto merita riconsiderare. Con affermazioni che sono
veicolate su costanti di comune conoscenza
sfruttandone l’assonanza per captare consensi e per confondere il testo con la sua musica
ed il contenuto con il suo ‘incartamento’:
già il titolo evoca una pubblicità (in verità
riconoscibile solo a chi ha qualche anno). E
non mancano anche espedienti di grande effetto pubblicitario: il sottotitolo “manuale di
sopravvivenza per cattolici” o la ‘ricetta’ in
quarta di copertina che mimetizza questa
pubblicazione confezionandola come “un
medicinale da usare con cautela” di cui fornisce il principio attivo (dottrina cattolica
100%), gli eccipienti (ironia, umorismo, riflessione, analisi, arrabbiatura, quanto basta), le indicazioni (azione antibatterica contro infezioni da relativismo, laicismo, nichilismo, indifferentismo, cattocomunismo) e
le controindicazioni (ipersensibilità alla dottrina cattolica, insufficienza catechistica grave, scompenso liturgico conclamato…).
Un libro scritto per tanti che non vogliono
ammettere e per quei pochi che non potranno che compiacersi che certe case editrici (di
per sé onnivore), pubblicano anche ‘di que49
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ste cose’. In realtà il menù è più promettente
delle pietanze e del sapore del ‘servito’. Certamente molti colleghi lo troveranno ‘bello’
(espressione vaga simile a quella salottiera di
‘carinissimo’ o a ‘interessante’ che svela quel
vago sguardo di convenienza gettato su un
libro o su un evento culturale). Alcuni (se
disposti ad investire 12,50 euro), ne condivideranno molte o alcune affermazioni e ne
saranno anche ‘entusiasti’ del modo con cui
sono espresse e grazie a questa fascinazione
potranno anche approvare l’“inspiegato” che
vi si nasconde. Per esempio come non condividere a prima vista considerazioni come
«compro l’agenda e scopro che i santi non ci
sono più; sono sposato e fedele e mi dovrei
sentire a disagio; entro in ufficio e sono invitato a lasciare la mia fede in guardaroba;
dovete smetterla di ostentare crocifissi e immaginetta; se parla un cattolico è ingerenza,
se parla un teoprogressista è profezia; la
Chiesa non deve intromettersi negli affari
civili; il Crocifisso sta bene tra la stella di
Davide e il Corano»….Queste le considerazioni. Che meritano altre considerazioni.
Che in realtà non si trovano. Perché ad
ognuna di queste considerazioni seguono altre fenomenologie di realtà simili con risposte assertive che mai si pregiano – come dovrebbe fare un ‘cattolico’ se è un ‘cristiano’ –
di porsi la domanda come mai l’altro mi
percepisce in un modo diverso dalla mia
identità. E come fare per poter stabilire modalità di comunicazione. Qui si fa fronte. Si
afferma la propria identità (cattolica o cristiana? Si parla più di cattolicesimo che di
cristianesimo. Si parla molto di Chiesa e poco di Gesù Cristo. Si tende ad affermare più
il primato di un comportamento che la
priorità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni). E soprattutto la laicità: non è tanto
chiaro e dichiarato che sia un valore (anche
per i cattolici), spesso sembra identificata
con il laicismo.
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In realtà alcune affermazioni rilevano situazioni reali, ‘ipocrisie’ di sinistra (per chi rimane fermo, su due piedi, perché basta
guardarsi dietro e quindi ruotare di 180° per
scoprire che altre affermazioni sono ipocrisie
di destra!). La lettura è veramente ‘seducente’. E se non viene letto con l’ombra con cui
tutto ciò che si afferma va letto, quando il
sole che illumina è la propria coscienza e la
fedeltà garantisce ciò che si sta cercando,
certamente trovi in queste pagine quel qualcuno che finalmente ha avuto il coraggio di
scrivere (e scrivere bene, ma non per questo
scritto ‘bene’) quello che molti non dicono
ma pensano. E se poi veramente vuoi metterti alla prova, gli autori offrono un “test
per scoprire se sei un cattolico”. Ma se scopri di non esserlo, puoi anche trovare un posto (magari di riserva, perché quelli di ruolo
sono già occupati) nelle “schede della nazionale dei laicisti” in cui trovi J.L. Rodriguez
Zapatero (commissario tecnico), Umberto
Eco (portiere), Piero Angela (terzino destro), Marco Pannella (terzino sinistro), Fabio Fazio (mediano), Emma Bonino (stopper), Paolo Mieli (libero), Jovanotti (ala destra), Maurizio Costanzo (regista dietro le
punte), Corrado Augias (centravanti), Eugenio Scalfari (regista!), Margherita Hack (ala
sinistra). Non mancano le riserve (Umberto
Veronesi, Gianfranco Fini, Dario Fo, Giulio
Giorello) e i ‘raccattapalle’ (come Romano
Prodi, Rosy Bindi, Enzo Bianchi, Giuseppe
Alberigo).
Buona lettura e non vi meravigliate se poi
anche questa pubblicazione contribuisce a
constatare che “non c’è più religione”. E
non soltanto quella cattolica ormai logorata
dal laicismo moderno. Secondo Alessandro
Gnocchi e Mario Palmaro (gli autori) che
insieme ad altri scrivono su Il Timone («Il
mensile dei cattolici»!) (www.iltimone.org),
o tengono rubriche su Radio Maria o collaborano ad una stampa non sempre di imme-
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diata visibilità, ma sempre di persistente presenza. Da considerare e da confrontarsi. Liberamente e laicamente? Con quell’est modus in rebus e possibilmente un modus dialogico, civile, fraterno… cristiano. Contro il
logorio del sentirsi vittime per una sana laicità di sentirsi protagonisti.
Hafez Haidar (a cura
di), Maometto e i diamanti del Corano. Storie di saggezza e detti
del Profeta, Oscar
Mondadori, Milano
2007, pp. 138, ISBN
978-88-04-55909-2,
€ 8,80.
Si parla molto di islamismo quando si dovrebbe invece citare l’islam e si confonde l’islam con l’islamismo. Ma ciò che caratterizza
la nostra (in)civiltà è l’analfabetismo noetico
sostituito da quello verbale: molti (troppi)
utilizzano parole di cui non comprendono il
significato. Ma questo sarebbe normale ‘nescienza’ se non riguardasse chi è tenuto a conoscere quel che dice: ed allora il comportamento si responsabilizza e si qualifica come
‘ignoranza’. Per non ignorarla, è necessario
praticare l’arte del domandare e quella pratica
dello studio che induce a porsi le domande.
Questa pubblicazione induce a porsi domande, chiedendo di ascoltare “storie di saggezza e detti” di Muhammad (latinizzato in
Maometto), il Profeta dell’Islam, secondo gli
ahadith (è il plurale arabo di hadith che indica “i detti e le azioni del Profeta” così come tramandati oralmente) e la sunnah (“linee essenziali della vita, della pratica e della
condotta di Maometto”).
Il suo Autore, Hafez Haidar, nato in Libano,
attualmente insegna letteratura araba presso
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l’Università di Pavia, nella breve introduzione si raccomanda al “benevolo lettore”: «dopo tante ricerche spese sui manoscritti e sui
libri depositati nelle varie biblioteche e archivi del Libano e della Siria: consegno nelle
tue mani i racconti di una miriade di autori
[…] che hanno raffinato i diamanti di Maometto, come abili orefici del sapere. Ti affido questi racconti che costituiscono il sorriso dell’Islam».
L’autore intende introdurre il lettore «in quello scrigno magico sul quale il tempo ha depositato la polvere per scoprire i veri diamanti di
quel pastore analfabeta al quale Dio ha rivelato il suo Verbo e che cambiò le sorti di quel
mondo, trasformando le tribù beduine in una
sola comunità, o Ummah, unita dalla fede e
sottomessa a un solo Dio, sommo creatore
dei mondi, del giorno e della notte».
Nessun uomo è un vero credente se non
ama ciò che ama suo fratello.
Il miglior regalo per un credente è avere un
bisognoso alla soglia della porta.
Il Paradiso è sotto i piedi delle madri.
Chi non ama i bambini non riceverà l’amore di Dio.
Una massaia chiese al Profeta: «parlaci del
desiderio!». Anas narrò: il Profeta aveva detto ai suoi fedeli: «Nessuno di voi è un vero
credente se non desidera per suo fratello ciò
che desidera per se stesso».
Uno scienziato non si sazia di ciò che conosce finché non solca la porta del Paradiso.
Un’ora di insegnamento è meglio di una
notte di preghiera.
Haritha ben Wahab narrò: Ho sentito il
Profeta dire: «Fedeli, fate la carità poiché
verrà un tempo in cui l’uomo camminerà
portando la sua elemosina d’oro e non troverà nessuno che la accetterà. Nell’Aldilà incontrerà un uomo che obietterà: “Se me l’avessi portata ieri, l’avrei accettata, però oggi
non ho alcun bisogno di essa”».
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La raccolta offre la possibilità di avere a disposizione racconti, parabole, insegnamenti,
detti, risposte di Muhammad ad alcune domande della gente… Strumenti e documentazioni quanto mai utili nel nostro insegnare. Ne riportiamo in modo esemplificativo
alcuni esempi nel box.
Tra le numerose opere di letteratura araba
curate da Hafez Haidar ricordiamo Le ali
spezzate di Gibran, Fiabe arabe, Le mille e
una notte, Quando l’amore chiama, seguilo, e
Il custode del Corano (edizioni Piemme), un
viaggio fantastico attraverso le avventure di
profeti e re, principi e fanciulle, angeli e demoni che popolano il Corano, alla scoperta
della vera storia del testo sacro dell’Islam.
Vittorino Andreoli,
Lettera a un adolescente, Bur, collana Saggi,
Milano 2006, pp.
142, ISBN 88-1700699-8, € 6,20.
Gli adolescenti anagrafici sono quelli che
ogni giorno sfidano la
nostra professionalità e davanti ai quali rappresentiamo tutto ciò che nel loro immaginario può significare passato, istituzione,
cultura, autorità e autorevolezza e quant’altro ancora non riusciamo a decifrare!
Conoscerli (fin a quanto è possibile, con la
discrezionalità rispettosa della loro ‘spiritualità’) è un dovere professionale del docente e
un dovere parentale di tutti coloro che costituiscono la sua riconosciuta o meno famiglia. Molte le opere e molti gli studiosi che
ne hanno fatto oggetto di ricerca. Vittorino
Andreoli non si interessa ai loro comportamenti come oggetto di studio ma alla loro
persona che si comporta e pensa in modo
‘seriamente’ adolescenziale. Perciò una lette52
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Ricordati di criticare tuo padre e tua madre,
di difendere i tuoi diritti, compreso quello
del rischio e dell’errore. Ma amali sempre.
Non buttarti via, non farti del male perché,
così facendo, ma colpisci il mondo intero.
Non ti appartieni, sei. Sei come è il mondo
attorno a te. Sei mistero, e nel mistero del
tuo esserci forse vali più di quanto tu immagini. Hai un senso che va oltre il senso.
ra non agli adolescenti ma a un adolescente
(quello che non esiste mai e che in qualche
modo è il paradigma di tutti).
Si presenta con una leale dichiarazione di
identità (anagrafica): «Carissimo, è bene ti
dica subito che sono vecchio, ma faccio parte non solo della categoria dei padri ma anche di quella dei nonni». Ma un «vecchio
convinto che non sia accettabile il mutismo
tra generazioni… è meglio parlare che stare
muti…». Per cui «ho molte cose da dirti,
emozioni e sentimenti da trasmetterti. Mi
rivolgo a te senza giovanilismi forzati, semplicemente da vecchio. Incarnerò insomma
il mio ruolo e lo farò fino in fondo. Di fronte a te, con tutte la forza delle mie convinzioni, con la consapevolezza che non sono
“la verità”, ma semplicemente ciò in cui credo, perché tu sappia come la penso e quindi
quale sia la mia visione della vita e di quella
di un adolescente in particolare» (pp. 7-8).
Tutta la lettera coniuga considerazioni, osservazioni, confidenze, esperienze e soprattutto emozioni. L’Autore è convinto che
«non serve scambiare ragionamenti se non si
colgono le motivazioni che ci portano a
esprimerli e i legami che si vorrebbero attivare mentre ne parliamo. […] sono dunque
i sentimenti a guidare e persino a condizionare il procedere della ragione, capovolgendo la confine per cui la ragione rappresenta
il “freno inibitore” della nostra “irrazionalità”» (pp. 8-9).
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Tra le pagine di questa lettera, si ritrova l’animo e la passione di quell’Andreoli che dichiarò di essere «uno psichiatra, cioè uno
che si occupa di comportamenti anomali, se
volete di follia del mondo giovanile. E quindi mi pongo tante domande: perché i giovani hanno alcuni comportamenti che non sono accettati, perché spesso sono contro, per
esempio, contro le regole, contro la società,
contro la famiglia, contro il Codice Penale».
Ed il docente tra queste pagine trova riferimenti a quei frammenti di storie quotidiane
che a scuola si coniugano e si declinano tra
emozioni, paure, sentimenti, noia, voglia e
quant’altra fenomenologia che gli adolescenti inventano e manifestano. Tra noi adulti e
professori la cui istituzionale autorità non
sempre si complementa con l’autorevolezza,
ma che già sarebbe tanto se l’una fosse l’epifenomeno o il fenotipo dell’altra. Leggere
queste pagine significa anche imparare ad
osservare e ad ascoltare coloro che per noi
rappresentano il futuro in questo presente
da condividere quotidianamente.
L’ultima opera di Vittorino Andreoli è Principia. La caduta delle certezze (Rizzoli, Milano 2007, pp. 665, € 12,50): la raccolta e la
rielaborazione di quelle due ampie pagine di
“Principia” che per un anno sono state pubblicate su Avvenire nella interessantissima sezione “Agorà domenica”.
Geminiello Preterossi
(a cura), Le ragioni dei
laici, editori Laterza,
collana economica laterza 404, Bari 2006,
pp. 192, ISBN 88420-8093-4, € 7,50.
Si parla molto di laicità. Una parola astratta che ha usurpato la
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sua origine etimologica, anche quella ecclesiale, per significare altro, diversamente altro. Ma sempre come un diritto. Ma se nell’ambito del lessico civile la laicità è una garanzia, in quello ecclesiale è una vocazione.
E se la parola vocazione ha uno spazio nel
lessico civile, la laicità è anch’essa una vocazione nel senso che tutti sono chiamati ad
esserlo ed è un diritto costitutivo ed identitario della persona. Ma nel lessico ecclesiale
tale chiamata proviene da Dio e si ‘codifica’
nel battesimo. Senza eccedere in analogismi
ed irenismi, bisogna anche constatare che
laicità e laico sono tra le parole più ambigue e “personalizzate” che oggi vengono
utilizzate. E che ogni nazione ha una sua
storia di laicità. E tutti ovviamente offrono
ragioni per schierarsi tra quelli che possono
essere considerati i due limiti dell’oscillazione semantica, esistenziale, culturale, politica del termine: tra una laicità intesa come garanzia ed un’altra intesa come neutralità.
Indice
Contro le nuove teologie della politica (G.
Preterossi)
L’etica dei laici (R. Bodei)
Libertà e laicità (C. Galli)
Il pregio di ciò che manca e la laicità degli
altri (F. Remotti)
Le radici illuministiche della libertà religiosa (V. Ferrone)
La laicità dello Stato (F. Margiotta Broglio)
Scuola e cultura laica (T. De Mauro)
Laicità e religione (C. Magris)
Cristianesimo e laicità (P. Scoppola)
Perché non possiamo non dirci laici (A. Riccardi)
Islam e laicità (K. Fouad Allam)
Le radici meticcie dell’Europa (A. Foa)
Corpo e laicità: il caso della legge sul velo
(I. Dominijanni)
Scienza e laicismo (U. Veronesi)
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Laico non significa affatto, come spesso
ignorantemente si presuppone, l’opposto di
‘cattolico’ e non indica, di per sé, né un credente né un agnostico o un ateo. Laicità
non è un contenuto filosofico, bensì un abito mentale, la capacità di distinguere ciò
che è dimostrabile razionalmente da ciò che
invece è oggetto di fede – a prescindere dall’adesione o meno a tale fede – e di stingere
le sfere di ambiti delle diverse competenze,
per esempio delle della Chiesa e quelle dello
Stato, ciò che – secondo il detto evangelico
– bisogna dare a Dio e ciò che bisogna dare
a Cesare. […]
Laico è chi sa aderire a un’idea senza restarne succube, impegnarsi politicamente conservando l’indipendenza critica, ridere e
sorridere di ciò che ama continuando ad
amarlo; chi è libero dal bisogno di idolatrare e di dissacrare, chi non la dà a bere a se
stesso trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze, chi è libero
dal culto di sé.
Una volta mio figlio, vedendomi troppo
coinvolto da un astioso attacco personale, i
rimproverò dicendomi: “Sii più laico!”.
Non solo il clericalismo invadente e intollerante, ma anche la dominante cultura o
pseudocultura radicaloide e secolarizzata è
l’opposto di questa laicità, in quanto è caratterizzata da un narcisismo petulante,
smanioso di rivestirsi di una nobile aureola
ideologica e di declamare nobili battaglie.
(Claudio Magris, Laicità e religione, pp.
109-110).
Ciò che conta sono le ragioni che i laici adducono. Conoscerle significa anche avere
qualche strumento in più per poter interpretare questa nostra storia quotidiana che è
presente nella scuola molto più di quanto
noi la consideriamo. E ci permetterà anche
di ampliare gli orizzonti di quelle tematiche
– che a scuola non possiamo non decodificare, problematizzare e analizzare – che ri54
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guardano le interazioni fede-politica, fedescienza, Chiesa-Stato, morale-etica, bioetica,
radici cristiane dell’Europa, crocifisso in
classe e…IRC nella scuola!
Questa raccolta di “ragioni dei laici” è eccellente. Ed indispensabile per un IdR (e non
solo): è sufficiente leggere l’indice proposto
nel box. Nella onesta brevità dei loro saggi,
gli autorevoli studiosi che intervengono (dei
quali si offre sempre un breve curriculum vitae e bibliografico) espongono e rivendicano, in modo critico, le ragioni della laicità.
Ma il suo Curatore ci tiene anche a sottolineare, in conclusione alla sua interessante
introduzione che «questo non è solo un libro sulla laicità, ma anche un libro laico.
Perché è un lavoro pluralista, che coinvolge
molte voci autorevoli e diverse, di studiosi
impegnati – con orientamenti, linguaggi e
metodi differenti – a prendere sul serio le
condizioni di una convivenza consapevolmente democratica».
—————
I colleghi ormai vedono che ci ostiniamo a
segnare l’ISBN per ogni pubblicazione proposta.
L’ISBN (International Standard Book
Number) è un sistema unificato per la numerazione dei libri adottato su scala internazionale che permette l’immediata e inequivocabile identificazione di un titolo o di
un’edizione di un titolo di un determinato
editore. L’Agenzia per l’area di lingua italiana, di cui è titolare l’AIE, è gestita da Ediser
srl (per maggiori informazioni consulta il sito www.isbn.it).
Abbiamo già avuto modo alcuni anni fa di
spiegare quale funzione ha questa sigla.
Ora si presenta l’occasione di riproporla
perché dal 1 gennaio è in vigore il codice
non più a 10 cifre ma a 13 e con il codice a
barre. Al codice ISBN a 10 cifre viene anteposto il prefisso 978 (in seguito è previsto
anche il 979) che nella rappresentazione a
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barre del codice ISBN nel sistema GS1
identificano il mondo del libro. Cambia
inoltre l’ultimo numero – il numero di
controllo – in quanto viene calcolato utilizzando un algoritmo diverso rispetto a quello con cui si calcola il numero di controllo
di un ISBN a 10 cifre.
La struttura dell’ISBN a 13 cifre, quindi, è
suddivisa in 5 parti:
Rino Cammilleri, Il
Quadrato Magico. Un
misero che dura da
duemila anni, prefazione di Vittorio
Messori, Bur, collana
Saggi,
Milano
2004/2006, pp. 231,
ISBN 88-17-000655, € 8,50.
Si sa la curiosità è tipica dell’adolescenza.
Anche di questa nostra adolescenza con la
quale ogni giorno interagiamo professionalmente. E di quella che permane in ogni
adulto. Questa pubblicazione organizza
ipotesi, ricerche, interpretazioni intorno ad
un curioso e affascinante (= magico) graffito ritrovato negli scavi di Pompei, nel 1936
nella casa di Paquio Proculo, duumviro intorno al 74 d.C. Ed ora tre di queste parole
sono state scoperte dopo i restauri anche
nel mosaico “Sansone squarcia e uccide il
leone” nel coro della collegiata di Sant’Orso ad Aosta, opera di un anonimo della
metà del XII secolo. È stato riscontrato in
molte altre località italiane, europee e mesopotamiche, su decine di chiese europee,
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usato come talismano dagli alchimisti, su
papiri e amuleti copti ed etiopici, questo
quadrato magico non smette di incuriosire
ed affascinare.
Sono quattro parole di quattro lettere che
formano un quadrato magico (come quello
formato da numeri che danno sempre la
stessa somma in ogni direzione) e un palindromo (cioè leggibile da sinistra a destra e
viceversa).
Infatti le parole, poste una sotto l’altra, possono essere lette da sinistra a destra, da destra a sinistra, dall’alto in basso, dal basso in
alto, e la parola della terza riga, tenet, letta a
rovescio, rimane identica. Se, poi, si scrivono tutte e cinque le parole una di seguito all’altra (rotas opera tenet arepo sator), la frase
risultante può essere letta ugualmente bene
anche in senso contrario, costituendo, quindi, un palindromo.
Una semplice trovata! Un gioco erudito?
Probabilmente sì, se non si indaga sulla sua
magia o almeno sulle intenzioni di chi l’ha
inventato. Un’ipotesi affascinante è quella
di Felix Grosser, pastore evangelista, il quale
trovò che le venticinque lettere del quadrato
possono essere disposte in modo da formare
le parole PATERNOSTER incrociate, fra
una A ed una O, corrispondenti latine dell’Alfa e dell’Omega greci, principio e fine di
tutte le cose. Inoltre, nel quadrato stesso, le
parole TENET formano una croce, e la T
ad ogni estremità può essere interpretata come una lettera greca tau, anch’essa simbolo
della croce. Infine, ai lati di ogni T appare
sempre una A (alfa) ed O (omega). Dunque
il quadrato potrebbe essere un simbolo cristiano assunto da precedenti tradizioni e
che qui andava per coincidenza ad esprimere bene la preghiera del Signore dell’Alfa e
dell’Omega.
Altri risultati e interpretazioni sono possibili dalla lettura continua delle cinque parole:
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• Iddio (SATOR, il creatore) - domina e
regge (TENET) - le opere del creato
(ROTAS OPERA) e quanto la terra produce (AREPO, aratro).
• Il seminatore (SATOR) sul suo carro
(AREPO è parola di origine celtica il cui
significato è simile a carro) dirige (TENET) con perizia (OPERA) le ruote
(ROTAS, qui le ruote stanno a significare le orbite dei corpi celesti).
Ma altre interpretazioni sono possibili. Lo
scrittore e giornalista Rino Cammilleri «per
la prima volta in Italia costruisce la storia del
Quadrato magico evidenziando gli sconcertanti interrogativi che pone, svelandone la
miniera di simboli, correlazioni significati,
rapporti numerici. Un’indagine rigorosa,
stupefacente e avvincente» (dalla quarta di
copertina)
Nella lealtà del nostro insegnare, la magia
di un simbolo o di un’invenzione non deve
esaurirsi nello stupore e negli infiniti possibili suoi significati, ma deve essere sempre
un ‘medium’ di comunicazione che elaborando codici in modo misterioso e affascinante ne permette di scoprire le possibili
comprensioni del Mistero. Lasciato solo a
se stesso un simbolo è come una trottola
che non riconosce il suo centro di gravità e
continua a prendersi in giro e a prendere in
giro.
Irwin Abrams (a cura), Parole per la Pace.
I premi Nobel per la
Pace del Ventesimo secolo, (premessa di
Jimmy Carter); edizioni Gribaudi, Torino 2006, pp. 158,
ISBN 88-7152-8735, € 8,00.
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Un piccolo strumento. Ma con grandi parole di autorevoli testimoni. È una selezione
dai discorsi di accettazione del premio Nobel da parte delle personalità che dal 1901
sono stati onorate di questo titolo. La scelta
è stata curata dalla maggiore autorità sulla
storia dei Premi Nobel, Irwin Abrams, professore emerito dell’Università di Antiochia.
Pensieri e parole di pace utili come tracce di
un percorso, come immagini di parole vissute, che si incarnano nei loro protagonisti,
come eredità di testimoni che ci interpellano. La loro fruizione didattica è immediata,
anche per un insieme di strumenti come la
cronologia dei Premi Nobel, la loro breve
biografia e la tematizzazione dei loro pensieri (la pace, i legami dell’umanità, fede e speranza, la tragedia della guerra, violenza e
non-violenza, i diritti umani, politica e leadership).
Arthur Green, Queste
sono le parole. Un dizionari della vita spiratale ebraica, Editrice La Giuntina, Firenze 2002.2006, pp.
336, ISBN 8868057-144-3, € 15.
«Il giudaismo ha avuto molte lingue – dall’aramaico al greco
della diaspora alessandrina e all’arabo, dai
volgari europei sino all’intimità sentimentale
dell’yiddish – ma in ciascuno di questi idiomi si è conservato un deposito più o meno
ristretto di parole ebraiche, come un nucleo
più pesante in cui rifugiarsi e a cui tornare»
(Giulio Busi).
Questo dizionario è un’opera pregevole, pratica, utilissima. È un vademecum di 149 parole che ricorrono frequentemente nell’uni-
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verso dell’ebraismo o meglio della “vita spirituale ebraica” (come indica il sottotitolo).
Parole che ci permettono di essere fedeli, di
testimoniare l’ospitalità nella nostra comunicazione: nessuno si sente più straniero
quando è ospitato già nelle parole che per
lui sono ‘vitali’. Anche perché «a dire il vero
Le 149 parole sono fatte abitare in 8 stanze
di argomenti:
1. Dio e i mondo superni
2. Torah: testo e metodo
3. Pratica religiosa
4. Vita spirituale
5. Comunità, vita con gli altri
6. Cose sacre
7. Luoghi sacri
8. Tempi sacri.
è difficile vivere una vita ebraica seria in traduzione» (p. 17). E d’altra parte nel nostro
insegnare costituiscono anche una proprietà
di linguaggio: è più corretto dire Torah e
spiegarla anziché Legge e lasciare che ognuno intenda quello che poi (effettivamente)
non è equivalente a Torah. Molte parole qui
presentate sono indispensabili per parlare fedelmente e correttamente di ebraismo. E di
alcune vengono anche indagate quelle trame
che sottendono la ricerca rabbinica fin nella
loro valenza più kabbalistica e a volte ghematrica.
Le parole qui sono presentate come ‘persone vive’ delle quali viene ricostruita la loro
identità ‘anagrafica’ (etimologia, filologia),
la loro storia, le loro ‘abitazioni’ liturgiche,
bibliche, spirituali, culturali ….la loro quotidianità. Con queste parole gli ebrei hanno
vissuto e convivono e mediante queste parole è stato tramandato una toràt chayyìm
(un “insegnamento vivo”). Per un ebreo
nella lingua e nelle sue parole abita la sua
fede e la sua alleanza con Dio. Green – do-
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Attàh è la parola ebraica che traduce “tu”.
Ma “tu” è anche “Tu”, il pronome con cui
ci rivolgiamo a Dio nella preghiera.
Le prime due lettere di attàh sono alef e tav.
Queste formano l’inizio e la fine dell’alfabeto ebraico. Poiché i maestri della mistica
credono che Dio abbia creato tutti i mondi
con la combinazione delle lettere, alef e tav
si possono considerare come simbolo di tutta la Creazione. Tutto ciò che è stato o mai
sarà accade solo attraverso le lettere dall’alef
alla tav (si tratta di qualcosa di simile al detto di Gesù, in greco, «Io sono l’alfa e l’omega», intendendo con ciò «Io sono l’inizio e
la fine»). Tuttavia, combinare insieme queste due lettere ci dà soltanto la parola et,
una particella usata per il complemento oggetto. Alef e tav fanno riferimento al mondo
soltanto come ad un oggetto.
La terza lettera in attàh, è usata qui per
rappresentare il nome di Dio. Aggiungere
il nome di Dio alla alef e alla tav e la parola prende vita. Con l’aggiunta della he (anche se la he in realtà non è altro che un
soffio!) la parola non è più il segno dell’oggetto, ma “Tu”! Il suono finale “aaahh” ci
porta all’esterno, ci connette con l’altro.
Con attàh noi ci rivolgiamo al Soggetto vivente, non all’oggetto inanimato o astratto
(pp. 31-32).
cente di pensiero giudaico alla Brandeis
University e ‘guru’ del movimento neochassidico statunitense – è convinto che l’ebraismo stesso sia “una lingua”, ovvero «la maniera di una collettività di esprimere fede,
desideri, aspirazioni, sogni». Non a caso il
titolo riprende l’incipit dell’ultimo libro
della Torah, il Deuteronomio (in ebraico
Elleh haddebarim, «Queste [sono] le parole»), quasi ad insinuare che la lingua ebraica
è un ulteriore modo di parlare e di scrivere,
oggi e per noi, quanto è già codificato nella
Torah.
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htttp://www.prato.linux.it/~lmasetti/canzonicontrola guerra/
Canzoni contro la guerra è un lavoro corale di raccolta di testi
relativi a canti di tutto il mondo e di tutte
le epoche a contenuto pacifista ed antimilitarista, in forma
di database e strutturato su contributi liberi da parte di lettori e collaboratori.
Questo sito è on-line
dal 20 marzo 2003, giorno in cui sono iniziati i bombardamenti anglo-americani sull’Iraq: è quindi una reazione spontanea da
parte di tutti coloro che intendevano opporsi alla guerra mediante le canzoni.
Ogni canzone ha ovviamente un autore e
per ogni autore spesso si trovano anche delle
informazioni biografiche. Il testo della canzone è in lingua originale ed ogni traduzione
segue sempre il testo originale ed è inserito
sotto l’autore o l’interprete originale. A volte
per gli autori più importanti è presente anche un video.
Per contribuire all’archivio si deve utilizzare
esclusivamente l’apposita pagina. L’unica caratteristica che questa canzone deve soddisfare è che sia contro la guerra.
La maggior parte delle canzoni è seguita da
una o più versioni e/o traduzioni in italiano
o in varie lingue. Poiché questo sito si trova
in Italia ed è gestito da italiani, l’italiano è la
lingua più frequente, specialmente nei commenti (che sono tradotti solo raramente). In
ogni caso, ognuno può inviare i propri commenti in inglese o nella propria lingua.
Le canzoni sono generalmente inserite sotto
il loro autore effettivo e non sotto il loro più
famoso interprete (quindi When have all the
Flowers gone è inserita sotto Pete Seeger e
non sotto Joan Baez che la canta). L’archivio
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contiene fino ad ora 5628 canzoni di 2156
autori diversi in 75 lingue e 5719 versioni,
traduzioni e commenti in 99 lingue.
Sa bene un insegnante che cosa si può ‘fare’
con le canzoni. E la loro collocazione in rete
permette anche di gestire un patrimonio così immenso, alla portata di ogni studente
che a casa ha un computer ed una connessione internet così che gli si possa assegnare
un compito in prima persona che lo abiliterà a cercare, a scegliere, a documentare la
musica, il testo ed a selezionare i commenti.
Ovviamente senza dimenticare di chiedergli
che cosa pensa di quel che legge, ascolta e
documenta. Possibilmente invitandolo a
scrivere anche lui una canzone per la pace, o
magari un testo, una poesia. Comincia anche di qui la lunga via di formazione che lo
porterà da cittadino ad essere un testimone e
un protagonista per la pace.
C. Giuntini – B.
Lotti (edd.), Scienza
e teologia fra Seicento
e Ottocento, Studi in
memoria di Maurizio
Mamiani, Olschki,
Firenze 2006, pp.
147, ISBN 88-2225516-X, € 16,00.
Il volume raccoglie
gli atti di un convegno tenutosi nel maggio 2004 presso l’Università di Udine per onorare la memoria del
grande storico della scienza Maurizio Mamiani. I saggi affrontano temi decisivi per
la storia del pensiero filosofico, scientifico e
teologico dall’età di Galilei a quella di
Darwin. Come saggiamente rilevano i curatori nella Prefazione, «sarebbe arbitrario, oltre che inutile, cercare di indicare una prospettiva unitaria fra i diversi stili e risultati
delle analisi condotte nei singoli saggi» (p.
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VIII).
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E tuttavia val la pena descrivere brevemente i contenuti dei singoli contributi, la
cui lettura si raccomanda per la ricchezza di
documentazione ed il rigore scientifico.
Paolo Rossi (Due interpretazioni di Daniele
12,4, pp. 1-14) ripercorre le vicende dell’interpretazione di un versetto scritturistico
che nella Vulgata suona: «plurimi pertransibunt, et multiplex erit scientia» e che Francis
Bacon trasformò nel motto «Multi pertransibunt et augebitur scientia», posto sul frontespizio dell’Instauratio Magna a commento
di un’immagine simbolica: un vascello che
si accinge a passare a vele spiegate oltre le
Colonne d’Ercole. Ma il passaggio trionfale
dei multi verso una scientia sempre più vasta non corrisponde al senso originario del
testo: i plurimi che “passeranno oltre” (pertransibunt) lo faranno perché non riescono
a cogliere il vero senso delle profezie, e la
scientia multiplex indica solo la varietà delle
opinioni incerte. Così interpreta infatti il
testo il gesuita portoghese Antònio Vieira.
E tuttavia, leggendo con attenzione gli
scritti di Bacon risulta evidente che neppure lui fu un “teorico del progresso” nel senso che questa espressione ha acquistato nel
tardo Settecento; al contrario, egli vedeva
piuttosto la storia come un percorso tortuoso ed incerto, così come faticosa è tutta la
storia della salvezza. Il contributo di William Shea (Galileo a Roma: incontri e
scontri, pp. 15-38) ricostruisce il rapporto
ambivalente tra Galileo e le autorità dell’Urbe. L’autore narra i sei viaggi a Roma
dello scienziato, ansioso di ottenere l’approvazione degli ambienti romani, e che invece
vi trovò alla fine il rifiuto e la condanna.
Franco Giudice (Isaac Newton e la tradizione dei principi attivi nella filosofia naturale
inglese del XVII secolo, pp. 39-55) descrive il
deciso superamento del meccanicismo cartesiano da parte di Newton mediante l’attribuzione al cosmo di poteri, forze e “prin-
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cipi attivi” capaci di agire a distanza. Ma
l’impiego di “principi attivi” o “qualità occulte” non è un’innovazione radicale, bensì
uno degli aspetti più caratteristici e documentabili della tradizione inglese del XVII
secolo. Newton sottolinea solo che non si
tratta di qualità individuali (come le “qualità occulte” di matrice scolastica), bensì di
“cause occulte universali”, derivabili dall’osservazione dei fenomeni naturali, come ad
esempio la forza di gravità, invisibile ma verificabile. Ancora del grande inglese si occupa nel suo avvincente saggio Brunello
Lotti (Filosofia naturale e teologia nello
Scholium Generale di Newton, pp. 57-80).
L’autore si chiede: è corretta la corrente tendenza storiografica, secondo cui lo Scholium
Generale aggiunto nella seconda edizione
dei Principia mathematica mette radicalmente la fede cristiana a fondamento della
scienza? L’autore mostra che lo Scholium
presenta opinioni teologiche non necessariamente legate al pensiero fisico di Newton, frutto piuttosto della sua passione esegetica: la “cornice teologica” non deve trarre
in inganno come se si trattasse di una fondazione teologico-metafisica del sapere
scientifico. Tra teologia e scienza in Newton
non c’è alcuna dipendenza fondativa, ma
solo una costante preoccupazione di armonizzare le due discipline. Proprio per questo
motivo «rimuovere lo sfondo e lasciar cadere il pinnacolo teologico non è stato difficile per i successori» (p. 79). Chiara Giuntini
(Locke, Newton e la scienza della scrittura,
pp. 81-104) si occupa degli scritti esegetici
maggiori dei due filosofi anglosassoni. È vero che entrambi apprezzano i nuovi strumenti di critica testuale e combattono contro gli stessi avversari filosofici; ma avere gli
stessi nemici non significa essere sempre
dalla stessa parte. Le divergenze si accentuano soprattutto nella valutazione delle profezie: decisive per Newton, che le studia nel
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tentativo di ricondurre ad un piano razionale gli schemi della provvidenza; trascurate
da Locke, perché la loro insuperabile
“ebraicità” rende più difficile un percorso
di tolleranza e di avvicinamento tra diverse
confessione cristiane. Paola Dessì (I cattolici
di fronte alla scienza: strategie apologetiche
nella Francia di fine Ottocento, pp. 105119) ricostruisce le intricate vicende dell’apologetica cattolica dinanzi all’avanzata del
pensiero laicista e naturalista. «I nuovi avversari della fede si appoggiano sulla nuova
scienza della natura… per dichiarare Dio
inutile, il miracolo impossibile, il mistero
inammissibile, e per relegare il Cristianesimo tra le vestigia di un passato morto per
sempre»: così si esprimeva Mons. Maurice
d’Hulst, rettore l’Institut Catholique di Parigi nel 1883. Il suo progetto – e quello non
dissimile dell’abate Paul De Broglie – non
era però quello di rigettare la scienza in nome della teologia; al contrario egli mirava a
scardinare l’alleanza tra spirito laico e spirito scientifico, cercando di guadagnare la
scienza alla causa della religione, mostrando
quanto la scienza sia intimamente intrisa di
metafisica. Per questo si attirò le ire del tomismo più tradizionalista, rappresentato
dalle «Nouvelles annales de philosophie
catholique»; di lì a poco la Pascendi di Pio
X avrebbe paralizzato ogni iniziativa che
andasse nella direzione auspicata da d’Hulst. Chiude il volume il saggio di Antonello
La Vergata (Darwinismo, scienza, religione,
pp. 121-139) sulla figura, ancora altamente
controversa, di Darwin. L’autore ripercorre
le vie seguite da coloro che hanno cercato
di conciliare l’evoluzionismo con la credenza in un Dio creatore, mostrando uno scetticismo talvolta venato di sarcasmo (si veda
l’impietosa satira nei confronti di Antonino
Zichichi a p. 123, o la serrata critica alle affermazioni di Giuseppe Bertagna a pag.
128). Nonostante la solenne sepoltura nella
60
E
I
G I O R N I
Cattedrale di Westminster, interpretata da
alcuni come simbolo della riconciliazione
tra chiesa anglicana e scienza, Darwin fu un
credente tiepido e confuso («la mia teologia
è semplicemente un pasticcio», confessava
nel 1870). Le conclusioni dell’articolo (pp.
134-139) eccedono la semplice ricostruzione storiografica e si estendono a importanti
considerazioni teoretiche sul rapporto tra
scienza e religione cristiana. Ne segnaliamo
– a malincuore – solo una: la confutazione
della tesi della “coesistenza pacifica”, secondo cui scienza e religione non possono essere in conflitto perché hanno ambiti distinti
e compiti diversi: «la prima indagherebbe
infatti il ‘come’, la seconda il ‘perché’». Infatti anche la scienza deve chiedersi il perché
(anche se non può dire a che scopo): essa
non è meramente descrittiva, ma vuole scire
per causas. Dissentiamo poi dall’idea che «la
coesistenza [di scienza e religione] è sempre
possibile [solo] sul piano personale, sul quale
ogni conflitto può essere risolto con mezzi
più o meno ingegnosi, o messo a tacere, o
semplicemente ignorato»; concordiamo invece con la conclusione, secondo cui «c’è
almeno un senso in cui il conflitto tra
scienza e religione è, oltre che inevitabile,
utile: quando mantiene viva la “tensione essenziale” sulle grandi domande» (p. 139).
Ecco: se si parlasse – con Th. Kuhn – di
tensione invece che di conflitto, credo che le
considerazioni di La Vergata sarebbero più
condivisibili. I conflitti si creano al massimo tra uomini che sostengono, a volte in
maniera ideologica, un sapere contro un altro; ma il vero sapere non può che essere
unico. In conclusione, si tratta di un volume serio, rigoroso, che partendo dall’indagine storica induce alla riflessione sulla storia delle idee, ricco anche di spunti didatticamente interessanti per l’IdR che voglia
presentare in maniera consapevole ed aggiornata questi temi (F.M.).
R I P R E S E
&
D E T T A G L I
Le Cronache di Narnia.
Il leone, la strega e l’armadio
di Andrew Adamson (USA, 2005)
di Andrea Monda
Al pari de Il Signore degli Anelli di Tolkien
anche Le Cronache di Narnia di C.S.Lewis,
che di Tolkien era grande amico, sono diventate uno dei libri più letti
e amati del mondo. Questa
saga fantasy in sette volumi
realizzata negli anni ’50 che
ha appassionato i lettori di
tutto il mondo è diventato subito un “classico” della letteratura per l’infanzia e quindi
non ha sorpreso che la Disney
se ne impossessasse per realizzare un bel film d’azione che
ha facilmente conseguito un
enorme successo internazionale. Il regista Andrew Adamson, lo stesso della fortunata
serie Shrek, ha realizzato un film fedele alla
lettera e allo spirito dell’opera di Lewis, che
si rivela, come il “parallelo” film tratto dal
Signore degli Anelli (già presentato in questa
rivista nel numero 4/2005), un ottimo strumento didattico per l’IRC. Il film in realtà
è molto lungo e quindi è consigliabile far vedere agli studenti solo alcune sequenze puntando anche su un fatto molto interessante:
una buona parte degli studenti ha già visto il
film. Ecco brevemente la trama.
Londra 1940: quattro bambini inglesi si trovano in una casa di campagna, la città infatti, a causa dei bombardamenti, è poco sicura, e la più piccola del gruppo, Lucy, entrando casualmente (provvidenzialmente?) in un
grande armadio si trova in un altro mondo,
Narnia, per certi versi simile all’Inghilterra
del 1940: anche Narnia infatti è nel pieno di
un conflitto mondiale. Da qui partono le
avventure dei quattro fratelli
Pevency che si troveranno a
dover scegliere tra la terribile
Strega Bianca e il mite, maestoso, leone Aslan. Uno dei
bambini, Edmund, ammaliato dalla Strega tradirà la causa
di Aslan e sarà condannato a
morte, ma il leone, sorprendendo tutti, si offrirà in riscatto e si sostituirà al bambino traditore. Dopo una morte
“sacrificale” Aslan risorgerà
dalla morte e tornerà a guidare l’esercito degli uomini liberi contro la potente e spaventosa armata della Strega Bianca. Al termine di una grande
battaglia i quattro bambini verranno nominati re e regine e governeranno Narnia per
molto tempo finché, casualmente (provvidenzialmente?) torneranno a casa, passando
per il magico armadio, e ritrovandosi i bambini del 1940.
Il leone Aslan, ovvero Cristo
Vorrei ora concentrare l’attenzione su due
aspetti della storia, evidenziati già nel titolo
di questo che è stato il primo (in senso cronologico) degli episodi scritti dallo scrittore
anglo-irlandese: il leone e l’armadio (così lasciamo da parte l’odiosa Strega Bianca).
Il leone, chiamato Aslan (che significa ap61
R I P R E S E
punto “leone” in turco), è una evidente figura di Cristo. Nel momento in cui lui e i suoi
amici vengono traditi da Edmund ecco che
offre la sua vita in riscatto del traditore stesso. L’espediente letterario permette di capire
che l’amore di Cristo non è un vago amore
universale, ma è il concretissimo dono che
Egli fa per ogni singolo uomo. Come Cristo
anche Aslan muore, attraverso una vera e
propria via crucis, e risorge. La sequenza nel
film è molto intensa. Abbandonato da tutti
Aslan sale le scale che lo portano all’altare (la
cosiddetta Tavola di Pietra) dove dovrà soccombere: è un calvario che porta lui, “cuore
di carne”, a donare la propria vita e a lasciarsi uccidere su un altare che è “di pietra”(ma
il nome, Tavola di Pietra, fa pensare proprio
alla figura della Legge Antica, scritta sulla
pietra, sostituita dalla nuova Legge dell’amore; gli echi paolini e veterotestamentari,
Ezechiele e Isaia, sono fin troppo evidenti).
Aslan muore da solo ma in realtà c’è qualcuno che osserva il suo supplizio e lo accompagna con lo sguardo e con il cuore: sono Lucy
e sua sorella Susan che, proprio come le
donne sotto la croce, assisteranno alla morte
di Aslan e andranno a onorarne le spoglie
per poi rimanere senza parole davanti al prodigio della “resurrezione”, simboleggiata dal
fatto che l’altare di pietra si spacca in due
parti. La simbologia cristiana è fin troppo
evidente.
Nel romanzo, più bello e ricco del film, si
avverte tutta la forza di questa invenzione
letteraria del personaggio di Aslan, un leone
“divino” che permette di capire che in Dio e
in Cristo amore e regalità, misericordia e
potenza, carità e maestà sono fuse insieme,
in perfetta armonia. Noi uomini, esseri
mortali e limitati, siamo portati sempre a
vedere le cose tra loro contrapposte, ma così
non è per Dio che è ad un tempo mite e forte. Terribile è Aslan quando infuria la battaglia ma è sempre dolce e caloroso nei rap62
&
D E T T A G L I
porti con chi ha bisogno di lui e del suo incoraggiamento.
E poi c’è un’altra idea efficacissima in questa
versione “felina” di Dio, un’idea che risulta
chiara se riprendiamo l’affermazione di
Sant’Agostino a sua volta ripresa da Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est: «Si
comprehendis, non est Deus», «se lo comprendi non è Dio». Infatti il leone è l’animale per
eccellenza non addomesticabile, controllabile; Aslan non è mai “a disposizione”, non è
mai sotto il controllo di qualcuno; è lui che
sceglie di darsi se e quando vuole. Simbolo
della grazia che si può solo ricevere, non acquisire, Aslan sceglierà lui di donarsi e di
morire in riscatto per il bambino “peccatore” Edmund. È lui che “ama per primo”.
Dio, proprio come un leone, non lo puoi
“comprendere”, non lo puoi bloccare, ingabbiare in un’idea, o peggio in un’ideologia;
come Aslan egli irrompe nella vita degli uomini (come racconta Lewis nei suoi testi autobiografici) e appare e sta dove meno te lo
aspetti; non è mai fisso in un posto. Cristo,
proprio come Aslan, sceglie la strada paradossale della morte e del sacrificio rivelando
così il volto più autentico di Dio, quello dell’amore. Solo allora Dio lo puoi trovare, fisso, in un luogo e quel luogo è la croce, lì
Dio è croci-fisso, il Dio-amore, il Dio-Carità.
Lucy, il cuore che vede. Lewis e la fantasia
come “visione”.
Sempre nell’enciclica Deus Caritas est il Papa
Benedetto XVI ha affermato che quello di
cui l’uomo ha bisogno è «un cuore che vede» (n. 31) cogliendo, ancora una volta, una
delle profonde “morali” della favola raccontata da Lewis. Non c’è da meravigliarsi: il
giovane Joseph Ratzinger è stato a suo tempo lettore delle opere di Lewis che, oltre a
Narnia, ha pubblicato libri formidabili di
apologetica cristiana che spesso Ratzinger ha
R I P R E S E
citato anche una volta diventato Papa (e infatti Lewis è presente anche nel libro Gesù di
Nazaret di Benedetto XVI di recente pubblicato). Ma Ratzinger-Benedetto XVI non è
stato ovviamente il solo cattolico illustre a
rendere omaggio al geniale scrittore anglicano, come dimostrano la corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e il prete veronese
(poi proclamato santo) Giovanni Calabria,
gli elogi di Urs von Balthasar (che definì Il
grande divorzio un vero capolavoro) o le più
recenti citazioni del cardinale Christoph
Schönborn nei suoi testi a commento del
catechismo della Chiesa Cattolica o, per finire, l’elogio indiretto che Giovanni Paolo II
rivolse al segretario dello scrittore inglese,
Walter Hopper.
Come Chesterton, anche Lewis fu un geniale convertito d’Inghilterra capace di trattare
argomenti sommi con somma levità, animato da un’imponente forza dialettica, un gusto del paradosso che non diventa mai sarcasmo ma sempre stimolo per una riflessione
ulteriore e uno sguardo più aperto e franco
su quel mistero chiamato uomo. Autore
molto prolifico, Lewis è oggi famoso in tutto il mondo come maestro del genere fantastico ma forse i saggi sulla fede cristiana rappresentano le sue pagine più belle e vitali,
come nel caso de I quattro amori, Il cristianesimo così com’è e L’abolizione dell’uomo.
Quet’ultimo libro fu elogiato esplicitamente
da Ratzinger, così come un altro best seller
di Lewis, Le Lettere di Berlicche, in cui lo
scrittore “osa” mescolare teologia e sbrigliata
immaginazione. Di questo libro, l’allora cardinale Ratzinger nel 1999 disse: «Quanto sia
oggi antimoderno interrogarsi sulla verità lo
ha genialmente esposto lo scrittore e filosofo
inglese C.S. Lewis». Ma torniamo all’enciclica Deus Caritas est e a quel “cuore che vede”.
Nella saga di Lewis e nel film di Adamson
noi leggiamo e vediamo una bambina, Lucy
(cioè “luce”) che si imbatte in un grande ar-
&
D E T T A G L I
madio coperto da un pesante telone. Forse è
la scena migliore del film che peraltro ha aggiunto il particolare del telone a sottolineare
che è un momento di “rivelazione”. Lucy vede l’armadio e ci entra dentro, forse le due
cose sono la stessa cosa: vedere è “entrare
dentro” le cose, diventare “intelligenti”, intus-legere. Lucy quindi attraversa l’armadio,
in tutta la sua lunghezza e si trova nel magico mondo di Narnia che però, è giusto ripetere, è un mondo solo apparentemente diverso perché poi si scopre essere semplicemente il nostro, ma a un grado superiore di
intensità e profondità. Lucy lascia l’Inghilterra dilaniata dalla Seconda guerra mondiale per entrare in Narnia, che è anch’essa un
mondo in guerra e il passaggio attraverso
l’armadio sta a significare che è nella quotidianità più comune (un armadio chi lo nota?) che si cela la meraviglia e il mistero dell’esistente. Non serve cercare il mistero o il
miracolo, basta vederlo, saperlo vedere. È
questa una “lezione” cara alla tradizione cattolica, da San Francesco a Peguy fino a Chesterton. Di recente ha colto questa la lezione
in un suo bell’articolo il giornalista lucano
Camillo Langone quando ha scritto: «C’è
un mio amico che per far colpo sulle donne
dice di essere “un uomo in ricerca”. Quando
lo sento mi viene da ridere. Io credo nel
Creatore perché ho sotto gli occhi la Creazione e non ho mai avuto bisogno di cercare
i mari e le montagne, le grandi querce, il
vento sull’Appennino, il bambino dentro
l’ecografia, le cicale assordanti nei pomeriggi
delle estati pugliesi, il vitello che cerca il capezzolo di una madre dagli occhi dolcissimi,
il vino rosso, il corpo della donna. Me li sono trovati davanti. Senza ricerca né fatica.
Nessuna macerazione, nessuna conversione:
solo visione». Per questa capacità di visione
non è necessario essere “colti”, “intellettuali”
ma è sufficiente avere un cuore che vede, un
cuore semplice come quello di un bambino.
63
R I P R E S E
I bambini sono naturalmente fantasiosi e
aperti allo stupore, capaci cioè di vedere il
mondo ogni volta come se fosse la prima
volta; in questo senso la fantasia, parola che
deriva dal greco “fos”, luce, non è quindi
un’evasione alienante ma una visione più
profonda e intensa della realtà. È questa la
fantasia di Lewis ma anche di Tolkien, due
autori accusati spesso di “escapismo”, cioè di
praticare una letteratura “dis-impegnata”,
una sorta di “droga” utilizzata per estraniarsi
dal mondo e dal suo dolore. Ma le cose non
stanno così. Contro l’accusa di escapismo,
estesa di fatto alla letteratura fantastica toutcourt, Lewis rispose in diverse occasioni; nel
1961, in occasione di un saggio lungo (pubblicato in Italia col titolo di Lettori e Letture)
Lewis si soffermerà più diffusamente sull’argomento e ribalterà l’accusa che le favole e i
romanzi d’avventure ingannino i lettori: «È
la fantasia dichiarata il tipo di letteratura
che non inganna mai», e questo perché «nessuno riesce a ingannarvi a meno che vi faccia pensare che stia dicendo la verità. Chi è
spudoratamente romantico ha molta meno
forza di ingannare di chi è apparentemente
realistico». Così come i bambini non sono
ingannati dalle favole anche gli adulti non lo
sono dalla fantascienza perché «Nessuno di
noi è ingannato dall’Odissea, dal Kalevala,
Beowulf o dalle opere di Malory. Il vero pericolo è nascosto nei romanzi apparentemente
realistici dove tutto sembra essere molto verosimile ma tutto, in effetti, è costruito per
far passare qualche ‘insegnamento di vita’ di
tipo sociale, etico, religioso o antireligioso. E
alcuni di questi insegnamenti sono falsi».
La letteratura fantastica, quella “alta”, dotata
della “qualità mitica”, non solo «commenta
la vita» ma realizza una «vera aggiunta alla
vita» che finisce per allargare «le nostre idee
sull’estensione dell’esperienza possibile». Il
tanto vituperato “paese delle fate” secondo
lo scrittore inglese fa nascere nel lettore «una
64
&
D E T T A G L I
brama per non sa che cosa. Lo agita e lo turba (arricchendolo per la vita) con l’oscuro
senso di qualcosa al di là della sua portata e
che, lungi dall’offuscare e svuotare il mondo
attuale, gli dà una nuova dimensione di
profondità. Egli non disprezza i boschi reali
per aver letto di boschi incantati…».
La visione delle Cronache di Narnia non è
quindi consigliabile come “mera evasione”
ma come spinta verso la “meraviglia”, quella
capacità che porta in sé il germe della gratitudine e della lode. Lo stupore è, secondo
Aristotele, l’origine della filosofia perché
“solo lo stupore conosce” come dicevano i
Padri della Chiesa. E se lo stupore è conoscenza è anche ri-conoscenza, secondo Chesterton la vera misura della felicità. Lewis ha
ragione: nessun lettore è ingannato dall’Odissea, semmai i lettori/spettatori di oggi sono ingannati da una forma di pseudo-realismo che invece impoverisce lo sguardo, la
capacità di visione; basti pensare ai cosiddetti reality-show che trasformano il verbo vedere in un mero “guardare”: dalla visione al
“guardonismo”.
Ai tempi di Lewis non c’erano i reality-show
ma tutta una letteratura (ancora oggi in voga) che egli definisce “school-story” (simili alle attuali soap opera o a certe fiction televisive); ecco come ne parla l’acuto scrittore inglese: «Il ragazzo che legge una school-story
desidera il successo ed è infelice, una volta
finito il libro, perché non può ottenerlo; il
ragazzo che legge la fiaba desidera ed è felice
dello stesso fatto di desiderare. Perché la sua
mente non si è concentrata su se stesso, come spesso succede nel racconto più realistico. La fantasia pericolosa è sempre superficialmente realistica. La vera vittima di fantasticherie piene di desideri non si pasce di
Odissea […]: egli preferisce racconti su miliardari, su bellezze irresistibili, su alberghi
di lusso, su spiagge alla moda… cose che
possono accadere realmente, che dovrebbero
R I P R E S E
accadere, che sarebbero accadute, se il lettore avesse avuto un’occasione favorevole. Come dico, ci sono due generi di bramosie: la
prima è un’askesis, un esercizio spirituale, la
seconda una malattia».
Vagare nel paese delle fate, insomma, è un’evasione connaturata (e benefica) con l’esperienza stessa della lettura. «Infine, cosa possiamo dire sull’onta dell’escapismo?», si chiede Lewis in Lettori e letture, e si risponde:
«In un certo senso, evidentemente, tutta la
letteratura è comunque evasione: essa implica un temporaneo passaggio della mente da
ciò che ci circonda realmente a cosa solamente immaginate o pensate. Questo succe-
&
D E T T A G L I
de quando leggiamo un testo storico o
scientifico non meno di quando leggiamo
un romanzo. Questi tipi di evasione costituiscono una fuga dalla stessa cosa: dall’attualità immediata, concreta. La questione
importante è verso cosa orientiamo la nostra
evasione».
Lewis, con i suoi romanzi, comprese Le Cronache di Narnia, ha orientato la sua “evasione”
verso una più profonda visione della realtà che
è vista come simbolo, come segno della Verità
che soggiace all’intera creazione, una verità
che ha il nome di Aslan, il nome che la bambina Lucy prima di ogni altro riesce a intuire,
a cogliere, e questo nome è Carità.
Per chi volesse approfondire i contenuti di questo articolo
e conoscere meglio la personalità di C.S. Lewis, suggeriamo il volume:
Andrea MONDA – Paolo GULISANO, Il mondo di Narnia
Edizioni San Paolo Cinisello Balsamo, 2005, pp. 192, 14 euro.
65
I N S E G N A R E
F E L I C I
E dai. Ce l’ho fatta. Sono un grande!
Memorie angosciate di un docente IRC
durante la prima notte delle vacanze di Pasqua.
di Rino Zucchero
Sono qui che mi rigiro tra le lenzuola non
ancora convinto che sia riuscito a sopravvivere fino a Pasqua. Evviva, da adesso in
poi è tutta in discesa. Domani non dovrò
andare a scuola; che bello! Ma non sono
tranquillo. Pensieri angosciosi turbinano
nella mia mente. Sono tanti. Cerco di rilassarmi con il training autogeno. Niente da
fare. Think pink. No way.
Mi accerto di aver spento la sveglia e la radiosveglia. Si, perché dovendomi alzare
troppo presto la mattina avevo due sistemi
indipendenti per risorgere al mattino.
Il primo era costituito da una normale sveglia quasi a portata di mano. Dopo quattro minuti entrava in funzione la radiosveglia posta a distanza di sicurezza: dovevo
alzarmi e attraversare tutta la stanza per
spegnerla.
È un sistema testato; l’unico per arrivare
in orario a scuola.
Bene. Questo è sistemato; mi dico con tono rassicurante. Domani non sarai costretto ad alzarti all’alba. Dormi tranquillo; è
finita. Ma non ce la faccio. Troppi ricordi
angosciosi si spingono l’un l’altro per venire alla ribalta della mente. Mi sembra di
essere a scuola alla fine della sesta ora,
quando è indispensabile aprire in tempo le
due ante della porta della classe onde evitare che gli allievi, euforici per la fine delle
lezioni, si massacrino nel tentativo di essere i primi ad uscire. Allora, per evitare questo pericoloso affollamento della mia psiche, apro la censura dell’inconscio e li lascio fuoriuscire.
66
Prepotente e diretto esce alla ribalta il primo; forte e doloroso. Perché anche quest’anno nessuna delle mie 18 classi ha mai
chiesto di avere il collettivo nella mia ora?
Perché latino, greco e matematica fanno la
parte del leone? Cosa hanno loro più di
me? Angosciato mi stritolo tra le lenzuola.
È un’ingiustizia. Sono stato socialmente e
professionalmente discriminato dalla collettività studentesca. Certo, non poter andare al bar durante il collettivo e passare lì
un’ora felice non è una perdita da poco.
Un’ora passata a chattare con le mie colleghe, ad inzuppare il cappuccino con l’ultimo gossip. Hai saputo… Hai fatto caso…
Lo confido solo a te….
Ad essere sincero, se fosse solo questo riuscirei a sopportarlo; anche se a fatica.
Quello che proprio non mi va giù è il non
poter godere di quella dolce soddisfazione
che si prova a non lavorare e ad essere pagati lo stesso. Tenera soddisfazione, tanto
comune nel pubblico impiego. Eppure me
lo aveva detto quella santa donna di mia
madre: «Studia lettere ed avrai la vita facile!». Ma io no. Duro. Errori di gioventù che
si pagano in vecchiaia.
Affrontata e tenuta sotto controllo questa
prima angoscia, un’altra si presenta in tutta chiarezza. È davanti ai miei occhi. La vivo e la rivivo come in un film visto innumerevoli volte. Sì, perché vissuta e rivissuta
è questa angoscia. La rivivo come se accadesse in quest’istante.
Sono in classe, al punto clou della lezione,
the climax. Sono tutti attenti – evento ra-
I N S E G N A R E
rissimo!–. Un colpo alla porta ed entra con
aria sorniona la bidella. A questo punto è
obbligatoria una piccola e dolorosa parentesi. Perché il personale ATA deve entrare
in classe quando io sono al meglio, nella
fase cruciale, importante? Sembra che
stiano ad origliare dietro alla porta per interrompere la lezione proprio nel momento meno opportuno. Mai che entrassero
all’inizio o alle fine delle lezioni. Mai. In
dodici anni d’insegnamento non è capitato nessuna volta.
Accantonata questa dolorosa riflessione,
ritorno alla sequenza del mio inquietante
film.
La bidella, quindi, con aria sorniona, annuncia che la classe domani uscirà due ore
prima.
Questa affermazione innesta una reazione
a catena che segue un suo ben sperimentato protocollo.1 Lo svolgimento è il seguente.
Attimo di sbigottimento. Poi in rapida successione la domanda: «Chi manca?». Latino, greco, inglese o qualsiasi altra materia.
Non importa quale essa sia. Alla determinazione della disciplina che l’indomani
viene evitata, le mani si rivolgono al cielo.
Le prime volte, ingenuamente, avevo creduto che, prese dal fervore della mia lezione, volessero pregare, niente affatto. Mani
al cielo ed esclamano: «E dai, si è ammalato/a, niente interrogazioni/compito!». Poi,
salti, abbracci e grida di gioia.
Addio lezione. Ero sul più bello e tutta la
mia costruzione didattica è andata a farsi
benedire. Mannaggia la miseria: è l’espressione più carina che mi viene in mente. La
gioia degli allievi è così incontenibile che
posso tranquillamente abbandonare l’idea
di far lezione. Riportare l’ordine dopo tale
F E L I C I
annunzio è impresa da John Wayne e i
suoi Green Berets.
Ma, a dire il vero, anch’io non me la cavo
poi così male in questi casi.
Tiro fuori dalla borsa il mio gatto a nove
code. Alla vista di questo strumento di punizione in voga sui vascelli inglesi e poi
abbandonato, perché ritenuto troppo crudele – dopo la decima frustata il marinaio
inevitabilmente moriva –, la calma ritorna
istantanea. E fin qui tutto nella norma; mi
dico. Ma la domanda angosciosa è lì in
agguato e subito mi colpisce vigliaccamente al fianco. Perché non succede lo
stesso quando sono assente io? Ecco, invece, cosa succede quando mi assento da
scuola. Al ritorno, dopo una delle mie rarissimissime assenze, appena esco dalla
macchina sono attorniato da un nugolo di
allieve. Le prime volte, vedendole precipitarsi verso di me mi commuovevo e, asciugata frettolosamente qualche lacrimuccia,
andavo loro incontro pensando dentro di
me: «Che carucce, mi vogliono bene, si sono preoccupate non vedendomi. Che tesorucci». Invece, le allieve mi vengono incontro con aria truce e mi apostrofano, cattive, dicendo: «Ma lo sa che non essendoci
lei abbiamo dovuto fare un’ora in più di
greco? Mica ci può trattare così! Noi abbiamo bisogno della sua lezione altrimenti… povere noi! Mi raccomando non si assenti più altrimenti l’anno prossimo non
scegliamo di fare religione».
Dopo strazianti delusioni e ricatti vari, ora,
capita l’antifona, quando ritorno a scuola
dopo un’assenza per malattia attuo anch’io un particolare protocollo. Arrivo prestissimo, almeno 40 minuti prima del suono della campanella d’inizio. Parcheggio
lontano. Cappello sugli occhi e bavero al-
1
Si definisce protocollo quella serie di procedimenti tesi a risolvere una situazione di crisi. Famosi sono i
protocolli nelle situazioni di attacco terroristico messi in atto da Green Berets, Navy Seals e le nostre più
caserecce Teste di cuoio.
67
I N S E G N A R E
zato. Con circospezione mi avvicino furtivo ad un ingresso secondario dove, dietro
lauta mancia, mi attende il custode che mi
lascia scivolare dentro senza che nessuno
mi veda. Cosi almeno per 5 giorni. È questo il periodo minimo affinché le allieve
metabolizzino la mia assenza.
Scuola crudele. Ancora una volta sperimento sulla mia pelle e vivo frustrazione,
depressione ed emarginazione. Cosa hanno le altre colleghe che io non ho? Eppure
ce la metto tutta. Mi sono inventato anche i compiti in classe con tanto di votI2.
Non basta. Devo trovare altre soluzioni;
non posso certo andare a scuola ammalato grave con tanto di febbre a 37 e 1. Non
è giusto. Anch’io sono un dipendente
pubblico e devo stare attento a salvaguardare la mia salute per il delicato ed importante compito che svolgo: l’educazione
delle giovani leve, unica e sola speranza
per un miglior futuro della nazione.
Guardo l’ora. È tardissimo. Il sonno non
arriva; l’angoscia sì.
Cosa fare? Ultima spiaggia: un goccio di
Jack Daniel’s. Ho detto un goccio; sia ben
chiaro!
Mi alzo, torno a letto e me lo centellino
lentamente. È veramente buono. Assisto
ad un fenomeno piacevole: sembra affiorare qualche dolce ricordo. Sarà il buon
Jack: chissà?
L’aiuto a venire fuori. Sì è proprio lui. Lo ricordo perfettamente, anche se è accaduto
ad ottobre. Si era rotto in maniera irrecuperabile il cellulare. Poverino, era conciato
proprio male. Aveva resistito fino alla fine
come un guerriero che, pur ferito mortalmente, continua a lottare per far sì che i
compagni possano mettersi in salvo. Aveva
esalato il suo ultimo bit nel corso di una
conversazione; non importante, per fortuna.
2
Vedi il mio articolo nel numero precedente.
68
F E L I C I
Fatta una ricerca di mercato su internet,
ne avevo comprato uno che a parità di
prestazioni aveva un prezzo conveniente.
Gli acquisti via internet nascondono talvolta delle sorprese. Il telefono era quello
che avevo scelto; il libretto d’istruzione
no. Centocinquanta pagine fittamente
scritte in giapponese. Mi attivo per il
cambio. Niente da fare. Il prodotto è
conforme a quanto dichiarato dal venditore; quindi niente da fare. La prospettiva
era agghiacciante: imparare il giapponese. Non se ne parla proprio. Conosco già
troppe lingue, e poi odio fare qualcosa su
imposizione. Punto. Mi sono detto con
ferma determinazione. Ma ecco venirmi
in aiuto a questo punto la vocina del
santo protettore dei docenti IRC che mi
suggerisce: «Chiedi chiarificazioni alle tue
allieve». È vero. Che stupido a non pensarci subito! Il mattino successivo, in prima ora, entro in classe e dopo aver espletato le fatiche burocratiche della prima
ora, chiedo con aria innocente e disinteressata: «Chi di voi ha un cellulare simile
a questo?». Cinque, sei mani scattano al
cielo. Chiedo loro di spiegarmi le funzioni principali. Che bello, si siedono intorno alla cattedra e in trenta minuti riesco
a capire come utilizzare quest’ultima diavoleria elettronica. Ma non finisce qui.
Quei tesorucci mi promettono di prepararmi un promemoria di tutte le possibilità offertimi dal cellulare. Promessa regolarmente mantenuta alla data convenuta. I compiti per casa no; il promemoria si. E va bene; non si può avere tutto
nella vita.
Ecco, sta arrivando. È dolce e riposante.
Non so se devo ringraziare il Jack Daniel’s
o il ricordo del telefonino. Poco importa. Il
sonno… arriv…
A
C L A S S I
A P E R T E
I disturbi della memoria e della
rappresentazione video-spaziale
di Massimiliano Ferragina e Caterina Basile
Tra tutti i disturbi fin qui analizzati, il disturbo della memoria e della rappresentazione video-spaziale è quello sul quale non
esistono molti studi se non recentissimi.
Riconoscere il bambino con questa specifica
sindrome è difficilissimo, in quanto si ha a
che fare, il più delle volte, con un bambino
molto bravo.
Questo bambino parla molto bene, con
proprietà lessicale, ricorda a memoria poesie
e tabelline, persino intere pagine di libro,
legge speditamente, parla molto e interviene spesso, tanto che è difficile farlo stare zitto anche se si distrae con facilità e sembra
indifferente ai propri errori che ripete continuamente. Eppure questo bambino facilmente innervosisce l’insegnante. Non lega
con i compagni, tende ad isolarsi, non possiede autostima, ha sempre paura di sbagliare, è il classico imbranato che se gli dici di
andare a destra fa il contrario e non riesce
mai a rispettare le regole di un gioco, tanto
che il più delle volte preferisce guardare i
compagni giocare; difficilmente comprende
l’ironia in un discorso e non capisce quando
una domanda è retorica; in matematica è
un disastro, specialmente quando deve risolvere un problema a più operazioni per il
quale è necessario un processo mentale di
costruzione dei percorsi di risoluzione.
L’insegnante è disperato: gli può spiegare
mille volte come mettere in colonna una
moltiplicazione, senza risultato: fa sempre
gli stessi errori; la matematica e la geometria sono il suo incubo; il suo quaderno è
disordinato e il disegno è scoordinato e in-
fantile, con case che volano in spazi indefiniti e persone che non si rapportano in alcuna proporzione; in palestra i compagni lo
prendono facilmente in giro: è lento, imbambolato nelle partite, inciampa, non sa
arrampicarsi, cade spesso, scoordinato nei
movimenti; quando deve eseguire un compito non sa organizzarsi e il suo banco è
sempre il più disordinato, le novità lo spaventano. Col passare del tempo rimane
sempre più solo ed avulso dal contesto sociale, non cerca neppure più di fare amicizia
e la vita affettiva è un disastro… fino alla
depressione. Eppure nessuno pensa che abbia bisogno di aiuto.
Sarebbe troppo semplicistico dire che in
tutti questi sintomi su elencati dobbiamo
riconoscere un disturbo della memoria e
della rappresentazione video-spaziale, più
noto come sindrome non verbale; ma come
educatori dobbiamo almeno farci venire il
dubbio e non liquidare la vita di un bambino con un giudizio frettoloso e superficiale.
Gli studiosi pensano che alla base di tale disturbo ci siano delle compromissioni della
materia bianca a livello delle fibre lunghe
mieliniche, nell’emisfero destro del cervello,
quello che controlla la sfera emotiva e le attività non verbali; ma il trattamento, a
tutt’oggi, è solo sui sintomi per cercare di
spingere il bambino ad adottare quelle strategie che sono alla sua portata, senza che un
senso di frustrazione lo renda rinunciatario
di fronte ad un problema. In pratica bisogna fargli capire che abbiamo compreso le
sue difficoltà e che gli possiamo insegnare
69
A
C L A S S I
alcuni “trucchetti” con i quali può risolvere
le situazioni per lui problematiche.
Se le abilità verbali sono il campo preferito
di azione gratifichiamolo facendolo parlare
di quanto sa o ricorda sull’argomento trattato, invitandolo ad organizzare il discorso
prima di esporlo alla classe; permettiamogli
di usare quaderni a quadretti grandi, anche
se i suoi compagni usano le righe o i quadretti piccoli, per aiutarlo a gestire lo spazio
sul foglio; segniamo con colori diversi gli
spazi del foglio dove vogliamo che inserisca
disegni o sequenze o frasi particolari; organizziamo giochi di ruolo nei quali abbia
compiti facilmente riconoscibili: la pecorella smarrita, uno dei re magi, ecc.; giochiamo alla rappresentazione delle parabole attraverso i segni gestuali, senza l’uso delle parole, come per il vecchio gioco di società
dell’“indovina il titolo del film”. Questo
veicolerà, attraverso la forma ludica, uno
sforzo di comprensione dei messaggi non
verbali, ambito deficitario del bambino con
questa sindrome, favorendo, contemporaneamente la socializzazione con il gruppo
classe.
La bibliografia, in questo campo, è estremamente specialistica, per cui si preferisce rimandare direttamente ad alcuni siti, come
quello del Laboratorio di ricerca e sviluppo
in psicologia (www.psicolab.net); oppure
quello della rivista telematica Educare.it
(http://www.educare.it/Handicap/handicap_index.htm). Testi specialistici, per chi
vuole proprio approfondire: C. CORNOLDI
– G. FRISO – L. GIORDANO – A. MOLIN –
S. POLI – P. TRESSOLDI, Abilità visuospaziali, Erickson, Trento 1996; oppure F. RIGONI
– C. CORNOLDI – A. ALCETI, Difficoltà nella comprensione e rappresentazione di descrizioni visuospaziali in bambini con disturbi
nonverbali nell’apprendimento, in «Psicologia Clinica dello Sviluppo» 1 (1997) 189218. Si suggerisce, comunque, di riferirsi
70
A P E R T E
sempre ad uno specialista che saprà indirizzare e suggerire.
All’insegnante e alla sua sensibilità sono affidate tutte quelle strategie che possono far
sentire al bambino che lui sta al centro di
interessi umani e affettivi importanti. Suggeriamo di seguito alcune possibili schede
per i bambini più piccoli, con disegni scaricati e leggermente modificati dal sito
www.Midisegni.it, il cui Autore (Sebastiano
B. – [email protected]) si mette gentilmente
a disposizione per preparare i disegni richiestigli dagli insegnanti.
Possiamo anche proporre, ai più grandicelli,
di completare una “cartina-muta” della Palestina nella quale sistemare, al posto giusto,
le principali località citate nel Vangelo, dopo averla studiata insieme sul libro di testo.
Costruiamo un percorso-labirinto ai cui capi mettiamo, ad esempio, Maria e Giuseppe
e dall’altro la grotta di Betlemme, chiedendo di trovare la strada e di colorarla con il
rosso. Possiamo, infine, costruire una scheda citando le principali religioni a cui affiancheremo, a caso, le caratteristiche peculiari di ognuna chiedendo all’alunno di fare
gli abbinamenti collegandoli con una freccia.
Rimane chiaro che l’apprendimento può essere stimolato e potenziato attivando diverse modalità di elaborazione e soprattutto la
loro integrazione. Oggi la tecnologia didattica è in grado di offrire stimoli didattici
con un’alta efficacia cognitiva che facilitano
l’apprendimento coinvolgendo l’alunno
nella costruzione attiva del suo apprendimento.
Bibliografia aggiuntiva
A.D. BADDLEY (1986) The working memory,
Oxford.
A. DE LA GUARANDERIE, I profili pedagogici,
La Nuova Italia 1991.
«Focus» numero 89, Marzo 2000.
A
C L A S S I
In pratica…
L’insegnante di religione veramente professionale, non tralascia mai l’attenzione verso
l’alunno che presenta riconosciuti disturbi
dell’apprendimento. Può capitare che chi è
specialista deleghi all’insegnante di classe la
costruzione dell’apprendimento dell’alunno
DSA sotto false scuse come le due ore settimanali, la mancanza di programmazione comune, la disinformazione, ecc. Questo rende l’IdR un alieno che fa la sua lezioncina
una volta a settimana; ma è assolutamente
inefficace per quanto riguarda la crescita dell’alunno con disturbi.
Tutti i soggetti educanti che ruotano intorno all’alunno devono avere una comune metodologia didattica e conoscenza degli strumenti più adeguati alle particolarità dell’alunno. È importante essere presenti e attivi
sulla classe e sugli alunni, programmare attività interdisciplinari, interessarsi e chiedere
del vissuto dell’alunno.
L’insegnante di religione nelle sue due ore
può continuare o cominciare attività di potenziamento dell’apprendimento come tutti
gli altri insegnanti di classe. Nel caso specifico suggeriamo alcuni esercizi mirati a far
fronte e correggere se pur parzialmente il disturbo appena esaminato.
Esercizi da proporre nelle classi della scuola
primaria
A P E R T E
magini, precedentemente preparate (disegnate, colorate e tagliate dall’alunno stesso)
anche di diverse dimensioni, piacevoli da
maneggiare …
Esercizio n. 2 – Il percorso…
Si disegna su di una grande tabella un percorso stabilito, disegnandolo insieme a indicatori di direzione (frecce) con delle tappe
che raffigurino i momenti studiati della vita
di Gesù (atti, miracoli, parabole) tenendo
come punti di riferimento la nascita, la morte, la Resurrezione.
Ogni alunno disegnerà la propria tappa senza dire verbalmente di quale episodio o racconto di Gesù si tratti. A turno gli alunni (e
Esercizio n. 1 – Afferrare…
L’insegnante fa sperimentare giochi che consentono una migliore organizzazione percettiva tramite uso di oggetti, giochi di presa
nelle varie direzioni che consentano il controllo dell’oggetto con gli arti superiori e
con la vista.
Gli oggetti saranno legati alla disciplina specifica; per l’IRC useremo delle palle di spugna o diversi materiali con sopra delle im71
A
C L A S S I
in particolare il nostro alunno con difficoltà) saranno chiamati ad incollare sul tabellone l’episodio disegnato cercando sul
percorso la giusta collocazione: prima o dopo il Natale? Prima o dopo la resurrezione?
72
A P E R T E
Prima o dopo la morte?
Molto utili possono risultare anche esercizi
mirati allo sviluppo delle capacità di scelta
che richiedono buon uso della memoria visiva.
N O T I Z I E
L E G A L I
E
S I N D A C A L I
La vicenda infinita del credito
di Angelo Zappelli
RICONGIUNZIONI PER GLI IDR DI
RUOLO
Il sistema informatico del Ministero della
Pubblica Istruzione è pronto ad acquisire le
domande di ricongiunzione dei docenti di
religione immessi e confermati in ruolo. Lo
rende noto la Direzione Generale dei Sistemi Informativi del MPI attraverso la nota
prot. n. 468 del 13 febbraio 2007 allegata
qui di seguito.
Si tratta della seconda funzione informatica
che si apre agli IdR di ruolo dopo quella relativa ai riscatti comunicata dalla stessa Direzione con l’analoga nota del 21 dicembre
scorso (vedi la specifica notizia). La questione è sempre la stessa. Non è che le domande
di ricongiunzione (unificazione di più versamenti contributivi presenti in diverse casse
pensionistiche) siano presentabili solo da
questo momento né che sia questo il momento di presentarle. Le domande sono state
prodotte a suo tempo dagli IdR non di ruolo
(anche 20-30 anni fa) e da allora giacciono
negli Uffici Scolastici Provinciali in attesa di
essere lavorate manualmente all’interno della
pratica di pensionamento. La novità è che
ora, trattandosi di docenti di ruolo, le stesse
domande possono essere acquisite e lavorate
in modo informatico dal sistema ministeriale
come tutte le altre domande degli altri docenti. Ovviamente nell’immediato verranno
travasate nel sistema solo quelle giacenti, già
presentate dagli attuali IdR di ruolo, mano a
mano che essi vanno in pensione e che quindi si renderà necessaria l’operazione.
Restiamo in attesa che il sistema si apra per
l’operazione più attesa dagli IdR oggi in ruolo
(circa 12 mila docenti) cioè quella relativa alle
ricostruzioni di carriera, da rinnovare in connessione con l’immissione in ruolo. A partire
da quest’ultima data, 1.9.05 o 1.9.06 a seconda del contingente concorsuale, la vecchia
progressione di carriera è sospesa e ne spetta
una nuova a carico del sistema. Nel frattempo
le posizioni stipendiali restano ferme e così,
purtroppo, gli avanzamenti nei gradoni per
anzianità. L’esigenza nasce dal fatto che non
si tratta di docenti al primo anno o in via di
pensionamento ma di docenti in servizio attivo con le loro giuste e dovute aspettative di
valorizzazione professionale.
CONFERMATO L’IRC NEL CREDITO
SCOLASTICO
Il voto sull’IRC va tenuto presente all’interno della procedura di assegnazione del credito scolastico agli alunni della secondaria
superiore. Lo ha appena confermato l’Ordinanza Ministeriale n. 26 del 15 marzo
2007 sulle istruzioni operative riguardanti
il riformato esame di stato della secondaria
di secondo grado.
Si tratta di una norma già vigente, emanata nell’O.M. n. 128 del 1999, all’art. 3 c.
3, ma da allora abbastanza dimenticata,
non più riproposta nella normativa sugli
esami, per quanto confermata nella sua legittimità da una specifica sentenza del Tar
del Lazio (la n. 7101 del 2000). Le difficoltà sono nate non solo dai pregiudizi
ideologico-politici diffusi nel mondo scolastico ma anche dalla obiettiva complessità e impraticabilità della norma in un già
pesante lavoro dell’organo collegiale in fase
di approssimazione all’esame.
73
N O T I Z I E
L E G A L I
L’Ordinanza del 2007 ripropone la stessa
soluzione del 1999 collocandola però in
un contesto nuovo, non a parte dalla restante normativa sul credito ma all’interno
dell’art. 8, quello rivolto interamente al
credito scolastico. Al comma 13, innanzitutto, si affronta la questione della presenza del docente di religione nel consiglio di
classe che delibera l’ammissione all’esame,
affermando: «I docenti che svolgono l’insegnamento della religione cattolica partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del
credito scolastico agli alunni che si avvalgono
di tale insegnamento. Analoga posizione
compete, in sede di attribuzione del credito
scolastico, ai docenti delle attività didattiche
e formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli
alunni che abbiano seguito le attività medesime». Come si può notare, il comma si
compone di due proposizioni riguardanti
l’una la partecipazione dell’IdR, peraltro
non in discussione, l’altra quella del docente delle attività alternative. Sembrano
due affermazioni poste in parallelo a connotare una parità di funzioni basate su una
parità di attività.
Il comma 14 dello stesso art. 8 è invece
dedicato al tema in questione, quello del
valore del voto dell’IRC. Anche qui è bene
esaminare il testo completo che recita:
«L’attribuzione del punteggio, nell’ambito
della banda di oscillazione, tiene conto, oltre
che degli elementi di cui all’art. 11, comma
2, del DPR n. 323 del 23.7.1998, del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l’interesse con il
quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto, ovvero di
altre attività, ivi compreso lo studio individuale che si sia tradotto in un arricchimento
culturale o disciplinare specifico, perché cer74
E
S I N D A C A L I
tificato e valutato dalla scuola secondo modalità deliberate dalla istituzione scolastica
medesima. Nel caso in cui l’alunno abbia
scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare ad iniziative formative in ambito extrascolastico, potrà far valere tali attività come
crediti formativi se presentino i requisiti previsti dal D.M. n. 49 del 24-2-2000». L’andamento del testo è dello stesso tipo del
precedente comma, distribuendo modalità
valutative sia sull’IRC sia su altre tre delle
quattro alternative (escludendo soltanto la
libera attività senza assistenza). Alla conferma della presenza dell’IRC e dell’attività
alternativa nell’ambito della banda di
oscillazione, come già nel 1999, segue la
novità dell’Ordinanza del 2007: la possibilità di valutazione e certificazione dell’attività di studio individuale, in caso che si sia
tradotta in “arricchimento culturale o disciplinare specifico”. In tal caso la scuola,
sulla base di un’apposita delibera del collegio docenti, può valutare e certificare l’attività per tenerne conto nel credito scolastico. La procedura è abbastanza complessa
e di valore prettamente ‘politico’ piuttosto
che scolastico. Come si fa infatti a valutare
un’attività che è del tutto individuale, pur
se assistita? Quale collegio docenti e quale
consiglio di classe, organi già carichi di
funzioni, si sentiranno di entrare in una
operazione così delicata? Più che altro
sembra fatto per impedire lamentele e accuse di discriminazione. L’ultima accortezza, inoltre viene usata per ricordare la possibilità di far valere appositi crediti formativi per chi abbia scelto di uscire dalla
scuola per partecipare ad iniziative esterne
(sic!). In questo caso non si tratta di novità
in quanto tutte le esperienze esterne sono
state sempre accolte quali crediti formativi. Il riferimento, anche qui, sembra essenzialmente ‘politico’.
In sintesi, la lettura del testo dei due com-
N O T I Z I E
L E G A L I
mi induce ad almeno tre riflessioni: la conferma del peso dell’IRC nel credito scolastico; la parità valutativa tra l’IRC e le sue alternative; la praticabilità di tali norme sul
credito.
Sul primo punto non si può che concordare
ed approvare con gioia che la valutazione di
una specifica disciplina scolastica quale
l’IRC, per quanto limitata nella disponibilità
oraria e nella scelta degli alunni, conosca un
suo peso specifico, altrettanto limitato, all’interno della procedura di assegnazione del
credito scolastico riconosciuto agli studenti.
La limitazione nasce dalla collocazione del
giudizio all’interno della banda di oscillazione, con tutte le discrezionalità del caso singolo a disposizione del consiglio. Altro sarebbe stato se si fosse data la possibilità di
contare su di un numero all’interno della
media aritmetica.
Sul secondo punto, tuttavia, non si può
non osservare che tale visione sia in un
certo attrito con l’impianto concordatario
e soprattutto con le due sentenze della
Corte Costituzionale del 1989 e del 1991,
da cui si deduce una sostanziale distinzione tra una disciplina vera e propria (l’IRC)
e le mere attività (o non) sostitutive. Il
modello dell’opzionalità è implicitamente
superato dall’alta Corte nel momento in
cui rigetta l’obbligatorietà delle alternative
ed apre alla possibilità dell’uscita dalla
scuola. D’altra parte si può obiettare che
l’ordinanza si muove in un livello di attenzione inferiore, non tanto ai principi costituzionali quanto alle mere modalità valutative delle conseguenze apportate dalle scelte sull’IRC.
Il dubbio principale, infine, si pone a livello della praticabilità di tali disposizioni. Se
già prima l’operazione di attribuzione del
credito era complicata per un consiglio di
classe formato da una decina di persone
con circa un’ora a disposizione, ora è peg-
E
S I N D A C A L I
gio. Nella procedura ciò che è certo è solo
il calcolo della media numerica dei voti
nelle singole materie, da cui discende la
collocazione nella banda d’oscillazione. Il
resto diventa facoltà del consiglio e risultato di un insieme di spinte contrapposte
dall’esito non sempre prevedibile né verbalizzabile: stato d’animo dei partecipanti,
orientamento ideologico, simpatie-antipatie, superficialità o puntigliosità nel rispetto delle procedure. Il rischio è che il peso
dell’I RC , così come delle sue alternative,
resti solo teorico e non pratico.
Dispiace dover rilevare, in conclusione, come
l’analoga disposizione riguardante l’esame di
stato conclusivo del primo ciclo di istruzione
(C.M. n. 28 del 15.3.2007) non preveda assolutamente nulla sull’IRC, come se niente
fosse accaduto in Italia dal 1930 ad oggi.
AUTORIZZATO IL TERZO CONTINGENTE
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del
16 marzo 2007, ha autorizzato il Ministro
della Pubblica Istruzione ad assumere a
tempo indeterminato il terzo contingente
dei docenti di religione vincitori del concorso effettuato in base alla legge 186 del
2003. Si tratta di un formale Decreto del
Presidente della Repubblica, necessario per
l’assunzione dei 3.060 docenti mancanti ai
fini del completamento dell’organico di 15
mila posti di ruolo previsti per l’IRC.
Con un ritardo di quasi tre mesi rispetto all’analoga operazione rivolta ai primi due
contingenti (autorizzati nel mese di dicembre rispettivamente del 2004 e 2005) il governo ha concluso la procedura di autorizzazione consistente nella raccolta dei pareri
favorevoli di più ministeri, tra cui ovviamente quello decisivo del Ministero dell’Economia. Il ritardo iniziava a destare qual75
N O T I Z I E
L E G A L I
che preoccupazione in ragione del mutato
orientamento politico governativo rispetto
ai due anni precedenti, nonché in ragione
del rispetto dei tempi tecnici necessari alla
stipula dei contratti entro la fine del prossimo mese di luglio.
Ora inizia infatti la procedura interna al
MPI di individuazione del numero complessivo del contingente e di ripartizione del
numero dei vincitori tra le diverse dotazioni
organiche regionali. Trattandosi di un contingente analogo al secondo in quanto a
quota spettante (il 20% dei vincitori), è da
ritenersi che ciò possa agevolare le operazioni, essendo sufficiente rifarsi alla ripartizione dello scorso anno. Al passaggio regionale
seguirà poi il passaggio diocesano. Ogni
diocesi conoscerà il numero esatto dei docenti che entrano in ruolo solo al termine
di questa operazione di competenza degli
uffici scolastici regionali. Per tutto ciò è
prevedibile che occorrano ancora almeno
un paio di mesi. Si giunge così facilmente ai
primi di giugno, appena in tempo per la
predisposizione dei nuovi contratti a tempo
indeterminato.
Con questo atto si conclude la prima fase
attuativa della legge 186, l’effettuazione del
concorso e la copertura con docenti di ruolo del 70% dei posti esistenti e disponibili.
Tuttavia le graduatorie concorsuali contengono nella maggior parte delle regioni ancora molti più docenti di quanti siano riusciti ad entrare in ruolo. Solo in alcune regioni dell’Italia settentrionale le graduatorie
sono esaurite, peraltro già con il secondo
contingente, a motivo delle alte bocciature
effettuate nel concorso. Si apre quindi il
problema della validità delle graduatorie,
normalmente triennali. Saranno ritenute
concluse, e si dovrà pensare ad un secondo
concorso, o saranno prorogate nel tempo
per permettere di coprire annualmente le
nuove esigenze?
76
E
S I N D A C A L I
TENTATE POLEMICHE SUGLI SCRUTINI
Come negli ultimi anni, in vista degli scrutini finali dell’anno scolastico la “lobby antiIRC” è tornata a farsi viva. L’anno scorso lo
aveva fatto attraverso le pagine di una nota
rivista scolastica, quest’anno lo fa sul sito
web di una tra le maggiori organizzazioni
sindacali della scuola, la Flc-Cgil. Poche settimane fa, tra le news del giorno, è apparso
un argomentato articolo contro il valore del
voto del docente di religione in sede di
scrutinio finale. L’autore della nota, dopo
aver citato il noto brano tratto dalla seconda versione dell’Intesa MPI-CEI del 1990
(Dpr 202/90), al secondo comma del punto
2.7, lo interpreta nel senso di una diminuzione delle facoltà del docente di I RC , il
quale sarebbe privato del voto in caso di
una sua determinanza per la promozione o
bocciatura dell’alunno. Ovviamente ne è
nata subito una piccola polemica. Il senso
anti-I RC dell’articolo è stato ripreso dai
quotidiani vicini a quella organizzazione
per ampliarne la diffusione, mentre sui siti
web cattolici e delle organizzazioni sindacali
più vicine al mondo cattolico è stata sottolineata la faziosità della notizia. La segreteria
nazionale della Cisl-scuola, in una nota del
9 maggio, ha osservato che «di tutto si sentiva il bisogno, tranne che di una nuova puntata della querelle sull’insegnamento della religione cattolica e sui suoi insegnanti». Di quale querelle si tratta e qual è lo stato della
questione?
Brevemente si può affermare che la questione prende avvio ben 22 anni fa dalle polemiche seguite alla firma dell’Intesa MPI-CEI
del 14 dicembre 1985 (Dpr 751/85) nella
quale, al punto 2.7 si afferma che «Gli insegnanti incaricati di religione cattolica fanno
parte della componente docente negli organi
scolastici con gli stessi diritti e doveri degli al-
N O T I Z I E
L E G A L I
tri insegnanti». Da alcune parti dello schieramento governativo si pretendeva che non
ci fosse alcuna parità tra il docente di IRC e
gli altri docenti ma che anzi fosse chiara la
sua inferiorità in occasione degli scrutini,
privandolo del tutto del potere di votare. La
soluzione cui si pervenne cinque anni più
tardi, con la nuova formulazione dell’Intesa
del 23 giugno 1990, aggiungeva in effetti
un secondo comma a quello precedente, affermando che «nello scrutinio finale, nel caso
in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto
espresso dall’insegnante di religione cattolica,
se determinante, diviene un giudizio motivato
iscritto a verbale». Nell’immediato, e così
nei quattro anni successivi, tale brano venne
interpretato in termini di deminutio dei poteri del docente di IRC. Pur in presenza di
numerose e complesse discettazioni riguardo il concetto di ‘determinanza’ ed il significato del verbo ‘divenire’, l’interpretazione
maggiore fu che la facoltà di voto, in date
occasioni e solo in date circostanze, sia limitata. Tale interpretazione, tuttavia durò pochi anni, almeno finché sopravvisse la cosiddetta ‘prima repubblica’ dal cui clima politico discendeva.
Una seconda fase si apre infatti poco dopo
con la sentenza del Tar di Lecce del 5 gennaio 1994. L’interpretazione cambiò, dapprima lentamente e poi con la conferma di
altre sentenze analoghe dei Tar della Sicilia
(Catania, 19.9.1995 e CGA 14.2.1996),
Toscana (10.12.1998 e 3.11.2005), Lombardia (7.5.1999), Trento (27.10.2000), Veneto (10.2.2005), fino addirittura ad un’ordinanza del Consiglio di Stato (3.11.2004).
In questa seconda fase la tendenza giurisprudenziale è divenuta quella opposta, non
quella ‘escludente’ il voto ma quella ‘includente’ il voto del docente di IRC. Tali sentenze fanno leva sulla portata del primo
comma del punto 2.7 dell’Intesa, ove si sot-
E
S I N D A C A L I
tolinea la parità dei diritti e doveri tra docenti di IRC e gli altri docenti, per farne derivare una lettura diversa del secondo comma, alla luce della quale in caso di determinanza il voto del docente di IRC non solo
non perde alcun valore ma, pur mantenendo la propria rilevanza, richiede di esser
motivato e iscritto a verbale.
Da più di dieci anni, quindi, la tendenza interpretativa è rimasta sempre la stessa. Nelle
scuole ormai non se ne discute più. Agli
scrutini finali il docente di IRC vota sempre
e comunque, in qualsiasi circostanza, anche
se il suo voto risulta determinante. Il numero e la chiarezza delle sentenze che dichiarano illegittime le deliberazioni prese senza il
voto del docente di IRC annullano in partenza ogni dubbio. Ecco che si comprende meglio il senso delle iniziative di questi ultimi
anni da parte della stessa lobby. Pur utilizzando strumenti diversi ed in anni diversi il
tentativo è sempre lo stesso: invertire tale
tendenza giurisprudenziale, sperando che
nelle scuole nasca e proliferi un contenzioso
tale da rimettere in discussione l’attuale interpretazione favorevole all’IRC.
Attenzione quindi a non cadere in tentazione. Sarebbe meglio non partecipare all’azione tesa a sollevare un polverone, per non ricreare il clima di scontro ideologico tipico
della ‘prima repubblica’. In caso di dubbi e
perplessità sollevate da qualcuno nell’occasione degli scrutini finali è bene evitare ogni
polemica facendo subito riferimento alle
sentenze succitate, eventualmente verbalizzando attentamente la propria posizione e
parlandone con il dirigente scolastico.
SOSPESO IL CREDITO SCOLASTICO
PER L’IRC
Il Tar del Lazio ha sospeso in via cautelare
la validità dei commi 13 e 14 dell’art. 8 del77
N O T I Z I E
L E G A L I
l’Ordinanza Ministeriale n. 26 del 15 marzo 2007 sugli esami di stato della scuola secondaria di secondo grado. I commi in questione riguardano la partecipazione del docente di religione e del docente delle attività
alternative all’attribuzione del credito scolastico in sede di scrutinio finale delle ultime
classi (comma 13) e l’incidenza dei loro
giudizi sull’interesse e profitto riportato dagli alunni nel corso dell’attività annuale
(comma 14). Le motivazioni addotte dalla
sezione Terza Quater del Tar risiedono nella
presunta violazione dell’art. 309 comma 4
del Testo Unico (D. L.vo 297/94), in quanto:
1) sul piano giuridico, tale norma configurerebbe l’IRC «come una materia extracurricolare, come è dimostrato dal fatto che il
relativo giudizio – per coloro che se ne avvalgono – non fa parte della pagella ma deve essere comunicato con una separata ‘speciale nota’»;
2) sul piano didattico, l’IRC non potrebbe
«concorrere alla formazione del ‘credito scolastico’ per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di
trattamento con gli studenti che non seguono né l’insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive».
I ricorrenti contro la norma contenuta nell’O.M. sono una trentina di sigle associative
afferenti sostanzialmente a due aree: quella
ateo-radicale e quella delle chiese cristiane
riformate (evangelici, avventisti, luterani,
valdesi, pentecostali). I giudici della sezione
Terza Quater del Tar del Lazio sono quasi
gli stessi già artefici dell’analoga ordinanza
di sospensione della C.M. 84/05 del ministro Moratti sulla presenza dell’IRC nella
scheda di valutazione, pronunciata il 1° febbraio 2006. Solo uno dei consiglieri è diverso; il presidente, Mario Di Giuseppe, ed il
relatore, Umberto Realfonzo, sono sempre
gli stessi. Altre analogie con la precedente
78
E
S I N D A C A L I
ordinanza sono rilevabili nella norma ritenuta violata, sempre lo stesso art. 309 del
Testo Unico, e nei tempi scelti per la pronuncia, sempre in prossimità degli scrutini,
quadrimestrali lo scorso anno e finali ora,
in modo da creare immediatamente delle
conseguenze operative senza che vi si possa
porre rimedio. Mentre lo scorso anno, tuttavia, il Ministero ormai in disarmo per la
prossimità delle elezioni non fece alcun ricorso, stavolta intende ricorrere al Consiglio di Stato contro l’ordinanza. Gli scrutini, tuttavia, incombono nelle scuole e non è
prevedibile che si faccia in tempo a bloccare
la sospensione del Tar.
Le motivazioni giuridiche addotte stavolta
paiono piuttosto deboli e inadeguate al merito del contendere. L’art. 309, al quarto
comma, si limita a stabilire che la valutazione sull’IRC sia comunicata con «una speciale
nota da consegnare unitamente alla scheda o
alla pagella scolastica». Non, quindi, al di
fuori della pagella; e comunque la norma
non riguarda la curricolarità della disciplina
bensì la mera modalità di comunicazione alle
famiglie. Da questa semplice e secondaria
affermazione i giudici deducono una extracurricolarità della disciplina che appare invece di ben altra portata. Allo stesso tempo
i tre giudici del Tar ignorano o eludono
quanto invece affermato dalla ben più elevata Corte Costituzionale nella sentenza n.
203 del 1989, e cioè che l’IRC è «compreso
tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari dignità culturale». La presunta
extracurricolarità, quindi è fuor di dubbio
senza fondamento.
Riguardo il secondo punto, cioè le motivazioni didattiche, i giudici della sezione Terza Quater del Tar del Lazio hanno dimenticato che i loro colleghi della sezione Terza
Bis hanno già affrontato sette anni fa, con
la sentenza n. 7101 del 2000, lo stesso tema
a proposito dell’analogo ricorso contro la
N O T I Z I E
L E G A L I
prima Ordinanza Ministeriale favorevole alla presenza dell’IRC nel credito scolastico, la
128 del 1999. In quella sentenza, che non
accolse la richiesta di sospensiva dei medesimi ricorrenti, i giudici ritenevano che «la
base che costituisce materia di maturazione
del credito scolastico e del parallelo istituto
del credito formativo è talmente ampia che
non è richiesta identità di posizione degli
alunni dinnanzi alle occasioni prospettate»,
e che «a coloro che non maturano crediti
nel seguire l’IRC, o materie alternative, non
è affatto impedito di guadagnare crediti con
altre iniziative». Del resto, la motivazione
didattica del credito scolastico e formativo,
introdotto dalla legge di riforma che ha sostituito gli esami di maturità (citati erroneamente nell’ordinanza della sezione Terza
Quater) con gli esami di stato n. 425 del
1997, include la valutazione di tutte le attività svolte dagli alunni, anche di quelle extrascolastiche, perfino di quelle sportive e di
volontariato sociale. Come potrebbe escludere proprio un’attività disciplinare interna
E
S I N D A C A L I
alla scuola? Non solo non è ravvisabile alcuna disparità di trattamento per gli alunni
che non s’avvalgono della religione e che sono liberi nel frattempo di svolgere altre attività pienamente valutabili ai sensi dello
stesso comma 14, ma addirittura la disparità di trattamento è un principio facilmente ribaltabile a carico degli alunni che si avvalgono dell’IRC nell’ipotesi che non risulti
valutabile ai fini del credito scolastico.
In conclusione, viste le fragili e improprie
motivazioni dell’ordinanza della sezione
Terza Quater del Tar del Lazio, restiamo fiduciosi nell’analisi più ponderata, con delle
solide basi giuridiche e non solo politiche,
da parte del Consiglio di Stato. Resta l’amarezza per una vicenda che mette di nuovo in
luce la vulnerabilità dell’IRC, rinnova il risentimento da parte di alcuni e la superficialità da parte di altri nel tutelare una disciplina pur nata all’interno di un accordo
di portata non incidentale ma addirittura
costituzionale in un paese pur fondato sulla
Costituzione.
Mentre la rivista va in stampa, la vicenda descritta in questa rubrica ha trovato un suo
primo punto fermo: come auspicato, il Consiglio di Stato ha dapprima bloccato l’esecutività dell’ordinanza del Tar del Lazio con il Decreto presidenziale cautelare n.
2699/2007 di effetto immediato, poi, con l’Ordinanza 12 giugno 2007 n. 2920, ha
respinto l’istanza cautelare emessa dal Tar in primo grado. L’ordinanza del Consiglio
di Stato, consultabile anche tramite internet (www.giustizia-amministrativa.it/ordinanze/CDS_200702920_OO.doc oppure www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4250) afferma che l’ordinanza ministeriale sul credito scolastico impugnata dal
Tar reitera, nei tratti essenziali, l’o.m. 21 maggio 2001 n. 90, che in precedenza ha disciplinato la materia e che non risulta essere stata oggetto di gravame; pertanto il ricorso proposto non appare dotato di sufficiente consistenza giuridica ed è stato respinto. Non possiamo che rallegrarcene, sperando che un po’ di serena equanimità restituisca alla religione nelle scuole un suo spazio legittimo, senza bisogno di difendersi da
aggressioni a suon di avvocati.
79
D I A R I O
S C O L A S T I C O
Diario scolastico
di Filippo Morlacchi
Convegno delle Diocesi del Lazio sull’ebraismo
Il 15 marzo scorso si è svolto a Fiuggi un
importante convegno promosso dall’Ufficio per l’Ecumenismo e il Dialogo del Vicariato di Roma. Il tema prescelto era
Ebraismo in Italia: identità, incontro, dialogo. Vi hanno partecipano esponenti di
spicco della comunità ebraica romana ed
eminenti personalità del mondo cattolico,
dando vita ad un confronto serio e leale,
rispettoso e amichevole, che ha lasciato
pienamente soddisfatti tutti i partecipanti.
I convenuti erano oltre seicento, provenienti dalle 18 diocesi della regione: molti
erano IdR, ma c’erano anche tantissime altre persone a vario titolo interessate al dialogo tra cristianesimo ed ebraismo. I relatori sono stati ringraziati per i loro interventi con applausi calorosi e convinti. Dopo il saluto di S.E. Mons. Petrocchi, il primo a prendere la parola è stato il prof.
Giorgio Israel, matematico, studioso dell’ebraismo e saggista. Partendo dalla sua esperienza personale e familiare, si è interrogato sulla natura dell’identità ebraica: esclusivamente religiosa o anche nazionale? Sia
l’ebreo che sceglie il ritorno in Israele che
quello che rimane nella diaspora è chiamato a confrontarsi con le altre culture e nazioni, senza illusioni di multiculturalismo
irenico, ma in una coabitazione saggia e
tollerante: «la convivenza funziona soltanto
in contesti caratterizzati da una identità
dominante, la quale stabilisce i principi generali e le regole di tale convivenza». La
lunga e affascinante relazione del prof. Andrea Riccardi, storico e fondatore della comunità di Sant’Egidio, ha ripercorso la sto80
ria del Novecento, esaminando i numerosi
tentativi di “congedo dall’ebraismo” culminati nella Sho’ah. Anche il cristianesimo si
è talora lasciato affascinare da questo pernicioso errore, ad esempio con l’Action
Française, tesa ad emancipare il cattolicesimo dalle sue radici semite. Proprio questo
fenomeno testimonia che il dialogo con
l’ebraismo rimane per il cristianesimo di
vitale importanza. Il rabbino Benedetto
Carucci Viterbi ha presentato i libri della
tradizione ebraica a partire dalla distinzione tra Torah scritta e Torah orale. Ha poi
aggiunto, forte della sua esperienza di direttore della scuola ebraica, che il ruolo degli IdR è fondamentale per la diffusione di
una corretta conoscenza dell’ebraismo in
Italia, dal momento che la maggioranza dei
giovani acquisisce le informazioni relative
alla religione ebraica tramite l’IRC. In rappresentanza della CEI, Mons. Walter Ruspi
e Mons. Olindo Marson hanno appunto illustrato quanto la Chiesa italiana ha finora
fatto e quanto intende fare per consegnare
alle nuove generazioni un’immagine corretta dell’ebraismo nel mondo della scuola. Il
Rabbino Riccardo Di Segni ha poi descritto il profilo variegato delle comunità ebraiche italiane, invitando a riconoscerne insieme l’identità comune: ne è uscito un
quadro tanto articolato quanto inedito e
stimolante, seguito da un serrato dialogo
con il pubblico schietto e costruttivo.
Mons. Ambrogio Spreafico, rettore dell’Università Urbaniana, ha reso ragione del capovolgimento di prospettive operato a partire dal Concilio Vaticano II, passando
dall’«insegnamento del disprezzo» all’apprezzamento per l’alleanza mai revocata
D I A R I O
S C O L A S T I C O
(cfr Nostra Aetate n. 4). La giornata, intensa ma gradevolissima, si è svolta in un clima di grande serenità e fraternità, anche
grazie al pasto comune, che ha favorito
l’intrecciarsi di rapporti personali tra i non
pochi ebrei presenti e gli altri convegnisti.
Si attende a breve la pubblicazione degli
Atti, che potranno costituire un vero punto
di riferimento per l’evoluzione del dialogo
ebraico-cristiano in Italia.
La CEI e l’IRC
La sessione primaverile del Consiglio Episcopale Permanente si è svolta come di
consueto, a Roma, presso la sede della
CEI, dal 26 al 29 marzo ed è stata presieduta da Mons. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova, nominato lo scorso 7
marzo da Benedetto XVI quale Presidente
della CEI, succedendo così al Card. Camillo Ruini che per sedici anni ne è stato alla
guida. I membri del Consiglio Permanente
hanno manifestato gratitudine al Card.
Ruini per il lungo e generoso servizio, formulando nel contempo un augurio cordiale a Mons. Bagnasco, con la disponibilità
alla collaborazione per il bene della Chiesa
in Italia. Nel corso dei lavori i presuli hanno pubblicato una “Nota a riguardo della
famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unione di
fatto”, della quale i mezzi di comunicazione hanno fornito ampio resoconto. Risonanza assai minore è stata invece concessa
ad un altro tema all’ordine del giorno dell’assemblea: il contributo specifico offerto
dall’IRC nell’ambito della scuola. Ecco le
parole del Comunicato finale: «Riflettendo
sulla situazione dell’insegnamento della religione cattolica, i vescovi hanno voluto
sottolineare il notevole contributo da esso
arrecato alla formazione delle giovani generazioni, grati per la dedizione competente e
appassionata dei docenti, con il particolare
auspicio che non venga meno in questo
ambito la presenza dei sacerdoti. L’alta percentuale (91, 6%) di alunni che anche nell’anno scolastico 2005-2006 ha scelto di
avvalersi di tale insegnamento nella scuola
statale sta a dimostrare, infatti, che genitori e studenti ritengono che esso possa aiutare a una corretta conoscenza della fede in
Cristo e a maturare una personalità in grado di comprendere i processi culturali in
atto, in un momento in cui si assiste anche
in Italia a un rinnovato interesse nei confronti delle religioni. In definitiva, si tratta
di un insegnamento quanto mai pertinente
in vista della formazione globale della persona, perché favorisce la ricerca di senso, il
confronto con la proprie radici storiche e
l’apertura alla spiritualità. In tale prospettiva, i vescovi hanno altresì confermato la
necessità che le potenzialità dell’insegnamento della religione, non solo nella scuola statale ma anche in quella cattolica, siano adeguatamente valorizzate nell’azione
pastorale, invitando le Chiese particolari a
impegnarsi nella formazione iniziale e nell’aggiornamento permanente dei docenti, a
loro volta chiamati a sentirsi parte viva e
integrante della comunità diocesana e a dare uno specifico contributo nel campo dell’educazione e della “inculturazione” della
fede, con particolare attenzione alla pastorale della cultura, a quella giovanile e vocazionale. Non dovrà inoltre mancare attenzione specifica e disponibilità a offrire collaborazione alla vita della scuola da parte
delle stesse comunità parrocchiali, soggetti
sociali significativi del territorio». Con viva
soddisfazione possiamo osservare che le tematiche – a noi particolarmente care – della «valorizzazione degli esiti formativi dell’IRC nella catechesi» e dell’urgente necessità di elaborare una “pastorale di rete” che
includa organicamente il mondo della
scuola hanno trovato un’autorevolissima
81
D I A R I O
S C O L A S T I C O
conferma. Speriamo che queste idee diventino gradualmente realtà, grazie all’impegno congiunto di tutti gli operatori scolastici.
Il Convegno dei Docenti cattolici del Lazio
Il 30 marzo si è tenuto al santuario del Divino Amore di Roma il Convegno regionale
dei Docenti Cattolici del Lazio. Vi hanno
preso parte oltre 150 docenti, in maggioranza IdR, ma anche di altre discipline, provenienti dalle scuole statali e cattoliche di
tutto il Lazio. Il tema prescelto (La Chiesa
italiana e l’impegno educativo. Il laico cattolico testimone della speranza nella scuola) intendeva volutamente riecheggiare il Convegno di Verona. La mattinata è trascorsa veloce ascoltando le due vivaci relazioni di
Mons. Sergio Lanza e del prof. Sergio Cicatelli. La prima (La persona e la sua vita quotidiana al centro dell’azione pastorale. Fra gli
ambienti e le persone) ha ripercorso con spigliatezza i tratti salienti del mondo giovanile nell’Europa di oggi, offrendo uno sguardo prospettico verso il futuro e offrendo
82
suggestive riflessioni per una rinnovata articolazione dell’azione pastorale. Il secondo
intervento (L’attenzione della pastorale scolastica ai cinque “ambiti” del Convegno di Verona) ha invece offerto interessanti chiavi di
lettura “trasversali”, individuando nel mondo della scuola un vero crocevia di tutti e
cinque gli “ambiti” trattati a Verona (il testo
completo dell’intervento in questo fascicolo
alle pagine 13-19). Dopo pranzo, il pomeriggio ha visto i docenti presenti suddivisi
in cinque gruppi, impegnati in una fruttuosa discussione collegiale sugli argomenti
presentati dai relatori. Ogni insegnante ha
condiviso la propria esperienza educativa a
partire dal proprio personale punto di vista,
consentendo alla fine del lavoro di ricostruire una interessante panoramica sulla situazione della scuola nel Lazio e sulla presenza dei docenti cattolici, in vista di un
più efficace impegno educativo. Un resoconto delle relazioni e dei lavori dei cinque
gruppi è disponibile sul sito internet dell’Ufficio Scuola del Vicariato di Roma
(www.diocesidiroma.it/scuola).
M A T E R I A L I
E
D O C U M E N T I
Documenti di avvio del processo di
revisione delle ‘Indicazioni Nazionali’
Presentiamo il materiali che il Ministero
della Pubblica Istruzione ha recentemente diffuso sulla futura evoluzione della
riforma scolastica. La scelta di un deciso
recupero della dimensione squisitamente
educativa della scuola – acquisizione pedagogica ormai condivisa da tutti, indipendentemente dall’appartenenza politica e culturale – ci conforta e ci sprona
nel nostro impegno di IdR. In questi documenti, l’educazione degli alunni viene
dichiarata responsabilità condivisa di tutti
i docenti e gli operatori scolastici, nessuno escluso; pertanto non può né deve essere delegata al solo insegnante di religione, considerato un docente “a statuto
speciale”. Ciò conferma il ruolo paritetico
che gli IdR hanno finalmente acquisito e
– d’altro canto – la necessità di una adeguata professionalizzazione delle loro
competenze pedagogiche. Altro aspetto
decisivo è la valorizzazione dell’autonomia delle scuole, chiamate a organizzare
creativamente i propri curricoli in relazione alle esigenze del territorio, pur nel rispetto delle Indicazioni nazionali che garantiscono la conformità agli standard europei. Sempre di più l’insegnante del futuro si profila come un professionista in
costante aggiornamento, un creativo imprenditore di sé stesso e della propria
competenza pedagogico-didattica, chiamato a collaborare sistematicamente in
spirito di équipe con i colleghi. Gli aspetti
strettamente pedagogici verranno quindi
sottratti alle prescrizioni burocratiche
centralizzate per essere riconsegnati all’inventiva locale dei docenti – il che non
dovrà significare all’improvvisazione o al
pressappochismo – in vista di una progettazione pedagogica consapevole,
personalizzata e condivisa tra colleghi.
Possiamo serenamente confidare che gli
IdR saranno tra i primi docenti ad affrontare con passione e competenze queste
sfide.
Presentazione
Come è noto, il Ministro della P.I. ha avviato il processo di revisione delle attuali ‘Indicazioni Nazionali’ per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione. Si
tratta di un processo che prevede due
principali fasi. La prima è a breve termine,
e nasce dall’esigenza di superare l’attuale
fase di provvisorietà, consentendo alle
scuole di disporre un quadro di riferimento definito già a partire dal prossimo anno
scolastico. La seconda è invece posizionata nel medio periodo, dopo che il nuovo
testo sarà stato validato dall’esperienza.
In questo modo si intende raggiungere un
duplice obiettivo.
In primo luogo dare una concreta risposta
alle attese del mondo della scuola, che si
aspettava in tempi rapidi il superamento di
una situazione di incertezza legata alla
provvisorietà del testo delle ‘Indicazioni’ lasciate in eredità dal precedente Governo e
che auspicava un maggior riconoscimento
della propria autonomia progettuale. Le ‘Indicazioni’ che si intende varare saranno
molto attente a non ledere tale autonomia,
ma a valorizzarla al massimo. Ma, come
molti hanno fatto notare, una revisione condotta in tempi brevi porta con sé il rischio di
non favorire la partecipazione e il giusto
protagonismo degli insegnanti, dei dirigenti,
dei soggetti associativi, delle forze sociali.
Pur senza voler nascondere le difficoltà, si
pensa però che tale rischio possa essere
evitato grazie alla metodologia che si è
deciso di adottare, che prevede un secondo momento di revisione delle ‘Indicazioni’, dopo un anno della loro messa alla
prova dell’aula. In altre parole, come più
volte è stato detto, si rinuncia alla ‘Grande
Riforma’, che ha bisogno di tempi di elaborazione troppo lunghi e che finisce per
invecchiare prima di realizzarsi, in favore
di un processo costante di innovazione,
fatto da piccoli passi concreti di migliora83
M A T E R I A L I
mento. Ed è questo il secondo obiettivo:
cambiare il modo di fare riforme, rendere
l’innovazione azione costante, fare dell’insegnamento una pratica ricca di riflessività e di ricerca. Avviare un processo di
riforma graduale apre alla più larga partecipazione, che non si esaurisce nel momento del dibattito preliminare, ma si sviluppa lungo tutto il percorso della loro
messa alla prova e si svolge in dialogo
costante con la quotidianità del lavoro didattico ed educativo. Questa scelta porta
necessariamente con sé l’impegno del
centro di fornire un adeguato sostegno all’innovazione, di garantire un costante
monitoraggio, di valorizzare le buone pratiche e di correggere gli inevitabili punti di
debolezza. Agendo in questo modo si capisce che il testo delle Indicazioni che a
breve verrà messo a disposizione delle
scuole e alla prova dell’esperienza non
avrà la pretesa di essere esaustivo né
quella di sfidare il tempo, ma sarà, molto
più concretamente, uno strumento di lavoro a disposizione della scuola.
La Commissione Nazionale che è stata insediata ha, al momento, elaborato due
documenti di carattere generale, il primo
(Cultura, scuola, persona) finalizzato a
delineare la cornice culturale entro la quale si svolge l’azione educativa e didattica
della scuola; il secondo (Il curricolo nella
E
D O C U M E N T I
scuola dell’autonomia) di carattere pedagogico-didattico, indirizzato a delineare
l’idea di scuola, quale oggi si presenta nel
nuovo quadro dell’autonomia.
I due testi di indirizzo sono stati sottoposti
all’analisi dei principali soggetti culturali e
professionali che operano nel mondo dell’istruzione e della ricerca, che si sono
espressi attraverso numerose audizioni e
produzione di propri documenti, fornendo
alla Commissione importanti elementi di
riflessione. Pur apprezzando l’apporto dei
diversi soggetti interpellati, con i quali si
intende mantenere un dialogo costante,
appare indispensabile fornire a tutti gli insegnanti e i dirigenti scolastici la più completa informazione sull’evoluzione dei lavori in corso. Anche se c’è la consapevolezza dei tempi ristretti di questa prima fase, si desidera comunque favorire la riflessione che dirigenti e docenti potranno
sviluppare nelle più diverse modalità ritenute utili, a livello di istituzione scolastica,
di reti di scuole, o in altro modo.
Oltre a rendere disponibili sul sito1 tali documenti, insieme all’intervento svolto dal
Ministro della P.I. al citato Convegno, vengono ora trasmessi alle istituzioni scolastiche, con l’intento di favorire una riflessione larga e partecipata, nelle modalità che
più saranno ritenute opportune e praticabili. […].
CULTURA SCUOLA PERSONA. Verso le indicazioni nazionali per la scuola
dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione.
Roma, 3 aprile 2007
LA SCUOLA NEL NUOVO SCENARIO
In un tempo molto breve abbiamo vissuto il
passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si
moltiplicano sia i rischi che le opportunità.
Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche
più contraddittori. Oggi l’apprendimento
1
scolastico è solo una delle tante esperienze di formazione che i bambini e gli adolescenti vivono e per acquisire competenze specifiche spesso non vi è bisogno dei
contesti scolastici. Ma proprio per questo
la scuola non può e non deve abdicare al
compito di scoprire la capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro
esperienze, al fine di ridurre la frammentazione e il carattere episodico che rischiano di caratterizzare la vita dei bambini e degli adolescenti.
Il materiale è scaricabile sul sito del MPI: www.pubblica.istruzione.it, che anche noi abbiamo usato come fonte
84
M A T E R I A L I
L’orizzonte territoriale della scuola si allarga. Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con
ciò stesso costituisce un microcosmo che
su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni, convivenze globali. Anche ogni singola persona, nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto di
informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si deve confrontare con la pluralità delle culture. Nel suo itinerario formativo ed esistenziale lo studente si trova
a interagire con culture diverse, senza tuttavia avere strumenti adatti per comprenderle e metterle in relazione con la propria. Alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e
aperta.
Non dobbiamo però dimenticare che in
questa situazione di potenziale ricchezza
formativa permangono vecchie forme di
analfabetismo e di emarginazione culturale. Queste si intrecciano con analfabetismi di ritorno, che rischiano di impedire a
molti l’esercizio di una piena cittadinanza.
Inoltre, la diffusione delle tecnologie di
informazione e di comunicazione, insieme
a grandi opportunità, rischia di introdurre
anche serie penalizzazioni nelle possibilità di espressione di chi non ha ancora
accesso a tali tecnologie. Questa situazione nella scuola è ancora più evidente. Allo stato attuale delle cose, infatti, le relazioni con gli strumenti informatici sono assai diseguali fra gli studenti come fra gli
insegnanti.
Anche le relazioni fra il sistema formativo
e il mondo del lavoro stanno rapidamente
cambiando. Ogni persona si trova ricorrentemente nella necessità di riorganizzare e reinventare i propri saperi, le proprie
competenze e persino il proprio stesso lavoro. Le tecniche e le competenze diventano obsolete nel volgere di pochi anni.
Per questo l’obiettivo della scuola non
può essere soprattutto quello di inseguire
lo sviluppo di singole tecniche e competenze; piuttosto, è quello di formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e
culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza de-
E
D O C U M E N T I
gli scenari sociali e professionali, presenti
e futuri. Le trasmissioni standardizzate e
normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate. Al
contrario, la scuola può e deve realizzare
percorsi formativi sempre più rispondenti
alle inclinazioni personali degli studenti,
nella prospettiva di valorizzare gli aspetti
peculiari della personalità di ognuno.
In tale scenario, alla scuola spettano alcune finalità specifiche. La scuola deve
offrire agli studenti occasioni di apprendimento dei saperi e dei linguaggi culturali
di base; deve far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a selezionare le
informazioni; deve promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e
categorie che siano in grado di fare da
bussola negli itinerari personali; deve favorire l’autonomia di pensiero degli studenti, orientando la propria didattica alla
costruzione di saperi a partire da concreti
bisogni formativi.
La scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi, in questa
prospettiva, per il successo scolastico di
tutti gli studenti, con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di
diversità o di svantaggio. Questo comporta saper accettare la sfida che la diversità pone: innanzi tutto nella classe,
dove le diverse situazioni individuali vanno riconosciute e valorizzate, evitando
che la differenza si trasformi in disuguaglianza; inoltre nel Paese, affinché le penalizzazioni sociali, economiche, culturali
non impediscano il raggiungimento degli
essenziali obiettivi di qualità che è doveroso garantire.
CENTRALITÀ DELLA PERSONA
Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale e con l’unicità della rete di relazioni che la legano alla famiglia e agli ambiti
sociali. La definizione e la realizzazione
delle strategie educative e didattiche de-
85
M A T E R I A L I
vono sempre tener conto della singolarità
di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali. In questa prospettiva, i
docenti dovranno pensare e realizzare i
loro progetti educativi e didattici non per
individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca
di orizzonti di significato.
Sin dai primi anni di scolarizzazione è importante che i docenti definiscano le loro
proposte in una relazione costante con i
bisogni fondamentali e i desideri dei bambini e degli adolescenti. È altrettanto importante valorizzare simbolicamente i momenti di passaggio che segnano le tappe
principali di apprendimento e di crescita
di ogni studente.
Particolare cura deve essere contemporaneamente posta alla formazione della
classe come gruppo, alla promozione dei
legami cooperativi fra i suoi componenti,
alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La scuola si deve
costruire come luogo accogliente, coinvolgendo in questo compito gli studenti
stessi. Si deve esplicitare l’importanza
delle condizioni che favoriscono lo star
bene a scuola, al fine di ottenere la partecipazione più ampia dei bambini e degli
adolescenti a un progetto educativo condiviso. La formazione di importanti legami
di gruppo non contraddice la scelta di
porre la persona al centro dell’azione educativa, ma è al contrario condizione indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno.
La scuola deve porre le basi del percorso
formativo dei bambini e degli adolescenti
sapendo che esso proseguirà in tutte le
fasi successive della vita. In tal modo deve fornire le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e per trasformare
le mappe dei saperi rendendole continuamente coerenti con la rapida e spesso imprevedibile evoluzione delle conoscenze
e dei loro oggetti. Si tratta di elaborare gli
86
E
D O C U M E N T I
strumenti di conoscenza necessari per
comprendere i contesti naturali, sociali,
culturali, antropologici nei quali gli studenti si troveranno a vivere e ad operare.
PER UNA NUOVA CITTADINANZA
La scuola persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale. La linea
verticale esprime l’esigenza di impostare
una formazione che possa poi continuare
lungo l’intero arco della vita; quella orizzontale indica la necessità di un’attenta
collaborazione fra la scuola e gli attori extrascolastici con funzioni a vario titolo
educative: la famiglia in primo luogo.
Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato,
perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo. La
scuola non può interpretare questo compito come semplice risposta a un’emergenza. Non deve trasformare le sollecitazioni che le provengono da vari ambiti
della società in un moltiplicarsi di microprogetti che investano gli aspetti più disparati della vita degli studenti, con l’intento di definire norme di comportamento
specifiche per ogni situazione. L’obiettivo
non è di accompagnare passo dopo passo lo studente nella quotidianità di tutte le
sue esperienze, bensì di proporre un’educazione che lo spinga a fare scelte autonome e feconde, quale risultato di un confronto continuo della sua progettualità con
i valori che orientano la società in cui vive.
La scuola perseguirà costantemente l’obiettivo di costruire un’alleanza educativa
con i genitori. Non si tratta di rapporti da
stringere solo in momenti critici, ma di relazioni costanti che riconoscano i reciproci ruoli e che si supportino vicendevolmente nelle comuni finalità educative.
La scuola si apre alle famiglie e al territorio circostante, facendo perno sugli strumenti forniti dall’autonomia scolastica,
che prima di essere un insieme di norme
è un modo di concepire il rapporto delle
scuole con le comunità di appartenenza,
M A T E R I A L I
locali e nazionali. L’acquisizione dell’autonomia rappresenta un momento decisivo
per le istituzioni scolastiche. Grazie ad essa si è già avviato un processo di sempre
maggiore responsabilizzazione condiviso
dai docenti e dai dirigenti, che favorisce
altresì la stretta connessione di ogni scuola con il suo territorio.
In quanto comunità educante, la scuola
deve generare una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi
ed emotivi, ed essere anche in grado di
promuovere la condivisione di quei valori
che fanno sentire i membri della società
come parte di una comunità vera e propria. La scuola può affiancare al compito
dell’«insegnare ad apprendere» anche
quello dell’«insegnare a essere».
L’obiettivo è quello di valorizzare l’unicità
e la singolarità dell’identità culturale di
ogni studente. La presenza di bambini e
adolescenti con radici culturali diverse è
un fenomeno ormai strutturale e non può
più essere considerato episodico: deve
trasformarsi in un’opportunità per tutti.
Non basta riconoscere e conservare le diversità preesistenti, nella loro pura e semplice autonomia. Si deve, invece, sostenere attivamente la loro interazione e la loro
integrazione attraverso la conoscenza
della nostra e delle altre culture, in un
confronto che non eluda questioni quali le
convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere. La promozione e lo sviluppo di ogni persona deve stimolare in
maniera vicendevole la promozione e lo
sviluppo delle altre persone: ognuno impara meglio nella relazione con gli altri.
Non basta convivere nella società, ma
questa stessa società bisogna crearla
continuamente insieme.
Il sistema educativo deve formare cittadini
in grado di partecipare consapevolmente
alla costruzione di collettività più ampie e
composite, siano esse quella nazionale,
quella europea, quella mondiale. Non dobbiamo dimenticare che fino a tempi assai
recenti la scuola ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea. Oggi, invece, può porsi il
compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione
E
D O C U M E N T I
delle diverse identità e radici culturali di
ogni studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e vincolata ai
valori fondanti della tradizione nazionale,
ma che può essere alimentata da una varietà di espressioni ed esperienze personali molto più ricca che in passato.
Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale ad un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare
appieno le possibilità del presente senza
una profonda memoria e condivisione delle radici storiche. A tal fine sarà indispensabile una piena valorizzazione dei beni
culturali presenti sul territorio nazionale,
proprio per arricchire l’esperienza quotidiana dello studente con culture materiali,
espressioni artistiche, idee, valori che sono il lascito vitale di altri tempi e di altri
luoghi.
La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo
cittadini dell’Europa e del mondo. I problemi più importanti che oggi toccano il
nostro continente e l’umanità tutta intera
non possono essere affrontati e risolti all’interno dei confini nazionali tradizionali,
ma solo attraverso la comprensione di far
parte di grandi tradizioni comuni, di un’unica comunità di destino europea così come di un’unica comunità di destino planetaria. Perché gli studenti acquisiscano
una tale comprensione, è necessario che
la scuola li aiuti a mettere in relazione le
molteplici esperienze culturali emerse nei
diversi spazi e nei diversi tempi della storia europea e della storia dell’umanità. La
scuola è luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra
memoria e progetto.
PER UN NUOVO UMANESIMO
Le relazioni fra il microcosmo personale e il
macrocosmo dell’umanità e del pianeta
oggi devono essere intese in un duplice
senso. Da un lato tutto ciò che accade nel
mondo influenza la vita di ogni persona;
dall’altro, ogni persona tiene nelle sue stes-
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M A T E R I A L I
se mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità.
La scuola può e deve educare a questa
consapevolezza e a questa responsabilità
i bambini e gli adolescenti, in tutte le fasi
della loro formazione. A questo scopo si
deve comprendere che il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa
con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei singoli ambiti disciplinari
e, contemporaneamente, con l’elaborazione delle loro molteplici connessioni. E’
quindi decisiva una nuova alleanza fra
scienza, storia, discipline umanistiche, arti
e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo.
In tale prospettiva, la scuola potrà perseguire alcuni obiettivi, oggi prioritari.
Dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia - in una
prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a
integrarle in nuovi quadri d’insieme. Dovrà
promuovere i saperi propri di un nuovo
umanesimo: la capacità di cogliere gli
aspetti essenziali dei problemi; la capacità
di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle
scienze e delle tecnologie; la capacità di
valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; la capacità di vivere e di agire in
un mondo in continuo cambiamento.
Dovrà diffondere la consapevolezza che i
grandi problemi dell’attuale condizione
umana – il degrado ambientale, il caos
climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la
malattia, l’incontro e il confronto di culture
e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca
di una nuova qualità della vita – possono
essere affrontati e risolti attraverso una
stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le
culture. Tutti questi obiettivi possono essere realizzati sin dalle prime fasi della
formazione. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le espressioni artistiche e musicali sono infatti altrettante occasioni privilegiate per apprende-
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E
D O C U M E N T I
re per via pratica quello che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più
elaborate conoscenze teoriche e sperimentali. Nel contempo, lo studio dei contesti storici, sociali, culturali nei quali si
sono sviluppate le conoscenze è condizione di una loro piena comprensione.
Inoltre, le esperienze personali che i bambini e gli adolescenti hanno degli aspetti a
loro prossimi della natura, della cultura,
della società e della storia sono una via di
accesso importante per la sensibilizzazione ai problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio
e nel tempo. Ma condizione indispensabile per raggiungere questo obiettivo è ricostruire insieme agli studenti le coordinate
spaziali e temporali necessarie per comprendere la loro collocazione rispetto agli
spazi e ai tempi assai ampi della geografia e della storia umane, così come rispetto agli spazi e ai tempi ancora più ampi
della natura e del cosmo.
Definire un tale quadro d’insieme è compito sia della formazione scientifica (chi
sono e dove sono io nell’universo, sulla
terra, nell’evoluzione?) sia della formazione umanistica (chi sono e dove sono io
nelle culture umane, nelle società, nella
storia?). Negli ultimi decenni, infatti, discipline una volta distanti hanno collaborato
nel ricostruire un albero genealogico delle
popolazioni umane e nel tracciare i tempi
e i percorsi delle grandi migrazioni con
cui il pianeta è stato popolato. La genetica, la linguistica, l’archeologia, l’antropologia, la climatologia, la storia comparata
dei miti e delle religioni hanno cominciato
a delineare una storia globale dell’umanità. Da parte loro, la filosofia, le arti, l’economia, la storia delle idee, delle società, delle scienze e delle tecnologie
stanno mettendo in evidenza come le popolazioni umane abbiano sempre comunicato fra loro e come le innovazioni materiali e culturali siano sempre state prodotte da una lunga storia di scambi, interazioni, traduzioni. A loro volta, le scienze
del vivente oggi allargano ancora di più
questo quadro: le collaborazioni fra genetica, paleontologia, embriologia, ecologia,
etologia, geologia, biochimica, biofisica,
M A T E R I A L I
ci danno per la prima volta un quadro delle grandi tappe della storia della vita sulla
terra e mostrano la stretta interdipendenza fra tutte le forme viventi.
L’elaborazione dei saperi necessari per
comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza
nazionale, europea e planetaria. Oggi la
scuola italiana può proporsi concretamente un tale obiettivo, contribuendo con ciò
a creare le condizioni propizie per rivitaliz-
E
D O C U M E N T I
zare gli aspetti più alti e fecondi della nostra tradizione. Questa ,infatti, è stata ricorrentemente caratterizzata da momenti
di intensa creatività – come la civiltà classica greca e latina, la Cristianità, il Rinascimento e, più in generale, l’apporto degli artisti, dei musicisti, degli scienziati,
degli esploratori e degli artigiani in tutto il
mondo e per tutta l’età moderna – nei
quali l’incontro fra culture diverse ha saputo generare l’idea di un essere umano
integrale, capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano.
IL CURRICOLO NELLA SCUOLA DELL’AUTONOMIA
1. La tradizione italiana dei Programmi
per la scuola
La tradizione italiana di orientamenti e programmi, lunga e diversificata, ha negli anni
segnato l’evoluzione del pensiero pedagogico e della storia della scuola. Per la scuola dell’infanzia i primi Orientamenti delle attività educative del 1969 sono stati seguiti
dagli Orientamenti del 1991. Per la scuola
primaria i Programmi didattici del 1955 sono stati sostituiti dai nuovi Programmi didattici del 1985. Per la scuola secondaria di I
Grado i Programmi del 1963 sono stati seguiti da quelli del 1979. Tutti questi Orientamenti e Programmi sono rimasti in vigore fino alla emanazione delle Indicazioni nazionali del 2004. Come si vede, cambiare programmi ha richiesto tempi lunghi e si è
sempre trattato di riforme settoriali.
L’asincronia degli interventi e la mancanza di raccordo tra i programmi dei diversi
ordini di scuola rappresentano evidenti limiti, per di più aggravati dall’assenza di
un effettivo collegamento ai programmi
della scuola secondaria di II grado, nella
quale – in attesa di una organica riforma
di struttura – si andava intanto sviluppando, a partire dagli anni Novanta, una complessa e articolata sperimentazione, che
ha inciso nei diversi ordini e indirizzi soprattutto sul piano curricolare.
A cavallo degli anni 2000 si è aperta una
fase nuova contraddistinta:
a) dall’avvio dell’autonomia scolastica (l.
59/1997, art. 21) e dalla sua successiva
regolamentazione (DPR 275/1999), che
hanno condotto a una attenuazione del
tradizionale centralismo dei programmi e
a una loro rivisitazione in più duttili termini
curricolari;
b) dai tentativi che – nell’ambito del più
ampio concerto europeo dei Libri Bianchi
e di Lisbona 2000 – hanno teso ad avviare una riforma di sistema della scuola mirata a investire l’intero ordinamento degli
studi, i contenuti dell’insegnamento, le
metodologie didattiche e organizzative (l.
30/2000 e l. 53/2003).
Nei primi anni 2000 l’iniziativa ha portato:
a) in connessione con la “riforma dei cicli”
(legge 30/2000), alla predisposizione,
seppur provvisoria, degli Indirizzi curricolari nazionali per la scuola dell’infanzia e
per la scuola di base del 2001;
b) in connessione con la legge 53/2003,
alle Indicazioni nazionali del 2004 rispettivamente per la scuola dell’infanzia e per
la scuola secondaria di I grado (D.lgs 192-2004 n. 59), anche queste da considerarsi provvisorie.
2. Dare alla scuola un quadro di riferimento definito
Superare la provvisorietà delle attuali Indicazioni è necessario, se si vuol offrire alla
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scuola dell’infanzia e a quella del primo
ciclo di istruzione un quadro di riferimento
definito, portando a compimento quanto
richiesto dal Regolamento sull’autonomia.
Il processo di predisposizione delle Indicazioni richiede che:
• si tenga presente il nuovo quadro normativo che nel frattempo si è andato
definendo;
• si faccia riferimento alle linee di indirizzo che caratterizzano l’azione di Governo nel settore della scuola;
• si assumano parametri e criteri condivisi per le nuove Indicazioni nazionali
del curricolo di scuola, tenendo in attenta considerazione quanto è emerso
dall’esperienza degli insegnanti e dalla
riflessione culturale che si è sviluppata.
3. ‘Indicazioni’ e curricolo
Nel rispetto e nella valorizzazione dell’autonomia delle Istituzioni Scolastiche, le Indicazioni Nazionali costituiscono il quadro di riferimento delle scelte affidate alla
progettazione delle scuole. In questo
senso sono un testo volutamente aperto
che la comunità professionale è chiamata
ad assumere e a contestualizzare tenendo conto dei bisogni di sviluppo degli
alunni, delle aspettative della società,
delle risorse disponibili all’interno delle
scuole e nel territorio. Con il riconoscimento dell’autonomia alle istituzioni scolastiche il posto che era dei programmi
nazionali viene preso dal Piano dell’Offerta Formativa che, come è affermato nella
vigente normativa, è «il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche». Il cuore didattico del Piano dell’Offerta Formativa è il curricolo, che viene
predisposto dalla comunità professionale
nel rispetto degli orientamenti e dei vincoli posti dalle ‘Indicazioni’ e la sua elaborazione è il terreno su cui si misura
concretamente la capacità progettuale di
ogni scuola. Una conseguenza dell’introduzione dell’autonomia è che il luogo delle decisioni si sposta, almeno in parte,
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E
D O C U M E N T I
dal centro alla singola istituzione scolastica ed è per questa ragione che il curricolo si afferma come principale strumento
della progettualità didattica.
La nozione di curricolo consente di guardare all’educazione a scuola come un
processo complesso di trasmissione culturale e di orientamento personale e al
tempo stesso di focalizzarne le diverse
componenti. Si impara in un contesto sociale che è tale non soltanto perché avviene in una specifica situazione storica e
culturale, ma anche perché si impara con
gli altri, che sono gli adulti insegnanti responsabili dei processi educativi che innescano e i pari che con le loro diverse
caratteristiche contribuiscono alla presa
d’atto progressiva delle proprie e delle altrui specificità.
Si impara inoltre mediante l’ausilio di strumenti, materiali (libri, quaderni, computer…) e simbolici (i diversi alfabeti della
conoscenza) che consentono la progressiva appropriazione del patrimonio culturale della società in cui si vive.
Mediante l’acquisizione di contenuti e di
abilità a scuola si attivano e si promuovono processi di elaborazione che rappresentano l’aspetto più specifico della complessa attività scolastica.
La scuola è un ambiente particolare di
apprendimento, che, molto più di altri ambienti, offre non solo continue occasioni di
imparare, ma anche di sbagliare, analizzare i propri errori, emendarli e continuare
o riprendere ad imparare. Ciò rappresenta una specificità propria della scuola che
costituisce perciò un luogo salvo, al riparo
dai ritmi, dalle urgenze e dalle pressioni
esterne e in cui tutto questo può avvenire
con il monitoraggio e l’accompagnamento
di un adulto competente.
Nella società della conoscenza, che sembrerebbe rendere marginale la funzione
educativa della scuola, per la concomitante presenza di un numero progressivamente maggiore di altre agenzie educative, va, invece, riconosciuta una funzione
fondamentale a questa istituzione delegata alla acquisizione di processi di elaborazione, difficilmente acquisibili altrove, ove
insegnanti ed alunni riconoscono piena-
M A T E R I A L I
mente il senso del loro trovarsi quotidianamente insieme.
Il curricolo organizza e descrive l’intero
percorso formativo che uno studente
compie, dalla scuola dell’infanzia alla
scuola secondaria, nel quale si intrecciano e si fondono i processi cognitivi e quelli relazionali. L’unitarietà del percorso non
dimentica la peculiarità dei diversi momenti evolutivi nei quali l’avventura dell’apprendimento si svolge, che vedono un
progressivo passaggio dall’imparare facendo, alla capacità sempre maggiore di
riflettere e formalizzare l’esperienza, attraverso la ri-costruzione degli strumenti culturali e la capacità di utilizzarli consapevolmente come chiavi di lettura della
realtà.
Gli itinerari dell’istruzione, che sono finalizzati all’alfabetizzazione linguistico-letteraria, storicogeografica-sociale, matematico-scientifica-tecnologica, artistico-creativa), sono inscindibilmente intrecciati con
quelli della relazione, che riguardano l’interazione emotivo-affettiva, la comunicazione sociale ed i vissuti valoriali che si
generano nella vita della scuola.
4. Tra istanze nazionali e istanze della
comunità scolastica
Il curricolo che ogni singola scuola elabora, pur nella originalità che lo contraddistingue, deve tenere conto delle richieste
che il centro fa attraverso le Indicazioni,
ma questo non significa che il progetto
della scuola sia altra cosa, che si giustappone alle richieste del centro senza integrarsi. In realtà, Indicazioni nazionali e
scelte della scuola si fondono in un unico
progetto. Così inteso, il curricolo costituisce un mosaico dal disegno unitario eppure articolato, risultato dell’integrazione
delle esigenze che ogni scuola ha saputo
far emergere nel dialogo con la propria
realtà di appartenenza e le richieste che,
attraverso le Indicazioni, la comunità nazionale esprime.
Indicare i processi di alfabetizzazione culturale comuni all’intero sistema scolastico
italiano – in termini di conoscenze e di
E
D O C U M E N T I
competenze – è compito del centro, cui
compete stabilire i principali assi culturali
del curricolo, le discipline che ad essi si
riferiscono, le competenze da sviluppare.
Spetta poi ad ogni istituzione scolastica
meglio specificare gli obiettivi da raggiungere, eventualmente integrando la gamma degli insegnamenti proposti agli studenti, prestando particolare attenzione alle specificità del contesto di riferimento,
alle attese e ai problemi che lo caratterizzano, alle risorse che si possono utilizzare. Questo comporta il possibile arricchimento del monteore di alcuni insegnamenti già previsti a livello centrale, l’utilizzazione della flessibilità oraria consentita,
l’introduzione di modalità organizzative
che si ritengono più rispondenti agli scopi. La scuola dell’autonomia viene così a
realizzare un curricolo che si costruisce in
un rapporto di reciprocità culturale e didattica con l’ambiente, fino a considerarlo
aula decentrata, nella quale imparare ad
essere ed imparare a vivere è possibile,
contestualmente all’ imparare ad imparare
e ad imparare a inventare.
È evidente la differenza che la logica del
curricolo introduce rispetto ai programmi
nazionali anche per quanto riguarda la
considerazione della professionalità dei
docenti e dei dirigenti scolastici. Il programma prescrive una lista di obiettivi e
di contenuti definiti centralmente ed a
prescindere da ogni riferimento alle realtà
locali: ad essi il docente deve riferirsi ed
applicarli nel suo insegnamento. Anche il
curricolo propone obiettivi e contenuti,
compresi quelli definiti dal centro e prescrittivi, che garantiscono l’unitarietà del
sistema nazionale, ma in essi trova spazio
l’attenzione alla realtà sociale nella quale
la scuola è inserita, la sua cultura, le specifiche esigenze rilevate nell’ascolto dei
bisogni degli alunni e nel confronto con le
richieste e le attese delle famiglie e del
territorio. Se, nel caso del programma,
agli insegnanti si richiedeva di essere dei
buoni esecutori di un testo elaborato altrove, nel caso invece del curricolo si chiede
loro di essere coelaboratori, protagonisti e
responsabili delle scelte effettuate. La
professionalità è dunque fortemente valo-
91
M A T E R I A L I
rizzata e responsabilizzata, poiché la comunità professionale è chiamata ad assumersi significative responsabilità progettuali, nel quadro di un pieno riconoscimento della libertà culturale di ciascuno,
all’interno di una dimensione sociale di
collaborazione, negoziazione delle scelte,
condivisione di una peculiare idea di
scuola. Attraverso il lavorare insieme, al di
là di modalità burocratiche e formali, si
costruisce una comunità professionale ed
educativa nella quale la libertà culturale di
ciascuno è rispettata e valorizzata, in un
confronto responsabile, finalizzato alla delineazione di un progetto alto di scuola,
impegnativo per tutti, per tutti significativo. Il processo di costruzione del curricolo non si conclude una volta per tutte, ma
si configura come ricerca continua, grazie
all’azione dei docenti, professionisti riflessivi impegnati in un costante lavoro di
analisi e di rielaborazione delle loro pratiche didattiche.
Criteri per l’elaborazione del curricolo
Il Regolamento sull’autonomia fissa i criteri che le istituzioni scolastiche devono osservare per l’elaborazione del curricolo. In
particolare stabilisce quali siano i riferimenti prescrittivi che il centro deve fornire
e che riguardano, in particolare, i seguenti aspetti:
• gli obiettivi generali del processo formativo;
• gli obiettivi specifici di apprendimento
relativi alle competenze degli alunni;
• le discipline e attività costituenti la
quota nazionale dei curricoli e il relativo monteore annuale.
a) Per quanto riguarda gli obiettivi generali, il richiamo centrale è dato dalla piena
valorizzazione della persona umana, le
cui capacità vanno potenziate in modo
armonico ed integrale grazie all’apporto
degli strumenti culturali propri della scuola e della qualità dell’esperienza che tale
ambiente è chiamato a coltivare. Il riferimento alla persona, non va inteso astrattamente, ma va visto nella concretezza
della situazione evolutiva, sociale, cultu-
92
E
D O C U M E N T I
rale in cui si trova. Inoltre, il processo
educativo che la formazione scolastica
promuove va oltre la dimensione del sapere e del saper fare aprendosi anche
agli alfabeti dell’imparare a vivere ed a
convivere in una società della quale si è
parte e del cui miglioramento ci si sente
responsabili. La competenza alla quale la
scuola di base mira è, prima di tutto, generale e riferita all’essere persona e cittadino responsabile, nei confronti di se
stesso, degli altri, della città (polis) e dell’ambiente in cui si vive. Non è solo alla
scuola che compete la responsabilità
educativa né solo nella scuola avvengono i percorsi dell’apprendimento, ma essa concorre con gli strumenti che le sono
propri e che sono gli strumenti della cultura. Le attività e le discipline di cui la
scuola si avvale, mentre forniscono strumenti metodologici, mappe concettuali e
chiavi di comprensione specifiche della
realtà, rappresentano esse stesse potenti
mezzi di educazione.
b) Gli obiettivi di apprendimento che la
scuola persegue sono finalizzati allo sviluppo delle competenze. Il Regolamento
dell’Autonomia li chiama ‘specifici’ con
una duplice accezione. Sono specifici
della scuola, e quindi si riferiscono alle attività e alle discipline che in ambito scolastico vengono utilizzati; sono specificamente collegati alle competenze di cui la
scuola deve promuovere lo sviluppo.
c) Un ulteriore elemento di prescrittività
riguarda le discipline e le attività obbligatorie. Spetta al centro indicare quali insegnamenti debbano essere impartiti da
tutte le istituzioni scolastiche, pur nel rispetto della loro autonomia didattica. È
questa una condizione indispensabile
per la tenuta unitaria del sistema nazionale di istruzione, che prevede che il curricolo integri i contenuti culturali prescritti a
livello nazionale e quelli scelti da ogni
singola scuola, che può decidere di dedicare loro un maggior spazio di approfondimento o di integrarli con altri ritenuti opportuni in relazione alle peculiarità del
contesto.
La progettazione curricolare è una operazione complessa che coinvolge tutti i fat-
M A T E R I A L I
tori connessi con il processo educativo,
dai contenuti agli esiti formativi, dalla modalità di realizzazione ai condizionamenti
dovuti alle situazioni socioambientali. Il
processo di costruzione del curricolo non
può prescindere da una riconsiderazione
critica degli elementi essenziali del rapporto educativo.
In conclusione:
• il curricolo va costruito nella scuola,
non viene emanato dal centro per essere applicato;
• tale costruzione deve permettere l’accordo tra istanza centrale, normativa e
unitaria, ed istanza locale, pragmatica
e flessibile;
• la costruzione del curricolo implica
una considerazione della scuola come
luogo di ricerca, in rapporto dialettico
con le istanze provenienti dalla comunità scientifica, le istanze provenienti
dalla comunità sociale e quelle etiche
e che caratterizzano l’orizzonte dei valori condivisi rappresentati sia a livello
centrale sia a livello locale;
• la problematica curricolare è il terreno
su cui si muove l’innovazione educativa.
Ambiti, discipline, unitarietà del sapere
L’itinerario formativo che dalla scuola dell’infanzia si sviluppa fino al termine del
primo ciclo è caratterizzato dal progressivo passaggio dagli ambiti e campi dell’esperienza all’emergere e definirsi delle
aree disciplinari e delle singole discipline,
in una prospettiva che deve sempre tendere all’unitarietà del sapere. Nella scuola
dell’infanzia e nei primi anni della scuola
primaria le esperienze e le scoperte che i
bambini compiono, pure nella loro profonda unitarietà, portano progressivamente
all’emergere di alcuni ambiti che via via
assumono una sempre maggiore riconoscibilità. Il termine ‘ambito’ serve a designare queste prime forme di aggregazione che, senza fare ancora esplicito riferimento agli statuti delle diverse discipline,
consentono tuttavia agli insegnanti di promuovere esperienze ed attività significati-
E
D O C U M E N T I
ve ed orientate alla scoperta dei sistemi
simbolico culturali.
Nella scuola dell’infanzia l’azione educativa colloca in una prospettiva evolutiva i
vissuti e le esperienze dei bambini, mediandoli culturalmente all’interno di un
contesto sociale ed educativo intenzionalmente orientato alla progressiva costruzione delle conoscenze e allo sviluppo
della competenza.
Gli obiettivi di apprendimento della scuola
dell’infanzia vanno visti come traguardi relativi a dimensioni di sviluppo irrinunciabili
e per meglio consentire di identificarli il
curricolo si struttura in ambiti e campi di
esperienza che possono essere considerati la mappa del percorso formativo da
promuovere e consolidare nel passaggio
che conduce alla scuola primaria.
Nei primi anni della scuola primaria l’iniziale organizzazione degli apprendimenti
si struttura in maniera più esplicitamente
orientata ai saperi disciplinari, raggruppandosi in tre grandi ambiti: a) linguisticoespressivo; b) antropologico; c) matematico-scientifico. Progressivamente, attraverso attività di ricerca e di riflessione a
partire dalle esperienze condotte, emergerà sempre più consapevolmente la nozione di disciplina, intesa non semplicemente come ‘materia scolastica’ (insieme
di nozioni), ma come strumento di indagine, che dispone di metodi, linguaggi,
concetti specifici e caratterizzanti. Il possesso di un buon livello di padronanza disciplinare è non ostacolo, ma condizione
indispensabile per il raggiungimento di
una visione unitaria del sapere, frutto del
dialogo e dell’integrazione dei diversi
punti di vista disciplinari. In prospettiva
formativa, l’insegnamento mira a favorire
un apprendimento unitario, cioè capace
di dare senso alla molteplicità delle informazioni e delle esperienze. Unità, in questo caso, significa unità del sapere, superamento delle conoscenze frammentate,
dell’enciclopedismo nozionistico, capacità di comporre in un quadro organico e
dotato di senso le conoscenze acquisite.
Questo processo avviene tanto a livello
disciplinare che interdisciplinare. A livello
disciplinare si tratta di conquistare modelli
93
M A T E R I A L I
di spiegazione dei fenomeni particolari,
quadri di idee capaci di conferire alle singole informazioni un senso, all’interno di
campi di indagine ben identificati. A livello
pluridisciplinare vanno colte le interazioni
reciproche che le discipline hanno ed il
valore dell’integrazione di diversi apporti
scientifici. L’interdisciplinarità, infine, si
configura come sapere di sintesi, modalità di soluzione di problemi complessi.
Ma quando ci si riferisce all’unitarietà non
è in gioco solo una prospettiva o un metodo di insegnamento. In termini ancora più
profondi, sotto il profilo educativo, l’unitarietà riguarda il processo di personale costruzione di significato che ogni alunno è
chiamato a compiere. L’accompagnamento culturale della scuola ha successo
quando aiuta l’alunno a fare personale
sintesi di quanto gli viene proposto, a trovare il nesso tra la sua esperienza, i suoi
bisogni e quanto la cultura gli offre, a dare
senso all’esperienza di apprendimento
realizzata e farne risorsa per la costruzione del suo progetto di vita.
Promuovere le competenze essenziali
La scuola dell’autonomia ha il compito di
favorire la conquista dell’autonomia dell’alunno. Autonomo è chi sa fronteggiare le
situazioni problematiche, possiede strategie di soluzione dei problemi, sa vivere
con gli altri cooperando, difendere con argomentazioni il proprio punto di vista, ma
anche ascoltare il punto di vista degli altri
e, se è il caso, modificare il proprio convincimento. Autonomo è anche chi sa
chiedere aiuto, avendo la consapevolezza
del proprio limite e sa offrire aiuto compe-
E
D O C U M E N T I
tente. Autonomo è, in definitiva, chi di
fronte ai problemi che incontra sa fronteggiarli facendo ricorso e mobilizzando tutte
le proprie risorse interiori: conoscenze e
abilità, emozioni e impegno personale.
L’autonomia riguarda tutte le dimensioni
della persona e il grado di autonomia è in
relazione al livello di competenza posseduta.
La scuola che è orientata a promuovere
l’imparare ad apprendere, più che a trasmettere conoscenze da memorizzare o
insegnare automatismi da applicare meccanicamente, finalizza il proprio curricolo
allo sviluppo delle competenze fondamentali. In un curricolo centrato sulle
competenze le conoscenze hanno un peso importante, ma non sono fine a se
stesse, sapere inerte, spendibile solo nei
confini di un’aula scolastica, ma non significativo per la vita. Una concezione
non nozionistica del sapere è interessata
non tanto a ciò che un alunno sa, ma a
quello che sa fare e sa diventare con
quello che sa.2
Nel curricolo conoscenze e competenze
sono tra loro in stretta relazione. Ogni ambiente educativo contribuisce a sviluppare competenza, ma la scuola lo fa secondo la propria natura e si serve degli strumenti culturali che le sono propri. Le competenze che si sviluppano grazie all’apprendimento scolastico sono, certamente,
legate alla specificità dei saperi che vengono fatti incontrare all’alunno e sono,
perciò intimamente intessute di contenuti
culturali. In questo senso, le discipline sono potenti mezzi formativi, per i metodi
che forniscono e per i sistemi concettuali
che consentono di costruire. Ancora di
più lo sono per la loro capacità di intro-
2
«Fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi comporta non solo il possesso di conoscenze e
abilità, nonché emozioni e atteggiamenti adeguati a un’efficace gestione di tali componenti. Pertanto la nozione di competenze include componenti cognitive ma anche componenti motivazionali, etiche, sociali, risultati di
apprendimento (conoscenze e abilità), sistemi di valori e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche. Da tale punto di vista, leggere, scrivere e far di conto sono abilità che, ai livelli di base, rappresentano le
componenti critiche di numerose competenze. Mentre il concetto di competenza si riferisce alla capacità di
far fronte a richieste di un elevato livello di complessità e comporta sistemi di azione complessi, il termine conoscenze è riferito ai fatti o alle idee acquisiti attraverso lo studio, la ricerca, l’osservazione o l’esperienza e
designa un insieme di informazioni che sono state comprese. Il termine abilità viene usato per designare la
capacità di utilizzare le proprie conoscenze in modo relativamente agevole per l’esecuzione di compiti semplici». Cfr: OECD, The definition and selection of key competencies (DeSeCo): theorical and conceptual foundations. Strategic paper, 07 Oct. 2002.
94
M A T E R I A L I
durre, attraverso lo stupore che nasce dal
misurarsi con le grandi domande, alla dimensione della scoperta. La scuola che
mira allo sviluppo delle competenze è un
vero laboratorio del pensiero, centro di ricerca e spazio di sperimentazione, di
cooperazione, di relazioni significative
che impegna gli insegnanti ad essere
‘maestri’, cioè adulti competenti che testimoniano con la loro passione l’autenticità
delle richieste che fanno ai loro alunni.
Orientamenti per l’azione didattica
Le modalità attraverso le quali promuovere lo sviluppo delle competenze rientrano
nella autonomia delle scuole e dei docenti, soprattutto per quanto riguarda le scelte di ordine didattico e organizzativo.
Spetta, infatti, alla comunità professionale
stabilire la concreta organizzazione degli
ambiti di insegnamento, individuando le
soluzioni che, nello specifico contesto
della situazione in cui si opera, delle risorse disponibili e del progetto pedagogico
elaborato appaiano le più efficaci, salvaguardando in ogni caso il principio della
collegialità e corresponsabilità del gruppo
docente. Funzioni quali quelle della progettazione, organizzazione, gestione delle
attività didattiche, valutazione, orientamento, rapporti con i genitori, sono di pertinenza di tutti i docenti che operano collegialmente all’interno della comunità professionale e del gruppo docente, (compresi gli insegnanti specializzati sul sostegno) in un quadro di pari responsabilità
tra i docenti contitolari, senza dar luogo
ad alcuna figura docente gerarchicamente distinta o sovraordinata e la responsabilità è condivisa, quale che siano le modalità stabilite per assicurarla. L’organizzazione dell’orario scolastico e della suddivisione dei relativi compiti didattici va ricondotta ad una coerenza ed unitarietà di
impianto, evitando la frammentazione in
una miriade di attività di scarso significato
culturale. In ogni caso l’attribuzione del
monte ore per le diverse attività didattiche, l’articolazione dei tempi dedicati ai
laboratori o ad altre attività progettate, i ti-
E
D O C U M E N T I
pi e i modi delle corresponsabilità previste
in relazione alla conduzione delle attività
didattiche di aula e di laboratorio, con il
gruppo classe o con gruppi diversamente
formati, tutto questo attiene all’autonomia
progettuale della scuola e trova i suoi criteri esplicitati nel Piano dell’Offerta Formativa.
Non spetta al Ministero prescrivere come
organizzare la didattica e come distribuire
le responsabilità all’interno della scuola,
nei rapporti tra docenti, con gli alunni o
con i genitori. Prescrittivo, invece, né potrebbe essere diversamente, è che sia garantito il coordinamento didattico nel
gruppo docente, sia assicurata una funzione di accompagnamento e di orientamento nei confronti di ciascun alunno e
venga curato un rapporto costante e non
burocratizzato con le famiglie, riconoscendo nei genitori degli alunni, senza
che vi sia alcuna confusione di ruolo, degli importanti partner nell’educazione e
delle risorse per la comunità scolastica.
Il restituire all’autonomia della scuola la
piena responsabilità didattica non significa legittimare qualsiasi impostazione pedagogica, metodologica, organizzativa,
valutativa. Le finalità del processo formativo, le competenze da sviluppare, gli
obiettivi di apprendimento da garantire
sono definiti con chiarezza nelle Indicazioni nazionali ed hanno piena forza prescrittiva, il che implica che le autonome
scelte curricolari delle istituzioni scolastiche devono essere coerenti con tali prioritari riferimenti. Le impostazioni metodologiche e didattiche non possono essere
prescritte centralisticamente, ma è evidente che le diverse scelte possibili, e
che attengono al campo della libertà didattica e della ricerca, devono essere
orientate a rispondere ai bisogni fondamentali di apprendimento e di senso degli
alunni. Non è, pertanto, vincolante l’adozione di una particolare forma progettuale
rispetto ad altre possibili e diverse, ma è
vincolante che le progettazioni dei percorsi didattici siano orientate a sviluppare le
competenze fondamentali, a garantire il
raggiungimento degli standard stabiliti,
siano attente a promuovere il protagoni-
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M A T E R I A L I
smo dell’alunno, chiamato ad “apprendere ad apprendere”, siano sufficientemente
flessibili per consentire un insegnamento
individualizzato negli obiettivi da raggiungere ed un apprendimento personalizzato
nei modi per conseguirli.
In questa ottica, la responsabilità della valutazione e la cura della documentazione
educativa appartengono a tutti i docenti e
rappresentano tratti essenziali della funzione docente. La valutazione, nella scuola di base, assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei
processi di apprendimento e di stimolo al
miglioramento continuo. Ogni forma di documentazione dei processi formativi di
supporto ai processi di apprendimento
degli allievi (dossier, cartelle, portfolio,
ecc.) sono rimesse alla piena autonomia
delle scuole. Non si vuole svalutare la preziosa esperienza di ricerca e sperimentazione che molti docenti hanno avviato, ma
riconsegnare tali pratiche alla dimensione
pedagogica, sottraendole a quella burocratica ed amministrativa, nella quale in
troppi casi è stata utilizzata.
Crescere in una comunità di apprendimento
L’alunno cresce e sviluppa le proprie
competenze in un ambiente culturalmente
caratterizzato, altamente simbolico, e nell’interazione continua con gli altri apprende a muoversi nelle diverse situazioni di
vita grazie all’uso di strumenti culturali. Se
nessuno può sostituirsi al compito evolutivo del quale ogni persona è portatrice, tale compito può essere opportunamente
sostenuto grazie a molteplici forme di mediazione. Già i materiali, gli ambienti, lo
spazio fisico fungono da mediatori, ma la
principale, insostituibile mediazione è data dall’interazione sociale, da cui si possono sviluppare varie forme di apprendimento collaborativo, nelle quali la qualità
della relazione educativa è centrale. È in
questo clima che si costruisce la comunità scolastica, che si configura come:
a) Comunità di pratiche: gli alunni imparano l’uno dall’altro, quando sono insieme
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E
D O C U M E N T I
impegnati in un compito comune, come
possono essere quelle della ricerca, o
della progettazione e realizzazione di un
prodotto. Il lavorare insieme promuove diverse forme di collaborazione, consente
di mettere in comune conoscenze tacite
altrimenti non svelate, fa emergere ruoli,
evidenzia la mutua rilevanza perché tutti
concorrono all’obiettivo condiviso.
b) Comunità di dialogo: gli studenti discutono, mettendo a confronto le loro idee e le
loro “visioni del mondo”. Scoprono altri
punti di vista rispetto al proprio e sperimentano resistenza alle loro convinzioni. L’
altro è il limite contro il quale naufraga l’egocentrismo cognitivo e quello sociale ed
è la condizione per il loro superamento. La
disputa inevitabile apre la strada alla discussione e questa all’argomentazione. Si
impara grazie al dover rendere ragione
delle proprie convinzioni e in tal modo si
scopre che esistono anche altre ragioni,
altri punti di vista, che possono migliorare
o arricchire il nostro. Come nella vita democratica adulta, anche nelle prime esperienze di interazione con gli altri, l’opposizione gioca un ruolo fondamentale perché
non consente di coltivare l’illusione infantile di avere sempre ragione.
c) Comunità di diversità: in una realtà
sempre più multiculturale e caratterizzata
da una molteplicità di diverse situazioni
individuali, le pratiche didattiche collaborative svolgono una insostituibile funzione
sociale. Le personali convinzioni sono legate alla cultura di appartenenza e poterle manifestare e condividerle in un clima
favorevole costituisce un’esperienza di
valorizzazione che accresce l’autostima e
favorisce l’integrazione. Il gruppo è formato da diversità, che non si irrigidiscono
o si chiudono nella difensiva. Ma agire
come membri di un gruppo collaborativo
rappresenta una buona occasione di inclusione per molti alunni con bisogni educativi speciali e con rilevanti difficoltà di
apprendimento. Il gruppo stesso funge
da sostegno, offrendo la possibilità di
partecipare con il proprio peculiare modo
di essere. Ognuno può scoprire che tutti
siamo differenti, e possiamo dare e ricevere aiuto.
M A T E R I A L I
d) Comunità di persone la dimensione sociale dell’esperienza non cancella l’originalità della persona. La scuola intesa come comunità è qualcosa di più di una organizzazione, sia pure efficiente. Se si assume come punto di riferimento quanto è
solennemente affermato nella nostra Costituzione, ribadito e posto a fondamento
della legge sull’autonomia scolastica e
cioè la valorizzazione delle persona umana, vista non come individuo ma come
appartenente ad una società, non ci dovrebbero essere dubbi: è all’interno della
comunità che la persona è pienamente
accolta, riconosciuta, sostenuta nel suo
processo di crescita, di conoscenza di sé,
rispettosa dell’altro, abilitata a diventare
responsabile e autonoma. Al suo interno
gli insegnanti e i dirigenti non sono ridotti
al ruolo di tecnici dell’istruzione o di manager dell’organizzazione, ma sono riconosciuti e responsabilizzati come educatori e i genitori non sono percepiti, a loro
volta, semplicemente come clienti o utenti, ma come partner in una impresa condivisa. E’ dentro la scuola intesa come comunità che i discorsi sulla persona, sulla
personalizzazione, sull’inclusione, trovano
il loro pieno significato. Ed è, soprattutto,
dentro la scuola comunità professionale
ed educativa che può essere offerta agli
studenti una prospettiva non solo in termini di preparazione alle professioni, ma di
sviluppo della propria personale identità e
del proprio progetto di vita.
Discorso del ministro
della Pubblica Istruzione
Giuseppe Fioroni
Roma, 3 aprile 2007
È importante chiarire il metodo che intendiamo seguire. Oggi non si presenteranno
le nuove indicazioni nazionali, ma la cornice culturale entro cui rileggerle e ripensare all’esperienza del fare scuola. Il seminario di oggi non è un punto di arrivo, ma
un punto di partenza per far nascere una
discussione approfondita all’interno del
mondo della scuola. Dare senso alla fram-
E
D O C U M E N T I
mentazione del sapere: questa è la sfida.
Una scuola che intende educare istruendo non può ridurre tutto il percorso della
conoscenza alla semplice acquisizione di
competenze. Compito della scuola è educare istruendo le nuove generazioni, e
questo è impossibile senza accettare la
sfida della trasmissione di un senso dentro la trasmissione delle competenze.
La prima domanda che dobbiamo porci
riguarda “chi educhiamo”. Se c’è un punto su cui non possiamo non trovarci d’accordo è che il nostro compito è quello di
educare “la persona”. Un essere unico ed
irripetibile. Ogni bambino, ogni ragazzo
ha la necessità di essere educato, nel
senso etimologico del termine, che deriva
dal latino e-ducere, tirar fuori: ha bisogno
di essere aiutato a scoprire il valore di se
stesso, delle cose e della realtà. Questa
persona unica ed irripetibile può essere
educata a conoscere, accettare, tirar fuori
e costruire sé, solo entrando in rapporto
con la realtà che la circonda. E la realtà è
fatta di persone, di fatti, di eventi, del presente e del passato, di cui il presente è figlio. L’arte, la storia, la letteratura, le
scienze, non sono che strade tracciate da
uomini per capire, scoprire, conoscere
questa realtà: per questo possono essere
interessanti, (interesse), aiutare a scoprire
sé. Questa persona unica ed irripetibile,
poi, non vive da sola, ha bisogno di essere educata anche a conoscere ed apprezzare gli altri.
La difficoltà di questo percorso è data dal
disagio che molti giovani vivono: le paure,
le incertezze, la solitudine, l’idea di una vita vuota e senza senso sono il sottofondo
di quel malessere diffuso, che è anche
espressione di un eccesso di avere e di
una carenza di essere. Quell’essere che è
ciò che siamo in connessione e continuità
con le cose in cui crediamo, con i valori
che riteniamo fondanti. Una ragazza di 16
anni, suicidatasi a Roma anni fa, aveva lasciato questo biglietto: «Ho avuto tutto
nella vita, il necessario e il superfluo ma
non l’indispensabile». La scuola deve essere in prima linea nella battaglia contro
questo vuoto: deve essere un luogo dove
si riconosce significato a ciò che si fa e
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M A T E R I A L I
dov’è possibile la trasmissione di quei valori che corrispondono al cuore perché
danno appartenenza, identità, passione.
Primo fra tutti il rispetto di sé e degli altri,
che nasce dalla consapevolezza che esiste un valore intangibile che è la dignità di
tutti e di ciascuno. Nessuno escluso. Questo chiede alla scuola un surplus: educare istruendo è un’aggiunta di responsabilità dell’adulto persona docente come dell’adulto persona genitore che si declina
nell’essere maestri di vita, testimoni di ciò
che si trasmette. Il primo rispetto della
cultura della legalità è quello di incarnare
ciò che trasmettiamo, di dimostrare che a
fare il bene corrisponde un premio e che
a fare il male corrisponde una punizione.
La scuola è un luogo di incontro e di crescita di persone. Persone sono gli insegnanti e persone sono gli allievi. Educare
istruendo significa essenzialmente tre cose:
• consegnare il patrimonio culturale che
ci viene dal passato perché non vada
disperso e possa essere messo a frutto
• preparare al futuro introducendo i giovani alla vita adulta, fornendo loro
quelle competenze indispensabili per
essere protagonisti all’interno del contesto economico e sociale in cui vivono
• accompagnare il percorso di formazione personale che uno studente compie mentre frequenta la scuola, sostenendo la sua ricerca di senso e il faticoso processo di costruzione della
propria personalità.
Questa è la via italiana all’Europa e all’acquisizione delle competenze indicate a Lisbona. Nell’“educere”, nel tirar fuori ciò
che si è e nella relazione con gli altri, si
impara ad apprendere. Obiettivo della
scuola è quello di far nascere “il tarlo”
della curiosità, lo stupore della conoscenza, la voglia di declinare il sapere con la
fantasia, la creatività, l’ingegno, la pluralità delle applicazioni delle proprie capacità, abilità e competenze. Tradotto in termini semplici: mi ostino a pensare a una
scuola che non abbia come obiettivo solo
l’essere in funzione della richiesta del
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D O C U M E N T I
mercato. Solo se non si rinuncia ad educare istruendo si può mettere veramente a
frutto l’unicità e l’irripetibilità di ogni singolo individuo. Solo così ogni persona può
essere protagonista e costruire il proprio
futuro in modi plurali, diversi ed innovativi.
Per raggiungere questi obiettivi resta centrale l’acquisizione della cultura scientifica
così come la valorizzazione dell’istruzione
tecnica e professionale, campi nei quali il
nostro Paese ha costruito le fondamenta
del proprio sviluppo.
Il preside di un liceo americano sopravvissuto alla Shoah scriveva ogni anno ai
suoi insegnanti: «Caro professore, sono
un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che
nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri
istruiti; bambini uccisi con veleni da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere
provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e
università. Diffido quindi dell’educazione.
La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a
diventare esseri umani. I vostri sforzi non
devono mai produrre dei mostri educati,
degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani».
La nostra scuola deve essere un luogo in
cui nelle diversità e nelle differenze si
condivide l’unico obiettivo che è la crescita della persona. Solo così si capisce che
cosa significa una scuola capace di consegnare il patrimonio culturale che ci viene dal passato, di accompagnare il bambino ed il ragazzo nella scoperta del senso, e di promuovere la capacità di innovare e di costruire il futuro che ogni singola
persona ha. Io mi ostino a non accettare
una scuola che persegue soltanto l’utilità
del momento storico e dell’attimo fuggente, rinunciando ad aiutare lo studente ad
essere ciò che è e a costruire nei diversi
contesti.
Occorre sottolineare con forza, nella
scuola, la centralità della persona-studente. Farlo significa realizzare una rete di
azioni integrate atte a valorizzare lo stile
cognitivo unico ed irripetibile proprio di
M A T E R I A L I
quello specifico studente, uscendo da
ogni genericità e standardizzazione. Educare istruendo significa incrociare lo stile
cognitivo del bambino o del ragazzo. Non
è pensabile una scuola costruita su di un
modello unico di studente astratto. La
scuola dell’autonomia è una scuola che
concentra la propria proposta formativa
ed il percorso curriculare nell’attenzione a
quell’essere unico ed irripetibile che si ha
in classe. Non c’è un “drop out” generico,
c’è il drop out della rinuncia, dell’inadeguatezza e dell’abbandono. Non c’è nessuna sindrome di burn out nell’insegnante
che non sia figlia del difficile incrocio fra
ciò che dovremmo saper essere e saper
fare e la straordinaria complessità che richiede l’educare istruendo proprio quella
persona lì che, nella propria unicità, dà la
misura della complessità dell’intrapresa e
dell’ineludibilità del limite del nostro operare.
Questa è la sfida. È questo il rischio educativo che gli insegnanti assumono sulla
propria professionalità.
Oltre alle risorse economiche necessarie
ed indispensabili esistono altre risorse
fondamentali, che consistono nella condivisione del progetto educativo da parte
E
D O C U M E N T I
della famiglia e della società. Ci sono oggi famiglie in crisi, famiglie che più sono
in difficoltà, più chiedono e pretendono
dalla scuola. Occorre che il patto tra la
scuola e la famiglia diventi l’elemento portante della cornice culturale che ho appena delineato. Non c’è possibilità che la
scuola realizzi il proprio compito di educare istruendo senza la condivisione della
famiglia. Cercare di educare-istruendo in
opposizione o nell’indifferenza della famiglia depotenzia il lavoro che si fa a scuola, genera drop out tra i ragazzi e disagio,
burn out tra gli insegnanti.
La scuola siamo noi, nelle buone pratiche,
nel lavoro quotidiano. Non vogliamo concederci facili assoluzioni, ci assumiamo la
responsabilità del dover essere migliori,
dell’andare oltre i nostri limiti, del rispondere al compito che ci è affidato. Questo
capitale umano di docenti e studenti, questa multiforme pluralità di persone, uomini
e donne può accettare questa scommessa e può dare al Paese il motore che tutto
muove e tutto genera. Resta a noi saper
coltivare questa passione, questa voglia
di esserci e di mettersi in gioco: vogliamo
assumerci la responsabilità di costruire il
futuro.
99
M A T E R I A L I
E
D O C U M E N T I
Contributo del Servizio Nazionale IRC della CEI sulla Premessa alle nuove Indicazioni Nazionali e la Traccia di idee base per l’elaborazione del curricolo
A complemento di questi documenti del
MPI, presentiamo anche una nota diffusa
del Servizio per l’IRC della CEI. Questo
contributo esprime una valutazione alquanto severa dei recenti documenti ministeriali e della direzione che l’attuale governo sembra voler imprimere alla Riforma della scuola. Si lamenta infatti un distacco piuttosto marcato rispetto agli
orientamenti della precedente legislatura,
un rispetto solo parziale delle indicazioni
legislative già varate, una ridotta sensibilità per la dimensione religiosa della cultura, una restrizione ingiustificata e pericolosa del ruolo delle famiglie. Il documento
avanza anche alcune proposte di correzione, in cui sembra di leggere un rigido
attaccamento ad alcuni elementi
dell’«epoca Moratti» (portfolio, tutor…) e
una nostalgia forse eccessiva ed anacronistica per la precedente stagione di riforme. A nostro giudizio, una critica così serrata degli orientamenti attuali risulta alla fine scarsamente produttiva; forse sarebbe
più feconda un’apertura maggiore e una
più generosa disponibilità a valorizzare gli
elementi positivi degli indirizzi attuali, pur
senza farsi illusioni e conservando un salutare occhio critico dinanzi ad ogni posizione. I problemi non si possono mai superare con un cammino all’indietro: occorre sempre lavorare per il futuro. Tuttavia le
osservazioni formulate non sono prive di
fondamento e fanno riflettere: per questo
le pubblichiamo. Affidiamo poi alla coscienza del lettore il compito – non facile
– di formulare un ponderato giudizio personale.
Sintetica riflessione sui documenti
Da una prima analisi dei documenti si apprezza lo sforzo di cercare una linea di
continuità che colleghi i provvedimenti
attualmente allo studio con ciò che è stato
fatto nelle precedenti legislature, ricollegandosi in modo molto esplicito ai dispositivi normativi sull’autonomia scolastica
come pure – almeno in parte – alla Legge
53/2003.
È opportuno procedere con maggiore decisione sulla linea di tale sforzo. Non
sempre il lessico e la sostanza dei documenti presi in esame si ispirano alla Legge 53 (normativa in vigore). Si trovano
anche riferimenti a norme abrogate, che
potrebbero generare ulteriore confusione.
D’altra parte i docenti di tutte le discipline, compresi gli insegnanti di religione,
stanno operando sulle attuali Indicazioni
e, da quanto ci risulta, certamente per gli
insegnanti di religione, anche con buon
profitto.
Centralità della persona
Tra gli elementi di continuità il più importante è senz’altro il riferimento esplicito
(più volte reiterato) alla centralità della
persona, anche se il significato attribuito al termine “persona” non risulta presentato in maniera chiara: si sottolinea in
diversi passaggi la concretezza del vivere
della persona, a partire dalla originalità
del suo percorso individuale e della sua
rete di relazioni, non si incontra mai un’affermazione esplicita in ordine alla sua
identità/dignità.
Mentre si coglie la comprensibile preoccupazione di formare la persona «sul piano cognitivo e culturale» (CSP1, p. 4), ci
sembra riduttivo invece finalizzare tale formazione a che il soggetto «possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali» (ibidem). “Incertezza” e “mutevolez-
I due documenti del MPI saranno indicati con le abbreviazioni: CSP (Cultura Scuola Persona. Verso le Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione) e CSA (Il curricolo nella scuola dell’autonomia), seguirà il numero di pagina dell’originale diffuso dal Ministero.
1
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M A T E R I A L I
za” che vengono chiamate in causa numerose volte, come constatazione di un
dato di realtà sul piano culturale se non
addirittura come parole chiave di un vero
e proprio paradigma di riferimento. Meglio
sarebbe stato finalizzare gli strumenti culturali (disciplinari, metodologici, interdisciplinari) alla costruzione dell’identità personale e alla convivenza civile, come si
conviene a soggetti in età evolutiva.
L’enumerazione di tutti gli aspetti costitutivi dell’identità dello studente2 ha una sua
ampiezza che consente di superare il rischio di un eccessivo riduzionismo, anche se risulta evidente l’omissione della
dimensione religiosa, esclusa dalle dimensioni costitutive dell’identità personale
per essere relegata tra gli aspetti puramente culturali e accessori. Tale omissione appare in modo ancora più eclatante,
se si considera un testo “parallelo” del D.
L.vo 59/2004, in cui tra gli Obiettivi generali del processo formativo della scuola
Primaria, dove si parla della corporeità
come valore, si afferma che «l’avvaloramento dell’espressione corporea è allo
stesso tempo condizione e risultato dell’avvaloramento di tutte le altre dimensioni
della persona: la razionale, l’estetica, la
sociale, l’operativa, l’affettiva, la morale e
la spirituale religiosa»3.
La dimensione religiosa della cultura
La dimensione religiosa, oltre a non
comparire tra gli aspetti costitutivi di cui si
è detto sopra, viene relativamente considerata anche sul piano culturale, vi è un
riferimento fugace alle “convinzioni religiose” (CSP, p. 9) nel passo in cui si parla
dell’integrazione interculturale, come
aspetto che non è possibile eludere. Altrettanto debole appare il modo in cui viene presentata la “nostra tradizione”, in cui
l’unico cenno alla dimensione religiosa ad
essa intrinseca è quello alla “Cristianità”
(CSP, p. 15). Non si menziona neppure il
E
D O C U M E N T I
“Cristianesimo” come realtà vivente, né
specie il “Cattolicesimo” per il nostro Paese. Oltretutto il riferimento alla “Cristianità”
viene collocato in una scansione cronologica tra antichità e Rinascimento (con una
implicita allusione al Medioevo), quasi relegandola nel passato.
Ci sembra utile ricordare qui le espressioni, di ben altro tenore, che si trovano nel
PECUP, in cui si afferma che: «[il ragazzo]
ha consapevolezza, sia pure in modo introduttivo, delle radici storico-giuridiche,
linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell’identità spirituale e materiale
dell’Italia e dell’Europa; colloca, in questo
contesto, la riflessione sulla dimensione
religiosa dell’esperienza umana e l’insegnamento della religione cattolica, impartito secondo gli accordi concordatari e le
successive Intese»4.
L’assenza di un riferimento esplicito alla
“dimensione religiosa” e al “Cristianesimo-Cattolicesimo” porta a interpretare il
“nuovo umanesimo”, che rappresenta
l’anima ideale del documento di base, come una generica visione filantropica dei
rapporti umani, dettata più dall’esigenza
di trovare uno spazio di incontro nella
complessità che dal rispetto e dalla ricerca della identità profonda della persona.
Si corre il rischio di avvallare un ingenuo
ottimismo, in cui la nuova cultura umanistica verrebbe investita di una “missione”
per la quale «dovrà insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia
– in una prospettiva complessa, volta cioè
a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme» (CSP, p. 12).
Va da sé che, in questo quadro culturale,
in nessun caso si faccia cenno a termini
come “realtà” o “verità”, il che fa pensare
che il conferimento di significato dipenda
esclusivamente dalle avvertenze epistemologiche messe in atto, come si legge
«Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali» (CSP, p. 6).
3
Decr. L.vo n. 59 del 19 febbraio 2004, allegato B.
4
Decr. L.vo n. 59 del 19 febbraio 2004, allegato C.
2
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poco oltre nel testo citato, in cui si afferma
che la scuola «dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il
confronto di culture e di religioni, i dilemmi
bioetici, la ricerca di una nuova qualità
della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione
non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e le culture» (ivi, p. 13). L’idea
che un determinato approccio metodologico, senza nessun riferimento di tipo etico-valoriale o religioso, possa risultare anche “risolutore” rispetto ai grandi problemi
dell’umanità sembra investire la scuola –
per giunta con un imperativo molto rafforzante – di un ruolo ridondante rispetto alla
sua missione sociale.
La conclusione stessa del documento,
che presenta la sintesi culturale dei momenti più creativi della nostra tradizione
nella figura di un «essere umano integrale», «capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici
aspetti del macrocosmo umano» (CSP, p.
15), conferma come il riferimento alla
“centralità della persona” venga in realtà
diluito dentro una cornice culturale che di
fatto ne condiziona l’immagine.
Il ruolo dei genitori e la famiglia
Per quanto riguarda il rapporto scuola e
famiglia sembra importante l’affermazione
per cui «la scuola perseguirà l’obiettivo di
costituire un’alleanza educativa con i genitori» (CSP, p. 8), anche se questa formulazione può dare adito ad una lettura
riduttiva del rapporto, in cui la scuola si
percepisce come primo soggetto e “regista” delle modalità di costruzione di tale
alleanza, mentre la famiglia avrebbe il
ruolo di interlocutore desiderabile, ma
non indispensabile. Tale lettura viene
rafforzata anche da alcuni passaggi del
documento sul curricolo, in cui nel ribadire la necessità di «un rapporto costante e
non burocratizzato con le famiglie» (CSA,
p. 7), si limita subito la portata dell’affermazione, «riconoscendo nei genitori degli
alunni, senza che vi sia confusione di ruo-
102
E
D O C U M E N T I
lo, degli importanti partner nell’educazione e delle risorse per la comunità scolastica» (ivi, pp. 7-8). Anche nel momento in
cui si sente il bisogno di prendere le distanze dall’ipotesi di percepire i genitori
«semplicemente come clienti o utenti»
(CSA, p. 9), li si avvalora semplicemente
come «partner in una impresa condivisa».
Del resto nel documento di base stesso si
afferma che il compito di insegnare le regole del vivere e del convivere si presenta
oggi, per la scuola, «ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i
casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il
loro ruolo educativo» (CSP, p. 8)
L’idea di partnership in una impresa che
rimane sostanzialmente della scuola (per
la quale i genitori possono anche essere
considerati “risorse”), non coincide con l’idea di una effettiva “alleanza” o una autentica “cooperazione” con le famiglie,
che sarebbe una modalità più forte di
concepire anche il loro ruolo in fase di “regia” della progettualità educativa. Per migliorare l’impressione culturale che viene
generata dalla lettura congiunta dei due
testi sarebbe opportuno sbilanciarsi in termini più coraggiosi (soprattutto nelle Indicazioni che devono ancora essere redatte), in ordine ad una collaborazione sussidiaria tra scuola e famiglia, in cui appaia
con chiarezza come la prima sia al servizio dell’impresa educativa di cui la seconda mantenga una piena titolarità. In questa maniera si esplicita più coerentemente
l’“autonomia” scolastica come rapporto vivo con il territorio, a partire appunto dalla
famiglia e dalla sua rete di relazioni.
Scelte pedagogiche e logica educativa
Nell’impianto complessivo dei due documenti, in particolare nel documento sul
“curricolo”, si colgono interessanti aperture alla dimensione educativa, anche se la
logica pedagogica complessiva resta
molto centrata sugli aspetti cognitivi, il fulcro attorno a cui tutto ruota. Un riferimento
molto significativo si riscontra nel documento di base, in cui si afferma che «la
scuola può affiancare al compito dell’‘insegnare ad apprendere’ anche quello
dell’‘insegnare ad essere’» (CSP, p. 9). Se
M A T E R I A L I
l’affermazione va presa alla lettera, essa
risulta un ribaltamento speculare e programmatico di quanto si può leggere nel
PECUP, il quale «rappresenta ciò che un
ragazzo di 14 anni dovrebbe sapere e fare per essere l’uomo e il cittadino che è
giusto attendersi da lui al termine del Primo Ciclo di istruzione»: il rapporto tra sapere, fare ed essere è tracciato con una
precisa linea di orientamento finalistico all’essere, mentre nel documento di base si
centra l’attenzione sul sapere, mentre resta opzionale la cura dell’essere.
Un secondo nodo concettuale dal quale
si evidenzia la centratura sulla dimensione culturale è il modo in cui si configura il
riferimento all’unità del sapere: esso è
centrato più sulla unificazione dei “contenuti” attraverso calibrati dinamismi epistemologici, piuttosto che sulla “unità di
senso” che ogni persona è chiamata ad
attribuire al suo percorso formativo. Infatti nel “documento sul curricolo” si legge
che l’unità del sapere va intesa come un
«superamento delle conoscenze frammentate, dell’enciclopedismo nozionistico, capacità di comporre un quadro organico e dotato di senso le conoscenze acquisite. Tale processo avviene tanto a livello disciplinare che interdisciplinare»
(CSA, p. 6). Immediatamente dopo si precisa che l’unità di senso comporta l’accompagnamento del ragazzo a fare sintesi personale di quanto gli viene proposto,
ma il meccanismo complessivo dimostra
un andamento “top down” o andamento
discendente, per cui prima vi è una proposta culturale (disciplinarmente e interdisciplinarmente pre-strutturata in modo da
generare “unità del sapere”), poi si accompagnano gli allievi in un processo in
cui ciascuno di essi possa elaborare una
sintesi personale.
Per questo la parte più significativa del
documento di base è dedicata – come si
è visto – ai nuovi orizzonti culturali che si
intendono proporre. Se ci si pone in tale
ottica si resta in effetti colpiti dalla scom-
E
D O C U M E N T I
parsa – soprattutto nel documento sul
curricolo (CSA) – di ogni riferimento a
quelli che la Legge 53/2003 identifica come “Piani di studio personalizzati” (art. 2,
lettera l), concepiti come strumenti per
l’attuazione delle affermazioni in merito
alla centralità della persona, non dei
contenuti disciplinari. La centratura sui
contenuti culturali, che abbiamo rilevato
nel “documento di base” (CSP), offre una
precisa chiave di lettura di alcune affermazioni sull’impianto pedagogico che si
prefigura per le nuove Indicazioni: «il cuore didattico del Piano dell’Offerta Formativa è il curricolo, che viene predisposto
dalla comunità professionale nel rispetto
degli orientamenti e dei vincoli posti dalle
Indicazioni» (CSA, p. 2). In un approccio
di tal genere gli spazi di personalizzazione vengono eliminati, anche perché «la
scuola (…) finalizza il proprio curricolo allo sviluppo delle competenze fondamentali» (CSA, p. 6), le quali competenze – si
precisa in nota – hanno sì una notevole
ampiezza di componenti5, ma restano a
loro volta finalizzate a «fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi»6.
In ogni caso, è importante, e certamente
da valorizzare e sviluppare, quanto risulta
implicito nell’affermazione per cui «in un
curricolo centrato sulle competenze le conoscenze hanno un peso importante, ma
non sono fine a se stesse, sapere inerte,
spendibile solo nei confini di un’aula scolastica, ma non significativo per la vita»
(CSA, p.6). Tale apertura focalizza l’interesse di chi progetta gli interventi didattici
non tanto o non solo su ciò che un alunno
sa, ma anche su «quello che sa fare e sa
diventare con quello che sa» (Ibidem).
Suggerimenti correttivi per le attuali Indicazioni
Senz’altro sarà opportuno, nelle attuali Indicazioni, alleggerire i riferimenti di tipo
metodologico/didattico (le consapevolez-
Si enumerano «componenti cognitive, ma anche componenti motivazionali, etiche, sociali, risultati di apprendimento (conoscenze e abilità), sistemi di valori e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche»
(CSA, p. 6, nota 1).
6
Ibidem.
5
103
M A T E R I A L I
ze preliminari agli OSA) che possono avere avuto una funzione in fase di prima attuazione ma che ora ne appesantiscono
la lettura. Le scelte metodologiche certamente possono essere demandate all’autonomia delle scuole, pur nel riferimento
unitario ad alcuni “vincoli” che non siano solo sul piano dei contenuti culturali,
anche sul piano dei “generi letterari” con
cui i documenti di scuola potranno accompagnare i percorsi di studio dei bambini e dei ragazzi, come, ad esempio, il
Portfolio, comunque elaborato.
Se ci è consentito esprimere un suggerimento anche per altre discipline rispetto
all’IRC, si potrebbero essenzializzare anche gli OSA disciplinari, laddove siano
stati redatti in termini troppo minuziosi, in
modo da rendere più flessibile il lavoro di
progettazione dei docenti ed accogliere le
curvature personalizzanti che potranno
venire dalla capacità di farsi carico delle
aspettative, capacità e attitudini dei propri
allievi.
Alcuni elementi irrinunciabili
Sulla base dell’operato che il Servizio nazionale IRC ha messo in atto in questi anni di applicazione della riforma scolastica,
visti i positivi risultati ottenuti, riteniamo
che tra gli elementi irrinunciabili, che sarebbe importante non disperdere in questa fase di revisione, vi sia innanzitutto il
PECUP, che ha consentito e più ancora
può consentire una focalizzazione più
esplicita della centralità della persona
dello studente. Esso, infatti, avendo come
“soggetto logico” lo studente, si configura
come strumento essenziale perché tutti gli
attori coinvolti (docenti, studenti, genitori)
abbiano un punto di riferimento preciso in
ordine alle finalità educative “personalizzanti” a cui dovranno essere orientati tutti
gli “strumenti culturali”: tanto quelli disciplinari, come quelli interdisciplinari e sistemici del “nuovo umanesimo”, prefigurato dal “documento di base”.
Altri elementi che dalla nostra esperienza
si sono dimostrati pedagogicamente validi sono: il Portfolio e le funzioni tutoriali, perché, sia il primo che le seconde,
garantiscono un accompagnamento del
processo di personalizzazione del percor-
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so formativo, oltre che una effettiva cooperazione con le famiglie. Per quanto riguarda l’IRC, questi elementi favoriscono
la valorizzazione del suo apporto disciplinare in vista sia della collaborazione interdisciplinare fra docenti che per il contributo specifico alla crescita della persona.
Un altro elemento importante è dato dal
quadro complessivo dell’Educazione
alla convivenza civile, con alcune articolazioni esplicite (che possono anche essere diverse, rispetto alle sei che sono
state individuate nelle precedenti Indicazioni), che ha avuto il merito di esplicitare
la valenza culturale (in dialogo con le discipline, pur nella loro trasversalità) delle
modalità con cui la scuola – negli ultimi
decenni – si è strutturata per rispondere
alla domanda sociale di educazione, oggi
resa ancora più urgente.
Azioni da attivare in sostegno alle innovazioni proposte
Il primo punto su cui far leva è certamente
quello della formazione insegnanti, per
la quale si dovrebbero privilegiare modalità di tipo laboratoriale, consentendo di
sperimentare anche formule creative in
grado di “integrare” diversi approcci possibili e diverse logiche di progettazione,
anche per coloro che – come gli insegnanti di religione cattolica – hanno sondato con buoni risultati le modalità di lavoro per Unità di apprendimento, attraverso
l’articolazione di Obiettivi formativi, significativi e motivanti.
A cura del Servizio Nazionale per l’IRC
della Conferenza Episcopale Italiana
Roma, 18 aprile 2007
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TEOLOGIA E CULTURA TERRE DI CONFINE
Relazione del Card. Camillo Ruini
Torino 11 maggio 2007
L’ultima Fiera Internazionale del Libro di
Torino (10-14 maggio 2007) ha scelto
come tema di confronto «I Confini». Tra
gli ospiti illustri, il Card. Ruini ha tenuto
la lectio magistralis che presentiamo. Il
porporato ha offerto una brillante sintesi
del rapporto tra cultura moderna e pensiero teologico, evidenziando i nodi critici e indicando gli elementi chiave per
un discernimento sapiente e lungimirante. Ci sembra una lettura preziosa per
l’aggiornamento di tutti gli IdR.
1. Le radici storiche
Il rapporto tra teologia e cultura è stato
fondamentale nel passato, sia per la
teologia, e più ampiamente per il cristianesimo e la sua espansione missionaria,
sia per la cultura, o meglio per le varie
culture e civiltà nelle quali il cristianesimo si è inserito e che ha esso stesso in
larga misura plasmato o anche generato. Ciò è avvenuto già nell’epoca neotestamentaria, quando la fede in Gesù
Cristo è nata nel mondo culturale giudaico e subito dopo è entrata in quello
ellenistico-romano, iniziando a trasformare entrambe queste culture, che del
resto non erano rigidamente separate
ma già tra loro assai intrecciate.
Poi questo processo ha caratterizzato
tutta l’epoca patristica, attraverso un
confronto serrato della teologia dei Padri (non solo gli Apologeti) con la filosofia e gli stili di vita allora dominanti. Ciò
è andato di pari passo con l’affermarsi
della missione cristiana e ne ha anzi costituito una dimensione essenziale. Al
termine di questo itinerario la fede cristiana era diventata il fattore più influente e determinante di quella cultura, che
pure manteneva i suoi tratti propri e
specifici e naturalmente il suo dinamismo di evoluzione storica.
A lungo, e attraverso complesse fasi
successive che hanno a che fare con le
grandi migrazioni di popoli avvenute al
passaggio tra l’Antichità e il Medioevo e
con le ulteriori fasi di espansione missionaria del cristianesimo tra i popoli
germanici e slavi, è perdurato e si è per
vari aspetti esteso e anche istituzionalizzato questo ruolo centrale del cristianesimo nella cultura.
Una formulazione classica ed esemplare di tale centralità si può vedere nella
prima questione della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, dedicata alla Sacra doctrina, dove si afferma
non solo che questa dottrina è scienza,
in un senso superiore, e sapienza, ma
che, essendo una in se stessa, essa si
estende a tutto ciò che appartiene alle
diverse scienze filosofiche, speculative
e pratiche, e al contempo ha rispetto ad
esse una dignità che le trascende e un
radicale primato, e tuttavia deve avvalersi di loro, secondo il principio che la
grazia non toglie ma perfeziona la natura.
Sappiamo bene come non solo questo
primato ma il rapporto stesso tra cristianesimo e cultura, teologia e cultura, sia
progressivamente entrato in crisi fin dai
primi inizi dell’epoca moderna, a partire
da quella che è stata chiamata la “svolta antropologica”, che ha posto l’uomo
al centro, oltre che dalla nascita della
scienza detta “galileiana” e dalle guerre
di religione europee, che hanno reso in
qualche modo necessario concepire e
gestire la sfera pubblica etsi Deus non
daretur.
Non è il caso di soffermarsi qui su queste ben note problematiche. Vorrei piuttosto ricordare che all’interno della teologia medievale, e in forma eminente
con San Tommaso, la distinzione e nella
distinzione il rapporto reciproco tra ragione e fede, filosofia e teologia, sono
stati oggetto di approfondimento sistematico: come ha mostrato magistralmente É. Gilson in uno studio pubblicato già nel 1927 sui motivi per i quali San
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M A T E R I A L I
Tommaso ha criticato Sant’Agostino
(Pourquoi saint Thomas a critiqué saint
Augustin, in AHDLM, 1, pp. 5-127), la
base teoretica di questo approfondimento è da ritrovarsi nella gnoseologia
ed ontologia di matrice aristotelica, che
ha consentito appunto una distinzione
più chiara e sistematica tra le capacità
conoscitive intrinseche all’uomo e la luce che egli riceve dalla presenza divina
in lui.
Una tesi storico-teologica largamente
diffusa, e sviluppata soprattutto da un
autore della portata di H. de Lubac, sulle orme di M. Blondel, ritiene che l’insistenza unilaterale su questa distinzione,
affermatasi nella “seconda scolastica”,
cioè appunto ai primi inizi dell’età moderna, abbia contribuito all’emarginazione del cristianesimo e della teologia
dagli sviluppi della cultura, rappresentandone involontariamente una legittimazione teologica. Personalmente posso concordare con questa valutazione,
a patto di non esagerare il suo concreto
peso storico.
Mi preme sottolineare però che essa
non deve portare a un giudizio negativo
sulla validità intrinseca, e anche sulla
necessità e fecondità storica, di quella
distinzione sistematica.
Essa infatti nasce in ultima analisi dal
riconoscimento del carattere divino e
trascendente della rivelazione cristiana,
anzitutto nel suo centro che è Gesù Cristo ma anche per quanto riguarda la
vocazione dell’umanità a partecipare
gratuitamente, nello Spirito Santo, al
rapporto filiale che Cristo ha con il Padre. Dall’altra parte essa scaturisce dal
riconoscimento della consistenza interna delle creature, proprio perché esse
sono opera di Dio (cfr Gaudium et
spes, 36).
Soltanto sulla base di questa distinzione, inoltre, è possibile un rapporto con
la ragione moderna e contemporanea e
con la rivendicazione di libertà che pervade la nostra cultura, rispettando e valorizzando quei loro dinamismi che hanno consentito di conseguire, negli ultimi
secoli, risultati straordinari.
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2. L’età moderna
Nella crisi dei rapporti tra cristianesimo
e cultura occidentale è comunque importante distinguere almeno due principali fasi storiche. La prima riconosce
ancora il valore e l’importanza della fede cristiana e a suo modo cerca di salvarne anche la verità. Ancora in Hegel
si riscontra in qualche modo questo atteggiamento, sebbene in lui appaia particolarmente chiaro che la verità e validità del cristianesimo è subordinata al
primato della filosofia e comporta in
realtà uno svuotamento dall’interno del
cristianesimo stesso, ossia il suo “trascendimento” filosofico. Già prima di
Hegel però l’illuminismo, soprattutto in
Francia, aveva visto l’emergere di una
critica radicale alla Chiesa e alla fede
cristiana. Questa critica, che si conclude nella negazione della divinità di Cristo e dell’esistenza stessa di Dio, con la
riconduzione dell’uomo a un semplice
essere del mondo, ha però il suo sviluppo culturalmente più significativo in
Germania, nella parabola storica che va
da Hegel a Nietzsche e che è stata descritta da K. Löwith con rara profondità
(Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX,
ed. Einaudi).
Il secolo XIX è anche il tempo nel quale
il cristianesimo occidentale ha preso
piena coscienza della radicalità di questa minaccia ed ha cercato di reagirvi,
secondo due grandi direttrici che, semplificando, possono ricondursi l’una
principalmente al protestantesimo e l’altra soprattutto al cattolicesimo. La prima
è caratterizzata dal tentativo di riformulare il cristianesimo, in modo da renderlo accettabile al nuovo contesto culturale ed idoneo non solo a sopravvivere in
esso ma a porsi come la sua dimensione più alta: è la linea del protestantesimo liberale, da Schleiermacher ad Harnack, che ha avuto certamente notevole
influsso anche in ambito cattolico, soprattutto nella vicenda del modernismo.
Questa linea ha comportato in realtà
uno svuotamento del centro vitale del
M A T E R I A L I
cristianesimo, cioè del suo contenuto di
fede, di quello che possiamo chiamare
il “cristianesimo credente”. Dal punto di
vista storico essa si è conclusa, in
realtà provvisoriamente, con la prima
guerra mondiale e con la forte affermazione della fede promossa soprattutto
da K. Barth.
L’altra direttrice, che ha trovato la sua
espressione più significativa ed autorevole nel Concilio Vaticano I, particolarmente nella Costituzione dogmatica Dei
Filius sulla fede cattolica, è consistita
invece nel riproporre quelle verità fondamentali del cristianesimo che apparivano negate o messe in dubbio dalle
forme di pensiero allora prevalenti. L’approccio a tali forme di pensiero fu pertanto fortemente dialettico, improntato
alla contestazione e alla critica assai
più che all’impegno di valorizzare gli
aspetti positivi che possono esservi presenti. Un impegno di questo genere
certamente non è mancato nel cattolicesimo del secolo XIX, basti ricordare la
scuola teologica cattolica di Tubinga, o
due pensatori come J. H. Newman ed
Antonio Rosmini, ma la linea prevalente
è stata diversa. Vorrei evitare però le
caricature e le semplificazioni sommarie: in realtà il lavoro teologico e filosofico sotteso al Concilio Vaticano I e continuato poi con l’affermarsi del neotomismo ha avuto una grande vivacità culturale, esplicatasi per un verso nel mettere a nudo limiti e contraddizioni presenti
nel pensiero moderno, per l’altro nel ricuperare e ripensare la grande eredità
della teologia medievale, in dialogo con
le problematiche del nostro tempo.
3. Concilio e dopo-Concilio
Nel periodo tra le due guerre mondiali il
cristianesimo occidentale, sia cattolico
che protestante, ha conosciuto un periodo complessivamente più favorevole,
come interna vitalità religiosa e come
accoglienza nel contesto generale della
cultura. Proprio in questo periodo sono
avvenute quella svolta all’interno della
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D O C U M E N T I
teologia e filosofia neotomista e contestualmente quell’opera di riappropriazione e valorizzazione delle grandi ricchezze bibliche, patristiche e liturgiche,
che hanno costituito la piattaforma di
base del decisivo e per molti versi inatteso sviluppo costituito dal Concilio Vaticano II. Con esso è cambiato profondamente l’approccio alla cultura del nostro tempo, passando da un atteggiamento prevalentemente critico alla ricerca di un terreno di incontro, attraverso
un dialogo improntato alla simpatia e all’apprezzamento, che non ha significato
però un’accettazione unilaterale e acritica. Ciò riguardo alla centralità dell’uomo, cardine della svolta antropologica
dell’epoca moderna, all’autonomia delle
realtà terrene, alla libertà religiosa e alla
valutazione favorevole della democrazia
e dello Stato di diritto. La forza del Vaticano II è consistita nell’aver operato
quest’apertura proprio a partire dal centro vitale del cristianesimo, ripensato
nella sua straordinaria fecondità anche
umana e culturale.
Subito dopo la conclusione del Vaticano
II, e non senza rapporto con quel fenomeno storico e culturale che viene indicato facendo riferimento all’anno 1968,
si è posto acutamente il problema dell’interpretazione del Concilio stesso,
con l’affermarsi di linee divergenti che
hanno diviso la teologia cattolica e fortemente influenzato la vita stessa della
Chiesa. Così, mentre vi erano coloro
che sostanzialmente, o anche apertamente e frontalmente, rifiutavano il Concilio come una rottura della tradizione
cattolica, altri, assai più numerosi ed influenti, ritenevano che la novità portata
dal Vaticano II dovesse condurre ad
un’apertura radicale verso la cultura del
nostro tempo, come anche al superamento ad ogni costo delle differenze tra
le diverse confessioni cristiane, fino a
quella che a mio avviso avrebbe rappresentato una rottura della “forma cattolica” del cristianesimo. Viene spontaneo ricordare in proposito il libro Infallibile? Una domanda di H. Küng, uscito
nel 1970, ma è indicativo anche ciò che
107
M A T E R I A L I
scriveva un teologo come O. H. Pesch
nel nono volume del Mysterium Salutis,
pubblicato in tedesco nel 1973 e in italiano nel 1975: «Rispetto al concetto
corrente di ortodossia si deve dire oggi
che nessuno può più ignorare la quantità di eresia, non solo materiale ma anche ‘for male’, che esiste oggi nella
Chiesa» (pp. 388-389 dell’edizione italiana). Si tratta per lui di una situazione
positiva, che consente in particolare di
affermare finalmente, anche all’interno
della Chiesa cattolica, il primato della
fede personale che salva rispetto ad
ogni norma o condizione ecclesiale.
In effetti è iniziata e si è diffusa rapidamente subito dopo il Concilio la prassi
di un’interpretazione assai disinvolta, riduttiva e anche elusiva delle stesse verità essenziali della fede. Si è verificata
così, inevitabilmente, una frattura tra
quei teologi che più avevano contribuito
a far maturare le premesse del Concilio,
oltre che al suo svolgimento. Nei decenni più recenti questa situazione si sta,
sia pure faticosamente, ricomponendo:
per il suo pieno e positivo superamento,
che non significa affatto la soppressione
della giusta e indispensabile libertà di
ricerca e di un sano pluralismo teologico, è assai importante quella linea di ermeneutica del Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e che
egli stesso ha qualificato come “ermeneutica della riforma”.
Come ha detto molto nettamente il Papa
in quel discorso, il grande programma
del Concilio di un “sì” fondamentale, anche se non acritico, all’età moderna non
è assolutamente da abbandonare, anzi
è da sviluppare e concretizzare nei suoi
diversi versanti, da quello dei rapporti
con le scienze empiriche e con le scienze storiche a quello delle relazioni tra la
Chiesa e le istituzioni politiche. Su questi versanti Benedetto XVI rileva che non
mancano positivi sviluppi, come la maggiore consapevolezza acquisita dalle
scienze empiriche dei limiti intrinseci ai
loro metodi o come la percezione diffusa che escludere il contributo della reli-
108
E
D O C U M E N T I
gione dalla vita sociale e pubblica risulta dannoso per la società stessa e alla
fine anacronistico.
4. Per un discernimento del tempo
che stiamo vivendo
Per procedere su questa strada occorre
tentare un discernimento, sempre difficile e azzardato, del tempo in cui stiamo
vivendo. L’allora Prof. W. Kasper, nel libro Introduzione alla fede uscito nel
1972 (pp. 27-31), parlava del nostro
tempo come di “un secondo illuminismo”, cioè di uno “svelamento dell’illuminismo a se stesso”, di una “metacritica” della critica illuministica, che si
esercita riguardo ad entrambe le grandi
rivendicazioni dell’illuminismo, la ragione e la libertà, in quanto la critica stessa ha mostrato come ambedue siano
largamente condizionate e gravate da
molteplici presupposti, alla fine dunque
altamente problematiche. Così ci siamo
resi di nuovo consapevoli della fondamentale finitezza dell’uomo, della storicità e fatticità irriducibile della realtà in
cui viviamo e della provvisorietà dei nostri schemi di pensiero e progetti di vita,
personale e pubblica. In una tale situazione, a giudizio di Kasper si aprono
davanti all’umanità occidentale due
strade possibili. Una è quella di attestarsi dentro ai propri limiti, accontentandosi per così dire di essi e ritenendoli invalicabili; rifiutando pertanto come
prive di senso le problematiche religiose come quelle metafisiche. L’altra riconosce la propria limitatezza, anzi miseria profonda, ma resta anche aperta agli
interrogativi e alle aspirazioni che l’uomo continua a portare dentro di sé, in
ultima analisi al bisogno di salvezza, all’esigenza di cercare un’esistenza felice
e compiuta e una risposta alle domande
sul senso della propria vita e sull’origine
della realtà.
A mio parere questa diagnosi di W. Kasper, a suo tempo anticipatrice – basti
pensare a quanto diffusa fosse allora la
convinzione del primato culturale del
M A T E R I A L I
marxismo – a distanza di 35 anni rimane
ancora in buona parte valida. Nel frattempo sono intervenute però novità importanti, non solo negli atteggiamenti
dello spirito ma nei fatti della storia. Mi
riferisco all’emergere della nuova “questione antropologica” e delle connesse
problematiche di “etica pubblica”, a seguito di quegli sviluppi delle scienze e
delle biotecnologie che hanno reso possibili interventi diretti sulla realtà fisica e
biologica del nostro essere, come anche ai grandi mutamenti degli scenari
mondiali, che hanno una loro data emblematica nell’11 settembre 2001 ma
che riguardano assai più ampiamente il
rapido affermarsi di grandi nazioni e civiltà sempre meno disposte ad accettare il predominio dell’Occidente.
Quanto agli atteggiamenti dello spirito,
nei decenni successivi a quella diagnosi di W. Kasper sono diventate più evidenti la pretesa del relativismo di porsi
come criterio insuperabile, e paradossalmente “assoluto”, sia della verità sia
del bene morale e al contempo la sua
parentela con il fenomeno, forse ancora
più ampio e più profondo, del nichilismo, che sembra quasi inverare storicamente la tesi di Nietzsche e Heidegger
secondo la quale esso costituirebbe il
destino del nostro tempo, intimamente
connesso con la “mor te di Dio”. Un
esempio recentissimo dell’influsso pervasivo del nichilismo in un ambito come
quello del diritto è rappresentato dal libro di N. Irti Il salvagente della forma
(ed. Laterza) e dal dialogo dello stesso
Irti con Claudio Magris pubblicato sul
Corriere della Sera del 6 aprile scorso.
Le forme nelle quali la “morte di Dio” si
fa strada nella cultura occidentale di
oggi sono però tra loro diverse. Una è
quella dell’affermazione dell’ateismo
che viene motivata soprattutto sulla base di un’assolutizzazione dell’interpretazione evoluzionistica dell’universo, come se essa fosse, ben più di una teoria
scientifica, «una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori
domande sull’origine e la natura delle
cose non siano più lecite né necessa-
E
D O C U M E N T I
rie» (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del
mondo, ed. Cantagalli, pp. 189-190).
L’affermazione dell’ateismo viene però
ritenuta da molti troppo impegnativa rispetto ai limiti delle nostre conoscenze.
Ben più diffuse sono quindi posizioni
agnostiche, che si riconducono a quell’idea, o a quell’atteggiamento dello spirito, secondo cui latet omne verum, ogni
verità è nascosta (ivi, pp. 184-186). Si
potrebbe dire che il nichilismo prende
così un volto relativistico, apparentemente più benigno e tollerante e alla fine forse più coerente con la sua natura
profonda. In ogni caso però ci allontaniamo radicalmente dal contenuto essenziale e dall’orizzonte stesso del cristianesimo, perché un Dio del quale non
si può sapere nulla non è certamente il
Dio che parla a noi ed entra nella nostra
storia.
Nei decenni più recenti vi sono stati tuttavia anche sviluppi di segno molto diverso, con un forte ricupero del senso
religioso e con il declino dell’idea che la
secolarizzazione sia un processo irreversibile, destinato a portare, se non alla scomparsa, all’irrilevanza della religione, almeno in Occidente e a livello
pubblico. La ragione intrinseca di tale
declino sta anzitutto nell’incapacità di rispondere, da parte di una cultura secolaristica, alle domande fondamentali e
concretamente ineludibili sul senso e la
direzione della nostra esistenza.
Soprattutto a partire dall’11 settembre
2001 si è aggiunta un’altra motivazione,
legata alla percezione diffusa della minaccia che sembra provenire dalla deriva fondamentalista dell’islamismo: questa percezione ha orientato il risveglio
del senso religioso ad assumere un più
preciso profilo identitario cristiano e, in
un Paese come l’Italia, cattolico. Si tratta di un fenomeno ampiamente presente
e fortemente sentito nelle popolazioni,
ma che sta assumendo grande rilievo
anche sul piano della cultura pubblica.
Tra il risveglio religioso e le tendenze relativistiche e nichilistiche esiste obiettivamente un profondo contrasto: è que-
109
M A T E R I A L I
sta la ragione sostanziale per la quale,
in Italia come in moltissimi altri Paesi,
quello della religione, e in particolare
del cristianesimo – e per altri versi dell’Islam – è diventato ormai, nella cultura
e nella società, uno dei più rilevanti terreni di confronto e anche di polemica,
reso ancora più concreto e coinvolgente
dall’emergere della nuova questione antropologica, con le sue implicazioni nell’etica pubblica.
5. Tentativi di risposta teologica
In una situazione di questo genere è assai grande lo spazio, anzi il bisogno
dell’apporto della teologia. Per delineare la fisionomia che esso potrebbe assumere sembra utile richiamare anzitutto i limiti di alcuni tentativi già attuati e,
almeno in parte, ancora in atto. Uno di
essi, ormai desueto a motivo dei limiti
emersi nei processi di secolarizzazione,
è quella che è stata chiamata “teologia
della secolarizzazione”, di matrice soprattutto protestante ma penetrata anche in ambito cattolico. Essa ratificava,
come il risultato della dinamica interna
del cristianesimo, la separazione crescente tra fede e cultura e affidava la
mediazione tra di esse soltanto alla rivendicazione dell’origine cristiana di tale processo. Così però rimane aperta la
strada all’emarginazione progressiva
del cristianesimo, man mano che i processi di secolarizzazione si sviluppano
e si allontanano dalla propria origine,
come normalmente avviene nella storia.
Un altro approccio teologico, oggi ancora abbastanza presente, sebbene
colpito alla radice dagli eventi dell’anno
1989, che hanno messo in evidenza l’insostenibilità non solo politica ed economica ma antropologica ed etica dei modelli di vita associata che si richiamano
al marxismo, è quello delle teologie della liberazione e anche delle teologie politiche. Alla loro base vi è l’intenzione,
ampiamente condivisibile, di ricuperare,
in vista del futuro, il ruolo storico del cristianesimo. Il loro limite sostanziale con-
110
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siste però nell’affidare questo ruolo principalmente alla prassi politica, mettendo così a carico della politica il problema stesso della salvezza dell’uomo e
del senso dell’esistenza, ciò che comporta fatalmente un’assolutizzazione falsa e distruttiva della politica stessa.
La profonda disillusione prodotta nell’ambito delle teologie della liberazione
dai fatti del 1989 ha spinto vari loro
esponenti verso posizioni improntate al
relativismo. Essi sono confluiti così, insieme a non pochi altri teologi, in quell’orientamento, che prende vari nomi tra
cui quello di teologia delle religioni, secondo il quale fondamentalmente non
solo il cristianesimo ma anche le altre
molteplici religioni del mondo, con i popoli e le culture che ad esse si riferiscono – e che spesso sarebbero stati oggetto da parte dei cristiani di un imperialismo e colonialismo non solo politico
ma anche religioso –, costituirebbero in
realtà, accanto al cristianesimo storico,
autonome e legittime vie di salvezza.
Viene abbandonata così quella fondamentale e davvero originaria verità della
fede, evidentissima nel Nuovo Testamento e fonte primaria del dinamismo
missionario della Chiesa dei primi secoli, secondo la quale Gesù Cristo, nella
sua concretezza di Figlio di Dio che si è
fatto uomo ed ha vissuto nella storia, è
l’unico Salvatore dell’intero genere umano, anzi di tutto l’universo. La Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, riaffermando con forza questa verità, non ha
fatto che dare voce alla missione essenziale della Chiesa. Il libro che ho già citato dell’allora Cardinale Ratzinger mette in luce come in determinate forme di
teologia delle religioni sia all’opera quel
principio del latet omne verum che accomuna per certi aspetti il relativismo
attualmente diffuso in Occidente con
l’approccio al divino delle grandi religioni orientali, e anche del pensiero tardoantico che proprio in questi termini si
opponeva al cristianesimo. In vari teologi questa svolta relativistica si accompagna con la rivendicazione, non ab-
M A T E R I A L I
bandonata, del primato della prassi: dove cioè la conoscenza non può arrivare
potrebbe invece giungere la prassi; essa sola sarebbe decisiva per la salvezza e il dialogo, anzi l’unità tra le religioni, dovrebbe risolversi in essa.
6. Contributi da valorizzare ulteriormente
Naturalmente in ciascuna di queste tre
impostazioni teologiche sono presenti
istanze che non possono essere lasciate cadere, dalla volontà di superare una
visione “catastrofale” della modernità al
rapporto che la fede cristiana non può
non avere con l’umanizzazione del mondo, fino alla necessità di una prospettiva davvero universale che faccia spazio
concreto, in seno al cristianesimo, alla
pluralità delle culture e delle civiltà. Da
quest’ultimo punto di vista l’allora Cardinale Ratzinger ha avanzato (op. cit., pp.
57-82) una proposta assai innovativa rispetto all’ipotesi teologiche oggi più diffuse e per me davvero convincente: abbandonare l’idea dell’inculturazione di
una fede di per sé culturalmente spoglia, che si trasporrebbe in diverse culture religiosamente indifferenti, e riferirsi
invece all’incontro delle culture (o “interculturalità”), che si basa su due punti di
forza. Da una parte l’incontro delle culture è possibile e avviene continuamente perché, nonostante tutte le loro differenze, gli uomini che le producono hanno in comune la stessa natura e la medesima apertura della ragione alla verità. Dall’altra parte la fede cristiana,
che nasce dal rivelarsi della verità stessa, produce quella che possiamo chiamare la “cultura della fede”, la cui caratteristica è di non appartenere a un
popolo singolo e determinato, ma di poter sussistere in ogni popolo o soggetto
culturale, entrando in relazione con la
sua cultura propria ed incontrandosi e
compenetrandosi con essa. Questa è in
concreto l’unità e insieme la molteplicità
e l’universalità culturale del cristianesimo.
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D O C U M E N T I
Un contributo tuttora assai rilevante all’adempimento dei compiti che la teologia ha oggi davanti a sé può venire, a
mio giudizio, da quel grande moto di
rinnovamento che ha percorso la teologia stessa negli anni che hanno preceduto il Vaticano II, e anche dall’eredità
della teologia neotomista, nonostante i
suoi limiti, che possono individuarsi più
precisamente da una parte nella sottovalutazione della distanza storica che
separa San Tommaso e tutta la grande
scolastica dal nostro tempo, e in concreto dei grandi sviluppi, teoretici e pratici, realizzatisi attraverso i secoli; dall’altra parte nel tentativo di dimostrare la
verità delle premesse del cristianesimo
(i praeambula fidei) mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede stessa. Questo tentativo è sostanzialmente fallito, come osservava il Cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp.
141-142), e appaiono destinati a fallire
altri eventuali tentativi analoghi, già per
il motivo che le grandi questioni dell’uomo e di Dio (ed ugualmente la questione di Gesù Cristo), riguardando e coinvolgendo inevitabilmente il senso e la
direzione della nostra vita, mettono in
gioco noi stessi e quindi, pur richiedendo tutto il rigore e le capacità critiche
della nostra intelligenza, non possono
esser decise indipendentemente dalle
scelte secondo le quali orientiamo la
nostra stessa esistenza.
Reciprocamente però, e in sostanza per
un motivo analogo, è fallito anche il tentativo opposto di K. Barth di presentare
la fede come un puro paradosso, che
può sussistere soltanto in totale indipendenza dalla ragione. A questo proposito, non solo riguardo a Barth ma a tutto
il pur importantissimo filone della “teologia kérygmatica”, si può osservare che
è sì fondamentale e irrinunciabile, ma
non è sufficiente, presentare l’enorme
ricchezza e la bellezza del mistero cristiano, quali emergono dalle fonti bibliche, patristiche e liturgiche e quali si
sono via via arricchite nel corso della
storia. Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti nel
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M A T E R I A L I
nostro tempo è necessario infatti che
entrino in dialogo con la ragione critica
e con la ricerca di libertà che lo caratterizzano, in modo da aprire questa ragione e questa libertà, per così dire “dall’interno”, e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono.
7. Una teologia cristocentrica e pertanto davvero teologica e antropologica
Al centro e al cuore di un approccio teologico meglio adeguato agli interrogativi
del tempo che sta davanti a noi rimane,
a mio parere, quella forma di teologia
radicalmente cristologica e cristocentrica, e proprio perciò altrettanto radicalmente teologica e antropologica, che è
implicitamente proposta nel n. 22 della
Gaudium et spes: «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il
mistero dell’uomo… proprio rivelando il
mistero del Padre e del suo amore per
noi [Cristo] svela anche pienamente
l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
Perciò l’attenzione del teologo deve
concentrarsi anzitutto su Gesù Cristo,
cogliendo insieme la sua realtà storica e
la profondità del suo mistero. Con il suo
libro Gesù di Nazaret Benedetto XVI ci
ha indicato una via e un metodo di lavoro che possono rivelarsi molto fecondi
per lo sviluppo della teologia, specialmente su quella frontiera ineludibile che
è rappresentata dalla saldatura tra le
esigenze della critica storica e quelle di
un’ermeneutica autenticamente teologica.
Nella luce della realtà e del mistero di
Gesù Cristo si possono affrontare i due
poli essenziali del discorso teologico,
Dio e l’uomo, che sono poi, in maniera
esplicita o implicita, i veri nodi della cultura del nostro tempo. Rispetto ad entrambi questi nodi l’attuale contesto culturale – nel quale le scienze empiriche,
con la loro forma di razionalità e con la
mentalità che esse generano, esercita-
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E
D O C U M E N T I
no un ruolo trainante e per certi versi
egemone – impegna la teologia ad un
confronto con tali scienze ben più approfondito di quel che sia stato realizzato fino adesso: confronto per altro che
non può fare a meno di un’autentica e
non riduttiva dimensione filosofica. Perciò, riguardo a Dio, assume particolare
importanza quella riflessione che si concentra sulla struttura e sui presupposti
della conoscenza scientifica, per mostrare che proprio a partire da essi si
pone di nuovo la domanda sull’intelligenza creatrice.
Analogamente riguardo all’uomo è decisivo il confronto sia con la teoria dell’evoluzione sia con le neuroscienze, per
mostrare, anzitutto alla luce delle sue
capacità proprie ed esclusive di produrre cultura, che l’uomo emerge dalla natura non nel senso di una semplice provenienza ma di un autentico trascendimento. Solo su questa base antropologica diventa possibile e coerente quella
promozione e difesa della dignità umana a cui la teologia è chiamata, oggi
par ticolar mente sul piano dell’etica
pubblica.
È questo il senso di quel programma di
“allargare gli spazi della razionalità” che
Benedetto XVI propone con insistenza e
che riguarda sia la ragione scientifica
sia la ragione storica. Questo programma implica il duplice convincimento che
la rivelazione di Dio in Gesù Cristo offre
alla ragione un aiuto prezioso per proseguire il suo cammino, sempre più articolato, complesso e specialistico, senza perdere di vista il suo orizzonte globale e gli interrogativi di fondo, e d’altra
parte che proprio attraverso il confronto
con la ragione contemporanea la fede e
la teologia sono stimolate ad approfondire ulteriormente quella novità riguardo
al mistero di Dio e dell’uomo che ci è
venuta incontro in Gesù Cristo.
Nel contribuire a un simile programma
la teologia non deve avere la pretesa razionalistica di dimostrazioni cogenti, come già accennavo riguardo ai praeambula fidei, ma piuttosto essere consapevole dei limiti del proprio discorso: così,
M A T E R I A L I
a proposito del Lógos creatore J. Ratzinger afferma che esso dal punto di vista razionale rimane “l’ipotesi migliore”,
un’ipotesi che richiede da parte dell’uomo e della sua ragione di rinunciare a
propria volta ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed. Cantagalli, pp. 115-124).
8. Rivelazione, Chiesa, teologia
In sostanza viene proposta così una
grande e coraggiosa uscita della teologia dai discorsi autoreferenziali, dai propri orti e recinti, che possono inavvertitamente sussistere anche quando si assumono interlocutori “esterni” a loro volta piuttosto estranei ai reali problemi di
oggi. Questa apertura coincide in realtà
con la piena coerenza della teologia cristiana e cattolica con se stessa e si alimenta di una tale coerenza. Ne abbiamo avuto un grande esempio nella dinamica spirituale, culturale e storica del
pontificato di Giovanni Paolo II e ne abbiamo ora un esempio altrettanto significativo e più direttamente teologico nel
pontificato di Benedetto XVI.
Concludo cercando di esplicitare il senso e il fondamento teologico di tale coerenza, e così anche di indicare la via
per superare dall’interno quella frattura
che si è verificata nella teologia cattolica subito dopo il Concilio Vaticano II. Lo
faccio richiamandomi all’analisi della
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D O C U M E N T I
natura della divina rivelazione che J.
Ratzinger aveva elaborato nello studio
su San Bonaventura con cui intendeva
conseguire l’abilitazione all’insegnamento accademico e che è riproposta
sinteticamente nel suo libro La mia vita
(ed. San Paolo, pp. 72 e 88-93). La rivelazione è cioè anzitutto l’atto con cui Dio
manifesta se stesso, non il risultato oggettivato (scritto) di questo atto. Per
conseguenza, del concetto stesso di rivelazione fa parte il soggetto che la riceve e la comprende – in concreto il popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento –, dato che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato
svelato, nessuna rivelazione sarebbe
avvenuta. Perciò la rivelazione precede
la Scrittura e si riflette in essa, ma non è
semplicemente identica ad essa, e la
Scrittura stessa è legata al soggetto che
accoglie e comprende sia la rivelazione
sia la Scrittura, ossia alla Chiesa. Concretamente la Scrittura nasce e vive all’interno di questo soggetto. Con ciò è
dato il significato essenziale della tradizione ed anche il motivo profondo del
carattere ecclesiale della fede e della
teologia, oltre che il fondamento della
validità di un approccio alla Scrittura
che sia al contempo storico e teologico.
È dunque con buona coscienza e consapevolezza critica che possiamo accogliere, come teologi, quell’intima relazione della Scrittura e della tradizione con
tutta la Chiesa e con il suo magistero di
cui ci parla il n. 10 della Dei Verbum.
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In quarta di copertina:
Entri nella stazione Termini a Roma. Ti accoglie un albero. Bello nella sua linearità e riccioluto nella sua chioma. Lo hanno fatto nascere in un Natale di
calendario. Lo hanno ‘battezzato’ «l’Albero dei Desideri». Ora è là, oltre la sua
data di nascita. Non cresce se non con i tanti biglietti e desideri che ogni passante e viaggiatore in partenza (più che in arrivo) trova il tempo di lasciare, segnalando la propria presenza con una frase, un verso, un disegno… Parole in
tutti gli alfabeti, desideri nella stessa koiné dell’uomo che ha bisogno, che non
trova altra speranza che in un Babbo Natale che obbliga a fare lo straordinario
e a passare anche fuori tempo-natale a prendere quei sospiri e a cercare di alleviarli o di trasformarli in realtà per adempiere alle speranze di chi li ha espressi.
Ma perché proprio un albero? Non si racconta nulla su questa origine. Né nella pubblicazione su questo albero dei desideri, che si può trovare in un angolo
nascosto della stazione romana, all’ingresso della libreria. Pubblicazione gratuita. Nella sua edizione che raccoglie i desideri del 2005.
Leggere i desideri è come conoscere una parte di noi stessi e quell’altra umanità che nemmeno il telegiornale più ‘infedele’ potrà mai svelare. Un albero a
Natale è come un panettone. Non c’è Natale senza albero. Ecco allora che l’albero incarna tutto ciò che di nuovo l’uomo vorrebbe che nascesse. Eppure l’albero ha la sua stagionalità, segue quel cerchio stagionale dell’esistenza che ha
sempre quattro ritmi e un anno intero di tempo. La novità forse non è nel ritmo naturale delle stagioni che l’anno vive, quanto in quel suo alzarsi e ampliarsi, quel suo occupare spazi per ospitare e il tutto innalzare verso l’alto. In
questo suo trascendere la terra che lo radica e lo alimenta. Nel suo farsi più alto di chi in basso lo coltiva e ne attende i suoi frutti.
E se quest’albero fosse la rappresentazione, tradotta nello spazio della natura e
del cosmo, di quell’evento della Pentecoste cristiana? E se nessuno lo sapesse
perché nessuno pensa che lo Spirito abita anche nei desideri di chi non lo invoca, e di chi non sapendo affida alla forza della natura ciò che i cristiani riconoscono nella forza dello Spirito? E se lo Spirito si effonde come i rami di questo albero per ospitare le nostre ansie e farsi Consolatore, così come sono consolati gli uccelli ospitati dai rami di un grande albero? Non sono parabole laiche, né poetiche trasmigrazioni di immagini, né tentativi di ridefinire tutto ricapitolandolo nel divino. La realtà è che le frasi scritte sui biglietti sono appesi
a questo albero come frutti, come attesa che diventino frutto che nutre le speranze e alimenta la vita di chi li appende.
E se ognuno di noi fosse un albero per gli altri: saremmo una foresta come i
cedri del Libano. I nostri frutti e la loro fragranza donerebbe un ricordo a chi
arriva a Roma o a chi la lascia per altre mete. O ad ognuno di noi che ogni
giorno è impegnato in una partenza e in una ripartenza, in un continuare o
nell’iniziare: nuovi percorsi che avranno all’orizzonte quell’albero di speranza
che avremmo piantato nella terra della condivisione e dell’ospitalità. E che sarà
l’ultima ombra che vedremo all’orizzonte del nostro esistere.
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