6 FEBBRAIO 2016
NUMERO 6 | SETTIMANALE
€ 2,50
60006
9 771594 123000
Gli Stati chiudono i confini. Nuovi xenofobi avanzano.
Si litiga su banche, deficit e Turchia.
La profezia di Metternich si avvera. Per l’Unione
Torna il Salvagente
con un’inchiesta esclusiva
Cosa bolle
in pentola
IN EDICOLA
le analisi
su 15 marche
di spaghetti.
Ecco chi
nasconde
micotossine
e pesticidi
testmagazine.it
ONDA PAZZA
di MAURO BIANI
6 febbraio 2016
3
a sinistra senza inganni
SOMMARIO
NUMERO 6
03 ONDA PAZZA
di Mauro Biani
L’EUROPA È UNA QUESTIONE GEOGRAFICA
16 Dal sogno di Ventotene
alla sospensione di Schengen
di Corradino Mineo
20 Londra-Budapest-Istanbul-Atene
Viaggio lungo le frontiere della crisi
di Massimo Paradiso, Massimo Congiu,
Michela AG Iaccarino, Nicola Zolin
REPORTAGE
36 Se Boko Haram
è dall’altra parte del fiume
di Giacomo Zandonini
GUERRA
40 Tutte le incognite della Libia
di Claudia Gazzini
42 La scommessa di Bernie
è stata privatizzata»
07 PICCOLE RIVOLUZIONI
di Paolo Cacciari
07 IL NUMERO
07 UP&DOWN
08 FOTONOTIZIE
12 ECONOMIA&FINANZA
di Ernesto Longobardi
CINEMA
44 Far West America
di Giorgia Furlan
46 Tarantino:
da inseguito a inseguitore
di Francesco Gatti
INDUSTRIA
26 Ilva, è caccia alle cordate
di Ilaria Giupponi e Raffaele Lupoli
GRAPHIC NOVEL
48 Quel genere di storie
di Massimo Basili
SCIENZA
POLITICA
30 Tito Faraci ci racconta Milano al voto
52 Facciamo luce nella materia
di Luca Sappino
oscura
di Pietro Greco
LAVORO
OPERA
32 Premi di produttività,
una medicina che non cura
di Marco Craviolatti
56 Nelle stesse corde di Verdi
IL CASO
34 Ericsson e il gioco dei tre contratti
58 Calcutta, da Latina
di Pietro Greco
di Chiara Ricciardi
4
06 LETTERE
07 LA DATA
STATI UNITI
di Martino Mazzonis
25 Bauman: «L’Utopia
05 EDITORIALE
di Corradino Mineo
6 febbraio 2016
MUSICA
al mainstream
di Alessandra Grimaldi
13 IL COMMENTO
di Ilaria Bonaccorsi
35 CALCIO
di Emanuele Santi
60 LIBRI
di Filippo La Porta
60 TEATRO
di Massimo Marino
61 ARTE
di Simona Maggiorelli
62 BUONVIVERE
di Francesco Maria Borrelli
62 SOCIAL
di Giorgia Furlan
63 APPUNTAMENTI
64 TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
66 IN FONDO A SINISTRA
di Fabio Magnasciutti
EDITORIALE
di Corradino Mineo
ELOGIO DELL’INCERTEZZA
Vivere il provvisorio, l’incerto, il dubbio. Le
borse? Che rischio. La guerra contro il Daesh.
Non finisce quella in Siria, forse ne comincia
un’altra in Libia. E le unioni civili? È vero quelli, tanti, del Circo Massimo hanno mostrato
di avere denti sdentati, ma attenzione che in
Senato c’è il voto segreto. Parlano Calderoli,
Formigoni, Caliendo: “Pauva” direbbe Crozza
coi denti di coniglio del premier segretario.
E Renzi? Lui sempre quello. Una garanzia per
chi ama vivere sospeso su una fune al settimo
piano. Un giorno quasi pace con Angela, poi
va in Nigeria, non trova nessuno da spianare,
e son fulmini (e insulti) per i burocrati senz’anima di un’Europa senza identità. Vuole la
testa di Juncker, dicono quelli che dicono di
saperla lunga. Ma se sono pochi mesi che l’ha
messo là?
La minoranza dem non vuole il Partito della nazione, ma forse voterà sì al referendum
costituzionale che nelle intenzioni del Partito
della nazione funzionerà da varo per il Partito
della nazione. A Milano si vota per le primarie:
giunta Pisapia contro giunta Pisapia, con Sala
che dice di essere più a sinistra di Pisapia.
Intanto alla Rai tornano antichi direttori e
costumi usati. Un manuale interno vietava,
mezzo secolo fa, di nominare il membro, fosse puro del Parlamento o della Confraternita
del Padre nostro. La parola può far pensare a
un utensile sessuale: Dio non voglia e giù cinque Ave Maria. Oggi Iacona finisce in seconda
serata perché vuol parlare di educazione sessuale. Sssttt, certe cose solo in confessionale.
Va bene, andiamo all’estero. Clinton vince
(d’un soffio) e Sanders non perde. Ma for-
se Clinton perde prevalendo solo per il rotto
della cuffia e Sanders vince resistendole. E
poi, chi ha vinto, chi ha perso? Quando due
candidati sono in parità nei Caucus si tira in
aria una moneta. Testa o croce? Pare che nello Iowa la si sia tirata più volte quella moneta e che Hillary abbia avuto fortuna. Elogio
dell’incertezza.
Quanto a Trump l’irruento, ha fatto così paura ai media, ai politologi, ai sondaggisti, che si
parlava solo di lui. E lui si sentiva la vittoria in
tasca. Così a una giornalista impertinente ha
detto che «le usciva sangue dagli occhi, anzi
(che signore!) che le usciva ovunque» e non si
è presentato al confronto con i competitor. Gli
elettori, che non leggono i sondaggi e perciò
non ne hanno paura, lo hanno punito preferendogli Cruz. Si sa: gli ultimi saranno i primi.
La mafia resta fra le poche certezze. Da noi,
però, ne parla solo Mattarella il quale ha sostenuto che la lotta alla ’ndrangheta debba
stare al primo post nel programma di governo.
Ma avrà letto il programma di governo, Mattarella, o quello che ne fa le veci, vale a dire la
narrazione quotidiana del premier sulla ripresa che arriva, anzi è già arrivata, sul jobs act
che ha creato 135 mila posti di lavoro, che più
fissi non si può, sulla nuova araba fenice, che
cosa sia nessun lo dice, che sono le riforme?
Poi, ancora mafia. C’è mafia nell’antimafia, lo
aveva detto don Ciotti. Mal gliene incolse. La
Commissione parlamentare d’inchiesta, che
è là da mezzo secolo, intanto indaga e tutti
accusano tutti di far mafia con l’antimafia.
È inverno e non piove. Pioverà, mi compro un
ombrello. Oppure chiamo Altan.
6 febbraio 2016
5
Lettere
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Roma? Noi cittadini la
dobbiamo amare un po’ di più
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CHIUSO IN REDAZIONE
IL 2 FEBBRAIO 2016 ALLE ORE 21.00
6
Cara redazione di Left, sono una vostra
affezionata seppur saltuaria lettrice e
apprezzo molto il vostro lavoro. Sono
anche una cittadina di Roma e ho
letto con grande attenzione l’articolo
di Fulvio Abbate del numero del 23
gennaio. La prima frase mi ha lasciata
interdetta: «Roma non è mai stata
una metropoli internazionale», dice
Abbate. E allora verrebbe da chiedersi
chi e perché si sia mai preso la briga di
costruire quello che adesso costituisce
«il plastico a cielo aperto»: forse c’è
stato un tempo, anteriore alla Chiesa, in
cui tra le strade della nostra capitale si
parlavano centinaia di lingue diverse?
Nulla da dire sul sentimento piccoloborghese che pervade la mia bella città
(o forse l’intero nostro bel Paese) ma
il fascismo è nato a Milano. Quanto
al termine “rosicone”, direi che basta
non usarlo, io per prima non l’ho mai
adoperato.
Bello il richiamo a Pasolini, nessuno
ha saputo cogliere l’anima controversa
della Roma del Novecento meglio di
lui, mi trova molto d’accordo, ma forse
anche in questo caso bisognerebbe
estenderlo all’intero Paese questo
“analfabetismo civile”. Niente da
eccepire sul rapporto con il Vaticano
dall’età moderna in poi, c’è solo da
interrogarsi sul perché alla fine la
Chiesa sia riapprodata proprio a
Roma. Mi preme sottolineare che
la proposta di stipendiare i romani,
che sia ironica o meno, non mi trova
d’accordo, noi romani abbiamo i
nostri tempi (lenti) ma non siamo
pigri e un lavoro ce lo abbiamo già. Di
Roma deve occuparsene chi possiede
le competenze per non farla crollare
miseramente come Pompei. Noi
possiamo solo contribuire amandola un
po’ di più, perché forse l’amiamo troppo
poco e la vediamo più come il posto
giusto per far soldi che come un bene
prezioso da tutelare e non mi sento di
6 febbraio 2016
dire che sia una distorta visione solo
romana. Cordiali saluti
Arianna Mele
Mettiamola così. Roma l’ama tantissimo
anche chi la vive infastidito come Fulvio
e io. Provinciale, piccolo borghese per
antonomasia, pervasa dall’ipocrisia del
fascismo al potere, posto dove dovresti
pagare chi ci vive? Luoghi comuni, certo,
ma meno comuni di quelli sulla grande
bellezza (o bruttezza) o sulla “dolce vita”,
quella del film non lo era affatto.
Qanto all’architettura, la città del mondo
- lei lo sa meglio di me - visse un troppo
lungo declino, rotto dallo splendore
rinascimentale che toccò purtroppo solo
le regge dei nobili.
c.m.
La ministra della Giustizia
francese e la poliziotta italiana,
ecco la sinistra
Caro direttore, nella settimana che si sta
per concludere rilevo due immagini di
donne i cui movimenti contribuiscono a
raffigurare il quadro di cosa è la sinistra.
Nella prima, vedo la ministra della
Giustizia francese Christiane Taubira
che, in sella alla sua bici, lascia il palazzo
del Governo dopo avere rassegnato le
dimissioni, a causa della sua ferma opposizione all’introduzione dello Stato di
emergenza in Costituzione. Nella seconda, una funzionaria di polizia, a Genova, che togliendosi il casco ed i guanti
stringe la mano ad un lavoratore Ilva
che le stava di fronte, durante una manifestazione che sarebbe anche potuta
degenerare, determinandone -invece- lo
svolgimento in modo pacifico; anche
gli altri poliziotti si sono tolti caschi
e maschere anti-gas a loro volta, ed il
livello di tensione è calato d’improvviso.
Due azioni che ci dicono che il pensiero
di queste due donne sta certamente a sinistra. E se le donne fossero la... sinistra
dell’umanità?
Un cordiale saluto
Franco Pantalei
di PAOLO CACCIARI
L’ECONOMIA SOLIDALE SFILA
AL PARLAMENTO EUROPEO
Le formichine dell’economia solidale hanno fatto
irruzione nel Parlamento europeo. Promosso dal Gue (il
gruppo delle sinistre confederate) e fortemente voluto da
Podemos, si è svolto a Bruxelles a fine gennaio, il primo
Forum sulle economie sociali e solidali. In quattro conferenze e nove workshop sono stati accreditati 250 attivisti
dei movimenti sociali, delle reti dei beni comuni, delle
cooperative, delle imprese eticamente orientate assieme
ai massimi studiosi del settore, tra cui: Jean-Luise Laville,
Euclide Mance, Jason Nardi, Guido Viale.
Ad ascoltarli molti deputati di vari partiti e alcuni autorevoli membri della Commissione europea. Come documentano i report del Ciriec International (l’istituto che si
è posto il compito di classificare e monitorare il settore) il
6,5 per cento dell’occupazione nei Paesi dell’Ue (che sale
al 40 per cento se si considera il solo settore privato), pari
a 14 milioni di lavoratori e il 10 per cento delle imprese,
sono attribuibili all’economia sociale e solidale. Volontari
esclusi. Otto nazioni hanno già legiferato in materia (Gran
Bretagna, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Romania, Lussemburgo), alcune regioni come la Catalogna
e, in Italia, in attesa che il Senato sblocchi la legge delega per la riforma del Terzo settore, l’Emilia Romagna, il
Trentino, la Puglia e il Lazio. La Ue ha elaborato un Libro
bianco e le Nazioni unite hanno costituito una task force
che ha prodotto un position paper: Social and solidarity
economy and the challenge of sustainable development.
Un grande fermento, quindi, a cui però corrisponde una
certa confusione semantica e concettuale. Alcuni adoperano senza distinzioni le formule Economia sociale ed
Economia sociale e solidale. Ma, nel primo caso, si tratta
spesso di imprese e cooperative che praticano un modello
di business dentro le logiche del libero mercato. Nel caso
degli attori più orientati alla produzione di beni e servizi
condivisi, l’economia solidale ambisce a costruire un’alternativa di sistema alle società di tipo capitalistico. La
rete internazionale Ripess (Global vision for a social solidarity economy: convergences and differences in concepta,
definitions and frameworks. www.ripess.org) ed anche Laville mettono in guardia i rischi di una doppia sussunzione
delle attività di economia solidale dentro gli schemi della
filantropia delle grandi fondazioni delle imprese e delle
banche, ovvero nella subfornitura di sottoservizi a basso
costo per conto delle amministrazioni pubbliche sempre
più in crisi da debiti. Al contrario, l’economia solidale dovrebbe essere concepita come il centro portante di tutte
le forme possibili di economia, perché capace di generare
relazioni umane fondate sugli scambi non monetari, sulla
mutualità e l’auto-aiuto, sulla preservazione e sulla equa
utilizzazione dei beni comuni naturali.
LA DATA
IL NUMERO
11
FEBBRAIO
320
Così, tanto per rinfrescare la
memoria storica. Nel giorno
dell’anniversario dell’apparizione della Madonna di Lourdes, viene firmato il Concordato tra Stato e Chiesa che
pose fine alla “questione romana” sorta dopo la presa di
Porta Pia e l’Unità d’Italia. A
firmarlo, il cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri e il
primo ministro Benito Mussolini. Riconosciuto lo Stato del
Vaticano, la religione cattolica
diventa religione di Stato e
una convenzione finanziaria
prevede un risarcimento alla
Chiesa. La revisione, nel 1984,
firmata da Bettino Craxi e da
monsignor Casaroli.
Toccherà aspettare il 2017 per
l’avvio della riforma che introduce il sostegno al reddito
in Italia. Sarà di 320 euro, riguarderà un milione di italiani e sarà accompagnato da un
piano di inclusione sociale. Lo
ha annunciato, dalle colonne
di Repubblica, il ministro del
Lavoro Giuliano Poletti. Per “la
via italiana al reddito minimo”
la Legge di stabilità 2017 prevede un fondo di 600 milioni di
euro e obblighi per chi ne usufruirà, come mandare i figli a
scuola o accettare un’occupazione, se offerta. L’Italia, insieme alla Grecia, è ormai l’unico
Paese Ue a non avere una qualche forma di reddito minimo.
UP
DOWN
Messi e il bambino
Ciclista con bici “dopata”
Si chiama Murtaza, due occhi
neri in un volto bellissimo e
una maglietta ricavata da una
busta di plastica con su scritto il nome Messi. La foto del
bambino fan del famoso calciatore argentino, scattatata
a Ghazni, un poverissimo
villaggio del sud Afghanistan,
ha fatto il giro del mondo. Un
pallone per strada e la voglia
di giocare nonostante tutto.
Quell’immagine è arrivata
naturalmente anche al campione Leo Messi. Il quale ha
fatto sapere al responsabile
della federcalcio afghana di
voler incontrare il suo giovanissimo fan che andrà quindi
a Barcellona.
Non si è dopata lei, ma ha dopato la bicicletta. È il primo
caso nella storia del ciclismo
La 19enne Femke Van Den
Driessche è stata “pizzicata”
con un piccolo motore nella
sua bici mentre partecipava in
Belgio ad una gara dei Mondiali under 23 di ciclocross.
Adesso rischia sei mesi di fermo e una multa di 180mila
euro. Il meccanismo truffaldino era nascosto nel movimento centrale là dove i pedali innescano il movimento nella
catena. La scoperta, grazie a
una telecamera termica applicata a un tablet che avrebbe evidenziato la differenza di
calore tra le parti della bici.
1929
6 febbraio 2016
7
© Ansa/Twitter - Tim Van Wichelen/Ansa/Photopress.be
PICCOLE RIVOLUZIONI
FOTO NOTIZIA
PARIGI
HAUTE COUTURE
PRIMAVERA ESTATE 2016
Dopo la settimana del fashion
per lui, dove i vip che hanno
affollato le “front row” delle
sfilate sono state meno del
solito, il mese di gennaio si
è chiuso con le sfolgoranti
passerelle dell’Haute Couture
femminile per la Primavera
Estate 2016. Qui, l’affluenza
di celebrity e “fashioniste” è
stata sicuramente molto più
alta che per la moda maschile. Le star che hanno popolato party e passerelle vanno
dalla modella del momento
Cara Delevingne, considerata la degna erede di Kate
Moss, all’icona italiana Monica Bellucci, passando per
le biondissime di Hollywood Gwyneth Paltrow e Uma
Thurman, fino ad arrivare alla
nostra Alessandra Mastronardi avvistata al fashion show di
Chanel. Ma gli appuntamenti
modaioli nella Ville Lumiere
non finiscono qui: si ricomincia già dall’1 al 9 marzo con
le sfilate della Paris Fashion
Week, dove vedremo in passerella gli outfit dedicati al
prossimo Autunno Inverno.
Foto di Zacharie Scheurer, AP Photo
FOTO NOTIZIA
SUD SUDAN
DOVE SI GIOCA
CON LA TERRA E LA VITA
Juba, capitale del Sud Sudan,
gennaio 2016. In un campo
allestito per gli sfollati dalle
Nazioni Unite, un bambino è
alle prese con i suoi giocattoli
di argilla.
Da due anni in Sud Sudan si
susseguono rappresaglie casa
per casa, i villaggi vengono
quotidianamente rasi al suolo, si contano migliaia di morti
e più di due milioni di sfollati.
Nel Paese è in atto un violento
conflitto tra le due principali
etnie: i Dinka (gruppo dominante), fedeli al presidente
Salva Kiir e i Nuer, al fianco
dell’ex vicepresidente Riek
Machar. A niente sono valsi finora gli accordi di pace firmati ad agosto sotto l’egida Onu.
Chi fugge, spesso, si sposta
nel vicino Sudan. Perciò, negli scorsi giorni, il presidente
sudanese Omar Al Bashir ha
ordinato la riapertura delle frontiere meridionali con
il Sud Sudan. Frontiere che
erano chiuse da ben cinque
anni, da quando nel 2011 il
Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza da Khartum. Un’apertura, quella di Al Bashir,
che arriva dopo l’arretramento dell’esercito del Sud Sudan
dai confini. Ma in molti sono
pronti a giurare che dietro la
“generosa” mossa di Al Bashir
- al potere dal 1989 e ricercato
dalla Corte penale internazionale per la repressione in
Darfur - non ci sia che una
manovra per ripulire la propria immagine agli occhi della comunità internazionale.
Foto di Jason Patinkin, AP Photo
PARERI
ECONOMIA E FINANZA
di Ernesto Longobardi
Banche, l’Italia è arrivata tardi
e paga pegno
L’
accordo tra il ministro Padoan e la
commissaria Vestager sulla liquidazione dei crediti in sofferenza
delle banche italiane è l’ultimo
episodio del teatrino cui quotidianamente
assistiamo in tema di relazioni tra Roma e
Bruxelles.
La storia è nota. Da tempo il governo italiano sta cercando di costruire un marchingegno che consenta alle banche italiane di
liberarsi dei propri crediti deteriorati, che
ammontano a circa 200 miliardi di euro. La
scommessa è importante perché la pulizia
dei bilanci delle banche potrebbe agevolare
la ripresa del credito all’economia reale.
Gli altri Paesi europei hanno risolto da diverso tempo il problema, usando un ammontare impressionante di fondi pubblici.
Tra il 2008 e il 2012, per esempio, la Germania, per soccorrere le proprie banche,
ha utilizzato oltre 250 miliardi di euro. Ma
quanto fatto dagli altri viene oggi precluso all’Italia. La Commissione pretende che
da noi la soluzione al problema dei crediti deteriorati non comporti alcun sussidio
pubblico. Perché questo trattamento differenziale? Perché, nel frattempo, a partire
dal 2013, sono entrate in vigore nuove regole sugli aiuti di Stato nel settore bancario,
con le quali si è voluto chiudere il periodo
di carattere straordinario aperto dalla crisi
finanziaria del 2008. Siamo dunque arrivati troppo tardi. Non ci si concede di usare
neanche un euro di soldi pubblici, quando,
anche se lo Stato garantisse l’intero ammontare delle sofferenze bancarie, l’Italia
rimarrebbe uno dei Paesi ad avere aiutato di
meno le proprie banche dall’inizio della crisi, addirittura soltanto un quarto degli aiuti
concessi alle banche, in percentuale del Pil,
in Gran Bretagna, Francia e Germania.
L’accordo con Bruxelles prevede che le garanzie pubbliche siano fatte pagare alle
12
6 febbraio 2016
banche al loro valore di mercato e siano limitate alla categoria di crediti meno compromessi (i “senior”). Ma una garanzia
“pubblica di mercato” è un non senso. Se il
prezzo è di mercato la copertura può essere
acquistata, appunto, sul mercato: non vi è
alcun beneficio del costo dell’operazione,
con tutte le conseguenze per la tenuta del
sistema bancario, che registrerebbe consistenti perdite di capitale. Delle due l’una: se
la garanzia aumenta la convenienza dell’operazione per le banche, si hanno aiuti di
Stato; se non devono esserci aiuti di Stato,
la garanzia pubblica non serve a nulla. Non
possiamo immaginare che si voglia far conto su effetti di illusione finanziaria, per cui
la sola denominazione di garanzia pubblica dovrebbe facilitare
la collocazione sul L’accordo tra il ministro
mercato dei crediti. Padoan e la commissaria
Peraltro, la limitazio- Vestager sulla liquidazione
ne della garanzia ai dei crediti in sofferenza serve
crediti senior gioche- a poco. Servirebbe un’altra
rà un brutto scherzo, iniziativa politica a livello
perché renderà anco- nazionale ed europeo
ra più difficile la liquidazione degli altri crediti.
Si cercherà probabilmente, ancora una volta, di imbrogliare un po’ le carte sul piano
tecnico. È una pratica ormai d’uso nella politica di bilancio con le clausole di garanzia:
ci si impegna ad aumenti di imposte in futuro, nel caso i vincoli finanziari non possano
essere rispettati con altri strumenti; ma si
tratta di inasprimenti fiscali che, dovessero
effettivamente essere realizzati, produrrebbero effetti sociali ed economici devastanti.
L’aria rimane brutta. Segnali di una nuova
crisi sistemica non mancano. E l’Italia è di
nuovo in prima fila, ieri per i debiti sovrani
oggi per quelli delle banche. Sarebbe necessaria tutt’altra iniziativa politica a livello
nazionale ed europeo.
IL COMMENTO
di Ilaria Bonaccorsi
Il Family day passa
Io e Maria Candida rimaniamo. Distanti
I
l direttore mi ha chiesto di scrivere cosa rimane
del Family day. Lui dice che la piazza ha perso, che la società l’ha superata, che nessuno la
ascolta. E che la Cirinnà verrà votata. Io però non
riesco a non pensare alle statue coperte per Rouhani,
alla censura di Iacona sulla Rai e ai sermoni della domenica di Scalfari. E non mi convinco. Cosa rimane
di questo Family day? Sicuramente rimaniamo io e
Maria Candida. Io in quella piazza (ovviamente) non
sono andata, e ho una figlia. Maria Candida invece
in piazza c’era e di figli ne ha 12: «Da giovane non riuscivo a dare un senso alla vita, il mio matrimonio
era un fallimento. Poi il Signore ha cambiato tutto»,
ha detto. Io da giovane volevo fare l’archeologa e poi
anche io ho incontrato un Signore, Girolamo Arnaldi,
che mi ha “trasformato” in una storica. Una storica
del Medioevo. Così, io di figlia sono riuscita a farne
una e per il rotto della cuffia, dopo aver studiato per
vent’anni, e solo grazie a un altro Signore, Franco Lisi,
un medico, che nonostante una mia patologia fisica
mi ha permesso (con una Fivet), di concepire Sofia.
Maria Candida ha la mia stessa età ma quei vent’anni
deve averli passati a fare i suoi dodici figli. E sabato
era lì a dire che la sua è una famiglia “naturale”, la mia
no. Io, direbbe Maria Candida, ho “fabbricato” una
bambina assecondando un mio egoismo e andando “contro natura”. Perché un figlio non è un diritto
ma un dono della natura, che poi per Maria Candida
è Dio. Devo dire che certo ho pensato fosse un mio
diritto superare una patologia medica superabile,
quanto a Sofia, lei era più una possibilità dentro una
storia che vivevo. Il direttore dice che quella piazza
dai toni inverosimilmente medievali, ha perso. E
per un verso ha ragione perché Sofia c’è e come lei
milioni di bambini. Eppure tra me e Maria Candida
rimane una distanza immensa. È inutile negarlo.
Popolata di fallimenti storici. Lei ha addosso secoli
di Dio cristiano, che l’ha messa lì, nella sua famiglia
“naturale” con un ruolo prefissato di madre e moglie.
Poi ha addosso una destra che ancora si approfitta di
lei, che va dai ridicoli “tenori” del Family day (Giovanardi, Gasparri, Quagliariello) ai più scaltri, quelli rimasti sulle poltrone di questo governo. Io addosso ho
una sinistra che mi imbarazza. Che neanche balbetta
più. Che si affanna a distinguere tra papa Francesco e
la Chiesa di Bagnasco e Ruini, nella paura folle di perdere l’ultimo dei suoi miti (!). Senza capire che il problema non è Francesco, Giovanni o Benedetto, ma
tutto quello che c’è dietro. Secoli di criminalizzazione della donna, di riduzione della sessualità umana a
sola riproduzione biologica, di famiglie patriarcali, di
anatemi contro tutto ciò che slegasse i rapporti sessuali dalla procreazione: contraccezione, interruzione di gravidanza, procreazione assistita, ora utero in
affitto... Qualche anno fa, Adriano Prosperi scriveva
su Left: «Il corpo della donna resta ancora per questa Chiesa un contenitore passivo di seme maschile, un condotto di nascite obbligatorie, segnato dal
marchio biblico della sofferenza». E sabato, Massimo
Gandolfini, ideatore del Family day, urlava: «Dobbiamo dirlo con forza:
il sesso non è il piacere Io addosso ho una sinistra che
sessuale. È la procrea- mi imbarazza. Che neanche
zione, la trasmissione balbetta più. Che si affanna a
della vita, un dono di distinguere tra papa Francesco
Dio. Il sesso ci fa parte- e la Chiesa di Bagnasco e Ruini,
cipi dell’opera creativa nella paura folle di perdere
di Dio». Il tempo passa, l’ultimo dei suoi miti (!)
ma non per loro. Non
per il loro Dio, che non è tempo e non è possibilità.
Perché poi il problema tra me e Maria Candida rimane questo, la libertà “umana”. Che è mente e corpo
insieme. Che sceglie se, come e quando realizzare figli, identità, vita. E sa che nasciamo tutti uguali (art.
3) ma diventiamo tutti diversi. Sa pure che la famiglia
sono affetti e che la fanno due coniugi (art. 29). Non
per forza un uomo e una donna, ma due «che condividono la stessa sorte» (dal latino cum+iugus). E sa
che il matrimonio è un contratto, e che la Chiesa un
sacco di tempo fa lo ha trasformato in un sacramento perché non sapeva come altro fare per arginare la
“libidine” che produceva figli illegittimi e non eredi
legittimi. E che è quanto di più “innaturale” esista,
perché gli affetti sono una scelta e i diritti sono diritti.
Il direttore mi dice che la Cirinnà passerà. Io penso ai
vent’ anni, ai dodici figli e alla distanza da colmare.
6 febbraio 2016
13
DAL SOGNO DI VENTOTENE
ALLA SOSPENSIONE DI SCHENGEN
di Corradino Mineo
14
6 febbraio 2016
6 febbraio 2016
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© Illustrazione Antonio Pronostico
C
ome non condividere il sentimento di
Matteo Renzi quando denuncia la perversione burocratica della Commissione che
siede a Bruxelles, un governo dell’Europa non
scelto dai cittadini ma indicato dai governi, e
che ritiene di poter fondare la propria autorevolezza su trattati scritti anni o decenni prima.
Ed è bello che il Presidente del Consiglio si sia
recato a Ventotene, sulla tomba di Altiero Spinelli, per ricordare che l’Europa è nata lì, da
una grande idea. Un’idea il cui naufragio - oggi
purtroppo possibile - nel mare torbido degli interessi nazionali e dei populismi, ci riporterebbe al punto di partenza: guerra, barbarie, odio
per il diverso.
Ma il governo italiano non ha le carte in regola
per guidare una battaglia che sarebbe vitale per
l’Europa. Renzi ha lasciato sola la Grecia quando Atene si è battuta con coraggio non soltanto per salvarsi ma per affermare la necessità di
un’Europa più politica e più solidale. Allora il
premier non aveva occhi che per Angela Merkel. Ma anche in seguito il rottamatore ha continuato a infischiarsene della piccola Grecia e
la sta lasciando sola una seconda volta, ora che
è alle prese, senza mezzi e aiuti, con un flusso
di profughi nove volte superiore - se si considera il numero degli abitanti - di quello sopportato dall’Italia. Per la verità Renzi tace anche
sulla Spagna, Paese in cui si sta sovrapponendo il nodo di una difficile convivenza fra nazionalità diverse e quello delle disuguaglianze
e della disoccupazione. De minimis non curat
praetor: agli altri il nostro leader sembra dire:
fate come me. Il guaio è che il nostro governo
non ha mandato per fare ciò che vuole. Non è
stato votato per questo e governa in forza di un
sostegno che gli elettori diedero a una diversa
politica e alla promessa, poi tradita, di non allearsi con le destre. Così i toni sprezzanti usati con Junker, e quelli imbonitori riservati alla
Merkel, rivelano un tentativo spregiudicato di
navigazione politicista, la furbizia di chi avendo sposato il programma delle destre pretende
in cambio condizioni di favore e il sostegno al
proprio posizionamento.
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Manca una visione. Manca il parlar chiaro
ai cittadini che seppero avere Churchill o De
Gaulle e, in Italia, de Gasperi nel ’48, Berlinguer
nel ’75 e Prodi nel ’96. Per questo il gesticolante
protagonismo italiano rischia di essere sintomo
della malattia europea, anziché parte della medicina. E alla fine può trasformarsi in un regalo
a chi non vuole curare il malato ma ucciderlo,
da Salvini, a Le Pen, da Orban a Kaczynski, alla
tedesca Frauke Petry che propone di sparare ai
migranti.
Ventotene. Eppure di Europa c’è bisogno, ora
come 70 anni fa. Quando Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann, Eugenio Colorni scrissero Per un’Europa libera e unita, Hitler lavorava alla soluzione finale del problema
ebraico, la guerra infuriava sul fronte russo,
Mussolini era ancora al potere. Eppure quel
documento indicava una strada, contrapponeva «lo spirito critico» agli «Stati totalitari», l’Europa democratica «ai giganteschi complessi industriali e bancari» che già allora dominavano
gli stati nazionali, alimentando il virus totalitario. Quell’utopia sembrò vivere nel ’44 sugli
Champs-Elysées gremiti di folla che applaudiva
De Gaulle e i soldati di Eisenhower, fece capolino a Praga con le ragazze che abbracciavano
i liberatori dell’Armata rossa, a Torino, Milano,
Genova liberate dai partigiani, con i mitra in
mano ma puntati verso terra, perché era tempo
di ricostruire pace e diritti.
1948. Piegate dalla tragedia della guerra, Italia,
Germania e Francia hanno accettato volentieri
un programma straordinario di aiuti americani,
il piano Marshall. Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia sono state invece indotte da Stalin a rifiutarlo. In Italia la Democrazia cristiana trionfa
il 18 aprile, con l’appoggio della Chiesa e la benedizione di Pio XII, che l’anno dopo scomunicherà deputati comunisti e dirigenti della Cgil.
A Praga, invece, un colpo di Stato mette fine
alla Terza Repubblica per instaurare un regime
comunista. Il sogno di Ventotene lascia il passo
alla frontiera di filo spinato che prenderà a chiamarsi cortina di ferro, al muro che ferirà Berlino
e spezzerà in due la Germania. Eppure l’idea di
6 febbraio 2016
Strasburgo, 1983. Altiero
Spinelli al Parlamento europeo
© Communautés Européennes
Europa continuerà a camminare nella cultura di
De Gasperi, che diffidava del nazionalismo, in
quella di Churchill che voleva costruire un argine alle pretese sovietiche, nella grandeur gollista che puntava a contenere lo strapotere della
potenza americana e, naturalmente, nella ferita
tedesca da risanare.
Disse Metternich:
«L’Italia
è un’espressione
geografica».
Anche l’Europa
lo è se non ritrova
la fiducia
nei propri ideali
Nel maggio 1968 la Francia smette di annoiarsi, la primavera di Praga risveglia il bisogno
d’Europa contro l’egemonia russa. La gioventù si dà leader come Cohn-Bendit di padre tedesco, di madre francese, di origine ebraica.
Come Rudi Dutschke, scappato nel ’61 dalla
Germania orientale, marxista ed ecologista.
Ma quella grande occasione di far camminare
sulle gambe dei giovani la grande idea dell’Europa abortisce subito. In America la primavera
della nuova frontiera si stava spegnendo nel
delta del Mekong e in una guerra ingiusta, con
gli assassinii in patria di Martin Luther King
e Bob Kennedy dopo quelli di John Fitzgerald
Kennedy e di Malcom X. Ai comunisti russi fu
dato agio di arrestare Dubcek e imporre l’ordine a Praga con i carri armati. A De Gaulle toccò
reprimere le speranze di maggio prima di lasciare la presidenza, Dutschke fu quasi ucciso,
in Italia debuttò la strategia della tensione. Ma
l’idea di Europa visse ancora nella Berlino libera dell’ex Borgomastro, Willy Brandt che, ora
Cancelliere, andò a inginocchiarsi nel ghetto di
Varsavia. Visse nella coscienza socialdemocratica di Olaf Palme che seppe opporsi alla guerra del Vietnam, alla proliferazione nucleare,
all’apartheid.
Verdun, 1984. Francois Mitterrand ed Helmuth Kohl si promettono solennemente: mai
più guerra tra Francia e Germania, l’Europa è
la radice comune, la radice delle nostre libertà. Il cancelliere tedesco perseguiva in realtà
il progetto della sua vita: l’unificazione tedesca. Il presidente francese temeva al contrario
che con Ronald Reagan alla Casa Bianca, Karol
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© Ansa Dpa
Wojtyla sul soglio pontificio e una Germania
troppo forte, il mondo potesse diventare meno
sicuro. Nell’89, quando i sovietici lasciarono
cadere il muro di Berlino, l’utopia di Spinelli
sembrava davvero realtà.
9 novembre 1989. La festa cresce di ora in ora, i
berlinesi si ritrovano, piangono di gioia. Avranno di nuovo la loro patria dopo oltre 40 anni.
E con essa, forse, anche una patria comune a
tutti gli europei. Qualcosa arriva davvero: l’anno dopo si firma l’accordo di Schengen, che
sancisce la libera circolazione delle persone.
Non solo delle merci. Ma l’America impone la
sua agenda, vuole che si insegua la lepre russa
fino a Mosca, vuol chiudere la ferita della guerra fredda e il ricordo della rivoluzione bolscevica. C’è chi come Fukuyama predice la fine della
storia e l’avvento per sempre del capitalismo,
del libero scambio, del mercato mondiale.
Che bisogno c’è di di Europa se il mondo sta
per diventare un unico villaggio? In quel 1989 le
classi dirigenti europee hanno probabilmente
sprecato la loro grande occasione. In definitiva
la stessa idea del Pci, di cambiare il nome ma
senza definire lo spazio di una nuova politica.
Le sinistre in Francia, in Spagna, in Italia e nel
Regno Unito pensavano di dover gestire l’esistente e di saperlo fare meglio delle destre.
11 settembre 2001 Jean Marie Colombani
scrive su Le Monde “Nous sommes tous americains”. È la reazione, istintiva e dovuta, all’at18
tacco del terrorismo islamico alle torri gemelle. Ma questo sentirci tutti americani diventerà
presto sostegno alla guerra in Afghanistan. Indurrà Tony Blair a mentire sulle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein avrebbe
posseduto. E a sostenere quella terribile guerra
in Iraq che ha trasformato il Medio oriente in
una polveriera e ha rafforzato il terrorismo internazionale. Nel 2004, l’Europa di Chirac, riconfermato all’Eliseo grazie al suicidio della sinistra di Jospin, apre alle repubbliche baltiche,
ad Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca. Senza
preoccuparsi della fragilità delle proprie.
L’Europa rinuncia ad avere una politica estera,
accetta l’egemonia degli Stati Uniti e l’ombrello
della Nato. Fallisce anche il tentativo di scrivere
una vera e propria costituzione europea: all’idea di fondarla sui diritti, sul contratto e sulla
tolleranza si contrappone la tentazione di affermare le radici giudaico cristiane.
Settembre 2008. I trader lasciano la sede della
Lehman Brothers con gli scatoloni pieni delle
loro cose. È fallita la quarta banca d’affari americana e si apre quella che oggi viene chiamata
la Grande Recessione, con assonanza voluta
con la Grande depressione che seguì il crollo
del ’29. Obama cercherà di contenere il danno
e proverà a ristrutturare l’economia americana.
L’Europa resterà invece ancora a lungo prigioniera del mito germanico che identifica nella
stessa parola debito e colpa (Schuld).
6 febbraio 2016
In alto, Verdun, 22 settembre
1984, Helmuth Kohl tiene la
mano a François Mitterand
davanti alle tombe dei caduti
della Prima guerra mondiale.
Sotto, militari della Germania
dell’Est guardano la folla al di là
del muro che viene distrutto
L’ultimo capitolo non è stato ancora scritto.
La Bce, per combattere la deflazione, ha finalmente accantonato la politica di austerità, ma
non prima di aver contribuito all’umiliazione
della Grecia, costretta ad accettare un protocollo iniquo che le impedirà di risollevarsi. Il
flusso migratorio, gonfiato dalla disperazione
dei profughi in fuga dal califfato, dalla guerra
civile siriana, e dalla guerra tra sunniti e sciiti,
ha messo in crisi Schengen. La Russia, nonostante le sanzioni, si è annessa la Crimea ed è
tornata protagonista in Medio oriente. Mentre
negli Stati Uniti si avvia la maratona elettorale, l’Europa ha bisogno di un tagliando per non
morire.
© Ansa Clf
Nel 1989 le classi
dirigenti europee
hanno sprecato
la loro grande
occasione. Come
il Pci che cambiò
il nome senza
definire una
nuova politica.
Le sinistre
pensavano solo a Torniamo ancora indietro nel tempo. Il 2 agogestire l’esistente sto del 1847 Klemens von Metternich disse:
«L’Italia è un’espressione geografica». Era una
constatazione, non un insulto, Oggi, purtroppo,
anche l’Europa rischia di essere solo un’espressione geografica. Non si risolleverà senza una
forte idea di sé, senza affermare quella tradizione - diritti, tolleranza, uguaglianza, pace - che
ha ispirato Kohl e Mitterrand nella magica atmosfera di Verdun. Non rinascerà, l’Europa, se
non saprà costruire un suo parlamento, senza
darsi un governo legittimo. Senza una moneta
e una politica fiscale. Senza la gestione comune del debito. Senza una politica comune per
l’immigrazione e una sua strategia, di pace, per
l’Africa e il Medio Oriente. Utopia? Così pare.
Ma senza una tale utopia crediamo davvero
che possa aver senso dirsi di sinistra? E se osò
crederci Altiero Spinelli a Ventotene, perché noi
non dovremmo?
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LONDRA FA BREXIT
E FORSE VOLA VIA
L
a parola Brexit ha il suono di piatti rotti, urla
e porte sbattute, dopodiché ognuno va per
la sua strada. Certo, la diplomazia ci metterà una pezza e dopo l’uscita della Gran Bretagna
dall’Unione europea si eviteranno le scenate di
gelosia, mentre negli uffici di Bruxelles si limiteranno ad accantonare le fotografie dei premier
inglesi che, con mezzi sorrisi e piuttosto esitanti,
stringevano le mani ai leader europei. Il guaio,
però, sarà fatto. Senza rimedio.
Così, la sera di un lunedì di fine gennaio, il premier inglese David Cameron e il presidente del
Consiglio europeo Donald Tusk sembrano aver
trovato la quadra per trattenere ancora per qualche tempo il Regno Unito nell’orbita europea:
potere inglese di bloccare legislazioni europee a
livello nazionale; taglio alla “burocrazia di Bruxelles” e ai benefit di cui godono i cittadini europei
su suolo inglese; esenzione della Gran Bretagna
dal contributo al fondo salva Stati.
euroscettici che protestavano
Sulla base di questa intesa, Ca- David Cameron e il
contro il laissez faire del governo
meron proverà a sottoporre agli Consiglio europeo
sull’immigrazione.
inglesi il referendum sul Brexit riescono a trovare
L’unico uomo politico che semgià a settembre, anticipandolo di un accordo per darsi
bra aver capito quanto la crisi
quasi un anno rispetto a quanto del tempo. Non
dei migranti si intrecci al Brexit
promesso. La mossa è tutta poli- sarà facile, però,
è Jeremy Corbyn. Il leader dei
tica, e punta a mostrare agli elet- convincere gli elettori
Laburisti ha scelto Calais come
tori che Londra riesce ancora a inglesi che la Gran
prima meta al di fuori dei confini
imporre il proprio volere su Bru- Bretagna vinca
nazionali, chiedendo a Europa e
xelles, ma non è detto che basti. su tutta la linea
Regno Unito di collaborare per
I Conservatori potrebbero essersi “messi nel sacco” da soli: cavalcando l’onda prevenire l’immigrazione selvaggia e garantire
euroscettica dell’Ukip, avevano promesso un un futuro a chi scappa da fame e guerre.
referendum sul Brexit sperando di scongiurare La tormentata relazione tra Londra e Bruxelles
una volta per tutte l’uscita inglese dall’Unione, potrebbe avere un epilogo già il prossimo setma con la questione migranti in corso corrono il tembre con il responso referendario. Gli analisti
rischio che l’elettorato possa votare comunque britannici consigliano ai leader europei - Cameron incluso - di correre da un “consulente matriper lo sganciamento dal Continente.
L’opinione pubblica, infatti, sembra annoiata moniale” e inquadrano due diverse, e opposte,
dal racconto soporifero sulle ipotetiche riforme visioni dell’Europa: se Londra ha un piglio più
europee e si incentra invece sull’allarme atten- affaristico, il Continente si sforza ancora di cretati e sulle dimensioni del flusso di migranti e dere in un progetto comune fatto di popoli e di
rifugiati che arrivano da Oltre Manica. E se Ca- Stati. Comunque vada, la Bbc ha già scelto il jinmeron ha già annunciato la stretta nei confronti gle che accompagnerà gli approfondimenti sulle
degli immigrati che non parlano un inglese cor- trattative europee. E non si tratta dell’Inno alla
retto e il taglio dei sussidi a chi non trova lavoro Gioia di Beethoven ma del più azzeccato punkin Inghilterra, questo non è bastato a scoraggia- rock dei Clash: Should I stay or should I go? (Dore la protesta. Lo scorso weekend la cittadina di vrei restare o dovrei andare?).
Massimo Paradiso da Londra
Dover si è riempita di migliaia di neo nazisti ed
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© Zoltan Geregely Kelemen/Ansa Epa
Valico di frontiera Röszke-Horgos,
Ungheria, ottobre 2015. Agenti di polizia
schierati davanti al cancello di ferro
al confine con la Serbia
BUDAPEST ORGANIZZA
IL GRUPPO DI VISEGRÁD
E SFIDA L’UNIONE EUROPEA
L’
Ungheria di Viktor Orbán si ritiene un modello, in Europa, di buona gestione della crisi migranti. Per il ministro degli Esteri di Budapest Péter Szijjártó, le critiche piovute sul suo
governo sono infondate. I fatti hanno dimostrato
- dice - che solo la strada intrapresa dall’esecutivo magiaro è percorribile. «L’immigrazione illegale è un problema troppo serio perché l’Europa
continui a essere prigioniera del “politicamente
corretto”», ha affermato di recente il ministro.
L’Europa nega «l’evidenza dei fatti, nasconde la
realtà e stigmatizza chi parla chiaro». Per le autorità ungheresi, infatti, la soluzione del problema
non è offrire ai migranti illegali una nuova vita
da noi, ma aiutarli a recuperare ciò che hanno
perduto nei Paesi di origine. Budapest, insomma, punta il dito contro l’incapacità dell’Unione
europea di gestire un’emergenza tanto delicata
che sta mettendo in seria difficoltà le diplomazie dei Paesi membri e sostiene, anzi, di essere
stata finora l’interprete più fedele agli accordi di
Schengen. Perchè, spiegano, difendendo i con-
fini nazionali si difendono quelli dell’Unione,
per la sopravvivenza stessa dell’Europa. Insieme
agli altri tre membri del Gruppo di Visegrád - Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia - l’Ungheria
forma un blocco centro-orientale che reagisce
all’approccio comunitario considerandolo permissivo quando non inconsistente a fronte di un
problema così serio. Con Beata Szydło primo ministro, la Polonia ha impresso una decisa svolta a
destra alla sua politica e si è avvicinata al modello
ungherese. Si pensi alla nuova legge sui media o
ai provvedimenti che regolano ruolo e funzionamento della Corte costituzionale. All’inizio di
gennaio Orbán e Jarosław Kaczynky, leader del Pis
(Diritto e Giustizia), partito di destra approdato
al governo, si sono visti a Niedzica, nella Polonia
meridionale, per discutere di immigrazione, delineare una strategia comune all’interno della Ue e
rafforzare il Gruppo di Visegrád e il suo ruolo in
Europa. Tutto questo mentre le autorità slovacche reagivano agli incidenti di Colonia con l’annuncio di non voler più dare ospitalità ai migranti
musulmani. Il governo di Bratislava, guidato da
Robert Fico, si prepara alle elezioni
politiche che si svolgeranno il pros- Il blocco centrosimo cinque marzo battendo sul orientale si
chiodo della difesa del territorio, sposta sempre
della sicurezza nazionale e del no più a destra. E
alle politiche delle quote. In sintonia adesso Ungheria,
con le posizioni del resto del blocco Slovacchia,
centro-orientale. Anche per le au- Repubblica
torità ceche la sicurezza è l’aspetto Ceca e Polonia
centrale nella gestione della crisi chiedono un
migratoria: nel recente dibattito alla “piano B” per il
Camera, il primo ministro Bohuslav flusso migratorio
Sobotka ha affermato che i migranti
non sono un esercito organizzato e unitario e che
la crisi può essere affrontata solo con una una cooperazione europea che escluda iniziative isolate
da parte dei singoli Stati. A suo avviso, l’Ue deve
aiutare chi scappa da guerre e persecuzioni ma
senza mettere a repentaglio la propria sicurezza,
quindi allontanando i semplici migranti. Intanto
Praga ha annunciato un vertice del Gruppo di Visegrád il prossimo 15 febbraio per parlare di immigrazione, giusto tre giorni prima del summit Ue
dedicato allo stesso tema. A Praga i leader di Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia discuteranno la proposta ceca di stabilire una linea
di frontiera di riserva lungo il confine di Bulgaria e
Macedonia: si tratta del cosiddetto “piano B”, che
se dovesse essere attuato lascerebbe la Grecia fuori dai confini protetti dell’Europa.
Massimo Congiu da Budapest
6 febbraio 2016
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QUELLE SEI MIGLIA
FRA EUROPA E TURCHIA
«D
ovremmo introdurre una seconda linea
di difesa tra Grecia e Macedonia, gli
Stati Europei dovrebbero formare una
difesa per bloccare l’immigrazione clandestina
in Europa». È la proposta della Slovenia, sono le
parole del suo premier Miro Cerar. Parla dalla
spianata dei cocci di quello che rimane dell’Europa, eterna straniera a sé stessa. E Cerar non è
il solo a puntare l’indice contro Tsipras. È una
cordata di Stati dell’Unione a chiedere di nuovo lo scalpo dell’Ellade. Grexit d’estate veniva
minacciata per i buchi nelle banche dello Stato,
Grexit d’inverno adesso viene sventolata per i
buchi che la penisola ha ai suoi confini porosi
e liquidi. Bisogna sigillare le crepe a Idomeni
in Macedonia, rattoppare le voragini burocratiche oppure la minaccia dell’Unione è quella
di sospensione della Grecia dall’area Schengen.
Al plankton egoista di dichiarazioni politiche
al summit belga risponde il ministro della Migrazione greco Iannis Mouzalas, spiegando che
chiudere fuori la Grecia vuol dire rendere l’Ellade «un cimitero di anime».
Intanto nuovi fiumi umani dalla Turchia si riversano nella marea già arrivata sui gommoni, poi
a piedi o in autobus in Nord Europa. Per questo l’Onu propone la costruzione di un’enorme
tendopoli a Salonicco. Mancata apertura degli
hotspot, divisione in quote, mancata identificazione e ricollocazione migranti vengono
imputate a un’Atene che secondo Bruxelles,
«trascina i suoi obblighi mettendo a rischio il
sistema Schengen». Quel patto, nato per abolire
i confini interni in favore di un’unica e condivisa frontiera esterna, che diede vita al cordone
ombelicale geografico dell’Unione, una catena
di linee di confine abolite in nome di una sola e
collettiva: questo era Schengen, nuova staccionata di quella che amava farsi chiamare famiglia
ricongiunta degli Stati Europei. Ora che Svezia,
Danimarca, Germania e Austria lo hanno temporaneamente abolito, l’Europa è entrata in una
nuova curva della sua esistenza, un testacoda
fratricida. Qualcosa della sua genetica iniziale si
sbriciola, quel che rimane viene tagliato col bisturi, da trattati, cavilli e note a piè pagina create
ad hoc per far fronte a quella che da questione
è diventata emergenza. La hot potato della mi22
grazione che nessuno, nemmeno la Germania,
sa come risolvere e che ogni Stato tira all’altro
al suo confine. L’ultimo su cui ricade la colpa è
ancora una volta la grande soglia da attraversare per entrare in Europa. Sei miglia d’acqua che
non hanno soluzione. Tra la teoria e la pratica
c’è di mezzo l’Egeo, una certa quota di europei
ancora solidali e la follia di credere di poter filospinare le onde. Lesbos e Kos - le Lampeduse greche dove l’aumento degli sbarchi ha raggiunto il 750% rispetto al 2014 - sono le soglie
per varcare l’area Schengen su un
gommone fabbricato in Cina per Da un lato i trafficanti
essere usato dai trafficanti in Tur- in combutta con la polizia
chia. Sono le sliding doors tra la vita turca, dall’altro i volontari
in Europa e la morte in Siria, Iraq, greci e nord europei.
In mare già 800 morti
Kurdistan.
«Sto sconfinando?», chiedeva da
una voce dal walkie-talkie a chi era a terra.
«Fuck it, sconfino», aggiungeva Tanos dal mare,
volontario della Guarda Costiera greca. Custodi delle onde, guardiani del mare a difesa di un
confine. Eroi di quelle sei miglia, hanno assistito
a molte morti in diretta dai loro binocoli senza
poter violare il diritto d’acqua internazionale tra
Lesbos e la terra di Erdogan. Qualche volta non
6 febbraio 2016
© Michela AG Iaccarino (3)
Sopra: Lesbo, migranti
mediorientali
in arrivo sulle spiagge dell’isola
aiutati dai volontari europei.
Accanto, un’agente di Frontex
scrutala costa turca
con il binocolo
hanno resistito e hanno sconfinato, raggiungendo le imbarcazioni a picco e trascinando donne
e uomini sui loro jet ski, oltre la linea immaginaria dell’Egeo diviso.
Ci sono solo sei miglia di mare tra la costa turca e
quelle di Molyvos, Eftalou, Skala Sikaminia a Lesbos. È già un cimitero da 800 anime. Da un lato
i trafficanti in combutta con la polizia turca sulle
spiagge di Ayvalik, dall’altro i volontari greci e
nord europei decisi ad allungare le braccia contro le onde della più grande migrazione di massa
mai registrata dopo la Seconda guerra mondiale, con i piedi piantati nella sabbia e nella neve
del Paese che affronta un’altra onda, quella della
crisi economica che lo ha condotto al collasso.
Appena i migranti arrivano, la prima cosa che
fanno toccando terra, è guardare indietro pensando che sia finita. Che Turchia, Siria, Iraq,
guerra e morte siano lontane. Quando si voltano e si mettono in cammino non sanno ancora
cosa li aspetta davanti. «L’unico modo di pensare di sopravvivere in Grecia è pensare che oltre
quest’isola esista l’Europa. Ma i migranti ormai
sono rimasti gli unici a crederla unita». Secondo
questi greci rimasti in muta sulle coste, il vero
motivo per cui Schengen non esiste è perché
non esiste barriera contro la Turchia, né in terra,
né in acqua, né in aria. Una Turchia che fa violare lo spazio aereo greco dai suoi caccia migliaia
di volte l’anno, solo per dimostrare di essere abbastanza forte da poterlo fare.
Quando c’è burrasca e quelle sei miglia diventavano il triplo, Tanos sorrideva sempre e diceva:
«Chi manda il temporale stanotte, il loro dio o
il nostro?». Qualcuno, nei momenti di pausa intorno al falò, si chiedeva come sarebbero state
la mappa greca e quella europea tra cent’anni.
Credo che ora gli sarebbe bastato sapere come
sarà tra dieci. Molti di loro erano pronti a giurare che quando è cominciata l’emergenza, al loro
arrivo qui, l’acqua era di un altro colore. Ora si
muore pensando di avercela fatta, il mare ti uccide anche a terra, aumentano le morti di ipotermia non ancora stilate in dati ufficiali.
«Quella luce è una barca di pescatori o sono i
migranti con gli smartphone accesi?». Ogni notte sulle spiagge greche insieme agli uomini pesce sempre in muta, era come aspettare Godot.
I greci lo hanno già capito: non importa che arrivi, ma che noi europei continuiamo ad aspettarlo insieme.
Michela AG Iaccarino
6 febbraio 2016
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ATENE, FINE DI SCHENGEN
E RIFUGIATI IN TRAPPOLA
«V
i sembrerà utopico ma l’unica soluzione per fermare i flussi migratori è
fermare la guerra in Siria», afferma nel
suo ufficio di Atene Daniel Esdras, responsabile dell’Organizzazione internazionale per le
migrazioni (Oim) in Grecia. «Ho il timore che
a breve il confine di Idomeni verrà
L’Unione ha dato chiuso e che la Grecia diventi un
l’ultimatum alla Grecia: deposito di richiedenti asilo che
bloccare i flussi all’entrata non possono continuare il loro
entro tre mesi o fuori da viaggio verso l’Europa». Appena
Schengen. Ma è un’impresa fuori dal suo ufficio, un gruppo di
impossibile con 13,676 km migranti nordafricani sta compidi coste e centinaia di isole lando i documenti per il programvicinissime alle rive turche ma di “rimpatrio volontario” offerto dall’Oim e per tornare a casa
con un volo gratuito. Uno di loro, Zouhir, 22
anni marocchino, ha cercato di attraversare la
frontiera con la Macedonia per ben quattro volte senza riuscirci, nonostante i documenti falsi
Atene: stazione di Polikastro,
comprati a piazza Omonia, che lo identificavavolontari giunti da Amburgo
distribuiscono cibo ai migranti
no come siriano. «Mia madre mi ha chiamato
in arrivo; accanto, una delle
poco fa e mi ha incitato a provarci ancora, ma
tende al confine di Idomeni
durante la chiusura del confine
ho finito tutti i soldi e ormai non ho più spe24
6 febbraio 2016
ranza di farcela». Come lui, altre centinaia di
migranti di cittadinanza non siriana, afghana e
irachena, le uniche nazionalità alle quali attraversare il confine è ancora concesso, cercano
ogni giorno di attraversare la frontiera camuffando la propria origine.
Nelle ultime due settimane però, la frontiera
di Idomeni è rimasta per lunghi tratti off limits
per chiunque. Centinaia di richiedenti asilo
hanno atteso per giorni l’apertura del varco,
mentre in migliaia sono stati parcheggiati alla
stazione di Polikastro, a una ventina di chilometri dalla frontiera. Nel freddo della notte
questi ultimi cercano di riscaldarsi attorno
al fuoco, o negli autobus che li hanno portati
fino a lì dalla capitale greca. Alcuni bambini
dormono al suolo, avvolti da coperte donate
loro dall’Ong Medici senza frontiere. Un gruppo di giovani iraniani che sono arrivati in giornata si consolano con qualche bottiglia di whisky, un piacere negatogli in patria, e cantando
i versi di una poesia di Hafez. «Quanti Paesi
mancano ad arrivare alla Germania?», chiede
Mahfouz, 16enne afghano che viaggia non accompagnato. Finora ha già speso 3mila euro e
non gli è rimasto più nulla. Da tre giorni attende di attraversare il confine. Quando ci riuscirà,
non è chiaro a nessuno. Lunedì scorso è emerso
che la Commissione europea avrebbe firmato
© Nicola Zolin (2)
ZYGMUNT BAUMAN:
«L’UTOPIA È STATA PRIVATIZZATA»
un piano per chiudere la frontiera di Idomeni,
bloccando di fatto decine di migliaia di persone migranti nel Paese ellenico. Mercoledì scorso al summit di Amsterdam i Paesi dell’Unione
hanno dato un ultimatum alla Grecia: tre mesi
di tempo per bloccare i flussi all’entrata, pena
la sospensione da Schengen. Un’impresa a dir
poco impossibile per un Paese con 13,676 km
di coste e centinaia di isole a breve distanza
delle rive turche.
Nel frattempo, i ministri dei Paesi europei si
prodigano per offrire le loro bizzarre soluzioni. Dall’Olanda è giunta la proposta di riportare
in Turchia con dei traghetti tutti i migranti che
raggiungono le isole greche. Belgio e Slovenia
hanno proposto la creazione di campi di detenzione al confine con la Macedonia. Quest’ultima proposta ha lasciato perplesso il ministro
per le Migrazioni greco Mouzales, preoccupato che la chiusura delle frontiere possa traumatizzare ulteriormente il Paese. Najef, 15enne
iracheno che ha lasciato Baghdad dopo che il
padre è stato fatto saltare per aria, non riesce
nemmeno a immaginare di non poter continuare il suo viaggio verso l’Europa. «Questa
gente non ha idea di cosa abbiamo dovuto passare per arrivare fino a qui. Se non ci fanno passare gli spaccheremo il culo».
Nicola Zolin da Atene
«L
a costruzione di un’Europa più giusta e democratica pare sempre più utopica di fronte ai fili spinati di Orban e ai respingimenti persino da parte di paesi con una lunga tradizione democratica come la Svezia» dice Zygmunt Bauma intervenendo il primo
febbraio a Trento in un incontro promosso dalla casa editrice il Margine e dedicato al futuro dell’Utopia. «Questa Europa ha molte difficoltà legate alla globalizzazione, alla mancanza di lavoro per i giovani e a
molto altro. Il fatto è che la forma stato basata sul mito di un progresso
illimitato ormai mostra la corda. Mentre -insiste Bauman- una grave crisi
di rappresentanza affligge ormai ovunque le istituzioni democratiche».
«Il dramma -ci dice l’autore, con il sociologo Carlo Bordoni, di Stato di
crisi pubblicato da Einaudi - è che le persone hanno perso fiducia nelle
azioni collettive per costruire una società migliore. Nell’Europa liberista
l’utopia, in qualche modo, è stata “privatizzata”. Perciò è calata la fiducia
nelle istituzioni. Per questo le persone, di fronte ai problemi sociali da
affrontare, hanno preferito rinchiudersi nel bunker della vita individuale
o familiare». Come se ne esce? É ancora possibile invertire la deriva? «Sì
- risponde- uscendo dal bunker, andando ciascuno verso gli altri, combattendo l’ignoranza che ci fa avere paura dello straniero, che ci fa diffidare di chi non conosciamo». Perché, dice Bauman, in questo scenario
globale, complesso ed eterogeneo, «bisogna rimettere al centro la dignità
umana. Solo così può nascere una comunità che non alzi muri contro le
persone che scappano dalla povertà e dalle guerre». «Noi continuiamo a
sognare, dice Bauman, in quanto essere umani viviamo proiettati verso il
futuro. É la spinta utopica che ci caratterizza da sempre, ma non esistono ricette, mappe che indichino il percorso per realizzare il sogno. E non
dobbiamo dimenticare - avverte il filosofo polacco- che abbiamo visto
anche progetti utopici degenerare in dispotismo e totalitarismo».
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© Riccardo Squillantini/Imagoeconomica
E L’ILVA CHI LA COMPRA
CACCIA ALLA CORDATA
I colossi stranieri dell’acciaio non hanno interesse a garantire
lo sviluppo industriale. Le cordate italiane appaiono troppo deboli. Intanto
spuntano i nomi di Scaroni e Morselli per guidare la transizione
di Ilaria Giupponi e Raffaele Lupoli
I
l tempo stringe. Il 10 febbraio scade il termine per le manifestazioni d’interesse e l’acquisizione dell’Ilva non sembra un traguardo
molto ambito. Non solo perché parliamo di
un’area altamente inquinata che necessita di
decine di milioni per riqualificazione e bonifica. O perché chi dovesse acquistare il pacchetto
d’acciaio si caricherebbe di un bel po’ di debiti
(ultimi i 300 milioni di aiuti di Stato che, maggiorati degli interessi, i nuovi proprietari dovranno
restituire). E nemmeno perché l’area a caldo è
sotto sequestro su ordine della Procura di Taranto. Il motivo di maggiore incertezza è dato
dal panorama internazionale, già caratterizzato
da una crisi da sovrapproduzione. All’orizzonte,
il riconoscimento - che potrebbe arrivare dalla
Commissione Ue entro fine mese - dello status di
economia di mercato per la Cina, Paese dai costi
di produzione ridottissimi. Questo farebbe saltare gli attuali dazi doganali, mettendo in ginocchio
l’industria dell’acciaio nei Paesi concorrenti. Prima tra le vittime proprio l’italica Ilva, i cui conti
e la cui produzione certo non vantano numeri
competitivi. Ora il governo, dopo la gittata di milioni riversata con l’ultimo decreto, è impegnato
a gestire la transizione, individuando anche una
nuova guida. Pochi giorni fa, a conferma delle
“voci di corridoio” delle settimane scorse, è giunta tempestiva l’autocandidatura di Paolo Scaroni.
«Ci penserei» ha detto l’ex ad di Eni, oggi numero
due alla banca d’affari Rotschild, al microfono di
Giovanni Minoli. Ora che l’ex dg Massimo Rosini
e il direttore commerciale Maurizio Munari hanno lasciato, Scaroni fa outing spiegando che certo
è prematuro parlarne, ma che l’ipotesi gli è stata
ventilata e lui non disdegnerebbe. Non è l’unica
sul tavolo, ma potrebbe essere questa la soluzione all’affaire Ilva propiziata dal duo Renzi-Guidi.
L’ex ad dell’Eni ha confermato a Mix24 di aver
affrontato la questione in un recente incontro
con il presidente del Consiglio, aggiungendo: «Se
si creasse una cordata italiana che avesse bisogno di una persona che conosce un po’ il mondo
dell’acciaio ci penserei». E Scaroni conosce sia il
mercato che gli operatori di casa nostra che potrebbero imbarcarsi nell’avventura. Come la famiglia italo-argentina dei Rocca, proprietari della
Techint, dove ha dato impulso alla sua carriera di
manager da metà anni Ottanta e per il decennio
seguente, propiziando proprio l’espansione nel
settore siderurgico. Nel 1996, Scaroni ha patteggiato una pena di un anno e quattro mesi per aver
pagato, per conto della società di cui era stato vicepresidente e ad, una tangente al Psi al fine di
ottenere appalti per la costruzione della centrale elettrica di Brindisi. «Se entra Techint, l’Ilva la
guida Scaroni», confermano ora anche gli addetti
ai lavori. Un’altra possibile candidatura, si vocifera in ambienti industriali, è quella di Lucia Morselli, attuale ad di ThyssenKrupp Ast, produttrice
del 50% dell’acciaio inox italiano. Proprio Morselli era riuscita esattamente un anno fa a sedare,
non senza fatica, gli scioperi che avevano causato
ritardi sulle consegne e ingenti perdite, com’è avvenuto nei giorni scorsi a seguito delle proteste
dei lavoratori Ilva di Cornigliano (Ge). Sempre lei,
con un piano di rilancio approvato perfino dalla
segretaria della Cgil Susanna Camusso, è riuscita
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Tamburi è il quartiere dove sorge l’Ilva, che con le sue alte ciminiere
fa da sfondo al Mar Piccolo di Taranto. Qui vivono i tre fratelli Resta,
tre vite divise tra il mare e il lavoro in fabbrica, tra la paura dei danni
dell’inquinamento e la voglia di restare dove sono nati.
La Gente Resta (qui a lato una scena) è il titolo di un docu-film nato
da un’idea di Lea Dicursi, con la regia di Maria Tilli e la sceneggiatura di Laura Grimaldi, prodotto da Fabrica con RaiCinema. Ha
ricevuto il Premio speciale della giuria nella sezione Italiana.doc alla
33esima edizione del Torino Film Festival. «La decisione di raccontare la storia della famiglia Resta è sembrata quasi più un’esortazione partita dal nome della barchetta “Resta Mario” sulla quale per la
prima volta vidi i componenti della famiglia pulire le reti da pesca»
spiega la regista Maria Tilli. Il docu-film racconta una giornata della grande famiglia Resta a Tamburi. Accompagnando Giuseppe a
pescare, aspettando Cosimo all’uscita della fabbrica, inseguendo la
rabbia di Tonino contro i Riva, proprietari dell’Ilva da fine anni 80.
Tutti accomunati dalla voglia di una vita normale, ignorando per un
momento le ciminiere che li aspettano alle loro spalle.
a far ripartire la produzione ternana: «Se ci saranno altre tensioni non avremo più ordini. In Europa preferiscono un acciaio meno sofisticato ma
che arriva. Dobbiamo dimostrare che i momenti
di tensione sono finiti, altrimenti ci giochiamo
l’acciaieria», aveva troncato l’emiliana “tagliatrice di teste”. Insomma, una figura di alto profilo in
grado di dare fiducia ai mercati, capace di attirare
gli investimenti di grosse banche e chiudere accordi internazionali. Come quello con il gruppo
indiano ArcelorMittal, fra i poFra i pochi competitor chi ad aver mostrato interesse. Il
ad aver mostrato gigante dell’acciaio di proprietà
interesse, il gigante dell’imprenditore Lakshmi Mitindiano dell’acciaio tal (a detta della rivista Forbes tra
ArcelorMittal, che però gli uomini più ricchi del mondo),
vorrebbe la garanzia penserebbe a un aereo per l’Italia
degli aiuti del governo. solo solo se incentivato da aiuti da
Non per rilanciare parte del governo. Naturalmente,
e bonificare, non certo con l’intento di bonifima per scorporare care e rilanciare l’industria italiae vendere ciò che resta na. Ma per scorporare e vendere
di buono ciò che resta di buono. Anche
nel caso di Morselli ci sono stati
contatti istituzionali e richieste di valutazioni, ma
niente di ufficiale. A legare le sorti dell’impianto
siderurgico tarantino al polo ternano appena risanato il governo ci aveva già provato con Marco
Pucci, manager nel cda della società tedesca e
condannato in appello per il rogo della Thyssen
(il 13 maggio è attesa la sentenza di Cassazione).
I commissari straordinari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba l’avevano nominato dg
dell’Ilva proprio per guidare la transizione legata
alla vendita. Nomina durata nemmeno 24 ore, visto il fuoco delle polemiche divampate dopo l’affidamento dell’incarico.
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Courtesy of Fabrica
Un docu-film per chi non si arrende
Dunque, a pochi giorni dalla scadenza, si ragiona
sui possibili scenari. «Non mi stupirei se ci fossero
numerose manifestazioni d’interesse, ma un conto sono le manifestazioni d’interesse che danno
diritto di accedere alla data room, altro sono le
formulazioni di offerte di acquisto vincolanti, che
- se ci saranno - saranno verso la seconda metà di
aprile», spiega il presidente della commissione Industria al Senato, Massimo Mucchetti. Anche sul
possibile coinvolgimento di operatori stranieri, il
senatore Pd non si mostra fiducioso: «Se l’investitore straniero è la Arcerol-Mittal, la vedo difficile
perché ha un eccesso di capacità produttiva. Ciò
vuol dire che ha interesse a ridurre al minimo la
produzione a Taranto, se non proprio a chiuderla», conferma. Diverso sarebbe il caso dei coreani
di Posco, che non sono presenti sul mercato europeo, ma - riprende Mucchetti - «tra i grandi gruppi dell’acciaio mondiale c’è una specie di patto di
non belligeranza: l’Europa non è terreno di caccia
dei coreani così come l’Estremo Oriente non è terreno di caccia degli indiani di Arcerol-Mittal».
In ogni caso, il coinvolgimento di un investitore
estero sarebbe salvifico. Renzi e il ministro dell’Industria Guidi, invece, si mostrano convinti di un
forte protagonismo degli imprenditori italiani:
«Non accetteremo mai che Ilva sia uccisa dalle lobby di acciaieri di altri Paesi. Posson fare tutti i ricorsi
che vogliono, noi l’Ilva la salviamo. Adesso è aperto il bando - ha spiegato il premier - Vediamo se,
come io credo, ci sarà una cordata vincente». Nelle
ultime settimane si è fatto il nome di Marcegaglia,
Arvedi e Ameduini. L’ipotesi di un coinvolgimento
della Techint dei Rocca era stata avanzata anche da
Mucchetti, il quale non vuole commentare l’autocandodatura di Scaroni «a meno che dietro a lui
non arrivi un robusto investimento della Techint».
PROCESSI E PROTESTE
I GIORNI CALDI DI TARANTO
Il mese di febbraio inizia con l’udienza
preliminare di “Ambiente svenduto”
e le manifestazioni di operai e indotto
«S
E aggiunge: «Taranto è a posto con le emissioni
perché lavora a scartamento ridotto, ma dobbiamo
immaginare di mantenere emissioni ridotte anche
con un impianto a pieno regime, probabilmente
con l’adozione di forni elettrici e con impianti di
preriduzione, quindi con il dimezzamento delle
cockerie». L’ipotesi di Mucchetti è sostituire l’altoforno 5 (fermo perché mancano i fondi per rimetterlo in sesto) con «due forni elettrici ai quali
agganciare colate continue ad alta velocità, così
da rendere più snello e finalmente
flessibile il processo produttivo». Mucchetti (Pd):
Questo sistema consentirebbe di «Dobbiamo
dimezzare l’uso del carbone e le immaginare
emissioni, facendo passare l’in- di mantenere
tervento pubblico come sostegno emissioni ridotte
alla riduzione dell’inquinamento anche con un
e non come aiuto di Stato. L’affare impianto a
potrebbe interessare anche l’Eni, pieno regime,
che ai prezzi attuali troverebbe probabilmente
conveniente assicurare una for- con forni elettrici
nitura continua di gas all’Ilva per e impianti di
alimentare i nuovi forni elettrici. preriduzione»
In questo quadro, spiega il senatore Pd, si potrebbe fare ricorso alla preriduzione del
minerale di ferro, tecnologia in mano «alla società
Tenova del gruppo Techint, in alleanza con un’altra grande società di impiantistica che si chiama
Danieli». Altri operatori, per esempio Arvedi, possono essere della partita, ma nessuno degli italiani
da solo ha la forza per affrontare un’acquisizione.
L’affare, in ogni caso sostenuto dalla Cassa depositi
e prestiti, senza l’intervento di partner stranieri è
molto difficile da immaginare. E a guidare questa
transizione sul filo dell’equilibrio non è escluso che
finisca lo stesso manager che Renzi ha “disarcionato” dalla guida dell’Eni nel 2014.
bagliare sull’Ilva, per Renzi, significa perdere le elezioni nazionali. Lo sappia anche il ministro Guidi, che
non vede che carbone nel futuro dell’azienda». Michele Emiliano non ha usato perifrasi per spiegare qual è la posta
in gioco a Taranto. E se nei prossimi mesi si decide che e come
gestirà il più grande gruppo siderurgico italiano, commissariato da giugno 2013, avranno un rilievo tutt’altro che secondario
le vicende giudiziarie e sindacali dei prossimi giorni. È ripreso infatti davanti a un nuovo giudice dell’udienza preliminare
“Ambiente svenduto”, il processo per inquinamento ambientale
scaturito dall’inchiesta che nel 2012 ha condotto a numerosi arresti e al sequestro degli impianti e dei beni della famiglia Riva,
proprietaria del siderurgico di Taranto da metà anni 90. All’epoca, il gip Patrizia Todisco sequestrò gli impianti dell’area a caldo
chiedendone la messa a norma. Nei mesi scorsi la procura ha
evidenziato un’anomalia nei verbali dell’udienza di rinvio a giudizio. Per evitare di vanificare il processo, si riparte ora dal punto
di partenza (tranne le costituzioni di parte civile). Tra le richieste
di rinvio a giudizio figurano, tra gli altri, Fabio e Nicola Riva in
veste di proprietari dell’Ilva, l’ex presidente della Regione Puglia
Nichi Vendola, l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, il
sindaco di Taranto Ezio Stefano, l’ex consulente e responsabile
dei rapporti istituzionali, Girolamo Archinà.
Nei giorni scorsi la procura tarantina ha contestato nuove accuse a nove ex e attuali dirigenti dell’azienda, indagati per aver
tollerato la presenza, ai confini tra Taranto e la vicina Statte, di
depositi di rifiuti industriali alti fino a 40-45 metri sopra il piano
di campagna: un serie di discariche a cielo aperto disseminate
lungo l’argine sinistro della gravina Leucaspide.
E all’emergenza ambientale si affianca la nuova mobilitazione
dei lavoratori prevista per il 9 e 10 febbraio, in coincidenza con
la scadenza delle manifestazioni d’interesse. I lavoratori dell’Ilva e delle imprese appaltatrici, con i sindacati metalmeccanici
Fim, Fiom e Uilm, saranno davanti alla sede della Regione Puglia a Bari martedì 9, per incontrare l’assessore al Lavoro Sebastiano Leo e, sperano, il presidente Emiliano. Il giorno successivo raggiungeranno invece in corteo la Prefettura di Taranto,
per chiedere l’integrazione salariale per i lavoratori sottoposti a
contratto di solidarietà. Per Cornigliano l’integrazione al reddito
è con un emendamento al decreto del governo che dà il via liberaf.lu.
ra alla cessione, per gli operai di Taranto no.
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IO NON VOTO
NON MI FREGATE
Domenica si vota a Milano per le primarie del Pd.
Tito Faraci, scrittore e fumettista ci guida nella città
dei creativi. «Ma stavolta niente gazebo», dice
di Luca Sappino
«S
cusa ho appena finito l’incontro per Tex ma sto andando a un
pranzo di Diabolik, ci possiamo
risentire?». Lo richiamo. «Sì, ora
va bene. La riunione per Topolino comincia tra un’ora, abbiamo tempo». Fare
una chiacchierata con Tito Faraci, ti fa venir voglia di correre in edicola. Parlare con Faraci, sceneggiatore e scrittore, è un tuffo nello stereotipo
della Milano creativa che pare sia poi il simbolo
stesso della nuova Milano, incombenza condivisa
solo, semmai, con i grattacieli di piazza Gae Aulenti. Anzi: la prima domanda può esser proprio
questa, per capire quale città si avvicina al voto
amministrativo e affronta la tappa delle primarie
del centrosinistra, o meglio del Pd, questa domenica. Dunque lo accolgo così, a Faraci: «La Milano
di questi ultimi anni è più la Milano dei creativi
o quella dei grattacieli, del nuovo cemento tirato
a lucido con gli alberi sui balconi?». «Milano è la
città delle realtà sovrapposte», mi dice lui, «dove
cose e persone diverse si sfiorano in continuazione senza spesso toccarsi. Milano è una grande
metropoli più piccola di altre grandi metropoli,
non è poi tanto estesa, ed è così piena di cose vicine fisicamente ma lontane tra loro». E quindi?
«Mi piacerebbe che fosse la città dei creativi, come
la raccontano», poi si riprende, «a me pare sia soprattutto la città dei creativi che passano sotto i
grattaceli senza neanche alzare lo sguardo». È una
metafora, è evidente. La colgo e azzardo: «Città
creativa ma conformista?». «Diciamo che quando
sono arrivato a Milano gli ambienti creativi erano
di controcultura, e invece oggi quel mondo, forse per bisogno, galleggia, si adagia, non combatte
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più il sistema e anzi spesso si impegna a celebrarlo».
Tito Faraci - finisco di presentarlo è un milanese doc, fiero di esserlo.
Un milanese di sinistra, forse gruppettaro: «Certo che sono di sinistra
e gruppettaro, anzi mi sono pentito «Mi piacerebbe che Milano
di essermi adattato troppe volte, in fosse più la città dei
passato, e quindi lo divento sempre creativi che dei grattacieli.
di più. Ho scritto anche una canzo- Ma vedo solo creativi che
ne per i Punkreas, lo storico gruppo passeggiano a testa bassa
punk, che come me sono ormai dei sotto i grattacieli.
cinquantenni: è la storia di chi, arri- Potere del conformismo»
vato all’età che abbiamo noi, è stufo
di accontentarsi del meno peggio». Mi dice così,
Faraci, e capisco che è proprio la persona giusta
per parlare, prendendola alla larga, delle primarie.
È milanese, Faraci, e a Milano ha ambientato il
suo ultimo romanzo, La vita in generale, pubblicato da Feltrinelli. La città è il set della storia, che
poteva però trovare le quinte giuste in molte altre
città, ovunque ci sia un po’ di finanza accattona,
un po’ di industria in crisi. «Perché hai scelto Milano?», gli chiedo. «Perché sono ossessionato da
questa città», mi risponde: «Io con Milano ho un
rapporto paterno. Sono come un genitore con i
figli: fuori dalla famiglia ne parlo bene, a cena a
casa non faccio altro che rimproverarli». «Tito»,
faccio però notare, «Milano non è che faccia proprio un figurone nel tuo libro, sai?». «Lo so! Infatti
forse non sono più così paterno. Quando ho cominciato a scrivere ero convinto che avrei fatto
una sorta di elegia di Milano e invece ho raccontato una delusione, che però come sempre è l’altra
faccia dell’affetto e della stima». Ecco. «Milano è
6 febbraio 2016
© Claudio Arnese/iStock
IL LIBRO
«Per rinascere, bisogna
prima morire. E io sono
stato un uomo morto.
So che cosa significa
perdere una vita».
La vita in generale è
l’ultimo romanzo di Tito
Faraci. Pubblicato da
Feltrinelli. È la storia di
Mario Castelli, manager caduto in disgrazia
e di Rita che lo convincerà ad alzarsi dalla
panchina del parco.
anche quello». Vedi? Funziona! «E poi volevo essere un compagno comunista». Ah, no, non funziona. Non mi parla bene di Pisapia, Faraci, che però
è del Leoncavallo, «uno storico»: «Pisapia per me è
stata un po’ un’illusione. Ero in piazza a festeggiare, dicevo “finalmente uno dei nostri che diventa
sindaco, evviva”. Poi però mi pare, per dire, che di
sgomberi se ne fanno più adesso che prima e che
c’è un ossessione per il salotto della città».
Note noir ci sono nella Milano del libro di Faraci,
che d’altronde ha tinto di giallo pure Topolinia, con
Topolinia Noir e con la mitica serie di MM, Mickey
Mouse Mystery Magazine. Sarebbe bello parlarne,
ma la riunione si avvicina e devo ancora chiedergli se voterà alle primarie. «No», mi dice. «No. No.
No.». «Ho capito, Tito, ho capito. Ti faccio però l’obiezione classica: se non voti tu, decidono gli altri».
«Eh no! Me lo avete detto troppe volte! Ho avallato
cose di cui mi pentirò per sempre. No. No. Ne ho
fatte abbastanza: ho votato Pd dicendomi che bisogna tapparsi il naso. Ho votato Prodi, dai! Cosa
racconterò ai miei nipoti?». Il messaggio è chiaro.
Serve ora una breve nota sul rouna città che ti fa fare dei grandi «No. No. No. Le
manzo. Il protagonista, Mario
film». Questa cosa ne La vita in primarie no. Ne ho
Castelli, è un manager caduto in
generale Faraci la dice così: «Gli fatte abbastanza: mi
disgrazia, diventato barbone e americani hanno quel modo di sono tappato il naso
per dirla in inglese, che fa molto
dire: attento a quello che vuoi, e ho votato Pd. Ho
Milano - un po’ drop out, esiliato
perché potresti ottenerlo. A Mila- votato Prodi, dai! Che
volontario sulle panchine. Lo rino puoi diventare proprio tutto. racconterò ai nipoti?»
porterà alla finanza una giovane
Un avvocato, un batterista, un
ammiratrice che lo vuole fortegiornalista, un manager, una velina, un dentista, mente alla guida dell’azienda di famiglia, in crisi
un cabarettista, un imprenditore, uno zoologo, un e braccata dai cacciatori di fallimenti. Castelli,
attore... e un barbone, sì. Un clochard, che suona chiamato “Il Generale” è un capo naturale, caribene. Milano ti dà tutto quello che vuoi. Prego, ac- smatico, e lo sarà anche dei suo compagni barbocomodati. Ma non vedi le note in piccolo, in fon- ni con cui si butterà nell’impresa. Ed ecco la dodo al contratto». Quello di Milano è il mito della manda: «Queste sono primarie orfane di Pisapia.
possibilità, che poi è quello del merito che però Il disamore mica sarà una questione di leader?».
fa spesso rima con fortuna, anche di nascita. E a «Lo sento mancare il leader, sì. Non ho un mio
me, se è così, non pare una cosa poi tanto bella Generale da molto tempo, e ognuno dei quattro
per una città. Lo dico. «Milano ti frega», mi repli- candidati ha qualcosa che non mi convince. Tu mi
ca Faraci, «è la città che negli anni 80 ci ha detto dici che forse mi manca il leader? Lo confesso, ma
che potevamo diventare qualunque cosa. Scrit- sarebbe più bello ancora non averne bisogno».
tori, veline, politici, imprenditori. Poi però sono Ultima domanda. «C’è un posto a Milano, dove ti
arrivati gli anni Novanta e nessuno ci aveva detto ritorna l’amore per la politica?». «C’è un’osteria,
che per contratto avremmo dovuto arrangiarci». che peraltro ha preso parzialmente fuoco recenAttenzione, però. «Milano è la città dell’agonismo, temente - vedi i simboli! - È in Bovisa, si chiama La
ma è anche una città solidale». Dei creativi e del scinghera, ed è un circolo Arci, un vecchio circolo
cemento, egoista e generosa. Strana è Milano.
anarchico. Andavo a berci il vino rosso che te lo lo
Cosa voleva essere Faraci quando è arrivato qui? prendi da solo al bancone, e a parlare di musica,
«Volevo fare il giornalista musicale, e l’ho fatto, e fumetti e immancabilmente di politica. Ma è un
poi ho sempre voluto scrivere fumetti e ho fatto po’ in effetti che non ci vado più».
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PREMI DI PRODUTTIVITÀ
UNA MEDICINA CHE NON CURA
È sempre la stessa storia, per efficienza si intende spremere di più
le persone. Ma l’effetto è di abbattere la produttività oraria,
anche solo per i limiti fisiologici dei limoni spremuti
di Marco Craviolatti
P
rendereste per anni un costoso duttività saranno tassati molto poco
antipiretico che non fa passare (aliquota fissa del 10%), quindi resi più
la febbre? L’Italia è considerata convenienti di aumenti salariali stabili.
la “malata d’Europa” perché la Paga la collettività, con mancate entrate
produttività del lavoro è inchio- fiscali per circa un miliardo nel biennio
data: il valore economico che producia- 2016-2017.
mo in un’ora di lavoro oggi è lo stesso Ma questi premi servono davvero a
del 2000, mentre è cresciuto in tutti gli stimolare la produttività? Ebbene no.
altri Paesi (+16% nell’Unione europea), Né che si guardi ai conti nazionali, né
compresa la Grecia (+11%). Loro produ- alle singole imprese. I premi sono stati
cono più ricchezza nello stesso tempo incentivati fin dal 1997 con il taglio dei
o - è uguale - creano la stessa ricchezza contributi pensionistici (...a che serlavorando di meno. Noi no, ci impove- viranno mai?). Poi dal 2008 si sono afriamo e dobbiamo lavofiancati anche i vantaggi
rare molto, perché le oc- Il valore economico fiscali: doppia dose di
cupazioni più qualificate prodotto in un’ora
medicina, eppure la madi lavoro è cresciuto lata è rimasta immobile.
vanno all’estero.
Servirebbe una cura in tutta Europa,
E tale rimarrà, secondo
da cavallo, con terapie compresa la
le previsioni dell’Ocse al
specialistiche:
politi- Grecia. Tranne che
2017.
che industriali, ricerca, in Italia, dove è lo
I motivi di inefficacia
investimenti, sostegno stesso del 2000
sono documentati: negli
all’innovazione delle imaccordi sui premi, imprese, magari con servizi dedicati di prese e sindacati si limitano a spartirsi
consulenza. Il governo insiste invece i vantaggi fiscali e contributivi, senza
con la solita medicina: incentivare il sa- necessità di modificare ciò che davvero
lario variabile contrattato impresa per incide sulla produttività, come l’orgaimpresa, subordinato a criteri di reddi- nizzazione del lavoro, le competenze,
tività e - appunto - produttività.
la qualità dei beni o servizi prodotti. Per
A parole suona bene, così la Legge di gli economisti Davide Antonioli e Paostabilità ha disposto che i premi di pro- lo Pini si tratta di “accordi cosmetici”:
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6 febbraio 2016
si indora qualche modesta pratica gestionale, si aggiunge una manciata di
obiettivi facili facili, si shakera bene con
la neo-lingua aziendalese e si deposita
tutto al ministero del Lavoro, che invariabilmente apprezza e passa alla cassa.
La sociologa Anna Ponzellini constata
che «la negoziazione aziendale non si
occupa affatto, o solo molto raramente,
di come riorganizzare i fattori produttivi per migliorarli sul serio questi risultati». Ne consegue che «se tutto resta
come prima - il layout, la tecnologia, il
sistema di qualità, l’organizzazione delle pause, la rigidità degli orari, il sistema
gerarchico - serve assai poco».
È insomma una grande recita. La sceneggiatura è scritta dai governi. Le nuove norme applicative saranno definite
nelle prossime settimane, in prevedibile continuità con quelle del governo
Monti. Per quelle prescrizioni (Dpcm
del 22.01.2013), la malattia da curare
era solo un pretesto: si poteva infatti
beneficiare dell’incentivo per la produttività anche senza definire un solo indicatore di produttività. Nessun obiettivo,
nessuna azione misurabile. Come provare l’antipiretico senza nemmeno un
termometro. Era sufficiente introdurre
© Maselkoo99/iStock
nuove misure di “flessibilità”, ma in ben
tre declinazioni: degli orari, delle ferie,
delle mansioni individuali. Perché - si
sa - il dipendente senza più orologio e
calendario, che mentre avvita il bullone
spazza anche il pavimento, garantisce
«un più efficiente utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli
obiettivi di produttività». È sempre la
stessa storia, per efficienza si intende
spremere di più le persone. Con l’effetto opposto di abbattere la produttività
oraria, anche solo per i limiti fisiologici
dei limoni spremuti.
Altro effetto collaterale, la medicina alimenta iniquità tra lavoratori, perfino sorpresa - tra colleghi.
Intanto, in barba alla progressività fiscale, la flat tax favorisce una minoranza: dipendenti (privati), in imprese
medio-grandi, già con contratti di secondo livello. Lo sconto fiscale arriva a
700 euro, per redditi fino a 50.000 euro
annui: niente di faraonico, ma nell’era
dei voucher si rimpolpano buste paga
anche prossime ai 3.000 euro netti
mensili.
Ma c’è di peggio. I criteri per l’assegna- Più che strappare modesti benefici
zione individuale dei premi possono economici “a valle” di strategie azienessere branditi contro chi non vuole o dali miopi, il sindacato deve incidere
non può concedere l’intera vita al lavo- “a monte”, per stimolare e accomparo. Poiché non esistono regole nazionali gnare innovazioni capaci di coniugare
uniformi e anti-discriminatorie, molte efficienza economica e benessere dei
imprese impongono soglie minime di lavoratori. Certo occorre coltivare le
presenza lavorativa, irraggiungibili non competenze di analisi e raffinare la consolo da chi si ammala, ma da chiun- trattazione, ma i risultati non tarderebque si “conceda” diritti
bero a manifestarsi, ben
di civiltà, dai congedi Aumentano le
più consistenti, ben più
per handicap ai permes- iniquità tra i
equi.
Inoltre il benessere persi per allattamento. Non lavoratori. E si
sonale non è certo riduimporta come lavori, se favorisce una
cibile al salario. Si posnon raggiungi le soglie minoranza:
sono monetizzare – o
il premio si assottiglia e dipendenti privati,
magari barattare con il
sparisce. Da quest’an- in imprese mediono almeno la maternità grandi, con contratti welfare aziendale - la
fatica e lo stress, la vita
obbligatoria non potrà di secondo livello
familiare logorata dalla
essere penalizzata, ma
le principali vittime designate saranno flessibilità dei tempi, la precarietà esistenziale? Proprio un recente accordo
sempre le stesse: donne con figli.
aziendale indica una strada diversa:
È dunque difficile comprendere perché in Luxottica i lavoratori potranno sceCgil, Cisl, Uil nella recenti proposte per gliere tra premio monetario e giorni di
“Un moderno sistema di relazioni indu- ferie supplementari. È una domanda
striali” arrivino ad auspicare che la de- sempre più necessaria per tutti: la borsa o la vita?
tassazione diventi permanente.
6 febbraio 2016
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IL CASO ERICSSON
E IL GIOCO DEI TRE CONTRATTI
Il colosso svedese delle telecomunicazioni applica tre tipi di contratti:
metalmeccanico, telecomunicazioni e commercio. A misura
di salario. E ha già annunciato nuovi tagli per un miliardo di euro
di Chiara Ricciardi
D
a gennaio i 1.230 dipendenti Ericsson
di Roma, ricevono lo stipendio il 30 del
mese, anziché a metà del mese successivo. Nella sede nazionale di via Anagnina,
la paura di molti è che il cambio di data
sia la premessa per l’applicazione di un nuovo
contratto peggiorativo.
Per mantenere vantaggi competitivi, in un contesto
globalizzato, le multinazionali adottano strategie
sempre più discutibili, sacrificando posti di lavoro e salari. L’arma del ricatto è sempre la stessa: se
non vi sta bene, ce ne andiamo. Così, con il pretesto di “attrarre capitali stranieri”, in Italia è passato
l’assioma per cui se il peso di retribuzioni e diritti
sindacali fosse diventato più leggero, i grandi investitori stranieri avrebbero puntato sull’Italia, portando occupazione. E sono passate riforme - ultima il Jobs act - che di fatto hanno limitato i diritti
dei lavoratori, facendo un favore alle imprese.
La Ericsson, gigante svedese delle telecomunicazioni, è in Italia da quasi cento anni. E da tempo si
adopera per spostare i propri interessi in Paesi più
vantaggiosi, come Romania, Bulgaria, India e Cina.
Pur sostenendo di avere ancora interesse per l’Italia, ha mandato a casa più di mille lavoratori senza
mai dichiarare lo stato di crisi.
Nella galassia Ericsson vengono usati tre tipi di
contratti: metalmeccanico, telecomunicazioni e
commercio. Quest’ultimo, per esempio, si applica
ai dipendenti della ex Pride, ora IT-SS, società acquistata dalla multinazionale svedese nel 2010 e
dove lo stipendio è pagato il 30 del mese. Da qui la
paura per i dipendenti Ericsson: assumere un neolaureato in IS-TT, quinto livello, vuol dire pagarlo 1.200-1.300 euro netti al mese. In Ericsson, con
il contratto telecomunicazioni, le stesse mansioni
34
6 febbraio 2016
sono remunerate 1.500-1.700 euro. Al momento
si tratta di ipotesi, il gruppo di Stoccolma non ha
avanzato richieste in questo senso, o almeno non
ufficialmente. Ma ha presentato un piano industriale che prevedere tagli a livello globale fino al
2017. L’obiettivo è quello di risparmiare un miliardo di euro e utilizzare i fondi accantonati per aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo, in
modo da «assicurare le future operazioni di crescita
aziendale», rimanendo competitivi tra i colossi delle telecomunicazioni.
Questa strategia va avanti da tempo. Ed è costata alle sedi italiane 14 procedure di mobilità in 12
anni, in cui l’Ericsson ha incorporato rami di aziende e pezzi di Assumere
rete, incrementando la sua mar- un neolaureato
ket share, e inglobato organico in IS-TT, quinto
che di volta in volta diventava livello, vuol dire
sovradimensionato. Le eccedenze pagarlo 1.200-1.300
sono state smaltite con procedu- euro netti al mese.
re di mobilità pagate dallo Stato In Ericsson, le
italiano: prima con dimissioni in- stesse mansioni
centivate su base volontaria e poi, sono remunerate
dal 2015, con la procedura dei li- 1.500-1.700 euro
cenziamenti collettivi. Lo scorso
anno sono stati mandati via 133 dipendenti. Ora si
attendono i risultati del primo trimestre 2016 per
capire le intenzioni del colosso svedese. Se a fine
marzo, come annunciato nel piano industriale, i
risultati saranno inferiori alle previsioni, l’Ericsson
potrebbe mettere sul piatto altri esuberi. Circolano
dei numeri, niente di ufficiale: 200 per quest’anno
e altrettanti per il 2017, oltre ai 33 lavoratori che
nell’ultima vertenza l’azienda non è riuscita a mandare a casa. Dati che, se confermati, darebbero vita
a una nuova primavera di lotte e incertezze.
CALCIO MANCINO
di EMANUELE SANTI
LA TRISTE STAGIONE DEL COLONIA
Nel campionato tedesco ’97-’98 il titolo finisce al Kauserslautern mentre il blasonato
Colonia, per la prima volta nella sua storia, retrocede in seconda divisione
privo di Anton Polster, seduto in tribuna insieme al figlio.
In porta c’è Andreas Menger.
In difesa Bodo Schmidt, Dirk
Schuster e Karsten Baumann.
Il rumeno Munteanu è il collante con il centrocampo: Ralf
Hauptmann, Renè Tretschock,
Markus Munch e il guineano
Pablo Thiam appena rientrato dalla Coppa d’Africa. In attacco l’altro rumeno Vladoiu e
l’iraniano con gli occhi a mandorla Khodadad Azizi. Arbitra
il signor Hartmut Strampe di
Handorf. La diga di Kostner
regge l’urto e il primo tempo
finisce 0-0. Il Trap si ripresenta con Zickler al posto di
Basler ma, dopo cinque minuti della ripresa, Azizi sfugge ad Helmer che lo stende in
area: rigore, il sinistro secco
di Munch buca il gelido Kahn:
0-1. La reazione dei bavaresi
è poca cosa e al ventesimo gli
ospiti raddoppiano. Munteanu innesca Munch scatenato
a sinistra, corsa perfetta,
A febbraio,
che guarda i carri sfilare.
cross al bacio per il tuffo
le caprette
Sabato 28 febbraio si tordi Azizi che infila di testa
biancorosse
na in campo alle 15.30.
tra palo e portiere. Il Trap
vincono in casa
Le caprette biancorosse
prova prima con Lizarazu
del Nayern grazie e poi con il fido Strunz,
sono chiamate ad assaga una prestazione ma il risultato non camgiare l’erba dell’Olymmaiuscola
piastadion,
proibitivo
bia più: 0-2. A fine stadell’ex di turno
pascolo di un Bayern
gione, il Bayern perderà
Markus Munch
Monaco che schiera in
il titolo per due soli punti
porta Oliver Kahn proe il Colonia, sempre per
tetto in difesa da Babbel, Nerlinger, due soli punti e per la prima volta nella
Tarnat ed Helmer. Lothar Matthaus sua storia, retrocederà in Serie B. Nelfa il libero aggiunto. Centrocampisti: la città natale di Agrippina, sorella di
Mehmet Scholl, Didi Hamann e Mario Caligola e madre di Nerone, le feste in
Basler. In atacco il brasiliano Elber fa piazza sotto al Duomo gotico non sacoppia col ruvido Jancker. Il Colonia è ranno più le stesse.
© Illustrazione Antonio Pronostico
I
l 1998 è l’ultimo anno di
cancellierato per Helmut
Kohl in una Germania da
poco riunificata. E ai tempi,
ancora lontana dagli scandali
sui fondi neri del maggior partito di governo per la vendita
di armi all’Arabia Saudita e la
svendita del petrolio dell’ex
Ddr alla Francia. I Cristiano
Democratici tedeschi devono
comunque fare i conti con una
disoccupazione che supera il 4
per cento, limite critico soprattutto in gennaio: mese in cui la
Bundesliga, per ovvie ragioni
climatiche, se ne va in letargo.
Guida la classifica il neopromosso Kaiserslautern di Otto
Rehhagel davanti al Bayern
di Trapattoni e al Leverkusen
di Christoph Daum. Sulle acque basse del Reno, e lontano
dai fasti di un tempo, naviga
invece il Colonia che, alla ripresa del campionato, supera
3-2 in casa il Borussia Monchengladbach e poi pareggia
1-1 a Wolfsburg. Tuttavia, nel
giorno di San Valentino, la squadra di
Lorenz Kostner delude i suoi tifosi innamorati: perde 0-2 al Mungersdorfer
contro l’Amburgo e piomba in piena
zona retrocessione. Per fortuna arriva
un turno di sosta grazie alla Nazionale di Bertie Vogts invitata proprio nella
penisola arabica per un’amichevole di
cortesia con l’Oman.
Intanto entra nel vivo il carnevale che,
soprattutto in Renania, raggiunge l’apice non tanto il martedì grasso, chiamato martedì viola, quanto il giorno
prima: lunedì delle rose, caratterizzato da grandi bevute e da una pioggia
di petali e di dolci tra la folla in piazza
6 febbraio 2016
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6 febbraio 2016
SE BOKO HARAM
È DALL’ALTRA PARTE DEL FIUME
Viaggio per le strade e per i campi di Diffa, in Niger. Un anno dopo il primo
attacco dei “terroristi neri” e alla vigilia delle presidenziali del 12 febbraio, in città
sono rimasti i più poveri, i militari e le organizzazioni umanitarie
Testo e foto di Giacomo Zandonini - da Diffa
«B
envenuti a Diffa», tuona il responsabile sicurezza incaricato
di condurre il security briefing
per i tre giornalisti appena arrivati in città. «E non preoccupatevi: se volete dei rifugiati, qui ne troverete
in abbondanza, dovunque». Incuneata nell’estremo sud-est del Niger, fino al 2013 Diffa non
era che una placida città di confine, rinomata
per la bellezza delle giovani di etnia kanouri e
per i campi di peperoncini dalle tinte accese:
l’oro rosso dei manga (una delle popolazioni
kanouri), una produzione raffinata che garantiva la sopravvivenza di decine di migliaia di
famiglie. L’espansione di Boko Haram nel nord
della Nigeria, la cui frontiera dista appena 5
chilometri dalla città, ha poi gettato la regione nel caos. Sotto la polvere sollevata dall’harmattan, il vento dell’Atlantico che rinfresca il
Sahel fra gennaio e febbraio, si nasconde oggi
una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi
anni, complicata dalle imminenti elezioni presidenziali del Niger previste per il prossimo 21
febbraio, e dall’insicurezza che domina tutta la
regione. «Ricordatevi», conclude quasi compiaciuta la nostra prima guida in città, «loro sono
lì che vi guardano, dall’altra parte del fiume».
“Loro” sono evidentemente i “B. H.”, come i locali chiamano il gruppo terroristico, e il fiume
è il Koumadougo Yobe, affluente del vicino lago
Ciad, che segna il confine con la Nigeria.
Come quasi tutte le città del Niger, Diffa è un
avamposto dell’uomo contro il deserto, un ten-
tativo di resistenza estremo sempre sull’orlo della sconfitta. Le piste delle carovane trans-sahariane si infilano nelle vie, costeggiano i perimetri
in terra battuta delle case tradizionali. Poi, ci
spiega un operatore dell’Unicef, attraversano gli
«accampamenti costruiti dal 2013 nelle parcelle
non utilizzate di tutta la periferia» e invadono
incessantemente le poche carreggiate in asfalto,
segno di un progresso invocato a gran voce nei
palazzi della capitale Niamey, più di 1.500 chilometri di distanza. Ma a minacciare Diffa, più
che le sabbie del Sahara che incombono a nord
della città per arrivare a lambire le coste del nord
Africa, in un fragilissimo e intricato equilibrio
fra nomadismo e agro-pastorizia sedentaria, è
la vicinanza ingombrante, insidiosa, del gruppo
Boko Haram. «Almeno un attacco alla settimana, cinque solo nel gennaio 2016, con 8 morti»,
il nostro security manager snocciola numeri e
strategie. Non sono le cifre della vicina Nigeria,
terrificanti, eppure il nemico è fra noi: «Cellule
dormienti, complici, fiancheggiatori, gli uomini di Boko Haram sono in tutta la regione». I
seguaci dell’auto-proclamato califfo Abubakar
Shekau colpiscono soprattutto villaggi isolati a
ridosso del confine con la Nigeria, incendiando
e uccidendo, lanciano attacchi suicidi in luoghi
pubblici di Diffa, di Bosso (la seconda città della
regione) e in altri centri abitati. E piazzano mine
anti-macchina sulle piste sabbiose dei dintorni
- l’ultima, a metà gennaio, ha ucciso 6 militari.
Attraversano il fiume di notte, sostenuti da affiliati locali, per colpire in modo imprevedibile,
6 febbraio 2016
37
creando uno stato di panico sottile, che si infila
polveroso nelle case dei nigerini e, con più forza
ancora, nei ripari precari dei rifugiati, aggrumati attorno alle città; o come alveari, nell’asfalto
rassicurante della Strada Nazionale numero 1
che collega Diffa al resto del Paese, ospita i convogli umanitari - fondamentali ma ancora insufficienti - e vibra affaticata all’accelerazione dei
camion dell’esercito, carichi di uomini.
Nel nostro lunedì pomeriggio caldo e ventoso,
a raccontare l’inquietudine della capitale della
regione dei manga, le vie sono tranquille, percorse a grappoli lontani da bambini usciti da
scuola, asini e buoi dalle corna affilate, a mezzaluna. Una tranquillità
In un anno, tra il febbraio 2015 forzata, eccessiva, trie oggi, si sono contati 338 morti stemente macabra. Il
nella regione. Oggi, grazie allo primo attacco di Boko
stato d’emergenza e agli sforzi Haram a Diffa risale
militari, le città di Diffa e Bosso sono al 6 febbraio 2015. Un
relativamente sicure atto di guerra, con offensive contemporanee su più fronti, respinte dai militari in servizio.
Decine le vittime fra il capoluogo e Bosso, e oltre
100, secondo le autorità, i morti fra gli assalitori. È la prima di una serie quasi ininterrotta di
violenze del gruppo terrorista nel territorio del
Niger, annunciata nel 2014 da omicidi mirati e
sporadici episodi di scontro a fuoco. In un anno,
tra il febbraio 2015 e oggi, si sono contati 338
38
6 febbraio 2016
morti nella regione in almeno 70 attacchi, con
un picco ad aprile - 74 vittime in un solo giorno fra i pescatori delle isole del Lago Ciad - e
un assalto al carcere di Diffa nel mese di luglio.
Oggi, grazie allo stato d’emergenza proclamato
all’indomani dei primi attacchi e appena rinnovato dal Parlamento, a distanza di un anno,
e agli sforzi militari dei quattro Paesi rivieraschi
del lago Ciad (Niger, Ciad, Camerun e Nigeria)
più il Benin, con l’appoggio di istruttori francesi
e statunitensi, le città di Diffa e Bosso sono considerate relativamente sicure.
Soldati con il fucile a tracolla scrutano le strade, passeggiando lentamente, barriere e posti
di blocco chiudono le vie principali mentre
cacciabombardieri ed elicotteri sonnecchiano
sulla pista dell’aeroporto. Chi poteva, perché ha
parenti altrove, se n’è andato, chi doveva, per le
minacce subite - come il proprietario, fra gli imprenditori più ricchi della città, di due villette
color pastello in stile hollywoodiano - anche. A
Diffa son rimasti i più poveri, i militari e le organizzazioni umanitarie. Le moto, che affollavano
le vie del centro, usate anche come taxi, sono
proibite perché utilizzate in diversi attacchi
terroristici, e la stessa vendita del peperoncino
rosso, sospettata come la pesca di finanziare
B.H., è stata vietata per oltre quattro mesi.
Fra le sterpaglie e i muri di terra della periferia,
ogni spazio è occupato da rifugiati nigeriani, da
nigerini scappati dalle centinaia di villaggi lungo il fiume o da nigerini emigrati anticamente
oltre il Koumadougo Yobe e costretti a riattraversarlo da violenze e saccheggi. Capanne di
frasche e recinti improvvisati ospitano famiglie
numerosissime, composte per oltre la metà da
bambini, con capre e vacche. Sono i primi nigeriani a essere scappati, già nel 2013, e sono stati accolti dagli abitanti del posto, protagonisti
dell’aiuto umanitario ancora prima dell’arrivo
delle organizzazioni internazionali. Un’accoglienza spontanea che ha dell’incredibile, realizzata in uno dei territori più poveri al mondo.
Se il Niger è all’ultimo posto nell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, con dati di
malnutrizione e mortalità infantile elevatissimi,
un analfabetismo che si avvicina al 50 per cento e un’aspettativa di vita di 54 anni, la regione
di Diffa è infatti la più povera del Paese. È da
qui che, simbolicamente, lo scorso 30 gennaio
il presidente uscente Mahamadou Issoufou ha
dato il via in modo altisonante alle tre settimane
di campagna elettorale per le presidenziali e le
legislative. Fra le priorità di un nuovo programma politico, il leader del Movimento per la Rinascita del Niger, coalizione di 21 schieramenti,
ha citato proprio la lotta al terrorismo e l’allontanamento definitivo di Boko Haram dal Paese.
A preoccupare i nigerini, stretti fra Boko Haram
a sud, gruppi affiliati a Al Qaeda nel Maghreb
islamico a nord, e coinvolti dall’instabilità di Li-
bia e Mali, è però anche una tornata elettorale
densa d’incognite, in cui la violenza potrebbe
essere dietro l’angolo. Tanto più che, paradossalmente, il principale avversario di Issoufou,
l’ex alleato Amadou Hama - il cui volto assorto
campeggia sui manifesti elettorali - è in carcere
dal novembre 2015, senza che nessuno processo sia iniziato a suo carico.
Visto da Diffa, il programma delle “3N”, ovvero
“i nigerini nutrono i nigerini”, slogan del presidente uscente, sembra ancora più ambizioso.
Esauritasi la capacità di supporto delle comunità locali, per il momento molti degli oltre
150mila rifugiati e sfollati della regione sopravvivono infatti grazie
ai pochi aiuti interna- Il Niger è ultima nell’indice
zionali, mentre Issou- di sviluppo umano dell’Onu,
fou ha messo a tacere e Diffa è la regione più povera
con la forza le critiche del Paese. È proprio qui
verso gli “spostamenti che il presidente uscente Issoufou
preventivi” di miglia- ha dato il via alla campagna elettorale
ia di persone esposte
agli attacchi di Boko Haram sulle isole del lago
Ciad. Operazione militare svolta, secondo alcuni giornalisti e attivisti, in modo approssimativo, se non violento. Vista da Diffa, e negli occhi
spaventati di chi continua a cercare salvezza
nella regione, la lotta contro Boko Haram, ormai infiltrato nei nervi più fragili della società
locale, sembra ancora lunga.
6 febbraio 2016
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TUTTE LE INCOGNITE
DI UNA GUERRA IN LIBIA
L’avanzata dell’Isis, le incertezze sul futuro governo e la difficoltà di trovare interlocutori
locali. Troppe questioni insolute renderebbero controproducente un intervento armato
di Claudia Gazzini*
D
a qualche settimana i media rilanciano
notizie su un imminente attacco delle
potenze occidentali alle basi dell’Isis in
Libia. Siamo davvero a questo punto? E
che razionalità avrebbe una missione
militare in un Paese che ha avviato da pochissimo tempo un difficile e instabile percorso di
unità nazionale?
La preoccupazione dell’Europa, degli Stati Uniti
e dei Paesi della regione, per la presenza di Daesh in Libia ha un fondamento serio. Non solo e
non tanto perché questa si è consolidata a Sirte e
si è pericolosamente avvicinata alle aree dei terminal petroliferi, ma perché si segnalano cellule
attive anche in altre aree del Paese.
Un accordo frettoloso
Alla preoccupazione e all’accelerazione generata
dall’avanzata di Daesh non corrispondono però
idee chiare sul da farsi. Sappiamo per certo che
l’accordo per la formazione di un governo nazionale a Skhirat è il frutto di pressioni internazionali, un’accelerazione frettolosa dovuta ai timori
crescenti sulla forza acquisita dall’Isis in un Paese ricco di risorse petrolifere e al confine con
l’Europa. Sappiamo che nelle capitali occidentali
sono al vaglio diverse ipotesi di un possibile intervento. Il quadro mobile sul terreno rende infatti difficile scegliere una strada netta: militari
e diplomatici non sanno se nelle prossime settimane avranno o meno a che fare con un governo
nazionale credibile e stabile o se il processo avviato a Skirhat è destinato a incontrare ostacoli.
Un conto sarebbe decidere di intervenire dopo
che un governo libico che ha saputo guadagnarsi
autorevolezza lo dovesse chiedere, un conto avviare un intervento militare in assenza di un’autorità nazionale riconosciuta dalla maggior parte
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delle forze in campo. Non solo, dal punto di vista
militare è più efficace utilizzare bombardamenti
mirati o sarebbe necessaria, per funzionare, una
presenza di qualche forma sul terreno?
Serve un governo, ma non fantoccio
Di certo la formula francese, che in Africa tende
a intervenire per interposta persona, utilizzando gli eserciti delle ex colonie, sarebbe un disastro. Il Ciad è mal visto in Libia e alcune milizie
attive nel Paese sono considerate una longa
manus di N’Djamena.
Al momento non sembra esserci un’ipotesi prevalente, proprio perché i pro e contro di ciascuna strategia sono molte e la situazione sul
terreno è fluida. L’accordo politico-diplomatico
fatto firmare in fretta e furia lo scorso dicembre a chiunque decidesse di starci, resta molto
fragile: non è certo se ci sarà un governo votato
dal parlamento di Tobruk o se questo governo si
costituirà davvero. E non è chiaro se e come un
eventuale governo farà un invito formale a intervenire contro Daesh. Non sarebbe comunque
un bene: un invito esplicito potrebbe rivelarsi
controproducente perché rafforzerebbe nella
società libica la convinzione che il governo nazionale sia un fantoccio creato appositamente
per legittimare un nuovo intervento militare occidentale. Il terreno per qualsiasi tipo di missione militare è terribilmente scivoloso. Così come
sarebbe rischiosa l’idea di lasciare il Paese senza
governo, con le forze di sicurezza divise tra loro:
Daesh mostra dinamismo ed è in una fase di
avanzata verso Est. Tra le sue fila ci sono libici
e combattenti stranieri, soprattutto provenienti
dalla regione. Inoltre, in molti gruppi armati libici c’è una certa esitazione a prendere le armi
contro l’Isis: un po’ per timore delle stragi e della
6 febbraio 2016
Dicembre 2015. A Sirte
i jihadisti hanno invitato i
residenti ad assistere alla
“laurea” di 85 “Cuccioli
del Califfato”, under 16
addestrati per diventare
kamikaze
brutalità viste in Iraq e Siria, un po’ per la scarsa
percezione del Califfato come pericolo.
Intelligence e training
Qualunque strategia militare per contenere
Daesh avrebbe più forza se ci fosse un processo
chiaro sul futuro politico del Paese. Occorrerebbe ripensare i termini dell’accordo di unità
nazionale e rivedere la composizione del consiglio presidenziale. Avere un governo più stabile
e forte e, solo poi, sostenerlo militarmente in
maniera discreta, con intelligence e training: è
probabilmente questa la soluzione più sensata
ed efficace per il futuro della Libia e per contenere la minaccia che oggi Daesh oggettivamente rappresenta.
*Senior analyst per la Libia
di International Crisis Group
© Twitter Rita Katz/Ansa
Per contenere
Daesh è
necessario
incoraggiare
un processo
politico capace
di costruire
un governo
credibile. Un
eventuale aiuto
militare dovrebbe
farsi notare
il meno possibile
Interlocutori pericolosi
Che fare allora? Innanzitutto rendersi conto che
la presenza di Daesh non è omogenea e non è
limitata a Sirte. Qui l’Isis si è imposto sulla realtà locale cacciando milizie che avevano usato
modi brutali con la popolazione locale (qualcosa
di simile a quanto successo nel triangolo sunnita in Iraq). A Bengasi, invece, il gruppo è alleato
con altri gruppi islamisti, qaedisti e non contro
nemici comuni. A Derna le forze islamiste combattono Daesh frenandone l’avanzata. Tre realtà
diverse e molte sfumature di cui occorre tenere
conto per qualsiasi strada si decida di prendere.
È poi importante individuare gli interlocutori
giusti. Chi è bene includere e chi no? Facciamo
un esempio: a Sirte, Daesh è forte perché negli
anni scorsi alcuni gruppi militari di Misurata
sono stati particolarmente brutali nei confronti degli abitanti della città roccaforte di lealisti
gheddafiani e così i gruppi locali hanno cercato
la protezione di Ansar al-Sharia, gruppo radicale
di matrice libica, che poi nel 2015 è stato assorbito dall’Isis. Coinvolgere quei gruppi di Misurata
sarebbe, per esempio, un disastro. Occorre scegliere con grande attenzione.
C’è poi da segnalare la mancanza di idee in rela-
zione a ciò che dovrebbe accadere dopo l’eventuale intervento armato. Non potrebbe essere altrimenti, la situazione è in continuo movimento
e l’impegno della comunità internazionale è volto soprattutto a liberare Tripoli. Manca però un’idea organica di cosa debba essere la Libia della
fase successiva al governo di unità nazionale. Su
questo occorre fare chiarezza, capire chi e come
debba essere un partner. Prendiamo il caso del
generale Haftar, che vuole assicurarsi un ruolo da
leader militare, ma è malvisto da alcuni dei suoi
comandanti e odiato dai capi militari dell’Ovest
del Paese: Haftar è o meno un interlocutore?
6 febbraio 2016
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HILLARY CONTRO HILLARY
Sanders ha mostrato di essere un avversario temibile per la Clinton
che paga la sua intimità col potere. I repubblicani sperano in Rubio
di Martino Mazzonis
T
ra il 2000 e il 2016 il numero marla ci sono i candidati giusti, come il
di elettori democratici e che rivoluzionario Sanders, il personaggio
si definiscono liberal - che in Trump o l’anti establishment Cruz, il
America significa di sinistra - è gioco è fatto.
passato dal 29% al 44% del to- Quanto è capitato in Iowa lo scorso martale. Specie tra le giovani generazioni, tedì si spiega dunque con la voglia degli
quelle che hanno cominciato a votare elettori di far saltare il banco accompanel 2008, contribuendo in maniera non gnata dalla grande capacità di Ted Cruz
marginale alla vittoria di Barack Oba- di usare i Big Data per individuare le perma. Se c’è un modo non impressionisti- sone giuste a cui rivolgersi - il senatore
co per spiegare come mai Bernie San- del Texas ha speso 3 milioni per l’analisi
ders sia competitivo nella corsa per le dei dati - e di stringere alleanze con gli
primarie democratiche, quel dato è un evangelici, due terzi dei repubblicani
buon punto di partenza.
dell’Iowa, molti meno altrove.
Parlando di un sistema più giusto, delMa cosa ci dice il voto di questa settilo strapotere delle banche, della ecces- mana del futuro delle primarie? I causiva timidezza di Hillary
cus dello Stato “first of
Clinton nei confronti Bernie è pronto
the Nation”, primo a vodelle banche, il senatore ad arrivare fino
tare, non servono a capidel Vermont ha parlato in fondo per
re chi saranno i nominati
a una buona fetta della portare le sue idee
alla fine, quanto a tagliabase democratica e alla alla convention.
re teste. E in Iowa, salvo
grande maggioranza dei Ha spiegato che
enormi sorprese nelle
giovani che votano il par- la rivoluzione è
primarie del New Hamtito. L’essere un outsider appena cominciata
pshire del prossimo marcontrapposto a una cantedì, le teste sono cadute.
didata come Hillary ha aiutato a racco- Chi tra Bush, Christie, Fiorina, non arrigliere i consensi delle persone stanche va primo o secondo martedì prossimo è
del modo in cui Washington funziona. uno zombie.
Il sentimento è diffuso e agita entram- L’Iowa lancia anche dei personaggi, li
bi i partiti: dal 2008 in poi ogni elezione rende credibili. Due per tutti: Bernie
nazionale, presidenziale o di midterm Sanders, che ha dimostrato di esseha il suo portato di rivolta. Se ad ani- re un candidato capace di reggere alla
42
6 febbraio 2016
pressione, abile con i media e di saper
scegliere bene il suo staff. Sono doti
importanti in una lunga corsa come
quella delle primarie. L’altro è il grande
vincitore dell’Iowa, Marco Rubio, che è
arrivato terzo, ma che i sondaggi davano quarto a grande distanza. La buona
performance del senatore della Florida
è ossigeno per quello che in Italia definiremmo “il Palazzo” e che negli Usa si
chiama Washington. Se questi otterrà un
buon risultato in New Hampshire, dove
però ha diversi contendenti localmente
forti, allora la scelta dell’establishment
diventerà lui e le pressioni su Bush e gli
altri moderati perché si ritirino sarà immane. Che Bush si ritiri per fare spazio
al suo allievo in Florida divenuto Bruto,
è un destino triste per il candidato che
tutti consideravano l’uomo da battere. I
conservatori gli sparano addosso per il
cambio di opinione sull’immigrazione da favorevole a una riforma moderata,
al campione della chiusura delle frontiere - che poi è la carta più forte usata da Trump in questa contesa. Rubio è
anche una cattiva notizia per i democratici: è preparato, giovane, ispanico e
viene dalla Florida, senza la quale è difficile arrivare alla Casa Bianca: Al Gore,
ancora sogna un George W. Bush vestito
da coccodrillo delle paludi inseguirlo
gridando “ho vinto io”.
© Andrew Harnik/AP Photo
Soldi spesi, sondaggi,
paura di Trump
• Martedì si vota in New
Hampshire, nel
2012
tra i repubblicani vinse
Romney e Ron Paul arrivò secondo. I sondaggi
dicono Trump 34%, Cruz
11,9%, Kasich 11,8% e Rubio 9,7%. Tra i democratici
stravince Sanders 55% a
37%. Clinton sopra il 40
sarebbe felice.
• In Iowa Sanders ha vinto tra
i giovani (80%) e tra i 3044enni (58%). Clinton va
bene tra i più anziani, che
però sono la maggioranza
degli elettori dello Stato.
• In Nevada e South Carolina Clinton è avanti di più
di 20 punti su Sanders.
• Bush ha speso 2.800 dollari
per ogni voto preso in Iowa.
• Il 72% dei giovani neri interrogati da un sondaggio
ha detto che in caso di
vittoria di Trump prenderebbe in considerazione
l’idea di lasciare il Paese.
Hillary invece sogna lo spettro del La verità è che Bernie ha già raggiunto
2008, appena allontanato con la vitto- il suo obiettivo: Hillary non è più sicuria dello 0,2% in Iowa. Martedì prossi- ra di farcela, il suo consenso in Iowa è
mo è destinata a perdere e per questo andato calando nelle ultime settimane,
ha già deciso di usare più risorse per il mentre quello del senatore del Vermont
voto in South Carolina e Nevada. Qui cresceva. La sua posizione è «sono lieta
vota una quota consistente di afroa- di avere un confronto serio con Bernie
mericani e ispanici gruppi con i quali su quale sia il modo migliore per far
ha un vantaggio potenziale. A meno crescere il Paese». Tradotto significa: io
che l’effetto Sanders - che arriverà a ho posizioni puntuali che possono esfine mese con una vittoria e un pareg- sere messe in pratica, Sanders propone
gio - non si riveli più serio di quanto cose irrealizzabili che faranno paura ai
abbiamo visto fino ad oggi. Bernie ha moderati quando si voterà per la Casa
spiegato che la rivoluzione (contro la Bianca. Intanto però lo ha inseguito,
finanza e gli straricchi) è appena co- o meglio, ha inseguito il 44% di liberal
minciata. Cosa intende dire? Che a del suo partito avanzando proposte e
prescindere dalla nomiprendendo posizioni più
nation, alla quale cominradicali di quanto non
cia a credere, il socialista Clinton perderà
avrebbe mai fatto sui neri
democratico intende an- in New Hampshire e di Black Lives Matter, suldare fino in fondo, con- punterà le sue carte le armi, sul salario minitendendo a Clinton ogni su afroamericani
mo. Il problema è che ai
Stato e arrivare alla con- e donne. Intanto si
liberal Hillary non piace
vention per promuovere consola con lo 0,2%
proprio. Per adesso non
la sua agenda di sinistra. in più di Sanders
ha saputo proporre una
Sanders intende, anche
narrazione diversa da
dovesse perdere (come tutto sommato “portiamo a termine il lavoro di Obaprobabile), influenzare il partito che ma” accompagnata da “il posto di una
lo ha sempre trattato come un’allegra donna è la Casa Bianca”. Il secondo è un
mascotte, quando ha lanciato la sua ottimo slogan, se non fosse lei, capace
candidatura ha spiegato: «Non voglio e preparata, ma troppo vogliosa di vinche le primarie siano un’incoronazio- cere, a voler diventare la prima donna
ne». Obbiettivo raggiunto.
presidente.
6 febbraio 2016
43
© The Weinstein Company
Far West America
The Hateful Eight è l’ultimo film di Quentin Tarantino. Tra duelli, sangue, arti mozzati
e pistole fumanti, il re del pulp ci racconta gli Stati Uniti, il razzismo e la politica
di Giorgia Furlan
uando ho messo la penna sulla carta e ho
scritto la prima frase della sceneggiatura:
“diligenza che si fa strada in un paesaggio
coperto di neve” non pensavo che sarebbe
andata così e che The Hateful Eight diventasse un film politico». È in questo modo che
Quentin Tarantino inizia a raccontare
il suo ottavo film, ambientato qualche
anno dopo la fine della Guerra Civile Americana,
nella quale il Sud schiavista delle grandi piantagioni è stato sconfitto dal Nord yankee e industrializzato. «Scena dopo scena - spiega Quentin
- i personaggi hanno cominciato a parlare, a discutere fra loro. È lì che mi sono reso conto del
legame che c’era con le questioni che più caratterizzano la realtà politica e sociale dell’America
di oggi e lo scontro fra democratici e conservato44
6 febbraio 2016
ri. Poi abbiamo cominciato a realizzare il film e
questa sensazione si è fatta più forte. Ci abbiamo
messo un anno a completare le riprese, giravamo,
andavamo a casa, vedevamo i tg, il giorno dopo
commentavamo le notizie. E, mano a mano,
l’epoca in cui è ambientato il film (all’incirca il
1870 ndr) si dimostrava perfetta per raccontare
quello che stava avvenendo là fuori, nell’America
del 2015. Perfetta più di quanto ci saremmo mai
aspettati».
La realtà “là fuori” a cui fa riferimento Tarantino
è soprattutto quella di Black Lives Matter. Quella del Far West contemporaneo in cui poliziotti
bianchi sparano a ragazzi neri, spesso disarmati.
Quella di chi protesta per dire che anche le vite
degli afroamericani contano. E infatti gli Stati
Uniti di oggi sembrano avere davvero molto in
comune con il Far West raccontato da Tarantino.
Lo stesso regista in merito ha una strana teoria.
Strana ma estremamente convincente: «ogni
epoca ha avuto un tipo di western diverso e sulla
base di come venivano fatti i film western si riesce a capire molto della società che li ha prodotti.
In The Hateful Eight parlo di un gruppo di brutta
gente con troppe armi e nessun posto in cui andare. Se aggiungiamo che è gente senza diritti né
legge e pure un po’ razzista, quello che ci resta è
una bella tazza di caffè avvelenato da servire al
pubblico». Insieme al giornale con le notizie del
mattino, ovviamente.
La realtà fuori dal set raccontata dagli attivisti di
Black Lives Matter sembra davvero confermare
la visione di mr. Tarantino. Si va dalle decine di
video diffusi online e dalle emittenti all news in
cui, in un duello impari e mortale, ragazzi neri
sono fatti fuori a sangue freddo da agenti della
polizia, fino ai comizi che tracimano di insulti
razzisti del milionario Donald Trump. Quello che
è successo nelle strade d’America lo scorso anno,
mentre Quentin Tarantino era intento a girare
lo sa bene Alicia Garza fondatrice di Black lives
matter ed «È terribile, ma non è diverso da quello
che è accaduto per un sacco di tempo nel nostro
Paese e che magari era semplicemente meno evidente». Il commento di un’altra attivista, Ashley
Yates, potrebbe poi essere una “morale” perfetta
per il film: «Le persone hanno bisogno di capire
che il silenzio si trasforma in connivenza. E che
è assurdo chiedere a qualcuno di restare calmo e
controllato di fronte a delle scene così dolorose
(e reali ndr). Quando stai per essere ammazzato,
non puoi permetterti di dire le cose sussurrando
pacatamente». E questo infatti è proprio quello
che non avviene in The Hateful Eight. Qui, diplomazia e pacatezza non sono il modo giusto per
salvarsi la pelle. Lo spiega bene il Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), unico nero in un
covo di bianchi armati fino ai denti, che porta con
sé nel taschino una lettera del presidente Lincoln
a lui indirizzata come fosse una pistola nella fondina. Warren parla poco, ma quando apre bocca
non sussurra mai. Soprattutto, come dice lui stesso in una scena del film, è consapevole del fatto
che: «Un uomo nero non è mai al sicuro quando
è disarmato di fronte a un bianco».
“Gli odiosi otto” ci ricordano anche, proprio con
il personaggio di Marquis, che il passo fra l’essere
eroi o delinquenti è più breve di quanto si immagini. E forse, se Tarantino non fosse stato Taran-
tino, così pop e così pulp, avrebbe potuto dirlo
usando le parole di Bertold Brecht: anche l’odio
contro la bassezza, stravolge il viso. Anche l’ira per
l’ingiustizia fa roca la voce. Noi, che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non
si potè essere gentili.
Anche il Maggiore Warren, come gli altri sette protagonisti del film, si è trasformato in un bugiardo,
spietato e ingiusto. L’idea è che, in un mondo in
cui homo homini lupus, è questione di sopravvivenza e bisogna essere armati. Di parole, forse
più che di pistole. Per tutto il film si ripete di continuo con disprezzo l’espressione “negro”, eppure
«a furia di ripeterlo la parola si sgonfia, perde il
suo valore denigratorio» spiega Micheal Madsen
che interpreta il ruolo di Joe Gage «Mi piacerebbe
che questo accadesse anche nella società là fuori,
vorrei veder sgonfiare quella parola, vederla sparire, ridotta a nulla più che una battuta».
In tutti i suoi film Quentin tesse una ragnatela fitta e sottile, anche con The Hateful Eight è
così, e, in questo intreccio fatto di battute, sguardi e pistole sguainate, incastona il personaggio
del cacciatore di taglie John Ruth detto “Il boia”
(Kurt Russel). John Ruth rappresenta, forse più
degli altri, l’essenza di quello
che dovrebbero essere gli Stati La realtà fuori
Uniti: «un Paese in cui anche dal set raccontata
la persona più piccola e insi- dagli attivisti di
gnificante aveva diritto ad un Black Lives Matter
processo davanti a un giudice» è terribile, ingiusta
dice Kurt Russell. Ruth ci cre- e cruenta. E sembra
de fermamente: ognuno deve confermare la visione
essere portato vivo di fronte di Tarantino
al giudice. Per “il boia” siamo
tutti uguali. E lo dimostra anche quando scopre
che la lettera di Lincoln che Marquis sfoggia con
orgoglio, è un falso, un espediente inventato dal
Maggiore per sentirsi al sicuro in una terra che
ancora gronda razzismo. «Il mio personaggio ci
rimane molto male quando scopre la verità - racconta Russell - e in quel momento potrebbe dire
tante cose all’uomo nero che gli siede di fronte e
lo ha deluso, ma non lo fa. Sceglie una parola sola
per definirlo: bugiardo» e, ancora una volta è una
questione di linguaggio. John Ruth usa un termine che non è bianco o nero, ma che definisce il
mondo secondo i criteri di vero e falso o, ancora
meglio: di giusto. È per questo che il senso che
porta con sé quella parola riesce a dirci meglio di
molte altre qual è l’idea che Quentin Tarantino ha
dell’America.
6 febbraio 2016
45
Quentin Tarantino
ottavo film, ottavo nano
In The Hateful Eight il cultore dell’analogico e del cinema
in pellicola è a disagio nell’era digitale. Sembra mezzo insanguinato
come uno dei suoi personaggi
Magg. Marquis Warren
(Samuel L. Jackson)
È un ex ufficiale
dell’esercito dell’Unione e
odia i sudisti. Porta sempre
con sè una lettera che gli ha
scritto il presidente Lincoln
Gen. Sandford Smithers
(Bruce Dern)
È un ex generale nostalgico
dell’esercito confederato. Si
trova da quelle parti perché
sta cercando il figlio morto
qualche anno prima
I
di Francesco Gatti
l re dell’analogico, del cinema in pellicola, delle videoteche per cinefili, per
quanto ancora riuscirà a sopravvivere
nel regno veloce e schiacciante del digitale e dello streaming? Il regista che
si faceva inseguire dalla rete, intrippata
dal gioco delle citazioni, riuscirà d’ora in poi a difendersi dalla violenza tecnologica
della generazione Wikileaks e Netflix? Come farà
Quentin Tarantino ad essere ancora, in un qui ed
ora sempre più fluido e distratto, il “Quentin Tarantino” speciale, che lascia il segno, destinato ad
imprese sempre geniali?
Al momento, rialzandosi zoppicante dalla bagarre, ha le ossa rotte ed è mezzo insanguinato,
quasi come uno dei suoi personaggi pulp. Se
fosse un suo film diremmo che dei criminali lo
hanno derubato della sceneggiatura e poi del
suo film. Servirebbe uno dei suoi pistoleri, killer
o psicopatico qualsiasi, per vendicarlo. Ma non
siamo in un film.
Appena due anni fa, tale è il culto nei suoi confronti, l’attesa per una nuova opera ha portato a
un sorpasso a destra: la rete, che vent’anni prima
nasceva per il grande pubblico e che contribuì ad
esaltarne il fascino, lo ha tradito: la sua sceneggiatura appena scritta di The Hateful Eight, dopo
essere stata affidata a sei persone, tra loro Michael Madsen, Bruce Dern e Tim Roth, è finita brutalmente su internet. Il regista depresso e deluso
decise di non realizzare più il film. Denunciò gli
hacker, fece una lettura pubblica del testo, per poi
46
6 febbraio 2016
cambiare idea, dopo aver apparentemente elaborato il lutto. Ma due anni dopo, a film finito, prima dell’uscita di dicembre, già 220mila persone
lo avevano scaricato illegalmente. E ora, al botteghino, è sostanzialmente un flop, almeno negli
Stati Uniti, 44 milioni di budget e 50 incassati in
5 settimane.
Inoltre come può essere ancora alla moda il suo
cinema forzatamente postmoderno, seducentemente senza sostanza, senza contenuti che non
siano citazioni, in un presente che sembra invece
anelare a un maggiore senso di realtà? Di Caprio
nella dimensione selvaggia di The Revenant rimanda alla ferocia di questo mondo, Tarantino
rimanda al massimo a Sergio Corbucci.
Tutto questo arrancare non può non avere conseguenze sul piano della fiducia in se stesso. E di tutto questo, crediamo che il regista sia consapevole.
E si sa, l’assedio, la pressione psicologica possono
condizionare, spingere all’errore, all’esagerazione, all’autoesaltazione per colmare un vuoto.
Per questo Tarantino sottolinea già dai titoli di
testa che The Hateful Eight è il suo “ottavo film”,
cercando di farci riconcentrare sul suo percorso d’autore, come se l’ottavo fosse l’imperdibile
ennesimo capitolo di un decalogo scritto sulla
pietra; per questo mentre il cinema va verso il
digitale lui frena verso la pellicola, e anzi esagera con un 70 mm. ultra panoramico, facendo di
necessità virtù, puntando sulla debolezza per distinguersi, potenziando il suo essere analogico,
perché sa che tutto è ormai digitale; per questo
© Peter Foley/Ansa Epa
John Ruth “Il boia”
(Kurt Russell)
Cacciatore di taglie
esperto ha catturato
Daisy Domergue ed è
intenzionato a vederla
penzolare dalla forca del
boia ad ogni costo
Daisy Domergue
(Jennifer Jason Leigh)
È l’unica donna degli
otto. Prende un sacco
di botte, ma non sembra
preoccuparsene troppo.
esagera con il grand guignol, stavolta più che
mai gratuito, tra gomitate in faccia, nasi soffiati
in favore di cinepresa, sangue vomitato a fontana, galline scuoiate, braccia amputate, impiccagioni, e ovviamente il solito puro splatter dei
cervelli che esplodono; per questo, in un’auto
indulgenza piena di io io ed io, di auto citazioni,
diventa talmente insicuro da inserire una voce
narrante che fa da stampella e legge le didascalie
delle scene; tanto insicuro da non tenere a bada
Morricone che gli consegna una
colonna sonora non adatta, non La rete sorpassa
western e riciclata da scarti di al- Tarantino a destra,
tri film come La Cosa di Carpen- prima lo deruba
ter, fatta di marcette stranianti; della sceneggiatura,
tanto insicuro da rifare Le Iene in poi diffonde copie
salsa western, ma con la didasca- piratate del suo
licità di un imitatore.
ultimo film che
La salvezza forse la troverebbe al botteghino,
uscendo da se stesso e dalle sue almeno negli Usa,
partiture, come fece in Jackie è sostanzialmente
Brown, tratto da un romanzo non un grande flop
suo. Non sarà la rete ad aiutarlo,
né il culto che lo circonda: i critici continuano
ad appoggiarlo perché anche gli errori dei “geni”
sono voluti, e i termometri anche se più contrastati segnano ancora positivo. Nell’attesa, prima
che torni in sé, o che diventi un sé 2.0, noi lo chiameremo semplicemente Quentin Tarantino, senza virgolette, senza sottolinearne il genio. Perché
è in crisi. Perché la modernità ha partorito un Tarantino insicuro.
Bob “Il messicano”
(Demian Bichir)
Sostiene di lavorare
all’emporio dove gli 8 si
riparano dalla tormenta
di neve. Segni particolari:
l’accento messicano
Oswaldo Mobray
(Tim Roth)
Si presenta come il boia
della zona (con tanto di
biglietti da visita). Ha modi
da gentleman inglese
Joe Gage
(Micheal Madsen)
Taciturno e silenzioso, dice
di essere un mandriano che
sta tornando dalla madre
per Natale. Passa il tempo
scrivendo le sue memorie
Chris Mannix
(Walton Goggins)
Dice di essere il nuovo
sceriffo del paese. Sudista
convinto, è il cerino che
in ogni occasione fa
esplodere la tensione
6 febbraio 2016
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Quel genere
di storie
«Il fumetto femminile non esiste» dicono cinque illustratrici a Left.
Poi però se un festival esclude le donne, scoppia il finimondo.
Tra vita quotidiana e molti coming out, breve bibliografia di genere
di Massimo Basili
l fumetto femminile? «Non esiste». Che sia realizzato da uomini, donne o marziani, a detta
delle cinque valenti autrici intervistate in occasione della recente uscita dei loro rispettivi
graphic novel, conta solo che sia buono. E se c’è
una cifra che lega tutti i lavori che vi raccontiamo in queste pagine, è semmai la scelta di
raccontare vicende quotidiane, di volta in volta
declinate nella commedia o nel diario intimista.
Eppure non sono mancate le voci di disappunto dopo l’annuncio che tra i trenta candidati al
premio alla carriera del prossimo Festival internazionale del fumetto di Angoulême, la Cannes
del fumetto, non comparisse nemmeno una
donna. Polemiche e successive defezioni, con
il direttore del festival Franck Bondoux, che è
riuscito a mettere una toppa peggiore del buco,
aggiungendo prima alla rosa dei premiandi un
contentino di sei autrici, poi annullando del
tutto la selezione, lasciando scelta libera ai giurati. Alla fine ha vinto il torinese Pietro Scarnera con la biografia illustrata di Primo Levi, Una
stella tranquilla, edita in Italia da Comma22.
Sempre giustificandosi, Bondoux ha detto «non
si può riscrivere la storia del fumetto». Dimenticando nomi importanti come Trina Robbins o
Claire Bretécher, Hagio Moto o Takahashi Rumiko. In Italia, Grazia Nidasio o, come vi raccontiamo ora, tante giovani autrici.
La trentaseienne Giulia Argnani, faentina, è la
più anziana del gruppo; dopo due libri e nume48
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rose storie brevi, alla scorsa edizione del festival
BilBolbul ha presentato la sua ultima fatica, Up
all night, per l’unica etichetta italiana di fumetti lgbt, Renbooks. Il libro racconta la storia d’amore tra Chiara, ragazza di provincia schiacciata dalle incombenze quotidiane, e Greta, front
girl di un gruppo rock, libera e indipendente.
«È un impasto di vicende personali e di altre
inventate: volevo che arrivassero al lettore in
maniera accattivante», ci dice, «è difficile che io
racconti una storia che non mi abbia toccato da
vicino, perché ho bisogno che le cose mi passino attraverso». Sebbene questo sia il secondo
libro a tema lgbt dopo il primo commissionato
da Mondadori, Argnani non ha una particolare
predilezione per l’argomento: «M’è capitato e
l’ho fatto volentieri, è stata una bella esperienza. Quando si tratta di scrivere cose mie a volte
parlo di amori lesbici, sì, ma non voglio fossilizzarmi. E poi, a dire il vero, Up all night tocca
l’argomento ma l’omosessualità non è il fulcro
della storia. Alla questione politica non penso
mai: mi piace parlare della vita di tutti i giorni,
che è già una cosa, mi pare, molto politica. È
stato più facile essere accolti da una casa editrice di settore, ma sogno un mondo dove non ci
siano differenze, almeno nel fumetto».
La romana Marta Baroni, classe 1989, ha invece
da poco realizzato Al sole come i gatti dopo aver
lasciato la sua amata città per trasferirsi a Bologna. Il trauma del distacco si riversa in maniera
6 febbraio 2016
49
malinconicamente deliziata nel fumetto, dove
i luoghi e i quartieri della Città Eterna diventano il pretesto per evocare le esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza. Al suo primo libro, ai
testi e ai disegni dopo diverse autoproduzioni,
Baroni è grata alla squadra di Bao Publishing
- editore in gran spolvero e particolarmente
attento alla promozione delle autrici italiane per averla sostenuta: «Realizzando un fumetto
autobiografico si rischia di cadere nell’autoreferenziale. La difficoltà più grande è stata proprio riuscire a rendere universale qualcosa di
estremamente intimo. I lettori sono riusciti a
immedesimarsi in un racconto di formazione:
anche se ambientato in luoghi che non conoscono, racconta momenti e sensazioni che tutti abbiamo vissuto». Nonostante Baroni abbia
studiato fumetto, non trascura l’attività d’illustratrice per ragazzi: «Mi diverte moltissimo e
spero di continuare a farlo. Dell’illustrazione
mi piace l’immediatezza, il lavorare su un’atmosfera. Tra fumetto e illustrazione non mi
sento di preferire uno all’altro, ma da quando
ho iniziato a lavorare a questo libro sento di
avere voglia di affermarmi sempre di più come
autrice».
Flavia Biondi ha ventisette anni, è originaria
di Castelfiorentino ma vive anche lei a Bologna e con Renbooks ha pubblicato già tre libri
con personaggi omosessuali; non si smentisce
neppure approdando a Bao con La generazione, nel quale il giovane Matteo torna nel paesino natale della provincia toscana dopo aver lasciato il fidanzato a Milano, rifugiandosi a casa
delle zie vedove e zitelle, con nonna malata e
a carico, per nascondersi dal padre, al quale
non riesce a dire di essere gay. Ma la questione “rainbow” non è il cardine del fumetto, anche in questo caso: «Le mie storie nascono da
un’immagine. Qui è stata un’occasione triste,
il funerale di mia nonna. Vedendo le mie zie
e mio padre accompagnare la madre per l’ultima volta verso il cimitero ho riflettuto sulla
famiglia. Poi ho romanzato». Di autobiografico
non c’è molto altro: «Non ho nessun problema
per la mia omosessualità, dalla mia famiglia
ho avuto un grande sostegno. Poiché da anni
sto a Bologna, con Matteo condivido però la
paura del fallimento, sebbene mi sia sempre
impegnata a farcela da sola. Il dubbio è comune: cosa succederebbe se non riuscissi nei miei
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6 febbraio 2016
DA LEGGERE
Le cinque fumettiste italiane riunite
in questa intervista più Chloé Cruchaudet: ecco le letture consigliate
per non ripete l’errore di Franck
Bondoux, direttore di Angouléme.
Dunque, rimedi contro il sessismo.
Up all night di Giulia Argnani, Renbooks.
Al sole come i gatti di Marta Baroni,
Bao Publishing.
La generazione di Flavia Biondi, Bao
Publishing.
Finisco di contare le mattonelle di Elisabetta Romagnoli; Bao Publishing.
Incendi Estivi di Giulia Sagramola;
Bao Publishing.
Poco Raccomandabile, di Chloé Cruchaudet, Coconinopress.
Illustrano queste pagine
alcune tavole di Incendi estivi,
opera di Giulia Sagramola,
Bao Publishing
obiettivi e dovessi tornare a casa con la coda
tra le gambe?». Smentendo l’evidenza, Biondi
pensa di non essere la persona giusta per fare
fumetti “impegnati”. «Mi piace fare storielle
d’amore e non me ne vergogno affatto, sono
una persona semplice», dice, anche se poi il
tema del coming out ricorre con prepotenza.
«Secondo me è quel momento in cui cambia
qualcosa nella vita di un omoses«Spesso gli autori di suale: c’è il prima e c’è il dopo e
fumetti fanno vedere solo poi ci sono i problemi pratici, lo
la protagonista femminile, stare in coppia; ecco, un fumetto
durante le scene di sesso». più politico dovrebbe occuparsi
Lo stereotipo sta anche lì: del futuro, perché quando instauri
«Io volevo invece che lui una relazione a lungo termine coe lei fossero alla pari», ci minci a farti delle domande».
dice Giulia Sagramola Finisco di contare le mattonelle è
invece il poetico titolo scelto dalla
romana Elisabetta Romagnoli, ventisette anni,
per il suo esordio a fumetti con Bao. Adesso sta
cimentandosi come illustratrice, visto che «mi
si addice di più». Il suo stile iconico, coi suoi
colori pastello e le sue figure sottili sembra non
trovare posto nell’illustrazione classica, «in-
vece questa formula di fumetto-illustrazione,
così grafica, a quanto pare funziona». Tutto nasce da un’illustrazione fatta per sé dalla quale,
dopo il confronto con l’editore, è venuta fuori
la storia di Chiara, innamorata di Matteo da
tredici anni tanto da inseguirlo fino a Barcellona per capire se con lui ha qualche possibilità.
Se si esclude un libro di Gianni Rodari che le è
servito d’ispirazione per il finale “a bivi”, tra cui
uno decisamente horror, la vicenda è in parte
autobiografica: «Credo che a tutti quanti sia capitato di provare a raggiungere un amore».
Tra tutte le autrici intervistate, la fabrianese
Giulia Sagramola, non ancora trentun anni,
è quella più visibile nei festival e nelle fiere
specializzate non solo italiandìe, grazie a una
lunga gavetta nel fumetto indipendente e la
co-creazione di una blasonata autoproduzione, Teiera, un libro sulla sua infanzia uscito
per Topipittori e la partecipazione al Collettivo
francese di fumettiste contro il sessismo, che
si prefigge di superare le barriere di genere nel
mondo del fumetto. Proprio durante una residenza d’artista nella sede del più importante
festival di fumetto europeo, ad Angoulême, Sagramola ha terminato Incendi Estivi, al quale
lavorava da sei anni: «È il mio primo fumetto
lungo non autobiografico: racconto i rapporti
fra sorelle e fra migliori amici in un contesto
diverso da quello di oggi, agli inizi degli anni
Duemila, quando io ero adolescente. Mi fa effetto pensare che nel giro di quindici anni la
tecnologia è andata così veloce che i giovani
non vivono più la noia allo stesso mio modo.
Senza volerlo è venuto fuori proprio un libro
sulla noia, sul vivere in provincia, sui primi
amori». Ne sono protagonisti i diciottenni Rachele e Stefano, con la sorella più piccola di lei,
Sabrina, e un gruppo di coetanei, sullo sfondo
di misteriosi incendi notturni che punteggiano
un’estate indolente. Chiedo a Giulia se il punto
di vista femminile su alcune scene di sesso tra
i suoi personaggi sia stato decisivo: «Non m’interessava essere voyeuristica ma volevo essere
lì con loro. E poi volevo che lui e lei fossero alla
pari, mostrando le emozioni di entrambi, visto
che spesso gli autori di fumetti fanno vedere
solo la protagonista e mai la parte maschile.
Personalmente, mi piace disegnare i maschi
e credo che continuerò a esplorare l’erotismo,
magari con delle storie brevi».
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6 febbraio 2016
© Illustrazione Antonio Pronostico
Facciamo luce
nella materia oscura
A 400 anni dalle scoperte di Galileo conosciamo solo il 2,5 per cento
dell’universo. Adesso un satellite cinese prova a cercare la presenza
nel cosmo di materia oscura. Che secondo gli scienziati esiste eccome
di Pietro Greco
partito dal deserto del Gobi lo scorso 17 dicembre per lo spazio e ora ruota, in un’orbita bassa, intorno alla Terra. Si chiama Dampe
(Dark matter particle explore), ma dalle parti
di Pechino è noto come Wukong (il Re Scimmia): come l’eroe di una novella del Cinquecento. Ed è il contributo cinese alla ricerca,
dallo spazio della soluzione a uno dei
più grandi misteri della cosmologia moderna: la presenza nel cosmo di “materia oscura”. Dove l’aggettivo ha il duplice senso: di materia che non si vede, ma
anche di materia di cui ignoriamo persino la
natura. Sappiamo solo che, se davvero c’è, è
completamente diversa dalla materia di cui
siamo fatti noi.
E sappiamo anche che la “materia oscura” costituisce per noi tutti una severa ma benefica lezione di umiltà. Perché dopo Galileo che col suo
cannocchiale iniziò a scrutare il cielo con strumenti più potenti dell’occhio umano, in quattrocento e più anni di esplorazione, conosciamo appena il 4,9 per cento del nostro universo.
Il restante 95,1 per cento ci è del tutto ignoto.
Sappiamo solo che un buon 26,8 per cento del
nostro universo (secondo le stime del satellite
europeo Planck) è costituito da “materia oscura” e che il restante 68,3 per cento è costituito da
“energia oscura”, ovvero da una forma di energia
di cui ancora una volta non conosciamo né l’origine, né la natura. Insomma, quello che tutto
sommato sappiamo dell’universo è di non sapere. Ma proprio questa consapevolezza induce
i fisici a cercare di dipanarla, questa “ignoranza
cosmica”. Speriamo che Wukong ci aiuti a far
cadere qualche velo sull’energia oscura, ovvero sul 68,3 per cento del mondo in cui viviamo.
Intanto l’altro satellite, Planck, qualche conto
lo ha fatto. E ci ha confermato che sappiamo
poco o nulla anche della restante componente
del cosmo: la materia. Nell’insieme costituisce
il 31,7 per cento dell’universo. Perché tanta ne
“pesiamo”. Ma della materia cosmica che vediamo e di cui conosciamo la natura è solo il 15 per
cento. Del restante 85 non sappiamo niente: è,
per l’appunto “materia oscura”.
6 febbraio 2016
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Il lancio del satellite “Wukong”, il 17
dicembre 2015, dal centro di Jiuquan
nella Cina nord occidentale
A esser sinceri, anche la parte nota ha i suoi
punti oscuri. Sappiamo con certezza che è
costituita da “materia ordinaria”, ovvero dalle medesime particelle - i protoni e neutroni,
complessivamente chiamati barioni - di cui
siamo fatti noi stessi, i pianeti, le stelle. Ma
non sappiamo, esattamente, dove la “materia
ordinaria” si trovi. La metà, è certo, è contenuta nelle stelle che vediamo, grazie alla luce
e alle altre forme di radiazione che emettono.
Ma non abbiamo un’idea precisa di dove sia
l’altra metà. Qualcuno sostiene che, invisibile, se ne sta all’interno delle galassie. Altri, che
viaggi, rarefatta, negli immensi
Si chiama spazi intergalattici: tra gli amDampe ed è massi e tra gli ammassi di amsoprannominato massi di galassie. Dunque, se
Wukong, il Re i conti tornano, 400 e più anni
Scimmia. È il dopo che Galileo ha puntato il
nuovo cacciatore di suo cannocchiale contro il cielo
“materia oscura”, e ha visto “cose mai viste prima,
partito dal deserto abbiamo una cognizione esatta
di Gobi (ovvero sappiamo cos’è e dove
il 17 dicembre si trova) meno del 2,5 per cento
scorso del nostro universo. Di un altro
2,5 per cento scarso conosciamo la natura, ma non sappiamo dove si trovi.
Non è il caso di deprimersi. Le scoperte effettuate in questi quattro secoli non sono state
affatto poche. Il fatto è che il nostro universo
è molto grande e molto complesso. Molto più
grande e complesso di quanto si poteva immaginare non solo ai tempi di Keplero e Galileo, ma anche cento anni fa, quando, nel 1917,
Einstein applicò la teoria della relatività generale al cosmo intero e inaugurò la stagione
della moderna cosmologia scientifica. Dunque, conviene concentrarsi sulle cose da fare
per cercare di capirlo, questo “universo oscuro”. Iniziando, magari, proprio dalla parte probabilmente più facile: scoprire di cosa è fatta
la “materia oscura”. Qualcuno, per la verità,
sostiene che neppure esista, questa materia.
Ma la gran parte dei cosmologi e degli astrofisici non ha dubbi: la “materia oscura” esiste.
Non è un atto di fede. È una deduzione che si
basa su due fatti. In primo luogo la “pesiamo”.
Vediamo, per esempio, la gran parte delle galassie ruotare su se stesse a una velocità che è
di gran lunga superiore a quella spiegabile con
massa della loro materia visibile. Le spiegazio54
6 febbraio 2016
ni possibili di questo fenomeno sono solo due:
o c’è molta altra materia che non vediamo (la
“materia oscura”, appunto) oppure non abbiamo ancora capito la gravitazione. Dopo i successi delle teorie di Newton e poi di Einstein, i
fisici tendono a credere più alla prima che alla
seconda ipotesi.
Ma l’altro fatto che li spinge a credere che l’85
per cento della materia cosmica ci sia ancora
oscura, riguarda il cosiddetto Modello standard della cosmologia: ovvero la teoria che ci
racconta la storia del cosmo cercando di “salvare” tutti i fenomeni noti.
La teoria prevede che il nostro universo sia
nato circa 13,7 miliardi di anni fa con un Big
bang. Tutto quanto oggi osserviamo - comprese le centinaia di miliardi di galassie, ciascuna
delle quali contiene in media miliardi di stelle
- era concentrato in un punticino piccolissimo, caldissimo e, ovviamente, densissimo: la
singolarità iniziale. Il punticino iniziò a espandersi, creando lo spazio e il tempo. Anzi, come
direbbe Herman Minkowski, lo spaziotempo.
Ed espandendosi iniziò a raffreddarsi, creando le condizioni per la creazione della materia
che consideriamo ordinaria.
Il Modello standard è solido. Perché si basa a
sua volta su tre fatti indipendenti e incontrovertibili. Il primo è «la recessione delle galassie»: tutte le galassie, in media, si allontanano
da tutte le altre. Viviamo in un universo che si
sta espandendo.
Il secondo fatto è che la materia ordinaria di
cui conosciamo la natura è costituita in gran
parte da due soli elementi: l’idrogeno (75
per cento) e l’elio (25 per cento). Terzo fatto:
nell’universo osservabile è presente una radiazione - la “radiazione cosmica di fondo” che ha una diffusione omogenea e una temperatura di 2,7 gradi Kelvin, prossima allo zero
assoluto. Questi tre fatti possono essere spiegati - a tutt’oggi - solo con il modello del Big
Bang. Tuttavia così come lo abbiamo presentato il modello non chiarisce bene tutto. Per
esempio non spiega perché l’universo mostri
di avere una geometria piatta e perché anche
le parti che non possono essere casualmente
connesse - perché non sono mai state in contatta tra loro - risultano omogenee. Occorre
dunque avanzare un’altra ipotesi: il nostro
universo ha subito una fase di “inflazione”:
© Qu Jingliang/Ansa Epa
ovvero una fase in cui il cosmo ancora piccolissimo ma causalmente connesso è cresciuto
a velocità esponenziale, a velocità superiore a
quella della luce, creando spazio e materia. Il
modello dell’inflazione spiega perché oggi l’universo ha una geometria piatta ed è omogeneo a grandissima scala. E prevede, appunto,
l’esistenza di una quantità di materia molto
superiore a quella che vediamo: la “materia
oscura”. Non basta. Il modello richiede che
questa sia “fredda”: costituita da particelle con
una massa grande, da una a cento volte quella
del protone, che si muovono con velocità molto inferiore a quella della luce.
I candidati “freddi” che potrebbero rendere ragione della parte mancante della materiale cosmica sono due: le Wimp (particelle neutre che
interagiscono poco con la materia) e i Macho
(oggetti grossi, tipo granelli di polvere, meteoriti o pianeti). Ma, per quanto la ricerca di pianeti fuori dal sistema solare si stia rivelando
ricca e fruttuosa, difficilmente il 26,8 per cento dell’universo può essere Macho. Non restano, dunque, che le Wimp. Che hanno un solo
difetto: nessuno finora ne ha scovata una. A
Ginevra, sotto la direzione di Fabiola Gianotti,
Lhc è ormai pronto per ricominciare a cacciarle. Non ci resta che attendere. Tuttavia la teoria
della “materia oscura fredda”, imporrebbe che
le galassie si comportassero in
modo diverso da quello osser- La rotazione delle
vato e prevederebbe anche la galassie, più veloce
presenza di un grande numero rispetto a quanto
di “galassie nane”, che invece lo permetta le loro
nei cieli non ci sono. Così molti masse, dimostra
avanzano teorie alternative. Le che c’è materia
più diverse. Ma hanno l’onere sconosciuta.
della prova. E nessuno, finora, Un’altra
spiegazione viene
ne ha portata una.
In ogni caso in campo ci sono dalla teoria
solo due ipotesi: o la “materia del Big bang
oscura” non esiste o per spiegare l’universo che ci circonda c’è bisogno di
“nuova fisica”. Speriamo che Lhc, la macchina
più potente mai costruita, e/o Wukong, il vecchio guerriero, ci aiuti a sciogliere il nodo. Una
cosa è certa: chiunque in qualsiasi modo ci riuscirà, ci sorprenderà.
6 febbraio 2016
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Nelle stesse corde
di Giuseppe Verdi
Verdiano di ferro, 49 anni di carriera e 516 repliche del Rigoletto.
Il baritono Leo Nucci non ha dubbi: «L’opera non è per un’élite,
basta snobismi, bisogna avere il coraggio di emozionarsi»
di Elisabetta Tomassini
uarantanove anni di palcoscenico, ma per
Leo Nucci, baritono verdiano che si definisce «attore prestato alla lirica», ogni
volta è come la prima volta. «Mia
moglie ha visto tutte le mie recite
di Rigoletto e l’altra sera mi ha detto: hai fatto un sacco di cose nuove. È questo il bello!». Interprete
istrionico, amatissimo per la sua
capacità di entusiasmare ed emozionare il pubblico (e perciò anche controverso), nel suo ultimo
Rigoletto alla Scala di Milano ha
fatto discutere per un bis concesso
a furor di popolo in un teatro in cui i
bis sono praticamente vietati dai tempi
di Toscanini.
Questo “bis della vendetta” alla Scala ha scandalizzato i puristi.
C’è stato chi ha storto il naso, è normale. Però
non si può scrivere, come qualcuno ha
fatto, che Verdi non avrebbe voluto. Verdi era felice di concedere bis, e lo faceva eccome. Il resto
sono frottole.
Toscanini però li aveva aboliti. Dai tempi della
sua direzione, alla Scala ne sono stati concessi
solo due, da Muti nell’86 e da Juan Diego Florez nel ’96.
56
6 febbraio 2016
Toscanini è stato un grande direttore, ma era
un furbo di tre taglie. Non voleva tra i piedi gente come Caruso e Gigli perché gli rubavano la
scena, voleva il successo tutto per sé. Buttò fuori dalla Scala Puccini, che sotto al portico sputò
per terra e disse: «In questo teatro maledetto
non ci tornerò mai più». Allora il direttore d’orchestra era considerato il padrone dell’opera,
cosa che oggi avviene con il regista. Per me
contano solo il musicista e il pubblico. L’opera
non è per un’élite, basta snobismi, bisogna avere il coraggio di emozionarsi.
È vero che nel 1970 aveva deciso di smettere?
Verissimo, ma il maestro Bizzarri mi diede del
matto e mi fece debuttare, il 10 maggio del ’73,
nel Rigoletto. Da allora non mi sono più salvato,
ne ho fatti 516 ufficiali.
Questa storia ricorda quella dell’impresario
Merelli che convince un Verdi ancora sconosciuto e rinunciatario a scrivere Nabucco, con
tutto quel che ne seguì. In un’intervista lei ha
detto: «Non sono mai stato un cantante d’opera, sono un appassionato di teatro». E Verdi
disse: «Lasciate stare il grande musicista, sono
solo un uomo di teatro». Chi è per lei Giuseppe Verdi?
Da molti anni ormai ho scelto di cantare quasi
solo Verdi. Tutti gli altri saranno pure più bravi
di lui, ma si sono fatti dei monumenti in vita.
Verdi invece ha costruito un ospedale, una casa
di riposo per musicisti e argini al Po, gli unici
che ancora tengono! Da senatore, in Parlamento, alla prima seduta si alzò e disse: «Non ho
tempo da perdere con questa gente». Amava la
terra e sapeva amministrarla, e trattava bene
i suoi contadini. L’hanno chiamato burbero,
ma l’opera più bella che ha scritto è il suo testamento: non ha dimenticato nessuno. È stato
un uomo straordinario e incarna valori che io
cerco di seguire. Per esempio l’altra sera, dopo
il bis, ho lasciato perdere gli inviti ufficiali, sono
tornato a casa con mia moglie a mangiare tortellini e bere lambrusco.
In Rete si trova una divertente video intervista
del ’90 a lei e Luciano Pavarotti al Metropolitan di New York. Canticchiate, vi truccate a vicenda. Che rapporto avevate?
Alla recita del mio debutto nel ’73 nel coro c’era
Fernando, il papà di Luciano. Insieme a Pavarotti abbiamo registrato più di dodici dischi,
fatto non so quanti recital. E poi ero il suo cuoco ufficiale di tortellini. Proprio stamattina con
la moglie, Adua, abbiamo ricordato il passato.
Guardi, lei è la prima a cui lo racconto: l’ultimo
del mondo della lirica con cui Pavarotti ha parlato sono io. Volle vedermi in ospedale prima di
essere dimesso per andare a morire a casa. Ci
siamo parlati a lungo, ma quello che ci siamo
detti resta privato.
Si definisce spesso «ben informato, per essere
un cantante». I cantanti sono ignoranti?
Molti non conoscono i personaggi che interpretano, nelle interviste si sentono strafalcioni
madornali. Quando gli chiesero se sottolineasse
la sua parte, il basso Boris Christoff rispose: «Le
sottolineo tutte». Io faccio altrettanto. Nel nostro
mestiere spesso ci si accontenta della voce e del
do. Io gli acuti li faccio, ma non canto per quello.
E poi molti sono accondiscendenti nei confronti dei registi per paura di non essere richiamati.
Io di certo non sono mai stato un mercenario.
Nell’85 ad Amburgo durante un Rigoletto ho
mandato a quel paese il regista e per ventidue
anni non sono tornato in Germania. Nei contratti a quel tempo hanno aggiunto un articolo
che obbliga i cantanti a fare quello che dice il regista. Questo è Regietheater, e va bene nella prosa, non nell’opera, dove i veri registi sono i musicisti, che con le pause e i colori danno già tutte
le indicazioni. Verdi infatti parla di mise en scène,
non di regia. Sicuramente il teatro va rinnovato,
ma non si può fare Aida senza il coro. Muti ha
detto: «Prendono la musica per farne colonna
sonora». Sono d’accordo con lui.
I tenori sono definiti scherzosamente i carabinieri della lirica. Lei la sa una barzelletta sui
tenori?
La madre aveva due figli: uno intelligente, l’altro tenore.
Ci sono baritoni bravi, oggi, in Diciassette anni fa ho avuto
un infarto e ho capito
Italia?
Luca Salsi, anche Carlos Alvarez. Le che non si vive una volta
voci ci sono, ma manca la possibili- sola, si muore una volta
tà di formarsi attraverso l’esperien- sola ma si vive ogni minuto.
za. Io ho cominciato in provincia Ecco perché, a 73 anni,
e dal mio ingresso alla Scala al de- ho iniziato a studiare
butto sono passati dieci anni. Oggi il violoncello
i cantanti danno più importanza
all’apparire, vivono con il cuore e cantano con
la testa. Io ho fatto il contrario. Diciassette anni
fa ho avuto un infarto e ho capito che non si vive
una volta sola, si muore una volta sola ma si vive
ogni minuto. Ecco perché, a 73 anni suonati, ho
iniziato a studiare il violoncello.
6 febbraio 2016
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Calcutta, da Latina
al mainstream
Al secolo Edoardo D’Erme, è l’ultimo fenomeno del pop italiano.
Il suo ultimo album lo ha intitolato Mainstream. Perché? «Sono felice
che esista, per me non ha mai avuto un’accezione negativa»
di Alessandra Grimaldi
on se lo spiega neanche lui il successo avuto
con Mainstream, il suo
primo album ufficiale,
dopo qualche tentativo
insieme ad amici musicisti. Calcutta, al secolo Edoardo D’Erme, 26
anni, crede sia tutto uno
scherzo. Un tipo naïf, sicuramente poco avvezzo
alle interviste. Fino a poco tempo fa, suonava
nei locali dei suoi amici a Latina, città in cui
è nato e ha studiato, e che neanche disprezza
troppo. I trascorsi tra band punk e poi l’idea di
scrivere canzoni in italiano: «Piano piano, mi
piaceva sempre di più il pop ed eccomi qui».
Calcutta ha scelto questo nome - «perché suona bene» - quattro anni fa. Nel progetto prima
erano in due, poi da solo, voce e chitarra, e
adesso sono in quattro, insieme a lui tastiera,
basso e batteria.
Se gli chiedi se è il fenomeno del momento, ti
dice: «Come Ronaldo? Ma no, non lo so, anche
con Davide (di Bomba Dischi, la sua etichetta
indipendente, ndr) ci chiediamo se sia tutto
vero. Ci sembra di essere al The Truman Show,
con tanta gente che collabora per prenderci in
giro». Mainstream, uscito a fine novembre, è un
«disco stretto» (così lo definisce lui) in cui ci re58
6 febbraio 2016
gala sette brani inediti, tutti piacevoli, dove la
melodia si fonde bene con le parole, mai scontate in entrambi i casi. Trovate efficaci, linguaggio puro, sarcasmo letterario, arrangiamenti e
testi ricercati. Quasi quasi, verrebbe da dire che
scrive senza pensare, ma non perché, a un certo punto, sbucano “Sandra e Raimondo”, una
ferrea coppia televisiva e non solo, sebbene
passata, ma perché è quasi geniale questa improbabile menzione. Ci sorprende in “Gaetano”, con una «svastica disegnata a Bologna solo
per litigare», poi diventa romantico in “Cosa
mi manchi a fare”, il brano più passato dalle
radio, e non tralascia l’attualità, anche provinciale: papa Francesco e il Frosinone in serie A:
«Sono due cose assurde, è cambiato il mondo,
non è più come anni fa. Intendo, quando stavamo meglio, di solito si dice così (ride), ma è
una parentesi che puoi riempire come ti pare.
Adesso è tutto diverso, c’è questo tipo che non
sembra neanche un papa e poi c’è una squadra
di calcio come il Frosinone in serie A, paradossi appunto». Poi c’è “Dal Verde”, un pezzo ancora diverso, che si fonde meravigliosamente
con la melodia, è questa la qualità dell’autore,
con questa notte che “ci vorrebbe” per viaggiare e ricominciare. Edoardo ride ancora. Non
ha macchinato nulla, ha solo tradotto in parole, musica e rime poco ostentate l’amarezza
di un pomeriggio, assalito dalla nostalgia per
mettendo in discussione la sua educazione, così
come la sua paura di non essere bella, tanto da
stare a dieta e bere limonata».
Cosa ha detto la ex del disco?
Le è piaciuto molto! Dai, ci siamo lasciati bene.
Insomma, tutto un album dedicato a lei?
No, non tutto, ma con lei ho convissuto tanto
tempo, ci sta per forza di cose, ma il disco parla
anche della quotidianità, della vita di coppia in
generale e della mia emotività.
Ti emozioni per tutto?
Tutto ciò che è sociale e politico parte sempre da
un’esigenza sentimentale.
Tu che sei un sentimentale, come vivi a Latina,
una città con connotazioni di destra?
In realtà questi di destra non li vedo, è un po’ tutto un calderone. Nelle mie canzoni c’è anche la
borghesia di sinistra. Io non ci vivo tanto, non ci
ho mai vissuto tanto, tra concerti, impegni a Roma, non passo
l’agro pontino, come nel brano Per me la politica
la maggior parte del mio tempo
“Milano”; ha riportato all’atten- è una merenda ogni
qui.
zione gli scontri tra residenti e tanto, una roba che
Ma la politica ti interessa?
immigrati, in quel di Torpignat- leggo quando mi
Per me è una merenda ogni tantara qualche mese fa, ancora in capita. Non sono
to, una roba che leggo quando
“Gaetano”, che poi è davvero un appassionato,
mi capita, ma non sono appassuo amico siciliano, il quale gli né schierato, ma non
sionato né schierato, non sono
giura che la periferia romana è sono nemmeno
nemmeno uno che si mette con
uno con la testa sotto
un ghetto.
la testa sotto la sabbia, non mi
Ama Battisti, Dalla e Caetano la sabbia
reputo una persona che sta sul
Veloso, come tanti altri, ma un
pezzo, in questo senso.
segreto c’è, e finalmente lo ammette. Questo al- Per adesso Calcutta-Edoardo si prepara a probum racconta la fine di una storia, quella con lungare le date dei concerti, pare che le richiela sua ex ragazza. Proprio lei, che lo ha lasciato ste aumentino di giorno in giorno. E pare che le
piano piano, confessa, e che lui, un po’ di qua novità, le offerte, l’attenzione mediatica siano
un po’ di là nei testi, ha voluto punzecchiare. Per esponenziali. Siamo in piena regola con la tenesempio, quelli di “Limonata” sono proprio gli ex denza del titolo... a proposito, in che rapporti
suoceri: la madre che va a Medjugorje e il padre sei con il mainstream?
che ascolta De Gregori. «Intendiamoci», precisa, Ho intitolato così l’album perché mi sembrava
«sono delle bravissime persone, non le odio, pro- giusto. Non ho niente contro, non sono uno da
vo una grande tenerezza per la mia ex ragazza, trincea, non ho una guerra in atto con il mainma la mia testa ha iniziato a incolpare i suoi, per stream, ma è una pacifica convivenza. Sono felila fine della nostra storia. Poi ho analizzato, ho ce che esista, per me non ha mai avuto un’accecercato di provocare il loro modo di essere perfet- zione negativa.
tini, la mamma era molto severa, come il dogma. Pensi a un nuovo amore?
Un po’ cattocomunisti, insomma, gente che c’è Non ci penso sinceramente, adesso mi lascio andappertutto, tipo quelli di Rinascita Civile, quel- dare.
le persone che si mettono addosso la legalità, ma Dovrai reimparare a camminare, come dici
che io non ho mai capito. Piuttosto che mandar- nella tua canzone?
cela, magari l’ho punzecchiata in questo modo, L’ho già fatto, per il momento sto sulle nuvole.
6 febbraio 2016
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LIBRI
L’assai è come
il niente. Quando
siamo in cucina
Vito Teti indaga gli
eccessi della nostra
dieta. Da quando
è sempre domenica
di Filippo La Porta
U
na volta il timballo e le pasterelle si
mangiavano solo la
domenica, oggi a tavola è
sempre domenica! Con la
conseguente fine di ritualità
e simbologie. Si esagera con
il cibo, come si esagera con
il cemento e con tutti i consumi in genere: un miliardo
e mezzo di persone a rischio
di diabete, tumori e patologie in cui l’eccesso di cibo
è la causa prima. Che fare?
Ci abbandoniamo a manie
dietetiche? Torniamo al passato, alla moderazione e alla
parsimonia?
Il libretto dell’antropologo
Vito Teti Fine pasto. Il cibo
che verrà (Einaudi) si segnala per una qualità della
documentazione e per un
equilibrio raro. Ci avverte
infatti che il rapporto uomonatura non è mai idilliaco,
che l’agricoltura preindustriale era fonte di privazioni, ristrettezze, staticità
culturali gerarchie familiari.
Però non rinuncia a cercare
di nuovo una sacralità del
cibo, una salute intesa non
in senso puritano, un mangiare legato a convivialità, il
cibo locale come marcatore
di una identità mobile.
Teti ci parla di magro e grasso (una volta la grassezza era
status symbol), di patatari e
mangiafichi, di emigrazione
e innovazione alimentare, di
banchetti nuziali e funebri,
dell’acqua come bene condiviso, di civiltà del pane, di
Pellegrino Artusi che volle
unificare l’Italia sul piano
gastronomico… Mi soffermo solo su due temi. Una
sacrosanta sfuriata contro
la «repubblica dei cuochi»
(televisivi e mediatici), temibile autocrazia che aggredisce, urla e impedisce
qualsiasi dialogo ( il cuoco
Carlo Cracco come modello
di una sacralità da tuti riconosciuta): il trionfo del cibo
parlato e figurato.
E poi la acuminata decostruzione della “dieta mediterranea”, una leggenda e
una strategia di marketing
(slegata da qualsiasi area geografica del Mediterraneo),
un mito inventato in ambito
anglosassone anche se con
un fondo di antiamericanismo (contro cioè uno stile
alimentare
omologante).
Anche se almeno ci ricorda
la antica relazione tra piacere, cibo e salute. L’autore
conclude poi saggiamente
con un modo di dire dei suoi
luoghi ovvero la Calabri
dove si dice : «L’assai è come
il niente».
TEATRO
Paolo Rossi diventa
Molière nella recita
di Versailles
Torna in scena
il folletto guastatore
di Su la testa!. In un
abrasivo pastiche
di Massimo Marino
M
olière ricompare sui
palcoscenici in periodi di crisi, quando
i legami sociali sono allentati, quando la falsificazione
vince sulla sostanza. Paolo
Rossi torna a Molière con la
sua travolgente maschera di
folletto guastatore per ritrovarsi nell’autore seicentesco
e farlo risplendere, in una serata pastiche, con le sue critiche più abrasive.
60
6 febbraio 2016
Con il Teatro Stabile di Bolzano e con una nutrita compagnia di attori accompagnata
dalle musiche eseguite dai
Virtuosi del Carso, con canzoni firmate da Gianmaria
Testa, allestisce Molière: la recita di Versailles. Lo dichiara
un gioco tra personaggio, attore e persona, ma non è una
di quelle «serate di delirio organizzato» con le quali girava qualche tempo fa. Non c’è
coinvolgimento del pubblico. E non c’è neppure L’impromptu de Versailles dello
scrittore francese, se non
come pretesto. Una compagnia, che è quella di Molière
ma anche quella di Paolo
Rossi, con attrici ex mogli (la
Bejart affidata, autobiograficamente, alla brava Lucia
Vasini), giovani mogli attuali, attori navigati, debuttanti amanti e pure un cane in
scena, deve improvvisare in
poche ore uno spettacolo
per il Re Sole, per il Potere.
Darà corso in modo originale a quella «commedia di
Le scoperte
che ispirarono
l’avanguardia
Picasso, Pollock
e gli artisti
della Collezione
Frobenius
di Simona Maggiorelli
F
attori» che abbozza Molière
nell’atto unico, mettendo
insieme momenti culminati
del Misantropo, del Tartufo
e del Malato immaginario
alla maniera di Rossi, stravolgendo, portando vicino
all’attualità. In un continuo
via vai tra i testi e l’improvvisazione, tra il Seicento e la
nostra epoca, in cui non si
possono più fare lazzi sui politici perché ci pensano loro
da soli a farli in continuazione, esalta il caos, l’irruzione
della vita sul palcoscenico, e
presenta tre piccoli gioielli di
interpretazione. Misantropo,
il disgusto per le apparenze,
le rappresentazioni, la società dei reality. Tartufo, in abiti
di papa guevarista, lo smascheramento dei falsi devoti.
Il malato immaginario, un
incubo manicomiale, carcerario, come la nostra società
apparentemente libera. Con
un messaggio nella bottiglia:
il teatro è uno dei pochi luoghi possibili per appassionati della realtà.
igure umane stilizzate, rese con pochi tratti
essenziali, danzano in
cerchio, oppure appaiono sedute in pose rilassate e come
se stessero assistendo a uno
spettacolo. Le gambe sono linee lunghissime o sintetizzate
in un ricciolo elegante, quando piegate. In altre scene ambientate in mezzo alla natura,
intorno a una sorta di “forno”
primitivo, appaiono uomini e
donne con dei bambini. Sembra una scena di festa. La didascalia e la scheda ci parlano
di un rito sciamanico, evidenziando l’ampia tunica che rive-
ste la figura centrale. Colpisce
che non ci siano segni di guerra o di violenza in questa serie
di graffiti perlopiù risalenti al
neolitico, copiati dal vero da
pittori che presero parte alle
spedizioni africane dell’etnologo Leo Frobenius tra il 1913
e il 1939. Per lungo tempo, anche dopo la diffusione della fotografia, le scoperte di pitture
e incisioni rupestri in Europa,
in Africa e in altri continenti (lo
stesso Frobenius andò anche
in Indonesia) furono raccontate attraverso bozzetti e schizzi.
Suggestivi, per esempio, sono
quelli che Henri Breuil realizzò ad Altamira e nelle grotte
della Dordogna. Ma qui siamo
davanti a qualcosa di diverso:
questi 500 schizzi e bozzetti
che fanno parte della collezione Frobenius (fino al 16 maggio in mostra al Martin Gropius Bau di Berlino) non sono
dei calchi o delle pedisseque
copie documentali. Per rendere su carta l’emozionante
effetto che i graffiti preistorici
facevano sulla roccia scabra e
accidentata, i pittori ingaggiati
dall’etnologo tedesco inventarono di volta in volta soluzioni
estetiche e creative. Ognuno
con un proprio stile, con una
propria cifra, nel tratto e, talvolta, nella scelta dei colori. Il
risultato finale sono esperimenti originali che costituiscono un unicum nella storia
dell’arte. Quelle opere “d’occasione”, che poi andarono in
tour in Europa e furono esposte in trenta città americane,
rappresentarono un punto
di svolta nei percorsi personali di chi le aveva realizzate
aprendoli alla ricerca. Intanto
cresceva l’interesse degli artisti
d’avanguardia come Matisse e
Picasso per il “primitivo”, per
la bellezza della scultura negra
che non seguiva i canoni classici, ma anche per l’arte del
paleolitico scoperta a fine ’800
ad Altamira, ma riconosciuta
autentica solo dopo un ventennio. Si dice che Picasso abbia commentato: «Dopo Altamira tutto è decadenza». Vero
o non vero che sia, restano i
suoi tori essenziali, ridotti a
sola linea, a dirci quanto avesse amato quelli gialli e rossi di
Altamira e l’arte primitiva spegnola. E non fu il solo. Anche i
pittori della scuola di New York
si interessarono alla rock art. A
cominciare da Pollock che giovanissimo si era innamorato
dell’arte dei nativi americani.
© Frobenius-Institut Frankfurt am Main
ARTE
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BUON VIVERE
SOCIAL
Per Bismarck
a tavola solo carne,
uova e buon vino
Facebook sfida
Periscope e punta
sul live video
Il Cancelliere dorava
le proteine. Ecco la
ricetta dei tramezzini
di manzo fritti
Dopo Mentions,
Zuckerberg permette
a tutti il live streaming
sul suo social
di Francesco Maria Borrelli
di Giorgia Furlan
O
tto Eduard Leopold von
Bismarck. Il Cancelliere
tedesco aveva uno stile
alimentare non proprio dietetico. Ancora oggi alcune ricette portano la dicitura “alla
Bismarck”: bistecca, asparagi, hamburger; tutte sono
accomunate dalla presenza
di uova fritte poste sopra. Il
suo appetito non si fermava
qui: «Bismarck quando voleva
rinfrancar le idee e schiarirle,
mangiava bistecche, fumava
buoni sigari e beveva robusto vin di Borgogna», scriveva
Riccardo Bacchelli, autore di
romanzi storici del ’900, nel
volume Nel fiume della storia.
Anche sulla Treccani, alla voce
“bistecca” c’è scritto: «Alla Bismarck, senz’osso, costituita
di solito dal controfiletto che
si cuoce in padella nell’olio,
con l’aggiunta, sopra, di due
uova»; in realtà andrebbe
cotta nel burro. Di seguito un
piatto in linea con i gusti del
Kanzler: tramezzini di manzo
alla Bismarck.
Ingredienti per 4: manzo
macinato 800gr; uova 5e½;
Parmigiano Reggiano grattato
40gr; fiordilatte 120gr; prosciutto cotto 120gr; pangrattato; rucola 1 mazzetto; sale;
pepe; burro.
Impastate la carne con 1 uovo
e ½ e il parmigiano. Ponetela
tra due fogli di carta forno e
stendetela formando un rettangolo non troppo sottile.
Dividetelo in due parti uguali, levate il foglio superiore di
carta forno e su uno dei due
rettangoli mettete: prosciutto,
fiordilatte a fette, rucola e ancora prosciutto. Coprite con il
secondo rettangolo e tagliate
formando quattro tramezzini;
chiudete bene i bordi e fate
riposare 30 minuti. Passateli
nel pangrattato e friggete in
padella nel burro. Sale, pepe e
un uovo fritto su ognuno.
Vino consigliato: Fieno di
Ponza Rosso Igt Lazio, Antiche cantine Migliaccio. «I
vigneti sono in località Punta Fieno, una zona di Ponza
raggiungibile solo a piedi attraversando la Macchia Mediterranea: ginestre, giunchiglie
e mirto profumano il sentiero.
Insieme a mio marito abbiamo ripreso le antiche terrazze di famiglia (Migliaccio)
dove si produceva vino fin dai
tempi dei Borbone. Poniamo
grande attenzione ai ritmi
della natura, esempio ne è il
nostro asino Tito che ci aiuta
a trasportare il mosto e il vino.
I nostri prodotti sono curati
dall’enologo Vincenzo Mercurio e il Fieno Rosso al naso si
presenta fruttato e minerale,
con note speziate persistenti
al palato», racconta Luciana
Sabino.
62
6 febbraio 2016
F
acebook scende in
campo e prova a fare
concorrenza a Periscope con i live video. Dopo
aver cominciato a intraprendere la via dello streaming in diretta con Mentions, estensione con cui
i vari personaggi pubblici
potevano comunicare live
con i propri fan, la piattaforma di Zuckerberg amplia il servizio a tutti: per
accedervi vi basterà cliccare
sulla barra per aggiornare il
proprio status e selezionare
l’opzione “live video”. Durante il live, saranno visibili
il numero degli spettatori, il
nome degli amici connessi e
il flusso dei commenti. Una
volta terminata la trasmis-
sione, questa verrà salvata
sul proprio diario. Il video
potrà essere cancellato o archiviato, per consentire agli
amici di vederlo anche successivamente.
L’operazione molto probabilmente è una diretta
conseguenza del fatto che
la nuova tendenza su social
e web sembra sempre più
essere quella del video e,
addirittura, Cisco, una delle aziende leader mondiali
nel campo del networking,
prevede che entro il 2019
questo tipo di formato costituirà circa l’80 per cento
del traffico su web e mobile.
L’azienda di Menlo Park, infatti, già a partire dall’aprile
dello scorso anno, ha visto
letteralmente
raddoppiare la quantità dei video che
gli utenti pubblicavano sui
loro profili, toccando quota
8 miliardi e ha quindi deciso di scippare con l’opzione
Live Video il primato a Periscope, l’app di proprietà di
Twitter che conta 10 milioni di utenti per un totale di
40 anni di video guardati al
giorno. Una cifra sufficiente
non solo a impressionare,
ma anche a far girare la testa e sfregare le mani a Mark
Zuckerberg che intuisce già
le enormi possibilità di sviluppo e di guadagno.
APPUNTAMENTI
Fantasie persiane
e nuove creazioni
di Bizan Bassiri Macro
Roma - Dal 10 febbraio al 29
marzo al Macro Testaccio
La Riserva Aurea del Pensiero Magmatico, personale
di Bizhan Bassiri, a cura di
Bruno Corà. Una retrospettiva che racconta il percorso
dell’artista italo persiano. In
parallelo si dipana la mostra
dell’artista azero Faig Ahmed.
www.museomacro.org
Il grande cinema
nella cartellonistica
cubana
Torino - Al Museo del cinema, in collaborazione con il
Centro Studi Cartel Cubano
Hecho en Cuba, la mostra Il
cinema nella grafica cubana,
con 220 opere di cartellonistica cubana che raccontano
il rapporto tra l’isola caraibica e la produzione mondiale di film. Fino al 29 agosto.
www.museocinema.it
© Courtesy dell’artista e Officine dell’Immagine
Terranuova Bracciolini (Ar) Per il Valdarno jazz festival, il
5 febbraio Ada Montellanico
rende omaggio a Billie Holiday. Il 6 febbraio, dalle ore 16,
all’Auditorium Le Fornaci il
convegno dell’Associazione
musicisti italiani di jazz. E poi
il 14 febbraio a Montevarchi,
il concerto di Matteo Bortone. www.eventimusicpool.it
IL MEDIORIENTE
VISTO
DA GOHAR DASHTI
© William Gottlieb/Redferns
© Mario Di Paolo
Ricordando
la grande Billie
Holiday
Milano - Artista conosciuta
in Medioriente, e protagonista di una personale alla
Victoria and Albert Museum
di Londra, Gohar Dashti
presenta Limbo alle Officine
dell’Immagine, dal 4 febbraio al 16 aprile. A cura di Silvia
Cirelli presenta nuovi lavori della fotografa iraniana.
www.officinedell’immagine.it
La servetta
di Goldoni e tre
giorni di Puro teatro
Roma - Tre giorni di Puro
teatro, dal 5 al 7 febbraio, al
Teatro Cantiere di Trastevere. Nella rassegna ideata da
Angela Antonini spettacoli,
studi scenici, laboratori, racconti di scena e workshop di
drammaturgia. Tra le piccole
chicche, La servetta, tratto
dalle memorie di Goldoni.
www.teatropatalo.it
IL GRAND TOUR
IN ITALIA RACCONTATO
DA TIM PARKS
In nome dell’amore.
Missiroli, Murgia
e Parrella
Roma - A 200 anni dall’uscita
del Viaggio in Italia di Goethe, scrittori e scienziati ne
ripercorrono le tappe in un
ciclo su Radio3. A dare il la
alla serie dal titolo Dove fioriscono i limoni il 6 febbraio alle 18, è lo scrittore Tim
Parks, autore di Coincidenze,
Questa pazza fede (Bompiani) e Adulterio (Adelphi). Poi
il timone passa ad Emanuele
Trevi e a Stefano Mancuso.
Intanto alla Casa di Goethe
si apre la mostra Appunti
di viaggio, fotografare sulle
orme di Goethe di Barbara
Klemm, fino al 27 maggio.
Torino - Da un’idea di Antonio Pascale, una serie di
incontri al Circolo dei lettori
dedicati all’amore raccontato dai grandi autori. S’inizia
con Mattotti e Murgia, autrice di Chirù (Einaudi) il 12
febbraio con Amare è un atto
di immaginazione. Il 13 febbraio è la volta di Marco Missiroli (in foto) autore di Atti
osceni in luogo privato (Feltrinelli), incontrando idealmente Bernard Malamud
(Minimum Fax). E ancora il
14 febbraio Pascale e Valeria
Parrella, pensando ad Alice
Munro. www.cercololettori.it
L’inquieta arte
dei simbolisti.
Da Baudelaire a Ensor
Milano - Il Simbolismo. Arte
in Europa dalla Belle Époque
alla Grande Guerra è la grande
mostra, aperta dal 3 febbraio
al 5 giugno a Palazzo Reale,
con circa 150 opere tra dipinti,
sculture e una eccezionale selezione di grafica. Con capolavori dai più importanti musei
italiani ed europei. Catalogo
24 Ore Cultura.
6 febbraio 2016
63
TRASFORMAZIONE
La capacità di immaginare
fa la memoria e l’esistenza del corpo umano
Pulsione
di annullamento non è fantasia
H
o rovesciato la pagina del calendario che aveva il
nome di gennaio. È comparso il foglio detto febbraio ed il disegno dice di non avere nessun rapporto con il precedente. Guardo, vedo la grande
porta a vetri e so che parlo dello studio che feci nel 1979-80
a via Roma Libera 23. I termini verbali “Anno nuovo” sono
scomparsi, come se non fossero mai esistiti. La memoria,
senza parlare, racconta che nel 1980-81, il 2001, il 2011, furono anni diversi.
Nella parola “diversi”, accanto a separazione, vedo il termine trasformazione. Non è sola. Tiene per mano una realtà misteriosa che è sempre presente, ma è invisibile e per pensarla
la coscienza si appoggiò, come fossero stampelle, ai numeri.
Le hanno dato il nome: tempo, che non è spazio. Fantasma
impensabile tira a sé con la mano... l’”altra”, il braccio si stende, diventa una linea retta ed il corpo dell’altra parola fa un
cerchio che scrive: movimento del tempo.
Sento la voce di Tiresia che grida: non è umano percepire
soltanto la realtà materiale e, subito, il numero 365,6 scrive la
parola tempo che indica una realtà che non è mai la stessa, è
un movimento che è trasformazione continua impercettibile del corpo umano. La mano rallenta la scrittura e vedo che
trema. Guardo e so che non è il movimento del tempo che ha
tolto la vitalità al corpo per fare la vecchiaia, ma è la velocità
del pensiero che dà nomi alla realtà non materiale del corpo.
Ora penso che il giro della terra intorno al sole non è uguale
a quello degli esseri umani che ci sono sopra. Gli esseri umani hanno la realtà non materiale del pensiero che non hanno
gli animali né le piante. Hanno non soltanto uno schema corporeo ma un’immagine che è sempre in movimento e non è
ricordo cosciente.
Vengono, insieme all’aria fresca delle sere d’estate, le nuvolette bianche che non portano la neve sul suolo della terra. La coscienza sopita sa che sono memorie che parlano per
immagini anche se appare che sono parole: Left 9 gennaio.
L’ovale dalle punte acute è un occhio bianco senza iride e pupilla e dice dell’istante in cui il fotone giunge sulla rètina.
Con la comparsa del corpo alla luce e alla percezione senza
coscienza c’è l’inizio del tempo di un essere umano. La memoria mi fa vedere la mano distratta dal mondo che la circondava e fece, a caso, linee nere su un foglio bianco. 2012
era l’anno in cui la morte nera, come un’anima senza la linea
che la definisce si era avvicinata. Scrissi, in agosto, che giungevano pensieri che dicevano: hai fatto quanto ti era possibile fare.
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6 febbraio 2016
Ora la copertina del 9 gennaio chiama la memoria del
13 maggio 2012 in cui nessuno (o tutti) pensò che era iniziata la catastrofe quando una crisi di allergia, di cui non si
conobbe l’antigene, tentò di invadere tutta la pelle. Dopo
alcuni mesi ad una broncopolmonite resistente alla terapia antibiotica, si associò una perdita della forza muscolare degli arti inferiori che rendeva impossibile la stazione
eretta. Il 28 novembre scesi dal letto e ripresi a camminare.
Avevano pensato, in silenzio, ad una sclerosi laterale
amiotrofica dall’eziopatogenesi sconosciuta. Io sapevo che
non era regressione e poi, guarito, pensai che il termine
“regressione” avrebbe indicato un disturbo della mente.
Affiorò, fra gli ostacoli del ricordo cosciente, la parola ricreazione. Creare, di nuovo, i primi mesi di vita in cui il neonato non riesce a tenere la stazione eretta e camminare e,
pertanto, non può reagire con la fuga.
Pensai e dissi il pensiero che non poteva essere ricordo:
ci doveva essere stata una crisi nel rapporto con mia madre che mi allattava. Una crisi di anaffettività nei miei riguardi per aver scoperto che non avevo una nascita uguale
alla sua. Reagii con... una crisi allergica? Poi la memoria mi
dice che, a tre-quattro anni, la mente si rese autonoma da
lei. Alla fine del primo anno di vita avevo realizzato, senza
pensiero verbale, che il volto che compariva allo specchio
era la mia realtà. Avevo raggiunto una visione della mia realtà umana oltre la percezione cosciente.
Sono trascorsi tre anni e mezzo da quel 13 maggio e Left,
completamente rinnovato, rende difficile parlare di ricreazione. Non è più lo stesso quasi fosse una creazione nuova.
Non ci fu nessun rimpianto per il 2015 che se ne andava.
Vennero le parole, nate dopo Istinto di morte e conoscenza,
che cantarono, ballando, nuove parole che avevano le stesse vesti di prima. Il luogo dove venivano scritte era sempre
diverso ed il movimento invisibile suggeriva con un soffio
senza aria il termine tempo.
Movimento, suono, tempo onorano il primo termine pulsione nato dal niente di un parlare antico che non poteva
generare. “Das erste Wünschen” è scomparso. Ora, separazione dice che la prima realtà umana, che è rapporto
biologico tra gli esseri umani, non c’è più perché l’arrivo
della luce sulla rètina dell’occhio fa un movimento che è
pulsione di annullamento. Ma, forse, potrei anche scrivere,
cambiando il luogo dei termini verbali, “l’emergenza della pulsione è il movimento della realtà biologica che è vita
umana”.
Massimo Fagioli psichiatra
Pulsione di annullamento. Per prima nello spazio, non può
essere senza il movimento della realtà biologica, che essendo, fa
la vita. È creazione perché il corpo del feto, che non è vita umana,
non si trasforma ma scompare come se non fosse mai esistito.
Non è ricreazione che sarebbe trasformazione, ovvero modificazione della realtà precedente. Creazione è un termine nuovo che,
nel tempo di prima, non esisteva.
Era un suono che vagava nell’aria e non era parola. Sempre
stanco perché senza vitalità, veniva posto nel rapporto dell’essere umano con realtà materiali che venivano modificate nella
loro forma o nel loro suono che si ode con l’apparato acustico.
Era alito, respiro che faceva vivere il corpo. Era rapporto con il
mondo esterno che sostituiva l’ossigeno condotto nel feto dalla
placenta e cordone ombelicale.
Ora il vento dell’est porta la parola ricreazione e la memoria
risponde muovendosi in un ballo che fa figure come se seguisse
una linea di curve e rette. Non sapevo che pensare la creazione del corpo umano, nel suo venire alla luce, era un rifiuto di
credere in una realtà non materiale che era stata tolta all’essere
umano per essere gettata nell’infinito dell’universo. In un “luogo” senza spazio e senza tempo che non esiste.
Non c’è più il tempo detto gennaio e la memoria tenta di
disegnare un movimento che ha soltanto la parola ricreazione.
Il pensiero vide cadere e frantumarsi, come fosse un menhir
preistorico, la parola nuova «fantasia di sparizione». Venne
mostruoso e terribile, il pensiero che lanciava parole come
fossero frecce mortali. Diceva: il primo pensiero dell’essere
umano è la pulsione di annullamento.
Avevo detto che la nascita umana è fantasia di sparizione. La
parola tempo, vita che inizia e morte che finisce, si pose in mezzo
fra sparizione e comparsa. Diavoli dentati come lupi mannari dicevano ululando “la natura umana è cattiva, animale feroce, pazzia che uccide inutilmente, non per sopravvivere ma per distruggersi”. Veniva il ricordo, inanimato, gelido, di Kant ed Heidegger.
Torna, con il termine simultanea, la parola memoria-fantasia.
Scrissi
Istinto di
Viene l’acqua purissima del torrente di montagna, scivola
morte e cosulla pelle e toglie via tutti i frammenti infinitesimali della parola tempo che
noscenza. Dico
smarrito, scompare. Non riesco mai a separare la parola movimento dalla parola
con un linguaggio
pulsione di annullamento. Avevo sempre detto che poteva accadere che si liberasse
nell’essere umano che aveva perso la vitalità.
articolato libero dal
Ma, forse, la separazione dell’anno che ha fatto comparire l’anno nuovo 2016, fu
suono udito: ho avu
avutrasformazione e non creazione perché il pensiero prima c’era. La capacità di
to, forse, paura. Non ho
pensare la realtà non materiale umana spinge a vedere il “non” che è pensiero senza né ricordo cosciente né memoria-fantasia della sensazione avuta.
ricordi e la memoria scrive:
Parlano di pensiero astratto ed hanno detto sempre che è sublimazione.
come dalla terra che vive di
Sembrava che «fantasia di sparizione» fosse scomparsa caccialuce e calore sbocciò dal corpo
ta dalla sorella cattiva detta pulsione di annullamento. Ma la
e vive di terra, acqua, aria e fuoco,
parola ricreazione mi conduce a vedere la fantasia di sparizione
ritrovata. Venne il pensiero che diceva: la nascita fisiologica è
la parola: fantasia di sparizione. Deli
Delipossibilità di fare la linea che è movimento del corpo verso
cata e dolce disse che era la vita umana.
l’esterno.
Madre-natura che ha accoppiato lo “spirito”
Madr
La pulsione di annullamento crea la fantasia di sparizione perché trasforma la capacità fisica di reagire in
alla materia, fa lacrime che nutrono le piante.
vitalità. E questo è “dopo che si è creato il movimenIl corpo, col tremore nascosto, legge le parole
to-pulsione che non sono separabili dal tempo”.
scritte dall’acqua sulle foglie: la pulsione non più
Nella realtà del movimento il tempo c’è perché
ha il suo inizio. La fantasia di sparizione viene
inesistente, è realtà non materiale umana. Nasce dal
dopo per la necessità che dice: deve esistere
corpo che crede che il mondo non umano non esista e
la vitalità che viene realizzata dalla capacrea la memoria-fantasia. Ella sa che la verità è il rapporto
cità di immaginare che pensa e “vede”
umano.
la linea intorno al volto.
6 febbraio 2016
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IN FONDO A SINISTRA
di FABIO MAGNASCIUTTI
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6 febbraio 2016
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