6 FEBBRAIO 2016 NUMERO 6 | SETTIMANALE € 2,50 60006 9 771594 123000 Gli Stati chiudono i confini. Nuovi xenofobi avanzano. Si litiga su banche, deficit e Turchia. La profezia di Metternich si avvera. Per l’Unione Torna il Salvagente con un’inchiesta esclusiva Cosa bolle in pentola IN EDICOLA le analisi su 15 marche di spaghetti. Ecco chi nasconde micotossine e pesticidi testmagazine.it ONDA PAZZA di MAURO BIANI 6 febbraio 2016 3 a sinistra senza inganni SOMMARIO NUMERO 6 03 ONDA PAZZA di Mauro Biani L’EUROPA È UNA QUESTIONE GEOGRAFICA 16 Dal sogno di Ventotene alla sospensione di Schengen di Corradino Mineo 20 Londra-Budapest-Istanbul-Atene Viaggio lungo le frontiere della crisi di Massimo Paradiso, Massimo Congiu, Michela AG Iaccarino, Nicola Zolin REPORTAGE 36 Se Boko Haram è dall’altra parte del fiume di Giacomo Zandonini GUERRA 40 Tutte le incognite della Libia di Claudia Gazzini 42 La scommessa di Bernie è stata privatizzata» 07 PICCOLE RIVOLUZIONI di Paolo Cacciari 07 IL NUMERO 07 UP&DOWN 08 FOTONOTIZIE 12 ECONOMIA&FINANZA di Ernesto Longobardi CINEMA 44 Far West America di Giorgia Furlan 46 Tarantino: da inseguito a inseguitore di Francesco Gatti INDUSTRIA 26 Ilva, è caccia alle cordate di Ilaria Giupponi e Raffaele Lupoli GRAPHIC NOVEL 48 Quel genere di storie di Massimo Basili SCIENZA POLITICA 30 Tito Faraci ci racconta Milano al voto 52 Facciamo luce nella materia di Luca Sappino oscura di Pietro Greco LAVORO OPERA 32 Premi di produttività, una medicina che non cura di Marco Craviolatti 56 Nelle stesse corde di Verdi IL CASO 34 Ericsson e il gioco dei tre contratti 58 Calcutta, da Latina di Pietro Greco di Chiara Ricciardi 4 06 LETTERE 07 LA DATA STATI UNITI di Martino Mazzonis 25 Bauman: «L’Utopia 05 EDITORIALE di Corradino Mineo 6 febbraio 2016 MUSICA al mainstream di Alessandra Grimaldi 13 IL COMMENTO di Ilaria Bonaccorsi 35 CALCIO di Emanuele Santi 60 LIBRI di Filippo La Porta 60 TEATRO di Massimo Marino 61 ARTE di Simona Maggiorelli 62 BUONVIVERE di Francesco Maria Borrelli 62 SOCIAL di Giorgia Furlan 63 APPUNTAMENTI 64 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli 66 IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti EDITORIALE di Corradino Mineo ELOGIO DELL’INCERTEZZA Vivere il provvisorio, l’incerto, il dubbio. Le borse? Che rischio. La guerra contro il Daesh. Non finisce quella in Siria, forse ne comincia un’altra in Libia. E le unioni civili? È vero quelli, tanti, del Circo Massimo hanno mostrato di avere denti sdentati, ma attenzione che in Senato c’è il voto segreto. Parlano Calderoli, Formigoni, Caliendo: “Pauva” direbbe Crozza coi denti di coniglio del premier segretario. E Renzi? Lui sempre quello. Una garanzia per chi ama vivere sospeso su una fune al settimo piano. Un giorno quasi pace con Angela, poi va in Nigeria, non trova nessuno da spianare, e son fulmini (e insulti) per i burocrati senz’anima di un’Europa senza identità. Vuole la testa di Juncker, dicono quelli che dicono di saperla lunga. Ma se sono pochi mesi che l’ha messo là? La minoranza dem non vuole il Partito della nazione, ma forse voterà sì al referendum costituzionale che nelle intenzioni del Partito della nazione funzionerà da varo per il Partito della nazione. A Milano si vota per le primarie: giunta Pisapia contro giunta Pisapia, con Sala che dice di essere più a sinistra di Pisapia. Intanto alla Rai tornano antichi direttori e costumi usati. Un manuale interno vietava, mezzo secolo fa, di nominare il membro, fosse puro del Parlamento o della Confraternita del Padre nostro. La parola può far pensare a un utensile sessuale: Dio non voglia e giù cinque Ave Maria. Oggi Iacona finisce in seconda serata perché vuol parlare di educazione sessuale. Sssttt, certe cose solo in confessionale. Va bene, andiamo all’estero. Clinton vince (d’un soffio) e Sanders non perde. Ma for- se Clinton perde prevalendo solo per il rotto della cuffia e Sanders vince resistendole. E poi, chi ha vinto, chi ha perso? Quando due candidati sono in parità nei Caucus si tira in aria una moneta. Testa o croce? Pare che nello Iowa la si sia tirata più volte quella moneta e che Hillary abbia avuto fortuna. Elogio dell’incertezza. Quanto a Trump l’irruento, ha fatto così paura ai media, ai politologi, ai sondaggisti, che si parlava solo di lui. E lui si sentiva la vittoria in tasca. Così a una giornalista impertinente ha detto che «le usciva sangue dagli occhi, anzi (che signore!) che le usciva ovunque» e non si è presentato al confronto con i competitor. Gli elettori, che non leggono i sondaggi e perciò non ne hanno paura, lo hanno punito preferendogli Cruz. Si sa: gli ultimi saranno i primi. La mafia resta fra le poche certezze. Da noi, però, ne parla solo Mattarella il quale ha sostenuto che la lotta alla ’ndrangheta debba stare al primo post nel programma di governo. Ma avrà letto il programma di governo, Mattarella, o quello che ne fa le veci, vale a dire la narrazione quotidiana del premier sulla ripresa che arriva, anzi è già arrivata, sul jobs act che ha creato 135 mila posti di lavoro, che più fissi non si può, sulla nuova araba fenice, che cosa sia nessun lo dice, che sono le riforme? Poi, ancora mafia. C’è mafia nell’antimafia, lo aveva detto don Ciotti. Mal gliene incolse. La Commissione parlamentare d’inchiesta, che è là da mezzo secolo, intanto indaga e tutti accusano tutti di far mafia con l’antimafia. È inverno e non piove. Pioverà, mi compro un ombrello. Oppure chiamo Altan. 6 febbraio 2016 5 Lettere DIRETTORE RESPONSABILE Corradino Mineo [email protected] VICE DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Bonaccorsi [email protected] [email protected] REDAZIONE Tiziana Barillà [email protected] Donatella Coccoli [email protected] Ilaria Giupponi [email protected] Raffaele Lupoli [email protected] Simona Maggiorelli [email protected] Luca Sappino [email protected] Roma? Noi cittadini la dobbiamo amare un po’ di più TEAM WEB Martino Mazzonis [email protected] Giorgia Furlan [email protected] GRAFICA Alessio Melandri (Art director) [email protected] Antonio Sileo (Illustrazioni) Monica Di Brigida (Photoeditor) [email protected] Progetto grafico: CatoniAssociati EDITORIALENOVANTA SRL Società Unipersonale c.f. 12865661008 Via Ludovico di Savoia 2/B 00185 - Roma tel. 06 91501100 [email protected] Amministratore delegato: Giorgio Poidomani REDAZIONE Via Ludovico di Savoia, 2B - 00185 - Roma tel. 06 91501230 - [email protected] PUBBLICITÀ Federico Venditti tel. 06 91501245 - [email protected] ABBONAMENTI Dal lunedì al venerdì, ore 9/18 [email protected] STAMPA Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche S.p.a. 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E allora verrebbe da chiedersi chi e perché si sia mai preso la briga di costruire quello che adesso costituisce «il plastico a cielo aperto»: forse c’è stato un tempo, anteriore alla Chiesa, in cui tra le strade della nostra capitale si parlavano centinaia di lingue diverse? Nulla da dire sul sentimento piccoloborghese che pervade la mia bella città (o forse l’intero nostro bel Paese) ma il fascismo è nato a Milano. Quanto al termine “rosicone”, direi che basta non usarlo, io per prima non l’ho mai adoperato. Bello il richiamo a Pasolini, nessuno ha saputo cogliere l’anima controversa della Roma del Novecento meglio di lui, mi trova molto d’accordo, ma forse anche in questo caso bisognerebbe estenderlo all’intero Paese questo “analfabetismo civile”. Niente da eccepire sul rapporto con il Vaticano dall’età moderna in poi, c’è solo da interrogarsi sul perché alla fine la Chiesa sia riapprodata proprio a Roma. Mi preme sottolineare che la proposta di stipendiare i romani, che sia ironica o meno, non mi trova d’accordo, noi romani abbiamo i nostri tempi (lenti) ma non siamo pigri e un lavoro ce lo abbiamo già. Di Roma deve occuparsene chi possiede le competenze per non farla crollare miseramente come Pompei. Noi possiamo solo contribuire amandola un po’ di più, perché forse l’amiamo troppo poco e la vediamo più come il posto giusto per far soldi che come un bene prezioso da tutelare e non mi sento di 6 febbraio 2016 dire che sia una distorta visione solo romana. Cordiali saluti Arianna Mele Mettiamola così. Roma l’ama tantissimo anche chi la vive infastidito come Fulvio e io. Provinciale, piccolo borghese per antonomasia, pervasa dall’ipocrisia del fascismo al potere, posto dove dovresti pagare chi ci vive? Luoghi comuni, certo, ma meno comuni di quelli sulla grande bellezza (o bruttezza) o sulla “dolce vita”, quella del film non lo era affatto. Qanto all’architettura, la città del mondo - lei lo sa meglio di me - visse un troppo lungo declino, rotto dallo splendore rinascimentale che toccò purtroppo solo le regge dei nobili. c.m. La ministra della Giustizia francese e la poliziotta italiana, ecco la sinistra Caro direttore, nella settimana che si sta per concludere rilevo due immagini di donne i cui movimenti contribuiscono a raffigurare il quadro di cosa è la sinistra. Nella prima, vedo la ministra della Giustizia francese Christiane Taubira che, in sella alla sua bici, lascia il palazzo del Governo dopo avere rassegnato le dimissioni, a causa della sua ferma opposizione all’introduzione dello Stato di emergenza in Costituzione. Nella seconda, una funzionaria di polizia, a Genova, che togliendosi il casco ed i guanti stringe la mano ad un lavoratore Ilva che le stava di fronte, durante una manifestazione che sarebbe anche potuta degenerare, determinandone -invece- lo svolgimento in modo pacifico; anche gli altri poliziotti si sono tolti caschi e maschere anti-gas a loro volta, ed il livello di tensione è calato d’improvviso. Due azioni che ci dicono che il pensiero di queste due donne sta certamente a sinistra. E se le donne fossero la... sinistra dell’umanità? Un cordiale saluto Franco Pantalei di PAOLO CACCIARI L’ECONOMIA SOLIDALE SFILA AL PARLAMENTO EUROPEO Le formichine dell’economia solidale hanno fatto irruzione nel Parlamento europeo. Promosso dal Gue (il gruppo delle sinistre confederate) e fortemente voluto da Podemos, si è svolto a Bruxelles a fine gennaio, il primo Forum sulle economie sociali e solidali. In quattro conferenze e nove workshop sono stati accreditati 250 attivisti dei movimenti sociali, delle reti dei beni comuni, delle cooperative, delle imprese eticamente orientate assieme ai massimi studiosi del settore, tra cui: Jean-Luise Laville, Euclide Mance, Jason Nardi, Guido Viale. Ad ascoltarli molti deputati di vari partiti e alcuni autorevoli membri della Commissione europea. Come documentano i report del Ciriec International (l’istituto che si è posto il compito di classificare e monitorare il settore) il 6,5 per cento dell’occupazione nei Paesi dell’Ue (che sale al 40 per cento se si considera il solo settore privato), pari a 14 milioni di lavoratori e il 10 per cento delle imprese, sono attribuibili all’economia sociale e solidale. Volontari esclusi. Otto nazioni hanno già legiferato in materia (Gran Bretagna, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Romania, Lussemburgo), alcune regioni come la Catalogna e, in Italia, in attesa che il Senato sblocchi la legge delega per la riforma del Terzo settore, l’Emilia Romagna, il Trentino, la Puglia e il Lazio. La Ue ha elaborato un Libro bianco e le Nazioni unite hanno costituito una task force che ha prodotto un position paper: Social and solidarity economy and the challenge of sustainable development. Un grande fermento, quindi, a cui però corrisponde una certa confusione semantica e concettuale. Alcuni adoperano senza distinzioni le formule Economia sociale ed Economia sociale e solidale. Ma, nel primo caso, si tratta spesso di imprese e cooperative che praticano un modello di business dentro le logiche del libero mercato. Nel caso degli attori più orientati alla produzione di beni e servizi condivisi, l’economia solidale ambisce a costruire un’alternativa di sistema alle società di tipo capitalistico. La rete internazionale Ripess (Global vision for a social solidarity economy: convergences and differences in concepta, definitions and frameworks. www.ripess.org) ed anche Laville mettono in guardia i rischi di una doppia sussunzione delle attività di economia solidale dentro gli schemi della filantropia delle grandi fondazioni delle imprese e delle banche, ovvero nella subfornitura di sottoservizi a basso costo per conto delle amministrazioni pubbliche sempre più in crisi da debiti. Al contrario, l’economia solidale dovrebbe essere concepita come il centro portante di tutte le forme possibili di economia, perché capace di generare relazioni umane fondate sugli scambi non monetari, sulla mutualità e l’auto-aiuto, sulla preservazione e sulla equa utilizzazione dei beni comuni naturali. LA DATA IL NUMERO 11 FEBBRAIO 320 Così, tanto per rinfrescare la memoria storica. Nel giorno dell’anniversario dell’apparizione della Madonna di Lourdes, viene firmato il Concordato tra Stato e Chiesa che pose fine alla “questione romana” sorta dopo la presa di Porta Pia e l’Unità d’Italia. A firmarlo, il cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri e il primo ministro Benito Mussolini. Riconosciuto lo Stato del Vaticano, la religione cattolica diventa religione di Stato e una convenzione finanziaria prevede un risarcimento alla Chiesa. La revisione, nel 1984, firmata da Bettino Craxi e da monsignor Casaroli. Toccherà aspettare il 2017 per l’avvio della riforma che introduce il sostegno al reddito in Italia. Sarà di 320 euro, riguarderà un milione di italiani e sarà accompagnato da un piano di inclusione sociale. Lo ha annunciato, dalle colonne di Repubblica, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Per “la via italiana al reddito minimo” la Legge di stabilità 2017 prevede un fondo di 600 milioni di euro e obblighi per chi ne usufruirà, come mandare i figli a scuola o accettare un’occupazione, se offerta. L’Italia, insieme alla Grecia, è ormai l’unico Paese Ue a non avere una qualche forma di reddito minimo. UP DOWN Messi e il bambino Ciclista con bici “dopata” Si chiama Murtaza, due occhi neri in un volto bellissimo e una maglietta ricavata da una busta di plastica con su scritto il nome Messi. La foto del bambino fan del famoso calciatore argentino, scattatata a Ghazni, un poverissimo villaggio del sud Afghanistan, ha fatto il giro del mondo. Un pallone per strada e la voglia di giocare nonostante tutto. Quell’immagine è arrivata naturalmente anche al campione Leo Messi. Il quale ha fatto sapere al responsabile della federcalcio afghana di voler incontrare il suo giovanissimo fan che andrà quindi a Barcellona. Non si è dopata lei, ma ha dopato la bicicletta. È il primo caso nella storia del ciclismo La 19enne Femke Van Den Driessche è stata “pizzicata” con un piccolo motore nella sua bici mentre partecipava in Belgio ad una gara dei Mondiali under 23 di ciclocross. Adesso rischia sei mesi di fermo e una multa di 180mila euro. Il meccanismo truffaldino era nascosto nel movimento centrale là dove i pedali innescano il movimento nella catena. La scoperta, grazie a una telecamera termica applicata a un tablet che avrebbe evidenziato la differenza di calore tra le parti della bici. 1929 6 febbraio 2016 7 © Ansa/Twitter - Tim Van Wichelen/Ansa/Photopress.be PICCOLE RIVOLUZIONI FOTO NOTIZIA PARIGI HAUTE COUTURE PRIMAVERA ESTATE 2016 Dopo la settimana del fashion per lui, dove i vip che hanno affollato le “front row” delle sfilate sono state meno del solito, il mese di gennaio si è chiuso con le sfolgoranti passerelle dell’Haute Couture femminile per la Primavera Estate 2016. Qui, l’affluenza di celebrity e “fashioniste” è stata sicuramente molto più alta che per la moda maschile. Le star che hanno popolato party e passerelle vanno dalla modella del momento Cara Delevingne, considerata la degna erede di Kate Moss, all’icona italiana Monica Bellucci, passando per le biondissime di Hollywood Gwyneth Paltrow e Uma Thurman, fino ad arrivare alla nostra Alessandra Mastronardi avvistata al fashion show di Chanel. Ma gli appuntamenti modaioli nella Ville Lumiere non finiscono qui: si ricomincia già dall’1 al 9 marzo con le sfilate della Paris Fashion Week, dove vedremo in passerella gli outfit dedicati al prossimo Autunno Inverno. Foto di Zacharie Scheurer, AP Photo FOTO NOTIZIA SUD SUDAN DOVE SI GIOCA CON LA TERRA E LA VITA Juba, capitale del Sud Sudan, gennaio 2016. In un campo allestito per gli sfollati dalle Nazioni Unite, un bambino è alle prese con i suoi giocattoli di argilla. Da due anni in Sud Sudan si susseguono rappresaglie casa per casa, i villaggi vengono quotidianamente rasi al suolo, si contano migliaia di morti e più di due milioni di sfollati. Nel Paese è in atto un violento conflitto tra le due principali etnie: i Dinka (gruppo dominante), fedeli al presidente Salva Kiir e i Nuer, al fianco dell’ex vicepresidente Riek Machar. A niente sono valsi finora gli accordi di pace firmati ad agosto sotto l’egida Onu. Chi fugge, spesso, si sposta nel vicino Sudan. Perciò, negli scorsi giorni, il presidente sudanese Omar Al Bashir ha ordinato la riapertura delle frontiere meridionali con il Sud Sudan. Frontiere che erano chiuse da ben cinque anni, da quando nel 2011 il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza da Khartum. Un’apertura, quella di Al Bashir, che arriva dopo l’arretramento dell’esercito del Sud Sudan dai confini. Ma in molti sono pronti a giurare che dietro la “generosa” mossa di Al Bashir - al potere dal 1989 e ricercato dalla Corte penale internazionale per la repressione in Darfur - non ci sia che una manovra per ripulire la propria immagine agli occhi della comunità internazionale. Foto di Jason Patinkin, AP Photo PARERI ECONOMIA E FINANZA di Ernesto Longobardi Banche, l’Italia è arrivata tardi e paga pegno L’ accordo tra il ministro Padoan e la commissaria Vestager sulla liquidazione dei crediti in sofferenza delle banche italiane è l’ultimo episodio del teatrino cui quotidianamente assistiamo in tema di relazioni tra Roma e Bruxelles. La storia è nota. Da tempo il governo italiano sta cercando di costruire un marchingegno che consenta alle banche italiane di liberarsi dei propri crediti deteriorati, che ammontano a circa 200 miliardi di euro. La scommessa è importante perché la pulizia dei bilanci delle banche potrebbe agevolare la ripresa del credito all’economia reale. Gli altri Paesi europei hanno risolto da diverso tempo il problema, usando un ammontare impressionante di fondi pubblici. Tra il 2008 e il 2012, per esempio, la Germania, per soccorrere le proprie banche, ha utilizzato oltre 250 miliardi di euro. Ma quanto fatto dagli altri viene oggi precluso all’Italia. La Commissione pretende che da noi la soluzione al problema dei crediti deteriorati non comporti alcun sussidio pubblico. Perché questo trattamento differenziale? Perché, nel frattempo, a partire dal 2013, sono entrate in vigore nuove regole sugli aiuti di Stato nel settore bancario, con le quali si è voluto chiudere il periodo di carattere straordinario aperto dalla crisi finanziaria del 2008. Siamo dunque arrivati troppo tardi. Non ci si concede di usare neanche un euro di soldi pubblici, quando, anche se lo Stato garantisse l’intero ammontare delle sofferenze bancarie, l’Italia rimarrebbe uno dei Paesi ad avere aiutato di meno le proprie banche dall’inizio della crisi, addirittura soltanto un quarto degli aiuti concessi alle banche, in percentuale del Pil, in Gran Bretagna, Francia e Germania. L’accordo con Bruxelles prevede che le garanzie pubbliche siano fatte pagare alle 12 6 febbraio 2016 banche al loro valore di mercato e siano limitate alla categoria di crediti meno compromessi (i “senior”). Ma una garanzia “pubblica di mercato” è un non senso. Se il prezzo è di mercato la copertura può essere acquistata, appunto, sul mercato: non vi è alcun beneficio del costo dell’operazione, con tutte le conseguenze per la tenuta del sistema bancario, che registrerebbe consistenti perdite di capitale. Delle due l’una: se la garanzia aumenta la convenienza dell’operazione per le banche, si hanno aiuti di Stato; se non devono esserci aiuti di Stato, la garanzia pubblica non serve a nulla. Non possiamo immaginare che si voglia far conto su effetti di illusione finanziaria, per cui la sola denominazione di garanzia pubblica dovrebbe facilitare la collocazione sul L’accordo tra il ministro mercato dei crediti. Padoan e la commissaria Peraltro, la limitazio- Vestager sulla liquidazione ne della garanzia ai dei crediti in sofferenza serve crediti senior gioche- a poco. Servirebbe un’altra rà un brutto scherzo, iniziativa politica a livello perché renderà anco- nazionale ed europeo ra più difficile la liquidazione degli altri crediti. Si cercherà probabilmente, ancora una volta, di imbrogliare un po’ le carte sul piano tecnico. È una pratica ormai d’uso nella politica di bilancio con le clausole di garanzia: ci si impegna ad aumenti di imposte in futuro, nel caso i vincoli finanziari non possano essere rispettati con altri strumenti; ma si tratta di inasprimenti fiscali che, dovessero effettivamente essere realizzati, produrrebbero effetti sociali ed economici devastanti. L’aria rimane brutta. Segnali di una nuova crisi sistemica non mancano. E l’Italia è di nuovo in prima fila, ieri per i debiti sovrani oggi per quelli delle banche. Sarebbe necessaria tutt’altra iniziativa politica a livello nazionale ed europeo. IL COMMENTO di Ilaria Bonaccorsi Il Family day passa Io e Maria Candida rimaniamo. Distanti I l direttore mi ha chiesto di scrivere cosa rimane del Family day. Lui dice che la piazza ha perso, che la società l’ha superata, che nessuno la ascolta. E che la Cirinnà verrà votata. Io però non riesco a non pensare alle statue coperte per Rouhani, alla censura di Iacona sulla Rai e ai sermoni della domenica di Scalfari. E non mi convinco. Cosa rimane di questo Family day? Sicuramente rimaniamo io e Maria Candida. Io in quella piazza (ovviamente) non sono andata, e ho una figlia. Maria Candida invece in piazza c’era e di figli ne ha 12: «Da giovane non riuscivo a dare un senso alla vita, il mio matrimonio era un fallimento. Poi il Signore ha cambiato tutto», ha detto. Io da giovane volevo fare l’archeologa e poi anche io ho incontrato un Signore, Girolamo Arnaldi, che mi ha “trasformato” in una storica. Una storica del Medioevo. Così, io di figlia sono riuscita a farne una e per il rotto della cuffia, dopo aver studiato per vent’anni, e solo grazie a un altro Signore, Franco Lisi, un medico, che nonostante una mia patologia fisica mi ha permesso (con una Fivet), di concepire Sofia. Maria Candida ha la mia stessa età ma quei vent’anni deve averli passati a fare i suoi dodici figli. E sabato era lì a dire che la sua è una famiglia “naturale”, la mia no. Io, direbbe Maria Candida, ho “fabbricato” una bambina assecondando un mio egoismo e andando “contro natura”. Perché un figlio non è un diritto ma un dono della natura, che poi per Maria Candida è Dio. Devo dire che certo ho pensato fosse un mio diritto superare una patologia medica superabile, quanto a Sofia, lei era più una possibilità dentro una storia che vivevo. Il direttore dice che quella piazza dai toni inverosimilmente medievali, ha perso. E per un verso ha ragione perché Sofia c’è e come lei milioni di bambini. Eppure tra me e Maria Candida rimane una distanza immensa. È inutile negarlo. Popolata di fallimenti storici. Lei ha addosso secoli di Dio cristiano, che l’ha messa lì, nella sua famiglia “naturale” con un ruolo prefissato di madre e moglie. Poi ha addosso una destra che ancora si approfitta di lei, che va dai ridicoli “tenori” del Family day (Giovanardi, Gasparri, Quagliariello) ai più scaltri, quelli rimasti sulle poltrone di questo governo. Io addosso ho una sinistra che mi imbarazza. Che neanche balbetta più. Che si affanna a distinguere tra papa Francesco e la Chiesa di Bagnasco e Ruini, nella paura folle di perdere l’ultimo dei suoi miti (!). Senza capire che il problema non è Francesco, Giovanni o Benedetto, ma tutto quello che c’è dietro. Secoli di criminalizzazione della donna, di riduzione della sessualità umana a sola riproduzione biologica, di famiglie patriarcali, di anatemi contro tutto ciò che slegasse i rapporti sessuali dalla procreazione: contraccezione, interruzione di gravidanza, procreazione assistita, ora utero in affitto... Qualche anno fa, Adriano Prosperi scriveva su Left: «Il corpo della donna resta ancora per questa Chiesa un contenitore passivo di seme maschile, un condotto di nascite obbligatorie, segnato dal marchio biblico della sofferenza». E sabato, Massimo Gandolfini, ideatore del Family day, urlava: «Dobbiamo dirlo con forza: il sesso non è il piacere Io addosso ho una sinistra che sessuale. È la procrea- mi imbarazza. Che neanche zione, la trasmissione balbetta più. Che si affanna a della vita, un dono di distinguere tra papa Francesco Dio. Il sesso ci fa parte- e la Chiesa di Bagnasco e Ruini, cipi dell’opera creativa nella paura folle di perdere di Dio». Il tempo passa, l’ultimo dei suoi miti (!) ma non per loro. Non per il loro Dio, che non è tempo e non è possibilità. Perché poi il problema tra me e Maria Candida rimane questo, la libertà “umana”. Che è mente e corpo insieme. Che sceglie se, come e quando realizzare figli, identità, vita. E sa che nasciamo tutti uguali (art. 3) ma diventiamo tutti diversi. Sa pure che la famiglia sono affetti e che la fanno due coniugi (art. 29). Non per forza un uomo e una donna, ma due «che condividono la stessa sorte» (dal latino cum+iugus). E sa che il matrimonio è un contratto, e che la Chiesa un sacco di tempo fa lo ha trasformato in un sacramento perché non sapeva come altro fare per arginare la “libidine” che produceva figli illegittimi e non eredi legittimi. E che è quanto di più “innaturale” esista, perché gli affetti sono una scelta e i diritti sono diritti. Il direttore mi dice che la Cirinnà passerà. Io penso ai vent’ anni, ai dodici figli e alla distanza da colmare. 6 febbraio 2016 13 DAL SOGNO DI VENTOTENE ALLA SOSPENSIONE DI SCHENGEN di Corradino Mineo 14 6 febbraio 2016 6 febbraio 2016 15 © Illustrazione Antonio Pronostico C ome non condividere il sentimento di Matteo Renzi quando denuncia la perversione burocratica della Commissione che siede a Bruxelles, un governo dell’Europa non scelto dai cittadini ma indicato dai governi, e che ritiene di poter fondare la propria autorevolezza su trattati scritti anni o decenni prima. Ed è bello che il Presidente del Consiglio si sia recato a Ventotene, sulla tomba di Altiero Spinelli, per ricordare che l’Europa è nata lì, da una grande idea. Un’idea il cui naufragio - oggi purtroppo possibile - nel mare torbido degli interessi nazionali e dei populismi, ci riporterebbe al punto di partenza: guerra, barbarie, odio per il diverso. Ma il governo italiano non ha le carte in regola per guidare una battaglia che sarebbe vitale per l’Europa. Renzi ha lasciato sola la Grecia quando Atene si è battuta con coraggio non soltanto per salvarsi ma per affermare la necessità di un’Europa più politica e più solidale. Allora il premier non aveva occhi che per Angela Merkel. Ma anche in seguito il rottamatore ha continuato a infischiarsene della piccola Grecia e la sta lasciando sola una seconda volta, ora che è alle prese, senza mezzi e aiuti, con un flusso di profughi nove volte superiore - se si considera il numero degli abitanti - di quello sopportato dall’Italia. Per la verità Renzi tace anche sulla Spagna, Paese in cui si sta sovrapponendo il nodo di una difficile convivenza fra nazionalità diverse e quello delle disuguaglianze e della disoccupazione. De minimis non curat praetor: agli altri il nostro leader sembra dire: fate come me. Il guaio è che il nostro governo non ha mandato per fare ciò che vuole. Non è stato votato per questo e governa in forza di un sostegno che gli elettori diedero a una diversa politica e alla promessa, poi tradita, di non allearsi con le destre. Così i toni sprezzanti usati con Junker, e quelli imbonitori riservati alla Merkel, rivelano un tentativo spregiudicato di navigazione politicista, la furbizia di chi avendo sposato il programma delle destre pretende in cambio condizioni di favore e il sostegno al proprio posizionamento. 16 Manca una visione. Manca il parlar chiaro ai cittadini che seppero avere Churchill o De Gaulle e, in Italia, de Gasperi nel ’48, Berlinguer nel ’75 e Prodi nel ’96. Per questo il gesticolante protagonismo italiano rischia di essere sintomo della malattia europea, anziché parte della medicina. E alla fine può trasformarsi in un regalo a chi non vuole curare il malato ma ucciderlo, da Salvini, a Le Pen, da Orban a Kaczynski, alla tedesca Frauke Petry che propone di sparare ai migranti. Ventotene. Eppure di Europa c’è bisogno, ora come 70 anni fa. Quando Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann, Eugenio Colorni scrissero Per un’Europa libera e unita, Hitler lavorava alla soluzione finale del problema ebraico, la guerra infuriava sul fronte russo, Mussolini era ancora al potere. Eppure quel documento indicava una strada, contrapponeva «lo spirito critico» agli «Stati totalitari», l’Europa democratica «ai giganteschi complessi industriali e bancari» che già allora dominavano gli stati nazionali, alimentando il virus totalitario. Quell’utopia sembrò vivere nel ’44 sugli Champs-Elysées gremiti di folla che applaudiva De Gaulle e i soldati di Eisenhower, fece capolino a Praga con le ragazze che abbracciavano i liberatori dell’Armata rossa, a Torino, Milano, Genova liberate dai partigiani, con i mitra in mano ma puntati verso terra, perché era tempo di ricostruire pace e diritti. 1948. Piegate dalla tragedia della guerra, Italia, Germania e Francia hanno accettato volentieri un programma straordinario di aiuti americani, il piano Marshall. Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia sono state invece indotte da Stalin a rifiutarlo. In Italia la Democrazia cristiana trionfa il 18 aprile, con l’appoggio della Chiesa e la benedizione di Pio XII, che l’anno dopo scomunicherà deputati comunisti e dirigenti della Cgil. A Praga, invece, un colpo di Stato mette fine alla Terza Repubblica per instaurare un regime comunista. Il sogno di Ventotene lascia il passo alla frontiera di filo spinato che prenderà a chiamarsi cortina di ferro, al muro che ferirà Berlino e spezzerà in due la Germania. Eppure l’idea di 6 febbraio 2016 Strasburgo, 1983. Altiero Spinelli al Parlamento europeo © Communautés Européennes Europa continuerà a camminare nella cultura di De Gasperi, che diffidava del nazionalismo, in quella di Churchill che voleva costruire un argine alle pretese sovietiche, nella grandeur gollista che puntava a contenere lo strapotere della potenza americana e, naturalmente, nella ferita tedesca da risanare. Disse Metternich: «L’Italia è un’espressione geografica». Anche l’Europa lo è se non ritrova la fiducia nei propri ideali Nel maggio 1968 la Francia smette di annoiarsi, la primavera di Praga risveglia il bisogno d’Europa contro l’egemonia russa. La gioventù si dà leader come Cohn-Bendit di padre tedesco, di madre francese, di origine ebraica. Come Rudi Dutschke, scappato nel ’61 dalla Germania orientale, marxista ed ecologista. Ma quella grande occasione di far camminare sulle gambe dei giovani la grande idea dell’Europa abortisce subito. In America la primavera della nuova frontiera si stava spegnendo nel delta del Mekong e in una guerra ingiusta, con gli assassinii in patria di Martin Luther King e Bob Kennedy dopo quelli di John Fitzgerald Kennedy e di Malcom X. Ai comunisti russi fu dato agio di arrestare Dubcek e imporre l’ordine a Praga con i carri armati. A De Gaulle toccò reprimere le speranze di maggio prima di lasciare la presidenza, Dutschke fu quasi ucciso, in Italia debuttò la strategia della tensione. Ma l’idea di Europa visse ancora nella Berlino libera dell’ex Borgomastro, Willy Brandt che, ora Cancelliere, andò a inginocchiarsi nel ghetto di Varsavia. Visse nella coscienza socialdemocratica di Olaf Palme che seppe opporsi alla guerra del Vietnam, alla proliferazione nucleare, all’apartheid. Verdun, 1984. Francois Mitterrand ed Helmuth Kohl si promettono solennemente: mai più guerra tra Francia e Germania, l’Europa è la radice comune, la radice delle nostre libertà. Il cancelliere tedesco perseguiva in realtà il progetto della sua vita: l’unificazione tedesca. Il presidente francese temeva al contrario che con Ronald Reagan alla Casa Bianca, Karol 6 febbraio 2016 17 © Ansa Dpa Wojtyla sul soglio pontificio e una Germania troppo forte, il mondo potesse diventare meno sicuro. Nell’89, quando i sovietici lasciarono cadere il muro di Berlino, l’utopia di Spinelli sembrava davvero realtà. 9 novembre 1989. La festa cresce di ora in ora, i berlinesi si ritrovano, piangono di gioia. Avranno di nuovo la loro patria dopo oltre 40 anni. E con essa, forse, anche una patria comune a tutti gli europei. Qualcosa arriva davvero: l’anno dopo si firma l’accordo di Schengen, che sancisce la libera circolazione delle persone. Non solo delle merci. Ma l’America impone la sua agenda, vuole che si insegua la lepre russa fino a Mosca, vuol chiudere la ferita della guerra fredda e il ricordo della rivoluzione bolscevica. C’è chi come Fukuyama predice la fine della storia e l’avvento per sempre del capitalismo, del libero scambio, del mercato mondiale. Che bisogno c’è di di Europa se il mondo sta per diventare un unico villaggio? In quel 1989 le classi dirigenti europee hanno probabilmente sprecato la loro grande occasione. In definitiva la stessa idea del Pci, di cambiare il nome ma senza definire lo spazio di una nuova politica. Le sinistre in Francia, in Spagna, in Italia e nel Regno Unito pensavano di dover gestire l’esistente e di saperlo fare meglio delle destre. 11 settembre 2001 Jean Marie Colombani scrive su Le Monde “Nous sommes tous americains”. È la reazione, istintiva e dovuta, all’at18 tacco del terrorismo islamico alle torri gemelle. Ma questo sentirci tutti americani diventerà presto sostegno alla guerra in Afghanistan. Indurrà Tony Blair a mentire sulle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein avrebbe posseduto. E a sostenere quella terribile guerra in Iraq che ha trasformato il Medio oriente in una polveriera e ha rafforzato il terrorismo internazionale. Nel 2004, l’Europa di Chirac, riconfermato all’Eliseo grazie al suicidio della sinistra di Jospin, apre alle repubbliche baltiche, ad Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca. Senza preoccuparsi della fragilità delle proprie. L’Europa rinuncia ad avere una politica estera, accetta l’egemonia degli Stati Uniti e l’ombrello della Nato. Fallisce anche il tentativo di scrivere una vera e propria costituzione europea: all’idea di fondarla sui diritti, sul contratto e sulla tolleranza si contrappone la tentazione di affermare le radici giudaico cristiane. Settembre 2008. I trader lasciano la sede della Lehman Brothers con gli scatoloni pieni delle loro cose. È fallita la quarta banca d’affari americana e si apre quella che oggi viene chiamata la Grande Recessione, con assonanza voluta con la Grande depressione che seguì il crollo del ’29. Obama cercherà di contenere il danno e proverà a ristrutturare l’economia americana. L’Europa resterà invece ancora a lungo prigioniera del mito germanico che identifica nella stessa parola debito e colpa (Schuld). 6 febbraio 2016 In alto, Verdun, 22 settembre 1984, Helmuth Kohl tiene la mano a François Mitterand davanti alle tombe dei caduti della Prima guerra mondiale. Sotto, militari della Germania dell’Est guardano la folla al di là del muro che viene distrutto L’ultimo capitolo non è stato ancora scritto. La Bce, per combattere la deflazione, ha finalmente accantonato la politica di austerità, ma non prima di aver contribuito all’umiliazione della Grecia, costretta ad accettare un protocollo iniquo che le impedirà di risollevarsi. Il flusso migratorio, gonfiato dalla disperazione dei profughi in fuga dal califfato, dalla guerra civile siriana, e dalla guerra tra sunniti e sciiti, ha messo in crisi Schengen. La Russia, nonostante le sanzioni, si è annessa la Crimea ed è tornata protagonista in Medio oriente. Mentre negli Stati Uniti si avvia la maratona elettorale, l’Europa ha bisogno di un tagliando per non morire. © Ansa Clf Nel 1989 le classi dirigenti europee hanno sprecato la loro grande occasione. Come il Pci che cambiò il nome senza definire una nuova politica. Le sinistre pensavano solo a Torniamo ancora indietro nel tempo. Il 2 agogestire l’esistente sto del 1847 Klemens von Metternich disse: «L’Italia è un’espressione geografica». Era una constatazione, non un insulto, Oggi, purtroppo, anche l’Europa rischia di essere solo un’espressione geografica. Non si risolleverà senza una forte idea di sé, senza affermare quella tradizione - diritti, tolleranza, uguaglianza, pace - che ha ispirato Kohl e Mitterrand nella magica atmosfera di Verdun. Non rinascerà, l’Europa, se non saprà costruire un suo parlamento, senza darsi un governo legittimo. Senza una moneta e una politica fiscale. Senza la gestione comune del debito. Senza una politica comune per l’immigrazione e una sua strategia, di pace, per l’Africa e il Medio Oriente. Utopia? Così pare. Ma senza una tale utopia crediamo davvero che possa aver senso dirsi di sinistra? E se osò crederci Altiero Spinelli a Ventotene, perché noi non dovremmo? 6 febbraio 2016 19 LONDRA FA BREXIT E FORSE VOLA VIA L a parola Brexit ha il suono di piatti rotti, urla e porte sbattute, dopodiché ognuno va per la sua strada. Certo, la diplomazia ci metterà una pezza e dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea si eviteranno le scenate di gelosia, mentre negli uffici di Bruxelles si limiteranno ad accantonare le fotografie dei premier inglesi che, con mezzi sorrisi e piuttosto esitanti, stringevano le mani ai leader europei. Il guaio, però, sarà fatto. Senza rimedio. Così, la sera di un lunedì di fine gennaio, il premier inglese David Cameron e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk sembrano aver trovato la quadra per trattenere ancora per qualche tempo il Regno Unito nell’orbita europea: potere inglese di bloccare legislazioni europee a livello nazionale; taglio alla “burocrazia di Bruxelles” e ai benefit di cui godono i cittadini europei su suolo inglese; esenzione della Gran Bretagna dal contributo al fondo salva Stati. euroscettici che protestavano Sulla base di questa intesa, Ca- David Cameron e il contro il laissez faire del governo meron proverà a sottoporre agli Consiglio europeo sull’immigrazione. inglesi il referendum sul Brexit riescono a trovare L’unico uomo politico che semgià a settembre, anticipandolo di un accordo per darsi bra aver capito quanto la crisi quasi un anno rispetto a quanto del tempo. Non dei migranti si intrecci al Brexit promesso. La mossa è tutta poli- sarà facile, però, è Jeremy Corbyn. Il leader dei tica, e punta a mostrare agli elet- convincere gli elettori Laburisti ha scelto Calais come tori che Londra riesce ancora a inglesi che la Gran prima meta al di fuori dei confini imporre il proprio volere su Bru- Bretagna vinca nazionali, chiedendo a Europa e xelles, ma non è detto che basti. su tutta la linea Regno Unito di collaborare per I Conservatori potrebbero essersi “messi nel sacco” da soli: cavalcando l’onda prevenire l’immigrazione selvaggia e garantire euroscettica dell’Ukip, avevano promesso un un futuro a chi scappa da fame e guerre. referendum sul Brexit sperando di scongiurare La tormentata relazione tra Londra e Bruxelles una volta per tutte l’uscita inglese dall’Unione, potrebbe avere un epilogo già il prossimo setma con la questione migranti in corso corrono il tembre con il responso referendario. Gli analisti rischio che l’elettorato possa votare comunque britannici consigliano ai leader europei - Cameron incluso - di correre da un “consulente matriper lo sganciamento dal Continente. L’opinione pubblica, infatti, sembra annoiata moniale” e inquadrano due diverse, e opposte, dal racconto soporifero sulle ipotetiche riforme visioni dell’Europa: se Londra ha un piglio più europee e si incentra invece sull’allarme atten- affaristico, il Continente si sforza ancora di cretati e sulle dimensioni del flusso di migranti e dere in un progetto comune fatto di popoli e di rifugiati che arrivano da Oltre Manica. E se Ca- Stati. Comunque vada, la Bbc ha già scelto il jinmeron ha già annunciato la stretta nei confronti gle che accompagnerà gli approfondimenti sulle degli immigrati che non parlano un inglese cor- trattative europee. E non si tratta dell’Inno alla retto e il taglio dei sussidi a chi non trova lavoro Gioia di Beethoven ma del più azzeccato punkin Inghilterra, questo non è bastato a scoraggia- rock dei Clash: Should I stay or should I go? (Dore la protesta. Lo scorso weekend la cittadina di vrei restare o dovrei andare?). Massimo Paradiso da Londra Dover si è riempita di migliaia di neo nazisti ed 20 6 febbraio 2016 © Zoltan Geregely Kelemen/Ansa Epa Valico di frontiera Röszke-Horgos, Ungheria, ottobre 2015. Agenti di polizia schierati davanti al cancello di ferro al confine con la Serbia BUDAPEST ORGANIZZA IL GRUPPO DI VISEGRÁD E SFIDA L’UNIONE EUROPEA L’ Ungheria di Viktor Orbán si ritiene un modello, in Europa, di buona gestione della crisi migranti. Per il ministro degli Esteri di Budapest Péter Szijjártó, le critiche piovute sul suo governo sono infondate. I fatti hanno dimostrato - dice - che solo la strada intrapresa dall’esecutivo magiaro è percorribile. «L’immigrazione illegale è un problema troppo serio perché l’Europa continui a essere prigioniera del “politicamente corretto”», ha affermato di recente il ministro. L’Europa nega «l’evidenza dei fatti, nasconde la realtà e stigmatizza chi parla chiaro». Per le autorità ungheresi, infatti, la soluzione del problema non è offrire ai migranti illegali una nuova vita da noi, ma aiutarli a recuperare ciò che hanno perduto nei Paesi di origine. Budapest, insomma, punta il dito contro l’incapacità dell’Unione europea di gestire un’emergenza tanto delicata che sta mettendo in seria difficoltà le diplomazie dei Paesi membri e sostiene, anzi, di essere stata finora l’interprete più fedele agli accordi di Schengen. Perchè, spiegano, difendendo i con- fini nazionali si difendono quelli dell’Unione, per la sopravvivenza stessa dell’Europa. Insieme agli altri tre membri del Gruppo di Visegrád - Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia - l’Ungheria forma un blocco centro-orientale che reagisce all’approccio comunitario considerandolo permissivo quando non inconsistente a fronte di un problema così serio. Con Beata Szydło primo ministro, la Polonia ha impresso una decisa svolta a destra alla sua politica e si è avvicinata al modello ungherese. Si pensi alla nuova legge sui media o ai provvedimenti che regolano ruolo e funzionamento della Corte costituzionale. All’inizio di gennaio Orbán e Jarosław Kaczynky, leader del Pis (Diritto e Giustizia), partito di destra approdato al governo, si sono visti a Niedzica, nella Polonia meridionale, per discutere di immigrazione, delineare una strategia comune all’interno della Ue e rafforzare il Gruppo di Visegrád e il suo ruolo in Europa. Tutto questo mentre le autorità slovacche reagivano agli incidenti di Colonia con l’annuncio di non voler più dare ospitalità ai migranti musulmani. Il governo di Bratislava, guidato da Robert Fico, si prepara alle elezioni politiche che si svolgeranno il pros- Il blocco centrosimo cinque marzo battendo sul orientale si chiodo della difesa del territorio, sposta sempre della sicurezza nazionale e del no più a destra. E alle politiche delle quote. In sintonia adesso Ungheria, con le posizioni del resto del blocco Slovacchia, centro-orientale. Anche per le au- Repubblica torità ceche la sicurezza è l’aspetto Ceca e Polonia centrale nella gestione della crisi chiedono un migratoria: nel recente dibattito alla “piano B” per il Camera, il primo ministro Bohuslav flusso migratorio Sobotka ha affermato che i migranti non sono un esercito organizzato e unitario e che la crisi può essere affrontata solo con una una cooperazione europea che escluda iniziative isolate da parte dei singoli Stati. A suo avviso, l’Ue deve aiutare chi scappa da guerre e persecuzioni ma senza mettere a repentaglio la propria sicurezza, quindi allontanando i semplici migranti. Intanto Praga ha annunciato un vertice del Gruppo di Visegrád il prossimo 15 febbraio per parlare di immigrazione, giusto tre giorni prima del summit Ue dedicato allo stesso tema. A Praga i leader di Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia discuteranno la proposta ceca di stabilire una linea di frontiera di riserva lungo il confine di Bulgaria e Macedonia: si tratta del cosiddetto “piano B”, che se dovesse essere attuato lascerebbe la Grecia fuori dai confini protetti dell’Europa. Massimo Congiu da Budapest 6 febbraio 2016 21 QUELLE SEI MIGLIA FRA EUROPA E TURCHIA «D ovremmo introdurre una seconda linea di difesa tra Grecia e Macedonia, gli Stati Europei dovrebbero formare una difesa per bloccare l’immigrazione clandestina in Europa». È la proposta della Slovenia, sono le parole del suo premier Miro Cerar. Parla dalla spianata dei cocci di quello che rimane dell’Europa, eterna straniera a sé stessa. E Cerar non è il solo a puntare l’indice contro Tsipras. È una cordata di Stati dell’Unione a chiedere di nuovo lo scalpo dell’Ellade. Grexit d’estate veniva minacciata per i buchi nelle banche dello Stato, Grexit d’inverno adesso viene sventolata per i buchi che la penisola ha ai suoi confini porosi e liquidi. Bisogna sigillare le crepe a Idomeni in Macedonia, rattoppare le voragini burocratiche oppure la minaccia dell’Unione è quella di sospensione della Grecia dall’area Schengen. Al plankton egoista di dichiarazioni politiche al summit belga risponde il ministro della Migrazione greco Iannis Mouzalas, spiegando che chiudere fuori la Grecia vuol dire rendere l’Ellade «un cimitero di anime». Intanto nuovi fiumi umani dalla Turchia si riversano nella marea già arrivata sui gommoni, poi a piedi o in autobus in Nord Europa. Per questo l’Onu propone la costruzione di un’enorme tendopoli a Salonicco. Mancata apertura degli hotspot, divisione in quote, mancata identificazione e ricollocazione migranti vengono imputate a un’Atene che secondo Bruxelles, «trascina i suoi obblighi mettendo a rischio il sistema Schengen». Quel patto, nato per abolire i confini interni in favore di un’unica e condivisa frontiera esterna, che diede vita al cordone ombelicale geografico dell’Unione, una catena di linee di confine abolite in nome di una sola e collettiva: questo era Schengen, nuova staccionata di quella che amava farsi chiamare famiglia ricongiunta degli Stati Europei. Ora che Svezia, Danimarca, Germania e Austria lo hanno temporaneamente abolito, l’Europa è entrata in una nuova curva della sua esistenza, un testacoda fratricida. Qualcosa della sua genetica iniziale si sbriciola, quel che rimane viene tagliato col bisturi, da trattati, cavilli e note a piè pagina create ad hoc per far fronte a quella che da questione è diventata emergenza. La hot potato della mi22 grazione che nessuno, nemmeno la Germania, sa come risolvere e che ogni Stato tira all’altro al suo confine. L’ultimo su cui ricade la colpa è ancora una volta la grande soglia da attraversare per entrare in Europa. Sei miglia d’acqua che non hanno soluzione. Tra la teoria e la pratica c’è di mezzo l’Egeo, una certa quota di europei ancora solidali e la follia di credere di poter filospinare le onde. Lesbos e Kos - le Lampeduse greche dove l’aumento degli sbarchi ha raggiunto il 750% rispetto al 2014 - sono le soglie per varcare l’area Schengen su un gommone fabbricato in Cina per Da un lato i trafficanti essere usato dai trafficanti in Tur- in combutta con la polizia chia. Sono le sliding doors tra la vita turca, dall’altro i volontari in Europa e la morte in Siria, Iraq, greci e nord europei. In mare già 800 morti Kurdistan. «Sto sconfinando?», chiedeva da una voce dal walkie-talkie a chi era a terra. «Fuck it, sconfino», aggiungeva Tanos dal mare, volontario della Guarda Costiera greca. Custodi delle onde, guardiani del mare a difesa di un confine. Eroi di quelle sei miglia, hanno assistito a molte morti in diretta dai loro binocoli senza poter violare il diritto d’acqua internazionale tra Lesbos e la terra di Erdogan. Qualche volta non 6 febbraio 2016 © Michela AG Iaccarino (3) Sopra: Lesbo, migranti mediorientali in arrivo sulle spiagge dell’isola aiutati dai volontari europei. Accanto, un’agente di Frontex scrutala costa turca con il binocolo hanno resistito e hanno sconfinato, raggiungendo le imbarcazioni a picco e trascinando donne e uomini sui loro jet ski, oltre la linea immaginaria dell’Egeo diviso. Ci sono solo sei miglia di mare tra la costa turca e quelle di Molyvos, Eftalou, Skala Sikaminia a Lesbos. È già un cimitero da 800 anime. Da un lato i trafficanti in combutta con la polizia turca sulle spiagge di Ayvalik, dall’altro i volontari greci e nord europei decisi ad allungare le braccia contro le onde della più grande migrazione di massa mai registrata dopo la Seconda guerra mondiale, con i piedi piantati nella sabbia e nella neve del Paese che affronta un’altra onda, quella della crisi economica che lo ha condotto al collasso. Appena i migranti arrivano, la prima cosa che fanno toccando terra, è guardare indietro pensando che sia finita. Che Turchia, Siria, Iraq, guerra e morte siano lontane. Quando si voltano e si mettono in cammino non sanno ancora cosa li aspetta davanti. «L’unico modo di pensare di sopravvivere in Grecia è pensare che oltre quest’isola esista l’Europa. Ma i migranti ormai sono rimasti gli unici a crederla unita». Secondo questi greci rimasti in muta sulle coste, il vero motivo per cui Schengen non esiste è perché non esiste barriera contro la Turchia, né in terra, né in acqua, né in aria. Una Turchia che fa violare lo spazio aereo greco dai suoi caccia migliaia di volte l’anno, solo per dimostrare di essere abbastanza forte da poterlo fare. Quando c’è burrasca e quelle sei miglia diventavano il triplo, Tanos sorrideva sempre e diceva: «Chi manda il temporale stanotte, il loro dio o il nostro?». Qualcuno, nei momenti di pausa intorno al falò, si chiedeva come sarebbero state la mappa greca e quella europea tra cent’anni. Credo che ora gli sarebbe bastato sapere come sarà tra dieci. Molti di loro erano pronti a giurare che quando è cominciata l’emergenza, al loro arrivo qui, l’acqua era di un altro colore. Ora si muore pensando di avercela fatta, il mare ti uccide anche a terra, aumentano le morti di ipotermia non ancora stilate in dati ufficiali. «Quella luce è una barca di pescatori o sono i migranti con gli smartphone accesi?». Ogni notte sulle spiagge greche insieme agli uomini pesce sempre in muta, era come aspettare Godot. I greci lo hanno già capito: non importa che arrivi, ma che noi europei continuiamo ad aspettarlo insieme. Michela AG Iaccarino 6 febbraio 2016 23 ATENE, FINE DI SCHENGEN E RIFUGIATI IN TRAPPOLA «V i sembrerà utopico ma l’unica soluzione per fermare i flussi migratori è fermare la guerra in Siria», afferma nel suo ufficio di Atene Daniel Esdras, responsabile dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) in Grecia. «Ho il timore che a breve il confine di Idomeni verrà L’Unione ha dato chiuso e che la Grecia diventi un l’ultimatum alla Grecia: deposito di richiedenti asilo che bloccare i flussi all’entrata non possono continuare il loro entro tre mesi o fuori da viaggio verso l’Europa». Appena Schengen. Ma è un’impresa fuori dal suo ufficio, un gruppo di impossibile con 13,676 km migranti nordafricani sta compidi coste e centinaia di isole lando i documenti per il programvicinissime alle rive turche ma di “rimpatrio volontario” offerto dall’Oim e per tornare a casa con un volo gratuito. Uno di loro, Zouhir, 22 anni marocchino, ha cercato di attraversare la frontiera con la Macedonia per ben quattro volte senza riuscirci, nonostante i documenti falsi Atene: stazione di Polikastro, comprati a piazza Omonia, che lo identificavavolontari giunti da Amburgo distribuiscono cibo ai migranti no come siriano. «Mia madre mi ha chiamato in arrivo; accanto, una delle poco fa e mi ha incitato a provarci ancora, ma tende al confine di Idomeni durante la chiusura del confine ho finito tutti i soldi e ormai non ho più spe24 6 febbraio 2016 ranza di farcela». Come lui, altre centinaia di migranti di cittadinanza non siriana, afghana e irachena, le uniche nazionalità alle quali attraversare il confine è ancora concesso, cercano ogni giorno di attraversare la frontiera camuffando la propria origine. Nelle ultime due settimane però, la frontiera di Idomeni è rimasta per lunghi tratti off limits per chiunque. Centinaia di richiedenti asilo hanno atteso per giorni l’apertura del varco, mentre in migliaia sono stati parcheggiati alla stazione di Polikastro, a una ventina di chilometri dalla frontiera. Nel freddo della notte questi ultimi cercano di riscaldarsi attorno al fuoco, o negli autobus che li hanno portati fino a lì dalla capitale greca. Alcuni bambini dormono al suolo, avvolti da coperte donate loro dall’Ong Medici senza frontiere. Un gruppo di giovani iraniani che sono arrivati in giornata si consolano con qualche bottiglia di whisky, un piacere negatogli in patria, e cantando i versi di una poesia di Hafez. «Quanti Paesi mancano ad arrivare alla Germania?», chiede Mahfouz, 16enne afghano che viaggia non accompagnato. Finora ha già speso 3mila euro e non gli è rimasto più nulla. Da tre giorni attende di attraversare il confine. Quando ci riuscirà, non è chiaro a nessuno. Lunedì scorso è emerso che la Commissione europea avrebbe firmato © Nicola Zolin (2) ZYGMUNT BAUMAN: «L’UTOPIA È STATA PRIVATIZZATA» un piano per chiudere la frontiera di Idomeni, bloccando di fatto decine di migliaia di persone migranti nel Paese ellenico. Mercoledì scorso al summit di Amsterdam i Paesi dell’Unione hanno dato un ultimatum alla Grecia: tre mesi di tempo per bloccare i flussi all’entrata, pena la sospensione da Schengen. Un’impresa a dir poco impossibile per un Paese con 13,676 km di coste e centinaia di isole a breve distanza delle rive turche. Nel frattempo, i ministri dei Paesi europei si prodigano per offrire le loro bizzarre soluzioni. Dall’Olanda è giunta la proposta di riportare in Turchia con dei traghetti tutti i migranti che raggiungono le isole greche. Belgio e Slovenia hanno proposto la creazione di campi di detenzione al confine con la Macedonia. Quest’ultima proposta ha lasciato perplesso il ministro per le Migrazioni greco Mouzales, preoccupato che la chiusura delle frontiere possa traumatizzare ulteriormente il Paese. Najef, 15enne iracheno che ha lasciato Baghdad dopo che il padre è stato fatto saltare per aria, non riesce nemmeno a immaginare di non poter continuare il suo viaggio verso l’Europa. «Questa gente non ha idea di cosa abbiamo dovuto passare per arrivare fino a qui. Se non ci fanno passare gli spaccheremo il culo». Nicola Zolin da Atene «L a costruzione di un’Europa più giusta e democratica pare sempre più utopica di fronte ai fili spinati di Orban e ai respingimenti persino da parte di paesi con una lunga tradizione democratica come la Svezia» dice Zygmunt Bauma intervenendo il primo febbraio a Trento in un incontro promosso dalla casa editrice il Margine e dedicato al futuro dell’Utopia. «Questa Europa ha molte difficoltà legate alla globalizzazione, alla mancanza di lavoro per i giovani e a molto altro. Il fatto è che la forma stato basata sul mito di un progresso illimitato ormai mostra la corda. Mentre -insiste Bauman- una grave crisi di rappresentanza affligge ormai ovunque le istituzioni democratiche». «Il dramma -ci dice l’autore, con il sociologo Carlo Bordoni, di Stato di crisi pubblicato da Einaudi - è che le persone hanno perso fiducia nelle azioni collettive per costruire una società migliore. Nell’Europa liberista l’utopia, in qualche modo, è stata “privatizzata”. Perciò è calata la fiducia nelle istituzioni. Per questo le persone, di fronte ai problemi sociali da affrontare, hanno preferito rinchiudersi nel bunker della vita individuale o familiare». Come se ne esce? É ancora possibile invertire la deriva? «Sì - risponde- uscendo dal bunker, andando ciascuno verso gli altri, combattendo l’ignoranza che ci fa avere paura dello straniero, che ci fa diffidare di chi non conosciamo». Perché, dice Bauman, in questo scenario globale, complesso ed eterogeneo, «bisogna rimettere al centro la dignità umana. Solo così può nascere una comunità che non alzi muri contro le persone che scappano dalla povertà e dalle guerre». «Noi continuiamo a sognare, dice Bauman, in quanto essere umani viviamo proiettati verso il futuro. É la spinta utopica che ci caratterizza da sempre, ma non esistono ricette, mappe che indichino il percorso per realizzare il sogno. E non dobbiamo dimenticare - avverte il filosofo polacco- che abbiamo visto anche progetti utopici degenerare in dispotismo e totalitarismo». 6 febbraio 2016 25 26 6 febbraio 2016 © Riccardo Squillantini/Imagoeconomica E L’ILVA CHI LA COMPRA CACCIA ALLA CORDATA I colossi stranieri dell’acciaio non hanno interesse a garantire lo sviluppo industriale. Le cordate italiane appaiono troppo deboli. Intanto spuntano i nomi di Scaroni e Morselli per guidare la transizione di Ilaria Giupponi e Raffaele Lupoli I l tempo stringe. Il 10 febbraio scade il termine per le manifestazioni d’interesse e l’acquisizione dell’Ilva non sembra un traguardo molto ambito. Non solo perché parliamo di un’area altamente inquinata che necessita di decine di milioni per riqualificazione e bonifica. O perché chi dovesse acquistare il pacchetto d’acciaio si caricherebbe di un bel po’ di debiti (ultimi i 300 milioni di aiuti di Stato che, maggiorati degli interessi, i nuovi proprietari dovranno restituire). E nemmeno perché l’area a caldo è sotto sequestro su ordine della Procura di Taranto. Il motivo di maggiore incertezza è dato dal panorama internazionale, già caratterizzato da una crisi da sovrapproduzione. All’orizzonte, il riconoscimento - che potrebbe arrivare dalla Commissione Ue entro fine mese - dello status di economia di mercato per la Cina, Paese dai costi di produzione ridottissimi. Questo farebbe saltare gli attuali dazi doganali, mettendo in ginocchio l’industria dell’acciaio nei Paesi concorrenti. Prima tra le vittime proprio l’italica Ilva, i cui conti e la cui produzione certo non vantano numeri competitivi. Ora il governo, dopo la gittata di milioni riversata con l’ultimo decreto, è impegnato a gestire la transizione, individuando anche una nuova guida. Pochi giorni fa, a conferma delle “voci di corridoio” delle settimane scorse, è giunta tempestiva l’autocandidatura di Paolo Scaroni. «Ci penserei» ha detto l’ex ad di Eni, oggi numero due alla banca d’affari Rotschild, al microfono di Giovanni Minoli. Ora che l’ex dg Massimo Rosini e il direttore commerciale Maurizio Munari hanno lasciato, Scaroni fa outing spiegando che certo è prematuro parlarne, ma che l’ipotesi gli è stata ventilata e lui non disdegnerebbe. Non è l’unica sul tavolo, ma potrebbe essere questa la soluzione all’affaire Ilva propiziata dal duo Renzi-Guidi. L’ex ad dell’Eni ha confermato a Mix24 di aver affrontato la questione in un recente incontro con il presidente del Consiglio, aggiungendo: «Se si creasse una cordata italiana che avesse bisogno di una persona che conosce un po’ il mondo dell’acciaio ci penserei». E Scaroni conosce sia il mercato che gli operatori di casa nostra che potrebbero imbarcarsi nell’avventura. Come la famiglia italo-argentina dei Rocca, proprietari della Techint, dove ha dato impulso alla sua carriera di manager da metà anni Ottanta e per il decennio seguente, propiziando proprio l’espansione nel settore siderurgico. Nel 1996, Scaroni ha patteggiato una pena di un anno e quattro mesi per aver pagato, per conto della società di cui era stato vicepresidente e ad, una tangente al Psi al fine di ottenere appalti per la costruzione della centrale elettrica di Brindisi. «Se entra Techint, l’Ilva la guida Scaroni», confermano ora anche gli addetti ai lavori. Un’altra possibile candidatura, si vocifera in ambienti industriali, è quella di Lucia Morselli, attuale ad di ThyssenKrupp Ast, produttrice del 50% dell’acciaio inox italiano. Proprio Morselli era riuscita esattamente un anno fa a sedare, non senza fatica, gli scioperi che avevano causato ritardi sulle consegne e ingenti perdite, com’è avvenuto nei giorni scorsi a seguito delle proteste dei lavoratori Ilva di Cornigliano (Ge). Sempre lei, con un piano di rilancio approvato perfino dalla segretaria della Cgil Susanna Camusso, è riuscita 6 febbraio 2016 27 Tamburi è il quartiere dove sorge l’Ilva, che con le sue alte ciminiere fa da sfondo al Mar Piccolo di Taranto. Qui vivono i tre fratelli Resta, tre vite divise tra il mare e il lavoro in fabbrica, tra la paura dei danni dell’inquinamento e la voglia di restare dove sono nati. La Gente Resta (qui a lato una scena) è il titolo di un docu-film nato da un’idea di Lea Dicursi, con la regia di Maria Tilli e la sceneggiatura di Laura Grimaldi, prodotto da Fabrica con RaiCinema. Ha ricevuto il Premio speciale della giuria nella sezione Italiana.doc alla 33esima edizione del Torino Film Festival. «La decisione di raccontare la storia della famiglia Resta è sembrata quasi più un’esortazione partita dal nome della barchetta “Resta Mario” sulla quale per la prima volta vidi i componenti della famiglia pulire le reti da pesca» spiega la regista Maria Tilli. Il docu-film racconta una giornata della grande famiglia Resta a Tamburi. Accompagnando Giuseppe a pescare, aspettando Cosimo all’uscita della fabbrica, inseguendo la rabbia di Tonino contro i Riva, proprietari dell’Ilva da fine anni 80. Tutti accomunati dalla voglia di una vita normale, ignorando per un momento le ciminiere che li aspettano alle loro spalle. a far ripartire la produzione ternana: «Se ci saranno altre tensioni non avremo più ordini. In Europa preferiscono un acciaio meno sofisticato ma che arriva. Dobbiamo dimostrare che i momenti di tensione sono finiti, altrimenti ci giochiamo l’acciaieria», aveva troncato l’emiliana “tagliatrice di teste”. Insomma, una figura di alto profilo in grado di dare fiducia ai mercati, capace di attirare gli investimenti di grosse banche e chiudere accordi internazionali. Come quello con il gruppo indiano ArcelorMittal, fra i poFra i pochi competitor chi ad aver mostrato interesse. Il ad aver mostrato gigante dell’acciaio di proprietà interesse, il gigante dell’imprenditore Lakshmi Mitindiano dell’acciaio tal (a detta della rivista Forbes tra ArcelorMittal, che però gli uomini più ricchi del mondo), vorrebbe la garanzia penserebbe a un aereo per l’Italia degli aiuti del governo. solo solo se incentivato da aiuti da Non per rilanciare parte del governo. Naturalmente, e bonificare, non certo con l’intento di bonifima per scorporare care e rilanciare l’industria italiae vendere ciò che resta na. Ma per scorporare e vendere di buono ciò che resta di buono. Anche nel caso di Morselli ci sono stati contatti istituzionali e richieste di valutazioni, ma niente di ufficiale. A legare le sorti dell’impianto siderurgico tarantino al polo ternano appena risanato il governo ci aveva già provato con Marco Pucci, manager nel cda della società tedesca e condannato in appello per il rogo della Thyssen (il 13 maggio è attesa la sentenza di Cassazione). I commissari straordinari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba l’avevano nominato dg dell’Ilva proprio per guidare la transizione legata alla vendita. Nomina durata nemmeno 24 ore, visto il fuoco delle polemiche divampate dopo l’affidamento dell’incarico. 28 6 febbraio 2016 Courtesy of Fabrica Un docu-film per chi non si arrende Dunque, a pochi giorni dalla scadenza, si ragiona sui possibili scenari. «Non mi stupirei se ci fossero numerose manifestazioni d’interesse, ma un conto sono le manifestazioni d’interesse che danno diritto di accedere alla data room, altro sono le formulazioni di offerte di acquisto vincolanti, che - se ci saranno - saranno verso la seconda metà di aprile», spiega il presidente della commissione Industria al Senato, Massimo Mucchetti. Anche sul possibile coinvolgimento di operatori stranieri, il senatore Pd non si mostra fiducioso: «Se l’investitore straniero è la Arcerol-Mittal, la vedo difficile perché ha un eccesso di capacità produttiva. Ciò vuol dire che ha interesse a ridurre al minimo la produzione a Taranto, se non proprio a chiuderla», conferma. Diverso sarebbe il caso dei coreani di Posco, che non sono presenti sul mercato europeo, ma - riprende Mucchetti - «tra i grandi gruppi dell’acciaio mondiale c’è una specie di patto di non belligeranza: l’Europa non è terreno di caccia dei coreani così come l’Estremo Oriente non è terreno di caccia degli indiani di Arcerol-Mittal». In ogni caso, il coinvolgimento di un investitore estero sarebbe salvifico. Renzi e il ministro dell’Industria Guidi, invece, si mostrano convinti di un forte protagonismo degli imprenditori italiani: «Non accetteremo mai che Ilva sia uccisa dalle lobby di acciaieri di altri Paesi. Posson fare tutti i ricorsi che vogliono, noi l’Ilva la salviamo. Adesso è aperto il bando - ha spiegato il premier - Vediamo se, come io credo, ci sarà una cordata vincente». Nelle ultime settimane si è fatto il nome di Marcegaglia, Arvedi e Ameduini. L’ipotesi di un coinvolgimento della Techint dei Rocca era stata avanzata anche da Mucchetti, il quale non vuole commentare l’autocandodatura di Scaroni «a meno che dietro a lui non arrivi un robusto investimento della Techint». PROCESSI E PROTESTE I GIORNI CALDI DI TARANTO Il mese di febbraio inizia con l’udienza preliminare di “Ambiente svenduto” e le manifestazioni di operai e indotto «S E aggiunge: «Taranto è a posto con le emissioni perché lavora a scartamento ridotto, ma dobbiamo immaginare di mantenere emissioni ridotte anche con un impianto a pieno regime, probabilmente con l’adozione di forni elettrici e con impianti di preriduzione, quindi con il dimezzamento delle cockerie». L’ipotesi di Mucchetti è sostituire l’altoforno 5 (fermo perché mancano i fondi per rimetterlo in sesto) con «due forni elettrici ai quali agganciare colate continue ad alta velocità, così da rendere più snello e finalmente flessibile il processo produttivo». Mucchetti (Pd): Questo sistema consentirebbe di «Dobbiamo dimezzare l’uso del carbone e le immaginare emissioni, facendo passare l’in- di mantenere tervento pubblico come sostegno emissioni ridotte alla riduzione dell’inquinamento anche con un e non come aiuto di Stato. L’affare impianto a potrebbe interessare anche l’Eni, pieno regime, che ai prezzi attuali troverebbe probabilmente conveniente assicurare una for- con forni elettrici nitura continua di gas all’Ilva per e impianti di alimentare i nuovi forni elettrici. preriduzione» In questo quadro, spiega il senatore Pd, si potrebbe fare ricorso alla preriduzione del minerale di ferro, tecnologia in mano «alla società Tenova del gruppo Techint, in alleanza con un’altra grande società di impiantistica che si chiama Danieli». Altri operatori, per esempio Arvedi, possono essere della partita, ma nessuno degli italiani da solo ha la forza per affrontare un’acquisizione. L’affare, in ogni caso sostenuto dalla Cassa depositi e prestiti, senza l’intervento di partner stranieri è molto difficile da immaginare. E a guidare questa transizione sul filo dell’equilibrio non è escluso che finisca lo stesso manager che Renzi ha “disarcionato” dalla guida dell’Eni nel 2014. bagliare sull’Ilva, per Renzi, significa perdere le elezioni nazionali. Lo sappia anche il ministro Guidi, che non vede che carbone nel futuro dell’azienda». Michele Emiliano non ha usato perifrasi per spiegare qual è la posta in gioco a Taranto. E se nei prossimi mesi si decide che e come gestirà il più grande gruppo siderurgico italiano, commissariato da giugno 2013, avranno un rilievo tutt’altro che secondario le vicende giudiziarie e sindacali dei prossimi giorni. È ripreso infatti davanti a un nuovo giudice dell’udienza preliminare “Ambiente svenduto”, il processo per inquinamento ambientale scaturito dall’inchiesta che nel 2012 ha condotto a numerosi arresti e al sequestro degli impianti e dei beni della famiglia Riva, proprietaria del siderurgico di Taranto da metà anni 90. All’epoca, il gip Patrizia Todisco sequestrò gli impianti dell’area a caldo chiedendone la messa a norma. Nei mesi scorsi la procura ha evidenziato un’anomalia nei verbali dell’udienza di rinvio a giudizio. Per evitare di vanificare il processo, si riparte ora dal punto di partenza (tranne le costituzioni di parte civile). Tra le richieste di rinvio a giudizio figurano, tra gli altri, Fabio e Nicola Riva in veste di proprietari dell’Ilva, l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, il sindaco di Taranto Ezio Stefano, l’ex consulente e responsabile dei rapporti istituzionali, Girolamo Archinà. Nei giorni scorsi la procura tarantina ha contestato nuove accuse a nove ex e attuali dirigenti dell’azienda, indagati per aver tollerato la presenza, ai confini tra Taranto e la vicina Statte, di depositi di rifiuti industriali alti fino a 40-45 metri sopra il piano di campagna: un serie di discariche a cielo aperto disseminate lungo l’argine sinistro della gravina Leucaspide. E all’emergenza ambientale si affianca la nuova mobilitazione dei lavoratori prevista per il 9 e 10 febbraio, in coincidenza con la scadenza delle manifestazioni d’interesse. I lavoratori dell’Ilva e delle imprese appaltatrici, con i sindacati metalmeccanici Fim, Fiom e Uilm, saranno davanti alla sede della Regione Puglia a Bari martedì 9, per incontrare l’assessore al Lavoro Sebastiano Leo e, sperano, il presidente Emiliano. Il giorno successivo raggiungeranno invece in corteo la Prefettura di Taranto, per chiedere l’integrazione salariale per i lavoratori sottoposti a contratto di solidarietà. Per Cornigliano l’integrazione al reddito è con un emendamento al decreto del governo che dà il via liberaf.lu. ra alla cessione, per gli operai di Taranto no. 6 febbraio 2016 29 IO NON VOTO NON MI FREGATE Domenica si vota a Milano per le primarie del Pd. Tito Faraci, scrittore e fumettista ci guida nella città dei creativi. «Ma stavolta niente gazebo», dice di Luca Sappino «S cusa ho appena finito l’incontro per Tex ma sto andando a un pranzo di Diabolik, ci possiamo risentire?». Lo richiamo. «Sì, ora va bene. La riunione per Topolino comincia tra un’ora, abbiamo tempo». Fare una chiacchierata con Tito Faraci, ti fa venir voglia di correre in edicola. Parlare con Faraci, sceneggiatore e scrittore, è un tuffo nello stereotipo della Milano creativa che pare sia poi il simbolo stesso della nuova Milano, incombenza condivisa solo, semmai, con i grattacieli di piazza Gae Aulenti. Anzi: la prima domanda può esser proprio questa, per capire quale città si avvicina al voto amministrativo e affronta la tappa delle primarie del centrosinistra, o meglio del Pd, questa domenica. Dunque lo accolgo così, a Faraci: «La Milano di questi ultimi anni è più la Milano dei creativi o quella dei grattacieli, del nuovo cemento tirato a lucido con gli alberi sui balconi?». «Milano è la città delle realtà sovrapposte», mi dice lui, «dove cose e persone diverse si sfiorano in continuazione senza spesso toccarsi. Milano è una grande metropoli più piccola di altre grandi metropoli, non è poi tanto estesa, ed è così piena di cose vicine fisicamente ma lontane tra loro». E quindi? «Mi piacerebbe che fosse la città dei creativi, come la raccontano», poi si riprende, «a me pare sia soprattutto la città dei creativi che passano sotto i grattaceli senza neanche alzare lo sguardo». È una metafora, è evidente. La colgo e azzardo: «Città creativa ma conformista?». «Diciamo che quando sono arrivato a Milano gli ambienti creativi erano di controcultura, e invece oggi quel mondo, forse per bisogno, galleggia, si adagia, non combatte 30 più il sistema e anzi spesso si impegna a celebrarlo». Tito Faraci - finisco di presentarlo è un milanese doc, fiero di esserlo. Un milanese di sinistra, forse gruppettaro: «Certo che sono di sinistra e gruppettaro, anzi mi sono pentito «Mi piacerebbe che Milano di essermi adattato troppe volte, in fosse più la città dei passato, e quindi lo divento sempre creativi che dei grattacieli. di più. Ho scritto anche una canzo- Ma vedo solo creativi che ne per i Punkreas, lo storico gruppo passeggiano a testa bassa punk, che come me sono ormai dei sotto i grattacieli. cinquantenni: è la storia di chi, arri- Potere del conformismo» vato all’età che abbiamo noi, è stufo di accontentarsi del meno peggio». Mi dice così, Faraci, e capisco che è proprio la persona giusta per parlare, prendendola alla larga, delle primarie. È milanese, Faraci, e a Milano ha ambientato il suo ultimo romanzo, La vita in generale, pubblicato da Feltrinelli. La città è il set della storia, che poteva però trovare le quinte giuste in molte altre città, ovunque ci sia un po’ di finanza accattona, un po’ di industria in crisi. «Perché hai scelto Milano?», gli chiedo. «Perché sono ossessionato da questa città», mi risponde: «Io con Milano ho un rapporto paterno. Sono come un genitore con i figli: fuori dalla famiglia ne parlo bene, a cena a casa non faccio altro che rimproverarli». «Tito», faccio però notare, «Milano non è che faccia proprio un figurone nel tuo libro, sai?». «Lo so! Infatti forse non sono più così paterno. Quando ho cominciato a scrivere ero convinto che avrei fatto una sorta di elegia di Milano e invece ho raccontato una delusione, che però come sempre è l’altra faccia dell’affetto e della stima». Ecco. «Milano è 6 febbraio 2016 © Claudio Arnese/iStock IL LIBRO «Per rinascere, bisogna prima morire. E io sono stato un uomo morto. So che cosa significa perdere una vita». La vita in generale è l’ultimo romanzo di Tito Faraci. Pubblicato da Feltrinelli. È la storia di Mario Castelli, manager caduto in disgrazia e di Rita che lo convincerà ad alzarsi dalla panchina del parco. anche quello». Vedi? Funziona! «E poi volevo essere un compagno comunista». Ah, no, non funziona. Non mi parla bene di Pisapia, Faraci, che però è del Leoncavallo, «uno storico»: «Pisapia per me è stata un po’ un’illusione. Ero in piazza a festeggiare, dicevo “finalmente uno dei nostri che diventa sindaco, evviva”. Poi però mi pare, per dire, che di sgomberi se ne fanno più adesso che prima e che c’è un ossessione per il salotto della città». Note noir ci sono nella Milano del libro di Faraci, che d’altronde ha tinto di giallo pure Topolinia, con Topolinia Noir e con la mitica serie di MM, Mickey Mouse Mystery Magazine. Sarebbe bello parlarne, ma la riunione si avvicina e devo ancora chiedergli se voterà alle primarie. «No», mi dice. «No. No. No.». «Ho capito, Tito, ho capito. Ti faccio però l’obiezione classica: se non voti tu, decidono gli altri». «Eh no! Me lo avete detto troppe volte! Ho avallato cose di cui mi pentirò per sempre. No. No. Ne ho fatte abbastanza: ho votato Pd dicendomi che bisogna tapparsi il naso. Ho votato Prodi, dai! Cosa racconterò ai miei nipoti?». Il messaggio è chiaro. Serve ora una breve nota sul rouna città che ti fa fare dei grandi «No. No. No. Le manzo. Il protagonista, Mario film». Questa cosa ne La vita in primarie no. Ne ho Castelli, è un manager caduto in generale Faraci la dice così: «Gli fatte abbastanza: mi disgrazia, diventato barbone e americani hanno quel modo di sono tappato il naso per dirla in inglese, che fa molto dire: attento a quello che vuoi, e ho votato Pd. Ho Milano - un po’ drop out, esiliato perché potresti ottenerlo. A Mila- votato Prodi, dai! Che volontario sulle panchine. Lo rino puoi diventare proprio tutto. racconterò ai nipoti?» porterà alla finanza una giovane Un avvocato, un batterista, un ammiratrice che lo vuole fortegiornalista, un manager, una velina, un dentista, mente alla guida dell’azienda di famiglia, in crisi un cabarettista, un imprenditore, uno zoologo, un e braccata dai cacciatori di fallimenti. Castelli, attore... e un barbone, sì. Un clochard, che suona chiamato “Il Generale” è un capo naturale, caribene. Milano ti dà tutto quello che vuoi. Prego, ac- smatico, e lo sarà anche dei suo compagni barbocomodati. Ma non vedi le note in piccolo, in fon- ni con cui si butterà nell’impresa. Ed ecco la dodo al contratto». Quello di Milano è il mito della manda: «Queste sono primarie orfane di Pisapia. possibilità, che poi è quello del merito che però Il disamore mica sarà una questione di leader?». fa spesso rima con fortuna, anche di nascita. E a «Lo sento mancare il leader, sì. Non ho un mio me, se è così, non pare una cosa poi tanto bella Generale da molto tempo, e ognuno dei quattro per una città. Lo dico. «Milano ti frega», mi repli- candidati ha qualcosa che non mi convince. Tu mi ca Faraci, «è la città che negli anni 80 ci ha detto dici che forse mi manca il leader? Lo confesso, ma che potevamo diventare qualunque cosa. Scrit- sarebbe più bello ancora non averne bisogno». tori, veline, politici, imprenditori. Poi però sono Ultima domanda. «C’è un posto a Milano, dove ti arrivati gli anni Novanta e nessuno ci aveva detto ritorna l’amore per la politica?». «C’è un’osteria, che per contratto avremmo dovuto arrangiarci». che peraltro ha preso parzialmente fuoco recenAttenzione, però. «Milano è la città dell’agonismo, temente - vedi i simboli! - È in Bovisa, si chiama La ma è anche una città solidale». Dei creativi e del scinghera, ed è un circolo Arci, un vecchio circolo cemento, egoista e generosa. Strana è Milano. anarchico. Andavo a berci il vino rosso che te lo lo Cosa voleva essere Faraci quando è arrivato qui? prendi da solo al bancone, e a parlare di musica, «Volevo fare il giornalista musicale, e l’ho fatto, e fumetti e immancabilmente di politica. Ma è un poi ho sempre voluto scrivere fumetti e ho fatto po’ in effetti che non ci vado più». 6 febbraio 2016 31 PREMI DI PRODUTTIVITÀ UNA MEDICINA CHE NON CURA È sempre la stessa storia, per efficienza si intende spremere di più le persone. Ma l’effetto è di abbattere la produttività oraria, anche solo per i limiti fisiologici dei limoni spremuti di Marco Craviolatti P rendereste per anni un costoso duttività saranno tassati molto poco antipiretico che non fa passare (aliquota fissa del 10%), quindi resi più la febbre? L’Italia è considerata convenienti di aumenti salariali stabili. la “malata d’Europa” perché la Paga la collettività, con mancate entrate produttività del lavoro è inchio- fiscali per circa un miliardo nel biennio data: il valore economico che producia- 2016-2017. mo in un’ora di lavoro oggi è lo stesso Ma questi premi servono davvero a del 2000, mentre è cresciuto in tutti gli stimolare la produttività? Ebbene no. altri Paesi (+16% nell’Unione europea), Né che si guardi ai conti nazionali, né compresa la Grecia (+11%). Loro produ- alle singole imprese. I premi sono stati cono più ricchezza nello stesso tempo incentivati fin dal 1997 con il taglio dei o - è uguale - creano la stessa ricchezza contributi pensionistici (...a che serlavorando di meno. Noi no, ci impove- viranno mai?). Poi dal 2008 si sono afriamo e dobbiamo lavofiancati anche i vantaggi rare molto, perché le oc- Il valore economico fiscali: doppia dose di cupazioni più qualificate prodotto in un’ora medicina, eppure la madi lavoro è cresciuto lata è rimasta immobile. vanno all’estero. Servirebbe una cura in tutta Europa, E tale rimarrà, secondo da cavallo, con terapie compresa la le previsioni dell’Ocse al specialistiche: politi- Grecia. Tranne che 2017. che industriali, ricerca, in Italia, dove è lo I motivi di inefficacia investimenti, sostegno stesso del 2000 sono documentati: negli all’innovazione delle imaccordi sui premi, imprese, magari con servizi dedicati di prese e sindacati si limitano a spartirsi consulenza. Il governo insiste invece i vantaggi fiscali e contributivi, senza con la solita medicina: incentivare il sa- necessità di modificare ciò che davvero lario variabile contrattato impresa per incide sulla produttività, come l’orgaimpresa, subordinato a criteri di reddi- nizzazione del lavoro, le competenze, tività e - appunto - produttività. la qualità dei beni o servizi prodotti. Per A parole suona bene, così la Legge di gli economisti Davide Antonioli e Paostabilità ha disposto che i premi di pro- lo Pini si tratta di “accordi cosmetici”: 32 6 febbraio 2016 si indora qualche modesta pratica gestionale, si aggiunge una manciata di obiettivi facili facili, si shakera bene con la neo-lingua aziendalese e si deposita tutto al ministero del Lavoro, che invariabilmente apprezza e passa alla cassa. La sociologa Anna Ponzellini constata che «la negoziazione aziendale non si occupa affatto, o solo molto raramente, di come riorganizzare i fattori produttivi per migliorarli sul serio questi risultati». Ne consegue che «se tutto resta come prima - il layout, la tecnologia, il sistema di qualità, l’organizzazione delle pause, la rigidità degli orari, il sistema gerarchico - serve assai poco». È insomma una grande recita. La sceneggiatura è scritta dai governi. Le nuove norme applicative saranno definite nelle prossime settimane, in prevedibile continuità con quelle del governo Monti. Per quelle prescrizioni (Dpcm del 22.01.2013), la malattia da curare era solo un pretesto: si poteva infatti beneficiare dell’incentivo per la produttività anche senza definire un solo indicatore di produttività. Nessun obiettivo, nessuna azione misurabile. Come provare l’antipiretico senza nemmeno un termometro. Era sufficiente introdurre © Maselkoo99/iStock nuove misure di “flessibilità”, ma in ben tre declinazioni: degli orari, delle ferie, delle mansioni individuali. Perché - si sa - il dipendente senza più orologio e calendario, che mentre avvita il bullone spazza anche il pavimento, garantisce «un più efficiente utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttività». È sempre la stessa storia, per efficienza si intende spremere di più le persone. Con l’effetto opposto di abbattere la produttività oraria, anche solo per i limiti fisiologici dei limoni spremuti. Altro effetto collaterale, la medicina alimenta iniquità tra lavoratori, perfino sorpresa - tra colleghi. Intanto, in barba alla progressività fiscale, la flat tax favorisce una minoranza: dipendenti (privati), in imprese medio-grandi, già con contratti di secondo livello. Lo sconto fiscale arriva a 700 euro, per redditi fino a 50.000 euro annui: niente di faraonico, ma nell’era dei voucher si rimpolpano buste paga anche prossime ai 3.000 euro netti mensili. Ma c’è di peggio. I criteri per l’assegna- Più che strappare modesti benefici zione individuale dei premi possono economici “a valle” di strategie azienessere branditi contro chi non vuole o dali miopi, il sindacato deve incidere non può concedere l’intera vita al lavo- “a monte”, per stimolare e accomparo. Poiché non esistono regole nazionali gnare innovazioni capaci di coniugare uniformi e anti-discriminatorie, molte efficienza economica e benessere dei imprese impongono soglie minime di lavoratori. Certo occorre coltivare le presenza lavorativa, irraggiungibili non competenze di analisi e raffinare la consolo da chi si ammala, ma da chiun- trattazione, ma i risultati non tarderebque si “conceda” diritti bero a manifestarsi, ben di civiltà, dai congedi Aumentano le più consistenti, ben più per handicap ai permes- iniquità tra i equi. Inoltre il benessere persi per allattamento. Non lavoratori. E si sonale non è certo riduimporta come lavori, se favorisce una cibile al salario. Si posnon raggiungi le soglie minoranza: sono monetizzare – o il premio si assottiglia e dipendenti privati, magari barattare con il sparisce. Da quest’an- in imprese mediono almeno la maternità grandi, con contratti welfare aziendale - la fatica e lo stress, la vita obbligatoria non potrà di secondo livello familiare logorata dalla essere penalizzata, ma le principali vittime designate saranno flessibilità dei tempi, la precarietà esistenziale? Proprio un recente accordo sempre le stesse: donne con figli. aziendale indica una strada diversa: È dunque difficile comprendere perché in Luxottica i lavoratori potranno sceCgil, Cisl, Uil nella recenti proposte per gliere tra premio monetario e giorni di “Un moderno sistema di relazioni indu- ferie supplementari. È una domanda striali” arrivino ad auspicare che la de- sempre più necessaria per tutti: la borsa o la vita? tassazione diventi permanente. 6 febbraio 2016 33 IL CASO ERICSSON E IL GIOCO DEI TRE CONTRATTI Il colosso svedese delle telecomunicazioni applica tre tipi di contratti: metalmeccanico, telecomunicazioni e commercio. A misura di salario. E ha già annunciato nuovi tagli per un miliardo di euro di Chiara Ricciardi D a gennaio i 1.230 dipendenti Ericsson di Roma, ricevono lo stipendio il 30 del mese, anziché a metà del mese successivo. Nella sede nazionale di via Anagnina, la paura di molti è che il cambio di data sia la premessa per l’applicazione di un nuovo contratto peggiorativo. Per mantenere vantaggi competitivi, in un contesto globalizzato, le multinazionali adottano strategie sempre più discutibili, sacrificando posti di lavoro e salari. L’arma del ricatto è sempre la stessa: se non vi sta bene, ce ne andiamo. Così, con il pretesto di “attrarre capitali stranieri”, in Italia è passato l’assioma per cui se il peso di retribuzioni e diritti sindacali fosse diventato più leggero, i grandi investitori stranieri avrebbero puntato sull’Italia, portando occupazione. E sono passate riforme - ultima il Jobs act - che di fatto hanno limitato i diritti dei lavoratori, facendo un favore alle imprese. La Ericsson, gigante svedese delle telecomunicazioni, è in Italia da quasi cento anni. E da tempo si adopera per spostare i propri interessi in Paesi più vantaggiosi, come Romania, Bulgaria, India e Cina. Pur sostenendo di avere ancora interesse per l’Italia, ha mandato a casa più di mille lavoratori senza mai dichiarare lo stato di crisi. Nella galassia Ericsson vengono usati tre tipi di contratti: metalmeccanico, telecomunicazioni e commercio. Quest’ultimo, per esempio, si applica ai dipendenti della ex Pride, ora IT-SS, società acquistata dalla multinazionale svedese nel 2010 e dove lo stipendio è pagato il 30 del mese. Da qui la paura per i dipendenti Ericsson: assumere un neolaureato in IS-TT, quinto livello, vuol dire pagarlo 1.200-1.300 euro netti al mese. In Ericsson, con il contratto telecomunicazioni, le stesse mansioni 34 6 febbraio 2016 sono remunerate 1.500-1.700 euro. Al momento si tratta di ipotesi, il gruppo di Stoccolma non ha avanzato richieste in questo senso, o almeno non ufficialmente. Ma ha presentato un piano industriale che prevedere tagli a livello globale fino al 2017. L’obiettivo è quello di risparmiare un miliardo di euro e utilizzare i fondi accantonati per aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo, in modo da «assicurare le future operazioni di crescita aziendale», rimanendo competitivi tra i colossi delle telecomunicazioni. Questa strategia va avanti da tempo. Ed è costata alle sedi italiane 14 procedure di mobilità in 12 anni, in cui l’Ericsson ha incorporato rami di aziende e pezzi di Assumere rete, incrementando la sua mar- un neolaureato ket share, e inglobato organico in IS-TT, quinto che di volta in volta diventava livello, vuol dire sovradimensionato. Le eccedenze pagarlo 1.200-1.300 sono state smaltite con procedu- euro netti al mese. re di mobilità pagate dallo Stato In Ericsson, le italiano: prima con dimissioni in- stesse mansioni centivate su base volontaria e poi, sono remunerate dal 2015, con la procedura dei li- 1.500-1.700 euro cenziamenti collettivi. Lo scorso anno sono stati mandati via 133 dipendenti. Ora si attendono i risultati del primo trimestre 2016 per capire le intenzioni del colosso svedese. Se a fine marzo, come annunciato nel piano industriale, i risultati saranno inferiori alle previsioni, l’Ericsson potrebbe mettere sul piatto altri esuberi. Circolano dei numeri, niente di ufficiale: 200 per quest’anno e altrettanti per il 2017, oltre ai 33 lavoratori che nell’ultima vertenza l’azienda non è riuscita a mandare a casa. Dati che, se confermati, darebbero vita a una nuova primavera di lotte e incertezze. CALCIO MANCINO di EMANUELE SANTI LA TRISTE STAGIONE DEL COLONIA Nel campionato tedesco ’97-’98 il titolo finisce al Kauserslautern mentre il blasonato Colonia, per la prima volta nella sua storia, retrocede in seconda divisione privo di Anton Polster, seduto in tribuna insieme al figlio. In porta c’è Andreas Menger. In difesa Bodo Schmidt, Dirk Schuster e Karsten Baumann. Il rumeno Munteanu è il collante con il centrocampo: Ralf Hauptmann, Renè Tretschock, Markus Munch e il guineano Pablo Thiam appena rientrato dalla Coppa d’Africa. In attacco l’altro rumeno Vladoiu e l’iraniano con gli occhi a mandorla Khodadad Azizi. Arbitra il signor Hartmut Strampe di Handorf. La diga di Kostner regge l’urto e il primo tempo finisce 0-0. Il Trap si ripresenta con Zickler al posto di Basler ma, dopo cinque minuti della ripresa, Azizi sfugge ad Helmer che lo stende in area: rigore, il sinistro secco di Munch buca il gelido Kahn: 0-1. La reazione dei bavaresi è poca cosa e al ventesimo gli ospiti raddoppiano. Munteanu innesca Munch scatenato a sinistra, corsa perfetta, A febbraio, che guarda i carri sfilare. cross al bacio per il tuffo le caprette Sabato 28 febbraio si tordi Azizi che infila di testa biancorosse na in campo alle 15.30. tra palo e portiere. Il Trap vincono in casa Le caprette biancorosse prova prima con Lizarazu del Nayern grazie e poi con il fido Strunz, sono chiamate ad assaga una prestazione ma il risultato non camgiare l’erba dell’Olymmaiuscola piastadion, proibitivo bia più: 0-2. A fine stadell’ex di turno pascolo di un Bayern gione, il Bayern perderà Markus Munch Monaco che schiera in il titolo per due soli punti porta Oliver Kahn proe il Colonia, sempre per tetto in difesa da Babbel, Nerlinger, due soli punti e per la prima volta nella Tarnat ed Helmer. Lothar Matthaus sua storia, retrocederà in Serie B. Nelfa il libero aggiunto. Centrocampisti: la città natale di Agrippina, sorella di Mehmet Scholl, Didi Hamann e Mario Caligola e madre di Nerone, le feste in Basler. In atacco il brasiliano Elber fa piazza sotto al Duomo gotico non sacoppia col ruvido Jancker. Il Colonia è ranno più le stesse. © Illustrazione Antonio Pronostico I l 1998 è l’ultimo anno di cancellierato per Helmut Kohl in una Germania da poco riunificata. E ai tempi, ancora lontana dagli scandali sui fondi neri del maggior partito di governo per la vendita di armi all’Arabia Saudita e la svendita del petrolio dell’ex Ddr alla Francia. I Cristiano Democratici tedeschi devono comunque fare i conti con una disoccupazione che supera il 4 per cento, limite critico soprattutto in gennaio: mese in cui la Bundesliga, per ovvie ragioni climatiche, se ne va in letargo. Guida la classifica il neopromosso Kaiserslautern di Otto Rehhagel davanti al Bayern di Trapattoni e al Leverkusen di Christoph Daum. Sulle acque basse del Reno, e lontano dai fasti di un tempo, naviga invece il Colonia che, alla ripresa del campionato, supera 3-2 in casa il Borussia Monchengladbach e poi pareggia 1-1 a Wolfsburg. Tuttavia, nel giorno di San Valentino, la squadra di Lorenz Kostner delude i suoi tifosi innamorati: perde 0-2 al Mungersdorfer contro l’Amburgo e piomba in piena zona retrocessione. Per fortuna arriva un turno di sosta grazie alla Nazionale di Bertie Vogts invitata proprio nella penisola arabica per un’amichevole di cortesia con l’Oman. Intanto entra nel vivo il carnevale che, soprattutto in Renania, raggiunge l’apice non tanto il martedì grasso, chiamato martedì viola, quanto il giorno prima: lunedì delle rose, caratterizzato da grandi bevute e da una pioggia di petali e di dolci tra la folla in piazza 6 febbraio 2016 35 36 6 febbraio 2016 SE BOKO HARAM È DALL’ALTRA PARTE DEL FIUME Viaggio per le strade e per i campi di Diffa, in Niger. Un anno dopo il primo attacco dei “terroristi neri” e alla vigilia delle presidenziali del 12 febbraio, in città sono rimasti i più poveri, i militari e le organizzazioni umanitarie Testo e foto di Giacomo Zandonini - da Diffa «B envenuti a Diffa», tuona il responsabile sicurezza incaricato di condurre il security briefing per i tre giornalisti appena arrivati in città. «E non preoccupatevi: se volete dei rifugiati, qui ne troverete in abbondanza, dovunque». Incuneata nell’estremo sud-est del Niger, fino al 2013 Diffa non era che una placida città di confine, rinomata per la bellezza delle giovani di etnia kanouri e per i campi di peperoncini dalle tinte accese: l’oro rosso dei manga (una delle popolazioni kanouri), una produzione raffinata che garantiva la sopravvivenza di decine di migliaia di famiglie. L’espansione di Boko Haram nel nord della Nigeria, la cui frontiera dista appena 5 chilometri dalla città, ha poi gettato la regione nel caos. Sotto la polvere sollevata dall’harmattan, il vento dell’Atlantico che rinfresca il Sahel fra gennaio e febbraio, si nasconde oggi una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi anni, complicata dalle imminenti elezioni presidenziali del Niger previste per il prossimo 21 febbraio, e dall’insicurezza che domina tutta la regione. «Ricordatevi», conclude quasi compiaciuta la nostra prima guida in città, «loro sono lì che vi guardano, dall’altra parte del fiume». “Loro” sono evidentemente i “B. H.”, come i locali chiamano il gruppo terroristico, e il fiume è il Koumadougo Yobe, affluente del vicino lago Ciad, che segna il confine con la Nigeria. Come quasi tutte le città del Niger, Diffa è un avamposto dell’uomo contro il deserto, un ten- tativo di resistenza estremo sempre sull’orlo della sconfitta. Le piste delle carovane trans-sahariane si infilano nelle vie, costeggiano i perimetri in terra battuta delle case tradizionali. Poi, ci spiega un operatore dell’Unicef, attraversano gli «accampamenti costruiti dal 2013 nelle parcelle non utilizzate di tutta la periferia» e invadono incessantemente le poche carreggiate in asfalto, segno di un progresso invocato a gran voce nei palazzi della capitale Niamey, più di 1.500 chilometri di distanza. Ma a minacciare Diffa, più che le sabbie del Sahara che incombono a nord della città per arrivare a lambire le coste del nord Africa, in un fragilissimo e intricato equilibrio fra nomadismo e agro-pastorizia sedentaria, è la vicinanza ingombrante, insidiosa, del gruppo Boko Haram. «Almeno un attacco alla settimana, cinque solo nel gennaio 2016, con 8 morti», il nostro security manager snocciola numeri e strategie. Non sono le cifre della vicina Nigeria, terrificanti, eppure il nemico è fra noi: «Cellule dormienti, complici, fiancheggiatori, gli uomini di Boko Haram sono in tutta la regione». I seguaci dell’auto-proclamato califfo Abubakar Shekau colpiscono soprattutto villaggi isolati a ridosso del confine con la Nigeria, incendiando e uccidendo, lanciano attacchi suicidi in luoghi pubblici di Diffa, di Bosso (la seconda città della regione) e in altri centri abitati. E piazzano mine anti-macchina sulle piste sabbiose dei dintorni - l’ultima, a metà gennaio, ha ucciso 6 militari. Attraversano il fiume di notte, sostenuti da affiliati locali, per colpire in modo imprevedibile, 6 febbraio 2016 37 creando uno stato di panico sottile, che si infila polveroso nelle case dei nigerini e, con più forza ancora, nei ripari precari dei rifugiati, aggrumati attorno alle città; o come alveari, nell’asfalto rassicurante della Strada Nazionale numero 1 che collega Diffa al resto del Paese, ospita i convogli umanitari - fondamentali ma ancora insufficienti - e vibra affaticata all’accelerazione dei camion dell’esercito, carichi di uomini. Nel nostro lunedì pomeriggio caldo e ventoso, a raccontare l’inquietudine della capitale della regione dei manga, le vie sono tranquille, percorse a grappoli lontani da bambini usciti da scuola, asini e buoi dalle corna affilate, a mezzaluna. Una tranquillità In un anno, tra il febbraio 2015 forzata, eccessiva, trie oggi, si sono contati 338 morti stemente macabra. Il nella regione. Oggi, grazie allo primo attacco di Boko stato d’emergenza e agli sforzi Haram a Diffa risale militari, le città di Diffa e Bosso sono al 6 febbraio 2015. Un relativamente sicure atto di guerra, con offensive contemporanee su più fronti, respinte dai militari in servizio. Decine le vittime fra il capoluogo e Bosso, e oltre 100, secondo le autorità, i morti fra gli assalitori. È la prima di una serie quasi ininterrotta di violenze del gruppo terrorista nel territorio del Niger, annunciata nel 2014 da omicidi mirati e sporadici episodi di scontro a fuoco. In un anno, tra il febbraio 2015 e oggi, si sono contati 338 38 6 febbraio 2016 morti nella regione in almeno 70 attacchi, con un picco ad aprile - 74 vittime in un solo giorno fra i pescatori delle isole del Lago Ciad - e un assalto al carcere di Diffa nel mese di luglio. Oggi, grazie allo stato d’emergenza proclamato all’indomani dei primi attacchi e appena rinnovato dal Parlamento, a distanza di un anno, e agli sforzi militari dei quattro Paesi rivieraschi del lago Ciad (Niger, Ciad, Camerun e Nigeria) più il Benin, con l’appoggio di istruttori francesi e statunitensi, le città di Diffa e Bosso sono considerate relativamente sicure. Soldati con il fucile a tracolla scrutano le strade, passeggiando lentamente, barriere e posti di blocco chiudono le vie principali mentre cacciabombardieri ed elicotteri sonnecchiano sulla pista dell’aeroporto. Chi poteva, perché ha parenti altrove, se n’è andato, chi doveva, per le minacce subite - come il proprietario, fra gli imprenditori più ricchi della città, di due villette color pastello in stile hollywoodiano - anche. A Diffa son rimasti i più poveri, i militari e le organizzazioni umanitarie. Le moto, che affollavano le vie del centro, usate anche come taxi, sono proibite perché utilizzate in diversi attacchi terroristici, e la stessa vendita del peperoncino rosso, sospettata come la pesca di finanziare B.H., è stata vietata per oltre quattro mesi. Fra le sterpaglie e i muri di terra della periferia, ogni spazio è occupato da rifugiati nigeriani, da nigerini scappati dalle centinaia di villaggi lungo il fiume o da nigerini emigrati anticamente oltre il Koumadougo Yobe e costretti a riattraversarlo da violenze e saccheggi. Capanne di frasche e recinti improvvisati ospitano famiglie numerosissime, composte per oltre la metà da bambini, con capre e vacche. Sono i primi nigeriani a essere scappati, già nel 2013, e sono stati accolti dagli abitanti del posto, protagonisti dell’aiuto umanitario ancora prima dell’arrivo delle organizzazioni internazionali. Un’accoglienza spontanea che ha dell’incredibile, realizzata in uno dei territori più poveri al mondo. Se il Niger è all’ultimo posto nell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, con dati di malnutrizione e mortalità infantile elevatissimi, un analfabetismo che si avvicina al 50 per cento e un’aspettativa di vita di 54 anni, la regione di Diffa è infatti la più povera del Paese. È da qui che, simbolicamente, lo scorso 30 gennaio il presidente uscente Mahamadou Issoufou ha dato il via in modo altisonante alle tre settimane di campagna elettorale per le presidenziali e le legislative. Fra le priorità di un nuovo programma politico, il leader del Movimento per la Rinascita del Niger, coalizione di 21 schieramenti, ha citato proprio la lotta al terrorismo e l’allontanamento definitivo di Boko Haram dal Paese. A preoccupare i nigerini, stretti fra Boko Haram a sud, gruppi affiliati a Al Qaeda nel Maghreb islamico a nord, e coinvolti dall’instabilità di Li- bia e Mali, è però anche una tornata elettorale densa d’incognite, in cui la violenza potrebbe essere dietro l’angolo. Tanto più che, paradossalmente, il principale avversario di Issoufou, l’ex alleato Amadou Hama - il cui volto assorto campeggia sui manifesti elettorali - è in carcere dal novembre 2015, senza che nessuno processo sia iniziato a suo carico. Visto da Diffa, il programma delle “3N”, ovvero “i nigerini nutrono i nigerini”, slogan del presidente uscente, sembra ancora più ambizioso. Esauritasi la capacità di supporto delle comunità locali, per il momento molti degli oltre 150mila rifugiati e sfollati della regione sopravvivono infatti grazie ai pochi aiuti interna- Il Niger è ultima nell’indice zionali, mentre Issou- di sviluppo umano dell’Onu, fou ha messo a tacere e Diffa è la regione più povera con la forza le critiche del Paese. È proprio qui verso gli “spostamenti che il presidente uscente Issoufou preventivi” di miglia- ha dato il via alla campagna elettorale ia di persone esposte agli attacchi di Boko Haram sulle isole del lago Ciad. Operazione militare svolta, secondo alcuni giornalisti e attivisti, in modo approssimativo, se non violento. Vista da Diffa, e negli occhi spaventati di chi continua a cercare salvezza nella regione, la lotta contro Boko Haram, ormai infiltrato nei nervi più fragili della società locale, sembra ancora lunga. 6 febbraio 2016 39 TUTTE LE INCOGNITE DI UNA GUERRA IN LIBIA L’avanzata dell’Isis, le incertezze sul futuro governo e la difficoltà di trovare interlocutori locali. Troppe questioni insolute renderebbero controproducente un intervento armato di Claudia Gazzini* D a qualche settimana i media rilanciano notizie su un imminente attacco delle potenze occidentali alle basi dell’Isis in Libia. Siamo davvero a questo punto? E che razionalità avrebbe una missione militare in un Paese che ha avviato da pochissimo tempo un difficile e instabile percorso di unità nazionale? La preoccupazione dell’Europa, degli Stati Uniti e dei Paesi della regione, per la presenza di Daesh in Libia ha un fondamento serio. Non solo e non tanto perché questa si è consolidata a Sirte e si è pericolosamente avvicinata alle aree dei terminal petroliferi, ma perché si segnalano cellule attive anche in altre aree del Paese. Un accordo frettoloso Alla preoccupazione e all’accelerazione generata dall’avanzata di Daesh non corrispondono però idee chiare sul da farsi. Sappiamo per certo che l’accordo per la formazione di un governo nazionale a Skhirat è il frutto di pressioni internazionali, un’accelerazione frettolosa dovuta ai timori crescenti sulla forza acquisita dall’Isis in un Paese ricco di risorse petrolifere e al confine con l’Europa. Sappiamo che nelle capitali occidentali sono al vaglio diverse ipotesi di un possibile intervento. Il quadro mobile sul terreno rende infatti difficile scegliere una strada netta: militari e diplomatici non sanno se nelle prossime settimane avranno o meno a che fare con un governo nazionale credibile e stabile o se il processo avviato a Skirhat è destinato a incontrare ostacoli. Un conto sarebbe decidere di intervenire dopo che un governo libico che ha saputo guadagnarsi autorevolezza lo dovesse chiedere, un conto avviare un intervento militare in assenza di un’autorità nazionale riconosciuta dalla maggior parte 40 delle forze in campo. Non solo, dal punto di vista militare è più efficace utilizzare bombardamenti mirati o sarebbe necessaria, per funzionare, una presenza di qualche forma sul terreno? Serve un governo, ma non fantoccio Di certo la formula francese, che in Africa tende a intervenire per interposta persona, utilizzando gli eserciti delle ex colonie, sarebbe un disastro. Il Ciad è mal visto in Libia e alcune milizie attive nel Paese sono considerate una longa manus di N’Djamena. Al momento non sembra esserci un’ipotesi prevalente, proprio perché i pro e contro di ciascuna strategia sono molte e la situazione sul terreno è fluida. L’accordo politico-diplomatico fatto firmare in fretta e furia lo scorso dicembre a chiunque decidesse di starci, resta molto fragile: non è certo se ci sarà un governo votato dal parlamento di Tobruk o se questo governo si costituirà davvero. E non è chiaro se e come un eventuale governo farà un invito formale a intervenire contro Daesh. Non sarebbe comunque un bene: un invito esplicito potrebbe rivelarsi controproducente perché rafforzerebbe nella società libica la convinzione che il governo nazionale sia un fantoccio creato appositamente per legittimare un nuovo intervento militare occidentale. Il terreno per qualsiasi tipo di missione militare è terribilmente scivoloso. Così come sarebbe rischiosa l’idea di lasciare il Paese senza governo, con le forze di sicurezza divise tra loro: Daesh mostra dinamismo ed è in una fase di avanzata verso Est. Tra le sue fila ci sono libici e combattenti stranieri, soprattutto provenienti dalla regione. Inoltre, in molti gruppi armati libici c’è una certa esitazione a prendere le armi contro l’Isis: un po’ per timore delle stragi e della 6 febbraio 2016 Dicembre 2015. A Sirte i jihadisti hanno invitato i residenti ad assistere alla “laurea” di 85 “Cuccioli del Califfato”, under 16 addestrati per diventare kamikaze brutalità viste in Iraq e Siria, un po’ per la scarsa percezione del Califfato come pericolo. Intelligence e training Qualunque strategia militare per contenere Daesh avrebbe più forza se ci fosse un processo chiaro sul futuro politico del Paese. Occorrerebbe ripensare i termini dell’accordo di unità nazionale e rivedere la composizione del consiglio presidenziale. Avere un governo più stabile e forte e, solo poi, sostenerlo militarmente in maniera discreta, con intelligence e training: è probabilmente questa la soluzione più sensata ed efficace per il futuro della Libia e per contenere la minaccia che oggi Daesh oggettivamente rappresenta. *Senior analyst per la Libia di International Crisis Group © Twitter Rita Katz/Ansa Per contenere Daesh è necessario incoraggiare un processo politico capace di costruire un governo credibile. Un eventuale aiuto militare dovrebbe farsi notare il meno possibile Interlocutori pericolosi Che fare allora? Innanzitutto rendersi conto che la presenza di Daesh non è omogenea e non è limitata a Sirte. Qui l’Isis si è imposto sulla realtà locale cacciando milizie che avevano usato modi brutali con la popolazione locale (qualcosa di simile a quanto successo nel triangolo sunnita in Iraq). A Bengasi, invece, il gruppo è alleato con altri gruppi islamisti, qaedisti e non contro nemici comuni. A Derna le forze islamiste combattono Daesh frenandone l’avanzata. Tre realtà diverse e molte sfumature di cui occorre tenere conto per qualsiasi strada si decida di prendere. È poi importante individuare gli interlocutori giusti. Chi è bene includere e chi no? Facciamo un esempio: a Sirte, Daesh è forte perché negli anni scorsi alcuni gruppi militari di Misurata sono stati particolarmente brutali nei confronti degli abitanti della città roccaforte di lealisti gheddafiani e così i gruppi locali hanno cercato la protezione di Ansar al-Sharia, gruppo radicale di matrice libica, che poi nel 2015 è stato assorbito dall’Isis. Coinvolgere quei gruppi di Misurata sarebbe, per esempio, un disastro. Occorre scegliere con grande attenzione. C’è poi da segnalare la mancanza di idee in rela- zione a ciò che dovrebbe accadere dopo l’eventuale intervento armato. Non potrebbe essere altrimenti, la situazione è in continuo movimento e l’impegno della comunità internazionale è volto soprattutto a liberare Tripoli. Manca però un’idea organica di cosa debba essere la Libia della fase successiva al governo di unità nazionale. Su questo occorre fare chiarezza, capire chi e come debba essere un partner. Prendiamo il caso del generale Haftar, che vuole assicurarsi un ruolo da leader militare, ma è malvisto da alcuni dei suoi comandanti e odiato dai capi militari dell’Ovest del Paese: Haftar è o meno un interlocutore? 6 febbraio 2016 41 HILLARY CONTRO HILLARY Sanders ha mostrato di essere un avversario temibile per la Clinton che paga la sua intimità col potere. I repubblicani sperano in Rubio di Martino Mazzonis T ra il 2000 e il 2016 il numero marla ci sono i candidati giusti, come il di elettori democratici e che rivoluzionario Sanders, il personaggio si definiscono liberal - che in Trump o l’anti establishment Cruz, il America significa di sinistra - è gioco è fatto. passato dal 29% al 44% del to- Quanto è capitato in Iowa lo scorso martale. Specie tra le giovani generazioni, tedì si spiega dunque con la voglia degli quelle che hanno cominciato a votare elettori di far saltare il banco accompanel 2008, contribuendo in maniera non gnata dalla grande capacità di Ted Cruz marginale alla vittoria di Barack Oba- di usare i Big Data per individuare le perma. Se c’è un modo non impressionisti- sone giuste a cui rivolgersi - il senatore co per spiegare come mai Bernie San- del Texas ha speso 3 milioni per l’analisi ders sia competitivo nella corsa per le dei dati - e di stringere alleanze con gli primarie democratiche, quel dato è un evangelici, due terzi dei repubblicani buon punto di partenza. dell’Iowa, molti meno altrove. Parlando di un sistema più giusto, delMa cosa ci dice il voto di questa settilo strapotere delle banche, della ecces- mana del futuro delle primarie? I causiva timidezza di Hillary cus dello Stato “first of Clinton nei confronti Bernie è pronto the Nation”, primo a vodelle banche, il senatore ad arrivare fino tare, non servono a capidel Vermont ha parlato in fondo per re chi saranno i nominati a una buona fetta della portare le sue idee alla fine, quanto a tagliabase democratica e alla alla convention. re teste. E in Iowa, salvo grande maggioranza dei Ha spiegato che enormi sorprese nelle giovani che votano il par- la rivoluzione è primarie del New Hamtito. L’essere un outsider appena cominciata pshire del prossimo marcontrapposto a una cantedì, le teste sono cadute. didata come Hillary ha aiutato a racco- Chi tra Bush, Christie, Fiorina, non arrigliere i consensi delle persone stanche va primo o secondo martedì prossimo è del modo in cui Washington funziona. uno zombie. Il sentimento è diffuso e agita entram- L’Iowa lancia anche dei personaggi, li bi i partiti: dal 2008 in poi ogni elezione rende credibili. Due per tutti: Bernie nazionale, presidenziale o di midterm Sanders, che ha dimostrato di esseha il suo portato di rivolta. Se ad ani- re un candidato capace di reggere alla 42 6 febbraio 2016 pressione, abile con i media e di saper scegliere bene il suo staff. Sono doti importanti in una lunga corsa come quella delle primarie. L’altro è il grande vincitore dell’Iowa, Marco Rubio, che è arrivato terzo, ma che i sondaggi davano quarto a grande distanza. La buona performance del senatore della Florida è ossigeno per quello che in Italia definiremmo “il Palazzo” e che negli Usa si chiama Washington. Se questi otterrà un buon risultato in New Hampshire, dove però ha diversi contendenti localmente forti, allora la scelta dell’establishment diventerà lui e le pressioni su Bush e gli altri moderati perché si ritirino sarà immane. Che Bush si ritiri per fare spazio al suo allievo in Florida divenuto Bruto, è un destino triste per il candidato che tutti consideravano l’uomo da battere. I conservatori gli sparano addosso per il cambio di opinione sull’immigrazione da favorevole a una riforma moderata, al campione della chiusura delle frontiere - che poi è la carta più forte usata da Trump in questa contesa. Rubio è anche una cattiva notizia per i democratici: è preparato, giovane, ispanico e viene dalla Florida, senza la quale è difficile arrivare alla Casa Bianca: Al Gore, ancora sogna un George W. Bush vestito da coccodrillo delle paludi inseguirlo gridando “ho vinto io”. © Andrew Harnik/AP Photo Soldi spesi, sondaggi, paura di Trump • Martedì si vota in New Hampshire, nel 2012 tra i repubblicani vinse Romney e Ron Paul arrivò secondo. I sondaggi dicono Trump 34%, Cruz 11,9%, Kasich 11,8% e Rubio 9,7%. Tra i democratici stravince Sanders 55% a 37%. Clinton sopra il 40 sarebbe felice. • In Iowa Sanders ha vinto tra i giovani (80%) e tra i 3044enni (58%). Clinton va bene tra i più anziani, che però sono la maggioranza degli elettori dello Stato. • In Nevada e South Carolina Clinton è avanti di più di 20 punti su Sanders. • Bush ha speso 2.800 dollari per ogni voto preso in Iowa. • Il 72% dei giovani neri interrogati da un sondaggio ha detto che in caso di vittoria di Trump prenderebbe in considerazione l’idea di lasciare il Paese. Hillary invece sogna lo spettro del La verità è che Bernie ha già raggiunto 2008, appena allontanato con la vitto- il suo obiettivo: Hillary non è più sicuria dello 0,2% in Iowa. Martedì prossi- ra di farcela, il suo consenso in Iowa è mo è destinata a perdere e per questo andato calando nelle ultime settimane, ha già deciso di usare più risorse per il mentre quello del senatore del Vermont voto in South Carolina e Nevada. Qui cresceva. La sua posizione è «sono lieta vota una quota consistente di afroa- di avere un confronto serio con Bernie mericani e ispanici gruppi con i quali su quale sia il modo migliore per far ha un vantaggio potenziale. A meno crescere il Paese». Tradotto significa: io che l’effetto Sanders - che arriverà a ho posizioni puntuali che possono esfine mese con una vittoria e un pareg- sere messe in pratica, Sanders propone gio - non si riveli più serio di quanto cose irrealizzabili che faranno paura ai abbiamo visto fino ad oggi. Bernie ha moderati quando si voterà per la Casa spiegato che la rivoluzione (contro la Bianca. Intanto però lo ha inseguito, finanza e gli straricchi) è appena co- o meglio, ha inseguito il 44% di liberal minciata. Cosa intende dire? Che a del suo partito avanzando proposte e prescindere dalla nomiprendendo posizioni più nation, alla quale cominradicali di quanto non cia a credere, il socialista Clinton perderà avrebbe mai fatto sui neri democratico intende an- in New Hampshire e di Black Lives Matter, suldare fino in fondo, con- punterà le sue carte le armi, sul salario minitendendo a Clinton ogni su afroamericani mo. Il problema è che ai Stato e arrivare alla con- e donne. Intanto si liberal Hillary non piace vention per promuovere consola con lo 0,2% proprio. Per adesso non la sua agenda di sinistra. in più di Sanders ha saputo proporre una Sanders intende, anche narrazione diversa da dovesse perdere (come tutto sommato “portiamo a termine il lavoro di Obaprobabile), influenzare il partito che ma” accompagnata da “il posto di una lo ha sempre trattato come un’allegra donna è la Casa Bianca”. Il secondo è un mascotte, quando ha lanciato la sua ottimo slogan, se non fosse lei, capace candidatura ha spiegato: «Non voglio e preparata, ma troppo vogliosa di vinche le primarie siano un’incoronazio- cere, a voler diventare la prima donna ne». Obbiettivo raggiunto. presidente. 6 febbraio 2016 43 © The Weinstein Company Far West America The Hateful Eight è l’ultimo film di Quentin Tarantino. Tra duelli, sangue, arti mozzati e pistole fumanti, il re del pulp ci racconta gli Stati Uniti, il razzismo e la politica di Giorgia Furlan uando ho messo la penna sulla carta e ho scritto la prima frase della sceneggiatura: “diligenza che si fa strada in un paesaggio coperto di neve” non pensavo che sarebbe andata così e che The Hateful Eight diventasse un film politico». È in questo modo che Quentin Tarantino inizia a raccontare il suo ottavo film, ambientato qualche anno dopo la fine della Guerra Civile Americana, nella quale il Sud schiavista delle grandi piantagioni è stato sconfitto dal Nord yankee e industrializzato. «Scena dopo scena - spiega Quentin - i personaggi hanno cominciato a parlare, a discutere fra loro. È lì che mi sono reso conto del legame che c’era con le questioni che più caratterizzano la realtà politica e sociale dell’America di oggi e lo scontro fra democratici e conservato44 6 febbraio 2016 ri. Poi abbiamo cominciato a realizzare il film e questa sensazione si è fatta più forte. Ci abbiamo messo un anno a completare le riprese, giravamo, andavamo a casa, vedevamo i tg, il giorno dopo commentavamo le notizie. E, mano a mano, l’epoca in cui è ambientato il film (all’incirca il 1870 ndr) si dimostrava perfetta per raccontare quello che stava avvenendo là fuori, nell’America del 2015. Perfetta più di quanto ci saremmo mai aspettati». La realtà “là fuori” a cui fa riferimento Tarantino è soprattutto quella di Black Lives Matter. Quella del Far West contemporaneo in cui poliziotti bianchi sparano a ragazzi neri, spesso disarmati. Quella di chi protesta per dire che anche le vite degli afroamericani contano. E infatti gli Stati Uniti di oggi sembrano avere davvero molto in comune con il Far West raccontato da Tarantino. Lo stesso regista in merito ha una strana teoria. Strana ma estremamente convincente: «ogni epoca ha avuto un tipo di western diverso e sulla base di come venivano fatti i film western si riesce a capire molto della società che li ha prodotti. In The Hateful Eight parlo di un gruppo di brutta gente con troppe armi e nessun posto in cui andare. Se aggiungiamo che è gente senza diritti né legge e pure un po’ razzista, quello che ci resta è una bella tazza di caffè avvelenato da servire al pubblico». Insieme al giornale con le notizie del mattino, ovviamente. La realtà fuori dal set raccontata dagli attivisti di Black Lives Matter sembra davvero confermare la visione di mr. Tarantino. Si va dalle decine di video diffusi online e dalle emittenti all news in cui, in un duello impari e mortale, ragazzi neri sono fatti fuori a sangue freddo da agenti della polizia, fino ai comizi che tracimano di insulti razzisti del milionario Donald Trump. Quello che è successo nelle strade d’America lo scorso anno, mentre Quentin Tarantino era intento a girare lo sa bene Alicia Garza fondatrice di Black lives matter ed «È terribile, ma non è diverso da quello che è accaduto per un sacco di tempo nel nostro Paese e che magari era semplicemente meno evidente». Il commento di un’altra attivista, Ashley Yates, potrebbe poi essere una “morale” perfetta per il film: «Le persone hanno bisogno di capire che il silenzio si trasforma in connivenza. E che è assurdo chiedere a qualcuno di restare calmo e controllato di fronte a delle scene così dolorose (e reali ndr). Quando stai per essere ammazzato, non puoi permetterti di dire le cose sussurrando pacatamente». E questo infatti è proprio quello che non avviene in The Hateful Eight. Qui, diplomazia e pacatezza non sono il modo giusto per salvarsi la pelle. Lo spiega bene il Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), unico nero in un covo di bianchi armati fino ai denti, che porta con sé nel taschino una lettera del presidente Lincoln a lui indirizzata come fosse una pistola nella fondina. Warren parla poco, ma quando apre bocca non sussurra mai. Soprattutto, come dice lui stesso in una scena del film, è consapevole del fatto che: «Un uomo nero non è mai al sicuro quando è disarmato di fronte a un bianco». “Gli odiosi otto” ci ricordano anche, proprio con il personaggio di Marquis, che il passo fra l’essere eroi o delinquenti è più breve di quanto si immagini. E forse, se Tarantino non fosse stato Taran- tino, così pop e così pulp, avrebbe potuto dirlo usando le parole di Bertold Brecht: anche l’odio contro la bassezza, stravolge il viso. Anche l’ira per l’ingiustizia fa roca la voce. Noi, che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si potè essere gentili. Anche il Maggiore Warren, come gli altri sette protagonisti del film, si è trasformato in un bugiardo, spietato e ingiusto. L’idea è che, in un mondo in cui homo homini lupus, è questione di sopravvivenza e bisogna essere armati. Di parole, forse più che di pistole. Per tutto il film si ripete di continuo con disprezzo l’espressione “negro”, eppure «a furia di ripeterlo la parola si sgonfia, perde il suo valore denigratorio» spiega Micheal Madsen che interpreta il ruolo di Joe Gage «Mi piacerebbe che questo accadesse anche nella società là fuori, vorrei veder sgonfiare quella parola, vederla sparire, ridotta a nulla più che una battuta». In tutti i suoi film Quentin tesse una ragnatela fitta e sottile, anche con The Hateful Eight è così, e, in questo intreccio fatto di battute, sguardi e pistole sguainate, incastona il personaggio del cacciatore di taglie John Ruth detto “Il boia” (Kurt Russel). John Ruth rappresenta, forse più degli altri, l’essenza di quello che dovrebbero essere gli Stati La realtà fuori Uniti: «un Paese in cui anche dal set raccontata la persona più piccola e insi- dagli attivisti di gnificante aveva diritto ad un Black Lives Matter processo davanti a un giudice» è terribile, ingiusta dice Kurt Russell. Ruth ci cre- e cruenta. E sembra de fermamente: ognuno deve confermare la visione essere portato vivo di fronte di Tarantino al giudice. Per “il boia” siamo tutti uguali. E lo dimostra anche quando scopre che la lettera di Lincoln che Marquis sfoggia con orgoglio, è un falso, un espediente inventato dal Maggiore per sentirsi al sicuro in una terra che ancora gronda razzismo. «Il mio personaggio ci rimane molto male quando scopre la verità - racconta Russell - e in quel momento potrebbe dire tante cose all’uomo nero che gli siede di fronte e lo ha deluso, ma non lo fa. Sceglie una parola sola per definirlo: bugiardo» e, ancora una volta è una questione di linguaggio. John Ruth usa un termine che non è bianco o nero, ma che definisce il mondo secondo i criteri di vero e falso o, ancora meglio: di giusto. È per questo che il senso che porta con sé quella parola riesce a dirci meglio di molte altre qual è l’idea che Quentin Tarantino ha dell’America. 6 febbraio 2016 45 Quentin Tarantino ottavo film, ottavo nano In The Hateful Eight il cultore dell’analogico e del cinema in pellicola è a disagio nell’era digitale. Sembra mezzo insanguinato come uno dei suoi personaggi Magg. Marquis Warren (Samuel L. Jackson) È un ex ufficiale dell’esercito dell’Unione e odia i sudisti. Porta sempre con sè una lettera che gli ha scritto il presidente Lincoln Gen. Sandford Smithers (Bruce Dern) È un ex generale nostalgico dell’esercito confederato. Si trova da quelle parti perché sta cercando il figlio morto qualche anno prima I di Francesco Gatti l re dell’analogico, del cinema in pellicola, delle videoteche per cinefili, per quanto ancora riuscirà a sopravvivere nel regno veloce e schiacciante del digitale e dello streaming? Il regista che si faceva inseguire dalla rete, intrippata dal gioco delle citazioni, riuscirà d’ora in poi a difendersi dalla violenza tecnologica della generazione Wikileaks e Netflix? Come farà Quentin Tarantino ad essere ancora, in un qui ed ora sempre più fluido e distratto, il “Quentin Tarantino” speciale, che lascia il segno, destinato ad imprese sempre geniali? Al momento, rialzandosi zoppicante dalla bagarre, ha le ossa rotte ed è mezzo insanguinato, quasi come uno dei suoi personaggi pulp. Se fosse un suo film diremmo che dei criminali lo hanno derubato della sceneggiatura e poi del suo film. Servirebbe uno dei suoi pistoleri, killer o psicopatico qualsiasi, per vendicarlo. Ma non siamo in un film. Appena due anni fa, tale è il culto nei suoi confronti, l’attesa per una nuova opera ha portato a un sorpasso a destra: la rete, che vent’anni prima nasceva per il grande pubblico e che contribuì ad esaltarne il fascino, lo ha tradito: la sua sceneggiatura appena scritta di The Hateful Eight, dopo essere stata affidata a sei persone, tra loro Michael Madsen, Bruce Dern e Tim Roth, è finita brutalmente su internet. Il regista depresso e deluso decise di non realizzare più il film. Denunciò gli hacker, fece una lettura pubblica del testo, per poi 46 6 febbraio 2016 cambiare idea, dopo aver apparentemente elaborato il lutto. Ma due anni dopo, a film finito, prima dell’uscita di dicembre, già 220mila persone lo avevano scaricato illegalmente. E ora, al botteghino, è sostanzialmente un flop, almeno negli Stati Uniti, 44 milioni di budget e 50 incassati in 5 settimane. Inoltre come può essere ancora alla moda il suo cinema forzatamente postmoderno, seducentemente senza sostanza, senza contenuti che non siano citazioni, in un presente che sembra invece anelare a un maggiore senso di realtà? Di Caprio nella dimensione selvaggia di The Revenant rimanda alla ferocia di questo mondo, Tarantino rimanda al massimo a Sergio Corbucci. Tutto questo arrancare non può non avere conseguenze sul piano della fiducia in se stesso. E di tutto questo, crediamo che il regista sia consapevole. E si sa, l’assedio, la pressione psicologica possono condizionare, spingere all’errore, all’esagerazione, all’autoesaltazione per colmare un vuoto. Per questo Tarantino sottolinea già dai titoli di testa che The Hateful Eight è il suo “ottavo film”, cercando di farci riconcentrare sul suo percorso d’autore, come se l’ottavo fosse l’imperdibile ennesimo capitolo di un decalogo scritto sulla pietra; per questo mentre il cinema va verso il digitale lui frena verso la pellicola, e anzi esagera con un 70 mm. ultra panoramico, facendo di necessità virtù, puntando sulla debolezza per distinguersi, potenziando il suo essere analogico, perché sa che tutto è ormai digitale; per questo © Peter Foley/Ansa Epa John Ruth “Il boia” (Kurt Russell) Cacciatore di taglie esperto ha catturato Daisy Domergue ed è intenzionato a vederla penzolare dalla forca del boia ad ogni costo Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) È l’unica donna degli otto. Prende un sacco di botte, ma non sembra preoccuparsene troppo. esagera con il grand guignol, stavolta più che mai gratuito, tra gomitate in faccia, nasi soffiati in favore di cinepresa, sangue vomitato a fontana, galline scuoiate, braccia amputate, impiccagioni, e ovviamente il solito puro splatter dei cervelli che esplodono; per questo, in un’auto indulgenza piena di io io ed io, di auto citazioni, diventa talmente insicuro da inserire una voce narrante che fa da stampella e legge le didascalie delle scene; tanto insicuro da non tenere a bada Morricone che gli consegna una colonna sonora non adatta, non La rete sorpassa western e riciclata da scarti di al- Tarantino a destra, tri film come La Cosa di Carpen- prima lo deruba ter, fatta di marcette stranianti; della sceneggiatura, tanto insicuro da rifare Le Iene in poi diffonde copie salsa western, ma con la didasca- piratate del suo licità di un imitatore. ultimo film che La salvezza forse la troverebbe al botteghino, uscendo da se stesso e dalle sue almeno negli Usa, partiture, come fece in Jackie è sostanzialmente Brown, tratto da un romanzo non un grande flop suo. Non sarà la rete ad aiutarlo, né il culto che lo circonda: i critici continuano ad appoggiarlo perché anche gli errori dei “geni” sono voluti, e i termometri anche se più contrastati segnano ancora positivo. Nell’attesa, prima che torni in sé, o che diventi un sé 2.0, noi lo chiameremo semplicemente Quentin Tarantino, senza virgolette, senza sottolinearne il genio. Perché è in crisi. Perché la modernità ha partorito un Tarantino insicuro. Bob “Il messicano” (Demian Bichir) Sostiene di lavorare all’emporio dove gli 8 si riparano dalla tormenta di neve. Segni particolari: l’accento messicano Oswaldo Mobray (Tim Roth) Si presenta come il boia della zona (con tanto di biglietti da visita). Ha modi da gentleman inglese Joe Gage (Micheal Madsen) Taciturno e silenzioso, dice di essere un mandriano che sta tornando dalla madre per Natale. Passa il tempo scrivendo le sue memorie Chris Mannix (Walton Goggins) Dice di essere il nuovo sceriffo del paese. Sudista convinto, è il cerino che in ogni occasione fa esplodere la tensione 6 febbraio 2016 47 Quel genere di storie «Il fumetto femminile non esiste» dicono cinque illustratrici a Left. Poi però se un festival esclude le donne, scoppia il finimondo. Tra vita quotidiana e molti coming out, breve bibliografia di genere di Massimo Basili l fumetto femminile? «Non esiste». Che sia realizzato da uomini, donne o marziani, a detta delle cinque valenti autrici intervistate in occasione della recente uscita dei loro rispettivi graphic novel, conta solo che sia buono. E se c’è una cifra che lega tutti i lavori che vi raccontiamo in queste pagine, è semmai la scelta di raccontare vicende quotidiane, di volta in volta declinate nella commedia o nel diario intimista. Eppure non sono mancate le voci di disappunto dopo l’annuncio che tra i trenta candidati al premio alla carriera del prossimo Festival internazionale del fumetto di Angoulême, la Cannes del fumetto, non comparisse nemmeno una donna. Polemiche e successive defezioni, con il direttore del festival Franck Bondoux, che è riuscito a mettere una toppa peggiore del buco, aggiungendo prima alla rosa dei premiandi un contentino di sei autrici, poi annullando del tutto la selezione, lasciando scelta libera ai giurati. Alla fine ha vinto il torinese Pietro Scarnera con la biografia illustrata di Primo Levi, Una stella tranquilla, edita in Italia da Comma22. Sempre giustificandosi, Bondoux ha detto «non si può riscrivere la storia del fumetto». Dimenticando nomi importanti come Trina Robbins o Claire Bretécher, Hagio Moto o Takahashi Rumiko. In Italia, Grazia Nidasio o, come vi raccontiamo ora, tante giovani autrici. La trentaseienne Giulia Argnani, faentina, è la più anziana del gruppo; dopo due libri e nume48 6 febbraio 2016 rose storie brevi, alla scorsa edizione del festival BilBolbul ha presentato la sua ultima fatica, Up all night, per l’unica etichetta italiana di fumetti lgbt, Renbooks. Il libro racconta la storia d’amore tra Chiara, ragazza di provincia schiacciata dalle incombenze quotidiane, e Greta, front girl di un gruppo rock, libera e indipendente. «È un impasto di vicende personali e di altre inventate: volevo che arrivassero al lettore in maniera accattivante», ci dice, «è difficile che io racconti una storia che non mi abbia toccato da vicino, perché ho bisogno che le cose mi passino attraverso». Sebbene questo sia il secondo libro a tema lgbt dopo il primo commissionato da Mondadori, Argnani non ha una particolare predilezione per l’argomento: «M’è capitato e l’ho fatto volentieri, è stata una bella esperienza. Quando si tratta di scrivere cose mie a volte parlo di amori lesbici, sì, ma non voglio fossilizzarmi. E poi, a dire il vero, Up all night tocca l’argomento ma l’omosessualità non è il fulcro della storia. Alla questione politica non penso mai: mi piace parlare della vita di tutti i giorni, che è già una cosa, mi pare, molto politica. È stato più facile essere accolti da una casa editrice di settore, ma sogno un mondo dove non ci siano differenze, almeno nel fumetto». La romana Marta Baroni, classe 1989, ha invece da poco realizzato Al sole come i gatti dopo aver lasciato la sua amata città per trasferirsi a Bologna. Il trauma del distacco si riversa in maniera 6 febbraio 2016 49 malinconicamente deliziata nel fumetto, dove i luoghi e i quartieri della Città Eterna diventano il pretesto per evocare le esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza. Al suo primo libro, ai testi e ai disegni dopo diverse autoproduzioni, Baroni è grata alla squadra di Bao Publishing - editore in gran spolvero e particolarmente attento alla promozione delle autrici italiane per averla sostenuta: «Realizzando un fumetto autobiografico si rischia di cadere nell’autoreferenziale. La difficoltà più grande è stata proprio riuscire a rendere universale qualcosa di estremamente intimo. I lettori sono riusciti a immedesimarsi in un racconto di formazione: anche se ambientato in luoghi che non conoscono, racconta momenti e sensazioni che tutti abbiamo vissuto». Nonostante Baroni abbia studiato fumetto, non trascura l’attività d’illustratrice per ragazzi: «Mi diverte moltissimo e spero di continuare a farlo. Dell’illustrazione mi piace l’immediatezza, il lavorare su un’atmosfera. Tra fumetto e illustrazione non mi sento di preferire uno all’altro, ma da quando ho iniziato a lavorare a questo libro sento di avere voglia di affermarmi sempre di più come autrice». Flavia Biondi ha ventisette anni, è originaria di Castelfiorentino ma vive anche lei a Bologna e con Renbooks ha pubblicato già tre libri con personaggi omosessuali; non si smentisce neppure approdando a Bao con La generazione, nel quale il giovane Matteo torna nel paesino natale della provincia toscana dopo aver lasciato il fidanzato a Milano, rifugiandosi a casa delle zie vedove e zitelle, con nonna malata e a carico, per nascondersi dal padre, al quale non riesce a dire di essere gay. Ma la questione “rainbow” non è il cardine del fumetto, anche in questo caso: «Le mie storie nascono da un’immagine. Qui è stata un’occasione triste, il funerale di mia nonna. Vedendo le mie zie e mio padre accompagnare la madre per l’ultima volta verso il cimitero ho riflettuto sulla famiglia. Poi ho romanzato». Di autobiografico non c’è molto altro: «Non ho nessun problema per la mia omosessualità, dalla mia famiglia ho avuto un grande sostegno. Poiché da anni sto a Bologna, con Matteo condivido però la paura del fallimento, sebbene mi sia sempre impegnata a farcela da sola. Il dubbio è comune: cosa succederebbe se non riuscissi nei miei 50 6 febbraio 2016 DA LEGGERE Le cinque fumettiste italiane riunite in questa intervista più Chloé Cruchaudet: ecco le letture consigliate per non ripete l’errore di Franck Bondoux, direttore di Angouléme. Dunque, rimedi contro il sessismo. Up all night di Giulia Argnani, Renbooks. Al sole come i gatti di Marta Baroni, Bao Publishing. La generazione di Flavia Biondi, Bao Publishing. Finisco di contare le mattonelle di Elisabetta Romagnoli; Bao Publishing. Incendi Estivi di Giulia Sagramola; Bao Publishing. Poco Raccomandabile, di Chloé Cruchaudet, Coconinopress. Illustrano queste pagine alcune tavole di Incendi estivi, opera di Giulia Sagramola, Bao Publishing obiettivi e dovessi tornare a casa con la coda tra le gambe?». Smentendo l’evidenza, Biondi pensa di non essere la persona giusta per fare fumetti “impegnati”. «Mi piace fare storielle d’amore e non me ne vergogno affatto, sono una persona semplice», dice, anche se poi il tema del coming out ricorre con prepotenza. «Secondo me è quel momento in cui cambia qualcosa nella vita di un omoses«Spesso gli autori di suale: c’è il prima e c’è il dopo e fumetti fanno vedere solo poi ci sono i problemi pratici, lo la protagonista femminile, stare in coppia; ecco, un fumetto durante le scene di sesso». più politico dovrebbe occuparsi Lo stereotipo sta anche lì: del futuro, perché quando instauri «Io volevo invece che lui una relazione a lungo termine coe lei fossero alla pari», ci minci a farti delle domande». dice Giulia Sagramola Finisco di contare le mattonelle è invece il poetico titolo scelto dalla romana Elisabetta Romagnoli, ventisette anni, per il suo esordio a fumetti con Bao. Adesso sta cimentandosi come illustratrice, visto che «mi si addice di più». Il suo stile iconico, coi suoi colori pastello e le sue figure sottili sembra non trovare posto nell’illustrazione classica, «in- vece questa formula di fumetto-illustrazione, così grafica, a quanto pare funziona». Tutto nasce da un’illustrazione fatta per sé dalla quale, dopo il confronto con l’editore, è venuta fuori la storia di Chiara, innamorata di Matteo da tredici anni tanto da inseguirlo fino a Barcellona per capire se con lui ha qualche possibilità. Se si esclude un libro di Gianni Rodari che le è servito d’ispirazione per il finale “a bivi”, tra cui uno decisamente horror, la vicenda è in parte autobiografica: «Credo che a tutti quanti sia capitato di provare a raggiungere un amore». Tra tutte le autrici intervistate, la fabrianese Giulia Sagramola, non ancora trentun anni, è quella più visibile nei festival e nelle fiere specializzate non solo italiandìe, grazie a una lunga gavetta nel fumetto indipendente e la co-creazione di una blasonata autoproduzione, Teiera, un libro sulla sua infanzia uscito per Topipittori e la partecipazione al Collettivo francese di fumettiste contro il sessismo, che si prefigge di superare le barriere di genere nel mondo del fumetto. Proprio durante una residenza d’artista nella sede del più importante festival di fumetto europeo, ad Angoulême, Sagramola ha terminato Incendi Estivi, al quale lavorava da sei anni: «È il mio primo fumetto lungo non autobiografico: racconto i rapporti fra sorelle e fra migliori amici in un contesto diverso da quello di oggi, agli inizi degli anni Duemila, quando io ero adolescente. Mi fa effetto pensare che nel giro di quindici anni la tecnologia è andata così veloce che i giovani non vivono più la noia allo stesso mio modo. Senza volerlo è venuto fuori proprio un libro sulla noia, sul vivere in provincia, sui primi amori». Ne sono protagonisti i diciottenni Rachele e Stefano, con la sorella più piccola di lei, Sabrina, e un gruppo di coetanei, sullo sfondo di misteriosi incendi notturni che punteggiano un’estate indolente. Chiedo a Giulia se il punto di vista femminile su alcune scene di sesso tra i suoi personaggi sia stato decisivo: «Non m’interessava essere voyeuristica ma volevo essere lì con loro. E poi volevo che lui e lei fossero alla pari, mostrando le emozioni di entrambi, visto che spesso gli autori di fumetti fanno vedere solo la protagonista e mai la parte maschile. Personalmente, mi piace disegnare i maschi e credo che continuerò a esplorare l’erotismo, magari con delle storie brevi». 6 febbraio 2016 51 52 6 febbraio 2016 © Illustrazione Antonio Pronostico Facciamo luce nella materia oscura A 400 anni dalle scoperte di Galileo conosciamo solo il 2,5 per cento dell’universo. Adesso un satellite cinese prova a cercare la presenza nel cosmo di materia oscura. Che secondo gli scienziati esiste eccome di Pietro Greco partito dal deserto del Gobi lo scorso 17 dicembre per lo spazio e ora ruota, in un’orbita bassa, intorno alla Terra. Si chiama Dampe (Dark matter particle explore), ma dalle parti di Pechino è noto come Wukong (il Re Scimmia): come l’eroe di una novella del Cinquecento. Ed è il contributo cinese alla ricerca, dallo spazio della soluzione a uno dei più grandi misteri della cosmologia moderna: la presenza nel cosmo di “materia oscura”. Dove l’aggettivo ha il duplice senso: di materia che non si vede, ma anche di materia di cui ignoriamo persino la natura. Sappiamo solo che, se davvero c’è, è completamente diversa dalla materia di cui siamo fatti noi. E sappiamo anche che la “materia oscura” costituisce per noi tutti una severa ma benefica lezione di umiltà. Perché dopo Galileo che col suo cannocchiale iniziò a scrutare il cielo con strumenti più potenti dell’occhio umano, in quattrocento e più anni di esplorazione, conosciamo appena il 4,9 per cento del nostro universo. Il restante 95,1 per cento ci è del tutto ignoto. Sappiamo solo che un buon 26,8 per cento del nostro universo (secondo le stime del satellite europeo Planck) è costituito da “materia oscura” e che il restante 68,3 per cento è costituito da “energia oscura”, ovvero da una forma di energia di cui ancora una volta non conosciamo né l’origine, né la natura. Insomma, quello che tutto sommato sappiamo dell’universo è di non sapere. Ma proprio questa consapevolezza induce i fisici a cercare di dipanarla, questa “ignoranza cosmica”. Speriamo che Wukong ci aiuti a far cadere qualche velo sull’energia oscura, ovvero sul 68,3 per cento del mondo in cui viviamo. Intanto l’altro satellite, Planck, qualche conto lo ha fatto. E ci ha confermato che sappiamo poco o nulla anche della restante componente del cosmo: la materia. Nell’insieme costituisce il 31,7 per cento dell’universo. Perché tanta ne “pesiamo”. Ma della materia cosmica che vediamo e di cui conosciamo la natura è solo il 15 per cento. Del restante 85 non sappiamo niente: è, per l’appunto “materia oscura”. 6 febbraio 2016 53 Il lancio del satellite “Wukong”, il 17 dicembre 2015, dal centro di Jiuquan nella Cina nord occidentale A esser sinceri, anche la parte nota ha i suoi punti oscuri. Sappiamo con certezza che è costituita da “materia ordinaria”, ovvero dalle medesime particelle - i protoni e neutroni, complessivamente chiamati barioni - di cui siamo fatti noi stessi, i pianeti, le stelle. Ma non sappiamo, esattamente, dove la “materia ordinaria” si trovi. La metà, è certo, è contenuta nelle stelle che vediamo, grazie alla luce e alle altre forme di radiazione che emettono. Ma non abbiamo un’idea precisa di dove sia l’altra metà. Qualcuno sostiene che, invisibile, se ne sta all’interno delle galassie. Altri, che viaggi, rarefatta, negli immensi Si chiama spazi intergalattici: tra gli amDampe ed è massi e tra gli ammassi di amsoprannominato massi di galassie. Dunque, se Wukong, il Re i conti tornano, 400 e più anni Scimmia. È il dopo che Galileo ha puntato il nuovo cacciatore di suo cannocchiale contro il cielo “materia oscura”, e ha visto “cose mai viste prima, partito dal deserto abbiamo una cognizione esatta di Gobi (ovvero sappiamo cos’è e dove il 17 dicembre si trova) meno del 2,5 per cento scorso del nostro universo. Di un altro 2,5 per cento scarso conosciamo la natura, ma non sappiamo dove si trovi. Non è il caso di deprimersi. Le scoperte effettuate in questi quattro secoli non sono state affatto poche. Il fatto è che il nostro universo è molto grande e molto complesso. Molto più grande e complesso di quanto si poteva immaginare non solo ai tempi di Keplero e Galileo, ma anche cento anni fa, quando, nel 1917, Einstein applicò la teoria della relatività generale al cosmo intero e inaugurò la stagione della moderna cosmologia scientifica. Dunque, conviene concentrarsi sulle cose da fare per cercare di capirlo, questo “universo oscuro”. Iniziando, magari, proprio dalla parte probabilmente più facile: scoprire di cosa è fatta la “materia oscura”. Qualcuno, per la verità, sostiene che neppure esista, questa materia. Ma la gran parte dei cosmologi e degli astrofisici non ha dubbi: la “materia oscura” esiste. Non è un atto di fede. È una deduzione che si basa su due fatti. In primo luogo la “pesiamo”. Vediamo, per esempio, la gran parte delle galassie ruotare su se stesse a una velocità che è di gran lunga superiore a quella spiegabile con massa della loro materia visibile. Le spiegazio54 6 febbraio 2016 ni possibili di questo fenomeno sono solo due: o c’è molta altra materia che non vediamo (la “materia oscura”, appunto) oppure non abbiamo ancora capito la gravitazione. Dopo i successi delle teorie di Newton e poi di Einstein, i fisici tendono a credere più alla prima che alla seconda ipotesi. Ma l’altro fatto che li spinge a credere che l’85 per cento della materia cosmica ci sia ancora oscura, riguarda il cosiddetto Modello standard della cosmologia: ovvero la teoria che ci racconta la storia del cosmo cercando di “salvare” tutti i fenomeni noti. La teoria prevede che il nostro universo sia nato circa 13,7 miliardi di anni fa con un Big bang. Tutto quanto oggi osserviamo - comprese le centinaia di miliardi di galassie, ciascuna delle quali contiene in media miliardi di stelle - era concentrato in un punticino piccolissimo, caldissimo e, ovviamente, densissimo: la singolarità iniziale. Il punticino iniziò a espandersi, creando lo spazio e il tempo. Anzi, come direbbe Herman Minkowski, lo spaziotempo. Ed espandendosi iniziò a raffreddarsi, creando le condizioni per la creazione della materia che consideriamo ordinaria. Il Modello standard è solido. Perché si basa a sua volta su tre fatti indipendenti e incontrovertibili. Il primo è «la recessione delle galassie»: tutte le galassie, in media, si allontanano da tutte le altre. Viviamo in un universo che si sta espandendo. Il secondo fatto è che la materia ordinaria di cui conosciamo la natura è costituita in gran parte da due soli elementi: l’idrogeno (75 per cento) e l’elio (25 per cento). Terzo fatto: nell’universo osservabile è presente una radiazione - la “radiazione cosmica di fondo” che ha una diffusione omogenea e una temperatura di 2,7 gradi Kelvin, prossima allo zero assoluto. Questi tre fatti possono essere spiegati - a tutt’oggi - solo con il modello del Big Bang. Tuttavia così come lo abbiamo presentato il modello non chiarisce bene tutto. Per esempio non spiega perché l’universo mostri di avere una geometria piatta e perché anche le parti che non possono essere casualmente connesse - perché non sono mai state in contatta tra loro - risultano omogenee. Occorre dunque avanzare un’altra ipotesi: il nostro universo ha subito una fase di “inflazione”: © Qu Jingliang/Ansa Epa ovvero una fase in cui il cosmo ancora piccolissimo ma causalmente connesso è cresciuto a velocità esponenziale, a velocità superiore a quella della luce, creando spazio e materia. Il modello dell’inflazione spiega perché oggi l’universo ha una geometria piatta ed è omogeneo a grandissima scala. E prevede, appunto, l’esistenza di una quantità di materia molto superiore a quella che vediamo: la “materia oscura”. Non basta. Il modello richiede che questa sia “fredda”: costituita da particelle con una massa grande, da una a cento volte quella del protone, che si muovono con velocità molto inferiore a quella della luce. I candidati “freddi” che potrebbero rendere ragione della parte mancante della materiale cosmica sono due: le Wimp (particelle neutre che interagiscono poco con la materia) e i Macho (oggetti grossi, tipo granelli di polvere, meteoriti o pianeti). Ma, per quanto la ricerca di pianeti fuori dal sistema solare si stia rivelando ricca e fruttuosa, difficilmente il 26,8 per cento dell’universo può essere Macho. Non restano, dunque, che le Wimp. Che hanno un solo difetto: nessuno finora ne ha scovata una. A Ginevra, sotto la direzione di Fabiola Gianotti, Lhc è ormai pronto per ricominciare a cacciarle. Non ci resta che attendere. Tuttavia la teoria della “materia oscura fredda”, imporrebbe che le galassie si comportassero in modo diverso da quello osser- La rotazione delle vato e prevederebbe anche la galassie, più veloce presenza di un grande numero rispetto a quanto di “galassie nane”, che invece lo permetta le loro nei cieli non ci sono. Così molti masse, dimostra avanzano teorie alternative. Le che c’è materia più diverse. Ma hanno l’onere sconosciuta. della prova. E nessuno, finora, Un’altra spiegazione viene ne ha portata una. In ogni caso in campo ci sono dalla teoria solo due ipotesi: o la “materia del Big bang oscura” non esiste o per spiegare l’universo che ci circonda c’è bisogno di “nuova fisica”. Speriamo che Lhc, la macchina più potente mai costruita, e/o Wukong, il vecchio guerriero, ci aiuti a sciogliere il nodo. Una cosa è certa: chiunque in qualsiasi modo ci riuscirà, ci sorprenderà. 6 febbraio 2016 55 Nelle stesse corde di Giuseppe Verdi Verdiano di ferro, 49 anni di carriera e 516 repliche del Rigoletto. Il baritono Leo Nucci non ha dubbi: «L’opera non è per un’élite, basta snobismi, bisogna avere il coraggio di emozionarsi» di Elisabetta Tomassini uarantanove anni di palcoscenico, ma per Leo Nucci, baritono verdiano che si definisce «attore prestato alla lirica», ogni volta è come la prima volta. «Mia moglie ha visto tutte le mie recite di Rigoletto e l’altra sera mi ha detto: hai fatto un sacco di cose nuove. È questo il bello!». Interprete istrionico, amatissimo per la sua capacità di entusiasmare ed emozionare il pubblico (e perciò anche controverso), nel suo ultimo Rigoletto alla Scala di Milano ha fatto discutere per un bis concesso a furor di popolo in un teatro in cui i bis sono praticamente vietati dai tempi di Toscanini. Questo “bis della vendetta” alla Scala ha scandalizzato i puristi. C’è stato chi ha storto il naso, è normale. Però non si può scrivere, come qualcuno ha fatto, che Verdi non avrebbe voluto. Verdi era felice di concedere bis, e lo faceva eccome. Il resto sono frottole. Toscanini però li aveva aboliti. Dai tempi della sua direzione, alla Scala ne sono stati concessi solo due, da Muti nell’86 e da Juan Diego Florez nel ’96. 56 6 febbraio 2016 Toscanini è stato un grande direttore, ma era un furbo di tre taglie. Non voleva tra i piedi gente come Caruso e Gigli perché gli rubavano la scena, voleva il successo tutto per sé. Buttò fuori dalla Scala Puccini, che sotto al portico sputò per terra e disse: «In questo teatro maledetto non ci tornerò mai più». Allora il direttore d’orchestra era considerato il padrone dell’opera, cosa che oggi avviene con il regista. Per me contano solo il musicista e il pubblico. L’opera non è per un’élite, basta snobismi, bisogna avere il coraggio di emozionarsi. È vero che nel 1970 aveva deciso di smettere? Verissimo, ma il maestro Bizzarri mi diede del matto e mi fece debuttare, il 10 maggio del ’73, nel Rigoletto. Da allora non mi sono più salvato, ne ho fatti 516 ufficiali. Questa storia ricorda quella dell’impresario Merelli che convince un Verdi ancora sconosciuto e rinunciatario a scrivere Nabucco, con tutto quel che ne seguì. In un’intervista lei ha detto: «Non sono mai stato un cantante d’opera, sono un appassionato di teatro». E Verdi disse: «Lasciate stare il grande musicista, sono solo un uomo di teatro». Chi è per lei Giuseppe Verdi? Da molti anni ormai ho scelto di cantare quasi solo Verdi. Tutti gli altri saranno pure più bravi di lui, ma si sono fatti dei monumenti in vita. Verdi invece ha costruito un ospedale, una casa di riposo per musicisti e argini al Po, gli unici che ancora tengono! Da senatore, in Parlamento, alla prima seduta si alzò e disse: «Non ho tempo da perdere con questa gente». Amava la terra e sapeva amministrarla, e trattava bene i suoi contadini. L’hanno chiamato burbero, ma l’opera più bella che ha scritto è il suo testamento: non ha dimenticato nessuno. È stato un uomo straordinario e incarna valori che io cerco di seguire. Per esempio l’altra sera, dopo il bis, ho lasciato perdere gli inviti ufficiali, sono tornato a casa con mia moglie a mangiare tortellini e bere lambrusco. In Rete si trova una divertente video intervista del ’90 a lei e Luciano Pavarotti al Metropolitan di New York. Canticchiate, vi truccate a vicenda. Che rapporto avevate? Alla recita del mio debutto nel ’73 nel coro c’era Fernando, il papà di Luciano. Insieme a Pavarotti abbiamo registrato più di dodici dischi, fatto non so quanti recital. E poi ero il suo cuoco ufficiale di tortellini. Proprio stamattina con la moglie, Adua, abbiamo ricordato il passato. Guardi, lei è la prima a cui lo racconto: l’ultimo del mondo della lirica con cui Pavarotti ha parlato sono io. Volle vedermi in ospedale prima di essere dimesso per andare a morire a casa. Ci siamo parlati a lungo, ma quello che ci siamo detti resta privato. Si definisce spesso «ben informato, per essere un cantante». I cantanti sono ignoranti? Molti non conoscono i personaggi che interpretano, nelle interviste si sentono strafalcioni madornali. Quando gli chiesero se sottolineasse la sua parte, il basso Boris Christoff rispose: «Le sottolineo tutte». Io faccio altrettanto. Nel nostro mestiere spesso ci si accontenta della voce e del do. Io gli acuti li faccio, ma non canto per quello. E poi molti sono accondiscendenti nei confronti dei registi per paura di non essere richiamati. Io di certo non sono mai stato un mercenario. Nell’85 ad Amburgo durante un Rigoletto ho mandato a quel paese il regista e per ventidue anni non sono tornato in Germania. Nei contratti a quel tempo hanno aggiunto un articolo che obbliga i cantanti a fare quello che dice il regista. Questo è Regietheater, e va bene nella prosa, non nell’opera, dove i veri registi sono i musicisti, che con le pause e i colori danno già tutte le indicazioni. Verdi infatti parla di mise en scène, non di regia. Sicuramente il teatro va rinnovato, ma non si può fare Aida senza il coro. Muti ha detto: «Prendono la musica per farne colonna sonora». Sono d’accordo con lui. I tenori sono definiti scherzosamente i carabinieri della lirica. Lei la sa una barzelletta sui tenori? La madre aveva due figli: uno intelligente, l’altro tenore. Ci sono baritoni bravi, oggi, in Diciassette anni fa ho avuto un infarto e ho capito Italia? Luca Salsi, anche Carlos Alvarez. Le che non si vive una volta voci ci sono, ma manca la possibili- sola, si muore una volta tà di formarsi attraverso l’esperien- sola ma si vive ogni minuto. za. Io ho cominciato in provincia Ecco perché, a 73 anni, e dal mio ingresso alla Scala al de- ho iniziato a studiare butto sono passati dieci anni. Oggi il violoncello i cantanti danno più importanza all’apparire, vivono con il cuore e cantano con la testa. Io ho fatto il contrario. Diciassette anni fa ho avuto un infarto e ho capito che non si vive una volta sola, si muore una volta sola ma si vive ogni minuto. Ecco perché, a 73 anni suonati, ho iniziato a studiare il violoncello. 6 febbraio 2016 57 Calcutta, da Latina al mainstream Al secolo Edoardo D’Erme, è l’ultimo fenomeno del pop italiano. Il suo ultimo album lo ha intitolato Mainstream. Perché? «Sono felice che esista, per me non ha mai avuto un’accezione negativa» di Alessandra Grimaldi on se lo spiega neanche lui il successo avuto con Mainstream, il suo primo album ufficiale, dopo qualche tentativo insieme ad amici musicisti. Calcutta, al secolo Edoardo D’Erme, 26 anni, crede sia tutto uno scherzo. Un tipo naïf, sicuramente poco avvezzo alle interviste. Fino a poco tempo fa, suonava nei locali dei suoi amici a Latina, città in cui è nato e ha studiato, e che neanche disprezza troppo. I trascorsi tra band punk e poi l’idea di scrivere canzoni in italiano: «Piano piano, mi piaceva sempre di più il pop ed eccomi qui». Calcutta ha scelto questo nome - «perché suona bene» - quattro anni fa. Nel progetto prima erano in due, poi da solo, voce e chitarra, e adesso sono in quattro, insieme a lui tastiera, basso e batteria. Se gli chiedi se è il fenomeno del momento, ti dice: «Come Ronaldo? Ma no, non lo so, anche con Davide (di Bomba Dischi, la sua etichetta indipendente, ndr) ci chiediamo se sia tutto vero. Ci sembra di essere al The Truman Show, con tanta gente che collabora per prenderci in giro». Mainstream, uscito a fine novembre, è un «disco stretto» (così lo definisce lui) in cui ci re58 6 febbraio 2016 gala sette brani inediti, tutti piacevoli, dove la melodia si fonde bene con le parole, mai scontate in entrambi i casi. Trovate efficaci, linguaggio puro, sarcasmo letterario, arrangiamenti e testi ricercati. Quasi quasi, verrebbe da dire che scrive senza pensare, ma non perché, a un certo punto, sbucano “Sandra e Raimondo”, una ferrea coppia televisiva e non solo, sebbene passata, ma perché è quasi geniale questa improbabile menzione. Ci sorprende in “Gaetano”, con una «svastica disegnata a Bologna solo per litigare», poi diventa romantico in “Cosa mi manchi a fare”, il brano più passato dalle radio, e non tralascia l’attualità, anche provinciale: papa Francesco e il Frosinone in serie A: «Sono due cose assurde, è cambiato il mondo, non è più come anni fa. Intendo, quando stavamo meglio, di solito si dice così (ride), ma è una parentesi che puoi riempire come ti pare. Adesso è tutto diverso, c’è questo tipo che non sembra neanche un papa e poi c’è una squadra di calcio come il Frosinone in serie A, paradossi appunto». Poi c’è “Dal Verde”, un pezzo ancora diverso, che si fonde meravigliosamente con la melodia, è questa la qualità dell’autore, con questa notte che “ci vorrebbe” per viaggiare e ricominciare. Edoardo ride ancora. Non ha macchinato nulla, ha solo tradotto in parole, musica e rime poco ostentate l’amarezza di un pomeriggio, assalito dalla nostalgia per mettendo in discussione la sua educazione, così come la sua paura di non essere bella, tanto da stare a dieta e bere limonata». Cosa ha detto la ex del disco? Le è piaciuto molto! Dai, ci siamo lasciati bene. Insomma, tutto un album dedicato a lei? No, non tutto, ma con lei ho convissuto tanto tempo, ci sta per forza di cose, ma il disco parla anche della quotidianità, della vita di coppia in generale e della mia emotività. Ti emozioni per tutto? Tutto ciò che è sociale e politico parte sempre da un’esigenza sentimentale. Tu che sei un sentimentale, come vivi a Latina, una città con connotazioni di destra? In realtà questi di destra non li vedo, è un po’ tutto un calderone. Nelle mie canzoni c’è anche la borghesia di sinistra. Io non ci vivo tanto, non ci ho mai vissuto tanto, tra concerti, impegni a Roma, non passo l’agro pontino, come nel brano Per me la politica la maggior parte del mio tempo “Milano”; ha riportato all’atten- è una merenda ogni qui. zione gli scontri tra residenti e tanto, una roba che Ma la politica ti interessa? immigrati, in quel di Torpignat- leggo quando mi Per me è una merenda ogni tantara qualche mese fa, ancora in capita. Non sono to, una roba che leggo quando “Gaetano”, che poi è davvero un appassionato, mi capita, ma non sono appassuo amico siciliano, il quale gli né schierato, ma non sionato né schierato, non sono giura che la periferia romana è sono nemmeno nemmeno uno che si mette con uno con la testa sotto un ghetto. la testa sotto la sabbia, non mi Ama Battisti, Dalla e Caetano la sabbia reputo una persona che sta sul Veloso, come tanti altri, ma un pezzo, in questo senso. segreto c’è, e finalmente lo ammette. Questo al- Per adesso Calcutta-Edoardo si prepara a probum racconta la fine di una storia, quella con lungare le date dei concerti, pare che le richiela sua ex ragazza. Proprio lei, che lo ha lasciato ste aumentino di giorno in giorno. E pare che le piano piano, confessa, e che lui, un po’ di qua novità, le offerte, l’attenzione mediatica siano un po’ di là nei testi, ha voluto punzecchiare. Per esponenziali. Siamo in piena regola con la tenesempio, quelli di “Limonata” sono proprio gli ex denza del titolo... a proposito, in che rapporti suoceri: la madre che va a Medjugorje e il padre sei con il mainstream? che ascolta De Gregori. «Intendiamoci», precisa, Ho intitolato così l’album perché mi sembrava «sono delle bravissime persone, non le odio, pro- giusto. Non ho niente contro, non sono uno da vo una grande tenerezza per la mia ex ragazza, trincea, non ho una guerra in atto con il mainma la mia testa ha iniziato a incolpare i suoi, per stream, ma è una pacifica convivenza. Sono felila fine della nostra storia. Poi ho analizzato, ho ce che esista, per me non ha mai avuto un’accecercato di provocare il loro modo di essere perfet- zione negativa. tini, la mamma era molto severa, come il dogma. Pensi a un nuovo amore? Un po’ cattocomunisti, insomma, gente che c’è Non ci penso sinceramente, adesso mi lascio andappertutto, tipo quelli di Rinascita Civile, quel- dare. le persone che si mettono addosso la legalità, ma Dovrai reimparare a camminare, come dici che io non ho mai capito. Piuttosto che mandar- nella tua canzone? cela, magari l’ho punzecchiata in questo modo, L’ho già fatto, per il momento sto sulle nuvole. 6 febbraio 2016 59 LIBRI L’assai è come il niente. Quando siamo in cucina Vito Teti indaga gli eccessi della nostra dieta. Da quando è sempre domenica di Filippo La Porta U na volta il timballo e le pasterelle si mangiavano solo la domenica, oggi a tavola è sempre domenica! Con la conseguente fine di ritualità e simbologie. Si esagera con il cibo, come si esagera con il cemento e con tutti i consumi in genere: un miliardo e mezzo di persone a rischio di diabete, tumori e patologie in cui l’eccesso di cibo è la causa prima. Che fare? Ci abbandoniamo a manie dietetiche? Torniamo al passato, alla moderazione e alla parsimonia? Il libretto dell’antropologo Vito Teti Fine pasto. Il cibo che verrà (Einaudi) si segnala per una qualità della documentazione e per un equilibrio raro. Ci avverte infatti che il rapporto uomonatura non è mai idilliaco, che l’agricoltura preindustriale era fonte di privazioni, ristrettezze, staticità culturali gerarchie familiari. Però non rinuncia a cercare di nuovo una sacralità del cibo, una salute intesa non in senso puritano, un mangiare legato a convivialità, il cibo locale come marcatore di una identità mobile. Teti ci parla di magro e grasso (una volta la grassezza era status symbol), di patatari e mangiafichi, di emigrazione e innovazione alimentare, di banchetti nuziali e funebri, dell’acqua come bene condiviso, di civiltà del pane, di Pellegrino Artusi che volle unificare l’Italia sul piano gastronomico… Mi soffermo solo su due temi. Una sacrosanta sfuriata contro la «repubblica dei cuochi» (televisivi e mediatici), temibile autocrazia che aggredisce, urla e impedisce qualsiasi dialogo ( il cuoco Carlo Cracco come modello di una sacralità da tuti riconosciuta): il trionfo del cibo parlato e figurato. E poi la acuminata decostruzione della “dieta mediterranea”, una leggenda e una strategia di marketing (slegata da qualsiasi area geografica del Mediterraneo), un mito inventato in ambito anglosassone anche se con un fondo di antiamericanismo (contro cioè uno stile alimentare omologante). Anche se almeno ci ricorda la antica relazione tra piacere, cibo e salute. L’autore conclude poi saggiamente con un modo di dire dei suoi luoghi ovvero la Calabri dove si dice : «L’assai è come il niente». TEATRO Paolo Rossi diventa Molière nella recita di Versailles Torna in scena il folletto guastatore di Su la testa!. In un abrasivo pastiche di Massimo Marino M olière ricompare sui palcoscenici in periodi di crisi, quando i legami sociali sono allentati, quando la falsificazione vince sulla sostanza. Paolo Rossi torna a Molière con la sua travolgente maschera di folletto guastatore per ritrovarsi nell’autore seicentesco e farlo risplendere, in una serata pastiche, con le sue critiche più abrasive. 60 6 febbraio 2016 Con il Teatro Stabile di Bolzano e con una nutrita compagnia di attori accompagnata dalle musiche eseguite dai Virtuosi del Carso, con canzoni firmate da Gianmaria Testa, allestisce Molière: la recita di Versailles. Lo dichiara un gioco tra personaggio, attore e persona, ma non è una di quelle «serate di delirio organizzato» con le quali girava qualche tempo fa. Non c’è coinvolgimento del pubblico. E non c’è neppure L’impromptu de Versailles dello scrittore francese, se non come pretesto. Una compagnia, che è quella di Molière ma anche quella di Paolo Rossi, con attrici ex mogli (la Bejart affidata, autobiograficamente, alla brava Lucia Vasini), giovani mogli attuali, attori navigati, debuttanti amanti e pure un cane in scena, deve improvvisare in poche ore uno spettacolo per il Re Sole, per il Potere. Darà corso in modo originale a quella «commedia di Le scoperte che ispirarono l’avanguardia Picasso, Pollock e gli artisti della Collezione Frobenius di Simona Maggiorelli F attori» che abbozza Molière nell’atto unico, mettendo insieme momenti culminati del Misantropo, del Tartufo e del Malato immaginario alla maniera di Rossi, stravolgendo, portando vicino all’attualità. In un continuo via vai tra i testi e l’improvvisazione, tra il Seicento e la nostra epoca, in cui non si possono più fare lazzi sui politici perché ci pensano loro da soli a farli in continuazione, esalta il caos, l’irruzione della vita sul palcoscenico, e presenta tre piccoli gioielli di interpretazione. Misantropo, il disgusto per le apparenze, le rappresentazioni, la società dei reality. Tartufo, in abiti di papa guevarista, lo smascheramento dei falsi devoti. Il malato immaginario, un incubo manicomiale, carcerario, come la nostra società apparentemente libera. Con un messaggio nella bottiglia: il teatro è uno dei pochi luoghi possibili per appassionati della realtà. igure umane stilizzate, rese con pochi tratti essenziali, danzano in cerchio, oppure appaiono sedute in pose rilassate e come se stessero assistendo a uno spettacolo. Le gambe sono linee lunghissime o sintetizzate in un ricciolo elegante, quando piegate. In altre scene ambientate in mezzo alla natura, intorno a una sorta di “forno” primitivo, appaiono uomini e donne con dei bambini. Sembra una scena di festa. La didascalia e la scheda ci parlano di un rito sciamanico, evidenziando l’ampia tunica che rive- ste la figura centrale. Colpisce che non ci siano segni di guerra o di violenza in questa serie di graffiti perlopiù risalenti al neolitico, copiati dal vero da pittori che presero parte alle spedizioni africane dell’etnologo Leo Frobenius tra il 1913 e il 1939. Per lungo tempo, anche dopo la diffusione della fotografia, le scoperte di pitture e incisioni rupestri in Europa, in Africa e in altri continenti (lo stesso Frobenius andò anche in Indonesia) furono raccontate attraverso bozzetti e schizzi. Suggestivi, per esempio, sono quelli che Henri Breuil realizzò ad Altamira e nelle grotte della Dordogna. Ma qui siamo davanti a qualcosa di diverso: questi 500 schizzi e bozzetti che fanno parte della collezione Frobenius (fino al 16 maggio in mostra al Martin Gropius Bau di Berlino) non sono dei calchi o delle pedisseque copie documentali. Per rendere su carta l’emozionante effetto che i graffiti preistorici facevano sulla roccia scabra e accidentata, i pittori ingaggiati dall’etnologo tedesco inventarono di volta in volta soluzioni estetiche e creative. Ognuno con un proprio stile, con una propria cifra, nel tratto e, talvolta, nella scelta dei colori. Il risultato finale sono esperimenti originali che costituiscono un unicum nella storia dell’arte. Quelle opere “d’occasione”, che poi andarono in tour in Europa e furono esposte in trenta città americane, rappresentarono un punto di svolta nei percorsi personali di chi le aveva realizzate aprendoli alla ricerca. Intanto cresceva l’interesse degli artisti d’avanguardia come Matisse e Picasso per il “primitivo”, per la bellezza della scultura negra che non seguiva i canoni classici, ma anche per l’arte del paleolitico scoperta a fine ’800 ad Altamira, ma riconosciuta autentica solo dopo un ventennio. Si dice che Picasso abbia commentato: «Dopo Altamira tutto è decadenza». Vero o non vero che sia, restano i suoi tori essenziali, ridotti a sola linea, a dirci quanto avesse amato quelli gialli e rossi di Altamira e l’arte primitiva spegnola. E non fu il solo. Anche i pittori della scuola di New York si interessarono alla rock art. A cominciare da Pollock che giovanissimo si era innamorato dell’arte dei nativi americani. © Frobenius-Institut Frankfurt am Main ARTE 6 febbraio 2016 61 BUON VIVERE SOCIAL Per Bismarck a tavola solo carne, uova e buon vino Facebook sfida Periscope e punta sul live video Il Cancelliere dorava le proteine. Ecco la ricetta dei tramezzini di manzo fritti Dopo Mentions, Zuckerberg permette a tutti il live streaming sul suo social di Francesco Maria Borrelli di Giorgia Furlan O tto Eduard Leopold von Bismarck. Il Cancelliere tedesco aveva uno stile alimentare non proprio dietetico. Ancora oggi alcune ricette portano la dicitura “alla Bismarck”: bistecca, asparagi, hamburger; tutte sono accomunate dalla presenza di uova fritte poste sopra. Il suo appetito non si fermava qui: «Bismarck quando voleva rinfrancar le idee e schiarirle, mangiava bistecche, fumava buoni sigari e beveva robusto vin di Borgogna», scriveva Riccardo Bacchelli, autore di romanzi storici del ’900, nel volume Nel fiume della storia. Anche sulla Treccani, alla voce “bistecca” c’è scritto: «Alla Bismarck, senz’osso, costituita di solito dal controfiletto che si cuoce in padella nell’olio, con l’aggiunta, sopra, di due uova»; in realtà andrebbe cotta nel burro. Di seguito un piatto in linea con i gusti del Kanzler: tramezzini di manzo alla Bismarck. Ingredienti per 4: manzo macinato 800gr; uova 5e½; Parmigiano Reggiano grattato 40gr; fiordilatte 120gr; prosciutto cotto 120gr; pangrattato; rucola 1 mazzetto; sale; pepe; burro. Impastate la carne con 1 uovo e ½ e il parmigiano. Ponetela tra due fogli di carta forno e stendetela formando un rettangolo non troppo sottile. Dividetelo in due parti uguali, levate il foglio superiore di carta forno e su uno dei due rettangoli mettete: prosciutto, fiordilatte a fette, rucola e ancora prosciutto. Coprite con il secondo rettangolo e tagliate formando quattro tramezzini; chiudete bene i bordi e fate riposare 30 minuti. Passateli nel pangrattato e friggete in padella nel burro. Sale, pepe e un uovo fritto su ognuno. Vino consigliato: Fieno di Ponza Rosso Igt Lazio, Antiche cantine Migliaccio. «I vigneti sono in località Punta Fieno, una zona di Ponza raggiungibile solo a piedi attraversando la Macchia Mediterranea: ginestre, giunchiglie e mirto profumano il sentiero. Insieme a mio marito abbiamo ripreso le antiche terrazze di famiglia (Migliaccio) dove si produceva vino fin dai tempi dei Borbone. Poniamo grande attenzione ai ritmi della natura, esempio ne è il nostro asino Tito che ci aiuta a trasportare il mosto e il vino. I nostri prodotti sono curati dall’enologo Vincenzo Mercurio e il Fieno Rosso al naso si presenta fruttato e minerale, con note speziate persistenti al palato», racconta Luciana Sabino. 62 6 febbraio 2016 F acebook scende in campo e prova a fare concorrenza a Periscope con i live video. Dopo aver cominciato a intraprendere la via dello streaming in diretta con Mentions, estensione con cui i vari personaggi pubblici potevano comunicare live con i propri fan, la piattaforma di Zuckerberg amplia il servizio a tutti: per accedervi vi basterà cliccare sulla barra per aggiornare il proprio status e selezionare l’opzione “live video”. Durante il live, saranno visibili il numero degli spettatori, il nome degli amici connessi e il flusso dei commenti. Una volta terminata la trasmis- sione, questa verrà salvata sul proprio diario. Il video potrà essere cancellato o archiviato, per consentire agli amici di vederlo anche successivamente. L’operazione molto probabilmente è una diretta conseguenza del fatto che la nuova tendenza su social e web sembra sempre più essere quella del video e, addirittura, Cisco, una delle aziende leader mondiali nel campo del networking, prevede che entro il 2019 questo tipo di formato costituirà circa l’80 per cento del traffico su web e mobile. L’azienda di Menlo Park, infatti, già a partire dall’aprile dello scorso anno, ha visto letteralmente raddoppiare la quantità dei video che gli utenti pubblicavano sui loro profili, toccando quota 8 miliardi e ha quindi deciso di scippare con l’opzione Live Video il primato a Periscope, l’app di proprietà di Twitter che conta 10 milioni di utenti per un totale di 40 anni di video guardati al giorno. Una cifra sufficiente non solo a impressionare, ma anche a far girare la testa e sfregare le mani a Mark Zuckerberg che intuisce già le enormi possibilità di sviluppo e di guadagno. APPUNTAMENTI Fantasie persiane e nuove creazioni di Bizan Bassiri Macro Roma - Dal 10 febbraio al 29 marzo al Macro Testaccio La Riserva Aurea del Pensiero Magmatico, personale di Bizhan Bassiri, a cura di Bruno Corà. Una retrospettiva che racconta il percorso dell’artista italo persiano. In parallelo si dipana la mostra dell’artista azero Faig Ahmed. www.museomacro.org Il grande cinema nella cartellonistica cubana Torino - Al Museo del cinema, in collaborazione con il Centro Studi Cartel Cubano Hecho en Cuba, la mostra Il cinema nella grafica cubana, con 220 opere di cartellonistica cubana che raccontano il rapporto tra l’isola caraibica e la produzione mondiale di film. Fino al 29 agosto. www.museocinema.it © Courtesy dell’artista e Officine dell’Immagine Terranuova Bracciolini (Ar) Per il Valdarno jazz festival, il 5 febbraio Ada Montellanico rende omaggio a Billie Holiday. Il 6 febbraio, dalle ore 16, all’Auditorium Le Fornaci il convegno dell’Associazione musicisti italiani di jazz. E poi il 14 febbraio a Montevarchi, il concerto di Matteo Bortone. www.eventimusicpool.it IL MEDIORIENTE VISTO DA GOHAR DASHTI © William Gottlieb/Redferns © Mario Di Paolo Ricordando la grande Billie Holiday Milano - Artista conosciuta in Medioriente, e protagonista di una personale alla Victoria and Albert Museum di Londra, Gohar Dashti presenta Limbo alle Officine dell’Immagine, dal 4 febbraio al 16 aprile. A cura di Silvia Cirelli presenta nuovi lavori della fotografa iraniana. www.officinedell’immagine.it La servetta di Goldoni e tre giorni di Puro teatro Roma - Tre giorni di Puro teatro, dal 5 al 7 febbraio, al Teatro Cantiere di Trastevere. Nella rassegna ideata da Angela Antonini spettacoli, studi scenici, laboratori, racconti di scena e workshop di drammaturgia. Tra le piccole chicche, La servetta, tratto dalle memorie di Goldoni. www.teatropatalo.it IL GRAND TOUR IN ITALIA RACCONTATO DA TIM PARKS In nome dell’amore. Missiroli, Murgia e Parrella Roma - A 200 anni dall’uscita del Viaggio in Italia di Goethe, scrittori e scienziati ne ripercorrono le tappe in un ciclo su Radio3. A dare il la alla serie dal titolo Dove fioriscono i limoni il 6 febbraio alle 18, è lo scrittore Tim Parks, autore di Coincidenze, Questa pazza fede (Bompiani) e Adulterio (Adelphi). Poi il timone passa ad Emanuele Trevi e a Stefano Mancuso. Intanto alla Casa di Goethe si apre la mostra Appunti di viaggio, fotografare sulle orme di Goethe di Barbara Klemm, fino al 27 maggio. Torino - Da un’idea di Antonio Pascale, una serie di incontri al Circolo dei lettori dedicati all’amore raccontato dai grandi autori. S’inizia con Mattotti e Murgia, autrice di Chirù (Einaudi) il 12 febbraio con Amare è un atto di immaginazione. Il 13 febbraio è la volta di Marco Missiroli (in foto) autore di Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli), incontrando idealmente Bernard Malamud (Minimum Fax). E ancora il 14 febbraio Pascale e Valeria Parrella, pensando ad Alice Munro. www.cercololettori.it L’inquieta arte dei simbolisti. Da Baudelaire a Ensor Milano - Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra è la grande mostra, aperta dal 3 febbraio al 5 giugno a Palazzo Reale, con circa 150 opere tra dipinti, sculture e una eccezionale selezione di grafica. Con capolavori dai più importanti musei italiani ed europei. Catalogo 24 Ore Cultura. 6 febbraio 2016 63 TRASFORMAZIONE La capacità di immaginare fa la memoria e l’esistenza del corpo umano Pulsione di annullamento non è fantasia H o rovesciato la pagina del calendario che aveva il nome di gennaio. È comparso il foglio detto febbraio ed il disegno dice di non avere nessun rapporto con il precedente. Guardo, vedo la grande porta a vetri e so che parlo dello studio che feci nel 1979-80 a via Roma Libera 23. I termini verbali “Anno nuovo” sono scomparsi, come se non fossero mai esistiti. La memoria, senza parlare, racconta che nel 1980-81, il 2001, il 2011, furono anni diversi. Nella parola “diversi”, accanto a separazione, vedo il termine trasformazione. Non è sola. Tiene per mano una realtà misteriosa che è sempre presente, ma è invisibile e per pensarla la coscienza si appoggiò, come fossero stampelle, ai numeri. Le hanno dato il nome: tempo, che non è spazio. Fantasma impensabile tira a sé con la mano... l’”altra”, il braccio si stende, diventa una linea retta ed il corpo dell’altra parola fa un cerchio che scrive: movimento del tempo. Sento la voce di Tiresia che grida: non è umano percepire soltanto la realtà materiale e, subito, il numero 365,6 scrive la parola tempo che indica una realtà che non è mai la stessa, è un movimento che è trasformazione continua impercettibile del corpo umano. La mano rallenta la scrittura e vedo che trema. Guardo e so che non è il movimento del tempo che ha tolto la vitalità al corpo per fare la vecchiaia, ma è la velocità del pensiero che dà nomi alla realtà non materiale del corpo. Ora penso che il giro della terra intorno al sole non è uguale a quello degli esseri umani che ci sono sopra. Gli esseri umani hanno la realtà non materiale del pensiero che non hanno gli animali né le piante. Hanno non soltanto uno schema corporeo ma un’immagine che è sempre in movimento e non è ricordo cosciente. Vengono, insieme all’aria fresca delle sere d’estate, le nuvolette bianche che non portano la neve sul suolo della terra. La coscienza sopita sa che sono memorie che parlano per immagini anche se appare che sono parole: Left 9 gennaio. L’ovale dalle punte acute è un occhio bianco senza iride e pupilla e dice dell’istante in cui il fotone giunge sulla rètina. Con la comparsa del corpo alla luce e alla percezione senza coscienza c’è l’inizio del tempo di un essere umano. La memoria mi fa vedere la mano distratta dal mondo che la circondava e fece, a caso, linee nere su un foglio bianco. 2012 era l’anno in cui la morte nera, come un’anima senza la linea che la definisce si era avvicinata. Scrissi, in agosto, che giungevano pensieri che dicevano: hai fatto quanto ti era possibile fare. 64 6 febbraio 2016 Ora la copertina del 9 gennaio chiama la memoria del 13 maggio 2012 in cui nessuno (o tutti) pensò che era iniziata la catastrofe quando una crisi di allergia, di cui non si conobbe l’antigene, tentò di invadere tutta la pelle. Dopo alcuni mesi ad una broncopolmonite resistente alla terapia antibiotica, si associò una perdita della forza muscolare degli arti inferiori che rendeva impossibile la stazione eretta. Il 28 novembre scesi dal letto e ripresi a camminare. Avevano pensato, in silenzio, ad una sclerosi laterale amiotrofica dall’eziopatogenesi sconosciuta. Io sapevo che non era regressione e poi, guarito, pensai che il termine “regressione” avrebbe indicato un disturbo della mente. Affiorò, fra gli ostacoli del ricordo cosciente, la parola ricreazione. Creare, di nuovo, i primi mesi di vita in cui il neonato non riesce a tenere la stazione eretta e camminare e, pertanto, non può reagire con la fuga. Pensai e dissi il pensiero che non poteva essere ricordo: ci doveva essere stata una crisi nel rapporto con mia madre che mi allattava. Una crisi di anaffettività nei miei riguardi per aver scoperto che non avevo una nascita uguale alla sua. Reagii con... una crisi allergica? Poi la memoria mi dice che, a tre-quattro anni, la mente si rese autonoma da lei. Alla fine del primo anno di vita avevo realizzato, senza pensiero verbale, che il volto che compariva allo specchio era la mia realtà. Avevo raggiunto una visione della mia realtà umana oltre la percezione cosciente. Sono trascorsi tre anni e mezzo da quel 13 maggio e Left, completamente rinnovato, rende difficile parlare di ricreazione. Non è più lo stesso quasi fosse una creazione nuova. Non ci fu nessun rimpianto per il 2015 che se ne andava. Vennero le parole, nate dopo Istinto di morte e conoscenza, che cantarono, ballando, nuove parole che avevano le stesse vesti di prima. Il luogo dove venivano scritte era sempre diverso ed il movimento invisibile suggeriva con un soffio senza aria il termine tempo. Movimento, suono, tempo onorano il primo termine pulsione nato dal niente di un parlare antico che non poteva generare. “Das erste Wünschen” è scomparso. Ora, separazione dice che la prima realtà umana, che è rapporto biologico tra gli esseri umani, non c’è più perché l’arrivo della luce sulla rètina dell’occhio fa un movimento che è pulsione di annullamento. Ma, forse, potrei anche scrivere, cambiando il luogo dei termini verbali, “l’emergenza della pulsione è il movimento della realtà biologica che è vita umana”. Massimo Fagioli psichiatra Pulsione di annullamento. Per prima nello spazio, non può essere senza il movimento della realtà biologica, che essendo, fa la vita. È creazione perché il corpo del feto, che non è vita umana, non si trasforma ma scompare come se non fosse mai esistito. Non è ricreazione che sarebbe trasformazione, ovvero modificazione della realtà precedente. Creazione è un termine nuovo che, nel tempo di prima, non esisteva. Era un suono che vagava nell’aria e non era parola. Sempre stanco perché senza vitalità, veniva posto nel rapporto dell’essere umano con realtà materiali che venivano modificate nella loro forma o nel loro suono che si ode con l’apparato acustico. Era alito, respiro che faceva vivere il corpo. Era rapporto con il mondo esterno che sostituiva l’ossigeno condotto nel feto dalla placenta e cordone ombelicale. Ora il vento dell’est porta la parola ricreazione e la memoria risponde muovendosi in un ballo che fa figure come se seguisse una linea di curve e rette. Non sapevo che pensare la creazione del corpo umano, nel suo venire alla luce, era un rifiuto di credere in una realtà non materiale che era stata tolta all’essere umano per essere gettata nell’infinito dell’universo. In un “luogo” senza spazio e senza tempo che non esiste. Non c’è più il tempo detto gennaio e la memoria tenta di disegnare un movimento che ha soltanto la parola ricreazione. Il pensiero vide cadere e frantumarsi, come fosse un menhir preistorico, la parola nuova «fantasia di sparizione». Venne mostruoso e terribile, il pensiero che lanciava parole come fossero frecce mortali. Diceva: il primo pensiero dell’essere umano è la pulsione di annullamento. Avevo detto che la nascita umana è fantasia di sparizione. La parola tempo, vita che inizia e morte che finisce, si pose in mezzo fra sparizione e comparsa. Diavoli dentati come lupi mannari dicevano ululando “la natura umana è cattiva, animale feroce, pazzia che uccide inutilmente, non per sopravvivere ma per distruggersi”. Veniva il ricordo, inanimato, gelido, di Kant ed Heidegger. Torna, con il termine simultanea, la parola memoria-fantasia. Scrissi Istinto di Viene l’acqua purissima del torrente di montagna, scivola morte e cosulla pelle e toglie via tutti i frammenti infinitesimali della parola tempo che noscenza. Dico smarrito, scompare. Non riesco mai a separare la parola movimento dalla parola con un linguaggio pulsione di annullamento. Avevo sempre detto che poteva accadere che si liberasse nell’essere umano che aveva perso la vitalità. articolato libero dal Ma, forse, la separazione dell’anno che ha fatto comparire l’anno nuovo 2016, fu suono udito: ho avu avutrasformazione e non creazione perché il pensiero prima c’era. La capacità di to, forse, paura. Non ho pensare la realtà non materiale umana spinge a vedere il “non” che è pensiero senza né ricordo cosciente né memoria-fantasia della sensazione avuta. ricordi e la memoria scrive: Parlano di pensiero astratto ed hanno detto sempre che è sublimazione. come dalla terra che vive di Sembrava che «fantasia di sparizione» fosse scomparsa caccialuce e calore sbocciò dal corpo ta dalla sorella cattiva detta pulsione di annullamento. Ma la e vive di terra, acqua, aria e fuoco, parola ricreazione mi conduce a vedere la fantasia di sparizione ritrovata. Venne il pensiero che diceva: la nascita fisiologica è la parola: fantasia di sparizione. Deli Delipossibilità di fare la linea che è movimento del corpo verso cata e dolce disse che era la vita umana. l’esterno. Madre-natura che ha accoppiato lo “spirito” Madr La pulsione di annullamento crea la fantasia di sparizione perché trasforma la capacità fisica di reagire in alla materia, fa lacrime che nutrono le piante. vitalità. E questo è “dopo che si è creato il movimenIl corpo, col tremore nascosto, legge le parole to-pulsione che non sono separabili dal tempo”. scritte dall’acqua sulle foglie: la pulsione non più Nella realtà del movimento il tempo c’è perché ha il suo inizio. La fantasia di sparizione viene inesistente, è realtà non materiale umana. Nasce dal dopo per la necessità che dice: deve esistere corpo che crede che il mondo non umano non esista e la vitalità che viene realizzata dalla capacrea la memoria-fantasia. Ella sa che la verità è il rapporto cità di immaginare che pensa e “vede” umano. la linea intorno al volto. 6 febbraio 2016 65 IN FONDO A SINISTRA di FABIO MAGNASCIUTTI 66 6 febbraio 2016 BioBottle Sant’Anna. Per il benessere di mamme e bambini. * Dai vegetali nasce la prima bottiglia al mondo biodegradabile . Senza una sola goccia di petrolio. www.santanna.it santannasanthe *Tutti i dettagli sul sito. Il tappo è in PE e deve essere conferito nella raccolta differenziata della plastica.