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Flavio Briatore
CARTA D’IDENTITÀ: nato a Verzuolo (CN) il 12 aprile 1950
STUDI: diploma di geometra
CARRIERA: Benetton USA; Benetton Formula; Renault F1
Team
ALTRI INCARICHI: Billionaire Club; Twiga Club; Billionaire
Couture
LUOGO DELL’ANIMA: il Kenya
GLI AMICI PIÙ IMPORTANTI: Luciano Benetton e Bernie Ecclestone
IL PEGGIOR NEMICO: l’invidia
IL PIÙ GRANDE SUCCESSO: vincere cinque campionati mondiali
di Formula Uno a tempo di record
LA PIÙ GRANDE SCONFITTA: non è ancora arrivata
INCIDENTE DI PERCORSO: una brutta storia di gioco d’azzardo
CARTA SEGRETA: non svelarsi mai
FRASE CELEBRE: «Work hard, play hard!»
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A tutto gas
LA Formula Uno come circo viaggiante dell’era moderna. Miti, paure, velocità, rischi, donne, motori. Ma anche un grande
affare. Sponsor, fiumi di dollari, ricerca, tecnologia, diritti televisivi, competizioni ataviche. Insomma, un vero e proprio
show business. E lui ne è il novello anfitrione, il burattinaio.
Quando nel mondo si pensa a questo caravanserraglio, la prima immagine che appare è la sua, spesso con le cuffie, mentre
guida i suoi piloti dai box, o con le braccia alzate quando tagliano il traguardo dopo l’ennesimo trionfo.
Eppure non sembrava avere i presupposti per farcela. Molti
hanno provato a fermarlo in tutti i modi, ma senza riuscirci.
Flavio Briatore, cinquantasei anni, da Verzuolo, geometra,
ragazzo di bottega di un finanziere locale, discografico, poi alla corte dei Benetton, proprietario della Ligier, inventore del
Billionaire. Compagno di Naomi Campbell e di Heidi Klum. E
oggi direttore generale di Renault F1 Team. Cinque campionati del mondo vinti. L’uomo che ha scoperto Michael Schumacher e Fernando Alonso, ma soprattutto l’uomo che ha fatto di
se stesso un marchio, uno stile di vita. Un genio del marketing,
secondo alcuni. Un perenne conflitto di interessi, secondo altri. Discusso in Italia, stimato all’estero. «Sono un emigrante»,
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dice di sé. «Sono nato in un Paese che non riconosce il talento», lamenta.
E intanto vince. Strano esemplare, questo Briatore: tutto
genio e sregolatezza. Il marketing prima del prodotto. L’immagine prima della manifattura. Ma dietro c’è soprattutto sostanza, oltre a una cura ossessiva dei budget: i piloti scoperti da
giovani, le macchine portate al traguardo, i campionati del
mondo vinti. E se la Formula Uno non è diventata un noioso
appuntamento televisivo per pochi appassionati, se il «circo»
dei motori è ancora la voce principale nelle spese di sponsorizzazione delle più grandi aziende di tutto il mondo, se la lotta per accaparrarsi i diritti televisivi è seconda solo a quella
della Champions League calcistica, il merito è anzitutto suo:
di Flavio Briatore, da Verzuolo. Un emigrante, sì, ma di lusso.
MYRTA MERLINO: Briatore, lei è l’unico ad aver vinto il
mondiale con due team diversi, la Benetton e la Renault, e
quest’anno, dopo molte gare e molti successi, è ancora il principale candidato alla vittoria del campionato. Non c’è proprio
partita o lei, oggi, teme ancora un po’ la Ferrari?
FLAVIO BRIATORE: Io temo tutti, perché quello della Formula Uno è un mondo molto competitivo e ci misuriamo con i più
bravi del mondo: dalla Toyota alla Honda, dalla Mercedes alla
Ferrari. Quindi dobbiamo temere tutti, ma battere tutti.
MM: Lei però si sente il più forte...
FB: Sono convinto che abbiamo un team molto forte, che
non ha problemi reverenziali nei confronti di nessuno; e credo
che siamo anche i più bravi, perché quando vinci un mondiale
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e poi inizi così bene la stagione seguente, vuol dire che hai interpretato le regole meglio degli altri.
MM: Lei ha detto che teme più Kimi Raikkonen che Schumacher: è vero?
FB: Io temo chi ha la macchina competitiva, ed è il caso di
entrambi questi piloti. Ma noi siamo un gradino più in alto: un
gradino piccolo, per adesso.
MM: Dicono che Schumacher abbandonerà le corse se
quest’anno non vincerà...
FB: Mi sembra strano, perché fisicamente Schumacher è
perfetto, e poi non riesco a immaginarlo uscire alle nove del
mattino per andare in ufficio... Io credo che continuerà a correre, anche perché ha le motivazioni per farlo. Ma se la Ferrari quest’anno non sarà competitiva, allora forse cambierà
qualcosa.
MM: Lei oggi è il re indiscusso della Formula Uno, ma nel
1989, quando cominciò questa avventura, disse testualmente:
«Io di questo sport non ci capisco niente». Ha fatto parecchia
strada da allora...
FB: Credo che sia stato un vantaggio, perché mi sono inserito in un mondo molto chiuso, in cui non era mai entrato un
estraneo. Era una sorta di club inglese: gli unici team non anglosassoni erano la Minardi e la Ferrari, ma anche in queste
due squadre ognuno pensava di essere il migliore di tutti.
MM: Lei e il suo capo Benetton siete arrivati come outsider.
Eravate quelli delle magliette colorate... e poi avete travolto la
Formula Uno.
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FB: Il merito è tutto di Luciano, che ha avuto l’intuizione: è
stato lui a pensare che quello fosse un lavoro fatto per me.
MM: È vero che quando lei ingaggiò Schumacher, Benetton
le disse che era un pazzo a prendere uno sconosciuto, per di
più con quel cognome?
FB: Era il 1991. Mentre Benetton era in America, io licenziai Roberto Moreno per questioni tecniche e di contratto: era
la prima volta che un pilota veniva licenziato. Moreno richiese
l’intervento del giudice, che mise sotto sequestro il nostro garage a Monza. La controversia che ne scaturì determinò una situazione nuova per il mondo della Formula Uno, che è sempre
stato molto tranquillo. Senna rilasciava interviste in cui prendeva le difese di Moreno... Luciano mi chiamò dagli Stati Uniti e mi apostrofò: «Fai un casino del genere per prendere uno
che non si sa neppure chi sia?» Io gli risposi che comunque,
grazie all’ingaggio di Schumacher, si parlava di noi.
MM: Dunque è possibile non capire niente e vincere in Formula Uno. L’importante, allora, è essere un buon manager?
FB: Credo che, quando si gestisce una società, sia importante avere delle intuizioni e capire dove si è. Devi sempre sapere dove sei, dove sono gli altri e dove guardano; e tu devi fare sempre cose diverse rispetto a loro. Se cerchi di imitarli, sicuramente ti battono. Noi facevamo le magliette e lottavamo
con team come la Ferrari... Ma se gestisci una società nel modo che ho descritto il risultato non cambia, anche se ti trovi in
un mondo totalmente estraneo.
MM: Quali sono le caratteristiche necessarie per vincere in
un mondo così competitivo?
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FB: Devi costruire un team con la gente giusta. Io ho creato
una squadra di persone che non erano famose, ma molto motivate; poi Schumacher è nato perché era una scelta obbligata. A
quei tempi non avevo i soldi per avere Prost o Senna, quindi ho
pensato che dovevo inventarmi un pilota nuovo, che crescesse
col team; e ho avuto anche fortuna... Mi sembrava strano che i
piloti bravi avessero tutti trentacinque-trentasei anni e che non
ce ne fosse uno di venti... Era la prima volta che un pilota così
giovane entrava in Formula Uno.
MM: Lei quindi ha introdotto il valore aggiunto di vedere le
cose da un altro punto di vista...
FB: Non avremmo mai vinto se avessimo cercato di imitare
gli altri... Avevamo solo il sesto budget della Formula Uno...
MM: C’è un modello di manager a cui lei fa riferimento?
FB: Sì, me stesso. Un manager deve essere creativo e avere
la responsabilità personale dell’azienda. Deve avere una gestione molto trasparente e «orizzontale»: chi esegue le sue decisioni deve comprenderne i motivi. Io sono stato sempre molto diretto: porta aperta per tutti e dialogo costante.
MM: Mi hanno raccontato che quando la sua Benetton vinceva tutto e la Ferrari niente, l’avvocato Agnelli le chiese cosa
mancasse alla «rossa» di Maranello, e lei gli rispose: «Basta
dipingere di blu la Ferrari e di rosso la Benetton: vedrà che
vincerà».
FB: La Ferrari era messa molto male... In quel periodo Luciano era parlamentare, e Agnelli gli confessava che non capiva come dei fabbricanti di magliette riuscissero a battere dei
professionisti esperti...
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MM: Lei parlò con l’Avvocato?
FB: Due o tre volte. È sempre stato molto gentile con me.
MM: Ma perché non le ha mai chiesto di andare alla Ferrari? Poteva essere una bella idea...
FB: A quei tempi c’era un pregiudizio nei miei confronti:
Benetton, Stati Uniti, Isole Vergini, playboy...
MM: Non la ritenevano affidabile?
FB: Io credo che l’affidabilità sia relativa. Per un manager l’unica cosa che conta sono i risultati; tutto il resto è aria
fritta.
MM: Il suo dio è il denaro?
FB: No. Il denaro è importante perché costituisce il riconoscimento per il tuo lavoro. Il successo è anche più importante,
perché serve a dare sicurezza alle persone che lavorano con te,
che così possono pagare l’affitto, accendere un mutuo, fare dei
programmi. Il successo cade a cascata su quelli che lavorano
con te.
MM: Lei crede in Dio?
FB: Sì. Assolutamente sì.
MM: Torniamo alle corse e alla Formula Uno: lei, assieme
a grandi team come Honda e Toyota, sta facendo la guerra al
capo della Formula Uno, Bernie Ecclestone, minacciando di
organizzare un campionato alternativo nel 2008. Ci spiega che
cosa non va nella Formula Uno?
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FB: In realtà stiamo già trovando un accordo... Il problema
è economico, perché noi ci reputiamo degli attori importanti in
questo film della Formula Uno, e non è giusto che il produttore
guadagni molto e noi molto poco. Noi dobbiamo vivere dello
spettacolo che produciamo, anche perché siamo il più grosso
evento sportivo televisivo al mondo: un Gran Premio è seguito
da 11-12 milioni di spettatori...
MM: Quindi il problema è che gli introiti di questo grande
circo vanno per la maggior parte agli organizzatori e poco ai
team.
FB: Esatto. Inoltre occorre mettere un tetto ai costi. È un
po’ come quello che è successo nel calcio quando sono arrivati
i diritti televisivi: se prima un calciatore valeva uno stipendio
di 500.000 euro, con i diritti ne vale un milione e mezzo. Ma si
tratta esattamente della stessa persona...
MM: Lei dice che bisogna legare i costi ai risultati e che ci
sono squadre che spendono troppo rispetto ai soldi che hanno.
In effetti il team che spende di più è la McLaren, con 336 milioni di euro, mentre la Renault è al sesto posto, con solo 244
milioni. Quindi, sebbene voi siate i campioni in carica, riuscite
a spendere 100 milioni di euro in meno. Non è detto che chi più
spende più vince...
FB: Una condizione essenziale per un’azienda è l’efficienza, che permette di non sprecare. In team come la McLaren o
la Toyota, se gli ingegneri gestiscono l’azienda, studieranno
dei progetti che saranno validi solo tra cinque o sei anni. Gli
ingegneri adorano giocare con i tuoi soldi. Io sono sempre in
lotta con loro...
MM: Gli ingegneri si occupano di ricerca e tecnologia. Lei
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pensa che ci sia un po’ di esagerazione nelle spese in questo
settore?
FB: Sono spese in buona parte inutili. Noi dovremmo sviluppare una tecnologia più vicina alla gente e che possa essere
trasferita sulle automobili di tutti i giorni. Ma in realtà questo
non avviene: anzitutto perché ne siamo gelosi e temiamo che
qualcuno ce la copi, quindi non la comunichiamo. In secondo
luogo perché la nostra tecnologia è troppo costosa per essere
utilizzata nelle normali automobili.
MM: Lei ha proposto di introdurre un tetto limite per le
spese di 100 milioni di euro, che corrispondono a meno della
metà di quello che attualmente spende la Renault e che ridurrebbero i costi totali a un terzo della cifra che si spende oggi.
Questo significa che lei è in grado di ridurre drasticamente gli
sprechi delle case automobilistiche, oppure intende diminuire
gli investimenti in ricerca, innovazione e messa in sicurezza
delle auto?
FB: Faccio un ragionamento molto semplice. Parliamo dei
team che costruiscono la macchina, e non il motore: nel 1995
noi abbiamo vinto un mondiale con Schumacher e una squadra di 160 persone, e quest’anno con Alonso abbiamo vinto
con 550 persone. Noi facciamo uno spettacolo che deve accontentare il cliente, ossia lo spettatore e lo sponsor. Di fronte
a una simile escalation di costi è difficile che lo sponsor ci segua. Non c’è un’azienda che possa incrementare il budget di
Formula Uno del 10-15 per cento all’anno. Nessun consiglio
d’amministrazione può permetterlo... E poi non è che l’aumento dei costi di per sé porti un miglioramento dello spettacolo...
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MM: Infatti lei sostiene che ci vogliono più sorpassi e meno
tecnologia...
FB: Non per niente siamo nello show business... Gli spettatori della Formula Uno non sono tecnici. L’anno scorso il nostro sito internet ha avuto 30.000 contatti al giorno e nessuno
ha scritto «Che cambio favoloso avevi!» o «Che sospensioni
incredibili!»... Non gliene importa niente... Nessuno apre il cofano per bearsi della bellezza del motore quando compra una
macchina... La gente vuol vedere la gara, lo spettacolo, e noi
facciamo una tecnologia che non serve per la gara, ma è finalizzata a qualcosa che non verrà mai applicato...
Ci sono situazioni in cui si possono spendere pochi soldi,
ma dare un eccellente spettacolo al proprio pubblico: il pattinaggio sul ghiaccio, uno sport povero a cui gli italiani si sono
appassionati, costa pochissimo. Ma milioni di persone l’hanno
seguito durante le Olimpiadi, perché comunica senso di squadra, appartenenza, capacità tecnica.
MM: Nella Formula Uno quanto contano i piloti?
FB: Moltissimo, perché il pilota interpreta il lavoro di centinaia di persone. Un team è composto da 500 persone per la
parte telaio e da 400 per la parte elettronica. Il pilota è colui
che determina il risultato finale. Noi in ogni Gran Premio ci
mettiamo in discussione, presentiamo il nostro bilancio agli
azionisti. In gara la linea tra l’essere bravo e meno bravo è
molto sottile; il pilota è l’amministratore delegato in corsa che
porta al risultato finale.
MM: Lei è il talent scout dei piloti. Dopo Schumacher e
Alonso, tutti si aspettano una nuova scoperta: chi sarà?
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FB: Heikki Kovalainen è un ragazzo che promette molto, e
lo vedrete nella prossima stagione.
MM: Di dove è?
FB: È finlandese, purtroppo. Dico «purtroppo» perché la
Finlandia è un Paese che non ha mercato, ha una popolazione
poco numerosa e non ha sponsor importanti: l’unico è la
Nokia. Ma vorrei ricordare che tra i piloti che ho scoperto ci
sono anche Giancarlo Fisichella, Jarno Trulli e Mark Webber...
Il problema è che c’è gente che si limita a tirar fuori il libretto
degli assegni e comprare il campione già formato. Se invece
non vuoi spendere troppo, devi investire sui giovani. In qualunque società bisogna investire sui giovani.
MM: È vero che lei manda i suoi osservatori sulle piste di
go-kart per scoprire nuovi talenti?
FB: Sì. Perché è lì che vedi il bravo pilota. Ci vuole la sensibilità della schiena, del culo... quando guidi una macchina,
senti con il sedere se tira via... Ci sono ragazzini di dodici anni
bravissimi. In Spagna due anni fa la Formula Uno non aveva
pubblico televisivo, mentre ora ci sono 7 milioni di telespettatori, quasi il 20 per cento della popolazione... Non è che gli
spagnoli guardino la Formula Uno per la tecnologia...
MM: La guardano perché c’è Alonso...
FB: Sì, per vedere il loro campione. La Formula Uno dovrebbe avere più star: a volte siamo troppo lontani dalla gente.
MM: In questo senso lei ha dato una buona accelerazione:
è arrivato in Formula Uno con il suo mondo di riviste da gossip al seguito...
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FB: Io credo che la Formula Uno sia fatta anche da un certo stile di vita. La gente non si entusiasma di fronte all’invenzione di una doppia frizione: preferisce vedere Sylvester Stallone...
MM: A proposito di grandi star: come vedrebbe Valentino
Rossi in Formula Uno? Qualcuno dice che Valentino dovrebbe
scegliere tra la moglie, ossia la moto, e l’amante, cioè la macchina...
FB: Lo vedo bene dal punto di vista della comunicazione,
perché Valentino è un grandissimo in moto, ma credo che in
macchina faticherà moltissimo. Finora sono stati bravi perché
di questo fatto si è parlato molto, anche se per ora di risultati
non se ne sono visti. A dire il vero, il fatto che Rossi parli continuamente di Formula Uno fa bene a tutto il nostro ambiente.
Ma Valentino dovrebbe occuparsi più delle moto: visto che il
campionato è alle prime battute, dovrebbe essere più concentrato sul suo lavoro.
MM: Lei, da parte sua, non ha mai avuto mogli, ma amanti
bellissime... È vero che però pensa che la cosa più romantica
in realtà sia il lavoro?
FB: Io sono semplicemente convinto che le cose finiscano.
Poi c’è gente che si concentra di più e le fa durare più a lungo,
mentre io mi concentro meno... In effetti la cosa che mi dà più
adrenalina è il lavoro, e la Formula Uno è perfetta perché ogni
gara è diversa, si affrontano problematiche sempre nuove, per
cui continuo a divertirmi.
MM: Mi spiega perché, pur essendo un ottimo manager, lei
fa più notizia per le sue babbucce rosa e per le sue serate in discoteca?
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FB: Perché alla gente non interessa il fatto che tu vada in
ufficio a lavorare...
MM: Lei ha detto che vorrebbe essere giudicato per quello
che fa dalle otto del mattino fino alle dieci di sera...
FB: La gente mi deve valutare per i risultati che porto all’azienda, e poi fino alle dieci di sera; quello che faccio dopo le
dieci è un mio problema.
MM: Ma lei si piace di più come il Briatore dalle otto alle
dieci o dopo le dieci?
FB: Vanno bene tutti e due, perché il primo fa il suo lavoro,
e l’altro si svaga per quattro o cinque ore. Se lavori per ventiquattro ore al giorno alla fine non hai più la lucidità necessaria
per avere quelle piccole intuizioni che permettono di guadagnare un millesimo di secondo in gara. Quindi alle dieci stacco
e per sei ore non ci penso. Poi, dalle otto del mattino, ritorna in
campo il Briatore-manager.
MM: Qual è la cosa che dicono di lei che le dà più fastidio?
FB: C’è gente che mi giudica come una specie di playboy
idiota... ma loro sono molto più idioti di me, perché almeno io
i risultati alle aziende li porto, quelli che mi giudicano no.
MM: I salotti buoni italiani la snobbano, mentre in Francia
è stato ricevuto da Chirac all’Eliseo. Che cosa non funziona
nel suo rapporto con l’Italia? Perché l’hanno sempre sottovalutata?
FB: Perché arrivavo da Cuneo, non parlavo con la «erre»
moscia e non appartenevo a quella razza padrona che in Italia
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domina da cinquant’anni... Nel nostro Paese i manager sono
sempre quelli: se non vanno più bene per un’azienda, li spostano in un’altra. Ci sono dirigenti di aziende che hanno l’esclusiva di un prodotto che sono considerati bravissimi. Ma come
potrebbe essere diversamente se non hanno concorrenza?
MM: A proposito dei manager italiani, lei avrebbe detto
che i più bravi sono quelli che ottengono la cassa integrazione.
Era una battuta?
FB: Gestire un’azienda significa assumersi una responsabilità personale nei confronti di quella società e delle persone
che ci lavorano. Con quella battuta mi riferivo a quelli che non
fanno bene il loro lavoro e hanno debiti.
MM: Può fare qualche nome?
FB: No, ma credo che in Italia ce ne siano diversi. Basta
guardare le aziende che non vanno bene: i nomi sono quelli dei
loro dirigenti. Non ho mai visto un manager bravo alla testa di
aziende che vanno male...
MM: Lei ha sempre criticato Montezemolo per la sua gestione della Ferrari. Cosa pensa di lui?
FB: Luca è bravissimo nelle pubbliche relazioni. Il più bravo che abbia mai visto.
MM: Ma non è un buon manager?
FB: Non lo so, perché io non l’ho mai visto condurre una
gestione. È stato molto bravo a ingaggiare Schumacher dopo
che era stato alla Benetton, oltre a un intero gruppo di persone
che lavoravano per me.
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MM: Lei ha sempre detto che la Ferrari ha cominciato a
vincere quando le ha rubato la squadra...
FB: No, non l’hanno rubata. L’hanno presa, ben pagata.
D’altra parte c’è anche chi prende gente da una squadra e la
mette in un’altra, ma poi non fa risultati comunque. Loro hanno fatto risultati. La Ferrari che vince, in ogni caso, è importantissima per la Formula Uno.
MM: Dicono che lei la scorsa estate si fosse espresso favorevolmente alla scalata di Ricucci e che voleva organizzare
una cena per metterlo in contatto con Berlusconi. È vero?
FB: La gente ce l’ha con Ricucci, ma a me è simpatico. Un
odontotecnico che, rischiando di suo o trovando i finanziamenti, riesce in qualche modo a disturbare quella piccola élite
di persone che oggi regge le aziende in Italia, a me ispira simpatia...
MM: Quindi lei è d’accordo con Berlusconi che si scaglia
contro i poteri forti...
FB: Io non so se siano poteri forti o deboli; dico solo che un
giovane che arriva a dar fastidio ai potenti sia da rispettare, non
da prendere in giro. Ricucci, alla fine, l’hanno trattato come
una specie di saltimbanco, e io non credo che sia così.
MM: Mi tolga una curiosità: è vero che dopo la recente
vittoria di Fisichella nel Gran Premio di Malaysia Berlusconi l’ha chiamata per farle i complimenti e che le ha parlato
anche del suo exploit di Vicenza all’assemblea di Confindustria?
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FB: No, ho chiamato io il presidente dalla Malaysia, e lui
mi ha fatto i complimenti.
MM: Era contento perché ha battuto la Ferrari di Montezemolo?
FB: No... il fatto è che quando un italiano vince è un onore... E un pilota italiano che primeggia in questo mondo così
difficile non è cosa da poco.
MM: Si è emozionato con l’inno di Mameli?
FB: È stata una delle poche volte in cui mi sono emozionato, perché con Fisichella ho fatto suonare l’inno di Mameli...
Non faccio solo suonare la musica al Billionaire!...
MM: Lei ha detto: «Fantastico: i francesi guidati da un italiano che battono gli italiani guidati da un francese!» In questa frase c’è soprattutto l’orgoglio di essere un italiano che ce
l’ha fatta o piuttosto è una forma di risentimento per un Paese
che non ha preso sul serio il suo talento?
FB: Lavorare in Francia è molto difficile: se non sei francese o non vieni da una delle università riconosciute, non emergi... Ci sono dei poteri forti molto compatti, e per un italiano
non è certo facile... Quando ho iniziato a lavorare con la Renault ricevevo critiche tutti i giorni...
MM: E oggi li ha convinti, i francesi?
FB: La prima volta che la Renault ha vinto un mondiale, ha
vinto un mondiale costruttori...
MM: Chapeau a un italiano, allora...
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FB: Già... e poi c’è il contributo di un altro italiano come
Fisichella... La Renault ha vinto il mondiale costruttori all’ultima gara proprio grazie a lui; quindi stiamo dimostrando che gli
italiani in Francia possono fare davvero bene...
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