Stati Uniti – Lettera
C
da
New York
Pasqua nella propria lingua
hiesa al buio. Tutti siedono accalcati nelle panche o stanno nei corridoi laterali: da cima a fondo ogni spazio è
pieno. Tre percussionisti in alba bianca entrano da tre
punti diversi. Suonano dei tamburi e convergono al centro della navata dove è acceso il braciere per il fuoco nuovo. All’acme
del rullio entra il sacerdote con sei ministranti: quattro sono
donne di altrettante etnie.
È il sabato santo e partecipo alla celebrazione della Veglia
pasquale alla St. Francis of Assis Church nel centro di New York,
tra la 7a e la 31a strada. Una chiesa che, come si legge sulla sua
pagina web (www.stfrancisnyc.org), ha dovuto più volte ripensare la propria mission. Oggi punta a creare una comunità tra
immigrati (coreani, indiani, filippini, africani, latinoamericani…),
non residenti (gli statunitensi per lo più sono di passaggio o sono pendolari per lavoro) e turisti. In qualche modo, «una parrocchia senza parrocchiani» ma una comunità vera. La liturgia è
al centro ed è estremamente curata.
Alcuni volontari regolano l’afflusso dei fedeli e con fare accogliente fanno in modo che ciascuno abbia il libretto per seguire letture e canti. Il parroco p. Andrew Reitz invita tutti a
cantare «loud», forte, «più forte: questa è una celebrazione di
gioia e di speranza!».
Dall’esterno l’edificio sembra modesto rispetto ai palazzi da
Novecento. Trump sveglia l’America
dall’illusione di essere un paese post-razziale e rimette al centro delle divisioni
politiche la questione razziale – incentrata sulla questione dell’immigrazione
dall’America Latina ma anche sul futuro
dei milioni di giovani afro-americani
esclusi dal sogno americano.
Il problema è anche della Chiesa cattolica, e non solo perché dal punto di vista etnico e anagrafico gli elettori di
Trump assomigliano molto ai vescovi
americani (maschi, bianchi, oltre la mezza età).
Solo Cupich
La Chiesa americana sembra assistere allo spettacolo senza la capacità di far
sentire la propria voce. Dopo aver respinto, all’Assemblea del novembre scorso, la proposta di alcuni vescovi di rivedere il documento pre-elettorale del
2007 (proposta respinta in nome dell’«ermeneutica della continuità», come
ha detto l’arcivescovo di GalvestonHouston, nonché vicepresidente della
Conferenza dei vescovi, card. Daniel Di
Nardo), l’episcopato USA attende di
pronunciarsi sui toni e i contenuti della
campagna elettorale. Unica eccezione
l’arcivescovo di Chicago, mons. Blaise
Cupich, che vi ha fatto riferimento in
un’omelia tenuta la mattina dopo gli in-
20-40 piani che lo circondano. Eppure dentro al transetto destro trova comodamente posto un pianoforte a coda che Meredith Augustin suona: è la direttrice musicale della parrocchia e
a lei fa capo anche il coro che dalla cantoria sopra l’entrata interviene in alcuni momenti della celebrazione, accompagnato
dall’organo a canne. A volte, è vero, i canti hanno melodie potremmo dire pop: possono anche piacere il giusto, però non
danno l’impressione di uno spettacolo. Tutti cantano. Tutti.
E tutti possono ascoltare un po’ della propria lingua: la lettura della Genesi viene fatta in ebraico, tagalog (filippino), latino, indi, italiano, spagnolo e inglese.
L’amen e l’applauso dopo i battesimi per (quasi) immersione e le cresime di una schiera di adulti erano l’unanime accompagnamento di un’assemblea, per altro molto composta, fatta
di giovani e meno giovani, yankees e afro, coreani e di non so
quali parti del mondo che come me erano lì raccolti dall’unica
fede.
Non è necessario cercare la celebrazione di un gospel per
vedere una comunità orante e soprattutto sentirsene parte.
Qui nella pluralità delle voci e dei suoni ho percepito la ricca
cattolicità della Chiesa e mi sono sentita a casa.
Maria Elisabetta Gandolfi
cidenti scoppiati attorno a un comizio di
Trump in città l’11 marzo.
Se è vero che nei fatti, finora, qualsiasi tentativo di fermare Trump (la grande
stampa, i notabili del Partito) si sia rivelato inutile, nondimeno quello dei vescovi
è un silenzio assordante, che rivela la paralisi dell’episcopato americano alle prese con un papa come Francesco che il
cattolicesimo d’ordine non comprende e
non apprezza, con una situazione sociale
e culturale molto mutata nell’ultimo decennio (la recessione e l’aggravarsi delle
ineguaglianze sociali, il matrimonio
omosessuale), e con un conservatorismo
politico che affidandosi a Trump ha fatto
naufragare i tentativi durati un trentennio di cattolicizzare il Partito repubblicano e di convertire il cattolicesimo al conservatorismo politico.
Se la condizione di homeless (senza
casa) dal punto di vista politico era stata
tipica dei cattolici liberal e pro-life, emarginati dal Partito democratico, ora questa è la condizione che si applica a tutti i
cattolici, compresi i conservatori pro-life.
Il fenomeno Trump è il disvelamento
di molte ipocrisie all’interno della cultura politica cattolica americana: l’uso della piattaforma anti-abortista per coprire
l’indifferenza su altre questioni genuinamente pro-life come la riforma sanitaria e
la pena di morte; il militarismo accettato
acriticamente in particolare durante le
guerre in Iraq e Afghanistan; il cinismo
verso il ruolo sempre più invasivo della
grande finanza nella lotta politica; l’indifferenza (se non peggio) verso il razzismo del sistema penale e di polizia.
La situazione del Partito repubblicano e il discredito dato dallo spettacolo di
candidati che si dicono cristiani e che
s’insultano in televisione con un linguaggio da caserma ha degli effetti non solo
sulla credibilità della Chiesa americana e
dei vescovi che per lungo tempo hanno
creduto alle lusinghe dei repubblicani.
Ha degli effetti anche di lungo periodo sul rapporto tra i cattolici e la politica.
Nella Chiesa in America già erano visibili pulsioni di tipo neo-settario, riferibili
all’eredità del puritanesimo americano e
al radicalismo di Dorothy Day, e rafforzatesi nell’ultimo decennio in reazione
alle deviazioni teologico-politiche dell’era Bush: sono i cattolici (alcuni dei quali
teologi molto in voga) che sostengono
l’impossibilità per i cristiani di aver parte
al processo politico. In modi molto diversi, Francesco e Trump rendono evidente
la necessità e l’urgenza di ripensare radicalmente non solo gli allineamenti politici della Chiesa americana, ma anche la
sua cultura e teologia.
Massimo Faggioli
Il Regno -
at t ua l i t à
4/2016
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