Domenica
La
di
DOMENICA 8 AGOSTO 2010 / NUMERO 287
Il
Repubblica
il reportage
La metropoli cinese senza abitanti
GIAMPAOLO VISETTI
cultura
Vita torera, il romanzo della corrida
MARCO CICALA e MATTEO NUCCI
mio
amico
Cesare
Pavese
A sessant’anni dalla morte
dello scrittore, le lettere e i diari
inediti di Nicola Enrichens,
FOTO LEEMAGE
maestro elementare
di Santo Stefano Belbo
MASSIMO NOVELLI
E
NICOLA ENRICHENS
TORINO
ra una sera di primavera del 1949. Da poco nominato
direttore didattico a Santo Stefano Belbo, Nicola Enrichens entrò all’Albergo della Posta, sulla piazza
grande del paese delle Langhe, e vide un ragazzino che
stava buttando nella stufa alcune pagine di un libro. Ne prese una
e si accorse che apparteneva a Paesi tuoi, il primo romanzo pubblicato da Cesare Pavese. Lo guardò. Poi gli disse: «Lo sai che quel
libro lo ha scritto un tuo compaesano?». Aveva da poco letto Prima
che il gallo canti, ammirava Pavese e sapeva che era nato proprio lì,
dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indusse allora a cercare sue notizie presso i parenti e gli amici come Pinolo Scaglione, e soprattutto a riconciliare lo scrittore con la sua
terra. Invitato attraverso la cugina Federica, a giugno Pavese ritornò a Santo Stefano. Al maestro regalò una copia di Prima che il
gallo canti, con questa dedica: «A Nicola Enrichens con l’augurio
che trovi nella mia terra qualcosa».
(segue nelle pagine successive)
S
anta Libera è una collina situata a mezzogiorno di S. Stefano e vi si accede attraverso una strada asfaltata, che passa vicino alla vecchia torre, che è a mezza costa, sopra di
un rittano profondo. Quando vi andammo con Pavese,
salimmo lungo la scorciatoia, a sinistra della torre, e scendemmo
dalla parte opposta, lungo la strada, ora asfaltata, allora polverosa.
Era il 6 giugno del 1950, una mattinata dal cielo pulito, dall’aria
“sclinta”. Prendo la descrizione da una nota di cronaca della giovane maestra, che dirigeva la scuoletta di S. Libera, dal registro di classe: «L’inverno muore lentamente nella primavera. Una gioia viva c’è
in tutti a salutare la terra che si rinnovella. Anche noi usciamo nei prati a cercare la primavera, raccogliere tra i fiori il suo profumo. I peschi
e i mandorli sono tutti in trillo, punteggiati di fiorellini bianchi e rosa, e un odore inebriante di terra fresca c’è nell’aria trasparente. I ruscelli cantano fra le sponde fiorite, le viole e le pratelline stellano i declivi dei prati in sfumature azzurre e violette».
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
Tutti i figli di Mister Psyco
IRENE BIGNARDI e CLAUDIA MORGOGLIONE
i sapori
Cocktail, il gusto bitter dell’estate
FIORENZO DETTI e LICIA GRANELLO
le tendenze
Ma non chiamatemi maglietta
GIOVANNI CIULLO, MICHELA GATTERMAYER e ILARIA ZAFFINO
l’incontro
Odile Decq, contro l’archistar system
IRENE MARIA SCALISE
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Amicizie
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
A sessant’anni dal suicidio di Cesare Pavese
ecco il racconto, anche attraverso lettere inedite,
di chi cercò fino all’ultimo di riavvicinare l’autore
de “La luna e i falò” alla sua terra. Si chiamava
Nicola Enrichens ed era il direttore della scuola
elementare di Santo Stefano Belbo
MASSIMO NOVELLI
(segue dalla copertina)
ominciò così l’amicizia, arricchita da un notevole
scambio epistolare. A sessant’anni dal suicidio di Pavese, Francesco e Vincenzo Enrichens, i figli, e la vedova Paola Rubba, hanno deciso di rendere pubbliche quelle carte (sei lettere inedite, cartoline e altri
scritti brevi), insieme a una lunga testimonianza (che
pubblichiamo senza interventi editoriali in queste pagine) del maestro sullo scrittore piemontese e sul rapporto che intrattenne con lui.
Il testo e la corrispondenza fra i due verranno presto raccolti in un
volume curato da Mariarosa Masoero, che dirige il Centro studi
“Gozzano-Pavese” dell’Università di Torino, in collaborazione con
la famiglia Enrichens e con Paolo Borgna.
Originario di Contursi Terme, in provincia di Salerno, Nicola Enrichens arrivò in Piemonte da militare. Dopo l’8 settembre ’43 si unì
alle bande partigiane e , al termine della guerra, si sposò e vinse il
concorso per le scuole di Santo Stefano. Ricorda Franco Vaccaneo,
presidente del comitato scientifico della Fondazione Pavese: «L’ex
direttore didattico, un uomo che aveva dedicato la sua vita all’educazione e a un’idea di progresso sociale, mi parlava privatamente
delle lettere di Pavese che conservava. Soltanto due, d’altronde, furono pubblicate nell’epistolario Einaudi». Era stato Italo Calvino,
in una lettera del 16 giugno 1965, a dire allo stesso Enrichens che «le
lettere a Lei sono molto importanti, perché con Lei Pavese s’era
messo a discutere delle cose che gli stavano più a cuore, fatto che
non gli succedeva quasi con nessuno». Il ritorno a Santo Stefano,
del resto, culminò nella stesura de La luna e i falò, l’ultimo suo libro.
Iniziarono a scriversi nel giugno del ’49. Ancora il 6 luglio del 1950,
poco prima di uccidersi, Pavese gli inviò un biglietto in cui ironizzava sulla sua vittoria al Premio Strega: «Caro Enrichens, la ringrazio
del suo telegramma. Troppa degnazione per una faccenda pettegola e mondana come lo Strega. Come ho già scritto agli amici di S. Stefano, verrò presto a trovarvi, entro il mese». Furono principalmente la letteratura e i problemi della cultura di quegli anni, tra tradizione e arte moderna, provincialismo italiano e apertura al mondo, ermetismo e realismo, gli argomenti trattati dai due. Come quando, il
6 ottobre del ’49, Pavese affermò che «soltanto attraverso la responsabilità, l’impegno rischioso, l’azione insomma, ci si fa un punto di
vista. Per es., non si risolve il dubbio sull’arte — razionale o irrazionale, ottocentesca o novecentesca ecc. — se non ci si impegna a farne, cercando di essere sinceri. A poco a poco scopre se stessi, e il punto di congiunzione col proprio tempo. Quanto a Longanesi è un
buffone, e un letterato — lo lasci ai suoi trasformismi».
C
DOCUMENTI
In questa pagina, lettere
e una cartolina di Pavese
a Enrichens e uno schizzo
dello scultore Ferreri
per un bozzetto di busto
per Santo Stefano Belbo
Il maestro, lo scrittore
e il diavolo sulle colline
Non parlavano soltanto di letteratura. Lo scrittore affrontava in
certi passi il suo legame con il comunismo, così come analizzava il
suo sentirsi un comunista. Il 24 novembre del ’49 lo aveva definito
in questa maniera: «... io stesso lo sono molto sui generis». Il 15 gennaio del 1950 scriveva a Enrichens: «Il polso della vita batte ora non
più in una corte o in una piccola classe ma nei grandi organismi collettivi (le fabbriche, i campi sportivi, gli organismi democratici ecc.
— fra parentesi, anche per questo sono comunista) e si tratta di trovare il linguaggio tendenzialmente acconcio a toccare questi molti
lettori — questo tipico lettore “uomo e basta”». Ma «ciò dev’essere
fatto senza rinunziare a nessuno dei valori acquisiti in passato, senza abbassarsi al popolo: ma sollevando il popolo».
Pavese aveva già dentro, nella tarda primavera del 1950, il «vizio
assurdo» che lo avrebbe portato a togliersi la vita. Il Pavese che Nicola Enrichens ritrasse nel suo testo mai pubblicato, datando quella passeggiata sulla collina di Santa Libera agli inizi del giugno ’50,
era tuttavia un uomo che, pur in quei «giorni terribili del suo burrascoso amore con Costance Dowling», sapeva incantarsi davanti a un
albero: «Si fermò davanti a un pesco fiorito ad ammirarlo: vidi, dietro i vetri tersi delle sue lenti, i
suoi occhi brillare, come incantati per un miracolo». Il 27 agosto si sarebbe ucciso.
IL RICORDO
Nicola Enrichens
e il pittore Ernesto Treccani,
autore di un ciclo
di pitture dedicato
a La luna e i falò,
verranno ricordati venerdì
27 agosto alla Fondazione
Cesare Pavese
di Santo Stefano Belbo (alle 18,30)
in un incontro presieduto
dal sindaco del paese
Giuseppe Artuffo. Saranno
esposti lettere autografe
e documenti inediti
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DOMENICA 8 AGOSTO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Quell’ultima passeggiata
nelle sue Langhe
NICOLA ENRICHENS
(segue dalla copertina)
«I
l mondo piccino si ridesta con le sue api d’oro e le farfalline ingioiellate
per la grande festa. È tutto un fruscio ed un volo. Anche la lucertolina
esce dal suo buco e corre svelta dove il sole batte più intenso. I bimbi
amano questi umili insetti: s’immedesimano della loro vita e gioiscono d’ogni loro avventura».
La sera precedente, il 5 giugno, lo scrittore, invitato da me, era venuto e aveva
preso alloggio all’Albergo della Posta, dove
io ero in pensione. Cenammo con buon
appetito e Pavese, ricordo bene, sembrava
ben disposto alla compagnia: mangiò persino due piatti di tagliatelle!
Poi fummo ospiti di un comune amico,
che ci offrì dello spumante. Si parlò del più e
del meno ed anche della Resistenza. L’amico ebbe delle parole un po’ accese sulla guerra, sulle distruzioni, sugli abusi di violenza.
Vidi Pavese sbiancare in volto, alzarsi di scatto e dire:
— Non esageriamo; le violenze ci sono state
da una parte e dall’altra, ma la Resistenza ha salvato l’Italia dalla dittatura! —
Io calmai le acque e la discussione assunse toni più distesi. Ma Pavese fu nervoso per tutta la sera. Erano i giorni terribili del suo burrascoso amore con la C. Dowling.
La mattina seguente andammo a S. Libera.
Io dovevo visitare quella scuola — quindici
bambini, una sola insegnante, quattro classi — ed invitai anche lui a venire. Mentre salivamo, per la strada di Seirole, che porta a S. Libera, Pavese mi fece tutto un
panorama della letteratura contemporanea, dicendomi che, da noi, ciò che era
rimasto di valido, come contatto colla realtà, era il ritorno a Verga.
— Lei deve partire, mi disse, da Verga, salta la triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, ed arrivare, ad esempio a Federico Tozzi e De Sica.
Mi parlò dell’“Ulisse”, di Joyce, di Proust, (del quale mi mandò “La strada di
Swann”) di Lee Masters ecc. Si fermò davanti ad un pesco fiorito ad ammirarlo:
vidi, dietro i vetri tersi delle sue lenti, i suoi occhi brillare, come incantati per un
miracolo. Mi parlò del mito, delle religioni antiche, quando ci fermammo davanti
a un pilone d’un santo, fu, per me, la sintesi meravigliosa dei miei studi, che Pavese ripulì, quel giorno, dei sedimenti della tradizione. Comprai, poi, “Tre croci”
del Tozzi.
Ritornammo all’Albergo della Posta; mangiammo di buon appetito, poi l’accompagnai, a piedi, fino alla stazione, dove egli prese il treno per Torino.
Stava maturando il “Premio Strega”. Ebbi, però, la sensazione che non fosse
quell’orco, che tanti hanno, poi, descritto — fu molto cordiale, estroverso, quei
due giorni; andava, forse, alla ricerca di una compagnia, di qualcuno che lo tirasse fuori dalla rete della travolgente passione amorosa.
Dal trenta maggio al ventidue giugno non una sola annotazione sul suo diario.
Aveva tutt’altro da fare. La C. gli aveva detto che sarebbe tornata, dopo l’incontro
di Cortina, dopo due mesi. E si attacca alla sorella, alla Doris, per avere notizie.
Il ventidue giugno parte per Roma, per il Premio Strega. Gli feci un telegramma, per il riconoscimento letterario.
— A Roma, anche l’estate è bella, con lo Strega —
Mi rispose, il 6 luglio, con questa lettera:
In questa pagina,
altre lettere di Pavese
e la lettera inedita
di Italo Calvino
a Enrichens
Nella foto grande,
Cesare Pavese
Nelle altre foto,
in alto, l’Albergo
dell’Angelo a Santo
Stefano Belbo
di cui si parla
ne La luna e i falò
Qui sotto, la casa
natale dove lo scrittore
visse fino al 1916
6 luglio ’50
«Caro Enrichens,
La ringrazio del suo telegramma. Troppa degnazione per una faccenda pettegola e mondana come lo Strega. Come ho già scritto agli amici di S. Stefano, verrò
presto a trovarvi, entro il mese.
Arrivederci e grazie ancora
Pavese».
Avevamo combinato, con Nuto, di festeggiarlo, a S. Stefano, una sera con una
bicchierata. Ci aveva promesso che sarebbe venuto. Anche la cugina Federica
aveva insistito.
Ma aveva preso alloggio all’Albergo Roma a Torino ed aveva deciso di suicidarsi. La C. non era più tornata. Gli aveva scritto un biglietto dal New-Mexico, il
27 giugno, e Pavese sapeva che non l’avrebbe più rivista. E pensava alle notti di
Cortina.
Come un adolescente, non seppe resistere.
Appresi la notizia della morte, a Garessio, leggendola sulla “Gazzetta Sera” del
28-29 agosto, che uscì con questo titolo, su quattro colonne, e la foto dello scrittore: “Con oltre venti cartine di sonnifero in un albergo di Torino, Cesare Pavese
si è ucciso ieri”.
Dopo la morte, dopo il Premio “Strega” tutti avevano conosciuto Pavese, a S.
Stefano, tutti si ricordavano di lui. Ancora adesso la maggior parte dei suoi concittadini non sa chi sia stato. Un tale mi dice, ancora oggi, che è stato suo compagno di scuola alle elementari; e Pavese le elementari le ha frequentate a Torino!
I critici fecero il coro sullo scrittore, cercarono di spiegarne la morte.
Luigi Barzini, sulla “Settimana Incom” scrisse che Pavese, a Roma, aveva fatto la fine di un qualsiasi provinciale, abbagliato dalle luci della
città, lui che veniva dalla campagna, dalle Langhe!
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ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI
PAESI TUOI
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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il reportage
Metropoli-fantasma
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
Era un piccolo villaggio di contadini. Poi il governo decise
di trasformarlo nella città più ricca e sfavillante dell’impero
E così, nella Mongolia profonda, è nata Ordos-Kangbashi
Peccato che, pensata a tavolino per due milioni di cittadini,
sia abitata da ventottomila persone. Che ora vagano spaesate
tra grattacieli vuoti e piazze senza vita
Nei viali deserti della bolla cinese
GIAMPAOLO VISETTI
L
KANGBASHI
zionari comunisti, centinaia di uomini d’affari hanno fatto la fila per aggiudicarsi un attico nella nuova
terra promessa e i finanzieri di Shanghai e Hong
Kong non hanno potuto sottrarsi all’obbligo di diventare padroni di un palazzo nella città del partito.
Senza che un essere umano si affacci volontariamente all’orizzonte, la nuova Ordos è il motore dell’esplosione immobiliare cinese. La capitale prometteva trecentomila abitanti entro il 2010 e i prezzi degli stabili salivano del trenta per cento. Un ministero assicura che i residenti saranno settecentomila entro il 2015 e il valore degli immobili, nemmeno progettati, raddoppia un’altra volta. Le
statistiche nazionali, negli ultimi due anni, hanno
macinato le cifre astronomiche del misterioso
boom del mattone. Non hanno spiegato che dietro
Kangbashi, nelle regioni interne, stanno sorgendo
decine di città-fantasma e di distretti industriali
senza imprese e senza operai. Vengono inventate
per consentire alle banche di restituire al governo
l’oro del Dragone e vendute per impedire che l’aumento annuo del prodotto interno lordo precipiti
sotto l’8,5 per cento. Qingshuihe, nello Shaanxi, è
una Ordos in miniatura. Dopo investimenti per sei
miliardi di yuan la realizzazione dei suoi quartieri,
già venduti, è stata sospesa per mancanza di aspiranti residenti. Decine di edifici in rovina, sui quali restano appesi cartelli con la scritta «arriviamo
presto», sono ora occupati da alberi, cavalli e da
una serie di porcili clandestini. È il segreto della
«bolla immobiliare» cinese, che continua a gonfiarsi ma non scoppia mai. Se i prezzi scendono
troppo e le compravendite languono oltre il limite
fissato da Pechino per raffreddare il mercato, da
qualche parte aprono i cantieri di una città senza
cittadini. A Kangbashi, l’amministrazione ha annunciato piani edilizi per altri trecentotrentacinque chilometri quadrati, dieci volte l’attuale area.
Oltre cinquemilasettecento ettari di terreno sono
stati assegnati alle imprese senza che i progetti edilizi abbiano ottenuto l’autorizzazione. I governi locali sono ormai totalmente dipendenti dalla vendita della terra e ogni cinese sopravvive nella certezza che prima o poi diventerà un piccolo investitore di immobili da affittare. Non importa se sono
veri o falsi, occupati o vuoti. Conta che ci sia un con-
L’unico cliente dell’unico
albergo ammazza la notte
Il capolavoro dell’apparenza
in un Paese condannato
facendo karaoke online
a una crescita senza fine
tratto e un prestito finanziato, essenziali per pagare i mutui di appartamenti a cui è affidata la sicurezza della vecchiaia.
La metropoli-fantasma della Mongolia Interna
non è l’ultima follia dell’epocale urbanizzazione cinese, sacrificio obbligato per trasformare la Cina da
«fabbrica del mondo» a «mercato globale» del secolo. È piuttosto lo specchio dell’incubo del capitalismo socialista, che scopre come l’autoritarismo resti infine un ostacolo insormontabile per la libertà
delle imprese. A fianco di una stazione ferroviaria
senza binari c’è una biblioteca priva di libri e di scaffali. In un laboratorio informatico un guardiano e
due ragazzi giocano tra oltre centro computer imballati. Nella “Cittadella della scienza e della tecnica” non arrivano i cavi per Internet. Per creare «l’effetto-folla», i funzionari costringono trentasettemila studenti di Dongsheng a raggiungere ogni
giorno i nuovi istituti di Kangbashi. Il portavoce dell’amministrazione, Han Junli, assicura che «la bassa densità della popolazione rende la città un modello mondiale di vivibilità» e che entro dieci anni
questo ammasso di grattacieli vuoti, assediati dal
deserto mongolo, sarà «una capitale della cultura,
del turismo, della scienza e della finanza». Può essere che in Cina avvengano miracoli, ma la realtà è
che in giro non si vede nessuno, sebbene lo scorso
maggio siano stati venduti novemilanovanta appartamenti a milleduecento euro al metro quadro,
contro i settecento euro dei settemilaquattrocento
acquistati in febbraio. Ufficialmente il reddito pro
capite è di ventunomila dollari all’anno, rispetto ai
sedicimila di Shanghai, ma i ristoranti non aprono
e dodici giganteschi shopping center, privi di merce, hanno rinunciato all’energia elettrica.
Ordos è la nuova Cina, che domina se stessa e il
pianeta riempiendo il vuoto con un buco che nessuno sa se è circondato dall’illusione, o dal dovere
della speranza. Nella sconfinata piazza principale
ci sono solo tre minatori, emigrati dallo Jiangxi. Seguono le partite dei Mondiali di calcio girandosi
verso quattro maxi-schermi che riproducono la
grandezza di uno stadio. Un ingegnere tedesco che
consegna viadotti chiavi in mano, è l’unico cliente
dell’unico albergo aperto. Tiene un microfono in
mano e ammazza la notte canticchiando davanti al
computer collegato al karaoke online.
gono definiti «zona business», di imbattersi in una
fila di taxi fermi, con gli autisti che dormono sul sedile. Poco distante alcuni poliziotti, immobili davanti a una palazzina, impediscono l’accesso a
quella che sostengono essere la sede dell’amministrazione comunale. Non ci sono negozi. Per trovare qualcosa da mangiare bisogna battere con cura decine di viali delimitati da spazi pubblicitari invenduti, nel presagio di essere penetrati nella dismessa scena di un film. Una vecchia, accovacciata sul marciapiede, frigge ravioli sul carbone sparso sull’asfalto.
La proiezione di Dubai dopo un ordine di evacuazione è la scintillante metropoli-fantasma costruita nel nulla dalla Cina. In cinque anni ha sorpassato il Pil di Pechino e Shanghai ed entro il 2013
avrà un reddito medio superiore a quello di Hong
Kong. Pur essendo una finzione politica e finanziaria, sarà la città più ricca dell’Asia e riuscirà nell’impresa senza precedenti di incarnare nello stesso
tempo il simbolo del boom cinese e il più impressionante esperimento di urbanizzazione priva di
urbanizzati. Questo paradosso della speculazione
edilizia a spese del pubblico, spina dorsale dell’ossessione cinese per la crescita del Pil, è stato battezzato Kangbashi e dovrebbe trasformarsi nella
nuova Ordos, toponimo che significa «serie di palazzi». Sorge in un’area di trentaduemila chilometri quadrati, tra le colline sabbiose della Mongolia
Interna, estremo nord della Cina.
Fino al 2004 qui si trovava il villaggio di Dongsheng, millequattrocento contadini. Poi il governo
ha deciso che il luogo era adatto per una metropoli da due milioni di abitanti. I leader locali del Partito comunista si sono messi a vendere terreni e le
imprese di costruzione, con i soldi delle banche finanziate dallo Stato, ad aprire cantieri. Per decreto
presidenziale, Kangbashi è cresciuta a vista d’occhio, come una marea di cemento destinata a mutarsi nel capoluogo del Texas made in China. È al
centro della regione-serbatoio del continente e un
pugno di ex funzionari controlla un sesto delle riserve di carbone e un terzo dei giacimenti di gas del
Paese. Fino a quando le gru hanno tirato su centinaia di grattacieli, tutto è filato liscio. Ma ora che l’inesistente città-modello è finita, ci si accorge che
invece di essere popolata da due milioni di giovani
cinesi felici, è ufficialmente occupata da ventotto-
consorziocreativi.com
FOTO SUSETTA BOZZI/PARALLELOZERO
a città più ricca della Cina non esiste.
Centinaia di grattacieli, autostrade a
sei corsie, torri-astronave per uffici,
piazze-scultura e quartieri di ville hollywoodiane immerse in finti giardini tropicali, sono vuoti. Nel centro, segnalato da otto enormi fontane prive di acqua, si aggirano alcune vacche che
brucano tra i fiori delle aiuole. Quattro manovali
sono assopiti in un vapore rovente, stesi sul tetto di
un museo che stanno finendo di costruire. Un cartello spiega che presto sarà deciso quale tema dare
alla struttura e quale mostra sarà acquistata. Sulle
finestre dei palazzi c’è scritto «affittasi» con lettere
adesive. Nessuno sale sugli autobus e le strade sono piene di ristoranti chiusi. All’asilo non è iscritto
alcun bambino, a scuola vanno solo gli insegnanti
e non esiste un ospedale. Si può vagare per ore senza incontrare anima viva, come in un deserto. Capita però, tra i missili di cristallo e acciaio che ven-
mila residenti spaesati. I funzionari pubblici, trasferiti d’ufficio da altre regioni, sono sedicimila. Gli
altri sono mogli, figli e anziani genitori, o manovali migranti impegnati negli ultimi lavori.
La nuova megalopoli costruita a tavolino non è
però un fallimento. Ci abitano le persone di una
strada di Pechino, è vuota come un altopiano tibetano, per le vie si incontrano più spazzini che passanti, ma appartamenti e uffici risultano tutti venduti. È il capolavoro dell’apparenza su cui si appoggia la crescita della Cina, condannata a essere senza fine. Per salvare l’economia nazionale dalla crisi
dell’Occidente il governo ha stanziato quasi seicento miliardi di dollari in opere pubbliche. Una ventina sono finiti qui e con i fondi della capitale, indispensabili per evitare la bancarotta del partito, i
funzionari della Mongolia Interna hanno inventato Kangbashi. Gli immobili, prima di essere costruiti, sono stati comprati da anonimi investitori nazionali e stranieri. I signori delle miniere sono stati invitati ad acquisire dieci ville a testa, le grandi compagnie petrolifere almeno cinque piani di uffici, le
banche interi stabili. Per mesi, su consiglio dei fun-
È IN EDICOLA IL NUMERO DI AGOSTO:
SPECIALE UOMINI E DONNE Diversi ma non troppo. Al di là dei luoghi comuni,
ecco come funziona il cervello dei due sessi . PSICOLOGIA Effetto Facebook :
i social network ci cambiano la testa? . SALUTE I meccanismi cerebrali che regolano le
tossicodipendenze . COMPORTAMENTI Perché la vita urbana scatena l'aggressività.
MENTE & CERVELLO LANCIA UN NUOVO ABITO MENTALE.
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DOMENICA 8 AGOSTO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
SKYLINE Alla fine di una strada completamente deserta si comincia a vedere il profilo di Kangbashi, nella Mongolia Interna
DESERTO La nuova metropoli voluta dal governo cinese emerge a poco a poco dal deserto mongolo che la cinge d’assedio
ACQUA In primo piano il bacino idrico della nuova città, sullo sfondo gru e torri in costruzione. Nella pagina accanto, piazza Gengis Khan
BANDIERA ROSSA La sede dell’amministrazione comunale e la sede del partito comunista di Ordos-Kangbashi su cui sventola la bandiera rossa
NON LUOGHI Due immigrati, lavoratori nei cantieri edili, con le buste della spesa attraversano un tratto di campagna. Alle loro spalle, sulla destra, il nuovissimo museo
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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
CULTURA*
Se il Parlamento catalano dice addio alla passione
più antica, un’altra Spagna ricorda i suoi
grandi matadores. Da Juan Belmonte,
di cui viene ripubblicata la biografia, a quel poliedrico
personaggio che fu Ignacio Sánchez Mejías. Del toreador
cantato dal poeta ora sono state trovate le ultime memorie:
luci e ombre di un “mundillo” destinato a scomparire
La sfida tra arte e sangue
nel secolo d’oro dell’arena
MATTEO NUCCI
«I
l giorno in cui si sfidano tori cresce di più la barba. È la paura. Semplicemente, la paura». Lo
chiamavano «genio», «terremoto», «uragano».
Ma il suo nome d’arte, da matador de toros, rimase quello del ragazzino poco dotato fisicamente e dalla battuta fulminante, nato a Siviglia
nel 1892: Juan Belmonte. Fu il torero più rivoluzionario del Novecento: cambiò per sempre le regole della sfida ai tori, facendo
delle sue debolezze fisiche una forza, avvicinandosi alle corna
dell’animale come nessuno prima e sfruttando il gioco del polso sul panno che inganna il toro, anziché il lavoro di braccia e
gambe. Cento anni fa uccise il suo primo animale, ma in Spagna
oggi non si festeggia e semmai si continua a parlare della decisione presa dal Parlamento catalano di abolire per sempre le
corride. Eppure è un editore catalano (Libros del Asteroide) ad
aver ripubblicato, e con successo, Juan Belmonte, matador de
toros, il libro che nel 1935 dedicò a Belmonte un grande reporter spagnolo, Manuel Chaves Nogales. Una storia picaresca in
cui il torero impara sfidando i tori di notte, introducendosi negli allevamenti con una lampada rubata in un circo, fino a diventare il più grande matador di Spagna, dopo la morte nell’arena del suo inseparabile rivale, Joselito, nel 1920.
Ma non puro e semplice artigiano della corrida fu Belmonte. Girava per le arene di Spagna e dell’America Latina con una
borsa zeppa di libri leggendo instancabilmente Maupassant e
D’Annunzio. E cominciò a frequentare gli intellettuali, anticipando la tendenza che sarebbe stata esaltata di lì a poco da
García Lorca. Del resto, che la corrida sia arte è quello che hanno cercato di dimostrare i contrari all’abolizione durante questi ultimi mesi di dibattito. Sono intervenuti un po’ tutti, i grandi scrittori di lingua spagnola, da Mario Vargas Llosa a Javier
Marías, da Javier Cercas a Fernando Savater, pur di mettere
ben in chiaro che la corrida appartiene a quel tipo di arti che,
per quanto effimere e indissolubilmente legate al momento —
unico — in cui si svolgono, sono fonte d’ispirazione per altrettante forme d’arte. Una delle prove più lampanti sta nell’infinita produzione artistica che alla tauromachia si è ispirata. I
nomi più altisonanti li conosciamo: Goya e Picasso, García
Lorca e Neruda, Botero, Dalì, Bizet, Hemingway, Cocteau.
Molto meno conosciuti, almeno in Italia, gli innumerevoli
scrittori di letteratura taurina, tra cui non può che finire anche Manuel Chaves Nogales. Il suo piccolo capolavoro lo pubblicò a puntate su una rivista e pochi anni dopo abbandonò la
Spagna ormai perduta al franchismo per morire esule, a Londra, nel 1944, a quarantasette anni. Non poté vedere il seguito della vita di Belmonte, quando il matador fu costretto ad
abbandonare definitivamente le arene. Ricco, amatissimo,
costantemente dedito alla battuta e alla riflessione fuori dalle regole, seguì il proprio allevamento di tori selvaggi e continuò a cercare di conoscere il mondo fino a quando non decise che si era fatta ora. Avrebbe compiuto settant’anni sei giorni dopo, uscì presto al mattino nella sua tenuta, scese da cavallo e affrontò un enorme toro sperando che potesse avere
ragione di lui, ma invano. Allora tornò a casa e si sparò nel petto, sulla cicatrice che un corno gli aveva procurato anni prima. Forse credeva di aver vinto così la paura che gli faceva crescere la barba e che gli si manifestava come una vera e propria
figura umana nella solitudine che accompagna il torero prima che si vesta di luci. Era come un intimo amico, la Paura —
racconta nella biografia — e tentava di dissuaderlo. Uno dei
suoi argomenti suonava così: «In pochi anni, non ci saranno
più appassionati, né tori. Sei sicuro che le generazioni a venire avranno qualche stima per il valore dei toreri? Chi ti dice che
fra qualche giorno non verranno abolite le corride e disdegnata la memoria dei loro eroi?».
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Romanzo
di
corrida
Il segreto del torero
di García Lorca
MARCO CICALA
D
MADRID
opo aver rischiato la pelle nell’arena era capace
di chiudersi in albergo a
scrivere una pièce teatrale. Oltre che drammaturgo fu attore
di cinema, aviatore, pilota automobilistico, giocatore di polo, presidente della Croce Rossa e del Betis Siviglia Calcio, nonché mecenate d’una generazione di poeti grande quanto disgrazia-
ta. Spiegò la tauromachia alla Columbia University. Perché, prima di tutto,
fu matador de toros. Leggendario in vita e ancor più in morte: quella trasfigurata dall’amico Federico García Lorca
nel celebre Lamento per Ignacio Sánchez Mejías, la più alta elegia funebre
del Novecento spagnolo — e non solo.
«A las cinco de la tarde / Eran las cinco en
punto de la tarde», versi così famosi da
essersi trasformati loro malgrado in
spot folkloristico della Spagna ance-
strale, flamenca y torera.
Eppure, a settantasei anni dalla cornata killer nell’arena di Manzanares, la
figura di Ignacio Sánchez Mejías
(1891—1934) resta irriducibile ai cliché. E da quel cilindro magico che fu la
sua rapida esistenza spunta adesso
un’altra sorpresa: il romanzo inedito
La amargura del triunfo (L’amarezza
del trionfo). Nell’ambiente taurino era
considerato una specie di piccolo
Graal. Tutti gli aficionados sapevano
che stava sepolto da qualche parte, ma
finora nessuno era stato abbastanza
bravo da scovarlo. C’è riuscito il professor Andrés Amorós. Mica un Indiana
Jones dell’ultim’ora: critico e giornalista, insegna letteratura spagnola nell’antica università Complutense di
Madrid, e al torero venerato da García
Lorca ha dedicato studi definitivi. Racconta: «Il romanzo era nascosto tra la
massa di manoscritti lasciati da Ignacio. Un labirinto di appunti buttati giù
d’impeto tra una corrida e l’altra. Un
caos scoraggiante. Anche i discendenti erano pessimisti sulle chances di successo». Ma alla fine il professor Amorós
ha ricomposto il mosaico del romanzo
— ora pubblicato in Spagna (edizioni
Berenice) e già in ristampa.
Spaccato di vita torera a metà degli
anni Venti, L’amarezza del trionfo ha
solo l’apparenza del racconto di colore.
Fu anche aviatore,
drammaturgo, attore,
pilota, giocatore
di polo, presidente
del Betis Siviglia Calcio
Sotto lo smalto del pittoresco serpeggia
una riflessione malinconica, corrosiva,
addirittura inquietante, su psicologia e
condizione sociale dei matador. E sul
mundillo, il mondo taurino, con le sue
incipienti derive da show-business.
Quattrini, veleni, giornalisti prezzolati,
attriti di classe, bohème, amori, evanescenza del successo. E, in mezzo, un
eroe quasi esistenzialista, il torero José
Antonio, col suo devoto assistente, il
“Sancho Panza” Espeleta. Per quanto
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
I RITRATTI
Al centro e qui accanto,
il torero Ignacio Sánchez Mejías
reso immortale dai versi
di García Lorca
Sotto, Sánchez Mejías
e l’altro celebre matador de toros
Juan Belmonte (più in basso)
durante una corrida
‘‘
IL MANOSCRITTO
Alcune pagine
del manoscritto
inedito di Ignacio
Sánchez Mejías
pubblicato
in Spagna
con il titolo
L’amarezza
del trionfo
In alto a destra,
la copertina
del libro
imbottito di elementi autobiografici, il
romanzo ci parla meno del suo autore
che del suo idolo: «Dietro il protagonista si intravede più che altro il mito-Joselito» mi spiega Andrés Amorós nel
suo ufficio universitario.
Joselito. Leggi: José Gómez Ortega
detto El Gallo. Leggi: il più grande matadordi tutti i tempi. Non si discute: ancora adesso se in Spagna chiedi in giro lo
mettono in cima alle classifiche. Sebbene non l’abbiano mai visto in azione.
Perché morì il 16 maggio del 1920. Incornato a venticinque anni nella plaza
di Talavera de la Reina. Fu più di un lutto enorme (a tutt’oggi commemorato
nelle arene): fu un trauma nazionale.
Una lacerazione culturale. E il tramonto di un’epoca: la Edad de Oro del toreo.
«La tauromachia è finita» decretarono i
fan e persino gli avversari. Ma per nessuno lo shock fu più demolitore che per
Sánchez Mejías. Che quella tarde toreava con Joselito. Ne aveva sposato la sorella. E poi ne avrebbe preso in simpatia
pure l’amante, la ballerina e coreografa
Encarnación López, alias la Argentinita.
José, il prodigio mezzosangue gitano,
e Ignacio, figlio ribelle di borghesi. Erano cresciuti insieme per le picaresche
strade di Siviglia, malgrado li dividesse
un solco. Di status. E talento. Di quattro
anni più anziano, Sánchez Mejías aveva
imparato tutto da El Gallo che lo “battezzò” torero insieme a un altro padrino
eccellente: quel genio di Juan Belmonte. Più coraggio che fronzoli, «Ignacio
toreava nello stile essenziale, dominatore di Joselito. Che nel romanzo spunta come una specie di proiezione, di
doppio» dice Amorós. E ricorda quanto
Sánchez Mejías fosse affascinato dalla
psicanalisi, dalle prime traduzioni di
Freud, dai dedali della mente: «Certi
suoi lavori teatrali hanno un sapore pirandelliano». Era talmente incuriosito
dai manicomi da portarsi alle corride i
picchiatelli in comitiva. Tipo Jack Nicholson nel Cuculo.
In varie stagioni si ritirò provvisoriamente dalle arene: si sentiva sempre più
attratto dalle arti. Pur nella fedeltà all’etica torera, visse il Novecento come un
immenso giacimento di possibilità conoscitive, espressive. Seduttore, dandy
(«In un hotel parigino lo scambiarono
per il Duca di Windsor»), munifico: nel
1927, per il trecentesimo anniversario
della morte di Góngora, sponsorizzò a
Siviglia il raduno di poeti che da quel
momento vennero chiamati la «Generación del 27». Quella — poi perseguitata e dispersa dalla Guerra civile — degli
Alberti, dei Bergamín, dei Cernuda... E
di Federico García Lorca. Che a Sánchez
Mejías regalò l’eternità laica della poesia. Mica poco. «Però guardi che Las cinco de la tarde non sono, come si crede,
l’ora della cornata, né della morte, ma
quella in cui iniziò il corteo funebre»
precisa il professor Amorós. Ignacio
non morì nell’arena ma, due giorni dopo, in una clinica di Madrid. Tra ombre
di amici, sussurri di suore, un gran caldo
gravido di disinfettante.
Non avrebbe voluto esibirsi nella
plaza in cui venne incornato da un toro
di nome Granadino. A portarcelo fu la
perfida orologeria del destino: sostituiva un matador infortunato. Triste, solitario y final, era tornato a toreare perché, sì, la corrida gli andava stretta, ma
non poteva farne a meno. «Me muero de
tristeza», diceva quando ne era lontano.
Delirando nell’agonia parlò di tori al
pascolo fra distese di ulivi. Nella coscia
aveva una ferita grossa quanto un pugno. È sepolto a Siviglia. Cimitero dei toreri. Nella stessa tomba di Joselito.
Federico García Lorca
A las cinco de la tarde
Eran las cinco
en punto de la tarde
Un niño trajo la blanca
sábana
a las cinco de la tarde
Una espuerta de cal
ya prevenida
a las cinco de la tarde
Lo demás era muerte
y sólo muerte
a las cinco de la tarde
***
Alle cinque della sera
Eran le cinque in punto
della sera
Un bambino portò
il lenzuolo bianco
alle cinque della sera
Una sporta di calce
già pronta
alle cinque della sera
Il resto era morte
e solo morte
alle cinque della sera
da “LLANTO POR IGNACIO
SÁNCHEZ MEJÍAS” (1935)
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Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
Il 10 agosto 1960 usciva nelle sale d’America il capolavoro
di Hitchcock. L’attrice protagonista moriva pugnalata
sotto una doccia. Una sequenza sorprendente e terrificante
che cambierà per sempre il genere thriller. Da quel momento tutti furono costretti
SPETTACOLI
a citare e copiare i meccanismi che il regista aveva messo in campo
Ed ecco perché ancora oggi non possiamo lasciarci alle spalle il Bates Motel
CLAUDIA MORGOGLIONE
a paura, su grande schermo, si divide in un “prima” e in un “dopo”
Psyco. Non solo perché il cult firmato Alfred Hitchcock resta una
delle opere più amate, clonate, citate e saccheggiate di sempre. Ma
soprattutto perché ha stabilito, con una forza
senza precedenti, le regole auree del terrore cinematografico. Imponendo su chi lo guarda
un dominio emotivo che va avanti, incontrastato, da mezzo secolo: «Non ho mai tentato di
dirigere tanto i pensieri dello spettatore come
in questo film — confessò l’autore a Francois
Truffaut, nel corso delle loro celebri conversazioni — è l’esperienza più appassionante che
abbia fatto di gioco con il pubblico».
Un meccanismo a cui è quasi impossibile
sottrarsi. E che dura esattamente da cinquant’anni, da quando, il 10 agosto 1960, la
pellicola debuttò nelle sale americane. Da allora, quello che potremmo definire il “codice
Psyco” — dispositivi interni, personaggi chiave, intere sequenze — ha agito profondamente sulla cultura popolare. Provocando, ad
esempio, una proliferazione infinita di protagonisti serial killer. Dimostrando che un pugnale agitato nella penombra spaventa mille
volte di più di una scarica di proiettili. Conquistando un posto fisso nei nostri incubi, col primo piano finale del suo antieroe psicopatico
Norman Bates (Anthony Perkins). Impedendo
a chiunque di farsi una doccia in un motel senza provare un brivido. Trasformandosi in icona pop, oggetto di consumo, marchio presen-
L
dell’omicidio di Janet Leigh nella doccia: «La
prima parte della storia serve a distogliere l’attenzione per rendere più forte la scena dell’assassinio — spiegò il regista — ho fatto uccidere la star del film per creare qualcosa di ancora
più inatteso». Mai si era vista una protagonista
morire al minuto trentanove del primo tempo.
E non finisce qui: dopo il delitto arrivano nuovi colpi di scena, nuovi momenti di pura tensione.
Il risultato di questo susseguirsi di sequenze
da antologia è un film tra i più citati da altri film.
Imitatori, ladri, fratelli e figli più o meno legittimi dell’originale. Oltre a due sequel cinematografici diretti da altri registi, un prequel televisivo, una serie tv intitolata Bates Motel, una pellicola-clone diretta da Gus Van Sant nel 1998,
non c’è horror o thriller che non gli abbia reso
omaggio. In Carrie. Lo sguardo di Satana di
Il codice della paura
e l’esercito dei cloni
Brian De Palma, che ha una scena con la protagonista coperta di sangue sotto la doccia, la sua
scuola è la Bates High School. In Halloween di
John Carpenter lo psichiatra risponde al nome
di Sam Loomis, come il fidanzato di Marion
Crane. Nell’albo a fumetti numero venti di Dylan Dog, intitolato Dal profondo, i personaggi
sono chiamati George Bates e Janet Crane. Poi
ci sono i numerosi esempi di killer armati di coltello (Misery non deve morire, American Psycho), di bagni o docce come luoghi del delitto
(Le verità nascoste), di edifici maledetti (La casa). Anche l’Italia ha dato il suo contributo: dalla parodia Totò Diabolicus a L’imbalsamatore
di Matteo Garrone (dove ritornano l’uso morboso della tassidermia e l’auto fatta sparire nel
lago), passando per il primo Dario Argento.
In questo oceano di citazioni, spiccano tre
grandi. Il primo è Brian De Palma: «Per me Hitchcock è come una grammatica — ha dichiarato — quando prendo le tecniche di cui è stato maestro e le uso, non faccio altro che servirmi di un dizionario». Oltre che in Carrie, ci sono forti tracce di Psyco in Le due sorelle, Blow
Out, Complesso di colpa; Vestito per ucciderene
è quasi una rivisitazione critica. Il secondo è
Roman Polanski: il suo capolavoro del 1965 Repulsion fu definito da JG Ballard «un Kafka rifatto in stile Psyco». Il terzo è lo Staney Kubrick
di Shining, col suo Overlook Hotel isolato dal
mondo, e il ghigno psicotico del protagonista
Jack Nicholson.
Allontanarsi dal mondo di Norman Bates,
insomma, non si può. Siamo ancora tutti lì, inchiodati alla poltrona. E Hitchcock, in fondo, lo
sapeva: «Sono sopravvissuto — disse quarantacinque anni fa, sottolineando l’eterna attualità del suo stile — al cinema muto, al sonoro,
allo schermo piccolo, al grande, al cinema in
tre dimensioni, al drive-in, ai film proiettati sugli aerei, alla televisione e ai popcorn senza
burro…». Proprio come la sua pellicola più terrorizzante: perennemente giovane.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
te su gadget a lui ispirati. Comprese tende e vasche da bagno con finto sangue, in vendita sul
Web.
Segnali di una popolarità senza tempo, che
rende inutile soffermarsi troppo sulla trama
del film: l’impiegata Marion Crane (la diva Janet Leigh) in fuga, la sosta al Bates Motel, la
morte terribile, le indagini e la rivelazione sul
legame tra l’assassino e sua madre. Meglio allora ricordare come Psyco(Psychonel titolo originale, dal romanzo di Robert Bloch scritto sull’onda di un episodio reale) sia stato il più grande successo commerciale di Hitchcock: costato solo ottocentomila dollari, ne ha guadagnati quaranta milioni. Eppure, sul piano dei contenuti, l’opera rappresenta un clamoroso caso
di (auto) infedeltà: un’infrazione alla famosa
regola della suspence creata proprio dal re del
brivido. Secondo questa teoria, suspence significa «far giocare lo spettatore a essere dio»,
sempre informato in anticipo su cosa accadrà
al protagonista ignaro. Qui, invece, il meccanismo è inverso. Il povero pubblico viene depistato fin dall’inizio, poi sorpreso e scioccato
con i quarantacinque secondi agghiaccianti
CARRIE. LO SGUARDO DI SATANA
VESTITO PER UCCIDERE
LE VERITÀ NASCOSTE
THE EYE
Sissy Spaceck sotto la doccia terrorizzata
e coperta di sangue. Di Brian De Palma
(1976), dal romanzo Carrie di Stephen King
Nella scena della doccia De Palma (1980)
rivisita ancora una volta, in chiave quasi
critica, la lezione hitchcockiana
Ancora bagni e docce come luoghi
del delitto per Robert Zemeckis (2000)
Con Harrison Ford e Michelle Pfeiffer
Jessica Alba nel bagno si guarda
allo specchio come fa Janet Leigh
Di David Moreau e Xavier Palud (2008)
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
ovevate esserci (e qualcuno c’era) quel 25 novembre di cin- mo una tenda per la doccia, sappiamo che gatta ci cova.
quant’anni fa quando nei corridoi, negli uffici, nelle aule dei liMa non è solo la scena madre a essere rimasta con noi. È anche l’idea
cei cominciò serpeggiare la voce che bisognava correre a vede- di film povero, o almeno a basso costo, e di come la “povertà” possa dire il nuovo film di Hitchcock, uscito in Italia il giorno prima e già ogget- ventare stile. Psyco come capostipite del cinema sperimentale? Be’, in
to di dibattiti e divieti. Questa volta non era uno di quei bei gialli per tut- un certo senso. Non è un caso se il set del film è stato a lungo un luogo
ti che riconciliano le generazioni e i pomeriggi domenicali, come il suo di culto degli Studi Universal. Perché lo spettatore dell’epoca e quello
diretto predecessore, Intrigo internazionale. Anzi, le mamme avreb- di poi, di epoche più cinefile e avvertite, ha capito subito che quell’ambero fatto bene a pensarci due volte prima di dare l’autorizzazione, per- bientazione fisica — il motel, la casa alta sulla collina — era una coproché Psyco era un film pieno di quelle cose di cui di solito si parla a voce tagonista, un elemento portante del film. E peggio per Gus Van Sant che
bassa: sesso, soldi, nudità, brutalità, travestitismo, e peggio…
nel suo infelice rifacimento del 1998 ha scelto di ricostruire il set.
Ai traumi, come ben si sa, ci si abitua. Anche ai temi introdotti da PsyÈ rimasto con noi anche il diktat hithcockiano (inusuale per i naco, anche al suo scabro bianco e nero in un’epoca in cui solo Bergman, scenti anni Sessanta): proibito entrare a spettacolo iniziato. Ve lo imWelles, qualche giapponese, i
maginate un poveretto che enragazzi della Nouvelle Vague e i
tra a un terzo dall’inizio, subito
grandi italiani rinunciavano,
dopo la morte di Janet Leigh, e
per ragioni diverse, alla seduzionon capisce cosa combini
ne del colore. Hitchcock ci riAnthony Perkins/Norman Banunciò perché stava facendo un
tes mentre cerca di far sparire la
film a basso costo. E anche permacchina nella palude? Non soché va bene far morire in un
lo: Hitchcock, con quelle coltelIRENE BIGNARDI
bagno di sangue una delle atlate, ha aperto al gusto dell’orrotrici più amate e meglio pare e del sangue i film di serie A, da
gate da Hollywood. Ma un conto è farlo vedere con l’effetto, bruta- Gangster Storya Shining. E ha, consapevolmente, offerto materiali prele, del colore. Un conto è sublimarlo nell’astrazione del bianco e ziosi ai cinepsicoanalisti. Chi sarebbe andato a studiare con la stessa
nero.
acribia di Theodore Price (Hitchcock e l’omosessualità) il romanzo delDa allora Psyco è entrato a far parte di quella cosa che chiamia- lo sconosciuto Robert Bloch a cui si è ispirato il film, scomodando i rapmo pigramente l’immaginario collettivo. Non ne ho le prove. Ma so- porti edipici (corretti) tra Hitchcock e sua figlia Pat, che compare marno sicura che anche i certamente molti che non hanno mai visto Psy- ginalmente nel film, alla luce della grande tragedia edipica di Psyco?
co conoscono a menadito la scena della doccia. Quella di cui Hitch,
Grazie, intramontabile Hitch. E visto che nella scena iniziale del suo
molto fiero, raccontava di averla girata in sette giorni e settanta posi- film compare una data — Venerdì, 11 dicembre — il club non tanto sezioni di macchina per quarantacinque secondi di film. Una sequenza greto dei suoi ammiratori potrebbe farlo diventare d’ora innanzi il gior«tutta fatta col montaggio», come raccontava a Truffaut. Una sequen- no di Psyco. Che cada di venerdì o no.
za così realistica e terrificante che ogni volta che vediamo sullo scher© RIPRODUZIONE RISERVATA
D
Sette giorni per 45 secondi
la scena del terrore perfetto
‘‘
Alfred Hitchcock
Non ho mai tentato
di dirigere tanto
i pensieri
dello spettatore
come in questo film
È l’esperienza
più appassionante
che abbia fatto
di gioco
con il pubblico
da FRANÇOIS TRUFFAUT,
IL CINEMA
SECONDO HITCHCOCK
IL GHIGNO DELLO PSICOPATICO
L’espressione del viso di Jack Nicholson
in Shining di Stanley Kubrick (qui sopra)
ricorda molto quella di Anthony Perkins
in Psyco (al centro). Il film è del 1980,
dal romanzo omonimo di Stephen King
AMYTIVILLE HORROR
MISERY NON DEVE MORIRE
AMERICAN PSYCHO
SCREAM
Uno dei classici dei film sulle case
“possedute” diretto da Stuart Rosenberg
nel ’79. La casa ricorda molto il Bates Motel
Kathy Bates col coltello in mano: citazione
di Psyco nel film di Rob Reiner (1990)
dall’omonimo romanzo di Stephen King
Christian Bale armato di coltello ricorda
chiaramente la scena sotto la doccia
di Psyco. La regia è di Mary Harron (2000)
L’assassino con la maschera cita Anthony
Perkins travestito da donna pronto a colpire
nell’ombra. Di Wes Craven (1996)
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
i sapori
Rossi
Nato centocinquant’anni fa dall’intuizione
di un garzone di pasticceria che si dilettava
con l’arte delle infusioni aromatiche,
il Campari si identifica con la storia
stessa dei drink. Frutto di una ricetta
segreta, va gustato con ghiaccio
o allungato con gin o vino bianco
Ma può anche essere usato per profumare
un risotto o dare un gusto amaro al gelato
Bitter
Cocktail
Un secolo e mezzo di aperitivi
LICIA GRANELLO
appy birthday, mister Campari. Martedì 10, San Lorenzo, notte di stelle cadenti e di brindisi al cielo, è tempo di
celebrare il compleanno del rosso alcolico più famoso
del mondo. Un cognome che oggi, a centocinquant’anni dalla nascita del “bitter all’uso d’Hollanda”, vale un
fatturato di oltre un miliardo di euro.
In principio, fu l’intuizione di un pavese innamorato di erbe e liquori, il giovane Gaspare Campari, arrivato a Torino per lavorare alla Pasticceria Bass, e da lì al Ristorante Cambio, per imparare l’arte delle infusioni aromatiche. Dalla condizione di garzone a quella di inventore il
passo è breve. Il tempo di acquistare un bar a Novara e i segreti delle erbe mandati a memoria negli anni dell’apprendistato si trasformano in
una serie di ricette di elisir e infusi. Il migliore ha ricetta segretissima: acqua e alcol unici ingredienti disvelati, insieme al colore rosso, dovuto al
pigmento di un parassita del fico d’India, la cocciniglia, tanto prezioso
da essere dietro solo a oro e argento nelle esportazioni dal Messico del
tempo. Il resto — una messe di estratti di erbe e piante aromatiche — è
un mistero senza fine.
Novara diventa subito stretta per l’aperitivo rosso brillante, mediamente alcolico (25 gradi), da gustare con ghiaccio o allungato. A Milano,
il Caffè Campari apre i battenti insieme alla nuovissima Galleria del Duomo. «Andiamo a farci un Campari», chiosano gli avventori, da Puccini a
Boito, intendendo il nuovo bitter, ancora senza nome. Un’identificazione che vale un battesimo. È il 1867. Da quel momento, la storia del Cam-
H
pari si identifica con la storia stessa dei drink: un mondo nuovo, scoperto guardando i grandi film hollywoodiani, dove attori e attrici, protagonisti e comparse, buoni e cattivi, recitano spesso e volentieri reggendo
bicchieri e coppette. È l’arte di mescolare liquori diversi mutuando il concetto di cock tail, la coda del gallo, intesa come armonia di colori (ingredienti) diversi, dagli effetti cromatici (gustativi) originali e affascinanti.
Il primo barman della storia Campari si chiama Fosco Scarselli, e lavora al bar Casoni di via Tornabuoni, Firenze, dove il conte Camillo Negroni, frequentatore dei pub di Londra, va a bere il suo Americano. Così, per
stuzzicarlo nella sua passione per i liquori inglesi, un giorno Scarselli aggiunge il gin a Campari e vermouth, e gli dedica la sua nuova creazione: il
Negroni. Qualche anno più tardi (1928), Campari lancia il primo aperitivo monodose a basso tenore d’alcol (10 gradi) nella bottiglietta conica disegnata da Fortunato Depero, uno dei simboli del design italiano.
A distanza di anni e di chilometri, Mirko Stocchetto, papà dell’attuale gestore dello storico Bar Basso di Milano, preparando l’ennesimo Negroni della serata, scambia la bottiglia del gin con quella di un vino bianco frizzante. Si accorge subito dell’errore, ma la curiosità è più forte dell’impulso a gettare tutto nel lavello. E all’assaggio, l’errore si rivela felice. Nasce così il Negroni sbagliato, altro must del bere miscelato internazionale. E se gli aperitivi non vi attraggono, utilizzate il bitter come ingrediente per profumare un risotto, bilanciare il dolce dei crostacei,
amaricare un gelato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Negroni
Orange
Shakerato
Soda
Americano
Vermouth rosso,
bitter e gin in diabolica
combinazione
per uno dei cocktail
più famosi e malandrini
La versione light,
Negroni sbagliato,
prevede che il gin
venga sostituito
con vino bianco
frizzante
Rosso come la camicia
dei garibaldini,
arancio come le arance
di Sicilia. Da qui l’altro
nome, Garibaldi,
per il mix di Campari
(un terzo) e succo
d’arancia (due terzi)
In versione long drink,
bicchiere pieno
di ghiaccio
Il cocktail dei puristi,
ovvero bitter
addizionato di solo
ghiaccio. Lo shaker
viene “cullato”
con un movimento
del braccio a uncino,
che, facendo
incorporare aria,
provoca
la schiuma rosa
La storica bottiglietta
a tronco di cono
per la variante
più facile e meno
alcolica del bitter
aperitivo, grazie al mix
di Campari e acqua
gassata. Gradazione
pari al dieci
per cento, fettina
di limone a piacere
È conosciuto anche
come Torino-Milano
(e viceversa) in onore
dei due ingredienti
da miscelare
insieme a soda
e ghiaccio: il milanese
Campari e il torinese
Punt&Mes Carpano
Guarnizione con fetta
d’arancia
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
‘‘
25°
Ernest Hemingway
A Milano, osservò il maggiore,
c’è il Palazzo di Cristallo;
e il Cova, il Campari, il Biffi
in Galleria. Fortunato lei!
Al Grande Italia andrò, dissi,
posso farmi prestare i soldi
da Giorgio. Alla Scala,
disse Rinaldi, andrai alla Scala
Tutte le sere, risposi
Il tasso alcolico
del Campari
1867
Gaspare Campari apre
il bar Campari a Milano
1920
A Firenze nasce
il cocktail Negroni
da “ADDIO ALLE ARMI”
Dal Piemonte alla Sicilia i migliori bar
TORINO
MILANO
VENEZIA
VERONA
BOLOGNA
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Via Cavour 16
Tel. 011-8126909
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ROMA
NAPOLI
BARI
PALERMO
COLLE BERETO
Piazza Strozzi 5
Tel. 055-283156
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Tel. 06-8639165
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Tel. 080-9904466
ADDAURA REEF
L.re C. Colombo 3021
Tel. 091-455167
Freezer, calice a cono, seltz. Le tre regole auree
FIORENZO DETTI
o ammetto: ho un debole per il Campari. Non è difficile. Per uno come
me, che ha fatto per quarant’anni il mestiere del bar, esistono alcuni
capisaldi, cioè tecniche, ricette e ingredienti da cui non si può prescindere. Il Campari è uno di questi.
Ho cominciato ragazzino, entrando nel mondo del mangiare&bere dalla
porta del ristorante. Esperienza intensa ma breve, perché nel giro di pochi
anni sono stato rapito dalla magia dei cocktail. Fin dalle prime esperienze
dietro il bancone, una cosa mi è parsa chiarissima: era impossibile proporre un bitter al cliente che non fosse il Campari.
Scelto il liquore, entra in campo la tecnica. Regola numero uno: il Campari va servito rigorosamente freddo. Io lo tengo in freezer: avendo venticinque gradi di alcol, regge benissimo le temperature sotto lo zero. Il freddo
lo fa diventare quasi cremoso, con una nota un poco densa, quasi oleosa. Regola numero due: usare il calice a cono, anch’esso tenuto in freezer o raffreddato con il ghiaccio al momento di servirlo. Il bicchiere conico permette di sfruttare lo spruzzo dirompente di un seltz ghiacciato, che ne rompe le
molecole, creando un’emulsione. Questo è il bitter Campari che hanno
sempre voluto i grandi camparisti. Poi esistono le piccole varianti, come la
scorza di limone o la fettina di arancia. Niente in contrario, vanno bene entrambe. Ma io credo che il Campari abbia tutti i sentori aromatici necessari,
senza bisogno di aggiunte.
Il Campari shakerato arrivò dopo, insieme alle prime dotazioni da barman made in Usa: il boston, lo shaker, lo strainer. È importante che la coppetta da cocktail sia freddissima, ma il vero segreto è mettere tanto ghiaccio,
L
L’anniversario
Per festeggiare
i 150 anni di Campari
una galleria d’arte
nella storica sede
di Sesto San Giovanni,
restaurata
da Mario Botta,
l’apertura
di temporary bar
e il lancio del nuovo
Campari Passion,
rilettura estiva
del tradizionale
Orange: spicchi
d’arancia pestati
con zucchero di canna,
ghiaccio tritato,
Campari
e succo di arance
bionde
per raffreddarlo senza annacquarlo. E poi una shakerata secca, decisa, energica, che agita il bitter, creando il caratteristico colore salmonato. Sulla superficie, attraverso lo strainer, filtrano anche piccolissimi cristalli di ghiaccio. Il colore è un indicatore infallibile: se il Campari esce dallo shaker dello
stesso colore con cui è entrato, vuol dire che non è stato agitato bene. C’è poi
chi lo battezza con il Gin, chi con la Vodka. Diciamo che mentre la seconda
è praticamente neutra, il primo oltre a rinforzare, modifica il gusto.
Il poker di ricette-culto si completa con Negroni e Americano, dove il bitter Campari si sposa con i migliori liquori in circolazione. Parliamo di cocktail che hanno fatto la storia del bere miscelato, ricette codificate negli anni
Cinquanta e ancora più che valide. Purtroppo, ultimamente è difficile trovarli preparati a dovere. Per esempio, una volta in tutti i bar c’era la pistola
del seltz con la sua bombola, mentre ora impera l’acqua minerale. Che errore! Acqua minerale gassata e seltz sono teoricamente uguali — acqua più
anidride carbonica — ma solo il seltz ha la forza “fisica” di interagire con il liquore, rompendone le molecole. Del resto oggi molti locali sono guidati da
barman improvvisati, che fanno le ricette a spanne, creando cocktail che sono delle vere bombe alcoliche, mentre l’alchimia dei grandi cocktail è nel loro meraviglioso e perfetto equilibrio.
(L’autore è capo barman
dell’Associazione italiana barmen & sostenitori
e neopresidente lombardo
dell’Associazione italiana sommelier)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Sorbetto
Risotto
Fragole
Gamberi
Cyber
Vittorio Fusari
(La Dispensa, Torbiato,
Brescia) apre le danze
del menù col sorbetto
di Campari e gelatina
d’arancia, accompagnato
da un cartoccio
di gamberi fritti
e mandorle laccate
di miele al sale
di Maldon
Tra i piatti
di Stefano Baiocco
(Villa Feltrinelli,
Gargnano, Brescia),
il risotto mantecato
con buccia di arancia,
tè di alga Kombu
e gamberi. Per finire
una spruzzata
di Campari
e petali di tagete
Nuovo dessert
per Matias Perdomo
(Pont de ferr, Milano):
la nuvola di panna soffiata
con l’ossigenatore
per acquari
accompagna le fragole,
fresche e in purée,
e un finto caviale
di semi di basilico
infusi di Campari
Festival di gusti
e consistenze nel cocktail
di gamberi rossi
di Paolo Lopriore
(Il Canto della Certosa
di Maggiano, Siena):
per ogni boccone,
gocce di cioccolato,
pistacchi, anguria
e cerchi di cocktail
Campari gelato
Davide Scabin
(Combal.0, Rivoli, Torino)
ha ideato una divertente
chiusura di menù:
merito del palloncino
gonfiato d’elio,
zavorrato da una bustina
di pastiglie colorate
di cioccolato,
con sfera trasparente
di Campari
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
le tendenze
Pensata per i militari, diventata divisa della working
class, consacrata oggetto di culto da James Dean
e Marlon Brando. Colorata, in tinta unita, corta fino
a scoprire l’ombelico o stretch, resta ancora oggi
Cotone 100%
l’indumento più originale per esprimere
la propria personalità. Soprattutto d’estate
1
3
2
La mia
4
T-shirt
Tatuaggi di stoffa per dire chi siamo
ILARIA ZAFFINO
ompagna inseparabile di serate
estive e balli scatenati in discoteca.
Perfetta anche sotto giacche e camicie. Abbinata a foulard, gilet, short o
gioielli per ottenere quell’effetto casual chic che ricorda tanto Jackie
Kennedy. C’è l’intramontabile bianca, la raffinata nera, oppure quella allegra e coloratissima, con
o senza stampe. La T-shirt è il capo più versatile
del guardaroba: universale, senza età, ce ne è una
per ogni occasione, dal lavoro al tempo libero, per
trasgredire o per conformarsi, per essere sexy o
per stare comodi. Ma c’è di più. Dopo essersi ridotta di dimensioni, diventando cortissima fino a
scoprire l’ombelico oppure stretch per assecondare le forme del corpo con tessuti che aderiscono perfettamente alle morbide rotondità della
silhouette, oggi si è trasformata in una “seconda
pelle”, una sorta di “tatuaggio di stoffa” — così viene provocatoriamente chiamata in un libro che
ne ripercorre storia e curiosità (Il tatuaggio di stoffa, Tunué, 2006) — uno spazio bianco (o colorato
che sia) che contiene pensieri e stati d’animo di
chi la indossa.
Certo, forse non erano queste le intenzioni
quando venne scoperta, quasi per caso, dai soldati della marina americana: i primi in assoluto a indossarla, che ne apprezzano subito il fascino e ancor di più il comfort. È cominciato da poco il Novecento quando la maglietta senza maniche, in
una fibra poco costosa ma robusta e dal taglio semplice fa la sua comparsa nel mondo: la fibra scelta
è il cotone e il taglio rigorosamente a forma di T è
C
Carla Signoris
ATTRICE
Mi piacciono
quelle bianche,
taglia XXL,
che rubo a mio
marito
Come le uso?
Sotto una giacca blu,
tipo collegiale
O con niente,
per andarci a letto
quello che darà poi il nome alla maglietta, T-shirt
appunto. Anche se sul significato della parola esistono in realtà diverse teorie. Per qualcuno la T starebbe, infatti, per training, perché i soldati la indossavano durante gli allenamenti militari. Altri la
collegano, invece, al suffisso teen perché è un abbigliamento, si sa, pensato prima di tutto per gli
adolescenti.
Dall’America all’Europa: durante la Seconda
guerra mondiale sono gli Alleati che sbarcano nel
vecchio mondo a regalare alle popolazioni ridotte
allo stremo beni di ogni genere, tra i quali non manca l’apprezzatissima maglietta. In Italia, il boom si
ha però negli anni Sessanta, quando la T-shirt è già
stata consacrata da due icone come Marlon Brando e James Dean, che indossandola in molti dei loro film (da Un tram che si chiama desiderio a Gioventù bruciata), magari sotto un giubbotto di pelle
nera da duro, ne hanno fatto un capo cult. E fan della versione casual chic, rilassata ma non priva di fascino, è stata anche Jackie Kennedy, una delle donne più eleganti del secolo scorso.
Ma gli anni Sessanta sono soprattutto gli anni in
cui la maglietta diventa un veicolo di propaganda,
politica da una parte, pubblicitaria dall’altra, una
tela perfetta sulla quale scrivere, disegnare, incidere qualunque messaggio: slogan pacifisti, frasi
di denuncia, ma anche il logo di aziende di moda
(Calvin Klein, Emporio Armani, Dolce & Gabbana,
e poi ancora Ralph Lauren, Guess) o di band musicali che la usano per pubblicizzare (in genere sul
retro) le date del loro ultimo tour. La T-shirt, in fondo, è rimasta fino a oggi la stessa: il manifesto di
uno stato d’animo.
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La Pina
Natasha Stefanenko
DEEJAY
showgirl
Ne ho miliardi,
le metto con tutto
Le migliori sono
quelle vecchie,
che con gli anni
si ammorbidiscono
Quella del cuore
ha la stampa
di Milù, il cagnetto
di Tintin
Nel mio guardaroba
è un cult
La preferisco
bianca,
con un’ampia
scollatura a V
Adoro abbinarla
con i jeans
o una gonna
elegante
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
1. FUMETTI Si ispira alle illustrazioni dell’artista
6
californiana Tara McPherson la linea Pinko dai colori vividi e decisi
In cotone e cachemire
2. STRASS T-shirt in cotone con stampa a teschio e strass per Ra-Re
3. MEDITERRANEA Allegra, coloratissima, decisamente
mediterranea, la T-shirt Desigual Hombre si richiama alla grafica pop
Perfetta per le calienti notti estive
4. DA SFILATA Le classiche Jersey Prada, da uomo e da donna,
con applicazioni di diversi tessuti. Per un look da passerella
5. COLORATA In cotone arancione con stampa frontale
Di Mcs Marlboro Classics
5
6. ETNICA Maglia in jersey di viscosa con stampa etnica
Camomilla Italia
7. CLASSICA T-shirt da uomo bianca con stampa,
in cotone. Un classico di Gant
7
8. ESTIVA Fiorucci sceglie il fucsia per quest’estate. In cotone
9. SPORTIVA In grigio o in blu, per fare sport e non solo. Di Virtus
10. ANDY WARHOL La storia, la vita e le opere di Andy Warhol rivivono
nella collezione di Pepe Jeans London dedicata all’artista
11. CASUAL Jersey lavato per Fred Perry
12. ASIMMETRICA Cotone stampato con taglio asimmetrico
per la T-shirt giallo estate di Replay
IL TESTIMONIAL
Chi se non lui? Esperti di moda
e non, tutti sanno
che Giorgio Armani
è da tempi non sospetti
“il” testimonial
in fatto di T-shirt
Le ama molto
Le indossa quasi sempre
Ne possiede tantissime
“Comodità ed essenzialità”
potrebbe essere
sintetizzato così il suo credo
Colore preferito il blu
8
9
La generazione ribelle
con la maglia della salute
10
MICHELA GATTERMAYER
on stiamo qui a raccontarcela: se la T-shirt non si
chiamasse T-shirt nessuno se la metterebbe. Chi ha
inventato questo termine è un genio: ha dato dignità
alla maglia della salute. Permettendo a generazioni di giovani di fare i ribelli pur seguendo, in cuor loro, il caro vecchio
consiglio della nonna. Sdoganato l’oggetto che da privato si
fa pubblico, bisogna dare atto alla T-shirt di aver annullato
la lotta di classe. Anzi, di averla ribaltata. Quando ancora si
chiamava maglia e non c’erano i manager ma gli impiegati
piccolo borghesi che se la mettevano sotto la camicia, gli
unici che la esibivano erano gli operai, i camionisti e i muratori, attanagliati dal caldo e dalla fatica. Ma possedevano,
senza conoscerne il valore, quello che poi sarebbe diventato l’oggetto del desiderio di ogni maschio e di alcune femmine: un corpo muscoloso. Perché è innegabile che la maglietta è bene riempirla. Oggi, tempi di esagerazioni, addirittura farla scoppiare. E allora vai con seste di reggiseno e
anabolizzanti da overdose. Anche se si sta facendo strada
la nuova scuola di pensiero skinny che vorrebbe tutti
anoressici con magliette taglia otto anni.
Niente di nuovo: negli anni Novanta esplose la mania
di fare acquisti nei negozi da zero a sei anni come facevano
le top model di allora che lanciarono la moda delle magliette minuscole a scoprire l’ombelico senza pensare agli effetti collaterali dell’applicazione del sogno patinato alla realtà:
certe pance viste in giro sono difficili da dimenticare e ancora ci tormentano. Ma ormai è impossibile tornare indietro: stringi stringi, accorcia accorcia si è arrivati al top. Nel
senso di un oggetto minuscolo che sta sopra e dovrebbe coprire. Lui, il top, fa quel che può essendo molto elastico (oggi si dice stretch). E loro, le T-shirt, sono diventate le democratiche portatrici di messaggi ecologici, sessuali, musicali,
artistici, pubblicitari, poetici, culturali, stupidi, intellettuali. Tutti le portano. Tutti ci possono scrivere quello che vogliono per ribadire la loro appartenenza a un gruppo, a un’ideologia o a un fan club. Sono perfette in questo momento
storico di ribaltoni e riprese di coscienza: se le loro parole
non ti stanno più bene puoi sempre, politically correctly, riciclarle e usarle come stracci per la polvere. E trovarne subito un’altra che la pensi come te.
Ps. Ultimissime dagli States. Il massimo in fatto di T-shirt
a Los Angeles si chiama Adam Saaks. Vanno da lui Keira Knightley e Cameron Diaz, Lenny Kravitz e Alicia Keys, Jessica
Alba e Paris Hilton, Britney Spears e Mariah Carey, Justin
Timberlake e Angela Bassett... Per fare che? Farsi tagliuzzare la loro maglietta preferita. Adam si mette lì con un terrorizzante paio di forbici dalle lunghe lame e, zac, in quattro e
quattr’otto ti disegna addosso tagli e oblò, feritoie e fessure,
annoda, intreccia, et voilà, ecco una personal T-shirt unica
al mondo. Chi volesse sperimentare le proprie capacità di
tagliatore può seguire i consigli di un libretto uscito qualche
tempo fa 99 ways to cut your T-shirt (su Amazon).
N
11
12
Davide Oldani
CHEF
La mia preferita
è una maglietta presa
a New York,
diciotto anni fa
Grigia, con la scritta
SoHo. Ora le uso
soprattutto nere
Le metto con jeans
e scarpe da tennis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
a cura di GIOVANNI CIULLO
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 8 AGOSTO 2010
l’incontro
Ha voluto cambiare le regole
diventando architetto senza sapere
bene la matematica e quando
era ancora un mestiere riservato
ai maschi. Oggi, all’apice
del successo, rifiuta
l’etichetta di archistar
E ai suoi colleghi
dice: “Basta con divismi
e fanatismi,
in fondo siamo solo
degli artigiani. Più che alle forme
faremmo meglio a tornare a pensare
ai bisogni della gente”
Dark lady
Odile Decq
a voluto diventare architetto quando progettare era un mestiere
riservato agli uomini. E
adesso che è adorata come una star si
ribella ai divismi e rivendica il diritto di
costruire come impegno sociale. E, soprattutto, di sognare. Perché, come
spiega sempre ai suoi studenti, «quando si crea bisogna credere ai sogni».
Odile Decq, classe 1955, architetto
premiato con il Leone d’oro, Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres, direttore della École spéciale
d’architecture di Parigi e Chevalier de
la Légion d’Honneur, è una donna
speciale. In Francia la chiamano “La
dame noir”. Ma lei è dark solo a modo
suo. Basta incontrarla una volta per
non dimenticarla più. Controcorrente, e non per vezzo, stupisce per la lunga chioma arruffata, nero corvino. Nero è anche il pesante trucco perennemente dipinto intorno agli occhi, il vestito ampio, e lo smalto che decora le
mani affusolate. La voce morbida, invece, è talmente femminile che conquista. Avvolta nella trasparente cornice del Macro, il museo che ha inaugurato a Roma, Odile Decq si racconta
con ironia: «Ho sempre saputo che
avrei lavorato nell’arte e nella creatività, ma escludevo l’architettura perché pensavo fosse un qualcosa riservato agli uomini. Poi, mentre studiavo
arte controvoglia, mi sono ribellata.
Per fortuna ho capito in tempo che si
poteva diventare architetto pur essendo donna. E, soprattutto, senza essere
brava in matematica».
La sua determinazione, nel voler rovesciare le regole, stupisce. Nata e cresciuta nel piccolo comune francese di
Laval, negli anni Settanta si trasferisce
noscere l’Italia costruendo una casa a
Firenze, una barca Wally ancorata al
porto di Fano, mobili per Poltrona
Frau. L’occasione per diventare più
italiana è però l’ampliamento del Macro, il museo di arte contemporanea
del Comune di Roma, con un progetto
ardito: saldare al vecchio corpo di fabbrica un parallelepipedo trasparente
di tre piani di altezza. Un lavoro lungo
anni che, con qualche ritardo, si è concluso nel maggio di quest’anno. I giornali hanno scritto che, grazie a questo
edificio, oggi Roma è più vicina a Parigi e a New York. «Il giorno dell’inaugurazione ciò che mi ha fatto più piacere
è stato incontrare persone che mi ringraziavano e mi dicevano che avevo
fatto una cosa bella per loro». Era il suo
obiettivo: inventando quello spazio
così originale avendo in testa i cittadini della capitale, le persone comuni alla ricerca di uno svago fuori dal caos dei
centri commerciali e degli outlet a poco prezzo: «Ho voluto regalare loro un
modo di stare bene e d’incontrarsi.
Una nuova forma di piazza, che ricorda le terrazze romane e che emoziona.
Uno spazio che, grazie all’incontro
Quando progetto
un edificio, come
il Macro, alla fine
ciò che mi resta
davvero
è la reazione
del pubblico
E a Roma è stata
molto passionale
FOTO AFP
H
ROMA
a Parigi all’Ecole d’Architecture de La
Villette. Porta con sé una valigia con
poche cose e tanta energia. I genitori la
guardano con sospetto: «La mia famiglia non voleva che andassi nella metropoli, temevano che sarei diventata
una ragazza perduta, ma io non ho
sentito ragioni e ho fatto i miei scatoloni». La laurea, per la ragazza bretone
che vuole sognare, arriva con un anno
d’anticipo rispetto ai compagni di corso. È bravissima, talento allo stato puro, lascia senza fiato i professori con la
sua immaginazione. Con il diploma
ancora fresco in tasca, si catapulta nel
mondo del lavoro. «Andavo fiera alle
riunioni e ci rimanevo malissimo perché i clienti mi scambiavano per una
segretaria e mi chiedevano come mai
non cercavo lavoro presso un architetto uomo. Era piuttosto deprimente e,
in certi momenti, mi veniva una gran
tentazione di mollare. Ma il desiderio
di aprire il mio studio da sola è stato più
forte di tutto». E così, sorridendo, prosegue per la sua strada. «È stato un continuo esame per i primi dieci anni di vita professionale e persino gli operai nei
cantieri non mi davano credito. Oggi,
parlando con le altre architette donne
della mia generazione, ho capito che è
stato un problema comune per tutte
ma allora non potevo saperlo».
Nel 1985 Odile Decq decide di aprire lo studio Odbc con Bernoit Cornette, architetto e medico, diventato suo
compagno nel lavoro e nella vita. Nel
1990 per la coppia arriva la svolta professionale con la realizzazione della
Banque Populaire de l’Ouest di Rennes. Per questo edificio rivoluzionario
vincono l’International Prize for Architecture. I loro plastici «inverosimili» conquistano il gusto più trasversale. Da quel momento progettare diventa come una febbre: il porto di
Osaka, vari edifici per l’Università di
Nantes, master plan industriali, centri
di ricerche, social housing a Parigi. E
poi concorsi e poi ancora concorsi.
L’urbanistica come primo amore, ma
anche progetti per interni e luoghi
pubblici. Quindi il padiglione francese
per la Biennale di Venezia. E proprio
Venezia, nel ’96, premia lei e Cornette
con il Leone d’Oro per l’architettura.
Tutto sembra andare a meraviglia
ma il destino decide di farle male. Nel
’98 Bernoit muore in un incidente
d’auto dove anche lei rimane coinvolta. È la fine di un pezzo di vita, ma Odile prosegue a testa alta. Costruisce ancora. Di nuovo urbanistica ma anche
ristoranti e musei. La sala conferenze
dell’Unesco a Parigi. È ancora molto
legata alla Francia ma comincia a co-
con la cultura, spinge a farsi delle domande. Non un luogo morto». Per Odile l’importante è che le sue opere
smuovano il cuore e i sensi di chi può
visitarle.
S’interrompe brevemente per chiedere un bicchiere d’acqua. Lo sfondo
rosso fuoco del “suo” museo fa spiccare ancora di più la carnagione avorio e
i capelli corvini. Indefinita e indefinibile si aggira nei saloni con l’entusiasmo gioioso di una ragazza al suo esordio. «Il Macro ha una terrazza dalla superficie in continuo movimento e questo crea sensualità perché, per cercare
un equilibrio all’interno di te stesso,
devi muoverti continuamente. Spero
che i visitatori sentano fisicamente il
piacere quasi voluttuoso di poggiare i
piedi su un pavimento che non è mai
uguale a se stesso».
Per Odile non ci sono mezze misure:
arte e sensualità sono la vita di chi crea.
«Quando progetto un edificio, alla fine
ciò che mi resta è la reazione del pubblico, questo mi emoziona. Proprio
nel Macro, i visitatori mi hanno riversato nel cuore una tale passionalità
che mi ha toccato come non avrei mai
pensato». Certo, per chi come lei corre
da un paese e all’altro, parlare con il
proprio pubblico non è semplice:
«Vorrei avere più tempo ma non sempre ci riesco e allora cerco di leggere il
più possibile, mi sembra possa essere
un modo per capire quali possano essere i bisogni delle persone. Purtroppo
oggi essere architetti vuol dire vivere
come alieni, isolati dal tempo e dai luoghi. Consumiamo a gran velocità tutti
i tipi di relazioni». Per un attimo lo
sguardo s’incupisce, poi il broncio si
trasforma in una risata: «Forse è per
questo che gli architetti donne restano
a lungo sole, mentre i colleghi uomini
cambiano spesso moglie». Ma il divismo che ultimamente circonda il suo
mondo non le strappa alcun sorriso.
Anzi. Detesta la sola definizione di “archistar” e, per difendersi, punta dritta
alla sostanza. «In un mondo sempre
più bizzarro c’è un forte bisogno di valori e di profondità, che è esattamente
l’opposto del fanatismo. Temo che
l’architettura stia facendo con gli architetti lo stesso danno che il mercato
dei collezionisti ha fatto con gli artisti.
In questo momento, per l’immaginario collettivo, siamo arrivati al punto
che l’architettura è diventata più trainante dell’arte. Un’ipotesi che, per anni, è stata inimmaginabile. E non è detto che sia un bene». Per una donna come Odile Decq il successo si deve fondare su altro. Su fatti concreti: «La “forma” era un valore dell’altro secolo, in
questo quello che conta è l’impegno
sociale. Solo progettare in questa direzione vuol dire qualcosa».
Odile, inevitabilmente, ha sempre
la valigia pronta. In questo periodo,
per esempio, viaggia molto in Palestina. Un’emozione speciale. «Lì riesco a
lavorare come piace a me. Arrivi e capisci subito che più che un edificio è
importante costruire per aiutare e dare fierezza e dignità a un popolo. Ho incontrato persone di grande umanità,
forse come potevano essere gli italiani
subito dopo la guerra». Ma ci sono tanti altri paesi che permetteranno a chi
costruisce di contribuire a migliorare il
mondo: «La Cina è già molto avanti ma
c’è ancora tanto da fare, il Brasile è un
patrimonio immenso e l’Africa, anche
se è complicata, ha grandi potenzialità». Un’altra cosa che non sopporta
del nuovo modo di fare progetti è lavorare in scala industriale. Detesta le immense fabbriche di architettura. Nonluoghi di disumanità. «Non mi piace
realizzare edifici che non avrò modo di
seguire personalmente ed entrare in
uno studio dove, anche chi lavora per
me, non mi conosce e mi da del lei. Io
mi sento molto più un artigiano che un
industriale e amo seguire con attenzione tutti i miei progetti, lavorarli con
le mani e curarne ogni aspetto, perché
solo le cose fatte così sono quelle che
danno soddisfazione». Sempre con le
sue mani, vorrebbe realizzare un sogno che le è rimasto nel cuore: «Un teatro, o comunque un luogo per la musica, uno spazio dove gioire e trovare allegria suonando». La gioia è anche
quella che cerca di trasmettere ai suoi
studenti. «Ai ragazzi dico sempre che,
nonostante le avversità del mercato e
di questo terribile momento economico, hanno il diritto di sognare. Se rinunciano sarà la loro fine».
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IRENE MARIA SCALISE
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