DELEGAZIONE REGIONALE
CARITAS SARDEGNA
Storie di povertà e percorsi di uscita
dall’esclusione nei Centri di ascolto
delle Caritas della Sardegna
Rapporto 2007
su povertà ed esclusione sociale in Sardegna
DELEGAZIONE REGIONALE
CARITAS SARDEGNA
PROGETTO RETE
Storie di povertà e percorsi di uscita
dall’esclusione nei Centri di ascolto
delle Caritas della Sardegna
Rapporto 2007
su povertà ed esclusione sociale in Sardegna
(a cura di Raffaele Callia)
INDICE
Presentazioni
di S.E. mons. G.P. Zedda e mons. Vittorio Nozza
»
9
Introduzione
»
15
Capitolo primo
I Centri di ascolto coinvolti nella ricerca
»
19
Capitolo secondo
Dentro il labirinto. I dati quantitativi sul disagio
»
35
Capitolo terzo
Fuori dal labirinto. I percorsi di uscita dall’esclusione
nelle storie di vita dei protagonisti
»
55
Capitolo quarto
Modelli di uscita dalla marginalità nell’opinione
di alcuni testimoni privilegiati
»
87
Capitolo quinto
Per una lettura pastorale dei dati sulle povertà
» 107
Appendice metodologica
» 111
Ringraziamenti
» 117
Presentazione
di S.E. Mons. Giovanni Paolo Zedda
(Vescovo incaricato regionale per il Servizio della Carità)
Nella sua prima Lettera Enciclica, Deus Caritas est, il Santo Padre Benedetto XVI ci ricorda come il programma dei cristiani, di ogni cristiano, debba
comprendere anche un impegno quotidiano nel far pulsare «un cuore che vede»:
un cuore capace di vedere «dove c’è bisogno di amore» e agire «in modo conseguente» (n. 31).
Quel cuore pulsante e vivo nella bimillenaria storia della Chiesa trova espressione, ancora oggi, nei tanti modi di essere vicini a chi soffre, a chi vive una
condizione di fragilità materiale e spirituale, a quanti, in vario modo, manifestano
un bisogno d’amore; quel bisogno che si coglie in maniera incisiva anche nelle
nostre comunità ecclesiali e che riverbera distintamente nelle pagine di questo
volume.
Il “cuore che vede” è il cuore delle nostre comunità cristiane. Un cuore
che, anche grazie al servizio delle Caritas diocesane e parrocchiali, si impegna
quotidianamente nell’ascolto dei poveri, nell’osservazione delle povertà e nel necessario discernimento alla luce del Vangelo.
Si tratta, tuttavia, di un impegno che non può tradursi solo nella prossimità, vale a dire nel promuovere la solidarietà stando accanto ai poveri, fornendo gli
opportuni aiuti concreti e dando loro conforto morale. Di fatto, questa è
l’immagine della Caritas nota ai più, su cui gli stessi mezzi di comunicazione insistono non di rado, soprattutto in occasione di quei fatti di cronaca che richiamano
l’attenzione sulle povertà economiche, sull’immigrazione, sui senza dimora, solo
per fare degli esempi. Ma si tratta, pur sempre, di un’immagine parziale.
L’impegno autentico, semmai, è quello di testimoniare la Carità nella vita
di tutti i giorni e non solo in occasione delle emergenze, a partire dall’amore verso
i fratelli più deboli che vivono accanto a noi, cominciando dalle nostre comunità
parrocchiali. Un impegno affidato ad ogni battezzato e non appannaggio esclusivo
di pochi “operatori” dell’azione caritativa della Chiesa, secondo quei criteri che la
stessa Caritas Italiana ha chiarito oltre un decennio fa: «vera carità cristiana ed ecclesiale è quella che evangelizza mettendo in luce un amore che è da Dio e del suo
Redentore» (Lo riconobbero nello spezzare il pane. Carta pastorale, 1995, p. 27).
È questo un impegno eminentemente pastorale, in piena sintonia con la
“prevalente funzione pedagogica” affidata alla Caritas dalla Conferenza Episcopale Italiana. Una tale funzione richiede uno sforzo costante di progettualità, una capacità di trovare modi e strumenti adeguati per animare le nostre comunità a quel
senso di Carità così necessario nella pastorale ordinaria.
In questa prospettiva, un utile strumento di animazione è anche questo secondo rapporto sulle povertà, concepito e realizzato dalla Delegazione regionale
delle Caritas della Sardegna, non solo per raccogliere le esperienze di ascolto, osservazione e discernimento maturate nelle diocesi sarde riguardo al tema della po9
vertà, ma anche – e soprattutto – per aiutare le comunità cristiane nel loro impegno di testimonianza dell’amore di Dio.
Il servizio offerto quotidianamente in favore dei poveri, in seno alla Chiesa
sarda e in particolare alla Caritas, sia sempre spinto dall’amore di Cristo e guidato
dalla fede in Lui. Come ci ricorda il Santo Padre, al numero 33 della sopraccitata
Enciclica, chi ama Cristo «ama la Chiesa e vuole che essa sia sempre più
espressione e strumento dell'amore che da Lui promana».
10
Presentazione
di Mons. Vittorio Nozza
(direttore della Caritas Italiana)
Il pensiero espresso dai Vescovi, nella nota pastorale che fa seguito al 4°
Convegno ecclesiale nazionale, si presta con particolare efficacia a commentare lo
sforzo che Caritas Italiana e le Caritas diocesane stanno realizzando da diversi anni per la promozione di “case e scuole” di ascolto, prossimità, servizio e testimonianza: «La scelta della vita come luogo di ascolto, di condivisione, di annuncio,
di carità e di servizio costituisce un segnale incisivo in una stagione attratta dalle
esperienze virtuali e propensa a privilegiare le emozioni sui legami interpersonali
stabili. Ne scaturisce un prezioso esercizio di progettualità, che desideriamo continui e si approfondisca ulteriormente» (cfr. Rigenerati per una speranza viva
(1Pt,1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, n. 12).
È in quest’ottica che, nell’anno pastorale 2005/2006, tenendo conto delle
esigenze espresse dalle Caritas diocesane, Caritas Italiana ha avvitato un progetto
volto a:
1. sostenere l’avvio e il rafforzamento dei luoghi pastorali propri di ogni Caritas diocesana (Centro di ascolto, Osservatorio delle Povertà e delle Risorse, Laboratorio Caritas parrocchiali) nei contesti che ne sono sprovvisti.
I tre luoghi pastorali, infatti, in quanto spazi in cui ordinariamente si sperimenta il metodo pastorale per l’animazione (ascoltare, osservare, discernere), sono «il cuore che vede» della Caritas diocesana. Dal loro lavoro
unitario scaturisce, per tutte le attività della Caritas diocesana, la prevalente funzione pedagogica;
2. offrire a tutte le Caritas diocesane un insieme unitario di proposte finalizzate alla formazione degli operatori dei luoghi pastorali propri e alla promozione di un loro lavoro comune riferito al metodo pastorale Caritas;
3. rafforzare il lavoro svolto a partire dal 2003 sul piano della raccolta dati e
della redazione dei Dossier regionali sulle povertà.
In particolare queste ultime attività rappresentano ormai per la maggior
parte delle Delegazioni regionali Caritas una modalità stabile di lavoro. Giunti alla
terza annualità dei Dossier regionali, è possibile osservare con ottimismo e riconoscenza lo sviluppo del lavoro dal 2004 a oggi:
- da 7 a 16 Delegazioni regionali coinvolte;
- da 61 a 147 Caritas diocesane impegnate;
- dall’adesione di un Centro di ascolto per diocesi, fino ai 283 CdA
coinvolti del 2006;
- dalla raccolta dati limitata ad un bimestre, fino a quella attuale estesa ad un semestre, con tendenza all’annualità.
11
A tutto ciò si aggiungono interessanti integrazioni con altri lavori di ricerca. Negli ultimi due anni, infatti, i dati raccolti dalle Caritas diocesane sono confluiti nei rapporti sull’esclusione sociale che Caritas Italiana realizza con la Fondazione Zancan - Vite Fragili del 2006 e Rassegnarsi alla povertà? del 2007, editi
da Il Mulino - e nel Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes. Pur essendo notevoli i passi fatti, dal confronto con le Caritas diocesane è emersa in più
occasioni la necessità di dedicare maggiori tempi e risorse alla ricaduta dei Dossier regionali nelle Chiese e nei territori locali. Pertanto, la valorizzazione pastorale dei Dossier, a partire da quelli del 2006, rappresenta uno degli obiettivi principali dell’azione di accompagnamento di Caritas Italiana alle Caritas diocesane per
i prossimi anni.
Nell’anno pastorale 2007/08, tutte le Delegazioni regionali Caritas saranno
impegnate, con il protagonismo delle singole Caritas diocesane, nella progettazione e realizzazione di attività di informazione e animazione delle comunità cristiane, formazione degli animatori pastorali, valorizzazione dei dati nella progettazione pastorale e in ambito civile. L’obiettivo è far si che quanto le Caritas diocesane
realizzano in termini di ascolto e osservazione non rimanga nei dossier, ma entri
nell’anima delle comunità e dei territori, aiutandole a crescere nella testimonianza,
a partire dalle scelte e dalle azioni di ogni giorno. «Il linguaggio della testimonianza – affermano ancora i Vescovi nella nota pastorale dopo il 4° Convegno ecclesiale nazionale - è quello della vita quotidiana. Nelle esperienze ordinarie tutti
possiamo trovare l’alfabeto con cui comporre parole che dicano l’amore infinito
di Dio» (cfr. Rigenerati per una speranza viva (1Pt,1,3): testimoni del grande
“sì” di Dio all’uomo, n. 12).
12
La facoltà umana di scavarsi una nicchia,
di secernere un guscio,
di erigersi intorno una tenue barriera di difesa
anche in circostanze apparentemente disperate
è stupefacente e meriterebbe uno studio più approfondito
(PRIMO LEVI, Se questo è un uomo. La tregua, Torino 1958)
13
14
Introduzione
Quando si parla di povertà ci si riferisce, in generale, ad una qualche forma
di “privazione”. Si tratta nello specifico di una “privazione assoluta”, nel caso di
una mancanza dei mezzi di sostentamento fondamentali, o “relativa”, intesa come
incapacità di sostenere il tenore di vita a livello comune, relativamente ad una data
società e in un particolare momento storico.
Tuttavia, l’ambito in cui si colloca l’esperienza quotidiana delle Caritas
appare più ampio e complesso di quello che si registra nei rapporti periodici proposti dalle fonti ufficiali. Per tale ragione le “letture” offerte di volta in volta dalla
Caritas seguono un approccio multidimensionale della povertà, attraverso cui, oltre alla variabile del reddito, vengono prese in esame anche altre variabili altrettanto importanti, le quali incidono sul benessere complessivo delle persone e sulla
loro promozione integrale: le relazioni familiari, le condizioni di salute e di lavoro, il livello di istruzione, ecc.
È questa la ragione per la quale, nelle pagine dei capitoli di questo Rapporto, anziché parlare di “povertà” si fa generalmente riferimento allo stato di “disagio” (provocato da una qualche limitazione) provato dai singoli e/o dai nuclei familiari, senza trascurare le situazioni di vulnerabilità sociale e quelle condizioni di
fragilità delle persone che, di fatto, si ripercuotono anche sul loro vissuto psicologico, fisiologico-sanitario, relazionale e morale 1.
D’altra parte esiste già da tempo tutta una letteratura, non necessariamente
di ambito sociologico, che con una convinzione dettata dall’esperienza concreta
insiste sulla necessità di indagare più a fondo sugli aspetti relazionali della povertà, dell’esclusione e dell’anonimato sociale. Vale suggerire, a questo proposito, il
libro-testimonianza di qualche anno fa di Michelle Collard e Colette Gambiez, i
quali hanno avuto il merito di esplorare anche quell’universo di senso che sta dietro alle tante storie di impegno di chi decide di stare accanto ai poveri, o meglio
con i poveri, nel cercare di alleviare il loro disagio pur non ritenendolo come il fine ultimo 2.
1
Al legame tra povertà e limitazione fa riferimento buona parte della letteratura sul tema.
In questa sede, oltre a rimandare ai riferimenti già proposti nel precedente Rapporto, ci limitiamo a
suggerire due contributi recenti particolarmente stimolanti: F. DELBONO – D. LANZI, Povertà, di
che cosa? Risorse, opportunità, capacità, il Mulino, Bologna 2007 (nell’introduzione al loro volume, gli autori segnalano che pur «con ampia varietà di accenti, quasi tutti condividono l’idea che
con tale parola si descriva una qualche limitazione dell’esistenza che talune persone sono costrette
a subire»); G. ROVATI (a cura di), Le dimensioni della povertà. Strumenti di misura e politiche,
Carocci, Roma 2006 (il volume è di particolare importanza, per la pluralità dei contributi e la ricchezza dell’impianto teorico).
2
Per gli autori è più raro «incontrare persone che si accontentino di una semplice presenza
fisica, corporale, potremmo dire, oltre che spirituale (nel senso ampio e non solo religioso del termine), una presenza il cui fine ultimo non è alleviare le difficoltà materiali, ma creare relazioni
umane in profondità». Cfr. M. COLLARD – C. GAMBIEZ, Un uomo che chiamano clochard. Quando l’escluso diventa l’eletto, Edizioni lavoro/Esperienze/Macondo libri, Roma 1999, p. 29. Degli
stessi autori è stato pubblicato anche il seguente volume: Il povero. E se fossero i poveri a mostrarci le strade dell’umano?, Città Aperta Edizioni, Roma 2004.
15
Non avendo la pretesa di proporre un quadro esauriente riguardante le situazioni di povertà presenti in Sardegna, questo secondo Rapporto regionale su
povertà ed esclusione sociale, dal titolo Storie di povertà e percorsi di uscita
dall’esclusione nei Centri di ascolto delle Caritas della Sardegna, vuole testimoniare anzitutto il rafforzamento di un cammino di servizio ai poveri e alla Chiesa
avviato da alcuni anni nell’Isola. Tale strumento, peraltro, ha come unico obiettivo quello di offrire degli elementi di osservazione privilegiati del disagio, in modo
da collocare la lettura dei dati proposti dalla Caritas nel solco delle fonti ufficiali
più frequentemente utilizzate, in particolare di quelle riguardanti i fenomeni di esclusione sociale.
Dalla lettura dei vari capitoli emerge una fotografia della Sardegna con
molti chiaroscuri, caratterizzata da contraddizioni in alcuni casi assai marcate e da
non pochi elementi di incertezza. Pur nelle difficoltà generali, sembrano reggere
le strutture di solidarietà tradizionali, anche se la società sarda appare sfilacciata
alla stregua di molte altre società occidentali, quasi a confermare quel modello di
società liquida, di cui parla insistentemente il sociologo polacco Zygmunt Baumann, in cui le istituzioni che un tempo garantivano la continuità dei comportamenti si sono scomposte senza lasciare altri quadri di riferimento, se non quelli
contingenti, di breve periodo e pertanto evanescenti 3. Stando ai fenomeni di disagio registrati un po’ ovunque, soprattutto quelli che attengono alla sfera relazionale, sembrerebbe che anche in Sardegna la società più che una rete solidale sia divenuta una rete funzionale, dove ci si scambiano sempre più quantità di informazioni con sempre meno qualità di relazioni.
D’altro canto le statistiche ufficiali non appaiono molto confortanti, sebbene qualche segnale positivo lasci aperti degli spiragli di speranza per il futuro
sembrando contraddire un generale sentimento di sfiducia (una sorta di “incombenza del declino”) che aleggia anche in Sardegna. Non sono pochi, infatti, i sardi
che considerano peggiorata – e non soltanto in termini di percezione – la propria
condizione rispetto al passato: in tema di potere d’acquisto, di occupazione, di
mobilità sociale, di prospettive di miglioramento per sé e per i propri figli.
Se poi si raffrontano tali percezioni con quanto registrato presso i Centri di
ascolto (come si apprenderà dalla lettura del secondo capitolo), non si può fare a
meno di interrogarsi sul fatto che nell’ultimo anno si sono moltiplicate le richieste
che evocano la povertà più “cruda”, la povertà di altri tempi: quella che ha a che
fare con i viveri e con il vestiario; in altri termini con i beni di prima necessità.
Sembra proprio che al “dogma” dello sviluppo sostenibile e della piena
occupazione si sia sostituita progressivamente una sorta di “economia
dell’insicurezza”, la quale ha trasformato nel profondo anche il profilo della società sarda, dando adito al nesso precarietà-povertà in moltissimi settori del vivere
quotidiano.
Ciononostante, non mancano le esperienze di uscita dal “labirinto” del disagio, come attestano le storie di vita proposte in questo stesso volume, confermate peraltro dalle riflessioni formulate da alcuni testimoni privilegiati e riportate nel
capitolo quarto. Dalla ricerca emerge con forza la constatazione che solo una rete
robusta e con molte connessioni può facilitare i percorsi di uscita dalle situazioni
3
Cfr. il recente saggio tradotto in italiano: Z. BAUMANN, Modus Vivendi. Inferno e utopia
del mondo liquido, Laterza, Roma-Bari 2007.
16
acute di disagio. Una rete che appare sempre più come il riflesso di molteplici e
condivise assunzioni di responsabilità, in cui la politica, la società civile e la stessa Chiesa fanno, ciascuna, la propria parte.
Nel caso della comunità ecclesiale – vale la pena ribadirlo – il compito non
si deve risolvere nella (seppur preziosa) gestione della solidarietà concreta: le cosiddette “opere segno” di cui gli stessi Centri di ascolto costituiscono uno straordinario esempio, rischiando non di rado di sostituirsi alle realtà opportunamente
deputate a ciò 4. Quella solidarietà concreta, quelle stesse opere, semmai, hanno
come finalità precipua l’animare al senso della Carità (agape).
Tuttavia, animare può – e in alcuni casi deve – anche significare opera di
denuncia contro i sistemi e le strutture che generano ineguaglianza e mortificazione della dignità della persona. È in questa prospettiva che i vescovi della Sardegna, nell’aprile del 2007, di fronte ai “segnali deboli” registrati nell’Isola, fra cui
l’accresciuto malessere delle famiglie sarde riguardo alle povertà, hanno sentito il
dovere di lanciare un appello (ripreso dalla stampa isolana), attraverso cui chiedere «alle istituzioni civili una più precisa attenzione e un concreto sostegno al
mondo della povertà», sottolineando come la «mortificazione della dignità personale crea un impoverimento nei doveri e nei compiti di cittadinanza, non consente
alle famiglie di far fronte agli impegni assunti e a molti fa mancare anche il pane
quotidiano. Soprattutto alla gioventù la mancanza di lavoro fa perdere la speranza,
lo slancio nel progettare il futuro, le motivazioni per un apporto creativo alla costruzione della società» 5.
La pubblicazione di questo secondo Rapporto regionale della Caritas su
povertà ed esclusione sociale, proseguendo nel suo pluriennale cammino di ascolto, osservazione e discernimento, vuole continuare ad essere uno strumento a servizio dei poveri, un mezzo di comunicazione tra il mondo degli “inclusi” e quello
degli “esclusi”, un’occasione – se possibile – per farci riscoprire quell’autentico
senso di umanità che i tempi attuali rischiano di relegare nell’oblio.
RAFFAELE CALLIA
4
Al numero 29 della sua prima enciclica, Deus Caritas Est, Benedetto XVI ha voluto ricordare che «la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè nell’ambito della ragione autoresponsabile».
5
In nome di Dio fate la guerra alla povertà, in «L’Unione Sarda», mercoledì 18 aprile
2007.
17
18
CAPITOLO PRIMO *
I CENTRI DI ASCOLTO COINVOLTI NELLA RICERCA
1. Brevi note sulla regione ecclesiale Sardegna
Dal punto di vista delle circoscrizioni ecclesiastiche, la Sardegna, con una
popolazione di 1.661.354 abitanti 1, è costituita da dieci diocesi distribuite complessivamente su una superficie di circa 24.000 chilometri quadrati.
La diocesi di Ales-Terralba si colloca grosso modo nella provincia del
Medio Campidano; quella di Alghero-Bosa, invece, si situa fra le province di
Nuoro, Oristano e Sassari. L’arcidiocesi di Cagliari e le diocesi di Iglesias e Lanusei si distribuiscono rispettivamente nelle province di Cagliari, di Carbonia Iglesias e Lanusei Tortolì. Decisamente più contenuta, rispetto alla configurazione
provinciale risulta, invece, l’estensione della diocesi di Nuoro. Diversa appare anche la conformazione dell’arcidiocesi di Oristano rispetto all’omonima provincia.
La diocesi di Ozieri si colloca, invece, come una “realtà cuscinetto” fra le diocesi
di Tempio-Ampurias (a Nord), Sassari ed Alghero-Bosa (ad Ovest-Sud-Ovest) e
Nuoro (Est-Sud-Est). Come nel caso di Nuoro, anche l’estensione della diocesi di
Tempio-Ampurias e quella dell’arcidiocesi di Sassari risultano più contenute in
riferimento alle relative configurazioni amministrative provinciali (Olbia Tempio
e Sassari).
Peraltro, dai dati pubblicati nell’Annuario Pontificio e da quelli desunti
dall’Archivio dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero, si apprende che
le parrocchie presenti in Sardegna sono 618 e che il numero dei sacerdoti è pari a
1.101 (di cui 854 secolari e 247 regolari).
2. La realtà dei Centri di ascolto delle Caritas sarde
Anche in Sardegna, come nel resto d’Italia, le Caritas diocesane si caratterizzano per la loro natura essenzialmente pastorale. Una natura ecclesiale che si
traduce in un impegno diretto della Chiesa anche in seno alla società civile nel difficile compito dell’educazione e della “testimonianza della carità”, attraverso una
serie di azioni di sensibilizzazione e di “opere segno” che favoriscano lo «svilup-
*
Il presente capitolo ripropone, in buona misura, quanto era stato pubblicato nel capitolo 1
del primo Rapporto (cfr. “I Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna”), quale frutto di riflessione degli operatori convocati in sede di focus group. Nondimeno, sono stati opportunamente aggiornati i dati riguardanti la popolazione, il numero delle parrocchie e dei sacerdoti e, inoltre, sono
state integrate alcune informazioni riguardanti i Centri di ascolto.
1
Dati Istat (provvisori) aggiornati al 31/05/2007.
19
po integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica» 2.
Una delle traduzioni più importanti, dal punto di vista operativo, di questo
“ministero” (e dunque servizio, missione) affidato alla Caritas è senza dubbio la
costruzione capillare di luoghi di ascolto, osservazione e discernimento riguardo
ai bisogni e alle forme più svariate di disagio. In questa prospettiva, al fine di far
scaturire una consapevolezza piena e diretta dei problemi delle persone, la Chiesa
italiana – attraverso la Caritas – ha progressivamente messo a disposizione delle
comunità dei luoghi di accoglienza, ascolto, prima risposta, orientamento e promozione della solidarietà, vale a dire una rete di strumenti in grado di favorire
l’incontro con i poveri e il loro disagio.
La nascita dei cosiddetti Centri di ascolto, nel vissuto delle nostre comunità, ha rappresentato sostanzialmente questo passaggio: da una carità protesa unicamente all’assistenzialismo, non in grado di incidere sulle cause dei problemi e
sulla consapevolezza da parte della società in ordine al disagio, ad una testimonianza della Carità (agape) attraverso l’ascolto delle persone in quanto tali, prima
ancora del dare risposta alle loro richieste, possibilmente favorendo un coinvolgimento pieno delle istituzioni, della società civile e delle stesse comunità ecclesiali in termini di reciproca assunzione di responsabilità.
Volendo dare una definizione di Centro di ascolto 3, si potrebbe dire anzitutto che esso è il luogo in cui la comunità cristiana incontra quotidianamente le
persone che vivono uno stato di disagio. Proprio per la sua natura il Centro di ascolto costituisce una sorta di “porta aperta al territorio”, uno strumento a servizio
della comunità che si caratterizza per alcune principali funzioni:
2
-
accoglienza, accettando le persone incondizionatamente nella loro integrità, senza distinzione religiosa, culturale, sociale, ecc.;
-
ascolto delle storie di vita fatte di sofferenza, con un’attenzione alla dignità delle persone e al rispetto della riservatezza;
-
prima risposta alle richieste che necessitano una risposta immediata (cibo,
casa, protezione), attraverso il coinvolgimento della comunità e dei diversi
attori solidali;
-
orientamento nella fitta rete dei servizi, per fare in modo che le storie di
disagio che si manifestano nei luoghi di ascolto (spesso connotate da un
insieme complesso di problemi) siano analizzate con cura e possano essere
orientate verso le soluzioni più adatte, a partire dalle risorse (formali ed informali) presenti sul territorio;
Cfr. Statuto della Caritas Italiana, art. 1. Le Caritas diocesane cominciarono ad essere
istituite dai Vescovi a partire dal 1971; a seguire sorsero progressivamente, in ciascuna diocesi, le
Caritas parrocchiali. Una ricostruzione ricca di dati e densa di testimonianze circa la storia della
costruzione delle Caritas nelle comunità ecclesiali è contenuta nel volume di G. NERVO, La profezia della povertà. 25 anni di Caritas Italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996.
3
Utilizziamo in questa sede la definizione fornita nei percorsi formativi per gli operatori
delle Caritas diocesane e parrocchiali.
20
-
promozione di reti solidali, per fare in modo che la comunità territoriale
complessivamente considerata (risorsa fondamentale, spesso trascurata nei
percorsi di soluzione al disagio) diventi luogo di promozione di reti di solidarietà. In questa prospettiva i Centri di ascolto si rapportano con gli altri
attori sociali (istituzionali e non) in termini di sussidiarietà, evitando di
porsi con uno stile di supplenza.
La rilevazione dei bisogni, attraverso l’uso delle schede personali e di un
database in grado di tenere costantemente aggiornati i dati relativi alle richieste
formulate dalle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto, permette
un’osservazione attenta dei fenomeni di disagio e, conseguentemente, un serio discernimento sulle dinamiche sociali presenti in un determinato territorio.
A questo proposito va sottolineato che i Centri di ascolto non sono principalmente dei luoghi di rilevazione dei dati 4. Tuttavia, l’ascolto diretto ed attento
delle persone consente di registrare una serie articolata di informazioni sui loro bisogni e sulle cause che li hanno prodotti, nonché sulle loro richieste e sugli interventi posti in essere per cercare di trovare un’adeguata risposta. Proprio questa
funzione di “antenne della povertà” collocate nel territorio consente ai Centri di
ascolto di effettuare una lettura attenta del disagio, cosicché, attraverso la collaborazione con gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse 5, gli incontri quotidiani
con le persone in difficoltà si trasformano in veri e propri percorsi di osservazione
del disagio sociale.
Al giorno d’oggi esistono in Italia più di 3.000 Centri di ascolto, sia nella
forma semplice di luoghi di ascolto di ogni sorta di disagio, sia nella forma
specializzata di centri dedicati alle problematiche legate all’immigrazione, alle dipendenze, alle famiglie in difficoltà, ecc.
Va rilevato, peraltro, che la quasi totalità delle diocesi italiane aderisce al
“Progetto rete nazionale dei Centri di ascolto e degli Osservatori delle Povertà e
delle Risorse” promosso dalla Caritas Italiana. Ciascuna diocesi si è dotata per lo
meno di un luogo centrale (Centro di ascolto diocesano) che dà impulso alla nascita e al raccordo fra le articolazioni territoriali che effettuano l’ascolto (decanati,
foranìe, vicarìe, parrocchie). Partendo dalla realtà delle Caritas parrocchiali, il
progetto si pone come obiettivo fondamentale quello di mettere in rete queste real-
4
Non è fuori luogo precisare in questa sede che l’utilizzo delle informazioni fornite liberamente dalle persone che si rivolgono agli operatori dei Centri di ascolto, inserite nel database
delle Caritas ed aggiornate ed elaborate ai fini della gestione del servizio attraverso il software denominato OsPo3 (che utilizza indicatori comuni a livello nazionale), è preventivamente autorizzato
dagli interessati ai sensi della normativa vigente in materia di tutela della privacy. È appena il caso
di rilevare che ciascun operatore è tenuto a mantenere rigorosamente il rispetto dell’anonimato.
5
Gli Osservatori diocesani delle Povertà e delle Risorse, che favoriscono la collaborazione
sulle problematiche sociali tra la Caritas e gli altri organismi pastorali, sono sorti come strumenti
della pastorale aventi il compito di «osservare la realtà nell’ottica dell’amore preferenziale dei poveri». Il secondo Convegno ecclesiale nazionale (tenutosi a Loreto nel 1985) ne aveva fortemente
sottolineato l’importanza, tenuto conto della necessità per tutte le chiese locali di «acquisire
un’adeguata competenza nella lettura dei bisogni delle povertà, dell’emarginazione [attraverso
l’implementazione in ciascuna diocesi di] un osservatorio permanente, capace di seguire le dinamiche dei problemi della gente e di coinvolgere direttamente la comunità ecclesiale in modo scientifico […]» (Cfr. la Nota pastorale della CEI “La Chiesa in Italia dopo Loreto”, n. 22).
21
tà di ascolto, osservazione e discernimento ad un livello prima diocesano, poi regionale ed infine nazionale.
La Sardegna ha aderito al “Progetto Rete Nazionale” nel corso del 2004,
pur sussistendo già da tempo una rete più o meno coordinata dei Centri di ascolto
e degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse esistenti in alcune diocesi. Alla
stesura di questo secondo Rapporto ha contribuito una parte della rete dei Centri
di ascolto esistenti: alcuni si stanno accingendo ad aderire al progetto ed altri ancora si stanno già attrezzando operativamente proprio in questi ultimi mesi. Va
anche rilevato, peraltro, che rispetto alla prima pubblicazione, per la quale avevano dato il proprio contributo quattordici Centri di ascolto, in questo secondo Rapporto vengono considerati i dati conferiti da un numero quasi doppio di Centri, il
che sta ad indicare come anche in Sardegna l’esperienza del progetto rete stia crescendo progressivamente, oltre che dal punto di vista qualitativo, anche sotto il
profilo quantitativo. Infine, va segnalato che se nel primo rapporto sono state considerate solo le registrazioni di un “periodo campione” (aprile-ottobre 2005), nella
presente pubblicazione sono contemplati i dati dell’intero anno 2006 6.
3. La diocesi di Ales-Terralba
Il Centro di ascolto diocesano di Ales-Terralba, nato nell’ottobre del 1996
ed ubicato a San Gavino Monreale, è stato preceduto da alcune importanti esperienze legate all’ascolto dei bisogni e delle richieste delle persone presenti in diocesi.
Fra le esperienze più significative che hanno anticipato la sua nascita,
grande rilievo riveste il Centro di ascolto “Madonna del Rosario” di Villacidro,
che opera ancora oggi sul territorio della diocesi in ordine al problema della tossicodipendenza. In seguito sono sorti anche i Centri di ascolto di Guspini, Terralba
e Lunamatrona.
Il Centro di ascolto diocesano è sorto sotto la direzione di don Vincenzo
Salis, grazie al quale c’è stato un decentramento dalla sede episcopale di alcuni
uffici diocesani. Dal 1996 ad oggi si sono avvicendati tre direttori: don Vincenzo
Salis fino al 2000; don Eliseo Lilliu, che ha terminato il proprio mandato
nell’ottobre del 2005 e al quale è subentrato nel mese di novembre don Angelo
Pittau (il quale è già stato direttore negli anni 1986-96). Il Centro di ascolto ha
sempre cercato di coinvolgere la comunità ed il territorio, anzitutto attraverso
l’animazione, ovverosia favorendo iniziative di sensibilizzazione, promuovendo
raccolte di vario genere e collaborando con i servizi sociali, le strutture sanitarie e
i privati. Al momento tale Centro sta vivendo una fase di ripensamento complessivo.
Il Centro di ascolto della parrocchia di S. Teresa, ubicato sempre a San
Gavino Monreale, è sorto invece da non molto tempo e dopo una laboriosa ricerca
di persone disposte a mettersi a servizio degli altri. Nonostante le iniziali difficoltà
logistiche al momento viene garantito un servizio a tutti, in particolare alle persone appartenenti alla comunità parrocchiale. Inoltre, alcuni nuclei familiari vengo6
Anche per la realizzazione di questo secondo Rapporto non è stato possibile coinvolgere
la diocesi di Lanusei.
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no aiutati concretamente con sostegni di tipo materiale. Il Centro di ascolto coinvolge nelle proprie attività anche le altre realtà parrocchiali (gruppi di preghiera,
l’Azione cattolica, comitati vari, gruppi di catechisti ecc.), i privati cittadini, i servizi sociali comunali, i servizi sanitari e le attività commerciali del paese. Le persone che ad esso si rivolgono vengono accolte con gentilezza ed amore e trovano
solidarietà: vengono consigliate, indirizzate, spesso aiutate nell’espletamento e
compilazione di istanze alla pubblica amministrazione, richieste di sussidi o invalidità, oltre che ricevere sostegni di tipo materiale.
Per quanto riguarda il territorio di Arbus, ove opera il Centro di ascolto
parrocchiale San Sebastiano, la cura delle anime è affidata a due parrocchie: la
prima dedicata, appunto, a San Sebastiano martire e l’altra alla Santa Vergine Maria Regina. La parrocchia di San Sebastiano è la più antica e presta il suo servizio
ai 2/3 della popolazione. Esiste una bellissima struttura adibita a Centro anziani
che ospita al proprio interno una ventina di persone in età molto avanzata. È una
grande ricchezza per coloro che, soli e colpiti da diversi problemi di salute, non
troverebbero un adeguato sostegno nei familiari a loro volta oberati da diversi
problemi.
A Guspini, invece, opera il Centro di ascolto “Mons. S. Spettu”, sito in via
Giovanni Antonio Sanna, al numero 42. È stato costituito nel dicembre del 1988
su impulso della Caritas diocesana di Ales-Terralba e per volontà di un gruppo di
cittadini, nonché dei tre parroci di Guspini. Gli operatori del Centro di ascolto
cercano di conoscere i problemi sociali della cittadina ex mineraria e di essere
presenti, come comunità cristiana, attraverso un servizio quotidiano di ascolto,
prima accoglienza, distribuzione di viveri e altri generi, sostegno morale, orientamento ai servizi, collaborazione con altre associazioni e con i servizi sociali, nonché attraverso un’attività di prevenzione “secondaria” con gli oratori. Si desidera
sempre più lavorare per progetti, attuando interventi volti a favorire maggiormente un lavoro di rete con gli altri Centri e servizi. Per fare ciò si avverte da parte di
tutti gli operatori il bisogno di un’adeguata formazione umana, cristiana e professionale, ma anche la collaborazione di operatori specializzati (psicologi, avvocati,
medici, ecc.). Non trascurabile, peraltro, è l’auspicio che le parrocchie del territorio credano sempre più al ruolo e alla funzione del Centro di ascolto.
A Sardara, il Centro di ascolto della parrocchia Beata Vergine Assunta è
nato nel mese di ottobre del 1998, sotto la guida di don Ireneo Manca. Dopo un
primo periodo di formazione mediante incontri di cui alcuni curati da don Salis,
allora direttore della Caritas diocesana, il Centro di ascolto ha iniziato la propria
attività aprendo due volte alla settimana. Dapprima gli operatori accolgono la persona, cercando di metterla a proprio agio, dopodiché si mettono in ascolto, naturalmente fornendo una prima assistenza quando i bisogni sono primari, come nel
caso dei viveri.
Il Centro d’ascolto “Buon Samaritano” è un’espressione diretta della Caritas parrocchiale di San Pietro Apostolo di Terralba. Si tratta di un’associazione iscritta nel registro regionale del volontariato (al n. 578, settore socio-assistenziale)
che dispone di una decina di operatori, i quali prestano la propria opera con turni
che garantiscono l’operatività del Centro per tre giorni la settimana. L’attività del
Centro di ascolto di Terralba è rivolta a tutti coloro che si trovano in situazioni di
disagio di diverso tipo: gli interventi più frequentemente richiesti sono, tuttavia,
quelli che rispondono a povertà di carattere economico. Il Centro dispone di beni
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soprattutto alimentari che arrivano da donazioni private e dalle periodiche elargizioni da parte della Caritas diocesana. L’ascolto viene effettuato soprattutto per
favorire un rapporto personale con le persone che vengono a chiedere soccorso,
per avviarle ad un superamento di situazioni di solitudine, emarginazione e rassegnazione. La Caritas parrocchiale di S. Pietro, unitamente alla Caritas diocesana e
ai servizi sociali del Comune di Terralba, concorre a mettere in atto una serie di
interventi fondamentali per il territorio. Lo spirito del volontariato consente agli
animatori di prestare la propria opera nella forma cristiana e sociale, per dare alle
persone quelle risposte di cui hanno bisogno con l’ascolto, l’accoglienza e
l’assistenza.
Ad Uras il Centro di ascolto è nato nel 1996, dall’urgenza avvertita dalla
comunità cristiana di avere uno strumento pastorale al servizio delle persone in
difficoltà. Tra i suoi obiettivi vi è quello imprescindibile di essere punto di riferimento e di osservazione per la conoscenza delle situazioni di disagio ed emarginazione presenti. Gli operatori che operano in questa realtà sono una decina circa.
Prima che il parroco don Ireneo Manca, che ha voluto fortemente il Centro di ascolto, convocasse i volontari per far nascere il Centro, i problemi del paese erano
sotto gli occhi di tutti: alcolisti, famiglie che avevano impellente bisogno di aiuto;
anziani che vivevano soli se non addirittura in stato di abbandono. Da quando esiste il Centro di ascolto, esso accoglie, ascolta e si fa carico delle persone in situazione di bisogno. Inoltre si offrono interventi diretti come: consegna di vestiario,
servizio mensa, ricerca alloggio e lavoro, distribuzione viveri. Pur non avendo operatori con competenze specifiche, i volontari si sono rimboccati le maniche cercando di formarsi ed informarsi per fare del proprio meglio. L’obiettivo è da sempre quello di individuare i bisogni e le risorse presenti per portare l’aiuto più
adatto. Questo lo si fa cercando di coinvolgere sia la comunità cristiana, sia i
servizi sociali ed altre strutture o enti qualora se ne presenti la necessità. Da notare
che, oltre alla collaborazione con la comunità e i servizi sociali, il Centro di ascolto si riunisce saltuariamente in una sorta di consulta con i paesi limitrofi, per discutere sulle problematiche comuni e per cercare insieme delle soluzioni possibili.
Infine, dopo un periodo di formazione e di partecipazione agli incontri
(proposti dalla Caritas a livello diocesano e regionale) da parte di alcuni operatori,
cui ha fatto seguito l’uso delle schede per la raccolta delle informazioni sulle persone e sui loro bisogni (e l’installazione ed utilizzo del software OsPo3), anche il
Centro di ascolto parrocchiale di Santa Chiara, ubicato presso San Gavino Monreale, è entrato a far parte della rete dei Centri di ascolto della diocesi di AlesTerralba.
4. La diocesi di Alghero-Bosa
Va detto anzitutto che se anche per questo secondo rapporto non è stato
possibile coinvolgere i luoghi di ascolto della città di Alghero, la quale rappresenta un punto di osservazione assai rilevante, a cominciare dal dato demografico
(con oltre 40.000 abitanti), la Caritas diocesana si sta attrezzando per riuscire a
coinvolgere pienamente – in sintonia con la logica del “progetto rete” – e quanto
prima tali realtà.
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Per quanto attiene il Centro di ascolto interparrocchiale di Macomer, va
ricordato che tale struttura ha iniziato ad operare nel novembre del 2003, dopo una
preparazione degli operatori durata oltre un anno. Il gruppo degli operatori si
compone di una decina di persone che, con coscienza morale e sociale, vuole mettersi a disposizione del prossimo per ricambiare il bene e la gioia che hanno avuto
e continuano ad avere nella loro vita.
Con la loro presenza i volontari desiderano rendere visibile il più possibile
il Vangelo: vogliono mostrare l’amore di Dio proprio perché, sentendosi amati da
Lui, vorrebbero che anche le persone che incontrano in occasione dell’ascolto sperimentino quell’amore gratuito e generoso.
Fin dall’avvio dell’attività, i volontari si sono sentiti rinforzati nel loro “lavoro” dai sorrisi e dai ringraziamenti delle persone che a loro si sono rivolte nel
Centro di ascolto, e che sanno che in quel luogo qualcuno è presente per loro. In
questo modo essi sentono vive più che mai le seguenti parole: “È dando che si riceve…”.
Al Centro d’ascolto i volontari ricevono tutti, senza distinzione alcuna,
preoccupandosi di aiutare le persone a trovare una soluzione adeguata ai propri
problemi e facendo attenzione alla situazione di vita di ognuno. I volontari, inoltre, cercano di far sentire la propria presenza anche telefonicamente, quando chi si
è rivolto per chiedere aiuto non ritorna più al Centro. Cercano di sforzarsi ed impegnarsi affinché il Vangelo sia davvero lo strumento che indichi il cammino da
percorrere per migliorare la vita degli altri. Si tratta di uno sforzo che ha come
meta la messa in pratica della pedagogia di Cristo, consapevoli che le sue parole « […] che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati» 7 -, siano la strada da seguire per aiutare le persone ad affrontare e superare le difficoltà.
La metodologia di lavoro si traduce in: accoglienza, ascolto e accompagnamento. Per far questo sono presenti a turno tre volontari, uno si occupa
dell’accoglienza e/o dell’accompagnamento, gli altri due si occupano dell’ascolto.
L’accoglienza avviene sin dal primo passo della persona sulla soglia della porta
(un operatore gli va incontro scambiando alcune parole e l’accompagna dai volontari che si impegnano nell’ascolto). L’ascolto viene praticato in tutta calma e disponibilità, cercando di mettere a proprio agio la persona, lasciandola libera di aprirsi. Un volontario registra mentalmente ciò che viene detto per riportarlo in seguito su una scheda personale, l’altro ha una parte più attiva durante l’ascolto sostenendo e incoraggiando l’ospite a mostrare, sempre che lo ritenga opportuno,
ciò che lo preoccupa. Quando il colloquio termina e la persona si accomiata, i volontari presenti discutono di ciò che è emerso durante l’ascolto, iniziando a valutare in che modo aiutare la persona che si è presentata. Accompagnamento per i volontari significa anzitutto incoraggiamento, conforto e sostegno: si cerca di mostrare ciò anche attraverso il contatto telefonico, se la persona non dovesse più ripresentarsi.
Due volte al mese l’équipe del Centro si riunisce per rivedere insieme le
storie di vita ascoltate, sia per valutare insieme come evolve una determinata
vicenda, sia per capire se c’è ancora qualcos’altro da fare.
Nella sua opera il Centro di ascolto si avvale della collaborazione di enti,
associazioni, gruppi di volontariato. In base alla richiesta espressa si contatta
7
Gv 15,12.
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l’ente o l’associazione che risponde anche materialmente alla domanda presentata.
Il primo passo di questo cammino è sempre la parrocchia e la Caritas parrocchiale
(laddove esiste). Sin dal primo giorno di attività sono stati contattati tutti coloro
che operano nel territorio di Macomer, gruppi o enti sia di ispirazione cristiana
che laici, pubblici o privati, che in qualche modo operano a contatto con le persone.
I volontari sono consapevoli che le difficoltà sono davvero tante e la preoccupazione maggiore, in realtà, è data dal fatto che non tutte le richieste possono
trovare soluzione. Tutti gli operatori, pertanto, auspicano una maggiore collaborazione con le associazioni o i gruppi che operano nel territorio, realizzando anche
degli incontri in cui conoscersi, al fine di dar vita a momenti di aggregazione e
condivisione. Un cammino in questa direzione lo si sta già percorrendo: il Centro
di ascolto, infatti, partecipa quand’è possibile agli incontri pubblici e ai momenti
aggregativi promossi da altre realtà sociali e culturali, come per esempio “Sport e
solidarietà” e la “Fiera del Libro”. In entrambe le occasioni i volontari hanno cercato di promuovere il servizio del Centro di ascolto per farlo conoscere a tutti,
mostrando che a Macomer esiste un luogo in cui chiunque si trovi nel bisogno abbia una spalla su cui poggiarsi, una persona con cui gioire o piangere in libertà e
senza venire in alcun modo giudicati.
A volte l’apprensione, l’empatia che si prova per le persone che chiedono
aiuto, ma soprattutto il desiderio di trovare al più presto una risposta alle loro richieste, fa perdere di vista il compito più importante dei volontari, vale a dire
l’ascolto. Infatti, soltanto se si mette in atto un atteggiamento vero di attenzione,
calma e disponibilità, si compie la premessa per poter dare delle risposte e poter
essere davvero di aiuto. La fretta della risposta a volte mortifica questa prima e
fondamentale parte del servizio.
5. La diocesi di Cagliari
Oramai da un po’ di tempo il Centro di ascolto diocesano opera con grande
impegno in viale S. Ignazio, unitamente ad altre realtà di assistenza coordinate dal
Comune di Cagliari nel “Centro Giovanni Paolo II”, dopo aver maturato
un’importante esperienza fatta di ascolto, osservazione e discernimento nell’ottica
del Progetto Rete Nazionale promosso dalla Caritas Italiana. Per quanto riguarda
la modalità operativa, in particolare l’approccio da adottare nell’incontro con le
persone, gli operatori sono concordi nel ritenere che vi è da parte di tutti un atteggiamento di accoglienza, disponibilità, vicinanza e condivisione dei problemi altrui. Per ciò che concerne le realtà coinvolte e sensibilizzate, si tratta per la maggior parte della famiglia di origine, della parrocchia di appartenenza, dei servizi
sociali comunali, delle associazioni di volontariato e delle varie comunità di accoglienza.
Fra i bisogni emersi in occasione del focus group con gli operatori, tenutosi in occasione della predisposizione del primo Rapporto, erano stati segnalati i
seguenti: la necessità di uno sportello ad hoc per gli immigrati 8 con la presenza di
8
L’apertura di un apposito Centro di ascolto della Caritas diocesana, destinato agli immigrati – denominato “Kepos” –, è avvenuta alla fine del 2006. Il Centro Kepos ha già preso parte
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un mediatore culturale; la realizzazione della carta dei servizi (quale strumento
necessario per orientare le persone, conoscere ed effettuare visite presso gli enti e
le associazioni del territorio al fine di una conoscenza diretta); tradurre il foglio
relativo all’informativa e al consenso (tutela della privacy) nelle principali lingue
straniere.
Mentre per il primo rapporto i dati erano stati conferiti unicamente dal
Centro di ascolto diocesano, nella presente pubblicazione è stato possibile contemplare anche i dati riguardanti gli ascolti effettuati nel vecchio Centro di via Tola e quelli conferiti dai Centri di ascolto parrocchiali di S. Elia, Nostra Signora di
Bonaria (ubicati tutti nella città di Cagliari) e S. Elena (nel Comune di Quartu S.
Elena). Per il prossimo rapporto, peraltro, saranno presi in esame anche i dati provenienti da altri tre Centri di ascolto: il Centro di via Po, il Centro antiusura e
quello riguardante il Servizio legale, tutti operativi nella città di Cagliari.
6. La diocesi di Iglesias
L’équipe degli operatori del Centro di ascolto diocesano è costituita da una
decina circa di volontari stabili provenienti da diverse parrocchie della città: Santa
Chiara d’Assisi (la parrocchia della cattedrale); San Pio X (la parrocchia del quartiere più popoloso della città, denominato Serra Perdosa); Cuore Immacolato di
Maria; San Giovanni (situata nella frazione di Bindua); Beata Vergine di Valverde
e San Paolo apostolo.
Il Centro di ascolto diocesano ha iniziato il proprio servizio nel 1995, con
cinque volontarie ed una suora. Fin dall’inizio gli operatori hanno seguito un percorso formativo che comprendeva anche il confronto con altre esperienze. Per la
formazione iniziale come strumento di riferimento si è utilizzato il testo sui Centri
di ascolto della Caritas Ambrosiana. Nel primo periodo, ai colloqui partecipava il
referente del Centro insieme con un volontario e le linee da seguire, gli interventi
da attuare o le decisioni da prendere erano appannaggio esclusivo del referente.
Fin dall’inizio i volontari utilizzavano un tipo di scheda (non dettagliata come
quella che è in uso attualmente) nella quale venivano annotati i dati delle persone
che si rivolgevano al Centro. Tale scheda è stata sostituita poi dall’“agenda”.
A causa del numero ridotto dei volontari i giorni di apertura del Centro erano limitati e spesso gli operatori disponibili dovevano fare acrobazie per coprire
i turni. Qualche volta il referente faceva l’ascolto da solo.
A detta delle volontarie più “anziane”, l’inizio è stato faticoso e duro: ogni
volontario aveva una sensibilità propria e le scuole formative di provenienza
spesso sono state causa di scontri. Col tempo è cresciuta l’esperienza, la conoscenza reciproca e la stima e questo ha permesso di far crescere il gruppo non solo numericamente. Ci si è resi conto che per far funzionare bene il Centro era importante l’unità tra i volontari: all’inizio è stato faticoso raggiungerla, ma oggi,
grazie alla preghiera e alla formazione si è raggiunto un certo equilibrio.
Col tempo alcune persone si sono allontanate e se ne sono aggiunte delle
altre. Crescendo il numero dei volontari si è iniziato a parlare della figura del coalla rilevazione per il prossimo Rapporto regionale, apportando un notevole contributo circa l’analisi dei bisogni degli immigrati.
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ordinatore, con un ruolo interno ed esterno al Centro. All’interno del Centro di ascolto egli ha il compito di curare i turni dei volontari, i momenti formativi e coordinare il programma operativo; all’esterno, invece, cura i rapporti con le istituzioni e tutte le strutture pubbliche e private.
Oggi tutti i membri dell’équipe hanno il proprio calendario dei turni e fanno servizio di ascolto due volontari per volta (per due ore al giorno), dal lunedì al
giovedì. Il venerdì, invece, si fa un incontro di preghiera e di riflessione condivisa,
oltre che un’analisi dei casi che si sono presentati durante la settimana. Questo
permette a tutti i volontari di avere una conoscenza più approfondita delle situazioni delle persone che si sono presentate al Centro e di trovare tutti insieme le
strategie d’intervento per ogni singolo caso, a differenza del passato in cui solo il
referente prendeva determinate decisioni. Inoltre, l’ultimo venerdì del mese si affrontano tematiche particolari anche sotto il profilo culturale. Spesso si invitano
delle persone che per la loro professionalità aiutano i volontari a conoscere alcune
tematiche, alcune leggi, problematiche, ecc. Con alcune di queste persone si sono
create delle collaborazioni che hanno permesso la realizzazione di altri tipi di aiuto, come ad esempio il Centro prestiti. I momenti forti del calendario liturgico diventano occasione di meditazione e riflessione spirituale. Non mancano poi i momenti formativi a livello diocesano e regionale proposti dalla Caritas, non ultimi
quelli organizzati in occasione del progetto rete. A differenza del passato, da
qualche anno a questa parte per gli operatori del Centro di ascolto è stato molto
importante il contributo offerto dai volontari del servizio civile, i quali, soprattutto
in questi ultimi anni, si sono occupati della compilazione dell’agenda durante i
colloqui e della stesura delle schede per la raccolta dei dati da inserire nel
database.
Nel Centro di ascolto le volontarie fanno soprattutto accoglienza e ascolto.
Inizialmente cercano di mettere a proprio agio le persone che chiedono aiuto. Generalmente è la volontaria in servizio civile che si occupa di scrivere sull’agenda:
vengono presi tutti i dati e le informazioni utili della persona che si rivolge al
Centro e si studia insieme a lei un percorso da sperimentare per uscire dal bisogno. A seconda delle problematiche presentate si cerca di orientare le persone verso gli Enti competenti. Ad ogni modo, il venerdì si porta il caso a conoscenza di
tutti gli operatori e insieme si cerca di trovare una strategia di intervento. Qualsiasi tipo di intervento avviene indirettamente attraverso la collaborazione con altri
attori (ad esempio i gruppi parrocchiali delle Vincenziane, con le quali le volontarie del Centro collaborano da sempre). In questo modo si cerca di educare le persone a far riferimento alla propria comunità di appartenenza. Se poi qualcuno dovesse aver bisogno di una certa somma di denaro si interpella – quando opportuno – il Centro prestiti.
Col passare del tempo l’intesa con le associazioni e gli Enti della città è
cresciuta. Le parrocchie restano comunque il ponte privilegiato e l’elemento di riscontro delle problematiche presentate al Centro di ascolto. Inoltre, si collabora
sistematicamente con: i servizi sociali del Comune, il Serd, il Cim, la Casa di prima accoglienza Santo Stefano della Caritas diocesana, i Padri Francescani, le
scuole; ma anche Inps, Iacp, Telecom, Enel, l’Ispettorato del Lavoro ed una vasta
rete di associazioni di volontariato sociale presenti nel territorio. Inoltre, ultimamente si sta collaborando strettamente con una Farmacia della città e con un lega28
le che fornisce il proprio patrocinio gratuitamente, aiutando spesso anche gli stessi
volontari a capire meglio certe problematiche.
Con il proprio operato le volontarie, attraverso l’accoglienza e l’ascolto,
cercano di aiutare le persone a venire fuori dai loro problemi, responsabilizzandole e rendendole protagoniste di un possibile percorso di uscita. Si cerca ad esempio di far capire loro che è possibile pagare una bolletta a piccole rate piuttosto
che farla scadere senza pagarla; o acquistare farmaci generici piuttosto che quelli
a pagamento. Si cerca in ogni caso di accompagnarle e orientarle, non sostituendosi mai ad esse ed evitando il rischio dell’assistenzialismo. Ed è anche per tale
ragione che l’intervento del Centro di ascolto non è mai immediato.
Va infine rilevato che ha fatto il proprio ingresso, nel presente rapporto,
anche il Centro di ascolto interparrocchiale “Madonna del buon consiglio” di Carbonia. Dopo un anno circa di formazione, gli operatori (attualmente circa una decina) sono stati in grado di aprire al territorio questo servizio e di partecipare a
pieno titolo al progetto rete. Sono stati conferiti i dati anche per il prossimo rapporto regionale e, con l’andar del tempo, questo Centro sta diventando sempre più
un punto di riferimento per la comunità ecclesiale del Sulcis.
7. La diocesi di Nuoro
L’équipe degli operatori del Centro di ascolto di Nuoro è costituita da una
dozzina circa di volontari, i quali prestano servizio gratuitamente per due ore settimanali ciascuno.
Ubicato in via Manzoni, al numero 30 (nei locali della Casa San Giuseppe), il Centro di ascolto ha una storia relativamente recente; le sue origini, infatti,
risalgono alla fine degli anni ’80. La sua caratteristica principale è quella di essere
un Centro di ascolto a livello diocesano, in quanto cerca di venire incontro alle
necessità e problematiche del territorio, raccogliendone possibilmente tutte le istanze, unitamente all’apporto di vari gruppi di volontariato: Sesta Opera, Vincenziane, Caritas parrocchiali, servizi di ospitalità, ecc.
Come centro Caritas vero e proprio, con le sue caratteristiche attuali, nasce però solamente nel 1998, quando il Vicario generale della diocesi, mons. Salvatore Floris, riunisce il primo gruppo di volontari, il quale inizia a muovere timidamente i primi passi, con alterne vicende.
Successivamente, viene ufficializzata la sua nascita con la nomina, da parte del Vescovo, di un direttore, nella persona di don Luigino Monni (attualmente
in carica) e di un vicedirettore, don Francesco Mariani. Ben presto gli operatori
iniziano a frequentare i corsi nazionali promossi dalla Caritas Italiana, per un percorso annuale di formazione-base, appositamente organizzato per le équipe delle
Caritas diocesane.
Gli operatori del Centro di Ascolto operano nel rispetto dell’anonimato e
in coppia. Dopo l’accoglienza fraterna ed il preliminare colloquio con la persona,
ci si sforza di analizzarne i reali bisogni e le richieste, per passare poi, quando
possibile ed opportuno, a concretizzare gli interventi più urgenti.
L’opera cerca di andare incontro alle realtà più dure, anzitutto ascoltando e
cercando poi di soddisfare almeno parzialmente le esigenze primarie manifestate
(bisogni di viveri, necessità di un parziale pagamento di bollette della luce e
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dell’affitto della casa, acquisto di medicinali, bombole del gas, ecc.) e indirizzando anche le persone verso altri organismi assistenziali, parrocchiali e non. Un
qualche contributo viene anche elargito alla casa che ci ospita e alle missioni. Tali
contributi provengono essenzialmente dalla diocesi.
Partendo anzitutto dalla necessità di una maggiore concordanza fra i vari
operatori, che si deve concretizzare nell’armonia fraterna (“Caritas”, prima di tutto fra noi!), nell’unità di intenti e nella massima autonomia nell’operare (seguire
gli stessi criteri, ma senza interferire nelle decisioni altrui), si vorrebbe potenziare
il Centro di ascolto con l’immissione di altri operatori, per poter poi allargare il
raggio d’azione, sia direttamente (cercando di soddisfare le varie richieste), sia attraverso una rete che sia funzionale ai necessari contatti con tutte le parrocchie
della città e della diocesi, e che porti gli operatori a conoscere e a contattare velocemente i vari soggetti presenti nel territorio.
8. La diocesi di Oristano
Dopo aver vissuto un periodo particolarmente difficile, dovuto ad una certa debolezza organizzativa, il Centro di ascolto diocesano di Oristano sta attualmente vivendo un’incoraggiante fase, soprattutto dietro l’impulso dell’attuale direttrice, che con pazienza ed impegno ha saputo coinvolgere nuove e motivate risorse umane, ponendosi sempre in totale sintonia con i percorsi formativi e di lavoro proposti dalla Caritas, sia a livello nazionale che regionale.
Forniscono un servizio di ascolto e di orientamento alcuni operatori volontari, i quali, animati dalla buona volontà, cercano di venire incontro – con i pochi
mezzi disponibili – alle persone in stato di disagio che di tanto in tanto si presentano alla sede del Centro.
Va anche detto che non sono in molti a conoscere il Centro; generalmente
le persone in difficoltà vengono solamente dopo essersi recati ai servizi sociali del
Comune. In altri termini il Centro di ascolto viene considerato come una sorta di
ultima spiaggia. Per tale ragione, l’impegno per l’immediato consiste nel rendere
sempre più visibili le opportunità di accoglienza e di orientamento offerte dal
Centro di ascolto diocesano, lavorando in sinergia con le altre realtà di volontariato presenti nel territorio.
Probabilmente continua a giocare ancora a sfavore l’imbarazzo per le situazioni di difficoltà che si vivono all’interno delle famiglie del territorio. Per
questo motivo capita che le persone che si rivolgono al Centro di ascolto non nascondano una certa vergogna.
9. La diocesi di Ozieri
Anche per questo rapporto, ad aver conferito i dati è stato unicamente il
Centro di ascolto diocesano, situato ad Ozieri. Le persone che si rivolgono al Centro (il quale garantisce un servizio settimanale, dal lunedì al venerdì, per quattro
ore giornaliere) non sono tante, forse perché la Caritas diocesana ha ripreso le
proprie attività in modo sistematico soltanto da alcuni anni e non tutti sono al corrente della sua esistenza. La gran parte degli ascolti viene effettuata generalmente
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dal direttore, poiché quasi tutte le persone chiedono di poter parlare esclusivamente con lui.
Gli operatori del Centro di ascolto hanno continuato a seguire i corsi di
formazione proposti dalla Caritas ai vari livelli e sono persone abbastanza preparate, in ogni caso sensibili alla sofferenza dei fratelli più bisognosi e tutti impegnati nella Chiesa.
Gli utenti che si rivolgono al Centro sono in gran parte residenti ad Ozieri
e alcuni provengono da altre comunità della diocesi. Le persone che fino ad ora
hanno chiesto aiuto hanno trovato nel Centro di ascolto un’ottima accoglienza:
vengono ascoltati e orientati, offrendo loro una prospettiva di cambiamento. Gli
operatori si riuniscono settimanalmente per aggiornarsi, per programmare e per
formarsi, anche attraverso un momento di riflessione spirituale.
La Caritas diocesana, nel frattempo, sta proseguendo il proprio impegno
nel favorire quanto prima l’apertura di altri due Centri di ascolto parrocchiali: uno
a Bono e l’altro a Monti.
10. La diocesi di Sassari
Tenuto conto dei mezzi piuttosto limitati, soprattutto se raffrontati alla
gravità dei problemi cui viene incontro, il Centro di ascolto svolge una funzione
essenziale di filtro con le parrocchie, con i servizi di assistenza sociale dei vari
Comuni della diocesi e, quando si presenta la necessità, con alcune richieste di intervento delle strutture sanitarie. La prassi abituale del Centro di ascolto si traduce
sostanzialmente in alcune funzioni: accoglienza, ascolto, promozione umana, orientamento ed assistenza.
La persona che si presenta può parlare con assoluta libertà dei propri problemi. I suoi dati principali vengono inseriti nelle schede cartacee (nel totale rispetto della legge sulla privacy) e successivamente archiviati nel programma informatico OsPo3.
Più di ogni altra funzione risulta fondamentale l’ascolto. L’operatore prende atto dei bisogni della persona e interagisce con lei attraverso un linguaggio e
gesti sempre improntati al rispetto e alla disponibilità. Si cerca in tutti i modi di
instaurare un rapporto di fiducia e sicurezza. Essere sempre attenti alle problematiche comporta incoraggiare la persona, che affronta momenti più o meno gravi,
lenire la sua solitudine e fornire un preciso sostegno morale. Si tratta quindi di offrire un sostegno, di fare “il punto della situazione” e di offrire un ventaglio di opportunità che chi soffre molto spesso non conosce, o non è in grado di riconoscere.
L’orientamento è la fase successiva irrinunciabile. L’operatore mostra alla
persona una serie di opportunità: rivolgersi ai servizi sociali del suo Comune, la
raccolta del suo curriculum lavorativo, la conoscenza delle strutture integrate al
Centro di ascolto (la mensa, il Centro servizi, l’ostello). L’orientamento, in definitiva, consente la creazione di reti di conoscenze per poter migliorare la propria
condizione e attutire le situazioni più acute di disagio.
In questo servizio alle persone più deboli non va certamente trascurato il
sostegno materiale, soprattutto quando si tratta di soddisfare bisogni inderogabili.
La tipologia di questi bisogni è varia: denaro per il pagamento di medicine non
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mutuabili, per canoni di locazione pregressi non pagati, per bollette in scadenza (o
già scadute) del telefono, dell’acqua e per il riscaldamento. Va rilevato, peraltro,
che è possibile usufruire della fornitura di generi alimentari e di vestiario e del
servizio mensa della stessa Caritas diocesana, oltre che di un servizio ambulatoriale dentistico totalmente gratuito.
L’assistenza circa i problemi materiali risulta essere spesso particolarmente difficoltosa a causa degli scarsi mezzi a disposizione, proprio perché spesso le
aspettative sono maggiori dell’aiuto che il Centro di ascolto è in grado di offrire.
Fino ad ora il lavoro svolto è stato importante e formativo ed ha spinto gli
operatori ad effettuare una riflessione critica, anche al fine di non ridurre l’opera
del Centro di ascolto ad un mero servizio di consegna periodica di viveri, vestiario
e sussidi economici per il pagamento delle bollette scadute. Per questo è necessaria una metodologia di lavoro più organica e sistematica. È necessario, prima di
tutto, riordinare tutti i dati in possesso. Solo in questo modo è possibile rendere
visibili ai più le esperienze osservate. Non solo. Il Centro di ascolto di Sassari ritiene importante un maggiore scambio di informazioni con gli altri Centri di
ascolto diocesani della Sardegna e dell’Italia, affinché le altre metodologie di
lavoro divengano esperienze condivise, quindi risorse per tutti coloro che
lavorano nel sociale.
In quest’ultimo periodo, la Caritas diocesana di Sassari sta moltiplicando il
proprio impegno al fine di dar vita a due nuovi Centri di ascolto da rendere operativi in città: un Centro parrocchiale (presso la parrocchia di Santa Maria di Pisa)
ed un Centro di ascolto apposito per gli immigrati.
11. La diocesi di Tempio-Ampurias
Il Centro di ascolto diocesano “Voce amica” è nato in seno alla Caritas
diocesana nel 1992, quasi contestualmente all’Osservatorio delle Povertà e delle
Risorse, per offrire un servizio alle persone in stato di disagio ed avere un riscontro diretto delle problematiche e delle povertà del territorio. La scelta del nome
(“Voce amica”) è derivata dal fatto che i primi ascolti effettuati avvenivano per
via telefonica. Quando, infatti, è stata data la notizia dell’apertura del Centro di
ascolto tramite la stampa cittadina, le prime persone si sono rivolte alla Caritas attraverso il telefono. Probabilmente ci si rifugiava nell’anonimato perché non si
conoscevano direttamente gli operatori del Centro stesso ed anche per un certo
comprensibile pudore.
Nelle fasi successive, pur con tante difficoltà, il Centro ha cercato di tutelare la propria identità di ascolto; tuttavia, le emergenze di carattere economico
(dovute a una fase di forte recessione anche a livello nazionale) hanno determinato anche l’erogazione di servizi di tipo materiale ed economico. Qualcuno, nel
tempo, ha continuato ad usare il mezzo telefonico. Si tratta soprattutto di persone
che hanno bisogno di parlare, esporre i propri problemi, pur richiedendo solo consigli e sostegno verbale. La Caritas diocesana ha investito moltissimo nella formazione dei suoi operatori, tant’è che, gradualmente, nel corso degli anni, il Centro
si è avviato a svolgere le competenze che gli sono proprie.
La caratteristica attuale di “Voce amica” è il suo essere punto di riferimento per le persone in difficoltà e interlocutore riconosciuto dalle parrocchie e dalle
32
istituzioni locali. Il Centro di ascolto è anche struttura di coordinamento e di contributo per ridisegnare le nuove politiche sociali territoriali, proprio perché alla
base del suo operare vi è un progetto educativo: la sensibilizzazione della comunità nel prendere coscienza dei problemi di povertà e nell’individuare le risposte più
adatte da attivare.
L’impegno del Centro di Ascolto diocesano si apre a prospettive di promozione di nuovi Centri di ascolto parrocchiali, nonché di supporto e coordinamento in favore di quelli già esistenti in diocesi. Molto forte è il rapporto di collaborazione con i servizi sociali, con i quali si è costruito un proficuo tessuto di dialogo e di stima reciproci. La rete di collegamento si estende anche alle altre realtà
istituzionali del nostro territorio: Prefettura, Questura, Tribunale dei minori. Rispetto a quest’ultima realtà è stato individuato nel Centro di ascolto un referente
che cura dei rapporti stabili.
Esiste, inoltre, un gruppo di lavoro che assicura servizi di ascolto, orientamento e presa in carico dei problemi. L’ascolto consiste nell’offrire alle persone,
con la massima disponibilità, spazi di comunicazione dei loro problemi, raccogliendo nel colloquio i dati necessari per tentare di darvi soluzione.
L’orientamento si traduce in puntuali indicazioni in ordine ai servizi pubblici e
privati che possono contribuire a dare risposte alle esigenze espresse, indicazioni
che spesso sono abbinate ad un sostegno concreto (accompagnamento, contatti telefonici, vero e proprio disbrigo di pratiche). La presa in carico, invece, comporta
un impegno di accompagnamento della persona in difficoltà verso un percorso di
ripresa della personale autonomia e capacità di gestire al meglio la vita individuale e familiare.
Il futuro del Centro di ascolto si colloca pienamente all’interno del “Progetto Rete Nazionale” ideato e promosso da Caritas Italiana. Non è pensabile infatti che la prassi dell’ascolto sia disgiunta dalle prassi dell’osservazione e del discernimento. Tanto più che l’orientamento di Caritas Italiana, in una prospettiva
di “parrocchia missionaria”, è quello di accompagnare il servizio diretto ai poveri
con quello di animazione dentro la Chiesa e il territorio.
In questa senso la Caritas diocesana di Tempio-Ampurias ha proposto percorsi di ascolto a coloro che, a vario titolo, svolgono ruoli di animazione nei vari
ambiti di pastorale dentro la diocesi. L’obiettivo è duplice: valorizzare la prassi
dell’ascolto ed educare a viverla come espressione della comunità cristiana. In
questa prospettiva si collocano tutte le azioni prioritarie, le strategie e i tempi utili
a formare e coinvolgere le parrocchie e il territorio.
Nel comune di La Maddalena il Centro di ascolto Caritas è nato nel 2000,
come “opera segno” insieme ad una piccola Casa di accoglienza (3 posti letto) per
le emergenze. Le operatrici sono perlopiù donne e i due uomini che vi collaborano
si occupano in particolare di seguire e accompagnare gli ospiti del piccolo dormitorio (con cinque posti letto) sorto alcuni anni fa, a pochi metri di distanza dal
Centro di ascolto.
Il Centro è aperto tutti i giorni, dalle 16.30 alle 18.00, tranne il sabato e la
domenica. Durante l’apertura viene svolta attività di accoglienza e di ascolto delle
persone in situazione di difficoltà e attività di sostegno, attraverso la distribuzione
di viveri e di indumenti, prevalentemente destinati ad anziani, famiglie numerose
ed immigrati con e senza famiglia.
33
Per i casi più problematici vengono contattati i servizi sociali o altre associazioni di ispirazione cristiana che operano sul territorio nel campo delle tossicodipendenze, alcolismo e tutela della vita (il Centro di ascolto “Il delfino” e il
“Centro di aiuto alla vita”).
Con l’ascolto e il conseguente orientamento si cerca di trovare insieme alla
persona in stato di disagio le risorse e le soluzioni più idonee a superare le difficoltà, aiutando, ad esempio, le persone in difficoltà economica anche attraverso la
distribuzione di viveri e indumenti.
L’intento del gruppo che opera al Centro di Ascolto è quello di porsi sempre come strumento a servizio della promozione umana e spirituale di coloro che
si trovano in difficoltà, cercando di orientare le persone ai servizi del territorio e
sostenendole nella ricerca di soluzioni rispetto ai problemi emersi durante il colloquio.
Per quanto riguarda la città di Olbia, mentre per il conferimento dei dati utilizzati per la stesura del primo Rapporto aveva preso parte il “Coordinamento
Caritas” (nato nel 1992 per volere delle parrocchie di Olbia e dell’allora vescovo
della diocesi, mons. Meloni), in questo secondo caso non è stato possibile ricevere
il loro contributo. Ha partecipato, invece, il Centro di ascolto parrocchiale “La Salette”, il quale ha regolarmente conferito i dati elaborati nel capitolo seguente del
presente volume.
34
CAPITOLO SECONDO
DENTRO IL LABIRINTO.
I DATI QUANTITATIVI SUL DISAGIO
1. Alcuni elementi preliminari di carattere generale
Nel presente capitolo vengono illustrati e commentati i dati conferiti dai
Centri di ascolto della Sardegna aderenti al Progetto Rete Nazionale, relativamente all’intero anno 2006. I dati si riferiscono alle persone transitate nei Centri (uno
o più per ciascuna diocesi) delle Caritas diocesane di Ales-Terralba, AlgheroBosa, Cagliari, Iglesias, Nuoro, Oristano, Ozieri, Sassari e Tempio-Ampurias 1.
Nel corso del 2006 gli operatori di tali Centri hanno registrato in modo sistematico le informazioni ricavate in occasione dei colloqui effettuati con le persone che ad essi si sono rivolti, nel pieno rispetto della legge vigente sulla privacy
e con il consenso degli stessi interessati. Sono state prese in esame le variabili che
fanno riferimento alle principali caratteristiche anagrafiche e socioeconomiche
(come ad esempio l’età, il genere, lo stato civile, la professione, il livello di istruzione, ecc.), ai bisogni (le vulnerabilità e i disagi più o meno acuti delle persone
rilevati dagli operatori), alle richieste avanzate esplicitamente dalle persone che si
sono rivolte ai Centri e, infine, agli interventi posti in essere direttamente dalla
Caritas o con il concorso di altri soggetti ecclesiali e/o civili.
Riguardo al livello territoriale, i Centri di ascolto che hanno preso parte al
rilevamento sono di diverso tipo: 12 parrocchiali, 9 diocesani e 2 zonali (vale a dire interparrocchiali), secondo la distribuzione geografica indicata nella tabella seguente. Rispetto al primo rapporto (di carattere sperimentale), il periodo di rilevamento si è ampliato all’intero anno e ha coinvolto un numero ben più consistente di Centri di ascolto. Va rilevato, peraltro, che nel corso del 2006 hanno aderito
al progetto rete, e al relativo protocollo di lavoro, nuovi Centri con diverse esperienze di ascolto, prima risposta, accompagnamento, orientamento e presa in carico delle persone che si trovano, per varie ragioni, a dover percorrere i meandri del
“labirinto” del disagio sociale. Va da sé che tale ampliamento delle adesioni con1
Hanno partecipato al rilevamento dei dati quantitativi i seguenti Centri di ascolto. Per la
diocesi di Ales-Terralba: diocesano, Santa Chiara e Santa Teresa – tutti ubicati a San Gavino Monreale –, Buon Samaritano di Terralba, Maria Maddalena di Uras, Beata Vergine Assunta di Sardara, mons. Spettu di Guspini e San Sebastiano di Arbus. Per la diocesi di Alghero-Bosa: il Centro
di ascolto interparrocchiale di Macomer. Per la diocesi di Cagliari: due Centri di ascolto diocesani,
i Centri di S. Elia e N.S. di Bonaria – tutti situati a Cagliari –, nonché il Centro di ascolto parrocchiale di Quartu S. Elena. Per la diocesi di Iglesias: il Centro di ascolto diocesano Marta e Maria,
con sede in Iglesias, e quello interparrocchiale Madonna del buon consiglio di Carbonia. Hanno
partecipato, inoltre, i Centri di ascolto diocesani di Nuoro, Oristano, Ozieri e Sassari. Infine, tre
Centri di ascolto hanno conferito i dati per la Caritas diocesana di Tempio-Ampurias: il Centro
diocesano “Voce Amica” di Tempio Pausania, il Centro “La Salette” di Olbia e il Centro di ascolto
di La Maddalena. La diocesi di Lanusei non ha preso parte alla rilevazione.
35
sentirà in prospettiva di accrescere ulteriormente la base di rilevamento dei dati
sul disagio.
TAB. 1. Persone ascoltate per livello territoriale (valori assoluti e percentuali)
Diocesi
Centri di ascolto
Persone ascoltate
Ales-Terralba
Alghero-Bosa
Cagliari
Iglesias
Nuoro
Oristano
Ozieri
Sassari
Tempio-Ampurias
8
1
5
2
1
1
1
1
3
198
36
992
122
62
23
13
246
153
%
10,7
2,0
53,8
6,6
3,4
1,2
0,7
13,3
8,3
Totale
23
1.845
100,0
Un primo dato che risalta dalla lettura della tabella 1 è l’assoluta prevalenza del numero di persone ascoltate presso i Centri di ascolto della Caritas di Cagliari (pari a più della metà), nella cui diocesi, stando agli ultimi dati diffusi
dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero, risiede il 33,6% di tutta la popolazione isolana. La maggior parte delle persone ascoltate si è rivolta ai Centri di
ascolto del Sud Sardegna (il 71,1%), in particolare nelle diocesi di Ales-Terralba,
Iglesias e Cagliari. Una parte altrettanto importante di persone (pari al 24,3%) si è
rivolta ai Centri del Nord dell’Isola (Alghero-Bosa, Sassari, Ozieri e TempioAmpurias). Infine, una quota assai contenuta (pari al 4,6%) è stata ascoltata dagli
operatori dei Centri di Oristano e Nuoro 2.
Un secondo elemento riguarda la maggiore frequentazione dei Centri rispetto al loro livello territoriale. Nonostante il numero preponderante dei Centri di
ascolto parrocchiali (12 su 23), sono i Centri diocesani quelli in cui tendenzialmente transita il maggior numero di persone (il 66,6% nel caso della nostra indagine) 3. È probabile che ciò dipenda dal fatto che i secondi, rispetto ai primi, siano
dei luoghi generalmente più strutturati e forniti di maggiori servizi diretti e/o di
orientamento.
2. Le caratteristiche salienti delle persone transitate nei Centri di ascolto
Durante il 2006 sono transitate nei Centri di ascolto coinvolti nell’indagine
1.845 persone. Talune volte non è stato possibile utilizzare le informazioni registrate dagli operatori, per incompletezza o mancanza di precisione nel rilevamento
dei dati. Proprio per questo motivo, come nel passato, le elaborazioni sono state
2
È assai ovvio considerare che a un maggior numero di persone ascoltate non equivale necessariamente una più alta incidenza dei fenomeni di povertà esistente nei territori esaminati.
3
Si tratta di un elemento in sintonia con quanto rilevato a livello nazionale. Vedasi, in tal
senso, CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà? Rapporto 2007
su povertà ed esclusione sociale in Italia, il Mulino, Bologna 2007, p. 209.
36
effettuate di volta in volta esaminando unicamente i dati completi, dopo essere
stati opportunamente predisposti in un dataset 4.
Come già riscontrato in occasione della rilevazione precedente, effettuata
durante il periodo aprile-ottobre 2005, e in netta controtendenza rispetto ai dati
registrati a livello nazionale 5, ai Centri di ascolto delle Caritas sarde aderenti al
progetto rete si sono rivolti in maggioranza cittadini di nazionalità italiana (cfr.
tab. 2). Per un approfondimento circa la provenienza nazionale degli stranieri ascoltati nei Centri Caritas, le principali caratteristiche sociodemografiche, nonché
i bisogni emergenti, si rimanda all’apposito paragrafo contenuto in questo stesso
capitolo.
TAB. 2. Cittadinanza delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Cittadinanza
Cittadinanza italiana
Cittadinanza straniera
Doppia cittadinanza
Apolidi
Totale
Persone
ascoltate
1.452
388
1
4
1.845
%
78,7
21,0
0,1
0,2
100,0
2.1. Più donne che uomini: la variabile di genere dai dati dei Centri di ascolto
Come è stato messo in evidenza sia dai precedenti dossier (nazionale e regionale) sia dall’ultimo rapporto Caritas-Zancan, le persone che si sono rivolte ai
Centri di ascolto sono in maggioranza di sesso femminile (58,5%). In termini generali questo dato, come in passato, «può essere spiegato in parte dalla condizione
di maggiore debolezza della donna, soprattutto dal punto di vista lavorativo, ma
anche per via del ruolo tradizionalmente affidatole di latrice (e spesso di “curatrice”) delle situazioni di disagio vissute all’interno del contesto familiare» 6.
Tale preponderanza è confermata anche a livello territoriale. Come si evince dalla tabella 3, infatti, in ciascuna diocesi si registra un numero superiore di
ascolti effettuati in favore di persone di sesso femminile tranne che nel caso della
Caritas diocesana di Nuoro.
4
Le informazioni riguardanti le persone ascoltate, i bisogni, le richieste e gli interventi sono state inserite nel software denominato OsPo3 (versione 3.3) in dotazione presso i Centri di ascolto aderenti al progetto rete. I dati estratti successivamente sono stati sistemati in un dataset, il
quale è stato organizzato in variabili con le relative definizioni al fine di una successiva elaborazione ed analisi per mezzo del programma SPSS (Statistical Package for Social Sciences).
5
Il già citato rapporto Caritas-Zancan, rileva che per due terzi le «persone che si sono rivolte ai Centri di ascolto sono risultate di cittadinanza straniera, a fronte di un terzo di persone di
cittadinanza italiana» (cfr. CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà?..., op. cit., p. 211).
6
DELEGAZIONE REGIONALE CARITAS DELLA SARDEGNA, Osservazione dei percorsi di povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna. Rapporto 2006 su povertà ed esclusione
sociale in Sardegna, CTE, Iglesias 2006, p. 57.
37
TAB. 3. Genere e appartenenza territoriale delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Diocesi
Ales-Terralba
Alghero-Bosa
Cagliari
Iglesias
Nuoro
Oristano
Ozieri
Sassari
Tempio-Ampurias
Totale
Persone ascoltate
Maschi Femmine
71
127
9
27
447
545
54
68
40
22
9
14
3
10
93
153
39
114
765
1.080
Totale
198
36
992
122
62
23
13
246
153
Maschi
35,9
25,0
45,1
44,3
64,5
39,1
23,1
37,8
25,5
%
Femmine
64,1
75,0
54,9
55,7
35,5
60,9
76,9
62,2
74,5
Totale
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
1.845
41,5
58,5
100,0
2.2. Né troppo giovani, né troppo vecchi: i dati sull’età delle persone ascoltate
Considerando complessivamente i dati forniti da tutti i Centri coinvolti
nell’indagine, si deve rilevare che in 115 casi non è stato possibile risalire all’età
delle persone ascoltate: una mancanza che testimonia la difficoltà in cui, non di
rado, incorrono gli operatori nel richiedere un’informazione abbastanza semplice
come la data di nascita. Ciononostante, i dati disponibili (corrispondenti al 93,8%
del totale) consentono di affermare che le classi d’età dei trentenni, quarantenni e
cinquantenni sono quelle associate al maggior numero di persone ascoltate (cfr. la
figura 1).
In altre parole, fra coloro di cui si conosce la data di nascita, circa il 73% è
costituito da persone che appartengono a delle classi d’età né troppo giovani e
neppure troppo vecchie, in ogni caso in età da lavoro. La figura 1, peraltro, consente di cogliere come la distribuzione per età vari in modo significativo rispetto
ad alcune classi e in rapporto al genere. È possibile rilevare, ad esempio, come la
componente maschile sia prevalente su quella femminile nella classe dei 3539enni e – ininterrottamente – nelle classi dai 45 ai 69 anni d’età. La componente
femminile, invece, se si eccettua la classe dei 15-19enni (in cui uomini e donne
grosso modo si equivalgono), prevale soprattutto nelle classi più giovani (dai 20 ai
34 anni), in quella dei 40-44enni e in quelle dei più anziani (dai 70 agli 84 anni).
38
TAB. 4. Classi d’età e genere delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Classi di età
Persone ascoltate
Maschi Femmine
0
0
1
0
0
1
14
17
26
44
35
80
75
127
92
122
106
155
98
120
87
120
76
85
54
50
33
39
12
23
8
16
2
7
3
1
0
1
0
0
722
1.008
43
72
0-4
5-9
10-14
15-19
20-24
25-29
30-34
35-39
40-44
45-49
50-54
55-59
60-64
65-69
70-74
75-79
80-84
85-89
90-94
95 e oltre
Totale
Dati mancanti
Totale
0
1
1
31
70
115
202
214
261
218
207
161
104
72
35
24
9
4
1
0
1.730
115
Maschi
0,0
0,1
0,0
1,9
3,6
4,8
10,4
12,7
14,7
13,6
12,0
10,5
7,5
4,6
1,7
1,1
0,3
0,4
0,0
0,0
100,0
%
Femmine
0,0
0,0
0,1
1,7
4,4
7,9
12,6
12,1
15,4
11,9
11,9
8,4
5,0
3,9
2,3
1,6
0,7
0,1
0,1
0,0
100,0
Totale
0,0
0,1
0,1
1,8
4,0
6,6
11,7
12,4
15,1
12,6
12,0
9,3
6,0
4,2
2,0
1,4
0,5
0,2
0,1
0,0
100,0
FIG. 1. Persone ascoltate per genere e classi d’età (valori percentuali)
39
90-94
85-89
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
Femmine
95 e oltre
Maschi
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
5-9
0-4
17
16
15
14
13
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
2.3. Disagio sociale e stato civile
Per quanto attiene lo stato civile, le due componenti quantitativamente più
importanti – come appare dalla tabella 5 – sono costituite rispettivamente da coloro che hanno dichiarato di essere sposati (39,9%) e dai non coniugati (31,9%).
Una quota ugualmente rilevante è costituita sia dalle persone separate legalmente
sia dai divorziati, in quanto comprendono complessivamente il 18,6% dei casi.
TAB. 5. Stato civile e genere delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Stato civile
Persone ascoltate
Celibe o nubile
Coniugato/a
Separato/a legalmente
Divorziato/a
Vedovo/a
Altro
Totale
%
Maschi
323
248
95
21
24
2
713
Femmine
233
447
157
50
137
6
1.030
Totale
556
695
252
71
161
8
1.743
52
50
102
Dati mancanti
Maschi
45,3
34,8
13,3
2,9
3,4
0,3
100,0
Femmine
22,6
43,4
15,2
4,9
13,3
0,6
100,0
Totale
31,9
39,9
14,5
4,1
9,2
0,5
100,0
Uno sguardo più approfondito dei dati, che permetta di porre in relazione
la variabile di genere con lo stato civile, fa emergere come la condizione prevalente della componente femminile sia quella riguardante le donne coniugate (43,4%).
Per quanto riguarda gli uomini, invece, il dato quantitativamente più rilevante è
quello relativo ai celibi (45,3%).
FIG. 2. Persone ascoltate per genere e stato civile (valori percentuali)
Altro
Vedovo/a
Divorziato/a
Separato/a
legalmente
Coniugato/a
Celibe o nubile
0,0
5,0
10,0 15,0 20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 45,0 50,0
Maschi
40
Femmine
Analogamente a quanto segnalato in occasione della precedente rilevazione, si può osservare come le donne prevalgano sugli uomini nel caso dei coniugati, dei divorziati, dei separati legalmente e dei vedovi. La componente femminile,
in altri termini, risulta inferiore rispetto a quella maschile soltanto nel caso in cui
le donne non si siano mai congiunte in matrimonio.
Per molti versi tale collegamento, come già indicato nel rapporto
precedente, suggerisce con buona evidenza «uno sforzo conoscitivo orientato ad
approfondire le correlazioni esistenti tra debolezza dei rapporti coniugali e
fragilità sociale, in cui la componente femminile appare nettamente più esposta
alle situazioni di vulnerabilità» 7. D’altra parte, questi elementi devono
necessariamente essere posti in relazione con la considerazione formulata in
precedenza, secondo cui le donne, per il ruolo tradizionalmente rivestito in seno
alla famiglia di appartenenza, si fanno spesso portavoce di situazioni di disagio e
vulnerabilità che riguardano altri membri se non proprio l’intero nucleo familiare.
2.4. Con chi vive chi chiede aiuto alla Caritas: i dati sul nucleo di convivenza
La maggior parte delle persone transitate nei Centri di ascolto nel corso del
2006 vive con i propri familiari o parenti (una quota pari al 61,6%). Come si evince dalla tabella 6, appare rilevante anche la quota di coloro che hanno dichiarato
di vivere da soli (pari al 21,1%). A livello nazionale la graduatoria è sostanzialmente analoga, sebbene le comparazioni dei dati percentuali registrino delle differenze sostanziali. L’ultimo rapporto Caritas-Zancan, infatti, pone al primo posto
coloro che vivono in nucleo con propri familiari o parenti, con una quota pari al
55,5%. Seguono coloro che vivono da soli (31,6%), le persone che vivono con
conoscenti o soggetti esterni alla propria famiglia (8,2%) e quanti dimorano presso istituti o comunità (3,3%) 8.
TAB. 6. Nucleo di convivenza delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Nucleo di convivenza
In nucleo con propri familiari o parenti
Solo/a
In nucleo con conoscenti o soggetti esterni alla propria famiglia *
Presso istituti, comunità, case di accoglienza, ecc.
Altro
Totale
Persone
ascoltate
1.055
362
213
77
7
1.714
%
61,6
21,1
12,4
4,5
0,4
100,0
Dati mancanti
131
* In particolare nel caso di coppie unite da un rapporto di convivenza fuori dal matrimonio
Il grafico seguente pone in evidenza l’ampiezza delle proporzioni circa le
diverse tipologie concernenti il nucleo di convivenza, confermando la preponde-
7
Ivi, p. 58.
Cfr. CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà?..., op.
cit., p. 214.
8
41
ranza delle persone che, durante i colloqui con gli operatori dei Centri di ascolto,
hanno dichiarato di vivere insieme ai propri familiari o parenti.
FIG. 3. Persone ascoltate per nucleo di convivenza (valori percentuali)
Presso istituti,
comunità
4,5%
Altro
0,4%
Con soggetti esterni
alla famiglia
12,4%
Solo/a
21,1%
Con propri familiari o
parenti
61,6%
Approfondendo l’analisi a livello diocesano, riguardo al rapporto tra le
persone ascoltate e i relativi nuclei di convivenza, risulta che la Caritas di Cagliari
detiene i valori più elevati rispetto a tutte le tipologie. In particolare, a questa
Caritas diocesana è associato ben l’85,7% dei casi registrati a livello regionale riguardo a coloro che hanno dichiarato di vivere presso istituti, comunità e case di
accoglienza.
2.5. Dove vive chi chiede aiuto alla Caritas: i dati sulla condizione abitativa
Come per altri tipi di informazione, il metodo di classificazione adottato
per quanto attiene la condizione abitativa, il quale tiene conto unicamente della
disponibilità o indisponibilità di un domicilio stabile, riflette la particolare difficoltà degli operatori dei Centri di ascolto a cogliere con una certa precisione il
grado di precarietà abitativa di una persona.
Dalla tabella seguente si comprende come, sebbene la maggior parte delle
persone ascoltate viva in un domicilio proprio (1.480, pari all’86,3% del totale),
siano non poche le persone, in particolare di sesso maschile, risultate senza un
domicilio stabile o in una situazione di precarietà abitativa (circa una persona su
dieci). Nel considerare tali dati, come si è precisato opportunamente nel rapporto
Caritas-Zancan, non si deve trascurare il fatto che essi contemplano «sia persone
che vivono la condizione di “senza dimora” secondo i canoni normalmente considerati (oltre alla mancanza di una dimora stabile, anche l’assenza di reti informali
42
di sostegno, precarie condizioni materiali di esistenza, ecc.), sia persone che vivono altre situazioni di grave disagio abitativo, non necessariamente in modo stabile
(es: gli immigrati che si trovano temporaneamente nella zona del Centro di ascolto
per lavoro stagionale o che sono appena arrivati in Italia), ma che riescono comunque ad avere una sistemazione alloggiativa anche se temporanea e/o precaria
[…]» 9.
TAB. 7. Dimora abituale delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Dimora abituale
Ha un domicilio
È senza dimora
Altro
Totale
Dati mancanti
Persone ascoltate
%
Maschi
528
134
34
696
Femmine
952
49
17
1.018
Totale
1.480
183
51
1.714
68
63
131
Maschi
75,9
19,2
4,9
100,0
Femmine
93,5
4,8
1,7
100,0
Totale
86,3
10,7
3,0
100,0
Se si va affondo nelle disaggregazioni dei dati a livello diocesano è possibile porre in luce come, in rapporto al dato regionale, la percentuale più elevata di
persone che ha dichiarato di essere senza dimora sia da associare alla Caritas diocesana di Cagliari (pari al 64,5% del totale). Analogamente a quanto segnalato in
occasione del precedente rapporto rispetto a quest’ultima diocesi, si deve tener
presente che l’inservibilità di circa il 14% dei dati (tra quelli non specificati e/o
facenti riferimento al campo “altro”), impedisce di precisare ulteriormente un fenomeno che, «per lo meno a livello inferenziale, suggerisce delle cifre molto più
elevate riguardo alla condizione di chi non ha un domicilio stabile: in primo luogo
a motivo della cronica difficoltà abitativa della città più popolosa della Sardegna
(nonché capoluogo di Regione); ed in secondo luogo perché proprio sulla Provincia di Cagliari gravita la quota più consistente di immigrati dell’Isola [pari al 37%,
secondo le stime più recenti del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes], i quali, soprattutto nella fase iniziale del soggiorno, sono notoriamente costretti ad affrontare gravi problematiche di disagio abitativo» 10.
2.6. Meno istruiti, più vulnerabili: i dati relativi al livello di istruzione
Per quanto attiene il livello di istruzione va segnalata una quota rilevante
di dati mancanti, riguardanti il 37,7% delle persone ascoltate 11. D’altra parte il
grado di istruzione, così come altri particolari tipi di informazione, costituisce un
dato non sempre ricavabile in occasione dell’ascolto da parte degli operatori, segnatamente nella fase dei primi colloqui.
9
Ivi, pp. 215-216.
DELEGAZIONE REGIONALE CARITAS DELLA SARDEGNA, Osservazione dei percorsi di povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna…, op. cit., p. 63. Sul tema della precarietà
abitativa degli stranieri residenti a Cagliari si tornerà nel paragrafo apposito sui bisogni degli immigrati.
11
Si tratta di un’entità proporzionalmente inferiore rispetto a quella registrata in occasione
della precedente rilevazione (pari al 43,4%).
10
43
Utilizzando le informazioni disponibili si può affermare che il 45,4% delle
persone risulta in possesso della licenza media inferiore; il 26,8% ha conseguito la
licenza elementare; il 9,1% è in possesso della licenza media superiore; il 7% ha
ottenuto il diploma professionale; il 4,5% non ha alcun titolo; il 4% è in possesso
della laurea e il 2,6% risulta analfabeta. Infine, sia nel caso del diploma universitario che di altri titoli di studio non meglio precisati, il dato di riferimento è dello
0,3%.
Nel complesso è possibile rilevare come poco meno dell’80% delle persone che si sono rivolte ai Centri di ascolto possiede un livello di istruzione basso o
medio-basso 12, non ha conseguito alcun titolo di studio o è analfabeta; il che conferma, con tutta evidenza, la strettissima correlazione esistente fra un livello non
sufficiente di scolarizzazione e una maggiore esposizione ai fenomeni di vulnerabilità sociale.
Il rapporto tra il livello di istruzione e il genere consente di sviluppare ulteriori elementi di riflessione. A questo proposito, dalla tabella 8 è possibile rilevare
come alle donne sia associata la quota più consistente di coloro che risultano in
possesso di un livello di istruzione medio-alto (il 22,3% rispetto al 18,4% degli
uomini); per converso, gli uomini detengono prevalentemente un livello di istruzione medio-basso (l’81,5% rispetto al 77,7% delle donne).
TAB. 8. Livello di istruzione e genere delle persone ascoltate (valori assoluti e percentuali)
Livello di istruzione
Analfabeta
Nessun titolo
Licenza elementare
Licenza media inferiore
Diploma professionale
Licenza media superiore
Diploma universitario
Laurea
Altro
Totale
Dati mancanti
Persone ascoltate
Maschi Femmine
Totale
14
16
30
21
31
52
136
172
308
235
287
522
30
51
81
43
62
105
1
2
3
17
29
46
1
2
3
498
652
1.150
267
428
695
Maschi
2,8
4,2
27,3
47,2
6,0
8,6
0,2
3,4
0,2
100,0
%
Femmine
2,5
4,8
26,4
44,0
7,8
9,5
0,3
4,4
0,3
100,0
Totale
2,6
4,5
26,8
45,4
7,0
9,1
0,3
4,0
0,3
100,0
53,6
65,6
60,4
Ulteriori elementi di analisi possono essere colti dal raffronto tra il livello
di istruzione, il genere e l’età delle persone ascoltate. In questo caso i dati disponibili (attraverso cui è possibile comparare le tre variabili), i quali fanno riferimento a 1.109 persone ascoltate, pongono in luce come le persone risultate analfabete sono soprattutto sessantenni di sesso maschile. La maggior parte di coloro
che hanno dichiarato di possedere la licenza elementare sono uomini di cinquanta/sessant'anni d’età, mentre sono le donne quarantenni e cinquantenni a rappre12
Anche in questa rilevazione facciamo riferimento alla classificazione già adottata nei rapporti nazionali Caritas-Zancan, secondo cui si deve associare ad un livello di istruzione basso il
possesso della sola licenza elementare; a quello medio-basso la licenza media inferiore; al livello
medio-alto la licenza media superiore e, infine, al livello alto il diploma di laurea, la laurea specialistica e le specializzazioni post lauream.
44
sentare la maggior parte delle persone ascoltate che possiedono la licenza media
inferiore. Sono sempre donne coloro che possiedono in prevalenza il diploma professionale (soprattutto trentenni e quarantenni), la licenza media superiore (in particolare quarantenni) e un titolo di studio universitario (soprattutto cinquantenni).
2.7. Disagio sociale e condizione professionale
In occasione della precedente rilevazione, per mezzo della quale sono state
esaminate, in un apposita sezione, le percezioni degli operatori dei Centri di ascolto per quanto attiene le povertà emergenti e prevalenti, si era sottolineata in modo
particolare la «difficile condizione che vivono le persone senza lavoro o con una
professione precaria; così pure [la] situazione di quanti, pur avendo un lavoro stabile o una pensione maturata dopo anni di faticoso lavoro stentano ad arrivare alla
fine del mese» 13, soprattutto in questi ultimi anni contrassegnati dal rincaro dei
generi di prima necessità e più in generale dall’aumento del costo della vita, anche
a seguito dell’introduzione dell’euro.
I dati dei Centri di ascolto relativi all’anno 2006 confermano sostanzialmente tale scenario. La maggioranza delle persone ascoltate, infatti, ha dichiarato
di trovarsi in una condizione di disoccupazione (60,1%). Oltre a ciò, come viene
riscontrato anche a livello nazionale, il passaggio nei Centri di ascolto di una percentuale significativa di pensionati (11,4%) e di persone con un’occupazione professionale più o meno stabile (8,5%), sta ad indicare la fatica che si fa nel far fronte ai bisogni quotidiani, anche laddove esiste una qualche fonte di reddito.
La figura 4 e la tabella 9, attraverso cui è possibile valutare adeguatamente
le proporzioni relative alle differenti condizioni professionali, confermano quanto
è stato esposto precedentemente.
TAB. 9. Condizione professionale e genere delle persone ascoltate
Condizione professionale
Disoccupato/a
Casalingo/a
Pensionato/a
Occupato/a
Altro
Inabile parziale o totale
Studente/essa
Totale
Dati mancanti
Persone ascoltate
Maschi Femmine
490
540
2
231
96
100
68
77
45
25
16
11
5
7
722
991
63
69
Totale
1.030
233
196
145
70
27
12
1.713
132
Maschi
67,9
0,3
13,3
9,4
6,2
2,2
0,7
100,0
%
Femmine
54,5
23,3
10,1
7,8
2,5
1,1
0,7
100,0
Totale
60,1
13,6
11,4
8,5
4,1
1,6
0,7
100,0
La tabella, in particolare, consente di porre in relazione la diversa incidenza della condizione professionale rispetto al genere. Esaminando i dati nel dettaglio, infatti, appare chiaro che le persone disoccupate che si rivolgono ai Centri di
13
DELEGAZIONE REGIONALE CARITAS DELLA SARDEGNA, Osservazione dei percorsi di povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna…, op. cit., p. 66.
45
ascolto sono soprattutto donne (una componente che da sola costituisce oltre il
31% del totale delle persone di cui si conosce la condizione professionale). Nel
caso della componente maschile, invece, la quota è pari al 28,6%.
FIG. 4. Condizione professionale delle persone ascoltate (valori percentuali)
Inabile parziale o
totale
1,6%
Occupato/a
8,5%
Studente/essa
0,7%
Altro
4,1%
Pensionato/a
11,4%
Disoccupato/a
60,1%
Casalingo/a
13,6%
3. I bisogni, le richieste e gli interventi registrati nei Centri di ascolto
Ribadendo quanto già scritto in occasione della rilevazione precedente, col
termine “bisogno” si fa riferimento ad una o più situazioni di difficoltà in cui una
persona (o un nucleo familiare) si trova a dover far fronte a causa della mancanza
di qualcosa (mezzi, risorse, ecc.) o qualcuno (relazioni, rapporti, legami, ecc.).
Una definizione di questo tipo, secondo quanto è stato sottolineato recentemente
dal rapporto nazionale Caritas-Zancan, pone in evidenza alcune caratteristiche di
tale concetto. Le situazioni di difficoltà, infatti, possono nascere «da situazioni
occasionali (ad esempio la perdita di un familiare), può essere cronica o manifestarsi in modo continuativo nel tempo (ad esempio una malattia o forme di dipendenza da sostanze), può alternarsi a momenti in cui la persona fuoriesce dallo stato di bisogno. La descrizione dei bisogni – prosegue il rapporto – rappresenta la
«fotografia» delle difficoltà di una persona in un determinato momento: può subire modifiche, ma può anche essere costante per lunghi periodi di tempo: più grave
è la condizione di emarginazione o esclusione della persona, più difficili sono i
percorsi da intraprendere per aiutarla a fuoriuscire dal bisogno o, meglio, dalla
multidimensionalità dei bisogni (spesso sono tra di loro concatenati e si manife46
stano contemporaneamente, o in tempi successivi, sovrapponendosi nella storia di
vita della persona)» 14. Si tratta evidentemente di un’accezione che pone in luce
uno stato di minor benessere della persona – più o meno marcato, a seconda
dell’entità oggettiva del bisogno ma anche della percezione individuale del bisognoso –, con ripercussioni significative nella sfera della sua libertà, a livello sia
personale che familiare. Un’accezione del termine bisogno che non restringe il
campo esclusivamente alla sfera economica, non ancorandolo unicamente alla cosiddetta “domanda effettiva”, ovverosia alla richiesta di determinati beni e servizi
vincolata a un corrispondente potere d’acquisto.
Generalmente, come prima cosa, chi si rivolge ad un Centro di ascolto della Caritas formula esplicitamente una o più richieste (il pagamento della bolletta
del gas o del telefono, la possibilità di avvalersi di un servizio di mensa, del vestiario, dei sussidi economici, ecc.). Ciascuna richiesta, in realtà, è portatrice di
uno o più bisogni (latenti o manifesti) che limitano oggettivamente la sfera della
libertà del richiedente (il non poter utilizzare il gas per cucinare o il non potersi
nutrire e/o vestire adeguatamente, ecc.). Tali necessità devono essere opportunamente valutate dagli operatori fino a risalire alle cause primigenie. Per tale ragione, nell’esplorare le storie di vita delle persone che si rivolgono alla Caritas, si
tenta di non rimanere ancorati burocraticamente alle richieste ma di porre in luce,
laddove possibile, la multidimensionalità dei bisogni espressi più o meno esplicitamente dalle persone ascoltate.
Oltre a ciò è necessario precisare che i dati relativi ai bisogni devono essere «interpretati in modo indicativo, perché la loro rilevazione può dipendere in
qualche misura dal grado di conoscenza dei reali problemi delle persone al di là
delle richieste formulate, dal grado di confidenza raggiunto tra operatore e utente
o dalla sensibilità dell’operatore stesso». Per questo motivo, alla luce delle sperimentazioni realizzate fino ad oggi nei vari Centri di ascolto, si può asserire che i
dati registrati in occasione dei colloqui, «anche se possono essere affetti da qualche distorsione, offrono uno spaccato piuttosto verosimile dei bisogni reali delle
persone» 15.
La tabella 10 permette di osservare i bisogni maggiormente rilevati durante
i colloqui nei Centri di ascolto nel corso del 2006. Dalla lettura dei dati esposti è
facile considerare come i problemi di natura economica e di occupazione coprono
complessivamente più della metà delle necessità registrate dagli operatori. Ugualmente importanti sono le percentuali riguardanti i problemi familiari (11,6%),
nonché le problematiche abitative (8,1%) e quelle relative alle condizioni di salute
(7,1%). Seguono i dati relativi ad altri problemi non meglio precisati (5,1%) e ai
problemi legati all’immigrazione (5,0%). Chiudono la graduatoria delle problematiche segnalate dagli operatori dei Centri di ascolto: le dipendenze (3,1%), i problemi legati alla detenzione (2,0%), i problemi di istruzione (1,3%) e le disabilità
(1,2%).
14
Cfr. CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà?..., op.
cit., pp. 216-217.
15
Ivi, p. 217.
47
TAB. 10. Macro-voci dei bisogni delle persone ascoltate (valori percentuali)
Tipologie di bisogni
Problemi economici
Problemi di occupazione/lavoro
Problemi familiari
Problematiche abitative
Problemi di salute
Altri problemi
Problemi legati all’immigrazione
Dipendenze
Problemi di detenzione e giustizia
Problemi di istruzione
Disabilità
Totale
%
32,5
22,9
11,6
8,1
7,1
5,1
5,0
3,1
2,0
1,3
1,2
100,0
L’analisi dettagliata delle voci pone in evidenza come le povertà e i problemi economici, al primo posto della graduatoria dei bisogni, dipendano essenzialmente dall’insufficienza di reddito rispetto alle normali esigenze della vita
quotidiana (scuola, casa, alimentazione, spese sanitarie), il che significa una difficoltà cronica a soddisfare con il reddito proprio e/o della famiglia bisogni di carattere ordinario. In questa prima categoria si considerano pure le persone (e indirettamente i rispettivi nuclei familiari) che risultano prive di qualsiasi fonte di reddito. Sebbene in misura minore, in questa stessa categoria si collocano anche quanti
manifestano delle difficoltà a sostenere spese improvvise dovute a malattie, decessi, processi, ecc., nonché coloro che si trovano in situazione di difficoltà economica per incapacità di gestire in modo adeguato il proprio reddito.
Per quanto concerne la seconda tipologia (problemi di occupazione/lavoro), questa corrisponde in gran parte con l’inoccupazione e la disoccupazione, contemplando i bisogni manifestati sia da coloro che hanno dichiarato di
essere in cerca della prima occupazione sia da quanti sono alla ricerca di un nuovo
posto di lavoro perso in precedenza. In questa stessa categoria sono stati rilevati i
bisogni delle persone sottoccupate, che lavorano in nero o che si trovano in mobilità.
Tra i principali problemi familiari registrati dagli operatori dei Centri di
ascolto si segnalano, in particolare le difficoltà derivanti dal divorzio o dalle separazioni tra coppie conviventi o tra coniugi (con o senza intervento giudiziario).
Anche se in misura minore, in questa categoria sono stati registrati i bisogni di
quanti sono stati allontanati in modo coatto dalla propria famiglia o che hanno
vissuto particolari situazioni conflittuali all’interno del contesto familiare. Come
nel passato, anche nel corso del 2006 è risultata rilevante la componente di donne
non coniugate con a carico uno o più figli.
Il rilevamento dei bisogni da parte degli operatori dei Centri di ascolto fa
seguito, generalmente, alla registrazione delle richieste formulate dalle persone
che a loro si rivolgono. L’approccio metodologico del protocollo quantitativo del
progetto rete nazionale suggerisce, in proposito, che le richieste debbano essere
sempre considerate come «ciò che la persona domanda esplicitamente durante i
colloqui con l’operatore del Centro di ascolto. Non sempre la richiesta coincide
48
con il bisogno rilevato, in parte perché essa è relativa alle aspettative che la persona nutre verso il centro stesso («cosa riesco ad ottenere»), in parte perché la persona può non avere piena consapevolezza del proprio disagio o avere difficoltà
nell’affrontarlo. In questi ultimi casi diventa particolarmente importante l’opera
del Centro di ascolto, ossia l’accoglienza tramite l’azione dell’ascolto e, laddove è
possibile, la successiva presa in carico e l’accompagnamento della persona nella
creazione di un progetto di uscita dalla situazione di disagio. Si tratta comunque di
dati tendenzialmente più oggettivi rispetto ai bisogni, perché riferiti a richieste
formulate esplicitamente dagli utenti dei Centri» 16.
TAB. 11. Macro-voci delle richieste e degli interventi rilevati (valori percentuali)
Tipologie di richieste/interventi
Beni e/o servizi materiali
Sussidi economici
Lavoro
Coinvolgimenti (di enti e/o parrocchie)
Orientamento
Alloggio
Sanità
Consulenza professionale
Sostegno socio-assistenziale
Scuola-Istruzione
Totale
Richieste
Interventi
52,9
17,9
11,6
4,0
4,0
3,7
3,2
1,5
1,0
0,2
100,0
63,8
13,1
1,1
6,7
9,3
0,9
2,5
1,4
1,1
0,1
100,0
Relativamente al periodo esaminato dalla ricerca, nei Centri coinvolti nel
rilevamento sono state realizzate complessivamente 5.719 registrazioni di richieste di aiuto. È assai interessante porre in rilevo come, attraverso l’esame dei dati
(cfr. tab. 11), balzi subito agli occhi una significativa preponderanza di richieste di
beni e/o servizi materiali (pari a più della metà di tutte le richieste), in modo particolare di viveri. Seguono le richieste di sussidi economici (17,9%)17 e, in misura
inferiore, di occupazione (11,6%), soprattutto di lavoro a tempo pieno. Le richieste di coinvolgimento, soprattutto di enti pubblici e parrocchie, ed orientamento ai
servizi socio-assistenziali, sono state effettuate in uguale proporzione (4,0%). Infine, è altrettanto interessante segnalare le richieste di alloggio (3,7%), segnatamente di pronta e prima accoglienza, nonché quelle di natura sanitaria (3,2%), in
modo particolare di farmaci.
A fronte delle 5.719 registrazioni di richieste d’aiuto, i dati dei Centri di
ascolto hanno permesso di rilevare 5.597 registrazioni di intervento. Così come è
stato indicato nel caso dell’ultimo rapporto nazionale, al di là dell’ascolto semplice o con discernimento e progetto delle persone in difficoltà, il tipo di intervento
posto in essere più frequentemente dagli operatori a fronte dei bisogni, e soprattutto delle richieste, è la fornitura di beni e servizi materiali (63,8%), peraltro in mi16
Ivi, p. 219.
Trattasi essenzialmente di erogazioni dirette di somme di denaro, per svariati motivi, senza alcuna pretesa di restituzione.
17
49
sura superiore rispetto alle stesse richieste espresse in modo esplicito dalle persone: anche nel caso degli interventi si tratta soprattutto di viveri.
Nella serie degli interventi seguono: l’erogazione di sussidi economici
(13,1%), in particolare per il pagamento delle bollette per le principali utenze;
l’orientamento (9,3%), in particolare agli sportelli di assistenza sociale, agli ambulatori e ad altre strutture sociosanitarie; il coinvolgimento di altri soggetti
(6,7%), in particolare di parrocchie e gruppi parrocchiali; l’offerta (diretta o indiretta) di farmaci (2,5%); la consulenza legale (1,4%) e – in misura assai contenuta
– il lavoro 18 e il supporto a persone sole o in stato di bisogno (1,1%), oltre che il
sostegno e l’accompagnamento scolastico (0,1%).
4. Alcuni elementi di vulnerabilità degli immigrati rivoltisi ai Centri di ascolto
Nel capitolo regionale dedicato alla Sardegna, dell’ultimo Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, si è avuto modo di sottolineare come
l’immigrazione costituisca «una sorta di cartina di tornasole che rende più evidenti i punti di forza e i nodi problematici di una determinata comunità». Per questa
ragione – prosegue il Dossier –, «in un contesto di sostanziale debolezza del mercato del lavoro e delle reti di welfare, come nel caso della Sardegna, il confronto
con i bisogni degli immigrati rischia di dilatare ulteriormente le non poche zone
d’ombra già esistenti» 19.
L’indagine effettuata nel corso del 2006 ha permesso di monitorare anche i
bisogni e le richieste degli immigrati. Peraltro, dei 388 cittadini stranieri che sono
transitati nei Centri di ascolto delle Caritas sarde non è stato possibile risalire alla
nazionalità soltanto in 12 casi. La figura 5 consente di rilevare una netta preponderanza delle persone provenienti dal continente europeo (pari al 75%, considerando le persone provenienti sia dall’Europa dell’Est sia dai Paesi appartenenti
all’Unione Europea a 27), anche se la componente africana risulta comunque significativa (19%).
L’analisi dettagliata circa i Paesi d’origine, come si ricava dalla tabella 12,
pone in luce la netta preponderanza delle persone provenienti dalla Romania
(34,8%), in particolare donne. Rilevante è anche la componente femminile del secondo gruppo nazionale rilevato, vale a dire quello ucraino (basti pensare che su
76 persone appartenenti a questo gruppo ben 68 erano donne), e del terzo (31
donne su 37 persone provenienti dalla Russia). A questo proposito va rilevato che,
così come per gli italiani, fra gli stranieri sono soprattutto le donne a chiedere di
essere ascoltate e sostenute dagli operatori dei Centri di ascolto della Caritas.
18
Nel caso del lavoro è da ribadire quanto è stato segnalato nell’ultimo rapporto CaritasZancan, nel quale si evidenzia il fatto che tale tipo di interventi «è di gran lunga inferiore alle richieste di lavoro formulate dagli utenti (soprattutto stranieri), anche perché i Centri di ascolto non
sono né attrezzati né, soprattutto, abilitati alla fornitura diretta o indiretta di lavoro» (cfr. CARITAS
ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà?..., op. cit., p. 221).
19
R. CALLIA, Sardegna. Rapporto Immigrazione 2007, in “Dossier Statistico Immigrazione
Caritas/Migrantes”, Roma 2007, pp. 447-448.
50
FIG. 5. Cittadini stranieri per area geografica di provenienza (valori percentuali)
America Latina e
Caraibi
2%
Asia e Medio Oriente
3%
Stati Uniti
1%
Africa
19%
UE a 27
39%
Europa dell'Est
36%
TAB. 12. Paesi di provenienza delle persone straniere ascoltate (valori percentuali)
Paesi di provenienza
Romania
Ucraina
Russia
Marocco
Senegal
Tunisia
Bielorussia
Moldavia
Bosnia-Erzegovina
Ecuador
Nigeria
25 Paesi con <1%
Totale
%
34,8
20,2
9,8
9,6
4,3
2,4
1,6
1,3
1,1
1,1
1,1
12,7
100,0
Dati disponibili relativi a 376 su 388 immigrati ascoltati
51
Riguardo ai primi cinque gruppi nazionali, stando ai dati forniti dai Centri
di ascolto, è possibile affermare che nel caso dei Romeni sono soprattutto i trentenni (sia uomini che donne), per lo più coniugati e con un titolo di studio equivalente alla licenza media inferiore, a chiedere sostegno alla Caritas. Le persone
provenienti dall’Ucraina e dalla Russia, invece, sono prevalentemente quarantenni, generalmente coniugate e per lo più dotate di un livello di istruzione medioalto (coincidente con la licenza media superiore o con la laurea). Infine, gli immigrati marocchini e senegalesi che si rivolgono alla Caritas sono soprattutto
quarantenni (per lo più coniugati), in prevalenza con un titolo di studio mediobasso. Utilizzando le informazioni disponibili emerge che ben più della metà delle persone ascoltate (per la precisione il 61,6%) è risultata non in regola con la
normativa italiana concernente il soggiorno delle persone provenienti da Paesi
stranieri. In particolare, il 48% dei cittadini romeni che si sono rivolti ai Centri di
ascolto sono risultati sprovvisti del permesso di soggiorno 20. Irregolarità con proporzioni inferiori, ma ugualmente rilevanti, sono state registrate anche in relazione
ai cittadini ucraini (29,1%), russi (12%) e marocchini (4%).
Riguardo alla distribuzione degli ascolti per diocesi, la tabella 13 consente
di rilevare come siano soprattutto i Centri di ascolto delle Caritas diocesane di
Cagliari (con oltre il 50% del totale), Sassari e Tempio-Ampurias ad aver ricevuto
il maggior numero di richieste da parte di cittadini stranieri. Dalla stessa tabella,
peraltro, si evince chiaramente come a livello regionale sia la componente femminile a prevalere su quella maschile.
TAB. 13. Distribuzione per diocesi e genere dei cittadini stranieri ascoltati (valori percentuali)
Diocesi
Ales-Terralba
Alghero-Bosa
Cagliari
Iglesias
Nuoro
Oristano
Ozieri
Sassari
Tempio-Ampurias
Totale
Cittadini stranieri ascoltati
Maschi
Femmine
60,0
40,0
33,3
66,7
40,3
59,7
14,3
85,7
53,8
46,2
50,0
50,0
25,0
75,0
36,5
63,5
24,2
75,8
37,2
62,8
% sul totale regionale
1,3
0,8
56,2
1,8
3,3
1,0
1,0
18,8
15,8
100,0
Dati relativi alla totalità degli immigrati ascoltati
Per quanto concerne l’analisi dei bisogni rilevati dagli operatori, lo scenario riguardante gli stranieri mantiene solo alcuni elementi in comune con quello
relativo agli italiani, discostandosi soprattutto in ordine alle tipiche problematiche
legate alla condizione degli immigrati. In questo senso si spiega la graduatoria
delle voci contenute nella tabella 14, la quale pone in cima alle necessità rilevate i
20
Va ricordato che al momento della rilevazione la Romania non era ancora diventata ufficialmente paese membro dell’Unione Europea.
52
problemi economici (associati alla mancanza totale di reddito) e quelli legati
all’occupazione, riservando circa il 20% alle problematiche associate prevalentemente all’irregolarità giuridica in materia di soggiorno. Altrettanto rilevante, peraltro, è la percentuale dei bisogni riguardanti l’abitazione (11,3%), con particolare riferimento alla mancanza di casa. Al riguardo, nel Dossier Statistico Immigrazione si è già avuto il modo di rilevare che, a causa del problema abitativo, «più di
7 immigrati su 100 che vivono nel Mezzogiorno risulta essere senza dimora, per
non parlare dei tanti immigrati che vivono in abitazioni fatiscenti e malsane. Una
realtà per nulla distante da quella descritta dai quotidiani dell’isola, come ad esempio La Nuova Sardegna del 9 agosto 2007, in cui in un articolo dal titolo
“Chiuso il ghetto degli immigrati” venivano descritte le condizioni disumane in
cui vivevano diversi immigrati in un appartamento di Olbia, affittato in nero da un
abitante del luogo» 21.
TAB. 14. Macro-voci dei bisogni dei cittadini stranieri ascoltati (valori percentuali)
Tipologie di bisogni
Problemi economici
Problemi di occupazione/lavoro
Problemi legati all’immigrazione
Problematiche abitative
Problemi familiari
Problemi di istruzione
Problemi di salute
Altri problemi
Problemi di detenzione e giustizia
Dipendenze
Disabilità
Totale
%
26,7
26,6
20,9
11,3
4,1
3,9
3,3
1,6
0,7
0,5
0,4
100,0
In conclusione, ci soffermiamo nell’analizzare i dati riguardanti le richieste
effettuate dagli stranieri e i relativi interventi posti in essere dagli operatori dei
Centri di ascolto. Al riguardo, la tabella 15 pone in luce la concentrazione delle
richieste su tre versanti prevalenti: i beni e/o servizi materiali (44,1%), fra cui, soprattutto, il servizio di mensa; il lavoro a tempo pieno (25,4%) e le erogazioni di
denaro (11,9%).
Oltre all’ascolto, garantito in ogni caso a chiunque, circa la metà degli interventi offerti in favore degli stranieri da parte dei Centri di ascolto ha riguardato
il conferimento di beni e/o servizi materiali, in particolare assicurando il servizio
di mensa. A parte ciò, gli interventi più consistenti in termini di frequenza si sono
registrati nel fornire orientamento per problemi di lavoro e/o pensionistici (17,7%)
e nell’erogazione di sussidi economici senza alcuna pretesa di restituzione
(12,1%).
21
R. CALLIA, Sardegna. Rapporto Immigrazione 2007, op. cit., p. 448. Molto interessante in
proposito l’inchiesta condotta su Cagliari dal quotidiano L’Unione Sarda, pubblicata nell’edizione
del 15 giugno 2007, dal titolo “Viaggio negli alloggi degli immigrati asiatici che abitano nei quartieri storici”.
53
TAB. 15. Macro-voci delle richieste dei cittadini stranieri e degli interventi (valori percentuali)
Tipologie di richieste/interventi
Beni e/o servizi materiali
Lavoro
Sussidi economici
Alloggio
Orientamento
Coinvolgimenti (di enti e/o parrocchie)
Sanità
Consulenza professionale
Scuola-Istruzione
Sostegno socio-assistenziale
Altri tipi di richieste/interventi
Totale
54
Richieste
Interventi
44,1
25,4
11,9
5,8
4,1
3,6
2,5
1,7
0,4
0,3
0,2
100,0
50,9
3,5
12,1
3,1
17,7
7,5
2,3
1,9
0,5
0,5
0,0
100,0
CAPITOLO TERZO
FUORI DAL LABIRINTO.
I PERCORSI DI USCITA DALL’ESCLUSIONE NELLE
STORIE DI VITA DEI PROTAGONISTI
1. Le ragioni di fondo circa lo studio riguardante i percorsi di uscita dal disagio
Nel capitolo precedente sono stati esaminati analiticamente i dati registrati
dagli operatori dei Centri di ascolto, riguardanti le persone che hanno richiesto sostegno nel corso del 2006. In particolare, i dati sulle principali caratteristiche anagrafiche e socioeconomiche, nonché quelli concernenti i bisogni, le richieste e gli
interventi, hanno permesso di offrire uno spaccato significativo circa gli aspetti
quantitativi della fragilità sociale delle persone, ponendo in luce molteplici elementi caratterizzanti il profilo di coloro che, stando alla metafora adottata nel
suddetto capitolo, si sono trovati (o si trovano ancora) a percorrere il “labirinto”
del disagio.
Fino ad oggi una tale metodologia, fatta propria dalla maggior parte dei
Centri di ascolto delle diocesi italiane, ha permesso utilmente di studiare nel dettaglio i percorsi di entrata nelle situazioni di disagio (spesso delle vere e proprie
“carriere di povertà”) 1, oltre che gli elementi di struttura della domanda sociale e
la capacità di presa in carico ed orientamento da parte della Caritas, attraverso
l’ascolto e l’osservazione effettuati dai propri operatori.
Ciononostante, se un tale approccio permette di tracciare un profilo quantitativo delle condizioni di vulnerabilità in atto, la stessa metodologia non consente
di esaminare in modo adeguato la serie degli elementi che sta alla base dei percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio, la quale non può essere rilevata limitando l’osservazione alla mera situazione registrata durante gli ascolti. È
soprattutto l’insufficienza delle informazioni qualitative sui percorsi di uscita, non
rintracciabili direttamente nel patrimonio conoscitivo acquisito attraverso i dati
quantitativi, che impedisce di sviluppare un’adeguata riflessione sull’efficacia degli interventi posti in essere dalle Caritas e più in generale dagli enti che operano
nella rete dei servizi socio-assistenziali.
In questa prospettiva, al fine di porre in maggiore evidenza tali processi, è
parso importante tracciare un disegno di ricerca qualitativo che allo stesso tempo
fosse in grado di sondare le strategie messe in campo dalle Caritas e dalle reti di
assistenza nel garantire un servizio che non sia di mera “riduzione del danno” ma
di autentica promozione di percorsi di autonomia e, se possibile, di uscita dal “labirinto” del disagio.
1
Sulle c.d. “carriere di povertà” si è ampiamente concentrata la riflessione del primo Rapporto: cfr. DELEGAZIONE REGIONALE CARITAS DELLA SARDEGNA, Osservazione dei percorsi di
povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna..., op. cit.
55
D’altra parte, è ragionevole considerare come solo attraverso una lettura
incrociata degli elementi proposti in questo capitolo con le percezioni emerse nei
vari contesti locali, in occasione dei focus group realizzati con i testimoni privilegiati 2, sia possibile recepire una riflessione più ampia sulle possibili strade da
percorrere, al fine di favorire l’attenuarsi e la scomparsa definitiva delle situazioni
più acute di disagio sociale.
2. Alcuni aspetti di metodo
Grazie allo strumento dell’intervista semistrutturata è stato possibile ricomporre i vissuti problematici delle persone ascoltate e descrivere i percorsi di uscita
dalle situazioni acute di disagio; il tutto attraverso la minuziosa ricostruzione delle
singole “storie di vita” delle persone intervistate. Nello specifico, lo studio dei
percorsi di uscita dal cosiddetto “labirinto” è stato effettuato per mezzo
dell’ascolto diretto di 19 persone, le quali sono state sostenute in passato, direttamente o indirettamente, da alcune Caritas della Sardegna. Si tratta, in particolare,
di 16 italiani e 3 stranieri, secondo la distribuzione illustrata nella tabella 1.
Ciascun intervistatore aveva il compito di individuare ed intervistare uno o
più soggetti in possesso delle seguenti caratteristiche:
-
persone uscite più o meno definitivamente dalle situazioni acute di disagio, vale a dire coloro che non presentavano più delle necessità urgenti di
intervento strutturato da parte della Caritas;
-
persone di nazionalità italiana o straniera, purché sostenute in passato dai
Centri di ascolto Caritas e che da almeno due anni non si erano più rivolte
agli stessi. Nel caso delle persone di nazionalità straniera si è data priorità
alle persone da lungo tempo residenti, evitando di intervistare stranieri appena giunti in Italia, rivoltisi ai Centri di ascolto per esigenze legate alla
fase di prima accoglienza.
Il piano di distribuzione delle diciannove interviste ha coinvolto le diocesi
di Ales-Terralba (1 intervista), Alghero-Bosa (3), Cagliari (4), Iglesias (2), Ozieri
(5), Sassari (1) e Tempio-Ampurias (3), permettendo di esplorare un buon numero
di tipologie di disagio e differenti percorsi di uscita. Le interviste sono state realizzate dai referenti locali del progetto, per mezzo di una mappa contenente le
principali aree tematiche esplorate durante i colloqui (vedi tab. 2).
Come rilevato in precedenza, l’impiego di un approccio qualitativo attraverso lo studio delle “storie di vita” ha permesso di cogliere molteplici aspetti,
non rintracciabili immediatamente attraverso il solo approccio quantitativo, riguardanti sia i processi di indebolimento personale e familiare sia gli elementi
(umani e strutturali) che hanno favorito l’avvio di percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio.
2
56
Vedasi, in proposito, il capitolo quarto sui modelli di uscita dalla marginalità sociale.
TAB. 1. Piano di distribuzione delle interviste per profilo del disagio, sesso e nazionalità
N. interv. Profilo del disagio iniziale rilevato
01
02
Insufficienza di reddito associata alla precarietà lavorativa del marito
Insufficienza di reddito associata a problemi di salute
che hanno determinato l’interruzione del lavoro
Violenza subita da parte del coniuge (tossicodipendente) e insufficienza di reddito
Difficoltà di integrazione, problemi nello sviluppo
comportamentale del figlio, reddito inadeguato
Sovraindebitamento (a rischio usura)
Caratteristiche delle
persone intervistate
Sesso
Nazionalità
Femminile
Italiana
Maschile
Italiana
Femminile
Italiana
Femminile
Costaricana
Maschile
Italiana
Insufficienza di reddito associata a problemi di salute
del marito e indebitamento
Detenzione, spaccio e dipendenze da sostanze
Femminile
Italiana
Maschile
Italiana
Maschile
Italiana
Maschile
Italiana
Femminile
Italiana
Femminile
Italiana
Femminile
Italiana
Femminile
Italiana
Femminile
Italiana
Femminile
Italiana
Maschile
Italiana
17
Insufficienza di reddito associata a spese sopravvenute
per il pagamento di utenze
Insufficienza di reddito associata alla perdita del lavoro e alla mancanza di reti di sostegno familiare
Perdita delle reti di sostegno familiare, rischio di devianza
Insufficienza di reddito associata alla precarietà lavorativa del marito. Conflitti coniugali
Insufficienza di reddito associata a problemi di salute
che hanno determinato l’interruzione del lavoro del
padre. Precarietà lavorativa
Insufficienza di reddito associata alla precarietà lavorativa del marito
Insufficienza di reddito associata alla perdita del lavoro del marito. Detenzione del marito per violenza nei
confronti di una delle figlie. Disgregazione del nucleo
familiare
Conflitti coniugali e separazione. Problemi di salute
della figlia.
Fragilità del contesto familiare d’origine. Insufficienza
di reddito associata alla mancanza di lavoro.
Problemi di salute. Detenzione
Maschile
Albanese
18
Difficoltà di integrazione
Femminile
Albanese
19
Rottura dei legami con il nucleo familiare d’origine.
Conflitti e violenze subite da parte del coniuge. Insufficienza di reddito
Femminile
Italiana
03
04
05
06
07
08
09
10
11
12
13
14
15
16
La maggior parte delle situazioni di vulnerabilità rilevate si riferiscono ad
una ben precisa dimensione familiare. Di fatti, nella maggior parte delle “storie di
vita” osservate dagli operatori dei Centri di ascolto, così come nel contesto delle
interviste biografiche oggetto di questo capitolo, è sostanzialmente presente un
nucleo familiare che vive una o più situazioni di disagio associate al verificarsi di
particolari eventi critici normativi o non normativi, secondo la nota definizione
proposta nell’ambito dell’approccio microsistemico.
57
Come specificato in occasione del primo Rapporto regionale, anche in
questa sede è bene precisare come, secondo tale approccio, gli eventi critici normativi corrispondono a vicende naturali che «si vengono a determinare in seguito
all’entrata o all’uscita dalla famiglia di uno dei suoi componenti (per matrimonio,
nuova nascita, morte, ecc.) oppure allo sviluppo individuale dei singoli membri
(pubertà, adolescenza, maturità, pensionamento, vecchiaia, ecc.)». Quelli non
normativi, invece, sono associati «ad avvenimenti imprevedibili, legati a situazioni che riguardano la vita della coppia (separazione, divorzio), la vita professionale (licenziamento), vari fatti ed episodi che possono colpire accidentalmente
uno dei membri della famiglia (incidenti, malattie, carcerazioni) oppure fenomeni
macro-sociali di origine complessa (migrazione, guerra)». Peraltro, in seno a questa duplice categoria vi sono coloro che sostengono la teoria dell’evento centrale
(l’evento più importante che ha generato a cascata tutti gli altri) e quanti ritengono, invece, che si debba parlare di una successione di eventi critici messi in relazione fra loro 3.
La metodologia qualitativa adottata in questa sede è stata quella
dell’intervista semistrutturata, con uno schema comprendente in prevalenza domande di tipo aperto. Come rilevato in precedenza, nel corso dei colloqui gli intervistatori si sono soffermati su sei aree tematiche, ciascuna delle quali comprendeva al proprio interno una serie di sotto-temi, con l’obiettivo di fornire delle risposte ad ulteriori interrogativi conoscitivi connessi all’indagine.
TAB.
3
2. Mappa delle aree tematiche esplorate nel corso delle interviste biografiche
Breve storia della persona
e della sua famiglia
Il disagio: percezione,
cause, descrizione del
percorso di uscita, tempi
di permanenza nello stato
di disagio e tempi del
percorso di uscita
Ruolo delle reti di assistenza: reti formali,
informali, la famiglia
Ruolo della Caritas nei
percorsi di uscita
Il punto (o i punti) di svolta: le risorse umane messe in campo, gli ostacoli
da superare
L’oggi e le prospettive
future. Cosa rimane
del rapporto con la
Caritas
Cfr. DELEGAZIONE REGIONALE CARITAS DELLA SARDEGNA, Osservazione dei percorsi di
povertà nei Centri di Ascolto delle Caritas della Sardegna..., op. cit., p. 78.
58
Nel concreto, per ricomporre i vissuti problematici delle persone ascoltate
e descrivere i loro percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio, gli intervistatori hanno esplorato alcuni aspetti riguardanti la storia familiare della persona (in
modo particolare il contesto di provenienza), la genesi e la percezione del disagio,
la funzione esercitata dalle reti di assistenza nel percorso di uscita (in particolare il
ruolo della Caritas), il c.d. “punto di svolta” che ha dato avvio all’attenuarsi del
disagio, nonché la situazione attuale e le prospettive future.
Tutti gli intervistati hanno apprezzato l’occasione offerta loro per aprirsi e
raccontare le proprie storie di vita (nel pieno rispetto dell’anonimato). Riguardo a
ciò ha certamente giocato a favore il buon rapporto instaurato con la Caritas nel
corso degli anni, in particolare con gli operatori dei Centri di ascolto, e forse il
fatto stesso che le persone intervistate avessero superato in qualche modo i momenti più difficili.
3. Analisi del contenuto delle storie di vita
In questa sezione viene proposta un’analisi sintetica del contenuto delle interviste, con ampi stralci trascritti nel rispetto del lessico e della versione espressiva originale. Il riferimento alle persone intervistate è stato effettuato per mezzo
della numerazione progressiva indicata nella tabella 1, attraverso cui, pur nel rigoroso rispetto dell’anonimato, è possibile risalire al profilo del disagio, al sesso e
alla nazionalità.
3.1. La genesi e la percezione del disagio
L’analisi del contenuto delle storie di vita sollecita, in via preliminare,
un’esplorazione attenta delle principali cause di disagio che hanno determinato le
richieste d’aiuto. Oltre a ciò, si rende necessario verificare quali siano stati i principali ostacoli cui sono andate incontro le persone ascoltate, i quali non sempre
coincidono con le ragioni per le quali le persone si erano rivolte in passato ai Centri di ascolto della Caritas.
Prendendo in esame integralmente i testi delle interviste risulta che, come si
evince dalla figura 1, la maggior parte dei problemi segnalati – e dei relativi ostacoli che si è reso necessario superare per risolverli – riguarda la dimensione familiare, intendendo sia quella d’origine sia quella di nuova costituzione (37,9%).
In particolare si tratta di problemi registrati nell’ambito del nucleo familiare
d’origine, i quali molto spesso contengono in nuce gli elementi prodromici di successive situazioni familiari di tipo conflittuale: ostilità tra partner; episodi più o
meno ripetuti di violenze fisiche; abbandoni, separazioni e divorzi; istituzionalizzazione/allontanamento dei figli; gravidanze in condizioni socio-familiari particolarmente compromesse.
Diverse caratteristiche di tali situazioni problematiche si possono ricavare,
in alcuni casi con dei tratti particolarmente intensi, dagli stralci delle cinque interviste proposti più avanti.
59
FIG. 1. Segnalazioni dei principali ostacoli affrontati (valori percentuali)
Casa/alloggio
1,5%
Problemi burocraticiProblemi psicologici
amministrativi
1,5%
1,5%
Problemi della
migrazione
Altro
3,0%
1,5%
Problemi di
detenzione
4,5%
Dipendenze
6,1%
Problemi familiari
37,9%
Sanità/salute
9,1%
Povertà/problemi
economici
16,7%
Lavoro/occupazione
16,7%
Intervista 03
D.: In che anno ha avuto dei problemi in passato? Che tipo di problemi ha avuto?
R.: Alla fine del ‘94, dal momento che mi sono sposata…
D.: Quindi le sue difficoltà sono iniziate con il matrimonio?
R.: Sì, col matrimonio…
D.: Quali sono stati gli ostacoli maggiori che lei ha dovuto superare per uscire da questa situazione?
R.: Troppi, troppi... Io avevo questo appartamento bello che mi aveva dato la madre, ma c’erano
questi dispetti ad un certo punto, lasciamo perdere i dispetti inizio a notare che dalle porte dei bagni mancavano le chiavi: da tutti i bagni, in tutta la casa perché tra su, giù e giù, c’erano cinque
bagni ma mancavano le chiavi. E vedevo la madre molto attenta al figlio ehm...da lì ho capito che
il figlio si drogava. Capito...non avevo capito un bel niente cioè io ho capito ma non ho capito
niente. Io ero in attesa di […] mia figlia quindi mi sono sposata a gennaio 1994, [lei] poi è nata mi
sono sposata anche perché ero in attesa. Mi sono sposata velocissima in Comune, niente di più.
Mia madre contrarissima perché, lei come se fossi… le madri hanno sempre ragione, va beh…
comunque sono andata a vivere là. Ricordo ancora le parole che mia madre disse alla madre di lui:
“Ho un’unica figlia, te la raccomando”. E la madre del mio ex marito disse: “La tratterò come se
fosse mia figlia”. Ah! Ah! Ah! Ah! Lasciamo perdere. Niente, io sono andata lì e ho passato una
gravidanza praticamente da sola perché quest’uomo, come lo vogliamo chiamare, perché non esisteva, lui non andava a lavorare…
60
D.: Insieme a questo c’è stato anche qualche altro ostacolo che le ha impedito di risolvere la sua
situazione?
R.: Si, diciamo che io poi ero riuscita a prendere una casa, nel frattempo sono passati cinque anni.
[In] questi cinque anni, più o meno, io lavoravo al calzificio dopodiché ho preso un appartamentino qui a [Villarossa] 4 e avevo iniziato a comprarmi i mobili. Da sola, perché lui non c’era. Se
n’era andato in [una regione del Sud Italia] a lavorare ma non hai mai... non mandava niente. Era
uno sbandato... [L’ho] lasciato dopo il suo terzo arresto, perché l’hanno arrestato tre volte. Io ho
preso la decisione di partire, perché guardi tua madre i tuoi fratelli possono dire lascialo, ma non ci
riesci.
Intervista 15
D.: Mi può parlare della storia della sua famiglia?
R.: La mia famiglia, questa, è composta da mie figlie, una di 10 anni e una di 8. La più piccola è
handicappata permanente, soffre della sindrome di […], una malattia molto rara, sono separata da
cinque anni, e che dire? Con me vive mia madre, che mi tiene le bambine quando vado al lavoro,
anche se vanno a scuola, tranne il sabato e quando lei non c’è, me le porto al lavoro se posso altrimenti le devo lasciare alle mie amiche. Mia madre giustamente vuole conservare la libertà di andare a trovare le sorelle e i figli. Io ho una sorella e due fratelli che vivono [in due città diverse della Penisola].
D.: Quando e che tipo di problemi ha avuto in passato? Quali sono le cause delle sue difficoltà
passate?
R.: Sono separata da cinque anni, lui se n’è andato con un’altra donna, da quando è nata la bambina, forse non se l’è sentita di affrontare i sacrifici, ha avuto paura delle responsabilità dei continui
viaggi in continente… e ha preferito andarsene. Lasciandomi in una situazione difficilissima. Io
all’inizio non ci credevo, pensavo si trattasse di uno scherzo, ricordo che la bambina aveva la febbre altissima e io non dormivo la notte, sistemavo la casa… mi sono trovata senza un soldo …mio
marito non mi aiutava …le bambine con le loro esigenze.. mi hanno staccato la corrente… Adesso
vive con un’altra. Senza mai aiutarci.
D.: Quali sono stati gli ostacoli che ha dovuto superare per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: È stato un brutto periodo, anni, non avevamo soldi, la pensione di mia madre non bastava , io
pulivo le scale… ma non bastava, mio marito non mi passava gli alimenti, tutte le volte dovevo
denunciarlo. Doveva passarmi gli alimenti, 820 euro, che lui mi ha dato solo quando ero a [Villarossa], poi qualche volta mi ha dato 50 o 100 euro. Poi si è rifiutato con la scusa che ero andata a
[Villarossa] per non farle vedere le bambine. E sono dovuta rientrare. Mentre a [Villarossa] vivevo
da mia sorella e lavoravo in nero però potevo andare avanti, e tenere sotto controllo la malattia di
mia figlia, in un centro specializzato, gratis. Potevo garantirgli la fisioterapia regolare, adesso è
ferma da tre anni…
Intervista 16
D.: Mi può parlare della storia della sua famiglia. Da quale città proviene ? Dove è nato ?
R.: Allora, sono nato a [Villarossa] nel 1979, e …, mia madre, che era molto giovane era stata abbandonata da mio padre; mia madre aveva vissuto in un Istituto di Suore, e mio padre faceva il
militare lì a [Villarossa]. L’ha conosciuto a scuola, all’Alberghiero, però poi lui è andato a fare il
militare e mamma stava per seguirlo, e anche perché la sua famiglia aveva dei problemi simili ai
nostri… Era il periodo in cui sono stato concepito.
D.: Ecco, ci può parlare della storia della sua famiglia? Per esempio, di sua madre?
R.: Era giovane ... aveva 20 anni e mio padre era più giovane di qualche anno e si erano lasciati
quando lei era incinta. Poi ci sono stati… si è cercato, insomma, mia nonna materna ha cercato, sa,
la maniera di non creare scandali e ha cercato di convincerlo, ma lui si rifiutava e l’ha abbandonata, così, da un momento all’altro.
4
Il riferimento al luogo è stato criptato
61
Intervista 18
D.: Mi puoi parlare della storia della tua famiglia? dove sei nata?
R.: Sono nata [in Albania]... A due anni e mezzo sono rimasta orfana e sono cresciuta con i miei
due fratelli con i quali c’è un po’ di differenza di età... niente... mia sorella per poter mantenere me
e per permettermi di non andare in orfanotrofio... se no poi sai com’è... si dividono le persone e la
famiglia... allora lei per continuare a stare riuniti... lei aveva 17 anni... ha lasciato le superiori e si è
messa a lavorare... poi ha preso le serali e ha continuato con molti sacrifici a studiare
all’Università... niente... nel frattempo permetteva a me e a mio fratello, che è più grande di me ma
sempre più piccolo di mia sorella, di stare riuniti...
D.: Quali sono state le cause delle tue difficoltà passate?
R.: In quel periodo in Albania... il disagio che ho vissuto io... lo hanno vissuto anche tutti quelli
che c’erano lì... di certo la mia situazione era più gravosa , io ero molto fragile perché senza genitori... ci veniva a mancare soprattutto il lato affettivo... ma anche il lato economico... anche se poi
a me e a mio fratello veniva riconosciuta una pensione minima; dopo le superiori avevo vinto una
borsa di studio per l’Università ma era un periodo molto difficile... già si sentivano i primi venti
del cambiamento... dal comunismo... poi le borse di studio vennero temporaneamente sospese...
perché il mio Paese usciva da un disastro... e stava per entrare in un altro.
Intervista 19
D.: Mi puoi parlare della storia della tua famiglia? Da quale città provieni? Dove sei nata?
R.: Io sono nata a [Villarossa], la mia famiglia è numerosa… siamo sei figli… la situazione della
mia famiglia è molto difficile… mio padre era alcolizzato… un mio fratello si drogava… poi ho
una sorella più grande malata, soffre di una grave depressione da quando era più piccola…
D.: Quando e perché ti sei trovata in difficoltà?
R.: Nel 2003 mi sono innamorata di un ragazzo albanese… avevo 29 anni… ho lasciato la mia famiglia e sono andata a stare con lui… la mia famiglia da quel momento non ha voluto più saperne
nulla di me perché su di lui c’erano voci strane, dicevano… io ero molto innamorata… anche se
non mi trattava bene, ho continuato a stare con lui e ci siamo sposati in Comune… lui però era
sempre più violento e mi minacciava continuamente… mi ha fatto anche abortire… mi ha picchiato e mi ha chiuso in bagno… mi minacciava continuamente… io ho un nipotino e lui mi terrorizzava dicendo che lo faceva rapire da certi suoi amici… io poi ho cominciato a capire qualcosa della vita che lui faceva… delle cose che faceva… non ce la facevo più a sopportare tutte quelle violenze… avevo molta paura…
A seguire si collocano i riferimenti riguardanti la povertà e le problematiche
lavorative (16,7%). Rispetto a quest’ultima area di disagio va rilevato che nelle
interviste si fa spesso cenno sia al lavoro precario e/o in nero sia alle difficoltà associate alla perdita del lavoro o alla ricerca di una prima occupazione. Anche nelle
interviste effettuate in Sardegna, come nel caso dell’indagine condotta a livello
nazionale, la dimensione occupazionale «è evocata soprattutto attraverso il riferimento alla difficile ricerca di un lavoro stabile e dignitoso» 5.
Intervista 11
D.: Quando e che tipo di problemi ha avuto in passato? Quali sono le cause delle sue difficoltà
passate?
R.: I problemi sono cominciati quando mio marito ha perso il lavoro. Ci sono stati dei periodi in
cui in casa non sempre avevamo da mangiare. Mio marito comunque accettava qualsiasi lavoro gli
5
230.
62
CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà?..., op. cit. p.
venisse offerto. Riusciva a fare anche due giornate di lavoro in un giorno: come aiuto in una azienda agricola e come muratore aiutante; ma erano lavori senza futuro, perché nessuno era disposto a fare un’assunzione regolare; i soldi non mancavano, però non bastavano mai... La morte dei
miei genitori e la mancanza del loro sostegno ci ha tolto in pratica la garanzia del pane quotidiano.
D.: Per quanto tempo siete rimasti in situazione di difficoltà?
R.: A lungo, per diversi anni. Il lavoro attuale è di un anno. Ma ha lavorato per due anni in un officina. Le difficoltà erano tali che litigavamo spesso, troppo spesso, e io ho deciso di andare via di
casa. Nonostante volessi bene a mio marito. Perché non è che io non volessi bene a mio marito,
altrimenti non sarei ritornata, però lui con me lui aveva l’atteggiamento che non mi dava i soldi
neppure per l’indispensabile. Ritirava lo stipendio, ma non mi dava neppure una lira. Doveva essere lui a comprare persino i pannolini per i bambini.
Intervista 13
D.: Mi può parlare della storia della sua famiglia? Dove è nata?
R.: Sia io che mio marito proveniamo da un paese qui vicino. Siamo sposati dall’84. Mio marito
aveva una sua officina, il suo lavoro ci consentiva di pensare ad un futuro tranquillo.
D.: Quali sono le cause delle sue difficoltà passate?
R.: I problemi sono cominciati quando abbiamo scoperto di avere molti amici. Il lavoro c’era e
mio marito lavorava a pieno ritmo, ma tutti ritiravano la macchina e nessuno pagava il lavoro fatto.
E la nostra famiglia cresceva… Allora ha pensato di venire qui, ha cominciato a lavorare, e sembrava che tutto andasse per il meglio. Allora ci siamo trasferiti tutti. Però la storia si è ripetuta.
Nessuno pagava; in alcuni casi abbiamo accettato il formaggio e la carne. Ma questo non poteva
essere fatto sempre. La mia famiglia, i miei figli avevano bisogno anche di altro. Dovevano andare
anche a scuola. La situazione è peggiorata quando abbiamo avuto lo sfratto dal locale che lui usava
come officina. Continuava a lavorare sottocasa, ma non poteva garantire più di tanto.
Come si è già rilevato, risultano essere ugualmente importanti le segnalazioni riguardanti i problemi economici e più in generale le povertà. In questa sede,
sembra interessante porre in luce, in relazione ai fenomeni di “nuova povertà”, alcune situazioni problematiche connesse a particolari “eventi” che hanno destabilizzato il consueto equilibrio economico delle persone o dei nuclei familiari, quali
l’indebitamento eccessivo o l’impossibilità di far fronte a delle spese sopravvenute, anche a causa di conguagli relativi a delle semplici utenze domestiche.
Intervista 05
D.: Che tipo di problemi ha avuto in passato? Quali sono state le cause delle sue difficoltà passate?
R.: Ho avuto un sovra indebitamento con diverse banche, dovuto a spese improvvise e familiari e a
delle insorgenze economiche impreviste per un importo di 20-23 mila euro. Le cause possono essere varie, sono problematiche legate alla famiglia, e altro... Pagare la nuova macchina, il mutuo,
le finanziarie e i prestiti da restituire alle banche.
D.: Per quanto tempo è rimasto in situazione di difficoltà?
R.: Qualche anno, circa tre.
D.: Quali sono stati i principali ostacoli che ha dovuto superare per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Gli ostacoli sono stati tanti, quello di pagare le scadenze e restare senza nulla in tasca.
Intervista 06
D.: Quando, in che anno e che tipo di problemi ha avuto in passato? Quali sono state le cause delle
sue difficoltà passate?
63
R.: I problemi sono nati con l’ingresso dell’euro…, mio marito voleva lavorare in proprio, avevamo l’urgenza di acquistare dei macchinari e la necessità di ammortizzare i costi. Successivamente
mio marito si è ammalato di tumore sottoponendosi a chemioterapia. La sua produttività non era
più la stessa.
D.: Per quanto tempo è rimasto in situazione di difficoltà?
R.: Per un po’ di tempo, qualche anno.
D.: Quali sono stati i principali ostacoli che ha dovuto superare per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Ostacoli di carattere economico ma anche minaccia di sequestri, istanze del tribunale, telefonate...
Intervista 08
D.: Quando e che tipo di problemi ha avuto in passato? Quali sono le cause delle sue difficoltà?
R.: Le difficoltà sono state dettate da un cumulo di bollette Enel. Noi non abbiamo ricevuto, nonostante le sollecitazioni, per circa un anno e mezzo le bollette. Poi c’erano i costi dell’impianto, mille euro di impianto.
D.: Per quanto tempo è rimasto in situazione di difficoltà?
R.: Due anni e mezzo circa tre.
D.: Quali sono stati i principali ostacoli che ha dovuto superare per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Il conguaglio Enel è stato rateizzato, ma su bollette bimestrali non riuscivo a pagare. Poi
c’erano anche le bollette di consumo. Avevo cinquemila e settecento euro da pagare, in condizioni
da “o pagare o chiudere”.
In terza posizione si collocano le segnalazioni riguardanti i problemi di salute, da cui spesso discendono a catena difficoltà nel proseguimento dell’attività
lavorativa e/o il dover far fronte in tempi brevi a delle spese improvvise e consistenti, con conseguenze immediate sul bilancio economico familiare. Va da sé che
in contesti particolarmente fragili in potenza, sia dal punto di vista economico ma
anche sotto il profilo delle relazioni interne al nucleo familiare, il verificarsi di un
evento critico non normativo piuttosto grave, come una patologia invalidante, aumenti di gran lunga la probabilità di dar vita a nuove condizioni di disagio.
Intervista 01
D.: Quando ha cominciato ad accorgersi che stavate entrando nella situazione di disagio?
R.: Guardi, il problema è iniziato quando lavorava al caseificio…, quando lui ha incominciato a
non riuscire a stare al chiuso perché si sentiva soffocare.
D.: Soffre di claustrofobia?
R.: Sì, o qualche cosa del genere, soffriva di ansia e di attacchi di panico, per cui non poteva più
lavorare.
D.: Al caseificio era assunto regolarmente?
R.: Sì era assunto, ma era stagionale.
D.: E poi?
R.: Dopo ha dovuto cercare qualche cosa di muratura all’aperto, ha incominciato a lavorare a giornate, ma erano lavori occasionali in nero, saltuari, e non si riusciva a tirare avanti.
Intervista 02
D.: Quindi si è trasferito… per lavoro?
64
R.: Sì, io lavoravo tranquillamente sin quando non è capitato il problema agli occhi, facevo…, guidavo camion...
D.: Ecco siamo arrivati alla seconda domanda... che tipo di problemi ha avuto in passato?
R.: Problemi di salute...mmh di vista, mmh malattia dove non ci sono né cure né terapie fino ad
adesso... mmh… sembra che si sia stabilita un po’…
D.: Quindi questo le ha causato...
R.: Mi ha causato... sono andato in pensione... pensione Inps naturalmente... Eh... anche sulla pensione allora stavo provando... perché l’oculista che mi segue mi ha detto... anche per la polvere di
evitare di guidare…
D.: Non può più guidare?
R.: La patente c’è l’ho però sto evitando… non vorrei causare...
D.: Faceva il camionista per aziende diverse?
R.: Lavoravo in un’azienda… consegnavo mangime portavo bestiame eh...un’azienda agricola.
D.: Quindi le cause della sua difficoltà sono relative a problemi di salute, per questo si è rivolto
alla Caritas…?
R.: Sì tramite la conoscenza…
D.: Quali sono stati gli ostacoli principali che lei ha dovuto superare per risolvere questi problemi?
R.: Quelli burocratici... eh... uno se non è cieco del tutto...
D.: Cioè non sapeva a chi rivolgersi... come fare?
R.: Sì, nel momento non sapevo dove..., a chi rivolgermi...
Intervista 12
D.: Quando e che tipo di problemi ha avuto in passato? Quali sono le cause delle sue difficoltà
passate?
R.: Quando mio padre si è ammalato gli hanno dato la pensione di invalidità. Qualche anno dopo
una legge lo ha costretto a scegliere tra la pensione e il lavoro. Lui ha scelto la pensione, ma gli è
stata tolta dopo una visita di controllo. Allora è cominciata la miseria più totale. Ci hanno staccato
persino la luce.
D.: Per quanto tempo siete rimasti in situazione di difficoltà?
R.: Per diversi anni. Poi mio padre ha fatto ricorso e gli hanno ridato la pensione. Ma se avevamo
il formaggio non avevamo la farina per fare il pane o i soldi per comprare il pane. Io ho cominciato
a lavorare giovanissima, minorenne, buona parte dei soldi li davo a mia madre. Sono passati così
almeno venti anni.
D.: Quali sono stati gli ostacoli che ha dovuto superare per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Il lavoro che mancava, la pensione misera, noi eravamo tanti. Poi anche i più piccoli sono cresciuti e tutti hanno cercato di trovare un lavoro. Le sorelle si sono sposate e stanno bene. Io ho lavorato fuori, poi ho deciso di rientrare, ma non trovavo un lavoro. Per nove anni.
Infine, fra le situazioni di disagio registrate nel corso delle interviste sono
da segnalare le dipendenze da sostanze, la detenzione, alcune problematiche riguardanti l’immigrazione e una serie variegata di ostacoli di tipo psicologico, abitativo e burocratico-amministrativo.
In conclusione di questo paragrafo risulta interessante porre in rilievo le
difficoltà che sovente caratterizzano alcuni progetti migratori. Molto frequentemente, oltre ai consueti inconvenienti derivanti dalla difficoltà ad ottenere in tempi ragionevoli un regolare permesso di soggiorno, dal non conoscere adeguatamente la lingua e la cultura del Paese ospitante, dal problema abitativo e lavorativo, nonché da una miriade di altre difficoltà che si presentano una volta giunti in
Italia, per i cittadini stranieri si sommano pure anacronistici pregiudizi che di fatto
limitano od ostacolano del tutto i percorsi di integrazione nel tessuto sociale, come nel caso delle persone intervistate nell’ambito della nostra indagine.
65
Intervista 04
D.: Mi parla della storia della sua famiglia, quanti eravate, dove vivevate?
Mio marido 6 io l’ho conosciuto [in una città della Penisola] perché lui lavorava [lì]… l’ho conosciuto tramite le suore… Mio piccolino ha sette anni. Ci ha un po’ di problemi a livello d’apprendimento poi non capito bene anche dagli insegnanti, un po’ diffiscile come istoria perché non
sono quei bambini da buttar via sono quei bambini che recuperano tutto se viene capiti.
D.: È dislessico per caso?
R.: No la dislessia può essere una delle cause dei problemi, però c’è una che si chiama che non
molta gente la conosce, che si chiama problema nello sviluppo comportamentale altrimenti non
espescificado. Scioè vuol dire che come se lui è più piccolo di un bambino della sua età, in effetti
se uno li mette a confronto lui è più piccolino. Magari bisogna spiegarli bene le cose non andare in
sgiro le parole se non al concreto perché essendo ragazzini molto concreti loro hanno interesse che
per esempio quello armadio è sgiallo e tu non è che devi dirli un sacco di cose e quando non viene
capito quello cria difficoltà. A me, me ne hanno creato moltissimo, sgià essendo straniera.
All’inizio qui secondo me c’è molto razzismo ancora purtroppo eh... me li hanno messi tutti e due
come bambini stranieri quando non lo sono. Poi anche se lo fossero non è che deve ancora insistire
questa cosa qui di mettere il dito perché sono stranieri no? Però anche questo poi il fatto che anche
lui non era capito bene a scuola, quello mi ha creato molta difficoltà qui a [Villarossa], che delle
insegnanti non me le aspettavo... Io sono stata molto male. Lo devo dire, sono rimasta molto male… Però a me quello che mi dispiasce è quando non vengono capiti bene. È quello che ti cria
qualche difficoltà. Anche il grande per esempio lo chiamavano il scinesino e non scentra niente el
mio paese con la Scina, per esempio. Lui si offendeva no perché... lui sa che sci ha parte de radisci
straniere, ma non è quelo. È il fatto che se lo disce in una maniera offensiva qualche compagno lui
lo offendeva. Allora gli dava fastidio questo, e ho dovuto intervenire un po’ sia con alcuni bambini
direttamente perché frequentavano il catechismo per le cresime e l’ho detto a loro. Sono intervenuta a scuola con le insegnanti e l’ho detto perché a me sembra chi questo è un po’ di rassismo.
D.: Quindi gli ostacoli che lei ha dovuto superare sono stati questi?
R.: Sì questi e l’inserimento mio. Io sinseramente qui sono molto poche le persone che posso dire
che le considero un po’ amiche, o che posso dire: “questa persona me può dare una mano in un
momento di difficoltà”.
Intervista 18
D.: Quali sono i principali ostacoli che hai dovuto superare per trovare la tua serenità?
R.: Io venivo da un altro ambiente...da un’altra mentalità... c’era la difficoltà che in un anno stavo
subendo molti cambiamenti... eh...l’inizio non è stato molto facile… i primi cinque anni qua sono
stati molto difficili... anche per la mentalità del paese in cui abito... un paese piccolo... e poi c’era
la parentela che mi vedeva sempre come un spina... a 20 anni subire tutti questi cambiamenti non è
facile... anche se poi non mi devo lamentare perché è stata la soluzione migliore per la mia vita... è
stato difficile perché dovevo ambientarmi in un’altra mentalità... e sopratutto mi dovevo riambientare ad avere una famiglia... io ero molto chiusa... non mi aprivo mai e tiravo subito fuori le
unghie...
3.2. La funzione delle reti formali ed informali di assistenza
Uno degli obiettivi posti dal disegno di ricerca qualitativo, relativamente al
ruolo esercitato dalle reti formali ed informali di sostegno, era quello di verificare
l’esistenza di un rapporto di collaborazione e di un piano di azione unitario (possibilmente condiviso) fra i vari attori in campo, sia nella fase del primo intervento
sia nel percorso di uscita dal disagio. Non sempre è stato possibile ottenere tali in6
Anche quest’intervista, come del resto le altre, è stata trascritta fedelmente, non omettendo neppure i difetti di pronuncia della lingua italiana.
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formazioni durante il colloquio, anche perché difficilmente l’intervistato dimostrava di saper cogliere l’esistenza di una qualche interazione fra i vari soggetti.
Va precisato, peraltro, che in questa sezione non s’insisterà sugli interventi messi
in campo dalla Caritas, cui è dedicata un’apposita trattazione nel paragrafo seguente.
L’analisi del contenuto delle interviste rivela come riguardo alle reti formali – in primis i servizi sociali dei Comuni – e a quelle informali e familiari, siano associati degli elementi di valutazione contrastanti da parte delle persone intervistate. A questo proposito va rilevato che spesso le differenze di giudizio sono da
ricondurre non tanto alle competenze tecniche possedute, agli strumenti utilizzati
o al tipo di percorso intrapreso da chi era preposto a prendere in carico il disagio
delle persone, quanto invece al loro approccio personale, distinguibile positivamente o negativamente a seconda del “tratto umano” dimostrato.
Gli stralci seguenti possono essere considerati come degli esempi di esperienze percepite positivamente nel rapporto con i servizi sociali.
Intervista 01
D.: È stato utile, invece, l’approccio con i servizi sociali…?
R.: Sì, dico la verità mi hanno aiutato molto. I servizi sociali, guardi, mi sono venuti incontro molte volte, soprattutto per le bollette.
Intervista 10
D.: Oltre alla Caritas, altri aiuti?
R.: Sì, l’assistente sociale…
D.: È servito? Lei sai se c’era collegamento tra la Caritas e quell’assistente sociale?
R.: Sì, è venuta anche a trovarmi. Sì, erano sempre in contatto, hanno lavorato insieme…
Intervista 12
D.: Che tipo di aiuto le è stato dato dal Comune?
R.: Dopo che mi hanno fatto compilare la domanda sono stata inserita in una graduatoria, anche
con persone nella stessa situazione, e sono stata assunta per quattro mesi, un turno di cantiere.
D.: Pensa che sia stato utile questo aiuto per riuscire a risolvere la situazione? È stato un sostegno
solo di tipo materiale o è stata coinvolta in qualche progetto di reinserimento?
R.: È stato un bell’aiuto. E da questa esperienza è nata l’idea di un lavoro mio, in proprio, e la cooperativa. Siamo cinque soci, lavoriamo e adesso possiamo dare anche lavoro ad altri.
Riguardo alle reti di sostegno formale, accanto alle valutazioni positive si
collocano pure dei giudizi critici, come quelli riportati di seguito.
Intervista 03
D.: Quindi si è rivolta anche ai servizi sociali?
R.: Sì... mmh... Sì, e ora grazie a loro... mah!
D.: Gli enti pubblici l’hanno aiutata?
R.: Eh... Sì, sì!
D.: Lo dice in senso ironico?
R.: Mmh... Grazie alle assistenti sociali ora mi ritrovo i mobili rinchiusi nell’appartamento a causa
di uno sfratto esecutivo. E sono alloggiata oggi al motel Agip dal sindaco di [Villarossa]... Ma vivo a casa di mia madre, perché non lascio vivere mia figlia, una bambina di 12 anni, in un albergo.
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I miei mobili sono rinchiusi nella casa del vecchio proprietario in attesa di una casa... Non c’è una
casa a [Villarossa] disponibile da poter essere affittata perché io sono la ex moglie di... ancora eh...
ancora. E sono passati tre anni. Io dico, ma per quanto tempo mi porterò ancora questa cosa?... Sono andata in Comune e ho fatto una piazzata io ero disperata io avevo bisogno di una casa…
D.: Quindi lei ritiene che sia stata aiutata, solo dalla sua famiglia?
R.: No, gli enti pubblici non mi hanno aiutata, se no in questa casa io avevo il contratto fino al
2008. Ma sono loro che mi hanno dato questa casa dove pagavo 330 euro al mese, ma io non pagavo tutto da sola. Mia madre mi aiutava aggiungeva 80 euro pagava le bollette e il condominio,
loro mi davano 250 euro. Invece quando sono andata a fare la stagione d’estate chi ti incontro?
L’assistente sociale che ha pensato che io stavo guadagnando, e quindi non avevo bisogno e mi ha
tolto i 250 euro che mi dava prima. Sono mancata quattro mesi e torno e mi trovo lo sfratto esecutivo. Chiedo aiuto e il dottore mi dice: “Io non ci credo che in tutta [Villarossa] non ci sia una casa,
una casa IACP, una da poterti aiutare e sistemare...”.
Intervista 11
D.: Durante i momenti di difficoltà, oltre la Caritas, l’ha aiutata qualcun altro?
R.: Anche durante il periodo in cui eravamo separati sono andata in Comune, chiedendo un lavoro,
oppure un aiuto economico... che mi dessero un buono per la spesa perché alla fine ero sola con tre
figli... ma soldi non ce ne erano, alla fine ho parlato con un avvocato, un nostro amico, e mi ha informato che era un loro dovere aiutarmi, che avevano finanziamenti proprio per aiutare le persone
bisognose... a me in quel periodo non mi aiutava neppure lui... solo mia madre... poi forse spaventati dal fatto che io mi fossi rivolta ad un avvocato mi hanno aiutato...
D.: Ha avuto la sensazione che gli enti che l’hanno aiutata agissero di comune accordo, in sintonia
tra di loro, o che ognuno intervenisse per proprio conto?
R.: No, ognuno per proprio conto.
Intervista 13
D.: A parte la Caritas, l’ha aiutata qualcun altro?
R.: No. Il Comune non mi ha mai aiutato. Io volevo un lavoro, un turno di cantiere, quello garantito a tutti. Invece quando è arrivato il mio turno non mi hanno chiamata. Sono andata lì perché volevo sapere perché e mi è stato risposto di avere pazienza che quel turno durava solo un mese, invece il cantiere che sarebbe stato aperto dopo durava quattro mesi. Ma non mi hanno mai chiamata. Volevano darmi il sussidio... Cinquanta mila lire al mese? O quant’era? non lo ricordo. Non volevo l’elemosina, volevo guadagnare un po’ di soldi onestamente, con dignità. Inoltre abbiamo fatto, attraverso il Comune, la domanda per la legna che si ottiene dalla “pulitura” del bosco del demanio... Non ci hanno dato neppure quello e la legna serviva per scaldare la casa.
D.: Che tipo di aiuto le è stato dato dal Comune?
R.: La casa popolare, con l’affitto basso...
D.: Ha avuto la sensazione che gli enti che l’hanno aiutata agissero di comune accordo?
R.: Non c’era sintonia. La Caritas era più vicina; in Comune sembravano non capire... hanno preferito una ragazza che viveva in famiglia, che non aveva figli.
Intervista 16
D.: Durante i momenti di difficoltà, oltre alla Caritas l’ha aiutata qualcun altro: enti pubblici, volontariato, famiglia, amici , vicinato, ecc.?
R.: No, no... anzi… Una volta sono andato a parlare con un’assistente sociale per discutere del mio
problema… per fare una chiacchierata come questa… ma poi alla fine niente.
D.: Le assistenti sociali sono state coinvolte dalla Caritas?
R.: Sì, avevano promesso di darmi il contributo per la casa; poi… non hanno fatto niente…
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Altrettanto contrastanti appaiono i giudizi rispetto alle reti informali, fra
cui gli amici, il vicinato, le organizzazioni di volontariato e quelle sindacali. Gli
stralci seguenti propongono delle valutazioni sostanzialmente positive.
Intervista 02
D.: Per esempio a chi si è rivolto per sbrogliare questa situazione?
R.: Per sbrogliare questa situazione? Anche al mio... mmh... alla Cgil
D.: Al sindacato...
R.: Un po’ al sindacato un po’ qua, ognuno ha preso un’idea dappertutto, e poi... tramite le domande sono stato chiamato a visita all’Inps. Sono stato chiamato all’Inps… da lì mi.. mi hanno
mandato [all’ospedale] dove ho passato una visita oculistica tramite medico Inps... e dopo mi è arrivato l’esito che mi avevano approvato la pensione.
Intervista 14
D.: L’ha aiutata qualcun altro?
R.: I vicini di casa mi hanno chiamato per qualche ora, per fare le pulizie, giusto per il pane; mi
hanno pagato 5 euro all’ora e una signora qualche volta mi ha lasciato dei soldi...
Non sempre, però, la rete del vicinato e quella degli amici si dimostrano in
grado di fornire un sostegno efficace alle persone, soprattutto nei momenti più acuti del disagio.
Intervista 05
D.: Oltre che dalla Caritas ha ricevuto aiuto da qualcun altro?
R.: L’unico aiuto che ho ricevuto, sia sotto il profilo economico che morale, è stato quello della
Caritas. Ho ricevuto pure un aiuto morale dal parroco. Ho provato anche a chiedere agli amici ma
si sa che al momento del bisogno si allontanano…
Intervista 06
D.: Durante i momenti di difficoltà l’ha aiutata qualcun altro?
R.: No. Ho provato a chiedere ad un parente benestante, senza alcun esito, e ad amici ma al momento del bisogno scappano tutti.
Intervista 08
D.: E poi chi l’ha aiutata?
R.: Mi sono rivolto a banche, finanziarie, ma niente anche perché pure con la precedente attività
ero andato male. Mi sono rivolto a tante persone: amici, conoscenti; anche a persone risapute che
avrebbero potuto affrontare… e non lo hanno fatto.
Infine, anche per quanto riguarda la famiglia si conferma sostanzialmente
l’eterogeneità delle valutazioni, dovuta principalmente alla qualità delle relazioni
pre-esistenti all’interno del nucleo familiare d’origine. Dallo stralcio delle prime
sei interviste emerge un ruolo determinante della famiglia nel riuscire ad attenuare
il disagio.
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Intervista 02
D.: La sua famiglia?
R.: E beh, quello sì, mia moglie sì.
D.: Non mi riferivo solo a sua moglie ma anche alla sua famiglia d’origine.
R.: Sì tutti... tutti mi hanno aiutato, addirittura ho fatto una visita [nella Penisola]. Son venuti a
prendermi direttamente un fratello che ho [là]. È venuta la moglie a portarmi su, e poi lui è venuto
e si è messo a disposizione, in macchina da […] a […] Sì, in tutto e per tutto… anche qua a [Villarossa] dove si trova mia madre i miei fratelli sono stati tutti...
Intervista 03
D.: In che rapporti era con la sua famiglia di origine?
R.: Mammamia! mia madre, la mia famiglia mi ha sempre aiutata, sempre. Adesso mia madre ogni
tanto la vedo che sorride, ma allora…
Intervista 04
D.: Quando lei si è trasferita a [Villarossa] ed ha avuto quel periodo di difficoltà era in contatto
con la sua famiglia di origine?
R.: Sì sempre, noi siamo in rapporti buonissimi. Noi in Costarica, non so se lei sa, ma il latinoamericano ha un rapporto de familia molto forte e comunichiamo molto, sia nelle cattive che nelle
buone. I sardi tendono ad essere molto per conto suo e molto chiusi loro. Ognuno s’arrangia. Questa è stata una difficoltà con mi marido, con la famiglia di mio marito perché ognuno ha il suo problema e se lo tiene. E non è giusto perché secondo me il problema è un problema de tutta la famiglia, perché come le cose belle quando nasce un bambino vengono tutti i parenti subito, quando c’è
un malato devono venire tutti, è uguale, deve venire tutta la famiglia. Io grazie a Dio con la mia
famiglia ho un buon rapporto in tutti i generi, in tutti i sensi. Anche con mia sorella che sta [fuori
Sardegna] lei viene qua ad agosto, io ci vado [da lei] qualche volta. Le telefono sempre. Voglio
dire, quel problema lì non… non ce l’ho.
Intervista 06
D.: Durante i momenti di difficoltà in che rapporti si trovava con la sua famiglia di origine?
R.: Mia madre e i miei familiari mi aiutano da una vita, con la famiglia parliamo sempre di tutto,
siamo uniti per superare le difficoltà…
Intervista 11
D.: In quali rapporti si trovava con la sua famiglia?
R.: Nei giorni in cui non avevamo da mangiare andavamo dai miei genitori, ed eravamo in quattro.
Era un grande aiuto e un grande sollievo. Anche la famiglia di mio marito ci aiutava.
Intervista 17
D.: Durante il suo disagio com’era con la sua famiglia?
R.: Mi sono sempre stati vicini... Loro mi hanno dato molta forza... per non farmi preoccupare, mi
mandavano i soldi... non mi facevano mancare niente per qualsiasi cosa avevo bisogno... ma io
non volevo perché… lo stipendio è poco... quindi quando ero agli arresti domiciliari facevo découpage, dipingevo quadri, per guadagnare qualcosa, per comprare le cose che mi servivano lì...
Mio padre quando ero in carcere mi diceva che aveva sempre paura perché non risolvevo, mi diceva “ti senti lontano da noi... pensi che ti abbiamo fatto qualcosa…” e io gli dicevo di non preoccuparsi... che stavo bene... mi chiamavano due volte al giorno per tirarmi su. Quando ero in comunità
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la mia fidanzata comunicava con loro per far avere mie notizie, per dare conforto ai miei, perché
loro mi potevano chiamare solo una volta alla settimana...
Queste interviste fanno però da contraltare alle ultime tre, le quali svelano
l’esistenza di diversi aspetti problematici e conflittuali in seno al nucleo familiare
d’origine, nella maggior parte dei casi generatisi ancor prima che le persone
intervistate si trovassero nella necessità di chiedere sostegno.
Intervista 07
D.: Durante il percorso di uscita, in che rapporto si trovava con la sua famiglia di origine?
R.: I rapporti con la mia famiglia sono brutti, schifosi. È meglio non avere una famiglia come la
mia. La mia è una famiglia che guarda il potere, le cose finanziarie.
Intervista 09
D.: Quindi, durante i momenti di difficoltà, tornando un po’ indietro, che rapporti aveva con la sua
famiglia? All’inizio abitava con sua sorella, e poi?
R.: Quando abitavo lì in casa mia…
D.: Nella casa dei vostri genitori? Abitavate lì con sua sorella?
R.: Sì, si lei diceva così: “perché non vai in qualche altro posto?” E dove vado? Me lo sa dire lei
dove vado?… E così che io ho detto: va bene… Ho detto, sei così, tu? Non mi vuoi più qui? Allora
sai cosa faccio? Io mi cerco un’altra casa, vado probabilmente alla Casa [di riposo] e rimango lì,
però non venire a cercarmi più…
D.: Quando si è trovato in difficoltà loro l’hanno aiutata in qualche modo?
R.: No, no, no. Nessuno mi ha aiutato, né mio fratello né mie sorelle, sono venuto da solo e basta.
D.: Ora i rapporti con sua sorella come sono?
R.: Niente! Niente!
Intervista 19
D.: E con la sua famiglia le cose andavano meglio… l’hanno aiutata?
R.: No… a casa non ho avuto aiuto… mi rinfacciavano quello che era successo… dicevano che li
avevo disonorati perché il mio nome era uscito sui giornali… non ce la facevo più… dopo che ho
finito gli arresti domiciliari mi dicevano di andare via di casa perché avevo portato solo problemi.
Solo mio padre… che adesso è morto, mi difendeva…
3.3. Il ruolo esercitato dalla Caritas
Sono assai diversi i percorsi che conducono le persone che si trovano in situazione di disagio a richiedere un aiuto alla Caritas. Non sempre si giunge ai
Centri di ascolto direttamente, in quanto molto spesso manca la consapevolezza
della loro esistenza e del tipo di sostegno che se ne potrebbe ricavare. Dalle interviste si percepisce come il primo veicolo sia generalmente la parrocchia (e ancor
più il parroco) o, in casi tutt’altro che rari, i servizi sociali o la rete delle conoscenze personali: sovente l’invito a recarsi presso un Centro di ascolto scaturisce
proprio da un amico/parente/vicino che ha già usufruito in precedenza del sostegno della Caritas.
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Per quanto attiene la tipologia degli interventi messi in campo dai Centri di
ascolto, soprattutto in termini squisitamente statistici, si rimanda al capitolo secondo. Ciononostante, appare non meno importante prendere in esame la gamma
degli aiuti che le persone intervistate ha dichiarato di aver ricevuto in occasione
del percorso di uscita dal disagio, oltre che la valutazione sulla qualità degli stessi,
anche per tentare una primissima riflessione (sebbene non sia questo il tema centrale dell’indagine qualitativa) sul grado di efficienza ed efficacia dei Centri di ascolto.
L’analisi degli interventi ricevuti dalle persone intervistate, come si evince
dalla figura 2, pone in luce come i beni (in particolare viveri) e i servizi materiali
(specie la mensa) costituiscano la forma di aiuto più frequentemente ricevuta (nel
26% dei casi), seguiti dall’avvio diretto al lavoro (in particolare di pulizia domestica) e/o dall’intermediazione lavorativa (22,2%), dalle attività di inserimento abitativo (14,8%), in particolare di prima accoglienza presso comunità alloggio e
ostelli/dormitori. A seguire (con una percentuale pari all’11,1%) si collocano i seguenti interventi: attività di orientamento e accompagnamento (a servizi sociosanitari e per pratiche burocratiche); erogazione di sussidi economici a fondo perduto (in particolare per il pagamento di bollette) e prestiti per far fronte a sovraindebitamento. Poco significativa, infine, la richiesta di intervento sul versante
dell’istruzione (3,7%).
FIG. 2. Segnalazioni dei principali interventi effettuati dai Centri di ascolto (valori percentuali)
Istruzione
Prestiti 3,7%
11,1%
Beni e servizi
materiali
26,0%
Sussidi economici
11,1%
Orientamento
11,1%
Alloggio
14,8%
Lavoro
22,2%
Dall’analisi di questi dati, in sintonia con quanto posto in luce a livello nazionale, si potrebbe rilevare come emerga un modello di sostegno sbilanciato sul
livello materiale di intervento. Tuttavia, se si osservano le percentuali relative
all’inserimento lavorativo e all’orientamento (che presuppongono una maggiore
autonomia della persona e un ruolo più promozionale da parte della Caritas), è
72
possibile mettere in evidenza come un terzo degli interventi non sia ascrivibile alla mera assistenza.
Per quanto attiene le valutazioni in merito agli interventi va segnalato che,
dopo due anni dall’ultimo contatto avuto con la Caritas 7, le persone intervistate
hanno espresso un giudizio perlopiù positivo. I pareri favorevoli, infatti, hanno
coperto circa l’80% di tutte le valutazioni espresse durante le interviste. In particolare, oltre alle valutazioni genericamente positive, è stato segnalato il ruolo rimotivante e ispiratore di fiducia dimostrato dagli operatori dei Centri di ascolto, di
cui si è apprezzato l’impegno profuso, l’approccio umano e una certa propensione
ad instaurare delle relazioni empatiche (alcuni contatti sono proseguiti nel tempo,
anche al di là del periodo di difficoltà). Gli stralci seguenti propongono una sintesi
dei giudizi favorevoli.
Intervista 01
D.: Oltre al fatto dei viveri, c’è qualche altra cosa della Caritas che vuole descrivere, o dare una
valutazione?
R.: Ho trovato molta gentilezza e disponibilità e non mi hanno mai fatto pesare niente, ma mi hanno fatto sentire a mio agio, infatti come le dicevo ci teniamo ancora in contatto. In certi posti magari te lo fanno risentire, in altri paesi mi hanno raccontato che è successo.
Intervista 05
D.: Come valuta l’aiuto della Caritas?
R.: L’aiuto della Caritas è stato più che soddisfacente. Ho ricevuto un aiuto economico ma anche
morale. Questo intervento mi ha risollevato moralmente…
Intervista 07
D.: Come giudica l’aiuto della Caritas?
R.: Positivo, grazie alla Caritas ho trovato lavoro, sostegno fisico, morale, per uscire fuori dai casini… dalle cose che avevo fatto… fosse stato per me avrei continuato a fare quello che stavo facendo.
Intervista 10
D.: Che tipo di aiuto ti è stato dato?
R.: Beh, aiutato mi hanno aiutato… Don R. cercava di farmi capire certe cose… poi però ci pensavo…
D.: Quanto tempo è durato il periodo di permanenza alla Casa di accoglienza?
R.: Alla Caritas ci sono stata quasi otto mesi.
D.: E come giudichi l’aiuto che ti è stato dato. Pensi che sia stato utile per riuscire a risolvere la tua
situazione?
7
Va precisato che lo stacco temporale di due anni, oltre ad aver consentito di sondare la
reale fuoriuscita dal “labirinto” (non essendo attribuibile ad eventi contingenti, parziali e poco duraturi, pur di segno positivo), ha permesso di non condizionare in senso favorevole il giudizio delle
persone intervistate nei confronti della Caritas. Va da sé che chi si trova in una condizione di bisogno difficilmente esprimerà delle valutazioni negative nei confronti delle persone o degli organismi da cui riceve una qualsiasi forma di sostegno.
73
R.: Beh, quando ero lì alla Caritas, sempre tramite don R., ho trovato lavoro in una casa di cura per
anziani. Ho fatto un paio di mesi. Poi, va beh non si può stare sempre lì alla Casa. E ha cercato
un’altra soluzione…
D.: In qualche modo hai trovato anche un aiuto morale?
R.: Sì.
Intervista 11
D.: Quando si è rivolta per la prima volta alla Caritas? Che tipo di aiuto le è stato dato?
R.: Nei periodi in cui lui è rimasto senza lavoro, o comunque i soldi non erano sufficienti ci aiutava la nostra gente, vale a dire i nostri genitori. Poi siamo stati contattati dalla Caritas, che con molto tatto ci ha chiesto se avevamo bisogno... ci dava pasta, riso il latte e anche i biscotti per loro, i
bambini, e il formaggio... nei periodi in cui non avevamo proprio niente da mangiare... almeno su
quello potevamo contare.
D.: Come giudica l’aiuto della Caritas?
R.: Non avevamo altro... in quei giorni era tutto.
Intervista 12
D.: Pensa che sia stato utile l’aiuto della Caritas per risolvere i suoi problemi? Ha avuto solo un
aiuto materiale?
R.: Ho un bellissimo ricordo. Ricordo il sollievo in diverse occasioni... anche un episodio in un
periodo abbastanza buio... Mi sono sentita chiamare, era la responsabile della Caritas che mi chiedeva se avevo necessità... Avevo necessità. Era morto da poco tempo mio padre e noi non avevamo neppure quello che lui portava a casa, il formaggio e i prodotti dell’orto. Inoltre grazie a lei
riuscivo a farmi chiamare per le pulizie a ore, nelle case private.
Intervista 13
D.: Che tipo di sostegno le ha fornito la Caritas?
R.: Quando mio marito è rimasto senza lavoro... non voglio pensarci. Ricordo che stavamo aspettando che i bambini rientrassero da scuola e non avevo niente da mettere in tavola… Rientra una
delle bambine e mi dice che una signora le aveva detto di dirmi di telefonare o di passare a casa
sua, al più presto. Mio marito mi ha guardato ma io non conoscevo questa persona, sapevo chi era,
ma non avevo nessuna confidenza. Comunque vado. Questa persona mi chiede scusa e mi dice che
sa che mio marito è senza lavoro, che noi insomma potevamo avere bisogno di aiuto e mi dice che
se non mi offendo mi dà degli alimentari. Io accetto e mi dà pasta, riso, latte, formaggio, anche biscotti e mi dice che quando ho necessità posso andare a prenderne ancora…
D.: Come giudica l’aiuto della Caritas?
R.: Avere garantito almeno il cibo tutti i giorni… Era avere risolto in parte la situazione. Ma non
solo. Il parroco mi ha pagato anche le bollette. Non dimenticherò mai l’aiuto e il silenzio con il
quale l’ha fatto. Io non ho molto tempo per andare in chiesa, ma se prego, se trovo il tempo per
ringraziare io ringrazio per la sua presenza.
Intervista 15
D.: Come giudica l’aiuto ricevuto?
R.: Ottimo. Quando sei costretta a chiedere aiuto… superando la vergogna, conservando la dignità
di essere pulita, di indossare abiti puliti, io e le bambine, nessuno sapeva… Mi ha aiutato materialmente, soprattutto nel periodo in cui io non lavoravo: con la pasta, lo zucchero il caffè, i biscotti per le bambine, il riso, il latte, a volte la frutta, mi hanno aiutato tanto, a volte non era sufficiente, però io sapevo di altri che avevano necessità ed io stessa li segnalavo. Nella Caritas ho trovato
un’altra famiglia, persone che mi ascoltano e mi capiscono.
74
Intervista 16
D.: Come giudica l’aiuto della Caritas?
R.: Secondo me… mi dicevano delle parole che non dava nessuno e alla Caritas magari le ricevevo. Mi dicevano “dai che ce la fai”. Mi hanno incoraggiato. Don F., poi, ha curato tutta la parte
logistica per permettermi di organizzarmi e darmi da fare. Mi ha aiutato economicamente quando
durante l’inverno ho cercato lavoro all’estero
D.: Quindi, se ho ben capito, la Caritas l’ha aiutata a trovare lavoro, ha avuto dei sussidi economici
e ha trovato il conforto delle persone che la ascoltavano?.
R.: Sì. Sa, se una persona ha da mangiare e bere…, ma se gli manca una parola buona si rende
conto di che cosa vuol dire. Una persona, per istinto di sopravvivenza, si cerca di adattare, abbassare qualche volta la testa…
Intervista 17
D.: Come consideri l’aiuto che hai ricevuto?
R.: Prima ero del tutto solo... e se non fosse stato per Suor C. e per le altre persone che ho incontrato chissà dove sarei io ora... per questo io racconto volentieri la mia storia perché non voglio che
nessun altro sbagli perché io so che lì [in carcere]... devono passare giorno dopo giorno a piangere
e non li sente nessuno... c’è un cancello in ferro e una finestra che non ce la fai a guardare su perché è troppo alta... è troppo piccola... quando entri dentro è una porta che si apre però poi non ce la
fai ad uscire perché è una porta troppo piccola... all’inizio la vedi grande... ma è molto piccola... io
sono stato uno dei fortunati... lo dico sempre... quando sono uscito mi hanno detto che se avessi
sbagliato avrei dovuto scontare tutta la pena... fino all’ultimo giorno... ma io non pensavo a sbagliare ma a migliorare... perché loro stavano parlando per il mio bene... non per il mio male...
Intervista 18
D.: Quanto ti è stato utile l’aiuto della Caritas?
R.: È stato fondamentale... perché hanno trovato questa possibilità... se non avessi chiesto aiuto a
Don G. e se Don G. non avesse parlato con Suor L... Poi nella cerchia della Caritas ho fatto molte
amicizie che mantengo tutt’ora... mi sono stati vicini nei momenti difficili del mio inserimento qui.
Le valutazioni negative, invece, si riferiscono in particolare al fatto che il
sostegno della Caritas è talune volte percepito come non sufficiente, se relegato al
solo aiuto materiale (sintetizzabile nell’espressione «non basta solo il latte e la pasta», utilizzata da un intervistato). Ciò acquista maggior significato qualora tale
sostegno risulti totalmente disgiunto da un progetto personalizzato di promozione
integrale della persona; un intervento che, possibilmente, chiami in causa il territorio (la famiglia, la rete dei servizi, la comunità di appartenenza, ecc.), coinvolgendolo e responsabilizzandolo.
Esaminando gli stralci delle due interviste seguenti si coglie: nel primo caso
un giudizio critico sulla supposta disparità attraverso cui vengono effettuati gli interventi; nel secondo, invece, una certa autodeterminazione nel riuscire a risolvere
i propri problemi (il che equivale a considerare l’aiuto ricevuto dalla Caritas come
ininfluente).
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Intervista 03
D.: Come giudica l’aiuto della Caritas: pensa che sia stato utile?
R.: Sì, sono delle persone molto… molto attente, a volte però penso che ci sono persone che fanno
il giro delle sette chiese e invece altre che ne hanno più bisogno non chiedono niente. C’è un ragazzo che conosco che se lo aiutassero, basterebbero cinquemila euro per aiutarlo una volta per
sempre. Bisogna valutare bene, veramente, c’è gente che non ne ha bisogno, io ho visto gente buttare le cose della Caritas. Bisogna dare e vedere bene veramente se è apprezzata oppure no. Io le
dico che sono stata all’interno di questa famiglia dove il giorno di Natale, di tutta la spesa che gli
hanno dato non hanno apprezzato niente.
Intervista 04
D.: Quando è che si è rivolta per la prima volta alla Caritas? In che anno si ricorda?
R.: Tre anni fa. Quando sono venuta per chiedere lavoro perché io ho sempre lavorato e penso che
uno per inserirsi in un posto deve lavorare…
D.: Le hanno dato qualche aiuto?
R.: No niente. Il lavoro che ho trovato l’ho trovato per mio conto.
3.4. Farsi strada fuori dal labirinto: il “punto di svolta”e l’aiuto “decisivo”
In questo paragrafo intendiamo illustrare, attraverso l’analisi delle percezioni degli intervistati, il momento particolare o una serie di eventi specifici che
hanno contribuito ad orientare in senso positivo la gestione del disagio. Oltre a ricercare il cosiddetto “punto di svolta”, a partire dal quale le vicende personali e/o
familiari dei soggetti hanno assunto un carattere prevalentemente favorevole, si è
voluto individuare quale fosse l’elemento di sostegno intervenuto in modo “decisivo” nel promuovere la fuoriuscita dal labirinto, senza il quale il “punto di svolta” non ci sarebbe stato.
Dalle storie di vita emerge anzitutto come non sempre il “punto di svolta”,
che evoca un evento carico di prospettive costruttive e favorevoli, sia connotato
da evenienze di matrice positiva. In alcuni casi, infatti, sono state delle vicende
biografiche dolorose (come ad esempio la separazione, in un contesto di rapporti
coniugali patologici) a segnare lo spartiacque per un nuovo percorso di autonomia
e di benessere della persona intervistata. Peraltro, appare assai logico constatare
come non sempre le persone facciano riferimento ad un unico “punto di svolta”,
quanto invece ad una molteplicità di vicende positive più o meno correlate.
L’analisi del contenuto delle interviste permette di comprendere in quattro
aree fondamentali i “punti di svolta” percepiti. Nella prima – la più consistente in
quanto a segnalazioni – si racchiudono le vicende che riguardano il lavoro e
l’attività produttiva (come si evince dagli estratti delle interviste seguenti). Senza
dubbio l’aver trovato un lavoro costituisce un elemento di riscatto importante nei
percorsi di autonomia; peraltro, in due casi si è trattato non tanto di lavoro in regime di subordinazione ma di attività autonome e in qualche modo di carattere
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imprenditoriale (con esplicito riferimento al termine “intraprendere”, che evoca un
maggior carico di autodeterminazione personale) 8.
Intervista 01
D.: Quando si è resa conto che il periodo di difficoltà stava volgendo al termine?
R.: Quando improvvisamente è arrivato il lavoro, prima con il periodo di prova e poi con
l’assunzione.
D.: Psicologicamente siete stati sempre positivi ed ottimisti?
R.: No, anzi inizialmente eravamo molto giù, litigavamo spesso e ci scaricavamo a vicenda la responsabilità della situazione. Poi abbiamo capito che non serviva a niente prendersela l’uno contro
l’altro. Allora abbiamo deciso di combattere assieme, anche perché io lo avevo messo alle strette
minacciandolo di andarmene.
Intervista 11
D.: Pensa di essere in grado di poter individuare un momento di svolta importante nel percorso di
uscita dalla situazione di difficoltà?
R.: Con il lavoro e la situazione economica. Tre anni fa, quando ha cominciato a lavorare in
un’officina per la lavorazione del ferro; non era in regola con l’assunzione però quello che avevano stabilito come stipendio gli veniva dato. Con mio marito abbiamo parlato... anzi all’inizio solo
litigato. Sono state tante le cose, tanti i giorni tristi... Per un intero anno... Riflettere sul fatto che
avevamo già tre figli e io superando le difficoltà li stavo allevando... Eravamo sposati nove anni...
tutte le volte che ci incontravamo mi chiedeva di ricominciare, che le cose erano cambiate, prima
litigavamo poi abbiamo cominciato a parlare e a capirci…
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: I problemi fra di noi ce li siamo risolti da soli; parlando e imparando ad ascoltarci... Mia madre
e mio padre erano già morti... Io ero disposta a giocarmi tutto, o lui cambiava o io non sarei più
tornata in questa casa.
Intervista 15
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Il lavoro. Ho pianto tanto, chiusa in casa, per non uscire… per evitare di dover dire di no alle
mie figlie che volevano il gelato, come vedevano gli altri bambini… poi magari andavo al supermercato per comprare quello che costava meno…
Intervista 03
D.: Quand’è che ha percepito che le cose stavano iniziando a girare per il verso giusto?
R.: Mmh... Quando mio fratello, che inizialmente era diffidente, mi ha aiutato per il negozio, io
sapevo che stavano vendendo il negozio quindi ho telefonato a mio fratello che ha sentito che potevo farcela. È venuto per il contratto mi ha aiutato, abbiamo dato il nome al negozio...
8
Le esperienze in materia, fra cui quelle sperimentate con il progetto “Equal-Extreme”,
sollecitano una maggiore attenzione sui percorsi di inserimento lavorativo a favore delle persone
in stato di disagio. Per lungo tempo la progettazione sociale ha individuato nel lavoro subordinato
l’unica leva in grado di favorire dei percorsi di recupero e di integrazione sociale, non insistendo,
laddove possibile, sul fattore “autopromozionale” che deriva dall’intraprendere (con un opportuno
accompagnamento motivazionale ma anche tecnico-imprenditoriale) una qualsivoglia attività autonoma.
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Intervista 12
D.: Pensa di essere in grado di poter individuare un momento di svolta importante nel percorso di
uscita dalle difficoltà?
R.: Tanti momenti, legati insieme. E poi la cooperativa. La decisione di provarci.
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Molto importante è stato essere ascoltata. Il darti coraggio. La persona della Caritas è stata una
sorpresa... non avrei mai immaginato che fosse così.
La seconda area fa riferimento ad una “inversione di rotta” scaturita dal
positivo rapporto con la struttura Caritas. In particolare si tratta di contatti personali con gli operatori (ma spesso anche con i sacerdoti) avvenuti in momenti particolarmente critici, trasformatisi positivamente non solo in strumenti di “riduzione del danno” ma anche, talune volte, in preziosi fattori di coinvolgimento progettuale a livello personale.
Intervista 05
D.: Pensa di essere in grado di poter individuare un momento di svolta importante nel percorso di
uscita dalla situazione di difficoltà?
R.: Dal momento che mi sono rivolto alla Caritas ed ho trovato dei collaboratori che mi sono venuti incontro, che mi hanno aiutato anche sotto il profilo morale, facendomi trovare a proprio agio.
Intervista 06
D.: Quand’è che le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto?
R.: Quando mi sono rivolta a don M., anche quando non sono riuscita a pagare subito [il prestito
ricevuto dalla Caritas] lui mi ha dato altro tempo...
Intervista 08
D.: Quand’è che le cose hanno cominciato ad andar bene?
R.: Nel momento in cui la Caritas si è attivata per aiutarmi.
D.: È in grado di individuare un aiuto particolarmente importante per uscire dalla crisi?
R.: Ho ricevuto ascolto solo dalla Caritas. È da allora, da quando so che ho una Chiesa che sta al
mio fianco che sono più sereno e mi sono riavvicinato alla Chiesa…
Intervista 10
D.: Veniamo invece al momento di svolta. Ritieni che questo contatto con la Caritas sia stato un
po’ il passaggio definito verso un cambiamento? In che cosa è consistito questo cambiamento?
R.: Nel ridarmi fiducia, aver fiducia negli altri… non chiudermi a riccio, nel scoprire che si può
ancora dare e ricevere amore.
D.: Oggi sei un po’ più felice rispetto a quel periodo?
R.: Sì, eh… abbastanza.
D.: E anche questo può essere un risultato, no? Forse il risultato più importante?
R.: Sì.
D.: E quindi quand’è che le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto?
R.: Forse c’ero già 5 mesi quando le cose hanno cominciato ad andare un po’ meglio. Quando ho
lavorato… Anche quando [il direttore della Caritas] mi ha detto che non potevo restare più nella
casa, un po’ mi sono sentita… però non potevo stare sempre lì alla casa, perché c’è sempre un via
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vai di gente… Ancora ci sto lavorando. Però posso dire che quel periodo è passato, oggi sto meglio…
D.: Ti trovi bene in questa nuova realtà?
R.: Sì.
Intervista 13
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: L’aiuto della Caritas mi ha consentito di risolvere il problema di cosa mettere in tavola quando
non avevo altro. Adesso mi tranquillizza sapere che se avrò bisogno ci sarà qualcuno che mi darà
ancora una mano.
La terza area, invece, racchiude una gamma di molteplici “punti di svolta”,
riconducibili per lo più alla sfera relazionale, psicologica e motivazionale. Rientrano in quest’ambito gli “eventi spartiacque” che fanno riferimento: alle dinamiche familiari (separazioni, accoglienza da parte di nuovi nuclei familiari, costruzione di nuove socialità); al superamento di qualche disagio specifico (cessazione
della dipendenza da sostanze, l’uscita dal carcere) e al riacquisito equilibrio personale (l’aver ricevuto fiducia e motivazioni forti, l’aver acquisito consapevolezza
di sé con un’adeguata capacità di discernimento).
Intervista 03
D.: Quindi le sue difficoltà sono finite… quando vi siete lasciati?
R.: Sì, anche se lui il divorzio non l’ha mai firmato. Siamo separati. Io mi sono liberata..., spero
che non si ripresenti. Adesso se né andato in continente...
Intervista 19
D.: Quali difficoltà hai dovuto superare per risolvere i tuoi problemi?
R.: Io qua non potevo più rimanere… era pericoloso perché c’erano sempre gli amici suoi in giro
pronti a minacciarmi… non ce la facevo più e ho chiesto aiuto in parrocchia… per trovarmi un
posto dove potevo stare un po’ tranquilla… dove potevo ricominciare… la mia catechista mi ha
trovato un posto in una casa famiglia a [Villarossa]… lì mi hanno aiutato molto… mi hanno operato ad un occhio che mi aveva danneggiato... ho fatto psicoterapia… perché ogni notte mi svegliavo urlando… vedevo la sua faccia grande grande che mi picchiava… mi hanno curato anche i denti rotti… ho imparato ad usare il computer… e poi mi hanno trovato lavoro in una casa per fare le
pulizie. Da due anni lavoro e vivo anche con loro… in questa famiglia… ho uno stipendio di 700
euro… ho aperto il libretto e sto cominciando a risparmiare… io sento che loro mi vogliono molto
bene… pensa che quando mi sono ammalata… ho avuto la febbre alta… mi sono stati vicini ogni
giorno… venivano sempre a chiedermi di cosa avevo bisogno…
Intervista 18
D.: Quand’è che le cose hanno cominciato ad andare bene... Sai individuare un punto di svolta importante?
R.: Dopo un po’ di anni dal mio arrivo qui ho cominciato ad essere più serena... Ripeto, i primi anni sono stati difficili, ma poi ho cominciato a dire a me stessa ... “ma se loro [i miei genitori adottivi] mi stanno offrendo un futuro”... e poi per merito della mia resistenza ad accettare tutto... mi ha
aiutato anche mio zio... il fratello di mia madre [adottiva] che abita con noi... una persona meravi-
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gliosa... comunque... loro mi hanno fatto capire che non stavo sostituendo nessuno... sono persone,
ti volevo dire, che mi hanno dato la possibilità... non posso non volere loro bene... non solo egoisticamente... non solo per interesse... ma perché loro mi hanno dato tutto... c’è chi dice che la mia
presenza sia qualcosa... ma non è niente a confronto di quello che loro hanno dato a me... tutto
quello che viene dato ad un figlio a me è stato dato... e, senza buttare giù tutto quello che ha fatto
per me mia sorella, riesco oggi a capire che cosa è una famiglia... cosa ti dà un padre... cosa una
madre... avevo già una famiglia... ho ancora una famiglia perché io ci vado ogni anno in Albania...
ma io dico sempre che la mia famiglia sono questi tre qua: mio padre, mia madre, mio zio... e poi
c’è il mio ragazzo!
Intervista 14
D.: Quand’è che le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto?
R.: Forse adesso che lui è riuscito a disintossicarsi…, che ha ricominciato a lavorare… anche se
sono tante le spese che deve affrontare…
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: Da parte della Caritas sono state diverse le occasioni. Le parole di don M., di conforto e di perdono nei confronti di mio marito: ché io non riuscivo… con tutta la rabbia che avevo di potergli
stare vicino; le parole di don M. mi hanno fatto riflettere…
Intervista 07
D.: Pensa di essere in grado di poter individuare un momento di svolta importante nel percorso di
uscita dalle difficoltà?
R.: Quando ho finito la detenzione. Ho fatto un po’ di anni dentro. Poi ho fatto anche otto mesi di
detenzione domiciliare. Ho deciso di smettere…
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza per riuscire a risolvere i suoi problemi?
R.: È stato solo l’aiuto di don M.
Intervista 17
D.: Pensando alla tua storia riesci ad individuare un punto di svolta... quando le cose hanno cominciato a migliorare...?
R.: Quando io sono uscito dal carcere è cambiato tutto... perché quando sono uscito non riuscivo
nemmeno a camminare... camminavo storto dalla luce forte, essere libero è una cosa grande, è un
dono; quando ero in carcere io vedevo che molti ragazzi che uscivano poi rientravano subito e io
chiedevo perché e loro mi rispondevano che stare agli arresti domiciliari era peggio... perché sei
solo... non hai soldi... ma io dicevo “se esco non torno più qui dentro” e l’ho dimostrato.
D.: Quali sono i principali ostacoli che hai dovuto superare?
R.: Io quando ero in comunità non potevo comunicare con nessuno ma io pensavo sempre al futuro... ho ricevuto l’attestato di falegnameria perché il falegname veniva due volte alla settimana e io
avevo la speranza di uscire un giorno di là ed iniziare il lavoro; però nessuno aveva fiducia in me
ed io dicevo “guarda che io ho sbagliato e non voglio ripetere i miei sbagli e non voglio che tu
guardi me come pregiudicato, voglio che mi guardi come persona... perché in un attimo possiamo
sbagliare tutti... oggi sono stato io in carcere, domani può darsi che anche tu sei lì dentro, non è
detto”... quindi non ci credevano, come ti posso spiegare... mi sembra... come ti posso spiegare,
che c’è stato qualcuno... un’anima buona vicino a me... io adesso non so chi è stato ma sperando
che è solo uno, Dio, che guarda bene le persone e giudica chi è questo e chi è l’altro... perché molti altri sono usciti e adesso sono di nuovo dentro perché pensano che la vita è fare gli errori... è fare
gli sbagli... ma non è lì.... invece... la mia vita è cambiata molto e io vedo il futuro in maniera diversa... ti devo dire... anche migliore di prima...
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Intervista 16
D.: Pensa di essere in grado di poter individuare un punto di svolta nei suoi problemi?
R.: Nel 2005, quando mi sono imposto che le cose dovevano andare per il verso giusto e… cioè
quando mi sono imposto che mi dovevo dare da fare e quindi dovevo lavorare e dovevo fidarmi
delle persone che avevano fiducia in me.
D.: È in grado di individuare un aiuto di particolare importanza?
R.: Sa, tante volte, quando si riceve un aiuto… è una cosa che ti porta a migliorarti, e sono sempre
lì, a continuare a perseverare nel darmi da fare. Anche se qualche volta sono stato strigliato... penso faccia parte del percorso che si deve affrontare per risolvere i problemi.
La quarta area, infine, in una posizione residuale in quanto a segnalazioni,
si riferisce ad un ventaglio assai eterogeneo di “inversioni di rotta” percepite dagli
intervistati, che chiama in causa esclusivamente gli aspetti burocraticoamministrativi (in particolare l’orientamento a fini pensionistici), quelli sanitari
(presa in cura della malattia di un figlio) e abitativi/alloggiativi (accoglienza presso una struttura per anziani).
Intervista 02
D.: Può ricordare qual è stato il momento che ha fatto cambiare le cose, quando tutto ha iniziato a
girare per il verso giusto?
R.: Sarà quando mi hanno detto che era stata accettata la pensione, il momento sarà stato quello. Io
pensavo sempre che il lavoro ce l’avevo, ma con la vista... Il domani era per la famiglia per la situazione economica. Quando è arrivata la pensione è stata accettata, un po’ mi... mi sono rassegnato, rilassato almeno il pane ce lo avevo.
D.: Qual è stato l’aiuto decisivo?
R.: Sono stati parecchi non ce n’é uno solo.
D.: Non c’è stato un aiuto particolare ma un insieme di aiuti?
R.: Sì, tutto l’insieme.
D.: Se lei potesse individuare quell’aiuto più importante: qual è stato?
R.: Uno sarà che stavo lavorando, ero assicurato. Se uno era disoccupato avrebbe avuto qualcosa
che non bastava a niente cioè un’invalidità. Io ho preso una... una pensione Inps diversa. I datori di
lavoro mi hanno aiutato, mi son venuti incontro in tutto e per tutto, hanno capito la situazione anche loro.
Intervista 04
D.: Qual è stato il punto svolta?
R.: [Quando] finalmente abbiamo capito quale è il disturbo del ragazzino. Le maestre hanno capito
che non è una cosa come pensavano loro... noi estiamo fascendo per avere l’insegnante di sostegno. È seguito… dal neurofissichiatra e ci hanno detto che è meglio averla, sempre quando sia
brava, perché si no è brava allora… si viene una che lo può arruinare di più… meglio lasciar perdere!
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Intervista 09
D.: Lei pensa di essere in grado di poter individuare un momento della sua vita dove c’è stata una
svolta in positivo…?
R.: Sì.
D.: Si riferisce a quando è arrivato qui [alla casa di riposo]?
R.: Sì sì e basta. Da allora io sono tranquillissimo. Guardi: nessuno mi disturba, sono guardato, sono pulito, mi lavano la roba. È tutto!
3.5. L’oggi e le prospettive future
Durante i colloqui, le persone intervistate hanno potuto descrivere cosa è
rimasto, una volta attenuata la situazione acuta di disagio, del rapporto stabilito a
suo tempo con la Caritas, in particolare con gli operatori del Centro di ascolto con
cui hanno instaurato una qualche relazione.
Fra le domande poste dagli intervistatori, peraltro, vi erano pure quelle riguardanti le condizioni generali al momento dell’intervista e le prospettive che si
prefiguravano per il loro futuro.
Riguardo alla situazione contingente, la maggior parte delle persone intervistate, pur ammettendo di non aver ancora superato tutte le difficoltà, ha nel contempo dichiarato di esser riuscita a risolvere i problemi più importanti e a proiettare se stessi in un orizzonte decisamente più favorevole. Appare interessante il fatto che nel descrivere il presente, così come nel prefigurare le prospettive future,
gli intervistati hanno fatto frequentemente riferimento al nucleo familiare, sia come realtà in grado di condividere la “tenuta” del proprio percorso di riscatto sia
come approdo finale nella uscita definitiva dal disagio.
Rispetto al futuro, invece, sono in pochi ad aver manifestato qualche residuale elemento di incertezza e timore per un avvenire dai contorni non ancora definiti. Il “vivere alla giornata” o il limitarsi a “vivere il presente”, avendo “paura
del futuro”, sono espressioni che ricorrono molto meno frequentemente rispetto al
desiderio di “pensare ai figli” o “sposarsi e costruire una famiglia”: manifestazioni
che, con buona evidenza, indicano un voler “voltar pagina” rispetto ad un passato
doloroso e problematico per proiettarsi positivamente verso il domani.
Intervista 03
D.: Quindi lei ritiene di aver superato i problemi di allora?
R.: Sì, neanche a paragone.
D.: Quali sono dunque le sue prospettive per il futuro? Cosa si aspetta?
R.: In futuro? Niente, solo gioia, felicità. I soldi per me non hanno importanza ma contano le gioie
eh.. che ti dà il lavoro, la famiglia, che stia bene mia figlia eh... una casa. Una casa per dare un tetto a mia figlia, una sicurezza che gli manca. Il lavoro che vada bene, la salute prima, in partenza la
salute…
Intervista 06
D.: A distanza di tempo, che tipo di ricordo le ha lasciato l’esperienza di aiuto dalla Caritas? Ne
conserva un ricordo positivo o negativo?
R.: Positivo, ho riacquistato fiducia e serenità.
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D.: Che tipo di situazione vive oggi, lei e la sua famiglia? Ritiene di aver superato definitivamente
i problemi di allora?
R.: Sì, la famiglia vive tranquilla, sono venuta scettica, non illudendomi di trovare ciò di cui avevo bisogno... Invece...
D.: Quali sono le sue prospettive per il futuro?
R.: Quella di vivere con la mia famiglia in modo sereno.
Intervista 10
D.: Che ricordo ti ha lasciato quell’esperienza lì alla Caritas?
R.: Non sono state sempre rose e fiori. Non sempre.
D.: Ti sentivi protetta?
R.: Sì, viziata. Ho stabilito nuove relazioni. Ho visto delle persone con storie più pesanti della mia.
Ho visto quanti problemi ci sono.
D.: Tra le cose meno buone?
R.: Magari… che uscivo con delle persone con cui non dovevo uscire. Te lo dicevano tutti i giorni.
Poi, a distanza di mesi ci ho ripensato, ho capito perché mi dicevano quelle cose…
D.: I problemi di cui mi hai parlato, ritieni di averli superati del tutto?
R.: Forse qualcosa devo ancora… a parte quello con la famiglia, anche il rapporto con le persone.
Bisogna lavorarci.
D.: Come pensi il tuo futuro? Ci stai pensando?
R.: Vivo ancora il presente. Mi piace lavorare in ristorante, come cuoco, mi piace cucinare. Dove
sto lavorando adesso sto lavorando in cucina con un cuoco…
Intervista 11
D.: E della Caritas che ricorda?
R.: Senza l’aiuto della Caritas non ce l’avremmo fatta. Inoltre era anche il modo con il quale ci
aiutavano, con discrezione e senza dover bussare due volte. L’incaricata ci fermava dovunque ci
vedesse per ricordarci che potevamo andare a prendere quello che ci serviva. La discrezione e la
disponibilità, senza orario…
D.: Che tipo di situazione vive oggi, lei e la sua famiglia?
R.: La situazione adesso è senz’altro migliore. Non sempre i soldi sono sufficienti, un altro stipendio ci farebbe comodo... siamo una famiglia di sei persone, anzi sette. Però riusciamo almeno ad
essere autonomi.
D.: Quali sono le sue prospettive per il futuro?
R.: Non mi dispiace l’idea di andare via, di poter avere un lavoro, anche se questa casa non la lascio.
Intervista 12
D.: Che ricordo ha della Caritas?
R.: Sono sicura di poterci contare. So che se il lavoro dovesse diminuire o mancare il pane quotidiano ci sarà. Senza neanche doverlo chiedere...
D.: Ritiene di aver superato definitivamente i problemi di allora?
R.: Adesso ho costituito con altre persone una cooperativa e possiamo partecipare agli appalti per
la gestione delle mense scolastiche per le pulizie e per la cura e la pulizia delle strade urbane. Non
diventerò ricca, le difficoltà sono tante, però almeno per il momento il lavoro non mi manca. A
casa stiamo bene. Mia madre, e i nipoti che in pratica ho allevato io.
D.: Quali sono le sue prospettive per il futuro?
R.: Adesso, il presente è sereno. Infatti, cosa alla quale non ho pensato prima, mi sposo. Con una
persona che conosco da tempo...
83
Intervista 13
D.: Conserva un ricordo positivo o negativo della Caritas?
R.: È l’unico ricordo bello di quel periodo. Non dimenticherò mai l’aiuto e la disponibilità… E il
gesto del parroco.
D.: Che tipo di situazione vive oggi, lei e la sua famiglia? Ritiene di aver superato definitivamente
i problemi di allora?
R.: Adesso mio marito lavora come dipendente. I soldi non sono tanti, però a fine mese arrivano…
D.: Quali sono le sue prospettive per il futuro?
R.: Io vorrei che le ragazze che vogliono finire la scuola e mio figlio, che non so se riuscirà a restare a scuola, riescano con il nostro aiuto a finire gli studi. Una di loro sogna di laurearsi… Pensare
al futuro non riesco. Pensavo di averne uno diverso quando mi sono sposata. Mi basterebbe risolvere le situazioni più pesanti, come quei pagamenti arretrati. E che gli imprevisti ci capitino non
tutti insieme, ma uno alla volta così magari riesco a risolverli. Che mio marito non si ammali, che
non si lasci prendere dalla depressione. Un uomo che non ha ancora cinquanta anni si sente trattare
come un vecchio, però pretendono di pagarlo come un apprendista.
Intervista 15
D.: Che tipo di ricordo le ha lasciato la Caritas?
R.: È stato come il sole che si affaccia tra le nuvole, anzi tra i nuvoloni scuri.
D.: Che tipo di situazione vive al giorno d’oggi?
R.: Non ho superato tutto. La separazione non è facile da superare. Gli altri problemi, pian piano li
sto superando. L’affitto, le bollette, i soldi finiscono presto, non riusciamo ad avere tutto quello
che vogliamo, e un po’ di soldi è meglio conservarli, non si sa mai… però per adesso va bene. La
cooperativa… potrebbe garantirmi altro lavoro, non appena ci sarà la possibilità, io non ho paura
di lavorare, non mi spaventa la fatica.
D.: Quali sono le sue prospettive per il futuro?
R.: Dare un padre alle mie figlie, anche se sembra che io non ne abbia diritto… ne ho parlato con
due sacerdoti, uno non mi ha voluto dare la comunione, mentre un altro quando ha capito che io
non convivevo, mi ha detto che io ho necessità di avere una persona al fianco per affrontare la vita,
e mi ha dato la comunione. Questo non significa che le mie figlie non devono conoscere il loro padre… però… adesso ho un compagno, da circa un anno, non conviviamo, io vado in chiesa, ma
non posso fare la comunione, e mi chiedo perché? Ne ho parlato con il mio parroco… mi dispiace,
ci soffro molto. Il mio compagno mi aiuta, fa dei regali alle bambine, io per orgoglio non chiedo
niente.
Intervista 19
D.: Come vedi il tuo futuro? Cosa ti aspetti?
R.: Non posso più tornare nel mio paese… la mia famiglia non sa dove sono... voglio stare lì…
ricominciare tutto… voglio solo lavorare e trovare un po’ di tranquillità e cercare di dimenticare le
cose più brutte… mi sto avvicinando alla fede e mi sta aiutando molto.
4. Alcune considerazioni conclusive
In questo capitolo, attraverso l’analisi del contenuto delle storie di vita, si è
avuto modo di considerare come alla base dei percorsi di uscita dalle situazioni
acute di disagio, caratterizzate per lo più da una complessa multidimensionalità, si
rintraccino degli approcci che non si limitano al mero aiuto assistenziale. Pur considerando determinante l’intervento specifico rispetto a problematiche concrete
(come individuare rapidamente un alloggio nel caso di sfratto esecutivo, per fare
84
solo un esempio), appare ugualmente importante la componente psicologica e motivazionale associata alla volontà/capacità della persona di trovare al proprio interno le risorse necessarie per uscire dal disagio. Aspetto reso ancor più importante laddove il soggetto ha potuto sperimentare la costruzione, attorno a sé, di un
circuito virtuoso di relazioni e di una dimensione vitale di senso. In altri termini, il
far leva sugli aspetti motivazionali, con un approccio che potremmo definire
“maieutico”, si è dimostrata una funzione determinante da parte degli attori delle
reti sociali, fra cui gli operatori dei Centri di ascolto. In particolare, l’azione di
promozione della persona, da parte della Caritas, si è dimostrata più efficace:
-
quando la prestazione sociale non è stata disgiunta dal primato della relazione. In altri termini, quando il sostegno alle persone in difficoltà si è trasformato in un progetto che ha dato vita ad una relazione – meglio ancora
se accompagnato da una figura specifica di tutor che ha agito anche al di
fuori dell’ambito strettamente progettuale – e non in un intervento sporadico (non a caso le persone intervistate ricordano per lo più positivamente
il rapporto di empatia dimostrato da alcuni operatori in particolare, anche a
distanza di anni);
-
quando il progetto è stato personalizzato, cercando di cogliere il più possibile gli elementi peculiari che ciascuna storia di vita esprime e che la
rendono differente dalle altre. In altre parole, leggendo meglio i bisogni,
senza rimanere “schiacciati” dalla richieste, è possibile cogliere la specifica area di disagio evitando il rischio di relegare la proposta progettuale ad
un intervento isolato e non sempre efficace (non basta dare il sussidio economico ad un disoccupato se non lo si aiuta anche a trovare/creare il lavoro);
-
quando non si è operato in solitudine, ma allargando il coinvolgimento e
la responsabilità alle reti dei servizi socio-assistenziali e, possibilmente,
alla famiglia e alla stessa comunità ecclesiale. Ciò presuppone una buona
conoscenza delle risorse esistenti ed un’efficace interazione con le stesse,
oltre che con il territorio nel suo complesso.
In ultimo, ma non ultimo, appare determinante il “tratto umano” dimostrato
dagli operatori nel ridurre le distanze tra chi dà e chi riceve aiuto, favorendo il più
possibile la reciprocità sul piano relazionale. Per questa ragione gli operatori dei
Centri di ascolto della Caritas, pur non considerandosi dei professionisti tout court
del sociale, sono profondamente consapevoli del dovere di riconoscere l’identità e
di promuovere la dignità delle persone che a loro si rivolgono quotidianamente,
accettando la responsabilità ma anche il privilegio di accompagnarle nella fuoriuscita dal labirinto.
85
86
CAPITOLO QUARTO
MODELLI DI USCITA DALLA MARGINALITÀ
NELL’OPINIONE DI ALCUNI TESTIMONI
PRIVILEGIATI
1. Alcuni aspetti metodologici e impostazione dei focus group
Anche nel presente capitolo, come nel precedente, vengono approfonditi
gli aspetti qualitativi dell’indagine riguardante i percorsi di uscita dal “labirinto”
del disagio sociale. In questa sede, in particolare, vengono messe a confronto le
varie esperienze maturate in alcuni contesti territoriali 1, attraverso l’ausilio dei
focus group allargati ai testimoni privilegiati. Basandosi sulla discussione in
gruppo di argomenti prestabiliti, questo strumento qualitativo della ricerca sociale
ha permesso di acquisire interessanti informazioni sulle modalità di alcuni percorsi di uscita dal disagio, sul ruolo esercitato dalle reti territoriali (includendo la Caritas) e sulle differenti prassi caratterizzanti i percorsi intrapresi dalle persone italiane e straniere.
Come nel passato, anche in questo caso la realizzazione dei focus group,
oltre a favorire l’acquisizione di ulteriori elementi di analisi conoscitiva, ha inteso
suscitare una maggiore consapevolezza fra i vari attori sociali convocati, dando
vita, per quanto possibile, a delle reti territoriali in grado di stimolare delle sinergie sul piano operativo. Vale, anche in questa sede, quanto sostenuto in letteratura
circa l’esplicitazione delle cosiddette “assunzioni normative” che il contesto dei
focus group può opportunamente favorire, le quali rimangono generalmente relegate nell’ambito dell’implicito. Come ci viene ricordato da diversi autori, nella vita quotidiana l’ordinamento normativo che sta alla base dei comportamenti e delle
opinioni sociali viene esplicitato raramente. Il contesto dei focus group rappresenta per lo più una circostanza socialmente legittimata per i partecipanti, in grado di
favorire una loro “introspezione retrospettiva”, utile anche al fine di riportare in
piena luce quegli assunti normativi che per lo più si tende a dare per scontati 2.
I focus group sono stati predisposti e condotti dai referenti locali del progetto rete, valorizzando il più possibile le interazioni tra i partecipanti e le analisi
da essi proposte. Ai referenti era stato fornito previamente uno schema semistrutturato di argomenti da sviluppare, oltre a delle linee guida riguardo ai criteri
metodologici per l’individuazione e la selezione dei testimoni privilegiati.
1
Hanno contribuito alla realizzazione dei focus group le Caritas diocesane di AlgheroBosa, Cagliari, Iglesias, Ozieri, Sassari e Tempio-Ampurias.
2
Cfr. M. BLOOR – J. FRANKLAND – M. THOMAS – K. ROBSON, I focus group nella ricerca
sociale, Edizioni Erickson, Trento 2002, pp. 15-16.
87
Realizzati nella primavera del 2007, i focus group hanno consentito di
coinvolgere una cinquantina circa di persone 3. In riferimento alla selezione dei
testimoni, i referenti locali hanno adottato dei criteri orientativi condivisi circa gli
ambiti socio-professionali all’interno dei quali individuare le persone da contattare. In ogni caso si è scelto di dar voce a quanti, per il ruolo rivestito nel contesto
territoriale, risultavano edotti circa le dinamiche dei processi di esclusione sociale,
le nuove forme di povertà, le trasformazioni in atto a livello locale sotto il profilo
socioeconomico e culturale, con una particolare esperienza riguardo alle modalità
di uscita dalle situazioni acute di disagio sperimentate nella prassi concreta.
Come si è già rilevato, l’obiettivo conoscitivo dei focus group, ovverosia
l’oggetto specifico della presente indagine, ha inteso analizzare e approfondire il
fenomeno complesso dei percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio,
cogliendone, se possibile, gli elementi in comune rintracciabili nei vari contesti.
L’unità d’indagine era costituita dai cosiddetti “testimoni privilegiati”, con i quali
sono state esplorate alcune aree concettuali; in particolare si è dovuto prestare attenzione ai seguenti elementi:
1. Non si trattava di individuare esperienze di uscita definitiva dal bisogno
sociale, ma situazioni in cui non si rendeva più necessario ricorrere ad un
Centro di ascolto della Caritas e/o ad interventi strutturati e organizzati per
risolvere i bisogni primari della persona/famiglia (a differenza delle interviste biografiche, in questo caso non vi erano limiti temporali sul momento
dell’uscita dalla situazione di disagio);
2. Data la difficoltà oggettiva ad uscire da situazioni di indigenza e marginalità grave (come nel caso dei senza dimora), il riferimento è stato fatto in
modo esclusivo a situazioni di disagio sociale non particolarmente gravi;
3. Si è ritenuto opportuno convocare dei testimoni che fossero al corrente di
situazioni che hanno coinvolto sia italiani che stranieri, rispettando possibilmente la diversa incidenza proporzionale dei due gruppi.
Nel corso del focus group, dopo aver opportunamente spiegato il disegno
della ricerca ai partecipanti, costituito da una parte di lavoro quantitativa sui fenomeni di impoverimento (attraverso i dati dei Centri di ascolto delle Caritas della
Sardegna) e da un’altra di tipo qualitativo sui percorsi di uscita dal disagio (attraverso le interviste biografiche e, per l’appunto, i focus group), il coordinatore ha
avuto il compito di facilitare la partecipazione dei convenuti, favorendo
l’esplorazione delle aree tematiche proposte.
I “testimoni privilegiati” sono stati individuati dalle Caritas diocesane con
particolare attenzione, senza procedere ad un generico reclutamento. La convocazione è stata fatta alla luce di una reale consapevolezza circa la conoscenza diretta
di esperienze concrete di uscita da situazioni acute di disagio. Relativamente al
numero degli interlocutori, i coordinatori dei focus group hanno cercato di individuare almeno un referente per ognuna delle seguenti aree proposte:
3
Un elenco dettagliato di tutti i partecipanti e dei loro ruoli è contenuto nella sezione dei
ringraziamenti, alla quale si rimanda.
88
a) Area Caritas: direttore della Caritas diocesana, operatori dei Centri di ascolto e/o delle cosiddette “opere segno” - ovverosia delle strutture operative di prossimità della Caritas (mense, case di accoglienza, ostelli, ecc.) -,
referenti delle Caritas parrocchiali;
b) Area religiosa: vescovo, sacerdoti (compresi i direttori degli Uffici pastorali), parroci, religiosi/e;
c) Area sociale: assistente ai servizi sociali, operatori sociali dei Comuni e/o
delle Province;
d) Area politica: assessori alle politiche sociali, alla sanità, al lavoro;
e) Area lavoro (imprenditori - parti sociali): imprenditori, commercianti,
sindacalisti;
f) Area del terzo settore e volontariato: referenti di associazioni impegnate a
vario titolo contro ogni forma di povertà. Referenti di cooperative sociali,
consorzi impegnati in azioni di contrasto alla povertà;
g) Area sanitaria: direttore del distretto sanitario, medici di base, medici specialisti, farmacisti, infermieri;
h) Area accademica, di studio e ricerca: docenti, ricercatori, studiosi nel
campo delle scienze sociali, che hanno competenze professionali in grado
di ricostruire localmente i percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio, cogliendone i vari aspetti.
Poiché per la loro caratteristica metodologica i focus group hanno lo scopo
di favorire il confronto e il dibattito tra i partecipanti, l’interazione che essi producono costituisce il vero valore aggiunto di questo particolare strumento di indagine qualitativa.
2. Le aree esplorate e l’analisi del contenuto dei focus group
Riguardo alle aree da esplorare, si è preferito utilizzare una mappa che
prevedesse anzitutto una riflessione generale sulle esperienze di uscita dal “labirinto” conosciute direttamente dai “testimoni privilegiati”, in particolare sugli interventi intercorsi in termini di facilitazione e/o di ostacolo lungo il percorso. Si è
poi passati allo scambio di punti vista e riflessioni circa il ruolo esercitato dagli
attori presenti nel tessuto sociale (nell’ambito delle reti primarie e secondarie) al
fine di favorire l’attenuarsi del disagio, con particolare riferimento alle esperienze
maturate in ambito Caritas. Un’ulteriore area esplorata è stata quella concernente i
differenti percorsi intrapresi dalle persone di cittadinanza italiana e straniera. Altre
due aree, infine, hanno riguardato l’andamento e le prospettive del percorso di u89
scita, da un lato, e l’individuazione di alcuni interventi operativi eventualmente
replicabili in altri contesti, dall’altro.
Lo schema contenuto nella tabella 1 propone la sequenza ordinata delle aree esplorate, cui sono affiancati i quesiti-guida indicati nel dettaglio ed utilizzati
per facilitare la conduzione dei focus group.
TAB. 1. Definizione delle aree e piano di organizzazione dei focus group
FOCUS
Modelli di uscita dalla marginalità nell’opinione di alcuni testimoni privilegiati
AREE ESPLORATE
Interventi che hanno facilitato il ritorno ad una (parziale o completa) autosufficienza
Interventi che hanno ostacolato il ritorno ad una (parziale o completa)
1) Modalità del perautosufficienza
corso di uscita
Elemento di particolare importanza rispetto agli altri
Modalità di coinvolgimento attivo della persona in stato di disagio nel
percorso di uscita
Il diverso peso degli attori sociali (reti primarie e secondarie)
Interventi di ricostituzione della rete primaria attorno al soggetto in diffi2) La rete sociale nel coltà
percorso di uscita
Elementi di valutazione e verifica del modello di aiuto nel suo complesso
Esistenza di una logica di rete e approccio progettuale dietro gli interventi messi in campo
Elementi di valutazione e verifica del modello di aiuto Caritas
3) Il ruolo della
Eventuale correlazione tra il tipo di sostegno ricevuto dalla Caritas e la
Caritas come realtà di
capacità della famiglia di superare il momento di criticità
promozione umana
Eventuale atteggiamento di supplenza/autoreferenzialità nelle modalità
di intervento della Caritas
Eventuali differenze tra i percorsi di uscita degli italiani e degli stranieri
4) Percorsi di uscita
differenziati tra
Eventuali differenze tra i percorsi di uscita degli immigrati stabili e degli
italiani e stranieri
immigrati appena giunti e non integrati
Percorsi non lineari di uscita dal disagio. Episodi particolari, nel percorso
complessivo di vita, ricadute e/o inversioni di rotta
Eventuale correlazione tra tempo di permanenza in situazione di disagio
e difficoltà nell’intraprendere un percorso di uscita
5) Andamento e proEventuale tendenza a mettere in atto interventi che rischiano di cronicizspettive del percorso
zare la situazione di disagio della persona
Le prospettive per il futuro degli “ex-utenti”
Elementi di progettualità sia in riferimento agli “ex-utenti” sia riguardo
agli eventuali componenti della famiglia
Cosa può essere “recuperato” ed eventualmente replicato come modello
(buona prassi) nei percorsi di uscita dalle situazioni di disagio
6) Interventi operativi
Possibilità di adottare dei protocolli di lavoro condivisi (istituzioni, privato sociale, terzo settore) da adottare nel territorio
90
I paragrafi seguenti prendono in esame in modo analitico il contenuto dei
dati prodotti nella discussione dei focus group. In questa sede si è preferito trascurare gli approcci incentrati sull’analisi di conversazione e sulle dinamiche di
gruppo, per dare spazio esclusivo alla descrizione dei principali aspetti critici che
risultavano sottesi ai vari contributi proposti.
Per molti versi, i risultati contenuti in questa sezione della ricerca svolgono
una sorta di funzione di controllo rispetto a quanto esaminato nel capitolo precedente, in merito al cosiddetto “punto di svolta” nelle “carriere di povertà”, proprio
perché in quest’ambito il focus della riflessione è incentrato più sull’effetto (e sulle modalità) di determinati interventi di aiuto posti in essere dalle reti primarie e
secondarie, nonché dalla loro eventuale collaborazione, piuttosto che sul ruolo
giocato da particolari vicende biografiche nel vissuto delle persone intervistate.
2.1. Modalità del percorso di uscita dalle situazioni acute di disagio
Al di là delle soluzioni proposte, delle risorse messe in campo e delle differenti problematiche affrontate, in tutti i focus group i partecipanti hanno posto in
rilievo come nei percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio giochi un ruolo
determinante la fiducia e il sostegno accordati alle persone in difficoltà, le opportunità offerte loro ma anche, e soprattutto, la dimensione di accoglienza e di ascolto senza pregiudizio. In altri termini, il creare dei punti di riferimento personali per quanti si sono trovati costretti a chiedere aiuto.
Laddove i caregivers sono stati in grado di garantire un rapporto di fiducia
in un tempo prolungato, anche sotto il profilo dei sentimenti e dei legami emotivi
suscitati, sono state maggiori le possibilità di uscita dalle situazioni più gravi. Non
a caso si è rilevato come l’intervento più efficace sia consistito «nel mettersi in
piena disponibilità ed ascolto, facendo sentire all’altro che non si ha fretta e soprattutto facendogli capire che è possibile venirne fuori, nonostante tutto». È importante che chi chiede aiuto riceva fiducia e «si renda conto di trovarsi di fronte a
delle persone veramente interessate ai suoi problemi» (fg Tempio-Ampurias) 4.
Spesso «il primo ostacolo da superare è la diffidenza iniziale della persona» (fg
Ozieri); la «possibilità di essere accolti e non etichettati, la presa in carico» (fg Iglesias), il «poter contare su qualcuno non sentendosi soli», induce le persone «a
mettere in campo tutte le capacità possedute e la tenacia» (fg Alghero-Bosa).
Altrettanto importante, a parere dei partecipanti, è il fatto che chi chiede
aiuto possa far riferimento ad una persona specifica (spesso l’unico punto di riferimento per chi è in difficoltà), o ad un gruppo di persone in particolare, in grado
di farsi carico dei suoi problemi lungo un cammino scevro da pregiudizi o da aspettative troppo rigide (che mal si attagliano alla scommessa costituita da qualsiasi progetto di uscita dal disagio), come nel caso dello stralcio del focus group di
Sassari: «Ho avuto modo di conoscere un giovane aiutato dalle monache di clausura. Era un tossicodipendente, vagabondava tutto il giorno e sostava spesso davanti al convento. Le suore lo hanno ascoltato, sono riuscite ad entrare in confi4
Focus group svoltosi presso la diocesi di Tempio-Ampurias. D’ora in avanti i rimandi ai
vari contributi saranno indicati con la sigla fg, seguita dal riferimento diocesano corrispondente.
91
denza con lui per riuscire ad aiutarlo. Attualmente non fa più uso di sostanze, è
riuscito ad ottenere una pensione minima nella gestione della quale si fa aiutare
dalle suore che sono diventate il suo punto di riferimento quotidiano. Non può
contare sull’appoggio dei familiari, che sono seguiti dai servizi sociali...».
Negli interventi registrati in occasione dei focus group, il primato della relazione – piuttosto che l’assillo della prestazione sociale – si traduce nella possibilità di accogliere le persone nella loro integrità, “lanciando anzitutto dei salvagenti” in loro favore. Ancora una volta viene ribadita l’importanza del creare ponti,
del suscitare legami vitali con le persone.
La metafora dello “tsunami”, come possibile evento devastante nella vita
delle persone (la perdita del lavoro, un debito improvviso, ecc.), ha indotto un partecipante a chiedersi che cosa può essere utile in questi casi, ovverosia che cosa
può facilitare il ritorno ad una seppur parziale autosufficienza: «la risposta è “buttare i salvagente”! Se si dispone di un salvagente, come ad esempio il Centro
d’ascolto, la Casa di accoglienza, ecc., avendo molto chiaro da parte di ciascuno
quello che si può dare ed inoltre si è anche collegati ad altri servizi, se ci si accorge che ciò che si può offrire non “aggancia” la persona, la relazione che s’instaura
può in ogni caso servire da ponte per altri luoghi che offrono “salvagenti” più idonei… e questo finché non si trova il salvagente giusto con il quale si riesce a stare
a galla…» (fg Sassari).
Le connessioni virtuose fra i vari “salvagente” pone al centro l’idea, evocata in tutti i focus group, di una collaborazione in rete quale modalità più efficace di sostegno in favore delle persone. Garantire una presenza adeguata di “salvagente” nel “mare” del disagio sociale permette di “agganciare” il maggior numero
di persone. Quanto più sarà collaborativa (e fitta di connessioni) la rete, anche in
termini di consapevolezza sulle effettive capacità (e i ragionevoli limiti) da parte
di ciascun attore, tanto più rapido sarà l’orientamento – e conseguente affidamento – delle persona in difficoltà verso il “salvagente” più adatto.
Gli interventi che hanno reso più facile intraprendere un percorso di uscita
dalle situazioni acute di disagio sono quelli in cui «c’è stato il coinvolgimento delle diverse personalità che costituiscono il tessuto sociale: parroci, Comune, servizi
sociali, famiglia. Ogni qual volta si è cercato di interagire con molteplici risorse,
anche se non si è risolto definitivamente il caso, si è almeno contribuito ad alleviare la condizione di sofferenza presente» (fg Cagliari). Mettendo insieme le risorse, le conoscenze e le competenze; concordando un intervento tempestivo e
congiunto, è stato possibile superare gli ostacoli che generalmente si frappongono
nei percorsi di uscita.
Nella costruzione dei percorsi di uscita appare fondamentale quella che in
molti fra i partecipanti hanno definito “terapia di relazione”: il recupero di una
qualità relazionale come elemento preliminare a qualsiasi progetto. Per ritornare
alla metafora già adottata precedentemente nel focus group realizzato a Sassari, la
relazione viene vista come “ponte” per altri “salvagente”: «una volta che ci si aggrappa si attiva un processo»; un elemento di particolare importanza rispetto ad
altri, pertanto, risulta essere «quello che favorisce il processo di aggancio, ciò che
si trasmette assieme alla cosa di cui si ha bisogno, cioè una qualità relazionale che
va recuperata». È molto importante, a parere di un partecipante al focus group,
«ciò che si propone, ma soprattutto come si propone e quindi anche la capacità di
poter dire “oggi non ho ciò che mi chiedi ma ci sono io con te”; cioè la relazione
92
che si instaura con la persona che vive il disagio è l'elemento di particolare importanza rispetto agli altri […]. L'essere in relazione con qualcuno deve essere sentito
come valore principale».
Il fatto che chi chiede sostegno «possa entrare in un percorso di interrelazione con altri aiuta molto» (fg Ozieri). La «“terapia di relazione”» (fg AlgheroBosa), il reinserimento nel tessuto sociale costituiscono il primo “salvagente” a
cui far “aggrappare” la persona in difficoltà.
Nelle riflessioni proposte in tutti i focus group è apparso centrale il ruolo
della famiglia come dimensione significativa (da valorizzare come risorsa), ma
spesso anche come fonte di disagio. Nel caso di Ozieri, ad esempio, gli interventi
«che hanno facilitato l’azione» sono stati facilitati dalla «collaborazione della famiglia»; in un caso, in particolare, l’avere «alle spalle una rete familiare ben
strutturata ha permesso di intervenire con un’azione decisa ed efficace».
L’esperienza vissuta in molte Caritas è che tra i più efficaci facilitatori per un ritorno ad una parziale o completa autonomia vi è la risorsa famiglia. Proprio per
questo motivo, fra i principali «elementi che ostacolano il superamento del disagio
vi è la mancanza di percorsi fatti a livello familiare» (fg Iglesias).
In altri casi, invece, «le forme di disagio più gravi» sono state registrate
«in quei ragazzi che appartengono a famiglie dissestate» (fg Alghero-Bosa) su cui
non è stato possibile fare affidamento. Peraltro, capita non di rado che gli ostacoli
più grandi provengano proprio dal nucleo familiare: «l’accettazione del problema
da parte di quest’ultima, la paura dei familiari ad essere coinvolti, la fatica a collaborare con questi perché spesso non si trovano le modalità» (fg Iglesias), sono
tutti elementi problematici che si rilevano continuamente nelle storie di quanti
chiedono aiuto. In alcune esperienze registrate dai Serd, ad esempio, la famiglia si
è rivelata «un ostacolo nei confronti delle persone con dipendenze da sostanze.
Questo perché spesso delega le proprie responsabilità agli operatori della struttura», non assumendo alcun ruolo educativo (fg Iglesias).
Oltre all’elemento relazionale e sociale è altrettanto importante quello psicologico-motivazionale; soprattutto nel ricominciare ad aver fiducia in se stessi e
nelle proprie potenzialità, assumendo un atteggiamento collaborativo e sviluppando un’adeguata capacità di auto-responsabilizzazione. «Per fare in modo che la
persona riesca ad autodeterminarsi è di fondamentale importanza il suo atteggiamento. Se si pone in un atteggiamento di collaborazione, mostra una buona predisposizione e si riesce quanto prima ad individuare un percorso che gli consenta di
responsabilizzarsi» (fg Cagliari). In altri termini, appare essenziale lavorare nella
ri-costruzione di un appropriato concetto di sé, dopo la “devastazione” spesso prolungata determinata da uno o più “tsunami” portatori di disagio. Si tratta, in particolare, di accompagnare le persone nella formazione di un’adeguata autostima
(generalmente assente o messa in crisi, nelle situazioni di disagio acuto) e di
un’altrettanto adeguata autoaccettazione ancorata alla realtà (e quindi consapevole
dei propri limiti), quale condizione necessaria per far fronte agli eventi negativi
che costellano la vita di ciascuno. L’autostima e l’autoaccettazione costituiscono
gli elementi propulsivi della (buona) volontà, a patto che chi si prende cura della
persona faccia leva sul riconoscimento della sua identità, stimolando in lei un adeguato livello di interesse (la costruzione di senso), attraverso la sollecitazione di
legami emotivi costruiti in un rapporto di reciproca fiducia.
93
Va da sé che non possono esistere percorsi di uscita dal disagio senza il
coinvolgimento pieno delle persone. Per questo è assai «importante aiutarle affinché si impegnino, mantengano gli impegni e li portino avanti». In molti casi si è
notato che se le persone per prime «non recuperano una certa autostima e non si
rendono conto delle problematiche che stanno vivendo e delle conseguenze che
queste comportano, non ci saranno mai percorsi di uscita» (fg Iglesias). È di fondamentale importanza, pertanto, «far fare un percorso di riappropriazione di se
stessi, della propria vita, del proprio ideale… Alle volte occorre far ritrovare anche una forza interiore, magari con la preghiera… A volte è stato necessario fare
un lavoro di scavo, perché spesso è difficile far emergere quello che sta dentro la
persona… non lo sanno nemmeno loro. La difficoltà maggiore si ha quando si incontrano persone che non cercano di ritrovare se stesse… A queste non interessa
riappropriarsi del proprio essere, del proprio esistere, del proprio presente o futuro, ma semplicemente risolvere il problema materiale immediato e basta».
Un contesto di reale coinvolgimento, unito al rispetto delle regole che tale
progetto comporta, è certamente quello offerto dall’inserimento lavorativo. Il lavoro, nei contributi emersi nei vari focus group, si conferma infatti come uno dei
fattori principali nel favorire buona parte dei percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio. In più di un caso, quando si è «riusciti con l’aiuto economico di
tre o sei mesi a sostenere quella persona che è riuscita ad avere in quell’arco di
tempo il lavoro, la situazione è stata risolta» (fg Alghero-Bosa). Quando c’è stata
“l’emergenza indulto”, «l’intervento principale per indirizzare le persone ad un
percorso di autonomia è stato l’inserimento lavorativo». Anche nel caso delle persone con dipendenze, l’inserimento lavorativo si rivela come «uno degli interventi
che aiutano di più a rendere autonome le persone. È stata un’esperienza importante perché questi giovani si sono trovati inseriti nel mondo del lavoro e hanno sperimentato il rispetto delle regole. Si sono sentiti accolti e rispettati dagli altri colleghi» (fg Iglesias). Analoghe considerazioni sono state fatte nel caso di alcune
problematiche legate alla salute mentale: in alcune esperienze, «gli elementi che
aiutano sono i percorsi di reinserimento lavorativo, quali ad esempio le iniziative
attivate con il Cesil, le collaborazioni con le cooperative sociali e i progetti lavoro» (fg Iglesias). In altri contesti, il «ritorno ad una quasi completa autosufficienza
di una donna separata e con dei figli piccoli è stato possibile nel momento in cui si
è stati capaci di offrirle un lavoro stabile in grado di garantirle una certa autonomia» (fg Ozieri).
Tuttavia, il solo inserimento lavorativo in molti casi non basta. Rispetto ad
alcune particolari problematiche, infatti, si rende necessario il sostegno specifico
di gruppi dedicati e/o di operatori qualificati che siano in grado di farsi carico del
disagio con progetti personalizzati. Un sostegno che, possibilmente, non sia relegato alla sola fase di emergenza ma che possa essere invece garantito lungo tutto
il percorso di uscita, con un ruolo di tutoraggio/monitoraggio costante affidato ad
uno specifico care giver. Si tratta, in altri termini, di favorire la ricostruzione nel
tempo di un progetto di vita ad opera di specialisti.
Nell’esperienza dei problemi alcol-correlati, ad esempio, «gli interventi
che hanno facilitato il ritorno ad una completa autosufficienza sono sicuramente i
club, ossia l’insieme di famiglie che si incontrano settimanalmente con un “servizio insegnante”, o meglio con un operatore qualificato al fine di affrontare insieme i problemi» (fg Iglesias). Per altri partecipanti è «importante che non ci sia so94
lo una fase ma un accompagnamento continuo, con personale adeguatamente preparato dal punto di vista professionale, lungo tutto il percorso» (fg Ozieri). Peraltro, quando si interviene per aiutare qualcuno in difficoltà si deve pensare «ad una
progettazione flessibile; non si possono fare interventi pre-confenzionati, perché
molte volte è difficile far emergere e far rielaborare alla persona che hai di fronte
il problema reale, anche se tu lo hai già intuìto». Si tratta, in altri termini, di «ricostruire un percorso di vita»: se per esempio una persona è dipendente da sostanze,
«non è sufficiente che smetta di usarle se poi si ritrova in un contesto sociale in
cui ha di nuovo il nulla attorno. Bisogna, allora, creare delle relazioni di sostegno
attorno a chi è in difficoltà» (fg Tempio-Ampurias).
Un ruolo altrettanto importante nei percorsi di uscita è la conoscenza dei
propri diritti e doveri. Alcuni partecipanti ai focus group hanno rilevato come sovente le persone in difficoltà non sono al corrente delle prassi da seguire. Per questo motivo è assai importante «mettere la persona nelle condizioni di sapere, di
avere tutte le informazioni per poter fare la propria scelta… Dare tutte le informazioni possibili aiutandola, senza sostituirsi ad essa» (fg Alghero-Bosa). La disinformazione, «che riguarda non solo i diretti interessati ma anche i cittadini in generale» (fg Iglesias), costituisce un ostacolo assai importante.
Altrettanto sfavorevole è una certa cultura fuorviante (condivisa fra gli
stessi addetti ai lavori) che vede nella rete dei servizi una realtà di mera gestione
dell’emergenza, trascurando invece la sua funzione a carattere preventivo. Nel caso dei Serd, ad esempio, sebbene a livello nazionale ed internazionale tale realtà
sia riconosciuta come «servizio che va dalla prevenzione alla cura, è invece visto
in città come il diavolo. Questo non produce gli effetti previsti ed impedisce alle
persone di avvicinarsi a noi per tempo» (fg Sassari).
2.2. La rete sociale nel percorso di uscita
In questo sezione, non affrontando nello specifico il ruolo assunto dalla
Caritas (cui è dedicato il paragrafo seguente), vengono presi in esame gli interventi messi in campo dagli attori che operano nell’ambito delle reti primarie e secondarie. Obiettivo del focus group, in questa sede, era anche quello di prendere in
esame dei possibili elementi di valutazione e verifica in ordine ai modelli di aiuto
adottati; tuttavia, in quasi tutti i contesti – com’era facile prevedere – è stato «difficile fare una valutazione omogenea degli interventi, proprio perché non esiste un
modello standard uguale per tutte le situazioni» (fg Iglesias). In alcuni casi si è rilevato che «la verifica coincide a volte con la valutazione del risultato, poiché non
sempre si riesce a seguire per intero il percorso di uscita» (fg Ozieri). Per tale ragione è emersa da più parti «la necessità di individuare degli indicatori che impediscano di operare sulla base di semplici impressioni» (fg Sassari).
Si è già rilevata, nelle riflessioni proposte dai partecipanti, l’importanza
della famiglia sia nel considerarla come risorsa da valorizzare sia, talune volte,
come elemento su cui non è possibile fare affidamento o finanche come causa
stessa del disagio. Questo aspetto ambivalente è emerso anche nella valutazione
del suo ruolo come soggetto della rete primaria nei percorsi di uscita.
In caso di problemi finanziari, ad esempio, la famiglia è quasi del tutto assente e «i familiari è difficile che intervengano» (fg Alghero-Bosa). Si è pure rile95
vato che «la maggior parte delle persone che si rivolgono a determinate strutture
non ha una famiglia alle spalle. La carenza familiare, pertanto, rende la persona
ancora più fragile e svantaggiata. Vengono fatti dei tentativi di ricostituzione del
nucleo familiare, incontrando i membri, sensibilizzandoli… ma a volte la famiglia
non riesce a sostenere la gravità dei problemi che la persona si porta dietro, soprattutto quando c’è una patologia psichiatrica dietro» (fg Cagliari). Sono in molti
a ritenere «che la famiglia abbia il peso maggiore, anche se in taluni casi è meglio
l’allontanamento»; in alcune particolari circostanze «è addirittura terapeutico che
non ci sia la famiglia, quando tutti i problemi sono collegati ad essa»: nel caso di
alcuni minori problematici, alle volte «è meglio allontanarli dalla famiglia prendendo in considerazione una comunità, come la “casa famiglia”, dove ci sono dei
punti di riferimento: educatori, operatori, ecc.» (fg Tempio-Ampurias).
Talune volte è la stessa persona in stato di disagio a rifiutare qualsiasi rapporto con la famiglia, opponendosi ad ogni intervento che preveda un tentativo di
contatto con i suoi membri. In altri casi, tuttavia, «la famiglia diventa il perno delle azioni del percorso di uscita». E questo perché «la famiglia e più in generale la
ricostituzione della rete primaria è fondamentale, in alcuni casi determinante» (fg
Ozieri). Risulta essere «la maggiore risorsa a cui appoggiarsi per costruire dei
percorsi di uscita da situazioni di disagio o da problemi complessi. Le reti secondarie si cerca di attivarle in seconda battuta, a seconda dei casi» (fg Iglesias).
Risulta evidente come alla famiglia venga attribuita un’importanza capitale, al punto che laddove il nucleo familiare appare compromesso o totalmente inesistente si rende necessario far ricorso a qualche “soggetto surrogatorio”, in grado
di adempiere alle sue tradizionali funzioni di accoglienza, sostegno, orientamento
e costruzione di relazioni significative. «È molto difficile quando non c’è famiglia, se non si ricostituisce il legame originario, ed è molto duro quando si riceve
dalla famiglia di origine un netto rifiuto… allora si cerca un surrogato di famiglia
che può essere la comunità, la Chiesa o una persona che rappresenti un qualcuno
che ti vuole bene. La famiglia, in quel caso, può essere l’educatore di turno». Per
questo motivo alcuni partecipanti includerebbero tra le reti primarie tutte le situazioni di tipo comunitario: «facendo un lavoro di gruppo ho incontrato persone che
ti dicevano “io pensavo di essere tonta”, poi qualcuno ha detto loro “prendi la
penna e scrivi quello che ti viene in mente, così come ti viene in mente”; tutto ciò
ha dato loro la fiducia necessaria per poter sentirsi inclusi in un gruppo di relazioni… chiamiamola “famiglia allargata”, cioè contesti in cui ti senti valorizzato per
quello che sei, spazi in cui riesci ad avere una rete di affetti e di relazioni… e veramente in certe situazioni risorgi come persona; molto, ovviamente, dipende dalla persona che fa il suo lavoro in un modo piuttosto che in un altro, ma quando la
famiglia non c’è bisogna riuscire a recuperare quel vuoto interiore che significa
ricostruzione di relazioni affettive…» (fg Tempio-Ampurias).
Se il riferimento alla famiglia ha caratterizzato quasi tutti gli interventi
proposti nei vari focus group, dal confronto non è emerso in particolare nessun
attore della rete sociale con un peso superiore rispetto agli altri: «dipende da caso a caso e dalla capacità del servizio che accoglie l’emergenza di individuare
quali altri attori coinvolgere perché più idonei» (fg Sassari); altri ritengono che
non ci sia «una rete prioritaria ma che sia importante avere la possibilità di trovarle attorno; la cosa fondamentale è avere tutte le reti possibili, poi una persona potrà scegliere a chi appoggiarsi, a chi riferirsi» (fg Alghero-Bosa). È per tale ragio96
ne che la rete viene vista dai più «come una catena dove un anello è fondamentale
per l’altro, non in un rapporto gerarchico ma attraverso una collaborazione di tipo
trasversale» (fg Tempio-Ampurias). In questa prospettiva, lavorare in rete rappresenta «l’unico modo per prendere in carico la persona e non solo la sua problematica» (fg Ozieri).
Le parole d’ordine, in una logica di rete, divengono allora il coordinamento e l’integrazione di tutti gli attori coinvolti. Peraltro, il coordinamento e
l’integrazione sono considerati non a caso come pilastri dell’attuale progettazione
sociale regionale, per mezzo dell’azione territoriale dei PLUS, vale a dire i Piani
Locali Unitari dei Servizi alla persona.
Per chi lavora nel sociale si tratta di una sfida quotidiana di importanza decisiva. Per tale ragione, tra i servizi «ci dovrebbe essere più dialogo. Invece, capita spesso che gli attori della rete abbiano ciascuno un proprio progetto su una persona disagiata e gli altri non ne siano al corrente o lo conoscano solo in parte» (fg
Iglesias). Spesso lo scenario appare talmente ricco di iniziative progettuali – scarsamente coordinate – che si rischia di disperdere risorse umane e finanziarie assai
importanti, con dei risultati che non sempre risultano soddisfacenti in termini di
efficienza riguardo al servizio e di efficacia sul benessere dei destinatari: «noi abbiamo tanti progetti e mi ricordo all’inizio la difficoltà che c’era nel lavorare in
équipe, forse perché ciascuno pensa che è migliore il proprio modo di lavorare…
Pian piano ci siamo resi conto che si riesce meglio solo se si fa insieme un progetto, se si analizzano e si condividono insieme le strategie, se si lavora in accordo.
Alla base di ciascun intervento ci deve essere un progetto ed un lavoro di rete».
Per questa ragione, al fin di «conseguire un risultato ci vuole una maggiore integrazione tra le associazioni, fra le persone che operano nel sociale… Per esempio,
ci dovrebbe essere un maggior collegamento tra l’Informagiovani e le aziende:
molte di queste non conoscono quali vantaggi avrebbero se assumessero certe categorie di persone» (fg Alghero-Bosa).
2.3. Il ruolo della Caritas come realtà di promozione umana
Oltre alle testimonianze proposte dai diretti interessati, ovverosia gli
operatori e/o i direttori delle Caritas diocesane partecipanti ai focus group, sono
stati diversi i contributi offerti dai soggetti intervenuti che hanno posto in luce
l’importanza dell’apporto specifico promosso dalla Caritas, il quale si traduce in
un approccio che tenta di andare oltre il mero aspetto concreto e materiale, per dare risalto il più possibile ad un sostegno integrale, sotto il profilo relazionale e motivazionale.
Il
modus
operandi,
dunque,
consiste
nel
favorire
«l’accompagnamento, la valorizzazione e l’auto-promozione della persona»; in
questo senso i «Centri di ascolto Caritas sono anche strumento di verifica e valutazione non solo delle problematiche del territorio, ma anche del modello di aiuto
Caritas» (fg Iglesias).
Con tale modello si cerca di lavorare in rete il più possibile. Per tale ragione risulta «fondamentale poter dialogare tra servizi; in questo lavoro è molto importante lo scambio di informazioni e conoscenze sulle persone» (fg Sassari).
Nella maggior parte dei casi, l’eredità lasciata dall’intervento della Caritas,
rintracciabile nella memoria trasmessa dai cosiddetti “ex-utenti”, conferma che
97
«chi ha fatto esperienza con la Caritas è sicuramente riconoscente. Conservano un
buon ricordo, soprattutto per quanto riguarda le attenzioni e l’affetto ricevuti nel
momento del bisogno, anche quando l’intervento è stato limitato ad un semplice
ascolto» (fg Iglesias). Non di rado è capitato persino che chi ha ricevuto sostegno
dai volontari è diventato, a sua volta, un volontario: «nelle persone che fino ad ora
sono state aiutate resta una traccia viva proprio perché riconoscono la bontà del
nostro operare, soprattutto perché, usciti dal labirinto, realizzano che senza
l’intervento dei servizi sociali e l’incoraggiamento e le motivazioni trasmessi dalla
Caritas sarebbero ancora in uno stato di disagio» (fg Ozieri).
In alcuni casi non mancano i rischi derivanti dal procedere, da parte della
Caritas, con un atteggiamento autoreferenziale. Alla domanda: “È possibile individuare un atteggiamento di supplenza/autoreferenzialità nelle modalità di intervento della Caritas?” alcuni hanno rilevato che alle volte «ci lasciamo prendere la
mano e siamo convinti che il solo aiuto indispensabile sia il nostro» (fg AlgheroBosa). Altri ancora rilevano che spesso «la Caritas supplisce all’assenza o
all’atteggiamento di estraneità delle istituzioni, anche se il suo compito precipuo è
quello di animare, sollecitare e collaborare con tutti i componenti del tessuto sociale» (fg Cagliari).
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, «la Caritas costituisce principalmente un supporto iniziale, vale a dire che spesso le persone che si rivolgono ad essa
non hanno la voglia o la capacità di rivolgersi agli enti istituzionali. Alla Caritas si
sentono accolte, magari con un atteggiamento diverso, caritatevole, che spesso le
istituzioni hanno perso» (fg Ozieri). In generale, «quanto più si lavora in rete, tanto più è efficace anche il lavoro della Caritas» (fg Tempio-Ampurias).
2.4. Percorsi di uscita differenziati tra italiani e stranieri
La riflessione sulla diversità dei percorsi di uscita, nel raffronto tra gli italiani e gli stranieri, è oscillata tra due posizioni estreme. Nella maggior parte dei
casi si è rilevato come la diversità culturale e linguistica degli stranieri (soprattutto
se giunti in Italia da poco), associata alla mancanza di integrazione, costituisca un
elemento di ulteriore complessità nei progetti di aiuto: «la persona che è appena
giunta è diffidente ed è a sua volta vista con diffidenza, proprio per la diversità
culturale… e poi c’è il problema della lingua, della conoscenza del territorio. Se
uno straniero arriva da noi ha difficoltà di inserimento a causa della lingua. Se
penso alle badanti che arrivano e non conoscono l’italiano, hanno tante difficoltà
di comunicazione ed anche se fossero molto brave nel loro lavoro non vengono
assunte perché non conoscono la lingua» (fg Alghero-Bosa).
In generale, i percorsi di uscita dalle situazioni acute di disagio da parte
degli stranieri sono percepiti come più difficili da affrontare. Lo si avverte «in
modo più netto nell’area sanitaria. Per questo, per tutelarli maggiormente sarebbe
importante dotarsi di mediatori culturali, di figure professionali possibilmente di
madre lingua, e richiedere una maggiore collaborazione con le istituzioni» (fg Cagliari).
Nel solco di queste considerazioni, riguardanti la complessità derivante
dall’affrontare le problematiche degli stranieri, si pongono però anche coloro che
ritengono che sia compito delle reti sociali adeguarsi al cambiamento, colmando
98
il proprio deficit linguistico e culturale. In altri termini, il problema sussiste non
solo perché chi viene nel nostro Paese possiede una lingua e delle abitudini differenti, ma anche perché gli stessi operatori non sono sufficientemente attrezzati ad
affrontare una realtà che è destinata, vista la tendenza in atto in tutta Italia, a diventare ordinaria. Non a caso, un partecipante ha segnalato la necessità di «evitare
un mescolamento collettivo: parlare di marocchini, quando invece sono romeni,
parlare di polacchi, quando invece sono americani… È importante evitare questo
mélange, perché ciò favorisce l’individuazione delle risorse che ci possono aiutare
a risolvere le situazioni. Non dobbiamo massificare, perché la maggioranza degli
immigrati hanno scommesso moltissimo su loro stessi, con poche risorse fanno
tanto: mandano i figli a scuola, cercano di comprare casa… quindi è gente che ha
delle grandi risorse. Naturalmente i percorsi di uscita passano attraverso la legislazione… se leghi il soggiorno al lavoro, quando perdi il lavoro perdi anche il
permesso di soggiorno… e qui torna il discorso del progetto: se uno ha un progetto forte va bene, se invece il progetto è fragile è assai difficile uscire dal labirinto.
Per questo occorre studiare, essere preparati, perché il sorriso, la pacca sulla spalla
vanno bene in tram… tutto il resto, però, deve essere una cosa seria!» (fg TempioAmpurias).
Molti interventi pongono in luce come spesso per gli stranieri il problema
più grosso sia associato al permesso di soggiorno o al non avere una rete di prossimità: «a volte sono clandestini e dunque le difficoltà sono legate a questo, oppure perché la famiglia di origine non vive vicino. Ricordo il caso di una donna che
voleva lavorare ma non poteva perché non aveva una rete familiare e sociale e non
sapeva a chi lasciare i figli durante le ore di lavoro» (fg Alghero-Bosa).
Nei percorsi di uscita degli stranieri, oltre a quanto rilevato, vi sono pure
dei problemi percepiti come urgenti dagli interessati, come «la casa, il lavoro,
l’inserimento scolastico per i propri figli, senza trascurare poi il problema salute,
perché gli immigrati giunti in Italia si ammalano facilmente… Al momento in cui
insorge la malattia è la disperazione assoluta, poiché vengono a mancare tutti gli
strumenti di sopravvivenza dei familiari rimasti in patria. La perdita della salute,
per gli immigrati, costituisce la caduta in un baratro. Nascondono la malattia ai
familiari e agli amici, che altrimenti si attiverebbero per rimandarli in patria... Altro problema è quello che riguarda le donne che vivono per la strada e che non riescono a cogliere le opportunità delle strutture che noi offriamo. Da non trascurare,
poi, il problema dell’alcolismo, che riguarda le persone che non reggono la dura
prova dell’emigrazione e che interessa diversi gruppi, alcuni più di altri. Per loro è
veramente difficile intravedere dei percorsi di uscita» (fg Sassari).
D’altra parte non sono mancati gli interventi di quanti sostengono che, se
l’ambiente in cui giungono è accogliente e se si è in regola rispetto alla normativa
sul permesso di soggiorno, gli stranieri possono avere addirittura maggiori
chance di uscire dal disagio, proprio perché in possesso fin dal loro arrivo di un
progetto di vita ben definito. Se uno straniero è emigrato regolarmente «non ha
difficoltà particolari; ha le stesse possibilità di uscire dalla situazione di disagio di
un italiano. Se si rivolge ai servizi sociali avrà le stesse risposte e gli stessi aiuti».
Per cui, se l’ambiente è aperto ed accogliente «non dovrebbe avere difficoltà.
Molto dipende dall’ambiente, dalla comunità che accoglie lo straniero» (fg Alghero-Bosa). Per altri partecipanti, il percorso per gli stranieri «è diverso, è più di accompagnamento. Nei confronti degli stranieri forse è più semplice, perché arriva99
no che hanno già un progetto e chiedono aiuto per realizzarlo. In questo senso sono molto determinati nell’orientarsi verso gli enti preposti» (fg Iglesias).
2.5. Andamento e prospettive del percorso di uscita dal “labirinto”
In tutti i focus group i partecipanti hanno rilevato come non esistono percorsi totalmente lineari. Esistono, semmai, inversioni di rotta, ricadute, percorsi
tortuosi e solo in alcuni casi, a distanza di tempo, si riesce a giungere all’effettiva
uscita dal disagio. Per alcuni il percorso non è mai lineare, «perché ci sono degli
arresti legati anche alla necessità di mettere in discussione i passi già fatti» (fg Alghero-Bosa); le cause di alcune ricadute vanno ricercate «nell’isolamento nel quale si chiude la persona e del quale ci accorgiamo troppo tardi» (fg Ozieri).
In taluni casi, peraltro, è possibile cogliere la tendenza a mettere in atto interventi che rischiano di cronicizzare alcune situazioni di disagio. Tale rischio «è
sempre presente. Per ovviare a questo, si potrebbe organizzare una collaborazione
di rete più stretta che permetta un aiuto più incisivo anche dal punto di vista economico. Se si concentrassero le risorse per quei casi che realmente necessitano di
un intervento si avrebbero interventi più incisivi ed appropriati» (fg Iglesias).
In generale è fondamentale non creare l’abitudine a ricevere l’aiuto, soprattutto in assenza di una progettualità ben precisa. Per questo motivo stabilire
dei vincoli temporali può servire, in casi particolari, a ridurre il rischio di cronicizzazioni del disagio. A questo proposito, nell’ostello di una Caritas diocesana si
era fatta inizialmente «la scelta di dimettere le persone dopo tre mesi; in realtà non
si riusciva a far rispettare le regole, per cui alla fine alcuni sono rimasti più di un
anno, quasi due… all’atto dell’accoglienza non ci si poneva il problema della necessità di un progetto di accompagnamento verso un’uscita dal bisogno. Se dieci o
dodici persone restano all’ostello e noi ne facciamo i nostri protetti, non stiamo
facendo un servizio, ma li stiamo danneggiando ulteriormente. Ora, se la persona
non si presenta con un minimo di progetto o non accetta di costruirlo assieme a
noi e agli altri servizi non viene ammesso…» (fg Sassari).
Anche per i Comuni il rischio di cronicizzazione è una specie di “spina nel
fianco”. È assai evidente, a detta di un partecipante, che si cronicizzano «i casi
che non riusciamo a risolvere… e normalmente non riusciamo a portare fuori dal
disagio la stragrande maggioranza dei casi. Allora è d’obbligo chiedersi: perché
non riusciamo a risolverli? Per diversi motivi: perché non siamo organizzati; per
l’avvicendamento degli operatori, che impedisce di prendersi in carico i casi con
la continuità necessaria, ostacolandone la progettazione. E poi perché il tempo di
lavoro degli operatori del Comune non è uguale a quello di chi… vive ventiquattrore su ventiquattro l’esperienza dell’accoglienza e della presa in carico. La cronicizzazione innesca un meccanismo di appesantimento del lavoro che decuplica
lo sforzo che si deve fare. Per tenere a bada 1.000 persone che bussano alla tua
porta perché hanno bisogno immediato si impedisce di lavorare alla progettazione
nel lungo periodo» (fg Sassari).
Va pure detto che, in non pochi contesti, l’avvio di alcuni nuovi servizi di
impronta marcatamente assistenzialistica rischia di mortificare l’investimento che
altre agenzie del sociale tentano di portare avanti da tempo, soprattutto in termini
di promozione umana. Lo denuncia un altro partecipante al focus group di Sassari,
100
il quale si rammarica di non aver preso posizione, a suo tempo, quando in città è
nata una struttura con il compito di distribuire viveri senza alcun discernimento
sulle storie di disagio. Tale struttura, peraltro, «pubblicizza sulla stampa, facendosene vanto, l’ingente quantità di alimenti consegnata in pochi mesi di attività, denigrando quei servizi che si documentano sull’identità della persona. Noi sappiamo come va a finire questa distribuzione incontrollata… succede che diversi
componenti della stessa famiglia ritirano deliberatamente tutto ciò che possono
prendere, per poi rivenderselo nei propri quartieri. Gli aiuti provengono dalle
grandi aziende e sono aiuti che non vanno a realtà come le nostre, che parlano con
i poveri. Chi, come noi, ha la cultura dell’accompagnamento della persona, dovrebbe indignarsi per queste cose che non facilitano il nostro lavoro. Noi non
chiediamo nessun documento quando incontriamo il povero, ma gli dedichiamo
tempo per capire il bisogno. Siamo in contatto con le varie realtà associative, per
evitare che una famiglia seguita da un gruppo si faccia assistere anche da altri. Il
pacco viveri è un “pretesto” che ci permette di far visita al povero, parlargli e vedere le sue condizioni di vita. Ma ora, quella persona non ha più voglia di ascoltarmi, non mi aspetta più per chiacchierare, perché il pacco se lo va a prendere da
chi non gli chiede nulla e soprattutto non lo mette di fronte alle sue responsabilità». Il risultato finale è che, in questo modo, «il percorso con loro finisce, perché
gli vengono messe in mano delle cose svuotate di senso… muore così la relazione».
Dall’analisi del contenuto dei focus group è possibile evidenziare anche
una certa correlazione tra il tempo di permanenza nelle situazioni di disagio e la
difficoltà incontrata nell’intraprendere un percorso di uscita. Nel caso del lavoro,
ad esempio, «più passano gli anni in cui uno non trova lavoro e più la situazione
rimane stagnante e cronicizzata» (fg Alghero-Bosa). Molto spesso «la situazione
si aggrava perché si indeboliscono le motivazioni e le stesse aspettative del soggetto» (fg Cagliari). La difficoltà ad uscire dal “labirinto” «è correlata al tempo e
alla gravità della situazione: più è stato lungo il tempo trascorso in situazione di
disagio e più sarà difficile intraprendere un percorso di uscita, proprio perché
quando il soggetto vive in una certa situazione per lungo tempo le sue condizioni
sia fisiche che psicologiche si aggravano sempre più e si radicano le cattive abitudini, come nel caso delle dipendenze da alcol e droga» (fg Ozieri).
Il rischio di ricaduta si registra anche quando si attenua l’attenzione da
parte dei servizi o della famiglia, oppure quando ci si preoccupa solo nella fase di
emergenza, trascurando totalmente quanto avviene dopo il recupero. Tutto ciò pone in luce l’importanza della dimensione temporale, del mostrare pazienza nei
confronti dei tempi di autonomia della persona, ma sollecita anche
l’individuazione di nuove e più adatte strategie che consentano il rafforzamento e
possibilmente il perfezionamento dei percorsi di uscita dal “labirinto”.
Ci si trova continuamente di fronte a una scommessa. Come si è detto, il
percorso è tutt’altro che lineare e «nessuno può garantire circa la buona e definitiva riuscita. A volte si determinano delle ricadute causate dalla debolezza del soggetto, ma anche da una caduta di tensione da parte della famiglia e talvolta anche
da parte dei nostri stessi servizi. Si osserva e si accompagna l’individuo per un po’
di tempo e poi capita che ci si adagia nella certezza che il problema sia superato
per sempre. Purtroppo la realtà insegna che non sempre è così. Gli errori di valutazione sono sempre dietro l’angolo. Tutto ciò ci insegna quanto sia necessario un
101
monitoraggio costante che può durare anche tanto tempo» (fg Ozieri). Un obiettivo importante, pertanto, è quello di accompagnare le persone anche in seguito
all’apparente uscita dalla situazione di disagio, proprio perché sono assai facili le
ricadute, soprattutto in quelle situazioni in cui appaiono totalmente inesistenti le
reti primarie: «noi vorremmo continuare a vederli come ex-utenti, magari come
volontari… in realtà non si deve mai abbassare la guardia ed avere sempre le antenne vigili. Una progettualità che coinvolga anche in seguito la famiglia è ancora
tutta da inventare» (fg Ozieri).
Così come è tutta da inventare una dimensione intermedia, in grado di garantire il passaggio dalla fase di recupero nell’emergenza all’inserimento stabile
nel tessuto sociale. L’intervento iniziale, a detta di un partecipante, «consiste in un
tamponamento dell’emergenza, poi iniziamo ad instaurare una relazione significativa, dopo si cerca il lavoro e a questo punto iniziamo a incontrare difficoltà dovute non solamente alle scarse opportunità di lavoro, quanto invece alle difficoltà di
inserire queste persone in un normale contesto. Una donna che esce da una comunità o che ha fatto un percorso di accompagnamento presso una struttura ben organizzata… non ha le risorse per reggere l’impatto con il ritorno al “normale”. Sarebbe opportuno, allora, creare delle strutture intermedie, di passaggio». Soprattutto quando «il disagio ha origine nella mancanza di famiglia, quando non si può
contare su “famiglie volontarie” che accolgano le persone e le loro sofferenze, o
su relazioni significative con vicini e parenti, bisogna inventare qualcosa (come
appunto le “realtà intermedie”) in grado di promuovere il nascere di legami, di relazioni positive, di reti affettive, stabili nel tempo e che possano fungere da modelli e sostenere le persone nella ricerca dell’indipendenza» (fg Sassari).
Questa esigenza di “inventare” delle realtà intermedie si rende necessaria
proprio perché la persona, una volta superata la fase acuta del disagio, «si crede
forte e si espone, ma – come si suol dire – “è sempre la penultima occasione”; bisogna, allora, avere la pazienza della flessibilità e dell’accompagnamento. La nostra è una società che non perdona, perché tu sei sempre un ex di qualcosa…» (fg
Tempio-Ampurias). Infatti, come riferisce un partecipante, «capita che una persona dica: “io sono sempre in programma”, nel senso che davanti a situazioni e decisioni importanti della vita, davanti a delle scelte importanti, lei si debba sempre
rifare a quello che è stato il suo percorso di uscita, perché si rende conto che “è
sempre in programma”… questa consapevolezza è molto importante» (fg TempioAmpurias).
Queste ultime considerazioni ci riportano, ancora una volta, all’elemento
psicologico-motivazionale. In questa prospettiva, il cambiamento avviene realmente quando è la persona che decide di cambiare e diviene collaborativa. Nel
caso delle tossicodipendenze, ad esempio, «il cambiamento avviene quando la
persona decide autonomamente di cambiare rotta e questo avviene dopo circa 20
anni» (fg Iglesias). A volte, però, non è neppure possibile conoscere le prospettive
del percorso di uscita, le evoluzioni in positivo o le drammatiche involuzioni,
semplicemente perché, una volta superata la situazione acuta del disagio, si perdono le tracce di quanti avevano chiesto aiuto e rispetto ai quali non è dato sapere
cosa ha riservato loro il destino.
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2.6. Interventi operativi e possibili modelli
In conclusione di questo capitolo, alla luce delle riflessioni proposte in tutti
i focus group, si può sostenere ragionevolmente che è impossibile parlare di un
unico modello da attuare nei percorsi di uscita dal disagio, adatto a tutte le problematiche e in tutte le circostanze. Si è pero tutti unanimemente concordi circa la
necessità di agire in maniera integrata, di lavorare in rete e di non operare da soli: «una buona prassi è agire in maniera integrata per usare meglio i fondi; e per
utilizzarli meglio bisogna che ci mettiamo insieme. L’agire insieme è senz’altro la
prassi che bisogna utilizzare. I soggetti che operano nel sociale, come la scuola, i
servizi sociali, la Chiesa, il volontariato, ecc., devono mettersi insieme per fare
una progettazione integrata… I problemi delle persone hanno tante sfaccettature,
dunque più soggetti che conoscono la situazione possono affrontare meglio il disagio e aiutare meglio le persone... Lavorare in rete e liberarsi da pregiudizi o da
arroccamenti dà maggiori frutti, non bisogna lavorare da soli» (fg Alghero-Bosa).
Scendendo nella specifica dimensione Caritas, a giudizio di tutti i partecipanti ai focus group una delle modalità che consentono di migliorare decisamente
il lavoro nel sociale, da parte di questo organismo ecclesiale di promozione umana, favorendo se possibile il maggior numero di percorsi di uscita dal disagio, è la
capacità di lavorare in sinergia con le istituzioni e le risorse pubbliche e private:
«questa modalità di intervento deve essere assolutamente incrementata. È possibile utilizzare dei protocolli di lavoro condivisi da adottare nel territorio, auspicando
un tipo di collaborazione del genere che permetta, nella logica di rete, la conoscenza reciproca, di potenziare gli interventi effettuati e di valorizzare il sostegno
ricevuto» (fg Cagliari). Non solo, il confronto tra tutti gli attori della rete è essenziale al fine di «valutare gli strumenti e le strategie da adottare di fronte alle varie
situazioni di disagio» (fg Iglesias). Il tutto attraverso «tavoli di lavoro periodici,
incontri calendarizzati per progettare, monitorare, adeguare le azioni» (fg Ozieri).
Come si è già rilevato, alle volte il problema da superare non è dato tanto
dalla mancanza dei servizi quanto dalla sovrapposizione degli stessi: «il lavoro
più difficile è il coordinamento a livello cittadino anche con i servizi sociali, i
quali ti elogiano per quello che fai, ti fanno l’encomio per il tuo impegno personale, ma non capiscono che tu stai cercando di realizzare un pezzo di percorso dovuto e vuoi che ti venga riconosciuto il servizio in quanto tale, non il tuo impegno
come persona, perché tu puoi anche decidere di andare da un’altra parte e fare altre cose, ma il servizio deve rimanere» (fg Tempio-Ampurias). In molti casi esistono diverse iniziative, ognuna delle quali opera in modo solitario: «manca però
un progetto di crescita della realtà della città e dell’individuo, per cui… occorrerebbe un progetto di città per dar risposta alla povertà» (fg Sassari).
Oltre a tutto ciò serve anche un cambiamento di mentalità. A parere di una
religiosa intervenuta nel focus group di Sassari, «è importante una stretta collaborazione tra noi stessi, perché siamo noi che dobbiamo cambiare il tipo di risposta
da dare. Bisogna cambiare il tipo di cultura, perché il privato sociale – noi ancora
di più, essendo religiose – ha anche la funzione di far passare uno stile ed un metodo di sentire diverso alle istituzioni che appaiono per lo più ancorate ad altri
livelli. Può essere un obiettivo, una proposta concreta che parte oggi da questo
gruppo: lavorare per creare tra di noi una mentalità nuova, cominciando a contrastare gli stili assistenzialistici che vivono all’interno di casa nostra». Si tratta di un
103
parere confermato, in quello stesso focus group, da uno psicoterapeuta: «chi riceve è a posto, siamo noi che non siamo a posto. Se la porta d’entrata è aperta nella
stanza dell’assistenzialismo, siamo noi che abbiamo la responsabilità di bloccare
quella porta per andare al più presto in un’altra stanza, che avrà un’altra uscita…
All’inizio l’assistenzialismo fa un’opera di contenimento e quell’area di assistenzialismo resterà sempre, ma poi bisogna intraprendere un altro percorso e si sa che
i percorsi di uscita impegnano di più noi. E allora faccio una riflessione: è già la
terza volta che vengo invitato dalla Caritas ed ogni volta ho avuto modo di notare
che i soggetti che dialogano in sintonia con la Caritas, e quindi anche con noi, sono sempre di più. Impegniamoci a proporre noi, al Comune, che non ha risorse
culturali e professionali per farlo, una modalità operativa che ci veda tutti insieme
attorno a un problema, ciascuno per la propria parte e con le proprie competenze.
Penso che all’amministrazione comunale possa fare solo piacere e potrebbero utilizzarlo anche come modello di riferimento…».
La maggior parte degli interventi proposti, in ordine al tema dei possibili
modelli da applicare, ha insistito particolarmente sulla necessità di ri-costruire la
rete primaria e secondaria delle persone: «Ritengo che l’unico metodo valido ed
efficace, sia pure con le sue varianti, è innanzitutto quello di costruire la rete primaria e quella secondaria, stringendo i nodi tra le stesse, perché il problema possa
essere veramente risolto. La condivisione degli sforzi, applicati in fase di progettazione e portati avanti a livello operativo, può garantire, nella maggior parte dei
casi, un buon successo. La collaborazione tra istituzioni, Caritas, parrocchia, volontariato è indispensabile, oltre naturalmente alla capacità professionale, al senso
di responsabilità e alla sensibilità di ciascuno» (fg Iglesias).
La necessità di lavorare sulla ri-costruzione delle reti primarie chiama in
causa, a parere di alcuni, il dovere di prestare maggiore attenzione nei confronti
delle famiglie. Magari adottando degli approcci sistemici già adottati in alcuni
particolari contesti di disagio, come ad esempio nel metodo “ecologico-sociale”
applicato ai problemi alcolcorrelati: «si potrebbe partire da questo metodo, naturalmente apportando i necessari adattamenti, per applicarlo alle altre problematiche sociali» (fg Iglesias) 5.
Al di là degli aspetti metodologici generali, in alcuni focus group, alla luce
delle esperienze già maturate nei vari contesti territoriali, sono emerse anche delle
proposte concrete. Si è passati dalla proposta di intensificare l’inserimento lavorativo a quella di avviare dei progetti di microcredito, dall’opportunità di monitorare
i progetti in itinere al garantire un rapporto il più possibile personale con chi deve
ricevere il sostegno:
5
L’approccio “ecologico-sociale”, ideato dal neuropsichiatra croato Vladimir Hudolin, si
fonda su un “metodo aperto” animato dal ruolo delle famiglie (per il tramite dei CAT, Club degli
Alcolisti in Trattamento) nel sostenere la persona dipendente nel suo percorso di astinenza dalle
sostanze e di cambiamento dello stile di vita. Con tale metodo, ogni membro del nucleo familiare
(e non solo la persona dipendente) diviene protagonista del cambiamento delle condizioni e dello
stile di vita della propria famiglia. L’approccio, seppur adattato alle problematiche alcolcorrelate,
si richiama esplicitamente ai principi della terapia familiare sistemica (focalizzando l’attenzione
sulle capacità di cura reciproca tra persone che condividono una comune esperienza) e a quelli delle metodologie dell’auto-mutuo aiuto.
104
-
«Si potrebbe replicare l’inserimento lavorativo in azienda per più tempo
(1-2 anni), per aiutare coloro che vivono un disagio a rapportarsi con delle
persone che hanno maturato esperienze diverse, possibilmente positive»
(fg Iglesias);
-
«Uno dei suggerimenti condivisi da tutta l’équipe che ha composto il focus
group è stata la proposta riguardante il microcredito, cioè la possibilità di
fornire l’accompagnamento, il supporto necessario – economico ma non
solo – per invogliare a recuperare coloro che vorrebbero avviare un’attività
ma non hanno gli strumenti organizzativi ed economici per farlo» (fg Cagliari);
-
«Per quanto sia utile impostare uno schema operativo di intervento, anche
e soprattutto con gli enti istituzionalmente preposti a questo, tale schema
andrà in ogni caso rivisto in itinere più volte, al fine di adottare le opportune azioni, sia in merito alla modalità di risposta da parte degli utenti sia
rispetto agli eventi imprevedibili che potrebbero coinvolgere la vita stessa
delle persone da noi sostenute» (fg Ozieri).
A detta di alcuni (fg Tempio-Ampurias), deve prevalere su tutto l’esempio
personale: «Certamente vale l’esempio! Io insegno loro a non sciupare i soldi ed
io per primo devo far vedere che non li sciupo. Rendo coerente nei fatti ciò che
dico… Non è la predica che fa la differenza e può aiutare le persone, ma il modo
con cui percorriamo la strada insieme».
105
106
CAPITOLO QUINTO*
PER UNA LETTURA PASTORALE DEI DATI SULLE
POVERTÀ
1. A mo’ di premessa
La realtà della povertà nel nostro territorio regionale, presentata a noi attraverso il prezioso lavoro del secondo Rapporto su Povertà ed esclusione sociale
in Sardegna, costituisce per tutti e per ciascuno, per la Chiesa e per le istituzioni,
una sfida da accogliere e alla quale dare grande attenzione per ipotizzare risposte
concrete attraverso un nuovo atteggiamento e stile di vita.
Un’attenta lettura pastorale di quanto proposto dal Rapporto ci induce a
guardare il mondo, la chiesa, la società in tutta la sua complessità, proprio a partire dai poveri. Dalla lettura e analisi del lavoro fatto risulta molto interessante, ma
– oserei dire – bella (di quella bellezza che solo il cuore può cogliere), la parte
esperienziale, che fa di questo dossier l’asse portante di tanto impegno profuso:
dietro ogni pagina, e oltre ogni riga, ci sono persone, ci sono storie di vita, volti!
La Chiesa, nel suo bimillenario cammino di fede, sull’esempio di Cristo
che “da ricco si fece povero”, ha sempre fatto sue le storie delle persone, la vita,
le attese, le speranze di coloro che nella storia del mondo sono piccoli, deboli, non
“contano”! Per coloro che si pongono in ascolto attento della Parola di Dio i poveri non sono e non possono essere un peso, un ostacolo, un di più! Bensì, parte integrante della vita e dell’esperienza cristiana.
Il cristiano è colui che accoglie l’annuncio di salvezza, celebra l’evento
della morte/resurrezione di Cristo e ne diviene testimone privilegiato, soprattutto
rendendosi “prossimo” per i poveri che incontra nella propria storia e nel proprio
cammino. La vita di Gesù Cristo è l’esemplificazione di Colui che – mandato dal
Padre – si fece povero nel suo morire in Croce. Attraverso la sua vita egli ha fatto
sue le strade e i percorsi degli uomini, incontrandoli, ascoltandoli, fissando su di
loro il Suo sguardo e concedendo (a chi chiede un segno) il dono della fede.
Una lettura pastorale di tali eventi, fondanti il mistero della nostra salvezza, porta anche noi sulle strade dei nostri tempi, del nostro mondo globalizzato, di
ogni povero e di tutti coloro che non hanno voce.
2. Una lettura pastorale a partire dalle storie di vita
I dati quantitativi, ma soprattutto il capitolo dal titolo “Fuori dal labirinto”
di questo secondo Rapporto, ci aiutano ad entrare in tutte quelle storie di disagio
che sono state incontrate/conosciute attraverso i vari Centri di ascolto Caritas.
*
Il presente capitolo è stato scritto da Padre Giuseppe Piga, della diocesi di TempioAmpurias, componente del Gruppo di Promozione Caritas.
107
Attraverso la conoscenza di tali storie ed esperienze troviamo il punto forza del lavoro portato avanti dalla Caritas: non fermarsi a sterili dati statistici e distaccati dalla vita, ma un incontrare l’altro, il fratello ed entrare nelle varie situazioni e “storie di vita” per ascoltarne il grido di aiuto, per avviare insieme dei percorsi di corresponsabilità e autonomia e dare prospettive di speranza.
Dalla lettura e analisi delle varie interviste cogliamo le molteplici situazioni di disagio con tutte le varie sfumature di sofferenza e dolore: dai problemi
familiari a quelli lavorativi, dal mondo delle dipendenze ai problemi di salute, dal
problema della casa a quello della detenzione, ma anche le varie fatiche nel gestire
con autonomia la stessa esistenza.
La maggior parte di coloro che si rivolgono alla Caritas presentano un desiderio che è quello di non fermarsi all’aiuto materiale richiesto. Essi sanno che
possono trovare altro…: essere accolti, ascoltati, rispettati nella loro situazione,
senza essere giudicati.
Lo snodarsi delle interviste presenta un ideale itinerario che conduce la
persona a passare dalla richiesta di aiuto al pensarsi poi “costruttore” (insieme
agli operatori Caritas, alle istituzioni, ecc.) del proprio futuro, prospettando la
possibilità di riuscire ad acquisire l’autonomia, tanto da non dover avere più bisogno di chiedere ma avendo riscoperto la fiducia nella vita. Per noi cristiani è anche l’occasione per scoprire che ogni volta che accogliamo, ascoltiamo e amiamo
un fratello amiamo in lui Cristo stesso.
3. Cosa ci viene chiesto come cristiani?
La vita, la storia, il nostro credo ci chiedono con forza di osservare con attenzione il mondo e ogni uomo, per ritrovare nel volto di ogni fratello e sorella il
volto di Cristo.
Siamo chiamati a fare di Cristo il cuore e il centro di ogni nostra attenzione, non solo con le parole ma dando segni concreti di speranza, a partire da quelle
esperienze di povertà che si nascondono dietro ogni volto, ogni strada, ogni porta
e forse anche in ciascuno di noi.
Oggi, più che mai, in un tempo segnato da grossi cambiamenti e sfide culturali, sociali, economiche e antropologiche, colui che non conta perché non produce “crea problemi”, rischia di non essere considerato perché la sua presenza
provoca e interroga tutti. La Chiesa, attraverso la Caritas, suo organismo pastorale, desidera proporre e farsi strumento di un cambiamento di mentalità attraverso
il percorso dell’ascolto-osservazione-discernimento, perché possiamo giungere
ancora a dire che abbiamo bisogno dei poveri, perché è a partire da loro che ci
viene ancora concesso di essere e dirci cristiani: semplicemente attraverso la testimonianza della Carità.
In questa prospettiva, il presente dossier è per tutte le nostre Caritas, e di
conseguenza per le comunità parrocchiali e per il territorio intero, un dono prezioso perché ci offre l’opportunità di conoscere i volti delle povertà e anche le risorse
da mettere in campo. Proprio perché solo lavorando insieme (in rete) possiamo
leggere, affrontare e tentare di risolvere i problemi dell’uomo con nuove e incisive
scelte di vita.
108
4. Le nostre comunità ecclesiali interpellate dai poveri
È di notevole interesse, dal punto di vista pastorale, la riflessione sulle motivazioni che inducono le persone ad avvicinarsi al Centro di ascolto. Ogni persona, infatti, si presenta con un particolare “bisogno” (mancanza di qualcosa, di
qualcuno…), che spesso è manifesto ma il più delle volte è da ricercare nelle pieghe delle richieste manifestate agli operatori. A questi ultimi, in particolare, viene
chiesto di raggiungere il cuore della persona che chiede di essere sostenuta, al fine
di trovare la causa del suo malessere. Sostenerla significa ascoltarla, aiutarla a ritrovare fiducia e, non di rado, il senso del proprio esistere.
La Caritas, dunque, non si ferma alla statistica o a degli sterili dati ma vuole raggiungere l’uomo e riconoscerne la dignità in tutti i suoi aspetti. Ma c’è di
più. La presenza dei poveri nelle comunità in cui viviamo mette in discussione la
nostra prassi pastorale e ci provoca perché, proprio a partire da loro, siamo in grado di attivare nuove azioni e opportunità:
-
nell’ascolto attento di un territorio (bisogni/risorse);
-
nella capacità di conoscere e accettare le diversità (in ordine all’etnia, alla
cultura, alla fede e alle tradizioni), trasformandole in ricchezza per tutti;
-
nel saper accettare l’altro incondizionatamente, come nostro prossimo (così come ci viene proposto nella parabola del buon samaritano);
-
nel restituire e riconoscere la dignità di ogni persona, senza mai sostituirci
ad essa, bensì attivando percorsi e tappe di crescita e autonomia;
-
nel passare dal disagio letto e vissuto come emergenza ad un’attenzione
costante nel quotidiano.
4. L’impegno di tutta la comunità cristiana
Se la comunità cristiana saprà aprirsi al territorio, ascoltandolo e osservandolo con attenzione, sarà anche in grado di proporre un sano e maturo discernimento, che contenga in sintesi le linee operative in grado di proporre segni
concreti di speranza.
In questo modo la Parola, ascoltata e celebrata nel mistero di Cristo, diventa ricchezza che raggiunge ogni uomo nella logica di una rinnovata testimonianza
di carità. A noi cristiani è affidato il compito di lavorare e collaborare con il territorio perché il nostro amore per il fratello ci porti a percorsi di attenzione, promozione, educazione e animazione. Attività, tutte, che devono coinvolgere
pienamente l’intera comunità.
La dimensione diaconale del Servizio, che vede Cristo lavare i piedi ai discepoli, è la nostra dimensione di annunziatori del lieto messaggio ai poveri! Solo
così il nostro “lavare i piedi ai fratelli” diventa realmente un servizio all’Uomo!
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Il Rapporto della Caritas è per noi uno strumento importante, perché ci
aiuta a pensare a tutte le varie forme di povertà presenti: materiale ed economica;
morale; di senso; spirituale; come mancanza di autonomia e progettualità.
Di fronte a tali povertà le nostre comunità sono chiamate ad aprire mente e
cuore a trecentosessanta gradi, dilatando le conoscenze e individuando nuovi e
differenti modi per comunicare l’amore che Cristo ci ha rivelato. Si tratta di passare concretamente dalla tentazione dell’assistenzialismo all’amore verso l’altro, in
termini di accoglienza, rispetto, collaborazione e valorizzazione.
Il papa Benedetto XVI, a Verona, in occasione del IV Convegno ecclesiale
nazionale, ci ha chiesto di “rendere visibile il grande sì della nostra fede”.
Provocati da questo prezioso strumento, quale è il Rapporto della Caritas,
rendiamo visibile il nostro sì con estremo coraggio e con una profonda e alta misura di fede e umanità, con la certezza che per i poveri siamo noi, oggi, i testimoni
dell’eterno amore di Dio.
110
Appendice metodologica
1. Verso il consolidamento della rete Caritas in Sardegna
Il Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale in Sardegna, intitolato
Storie di povertà e percorsi di uscita dall’esclusione nei Centri di ascolto delle
Caritas della Sardegna, s’inserisce appieno nell’ambito di lavoro del cosiddetto
“Progetto Rete Nazionale”, promosso dalla Caritas Italiana nel 2003 e destinato a
trasformarsi a breve in “Promozione Rete Caritas” 1. L’obiettivo prioritario del
Progetto Rete è consistito essenzialmente nell’implementazione e rafforzamento
della rete dei Centri di ascolto, degli Osservatori delle Povertà e delle Risorse e
dei Laboratori di promozione delle Caritas in tutte le diocesi italiane.
I Centri di ascolto sono “porte aperte al territorio”, ovverosia strumenti
promossi dalle Chiese locali per ascoltare, accompagnare, orientare e prendere in
carico – insieme ad altre realtà territoriali – le persone in stato di disagio, stimolando le comunità al fine di favorire una loro assunzione di responsabilità.
Gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse (il cui “atto di nascita” è da
collegare al Convegno nazionale ecclesiale di Loreto, del 1985), sono strumenti
promossi al fine di osservare e rilevare sistematicamente le situazioni di povertà e
di esclusione sociale, studiandone le cause e le risposte date dalla comunità locale,
sia civile che ecclesiale.
I Laboratori di promozione delle Caritas, invece, hanno la fondamentale
funzione di stimolare le comunità parrocchiali «alla testimonianza della carità, attraverso l’ascolto delle persone in difficoltà, l’osservazione della realtà sociale» a
livello locale, con un’attenzione mai slegata ai Paesi più poveri del pianeta.
Il progetto rete ha anzitutto favorito progressivamente l’uso di un unico
metodo di rilevazione dei bisogni, delle richieste e degli interventi, attraverso
l’impiego di una “scheda aggregata” di rilevamento (contenente i campi di osservazione essenziali) e l’adozione di un software (denominato OsPo e giunto oramai
alla versione 3.4.0) in grado di acquisire, elaborare e condividere i dati delle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto.
1
Come si evince da un documento proposto di recente dalla Caritas Italiana, dopo una prima fase delle progettualità spontanee (a partire dagli inizi degli anni ’80), seguita da una fase di
progettualità creativa (quella, appunto, del “Progetto Rete Nazionale”), si è giunti ad una terza fase definita della progettualità integrata. Negli anni 2003-06, in risposta a nuove esigenze e ad indicazioni raccolte sul territorio, «è stata portata a termine la riorganizzazione, che ha dato vita,
all’interno di Caritas Italiana, al Servizio Promozione Caritas. L’obiettivo della creazione del nuovo Servizio: condurre ad unità strumenti e luoghi nati in tempi diversi, collocati in ambiti diversi,
con progettualità e modalità da armonizzare in rapporto all’unica finalità: animare alla testimonianza della carità la comunità e il territorio. Si è così avviata una fase di sperimentazione e di assestamento, con la scelta di puntare alla valorizzazione pastorale dei dossier regionali. Alla luce di
questo cammino, si è arrivati all’attuale impostazione. Un unico progetto unitario denominato
“Promozione Rete Caritas”, collocato all’interno del Servizio Promozione Caritas».
111
In Sardegna il progetto rete ha avuto inizio formalmente verso la fine del
2004, dapprima con l’avvio di un percorso di formazione ed accompagnamento
rivolto agli operatori delle diocesi già impegnate nel servizio presso gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse, i Centri di Ascolto e le Caritas parrocchiali. In un
secondo momento, su indicazione dei direttori delle Caritas diocesane, sono stati
individuati dei referenti locali del progetto, i quali hanno dato vita allo staff regionale del progetto rete 2.
È grazie a questo staff che a partire dal 2005 si è dato avvio ad un percorso
di lavoro regionale condiviso che, attraverso le tre dimensioni costitutive
dell’ascolto, dell’osservazione e del discernimento, è stato incentrato fondamentalmente:
-
sul collegamento con tutti i Centri di ascolto esistenti e potenzialmente aderenti alla proposta progettuale (nonché sull’impegno a moltiplicare progressivamente i luoghi di ascolto);
-
sul raccordo collaborativo con gli Osservatori delle Povertà e delle Risorse
esistenti (sviluppando il più possibile le sinergie con altre realtà di osservazione, ad intra e ad extra del tessuto ecclesiale);
-
sulla promozione nelle Caritas parrocchiali di uno stile di lavoro condiviso.
Queste tre realtà pastorali, se effettivamente dialoganti, costituiscono il vero e proprio “tessuto connettivo” della presenza della Caritas nelle comunità ecclesiali e nella società civile.
Come per il precedente Rapporto, anche in questo caso hanno preso parte
al lavoro nove diocesi su dieci: è mancata all’appello solamente la diocesi di Lanusei (per ragioni di natura organizzativa). Peraltro, si spera di poter annoverare
quanto prima anche questa realtà ecclesiale.
Le realtà diocesane coinvolte nei rilevamenti previsti dal protocollo di lavoro della ricerca (quantitativa e qualitativa) sono state elencate, di volta in volta,
nei rispettivi capitoli.
2. Il protocollo di lavoro quantitativo
Il protocollo di lavoro quantitativo si è basato essenzialmente
sull’elaborazione statistica delle informazioni riguardanti le persone che si sono
rivolte ai Centri di ascolto aderenti al progetto rete e che hanno conferito i dati relativi all’intero anno 2006.
2
Al momento fanno parte dello staff regionale del progetto rete: Salviano Figus (per la Caritas di Ales-Terralba); Simonetta Fadda (per la Caritas di Alghero-Bosa); Maria Bonaria Scano e
Maria Sanna (per la Caritas di Cagliari); Maria Grazia Cappuccio (per la Caritas di Iglesias); Alfonso Landolfi (per la Caritas di Nuoro); Giovanna Lai Masala e Angela Maria Ardu (per la Caritas di Oristano); Bachisio Usai e Pina Sechi (per la Caritas di Ozieri); Marco Fresu e Francesca
Corronca (per la Caritas di Sassari) e Giovanna Sanna (per la Caritas di Tempio-Ampurias).
112
L’adozione di una metodologia di rilevamento condivisa, con la raccolta
dei dati contenenti le informazioni di tipo anagrafico (data di nascita, nazionalità,
sesso, stato civile, livello di istruzione, condizione professionale, ecc.), i bisogni
rilevati dagli operatori dei Centri in occasione degli ascolti, le richieste formulate
dalle persone ascoltate e gli interventi posti in essere dalla Caritas, permette di
studiare in modo omogeneo i fenomeni di disagio delle persone, non concentrando
l’attenzione unicamente sulla sfera economica ma dando spazio, invece, a quella
prospettiva multidimensionale della povertà che costituisce una sorta di trait
d’union di tutti i capitoli del presente Rapporto.
Precisiamo che una tale metodologia non ha la pretesa di rappresentare in
modo onnicomprensivo i fenomeni di impoverimento di un dato territorio, sia perché non tutte le persone che vivono un particolare disagio decidono di rivolgersi
ai Centri di ascolto della Caritas (molto spesso anche per pudore), ed anche perché
non tutti sono informati circa l’esistenza di uno strumento di questo tipo, in grado
di fornire accoglienza, ascolto e possibilmente una soluzione ai problemi. D’altra
parte però, per usare una metafora già utilizzata nello scorso Rapporto, la “fotografia” scattata dai Centri di ascolto, per quanto parziale e non esaustiva, annovera
un numero considerevole di “pixel” (cresciuti quantitativamente nell’arco di un
solo anno); è stata ottenuta grazie all’impiego di un obiettivo dalle apprezzabili
caratteristiche tecniche (standardizzate su scala nazionale) e con uno sviluppo rigoroso della pellicola attraverso le metodologie (statistiche e sociologiche) maggiormente in uso.
In altri termini, pur trattandosi di una porzione statisticamente non rappresentativa dell’intero universo (tutti i poveri della Sardegna), di per sé di difficile
identificazione e composizione in termini generali, i dati forniti dai Centri di ascolto consentono in ogni caso di sviluppare una significativa comprensione sociologica dei fenomeni di impoverimento.
Come si è già avuto modo di rilevare in un’annotazione a piè di pagina del
capitolo secondo, i dati dei Centri di ascolto sono stati immessi nel software denominato OsPo3 (versione 3.3), prodotto appositamente per la Caritas e in dotazione presso tutti i Centri di ascolto d’Italia aderenti al progetto rete. Una volta estratti, i dati sono stati predisposti in seguito in un dataset, attraverso cui è stato
possibile, per mezzo del programma per l’analisi statistica denominato SPSS (Statistical Package for Social Sciences), eseguire le elaborazioni ed effettuare successivamente le rappresentazioni grafiche.
3. Il percorso di lavoro qualitativo
Come per il precedente Rapporto, anche in questo caso il disegno della ricerca qualitativa è stato configurato in modo da contemplare due precisi criteri
metodologici.
Da un lato l’obiettivo era quello di integrare l’analisi di tipo quantitativo,
realizzata attraverso l’esame dei dati forniti dai Centri di ascolto, con una metodologia in grado di cogliere molteplici e rilevanti aspetti sui fenomeni di impoverimento a livello personale e familiare, individuabili solo in parte o niente affatto
attraverso il solo approccio di tipo statistico.
113
Dall’altro lato, a differenza del primo Rapporto 3, si è voluto descrivere i
percorsi di uscita dal “labirinto” della marginalità sociale – o per lo meno dalle
situazioni acute di disagio – privilegiando un percorso a due vie:
-
tramite un approfondimento circa le storie di vita dei “protagonisti” (intervistando le persone che sono state sostenute in passato dalla Caritas e che
sono riuscite ad uscire dalle situazioni acute di disagio);
-
attraverso un’esplorazione tematica per mezzo dei focus group, sollecitando un contributo specifico dai testimoni privilegiati individuati in ciascun
contesto territoriale.
L’impiego dell’intervista discorsiva è avvenuto adottando un approccio
conosciuto in letteratura come multimethod, ovverosia in sintonia (ma non in subordinazione) con le altre tecniche di ricerca qualitativa e quantitativa utilizzate
nel corso dell’indagine.
L’intervista viene definita come lo strumento più diffuso nel campo delle
scienze sociali per la costruzione del materiale empirico, ed è nient’altro che una
forma sui generis di conversazione, nella quale delle persone (generalmente due:
l’intervistatore e l’intervistato) s’impegnano in un’interazione verbale nell’intento
di raggiungere un obiettivo cognitivo definito a priori.
Nell’intervista discorsiva guidata, a differenza di quella strutturata,
l’intervistatore conduce la conversazione seguendo un canovaccio contenente una
mappa di aree tematiche da esplorare 4. Nella fase di realizzazione, l’intervistatore
si limita ad introdurre un tema con una domanda rivolta all’intervistato, lasciandogli sviluppare l’argomento in totale autonomia, intervenendo il meno possibile
durante l’intervista e lasciando che gli elementi salienti si sviluppino a partire dal
“mondo vitale” della persona intervistata.
Per la realizzazione di questa parte della ricerca sono state realizzate diciannove interviste, distribuite in quasi tutte le diocesi della Sardegna (tranne che
nei casi di Lanusei, Nuoro ed Oristano), costruendo un panel che ha permesso di
indagare in profondità alcune particolari storie di vita, differenziate sotto il profilo
della tipologia del disagio, del genere e della nazionalità.
Un’altra metodologia di ricerca sociale utilizzata nella fase di approfondimento dell’indagine qualitativa, sia come strumento esplorativo (dal forte connotato partecipativo) sia per integrare il corpus della ricerca come supporto interpretativo, è quella dei focus group.
La caratteristica principale di questo metodo di discussione di gruppo è data dall’interazione che si stabilisce fra i soggetti che partecipano all’esplorazione
di alcuni argomenti predefiniti. Tale strumento si rivela particolarmente efficace
quando si tratta di acquisire una quota consistente di dati qualitativi in un tempo
3
Nel primo Rapporto il disegno della ricerca qualitativa è stato predisposto in modo da esplorare il tema generale delle cosiddette “carriere di povertà”.
4
Le locuzioni “intervista discorsiva” e “intervista guidata” si devono rispettivamente a Rositi (cfr. F. ROSITI, Strutture di senso e strutture di dati, in «Rassegna Italiana di Sociologia», anno
XXXIV, 1993, n. 2, pp. 177-200) e a Pizzorno (cfr. A. PIZZORNO, Considerazioni su questioni tecniche comuni a varie scienze sociali, e in particolare sull’intervista, in «Atti del primo Congresso
nazionale di scienze sociali», il Mulino, Bologna 1958, p. 147, nota 7).
114
piuttosto limitato, dando spazio il più possibile alle interazioni (di contenuto e
comunicative) tra i partecipanti.
Nel nostro caso sono stati convocati, in diversi contesti diocesani (Alghero-Bosa, Cagliari, Iglesias, Ozieri, Sassari e Tempio-Ampurias), dei “testimoni
privilegiati” (in tutto una cinquantina circa di persone) in grado di raccontare delle
esperienze significative circa i percorsi di uscita dalla marginalità sperimentati nei
territori in cui operano abitualmente. In diverse circostanze, la ricchezza delle riflessioni emersa in occasione dei focus group ha fatto scaturire fra i partecipanti
un generale apprezzamento che, al di là degli esiti specifici connessi all’indagine,
ha sollecitato la ripetizione di una tale metodologia anche per l’avvenire e per differenti obiettivi di lavoro.
4. Qualche indicazione bibliografica per ulteriori approfondimenti metodologici 5
-
-
-
-
R. BOUDON, Metodologia della ricerca sociale, il Mulino, Bologna 1970.
F. DELBONO, Povertà come incapacità: premesse teoriche, identificazione
e misurazione, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», n. 97, 1989.
L. BOVINA, I focus group. Storia, applicabilità, tecnica, in «Rassegna italiana di valutazione», vol. I, n. 1, 1996.
M GALLUCCI, L. LEONE, M. PERUGINI, Navigare in SPSS per windows,
Edizioni Kappa, 1996.
M.C. AGODI, Qualità e quantità: un falso dilemma e tanti equivoci, in C.
Cipolla – A. De Lillo (a cura di), “Il sociologo e le sirene. La sfida dei metodi qualitativi”, Franco Angeli, Milano 1996.
M. COLOMBO, Il gruppo come strumento di ricerca sociale: dalla comunità al focus group, in «Studi di Sociologia», vol. 35, n. 2, 1997.
S. CORRAO, Il focus group, Franco Angeli, Milano 2000.
L. STAGI, Il focus group come tecnica di valutazione. Pregi, difetti, potenzialità, in «Rassegna italiana di valutazione», vol. V, n. 20, 2000.
T. VECCHIATO (a cura di), La valutazione della qualità nei servizi: metodi,
tecniche, esperienze, Fondazione Zancan, Padova 2000.
F. DELBONO – D. LANZI, Povertà zero. I: Il problema dell’identificazione,
in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», n. 108, 2000.
M. BLOOR – J. FRANKLAND – M. THOMAS – K. ROBSON, I focus group nella ricerca sociale, Edizioni Erickson, Trento 2002.
M. CARDANO, Tecniche di ricerca qualitativa. Percorsi di ricerca nelle
scienze sociali, Carocci, Roma 2003.
M. S. AGNOLI, Il disegno della ricerca sociale, Carocci, Roma 2004.
G. ROVATI (a cura di), Le dimensioni della povertà. Strumenti di misura e
politiche, Carocci, Roma 2006.
CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Vite fragili. Rapporto
2006 su povertà ed esclusione sociale in Italia, il Mulino, Bologna 2006.
5
Si è preferito limitare le indicazioni ad un numero contenuto di saggi, peraltro nella sola
lingua italiana, al solo fine di fornire qualche utile orientamento a quanti – anche tra i “non addetti
ai lavori” – volessero approfondire maggiormente gli aspetti di metodo.
115
-
116
F. DEL BONO – D. LANZI, Povertà, di che cosa?Risorse, opportunità, capacità, il Mulino, Bologna 2007.
CARITAS ITALIANA – FONDAZIONE “E. ZANCAN”, Rassegnarsi alla povertà? Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale in Italia, il Mulino,
Bologna 2007.
Ringraziamenti
Dopo l’avvio della fase sperimentale, il progetto rete della Caritas si è finalmente
consolidato anche in Sardegna. A seguito della pubblicazione del primo Rapporto sono
stati fatti dei passi in avanti importanti, con un solo obiettivo (a servizio dei poveri) e grazie al contributo di molti. Anche questa nuova fatica editoriale comporta necessariamente
l’assunzione di una serie di obblighi di gratitudine tutt’altro che marginale.
In primo luogo è doveroso render grazie a tutti i componenti dello staff regionale
del progetto rete della Caritas, per la pazienza e l’impegno confermati anche in
quest’ultimo anno di lavoro in comune. Lungo il percorso della ricerca sono stati pienamente coinvolti i seguenti referenti locali del progetto: Salviano Figus (per la diocesi di
Ales-Terralba); Simonetta Fadda (per la diocesi di Alghero-Bosa); Maria Bonaria Scano e
Maria Sanna (per la diocesi di Cagliari); Giuliana Pilisio e Maria Grazia Cappuccio (per
la diocesi di Iglesias); Alfonso Landolfi (per la diocesi di Nuoro); Bachisio Usai e Pina
Sechi (per la diocesi di Ozieri); Giovanna Lai e Angela Maria Ardu (per la diocesi di Oristano); Marco Fresu e Francesca Corronca (per la diocesi di Sassari) ed inoltre Giovanna
Sanna (per la diocesi di Tempio-Ampurias).
Un vivo ringraziamento va, naturalmente, ai direttori delle Caritas diocesane della
Sardegna che hanno proseguito l’impegno nel dare impulso al progetto rete nella propria
diocesi: don Angelo Pittau (della Caritas di Ales-Terralba), don Lorenzo Piras (AlgheroBosa), don Marco Lai (Cagliari), don Roberto Sciolla (Iglesias), don Luigino Monni
(Nuoro), Giovanna Lai (Oristano), don Mario Curzu (Ozieri), don Francesco Soddu (Sassari) e suor Luigia Leoni (Tempio-Ampurias). Un grazie di cuore deve esser espresso doverosamente anche a tutti i loro collaboratori, i quali, a diverso titolo, hanno dato il proprio prezioso contributo alla realizzazione di quest’opera, in alcuni casi lavorando silenziosamente, ma assai alacremente, “dietro le quinte”. A tutti loro – non citiamo i nomi unicamente per non rischiare di dimenticarne qualcuno – giunga la più viva riconoscenza.
È ugualmente doveroso ringraziare tutti gli operatori che, con il proprio (determinante) contributo, hanno permesso la raccolta dei dati nei Centri di ascolto. Anche in questo caso, col rischio di dimenticare qualche nome, non facciamo riferimenti personali unicamente per non far torto a nessuno.
Un ringraziamento speciale, inoltre, va ai giovani (ragazzi e ragazze) in servizio
civile presso le Caritas della Sardegna, in particolare a coloro che sono stati coinvolti nel
servizio paziente e meticoloso del rilevamento dei dati, sia nei Centri di ascolto che negli
Osservatori delle povertà e delle risorse. A tutti loro, ed in particolare a Patrizia Fenu e ad
Emanuela Frau, giunga un grazie affettuoso.
Grazie, ancora una volta, anche ai tanti amici (sociologi e ricercatori sociali, psicologi, assistenti e operatori sociali, economisti e a quanti si sono appassionati al tema), i
quali hanno sacrificato parte del proprio tempo per discutere insieme sulle povertà e i poveri ed anche sulle possibili strade da percorrere per uscire finalmente dal “labirinto” del
disagio sociale.
Sentimenti di viva riconoscenza vanno espressi anche a coloro che, nei vari contesti territoriali, hanno deciso di accogliere l’invito a prender parte ai focus group sui
“modelli di uscita dalla marginalità”. Nel ricordare la loro partecipazione cogliamo
l’occasione per esprimere tutta la nostra gratitudine e il plauso per la ricchezza delle riflessioni offerte e gli stimoli operativi che ne potrebbero derivare in futuro.
Per la diocesi di Alghero-Bosa: Santina Porcu (assistente sociale); Bachisio Longu e Giuseppe Diana (volontari del “gruppo finanziario” della Caritas diocesana); suor
117
Leonarda Pitzolu (dell’Istituto “Figlie di Maria Ausiliatrice”, insegnante); Luigi Muroni
(assessore ai servizi sociali del Comune di Macomer); Valeria Monti (educatrice e mediatrice familiare); Simonetta Fadda (referente locale del progetto rete).
Hanno partecipato al focus group della diocesi di Cagliari: Vittorio Dettori (docente di economia); Anna Cerbo (medico); Maria Celeste Nonno (assistente sociale); Mario Marini (OFTAL); don Mario Cugusi (parroco); don Giampiero Zara (parroco); Franco
Manca (economista); Maria Bonaria Scano e Maria Sanna (referenti locali del progetto
rete).
Per la diocesi di Iglesias: Paolo Carta (responsabile dei servizi sociali del Comune di Iglesias); Viviana Ledda (assistente sociale del Comune di Carbonia); Raffaella
Congia (assistente sociale del Serd di Iglesias); Roberto Sanna (presidente regionale
dell’ACAT); Antonella Maccioni (volontaria dell’associazione “Gruppo Comunità di via
Marconi”); don Roberto Sciolla (direttore della Caritas diocesana); Graziella Concas ed
Elena Urigu (volontarie del Centro di ascolto “Madonna del buon consiglio” di Carbonia); Giuliana Pilisio (referente locale del progetto rete).
Per la diocesi di Ozieri: Giovanna Pani (vicedirettrice della Caritas diocesana e
responsabile del Centro di ascolto); don Nino Mugoni (parroco); Giusy Popolla (operatrice sociale del Comune di Ittireddu); Filippo Fele (medico e assessore alle politiche sociali); Vanna Bittau (infermiera); Bachisio Usai (referente locale del progetto rete).
Al focus group della diocesi di Sassari hanno preso parte: don Francesco Soddu
(direttore della Caritas diocesana); Lucianna Pala (referente del Tavolo sulle politiche sociali della Caritas diocesana); suor Anna Maria Floris (referente del Centro di ascolto diocesano); Speranza Canu (Referente per l’area immigrati della Caritas diocesana); don
Giampiero Satta (parroco); Salvatore Stangoni (dirigente dell’assessorato alle politiche
sociali); Andrea Ruiu (sindacalista); Maddalena Guisu (responsabile del SILFI); Isa Sarullo (volontaria vincenziana); Vittoria Giua (operatrice della Casa di accoglienza San
Vincenzo); suor Nicoletta Vessoni (responsabile delle “Poverelle di Bergamo”); Danila
Grazzini e Gregorio Salis (rispettivamente responsabile e psicoterapeuta del Serd di Sassari); Francesca Corronca e Marco Fresu (referenti locali del progetto rete).
Hanno partecipato al focus group della diocesi di Tempio-Ampurias: suor Luigia
Leoni (direttrice della Caritas diocesana); Massimo Sassu (assistente sociale del Comune
di Tempio Pausania); Antonio Addis (parroco); Francesca Ena (pediatra); Gavino Sotgia
(presidente del Consorzio delle cooperative sociali); Giovanna Sanna (referente locale del
progetto rete).
Un grazie sincero a Padre Giuseppe Piga (alacremente impegnato come parroco e
come membro del Gruppo di promozione Caritas nella diocesi di Tempio-Ampurias) per
aver contribuito, con la stesura del capitolo quinto, alla realizzazione del presente
Rapporto.
Un doveroso ringraziamento giunga anche agli amici e colleghi della Caritas Italiana. In particolare a Renato Marinaro, Francesca Levroni e Walter Nanni.
Last but not least è doveroso ringraziare in modo particolare Fabrizio Frongia,
volontario in servizio civile presso l’Osservatorio delle povertà e delle risorse della Caritas diocesana di Iglesias, per aver avuto la pazienza di leggere in tempi niente affatto generosi le bozze del volume, suggerendo in alcuni casi emendamenti e rettifiche importanti.
Anche per questo secondo Rapporto desideriamo chiudere esprimendo la maggiore riconoscenza a quanti hanno consentito di affidarci le proprie storie di vita, raccontandoci la sofferenza provata ma anche la serenità nell’essere riusciti a venir fuori dai meandri dolorosi del “labirinto” del disagio.
RAFFAELE CALLIA
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Finito di stampare nel Dicembre 2006
dalla Cooperativa Tipografica Editoriale (CTE) “N. Canelles”
Iglesias
Storie di povertà
e percorsi di uscita dall’esclusione
nei Centri di ascolto
delle Caritas della Sardegna
Rapporto 2007
su povertà ed esclusione sociale in Sardegna
Questo volume contiene gli esiti del secondo Rapporto regionale della Caritas,
riguardante i fenomeni di disagio ed esclusione sociale osservati in Sardegna. Protagonisti
di tale osservazione sono stati i Centri di ascolto aderenti al progetto rete promosso dalla
Caritas Italiana.
Dal punto di vista metodologico questo strumento si colloca nell’ambito della teoria
multidimensionale della povertà, proponendo una lettura dei fenomeni (vecchi e nuovi) di
vulnerabilità sociale registrati un po’ ovunque nell’Isola.
Come in passato, la ricerca propone al lettore un punto di vista duplice, attraverso le lenti
dell’indagine quantitativa e qualitativa. Oltre ad una tradizionale lettura dei principali dati
statistici registrati nei Centri di ascolto in ordine al “profilo” delle persone che chiedono
aiuto alla Caritas, ai loro bisogni e alle richieste effettuate, l’indagine cerca anche di
descrivere quali sono le modalità di uscita dalle situazioni acute di disagio, quali risorse
vengono messe in campo sia dai diretti interessati sia dalle reti primarie e secondarie
presenti. Ancora una volta si è dato risalto alle storie di vita dei protagonisti, attraverso le
interviste biografiche effettuate a coloro che sono riusciti a venir fuori dal “labirinto” del
disagio, e alle testimonianze dirette degli “addetti al lavori”, raccolte attraverso lo
strumento dei focus group.
Questa pubblicazione vuole anche essere uno strumento di “animazione pastorale”,
motivo per cui all’interno è contenuta anche una proposta di lettura pastorale dei dati
sulle povertà.
La CARITAS è «l’organismo pastorale della Chiesa italiana che opera dal 1971 per
promuovere la testimonianza della carità, il dono di sé, l’amore preferenziale per gli
ultimi. Ciò si traduce in iniziative di educazione alla solidarietà, alla mondialità,
all’interculturalità e alla pace; azioni di ricerca e sensibilizzazione e, se necessario,
stimolo delle istituzioni e denuncia di ingiustizie; interventi concreti di solidarietà locale
o internazionale in situazioni di emergenza o sottosviluppo».
La DELEGAZIONE REGIONALE DELLA CARITAS è «l’organismo specifico della Chiesa
sarda» costituito «per meglio aiutare la comunità cristiana dell’Isola a vivere la
testimonianza della carità nel servizio dei poveri», in base alle indicazioni date dalla
Conferenza Episcopale Italiana (Cfr. CES, La Chiesa di Dio in Sardegna all’inizio del
terzo millennio. Atti del Concilio Plenario Sardo).
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Dossier regionale Sardegna 2007