Omaggio
GERIATRI
ladri di saggezza
Luigi G. Grezzana
VERONA ? MMVI
A Alex e Samanta
"Corona dei Vecchi sono i figli dei figli"
Questo libro è stato realizzato
con il prezioso aiuto di Daniela Stella,
che mi ha accompagnato nel lavoro.
A lei un grazie sincero.
SOMMARIO
PRESENTAZIONE
F. Tosi .............................................................................
Pag.
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15
»
19
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29
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33
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63
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109
INTRODUZIONE
L. G. Grezzana ...............................................................
GERIATRIA: UNA SCIENZA CHE PRETENDE
L. G. Grezzana ...............................................................
LA CULTURA MEDICA
A. Battocchia ...................................................................
‘‘LA PASSIONE’’ IN GERIATRIA
F.M. Antonini - P. Peroli - G. Zavateri .........................
I GRANDI VECCHI DELLA LETTERATURA
G. Nascimbeni ................................................................
IMPATTO DELL’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE SUL S.S.N.: INDISPENSABILITÀ DELLA
GERIATRIA
U. Senin - C. Pasoli ........................................................
L’ETICA IN GERIATRIA
G. Zenti - G. Gortenuti .................................................
LE SCELTE DIFFICILI
L. G. Grezzana - M. Leopardi - D. Vecchiato ...............
‘‘UN PENSIERO FORTE’’ IN GERIATRIA
M. Trabucchi - U. Tellini ...............................................
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sommario
PATOLOGIE CRONICHE INVALIDANTI
F. Fabris - L. G. Grezzana .............................................
Pag. 139
IL GERIATRA E L’ANZIANO DEMENTE
U. Senin - L. G. Grezzana .............................................
»
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263
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299
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325
I DISTURBI PSICOTICI DELL’ANZIANO
M. Trabucchi - S. Bonapace ............................................
UNITÀ OPERATIVA GERIATRICA PER ACUTI
G. Masotti - A. Ungar - L. G. Grezzana .......................
FARMACI: FRA MITO E REALTÀ
S. Garattini .....................................................................
IL GERIATRA E LA MORFINA
G. Beltrami - G. Menegolli ............................................
IL DOLORE NELL’ANZIANO
M. Trabucchi - P. Garzotti - G. Zavateri .......................
EUTANASIA DA ABBANDONO
L. G. Grezzana ...............................................................
L’ANZIANO E LE CURE DOMICILIARI
F. Fabris ..........................................................................
LA PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE NELL’ANZIANO
G. Masotti - A. Ungar - C. Perbellini - C. Pasoli ..........
LA CHIRURGIA VASCOLARE NELL’ANZIANO
C. Cordiano - C. Bellamoli - G.F. Veraldi - G. Cecchini P. Rizzotti ....................................................................
I FATTORI DI RISCHIO ED INVECCHIAMENTO
F. Fabris - G. Zavateri ....................................................
11
sommario
L’ANZIANO E L’URGENZA: LE DOMANDE E LE
RISPOSTE
M. Grezzana - U. Tellini - L. Pellizzari - L. Corrà - M. B.
Beltrame - G. Cecchini - L. G. Grezzana ...................
Pag. 347
LA SALUTE DELL’ANZIANO FRA SANITÀ E SOLIDARIETÀ
S. M. Zuccaro - M. Grezzana - G. Gortenuti .................
»
359
»
395
»
427
»
435
»
461
»
493
L. G. Grezzana ...............................................................
»
527
Nota biografica ........................................................................
»
531
MENTE E CERVELLO
G. Moretto - L. Corrà - C. Vivenza ...............................
LE MEDICINE COMPLEMENTARI. POSSONO FARE
BENE E PERCHÉ?
A. Balestrieri ...................................................................
LA MEDICINA GERIATRICA ALLE SOGLIE DEL III
MILLENNIO: DALL’AUTOREFERENZIALITÀ ALLE EVIDENZE DI EFFICACIA
U. Senin - G. Cecchini - L. G. Grezzana .......................
MEDICINA DI LABORATORIO ED INVECCHIAMENTO
P. Rizzotti - L. Pellizzari - F. Buonocore .......................
LA SPERIMENTAZIONE CLINICA: VANTAGGI E
LIMITI
S. Garattini - L. Flor ......................................................
TRE ONDE PIÙ IN LÀ
PRESENTAZIONE
Il contesto sociale si caratterizza nel Veneto, ancor più che nel resto
del Paese, per il crescente invecchiamento della popolazione, legato in
gran parte al decremento di mortalità e di fecondità. Rilevante in tale
ambito, anche per le ricadute sull’utilizzo dei servizi sanitari, è la crescita della quota di ‘‘grandi’’ vecchi.
Le previsioni demografiche, riportate nella ricerca sulla persona anziana svolta per l’Osservatorio Regionale dal C.R.I.E.P. (Centro di Ricerca Interuniversitario sull’Economia Pubblica), evidenziano che le
persone di età compresa tra i 65 e i 74 anni aumenteranno dell’11%
fra il 2000 e il 2010, quelle con 75 anni e oltre, aumenteranno del
35%. A conseguenza di ciò, l’incidenza della popolazione ultrasessantacinquenne, sul totale della popolazione, salirà dal 25% circa del
2000 al 31% del 2010. L’indice di vecchiaia, dato dal rapporto fra
gli ultrasessantacinquenni e la popolazione con meno di 14 anni, salirà
nello stesso periodo da 133 a 154%.
I radicali mutamenti demografici, epidemiologici, clinici e sociali
rendono ragione, pertanto, del netto aumento del ricorso ai Servizi Sanitari da parte della popolazione anziana.
Questo aumento della spesa sanitaria è condiviso anche dagli altri
Paesi dell’Occidente.
Di notevole interesse risulterà, quindi, l’analisi dell’andamento
della spesa sanitaria regionale. Questa, ci consentirà la valutazione delle risorse per quota capitaria, dallo Stato alle Regioni e dalle Regioni
alle ULSS.
L’analisi è correlata al trend dei mutamenti sociali ed epidemiologici. È indispensabile che questa valutazione, venga confrontata con i
trend nazionali ed europei.
Il sistema socio sanitario Veneto, nasce e si sviluppa sulla base di
una forte integrazione tra i vari aspetti dell’assistenza sanitaria e, tra
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f. tosi
l’insieme di questi ed il comparto dei servizi sociali. Tale integrazione
ha mostrato, nel corso degli ultimi decenni, di corrispondere alle più
complessive esigenze di sviluppo economico sociale della regione. È
stato garantito un articolato e flessibile supporto, per rispondere ai
nuovi bisogni che si andavano manifestando in relazione a tale sviluppo.
La città di Verona, da molti anni, si è prodigata per le cure all’anziano.
In particolare, nel lontano 1954, è nata, in questa città, la prima
Divisione di Geriatria.
Negli anni successivi le Divisioni Ospedaliere di Geriatria per Acuti sono aumentate. Attualmente, sono tre. Sono un patrimonio importante dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona. Realizzano il
concetto che gli anziani ben curati prevengono la disabilità e mantengono la loro autonomia.
Nel giugno 1905 ad opera, fra gli altri, di Roberto Massalongo, figlio di Abramo Massalongo, nasce la Gazzetta Medica Veronese, ‘‘Il
Fracastoro’’.
Questa gloriosa rivista, che da cent’anni, raccoglie buona parte del
sapere medico della città di Verona, è testimone della vivacità culturale
che caratterizza la realtà sanitaria scaligera.
Negli ultimi anni ‘‘Il Fracastoro’’, raccoglie gli incontri della Scuola
Medica Ospedaliera – Corso Superiore di Geriatria.
La rilevanza scientifica di queste letture, ha suggerito la nascita di
questo libro per consentire, allo stesso tempo, una raccolta armonica ed
una maggior diffusione nazionale di quanto a Verona, in ambito geriatrico, avviene.
Il contenuto del presente volume, va pertanto inscritto all’interno
di questa complessa problematica e nel disegno programmatico costruito per la risposta ai bisogni emergenti. Sono particolarmente grato all’autore del volume, per questo contributo ed auguro che lo scritto abbia il successo che merita.
L’Assessore Regionale alle Politiche Sanitarie
Flavio Tosi
INTRODUZIONE
La tradizione ospedaliera della città di Verona, è radicata nel
tempo e gode di un meritato prestigio.
La nostra Scuola Medica Ospedaliera, esprime questa cultura.
Nasce subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ha visto come
‘‘protagonisti’’ negli anni, grandi medici, di ieri e di oggi.
È una Scuola che è stata conosciuta ed apprezzata a livello nazionale.
Successivamente, è nato a Verona, il Corso Superiore di Geriatria, che ormai è giunto alla XVI edizione.
Questo Corso, che da anni mi è stato affidato, col tempo è diventato ‘‘grande’’, quindi, mi è stato chiesto di assumere la direzione e
della Scuola Medica e del Corso di Geriatria.
La Scuola ha un ciclo. Come le stagioni. C’è un inverno, in cui gli
incontri vengono meditati. Poi, in primavera, germogliano sino a
sbocciare. Verso l’estate si aprono, si scoprono, quasi si pavoneggiano. In autunno si colgono i frutti. Ed è già inverno, doveroso ed utile
per riposare un po’ e pensare.
...e si riparte ancora.
Le attività culturali, che sono realizzate negli Ospedali di Verona, hanno già, dal 1905, identificato nella rivista ‘‘Il Fracastoro’’, il
loro bollettino.
È abitudine consolidata, raccogliere su questa rivista scientifica,
di cui mi onoro essere redattore, gli incontri del Corso Superiore di
Geriatria.
Le lezioni pubblicate, riprendono pari pari, quanto i relatori
hanno detto a voce. Vengono riportate, non di rado, le domande poste dal pubblico con le relative risposte.
Si cerca di essere fedeli, il più possibile, alle varie letture.
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l. g. grezzana
Tutto questo, comporta un impegno importante, che si protrae
per molti mesi, ma ci sembra ne valga la pena.
Per esperienza, si sa che se si chiede ai vari relatori il testo della
loro lettura, poi, nei fatti, si ha solo una sintesi di quanto venga a voce trasmesso.
Già Platone, 2.500 anni fa, aveva sottolineato la maggiore importanza delle cose dette sulle cose scritte.
Una relazione scritta, non ha mai quel calore che, di persona,
si riesce a comunicare e che, appunto, si cerca fedelmente di riprodurre.
È un valore aggiunto, che va riconosciuto, al nostro lavoro.
Tuttavia, nel tradurre in lingua scritta la lingua parlata, inevitabilmente, si deve modificare qualcosa.
‘‘Verba volant, scripta manent’’ ed allora, è giusto cosı̀.
In questo lavoro un po’ cocciuto, dapprima si sbobinano le varie
letture, poi si riscrive, vedendo e rivedendo il tutto, cercando di ottenere un testo scorrevole e corretto.
Sempre mi ripeto, che non si è mai chiari abbastanza, quando si
parla e quando si scrive.
In tutta questa fatica, mi è sempre accanto, una cara amica, Daniela Stella, che con passione sincera (nel vero senso etimologico ‘‘sine cera’’, senza patina), condivide tutto il lavoro.
È evidente, che nelle letture ho privilegiato, con decisione, le tematiche geriatriche.
Perché, allora, non raccogliere in un libro le lezioni più significative di Geriatria, che sono state tenute nell’ambito della Scuola Medica della nostra città?
Proprio cosı̀, è nata l’idea di questo volume.
Molte letture sono comparse su ‘‘Il Fracastoro’’, altre, sono
del tutto inedite. Tutte, comunque, hanno un comune denominatore di interesse geriatrico e mi era parso che bene si amalgamassero.
Mi sembrava un’iniziativa felice, anche perché mi consente di
diffondere ad un maggior numero di colleghi, il messaggio culturale
che parte da Verona.
La mia città, non a caso, vanta una tradizione geriatrica nobile e
forte. Già dal 1954, prima in Italia e prima nel mondo, è nata a Verona la Divisione ospedaliera di Geriatria.
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introduzione
Negli anni, questa realtà si è rafforzata ed è diventata ormai patrimonio prezioso su cui gli anziani possono contare.
È sempre la passione che muove, in queste cose.
Il titolo che ho scelto per questo volume ‘‘Geriatri, ladri di
saggezza’’, può sembrare non rigorosamente scientifico ed, invero,
cosı̀ è.
La mia, comunque, è stata una scelta pensata e voluta perché,
malgrado le ‘‘sudate carte’’ di leopardiana memoria si studino e molto, i veri maestri sono per noi gli anziani che si affidano alle nostre
cure.
A loro, noi dobbiamo la nostra crescita culturale e la nostra
scienza.
Luigi G. Grezzana
GERIATRIA: UNA SCIENZA CHE PRETENDE
L. G. Grezzana
La Geriatria è una scienza giovane che, comunque, ormai ha trovato nel mondo scientifico il suo giusto riconoscimento.
Il geriatra è un po’ un pioniere, con le difficoltà ed il fascino che
comporta questo ruolo.
Curare gli anziani, è doppiamente difficile.
Innanzi tutto, perché l’anziano, di suo, confonde. Spesso, coesistono intrighi pluripatologici e si ha una risposta non sempre prevedibile alla terapia che è, per lo più, complessa.
Oltre questo motivo, ve ne sono altri che rendono tanto impegnativo curare i vecchi. In primis, non è facile far capire che il geriatra è più bravo nelle cure per gli anziani malati. Il motivo è molto
semplice. Li conosce e li ama.
Per il loro recupero, si impone tutti i giorni e di volta in volta
diversa, una ricerca di strategie, di percorsi, di attivazioni non scontate e non facili da individuare, ma che sono di grande importanza.
È certamente indispensabile, la ricerca farmacologica nella cura
dei nostri pazienti.
I farmaci sono necessari, ma non bastano.
Il geriatra recupera le funzioni, rimuove i sassi, se può, altrimenti
li smussa.
Come l’acqua di un fiume leviga le pietre, cosı̀ il geriatra addolcisce gli spigoli della malattia.
Cerca un equilibrio nuovo, inventa una speranza. Ricrea l’armonia, «incolla» la vita.
Immaginiamo il complesso meccanismo di un orologio. È suffi-
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l. g. grezzana
ciente che un ingranaggio, una rotellina, non giri bene e tutto si ferma. Il geriatra, sa cogliere con rapidità ove stia l’intoppo.
Si adopera per rimuoverlo, affinché tutto riparta.
È pur vero, che talvolta la riparazione non sortisce un risultato
perfetto.
Non di rado, l’orologio o va un po’ avanti o resta un po’ indietro.
Non segna bene il tempo. È imperfetto. Come la nostra scienza. Come la vita. Ma va.
Pensiamo, ora, ad uno stagno. Inevitabilmente, col tempo, la sua
acqua diventa putrida. È sufficiente, però, un qualcosa, una pala, un
mulinello, che la smuova, la agiti, la metta a contatto con l’aria e diventa limpida.
Per un anziano, è uguale.
Si devono cercare le motivazioni perché egli ‘‘muova’’ la testa e
muova le gambe. Allora, vive. Altrimenti, ‘‘stagna’’.
Questo, è uno dei tanti compiti del geriatra.
È un lavoro, il nostro, terribilmente difficile, ma che ci prende,
che ci affascina.
Per quanto ci si impegni, sempre, si sente l’inadeguatezza del nostro operare. Si vorrebbe fare sempre di più, consci di non fare mai
abbastanza.
Negli ultimi anni, si è molto insistito sul concetto di anziano ‘‘fragile’’.
Nell’operare di tutti i giorni, mi sono convinto che sono il tempo, l’età, gli anni, la condizione socio-economica, gli amori perduti, i
bersagli mancati, a rendere gli anziani fragili.
Spesse volte, basta una malattia acuta, è sufficiente un trauma,
per rompere un equilibrio ed, improvvisamente, l’anziano ti appare
nudo nella sua fragilità.
Ed allora, non di rado, inizia una lotta, una battaglia, quasi un
braccio di ferro, tra il medico e la morte.
L’anziano provato dalla malattia e dagli anni, tende a lasciarsi andare.
In fondo, la morte è più comoda.
geriatria: una scienza che pretende
21
È più facile cedere che lottare.
Se però, si trova il bandolo giusto, la motivazione più opportuna...
Se si insiste, se si convince l’anziano malato che è importante che
lui stia qui, che la sua vita non è un inutile bagaglio di esperienze, ma
che serve a qualcuno, allora inizia il recupero.
Si sposta ‘‘tre onde più in là’’ la vita e, la morte, può attendere.
Quante volte si sente dire: ‘‘Se ne è andato, perché era la sua
ora’’.
Per il geriatra non è mai giunta la ‘‘sua’’ ora. Non si arrende mai,
chi cura i vecchi, né incide quanti anni abbiano i suoi pazienti.
Certamente, ben si sa, che si debbono usare mille e mille attenzioni, le cure più diverse, per ottenere un risultato.
Amavo ripetere che nel nostro lavoro, bisogna fare subito le cose
giuste.
Da qualche tempo, quel ‘‘subito’’, l’ho sostituito con ‘‘prima’’,
per sottolineare quanto sia importante non perdere tempo.
Talvolta, il geriatra deve soprassedere su raffinatezze diagnostiche, allo scopo di ottenere quel risultato importante che è il mantenimento dell’autonomia dei suoi malati.
La ‘‘riserva’’ di un vecchio, in tutti i suoi organi ed apparati, è
sempre scarsa.
E quando l’equilibrio si rompe, bisogna far presto.
Al Liceo ho appreso una frase di Cicerone che, poi nella vita, mi
è tornata molto volte alla mente. ‘‘Ti scrivo a lungo perché non ho
tempo di scriverti breve’’.
Effettivamente, la sintesi non la si improvvisa, la si impara.
È un metodo non solo di espressione, ma anche di lavoro. Lo si
rincorre sperando di raggiungerlo.
Invero, della sintesi non si è mai padroni. È sempre una ricerca,
una conquista. Non è mai scontata. In certe professioni diventa essenziale. Per il geriatra, per esempio, innanzi a quadri clinici estremamente complessi, è indispensabile districarsi e giungere in breve
tempo ad una soluzione sintetica e praticabile.
Anche altri lavori abbisognano di questa abilità.
I tassisti delle megalopoli, in pochi secondi, circa 20, riescono a
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l. g. grezzana
delineare nella loro mente il tragitto migliore, per raggiungere, attraverso un dedalo di vie, un determinato luogo.
I miei amici neurochirurghi mi hanno insegnato che questo particolare talento, trova riscontro in una peculiarità del cervello dei tassisti metropolitani. Nello specifico, la loro amigdala è molto più sviluppata che in un soggetto normale.
Con indagini sofisticate, si è visto che questa struttura cerebrale, si attiva nello stesso istante in cui, quel tassista, identifica in un
baleno, il percorso più idoneo.
Penso che anche il geriatra abbia un qualcosa di analogo. Anche
lui, nel tempo, realizza una particolare abilità nel capire che cosa sia
meglio per il suo paziente, nel cogliere il percorso giusto in mezzo a
mille problemi.
Insomma, nel fare subito o meglio, prima, le cose giuste.
Non solo l’anziano ha una ‘‘riserva’’ scarsa, ma abbisogna anche
di una dolce e costante attivazione. È soprattutto, una questione culturale.
Abbiamo, per esempio, in garage due automobili. Una vecchia
ed una nuova. Se per un mese non le usiamo entrambe e poi vogliamo metterle in moto, non si comportano allo stesso modo.
Quella nuova, infatti, partirà appena si gira la chiave. Quella vecchia, perché non usata da 30 giorni, difficilmente risponderà all’accensione.
Avremmo dovuto usarla prima, cioè metterla in moto più di frequente.
Per i vecchi, è cosı̀. Necessitano di motivazioni e stimolazioni
continue, altrimenti ‘‘si inceppano’’, perdono la loro autonomia.
E poi, riprenderli è tanto difficile.
Il lavoro del geriatra è vasto ed imprevedibile. Il geriatra non
smette mai di imparare. La Geriatria è una scienza che pretende.
In tutti i lavori, ci vuole passione. Nella cura degli anziani, un po’
di più.
geriatria: una scienza che pretende
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Cesare Pavese, amava ripetere che la più grande fortuna che ci
possa capitare nella vita, è quella di fare il lavoro che ci piace.
A me è andata cosı̀ e, quindi, sono stato molto fortunato.
Appena posso, vado sulle Dolomiti, in moto.
Intimorito ed affascinato, guardo quelle montagne.
Verdi, per il bosco, in basso. Pallide, per le rocce, in alto.
‘‘In fondo’’, dico ammirandole ‘‘quando si decide di fare il medico, si inizia un percorso bello ed affascinante come queste montagne’’. Le rocce inducono ad una sublime santità.
Poi, lo sguardo, fissa il bosco.
La Medicina, mi sembra proprio come il bosco: coinvolgente,
difficile ed ingannevole.
Quindi, guardo in su. Vedo le rocce. E penso.
Dove finisce il bosco e cominciano le rocce, lı̀, inizia la Geriatria.
Se la Medicina è il bosco, la Geriatria è la roccia che si staglia nel
cielo, perché, per curare i vecchi, oltre la medicina, ci vuole la fantasia. La Geriatria è una scienza che fa crescere, più di altre, i suoi
adepti. Innalza dalla mediocrità. Rispetto ad altre specialità, ha un
valore aggiunto, la sapienza dei vecchi. Insegna ad affrontare i misteri dell’uomo senza avere la pretesa di comprenderli. Educa a rispettarli.
Mi sembra di essere particolarmente predisposto per curare gli
anziani.
Voglio loro bene e sono ricambiato.
Ogni mattina quando esco dalla stanza degli ammalati, dopo
averli visitati, sempre li ringrazio. Loro si stupiscono un po’, ma io
sono sincero. Dò loro le mie cure e loro mi insegnano. In fondo,
nel nostro lavoro, spesse volte vaghiamo nel mare della complessità
e sono gli anziani la nostra bussola.
Gli anziani sono sapienti perché hanno vissuto a lungo.
La vita, è la vera maestra dell’uomo e loro ne hanno tratto insegnamento.
Per il geriatra, i vecchi non sono mai spettatori, ma attori. Hanno
sempre qualcosa da dire, purché si sappia ascoltarli.
24
l. g. grezzana
Questo, è uno dei punti fondamentali della nostra disciplina.
La Geriatria, è una scienza particolare perché necessita, in uguale misura, dei libri e dell’esperienza. È una tipica scienza comunitaria
ed, infatti, il geriatra da solo, conclude poco. È una scienza umile e
nell’umiltà sta il suo valore.
Coglie dell’uomo le luci, ma non le sfuggono ombre e penombre,
sulle quali insiste e ne fa bandiera.
La vanità non ha statura e la grandezza non è vanitosa.
Gli anziani, esprimono nel modo migliore la precarietà e la fragilità dell’uomo. Il giovane, ‘‘trangugia’’ la vita. Il vecchio, la ‘‘sorseggia’’.
Quasi se la fa durare, la gusta. Ne coglie le gioie ed i sapori più
intimi.
Più che può.
Ho sempre pensato che percepire quest’aspetto cosı̀ vero della
nostra natura ed innalzarlo a valore, quasi a monito per i più forti,
fosse l’essenza del nostro lavoro.
Osserviamo un mazzo di fiori.
Fiori diversi fra loro: rose, tulipani, ginestre, orchidee e quant’altro.
Poi, puntiamo lo sguardo sui loro steli.
Gli steli, si assomigliano un po’ tutti. Sono sempre dei bastoncini
verdi, con delle foglie verdi che si confondono fra di loro.
Ma quando alziamo gli occhi e guardiamo i fiori... malgrado gli
steli siano cosı̀ simili, i fiori sono cosı̀ diversi.
Anche la società è fatta cosı̀.
Gli steli mi ricordano i giovani. Come loro, si assomigliano un
po’ tutti. Stessi braccialetti, stesso taglio di capelli, stessi vestiti, stessi
miti.
I vecchi, come dicevamo, sono incredibilmente diversi.
Un giovane è quello che è, per quello che gli ha dato suo padre e
sua madre.
Il vecchio, va ben oltre il suo genoma. È il risultato della sua
storia, del suo ambiente. È vissuto molto e, molto, è stato condizio-
geriatria: una scienza che pretende
25
nato. Il giovane, talvolta, crede di bastare a se stesso. Aggrappato
alla sua forza e alla sua bellezza, si sente invincibile.
Una vernice di narcisismo lo esalta.
Il vecchio è nudo. Senza amore non può stare. Il giovane si sente
protetto dall’amore di sé. Il vecchio ha bisogno dell’amore degli altri.
Gli anziani, non solo non vanno dimenticati, ma vanno protetti,
amati e curati, perché tradiscono la parte più vera dell’uomo.
Nel recente passato, ci siamo molto preoccupati degli anziani come fenomeno, come massa, come fascia di età.
Ed allora, ci siamo inventati e sono molto importanti, l’Università della 3ª Età, i viaggi per gli anziani, le opportunità più varie, per
chi smette di lavorare.
Anche sulle pensioni, giustamente, si è posta attenzione.
Tutto questo, però, ci ha fatto perdere di vista il singolo anziano,
le sue storie minori.
Sperando di non essere frainteso, vorrei, al limite, una vecchiaia
meno protetta, ma più onorata.
Se un vecchio non è desiderato, magari da un animale domestico, non torna a casa. E la casa, fa salute.
L’ospedale dove lavoro, è sorto in riva all’Adige.
Dalle finestre del mio reparto, che è situato al quarto piano, si
vedono a sinistra le colline, a destra il fiume.
Nel centro, domina la scena un grande parcheggio, in parte destinato all’eliporto. L’attenzione di chi si affaccia cade, non di rado,
sui due grandi cedri del Libano, che si ergono fra la pista e l’ospedale.
Questi alberi, però, hanno una peculiarità. Anche se appartengono alla stessa famiglia e sono della stessa altezza, sono nettamente diversi.
Uno, ha le fronde estremamente rigogliose, folte. Per cosı̀ dire,
gode ottima salute.
L’altro, ha le fronde più scarne, ma soprattutto, è sostenuto in
basso, da una struttura formata da sei pali di ferro conficcati nel ter-
26
l. g. grezzana
reno. In alto, ad un’altezza di tre metri, i pali confluiscono su un
anello che avvolge il tronco dell’albero.
Il significato di questo sostegno, è di proteggere la conifera. Sembra quasi che, se non ci fosse, basterebbe un colpo di vento per farla
cadere. Si intuisce, guardandola, che le sue radici non sono sufficientemente abbarbicate nel terreno.
Non è che rischi di morire, perché è cosı̀ da sette anni, certamente, non gode della salute del cedro che le vive accanto.
Il perché di questa precarietà, è presto detto.
Quella pianta era nata e vissuta altrove, esattamente dove, poi, è
stato costruito l’eliporto. Le hanno cambiato casa.
Se tanto soffre un albero che venga sradicato dalla sua terra, pensiamo quanto soffra una donna o un uomo che cambi casa.
È uno dei tanti insegnamenti che ci hanno dato gli anziani.
Non ci si credeva sino a qualche anno fa, ma nella cura dei vecchi, si è imparato che gli amori piccoli sono estremamente importanti.
Avanti negli anni, ci si aggrappa sempre più a tutto quello che ci
ha accompagnato nella vita. Le cose, con cui abbiamo vissuto, diventano propaggini, parte di noi, quasi una seconda pelle.
Staccarsene, vuol dire perdere un pezzo di vita, come perdere un
braccio, una gamba.
Non è facile vivere mutilati ed un vecchio, senza la sua casa, viene privato non di una cosa, ma di un amore.
Questo, l’ho imparato dai nostri anziani. Ogni mattina, quando
avvicino gli ammalati, la prima domanda che rivolgo loro è: ‘‘Dove
abiti, qual è il tuo borgo?’’
Non solo, ma mi preoccupo anche di sapere se nella vita siano
sempre rimasti in un posto o se abbiano cambiato casa.
Una città, è vivibile quando è ‘‘polis’’, non quando è ‘‘metro-polis’’. Un vecchio, necessita del pettegolezzo per star bene, non dell’anonimato.
Bisogna che i vicini sappiano che c’è e che, ogni tanto, qualcuno
lo ascolti.
Essi sono e, quindi, siamo foglie, momenti. Non si deve dimen-
geriatria: una scienza che pretende
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ticarlo mai. L’uomo le cose più grandi le ha fatte, quando ha tenuto
ben presente che è foglia.
I più grandi errori, li ha commessi quando è stato pervaso dal
delirio dell’onnipotenza.
Siamo foglie.
Basta un niente per cadere.
Poi, è sufficiente un refolo di vento e si torna a volare.
Dicevo poc’anzi, che la Geriatria è una tipica scienza comunitaria. Mi piace pensarla anche scienza controcorrente.
Altre branche della Medicina, hanno dovuto inevitabilmente,
parcellizzare il loro campo d’interesse, per non disperdersi.
Il geriatra, al contrario, deve allargare sempre di più gli orizzonti
di conoscenza dei suoi ammalati. Non basta conoscere il paziente
nella sua globalità, ma si deve anche sapere del suo ambiente, della
sua storia.
Per tutto questo, non è sufficiente il medico. Oltre il geriatra, ci
vogliono gli infermieri, la tecnologia, le forze economiche, le forze
sociali, eccetera.
La Geriatria funziona se inserita in un grande ospedale. Se isolata, lontana dalle altre specialità e privata dell’adeguato supporto
tecnologico, non potrà mai raggiungere quei risultati che si attendono i nostri ammalati.
Non è né una cultura scontata, né ovvia.
Tutto, comunque, serve per dare forza ad una specialità che di
suo sarebbe debole, perché deboli sono i vecchi.
Anche se il geriatra, purtroppo, non sempre trova tutte le risposte, certamente coglie tutte le domande, interpreta i bisogni e cerca
la migliore soluzione praticabile.
La Geriatria, non è la scienza dell’ottimo, ma del possibile.
Gli anziani, lo sentono e lo sanno.
Ci sono grati, e a noi basta.
LA CULTURA MEDICA
A. Battocchia
La Scuola Medica Ospedaliera di Verona, è di antiche tradizioni:
il suo statuto porta la data del 1946, con la firma anche di mio padre,
che non era medico.
Ha ormai raggiunto il 50º anno dalla sua fondazione. La possiamo definire, con orgoglio, gloriosa.
Essa, è stata ed è, il collettore dell’esperienza e della cultura medica, prevalentemente ospedaliera, di Verona e del suo territorio.
La Medicina veronese ospedaliera e non, ha avuto una grossa rilevanza nello scenario della Medicina italiana.
Il poeta Mario Luzi ha scritto:
‘‘Il bulbo della speranza,
ora occultato sotto il suolo
ingombro di macerie,
non muoia
in attesa di fiorire alla prima primavera’’.
Nel secolo scorso sono caduti regimi, uomini potenti sono piombati dagli altari nella polvere, ideologie che sembravano perenni, dissolte come neve al sole, mode e modi di vivere sono radicalmente
cambiati.
Sı̀, il terreno è ingombro di macerie che sono da spazzar via. Ma
bisogna stare attenti: nella foga di fare piazza pulita si possono
asportare anche i bulbi o i germogli della speranza, dell’autenticità
e della verità.
Un filosofo danese, Soeren Kierkegaard, scriveva: ‘‘La nave è in
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a. battocchia
mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangiamo domani’’.
Sappiamo tutto sulle mode e sui consumi, ma non sappiamo più
scoprire la tolleranza, la logica illuminata, le radici della storia, l’impegno morale quotidiano, la rotta dignitosa della vita. Noi viviamo sempre più in un mondo che è simile ad un groviglio di culture differenti.
C’è il rischio che, tirando malamente e con violenza i fili, si faccia una
massa sempre più arruffata. Molti sono tentati di fare cosı̀ o di tagliare
con la spada questi nodi.
Si sa, è difficile passare dal groviglio all’intreccio armonico, ma
bisogna ritrovare la gioia genuina contro l’allegria sgraziata, il rispetto contro la prevaricazione, la serenità contro la concitazione e la ragione contro il dogma.
Dante, nel 6º canto del Purgatorio, attraverso Sordello, ammoniva:
‘‘Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiero in gran tempesta,
non dama di provincia, ma bordello’’.
La città di Verona, malgrado provata dalla devastazione bellica,
non si è scoraggiata. Non ha perso tempo.
Dopo anni di silenzio, legati al periodo postbellico, la Scuola Medica rinasce nel 1965 ad opera di un illustre collega veronese, Emanuele Tantini, nella consapevolezza che nell’ambiente medico veronese vi fossero le premesse fondamentali di quella cultura che è sempre il miglior incentivo al sapere, alla conoscenza, al progresso.
Da anni la direzione di questa importante realtà culturale, è stata
affidata a Luigi G. Grezzana.
È un geriatra umanista e filosofo, attento agli eventi contemporanei, conoscitore dell’animo umano che ha speso e spende
importanti energie nell’organizzazione di questa Scuola Medica
Ospedaliera – Corso Superiore di Geriatria. È riuscito a coniugare il sapere medico con argomenti di grande attualità, ottenendone un mix di notevole interesse.
Questi incontri sono stati eco e portavoce non secondari, ed hanno costituito riferimento professionale e scientifico non solo a livello
locale, ma anche nazionale. Pur nell’affollato programma che con-
la cultura medica
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templa Corsi di Aggiornamento e Congressi, la Scuola di Verona ha
l’ambizione di ricercare ed ottenere una congrua dimensione scientifica.
La competenza tecnica, il confronto con la realtà quotidiana, sono elementi inscindibili della personalità di chi ha scelto questa professione, vale a dire, un corpo medico preparato, onesto e geloso di
un’importante tradizione medica e scientifica.
Un corpo medico, che è troppo spesso sottoposto a critica pungente e fastidiosa, da una società più attenta alle facili scorciatoie
dello scandalismo o al superficiale schiamazzo, piuttosto che ai contenuti.
Un corpo medico, che ha sempre considerato la Medicina un’arte e ha sempre difeso con ragionevole freddezza l’esasperata aggressione della tecnica, talvolta paralizzante.
Non ha mai rinunciato all’elemento creativo che, per amore di
conoscenza e di rispetto della persona, opera liberamente secondo
quello che è comunemente noto come occhio clinico ed intuito terapeutico.
Questo corpo medico, ha sempre privilegiato le reali esigenze del
paziente, ispirandosi a scienza e coscienza, anziché a ragioni di stato
o a regimi terapeutici imposti da mode culturali o, peggio ancora, da
strategie economiche occulte.
Si è sempre chiesto se i ‘‘protocolli’’ fossero più utili al paziente o
al medico.
Si è sempre calato nella realtà della singola situazione per confrontarsi con essa e comprendere il giusto modo in cui affrontarla.
I temi scelti, nell’ambito della Scuola Medica Ospedaliera, sono
trattati con un rigore che non dà luogo ad un dialogo fra sordi, adatto solo a super specialisti. È, piuttosto, messaggio clinico preciso ed
attento, affinché il cittadino goda di un servizio, da parte del medico,
sempre più alto ed idoneo ai nostri tempi.
Non è necessario e sarebbe persino sbagliato, trasformare il
medico in una sorta di confidente. È sufficiente sottrarlo alla tentazione di diventare un tecnico della salute. Intendo dire, che il
processo clinico si dovrà basare sull’indagine anamnestica accurata, sull’esame semeiologico approfondito e sull’utilizzazione di
nuovi sussidi strumentali e di laboratorio.
Andranno utilizzate le Linee Guida economicamente accettabili,
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a. battocchia
senza, per questo, sfuggire ad una lucida sintesi diagnostica. Curare
e prendersi cura sono due facce dell’arte medica, che rischiano di diventare percorsi alternativi. Sta a noi impedirlo.
Mi si conceda un’ultima riflessione.
È un momento in cui lo Stato è in affanno, o meglio, tutti gli Stati sono in affanno per motivi economici. Anche la comunicazione all’interno della nostra struttura soffre di frammentazione e di ‘‘tumulti’’.
L’egoismo personale prevale, certamente, su quello che è l’interesse generale. A tale proposito, mi viene in mente, un vecchio apologo orientale.
Si racconta di un anziano pellegrino, accompagnato dal giovane
figlio, in viaggio per mare verso Gerusalemme. Durante la traversata,
all’improvviso inizia ad imperversare una furiosa tempesta, minacciando di far naufragare la nave ed i viaggiatori.
Il vecchio pellegrino, ordina al figlio di recitare le preghiere solenni per invocare l’aiuto e la misericordia divina. Il figlio, in preda al
panico, non rammenta le parole di quelle preghiere. Il padre, gli ingiunge di recitare quelle più semplici, le invocazioni, le giaculatorie.
Anche queste sono, momentaneamente, cancellate dalla memoria
spaventata del figlio. Gli comanda, infine, di recitare l’alfabeto.
Non appena il figlio inizia a pronunziare le prime lettere dell’alfabeto, a b c d, la tempesta si placa ed essi giungono sani e salvi a destinazione.
I gesti, i più semplici come la tenerezza, l’amore, l’amicizia, sono
essenziali per vivere.
Soprattutto i gesti culturali, quali l’imparare a recitare l’alfabeto
o il numerare ‘‘galileiano’’, sono oggi, ma secondo me da sempre, gli
argini più validi per preservare la vita contro la solitudine, la sofferenza e la tristezza della malattia.
C’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Io vorrei essere fedele ad
entrambi, ma tendo alla bellezza.
‘‘LA PASSIONE’’ IN GERIATRIA
F. M. Antonini - P. Peroli - G. Zavateri
G. Zavateri: ‘‘Tutti, ormai, sono a conoscenza che negli ultimi 30-40
anni nel mondo occidentale vi sia stato un progressivo aumento della
vita media, tanto che, la fascia di popolazione con età avanzata è cresciuta sia come consistenza numerica sia come importanza sociale.
Tutto questo, ha determinato cambiamenti e ripercussioni importanti in tutti i campi della realtà dei popoli.
Ma difficoltà e problemi ancora più grossi, vengono rilevati nei
paesi in via di sviluppo, dove sorge una ulteriore complicazione data
dalla rapida urbanizzazione di numerose comunità agricole con divisione delle famiglie e cambiamento di costumi ancestrali.
Su queste complesse problematiche vi è un interesse mondiale,
dimostrato anche dalle Nazioni Unite, che organizzarono, dal 24 luglio al 6 aggosto 1982, una speciale riunione a Vienna con il tema
‘‘Impiego delle persone anziane come forza lavoratrice ed abolizione della legislazione a loro sfavorevole’’.
Problemi sociali, problemi biologici, problemi clinici, problemi
comportamentali.
I maestri della Clinica Medica, talvolta, insistono su dogmi di
un’era che non esiste più. Si disserta su malattie tradizionali con quadri clinici classici, frutto di studi fisiopatologici passati. Nella realtà
clinica quotidiana, il loro riscontro è, però, del tutto eccezionale.
Secondo questi dogmi, si dà una preferenza ingiustificata alla terapia farmacologica, trascurando l’essenziale globalità della cura all’anziano che comprende l’aspetto medico, riabilitativo, sociale, assistenziale.
La passione in Geriatria nasce da questa visione dell’essere uomo
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f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
anziano, da questa globalità spesso complessa e multiforme e non da
una semplice presenza o meno di malattia.
A questo punto, è giusto non togliere ulteriore tempo alle relazioni ufficiali e passo, cosa assai gradita, alla presentazione degli illustri relatori.
La prima lezione sarà tenuta dalla dottoressa Paola Peroli, Dirigente Medico presso la Iª Geriatria dell’Ospedale Civile Maggiore,
valente ed appassionata geriatra. La seconda, dal professor Francesco Maria Antonini, al quale diciamo subito che siamo assai onorati
ed orgogliosi che abbia accettato l’invito di essere tra noi.
Sottolineo la passione che lo contraddistingue, il suo impegno
costante verso l’anziano, soprattutto se sofferente ed ammalato’’.
‘‘la passione’’ in geriatria
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P. Peroli: ‘‘Nel corso dell’invecchiamento, si verifica una progressiva
riduzione età-correlata della funzione di numerosi organi, con conseguente incremento della vulnerabilità di fronte a varie noxe patogene. Aumenta la vulnerabilità connessa a malattie acute, traumi, interventi chirurgici o alla somministrazione di farmaci.
Si verifica una minore capacità di conservare l’equilibrio interno
di fronte alle varie sollecitazioni esterne. Il ridotto equilibrio omeostatico accresce sia la probabilità di andare incontro ad una malattia
sia l’impatto, di questa, sull’organismo.
In assenza di malattie, il declino della capacità omeostatica non
produce sintomi e si associa ad una minima modificazione delle attività di vita quotidiana.
Una brusca modificazione funzionale di un organo o di un sistema è sempre secondaria ad una patologia e mai all’invecchiamento
fisiologico, che può essere aggravato dalla presenza di fattori di rischio.
Sebbene gli studi relativi alla semeiotica delle patologie dell’età
avanzata non siano definitivi, sia per la complessità del problema
che per l’oggettiva carenza degli sforzi fino ad oggi effettuati, è possibile, in linea di massima, delineare alcune regole generali. Queste
definiscono i confini entro i quali si collocano le manifestazioni cliniche delle malattie dell’anziano.
Non sempre esiste corrispondenza tra manifestazione clinica e
malattie d’organo o di sistema.
La comparsa di un quadro clinico grave, talvolta, è espressione
di una malattia grave. La causa della manifestazione clinica può
non essere quella che appare evidente.
Sono comuni e possono non essere espressione di malattie, molte
manifestazioni cliniche considerate patologiche nell’adulto.
Dietro ad un quadro clinico, che sembra intrattabile nell’adulto,
ci possono essere nell’anziano condizioni modificabili.
La polipatologia è di frequente riscontro in età avanzata, con importanti implicazioni, oltre che per il paziente, anche per l’operato
del medico.
La coesistenza di più malattie nello stesso individuo complica
sensibilmente il processo diagnostico e terapeutico. Basti pensare come una ridotta mobilità da grave osteoartrosi, possa mascherare la
presenza di uno scompenso cardiaco latente. È utile, inoltre, ricorda-
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f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
re che l’elevata presenza di co-morbidità in età avanzata, raramente
permette di ricondurre un quadro clinico ad un singolo fattore causale.
La polipatologia ha, infine, importanti ripercussioni sul piano terapeutico.
Vi è necessità di assumere contemporaneamente più farmaci. Il
maggiore rischio è rappresentato dalle reazioni avverse da farmaci
(ADR=Adverse Drug Reaction).
L’anziano vive la malattia sul piano psicoaffettivo, in modo diverso rispetto al giovane-adulto.
Nell’età avanzata, quando la morte è un rischio effettivo e reale, la malattia viene percepita come evento ineludibile, intrinsecamente connesso alla propria condizione di persona indebolita nel
corpo.
Da qui, la frequente comparsa nell’anziano di ansia e depressione. Diminuisce in lui la stima di sé, aumenta l’insicurezza, il senso di
solitudine, di isolamento, di marginalità sociale, di esclusione.
Lo stato di salute dell’anziano, è fortemente influenzato dal suo
livello di benessere sociale. Esiste, infatti, un’ampia dimostrazione di
come la possibilità di poter contare sull’aiuto del coniuge o di altri
componenti della famiglia, oppure di amici, conoscenti, di associazioni di volontariato, sia protettiva in età avanzata nei confronti della
malattia e della mente.
La presenza di patologia somatica, influenza in maniera negativa
lo stato cognitivo e funzionale.
Il riconoscimento della malattia ed il suo trattamento, garantiscono il ripristino dello stato di salute, ma anche delle funzioni cognitive.
È di comune riscontro, nei pazienti ospedalizzati per patologia
somatica in ambienti non geriatrici, che la contemporanea presenza
di demenza, specie se con disturbi comportamentali, si associ ad una
ridotta durata di degenza.
È difficile spiegare il fenomeno: sarebbe gravemente disdicevole
se la breve durata della degenza indicasse l’espulsione dei pazienti dalle cure ad altri garantite.
In conclusione, la diagnosi e la gestione delle patologie somatiche nei pazienti affetti da demenza, sono complesse perché si devono affrontare realtà cruciali relative alla modalità di presentazione
‘‘la passione’’ in geriatria
37
della malattia, al suo impatto sul paziente, al sistema organizzativo.
In particolare:
— la raccolta dei sintomi e la rilevazione dei segni richiedono
molto più tempo che non nel paziente cognitivamente integro;
— le manifestazioni cliniche di presentazione delle malattie sono
frequentemente globali, interessando in modo «catastrofico» la funzione o il comportamento;
— le strutture ospedaliere sono generalmente impreparate all’assistenza del paziente affetto da demenza’’.
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f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
F. M. Antonini: ‘‘L’osservazione delle piante insegna quanto, per
certi aspetti, la natura sia crudele. I rami più grossi distruggono i rami più piccoli, i rami che crescono più in alto fanno morire tutti
quelli sottostanti. Per questo, la potatura cerca di evitare che in
una pianta i rami si impediscano vicendevolmente di crescere.
Ma la potatura altro non è che un ordine artificiale che va bene a
noi. La natura, invece, fa in modo che diventi alto solo il ramo che
vince, ma consente anche la tortuosità degli alberi e dei rami, che noi
cerchiamo sempre di raddrizzare.
Se, come per i rami delle piante, la cura dei vecchi fosse ad eliminazione, la Geriatria non avrebbe senso.
Ma quanto è bello anche vedere un albero vecchio! Alcune sequoie vicino a San Francisco hanno oltre 2000 anni e sono talmente
grandi e forti da non potere essere abbattute da nulla, nemmeno dagli incendi.
Eppure sono potute diventare cosı̀ immense, solo dominando e
distruggendo tutte le altre piante.
Per questo, la vecchiaia dei vegetali è una forma di eliminazione
del più debole.
Ma l’uomo è diverso: la vittoria del vecchio non è fisica, ma soltanto spirituale.
È una vittoria che è data dal valore del suo percorso, dalla selezione non verso i più deboli, ma verso se stesso, verso i propri rami
tagliati per scegliere di potere crescere più alto, arrivare in cima alla
montagna e vedere più lontano.
Ma invecchiare è anche soffrire di più, lottare per vivere e per
dire qualche cosa che si sa e si vorrebbe fosse ascoltato.
Il problema è che non ci si può inventare ad ottant’anni di capire
e sfruttare tutta l’energia psicoaffettiva che la vita offre. Dipende dalla libertà che si è avuta di intraprendere una lunga educazione giovanile che, via via, abbia insegnato a liberarsi del superfluo e a scegliere una via intellettuale, anche se per una vita si è lavorato con le
mani.
A nessuno è impedito di crearsi una passione che sia di ordine
superiore, fosse anche semplicemente, saper parlar d’amore.
Un intellettuale dei nostri giorni, ha dichiarato di aver imparato a
far l’amore a settantacinque anni, perché l’amore è linguaggio nella
sua più alta forma di comunicazione.
‘‘la passione’’ in geriatria
39
La fantasia che deve nutrire questo sentimento, per portarlo dal
sogno all’estasi, è grande anche nella vecchiaia.
Ma l’amore può essere anche per la natura meravigliosa o per
tutto ciò che ci circonda. L’amore è apertura e partecipazione a
quanto ci è esterno.
Credere nella geragogia, significa credere che si possa imparare
anche ad invecchiare, ma talvolta può portare a mettere in discussione l’esistenza stessa della vecchiaia.
Ciò che senz’altro esiste, è una malattia che non conosciamo e
che chiamiamo vecchiaia.
Anche fragilità è un termine inutile per descrivere la vecchiaia.
La fragilità è il morire lentamente, in quanto per morire della
malattia che si chiama vecchiaia, ci si impiega circa dieci anni.
È una malattia che tra ottanta e novanta anni colpisce oltre l’ottanta per cento delle persone e di cui, noi, ancora sappiamo poco.
Si continua, infatti, a sostenere che la vecchiaia è fragilità senza
capire che la fragilità è la conseguenza di uno stato patologico di tipo
infiammatorio che conduce alla debilitazione.
Improvvisamente, nella ‘‘piena giovinezza’’ degli ottant’anni, può
venire una banale influenza che tiene a letto dieci giorni e che poi,
quando ci si alza, toglie forza alle gambe. Non ce la si fa più...
La si chiama ‘‘depressione’’, ma è in realtà un problema fisico, è
una perdita di tono muscolare ai glutei, una sarcopenia. La tonicità,
l’energia di un uomo sano la si vede, infatti, dalla capacità di stare in
piedi.
Questa è la forza che con la vecchiaia se ne va.
Talora, viene il momento di rifugiarsi nell’astratto, nella poesia e
non nella muscolarità che non c’è più.
La popolazione occidentale ha iniziato ad invecchiare quando,
nel 1850, è arrivata la corrente elettrica che ha fatto scomparire la
schiavitù facendo arrivare energia ad uso personale dentro le case
e, con essa, l’acqua potabile e l’igiene.
L’uomo di settanta o ottanta anni, oggi, può ancora lavorare se lo
vuole e se è libero di farlo, ma ciò che non può permettersi è la fatica
fisica.
Ancor oggi, dove manca l’elettricità non c’è longevità.
L’uomo senza energia da spendere che non sia quella muscolare,
non può invecchiare.
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f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
La longevità di questa generazione è data dal non dover più portare pesi sulle spalle. L’energia viene dall’intellettualità, da internet,
dal poter avere tutto a portata di mano senza sforzo.
La vera ricchezza dei nostri giorni è l’informazione. La grande
rivoluzione dei tempi moderni è stata l’invenzione della stampa
che ha consentito la circolazione delle idee. Oggi, l’uomo con le moderne tecnologie ha la possibilità di sentirsi al centro del mondo.
Questo dovrebbe essere un grande stimolo per gli anziani che,
anche dal letto, con un computer possono avere una finestra sul
mondo in tempo reale, al prezzo di un piccolo sforzo per imparare
a navigare.
La soluzione più bella sarebbe che un nipotino dicesse al nonno:
‘‘Regalami un computer, che ti insegno ad usarlo!’’
Un vecchio non si sente più tale, quando non è costretto a misurare la propria forza fisica.
In realtà, probabilmente, la forza fisica non se ne va a causa della
vecchiaia in sé, ma perché da vecchi non si risponde più alle malattie
o a qualche malattia che noi ignoriamo; una forma infettiva che non
siamo ancora in grado di determinare, magari causata da qualche retrovirus o qualche micete.
Le micosi nell’anziano vengono perché invecchia il sistema immunitario e la sua stanchezza, in realtà, non è determinata da altro
se non dalle citochine che fanno in modo che sembri di avere l’influenza tutto il giorno e che si diventi depressi.
Ma è la depressione che determina questa stanchezza o è la stanchezza che conduce alla depressione?
Gli antidepressivi sono senz’altro utili, ma non conducono fuori
dal problema: la stanchezza spesso arriva improvvisamente, come
una bastonata, e resta.
Per questo, ha il suo senso pensare ad una genesi infettiva ancora
ignota. La vecchiaia, in quanto tale, dovrebbe essere un processo
lento, non venire cosı̀ all’improvviso.
I centenari che vivono un invecchiamento che va considerato
normale, privo di patologia, possono ancora camminare e andare
in bicicletta mentre gli altri, quasi improvvisamente, perdono la capacità di farlo.
Questa è la fragilità che fa sentire deboli, non più in grado di
partecipare alle attività degli altri.
‘‘la passione’’ in geriatria
41
Si diventa come i vecchi cani che si ritirano per paura di essere
aggrediti dai più giovani.
È certamente un circolo vizioso, la cui soluzione, non può essere
l’istituzionalizzazione nelle case di riposo ove siano tutti insieme solo
a mostrare le loro miserie e le loro malattie, sulle quali noi siamo ancora cosı̀ ignoranti.
Il fatto che le malattie si presentino nell’anziano in modo atipico,
deve essere considerata una sfida alle capacità diagnostiche del medico. Fare proprie queste convinzioni, significa comprendere quanto
la Geriatria possa risultare gratificante, eccitante ed affascinante.
La prima cura che un geriatra all’inizio della sua carriera deve
imparare è quella che recita: ‘‘Alzati e cammina!’’, vale a dire il recupero funzionale.
Ma diventa presto essenziale capire, anche, l’importanza dell’intensività delle cure, in contrapposizione a certo ‘‘cronicismo’’. In altre parole, la necessità di ricoverare i pazienti anziani in luoghi in cui
tutti si adoperino intensivamente per salvarli. Solo cosı̀ ce la si può
fare.
È indispensabile un trattamento intensivo mirato a ricompensare
subito il paziente, sia che ci si trovi dinnanzi ad un infarto, ad un ictus, sia a qualsiasi altro evento acuto. Questa intensività deve essere
assoluta, più ancora che per il paziente giovane.
Non va mai dimenticato, infatti, che dal punto di vista psicoaffettivo il paziente anziano vive la malattia in un modo diverso rispetto al giovane-adulto che la percepisce come estranea a sé, come un incidente di percorso, ove la guarigione è solo una questione di tempo.
L’anziano, invece, che sente vicino il rischio di morte, vede la
malattia come un evento inevitabile e cade, pertanto, vittima di ansia
o depressione.
La complessità del quadro clinico in Geriatria è quindi, spesso,
data anche dalla commistione di disturbi somatici e psicoaffettivi.
Bisogna fare propria la ‘‘filosofia del bagnino’’, imparando che la
cosa più importante è arrivare in tempo.
Dovremmo arrivare quasi ad un accanimento terapeutico che ci
faccia dire ‘‘non c’è tempo per la malattia, bisogna ritornare a casa’’.
Solo allora il paziente si sente difeso, si sente di avere valore e sente
che gli altri stanno lottando per lui.
42
f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
E cosı̀, il paziente anziano diventa consapevole di contare come
gli altri, se non di più, perché ha sofferto di più, perché ha vissuto
una vita più lunga, perché ha capacità intellettive per certi versi maggiori, perché conosce l’origine delle cose.
Per tutti questi motivi, l’assistenza all’anziano va ripensata molto
più modernamente. Per questo, il reparto di Geriatria dovrebbe essere quello in cui tutti vorrebbero essere ricoverati. Fin da quando si
è giovani si dovrebbe sapere che quello è il reparto migliore che esista nella città e nell’ospedale.
In alcune città è cosı̀. I grandi medici, ad esempio, continuano a
volere essere curati in Geriatria perché lı̀ sanno di poter godere di
una cura di privilegio, malgrado l’attuale ampia disponibilità di
strutture di terapia intensiva non geriatrica.
La cura del vecchio deve essere una cura da privilegiati.
Nel dopoguerra, la Geriatria era una scienza nuova e, inizialmente, si è dovuto impararla più che insegnarla. I docenti del tempo volevano che ci si occupasse solo di Gerontologia, vale a dire di studio
dell’invecchiamento, ritenendo la vecchiaia una semplice ‘‘cicatrice’’
che non valeva la pena di perdere tempo a curare.
L’ostinazione di quei maestri, nel credere solo nella Gerontologia e nel non capire la Geriatria, altro non era che la loro forma
di invecchiamento, la loro forma di solitudine!
La vecchiaia è, infatti, anche solitudine, perché gli altri sono
scomparsi. I vecchi sono legati alle generazioni che sono venute prima di loro in quanto, come tutti, sono stati abituati a guardare ai più
grandi e non a coloro che vengono dopo e che, da sempre, rivestono
scarsa importanza perché poco hanno avuto da insegnare.
Si tende sempre a dare l’importanza più grande ai propri maestri.
Anche i ragazzi a scuola guardano e ricordano i compagni delle
classi più avanti, mai i più piccoli.
Ai più giovani, i vecchi sono legati semplicemente dall’affetto.
Ecco perché è ovvio, che i vecchi si sentano soli.
Ma deve essere una solitudine dolce, non un abbandono.
I vecchi devono essere cercati dai giovani. Molti intellettuali, ad
oltre ottant’anni, si muovono ancora volentieri nella convinzione di
avere qualcosa da dire.
Quando i vecchi scelgono di non andare con i giovani, è per il
‘‘la passione’’ in geriatria
43
timore di essere penosi o fisicamente non all’altezza. Non è semplice
abituarsi all’invalidità, al dover essere presi per mano.
L’idea nuova è che la Geriatria non debba essere fatta di ospizi o
strutture per anziani, magari fatte di camerate con molti letti. La Geriatria deve essere tutta diversa.
Oggi in Farmacologia, è di moda parlare di Farmacogenetica, ossia di una terapia che dovrebbe vedere il malato nella sua peculiarità,
mirando a trattare le alterazioni genetiche che gli sono proprie e che
lo hanno condotto allo stato di malattia.
Dobbiamo capire che le sofferenze della vecchiaia, sono il risultato di una lunga esposizione ad insulti ambientali che hanno portato
a molteplici danni genetici. Anche i tumori sono espressione di danno genetico, spesso, su base ambientale.
Ma moltissime altre malattie riconoscono come causa l’esposizione ad insulti esterni che possono andare dal cibo, al sole, agli sforzi
fisici, allo stress.
Questo, deve farci pensare che dovremmo mettere in atto delle
cure mirate alle alterazioni genetiche determinate dall’ambiente, i cui
effetti stanno alla base delle patologie dell’invecchiamento.
La familiarità favorevole di avere avuto genitori centenari non
basta a garantire una lunga vita se, durante il suo corso, ci si espone
ad insulti ambientali che possano causare danni genetici significativi.
Il bagaglio genetico che ci viene dato alla nascita, può solamente
determinare una certa capacità di resistere agli insulti nocivi.
Pertanto, a danno genetico avvenuto, noi dovremmo essere in
grado di mettere in atto una terapia nei confronti di queste mutazioni, tenendo conto di tutte le capacità personali di adattamento all’ambiente.
Per questo, ci vorrebbe una grande attenzione a rendere individuale la Medicina, non solo con l’Ingegneria Genetica, ma anche
nella dieta, nell’esposizione agli stress e agli stimoli psicoaffettivi.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di modulare correttamente i sistemi psico-neuro-endocrino ed immunitario.
Solo allora, potremmo capire l’importanza di non vivere in camerate con sconosciuti che russino o facciano i propri bisogni accanto.
Anche la dannosità dell’autoritarismo medico e infermieristico e tante altre piccole forme di offesa, possono portare a gravi quadri depressivi di angoscia e di solitudine.
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f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
Bisogna fondare una nuova Medicina e noi, che abbiamo preso
la responsabilità di curare l’anziano ammalato, dobbiamo avere la
forza di rovesciare il sistema, per capire che non ci troviamo dinnanzi ad un uomo a metà o ad un uomo orizzontale.
Dobbiamo considerarlo, invece, una persona indifesa che ha
paura di tutto, consapevoli di quale umiliazione si provi a dipendere
dagli altri, a non essere gradevole fisicamente, a puzzare.
Dobbiamo ribellarci al sistema e rendere la Geriatria una materia
di scontro dove noi dobbiamo sempre stare dalla parte del difensore,
persuadendo che una Geriatria ben fatta è anche un risparmio e non
una spesa sociale.
Tutto ciò che in questi anni abbiamo imparato non è che l’inizio
della materia. La Geriatria come dovrebbe essere, non esiste e deve
ancora dimostrare la sua efficacia, realizzando, nel futuro, la massima personalizzazione di ogni trattamento.
Bisognerebbe, pertanto, essere in grado di trasformare anche in
azione politica ciò che i geriatri hanno capito per primi e cioè il vero
significato di cure intensive, continuative e riabilitative per l’anziano.
Nell’organizzazione di un ospedale geriatrico, si dovrebbe cogliere l’importanza dell’intensività delle cure e la delicatezza della capacità di saper dimettere precocemente, ben sapendo, peraltro, che
una dimissione priva di supporti extra-ospedalieri vanifica l’utilità di
degenze brevi.
In questo, diventano elemento cardine le cure continuative sul
territorio che dovrebbero garantire la prosecuzione della riabilitazione e della riattivazione.
La Riabilitazione deve essere scientifica, graduale e misurata e
deve servire come stimolo alla socializzazione.
La Fisioterapia, prima dell’avvento della Geriatria era riservata
solo ai bambini e agli spastici, in quanto gli anziani non erano degni
di un approccio riabilitativo specialistico.
In realtà, solo i vecchi hanno grande vantaggio dalla riabilitazione perché i giovani, spesso, si riabilitano da soli tornando a casa e
andando a lavorare. Ancora oggi, c’è da chiedersi quanto sia stato
recepito delle necessità riabilitative peculiari in Geriatria.
L’anziano deve, soprattutto, essere riattivato, rieducato a camminare e reso nuovamente autonomo dopo un evento acuto. In mancanza di personale sanitario, potrebbero essere proficuamente istrui-
‘‘la passione’’ in geriatria
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ti anche i familiari. Del resto, le società contadine di un tempo, avevano già capito che poteva bastare una seggiola da impugnare sullo
schienale come un girello, per consentire all’anziano di continuare a
camminare in giro per la fattoria.
In un paziente anziano, non dovremmo mai misurare il grado di
non autosufficienza, ma la capacità e la volontà di recupero dell’autonomia.
Ma questa capacità e volontà di recupero, si hanno solo se, al
momento dell’ingresso in ospedale, il paziente ha la sensazione di
avere dei difensori nei medici e in tutto il personale e che capisca
che si voglia curarlo veramente.
L’ospedale dovrebbe coinvolgere anche tutta la famiglia invitando ad una presenza continuativa che aiuti nelle cure e che possa vigilare anche sul fatto che non si compiano alcun genere di violenze o
sopraffazioni nei confronti dei pazienti.
Per ottenere un buon recupero, è quanto mai necessaria la partecipazione alla guarigione da parte dei familiari. A casa si torna, soprattutto, se si sa che a casa si è desiderati.
Numerosi studi clinici hanno, a questo proposito, potuto dimostrare una stretta correlazione tra prognosi favorevole di gravi malattie somatiche e la presenza di un supporto psicosociale ed affettivo.
In mancanza di un supporto familiare o sociale, di un ‘‘difensore’’ dell’anziano ammalato, spesso, non c’è nulla da fare e non resta
che ricorrere alla casa di riposo.
La cosa più orribile è privare un vecchio delle migliori cure perché si ritiene che abbia ancora pochi anni da vivere o perché lo si
ritiene un uomo di minor valore.
Con quest’ottica, visto che l’intelletto è la migliore delle doti
umane, allora non si dovrebbero curare neanche gli imbecilli!
Nel prendere decisioni eticamente corrette in Geriatria, bisogna
sempre tenere conto che un evento cardiaco maggiore, ad esempio, è
molto più grave, pericoloso ed urgente di quello di un giovane, essendo recuperabile quasi altrettanto.
A questo punto, viene da chiedersi cosa e quale sia l’etica: la filosofia ci ha fornito almeno due risposte.
Kant affermava: ‘‘Sia fatta giustizia ad ogni costo, anche se il
mondo dovesse perirne’’.
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f. m. antonini - p. peroli - g. zavateri
Hegel rispondeva: ‘‘Sia fatta giustizia, affinché il mondo non perisca’’.
Ancora oggi nei problemi che riguardano la giustizia, possiamo
trovare parallelamente le interpretazioni che si fondano sull’etica assoluta e quelle che si fondano sull’etica relativa o etica di responsabilità.
L’etica dei medici, deve essere l’etica della responsabilità.
La professionalità è promettere e la responsabilità è rispondere.
Un geriatra deve rispondere alle promesse che fa.
Le promesse sono di difendere l’anziano su tutti i livelli anche sul
piano sociale, in quanto la Geriatria non è solo dentro le mura ospedaliere, ma è anche fuori nell’ambiente, quell’ambiente preponderante rispetto alla genetica, nel determinare le patologie geriatriche.
Ma cos’è l’etica in Geriatria?
Non dovrebbe parlare di etica in Geriatria chi non ha visto morire sotto i suoi occhi tanta e tanta gente.
La bioetica si limita a dire cosa non si deve fare, quando un medico, al contrario, spesso vorrebbe sapere cosa deve fare.
Ma se esiste una terza via, questa, deve essere l’etica che spinge a
fare con amore e determinazione tutto ciò che è possibile e nelle proprie forze, per raggiungere mete che gli altri ritenevano impossibili.
Questa è l’etica che spinge taluni uomini a fatiche supreme solo
per il raggiungimento di un fine ultimo in cui credono.
E come il sacrificio può cosı̀ caratterizzare la vita intera di uno
sportivo o di un artista, allo stesso modo, spesso, i geriatri profondono ogni energia nella professione esercitando una medicina meravigliosa fondata su un’idea: la necessità di curare.
Amare la Geriatria non significa tanto amare i vecchi, quanto capire il valore della vecchiaia.
In questo senso, è interessante osservare gli artisti che invecchiano e che continuano a dipingere, comporre o scolpire dall’età di venti all’età di novant’anni. È un modo longitudinale di osservare la crescita che, la vecchiaia, porta a questi grandi uomini.
Le opere tarde, sino a poco tempo fa, venivano considerate di
valore artistico decaduto e venivano spesso dimenticate.
La Pietà Rondanini di Michelangelo, ultima delle quattro Pietà
che scolpı̀ nell’arco della sua lunga vita e rimasta addirittura incompiuta, è oggi considerata, a ragione, quella di più alto valore.
‘‘la passione’’ in geriatria
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Tutte le opere giovanili rappresentano la bellezza e la potenza,
mentre tutte quelle tarde esprimono il dolore e invocano la pietà.
Da novantenne, nell’ultimo quadro che aveva dipinto per la propria tomba, il Tiziano arriva a raffigurare la Deposizione con i toni
più solenni, grandiosi, vitali e drammatici che l’arte ci abbia consegnato.
Gli artisti descrittivi del Cinquecento, in tarda età, passano ad
una pittura quasi astratta, iniziano a dipingere con le dita con una
tecnica che da vicino non fa vedere quasi niente e che si capisce solo
da lontano, a sottolineare la fretta e il disinteresse per il dettaglio, ma
quasi gridando l’essenza delle cose.
Anche Donatello, da sublime e bellissimo nelle opere giovanili, si
trasforma in artista drammatico, duro, apparentemente scostante, in
vecchiaia.
Oggi possiamo capire meglio questi capolavori perché sappiamo
che l’arte è tensione interna, astrazione, idea. Non è importante descrivere, bisogna evadere dal ricopiato, dallo standard, per emettere
un grido che esprima, con poco, ciò che si vuole dire anche con una
firma che diventi un simbolo.
Per capire la vecchiaia si parte anche da qui, dal considerare il
suo valore.
Perché vivere a lungo significa vincere le difficoltà, lottare con la
stanchezza, con la paura della morte. Significa subire le grandi perdite, talvolta anche la perdita della speranza.
Ma rimane la spinta a capire e la voglia di comunicare. La cosa
più grande che si possa fare ad un vecchio, è ascoltarlo’’.
I GRANDI VECCHI DELLA LETTERATURA
G. Nascimbeni
In questa relazione, presenterò le interviste a cinque grandi della
Letteratura che ho avuto modo di incontrare durante la mia attività
giornalistica.
Il poeta Biagio Marin, nato a Grado, intervistato nel 1982, quando aveva 91 anni.
Jorge Luis Borges, intervistato nel 1977, a 78 anni.
Georges Simenon, incontrato nel 1985, a 82 anni.
Marguerite Yourcenar, prima donna ammessa all’Accademia degli Immortali di Francia, intervistata nel 1986, a 83 anni.
Per quanto riguarda Montale, visto e frequentato più volte, farò
riferimento all’ultima intervista, quando aveva 85 anni, già premiato
con il Nobel per la Letteratura.
Biagio Marin, lo intervistai nella sua casa di Grado. La prima cosa che mi colpı̀ fu la presenza di teche piene di conchiglie, ognuna di
queste con una storia, un nome ed un colore diversi.
Marin, una volta aveva confidato: ‘‘Io sono un golfo’’. Ora che
aveva 91 anni, gli occhi erano quasi completamente spenti, l’immagine della conchiglia poteva prendere il posto di quella del golfo. Se
è vero che le conchiglie mantengono vivo nel fondo dei loro brevi
labirinti la voce remota del mare, quel miscuglio di suono e di vento,
di pace e di furore, simile agli echi insondabili che percorrono l’universo, niente più delle conchiglie esprimeva la condizione di un uomo come Biagio Marin.
Per questo, quando arrivai nella sua casa, pareva che dalle teche
appese provenisse una silenziosa indicazione, un segnale di riconoscimento. II poeta era in piedi, vestito di blu chiaro, con una candida
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g. nascimbeni
camicia, ma gli occhi erano invisibili dietro le lenti nere. Poi bastò la
voce, dolcissima, in dialetto, scandita come una specie di tempo musicale, a farmi capire che la cecità, di cui era affetto, aveva compiuto
lo stesso miracolo che avevo avvertito, anni prima, intervistando l’argentino Borges. Il mondo dei poeti continuava imperterrito ed invincibile nell’ombra. L’oscurità, si capiva, era colma di scaglie luminose,
le stesse scaglie luminose che passano con le stelle cadenti nelle notti
d’agosto e si trasformano, nei poeti, in parole.
La figlia di Marin, di nome Gioiella, mi disse che il padre, quando stava seduto, in poltrona o a tavola, ogni tanto muoveva le dita
come fanno i bambini alle prese con un calcolo aritmetico. Anche
Marin contava numeri. Ma erano i numeri delle sillabe che compongono i versi, l’ampio endecasillabo nel quale, lui diceva, si può mettere mezzo mondo.
Era un esercizio istintivo per Marin, come se ormai ogni fantasma che scorreva dietro lo schermo degli occhiali neri, ad altro
non potesse approdare che ad una riga di poesia. Fantasmi. Fantasmi di barche, fantasmi di battelli, fantasmi di lagune, di paludi, di
fresche morose, di orti, di fiori, di grandi uccelli bianchi.
Giustamente, il mio caro amico Claudio Magris, che è stato uno
dei rivelatori di Marin, mi ha ricordato più volte che la strofa di Marin è piena di tramonto e piena di ritorno. La conchiglia, dentro cui
il passato è una specie di prigioniero assorto, sveglia gli antichi maestrali, i sibili delle vele, le stagioni, i bellissimi cieli che raccontano ‘‘la
novela dele distanse disumane’’.
Chiesi a Marin molte cose. La prima mi sembrò quasi doverosa:
‘‘Cosa significa per lei non vedere e non leggere?’’
Questa la risposta: ‘‘Vivo molte ore da solo e, questa solitudine,
ha svegliato in me un grande fervore spirituale e religioso. Come tutti i veneti, ho avuto da ragazzo un’intensa educazione cattolica. Poi
mi ero staccato. Adesso, capisco quale grande poema sia la religione.’’
Continuai con le domande: ‘‘La sua figliola mi ha detto che lei
scrive di continuo, come un fiume.’’
‘‘Sı̀, un fiume,’’ rispose ‘‘un torrente, una marea ininterrotta.’’
‘‘Perché una stagione cosı̀ feconda a 91 anni?’’ gli ho chiesto.
‘‘So cosa sta pensando,’’ rispose ‘‘so che vorrebbe dirmi che sono
pronto per il manicomio’’. ‘‘Invece sono in un momento di grazia.
i grandi vecchi della letteratura
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Mi sento pieno di svoli e cerco di dare voce a questi svoli. Del resto,
mi sta bene anche l’idea della follia, se proprio vuole insistere. Ricorda che cosa affermava Platone? L’uomo deve diventare demente per
accogliere la poesia.’’
Ho insistito sull’argomento: ‘‘In questa sua fecondità ha una parte importante anche il suo isolamento?’’
‘‘Sı̀’’, disse ‘‘l’isolamento ha potenziato la mia interiorità. Ho lungamente sofferto per essere rimasto fuori dalla grande tradizione letteraria italiana. Mi sentivo estraneo, assolutamente lontano dal modo
di essere un letterato. Sono soltanto Biagio Marin, ‘‘isolan gradisan’’,
con duemila anni di isolamento alle spalle.’’ Duemila anni nel senso
di tutti i suoi antenati.
L’intervista proseguı̀ poi su altri temi, ma ad un certo punto, Marin mi lasciò ricopiare da un dattiloscritto una poesia che aveva, forse, scritto il giorno prima. Sarebbe stato impossibile compiere l’operazione dal manoscritto originale. Le parole sui fogli, io le ho viste,
sembravano insetti sparsi, dei microscopici grumi di cenere scura.
La poesia, scritta in dialetto, in italiano diceva: ‘‘Non importa
che si muoia, finché i bambini belli spuntano come l’alba, nuovi semi
si ergono. Lascia che la fiumana scorra e tutti porti via, a folate di
bora, in buona compagnia, poiché tutti, tutti, vecchi e bambini siamo solo momenti, poi ci portano via i venti, come gli antichi bastimenti nella notte lontana.’’ Con questa poesia, si concluse in un certo senso l’intervista con Marin.
Mi accompagnò alla finestra della sua casa che era proprio sulla
spiaggia di Grado. Si vedevano molte persone che facevano il bagno,
bambini che correvano, gente sotto gli ombrelloni o stesa ad abbronzarsi. A Marin arrivava questa eco festosa. Agosto era proprio una
grande sagra di luce sulla sabbia. Ad un certo momento sentii la
sua voce quasi incrinarsi per un improvviso senso di tristezza.
‘‘Dopo settembre,’’ mi disse ‘‘caro amico, soltanto i gabbiani verranno a farmi compagnia.’’
Il secondo poeta è un altro cieco, Borges, come già detto, intervistato quando aveva 78 anni. Lo incontrai nella casa dell’editore
Franco Maria Ricci, a Milano.
Debbo dire che Borges era una persona che io avevo atteso. Per
me, come per moltissimi altri lettori, il suo mondo, le sue astrali invenzioni erano state un incantesimo, addirittura al limite della perse-
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g. nascimbeni
cuzione mentale. Ora era lı̀, un grigio pomeriggio di aprile che per
lui era comunque uguale ad un qualunque altro pomeriggio, perché
Borges non vedeva. I suoi occhi si spostavano seguendo i suoni delle
voci, erano delle fessure veramente aperte sul nulla. Prima di questo
incontro, ho riletto qualche poesia. In particolare una che si intitola
‘‘Cose’’. Sembra proprio un elenco di cose che potrebbe continuare
all’infinito.
‘‘La polvere indecifrabile che fu Shakespeare, le trasformazioni
della nuvola, il rovescio del prolisso mappamondo, la tenue ragnatela della piramide, l’acciaio che Odino conficcò nell’albero, il rovescio
dell’arazzo.’’
‘‘Perché queste cose e non altre, erano rimaste invincibili dentro
il buio della cecità? C’era stato qualche criterio nelle esclusioni, il
mondo che scompare come luce e come forma impone o suggerisce
scelte come quelle che ho appena citato da questa poesia?’’
Borges sorrise, non era proprio a questa domanda che rispose,
ma iniziò l’intervista con una specie di atto di fede e mi disse:
‘‘Per un poeta ogni momento della vita, ogni fatto, dovrebbe essere
poetico visto che, nel profondo, è magico. Questa mia frase, non è
meno chiara nè meno misteriosa dell’universo. Noi nuotiamo nel mistero e nell’ignoranza.’’
Allora ho insistito, soprattutto, sapendolo cieco.
‘‘In un’altra poesia, ‘‘L’oro delle Tigri,’’ ha scritto – Con gli
anni mi hanno a poco a poco abbandonato gli altri bei colori e,
adesso, solo mi restano la vaga luce, l’ombra inestricabile e l’oro
dell’inizio –’’.
‘‘Significa che lei continua a vedere il colore dell’oro?’’
Rispose: ‘‘Il solo colore che mi resta è il giallo! Contrariamente a
quanto sembra, i ciechi sentono la nostalgia del nero delle tenebre e
del rosso, perché appartengono alle persone che vedono. Il giallo è il
colore che muore per ultimo, io lo conservo in me, simile ad una
strana nebbia. Per il resto, manca la geometria delle forme definite.
Il mio mondo è impressionistico, e pensare che gli impressionisti non
mi sono mai piaciuti, quando vedevo.’’
Proseguendo nell’intervista chiesi: ‘‘Perché un uomo argentino,
che vive in un paese di sole, ha questa continua attrazione culturale
verso le lingue, i simboli, i miti delle terre del nord?’’
Mi rispose: ‘‘Non dimentichi che la mia cultura di base, è stata
i grandi vecchi della letteratura
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inglese e che mia madre era inglese. Ho conosciuto Dante in inglese
frugando nella biblioteca di mio padre e, poi, sono stufo di sole. Ho
paura del sole. Il sole ha un solo merito, dà il piacere dell’ombra.’’
‘‘Anni fa, lei disse: ‘‘Se in qualche modo sono ricco, lo sono più
di perplessità che di certezze’’. Adesso che si sta avvicinando agli 80
anni ed ha aggiunto altre esperienze ed altre conoscenze a quelle di
allora, ripeterebbe la stessa dichiarazione?’’
Mi rispose: ‘‘Mantengo inalterato questo tesoro d’incertezza. Se
qualcosa si è modificato in me è di altra natura. Da giovane, volevo
essere letterariamente infelice, come Amleto. Adesso, non amo più
l’infelicità. Vorrei e cerco assiduamente una serena felicità.’’
Gli chiesi: ‘‘Ha provato a definire questa felicità?’’
‘‘Non le posso citare un verso o una frase di qualche pagina,’’ rispose ‘‘a volte la felicità ha ragioni difficili da esprimere, a volte basta
attraversare la strada e sentire un soffio di aria fresca. È più facile
accorgersi di essere infelici che di essere felici.’’
‘‘Perché c’è in lei questo continuo tentativo di figurarsi altre vite
diverse dalla sua?’’
Rispose: ‘‘Sono state molte le mie forme e le mie morti, sono un
po’ stanco di essere Borges, vorrei avere la memoria di un qualunque
signor Lopez, non la mia.’’
Borges non credeva nei romanzi, credeva solo nei racconti e nelle
poesie, ovviamente.
Ripresi: ‘‘Lei concepisce un mondo senza romanzo, ma un mondo senza filosofia riesce ad immaginarlo?’’
‘‘No,’’ mi rispose ‘‘siccome non sappiamo che cosa sia il mondo,
c’è la necessità di mantenere la speranza di non saperlo mai’’.
‘‘E un mondo senza religione?’’
‘‘Forse la filosofia potrebbe sostituire la religione. Non posso
pensare ad un mondo senza etica, all’intelligenza senza etica.’’
Poi, ho toccato il punto centrale dell’universo di Borges. ‘‘Lei è
uno scrittore famoso per alcuni simboli che sono presenti in tutta la
sua opera: il labirinto e gli specchi. Non potrà mai staccarsene?’’.
La risposta fu questa: ‘‘Il labirinto è il simbolo della perplessità e,
quindi, ha una sua eternità. Quello degli specchi è il problema dell’identità personale e della difficoltà di trovarla. Vedendoti in uno
specchio non sai se sei tu, un altro o te stesso.’’
‘‘Le fa paura il pensiero della morte?’’
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g. nascimbeni
‘‘Sarebbe orribile essere immortali.’’
‘‘Lei si accinge a fare un serie di conferenze nella sua patria, a
Buenos Aires. La prima dedicata alla Divina Commedia, la seconda
avrà per tema l’incubo. Perché questo argomento?’’
‘‘Ho una grande esperienza in materia di incubi’’ rispose ‘‘Quello
che ritengo il più terribile di tutti, è vedersi mascherati in uno specchio.’’
Vorrei concludere con una parabola di Borges. È la parabola che
Magris ha messo all’inizio di ‘‘Microcosmi’’. A mio avviso, è qualcosa
di folgorante. ‘‘Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di strumenti, di cavalli e di
persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di
linee, traccia l’immagine del suo volto.’’
Una volta mi è stato chiesto a quale intervista non saprei rinunciare. Io risposi menzionando quella realizzata nel 1985 a Georges
Simenon, nella sua casa di Losanna.
Quando in un giorno di maggio madame Teresa, friulana, sua
compagna, aprı̀ la porta e mi fece entrare, mi trovai davanti ad un
signore tranquillo, senza giacca, in camicia bianca e con un cordoncino rosso al posto della cravatta. Era ed è ancora, una leggenda. Ha
pubblicato sotto suo nome 193 romanzi, poi decine e decine di libri
sotto vari pseudonimi. È lo scrittore più tradotto dopo Lenin, alla
pari con Marx, tralasciando naturalmente le Sacre Scritture. Queste
cifre, questi gloriosi dettagli della vita e dell’attività di Simenon erano molto lontani, assenti dalla stanza con le pareti rosa, ove ero stato
introdotto. Del mondo di Maigret, di quel perenne nord, pieno di
nebbie e di battelli non c’era più alcun segnale, all’infuori di una serie di pipe allineate sopra la mensola del camino. Simenon aveva lasciato il personaggio di Maigret nel 1972.
Appena entrato Simenon mi disse: ‘‘Posso offrirle un bicchiere di
vino?’’ Alle mie incertezze sul bere alcolici alle cinque del pomeriggio rispose ‘‘Non può dire di no, perché quello che sto per darle è il
vino di Maigret. Un vino della Loira che si produce nei luoghi dove
io ho immaginato sia nato Maigret.’’ Stappò una bottiglia.
‘‘In certi suoi libri’’ cominciai l’intervista, ‘‘conferma un’antica
verità. Chi non ricorda non vive. È d’accordo?’’
‘‘Ogni essere umano’’ rispose ‘‘conserva in se stesso i frammenti
i grandi vecchi della letteratura
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dei fatti e delle cose che lo hanno colpito di più. I frammenti che
risalgono all’infanzia, sono il seme di ciò che, più tardi, conduce
un uomo verso un destino piuttosto che verso un altro. Nell’infanzia
e nell’adolescenza, si assorbono i ricordi inconsciamente, all’insaputa
di noi stessi. Soltanto con l’età della ragione, quelle vicende lontane
entrano nel dominio della coscienza e noi diventiamo responsabili
anche del contributo dei nostri ricordi.’’
A questo punto, era inevitabile passare ad un discorso sull’età.
Simenon mi disse: ‘‘La vecchiaia illumina molte cose che prima erano oscure o confuse. Per esempio, ho capito che mia madre era una
donna che aveva sofferto molto. Non lo avevo capito fino a che era
viva.’’ Toccai, allora, uno dei temi a me più cari, quello linguistico,
domandando: ‘‘Lei è un caso unico di fecondità come scrittore. È
vero che poi le decine e decine di libri di cui è autore sono state scritte non usando più di duemila parole?’’
‘‘Duemila sono troppe’’ rispose ‘‘non sono arrivato a questa cifra.
Ho sempre cercato di scrivere con semplicità, con parole concrete e
non astratte, per farmi capire da tutti. Questa è una delle ragioni per
cui i miei libri sono stati tradotti in 131 lingue. Quando mi rileggevo
facevo strage di aggettivi, li eliminavo.’’
‘‘Una volta, le è stato chiesto’’ dissi ‘‘che cosa cercasse come scrittore e lei ha risposto: ‘‘Cerco l’uomo nudo’’. Che cosa significa questa immagine?’’
‘‘La ricerca dell’uomo nudo è lo scopo di tutta la mia opera.
L’uomo nudo è colui che non appartiene a nessuna classe sociale,
è quello che è, grasso, magro, bello, brutto, povero o ricco. L’uomo che si guarda allo specchio e vede i difetti che ha, le debolezze, i vizi, le ferite. Il suo contrario, l’uomo vestito, è obbligato dalle circostanze a vivere negli strati più diversi della società, ha una
qualifica, è operaio, impiegato, commerciante, industriale e quindi
usa linguaggi diversi, deve rispettare regole. La sua naturalezza se
ne va.’’
‘‘Lei si considera un uomo nudo o un uomo vestito?’’
‘‘Adesso sono un uomo tutto nudo’’ rispose ‘‘che, per tanti anni,
è stato un uomo tutto vestito. Per scrivere ho dovuto vivere molte
vite, cambiare con i modelli dei miei personaggi, con le loro miserie,
speranze, dolori, grandezze, illusioni. Ho frequentato banchieri, bar-
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g. nascimbeni
boni, poliziotti, prostitute, atleti e quei piccoli uomini che sono i politici.’’
‘‘Vuole dire, allora,’’ chiesi ‘‘che dalla ricerca degli altri è passato
alla ricerca di se stesso?’’
‘‘Proprio cosı̀. Questo è successo dal 1980, quando ho scritto
‘‘Memorie intime’’, quando ho lasciato la narrativa per passare alla
diaristica.’’
‘‘Ha affermato di scrivere quasi in uno stato di ‘‘trans’’ dissi.
‘‘Da ragazzo ero sonnambulo. Nella stanza da letto della casa di
Liegi, dove sono nato, avevano messo le sbarre alle finestre. A parte
questo, non mi considero un uomo intelligente. Sono un intuitivo e
penso che i creatori non debbano essere intelligenti. Essi si esprimono col subcosciente. Le grandi scoperte sono avvenute tutte per
caso.’’
‘‘Posso chiederle se si è identificato con Maigret?’’ chiesi, attendendo con ansia di giungere a questo argomento.
‘‘Di veramente mio, ho dato a Maigret una regola fondamentale
della mia vita: comprendere e non giudicare. Ci sono soltanto vittime
e non colpevoli. Gli ho anche dato i piaceri della pipa, ovviamente, e
l’assenza di figli, perché quando nacque il personaggio, nel 1929, io
non avevo ancora avuto i miei quattro figli.’’
Verso la fine dell’intervista chiesi: ‘‘Perché non crede nelle passioni? Una volta, disse che passione era una parola che non la interessava.’’ ‘‘Lo ripeto. Credo che la passione sia una malattia.’’
Simenon non avrà amato le passioni, ma negli studi letterari che
lo riguardano, si è conquistato un appellativo che nessuno può negare: ‘‘Monsieur Atmosphere.’’ Tra i narratori del Novecento nessuno
come lui riesce, a mio avviso, a rendere in quattro righe l’atmosfera
della storia che sta per raccontare. Non sono il solo ad affermare che
avrebbe larghissimamente meritato il Premio Nobel per la Letteratura. Non lo ricevette, complice forse anche la sua vita sregolata (si
vantava di avere avuto diecimila donne), quasi da sultano, in questa
casa di Losanna, ove si era anche fatto costruire una sala operatoria
per sé.
Conclusi l’intervista chiedendo: ‘‘Lei ha incontrato alcuni dei cosiddetti grandi della terra, quando era giornalista, come Chaplin ed
Henry Miller. Ha abitato in ville sontuose. Ora come fa a vivere in
questa casa piccola, in questa stanza di pochi metri?’’
i grandi vecchi della letteratura
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‘‘È la mia trentatreesima casa’’ mi rispose ‘‘e qui ho finalmente
realizzato il mio sogno, quello di avere tutto a portata di mano. Si
guardi intorno. C’è il letto, ci sono gli scaffali, il televisore, il videoregistratore, il tavolo da lavoro, le sedie, le pipe. Soltanto all’ora dei
pasti passo in un’altra camera.’’
‘‘In un’intervista rilasciata al suo amico Fellini,’’ dissi ‘‘lei affermò
di amare molto il giallo...’’
‘‘Sono un po’ daltonico e non distinguo bene il rosso e il verde
...e poi il giallo è il colore dei bambini, quando disegnano il sole.
Vuole vedere il mio autoritratto? Mi basta poco per tracciarlo, un
pennarello e un carboncino. Glielo disegno sotto i suoi occhi.’’
Tracciò una linea curva, come per indicare la sommità di una
collina, il sole e un omino con le braccia spalancate.
‘‘L’omino sono io, Georges Simenon.’’
‘‘Scrive ancora?’’ gli chiesi.
‘‘Si, ma non pubblico più’’ fu la sua risposta. ‘‘Consegno tutte le
mie carte a Teresa, che deve custodirle finché io non sarò morto.
Non credevo di vivere tanto, ma sono felice di vivere. Ignoro che cosa sia la noia, le giornate passano troppo presto.’’
Mi accompagnò verso il giardino, stava piovendo. Lı̀ vicino c’era
un grande albero. Mi disse che, sotto quella pianta, erano state sparse le ceneri di sua figlia suicida e aveva lasciato disposizione che anche le sue fossero sparse, quando fosse arrivata ‘‘la grande ora dell’ombra.’’
Intervistai Marguerite Yourcenar nel maggio dei 1986. Aveva 83
anni. Era stata operata al cuore sei mesi prima.
L’Immortale, come fu chiamata perché fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia degli Immortali di Francia, mi ricevette
nell’appartamento n. 417 dell’Hotel Ritz di Parigi. Non la vidi in
buona forma. Indossava un paio di pantaloni neri, camicetta di seta
bianca, una sciarpa che quasi le faceva da mantellina. L’aspetto era
quello di una persona ancora sofferente. Gli occhi erano azzurri, azzurri come le acque del settentrione. Occhi penetranti, alteri, limpidi. Il visitatore ne coglieva il lampo e si accorgeva che questi occhi
vincevano le rughe del volto. Erano gli occhi che avevano guardato,
attraverso gli anni, oltre le rovine dell’antica Grecia e dell’antica Roma, nella ‘‘poltiglia fiamminga’’, come lei la chiamava, del ’500 con i
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g. nascimbeni
roghi, l’Inquisizione, nei cupi ed aristocratici archivi del nord, come
s’intitola uno dei suoi libri.
‘‘Che effetto le fa essere considerata un classico?’’ chiesi.
‘‘Nessun effetto,’’ mi rispose ‘‘perché non mi ritengo tale. Confesso di non avere idee molto chiare in proposito,’’ rispose ‘‘se per
classico si intende un autore che non scrive in uno stile trascurabile,
allora usiamo pure questa espressione. Tuttavia, dicendo classico a
volte si offre un funerale di prima classe a scrittori di valore, che però nessuno legge. È tutto molto vago, insomma, come la faccenda
del classico che domina la vita e del romantico che vi si sottopone.
È politica letteraria, non è letteratura.’’
‘‘È vero che gran parte di quello che ha scritto nasce dalle fantasticherie di quando era una ragazza molto giovane?’’
‘‘Nell’epoca mia, a vent’anni,’’ rispose ‘‘ho iniziato a viaggiare
con mio padre. Mia madre morı̀ dieci giorni dopo la mia nascita
per febbre puerperale. Ero in Italia, a Milano e a Verona, quando
nel 1922 ci fu la marcia su Roma. Allora, inseguivo un progetto immenso, una specie di romanzo totale, assolutamente irrealizzabile,
che poi non ho più scritto.’’
Chiesi: ‘‘Il suo è un rifiuto del presente?’’
‘‘Di quale presente? Di questo che io, lei, tutti, stiamo vivendo?
È terribile, non si può amarlo. Mi domando come si faccia ad accettare il terrorismo, le guerre di religione, gli infiniti squilibri che ci circondano, l’ormai inarrestabile inquinamento. Nemmeno il mio personale presente è da amare. Sono molto malata, ho grande difficoltà
per ogni cosa. Troppi lutti e perdite mi hanno colpito.’’
‘‘Significa, allora,’’ domandai ‘‘che ama più il passato del presente?’’
‘‘Bisogna andare cauti, quando si parla dell’amore per il passato’’
disse. ‘‘L’amore per il passato è l’amore per la vita, perché la nostra
vita è molto più al passato che al presente. Come ho già avuto occasione di dire e di scrivere, si ama il passato perché esso è il presente
sopravvissuto nella memoria umana.’’
‘‘Ha mai sofferto di solitudine? È vero che per natura uno scrittore è una creatura solitaria?’’
‘‘Lo siamo un po’ tutti, anche senza essere scrittori’’ rispose. ‘‘C’è
una solitudine dovuta alle assenze, che vanno crescendo intorno a
noi. Ogni vita è segnata dalla morte di qualcuno e dal distacco.
i grandi vecchi della letteratura
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Ma io dico che è meglio provare questo dolore, piuttosto che, non
aver conosciuto le persone che si sono amate.’’
Le chiesi: ‘‘In un’intervista lei ha dichiarato che il rifiuto di invecchiare è un altro modo di non amare la vita. Perché?’’
‘‘Non credo nella questione vecchiezza-giovinezza, è sciocco farsi
cancellare le rughe dal viso. Ora ho superato gli ottant’anni, lo so.
Ma non sono né molto né poco vecchia. Sono soltanto vicina al confine delle cose.’’
‘‘Si può amare la vita senza essere un po’ ottimisti?’’ ‘‘Sicuramente e felicemente. Anche se, ammetto che è molto difficile,’’ rispose
‘‘ma poi che senso ha parlare di pessimismo e di ottimismo. Sono
soltanto parole, spartizioni false che non toccano la verità.’’ ‘‘Nel
suo libro ‘‘Ad occhi aperti’’ lei afferma che si sogna un po’ nello stesso stile in cui si scrive...’’
‘‘Confermo,’’ disse ‘‘confermo che è una operazione misteriosa
del cervello e che nessuno sogna ciò che, poi, scrive.’’
Sapevo che la scrittrice aveva costruito una casa di legno su un’isola, sulle coste dei Maine, negli USA, vicino all’oceano ed attorniata
da boschi. ‘‘Abita ancora nella casa sull’oceano?’’ chiesi.
‘‘Ora, soltanto nei mesi estivi’’ rispose. ‘‘L’inverno fa troppo
freddo, cade la neve, i ghiaccioli sono lunghi come guglie.’’
‘‘Anche la scelta di quest’isola fa parte della sua passione per i
viaggi ed i luoghi poco conosciuti?’’ domandai.
‘‘Ho sempre sostenuto che sarebbe stupido morire senza aver
fatto il giro della propria prigione.’’
‘‘In quell’isola, lei, si fa il pane da sola,’’ aggiunsi ‘‘è vero?’’
‘‘Si, sono molto brava. Fare il pane è come scrivere. La mano deve sentire quando la pasta è pronta e bisogna smettere di lavorarla.
Cosı̀ avviene con una pagina, con una frase.’’
Marguerite Yourcenar si alzò con difficoltà dal divano e rifiutò
un tentativo di aiuto.
Ringraziò, mi strinse la mano e sparı̀ dietro una porta, come se
uscisse dalla scena di un elegante teatrino di corte. A me sembrava
di aver parlato con una regina in esilio.
L’intervista con Eugenio Montale, cui faccio riferimento è del
1981, quando aveva 85 anni.
Era imminente l’uscita di tutta l’opera di Montale, intitolata
‘‘L’opera in versi.’’
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g. nascimbeni
Da Montale sono stato centinaia di volte per intervistarlo e scrivere la sua biografia. L’ingresso nella sua casa, mi ha sempre dato
emozione, perché Montale conosceva e provocava imbarazzi profondi. Pause in cui il silenzio sembrava aperto a tutti i significati, dalla
noia al fastidio, all’insofferenza, addirittura all’ostilità. Poi, però, bastava un gesto qualsiasi che il chiuso e lo scontroso Montale diventasse un garbatissimo padrone di casa, un adorabile signore che ricordava la sua vita con la lucidità di un grande cronista.
Prima di andare ad intervistarlo, mi ero riletto un brano di un
suo libro di prosa. In questo racconto un personaggio di nome Federigo, che era poi Montale stesso, arriva con un lentissimo treno alle Cinque Terre, in Liguria. Dai finestrini si può vedere ‘‘la casa delle
estati lontane’’, dove trascorreva le vacanze Montale. Federigo scende dal treno ed incontra un amico di infanzia, il Gresta. Insieme si
incamminano verso la villa. Federigo ritrova il piacere di esprimersi
in dialetto. Il Gresta è quello di sempre, parla della pesca delle acciughe e del primo passaggio dei colombacci. Anche la via e le abitazioni non mostrano segni di cambiamento. È un tuffo fuori dal
mondo abituale, il recupero di un tempo che, data la distanza, potrebbe perfino apparire immaginario. Ma come per correggere,
per frenare quella sensazione di miracolo, Montale scrive: ‘‘Federigo
credé per un attimo di impazzire e si rese conto di ciò che avverrebbe se la vita si potesse risuonare daccapo, come un disco inciso.’’
Mi sembrò che questa storia, queste considerazioni potessero diventare il tema della prima domanda da rivolgergli.
‘‘Si sente come Federigo?’’ chiesi. ‘‘No, non mi sento come davanti ad un monumento definitivo. Non ho mai riletto le mie poesie
quando le ho ritenute concluse. Per un’ipotesi estrema, paradossale,
le varianti potrebbero essere arbitrarie, anche fatte da altri, senza che
io me ne sia accorto. Non lo credo, si intende, però insisto nel dire
che potrebbe essere possibile.’’
‘‘Dopo la conclusione del lavoro critico, ha scritto ancora?’’ ‘‘Si,
qualcosa ma niente di importante. Le poesie potrebbero portare anche la firma di un altro. Tutti i poeti scrivono le stesse cose, chi peggio, chi meglio...’’
‘‘Anche tutti gli inediti che sono in questo volume li ha scritti,
come lei ama dire, per caso?’
‘‘Io non ho metodo’’ rispose ‘‘non ho mai avuto metodo. In pas-
i grandi vecchi della letteratura
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sato ho scritto su vecchie buste, su conti di trattoria, nei caffè, in treno, in cucina. Adesso, mi muovo poco e perciò scrivo in casa mia,
tranquillamente, poi batto a macchina. A qualunque ora del giorno.
Non la notte, anche se continuo a soffrire di insonnia. L’insonnia
non è produttiva.’’
‘‘Molte di queste poesie inedite,’’ chiesi ‘‘che rappresentano, forse, la parte più avvincente del volume, dimostrano che lei non ha
smesso di interrogarsi sui grandi temi dell’esistenza...’’
‘‘Forse lo faccio perché può darsi che non esista nemmeno la vita, che la vita sia un sogno, un’ipotesi, una finzione. Viviamo come se
tutto ciò che sta attorno a noi sia realtà. Ma può darsi benissimo che
non lo sia. O che esista una realtà diversa di cui non ci accorgiamo.
La nostra esistenza è un’ipotesi con un certo grado di probabilità,
ma non bisogna esagerare.’’
Anche in quest’ultima intervista che gli feci, Montale confermava
una sua ferrea caratteristica: era sempre l’uomo che in anni lontani
mi aveva detto ‘‘Mi spaventa che ci si rivolga a me come a un Poeta,
con la maiuscola. Mi sembra una prostituzione, una mostruosità. Io
non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito speciale. L’idea classicistica del poeta
che vive in mezzo agli uomini normali con l’alloro in testa, mi sembra un relitto di cui si deve assolutamente liberarsi.’’
Cosı̀ disincantato, l’ho visto in un’altra solenne occasione.
Accadde nella sua casa di Milano, la mattina del 23 ottobre
1975, quando l’ambasciatore di Svezia comunicò che gli era stato assegnato il Premio Nobel. Ad un giornalista che gli chiedeva di sintetizzare con uno sguardo globale l’intera sua vita e l’intera sua opera,
rispose: ‘‘Globale è un aggettivo che detesto.’’
Più tardi, quando rimasi io solo in casa sua, mi disse: ‘‘Mi pareva
di essere alla televisione. Quando un regista ti chiede di parlare di
tutta la tua opera in cinquanta secondi, ruotando lentamente la testa
da destra a sinistra.’’ Neppure la gloria di quel mattino indimenticabile aveva intaccato il lucido, implacabile distacco di Montale. La
scena fu di straordinaria castità. Poi, rivolgendosi a me disse: ‘‘Immagino che ora dovrei dirti qualcosa di importante, di storico... Fare
dichiarazioni... Invece, mi è venuto un dubbio: nella vita, di solito,
trionfano gli imbecilli. Lo sono diventato anch’io?’’
Voglio chiudere queste interviste ricordando che queste persone
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g. nascimbeni
erano grandi ed umane, malgrado certi distacchi. Persone che hanno
saputo dare molto conforto a noi lettori, attraverso gli anni. È vero
che, ad un certo momento della vita, per circostanze che non sto qui
a dire, si conosce la solitudine e che, raramente, l’uomo aiuta un altro uomo a vincere questa solitudine. A me è accaduto di scrivere
una volta che ‘‘i nostri deserti conoscono soltanto i nostri passi’’,
ma ecco che Montale mi viene in soccorso con due versi che ha scritto in una poesia intitolata ‘‘Il trionfo della spazzatura’’, che dicono:
‘‘Essere vivi e basta, non è impresa da poco.
IMPATTO DELL’INVECCHIAMENTO
DELLA POPOLAZIONE
SUL SSN: INDISPENSABILITÀ DELLA GERIATRIA
U. Senin - C. Pasoli
L. G. Grezzana: ‘‘Diamo inizio ai lavori.
Vi ringrazio di essere cosı̀ numerosi. Ho certezza che usciremo
tutti più che soddisfatti, perché ben conosciamo il professor Senin.
Prego Corrado’’.
C. Pasoli: ‘‘Volevo ringraziare tutti voi, come ha fatto il dottor Grezzana, per essere intervenuti a questo incontro che è di particolare interesse perché rispecchia problemi di tipo sanitario, medico-sociale,
assistenziale, economico ed anche politico.
Se andiamo a vedere la durata media della vita in varie epoche, si
osserva che c’è stato un aumento progressivo. In verità è stato abbastanza modesto per duemila anni. Dall’epoca pre-romana al 1940,
infatti, si è passati dai 26 anni ai 40 anni di vita media. Teniamo presente che c’era un’altissima mortalità infantile, che ha inciso sull’andamento demografico.
Però, è significativo che dal 1940 al 1990, ci sia stato praticamente quasi un raddoppio della vita media. I dati ISTAT del 1980, riguardo la durata della vita, dicono che l’età, rispettivamente per i
maschi e per le femmine, è di 71 e 77 anni.
Nel 1999, la vita media per gli uomini sale a 75 e a 81 quella per
le donne.
Per il 2020 si prevede una vita media per l’uomo di 78 anni e per
la donna di 84.
Se andiamo a vedere la realtà locale nel 1950, gli anziani costitui-
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u. senin - c. pasoli
vano circa l’8% della popolazione e sono, progressivamente, aumentati fino a superare il 20% nel 1998. Non ho ancora i dati del censimento del 2001, perché non sono ancora stati pubblicati, ma sicuramente saranno confermati.
Ciò che è più interessante, è che la popolazione giovane, si è man
mano ridotta per cui, c’è stato il sorpasso nel 1985, degli anziani sui
giovani.
Se andiamo a contare, sempre nella popolazione anziana a Verona, nel 1961 gli anziani erano circa 23.000, nel 1998 erano 55.000.
All’interno di questa popolazione, gli ultrasettantacinquenni sono
passati da 10.000, a 30.000.
Gli anziani sono globalmente raddoppiati. In particolare, gli ultrasettantacinquenni sono più che triplicati ed è in questa fascia di
pazienti più anziani che si colloca il paziente geriatrico.
Quest’ultimo è caratterizzato dalla fragilità, cioè dalla comparsa
di scompensi a cascata.
Che cosa vuol dire questo?
Significa che, in un paziente geriatrico, una patologia acuta di un
organo slatentizza altre patologie quiescenti. Ad esempio: una broncopolmonite può evidenziare una condizione di insufficienza cardiocircolatoria o di insufficienza epatica o di insufficienza renale, che
prima erano latenti.
L’altra caratteristica del paziente geriatrico è la polipatologia.
Chi lavora in Ospedale Geriatrico, sa che le nostre diagnosi sono
sempre molto lunghe e che tutti i nostri pazienti soffrono di molte
malattie.
Non meno importante, è il rischio della perdita dell’autonomia.
Assistere un soggetto non autonomo, ha un costo estremamente più
elevato che assistere un soggetto autonomo.
Qualcuno potrebbe obiettare che esistono, oggi, settantacinquenni ed ottantenni in perfetta autonomia e che godono ottima salute.
Quando si ammalano, potrebbero, forse, essere curati dallo specialista d’organo cioè il cardiologo, il gastroenterologo, lo pneumologo e cosı̀ via, ma molto meglio se avessero la possibilità di essere
seguiti dal geriatra.
Più un paziente è vecchio e complesso, più il geriatra è indispensabile, come è indispensabile la Divisione di Geriatria.
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
65
Non voglio rubare spazio all’oratore di questa sera, che tutti voi
conoscete perché è già stato ospite nei nostri corsi ed è il professor
Umberto Senin.
Vi ricordo, tra l’altro, che è stato presidente della Società Italiana
di Gerontologia.
Durante la sua presidenza, ne parlavamo prima, ha organizzato
un importante congresso di Geriatria Nazionale ad Assisi. È cattedratico di Gerontologia e Geriatria all’Università di Perugia. Prego
professor Senin’’.
66
u. senin - c. pasoli
U. Senin: ‘‘Eccomi qua di nuovo. Obbediente all’ordine dell’amico
Gigi Grezzana.
Lui non è che mi inviti, dice: ‘‘Vorresti venire ... il 2 sei a Verona
perché devi tenere una lezione ... dimmi il titolo’’. Dico: ‘‘Dammi
tempo!’’ ‘‘Va bene, pochi giorni, ma devo fare in fretta’’.
Poi gli telefono e gli dico il titolo ...: ‘‘Troppo lungo!’’ ‘‘Troppo
lungo, è importante che sia lungo, è importante che esprima un concetto’’.
Se ci fosse Trabucchi, direbbe: ‘‘Pensiero forte’’. ‘‘Pensiero forte’’, va ben, ‘‘fame pensar qualche giorno’’. Mi ritelefona: ‘‘ Va bene
cosı̀’’. ‘‘Non so come vada bene cosı̀, hai trovato il modo di inserirlo?’’ ... ‘‘Va beh, ... insomma!’’
Sono qui e mi devo complimentare per l’ennesima volta per un
pubblico cosı̀ folto e cosı̀ attento a questi corsi di aggiornamento su
argomenti geriatrici che Gigi Grezzana, insieme ai suoi colleghi di
Geriatria, da alcuni anni organizza. Io ho sempre accolto con grande
entusiasmo l’invito, di cui mi sento onorato.
Sı̀, l’argomento esprime un ‘‘pensiero forte’’. Io spero di riuscire
a dimostrarvi quello che il tema vuole esprimere: l’indispensabilità
della Geriatria in una società che invecchia. Quindi, è un compito
estremamente ambizioso quello che io mi sono dato.
L’indispensabilità vuol dire che non se ne può fare a meno ed io
cercherò di dimostrarvi che non se ne può fare a meno, con i fatti.
I fatti partono da quello che ha detto il collega che mi ha preceduto. Sono quelli che fanno riferimento a dei numeri: i numeri sono
fatti, non sono opinioni, non sono idee.
I numeri sono i numeri della demografia.
Allora, vediamo di rileggere in maniera finalistica il discorso, cioè
i numeri che la demografia evidenzia in modo molto semplice.
In soli 50 anni, l’invecchiamento della popolazione che per molti
decenni era progredito molto lentamente, negli ultimi 50 anni, cioè
nella seconda metà del secolo che abbiamo lasciato da poco alle spalle, ha subı̀to un’accelerazione incredibile. Le motivazioni sono molteplici e non è il caso di elencarle.
Sta di fatto, che la popolazione anziana rappresenta un quarto
della popolazione del nostro paese. Circa un quarto dei soggetti
che vivono in Italia, appartiene ad una classe di età al di sopra dei
65 anni. Il dato importante è quello che vado a sottolineare.
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
67
In questi 50 anni, la componente che è aumentata in misura significativamente veloce, più intensa, è quella più anziana. Infatti dal
1950 al 2000, gli ultranovantenni da 500.000 quali erano, sono diventati 2.300.000.
Oggi siamo certi che sono di più: quindi, sono aumentati di ben
cinque volte, senza che nessuno se ne rendesse conto.
In silenzio, zitti, zitti, hanno assunto proporzioni tali da non essere più considerati un’eccezione.
È il fenomeno dal quale noi dobbiamo partire perché è soprattutto in rapporto a questo, che la nostra popolazione si è andata arricchendo di soggetti anziani disabili.
Io cerco di tenere un linguaggio più laico che tecnico, perché
penso che il pubblico sia molto eterogeneo. Devo quindi adeguarmi,
per essere più facilmente compreso. Questo, subito, per allontanare
la vostra attenzione da un concetto troppo scientifico, che però
esprime un dato molto preciso.
Bisogna vedere come si comportano i soggetti di età sempre più
avanzata, dai 65 fino agli 84 anni, maschi e femmine, nelle attività
cosiddette basilari della vita quotidiana come fare il bagno, vestirsi,
usare la toilette, spostarsi dentro la casa o dalla casa a fuori casa, essere continenti ed alimentarsi.
Man mano che noi andiamo a valutare queste attività, in soggetti
sempre più anziani, aumenta in misura esponenziale il numero di
quelli che non sono in grado di svolgere autonomamente queste
attività. Pertanto, sono dipendenti, disabili ed hanno bisogno di
aiuto.
Questo è l’impatto più forte che l’invecchiamento ha, sul Sistema
Assistenziale e Sanitario del nostro paese.
C’è stato un incremento, percentualmente maggiore e repentino,
della componente più anziana della società. L’aumento delle persone
molto anziane tende a coincidere, con l’aumento dei soggetti anziani
disabili.
Quali sono le cause? Io vi parlerò secondo uno schema che dovrebbe facilitarvi nel seguirmi lungo tutto il percorso, in una maniera
didatticamente corretta.
Vi dico subito che gli argomenti sono gli stessi con cui, ogni anno, inizio il corso di Gerontologia e Geriatria agli studenti della Facoltà Medica dell’Università presso la quale io lavoro.
68
u. senin - c. pasoli
Arrivano all’ultimo segmento di un lungo percorso formativo,
quindi gli ultimi sei mesi dei sei anni di corso, senza che nessuno abbia mai parlato loro di queste problematiche. Alla fine, voi concluderete con me, che sia a dir poco un’aberrazione, ma vedrete fino
a che punto giunga questa aberrazione.
Le cause: le cause sono molteplici.
La prima causa è l’invecchiamento, non c’è niente da fare. Man
mano che noi invecchiamo, semplicemente perché invecchiamo, per
come l’invecchiamento si estrinseca a livello dei nostri organi, sistemi
ed apparati, noi perdiamo di efficienza, perdiamo di capacità.
Col passare degli anni, la capacità fisica aerobica, in questo caso
misurata come consumo massimo di ossigeno, decresce dai venti anni fino agli ottanta anni. È una curva tutta in pendenza.
E questo è il primo concetto.
Secondo: la perdita di capacità fisica è maggiore nei sedentari rispetto agli attivi, cioè a quelli che svolgono una costante, non necessariamente intensa, attività fisica.
Terzo: fino ad oggi, il fattore più importante nei confronti del
buon invecchiamento è l’attività fisica, quella attività che in questa
società un numero sempre maggiore di persone non pratica prima.
La nostra società è caratterizzata dalla sedentarietà.
Cosı̀ sono andate le cose, in rapporto ad una molteplicità di fattori e, soprattutto, dal fatto che le tecnologie ci hanno reso la vita più
comoda. Apparentemente più comoda.
Poi c’è il prezzo che noi dobbiamo pagare alla fine.
Questo è già un messaggio.
Se vogliamo che le generazioni future abbiano un impatto migliore con la disabilità in età avanzata, devono cominciare a rivedere
i loro stili di vita. Li devono rivedere in relazione all’attività fisica.
C’è un’infinità di studi che dimostrano che non è che si debba
fare jogging o che so altro, dell’agonismo in genere, ma basta comminare un certo numero di chilometri ad un passo, direi, svelto. Si
deve camminare fino a che non compaia la prima goccia di sudore
sulla fronte. Questo, riduce in maniera significativa la mortalità
per le grandi malattie che colpiscono l’anziano e che sono associate
ad una grave invalidità.
Si è andati a vedere come si comportano i centenari.
Si è preso in considerazione un gruppo di centenari, fra i quali
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
69
una quota significativa ‘‘sana’’. Questi anziani si sono cimentati in
una serie di tests, di performances, come si dice, come lo stare in piedi, camminare, alzarsi da una seggiola.
Ci si è accorti che nessuno dei centenari, compiva queste tre
semplicissime attività o funzioni, in maniera adeguata rispetto ad
un gruppo di controllo cioè di soggetti sani di età anziana, ma
non molto anziana.
Questo per dimostrare che a cento anni, oggi, indipendentemente dalle malattie, non è pensabile di poter arrivare in perfetta efficienza fisica.
Con l’invecchiamento, aumenta il rischio di andare incontro alle
cosiddette malattie croniche, quelle che prevedono nella loro storia
naturale, un passaggio più o meno lungo in una condizione di disabilità prima della morte.
Quali sono queste malattie croniche invalidanti?
Le più frequenti e più importanti sono l’artrosi, la sordità, l’ipovedenza, la cardiopatia ischemica, leggi l’infarto, la malattia cerebrovascolare, leggi l’apoplessia cerebrale e la demenza.
Queste patologie aumentano in misura esponenziale con l’aumentare dell’età, ma subiscono praticamente quasi un’impennata
quando si passa dall’età anziana giovane, all’età anziana vera e propria. Io non ho voluto limitarmi a quantificare il rischio che ciascuno
di noi, invecchiando, realizza.
Queste importanti malattie, vorrei tradurle in esempi per non dimenticarsi mai che, dietro a ciascuna di queste patologie, c’è una
persona.
L’artrosi, interessa oltre il 50% degli over 65. Nell’evolvere seguendo la sua storia naturale, rappresenta una delle principali cause
di disabilità ingravescente dell’anziano.
La frattura di femore, in Italia, interessa le donne sopra i 75 anni,
nel 70% dei casi. Dopo gli 80, una donna su 4 ed un uomo su 8 l’ha
subı̀ta, a 90 una donna su tre. Il 30%, delle persone che si fratturano, sviluppa un certo grado di disabilità. Il 30% di questo 30%, diventa non autosufficiente al punto tale da essere, spesso, costretto al
ricovero in una istituzione, perché da solo non è in grado di gestirsi.
I numeri acquistano un significato particolare quando si è coinvolti.
La sordità. Ho solo dati statunitensi: tra i 65 e i 75 anni ne soffre
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u. senin - c. pasoli
circa 1 persona su 3, sopra i 75 circa 1 persona su 2. La perdita dell’udito è l’invalidità più comune nell’anziano. Questo tipo di disabilità costa circa 56 miliardi di dollari l’anno.
La cecità da cataratta: 65-74 anni, 118 casi su 1.000 soggetti. Sopra i 75, 200 casi su 1.000.
Nel mondo, dei 50.000 casi di cecità all’anno, circa la metà riconosce come causa la cataratta, che è una costante dell’invecchiamento. Non è che qualcuno possa sperare di arrivare a cento anni senza
cataratta. Poi, c’è chi è più fortunato e sviluppa una cataratta che
raggiunge la maturità in età molto avanzata. Altri lo sono meno e,
per questi, la cataratta diventa un problema, che limita l’autonomia
in età non avanzata.
L’ictus: in Italia, oltre 130.000 nuovi casi ogni anno, dei quali il
75% circa interessa gli anziani. L’ictus è la principale causa di invalidità permanente nei paesi occidentali. Il 15%, dei soggetti che subiscono questa patologia, soffre di grave disabilità ad un anno dall’evento.
Il Parkinson: circa 300 casi ogni 100.000 abitanti.
Di questi, 200 tra i 70 e gli 80 anni, praticamente i due terzi, interessano l’età avanzata. Provoca invalidità progressiva, perché noi
sappiamo che la malattia la si controlla bene con farmaci importanti,
potenti, ma solo per i primi 7-8-10 anni. Poi le cose peggiorano. Nel
30%, si aggiunge demenza, nel 45% oltre che essere Parkinsoniano,
il soggetto è anche depresso. E come non esserlo!
Veniamo alla malattia disabilitante per eccellenza: la Demenza.
Sopra i 75 anni, ne risulta affetto dal 4 al 10% dei soggetti. Sopra
gli 80, il 30%, sopra i 90, 1 su 2. Si contano, in Italia, 600.000 casi
circa di malattia d’Alzheimer, che rappresenta il tipo di demenza più
frequente. Tra i 65 e i 69 anni, 1 o 2 nuovi casi ogni mille abitanti,
l’anno. Sopra i 90, 53,5% di nuovi casi ogni anno.
Siamo partiti con l’aver detto come l’invecchiamento, oggi, sia
caratterizzato da un prevalente incremento della componente più
anziana. È quella nella quale, la demenza di Alzheimer colpisce ogni
anno 53,5% di nuovi soggetti. Dopo i primi anni, necessita di assistenza ventiquattr’ore su ventiquattr’ore, sette giorni su sette, per
tutta la durata della malattia che, ahimè, ‘‘grazie’’ alle nostre cure,
siamo in grado di far durare sempre più a lungo. Malgrado ciò,
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
71
non siamo ancora capaci di curare la malattia, di per sé, in maniera
efficace.
Tralasciamo la broncopneumopatia cronico-ostruttiva e lo scompenso cardiaco.
Prendiamo in considerazione l’incontinenza urinaria.
Fra i 65 e 74 anni, il 5% dei maschi e il 7% delle femmine, presenterebbe questa condizione. È ben noto, quanto questo problema
incida negativamente sulla qualità della vita. Sopra i 75, l’11% dei
maschi e il 14% delle femmine, lamenta questo disturbo.
Per gli anziani che vivono in Residenza, l’incontinenza è molto
più diffusa e costituisce uno dei maggiori problemi assistenziali.
C’è un altro dato che spiega come la disabilità, spesso, si correli
all’età. E questo, ben si giustifica con la co-morbidità.
Man mano che invecchiamo, diminuisce sempre di più il rischio
di star bene, mentre aumenta sempre di più il rischio di star male in
quanto, non di rado, si è affetti da più di due malattie. Il 25% dei
maschi e circa il 40% delle femmine, nella classe di età 80-84, presenta più di due malattie contemporaneamente.
Un altro dato che spiega l’aumento della disabilità è che, oggi,
noi siamo in grado di far vivere i soggetti malati cronici disabili,
per un tempo molto più lungo di quanto non succedesse una volta.
Oggi, in condizioni di cronicità, disabilità e di anzianità, si vive
molto di più di quanto non si vivesse un tempo.
Fra i 65 e i 74 anni e fra i 75 e più anni, sia nei maschi che nelle
femmine, si è ridotta la mortalità in modo significativo in soli dieci
anni. La mortalità, di un soggetto fra i 65 e i 70 anni maschio, è calata in dieci anni del 12,6% e, del 13,4%, nei soggetti ancora più
anziani.
Questo è un altro motivo per cui sta aumentando in maniera cosı̀
rilevante nella nostra società, la componente di soggetti molto anziani. Oggi riescono a sopravvivere, ad arrivare in età cosı̀ avanzata,
malgrado soffrano di importanti malattie e di disabilità.
Per concludere, prendiamo la Francia.
Un soggetto che arrivi oggi a 65 anni, se femmina, dei vent’anni
di vita che le rimangono da vivere mediamente, un terzo di questa la
passerà in condizione di disabilità.
Se maschio, la cui aspettativa di vita è 77 anni, un quarto. Arrivare a 65 anni, significa avere una aspettativa di vita di vent’anni se si
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u. senin - c. pasoli
è femmina, di quindici e poco più se si è maschi. Di questo periodo
che rimane da vivere, un numero non indifferente di anni, lo dovremo passare in condizioni di non autonomia.
Le proiezioni sulle gravi disabilità nei soggetti di 65 anni ed oltre,
fatte negli Stati Uniti, ci dimostrano che se le cose vanno male, nel
2040 il numero dei disabili ultrasessantacinquenni gravi, sarà aumentato di quasi cinque volte. Se va bene, si sarà ‘‘soltanto’’ raddoppiato.
Si fa per dire.
Se io terminassi a questo punto il viaggio che vi ho fatto fare, sarei incompleto. All’interno del mondo degli anziani che soffrono,
spesso, ricorre la domanda: ‘‘Ma valeva veramente la pena che mi facessero vivere tanto a lungo?’’
C’è un altro anziano che soffre e che noi dobbiamo considerare.
Questo non è che prima non esistesse, ma non ce ne eravamo accorti. Della sua esistenza, ce ne siamo resi conto proprio da quando l’invecchiamento è esploso come abbiamo potuto constatare.
È l’anziano fragile, di cui vi è stato già parlato.
L’anziano fragile è un soggetto che emerge dalla Letteratura o
dalla cultura geriatrica anglosassone. È nella Letteratura geriatrica
anglosassone che noi abbiamo trovato questa nuova situazione, questa nuova condizione clinica che è questa fragilità, sindrome da fragilità.
L’anziano fragile.
È un paziente che noi, fin che abbiamo potuto, abbiamo ignorato. Non ne abbiamo tenuto conto, non solo perché era numericamente irrilevante per cui si vedeva e non si vedeva, ma perché sentivamo uno stato di impotenza di fronte a questi pazienti. Sentivamo
tutta quanta la nostra incapacità di valutarli, di gestirli, di assisterli.
Dominava una cappa di silenzio. Si diceva: ‘‘Tanto non c’è niente
da fare, non ne vale la pena, non perdere tempo, non perdere denaro’’. Eppure allora, non c’era il problema dei costi, mentre oggi ci
dicono: ‘‘Spendi troppo per ottenere che cosa?’’
È sull’anziano fragile che la moderna ricerca gerontologica e geriatrica, sta dedicando il massimo del suo impegno per cercare di capire chi ci sia dietro questo soggetto. Solo quando lo sapremo, ne
capiremo gli intimi meccanismi, ed allora, potremo incominciare a
sbrogliare il bandolo di una matassa che, adesso, è inestricabile.
Poi mi direte: ‘‘Ma ne vale la pena?’’ La risposta la lascio a voi.
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
73
Linda Fried, è una gerontologa e geriatra statunitense.
I geriatri la conoscono bene perché i suoi testi, i suoi scritti, sono
un irrinunciabile punto di riferimento, di acculturamento per chi si
occupi di questa materia.
Secondo questa studiosa: ‘‘L’identificazione dell’anziano fragile,
il capire chi sia l’anziano fragile e chi non lo sia, è colta da chi ha un
forte senso clinico’’.
I geriatri sanno individuare l’anziano fragile o non fragile. Basta
entrare nella corsia, nella casa, nella stanza da letto per capire subito
che lı̀ c’è un anziano fragile.
Dice ancora che non c’è un accordo su quelli che sono i criteri
che ci possano definire l’anziano fragile, criteri standard.
Vale ancora, oggi, il senso clinico.
Questo senso clinico, il geriatra esperto, da che cosa lo ha appreso? Che cosa è che ha contribuito a far sı̀ che lui l’acquisisse?
L’esperienza di chi vive a contatto di questi soggetti, consente di
individuare le caratteristiche, cioè l’identikit, dell’anziano con ‘‘sindrome da fragilità’’. Quindi, l’anziano fragile è un soggetto che ha
uno stato di salute psicofisico estremamente instabile.
Ha un alto rischio di peggioramento delle condizioni generali,
delle capacità funzionali in corso di eventi acuti o anche di modesta
entità.
Ha un elevato rischio iatrogeno. È un paziente cui il medico inesperto potrebbe provocare danni ancor maggiori, rispetto a quelli
che già la sua condizione lo porta a dover subire.
Alto è il rischio di complicanze, elevato il rischio di cadere. Se
cade, il femore se lo rompe.
È un soggetto che viene ricoverato in ospedale più volte nello
stesso anno e se non si ricovera da noi, poi lo scopriamo nel reparto
accanto o nell’ospedale vicino.
È un paziente che quando si ammala, anche di un fatto tutto
sommato non importante, riesce a guarire, ma con molta fatica. Ci
vuole molto tempo e non torna mai com’era prima. È un soggetto
che richiede un lungo periodo di cure, tanto che l’indomani, verosimilmente lo troveremo come l’abbiamo lasciato la sera precedente.
Non è semplice vederlo recuperare sotto il profilo della propria
capacità funzionale.
74
u. senin - c. pasoli
Ha un alto rischio di perdere autosufficienza, di istituzionalizzarsi e di un’elevata mortalità.
Si è parlato di scompenso a cascata: eccolo lo scompenso a cascata.
Questi soggetti cosı̀ fragili ed instabili, sono statuette di porcellana tutta incrinata, che sono in bilico sopra ad un tavolo. Bisogna
stare attenti a come le si tocca, può bastare un colpo di vento per
farle cadere.
Un’influenza, che il medico non se la sente di curare o perché
non capisce che è influenza, porta questo soggetto all’ospedalizzazione. Ecco innescarsi una serie di meccanismi perversi. L’uno che si
concatena all’altro, via via, in una cascata di eventi sempre peggiori
che portano certe volte, in poche ore, il soggetto da una condizione
di sostanziale autonomia ad una non più recuperabile.
Due casi. Un caso comune ed un caso estremo, io lo chiamo, di
anziani fragili.
Una donna, molto anziana, ottantaquattro anni, vedova, sola
perché è vedova, e senza figli, non può contare sulla presenza in casa
di qualcuno, anche perché è povera. In rapporto ad uno stato di salute estremamente compromesso, sia per patologia di cui essa non ha
colpa, sia per condizioni che sono l’espressione di una mancata ed
adeguata assistenza, cade e si frattura il femore.
È il classico soggetto di fronte al quale il geriatra, quando lo vede
dice: ‘‘Questa persona cade e se ‘‘la casca la se rompe el femore’’. Se
la gente non provvede, è certo che si riceverà la telefonata dopo
qualche giorno con queste parole: ‘‘Dotor la gaveva ragion ela, la
zè cascada, la me se gà roto el femore, la zé in Ortopedia. Me la
prende nel suo reparto?’’
L’altro caso è di una donna, molto più vecchia della prima, che
arriva ad una condizione pesante, di non autonomia, in soli tre anni.
Ma sapete perché? Perché viveva con un nipote, seguito dal Centro
di Igiene Mentale per importanti problemi caratteriali. Questo nipote non consentiva nemmeno alla figlia dell’ammalato, che viveva da
un’altra parte, di interferire sulla gestione della nonna. Non permetteva ad alcuno, nemmeno al medico di metterci le mani. Era lui che
decideva ed il risultato è stato catastrofico.
Quali sono i meccanismi, i motivi? Non può essere la demenza,
non può essere la co-morbidità, non può essere una disabilità già
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
75
presente o incombente, che porta questi soggetti in una condizione
di estrema fragilità.
I meccanismi scatenanti, devono essere più sottili, più profondi,
più complessi. Gli esempi ci fanno capire, come ad innescare la disabilità nell’anziano, entrino in gioco molteplici cause. Queste, attraverso percorsi diversi, una volta imboccato un circolo perverso, fanno cadere l’anziano in una spirale, che lo porta ad una condizione di
sempre maggiore fragilità.
Su questo argomento, la ricerca gerontologica e geriatrica italiana è all’avanguardia nel mondo.
Chi è il paziente geriatrico?
È importante affermarlo, perché se noi non faremo passare questo concetto, continueremo a dover conquistare uno spazio.
La Medicina Interna dice: ‘‘Ma se voi curate gli anziani, noi chi
curiamo, visto che per fortuna, oggi, ad ammalarsi sono sempre più,
soprattutto, gli anziani?’’
La Medicina Interna è come se dicesse: ‘‘Io perdo l’identità, se la
Geriatria è la disciplina che si occupa dell’anziano tout court’’.
La Geriatria può occuparsi o il geriatra può occuparsi di tutto
quello che vuole, in rapporto a quelli che sono i propri interessi culturali o scientifici. Prima di tutto, però, deve occuparsi della persona
nei confronti della quale ha la maggiore competenza, quella che fa la
differenza a livello di risultato.
È l’anziano fragile, il soggetto sul quale la Medicina Geriatrica ha
il ‘‘know how’’, di conoscenza, di metodologia di valutazione, d’intervento, di modello assistenziale, onde ottenere il migliore risultato.
Non è un concetto da me ribadito, ma che è stato dimostrato.
Passerò questa seconda parte del mio intervento per dimostrarvi
che questa affermazione non è autoreferenzialità, ma è il risultato di
studi condotti sul modo, che oggi viene considerato il migliore, per
fare della buona Medicina.
È quella, cosı̀ detta, della Medicina Basata sull’Evidenza.
Hazzard è l’autore del più famoso trattato di Geriatria del mondo. Che cosa dice, che cosa scrive? Alla domanda: ‘‘Chi è il tipico
paziente geriatrico?’’ Su questo argomento ci sono stati degli scontri,
anche feroci, al nostro recente congresso di Montecatini.
C’era qualche mio collega che non accettava di essere vincolato
76
u. senin - c. pasoli
in questo spazio perché lo riteneva angusto, non degno della sua alta
cultura.
‘‘Perché io devo occuparmi di questo paziente che nessuno vuole?’’
Perché te ne devi occupare tu, perché questo è uno spazio assistenziale che nessun altro vuole occupare, perché nei confronti di
questo paziente tu hai le migliori conoscenze, metodologie di valutazione e di intervento. Non possiamo, altrimenti, pensare che debba
nascere una nuova specialità, dopo la nostra, che si occupi di questo
segmento di popolazione che noi non vogliamo. O no?
È cosı̀! Ma sapete in America chi ci sta negli hospice?
Ci stanno i geriatri e sapete chi c’è all’interno degli hospice,
strutture che peraltro io aborrisco? Chi ci sta? I malati neoplastici
oncologici terminali, quelli che l’oncologo non vuole più, perché
non ha nulla da dar loro, facendo riferimento ai suoi protocolli.
Pensa al più anziano, al più ammalato, al più complicato, al più
fragile dei tuoi pazienti!
Ma che volete di più per uno specialista, se non sentirsi dire che
tu hai la competenza per curare al meglio il più anziano, il più complicato, il più fragile.
Il geriatra è l’esperto dei casi più complicati.
Quando tu hai la macchina, Gigi, quella tua rombante con duecentocinquantamila cavalli e ad un certo momento ti accorgi che,
forse, perde qualche colpo, vai dal meccanico. Il migliore.
Pensa a quel meccanico che sa che il dottor Grezzana gli porta la
macchina ogni volta che ha un problema complicato, in una macchina delicata. È orgoglioso! Non so se ti fa pagare in rapporto, ma insomma! L’identificazione, la valutazione del trattamento dell’anziano fragile, costituisce il fondamento della Medicina geriatrica e
non voglio aggiungere altro.
Andiamo a vedere che cosa un soggetto fragile, si trova di fronte
nel momento del bisogno, oggi.
Parlo facendo riferimento all’Italia nel suo complesso. Forse voi
a Verona, siete un’isola felice.
La prima cosa che si trova di fronte è l’ospedale. Sicuramente anche a Verona, come in tutta Italia, è l’ospedale la struttura che si fa
carico del maggior numero di richieste in termini di salute.
Non si spiegherebbe, altrimenti, perché il 60% della Spesa Sanitaria, sia a carico degli ospedali.
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
77
Quindi l’ospedale come primo punto di riferimento, il primo posto dove si va quando c’è un bisogno. Se ci confrontiamo con questo
soggetto, la nostra organizzazione non sempre è adeguata.
L’ospedale non è nato per assistere questi ammalati. La missione
che oggi l’ospedale si è data, è quella del trattamento dell’acuzie per
periodi di tempo ben definiti.
È stato deciso, che la prestazione deve essere pagata secondo un
meccanismo molto preciso, che è quello che stabilisce che ogni malattia ha il suo prezzo.
L’appendicite 350 euro. Se impieghi più tempo a dimettere il paziente ci rimetti. Se impieghi meno tempo, l’ospedale ci guadagna.
Ve la semplifico, ma il concetto è questo.
Questo tipo di prestazioni ha penalizzato fortemente l’anziano e
soprattutto l’anziano più complesso.
Ve lo dimostra che cosa?
Il sistema di pagamento secondo i DRG è stato inventato negli
Stati Uniti.
Noi l’abbiamo copiato con dieci anni di ritardo, ma senza tenere
conto di quello che già gli Americani scrivevano sui loro testi, sulle
loro riviste scientifiche, dopo dieci anni di esperienza. Scrivevano,
quello di cui parlerò dopo, sulla base di una constatazione.
Per esempio, sono andati a vedere che cosa era successo per il
fratturato di femore, dopo l’introduzione dei DRG e hanno fatto
un confronto con quello che succedeva prima.
Negli Stati Uniti si sono accorti, che la durata della degenza si era
ridotta mediamente di sette giorni. Era quello che si voleva ottenere,
cioè ridurre il numero di giornate di degenza dai costi troppo alti.
L’ospedale, infatti, assorbe il 60% delle spese della Sanità. Contemporaneamente però, diminuiva il numero dei soggetti che uscivano in condizioni funzionali adeguate. Lo dimostra il fatto che un minor numero di pazienti veniva dimesso ancora in grado di deambulare.
Un minor numero di questi pazienti, aveva acquistato una capacità di muoversi, di spostarsi, misurata con sistemi particolari. Per
esempio, veniva quantificato il numero di metri percorso. Erano aumentati di quasi il doppio i soggetti trasferiti da un reparto di OrtoChirurgia in una Residenza.
Le nursing house americane, sono residenze per gravi disabili.
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u. senin - c. pasoli
Gli istituzionalizzati ad un anno, erano aumentati praticamente di
quasi quattro volte.
Un altro dato, italiano.
Siamo andati a vedere all’interno di uno studio della società di
Gerontologia e Geriatria, detto GIFA, Gruppo di Studio di Farmaco-vigilanza nell’Anziano. Che cosa è successo?
Prima e dopo i DRG, si è fatto un confronto nei reparti di Geriatria e di Medicina, in rapporto alla mortalità e alla dipendenza in
almeno una attività della vita basilare.
Ne è risultato che a fronte di una riduzione significativa delle
giornate di degenza, sia nei reparti di Geriatria che di Medicina Interna, si era drammaticamente ridotta la mortalità ospedaliera. Non
perché i medici fossero diventati più bravi, ma semplicemente perché i malati sono stati mandati a casa, non appena ci si accorgeva
che non c’era più nulla da fare. Inoltre, era aumentato significativamente il numero di pazienti, dimessi in condizioni di capacità funzionale peggiore rispetto a quella del momento di ricovero.
Per cui, scrivevano gli Americani, da cui si dovrebbe copiare nel
bene, ma non nel male, che i DRG se possono essere utili per le specialità acute, specie se chirurgiche e per pazienti in condizioni cliniche ben definite, sono del tutto inadatti per i pazienti anziani.
Questo sistema, non tiene conto della maggiore complessità dell’anziano e dei fattori confondenti.
I DRG, se hanno forse diminuito i costi per l’assistenza ospedaliera, hanno aumentato quella per i Servizi Territoriali.
Noi abbiamo introdotto i DRG nell’ospedale, ma non abbiamo
trasferito maggiore disponibilità di risorse per costruire, per attivare
nel Territorio ciò di cui si sarebbe avuto necessariamente bisogno.
Se, come abbiamo visto, la prima risposta ai bisogni dell’anziano
fragile è offerta dall’ospedale, la seconda, successivamente, è data
dall’Assistenza Domiciliare.
Ma quale Assistenza Domiciliare si trova?
In realtà, l’Integrazione Socio-Sanitaria è più una dichiarazione
di intenti piuttosto che un fatto concreto, dove gli interventi sono
sempre parcellari e discontinui. E sfido chiunque a dirmi che non
sia vero.
Di questa discontinuità, io vi darò un esempio alla fine di questa
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
79
carrellata. Che cosa intendo? Alcune ore alla settimana, sicuramente
credo, mai la domenica o i giorni festivi.
I Servizi Riabilitativi.
La riabilitazione in Medicina geriatrica, ha pari dignità e pari importanza di qualsiasi terapia farmacologica.
Ebbene, in questo paese, la Terapia Riabilitativa non viene considerata intervento di primo livello ed indispensabile.
Questo sta a significare che se non è indispensabile in un momento di carenza di risorse, beh, insomma se si può risparmiare, farne a meno, perché non farlo?
Nell’Azienda Ospedaliera dove io lavoro, in pochi mesi da 29
che erano i terapisti della riabilitazione, per oltre mille ricoverati, siamo arrivati a 18. Quindi i Servizi Riabilitativi e non parlo, ovviamente, soltanto di quelli all’interno dell’ospedale, ma anche quelli territoriali, sono comunque insufficienti. In certe vaste aree del nostro
paese, addirittura, sono del tutto assenti.
Poi questo anziano, malato cronico, disabile, fragile, quello che si
trova davanti è la cosiddetta Residenzialità. Ecco i due poli: l’Ospedale, la Residenzialità.
Sono, io li chiamo, diventati dei nuovi ospedali, proprio in rapporto a tutte le motivazioni che vi ho espresso.
Se c’è qualcuno di voi che lavora all’interno di una Residenza è
difficile che mi contesti questa affermazione.
Vorrei portare come esempio la tipologia di una Residenza per
Anziani della civilissima Perugia, che è il capoluogo di una civilissima regione, della quale io mi onoro di essere ospite ormai da una
vita.
Non posso dire che l’Umbria non sia una regione altamente
civile.
Consideriamo una Residenza per anziani che si trova all’interno
della città di Perugia. La sua realtà viene cosı̀ configurata e ditemi se
questo non è un nuovo ospedale. Infatti, l’82% dei residenti è disabile.
Di questo 82%, il 34% è disabile totale, cioè demente, il 32%
circa è immobile (sedia-letto-poltrona), il 22% è portatore degli esiti
di un ictus, quello di cui parlavamo prima, l’11-12% è entrato perché si era fratturato il femore.
Ebbene, questa popolazione di soggetti malati complessi, che più
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u. senin - c. pasoli
complessi di questi non ci sono, chi li gestisce? Il medico di Medicina Generale.
La legge di riforma di cui siamo in attesa, ma che non verrà mai,
la riforma della riforma, ha stabilito che cosı̀ fosse. Ma perché?
Perché sono 500.000 i medici di Medicina Generale. Voi sapete
cosa significa avere dalla propria parte 500.000 voti?
Significa vedere in un consenso maggiore dell’avversario, il proprio successo, la propria permanenza in un ruolo di privilegio. Queste cose vanno dette.
Eppure, se c’è una struttura che ha bisogno della massima competenza è questa, in questo concentrato di difficoltà.
Dico sempre, provocatoriamente, alla mia nuova caposala, che
viene da circa 15 anni di esperienza in cardiochirurgia, che è molto
più facile mettere 27 by-pass aorto-coronarici, che gestire, valutare al
meglio un soggetto, uno qualsiasi di quelli che abbiamo considerato.
Qui si parrà la vostra nobilitate, o qui si muore.
Altrimenti, come vi spiegate che questi cardiochirurghi a 33 anni, già siano famosissimi? Perché, evidentemente, si tratta di acquisire della semplice tecnologia, della manualità e, quello che fa la differenza, è l’attitudine maggiore o minore che uno ha nel riproporre
quella manualità.
Ma è qui che si fa la vera Medicina, è qui che si vive ogni giorno
una sfida contro l’impossibile.
Qui o si è medici sul serio o è meglio non metterci piede perché
il risultato è quello di un disastro di cui, per fortuna, nessuno si preoccupa più di tanto perché il disastro risolve tanti problemi di ordine anche morale e psicologico.
Allora, c’è il medico di Medicina Generale e io mi prendo tutte
le responsabilità.
Come vedete dico chiaramente quel che penso perché so quel
che dico e sono in grado di sostenere qualsiasi dibattito, per dire
che cosa?
Il medico di Medicina Generale ha una preparazione inadeguata
a gestire quelle situazioni e di questa preparazione inadeguata, non
ha colpa il medico.
Il medico è vittima, non è colpevole. Che colpa ne ha se nessuno
gliel’ha insegnato mai.
Non di rado, si arriva all’ultimo segmento di un lungo percorso
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
81
di studi e si incontra qualcuno che, per caso, gli racconta di queste
cose, gli dice quali siano i trabocchetti, e come cercare di non cascarci dentro.
Vi do la prova di quanto ciò sia vero.
L’Harrison è la ‘‘Bibbia’’ per il medico. Da quando faccio il medico, compro sempre la nuova edizione perché comunque rappresenta la ‘‘Bibbia’’.
Se si vuol conoscere tutto ciò che di nuovo, la ricerca, l’esperienza, propone per le varie malattie, si consulta l’Harrison.
Che cosa contiene l’Harrison?
C’è un capitolo, il V di Medicina Geriatrica, che si sviluppa su 10
pagine su ben 2.622, quante sono quelle che compongono questo
trattato. Dieci pagine su 2.622. Quello che c’è, ma cos’è che non c’è?
Non c’è mai un capitolo dove si parli in maniera strutturata di
co-morbidità o di polifarmacoterapia, disabilità, fragilità.
Ma non basta.
Volete sapere dove i nostri giovani allievi imparano come si visiti
un paziente e quali siano le indagini che servono per capire di che
cosa sia affetto? Studiano sul Dioguardi-Sanna.
Anche questo è un trattato storico, il trattato di Semeiotica Medica, che nella sua quarta edizione, presenta come titolo ‘‘Moderni
aspetti di Semeiotica Medica’’.
I modelli su cui lo studente impara come si visita un paziente,
non sono certamente geriatrici.
Non ho mai visto un vecchio su cui si riesca ad auscultare o visitare il torace nel modo canonico per quanto è curvo, storto e non
risponde, perché non ci sente.
Questa è la formazione che i giovani medici ricevono.
Già nel 1989, su JAMA, uscı̀ un editoriale estremamente significativo. Recitava infatti: ‘‘La formazione clinica per quanto riguarda
la metà del secolo passato, si è focalizzata sull’assistenza del paziente
nell’Ospedale per Acuti.
Questo modello è appropriato. È idoneo per i pazienti di 35 anni, ma molto meno per quelli di 80 e più. Continuando l’educazione
clinica a strutturarsi secondo il modello del malato acuto, dimenticandosi nel contempo i più difficili problemi su come preservare o
migliorare lo stato funzionale dei soggetti disabili, l’educazione medica ha fallito nella risposta di un bisogno sociale’’.
82
u. senin - c. pasoli
Per adesso, io vi ho semplicemente descritto uno scenario, ma
non sono andato oltre.
Cosı̀ chiudo parlando ai miei studenti. L’anziano malato, cronico, disabile, fragile, ovvero il paziente ‘‘negato’’ che non c’è nei trattati, che continua a non esserci, non c’è neppure per la Commissione
di grandi luminari, che ha elaborato il curriculum formativo della
Laurea in Medicina.
In questo, non si parlava mai di invecchiamento, né a livello di
individuo, né di popolazione.
Risultavano completamente ignorate le problematiche mediche
tipiche della co-morbidità.
Si tende a compensare tante lacune, appellandoci alla famiglia.
Non di rado, le amministrazioni pubbliche dicono: ‘‘Ma insomma,
avete la famiglia? Che volete di più?’’
Quale famiglia? La famiglia non c’è più. La famiglia non c’è più
perché il numero di componenti si è ridotto, come voi tutti ben sapete per quanto riguarda i figli, ad un numero esiguo: uno, due figli
in media per coppia.
Nella Valle del Chianti 0,984, roba del genere, mentre i nonni
sono aumentati. Per 1 nipotino, si contano 6 nonni. Sı̀, all’inizio
del secolo c’erano 5 nipotini per 1 nonno, ora sono 6 nonni per 1
nipotino.
Ma chi è che assiste il nonno? Il nipotino ne deve assistere 6.
La donna, è quella sulla quale storicamente ha sempre pesato
l’assistenza di tutti i componenti della famiglia che avevano bisogno,
vuoi che fossero infanti, vuoi che fossero vecchi.
Oggi, la donna, alla mattina alle sette e mezza esce di casa col
marito.
Ritorna a casa alla sera, stanca perché ha lavorato quanto l’uomo.
Ed allora ecco quello che è lo scenario di ciò che ci viene offerto
per questo tipo di paziente.
L’Assistenza Domiciliare, la Medicina Specialistica, l’ospedale
che, come vedete, la fa da maggiore, i Servizi Riabilitativi, le Residenze. Mancano o sono sicuramente carenti, i servizi alternativi all’ospedale. Quelli che ci sono, quasi sempre non sono progettati ad hoc.
Sono stati attivati secondo la logica del risparmio.
Forse, la preparazione degli operatori e dei medici è inadeguata.
A Verona le cose non stanno cosı̀, anche grazie a Gigi Grezzana.
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
83
Inoltre, spesso, c’è un’assoluta mancanza di collegamento funzionale fra i vari servizi.
Io chiamo questo sistema, un ‘‘sistema a comparti chiusi’’.
Non c’è alcuna possibilità di progettare un’assistenza che si sviluppi nel tempo, in grado di rispondere a bisogni che si vanno modificando. Non esiste la verifica continua dei risultati ottenuti per
poter, eventualmente, cambiare l’indirizzo, correggere il tipo di strategia, qualora quello che noi ci attendevamo e speravamo venisse
raggiunto, raggiunto non sia.
Le conseguenze che tutto questo sia vero, sono documentate in
un passo pubblicato su la Repubblica del 1999, che io casualmente
mi sono trovato a leggere durante un volo che facevo allora tra Perugia e Milano.
Ritrovate qui dentro tutte le carenze di cui io vi parlavo prima.
‘‘Gli agenti della squadra Mobile di Torino ...’’ – Non è un’area
depressa del nostro Paese, è l’area sicuramente tra quelle più ricche,
più acculturate d’Italia. – ‘‘Gli agenti della Squadra Mobile hanno
sorpreso un anziano, mentre tentava di scavalcare le ringhiere del
terrazzo al settimo piano e sono riusciti a bloccarlo prima che si gettasse nel vuoto’’.
Qualche minuto prima questo signore, un pensionato di 87 anni,
aveva telefonato al 113. ‘‘Oggi siete aperti? Venitemi a prendere, ho
ucciso mia moglie e sto per seguirla’’. È successo domenica mattina,
poco dopo le nove.
Poco prima, il pensionato aveva ucciso la moglie di 80 anni,
squarciandole la gola con un coltello da cucina, dopo aver tentato
inutilmente di strangolarla con un filo per stendere i panni e con
il tubo di plastica della cucina a gas.
‘‘Dopo l’omicidio, seguendo un piano messo a punto ...’’ – C’è
tutto quello che vi ho detto qui, tutto! – ‘‘...seguendo una strategia
messa a punto con cura, aveva tentato di togliersi la vita, ma i dolori
reumatici non gli hanno permesso di scavalcare la ringhiera’’.
Un anziano malato, che si trova ad assistere un’anziana ammalata
anch’essa, la domenica mattina non sa a che santo votarsi. Dopo
averla ammazzata e con determinazione, e con determinazione, vorrebbe ammazzarsi anche lui, ma non ce la fa.
Allora, che cosa la Medicina Geriatrica ha proposto per l’anziano malato cronico, disabile, fragile?
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u. senin - c. pasoli
Ha proposto di sostituire il sistema assistenziale a comparti chiusi, con un sistema assistenziale aperto, cosiddetto ‘‘a rete’’, le cui caratteristiche sono tali da garantire una assistenza continuativa, a lungo termine.
Questa sola, è in grado di gestire la cronicità, prevenire la disabilità, contrastare l’evolutività, cioè di assistere non la malattia, ma
l’anziano nella sua globalità.
Si deve intervenire, infatti, sull’intera persona.
Ecco la necessità di integrare ciò che è dispensato dal Comparto
Sociale da ciò che è erogato dal Comparto Sanitario. Deve essere un
sistema flessibile, non deve essere un sistema rigido, perché i bisogni
cambiano continuamente nel tempo. Sono mutevoli.
Ora prevalgono quelli sanitari, ora sono quelli sociali a prevalere,
però nel rispetto di precisi criteri, di precise caratteristiche di fondo,
se vogliamo che il risultato sia quello atteso.
Innanzitutto, bisogna che non si segua il principio che ‘‘è meglio
qualsiasi cosa, piuttosto che niente’’. No, è meglio il niente che qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa può rappresentare un alibi.
Di fronte al niente, qualcuno deve dire perché niente. Quindi la
logica non dev’essere quella di risparmiare soldi per l’Assistenza, né
Sociale, né Sanitaria.
Le strutture che ospitano gli anziani, devono avere un profilo
funzionale degno di un’esistenza. Devono essere, sicuramente, collocate nella rete dei servizi.
Devono avere caratteristiche architettoniche, organizzative e metodologie di valutazione di intervento idoneo al raggiungimento degli outcomes.
Si imporrà un severo controllo di qualità. Il pubblico non può
lasciare spazio al privato.
Il controllo di qualità, è un qualche cosa che spetta al Servizio
Pubblico. Le strutture per gli anziani devono avere tariffe in rapporto ai costi reali e devono essere calcolate in rapporto alla tipologia
degli utenti, alla complessità della cura e dei trattamenti. Tutti gli
operatori che operano al loro interno, devono avere una idonea formazione.
È vero che operando in quel sistema, con la metodologia appropriata e con la competenza che deriva dal personale che si viene ad
utilizzare, si ottengono dei grossi risultati.
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
85
Io vi porto solo un esempio, i cui dati derivano da uno studio
condotto secondo le buone norme di pratica clinica, secondo i principi della Medicina Basata sull’Evidenza.
La finalità era quella di vedere se si era in grado di ridurre una
della complicanze più frequenti e più costose, a cui vanno incontro
gli anziani quando si ospedalizzano, quando si ricoverano in Ospedale per Acuti.
Negli Stati Uniti, ogni anno, il delirium aggrava la degenza di
2.300.000 anziani.
Interessa più di 17,5 milioni di giornate di ricovero e costa più di
quattro miliardi di dollari.
Quindi, è una motivazione economica quella che ha spinto questi ricercatori a vedere se era possibile fare qualche cosa di meglio,
che si traducesse in un risparmio.
Qui non c’entra niente l’etica, solo il risparmio. Ulteriori costi
poi, dicono, sono quelli previsti per i pazienti, una volta dimessi.
Per questo motivo, è stato avviato uno studio condotto, nel periodo
’95-’98, presso l’Università di Yale negli Stati Uniti.
Sono stati presi in considerazione gli anziani che erano stati ricoverati nel corso di questi tre anni nel reparto di Medicina di un ospedale clinicizzato. In totale 852 pazienti.
Questi pazienti, sono stati assegnati casualmente a due gruppi di
intervento tra loro sostanzialmente diversi, in modo però, che le due
popolazioni fossero omogenee, fra di loro confrontabili.
Questo è un meccanismo che noi cerchiamo sempre di rispettare
quando facciamo qualsiasi studio a cui affidiamo il compito di verificare se il trattamento A è migliore del trattamento B e quant’altro.
Metà erano affidati alla gestione tradizionale, quella che è in grado di garantire qualsiasi reparto di Medicina Interna.
L’altra metà, veniva affidata ad una struttura che era stata ricavata all’interno di un reparto di Medicina Interna, dove operava
un team composto da un geriatra, da un’infermiera professionale,
da un fisioterapista, da un terapista occupazionale, da due unità di
personale infermieristico di assistenza e da volontari appositamente
addestrati.
I medici in formazione che, ovviamente, sono presenti anche negli Stati Uniti, erano gli stessi a circolare fra queste due unità.
Questa unità, valutava e gestiva i pazienti, secondo la metodolo-
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gia proposta dalla Medicina Geriatrica, quella della valutazione multidimensionale.
Era quella che consentiva al team di individuare tutti quelli che
sono riconosciuti da tanti studi, essere i principali fattori di rischio di
confusione mentale nell’anziano che viene ricoverato.
Una volta individuati questi fattori, il team doveva fare riferimento ad un protocollo d’intervento specifico su cui l’intero team
era stato formato.
Si era stabilito che se un paziente ha l’insonnia, è opportuno attivare tecniche di rilassamento, eliminare tutti i fattori disturbanti.
Per esempio, le luci troppo alte, il televisore acceso, la colazione
che venga data alle cinque di mattina e quant’altro. Si ricorrerà ad
interventi farmacologici, solo, ove fosse necessario.
Ancora, se si trattava di soggetti con deterioramento cognitivo, là
dove fossero gravi dementi, cioè soggetti sui quali era possibile in
qualche modo intervenire su questo problema, si suggeriva di sottoporre a training di orientamento e di stimolazione cognitiva.
Anche questo, facendo riferimento a protocolli standardizzati.
Cosı̀ via, per i soggetti immobili, per chi ci vedeva poco, per gli
ipoacusici. Uguale attenzione, si impone nel monitoraggio dell’idratazione.
Quindi, il protocollo prevedeva che si andassero a cercare i fattori di rischio per comparsa di confusione mentale e, se c’erano, tutto il team sapeva come doveva intervenire.
I risultati: il 50% in meno di casi di confusione mentale nel gruppo sottoposto a valutazione ed intervento multidimensionale geriatrico, rispetto al gruppo lasciato alla gestione medica tradizionale,
quella sulla quale tutti noi ci siamo addestrati.
Ho i passi di due libri che rappresentano un completamento di
quanto io vi ho detto, una cornice, ma se volete nello stesso tempo
una premessa, un tessuto connettivo.
È quello che c’è scritto in questo bellissimo libretto che mi è stato donato dagli autori, sulle politiche per gli anziani non autosufficienti. Libretto alla cui scrittura hanno partecipato alcuni nostri illustri colleghi.
Che cosa si dice in questo passo?
‘‘La legislazione italiana più recente, assume e ripropone come
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
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esigenze e valore, la libertà del cittadino di scegliere come e da chi
farsi assistere in caso di bisogno’’.
Libertà.
Tale affermazione ridimensiona, in parte, quel paternalismo amministrativo e professionale grazie al quale l’amministrazione pubblica o il singolo professionista si arrogano la competenza di assumere
essi stessi le scelte per il bene del paziente, dell’assistito.
In base, però, a dei criteri di giudizio e di scelta che sono a loro
favorevoli o loro propri o quelli correnti. Non sono quelli degli anziani o dei pazienti portatori del bisogno.
Quest’ultimo passo, è un omaggio che devo all’amico Luigi
Grezzana.
Viene riportata una frase che tradisce un vero geriatra, cioè una
persona che vive la sua esperienza quotidiana nella piena consapevolezza di quanto difficile, problematico, impossibile, sia a volte il lavoro che lui, noi geriatri veri, ci troviamo tutti i giorni a dover portare avanti.
‘‘Il problema degli anziani... – scrive l’amico Gigi – ...non è soltanto medico...’’, ecco dove io con questa frase completo il mio intervento, lo integro, gli do una base omogenea, una maggiore consistenza. ‘‘...ma deve coinvolgere tutte le forze della nostra società...’’.
Questo è un grande segno di umiltà.
‘‘...non ultime quelle economiche, sociali, politiche eccetera, ben
consci che per quanto si faccia, mai riusciremo a dare tutte le risposte agli innumerevoli quesiti che pongono i vecchi. Sono fermamente
convinto che la Geriatria sia una scienza...’’.
Scienza. Scienza è la parola il cui significato pesa.
È una scienza.
‘‘...da una parte esaltante...’’.
Ed è esaltante ‘‘...e dall’altra terribilmente difficile; ed è solo con
l’umiltà e ‘‘tramite insieme’’ che si può fare qualche cosa di significativo’’.
Vi ringrazio dell’attenzione’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Lasciatemi dire solo una parola, ne ho il diritto.
Umberto è sempre stato grande, ma gli anni gli hanno fatto bene. Lo avete testimoniato voi tutti con il vostro applauso.
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Questa mattina alle nove, gli ho telefonato, l’ho chiamato al cellulare: ‘‘Umberto dove sei?’’ ‘‘Sono a Bologna’’.
È partito molto presto questa mattina.
Insomma, è un punto forte per noi.
Ha sempre più coraggio di esprimere le cose che magari sentiamo dentro e che non abbiamo la forza di dire.
Mi sembra che la Geriatria sia una ‘‘scienza estrema’’. Cosı̀ mi
piace pensarla.
Non estrema perché cura i momenti più vicini alla fine, ma estrema perché interpreta i momenti più difficili dell’operare medico.
Proprio perché è tanto difficile, noi abbiamo bisogno di voci
autorevoli e forti.
Grazie Umberto, grazie di cuore’’.
C. Pasoli: ‘‘Prego’’.
Dal pubblico: ‘‘Mi riferisco alle critiche che lei faceva verso il modello dell’Ospedale per Acuti, e relativamente al paziente anziano fragile, in particolare, quando è in una situazione di acuzie.
Volevo chiedere il suo parere sulle strutture per post-acuti’’.
U. Senin: ‘‘Sı̀, io ho saltato i risultati di uno studio, fatto secondo lo
stesso criterio del caso controllo.
Caso controllo vuol dire che un paziente segue un percorso,
mentre un paziente analogo ne segue uno completamente diverso.
Uno segue il percorso tracciato dalla Medicina Geriatrica, l’altro
segue il percorso tradizionale, condotto proprio sui pazienti anziani
post-acuti.
La ricerca è stata condotta nell’ambito degli undici centri statunitensi, gestiti dalla ‘‘Veterans Administration’’.
La Veterans Administration è l’Amministrazione dei Reduci di
Guerra, che è un’Associazione molto forte, come si intuisce, trattandosi di ex soldati.
I pazienti post-acuti, una volta dimessi dalle varie unità per acuti,
sia internistiche che chirurgiche, venivano inseriti in un programma
assistenziale.
Questo prevedeva una fase di ricovero in una struttura per postacuti, gestita sempre da un team multidisciplinare coordinato dal ge-
impatto dell’invecchiamento della popolazione sul ssn
89
riatra, dall’infermiere geriatrico e seguito secondo la metodologia
della valutazione multidimensionale.
Successivamente, i pazienti venivano osservati per 11 mesi in un
ambulatorio geriatrico.
I risultati non erano dissimili per quanto riguardava la mortalità,
rispetto al gruppo che, una volta dimesso dal reparto per acuti, seguiva il suo iter normale.
Le conclusioni erano, invece, significativamente diverse per quanto concerneva le funzioni cognitive e la tenuta dello stato funzionale.
I costi globali si uguagliavano nei due gruppi.
Allora che cosa insegna questo studio?
Ormai nella Letteratura qualificata della Medicina Interna, non
nella Letteratura geriatrica, compaiono diversi lavori all’anno che ripropongono secondo la stessa metodologia, diverse esperienze.
Che cosa si evince? Si evince che se noi vogliamo mantenere l’Ospedale per Acuti cosı̀ come oggi si è deciso che esso debba essere,
cioè avere come missione l’acuzie, necessariamente noi dobbiamo
prevedere un qualche cosa che sia intermedio, tra l’Ospedale per
Acuti e il Territorio. Può essere Residenza, Assistenza Domiciliare,
Centri Diurni e quant’altro.
Deve essere quella unità di ‘‘post-acute care’’ o di ‘‘long-term care’’. Sono unità a più basso costo perché implicano minori necessità
di indagini diagnostiche e minore necessità di personale medico.
Sono strutture cui affidare il paziente, per il consolidamento dei
risultati raggiunti. Si ricorre ad esse per conseguire, in certi nostri
pazienti, un ulteriore miglioramento. Alla fine di questo percorso,
questi ammalati potranno essere dimessi. Verrà valutata l’opportunità di ricorrere, temporaneamente, ad una Residenza o inviarlo a domicilio, a seconda delle caratteristiche del paziente e della sua famiglia.
Se andiamo a vedere gli standard ospedalieri, quelli pubblicati
già alla fine dell’88, lı̀ si parlava chiaramente di Unità di degenza
per post-acuti.
Queste strutture, in quanto affrontano problematiche di malattia
su pazienti ancora instabili in rapporto sia alle condizioni intrinseche, sia alla dimissione precoce, devono poter essere in grado di fornire tutte le prestazioni di cui quel paziente ha bisogno.
90
u. senin - c. pasoli
Il livello, deve essere anche qualitativo ed è quello che solo un
ospedale è in grado di garantire.
Io sono d’accordo sulle Residenze Sanitarie Assistenziali, per il
semplice fatto che sono Sanitarie.
In queste strutture affluiscono dei pazienti che hanno superato la
fase acuta e post-acuta, ma per la complessità dei bisogni e l’elevata
competenza di cui necessitano, è opportuno che debbano stare all’interno dell’area dell’ospedale.
Mi tornano in mente gli ospedali di un tempo, ove si gestiva una
Medicina a bassa tecnologia, ma ad alta complessità.
Venivano garantiti ‘‘in loco’’, tutti quei servizi che servivano per
rendere quella struttura, la più autosufficiente possibile, con una
qualità di assistenza, che non doveva avere come risultato la necessità di risparmiare.
Il principio non deve esser quello del risparmio. Lo Stato, la società devono risparmiare su altre cose superflue, non necessarie.
Sulla salute non si può risparmiare, sulla salute bisogna spendere
tutto ciò che serve.
Dobbiamo controllare gli sprechi, amputare i rami secchi, andare con le cesoie là dove c’è il privilegio, a rischio di diventare impopolari, anche per il politico.
Il politico deve avere il coraggio di onorare il suo ruolo.
Almeno il suo passaggio, in quel posto, lascerà un segno’’.
L. G. Grezzana: ‘‘In mezzo a mille difficoltà, mi sembra che una cosa la possiamo vantare. Siamo i pionieri di questa scienza. Sono convinto che molte manchevolezze non dipendano né dalla malafede né
dalla cattiva volontà degli uomini, quanto piuttosto, dalla sorpresa
che l’invecchiamento della popolazione ha indotto sulla società e
sul Servizio Sanitario Nazionale, in particolare.
Certamente, dobbiamo fare ancora tantissimo contro la disabilità, contro la perdita dell’autonomia. È proprio lı̀ che dobbiamo concentrare le nostre forze. È un impegno in cui servono passione ed
intelligenza’’.
L’ETICA IN GERIATRIA
Mons. G. Zenti, Vescovo di Vittorio Veneto - G. Gortenuti
G. Gortenuti: ‘‘Questa conferenza ha un tema molto impegnativo:
‘‘L’etica in Geriatria’’.
L’argomento è solo apparentemente semplice, ma in realtà molto
complesso.
Davanti ad un bambino ammalato, credo che tutti noi ci sentiamo presi da pietà e commozione. Davanti ad un paziente anziano,
anche se curato con il massimo della professionalità, possono esistere
due sentimenti entrambi deprecabili. Da una parte l’indifferenza,
per cui si è portati a pensare: ‘‘È molto anziano, ha già vissuto a lungo’’. Dall’altra, l’accanimento terapeutico.
Tutti i giorni il medico geriatra si pone problemi pratici di ordine morale. Uno fra tutti, è se ai medici sia permesso decidere quando
un paziente gravemente ammalato, non debba più servirsi dei sistemi
artificiali di prolungamento della vita.
D’altro canto, alcuni sostengono che continuare a vivere è una
questione personale. Nel caso in cui, un paziente fosse pienamente
consapevole della prognosi infausta, gli si dovrebbe concedere di decidere che fare. Il paziente, secondo questa ottica, sarebbe libero di
scegliere se continuare a vivere tra grandi sofferenze senza alcuna
possibilità di cura definitiva, o meno.
Negli ultimi anni, il problema dell’eutanasia è ritornato pesantemente nel mondo anglosassone. Recentemente, è uscito un libro
‘‘Eutanasia – uscita di sicurezza’’, un best seller negli Stati Uniti,
ma proibito in Europa. In questo libro, si descrivono diversi modi
non dolorosi di suicidarsi.
Su questi problemi, tutti noi cerchiamo delle soluzioni che rite-
92
mons. g. zenti - g. gortenuti
niamo moralmente accettabili. A volte siamo indecisi, confusi, turbati.
Io sono sicuro che questa sera, Monsignor Giuseppe Zenti,
Vescovo di Vittorio Veneto, ci darà delle indicazioni per il nostro
agire’’.
l’etica in geriatria
93
G. Zenti: ‘‘Quando il Vescovo di Verona, padre Flavio Roberto Carraro, a causa di un impegno non dilazionabile sopraggiuntogli, mi ha
proposto di sostituirlo nella relazione da tenere a questa qualificata e
numerosa assemblea, non me la sono sentita di declinare l’invito.
Per tre ragioni.
A padre Flavio non si può dir di no, perché è davvero un padre.
Se si rivolge ad una persona per chiedergli la collaborazione non è
certo per sottrarsi alla fatica, ma perché non è in grado di rispondere
alle richieste in termini di tempo e di energie fisiche. Di conseguenza, un collaboratore che conosce a quale ‘‘tour de force’’ è abituato
ad esporsi, almeno per solidarietà con lui, accetta volentieri di condividere i suoi impegni.
In secondo luogo perché, malgrado la sua complessità, mi lusinga la tematica in cantiere.
E vi è un terzo motivo: sapevo che la richiesta a Padre Flavio era
stata rivolta dall’amico carissimo Gigi Grezzana. Se non potevo rifiutarmi alle ragioni della collaborazione con il Vescovo, men che meno, potevo svincolarmi dalle ragioni dell’amicizia.
A tutti i partecipanti, agli organizzatori ed a Gigi Grezzana, il saluto cordiale da parte del Vescovo, padre Flavio, unitamente al mio
saluto deferente.
Dopo aver percorso, sotto la guida di esperti di alto livello, un
itinerario di formazione al senso della professionalità nell’ambito
della Geriatria, voi desiderate che si ponga dovuta attenzione alle
problematiche che coinvolgono l’etica. Questa, infatti, è la tematica
che mi è stato chiesto di svolgere: ‘‘L’etica in Geriatria’’.
Già aver posto la questione vi fa onore in un contesto culturale
che, ai criteri etici, predilige i criteri pragmatici. Voi la ponete al termine di un Corso. Non come postilla, marginalmente, ma come coronamento e compimento.
Questa, infatti, intende essere l’angolatura della mia esposizione:
l’etica come quadro di riferimento e, per cosı̀ dire, l’anima, l’insieme
delle problematiche che concernono la Geriatria.
Tentiamo di coniugare i due termini, etica e Geriatria, dopo aver
precisato il senso che attribuiamo a ciascuno degli elementi in causa.
Che cosa intendiamo con il termine ‘‘etica’’? L’etica attiene al
comportamento nel suo risvolto di rispetto della realtà. Idealmente
parlando, dovrebbe essere il riflesso dell’atteggiamento proprio del-
94
mons. g. zenti - g. gortenuti
l’interiorità che ha acquisito determinati valori. L’etica va considerata globalmente, riguarda, cioè, tutti gli aspetti del reale. Pensiamo,
ad esempio, all’etica ecologica. Ma in modo peculiare, si riferisce
al comportamento rispettoso della giusta relazione con ogni altro essere umano. Da questa angolatura, etico è il comportamento che,
proprio nel suo estrinsecarsi, considera l’essere umano come persona, come valore assoluto, da rispettare e valorizzare, mai destinatario
di strumentalizzazione.
Un po’ approssimativamente, si potrebbe dire che etico è il comportamento umano che viene validato dalla gente di buon senso, che
ha cioè il senso del reale e non si lascia condizionare da interessi di
parte o individuali.
Che cosa intendiamo per Geriatria? Etimologicamente ‘‘arte medica rivolta alla persona dell’anziano’’.
E subito, di rincalzo a valanga, le obiezioni: che cosa intendiamo
per anziano? È solo un’area anagrafica? Anziani si diventa entrando
nella terza o nella quarta età? E se una persona della terza o quarta
età gode di una certa autonomia, può dirsi anziana? Ma entro quali
limiti si può parlare di autonomia?... Un ginepraio di questioni che
hanno il vantaggio di lasciare campo aperto alle discussioni ed agli
approfondimenti.
Siamo consapevoli che sia difficile definire in modo pertinente la
stagione dell’anzianità. È possibile avvicinarsi all’anziano concreto,
quello che la nostra esperienza identifica come anziano, o malgrado
da parte sua, probabilmente non si senta o rifiuti di considerarsi tale.
È anche vero che questo giudizio di anzianità, i vecchi sono pronti a
ribaltarlo su altri meno malandati di loro. Le osservazioni che presento non sono estrapolate da un’antologia di libri di psicologia,
ma il frutto di un campionario di vita vissuta che l’esperienza personale, soprattutto nel suo risvolto di persona impegnata nella pastorale, mi ha offerto e da cui ho imparato molto.
Essere anziani è una stagione di vita dai contorni alquanto sfumati, poco definiti, ma dalle manifestazioni piuttosto inequivocabili,
su cui per benevolenza si può anche scherzare, senza con questo alterare la realtà che ti sta davanti: ‘‘Come porta bene i suoi anni! Io ci
farei la firma. Mi dia la ricetta per arrivare alla sua età in gamba come lei...’’. In quel ‘‘in gamba come lei’’, è racchiuso un rapporto. Ci
si riferisce, invero, all’età anagrafica. Di fatto, quel ‘‘in gamba’’ dice
l’etica in geriatria
95
‘‘poco in gamba’’. Alla fine, un giovane o un adulto che si rivolga con
questi complimenti alla persona anziana, non cambierebbe condizione, perché lui è davvero in gamba.
Può muoversi speditamente e persino correre. Ha in mano il vigore della giovinezza, il meriggio della vita. E la vecchiaia è lontana.
Impalpabile. Diciamo, a parole, di voler giungere alla vecchiaia. Come una fortuna. Magari in buono stato di salute. Alla prova dei fatti,
aveva ragione Cicerone: ‘‘Omnes senectutem optant; eamque adeptam recusant’’ - Tutti sognano di arrivare alla vecchiaia, ma una volta
raggiunta, la rifiutano. Appunto, finché è nel sogno. Ma la realtà costringe al senso di un reale che risulta difficile da accettare.
L’anzianità sa di tramonto che ‘‘slavina’’. Tutto precipita. L’anziano è un vissuto. Ciò che gli rimane è esiguo. Ciò che eventualmente, nelle migliori delle ipotesi, occupa il suo tempo non fa parte delle
attività produttive che incidono nel corso degli eventi. Tutto diventa
marginale. La società non lo riconosce più sulla cresta dell’onda. Anche se circondato di simpatia, di fatto, non conta più granché: ‘‘Non
conto più niente’’, è l’amaro sfogo dei più, abituati anche ad un ruolo di prestigio nella società. Mondo, per loro, passato. Inesorabilmente. E nessuno spenderebbe un centesimo di euro per farli rientrare tra coloro che contano.
Usciti di scena, altri attori la occupano. E cominciano a sospettare ingratitudine anche da parte di coloro che hanno beneficato, a
cominciare dai familiari stessi. Attorno a loro, si crea progressivamente il deserto delle amicizie: i funerali dei coetanei si moltiplicano.
Tutto concorre ad appesantire l’animo, a spegnere il vigore della
speranza, a demotivarsi. Anche nella più rosea delle ipotesi, quella
di godere di una ‘‘buona’’ salute in rapporto all’età.
Non di rado, si rigenera l’amore alla vita come effetto della dedizione ai nipoti. I nipoti sono una fortuna per i nonni, come i nonni,
soprattutto nelle problematiche delle contingenze odierne, sono una
fortuna di incalcolabile valore per i nipoti. Fortunatamente, si moltiplicano le iniziative per dare loro opportunità di socializzazione e di
crescita culturale.
Ma siamo ancora nella prima fase dell’anzianità. Quella che, tutto sommato, non è destinataria, in massa, della vostra professione.
Le problematiche, invece, che connotano una fase ormai irreversibile di anzianità, sono quelle che insorgono non appena piombano
96
mons. g. zenti - g. gortenuti
addosso gli acciacchi che costringono a prendere atto del venir meno
delle risorse fisiche: ‘‘Ma guarda un po’! Fino all’anno scorso... ma
perché proprio a me che sono sempre stato cosı̀ bene?’’. Il dover rassegnarsi alla non piena vitalità... e il riscontarsi sempre più in fase
calante... ed essere costretti a prenderne coscienza. Con un vortice
di problematiche nuove.
Chi mi custodirà? Chi mi accudirà? Resterò in casa mia o finirò
in una Casa di Riposo? Ed economicamente ce la farò? E buttar al
vento quei pochi risparmi frutto di rinunce e di sacrifici, con una badante!
E quando sopraggiunge l’infermità vera e propria! Di quale tipo? E la sofferenza connessa? Meglio morire subito che soffrire. E
se subentra la sofferenza, fino a quando? C’è rimedio? E da chi devo
dipendere? E se sono costretto ad essere ricoverato all’ospedale? I
miei familiari potranno seguirmi o sarò solo di peso?
Ecco i destinatari della vostra professione. Sono persone anziane
colpite da acciacchi o infermità, che hanno bisogno di interventi appropriati compiuti attraverso le strutture ospedaliere. Ed entrano in
ospedale carichi di speranza di poter essere rimessi in forma e, quanto prima, a ‘‘restauro’’ compiuto, essere dimessi per far ritorno nelle
loro case. Quale gioia nel pensare di poter ritornare a casa! Dove
tutto parla di ricordi, di persone care... dove ci sono i servizi a portata di mano; dove c’è il tuo frigorifero, la tua televisione, la tua radio... dove ci sono i tuoi mobili, dove i muri sono i muri che ti hanno
protetto, intrisi di eventi incancellabili, come in uno scrigno... dove
si conservano radicate inveterate abitudini per dormire o vegliare,
mangiare o bere; dove si è con il coniuge o anche soli, ma dove puoi
dire che gli altri entrano come ospiti, mentre tu sei il padrone di
casa.
Poter tornare a casa, con risorse riacquistate che consentano di
sentirsi ancora qualcuno, capace di fare qualche cosa, di essere utile.
È una gioia che brilla negli occhi dei pazienti che ti salutano soddisfatti e riconoscenti. La sfida, tra i pericoli che sovrastano e le potenzialità insite nell’anziano infermo, è stata vinta. E anche tu, operatore
sanitario, ne godi. È anche una tua vittoria. È la vittoria di un intero
reparto, di una équipe di operatori. Una bella soddisfazione.
Purtroppo, non è raro il caso in cui l’anziano infermo giunga all’ospedale in stato terminale. Praticamente, viene là a chiudervi gli
l’etica in geriatria
97
occhi. Carico di angoscia. Senza reali possibilità di un qualche miglioramento. È il momento in cui l’operatore sanitario sperimenta
i limiti delle più avanzate terapie. Ma è anche il momento, in cui è
chiamato ad aiutare il paziente a morire con la dignità che compete
alla persona umana.
Se questi sono i destinatari della vostra professione, etico è l’atteggiamento ed il conseguente comportamento che tiene acceso il
monitoraggio di tali problematiche, per affrontarle nel migliore dei
modi, cioè nel modo più rispettoso possibile nei confronti dell’anziano in stato di infermità.
Senza queste osservazioni preliminari, non avrebbe senso parlare
di etica in Geriatria.
Ora, siamo in grado di parlarne da due versanti:
L’etica in generale e l’etica applicata a casi particolari.
Il senso etico, qualifica un reparto di ospedale e ne costituisce la
miglior pubblicità.
L’etica si esprime negli atteggiamenti ispirati ad un forte senso di
umanità. Questo, ti mette in comunicazione con un essere umano
nella convinzione di potergli far dono non solo delle tue prestazioni
professionali, ma di qualche frammento di te stesso. Nello stesso
tempo, si ha molto da ricevere da lui in termini di valori. L’anzianità
ferita, è una insostituibile cattedra di valori.
L’etica si esprime anche nei comportamenti gestuali. La finezza
del tratto, la garbatezza del modo di porgersi, la cordialità del rapportarsi, ne sono un esempio. La riservatezza delle confidenze, la delicatezza nel trattare il corpo che è nelle tue mani e che è dimensione
della persona inferma, nel momento in cui necessita un cambio di
indumenti o un bagno... evitando modi bruschi e stizziti che umiliano, tradiscono il senso del vostro operare.
Anche le attenzioni che si concretizzano chiamando il paziente
per nome, creando aria di casa, clima di famiglia, evitando trascuratezze e grossolanità, sono importanti.
Dobbiamo imparare ad ascoltare la voce del cuore.
Le parole devono essere cariche di conforto e speranza, non sbrigative e villane.
La prima terapia da assicurare all’anziano ‘‘infermo’’, è la capacità di relazionarsi con lui come persona. Si deve creare quella ‘‘simpatia’’ che apre alla fiducia. È una terapia non meno importante dei
98
mons. g. zenti - g. gortenuti
medicinali. La mente, le abilità e le mani stesse dell’operatore sanitario che si è guadagnato la fiducia dell’infermo, diventano per lui
taumaturgiche.
Se un infermo si sente trattato da persona che sta a cuore all’operatore sanitario, si predispone a riattivare tutte le sue risorse fisiche e spirituali ancora disponibili. Se avverte indifferenza e trascuratezza, preferisce lasciarsi morire.
Occorre avere consapevolezza di trattare con un mistero, con
una realtà assai più grande e sconfinata di un corpo in degrado o
martoriato, magari tutto una piaga. La persona è sempre più grande
e più nobile del solo suo corpo che ha valore, comunque, in relazione alla sua individualità.
Occorre benevolenza e pazienza con tutti, non meno che con un
proprio familiare, non meno di quella che vorremmo noi, se fossimo
in stato di degenza. Vorrei dire che occorre buon umore e senso di
contentezza proprio nell’accudire l’infermo. Un reparto o una Casa
di Riposo appesantiti da musonerie, mancano di ossigeno e di luminosità.
Si deve intervenire in rapporto al bisogno, anche se ciò richiedesse sacrificio. Si deve dare il meglio di sé. Nel vostro ambito, come in
quello della vita pastorale, più si ha il senso della dedizione, meno se
ne avverte il peso.
Indubbiamente, ogni singolo operatore sanitario è chiamato a
dare il meglio di sé. L’eventuale disaffezione di altri, non lo autorizzano a tirare i remi in barca. Tuttavia, l’opera del singolo, pur necessaria, risulta sempre limitata. Occorre pensarsi operatori sanitari in
cordata, come un insieme organico, attorno al primario o al responsabile che fa da guida autorevole.
Si sviluppa, in tal modo, il senso della collaborazione sinergica
finalizzata al medesimo obiettivo, che bandisce invidie, gelosie, piccoli dispetti, parole pungenti, disfattismi e imboscamenti, mentre incrementa la stima reciproca.
A ben considerare le cose, allora, si potrebbe dire che l’etica, cosı̀
intesa, non è un optional, ma l’anima stessa della professionalità rivolta alla cura della persona inferma. È la chiave che accende il motore dell’efficienza. Etica ed efficienza sono in simbiosi, là dove tradisca un servizio adeguato alle esigenze della persona.
Se dunque, per etica intendiamo il comportamento ispirato al
l’etica in geriatria
99
senso del rispetto e della valorizzazione della persona umana, possiamo applicarla anche nei campi più problematici e complessi dell’esistenza dell’uomo, soprattutto nella sua ‘‘fase terminale’’.
L’arte medica è nata per soccorrere la vita in difficoltà, non per
‘‘torturarla’’ senza reali speranze di esiti positivi. Si devono attivare le
possibili risorse, non ricorrere inutili sperimentazioni. È difficile stabilire il confine tra soccorso necessario, ancora motivato dalla speranza e accanimento terapeutico. Quando risulta del tutto superfluo
ogni intervento particolarmente disagevole e costoso, si chiede che
l’infermo possa morire ‘‘in pace’’. Allora, si praticheranno le cure necessarie per lenire la sofferenza, fino allo spegnersi naturale della vita. Ciò, indubbiamente, è di competenza della responsabilità globale
di chi sta gestendo direttamente il caso.
E perché, dall’altro versante, non porre fine alla sofferenza, provocando la morte in modo indolore?
L’arte medica è nata per soccorrere, non per sopprimere la vita.
È pur vero che, talvolta, sono proprio gli stessi pazienti che ne
chiedono l’applicazione. Ma quando si scava nel loro cuore per rintracciarne le cause, si riscontrano abitualmente delle grosse responsabilità ‘‘esterne’’ al paziente che fanno pensare ad una sorta di ‘‘induzione’’ della richiesta dell’eutanasia. Concretamente, sono soggetti
che hanno sperimentato a lungo il sentirsi un peso inutile e insopportabile. Hanno vissuto la progressiva desertificazione degli affetti.
In qualche caso, la loro richiesta è motivata persino da ragioni di
convincimento personale. Secondo quest’ottica, la vita vale solo
per quanto offre di positivo e di soddisfacente. Giunti sull’orlo del
precipizio, dove cessa ogni possibilità di sperimentarsi fortemente vivi, conviene affrettarne la fine.
In definitiva, l’eutanasia interroga e coinvolge non solo il paziente, ma anche la sua famiglia e la collettività. Sono scelte, che fanno
emergere l’acquisizione di forti ed intramontabili valori.
Anzitutto, è un appello al senso della corresponsabilità verso i
pazienti. Vanno circondati di quell’affetto e di quella tenerezza
che li fa sentire e percepire come persone amate e desiderate. Devono avere contezza di essere importanti. Ogni istante di vita è prezioso. La vita insegna fino all’ultimo respiro. Persone, grandi nella stagione dell’attività, maestri di vita nella sofferenza portata con dignità. In secondo luogo, è un appello alla cultura dei valori: la vita non
100
mons. g. zenti - g. gortenuti
vale per ciò che si riesce ad ottenere, ma per ciò che si riesce a donare.
Ovviamente, ciò richiede una cultura dell’essere più che dell’avere; dell’amore, non dell’egoismo.
Fin qui, l’ambito e il compito dell’etica, che appartengono all’umanità in quanto tale. Come credente, potrei aggiungere un ampio
ed entusiasmante capitolo che porta a compimento l’etica stessa. È
quello della morale del Vangelo che, sull’esempio di Gesù Cristo,
ci invita a diventare buoni samaritani di tutti gli sventurati e sconfitti
della vita, nei quali Cristo stesso si identifica: ‘‘Ero ammalato e ti sei
preso cura di me! Ogni volta che l’avete fatto a una di queste persone, l’avete fatto a me!’’.
È questa la chiave d’accesso alla pienezza della vita eterna, anche
per coloro che cosı̀ hanno agito, pur senza chiara coscienza di servire
Gesù stesso nella persona inferma. All’obiezione: ‘‘Quando mai, Signore, ti abbiamo servito?’’, Egli risponderà appunto: ‘‘L’avete fatto
a me!’’ ...e se ne andranno alla vita eterna.
Auguro a me e a tutti voi che si radichi e si dilati il culto della
persona umana. E a voi che avete partecipato con interesse a questo
Corso, auguro una forte passione per la vostra professione, capace di
farvi sperimentare quanto sia gratificante servire la persona umana
bisognosa di amore’’.
LE SCELTE DIFFICILI
L. G. Grezzana - M. Leopardi - D. Vecchiato
Il difficile lavoro del geriatra, le grandi difficoltà che necessariamente incontra tutti i giorni, impongono un ideale, una speranza,
che ci consenta di superare le mille e mille difficoltà.
Non siamo spinti dalla presunzione di affrontare temi complessi,
ma dalla necessità di compiere un ulteriore passo avanti, rispetto al
passato.
È indispensabile, infatti, progredire nella qualità delle cure prestate alla persona che invecchia.
In noi, è l’orgoglio di riconoscere nella Geriatria una scienza certamente non ancilla, anzi, indispensabile, della Medicina.
Di là dalle conquiste sociali nella loro globalità, cui va riconosciuto il merito più importante, la Geriatria, di suo, ha giocato un
ruolo non secondario nella cura delle malattie cronico-degenerative
e nella sopravvivenza degli anziani.
Il nostro tempo è testimone, malgrado le molte contraddizioni,
di conquiste indiscusse per l’anziano.
Il geriatra sente il bisogno di conoscere, con anticipo, le malattie
che affliggono l’uomo del suo tempo e di coglierne i bisogni.
Si vorrebbe emergesse un modo di pensare, in cui l’operatore,
recuperasse la centralità.
Per il geriatra, l’uomo è sempre più importante della ‘‘macchina’’.
Mi capita, spesse volte, di pensare alla nostra specialità come ad
una grande nave impegnata a solcare gli oceani e noi al timone. Siamo, perennemente, alla ricerca di una bussola che ci mantenga sulla
rotta giusta.
102
l. g. grezzana - m. leopardi - d. vecchiato
Innanzi tutto, abbiamo bisogno di una rotta che ci guidi nella
sfera psicologica.
Per nostra radicata convinzione, rifuggiamo dalla retorica che
cerca di risolvere i problemi con le parole e l’enfasi.
Abbiamo certezza che se alta è la professionalità nel nostro operare, improbabili saranno le disattenzioni più o meno palesi, o l’abbandono.
Una seconda rotta, deve essere quella di carattere politico-economico.
Di fronte ad una spesa sanitaria in continua espansione ed ai rischi di drastici tagli che si profilano nel prossimo futuro, vi è il pericolo che vittime concrete possano essere i nostri pazienti.
Sappiamo che gli anziani, ben curati, sono più felici e ‘‘costano
meno’’. Il geriatra rincorre, soprattutto, il sogno che si stia bene sino
all’ultimo. Serve una cultura geriatrica per prevenire la disabilità.
La terza rotta è, certamente, non meno importante anche perché
esprime il senso del nostro operare. È quella clinica.
Questa, deve dimostrare che la Geriatria conosce ed affronta i
problemi dell’anziano. Si adopera per risolverli. Non sempre ci riesce, ma certamente fa del suo meglio.
La nostra scienza, abbandonando i trionfalismi e recuperando
ombre e penombre, rifiuta la presunta onnipotenza della Medicina.
Però, la Medicina dei vecchi, non è solo un continuo tamponamento di perdite e di sofferenze. È anche crescita.
Quando e come si riesce a modificare la traiettoria di una malattia?
Tutti i giorni, dobbiamo combattere con l’incertezza delle scelte,
con problemi di valenza etica, con panacee sempre nuove, che illudono gli uomini.
In definitiva, la vera malattia dell’uomo, è malattia di ‘‘infinito’’.
Il geriatra non dimentica, però, che anche una carezza può dare un
po’ di eternità.
Il perché si invecchi, resta sempre una domanda senza risposta
anche nell’era del genoma.
Forse troppo si è pensato alla vecchiaia come fascia di età, come
contesto sociale, mentre, non si è posta la dovuta attenzione all’anziano come individuo.
È opportuno partire dai bisogni di ciascuno. Si deve rimuovere
le scelte difficili
103
l’illusione che, con la programmazione, si possa risolvere i problemi
di tutti.
Bisogna recuperare la storia di ciascun anziano.
Dobbiamo vincere l’abbaglio che tecnica ed economia, siano in
grado di aggiustare i problemi del nostro agire.
Il geriatra rifiuta, per natura sua, le chimere, mentre cerca la conoscenza. Si fa prossimo ai bisogni di ciascun paziente e comprende
quanto sia fortunato ad avvicinare un anziano.
Gli anziani, hanno radici abbarbicate nel profondo della vita, eppure, sono i più fragili. Ci ricordano, che siamo un momento.
Tutto questo, non è facile. È necessario un impegno continuo di
studio, di sperimentazione, di ricerca, di strategie e di passione.
Il più grande dono che ci possa fare un anziano, è quello di affidarsi alle nostre cure. Dobbiamo saper rispondere senza incertezze,
senza titubanze, anche se talvolta ci costa molto.
Spesso, il geriatra subisce delle sconfitte, ma non si abbatte mai.
Sono i suoi pazienti a dargli la forza.
Gli anziani cercano e pretendono il geriatra, se appena lo hanno
conosciuto.
Lo preferiscono ad altri specialisti, se ne hanno l’opportunità. Si
sentono, nelle sue mani, più sicuri perché quello è il loro medico.
Non ci sono nel nostro operare, dei percorsi precostituiti.
Oggi, giustamente, tutte le branche della Medicina, si danno e
stilano le Linee Guida.
È vero che l’utilizzo delle Linee Guida può essere un punto di
appoggio utile, ma non può essere l’assoluto. Quando si è vissuto
molto, ciascuna storia è diversa da un’altra.
Il geriatra sa, però, che la cura dell’anziano, malgrado l’opportunità delle regole, non può essere ‘‘rigida’’.
Una Medicina fondata sulle prove, spesso, non tiene a mente
condizioni importanti come la polipatologia, l’autosufficienza e la
compliance.
Comunque, non è mai possibile un calo di tensione e di interesse
nel nostro agire.
Da un punto di vista culturale, la sofferenza somatica, psichica e
ancor più l’abbandono, dovrebbero essere al centro di ogni progetto
terapeutico.
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l. g. grezzana - m. leopardi - d. vecchiato
Il dolore, in tutte le sue espressioni, è sempre da combattere anche se noi ben sappiamo che, in fondo, è il vero maestro della vita.
Le malattie cronico-degenerative, mettono a nudo la fragilità dell’anziano ed è questa la battaglia più difficile che siamo chiamati a
combattere tutti i giorni.
Il geriatra, non affronta la sola malattia, ma cerca innanzi tutto,
l’alleanza con l’anziano ammalato. In questa relazione fra malato e
medico, sta la forza per combattere non solo le malattie, ma la disabilità. È un’alleanza capace di spostare ‘‘tre onde più in là’’, il momento ultimo.
Questo rapporto coinvolgente, dà forza all’anziano ed al geriatra.
È per l’uno e per l’altro, la molla più efficace.
Soprattutto, quando ciò che ci sta intorno parla di decadenza e
di morte.
Il medico dei vecchi allontana la rinuncia e la pigrizia.
Quasi le evita perché sa che, spesso, il malato, di suo, si lascia
andare e cede.
Il geriatra ha sempre coscienza di non fare mai abbastanza.
Un’altra connotazione di carattere clinico, forse la più importante, si fonda sulla capacità di raggiungere precisi risultati.
Altre specialità, quali le Chirurgie, sono abituate a traguardi
immediati.
La nostra, è una Medicina di lunga durata e di assistenza non discontinua. Siamo figli di un tempo che ci impone di non perdere mai
né la forma né il ritmo.
Dobbiamo sempre stare al passo, mai è possibile un calo di tensione.
Eppure, sono convinto che né la fretta né la competizione eccessiva, siano un bene per la società.
Siamo dominati dalla ‘‘cultura dell’apriscatole’’ cioè, della fretta,
del tutto e subito.
Una volta, era costume cucinare col fuoco lento. Si accendeva il
focolare al mattino e, per ore ed ore, il paiuolo ‘‘era testimone’’ di
una liturgia centellinata.
Oggi, il forno a micro-onde domina la scena.
I vivaisti, sanno bene che le piante più vendute sono quelle che
crescono più in fretta.
le scelte difficili
105
Si posano i pavimenti di legno pre-finiti, si mangia la pasta precotta, ci si abbronza con le docce solari in dieci minuti.
Gli anziani, mal si adattano ad una vita frenetica.
L’atleta, nella corsa dei cento metri, raggiunge in pochi secondi
la meta.
Il maratoneta deve impegnarsi per un tempo lungo, calibra sforzi
ed energie per ottenere il risultato. Il suo è un impegno a distanza.
Se la corsa dei cento metri è paragonabile all’impegno di altre
specialità, quali le Chirurgie, mi sembra che il maratoneta ricordi
il geriatra.
Eppure, gli outcomes si vedono nel tempo. Ci vogliono precisi
strumenti per dimostrarli.
Il geriatra, più che rincorrere l’ottimo, cerca il possibile. Più che
debellare la malattia, combatte la disabilità.
È difficile che in un reparto di Geriatria si possano vedere gli anziani fermi a letto. Quasi domina l’ossessione che se l’anziano si ferma, non riprenda più a camminare. È per questo, che da noi, il ‘‘fermo a letto’’, esiste di rado.
Il geriatra si propone tutti i giorni, di far ‘‘passare’’ la cultura dell’anziano, anche dal punto di vista politico. Risveglia nella collettività
l’interesse per i cittadini vecchi e fragili.
Ne coglie la loro bellezza, la promuove e la propone con forza.
Quasi, la impone.
Noi, siamo abituati a vedere nella disabilità, il problema cardine
della Geriatria. La perdita di funzione è responsabile della mortalità.
Si diceva in passato, che agendo sulla malattia era possibile, indirettamente, incidere sulla disabilità e, quindi, modificare la storia naturale del paziente.
Oggi, abbiamo imparato che intervenendo sulla funzione, spesso, si è in grado di migliorare significativamente la qualità della vita
dell’anziano.
Nella cura del vecchio, l’alta tecnologia è importante, ma soprattutto, non si debbono mai dimenticare le cure, più che la cura. Il
contatto fisico che si stabilisce con l’esame obiettivo, è un passaggio
ineludibile.
Il geriatra deve porre dei limiti allo strapotere della tecnica e recuperare la connotazione ‘‘sensoriale’’ della Medicina. Nella cura dei
106
l. g. grezzana - m. leopardi - d. vecchiato
nostri ammalati, ci servono tutti e cinque i sensi. Non dimentichiamo
mai, anche, il ‘‘buon senso’’.
Come abbiamo detto, non significa che si possa o si debba rinunciare alla tecnica, ma si deve saper riportare le specifiche tecnologie
nell’ambito di una razionale gestione.
Il geriatra usa ‘‘la macchina’’, senza farne un idolo.
È importante porre attenzione a quelle aree di confine in cui,
spesso, si annidano i disagi dell’anziano.
Soprattutto, si intende parlare dei rapporti fra corpo e mente, fra
malattia acuta e malattia cronica, fra paziente ed ambiente.
Per fare questo, bisogna conoscere nel profondo, la vita del singolo. Solo da lı̀ si può partire per avere cura di un anziano. Il geriatra
si incontra con questi problemi e sa che deve superarli. Il paziente ed
il geriatra, vivono un rapporto di parità.
Chi cura gli anziani impara a sedersi sul letto e guardare l’ammalato non dall’alto al basso, ma diritto negli occhi.
Il geriatra sa bene che nella malattia non ci sono gli esonerati, ma
solo i rimandati.
Le cure sono un diritto indiscutibile, in una società civile.
Questo diritto o è di tutti o è di nessuno.
Nella cura degli ammalati, in tutti i momenti, il medico è obbligato ad operare delle scelte che devono essere, innanzi tutto, efficaci.
Inoltre, dobbiamo essere in grado di liberare la persona dal dolore. Libera dal dolore, vive con più dignità la malattia. È una nobile
conquista della Medicina moderna.
L’impegno che ci è richiesto, non è poco. Spesse volte, siamo
stanchi, ma la stanchezza è utile perché ci rende più vicini a chi
sta male.
‘‘Gli infermi sono i nostri signori e padroni e noi li dobbiamo
servire come servi e schiavi’’. Sono parole scritte, in alto, nell’androne del nostro ospedale. Purtroppo, sfuggono alla vista perché siamo
sempre di corsa.
L’unico padrone è, comunque, solo l’ammalato, soprattutto
quello anziano e fragile.
Il geriatra, impara più degli altri a meritarne la fiducia. Ne comprende il dolore e ne coglie il disagio.
Il malato si affida a lui e gliene è grato.
le scelte difficili
107
La relazione con il paziente, è un punto forte e fondamentale del
nostro lavoro.
La cura dell’anziano, con gli strumenti di oggi e con le conquiste
culturali raggiunte, tradisce un grande passo avanti rispetto al passato, anche recente.
È una cultura che progredisce, capace di trasformare le incertezze in scelte, pur difficili, e di tracciare la rotta migliore per i nostri
ammalati.
‘‘UN PENSIERO FORTE’’ IN GERIATRIA
M. Trabucchi - U. Tellini - C. Pasoli
C. Pasoli: ‘‘La realtà geriatrica che viviamo a Verona, non è scontata
in altre città ed in altri ospedali. Questo, è il motivo per cui, talvolta,
ci si interroga sul significato della Geriatria.
A noi sembra, ed in Letteratura emerge con sempre maggior forza, che la nostra specialità si sia, nel tempo, ritagliata uno spazio ben
preciso. Certamente, questo è colto da quanti e non solo geriatri,
hanno potuto conoscerla.
Questa branca della Medicina, deve essere, però, sostenuta da
un ‘‘pensiero forte’’, che non è, comunque, ipotetico, ma trova riscontro su innumerevoli prove scientifiche validate in campo internazionale.
È una scienza che si è ritagliata uno spazio ben preciso e di cui
gli anziani hanno diritto.
È una disciplina che sa coniugare il sapere medico con l’esperienza di tutti i giorni. Gli anziani, non possono essere conosciuti solo sui libri. Quindi, è indispensabile un connubio fra sapere e pratica
clinica rivolta e finalizzata agli anziani.
Su quanto enunciato, poggia il ‘‘pensiero forte’’ in Geriatria.
Ce ne parlano il dottor Umberto Tellini ed il professor Marco
Trabucchi’’.
U. Tellini: ‘‘Pensiero forte o pensiero provocatorio? La tentazione di
ritenerla una provocazione e come tale scartarla sdegnosamente, è
assai forte, anche se è molto più opportuno chiederci se tale affermazione sia reale, cioè presente, ‘‘nei fatti’’ della vita quotidiana.
Non mi pongo, in questo momento, il problema se sia vera o falsa, ma solo se sia reale.
110
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
I primi ad essere chiamati in causa sono i colleghi delle Medicine
Interne ospedaliere ed universitarie. Molti di loro o tutti, propugnano, con convinzione, il pensiero forte enunciato. Ma perché abbracciano tale idea? Quarant’anni fa, era emersa la necessità di separare i
giovani – adulti dagli anziani, in quanto questi ultimi ricevevano una
naturale ‘‘minor attenzione’’ dagli operatori del reparto e creavano
spesso situazioni di ‘‘disagio’’ per i ricoverati più giovani.
Esistevano anche altri motivi. È probabile, però, che vi sia stato
in tali operatori, un ravvedimento culturale, favorito soprattutto dall’elevato numero di anziani presente, ormai da anni, nei loro reparti.
Ricordo, per inciso, che le Medicine di tutti i piccoli ospedali, ma
anche quelle dei grandi complessi ospedalieri delle regioni dove è
scomparsa la dizione Geriatria, sono di fatto Geriatrie.
In sostanza, la realtà si sarebbe mostrata, ancora una volta, infinitamente più forte delle idee.
Oltre a questa motivazione, non si può non ipotizzare che l’appoggio odierno al pensiero forte, sia frutto, invece, di necessità.
I reparti di Medicina, infatti, con lo sviluppo continuo e per il
momento apparentemente inarrestabile delle divisioni specialistiche,
che più opportunamente dovrebbero essere definite divisioni di medicina d’organo, tenderebbero ad impoverirsi di pazienti, se accogliessero solo i giovani. Di fronte a tale crisi, il modo più semplice
perché le Medicine abbiano significato, appare la reintroduzione degli anziani nei reparti di Medicina stessa.
Esiste la libera scelta del medico di famiglia pediatra e del medico generico internista, mentre, non è ancora contemplata la scelta
per il medico geriatra.
Infatti, per la Medicina di base, il geriatra si identifica con il medico generico internista, che lo sostituisce non solo nella gestione
della assistenza domiciliare, ma anche in quella che si svolge in strutture prettamente geriatriche quali le Case di Riposo e le RSA.
Se a questo si aggiunge l’assoluta mancanza di obbligatorietà all’aggiornamento geriatrico per i medici di famiglia e la quasi totale
incomunicabilità fra medico di famiglia e medico geriatra ospedaliero, si comprende che anche per la Medicina di base, la Geriatria, di
fatto, non esiste.
Durante il corso di laurea in Medicina, lo studio della Geriatria,
sino a non molti anni fa, semplicemente non era incluso, ma anche
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
111
oggi le cose non sembra vadano molto meglio, poiché ci si limita a
poche lezioni all’interno dell’insegnamento della Patologia Medica.
Nei riguardi della specializzazione, si può rilevare che il numero
di posti assegnato agli specializzandi, appare giustamente inferiore a
quello di altre specialità generaliste come Medicina e Chirurgia Generale o di specialità con una assoluta carenza di operatori come
Anestesia e Radiologia. Non è comprensibile, invece, rispetto a Ginecologia-Ostetricia, Igiene, Medicina del Lavoro, Psichiatria, Nefrologia e persino Pediatria.
Circa l’insegnamento, nei quattro anni della specialità, le cose
dovrebbero essere ‘‘potenzialmente’’ migliorate da quando si è resa
obbligatoria la frequenza ‘‘sul campo’’. Non sono, infatti, proponibili, semplici lezioni teoriche settimanali o mensili. Tuttavia, sul territorio, esiste una realtà molto difforme. Gli specializzandi si lamentano, talora, di essere gettati in prima linea senza copertura, talaltra di
essere tenuti sotto eccessiva tutela.
Un ultimo aspetto da sottolineare, è la convinzione che la Geriatria sia una sorta di ‘‘Bignami’’ della Medicina Interna. Questo è anche confermato dalla recente decisione di equiparare, o meglio fagocitare, i titoli geriatrici nella Medicina Interna.
Di fatto, quindi, anche per la struttura universitaria, non sempre
alla Medicina Geriatrica viene riconosciuta la giusta cittadinanza.
In primo luogo, suscita molta perplessità, la disattenzione demografica, talvolta, tradita da qualcuno.
Infatti, malgrado tutti i reparti chirurgici siano pieni di anziani, il
vecchio viene ancora ritenuto, stranamente, l’eccezione e non la regola.
Sul piano operativo, i colleghi chirurghi richiedono la visita geriatrica pre-intervento ed, eventualmente, molteplici visite specialistiche, in presenza di una qualsiasi complicanza d’organo. Infine,
viene richiesto l’accoglimento in reparto geriatrico per acuti, di soggetti che sono, invece, per lo più lungodegenti.
Da tempo, i chirurghi dovrebbero esigere la presenza stabile e
strutturata, nei loro reparti, di un internista geriatra. Contemporaneamente, sarebbero auspicabili specifici reparti di lungodegenza
ad orientamento riabilitativo e riattivatorio, per anziani operati.
Quest’ottica, tende ad identificare la Divisione Geriatrica per
acuti, con la Lungodegenza. Ed ecco, allora, affacciarsi un nuovo
112
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
pensiero forte, sostenuto, per la verità, anche da altri soggetti: la Geriatria è solo Lungodegenza.
Innanzi tutto, si deve sottolineare che anche nei reparti specialistici, il numero di anziani è molto elevato ed in continuo e costante
aumento.
In taluni ospedali, i rapporti fra geriatri e specialisti non sono
sempre condivisibili.
Rapporti praticamente a senso unico e, questo, sia sul piano assistenziale che soprattutto culturale.
In tutte le occasioni, infatti, è sempre lo specialista che fornisce il
suo ‘‘sapere’’ al geriatra e quasi mai il contrario.
Ciò che voglio sottolineare ora, è che i colleghi specialisti, sulla
scorta di ciò che vivono quotidianamente, esprimono un nuovo pensiero forte:
la Geriatria è solo assistenza alla cronicità.
A questo punto, apro una breve parentesi.
Sinora, è stato ribadito più volte, l’elevato numero di anziani presente nei reparti non geriatrici quali Medicina, Specialistiche, Chirurgie, ma qual è l’entità del fenomeno?
Come si vede nella figura 1, il numero di anziani risulta in progressivo aumento in tutte le strutture considerate (Medicine Generali, Medicine Specialistiche, Chirurgie Generali, Chirurgie Specialistiche).
La prevalenza raggiunge valori prossimi al 40% nell’ultimo anno
di rilevazione, nei reparti di Medicina e Chirurgia Generale, dove
l’incremento è risultato maggiore.
Per troppi anni si è assistito ad una sterile contrapposizione fra
due visioni diverse della Geriatria con uno scontro frontale fra l’anima ‘‘clinica’’ e quella ‘‘socio-assistenziale’’.
Questa contrapposizione, oggi in parte ricomposta, ha ostacolato
o almeno ritardato la definizione e l’identità della scienza geriatrica.
Esiste una scarsa ‘‘preparazione’’ sulle conoscenze scientificheoperative ed il tema appare delicato, perché coinvolge la vita professionale di ciascuno di noi geriatri.
La delicatezza dell’argomento, in realtà, è solo apparente poiché
il lavoro del medico si connota proprio per la certezza di non sapere
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
113
Figura 1 - Numero di anziani nelle varie aree.
mai abbastanza. Ciò che si vuole tuttavia sottolineare, in questo momento, è l’eccessivo ricorso ai colleghi specialisti.
Si obietterà che un geriatra o un internista non può, ai giorni nostri, sapere ‘‘tutto di tutto’’. Personalmente, credo che una buona conoscenza di base ed un continuo aggiornamento, magari mediante la
creazione di piccoli gruppi geriatrici di ‘‘interesse’’, permetterebbero
ai geriatri stessi di gestire correttamente buona parte delle situazioni
cliniche e culturali. Si ricorrerà alle consulenze ed agli interventi specialistici solo in caso di problematiche inusuali o molto complesse,
sul piano diagnostico e terapeutico.
Quanto detto, non si riferisce ovviamente alle consulenze extrainternistiche quali quelle chirurgiche, né alle indagini strumentali altamente sofisticate, anche se, proprio queste ultime, vengono, troppo spesso, richieste senza una evidente motivazione clinica.
Tale eccesso, per la verità, si verifica anche per le ‘‘abituali’’ o
‘‘meno impegnative’’ indagini, sia di laboratorio che strumentali.
Eccesso, che non è proprio della sola Geriatria, poiché tutta la
114
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
Medicina, al pari di molte altre discipline, ripone una eccessiva fiducia nella ‘‘macchina’’.
Esiste, inoltre, una scarsa ‘‘coscienza’’ geriatrica ed il termine racchiude l’insieme degli atteggiamenti e dello ‘‘spirito’’, specifici e peculiari, che devono animare l’azione del geriatra.
Credo che il geriatra, almeno una volta, abbia avuto dei dubbi
circa il suo operare e si sia chiesto se il suo lavoro fosse quello di medico, di sociologo, di psicologo, di assistente sociale, di ‘‘mediatore’’
o altro ancora.
Quante volte ci siamo sentiti ‘‘infastiditi’’ di fronte alla necessità
di ‘‘contrattare’’ con pazienti, ma soprattutto con parenti, assistenti
sociali, distretti o altro, la dimissione dei malati?
Quante volte ci siamo sentiti ‘‘impotenti’’, per la non infrequente
carenza di posti-letto, di fronte alle pressanti richieste di ricovero dal
Pronto Soccorso o al trasferimento dalle Rianimazioni o dall’UCIC?
O ancora, quante volte ci siamo sentiti ‘‘scoraggiati’’, di fronte
alla carenza di strutture per la tanto celebrata continuità di cura quali Lungodegenza, RSA, Strutture per terminali o altro?
Se a tutto questo aggiungiamo la spiacevole sensazione di essere
considerati, da molti, i medici dei ‘‘pazienti senza futuro’’, si può
comprendere come molti geriatri possano avvertire, in più di una occasione, un forte dubbio e/o una sfiducia nella scienza che praticano.
Forse troppo spesso noi geriatri, ma l’osservazione dovrebbe, in
realtà, essere estesa a tutti i medici, ci scordiamo che il nostro compito fondamentale e forse unico, è quello di rispondere adeguatamente alle richieste sanitarie della popolazione anziana, soffermandoci molto meno o per nulla, su progetti od azioni che pongono come criterio fondamentale la disponibilità economica. Lasciamo
questo modo di operare ad altri.
Paradossalmente, quindi, anche gli operatori del settore possono
contribuire ad indebolire o sfumare l’immagine della Geriatria.
Il termine molto improprio di ‘‘Sistema’’ racchiude un insieme di
strutture od aspetti quali le istituzioni, la politica, i governi, il palazzo, le amministrazioni, i gruppi di potere e di opinione, l’organizzazione del lavoro ed altro ancora.
È doverosa una giusta considerazione di chi si adopera nell’assistenza geriatrica, soprattutto, nei reparti ospedalieri. Gli operatori di
tale settore, meritano gratificazione.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
115
A mio avviso, sarebbe necessario individuare, per questo tipo di
assistenza, impegnativa sia sul piano fisico che soprattutto psicologico, un qualche tipo di ‘‘incentivo’’ per non disperdere conoscenze e
professionalità.
La necessità di tale provvedimento, risulta, oggi, ancora più impellente, poiché la drammatica carenza infermieristica, permette all’infermiere stesso di orientare la sua scelta verso lavori meno gravosi.
Detto questo, si può sottolineare che il primo aspetto importante, che riguarda il Sistema, è la continua e pressante preoccupazione
che esso mostra per l’espansione della spesa sanitaria, espansione
identificata, in modo più o meno velato, con la crescente spesa
per gli anziani ed, in particolare, con la loro maggior richiesta di ricoveri ospedalieri.
Almeno quest’ultima convinzione, bisogna riconoscerlo, è oggettivamente vera come indica la figura 2.
Come si può osservare, mentre il numero totale dei soggetti rico-
Figura 2 - Ricoveri ospedalieri.
116
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
verati presso l’Azienda Ospedaliera di Verona rimane pressoché costante con il passare degli anni (circa 64.00 soggetti all’anno), il numero di anziani tende, invece, ad aumentare in modo netto e costante (13.200 soggetti nel 1969 e 22.119 nel 2000). Il rapporto fra
anziani e popolazione totale ricoverata cresce, quindi, progressivamente, passando dal 20% del 1969 al 34% del 2000.
Ma riprendiamo il discorso sul Sistema.
Parlavamo poc’anzi di spesa sanitaria eccessiva e sorprende un
po’ che tale ravvedimento economico sia esploso, in questi ultimi
tempi, proprio in relazione alla crescita della popolazione anziana
e delle sue richieste.
Esisterebbe una analoga preoccupazione, quasi ossessiva, se l’incremento delle spese derivasse da maggiori richieste di altre classi
d’età?
L’inserimento anche della Sanità all’interno della legge di mercato, ritenuta dal neoliberismo la soluzione per ogni male, spinge il Sistema a ricercare nuove strade per ridurre l’insieme della spesa sanitaria ed in particolare la spesa ospedaliera, ricorrendo soprattutto alla riduzione dei posti-letto.
I ricoveri impropri, la patologia da ricovero ospedaliero, lo sradicamento dell’anziano dal proprio ambiente, la problematica sociale, l’assistenza domiciliare, sono tutti argomenti, da qualche tempo,
molto cari al Sistema, perché appaiono funzionali ai suoi progetti.
I provvedimenti già adottati o proposti per la riduzione della
spesa potranno raggiungere, nel tempo, l’obiettivo prefissato, ma
non credo che tutto questo possa avvenire senza un costo umano
per le categorie più deboli e quindi anche per gli anziani.
Infatti, le prospettive più realistiche indicano come percorso la
progressiva riduzione dei posti-letto ospedalieri per acuti anziani e
la ‘‘rivisitazione’’ delle strutture di Lungodegenza, lo sviluppo sempre maggiore dell’assistenza extra-ospedaliera e soprattutto domiciliare. Persino i cosiddetti ‘‘Ospedali di comunità’’, che sono l’ultimo
‘‘grido’’, esprimono strutture dal carattere ancora mal definito, ma
dal significato chiarissimo: ridurre la spesa per gli anziani, pena, però, una assistenza decisamente meno qualificata.
Dall’insieme di quanto tratteggiato, si può dunque dire che il Sistema propugna oggi, fra l’altro, due nuovi dogmi o pensieri forti.
La Geriatria è prevalentemente assistenza extra-ospedaliera.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
117
La Geriatria è prevalentemente assistenza domiciliare.
Le tre affermazioni che si sentono maggiormente fare sono:
gli anziani devono avere le stesse cure dell’adulto, gli anziani devono poter accedere a tutte le strutture specialistiche e gli anziani devono essere curati a domicilio.
Si dirà che le tre affermazioni appaiono persino banali nella loro
incontestabile ovvietà, ma personalmente, non concordo affatto con
tale conclusione.
Rispetto al primo punto, sottolineo che gli anziani devono ricevere non la stessa, ma una maggior attenzione delle altre classi d’età.
Rispetto al secondo, rilevo che gli anziani vengono già avviati nei
reparti specialistici come abbiamo visto precedentemente ed, in realtà, come geriatri dovremmo chiederci se proprio il ricovero nelle
specialistiche risulti sempre utile all’anziano
In tale nostra perplessità, a dire il vero, dovremmo riuscire a
coinvolgere anche l’uomo della strada, che nutre verso le specialistiche una sorta di ‘‘fiducia cieca’’ mentre, al contrario, deve essere rassicurato sull’adeguatezza del reparto geriatrico.
Ed in merito al terzo punto, frutto, a mio avviso, di uno scorretto
messaggio mediatico, sottolineo che l’anziano debba essere curato, il
più possibile, al proprio domicilio. È ovvio, come è ovvio per ogni
altra classe d’età. In sostanza, nessuno ha mai sostenuto, che se
una persona può essere curata al proprio domicilio, debba invece essere ricoverata in una struttura ospedaliera. Ciò che deve però essere
tenuto presente, è che i criteri guida per la programmazione dell’assistenza sono completamente diversi in rapporto alla classe d’età dell’utente.
Utilizzare negli anziani criteri analoghi ai giovani, significa creare, nella maggior parte dei casi, una assistenza domiciliare velleitaria.
Sostenere, in modo generico, che gli anziani devono essere curati,
sempre e comunque al proprio domicilio, è una affermazione non
condivisibile. In alcuni casi, potrebbe configurarsi persino il reato
di omissione di soccorso.
È abbastanza significativo che, mentre esistono molti studi circa
la patologia da ricovero, non esiste alcuna ricerca che metta in evidenza i danni che deriverebbero da un mancato ricovero ospedaliero.
Riprenderò, in seguito, l’argomento dell’assistenza domiciliare,
118
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
verso la quale non esiste, come potrebbe apparire, una avversione
preconcetta.
Negare la Geriatria, è come negare la malattia, la sofferenza e la
morte.
In qualsiasi incontro che si rispetti non può mancare almeno un
accenno all’‘‘immaginario collettivo’’ e quindi, anche in questa occasione, non ho potuto che adempiere a tale obbligo.
Le affermazioni che vengono di seguito riportate, tuttavia, non
hanno un significato puramente formale, ma indicano, a mio avviso,
il cuore di tutti i problemi relativi all’anziano.
Le conclusioni di questa prima parte appaiono, pertanto, le seguenti:
la Geriatria non esiste – la Geriatria è Lungodegenza – la Geriatria è cronicità – la Geriatria è assistenza extra-ospedaliera – la Geriatria è assistenza domiciliare.
Nei riguardi di tali pensieri forti, ci possiamo comportare in due
modi.
Ritenerli non solo reali, ma anche corretti, non giustificherebbe l’essenza del nostro operare.
Al contrario, considerarli errati significherebbe confutarli.
In questo momento, chi vi sta parlando, considera ‘‘non veri’’ i
pensieri forti enunciati e la seconda parte della relazione, sarà utilizzata per esporre i motivi che giustificano tale dissenso.
Esiste, oggi, un incremento del numero di anziani, di loro richieste sanitarie e di ricoveri ospedalieri.
Tutto questo, viene ritenuto un argomento a favore dell’esistenza
della scienza geriatrica. Si dice: ‘‘La forza dei numeri’’.
Per farci una idea più precisa sul numero, pensiamo all’indice di
invecchiamento della popolazione veronese.
Nel 1951 ogni 100 bambini (età < 15 anni) vi erano 40 anziani
(età > a 65 anni), nel 1997 il valore di questi ultimi era salito a circa
170.
Continuerà questo andamento?
La risposta dipenderà solo, in minima parte, dal variare dell’indice di natalità. Secondo alcuni demografi siamo giunti ormai al
punto più basso dello ‘‘sboom demografico’’. Il fenomeno sarà legato soprattutto al modo in cui si affronterà l’immigrazione.
Chiudiamo la parentesi e riprendiamo il discorso sul numero.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
119
Come indicato già in precedenza, si assiste ad un aumento numerico di anziani in tutti i reparti ospedalieri.
Le prospettive e le soluzioni di questa nuova realtà ospedaliera,
meriterebbero un’ampia discussione a parte, ma l’argomento non è
oggi pertinente.
L’incremento della popolazione anziana, contrariamente a quanto possa apparire a prima vista, è in grado, paradossalmente, di produrre conseguenze tanto più negative, per l’insieme dell’assistenza
geriatrica, quanto più la Sanità sarà condizionata dell’aspetto economico.
La ‘‘forza dei numeri’’ diventa la ‘‘debolezza dei numeri’’.
L’esistenza di una diversa prospettiva della prevenzione in funzione dell’età del paziente, è un discreto argomento a sostegno della
scienza geriatrica.
La prevenzione primaria assume, in Geriatria, un significato
molto relativo e talora velleitario, anche se non deve essere esclusa
la possibilità di combattere alcuni specifici fattori di rischio.
Al contrario, invece, deve esistere una predilezione per gli altri
tipi di prevenzione, secondaria e terziaria. Deve far breccia l’idea
fondamentale della prevenzione della perdita dell’autonomia.
Tali scelte fanno assumere alla Geriatria anche le caratteristiche
di una ‘‘Medicina adattativa’’ o di ‘‘salvaguardia del bene esistente’’
o, ancora, di ‘‘compressione della morbilità’’ nell’ultimo periodo della vita.
È opportuno puntualizzare, parlando di invecchiamento, ciò che
è ‘‘norma’’ e ‘‘normalità’’. Si deve mettere in rilievo le patologie e le
terapie nell’anziano, avere conoscenza di Psicogeriatria e Sociogeriatria.
Su molte problematiche dell’anziano, più che vere conoscenze, ci
sono stereotipi tramandati. È indispensabile che vengano identificate
persone capaci di smantellare i tabù residui. È opportuno che quanto emerge di scientificamente validato, venga divulgato.
Anche la presenza della polipatologia, sembra essere una motivazione pertinente per noi geriatri.
Al proposito, si può osservare come essa non sia una invenzione,
ma rispecchi la realtà, come indica la figura 3.
L’incidenza di 1 o 2 patologie si riduce progressivamente negli
120
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
anni, mentre aumenta l’incidenza di soggetti con 3-4-5 o più patologie.
L’incremento della polipatologia, riportato nella figura, è in minima parte legato alla maggior attenzione dei sanitari, specie dopo il
1996 con l’introduzione del DRG. Questo fattore, può incidere solo
negli ultimi due anni della rilevazione. L’aumento della polipatologia, è riconducibile alla elevata età media dei pazienti ricoverati durante l’arco dello studio.
Il numero medio delle patologie presenti, era nel 1969 di 1.91 e
nel 2000 di 2.76.
Tutti noi sappiamo che nell’anziano sono molto più frequenti le
malattie degenerative, neoplastiche, invalidanti e terminali e, questo,
deve condurre a possibili prospettive assistenziali diverse o, meglio,
prettamente personalizzate.
Nell’anziano, non esiste il semplice binomio salute-malattia che
viene applicato nei soggetti giovani-adulti, ma il fine dell’intervento
medico risulta, quasi sempre, molto più complesso ed articolato.
Figura 3 - Prevalenza della polipatologia.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
121
Talora, nell’approccio alle forme morbose dell’anziano, alla puntigliosa ricerca diagnostica, deve essere anteposta l’utilità e l’opportunità delle varie indagini. Alla guarigione, vanno privilegiate la ripresa e la salvaguardia della autonomia. L’accanimento terapeutico
deve lasciare il passo alla dignità della morte.
È anche questo, dunque, un buon argomento a favore della Geriatria.
Quanto detto, però, in merito alle differenze quantitative, deve
tuttavia essere un po’ rivisitato, altrimenti possono apparire corrette
alcune delle idee forti riportate nella premessa e cioè che la Geriatria
sia solamente Lungodegenza o cronicità o momento di pre-morte.
Con questo, non voglio negare che tali caratteristiche appartengano all’assistenza geriatrica ed, anzi, ne costituiscano un aspetto peculiare. Ciò che non si può accettare è che, ora l’uno, ora l’altro carattere a seconda del caso, venga ritenuto onnicomprensivo della
scienza geriatrica.
Parlavo di rivisitazione di alcuni aspetti.
La figura 4 si riferisce al problema della cronicità e mostra che,
dall’esame delle diagnosi di dimissione, si ricava che la maggior parte
dei quadri è effettivamente rappresentata da patologie croniche (fra
il 60 e 70% – parte superiore degli istogrammi), ma tale rilievo può
condurre, in verità, a conclusioni errate.
Se noi osserviamo quali siano state le cause del ricovero ospedaliero in una popolazione anziana, vediamo che la cronicità, compare in
meno del 20% dei soggetti (parte inferiore degli istogrammi). In tutti
gli altri casi, si tratta o di una patologia acuta (> al 50%) o cronica riacutizzata (circa il 30% – parte centrale dell’istogramma). (Figura 5)
Anche lo studio della mortalità esclude che i reparti geriatrici siano reparti di pre-morienti (solo il 13-14% viene a morte – parte superiore degli istogrammi) (Figura 6).
Circa la patologia dell’anziano, sappiamo che, rispetto al giovane-adulto, esistono spesso differenze sostanziali in merito alla sintomatologia e, quindi, alla presentazione dei quadri clinici, alla sovrapposizione terapeutica, ma soprattutto circa le complicanze delle forme morbose.
È, infatti, caratteristica peculiare di un certo numero di anziani,
l’esistenza di una ‘‘fragilità di base’’ e la comparsa della cosiddetta
‘‘cascata di eventi’’. In questo gruppo, la patologia iniziale mette in
122
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
Figura 4 - Prevalenza delle patologie acute e croniche.
Figura 5 - Patologie causa di ricovero in ospedale.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
123
Figura 6 - Mortalità fra i ricoverati nella Geriatria negli anni considerati.
moto una concatenazione di patologie e di complicanze, che producono un nuovo quadro clinico e condizionano ampiamente il decorso ed il recupero.
È importante conoscere il fine, cioè l’obiettivo, che si vuole raggiungere nei nostri pazienti. Questo non può prescindere dalla loro
storia.
Anche tale aspetto, circa le differenze qualitative, deve essere
completato con due osservazioni riguardanti il tempo di degenza
nelle strutture di acuzie e la necessità di interessarsi anche all’assistenza post-acuzie.
In merito alla degenza media, come si può osservare dallo studio
riportato, essa non si discosta di molto da quella di altri reparti non
geriatrici ed è andata a ridursi progressivamente, nell’arco degli anni,
sino a giungere a circa 10-11 giorni negli ultimi due momenti della
rilevazione (Figura 7).
È possibile ridurla ancora, senza rischi per l’anziano?
Ed in merito alla assistenza post-dimissione?
Da uno studio personale, su oltre 1.000 anziani ricoverati, si
124
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
Figura 7 - Degenza media.
giunge alla conclusione che i criteri guida per la programmazione
dell’assistenza post-ricovero, estendibile all’intera assistenza domiciliare, hanno un peso molto diverso negli anziani, rispetto ai giovaniadulti.
La scaletta da seguire, circa i fattori condizionanti, risulta costituita in ordine di importanza.
Il grado di autonomia ‘‘pesa di più’’ della protezione familiare e
della patologia.
In merito al grado di autonomia, un soggetto anziano perfettamente autonomo, sia dal punto di vista sanitario che sociale, è assimilabile ad un giovane-adulto. La presenza di una o più patologie croniche, tipiche dell’anziano quali l’ipertensione, il diabete o
l’osteoporosi, non sono sufficienti a differenziarlo dal giovane.
In questi casi, dunque, non esiste alcun problema assistenziale
specifico.
La protezione familiare, non riveste alcuna importanza per il
bambino, per il giovane-adulto, poiché si dà per scontato che en-
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
125
trambi abbiano una famiglia disposta ad interessarsi di loro. Per l’anziano, tale aspetto, assume un significato cruciale.
Ed infatti, se manca una adeguata protezione familiare, qualsiasi
progetto di assistenza domiciliare, anche il più assiduo, è destinato a
fallire.
Bisogna altresı̀ ricordare, che tutta la problematica dei rapporti
familiari deve essere continuamente ‘‘aggiornata’’ e ‘‘storicizzata’’
in relazione alla sempre più evidente crisi della famiglia tradizionale.
L’introduzione del divorzio, giunto ormai a valori superiori al
40% delle unioni in paesi a noi vicini, come Germania, Francia ed
Inghilterra, il numero sempre maggiore di separazioni, il permanere
sempre più a lungo dei figli, all’interno del nucleo familiare originario, hanno condotto ad una nuova definizione del concetto di famiglia. I ruoli genitoriali sono incerti, le figure di riferimento talvolta
sono aleatorie, nuove o non consanguinee. I rapporti fra generazioni
non riguarderanno più solamente genitori e figli, ma sorelle e fratelli,
madri e padri anche non tradizionali o altre figure ancora.
La malattia, rappresenta nell’anziano l’ultimo aspetto in ordine
di importanza, anche se il tipo di patologia è in grado di condizionare la disponibilità all’assistenza da parte dei familiari.
Una patologia cronica, che limiti l’autonomia, ma non alteri lo
stato psichico, può essere gestita senza grande difficoltà dai parenti,
se lo vogliono. È evidente che entrano in gioco altre variabili quali la
volontà dell’anziano e la disponibilità di spazio, di tempo e di denaro.
In questi casi, appare dunque corretto spingere i giovani-adulti a
trovare, quanto più possibile, soluzioni all’interno del nucleo familiare per i loro anziani.
La presenza, invece, di una patologia molto grave quale l’allettamento, le piaghe da decubito ed ancor più di una patologia psichica
‘‘impegnativa’’ come il morbo di Alzheimer, possono produrre una
situazione esplosiva nei rapporti tra i componenti del nucleo familiare.
In questi casi, il mantenimento dell’anziano all’interno della famiglia, è una ‘‘scelta’’ del nucleo familiare stesso.
Le istituzioni, giustamente, tendono a favorire tale scelta. Anche
in questi casi ‘‘estremi’’, mediante incentivi di vario ordine, ad esempio economico.
126
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
Il volontariato non può sostituirsi alle istituzioni. Il ricorso alle
cosiddette ‘‘badanti’’ extracomunitarie, è certamente lodevole, ma
deve essere regolamentato.
Il volontariato e le badanti, sono due aspetti preziosi, ma delicati
non tanto sul piano concettuale quanto, piuttosto, su quello sociale.
Potrebbe realizzarsi il pericolo di un disimpegno delle istituzioni
e lo sfruttamento di soggetti non tutelati. Sul versante sanitario, va
sottolineato il rischio dell’impreparazione infermieristica ed assistenziale delle badanti.
In Geriatria, è necessaria una visione multipla ed integrata nell’approccio al paziente anziano. Si deve tener conto dei molti aspetti:
sanitario, sociale, psicologico, assistenziale. È consequenziale il concetto, squisitamente geriatrico, di multidimensionalità e, quindi, di
‘‘olismo’’. L’anziano necessita di interventi terapeutici assistenziali
del tutto personalizzati.
La personalizzazione, non significa individualismo od applicazione ‘‘artistica’’ della medicina, ma utilizzazione razionale di tutte le
conoscenze disponibili e dei protocolli clinici verificati.
Il termine ‘‘scientificità’’ vuol significare impegno continuo nello
studio, nell’aggiornamento e nella ricerca, specie di quella applicata,
che non devono mai mancare in Geriatria.
Il nostro lavoro, non deve cadere nella retorica populista e pericolosa dell’‘‘amore per l’anziano’’, ma deve essere inteso come una
scelta obbligata. L’uomo, quindi il vecchio, è il fine e non un mezzo
del nostro operare. Questo concetto va esteso all’intera scienza
medica.
Le nuove indicazioni, derivanti dalla seconda parte della nostra
conversazione appaiono dunque:
— la scienza geriatrica esiste anche se rappresenta un pensiero
debole;
— come ogni scienza necessita di sue strutture e suoi ‘‘sacerdoti’’;
— la Geriatria non è la Medicina del vecchio;
— la Geriatria non è una Medicina specialistica;
— la Geriatria è, secondo l’espressione di Junot, un’ ‘‘état d’esprit’’.
Ed allora, quali possono essere gli impegni futuri?
Inserire veri pensieri forti nel pensiero debole.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
127
Trasformare il pensiero debole in pensiero forte.
Entrambe le vie appaiono percorribili. È necessario ricordare
che battersi realmente per il bene degli anziani significa, oggigiorno,
incarnare esattamente l’eroe di Cervantes. Al pari di don Chisciotte,
si incontrano, sulla propria strada, innumerevoli mulini a vento’’.
128
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
M. Trabucchi: ‘‘La storia di Verona, esprime una tradizione nobile,
che ha saputo lavorare in silenzio, e costruire, nell’operatività di tutti
i giorni, dei risultati importanti per gli anziani. È una storia di serietà.
Certo, ci troviamo in una situazione di grande difficoltà. Dominano le incertezze. Per questo, un ‘‘pensiero forte’’, è necessario.
Però, dobbiamo avere la coscienza che, per primi noi, non abbiamo fino in fondo un ‘‘pensiero forte’’.
In un reparto dell’Ospedale di Brescia dove lavora un mio allievo, dove io ho il piacere di essere direttore scientifico, sono stati riscontrati alcuni dati interessanti, che voglio con voi commentare.
Sono stati accolti 3.000 pazienti, di età media che si avvicina agli
80 anni. Di questi, 3/4 sono donne. Il 70%, viene ricoverato dal
Pronto Soccorso. È un punto estremamente importante.
In tante discussioni che abbiamo fatto, questo 70% ci fa pensare.
Se noi fossimo realmente all’interno di una rete efficiente, una
prevenzione migliore sul territorio, forse, potrebbe ridurre la domanda di ricovero d’urgenza ed aumentare quella di ricovero programmato.
Comunque, è un dato che lascio alla vostra meditazione, visto
che ci sono colleghi in sala, di grande competenza, di grande sensibilità.
Talvolta, viene sollevata una critica non condivisibile, secondo la
quale in Geriatria, vengono ricoverati pazienti inappropriati o pazienti con problemi secondari o irrilevanti.
I pazienti che stiamo considerando, non erano molto compromessi, dal punto di vista funzionale, malgrado avessero perso un
po’ di funzione, tra il periodo precedente il ricovero e il periodo
del ricovero. La malattia, aveva inciso sulla funzione.
La co-morbidità e la gravità della patologia, sono state certamente
determinanti. Sono malati con una compromissione, abbastanza elevata, delle funzioni cognitive. Sono pazienti, con 22 di Mini Mental.
La GDS (Geriatric Depression Scale), può essere di 15 o 30
items. Noi, usiamo per lo più, quella di 30. Il livello di questa Scala
nei nostri pazienti, si aggirava su 10-11. Spesse volte, presentavano
problemi del tono dell’umore.
Motivo principale di ricovero di questi ammalati, era nel 20%
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
129
cardiovascolare, nel 20% respiratorio, percentuali minori per problemi gastrointestinali, neurologici, ed altri.
La polipatologia e la co-morbidità, erano dati pressoché costanti.
Il 30% aveva problemi di ‘‘congestive heart failure’’, insufficienza cardiaca, il 14% aveva un cancro, il 23% aveva una malattia cronica polmonare e cosı̀ via.
Si tratta di una situazione molto simile a quella che potrebbe essere riscontrabile a Verona: pazienti anziani, 80 anni, con quadro clinico abbastanza rilevante, funzionalmente non del tutto compromessi, con disturbo cognitivo, con co-morbidità e complessità della patologia.
Sono ammalati, nei quali la patologia prevalente è di tipo cardiovascolare e respiratorio con tutto quanto ne consegue.
Lo scompenso cardiaco è ritenuto anche negli Stati Uniti, non
solo in Italia, il principale problema dal punto di vista epidemiologico per l’anziano ammalato.
Questo è il quadro di fronte al quale noi ci troviamo. Che cosa
dobbiamo fare?
Il British Medical Journal, rivista medica non geriatrica fra le più
importanti al mondo, riportava recentemente, che la medicalizzazione della tarda età, deve essere incoraggiata.
Sino a poco fa, questo non era ribadito con chiarezza. Tante volte nel Veneto e nella Lombardia, si era sostenuto che non bisogna
medicalizzare i vecchi.
Personalmente, venivo additato come il ‘‘medicalizzatore’’. Per
questo, colgo il susseguirsi delle evoluzioni.
Era un tema, su cui mi sentivo emarginato. È importante conservare la serenità di fronte a questi problemi e portare avanti, con forza, strategie validate.
Non è tutto cosı̀ pacifico.
In Letteratura, recentemente, è emerso un dibattito interessante,
che ci invita alla prudenza. In un editoriale comparso sul New England Journal of Medicine, si scrive: ‘‘Per un certo periodo, c’è stata
la percezione che la cura geriatrica avesse un qualche potere straordinario, simile a quello dell’alta tecnologia. Col tempo, con le susseguenti sperimentazioni e con l’esperienza più sobria, è diventato
chiaro che i benefici della cura geriatrica, non erano cosı̀ risolutivi’’.
Questo attacco di Campion, cui mi riferisco, era un commento
130
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
ad un articolo uscito sullo stesso numero, nel quale, di fatto, tutta
l’importanza della valutazione geriatrica, era messa un po’ in dubbio.
È un dibattito che, come dicevo, invita alla prudenza. Secondo
Campion, non è importante l’assessment geriatrico e, quindi, la funzione. La Geriatria, non è ancora in grado, di proporre un suo modello.
Andiamo ora a discutere alcuni dati, di un modello geriatrico
consolidato.
Vi sono eventi clinici che possono portare ad una serie di problemi, alla mortalità e alla perdita di funzione.
Noi siamo abituati a considerare la perdita di funzione, il problema centrale della Geriatria. La perdita di funzioni, è direttamente responsabile della mortalità quanto i diversi eventi clinici, quali lo
scompenso cardiaco, la BPCO, il diabete mellito, eccetera.
Quello che è tutto da costruire in ambito geriatrico, su cui s’impone un ‘‘pensiero forte’’, è la chiarezza sull’efficacia dei nostri interventi, per preservare la funzione. Dobbiamo giungere alle stesse certezze, che abbiamo nella cura dello scompenso di cuore, la BPCO, il
diabete.
Gli interventi sulla funzione, sono in grado di modificare la mortalità.
Il punto chiave è che il geriatra sa incidere sulla funzione, piuttosto che, sul singolo problema clinico.
Abbiamo discusso a lungo e per molto tempo, la differenza fra
disease e disability. Si diceva che intervenendo sulla disease, cioè sulla malattia, indirettamente si modifica la disabilità.
Oggi, sappiamo che agendo sulla disability, si riduce e si controlla la mortalità.
Su questo concetto di funzione, non abbiamo costruito un ‘‘pensiero forte’’.
Nella nostra strategia, è essenziale la dimostrazione del risultato.
Noi costiamo al Servizio Sanitario. Sia che si assistano i pazienti a
casa, o in ospedale, o nelle RSA, il costo è sempre più elevato.
Il Piano Sanitario Nazionale che ho per le mani e che, domani,
discuteremo al Consiglio Superiore, dedica un capitolo molto pesante al problema del finanziamento della non autosufficienza.
Dice il Ministro della Salute, Girolamo Sirchia: ‘‘Una assistenza
completa agli anziani, oggi, avrebbe bisogno di 30.000 miliardi delle
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
131
vecchie lire. Ne stiamo spendendo attorno a 10-12. Quindi, copriamo poco più di 1/3 del fabbisogno. Dove troviamo gli altri soldi?’’
Questo è lo scenario. La scelta che vuole sia l’attuale maggioranza sia l’attuale opposizione, porterà a nuove tasse per finanziare l’assistenza all’anziano.
Non si dice apertamente, ma questa è la realtà e ci si deve adattare. Le nuove tasse, però, susciteranno degli interrogativi.
Da parte nostra, non sarà più sufficiente dire: ‘‘Siccome siamo
geriatri, infermieri, operatori geriatrici bravi, va bene cosı̀’’.
È una giustificazione che non regge. Dobbiamo impegnarci, a dimostrare dei risultati, degli outcomes.
Non potendo guarire, per definizione, servono dei risultati che
garantiscano l’autosufficienza del paziente, la sua sopravvivenza.
Gli ammalati ricoverati in un reparto geriatrico, raggiungono degli
outcomes migliori, rispetto a chi sia curato altrove.
Il Ministero voleva fare una ricerca di questo tipo, solo che non
ha trovato chi mettere a confronto, per non penalizzare dei colleghi.
Il problema dell’outcome, è ancora aperto.
Altre branche della Medicina, non hanno bisogno di dimostrare
gli outcomes. Per loro, sono scontati.
Tutta la Medicina ad alta tecnologia, almeno una parte, in particolare la Chirurgia, non ha bisogno di dimostrare gli outcomes, perché si vedono immediatamente.
La nostra Medicina di lunga durata, di lunga assistenza, vede nel
tempo i risultati. Ha bisogno di affinare strumenti di misura precisi,
che spesso ancora non abbiamo. È un punto difficilissimo. È il punto chiave, se vogliamo costruire davvero un ‘‘pensiero forte’’.
Contemporaneamente, il geriatra deve lottare tutti i giorni con le
degenze brevi.
Per i pazienti che vengano dimessi dai nostri reparti e che siano
non stabilizzati o che necessitino di riabilitazione, si è sentito parlare
recentemente degli Ospedali di Comunità.
Corre voce, che anche nel Veneto, potrebbero nascere.
In nessun Paese del mondo, è stato dimostrato che servano. Sono dei veri e propri ‘‘lager’’. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo con
chiarezza.
Diceva una rivista geriatrica famosa, di cui non ricordo il nome,
che ‘‘low tech’’, è uguale a ‘‘no tech’’.
132
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
Che cosa vuol dire? La bassa tecnologia in questo campo, nell’assistenza all’anziano, è uguale a nessuna tecnologia.
È indispensabile, un dialogo con i programmatori. Gerontology,
recentemente, diceva che noi siamo su Marte e i programmatori sono su Venere. Parliamo due lingue diverse.
Forse, non siamo capaci di essere davvero incisivi.
Vediamo, l’ultimo problema sul quale voglio intrattenervi.
Nell’anziano, il problema essenziale, è definire l’outcome atteso,
cioè dove voglio arrivare, perchè sul risultato che io mi attendo, costruisco un programma terapeutico.
Vi è una serie di variabili cliniche, sulle quali si fonda la diagnosi
e la prognosi. In particolare sulla condizione dell’anziano, vi è tutta
una serie di fattori interferenti, che incidono sulla diagnosi e sulla
prognosi, quindi sulla possibilità di ipotizzare un risultato.
Fra l’outcome, la diagnosi e la prognosi, ci sono di mezzo la scelta dei pazienti, la scelta dei familiari, gli aspetti psicosociali, gli aspetti economico-organizzativi pesantissimi, le variabili legate alla cultura
del medico.
Troppe cose, si intersecano con la possibilità di formulare una
diagnosi e, quindi, una prognosi. Il risultato ipotizzato ed il programma terapeutico individualizzato, impongono un percorso travagliato.
Questo, è un punto estremamente delicato. L’approccio clinico
ad un paziente complesso come può essere un paziente ottantenne,
non è semplice.
Purtroppo, ci presentiamo al tavolo delle trattative, con dei dati
non sufficientemente forti, sul piano clinico.
Qualche volta, il geriatra fa un po’ di tutto. Deve districarsi fra
mille problemi di ordine sociale, economico e quant’altro.
Deve, comunque, partire da una professionalità clinica indiscussa. Solo cosı̀, ci si può proporre al tavolo delle trattative, con competenza. Solo cosı̀, si potranno proporre programmi terapeutici individualizzati e precisi.
Sono problemi che vengono affrontati nelle Linee Guida. Facciamo un esempio.
In uno degli ultimi numeri di JAMA, viene riportata una review
sullo scompenso cardiaco.
Il trattamento dello scompenso cardiaco in fase avanzata, è basa-
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
133
to più sul consenso che non sugli studi randomizzati e controllati.
Cioè non si basa sulla Evidence Based Medicine.
A tutt’oggi, nel 2002, il trattamento dello scompenso cardiaco, è
basato su una serie di dati. Non voglio dire che sia completamente
empirico, però, gli studi controllati e randomizzati su questo argomento, non sono ancora stati eseguiti.
Quale scelta operare?
La digitale, i diuretici, gli ace-inibitori, i beta-bloccanti o altro?
Sappiamo che il 30% dei pazienti che afferiscono all’ospedale,
hanno lo scompenso cardiaco. Più della metà di questi ammalati, assumono un trattamento che non è fondato secondo le regole più moderne.
Non segue quello che dicono, oggi, le Linee Guida, per quanto
limitate.
Talvolta, si sostiene che è più giusto privilegiare la qualità della
vita, piuttosto che il prolungamento della stessa. Si ricorre a digitale
e diuretici che risolvono la dispnea, ma che non incidono sulla ‘‘life
span’’.
Chi ha ragione?
Portare sul tavolo delle trattative i bisogni del paziente, le scelte
dei suoi familiari, qualora l’ammalato non fosse cognitivamente competente, le condizioni socio-economiche, le condizioni del lavoro del
medico e conciliare il tutto, non è facile.
Il 50% dei pazienti, con lo scompenso, in molte zone d’Italia, ma
anche negli Stati Uniti, non viene trattato adeguatamente. Questo
non avviene solo nelle Case di Risposo.
Ci serve un ‘‘pensiero forte’’ che, da una parte poggi su una cultura medica fondata e, dall’altra, possa confrontarsi ai tavoli delle
trattative. È premessa indispensabile per costruire un outcome atteso e realizzare un intervento terapeutico adeguato.
In risposta all’editoriale precedente di Campion, c’era una lettera
che diceva: ‘‘Io i pazienti con grave scompenso cardiaco congestizio,
li curo con la morfina. Ho riscontrato in molti casi, un miglioramento incredibile dei loro sintomi. Gli ammalati, cosı̀ trattati, mi chiedono perché altri medici, non li abbiano curati con un farmaco cosı̀
semplice e capace di risultati importanti, quale la morfina’’.
Quando si entra nel mondo reale, nel mondo in cui le regole precise non ci sono o sono ancora dubbie o la mia capacità di medico di
134
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
indicare una strada è ancora limitata, si aprono le vie più difficili e
più strane.
È stato sottolineato alla Società Americana di Geriatria, che correggendo l’anemia con la somministrazione di eritropoietina in un
paziente che presenti scompenso cardiaco, la frazione di eiezione,
migliora significativamente.
È stato verificato che, portando l’emoglobina da gr. 10,3 a 13, la
frazione di eiezione, aumenta del 5% e non è poco.
È uno dei tanti aspetti, che dobbiamo tenere a mente in un paziente.
La Medicina dei vecchi, è una scienza autocritica. Andiamo
avanti con grande difficoltà. Non condividiamo la critica di Campion, comparsa sul New England, secondo la quale i nostri successi
sono molto opinabili.
Siamo i primi a criticarci, ma per realizzare certezze.
Abbiamo coscienza di saperci rinnovare, abbiamo contezza di essere utili.
In passato, si era verificata una rottura fra quello che serviva da
un punto di vista umano e quello che era valido sul piano tecnico,
nella cura dei vecchi.
Il geriatra è il medico della persona. Mette, al servizio degli anziani, il massimo della sua competenza. Conosce le patologie d’organo e ne coglie la complessità. Non rinuncia né all’approccio umano
né alla sofisticata tecnologia.
Un medico che parli di complessità e non sappia curare il cuore,
non è un geriatra. Non è un geriatra, altresı̀, un medico che curi solo
il cuore e non colga la complessità.
Noi combattiamo per una scienza, che crediamo essere vicina al
benessere della persona, cercando di rinforzarla sul piano teorico,
quindi, sul piano della conoscenza della patologia del singolo organo. Sappiamo bene quanto ci sia da imparare ancora.
Dichiarare nel 2002, che non abbiamo ancora certezze nella cura
dello scompenso cardiaco, non è una gran bella cosa.
Però, la strada della conoscenza, è quella che dobbiamo seguire.
La cultura della complessità, che facciamo nostra, è un’altra strada
da percorrere e non è in discesa.
Complessità non come ignoranza, non come banalità, non come
genericità.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
135
Il geriatra, non è un genericista. È un generalista. Sa fare il medico completo della persona, approfondendone ogni particolare.
La nostra, non è l’impresa dell’applauso facile. Non è l’impresa
dello studio superficiale.
A noi, è chiesto molto di più di quanto si chieda agli altri operatori, perché dobbiamo avere la competenza specifica dei vari organi
e la competenza della complessità.
Solo cosı̀ riusciremo ad essere i servi dei più fragili. Grazie’’.
C. Pasoli: ‘‘Grazie, Marco.Volevo puntualizzare un’unica cosa. La
degenza media, tu mi hai detto che bisogna abbassarla ulteriormente. Mi sembra che il dato riportato dal dottor Tellini, vada corretto.
Da due anni a questa parte, infatti, quando un paziente viene trasferito in Geriatria da un altro reparto, alla dimissione vengono contati
anche i giorni del reparto di provenienza.
Pertanto, le nostre degenze medie vengono penalizzate.
Vorrei sentire qualche domanda’’.
G. Zavateri: ‘‘La nostra professione, è altamente qualificata e qualificante. Il dottor Tellini, ci ha giustamente allertato che certe modificazioni sottendono interessi di tipo economico.
Viviamo in un momento difficilissimo, a tutti i livelli. La società,
in 30-40 anni, cambiata. È diventata vecchia.
La Medicina, però, non è cambiata. Chi faceva la Medicina Interna e la Specialistica 30 anni fa, non si vuole adeguare ai tempi. Però, gli ammalati sono diversi.
Nelle strutture di Medicina Interna, vengono ricoverate, abitualmente, persone anziane.
Mi diceva un collega clinico di Borgo Roma che se lui dovesse
non accogliere nel suo reparto chi ha più di 65 anni, delle quattro
Divisioni di Medicina A B C e D, ne rimarrebbe sı̀ e no una.
Un altro punto toccato dai relatori, si riferisce alla politica economica. Il medico, deve innanzi tutto, preoccuparsi della salute
dei suoi ammalati. Non è concepibile che i problemi economici vengano prima dei diritti di un ammalato.
È assurdo questo modo, secondo la mia coscienza, di continuare
ad operare.
Si puntualizza, continuamente, la degenza media. D’accordo, ma
136
m. trabucchi - u. tellini - c. pasoli
se un paziente necessita di 15 giorni, per guarire, malgrado le sollecitazioni del Ministro della Salute, è giusto che rimanga in ospedale
tutto il tempo necessario’’.
C. Pasoli: ‘‘Gigi Grezzana’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Volevo chiedere solo se non pensi che il geriatra,
in definitiva, non sia un investimento grande, perché il geriatra è più
bravo a mantenere l’autonomia dei vecchi.
Sono stanco che si stia a discutere se serva o non serva la Geriatria. È come dire se serva o non serva l’acqua.
Vorrei chiedere, appunto, se, per esempio, la Geriatria non sia
un investimento a media e a lunga gittata perché gli anziani ben curati costano meno e sono più felici. Grazie’’.
C. Pasoli: ‘‘Dottor Tellini’’.
U. Tellini: ‘‘Sono d’accordo con il dottor Grezzana. Credo nella figura del geriatra. Credo sia una figura importante e che abbia un futuro.
C’è una complessità di problemi che, a mio modo di vedere, il
geriatra sa affrontare meglio, con più professionalità e con più scientificità rispetto ad altri medici che non si interessano di anziani’’.
M. Trabucchi: ‘‘Siamo andati a vedere la mortalità a 6 mesi in pazienti con scompenso di cuore, su circa 1.000 casi.
Emerge un dato che è abbastanza interessante. Prendendo pazienti né disabili né dementi, che avevano solo lo scompenso di cuore, il rischio di morire era di 4 volte, rispetto a chi non l’aveva.
Confrontando il rischio di morte in pazienti con scompenso di
cuore, ma con associata disabilità o demenza, il rischio di morire
per scompenso di cuore, si riduceva da 4 a 2,7 volte.
La disabilità e la demenza, riducono drasticamente il rischio di
morte per scompenso.
Lo scompenso di cuore, nel tempo, perde importanza se compaiono altre patologie.
Qual è il compito del geriatra? Non rinunciare a curare lo scompenso. Cercherà di curare la demenza, per quello che può.
‘‘un pensiero forte’’ in geriatria
137
Curerà la disabilità, malgrado abbiamo visto prima quanto sia
difficile ottenere risultati.
Ci troviamo in un’estrema difficoltà, mentre, nel caso di pazienti
con solo scompenso di cuore, tutto più facile.
È molto più complesso curare lo scompenso cardiaco nel disabile e nel demente.
Il geriatra è importante perché è l’unico che conservi la duplice
capacità di curare bene non solo lo scompenso, ma anche lo scompenso nel demente.
Si sa districare in quadri estremamente complessi.
Non illudetevi che la situazione sia, in tutta Italia, paragonabile a
quella di Verona.
Non è facile trovare medici che rispondano a queste capacità.
Il Veneto, ha una cultura geriatrica di lunga data, di lunga tradizione. Altrove, non è cosı̀.
La strada per costruire un pensiero forte, è difficile. Vi ringrazio
se, tutti insieme, ci mettiamo su questa via’’.
PATOLOGIE CRONICHE INVALIDANTI
F. Fabris - L. G. Grezzana
L. G. Grezzana: ‘‘L’esplosione delle conoscenze della scienza medica, ha esasperato le specializzazioni. Questa scelta, trova giustificazione nel fatto che non si può sapere tutto. Anche la Geriatria è nata
come specialità, però ben presto, si è nettamente differenziata dalle
altre branche della Medicina. Non studia, infatti, una parte, un organo, un apparato, ma l’uomo nella sua globalità.
Con il passare degli anni il geriatra ha capito che persino questa
‘‘tradizionale globalità’’ è restrittiva e, molto opportunamente, ha allargato i suoi interessi. Si è visto che, non solo, era importante avvicinarsi all’anziano tenendo a mente tutti i suoi organi ed apparati,
ma anche il suo ambiente, le sue abitudini, come e dove ha vissuto,
i suoi amori, insomma, come si dice, il suo contesto sociale. E cosı̀,
mentre da una parte le altre specialità hanno ristretto il campo di ricerca, la Geriatria lo ha allargato. Non ci si accontenta più, oggigiorno, dei sintomi e dei segni, ma si vuole entrare nella storia dei vecchi
per poterli curare. La Geriatria, crescendo, è andata controcorrente
ed è diventata più che una specialità, una scienza speciale.
È una scienza umile e nell’umiltà sta la sua grandezza. Si contrappone al trionfalismo della Medicina tradizionale recuperando
le ombre e le penombre. Nella cura dell’anziano ci vuole costanza
ed i risultati arrivano a piccoli passi, ma per questo non sono meno
importanti. Il trionfalismo non è della Geriatria, forse neanche di
questa vita.
Quando un medico si avvicina ad un suo paziente, innanzitutto,
gli chiede come si senta, come stia. Si è imparato e non da molto, che
è più importante sapere come il paziente si senta piuttosto che come
140
f. fabris - l. g. grezzana
il medico pensi che il paziente si dovrebbe sentire. Non è più sufficiente valutare la risposta terapeutica, i sintomi ed il tasso di sopravvivenza.
Importante è capire come l’ammalato viva la sua malattia cioè, in
definitiva, la sua qualità di vita. Soprattutto nella cura delle patologie
croniche invalidanti, cioè quando si è obbligati a convivere con un
determinato problema, ci si deve interrogare sulla qualità di vita.
Quali indicatori di mortalità e di morbosità vengono utilizzati? Ed
ancora, che cosa si intende per qualità di vita?
Malgrado nel corso degli anni ottanta l’uso di QoL si sia sempre
più diffuso, non si è ancora raggiunta una definizione precisa di tale
concetto. È un insieme di percezioni e di immagini difficilmente definibili e catalogabili. Si è parlato della differenza fra il livello di salute che il paziente vorrebbe e la salute che il paziente ha, oppure,
del periodo di tempo senza sintomi di malattia o di disagio soggettivo, oppure ancora, dell’interazione fra le capacità naturali dell’individuo e quello che gli può dare la famiglia e la società.
Certamente, è indispensabile un approccio multidimensionale
per valutare la QoL di un soggetto, perché è indispensabile esaminare il suo profilo fisico, il suo ruolo, il suo stato cognitivo, emozionale,
le sue condizioni sociali. Sono aree fra loro dipendenti, sovrapposte
e fra loro influenzabili. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la QoL come ‘‘la percezione individuale della propria posizione nella vita, nel contesto culturale e di valori in cui si vive ed è in
relazione con le proprie mete, aspettative, modelli e pensieri’’.
La QoL esprime l’esperienza umana che riguarda non solo le sue
condizioni fisiche e i suoi sintomi, ma anche come si viva fisicamente, socialmente e psicologicamente. Soprattutto, è importante cogliere se si tragga soddisfazione da quanto si fa. Essere curiosi, realizzare
una speranza, sono molle indispensabili al vivere quotidiano. In fondo, la malattia dell’uomo è ‘‘malattia di infinito’’. La QoL è buona,
finché forte è questa tensione. È certo, comunque, che due persone
con un medesimo stato di salute, possono avere QoL assai diverse.
In fondo, molto dipende da quanto, chi ci circonda, ci fa pesare
una invalidità.
Certamente il concetto di QoL, soprattutto nell’anziano malato,
implica una multidimensionalità. Esiste, infatti, un numero quasi infinito di stati di salute ciascuno dei quali con diverse qualità e tutte
patologie croniche invalidanti
141
indipendenti dall’età del soggetto. Comunque, quello che conta è conoscere il punto di vista del paziente.
Considerando la QoL come un insieme di percezioni del proprio
stato di salute da parte del paziente, si è cercato di sviluppare degli
strumenti che fossero in grado di ‘‘misurare’’ questa situazione clinica.
La salute, in genere, viene definita come mancanza di malattia o
di infermità, cioè viene definita in senso negativo.
In pratica, viene misurata la cattiva salute. Però, nelle società occidentali soltanto una piccola percentuale soffre di gravi limitazioni
fisiche croniche che, a seconda delle statistiche, incidono circa sul
5% della popolazione anziana.
Quindi, affidarsi a questa definizione negativa, darà pochi ragguagli sul rimanente della popolazione, in generale, sana.
Vi sono differenti punti di vista sulla gradazione che va dalla salute ‘‘perfetta’’ alla ‘‘morte’’. Se da un lato si ha la salute perfetta, si
passa attraverso condizioni che predispongono alla malattia, alla malattia incipiente, alla malattia appena presentata, alla malattia avanzata, per giungere dall’altro lato, sino alla morte. È evidente che ciascuna posizione è sfuocata.
Seguendo un modello certamente più positivo, è possibile proporre una scala della salute graduandola da salute positiva a salute
negativa. La parola salute è scelta volutamente per sottolineare l’aspetto positivo di questa scala. Secondo questa misurazione, si sottolinea l’attenzione sulla percezione del soggetto. In genere, la salute
viene identificata come mancanza di malattia per cui, di fatto, si misura lo scostamento dalla salute.
Nella nostra società, spesso si sottolinea il concetto ‘‘salute sociale’’. Questa è vista come una dimensione del benessere individuale
distinto dalla salute fisica e da quella mentale. Viene definita in termini di interazioni, di rapporti personali e di partecipazione sociale.
È stato ipotizzato che le persone che riescono a far fronte alle sfide
sociali più difficili, vivono in famiglie più stabili ed in un contesto
sociale più sereno. Certamente, la mancanza di un supporto sociale,
incide anche sulle malattie depressive.
L’adeguata condivisione dipende da numerosi fattori, quali il
successo lavorativo, la posizione nella gerarchia, la famiglia, le ami-
142
f. fabris - l. g. grezzana
cizie, le condizioni socio-economiche, la vita personale, il successo, le
soddisfazioni filosofiche e sessuali, l’autostima ecc.
Ci si chiede chi debba misurare la QoL di un paziente. Essendoci una marcata dissonanza fra la valutazione del medico e la valutazione del paziente, si tende a preferire e a dare più valore all’autovalutazione individuale piuttosto che al giudizio medico. È evidente,
che l’affidabilità e la validità di questa autovalutazione sarà sempre
discutibile, ma non per questo meno importante’’.
patologie croniche invalidanti
143
F. Fabris: ‘‘Durante la vecchiaia, l’individuo diventa paragonabile ad
un bicchiere di cristallo capace di rimanere in equilibrio, ma in grado di danneggiarsi e rompersi appena viene sottoposto ad una pressione, ad un impatto.
La fragilità è una condizione assai frequente nei grandi vecchi e
proprio all’anziano fragile (frail elderly), la Medicina Geriatrica si rivolge maggiormente. L’anziano fragile viene cosı̀ definito, perché
rappresenta quella fascia di soggetti che si è indebolita ed è, quindi,
diventata più esposta alla cascata degli eventi. Sono individui che
hanno, solitamente, un’età molto avanzata con presenza di più patologie, che li espongono al rischio di disabilità, alla perdita di autonomia, all’istituzionalizzazione, alla morte. Si tratta di pazienti che non
possono essere compresi e curati dalla medicina tradizionale, mentre
la fascia di età più vicina al giovane-adulto è meno specifica e quindi
più affine alla Medicina Interna e alla Medicina Generale.
La Medicina Geriatrica non può essere centrata sulla malattia,
ma sul paziente. Si devono abbandonare i dogmatismi e mantenere
aperta la mente. Il malato geriatrico richiede un approccio globale,
finalizzato a comprendere non solo le singole patologie di cui è affetto, ma anche le sue capacità funzionali rispetto all’ambiente in cui
vive, lo stato psicoaffettivo, il supporto familiare e sociale.
Di fronte ai nostri vecchi, sono necessari non solo rispetto, ma
anche prudenza e cautela clinica. Per fare un esempio classico, la
dieta deve essere inquadrata considerando i molteplici risvolti che
ne possono conseguire e non deve essere finalizzata a condannare.
In alcune circostanze, togliere un cioccolatino può dimostrarsi un errore e non un vantaggio per il malato.
Durante la crescita la variabilità è relativamente modesta, infatti,
i giovani coetanei si assomigliano nell’esteriorità, nel modo di camminare, di vestire e condividono i medesimi pensieri, sostengono
le stesse idee.
Al contrario, con l’avanzare dell’età la variabilità aumenta. A 8085 anni possiamo trovarci di fronte a soggetti ai vertici dell’organizzazione politica, come il nostro Presidente della Repubblica, cosı̀ come accanto a soggetti nelle più abiette condizioni di disagio.
Le grandi differenze che caratterizzano la vecchiaia, rappresentano un elemento distintivo e fondamentale dell’età avanzata.
L’invecchiamento si realizza in modo diverso in ciascun soggetto
144
f. fabris - l. g. grezzana
e, per il medico, non è sempre facile distinguere ciò che è espressione di senescenza e ciò che è malattia. Anche sul piano psicoaffettivo,
la malattia viene vissuta in modo diverso nel vecchio rispetto al giovane. Il giovane la vede come un’interruzione di percorso, un incidente, mentre, il soggetto anziano vive la malattia come un rischio
reale di perdere la propria autonomia.
Nel vecchio si assiste alla precarietà di un sistema, alla ridotta efficienza dei meccanismi di compenso. Si assiste alla modificazione
della farmacocinetica e farmacodinamica, per cui, il vecchio risulta
più sensibile all’effetto collaterale dei farmaci, piuttosto che al loro
beneficio.
Un tempo, nel malato anziano, il trattamento con flunarizina,
farmaco impiegato per l’emicrania, generava una sindrome extrapiramidale che regrediva con la sospensione del farmaco. Suddetto farmaco, consumando parzialmente il sistema dopaminergico, determinava una forma di parkinsonismo nel vecchio, ma non nel giovane.
Se un farmaco riesce, dunque, a superare il vaglio della popolazione
anziana, non sarà in grado di determinare fenomeni avversi di grave
entità.
Un noto psichiatra inglese, Martin Roth, definisce tale evenienza
‘‘fenomeno soglia’’ (threshold phenomenon). Ogni individuo, infatti,
possiede una riserva funzionale finché viene correttamente impiegata
una parte del proprio corpo e della propria mente; oltre quel limite,
compare la patologia.
Ben poche sono, oggi, le malattie che si possono definire rigorosamente acute. Frequentemente, si assiste ad eventi acuti nel corso di
malattie croniche: dall’ictus, all’infarto, alla riacutizzazione della
bronchite, alla frattura dell’osteoporotico, all’evento anemizzante
nel neoplastico. È la nuova realtà della patologia, prevalentemente,
degenerativa. Il deterioramento mentale grave, è caratterizzato da
un intervallo di circa 7 anni dal momento della diagnosi al decesso
del paziente e, spesso, si tratta di un percorso notevolmente logorante. Questo lungo spazio di tempo, vede il susseguirsi di nuovi episodi
acuti e di momenti di buon compenso che conducono al progressivo
scadimento generale.
Bisogna fare, però, molta attenzione nel tentativo di distinguere
il malato acuto da quello cronico. Sulla malattia di base si può sovrapporre una complicanza da cui si guarisce, pur esitando una limi-
patologie croniche invalidanti
145
tazione funzionale che riduce l’autonomia dell’individuo. La limitazione viene compensata, se le risorse ambientali sono tali da ridurre
lo svantaggio che la persona incontra nell’ambiente in cui si deve
muovere.
L’anziano è un soggetto complesso, per cui, l’abilità del medico
sta nel riconoscere ciò che è importante e ciò che interessa in quel
preciso momento: tanto più si è deboli e fragili, tanto più è importante la tempestività della terapia.
Si rivendica, dunque, il massimo di intensività e rapidità delle
cure.
L’accuratezza diagnostica può e deve lasciare il posto alla terapia
immediata. La riabilitazione nel vecchio, ad esempio, non può rappresentare una terza fase, ma bensı̀ essere una parte sostanziale della
fase acuta. La riabilitazione nel malato geriatrico, deve tendere ad
attenuare le conseguenze dell’evento acuto. Le capacità residue, vanno esaltate per consentire il reinserimento sociale, mantenendo l’autonomia.
Di fronte ad un ictus cerebrale, le indagini strumentali sono certamente importanti, ma più tempestiva deve essere la capacità di inquadrare il destino del soggetto in esame, garantendo un percorso
riabilitativo a domicilio, tra i propri affetti e le proprie realtà quotidiane, anziché concludere il percorso in casa di riposo.
A tale riguardo, secondo lo svedese A. Svanborg, l’‘‘overdiagnosis’’, ossia la continua ricerca di molteplici diagnosi, comporta un eccesso di malati e spesso un ‘‘overtreatment’’, cioè un supertrattamento. Ricordiamo che la prevalenza dell’ipotensione ortostatica, varia
da 13 a 30.3% negli anziani ed è spesso associata alla terapia ipotensiva.
Le svariate terapie aumentano, quindi, il rischio di effetti collaterali, senza apportare benefici al malato. Alcuni criteri di valutazione dei risultati, devono essere diversificati rispetto ad una medicina
più classica. È nostro dovere sofisticare la diagnosi, ma senza dimenticare le cose più semplici. Nella valutazione clinica, invitare il malato ad alzarsi e camminare, verificando che la manovra venga eseguita
in meno di 20 secondi, rappresenta un indice prognostico di grande
utilità, senza ricorrere ad altre tecniche costose. Si tratta di semplificazione nel significato più elevato del termine.
Certamente, è indispensabile una valutazione multidimensionale
146
f. fabris - l. g. grezzana
per identificare e spiegare i molteplici problemi dell’individuo anziano. È opportuno valutare le sue relazioni con l’ambiente, la mobilità,
l’equilibrio, lo stato cognitivo, l’affettività. Con questo approccio, si
definiscono le necessità assistenziali del malato e si coordina un programma complessivo di cura. La valutazione multidimensionale geriatrica (VMG) esprime l’esigenza di guardare a più largo raggio
una valutazione clinica. Tutto ciò non significa essere attenti a cose
di minore importanza, ma solo mirare al risultato migliore.
La medicina del vecchio ha dei costi elevati: quello che costa è
proprio il vecchio. Ad esempio, il consumo dei farmaci è limitato fino ai 14 anni di età, aumenta dai 34 ai 64 anni e diventa notevole
nell’età avanzata, ricoprendo circa la metà dell’intero consumo di
farmaci.
La presenza della polipatologia nel vecchio, comporta spesso
una polifarmacoterapia con i rischi precedentemente citati, ma
non sempre, il farmaco risulta essere la soluzione migliore. Nella malattia di Alzheimer, il caregiver rappresenta indubbiamente la terapia
vincente, considerando che il trattamento farmacologico migliora la
cognitività solo del 4-5%. Pertanto, è doveroso da parte del geriatra
porsi l’interrogativo.
Il caregiver, che è comunemente di sesso femminile ed ultrasessantenne, rappresenta il fulcro della situazione per quell’80-90% dei
dementi che vive a casa, ricevendo tutti i vantaggi della cura domiciliare. Rispetto alla terapia farmacologica, la musica e l’adeguata
strutturazione dell’ambiente rivestono un’importanza particolare in
questi malati. In fondo, la cura dell’Alzheimer, oggigiorno, è soprattutto cura dell’ambiente. È pertanto utile e doveroso nel nostro campo, il coinvolgimento dei non addetti ai lavori, del parente, dell’amico, della persona cara.
Bisogna istruire e diffondere l’idea che se il vecchio rimane nel
suo ambiente, tra le sue abitudini, i suoi amori, troverà sempre gli
stimoli e le motivazioni per reagire alla malattia, per non distruggere
l’equilibrio’’.
IL GERIATRA E L’ANZIANO DEMENTE
U. Senin - L. G. Grezzana
L. G. Grezzana: ‘‘Una volta si imparava che ci sono cellule nel nostro organismo che si rinnovano tutti i giorni, altre che si rinnovano
ogni tanto. Altre ancora, che non si rinnovano mai. Esempio delle
prime, sono le cellule della cornea. Delle seconde, le cellule del tessuto osseo. Delle terze, le cellule del cervello.
Le cellule nervose venivano definite ‘‘elementi perenni’’, a significare come si pensava, che rimanessero praticamente immutate per tutta la
vita. È un concetto, invero, recentemente è stato rivisto. Comunque, mi
sembra che tutto questo, si inserisca in un modo pertinente, nella lettura del professor Umberto Senin ‘‘Il geriatra e l’anziano demente’’
ed esprima, allo stesso tempo, la grandezza e la miseria dell’uomo.
Se noi scriviamo, come diceva una canzone degli anni sessanta,
parole sulla sabbia, basta un niente, un po’ di vento, un po’ d’acqua
e non rimane nulla. Se noi ‘‘scrivessimo’’ su cellule che si rinnovano
tutti i giorni, sarebbe come scrivere sulla sabbia.
Le parole rimangono soltanto se si scrive su elementi perenni, su
cellule che, in fondo, non si modificano e non si rinnovano.
Allora è come scrivere sulla pietra.
Scrivere sulla pietra, rimane.
Il vento, l’acqua, il tempo, non riusciranno a cancellare le parole.
La pietra è sı̀ importante, ma non basta.
Bisogna anche che le parole siano scritte in un certo modo.
Se noi sulla pietra scriviamo col gesso, malgrado tutto, le parole
non resisteranno.
Perché resistano bisogna scrivere con lo scalpello, bisogna incidere.
148
u. senin - l. g. grezzana
Lo scalpello è il cuore.
Se è importante che le cellule nervose non si rinnovino, che siano
cioè come pietra, è altrettanto indispensabile che le parole siano
scritte con il cuore. Questo esprime, allo stesso tempo, la grandezza
e la miseria dell’uomo. Se è ‘‘grande’’ ricordare, è anche terribile
pensare che quando la pietra si ‘‘rompe’’ la memoria se ne va. E ancora più terribile, è sapere che senza cuore non si ‘‘scrive’’. A te Umberto’’.
il geriatra e l’anziano demente
149
U. Senin: ‘‘Devo rivolgere un grandissimo ringraziamento a Gigi
Grezzana, per quello che sta facendo in questa sua città, per diffondere la cultura geriatrica.
Grezzana, è un geriatra vero, è un geriatra convinto. È un geriatra ‘‘della più bell’acqua’’. Non sono molte le persone che sappiano
che cosa significhi fare il geriatra, che conoscano quali siano i compiti di questa disciplina cosı̀ difficile da far capire a chi non è ‘‘addetto ai lavori’’.
Purtroppo, è anche difficile che venga accettato da chi, nominalmente è dentro di essa.
Dicevo a Gigi Grezzana che per capire che cosa voglia dire, che
cosa debba significare fare il geriatra, bisogna essere folgorati sulla
via di Damasco.
Se non c’è questa folgorazione, non c’è studio, non c’è confronto
sufficiente per comprendere la natura di questa disciplina.
E Grezzana, questo modo vero, sincero, di essere geriatra, l’ha
cosı̀ forte da essere riuscito inconsapevolmente, a far sı̀ che anche
il figlio lo diventasse.
I miei figli, mi hanno tutti ‘‘rifiutato’’. Sono andati a svolgere altre professioni. Uno è professore in una Facoltà di Ingegneria, l’altra
è psicologa.
Si sono anche allontanati. Io non sono riuscito ad essere cosı̀
convincente, cosı̀ come è stato Luigi Grezzana. Riuscire a convincere
il proprio figlio a sposare un mestiere cosı̀ ingrato, perché è ingrato il
mestiere, significa aver dato dei messaggi molto forti, aver saputo far
capire la bellezza di questa disciplina cosı̀ invisa e rifiutata da moltissima parte della classe medica.
Il geriatra, ancora oggi, è visto con diffidenza, con sospetto, come un professionista dall’identità non ben definita, dai contorni sfumati, un autore sempre alla ricerca di un riconoscimento che tarda a
venire.
Non voglio andare oltre con questa mia introduzione. Vorrei entrare nel tema, concordato con l’amico Grezzana.
‘‘Il geriatra nei confronti del paziente demente’’. È argomento di
grande attualità.
Quando sono venuto l’anno scorso qui, mi ricordo che ero da
poco entrato nel Comitato Scientifico della CUF, per la elaborazione
del cosiddetto Progetto CRONOS.
150
u. senin - l. g. grezzana
Credo che quasi tutti voi sappiate che cosa sia il Progetto CRONOS. È il Progetto che il Ministero della Salute, ha voluto attivare
per verificare quale fosse la reale dimensione dei pazienti affetti da
malattia di Alzheimer.
Secondo il Progetto, questi ammalati, avrebbero potuto usufruire dei nuovi farmaci che la ricerca propone per il trattamento della
malattia. Esiste una serie di studi clinici controllati, che ne hanno dimostrato una certa efficacia.
Al Ministero della Salute, non bastava sapere che i malati con demenza di Alzheimer, in Italia, sono un certo numero. Quello che, ovviamente, il Ministero della Sanità necessita di conoscere, è a quanti
pazienti, di fatto, questi farmaci siano destinati.
È altresı̀ importante, validare l’uso e l’utilità di questi farmaci. Al
Ministero, inoltre, interessa calcolare i costi che il Sistema Sanitario
Nazionale si dovrebbe accollare, qualora i risultati parlassero in favore di questo tipo di trattamento.
Non è, quindi, come molte regioni, molte Aziende hanno pensato, un Progetto volto a valutare l’efficacia di questo farmaco. L’efficacia si studia in maniera completamente diversa. Si vuole quantificare l’utenza cui questi farmaci, saranno di fatto destinati, in termini
numerici e qualitativi.
Quindi, è uno studio, un Progetto, che prevede una sorveglianza
epidemiologica dell’uso di questi farmaci.
Dopo avere elaborato un protocollo, che definisce quali sono i
criteri da seguire per fare diagnosi di malattia di Alzheimer, abbiamo
chiesto alle regioni, agli Assessorati alla Sanità e gli Assessorati alla
Sanità, alle diverse Aziende Sanitarie Locali, di individuare quali erano i centri, cui fare riferimento.
In genere, si è ricorsi ad esperti già coinvolti nella gestione di
questo tipo di patologia.
Il numero di Unità, cui si è dato la sigla UVA (Unità Valutativa
Alzheimer), si aggirava intorno a 500.
Di queste, il 50%, erano UVA geriatriche. È stata una felice sorpresa per me, è stata un’amara sorpresa, per altri. Qualcuno, anzi, è
rimasto indispettito che la Geriatria fosse cosı̀ presente in massa in
questo capitolo di patologia.
La scontentezza tradisce che molti conoscevano la malattia di
il geriatra e l’anziano demente
151
Alzheimer, ma pochi sapevano, di fatto, chi fosse il malato di Alzheimer.
Il perché di questa mia informazione, che potrà sembrare forte, è
facilmente individuabile.
Valutando l’incidenza della demenza, in rapporto alle varie classi
di età, si osserva che, per la massima parte, le demenze incidono dai
70 anni in su. La stragrande maggioranza dei pazienti dementi è anziana.
Non solo, ma si tratta, soprattutto, di soggetti molto anziani.
Andando a cercare quali siano i nuovi casi di demenza per classe
di età, per 100.000 abitanti per anno, si osserva che la forma di gran
lunga prevalente nelle classi di età avanzate, è la demenza di Alzheimer.
È questo il motivo per cui l’incidenza, per 100.000 abitanti per
anno, è andata progressivamente aumentando dal 1965 al 1980, quali sono gli anni che sono stati presi in considerazione da questo studio epidemiologico.
L’invecchiamento della popolazione, si caratterizza per un prevalente incremento della componente più anziana, della popolazione
anziana.
Il numero di soggetti fra 60 e 79 anni, è aumentato di circa 1 volta e mezza-2. Il numero dei soggetti al di sopra degli 80 anni, è aumentato, in questo stesso periodo di tempo, di quasi 4 volte.
Non solo, ma esiste un trend destinato a vedere questa forchetta
espandersi sempre più. Attualmente, si calcola che gli ammalati di
Alzheimer nel nostro Paese, si aggirino intorno ai 500.000 soggetti.
Nei prossimi decenni, questo numero è destinato ad aumentare
in misura esponenziale, laddove questi 500.000 malati di Alzheimer,
per i motivi che vi ho dimostrato poco prima, sono per la massima
parte, non soggetti anziani, ma soggetti molto anziani.
Perché vi ho raccontato tutto questo? In fondo, erano dati che
voi, sicuramente, già in qualche misura conoscevate. Il motivo è, prima di tutto, in questo tipo di affermazione. Formulare diagnosi di
demenza di Alzheimer, in età avanzata e, soprattutto, in età molto
avanzata, è estremamente più complesso e difficile di quanto non
sia fare la stessa diagnosi in un soggetto giovane ed adulto.
Il geriatra si trova di fronte ad un primo enigma ancora irrisolto,
che esplicherò con un esempio.
152
u. senin - l. g. grezzana
Arriva alla nostra osservazione,un soggetto di 80 anni, quasi sempre accompagnato dalla figlia, dalla moglie, perché da un certo periodo di tempo, lamenta dei disturbi della memoria. Non ricorda
con la stessa facilità, con cui ricordava poco tempo prima. Non è
più capace di fare con la stessa agilità, con la stessa competenza,
ciò che ha fatto per una vita intera.
Se è una donna, per esempio, non è infrequente che ci venga riferito, che dimentichi la dose giusta del sale. Dice che l’ha messo ed
invece, non l’ha messo. Emerge una serie di difficoltà.
Il primo enigma consiste nello stabilire se sia vecchio o se sia malato. Cioè, queste difficoltà che sta incominciando a lamentare, che
abbiamo notato essere presenti da un certo periodo di tempo, sono
espressioni di una malattia in fase iniziale, di patologia, o semplicemente il quadro clinico è riconducibile alla senescenza?
Il quesito, è un elemento non di poco conto, perché la vecchiaia
è una condizione fisiologica e non si cura. Non cosı̀, invece, una iniziale malattia. La malattia, non è un evento fisiologico, lo dice la parola. Richiede sicuramente un atteggiamento ben diverso, da parte
del medico.
Risolvere questo enigma in una unica osservazione, in due osservazioni, in tre osservazioni, non è quasi mai possibile. Mancano
quelli che noi, in termini tecnici, chiamiamo i markers, gli indicatori.
Sono quegli indici, che quando sono presenti o presenti ad un
certo livello, ci dicono se ci sia la malattia o meno. Ci stringiamo nelle spalle e, prendiamo tempo.
Quindi, il primo enigma di fronte ad un soggetto anziano che
presenti i segni di un iniziale deterioramento cognitivo, è valutarne
il significato. Un quoziente intellettivo, non eccezionale, potrebbe
essere espressivo di una estrazione sociale non eccellente, di una vita
di sacrificio, di un lavoro manuale.
Potrebbe essere un soggetto che non ha avuto la possibilità di
sviluppare quelle capacità che, potenzialmente, il suo cervello avrebbe posseduto. Non ha potuto scrivere con lo scalpello, come ricordava prima l’amico Grezzana.
Le tracce mnesiche, le cose da ricordare erano poche. Le ha
scritte in maniera quasi inconsapevole, non certo con l’iterazione ne-
il geriatra e l’anziano demente
153
cessaria perché quella traccia si approfondisse sempre di più e sempre più difficilmente venisse ad essere persa.
Sono pazienti arrivati in età avanzata con un quadro di ‘‘unsuccessful aging’’, cioè, con un quadro di cognitività piuttosto povero.
Si tratta di un paziente che è partito da ‘‘livelli bassi’’ e che ha
superato con poco, la soglia del compenso. È stata una vita con poche esigenze, senza arrivare a situazioni tali, da rendere la sua quotidianità non gestibile autonomamente.
Primo enigma, irrisolvibile o, comunque, di difficile soluzione. Il
geriatra, si affida, al cosiddetto follow up, alla osservazione.
‘‘Me lo porti fra tre mesi, me lo porti fra sei mesi, o anche prima,
se dovesse succedere qualche cosa’’.
È sempre importante tenere a mente, gli obiettivi del Progetto. Il
Servizio Sanitario Nazionale, cerca di dare la possibilità di trattare
gratuitamente un soggetto che si trovi nella fase iniziale della malattia di Alzheimer.
Noi ci troviamo in difficoltà a stabilire, laddove il farmaco sia più
efficace, se ci troviamo di qua o di là dal ‘‘guado’’.
C’è un altro enigma. Andiamo a vedere quali siano stati i risultati
di tutti gli studi epidemiologici, volti a valutare la prevalenza del deterioramento mentale in rapporto all’età, dai 65 agli 84 anni. Alcuni
studi, contemplano anche pazienti di oltre 95 anni. Tutti gli studi più
recenti ci dimostrano, fondamentalmente, la stessa cosa.
Man mano che il soggetto invecchia, aumenta il rischio di andare
incontro ad una demenza.
Nella fascia di età di 80-84 anni, oltre il 10%, è portatore di una
franca demenza. È demente.
Da questi studi, si evince che, se il 10% degli ultraottantenni è
demente, c’è un 20%, quindi una quota numericamente maggiore
di anziani, che ha un deterioramento mentale.
Non siamo più in quell’area grigia, in quell’area ‘‘limbica’’, dove i
confini tra ciò che è invecchiamento e ciò che è espressione di malattia sono assolutamente impossibili da tracciare.
Si tratta di una ‘‘zona’’ in cui siamo, certamente, con un piede
all’interno della patologia, deterioramento mentale, ma senza che
questo abbia acquisito i connotati della demenza.
I farmaci che il Ministero della Salute, oggi, propone per il trat-
154
u. senin - l. g. grezzana
tamento della malattia di Alzheimer, fanno riferimento a soggetti sicuramente portatori della malattia.
Non si tratta solo di un deterioramento mentale, che potrebbe,
ma non siamo sicuri, rappresentare la fase prodromica di una franca
demenza.
Il primo enigma è, come abbiamo visto, stabilire se sia vecchio o
se sia malato. Esiste anche, un secondo dilemma, ancora non risolto.
Si riferisce al significato da dare a questo deterioramento mentale, non demenza, nei confronti della franca demenza.
È una fase prodromica, che precede la comparsa di una franca
malattia o una condizione patologica di per sé?
Una percentuale dei soggetti, portatori del ‘‘mild cognitive impairment’’ o deterioramento cognitivo lieve, evolve in franca demenza, in un arco di tempo variabile, a seconda degli studi, da 2
a 5 anni.
Esiste, però, una quota di gran lunga maggiore, che mantiene
quel grado di deterioramento mentale, senza evolvere in franca demenza.
Nel 1989, dopo anni che mi ero occupato di questo affascinante
capitolo della Gerontologia, avevo definito il ‘‘mild cognitive impairment’’, come deterioramento mentale senile compensato.
Con l’aggettivo compensato, volevo significare, che sono soggetti
che pur essendo deteriorati, quindi patologici, hanno la capacità di
compensare quel deterioramento attraverso strategie opportune.
Queste, consentono loro di vivere autonomamente o se non
autonomamente, di avere un fabbisogno assistenziale, tutto sommato, modesto, parziale e saltuario.
Noi, a tutt’oggi, non abbiamo, per quanto riguarda questo particolare problema o dilemma, alcun indicatore. Non esiste alcun
marker in presenza del quale non si possa dire: ‘‘Questo non è adesso un demente, ma lo sta per diventare, lo diventerà’’.
Terzo dilemma, ancora non risolto, è stabilire con sufficiente certezza, se ci si trovi di fronte ad un deterioramento mentale su base
vascolare o su base degenerativa.
La malattia di Alzheimer, è una malattia, per come noi l’abbiamo
conosciuta fino ad oggi, certamente su base degenerativa.
Gli elementi per differenziare l’una forma dall’altra, sono codificati in Letteratura. È su questi elementi, che noi clinici ci basiamo
il geriatra e l’anziano demente
155
per dire se ci troviamo di fronte ad un quadro di deterioramento
mentale, fino alla demenza, riconducibile ad una insufficienza cerebro-vascolare oppure ad una degenerazione alzheimeriana.
Poter distinguere l’un quadro dall’altro, non è irrilevante né sotto il profilo clinico, né sotto il profilo prognostico, né sotto il profilo
terapeutico.
Per volere sempre rimanere nell’attualità, quindi ritornando al
discorso del Progetto CRONOS, gli anti-colinesterasici, sono permessi soltanto nella demenza di Alzheimer, non nella demenza vascolare.
Noi geriatri, ci troviamo in grande imbarazzo quando si tratta di
dover decidere l’eziologia di un deterioramento mentale. Si tratta di
una demenza di tipo degenerativo o vascolare?
Gli studi condotti nell’ultimo decennio, ci hanno dimostrato che
i fattori di rischio cardiovascolare, sono predittivi per la malattia di
Alzheimer. Si tratta di eventi che sappiamo essere correlati con l’insulto cerebrovascolare.
Il danno vascolare di tipo ischemico, che cronicamente si ripete e
si perpetua su un determinato cervello, è particolarmente imputabile.
I fattori di rischio cardiovascolari, quali l’ipertensione arteriosa,
la fibrillazione atriale, l’infarto del miocardio, lo scompenso, negli
studi epidemiologici condotti nella popolazione anziana, si dimostrano maggiormente predittivi di demenza di Alzheimer, piuttosto che
di demenza vascolare.
Il protocollo diagnostico, della demenza vascolare, dà un peso
enorme a questi fattori di rischio. Per spostare la nostra diagnosi verso il vascolare e quindi per allontanarci dalle ipotesi degenerative,
esiste un altro studio, veramente rivoluzionario.
Gli Americani lo definiscono un ‘‘cornerstone’’. È una pietra miliare che, praticamente, ci ha fatto fare quasi una rotazione di 360º
nella nostra linea di comportamento.
È il cosiddetto ‘‘Studio delle suore’’. Sono state prese in considerazione le suore che vivevano in 4 conventi degli Stati Uniti d’America. Sono state seguite, nel corso degli ultimi anni della loro vita, per
quanto riguardava il comportamento delle loro funzioni cognitive.
È stata ottenuta l’autorizzazione da parte delle suore, che il loro
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u. senin - l. g. grezzana
cervello, una volta che fossero morte, fosse conservato ed analizzato
da esperti di demenza.
È emerso un dato sorprendente. Le suore che avevano ricevuto
la diagnosi di demenza in vita, erano le stesse il cui cervello, al tavolo
autoptico, presentava, accanto alle stigmate caratteristiche della malattia di Alzheimer, degli infarti cerebrali.
Come se, in età molto avanzata, perché alla demenza si arrivi, occorra da una parte che il cervello subisca i danni tipici della malattia
di Alzheimer e, dall’altra, l’insulto cerebrovascolare.
L’infarto, unico o multiplo, sembra quasi necessario a far esplodere la malattia.
L’altro elemento estremamente pesante su cui noi basiamo la
diagnosi differenziale tra demenza alzheimeriana e demenza vascolare, è il quadro di tomografia assiale computerizzata.
All’assenza di lesioni ischemiche focali, si attribuisce un significato molto importante per stabilire di quale tipo di demenza si tratti.
Alcuni elementi da considerare, sono l’ipertensione, il diabete e
tutti i fattori di rischio cardiovascolare.
Se noi ignorassimo questa realtà, commetteremmo un numero di
errori diagnostici, come, di fatto, li commettiamo giornalmente. Ne
siamo perfettamente consapevoli. Si tratta, però, di ammalati, che si
vedono negata una terapia di cui, invece, avrebbero diritto.
Sono interessanti i risultati di due studi, condotti su popolazioni
sostanzialmente analoghe per età, 85 anni. Erano soggetti presi in
considerazione da M. Skog, in una cittadina della Svezia. Della stessa
età, 85-90 anni, erano i soggetti analizzati nello studio condotto in
Canada.
Svezia e Canada, sono tutti e due paesi del mondo occidentale,
quindi, gli stili di vita, le culture, sono praticamente sovrapponibili.
In questi due studi esiste una differenza, in termini di prevalenza
percentuale, della malattia di Alzheimer e della demenza vascolare.
Entrambi si sono avvalsi degli stessi protocolli per classificare i soggetti dementi.
Malgrado si tenga conto dei diversi modi di accorpamento delle
forme intermedie nei due studi, questa differenza non si giustifica.
L’unica spiegazione, sta nel fatto che fare diagnosi di malattia di Alzheimer in età avanzata e soprattutto, molto avanzata, è problema
il geriatra e l’anziano demente
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estremamente difficile anche quando a cimentarsi, su questo terreno,
sono persone di indubbia competenza.
Tre enigmi, ma c’è un altro elemento importante, che mette, in
grave difficoltà, il geriatra di fronte al paziente demente.
Il geriatra necessita di grande conoscenza, per cercare di svolgere
al meglio la sua professione.
Deve conoscere l’invecchiamento. Se non conosce come invecchia l’organismo in toto, come invecchia il nostro cervello, quali siano i fattori che partecipano al suo invecchiamento, non ne esce.
Il rischio è ‘‘Fare di ogni erba un fascio’’, dicendo: ‘‘Quello è vecchio, che cosa gli vuoi fare...’’. Oppure, peggio: ‘‘Ha l’arteriosclerosi’’. Oppure ancora, considerare tutti i vecchi dementi.
C’è un altro elemento, che ci complica maledettamente la vita.
L’epidemiologia della malattia di Alzheimer, è totalmente cambiata.
Da studente, ero curioso e sempre insoddisfatto. Cercavo sempre di sapene di più. Studiai Neurologia ed affrontai anche Psichiatria. Già da allora, mi interessai al capitolo delle demenze.
Un modo semplice ed efficace per capire se quel soggetto anziano avesse una demenza di Alzheimer, per quanto appresi, era stabilire che, oltre la demenza, per il resto fosse sano. ‘‘Mens malata in
corpore sano’’.
La malattia di Alzheimer, cosı̀ come è stata descritta nei libri di
testo, viene considerata una condizione che interessa pazienti senza
altre malattie importanti.
Può essere un’unica patologia, che si manifesta nell’adulto o nel
giovane-vecchio, cioè soggetti che si affacciano alle soglie dei 70-75
anni.
In questa categoria, in questo segmento di popolazione, la malattia d’Alzheimer, può rappresentare, assai frequentemente rappresenta, l’unica malattia di cui quel soggetto, è portatore.
La diagnosi, è facile. Non c’è il dilemma: ‘‘Sarà vecchio, non sarà
vecchio’’. Qui, caso mai, ci potrà essere il dubbio se questo deterioramento, che ancora non si è configurato in tutti gli aspetti della demenza, sia espressione di un inizio di demenza. È difficile che non lo sia.
In un soggetto adulto un deterioramento mentale se non è confusione mentale, che è tutt’altra cosa, è sempre espressivo di una patologia che prevede un certo tipo di evoluzione.
Ovviamente, io parlo di tutti quei casi di deterioramento mentale
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u. senin - l. g. grezzana
che, poi, non siano riconducibili a tumori. In questo caso, sono perfettamente identificabili.
La demenza di Alzheimer, poggia su criteri validati a livello internazionale. Sono i più idonei a definire questo tipo di patologia.
Ci mettono al riparo, per quanto è possibile, da errori.
In una nostra casistica, su 84 pazienti portatori di malattia di
Alzheimer, il 94%, accanto alla malattia di Alzheimer, presentava altre malattie.
Questo, che cosa, di fatto, significa? In che cosa, questa co-morbidità, si traduce?
Nel soggetto giovane-adulto, il deterioramento mentale attribuibile alla malattia di Alzheimer, è totalmente riconducibile alla malattia stessa.
In un soggetto anziano portatore di una demenza di Alzheimer,
o no, la presenza di altre malattie e sono molte, può contribuire anche per il 50%, all’entità di quel deterioramento mentale.
L’elenco di queste altre malattie, è lungo e complesso. Cito, ad
esempio, disturbi della vista e dell’udito, scompenso cardiaco congestizio, insufficienza respiratoria cronica da enfisema, utilizzo di certi
farmaci, abuso di alcool, stato di depressione, condizioni metaboliche scompensate, come il diabete, eccetera.
È quello che io chiamo il ‘‘paradosso geriatrico’’.
Questo, comporta delle scelte non indifferenti, per il geriatra.
Ci sono malattie, frequentemente, associate alla malattia di Alzheimer. È complesso, riconoscere la malattia. Non meno complesso,
il trattamento di quel paziente.
Abbiamo detto che c’è la co-morbidità e la necessità di uso di
farmaci. Questa comporta l’uso di farmaci. Implica altre malattie
quali ipertensione, artrosi, eccetera. È una serie di quadri morbosi
che affliggono il paziente anziano, forse ancor più, di quanto non
possa la malattia di Alzheimer.
È riportato nell’ultimo numero di The Medical Letter, un elenco
infinito, impressionante di farmaci, comunemente usati nel paziente
anziano, che possono, di per sé, essere responsabili di un deterioramento cognitivo.
Qui c’è di tutto. Farmaci antibiotici, anti-epilettici, anti-infiammatori, che voi sapete sono al primo posto fra i farmaci utilizzati nella persona anziana, per i problemi dei dolori artrosici e cosı̀ via. Ed
il geriatra e l’anziano demente
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ancora, farmaci cortisonici, fluorochinolonici, oppiacei, chinidina,
digitale, un elenco talmente vasto, che è impossibile citare per intero.
I pazienti anziani sono particolarmente suscettibili a sviluppare
disturbi cognitivi, indotti da farmaci. Si tratta di ammalati, che hanno una maggiore probabilità di evocare questi disturbi, in corso di
trattamento con farmaci multipli.
Co-morbilità, multipatologia, implicano una polifarmacoterapia.
Più malattie insieme, più farmaci insieme.
Inoltre, una ridotta funzione renale ed epatica induce, con più
facilità, ad un danno iatrogeno. È difficile stabilire, in questi ammalati, quanto sia imputabile ai farmaci, un sintomo nuovo o il peggioramento di un sintomo preesistente.
È una situazione di ulteriore difficoltà, di fronte alla quale il geriatra consapevole e colto, cerca di districarsi. Gira con il prontuario
farmaceutico in tasca o con il computer in corsia o nel suo luogo di
lavoro. Li consulta continuamente. Verifica, se quel farmaco che il
paziente sta assumendo o che lui vorrebbe somministrargli, in qualche modo possa interferire sulle funzioni cognitive.
Si cerca di sapere, se quel farmaco sia responsabile o corresponsabile di quel deterioramento mentale o se potrebbe aggravare un
deterioramento mentale già preesistente.
È un puzzle, non facile da risolvere.
La complessità diagnostica e terapeutica, implicano una gestione
impegnativa nell’anziano demente.
Il geriatra ha conoscenza dell’anziano con demenza, dei problemi che si manifestano e che dovrà affrontare nella storia naturale della sua malattia.
Il geriatra si trova impegnato dal momento in cui formula la diagnosi, sino ai momenti ultimi del suo paziente. I bisogni di questo
ammalato sono, per eccellenza, i bisogni di un anziano fragile.
Si tratta, infatti, di un soggetto che realizza una estrema instabilità in rapporto all’invecchiamento. In genere, è molto anziano, ha
molte malattie contemporaneamente. Questa sua co-morbidità, implica l’assunzione di farmaci.
Da ultimo, sono malati che non vivono da soli, ma con un partner, moglie o marito, anch’esso anziano.
I suoi figli, essendo molto vecchio lui, sono quasi sempre anziani.
La sua condizione è, spesso, di instabilità anche sotto il profilo
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u. senin - l. g. grezzana
sociale. È un paziente che può realizzare complicanze anche gravi.
Più è elevato il deterioramento cognitivo, più alta è la probabilità
di istituzionalizzazione.
A parità di tutte le cause, il demente rischia 4 volte di più di essere istituzionalizzato.
La demenza, inoltre, mette il soggetto a repentaglio di mortalità.
Per questi motivi, la Medicina Geriatrica ha proposto, per l’anziano
demente, un suo modello assistenziale idoneo.
È quello che vede nella rete integrata dei servizi, la possibilità di
fornirgli un’assistenza continuata. Sono ammalati che non possono
mai essere abbandonati. Non può essere un aiuto sporadico da fornire quando il problema si presenta.
È un modello, invece, che implica la conoscenza dell’evoluzione
della malattia. Deve essere previsto il percorso assistenziale più opportuno, in rapporto all’evoluzione clinica della malattia.
Questo dobbiamo fare, sino a quando non saremo in grado di
bloccare o di impedire l’insorgenza della demenza.
È una condizione complessa ed intricata, che richiama alla mente
la torre di Babele. Ciascuno utilizza i propri criteri, ricorre ai propri
strumenti, per stabilire se un paziente sia demente o meno, se si tratti
di demenza di Alzheimer oppure no.
La confusione, è spesso sovrana ed il bisogno di formazione,
grande.
Nel 1997, ho coinvolto la Società Scientifica della S.I.G.G., nell’attivazione del Progetto RE.G.AL.
L’acronimo, sta a significare Rete Geriatrica Alzheimer. Ha come finalità quella di far sı̀ che l’anziano demente, abbia la stessa qualità di risposta, sia sotto il profilo diagnostico, sia sotto il profilo del
trattamento e della sua gestione.
Non si poteva permettere che ci fossero regioni fortunate e regioni assolutamente sfortunate.
Il Progetto ha ambizioni democratiche. Si propone che tutti gli
anziani possano usufruire dello stesso trattamento, indipendentemente da dove vivano.
È un Progetto, che ha come obiettivo quello di attivare in ogni
regione italiana, Centri Geriatrici esperti nella malattia di Alzheimer.
Questo è un Progetto, che anticipa il Progetto CRONOS. Quando ho pensato al Progetto, sicuramente, né io né nessun altro sape-
il geriatra e l’anziano demente
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vamo che, da lı̀ a qualche anno, il Ministero della Salute avrebbe attivato il suo Progetto.
Qual è l’elemento portante di questi Centri Geriatrici, esperti
nella malattia di Alzheimer?
È una cartella che obbliga ciascuno a non a seguire le proprie
convinzioni, a seguire i propri percorsi. La cartella obbliga a seguire
un percorso diagnostico strutturato, che impone delle tappe obbligate.
La scheda informatizzata prevede che, se si è ‘‘indisciplinati’’, il
computer non apre alla tappa successiva. Lo ferma lı̀, è bloccato,
non può andare più avanti. Lo stop, è indicativo di un qualcosa
che non è stato fatto a dovere.
Naturalmente, il Progetto ha richiesto che io attivassi un Comitato di esperti.
La cartella informatizzata è finita, è già pronta nel suo dischetto,
che verrà consegnato a tutte le persone della nostra Società, che hanno deciso di aderire al Progetto RE.G.AL.
In questi giorni, alcuni di noi stanno facendo girare questo dischetto, per vedere se c’è qualche intoppo, se c’è qualche cosa da
limare. Il Programma che la Società si è dato, è che alla fine di
quest’anno, del 2001, tutti i Centri Geriatrici regionali di riferimento, individuati sulla base di apposite schede, non solo abbiano
avuto il software, con tutto il manuale di istruzione, ma abbiano
seguito anche un training idoneo.
Devono aver superato una verifica di qualità dei dati che essi sono in grado di produrre. Dalla fine di dicembre, entreranno in rete
per iniziare la costruzione di una banca dati che sarà l’unica banca
dati, d’Italia, circa le demenze nell’anziano.
Per far questo, non basta, ovviamente, ricevere il dischetto. Si
dovrà essere sottoposti a dei training, a dei corsi di formazione, qualora non si facesse parte dei Centri esperti.
Quando si inizierà ad utilizzare lo strumento, ci sarà un controllo
di qualità. Man mano che la qualità risulterà adeguata, si entrerà a
partecipare alla costruzione di questa banca dati.
I Centri partecipanti, erano 75, a novembre del 2000. I Centri
che hanno chiesto di far parte di questo Progetto, si sono attualmente più che duplicati. Anche Centri non Geriatrici, hanno chiesto di
avere a disposizione lo strumento proposto.
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u. senin - l. g. grezzana
Questo, per una Società Scientifica, come la nostra, che sembrava avesse usurpato un territorio non suo, rappresenta un elemento di
grande soddisfazione.
Io chiudo, con queste ultime parole, il mio intervento. Spero che
i messaggi più importanti, che io desideravo inviarvi, siano pervenuti
nella maniera giusta.
Vorrei, che ciascuno di voi, tornasse a casa più ricco di quanto
già non lo fosse quando è venuto. Se cosı̀ sarà, le sei ore di viaggio
che ho fatto per arrivare e le sei ore di viaggio che mi accingo ad affrontare per tornare, saranno per me una fatica lieve e rappresenteranno, comunque, un elemento di profonda soddisfazione.
Vi ringrazio dell’attenzione’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Se c’è qualche domanda, il professor Senin, è ben
felice di dare risposta’’.
Dal pubblico: ‘‘Sono una figlia il cui padre, da 5-6 mesi è ricoverato
in una buona struttura della provincia, dove è assistito con competenza.
Vado a trovarlo tutti i giorni. Il dramma di mio padre, viene condiviso da chi lo assiste.
Era un uomo di grande valore nel lavoro. Il suo, era un lavoro
semplice. Era un commerciante di frutta e verdura. Ha vissuto la
sua vita con intensità.
È nato nel 1913, soffre di diabete mellito.
Io mi domando: ‘‘Oggi, si prolunga la vita, ma col prezzo della
demenza, è tremendo viverla’’.
A volte, è lucido, a volte no. Mi torna in mente, com’era la mia
famiglia una volta. Era una tipica famiglia patriarcale ed, allora, mi
coglie la tristezza di vedere l’ammalato cosı̀.
Io gli dico sempre: ‘‘Papà, non ti ricordi le cose belle?’’ e penso
di aiutarlo.
Lui, di rimando: ‘‘No, non ricordo le cose belle, ma to mama,
vienla miga?’’.
‘‘No, papà, te lo sé che l’è 18 ani che la mama l’è morta’’.
Sono cose non facili. E poi, il degrado della persona. Ha il catetere, si vuole alzare di notte credendo sia giorno.
Noi, non siamo mai preparati, malgrado si sappia che è cosı̀ gra-
il geriatra e l’anziano demente
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ve e che conduca una vita difficile. Si pensa sempre che ci sia qualcosa, una speranza.
Chiedo, allora, al suo dottore: ‘‘Mi può aiutare?’’ E poi, capisco
che non può. Grazie’’.
U. Senin: ‘‘Credo che l’intervento della signora, tradisca tutta la
drammaticità della demenza. Fa capire come la storia naturale della
sua malattia, che nessuno, attualmente, è in grado assolutamente di
modificare in maniera significativa, richieda una risposta da parte
delle istituzioni che non può essere certo il CRONOS.
Il Ministero della Salute, era perfettamente consapevole che
quella non avrebbe potuto essere che una risposta minima ad un
problema immane.
Era, comunque, il modo per partire. Affrontare un problema di
un farmaco, non è come riorganizzare completamente il Sistema Assistenziale sul quale abbiamo costruito la civiltà di questo Paese.
Per poter far fronte a queste situazioni, cosı̀ drammatiche, bisogna pensare in maniera completamente diversa da come si è pensato
sinora.
Ci serve un modello assistenziale, ‘‘a rete’’. Dobbiamo costruire
un progetto, che dia risposte ad una disabilità ingravescente.
Significa, rivoluzionare un Sistema.
È in discussione, se non tutto, quasi tutto ciò che i nostri predecessori hanno costruito. Era una realtà completamente diversa dalla
nostra.
Un tempo, la disabilità era un un fatto sporadico. Interessava
prevalentemente i giovani che subivano incidenti sul lavoro o i soldati che tornavano dalla guerra con varie amputazioni.
La disabilità nell’anziano era un fatto numericamente irrilevante.
Si è costruito un Sistema Sanitario per il paziente adulto, portatore di malattie infettive o che ha esigenze che richiedano interventi
singoli, per risposte specifiche.
Vai dall’oculista, vai dall’otorino, vai dal cardiologo, ma progettare un percorso assistenziale è assolutamente impossibile.
Ogni volta, bisogna ricominciare da capo ed attivarsi per trovare
quale sia il modo migliore, la sede migliore, per affrontare quel problema.
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u. senin - l. g. grezzana
Ripeto, il modello di assistenza continuativa è un modello proposto dalla Medicina Geriatrica. È frutto della cultura geriatrica,
ma la sua realizzazione fa tanta, ma tanta fatica a prendere vita. Forse perché, non c’è la consapevolezza vera. C’è la conoscenza del
fenomeno.
Conoscere una cosa, non significa automaticamente esserne consapevoli.
Questo, richiede tempi più lunghi.
Per noi, che conosciamo il fenomeno, è facile protestare, urlare,
chiedere. Oggettivamente, però, se ci si mette dalla parte di chi amministra, che ha la responsabilità delle scelte...
Realizzare determinati sistemi, quando ciò implica chiudere alcune porte ed aprirne altre, mettere in discussione posti di lavoro, tagliare i rami secchi, riciclare, formare, passare un soggetto che ha acquisito competenze da un settore ad un altro, non è cosa facile.
I tempi, sono lunghi. Capisco che l’anziano, ancor più se demente, non si potrebbe permettere questi tempi lunghi, però la realtà è
questa e noi con questa realtà dobbiamo fare i conti.
Dobbiamo sforzarci tutti, ciascuno per la sua parte, affinché le
idee, quelle giuste, i proponimenti, quelli corretti, un po’ alla volta
si affermino’’.
U. Senin: ‘‘Il figlio del geriatra. Geriatra anche lui e del quale parlavo
nella mia introduzione’’.
M. Grezzana: ‘‘Professore, ho sempre creduto poco alla divulgazione scientifica in televisione, in tutto quello che non è Letteratura
propria del campo e in questi giorni, costretto a casa mio malgrado,
ho guardato parecchia televisione.
Ho avuto occasione di sentir citare studi, apparentemente molto
avanzati, su anticorpi anti-amiloide...’’
U. Senin: ‘‘Il famoso vaccino’’.
M. Grezzana: ‘‘...per parlare in toni molto trionfalistici di vaccinazione contro la malattia di Alzheimer. Volevo conoscere un suo giudizio, anche in rapporto alle concause importanti da un punto di vista
patologico, che ci sono nel paziente anziano’’.
il geriatra e l’anziano demente
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U. Senin: ‘‘La domanda, è quanto mai pertinente e non la poteva fare che una persona estremamente immedesimata nel ruolo che ricopre. Una persona attenta, sensibile, che coglie gli aspetti del nostro
tempo. Lo dico con molta sincerità.
Sono stato invitato a parlare in televisione più volte ed anche alla
radio. Ho partecipato a numerose trasmissioni sulla salute.
La cosa di cui mi sono sempre meravigliato, è che questi organi
importantissimi di informazione dello Stato, ma anche se andiamo
nel privato è la stessa cosa, non hanno un comitato scientifico che
filtri le notizie.
La notizia, dal giornale viene diffusa al grande pubblico del piccolo schermo. È una follia, senza che ci sia una persona che, a fronte
di una competenza indiscutibile, una forte moralità e consapevolezza, dica se quella notizia vada data o meno e quale sia, eventualmente, il modo migliore.
Sul discorso del vaccino anti-amiloide, di cui parlano i giornali, la
televisione, anch’io sono continuamente investito di telefonate dai
miei pazienti. Al nostro Centro si chiede: ‘‘Professore, c’è questo farmaco nuovo. Possiamo ricominciare a sperare?’’.
Il vaccino contro la beta-amiloide, a livello sperimentale, è sicuramente una cosa estremamente affascinante. Pensare di riuscire a
riprodurre ed ottenere nell’uomo quello che si riesce ad ottenere nell’animale d’esperimento, geneticamente manipolato, ne corre.
Lo stesso Giacobini, che è uno dei più grandi esperti di malattia
di Alzheimer, in una conferenza che ha recentemente tenuto all’Università Cattolica di Roma, ha affrontato i nuovi modi per trattare la
demenza.
In questo incontro, ha smorzato il trionfalismo, con cui aveva
parlato di vaccino per la malattia di Alzheimer, qualche mese prima,
in occasione del nostro ultimo congresso di Firenze.
Si è reso conto che, forse, una maggior cautela era necessaria.
Nel frattempo, l’azienda farmaceutica americana che sta portando avanti questo tipo di progetto, ha fatto un incredibile balzo in
borsa.
Per dirvi, come dietro queste cose, ci sia anche una forte speculazione economica’’.
C. Pasoli: ‘‘Volevo, innanzi tutto, complimentarmi per la relazione
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u. senin - l. g. grezzana
che hai tenuto. Vorrei che ponessi l’attenzione su un problema che,
di questi tempi, mi pare importante: i costi dei pazienti con demenza.
Se non ci fosse il supporto familiare, il Servizo Sanitario Nazionale, da solo, sarebbe in difficoltà’’.
U. Senin: ‘‘Sui costi per la malattia di Alzheimer, esiste uno studio
realizzato alla Bocconi, alcuni anni fa e uno più recente del gruppo
geriatrico di Trabucchi.
Quello che si può dire, pur nella grossolanità del dato, perché il
nord è molto diverso dal sud ed entrambi sono diversi dal centro, è
che il costo medio per anno per un malato di Alzheimer, si aggira
intorno ai 30.000 euro.
Di questi, parlo prima del CRONOS, l’80% era a carico delle
famiglie. Bisogna distinguere i costi diretti dai costi indiretti.
I costi diretti, si riferiscono a ciò che si spende.
I costi indiretti, si calcolano molto meno. Sono quelli da ricondurre alla necessità di un figlio di lavorare part-time, oppure di andare in pensione anticipatamente.
Inoltre, il caregiver, va incontro a tutta una serie di disturbi in
rapporto allo stress. Vive una pressione, un’ansia, che gli derivano
da un’assistenza che è ‘‘micidiale’’.
Non per nulla, si dice che la malattia di Alzheimer, ‘‘fa’’ due malati. Il primo è quello che vive la malattia come paziente, il secondo,
è quello che supporta il paziente ammalato.
Sono costi immensi. I 4/5, sono a totale carico delle famiglie’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Vorrei chiederti quanto incidano la genetica e
l’ambiente nell’invecchiamento. Ancora, quanto la cultura, l’abitudine a studiare, a ricercare, ad essere curiosi, ad emozionarsi, possano
proteggerci dalla demenza.
Una precisazione mi sembra importante, perché se da una parte,
poco possiamo sulla demenza, certamente, molto possiamo sugli stili
di vita.
È un punto, su cui possiamo incidere’’.
U. Senin: ‘‘Il modo in cui noi invecchiamo, è per il 50% dovuto alla
genetica, quindi, si riferisce alle caratteristiche dei nostri genitori.
il geriatra e l’anziano demente
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È un fattore intrinseco non modificabile, se non con la manipolazione genetica.
Il 50%, è dovuto al modo in cui noi viviamo.
Questo è sicuramente vero, per il modo con cui invecchiamo, dal
punto di vista della cognitività.
Ci sono dei bellissimi studi, pochi purtroppo, che ci hanno fornito dei dati molto interessanti e convincenti. Sono gli studi, sui gemelli omo ed eterozigoti.
I gemelli omozigoti, sono due soggetti geneticamente identici. I
gemelli eterozigoti, sono due soggetti geneticamente simili, ma non
identici.
Sono andati a vedere, lo stato delle funzioni cognitive nei gemelli
omozigoti ed eterozigoti, arrivati in età molto avanzata, oltre gli 8085 anni.
Poi, si è studiato come fosse lo stato delle funzioni cognitive, in
età avanzata, nei gemelli omozigoti ed eterozigoti.
Hanno visto che i gemelli omozigoti, dal punto di vista intellettivo, erano invecchiati in maniera molto simile, mentre i gemelli eterozigoti, erano più frequentemente discordanti nel modo di invecchiare.
Questo, sta a significare che la genetica è un elemento che conta.
Nell’indagine relativa a questo studio, si è cercato di capire,
quanto avessero influito, sotto il profilo cognitivo, il periodo di vita
cosiddetto condiviso ed il periodo di vita cosiddetto non condiviso,
nei gemelli.
Il periodo di vita condiviso, è il periodo in cui i gemelli vivono
nello stesso ambiente ed ancora sotto l’influenza educativa dei genitori. Frequentano le stesse scuole, la stessa classe, eccetera.
L’ambiente di vita non condiviso, è quello che vede i due esseri,
ormai adulti, prendere ciascuno la propria strada. Chi fa un mestiere, chi ne fa un altro.
Si è visto che il periodo di vita condiviso, influenza in misura significativa, determinate funzioni cognitive, mentre altre, vengono influenzate solo marginalmente.
Questo, ci dà ragione di un qualche cosa che è nel nostro stesso vissuto. Noi sappiamo che, per quanto riguarda certi comportamenti, ‘‘sentiamo’’ molto il tipo di educazione che abbiamo ricevuto.
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Ci sono impronte, che rimangono, per tutta la vita. Anzi, condizionano il modo di comportarci anche da vecchi.
Se noi partiamo da questa premessa, è chiaro che il patrimonio
genetico che noi ereditiamo alla nascita, sicuramente ci allinea a livelli diversi di partenza.
Ci sono bambini più dotati, ci sono bambini meno dotati.
Poniamo l’esempio di un soggetto che parta da un livello alto rispetto un soggetto che parta da un livello più basso.
Un certo peso, nel modo come questi due individui evolveranno,
per quanto riguarda l’invecchiamento cerebrale, sarà sicuramente influenzato dal patrimonio di partenza.
Ammettiamo che il soggetto che parte da un livello più alto, per
tutta una serie di vicissitudini, conduca una vita di povertà, di miseria, una vita più grama, rispetto all’altro.
È possibile che chi parte da un livello più basso, ad un certo momento, possa superare quello che è partito da un livello più alto e
trovarsi, da molto vecchio, con un quoziente intellettivo, con capacità cognitive superiori al gemello che era partito avvantaggiato.
Le vicissitudini della vita, gli hanno fatto perdere il vantaggio di
partenza.
È chiaro, che sono concetti teorici perché, di questo, manca la
evidenza e noi abbiamo bisogno delle prove.
Siamo convinti che è cosı̀, anche perché ci piace pensare che sia
cosı̀. Ci piace pensare che, in fondo, noi ci possiamo giocare il modo
di diventare vecchi, ma in che misura, poi, questa chance ci sia stata
data è difficile poterlo dire’’.
I DISTURBI PSICOTICI DELL’ANZIANO
M. Trabucchi - S. Bonapace
Negli ultimi anni, si è compiuta molta strada rispetto agli iniziali
tentativi, nell’assistenza agli anziani cronici. Nel dopoguerra, vi è stato un appannamento dell’interesse per la cronicità. Non ci si è accorti che stava cambiando l’epidemiologia. La cronicità è problema fondamentale della Geriatria.
Oggi, è necessario prendersi la responsabilità dell’innovazione
per evitare di dover gestire un fallimento. In una determinata cultura
conservatrice si considera il cronico, un ammalato bisognoso solo di
interventi assistenziali. Fondamentale, invece, è sfruttare le innovazioni tecnologiche che ci permettono di essere giocatori intelligenti
in questo campo ed offrire il massimo possibile al malato.
Solo un ottimismo, continuamente alimentato dagli studi e dal
riconoscimento di una ricerca biologica innovativa, permette di credere in una modificazione possibile.
La problematica della cronicità si accompagna a quella di una ricerca scientifica, mirata a studiare meccanismi biologici che sottostanno alle diverse patologie croniche, nel tentativo di delineare dove
si collochi il meccanismo primario di malattia.
Si prospetta, a breve, la possibilità di curare la malattia di Alzheimer e tutte le malattie neurodegenerative. Alcuni risultati di recenti
studi, fanno ritenere che la carenza o totale mancanza di determinati
fattori neutrofici su cellule preposte alle funzioni cognitive, siano la
causa della A.D. A tale proposito, Rita Levi Montalcini afferma che
verrà realizzato il Nerve Growth Factor (fattore di crescita) umano,
tramite la biologia molecolare ottenendo, quindi, la possibilità di inserirlo in zone cerebrali, in modo significativo.
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m. trabucchi - s. bonapace
La scienza sta facendo importanti e notevoli conquiste nella speranza, tra circa 10 anni, di sconfiggere le demenze con queste tecniche od altre. Recentemente, si è dimostrato in un modello murino di
AD, che l’immunizzazione con la proteina beta amiloide inibisce la
formazione di placche amiloidi e dei neuriti distrofici associati. Questi risultati, hanno fatto pensare alla possibilità di un vaccino contro
la malattia di Alzheimer. L’ipotesi è in sperimentazione clinica e tante sono le domande che devono ancora trovare risposta prima di
prendere in seria considerazione tale opportunità. Comunque sia,
con la Biologia e la Medicina sperimentale, ci troviamo ad agire in
uno scenario positivo, gravido di speranze. Nel frattempo, fino a
quando la ricerca ci permetterà di prevenire o arrestare le malattie
neurodegenerative, dobbiamo abbandonare la vecchia logica assistenziale ed affidarci ad una logica diversa, cambiando l’approccio
mentale e dell’assistenza.
Le malattie croniche realizzano conseguenze sull’individuo, che
sono influenzate dal contesto sociale, economico, familiare e culturale. L’aumento di queste malattie e la disabilità conseguente, determinano riflessi socioeconomici che condizionano il modello organizzativo assistenziale. Le nuove organizzazioni del Sistema Sanitario, prevedono ospedali con ridotti posti-letto e tempi di degenza molto
brevi: in questo contesto, dobbiamo inserire la storia di cronicità.
È necessario affrontare, in modo razionale, i problemi assistenziali per i cronici sia a livello territoriale che istituzionale. Non vanno
sottovalutati i riflessi che, ogni intervento, può determinare sul malato.
Opinione comune è che il malato cronico si trovi meglio nell’ambiente familiare, a contatto con le persone a lui care. Il carico
assistenziale della famiglia, però, spesso non trova risposte valide
nelle istituzioni che non riescono a far fronte alle necessità del malato e dei suoi parenti. Fondamentale è, dunque, creare una rete di
servizi in grado di rispondere alle difficoltà che una gestione quotidiana di questi pazienti implica. Recenti studi, indicano che 1
americano su 6 è caratterizzato da una condizione cronica che impedisce una vita normale. A conferma di questi dati, una ricerca
svolta a Verona dall’Organizzazione Mondiale della Sanità considerando soggetti ricoverati per scompenso cardiaco, ictus cerebri o
fratture, ha dimostrato che a distanza di 2 anni dalla dimissione
i disturbi psicotici dell’anziano
171
ospedaliera, l’80% di essi presentava una condizione in grado di limitare la loro autonomia.
La disabilità è una realtà importantissima nella cronicità e sembra rappresentare un’ambiguità del progresso.
Il progresso ci permette di prolungare la spettanza di vita degli
individui, ma non garantisce loro il mantenimento dell’autonomia.
Il 65% dei soggetti, con limitazione della loro libertà, risultano essere persone sole, che non possiamo permetterci di abbandonare. Il
cronico determina un grosso impatto economico sulla società, basti
pensare che il 70% di tutte le spese sanitarie sono ad esso destinate,
essendo responsabile del 56% delle visite in Pronto Soccorso e
dell’80% dei giorni trascorsi in ospedale.
A questa situazione precaria, dobbiamo rispondere con l’innovazione. Fino ad ora siamo stati più creativi e flessibili nell’assistenza ai
bambini ed, ora, scontiamo la storia pagando in termini di organizzazione. Per affrontare l’anziano debole con tutte le sue fragilità si
richiede sempre maggiore competenza, una preparazione migliore rispetto a quella che serve per approcciarsi al paziente giovane. Ciò
permette al medico o ad altro operatore sanitario, di difendersi dal
‘‘burn-out’’, dalla depressione, dal sentirsi inutili, da tutte quelle sensazioni che nascono da una visione perennemente negativa.
Con la cultura, infatti, ci si pone un obiettivo da raggiungere, si
trova la strada corretta per affrontare le difficoltà di percorso senza
intraprendere una logica assistenziale ripetitiva che, a sua volta, può
solo determinare un ragionamento eutanasico.
Un altro concetto da modificare, è quello di ‘‘umanizzazione’’.
Infatti, questo è un termine privo di significato dato che ogni individuo è già umano. Il termine è bene sostituirlo con quello di ‘‘normalizzazione’’ che, invece, sottolinea l’importanza di dover mirare,
sempre e comunque, a rendere la vita del malato il più normale possibile. Di fronte al malato cronico si tende a porsi in modo negativo,
tendendo ad evitare i problemi, evitare le cadute, evitare le piaghe da
decubito, senza promuovere una migliore qualità di vita del paziente. Con un pensiero tendenzialmente negativo, il rischio è quello di
imporre al malato le proprie scelte, dominando lo scenario senza
permettergli di conservare il più elevato livello di autonomia.
Importanti fattori di rischio per lo sviluppo precoce di sindromi
di disabilità e di aumentata morbilità e mortalità nell’anziano affetto
172
m. trabucchi - s. bonapace
da malattia cronica, sono i disturbi psicotici. A questo gruppo appartengono disturbi caratterizzati da alterazioni del pensiero, delle senso-percezioni, dell’affettività e della psicomotricità, che finiscono per
influenzare il comportamento del paziente stesso. I disturbi psicotici
rappresentano la prima causa di rottura tra il paziente demente e il
sistema di assistenza. Si crea un disagio nel caregiver, che non riesce
a sopportare la sintomatologia psicotica del suo assistito, il quale diventa, in questo modo, ad alto rischio di ospedalizzazione.
Il disturbo psicotico è spesso limitato nel tempo. Si calcola che si
protragga per circa 2-3 anni; ciò permette di prevedere un ricovero
temporaneo durante il periodo in cui il disturbo è devastante. A questa esigenza non può e non deve rispondere una sorta di manicomio.
Recentemente, in Lombardia, è stata approvata la sperimentazione di reparti specializzati per la cura dei pazienti con demenza severa
e devastanti disturbi psicotici.
Gli ambienti devono essere luminosi, con pochi rumori, con ausili e supporti finalizzati a garantire la sicurezza dei malati. L’ambiente non deve creare reazioni negative nel paziente demente, ma deve
anche non essere troppo protesico. Infatti, l’operatore o il familiare,
per arginare il proprio senso di impotenza, rischia di diventare iperattivo e sostituirsi al malato, non rispettandone la privacy e le capacità decisionali residue. L’adozione di interventi ambientali e l’adeguato comportamento del caregiver, assumono valenza terapeutica
in corso di malattie come la demenza. L’ambiente può compensare
o accentuare le conseguenze del deficit cognitivo e condizionare lo
stato comportamentale del paziente.
Nel trattamento farmacologico delle psicosi, negli ultimi anni,
abbiamo a nostra disposizione una famiglia di farmaci, i cosiddetti
neurolettici atipici, che sono considerati agenti con attività sia antidopaminergica che antiserotoninergica. Possiedono una buona efficacia, comportando minori effetti collaterali rispetto agli antipsicotici tipici. Citiamo, in particolare, il risperidone e l’olanzapina che
danno una minore probabilità d’insorgenza di effetti collaterali extrapiramidali.
Linee Guida, per il trattamento di disturbi comportamentali in
pazienti con demenza, indicano il risperidone come farmaco di prima scelta, nel trattamento di sintomi psicotici a breve e lungo termine. Trova indicazione primaria nella terapia dell’agitazione, in corso
i disturbi psicotici dell’anziano
173
di delirium. I mezzi farmacologici concorrono, insieme agli altri precedentemente presi in considerazione, a migliorare la qualità di vita
di questi pazienti. Nell’anziano, i disturbi comportamentali e del
pensiero possono essere espressione di una demenza, ma anche manifestazione di un delirium. Poiché il delirium negli anziani rappresenta una condizione potenzialmente a rischio per la vita, è necessaria un’adeguata diagnosi.
Il termine delirium è stato introdotto dai latini per indicare disturbi di tipo ipoattivo o iperattivo a carico del Sistema Nervoso
Centrale. Solo nel 1980, però, il termine è diventato un’entità nosologica standardizzata, per poi venire revisionata nel 1987 e nel 1994.
Il delirium è uno stato clinico, non una malattia, ad esordio rapido, caratterizzato da alterazioni fluttuanti della coscienza fino a
marcata confusione, disorientamento e riduzione della memoria. In
questa definizione sono raggruppati i tre criteri fondamentali per fare diagnosi: si tratta di un disturbo della coscienza di sé, che determina alterazione delle funzioni cognitive e che insorge, acutamente,
nel giro di ore o giorni. È una manifestazione che ha grande impatto
nella pratica geriatrica quotidiana, risultando presente nel 10% dei
casi all’atto dei ricovero e con un’incidenza del 3-5% durante il ricovero stesso. Queste percentuali tendono ad aumentare fino al
30% nelle Unità di Cure Intensive, nei centri chirurgici o di grandi
ustionati.
Spesso, si manifesta pensiero delirante, paranoide, come allucinazioni visive, tattili od uditive. Il comportamento che accompagna
il delirium, varia da paziente a paziente; può essere caratterizzato da
irrequietezza, agitazione motoria, aggressività o stato di sopore. Il
paziente delirante non risponde a rassicurazioni o al ragionamento,
perdendo il contatto con la realtà. Il delirium può essere la manifestazione clinica di una nuova condizione medica o il peggioramento
di una malattia cronica preesistente; può essere determinato da reazioni o interazione di farmaci, da febbre o traumi. Malattie croniche
o acute devono essere, quindi, prese in considerazione di fronte ad
un paziente confuso o agitato.
Alcune malattie comuni nei soggetti anziani, aumentano la possibilità di sviluppare manifestazioni deliranti.
Per esempio, la patologia ischemica cerebrale, frequente nella
realtà geriatrica, spesso si presenta con un quadro di letargia. Anche
174
m. trabucchi - s. bonapace
infezioni delle vie respiratorie o infezioni delle vie urinarie possono
manifestarsi con confusione mentale. Altre situazioni frequenti, in
cui l’anziano si può presentare confuso o soporoso, sono rappresentate dalle alterazioni elettrolitiche o dalle alterazioni dell’equilibrio
acido-base, dalle malattie tiroidee, dallo scompenso cardiaco, dall’infarto miocardico o dall’ipotensione, dall’ipo e iper glicemia.
Il delirium può derivare anche da un’aumentata sensibilità ai farmaci per sovradosaggio o interazione con altri farmaci. I pazienti anziani tendono ad assumere molti farmaci e, spesso, non si attengono
alle istruzioni. Alto è, dunque, il rischio di interazioni farmacologiche pericolose che possono condurre a delirium tossico.
Una delle più frequenti cause di delirium indotto da farmaci nell’anziano, è riconducibile all’effetto anticolinergico di numerosi farmaci come gli antidepressivi triciclici, gli antipsicotici, gli antiparkinsoniani, le benzodiazepine, la digitale, la xilocaina. Lo stato confusionale che ne deriva, è caratterizzato da disturbo della memoria a
breve termine, disorientamento, ansia, allucinazioni, disturbo dell’attenzione e del pensiero.
Situazione da tenere sempre presente come responsabile dello
sviluppo di delirium, è l’ospedalizzazione. Un soggetto costretto in
un ambiente nuovo e diverso da quello domiciliare, circondato da
individui a lui estranei, non è raro vederlo agitato, disorientato, confuso. I fattori di rischio per lo sviluppo di delirium possono essere
riconducibili all’età avanzata, alla concomitanza di patologia severa,
a stati psicotici preesistenti, alla polifarmacoterapia, o ancora, alla
malnutrizione proteica.
Quest’ultima condizione, sembra essere responsabile di manifestazioni deliranti. Solitamente, una ridotta quota proteica determina
un aumento della frazione libera dei farmaci che, se lipofili, possono
superare la barriera ematoencefalica.
Tutti questi fattori sono tali per cui, la loro azione concomitante,
non risulta di tipo additivo, bensı̀ moltiplicativo.
Nei soggetti più predisposti a sviluppare delirium si ritiene esserci un’alterazione della funzione colinergica. A giustificare il delirium
nelle infezioni, è riportato in Letteratura un ruolo svolto sul Sistema
Nervoso Centrale da parte delle citochine liberate. Queste, sono capaci di determinare alterazioni delle funzioni colinergiche ed influenzare le funzioni cognitive. A dimostrazione di quest’ultima af-
i disturbi psicotici dell’anziano
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fermazione, si è visto che trattando con interferone pazienti con epatopatia cronica, questi, sviluppavano delirium ed iniettando interleuchina in ratti, si osservavano manifestazioni di sopore.
Essendo il delirium un’urgenza medica che spesso annuncia una
patologia sottostante, è bene valutare il paziente globalmente, visionandolo senza sedazione inopportuna. Innanzi tutto, considerando
lo stretto contatto tra malato e personale infermieristico, non bisogna sottovalutare l’importanza di tutti quei dati che si possono ottenere dalle cartelle infermieristiche e che potrebbero chiarire una situazione dubbia.
Di aiuto per la diagnosi, è certamente l’esame obiettivo con la
valutazione dei parametri vitali come la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa, con particolare attenzione all’obiettività cardio-polmonare e neurologica. Di fronte ad un paziente delirante, è opportuno eseguire un breve test cognitivo per capire se il soggetto è
orientato nel tempo e nello spazio, anche solo tramite la semplice richiesta del nome, del cognome e della data di nascita. Non bisogna
dimenticare che le manifestazioni di delirium sono tendenzialmente
crepuscolari, per cui il paziente tende a stare peggio nelle ore notturne, dove presenta maggiormente una deprivazione sensoriale perché
tutto diventa meno chiaro ed accessibile.
I tre criteri precedentemente citati, ossia l’esordio acuto, il disturbo della coscienza e le alterazione delle funzioni cognitive, permettono di porre il sospetto di delirium, da cui si parte per ricercarne la causa sottostante. Pertanto, bisogna valutare se il nuovo quadro
clinico è una conseguenza di una patologia acuta o cronica, di un’intossicazione o astinenza da sostanze psicoattive, oppure se si tratti di
un quadro multifattoriale.
Il delirium incrementa la sofferenza ed il rischio di mortalità del
paziente. Infatti, il delirium tende a prolungare i tempi di degenza
aumentando i costi di ospedalizzazione, ma soprattutto accelera la
possibilità di allettamento e la perdita di autonomia del malato. La
prognosi del delirium è buona, se la condizione sottostante è reversibile; diventa, quindi, obiettivo primario sradicare la patologia scatenante. Opportuno è anche, in collaborazione con il personale infermieristico, predisporre misure generali per rendere l’ambiente
tranquillo e rilassato al fine di ridurre gli elementi che rinforzano i
disturbi comportamentali in atto. Manifestazioni deliranti non peri-
176
m. trabucchi - s. bonapace
colose, non richiedono il trattamento farmacologico ed è buona norma evitare i farmaci ogni volta che sia possibile. Qualora si ritenesse
opportuno impiegare i farmaci, questi devono avere il compito di ridurre la sofferenza ed il disagio del malato e non quello di facilitarne
la gestione.
UNITÀ OPERATIVA GERIATRICA PER ACUTI
G. Masotti - A. Ungar - L. G. Grezzana
L. G. Grezzana: ‘‘Benvenuti a questo incontro. Sono tutti importanti
gli incontri e questo è particolarmente significativo per il tema che
tratta.
È doveroso ricordare che la prima Divisione di Geriatria, in Italia, nasce a Verona nel 1954. Inoltre, la prima Cattedra di Geriatria
nasce a Firenze un anno prima. Firenze e Verona, meritano un plauso particolare per avere anticipato, in un modo cosı̀ intelligente, i bisogni della società.
Quando ho cercato notizie per presentare il professor Giulio
Masotti, ho avuto informazioni che, in parte, conoscevo.
Il professor Masotti è ordinario di Geriatria all’Ospedale ‘‘Careggi’’ dell’Università di Firenze, ha insegnato a Sassari, ha insegnato
a L’Aquila, è direttore della Scuola di Specializzazione di Geriatria e
Gerontologia a Firenze.
È presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, è
vice-presidente della European Union Geriatric Medicine Society.
Ha condotto numerosi studi.
Però questo non mi bastava.
Non mi bastava, perché volevo qualcosa in più ed allora ho chiesto notizie ad Andrea che è un collaboratore del professor Masotti.
Ancora qualche mese fa quando ci siamo trovati a Montecatini,
ho chiesto ad Andrea: ‘‘Mi dovresti dire qualcosina di ‘‘particolare’’
sul professor Masotti’’. Successivamente, Andrea mi ha detto: ‘‘Non
ti so cosa dire. Il professor Giulio Masotti ha dedicato tutta la sua
vita agli ammalati, allo studio’’.
‘‘Sı̀, – dico – ma non mi basta’’.
Allora ho cercato Giovanna. Giovanna Fè è la segretaria totipo-
178
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
tente della S.I.G.G. Le ho posto la stessa domanda. ‘‘Che cosa devo
dirle? Non so dirle, non saprei!’’
Poiché sono un cocciuto, ho detto a Giovanna: ‘‘Giovanna mi
devi dare il numero di telefono della mamma del professor Masotti’’.
Ho chiamato la signora Lina, la mamma di Giulio si chiama Lina. L’ho chiamata due sere fa e le ho detto: ‘‘Senta signora Lina, non
mi va di dire che il professore è ordinario... che qua e che là, i soliti
bla bla che sappiamo tutti. Lei mi deve dire qualcosa di più!’’ ‘‘O che
le devo dire – mi fa – O che le devo dire, una mamma del su’ figliolo
non può parlare che bene’’. ‘‘Sı̀, ma io devo sapere qualcosa di più’’.
‘‘Senta – fa – mi chiami domani’’.
E allora ieri sera l’ho chiamata.
Si è pure goduta e mi ha detto: ‘‘Guardi, il mi’ figliolo voleva andare a lavorare in Africa, da piccolo, poi ha lasciato perdere, è rimasto qua. Però il ciclismo, ah! Il ciclismo. Il mi’ figliolo è appassionatissimo di ciclismo. Tifava per Coppi, il mi’ figliolo, perché il su’
babbo tifava per Bartali. E lui ogni anno va quasi in pellegrinaggio
sulla cima Coppi. C’ha pure la bicicletta, ma è sempre appesa al
chiodo e questo non va bene’’.
L’ha detto la tu’ mamma, eh! M’ha detto che tu, la bicicletta, la
devi usare di più, devi lavorare di meno. Meno vecchi, più bicicletta.
Dovrei dirlo anche a me.
‘‘E poi, ama tanto i cavalli, gli animali’’. Ma, dico: ‘‘Che cavallo
gli piaceva di più?’’ ‘‘C’era un cavallo bianco che gli piaceva tanto!’’
‘‘Come si chiamava?’’ ‘‘Non lo so, era anche un po’ stupido come
cavallo, ma non so come si chiamasse. A lui piaceva tanto!’’
E poi da ultimo, ha detto che avrebbe donato dei cimeli di Gino
Bartali, al museo che sta per essere allestito su quel grande campione.
Mi sembrava doveroso richiamare qualcosa che toccasse da vicino il professor Giulio Masotti perché abbiamo lavorato insieme a
Montecatini, ci siamo capiti subito, è stato bello. È bello averlo qua.
È soprattutto importante che i vecchi vengano curati bene, perché se i vecchi vengono curati bene, mantengono l’autonomia.
Come più volte mi è capitato di ribadire, se mantengono l’autonomia, sono più contenti e costano meno alla società. Il che, non è
poco.
unità operativa geriatrica per acuti
179
Quando sento che ci vogliono gli ospedali ‘‘leggeri’’ per i vecchi,
dissento.
Sono cose che vengono dette da chi i vecchi li legge sui libri o da
chi si fa raccontare come stiano i vecchi da gente che li ha letti sui
libri.
I vecchi, sono difficili, terribilmente difficili.
Giulio, a te la parola’’.
180
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
G. Masotti: ‘‘Buona sera, ringrazio Luigi anzitutto per questa affettuosa presentazione. Accanto alla Geriatria ha toccato alcuni punti
che mi stanno altrettanto a cuore. Questo mi fa molto piacere, piuttosto che le formali presentazioni accademiche.
Dunque, con Luigi Grezzana siamo amici da poco. Vorrei dire
che per me è un’amicizia senile, quindi le amicizie senili, come sapete
sono più forti di quelle che risalgono all’età giovane; è un’amicizia
per me molto importante perché, come ha detto lui, ci siamo intesi
subito.
Sono qui fra voi ed è impressionante lo spettacolo che è di fronte
a me sapendo che ci sono altri ascoltatori, sapendo il livello di questa
Scuola. Mi sento un po’ nervoso ed emozionato.
Ho letto in questi mesi, l’ho letto alla svelta, ma Luigi Grezzana
me l’ha donato alcuni mesi fa, un suo libro che si chiama ‘‘Andare
pensando’’.
Io, venendo da Firenze, siccome c’era un traffico piuttosto intenso, ho avuto modo di ‘‘andare pensando’’ per tre ore. Quindi, ho potuto chiarirmi le idee ed ho ripensato un pochino a quello che mi
ricordavo nella prefazione del suo libro dove dice che, da quasi vent’anni, insegna all’Università della Terza Età e non è mai mancato
una volta. Lui, ritiene di aver battuto un record.
È chiaro, perché questa faccenda mi abbia fatto capire come le
iniziative di Luigi siano di grande portata culturale, molto serie. Perciò, nel venire qui da voi, ero un po’ nervoso ed emozionato. Spero,
spero di cuore, di essere all’altezza delle aspettative sue e di chi mi
ascolta.
Voglio ancora citare un’altra cosa della sua prefazione nell’affrontare il problema dell’anziano.
Ho trovato una definizione veramente giusta del geriatra, che nei
miei decenni di militanza clinica non avevo ancora rilevato. Lo leggo
perché credo sia una premessa indispensabile per noi che lo facciamo ogni giorno, probabilmente ancora di più, per i giovani che si
accingono a questa attività clinica.
‘‘Bisogna convincere l’opinione pubblica che a curare gli anziani
il geriatra è più bravo per un motivo molto semplice: perché li conosce, ma soprattutto perché li ama’’.
Ecco, io credo che questa sia la premessa importante per tutti
noi. È una professione che molte volte presenta grandi difficoltà.
unità operativa geriatrica per acuti
181
Ci sentiamo spesso soli nella società e, quindi, lo sforzo che noi dobbiamo fare ogni giorno, è possibile solo se amiamo questa professione.
Dobbiamo amare queste nostre persone per le quali molte volte
rappresentiamo l’unica speranza nel loro mondo sociale.
Passiamo adesso a quello che è il mio compito. Parlerò dell’Unità
Geriatrica per Acuti, cioè dell’Ospedale per Acuti.
Io presenterò questo problema inquadrandolo, per altro, in una
prospettiva un po’ più ampia, cioè nell’ambito dell’assistenza all’anziano che parte dall’Ospedale per Acuti, ma non si esaurisce lı̀.
Una statistica recente, dati ONU del 2002, evidenzia in modo
piuttosto impressionante, quale sia la percentuale di soggetti ultrasessantenni in tutti i paesi del mondo. L’Italia, è al primo posto.
Quindi, fra tutti i paesi del mondo, l’Italia è quella che ha il numero
più elevato di soggetti anziani, esattamente il 25%, ben di più del
Giappone, della Germania, della Grecia e cosı̀ via.
Questo ci fa già capire quale possa essere l’aspettativa della dimensione geriatrica nel nostro paese; è molto maggiore rispetto agli
altri paesi europei ed extra-europei, perché da noi il numero degli
anziani e, quindi, il numero di chi ha bisogno del geriatra e dell’Organizzazione Sanitaria, è molto maggiore.
In Italia, attualmente, il 20-25%, è rappresentato da ultrasessantenni, ma se andiamo a fare una proiezione nel 2050, avremo oltre il
30% di anziani. Quindi, questo è già un dato di enorme importanza,
per l’Assistenza Sanitaria, per i medici e per chi fa politica sanitaria.
L’altro punto che consegue immediatamente a questo dato, è
che nelle ultime fasi della vita, noi assistiamo ad un fenomeno estremamente importante.
Una statistica di un grande studioso americano Stanley Katz, anche se non aggiornatissima perché è di alcuni anni fa, rappresenta la
durata della vita e l’aspettativa di vita a 65 anni.
Tutti sappiamo che l’uomo ha una vita più breve, la donna ha
una vita più lunga come pure l’aspettativa di vita, per tutti i quinquenni di età. Il fenomeno estremamente importante, non è tanto
la durata della aspettativa di vita ad una certa età, ma il fatto che
gli ultimi anni della vita vengano vissuti in condizione di disabilità.
Per un soggetto fra 65 e 69 anni femmina, l’aspettativa di vita è
ancora di 20 anni, ma di questi circa la metà, cioè 10 anni, vengono
182
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
vissuti in condizione di disabilità. L’uomo ha un’aspettativa di vita
più breve, però, l’aspettativa di vita attiva è esattamente uguale.
Questo, sorprendentemente, si ripete per tutti i quinquenni di
età: da 70 a 74 anni la durata della vita attiva è la medesima. La donna, però, ha una durata di vita disabile quasi doppia.
È un fenomeno importantissimo del quale dobbiamo avere una
profonda conoscenza e al quale dobbiamo indirizzare i nostri obiettivi.
Nell’80, Fries disse: ‘‘Sicuramente, la vita aumenterà di durata:
che cosa ne sarà della durata di vita attiva?’’
In altre parole, quale modello avremo? Aumenterà la durata totale, rimanendo inalterata la durata della vita attiva e, quindi, uno
vivrà di più, a scapito di una più lunga durata della vita disabile.
Oppure, sarà possibile per noi campare di più, però riusciremo
anche a ridurre le malattie, la disabilità, di modo che sarà aumentata
la durata di vita totale, ma soprattutto la durata di vita attiva.
Fries fece questa considerazione nell’1980.
Per circa 10-12-15 anni, la prospettiva sembrava indicare l’aumento della durata di vita totale. Purtroppo, talvolta, non si allunga
il tempo della vita attiva, ma quello della vita disabile. Fries, che si
era espresso per questo tipo di sviluppo, sembrava stesse per essere
smentito.
Le ricerche ultime, invece, sono in un certo senso confortanti,
perché sembrano avvalorare questo tipo di ipotesi. In uno studio recente, sono stati studiati soggetti con fattori di rischio per malattie
cardiovascolari di tipo basso, moderato o alto.
La disabilità, tre mesi prima della morte, è significativamente più
lunga nei soggetti con elevati fattori di rischio ed è molto minore, 0-4
mesi, nei soggetti che abbiano scarsi fattori di rischio.
L’impennata, cioè la progressione della disabilità, che di solito
precede la morte, è anticipata nei soggetti con molti fattori di rischio;
in altre parole, questo lavoro dimostra che è possibile prevenire la
disabilità.
Ma c’è un altro studio, un’altra osservazione dell’ottobre del
2002, ancora più confortante. Un certo numero di soggetti fragili
e quindi già disabili con più di 75 anni, è stato diviso in due gruppi.
Un gruppo, lasciato alla sua normale attività e alla sua normale cura
unità operativa geriatrica per acuti
183
medica, l’altro gruppo, invece, in cui veniva fatto un programma di
attività fisica a domicilio.
Era un’attività fisica organizzata, programmata a domicilio, in
cui non solo i soggetti venivano fatti muovere in maniera controllata,
ma venivano fatti eseguire degli esercizi fisici che tendevano, a ridurre la menomazione. In altre parole: il mal di schiena, un dolore al
ginocchio, la riduzione della forza muscolare.
Ebbene, che cosa è stato visto? Questo tipo di attività, riduce la
progressione del declino funzionale fra i soggetti che, già all’inizio,
erano soggetti disabili e fragili.
Questo ci consente due osservazioni: in soggetti sani, attraverso
il controllo dei fattori di rischio, è possibile ridurre l’epoca della
comparsa della disabilità. Ancora più importante, in soggetti già disabili con programmi non di prescrizione farmacologica, ma di stile
di vita, è possibile ritardare la progressione del declino funzionale.
Ecco allora che Fries nel 2000, cioè 20 anni dopo la sua previsione, fa il consuntivo di questi studi e dice che è possibile posticipare
di almeno di 10 anni l’insorgenza della disabilità e, con interventi
volti a modificare lo stile di vita, è possibile prevenire la perdita dell’autonomia.
Quindi, di queste cose noi dobbiamo tenere grande conto perché, probabilmente, è qui l’essenza della Geriatria ed è qui l’essenza
del nostro stile di vita quando stiamo per affrontare il nostro futuro,
la nostra vita dopo i 60 anni.
Sono andato un po’ a vedere la storia della Geriatria italiana ed
ho trovato la prolusione del professor Enrico Greppi che è stato il
fondatore di questa scienza, nel 1950. Negli anni ’50 nacque la Società Italiana di questa specialità che ha, ormai, 52-53 anni.
Nella prolusione al Congresso Nazionale della Società di Geriatria del ’64, intitola il suo intervento ‘‘Le due anime della Geriatria’’.
Intendeva, da una parte l’anima del medico che cura l’anziano
con il concetto della Medicina Interna cioè curare le malattie, l’ipertensione, il diabete, lo scompenso cardiaco. Dall’altra, l’anima della
Gerontologia che è quella, invece, che si occupa non soltanto, delle
singole malattie, ma del decadimento fisico, della disabilità, dei fattori sociali.
Le due anime della Geriatria: questo dilemma ha percorso la storia della Geriatria italiana fino ai giorni d’oggi. C’è ancora chi sostie-
184
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
ne che l’essere geriatra non voglia dire curare il diabete o l’ipertensione perché quello lo fanno tutti, lo fanno gli internisti, ma sia suo
compito occuparsi solo dell’anziano disabile.
Gli esempi dicono che il geriatra non può avere, non può scegliere fra due anime, ma deve essere la sintesi di ambedue le culture. Deve curare bene le malattie, attraverso i fattori di rischio classici, per
prevenire la disabilità. Deve occuparsi della disabilità, quando è presente, perché questo è un altro punto fondamentale dell’essere geriatra.
Quindi, la sintesi è questa. Incidendo su classici fattori di rischio,
fumo, peso corporeo e attività fisica, ‘‘prima anima’’ della Geriatria,
è possibile controllare lo sviluppo e la comparsa della disabilità, ‘‘seconda anima’’ della Geriatria. Questa è veramente una lezione che
noi dobbiamo tenere presente.
Come deve essere organizzata l’assistenza geriatrica?
La procedura è consueta a molti: l’anziano deve, anzitutto, appoggiarsi al medico di famiglia, deve disporre di una rete assistenziale che preveda l’Ospedale per Acuti, l’Unità Valutativa Geriatrica,
che stabilirà un piano d’assistenza con una specie di angelo custode
che è il case manager.
Il piano d’assistenza dovrà prevedere, oltre all’ospedale, Servizi
Residenziali e, dove mancano, possibilità assistenziali migliori quali
le RSA o le Residenze Protette. Non si devono escludere i servizi domiciliari, soprattutto, Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) che sia
la sintesi del sociale e dell’assistenza sanitaria, il Centro Diurno, il
Centro Sociale.
Tutto questo deve essere rivalutato, controllato, eventualmente
cambiato, con un altro servizio più adeguato. In caso contrario, si
corre il rischio di dare dei servizi che non sono adatti a quel particolare momento.
Questa è la rete in generale che noi dobbiamo avere, ma siccome
l’oggetto principale della mia presentazione è l’Ospedale per Acuti,
vorrei approfondire il concetto di omeòstasi dell’anziano, cioè le capacità di controllo, le capacità di recupero, le risorse che hanno i vari
individui.
Nel soggetto giovane, se c’è una perturbazione di questo equilibrio basale, come ad esempio un aumento della frequenza cardiaca in seguito ad una attività sportiva, entro pochi minuti quando
unità operativa geriatrica per acuti
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cessa l’attività, la frequenza cardiaca ritorna normale. Nell’anziano
questo meccanismo di compenso e di controllo è, in qualche modo,
variato, non alterato, perché si tratta ancora dell’invecchiamento
normale.
L’anziano avrà una modalità di compenso un po’ diversa: o con
oscillazioni più ampie, o con oscillazioni più brevi, vedi per esempio,
quello della frequenza cardiaca. Di questa modalità di compenso,
che è una risposta ad una variazione dell’equilibrio, noi geriatri dobbiamo tenere conto.
Sono variazioni ancora nell’ambito della fisiologia: aumento della
frequenza cardiaca in seguito ad uno sforzo, variazione della glicemia per ingestione di zucchero, sudorazione in estate quando fa caldo. Sono risposte che, nell’anziano, si manifestano alterate.
Se si ammette che nel soggetto, solo per il fatto di essere vecchio,
pur essendo in condizioni di normalità, c’è questa variazione, che cosa succede quando su queste alterazioni si sovrappone una polmonite acuta, un infarto miocardico, una frattura di femore?
Chiaramente, questo equilibrio sarà ancora più alterato. La durata della perturbazione andrà ben oltre questi pochi secondi. Nella
fase acuta, compaiono alterazioni che molte volte portano alla disabilità. Non è possibile da parte nostra che, come dice Luigi Grezzana nella prefazione, conosciamo ed amiamo gli anziani, non si abbia
la giusta tutela.
Su la Repubblica sono state pubblicate alcune lettere negli ultimi
quindici giorni, in cui si leggeva che l’anziano in ospedale, veniva
trattato come un peso da espellere il prima possibile.
Ecco, allora, che ci vuole conoscenza e amore e quindi proprio
nella fase acuta noi non dobbiamo rintanarci nella RSA. La Geriatria
non è cronicità.
Dobbiamo evitare, nella fase acuta, che si creino dei soggetti disabili. Questo principio fisiologico ha una sua realtà, ha una sua rappresentazione nella realtà clinica e, quindi, è ineludibile che sia necessaria l’Unità per Acuti negli ospedali.
Uno studio condotto su 1.279 anziani ricoverati negli Stati Uniti
per una patologia acuta, dimostra proprio questo. Prima dell’ammissione, erano quasi al 100% autonomi nelle sei classiche attività della
vita quotidiana (A.D.L.).
186
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
Che cosa succede dopo un ricovero, con una degenza, necessariamente breve, per legge e per economia?
Ecco che cosa succede. Alla dimissione il 31% di quelli che avevano una buona attività, è peggiorato come ad esempio non essere in
grado di fare il bagno. L’autonomia passa dal 75% al 20%. Noi dobbiamo cercare di intervenire per impedire questo enorme salto in
basso, che è avvenuto proprio in un ospedale dove non era presente
la Divisione Geriatrica per Acuti.
Lo stesso gruppo di soggetti, è stato valutato dopo tre mesi ed
è stato riscontrato che un altro 41%, ha continuato a peggiorare.
Nei soggetti che erano rimasti invariati durante il ricovero, il 49%
peggiora durante i successivi tre mesi, perfino i soggetti che erano
migliorati in un 10%, peggiorano nei tre mesi successivi al ricovero.
Un altro studio del 2002, ha dato dei risultati veramente impressionanti: 2.600 soggetti sono stati suddivisi da un punto di vista cognitivo, distinguendo chi aveva deficit cognitivo da chi ne era esente.
I soggetti che non erano stati ricoverati, dopo un anno, non solo
mantengono la loro capacità, ma la migliorano in maniera lieve. I
soggetti senza deficit sul piano mentale, che erano stati ricoverati, sono peggiorati in maniera significativa, come testimonia il punteggio
dell’A.D.L.
Questo non è dovuto al fatto che hanno avuto una malattia in
più, non è legato alla malattia acuta. È legato piuttosto al fatto che
per 7-8-10 giorni, sono stati ricoverati in una divisione ospedaliera
non attrezzata secondo i principi della Geriatria, validati da tutte
le fonti autorevoli.
Allora che cosa possiamo fare, quale tipo di intervento geriatrico
è possibile in Ospedale per Acuti? Sono possibili tre diverse tipologie.
– Un team di consultazione geriatrico che nell’ospedale fa il servizio per tutte le divisioni, per esempio l’ortopedia, la medicina interna, l’oculistica. Questo team fa la propria consultazione, scrive
in cartella ed esaurisce il suo compito;
– oppure, un team infermieristico geriatrico con un gruppo di
infermieri addestrati che opera nella divisione dove i pazienti sono
ricoverati;
– ed infine, l’Unità Geriatrica per Acuti, in cui non solo gli infer-
unità operativa geriatrica per acuti
187
mieri, ma il personale medico e soprattutto l’ambiente, sono organizzati in una maniera ideale per accogliere i pazienti anziani.
Che cosa si ottiene con queste tre tipologie?
Prima di tutto, parliamo del ‘‘team di consultazione’’.
Per un grande ospedale, avere un gruppo di geriatri, è la cosa
più conveniente e quindi è stata studiata a lungo in tutti i paesi del
mondo, come ha dimostrato la sterminata Letteratura in proposito.
I risultati, però, sono stati molto deludenti perché non c’è stato
alcun miglioramento funzionale, c’è stata una scarsa riduzione della
mortalità. Inoltre, è stata pesantemente negativa, la riduzione dell’istituzionalizzazione ed il ricorso alle RSA nella fase successiva.
Vuol dire, quindi, che questa non è una tecnica per curare l’anziano nella fase acuta.
Quali sono i motivi dell’inefficacia?
Il personale di assistenza, le strutture, gli arredi, l’organizzazione,
sono quelle della Medicina Interna dove, molte volte, in alcune realtà l’anziano o il giovane ricoverato per malattia acuta, consuma i
pranzi al letto. L’osservazione del malato è periodica e manca, quindi, della caratteristica essenziale della cura continua.
Nell’indagine appena citata, il geriatra va una volta alla settimana, ma soprattutto le indicazioni del team geriatrico non vengono
prese in considerazione. Infatti il geriatra, l’infermiere, il fisioterapista, scrivono la loro relazione in cartella e il responsabile della cura
molte volte disattende o non condivide queste indicazioni quindi, in
pratica, vanifica l’opera del team.
Passiamo al team infermieristico, composto da infermieri addestrati attraverso un corso idoneo, in maniera continuativa, che poi
opera nella classica divisione di Medicina Interna per Acuti.
Che cosa succede?
Ci sono stati grossi vantaggi. Infatti, nel gruppo di controllo con
le infermiere normali, c’è stato un declino funzionale del 64%. Nel
gruppo di intervento, cioè nella unità operativa di Medicina Interna
dove le infermiere sono state addestrate in maniera corretta, c’è stato
soltanto il 41% che declina sul piano funzionale e la differenza è notevole.
Questo lavoro, questo studio che è del ’93, però, non ha avuto
repliche perché manca la randomizzazione, non c’è stata una suddi-
188
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
visione per gravità eguale fra i due gruppi; la casistica è di solo 66
pazienti, tantoché nessuno studio ha mai confermato questi dati.
Quindi, sicuramente, questo ci dice che la sola componente infermieristica non è in grado di cambiare il destino funzionale dei nostri pazienti.
Rimane, allora, l’Unità per Acuti. Ci sono abbondanti ed importanti dimostrazioni della differenza che intercorre fra curare un anziano in Unità Geriatrica per Acuti e nel reparto usuale.
La capacità funzionale alla dimissione, rispetto al momento dell’ammissione dei soggetti ricoverati nella Unità Geriatrica per Acuti,
peggiora in misura significativamente inferiore rispetto a quella dei
soggetti di controllo ricoverati in Unità usuali. Si rileva, inoltre,
una percentuale di soggetti migliorati, nettamente più elevata, rispetto ai soggetti ricoverati nelle Unità di Medicina Interna classica.
La differenza alla dimissione, poi, rispetto addirittura a 15 giorni
prima dell’ammissione, cioè prima che si verificasse l’evento acuto,
peggiora in modo minore e migliora significativamente.
L’istituzionalizzazione dopo la dimissione, cioè il ricorso alle
RSA, ha visto ben il 36% in meno nei soggetti ricoverati in Unità
per Acuti. Anche per quelli dimessi a domicilio, nei tre mesi successivi, il ricorso alla istituzionalizzazione è stato più basso del 26%.
Non ci sono dubbi dal punto di vista dell’organizzazione dello
studio perché i pazienti sono randomizzati, quindi la gravità dei
due gruppi è equivalente. Questo lavoro è stato pubblicato, nel
’95, su una rivista clinica estremamente prestigiosa.
Un altro lavoro mette a confronto, i risultati sui ricoveri in Unità
Geriatrica rispetto all’Unità di Medicina Interna. Gli effetti nocivi
sull’autonomia funzionale, si fanno risentire sino a 6 mesi e addirittura a 1 anno, nei 12 mesi successivi alla dimissione dall’Ospedale
per Acuti.
Quindi, è chiaro che l’Unità Geriatrica per Acuti, è efficace nel
ridurre la comparsa di disabilità. ‘‘Gli attori’’ coinvolti in un’Unità
Geriatrica per Acuti sono: il paziente, il familiare o caregiver, il medico e l’infermiere.
Volendo analizzare la soddisfazione di questi, entra in gioco una
serie di variabili.
L’ambiente deve essere un ambiente dedicato e studiato con assenza di barriere architettoniche, orologi e calendari ben visibili per
unità operativa geriatrica per acuti
189
mantenere l’orientamento, percorsi, sala per i contatti sociali e per il
pranzo e cosı̀ via.
Sono opportuni interventi incentrati sul paziente con visita quotidiana del team, non più il medico arrogante e stregone che dà gli
ordini; team, l’infermiere, il fisioterapista, quando c’è la necessità
l’assistente sociale ed il parente al letto del malato, insieme al team
sanitario.
Utile è la valutazione quotidiana infermieristica.
Voglio sottolineare l’importanza del ruolo degli infermieri e della
valutazione infermieristica quotidiana delle funzioni fisiche, cognitive, psicosociali. Dobbiamo sapere se un anziano degente nel nostro
reparto, è capace di andare in bagno o se è capace di camminare.
Questo è l’approccio giusto per l’anziano. Ci vuole la valutazione
infermieristica perché, questo operatore, è la persona che trascorre
più tempo e che ha più transfert con l’anziano, che meglio conosce
le funzioni fisiche, cognitive e psicosociali.
Infine, protocolli personalizzati. Quindi non indicazioni generiche come ipertensione, ipotensione, dieta, eccetera, ma una individuazione puntigliosa dei problemi di ciascuno.
Valutazione di cure mediche: revisione quotidiana di farmaci e
procedure. Non deve succedere che venga dimenticato un antibiotico per 2 o 3 giorni in più, con la conseguente comparsa di insufficienza renale, cosa che non succederebbe in un soggetto di 50 anni.
Protocolli per ridurre gli effetti collaterali, programmazione della dimissione. Non può esistere che il parente venga chiamato: ‘‘Domattina la mamma viene dimessa’’. Non è questa la modalità. La programmazione delle dimissioni deve avvenire fin dall’inizio, da quando il paziente viene ricoverato; dobbiamo sapere dopo dove andrà, a
casa oppure no, se avrà l’Assistenza Domiciliare, oppure no.
Quindi, obiettivo ‘‘rientro a casa’’ con adeguato piano assistenziale concordato, in anticipo, con i servizi territoriali e con i familiari.
Questo è quanto ci insegna la Letteratura e, questa volta, la Letteratura scientifica è aderente strettamente alla nostra esperienza
quotidiana. Sono decenni che noi percepiamo questo, cioè che l’anziano in certi reparti va peggio, non perché i nostri colleghi siano più
ignoranti, ma perché ritorno ancora alla frase di Grezzana ‘‘perché il
geriatra conosce di più e ama di più l’anziano’’.
Se uno non fa il geriatra, vuol dire che preferisce stare con i bam-
190
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
bini, con gli adulti o con le signore in ginecologia. Se il geriatra ha
scelto di fare il geriatra, vuol dire che ha più propensione per l’anziano.
Sottolineo come nella mia Scuola di Specializzazione, ci sia un’elevata percentuale di giovani che scelgono Geriatria ed io uso fare
loro un colloquio preliminare, umano, non dottrinale e domando:
‘‘Ma perché tu vuoi fare il geriatra?’’ ‘‘Perché ho avuto due nonni
a cui ero affezionatissimo e uno di questi è stato ricoverato in ospedale ed ha sofferto molto. Allora io, per reazione, voglio fare il geriatra’’.
Anche per questo motivo, nell’Unità Geriatrica per Acuti, gli anziani stanno meglio e hanno un deterioramento fisico minore.
Lavori importantissimi, che rivestono notorietà internazionale,
hanno determinato un miglioramento della capacità funzionale,
una riduzione dell’istituzionalizzazione nella dimissione a distanza,
una maggiore soddisfazione, mentre non c’è alcun beneficio sulla
mortalità.
Me lo sono domandato, più volte e non ero il solo.
È essenziale la selezione della casistica? È in grado di condizionare l’efficacia dell’Unità Geriatrica per Acuti? In particolare, è importante nel ridurre la mortalità?
Se andiamo ad analizzare i due lavori famosi che io vi ho presentato, i criteri per essere ammessi in questa Unità Geriatrica, quali
erano?
Solo l’età: ultrasettantenni. Disabilità no, rischio di disabilità no,
la fragilità no, il disagio socio-economico no. Quindi, una persona di
72 anni che magari aveva una polmonite o addirittura un’influenza
trascurata, veniva mandata in Geriatria; non c’è alcuna ragione.
Un novantenne, che ha una sola malattia e che fino al giorno prima
si occupava dei suoi interessi, può andare liberamente in qualsiasi reparto.
Qual è, allora, l’obiettivo del reparto di Geriatria?
Il punto di riferimento di tutti i geriatri, un lavoro classico ormai
di vent’anni fa, che è ancora la nostra stella polare, dice che un’attenta selezione dei pazienti, permette una risposta al trattamento drammatico.
Perché? Perché i soggetti completamente autonomi, secondo
uno studio legato ad un certo periodo in un Ospedale per Acuti,
unità operativa geriatrica per acuti
191
non dovrebbero essere ricoverati in Geriatria. In altre parole, il settantacinquenne autonomo con la polmonite non è assolutamente indispensabile che venga ricoverato in Geriatria. Altrettanto dicasi per
i soggetti con demenza avanzata o malattia terminale. Sono malati
che possono e devono essere ricoverati in Geriatria, però non ci possiamo aspettare vantaggi, perché ormai, in questi pazienti, abbiamo
perso la battaglia con la vita.
C’è un 8,5% degli anziani, che ha una disabilità intermedia e ci
sono problemi che pregiudicano la dimissione a domicilio. In questi
soggetti, i migliorati sono esattamente il doppio rispetto a quelli curati nella maniera tradizionale, le morti sono esattamente la metà.
Allora, che cosa vuol dire? È l’obiettivo dell’Unità Geriatrica per
Acuti. Ovviamente, se questo è l’obiettivo, il reparto geriatrico per
acuti sarà, a maggior ragione, in grado di curare bene anche i soggetti autonomi e soprattutto i soggetti con malattia terminale.
I pazienti con disabilità e che abbiano una malattia acuta, non
possono andare da altre parti.
In Geriatria, devono essere ricoverati questi pazienti e non in altri reparti, altrimenti rischiano di perdere l’autonomia. Ci dobbiamo
porre il pensiero che avremmo un miglioramento inferiore ed un aumento della mortalità.
Un lavoro, notate bene del ’91, ha anche identificato chi sia l’anziano fragile, cioè chi sia a rischio di piaghe da decubito, di malnutrizione, di polifarmacoterapia, di disabilità ed, infine, con problemi
socio-economici.
Si dimostra un significativo vantaggio della valutazione multidimensionale nel miglioramento dei risultati. È un punto che noi dobbiamo tenere presente. Se continuiamo a sostenere che l’Unità operativa per acuti non sia utile a questi pazienti, non dobbiamo poi stupirci se questi ammalati non curati nell’Unità operativa per acuti,
perdano l’autonomia. Perciò nel ’91 era stato già detto.
Allora vuol dire che quei due lavori importantissimi che sono del
’95 e del 2000, non avevano preso in considerazione questi articoli,
perché non avevano selezionato gli anziani sulla base della disabilità
o di tutti gli altri criteri che identificano l’anziano fragile.
Nel 2002 alcuni studiosi del Nord Europa, hanno portato avanti
lo stesso studio, cioè la differenza fra Unità Geriatrica per Acuti e
Medicina Interna, relativamente, però, ai soli anziani fragili ultraset-
192
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
tantacinquenni. Ne è risultato che c’è una ridotta mortalità, con curve addirittura a 12 mesi successivamente al ricovero, in un gruppo di
pazienti molto piccolo (127 contro 127). Il trattamento in Unità Geriatrica per Acuti dei soggetti anziani, fragili e malati riduce in maniera sostanziale la mortalità.
Questa è l’evidenza di oggi. Se agiamo in maniera diversa, dobbiamo assumerci tutte le responsabilità etiche, sanitarie e politiche.
Ciò non basta.
In un lavoro italiano del gruppo della Cattolica di Roma ad opera di Bernabei e Carbonin sugli effetti dell’Assistenza Domiciliare Integrata coordinata dal geriatra, la proporzione dei soggetti che rimangono a casa, è nettamente maggiore nei pazienti curati con Assistenza Domiciliare Integrata.
Se ci soffermiamo sul livello italiano di assistenza, su quanta assistenza domiciliare noi prestiamo, è mortificante. A Milano e a Roma, il livello è del 2%, mentre, la percentuale dell’Assistenza Domiciliare negli altri paesi europei, compresi alcuni non avanzatissimi come la Repubblica Ceca, è ben diversa. Questa è la situazione nostra.
Vorrei portare a conoscenza un dato ristretto, ma significativo,
della mia realtà toscana.
Il numero di richieste, da parte del medico curante, di ricovero
in RSA nel 2001, ammontava a 100 persone. L’Unità valutativa Geriatrica ha ritenuto che 80 di queste fossero adeguate. In 12 mesi
hanno potuto avere il ricovero solo 20 persone e hanno aspettato
una media di 3 mesi. Durante questa attesa, 12 persone sono decedute. Questi dati sono relativi a Dicomano, paese che noi teniamo
sotto osservazione da diversi anni, per quanto riguarda l’evoluzione
degli anziani e l’assistenza.
La percentuale di aiuto nelle attività di base, per esempio, è sostenuto nel 45% dei casi dalla famiglia e, raramente, da personale a
pagamento o dal Servizio Sanitario Nazionale. Inoltre, c’è una grande percentuale di persone che non ha alcun aiuto.
Qual è oggi la famiglia?
Quella degli anni ’50 era composta da tanti figli per due genitori
ed un nonno. Oggi, invece, è formata da un figlio, due genitori e
mezzo, tre nonni o anche più. Questo è dovuto a successivi matrimoni. Quindi una persona giovane ha in carico perlomeno tre nonni e,
diverse volte, anche qualche genitore.
unità operativa geriatrica per acuti
193
Ho voluto esemplificare questa situazione facendo riferimento
alla statua del Bernini, che raffigura Enea con Anchise sulle spalle
ed Ascanio. Ebbene, nella famiglia italiana c’è un figlio che porta
il genitore sulle spalle, ma non per il breve tratto che percorse Enea
fuggendo da Troia, ma per tutta la vita.
Abbiamo visto, a volte, che questo resto della vita dura 10-12 anni. Basta pensare ai soggetti con Alzheimer che vengono lasciati,
molte volte, in una tragica solitudine.
Non è finita.
Ci sono anche i tagli perché si spende troppo per gli anziani e su
la Repubblica, cronaca di Firenze dell’ottobre 2002, si leggeva cosı̀:
‘‘La scure della finanziaria su mense, anziani e servizi. Ecco i tagli
che il Comune dovrà fare’’.
L’Assistenza Domiciliare in Italia dovrebbe essere implementata.
Ed ancora si fanno tagli, tantoché c’è stata una specie di sommossa
per cui pochi giorni dopo su la Repubblica si trova una dichiarazione
affannata di un Consigliere Comunale che dice: ‘‘Nessun anziano sarà messo fuori delle Residenze’’.
Ma qual è il nostro livello di assistenza?
La Spesa Sanitaria in percentuale del PIL, nell’anno 2000, della
nazione che ha il più alto numero di anziani del mondo, è 5,9%,
mentre tutti gli altri paesi d’Europa, che hanno una percentuale di
anziani significativamente minore, è in tutti più elevata. Per esempio,
in Germania, è l’8%.
Spesa Sociale: Italia 0,58%, per l’O.C.S.E (Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico) fra l’1 ed il 3% e abbiamo
il coraggio, ogni anno, arrivata la Finanziaria di tagliare ancora questi
livelli.
Un altro motivo: le persone sane e giovani lavorano a sufficienza
essendo aumentata la vita media?
I dati ISTAT del ’99 dicono che fra i 55 e i 59 anni, il 46% non
lavora più. Fra i 60 e i 64, il 70% non lavora ed allora è difficile che,
senza cambiare questo trend, noi riusciamo ad andare avanti senza
avvilire ulteriormente l’assistenza agli anziani.
Si arriva a queste proposizioni che, mi duole dire, non vengono
da un politico o dai politici che si occupano magari dei lavori pubblici, ma vengono dall’ambito stesso della Geriatria. È stato detto:
‘‘Per questo motivo è giusto dare di più perché un giovane soprav-
194
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
viva, piuttosto che prolungare l’esistenza di un anziano’’. Con quest’ottica quando l’anziano si ammala, dopo aver lavorato una vita,
gli si nega quanto gli spetta perché dobbiamo salvare i giovani.
Allora io mi domando: ‘‘Possiamo sostenerlo che gli anziani se si
ammalano non vanno curati?’’
Vorrei portare alcuni esempi: Madre Teresa di Calcutta.
Questa Santa, ha avuto dei problemi nell’ultima parte della vita
e, malgrado vivesse in un paese povero, è stata curata fino all’estremo, forse anche troppo. Allora non è vero che l’anziano, quando si
ammala, non bisogna curarlo per curare i giovani. Perché non è
vero?
Perché se l’anziano ha dei valori, questi valori vanno rispettati.
Rita Levi Montalcini.
Rita Levi Montalcini è del 1909. Se la professoressa Montalcini
ne avesse bisogno, avrebbe tutta l’assistenza possibile.
Oppure Sean Connery, che è già in età geriatrica, in caso di necessità avrebbe le cure idonee.
Perché Rita Levi Montalcini ha dei valori in sé stessa, dei valori
scientifici, Sean Connery ha dei valori d’immagine, ha il valore di
simpatia, ha i valori, probabilmente, di attrazione fisica e forse sessuale. È un simbolo e nessuno direbbe: ‘‘Neghiamogli le cure’’.
Vorrei portare, invece, alla vostra attenzione un’anziana che
non ha nessun valore né spirituale, né scientifico, né di sex-appeal.
Si chiama Margherita, ha 98 anni e io voglio leggere pochissime righe per descrivervi questa signora, che è giunta alla nostra osservazione.
‘‘Ha 98 anni, abita in San Frediano nella zona più tipica e meno
socialmente elevata di Firenze. È vedova dal ’56, da quando aveva 51
anni. Vive sola, in un appartamento al primo piano, senza ascensore.
Cucina e fa le pulizie di casa, da sola. Due volte la settimana va al
supermercato, che dista 45 minuti a piedi. Da 24 anni frequenta
per 2 pomeriggi la settimana una palestra vicino casa, insieme ad altri anziani, con i quali si ritrova ogni tanto la sera, dopo la palestra, a
mangiare una pizza con la birra.
Ha una figlia di 71 anni, ricoverata in un istituto da 6 anni, per
emiparesi sinistra. Ogni giorno, da quando la figlia è ricoverata, da 6
anni, prende due autobus per andare a trovarla. Ha con sé i cambi di
unità operativa geriatrica per acuti
195
biancheria della figlia, che lava a mano e li riporta, a lei, puliti, il
giorno successivo’’.
La politica sanitaria di risparmio e di razionalizzazione delle risorse impone delle scelte. Secondo quest’ottica, avremmo dovuto
negare l’intervento di protesi valcolare aortica, perché costava 20 o
30 milioni e la signora era molto anziana?
Noi abbiamo scelto la politica di farla curare. È stata operata di
sostituzione valvolare aortica a 98 anni. La signora si è ripresa e le
sono state scattate delle fotografie insieme con il gruppo dei curanti.
Questa signora m’ha detto dopo tre o quattro giorni: ‘‘Professore, ma la fotografia non me la dà?’’ È stata operata esattamente il 16
Gennaio. Pensate l’abbiamo scoperto dopo, la coincidenza... 16
Gennaio, giorno del suo 98º compleanno.
Siccome volevo portare qui alcune sue fotografie, le ho mandato
il fotografo ieri l’altro. Le ha telefonato dicendo: ‘‘Signora Margherita, verrei a farle la foto perché il professor Masotti la vuol presentare ad un Congresso’’. Questa dice: ‘‘No, oggi no, perché io oggi
pomeriggio vado in palestra’’.
Insomma, abbiamo fatto bene a non ascoltare la discriminazione
dell’assistenza sulla base dell’età e questo, credo, sia dovere del geriatra e di tutti quelli che si occupano di assistenza sanitaria.
Al giorno d’oggi, l’immagine non è quella dei politici che ci dicono: ‘‘L’anziano va curato meno’’. L’immagine dell’anziano nelle
nostre famiglie di ogni giorno non è questa.
Scusate, un piccolo accenno personale. Luigi Grezzana ha parlato con mia madre. Mia madre ha 86 anni e, credo, che lui abbia avuto l’impressione di una persona efficiente. Comunque, se ne avesse
bisogno, certamente le darebbe una mano.
Questo discorso personale penso lo facciano in tanti, soprattutto
quelle persone che non hanno un avvocato difensore, che sono sole.
È proprio sui più deboli che noi abbiamo la rivalsa.
Voglio chiudere solo con una considerazione, su come l’immagine sociale del vecchio sia cambiata. Una fotografia pubblicata su Life
nel ’99 ritrae sei generazioni e gli anziani sono nel contesto della famiglia. È un orgoglio per loro averli. Non credo che i parenti più
giovani abbiano verso gli anziani un senso di repulsione o di abbandono.
Porto anche l’esempio di un’altra famiglia di 5 generazioni che
196
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
abita vicino a me, a Pistoia, anzi vicino a mia madre. I super-nonni
sono perfettamente inseriti in famiglia, hanno una casa dignitosa e
non credo che il pensiero medio dei successori sia che, se questi
s’ammalassero, li lascerebbero perdere. Io non credo affatto che
sia cosı̀.
E che il sentimento medio verso gli anziani, non sia quello che i
politici ci fanno credere, è anche dimostrato da un termometro abbastanza attendibile che è quello della pubblicità.
Infatti, da un punto di vista economico, spesse volte l’anziano è
un bersaglio importante. Gli anziani sono molti e, non di rado, hanno disponibilità economiche. Talvolta, però, si giunge a proposte di
mercato che non sono propriamente a vantaggio di chi abbia superato una certa età. Il geriatra, comunque, deve sempre adoperarsi
nelle cure per il nostro prossimo che è invecchiato... Grazie’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Siamo in una Scuola Medica Ospedaliera, ma l’ovazione mi sembra che abbia tracimato giustamente, sottolineando la
tua lettura straordinaria. Io ti ringrazio di cuore e chiedo a voi, a
chiunque di voi, se ci siano domande.
Il professor Masotti, è ben felice di dare una risposta... Allora
prego... Il dottor Pasoli rompe il ghiaccio, se altri sono interessati,
siamo qua’’.
C. Pasoli: ‘‘Volevo solo ringraziare il professor Masotti perché ha tenuto una lettura veramente interessante. Una Divisione di Geriatria,
per rispondere a quelle che sono le necessità nella cura degli anziani,
deve avere delle caratteristiche particolari.
Prima di tutto, il personale addestrato e acculturato, deve essere
anche numericamente valido. Un altro punto, che mi pare rilevante
in una Unità Operativa per Acuti di Geriatria, è il ruolo del terapista
della riabilitazione che è altrettanto importante quanto l’assistenza
medica ed infermieristica’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Prego, Giulio’’.
G. Masotti: ‘‘Sı̀, io sono completamente d’accordo. Non so se ho
sottolineato abbastanza. Ho insistito sul ruolo degli infermieri, ma
unità operativa geriatrica per acuti
197
ho detto il team in cui ci debba essere il fisioterapista, in cui ci debba
essere l’assistente sociale e, ripeto ancora, anche i familiari.
Io voglio prendere qui l’occasione, però, per sottolineare come
l’Unità Operativa di Geriatria in Ospedale per Acuti, non debba essere un’isola. Deve essere collegata con il Territorio perché, altrimenti, tutto quello che facciamo in Unità Operativa, dopo una settimana, se il paziente lo rimettiamo nel ‘‘deserto’’, non abbiamo ottenuto nulla.
Quindi, servirsi delle varie opzioni territoriali e soprattutto dell’Assistenza Domiciliare Integrata, è essenziale per mantenere i livelli
di autonomia e anche di controllo di altre malattie’’.
L.G. Grezzana: ‘‘Ci sono altre domande? Prego. Enrico’’.
E. Valvo: ‘‘Professor Masotti, nell’ambito del modello, di cui lei ci
ha parlato sostenuto dalla Letteratura, il miglior ambiente per l’anziano è la Geriatria.
Come vede i pazienti che hanno dei problemi specialistici, cardiologici, nefrologici, gastroenterologici? Cioè, dove dovrebbero andare e come dovrebbero essere gestiti? Grazie’’.
G. Masotti: ‘‘Dunque, per quelli con problemi specialistici, credo
che dobbiamo di nuovo distinguere.
Se la patologia, per esempio l’infarto miocardico acuto, è una patologia singola o perlomeno è accompagnata da altre situazioni non
gravi, allora possono andare anche se hanno 85 anni, secondo la mia
visione, in Cardiologia.
Se c’è una divisione di Geriatria che abbia esperienza di terapia
subintensiva ed intensiva, anche l’ottantacinquenne con un unico
problema, credo non sia male se va in Geriatria.
Oggi, bisognerebbe cambiare tutti gli ospedali e ‘‘farli’’ tutti geriatrici, perché la percentuale di persone con meno di 65 anni, ormai
è diventata la grande minoranza. Quindi, non dico che tutti devono
essere pazienti geriatrici, in divisioni di Geriatria, però a maggior ragione, dovrebbero esserlo soggetti che hanno condizione di polipatologia, condizioni di demenza anche lieve, condizioni di delirio.
Nel reparto che dirigo, vi è una terapia Intensiva Geriatrica per
Acuti con terapia Intensiva Coronarica. Vedo arrivare degli anziani
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g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
che alle tre di notte hanno avuto questo problema, arrivano all’ospedale disorientati e talora vengono scambiati per dementi, quando è
solo un delirio.
Quindi, non perché il geriatra sia più bravo, ma perché ha più
consuetudine, conosce un po’ di più le malattie tipiche dell’anziano,
per dirne alcune: la demenza, il Parkinson, l’incontinenza urinaria.
Credo, che se c’è una patologia principale anche specialistica con
polipatologia, sia opportuno che l’anziano sia in divisione di Geriatria e lı̀ chiedere la consulenza del collega piuttosto che mandare in
Divisione specialistica un soggetto anziano in cui il problema acuto è
solo uno dei molteplici problemi’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Ci sono altre domande? Allora ne faccio io una. Io
continuo a dire ai miei collaboratori, ai miei medici e ai miei colleghi,
che noi abbiamo un destino talvolta crudele perché siamo obbligati
ad essere 5 volte più bravi degli altri. Siamo obbligati, è quasi un pedaggio che si deve pagare e si deve esser più bravi per i seguenti
motivi.
Innanzitutto, perché curare il vecchio è terribilmente difficile. I
suoi quadri clinici sono estremamente complessi.
Bisogna convincere chi di dovere, che noi siamo più bravi.
Se l’anziano lo curiamo bene, sta meglio e costa meno alla società. Se non si capisce in tempo quello che ha, l’anziano lo perdi. Bastano poche ore.
È una guerra terribile, è una guerra difficilissima. Però sono anche convinto che sia molto gratificante.
Siamo fortunati a fare il lavoro che facciamo e, credo anche, che
siamo fortunati a vivere, tu Giulio e noi, in città che hanno anticipato
e capito questo problema.
L’anno prossimo svolgeremo a Verona il Congresso Nazionale
della SIGOs, ove tu sei invitato già da adesso. Il target di questo
Congresso sarà ‘‘L’importanza della Geriatria per Acuti in un ospedale ad alta tecnologia’’ perché siamo convinti che questa sia una
grandissima ricchezza per la nostra città.
È una richiesta un po’ articolata, la mia. Quello che si chiede, ma
più che a Giulio lo chiedo ai giovani, è di mantenere forte la tensione, la passione. Solo cosı̀ si potrà portare avanti le motivazioni essenziali per difendere questa scienza.
unità operativa geriatrica per acuti
199
Di fatto, altre scienze sono scontate. La nostra non è scontata, ce
la dobbiamo guadagnare tutti i giorni, ma io sono fiducioso perché
ho certezza che i giovani geriatri saranno più bravi di noi’’.
G. Masotti: ‘‘Sı̀, io condivido pienamente quello che hai detto Luigi,
in particolare l’osservazione che il geriatra deve essere preparato,
non voglio dire più bravo, deve essere preparato.
Su questo punto, io credo che il geriatra non sia migliore o più
caritatevole per volere divino, ma credo che sia più competente per
quelle patologie dell’anziano, perché ha studiato, perché ha avuto
esperienza.
Voglio solo sottolineare un aspetto personale. Io sono cresciuto
nell’ambito della Medicina Interna, sono stato allievo del professor
Teodori, qui chi ha studiato Medicina qualche anno fa conosce il
trattato e allievo del professore Neri-Serneri. Ad un certo momento,
ho scelto la Geriatria.
Non so se sono un buon geriatra o se sono un geriatra preparato.
Devo dire che, personalmente, questo processo per passare da Medicina Interna di una Scuola, che credo di un certo prestigio, alla
Geriatria, ho dovuto studiare, fare esperienza fuori d’Italia, in Europa e negli Stati Uniti per più di un paio d’anni.
Questo, per dire che siamo orgogliosi, di essere geriatri. Credo
che il geriatra sia la persona più adatta per curare l’anziano nelle
situazioni complesse. Non si è geriatri per etichetta. Il nostro sforzo, a questo punto di formazione, va verso i giovani perché la formazione in Geriatria è più lunga e più faticosa che in Medicina
Interna.
Noi dobbiamo fare lo stesso percorso e dopo occuparci di qualcosa di più.
Non possiamo permetterci, noi geriatri, di inviare l’anziano malato con polipatologia, ad una serie di specialisti.
Prendere gli appuntamenti, andare agli ambulatori, non è proponibile per gli anziani che non sono capaci di queste peregrinazioni.
Non hanno l’abilità manuale e visiva d’andare a pagare i ticket dieci
volte per andare dall’urologo, dal cardiologo o dal neurologo.
Quindi, grande orgoglio di fare il geriatra, però, anche senso di
responsabilità affinché non tolleriamo che ci siano persone che fanno i geriatri o che i giovani si addentrino in questa attività assisten-
200
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
ziale, in questa disciplina, senza aver fatto l’iter formativo necessario’’.
Dal pubblico: ‘‘Da qualche anno sono state introdotte nelle nostre
famiglie le badanti. In un recente articolo, s’è visto che, con le badanti, sono diminuite le domande nelle RSA del 20%. Mi piacerebbe conoscere se, a suo modo di vedere, queste nuove figure, avrebbero bisogno di una formazione. Grazie’’.
G. Masotti: ‘‘Io intanto ho parlato, voglio precisare, della specializzazione che ci deve essere in Ospedale per Acuti.
In Ospedale per Acuti dove abbiamo uno delirante che ha
tre-quattro malattie, solo per capire quanti farmaci prendeva a casa ci vuole una pazienza enorme.
Bisogna fare due o tre telefonate ai familiari perché il paziente
non è in grado di riferire quali medicine assumeva a casa.
In un Ospedale per Acuti, credo che non sia tollerato un livello
generico di formazione in tutti i ruoli, infermieri, medici, terapisti e
vorrei dire anche operatori socio-sanitari.
A casa, è un’altra questione. Perché a casa accanto alla tecnica, ci
vuole la presenza, ci vuole una certa disponibilità, ci vuole una sorveglianza. Molte volte l’assistenza consiste nella sorveglianza, perché
spesso noi perdiamo l’anziano perché non è sorvegliato; cade, si trova spaesato la notte e cosı̀ via.
Quindi, le badanti vanno bene. Ovviamente, ci sono in molte nostre realtà, corsi di formazione per badanti: perciò meglio la badante
che le RSA, però se la badante ha una piccola formazione, è ancora
meglio’’.
Dal pubblico: ‘‘Professore, sono un infermiere professionale, lavoro
in una Medicina Interna e, quindi, come attività è molto vicina a
quella di una Unità di Geriatria. Vorrei esprimerle una preoccupazione che sento veramente dal profondo del cuore ed è questa.
Vedo sempre dei dati riportati dalla Scienza, in cui si sottolinea
come l’importanza dell’assistenza infermieristica sia veramente forte
e soprattutto in questi tipi di Unità, Geriatria e Medicina Interna.
Vengono forniti dei dati del tipo: non superare il rapporto paziente-infermiere 1-5/1-6. In una nostra rivista infermieristica, addi-
unità operativa geriatrica per acuti
201
rittura, era stato sottolineato che quando gli infermieri sono pochi, le
terapie falliscono e si muore di più, con tanto di ricerca realizzata
nell’Università di Pennsylvania. È una pubblicazione riportata anche
dalle migliori riviste di Medicina americane.
Mi nasce un dilemma. Di chi è la responsabilità se ancora oggi,
purtroppo, abbiamo reparti in cui gli infermieri sono pochi, non superano magari le 3 unità per turno, addirittura il pomeriggio 2 e magari devono seguire 15 pazienti? Come fanno questi infermieri a sentirsi motivati e mantenere alta la qualità? Grazie’’.
G. Masotti: ‘‘Condivido pienamente. Condivido pienamente tutto
quello che ha detto e lo sottoscrivo.
Io ho elencato alcuni dati e credo d’aver forse enfatizzato addirittura più il ruolo dell’infermiere geriatrico rispetto al medico, però,
la situazione è questa.
Nel mio reparto, siamo in carenza cronica e voglio dire anche
un’altra questione: gli infermieri continuamente cambiano per cui
quando uno è formato in Geriatria, magari viene spostato. L’altro
giorno, mi è arrivata un’infermiera. Ha vinto il concorso e fino a
tre mesi prima faceva la segretaria d’azienda.
Non è possibile una programmazione in questo modo. Questa,
arriva il primo giorno in terapia intensiva! Allora, come è possibile
che questa poveretta risponda alle esigenze, se non ha avuto un’adeguata formazione!
Arriva uno che era in oculistica, per vari motivi di alchimia aziendale, che io molte volte non capisco, ma cerco di giustificare. C’è carenza di infermieri e, quindi, gli amministratori non possono avere la
bacchetta magica.
Quando ho cominciato a lavorare, l’infermiera a 19 anni entrava
e poi andava in pensione a 60 anni con lo stesso livello e magari con
lo stipendio all’incirca uguale.
Ci vorrebbero invece delle progressioni in funzione del grado.
Ora abbiamo anche i gradi universitari, abbiamo la laurea triennale,
abbiamo i master e avremo, a Firenze l’abbiamo attivata, la laurea
specialistica.
Oggigiorno, servono infermieri qualificati. Sono professionisti
responsabili che devono mirare ad una giusta realizzazione e ad
202
g. masotti - a. ungar - l. g. grezzana
una certa autonomia. Infine, è doveroso che venga riconosciuto l’onere del loro prezioso lavoro.
Però c’è anche un dato obiettivo della carenza di, chiamiamola
cosı̀, di vocazione verso questo tipo di mansioni.
Voglio rimarcare che, fortunatamente, a Firenze siamo in una situazione in cui perlomeno la Geriatria esiste, ha una lunga tradizione. Abbiamo ormai l’esperienza per formare il personale e, quindi,
speriamo che queste realtà si possano moltiplicare.
Vedo con piacere che qui la disciplina, la modalità assistenziale, i
problemi della Geriatria, fanno capire che siamo in una zona dove
parliamo la stessa lingua e di questo, io da geriatra e anche da Presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, non posso
che compiacermi sperando che questi esempi si possano moltiplicare
anche in altre zone del Paese’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Se non ci sono altre domande, noi tutti ringraziamo Giulio Masotti, gli diciamo arrivederci e, a tutti voi, un grazie di
cuore’’.
FARMACI: FRA MITO E REALTÀ
S. Garattini
I farmaci sono una delle risorse più importanti della medicina e
dovrebbero essere utilizzati nell’interesse esclusivo degli ammalati.
In realtà, la nostra società è diventata ‘‘farmacocentrica’’, nel senso
che nei confronti del farmaco, spesso, pone una fiducia entusiastica
ed eccessiva e si attende per ogni problema una soluzione di tipo farmacologico.
Un corretto approccio al problema deve essere bipolare. Da un
lato, si devono considerare gli enormi successi ottenuti in ambito
medico, dall’altro, è necessario evitare il trionfalismo e valutare, invece, in modo critico ‘‘luci’’ ed ‘‘ombre’’ della ricerca e della terapia
farmacologica. Il progresso ottenuto dalla farmacologia dal 1920 ad
oggi, è stato realmente enorme, ma colpisce soprattutto l’osservazione che si sia realizzato, perlopiù, negli ultimi decenni.
Fra i successi di questa scienza (Tabella 1), il più importante, forse,
è rappresentato dalla riduzione delle epidemie, ove, oltre naturalmente
ad altri aspetti fondamentali, quali le migliorate condizioni igieniche, il
benessere ed uno stile di vita diverso, hanno giocato un ruolo chiave gli
antibiotici. Grossi progressi sono stati fatti in ambito cardiovascolare.
Gli studi GISSI hanno, ad esempio, dimostrato su ampi campioni di
popolazione, l’efficacia nella riduzione della mortalità post-infartuale,
della streptochinasi e degli ACE-inibitori. Hanno dimostrato, inoltre,
l’efficacia, a scopo preventivo, nelle malattie cardiovascolari degli acidi
grassi insaturi nella dieta e l’inefficacia della vitamina E.
Oggi, i farmaci permettono di controllare in modo migliore le
malattie croniche. Pensiamo, ad esempio, all’utilizzo degli ACE-inibitori nella terapia dell’ipertensione arteriosa e nella prevenzione
204
s. garattini
contemporanea dell’insufficienza renale. Un’altra tappa importante è
stata rappresentata dalla simvastatina, uno dei nuovi farmaci ipocolesterolemizzanti, che ha dimostrato un notevole risultato in termine
di prevenzione di infarti miocardici.
Vantaggi notevoli sono stati ottenuti, in particolare, nelle malattie
respiratorie. Anche il vaccino antinfluenzale si è dimostrato efficace
agli ultrasessantacinquenni. Probabilmente, però, l’indicazione principale di come i farmaci abbiano contribuito alla salute pubblica, è rappresentato dall’aumento della vita media, come viene riportato nella
figura 1. Naturalmente, altri fattori per comprendere questo aspetto
devono essere considerati, ma di sicuro, i farmaci vi hanno contribuito
in modo rilevante.
Tab. 1 - I successi della farmacologia
Diminuzione delle epidemie
Diminuzione della mortalità cardiovascolare
Controllo delle malattie croniche
Aumento dell’età media
Accanto agli indubbi successi della farmacologia, devono essere
considerati anche alcuni aspetti che accompagnano il cammino di ta-
Figura 1.
farmaci: fra mito e realtà
205
le ricerca e che, non sempre, hanno una connotazione completamente positiva.
Il campo del farmaco è diventato necessariamente un settore di
grande interesse industriale. Dapprima, si trattava di un’industria di
tipo ‘‘artigianale’’. Successivamente, si è trasformata in grande industria. Come tale, ha fatto valere le leggi del mercato, le leggi del profitto economico, in un settore in cui, invece, l’interesse prevalente
dovrebbe essere rappresentato dalla salute del cittadino.
Secondo dati forniti da recenti statistiche, l’industria farmaceutica, fra le diverse categorie merceologiche, rappresenta quella col
maggior profitto netto in assoluto. Il mercato di questa industria, alla
luce degli enormi profitti, risulta cosı̀ molto appetibile e ha spostato
l’interesse per il farmaco su un terreno meramente economico, a scapito di tutte le altre considerazioni.
Il predominio del mercato (tabella 2), si attua tramite l’induzione
dei bisogni, il controllo degli studi clinici e dell’informazione. Il principio dell’induzione dei bisogni consiste, essenzialmente, nel creare
false necessità e, quindi, poterle soddisfare. La tabella 3 mostra alcuni esempi dell’enorme ‘‘paccottiglia’’ di prodotti esistenti sul mercato, la cui efficacia non è dimostrata né ha alcuna base scientifica.
Sono, sostanzialmente prodotti inventati dalla pubblicità. Questo vale ancora di più se si considerano i prodotti di erboristeria
ed i rimedi omeopatici che, in linea generale, rappresentano un vero
e proprio insulto al buon senso.
Tab. 2 - Il predominio del mercato
Induzione dei bisogni
Il controllo degli studi clinici
Il controllo dell’informazione
Tab. 3 - Beneficio non dimostrato
Ricostituenti
Epatoprotettori
Cardiometabolici
Cerebroattivi
Vasoprotettori
Immunomodulatori
Farmaci per memoria
Integratori alimentari
Antiossidanti
Anti-radicali liberi
Estratti vegetali
Rimedi omeopatici
206
s. garattini
Ma l’induzione dei bisogni, si attua anche attraverso vie molto
più sottili. Nella tabella 4, viene sintetizzata una nuova classificazione dell’ipertensione messa a punto dall’OMS nel 1999, in collaborazione con la Società Internazionale dell’Ipertensione e l’aiuto della
industria farmacologica interessata.
Tab. 4 - New (1999) WHO-ISH Definitions and Classification of Blood Pression Levels
Category
Optimal BP
Normal BP
High-Normal
Grade 1 Hypertension (mild)
Subgroup: Borderline
Grade 2 Hypertension (moderate)
Grade 3 Hypertension (severe)
Isolated Systolic Hypertension
Subgroup: Borderline
Systolic BP
(mm Hg)
< 120
<130
130-140
140-159
140-149
160-179
>180
>140
140-149
Diastolic BP
(mm Hg)
<80
<85
85-89
90-99
90-94
100-109
>110
<90
<90
Si nota che i valori di pressione arteriosa considerati ottimali, sono <120/80, mentre i normali sono < 130/85. Se tutti i pazienti, indipendentemente dall’età, dal sesso e da altri determinanti, dovessero attenersi a questo livello di normalità, si moltiplicherebbe in modo straordinario il consumo di farmaci antipertensivi.
Di questa classificazione è stata data un’ampia diffusione da
parte dell’industria farmaceutica, con pubblicazione di oltre due
milioni di depliants illustrativi consegnati a medici e pazienti. Contemporaneamente, pochi mesi dopo, usciva un lavoro di Port e collaboratori, in cui si dimostrava che, sulla base del Framingham Study dopo 18 anni di studio, il valore soglia di 140 mmHg per l’ipertensione sistolica, è ingiustificato perché dovrebbe dipendere dal
sesso e dall’età.
Senza entrare nel merito della questione su chi abbia ragione
da un punto di vista scientifico, è significativo sottolineare come
a fronte di una divulgazione capillare, perché interessata, del primo lavoro, si contrapponga una diffusione estremamente ridotta
del secondo. In altre parole, esiste una grande asimmetria in ciò
che si viene a conoscere. Spesso, l’informazione è condizionata
dal mercato.
farmaci: fra mito e realtà
207
Accanto all’induzione dei bisogni, è necessario considerare un altro aspetto importante: il controllo degli studi clinici esercitato da
parte dell’industria farmaceutica.
Dati recenti documentano come nell’arco di dieci anni, dal
1990 al 2000, la quantità di finanziamenti dati dalle industrie alle
Università per la ricerca farmacologica in USA, si sia pressoché dimezzato. Questo, è dovuto al fatto che le industrie farmaceutiche
sono inclini a realizzare studi per proprio conto attraverso organizzazioni commerciali, che tendono a validare studi clinici controllati,
il cui fine è quello di soddisfare le necessità dell’industria farmaceutica. Il risultato, spesso, è paradossale.
Da un’analisi di Brochon e coll. del 1994 si evince come in numerosi studi di confronto, sostenuti dall’industria farmaceutica, sull’efficacia di nuovi farmaci in uso, in nessun caso il farmaco in studio
risulta peggiore del controllo. Altri autori hanno sottolineato che, soprattutto negli ultimi quindici anni, la percentuale di ricercatori che
conducono studi clinici controllati e dipendenti da case farmaceutiche, è in continua crescita. Si tratta, pertanto, di una sorta di autovalutazione.
Possiamo, a ragione, affermare che vi sia una forma di ‘‘sudditanza’’ fra molta parte della ricerca e l’industria farmaceutica. Un
dato in questo senso, viene fornito da uno studio recente, in cui si
dimostra che, fra gli autori che raccomandano l’utilizzo di farmaci
appartenenti alla classe dei calcio-antagonisti nel trattamento dell’ipertensione, il 96% ha relazioni di natura finanziaria con i produttori di questi farmaci. Si tratta, in definitiva, di un vero e proprio ‘‘conflitto di interessi’’ che, spesso, va contro l’evidenza dei
dati.
Un altro aspetto importante è rappresentato dal controllo dell’informazione. La maggior parte delle informazioni che il medico
riceve e sulle quali spesso basa la propria professionalità, derivano
in sostanza da interessi di natura farmacologica. Alcuni autori hanno dimostrato che gli studi clinici controllati pubblicati sui supplementi di riviste scientifiche, come frequentemente accade per i
trials sostenuti dalle case farmaceutiche, sono di qualità molto inferiore rispetto a quelli pubblicati sui numeri regolari della stessa rivista.
Maestri e coll. hanno sottolineato che un medico di medicina
208
s. garattini
generale, in Italia nell’arco di un anno, riceve mediamente la visita
di 432 informatori scientifici, da parte di 102 industrie farmaceutiche, per un totale di 58 ore, evidenziando cosı̀ l’enorme ‘‘pressione’’
informativa, non sempre corretta e completa, sostenuta dal mercato.
Ancora, esistono risultati che difficilmente raggiungono l’attenzione dei medici, sostanzialmente perché non fanno parte di quel tipo di informazioni che conducono a nuove prescrizioni o che potrebbero addirittura ridurne il numero.
Nella tabella 5, sono sintetizzati i risultati di alcuni studi relativi
al rischio di cadute negli anziani, in rapporto al trattamento farmacologico, riportati da Leipzig e coll. nel 1999. Da questi dati, si evince che pazienti che assumono farmaci psicotropi hanno circa il 60%
in più di probabilità di avere cadute, rispetto ai pazienti che non assumono questo tipo di farmaci. Un rischio simile, si ha anche per gli
antidepressivi, per i neurolettici e le benzodiazepine. Per confronto,
come si vede in tabella 6, altri farmaci hanno una scarsa o ridotta influenza sulle cadute.
Per quanto riguarda gli antidepressivi, in particolare, vi sono dati
e studi che hanno una scarsissima diffusione, per ragioni di mercato,
e dimostrano come talvolta i messaggi di propaganda possano essere
ingannevoli. Ad esempio, i cosiddetti SSRI sono associati a minor rischio di cadute nell’anziano rispetto ai triciclici e, pertanto, spesso
vengono pubblicizzati come i farmaci antidepressivi di elezione
per gli anziani.
D’altra parte, secondo dati pubblicati nel 2001 sul BMJ, ma di
cui difficilmente medici di Medicina Generale e specialisti vengono
a conoscenza, sono associati a rischio di emorragia. Gli SSRI inibiscono il re-uptake della serotonina a livello piastrinico. Il rischio è
direttamente correlato alla dose di farmaco ed è variabile fra
10,6% e 14,7% ogni 1.000 persone per anno.
Tab. 5 - Rischio di cadute nell’anziano in relazione ai farmaci assunti
Farmaci
Psicotropi
Antidepressivi
Neurolettici
Benzodiazepine
N. studi
11
11
10
8
OR (Odds Ratio) RR (Relative Risk)
1.66
1.35
1.62
1.27
1.90
1.31
1.40
1.20
farmaci: fra mito e realtà
209
Tab. 6 - Rischio di cadute nell’anziano in relazione ai farmaci assunti
Farmaci
Antiaritmici
Diuretici
Digossina
Nitrati
B-bloccanti
Ca-antagonisti
ACE-inibitori
N. studi
10
26
17
14
18
13
5
OR (Odds Ratio)
1,56
1,08
1,22
1,13
0,93
0,94
1,01
Per contrastare il predominio del mercato, è da segnalare la presa di posizione degli 11 editori delle principali riviste mediche scientifiche internazionali. Hanno vivacemente protestato e, successivamente, preso misure drastiche. Hanno realizzato che molti degli studi clinici controllati, con firma anche di nomi prestigiosi,
esprimevano in realtà l’operato dell’industria farmaceutica. Pertanto,
è stata resa obbligatoria, per la pubblicazione di trials su queste riviste, una dichiarazione in cui gli autori attestano di aver avuto una
partecipazione significativa, in altre parole, che abbiano realmente
scritto il lavoro e ne conoscano i risultati.
Questa presa di posizione rappresenta una vera e propria accusa
pesante, che getta discredito nei confronti della classe medica dei ricercatori, ma rappresenta anche un importante tentativo di correggere un malcostume ancora oggi presente.
Accanto al predominio del mercato, dobbiamo anche analizzare
un sottile tentativo di influenzare l’orientamento della ricerca scientifica. Molto ci sarebbe da dire, ma ci limitiamo solamente ad alcuni
esempi.
Innanzitutto, si sta verificando sempre di più un orientamento
verso la cosiddetta equivalenza. Per confrontare l’efficacia di due
farmaci possiamo utilizzare tre tipi di studi. Studi di superiorità, in
cui si documenta che il farmaco è più efficace del controllo. Studi
di equivalenza, in cui il farmaco è equivalente al controllo. Studi
di inferiorità, in cui il farmaco è o non è, inferiore al controllo.
Da un punto di vista scientifico ed etico, gli studi migliori sono
senz’altro quelli di superiorità. Da un punto di vista, invece, economico, sono preferibili quelli di equivalenza e di inferiorità, perché sono studi che richiedono campioni di pazienti meno numerosi. Ancora preferibili, da un punto di vita del mercato, ma discutibili da un
210
s. garattini
punto di vista scientifico, sono gli studi di equivalenza, perché la ricerca dell’equivalenza è molto spesso una ragione per non voler ricercare una differenza.
Un altro aspetto che tende a modificare ed influenzare l’orientamento della ricerca è rappresentato dall’utilizzo sempre più frequente nei trials, per motivi di praticità e di minor costo, di end-point
‘‘surrogati’’, cioè di parametri più semplici, ma che spesso sono appena indirettamente connessi all’efficacia globale di un medicamento. In altre parole, invece di valutare variazioni nella morbilità, nella
mortalità o almeno nella qualità della vita, si tende ad analizzare per
esempio, il grado di riduzione della pressione arteriosa oppure la riduzione della colesterolemia.
Un esempio è rappresentato dalle statine. Tutti i principi attivi
di questa classe sono in grado, anche se con efficacia diversa, di abbassare i livelli di colesterolemia, ma quello che più interessa è che
per due farmaci solamente, simvastatina e pravastatina, abbiamo
studi che documentano benefici in termini di morbilità e mortalità
e, quindi, benefici dimostrati per il paziente. In questo senso, non
dobbiamo assolutamente dimenticare il caso della cerivastatina,
ove, a fianco di una dimostrata capacità ipocolesterolemizzante,
non vi era una dimostrata riduzione di morbilità e mortalità, anzi,
tutt’altro.
La ricerca può anche essere influenzata tramite i molti bias degli
studi clinici controllati. A seconda di come venga costruito uno studio, possiamo ottenere risultati molto diversi. Per esempio, nel
confronto tra un farmaco in sperimentazione e un farmaco di riferimento, si può, da un lato, utilizzare il farmaco di riferimento ad un
dosaggio inferiore dell’ottimale ed ottenere, quindi, risultati incoraggianti dal farmaco in studio. Dall’altro, si può, al contrario, utilizzare
il farmaco di riferimento ad un dosaggio superiore dell’ottimale. Cosı̀ si ottengono, pertanto, maggiori effetti collaterali avvantaggiando
nuovamente, secondo un’altra prospettiva, il farmaco nuovo.
Come si accennava all’inizio, la ricerca farmacologica ha compiuto negli ultimi decenni enormi passi in avanti. Attualmente, si stanno
aprendo scenari completamente nuovi e molto promettenti, anche se
lo stato della ricerca si trova ancora a livello ‘‘embrionale’’. Mi riferisco alla terapia genica ed all’uso delle cellule staminali.
La terapia genica consiste nel preparare in laboratorio un gene
farmaci: fra mito e realtà
211
che manca, oppure è difettoso, nell’organismo di un soggetto affetto
da una particolare malattia, preparare un vettore, come un virus opportunamente modificato, affinché non sia patogeno. Vi si inserisce
il gene, lo si infonde nell’organismo, affinché si integri nel genoma di
determinate popolazioni cellulari e possa cosı̀ produrre la proteina
mancante. Purtroppo, attualmente la terapia genica è stata utilizzata
con successo solamente in una particolare sindrome da immunodeficienza dei bambini.
L’utilizzo delle cellule staminali, invece, si propone di ‘‘rimpiazzare’’ cellule mancanti, per esempio a livello del SNC, in una delle tante
malattie caratterizzate dalla neurodegenerazione. Le cellule staminali
sono cellule totipotenti presenti, a differenza di quanto si pensava un
tempo, nei tessuti adulti, nel cordone ombelicale e nei tessuti embrionali. Si tratta quindi di ottenere, per esempio, delle cellule staminali
dall’encefalo dello stesso individuo adulto, di isolarle, di farle moltiplicare in vitro e successivamente di sostituire, per esempio nel m. di
Parkinson, i neuroni dopaminergici della sostanza striata.
Un altro metodo è quello di isolare cellule embrionali, riprogrammarle in senso neuronale in vitro, farle espandere e poi impiantarle. Più complesso, è l’utilizzo di cellule provenienti da materiale
bioptico che derivi da qualsiasi organo. Si inserisce il nucleo di queste cellule staminali in ovociti privati del nucleo. Successivamente, si
programma in un particolare senso, la moltiplicazione e l’impianto
nell’organismo.
IL GERIATRA E LA MORFINA
G. Beltrami - G. Menegolli
L’uso degli oppioidi deve essere inserito in un contesto complesso. Sono farmaci, che trovano indicazione per l’anziano che soffre. Il
dolore, può essere acuto, come quello post-operatorio. Può essere
cronico di tipo benigno o, più spesso, legato a neoplasie che nell’anziano hanno prevalenza elevata.
Nella storia dell’uomo, l’uso dei derivati dell’oppio risale a molti
anni fa. Già i Sumeri conoscevano i benefici dell’oppio, pur ignorandone i principi chimici. Sapevano che il succo, che si poteva ricavare
incidendo la capsula non matura contenente i semi del Papaver somniferum, possedeva qualcosa in grado di lenire il dolore in maniera
efficace. Successivamente, gli Egiziani lo usarono in un preparato di
cui parla Omero nell’Odissea.
Infine, l’oppio viene usato dai Romani. È nota una pozione a base di oppio, la teriaca, messa a punto da medici greci e romani; tra
questi, è famosa la teriaca del medico di Nerone, Andromaco il Vecchio. Un altro medico dell’antichità, Galeno, ha proposto questo
preparato diluito con alcool per lenire svariati disturbi come la cefalea, la sordità e i disturbi di vista, fino a far diventare Marco Aurelio
dipendente dall’oppio. Via via nei secoli, con lo sviluppo accelerato
della chimica, si sono appresi i principi contenuti nell’oppio, imparando ad usarli in modo sempre più preciso nel dolore.
Il paziente anziano ha alcune peculiarità che rendono la farmacocinetica, in generale, diversa da quella che si osserva nel paziente
giovane. Una ridotta quota idrica e una ridotta funzionalità degli organi quali fegato e rene, determinano spesso una maggiore concentrazione plasmatica dei farmaci. I farmaci vanno, dunque, impiegati
214
g. beltrami - g. menegolli
con particolare attenzione, anche in considerazione delle alterazioni
fisiopatologiche che si verificano nei vari apparati.
In particolare, l’apparato respiratorio va incontro ad una serie di
alterazioni che determinano una maggiore suscettibilità dell’anziano,
all’azione deprimente dei derivati dell’oppio. Nel Sistema Nervoso
Periferico dell’anziano, si manifesta una deafferentazione capace di
determinare un aumento della soglia del dolore. Ciò, nel paziente geriatrico, ha spesso fatto pensare ad una sorta di ‘‘insensibilità’’ al dolore stesso, portando a trascurarlo. In realtà, non è cosı̀, anche se ci
sono delle alterazioni a carico del Sistema Nervoso Centrale e Periferico che possono rendere ragione di una differente risposta al sintomo.
Il dolore viene definito come un’esperienza spiacevole sensoriale
ed emozionale. Può essere associato ad un danno tissutale reale o potenziale.
Nel dolore vi è sia la componente sensoriale-nocicettiva, cioè
quella che prende origine dai nocicettori, recettori del dolore, sia
una componente emotiva che dobbiamo sempre tenere in considerazione per una valutazione complessiva e reale. Con l’uso della morfina, si rischia di intraprendere una terapia orientata a trattare solo
un aspetto, trascurandone altri che, nel dolore, possono essere presenti.
Tra questi, spesso si dimentica il dolore neuropatico che è iniziato o causato da una lesione primitiva transitoria, del Sistema Nervoso Periferico o Centrale. Tale dolore, che nella malattia neoplastica è
frequentemente chiamato in causa, ha un’elevata resistenza all’uso
della morfina.
La morfina, pertanto, è certamente un presidio importante per il
trattamento del dolore, ma non è la panacea universale. Non risolve,
purtroppo, tutti i tipi dolore.
Il dolore neoplastico, nel 75% dei pazienti affetti da cancro, accompagna e, spesso, precede l’exitus. Quasi sempre, infatti, il dolore
grave è presente nella parte terminale dell’iter neoplastico. L’esperienza indica come pazienti sottoposti a cordotomie o trattamenti
antalgici, abbiano una spettanza di vita che non supera mediamente
i 3 mesi. Ciò, ci fa concludere che il dolore è spesso un sintomo di
aggravamento del quadro clinico e prelude ad una evoluzione sfavorevole della malattia.
il geriatra e la morfina
215
Come cause di dolore neoplastico, la componente espansiva è,
certamente, quella più rilevante. Vi sono anche condizioni di debilitazione, presenza di patologie concomitanti o, ancora, cause terapeutiche o iatrogene, come radioterapia e chemioterapia, che possono
rendere grave il dolore.
Vari sono i determinanti del dolore neoplastico che implicano un
approccio terapeutico diverso.
Infatti, il dolore osseo ha una rilevante componente nocicettiva;
il dolore viscerale ha una manifestazione ed una risposta ai farmaci,
diverse da quello nocicettivo; il dolore neuropatico non risponde alla
morfina, se non in modo minimo e, quindi, andrà trattato con altri
approcci.
Per quanto riguarda l’impiego degli oppioidi, la morfina rappresenta il farmaco di riferimento nella terapia del dolore neoplastico.
Tentando di classificarlo, il dolore può essere suddiviso in tre
grosse categorie.
Dolore che risponde agli oppioidi, dolore che risponde parzialmente agli oppioidi e che, quindi, necessita dell’associazione di farmaci adiuvanti o tecniche antalgiche, dolore resistente agli oppioidi
che può rispondere ad altri farmaci.
Possiamo, inoltre, identificare pseudoresistenza, semiresistenza e
resistenza agli oppioidi.
La pseudoresistenza si verifica, semplicemente, per avere praticato un dosaggio inappropriato o una modalità di somministrazione
inadeguata.
Nel caso in cui la neoplasia interessi i tessuti molli, infiltri i muscoli o ci siano metastasi ossee, si può sviluppare semiresistenza. In
questi casi, il dolore può essere di tipo incident cioè particolarmente
violento e acuto, ben esemplificato dal dolore da schiacciamento vertebrale, dove, la radice spinale viene ad essere compressa ad ogni minimo movimento.
La resistenza si manifesta, invece, quando il dolore è di tipo neuropatico o vi è una componente di spasmo muscolare e, quindi, l’oppioide non è efficace.
Altra difficoltà è la distinzione tra dolore nocicettivo e neuropatico. Spesso, la diagnosi precisa avviene in un secondo tempo, solo
dopo aver abolito il dolore nocicettivo, quando rimane un dolore
persistente sui generis dove vi è una componente disestesica. Per
216
g. beltrami - g. menegolli
‘‘disestesia’’ si intende un’alterazione della normale sensibilità associata alla sintomatologia dolorosa, a differenza della parestesia in
cui vi è una componente di alterazione della sensibilità, ma senza dolore. Spesso, nel dolore disestesico si associano fenomeni di ‘‘allodinia’’ cioè una risposta abnorme, dolorosa a stimoli non nocicettivi
come il semplice strisciare delle lenzuola sulla parte lesa. Nel dolore
neuropatico vi è anche, spesso, una componente urente cioé di bruciore doloroso che lo contraddistingue.
Nella produzione del dolore non interviene, dunque, solo la nocicezione che ha una sua linea di specificità, ma anche altre componenti che non vanno trascurate, altrimenti il trattamento analgesico
risulta insoddisfacente ed inadeguato.
Dobbiamo tenere presente, oltre alla percezione, anche e soprattutto, la manifestazione e l’espressione del dolore in cui siano coinvolti aspetti psicologici come ansia e depressione, che vanno ad incidere in modo profondo sul vissuto soggettivo.
Il capostipite degli oppioidi è la morfina, mentre il principale derivato sintetico è il fentanyl che, da trent’anni, si usa nelle sale operatorie.
Il metadone, farmaco di grande impiego in casi di disassuefazione, ha una lunga emivita e può coprire, cosı̀, molte ore. Tale caratteristica è in grado di rendere l’anziano suscettibile di un accumulo,
non risultandone consigliabile l’uso.
La codeina, ulteriore derivato della morfina ha una emivita vicina a quella della morfina e del fentanyl, rispetto ai quali, ha un minore effetto terapeutico, ma anche minori effetti collaterali.
La codeina è considerato l’oppioide debole, impiegato nel primo
gradino di trattamento di dolori di media entità di tipo neoplastico o
meno. Si pensi all’associazione codeina-paracetamolo.
La pentazocina ha scarso assorbimento gastrico, breve emivita e
può evocare fenomeni allucinogeni. Per questo, non è consigliabile
nell’anziano.
L’eroina, altro derivato della morfina usato nel trattamento del
dolore oncologico, ha una emivita breve e, quindi, non risulta molto
utilizzabile.
Un atteggiamento corretto, prevede che il dolore venga trattato
in modo costante, ad orari fissi. Una titolazione opportuna della terapia, consentirà di partire con un approccio prudente al fine di sag-
il geriatra e la morfina
217
giare la risposta e dosare, nel singolo caso, la posologia ottimale. Bisogna tenere conto che il dolore non rimane sempre uguale durante
le ore della giornata, per cui, è necessario impostare una terapia continuativa che prevenga il dolore, ma anche l’eventuale trattamento,
‘‘al bisogno’’, di crisi dolorose.
Fra gli effetti indesiderati di questi farmaci, particolare rilevanza
riveste la depressione respiratoria. Questo aspetto induce, spesso, a
trascurarne l’uso, malgrado la diffusa disponibilità del naloxone come farmaco antidoto.
Dall’esperienza si deduce, in realtà, che si tratta di un problema
estremamente raro, facilmente evitabile con dose e somministrazione
di morfina e dei suoi derivati in modo appropriato, senza eccedere
nella sedazione.
La tolleranza è un evento raro e a lento sviluppo, nel contesto del
dolore neoplastico; risulta fenomeno particolarmente raro, nel dolore stabile e modificabile con un aumento dei dosaggi.
Per quanto riguarda le vie di somministrazione, si hanno a disposizione le vie classiche (orale, endovenosa, intramuscolare, rettale) e
quelle dirette che portano i farmaci nello spazio peridurale o subaracnoideo. Recentemente, è stata proposta la via transmucosa orale
che consentirebbe di ottenere una buona efficacia nei dolori improvvisi, non coperti da un trattamento continuativo. Altre modalità di
somministrazione, sono la via transcutanea, l’impiego della morfina
e di altri oppiodi per via nasale e tramite ionoforesi.
La via orale per la somministrazione dei farmaci, è spesso, ma
non sempre, praticabile come ad esempio nel caso di problemi di canalizzazione o alimentazione.
La terapia per os deve essere praticata ad orari predeterminati,
impiegando una somministrazione ogni 12 ore o, se il dolore è molto
intenso, ogni 8 ore. I dosaggi vanno valutati e modificati da soggetto
a soggetto, considerando la grande variabilità individuale nella risposta. In base a tale considerazione, è chiaro che la posologia è sempre
molto orientativa. È bene iniziare il trattamento con bassi dosaggi,
fino ad aumentare progressivamente la dose ed ottenere un controllo
ottimale del dolore.
Il dosaggio standard di morfina ad uso intramuscolare è pari a 10
mg. Nelle dosi corrispondenti per os, si deve calcolare una biodisponibilità del 40% e, a volte, molto più elevata. Si può, dunque, pen-
218
g. beltrami - g. menegolli
sare ad un dosaggio da doppio a sei volte maggiore, rispetto alla via
intramuscolare. L’emivita della morfina è breve (2-3 ore), il picco
massimo si raggiunge dopo 1/2-1 ora, la copertura può essere di
6-8-12 ore a seconda delle formulazioni.
Tra i farmaci adiuvanti, sono da ricordare gli antidepressivi triciclici, nati per il trattamento della depressione, ma dotati di effetto
analgesico per il dolore neoplastico.
Altri farmaci utilizzati, sono alcuni antiepilettici come carbamazepina e gabapentin, vanno citati anche gli anestetici locali, gli antistaminici, gli psicostimolanti come caffeina ed anfetamine. Non dobbiamo dimenticare i corticosteroidi, analgesici non stupefacenti come il tramadolo. Da ultimo, si deve ricordare gli psicotropi come
l’aloperidolo, capace di contribuire ad attenuare forme di disforia
che accompagnano e complicano il dolore.
Il paziente geriatrico è notoriamente fragile, complesso, facile a
creare problemi improvvisi e più incline agli effetti collaterali da farmaci. In nome di tutto ciò che fino ad ora è stato considerato, per
affrontare il paziente anziano sono necessarie qualità come la pazienza, la prudenza e la perseveranza, cioè la tenacia per arrivare a dei
risultati, a volte, relativi. L’effetto massimo sul dolore che si ottiene
con l’uso degli oppioidi non è solo sulla percezione, ma anche sulla
componente emozionale che toglie quel circolo vizioso dolore-ansia,
facendo scomparire il dolore stesso.
Precedentemente, si è accennato alla depressione respiratoria
che la morfina può indurre, ma è bene ricordare che la depressione
viene contrastata dal dolore stesso in quanto, finché il paziente ha
dolore, non si ha depressione respiratoria. La dipendenza da questi
farmaci, si verifica quando si sospende improvvisamente il trattamento, sviluppando una sindrome da astinenza. La tolleranza determina un aumento delle dosi del farmaco per ottenere lo stesso effetto analgesico.
I farmaci oppioidi, determinano effetti collaterali fino ad abbreviare il percorso di vita del malato, ma tale considerazione deve essere inserita nel contesto di un dolore, quello neoplastico, che non è
facile sia da sopportare, sia da sedare.
Il dolore neoplastico si diffonde in estensione; aumenta di intensità; è sempre presente; non esistono momenti di assoluta remissione; polarizza il paziente fino all’esclusione degli altri aspetti persona-
il geriatra e la morfina
219
li; determina deterioramento psico-fisico nel malato; ha un impatto
notevole sulla famiglia.
Nell’anziano, le più elevate intensità di dolore neoplastico si manifestano nelle neoplasie ossee primitive o metastasi ossee e nella
neoplasia esofagea.
L’anziano, spesso, ha molto dolore sommerso. Non si lamenta
perché è confuso o non riesce ad esprimersi. È nostro compito valutare il dolore, ma anche prevederlo.
Quando si inizia un trattamento con oppioidi, bisogna tenere
conto che ci si trova di fronte ad una via senza ritorno. Il percorso, infatti, prevederà solo un aumento dei dosaggi e non l’eliminazione del farmaco. In queste circostanze sarebbe opportuno informare i familiari del malato e comunicare loro i probabili effetti
collaterali che la morfina può indurre. Citiamo la confusione mentale, la stitichezza, l’ipotensione ortostatica, il vomito ed altri effetti ancora.
Se è comune pensiero che la morfina riduca la spettanza di vita,
non va dimenticato quanto migliori la qualità di vita.
In alcune condizioni, dovremmo essere portati a preferire la
morfina ed i suoi derivati rispetto ad antidolorifici come i FANS,
per la grave gastrolesività e nefrotossicità di questi ultimi.
Tra l’altro, alcuni autori ritengono che nel dolore acuto dell’anziano, sia necessaria una dose di morfina inferiore rispetto al giovane, per sedare il dolore.
Il dolore cronico è, invece, spesso sottotrattato con oppioidi, nel
paziente anziano oncologico.
Da un recente studio italiano su anziani neoplastici, è emerso che
più aumentava l’età dei pazienti meno si ricorreva a terapia antidolorifica. In particolare, il ricorso agli oppioidi era raro. I criteri che
determinavano un’esclusione della terapia con morfina e derivati,
in questi pazienti, comprendevano un’età maggiore di 85 anni, la
presenza di alterazioni cognitive cerebrali e l’assunzione di più farmaci da parte del malato.
Spesso, si è preoccupati di usare dosi elevate di oppioidi per
paura di danneggiare il paziente anziano, ma il dovere che abbiamo
di alleviare il dolore implica l’aumento dei dosaggi.
Nei soggetti con malattie irreversibili, l’aumento di rischio del
220
g. beltrami - g. menegolli
decesso conta poco rispetto al sollievo del dolore che possiamo ottenere con gli oppioidi.
Non si può permettere che un malato neoplastico lasci la vita
senza sollievo del dolore, per timore degli effetti collaterali.
IL DOLORE NELL’ANZIANO
M. Trabucchi - P. Garzotti - G. Zavateri
L. G. Grezzana: ‘‘A tutti buona giornata. Avete visto quanto è fatto
bene ‘‘Il Fracastoro’’?
Tutti voi, oggi, avete ricevuto e non ne eravate a conoscenza prima, il depliant del Congresso Nazionale della SIGOs, della Società
Italiana dei Geriatri Ospedalieri che si terrà a Verona il 13, 14 e
15 maggio 2004.
La notizia importante che vi voglio dare, è questa: siccome il Presidente di quel Congresso sono io, allora per scelta mia, voi tutti siete
invitati.
Il Congresso è importante. Il Congresso riunirà le massime autorità nazionali ed internazionali nell’ambito della Geriatria. Alcuni relatori arriveranno dagli Stati Uniti, dalla Svezia eccetera. Soprattutto,
ci sarà Marco Trabucchi, con noi, a quel Congresso’’.
G. Zavateri: ‘‘Buon giorno. Dopo tante bellissime notizie, immergiamoci nell’argomento di oggi.
Non so se qualcuno si sia chiesto il perché di questo argomento
‘‘Il dolore nell’anziano’’. L’anziano è diverso dal giovane. Però il dolore nell’uomo si accompagna alla vita. Ciascuno di noi ne ha esperienza dalla nascita alla morte.
Nell’anziano, questa realtà connaturata con noi stessi, ha delle
peculiarità che sono diverse da quelle che possiamo trovare nelle
persone di altra età.
L’aspetto importante è che, nell’anziano, il dolore non è solo un
dolore fisico al quale tutti, istintivamente, siamo portati a pensare. È
un dolore cosiddetto totale che colpisce la persona nella sua globalità.
222
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
Il dolore, non è mai solo fisico, ma coinvolge la psiche ed il mondo che ci circonda.
È anche un dolore morale, frutto di una serie di preoccupazioni
che si acuiscono con l’avanzare dell’età.
È anche un dolore sociale. Dolore di abbandono, dolore di
emarginazione, dolore di chi non ha più una famiglia e che potrebbe
vedere in una morte prossima, una liberazione da tanto patire.
Quindi, nella persona anziana, il dolore è una realtà globale.
Si parla di dolore totale, dolore che coinvolge l’uomo in tutti i
suoi aspetti: il fisico, l’anima, la mente, il presente, il passato, il futuro. Pertanto, è giusto, è fondamentale che chi opera a contatto con
gli anziani, sappia che quando un vecchio soffre, non soffre solo nel
fisico.
Non soffre solo perché ha dolore. Non chiede a noi una compressa, una supposta, una fiala, ma chiede a noi una comprensione
globale.
Qualche volta basta dare la mano ad una persona per ‘‘trasmettere un farmaco’’ che lenisca il dolore. Può essere sufficiente fermarsi
e scambiare qualche parola per togliere la solitudine.
L’ammalato chiede che non si badi solo alla temperatura, alla
pressione, ai battiti cardiaci o agli atti respiratori, ma che ci si prenda
cura di lui.
Non pensiamo sempre solo ai farmaci, sempre solo alle medicine, ma ai bisogni di chi sta male. Non basta la cura, ci vogliono le
cure.
Con questo semplicissimo pensiero, che ho voluto esprimervi
per introdurre l’argomento di oggi, voglio dare la parola ai relatori
ufficiali: il dottor Paolo Garzotti, dirigente della I Geriatria, al quale
chiediamo di attenersi per quanto può, alla mezz’ora circa di tempo.
A lui seguirà il professor Marco Trabucchi, per il quale ricordo
l’incarico prestigioso che ricopre. È Presidente Nazionale della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria.
Farà la sua relazione con un tempo ad esaurimento del tema.
Al dottor Garzotti, la parola. Grazie.’’
il dolore nell’anziano
223
P. Garzotti: ‘‘Un saluto a tutti.
Il dolore nell’anziano è un brutto compagno. È comunque sempre presente nella vita dell’uomo. È un problema che si perde nella
notte dei tempi.
Già gli antichi filosofi, per tutti cito Aristotele, avevano posto la
loro attenzione sul dolore. Nel 1600, Cartesio vedeva il dolore come
un allarme, perciò come condizione utile per l’individuo, una finalità.
Al di là della definizione dell’International Association for the
Study of Pain, quest’aspetto di utilità del dolore è da considerare.
Anche nell’anziano.
Noi pensiamo che gli anziani vengano alla nostra osservazione,
quando provano dolore. Il dolore è un campanello d’allarme.
È un argomento poco studiato. In una interessante review del
1993, vengono considerati 83 studi sull’utilizzo di farmaci anti-infiammatori non steroidei. Sono stati trattati più di 10.000 pazienti,
ma soltanto il 2,3% aveva un’età di 65 anni. Nessuno sopra gli 85
anni.
Questo, fa pensare che il dolore nell’anziano sia poco studiato in
relazione all’utilizzo di analgesici in generale ed, in particolare, di
FANS.
Un altro studio, altrettanto interessante, riporta l’uso di farmaci
in 3.154 anziani ambulatoriali e vediamo che i farmaci antidolore,
contano soltanto il 5,1%. Noi sappiamo, invece, quanto la prevalenza del dolore nell’anziano, sia importante.
Nelle case di riposo, l’80% dei pazienti, lamenta un dolore cronico o la presenza di dolore. Esiste, infatti, una grande discrepanza
tra l’utilizzo di farmaci analgesici e la moltitudine di anziani che accusano dolore.
Il dolore può essere classificato nella durata, cioè avere una classificazione di tipo temporale. È importante valutare la definizione di
dolore persistente.
Quando noi parliamo di dolore cronico e parliamo di anziano
cronico, diamo una etichetta poco edificante agli anziani. Spesso, anche noi ci avviciniamo all’ammalato cronico, con un atteggiamento
non incisivo, non attento. In qualche modo siamo scoraggiati.
Il dolore persistente, invece, implica un approccio terapeutico
224
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
più attivo. Ha caratteristiche simili al dolore acuto e può avere una
risposta buona da una terapia idonea ed attenta.
Si deve sfatare l’idea che il dolore cronico non risponda ad una
adeguata terapia.
Il dolore cronico ed il dolore acuto non vanno confusi.
È anche opportuno distinguere il dolore come sintomo ed il dolore come malattia.
Le diverse cause impongono un differente approccio. Si deve riconoscere, valutare e, poi, trattare.
Il dolore nocicettivo è provocato dalla stimolazione dei recettori
del dolore cioè dai nocicettori. Questi, tramite le fibre A (alfa e delta) e C (alfa mieliniche e amieliniche), portano lo stimolo a livello
centrale, a livello cognitivo.
Pertanto, esiste già una prima differenziazione tra nocicezione e
sofferenza al dolore.
La nocicezione è una percezione dolorosa. Il dolore, implica sensazione e coscienza del patire.
Il dolore non nocicettivo, è il dolore di tipo neuropatico psicogeno e dà iper-recettività centrale. È difficile da trattare ed è, spesso,
presente nell’anziano.
Il dolore di tipo neuropatico, quale si manifesta nella neuropatia
diabetica o nella nevralgia del trigemino, è spesso una situazione presente nell’età avanzata.
Meritano un cenno, i meccanismi della nocicezione e della traduzione dello stimolo doloroso allo stimolo nervoso. Da una lesione cutanea, si liberano sostanze di tipo prostaglandinico e potassio. Queste stimolano i recettori. Si liberano le sostanze P (pain) che a loro
volta stimolano le mast-cellule. Viene prodotta istamina e serotonina
ed inizia il meccanismo di ‘‘firing’’ neuronale, cioè di attivazione neuronale.
Questo meccanismo, parte dalla reazione tessutale cioè dallo stimolo neurolesivo. Le sostanze sopraccitate sono coinvolte nella trasduzione dallo stimolo lesivo alla nocicezione. Il dolore ha una grande componente emotiva e non solo di tipo sensitivo.
Il sistema antero-laterale e paleo-spinotalamico, sono ‘‘vie antiche’’ che si collegano a zone limbiche. Questo giustifica e spiega la
componente emotiva del dolore.
Tutti noi sappiamo che il dolore è un sintomo, è una percezione
il dolore nell’anziano
225
che si fa ascoltare. Ci si dimentica di tutto, quando ci colpisce. Diventa prevalente su tutto quello che ci circonda.
Quando irrompe sulla scena il dolore, qualsiasi attività è bloccata. La parte emotiva è attivata dai ‘‘sistemi antichi’’ sopraccitati.
Questi, trasmettono la sensibilità proto-patica, cioè diffusa, del dolore.
Le ‘‘vie più nuove’’, neo-spinotalamiche, sono responsabili della
percezione critica. Riescono a cogliere il punto dove nasce il dolore.
È una via più diretta, più veloce, verso la corteccia cerebrale. Ci dà
l’idea del punto preciso. Definisce, chiarisce il punto di partenza del
dolore.
Esistono, inoltre, dei meccanismi endogeni di controllo del dolore.
In particolare, la stimulation produced analgesia, coinvolge due
zone del cervello: il grigio periacqueduttale ed il nucleo magno del
rafe, utilizzando come neurotrasmettitori le neuroamine quali serotonina e la noradrenalina.
Tutto ciò, ci consente di cogliere il significato e l’utilità di farmaci anti-depressivi nel controllo del dolore nell’anziano.
Sono attivi, soprattutto, nel dolore di tipo neuropatico tenendo
bene a mente, gli effetti collaterali che questi farmaci possono avere.
Il punto di riferimento nel diabete mellito è la glicemia, nella febbre è il termometro, mentre il dolore non è quantificabile oggettivamente. Non vi sono markers particolari. È difficile misurare il dolore.
Da un punto di vista didattico, per quantificare il dolore sono
opportuni metodi di valutazione e forme di misurazione.
I metodi di valutazione sono: l’autodescrizione, l’osservazione
del comportamento, le valutazioni fisiologiche.
Le forme di misurazione, a loro volta, saranno fisiche, funzionali,
comportamentali, cognitive, emotive, economiche e socioculturali.
Nella realtà, il dolore nell’anziano, spesso, è complesso perché
coinvolge molteplici aspetti. Sono situazioni cliniche intricate, che
si condizionano tra loro. Spesso, inducono ansia e depressione ed
evocano anche problemi economici.
Sono state proposte scale del dolore, come misure dimensionali
singole e multi-dimensionali. Fra queste, la scala analogica visiva, la
scala numerica verbale, la scala di valutazione verbale.
226
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
Sono strumenti molto semplici che noi, purtroppo, come geriatri, utilizziamo di rado. Forse, la scala che utilizziamo più frequentemente, è la scala numerica verbale.
Infatti, quando chiediamo di quantificare al paziente quanto dolore senta, chiediamo di esprimere un numero dall’1 fino al 10. È
una metodica che dovrebbe essere ancor più diffusa nel nostro operare. Ci permette di valutare l’efficacia terapeutica su quell’anziano.
La scala analogica visiva è un altro strumento a nostra disposizione. Richiede, però, una certa manualità. Si chiede all’anziano di segnare su una scala, che va dall’1 al 10, l’intensità del dolore. Quel
segno corrisponde alla quantità del dolore provato, che parte da 0
ed arriva al massimo dolore possibile.
Infine, si può avere una scala di valutazione verbale. Questa richiede, da parte del paziente, conoscenza e congrua proprietà di linguaggio.
Strumenti molto importanti sono il diario, le mappe del dolore,
le scale di espressione facciale e l’autodescrizione. La realizzazione di
queste indagini, richiede molto tempo, ma sono utili.
Il diario consente un racconto affidabile del dolore, nelle 24 ore.
L’ammalato descrive quello che sente e, soprattutto, quanto il dolore
incida sulle sue attività quotidiane.
Le mappe, riportano una figura di un uomo, vista anteriormente
e posteriormente. Si chiede all’ammalato di segnare dove senta il dolore. La superficie interessata, sarà modificabile nel tempo. Questo
quantificherà l’efficacia della terapia.
Anche la scala di espressioni facciali, può essere utile. Consente a
tutti gli operatori, di avere un’idea immediata di quanto soffra l’ammalato.
Spesso, quando viene riferito il dolore, l’anziano tende a sottovalutarlo o a sopravvalutarlo per questioni culturali, personali, etiche e
proprie.
Le espressioni facciali, invece, ci aiutano a capire quanto sia importante il dolore, in modo oggettivo e non soggettivo. Questo prescinde dalla descrizione dell’ammalato o dalla sua quantificazione
personale del dolore.
Nella scelta della terapia, le cose importanti da considerare sono
il riconoscimento, la valutazione ed il trattamento.
Il riconoscimento non spetta soltanto al medico, ma anche all’in-
il dolore nell’anziano
227
fermiere professionale, all’operatore, che avvicini il malato. È importante cogliere la presenza del dolore, il cambiamento che provoca
nella persona ed avvertire il medico se il quadro clinico fosse a rischio.
Pertanto, si richiede l’attenzione verso l’ammalato ed una disamina più profonda e più specialistica. È una valutazione multidisciplinare.
Il geriatra, a mio modo di vedere, ha un ruolo di prim’ordine
nelle cure dell’anziano. Il trattamento deve perseguire queste strategie: modificare la causa, bloccare la trasmissione ed alterare la percezione del dolore.
È utile conoscere correttamente la patogenesi del dolore, perché
questo, spesso, consente una scelta terapeutica opportuna.
In ogni tipo di dolore, tessutale, neuropatico periferico, neuropatico centrale, è opportuno capire se il dolore sia influenzato o meno dal movimento passivo o attivo.
L’approccio terapeutico sarà completamente diverso.
Il dolore che sia condizionato dal movimento, è definito dolore
incident, mentre il dolore non incident, non è influenzato dal movimento.
È chiaro che il dolore tessutale nocicettivo non incident, riconosce come prima scelta la terapia farmacologia. Nella terapia del dolore incident di tipo nocicettivo, invece, la prima scelta terapeutica
sarà l’immobilizzazione.
È scontato che un ammalato con una patologia di tipo neoplastico, per esempio una frattura patologica del femore, troverà poco utile una terapia farmacologia se prima non si avrà l’attenzione di immobilizzarlo con cautela.
Sono casi in cui, insistere con farmaci analgesici, non serve. Se il
dolore è influenzato dal movimento, in primis, si deve porre attenzione alla mobilizzazione. In tal senso, possono essere utili strumenti
di tipo ortopedico.
Nel trattamento del dolore neuropatico periferico, innanzitutto,
bisogna considerare se la sintomatologia sia incident. Questa distinzione, pure importante, spesso induce frustrazione nel medico perché la terapia consigliata, malgrado sia stata ‘‘pensata’’, può risultare
vana.
Frequentemente, compare il danno centrale della deafferentazio-
228
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
ne. Questo spiega perché il dolore neuropatico di tipo periferico, ad
un certo momento, non risponda più ai normali presidi, che prima
erano efficaci.
La motivazione è dovuta al fatto che si è passati ad un dolore di
tipo centrale neuropatico, non più periferico.
I farmaci utilizzati nella terapia del dolore neuropatico centrale,
sono gli antidepressivi e gli anticonvulsivanti.
Fra gli antidepressivi ricordiamo: imipramina, amitriptilina, clomipramina. Fra gli anticonvulsivanti: carbamazepina, difenildantoina, clonazepan.
I farmaci succitati, si sono dimostrati efficaci oltre la loro azione
antidepressiva o anticonvulsivante.
Gli antidepressivi, usati come analgesici, sono utili ad una posologia inferiore rispetto quella cui si ricorre per il trattamento della
depressione.
Sul dolore acuto, è importante qualche considerazione. Nell’anziano, infatti, spesso si presenta in modo molto atipico. Ne è un
esempio l’infarto silente, malgrado la grande incidenza di cardiopatia ischemica nell’età avanzata.
C’è una discrepanza fra i casi di infarto senza dolore ed i casi di
angina che non evolvono nella necrosi del miocardio.
Si deve porre particolare attenzione di fronte alla sintomatologia
riferita da un ammalato anziano. Il dolore, spesso, si presenta in un
modo atipico, mascherato, sia nella forma acuta sia nella forma persistente.
Il dolore viene percepito in modo diverso. È un’esperienza soggettiva influenzata da fattori personali. L’ansia, l’ambiente, la cultura, la religione e quant’altro, possono incidere sull’espressione del
dolore.
Tutto questo, va considerato quando affrontiamo la valutazione,
il trattamento e l’assistenza dell’ammalato anziano.
L’American Geriatric Society, suggerisce delle raccomandazioni
utili nella valutazione del dolore persistente nell’anziano.
Innanzitutto, si dovrebbe identificare la causa e seguirne l’evoluzione. Spesso, la sintomatologia si aggrava, si accentua con il tempo.
Non è infrequente che si aggiungano altre patologie, che devono essere valutate.
il dolore nell’anziano
229
Può essere utile un approccio interdisciplinare avvalendosi dell’algologo e di altre figure professionali importanti.
Soprattutto, è opportuno ascoltare mentre, spesso, si ha fretta.
Nella realtà, abbiamo poco tempo, siamo sempre di corsa, siamo
sempre di meno.
Può essere vantaggioso, come abbiamo visto, l’utilizzo di scale
semplici del dolore. Ci possono aiutare in una corretta valutazione.
Le capacità cognitive e sensoriali dell’ammalato, hanno la loro
importanza. Un paziente demente, fragile con polipatologia, sicuramente avrà un modo difficile di porsi nei confronti del medico o dell’operatore ed esprimerà, a fatica, la propria sofferenza.
Un paziente che tema gli effetti collaterali di una terapia, si affida
al medico con paura e scetticismo.
L’American Geriatric Society, invita ad attenersi a dei suggerimenti ben precisi.
Si deve considerare, nella valutazione complessa e completa del
dolore, oltre all’anamnesi, la sede, le caratteristiche, la qualità, l’evoluzione, le modificazioni, indotte dalla terapia.
La valutazione clinica del paziente, deve contemplare l’apparato
muscolo-scheletrico, il sistema neurologico e le funzioni fisiche.
Ricordo che nel tipico daily living, si può avere un’idea di quanto
incida il dolore nelle attività della vita quotidiana.
Infine, prendiamo in esame il dolore nel paziente demente. Sono
i casi più difficili da trattare. Sono ammalati deboli, fragili e poco
considerati. Non danno soddisfazione al medico e all’infermiere. Eppure, anch’essi sentono dolore.
L’American Geriatric Society, divide questo tipo di ammalati in
due categorie: ammalati con deficit cognitivo assente-lieve-moderato
e moderato-grave.
Nel primo gruppo, la valutazione deve essere diretta. Nel secondo gruppo, invece, indiretta. Per cui, l’osservazione di comportamenti inusuali o di atteggiamenti antalgici nel paziente, è importante.
Anche l’aiuto del caregiver non va sottovalutato.
Concludo con le parole di Mencio, filosofo confuciano:
‘‘Quando il cielo sta per conferire un alto incarico
ad un uomo, prima amareggia il suo cuore a questo scopo:
230
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
lo obbliga a sforzare le ossa e i legamenti;
gli fa soffrire la fame;
gli infligge desiderio e povertà e confonde le sue imprese.
In questo modo stimola la sua volontà, tempra la sua
natura e lo fa pertanto capace di portare a termine
ciò che altrimenti sarebbe stato incapace di fare’’.
In tutti i modi si cerca di combattere il dolore, eppure, è lui il
vero maestro di vita.
Mi sembrano parole pertinenti col tema di oggi. Grazie.’’
G. Zavateri: ‘‘Ringrazio il dottor Garzotti per la sua relazione. È partito con un approccio fisio-patologico e, pian pianino, ha affrontato
in modo clinico il tema proposto.
Il dolore colpisce ammalati talvolta lucidi, talaltra, con sensorio
obnubilato o dementi.
Vi sono però dei casi, che noi etichettiamo come dementi e poi
vediamo che ritornano lucidi, orientati.
Solo per fare un esempio. Una ritenzione d’urina, può indurre uno
scompenso psichico. Il paziente sembra demente, si applica un catetere vescicale, si risolve la ritenzione d’urina e la demenza se ne va.
Tante volte, vengono applicati sistemi di contenzione, perché
l’ammalato è agitato. Poi, togliamo qualche stimolo di dolore e la
persona si acquieta.
Spesso, il nostro operare induce il dolore e chiediamo all’ammalato di portare pazienza, di resistere. Altre volte, non ci soffermiamo
sul dolore perché non c’è tempo.
È stata una carrellata utile a noi tutti e che sarà argomento di ampia discussione.
Certamente, non siamo del parere che l’ammalato perché vecchio, debba soffrire.
Le patologie croniche, la perdita dell’autonomia e l’incapacità di
gestirsi, non devono farci sottovalutare il problema del dolore. Il demente soffre e gioisce.
La difficoltà e la fatica non possono assolverci, se neghiamo le
cure a chi soffre.
Come già sottolineato, mi sembra giusto ribadire che il dolore
il dolore nell’anziano
231
non è né solo fisico, né solo psichico, ma sempre globale. È una cultura di cui noi tutti, ed io per primo, siamo carenti.
Credo che sia il momento di dare la parola al professor Marco
Trabucchi, al quale diciamo grazie per questa attestazione di simpatia e di affetto che ha nei nostri confronti.
Grazie Marco, a te la parola.’’
232
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
M. Trabucchi: ‘‘Grazie. Grazie a tutti loro per la presenza cosı̀ numerosa. In particolare, un saluto a quelli che sono nelle altre aule
e che quindi, possono godere solo parzialmente dei vantaggi dell’ascolto.
Grazie a Paolo Garzotti per questa presentazione, che davvero
mi ha inorgoglito e poi vi spiegherò il motivo.
Grazie, poi, a Gigi Grezzana che è il regista.
La relazione di Paolo, la trovo assonante alla grande storia della
Medicina veronese.
Non vi nascondo che sono un po’ emozionato nel parlare davanti
ad una assemblea cosı̀ numerosa. È bene ricordare che la storia, in
particolare negli ultimi 50 anni della Medicina veronese, è stata
una storia gloriosa. Non soltanto quella legata all’Università, chiedo
scusa ai professori universitari, ma anche quella legata all’Ospedale
Civile Maggiore, nel quale molti di voi lavorano.
Paolo, in questo filone di grande sensibilità e di grande competenza, riesce a continuare una tradizione.
In questa, io veronese, seppur emigrato da 50 anni, mi identifico
con gioia. È una cultura ‘‘storica’’, che non tutti conoscono, ma che
vi prego di considerare come una cosa della quale dovete essere orgogliosi.
Su questo ‘‘palcoscenico’’, colloco i signori che sono qui in prima
fila, fino ai più giovani collaboratori.
Permettetemi di spendere altri due minuti nell’introduzione, anche come Presidente della Società di Geriatria. Vi assicuro che non
vivo questo compito, che mi è stato affidato e che ho ricercato, con
assoluta tranquillità.
La mia sensazione è che i problemi dei trattamenti ospedalieri ed
extra-ospedalieri delle persone anziane, non siano affidati a circostanze, a mani e ad ambienti sicuri.
Soprattutto voi giovani, dovreste riprendere l’orgoglio delle professioni, talvolta scemato. Non accusiamo la politica, né le difficoltà
economiche. Le persone di coraggio, le persone che studiano, sanno
risolvere i problemi degli altri, anche nelle situazioni difficili.
Nessuno sostiene che non dobbiate lamentarvi. Gli standard sono eccessivi, però, la gente, gli anziani, hanno bisogno di una testimonianza forte da parte delle professioni.
La crisi è generale. È crisi morale, organizzativa ed economica.
il dolore nell’anziano
233
I medici, gli infermieri, gli psicologi, i terapisti della riabilitazione
e tutte le altre professioni qui presenti, devono testimoniare che con
lo studio, con la ricerca, con la generosità e con la cultura, sono possibili risposte anche in situazioni di difficoltà.
Il pessimismo, il brontolio, pur giustificati, non ci portano lontano. La rinuncia, può essere non eccessivamente dannosa quando abbiamo a che fare con un paziente i cui bisogni siano in qualche modo
tutelati dalla tecnologia e riceva risposte adeguate.
Il problema è molto più grave in un paziente cronico che si riacutizzi, cioè nel paziente complesso, nel paziente anziano, che è affidato alle vostre cure.
In Geriatria, la capacità professionale, la sensibilità umana, la
cultura, ricoprono uno spazio molto superiore.
Noi abbiamo poca tecnologia che ci aiuta o, quanto meno, quella
poca, dipende dall’uso che ne sappiamo fare. Sempre la tecnologia è
un supporto, è ancilla.
Nel nostro caso, ancora di più.
Il mio richiamo a questo orgoglio professionale dei giovani, mi
sembra importante. Non siamo marginali. Chi si occupa dei vecchi
è al centro dei bisogni di una società che, ai propri vecchi, fa fatica
a dare risposte adeguate. Che cosa c’è di più nobile? Che cosa c’è di
più complesso? Che cosa c’è che richiede più studio?
Estrema è la variabilità delle situazioni clinico-assistenziali che si
presentano davanti a noi e, quindi, estrema deve essere la capacità di
studiare, di approfondire, di sperimentare, di passare come dico
sempre dal libro al paziente e dal paziente al libro.
È un confronto che non possiamo mai abbandonare.
La teoria da sola, non basta, ma anche la sola pratica è insufficiente: ci fermiamo di fronte alla prima difficoltà, alla prima crisi.
Questo è il messaggio che vi volevo dare, con un po’ di
preoccupazione.
Sono tempi difficili. Conosco poco lo scenario del Veneto, conosco molto meglio quello lombardo, dove mi trovo a lavorare ed, in
parte, anche quello romano.
In tempi di restrizioni economiche, si capisce quello che serve di
più e quello che serve di meno. È importante cogliere se gli operatori
siano entusiasti, credano in quello che fanno o se lo facciano soltanto
perché cosı̀ si deve fare.
234
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
È probabile che saranno operati tagli ove medici ed infermieri
non svolgano la loro professione con cultura, entusiasmo e coraggio.
Gli anziani oggi, in Italia, sono sempre più numerosi, alcuni sono
poveri, molti hanno perso l’autonomia.
È necessario che si studi, si sperimenti, ci si confronti. Il lavoro
di equipe è essenziale. Molti di voi, sosterranno che alcuni medici
non collaborano e, purtroppo, è vero.
L’altro giorno ero a Montreal ad un Congresso di Geriatria e mi
ha fatto impressione un geriatra canadese, che diceva: ‘‘Una squadra
di calcio si allena 15 ore per disputare un’ora di partita. Un’orchestra
prova 13 ore per tenere un’ora di concerto. Noi, nel lavoro d’equipe,
ci confrontiamo sı̀ e no, mezz’ora la settimana per 37 ore di lavoro.’’
Capite, queste sono le realtà, le difficoltà. Concludo qui, anche
se mi piacerebbe parlare a lungo di queste cose, però non è il caso
di farsi prendere dal pessimismo. Quello, lasciamolo a chi non ha
il coraggio della gioventù.
Esiste il grande problema della continuità terapeutica, che è stato accennato nella relazione che mi ha preceduto.
Ci si riferisce ai pazienti oncologici, ai pazienti con dolore cronico, ai pazienti dementi, ai pazienti con scompensi di cuore, ai pazienti con BPCO.
Chi si prende carico della continuità terapeutica? Gli ammalati
sono dimessi dall’ospedale con una documentazione molto ricca e
poi? Poi che cosa trovano?
Trovano spesso, soltanto la solitudine, l’incertezza, la precarietà.
I consigli che sono dati in fretta, l’ascolto mal fatto, poca cultura. Si
trova di tutto.
Non c’è la logica di continuità. Eppure, questa, è la chiave che
consente all’anziano, nella malattia cronica, la sopravvivenza efficace
e significativa.
La continuità terapeutica, coinvolge l’attività infermieristica. Accenniamo allo scompenso di cuore. È un argomento al quale, in questi ultimi anni, è stata dedicata molta attenzione. La misura del peso,
per esempio, è sufficiente per monitorare la terapia, evitando che sopraggiungano poi, situazioni spesso molto difficili o irreversibili.
Per cui e concludo qui, adesso veniamo a parlare di dolore, ma
sarò brevissimo perché ve l’ho promesso.
Sperimentare, studiare, essere coraggiosi, essere generosi ed es-
il dolore nell’anziano
235
sere tenaci. Gigi, queste sono le parole chiave che io affido anche alla
SIGOs. Grezzana diventerà Presidente anche di un’altra importante
Società di Geriatria.
Il dolore nell’anziano. Vi assicuro che vi darò soltanto una serie
di spunti, perché la relazione che mi ha preceduto ha fatto molto.
Sul problema del dolore, io vengo da molto lontano. Alla fine degli anni ’70, ho organizzato il primo Convegno Internazionale a
Washington sulle endorfine ed enkefaline. Ci si riferisce a più di
25 anni fa. Sono andato a rivedermi alcuni ritagli di giornale di allora.
La stampa pubblicava notizie lusinghiere. Sembrava che il problema del dolore fosse risolto. L’atteggiamento trionfale trovava giustificazione nell’individuazione della molecola omedia, che costituiva
le endorfine e le enkefaline.
Su questo problema si è speso tempo, impegno, sia a livello sperimentale che clinico.
A 25 anni di distanza, le nostre speranze sono ancora assolutamente da riempire di significato.
Questo lo dico, ma non per darvi una connotazione pessimistica
che, l’avete capito, non mi appartiene.
In mancanza di risposte definitive, nel giovane come nell’anziano, l’assistenza, la qualità di quello che noi riusciamo a dare clinicamente nell’accompagnamento del paziente, nella diagnosi qualificata, nella terapia prolungata, è molto più importante che non l’attesa
del farmaco ideale, che non c’è.
Siamo ancora e lo sapete meglio di me, a dire come si utilizzi in
maniera corretta la morfina che, fino a prova contraria, è un farmaco
non proprio recentissimo. Dietro la patologia dominante, le malattie
croniche, non ci sono grandi scoperte. Abbiamo bisogno di studiare.
In questi ultimi tempi, si sta discutendo in Letteratura, sulle variazioni del metabolismo lipidico, del metabolismo glicidico nell’anziano.
È un problema dibattuto ed ancora aperto.
Il livello di colesterolo non ha un limite inferiore. Lavoriamo in
un ambito, nel quale le certezze sono sempre più vaghe. Non si è stabilito un limite inferiore.
Il lavoro appena uscito, sul New England Journal of Medicine,
236
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
diceva proprio questo: ‘‘Non c’è un limite inferiore per i livelli di colesterolemia’’.
Che cosa voglio dire? In assenza di conoscenze chiare, precise, di
Linee Guida, si tende a dire: ‘‘Il colesterolo fino a 180 va bene. Da
130 in giù, può essere indicatore di fragilità.’’ Per noi geriatri è un
indicatore molto importante. Però, fino a che non siamo certi noi
stessi, di questo, prevale l’atto della cura.
L’anziano abbisogna più che della cura, delle cure, che sono
sempre accompagnamento, non solo psicologico, sia ben chiaro.
Vuol dire mettere in atto quella mediazione continua tra le informazioni disponibili della Letteratura e la nostra esperienza.
Realizziamo quello che siamo capaci di fare, quello che si capisce
dal paziente, dalla lettura longitudinale che emerge dalla sua storia.
Questa continua vicinanza, ci consentirà delle risposte.
Qualcuno potrebbe obiettare che non abbiamo tempo per la vicinanza, per la continuità anche all’interno delle case di riposo, delle
RSA, dei reparti ospedalieri.
Certo, conosco queste difficoltà, spesso meglio di voi, soprattutto ultimamente. Però credo che la scelta sia, irreversibilmente, questa.
Dostoevskij scrisse: ‘‘Tutti devono soffrire per comprare con la
sofferenza, l’armonia eterna. Se tutti, cosa c’entrano i bambini? È
del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro, perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza.’’
È una frase di Dostoevskij, che ci ha segnato tutti in certi momenti della nostra vita, nelle nostre letture forse di qualche anno fa.
Il commento potrebbe essere: ‘‘Ma il dolore del vecchio che tanto ha donato ed amato, non è altrettanto incompresibile?’’ Lascio a
voi questa riflessione, per comprensione del dolore.
Io non sono un filosofo, non sono un teologo. Non so dare risposte a questa domanda. So solo dire che dobbiamo difendere gli anziani dalla diffusa ferocia del pregiudizio, quella che ci fa dire: ‘‘Non
c’è più nulla da fare, non prolunghiamo la sua sofferenza. Costa
troppo.’’
Qui, sapete, si aprirebbe tutto un altro argomento delicatissimo
sul quale io faccio un po’ di fatica ad entrare, ma il problema del do-
il dolore nell’anziano
237
lore cronico, poi parlerò non solo di questo, è il problema del rapporto con le ultime età della vita.
Ho ricevuto troppi segnali in questi ultimi mesi, da ambienti geriatrici di tutta Italia, che mi dicono: ‘‘La Medicina Palliativa finalizzata negli Hospice, anziché costituire un vero complemento ai bisogni del paziente, sembra essere un’accelerazione ingiustificata, inumana e clinicamente non giusta, del tempo della vita’’.
Io non so e non voglio, per adesso, occuparmi del problema, però certamente, tra i compiti che mi sono proposto nella mia presidenza nella Società, c’è anche questo.
Vorrei avere un confronto sull’ultimo mese di vita di pazienti che
risiedono in ambiti geriatrici diversi: l’Ospedale per Acuti, le RSA,
l’Assistenza domiciliare e quando invece si entra nell’ambito della
Medicina Palliativa formalizzata, cioè negli Hospice.
Il fine ultimo del geriatra deve essere la difesa degli anziani contro qualsiasi pregiudizio. ‘‘Non c’è più nulla da fare’’. Chi lo afferma
che non ci sia più nulla da fare? Anche quando non c’è più nulla da
fare sul piano clinico, perché non siamo maghi e non lo saremo mai,
molto amore rimane sul piano umano, sul piano del lenimento della
sofferenza, sul piano del significato da dare agli ultimi momenti della
vita.
Peggio ancora, quando si arriva a dire ‘‘costa troppo’’... e si dice.
Sul problema del dolore dell’anziano, in passato si sono fatte
considerazioni poco pertinenti.
Negli anni ’70, c’erano molti lavori che tendevano a dimostrare
che l’anziano avesse una sensazione del dolore molto inferiore a
quella della persona più giovane.
Mi ricordo molte pubblicazioni comparse su riviste di prestigio.
C’era stato anche il problema del bambino, del neonato.
Giocare con la sofferenza delle persone più deboli che non possono difendersi, è drammatico e, talvolta, la scienza si fa complice di
questi giochi.
Oggi credo, però, non abbiano alcun significato le variazioni della sensibilità al dolore, legate all’età.
Invece, lasciatemi tornare a quello che diceva prima Paolo, sul
problema delle Linee Guida dell’American Geriatric Society.
L’American Geriatric Society tra il ’98 e il 2002, ha cambiato ter-
238
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
mine. Da dolore cronico si è passati a dolore persistente. Questo è
stato un passo avanti notevolissimo.
Il ‘‘dolore cronico’’ aveva tutta quella connotazione negativa di
futilità, di dipendenza. Per cui, questo, è stato un primo passaggio.
Lo scorso anno, sempre l’American Geriatric Society, ha riconosciuto che le Linee Guida sul dolore, non sono state applicate sufficientemente.
Quindi, tutto il mondo è paese. Per cui, si è cercato il modo di
applicare le Linee Guida. Questo mi permette di dire che, noi, il
problema non ce lo siamo nemmeno posto. Non ci sono Linee Guida della Società di Geriatria su questo tema, a ribadire quanta strada
si debba ancora fare.
In particolare, questa pubblicazione dell’American Geriatric Society, copriva tutte le varie professioni, coinvolgeva tutte le varie
competenze.
Certamente, il dolore acuto persistente è un punto focale della
sofferenza. Quantificare il dolore, è il modo più idoneo per farsi carico del dolore altrui.
Si deve collocare la sofferenza nella storia degli eventi, in un ordine temporale dotato di senso biologico ed umano.
Nelle cartelle cliniche il problema del dolore deve essere considerato con tutte le misure adeguate. È un problema che ha la stessa
dignità di altre funzioni del paziente, quali la cognitività, il tono dell’umore, l’attenzione, l’ambiente dove vive, la storia clinica passata,
la prognosi rispetto la malattia, la co-morbidità.
Il nostro operare, altrimenti, avrebbe delle lacune sia da un punto di vista biologico sia umano.
Le cartelle geriatriche sono diverse dalle cartelle delle altre specialità, pur serie, pur ben fatte. Si dovrebbe capire che cosa sia il paziente, anche, senza vederlo.
Nel mio gruppo di lavoro, sono organizzate riunioni dialetticamente vivaci, alle quali partecipano 40-50 persone.
Si prende la cartella e si fa interpretare il paziente da due operatori ‘‘ciechi’’, possibilmente un infermiere ed un medico. Ci si chiede: ‘‘Chi è questo paziente?’’
Leggendo la cartella si dovrebbe avere un quadro clinico ben
preciso. Invece, se il paziente non viene bene identificato o soltanto
il dolore nell’anziano
239
parzialmente identificato, questo significa che il quadro clinico di
quell’ammalato non è stato studiato a dovere.
È un gioco che non ho inventato io. Si chiamano clinical rounds.
È un metodo di lavoro adottato da molto tempo negli Stati Uniti. È
un modo per convincere tutti gli operatori che la cartella clinica è
importantissima per cogliere, soprattutto nelle condizioni di cronicità, il significato temporale, biologico ed umano dell’ammalato.
Nelle malattie acute, non c’è bisogno. Il problema è già risolto.
La tecnologia ci aiuta, la capacità dei chirurghi risolve il problema,
il più delle volte.
Nella cronicità, la cartella è lo specchio del nostro rapporto col
paziente. Ci consente di conoscere il significato clinico ed umano
dell’ammalato.
Nelle RSA, la percentuale di persone con dolore cronico, è elevatissima. In queste residenze, però, non è infrequente riscontrare
che le cartelle cliniche non sono correttamente aggiornate.
È come se un anziano fragile ottantacinquenne, fosse ‘‘stabile’’.
La sua polipatologia, le sue malattie croniche, che appunto lo hanno
reso fragile e, per definizione instabile, necessitano costantemente,
invece, dell’attenzione del medico, dell’infermiere, degli altri operatori.
Non aggiornare la cartella clinica di questi pazienti, tradisce superficialità.
È stata più volte rilevata l’importanza di raccogliere correttamente l’anamnesi.
Uno dei problemi, è la difficoltà che si incontra con un paziente
cognitivamente poco integro.
Questi ostacoli emergeranno non solo con il paziente demente,
ma anche con il paziente con MCI.
Sono ammalati che hanno un 26 o 27 di MMSE (Mini Mental
State Examination), che non sono integri. In questi casi, sono legittimi alcuni dubbi.
La perdita della memoria influisce sull’interpretazione del dolore? Lo stesso stimolo doloroso, provoca dolore diverso nei dementi?
Vi sono alterazioni biologiche, nei centri del dolore della demenza e
cosı̀ via?
Come si misura il dolore nel demente?
La valutazione obiettiva del dolore presuppone una funzione in-
240
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
tegra. Il problema resta un problema vivissimo. Siamo andati a vedere alcuni dati, non recentissimi, pubblicati qualche anno fa.
Per esempio, vi sono studi che cercano di analizzare gli effetti del
decadimento cognitivo sulla percezione del dolore. Nelle prime fasi,
con un MMSE di 28-29, cioè con un lieve decadimento, è dimostrato che addirittura il paziente tende ad accentuare il dolore. Non mi
soffermo sulle metodologie che avevano usato a suo tempo.
Nelle fasi iniziali, vale a dire con MCI, la tendenza è quella, caso
mai, di accentuare i sintomi somatici. La ragione sta nel fatto che il
deficit cognitivo è percepito dal soggetto, come la perdita di una
parte importante di sé, in altre parole, la capacità critica.
Chi la sperimenta, all’inizio sarebbe portato a proteggersi, a mascherare i deficit, riferendo disturbi invalidanti, ma socialmente più
accettabili. Qualcun altro potrebbe dare delle interpretazioni diverse, però è interessante il concetto.
Ci si può credere o meno, ma è un’interpretazione suggestiva.
Andiamo a vedere la demenza moderata o severa. Il quadro cambia perché siamo alla presenza di una malattia che progredisce con
un aggravamento di disturbo di memoria, con una riduzione dell’insight.
Il paziente ha meno insight, vale a dire ha meno valutazione del
suo stato e quindi non tende più a dare quella risposta compensatoria delle fasi iniziali e questo, porta ad una riduzione dei sintomi.
Da 23 di mini mental, cioè da una condizione mild di compromissione sino a 10, che esprime una compromissione seria, vi è
una significativa riduzione dei sintomi riferiti.
Quindi si può dire, saltando alcuni dati, che quando il paziente
non è più in grado di comunicare, il dolore da sintomo, ridiventa segno. Allora, è importante.
Ridiventa segno, come appunto accadeva quando era bambino.
Questi pazienti, con estrema facilità e dinnanzi alle patologie più svariate ed alle condizioni più diverse, possono realizzare il delirium. È
doveroso mettere in atto tutti gli interventi che siano in grado di prevenirlo.
In Geriatria, ma non solo, il problema del delirium, anche in
Chirurgia dell’anziano, in Ortopedia dell’anziano, nelle Cure Intensive, è il sintomo dominante ed espressivo di malattie diverse e disparate.
il dolore nell’anziano
241
Nell’Unità sub-intensiva a Brescia, abbiamo tra delirium incidente e delirium prevalente, in pratica fra i casi già manifesti all’ingresso
ed i casi che si realizzano durante la degenza, una presenza che si
avvicina al 50%.
In un numero recente di JAMA, si rileva: ‘‘Attenzione al delirium, perché anche nelle Unità per Acuti, sia di tipo cardiologico
che non cardiologico, il delirium è il principale fattore di mortalità.’’
Prevenire il delirium non è un gioco che si sono messi in testa i
geriatri, ma è qualche cosa di assolutamente importante per evitare
la mortalità. È un sintomo che aumenta la mortalità di 7-8 volte.
Nella demenza di grado severo, un paziente con un’improvvisa
alterazione del comportamento, un’agitazione oppure sintomi psicotici, insonnia oppure apatia, potrebbe essere espressione di una sintomatologia dolorosa fortemente disturbante.
L’apatia, cioè il delirium apatico, è molto più difficile da diagnosticare del delirium agitato. Talvolta è interpretato come una conseguenza della demenza. Quindi, è molto importante ed altrettanto pericoloso quoad vitam.
Un altro aspetto importante nella nostra professione, si riferisce
al trattamento del dolore cronico dell’anziano, a casa o in ambienti
diversi dall’ospedale. Quali sono i vantaggi e i timori dell’Assistenza
Domiciliare?
La risposta è molto difficile, molto complessa.
Vi proporrò alcune riflessioni di Umberto Veronesi. Avete visto
come si sta occupando dell’anziano anche a livello di mass media.
Insieme con la Società di Geriatria, stiamo ipotizzando la costruzione di una Società Oncologica Geriatrica.
L’assistenza di questi ammalati, di là dall’intervento tecnico, chirurgico o anti-blastico, è complessa.
La vita di questi pazienti, sia nella fase del pre-trattamento sia nel
follow-up post-chirurgico o post-farmacologico, necessita del geriatra. Ha bisogno della sua sensibilità.
La Geriatria, è in grado di reggere tutti questi carichi?
Non lo so. Io sono molto ottimista.
Vi leggo ora quello che diceva Veronesi:
‘‘Quando la ‘‘Medicina che guarisce’’ dichiara la sua impotenza,
quando il male ha iniziato il suo corso irreversibile e terminale, è solo
quello l’appuntamento naturale con la morte. È, questo, un momen-
242
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
to drammatico per l’uomo, che si sente indifeso davanti alle pulsioni
di un dolore indicibile e spesso, si sente abbandonato da quella Medicina in cui tanto aveva confidato. Ma è il momento di alto impegno
morale per il medico che ha il compito, in scienza, di impedire il dolore; il dovere, in coscienza, di rendere umani e dignitosi gli ultimi
estremi passi del malato.’’
Volevo parlarvi, cambiando tono, di due o tre lavori recenti. Uno
di questi, l’ho considerato essenziale rispetto al nostro ragionare ed
ha poco più di 4-5 mesi. È stato pubblicato su Science, verso la fine
del 2003 e ci dice: ‘‘Il dolore psicologico nell’uomo, specialmente la
sofferenza provocata dal sentirsi soli e rifiutati dagli altri, coinvolge
gli stessi meccanismi cerebrali che elaborano il dolore fisico.’’
Non c’è bisogno che lo commenti. Quando prima ho riportato la
frase di Umberto Veronesi che poneva l’accento sul dovere dell’accompagnamento, il dovere della comprensione, il dovere della vicinanza, per mettere insieme la tecnologia con la carezza, qui, abbiamo
colto la chiave di lettura.
La solitudine ed il rifiuto da parte degli altri, sono frequenti per
il vecchio, soprattutto se malato e cronico. Il dolore lo rende, spesso,
difficile da gestire. Viene rifiutato dagli altri.
La solitudine ed il rifiuto ricalcano gli stessi meccanismi del dolore.
Possiamo benissimo capire che il dolore diventa più forte, insopportabile.
Queste non sono considerazioni psicologiche, sono considerazioni strettamente biologiche che ci fanno pensare. Fanno pensare soprattutto chi, come noi geriatri, crede nella Medicina che cura.
In un altro numero di Science del 2004, viene detto: ‘‘Io sento il
tuo dolore. L’empatia ha basi biologiche?’’
Pensate quanto importante sia dare una risposta a questo problema per trovare il giusto equilibrio di noi operatori, rispetto al dolore
dell’altro, al suo dolore fisico, al suo dolore psichico. L’empatia.
Come si esprime l’empatia? È soltanto qualcosa di superficiale o
ha delle basi più profonde? Questo lavoro ci suggerisce che ha delle
basi profonde.
Nel momento stesso in cui noi entriamo in empatia, bisogna trovare anche degli equilibri nel rapporto con il sofferente. Nel nostro
il dolore nell’anziano
243
cervello mettiamo in movimento dei centri, delle componenti, che
sono particolarmente ‘‘vicine’’ a quelle del dolore.
L’empatia per il dolore dell’altro, suscita anche in noi qualcosa di
molto profondo.
Quindi, essere empatici, che vuol dire essere generosi, essere
tecnicamente capaci, non è qualche cosa in più. È la profonda dimostrazione che quell’atteggiamento tocca nell’intimo, il nostro
cuore.
Da ultimo, sempre su Science di quest’anno, si sottolinea che anche il placebo ha un significato. Il placebo passa, infatti, attraverso
questi meccanismi.
La cura del dolore è la cura dell’uomo che soffre. Il suo corpo non diventa un campo di battaglia combattuta con le armi
della Medicina, ma luogo di incontro tra la persona che soffre
ed il curante. Si devono ascoltare i linguaggi verbali e non verbali. Non dobbiamo farci dominare da logiche belliche, ma da
un impegno clinico senza sosta, peraltro rispettoso di limiti precisi.
La battaglia, contro il dolore, è un modo di dire che non dovremo più usare perché è la battaglia nel corpo dell’altro. Invece, bisogna mettere in atto atteggiamenti quali la comprensione, la compassione, sempre accompagnate da conoscenza tecnica.
Chi si occupa di vecchi e non studia, non è degno di poter parlare di comprensione e di compassione. Mi raccomando, ci tengo
molto a questo messaggio.
Noi dobbiamo essere più bravi degli altri, tecnicamente. Più bravi degli altri ad usare i farmaci, più bravi degli altri a fare le diagnosi,
più bravi degli altri a fare il trattamento prolungato.
Abbiamo il diritto morale, culturale, clinico, di affermare che noi
ci mettiamo in più anche la compassione, la comprensione, l’accompagnamento, perché solo cosı̀ si dà significato all’altro con il nostro
lavoro. Perché non muoia un fantasma.
Vi ringrazio per l’attenzione.’’
G. Zavateri: ‘‘Grazie, grazie veramente professor Trabucchi, per la
tua relazione.
Nella cura dell’anziano la tecnologia avanzata è importante, ma
non sufficiente. Si deve, infatti, saper anche ritornare all’antico.
244
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
L’ammalato dà il senso al nostro agire quotidiano, giustifica i nostri
dubbi, stimola il nostro sapere.
Le malattie croniche non possono né spegnere l’entusiasmo né
giustificare tagli economici.
Questo tuo intervento, tradisce una grande sensibilità. Le tue parole qualificano e gratificano il nostro impegno. La riconoscenza dell’ammalato è la giusta mercede alla nostra fatica.
La cura delle malattie del corpo, delle malattie dell’anima e, forse, anche delle malattie sociali, intimorisce. A volte mi domando
quanto possa la Medicina e quanto giochi la nostra empatia.
Prego Corrado.’’
C. Pasoli: ‘‘Grazie ai relatori.
‘‘La salute e la vita nel silenzio degli organi’’. Questa è una bellissima frase che, ahimè, non è mia. È una frase detta settanta anni fa
da René Leriche, noto chirurgo. È probabile che ‘‘nel silenzio degli
organi’’ fosse implicito il dominio del dolore per concedere una vita
degna di essere vissuta.
Il geriatra si fa interprete di questo messaggio. Cerca di migliorare il più possibile la qualità della vita.
L’Italia, però, è all’ultimo posto in Europa per l’uso degli oppioidi. Volevo sentire l’opinione dei due relatori su quest’argomento.’’
L. G. Grezzana: ‘‘Ringrazio di cuore Paolo Garzotti e Marco Trabucchi per i loro interventi.
Pongo una domanda, che è in realtà una mia riflessione.
Il dolore più grande non è né il dolore fisico né il dolore psichico, ma l’abbandono. A fronte di questo, c’è un’altra piccola cosa che
vorrei dire. Noi, cerchiamo in tutti i modi di combattere il dolore,
ma come giustamente è stato evidenziato poco fa, il grande maestro
dell’uomo è certamente lui.
Ecco, sono due riflessioni che butto lı̀ e ancora volevo ringraziarvi per i vostri interventi.’’
G. Zavateri: ‘‘Qualche altra domanda, cosı̀ poi, diamo una sequenza
di risposte?’’
G. Pistolesi: ‘‘Grezzana mi chiama spesso in causa. Oggi, colgo una
il dolore nell’anziano
245
discrepanza, tra la mia attuale competenza intellettuale e quella dei
relatori, che è cosı̀ marcata.
Non mi riferisco tanto a Paolo Garzotti, con cui posso colloquiare poiché lo sento molto prossimo, ‘‘complice’’ la sua giovane età,
quanto piuttosto a Marco Trabucchi.
Ho presieduto, come certamente è accaduto a molti di noi, un
Congresso Mondiale. Si svolgeva a Venezia.
Dissi alle migliaia di partecipanti, per lo più latini, provenienti da
tutto il mondo: ‘‘Quando andrete nei calli di Venezia e sentirete la
suadente cadenza veneta, non lasciatevi ammaliare perché è la stessa
cadenza con cui sulle galere si frustavano i rematori.’’
Trabucchi ha parlato in maniera affascinante, ma anche, giustamente, in maniera molto dura. Non ha lasciato alcunché al ‘‘buonismo’’ del ‘‘volemose bene’’, ‘‘che bravi che siamo’’.
Mi è piaciuto e devo dire che non sarei stato capace, anche ai
miei tempi, di sintetizzare allo stesso modo la nobiltà di tutte le nostre professioni. Dal medico, al collaboratore tecnico, all’infermiere.
Abbiamo l’orgoglio di appartenere ad una equipe, ad una armata
o se preferite ad una confraternita, se l’armata vi fa paura perché
evoca la guerra.
Trabucchi ci ha parlato in una maniera molto dura ed io gli sono
grato. La sua capacità, la sua conoscenza, la notissima esperienza,
hanno mitigato la ‘‘frustata’’.
A me è piaciuta la ‘‘frustata’’. Mi compiaccio di essere venuto a
sentirlo.’’
P. Garzotti: ‘‘In una disamina della Letteratura internazionale, ho
notato che poco si è fatto sulla terapia farmacologia per il trattamento del dolore nell’anziano.
Spesso, quest’ultimo è sottovalutato, quindi, la terapia non viene
instaurata.
Si deve riconoscere, per onestà, qualche mancanza culturale sull’utilizzo dei farmaci. Per esempio, è stata citata la terapia con oppioidi.
È vero, noi siamo il paese che utilizza meno oppioidi in generale,
perché culturalmente non li abbiamo metabolizzati. Accettiamo il vino, non accettiamo l’oppio. In altre realtà culturali, è bandito il vino,
non l’oppio.
246
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
Quello che non possiamo tollerare, è la non ‘‘conoscenza’’. La
farmaco-cinetica, la farmaco-dinamica nell’anziano, impongono conoscenza. Talvolta, se non c’è la conoscenza opportuna, si ha paura
di utilizzare farmaci.
Però, il campo è minato e la prudenza non è mai troppa.
Nel dolore di tipo neuropatico, sono indicati gli anti-depressivi
triciclici.
Questi farmaci sono stati demonizzati perché possono indurre
ipotensione ortostatica, disturbi cardiologici, secchezza del cavo orale, stipsi. Tutti problemi rilevanti, nell’anziano.
Questi effetti secondari, se conosciuti, possono anche essere prevenuti e controllati, agendo soprattutto sulla posologia.
Per questo motivo, i punti principali, forse, sono l’informazione
e la cultura’’.
G. Zavateri: ‘‘La conoscenza della farmaco-dinamica e della farmaco-cinetica nell’anziano è di estrema importanza. Soprattutto noi geriatri, dobbiamo porre attenzione alle reazioni avverse da farmaci.
Qualche volta, si tende a sottovalutare il dolore dell’anziano. Si
parte dal presupposto che è anziano, che è vecchio, che si lamenta
facilmente, perciò non si pone molta attenzione al suo dolore.
Giustifichiamo la mancata somministrazione farmacologica, con
la possibilità di effetti collaterali.
La sofferenza dell’uomo, è una sofferenza che ha molti risvolti.
Certamente, anche il demente soffre. Come il bambino manifesta
la sofferenza piangendo, cosı̀ il demente può manifestare il suo patire in un modo molto privato, talvolta criptico. Sta a noi capire.
Sta a noi cogliere i segnali, interpretare le manifestazioni, decifrare gli impulsi. Anche la lontananza da casa può far soffrire.
Marco, volevi aggiungere qualcosa?’’
M. Trabucchi: ‘‘Due battute. Prima, propongo a Grezzana che l’anno prossimo, se vorrà invitarmi, altrimenti fra due anni, io possa condividere una lezione col professor Gianfranco Pistolesi.
Il problema dei farmaci. Vi chiedo un attimo d’attenzione soltanto perché è un argomento che ci riguarda tutti da vicino.
È noto ciò che è successo in questi giorni, per il problema dei
neurolettici atipici nel paziente demente o nel paziente agitato.
il dolore nell’anziano
247
È successa una delle cose più spiacevoli che si potessero verificare. Spiacevoli, perché il Ministero ha emesso una ‘‘grida’’, che poi è
rientrata.
Certo, la prescrizione è sempre sotto la responsabilità del medico. Mi ha impressionato la superficialità con cui molti medici hanno,
immediatamente, sospeso la terapia di certi farmaci.
In alcuni pazienti i neurolettici atipici, sono essenziali. Non limitano l’autonomia, non esasperano la rigidità, non inducono un effetto extra-piramidale.
Ci sono state delle prese di posizione da parte di molti colleghi,
che dimostrano una paura non condivisibile. Oggi, possiamo continuare a prescrivere i neurolettici atipici come prima.
Gigi, chissà quanti ammalati avrai trattato con questi farmaci ottenendo risultati certamente migliori, rispetto ai neurolettici tradizionali.
Sono andato a leggermi le controindicazioni. Ho visto che il rischio di ictus è limitatissimo.
Abbiamo assistito ad un abbandono dello scenario da parte delle
case farmaceutiche. Questo è ancora più grave.
Ad occuparsi dei vecchi siamo noi, insisto, o c’è poco interesse.
Proprio nella fattispecie di questo problema, c’è stato un immediato
allineamento da parte delle case farmaceutiche, che non hanno fatto
alcuna fatica ad accettare questa ‘‘grida’’.
Tanto sono vecchi.
Questo mi ha lasciato un po’ d’amaro in bocca. Dovremmo coltivare quell’orgoglio nel dire: ‘‘Certo, è importante quello che dice il
Ministero, è importante quello che dice l’Azienda, ma prima di tutto
viene la mia cultura, la mia sensibilità, la mia capacità di scegliere i
comportamenti.
Come ultima battuta, vorrei porre attenzione anche ai farmaci
analgesici, alla morfina, che si colloca in una logica un po’ anacronistica.
Vi ho citato Umberto Veronesi, perché un piccolo passo avanti
ce l’ha fatto fare. Per esempio, e lo dico da cattolico che non si vergogna di esserlo, la posizione della Chiesa non è stata, talvolta, trasparente.
La Chiesa ha sempre ragione. Certamente, mi lascia stordito
248
m. trabucchi - p. garzotti - g. zavateri
quando ci invita ad amare il dolore. Mai il mondo greco ne sarebbe
stato capace.
Poi ci sono gli Hospice, non di rado gestiti dagli Ordini Religiosi.
Sono realtà che non conosco bene e che vorrei conoscere.
La serena vicinanza con il dolore, cioè con chi soffre, è essenziale. Non il ‘‘dolorismo’’. È facile cadere, parlando del dolore, nella retorica. Il dolore dell’altro, non è il mio. Non dimentichiamo che non
ci sono gli esonerati, ma i rimandati.
Il nostro è un mestiere difficile, però siamo qui per quello. Grazie.’’
G. Zavateri: ‘‘Grazie per la vostra presenza, grazie e arrivederci alla
volta prossima.’’
EUTANASIA DA ABBANDONO
L. G. Grezzana
Nel mondo sviluppato, il problema dell’eutanasia rimbalza, con
forza, ai nostri giorni. Le conoscenze mediche hanno ampliato, sempre di più, il sapere sull’organismo umano, consentendo spazi di intervento sempre più vasti.
Sino al 1500, c’era una netta distinzione fra Scienza e Religione.
Questo dualismo, però, culminò in scontri fra autorità religiose e uomini di scienza, quali Galileo e Keplero.
Galileo sosteneva che i dottori della Chiesa non si dovessero interessare della natura delle cose perché, a suo dire, sarebbe stato come se un Principe si fosse interessato di Medicina o di Architettura.
A suo dire, ne sarebbero derivati guai per gli infermi e per gli edifici.
Nella storia dell’uomo, 500 anni sono niente. Da questo dualismo nacque il Rinascimento.
E cosı̀, il pensiero scientifico ha avuto l’avvio. Il progresso, che
mirava a liberare l’uomo dalla povertà e dalla fatica, iniziò la sua strada tormentata. L’uomo, con le sue capacità, assumeva sempre più
valore, indipendentemente, dal suo ruolo sociale.
In quella fase storica, il torchio di Gutenberg è stato essenziale
per la diffusione della cultura.
Col tempo, la tecnologia ha diffuso un approccio ‘‘vitalistico’’,
che ci contagia.
È una visione che contempla solo efficienza, prestazioni e traguardi, negando perdite, dolore e patire.
Eppure, il morire è un momento della vita e, forse spesso, ci si
dimentica che anche allora, c’è qualcosa da dire.
Oggi, sembra essere venuto meno il senso del morire, soprattut-
250
l. g. grezzana
to, quando il morire è legato al patire. L’uomo civilizzato soffre di
più dell’uomo primitivo. Il vivere in gruppo, nella tradizione, nei costumi del passato, giustificava la pochezza umana.
Nel nostro tempo, l’uomo è solo. Più combatte le cause della sofferenza, più soffre. È vittima della tecnica, dell’igiene sistematica,
della terapia, della civilizzazione, della sua lotta contro i mali e le fatiche.
Negli ultimi 40-50 anni, la Medicina ha avuto una evoluzione incredibile.
Quarantacinque anni fa, a Verona, solo il 10% dei decessi, avveniva in pazienti con oltre 70 anni.
Ora, le cose sono assolutamente cambiate. L’aspettativa di vita si
è notevolmente allungata. Moltissimi sono gli anziani in buona condizione di salute. Merito della Medicina, ma non solo. Tutte le conquiste vanno sempre inserite nella società, in senso lato.
Si è vinta la fatica, si è riconosciuta l’importanza dell’igiene.
Malgrado le grandi conquiste, molti sono gli interrogativi non
evasi, in particolare, la morte ed il dolore. Sono realtà con cui ci si
confronta tutti i giorni. Certamente, la risposta non può essere né
l’eutanasia né l’accanimento terapeutico.
Lo stress, il disagio esistenziale, la sofferenza, le preoccupazioni,
non di rado, entrano nel gioco della patologia dell’uomo. All’ansia,
sofferenza dello spirito, si aggiunge la sofferenza del corpo, cioè la
somatizzazione.
Solo nel dolore, la vita e la morte, queste entità opposte, trovano
la possibilità di coesistere. Un’esperienza possibile della morte, si ha
solo attraverso il dolore.
L’uomo è unico ed irripetibile, da sempre. Con la sofferenza, si
ha contezza della propria individualità, della propria specificità.
Nessuno è sostituibile nel proprio dolore e nella propria morte. Forse, il dolore, è un debito che si paga alla vita.
L’uomo patisce lo scotto di una impossibile eternità. In fondo, la
malattia dell’uomo, come più volte ribadito, è malattia d’infinito.
La paura della morte coabita con la vita. Il dolore accompagna la
vita come la sua ombra costante. Come quando si cammina sotto il
sole, a seconda delle ore del giorno, l’ombra a tratti è piccola, sembra che scompaia.
C’è sempre. Ombra, come dolore. Solo quando si fa sera si dile-
eutanasia da abbandono
251
gua. Come l’ombra si staglia nella luce, crea un suo mondo, una sua
immagine, si isola ed isola, cosı̀ fa il dolore. Si crea un confine, si delimita un solco. Si erge un muro di silenzio fra chi soffre e chi non
soffre.
Sotto il segno del dolore, il mondo appare diverso, si vede in
un’ottica particolare. Mentre la felicità crea, fra il mondo e noi,
un’armonia, il dolore rompe quest’idillio e ci fa esperire un interesse
per noi stessi. Una regressione.
La gioia ci proietta nel mondo, mentre il dolore ci racchiude in
noi stessi. Il sofferente spera di trovare pietà. Se c’è qualcuno, il dolore non grava più sulla vittima, ma è, fra altri, condiviso.
Chi soffre si crea una maschera che, come tale, tradisce. La maschera, allo stesso tempo, dissimula, trasmette il dolore, come appunto il verbo latino tradere significa.
Chi soffre è solo ed il dolore è solitudine. La solitudine è doppia:
oggettiva, perché ti fa vedere il mondo più piccolo. Soggettiva, perché ti fa ritirare dal mondo. È restrizione della vita, è perdita. Ci insegna quanto sia precario quello che si ha e, perciò, quello che si è.
Il patire è solitudine. È raccoglimento. Vincola. Lega, dal latino
legere. Non a caso, una delle vie principali che portano alla religione,
è proprio il dolore. Religio, legere, hanno la stessa radice etimologica.
Il dolore è solo di chi soffre, ma pesa sul significato dell’esistenza
di tutti. Desta rispetto e, a suo modo, intimidisce. Il dolore, è di chi
soffre e, chi soffre, appartiene al dolore. È un tormento che mette
alla prova, che ci interroga sul senso dell’esistenza. È una sfida alla
vita.
La storia dell’uomo è giunta ad interpretazioni estreme, non condivisibili, del dolore. Durante il periodo del Romanticismo, ci si innamorava del salice piangente. Ci si inventava la malinconia, si indugiava sul patire. Se ne traeva dolcezza. La malinconia, però, è un lusso della ragione, è un’acrobazia dell’anima su uno zoccolo di miserie,
è un’elucubrazione mentale.
Scienza, tecnica, economia, programmazione sociale, tendono a
restituire la terra all’uomo.
Il mondo è concepito come dominabile e, come il mondo, anche
il dolore. La tecnica, infatti, tende ad allontanare il dolore dalla vita.
252
l. g. grezzana
Un tempo, la tristezza, il patire, li si incontrava per via. Si coglievano
negli sguardi stralunati della gente. Oggi, sono celati.
Il delirio dell’onnipotenza ci abbaglia.
L’uomo moderno è disinvolto, è compito. Si ha pudore del proprio dolore e non solo per mantenere la forma, ma per non perdere
il ritmo del tempo.
Il malato chiede di non soffrire. Una forma di eutanasia si compie nelle case di riposo. L’anziano emarginato dalla società, dagli affetti, dalla propria casa, realizza una morte a rate.
La riflessione sull’eutanasia è di estrema attualità, soprattutto, da
quando il parlamento olandese ha deciso di legalizzare tale pratica. È
un problema da affrontare in un modo pacato e fermo, per i valori
che entrano in gioco.
La tematica dell’eutanasia, comunque, non è nuova e non è prerogativa del nostro tempo. È vero, peraltro, che oggi, è di attualità.
I grandi traguardi della Medicina, a volte, ci illudono che tutto
sia possibile.
Per noi, è palese un approccio euforico alla vita, che non contempla la morte.
È vero, comunque, che emergono tendenze filosofiche che mirano a recuperare ed a valorizzare il tempo del morire. La morte è l’atto supremo del vivente, è il culmine della vita. C’è e non si può scotomizzare.
Ed invece, si tende a negare questo evento.
La tecnica e la Medicina, in particolare, hanno spostato ‘‘tre onde più in là’’ il momento estremo. Sembra sempre più impellente il
bisogno di eternità, quasi, ad illuderci che sia possibile una vita senza
la morte.
Malgrado si sappia di dover morire, tacitamente si spera che
questo, per ora, non accada. Rimandiamo la possibilità e, forse, coltiviamo l’illusione che qualcuno, prima o poi, trovi il farmaco dell’immortalità.
Non è male desiderare la vita, tutt’altro. Non è male sperare che
si trovi rimedio alle patologie, però, la morte e la malattia sono dell’uomo.
Gli scenari che viviamo, portano a bandire la morte ed il dolore.
Questo, per lo meno in parte, giustifica l’accanimento terapeutico e
eutanasia da abbandono
253
l’eutanasia. Sono soluzioni estreme e, solo apparentemente, opposte.
In realtà, originate dalla medesima radice culturale.
Oggi, la vecchiaia inizia più tardi e dura più a lungo. Però, alla
fine, arriva malgrado si tenti di esorcizzarla in vari modi. Spesso,
la si ignora, quasi, viene negata.
Ed allora, la morte diventa estranea, aliena.
L’approccio all’esistenza, proposto dai media, porta ad attribuire
senso alla vita, in proporzione alla sua efficienza. Sembra, quasi, che
la vita umana debba essere misurata in base alle prestazioni possibili.
Questo metro penalizza chi non può essere all’altezza.
Ne deriva che le condizioni di malattia e di sofferenza tendono a
punire le persone più deboli.
Come conseguenza ineludibile, si arriva all’arbitrio di porre termine alla vita come diritto del soggetto e dovere della collettività.
Il tutto viene, alla fine, mascherato come un atto di pietà.
Una società che non sia capace di assicurare, sempre e comunque, il senso profondo della vita, non è accettabile.
Non è una conquista della libertà, far sı̀ che alcuni si sentano inutili. Ciascuno deve avvertire che la sua vita ha sempre un senso, indipendentemente dalle condizioni di efficienza, in cui egli si venga a
trovare.
Per eutanasia, in senso vero e proprio, si deve intendere una
azione od una omissione che, di natura sua e nelle sue intenzioni,
procuri la morte a scopo di eliminare il dolore.
La terapia del dolore non può mai essere considerata alla stessa
stregua dell’eutanasia, anche se ha, come effetto collaterale, quello di
abbreviare la vita. La cura del dolore non ha mai l’obiettivo di procurare la morte, ma solo di rendere sopportabile una condizione di
sofferenza.
Con l’eutanasia si vuole la morte del malato, anche se per ragioni
umanitarie, mentre, con la cura del dolore, si vuole una vita dignitosa.
Correnti di pensiero sostengono che l’eutanasia risponda a motivi di compassione, quasi ad assecondare la volontà del malato.
Quando il paziente non fosse più in grado di manifestare la sua decisione, si fa riferimento ad altre occasioni in cui l’avesse espressa.
Invero, di compassione si può parlare solo se ci si fa solidali con
il dolore altrui. Non può essere una soluzione la morte evocata.
254
l. g. grezzana
L’arbitrio raggiunge il culmine quando medici o legislatori si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire.
La società va pensata al servizio della persona e non viceversa.
Ne consegue che tutti debbono avere un equo accesso alle risorse,
in particolare, non possono essere esclusi i più fragili.
Certamente, la morte, preceduta da sofferenze atroci e prolungate, angoscia.
Talvolta, si parla di diritto alla morte, a significare morire con serenità. La condanna all’eutanasia non contrasta con la ricerca di condizioni che garantiscano, a tutti, il morire con dignità.
Il morente chiede di non essere lasciato solo ed abbandonato a
se stesso. Spesso, dietro alla domanda di eutanasia, si nasconde quella più profonda di solidarietà e di compagnia.
Che fare? Il patire più grande non è quello del corpo, ma quello
della mente. Non di rado, quando coesistono, il dolore del fisico serve a mitigare quello della psiche.
In assoluto, però, il dolore più forte non è quello del corpo né
quello dell’anima, ma l’abbandono. Quasi sempre, si chiede di morire quando si è soli o, piuttosto, quando ci si sente soli.
Allora, l’eutanasia ha un senso? Ci si ribella al dolore, però, lui è
il grande maestro degli uomini. Forse, non serve interrogarsi sul significato del dolore perché, esso, appartiene alla nostra esistenza.
È come interrogarsi sul senso della vita.
Molto più importante, è saper rispondere se interrogati. E tutti,
presto o tardi, lo saremo.
Questo è il messaggio dell’homo patiens, l’uomo sofferente, interrogato dal dolore. La risposta non è nelle parole, ma nel vivere
insieme. Nel fermarsi con compassione, come il buon Samaritano
ci insegna.
Allora, il muro del silenzio cade, il solco della solitudine scompare e l’amore vince il dolore.
Nel nostro tempo, la morte ha rimpiazzato il sesso come principale tabù.
Sin dalla tenera età, non si esita nell’educazione all’amore, anche
nelle sue espressioni più segrete. Amore e sofferenza fanno parte della vita, eppure, si ha paura del dolore in tutte le sue manifestazioni,
al punto di negare la morte.
Ma non sempre.
eutanasia da abbandono
255
Se da una parte non c’è la morte privata, quella intima, dall’altra
viene enfatizzata la violenza della morte, come evento mediatico, come spettacolo. È proposta in modo intollerabile, se l’obiettivo, è colpire e stupire. Quindi, non più morte come fase della vita che insegna, ma morte come impatto che sordisce.
L’ANZIANO E LE CURE DOMICILIARI
F. Fabris
L’incremento della popolazione anziana con il conseguente aumento della richiesta di prestazioni sanitarie, la necessità di contenere le spese insieme all’acquisizione scientifica dei vantaggi delle
cure domiciliari, hanno favorito lo sviluppo di servizi sanitari a
casa.
Dal 1985 opera presso la Divisione Universitaria di Geriatria
dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni-Molinette di Torino, il servizio di Ospedalizzazione a Domicilio. Questo consente di effettuare, a casa del paziente, interventi diagnostici e terapeutici normalmente fruibili in ospedale. È prevista, per prestazioni particolari,
una breve presenza nella struttura sanitaria, con accesso e trasporto
facilitati.
La delibera che contempla l’ospedalizzazione a domicilio, si propone di ridurre il tasso di ospedalizzazione; di reinserire precocemente il malato, specialmente se anziano, nel suo contesto sociale
e familiare dopo il ricovero ospedaliero; di migliorare le prestazioni
ai malati cronici e a quelli in fase terminale; di innescare metodologie
di intervento sanitario integrato ed unificato.
Il servizio funziona per sette giorni alla settimana dalle ore 8 alle
ore 20, con quattordici infermieri professionali. Negli anni, ci sono
state variazioni nel numero degli infermieri. Di media, erano dieci
per anno.
Gli aspetti fondamentali delle attività infermieristiche possono
essere individuati in tre momenti:
– interventi domiciliari in cui vengono effettuate prestazioni concordate con i medici;
258
f. fabris
– riunione d’equipe per la predisposizione e l’organizzazione dei
piani di assistenza e del lavoro quotidiano;
– segreteria, accoglimento delle richieste di ricovero, guardia per rispondere alle emergenze, approvvigionamento del materiale farmaceutico e sanitario, invio e ritiro degli esami di laboratorio, assistenza nel trasporto del paziente per accertamenti espletabili solo in sede ospedaliera.
Il lavoro infermieristico viene articolato in due turni: dalle ore 8
alle ore 16 e dalle ore 12 alle ore 20.
È garantita una disponibilità medica di dodici ore al giorno, dalle
ore 8 alle ore 20, da parte di otto medici della divisione, che articolano questo impegno con l’attività di assistenza ai pazienti ricoverati
presso l’Istituto di Riposo per la Vecchiaia (I.R.V.).
Caratteristica dell’organizzazione del servizio, è la gestione delle
prestazioni in equipe, composte da medici ed infermieri. Il momento
fondamentale è l’organizzazione comune dei piani di intervento dei
singoli pazienti, durante una riunione quotidiana di aggiornamento.
Lo svolgimento delle attività di ospedalizzazione domiciliare, ricalca
quello dell’intervento in regime di degenza tradizionale.
La maggior parte dei pazienti (81%) è indirizzata all’Ospedalizzazione a Domicilio direttamente dal medico di famiglia, che richiede l’attivazione del servizio in alternativa al ricovero tradizionale: nel
19%, l’attivazione del servizio consente la dimissione precoce dall’ospedale.
Nella maggior parte dei casi, l’intervento è motivato dalla necessità di un controllo medico costante e di cure infermieristiche continuative; si tratta, in genere, di malati molto gravi, che richiedono interventi multipli e complessi, talora, affetti da malattie in fase terminale.
Alla richiesta di attivazione del servizio di ospedalizzazione domiciliare, l’equipe compie una visita preliminare per verificare le
condizioni igienico-ambientali e la disponibilità della famiglia.
Per ogni paziente seguito, viene compilata una Cartella Clinica
Geriatrica orientata per problemi che, accompagnando sempre il paziente, viene mantenuta al domicilio. I pazienti sono registrati amministrativamente secondo la forma in uso per il ricovero in Day
Hospital.
Sono possibili, sia a domicilio che in sede ospedaliera, consulenze
l’anziano e le cure domiciliari
259
specialistiche da parte di medici delle altre divisioni dell’ospedale.
Stretto è il rapporto con il Dipartimento di Emergenza ed Accettazione (D.E.A.) dell’ospedale, che ci consente il passaggio di malati dall’ospedale, al domicilio e viceversa. La disponibilità del Pronto Soccorso, per esempio, garantisce prestazioni di emergenza non espletabili a casa. Inoltre, ‘‘copre’’ le emergenze notturne, cioè le ore in cui il
servizio di ospedalizzazione domiciliare non sia operativo.
Sono, comunque, molteplici le prestazioni sanitarie che si possono effettuare a casa del paziente senza trasferimenti in ospedale. Si
va dalle più semplici, quali prelievi ematici, medicazioni, esecuzioni
di ECG, a prestazioni più complesse. Queste, contemplano il posizionamento di cateteri vescicali, il trattamento chirurgico di piaghe
da decubito, la gestione di cannule venose centrali. Si eseguono anche terapie infusionali complesse, comprese infusioni di sangue, di
emoderivati e di farmaci citostatici, previa preparazione delle soluzioni in ambiente protetto. È possibile anche l’esecuzione di paracentesi e di salassi, il posizionamento di sondini naso-gastrici, ecc.
Si coopera, inoltre, con i familiari nell’igiene del malato e nella sua
mobilizzazione.
In collaborazione con il D.E.A. e con il servizio di Neurologia
del Pronto Soccorso, è in atto un progetto sperimentale di trattamento a domicilio di pazienti ultrasessantacinquenni affetti da ictus
cerebrale ischemico in fase acuta. Questi pazienti, vengono trattenuti
in ospedale per un tempo breve, per effettuare gli accertamenti diagnostici del caso quali la visita neurologica, esami ematochimici,
EEG, TAC encefalo. Se rispondono ai requisiti necessari per l’attivazione dell’Ospedalizzazione a Domicilio cioè consenso del paziente e/o dei familiari, adeguato supporto familiare, domicilio in aree
geograficamente limitrofe all’Ospedale Molinette, vengono trasferiti
al domicilio. Lı̀ ricevono le cure farmacologiche e riabilitative necessarie, in regime di Ospedalizzazione a domicilio.
I risultati ottenuti fino ad oggi, sono incoraggianti.
Dall’ottobre 1985 al marzo 2000 sono stati trattati 2.302 pazienti, alcuni dei quali hanno usufruito del servizio per più cicli di cura: i
ricoveri, infatti, sono stati in totale 6.197. Le visite infermieristiche
sono state 86.696 e quelle mediche 31.830; i pazienti sono stati seguiti per complessivi 131.469 giorni di ospedalizzazione.
260
f. fabris
Presa a campione l’attività svolta nel 1999, i ricoveri sono stati
365.
Gli infermieri in servizio erano 14 (in media 6,07 al giorno,
ognuno dei quali ha seguito in media 7 pazienti al giorno).
Le visite infermieristiche sono state 8.208 e le visite mediche
3.489.
Le sole visite per emergenze mediche ed infermieristiche, sono
state 381.
Le prestazioni infermieristiche sono state 26.244, con una media
di 3.6 prestazioni per accesso.
La media dei pazienti in carico è stata di 34,8 pazienti al giorno,
la durata media del ricovero è stata di 35 giorni.
La tipologia dei pazienti seguiti in Ospedalizzazione a Domicilio
e le patologie osservate, riflettono sostanzialmente quelle che si possono rilevare in ospedale.
Le donne sono il 59,7%, gli uomini il 40,3%. La maggior parte
dei pazienti è di età avanzata: il 41,1% ha oltre 80 anni, pur variando
il range dell’età, da 27 a 103. Ciò sta ad indicare che l’Ospedalizzazione a Domicilio, non è un servizio rivolto unicamente a pazienti
anziani.
Presi a campione i pazienti seguiti nel 1999, risulta che fra le più
comuni cause di ricovero in Ospedalizzazione a Domicilio, citiamo
scompenso cardiaco acuto nel 21% dei pazienti, cerebrovasculopatie nel 16%, neoplasie nel 15%, gravi scompensi metabolici nel
14%, sindromi ipocinetiche nel 9,2%. La media di patologie rilevanti, per paziente, è stata di 2,5.
Nonostante si tratti di pazienti anziani affetti da pluripatologie e,
nella maggior parte dei casi, dipendenti nello svolgimento delle attività strumentali e basali della vita quotidiana, il 72,9% dei pazienti è
stato dimesso. Discreto è stato il numero dei trasferimenti, pari al
15.1% dei casi, indice questo, di una effettiva attività in rete con
il reparto di degenza tradizionale ed il Day Hospital. La tipologia
e la gravità delle patologie, rende ragione della relativamente alta
mortalità dei pazienti, pari al 12% dei casi.
I risultati di questa esperienza consentono di trarre alcune conclusioni.
Il ricovero ospedaliero, in degenza tradizionale, può comportare
nel paziente anziano ripercussioni negative sullo stato psichico e fi-
l’anziano e le cure domiciliari
261
sico. Da una parte, il distacco dal proprio ambiente di vita, dalla propria famiglia, dalle proprie abitudini, obbliga necessariamente ad un
adeguamento traumatico a nuovi e diversi ritmi. Dall’altra, l’ospedalizzazione è talvolta associata ad un declino dello stato funzionale
che può condurre ad una riduzione dell’autonomia.
L’Ospedalizzazione a Domicilio, quando è possibile, rappresenta
quindi un anello importante nelle rete assistenziale del paziente anziano.
Affinché vengano garantite al domicilio terapie di livello adeguato e continuità terapeutica, è però indispensabile che l’attività medica ed infermieristica avvenga in equipe, che vi sia, ove necessario, un
accesso all’ospedale agevolato e che vi sia la possibilità di eseguire
visite programmate ed urgenti.
È necessario prevedere un’organizzazione delle cure domiciliari,
che garantisca agli utenti la tempestività degli interventi, la continuità
terapeutica e, nello stesso tempo, consenta di ottimizzare le risorse.
Molti studi hanno evidenziato come la disponibilità di servizi domiciliari possa avere, come conseguenza, la riduzione della durata
dei ricoveri ospedalieri, la diminuzione delle accettazioni in strutture
residenziali, il miglioramento dello stato funzionale oltre alla riduzione dei costi.
Il ruolo della famiglia è centrale per la gestione a casa dei pazienti gravemente malati; è necessario conoscere le caratteristiche del sistema familiare ed ogni piano di cura deve prevedere una strategia
per sostenere e rafforzare la famiglia, che diventa parte integrante
dell’unità di cura.
LA PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE
NELL’ANZIANO
G. Masotti - A. Ungar - C. Perbellini - C. Pasoli
L. G. Grezzana: ‘‘Diamo inizio ai lavori. È particolarmente importante questa giornata.
Vorrei sottolineare la presenza del professor Giulio Masotti. Il
suo è un grande atto d’amore. C’erano dei problemi, ma ha voluto
essere ugualmente con noi vincendo delle fatiche non indifferenti.
Io gli sono veramente grato. È un atto di sincera amicizia, cui io sono
particolarmente sensibile.
L’incontro di oggi è importante, anche perché vi è stato consegnato ‘‘Il Fracastoro’’. Voi tutti ne avete ricevuto una copia e ‘‘Il Fracastoro’’, fra un anno, compie cent’anni. Se voi osservate la rivista, in
alto a sinistra, sta scritto anno 96. Invero, è nata nel 1905, ma conta
96 anni perché ci sono state le due Guerre Mondiali e si è saltato
qualche anno nella pubblicazione del bollettino.
Questa rivista mi è particolarmente cara, sotto tutti i punti di vista: cara per i contenuti, cara per la fatica, ci si è lavorato mesi e mesi
e, se volete, cara anche per il costo, ma questo non si dovrebbe dire.
Quando una cosa è tanto cara, non può che essere donata.
È un dono che viene fatto a voi per la stima, per l’affetto che cerco di dimostrarvi e per l’affetto che voi dimostrate a me. Il mio ruolo
è solo quello di aprire la porta, la porta l’ho aperta’’.
C. Pasoli: ‘‘Ringrazio il pubblico per essere come sempre numeroso
a questo terzo incontro del XIV Corso Superiore di Geriatria, che ha
come tema ‘‘La prevenzione cardiovascolare nell’anziano’’.
Il tema è di particolare importanza perché, almeno nei Paesi occidentali, la patologia cardiovascolare è la prima causa di invalidità e
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
di morte. Parlare di prevenzione vuol dire parlare di fattori di rischio.
I fattori di rischio più comuni sono un’elevata pressione arteriosa, il diabete, l’abitudine al fumo, la dislipidemia cioè l’aumento dei
grassi nel sangue, soprattutto il colesterolo LDL, l’obesità addominale che si accompagna spesso alla dislipidemia ed, ancora, la familiarità, la scarsa attività fisica, l’età.
Infine, anche alcuni esami di laboratorio come la proteina C reattiva e l’omocisteina hanno la loro importanza. Sono fattori di rischio
particolarmente frequenti.
Uno studio, ‘‘Il Progetto Verona’’, condotto dai medici di Medicina Generale dell’U.S.L. 20, ha analizzato la popolazione adulta e
ne risulta che soggetti con nessun fattore di rischio, costituiscono
il 18.4% della popolazione, quindi una minoranza. Quelli, invece,
con un fattore di rischio costituiscono il 34.6%, con due fattori di
rischio il 28.5%, con tre fattori di rischio il 18.5%.
Quindi, valutate che solo il 18.4% della popolazione adulta a
Verona, è esente da fattori di rischio. Secondo le Linee Guida della
Società Europea dell’Ipertensione, aumentando la pressione ed il
numero dei fattori di rischio, aumenta il rischio.
Restando in ambito ipertensione, mi sono permesso di fare una
piccola storia degli ultimi 70 anni.
Negli anni ’30, si consigliava la dieta iposodica, i sedativi, il salasso, i nitriti e si diceva che, forse, era meglio non avvertire il paziente
della sua ipertensione. Negli anni ’50, il professor Messini, allievo di
Frugoni che aveva scritto un famosissimo libro sulla terapia, consigliava papaverina, teobromina, gardenale e ganglioplegici. Si chiedeva: ‘‘È proprio utile abbassare la pressione?’’
Negli anni ’60, invece, i farmaci cominciano ad aumentare e ad
essere molto più mirati: abbiamo i diuretici, la reserpina, l’alfa-metildopa, per arrivare negli anni ’70 con la clonidina, i beta-bloccanti
che però allora erano, per lo meno in Geriatria, da usare con estrema
cautela proprio per l’effetto inotropo negativo che determinavano
nel soggetto anziano.
Negli anni ’80, entrano in scena i calcio-antagonisti e gli ace-inibitori. Si tratta di farmaci di enorme importanza. I calcio-antagonisti
di seconda generazione e i beta-bloccanti selettivi, sono farmaci molto più maneggevoli rispetto ai beta-bloccanti di dieci anni prima.
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
265
Negli anni ’90, compaiono gli antagonisti dell’angiotensina II,
cioè i sartanici.
Sono farmaci che hanno consentito di avere un ulteriore miglioramento della prognosi sia per un effetto meccanico di abbassare la
pressione, sia per un effetto di protezione di organo.
Però, a fronte di questi discorsi si è dovuto arrivare al 1967, praticamente 35 anni fa, per fare chiarezza. Il primo studio fatto con criteri scientifici, il Veterans Administration, ha dimostrato che il trattamento anti-ipertensivo era capace di ridurre le malattie e le morti
cardiovascolari, quindi vuol dire ictus, soprattutto, ma anche cardiopatia ischemica, se pure in grado minore. Il fumo, ostruisce l’arteria
e provoca infarti, ictus; questo c’è scritto in ogni pacchetto di sigarette. Io mi chiedo se chi fuma lo abbia letto.
Quindi, la prevenzione cardiovascolare si può fare in due modi.
Da un lato modificando i fattori di rischio, cioè la dieta, l’esercizio
fisico, l’abolizione del fumo, il controllo metabolico del diabete. Dall’altro, con la terapia a base di ace-inibitori, sartanici, ipolipidizzanti,
beta-bloccanti, aspirina.
Tutto ciò, per ottenere la regressione o quanto meno la non progressione dell’arteriosclerosi, la stabilizzazione della placca arteriosclerotica, il ripristino della funzione endoteliale. Quest’ultimo elemento è importante. Si ha, in definitiva, una riduzione degli effetti
dei fattori acuti di rischio. Questo, per ottenere una prevenzione della malattia cardiovascolare acuta. Non voglio rubare spazio agli oratori e cedo la parola al dottor Cristiano Perbellini, il quale ci parlerà
della fisiopatologia dell’arteriosclerosi’’.
266
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C. Perbellini: ‘‘Grazie al dottor Pasoli per l’introduzione e grazie al
dottor Grezzana per l’invito. A me è stato chiesto di presentare quella ‘‘brutta bestia’’ contro cui dobbiamo combattere parlando di fattori di rischio e farmaci, cioè l’aterosclerosi.
L’aterosclerosi è la principale causa della malattia cardiovascolare e, come ha anticipato il dottor Pasoli, è la responsabile della malattia cardiovascolare nel paziente anziano. Dunque, presenterò i
concetti di aterosclerosi e di aterotrombosi. Accennerò alle metodiche diagnostiche ed i limiti di queste. Farò un ‘‘flash’’ anche sulle
prospettive future sia diagnostiche che terapeutiche.
L’aterotrombosi esprime una complicazione della malattia aterosclerotica. In essa, di solito, si appalesano le manifestazioni cliniche,
quali l’ictus, l’infarto del miocardio, eccetera.
L’aterotrombosi rappresenta la causa più frequente di mortalità
nel mondo sviluppato. Si ha anche una riduzione nell’aspettativa di
vita del soggetto con la malattia aterosclerotica.
Tale riduzione, varia a seconda di quale tipo di complicanza la
malattia abbia portato. I soggetti ultrasessantenni, hanno un’aspettativa di vita di circa vent’anni, cosa che non si può dire certo per il
paziente con una storia di malattia cardiovascolare. In questi casi
c’è una riduzione di aspettativa di vita di 7,4 anni.
Un paziente, invece, che sia stato colpito da infarto del miocardio, ha una riduzione di aspettativa di vita superiore: 9,2 anni. Per i
pazienti che abbiano una storia di ictus, la riduzione è addirittura di
12 anni. Sono numeri che fanno pensare.
L’aterotrombosi, cioè la complicanza dell’aterosclerosi, a che livello si appalesa principalmente?
A livello cerebrale, si può realizzare lo stroke o il cosiddetto attacco ischemico transitorio.
A livello cardiaco, l’infarto del miocardio o l’angina pectoris. A
livello periferico, l’arteriopatia obliterante. La claudicatio è una patologia, con cui tutti abbiamo dimestichezza. Questa, oltre a portare
delle malattie ischemiche non indifferenti, è anche purtroppo, spesso, multi-distrettuale. Infatti, il paziente con malattia coronarica, può
presentare anche una malattia vascolare su un distretto diverso.
Sono quadri clinici che si embricano ad indicare che pazienti con
malattia coronarica possono avere anche malattia cerebro-vascolare.
Questo, si verifica nel 7% dei pazienti con danno coronarico.
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
267
I pazienti con malattia coronarica, presentano, nel 12% dei casi,
anche un’arteriopatia obliterante periferica. Alcuni soggetti con malattia cerebrale, possono manifestare anche un’arteriopatia obliterante periferica, nel 4%. Nei casi più gravi, le complicazioni interessano
tutti e tre i distretti.
La classica placca aterosclerotica, che è causa dei fenomeni trombotici, vede coinvolti diversi tipi di cellule. Sono interessate cellule
della serie bianca, cellule muscolari lisce e cellule endoteliali. Le cellule della serie bianca, vengono modificate dopo che i lipidi vengono
inglobati nella placca. Sappiamo che i lipidi sono, appunto, i primi
responsabili del processo aterosclerotico.
La malattia aterosclerotica colpisce i vasi arteriosi a livello della
tonaca intima che è, appunto, la più vicina al lume vascolare. Si
ha un infarcimento lipidico del vaso, che innesca poi un processo infiammatorio vero e proprio con liberazione di mediatori e di sostanze che possono automantenere il processo.
Ne sono una conseguenza le complicanze che andremo ad analizzare. All’interno della placca, ci sono sia cellule sia lipidi in abbondanza. Le placche possono rimanere stabili nel tempo, oppure evolvere.
Le placche stabili preoccupano poco. Possono essere seguite con
tranquillità. Le placche instabili possono evolvere lentamente o rapidamente. La complicanza più temibile della placca, è la fissurazione.
Perché una placca si rompe? Vi sono due tipi di sollecitazioni:
locali o sistemiche. Una placca si rompe se ci sono delle caratteristiche strutturali che la predispongano alla rottura. Il ‘‘core’’ cioè il
cuore della placca, deve essere particolarmente ricco in lipidi e deve
occupare almeno il 40% del diametro del lume del vaso.
La fissurazione della placca viene favorita da un manto fibroso,
sottile, che la ricopre. Spesso, coesiste un processo infiammatorio
consistente. Infiammazione, spessore, core e sollecitazioni esterne,
sono causa della rottura.
Le sollecitazioni esterne possono essere dovute ad un flusso ematico sfavorevole, turbolento, come quello che si realizza su una biforcazione carotidea. Questi fattori, da soli, sembra non siano sufficienti per la rottura della placca. Però, sono determinanti perché la placca si complichi.
I classici fattori di rischio quali il fumo, il colesterolo, il diabete,
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l’omocisteina, il fibrinogeno ed una ridotta fibrinolisi, contribuiscono a far sı̀ che la placca stabile si trasformi in placca instabile.
L’aterosclerosi entra nella fase complicata. La fissurazione comporta una serie di fenomeni. I lipidi sottostanti costituiscono il nucleo della placca. I lipidi sono altamente trombogenici, le piastrine
vengono subito richiamate sul sito per formare il famoso tappo, cioè
il trombo. Se poi il nostro sistema fibrinolitico non è in grado di ‘‘bilanciare’’, ‘‘contenere’’ la formazione del trombo, si ha l’ingrandimento dello stesso e conseguenti problemi ischemici rilevanti.
Il trattamento dipende sia dalle caratteristiche che dalle modalità
di progressione della placca. Ci sono placche che sono stabili nel
tempo, mentre altre, hanno una progressione che può essere lenta
o rapida.
Se una placca è stabile, basta seguirla nel tempo con una diagnostica strumentale, quale l’eco-color doppler a livello delle carotidi.
Se, invece, si parla di placca a rischio ed abbiamo visto di quale
tipo si tratti, è importante instaurare un trattamento farmacologico
adeguato. Si deve monitorarla nel tempo e vedere se tende a progredire o a rimanere stabile. Qualora vi sia una progressione della stessa, è indicato l’approccio chirurgico. Abbiamo a disposizione parecchi strumenti come l’eco-color doppler, la risonanza magnetica, la
TAC e l’angiografia che ci consentono di ‘‘seguire’’ la placca.
Non è indispensabile tenere sotto osservazione tutte le placche,
mentre è importante individuare la placca a rischio, perché può fissurarsi. È quella che ci interessa. Bisogna seguirla e trattarla.
L’eco-color-doppler rappresenta la metodica meno invasiva, più
economica, più semplice. Ci consente non solo di evidenziare la
placca, ma anche di rilevarne la morfologia.
Esistono placche di natura mista. In una placca, la calcificazione
rappresenta la parte stabile, mentre la parte più pericolosa è quella
‘‘soft’’. Risonanza magnetica, TAC ed anche PET, sono metodiche
sofisticate e costose. Sono in grado di darci un’indicazione sia di volume sia di rischio.
Particolari markers sono in grado di monitorare quella che è l’attività, per esempio, delle cellule della serie bianca.
La risonanza magnetica, col mezzo di contrasto, consente di seguire in modo ‘‘elegante’’ la placca.
Fra le varie metodiche c’è anche l’angiografia. Per parecchio
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
269
tempo, ha rappresentato ed ancora rappresenta il ‘‘gold standard’’
della diagnostica strumentale. Dà indicazioni precise della lesione
e del grado di stenosi.
L’angiografia, però, è un mezzo diagnostico invasivo. Prevede la
somministrazione di mezzo di contrasto. È un esame che ci consente
di localizzare la placca e di quantificare il grado di stenosi. Non ci
dice di che tipo di placca si tratti, se a rischio o meno.
È di frequente riscontro nella valutazione angiografica che la
placca responsabile dell’infarto, non sia isolata. Infatti, nello stesso
distretto vi possono essere più placche a rischio.
Il laboratorio ci fornisce indicazioni preziose. È possibile, dosare
quelle che sono le proteine capaci di prevedere il rischio di un evento ischemico maggiore. La più conosciuta è la proteina C reattiva,
prodotta dal fegato, in risposta alla produzione di particolari mediatori dell’infiammazione, quali l’interleuchina 6 od altri.
Il CD40L, invece, è un marker prodotto dalle piastrine. La mieloperossidasi è originata dai leucociti e la glutatione perossidasi dagli
eritrociti. Sono tutte proteine, che danno informazioni indipendentemente le une dalle altre.
La proteina C reattiva è la prima che è stata utilizzata per la prevenzione del rischio cardiovascolare. È stata studiata anche per la
prevenzione di rischio a livello degli arti inferiori, quindi per l’arteriopatia obliterante periferica.
Il CD40L, è particolarmente concentrato all’interno delle piastrine. Quando queste si frantumano, lo rilasciano e viene liberato nel
sangue. Il dosaggio di questo marker ci consente di ipotizzare una
previsione di rischio. La mieloperossidasi sembra, appunto, essere
il marker più promettente.
In un articolo comparso sul New England Journal of Medicine,
uscito nel 2003, la mieloperossidasi è stata messa a confronto con la
proteina C reattiva. In termini di sensibilità e specificità, è decisamente superiore a quest’ultima.
Anche la glutatione perossidasi, prodotta dagli eritrociti, ci consente una previsione, ma la mieloperossidasi sembra quella più promettente.
Avrete notato tutti che si può quantificare il rischio, ma queste
proteine non ci aiutano a fare una diagnosi di sede. La diagnosi di
sede è possibile solo con l’esame strumentale. Questi markers, ci
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
possono solo dire quale sia il rischio di avere un evento ischemico in
un paziente.
Per quanto riguarda la sede, siamo guidati dai sintomi. Il paziente può presentarsi con una precordialgia, oppure può accusare un
dolore alle gambe durante la marcia. È la clinica che ci aiuta. L’anamnesi ci indirizza e noi partiamo con una serie di indagini. Genetica e studio delle proteine, ci possono, in questo senso, aiutare.
Studi recenti cercano di ipotizzare il divenire di una malattia. Per
cui, per esempio, se si prevede che un paziente sia esposto a rischio
d’infarto, verranno messi in atto dei provvedimenti.
Esiste un’alterazione genetica trasmissibile in modo autosomico
dominante, capace di un’alterazione a livello di endotelio coronarico,
che realizza una pro-trombosi. Le piastrine aderiscono molto facilmente, si forma il trombo e quindi l’infarto.
Questo studio ci dà indicazioni molto precise. Ci dice chi sarà
esposto a malattia aterosclerotica e dove questa malattia si manifesterà. La Genetica ci può aiutare anche ad individuare i soggetti che
siano particolarmente a rischio, per determinate classi di farmaci.
Sapremo se quel soggetto risponderà all’aspirina o al clopidogrel
e, questo, consentirà di somministrare il farmaco più opportuno.
Grazie.’’
C. Pasoli: ‘‘Grazie Cristiano per la tua relazione. Passo la parola al
professor Masotti, che tutti voi conoscete perché ha già partecipato
alla nostra Scuola Medica - Corso Superiore di Geriatria.
Vi ricordo solo che è Presidente uscente della Società Italiana di
Geriatria e Gerontologia e che è il Direttore della Cattedra di Geriatria di Firenze, che è stata la prima in Italia, mi pare, ed è sicuramente la più importante. Prego, professor Masotti.’’
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
271
G. Masotti: ‘‘Ringrazio molto il dottor Pasoli per la sua presentazione e ringrazio in particolar modo il dottor Luigi Grezzana, un amico
carissimo, che mi ha fatto l’onore di invitarmi nuovamente fra voi.
Lo ringrazio perché fra i geriatri italiani, se ne parla di questa Scuola.
Qualche anno fa, mi domandavano: ‘‘Ma tu, quante volte ci sei
andato da Luigi Grezzana?’’ Io cambiavo discorso perché non c’ero
mai venuto. L’anno scorso, mi ha fatto il grande onore di invitarmi e,
quest’anno, mi ha invitato di nuovo.
I cantanti che sono stati diverse volte alla Scala, possono mettere
nel loro ‘‘curriculum’’: ‘‘Io ho cantato alla Scala’’. Anch’io, come loro, posso dire che ho ‘‘cantato’’ a questa ‘‘Scala’’.
Quest’anno, ho avuto qualche piccolo problema di salute, per
cui ero un po’ incerto se venire o meno. Ovviamente, ho fatto di tutto per esserci. Oggi è la mia prima uscita dopo la convalescenza, ma
sono venuto veramente di corsa e molto contento per non sciupare il
mio ‘‘curriculum’’.
Voglio anche un po’ scusarmi se magari non sarò all’altezza della
situazione. Peraltro, come dice Luigi Grezzana ne ‘‘Il Fracastoro’’
appena uscito, ‘‘Verba volant, scripta manent’’. Se non sarò all’altezza della situazione e ci sarà qualche ‘‘basso’’ oltre che qualche ‘‘alto’’,
so che Luigi Grezzana poi aggiusterà tutto.
Ho visto la mia presentazione dell’anno scorso. Mi è piaciuta
scritta. Ho visto. È più bella di come l’avevo fatta. Confido che, se
non sono all’altezza, quando verrà pubblicata questa mia relazione,
sarà sicuramente bella, perché ci sarà il contributo di Luigi Grezzana.
Ringrazio il dottor Pasoli, il dottor Perbellini perché con i loro
dati hanno introdotto un po’ quello che io dirò.
Il tema è ‘‘La prevenzione cardiovascolare nell’anziano’’. L’anno
scorso ho fatto una relazione di tipo più ampio, in cui forse l’aspetto
medico era centrale, ma sicuramente, era una relazione in cui dovevano confluire aspetti sociali, aspetti organizzativi, vorrei dire gli
aspetti di politica sanitaria.
Quest’anno ho scelto questo tema: ‘‘La prevenzione cardiovascolare nell’anziano’’ perché l’anno scorso e un po’ nei temi generali di
Geriatria che noi andiamo presentando, noi geriatri spesso ci lamentiamo perché le cose sul piano della politica sanitaria, talvolta, diver-
272
g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
gono da quello che noi vorremmo, da quelli che sono i nostri obiettivi.
Quest’anno, propongo un ripensamento sulla nostra azione di
operatori sanitari: medici, infermieri, fisioterapisti e cosı̀ via. Credo
che, proprio nell’ambito della prevenzione cardiovascolare, forse
noi possiamo fare molto di più di quello che oggi la Scienza e la Ricerca indicano. Questo è solo per ribadire quanto abbiamo già visto
finora, cioè, che il rischio di malattie cardiovascolari, cresce progressivamente con l’avanzare dell’età e, questo, è particolarmente elevato.
Il rischio cardiovascolare è più alto nel sesso femminile. Voglio
sottolineare un aspetto. Gli obiettivi che noi ci proponiamo nella
prevenzione cardiovascolare dell’anziano, sono gli stessi di tutte le
altre età: la mortalità, la morbosità, la qualità della vita.
Però in Geriatria, oltre a questi, dobbiamo tenere presenti altri
obiettivi particolarmente importanti quali la disabilità, il deterioramento cognitivo e l’istituzionalizzazione. Per noi geriatri e soprattutto per i nostri pazienti, queste problematiche possono superare addirittura, come importanza, la mortalità.
Io vorrei, malgrado non ce ne fosse bisogno, evidenziare l’importanza del primo obiettivo geriatrico: la disabilità.
La disabilità, esprime una limitazione grave dell’individuo nella
società. È la limitazione nello svolgere le attività comuni della vita
quotidiana o le attività strumentali. Quindi, identifica i soggetti autonomi da quelli dipendenti da altri.
In uno studio di ormai diversi anni fa, viene dimostrato come i
soggetti con disabilità moderata, rispetto ai soggetti autonomi, abbiano un rischio di morte due volte maggiore.
Questo rischio si triplica nei soggetti con disabilità grave, rispetto agli autonomi. Non solo è un bagaglio doloroso che accompagna
queste persone, ma indipendentemente dalla malattia, costituisce un
pesante fattore prognostico nei riguardi della mortalità.
Uno studio dell’83, che potrebbe sembrare un po’ datato, trasmette un messaggio di grande portata che, talvolta, fa venire i brividi.
I soggetti fra 65 e 70 anni hanno ancora un’ampia aspettativa di
vita. La donna nettamente superiore all’uomo e questo si verifica per
tutti i quinquenni, fino ad 85 anni. Costantemente. La donna ha
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
273
un’aspettativa di vita totale superiore all’uomo. Quello che deve essere il nostro obiettivo quotidiano, quando affrontiamo un paziente
che abbia bisogno delle nostre cure, è che queste persone hanno sı̀
un’aspettativa di vita ampia, ma l’aspettativa di vita disabile è, talora,
enorme.
Soprattutto, è importante notare come la donna viva più a lungo,
ma con una disabilità molto maggiore. Per tutte le classi di età, l’aspettativa di vita attiva, cioè priva di disabilità o vita autonoma, è all’incirca uguale fra uomo e donna.
In definitiva, la donna vive più a lungo, ma a prezzo di una disabilità più lunga. Questo concetto deve ogni giorno improntare la
nostra azione. Noi sappiamo che i nostri anziani, anche se al momento dell’osservazione sono autonomi, corrono il rischio di una disabilità, molto prolungata con aggravio di sofferenze e di spese sanitarie.
Su questo decorso, purtroppo, poco si può incidere. Passiamo adesso all’aspetto più operativo.
Vediamo l’ipertensione arteriosa che, come abbiamo sentito già
dagli oratori precedenti, è sicuramente il fattore più importante. Il
trattamento antipertensivo nell’anziano, è capace di ridurre il rischio
delle malattie cardiovascolari, costantemente in misura significativa.
Questa riduzione del rischio, delle complicanze cardiovascolari è addirittura del 20-30%.
A questo punto, che cosa si può ottenere nell’anziano, rispetto al
soggetto giovane, correggendo l’ipertensione?
Negli anziani il trattamento è più efficace che nel giovane. È stato esaminato un grossissimo numero di soggetti. Quanti devono essere trattati per cinque anni, per risparmiare un evento cardiovascolare?
Negli anziani, è stato riscontrato che il numero è inferiore di circa la metà per tutte le malattie cardiovascolari, ictus, mortalità totale.
Quindi, vuol dire che nell’anziano il rapporto trattamento-beneficio
è di gran lunga migliore.
È sufficiente curare un numero estremamente più basso rispetto
ai soggetti giovani, per risparmiare loro eventi cardiovascolari. Non è
soltanto questo da sottolineare. Sono stati messi in relazione i risultati con la situazione cardiovascolare di base. Sono stati individuati
fattori di rischio, diversi per gravità.
Per un fattore di rischio di minor gravità, è stato dimostrato che
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
bisogna trattare 160 persone per risparmiare un evento. Nell’anziano, man mano che si prendono in considerazione fattori di rischio
più gravi, diminuisce il numero di soggetti da trattare, per risparmiare un evento.
Nei soggetti anziani, quindi, il rapporto è via via più ‘‘pagante’’
quanto maggiore è la situazione di rischio in condizione di base.
Prendiamo in esame come incida il trattamento antipertensivo, nei
riguardi di quegli outcomes che noi abbiamo delineato all’inizio essere l’obiettivo più importante per l’anziano.
Consideriamo la demenza. Nel Syst-Eur si è dimostrato, a distanza di cinque anni, che i soggetti trattati sviluppavano demenza vascolare nella misura del 50% in meno rispetto ai soggetti non trattati. Il
lavoro precedente, è stato un po’ criticato perché era esiguo il numero dei soggetti che avevano sviluppato demenza.
Però, questi stessi autori continuando l’osservazione del Syst-Eur
a otto anni, hanno confermato i risultati in maniera più ampia. La
forbice fra soggetti trattati con placebo e quelli in cura con i farmaci
attivi, infatti, si allarga.
La significatività è molto elevata perché la riduzione di eventi di
demenza è del 55%. Quindi, la prevenzione della demenza, è uno
dei tre obiettivi che nell’anziano ha un’importanza forse maggiore
della mortalità o della morbosità.
Nelle Linee Guida recenti, il JNC VII (Joint National Committee VII) del 2001, abbiamo un’affermazione molto precisa sul numero non elevatissimo di studi in cui è stato dimostrato che il trattamento antipertensivo riduce la demenza.
La demenza ed il deterioramento cognitivo, compaiono in maniera molto più frequente in soggetti con l’ipertensione. Il deterioramento cognitivo si riduce, quando si instaura una terapia antipertensiva efficace. Questo noi dobbiamo tenerlo presente nella nostra attività di ogni giorno.
L’altro punto estremamente importante, l’altro obiettivo, è la disabilità. Su questo, la Letteratura è meno ricca. Però, noi abbiamo
questo dato preciso, secondo il quale la disabilità incidente in un’osservazione di 36 mesi, è direttamente correlata con i valori di pressione arteriosa sistolica.
In altre parole, quanto più è elevata la pressione arteriosa sistolica, tanto maggiore è lo sviluppo di disabilità in un gruppo di sog-
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
275
getti che in condizioni basali, non presentava limitazione alcuna dal
punto di vista funzionale. Non abbiamo però la riprova che, abbassando la pressione, si possa prevenire il deterioramento dell’autonomia.
Peraltro, vi sono studi che ci fanno ritenere come un corretto
trattamento antipertensivo possa incidere anche sullo sviluppo di disabilità. Andando un pochino più a fondo, nell’ambito dell’ipertensione arteriosa, dobbiamo sicuramente valutare l’influenza dell’ipertensione sistolica isolata nel soggetto anziano.
L’ipertensione sistolica isolata, è la forma di ipertensione più comunemente diffusa nel soggetto anziano. A tal proposito, ci sono alcuni studi italiani, due dei quali condotti a Firenze. In questi, si vede
che la prevalenza di ipertensione è molto elevata. Raggiunge fra il 70
e l’85% della popolazione ultrasessantacinquenne. In questa forma
di ipertensione dell’anziano, l’ipertensione sistolica è responsabile
di circa la metà dei casi.
Quindi, una forma di ipertensione molto comune. Ebbene, l’atteggiamento delle professioni sanitarie nei riguardi dell’ipertensione
arteriosa sistolica, specialmente dell’ipertensione sistolica isolata, è
tuttora lontana da quello che sarebbe augurabile.
Qui vorrei sottolineare alcuni punti che sono, forse, più d’interesse storico, ma che, credo, siano importanti nel determinare il nostro atteggiamento di oggi.
R. S. Gubner, in un lavoro del ’62 realizzato per un gruppo di
compagnie di assicurazione americane, aveva seguito per 18 anni
la popolazione generale: 4 milioni di soggetti di età, nel momento
in cui sono stati arruolati, fra 15 e 59 anni.
Era stata messa in relazione la pressione arteriosa sistolica con la
mortalità. Per valori di pressione diastolica del tutto normale, avere
una pressione sistolica via via crescente, aumentava il rischio di morte in maniera sostanziale.
Tutto sommato, si trattava in definitiva di valori di pressione arteriosa sistolica, moderatamente elevati. Già nel 1962, avevamo una
statistica rigorosa, pubblicata su un giornale importante e qualificato.
Non c’era equivoco, sul fatto che l’ipertensione arteriosa sistolica
o per lo meno l’ipertensione arteriosa, fosse un importante fattore di
rischio. Addirittura, per valori bassi o normali di pressione sistolica,
276
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l’avere una pressione di poco superiore all’altra categoria di controllo, aumentava sostanzialmente il pericolo di eventi. Questo, è evidente per tutti i valori di pressione diastolica.
L’autore, nello stesso lavoro, concludeva che l’ipertensione sistolica, ripeto ancora nel ’62, è stata a lungo considerata come un fenomeno di accompagnamento dell’ipertensione diastolica, cioè come
dato ‘‘indifferente’’ o ‘‘innocente’’.
Invece, un follow up esteso alle persone con ipertensione sistolica, indicava che l’elevazione della pressione sistolica, seppure in un
range normale, aveva un indiscutibile effetto avverso sulla spettanza
di vita. Aveva detto di più. La mortalità era aumentata per malattia
cardiaca, che comprendeva lo scompenso, la cardiopatia coronarica
e le lesioni vascolari del sistema nervoso centrale. Tale studio del ’62,
è rimasto del tutto ignorato.
In un altro studio, Friedberg, che malgrado non sia a tutti noto,
ma può essere paragonato ad un autore importante come E. Braunwald, è giunto a risultati che oggi ci lasciano perplessi. Si tratta di studi
realizzati negli anni ’70, in cui non era infrequente che si giungesse alla
conclusione che l’aumentata mortalità, in pazienti con elevati valori di
pressione sistolica, fosse dovuta a condizioni cliniche associate.
Quindi, si escludeva una responsabilità dell’ipertensione sistolica
come causa di mortalità. Voi capite il disastro fatto da queste affermazioni, negli anni successivi. Sono comparsi, addirittura, degli studi
che concludevano che non trattare gli ipertesi consentiva il risparmio
di ‘‘manodopera’’ medica e di risorse finanziarie.
Secondo quest’ottica, farmaci antipertensivi non dovrebbero essere somministrati ad un paziente finché non abbia una pressione superiore a 200 su 100. Questa era un po’ l’indicazione dell’epoca, negli anni ’70, tanto che nell’88 le Linee Guida per il trattamento dell’ipertensione, erano centrate soltanto sull’ipertensione diastolica.
L’ipertensione sistolica non aveva dignità di trattamento. Si parlava di pressione arteriosa normale, alta, moderata o severa soltanto
sulla base dei valori della diastolica. L’ipertensione sistolica era quasi
una curiosità priva di effetto pratico.
Poi sono apparsi i grandi studi del ’91, ’97 e ’98 che hanno finalmente dimostrato, come l’ipertensione sistolica nel paziente anziano
fosse un fattore di rischio per mortalità cardiovascolare. Questo concetto era stato ribadito da Gubner, già nel ’62. È stato dimostrato
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
277
che questo fattore di rischio, si riduce significativamente con un trattamento aggressivo.
Vorrei andare un pochino nel dettaglio soltanto di qualcuno di
questi studi, in particolare lo SHEP (Systolic Hypertension Elderly
Program).
È stato il primo ed è stato pubblicato, per dimostrare la riduzione del rischio cardiovascolare nei soggetti con ipertensione sistolica,
trattati.
I risultati a 15 anni, dimostrano che i casi del ‘‘gruppo placebo’’,
rispetto a quelli del ‘‘gruppo trattato’’, continuino a divaricarsi. A 14
anni di distanza, il 79% dei soggetti trattati con placebo, aveva complicanze cardiovascolari contro il 58% di pazienti trattati. I soggetti
trattati in maniera attiva, avevano un andamento all’incirca sovrapponibile al gruppo di controllo.
È significativo notare come nei soggetti che all’inizio del trial non
avevano malattia aterosclerotica, il trattamento attivo riporta il rischio, a distanza di 10 anni, esattamente sovrapponibile ai soggetti
normotesi. Invece, i pazienti del ‘‘gruppo placebo’’, vanno incontro
ad un progressivo aumento dei casi di morte o eventi cardiovascolari, raggiungendo il 70% contro il 30% dei trattati.
Peraltro, nei soggetti che già in condizioni basali avevano una
malattia aterosclerotica, abbiamo un certo vantaggio nelle prime fasi.
Quando la malattia è molto avanzata, non c’è vantaggio nel trattarla.
Ecco quindi, che viene smentito un atteggiamento molte volte
consueto nel dire: ‘‘Questo sta bene, non ha grossi rischi, non ha
avuto eventi e quindi tutto sommato può sopportare anche una pressione un po’ più alta, senza conseguenze.’’
È la chiara smentita di questo atteggiamento. Analizzando più
profondamente le caratteristiche di soggetti con ipertensione, questo
studio, nella disamina dei più grossi ‘‘trial’’, ha potuto dimostrare come il rischio di morte a 2 anni, sia via via maggiore quanto più bassa
è la pressione diastolica di base.
Da tutto ciò, si evince esattamente l’opposto, di quanto fosse stato propugnato negli anni ’70. Addirittura, oggi, si tende a dire che
quanto più bassa è la pressione diastolica, tanto maggiore è il rischio
cardiovascolare. Quindi, una pressione differenziale elevata esprime
nell’anziano, un rischio cardiovascolare importante.
278
g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
In definitiva, il nostro obiettivo dovrebbe essere proprio quello
di valutare la pressione differenziale.
Perché è importante la pressione differenziale, la differenza fra
sistolica e diastolica?
Se andiamo a vedere la curva di pressione aortica del giovane e
del soggetto anziano, noi vediamo che nel giovane c’è l’onda di pressione determinata dalla eiezione ventricolare sinistra, che evoca l’onda sfigmica. Questa arriva alla periferia ed, in un albero arterioso elastico, viene riflessa al centro. Quando arriva alle piccole diramazioni
arteriolari, cozza contro le resistenze. Nasce un’onda riflessa, che arriva al cuore nella fase proto-diastolica e, questo, serve ad aumentare
il riempimento coronarico. L’onda di riflessione dalla periferia al
cuore, arriva in una fase in cui questo aumento di pressione è positivo perché contribuisce al riempimento coronarico.
Che cosa succede nel soggetto anziano? Abbiamo un invecchiamento delle pareti arteriose, che si esprime con un indurimento delle
pareti stesse. Diminuisce l’elasticità e, talvolta, vi è anche una calcificazione dell’albero arterioso. L’onda sfigmica non viene accolta dal
mantice elastico dell’apparato arterioso, trova dei tubi rigidi e, quindi, si proietta alla periferia con maggiore velocità. Da lı̀, rimbalza e
con altrettanta maggiore velocità, arriva al cuore.
Al cuore non arriva più in questa fase proto-diastolica a riempire
le coronarie, ma arriva in fase sistolica. Tutto ciò, aumenta il lavoro
del cuore e riduce il riempimento coronarico. La causa dell’ipertensione sistolica, probabilmente, sta in questo mantice. Si passa dallo
stato elastico ad uno stato fibroso e rigido. Questo comporta un fenomeno di rimbalzo precoce che ‘‘stressa’’ il cuore ed ostacola il
riempimento coronarico.
In un nostro studio del 2002, abbiamo valutato la rigidità delle
arterie, l’onda sfigmica, la massa ventricolare sinistra ed un indice
dell’aterosclerosi carotidea, nelle tre condizioni: normo-tesi, ipertesi
sisto-diastolici e soggetti con ipertensione sistolica isolata.
L’ipertensione sistolica isolata si accompagna ad un’onda precoce molto più ampia, ad una maggiore rigidità delle arterie, ad una
maggiore massa ventricolare sinistra. Tutto questo, realizza un’ipertrofia ventricolare sinistra nettamente maggiore rispetto a quella che
si realizza nell’ipertensione sisto-diastolica.
Per ultimo, nell’ipertensione sistolica si è osservato un aumento
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
279
della placca carotidea. Pertanto, queste sono le conseguenze dell’ipertensione sistolica isolata, ma in particolare, dell’aumento della
pressione differenziale.
Come dobbiamo trattare questi soggetti? Ovviamente con farmaci anti-ipertensivi e qui abbiamo un barlume di nuovo indirizzo
perché con i farmaci anti-ipertensivi noi abbassiamo la sistolica,
ma molte volte di pari passo, abbassiamo anche la pressione diastolica. Quindi, abbiamo un minore fattore di rischio generale per l’ipertensione sistolica, però spesso, la pressione differenziale rimane
invariata perché s’abbassano ambedue.
Questo studio può essere l’inizio. Non è un dato che sconvolge
la pratica, però può essere un suggerimento pertinente. È stato associato un ace-inibitore con un diuretico un po’ particolare. Rispetto
all’atenololo, si evidenzia come a parità di riduzione dei valori di diastolica, la riduzione della sistolica, sia per alcuni millimetri maggiore.
Questo si ottiene confrontando l’associazione dei due farmaci, rispetto all’atenololo.
Si dimostra in questo modo, che da ora in poi nel trattamento
dell’ipertensione sistolica isolata nell’anziano, bisogna mirare soprattutto alla riduzione della pressione differenziale. Probabilmente, la
via futura è quella di studiare attraverso trial appropriati, i farmaci
che più elettivamente agiscono sulla pressione differenziale. Questa,
pur non essendo un’indicazione assoluta, penso sia, per lo meno, un
obiettivo auspicabile.
Rispetto ai pazienti in cura con atenololo, nei soggetti trattati con
l’associazione di ace-inibitore e diuretico, si riduce l’onda precoce sia
a livello carotideo che a livello aortico. Invece, nei soggetti cui venga
somministrato atenololo, pur abbassandosi la pressione, la rigidità
dell’albero vascolare non viene modificata in maniera significativa.
Quindi, abbiamo sicuramente dei dati che dimostrano come abbassare la pressione arteriosa è essenziale, per ridurre il rischio cardiovascolare.
Abbiamo qualche dato anche su come sia meglio intervenire sull’ipertensione nell’anziano. È utile analizzare il comportamento delle
nostre classi sanitarie, medici, infermieri e cosı̀ via.
Nel ’99, in uno studio anglosassone veniva considerato l’atteggiamento sanitario nei confronti dei soggetti ipertesi.
280
g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
È stata presa in esame l’opinione di 583 medici di famiglia. Si
tratta di una statistica non banale e non affrettata.
È stato chiesto loro: ‘‘Soggetti con 165 millimetri di mercurio di
sistolica, li tratteresti? Ti comporteresti diversamente a seconda dell’età?’’ Il 40% soltanto, era disposto a trattare, se l’età del soggetto
fosse stata inferiore a 60 anni.
La stessa domanda evocava una risposta diversa, quando venivano considerati soggetti di età compresa fra 70 e 80 anni. Per questa
fascia, infatti, la percentuale si abbassava dal 40 al 12%.
Per valori di pressione sistolica di 195 millimetri di mercurio, i
medici inglesi intervistati, erano disposti a trattare soltanto nel
55% dei casi, se il soggetto aveva meno di 60 anni. Per soggetti
fra 70 e 80 anni, soltanto il 40% era disposto ad intervenire. Quindi,
capite che, con tutto il bagaglio di dati che abbiamo, è veramente
sconsolante vedere che questo è l’atteggiamento acquisito.
Speriamo che sia solo un atteggiamento degli Inglesi. Però se andiamo a vedere l’atteggiamento dei medici di Firenze, non è molto
diverso. Un nostro studio pubblicato nel ’99, considerava 500 soggetti ipertesi. Di questi, soltanto l’8,2% veniva trattato in maniera
efficace: i valori della pressione sistolica non superavano 140 mm
di mercurio. I pazienti trattati, accettabilmente con pressione arteriosa sistolica inferiore a 160, erano soltanto l’11%.
Credo che parlare di prevenzione cardiovascolare, parlare di prevenzione attraverso il trattamento di fattori di rischio sia un punto
che, tutto sommato, ciascuno di noi è convinto di sapere.
Ciascuno di noi pensa di fare quello che serve per raggiungere
l’obiettivo. Poi, invece, nella pratica, i risultati sono diversi. Non sono cambiati molto anche dopo la pubblicazione delle Linee Guida
del ’99. L’ipertensione sistolica isolata viene curata solo nel 25%
dei casi, mentre invece, riteniamo ancora che l’ipertensione diastolica debba essere considerata in maniera più consistente.
La percentuale di soggetti controllati, cioè con pressione arteriosa sistolica inferiore a 140 o pressione diastolica inferiore a 90, è rispettivamente il 13% ed il 25%. Quindi, ancora un problema di esame di coscienza.
Diverse sono le variabili che entrano in gioco nel trattamento
dell’ipertensione. L’ipertensione diastolica viene trattata, in genere,
tre volte di più. Rispetto alla sistolica, addirittura sette volte di più.
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
281
Un’altra variabile che entra in gioco si riferisce al grado d’ipertensione. Questa variabile, fortunatamente, esiste. Il livello di rischio
è significativo, ma non determinante. Per cui è giustificato prendere
coscienza di questo e domandarsi se veramente facciamo bene ad intervenire.
D’altra parte, ci sembra giustificato un editoriale del dicembre
2003, di pochi mesi fa, il cui titolo è molto significativo: ‘‘Superare
l’inerzia clinica per curare e controllare l’ipertensione sistolica.’’ È
un editoriale dell’Archives Internal Medicine, quindi un monito a livello internazionale di cui noi tutti, a qualsiasi livello, dobbiamo tener conto.
Nel trattare l’anziano non dobbiamo considerare solo l’ipertensione sistolica. Abbiamo anche altri fattori.
Qui, in questa zona del Veneto, non vengo a parlare di sindrome
metabolica perché è qui che è nata già negli anni ’60, grazie all’intuizione del professor Gaetano Crepaldi e del povero professor Piero
Avogaro. Loro, per primi, nel mondo, l’hanno descritta. Da allora,
ormai sono passati quarant’anni, ci sono stati molti contributi, per
cui oggi sappiamo ancora di più.
La sindrome metabolica si caratterizza per un certo sovrappeso,
per aumento di trigliceridi, per la riduzione dell’HDL colesterolo,
ipertensione ed iperglicemia. Quindi, l’ipertensione va intesa sı̀, come fattore di rischio e curata, ma non vanno ignorate le altre condizioni che configurano ciascuno di questi cinque dati.
Ciascuno dei cinque fattori di rischio, costituisce un rischio cardiovascolare indipendente. Il che vuol dire che se ho una pressione
alta, non è che curando solo questa io annulli il peso degli altri fattori. Gli altri fattori comportano un rischio indipendente. Quindi,
questo è sicuramente da tener presente.
Che valore ha nell’anziano? La sindrome metabolica cresce col
crescere dell’età. Con la vecchiaia, il sesso femminile, ‘‘recupera’’ rispetto al sesso maschile. Per cui, verso gli 80 anni, questa sindrome
prevale nelle donne rispetto agli uomini. Questo è sicuramente un
indirizzo che noi dobbiamo tener presente. Non ci dobbiamo limitare a curare e magari male, l’ipertensione arteriosa.
In una nostra statistica, abbiamo notato che la sindrome metabolica si attenua un po’ negli ottantacinquenni, pur mantenendo una
frequenza elevata. Analizzando tutte le componenti della sindrome
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
metabolica, cioè iperglicemia, ipertensione, HDL basso, trigliceridi
ed obesità centrale, in tutta la popolazione oltre i 20 anni, l’ipertensione arteriosa ha un rilievo abbastanza modesto.
Per i soggetti oltre i 65 anni, di fronte ad una distribuzione all’incirca eguale degli altri fattori di rischio, l’ipertensione raggiunge valori vicini al 90%.
Allora, noi dobbiamo curare l’ipertensione arteriosa, ma tener
presente questi altri dati di estrema importanza. Questo perché?
Vuol dire che non è più sufficiente il trattamento con i farmaci anti-ipertensivi. Ci dobbiamo impegnare in maniera globale a ridurre
anche gli altri fattori di rischio. Questo obiettivo è raggiungibile soltanto con un approccio multidisciplinare, coinvolgendo le varie professioni sanitarie.
Il medico che dà consigli dall’alto, a volte in maniera arrogante,
rimproverando ed addossando al paziente le colpe del proprio peso
e della propria inattività fisica, probabilmente non ha l’atteggiamento più adeguato.
In uno studio, sono stati presi in considerazione la terapia convenzionale e lo stile di vita. Si è osservato che la riduzione della pressione arteriosa, se l’intervento era globale cioè incideva anche sullo
stile di vita, raggiungeva un livello di riduzione cinque volte maggiore, rispetto al solo trattamento farmacologico. Quindi, sicuramente,
questa è un’indicazione che deve impegnarci tutti ad un atteggiamento diverso.
Lo studio dimostra come sia addirittura possibile prevenire la
comparsa di ipertensione arteriosa attraverso lo stile di vita, in soggetti che, in condizioni di base, avevano una pressione normale. Si
riesce a ridurre del 40% la comparsa di ipertensione, confermata anche in altre elaborazioni statistiche.
È uno studio prospettico, nel quale i soggetti in condizioni di
partenza erano normo-tesi. Quindi abbiamo ridotto del 40% la comparsa d’ipertensione.
È opportuno ricordare un altro lavoro dell’85 per capire come lo
stile di vita attraverso la dieta, l’attività fisica ed il controllo del peso,
non serva solo a prevenire l’ipertensione, ma serva ad incidere su
quell’alterazione circolatoria indotta dall’invecchiamento, cioè il deterioramento, la perdita d’elasticità dell’albero vascolare.
Questo studio prendeva in considerazione due gruppi di Cinesi,
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
283
dello stesso ceppo etnico. Alcuni, rimanevano nella zona rurale della
Cina e gli altri andavano a Pechino, inurbandosi, quindi cambiando
dieta, conducendo una vita tumultuosa e facendo attività molto più
stressanti. Lo sviluppo d’ipertensione e lo sviluppo di rigidità dell’albero arterioso di questi ultimi, erano nettamente maggiori rispetto ai
soggetti che vivevano nella zona rurale.
L’esperienza precedente, dimostra come lo stile di vita prevenga
lo sviluppo d’ipertensione. La prevenzione si realizza, soprattutto,
grazie al rallentamento dell’invecchiamento dell’albero cardiovascolare. Questo, ci porta a considerare come noi medici e gli altri operatori della Sanità come gli infermieri, i fisioterapisti, gli assistenti sociali, debbano guardare al problema ipertensione in maniera coordinata.
Porto qui un’esperienza nostra, che non ha valore scientifico, ma
solo indicativo dal punto di vista organizzativo.
Nel nostro centro di ipertensione, diretto dal dottor Andrea Ungar, abbiamo studiato 1.388 pazienti. Tutti questi soggetti, venivano
sottoposti ad un trattamento anti-ipertensivo personalizzato. Solo
nel 6% dei casi, si ricorreva ad indicazioni non farmacologiche. Perché? Perché il consiglio dato una volta ogni due mesi, non serve ad
alcunché. Si è cercato d’intervenire sul comportamento.
Sono stati realizzati quattro incontri settimanali, più 2 follow-up
a 3-6 mesi, per un massimo di 20 partecipanti, condotti in maniera
multidisciplinare: dietisti, infermieri, fisioterapisti e medici.
Il gruppo era condotto da un medico. Gli incontri avevano una
valenza multidisciplinare. I soggetti venivano coordinati in gruppo.
A distanza di tre mesi, abbiamo ottenuto una riduzione del peso corporeo, del ‘‘body mass index’’, della pressione sistolica e della pressione diastolica. Quello che è importante, è il confronto con la situazione precedente. I soggetti con ipertensione controllata, cioè con
pressione arteriosa fino a 140-90, erano l’11%, prima del trattamento multidisciplinare. Dopo il trattamento globale, il 45%.
La nostra esperienza episodica e non randomizzata, quindi con
tutti i limiti che ne comporta, ci suggerisce che i risultati migliori
si ottengano se si va oltre la prescrizione farmacologica. Prescrizione
che, peraltro, anche estendendo lo Studio al di là dei farmaci antiipertensivi, è del tutto lontano da quello che dovrebbe essere.
Nello Studio 4S (Scandinavian Simvastatin Survival Study) emer-
284
g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
ge che il numero di soggetti da trattare (NNT – number need treatment) per evitare eventi cardiovascolari, è ben minore nei soggetti
anziani ultrasessantacinquenni, 16 contro 46. Altrettanto dicasi nello
Studio Lipid, ove il numero dei soggetti anziani da curare per risparmiare eventi cardiovascolari è di 22 contro 46 (NNT).
Quindi, è molto più pagante trattare con statine i soggetti anziani
perché, chiaramente, la possibilità di avere eventi cardiovascolari, è
molto più probabile in età avanzata. Cerchiamo di capire come viene
affrontato il problema.
In Svizzera su 303 pazienti, solo il 22% dei soggetti ultrasettantacinquenni riceveva trattamento adeguato dopo una sindrome coronarica acuta, contro l’85% dei soggetti più giovani. Altrettanto, in
uno studio canadese, dove risulta che i giovani vengono trattati molto più spesso degli anziani. La differenza fra le due fasce d’età è del
38%.
Infine, negli Stati Uniti, l’88% aveva indicazione e non era trattato, tanto che, in questo studio, il titolo è: ‘‘Razionamento dei farmaci che prevengono gli eventi cardiovascolari. Razionamento dei
farmaci nei soggetti anziani.’’
Questo è un altro punto che ci deve indurre a vedere se in ospedale, alla dimissione sul Territorio, si faccia quanto è necessario. Infine, è opportuno qualche cenno sullo stile di vita.
Nel famoso studio del New England Journal of Medicine, il
gruppo della dottoressa A.M. Fiatarone evidenziava come nelle donne l’attività fisica, servisse sempre a prevenire eventi cardiovascolari.
Questo è ben dimostrato, tanto che, la prevenzione arrivava ad incidere circa nel 50-60% dei casi.
Per il geriatra, un obiettivo estremamente importante deve essere
quello di cercare di ridurre la disabilità nella parte finale della vita.
Prendiamo in esame tre gruppi di non fumatori. Nel primo, consideriamo individui che pratichino attività fisica scarsa, nel secondo
individui che pratichino attività fisica moderata, nel terzo individui
che pratichino attività fisica intensa. Si stima che si allunghi la vita
di ben 5 anni, solo incidendo sull’attività fisica. Addirittura, si riesce
ad influire positivamente sulla disabilità finale.
In genere, l’allungamento della vita, comporta un maggior numero di anni di disabilità, mentre solo incrementando l’attività fisica non solo si allunga la vita, ma si riduce la disabilità. Di solito,
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
285
l’allungamento della vita si correla con l’allungamento della disabilità.
Anche per i fumatori, l’attività fisica incide sulla durata della vita.
L’attività fisica intensa, moderata o scarsa, allunga la vita, si stima di
4 anni anche nei fumatori e riduce la disabilità, in modo consistente.
Questo è un punto di estrema importanza che deve modificare il
nostro atteggiamento nel curare gli anziani. Il fumo negli anziani, è
sempre stato un fattore di rischio trascurato. Si è sempre pensato che
fosse un fattore meno importante, mentre non è vero. Sino a poco fa,
era difficile trovare donne anziane fumatrici. Probabilmente, in futuro ci sarà un’inversione di tendenza.
Inoltre, si è ripetutamente affermato che il fumo e specialmente
la nicotina, sarebbe servita ad evitare la demenza d’Alzheimer. In
uno studio recente, pubblicato su Neurology, è stato valutato l’effetto del fumo sull’attività cognitiva in soggetti anziani, che in condizioni di base, non erano dementi.
Lo studio ha seguito soggetti non fumatori per 2 anni e 3 mesi ed
è stata riscontrata, alla fine della ricerca, una riduzione del punteggio
al Mini Mental, di 0,3. Parimenti, l’indagine è stata praticata in soggetti ex fumatori e veniva rilevata una riduzione del Mini Mental,
equivalente a più del doppio. La stessa indagine, eseguita in soggetti
fumatori, evidenziava un punteggio 5 volte maggiore.
Credo che questo lavoro recente, Marzo 2004, sfati definitivamente il mito che fumare fa bene all’abilità cognitiva. Infine, qualche
parola per altri fattori non convenzionali.
Lo stato di salute dell’anziano, come è ben noto, dipende non
solo dalla presenza o assenza di malattia, ma dal supporto psicosociale, dalla rete sociale, dalle condizioni economiche e cosı̀ via.
In particolare, è opportuno sottolineare il ruolo del supporto psicosociale. È di questi giorni la notizia riportata sui giornali nazionali
che quattro settantenni, due coppie di anziani, avrebbero inventato
di essere stati avvelenati dall’acqua-bomber. Volevano che qualcuno
si occupasse di loro.
Questo ci pone qualche interrogativo per il futuro. Non dobbiamo limitarci ad essere dispensatori di consigli, di compresse, di prestazioni, di indagini e cosı̀ via, ma dobbiamo avvicinarci di più al paziente. È giusto ricordare come il supporto psicosociale non serva
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
soltanto al benessere dell’anziano, ma sia un pesante condizionatore
dell’evoluzione di malattia.
Sono stati studiati soggetti con infarto miocardico acuto. A distanza di 6 mesi, la mortalità era più che raddoppiata, a parità di
condizioni cliniche e di terapia, in quelli privi di un supporto psicosociale. È stato infatti rilevato che per chi poteva contare su almeno
due persone cui appoggiarsi, la prognosi era nettamente migliore.
Quindi, si sottolinea una differenza prognostica enorme, solo per
questa variabile.
In un nostro studio, avevamo soggetti anziani degenti in terapia
intensiva per infarto miocardico acuto. Per un mese, la visita dei parenti e dei familiari era consentita dalle 13 alle 14 o dalle 18 alle 19.
Nel mese successivo, la visita dei familiari era libera nelle 24 ore, addirittura anche la notte.
Durante il periodo di visite ‘‘ristrette’’, i casi che evolvevano in
scompenso, sono stati dell’8,7%. Nel mese in cui le visite erano libere, la comparsa di scompenso si era ridotta drasticamente all’1,8%.
Cinque volte minore.
Questo ci porta a dire che noi medici, noi infermieri, noi operatori sanitari, non siamo in grado di dare i figli a chi non li ha o di
suscitare l’amore per il genitore, nei soggetti che hanno figli poco attenti. Però, possiamo avere un atteggiamento più disponibile nei nostri reparti. Non sempre le porte sbarrate, le barriere rigide, sono
condivisibili.
È anche opportuno sottolineare che, nel periodo di visite ‘‘libere’’, non sia stato rilevato un numero maggiore di infezioni. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Il medico e le professioni sanitarie arroganti sono fuori dal tempo. Questo si comincia a capire anche nelle
alte sfere.
Purtroppo, realizzare nella pratica questo modo di fare, non è
semplice.
Secondo direttive recenti del Ministero della Salute, è auspicabile, per l’anziano, un ‘‘custode’’. È stato proposto che in quattro città
con 47.000 anziani sopra i 75 anni, bastino 90 ‘‘custodi’’.
Se fossero angeli custodi, probabilmente ne basterebbero anche
9, perché onnipotenti. Novanta ‘‘disgraziati’’, come potrebbero
prendersi carico di un numero cosı̀ elevato di anziani? Durante il
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
287
mese di agosto il massimo che possano fare è consigliare di bere un
bicchier d’acqua se hanno sete.
Oltre non possono andare. Questo esempio esprime un atteggiamento giusto. Dal punto di vista dimensionale, però, è inadeguato
cioè irrealizzabile, utopistico.
Infine, voglio spendere qualche parola sulla depressione.
La mortalità nei depressi è maggiore rispetto ai non depressi.
Questo è ben noto dal 1937. La mortalità in genere, in questa categoria, è 6 volte maggiore. Addirittura, la mortalità cardiovascolare
risulta essere 8 volte più frequente nei soggetti depressi con malattia
cardiovascolare, rispetto a cardiopatici non depressi.
Recentemente, si è notato che la mortalità nei depressi, se trattati
adeguatamente, si riduce. Il tasso di mortalità nei depressi, rispetto
alla popolazione generale, è più alto di 1,5 volte. Molto meno di
quanto rilevato nei non-trattati.
In un quotidiano nazionale si poneva l’attenzione su questo titolo: ‘‘Anziani depressi. Aumenta il rischio di infarto.’’ La mortalità nei
soggetti ospedalizzati con scompenso non depressi, a 3 mesi, è del
5,7%. Scatta al 7,4% nei soggetti con depressione lieve, al 13%
nei soggetti con depressione grave. In uno studio sono stati valutati
i risultati della terapia antidepressiva nei soggetti con sindrome coronarica acuta.
Si sono presi in considerazione, altresı̀, gli effetti collaterali. Si è
visto che il rischio relativo di eventi cardiovascolari nei soggetti trattati è per tutti gli eventi cioè mortalità, infarto, ictus, eccetera, costantemente minore. Non raggiunge mai la significatività, ma dobbiamo considerare che questo non è uno studio d’efficacia, ma
uno studio di tollerabilità.
È presumibile che uno studio d’efficacia fatto con una adeguata
casistica, con un adeguato numero di soggetti, possa dimostrare come il trattamento con farmaci antidepressivi possa essere efficace nel
ridurre la mortalità per eventi cardiovascolari.
A conclusione, vorrei ricordare a tutti noi come lo stato di salute
dell’anziano non possa limitarsi al trattamento della malattia, ma implichi un intervento globale. Si deve valutare oltre al livello cognitivo, le condizioni ambientali, lo stato di autonomia, le condizioni economiche, la rete sociale ed il supporto psicosociale.
Ovviamente, tutto questo può essere ottenuto solo in maniera
288
g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
coordinata, con l’apporto di tutte le professioni sanitarie e con la
consapevolezza di coloro che hanno la responsabilità della politica
sanitaria. Questo, deve essere realizzato a tutti i livelli dentro e fuori
l’ospedale.
Se questo approccio è cosı̀ importante in terapia intensiva in un
Ospedale per Acuti, a maggior ragione lo sarà in tutti i contatti che
noi abbiamo con questi pazienti nei mesi, negli anni e nei decenni
che separano queste persone dal momento finale.
Non dimentichiamoci che la fiducia che loro ripongono in noi,
nelle nostre varie professioni, deve essere corrisposta con un atteggiamento che tenga conto della loro realtà generale. Grazie, per l’attenzione.’’
L. G. Grezzana: ‘‘L’anno scorso il professor Masotti ha detto: ‘‘Con
Luigi Grezzana, siamo amici da poco, vorrei dire che per me è un’amicizia senile.’’ Sto leggendo da ‘‘Il Fracastoro’’.
Faccio notare che sull’aggettivo senile mi viene da ridere visto che
la mia età non si discosta molto dalla sua, soprattutto, sottolineando la
grinta che ha avuto il professor Masotti in questa relazione.
Continuando sul Fracastoro con le parole del professor Masotti:
‘‘Come voi sapete le amicizie senili, sono più forti di quelle che risalgono all’età giovane. È un’amicizia per me molto importante perché,
come ha detto lui, ci siamo intesi subito.’’
Volevo dire al professor Masotti due cose. La prima, che il suo è
stato un atto d’amore grande, da noi tutti apprezzato non solo verso
la mia persona che è quel che è, ma verso la città, verso questo Corso, verso questa Scuola, verso tutti voi.
Lui, l’ha detto, io non avevo il coraggio di anticiparlo. È stata la
sua prima uscita. Mercoledı̀ scorso, temeva di non poter venire. Vorrei sottolineare il secondo aspetto che, per me, è ancora più significativo.
Oltre la ‘‘giovinezza’’, che è palese, vorrei si cogliesse l’altissima
professionalità del professor Masotti, che malgrado convalescente da
un recente intervento chirurgico, come prima uscita ha voluto essere
qui. Ha tenuto una lezione straordinaria ed io vi prego di fargli un
altro applauso, perché se lo merita.’’
C. Pasoli: ‘‘Ringrazio i relatori per le loro letture. Sono state indub-
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
289
biamente molto complesse e molto ponderate. Apro la discussione,
se qualcuno ha qualche domanda da fare...’’
E. Valvo: ‘‘Grazie professor Masotti per la bellissima lezione. Voglio
approfittare della capacità che ci ha dimostrato questa sera, per porle un quesito. Il monitoraggio ci ha insegnato che la variabilità della
pressione arteriosa è un fattore sempre importante e, nell’anziano, è
particolarmente spiccato.
Data la sua esperienza, avrei piacere di conoscere le ragioni fisiche e psichiche per cui l’anziano è più emotivo. Inoltre, vorrei sapere, quali sono, a suo dire, i farmaci che meglio controllano questa
variabilità, probabilmente legata all’emotività. Grazie.’’
G. Masotti: ‘‘Ringrazio anzitutto della domanda. È opportuno ricordare l’importanza del monitoraggio della pressione arteriosa che per
motivi vari, per motivi economici, per motivi anche di ‘‘contenimento’’ della richiesta, non viene considerato.
Però, è un momento diagnostico molto utile e soprattutto in funzione di quello che diceva lei, cioè di una certa emotività. La pressione misurata in maniera clinica in ambulatorio, a volte, è un cattivo
indicatore. Sicuramente, nella diagnosi ipertensione non dobbiamo
fidarci solo della pressione arteriosa misurata dal medico.
Dobbiamo affidarci anche all’automisurazione, quando è possibile. Sono in commercio degli apparecchi automatici abbastanza affidabili. Altro conto, è quando è necessario monitorare la pressione
arteriosa nelle 24 ore.
Per quanto riguarda il farmaco migliore, io credo sia difficile scegliere. Sicuramente ce ne sono alcuni che sono poco indicati o, per lo
meno, sono poco indicati su larga scala. Penso a quelli che agiscono
sull’ipertensione ortostatica ed agli stessi diuretici in alcune condizioni di morbosità associata, per esempio nei maschi con ipertrofia
prostatica.
Le categorie su cui dobbiamo porre la nostra attenzione, sono gli
ace-inibitori e gli inibitori recettoriali. Peraltro, accanto a queste indicazioni di tipo generale, va sottolineato come il rapporto medicopaziente, sia particolarmente importante nel soggetto anziano. Generalizzare è estremamente difficile.
Al di là di questi principi, è difficile andare. Ci vuole una solida
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
osservazione di base che ci consenta un inquadramento diagnostico
accurato.’’
C. Pasoli: ‘‘Mi inserisco su quanto ha detto adesso il professor Masotti, per porre una domanda specifica. Ci sono delle famiglie di farmaci. C’è una differenza, per esempio, tra gli ace-inibitori ed i sartanici? E se c’è, qual è nella pratica clinica della cura nell’anziano?’’
G. Masotti: ‘‘Noi dovremmo avere un’altra informazione supplementare, cioè la presenza o l’assenza d’ipertrofia ventricolare sinistra. Negli stessi ipertesi, la presenza d’ipertrofia ventricolare sinistra
non è un dato costantemente associato o provocato da certi livelli di
pressione arteriosa.
Noi vediamo persone con gli stessi livelli d’ipertensione arteriosa, avere massa ventricolare sinistra diversa. Nei soggetti con massa
ventricolare sinistra maggiore, dobbiamo concentrare i nostri sforzi.
Sappiamo, infatti, che il rischio cardiovascolare ed in particolare cerebrale, in questi ammalati è molto più alto.
Quindi, in questi soggetti abbiamo contezza che gli inibitori recettoriali possano essere indicati e sortire effetti migliori. Il raffronto
fra inibitori recettoriali ed ace-inibitori, a volte, non è cosı̀ costante.
Però, sicuramente, ci sono casi in cui gli inibitori recettoriali, in soggetti con massa ventricolare sinistra aumentata, hanno un’indicazione pertinente.’’
L. G. Grezzana: ‘‘Solo una cosa. Io ho chiesto al dottor Ungar di sedersi al tavolo dei relatori. Il dottor Ungar è il braccio destro del professor Masotti, viene da Firenze e mi sembrava giusto fare cosı̀.’’
C. Pasoli: ‘‘Ancora domande? Prego.’’
Dal pubblico: ‘‘Volevo chiedere al professor Masotti se ci può dire
due parole sulle cosiddette ipercolesterolemie costituzionali o familiari in soggetti che abbiano abitudini nutrizionali normali, senza altri
rischi. Esistono? Perché esistono? Gradirei qualche notizia.’’
G. Masotti: ‘‘A mio modo di vedere le ipercolesterolemie, specialmente in età senile, in età avanzata, vanno trattate. Parlando di an-
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
291
ziani, in cui è difficile trovare soltanto un singolo fattore di rischio, si
deve intervenire.
A maggior ragione, quando i fattori di rischio sono molti ed, in
particolare, se ci sono stati eventi precedenti.
Nell’anziano, il trattamento con farmaci che agiscono sulla costellazione lipidica, non va dimenticato. Sono trattamenti da tenere
presenti. Non so se il dottor Perbellini voglia aggiungere qualcosa.’’
C. Perbellini: ‘‘Credo sia stata una risposta più che completa. Per cui
non aggiungo altro. Il trattamento con statine è da considerare attentamente, in questo tipo di soggetti.
Sono farmaci molto importanti nella ipercolesterolemia familiare. Consentono di non costringere i pazienti a diete severe.’’
G. Masotti: ‘‘Come osservatore nell’ambito dell’attività quotidiana,
non posso sottovalutare quanto segnalato due, tre anni fa. Mi riferisco agli episodi di rabdomiolisi, che hanno condizionato in maniera
significativa la disponibilità di molti anziani ad assumere questi farmaci.
Ho notato una resistenza da parte dei pazienti ad assumere statine. Il paziente o la paziente, apparentemente d’accordo in un primo tempo, a distanza di qualche mese non sono più ‘‘osservanti’’ la
cura. Si riduce la cosiddetta compliance. Noi, come medici, non
dobbiamo forzare le persone, ma essere obiettivi.
I fenomeni di rabdomiolisi si sono manifestati con dosi due, tre,
quattro volte maggiori di quelle consigliabili e quindi si impone
un’opportuna informazione. Di tutto questo, se ne è parlato recentemente sulla stampa.
È nostro dovere presentare la realtà quale essa sia. L’evidenza
scientifica, lo screening iniziale, la valutazione dei dosaggi ed un follow up, consentono di evitare questi inconvenienti che, peraltro, sono molto sporadici.’’
Dal pubblico: ‘‘Buona sera, sono emozionata perché non sono abituata a parlare in pubblico. Sono un’infermiera professionale, ignorante in materia, però vorrei capire una cosa. L’anno scorso, il professor Fabrizio Fabris di Torino, si era espresso in maniera totalmente diversa sull’ipertensione. Aveva detto, riportando lo Studio di
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
Framingham, che nell’anziano si comincia ad intervenire farmacologicamente quando la sistolica supera i 160 mm di mercurio ed aveva
portato molti argomenti a favore. Vorrei capire, allora.
Ci sono varie scuole che assumono posizioni diverse di fronte al
trattamento dell’ipertensione. Secondo il professor Fabris, addirittura, seguendo le indicazioni dello Spread, nell’ictus in fase acuta non
si deve intervenire anche su valori di 220 su 160, per non interferire
sul flusso.
A me sembra pertinente l’osservare che l’anziano, poiché ha mille problemi, se li trattiamo tutti, lo facciamo diventare una farmacia
ambulante.
Volevo capire. Lei stasera ci ha presentato una scuola? Quella
del professor Fabris, era un’altra? Questi medici che non trattano
sono cosı̀ pericolosi? Se mi potesse chiarire, perché mi sembrano
due posizioni opposte. Grazie.’’
G. Masotti: ‘‘La ringrazio della domanda perché il suo quesito è
opportuno.
Innanzitutto lei è infermiera professionale ed il suo ruolo è stabilito per legge. Sono molto contento di questo intervento perché
viene da una figura sanitaria che è estremamente utile, proprio nell’ipertensione.
Molte volte, il contatto è molto più efficiente, molto più completo da parte dell’infermiera piuttosto che da parte del medico. Vorrei
anche dire che, l’atteggiamento ansioso del paziente, dell’anziano,
viene molte volte diluito e vinto a livello infermieristico.
Credo che non siano due scuole contrapposte. Io ho parlato in
termini generali ed ho voluto sottolineare il fatto che, al giorno d’oggi, non è tollerabile che soggetti con ipertensione stabilizzata, sicura
da anni, abbiano costantemente livelli di pressione superiori a 160.
Mi riferisco a degli studi in cui i soggetti ipertesi che hanno una
pressione superiore a 160. Sono, a seconda dei luoghi geografici, il
70, l’80, addirittura il 90%. Voglio fare questa specie di crociata.
Da qui a dire, poi, che tutti i soggetti che hanno qualcosa di più
di 140, vadano trattati in maniera aggressiva, questo non l’ho detto,
ma prendo l’occasione per precisarlo.
Il soggetto anziano va conosciuto prima di cominciare a trattarlo.
La pressione deve essere misurata diverse volte e in diversi ambienti.
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
293
Abbiamo parlato del monitoraggio della pressione arteriosa 24 ore
su 24, delle misurazioni a domicilio, dei ripetuti controlli da parte
di diverse professioni: ciascuna metodica ha i suoi vantaggi ed i suoi
limiti. Questo non vuol dire che io, in un soggetto che ha l’ictus,
debba ‘‘precipitare’’ un trattamento ipotensivo. È noto che l’ictus
realizza un’ipertensione reattiva.
Sappiamo tutti come, a livello centrale, l’accidente vascolare
comporti una rivoluzione dei riflessi per cui, appunto, ci può essere
un’ipertensione reattiva. È anche noto, però, che una piccola quota
di demenza viene riferita all’ipotensione.
Per tutto questo, le Linee Guida impongono la prudenza nel
trattamento ipotensivo di questi pazienti. Dobbiamo interagire tutti
noi, le varie professioni, con il paziente e capire se la sua, sia un’ipertensione stabilizzata.
Un’ipertensione stabilizzata con valori di massima che superino i
160 mm di mercurio e che magari di notte vada anche oltre per motivi diversi inerenti all’anziano che si alza, che ha un sonno più turbolento, non può essere ignorata. Dinnanzi a casi del genere, io non
mi sentirei di dire: ‘‘Regolatevi a piacere.’’
A mio modo di vedere vanno trattati, fatte salve quelle situazioni
che lei ha esattamente riferito e che erano state sottolineate dal professor Fabris.’’
A. Ungar: ‘‘Credo che, peraltro, sia giusto evidenziare dei casi particolari per meglio considerare la generalità.
È ovvio che la generalità degli ipertesi va trattata, dopo accurata
valutazione. È impossibile dare un farmaco ad un paziente senza fargli le prove di ipotensione ortostatica e sapere se abbia o meno l’ipotensione ortostatica. Poi, ci si regola di conseguenza.
Come diceva il professor Masotti su 100 sono 10,9 quelli che
hanno ipotensione ortostatica. Gli altri 90 non ce l’hanno. Quindi
sono quelli che fanno il numero. L’eccezione, la troveremo sempre.
Lo stesso dicasi per le statine. È stato accertato che, in Letteratura,
per lo meno in tre pazienti, la somministrazione di questi farmaci ha
evocato uno stato d’allarme. Senza sottovalutare il dato, bisogna anche riconoscere che gli episodi succitati, hanno innescato in tutto il
mondo, il panico verso le statine. Quindi attenzione. In conclusione,
nell’anziano, bisogna stare più attenti, pur intervenendo.
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g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
Si deve partire con dosi molto inferiori e raggiungere il target anche in un anno. Si sale piano piano con la posologia senza iniziare
con una dose d’acchito, come si può fare a 35 anni.’’
C. Pasoli: ‘‘Mi pare tutto corretto, oltretutto è importante che la diagnosi sia precisa. Ci sono altre domande?’’
G. Zavateri: ‘‘Prima di riagganciarmi a quest’ultimo discorso che, a
mio modo di vedere, non è assolutamente chiarificatore e ci ritorno
fra un attimo, vorrei porre due domande. Sono due considerazioni
rivolte al dottor Cristiano Perbellini.
Primo, sull’aspetto genetico dell’aterosclerosi. È un discorso che
sta prendendo sempre più piede, che andrà sempre più forte, ma che
per ora, secondo me, deve essere considerato con una notevole capacità di buon senso.
Non è facile accettare in tenera età, che una mappa genetica preveda che a 40 anni si farà un infarto. Non è facile vivere una vita con
questo incubo.
Seconda domanda: si è parlato di placca aterosclerotica che, potrebbe rompersi. Molti sono i motivi per cui una placca può andare
incontro a rottura. Tra le cause dimostrate esiste anche quella di farmaci antiaggreganti, anticoagulanti e via di seguito.
Questo è un altro grosso punto di domanda. La rottura è una
complicanza che dobbiamo sempre tenere presente, soprattutto
quando prescriviamo, in un paziente con placche soft, farmaci antiaggreganti a dosaggi sostenuti o farmaci anticoagulanti.
Per quanto riguarda il quesito sull’ipertensione, io sono in difficoltà. Non voglio parteggiare né per l’amico che purtroppo ci ha lasciato, professor Fabris, né per altre scuole. Mi sembra comunque
pertinente una domanda.
Perché tanti medici inglesi o di altre nazioni, non trattano l’ipertensione? Sono tutti criminali, sono tutti ignoranti? Perché? Perché
non si usano le statine? Soltanto perché costano?
Sono quesiti cui è difficile dare una risposta, anche perché qualcuno potrebbe obiettare che la malattia aterosclerotica è malattia genetica e con i farmaci a nostra disposizione, molto non si può fare. In
certe situazioni, quanto siamo in grado d’incidere?
Potremmo fare una Prevenzione Secondaria ed una Prevenzione
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
295
Terziaria, non certo Primaria. A quel punto il medico, credo, possa
avere dei dubbi nella prescrizione di certi farmaci ben sapendo che
la persona anziana, è di una tale specificità, di una tale caratteristica
personale, che è difficile paragonarla a quella di un giovane.
Quando un paziente anziano ricoverato in ospedale, non trova
alcuno che lo vada a trovare, va in crisi di depressione, realizza
uno scompenso di cuore. Si deve curare lo scompenso, senza dimenticare che quell’ammalato chiede come medicina, una visita. Non
chiede altro.
Il compito di tutti noi, medici, infermieri, eccetera, è quello di
calarci nella realtà di quella persona, di valutare i fattori di rischio
e vedere quale sia la strada migliore. È il nostro difficilissimo compito. Grazie a voi.’’
C. Perbellini: ‘‘Le previsioni genetiche di aterosclerosi coronarica,
pongono inquietanti interrogativi. Un paziente che giunga alla nostra
osservazione, spesso, ha già la malattia conclamata.
L’indagine genetica si propone di conoscere, con un programma
di screening, quali siano i soggetti predisposti a determinate patologie. In particolare, oggi, la nostra attenzione si incentra sull’aterosclerosi coronarica.
Una volta che si sia individuato il soggetto predisposto, potremmo capire come si appaleserà l’alterazione.
In soggetti a rischio di aterosclerosi coronarica, sarebbe sufficiente somministrare precocemente antiaggreganti piastrinici, per
scongiurare eventi trombotici. Ci sono parecchi antiaggreganti di
nuova generazione che non danno grossi problemi. La mappa genetica può consentire una terapia individualizzata, evitando di ricorrere a farmaci cui si sia refrattari.’’
G. Masotti: ‘‘Vorrei brevissimamente intervenire. È chiaro che, ripeto ancora, un’indicazione a tappeto non è possibile. Però vorrei ritornare su un concetto già toccato. Mi riferisco a quei soggetti anziani che venivano dimessi dall’ospedale per un evento coronarico acuto, ipercolesterolemici.
Con tutta la disponiblità, non posso pensare che un evento legato ad una dislipidemia non vada trattato, anche se si tratta di anziani.
296
g. masotti - a. ungar - c. perbellini - c. pasoli
Ad un cinquantenne che abbia avuto un infarto viene data la statina,
in 9 casi su 10.
Un anziano colpito da infarto, a maggior ragione, deve essere
trattato. Infatti, ha più probabilità di subire una nuova sindrome coronarica acuta perché si muove meno, perché ha più rischi ed ha un
albero coronarico vascolare generale più compromesso.
Perché non trattarlo esattamente come il cinquantenne, quando
sappiamo che la sua probabilità di sviluppare, di accrescere la placca, esiste? Al giorno d’oggi, si fa l’angioplastica sia in condizioni d’emergenza in infarto miocardico acuto, che in condizioni programmate.
Sappiamo che l’ipercolesterolemia o la dislipidemia sono fattori
di rischio di evento coronarico acuto. Dinnanzi a questi pazienti, con
tutta l’apertura mentale, è difficile giustificare perché all’anziano non
venga somministrata la statina.’’
C. Pasoli: ‘‘Ci sono ancora domande?’’
G. Zavateri: ‘‘Sono perfettamente d’accordo che gli anziani abbiano
diritto di essere curati come i giovani. Mi chiedevo perché i medici
neghino certe cure, di fronte a patologie vascolari cosı̀ importanti.
Non intervenire, è grave.
Vorrei fare una precisazione. È importante trattare, non ‘‘ipertrattare’’, l’ipertensione. Valori eccessivamente bassi di diastolica, sono pericolosi. Non dimentichiamo che il riempimento coronarico,
avviene soprattutto in diastole. Pertanto, la diastolica deve essere attentamente valutata.’’
G. Masotti: ‘‘Sono d’accordo.’’
C. Pasoli: ‘‘Ci sono ancora domande?’’
L. G. Grezzana: ‘‘Mi sembra che il messaggio importante che è
emerso dalla lettura del professor Masotti, sia questo. Uomini e donne hanno una vita attiva che è simile. Le donne hanno una vita di
disabilità molto più lunga.
Noi non possiamo sperare di allungare la vita, piuttosto dobbiamo incidere su questa disabilità. Il geriatra vorrebbe che si morisse
la prevenzione cardiovascolare nell’anziano
297
vecchi e sani. S’ha da fare molto su tanti aspetti. Non solo i farmaci
fanno salute. Anche gli amori piccoli, il cane, la casa, il gatto, fanno
salute. A significare che il farmaco conta, ma il farmaco non è tutto.
Credo che l’aspetto nuovo, importante, da non dimenticare e
che riprende anche quello che diceva il professor Fabris, sia proprio
questo.
Ricordiamo: il farmaco è importante, ma non è tutto. Vorrei
chiudere il mio brevissimo intervento, dicendo che molto abbiamo
fatto per gli anziani come gruppo. Per le pensioni, magari, si può fare qualcos’altro.
Gli anziani esprimono un fenomeno di massa. I loro bisogni sono cosı̀ tanti e diversi, che mai riusciremo a dare tutte le risposte.
Certamente, ci siamo trovati stupiti ed impreparati dinnanzi a questa
rivoluzione demografica.
Sino ad oggi, molto si è fatto per gli anziani come fascia d’età.
Pensiamo alle Università della Terza Età, alle pensioni come fenomeno politico, all’Anno dell’Anziano e quant’altro. Si è guardato all’anziano come fenomeno generale, non come singolo.
Di volta in volta, dobbiamo avvicinarci agli anziani, facendo nostri i loro problemi e prendendocene carico. Solo cosı̀ saremo geriatri.
Dovremmo sperare di avere degli anziani che fossero meno protetti, ma più onorati.
In questo aggettivo, onorati, c’è dentro tutto. Grazie.’’
LA CHIRURGIA VASCOLARE NELL’ANZIANO
C. Cordiano - G.F. Veraldi - C. Bellamoli - G. Cecchini - P. Rizzotti
P. Rizzotti: ‘‘Gigi Grezzana, con chi lo aiuta, ha avuto il merito e la
perseveranza di organizzare questi incontri.
Io, purtroppo, ormai ho i capelli bianchi e ricordo con grande
piacere le lezioni della Scuola Medica Ospedaliera. La Scuola Medica Ospedaliera aveva il vantaggio di mettere gli operatori dell’Azienda nelle condizioni di aggiornarsi e coordinarsi. Oggi, continua ad
essere occasione di incontro e di approfondimento.
Speriamo di ricreare questo clima e Gigi, ha avuto il grande pregio di continuare questa tradizione.
Oggi, nel mondo, molti milioni di persone hanno un’aspettativa
di vita che, per fortuna, va oltre i 60 anni. Noi sappiamo che l’80%
della patologia vascolare, riguarda le persone che hanno oltre 65
anni.
Quindi, abbiamo un’epidemia globalizzante che dobbiamo affrontare non solo con la Medicina, ma con lo stile di vita e con l’organizzazione della nostra società.
Però non vi voglio annoiare e finisco subito, perché ho solamente il compito di introdurre i relatori prestigiosi di oggi.
Nella nostra Azienda nell’arco di un anno, ‘‘passano’’ 90.000
persone ricoverate.
Voi capite bene quale grande operazione di Prevenzione Secondaria noi potremmo fare, se coordinati in questa direzione.
Torniamo al tema di stasera: la chirurgia vascolare.
L’approccio che Gigi, con i suoi collaboratori ha dato, è quello
giusto, è quello multidisciplinare perché sı̀, è un problema del chirurgo, ma è anche un grande problema internistico.
300 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
Abbiamo la fortuna di avere prima un geriatra, che interverrà
per sottolineare come sia giusto, oggi valutare con l’occhi dell’internista chi abbia indicazione alla chirurgia vascolare e, se questa tappa,
venga condotta in modo corretto. Il chirurgo poi, potrà trarne molti
vantaggi e sentiremo il professor Cordiano, da questo punto di vista.
La tecnologia nella patologia vascolare è molto avanzata: oggi ne
posso parlare come un cultore di Letteratura scientifica.
Per noi tutti parlare di endoprotesi è diventato qualcosa di normale. Pensare che oggi gli aneurismi, da quelli addominali a quelli
toracici, alle vasculopatie periferiche, possono essere trattati con
un approccio, anche poco invasivo, certamente è un elemento di
grande interesse.
Dal punto di vista della logica internistica, una volta ristabilita la
canalizzazione, questa deve essere mantenuta. Sappiamo che negli
stent sono associati i principi terapeutici che mantengono la pervietà.
È un altro grande progresso, perché avevamo capito che ricanalizzare e poi lasciare la persona nella situazione di rischio in cui era,
non portava vantaggi.
Quindi, sono dei grandi spunti che abbiamo la possibilità di affrontare stasera. L’altro elemento importante nella patologia vascolare, lo sottolineavo prima, è la multidisciplinarietà.
Giacomo Gortenuti mi ricordava in questi giorni, quanto sia indispensabile la collaborazione fra il chirurgo ed il radiologo dei nostri giorni. Non è più una persona che si interessa solo di immagine,
ma è un radiologo interventista.
Da questo punto di vista, nella nostra Azienda, abbiamo molti
professionisti autorevoli.
Che cosa dire della cardiochirurgia?
Chiaro che pensare di poter lavorare su un aneurisma dell’aorta
toracica, senza questo tipo di ausilio, risulta difficile.
Il primo relatore è il collega dottor Claudio Bellamoli. Seguirà il
professor Claudio Cordiano’’.
la chirurgia vascolare nell’anziano
301
C. Bellamoli: ‘‘Il tema che mi è stato affidato è la valutazione geriatrica del paziente che sia candidato ad un intervento di chirurgia vascolare.
Le patologie vascolari di pertinenza chirurgica, presentano una
incidenza maggiore nell’età avanzata. Con l’età, in particolare, aumentano i casi di claudicatio agli arti inferiori, d’angina pectoris e,
soprattutto dopo i 60 anni, aumenta l’incidenza di episodi ischemici
cerebrali transitori e di aneurisma dell’aorta addominale.
Il 50% e più dei pazienti che vengono candidati ad un intervento
di chirurgia vascolare, ha un’età superiore ai 70 anni e presenta, quasi invariabilmente, un’importante polipatologia.
La prevalenza di angina pectoris in questo gruppo di ammalati, è
del 52%. Nel 46% dei pazienti, è presente un pregresso infarto miocardico, il 33% è diabetico, mentre il 21% presenta una patologia
polmonare cronica.
Si stima che il 18% abbia gradi diversi di insufficienza renale,
mentre il 13% presenti aritmie di tipo ventricolare. Segni di deterioramento cognitivo sono presenti in almeno il 10% dei casi.
Si tratta, pertanto, di una popolazione prevalentemente geriatrica, anzi sempre più in età geriatrica, dove accanto ad un programma di chirurgia vascolare, coesistono importanti patologie di tipo
internistico che, in ultima analisi, sono in grado di condizionarne
l’esito.
In una valutazione complessiva, non si può prescindere da quella
che è la spettanza di vita del paziente, soprattutto se è anziano.
Si dovrà considerare che la curva di sopravvivenza, dei pazienti
con vasculopatia, è inferiore rispetto al resto della popolazione. Talvolta, la chirurgia vascolare sarà in grado di modificare in termini
positivi la curva di sopravvivenza, spostandola verso l’alto; talaltra
potrà soltanto limitarsi a migliorare la qualità della vita. In questo caso, avrà aggiunto benessere.
È importante conoscere il decorso naturale della malattia ed è
utile sapere in quale misura la terapia chirurgica sia in grado di modificare questa storia. Pazienti, in questo caso pazienti con stenosi
carotidea maggiore del 70%, se sottoposti a terapia chirurgica, hanno una curva di sopravvivenza migliore, libera da ictus, rispetto ai
pazienti affidati alla sola terapia medica.
Ci si deve chiedere quando intervenire, se in elezione o in urgenza.
302 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
In elezione, la mortalità nella chirurgia dell’aneurisma integro
dell’aorta addominale, è piuttosto contenuta, 4%, probabilmente
meno; aumenta però dieci volte se lo stesso intervento, viene condotto in urgenza per rottura dell’aneurisma.
È particolarmente vero nell’anziano poiché, in elezione, la mortalità chirurgica non è molto diversa da quella dell’adulto. La differenza aumenta considerevolmente, prima e dopo i 65 anni, qualora
l’intervento venga condotto in urgenza.
Ciò che più caratterizza il paziente candidato alla chirurgia vascolare, è la sorprendente, elevata prevalenza di coronaropatia.
Uno studio condotto alla Cleveland Clinic (Ohio), ha sottoposto
a coronarografia tutti i pazienti candidati alla chirurgia vascolare. Ne
è risultato una prevalenza di lesioni coronariche estremamente elevata.
Questo si è osservato nei pazienti con anamnesi positiva per cardiopatia ischemica, in cui era stata riscontrata una coronaropatia
avanzata, nel 78% dei casi. Però, anche nei pazienti che avevano
una anamnesi negativa per cardiopatia ischemica, ben il 40%, aveva
in realtà una coronaropatia avanzata. Un altro 46%, una coronaropatia lieve moderata.
La coronaropatia è l’elemento in grado di determinare la sopravvivenza a lungo termine. Pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia vascolare, se avevano una coronaropatia severa, hanno presentato
una curva di sopravvivenza con profilo meno favorevole rispetto ad
altri pazienti, pur operati, ma con coronaropatia assente o moderata.
L’insufficienza renale è importante in una valutazione pre-operatoria.
È dimostrato che pazienti con valori preoperatori di creatinina
sierica maggiori a due mg./dL., hanno una incidenza molto più alta
sia di insufficienza renale avanzata nel post-operatorio, che di complicanze cardiologiche.
Il tutto, si traduce in una riduzione della sopravvivenza a breve e
a lungo termine.
Anche le patologie polmonari, ovviamente, comportano un maggior rischio di problematiche respiratorie perioperatorie.
Se dall’anamnesi o dall’esame obiettivo o dalla radiografia routinaria del torace dovesse emergere una patologia polmonare significa-
la chirurgia vascolare nell’anziano
303
tiva, in una valutazione pre-operatoria, dovrà trovare posto un emogasanalisi e un’indagine spirometrica.
Il paziente diabetico, presenta un marcato incremento di rischio
di ischemia miocardica perioperatoria e, anche, una maggiore probabilità di insufficienza cardiaca perioperatoria. Questo è in relazione
ad uno stadio più avanzato dell’arteriosclerosi sistemica, che si ha in
una condizione diabetica.
Per quanto riguarda l’età avanzata, essa costituisce un fattore di
rischio minore.
Uno studio, condotto su pazienti ultranovantenni, evidenzia che
la mortalità post-operatoria, dopo un intervento di chirurgia maggiore, è risultata del 29%.
Se, però, andiamo a considerare soltanto gli ultranovantenni, peraltro sani, che non presentino co-morbilità, questa percentuale si riduce di molto. Ciò sta ad indicare, che l’età avanzata costituisce solo
un fattore di rischio minore, rispetto al ruolo giocato dalle polipatologie che, quasi invariabilmente, si associano nei pazienti molto avanti negli anni.
L’analisi multivariata su ampie casistiche di pazienti candidati alla chirurgia, ha permesso di identificare alcuni predittori clinici di
eventi cardiaci avversi, post-operatori.
Distinguiamo predittori clinici minori, intermedi, maggiori.
Questi esperiscono tre categorie di rischio chirurgico: rispettivamente, basso, intermedio ed elevato.
La cosa da rimarcare è che questa prima stratificazione del rischio cardiologico, può essere attuata semplicemente sulla base di
dati di tipo anamnestico, di dati derivanti dall’esame obiettivo e dall’elettrocardiogramma di base.
Questo è lo screening più efficace, preciso ed anche economico e
va, comunque, sempre a precedere qualunque indagine di tipo strumentale.
Con questi elementi, noi possiamo utilizzare le Linee Guida
2002 dell’American College of Cardiology.
Per i pazienti con predittori clinici minori, se la capacità funzionale è buona, la chirurgia è generalmente sicura.
Sono da considerarsi predittori clinici minori: età avanzata, elettrocardiogramma patologico con un blocco di branca sinistra, iper-
304 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
trofia ventricolare sinistra, aritmia da fibrillazione atriale, ipertensione arteriosa non ben controllata.
Per quanto riguarda la capacità funzionale, non saranno necessarie prove ergonomiche, ma basterà un’anamnesi orientata, una capacità funzionale superiore a 4 MET, che corrisponde alla capacità che
una persona ha di compiere un piano di scale con la borsa della spesa o di fare il giro dell’isolato a piedi.
Invece, se la capacità funzionale dovesse essere molto povera e la
chirurgia proposta ad elevato rischio specifico, si dovranno considerare alcuni test non invasivi quali il cicloergometro, l’Holter o, meglio ancora, la scintigrafia miocardica e l’ecostress alla dobutamina,
per migliorare la stratificazione del rischio.
Qualora queste indagini non invasive dovessero configurare un
profilo di rischio elevato, si potrà considerare una coronarografia.
I pazienti con predittori clinici intermedi, come angina pectoris
stabile o moderata, pregresso infarto miocardico, scompenso cardiaco pregresso o stabilizzato, diabete mellito con insufficienza renale,
se presentano una capacità funzionale buona, possono generalmente
essere proposti per procedure chirurgiche a basso rischio o a rischio
intermedio.
Viceversa, se la capacità funzionale dovesse essere molto povera
o la procedura chirurgica proposta, ad alta pericolosità, si dovrà far
ricorso ad una diagnostica non invasiva, per una migliore stratificazione del rischio cardiologico.
Un comportamento, assolutamente diverso, è da tenere in presenza di predittori clinici maggiori.
Infatti, l’infarto miocardico acuto recente, l’angina instabile o severa, lo scompenso cardiaco non stabilizzato, oppure aritmie importanti di tipo ventricolare o blocchi atroventricolari di grado avanzato
o valvulopatie di grado severo, quali per esempio la stenosi valvolare
aortica serrata, impongono particolare attenzione.
In questi casi, si dovrà considerare la cancellazione dell’intervento o il rinvio dello stesso, finché la problematica cardiologica non sia
stata chiarita, eventualmente, con esame coronarografico e modificati i fattori di rischio. Talvolta, ci si potrà chiedere in quali pazienti si
debba procedere a rivascolarizzazione miocardica per ridurre i rischi
dell’intervento vascolare, da eseguire in un secondo tempo.
Poiché non sono disponibili, attualmente, studi controllati a tal
la chirurgia vascolare nell’anziano
305
riguardo, l’approccio più prudente è quello di consigliare una rivascolarizzazione miocardica per quei pazienti che presentino una indicazione a questa procedura, indipendentemente, dal programma
di chirurgia vascolare.
Concludendo, una valutazione internistica e geriatrica di un paziente che venga candidato ad un intervento di chirurgia vascolare,
può essere un’utile guida al processo decisionale e riveste un significato prognostico.
Può permettere una pianificazione adeguata in preparazione dell’intervento e portare il paziente al tavolo operatorio nelle condizioni
migliori. Inoltre, può guidare, suggerire la scelta di trattamenti alternativi, per quei pazienti che presentino un rischio intermedio o elevato’’.
306 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
C. Cordiano: ‘‘Mi sono laureato nel 1964. Ero in area chirurgica già
da qualche anno, alla scuola di Cévese dove si eseguivano i primi interventi di chirurgia vascolare.
Ho vissuto quella storia che, a grandi linee, si è conclusa intorno
agli anni ’90 e riguardava, sul piano diagnostico, una serie d’indagini
che, ormai, sono praticamente dimenticate.
Se voi escludete l’ecografia addominale, ora completamente innovata, di molte altre indagini, in 10-15 anni, non è rimasto nulla.
Anche l’angioscopia si è persa praticamente per strada e ormai
dopo gli anni ’90, è cambiato radicalmente il paesaggio diagnostico,
soprattutto nel nostro ospedale.
Nel nostro ospedale, l’ecografia addominale è cosa tradizionale.
L’eco-color-doppler gode di una routinarietà che è alla base di molteplici affezioni: le carotidi, i tronchi periferici e tutta una serie di
altre indicazioni, ma la fanno da grande le ultime innovazioni.
La TAC spirale, è una delle pochissime strutture presenti in Italia. L’angio TAC multislice ci dà delle ricostruzioni eccezionali della
patologia vascolare, che avvengono con metodiche computerali e
che sono di grande utilità al chirurgo.
Con l’angio RMN, siamo veramente al top, da questo punto di
vista. Infine c’è stato un rinnovamento profondo dell’arteriografia
digitalizzata venosa, per cui oggi, abbiamo immagini che rendono visibile una fistola arterovenosa o immagini che riguardano i rami distali più sottili al di sotto delle tibiali e che sono veramente di una
utilità sorprendente per il chirurgo.
Anche l’EUS (ecografia ultra sonografica endovasale), l’endoscopia perioperatoria, che ha delle precisate indicazioni e spesse volte
utili, è uno strumento che rimane.
Oggi, parlerò molto del nostro ospedale di Verona e una considerazione va fatta.
La tecnologia radiologica, di cui è dotato il nostro ospedale, è eccellente.
Noi chirurghi vascolari, il mio gruppo ed anche altri gruppi, ne
godiamo fortissimamente assieme ai malati.
L’angio RMN, ultimo dettaglio, ha delle indicazioni principe,
esclusive per pazienti che siano portatori di insufficienza renale. Il
dottor Bellamoli, vi ha ricordato che c’è questa eventualità ed altre
indicazioni le citerò più avanti.
la chirurgia vascolare nell’anziano
307
Questo è l’iter diagnostico, che però non si è concluso.
Nel mondo è già in fase avanzata la problematica della realtà virtuale che coinvolge anche la chirurgia vascolare, introdotta dapprima dai neurochirurghi qui a Verona e anche dai chirurghi dei parénchimi. Noi lavoriamo su questa patologia, sul fegato, ma riguarda anche le strutture vascolari.
Questa problematica diagnostica, sta esplorando la navigation
che è una condizione del tutto originale, ma che sicuramente apporterà dei benefici al malato. Si tratta di una simulazione dell’intervento. Il chirurgo può cosı̀ acquistare dimestichezza con uno specifico
caso e coglie quale possa essere la migliore via di aggressione.
Questo sarà il futuro che spero di vedere. Non credo, non sono
certo, ma lo spero vivamente.
Un’altra rivoluzione, è quella terapeutica.
Anche la chirurgia, sia la chirurgia tradizionale che la chirurgia
endovascolare, è cambiata. Debbo dire che la chirurgia tradizionale,
un po’ meno, sotto l’impulso di quella endovascolare. Tuttavia, alcune cose sono mutate.
La tromboendoarteriectomia e i by-pass si sono un po’ ridotti
con indicazioni più circostanziate. Sempre più spesso, invece, si applicano innesti protesici per le grandi sostituzioni aortiche.
Fa la sua prima presenza la chirurgia mini-invasiva dell’aorta in
laparoscopia o in mini-laparoscopia, ancora da definire. Credo che
la grande rivoluzione avverrà dalle endoprotesi, fin dove sarà possibile. Anche se adesso questa rivoluzione non c’è, questo non può che
essere il futuro, penso, per la grande quantità di casi.
Un’altra attenzione forte della chirurgia tradizionale si riferisce ai
vasi tibiali. I vasi tibiali costituiscono la sede di maggiore sconforto,
di maggiore frustrazione per il chirurgo e per il malato. Adesso, da
un po’ di tempo, c’è un’attenzione particolare a questo capitolo e ciò
consente di ovviare a quel danno irreparabile che è l’amputazione, di
cui accennerò più avanti.
Infine, sollevo un’altra questione che vediamo sempre più frequentemente giorno per giorno.
Nella chirurgia neoplastica, emerge importante il ruolo della stadiazione con imaging.
Nella chirurgia vascolare gli studi diagnostici non invasivi sono
sempre più completi e riguardano l’interezza del soma e del corpo
308 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
del malato. Questo mette in evidenza la patologia associata tumorale
e vascolare.
Tutto ciò è dovuto poi ad un’altra causa: l’età che avanza costituisce, comporta un aumento di tutte e due le patologie.
Questo pone delicate questioni di interpretazione, dapprima di
scelte terapeutiche e, quindi, di soluzioni del problema.
Una volta questi pazienti erano abbandonati al loro destino. Un
aneurisma o un cancro del polmone, chi li prendeva in considerazione?
Adesso nella Letteratura mondiale emergono, dapprima in casi
sparuti, poi in casistiche un po’ più consistenti, queste occasioni.
Un’innovazione forte, è la chirurgia endovascolare.
È figlia del progresso ottenuto con la chirurgia endovascolare coronarica, tra gli anni ’70 e ’80. È un risultato incoraggiante, che ancora può migliorare, dovuto soprattutto alla tecnologia.
Il nitinolo, per esempio, è una sostanza che introdotta in un vaso
si dilata sulla base della temperatura del sangue del soggetto; questa
dilatazione è programmata e non avanza più di tanto. Con questo
materiale, sono costruite le nuove apparecchiature che sono miniaturizzate in maniera molto precisa.
I palloncini sono smussati, sono meno traumatici e si vedono
sempre più raramente le rotture dopo angioplastica e dopo dilatazione. Tutto ciò, è frutto di una tecnologia eccellente.
In più sono comparse le endoprotesi: quelle aortiche e quelle più
recenti carotidee, su cui accenneremo più avanti, che presentano
molti problemi, ma il cui futuro sarà importantissimo.
Oggi, ci sono molte voci dissonanti.
Pensate che su The Lancet, una delle più importanti riviste di
medicina di tutto il mondo, è uscito recentemente un articolo intitolato ‘‘La chirurgia endovascolare è un vero e proprio disastro’’. Sı̀,
oddio, ci sono problemi da non dimenticare, ci sono numerose questioni a cui accenneremo più avanti, ma il futuro non può che essere
questo.
Un’ultima novità tecnica della chirurgia endovascolare, che i nostri collaboratori, del dottor Gortenuti e miei, hanno introdotto in
Italia circa sette otto mesi fa, è la dissezione subintimale.
È una cosa di cui mi vanto, perché è un allargamento delle indicazioni.
la chirurgia vascolare nell’anziano
309
Il radiologo interventista penetra in una struttura tra intima e
struttura ateromatosica: la dilata, la spinge di lato e crea un lume.
Queste patologie si riferivano a pazienti che, un tempo, la chirurgia
vascolare abbandonava al loro destino.
Invece, oggi, questo approccio risulta utile soprattutto nel danno
a carico dei vasi degli arti inferiori.
Credo che assieme alla diagnostica, questo sia il risultato più importante della chirurgia vascolare degli ultimi dieci anni.
Anche qui, il progresso non si fermerà.
Emergono i primi articoli sulle nano-tecnologie, quelle storie di
film che abbiamo visto, quelle cose di fantascienza ... io, forse, non
farò in tempo a vederle, ma le sperimentazioni sono già in cammino.
Adesso, entriamo nella parte un po’ noiosa per vedere cosa si fa,
in maniera molto succinta, nei grandi capitoli della chirurgia vascolare. Mi riferisco, in particolare, ai tronchi sovraortici cioè la carotide, la vertebrale, la succlavia.
Tra questi vasi, vi sono connessioni funzionali assai strette. L’arteriopatia dei vasi sovraortici è malattia estremamente diffusa.
La chirurgia vascolare dei tronchi sovraortici ha delle necessità
epidemiologiche. La stima per Verona per quanto riguarda l’incidenza dell’ictus nella nostra città, è stata desunta da una ricerca condotta da Giuseppe Ferrari nella Divisione di Neurologia.
Si tratta di un numero molto importante di malati per ogni anno,
che spesso giungono alla nostra osservazione in fase avanzata. I segni
clinici precoci, dovrebbero indirizzare i pazienti verso indagini meno
invasive come l’eco-color-doppler, capace di evidenziare una stenosi
nei vasi epi-aortici, che, poi, è il dato di nostro interesse.
Il ruolo del medico di base, è essenziale nell’individuare quei pazienti che non giungono a lesioni organiche irreversibili, per cui sarebbe utile un interventismo di tipo diagnostico e terapeutico.
La diagnostica qui, è ormai standardizzata e molto semplice: l’eco-color-doppler è l’indagine di base, la meno invasiva. Poi vengono
l’RMN e l’angiotac.
L’angiotac è l’optimum. La RMN, però, ha dei dati di valore che
sono costituiti dal fatto che viene eseguita in poco tempo, è facile da
fare e costa meno.
In un’ora se ne portano a termine tre, mentre si impiega lo stesso
310 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
tempo per l’esecuzione di una sola angio TAC. Bisogna tenere conto
di queste variabili che sono assai importanti.
All’arteriografia digitalizzata, si ricorre solo nel caso di interventi
chirurgici o nel caso di endoprotesi di stent. Se il paziente non ha
una indicazione chirurgica, va monitorizzato con eco-color-doppler.
In tutti i casi, si ritiene utile eseguire sempre una TAC dell’encefalo quando ci sono danni funzionali del cervello.
Quali sono le indicazione al trattamento?
Molto semplice. Se il paziente è sintomatico, bisogna che la carotide dello stesso malato, sia occlusa per almeno il 70% e se i pazienti sono asintomatici, non meno dell’80%.
I dati, ormai, sono certi ed è vasta la Letteratura che li valida.
Inoltre, vi sono molte sentenze, per questioni medico legali. Si riferiscono a pazienti operati, su cui l’intervento è stato fatto senza seguire le precisazioni e che, poi, ha avuto un esito non buono.
Vi sono delle distinzioni tra la chirurgia aperta e la chirurgia endovascolare.
La chirurgia endovascolare, oggi, si rivolge soprattutto ai pazienti ad alto rischio chirurgico. Una domanda che spesso mi sento fare
dai parenti dei malati: ‘‘Negli accidenti acuti, si può operare?’’
Le indicazioni sono estremamente ristrette, praticamente sono
inesistenti. Vi è un grosso problema. Ancora non vi sono chiarimenti
definitivi se eseguire la trombolisi entro le tre ore dall’accidente, cioè
dalla trombosi acuta, che ha determinato l’ictus.
I dati per quanto riguarda la chirurgia tradizionale e l’applicazione degli stent, si riferiscono a protocolli prospettici, quindi ad uno
studio rigorosamente scientifico. Sono annotate le percentuali di
stroke sia nell’un caso che nell’altro, cioè la mortalità post-operatoria
e la re-stenosi.
I casi di stroke sono doppi dopo chirurgia endovascolare, ma la
mortalità risulta più bassa.
La mortalità da chirurgia aperta, è causata da problematiche prevalentemente cardiache, oltre l’85%, mentre solo il 10-15% è fornita
da avvenimenti che sono rigorosamente in relazione alla chirurgia
della carotide. Le re-stenosi, sono ancora molto frequenti dopo l’applicazione di stent.
Gli stent costituiscono un problema, a mio parere, non risolto, però possono essere impiegati con grande attenzione in casi selezionati.
la chirurgia vascolare nell’anziano
311
Penso che, anche qui, il futuro sarà la chirurgia endovascolare.
Il secondo capitolo, riguarda la chirurgia dell’aorta toracica, toraco-addominale ed addominale.
Per quanto riguarda la chirurgia dell’aorta toracica e toraco-addominale, la problematica è ancora più complessa. Oltre alla necessità di una relazione stretta, forte, tra radiologo e chirurgo, questa
volta vi è la necessità di un terzo attore che è il cardiochirurgo.
Non di rado, questi pazienti vengono operati addirittura in circolazione extracorporea o con arresto di circolo.
Quindi, si impone la necessità operativa di un terzo partner con
una cultura ed una esperienza particolari.
Sono casi, fortunatamente, meno frequenti della chirurgia addominale, però non di rado, causano frustrazioni, anche se i pazienti
giungono in elezione.
L’impostazione diagnostica nella dissecazione ed il conseguente
trattamento endovascolare, si basano fondamentalmente sull’angiotac e sull’angiografia digitalizzata.
Queste indagini, sono diventate un bagaglio di forte innovazione, in questi ultimi anni. Ci sono pazienti che abbiamo trattato, recentemente, anche noi con i cardiochirurghi, assieme ai radiologi.
Il trattamento di endoprotesi, è possibile, secondo alcuni, anche
in emergenza, in rottura, in dissecazione acuta. Ultimamente, vengono riportati casi di rottura e di dissecazione, risolti solo ed esclusivamente con chirurgia endovascolare.
Questa opportunità era inimmaginabile fino a dieci anni fa.
La chirurgia dell’aorta addominale, poi, pone un problema assolutamente diverso perché l’epidemiologia è assai consistente. Essa,
costituisce il 75% ed ha una prevalenza sotto il sessantacinquesimo
anno. Vi sono, però, casistiche oltre l’ottantesimo anno, in cui si
giunge fino al 12% della popolazione presa in esame.
Ancora un altro dato: questi pazienti muoiono nel 50% dei casi
prima di arrivare in ospedale. Di quelli che arrivano in ospedale, il
dato nostro è il 40%. Il dottor Bellamoli ha riportato un dato, che
fa riferimento al 45-46%, ma sostanzialmente è la stessa cosa. La
mortalità complessiva da rottura, riguarda il 70% di tutti i casi se
si prendono in considerazione i pazienti, che non arrivano in ospedale e quelli che ci vengono.
Pertanto, il grande problema è che cosa fare.
312 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
Vi sono molti lavori che prendono in esame le prime possibilità
di eseguire degli screening di massa su questa affezione.
Ancora i risultati non sono certi, ma questa è una strada.
L’altra strada è quella clinica. Vi è un largo, larghissimo gruppo
di pazienti asintomatici, scoperti per caso in corso di ecografie per
coliche addominali, per malessere dell’addome, per altre questioni.
Altri, in cui vi sono sintomi non specifici, di cui è opportuna una valutazione attenta.
Questa disamina consente di portare il paziente al letto operatorio o in radiochirurgia, con risultati sconvolgentemente diversi.
Anche qui, la diagnostica si avvale della TAC tradizionale, che è
fondamentale e della TAC multislice, che consentono precise ricostruzioni del danno vascolare. La ricostruzione per il chirurgo, è
quanto mai importante perché un aneurisma non è una cosa astratta:
a volte pende da un lato e può spingere sull’uretere.
Se il chirurgo ha un quadro completo, viene aiutato moltissimo.
Questo, infatti, consente di risolvere problemi che una volta ci sembrava impossibile superare.
L’angiografia digitalizzata, è di grande valore nella misura in cui
vi è la necessità di fare un’endoprotesi o in altre particolari occasioni.
C’è un’altra questione che riguarda la chirurgia aortica: l’occlusione. La trombosi acuta dell’aorta, è una malattia mortale in oltre
il 70-80% dei casi. Oggi, può essere documentata in maniera non
invasiva.
A noi quest’idea di non invasività, adesso, sembra una routine,
ma per chi ha vissuto il vecchio mondo della diagnostica, è una rivoluzione. È una cosa veramente eccezionale.
I risultati parlano chiaro a favore della bontà della terapia in elezione. Al di fuori di ogni dubbio, la mortalità passa dal 40% come vi
ho detto, all’1%. È un po’ più alta in chirurgia endovascolare, ma in
maniera insignificante.
La morbilità è elevata, ma si tratta di cose spesso risolvibili e non
sempre ci sono complicanze importanti. Quelle tardive sono pochissime, ma temibili: si tratta dell’infezione, della rottura o dell’usura
della protesi.
Abbiamo visto casi di rottura dei fili di sutura che mantenevano
le protesi, a distanza di dieci anni dall’impianto.
Oggi, questa chirurgia consente interventi impensabili. Ad esem-
la chirurgia vascolare nell’anziano
313
pio, è possibile il reimpianto della mesenterica inferiore e il reimpianto delle arterie renali. Tutto questo, nel passato, era difficile
da ottenere.
L’endoprotesi ha dei problemi. Non c’è dubbio che debbano essere migliorate.
Però i pazienti ad alto rischio, con cirrosi epatica, una volta non
operabili, oggi vengono sottoposti all’intervento. Un tempo venivano
abbandonati al loro destino.
Anche la chirurgia in urgenza, ma molto di meno, si è giovata
dell’endoprotesi. È un capitolo in divenire che ancora dobbiamo affrontare. La casistica è limitata, perché gli interventi sono molto difficili. Tuttavia, i risultati sono soddisfacenti.
La mortalità, passa dal 40% nella chirurgia tradizionale al 18%
nella chirurgia in elezione.
Porto, come esempio, un caso di aneurisma rotto. L’aneurisma
rotto dell’addome è un ‘‘disastro’’: i pazienti sono costantemente
in shock emorragico. Una parte di questi malati muore sul tavolo
operatorio. Il 50% muore prima di arrivare in ospedale, un’altra fetta decede mentre il paziente sta per essere addormentato o ad addome ‘‘aperto’’. Per il chirurgo è una frustrazione drammatica.
Un altro capitolo riguarda l’arteriopatia obliterante degli arti inferiori. Anche qui, certamente, la diagnosi mini-invasiva o non invasiva, viene eseguita con eco-color-doppler. L’ecocolordoppler è l’indagine principe per queste malattie.
Ulteriori accertamenti sono consentiti dall’arteriografia digitalizzata. Una volta, il disegno fine di vasi piccolissimi, di pochi millimetri, non si vedeva. Adesso con l’arteriografia digitalizzata si ha un’immagine, anche questa non invasiva, che ci rende capaci di fare le anastomosi e di porre le giuste indicazioni.
Parliamo ora delle indicazioni e poi dei risultati: tutto ciò è molto
importante per i medici della Medicina di base.
Il primo stadio di Fontaine, che è lo stadio minimale di questa
malattia, va curato solo modificando i fattori di rischio: il diabete,
l’ipercolesterolemia e tutte le altre cause di cui ha parlato il dottor
Bellamoli.
Nel secondo stadio, non ci sono indicazioni chirurgiche. Nel secondo e nel terzo stadio, la pervietà delle arterie è sovrapponibile.
È stato stimato che il costo della terapia endovascolare, è minore
314 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
di quello della terapia medica e riabilitativa. Il problema quello della
‘‘etonomia’’, cioè dell’etica economica nella Sanità, diventa pregnante perché ci sono costi per alcuni aspetti insopportabili.
Infine, in alcuni casi, nel terzo e nel quarto stadio, la chirurgia
endovascolare è la terapia di elezione. Alla terapia chirurgica si accede solo per il fallimento di questa metodica. Debbo dire che nel
quarto stadio e nel terzo stadio, quella nuova tecnica, la angioplastica
subintimale, ha aperto nuovi spazi soprattutto nella conservazione
degli arti.
I risultati sono ormai conosciuti da tutti. La stenosi di un’iliaca o
l’occlusione di una femorale superficiale, con lo stent o con un semplice palloncino riacquistano la loro pervietà. Infine, nel caso in cui i
rami tibiali distali siano praticamente chiusi, una dilatazione subintimale consente, spesso, un’operazione di salvataggio.
Prima di chiudere questa relazione, vi debbo confidare i problemi difficili e non risolti.
Ancora una volta, al primo posto esiste la chirurgia delle tibiali,
soprattutto nei pazienti diabetici. Vi è, e sta emergendo, una vera e
propria chirurgia vascolare del piede, per tentare di non ‘‘perdere’’,
questo bene.
Nel passato, molto sbrigativamente, quando non era possibile fare altro, si ricorreva all’amputazione di questo segmento di arto. Ebbene vi è questa nuova filosofia, con risultati ancora modesti, non
eccellenti, ma le prospettive sono quelle di studiare le problematiche, di migliorare le rese diagnostiche e chirurgiche anche in questa
area.
L’ultimo capitolo: gli aneurismi dei vasi viscerali e la patologia
dei vasi viscerali in genere.
Questo è un capitolo semplice. L’ecografia e l’angiotac sono elementi indispensabili della diagnosi. L’arteriografia digitalizzata serve
per il trattamento endovascolare o il trattamento chirurgico.
L’aneurisma dell’arteria renale si può trattare chirurgicamente in
maniera conservativa.
Il rene è ancora conservato, ma può accadere che aneurismi della
splenica si rompano. Qualche volta si verifica negli obesi, non di rado nelle donne gravide.
Tralascio la problematica della diagnostica specifica di questa affezione. Nel 99% dei casi, il trattamento è endovascolare. Non ope-
la chirurgia vascolare nell’anziano
315
riamo ormai da anni pazienti con queste affezioni perché i radiologi,
ci risolvono la totalità dei problemi. Ormai, questa è routine.
L’ultimo capitolo: riguarda l’ischemia celiaco-mesenterica che ho
voluto ricordare per la grande differenza che c’è tra l’incidenza diagnostica di questa malattia e l’infarto intestinale. Non meno di uno a
dieci.
Nella pratica clinica, c’è una grande quantità di infarti intestinali
e una piccolissima quantità, veramente esigua, di ischemie celiacomesenteriche-diagnosticate in vita. Le motivazioni sono diverse.
La principale è che la compliance del sistema vascolare addominale, è tale che basta una sola arteria su tre, tra la celiaco, la mesenterica
superiore, la mesenterica inferiore, per irrorare tutti gli intestini.
A volte, questo avviene per una trombosi acuta su una placca o
per altri accidenti. Ciò rende difficile, nella fase asintomatica, una
diagnostica precoce. Anche qui, se possibile, il trattamento è endovascolare, oppure chirurgico.
Infine, parliamo dell’utilizzazione della chirurgia vascolare nell’ambito dei trapianti.
Nel trapianto di rene, lo conoscete tutti, la riconnessione di
un’arteria e di una vena sono fondamentali. L’esercizio di questa
pratica è utilissimo per il chirurgo dei trapianti, ma lo è ancora di
più per il chirurgo vascolare.
La preparazione dei vasi del donatore è una fase delicata perché
solo nel 20% dei casi, le arterie del donatore sono confacenti ed
ideali per il ricevente. Negli altri casi, bisogna fare un’operazione
che dura un’ora, un’ora e mezza, sui vasi del fegato espiantato,
per ricomporre le arterie e riproporle nel tavolo operatorio a fianco,
al ricevente.
Vi è poi l’anastomosi fra la cava del donatore e quella del ricevente.
Una ripresa, ad opera di un mio collaboratore, ha documentato
un caso ancora più complesso.
Una trombosi portale, quella del ricevente, viene asportata e il
paziente può ricevere il fegato del donatore.
La chirurgia vascolare è cambiata in maniera sostanziale. È cambiata per il malato, perché effettivamente la minore invasività diagnostica e terapeutica è un traguardo di grande civiltà. È cambiata
anche per le strutture assistenziali, perché i ricoveri sono cambiati.
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Sono cambiati i flussi finanziari, bisogna confrontarsi con il costo
delle apparecchiature.
Un palloncino a volte costa 1.000 euro e, in un solo malato ne
possono essere applicati tre, quattro.
I costi sono assai elevati e, a mio parere, non c’è un buon rapporto tra i DRG, i ricavi che un’azienda può avere e i costi che, spesso,
siamo costretti a subire.
L’altro grande problema si riferisce al lavoro del chirurgo. Siamo
di fronte ad un paesaggio nuovo che io ho avuto la grande fortuna, il
privilegio di vivere, di stimolare. Giacomo dal suo punto di vista ed
io dal mio.
Ricordo la prima esperienza. Allora, nel 1987, il dottor Gortenuti non c’era, era nell’altro servizio.
Due persone: un chirurgo ed un radiologo. Furlan e Giovanninetti, mio allievo, che adesso è a Domodossola, rimasero tre mesi
a Zurigo per apprendere la chirurgia endovascolare.
Poi successivamente, intorno agli anni ’92-’93, questa tecnica
esplose sempre più. Per cui, oggi, non sapremmo come fare senza
questa integrazione medico-chirurgica.
È un approccio che comporta una nuova maturità culturale clinica del radiologo e del chirurgo. Il chirurgo, deve apprezzare le capacità tecniche del radiologo ed il radiologo, deve diventare sempre
più sensibile alla clinica.
Comporta anche degli effetti pratici soprattutto in una città come Verona in cui esistono due poli, due strutture vascolari: una a
Borgo Roma e una a Borgo Trento.
Tutte e due sono meritevoli di sopravvivere con strumenti organizzativi di rispetto ed è necessaria l’unificazione della funzione radio-chirurgica degli apparati, perché il numero dei pazienti la impone.
Aggiungo, di sale operatorie unitarie per radio-chirurgia. Spero
che il nuovo ospedale le avrà. Io non sono certo, certissimo, che
per il nuovo ospedale si sia pensato a queste innovazioni. Credo
che i colleghi che lavorano in questo modo, debbano poter svolgere
il loro lavoro in maniera integrata, pur mantenendo la loro autonomia.
L’unità semplice oggi, è un modello organizzativo di grande importanza. Voglio finire con una provocazione.
la chirurgia vascolare nell’anziano
317
Italo Calvino, nel 1984, fu invitato ad Harvard per una lettura
sul destino futuro della Letteratura. Lui scrisse, nelle ‘‘Lettere americane’’, pubblicate dopo la sua morte, che la leggerezza, la rapidità,
l’esattezza, la visibilità, sono caratteri costituenti della futura Letteratura. Ogni cosa però è contraddittoria.
In altra sede, ha detto che anche la Chirurgia del futuro dovrebbe essere cosı̀: accurata, precisa, a scarsa invasività, senza morbilità,
senza mortalità. La Chirurgia vascolare sembra promettere tutto
questo.
Noi chirurghi dobbiamo pensare che questa meta possa essere
raggiunta anche se, essa, è puramente utopica.
Grazie’’.
P. Rizzotti: ‘‘Il vostro applauso ha testimoniato la passione con cui
tutti abbiamo seguito ciò che il dottor Cordiano ci ha detto con
grande competenza, lanciando molti messaggi che adesso tutti vorremmo raccogliere.
Il dottor Zavateri, giustamente, si propone subito.
Invito al tavolo anche il dottor Gortenuti ed il dottor Furlan, come mi suggerisce il dottor Cordiano’’.
G. Zavateri: ‘‘Innanzitutto, mi devo congratulare sia con il professor Cordiano che con il dottor Bellamoli per le notizie che ci hanno fornito. Anzi al professor Cordiano, quasi quasi, si potrebbe
dire: ‘‘Speriamo di avere una malattia vascolare cosı̀ saremo ben
curati’’.
Ma, a parte questo, mi rivolgo a tutti i numerosissimi presenti
per dire, come medico, che questa è l’ultima fase. Dobbiamo lavorare per non arrivare a questo stadio della malattia vascolare.
Ci sono percentuali, ci sono risultati incoraggianti, però ricordiamoci che si ricorre alla chirurgia vascolare, quando tutta l’educazione, la prevenzione, il trattamento medico, hanno finito il loro corso.
Quindi, l’impegno di tutti noi deve essere quello di arrivare più tardi
possibile a queste necessità.
Secondo, per non portare via troppo tempo ad altri colleghi che
vorrebbero parlare, vorrei sottolineare un altro aspetto che noi, come medici e geriatri sentiamo.
Già il dottor Bellamoli ne ha accennato trattando della prepara-
318 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
zione all’intervento. Il paziente vascolare, è un paziente che nella
stragrande maggioranza, abbiamo visto, ha più patologie.
Il chirurgo vascolare si occupa di un distretto, speriamo che arrivi a risolvere anche i problemi delle arterie distali nei diabetici, che
per noi sono drammi quotidiani. Dicevo che questo paziente, oltre
che essere operato nel modo migliore, deve essere anche seguito
nel post-intervento. Non è infrequente, infatti, che questi pazienti
vadano incontro ad insufficienza renale.
Credo sia fondamentale che, assieme al chirurgo nella fase
post-operatoria, ci sia la presenza di un medico, di un internista,
di un geriatra che sappia fare un trattamento personalizzato. La
realtà dell’ammalato a 90 anni, non è la realtà dell’ammalato sessantenne.
Il problema dell’approccio medico-farmacologico è molto importante e sentiamo, fortissima, questa esigenza’’.
P. Rizzotti: ‘‘Gaetano vuoi dire che il chirurgo, riesce a portare a termine felicemente l’intervento, però non sempre si riesce a superare
la fase post-operatoria?’’
G. Zavateri: ‘‘Spesso le complicanze sono dovute ad una serie di eventi post-operatori che slatentizzano le esigenze e gli equilibri di quel paziente. Siamo di fronte ad anziani fragili, che nel post-intervento, rischiano di ‘‘scompensarsi’’ in modo irreversibile. Grazie ancora’’.
P. Rizzotti: ‘‘Vuoi aggiungere qualcosa, professor Cordiano? Commenti a questo ragionamento? È opportuna una rigorosa attenzione
alla valutazione complessiva pre e post-operatoria.
Prego, altri commenti? Giacomo Gortenuti?’’
G. Gortenuti: ‘‘Faccio un commento veloce e dopo lascio spazio all’auditorio, perché ha detto tutto il professor Cordiano, quindi, a me
rimane poco da dire.
L’unica cosa che voglio sottolineare, è che la Chirurgia, la Medicina, la Radiologia moderne, non possono essere isolate.
Devono agire in equipe e la cosa più difficile, è lavorare insieme
con entusiasmo. Cosa che, noi, siamo riusciti a fare.
Le macchine attuali sono macchine stupende. Ci consentono di
la chirurgia vascolare nell’anziano
319
vedere delle immagini dettagliate, però ricordatevi che dietro, c’è
uno sforzo culturale notevolissimo.
L’eco-color-doppler è difficile da fare, l’angiografia interventistica deve essere eseguita insieme con il chirurgo e con il radiologo. Infatti, recentemente, abbiamo inaugurato la prima sala radio-chirurgica e, ovviamente, il salto di qualità è stato notevole. Io non volevo
aggiungere altro. Grazie’’.
P. Rizzotti: ‘‘Dottor Valvo, Enrico .... Domande ai relatori’’.
E. Valvo: ‘‘Professor Cordiano, grazie per la bellissima lezione.
Volevo un chiarimento in merito all’integrazione fra le tecniche
chirurgiche, ovviamente quella vascolare, ma anche l’interventistica,
radiologica e chirurgica tradizionale.
Abbiamo visto che le complicanze, le trombosi, l’iperplasia dell’intima nei vasi trattati con radiologia interventistica, sono abbastanza frequenti. Si può intervenire più volte.
La mia domanda è: ‘‘Facendo cosı̀, se il successo, poi non si raggiunge, al chirurgo quale spazio rimane reintervenendo, per poter ripristinare dei flussi d’organo? Quindi che possibilità di successo abbiamo dopo vari interventi di dilatazione, ricorrendo alla chirurgia
tradizionale?
Grazie’’.
C. Cordiano: ‘‘Allora, dottor Valvo, un esempio: gli arti inferiori.
Angioplastica, il paziente non si opera. Questi casi, dopo 5 anni,
in una percentuale che si aggira intorno all’80%, vanno incontro
ad occlusione. Si ha un effetto particolare. Quando il vaso si chiude,
la deambulazione, peggiora.
Se i pazienti erano nel terzo stadio di Fontaine passano nel secondo. L’evoluzione non è chiara e prevedibile. Un po’ perché ci sono circoli collaterali e un po’ perché ci sono variabili non ancora perfettamente studiate. È un fenomeno statistico rilevante.
Questo è il primo avvenimento.
Il secondo, sta nel fatto che le complicanze della chirurgia esistono, non è che non esistano. Esistono i rigetti e le infezioni delle protesi. Certo, oggi sono molto minori. Questo è un altro elemento.
320 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
Terzo punto: credo che tu ti riferisca all’arteria renale, prevalentemente, quando mi parli della proliferazione dell’intima.
Dipende da caso a caso. Perché ci sono condizioni in cui la chirurgia endovascolare si può riproporre, altre, in cui c’è ancora qualche spazio per la chirurgia tradizionale. I risultati ultimi delle angioplastiche renali, però, sono decisamente più brillanti di quelle del
passato.
In questo campo, tuttavia, la nostra esperienza, è minore’’.
P. Rizzotti: ‘‘Furlan, mi permetti un’osservazione sulle complicanze?
Volevo ampliare un po’ questa parte e chiedere a te, a Veraldi, al
professor Cordiano, alcuni chiarimenti. Tre cose, della relazione
del professor Cordiano, mi hanno colpito per l’importanza dei dati.
I dati epidemiologici dicono che nei soggetti sopra i 65 anni ci
sarebbero il 7,5% di portatori di aneurisma addominale e si parlava
di tecniche di screening.
Chiedo quali siano le modalità con cui sia possibile realizzare
questo screening, se è tecnologico, se è clinico e se ci siano anche
ragionamenti di costo e benefici, rispetto a questo.
Ma veniamo ai dati della ‘‘nuova’’ chirurgia cioè della endochirurgia.
Mi ha colpito, nei dati di risultato, il fatto che sicuramente la
mortalità e la morbilità sono inferiori, però le complicanze tardive
sono molto superiori. Sia nei sovraortici che nell’addominale si parlava delle stenosi più alte nel primo caso e del 20% di complicanze
tardive nel caso dell’endoprotesi addominale aortica. Sono dati importanti questi, rispetto alle attese.
Vuol dire sul piano chirurgico immediato meno problemi, ma
molti problemi nel post-operatorio come accennava Zavateri. Questa è una questione legata ai materiali. Ne è un esempio, la possibilità
di associare farmaci agli stent.
Avete esperienze da questo punto di vista? Che tipo di complicanze sono? Sono governabili sul piano farmacologico?’’
G. Gortenuti: ‘‘Per quanto riguarda lo screening, credo che non esista a Verona un sessantenne che non abbia fatto un’ecografia addominale. Infatti, la maggior parte degli aneurismi che noi scopriamo,
sono casuali. Non esiste il problema come il cancro.
la chirurgia vascolare nell’anziano
321
Penso che chiunque, sopra i 60 anni, sia stato sottoposto ad
ecografia addominale e con questa indagine, l’aneurisma si vede.
Grazie’’.
F. Furlan: ‘‘La re-stenosi è un problema abbastanza importante che
incide intorno al 20% nelle arterie renali trattate con stent. Si può
ridilatare, però può essere anche possibile che, ad un certo momento, la re-stenosi non sia più trattabile. Si può ugualmente intervenire
chirurgicamente sul paziente. L’angioplastica non esclude la chirurgia.
Per quanto riguarda, invece, le protesi aortiche, le complicanze
sono legate un po’ alla proprietà dei materiali.
Ci possono essere degli endo-leak, che compaiono quando la
protesi non è stabile e quindi può muoversi dalla sede primaria. Lı̀
bisogna intervenire chirurgicamente.
Altre volte la sacca aneurismatica, esclusa dalla endoprotesi, può
essere rialimentata da piccoli vasi quali le lombari o la mesenterica.
La sacca, attraverso un possibile fenomeno endo-leak, può mantenere una sua tensione e anche crescere.
Ci sono quattro tipi di endo-leak.
Nel primo tipo, proprio per la sua dislocazione, la protesi non
sigilla per cui, l’aneurisma non risulta più escluso ed è a rischio di
rottura. C’è la necessità, perciò, di intervenire chirurgicamente.
Nel secondo tipo la protesi sigilla, però il sangue affluisce attraverso un circolo invertito della mesenterica inferiore e delle lombari.
Nel terzo tipo, la protesi ha un alto rischio di possibilità di rottura, legato ad un difetto di fabbricazione e va trattato chirurgicamente.
Infine, il quarto tipo di endo-leak viene causato dalla porosità
della protesi. Questi fenomeni comportano una problematica nel
lungo periodo di trattamento endovascolare dell’aorta addominale.
Il dato fondamentale è che questi pazienti con endoprotesi vanno monitorizzati molto attentamente nel loro follow up, proprio per
cercare di prevenire, di trattare, prima che succedano fatti irreversibili od eventuali possibili complicanze di questo tipo.
Esiste un gruppo di malati ancora, non completamente noti, in
cui si parla di endotention.
322 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
Dalle indagini diagnostiche, fondamentalmente un’angiotac, che
viene eseguita di solito ogni sei mesi nel corso del follow up, non risultano presenti endo-leak.
Non si riesce a diagnosticarli, non si riesce a visualizzarli. Malgrado tutto, si ha un incremento di dimensioni dell’aneurisma; quindi,
significa che la sacca aneurismatica è ancora sotto tensione’’.
C. Cordiano: ‘‘Però, scusate, perché altrimenti loro si divertono
troppo. Bisogna dar credito, ma fino a un certo punto. Che cosa vuol
dire?
Vuol dire che questa è una fase di transito, che queste apparecchiature hanno segnato una grande riforma, una trasformazione, ma
non hanno raggiunto ancora l’optimum.
Altrimenti su The Lancet, non sarebbe stato scritto che, certe
volte, questa metodica è un vero e proprio disastro.
Se non si dicono queste cose, non si parla della grande problematica esistente nella dislocazione, nella drammaticità dei reinterventi dei portatori di endo-leak.
Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che, a mio parere, dobbiamo segnare la differenza rispetto al passato, ma bisogna lavorare per
migliorare questi apparati non ancora perfetti.
Questa è la sostanza. I dettagli chirurgici non interessano’’.
P. Rizzotti: ‘‘Giusta precisazione, altre domande? Prego, dottor
Scuro’’.
A. Scuro: ‘‘Mi complimento per la relazione.
La chirurgia endovascolare, dà dei risultati sempre più incoraggianti. La chirurgia endovascolare consente e consentirà, sempre di
più, trattamenti in emergenza.
Questi ultimi, infatti, vengono sempre più frequentemente praticati sia sull’aorta toracica, sia sull’aorta addominale. Si sono dimostrati efficaci ed hanno dato dei risultati soddisfacenti.
Le problematiche da questo punto di vista, sono di tipo organizzativo.
È difficile rendere disponibili delle equipe miste, che siano in
grado di fronteggiare le emergenze toraciche, aortiche e addominali,
soprattutto, a livello delle varie strutture.
la chirurgia vascolare nell’anziano
323
La mia domanda è semplice.
A Suo avviso, a Verona, sarebbe concretizzabile la realizzazione
di un’Unità Vascolare per le emergenze aortiche, che possa al meglio
trattare le urgenze di questo tipo?
Interventi del genere, purtroppo, necessitano dell’unione di varie
professionalità che devono collaborare insieme’’.
C. Cordiano: ‘‘Credo che esistano dei tempi, sicuramente.
Se gli organizzatori della salute delle nostre aziende, i manager,
cioè chi ha il potere reale, è sensibile alle esigenze dei tecnici e dei
malati, arriveremo a queste soluzioni. Ci arriveremo, mediante passaggi successivi.
La prima proposta è che, pur essendoci due strutture idonee in
Borgo Trento e in Borgo Roma, è opportuno che sappiano cooperare pur nel rispetto della loro autonomia.
L’integrazione nel lavoro, soprattutto nell’urgenza, è indispensabile’’.
P. Rizzotti: ‘‘Più volte è stato ribadito, che si devono identificare e
realizzare le priorità assistenziali. Per ottenere questo, è indispensabile una forte integrazione fra Università ed Ospedale’’.
Per raggiungere tutto ciò, ci sono tante risorse da impiegare.
Non c’è solo la tecnologia dei radiologi. C’è il costo delle protesi e
quant’altro.
All’interno di questo, vi sono degli studi che puntualizzano l’aspetto economico su questo tipo di trattamento.
Tu dicevi prima, che nella claudicatio l’intervento chirurgico è
molto vantaggioso, rispetto alle terapie mediche.
I vantaggi devono essere evidenti e non possiamo aspettarci la
redditività dei DRG, perché chi lavora solo con questo parametro,
di solito, è miope.
C. Cordiano: ‘‘Questo è vero. Purtroppo tu dici che è brutto parlare
per DRG, però a noi i conti li fanno in questo modo.
Come faccio a non tener conto di tutto ciò? Ogni tre mesi ci arriva il resoconto che puntualizza se abbiamo alzato i costi e quant’altro. Quindi non posso non tenerne conto.
Viceversa, è all’interno della necessità di cura che bisogna gestire
324 c. cordiano - g.f. veraldi - c. bellamoli - g. cecchini - p. rizzotti
bene le tecnologie. È anche all’interno delle necessità di cura che bisogna usare le tecnologie in maniera unitaria. Questo è il punto.
Io giungo a dire che in questo settore bisogna creare unità di cura uniche radiochirurgiche, con posti letto tecnici.
Questo è un problema con cui dovremo confrontarci.
Non di rado nella patologia dell’aorta, vi è la necessità di aprire
la femorale, di fare il trattamento radiochirurgico e, questo, comporta l’impiego di professionalità diverse’’.
I FATTORI DI RISCHIO ED INVECCHIAMENTO
F. Fabris - G. Zavateri
G. Zavateri: ‘‘È con vero piacere che do il benvenuto fra noi, al professor Fabrizio Fabris.
A me il compito di introdurre brevemente l’argomento di oggi.
Mi preme sottolineare un solo aspetto, l’aspetto culturale.
Il ‘‘non sapere’’, l’ignoranza, che più o meno è in tutti noi, può
essere e può diventare un importante fattore di rischio d’invecchiamento. Ognuno di noi, non solo ha il dovere di sapere, di formarsi
una cultura, ma anche il dovere di diffondere la cultura che ha in sé.
Poiché la salute non è legata all’età, non deve avere età, ognuno
di noi deve proseguire in una continua scolarizzazione.
È lo scopo di questi corsi, che rincorrono un obiettivo culturale.
La realtà che viviamo è in continuo movimento e cambiamento.
Dobbiamo educarci a mantenere la salute nel volgere degli anni, cercando, per quanto possibile, di evitare e ridurre i rischi di invecchiamento.
Se la giovinezza a tutti noi è offerta, la vecchiaia bisogna pur
sempre guadagnarsela e, guadagnarsi la vecchiaia, significa invecchiare bene, con successo ed in salute.
E ciò non è solo mancanza di malattia, ma un modo di pensare e
di agire che è, alla fine, risultato di un’appropriata cultura e condotta
di vita. Una buona vita è quella che, priva di soluzioni di continuità,
dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità, alla vecchiaia, consente
per ciascuno di noi un’acquisizione di nuovi e maturi livelli di organizzazione della propria persona, della propria personalità, verso un
più alto livello di integrazione per sé e per gli altri.
Per raggiungere un tale traguardo, c’è bisogno di una vera edu-
326
f. fabris - g. zavateri
cazione, che prevenga i fattori di rischio e gli insulti ai quali ogni organismo può essere sottoposto ed i danni che ne possono derivare.
Nella cultura, pertanto, la preparazione, la formazione di uno
sviluppo individuale e collettivo, serve ad affrontare ogni ostacolo,
ogni rischio e difficoltà nelle fasi della crescita di ognuno di noi e come prevenzione al decadimento che non è solo fisico, ma anche psichico e sociale.
Tale preparazione deve iniziare fin dalla nascita e deve andare
fino all’ultimo atto compiuto della vita, che è la morte.
Se permettete, prima di concludere questa mia introduzione,
vorrei citare ciò che un filosofo cinese, già 20 secoli fa, si chiedeva:
‘‘Le nostre risposte, in quale cultura le dobbiamo ricercare’’?
Diceva: ‘‘Seminando il grano, raccoglierai una volta; piantando
un albero raccoglierai 10 volte; istruendo la gente, il popolo, raccoglierai 100 volte. Se i tuoi progetti mirano ad un anno, semina il grano; se i tuoi progetti mirano a 10 anni, pianta un albero; ma se i tuoi
progetti mirano a 100 anni, istruisci la gente’’.
Professor Fabris a lei la parola. Grazie’’.
i fattori di rischio ed invecchiamento
327
F. Fabris: ‘‘Su invito del dottor Grezzana, sono stato più volte ospite
di Verona e dei suoi centri vicini, qualche volta per ragioni concorsuali, il più delle volte per incontri scientifici, tipo questo.
È un piacere ed un onore che mi viene fatto. Saluto il numeroso
pubblico presente, che so essere anche in sede ‘‘extra-aula’’.
Ho scelto per l’incontro di oggi, un tema che mi era caro da sempre e, forse, mi è diventato un po’ più caro negli ultimi tempi, negli
ultimi anni: è quello dell’invecchiamento nei suoi rapporti con i fattori che possono indurne una accelerazione o, per contro, un ritardamento.
La convinzione che si è sviluppata in me, è che probabilmente
almeno una larga parte di quello che pensiamo nei riguardi del giovane adulto, non sia applicabile al vecchio, soprattutto, se intendiamo il vecchio vero, quindi avanti con gli anni. È difficile dire se vale
a 75-80-85-90 anni o per una persona davvero avanti con l’età.
La convinzione è che, molto spesso, le condizioni che ci vengono
tramandate dalla cultura medica e dalla legittima propaganda medica, possano essere antitetiche rispetto al reale. Il che non vuol dire
che non siano acquisizioni giuste, ma per età diverse, della nostra
vita.
Non ho l’illusione di far cambiare idea, sarebbe una stupida presunzione, però la speranza di far riflettere qualcuno, la maggioranza
o magari tutti, su alcuni problemi, effettivamente, ce l’ho.
Proprio perché alcune cose che noi, come medici o infermieri o
addetti, comunque, alla salute, pratichiamo nel campo della prevenzione dell’invecchiamento, potrebbero essere del tutto sbagliate e
addirittura controproducenti.
Noi dobbiamo tenere presente che il nostro intervento di medici,
per essere efficace, può essere rivolto ad un parametro metabolico,
ad una costante di laboratorio, ma può essere rivolto, magari con
maggior aspettativa di risultato, anche a qualcosa che apparentemente non è di nostra competenza.
Sarà bravo medico quello che acquisisce questo tipo di nozione e
la saprà applicare in funzione di un migliore risultato.
Innanzi tutto, è opportuno leggere molto, studiare il più possibile, documentarsi fin dove possiamo, però avere anche un sano e saggio distacco rispetto alla nozione che leggiamo.
Ossia, rispetto ad un quesito, non è difficile trovare in Letteratu-
328
f. fabris - g. zavateri
ra affermazioni, a meno che la cosa non sia di superiore evidenza,
che stanno da un lato in una direzione e, dall’altro, in una direzione
opposta.
Un antico sistema, che tutti legittimamente pratichiamo, è che
evidenziando uno dei due piatti della bilancia, contribuiamo a diffondere un’idea piuttosto che l’altra.
Non si vuole invitare a mangiare dolci o cioccolato. Sarebbe un
consiglio non corretto scientificamente. È singolare, comunque, che
Letteratura altamente o altissimamente qualificata, riferisca un dato
inquietante. La popolazione che mangia dolci avrebbe un’aspettativa
di vita di 1 anno superiore alla popolazione che non mangia dolci.
Questo è quanto.
Ovviamente, io non voglio presentarvi questa notizia come una
sconvolgente verità.
Lo scopo è molto più modesto, cioè, chissà se sia tutto vero quello che si dice riguardo l’attenzione al dolce, al salato, al pane, alla
pasta e, alla fine, domandarci se siano messaggi cosı̀ corretti quelli
che noi diamo.
Come sempre, sono osservazioni che danno adito ad interpretazioni diverse. Questo è vero, non solo per la Medicina, ma anche per
la vita.
Si potrebbe, infatti, pensare che chi mangia dolci, abbia due lire
in più, abbia più disponibilità di attrezzare la propria giornata in
qualche modo.
Comunque, questa abitudine, a livello di autore e di rivista altamente qualificata, porterebbe alla conclusione che se uno mangia
qualcosa di dolce tutti i giorni regolarmente, aumenta la propria sopravvivenza.
Il mio scopo principale è quello di porre fin dall’inizio una qualche incertezza, un qualche dubbio riguardo a delle categorie ferree
che, in Medicina dell’anziano, non è accettabile avere. Anzi, direi
che un segno di ridotta cultura, almeno a mio avviso, è proprio quello di voler pretendere, soprattutto in questa fascia di popolazione, di
stabilire dei tagli che non sono assolutamente concessi dalla realtà
delle cose.
È l’età un po’ dei grigi, delle sfumature, dei quadri che non si sa
bene se appartengano ad una parte piuttosto che all’altra, se siano
normali oppure se esprimano un’iniziale patologia.
i fattori di rischio ed invecchiamento
329
Questo non è per avere dei dubbi a tutti i costi, ma proprio per
avere una rappresentazione reale, che sia il più possibile oggettiva.
In quattro inchieste fatte nel Regno Unito, rispettivamente nel
’76, nell’80, nell’85 e nel ’91, il numero di soggetti dipendenti cioè
con grave disabilità, è cambiato nelle previsioni quattro volte. Ossia,
nella prima previsione del ’76, sfiorava i 2 milioni di persone, 2.000
moltiplicato mille; nella seconda, del 1980, era poco più di 1 milione;
nella terza, del 1985, era meno di 1 milione; nella quarta previsione
del ’91, si riduceva a 500.000.
Secondo aspetto, era l’andamento della curva, previsto nell’arco
degli anni 2000. Assistiamo, più o meno, ad un picco attorno al
2020-2030, picco che viene confermato in tutte le previsioni. Probabilmente, in quegli anni i soggetti dipendenti tenderanno ad aumentare. Però un conto è che siano 500.000, un conto è che siano quattro volte di più o quasi.
Questo la dice lunga, ancora una volta, sulle capacità di prevedere i fenomeni complessi. Le previsioni è giusto farle.
Dopo di che, è bene prenderle con beneficio di inventario.
Come geriatri, secondo me, noi abbiamo l’interesse culturale ad
avere possibilmente un numero limitato di soggetti non autosufficienti, ma questo non come artificio, che sarebbe banale. Primo, perché deve rispondere alle condizioni reali. Secondo, tanto più il numero diventa cospicuo, vasto, tantomeno è raggiungibile da una proposta di tipo intervento preventivo, riabilitativo o terapeutico.
Quindi, tanto più noi ragioniamo su un fenomeno relativamente
contenuto, tanto più probabilmente siamo nel giusto e, sicuramente,
abbiamo maggiori mezzi per raggiungere l’obiettivo.
Un altro tema che mi sembra fondamentale: porre attenzione alle
cose da studiare che non siano sempre l’acido urico, il colesterolo,
l’azotemia, eccetera, che pur hanno la loro importanza, ma capire
che nella valutazione di un vecchio si devono inserire altri parametri.
Altri parametri che, probabilmente, esprimono di più il risultato di
un intervento.
La dottoressa Nicoletta Aimonino, che è qui presente, segue tra
le altre cose, il nostro settore delle cure domiciliari. Nella cura domiciliare, si devono usare dei parametri funzionali come l’attività del
sistema nervoso centrale, la capacità funzionale, le scale della depressione, la scala dello stress dei parenti che, complessivamente, danno
330
f. fabris - g. zavateri
con ogni probabilità, un risultato molto più interessante di quanto
non possa essere la misurazione della pressione o altro.
Ancora più caratteristico, è valutare quand’è che un vecchio è
curato bene. Quando, tra le altre cose, ovviamente, può ritornare
a casa. Chi fa Medicina per i vecchi lo sa e, spero, non possa che condividere quello che io sto dicendo.
Un individuo che rimanga in ospedale mesi o anni, chiaramente
non ha avuto il massimo delle cure, compatibilmente con la sua malattia. Quindi, introdurre tra i criteri di valutazione la possibilità di
ritornare a casa, rappresenta un completamento, un avanzamento
della valutazione stessa.
Allora, in questo caso, si vede che nei curati in O.A.D., che vuol
dire Ospedalizzazione a Domicilio, la quota parte dei soggetti che
torna a casa è la quasi totalità. Se, invece, uno segue la cura in reparto ospedaliero, ha più difficoltà nel ritornare al proprio domicilio.
Anche questo, poi, si può discutere quanto si vuole. È un parametro
specifico del paziente anziano per misurare l’efficacia dell’intervento.
Un lavoro a cui sono molto affezionato, riguarda lo studio di 840
pazienti rispetto alla dimissione ospedaliera. È uno studio che si è
prolungato per 5 anni. Si è visto, in questi 5 anni, quali fossero i parametri, le condizioni che correlavano più o meno significativamente, con la prognosi del paziente stesso. I risultati sono stati davvero...
definiamoli... inusuali o, comunque, interessanti.
L’età ovviamente c’entra, cosı̀ il sesso e la dipendenza. La dipendenza o la co-morbidità, c’entrano e sono i parametri che correlano
con la prognosi. Tanto più uno è dipendente, tanto più nei 5 anni
dopo la dimissione ospedaliera, avrà possibilità di morire o, comunque, di avere una patologia grave.
Per noi medici, e per gli addetti ai lavori, l’albumina bassa vuol
dire denutrizione, malattia grave. L’eziologia può essere di diversa
natura, ma quasi sempre di malattia grave si tratta. Tranne l’albumina bassa e, forse, gli altri parametri quali colesterolo, fibrinogeno,
pressione arteriosa, sia massima che minima, non correlano con la
mortalità a 5 anni.
Anzi, se volessimo essere più precisi, bisognerebbe dire e lo si
può dire, che questi ultimi, sono fattori protettivi al contrario.
Ossia, tanto più uno ha elevato il colesterolo, tanto più ha probabilità di sopravvivere nei 5 anni dopo la dimissione se si tratta di
i fattori di rischio ed invecchiamento
331
soggetto anziano. E questo vale per la pressione arteriosa, sia sistolica che diastolica. Mi sembra che ciò costituisca, per tutti noi, un
dato scientifico che pone delle domande.
È inutile dire che poi c’entra la storia clinica del singolo soggetto,
però, l’immagine complessiva risultante è questa.
Nella fase storica in cui giustamente risonanza, TAC, PET,
SPECT, sono esami complessi di elevato costo, un elemento che ci
dice molto della prognosi del soggetto, è dire al paziente: ‘‘Alzati e
cammina’’. Se questo riesce nel giro di una ventina di secondi ad alzarsi e camminare, si tratta di un soggetto che probabilmente, al di là
di tutte le più descrivibili patologie, avrà una prognosi favorevole.
Sono stati raccolti dei dati in relazione alle placche endoarteriose. Le placche sono la manifestazione più diffusa e più importante
dell’arteriosclerosi; si possono cercare dappertutto. Due sedi sono
quelle più adatte alla ricerca: il territorio carotideo cerebro-afferente,
oppure il territorio femorale.
Che cosa si verifica con l’età e che cosa si verifica nel rapporto
con i fattori di rischio, che è il tema del nostro incontro?
Con l’età, sia da una parte che dall’altra, come è facile attendersi,
la placca aumenta. Più si diventa vecchi, più si hanno placche, questo non stupisce alcuno.
Se però, si pone l’attenzione su quale tipo di placche, questo è
importantissimo a mio avviso, riscontriamo una cosa peculiare e
molto significativa.
Distinguendo le placche in quelle meno stenosanti, di media gravità e di alta gravità, con stenosi superiore al 75%, si è osservato che
aumentano di meno con l’età quelle più gravi. Quindi, quelle che noi
vediamo aumentare cospicuamente nel tempo, sono placche, tutto
sommato, che non restringono molto il lume e quindi non causano,
abitualmente, gravi danni sul piano soprattutto emodinamico.
Analizziamo la popolazione a seconda che abbia più o meno di
65 anni, in relazione ai classici fattori di rischio.
Nella popolazione più anziana, l’unico fattore di rischio che rimane correlato con la presenza di placca, è l’abitudine pregressa al
fumo. Tutti gli altri, pressione, trigliceridi, eccetera, non sono più
correlati, mentre lo erano assolutamente nel gruppo di età più giovane.
Questo, probabilmente, dà un’immagine discutibile della diversa
332
f. fabris - g. zavateri
realtà e, quindi mi sembra ovvio, delle diverse indicazioni terapeutiche.
Una frase, sinteticamente efficace di un collega svedese, illustra
un aspetto ed un rischio del vecchio: ‘‘Il vecchio ha il rischio gravissimo di essere sottoposto ad un eccesso di diagnosi’’.
Quindi, essere ‘‘martellato’’ con diagnosi di bronchite, osteoporosi, artrosi, cardiopatia ed altre malattie. Alcune di queste malattie,
hanno una loro debolezza, anche se il paziente ne soffre. Da questo
insieme, deve essere estratta quella quota parte morbosa, che è rilevante in quel preciso momento.
Dal fare tante diagnosi viene, come conseguenza, soprattutto secondo uno schema mentale scorretto, ma che tutti abbiamo un po’
immagazzinato, che ad ogni malattia corrisponda una cura e corrisponda una cura spesso solo farmacologica.
Non sempre è cosı̀.
Comunque, se sono tante le diagnosi, tante le terapie, tanti i farmaci, altrettanti sono i possibili, se non certi, danni da farmaci, che
riaprono il ciclo di tante malattie e cosı̀ si va avanti.
Un dato non recentissimo, ma certamente non antichissimo preso da una rivista tra le più autorevoli, dice che confrontando due popolazioni anziane, una in cura con farmaci antipertensivi e una non
trattata, si è osservato che la sopravvivenza è maggiore nei soggetti
non trattati.
È chiaro che questo è abbastanza sconvolgente, è sottoponibile a
qualsiasi tipo di discussione, però non è un dato inventato, ma è un
dato scientificamente vero.
È un dato che deve essere esaminato con la dovuta attenzione.
Voi sapete che il lavoro epidemiologico più importante nella storia della Medicina sui fattori rischio dell’arteriosclerosi, è dato dallo
Studio di Framingham. Analizzando, come hanno fatto tanti autori
che si sono succeduti nel tempo, questi dati di Framingham, ne è risultato un lavoro di S. Port.
Quest’ultimo studio, che cosa dice?
Il livello a cui la pressione arteriosa diventa un fattore di rischio,
è 140 per età più giovane, per l’età più anziana esaminata, è invece
160.
Questo che cosa vuol dire?
Contrariamente a quello che molti sostengono, sempre credendo
i fattori di rischio ed invecchiamento
333
a questo autore, fino a 160 di sistolica in un vecchio, salvo particolari
storie o indicazioni, non ci dev’essere un intervento o tantomeno un
intervento impegnativo.
Difatti, lo stesso S. Port dice cosı̀: ‘‘I nostri risultati dimostrano
che il trattamento basato solo su valori di sistolica superiore a 140,
non è giustificato’’.
Qui siamo su The Lancet, e quindi non è, diciamo, Letteratura
piccola.
L’autore conclude che un numero considerevole di persone senza alcun aumento effettivo di rischio, viene impropriamente trattato,
soprattutto i vecchi.
Non vi vendo, un’altra verità; vi propongo alcuni elementi di riflessione che, secondo me, sono giusti per osservare una diversa realtà nel vecchio.
Proprio in questi territori del Veneto, col dottor Grezzana ne
parlavamo prima e anche con il professor Pierino Zardini, il gruppo
del professor Dal Palù aveva condotto, sull’ipertensione, uno studio
che non ha avuto grande notorietà.
Ci si può domandare perché. Io ho una mia risposta, ma penso
che, a questo punto, sarà abbastanza trasparente anche a voi.
Il risultato dello studio, infatti, era che i soggetti ipertesi non presentano una mortalità superiore al 12º anno di follow-up, rispetto ai
normo-tesi.
Il trattamento anti-ipertensivo, interessantissimo questo, pur
avendo ridotto i valori pressori, non ha comportato una riduzione
della mortalità cardiovascolare.
I dati di altri studi non sono immediatamente trasferibili in quanto non rappresentativi di una realtà.
Voi sapete che una discussione grande che è sul campo adesso
nella medicina basata sull’evidenza, è quanto siano trasferibili al singolo paziente i risultati ottenuti dall’esperimento clinico controllato,
randomizzato.
Sicuramente, nessuno contesta che solo attraverso questi esperimenti si possano ottenere delle risposte, però chiunque sappia qualcosina di Medicina geriatrica, sa che un conto è avere un ammalato
che abbia la sola ipertensione arteriosa, un conto è avere un ammalato di 85 anni che abbia l’ipertensione, l’ipertrofia prostatica, la
334
f. fabris - g. zavateri
bronchite, la cardiopatia, eccetera. Sono due condizioni quasi non
paragonabili ed è proprio un errore.
La stessa medicina sulle prove, sulla quale abbiamo scritto recentemente un articolo, inserisce questa nuova dimensione. ‘‘Si deve
porre attenzione a certe categorie di ammalati che non possono essere considerate di riferimento in quanto entrano pochissimo nel
trial. Caso mai, entrano come casi selezionati. Di contro, ricevono
l’out-put come se fossero tutti degli ipertesi, da manuale. Il che, assolutamente, non è’’.
D’altronde, voi sapete che cosa sia la Cochrane Library. È un po’
una biblioteca di ciò che di più importante e di più serio viene raccolto in Letteratura. Quindi se una notizia va lı̀ dentro, vuol dire che
ha un certo valore.
Siamo riusciti ad entrare una volta o due, con qualche notiziola
ed eravamo felici, ovviamente.
Secondo importanti studi riuniti dalla Cochrane Library, emerge
che si deve essere molto prudenti nel generalizzare. Non tutto, è generalizzabile all’intera popolazione.
In tutti gli Ospedali Maggiori, quello dove noi lavoriamo delle
Molinette, ma sicuramente anche all’Ospedale Civile Maggiore di
Borgo Trento, vengono stilate Linee Guida, ossia si indicano regole
di riferimento per le principali malattie.
Uno degli argomenti affrontati dalle Molinette è l’ictus.
Una delle frasi che compare nel malloppo riguardante l’ictus è
questa che, a me sembra forse perfino un attimo forte, ma in ogni
caso dice: ‘‘Nei pazienti con ictus ischemico’’ – è tratta a sua volta
dalle indicazioni Spread quindi non è inventata a Torino dall’Ospedale – ‘‘con sistolica con oltre i 220, con diastolica non oltre i 120 è
indicato rimandare l’inizio del trattamento anti-ipertensivo di circa
due settimane’’.
Quindi, diciamo che questa pressione come unica cosa brutta, va
anche vista almeno in certe fasi della storia naturale di alcune patologie, come un elemento di facilitazione al flusso da non ostacolare,
ma da lasciar stare possibilmente, cosı̀ com’è.
Un buon geriatra, sa che un rischio grave o gravissimo per il vecchio, è costituito dall’opposto dell’ipertensione.
Naturalmente l’ipertensione è un rischio, non sono certo io a cercare stupidamente di sostenere il contrario, però è anche un rischio
i fattori di rischio ed invecchiamento
335
importante, importantissimo e talora maggiore, il fenomeno opposto. Si cade, si va per terra, ci si spacca il femore, anche e soprattutto, per ipotensione. Una crisi ipotensiva, da pasto, da farmaci, da
quello che volete voi, può interessare una larghissima fetta della popolazione anziana, quella stessa popolazione che è ipertesa.
Ossia, l’iperteso è poi il soggetto che è più esposto al fenomeno
opposto dell’ipotensione.
Qualcosa, adesso, dell’altro fattore di rischio: il colesterolo.
Studiosi olandesi, che pubblicano su The Lancet, dicono che
avrebbero scoperto che a 85 anni, più è alto il colesterolo e più
uno vive. Personalmente sono convinto che sia cosı̀. Mi sembra
che sia assolutamente chiaro quale sia il mio schieramento.
Tengo a sottolineare, che non è in contraddizione, non lo è proprio per niente, dire che se un ragazzo di 30 anni, ha 300 di colesterolo, con ogni verosimiglianza ha un grave fattore di rischio che deve
essere indagato e, nel limite del possibile, aggressivamente corretto.
Diverso il discorso è dire: a 85 anni, ha il colesterolo alto, gli do
le statine o lo sottopongo ad una dieta debilitante, oppure lo lascio
vivere. Questo è il termine fondamentale del problema.
Lo Studio Castel, che come è noto si interessa di aspetti cardiovascolari nell’anziano, ha rilevato dati che è opportuno ricordare.
L’ipercolesterolemia non è risultata un fattore di rischio. Infatti,
la mortalità cardiovascolare dopo 12 anni di follow-up, era uguale
tra iper e normo-colesterolemici. È chiaro ed è stato un po’ proprio
l’inizio del mio intervento. I dati della Letteratura sono importanti,
ma vanno visti, non come la parola del Vangelo cioè immodificabili.
Vanno visti, interpretati, discussi, raffrontati con altri.
Ancora un paio di dati e abbiamo concluso.
Voi sapete che gli Americani, tendenzialmente sono aggressivi,
almeno parlo del colesterolo, poi per altre considerazioni ognuno
tragga le proprie.
Sono aggressivi nei riguardi di questa terapia, però hanno prodotto un documento in cui è abbastanza facile ritrovarsi nelle linee
fondamentali.
Hanno introdotto, rispetto al tasso di colesterolo totale, l’età:
quindi, questo è un dato significativo cioè il numero conta diversamente a seconda dell’età dell’individuo.
Per cui, se l’individuo ha un’età compresa tra i 70 e i 79 anni,
336
f. fabris - g. zavateri
l’importanza della ipercolesterolemia non è rilevante, mentre lo è
certamente per chi ha un’età tra i 20 e i 39 anni. Questo, in sostanza,
è un po’ il ragionamento che cerchiamo di sviluppare assieme.
‘‘Non è oro tutto ciò che brilla’’. Questo detto proverbiale, molto
noto, fa riflettere. In effetti, soprattutto i medici devono davvero abituarsi a vedere la realtà non solo in quello che ci viene mostrato dalla
promozione, ma anche grattando al di sotto. Perché la promozione
legittimamente, promuove alcuni prodotti.
Che cosa possiamo vedere, arrivando a concludere?
Questo non mi crea un aumento di simpatia da parte dell’industria farmaceutica. È, comunque, una realtà da far conoscere.
Sicuramente un’associazione, quindi una correlazione statisticamente significativa, c’è tra i soldi che noi prendiamo dall’industria
e il giudizio che esprimiamo su un farmaco.
È cosı̀, c’è poco da fare, c’è chi si vende per un pugno di lenticchie, chi magari per qualcosa di più importante. Comunque, uno
studio qualificato ha visto che tanto maggiori erano i contributi erogati, tanto più favorevoli erano i giudizi espressi.
Chi legge, penso la maggior parte di voi, ha letto anche che si è
concluso nei giorni recenti, quello che viene considerato il più importante studio clinico sull’ipertensione arteriosa.
È uno studio che ha una caratteristica fondamentale: non è sponsorizzato. Lo sponsor è il National Heart Institute, quindi un organismo di ricerca ‘‘terzo’’. È un istituto che non deve vendere la sostanza.
La conclusione di quanto detto, rivoluziona quello che tutti i
giorni ognuno di noi sente dire. ‘‘Ma usi ancora i diuretici? Usi ancora i beta-bloccanti? Ci sono anche gli ace-inibitori, i calcio-antagonisti, se non i sartani’’.
Lo studio dice che, con gli alfa-bloccanti, aumenta la mortalità,
quindi è stato sospeso per aumento della mortalità mentre tra i farmaci in questione, la protezione maggiore si è riscontrata usando i
diuretici; esattamente l’uso del clortalidone nel progetto sperimentale.
Questo è da sapere, poi uno lo legga come vuole, prescriva quello che vuole, ma se prescrivendo il clortalidone si poteva sentire non
al passo coi tempi prescrivendolo è, invece, aggiornato nella prescrizione medica.
i fattori di rischio ed invecchiamento
337
Cito due frasi uscite a brevissima distanza, sempre per indicare
l’opportunità di una lettura corretta.
La prima affermazione dice: ‘‘Gli alfa-bloccanti sono sicuri ed efficaci nell’abbassare la pressione arteriosa’’. Subito dopo, il mese
scorso: ‘‘La doxazosina, quindi un alfa-bloccante, è stata sospesa come braccio dello studio, in quanto aumentava in modo significativo i
casi di scompenso cardiaco congestizio’’.
Questo la dice lunga sull’opportunità di guardarsi attorno.
Esiste un problema che si affaccia sempre più come importante
per il clinico, ed è il trattamento con gli anti-coagulanti. Qui, credo
che il discorso interessi tutti, ma sicuramente, più quella parte di noi
che prescrive i farmaci, quindi i medici, tant’è che si ritiene quasi
scontato che nella aritmia da fibrillazione atriale vengano somministrati gli anti-coagulanti orali.
Naturalmente, ci sono delle buone, valide ragioni per sostenere
questo tipo di enunciato. Però, avendo fatto una nostra dottoressa
una ricerca, proprio per una presentazione, nella nostra aula Dogliotti, del problema di questo tipo di casistica, ne è uscito un dato
che non è trascurabile.
‘‘Assumendo il warfarin si preverrebbero 23 casi di ictus ischemico in un fibrillante e si indurrebbero 9 casi gravi di emorragia’’.
Si tratta che il medico valuti davvero con estrema attenzione, se
preferire i 9 casi di grave emorragia o i 23 casi di piccoli ictus. In
molti casi, una grave emorragia può essere prognosticamente molto
peggiore di un piccolo ictus, dopodiché può essere giusto l’impiego,
ma è opportuna una riflessione.
Le morti, non sono solo un problema politico, sociale, ma anche
nostro: è un problema che dobbiamo conoscere e in parte contribuire a gestirlo.
Cerchiamo di essere più colti, più istruiti ed invecchieremo meglio e magari si muore più in là.
È cosı̀ su base proprio dimostrata. Chi guadagna di più ed è più
istruito, ha un migliore invecchiamento, sia a livello del sistema nervoso centrale, sia a livello generale.
Ci sono quasi 9 anni di vita di differenza a seconda del lavoro
svolto. Campa di più chi svolge un lavoro intellettuale.
Questo che cosa vuol dire? Non è che tutti si possa fare il professore di Università o altro, però sicuramente 9 anni sono un qual-
338
f. fabris - g. zavateri
cosa che è difficilissimo solo avvicinare attraverso un qualsiasi trattamento farmacologico. Quindi, la prevenzione non può non tenere
conto di questa componente fondamentale che incide indirettamente sulla malattia.
Nelle Unità di Cura Intensiva, ha prognosi migliore, chi ha motivazione per voler guarire. Chi si sente vuoto, isolato, è certamente
penalizzato. Questo aspetto apparentemente slegato, dove non c’entrano forse le piastrine o altro, è un elemento prognostico importantissimo.
C’è una cosa di cui noi medici degli anziani, dobbiamo tenere in
massimo conto, nel limite del possibile. Anche in una malattia in cui
l’evento ischemico, l’ictus, lo stroke, abbia indotto una lacuna più o
meno consistente nel cervello, un recupero che noi possiamo ottenere è proprio nell’istillare in questo tipo di paziente, e tu Grezzana ne
sai qualcosa, credo anche in famiglia, un disegno, una prospettiva,
una ragione per recuperare, per reinserirsi.
Grazie dell’attenzione’’.
G. Zavateri: ‘‘Grazie al professor Fabris, che ha dimostrato chiaramente che nella nostra vita non ci sono certezze e chi pensa di essere
sicuro di qualche cosa, trova subito la smentita.
Il dibattito, ovviamente, è aperto e quindi se qualcuno vuole iniziare può già alzare la mano e vediamo di cominciare la nostra chiacchierata.
Nel frattempo, mi sembra che si possa sintetizzare questa lezione
in tre momenti. C’è stato un primo flash, in cui viene smentita la catastrofica previsione di persone non autosufficienti con l’andare del
tempo.
Questo vuol dire che, probabilmente, la qualità della vita di
noi tutti, avrà in futuro il risultato di avere meno persone handicappate.
Difatti, vediamo che le ultime previsioni dicono che nel 20502060, le persone non autosufficienti non saranno cosı̀ numerose, come si pensava 20 anni fa. Vuol dire che la qualità di vita, di tutti noi
che ci proietteremo in quell’età, è tale che forse saremo in grado di
prevenire la perdita dell’autosufficienza.
Il secondo punto, che ha sottolineato, sarebbe un ulteriore motivo di approfondimento.
i fattori di rischio ed invecchiamento
339
È un ‘‘innamorato’’ il professor Fabris, dell’Assistenza Domiciliare, dell’Ospedalizzazione a Domicilio, ci ha fatto capire che chi è nella propria casa riesce a recuperare meglio, a vivere meglio e avere
una qualità di vita nettamente superiore.
È un discorso valido, giusto, ma che richiederebbe una maggiore
considerazione perché abbiamo, almeno personalmente, la sensazione che, su questo argomento, si faccia tanta confusione, si venda tanto fumo e ne subisca le conseguenze chi sta male.
Non voglio essere provocatorio, però la realtà di Verona, è quella
che prevede nell’anno prossimo, o prevederebbe speriamo di no,
una drastica riduzione dei posti per le persone anziane acute nell’ospedale.
Noi ci battiamo perché l’ammalato, nella fase acuta, trovi posto
nell’Ospedale per Acuti e non giri la Provincia o la Regione e che
abbia il massimo di assistenza in modo da superare la patologia
con minor rischio possibile di perdita di autosufficienza.
Per dirvi, non siamo mai riusciti ad avere come strutture geriatriche, fisioterapisti, dietisti e via di seguito.
Quindi, per qualsiasi persona, soprattutto per l’anziano, è importante che nella fase acuta abbia quei sostegni, quell’assistenza globale
per superare la gravità della malattia e ritornare ad essere quello di
prima.
L’anziano è talmente a rischio che se si perde un giorno, due o
tre, quell’autonomia non la recupera più. Quindi, non si tratta di ridurre i posti per acuti, ma si tratta di migliorare il più possibile questa assistenza in modo che la persona torni nella propria casa, non
vada a parcheggiare in altre strutture in attesa della morte.
Nella cura delle persone anziane occorre professionalità, occorre
cultura, occorre anche una certa arte.
In un paziente con ischemia acuta cerebrale, che abbia 220 di
pressione arteriosa, non si deve intervenire per due settimane, secondo lo studio Spread.
Chi di noi ha il coraggio? Chi lo fa?
Ancora. Il colesterolo a certe età è opportuno rispettarlo, forse se
doveva fare del male, l’avrebbe già fatto prima e probabilmente non
lo farà più.
Allora fa peggio un colesterolo lasciato andare, che il malato
340
f. fabris - g. zavateri
mangi con una certa moderazione ciò che vuole o fare ingoiare qualche medicina per farlo rientrare nella norma?
E che cos’è la normalità?’’
L. G. Grezzana: ‘‘Allora due cose. La prima: mi associo completamente a quanto ribadito da Gaetano Zavateri di fronte all’ipotesi
che si voglia ridurre i posti letto di Geriatria, tanto per essere molto
chiari e tanto per non nascondersi dietro il dito.
Certamente, abbiamo detto e ribadito che curare bene gli anziani
significa prevenire la perdita dell’autonomia.
Curare bene gli anziani vuol dire investire anche da un punto di
vista economico. La relazione del professor Fabris, mi ha ...forse la
parola può essere grossa..., entusiasmato. Certamente la condivido.
Ha sottolineato come, nelle valutazioni successive nel tempo, si è visto che il numero di anziani che perdono autonomia si riduce sempre più.
Probabilmente, perché gli anziani imparano ad invecchiare o
perché noi, forse, impariamo a curarli meglio. Mi sembra che siano
delle sottolineature importanti, ma dicendo ancora, tutto quello che
posso dire di bene su quello che tu hai detto, ti volevo porre una domanda. Ogni volta, ribadisci quel dato in cui si osserva l’importanza
della scolarità sulla spettanza di vita e mi incuriosisce una banalità.
Si parla solo di sesso maschile. È casuale? Spero di sı̀’’.
F. Fabris: ‘‘È uno studio riportato in Francia dall’INSEE che è l’equivalente dell’ISTAT italiano. Effettivamente, riguarda un soggetto
di sesso maschile.
Presumibilmente, è stato fatto anche per le donne, ma quello di
cui sono in possesso io, ormai da tempo, riguarda l’uomo.
Quindi un uomo, mediamente, avrebbe queste attese di vita, a
seconda del lavoro, dell’attività che fa.
Come ho detto mille volte che siano 7-6-9-3 anni, alla fine ha importanza, ma non troppa.
Credo che, invece, l’importanza vera sia costituita dall’essere o
non essere la notizia veritiera. Se la notizia è veritiera, vuol dire
che nelle componenti della longevità di una persona, sicuramente
ci sono infinite condizioni di ordine fisico, psicologico, eccetera,
che possono essere influenzate dal tipo di lavoro. Il lavoro, a sua vol-
i fattori di rischio ed invecchiamento
341
ta, può condizionare, questo mi sembra ovvio, cure migliori, accesso
a servizi più efficienti, diagnosi più precise.
Però, di fatto, rimane il dato duro, crudele, costituito dalla diversa aspettativa di vita, per soggetti che esercitano attività differenti.
Qualcosa di questo tipo, è stato fatto da igienisti di Torino.
Emergono differenze cospicue nell’aspettativa di vita, correlate al lavoro, anche da studi in Romania e in Spagna.
Il fenomeno, sostanzialmente, è abbastanza costante e reale’’.
Dal pubblico: ‘‘Volevo porre due semplici domande al professor Fabris. Lei, giustamente, ha detto che se un anziano arriva alla sua età,
malgrado il colesterolo, malgrado l’ipertensione, eccetera, una ragione ci sarà. Mi piacerebbe conoscerla.
L’altra domanda è sugli studi epidemiologici. Nel Convegno Nazionale dei Geriatri Ospedalieri che abbiamo tenuto a Bologna, il
professor Zuccaro ha promesso che si farà un corso di formazione
ad hoc sull’epidemiologia geriatrica.
Gli studi epidemiologici sulla popolazione anziana, visto che poi
da questi traiamo bene o male delle conclusioni pur perfettibili, sono
dei punti di riferimento.
Le chiedo se debbano avere delle caratteristiche di approccio diverse da quelle degli studi epidemiologici, applicati ad una popolazione giovane-adulta. Grazie’’.
F. Fabris: ‘‘Io credo che le caratteristiche fondamentali non siano diverse.
Ossia, la raccolta dei dati, la preparazione delle tabelle, l’incasellamento dei risultati, devono seguire delle regole di epidemiologia
che rimangono sostanzialmente le stesse.
L’epidemiologia, che non va sopravvalutata, però rappresenta il
primo momento di qualsiasi tipo di indagine. Prima si va a vedere
quanti sono più o meno gli anziani e di quali patologie più frequentemente soffrano.
Poniamo di parlare di fratture del femore. È chiaro che prima si
va a vedere quanti si fratturano il femore, come se lo fratturano, e
poi si andrà a vedere se la densitometria, se il metabolismo fosfo-calcico, se altre costanti differenziavano queste popolazioni.
342
f. fabris - g. zavateri
Quindi, l’epidemiologia ha il ruolo di apri-pista in qualsiasi tipo
di ricerca. Ci potranno essere dei tagli un po’ differenti, a seconda
delle popolazioni che uno vuole studiare. Tagli più corti, tagli più
lunghi, però il metodo rimane tale e quale. La spiegazione biologica
è successiva e costituisce una seconda fase, rispetto all’analisi del risultato epidemiologico.
Quindi, prima la consultazione dei dati, poi l’analisi dei fatti.
Un motivo ipotizzabile è, con ogni verosimiglianza, che un fattore di rischio agisce con un’aggressività ed una penetranza ben diversa ad una certa età, rispetto ad un’altra.
In un’altra età può rappresentare un fattore, lo dico e non
vorrei essere frainteso, anche di compenso e di adattamento per
cui un certo aumento dei valori tensivi, non deve preoccupare
più di tanto.
L’aumento dei grassi, aumento ragionevole dei grassi, alla fine
esprime un grado di nutrizione soddisfacente e quindi, non va inteso
come un fattore rischioso per la persona, ma caso mai, un fattore di
buon equilibrio omeostatico.
Io spero di averle risposto, almeno parzialmente’’.
C. Pasoli: ‘‘Mi complimento per la relazione. Sono interessato a conoscere un po’ di più quali siano i pazienti seguiti in regime domiciliare e se ci sia una differenza rispetto a quelli ricoverati in ospedale. L’altro quesito si riferisce al corretto trattamento in caso di ipertensione. È noto che solo il 25% degli ipertesi viene curato
opportunamente. Nello Studio Castel, la mortalità cardiovascolare
non cambia, ma quella cerebrovascolare cambia?’’
F. Fabris: ‘‘Abbiamo condotto uno studio, finalmente terminato e in
fase di pubblicazione su Jags, in cui al Pronto Soccorso di fronte ad
un ictus ischemico, veniva offerta la possibilità di essere ricoverati in
reparto, oppure che l’equipe ospedaliera andasse a curare questo individuo a domicilio, dopo gli accertamenti necessari.
Il risultato testimonia solo una cosa: quelli che tornano a domicilio, vengono controllati più a lungo nel decorso della malattia. Invece, quelli ricoverati in ospedale e poi dimessi, non sempre venivano seguiti a casa dopo la dimissione.
Questo, a noi come a tutti quelli che si occupano di questo argo-
i fattori di rischio ed invecchiamento
343
mento, sembra un dato positivo la prima soluzione e meno positivo
la seconda.
L’affermazione che gli ipertesi non sono trattati correttamente,
sicuramente, ha una parte di vero.
Io direi che ha solo una parte se ci riferiamo al paziente avanti
con gli anni, perché come abbiamo visto, il vero, l’ottimo che viene
propagandato oggi, è 140 o addirittura 130, 135.
A quel punto, davvero, c’è da domandarsi se sia ottimale o se
non lo sia.
Secondo quel lavoro molto bello di Port, probabilmente non è
l’optimum.
Quando si dice mortalità cardiovascolare, in genere s’intende la
mortalità cardiaca e la mortalità cerebrale.
Quindi il tipo di risposta che mi verrebbe da darti è questa, però
non ne sono assolutamente certo’’.
G. Zavateri: ‘‘Non so se posso intromettermi in queste domande e in
queste risposte esprimendo una mia considerazione.
Qual è per una persona anziana la terapia giusta dell’ipertensione?
Questo è già un punto sul quale penso sarà difficile capirci in
quanto dobbiamo, ognuno di noi, calarci nella realtà di quel paziente.
Se l’ammalato che abbiamo di fronte ha delle placche, che determinano un restringimento del 50-60-70% delle carotidi, se noi abbassiamo quella pressione al valore di 120-130, si avrà un’ischemia
cerebrale. Credo, almeno questa è l’esperienza nostra, che se non
c’è una spinta sufficiente per superare quella stenosi, quel cervello
andrà in ischemia.
Quindi, il problema della ipertensione sul quale dobbiamo ragionare, non è campato per aria.
L’ipertensione è un elemento nella realtà di quel paziente. In
questo contesto, dobbiamo crearci noi dei problemi; quanto sia giusto trattarla, quanto non sia giusto trattarla, quali disturbi si manifestino.
Infatti a 30 o 40 anni l’ipertensione può essere un fattore altamente di rischio, ma a 80 anni, una pressione che tenda a salire
può essere un fattore, entro certi limiti, da rispettare.
344
f. fabris - g. zavateri
Perciò per il problema ipertensione come per il colesterolo ed
altri elementi, secondo me, è difficile dare una risposta generale.
Dobbiamo calarci nella realtà del singolo caso, di volta in volta.
Forse è qui dove sta l’arte della nostra opera, Fabrizio’’.
F. Fabris: ‘‘Il fatto clamoroso che avevo ripreso dalle indicazioni dello Studio Spread di non toccare in fase acuta, fino a 220, può essere
ritenuto esagerato o discutibile.
Questo significa, però, che dei non sprovveduti ritengano che almeno in una fase iniziale della malattia, l’incremento sia finalizzato a
mantenere un livello di flusso accettabile.
Allora se questo è vero, è vero chiaramente in una fase acuta dello stroke ischemico, ma non ci sono ragioni sostanziali per non riflettere che anche in altre circostanze, si possano fare considerazioni
non lontanissime da queste.
Insomma, chi di noi non ha visto crollare per terra dei vecchi e
subire fratture, non perché abbiano la puntata ipertensiva, ma per la
crisi ipotensiva. Il crollo di pressione, si realizza dopo i pasti o per il
caldo o perché farmacologicamente facilitato ed indotto.
Abbiamo detto fino al 30% dei soggetti. Il 30% vuol dire 1 su 3,
quindi non una cosa piccola’’.
G. Zavateri: ‘‘A conclusione di questa ‘‘lettura’’, io non so la tua
esperienza, ma rabbrividisco quando vedo che in certi Pronto Soccorso di fronte a 200 di pressione, viene somministrato un farmaco
sub-linguale. Dopodiché, il paziente viene mandato a casa tranquillamente.
Io, effettivamente, temo queste situazioni’’.
F. Fabris: ‘‘Per me quello che dici tu è musica. Zanatta’’.
A. Zanatta: ‘‘Una brevissima considerazione ed una domanda per
finire.
Ho letto, che l’aspettativa di vita di una donna coniugata, dipenda addirittura dalla condizione sociale del marito.
Quindi, non solo l’uomo ha maggiore possibilità di vita in relazione alla professione, ma anche la moglie in relazione alle abitudini
di vita.
i fattori di rischio ed invecchiamento
345
Giorni fa con Grezzana, si è posto una domanda al dottor Antuono: ‘‘Come mai gli ammalati di Alzheimer, per la fascia di età
di 85 anni, diminuiscono?’’
La risposta si trova nell’effetto coorte ovverosia che chi doveva
morire è morto prima.
È possibile ipotizzare lo stesso effetto anche per il colesterolo,
per l’ipertensione? Nel senso che, avanti con gli anni, classici fattori
di rischio si attenuano’’.
F. Fabris: ‘‘La risposta è chiara: sı̀. È fuori discussione quello che io
intendo dire. Avere 40 anni e avere 200 di pressione, 300 di colesterolo è un dato abbondantemente negativo di rischio che va seguito e,
possibilmente, corretto.
Quello che tu dici è vero. È verosimile che quella popolazione,
non sia quella dei centenari o dei novantenni e che ci sia una riduzione per eventi cardiovascolari o similari.
Nei soggetti molto anziani, si realizzano delle caratteristiche peculiari. Noi dobbiamo conservare e, se possibile, migliorare le loro
condizioni di salute.
A 90 anni iniziare un trattamento con statine, a parte i fatti della
cronaca che conosciamo, non mi sembra opportuno.
A mia conoscenza, non esiste uno studio clinico controllato che
abbia preso in considerazione dei novantenni. Pensiamoci.
Ci sono dei dati da cui si evince che tassi più elevati di colesterolo, ipotizzano una maggiore attesa di vita’’.
G. Zavateri: ‘‘Grazie professor Fabris, grazie a tutti voi per la presenza e la partecipazione’’.
L’ANZIANO E L’URGENZA:
LE DOMANDE E LE RISPOSTE
M. Grezzana, U. Tellini, L. Pellizzari, L. Corrà,
M. B. Beltrame, G. Cecchini, L. G. Grezzana
In tempi di incipiente riorganizzazione del Sistema Sanitario nel
suo complesso e di razionalizzazione delle risorse ospedaliere, in particolare, emerge forte la necessità di identificare un modello efficace
di politica sanitaria rivolta al paziente anziano.
Il ‘‘modello veronese’’ di assistenza all’anziano ammalato, contempla, da decenni, un tipo di Geriatria fondata sulla centralità delle
Divisioni per Acuti nell’ambito del grande ospedale. Queste sono
coadiuvate ed affiancate da una ben strutturata rete di supporto socio-assistenziale e riabilitativo sul territorio.
La sensazione nell’operatività quotidiana è che, tale sistema, rappresenti il livello minimo efficace per rispondere adeguatamente ad
una domanda di salute che, nella nostra città, si dimostra sempre in
aumento e con aspettative ogni giorno più elevate.
Un tessuto sociale economicamente solido, culturalmente progredito, ma anche assai urbanizzato e con un numero di anziani in
crescita esponenziale come quello delle città del nord-est, richiede
un tipo di risposte sanitarie ed assistenziali del tutto peculiari.
Il target del cittadino anziano che si ammala è, quindi, sempre
più quello di un paziente che richiede un approccio medico di elevatissimo livello. Sono ammalati che abbisognano di alta tecnologia.
Allo stesso tempo, è indispensabile una gestione specialistica geriatrica. L’obiettivo finale è che, questi ammalati, rientrino quanto prima a far parte della società civile con il proprio ruolo.
Dinanzi a problematiche clinico-sociali di particolare impegno,
348
m. grezzana, u. tellini, l. pellizzari, l. corrà ...
la Geriatria per Acuti deve essere in grado di indirizzare ad un appropriato percorso extra-ospedaliero.
Questo percorso, impone un livello di professionalità adeguato e
competente.
A seguito di un evento morboso, infatti, la destinazione a strutture ospedaliere di Lungodegenza o di Riabilitazione o di Residenzialità Protetta, quali le Case di Riposo, le RSA e/o le strutture
per terminali, non devono mai essere sostitutive di un appropriato
ricovero in ospedale ad alta tecnologia o di una dimissione a domicilio.
La necessità di meglio inquadrare il paziente geriatrico, che afferisca all’Ospedale Civile Maggiore di Verona, con le sue caratteristiche e le sue esigenze, ha condotto alla realizzazione dello Studio PAPRICA (Percorso APpropriato RICovero Anziani).
Scopo del lavoro è quello di fotografare la realtà personale, clinica e sociale dei pazienti geriatrici. Si cerca di far emergere eventuali condizionamenti capaci di determinare il passaggio dalla condizione di acuzie a quella di post-acuzie e, quindi, il trasferimento presso
Strutture Assistenziali alternative.
È stato condotto uno studio sotto forma di indagine campionaria-standardizzata, che ha analizzato, a date prestabilite, tutti i pazienti degenti nello stesso periodo in due Divisioni di Geriatria
per Acuti dell’Azienda Ospedaliera di Verona.
Lo Studio PAPRICA ha valutato, caso per caso, quale fosse, al
momento della rilevazione, l’esigenza di ogni paziente. Si aveva l’opportunità di scegliere tra le risposte assistenziali possibili, cioè la Geriatria per Acuti, un reparto ospedaliero di Lungodegenza o Riabilitazione, una Struttura Protetta Territoriale o il domicilio.
Il giudizio è stato formulato da alcuni medici geriatri, debitamente istruiti, che hanno valutato tutti i pazienti presenti nei due reparti al momento della rilevazione. Al fine di fornire giudizi uniformi, lo studio è stato preceduto da ampie discussioni, in merito alle
codifiche da adottare.
I criteri che hanno fatto ritenere come risposta migliore possibile
ai bisogni del paziente il reparto di Geriatria per Acuti, sono stati la
presenza di una patologia acuta o una riacutizzazione di patologia
cronica di rilevante peso clinico, la presenza di polipatologia, la condizione di fragilità, l’instabilità o la gravità del quadro clinico, la ne-
l’anziano e l’urgenza: le domande e le risposte
349
cessità di eseguire terapie non gestibili sul territorio, la necessità di
intraprendere un complesso iter diagnostico in tempi brevi.
L’indicazione al trasferimento in Lungodegenza o Riabilitazione,
è stato posto per i pazienti affetti da patologia internistica ben inquadrata, ma a lenta risoluzione, per i pazienti in osservazione internistica post-chirurgica, per i pazienti suscettibili di trattamento fisioterapico di riattivazione motoria, riabilitazione ortopedica o riabilitazione neurologica.
Nei casi in cui, a seguito dell’evento acuto, fosse emerso un difetto di supporto sociale, eventualmente in concomitanza con qualche forma di cronicità, veniva indicata come collocazione più corretta la Residenzialità Territoriale in una delle sue varie forme (Casa di
Riposo per autosufficienti o per non autosufficienti, RSA, Hospice
per malati neoplastici).
Veniva, invece, indicato il domicilio, come migliore destinazione
nel momento della rilevazione, qualora si configurasse la situazione
di prolungamento incongruo della degenza, di ricovero improprio
o di facile gestibilità clinica attraverso le strutture ambulatoriali o
di Day-Hospital.
L’analisi statistica si avvaleva dell’analisi semplice per la determinazione di medie, deviazioni standard e frequenze, test ‘‘t’’ di Student per il confronto fra dati appaiati, test ‘‘F’’ di Snedecor per il
confronto fra più gruppi e test ‘‘chi quadrato’’ per il confronto fra
variabili qualitative.
L’analisi ha portato a delle considerazioni di indiscusso interesse.
Il campione di ricoverati preso in esame, era rappresentato da
637 soggetti con età media di 79.7+7.6 anni. Di questi, il 57% è
rappresentato da femmine ed il 43% da maschi.
Le classi di età più rappresentate sono quelle tra 75 e 79 anni
(23%) e tra 80 e 84 anni (25%). I pazienti con età inferiore a 69 anni
e gli ultranovantenni, sono ugualmente presenti (poco oltre 10%). I
maschi risultano, significativamente più frequenti, nelle classi d’età
inferiore.
La quasi totalità dei pazienti, proviene dal domicilio e, solo il 6%
dei ricoverati, è già istituzionalizzato prima del ricovero in ospedale.
Dato rimarchevole è che la grande maggioranza sia rappresentata da ricoveri urgenti, inviati dal Pronto Soccorso (84%), mentre solo l’8% sono i pazienti accolti con ricovero programmato. La piccola
350
m. grezzana, u. tellini, l. pellizzari, l. corrà ...
quota rimanente, è costituita da trasferimenti da altri reparti internistici o chirurgici.
Oltre la metà dell’acuzie gestita in Geriatria, riguarda una patologia cardiologica, pneumologica o neuropsichiatrica (Figura 1).
Figura 1 - Diagnosi di ingresso negli anziani dello studio.
Questi dati sottolineano come l’attività della Geriatria per Acuti
sia, prevalentemente, indirizzata a gestire il paziente anziano urgente,
sin dall’ingresso in ospedale. Il ruolo di struttura di approdo di casi non
più gestibili o risolvibili dalle altre Divisioni Specialistiche, non appartiene, pertanto, alla cultura ed organizzazione ospedaliera veronese.
La maggioranza dei pazienti analizzati è degente da un periodo
compreso tra 5 e 9 giorni.
Accanto ad una patologia acuta, determinante l’accesso in ospedale, la quasi totalità dei pazienti ricoverati in Geriatria risulta affetta
da patologie croniche di un certo rilievo clinico (numero medio
2.4+1.4) (Figura 2).
Le patologie croniche sono a carico dell’apparato cardiovascolare, neurologico e del sistema endocrino-metabolico (Figura 3).
Le donne risultano affette da un numero di patologie croniche
significativamente maggiore rispetto agli uomini.
La presenza di polipatologia nel paziente anziano con malattia
acuta o cronica riacutizzata, rappresenta, in effetti, un criterio fondamentale per il ricovero elettivo in Geriatria.
A conferma della peculiarità dell’assistenza all’anziano fornita in
l’anziano e l’urgenza: le domande e le risposte
351
Figura 2 - Co-morbilità presente nei soggetti anziani dello studio.
Figura 3 - Tipo di patologia cronica associata nel gruppo di anziani dello studio.
Geriatria, la ‘‘fotografia’’ dei degenti fa emergere una durata media
di ricovero, al momento del rilievo, di 9.4 giorni, dei quali, mediamente, solo 3.3 di allettamento.
È interessante osservare come ben il 41% dei ricoverati, non abbia trascorso nemmeno un giorno interamente a letto.
Primario obiettivo dello specialista geriatra, deve essere la prevenzione della perdita di autonomia, scongiurando la cascata di
352
m. grezzana, u. tellini, l. pellizzari, l. corrà ...
eventi clinicamente rilevanti, evenienza assai frequente in caso di approccio specialistico settoriale.
La presenza di complicanze clinicamente significative, nel nostro
campione, risulta contenuta in una quota esigua (13%), quasi sempre rappresentata da un singolo evento.
La popolazione di ricoverati appare eterogenea per grado di
autonomia. La metà dei pazienti, infatti, risulta autonoma in modo
completo o soddisfacente, mentre circa un paziente su quattro, è totalmente dipendente ed i maschi, come è ovvio attendersi, sono globalmente più autonomi rispetto alle femmine (Figura 4).
Figura 4 - Grado di autonomia nei soggetti anziani dello studio.
Per quanto riguarda il grado di protezione familiare, anche in
questo caso, a fronte di una alta percentuale di soggetti ben inseriti
in una rete di supporto, emerge con alto significato statistico la condizione svantaggiata delle donne rispetto agli uomini (Figura 5).
Il dato si giustifica con le note caratteristiche demografiche attuali, ove si evince che le donne in età geriatrica sono spesso vedove,
sole e sempre più anziane.
Dei 637 casi analizzati, l’80% presenta un quadro di acuzie,
mentre il rimanente 20% ha superato la fase acuta.
Di questi, circa la metà (10% del totale) risulta affetto da patologia internistica a lenta risoluzione o necessita di trattamento riabilitativo. Un quarto (5% del totale) è in iter di istituzionalizzazione ed
un altro quarto (5% del totale), potrebbe essere avviato al proprio
domicilio.
l’anziano e l’urgenza: le domande e le risposte
353
Figura 5 - Grado di protezione familiare/sociale nei soggetti anziani dello studio.
La durata della degenza, al momento della rilevazione, è legato
in modo altamente significativo con la collocazione ottimale del paziente. Gli ammalati più acuti sono, infatti, ricoverati da poco meno
di 8 giorni. I pazienti dimissibili che abbiano superato la fase acuta,
ma che necessitino ancora di ulteriori cure ospedaliere, sono i ricoverati da oltre 16 giorni. I pazienti che necessitino di istituzionalizzazione, sono ricoverati da 13 giorni.
Ciò che emerge con una rilevanza statistica eclatante, è la correlazione tra ricoveri prolungati e necessità di strutture alternative (Figura 6).
Il dato suggerisce che, anche e soprattutto in Geriatria, la durata
del ricovero correla in modo inverso con l’appropriatezza del ricovero stesso.
Non emerge, invece, alcuna relazione statisticamente significativa fra collocazione ottimale e numero di patologie croniche e/o diagnosi di ammissione.
In altre parole, nel giovane si deve ricorrere ad una fitta rete di
servizi per affrontare una compromissione globale dello stato di salute. Nell’anziano, si deve ricorrere a questi servizi, non solo perché
esiste la grave compromissione dello stato di salute, ma soprattutto
perché entrano in gioco variabili di tipo sociale o funzionale.
354
m. grezzana, u. tellini, l. pellizzari, l. corrà ...
Figura 6 - Correlazione fra durata della degenza e struttura adeguata.
Risultano, in genere, più elevati i giorni di allettamento nei pazienti destinati alla Lungodegenza o alle Strutture Protette, rispetto
ai dimissibili a domicilio e agli acuti (Figura 7).
L’analisi statistica non fa emergere alcuna influenza del sesso sulla collocazione ottimale dei pazienti, mentre pone in evidenza una
certa rilevanza statistica nella connessione tra classi di età e destina-
Figura 7 - Correlazione fra giorni di allettamento e struttura adeguata.
l’anziano e l’urgenza: le domande e le risposte
355
zione ottimale. Per i pazienti più anziani sembra, infatti, aprirsi un
maggior ventaglio di ipotesi alternative, successive al ricovero in ambiente per acuti, di quanto non accada con le fasce di età meno avanzate.
I fenomeni a cascata che, spesso, interessano i pazienti anziani
ospedalizzati a seguito di un fatto acuto, sono responsabili di una repentina ed inarrestabile perdita di autonomia.
Il verificarsi di eventi a cascata durante il ricovero, sembra condizionare pesantemente il destino dei pazienti del nostro studio, rendendo evidente, per costoro, l’importanza di poter disporre di strutture alternative nella post-acuzie (Figura 8).
Figura 8 - Correlazione fra insorgenza di complicanze e struttura adeguata.
Emerge, inoltre, una forte correlazione statistica tra grado di
autonomia e necessità assistenziali. Col crescere della dipendenza,
aumenta la necessità di ricorrere a strutture per post-acuti (Figura 9).
Anche il livello di protezione familiare, incide in modo altamente
significativo sulla corretta collocazione dell’anziano ammalato. I pazienti più soli, sono anche quelli che verranno più probabilmente indirizzati ad una qualche Struttura Protetta. Un supporto sociale presente, ma non ottimale o non completamente affidabile, pare rappre-
356
m. grezzana, u. tellini, l. pellizzari, l. corrà ...
Figura 9 - Correlazione fra grado di autonomia e struttura adeguata.
sentare la principale causa di permanenza in ospedale per coloro che
sarebbero dimissibili (Figura 10).
Figura 10 - Correlazione fra protezione familiare e struttura adeguata.
l’anziano e l’urgenza: le domande e le risposte
357
L’istantanea, che si ricava dal presente lavoro, conduce quindi
alle seguenti conclusioni:
. Ciò che, dal punto di vista statistico, non correla con il bisogno di
strutture alternative alla Geriatria per Acuti nel post-ricovero, è il
sesso, il tipo di patologia acuta che ha determinato l’ospedalizzazione ed il numero di patologie croniche coesistenti con il problema acuto.
. Le uniche variabili non modificabili che rendono necessario il ricorso a Strutture per post-acuti, come era lecito attendersi, sono
l’appartenenza alle classi di età più avanzate e la carenza di protezione familiare o di supporto della rete sociale.
. Ad influenzare maggiormente il viraggio dei pazienti da una condizione di urgenza medica verso la necessità di poter disporre di
strutture di Lungodegenza o Riabilitazione o di Residenzialità Protetta territoriale, sono soprattutto la durata del ricovero ed il grado
di autonomia.
Il contenimento dell’uno e la conservazione dell’altro, risultano
essere, pertanto, i primi presidi di intervento per arginare il problema della dipendenza e dell’emarginazione sociale.
Anche il tempo di allettamento e la comparsa di complicanze
sembrano correlare, seppur con una minore forza statistica, con la
necessità di ricorrere a strutture alternative nella post-acuzie.
Lo studio dimostra che le caratteristiche storicamente peculiari
della Geriatria, quali la dimissione precoce, il mantenimento dell’autonomia, la prevenzione dell’allettamento e delle complicanze da
ospedalizzazione, rappresentano a tutti gli effetti, i presidi più efficaci nel contenere la richiesta di istituzionalizzazione o di ricovero in
strutture di Lungodegenza.
LA SALUTE DELL’ANZIANO
FRA SANITÀ E SOLIDARIETÀ
S. M. Zuccaro - M. Grezzana - G. Gortenuti
L. G. Grezzana: ‘‘Voglio ringraziare voi e vi ringrazio con tutto il
cuore perché il successo di questi incontri, di questa Scuola, io lo devo soprattutto a voi. Ed è proprio come segno di ringraziamento che
ho voluto che ci fosse per tutti una copia de ‘‘Il Fracastoro’’ sugli incontri tenutisi in precedenza. Anche le lezioni di quest’anno saranno
raccolte ne ‘‘Il Fracastoro’’.
Vi prego di leggere questi appunti. Sono fatti con passione.
Tutto ha un costo economico e di fatica. Mi riesce di fare tutto
questo, poiché la vostra presenza mi motiva e mi supporta.
Io non rubo più tempo e lascio la parola al mio amico Giacomo
Gortenuti. Prego Giacomo, che darà poi la parola a chi di dovere’’.
G. Gortenuti: ‘‘Il tema di oggi è ‘‘La Salute dell’anziano fra Sanità e
Solidarietà’’. Il mio compito è innanzitutto quello di presentare gli
oratori.
Abbiamo un giovane, Matteo Grezzana, che penso tutti noi conosciamo. L’altro giorno mi ha inviato il suo ‘‘curriculum’’.
Pensavo fosse un ragazzino ed invece ho scoperto che ha già 8
anni di laurea e 5 anni di specializzazione. Ha già fatto molte cose
importanti, ha avuto un’esperienza significativa in un reparto di
Lungodegenza. Attualmente, lavora in un nostro reparto di Geriatria
per Acuti. È membro di Società Scientifiche ed ha partecipato all’organizzazione di Congressi Nazionali di Geriatria. È autore di numerosi lavori scientifici, alcuni dei quali comparsi sulla rivista nazionale
Geriatria.
Devo dire, come rapporto personale con Matteo, che quando ho
360
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
avuto problemi di tipo conoscitivo su alcune problematiche geriatriche, mi sono rivolto a lui ed è stato sempre chiaro nelle risposte perché, forse, abituato a trattare con gli anziani, con grande pazienza e
competenza.
Il secondo oratore, è una persona che ha ormai una notevole
esperienza. Si è laureato nel ’75, si è specializzato in Geriatria e
in Cardiologia. Tutta la sua carriera l’ha svolta a Roma, presso l’Ospedale Israelitico, dove dall’89 è primario geriatra.
Dal 2002 è Presidente Nazionale della Società Italiana dei Geriatri Ospedalieri. Dal ’92 è Officiale Sanitario del Vaticano.
I relatori di oggi sono, particolarmente adatti a svolgere il tema
di questa sera.
Voi sapete, penso di non dire banalità, che attualmente la popolazione sta cambiando. C’è una speranza di vita che si sta allungando
sempre di più, si riducono le nascite e quindi cambia il sistema sociosanitario. Mutano, di conseguenza, le esigenze e le risorse devono essere indirizzate in determinati campi.
Per l’anziano, l’ospedale non può più essere il centro di assistenza che c’era una volta, ma deve essere integrato con altre funzioni
soprattutto con il Territorio, cioè la famiglia, gli amici, i volontari,
i Servizi Sanitari. Non è facile organizzare questo, perché le risorse
non sono infinite.
I Progetti Regionali, almeno per quello che è di mia conoscenza,
sono un po’ disomogenei e diversi da regione a regione e da città a
città.
Le risorse, devono essere indirizzate soprattutto a pazienti o ad
anziani, cosiddetti, target. Ci sono, infatti, ultrasettantacinquenni
che sono in perfetta forma, che fanno sport e c’è, invece, una percentuale che varia dal 15 al 30%, che è costituita da anziani fragili.
Cosa intendiamo per anziani fragili?
Intendiamo pazienti che sono affetti da patologie croniche invalidanti ed hanno, in più, problemi socio-economici. È qui che noi
dobbiamo indirizzare la nostra attenzione.
A Matteo chiedo: ‘‘Qual è la situazione a Verona, riguardo il problema socio-sanitario per l’anziano e qual è la progettualità per la nostra città?’’
Al professor Zuccaro chiedo: ‘‘Qual è la situazione in Italia e, vi-
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
361
sto che sei responsabile di molte iniziative, qual è la progettualità per
superare queste difficoltà molto importanti?
Grazie. Prego Matteo’’.
362
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
M. Grezzana: ‘‘Un saluto a tutto voi, un grazie al dottor Gortenuti.
Affrontare il tema di questa sera, significa trattare un problema difficile, che è quello della tutela del diritto alla salute.
La storia della programmazione politico sanitaria affonda le sue
radici, lontano nel tempo.
A Londra, nel 1600, in occasione di una delle tante epidemie di
peste, per la prima volta, ci si è posti il problema di operare le scelte
più corrette possibili nell’interesse della collettività.
Da allora ad oggi, di strada ne abbiamo fatta senz’altro molta,
ma allora come oggi, cercare di ‘‘fare sanità’’ significa cercare di portare giovamento alla salute di tutti.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, già da qualche tempo,
ha stabilito con chiarezza, quali devono essere le prerogative dell’assistenza geriatrica migliore possibile, che deve riconoscere nella globalità, nell’intensività e nella continuità, le sue caratteristiche peculiari.
Quindi, proprio nell’intersezione che si crea fra il mondo sanitario e il mondo della solidarietà sociale, noi dobbiamo collocare ‘‘l’universo anziano’’ con tutte le sue problematiche.
Ma quanti sono gli anziani di cui ci dobbiamo occupare e preoccupare? Non voglio annoiarvi con dati demografici, che avete sentito
decine di volte, mi limito, quindi, soltanto a ricordare che a Verona
già 1 cittadino su 4 è in età geriatrica e dobbiamo aspettarci, nel giro
di alcuni anni, che 1 su 10 sarà ultraottantenne. Importante, è anche
chiedersi come siano questi anziani.
Questi anziani ci sono stati descritti dall’ISTAT alcuni mesi fa, i
dati sono recenti. L’ISTAT ha evidenziato quali fossero le condizioni
degli ultrasettantacinquenni. Gli ultrasettantacinquenni, in Veneto,
si ‘‘sentono malati’’ in 1 caso su 4.
Il dato è un po’ più confortante rispetto alla media italiana, ma
ha la sua importanza. È rilevante la percezione soggettiva di salute,
piuttosto che quello che i medici pensano dei pazienti. Dato incontrovertibile è che, considerando sempre gli ultrasettantacinquenni, il
28% è affetto da una qualche forma di disabilità. Anche in questo
caso andiamo un po’ meglio nel Veneto, rispetto all’Italia. Ciò che
forse è un po’ più allarmante, è considerare che presi tutti i settantacinquenni con qualche forma di disabilità, dobbiamo sempre ricordare che nel 40% dei casi vivono soli.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
363
Lo chiamiamo il ‘‘Modello veronese di Sanità per l’Anziano’’, ma
soprattutto, gli altri cominciano a chiamarlo il ‘‘Modello Veronese di
Sanità per l’Anziano’’.
È il risultato di lunghi anni, durante i quali la nostra città ha fortemente creduto ed investito nella Geriatria portandola ad essere un
esempio da esportare, possibilmente, in altre realtà meno fortunate.
Un esempio, diciamo, che mai e poi mai dovrà essere smantellato in
nome di improbabili razionalizzazioni economiche.
Verona sembra anche aver anticipato ciò che poi ha raccomandato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in merito alla Geriatria
e per quanto riguarda la globalità. Credo valga la pena dire qualcosa
in più.
La globalità va intesa come l’approccio olistico al paziente geriatrico, cioè considerandolo nella sua interezza. La globalità deve essere considerata come la possibilità e la capacità di far fronte a tutti i
bisogni sanitari degli anziani. O meglio, far fronte ai bisogni sanitari
di tutti gli anziani.
In questo senso, l’Azienda Ospedaliera di Verona è sicuramente
un’isola felice, in quanto ha assegnato 180 posti letto per Acuti alla
Geriatria, a fronte di 511 posti letto distribuiti per tutte le altre discipline internistiche. Questo dato comprende sia l’Ospedale Policlinico che l’Ospedale Civile Maggiore.
Per quanto riguarda l’Ospedale Civile Maggiore, il dato è forse
ancora più interessante. Questo è un ospedale del quale noi andiamo
molto fieri. È un ospedale come vorremmo fossero tutti gli ospedali,
dove a fronte di una Geriatria forte, con il 36% dei posti letto di
area medica, coesistono pressoché tutte le altre specialità internistiche ad alta tecnologia.
Questo comporta almeno due tipi di vantaggi.
Da un lato il paziente geriatrico si può cosı̀ giovare del massimo
delle competenze mediche disponibili ad oggi, ad esempio, ove necessario, su consulenza.
Dall’altro canto, dovrebbe consentire ai colleghi internisti di altre discipline, di potersi occupare in modo più dedicato, ai pazienti
che sono specificamente a loro indirizzati.
Gli indicatori di attività parlano chiaro, dicono che è una scelta
che premia. Infatti il 36% erano i posti letto della Geriatria, 35%
364
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
sono i ricoveri che nel 2002 la Geriatria ha fatto nell’ambito dell’area
medica.
Questo sta a significare, quantomeno, che la degenza media in
Geriatria non è superiore alla degenza media di tutto il resto dell’area medica, considerata nel suo insieme.
Il paziente geriatrico, come si sa, si caratterizza in modo particolare per la polipatologia ed uno studio condotto in una Divisione del
Dipartimento di Geriatria su 2.500 ricoveri consecutivi, ha confermato con forza questo dato. Solo nell’8% dei casi, si è visto che i
pazienti sono stati accolti per una sola patologia acuta, ma nella maggioranza di casi, il 92%, i pazienti presentavano contemporaneamente più patologie acute a giustificare il ricovero.
L’ammalato anziano acuto o che si riacutizzi, spesso, ha anche
problematiche croniche. In effetti, i nostri pazienti presentano una
polipatologia cronica.
Sull’intensività, riteniamo che Verona abbia poco da imparare.
La Geriatria Intensiva, è sempre stata la bandiera. In effetti, anche in questo caso è interessante cogliere quali siano i dati di attività
dell’area medica della nostra Azienda.
Quello che va sottolineato, è che le specialità mediche diverse
dalla Geriatria, lavorano per una quota pari al 44%, con ricoveri urgenti provenienti dal Pronto Soccorso. Questo sta a significare che la
grande parte delle loro attività è dedicata a pazienti accolti con ricovero programmato quindi, caso mai, differibile nel tempo.
La Geriatria, invece, lavora sostanzialmente solo con i pazienti
urgenti. Infatti, l’85% di tutti gli ammalati che vengono ricoverati
in Geriatria per Acuti, proviene dal Pronto Soccorso. Questo dato
viene confermato ogni anno.
Per sottolineare ancora di più quanto stiamo dicendo, è interessante vedere quale sia il destino che viene dopo il Pronto Soccorso.
Quando un paziente si reca al Pronto Soccorso e deve essere ricoverato in ambiente internistico, per oltre il 52% dei casi, viene ricoverato in Geriatria. Voi capite quale sia la mole di lavoro e quale sia il
rapporto di collaborazione stretta che c’è fra la Geriatria e il Pronto
Soccorso dell’Ospedale Civile Maggiore.
La continuità. La continuità esiste a Verona ed è importante. Però, riteniamo che alla continuità debba esser dato anche il giusto peso. Infatti, è fuori discussione che l’esito del ricovero in una divisione
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
365
per acuti sia, nella grandissima maggioranza dei casi, la dimissione a
domicilio. Questo, lo dobbiamo sempre tenere presente.
Solo il 5%, dei pazienti ricoverati in Geriatria, esita nel trasferimento in una struttura di Lungodegenza riabilitativa. Questo a significare che, probabilmente, il paziente lungodegente è un paziente ‘‘di
nicchia’’ all’interno del grande mare dei pazienti geriatrici.
Ho anche avuto la possibilità di imparare, in tre anni di lavoro in
un reparto di Lungodegenza, che, forse, la Lungodegenza va considerata una specialità della Geriatria, senz’altro con numeri enormemente più piccoli.
Anche quello che abbiamo appena detto, è stato confermato da
un altro studio condotto nell’ambito di una delle divisioni di Geriatria. In questo studio, si è andati a cercare quale fosse la soluzione
ottimale alla dimissione, indipendentemente, dal destino reale del
paziente.
Questo studio, condotto con grande rigore scientifico, ha fondamentalmente espresso la realtà anche in questo caso. L’85% dei pazienti, quindi quasi tutti, trovava nella dimissione a domicilio, la soluzione migliore. Soltanto un 15% si poteva giovare di una istituzionalizzazione definitiva in casa di riposo o, temporaneamente, in una
struttura riabilitativa come la RSA.
La perdita dell’autonomia, in associazione all’assenza di protezione familiare, deve essere considerata l’unica reale indicazione alla
istituzionalizzazione. Quello che voglio sottolineare, è che la perdita
dell’autonomia e l’assenza di protezione familiare sono condizioni
necessarie, ma prese singolarmente, non sufficienti ad indirizzare il
soggetto in casa di riposo.
L’autonomia è un problema importante, perché noi medici,
spesso, non la consideriamo e commettiamo l’errore frequente di
non calcolare che lo stato di autonomia potrebbe modificarsi nell’arco del tempo, anche di poco tempo.
Ci ha un po’ fatto mettere i piedi per terra lo Studio ILSA quando, recentemente, ha pubblicato i dati di un’indagine condotta su
5.000 anziani autonomi alla partenza, che sono stati seguiti per 3 anni. Ebbene, il risultato è abbastanza sorprendente perché dopo 3 anni, dei 5.000 autonomi alla partenza, il 18% è diventato parzialmente dipendente ed il 4% lo è diventato in modo totale.
Allora, l’obiettivo sanitario che noi tutti dovremmo sempre avere
366
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
di fronte, deve essere quello di prevenire la definitiva perdita di
autonomia e, allo stesso modo, l’obiettivo assistenziale, socio-assistenziale, deve essere quello della permanenza a domicilio.
Entra in gioco, quindi, la solidarietà che, secondo la più classica
delle definizioni, è ‘‘la coscienza operante di partecipare ai vincoli di
una comunità, è condividere con azioni di sostegno morale e materiale’’ (Devoto-Oli).
Io trovo più pregnante la definizione che dà un noto sociologo
belga Loriaux.
Dice: ‘‘La solidarietà è la comprensione del destino dell’altro, è la
sua collocazione nel nostro orizzonte esistenziale quotidiano’’.
In altre parole, non dobbiamo far finta di non vedere chi è in
difficoltà. Solidarietà, significa avere bisogno degli altri e la solidarietà riguarda i vecchi, ma riguarda anche i bambini. Sia i vecchi sia i
bambini, hanno bisogno degli altri.
C’è stato un tempo triste, in cui i bambini più sfortunati venivano abbandonati, appena nati, magari in fasce, davanti agli usci delle
chiese. Erano i tempi dell’infanzia abbandonata, che non esiste quasi
più. Non vorremmo si dovesse parlare in futuro della vecchiaia abbandonata.
Per i bambini sono state fatte delle conquiste sociali importanti, i
più sfortunati, una volta, andavano in orfanotrofio.
Oggi c’è la casa famiglia. Per quelli che non possono essere seguiti costantemente nell’arco della giornata dai genitori, si cerca la
baby-sitter. Difficilmente, si ricorre al collegio.
E per i vecchi? Per i nostri vecchi che cosa facciamo?
La domanda che ci si è posta nell’arco degli ultimi anni, nell’arco
degli ultimi lunghi anni, è stata se la solidarietà sociale più corretta
fosse quella di indirizzare verso la permanenza a domicilio o verso
l’istituzionalizzazione.
Questa seconda soluzione comporterebbe la costruzione di strutture protette, le case di riposo, le RSA e quant’altro.
Credo che la domanda si possa porre anche in questi termini: ‘‘È
più giusto tutelare la libertà, magari correndo anche qualche rischio
dal punto di vista sanitario o è più giusto essere protetti? Ma la protezione, finalizza la libertà individuale?’’
A questo punto, ho pensato che fosse giunto il momento di
esprimere un’idea forte, nella quale credo con convinzione.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
367
È davvero tempo di dire no alle strutture di passaggio verso la
morte annunciata. Sono quelle strutture dove il paziente, il cittadino,
chiamatelo come volete, l’ospite lo chiamano, entra e quando entra
lucido, si rende conto che verrà dimesso soltanto al momento del
trapasso.
Noi vorremmo che, in altre parole, ci fossero meno istituzioni e
più habitat, più habitat naturale. Vorremmo che fossero tutelate le
nostre radici.
Ma partiamo da una situazione favorevole, perché la solidarietà
in Italia è a un buon punto. Lo è sempre stata.
L’Italia è sempre stato un paese solidale e, infatti, ancora oggi è il
paese con il minor numero di case di riposo d’Europa. Ce ne rallegriamo davvero e speriamo che rimanga cosı̀, anche perché è il paese
dove l’80-90% dei dementi è assistito a casa, ma è la solita Italia.
A fronte di un Piano Sanitario Nazionale che raccomanda con
forza quanto sia importante sviluppare l’assistenza socio-sanitaria e
la permanenza a domicilio, la realtà è ben diversa. È una realtà fatta
da una percentuale ridicola.
Soltanto il 20% dei Comuni, ha attivato l’Assistenza Domiciliare
Integrata e soltanto lo 0,3% del Prodotto Interno Lordo è destinato
ai servizi sociali. Per questo, ad ogni angolo di strada e ad ogni minuto, si configura lo spettro dell’abbandono sociale, che ha sicuramente la forma del vecchio segregato in istituto. Attenzione, però,
perché l’abbandono sociale può configurarsi anche nel vecchio relegato in casa.
Non vogliamo né l’una né l’altra, le temiamo fortemente entrambe.
Per evitare e scongiurare questo pericolo, sappiamo tutti che la
soluzione si trova solo in famiglia. La famiglia è il nucleo fondamentale, che è sempre stato in grado di farsi carico di tutte le situazioni
ove lo Stato non sia riuscito ad arrivare. Ma la famiglia di oggi è una
famiglia che è cambiata. È passata dalla famiglia allargata di un tempo, dove c’era classicamente un nonno con molti nipoti, alla famiglia
allungata di oggi dove, spesso, coesistono i bisnonni e i pronipoti.
Sono più generazioni a confronto rispetto al passato e, ciascuna
generazione è costituita da un piccolo numero di soggetti. È la famiglia che si regge sui sessantenni. Questo è il dato nuovo.
I sessantenni di oggi, sono completamente cambiati, perché per
368
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
la prima volta nella storia, si trovano ad essere una volta su 5 ancora
figli. Hanno i genitori in un numero davvero grande di casi e, oltre
che figli, sono spesso anche genitori o nonni. Infatti, sono sempre
loro che si fanno carico sia dei propri genitori, che dei figli e dei nipoti in molti casi.
È chiaro, che non possiamo fare fede sulle spalle di questi sessantenni molto forti. Dobbiamo capire che loro hanno, più volte, lanciato un grido di allarme e ci hanno fatto capire che l’offerta socio-sanitaria cosı̀ com’è, non basta.
Per fortuna, l’Italia è un paese di gente fantasiosa e, nei momenti
di difficoltà, gli italiani riescono sempre a tirare fuori ‘‘il coniglio dal
cilindro’’. L’hanno fatto anche questa volta e si sono inventati le badanti. Le badanti erano una realtà che solo pochi anni fa non si era
neanche ipotizzata, ma che è diventata molto importante al giorno
d’oggi. Mi piace dire che sono ‘‘la luce dell’Est’’ dei nostri vecchi.
Sono, classicamente, donne di età compresa fra i 30 e 40 anni.
Hanno un buon livello culturale, di solito provengono dalle Repubbliche dell’ex blocco sovietico e, soprattutto, hanno dedizione
esemplare al compito delicatissimo che a loro viene affidato.
Per tutti questi motivi, credo che si possa parlare, anche per
quanto riguarda la solidarietà, di un ‘‘modello veneto’’.
È il Veneto ‘‘bianco’’, il Veneto cattolico che ha saputo interpretare, forse, i messaggi più difficili.
In effetti, a fronte di circa 25.000 soggetti che sono già istituzionalizzati, per i quali fondamentalmente non c’è più nulla da fare, ce
ne sono 20.000 in Assistenza Domiciliare Integrata. Ancora più bello
è vedere che 21.000 sono assistiti dalle badanti, ma non sono tutti
qui perché 15.000, la badante la stanno cercando.
La Regione Veneto sembra aver recepito le indicazioni della società reale ed, infatti, ha, come voi saprete, recentemente stanziato 5
milioni e mezzo di euro per le famiglie con badanti in regola. È un
dato estremamente importante e, credo, sia un segnale politico da
cogliere con grande gioia.
C’è un altro aspetto forse più curioso, ma altrettanto significativo: la Regione Veneto ha portato avanti un progetto pilota per formare le badanti sul posto, in maniera che possano arrivare qui, già
competenti. Questo progetto pilota prevede una stretta collaborazione fra Venezia e San Pietroburgo.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
369
Ci sono altre iniziative d’avanguardia, in Europa, che meritano
di essere prese in considerazione perché tutte hanno come fine ultimo quello di cercare di scongiurare l’ingresso in casa di riposo.
Ad esempio, in Inghilterra sono state costituite le ‘‘Comuni’’, un
po’ forse, sulla falsariga di quello che avevano inventato i giovani sessantottini qualche tempo fa. I risultati, allora, erano stati un po’ deludenti. Oggi, invece, i vecchi hanno fatto di meglio. Comunità di
questo tipo, ne hanno realizzate 1.200 in Inghilterra e l’età media
di chi afferisce si aggira sui 90 anni. Con il meccanismo dell’‘‘autoaiuto’’, questi soggetti sono riusciti a rimanere nella vita reale. Sono
riusciti a non entrare in casa di riposo.
In Francia, c’è l’affido familiare sulla falsariga di quello che già
conosciamo per i bambini.
C’è un dato in più però: lo Stato, in questo caso, è disposto a pagare le famiglie che si prendono in casa un anziano bisognoso.
In Belgio ci sono le ‘‘case canguro’’, nome curioso. Tale nome
non sta a significare altro che una soluzione abitativa di una certa dimensione, all’interno della quale esiste un nucleo più piccolo ed indipendente.
In tal modo, possono vivere anziani non del tutto autonomi e famiglie di badanti, di caregivers. È una soluzione che tutela l’indipendenza e la privacy. Viene chiamata strategia dell’attenzione. Con
questa strategia dell’attenzione, succede che i vecchi possono usufruire dei servigi della famiglia giovane, ma contemporaneamente,
possono anche fare da baby-sitter ad eventuali bambini della famiglia che hanno accanto.
Anche in Italia c’è qualcosa di originale. È stato realizzato in provincia di Modena, in un paese che si chiama Camposanto. Malgrado
il nome sia infelice, la gente di quel paese ha avuto un’idea intelligente. È stata istituita la Casa Famiglia imparando di nuovo da quello
che era stato fatto nelle politiche sociali per i bambini. Anche in questo caso, sembra funzionare bene l’esperimento. I residenti sono
4.000. Nessuno è in casa di riposo.
Inoltre, ci sono alternative interessanti che sono i Centri Diurni
Integrati, l’accoglienza temporanea di sgravio alla famiglia, i soggiorni climatici in località amene. Attenzione, però, perché queste sono
situazioni dove si può spesso configurare l’altissimo rischio di ‘‘parcheggio’’ del nonno che è diventato scomodo.
370
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
Il ’99 era l’anno mondiale dell’anziano, lo slogan era: ‘‘Una Società per tutte le età’’. Lo sottoscriviamo, ci piace, però vorremmo
anche aggiungere che questa società dovrebbe imparare ad educare
ad una profonda integrazione generazionale per il futuro.
Giovani e vecchi devono imparare a stare insieme gomito a gomito, nel mondo del lavoro innanzitutto, nel mondo del tempo libero, direi nella società reale, quella di tutti i giorni in senso lato.
Ma deve anche insegnare una cosa nuova che si chiama solidarietà intra-generazionale. Dobbiamo essere in grado di insegnare ai vecchi, che lo possono fare, ad aiutare i loro coetanei più sfortunati.
Ebbene, io voglio concludere con un’affermazione forte. Per
qualcuno potrà essere un pugno nello stomaco, mi scuso, però trova
la sua ragione d’essere nell’autorevolezza di chi l’ha espressa.
Un importante gerontologo di scuola anglosassone, Kane, ha
avuto il coraggio di dire: ‘‘Le case di riposo sono figlie bastarde delle
case di carità e degli ospedali. Sono spesso l’ultima spiaggia. Lo stereotipo è quello di un luogo brutto, puzzolente, popolato da persone
fragili e spesso dementi. Molte di queste strutture, potrebbero essere
paragonate ai vecchi manicomi’’.
Questa frase la faccio mia, vorrei che diventasse un documento,
un monumento alla memoria di una realtà che non si dovrebbe più
ripetere.
L’ultima, è davvero una provocazione, che nasce da due dati di
fatto reali. È fuori discussione, invero, che l’aspettativa di vita aumenti sempre di più ed è altrettanto vero che l’età della vecchiaia
sia sempre più lontana nel tempo, perché una volta si diventava
vecchi a 50 anni. Oggi a 75, in molti casi, ci si sente e si è ancora
giovani.
Allora, forse, non è vero che la popolazione occidentale stia invecchiando. Forse sarebbe più corretto dire che sta ringiovanendo.
Vi ringrazio’’.
G. Gortenuti: ‘‘Bravissimo Matteo, hai tenuto veramente una relazione splendida e penso che darà spunto ad una discussione. Adesso
do la parola al professor Zuccaro. Prego’’.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
371
S. M. Zuccaro: ‘‘Buona sera a tutti. Il mio compito, a questo punto,
diventa enormemente complesso, vista la capacità di speculazione e
di comunicazione che ha Matteo Grezzana. Evidentemente i geni,
come al solito, non mentono.
La genetica è ormai alla base di tutto e da un Luigi Grezzana,
che io considero tra i più grandi geriatri italiani, non poteva che nascere un altro grande geriatra. Ringrazio Luigi d’avermi voluto qui,
in questa splendida città che amo molto.
È la città di Catullo, di Giulietta, la città dell’amore, che traspira
amore ad ogni angolo.
Bene, dicevo grazie Gigi, perché è veramente una grande occasione che mi dai di esser qui oggi, con una platea cosı̀ vasta ed autorevole, interessata a questo argomento che a tutti noi sta profondamente a cuore.
Inizierò subito non dilungandomi troppo in chiacchiere, entrando in quello che Matteo ha definito un tema un po’ noioso, cioè
quello demografico. È fondamentale, però, ai fini della programmazione politica, economica, sociale ed, evidentemente, sanitaria.
Negli anni ’90 un famoso demografo francese, osservando la piramide demografica sottolineò: ‘‘È arrivata l’era del gigantismo demografico’’. La popolazione mondiale che, all’inizio del 1900, era
di 1 miliardo e 600 milioni, nel 1998 cioè alla fine del ’900, stava arrivando a 6 miliardi. Ma, forse, il nostro demografo aveva dimenticato di descrivere quello che è stato veramente il grande gigantismo
del secolo che è appena passato. C’è stata l’evoluzione della popolazione del mondo.
Questa si è caratterizzata non tanto per la rivoluzione tecnologica, post-industriale, informatica, cibernetica, quanto per l’invecchiamento della popolazione mondiale.
È enormemente aumentato il numero dei sessantacinquenni.
Nel mondo erano 214 milioni nel 1950. Fra poco, nel 2020, raggiungeranno 1 miliardo e 120 milioni. Cosı̀ come gli ultraottantenni,
appena 15 milioni negli anni ’50, arriveranno a breve ad essere 111
milioni. È una vera e propria rivoluzione di cui dobbiamo gioire, ma
ci sono sicuramente dei ‘‘ma’’, posti soprattutto da economisti e politici.
Questo è quello che è successo in Italia, secondo lo scenario Eurostat. La popolazione con l’età fra 0 e 14 anni ha avuto nel periodo
372
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
’75-’95, una riduzione del 21% e che avrà ancora una riduzione del
7% nei prossimi 10 anni. Ha ‘‘tenuto’’, in parte, la popolazione tra i
15 e i 29 anni per effetto della coda del ‘‘baby boom’’ di fine anni
’50, primi anni ’60.
Ma poi, anche qui, assisteremo ad un calo drammatico, mentre
continueranno ad aumentare le persone con più di 65 anni e con
più di 80 anni. Questo, ovviamente, è avvenuto nei momenti in
cui si è passati da un regime demografico tradizionale, ad un regime
moderno.
Un tempo c’era un’alta fecondità ed alta mortalità. Oggi c’è una
bassa fecondità e una bassa mortalità: si nasce poco, ma si muore altrettanto poco. Dobbiamo essere certi che l’invecchiamento non è né
un rischio, né una fatalità e non è una catastrofe, come molti vanno
affermando. Evidentemente, era ineludibile, dal momento in cui si è
passati dal regime tradizionale ad un regime demografico moderno.
Direi che è stato un fatto, poi, provvidenziale.
Chiunque di noi abbia fede, non può non vedere l’opportunità
che Dio ci dà di vivere di più, di essere ancora presenti nella vita,
di sperimentare questa splendida esperienza esistenziale. Nessuno
di noi può negare che sia un dono della Provvidenza Divina e, come
tale, vada interpretato ed accettato.
Che cosa è successo essenzialmente in Italia? I dati del CNR, un
po’ superati, riguardano la speranza di vita in Italia alla nascita, nel
periodo 1960-62 e nel periodo ’94.
Nel ’60-’62, la speranza di vita per i maschi alla nascita era di appena, dico di appena perché vediamo che cosa è successo dopo, di
67,2 anni e per la donna di 72,3 anni.
Nel ’94, addirittura, cioè dopo un trentennio, l’uomo ha guadagnato 7 anni di vita circa, la donna quasi 9. C’è una tendenza costante e progressiva ad aumentare la speranza di vita alla nascita.
Un dato ISTAT, l’ultimo disponibile in questo senso, rileva che
l’aspettativa di vita a 65 anni, nel 1995, era di 15,5 anni per i maschi
e di 19,3 per le femmine. È passata, in soltanto 5 anni, a 16,3 cioè
‘‘guadagna’’ quasi un anno l’uomo e quasi un anno la donna.
Lo stesso vale per l’aspettativa di vita all’età di 75 anni.
Volevo affrontare con voi il discorso demografico, perché è quello che preoccupa di più i politici e gli economisti. La popolazione fra
i 0 e i 19 anni, dal ’97 del secolo scorso, continuerà a decrescere e
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
373
raggiungerà una certa stabilità intorno al 2020. Invece, la popolazione con più di 60 anni continuerà ad aumentare. Anche la popolazione fra 20 e 59 anni, continuerà a decrescere.
Questo che cosa significa? Significa che la popolazione in età lavorativa, scenderà costantemente e che questa popolazione incrocerà
intorno al 2032 la popolazione ultrasessantenne.
A quel punto, ci sarà probabilmente un lavoratore per ogni pensionato. Diceva prima Matteo, che oggi si tratta di famiglia ‘‘allungata’’.
Si è calcolato che un bambino che nasce oggi, avrà sulle sue spalle, per cosı̀ dire, 2 genitori, 4 nonni, 2 bisnonni. Ce la farà a sopportare questo peso economico?
Dipende dalle nostre capacità di programmazione e da come interpretiamo questo tipo di evoluzione demografica.
Secondo un dato ISTAT con la proiezione al 2023, la popolazione ultrasessantacinquenne andrà costantemente incrementando.
Contemporaneamente, la popolazione con età inferiore a 15 anni,
continuerà a decrescere. Anche qui, ci sarà un incrocio con la popolazione ultrasettantaquattrenne intorno al 2013-2014.
Questo tipo di dati, se riportati cosı̀, senza alcuna interpretazione, al politico o all’economista, evidentemente inducono addirittura
terrore. Allora, la reazione è soltanto una: i tagli indiscriminati. Il
problema è che i demografi, come tutti, fanno degli errori.
Qual è l’errore? È che non si può descrivere la demografia come
un ‘‘sottosistema chiuso’’. Se c’è stato un invecchiamento demografico, questo, evidentemente è dovuto ad una serie di modificazioni
sociali, tecnologiche, economiche, culturali, etiche e soprattutto sanitarie.
Se tutto questo è avvenuto, non è indipendente, ma è strettamente connesso alle modificazioni sociali che devono necessariamente venire incontro a questo tipo di cambiamento.
Bisognerà progettare il futuro della nostra società sapendo che,
anche la demografia, è qualcosa che fa parte della società intera,
non ne è staccata. Riusciremo, sicuramente, a programmare un avvenire etico, economico, sanitario, del tutto adeguato.
Intanto, qualche risultato l’abbiamo ottenuto.
È curioso osservare che, secondo un’indagine ISTAT, la percezione soggettiva di salute per classi di età e ripartizioni geografiche,
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s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
nel periodo fra il ’93 e il ’97, ha rilevato quanto segue. Il Nord-Est
lamenterebbe uno stato di salute peggiore rispetto alle popolazioni
del Centro, del Mezzogiorno e del Nord-Ovest.
Non possiamo ignorare che, comunque, invecchiando succede
una serie di eventi che dobbiamo interpretare nel loro giusto modo.
Con l’invecchiamento della popolazione cresce, ovviamente, la prevalenza di soggetti ultraottantenni che, possibilmente, come diceva
prima il nostro moderatore, potrebbero essere degli anziani fragili.
Aumentano molto le donne anziane e voi sapete che la donna vive molto di più dell’uomo.
Sono più frequenti le patologie cronico-degenerative, maggiore il
numero di disabili, più consistenti la spesa previdenziale e la spesa
sanitaria. Anche qui, bisogna cercare di razionalizzare la spesa sanitaria e quella sociale, perché si possono fare molte cose importanti
con pochi soldi, senza ricorrere al razionamento.
I dati del famoso studio ILSA, cui ha accennato Matteo Grezzana, dimostrano che con il progredire dell’età si va incontro ad un numero sempre maggiore di patologie, di co-morbidità.
Per quanto riguarda gli uomini, all’età di 65-69 anni, soltanto il
16%, ha due o più patologie. All’età di 80-84 anni, addirittura il
31,5%, ha più di due patologie. Questo vale, in termini simili, anche
per le donne. Cosı̀ si può dire anche per la disabilità e per la perdita
dell’autonomia.
Soltanto il 3-4% degli uomini ultrasessantacinquenni, fra i 65 e i
69 anni, ha due o più difficoltà nell’attività della vita quotidiana.
Questo 3-4%, sale al 24% fra gli 80-84 anni. Anche qui, dati molto
simili riguardano la donna.
Il grande problema è che siamo riusciti a dare più speranza, ad
aumentare l’aspettativa di vita alla nascita, ma non siamo riusciti a
cercare di arginare la disabilità, la polipatologia, che poi portano alla
perdita dell’autonomia. Non siamo stati in grado, soprattutto, di evitare che gli ultimi anni della vita, vengano vissuti in squallida perdita
dell’autonomia, in quei posti che descriveva prima cosı̀ bene Matteo.
Pensate che a 65 anni, l’uomo ha un’aspettativa di vita in buona
salute di soltanto 3,5 anni, 4,2 la donna. A 75 anni la buona salute si
riduce a un anno e mezzo per l’uomo, 2 anni per la donna, rispetto ai
10 anni di vita che aspettano all’uomo e i 12,4 che aspettano alla
donna.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
375
Questo diceva Kane, noto geriatra, citato prima da Matteo, su un
recente articolo pubblicato su Aging Clinical Experimental Research, in cui si sottolinea l’ambiguità del progresso.
Siamo riusciti ad ottenere molto in termini di speranza di vita,
non abbiamo ottenuto molto in termini di speranza di vita in buona
salute. Certo, bisogna fare applicare quello che diceva Matteo, cioè
l’intensitività e quant’altro.
Dobbiamo soprattutto cercare di non affrontare la malattia dell’anziano, la sofferenza, la co-morbidità, affidandoci ad un ragionamento tipico della medicina tradizionale, il cui approccio è diretto
all’organo malato, alla diagnosi, alla terapia e dunque alla guarigione.
Questo non può essere assolutamente cosı̀ per il vecchio. Rischieremmo di non modificare mai questi dati.
Dobbiamo affrontare la malattia, la co-morbidità dell’anziano
senza trascuratezze, ma anche senza eccessivi interventismi. Le polipatologie dell’anziano sono molto complesse e richiedono conoscenze profonde, equilibri, sensibilità, completamente diversi da quelli
della medicina tradizionale.
Ed è cosı̀ che, secondo una particolare classificazione dell’OMS,
pur essendo seconda l’Italia dopo la Francia per quanto riguarda la
‘‘performance’’ complessiva in campo sanitario, per quanto attiene il
DALE (Disability Adjusted Life Expectancy), è soltanto sesta. Una
buona posizione, ma dovremmo sicuramente fare molto di più se cominceremo a comprendere sempre meglio, che la malattia del vecchio è una malattia complessa.
Come tale, va affrontata cercando di rimuovere dalle nostre
menti quelli che sono i dettami della medicina tradizionale.
Vi dicevo che il quadro clinico dell’anziano, è sempre complesso.
Cerchiamo di fare un esempio: pensiamo a cosa significava 50 anni
fa la diagnosi di leucemia. Anche allora, era una malattia che colpiva
il giovane. Che cosa è accaduto?
C’è stata sempre di più una certezza scientifica su quali fossero i
movimenti ezio-patogenetici di quella malattia, c’è stato sempre un
maggior consenso sia dalla comunità scientifica che dalla comunità
tutta. Questo aumento di certezza e di consenso con la competenza
di chi cura, cioè con il sapere e il saper fare, ha portato tutto sommato a considerare la leucemia una malattia ‘‘semplice’’, almeno
376
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
per quanto riguarda la sua interpretazione e, nella maggior parte dei
casi, la sua cura.
Non siamo a questo livello, ovviamente, per l’anziano.
Le certezze, per quanto riguarda le reciproche interferenze fra
disabilità e malattia dell’anziano, non sono molte, il consenso non
è particolarmente elevato. Non ci vuole competenza o ci vuole anche
quella, ma ci vuole soprattutto capacità. Non serve soltanto il ‘‘sapere e il saper fare’’, ma il saper interpretare fenomeni nuovi, dare risposte diversificate e personalizzate.
Questo è quello che il geriatria fa tutti i giorni ed è solo con questa capacità, che si riesce ad evitare il baratro del caotico.
È anche vero, per carità, che la sanità dell’anziano costa in tutti i
paesi occidentali. Pensate che in Olanda il 5,5% della popolazione,
gli ultrasettantacinquenni, spende il 28% della spesa sanitaria. Negli
Stati Uniti, secondo Fuchs, la spesa per gli anziani aumenta ogni anno 4 punti percentuali in più di quanto aumenti il Prodotto Interno
Lordo.
Cosı̀ è anche in Italia: per gli ultrasettantacinquenni, il 6,5% della popolazione, si spende il 28%.
Ci si lamenta sempre di più su quanto questa spesa incida sul
PIL. Sentiamo ripetere, ad ogni piè sospinto, che l’Italia sta esagerando. Se ci confrontiamo con la situazione che riguarda la maggior
parte dei paesi sviluppati, dei paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla
Francia, l’Italia è tutto sommato allineata agli altri paesi.
Addirittura, spende di meno della Germania, meno della Francia, spende attualmente meno dell’Australia, meno del Canada e ovviamente meno degli Stati Uniti. C’è un’altra sorpresa.
Quando ci dicono che si spende molto per la sanità, per gli anziani e comunque per la sanità in genere in Italia, questo è parzialmente vero. L’Italia, infatti, è la nazione che spende assolutamente
di meno, se si parla di spesa sanitaria pubblica, di tutti gli altri paesi
europei, dell’Australia, del Canada, del Giappone, tranne che degli
Stati Uniti.
Quindi, la spesa sanitaria pubblica in Italia è inferiore a quella
degli altri paesi sviluppati ed, invece, è superiore a tutti gli altri paesi,
la spesa privata. Quindi, non ci vengano a raccontare storie. È vero,
si spende tanto, ma si spende soprattutto di tasca propria.
Sull’onda di queste considerazioni, di quanto si spenda per gli
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
377
anziani, c’è stato tutto un movimento culturale soprattutto americano, inglese e calvinista.
Sono state teorizzate delle situazioni da cui si evince che non bisognerebbe più spendere per l’anziano.
Una frase di Callahan, pubblicata su Jama del 1989, è estremamente indicativa di quanto stia avvenendo nel mondo.
Dice Callahan: ‘‘Io propongo che si stabilisca un tetto alla spesa
sanitaria in funzione dell’età, ponendo un limite agli interventi più
costosi altamente tecnologici. Si deve pensare in termini di arco naturale della vita, non secondo ragionamento biologico, ma secondo il
buon senso della storia vissuta da ognuno di noi.
A 70-80 anni, la maggior parte delle persone si è già giocata l’opportunità che gli ha offerto la vita. Dopo quell’età, la società stabilisca che la spesa sanitaria non vada oltre la copertura di semplici interventi palliativi di sollievo del dolore e della sofferenza’’.
Quindi, propone l’abbandono più assoluto dell’intervento sanitario per gli ultrasettantenni perché, comunque, la loro vita l’hanno
vissuta.
Ma non è, pensate, un intervento sporadico.
Teorie di questo tipo, nel mondo, ce ne sono una quantità e stanno influenzando il nostro modo di pensare alla vecchiaia, agli anziani, alla solidarietà per gli anziani, alla sanità per gli anziani.
Ed ancora nel ’97, Williamson sul British Medical Journal, diceva: ‘‘Dobbiamo fare di più perché i giovani vivano a lungo piuttosto
che sforzarci perché i vecchi continuino a sopravvivere. In alternativa, diventa oltraggioso sperare che i giovani facciano troppi sacrifici
perché gli anziani continuino a godere di modesti benefici. Questa
non sarebbe una cosa giusta’’.
Non crediate che tale tipo di pensiero pragmatico, calvinista,
non abbia fatto già i suoi gravi danni.
A metà degli anni ’90 in Gran Bretagna, 1/4 dei 200.000 pazienti
anziani ricoverati nella Lungodegenza, non riceveva la vaccinazione
anti-influenzale, perché si era pensato che non ne valesse la pena.
Nel General Hospital e nel Royal Olden Hospital di Manchester,
alcuni anziani in condizione di cronicità, venivano lasciati morire attraverso la sospensione dell’alimentazione adeguata, per non impegnare la struttura sanitaria troppo a lungo.
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s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
Cose che stanno avvenendo in tutti i Paesi europei in maniera
più o meno manifesta ed evidente.
Malgrado ci siano numerose dichiarazioni di principio nella nostra Unità Europea, queste, nei fatti, sono state disattese. La distribuzione delle risorse per contenere la spesa sanitaria, si sono rivelate
un criterio improprio di valutazione del valore della vita umana.
Su questo argomento c’è stata, evidentemente, una serie di prese di posizione. Prima di tutto ci si chiede: ‘‘Se viviamo in uno stato
solidale, in uno stato sociale, la prima cosa che dovremmo fare è
andare incontro ai bisogni, a chi ha più bisogni. E chi ha più bisogni dell’anziano, in termini di malattia, di non autonomia, di disabilità?’’
Qualcun altro dice: ‘‘Se dovessimo razionare, come dicono Callahan e Williamson, le cure agli anziani, questo significherebbe soprattutto discriminare la donna che, come sapete, vive più a lungo
dell’uomo e quindi le cure sarebbero tolte proprio a lei’’.
D’altra parte, chi ha detto mai, chi ha dimostrato mai che ridurre
la spesa sanitaria per l’anziano, significa migliorare la vita e la qualità
di vita del giovane?
Nessuno lo ha mai dimostrato, ma su questo argomento non poteva mancare la parola di Giovanni Paolo II che esorta chi di dovere,
a predisporre garanzie giuridiche adeguate a tutelare la salute anche
di chi non ha voce.
La solidarietà e la carità devono dettare le regole, non il profitto.
Si dovrebbe intendere la ricchezza come un bene di tutti. Il Papa, ancora, ci ricorda che la vita è sacra per sempre, quindi anche
nella vecchiaia. La vita è un pellegrinaggio di scoperte. Si scoprono
valori, popoli, nazioni. In fondo è un viaggio che non finisce mai.
E che sia un viaggio che non finisce mai lo dimostrano tante opere di grandi artisti a noi cari.
In un autoritratto, Goya, ad esempio, si ritrae ultrasettantacinquenne dopo una grave malattia; ricurvo, con barba e capelli aggrovigliati ed incolti, che incede sorretto da due bastoni.
Diremmo che si tratta sicuramente di un cronico o quantomeno
di un disabile. Non riesce nemmeno a camminare.
Ebbene, pur ridotto cosı̀, Goya scriveva in alto sul suo dipinto
‘‘Aùn aprendo’’ ‘‘Continuo ad imparare’’, ho voglia ancora di imparare. Questa forza enorme che aveva Goya, ma che hanno tanti arti-
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
379
sti, sottintende il fatto che qui siamo davanti a una persona che ha
salute, non ad un disabile, non ad un cronico.
Chi ha ancora progettualità, chi vuol fare per il futuro, chi ha immaginazione, come possiamo dire che sia una persona che non ha
salute? La salute non possiamo definirla semplicemente in negativo
come una assenza di malattia o come dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il pieno benessere bio-psico-sociale.
Noi siamo certamente degli uomini e, come tali, imperfetti e questo benessere bio-psico-sociale non può esistere. La vita è una esperienza continua di adattamento, di rimodellamento, di accettazione.
Se si riesce a comprendere le nuove dinamiche, che l’esistenza ci pone di fronte, allora ci può essere la salute a qualsiasi età e con qualsiasi infermità.
Per salute, qui si intende star bene con se stessi, aver capacità di
progettualità.
È quello che Goya ha dimostrato.
Anche Claude Monet a 80 anni, con una cataratta che lo ha reso
quasi cieco, è riuscito a realizzare una esplosione di colori nel dipinto
‘‘Le ninfee’’ del 1920. E anche 6 anni dopo, riusciva a dare manifestazioni d’arte intense con colori tranquillizzanti e pacati.
E cosı̀ ancora Renoir, che dipingeva ‘‘Le bagnanti’’ a 78 anni e a
74 ‘‘Il giudizio di Paride’’, con figure femminili cosı̀ opulente, cosı̀
gioiose, con un certo senso erotico. Questo grande impressionista,
soffriva di una artrite reumatoide cosı̀ grave, che dovevano legargli
le mani fra di loro perché riuscisse a reggere il pennello.
E uno che fa queste cose, che secondo l’interpretazione corrente
sarebbe un disabile, lo consideriamo tale? Io direi che è una persona
in salute. Quindi, lo ‘‘star bene’’ va visto sicuramente da prospettive
diverse e, forse, l’arte potrebbe aiutare più della medicina ad avere
salute.
Un articolo, se volete un po’ provocatorio, pubblicato nel 2002
sul British Medical Journal da Richard Smith, dice: ‘‘Spendiamo un
po’ di meno per la salute e un po’ di più per l’arte’’.
Tutto sommato, se la salute è adattamento, è comprensione, è
accettazione, allora forse possono contare di più le arti che non tutte
le medicine offerte. In questo articolo, si propone di stornare lo
0,5% della spesa sanitaria in Inghilterra, per dedicarlo all’arte.
Certo, è una provocazione, ma serve per farvi capire come la sa-
380
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
lute non abbia una definizione univoca, ma passi attraverso tanti momenti di solidarietà, di benessere psicologico, di amore, che sono
spesso difficili da definire.
D’altra parte, chi ha detto che spendendo di più si migliori lo
stato di salute di una popolazione?
Vi sono degli studi che hanno cercato di correlare l’aspettativa di
vita con le variazione del PIL. Secondo alcuni, riducendo la spesa sul
PIL, si riduce la prospettiva di vita, secondo altri riducendo la spesa
per la sanità sul PIL, aumenta la prospettiva di vita.
Che cosa significa questo? Quando noi parliamo di sanità e di
efficienza del Sistema Sanitario, dobbiamo ragionare in termini di
‘‘indicatori di salute’’. Questi, non possono essere identificati con
il numero dei trapianti eseguiti o col numero dei by-pass perché sono delle situazioni sanitarie che riguardano, tutto sommato, una piccola parte della popolazione.
Un indicatore di salute ‘‘forte’’, da tutti riconosciuto, è ovviamente l’aspettativa di vita alla nascita.
Questo, dà un quadro globale di quello che è l’efficienza di un
Sistema Sanitario. Allora è difficile razionalizzare la spesa sanitaria
agendo solo su alcuni ‘‘indicatori di salute’’. L’Italia, tutto sommato,
non sta male. Abbiamo visto che è aumentata un po’ la spesa sanitaria sul PIL, ma è aumentata anche l’aspettativa di vita.
Il risultato peggiore è, sicuramente, per gli Stati Uniti, che è il
paese più avanzato per ricerca scientifica, soprattutto nel campo medico, nel campo sanitario, nelle tecnologie.
Lı̀, evidentemente, la maggior parte della spesa viene indirizzata
su tecnologie che interessano una piccola parte della popolazione e
non l’intera collettività.
Noi dovremmo ragionare in termini di solidarietà per una società
intera e non soltanto per i ricchi.
D’altronde, che sia importante razionalizzare la spesa sanitaria,
nessuno lo mette in dubbio e la spesa sanitaria principale in Italia,
è quella per i farmaci e per l’ospedalizzazione.
La spesa farmaceutica per assistito in Italia nel ’99, con l’aumentare dell’età è aumentata, come era da attendersi. Spesa farmaceutica, che è soprattutto incentrata sulle malattie cardiovascolari e l’ipertensione, in particolare.
Secondo lo studio ILSA, gli italiani ultrasessantacinquenni sof-
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
381
frono di ipertensione arteriosa almeno nel 60% dei casi ed è evidente che la spesa per i farmaci anti-ipertensivi per gli anziani in Italia,
sia enorme. Siamo giunti quasi a 1/4 della spesa totale per i farmaci,
ma anche qui niente di male purché la spesa dia risultati efficienti ed
efficaci.
I farmaci per la cura dell’ipertensione costano cifre estremamente rilevanti. I diuretici, che lo studio Allhat ed altri studi, dimostrano
essere parimenti efficaci ed hanno un costo molto più contenuto.
Riescono a ridurre i principali end-points cardiovascolari.
D’altra parte, questa meta-analisi effettuata sugli effetti del trattamento anti-ipertensivo di soggetti ultrasessantacinquenni su 5
grandi studi relativi all’ipertensione nell’anziano – mi riferisco allo
STOP 1, STOP 2, all’European Working Party on Hypertension
in the Elderly, al Systolic Hypertension Elderly Porgram (SHEP),
al Systeur, dimostrano quanto segue.
È vero che si riesce a ridurre gli eventi cardiovascolari non mortali, però non si riduce la mortalità totale. Quindi, questi sono dati
che ci devono far ragionare.
Spendere sı̀, ma spendere in maniera sensata e razionale.
Lo stesso vale per il colesterolo in prevenzione primaria. Da
quello che io conosco, è aumentata la spesa per le statine, farmaci
che, come sapete, riducono il colesterolo in tutti. Nell’anziano vengono utilizzate, spesso in prevenzione primaria, assolutamente a
sproposito. Voi tutti sapete che quando si riduce il colesterolo di
un anziano, aumenta la mortalità.
Per cui, in prevenzione primaria, è ingiustificato spendere soldi
per farmaci, oltretutto, estremamente pericolosi.
L’ultimo dato che riguarda la spesa, è quello ovviamente, per
l’ospedalizzazione che assorbe una cifra rilevante in Italia. D’altra
parte, c’è anche una certa diffidenza verso l’ospedalizzazione dell’anziano, che viene spesso vista come un ricovero improprio, incongruo, ma tutto questo non è certo nuovo.
Significativa è questa frase che era affissa davanti all’ingresso dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna nel 1670 e che citava: ‘‘Non si pigliano vecchi ancorché avessero 90 anni, perché mettendosi a letto
simili vecchi e imboccandoli, tengono occupati dieci più anni letti,
con pregiudizio dei molti curabili’’.
Quindi questa cultura gerontologica, questo desiderio di tenere
382
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fuori i vecchi dall’ospedale non è cosa nuova, non è certo cosa di
adesso.
E che gli anziani siano coloro che più usufruiscono dei ricoveri
ospedalieri, questo è un dato di fatto, visto che si ammalano di
più i vecchi ed è chiaro che ricorrano di più all’ospedale.
Un dato ISTAT del ’97, diceva che c’erano negli ultimi 3 mesi
almeno 80 persone su 1.000, che avevano ricevuto un ricovero ospedaliero.
Un dato recentissimo pubblicato dieci giorni fa dalla FADOI,
che è un’associazione di medici internisti, dice che addirittura sarebbero 371 le donne e circa 190 gli uomini ultrasessantacinquenni, che
fanno ricorso al ricovero ospedaliero. È una quantità sicuramente rilevante, ma noi non crediamo che siano ricoveri impropri ed incongrui.
Un’indagine effettuata negli Stati Uniti, pubblicata su JAGS
(Journal of American Geriatric Society), mostra come siano soprattutto gli ultrasettantacinquenni che vanno a farsi visitare nei Dipartimenti di Emergenza. Per l’esattezza, il 63,5% delle visite, sono rivolte a pazienti ultrasettantacinquenni e solo il 31,5%, al resto della
popolazione. Vi faccio notare che si trattava di ultrasettantacinquenni.
E sono gli ultrasettantacinquenni che vengono ricoverati più
spesso, una volta visitati. Evidentemente, sono quelli che stanno
più male, sono quelli che più spesso arrivano in ambulanza, sono
quelli che, dopo la visita nel DEA, vengono ricoverati nel 46%
dei casi. Alcuni di questi, il 6%, vanno a finire in terapia intensiva.
Dunque, è falso che l’anziano vada in Ospedale semplicemente
per trovarvi un letto, ‘‘un bugliolo’’ si diceva una volta ed un pezzo
di pane. Ci va perché è ammalato. È lı̀ che lo dobbiamo assistere, ma
assistere in modo diverso.
È improprio, incongruo, non il ricovero ospedaliero dell’anziano, ma il nostro modo di curare gli anziani almeno in certi ospedali.
È un modo che, spesso, ha fatto definire gli ospedali una fabbrica di
cronici.
Diceva Rubenstein, voce autorevole della Geriatria, che i soggetti
anziani durante il ricovero ospedaliero, vanno incontro ad una compromissione dello stato funzionale con una frequenza che è sicuramente superiore a quella dei giovani.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
383
Questo soprattutto perché, forse, non è pertinente il nostro modo di accettarli, il nostro modo di assisterli, di curarli.
Nella maggior parte degli ospedali italiani, per esempio, la prima
cosa che si fa quando un anziano viene ricoverato, è metterlo a letto
ed immobilizzarlo. Ciò comporta una serie di conseguenze estremamente gravi.
È stato dimostrato che l’immobilizzazione di un vecchio, induce
alterazione in tutti gli organi ed apparati, dall’apparato cardiovascolare, all’apparato respiratorio, alla cute, all’idratazione, alla capacità
di continenza, alla capacità di giudizio e di critica.
Purtroppo, il 10% dei nostri anziani va ancora incontro, durante
il ricovero ospedaliero, alle piaghe da decubito.
Ma tutto mondo è paese.
La ricerca di Mahoney, pubblicata sul Journal of Gerontology
nel 1998, si proponeva di capire che fine facessero dal punto di vista
funzionale, 1.881 pazienti ricoverati in un reparto per acuti. Questi
ammalati erano affetti da patologie acute, potenzialmente non invalidanti, cioè non erano ricoverati per ictus o per frattura di femore.
Ebbene, dopo il ricovero, il 17% di questi che entrano in completa autonomia, perde l’autosufficienza e molti vanno a morte nei
tre mesi conseguenti il ricovero.
E ancora Lynn, sul West Journal of Medicine, si chiede se non
sia il caso e l’opportunità di cambiare il ‘‘Medi-care’’ americano.
Fa storia la vicenda del povero signor Smith, che entra in ospedale con un’infezione urinaria e viene allettato per 15 giorni. Esce
guarito dall’infezione urinaria, ma completamente non autonomo
nella deambulazione. Grande cura, ma il risultato finale è la perdita
dell’autonomia.
Tutto questo, ovviamente, come sapete, è stato gravato, almeno
per quanto riguarda gli anziani, dall’avvento dei DRG.
Per quanto riguarda gli anziani ricoverati per frattura di femore
negli Stati Uniti, prima dei DRG, il 56% deambulava alla dimissione, contro il 40% dopo l’avvento dei DRG. Il 38% ‘‘soltanto’’ doveva essere trasferito nella residenza per disabili, contro il 60% dopo
l’avvento dei DRG.
Tutto questo ha comportato e continua a comportare in tutto il
mondo che, per le nostre incapacità di assistenza e di cura, aumentiamo gli anziani cosiddetti ‘‘confinati’’.
384
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
Che cosa significa? Sono ridotti sempre a letto, possono stare
soltanto su una sedia, non possono addirittura uscire dall’abitazione.
Globalmente erano 700.000 le persone anziane in Italia ‘‘confinate’’,
ma gli ultimi dati ISTAT ci dicono che stanno raggiungendo
900.000. Pensate ad una città con la popolazione di Genova, composta soltanto da persone ‘‘confinate’’. È quello che stiamo facendo,
dobbiamo pensarci perché cosı̀, assolutamente, non può andare.
Allora che cosa fare? Se la cura dell’anziano non può essere affrontata in modo tradizionale, la Geriatria ha adottato già da tempo i
suoi rimedi. Non si può affrontare la malattia dell’anziano pensando
alla malattia d’organo. La cura della malattia d’organo non è sufficiente. La dimensione della salute dell’anziano è molto più complessa.
Va dalla salute somatica allo stato funzionale, dalla salute psichica ai fattori socio-ambientali. Se non faremo sempre una Valutazione
Multidimensionale, che abbia la capacità di prendere in considerazione questi vari livelli, non arriveremo mai a curare correttamente
l’anziano.
Rubenstein, è stato il primo a dimostrare la validità dell’approccio multidimensionale. Infatti in un suo lavoro dell’84, dimostrava
che affrontando la malattia dell’anziano con la valutazione multidimensionale, si riusciva a ridurre la mortalità quasi del 50% e a ridurre di circa il 40% il ricovero in Nursing-home.
Il lavoro di Rubenstein dimostra come ci sia una notevole riduzione della mortalità. Non voglio citare altri lavori. Ce n’è ormai una
grande quantità, che dimostra la validità della metodologia geriatrica.
Malgrado la Geriatria abbia dimostrato di essere l’unica capace
di curare il paziente anziano con co-morbidità e fragilità, i letti di
Geriatria in Italia sono ancora la metà, rispetto a quelli della Pediatria e 1/10 rispetto a quelli della Medicina.
Diceva Moulias, un geriatra di Parigi, in un importante convegno
europeo, che quando non esistono strutture di Geriatria o quando il
paziente arriva troppo tardi, evidentemente l’unica via praticabile è
quella della Lungodegenza o della casa di riposo.
Per ora l’Italia, invece di cercare di differenziare i vecchi ospedali, di ridurre quelli di Pediatria, di aumentare quelli di Geriatria, ha
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
385
fatto quello che hanno fatto tutti gli altri paesi del mondo: ha ridotto
i posti-letto, anche se gli anziani sono molti.
Tutti i paesi industrializzati hanno ridotto i posti-letto e ci si
aspettava una corrispondente riduzione del numero dei ricoveri.
In Spagna e in Gran Bretagna era addirittura avvenuto, paradossalmente, il contrario: la riduzione dei posti-letto ha indotto un aumento dei ricoveri. In Italia, c’è stata una piccola riduzione dei ricoveri ospedalieri. Dal 1998 al 2001, è vero che si sono ridotti i ricoveri
ordinari, ma sono aumentati in maniera quasi esponenziale i pazienti
anziani che sono andati a finire in Lungodegenza. Purtroppo, non
c’è stato nessun reale guadagno.
Allora, come ho cercato di insistere finora, la salute dell’anziano
non può, come brillantemente ha detto prima Matteo Grezzana,
passare soltanto attraverso la Sanità. L’intervento dello stato sociale
deve essere assolutamente complesso ed integrato. È solo cosı̀ che si
può sperare di dare salute all’anziano.
Che cosa ha fatto finora l’Italia? Ha scelto una metodologia, se
volete particolare, che è quella di fare un trasferimento finanziario
alla persona e alla famiglia, piuttosto che impegnarsi direttamente
in Servizi Sociali.
Voi sapete tutti, dall’ultimo dato ISTAT, che la spesa per lo stato
sociale, attualmente in Italia, è del 24.3-4%. Di questo, il 17.2% viene riservato alla spesa previdenziale, il 5,6-7% alla spesa sanitaria,
soltanto l’1,6% alla solidarietà sociale.
Visto che abbiamo scelto il sistema del trasferimento finanziario
alle famiglie, ci aspetteremmo che almeno la povertà fosse ridotta,
ma non è proprio cosı̀.
In Italia, nelle varie collocazioni geografiche e alle varie età, considerando solo gli ultrasessantacinquenni, vediamo come la povertà
vada aumentando man mano che si invecchia. Questo è un dato
estremamente evidente e forte per il sud.
Quindi, questi trasferimenti finanziari che abbiamo adottato nel
nostro stato sociale, non sono stati assolutamente idonei a ridurre la
povertà. Anzi, dal 1997 al 1999, la povertà degli ultrasessantacinquenni in Italia è addirittura aumentata del 18%. E quando c’è povertà, c’è anche malattia. Prove basate sull’evidenza, ci dicono che la
prevalenza di persone in buona salute aumenta quando si ha un
buon reddito. Quindi, anche la povertà incide fortemente sullo stato
386
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
di salute, ma evidentemente non è solo la povertà. Quello che conta
molto, è il supporto sociale.
Un bellissimo studio di Carlo Mendez de Leon, è lo Studio EPESE più volte pubblicato. Recentemente, nel 2003, è comparso sul
Journal of Gerontology e sull’American Journal of Epidemiology.
In questo studio, si dimostra che c’è una relazione inversa tra disabilità e supporto sociale. Tanto più c’è supporto sociale, tanto più
c’è rete sociale, tanto meno c’è disabilità.
In una bellissima relazione tenuta a Boston nel 2002 da Michel
Marmot, questo grande autore sottolineava come fosse importante
sentirsi padroni della propria vita come mezzo per conservare la
buona salute. Quindi, anche noi dovremmo far di tutto perché ciascuno si senta padrone della propria vita, per mantenere una buona
salute. Ma l’idea di Marmot, non è certamente nuova.
Tutto questo era già presente nella Bibbia, precisamente nel Salmo che dice: ‘‘Aiutaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore’’. Quindi, aiutaci ad essere proprietari della nostra
vita, vivere nella vita, vivere nella storia, per essere protagonisti della
storia stessa.
Ma ‘‘aiutaci a contare i nostri giorni’’ dicevo, e gli anziani riescono a contare i loro giorni? Glieli fanno contare gli altri. Se ti fai contare i giorni, sei marginalizzato, sei fuori della storia, non puoi intervenire.
Qualcuno potrebbe dire che la colpa è degli anziani. Eppure gli
anziani di oggi, gli ottantenni di oggi, hanno fatto tutto. Hanno fatto
la guerra, lo stato sociale, la Repubblica. Sono stati artefici del ‘‘miracolo economico’’ degli anni ’60. Hanno fatto tutto.
E quando hai fatto tutto, il tentativo, la propensione è quella di
guardare indietro, e non di guardare in avanti. Non guardare avanti,
marginalizza. Non può essere che altri ti dicano quando devi andare
via, quando devi togliere il disturbo. Altrimenti, sarebbe una sorta di
situazione pre-mortuaria.
Diceva Sant’Agostino che la Chiesa è un po’ come Giano bifronte, che ha 4 occhi: due guardano avanti e due guardano indietro.
L’anziano, invece, qualche volta ha soltanto due occhi, due che
guardano indietro. Allora non vive più nella storia, non vive più nella
vita e, come diceva Marmot, non è più in grado di essere padrone
della propria vita, e perde la sua salute.
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
387
Heidegger, filosofo, diceva: ‘‘Tutto il ’900 si è comportato secondo la sequenza: pensare-costruire-abitare. Penso ad un quartiere, a
una casa, la costruisco, ci vado ad abitare. Penso ad una ideologia,
costruisco un mondo ideologico, ci vado ad abitare’’.
Niente di più sbagliato, dice Heidegger. Prima bisogna abitare,
poi costruire, poi pensare. È quanto vale per gli anziani: se prima
non si ‘‘abita’’ la vita, non si ‘‘abita’’ ciò che si sta vivendo tutti i giorni, non si è in grado né di costruire né di pensare.
Questa è la situazione degli anziani attuali. Spesso, noi dobbiamo
mostrar loro questa realtà, dobbiamo far capire loro che bisogna
‘‘abitare’’ prima di costruire e di pensare.
Ma quando, l’anziano che non ‘‘abita’’, l’anziano che non ha capacità di controllo della propria vita e del proprio corpo, perde l’autonomia, chi lo assiste? Non certo lo stato sociale, visto che da un’indagine del CENSIS, gli assistenti domiciliari, gli infermieri, le strutture pubbliche incidono, soltanto nell’assistenza degli anziani a
domicilio, per il 2,7% del bisogno. Di solito, come diceva prima
Matteo, i figli e la famiglia in genere, sono deputati all’assistenza dell’anziano a domicilio.
Ma anche qui non ci siamo. L’Assistenza Domiciliare Integrata,
in Italia, è privilegio di pochi, soltanto l’1%.
Osservando le altre nazioni, il 24% degli anziani in Danimarca
viene assistito a domicilio, il 12% in Finlandia, il 16,6% in Svezia,
l’1% in Italia con soltanto 3 ore medie settimanali di assistenza.
E se non c’è lo stato sociale, se non c’è la solidarietà sociale, chi
assiste gli anziani? Non certo i volontari che, per quanto se ne dica,
vanno diminuendo.
Secondo un dato ISTAT, dall’83 al ’98, il numero delle persone
che hanno dato un aiuto ad altre famiglie, si è costantemente ridotto
di quasi il 9%. E allora quando non c’è più niente da fare, dove si
manda questo anziano? Tenete presente che il 37% degli ultrasessantacinquenni vive da solo. Quando c’è una malattia e vivi da solo
e non hai alcuno che ti assista, non hai un’Assistenza Domiciliare,
l’unico luogo dove puoi finire, è la Struttura Residenziale, la RSA
o la Casa Protetta.
E anche qui va molto male. Soltanto il 2,6% degli anziani ha la
possibilità di rivolgersi ad una di queste strutture ed ancora la man-
388
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
canza di supporto sociale, la mancanza di solidarietà, fa morire. Di
mancanza di solidarietà si muore.
Secondo un lavoro dell’Osservatorio Geriatrico della Regione
Campania, è stato dimostrato che a 6 anni di follow up, chi ha meno
supporto sociale, ha una mortalità che è circa il doppio di chi ha migliori supporti sociali.
Non mi voglio dilungare molto. Il supporto sociale, la solidarietà, può ridurre la mortalità anche per malattie estremamente
gravi.
Un’indagine condotta su ultrasessantacinquenni affetti da infarto
del miocardio, divisi per classi, per gravità dell’infarto (da 1 a 3-4),
ha rilevato che la mortalità è dimezzata in coloro che hanno un supporto sociale elevato, rispetto a chi non ha alcun supporto sociale.
Pensate che in Letteratura, negli ultimi 10 anni, ci sono 662 articoli scientifici che dimostrano come l’affettività riesca a ridurre la
mortalità in ogni malattia. Tanto per curiosità, sembra che persino
riduca l’incidenza di raffreddore. Chi ha un alto supporto sociale, secondo la scala di Jackson, ha una riduzione della possibilità di andare incontro a raffreddore.
Cosı̀, le classi sociali meno avvantaggiate ammalandosi di più,
spendono di più delle classi sociali avvantaggiate.
Quindi, intervenire sulla società, intervenire sulla solidarietà, significa non solo migliorare lo stato di salute, la qualità di vita, ma
anche risparmiare. Uno dei risparmi possibili, si ottiene adottando
le metodologie dell’Assistenza Domiciliare Integrata.
Secondo un lavoro di Bernabei, la spesa per i pazienti, tenuti in
Assistenza Domiciliare, è assolutamente inferiore a quella che si ha
con i metodi tradizionali, con un risparmio di 343 milioni delle vecchie lire.
Concludendo, ed è la prima delle conclusioni di oggi, scusate se
mi sono un po’ dilungato, direi che la logica della solidarietà, intesa
nel più profondo senso etico, trova anche un indiscusso fondamento
nei risultati della ricerca medica.
L’iniquità sociale è non solo negazione del valore universale dell’uomo, ma anche causa principale delle più importanti forme morbose oggi esistenti.
Cercherò di farvi capire cosa pensa un’anziana signora della isti-
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
389
tuzionalizzazione e dei suoi nipoti che l’hanno portata in una casa
albergo. Queste sono le sue parole.
‘‘Cari nipoti, sono molto contenta della nuova residenza per anziani, dove mi avete sistemata. Questa settimana, grazie al bel tempo,
siamo potuti uscire per un’oretta a passeggiare nel giardino, tra i cumuli dell’amianto, che avevano levato dal sottotetto. Un venticello
primaverile, sollevava un pulviscolo che ci è stato tanto caro: ricordava un po’ la neve con la quale giocavamo quando eravamo giovani.
Con quel pulviscolo e con quanto fuoriusciva dai nostri cateteri, abbiamo ottenuto un impasto che ci è servito per abbozzare anche una
timida battaglia a palle di neve. Sono stata un po’ triste in questi
giorni: la mia cara amica, quella che mi è stata assegnata come compagna di camera e che dormiva nel letto accanto a me, è morta due
giorni fa. Sono passati due anni dall’ultima volta che siete venuti a
trovarmi: immagino che siate molto occupati. Non fa niente; nel frattempo, ho imparato ad usare Internet e ne approfitto per inviarvi la
mia foto più recente, scattata due giorni fa. Vi aiuterà a sentirmi più
vicina al vostro cuore, malgrado le distanze. Con tutto il mio amore,
baci e abbracci, la vostra cara nonnina’’.
G. Gortenuti: ‘‘Ringrazio entrambi gli oratori. La tua relazione Zuccaro, è stata articolata, complessa e molto profonda. Fa pensare. Ci
hai mandato tanti messaggi alcuni di conforto, altri meno.
Sappiamo che nel mondo anglosassone, il trapianto è negato a
pazienti con età superiore ai 50-60 anni. Questa scelta potrebbe portare anche all’abbandono totale degli anziani, per il benessere della
popolazione più giovane. Si può arrivare a questo paradosso.
Per fortuna, alla fine ci hai consolato con le parole del Papa e
con le prospettive che ci hai offerto.
Io adesso darei la parola al pubblico. Se qualcuno vuol fare qualche domanda ai due oratori, chiedere qualche chiarimento, è ben accetto. Prego’’.
G. Zavateri: ‘‘Dopo queste due relazioni è difficile porre delle domande perché sono cosı̀ complete, attuali.
Esprimo qualche pensiero che in questi ultimi periodi mi accompagna, lavorando in ospedale, vedendo quello che succede sul territorio, anche nelle cosiddette case di riposo. Sono un po’ in difficoltà
390
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
quando, come abbiamo visto e come si sente in tante riunioni, si dice
ogni male di queste case di riposo. Ma è proprio vero? Il male è solo
nelle case di riposo o anche nelle case?
Questa Assistenza Domiciliare Integrata, come viene fatta e, a
detta di tanti medici di famiglia, serve o non serve a qualcosa?
Ci sono dei punti fondamentali nell’assistenza degli anziani. È un
mondo talmente vario, talmente complesso, difficilissimo da inquadrare, per cui la regola prima, a mio modo di vedere, è quella di
non avere mai degli schemi fatti, rigidi, dei paletti.
Bisogna essere completamente aperti a trasferire rapidamente la
persona che ha bisogno, da un comparto all’altro, in funzione del bene del paziente. Questo è un concetto fondamentale. La rigidità nella quale viviamo, è una lacuna importante, che si ripercuote sugli anziani.
Purtroppo, prima di trasferire un degente da un ambiente all’altro, bisogna avviare una lunghissima procedura. A parte questo, i
tre momenti fondamentali sono: Ospedale-Casa di Riposo-Domicilio.
L’anello debole di questa realtà è la persona che non sta bene. Se
uno sta bene a 80 anni, alla società non costa alcunché.
L’anello fragile è la persona non autosufficiente, demente, allettata, neoplastica o affetta da malattie cosiddette inguaribili, più che
incurabili. Ora, per queste persone nelle realtà sanitarie importanti
che richiedono una assistenza in più momenti della giornata, come
si può concepire un’Assistenza Domiciliare Integrata con una visita
una volta al mese?
Gli stessi medici di famiglia ritengono che sia assurdo. Per queste persone occorrono delle strutture in cui ci sia quell’assistenza che
in altri ambienti non c’è. Quindi, miglioriamo queste strutture.
Compito nostro, è quello di rendere più efficiente la realtà che
abbiamo, senza demonizzarla. Si vede che togliendo posti all’ospedale, aumenta la Lungodegenza, che vuol dire poi cronicità e disabilità.
Talvolta, si demonizzano le case di riposo, però sono le uniche in
grado di accogliere anziani abbandonati.
Dobbiamo adoperarci perché queste strutture funzionino in rapporto a chi ne ha bisogno.
La persona ammalata, anche non anziana, neoplastica terminale,
allettata per una serie di patologie, ha bisogno di essere assistita in
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
391
un ambiente altamente qualificato 24 ore su 24, notti, sabati e domeniche comprese.
Vi ringrazio’’.
G. Gortenuti: ‘‘Grazie Gaetano Zavateri, vedo che ci sono delle opinioni diverse. In pratica, per sintetizzare, secondo il tuo punto di vista né la famiglia, né l’ospedale, né la casa di riposo sono sempre
l’optimum. Ogni persona esprime un bisogno particolare e per ciascuna ci vuole una risposta. Non si può generalizzare.
Ecco, prego se vuoi rispondere o se vuoi fare delle considerazioni’’.
S. M. Zuccaro: ‘‘No, mi pare che tutto sia estremamente condivisibile e poi rientra in quello che è l’ottica della Geriatria, del continum
di cure, delle cure cosiddette intermedie. Le cure intermedie non
vanno considerate, come spesso è stato, una medicina meno importante.
Anzi, è proprio lı̀ che ci vuole una qualificazione particolare perché, altrimenti, il risultato è quello di peggiorare ancora le situazioni
di non autonomia e di disabilità. Quindi, non è certo una Medicina
secondaria quella della Lungodegenza, come diceva prima Matteo o
quella della casa di riposo, anzi è una Medicina che, secondo me, va
assolutamente valorizzata.
Il personale che lavora in queste strutture, deve essere competente e motivato.
Io porto avanti un’esperienza di Assistenza Domiciliare Integrata
ormai da tre anni con un’equipe, che è l’equipe ospedaliera, che va
nel territorio e fa Assistenza Domiciliare. C’è un’integrazione, non ci
sono due equipe diverse.
Questo progetto della Regione Lazio, è particolarmente ambizioso perché ci consente di dare una media di 23 ore settimanali al paziente a domicilio. Per ottenere dei risultati, però, è indispensabile
un qualche tipo di supporto familiare.
Rammentavo prima che oggi il 37% degli ultrasettantacinquenni
è un monofamiglia, cioè vive da solo. Se ha delle problematiche gravi
nella deambulazione, nel movimento, non si può spostare, anche se
gli porti l’assistenza domiciliare è chiaramente molto difficile mantenerlo a casa. Quindi, sono d’accordo completamente con te: cure
392
s. m. zuccaro - m. grezzana - g. gortenuti
graduate, grande intelligenza, grande sensibilità nel modulare il tipo
di cura’’.
G. Gortenuti: ‘‘Matteo, vuoi aggiungere qualcosa?’’
M. Grezzana: ‘‘Ribadisco ciò che ho detto prima. Sono convinto che
le case di riposo servano, non vorrei essere stato frainteso, in un caso
molto preciso.
Il paziente che non sia più autonomo e probabilmente non recuperabile e che non abbia alcun supporto familiare, trova giustificazione nella istituzionalizzazione. Sono convinto che questa sia l’unica
indicazione.
Negli altri casi, l’istituzione sarebbe un errore, a mio giudizio, e
stiamo parlando di istituzione come supporto sociale.
Diverso è il discorso per i malati di malattia organica, come ad
esempio i malati neoplastici. Anche qui, completamente fuori di polemica dal dottor Zavateri, che mi ha insegnato tante cose, dal quale
ho davvero imparato molto.
Io non credo, però, che gli Hospice siano la soluzione corretta. A
mio giudizio gli Hospice sono troppo vicini alla casa di riposo come
organizzazione sanitaria e gli Hospice mi danno davvero l’idea del
punto di non ritorno. Mi sembra che si potrebbe scrivere sopra ‘‘Lasciate ogni speranza voi che entrate’’, però, è un’opinione personale’’.
G. Gortenuti: ‘‘Bene Matteo, giovane, ma già con idee chiare. C’è
qualcuno del pubblico che vuole aggiungere qualcosa?’’
S. M. Zuccaro: ‘‘Scusa Matteo, non per polemizzare assolutamente,
però io credo che anche l’esperienza dell’Hospice e parlo dell’Hospice per il malato oncologico terminale, non per altre situazioni, sia valida.
Io dirigo un Hospice, molto bello devo dire, che fa parte in qualche modo del mio dipartimento che ho cominciato a condurre 3 anni fa. Anch’io ero nella tua posizione ‘‘Lasciate ogni speranza voi che
entrate’’. Le speranze non erano molte, perché si tratta di malati terminali.
La speranza è soltanto quella di morire con dignità. Devo dire
la salute dell’anziano fra sanità e solidarietà
393
che la mia esperienza, invece, è bellissima. Non è che non muoiano,
perché, purtroppo, hanno circa 3 mesi di vita.
Sono ambienti altamente specialistici ove sono possibili cure palliative, ovviamente, per togliere il dolore. Togliere il dolore, può allontanare la prospettiva della morte. Non avere il dolore, comunque,
significa continuare a vivere se hai un ambiente intorno, empatico ed
adeguato. Quindi l’Hospice per il vecchio, per l’Alzheimer, forse, lo
vedo meno bene.
Nel malato terminale oncologico, dove il problema è quello della
nutrizione e del dolore, ci vogliono delle competenze specifiche.
L’ambiente deve essere adatto per consentire una morte dignitosa’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Vorrei ricordare che il dolore più forte non è quello del corpo, né quello dell’anima, ma l’abbandono’’.
M. Grezzana: ‘‘In questo senso, credo che ci sia moltissimo da imparare dall’esperienza, che Zuccaro ha fatto a Roma. Mi pare di capire che sia, a differenza di quanto dicevo un attimo fa, un Hospice,
che ha ‘‘imparato’’ molto dall’ospedale.
Ha preso il meglio dall’ospedale e ha portato cose nuove, cose
aggiuntive che sono indispensabili per questo tipo di ammalati. In
questo senso, credo che sia un’idea eccellente’’.
S. M. Zuccaro: ‘‘Senza andare lontano, mi è capitato di vedere l’Hospice di Belluno che è organizzato in questo modo e trovo che sia
assolutamente adeguato alla situazione. È anche molto bello strutturalmente’’.
G. Gortenuti: ‘‘Se non c’è nessuno del pubblico che debba aggiungere qualcosa, vorrei, prima di chiudere, ringraziare l’amico Grezzana, che ha organizzato dei Corsi nell’ambito della Scuola Medica
Ospedaliera di altissimo livello e diciamo ‘‘dulcis in fundo’’ ha chiuso
con due relazioni di profonda cultura ed umanità.
Grazie Gigi e, penso, che tutti noi ti dobbiamo fare un applauso’’.
MENTE E CERVELLO
G. Moretto - L. Corrà - C. Vivenza
L. G. Grezzana: ‘‘Buona giornata a tutti. Ho per voi tutti una grande
riconoscenza ed il motivo è presto detto.
La fatica nell’organizzazione di questa Scuola è tanta. A fronte di
questo impegno, su cui per decenza, non insisto, constatare che la
partecipazione è sempre cosı̀ massiccia, gratifica.
Lascio la parola ai relatori di oggi.
La volta prossima avrete un numero de ‘‘Il Fracastoro’’ ove sono
stati raccolti gli incontri di due anni fa e qualcos’altro. Siccome tutto,
tutto ha un costo e non solo economico, io vi prego di non buttarlo.
È in fondo un piccolo segno, che io vi voglio dare perché mi sembra
giusto fare cosı̀. Poi al termine, non so se lo farò all’ultima lezione o
un po’ più in là, perché si deve fare quel che si può, vi daremo un
altro numero de ‘‘Il Fracastoro’’ ove saranno raccolti gli incontri
di quest’anno.
Ho parlato anche troppo, lascio la parola a Carlo Vivenza per
l’introduzione ai lavori di questa giornata’’.
C. Vivenza: ‘‘Buona sera. Grazie alla Scuola Medica Ospedaliera, al
dottor Grezzana, grazie a tutti voi che siete qui.
Chi ha proposto questa nobile conversazione su ‘‘Mente e cervello’’, è certamente una persona che ha avuto un’intuizione valida. Mi
intrigava in qualche modo, però mi sembrava quasi di non riuscire a
capire bene che cosa si potesse chiedere ad un neurochirurgo, ad un
medico su questo argomento. Sono andato a guardarmi un po’ di
Letteratura presa da Internet. Dal 2000 in poi sull’argomento ‘‘Mente e cervello’’, sono comparsi innumerevoli studi.
Tavole rotonde, interventi, lavori, fatti tutti da persone altamente
396
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
specializzate, che vanno da filosofi, teoretici morali, religiosi, psicologi, comportamentalisti ed altri.
Ho cercato di leggere quello che dicevano su ‘‘Mente e cervello’’,
ma non riuscivo a capire alcunché. Era un linguaggio a me non usuale. Quando, dopo uno sforzo, cercavo di comprendere qualcosa di
più, la fine era solitamente diversa dai presupposti.
Questo mi ha fatto riflettere. Non c’era presenza, in questo dibattito, di molti medici.
La ragione può essere anche semplice: non che i medici si sentano in questo lontani, anzi. Alcuni di questi dibattiti sono veramente
belli, interessanti, evocano svariate possibilità.
Però io che sono medico, mi lego molto a quello che scrisse uno
dei più grandi neurologi, nato a Melbourne, John Eccles, dal quale
andarono vari psicologi. Chiese loro cosa conoscessero del neurone e
delle sue connessioni. Questi risposero riportando soprattutto qualche teoria antiquata.
A quel punto John C. Eccles disse, di rimando, che fin quando non ci fosse stata una maggior intesa fra psicologi e neurologi,
non si sarebbero potute chiarire le connessioni fra mente e cervello.
Quindi, è logico pensare che ci vorrebbe la presenza di psicologi.
Qualcuno lo vedo, fra il pubblico e sarà importante il suo parere. La
Medicina è scienza ed arte. E come scienza, è molto complessa.
Certamente è scienza l’Anatomia, la Radiologia, forse la Radiologia in parte è più tecnica, ma in Medicina la componente artistica è
ineludibile.
Chiudere, certe volte, un aneurisma estremamente difficile, non
è un’opera di un orologiaio, può diventare un’opera artistica. Quindi
è su questo che si deve pensare.
Dovremo mettere forse un po’ a freno, quantomeno noi come
tavolo attuale, le richieste senz’altro molto pertinenti cui non sapremmo, probabilmente, rispondere. Gli psicologi ci chiederanno
qualcosa a riguardo, ma difficilmente, noi riusciremo a soddisfare i
loro quesiti.
Possiamo soltanto dire che proveniamo da Ippocrate, perché la
Medicina nasce lı̀ ed anche il cervello, in qualche modo, nasce lı̀. Ippocrate, per primo, disse che l’attività psichica era presente e si localizzava nel cervello. Non era una cosa da poco.
mente e cervello
397
Non diceva questo cosı̀, tanto per dire. Lo diceva perché aveva
visto che in certe malattie e in certi traumi cerebrali si manifestavano
determinati deficit, comparivano cioè malattie neurologiche.
Da questo punto di vista, anche Aristotele, era medico. Da lui
noi abbiamo imparato a concepire e a ragionare.
La logica aristotelica è la nostra logica. Probabilmente, è la logica
di tutti, è la logica di questa società, è la logica dei computer. Aristotele è stato il primo a dire: ‘‘o è A o è B, tertium non datur’’.
Forse qualcuno se lo ricorda. L’osservazione è spontanea e poi
ragionata. È su questo che si sono basati il Medio Evo ed il Rinascimento.
Su questo argomento c’è quel meraviglioso libro di Andrea Vesalio ‘‘De humani corporis fabrica’’ che è del 1500 e si trova all’ingresso di questa sala. Il cervello compare già, c’è tutto com’è nella
realtà. Lo vediamo noi al tavolo operatorio, come nei migliori trattati.
E Vesalio è, forse, l’uomo più ‘‘rinascimentale’’ possibile. L’uomo che gira il mondo. Gira il mondo più di noi adesso, malgrado
tutto, e doveva girarlo con i mezzi di allora, del 1500. È uno che nasce a Bruxelles, che studia a Lovanio e a Parigi. Viene a Padova e a
Padova compie tutti i suoi più grandi studi.
È lı̀ che scrive il suo libro. Diventa medico di Carlo V. Ad un
certo punto della vita, sentiva la necessità di arrivare fino a Gerusalemme per espiare alcuni suoi peccati. In quel viaggio, è stato vittima
di un naufragio e quindi è morto nel 1564, ancora molto giovane,
essendo nato nel 1514.
Nel 1600-700 compare un pensiero raziocinante, che trova in
Cartesio il suo capostipite. Gli Inglesi erano più empiristi.
La storia dell’uomo, comunque, è andata avanti.
In epoca a noi più vicina, troviamo Moruzzi, uno studioso del
cervello, abbastanza dimenticato, tranne che dagli interessati agli stati di coma. Ha studiato lo stato di veglia, quindi gli stati di coscienza.
In fin dei conti, è passato un po’ inosservato nella nostra società,
malgrado fosse un grande neurofisiologo.
Siamo andati avanti fino a tutte le nuove possibilità che ci offre
per esempio la PET, la risonanza magnetica.
L’ultima risonanza magnetica, ci permette in vivo di vedere, ad-
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g. moretto - l. corrà - c. vivenza
dirittura il comportamento del soggetto. Si vedono determinate zone, quando entrano in funzione.
Questa è una cosa grande, che viene sfruttata già abbondantemente pur non essendoci ancora, non credo, anche se l’abbiamo richiesta, una risonanza ad altissimo campo magnetico (TESLA) in
Italia.
Ci sono degli studi che cercano di capire ove si possa localizzare
la fiducia. Gli Americani, sotto questo punto di vista, vanno avanti e
vanno cercando anche altre cose. Lo hanno fatto in una grande banca, per capire chi avrebbe potuto essere il presidente su cui riporre
maggiore fiducia.
Lo studio sul cervello sta progredendo. Ha portato, credo, a dei
risultati importantissimi. Sarà bellissimo un giorno poter, se il dottor
Grezzana lo organizzerà, fare un discorso molto più interdisciplinare.
Per adesso, io mi fermo a questo.
Il primo relatore, che è il dottor Giuseppe Moretto, è il Direttore
della Divisione di Neurologia del nostro ospedale.
Lascio a lui la parola. Prego’’.
mente e cervello
399
G. Moretto: ‘‘Buon pomeriggio a tutti. Io sono chiaramente in difficoltà per almeno due motivi.
Primo, per l’audience cosı̀ numerosa e cosı̀ qualificata. Vedo in
platea molti maestri. Spero saranno benevoli nei miei confronti.
Sono un po’ imbarazzato per il titolo di questo seminario. Non
l’ho scelto io.
Mi è stato ‘‘imposto’’ dal dottor Grezzana, qualche mese fa.
Mi ha raggiunto una sua telefonata con cui mi comunicava l’invito per questo incontro. Ha chiuso il nostro breve dialogo, dettandomi il titolo della mia lettura. Io ho provato ad insistere dicendo
che il tema era cosı̀ vasto che era impossibile affrontare, per un neurologo, una quantità di argomenti che andavano sotto la definizione
di ‘‘mente e cervello’’. Il compito affidatomi, malgrado sia arduo, è
esaltante.
Sono neurologo da più di vent’anni, durante i quali mi sono occupato di cervello e mi piace molto la mia professione.
Ho lavorato, come ricordava Carlo Vivenza, come clinico, come
neuropatologo, ho fatto anche un’esperienza di ricercatore e di biologo. Ho avuto una brevissima vocazione, un brevissimo interesse
per le malattie della mente... Brevissimo, poi mi è passato e mi dispiace. Il professore Balestrieri, qui presente, non me ne vorrà. Mi
sono detto: ‘‘Beh, ho qualcosa da dire’’ e vediamo se riuscirò a tenere
viva la vostra attenzione.
Innanzi tutto, dobbiamo, visto il tempo molto limitato e la vastità
dell’argomento, metterci d’accordo sulla terminologia.
È, per tutti noi, facile definire che cosa sia il cervello. Possiamo
dirlo più o meno scientificamente. È l’insieme di qualcosa come mille miliardi, diecimila miliardi, non lo sappiamo di preciso, di cellule
nervose che compongono quello che sta dentro alla nostra teca cranica.
Se, invece, vogliamo dare una definizione molto meno scientifica, però secondo me molto piena di significato, andiamo in prestito
da ‘‘L’opera in nero’’ di Marguerite Yourcenar.
L’autrice, ad un medico del ’500, attribuisce questa definizione:
‘‘Il cervello è l’alambicco dove si distilla l’anima’’. Su questo, magari,
ci ritorneremo più tardi.
Ho trovato, inoltre, molto più difficile dare un concetto generale
e condivisibile da tutti di ‘‘mente’’. Penso che ciascuno di noi, qui
400
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
dentro, darebbe una definizione un po’ diversa, almeno nelle sfumature.
Allora mi sono aiutato con il dizionario ed ho trovato questa definizione: ‘‘Complesso delle facoltà umane che si riferiscono al pensiero, all’intelletto, alla percezione, alla memoria, all’intuizione, nell’integrazione dinamica e in continuo divenire, che avviene nel soggetto cosiddetto superiore come è l’uomo’’.
Definiti i termini, chiariamo i tempi. Non sono in grado di trattare il problema della mente e del cervello a partire dall’evoluzione
dell’uomo. Ritengo, che ‘‘mente e cervello’’ siano l’ambito della ricerca. Questo campo, va, sotto il nome di ‘‘Neuroscienze’’.
Allora a me piace, oggi, proporvi alcune riflessioni su quelle che
sono le Neuroscienze, su cosa bolle in pentola nel grande calderone
delle Neuroscienze, in quest’epoca storica particolare.
All’inizio vi parlerò di aspetti relativi ad alcune facoltà e proprietà della mente e, nella seconda parte, tratterò ciò che è più attinente
e vicino al cervello. È chiaro che il tempo limitato non mi permetterà
di approfondire i temi specifici che affronterò, ma vi darò una sorta
di saggi, di piccole impressioni, su cui poi potremo tornare a seconda dell’interesse dell’audience.
L’ultima decade del secolo scorso, è stata proclamata dal Congresso Americano, come la ‘‘Decade del Cervello’’ su suggerimento
della Società Americana di Neuroscienze. L’intento era quello di dedicare energie, ricerca ed investimenti economici, per cercare di capire ed approfondire peculiari aspetti di alcune malattie della mente.
Secondo l’American Psychiatric Association si spendono negli
Stati Uniti circa almeno 300 miliardi di dollari all’anno per il cervello. Una cifra considerevole, molto più grande di quella che viene investita per malattie importanti come le malattie cardiache, le neoplasie e cosı̀ via.
Eppure, malgrado questo grande investimento di risorse economiche ed umane, alla fine del secolo scorso, quindi alla fine della
‘‘Decade del Cervello’’, un grande scrittore americano John Horgan
esce con un libro molto affascinante, molto interessante che è di facile lettura anche per i non addetti ai lavori.
Questo libro si intitola ‘‘Undiscovered mind’’ ed è in Italia pubblicato dalla Cortina Editore con il titolo di ‘‘La mente inviolata’’.
John Horgan dice, ad un certo punto, che il lavoro di neuro-
mente e cervello
401
scienziati ed altri appartenenti al mondo delle Neuroscienze, lascia
in questo momento, più domande inevase che problemi risolti. Egli
ritiene, da una osservazione fatta da un grande fisico francese Gabriel Boutry, che in questo momento, diversamente da quello che
succedeva in passato, non sia più l’emulazione che domina all’interno dei gruppi di ricerca, ma la rivalità.
Quindi l’ansia del ‘‘publish or perish’’ sembra pervadere il mondo delle Neuroscienze in particolare. Egli ritiene che in questo momento, ed io sono d’accordo con questa osservazione, la quantità di
pubblicazioni dell’insieme dei ricercatori stipendiati, rischia di essere
determinata non tanto da ciò che hanno da dire di nuovo, di interessante, di utile, ma dal fatto che debbano comunque pubblicare ad
ogni costo.
John Horgan va avanti nella sua disamina, con scetticismo rispetto alla possibilità dei neuroscienziati di spiegare la mente umana. Saranno semplicemente sopraffatti dalla complessità, dalla portata del
loro oggetto di studio.
Questo sarà tanto più vero, tanto più importante, quando andranno ad affrontare il più inevitabile ed ineffabile dei fenomeni naturali che è la coscienza.
Ma non tutti hanno un atteggiamento cosı̀ pessimista su questo.
Vi è anche il partito degli ottimisti e mi riferisco in particolare, al britannico Wolpert. Egli ritiene che, nel campo delle Neuroscienze, siano state fatte scoperte rivoluzionarie rispetto a quanto sia stato osservato in campi scientifici più maturi.
Noi siamo alla vigilia, di un’epoca storica di grandi promesse, di
grandi scoperte.
Accanto a questo autore, si associano anche i fautori di un interessante movimento della Psicologia Evoluzionistica, sorta e sviluppatasi negli anni ’90 del secolo scorso.
Tale movimento, ritiene che i principi di Darwin, possano essere
applicati anche a terreni non proprio pertinenti alla biologia. Tra
questi autori, tra gli appartenenti a questo gruppo, vorrei citarne
due molto importanti Cosmides e Tooby.
Questi ritengono, per esempio, che la mente sia costituita e funzioni non tanto come un computer, ma quanto come dei moduli che
si siano perfezionati durante il corso dell’evoluzione. Tutto ciò a partire dai nostri antenati ‘‘raccoglitori’’ e ‘‘cacciatori’’, che dovevano ri-
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g. moretto - l. corrà - c. vivenza
spondere a bisogni primordiali che erano quelli di procurarsi del cibo, trovarsi un compagno o una compagna e procreare.
Questi scienziati, e non solo loro, ritengono che ormai ci siano
delle evidenze ben precise che facoltà e proprietà della mente abbiano basi biologiche ben codificate.
Tra queste, vorrei spendere qualche parola sul concetto della
bellezza, sui comportamenti altruistici, ovviamente, sulla coscienza
ed sul libero arbitrio.
Dati sperimentali recenti, cui hanno contribuito anche ricercatori italiani, sembrano confermare che vi siano delle basi innate nella
nostra percezione estetica.
Vorrei soffermarmi su un esperimento, molto interessante, condotto in particolare dai ricercatori del gruppo della ‘‘Normale’’ di Pisa, fra cui Alessandro Cellerino.
Hanno osservato che, quando un soggetto analizza dei volti, vi è
un’attivazione di una sua area cerebrale situata in particolare nel giro
fusiforme del lobo temporale dell’emisfero non dominante.
Quando vi è una attivazione di quest’area, se il soggetto esamina
volti esteticamente piacevoli e volti sorridenti, contemporaneamente,
si ha un’attivazione di un’area situata molto più anteriormente, cioè
nella corteccia frontale che è un’area deputata all’integrazione, all’esame di emozioni molto complesse.
Questo, secondo me, è un esperimento molto interessante che fa
vedere la relazione tra senso estetico, percezione e corteccia.
Un altro esperimento è stato condotto da uno psicologo americano, il dottor Devendra Singh del Texas Institute of Psychology,
il quale ha voluto esplorare i gusti estetici dei maschi nei confronti
del corpo femminile. Lo studioso ha mostrato, a molte centinaia
di maschi appartenenti a diversi gruppi culturali, etnici, selezionati
per età e per classi sociali diverse, delle immagini femminili cosiddette sexy.
Ha notato che, per quanto riguarda alcuni aspetti del corpo femminile, il naso, il volto, il seno, vi fossero differenze di gusti tra i vari
gruppi e all’interno degli stessi.
Per quanto riguarda, invece, il corpo in generale, tutti i maschi
trovavano sessualmente attraente il corpo femminile che avesse un
rapporto vita-fianchi uguale a 0,7. È un dato ritenuto importante,
mente e cervello
403
da Singh, perché la selezione naturale si correla in un certo modo
con la fertilità o con il potenziale riproduttivo della donna.
Secondo W. Hamilton, biologo britannico, la selezione naturale
avrebbe favorito anche l’emergere di comportamenti altruistici, se
avessero aumentato le prospettive di riproduzione dei parenti dell’individuo. Questo, potrebbe spiegare i rischi e sacrifici, che padri
e madri, corrono per assicurare la sopravvivenza dei propri figli e
dei loro parenti più stretti.
Ma quello che ha destato e continua a destare enorme interesse
tra i ricercatori, tra i neuroscienziati della mente, è la coscienza. È
l’enigma della coscienza.
Sappiamo che cosa sia la coscienza di base, cioè la consapevolezza di quello che è esterno a noi stessi. Conosciamo quali siano
le stazioni d’ingresso del processo attraverso il quale si realizza la coscienza.
Piccoli gruppi di cellule nervose collocate nel tronco dell’encefalo, i nuclei del rafe e il locus coeruleus, sono necessari per avviare lo
stato di coscienza. Moruzzi, è stato un pionere di questi studi.
Il processo della coscienza, però, è estremamente più complesso
e coinvolge anche aree superiori: il sistema limbico legato all’elaborazione dei sentimenti ed il sistema ippocampale legato all’elaborazione della memoria.
Solo quando vengono attivate anche queste aree, da un insieme
unisono di miliardi di cellule che scaricano e attivano determinate
aree corticali, si realizza il fenomeno della coscienza, della consapevolezza di sé e della consapevolezza dell’altro.
È un complesso di meccanismi, di attivazioni neuronali, che avvengono nell’arco di frazioni di secondo, ma che coinvolgono miliardi e miliardi di cellule. Noi conosciamo questo, oggi.
Però, non ci è noto quale sia la natura fisica e fisiologica della
coscienza. Non sappiamo se, quando si realizza il processo di coscienza, avvengano delle modificazioni biologiche nei neuroni o semplicemente delle modificazioni elettriche, dinamiche, transitorie. In
definitiva, sappiamo poco.
Però se la coscienza è un enigma, il libero arbitrio è l’enigma degli enigmi.
Che cos’è il libero arbitrio? È la sensazione per noi stessi di es-
404
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
sere liberi nelle scelte decisionali che accompagnano la vita di ogni
giorno.
Allora, riflettiamo su quello che ho detto poc’anzi.
La scelta volontaria decisionale, cioè tutto quello che avviene all’interno e all’esterno di noi, diventa cosciente quando vengono attivate le aree corticali. Ma le aree corticali vengono attivate alla fine di
un lungo processo, breve nel tempo, ma lunghissimo per complessità, che coinvolge i centri cerebrali sottonucleari.
Tutto questo, avviene al di fuori del nostro controllo volontario.
Quindi, il libero arbitrio è un libero, a mio avviso, per modo di dire.
L’Io cosciente, perciò, non esercita un ruolo decisivo sulle azioni che
considera prodotte autonomamente, ma ha, tutt’al più, un compito
consultivo.
A questo punto, è d’obbligo una considerazione.
Se vengono investite cosı̀ tante quantità di energie economiche,
di energie intellettuali, per studiare la mente, per studiare il cervello,
perché esiste un cosı̀ grande gap esplicativo all’interno delle Neuroscienze? Perché abbiamo cosı̀ tanti buchi neri e cosı̀ poche luci nel
sistema nervoso centrale?
I motivi sono molteplici. Uno di questi, a mio avviso, è che studiare il cervello costituisce un compito difficile e complesso.
Quando Tom Wiesel, un premio Nobel per le Neuroscienze,
venne a sapere che il Congresso Americano aveva dichiarato la decade scorsa come la ‘‘Decade del Cervello’’, disse: ‘‘Non è sufficiente
una decade per comprendere come funzioni il cervello. Non è sufficiente forse un secolo. Probabilmente, noi abbiamo bisogno di almeno un millennio.
Esiste un secondo motivo per cui ci troviamo di fronte a questo
gap esplicativo.
Studiare la mente, studiare il cervello umano, studiare l’individuo è estremamente difficile perché noi rappresentiamo un esperimento unico. Ogni individuo è costituito da una singolare combinazione di fisiologia, di entità sociale e valori personali. Pertanto, noi
non possiamo applicare la regola galileiana della riproducibilità degli
esperimenti, quando andiamo ad affrontare questo aspetto.
C’è un terzo ed importantissimo punto da tenere in considerazione.
Noi ci troviamo di fronte, in questo momento, ad una grande di-
mente e cervello
405
visione dei neuroscienziati. Gli scienziati della mente e gli scienziati
del cervello, sono come divisi su due sponde.
Questo era già stato sottolineato ed osservato da Sherrington,
ancora nel 1932, quindi, moltissimi anni fa.
Sherrington è stato un neurofisiologo vincitore del Premio Nobel per le Neuroscienze. Sosteneva che nella formazione medica, nell’esercizio professionale, i neurologi stanno da una parte e gli psichiatri stanno dall’altra. L’una e l’altra parte, si accusano di pregiudizi reciproci. Il fisiologo, il neurologo, il neurofisiologo, non
conoscono abbastanza sul rapporto tra cervello e mente. Cosı̀, non
sono di aiuto allo psichiatra.
Però, non tutti la pensano cosı̀. C’è chi vuole ed ha tentato di
superare questo gap esplicativo.
In questo momento, a me piace ricordare l’opera di Erik Kandel
ed i suoi studi su un mollusco: la Aplysia Californica.
Erik Kandel è un grandissimo, famosissimo neurobiologo, ancora attivo. È stato insignito del Premio Nobel per le Neuroscienze negli anni ’90 del secolo scorso. Ha abbandonato gli studi e la professione di psichiatra, di psicoterapeuta, nella metà degli anni ’80. Si è
rinchiuso in un laboratorio e si è dedicato allo studio di un mollusco
dal sistema nervoso estremamente semplice, costituito da un solo
neurone, un neurone gigante. È l’Aplysia Californica.
Egli ha osservato che quando il mollusco apprende, si ottengono
delle modificazioni biochimiche e biologiche all’interno di questa
cellula.
Mutuando queste osservazioni dalle precedenti esperienze di psichiatra e psicoterapeuta, osserva ed ipotizza come il vissuto dell’individuo possa produrre modificazioni del comportamento, attraverso effetti biochimici e genetici.
La psicanalisi e la psicoterapia potrebbero, in definitiva, produrre effetti simili sul paziente trattato.
Secondo lo studioso, è auspicabile che le intuizioni della psicanalisi possano contribuire alla ricerca di una più profonda comprensione delle basi biologiche del comportamento.
L’ultima parte di questo seminario, la vorrei dedicare a problematiche più relative al cervello, alle sue funzioni, alle prospettive
che in seguito a conoscenze, a scoperte recenti, potrebbero avere
nella cura di malattie neurologiche.
406
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
L’apporto della tecnologia è stato determinante per fare avanzare le Neuroscienze e la conoscenza nel campo delle Neuroscienze.
Negli anni ’70, del secolo scorso, l’avvento della tomografia assiale
computerizzata era stato salutato dai neurologi, dai neuroradiologi
e dai neurochirurghi, come un clamoroso passo avanti nello studio
e nell’indagine del funzionamento del cervello.
Quello era soltanto un primo passo di ciò che sarebbe avvenuto
di lı̀ a poc’anzi, con l’avvento di altre tecnologie più sofisticate, quali
la risonanza magnetica, la PET e la risonanza magnetica funzionale.
Queste nuove indagini strumentali, hanno permesso di entrare
nel cervello umano, di studiarne le sue più profonde ed intime peculiarità. Si può vedere come aree del S.N.C., vengano attivate quando
si chiede al soggetto esaminato, di compiere dei movimenti o per
esempio quando gli si propongano degli stimoli uditivi e degli stimoli visivi.
La tecnologia ha dato un grande aiuto, ha fornito strumenti
estremamente importanti. Gli scienziati hanno fatto del loro meglio
ed hanno dato il loro apporto.
Mi piace ricordare, in questo momento, una grande acquisizione
che è stata fatta negli ultimi anni, secondo la quale il cervello sta imparando a riparare se stesso. Non voglio dire che sia finito il compito
di noi neurologi e soprattutto dei neurochirurghi. Per entrambe le
classi di professionisti c’è ancora moltissimo da fare, però il cervello
comincia a ‘‘metterci del suo’’ o meglio, cominciamo a rendercene
conto.
Gli anni ’90 del novecento, vedono cadere l’assioma secondo il
quale il cervello adulto non è capace di rigenerazione.
Tutti noi, la mia generazione, la generazione precedente, sono
cresciute con la convinzione che, una volta maturato, il cervello
non fosse più in grado di produrre alcun cambiamento perché le cellule nervose non erano in grado di moltiplicarsi, di riprodursi.
Oggi, sappiamo che questo è vero solo parzialmente.
Agli inizi degli anni ’90 mi trovavo in un laboratorio del Nord
America ed un giorno mi capitò tra le mani l’ultimo numero di
una rivista scientifica molto prestigiosa. Veniva riportato l’esperimento di un gruppo di studiosi, che erano un po’ nostri avversari
e lavoravano in una città vicina.
Questi ricercatori, avevano descritto un particolare tipo di cellu-
mente e cervello
407
le nervose che definivano strane, non sapevano bene come meglio
classificarle.
Più tardi, ho conosciuto uno di questi ricercatori, il dottor Angelo Vescovi che, attualmente, lavora al San Raffaele di Milano.
Mi ha descritto come, in quella occasione, aveva messo a punto le
prime tecniche per isolare e coltivare le cellule staminali. Adesso,
tutti noi sappiamo o molti di noi sanno che cosa siano le cellule staminali. Ci aspettiamo miracoli dalle cellule staminali, ma lui, il dottor
Angelo Vescovi, già da allora aveva cominciato ad entrare in questo
mondo estremamente affascinante.
Sono cellule che si sono arrestate nella fase della maturazione
neuronale e non è vero che il cervello sia costituito solo da cellule
‘‘finite’’ che non si riproducono più. In aree particolari, attorno alle
cavità ventricolari, si possono trovare dei nidi di cellule che sono indifferenziate. Queste, opportunamente isolate e stimolate con dei
fattori di crescita, possono riprodursi, maturare. Diventano cosı̀, cellule neuronali capaci di svolgere compiti ben precisi a seconda delle
aree del cervello in cui vengono messe, oppure, possono svolgere la
funzione di cellule gliali. Questo è estremamente importante.
L’indicazione al loro uso, eventualmente, lo vedremo in sede di
discussione. Però, va sottolineato che c’è un’eccessiva aspettativa da
parte dei pazienti affetti da malattie degenerative e non solo, per le
cellule staminali.
Ci sono moltissimi passi avanti da fare per poter implementare,
per poter pensare che l’uso delle cellule staminali rientri nella pratica
clinica per curare le malattie.
Gli ultimi anni del secolo scorso, hanno visto il ritornare alla ribalta della notorietà, una cellula. Non è una cellula nuova che è stata
scoperta. Si è ridato il valore e la funzione ad una cellula per lunghissimi anni ritenuta una cellula ‘‘ancillare’’, una cellula di supporto.
L’astrocita è una cellula estremamente importante, che svolge
ruoli fondamentali in tutte le tappe dello sviluppo della sinaptogenesi e nei processi di riparazione del cervello. Moltissimi gruppi di ricerca, hanno contribuito a chiarire il ruolo di questa cellula, come il
gruppo di ricerca presso cui ho lavorato. Alcuni ricercatori ritengono, addirittura, che la vera cellula nobile del cervello sia l’astrocita e
non il neurone, considerato solo come un conduttore di impulsi elettrici.
408
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
Inoltre, sembra che quando il cervello va soggetto a danni biologici di qualsiasi natura, l’astrocita sia fondamentale nei processi di
riparazione.
L’ultimo aspetto, su cui vorrei trattenervi ancora un minuto, è
questo. Recentemente, è stato pubblicato un esperimento, per me
estremamente importante ed affascinante. È stato realizzato da un
gruppo di ricercatori al Max Planck Institute di Monaco. Si tratta
di uno degli Istituti, dei Centri di Neurologia, di Neuroscienze,
più prestigiosi nel mondo.
I ricercatori, sono riusciti ad accoppiare neuroni con chip di silicio e metterli in un campo elettrico. Hanno visto che queste due
strutture comunicano, si mandano dei messaggi e le possibili implicazioni di questi esperimenti, sono straordinarie.
Potrebbero abbattere i confini fra biologia ed elettronica ed unire le capacità cognitive della mente con le potenze del computer. Potrebbero trasmettere, chissà mai quando, forse anche presto, i nostri
pensieri alla macchina.
In conclusione: noi siamo un gomitolo di qualche migliaio di miliardi di cellule nervose. Se noi affrontiamo il problema dello studio
della mente e del cervello sotto questo aspetto, ritengo che sia sbagliato, riduzionista e finirebbe per metterci in grosse difficoltà. Finiremmo in un vicolo cieco.
Forse siamo all’alba di un momento in cui vediamo che i due
gruppi di ricercatori, di studiosi, che si occupano di ciò che sta dentro di noi, cioè la mente e il cervello, cominciano a dialogare.
Psicologi e i filosofi ipotizzano un approccio biologico per processi mentali. D’altra parte, si inizia a vedere che i neuroscienziati accettano che nello studio sui processi cognitivi, sui processi difficili
del linguaggio, ci possa essere anche il contributo dello psicologo
e del filosofo. Credo che questo sia un elemento, un passaggio fondamentale perché noi possiamo veramente cominciare a capire come
funziona ‘‘quell’alambicco’’ che è il nostro cervello.
È importante che i neuroscienziati, e tutti coloro che si occupano quotidianamente di questo affascinante argomento che è la
mente, che è il cervello, abbiano un dialogo e mettano in comune
le loro conoscenze. Dovranno competere sicuramente, ma anche
integrarsi.
Nell’introduzione della ‘‘Mente inviolata’’, John Horgan sostene-
mente e cervello
409
va che il lavoro di neuroscienziati lascia più domande inevase che
problemi risolti. È vero. Però c’è la possibilità di andare avanti e
fin tanto che noi saremo mistero per noi stessi, continueremo a studiarci perché, probabilmente, questa è l’ultima ed invalicabile frontiera della scienza.
E finisco. Solo attraverso questi sistemi, queste premesse, noi potremo cominciare a capire come agiamo. Si inizia a comprendere il
comportamento dell’Homo Sapiens Sapiens, capace di edificare e
correggere la conoscenza sul mondo esterno, capace della critica
su se stesso. Inoltre, ci chiariremo anche l’evoluzione dei sistemi cognitivi in altre forme viventi. Grazie’’.
C. Vivenza: ‘‘Adesso, seguendo abitudini ormai inveterate, parlerà
un giovane medico, Luigi Corrà.
Si è laureato a Verona, è già specialista in Geriatria ed è uno dei
più fortunati, perché già strutturato nel reparto del dottor Grezzana
nella III Divisione di Geriatria. Dottor Corrà’’.
410
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
L. Corrà: Il rapporto fra mente e cervello è antico quanto l’uomo.
Una tappa fondamentale si ebbe, comunque, nell’anno 1864. In
quell’anno iniziò, infatti, la pubblicazione a puntate su un periodico,
di ‘‘Memorie del sottosuolo’’ di Fedor Dostoevskij. Inizialmente,
l’intento dell’autore era quello di realizzare una sorta di introduzione
ad un voluminoso romanzo, ma l’idea più tardi venne abbandonata.
‘‘Memorie del sottosuolo’’, rappresenta una polemica esplicita e
raffinata contro ogni tentativo di ridurre la Psicologia, lo studio della
mente, alla pura Anatomia e alla Fisiologia nervosa.
L’anno precedente, infatti, il 1863 vide la pubblicazione degli
studi di Ivan Michailovic Secenov, ‘‘I riflessi encefalici’’. Il suo lavoro
gettò le basi di un indirizzo di ricerche di Psicologia, interamente
fondato sulla fisiologia del cervello.
L’obiettivo dichiarato dell’autore, era di dimostrare come comportamento, volontà e libero arbitrio dell’uomo, derivassero ‘‘dal
funzionamento di un meccanismo relativamente semplice’’. In altre
parole, Secenov sosteneva la sovrapposizione ed il reciproco condizionamento di fenomeni elettrofisiologici cerebrali e fenomeni psichici.
‘‘Memorie del sottosuolo’’, che fu indicato da Nietzsche come il
capitolo primo di una teoria dell’inconscio già prima di Freud, vuole
essere un confronto al riduzionismo o materialismo, di Secenov, in
quanto propone l’idea di fenomeni e contenuti mentali che resistono
ad ogni tentativo di analisi e di spiegazione di tipo fisiologico.
Quegli anni, rappresentarono una tappa storicamente importante nell’analisi dell’antico problema dei rapporti fra mente-corpo e
mente-cervello. Protagonisti di questa animata disputa culturale, furono non soltanto scienziati, medici e biologi, ma anche filosofi e
scrittori.
‘‘I riflessi encefalici’’, cioè l’anatomia e la fisiologia nervosa da un
lato, venivano, dall’altro, contrapposti al ‘‘sottosuolo’’, vale a dire all’inconscio, alla psicologia.
La comprensione delle modalità funzionali della mente è, peraltro, un assillo molto antico. Un problema affrontato dagli studiosi
dell’antichità e non ancora risolto dai ricercatori di oggi.
Ippocrate, 2300 anni addietro, aveva individuato il cervello come
l’organo del pensiero. A causa della pressoché completa ignoranza
mente e cervello
411
della struttura e delle funzioni cerebrali, mente e cervello, non erano
che oggetto di speculazioni filosofiche.
Democrito affermava, che i processi mentali erano la risultante
dell’attività caotica degli atomi all’interno della scatola cranica.
Questo stesso concetto venne, più tardi, ripreso da Hobbes e
dalla Scuola Empirista inglese, che considerava l’attività cognitiva
come una complessa forma di calcolo matematico.
Di natura diametralmente opposta a queste posizioni ‘‘materialistiche’’, fu quella di Platone, secondo il quale il pensiero consisteva
in una entità di natura non fisica, ma astratta, totalmente indipendente dalla corporeità che lo contiene.
Il concetto fu poi sviluppato da Cartesio, che proponendo una
dicotomia fra ‘‘res extensa’’ e ‘‘res cogitans’’, considerava mente e
cervello enti completamente a sé stanti.
Solo molto più tardi, si impose la concezione secondo cui stati e
processi mentali sono la conseguenza dell’attività di stati e processi
fisici che avvengono all’interno del cervello.
Non dobbiamo dimenticare che il cammino della scienza medica
nello studio del cervello, fu molto lungo e laborioso.
Dalle prime trapanazioni cerebrali di oltre 7000 anni fa a scopo
di studio, di cui si sono trovati reperti in vari paesi, si giunse solamente nel XX secolo alla prima registrazione intracellulare di un potenziale di azione, lavoro pubblicato su Nature nel 1939.
Un’importante accelerazione di questo studio, si è osservata solamente negli ultimi due decenni, grazie ai risultati della Neurobiologia.
L’esasperante lentezza nel progresso delle conoscenze sul cervello, se paragonato a quello che ha caratterizzato altri settori della Biologia, risulta tuttavia comprensibile.
D’altra parte, questo organo, nella specie umana, consiste di
un’immensa ed inestricabile rete di circuiti che interconnettono un
centinaio di miliardi di cellule nervose, costituendo un sistema di
estrema complessità.
Le principali correnti di pensiero riguardo il rapporto fra mente
e cervello, sviluppate in passato, ma che ancora oggi conservano una
validità concettuale, possono essere cosı̀ distinte e semplificate.
Ipotesi dualista, ipotesi riduzionista o materialista, ipotesi delle
proprietà emergenti.
412
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
L’ipotesi dualista rappresenta la visione più antica, quella che ha
goduto di maggior successo fra i filosofi e gli studiosi del passato.
Secondo questa concezione, attività cerebrali ed attività psichiche
sono qualitativamente differenti e non originano da medesimi meccanismi.
La mente viene talvolta intesa come anima, altre volte, come soffio vitale. In ogni caso, sempre come qualcosa di ‘‘altro’’, di qualitativamente ‘‘diverso’’ rispetto all’attività di neuroni e sinapsi.
Non dobbiamo dimenticare che, ancora oggi in ambito medico,
a livello accademico, esiste una netta distinzione fra le Scienze del
Cervello quali Neurologia, Neurochirurgia e Neurobiologia e le
Scienze della mente come Psicologia, Psichiatria e Psicoanalisi.
L’ipotesi riduzionista o materialista paragona, in sostanza, il cervello ad un computer. Grazie ai progressi della Neurobiologia, soprattutto negli ultimi due decenni, si è compreso il modo con cui i
neuroni comunicano fra loro e con il resto dell’organismo. Si è colta
l’importanza di molte aree del cervello implicate nella visione, nella
memoria ed in molti altri processi e funzioni cerebrali.
L’ipotesi delle proprietà emergenti, ha spinto un numero crescente di studiosi a sostenere una correlazione funzionale diretta,
senza soluzione di continuità fra neuroni, cervello e mente. Questo
tipo di approccio non considera, però, il fatto che, frequentemente
in natura, una funzione non è la semplice risultante della somma delle sue parti.
Secondo questa teoria, ogni qualvolta si assiste ad un aumento
della complessità di un qualsiasi sistema in analisi, si può osservare
il prendere forma di nuove funzioni, di nuove peculiarità, spesso
non previste.
Si complica cosı̀, o si rende addirittura impossibile, la comprensione delle modalità con le quali tali nuove proprietà si siano generate.
In altre parole, questa ipotesi sostiene che il cervello e la sua organizzazione, i processi neurofisiologici, possiedano una complessità tale da fare emergere proprietà funzionali imprevedibili, cioè i
processi mentali, rendendone pressoché impossibile la comprensione.
Oltre a questo, la mente non solo emerge dal sistema complesso che è il cervello, ma è inserito in un organismo con il quale è in
mente e cervello
413
continuo scambio di informazioni. Esso muta ed evolve nel corso
dell’esistenza e, a sua volta, è inserito in un contesto sociale e culturale.
Il cervello, in quanto parte di un organismo vivente, col passare
degli anni invecchia. Il problema è diventato di estrema attualità, negli ultimi anni, anche a fronte di un importante incremento della fascia di popolazione ultrasessantacinquenne.
Il XX secolo, infatti, ha assistito ad una vera e propria rivoluzione della struttura demografica della società. Si è passati dall’1% di
anziani dei primi anni del ’900, al 25% del 1998, per giungere, secondo proiezioni recenti, fino al 35% nel 2025 (figura 1).
Il modo di invecchiare del cervello è espressione sia dei mutamenti fisiologici subı̀ti dal sistema nervoso durante la vita (senescenza), ma anche e soprattutto, da una serie di fattori legati all’ambiente
(stile di vita, ruolo familiare, società, personalità) ed alla presenza di
patologie pregresse o attuali.
Da un punto di vista macroscopico, il cervello senile è caratterizzato da un peso minore, in virtù di un decremento medio stimato di
circa 2-3 grammi l’anno, dopo i 60 anni.
Figura 1 - Percentuale di >65 aa nella società in diverse epoche.
Solchi e ventricoli cerebrali tendono ad ampliarsi, mentre il volume degli emisferi si riduce. La fisiologica atrofia del cervello che
invecchia, interessa inizialmente la sostanza grigia, successivamente,
la sostanza bianca. Si associano calcificazioni e fibrosi delle meningi,
ateromasia e sclerosi dei vasi.
Da un punto di vista microscopico, con l’invecchiamento, si os-
414
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
serva una progressiva riduzione del numero dei neuroni, che si associa ad una semplificazione delle ramificazioni dendritiche e ad una
progressiva riduzione del volume neuronale.
Le alterazioni anatomiche senili sembrano coinvolgere maggiormente, o meglio, più precocemente, alcune aree cerebrali, quali la
corteccia pre-frontale, frontale, temporale, l’ippocampo ed alcune
aree sottocorticali.
Ancora, da un punto di vista microscopico, l’invecchiamento cerebrale si caratterizza per la comparsa di elementi morfologici caratteristici, di natura involutiva: lipofuscine, degenerazione granulo-vacuolare, corpi di Lewy, grovigli neurofibrillari, placche senili, corpi
di Hirano.
Il processo involutivo senile cerebrale coinvolge anche i sistemi
neurotrasmettitoriali. È stata documentata una riduzione di attività
del sistema colinergico, anche se non in modo costante, una riduzione del sistema serotoninergico, dopaminergico, noradrenergico e
GABAergico.
Il cervello, dunque, invecchia. Ma per comprendere a fondo la
psicologia dell’invecchiamento, per capire come invecchia il singolo
individuo, non è sufficiente lo studio delle modificazioni anatomiche
e funzionali del cervello.
La delicata omeostasi psicosomatica dell’anziano, può essere minata per la comparsa di numerosi fattori, che non possono essere
studiati al microscopio o tramite indagini radiologiche.
In primis, consideriamo la perdita affettiva. Nell’età avanzata aumentano, evidentemente, le probabilità di lutti di persone di rilievo,
quali il coniuge, fratelli, parenti o cari amici. Il venire meno di legami
affettivi fondamentali che hanno accompagnato la vita dell’anziano e
l’esperienza luttuosa stessa, possono condurre all’isolamento ed alla
solitudine.
Sono, queste, condizioni in grado di favorire stati ansiosi e depressivi.
Come già sottolineato da alcuni autori, se il giovane è single, l’anziano spesso è solo. In questo modo, si evidenzia il diverso significato che la solitudine assume.
Nel primo caso, cioè nei giovani, è una scelta ed una autodeterminazione. Nel secondo caso, cioè negli anziani, è una imposizione e
un vissuto passivo.
mente e cervello
415
Accanto a questi fattori vanno analizzati, inoltre, alcuni importanti aspetti sociali. Primo fra tutti, il pensionamento e la conseguente perdita del ruolo sociale.
Il lavoro, infatti, rappresenta un’esperienza esistenziale fondamentale che, da un lato, garantisce il sostentamento economico individuale e familiare, dall’altro, assume connotazioni psicosociali, peculiari.
Dà uno stile ed un ritmo di vita, conferisce validità sociale, identifica un ruolo ben preciso, può assicurare soddisfazione ed autostima. Il pensionamento si configura come evento stressante e potenzialmente in grado di precipitare l’equilibrio psichico.
Infine, dobbiamo considerare la malattia. Secondo alcune stime,
circa l’80% della popolazione anziana è affetto da almeno una malattia cronica. Oltre alla percezione ed al difficile vissuto psichico
che impone, la malattia può determinare importanti limitazioni funzionali e sociali. La quasi costante presenza di patologie croniche
nell’anziano, anche se di lieve entità, può condurre a percepire la
vecchiaia stessa come un vero e proprio processo morboso.
Alberto Moravia, in questo senso, si spinse a dire che la sola differenza fra un uomo affetto da una qualunque malattia ed uno affetto da vecchiaia, è che il primo spesso guarisce, il secondo mai.
L’adattamento di mente, cervello e corpo, col passare degli anni,
dipende in modo significativo dalle variabili succitate, che possono
avere diverse combinazione. Risente anche e, forse soprattutto, della
specificità dell’individuo che invecchia.
Bisogna concepire la vecchiaia non come il momento di approdo
alla fine della vita, ma come parte integrante di un continuum esistenziale.
Questa fase della vita verrà interpretata dal giovane, divenuto
adulto e poi vecchio, a seconda di come siano state intese e vissute
le fasi precedenti.
Fortunatamente, oggi, invecchiare ed invecchiare bene, non è
più un privilegio di pochi, ma è diventato un diritto di tutti. In effetti, possiamo affermare che gli anziani sono in buona salute.
Circa l’80% della popolazione anziana è autonomo, malgrado la
presenza di malattie cronico-degenerative.
Per quanto riguarda l’aspetto strettamente cerebrale, i dati non
sono poi differenti.
416
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
La prevalenza di disturbi psichiatrici importanti nell’anziano, si
attesta intorno al 15%. Le affezioni più comuni sono rappresentate
da disturbi d’ansia, sindrome depressiva, delirium e psicosi senili,
quali la psicosi in corso di demenza e la schizofrenia ad esordio tardivo.
La prevalenza delle demenze, involutive e vascolari, si aggira intorno all’1% nei soggetti di 65 anni ed intorno al 20% nei soggetti di
85 anni.
Figura 2 - Prevalenza di demenze nelle diverse fasce di età.
La malattia di Alzheimer rappresenta, di gran lunga, la più importante causa di decadimento mentale nell’età anziana, mentre, le
patologie cerebrovascolari sono la seconda causa più comune di demenza.
Infine, oltre alle demenze in corso di malattie neurodegenerative,
come il morbo di Parkinson ed alle demenze metaboliche, interesse
particolare rivestono le cosiddette pseudodemenze. Si tratta di sindromi depressive che si manifestano, principalmente, con un importante deficit cognitivo.
È molto significativo rilevare che incidenza e prevalenza di affezioni psichiatriche e demenziali subiscono un netto incremento, se
calcolate in campioni di soggetti istituzionalizzati. Le cause sono, evidentemente, da ricercare nella perdita di motivazioni, di stimoli, di
riferimenti privati, del proprio ambiente e della propria casa ed, infine, nella monotonia della quotidianità.
Tuttavia, la maggior parte degli anziani in assenza di patologia
mente e cervello
417
cerebrale, mantiene pressoché inalterate le capacità mentali e cognitive.
Invero, soprattutto nelle età più avanzate, vi può essere un declino dell’attenzione selettiva, della fluenza verbale, delle abilità visivo-spaziali, un deficit della memoria, ma la funzione rimane conservata.
Inalterate rimangono l’intelligenza, le capacità logiche, la capacità di provare emozioni, la creatività. Con un’affermazione forte, ma
non lontana dalla realtà, si può affermare, in definitiva, che la mente
non invecchia.
Per quanto riguarda, in particolare, la creatività e le capacità artistiche in tutti i campi, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura
alla poesia, vi sono innumerevoli esempi di grandi uomini che, avanti
nell’età, hanno donato alla storia opere importanti o addirittura, il
meglio della loro produzione artistica.
Specialmente nelle arti figurative, il prolungamento delle attività
fino all’estrema vecchiaia è un fatto usuale, tutt’altro che occasionale.
Straordinari, in questo senso, sono stati gli ultimi anni della vita
di pittori come Bellini, Tiziano, Rembrandt, Goya, Monet.
Non si limitarono a proseguire nella direzione imboccata in gioventù, ma, come fossero nati una seconda volta, inventarono nuovi
linguaggi espressivi e sperimentarono soluzioni tecniche rivoluzionarie.
Tra gli architetti ebbero una vecchiaia fertile Michelangelo, Jacopo Sansovino, Andrea Palladio, Gianlorenzo Bernini.
Tra gli scrittori, Sofocle scrisse l’‘‘Edipo a Colono’’ a 89 anni;
Goethe terminò l’ultima versione del ‘‘Faust’’, a 80 anni; Defoe e Tomasi di Lampedusa scrissero le loro opere più importanti negli ultimi anni di vita.
Tra i contemporanei, Graham Greene, Henry Roth, Julien
Green ed Isaac Singer, furono tutti attivi dopo gli 80 anni. Tanizaki
scrisse a 76 anni il ‘‘Diario di un vecchio pazzo’’, una sorta di autobiografia che rivela con efficacia il contrasto fra decadenza fisica, desiderio e fantasia di un vecchio.
Infine, Biagio Marin, che come afferma Claudio Magris in Microcosmi, scrisse le liriche più belle a 70, 75 e 80 anni. Se fosse morto a 65 anni, sarebbe rimasto una figura letterariamente marginale.
Questi esempi, ma moltissimi altri, potrebbero essere citati. Met-
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g. moretto - l. corrà - c. vivenza
tono in discussione in modo convincente il preconcetto opinabile,
che l’ultima parte della vita sia sinonimo di ottenebramento, di oblio
e di inarrestabile involuzione psichica ed organica.
In conclusione, negli ultimi vent’anni, le Neuroscienze hanno
compiuto notevoli progressi ed hanno consentito l’acquisizione di
un numero imponente di nuove informazioni e conoscenze riguardo
il cervello ed il suo funzionamento, ma altrettante rimangono le
lacune.
Non possediamo ancora modelli di studio in grado di spiegare le
emozioni, la coscienza, il pensiero astratto, malgrado molto si conosca sull’Anatomia e la Fisiologia nervosa. Sappiamo come le cellule
nervose siano in grado di originare il movimento di un arto, ma
non è noto come e dove nasca una sensazione.
Certamente, questo problema complesso non potrà essere risolto
grazie ad una intuizione geniale di un singolo scienziato. Successe
con Darwin per la Teoria Evoluzionistica o con Einstein per la Teoria della Relatività o, ancora, come Watson e Crick per il DNA.
È un problema che dovrà essere affrontato con una mentalità
aperta, coinvolgendo le diverse discipline scientifiche che si occupano del cervello. È uno dei compiti più difficili affrontati dall’uomo,
ma esperisce l’ambito che più intimamente gli appartiene.
Pertanto, la disputa fra Secenov e Dostoevskij non è conclusa ed
è ancora di estrema attualità.
Per ora, infatti, il confine fra mente e cervello rimane indefinito e
costituisce un problema irrisolto.
Irrisolvibile, secondo il neurobiologo David Hubel, che paragona la speranza di comprendere la mente umana a quella di chi ambisce di potersi sollevare da terra e librare in aria facendo leva sulle
proprie bretelle.
In altre parole, un’importante difficoltà metodologica deriva dall’identità fra soggetto ed oggetto di studio. La mente ed il cervello
studiano... la mente ed il cervello.
‘‘Conosci te stesso’’ ammoniva l’oracolo di Delfi, alludendo alla
conoscenza con la C maiuscola, alla sua forma più elevata ed, al contempo, più difficile. A quella conoscenza, che permette di comprendere in modo più consapevole il mondo circostante.
Di diverso avviso era, invece, il noto cantante Lou Reed quando
in una sua canzone affermava: ‘‘La conoscenza di se stessi è una cosa
mente e cervello
419
pericolosa’’. Probabilmente, intendeva sottolineare l’abisso di enorme profondità, il mistero e l’insondabile che si celano nella mente
umana.
Da una parte possono impaurire, dall’altra, certamente, ne ostacolano lo studio. Grazie’’.
C. Vivenza: ‘‘Prego le persone che desiderano intervenire, se non
chiedo un impegno troppo pesante, di avvicinarsi al tavolo. Se vengono qui, è meglio. Prego. A chi ti rivolgi?’’
A. Balestrieri: ‘‘Mi rivolgo in modo particolare a Moretto, che ho
avuto la fortuna di conoscere oggi.
‘‘Mente e Cervello’’.
Io ci ho pensato sopra tutta la vita e mi sono convinto che finché
continuiamo a considerarle come due cose distinte, non ne arriveremo mai a capo, ci attacchiamo alle nostre bretelle, insomma.
In realtà, penso che la visione giusta sia quella di un grande psichiatra francese Paul Giràud, il quale era sostenitore del ‘‘monismo a
doppio aspetto’’.
Secondo alcuni orientamenti, il cervello è visto come qualcosa di
materiale, la mente come un’entità spirituale.
Vanamente Eccles, ha cercato di mettere insieme queste realtà,
con una costruzione che richiama quella della ‘‘ghiandola pineale’’
medioevale.
Mente e cervello esistono a seconda dell’approccio.
Per uno psicologo, la mente è qualche cosa di psicologico, per il
neurologo è qualche cosa di farmacologico o di neurofisiologico. La
Psichiatria attuale, non è la Psicologia, perché in buona parte si basa
proprio sulla Farmacologia che è una Neuroscienza.
Noi dovremmo dire che c’è una cosa sola.
Alcuni la vedono nei suoi aspetti, diciamo psicologici, se vogliamo umanistici, altri la vedono nei suoi aspetti biologici, naturalistici,
ma la ‘‘cosa’’, è una sola e questo è consolante per tutti.
Chiedo pertanto ai due illustri relatori se sono disposti ad accettare questa posizione. Per il resto, ci sarebbero tante cose da dire.
Mi è piaciuto molto l’esperimento, condotto dallo psicologo Devendra Singh, relativo alla bellezza. È, forse, innato nell’uomo il bisogno di bellezza.
420
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
Parlare di innatismo, oggi, è possibile.
Trent’anni fa, quando io sono venuto a Verona ed è nata la Clinica Psichiatrica, se uno avesse fatto un discorso innatistico lo avrebbero fischiato e zittito per motivi ideologici. Comunque, è probabile
che esista questo innatismo.
A proposito della bellezza femminile, si può dire che certi tipi di
bellezza femminile o certi tipi di estetica, si siano affermati per necessità biologiche. Pensiamo, ad esempio, al biondismo che si è diffuso nei popoli che vivevano con una minore insolazione. Quelle
condizioni climatiche, erano responsabili di un deficit di calcificazione dovuto alla mancanza di vitamina D.
Tutto ciò ha portato a preferire certi tipi di donne più chiare, e
questo ha fatto sı̀ che la specie si evolvesse in quel senso.
Del resto, il fenomeno esiste in Europa, ma esiste anche in Cina.
Le Cinesi del nord sono più chiare delle Cinesi del sud, il che è verificabile senza grandi difficoltà.
‘‘Libero arbitrio’’. Penso che libero arbitrio voglia significare
che noi siamo liberi quando funzioniamo completamente con tutti
noi stessi, cioè quando non c’è alcuna coercizione esterna. La sensazione di libero arbitrio soggettiva dipende dal fatto che ci sembra
di essere solo noi, e noi soli, a fare una determinata cosa. Ci illudiamo che, solo noi, faremmo.
Credo che abbiamo delle ‘‘grosse bretelle’’, cioè abbiamo dei
grandi limiti per capire un problema che, forse, non sarà mai del tutto comprensibile. Ed è bene cosı̀’’.
C. Vivenza: ‘‘Dottor Moretto, la prego di rispondere in un minuto,
se possibile’’.
G. Moretto: ‘‘Io sono nato come neurologo, nel momento in cui era
più grossa la frattura fra neurologi e psichiatri. Si ponevano i paletti
per affermare le divisioni.
Sono ‘‘figlio’’ di Terzian. Non ho conosciuto il professor Belloni
e poi mi sono reso autonomo.
Sono cresciuto anch’io e adesso capisco che in quell’epoca, verosimilmente, ragionando con l’esperienza, ragionando con i tempi che
cambiano, sono stati fatti degli errori. Adesso saremmo tutti arroganti se mantenessimo le nostre posizioni perché, come dicevo,
mente e cervello
421
non è possibile affrontare queste due aspetti della ‘‘cosa’’ che c’è
dentro di noi, da punti di vista separati.
Io ho coltivato cellule, oltre a fare il neurologo, oltre a fare il neuropatologo ed ho avuto una brevissima vocazione di psichiatra, poi
tramontata. Guardo con molto rispetto chi mi aiuta a capire le funzioni cognitive alle quali io, come neurologo, come biologo e come
neuropatologo, non so dare risposta.
Quindi questa, secondo me, è la fase affascinante dell’epoca in
cui viviamo. Riusciamo a capire che abbiamo bisogno entrambi l’uno
dell’altro’’.
C. Vivenza: ‘‘Va bene come risposta? C’è qualcun altro? Il dottor
Grezzana’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Ringrazio Giuseppe Moretto e Luigi Corrà per le
relazioni. Vorrei porre una domanda telegrafica e chiedere loro
quanto l’affettività incida sul recupero, su un danno biologico, sulla
malattia. Tutti i giorni, noi vediamo che l’affettività ha un ruolo importantissimo’’.
G. Moretto: ‘‘Non lo so, però io credo che lo star bene, significhi
star bene sia nel corpo, sia nell’anima, sia nell’intelletto. Nel momento in cui uno sta bene, è perché sta bene dentro e fuori. Quando sta
male, è perché sta male dentro e fuori.
La qualità della vita si misura non soltanto da quello che possiamo offrire al soggetto ammalato fisicamente, ma da quanto possiamo
offrire in termini di benessere.
Il bene-essere, cioè lo star bene esprime una realtà di psico-neurologia e di psico-neuroimmunologia, non ancora opportunamente
studiata, ma certamente evidente.
Il benessere interiore è talmente legato al nostro sistema immunitario che le malattie ne sono fortemente influenzate. Il nostro sistema immunitario è forte quando noi stiamo bene, stiamo bene dentro’’.
L. Corrà: ‘‘Sı̀, io sono un po’ in difficoltà nel dare una risposta a chi
queste cose me le ha insegnate.
Posso solamente dire che l’affettività nel recupero, soprattutto di
422
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
un anziano, perché di questo mi occupo, non è importante, è fondamentale’’.
C. Vivenza: ‘‘Prego’’.
Dal pubblico: ‘‘Vorrei fare una domanda a Beppe Moretto. Una delle spiegazioni più affascinanti riguarda la possibilità per la cellula
nervosa di riprodursi.
Questo implica, come conseguenza, che venga alterata la psicologia, la personalità, la mentalità, la personalità dell’individuo.
Per questo, secondo certi orientamenti, è giusto che la cellula
nervosa muoia e che non si replichi più. Mi sembra che si metta
in dubbio questo, che era un assunto fondamentale della Neurologia’’.
G. Moretto: ‘‘La tua domanda è molto complessa. Io intendo che la
non riproducibilità si riferisca al ‘‘sistema uomo’’ in sé.
La mente umana è un sistema non riproducibile, perché è l’insieme di tanti aspetti biologici, sociologici, eccetera. Rappresenta una
realtà estremamente complessa, straordinaria, non riproducibile.
Il problema della riproducibilità della cellula nervosa è altra cosa. La cellula nervosa, come elemento singolo, è capace di espletare
funzioni che sono estremamente elementari, come quella di condurre impulsi elettrici.
Secondo un moderno atteggiamento di alcuni gruppi di ricercatori, provocatorio se vuoi, ma neanche tanto, non è la cellula nervosa
l’elemento nobile del cervello, ma è l’astrocita.
È la cellula astrocitaria che modula e influenza la cellula nervosa.
Quest’ultima, è deputata solo alla trasmissione di messaggi elettrici.
Quindi, questo è un discorso, a mio modo di vedere, estremamente affascinante. Il fatto che le cellule nervose si riproducano è
una bella cosa. Prima o poi, noi neurologi e neurochirurghi non
avremo più lavoro. Il fatto che la cellula nervosa possa essere riportata a replicarsi ed a sostituire cellule che sono andate perse o sono
danneggiate, è molto importante.
Però, ancora una volta, la cellula nervosa conduce impulsi e sembra essere relegata ad una funzione piuttosto ‘‘banale’’ ’’.
mente e cervello
423
C. Vivenza: ‘‘Prego’’.
C. Pasoli: ‘‘Devo complimentarmi per le relazioni. Volevo fare una
domanda al dottor Moretto. Mente e cervello, io aggiungo menteneurotrasmettitori. Mi dici qualcosa?’’
‘‘Per parlare di ‘‘Mente e Cervello’’ non è sufficiente un neurologo, magari un neurologo bravo.
Servono il neurologo, lo psicologo, il fisiologo, il filosofo, ovviamente lo psichiatra e tante altre figure professionali, più o meno corollarie.
Se parliamo di neurotrasmettitori è fondamentale, è importante.
Però il neurotrasmettitore è semplicemente un tassello di un puzzle
tanto complesso. Noi non sappiamo quale sia la modulazione dei
neurotrasmettitori.
Ne conosciamo appena qualche decina, ma, verosimilmente, sono centinaia. Nell’interazione tra varie decine di neurotrasmettitori,
arriviamo a creare un puzzle. Molto di più non sappiamo.
Pensate che ogni cellula può, teoricamente, avere 10.000 sinapsi. Moltiplicate qualcosa come mille miliardi di cellule per
10.000 possibilità di sinapsi e provate ad immaginare quale sia
il numero.
È vero, ci sono dei neurotrasmettitori che si abbassano nel
corso del cosiddetto invecchiamento fisiologico. Altri restano invariati.
Ridurre ancora una volta il problema ai neurotrasmettitori è
ugualmente incompleto.
Quindi la risposta è: è una parte del puzzle’’.
C. Vivenza: ‘‘Ci sono altri?’’
Dal pubblico: ‘‘Ringrazio anch’io il dottor Moretto ed il dottor Corrà
per la loro relazione.
Volevo solo fare una riflessione che mi deriva dall’essere da tanti
anni consulente del nostro Dipartimento di Neurochirurgia e volevo
sentire cosa ne pensavate.
Il mio pensiero va in parallelo con quello che diceva il professor
Balestrieri. In fondo, mente e cervello sono poi due versanti di uno
stesso problema.
424
g. moretto - l. corrà - c. vivenza
Questo, mi deriva proprio dal fatto che ho visto delle gravi lesioni cerebrali e mi ricorda come ci sia tutto il grande problema della
lateralizzazione, della zonizzazione dei vari lobi, dei rapporti fra di
loro.
Si vede, spesso, che lesioni simili danno evoluzioni veramente
drammatiche e diversissime.
In fondo, l’organo ha in qualche modo a che fare con l’aspetto
mentale. L’aspetto mentale, a sua volta, in una lesione d’organo, reagisce in modo molto diverso.
Questo si nota anche a livello di rieducazione. C’è uno scambio
costante con l’ambiente, che si mantiene in caso di danno neurologico.
Quindi, in questo senso, volevo proprio sottolineare come lo studio delle lesioni, fatto bene, possa essere anche un elemento di ricerca e di approfondimento sul problema.
Vorrei sapere cosa ne pensate voi’’.
G. Moretto: ‘‘Io non aggiungo nient’altro, perché mi pare che la tua
osservazione sia corretta e completa. Sono d’accordo sul problema
della dominanza e sul problema della risposta diversa a lesioni cerebrali uguali, in soggetti diversi.
Abbiamo cosı̀ tanto da capire in termini di plasticità neuronale,
da augurarsi di stare bene per molti anni ancora, perché questo lavoro è affascinante’’.
C. Vivenza: ‘‘Se io ho ben capito quello che diceva il professor Balestrieri, mente e cervello sono la stessa cosa ed io la penso esattamente cosı̀.
Per quanto riguarda i traumi, si impara sempre.
Il discorso però, effettivamente, è che sia difficile che due traumi
siano uguali. Non sono mai sovrapponibili. La speranza è che, pian
piano, si riuscirà a fare di più, cioè qualcosa che probabilmente,
adesso, ancora non sappiamo.
Per esempio, progredendo con nuovi metodi d’indagine come la
risonanza TESLA, vedremo non soltanto la morfologia, ma anche la
ripresa funzionale o vedremo subito dopo il trauma, quanto sia il
danno che c’è in quel cervello. Questo consentirà di formulare
una prognosi più precisa e più facile.
mente e cervello
425
Almeno questa è la mia speranza.
Non mi sembra che ci siano altre domande’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Vi ringrazio tutti. Credo che basti cosı̀ e ci vediamo fra 15 giorni’’.
LE MEDICINE COMPLEMENTARI.
POSSONO FARE BENE E PERCHÉ?
A. Balestrieri
Nella storia dell’uomo, il successo delle persone che curavano le
malattie, deve aver preceduto di molto ogni dimostrazione di effetto
intrinseco per i rimedi somministrati. Ad opera di quelle persone, un
effetto di sollievo è spesso stato evidente, per forme morbose non
solamente psicopatologiche.
Veri farmaci, anche di origine vegetale, che possano fornire le
evidenze oggi richieste, li possediamo, invece, solo da tempi abbastanza recenti. Dobbiamo certamente riconoscere, che molti farmaci
ufficiali hanno avuto o hanno origine naturale ed empirica e che altri
potrebbero averla. Sembrerebbe assai strano che eventuali principi
attivi rintracciabili nelle Medicine Complementari non fossero evidenziati, prodotti e sfruttati dalla industria farmaceutica.
Dobbiamo quindi concludere che, da sempre, un effetto di riti e
cerimonie curativi doveva esserci, perché se cosı̀ non fosse, il più elementare darwinismo culturale avrebbe fatto sparire ogni intervento a
fini sanitari.
Poiché le persone dei guaritori e le strutture curanti dovevano
essere selezionate in base ai successi che ottenevano, possiamo ritenere che le caratteristiche del curante e la formalità dell’intervento,
abbiano sempre giocato una parte tanto più importante quanto meno il mezzo curativo fosse di per sé stesso efficace.
Anche per le cure complementari oggi in uso, una qualche evidenza di efficacia deve pur esserci. Solo cosı̀, esse avrebbero potuto
non soltanto sopravvivere ad ogni darwinismo culturale ed economico, ma anche affermarsi in tutti i Paesi, tanto da divenire una realtà
428
a. balestrieri
alla quale si rivolgono con speranza, interesse ed anche spirito imprenditoriale, fasce sempre più estese di cittadini dai Paesi più arretrati ai più evoluti.
Ogni farmacia espone insegne che si riferiscono ad una omeopatia che, perlopiù, non sembra avere alcun riferimento a quella originaria di Hahnemann.
L’Ordine dei Medici, invece, in accordo o disaccordo con le varie facoltà di Medicina, vorrebbe avocare soltanto ai propri iscritti
l’uso di queste pratiche. E gli operatori turistici richiamano la clientela con promesse di complementarietà sanitaria. Nei migliori alberghi indiani anche il dentifricio è ayurvedico...
Se vogliamo affrontare concretamente il problema, dobbiamo rinunciare alla rigida, sprezzante e scientistica opposizione, sollevata
anche da nomi illustri e cercare di capire che cosa tutto ciò possa insegnarci sulla realtà dei nostri pazienti e sul modo di poter loro giovare.
Va anzitutto premesso, che i rimedi cosiddetti complementari
sono tra loro diversissimi, appartengono a categorie di intervento assolutamente disparate.
Essi sfumano spesso o si associano o si sovrappongono con le
pratiche mediche più convenzionali, come la chiroprassi con la ortopedia o certi esoterismi con le vere psicoterapie. Si rifanno anche a
concetti teorici che la Medicina Ufficiale, da tempo, ha elaborato ed
accettato, come la psicosomatica o la psicodinamica.
Di fronte ad un insieme di cose cosı̀ disparate, è ben ardua la ricerca di denominatori comuni sui quali costruire un’interpretazione.
Eppure, tali denominatori debbono esistere e meritano la più grande
attenzione.
Il denominatore comune più verosimile, mi sembra poter essere
quella recettività psicologica, intesa nel senso più serio e valido che,
del resto esiste anche per le medicine ufficiali.
Cerchiamo di vedere meglio, come questa mediazione psicologica venga cercata ed ottenuta, negli interventi dei quali stiamo parlando.
Ci può essere, anzitutto, l’aria di novità per il singolo paziente
nel rivolgersi ad interventi diversi da quelli a cui è abituato. La novità c’è per lui, anche nel caso che si tratti di cose che hanno migliaia
di anni. La novità crea speranza, dà sollievo, induce all’attenzione
le medicine complementari. possono fare bene e perché?
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non solo verso i rimedi, ma soprattutto verso gli stili di vita che vengono consigliati.
In ogni caso, il paziente viene ad assumere un ruolo assai più attivo di quello che si realizza con il solito riferimento al medico di base od allo specialista conosciuto. Egli tende a divenire il protagonista
della cura.
C’è poi un rapporto con l’operatore, che è diverso da quello che
si stabilisce con il Servizio Sanitario ed anche con molta pratica medica privata. Quando parliamo del rapporto medico-paziente, ci riferiamo di solito ad ideali capacità di ascolto, di comunicativa, di
raccolta anamnestica ecc.
Oggi, in molti momenti e situazioni, è difficile trovare il medico
al momento giusto, trovarlo libero da altri incombenti impegni, trovarlo che non guardi l’orologio.
L’operatore alternativo, se non è un famosissimo mago, ma forse
anche in tal caso, può invece dare l’impressione di essere lui che ci
attende per poter assolvere una missione alla quale si sente dedicato.
L’aspetto ideologico e lo slancio operativo e missionario, prima
di essere trasmessi al malato, sono nell’operatore stesso.
Nelle pratiche mediche complementari, ciò che viene fatto o
somministrato ha, per lo più, un alto valore simbolico, ritualistico,
ideologico od addirittura religioso.
Una ideologia od una religiosità, sono quasi indispensabili al genere umano. Fanno parte della nostra organizzazione archetipale.
Sappiamo bene che esse vengono elaborate in modi strettamente
personali poiché ognuno ha il suo modo di credere, ma con adesione
più o meno ferma a strutture organizzate quali Chiese, Partiti, Associazioni e Movimenti. Anche l’adesione ad una cura complementare,
può ricalcare questi aspetti. E la prescrizione viene seguita in modo
molto più personalizzato, impegnato, fedele di quanto sia per l’acquisto e la consumazione di una medicina ufficiale.
La stessa pericolosa tendenza all’alternatività rispetto alle medicine ufficiali, cioè la sfida a far a meno di esse, è un ben preciso atteggiamento psicologico. Altrettanto azzardato, investire grosse somme in iniziative terapeutiche nelle quali, perlopiù, non si sappia nulla
di preciso. O compiere lunghi viaggi per interventi anche abbastanza
banali.
Tutto ciò, lo possiamo capire e valutare solo se consideriamo la
430
a. balestrieri
psiche come funzione fondamentale dell’organismo e non come pura
fantasia.
Per questi ed altri motivi, gli scettici ed i nemici dichiarati delle
medicine complementari, interpretano gli eventuali loro risultati favorevoli come risultato della tendenza spontanea alla guarigione o
come effetto placebo. Su questi termini bisogna ben intendersi.
Una tendenza autoriparativa, una possibile guarigione spontanea, sono sempre state fuori discussione per tutti gli animali ed i vegetali. Il mio maestro di Farmacologia, Egidio Meneghetti, ci diceva
a lezione: ‘‘Ragazzi, curateli presto sennò guariscono da soli!’’
Un atteggiamento generale dell’organismo, emotivo, ma anche
cognitivo, può ovviamente favorire questi processi autoriparativi, dato che, ogni fatto locale si svolge nella cornice generale dell’organismo. Le funzioni vegetative, endocrine, immunitarie, non possono
non essere implicate, appunto, come cornice generale, vista la loro
stretta correlazione con quelle psichiche.
Del termine placebo, bisogna non travisare il significato. In proposito, è stato scritto e discusso moltissimo. Il placebo esiste ed è anche stato proposto come cura in sé stessa.
Le più rigorose ricerche nel quadro della Medicina della Evidenza, si basano sul confronto dei farmaci allo studio con procedure placebo. Per queste, si ricorre a sostanze presumibilmente, per il ricercatore, inerti, somministrate in modo assolutamente eguale. Si confronta, poi, l’effetto dei suddetti farmaci non con un livello zero, ma
con un livello di beneficio al quale il solo placebo solitamente arriva.
Tale livello, può agevolmente raggiungere il 30%, mentre il farmaco
attivo, nei casi favorevoli, deve restare sopra il livello di beneficio.
Del resto, sono state osservate modificazioni dell’organismo, come quelle sulla crasi ematica, per effetto del solo placebo. Ovviamente però, l’effetto placebo non si ottiene somministrando una sostanza inerte a chi sa che essa è tale, ma a chi ritiene che essa possa
essere attiva. Ci deve essere, in qualche modo, un’adesione alla cura,
una mediazione psicologica.
Tra parentesi, viene anche da chiedersi quale sarebbe l’effetto
delle procedure terapeutiche complementari, il giorno in cui esse
fossero pienamente accettate, somministrate soltanto dai medici come vorrebbe l’Ordine e messe a carico della Sanità Pubblica. La sorte della cura Di Bella, è stata abbastanza dimostrativa.
le medicine complementari. possono fare bene e perché?
431
Molto di quello che si può dire, per le cure complementari, è stato considerato ed affermato a proposito delle psicoterapie. Sono
procedure terapeutiche che hanno anch’esse suscitato per molto
tempo scetticismo e critiche da parte di molti colleghi orientati nel
senso più strettamente biologico e scientistico. Oggi, nessuno può
negarne la fondamentale utilità.
Tra le cure complementari e le psicoterapie esistono analogie,
omologie e sovrapposizioni.
Le psicoterapie, pur diversissime come teoria e metodo, hanno
in comune un effetto catartico ed uno catalitico, nel senso che facilitano nel paziente la liberazione da quell’ansia che paralizza la presa
di coscienza e la risoluzione dei problemi ed inducono ed accelerano
una maturazione complessiva della personalità.
Proprio a proposito delle psicoterapie, si è ben sottolineata la importanza dei fattori aspecifici, cioè non strettamente legati alla teoria
ed al metodo formalizzato al quale ogni tipo di psicoterapia si ispira.
Una simile aura di aspecificità c’è anche a proposito delle molte e
svariate cure complementari.
In entrambi i casi, possiamo soprattutto ritenere come aspecifica,
rispetto alla teoria, al metodo ed ai mezzi impiegati, quella che è la
personalità del terapeuta. Essa gioca notoriamente un ruolo fondamentale e preponderante, non solo come attitudine personale, ma
anche come possibilità di collimare con quel determinato paziente.
Si potrebbe fare una analogia col campo delle Religioni ove gli
uomini, abbastanza raramente, hanno chiesto qualcosa direttamente
alle supreme divinità ed hanno preferito servirsi della mediazione dei
diversi Santi che con le loro proprie personalità, sedi d’origine, storie, attività svolte, appaiono più diversificati, quasi specializzati, nei
singoli casi.
Cosı̀ il terapista, vale in buona parte per le sue caratteristiche
personali e per l’incontro che realizza, indipendentemente e specificamente rispetto alla teoria ed al metodo che segue.
I più chiari ed evidenti coinvolgimenti emotivi e le eventuali elaborazioni a livello di un freudiano inconscio personale non sono, però, gli unici elementi da prendere in considerazione.
Ad un livello più profondo ed arcaico di quello che possiamo
considerare l’inconscio individuale, esistono modi umani di sentire,
di pensare e di comportarsi che si rifanno alla filogenesi e che pos-
432
a. balestrieri
sono essere riferibili ai concetti junghiani di inconscio collettivo e di
meccanismi archetipali.
Molti Autori, da Platone, a Sant’Agostino, a Keplero, a LévyStrauss, hanno espresso analoghi concetti. Tutti gli uomini nella storia e nei luoghi più diversi e separati, hanno ricalcato certe orme nelle loro forme di conoscenza, nei loro sentimenti, nella realizzazione
delle loro opere, nella organizzazione delle loro società.
Lo stesso Jung ha considerato queste norme archetipe, non esperienze in loro stesse, ma come disposizioni ad averle e si può sempre
discutere su quanto, di esse, si trasmetta in via culturale e quanto si
sia fissato a livello istintivo.
Certo è che, nel nostro essere psichico soggettivo, nel nostro
comportamento e nel nostro stare bene o male, ci sono delle radici
filogeneticamente e storicamente impresse che la cultura modula e
realizza senza poterle assolutamente cancellare. Esse, sono rintracciabili anche a livelli evolutivi precedenti a quello dell’uomo.
In questo senso, le pratiche terapeutiche complementari hanno
di comune e di rilevante, quell’aspetto ritualistico che risalta nelle osservazioni etologiche ed è tipico delle cerimonie sia magiche che religiose.
Ogni conoscenza di Antropologia e di Biologia del Comportamento, mette in risalto la decisiva influenza dei rituali nella esistenza
degli animali e dell’uomo.
Anche noi, infatti, ritualizziamo tutti i principali aspetti della nostra esistenza individuale e sociale. Senza un rituale, non sapremmo
come nascere, come morire, come sposarci, come diplomarci, come
associarci, come fare la guerra, la pace ecc. Formalità, cerimonie,
bandiere, inni, ci guidano ed evocano in noi sentimenti adeguati.
Le stesse nostre funzioni più corporee, dall’igiene personale, all’alimentazione, all’accoppiamento, sono ritualizzate. Cioè, si svolgono
in determinate maniere, secondo certe sequenze.
Sappiamo che si deve fare cosı̀ ed i nostri sentimenti seguono i
rituali, che li evocano e ne vengono evocati. Certi comportamenti ritualizzati, dalla danza amorosa degli uccelli sino alla cenetta intima
degli umani od alla marcia nuziale o militare, evocano adeguate emozioni nei partecipanti.
Proprio in campo sanitario, i rituali hanno un’importanza molto
rilevante. Anche la visita, la ricettazione, l’assunzione del farmaco so-
le medicine complementari. possono fare bene e perché?
433
no più o meno ritualizzati. La psicanalisi classica, con la ritualizzazione del setting, potrebbe anche essere in parte ritenuta una cura complementare.
E questo spiega molto dell’effetto placebo. I rituali danno sicurezza, diminuiscono l’ansia, facilitano i rapporti sociali, danno benessere e non possono non giovare alla salute. Basti pensare alla appariscente ritualizzazione di certe vacanze terapeutiche come quelle
termali o di certi villaggi balneari. Le pratiche complementari, non
soltanto, condividono la ritualizzazione di quelle ufficiali, ma tendono, spesso, ad accentuarla.
Come avviene nel campo delle psicoterapie, la scelta e la stabilizzazione rituale del metodo di intervento, ha certamente importanza
per il ‘‘curato’’, ma è fondamentale ed indispensabile per il ‘‘curante’’.
Chi si sottopone ad una cura, avrà tanto più vantaggio quanto
più ci crederà e seguirà un certo cerimoniale. Indispensabile sarà,
però, sempre il fermo convincimento dell’operatore. Con ovvia
esclusione delle pratiche truffaldine.
Verso il terapista, il paziente dovrà poi sviluppare quello spirito
di dipendenza e di sottomissione che fa anch’esso parte delle tendenze archetipe e dei meccanismi biologico-comportamentali. Essi, del
resto, si evidenziano in tutti i rapporti medico-paziente, specie chirurgici, per ovvi motivi e sono parte importante anche nelle psicoterapie, benché le più valide tra esse mirino, poi, all’emancipazione ed
all’autosufficienza.
In molte pratiche complementari, questo atteggiamento di dipendenza viene apertamente favorito.
Il discorso potrebbe continuare a lungo. Voglio limitarmi a sottolineare con questi esempi, che le pratiche curative che chiamiamo
complementari non debbono essere accettate fideisticamente ed
acriticamente, ma neppure negate in ogni loro possibile utilità.
Esse, soprattutto, ci possono insegnare molto su noi ed i nostri
pazienti, sui nostri comportamenti professionali, sulle aspettative
che ci sono verso di noi, sulle nostre mancanze, sulle nostre possibilità, sulla nostra umana natura e sulle sue tante possibili elaborazioni
storiche e culturali.
LA MEDICINA GERIATRICA ALLE SOGLIE
DEL III MILLENNIO: DALL’AUTOREFERENZIALITÀ
ALLE EVIDENZE DI EFFICACIA
U. Senin - G. Cecchini - L. G. Grezzana
L. G. Grezzana: ‘‘A tutti buona giornata. Vi avevo promesso per oggi ‘‘Il Fracastoro’’, lo avrete certamente la volta prossima e me ne
scuso.
Non ditemi che faccio il prezioso.
Riprendo le parole di Umberto Senin, al quale ho anticipato una
copia de ‘‘Il Fracastoro’’. Ha detto: ‘‘Ma quanto hai lavorato?’’ È vero, abbiamo lavorato tantissimo, abbiamo lavorato tanti e tanti mesi.
Però, ne siamo anche molto orgogliosi. Il risultato è importante e
gratifica.
È un impegno che si giustifica con le ambizioni dell’Azienda in
cui si lavora. Un’Azienda Ospedaliera illuminata, presta molta attenzione alla Geriatria.
Di fronte ad un modo di agire, che è certamente adeguato ai
tempi, mi sembra che sia quanto mai importante notare che, per
esempio, anche il Pronto Soccorso si è adeguato alla nostra realtà sociale.
Una volta il Pronto Soccorso era prettamente chirurgico, oggi
non lo è più. Al Pronto Soccorso si hanno subito le risposte giuste
per gli ammalati che giungono a noi. È lı̀ che si ha il primo impatto.
In fondo, il buon giorno si vede dal mattino ed il mattino è proprio il Pronto Soccorso.
Prego Giorgia.’’
436
u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
G. Cecchini: ‘‘Le evidenze di efficacia della Geriatria alle soglie del
III Millennio, possono emergere anche dal punto di vista del medico
geriatra di Pronto Soccorso, realtà probabilmente poco descritta e
poco raccontata.
Va sottolineato come il Pronto Soccorso internistico, per i casi
urgenti, negli ultimi tempi rappresenti soprattutto un luogo di cura
e non di mero smistamento ai reparti come era forse nel passato.
La competenza e la cultura geriatrica nell’Ospedale Civile Maggiore di Verona, iniziano al momento dell’accettazione, ove il paziente anziano acuto e urgente viene, nei limiti del possibile, gestito da
un medico di Pronto Soccorso specialista in Geriatria.
Per questo è stato condotto in Pronto Soccorso un braccio dello
Studio PAPRICA (Percorso APpropriato RICovero Anziani), al fine
di inquadrare le caratteristiche dei pazienti anziani che accedono alla
struttura ospedaliera con una qualche forma di urgenza. Lo scopo di
questo studio è anche quello di valutare in quali termini il nostro
ospedale sia in grado di fornire risposte adeguate a questo tipo di
pazienti.
L’argomento è di stringente attualità, in quanto, negli oltre
100.000 accessi annui al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile Maggiore di Verona, gli anziani incidono per una quota del 25% circa.
Considerando l’esito di tutti gli accessi in Pronto Soccorso nel
2003, malgrado solo il 10% dei pazienti sia stato ricoverato in un reparto, risulta che gli ultrasessantacinquenni sono quelli che più sovente necessitano di essere accolti.
Questo va a sottolineare come l’anziano che giunge in ospedale,
sia spesso effettivamente una vera urgenza, mentre la fascia di età
compresa tra i 15 e i 24 anni è quella che viene più frequentemente
dimessa.
Accanto a queste considerazioni, bisogna inoltre sottolineare come il medico di Pronto Soccorso, anche se non geriatra, debba essere dotato di una particolare sensibilità nei riguardi dell’anziano.
Solo cosı̀ sarà in grado di cogliere con rapidità e competenza, le
esigenze di questo tipo di ammalati e potrà, inoltre, stabilire con immediatezza la migliore sistemazione nell’ambito delle opzioni possibili (reparto chirurgico – reparto medico specialistico – reparto di
geriatria).
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
437
Scegliere un indirizzo od un altro, non è insignificante per l’anziano, che presenta una situazione clinica quasi sempre particolare.
Per tale motivo, è utile un percorso diagnostico – terapeutico –
riattivatorio personalizzato e, spesso, non sovrapponibile a quanto
necessario per il soggetto giovane-adulto.
Sono stati arruolati nello Studio PAPRICA 528 pazienti ultrasessantacinquenni consecutivi, afferiti al Pronto Soccorso dell’Ospedale
Civile Maggiore di Verona nel mese di gennaio 2004.
Al termine, risultano inclusi 231 uomini e 297 donne.
Le fasce di età più estreme sono caratterizzate da un maggior numero di donne.
Per ciascun anziano sono stati indagati luogo e modalità di provenienza, tipo di ‘‘triage’’, diagnosi di PS, necessità o meno del ricovero, co-morbilità cronica, grado di autonomia, grado di protezione
familiare e sociale, destinazione più adeguata per il ricovero e destinazione effettiva al momento del ricovero stesso.
Delle donne ultrasessantacinquenni, la maggior parte ha una età
fra i 70 e gli 85 anni (media 79), mentre fra gli uomini, i più rappresentati sono coloro che hanno un’età fra i 70 e gli 80 anni (media 76).
Tale dato conferma una età media minore nel sesso maschile, in
linea con quanto emerge dalla Letteratura sull’argomento.
Più della metà dei pazienti anziani giunge direttamente dal proprio domicilio tramite un ricorso diretto e con i propri mezzi.
Accanto a questi, il 24% dei maschi, e il 30% delle femmine, arriva per mezzo di ambulanza, a sottolineare la frequente gravità del
paziente anziano.
Solo il 17% degli uomini ed il 20% delle donne, è inviato dal
medico curante.
Il paziente anziano tende a by-passare il medico di base ed arriva
direttamente in ospedale, probabilmente, perché si ritiene più protetto.
Globalmente, circa il 6% giunge dalle Strutture Protette.
Malgrado le sale di Pronto Soccorso siano gremite di ammalati, è
fondamentale distinguere subito quanto un ammalato sia più ‘‘impegnato’’ di un altro.
Come è noto, per i pazienti che accedono al Pronto Soccorso,
viene stabilita al ‘‘triage’’ una priorità in base all’urgenza del quadro
clinico, con l’assegnazione di un codice verde, giallo o rosso.
438
u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
Gli accessi non urgenti (codice bianco), non sono stati considerati in questo studio.
Il codice rosso è assegnato a pazienti anziani in quota maggiore
rispetto ai codici giallo o verde, a significare che l’urgenza all’ingresso aumenta col crescere dell’età.
Per quanto riguarda l’anziano, le diagnosi più frequentemente
formulate in Pronto Soccorso sono cardiologiche, seguite dalle diagnosi respiratorie e, quindi, da quelle di natura neuro-psichiatrica.
Una quota cospicua di casi (38%), non è precisamente catalogabile in una patologia d’organo o d’apparato ben definita.
In questa miscellanea entrano, ad esempio, le sindromi vertiginose, le lipotimie o le sincopi, le febbri persistenti ecc.
Alcune patologie risultano fortemente correlate col sesso.
La sindrome vertiginosa, la sincope, la lipotimia e la patologia
osteoarticolare, con artrosi e fratture, sono più frequenti nel sesso
femminile.
Nell’uomo, invece, prevale nettamente la cardiopatia ischemica.
Ciò che caratterizza l’ultrasessantacinquenne, rispetto alle altre
fasce di età, è la co-morbilità.
Nel nostro studio, la quota di pazienti anziani senza polipatologia è solo del 10%, mentre più elevata appare l’incidenza di soggetti
con 2 o 3 patologie.
In particolare, la co-morbilità risulta più frequente nella donna
rispetto all’uomo.
I quadri cronici più diffusi sono di natura cardiologica, seguiti
dagli endocrino-metabolici (diabete e distiroidismi) e neuro-psichiatrici (Alzheimer, Parkinson, Demenze Vascolari e Depressione).
Anche per quanto riguarda le patologie croniche associate, si rilevano delle differenze tra i due sessi.
Le neoplasie e le patologie nefro-urologiche, sono più frequenti
nel maschio, mentre le patologie osteo-articolari, come l’osteoporosi
e l’artrosi, sono prevalenti nella donna.
Nello studio si valuta anche il grado di autonomia, con una scala
da 0 a 4.
Nello stadio di autonomia completa, rientra la maggior parte dei
pazienti. L’uomo risulta essere più autonomo rispetto alla donna.
Il grado di protezione familiare e sociale, è misurato con una scala da 0 a 2 e la maggioranza degli ultrasessantacinquenni giunti in
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
439
Pronto Soccorso rientra nell’ultima categoria, cioè quella meglio
protetta.
Anche in questo caso, è l’uomo a godere di una condizione socio-familiare migliore.
Da questi dati si evince che la donna risulta essere mediamente
più vecchia, meno autonoma e più sola.
Probabilmente, questo giustifica una piccola quota di incongruità di ricovero in ospedale, rilevata solo nel sesso femminile.
Considerando solo i casi per i quali è indicato il ricovero ospedaliero, il 65% dei pazienti risponde a criteri di ricovero in Geriatria
(polipatologia, fragilità, alto rischio di complicanze o di perdita di
autonomia), il 23% in ambiente internistico di altra specialità (soprattutto terapia intensiva) ed il 12% in ambiente chirurgico.
Dopo aver valutato quale fosse la destinazione ottimale del paziente al momento del ricovero, viene analizzata la destinazione reale
e, a questo livello, emergono alcune incongruenze.
Mentre il 100% dei pazienti destinati ad un reparto internistico,
diverso dalla Geriatria, trova la giusta collocazione, l’11% di coloro
che necessitano di un reparto chirurgico (Ortopedia soprattutto),
non trova un posto letto libero e viene impropriamente inviato in
Geriatria.
Ma anche un 7% dei pazienti destinati alla Geriatria, non trovando un posto letto in tale struttura, viene ricoverato in altro reparto o addirittura in altro ospedale.
Questa quota di pazienti che non ha trovato collocazione in ambiente geriatrico, è ipotizzabile sia andata più facilmente incontro a
quella cascata degli eventi che porta alla perdita di autonomia.
Una degenza prolungata, inappropriata, in ambiente non geriatrico, può infatti determinare su un paziente anziano questo rischio.
Una proiezione ad un anno di questi dati, conduce alla conclusione che, degli ultrasessantacinquenni che giungono in Pronto Soccorso dell’Azienda Ospedaliera di Verona, circa 5.000 necessitano di
un ricovero in Geriatria, circa 1.800 in reparto internistico specialistico e circa 1.000 in reparto chirurgico (in questi ultimi reparti il
maggior numero dei ricoveri avviene ‘‘in elezione’’, quindi i pazienti
non transitano dal Pronto Soccorso).
In effetti, nel 2003 i dimessi dalle Divisioni di Geriatria sono stati
4.927.
440
u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
Di questi, l’80% era giunto dal Pronto Soccorso, mentre gli altri
erano pazienti trasferiti da reparti differenti (quasi sempre di Terapia
Intensiva) o accolti per ricovero programmato.
Da tutto questo si evince che, malgrado la cospicua disponibilità
di posti-letto di Geriatria per Acuti, il Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile Maggiore di Verona, perseguendo costantemente l’obiettivo
di fornire la migliore assistenza medica possibile anche all’anziano,
riesce a malapena a rispondere alle esigenze sanitarie e assistenziali
della cittadinanza veronese’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Umberto Senin ricopre la cattedra di Geriatria e
Gerontologia all’Università di Perugia. È stato Presidente della Società Italiana di Neurogeriatria, è stato Presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, è vice presidente della Società Italiana di Psicogeriatria. Ha pubblicato su riviste nazionali ed internazionali, molti lavori di altissimo valore scientifico. È autore di diverse
monografie. Viene dal mare perché è nato a Zara, in Dalmazia’’. Sı̀,
Umberto Senin è un bell’uomo e viene dal mare.
Vi ricordo, perché voi non lo sapete, ma io lo devo dire, che la
sua mamma quando aveva Umberto al sesto mese nel grembo, è rimasta vedova. Il papà di Umberto faceva il medico. È morto per una
malattia banale. Allora era cosı̀.
Quando nasce questo bambino, la mamma lo chiama col nome
del papà. Umberto è il nome del papà di Umberto. La mamma, si
porta il suo piccolo a Perugia, perché a Perugia c’era la possibilità
di far crescere i figli rimasti orfani di un genitore medico. Lui non
ha più abbandonato la città di Perugia.
Ha salito gradino su gradino ed è arrivato dove è arrivato, da solo. Non è cambiato niente, rispetto al suo papà. Suo papà faceva il
pediatra, lui fa il geriatra. La passione è la stessa, sono soltanto cambiati i tempi. Sono soltanto cambiati i tempi. Allora c’erano i bambini, oggi ci sono i vecchi. E lui si è adeguato ai tempi.
Penso però, che lui, che ‘‘è un bell’uomo e che viene dal mare’’,
non abbia mai dimenticato il mare perché malgrado si trovi benissimo in Umbria, io so che quando lo fanno un po’ arrabbiare dice:
‘‘Non c’è niente da fare, l’Umbria non ha sbocchi sul mare.’’ Lo dice
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
441
quando si irrita un po’. Per quanto ci accade, può capitare un attimo
di stizza.
Amo pensare che Umberto abbia del papà la passione e della
mamma la grinta. La mamma con sacrificio e determinazione, lo
ha fatto studiare. Io so che forse non dovevo dirlo Umberto, ma
non potevo. Un po’ me ne scuso.
A te la parola.’’
442
u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
U. Senin: ‘‘Vengo dal mare, come dice Dalla. Vengo dal mare, ci tengo. Beh, insomma, dopo questa presentazione dell’amico Gigi, mi si
è ancora di più rafforzato il convincimento che andava maturando
nel mio pensiero ascoltando la bravissima nostra collega.
Penso sia arrivato, almeno per qualcuno di noi, il momento di
cedere il testimone, sapendo di lasciarlo in mano a persone che, grazie anche alla loro giovinezza, sapranno sicuramente portarlo avanti
verso nuovi traguardi. È una cosa un po’ triste, però te lo dicevo oggi
Gigi. Forse è arrivato il momento di farmi da parte.
Io ho degli allievi bravissimi. Lo dico con orgoglio, fra un po’
raggiungeranno anche l’apice della carriera accademica. Vorrei che
ci fosse uno di loro qui, quest’altr’anno, al posto mio. Magari io
tra il pubblico ad ascoltarli, però penso che, ripeto, sia forse arrivato
il momento di lasciare questo testimone. Tu lo deciderai, però è un
suggerimento che io mi sento di doverti fare.
Ho letto ‘‘Il Fracastoro’’. Me lo ha consegnato all’uscita dell’autostrada, l’amico Gigi, che è venuto a prendermi per insegnarmi la
strada per arrivare in albergo. Non appena sono arrivato, anziché ripassare o fermare alcuni concetti, mi sono riletto, anzi ho letto tutto
quello che io avrei detto l’anno scorso.
Non è corretto il condizionale, ho letto tutto quello che ho detto
l’anno scorso e mi complimento per il lavoro veramente brillante che
è stato fatto. È stato un lavoro certamente faticoso. Perché parlare
non è come scrivere. Quando uno parla dice tante cose, concetti
che magari poi non porta a compimento. Scrivere, invece, deve avere
tutta una sua consequenzialità logica. Mi riconosco completamente
in quello che c’è scritto riguardo il mio intervento. Mi riconosco,
mi ritrovo pienamente in quello scritto.
Quindi, questo è un elogio che io faccio a te, ai tuoi collaboratori
e a Daniela. È la prima volta, ormai in quasi quarant’anni di carriera
che io ho avuto la possibilità di vedere per iscritto quello che il relatore ha detto, cosı̀ come lo ha detto. Con qualche imperfezione,
con qualche ripetizione, che, però, non tolgono nulla alla linearità
del discorso. Anzi, lo arricchiscono, di quella umanità, di quella
spontaneità, di quelle cose che si possono dire, ma che non si potrebbero scrivere.
Sottoscrivo tutto quello che ‘‘mi hai messo in bocca’’ perché io
quelle cose le ho dette. Spero che non avvenga la stessa cosa que-
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
443
st’anno, perché ascoltando e poi andando a rileggere, forse troveremmo che ci sono diverse ripetizioni. Anzi, leggendo quel mio intervento, mi sono accorto che diverse cose che io mi accingo a dire
oggi, le ho già dette l’anno scorso. Poi però ripensandoci bene, conoscendomi, spero almeno di cambiare qualcosa.
Ci saranno degli arricchimenti, che vorrei destassero la vostra curiosità ed il vostro interesse. ‘‘La Medicina Geriatrica alle soglie del
III Millennio: dall’autorefenzialità alle evidenze di efficacia’’.
Cercherò quest’anno, rispetto all’anno scorso, di essere molto
più rigoroso, più lineare, forse da un certo punto di vista meno affascinante perché meno fantasioso. Mi sono imposto di mantenere il
mio discorso entro binari molto precisi, che sono quelli che ci devono portare a raggiungere tutta una serie di traguardi. Ed è per questo che ho voluto rappresentarvi, fin dall’inizio, quali sarebbero stati
e saranno i punti che io andrò a toccare. Innanzitutto, ci chiariremo.
Primo: qual è il ruolo assistenziale che il Sistema Sanitario Nazionale affida alla Medicina Geriatrica. Non quello che noi le affidiamo,
ma quello che il Sistema Sanitario Nazionale affida alla Medicina
Geriatrica.
Secondo: qual è il paziente di elezione.
Terzo: qual è la metodologia che la Medicina Geriatrica mette
sul campo per dare al paziente d’elezione le risposte più efficaci, allo
stato attuale delle conoscenze e delle possibilità.
Quarto: quali sono le evidenze di efficacia per quanto riguarda
questa metodologia sul paziente d’elezione.
Quinto: quali sono le nuove professionalità che sono necessarie
per raggiungere queste evidenze di efficacia.
Infine: quale sarà, potrebbe essere, dovrebbe essere il suo futuro
o, meglio, il nostro futuro di geriatri.
Consideriamo innanzi tutto il ruolo assistenziale. C’è scritto poco
sui documenti ufficiali della Repubblica Italiana, però, qualcosa c’è
scritto. Noi non possiamo prescindere da ciò che c’è scritto perché,
comunque, è legge e la dobbiamo conoscere. Faccio riferimento ad
un numero della Gazzetta Ufficiale del 1994, che contiene il Piano
Sanitario Nazionale. In esso, si affronta e si descrive il Progetto
Obiettivo Anziani.
Si legge che ‘‘l’assistenza geriatrica all’interno del più vasto cam-
444
u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
po di interventi in favore della popolazione anziana, è quella che si
occupa degli anziani non autosufficienti, parzialmente autosufficienti
ed a quelli con pluripatologie ad alto rischio di invalidità con particolare riguardo ai pazienti ultrasettantacinquenni.’’
Dà una serie di indicazioni, mette dei paletti, stabilisce dei confini. Questi sono i pazienti che il Piano Sanitario Nazionale e, quindi,
il Sistema Sanitario Nazionale, definisce essere di competenza dell’assistenza geriatrica.
L’assistenza geriatrica va contemplata all’interno di una rete di
servizi che devono essere tra loro fortemente integrati. Sono servizi
afferenti al Sistema Sanitario, a quello Socio-Assistenziale, da qui la
parola integrati. È un’integrazione tra ciò che è di competenza del
comparto sanitario e ciò che è di competenza del comparto sociale.
Tutto ciò consente, anche mediante l’uso delle più moderne tecnologie, di gestire al meglio i problemi degli anziani.
Si insiste sulla tipologia di questi anziani, dei quali l’assistenza geriatrica si fa carico nell’ambito della rete di servizi fra loro fortemente integrati. Rete di servizi, che tutti voi conoscete. Tutti questi servizi servono ad assistere nelle varie fasi della loro storia, i pazienti
anziani, malati cronici, disabili, fragili. Rete, vuol dire che tutti i vari
Servizi sono fra di loro funzionalmente correlati. Sono in connessione funzionale, come i vari organi del corpo umano. Ciascuno lavora
al servizio di tutti gli altri organi. Ciascuno assolve un proprio compito che, nel caso specifico, è quello di dare risposte tempestive, efficaci, coerenti con quelli che sono i bisogni che l’anziano in quel
momento presenta.
È indispensabile un coordinamento. Chi dà la garanzia che questi organi, questi apparati, lavorino tutti in collaborazione? Chi lo garantisce? Certamente è opportuna la presenza di un ‘‘cervello’’ che
decida di volta in volta quale sia il servizio in grado di dare le risposte più opportune. Deve intervenire per spostare il paziente da un
servizio ad un altro. Qualora i bisogni fossero cambiati, le necessità
fossero diverse, sarà necessaria una struttura con finalità, caratteristiche ed organizzazioni appropriate.
Come tutti voi sapete questo modello a rete, che è un modello
innovativo, di fatto non si è realizzato o, se questo è avvenuto, si è
realizzato in maniera parziale o limitatamente ad alcune aree del nostro paese. Assai difficilmente, ha raggiunto completezza ed efficien-
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
445
za, senza le quali è impossibile garantire una continuità assistenziale
tra domicilio, ospedale e tra ospedale e servizi territoriali.
Questa continuità viene a mancare o non dà le risposte efficaci. Il motivo è dovuto al fatto che questi servizi non si sono adeguati, ma hanno solo cambiato etichetta. La vera motivazione è
quella di risparmiare sulla base del principio che qualche cosa è
meglio di niente, ma non c’è mai o quasi mai una motivazione
di risultato. Ci si deve attivare con l’obiettivo di raggiungere questo risultato.
Di rado, questi servizi hanno un profilo funzionale in grado di
giustificarne l’esistenza. Non hanno un sicuro collegamento in Rete.
Non rispondono a quelle esigenze di funzionalità, a quelle caratteristiche necessarie perché possano essere considerate operanti all’interno di una rete.
Molto spesso, per quanto riguarda le caratteristiche architettoniche, organizzazioni, metodologie, è difficile che esse siano in grado
di raggiungere gli obiettivi.
Quanti di questi servizi sono sottoposti ad un forte controllo di
qualità? Quanti sono soggetti ad una verifica? I risultati che loro dichiarano essere in grado di raggiungere, vengono di fatto raggiunti?
Quante di queste strutture o di questi servizi hanno tariffe che
siano congrue agli obiettivi che dichiarano essere in grado di raggiungere? Gli obiettivi preposti ne giustificano l’esistenza in rete?
Poi c’è il grosso problema degli operatori. Voi sapete benissimo
che noi potremmo pensare di costruire anche la migliore struttura
immaginabile dal punto di vista architettonico, organizzativo e dell’immagine.
Tutto questo non basta. Se questa struttura viene gestita da persone che non hanno la dovuta competenza, allora è meglio un medico capace che visiti, per cosı̀ dire, sul pianerottolo di casa, piuttosto
che avere una bellissima struttura dorata, in mano a persone impreparate.
Talvolta, ci si affida a professionisti che hanno conosciuti gli anziani solo sui libri. Nel nostro lavoro, i libri sono certamente essenziali, ma non sono tutto perché gli anziani bisogna averli conosciuti,
averli toccati. Per questo, dobbiamo essere guardinghi verso chi non
è degno per capacità, per professionalità, per competenza, di curare
i vecchi.
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u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
Stabilito, quindi, quale sia il compito che il Sistema Sanitario Nazionale, almeno nelle sue dichiarazioni, affida all’assistenza geriatrica
ed in quale ambito l’assistenza geriatrica debba operare, vediamo
qual è il paziente d’elezione. Non basta che un paziente sia cardiopatico perché sia di pertinenza del cardiologo. Non è cosı̀.
Non basta avere oltre una certa età per essere paziente geriatrico.
Il cardiopatico d’elezione, per il cardiologo, è un particolare cardiopatico. È un cardiopatico complesso, è un paziente per cui è necessaria
una peculiare competenza che si avvalga di una specifica metodologia
che opera all’interno di un sistema organizzativo ‘‘sui generis’’.
Se non capiamo questo concetto, noi corriamo il rischio di fare
solo dell’autorefenzialità. Dobbiamo essere molto rigorosi.
Qual è il paziente d’elezione? Riprendo le parole di W.R. Hazzard, che per tutti noi è forse il cantore, l’interprete più importante
della Medicina Geriatrica nel mondo. È quello che ha scritto insieme
ad altri, ma i passi più cocenti sono suoi, un trattato che rappresenta
per noi geriatri ‘‘la Bibbia’’. Secondo l’autore, ‘‘l’identificazione, la
valutazione, il trattamento dell’anziano fragile, è il basamento della
pratica medica geriatrica’’. Da qui, ne deriva che il paziente geriatrico è l’anziano fragile.
Ma chi è? Sono sicuro che se lo chiedo a diversi di voi, non c’è
nessuno che mi dia la stessa risposta. È difficile pensare di affermare
la propria indispensabilità se ciascuno di noi va a dire al proprio Direttore Generale quale sia l’anziano fragile, perché ognuno ha una
valutazione diversa.
Non è facile amalgamare opinioni cosı̀ differenti ed ottenere risultati omogenei. È duro il nostro lavoro, lo dice sempre Gigi. Il nostro paziente è complesso di per sé, ma se alla complessità intrinseca
ci assommiamo la complessità che deriva dall’ignoranza, è difficile
che si faccia molta strada.
Chi è questo anziano fragile? Ad ogni Congresso dove io vado, la
parola fragile, è la più gettonata. Ormai basta che si parli di anziani
ed il concetto di fragilità è implicito. E poi, dentro la fragilità si parla
di tutto. Un ultrasessantacinquenne è fragile, semplicemente perché
è vecchio. Ma anziano fragile, non è sinonimo di anziano. Hanno capito che fragile, forse, è di moda. In Congressi di Gastroenterologia
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
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parlano di anziani fragili. In congressi di Pneumologia parlano dell’anziano fragile. Tutti parlano dell’anziano fragile.
Non è sufficiente essere vecchi e disabili per essere fragili. Né essere vecchi, disabili, avere molte malattie, assumere molti farmaci,
per essere fragili. Vi sono soggetti di ottant’anni che hanno più malattie, che sono emiplegici, che prendono molti farmaci, ma che non
sono fragili.
La disabilità, la co-morbidità, da sole o insieme, identificano la
fragilità in maniera probabilistica, ma nessuna è necessaria, né sufficiente per porre la diagnosi di fragilità.
In uno studio di alcuni anni fa, erano stati tolti i dementi. In questo, risultava che disabilità, co-morbidità, fragilità, erano presenti rispettivamente nel 21,5%, nel 46,2% e nel 5,7%. Solo il 5,7% era
considerato fragile. La valutazione era stata effettuata con una serie
di strumenti atti ad identificare la fragilità.
Purtroppo, e questo è un problema per noi geriatri, non è facile
definire in maniera precisa ed esauriente quando un anziano sia fragile. È possibile farlo soltanto facendo riferimento all’esperienza clinica. Non si possono codificare caratteristiche precise capaci di identificare inequivocabilmente l’anziano fragile. Se cosı̀ fosse, il medico
del Pronto Soccorso, agirebbe di conseguenza.
È su questo che la moderna Geriatria, oggi, è fortemente impegnata per trovare degli indicatori semplici, puntuali, facilmente identificabili, per definire la fragilità. Lo sforzo che poi dovremo fare è
quello di individuare i soggetti candidati alla fragilità, per intervenire
in senso preventivo.
Possiamo identificare gli anziani fragili come quei soggetti di età
avanzata, solitamente molto avanzata, cui si aggiunga un concetto, la
co-morbidità. Sono pazienti affetti, per lo più, da patologie croniche
multiple, con stato di salute instabile.
Il concetto di fragilità può essere benissimo cambiato col concetto di instabilità.
Sono pazienti instabili, frequentemente disabili o ad elevato rischio di diventarlo. Soggetti nei quali gli effetti dell’invecchiamento
e delle malattie croniche sono, spesso, complicati da problematiche
di tipo socio-ambientale. Ecco l’altro elemento.
La fragilità viene definita sulla base di parametri biologici, clinici
e sociali. È l’esperienza a dirci chi sia l’anziano fragile ed ho cercato
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u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
di precisarne l’identikit. Non è parto spontaneo della mia fantasia o
della mia cultura, ma è derivato da quanto scritto in un’infinità di
studi e di articoli da parte di riconosciuti esperti di Medicina Geriatrica. Si tratta di pazienti che presentano uno stato di salute psicofisica estremamente precario.
L’instabilità ha molte variabili.
Sono pazienti ad elevato rischio di rapido peggioramento delle
condizioni generali, delle capacità funzionali in corso di eventi acuti
anche di modesta entità. Basta niente, un’influenza, diceva la dottoressa Cecchini. Da una situazione di sostanziale autonomia, di integrità funzionale, il soggetto nel giro di pochi giorni, può precipitare,
ad una velocità sempre maggiore, verso una condizione di sempre
più grave compromissione e dipendenza.
Sono ammalati ad elevato rischio di ricoveri ripetuti. Li dimettiamo, li ritroviamo dopo una settimana, se non nel nostro reparto nell’ospedale più vicino o nel reparto del collega accanto.
In questi pazienti, inoltre, alto è il rischio di complicanze. Tipico
è lo scompenso a cascata, la ‘‘sindrome del birillo’’ io la chiamo.
La guarigione dopo l’evento acuto, è tardiva e spesso incompleta.
In questi casi, elevata è la probabilità che il medico anziché portare salute, provochi danni. La sua fragilità lo mette a rischio di veder peggiorare le sue condizioni. Una manovra condotta in maniera
incongrua, per un clisma opaco chiesto senza che ci fosse una motivazione forte, può essere sufficiente per rompere un equilibrio precario. Pensate che cosa richiede fare un clisma opaco. Solo la pulizia
dell’intestino, è traumatizzante per un individuo, tutto sommato, sano. Immaginate per un soggetto fragile.
In questi casi, anche il rischio di cadute e di fratture è elevata.
Porto l’esempio di quanto accaduto alla mamma di un collega.
Il figlio e la nuora della paziente, cercavano di porre la massima
attenzione soprattutto quando la paziente saliva o scendeva le scale.
È stata sufficiente una minima distrazione, la mamma è caduta e si è
rotto il femore. Ora necessita di lunghi periodi di tempo per la guarigione clinica.
L’elevato rischio della perdita di autosufficienza, si correla col rischio della istituzionalizzazione e della mortalità.
Questo è l’identikit dell’anziano fragile. Non è l’anziano ‘‘tout
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
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court’’. Non è l’anziano con la co-morbilità, né con la disabilità, né
molto vecchio, né quello che assume molti farmaci. È un anziano che
ha qualche cos’altro e di più, che lo porta a caratterizzarsi nel modo
che io schematicamente vi ho indicato.
L’estate scorsa, sono stato raggiunto dalla telefonata di una giornalista del Corriere della Sera, che mi ha chiesto quale fosse il mio
parere su tutte le morti per il gran caldo. Per me è stato facile rispondere.
Se voi aveste ‘‘cliccato’’, come si dice oggi, sul sito del Ministero
della Salute, avreste trovato quello che era il resoconto di un’indagine
che il Ministro Sirchia aveva affidato all’Istituto Superiore della Sanità. L’obiettivo era quello di conoscere il perché di questo evento che
tanto aveva scosso l’opinione pubblica, non soltanto nel nostro Paese,
ma ancor più se vi ricordate in Francia, dove la cosa fece scalpore.
Perché fece scalpore? Perché si accorsero di quanto alto fosse il
numero degli anziani morti e che si trovavano alla cella mortuaria,
senza che qualcuno fosse andato a richiederne la salma. Parigi, soprattutto, scoprı̀ quanti anziani vivessero ignorati e dimenticati da
tutti. Tanto è vero che, quasi per chiedere perdono, Chirac fece
dei funerali di Stato, per questi anziani, che erano morti durante il
periodo del gran caldo.
Ma torniamo al dato che è emerso.
Quello che è apparso è che, rispetto all’anno precedente, stesso
periodo, dal 16 luglio al 15 agosto, erano morti 4.175 ultrasessantacinquenni in più. Questo non era il numero totale dei morti. Erano
deceduti 4.175 anziani in più, pari ad un incremento del 14% rispetto alle morti dell’anno precedente nello stesso periodo.
Poi, sono andati a vederne le caratteristiche e si sono accorti che
l’89% di questi 4.175 morti in più, cadeva nella fascia di età al di
sopra dei 75 anni. Percentuali molto più basse, per le fasce di età anziane inferiori. Inoltre, è da sottolineare come questo incremento di
mortalità avesse riguardato, in misura maggiore, le città più popolose.
La differenza, rispetto all’anno precedente, è significativa. La
mortalità è aumentata del 47-49% nelle città con oltre 500.000 abitanti. In qualche modo col mio articolo sul Corriere, criticavo le istituzioni perché si erano lasciate cogliere impreparate. In un primo
tempo sembrava che l’Umbria non fosse stata coinvolta.
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Ad una ricerca più attenta, fra le regioni che hanno avuto un incremento del 40% in più di mortalità, rispetto l’anno precedente,
c’era anche l’Umbria. Per cui io ho scritto una lettera, all’Assessore
Regionale, che non ha avuto alcuna risposta.
Allora chi erano morti? Soprattutto, quelli al di sopra dei 75 anni. In particolare, quelli che vivevano nelle città più popolose e che
presentavano questo identikit.
Molti anziani, ammalati, soli, poveri, che vivevano in abitazioni
disagevoli. Erano costretti a rimanere a casa e non potevano uscire
a prendere un po’ d’aria sotto un albero. Talvolta, è difficile trovare
gli alberi in città. Erano anziani a basso livello socio-economico, che
vivevano in case senza condizionamento d’aria. La precarietà socioeconomica favorisce la fragilità. Morivano, soprattutto, gli anziani fragili. Purtroppo, anche questo è un modo per identificare la fragilità.
Ecco perché mi è stato facile rispondere alla giornalista. A mio
modo di vedere, la maggioranza delle morti interessava soggetti
che rispondevano ad una serie di caratteristiche quali la co-morbidità, la disabilità, la povertà e la solitudine.
Gli anziani fragili. Quanti sono? Non esistono dei criteri standard facili e pertanto le stime sono inevitabilmente imprecise. Però,
diciamo che a seconda che si utilizzino criteri più restrittivi o meno,
l’idea è che siano fra il 10 ed il 20% degli anziani. E non sono pochi.
Sono state istituite delle Commissioni allo scopo di individuare i criteri per identificare l’anziano fragile.
Qual è la metodologia assistenziale?
Si tratta di ammalati estremamente complessi e, non a caso, da
taluni la Geriatria è definita come la Medicina della complessità. È
impensabile che per valutare un paziente cosı̀ difficile, dove vengono
ad interagire situazioni complicate, il metodo non possa essere quello tradizionale.
La Medicina cui eravamo abituati, si basava sull’uso di sfigmomanometro, martelletto, la visita del torace, l’auscultazione del cuore, ecc. Tutto questo è importante, ma non basta. Se vogliamo andare verso il futuro, dobbiamo tornare indietro.
È provocatoria l’affermazione, ‘‘back to the future’’. Se vogliamo fare della Medicina moderna adatta a valutare questi pazienti,
noi dobbiamo tornare indietro. L’ha detto la dottoressa Tinetti,
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
451
che è un’italiana nata e laureata in Medicina, a Torino. È diventata
un’autorevole esponente della Medicina Geriatrica, lavorando in un
Centro di Eccellenza per l’Invecchiamento, che si trova nel Connecticut.
Chi fa il geriatra utilizza la scala della dottoressa Tinetti. È una
scala che noi utilizziamo per valutare i disturbi dell’equilibrio e dell’andatura in un anziano. La dottoressa Tinetti ha detto: ‘‘Se vogliamo fare della Medicina moderna per questi anziani, noi dobbiamo
tornare al passato.’’
Se ci si riferisce alla Medicina tradizionale, nell’ambito della quale noi ci siamo formati, dobbiamo ammettere che essa non tiene conto delle malattie croniche presenti, contemporaneamente, nello stesso soggetto.
La Medicina tradizionale ignora certe problematiche che non sono apparentemente riferibili alle malattie. Non pone attenzione a
tutti quei fattori psicologici, sociali, culturali che contribuiscono allo
stato di salute, alla funzionalità dell’individuo. La Medicina tradizionale non tiene conto, di fatto, del paziente, soprattutto, se molto vecchio. Non ne considera i bisogni, particolarmente i più importanti.
Sono malati per i quali gli obiettivi della salute sono differenti rispetto a quelli dell’adulto.
È importante la sopravvivenza, ma ancor più, la capacità di essere autonomi e di avere una vita sufficientemente confortevole o di
poter usufruire di un adeguato sostegno. Bisogna riportare l’attenzione sul malato e ridare il giusto valore al principio olistico, che
la Medicina Clinica è andata via via perdendo.
Non è possibile che di fronte ad un anziano che si fratturi il femore, il nostro compito sia aggiustare il femore e dimenticarsi completamente dalla persona che ha subı̀to la frattura. Ritornare dalla
malattia al malato, cosa che faceva la Medicina quando non aveva
tutte queste disponibilità tecnologiche.
Il progresso, certamente, ha arricchito la nostra scienza da una
parte, ma dall’altra, l’ha progressivamente disumanizzata. È opportuno ritornare dal modello bio-medico della Medicina centrata sulla
malattia, a quello della Medicina centrata sul paziente.
La metodologia qual è? La metodologia è quella del cosiddetto
‘‘Comprehensive Geriatric Assessment’’ o della valutazione del soggetto in tutte le sue dimensioni, che sono quelle della dimensione
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u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
psichica, fisica, funzionale e socio-ambientale. Per far questo, non
basta più che da una parte ci sia il medico e dall’altra il paziente.
Ci devono essere tutte quelle professionalità che servono per
quel malato. Nella borsa del geriatra non ci può essere solo il fonendoscopio, l’oftalmoscopio, il martelletto, lo sfigmomanometro, ma ci
devono essere tutti gli strumenti della Semeiologia geriatrica. Sono
strumenti che a noi servono per fare un’adeguata valutazione multidimensionale.
Alla complessità non si può rispondere con la semplicità. Alla
complessità, purtroppo, non si può che rispondere con altrettanta
complessità. Bisogna dimostrare che quella metodologia è migliore,
rispetto alle altre. È questo il concetto che vorrei emergesse dal nostro incontro.
Dall’autorefenzialità all’evidenza di efficacia.
La buona Medicina, oggi, si identifica con la Medicina delle Evidenze. È la Medicina che opera le proprie scelte, sulla base delle
prove. Non si fa cosı̀ perché l’ho detto io.
Una volta, c’era il maestro che dall’alto imponeva il sapere. Più
uno era importante e più la sua parola faceva scuola, faceva metodologia. Questo metodo, oggi, bisogna buttarlo alle ortiche, tranne che
in casi del tutto particolari. Oggi, si deve procedere in maniera diversa, anche perché ce lo impone il Sistema Sanitario Nazionale.
Che cosa dice il Sistema Sanitario Nazionale, tutt’ora vigente,
quello definito Bindi? Da quanto ne so, è quello che nessuno ancora
è stato capace o ha voluto minimamente modificare.
Un altro concetto basilare, per la Medicina geriatrica, si riferisce
alle tipologie di assistenza, ai servizi e alle prestazioni sanitarie che
presentino, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze
scientifiche.
Sono escluse dal Servizio Sanitario Nazionale, quelle che non
soddisfino il principio dell’efficacia, dell’economicità e dell’uso efficiente di risorse. Di fronte ad uno Stato che non può ‘‘battere moneta’’ a piacimento, ma che deve fare un uso sempre più razionale
delle risorse, in presenza di un mondo che continuamente chiede
di ridimensionare i costi compresi quelli della Sanità, non si può
più garantire tutto a tutti, come si è fatto fino a ieri.
Il Servizio Sanitario Nazionale garantisce ciò che è indispensabi-
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
453
le, in rapporto a quello che la Scienza ha dimostrato. Come sempre,
quando si taglia, si commette un’infinità di errori e di ingiustizie. Però, il principio è questo. Alla Geriatria è stato affidato quel tipo di
paziente. Per il Servizio Sanitario Nazionale è una scienza indispensabile. Ci sono evidenze che, se si opera secondo una corretta metodologia geriatrica, si ottengono i migliori risultati possibili, a fronte
di una spesa sostenibile.
Se questa è la verità, è impensabile che ciascuno di noi continui a
fare quello che gli pare. Se si è al servizio della Sanità Pubblica, intanto, si deve fare ciò per cui si è chiamati.
La Società Italiana di Gerontologia e Geriatria ha elaborato le
Linee Guida, per la metodologia assistenziale della Medicina Geriatrica, rivolte all’anziano fragile nella rete dei servizi. Tralascio il piano di lavoro che è stato estremamente articolato e complesso. Ha
coinvolto medici, geriatri, medici di Medicina Generale, operatori,
infermieri professionali, rappresentanti dei malati. Sono categorie direttamente o indirettamente impegnate, nell’assistenza dell’anziano.
Le Linee Guida sono state elaborate tenendo conto di come vengano ad essere definiti i livelli di efficacia di una prestazione, di un
servizio, di una metodologia rispetto ad un’altra. Si fanno vedere le
meta-analisi dei clinical trials randomizzati e controllati. Sono gli studi più qualificati che la scienza oggi sia in grado di proporre. Questo
è il miglior risultato ottenibile. Quando i risultati non sono confrontabili con un trial clinico randomizzato e controllato, l’efficacia sarà
alta, ma non ottimale.
In alcune situazioni non è possibile mettere in piedi uno studio
clinico controllato. In questi casi, la parola di un esperto appartiene
all’ultimo gradino per quanto riguarda i livelli d’efficacia.
Da tutti gli studi, è emerso che nelle Unità di Degenza, nelle quali
operava un team multidisciplinare coordinato da un geriatra, team che
utilizzava la metodologia della valutazione multidimensionale, si otteneva una minore mortalità ed un minor declino funzionale anche nei
soggetti non fragili, senza incidere sul costo e sulla durata della degenza.
Quindi, sulla base di queste conclusioni, la richiesta del Sistema
Sanitario Nazionale è di realizzare risultati migliori a fronte di un costo almeno confrontabile o paragonabile. Questo obiettivo è stato
raggiunto. La strategia imponeva che all’interno di quell’Unità, l’af-
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fidamento del paziente fosse a carico di un team multidisciplinare
che avesse il compito non solo di valutare, ma anche di prendersi carico di quel paziente. L’ammalato non deve essere solo valutato, bisogna prendersene carico. È fondamentale che il personale sia qualificato, in senso gerontologico e geriatrico.
L’Unità Geriatrica per Acuti, consiste in un team che ha di fondo una cultura geriatrica. Il coordinamento è affidato ad un geriatra.
La metodologia di lavoro si basa sulla valutazione multidimensionale
geriatrica.
Ai fini del risultato, è essenziale che l’opera del team non si esaurisca con la dimissione del paziente, ma prosegua anche dopo di essa
attraverso un collegamento funzionale con i servizi del territorio.
Questo, per quanto riguarda l’ospedale.
Analogamente, ci si deve comportare, per quanto attiene la metodologia dell’assistenza geriatrica, quando è effettuata sull’anziano
fragile a domicilio. Questa strategia complessa e continuativa, ha dimostrato di essere in grado di ridurre il tasso di mortalità e di migliorare la qualità della vita con maggiore probabilità per l’anziano di rimanere a domicilio. Consente un passo in avanti nell’autonomia funzionale, nelle capacità cognitive, nel tono e nell’umore. Infine, si è
dimostrata in grado di ridurre i tassi di ospedalizzazione.
Per il Sistema Sanitario, è fondamentale trovare il modo di ridurre i costi soprattutto dell’ospedalizzazione, che incide per il 60% circa sulla spesa sanitaria totale. I migliori risultati, ancora una volta, si
sono ottenuti quando il team era coordinato dal geriatra, prevedeva
figure professionali con addestramento specifico, tanto che il Consiglio d’Europa, cosı̀ come l’OMS, hanno raccomandato una implementazione di questi studi.
La conclusione è che noi dobbiamo abbandonare la Medicina
che s’interessa della malattia, per tornare a rioccuparci del paziente.
Dobbiamo recuperare la Medicina Olistica. La Geriatria, in fondo,
indica una via da seguire che ci sembra quanto mai opportuna.
Uno dei più grandi giocatori di baseball, attorno al 1950, Yogi
Berra che cosa scrive? Lui era un eclettico, un personaggio, grande
campione di baseball, ma era anche un individuo direi, dalla grandissima personalità e sicuramente di grande intelligenza. ‘‘The future
ain’t what it used to be’’. Questo è ‘‘slang’’, un gergo. La traduzione
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
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vorrebbe dire: ‘‘Il nostro futuro sarà diverso dal futuro di chi ci ha
preceduto.’’
Ricordatevi che il futuro non è quello che noi siamo in grado di
prevedere sulla base della nostra esperienza fino ad oggi. Ma che cosa c’entra, nel contesto, questa frase? C’entra, perché tenete conto
che gli 11.500.000 di ultrasessantacinquenni e i 2 milioni e mezzo
di ultraottantenni, sono stati considerati nel 2000.
Dopo 4 anni, non solo sono aumentati di numero, ma sono anche cambiati: diverse le loro esigenze, diversi i loro problemi e diverse le risposte che si devono dare. Queste persone vivono, quasi tutte,
nella vecchia Europa ed in particolare nel nostro Paese che, come
voi sapete, è il più vecchio del mondo.
Quindi, organizzarci oggi, facendo riferimento alla realtà attuale
è già commettere un errore, perché il domani sarà ancora peggio dell’oggi. Il futuro non sarà quello che è stato fino ad oggi ed allora,
bisogna mettersi d’accordo. Come si può pensare di chiudere le Geriatrie? Non c’è alcuna regione d’Italia che sia più ricca di Unità Geriatriche per Acuti del Veneto. Quando sento che si vuole chiudere
le Divisioni di Geriatria non posso non ricordare che il futuro contrasta con questa tendenza.
L’Italia è un Paese eterogeneo. Mentre in alcune realtà le Geriatrie sono in profonda crisi, in altre, la Geriatria sta ottenendo un forte riconoscimento ed implementazione per quanto riguarda il suo
ruolo all’interno dell’ospedale. L’ospedale sta cambiando la sua missione, sta diventando sempre più l’ospedale per l’acuto. Quando si
deve ricorrere al taglio di posti-letto per acuti, in parte, si tende al
recupero ed alla trasformazione in degenza per post-acuti – riabilitazione estensiva.
Queste Unità si chiamano PARE e sono una sezione dell’Unità
Operativa di Geriatria. Per esempio, il dottor Cucinotta, a Bologna
è Primario di un’Unità Operativa per Acuti ed è responsabile di 70
posti-letto PARE, che si trovano sullo stesso piano. Questa sezione
ha come obiettivo quello di garantire un Servizio che assicuri continuità assistenziale, fra la fase acuta di malattia e quella post-acuta, in
un regime protetto. Garantisce la continuità assistenziale fra ospedale e territorio, diminuisce la durata media di degenza, riduce la lista
d’attesa.
La durata di degenza massima consentita in queste Unità per
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post-acuti, è di 20 giorni. Il sistema di pagamento non è più per
DRG, ma per giornate di degenza. In questo modo, nell’ospedale
si riesce a dare una continuità assistenziale maggiore ed a portare alla
dimissione, vuoi al proprio domicilio vuoi in un servizio territoriale, i
pazienti sufficientemente stabilizzati e recuperati al massimo di ciò
che è possibile recuperare.
Questi posti-letto, comunque, è essenziale che siano ubicati in un
ospedale capace di garantire prestazioni di una certa qualità. Questo
è quanto sto cercando di attivare anche nella mia realtà.
Il Progetto che ha trovato l’approvazione del Direttore Generale
e del Direttore Sanitario, è al vaglio dei Sindacati. Praticamente, ripete in una dimensione più ‘‘perugina’’ il progetto che Bologna ha
già realizzato a partire dalla fine del 1997.
Per arrivare alla conclusione, consentitemi di utilizzare quello
che W.R. Hazzard, come vi avevo anticipato, ha incominciato a scrivere a partire dal 1994.
Hazzard nel 1994 scriveva cosı̀: ‘‘La perenne domanda che, più
di ogni altra, perseguita il geriatra, ancora oggi costretto a battersi
continuamente per il riconoscimento della propria identità, è: ‘‘Ma
che fai di diverso, che cosa fai di meglio, rispetto al collega internista
del reparto accanto?’’
Hazzard nell’ultimo numero del Journal of the American Geriatric Society di quest’anno, scrive una lettera. Io ne riporto alcuni
passi.
‘‘Spesso, mi è stato chiesto nei passati trent’anni: ‘‘Che cos’è un
geriatra?’’ E non posso contare le volte ed il modo, in cui ho provato
a rispondere a questa domanda. La gente, continua nel migliore dei
casi, ad avere solo una vaga idea di che cosa sia un geriatra. Che cosa
si faccia e perché.’’
Hazzard continua: ‘‘Mi sono specializzato in Medicina, Psicologia e Assistenza Sociale per persone anziane. Il mio più tipico paziente è quello anziano che rappresenta la fragilità. Un uomo, ma
più spesso una donna, che vive in un equilibrio estremamente precario. Sono malati che vivono in bilico tra l’autonomia e la disabilità.
Vivono sul filo di rasoio. Sono a rischio di una cascata di eventi tragici, di malattie, disabilità e complicanze che, spesso, li portano ad
una condizione di irreversibilità. Per definizione io, geriatra, sono
un esperto nella sottigliezza, nelle cose sottili, complicate. Sono un
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
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esperto della complessità. Il mio team di lavoro comprende: infermieri, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione, psicologi ed assistenti spirituali, ma, frequentemente, altri ancora. È mia aspirazione e mia passione arrivare come i miei pazienti anziani. Un giorno, io
sarò simile a loro e quando quel giorno arriverà, spero che il mio medico sia un geriatra.’’
A questa lettera di Hazzard, ho fatto un mio commento pubblicato sul primo numero del bollettino della Società Italiana di Medicina Interna. È un commento che ho inviato via e-mail, perché il bollettino viene pubblicato su e-mail, a tutta la Geriatria italiana, a tutti
quelli che si riconoscono nella nostra Società. Qualche volta, viene
espresso scetticismo sulla reale necessità del geriatra e della Geriatria.
Si ricorre a terminologie edulcorate quasi per essere più facilmente accettati vuoi dalle istituzioni, vuoi dalla stessa opinione pubblica. Si rifiuta culturalmente la vecchiaia. Anziano e non vecchio,
Medicina dell’Invecchiamento e non Geriatria. Se ne sentono di tutti
i colori. La parola Geriatria, già di suo, ti mette in difficoltà.
Per questo, sarebbe opportuno diffondere questa lettera di Hazzard, per riscoprire tutto l’orgoglio di chi ha fatto la propria scelta
professionale con convinzione.
È l’orgoglio di chi sa di aver compreso le vere aspettative di salute e di assistenza della popolazione anziana. È l’orgoglio di chi sa
di lavorare in un campo minato. È una sfida tremenda alle proprie
conoscenze e capacità, data la complessità dei problemi da affrontare e risolvere.
Il paziente a cui il geriatra elettivamente si rivolge, è quello più
complesso. È un ammalato con scarse risorse, con ridotte capacità
di recupero, che vive sul filo del rasoio, tra l’autosufficienza e lo scatenamento di una tragica cascata di malattie, disabilità e complicanze, che possono scivolare verso l’irreversibilità.
E con questo orgoglio di essere un geriatra, chiudo ringraziandovi per l’attenzione.’’
L. G. Grezzana: ‘‘Se ci sono domande, il professor Senin e Giorgia
sono qui per rispondere.’’
C. Pasoli: ‘‘Ringrazio i due relatori perché sono stati entrambi bravi.
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Giorgia, hai esattamente quantificato il numero dei pazienti geriatrici che arriva in Ospedale, non mandati dal medico di Medicina Generale. Quando, invece, i pazienti giungono in Ospedale inviati dal
medico di base, dovrebbero avere la loro cartellina clinica, com’è
previsto dalla legge.
Da noi, spesso, ne giungono sprovvisti. Succede cosı̀ anche al
Pronto Soccorso di Perugia?
Ad Umberto Senin, pongo anche una domanda sulla Lungodegenza. In un’Azienda Ospedaliera, avrebbero senso dei letti di Lungodegenza?’’
L. G. Grezzana: ‘‘Raccogliamo anche qualche altra domanda cosı̀
poi i relatori potranno rispondere a tutti. Cominciamo con Giorgia
e quindi Umberto.’’
G. Cecchini: ‘‘Io ho portato un dato di fatto, che riguarda i pazienti
non inviati dal medico di base. Comunque, anche quelli inviati dal
medico di base non hanno mai, se non in pochissimi casi, l’anamnesi
o il bollettino cui ti riferivi.’’
U. Senin: ‘‘Questo è un fenomeno nazionale che ha dei picchi durante il periodo festivo ed estivo. Non saprei quantificare, riguardo Perugia, quale sia la percentuale di soggetti in generale non anziani, che
arrivano direttamente dal proprio domicilio all’ospedale. Se fosse la
stessa percentuale, non mi meraviglierei.
Questo esprime una realtà nazionale che in altri paesi è ancora
maggiore.
Negli Stati Uniti, per esempio, non c’è il medico che va a casa ed
il malato si rivolge alla E.R. cioè Emergency Room. Per quanto riguarda la cartella clinica, molte volte ci siamo trovati nel letto, un
paziente che nessuno aveva visitato, nemmeno al Pronto Soccorso!’’
G. Cecchini: ‘‘Non il nostro, professore.’’
U. Senin: ‘‘Non il vostro, naturalmente, però è cosı̀. Passare attraverso il Pronto Soccorso, non implica aver avuto una valutazione adeguata ed una decisione ponderata anche riguardo un’eventuale dimissione. È un problema sicuramente complesso ed articolato.
la medicina geriatrica alle soglie del iii millennio
459
Rispondendo al secondo quesito, è chiaro che la missione dell’ospedale sta cambiando e va, sempre più, verso la acuzie o, comunque sia, verso la cura della malattia. Il che, di fatto, implicherebbe un
disinteresse verso il malato.
Ho avuto conferma di questo, ascoltando le parole del Direttore Generale dell’Ospedale di Udine, in un Convegno di qualche
mese fa. Questi affermava che l’ospedale, oggi, non serve per curare i malati, ma si deve occupare delle malattie. Auspicava, ad
esempio, tempi brevissimi per gli interventi chirurgici al fine di
consentire dimissioni precoci ed abbattimento delle liste d’attesa.
Questa dovrebbe essere, secondo lui, la nuova organizzazione dell’ospedale.
È chiaro, però, che noi non ci possiamo dimenticare del malato e
per questo motivo dovremmo pensare ad un ospedale completamente diverso.
Credo che l’ospedale dovrebbe avere una base: Pediatria, Medicina Interna e Geriatria su cui si poggino tutte le specialità che procedono con indagini specifiche ed interventi chirurgici. Esaurito il
loro compito, altamente specialistico, il malato dovrebbe passare
in carico a chi ha la metodologia per occuparsi di lui. Questa è un’esasperazione, ma se ci pensiamo un momento, forse, ci accorgeremmo che potrebbe essere una strada.
La Lungodegenza, non voglio sfuggire alla tua domanda, non è
prevista all’interno dell’ospedale. Nel Piano Sanitario Nazionale, fa
parte dei Servizi extra-ospedalieri. All’interno dell’ospedale, però,
si dovrebbe prevedere un’area assistenziale a cui afferiscano i pazienti, una volta superata la fase critica.
Si dovrebbe poter concludere un percorso di cura e, talvolta, anche di diagnosi, per il quale è necessaria tutta l’organizzazione che
un ospedale ha.
È ipotizzabile quindi una post-acuzie cui affluiscano ammalati
provenienti da tutte le Strutture e che abbiano bisogno di un ulteriore periodo di degenza all’interno di un ospedale, prima di essere immessi nel territorio.’’
L. G. Grezzana: ‘‘Se c’è qualche altra domanda, altrimenti chiudiamo questo incontro. Ricordo a tutti, ma vi prego di cogliere questa
460
u. senin - g. cecchini - l. g. grezzana
raccomandazione, che la volta prossima vi verrà consegnato il ‘‘Fracastoro’’.
Da ultimo, ringrazio Giorgia che è stata bravissima.
Un grazie di cuore a Umberto Senin. Per l’anno prossimo suggerisce che io chiami un suo allievo. Non credo che l’ascolterò. Inoltre,
lo chiamerò più in là anche per il Congresso Nazionale. Ci vedremo,
certamente, il 15 maggio. Per l’anno prossimo... ne riparleremo.
Questa Scuola, per me è molto importante.
Vorrei chiudere con un insegnamento che ho avuto da un grande sapiente, recentemente. Mi è capitato d’incontrare un uomo anziano di grande cultura, di grande sapienza, di grande saggezza.
Quest’uomo mi ha detto: ‘‘Non so niente.’’ ‘‘Come, non sai niente?
Tu non sai niente? Se non sai niente tu, gli altri che cosa sanno?’’
‘‘Più passa il tempo – m’ha detto – e più mi sento di dirti che non
so niente. L’unica cosa che so, l’unica cosa che ho trattenuto, l’unica cosa che ho imparato è stato il bene che ho avuto ed il bene che
ho dato.’’
Mi ha molto colpito l’osservazione del grande saggio e credo che
noi geriatri, abbiamo questa fortuna. Intanto, di ascoltare i sapienti e
poi di cogliere l’aspetto del bene avuto e del bene dato, perché per
noi c’è l’ammalato, non c’è la malattia. Allora, a fronte di questa fragilità, a fronte del capire che, come altre volte ho ribadito, siamo momento, siamo foglie. Sono convinto che l’uomo le cose più importanti le fa quando si ricorda che è foglia.
Nel momento in cui l’uomo avverte che è foglia, nel momento in
cui dimentica il delirio dell’onnipotenza, che talvolta può derivare
dalla giovinezza o dall’età adulta, ecco, allora realizza le cose più
grandi. L’onnipotenza non è dell’uomo e quando si insegue questa
chimera, si compiono disastri.
Perché ricordatevi che le foglie possono cadere, ma c’è sempre
un po’ di vento che le fa volare.
Vi ringrazio tutti.’’
MEDICINA DI LABORATORIO ED INVECCHIAMENTO
P. Rizzotti - L. Pellizzari - F. Buonocore
L. G. Grezzana: ‘‘A tutti buona giornata. Vi ringrazio di essere sempre numerosi e fedeli. Grazie e prego Francesco Buonocore di dare
inizio ai lavori.’’
F. Buonocore: ‘‘Buona sera a tutti. Le relazioni di questa sera, riguardano: ‘‘La Medicina di Laboratorio e l’invecchiamento’’.
Un buon esame di Laboratorio, puntuale ed attendibile, permette al clinico di giungere ad una diagnosi più facile, più
precisa, principalmente per quelle patologie legate ai nostri anziani.
Tra l’altro, sia il Laboratorio sia le Geriatrie e, stasera, la III Geriatria in particolare, rappresentano per noi del Pronto Soccorso, il
punto cruciale della nostra attività.
Per meglio chiarire, vi ricordo che nel 2002, abbiamo chiesto al
Laboratorio circa 49.000 esami che sono passati nel 2003, a 99.000.
Quest’anno, forse, raggiungeremo 130.000 esami.
Sapere di avere una Medicina di Laboratorio sempre alle spalle,
con diagnosi precise, attendibili, per noi è di enorme conforto.
Tra l’altro, con i colleghi di questo Servizio, di là del dato numerico degli esami, abbiamo anche instaurato un rapporto di collaborazione, perché spesso il dato clinico va ricercato.
Questo ‘‘colloquio’’, ci permette una diagnosi più semplice, più
facile.
Le Geriatrie, rappresentano per noi, con un dato numerico, il
37% di tutti i ricoveri fatti in urgenza dal Pronto Soccorso.
L’anno scorso, abbiamo fatto 10.200 ricoveri in urgenza; 3.714,
hanno riguardato la Geriatria.
462
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
Senza voler fare polemica, la decisione che la Regione ha preso,
credo su dati eminentemente economici, ma non clinici, di chiudere
una delle tre Geriatrie, onestamente ci lascia perplessi.
Rinunciare ad una Geriatria, che accoglie 1.000-2.000 pazienti,
ricordo acuti, non è semplice. In tal caso, non so dove potremmo
collocare i nostri anziani.
Qualcuno ci può anche dire che potremmo calare di 1-2 punti i
ricoveri, perché la Regione si affanna a definirli impropri.
Noi, invece, preferiremmo definirli ‘‘ricoveri sociali’’, anche se
nella nostra città, sono gran pochi questi ricoveri, per non dire, nessuno.
Per l’anziano che arriva a 70-80 anni, che non ha figli, parenti e
che vede acuirsi tutte le piccole patologie fino a sfociare nel fatto
acuto, potremmo anche obiettare che non è compito della nostra
Azienda, occuparsi di lui.
Il nostro è un Ospedale per Acuti.
Penso sia giusto, invece, farci carico anche di questi problemi
della società. Pertanto, mi auguro che la decisione di chiudere una
Geriatria, sia ‘‘all’italiana’’, dove tra il dire ed il fare, c’è di mezzo
il mare.
Per cui, prima di rinunciare ad una delle tre Geriatrie, mi auguro
ci si possa pensare. I tagli, caso mai, andrebbero fatti in altri settori,
dove abbondiamo.
Passo, adesso, a presentarvi i due relatori di questa sera. Uno è il
dottor Paolo Rizzotti. Credo che abbia bisogno di poca presentazione.
Veronese, cresciuto a Verona, poi andato a Trento come Direttore, poi a Padova, per poi ritornare nella propria città.
Con Paolo, ci lega un’ottima collaborazione, perché i problemi
del Laboratorio sono i problemi del Pronto Soccorso e viceversa.
C’è un continuo scambio d’idee, per migliorare i nostri rapporti.
L’altro collega, permettetemi di definirlo, un vecchio giovane.
‘‘Vecchio’’, perché lo conosciamo da tempo. Ha conseguito la Specialità nelle nostre Geriatrie.
Come strutturato, ha già realizzato una certa esperienza con gli
anziani.
A mio modo di vedere, la Geriatria è il perno fondamentale della
Medicina.
medicina di laboratorio ed invecchiamento
463
Adesso, passo la parola al dottor Luca Pellizzari, che terrà la prima relazione. Poi parlerà il dottor Rizzotti. Alla fine, la discussione
aperta a tutti’’.
464
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
L. Pellizzari: ‘‘Buon giorno a tutti. L’argomento presente nel titolo
di questo quinto incontro della Suola medica Ospedaliera – XIV
Corso Superiore di Geriatria, è molto vasto.
Mi soffermerò, nel mio intervento, su tre punti.
Si tratta di tre aspetti particolarmente rilevanti, nell’indagine laboratoristica rivolta all’anziano.
Il primo punto che vedremo, riguarderà l’emocromo, il secondo
punto, l’iponatremia e l’ultimo argomento, di cui parlerò, si riferisce
agli ormoni tiroidei.
È opportuno notare che tutte le considerazioni ed i dati che io
esporrò oggi, derivano da studi condotti nell’arco degli anni nel nostro Dipartimento di Geriatria.
Gli studi relativi all’emocromo, ci hanno portato numerosi risultati.
Due sono i punti sui quali mi piacerebbe soffermarmi, perché i
più importanti. Uno è che, con i dati raccolti, si è riusciti a costruire
delle curve teoriche di distribuzione, che ci hanno consentito di passare dal particolare al generale.
Per esseri più chiari, con la costruzione di grafici, possiamo applicare i dati ottenuti nella popolazione anziana studiata, all’intera
popolazione anziana.
Il secondo punto riguarda la suddivisione in percentili. Il metodo di misurazione in percentili, consente di valutare la distribuzione
di frequenza dei dati.
La suddivisione in percentili evidenzia delle aree di particolare
interesse, sulle quali ci soffermeremo poi.
Esistono delle opinioni storiche sull’emocromo. Con l’invecchiamento, si hanno notevoli variazioni in difetto dell’emocromo, in particolare di emoglobina e globuli rossi. L’anemia dell’anziano, infatti,
veniva vista come un processo fisiologico che si realizzava con l’avanzare dell’età.
Per quanto riguarda l’emoglobina, i valori medi per i maschi, si
attestano sui 14,6 grammi, per le femmine sui 13,8 grammi.
È importante rilevare che, questi dati, sono del tutto sovrapponibili a quelli del giovane-adulto. Con la suddivisione in percentili,
sono emerse tre zone d’interesse.
Una prima zona di normalità, compresa tra il 10º ed il 90º per-
medicina di laboratorio ed invecchiamento
465
centile. Una seconda zona di sospetto, tra il 3º ed il 10º percentile.
Un’altra zona di sospetto, tra il 90º ed il 97º percentile.
La terza zona, è la zona patologica.
Parlando di emoglobina, ci interessano maggiormente i valori
più bassi, perciò quelli inferiori al 3º percentile.
La zona patologica, si differenzia dalla zona di normalità, poiché
è una zona di verosimile patologia. La prima, è una zona di sicura
normalità, mentre l’ultima è una zona chiaramente patologica.
L’importanza è legata al fatto che anche per valori non bassissimi
dell’emoglobina, 11,29 mcg/L nel maschio e 10,80 mcg/L per le
femmine, già possiamo sospettare una patologia.
È obbligatorio iniziare una diagnostica che sarà, ovviamente,
adeguata al quadro clinico del paziente in esame.
Ci si potrà limitare ad un solo dosaggio del ferro, della ferritina,
della transferrina. In caso di macro-anemia, si doserà la B12 ed i folati. Si proseguirà con le varie procedure diagnostiche endoscopiche
e non, qualora fosse necessario.
Anche per i globuli rossi, emerge la stessa osservazione rilevata
per l’emoglobina.
I valori medi per i maschi e per le femmine anziani, sono del tutto sovrapponibili a quelli del giovane-adulto.
I valori di normalità, sono compresi fra 4.000.000 e 5.600.000/
microlitro nei maschi e tra 3.000.095 e 5.000.065/microlitro nelle
femmine.
I valori patologici, partono da 3.000.067/microlitro sia per i maschi sia per le femmine.
Anche per i leucociti, i valori medi sono del tutto sovrapponibili
a quelli del giovane-adulto. Il numero di leucociti, con una zona di
normalità uguale nei maschi e nelle femmine, va da 4.000/microlitro
a 10.800/microlitro.
Per quanto riguarda le piastrine, i valori medi dell’anziano sono
inferiori a quelli del giovane-adulto, però in ogni caso, entro un range di normalità. La normalità varia fra 131.000/microlitro e 298.000/
microlitro nei maschi, 135.000/microlitro e 310.000/microlitro nelle
femmine.
La conclusione degli studi. Mi sembrano significativi, i seguenti
punti.
466
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
Le opinioni storiche, giustificavano una diminuzione dell’emoglobina e dei globuli rossi, con l’invecchiamento.
In realtà, si è visto che emoglobina, globuli rossi, ematocrito, globuli bianchi, MCV, MCHC, hanno nell’anziano, valori sovrapponibili a quelli del giovane-adulto.
Solo le piastrine, hanno mostrato valori lievemente più bassi, ma
entro il range di normalità.
Nell’anziano vi sono, spesso, malattie o terapie anemizzanti. Basti ricordare quelle a carico dell’apparato gastroenterico. Per quanto
riguarda le terapie, citiamo anche alcuni farmaci possono essere incriminati: citiamo l’acido acetil-salicilico e i FANS, in largo uso in
tutti i pazienti anziani.
Importante è stabilire i valori di normalità dell’anemia, in un anziano.
In Letteratura, emerge che l’anemia, influenza la mortalità, la
morbilità e la qualità della vita. Variazioni, anche piccole, dell’emoglobina, anche di un grammo, in difetto o in aumento, possono migliorare la prognosi quoad vitam.
Il secondo argomento di oggi, riguarda l’iponatremia.
L’iponatremia, è un riscontro molto frequente nella popolazione
anziana. I valori di sodio, normali, vanno da 135 a 145 millimoli/litro.
Il primo punto da focalizzare, è che nell’anziano, vi sono parecchi fattori favorenti l’iponatremia. Vi sono nell’anziano, modificazioni fisiologiche, in grado di influenzare meccanismi dell’omeostasi
idroelettrolitica.
Per esempio, si può osservare una diversa sensazione della sete,
un’aumentata secrezione e sensibilità all’ormone anti-diuretico, un
incremento della concentrazione serica del fattore natriuretico atriale
(ANF), una ridotta filtrazione glomerulare.
Molte sono le patologie nell’anziano che, potenzialmente, possono dare l’iponatremia. Fra queste, ricordo lo scompenso di cuore, le
patologie neoplastiche, la demenza, l’allettamento, le malattie infiammatorie croniche, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio,
ed il post-intervento chirurgico.
Fra i farmaci, importante è ricordare la politerapia nell’anziano,
problema che troviamo ovunque. Molti farmaci possono favorire l’i-
medicina di laboratorio ed invecchiamento
467
ponatremia. Fra quelli più frequentemente usati nell’anziano, ricordiamo i diuretici, gli antidepressivi, sia triciclici che gli SSRI, compresi quelli di nuova generazione e gli ace-inibitori.
Altri farmaci disponibili, possono essere gli oppioidi, i narcotici,
gli anti-neoplastici. Il problema è che spesso questi medicamenti,
prendiamo ad esempio i diuretici e gli ace-inibitori, vengono usati
in associazione.
Perciò, la probabilità che diano iponatremia, aumenta notevolmente.
In uno studio, abbiamo valutato la prevalenza dell’iponatremia
in 931 soggetti. Il campione studiato, è stato diviso fra chi avesse valore inferiore a 130 millimoli/litro di sodio e chi avesse un valore superiore a 130 millimoli/litro di sodio.
Come valore cut off, è stato preso 130 millimoli/litro, perché in
quasi tutti gli studi condotti sull’iponatremia, questo, era il valore limite considerato.
In seguito, i 931 soggetti studiati, sono stati suddivisi secondo le
cause favorenti l’iponatremia.
Nel nostro studio, c’era un gruppo in terapia diuretica continuata per più di sei mesi. Alcuni di questi pazienti erano affetti da neoplasie, altri da demenza o allettamento, altri presentavano scompenso di cuore.
Quasi la metà del gruppo esaminato, 431 soggetti, non aveva alcun fattore favorente l’iponatremia.
La prevalenza totale dell’iponatremia in tutta la popolazione studiata, era di 6,34%. Questa aumentava notevolmente in alcune classi
di pazienti, tipo i pazienti neoplastici, con un 14,5%.
I pazienti, affetti da demenza o allettamento, vedevano salire
questo rischio al 16,5%.
Lo scompenso di cuore, si assestava anch’esso attorno al 16%.
Nei soggetti in terapia diuretica, la prevalenza dell’iponatremia, è
stata elevata; circa il 7%.
Nei 431 soggetti che non avevano alcun fattore favorente l’iponatremia, la prevalenza era solamente dell’1%.
Sono state valutate le correlazioni con altre variabili. L’iponatremia, è più frequente in chi ha perso l’autonomia e vive con supporto
parentale. Si riscontrano maggiormente, in chi ha un peso corporeo
inferiore alla norma. È di raro riscontro in chi gode buona salute,
468
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
verosimilmente, a dire che l’iponatremia è più frequente in chi gode
di minor salute.
Una volta che si è osservata iponatremia, che cosa è importante
fare?
Bisogna valutare, innanzi tutto, l’osmolarità plasmatica ed urinaria che consente di differenziare un’iponatremia vera, da una pseudo
o falsa iponatremia.
Importante è fare il dosaggio della sodiuria, per vedere se ci fosse
una perdita renale di sodio, come si osserva in alcune nefriti interstiziali o nell’insufficienza surrenalica.
Opportuna è la valutazione clinica della volemia. Questa valutazione clinica deve prendere in esame la presenza di edemi, ascite,
bassi valori di pressione. Viene anche supportata da indagini bioumorali quali, l’emocromo, la creatinina, l’urea.
Da un po’ di tempo, è possibile anche fare il dosaggio dell’ADH,
dove fosse necessario. Ad esempio, nei pazienti da noi studiati, c’era
un’elevata prevalenza di normo-volemici.
Solamente nei casi di iponatremia da diluizione, si riscontrava
una frequenza maggiore di iper-volemia, ad esempio, negli scompensi di cuore.
Una volta osservata l’iponatremia, fatte tutte le indagini del caso,
bisogna iniziare un’eventuale terapia. Essenziale è stabilire la rapidità
dell’alterazione e coglierne la gravità clinica.
L’iponatremia, di solito, è asintomatica, se non per valori molto
inferiori a 130 millimoli/litro. La sintomatologia, quando si manifesta, interessa soprattutto il Sistema Nervoso Centrale. Si caratterizza
per confusione, delirio, sino al coma.
Importante è ricercare le possibili cause e, dove si riesca, rimuoverle. Si deve distinguere tra deplezione di sodio e diluizione di sodio.
Bisogna porre particolare attenzione alle complicanze dell’intervento terapeutico aggressivo. Sempre che la clinica non precipiti, è
opportuno intervenire dolcemente. Anche se il paziente fosse impegnato, si rischia di più con un trattamento terapeutico aggressivo,
che non con una strategia attendistica.
La terapia, nello specifico, può essere di una soluzione salina endovena, a lenta infusione, 500 cc. in 5-6 ore, ponendo attenzione allo
scompenso di cuore ed alla mielinosi del ponte.
medicina di laboratorio ed invecchiamento
469
Se invece fosse da diluizione, è utile la terapia con furosemide
endovena. Anche in questo caso, attenzione alle complicanze tipo l’ipokaliemia.
Nelle forme croniche si dovrebbe, se possibile, correggere la causa. Questo, non sempre è praticabile. Allora, si può agire con una
restrizione idrica, se fosse da diluizione o con un’aggiunta di sale, comune sale da cucina, evitando la disidratazione del paziende.
In Letteratura è riportato per le sindromi da inappropriata secrezione di ADH, anche la terapia con la demeclociclina. Abbiamo poca pratica, nei nostri reparti, di questo farmaco.
Ultimo capitolo: gli ormoni tiroidei.
In un nostro studio, sono stati valutati 511 soggetti anziani ai
quali è stato fatto il dosaggio del TSH reflex.
In realtà, i pazienti esaminati sono stati 553, ma 42 di questi sono
stati tolti subito dallo studio, perché già affetti da una patologia tiroidea.
A tutti, come detto, è stato dosato il TSH reflex, che poteva risultare ridotto, normale od elevato.
Nei casi in cui il TSH reflex fosse risultato ridotto od elevato, si è
dosato anche l’FT4.
Su 511 pazienti, abbiamo trovato 36 soggetti con ipertiroidismo
sub-clinico, 6 soggetti con ipertiroidismo vero, 6 soggetti con ipotiroidismo vero e 25 soggetti con ipotiroidismo sub-clinico.
Questo a dire che il 13% dei pazienti analizzati, aveva alterazione della funzionalità tiroidea. Doveva essere corretta con terapia
o, in ogni modo, doveva essere monitorizzata a breve distanza di
tempo.
Se li uniamo ai 42 soggetti tolti all’inizio dello studio, più del
20% dei pazienti anziani, necessitava di un dosaggio del TSH reflex
e degli altri ormoni tiroidei.
Forse, il dosaggio del TSH reflex, potrebbe anche essere messo
di routine.
Non è stato valutato l’FT3, che poteva evidenziare un’altra alterazione degli ormoni tiroidei, in particolare l’Euthyroid Sick Syndrome.
In un’altra ricerca, sono stati presi in esame i pazienti neoplastici.
470
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
In questi, è stata trovata una prevalenza dell’Euthyroid Sick Syndrome, che si assestava attorno al 51%.
L’Euthyroid Sick Syndrome, si caratterizza per un basso dosaggio dell’FT3 con TSH ed FT4 normali.
Pur essendo una sindrome, non ha dei precisi correlati clinici,
ma è una alterazione degli ormoni tiroidei, senza una reale patologia
tiroidea.
Erano presenti nel 10%, altri distiroidismi: l’ipertiroidismo subclinico o vero e l’ipotiroidismo sub-clinico o vero.
In definitiva, solo nel 38% dei pazienti affetti da neoplasia, abbiamo trovato dei valori normali degli ormoni tiroidei.
Per quanto riguarda l’Euthyroid Sick Syndrome in pazienti anziani neoplastici, abbiamo condotto uno studio su 1.400 soggetti
con età media di 78,6 anni. I risultati di questo Studio, sono stati diversi.
Nell’analisi della connessione tra Euthyroid Sick Syndrome e
metastasi, s’è vista una correlazione diretta tra la presenza di metastasi e la presenza di Euthyroid Sick Syndrome. Vale a dire, nei pazienti con metastasi, l’Euthyroid Sick Syndrome era molto più frequente che non nei pazienti senza metastasi.
Infatti, la prevalenza si assestava intorno al 65%, confrontata al
40% dei pazienti senza metastasi.
Ancora più evidente, questo si ha nell’analisi della connessione
tra Euthyroid Sick Syndrome e calo ponderale recente. Calo ponderale recente, inteso come riduzione di circa 5 chili di peso corporeo
negli ultimi due mesi.
Anche in questo caso, c’è stata una correlazione diretta, statisticamente indicativa. Nei pazienti con diminuzione ponderale, l’Euthyroid Sick Syndrome era presente in circa il 75% dei casi, mentre
in quelli che non avevano avuto calo di peso, era presente solo nel
40% dei casi.
L’ultimo parametro valutato, è stato quello dell’Euthyroid Sick
Syndrome connessa con la condizione clinica.
In questa circostanza, è ancora più eclatante la correlazione. Man
mano che peggiorano le condizioni cliniche, aumenta la presenza
dell’Euthyroid Sick Syndrome.
L’85% dei pazienti in condizione clinica precaria, aveva l’Euthy-
medicina di laboratorio ed invecchiamento
471
roid Sick Syndrome. Solamente il 20% dei pazienti, in buone condizioni cliniche, presentava questa sindrome.
La conclusione dello studio è che l’Euthyroid Sick Syndrome, è
molto frequente nel paziente neoplastico anziano. La prevalenza aumenta, moderatamente, alla presenza di metastasi e, nettamente, alla
presenza di calo ponderale o di aggravamento del quadro clinico.
La forma più frequente, è quella caratterizzata da FT4 e TSH
normali e FT3 abbassato.
Sono frequenti, in ogni modo, altri distiroidismi, con una prevalenza superiore al 10%. Resta, però, da chiarire il reale significato
dell’Euthyroid Sick Syndrome.
È una risposta fisiologica o patologica? La risposta fisiologica
potrebbe essere adattativa del fisico a situazioni stressanti, quali possono essere le patologie.
Nel caso fosse risposta patologica, si potrebbe pensare di attuare
un intervento terapeutico con il T3 o con il selenio. Il selenio, entra
nel metabolismo dell’FT4 e dell’FT3.
Abbiamo visto, poi, che è correlata col calo ponderale, con le
metastasi e con le condizioni cliniche generali. Importante è vedere
se possa essere un indice prognostico indipendente. Grazie’’.
F. Buonocore: ‘‘Grazie, dottor Pellizzari per la sua relazione esauriente. Luca ha voluto porre l’accento su come l’esame di laboratorio, non sia mai ‘‘freddo’’.
Sono numeri che vanno analizzati ed interpretati, per giungere
con più facilità ad una diagnosi. L’assonanza fra clinico e medico
di Laboratorio, consente la giusta intesa per formulare la diagnosi.
Adesso, passo la parola al dottor Rizzotti.’’
472
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
P. Rizzotti: ‘‘Gentili colleghe, cari colleghi, buona sera. Francesco,
grazie per le tue parole di presentazione, ma il primo grazie vero,
va a Gigi.
L’Ospedale Civile Maggiore e la Scuola Medica Ospedaliera, sono legati da una lunga tradizione. In questa, Gigi Grezzana, ha creduto e voluto credere ed ha continuato con i Corsi di Geriatria.
Tra voi vedo molti giovani, ma riconosco anche vecchi amici.
Ricordo molto piacevolmente la Scuola Medica Ospedaliera, che
si teneva in quella specie di ‘‘tana’’, che era l’aula Meneghetti.
Pochi di voi, hanno avuto la fortuna di vederla. Era un’aula abbastanza polverosa, sotto le Chirurgie. Era l’aula in cui negli anni
’80, ci s’incontrava.
Successivamente, abbiamo avuto la fortuna di avere questo Centro.
Quando sono arrivato in quest’ospedale, nel 1978, sono rimasto
molto colpito da questi incontri belli, formativi, dove gli allora storici
primari, si confrontavano con i colleghi, con i giovani collaboratori,
con i medici di Medicina Generale.
Noi dobbiamo essere sempre molto sicuri e molto fieri di lavorare in una Struttura come questa che ha, non solo la capacità assistenziale, ma anche capacità culturali e scientifiche di eccellenza.
Entriamo nel tema che mi è stato affidato. Dobbiamo parlare di
Medicina di Laboratorio ed invecchiamento.
Il dottor Pellizzari, ha esposto una relazione molto interessante.
Riprenderemo alcuni di questi aspetti.
Cercherò di presentare l’argomento in modo strutturato, poi vedremo insieme di far crescere gli esempi concreti.
Oggi, si continua a parlare d’invecchiamento. Affronto tre problemi, con alcune esemplificazioni concrete, per non parlare solo
di teoria.
La buona teoria, è sempre basata sullo studio. Non dimentichiamoci mai di aprire ogni giorno i libri. Oggi, si chiamano anche informatica. Molti sono i modi per imparare.
Lo studio è la cosa fondamentale della vita e ci mantiene giovani.
Poi, faremo capire come questo sia importante rispetto ai processi
dell’invecchiamento.
L’invecchiamento, di fatto, è la risultante di fattori che favoriscono tale processo e di fattori che, ad esso, si oppongono. È un conti-
medicina di laboratorio ed invecchiamento
473
nuo rimodellamento biologico del nostro essere, che è in rapporto
sia con aspetti genetici sia con aspetti ambientali.
Entrambi i fattori favorenti e protettivi, possono essere sia genetici sia ambientali.
Per fortuna, quelli genetici pesano, ma non tanto da impedirci di
modificarli con la nostra storia.
Questa è un’era in cui parliamo del genoma. Credo sia il messaggio fondamentale che dobbiamo ricordare.
Tutto questo poi, deve avere degli aspetti concreti nella pratica
clinica di ogni giorno. Se noi conosciamo questi fenomeni, capiamo
bene come usare il Laboratorio.
Il Laboratorio è, spesso, visto come una branca tecnologica. Sono molto fiero di far parte di questa branca, che non è apparentemente a contatto diretto con i pazienti, ma fornisce loro ogni giorno,
un servizio.
Sarebbe un grave errore ipertrofizzare questa parte al di fuori
della valutazione clinica del malato. Noi tutti, dobbiamo fare un ragionamento che cercherò di proporre alla fine. Mi riferisco al progresso tecnologico ed alla professione medica.
Comincio col parlare della genetica dell’invecchiamento.
Recentemente, abbiamo avuto ospite all’interno di un Seminario
organizzato dalla Clinica Geriatrica, il professor Claudio Franceschi.
Il professor Claudio Franceschi, è un grande studioso italiano,
che si interessa d’invecchiamento. Si occupa degli anziani sani, vale
a dire dei longevi.
Dobbiamo stare attenti ed operare una distinzione. Quando parliamo di longevità, parliamo di un invecchiamento favorito. Claudio
Franceschi, in questo momento, coordina una ricerca strategica di
cui molti giornali, anche non specialistici, hanno parlato.
Il primo maggio, è partito un grande studio, che coinvolge 11
Paesi, compresa la Cina. È formato da 25 gruppi di ricerca e durerà
5 anni.
Negli 11 Paesi coinvolti, saranno arruolate 28.000 coppie di fratelli che abbiano superato i 90 anni. Capite quanto, questa, sia una
condizione rara.
I dati di tipo genetico emersi, studiando il genoma monucleare
ed il genoma mitocondriale di questi soggetti, saranno confrontati
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con una popolazione di controllo costituita dagli sposi dei figli di
questi soggetti.
Questi ultimi, rappresentano la popolazione di confronto.
Si tratta di uno studio che affronta la questione dell’invecchiamento sano.
Un piccolo spunto, tanto per capirci, quando parliamo di invecchiamento. Oggi, abbiamo sicuramente un aumento notevole del numero dei centenari. In Italia, i centenari sono particolarmente numerosi in Sardegna.
Nel nuorese, su 40.000 abitanti, ci sono quasi 1.000 centenari.
Questi, sono soprattutto uomini. Fra di loro, è normalmente prevalente un gene responsabile del favismo.
Si tratta di un difetto genetico, che porta a crisi emolitica. Chi ha
un difetto nell’enzima del metabolismo eritrocitario, può realizzare
una anemia emolitica.
Questo gene, malgrado sia sfavorente, probabilmente è protettivo sull’invecchiamento, altrimenti non si spiegherebbe perché in
quella zona ci siano tanti centenari.
È un esempio di come dovremmo studiare la longevità. Studiare
i grandi vecchi, per modificare poi, il genoma umano e sperare di
sopravvivere a lungo, non è certamente scontato.
Lasciamo da parte un attimo la longevità ed andiamo, invece, ai
problemi dell’invecchiamento.
Quando comincia l’invecchiamento? È un argomento trattato in
uno studio molto interessante, pubblicato su Gerontology, da parte
di due studiosi che lavorano al Max Planck Institute di Berlino.
Questi, sono gerontologi e parlano di nuove frontiere, nell’ambito
dell’invecchiamento.
Si tratta di un grande progresso della nostra società, di cui molti
hanno parlato anche nell’ambito di questa Scuola. Uno, fra tutti, il
professor Umberto Senin.
Siamo tutti a conoscenza del forte incremento della spettanza di
vita di cui possiamo godere. Oggi, possiamo cominciare a definirlo
fenomeno sociale.
Qual è il limite per cominciare a parlare di terza età? Ricerche
sulla plasticità cognitiva, sottolineano come negli anziani ci sia una
grande reattività e come sia possibile una creatività esuberante.
L’altra cosa importante è che questi adulti-giovani, giovani-vec-
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chi, sono al top di tutte le classificazioni psicologiche sull’intelligenza
emozionale e sulla saggezza.
Oggi, noi abbiamo una grande fetta della popolazione, costituita
dalla terza età. Gli anziani di oggi, normalmente, vivono bene. Si invecchia bene, perché si è vinta la fatica.
In questa fascia d’età, però, sono presenti tutte le difficoltà legate
all’invecchiamento. Sono problemi, che vediamo concentrati soprattutto nella quarta età.
È un’età, in cui è possibile che si realizzino deficit di tipo cognitivo. È frequente osservare dei quadri pluripatologici, in confronto
ad altre età della vita. Purtroppo, ad età molto avanzata, uno su
due può essere affetto da qualche forma di demenza.
Il problema più importante dei nostri anziani, è la disabilità. Si è
allungata la vita, ma gli ultimi anni, spesse volte, sono caratterizzati
dalla perdita di autonomia.
Lo sforzo che dovremmo compiere, non deve cercare di incidere
ancora di più su una vita più lunga, quanto piuttosto, nel prevenire
la disabilità.
In fondo, il sogno del geriatra, è quello che si muoia vecchi, senza aver conosciuto la disabilità.
Osservando nei secoli il percorso dell’uomo, si coglie che un
tempo la forza veniva identificata nella capacità riproduttiva. Si pensi solo alla prole ed al proletariato. Riprodurre, significava creare forza-lavoro e, purtroppo, creare anche soldati.
Si nasceva per costruire, per combattere e per morire.
La grande novità dei nostri tempi, è quella di invecchiare. Si invecchia ed altri problemi si affacciano. I geriatri, hanno avuto il merito di valutarli, affrontarli e tentato di correggerli.
Le patologie degenerative, certamente, dominano la scena dei
nostri ospedali. Queste, comunque, non escludono l’acuzie. Anzi.
La cardiopatia ischemica realizza l’infarto, la vasculopatia può
manifestarsi con l’ictus cerebri, la broncopneumopatia cronica si
può riacutizzare in quadri di insufficienza respiratoria acuta, solo
per fare qualche esempio.
Lavori fondamentali nella Letteratura mondiale, hanno rivoluzionato certi concetti che sembravano assoluti.
Nel 1995, su Diabetes, si è ipotizzata una via comune patogenetica fisiopatologica, fra il diabete e le malattie cardiovascolari.
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In uno storico articolo sul New England Journal of Medicine del
1999, R. Ross afferma: ‘‘L’aterosclerosi, è con tutta probabilità, una
malattia infiammatoria’’.
Nel 1998, si è cominciato a dire che il diabete di tipo 2, fosse
malattia relata al sistema immunitario.
Recentemente, si è parlato di attivazione cronica del sistema immunitario nella sindrome metabolica. Quindi, incominciamo ad intravedere, in queste malattie, un anello di congiunzione.
Oggi, si può sostenere che l’aterosclerosi, il disordine del glucosio, l’invecchiamento, l’infiammazione, hanno dei punti in comune.
Si comincia a parlare di ‘‘inflammageing’’ e di ‘‘diabesity’’. Questi
sono termini, che presto diventeranno assolutamente di uso corrente.
Le malattie che caratterizzano la sindrome metabolica, sembrano
riconducibili ad una via patogenetica sovrapponibile. È probabile,
che siano coinvolti i mediatori dell’infiammazione del sistema immunitario.
L’interfaccia fra infiammazione, insulino-resistenza ed attivazione endoteliale, è il fenomeno biologico su cui stanno studiando molti
gruppi dell’industria farmaceutica nel mondo.
Se fosse confermata quest’ipotesi, sarebbero possibili grandi progressi terapeutici.
È quanto emerge in una review recente, comparsa su una rivista
di Laboratorio internazionale, per opera di Schmidt e Duncan.
Si è coniato il termine ‘‘diabesity’’, per descrivere una situazione
metabolica infiammatoria. Da qualche anno, si è cercato una correlazione fra diabete e stato infiammatorio.
L’Heirich Study del 1999, ne è un esempio. In questo studio, sono stati considerati individui di età compresa fra i 45 e i 64 anni.
Un altro studio molto interessante, un po’ più recente del 2001,
è il Women’s Health Study.
I marcatori più interessanti, sono l’interleuchina 6 e la proteina C
reattiva. Questo studio, in una analisi randomizzata, ha dimostrato
che la proteina C reattiva elevata, si accompagnava a facilità di sviluppare il diabete.
Per l’esattezza, chi aveva questo marcatore di base elevato, aveva
la possibilità di sviluppare il diabete 5 volte di più che nei controlli.
Cosı̀ dicasi per l’interleuchina 6, che è il mediatore citochimico.
medicina di laboratorio ed invecchiamento
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Questa è una citochina pro-infiammatoria. È prodotta dal sistema
macrofagico ed è mediatore coinvolto, attraverso la via epatica, nella
produzione della proteina C reattiva.
Recentemente, sono emersi dati interessanti che correlano l’infiammazione ed il tessuto adiposo. Mi riferisco all’adiponectina. Il
tessuto adiposo svolge, certamente, una funzione endocrina.
Produce sostanze, che agiscono come ormoni. L’adiponectina,
ne è un esempio.
L’adiponectina, è un tipico prodotto dell’adipocita ed è, in realtà, una molecola anti-infiammatoria.
Nella flogosi, quindi, è diminuita.
In tutti questi studi recenti, emerge il tentativo di dare un ordine
fisiopatologico a fenomeni complessi.
Da tempo, sappiamo che in situazioni di aggressione esterna, il
sistema innato immune, realizza una risposta difensiva. Questa, comporta l’attivazione dell’asse ipotalamico-ipofisiario, con messa in circolo dei corticosteroidi.
Più recente è l’osservazione che l’endotelio sia un tessuto vivo.
Risponde in modo attivo alle molecole di adesione, per esempio,
ai lipidi di cui si parla troppo e spesso.
I lipidi, inducono un’alterazione dell’endotelio e cosı̀ inizia la
formazione della placca aterosclerotica.
Le citochine pro-infiammatorie hanno una capacità di opporsi al
meccanismo insulinico di incamerare glucosio. Provocano, quindi,
insulino-resistenza soprattutto a carico dei muscoli scheletrici.
Inoltre, a carico del tessuto adiposo, si oppongono all’azione lipo-sintetica dell’insulina, favorendo la liberazione dei lipidi.
Il nostro organismo, di fatto, è continuamente rimodellato da fenomeni che hanno valenze diverse.
Che cosa è il sistema immune innato? Ricordiamocelo brevemente.
Noi, abbiamo il sistema immune innato. Inoltre, abbiamo il sistema della memoria immunologica. Questo riconosce gli antigeni
esterni, ha i cloni cellulari orientati per difenderli, è in grado di produrre anticorpi.
Il sistema immune innato, è quello filogeneticamente più primitivo. Ha un fondamentale ruolo nella sopravvivenza. È attivato da
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microrganismi, dall’eccessiva ingestione di cibo e dagli eventi stressanti della vita, in senso lato.
Questo meccanismo porta ad un riordino metabolico. È una
condizione transitoria fisiologica di difesa. L’importante è che rimanga transitoria.
Il sistema immune innato, riconosce una valenza genetica. Questa, peraltro, è anche bilanciata dall’ambiente. L’attivazione del sistema neuroendocrino, viene attivato dall’ambiente e, a sua volta, incide sul sistema innato.
S’innesca l’insulino-resistenza, questa di conseguenza realizza l’obesità, la dislipidemia, la disfunzione delle beta-cellule pancreatiche,
il diabete, la cardiopatia vascolare.
Si tratta di uno schema riassuntivo che traccia, però, un meccanismo molto verosimile.
Se lo stimolo è transitorio, per esempio lo stress, è un evento positivo. Nell’invecchiamento, entrano in gioco stimoli che agiscono
cronicamente ed in modo negativo.
Mangiare troppo, non selezionare quello che mangiamo, non fare esercizio fisico, fumare, vivere in mezzo ai contaminanti ambientali, sono tutte espressioni di stili di vita non idonei.
Una competizione eccessiva, innesca una via infiammatoria cronica. La conoscenza di questo fenomeno biologico ci aiuta a difenderci.
Si sente, spesso, sostenere che i tumori sono in aumento. Su
un articolo comparso su Gerontology dello scorso anno, si parla
della diminuzione dell’incidenza clinica dei tumori durante la senescenza.
Questa, però, è la frase chiave: ‘‘Dall’inizio alla fine della vita,
l’incidenza clinica di ogni tumore ha una sua fondamentale età di dimostrazione, con più cancri diagnosticati nella fase di maturità’’.
I vari tipi di neoplasie, sono legati ad età diverse. Sembra proprio
che con la senescenza, vi sia un declino dell’incidenza dei tumori, visti globalmente.
Dall’esame di 18.000 autopsie eseguite in Svezia, è emerso che
col passare degli anni non aumentava l’incidenza del mieloma.
Ci si rammarica un po’ che le autopsie nel nostro paese ed in
particolare nel nostro ospedale, non vengano più eseguite.
Il mieloma si manifesta, fondamentalmente, dai 50 ai 75 anni.
medicina di laboratorio ed invecchiamento
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C’è un’unica neoplasia che contrasta con quest’ipotesi ed è la
neoplasia della prostata, che si correla con l’età.
Sempre secondo questa ricerca, nella prima parte della vita, prevalgono le neoplasie di tipo mesenchimale. Nella seconda parte, di
tipo epiteliale. Le neoplasie non genetiche, spesso, sono legate all’involuzione sessuale.
Dopo gli 80 anni, vi è un declino dell’incidenza delle neoplasie.
Secondo Studi americani, a 65 anni, il 30% di tutte le morti, sono
dovute a problemi neoplastici.
A 80, solo il 12%. Nei centenari, la frequenza della neoplasia, è
rara.
Da questo, emerge che la progressione clinica del cancro si assottiglia con l’età.
Abbiamo visto che la malattia infiammatoria, può avere un ruolo
importante nello sviluppo del diabete e della malattia cardiovascolare. Questo cosa vuol dire nella pratica clinica di ogni giorno?
Su un numero di Circulation del 2003, si parla dei markers coinvolti nell’infiammazione e nelle malattie cardiovascolari, della loro
applicazione nella clinica e delle conseguenze sulla Sanità Pubblica.
È un documento del Central Disease Control (CDC) di Atlanta.
Questo Centro, è il vertice della ricerca epidemiologica degli Stati
Uniti. Sono stati coinvolti tutti gli esperti interessati a questo problema.
Secondo questi studiosi, l’infiammazione, spiega la patogenesi
dell’aterosclerosi. Sono stati presi in esame, tutti i tests di Laboratorio, che dimostravano infiammazione. Si è evidenziata un’associazione fra i markers dell’infiammazione e le malattie cardiovascolari.
Si è giunti alla raccomandazione di ricorrere all’uso dei markers
dell’infiammazione, nella pratica clinica delle malattie cardiovascolari.
Quali markers? La proteina C reattiva ad alta sensibilità è, per
esempio, un marker molto interessante. È dosato col metodo HS
(High Sensitivity), perché abbiamo bisogno di metodi affidabili,
molto sensibili.
Questa proteina è un marker indipendente di rischio.
Non solo i lipidi, gli stili di vita, il fumo, il peso, la pressione arteriosa esprimono un rischio cardiovascolare, ma anche la proteina C
reattiva. A discrezione del clinico, questo marker può essere utile
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nella prevenzione primaria della cardiopatia vascolare. È un marker,
che serve per correggere uno stile di vita non opportuno.
Come sempre, poi, i grandi clinici aiutano a far diventare tutto
questo, concretezza. Voi tutti conoscerete E. Braunwald.
È il padre della cardiologia moderna. Quest’autore, in un numero di Circulation del 2003, ha detto: ‘‘Il futuro per studiare le sindromi coronariche, è quello di conoscere i bio-marcatori’’.
Si devono ricercare nuovi bio-marcatori, che ci consentano un
miglior approccio alle sindromi coronariche acute.
Tutto questo spiega le nuove interpretazioni patogenetiche delle
malattie cardiovascolari.
Oggi, secondo Braunwald, sono a disposizione nuovi sensibili
bio-markers di infiammazione. Questi si positivizzano nella necrosi
del miocardio, nel danno vascolare, nello stress emodinamico.
La positività di questi, ci consente di individuare, senza ricorrere
a metodiche invasive, molti pazienti che giungono alla nostra osservazione.
Nella sindrome coronarica acuta, si studia l’infiammazione, si
cerca di conoscere la necrosi dei miociti, si indaga sui fenomeni dell’aterosclerosi accelerata.
Se vi fosse una compresenza di diabete, dovremmo ricercare gli
aspetti micro-albuminemici del danno vascolare. Inoltre, è importante valutare lo stress emodinamico.
Braunwald ci dice: ‘‘Questo test ad alta sensibilità, sta emergendo come uno strumento conveniente per enucleare processi infiammatori, di bassa evidenza. In tal modo, è possibile identificare una
popolazione a più alto rischio ed a diversa prognosi.’’
Il nostro organismo è continuamente rimodellato da eventi esperiti. Vivere a lungo, implica convivere con patologie cardiovascolari.
Nell’arco della vita, non di rado, si passa attraverso una sindrome
coronarica acuta. Ne consegue che il nostro cuore, nella parte finale
della vita, si ipertrofizzi, si rimodelli e che il ventricolo sinistro sia
disfunzionale.
La prima risposta del nostro organismo, è una risposta apparentemente positiva. Un deficit di pompa trova un aiuto nel sistema
neuroendocrino. In particolare nel sistema renina angiotensina-aldosterone.
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Inoltre, l’endotelio, realizza una costrizione, si risparmiano sali,
aumentano le resistenze periferiche, aumenta la pressione arteriosa.
Tutto ciò, cerca di compensare una pompa insufficiente. Questo
fenomeno, per fortuna, immediatamente viene controbilanciato dagli ormoni natriuretici, che oggi noi cominciamo a conoscere bene.
Nella diastole di un ventricolo rimodellato, la pressione è aumentata. Questo induce la produzione di ormoni natriuretici, in particolare del BNP (Brain Natriuretic Peptide), che ha un’azione che cerca
di compensare i fenomeni precedenti.
Quindi, comporta la possibilità di natriuresi, di vasodilatazione,
di aumento del contenitore plasmatico.
Questo continuo rimodellamento, ci dà un’informazione clinica.
Nei reparti di Geriatria, il numero dei ricoveri per scompenso arriva
anche al 15-20%. Disporre di un parametro di Laboratorio, che sia
correlato con le classi dell’insufficienza cardiaca, è quanto mai utile.
Questo dato, si lega col volume di eiezione ecograficamente definito.
Queste nuove metodiche, ci consentono di valutare il rischio, definire la necrosi, conoscere questo equilibrio, che continuamente si
rimodella.
Il BNP, consente di avallare od escludere la diagnosi di insufficienza congestizia, in un paziente che si presenti con dispnea acuta.
La negatività di questo parametro, esclude l’origine cardiogena
di quella dispnea.
Per quanto riguarda il cancro della prostata, sappiamo che la sua
incidenza, aumenta con l’età.
Il dosaggio del PSA, è utile, ma non basta per sapere se abbiamo
o non abbiamo il cancro della prostata.
Il Sistema Sanitario Canadese, ha proposto una pubblicazione di
Educazione Sanitaria su questo tipo di neoplasia. È stata posta l’attenzione sulla diagnosi precoce del cancro della prostata.
Da un punto di vista pratico, si ricorre al PSA. Se il PSA, ha valori elevati al di sopra di 10 mcg/L, ci si deve allarmare. Noi, invece,
poniamo a 4 mcg/L, il valore decisionale.
Sopra 10 mcg/L, la possibilità di avere un cancro alla prostata è
alta e la biopsia è raccomandata. Per un valore sotto 4 mcg/L e con
una esplorazione rettale normale, la possibilità di avere un cancro, è
bassa.
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Abbiamo poi un’area grigia, fra 4 e 10, nell’ambito della quale, il
problema non è da poco. Vi è, infatti, un’aumentata possibilità di rischio del cancro, però dobbiamo fare l’ecografia trans-rettale, accompagnata eventualmente dall’esame bioptico.
Talvolta, vi sono casi in cui l’aumento del PSA, è da tenere sotto
controllo. Un test sensibile e specifico, è ineludibile che evidenzi la
malattia precocemente e che evidenzi solo quella.
Il PSA, non risponde ad alcuni di questi requisiti, perché in casi
rari, sotto 4 mcg/L, ci può essere qualche neoplasia. Fra 4 mcg/L e
10 mcg/L, molte volte, il PSA è innalzato senza neoplasia, ma solo
con ipertrofia benigna.
In un documento successivo, del gruppo canadese, si parla di
watchful waiting, cioè attesa vigile. Si vuole sottolineare che la prudenza è d’obbligo, in quanto sulla popolazione in generale, non abbiamo elementi per dire che questo screening sia utile, però è vero
che abbiamo a che fare con una neoplasia ‘‘pesante’’ sul piano dei
numeri.
Dobbiamo tener conto della storia naturale del cancro della prostata, che spesso è un cancro incidentale. Se non ci facessimo il PSA,
non salterebbe fuori.
È legittima la domanda: ‘‘È vantaggioso per me, per il mio stato
di salute, per la gestione della mia situazione?’’
È importante conoscere l’età e lo stato fisico del paziente. Per
esempio, per un paziente di 75 anni con scompenso di cuore e molti
altri problemi seri, il PSA fra 4 mcg/L e 10 mcg/L, non deve costituire preoccupazione.
La gradazione istologica, la dimensione del cancro, sono elementi da prendere in considerazione. Nel cinquantenne, in cui trovassimo il cancro della prostata, si metterà in atto una strategia ben diversa.
I trattamenti radicali sono molto pesanti, malgrado il miglioramento delle tecniche chirurgiche.
Accenno, da ultimo, le strategie di laboratorio per la diagnosi di
anemia, nel paziente anziano. L’anemia, è un problema comune nell’anziano. È associato con aumentata mortalità e morbilità e riduce la
qualità della vita.
Nella pratica clinica, si parla di anemia quando l’emoglobina
scende sotto determinati valori.
medicina di laboratorio ed invecchiamento
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È noto che fra le cause più frequenti di anemia dell’anziano, c’è
l’infiammazione cronica ed il deficit di ferro.
Mi sembra opportuno un cenno sulla tecnologia della Medicina
di Laboratorio che, negli ultimi anni, è enormemente cambiata. Nel
conteggio dei globuli rossi e dei globuli bianchi, oggi si utilizza un
flusso artificiale.
Le cellule passano in un canale e la metodica laser, consente di
comunicarci informazioni particolari sulla cellula. Ci consente di conoscere il volume, il contenuto cellulare, la quantità di RNA e DNA.
La congiunzione di queste tre diverse informazioni, ci consente
di classificare le cellule in modo molto preciso.
Per esempio, molto si può dire sui reticolociti. Sino a qualche anno fa, il conteggio reticolocitario, era appannaggio del medico di Laboratorio ultimo arrivato.
Oggi, si contano i reticolociti, con dei sistemi molto sofisticati ed
è possibile differenziare le popolazioni reticolocitarie in tre gruppi, a
seconda dell’RNA.
Si possono identificare i reticolociti ad alta, media e recente maturazione. Queste informazioni, ci consentono un giudizio sulla
poiesi.
In conclusione, per quanto riguarda l’emocromo, la tecnologia
consente non soltanto di contare meglio i reticolociti, ma di avere anche sugli stessi, informazioni preziose.
Sino a poco fa, eravamo abituati agli indici eritrocitari, ma non a
quelli reticolocitari. Conoscere il contenuto di emoglobina dei reticolociti, è importante nella diagnosi di anemia ferrocarenziale.
Si tratta perciò di un test, di grande capacità informativa, con rilevanti risvolti clinici. Per esempio, a distanza di 24 ore dalla somministrazione di ferro in vena, è possibile cogliere dei movimenti nella
sintesi dell’emoglobina.
Il nostro tempo, si caratterizza per uno sviluppo tecnologico
estremamente vivace ed una trasformazione sociale altrettanto dinamica.
Giorgio Cosmacini, studioso della Storia della Medicina, giustamente rileva che, dagli anni ’70, la Scienza Medica dispone di una
tecnologia molto innovativa.
Tutti gli ospedali, o quasi, sono dotati di apparecchiature per la
risonanza magnetica nucleare ed hanno a disposizione Medical De-
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vice di alta qualità. I laboratori sono ben attrezzati per la Biologia
Molecolare.
La società è sempre più popolata di anziani longevi e, certamente, questa è la più grande conquista sociale che tutti possiamo vantare.
Il nostro tempo sarà ricordato non tanto e non solo perché l’uomo è andato sulla luna, ma perché ha visto raddoppiarsi la durata
della vita. La tecnologia è un bene prezioso, una grande risorsa. In
Medicina l’high tech, cioè la super-tecnologia, non può e non deve
dimenticarsi l’high touch, cioè il contatto umano.
La macchina non può dimenticarsi della mano.
Il compito del medico, non si esaurisce con la cura, ma deve anche tendere all’educazione alla salute. In fondo, educare significa
prevenire.
Un passo successivo, sarà l’autoeducazione del paziente. Questo
consentirebbe la giusta gestione sanitaria di sé stessi.
È evidente, che tutto questo non pregiudica l’atto medico cui, in
definitiva, spetta l’ultima parola. Sarà sempre, in ogni caso, una decisione concordata e concertata.
Grazie, per la vostra attenzione’’.
F. Buonocore: ‘‘Ringrazio il dottor Rizzotti per la sua relazione. Vorrei rilevare un aspetto, a mio modo di vedere, importante.
È utile conoscere da vicino il medico di Laboratorio. In genere,
si pensa che viva lontano dal paziente.
Le informazioni, che potremmo trarre dalla sua esperienza, sono
di grandissimo valore per tutti noi.
È opportuno che la Medicina di Laboratorio, insista nella propria ricerca. Solo dalla ricerca, potremo trarre vantaggi.
Adesso, darei la parola al dottor Grezzana e, poi, ai due relatori
per le risposte.’’
L. G. Grezzana: ‘‘Solo una parola per dire a Luca che è stato molto
bravo, per dire a Paolo che è stato molto bravo. Ricordo il papà di
Paolo, Giovanni, che è stata una figura molto importante per quest’ospedale.
Aveva, per me, una particolare simpatia e ne vado orgoglioso.
Soltanto una cosa, piccola. Io sono certo che la Regione si ricre-
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derà sulle scelte, di ridurre i posti-letto di Geriatria, perché i numeri
sono i numeri, i fatti sono i fatti ed è un po’ difficile andare contro la
tradizione della nostra città, che ha visto nella Geriatria una forza
importante, un patrimonio da conservare.
Ho la convinzione che la Geriatria dentro l’Azienda sia stata, e la
fortuna della Geriatria e, in parte, la fortuna dell’Azienda.
Vorrei citare quello che mi è capitato questa mattina. Questa
mattina e si correla molto, ciò che sto per dirvi, con quello che ha
detto Paolo, è venuto da me un signore.
Un signore cui, chissà, forse un giorno affiderò una lettura in
questa Scuola.
Un signore estremamente affascinante, un uomo con la barba
molto lunga, con un abbigliamento atipico, ma a me piacciono molto
le persone atipiche.
Questo signore, porta da me la mamma, perché gliela visiti, perché lui deve partire per ‘‘gli 8.000’’. Deve partire per gli 8.000 metri.
Sono solo sei le persone al mondo che hanno raggiunto ‘‘gli
8.000’’, solo sei. Lui è stato uno dei primi a scalare il K2, ma ha raggiunto la cima di tutti gli 8.000.
Ha 54 anni e sta per partire per un’altra impresa del genere.
‘‘Tutto, mi è costato molto’’, mi dice e mi mostra le ultime falangi
delle dita. Se ne sono andate... Mi fa notare che un pezzettino della narice di destra, non c’è più perché quando si forma il ghiaccio e poi si
stacca, accade che col ghiaccio se ne vada anche un pezzettino di naso.
A me preme dirvi questo. Quando gli ho chiesto: ‘‘Come fate,
com’è che succede?’’
Non si chiede mai ad un alpinista: ‘‘Perché vai sulla cima?’’ Ti
risponderebbe semplicemente: ‘‘Perché esiste.’’
Ho chiesto, invece ‘‘come’’. Lui mi spiegava, questa mattina, che
l’ultimo campo si trova a 3.500 metri. Poi dai 3.500, si va sino ai
5.000 coi portatori.
I portatori, sono fenomeni della natura e lı̀, mi correlo con quello
che diceva Paolo. Questi uomini hanno dell’incredibile. Riescono a
fare delle cose che nessuno di noi può fare. Nessuno di noi può fare.
Portano sulle spalle 50-60 chili da 3.500 a 5.000 metri d’altezza.
‘‘Poi, dai 5.000 metri si parte da soli – dice – l’ultimo campo è a
5.000 metri e si arriva agli 8.000, in genere, in 24 ore. Poi si torna.’’
Io gli chiedo: ‘‘Ma come fanno, chi sono questi portatori?’’
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‘‘Sono individui che, per lo più, vivono in quei posti e che si cibano soltanto di riso e lenticchie.’’ ‘‘Quanti anni hanno?’’ ‘‘Hanno
anche 60 anni.’’
Tutto questo ci insegna che la genetica è importante, ma lo stile
di vita ha una valenza non secondaria.
Ho rubato anche troppo tempo. Grazie, siete stati molto bravi.’’
F. Buonocore: ‘‘Chi desidera fare domande... i due relatori, sono a
vostra disposizione.’’
E. Valvo: ‘‘Mi associo a Gigi Grezzana, che si è complimentato con i
due relatori per la lezione che hanno tenuto.
Il dottor Rizzotti, ha opportunamente chiarito il significato del
PSA. Come nefrologo, pongo un quesito sulla funzione renale. In
particolare, mi riferisco al danno renale, come fattore di rischio cardiovascolare.
In fondo, è di questo che dobbiamo occuparci, come rischio nell’anziano.
La creatinina, necessita di qualche chiarimento, infatti, può
esprimere un ampio range di funzione renale. Può variare da soddisfacente a compromessa, con valori molto simili.
Pertanto, sarebbe più opportuno parlare di clearance della creatinina. Sarebbe sufficiente considerare il peso del paziente e, attraverso formule ormai utilizzate da molto tempo, calcolare la clearance.
Questa, almeno al medico di famiglia, potrebbe comunicare l’informazione su una funzione renale, per cosı̀ dire, più reale.
La conoscenza della clearance, consentirebbe di prevedere una
funzione compromessa e quindi di ricorrere a provvedimenti farmacologici e terapeutici. Grazie, Paolo.’’
P. Rizzotti: ‘‘Grazie, Enrico. La tua domanda è molto interessante.
Noi, riteniamo di avere una informazione migliore, rispetto al
dosaggio sierico della creatinina, quando facciamo la clearance.
Questa, ci consente una miglior conoscenza della filtrazione glomerulare e, quindi, della funzione del rene.
A breve riusciremo ad avere, con estrema semplicità, dal nostro
medicina di laboratorio ed invecchiamento
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Laboratorio la clearance della creatinina, con una formula che la
rapporta al peso, all’altezza e, quindi, all’estensione corporea.
Ormai, esistono lavori in Letteratura, assolutamente incontrovertibili. Questo dato è molto più affidabile, tenendo in considerazione,
tutte le variabili che abbiamo citato.
Sarà un utile ausilio, perché rapporterà la clearance, alla dimensione corporea della persona.
Una creatinina di 1,2 mg./dL. nel mingherlino, ha un certo significato. Per l’uomo di superficie corporea più importante, assume un
altro valore.
Non dobbiamo dimenticare che fra 1 mg/dL. e 1,2 mg/dL. di
creatinina, c’è il 30% di funzionalità renale compromessa.
L’informazione fondamentale, che noi vogliamo trasferirvi con il
calcolo della clearance dei dati che abbiamo detto, è proprio questa.
Possiamo prendere con molta attenzione questi elementi, per avere
un’indicazione precisa.
Stanno impostando uno studio epidemiologico su un’ampia popolazione di Verona e non solo. Questa ricerca ci consentirà di conoscere i fattori favorenti l’insufficienza renale.
C’è un altro sistema per valutare la clearance, che è la cistatina C.
È una sostanza più specifica, anche se è un po’ più costosa. Stiamo
aspettando di avere la prova, che sia vantaggiosa.
Questa molecola dosata, ci dà informazioni prognostiche importanti. La microalbuminuria, rapportata alla creatininuria nei pazienti
non sintomatici, sarà una spia efficace della possibilità di sviluppare
malattia renale.
Questi sono i contributi che il Laboratorio può dare. Li può dare
tanto più nel processo d’invecchiamento che si accompagna, con
qualche problema, nella fisiologia della filtrazione.
Per quanto riguarda l’esame urine, mi sembra opportuna una
precisazione. L’esame urine, cosı̀ com’è concepito oggi, fatto a tutti,
non so quanta importanza diagnostica abbia.
Vi diamo una proteinuria, che ha molti problemi analitici. L’esame fisico-chimico delle urine, ci dà dei dati che non sono molti. Per
cui, forse, sarebbe il caso di parlarne.
Il nostro Laboratorio, esegue 650 esami urine in un giorno. La
buona pratica vorrebbe che fossero campioni di urine fresche. L’u-
488
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
rina che ci giunge, di rado, risponde a quest’esigenza. Si vorrebbe
fare le cose utili, che dessero risposte al quesito clinico.’’
A. Iannucci: ‘‘Innanzi tutto, mi congratulo con entrambi i relatori.
Mi ha colpito in particolare l’high tech e l’high touch, di Cosmacini.
Mi ci rivedo.
Giustamente il dottor Rizzotti rilevava che noi, anatomopatologi,
eseguiamo poche autopsie.
Non so se sia un merito o un demerito di quest’ospedale. Certamente, è una crisi universale che coinvolge tutti i servizi di Anatomia
Patologica, per lo meno, in Italia.
Il nostro lavoro, oggigiorno, si concentra su indagini bioptiche e
citologiche, estremamente numerose.
Inoltre, si raccolgono informazioni sulla distribuzione dei tumori
e su tutto ciò che osserviamo nei singoli vetrini. È difficile spiegare
come, in fondo, tutti i processi riconoscano modificazioni patologiche, talvolta elementari, che riprendono le caratteristiche della flogosi.
Il mio invito è di raccogliere i dati epidemiologici, che ci consentano uno scambio proficuo di informazioni.’’
G. Zavateri: ‘‘Anch’io mi congratulo con i due relatori. Ho colto
un’assonanza fra Medicina di Laboratorio e la nostra professione.
Ho sentito che si vorrebbe contenere il numero degli esami urine. In compenso, però, avremo una proteina C reattiva che faremo
di routine, un po’ a tutti.
Proteina C reattiva che, chiaramente, non ci aiuta nella prevenzione, ma ci aiuta eventualmente ad evidenziare un processo patologico in atto, di tipo flogistico.
La flogosi esprime una difesa dell’organismo. Il clinico, dovrebbe cercare di preoccuparsi del perché ci sia quella flogosi ed, eventualmente, venirne a capo.
Fra il medico di Laboratorio ed il clinico, sarebbe opportuno
uno strettissimo legame quotidiano. L’interpretazione degli esami,
talvolta, non è semplice.
Pensiamo, per esempio, ad un emocromo. Vi possono essere dei
valori che escono dal range. Dobbiamo approfondire, oppure no? Se
dobbiamo approfondire, si moltiplicano gli esami e le indagini.
medicina di laboratorio ed invecchiamento
489
Qualche volta, si richiedono esami impegnativi, che diventano
motivo di ulteriore confusione. La diagnosi, spesso, non viene dagli
esami, ma dalla clinica. Certamente, le indagini di Laboratorio ci aiutano nella diagnostica differenziale.
Non si può mai prescindere dalla cultura medica. La proteina C,
per esempio, può essere fuorviante. Un anziano che soffra di male al
ginocchio, ha la proteina C elevata.
La tecnologia, deve essere a servizio del medico, deve aiutarci a
vivere di più e a vivere meglio. Non si deve anteporre la macchina
alla conoscenza.’’
Dal pubblico: ‘‘Fra i farmaci capaci di incidere sulla funzionalità tiroidea, c’è certamente l’amiodarone.
Che cosa può succedere ad un anziano che assuma tutti i giorni
l’amiodarone?
Quali sintomi e quali segni si possono manifestare con l’assunzione cronica di questo farmaco?’’
L. Pellizzari: ‘‘Gli effetti collaterali dell’amiodarone, possono essere
molteplici. Quello di più frequente riscontro, è sicuramente l’alterazione degli ormoni tiroidei.
Qualora venga alterata la funzione tiroidea, si deve sospendere
l’antiaritmico incriminato, cioè l’amiodarone. Si ricorrerà ad un antiaritmico sostitutivo, o comunque, sarà opportuna una congrua attesa
prima di riprendere la terapia con lo stesso farmaco.
In qualche caso, bisogna iniziare anche una terapia tiroidea specifica, finché l’amiodarone non sia stato eliminato del tutto.
Questa è solo uno degli effetti collaterali. L’amiodarone, può dare alterazione agli ormoni tiroidei, può dare anche dei depositi corneali e delle forme di polmoniti. Grazie’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Solo una precisazione. Ti ricordi, Corrado, quando è nato il cordarone? La sua prima indicazione è stata di dilatatore
coronarico.
Tutti noi dicevamo: ‘‘Lo diamo, perché tanto, non fa male.’’ Non
avremmo mai potuto immaginare che avesse un effetto antiaritmico,
cosı̀ importante. Ed è un farmaco estremamente utile. È uno dei farmaci meglio tollerati dagli anziani.
490
p. rizzotti - l. pellizzari - f. buonocore
Purtroppo, come diceva giustamente Luca, ha delle controindicazioni che non vanno sottovalutate, ma certamente è uno dei farmaci più malleabili che sono a disposizione ed anche più utile nelle aritmie ipercinetiche.’’
P. Rizzotti: ‘‘L’importanza del Laboratorio, non è legata alla quantità di esami eseguiti. Oggi, non è più cosı̀.
La cosa difficile è, l’interpretazione degli esami. Un tempo non
c’erano gli asterischi, a significare un valore fuori range.
È opportuna una integrazione fra medico di Laboratorio e clinico. Ciascuno deve dare il meglio.
C’è troppa tecnologia che ci occupa, troppo poco tempo per incontrarci. Dobbiamo avere tutte le modalità per trasferirci le informazioni. Il trasferimento di informazioni non è semplice. Talvolta,
si teme che l’informazione non giunga a destinazione.
Sembra, che l’Azienda sia stata dotata dell’Intranet aziendale.
L’Intranet aziendale vuol dire mettere a disposizione tutte le informazioni in un sistema che, oggi, ha la grande forza di essere assolutamente diffuso, nell’immediatezza.
Per quanto riguarda l’intervento di Iannucci, l’autopsia, dovrebbe appagare un bisogno di verità. È vero, comunque, che le indagini
sofisticate di aggigiorno, quasi sempre, sono in grado di dare diagnosi precise. Questo, per lo meno in parte, giustifica perché si richiedono meno autopsie.
L’ultimo ragionamento si riferisce alla proteina C reattiva. La
proteina C reattiva, secondo ciò che emerge da dati di Letteratura
internazionale, è un marker che può aiutare nella prevenzione primaria della cardiopatia vascolare.
Il dosaggio del colesterolo, non è tutto. La proteina C reattiva,
probabilmente, ci consentirebbe qualche informazione in più.
Per quanto riguarda l’assetto lipidico, va interpretato nella storia
del paziente, quindi si deve conoscere il peso, l’ipertensione, il diabete, lo stile di vita, per avere un quadro il più completo possibile.
È opportuno un sistema di informazione diffuso, organico, che
ci eviti le ripetizioni.
Il problema di fondo sta nell’utilizzare al meglio la tecnologia che
abbiamo a disposizione, per diffondere le informazioni. In essa, è riposta la forza che noi abbiamo per il futuro.’’
medicina di laboratorio ed invecchiamento
491
G. Zavateri: ‘‘Mi riferisco solo a due esami: il PSA e la proteina C
reattiva.
Spesso ci si limita al valore. Nella mia esperienza, ho visto pazienti con cancro alla prostata, malgrado il PSA fosse inferiore a 4
mcg./L., proteina C reattiva positiva, a valori minimi.
Perché? Perché ogni esame, deve calarsi nella realtà di una persona. Era questo il mio passaggio. È importante monitorare la storia
di un paziente.
Un dato di laboratorio va sempre interpretato nella storia clinica
di quel paziente.’’
F. Buonocore: ‘‘Se non ci sono altre domande... vi ringrazio della vostra partecipazione. Buona sera a tutti.’’
LA SPERIMENTAZIONE CLINICA:
VANTAGGI E LIMITI
S. Garattini - L. Flor
L. G. Grezzana: ‘‘A tutti buona giornata. Iniziamo l’ultimo incontro
della Scuola Medica Ospedaliera – XIV Corso Superiore di Geriatria di quest’anno. Vi prego di prender posto. Lascio a te Luciano,
la parola’’.
L. Flor: ‘‘Buon pomeriggio e benvenuti. Oggi, la lettura è tenuta dal
professor Silvio Garattini che, immagino, non abbia bisogno di presentazione.
Si parlerà della Sperimentazione Clinica. Il professor Garattini
cercherà di definirne vantaggi e limiti.
È un argomento di grande attualità, perché in piena evoluzione
sia dal punto di vista normativo che dal punto di vista scientifico e
culturale.
Vorrei ricordarvi che dal primo gennaio 2004 è in vigore, anche
in Italia, la Direttiva Europea.
In questo Ordinamento Europeo, si prende in esame la sperimentazione clinica di medicinali per uso clinico. Quindi, è una nuova normativa che disciplina tale sperimentazione in Italia. Fa seguito
a delle regole che si sono succedute in questi ultimi anni.
Si era partiti con il Decreto del 1998 che disciplinava il funzionamento dei Comitati Etici, sino al Decreto che, nel 2002, introduceva la sperimentazione clinica sul territorio. Sul versante scientificoculturale, ormai, si sta facendo sempre più strada una coscienza che
vede in questa metodica una componente qualificata della pratica assistenziale.
In questi due decreti, c’è un glossario che illustra e ci fa scoprire
494
s. garattini - l. flor
anche qualche significato che abbiamo perso. La sperimentazione
clinica può essere controllata o non controllata.
Compaiono termini molto tecnici. Si parla spesso di end points,
si riscopre il significato ed il ruolo di istituzioni e di strumenti, che
disciplinano e governano la sperimentazione clinica.
Viene considerata l’importanza dei Comitati Etici, si tiene conto
del ruolo e dei diritti della persona che, in alcuni casi, è un ammalato, altre volte è una persona sana.
Di fronte a queste situazioni che oggi dibattiamo, credo si debba
affrontare il tema con pragmatismo, senza dietrologie.
L’argomento di oggi può essere visto non solo come una verifica,
ma anche come un’opportunità.
Un’opportunità per gli sperimentatori, per i componenti dei Comitati Etici, per le Aziende Sanitarie, che sono chiamate a far sı̀ che
la sperimentazione clinica non sia un aspetto parallelo o marginale
alla pratica.
Deve essere, infatti, parte integrante e qualificante dell’attività
assistenziale.
Vorrei ricordare le opportunità che la sperimentazione clinica,
comunque, ci mette a disposizione. È un’occasione di confronto e
di approfondimento scientifico.
Ci consente di paragonare quello che stiamo facendo con i dati
della Letteratura scientifica internazionale. Si può accertare se siano
assonanti con quanto rileviamo con le nostre indagini. È, infine, una
opportunità per fare formazione ed autoformazione. Non vorrei dilungarmi nel rubare spazio al professor Garattini che, oggi, abbiamo
l’onore di avere con noi.
Buona prosecuzione dei lavori e grazie a tutti’’.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
495
S. Garattini: ‘‘Buon pomeriggio a tutti. Grazie per questo gentile invito. Sono lieto ed anche onorato, di poter concludere questa prestigiosa Scuola che caratterizza Verona.
Il tema è quello indicato. Parliamo di sperimentazione clinica.
Ne parliamo perché siamo convinti, almeno molti lo sono, che la
Medicina stia andando verso un nuovo modo di vedere le cose. È
quello di una Medicina basata sulle prove.
Per molto tempo, forse per troppo tempo, la Medicina faceva riferimento alle impressioni. Quindi era, sostanzialmente, fondata sulle opinioni di medici più o meno illustri, o accreditati. Però, erano
sempre impressioni.
Invece, riteniamo che la Medicina debba diventare sempre più
scienza, senza perdere naturalmente le sue caratteristiche umane
che derivano dal rapporto fra medico e paziente.
La scienza è conoscenza. Pertanto, ci vogliono prove, non impressioni. Questo termine, studi clinici controllati randomizzati,
esprime le fondamenta della Medicina basata sull’esperienza. Non
vi è dubbio che questi studi siano il modo migliore, che oggi abbiamo a disposizione, per verificare la validità di qualsiasi intervento
medico.
Il sistema è stato sviluppato soprattutto per i farmaci. Serve, comunque, in ogni altro caso, per tutti gli interventi medici e fa riferimento al trial clinico controllato e randomizzato. Tuttavia, è quanto
di meglio sia stato inventato fino ad oggi. Qualora, in futuro, ci fossero opportunità preferibili, sarà giusto utilizzarle. Per ora, questo è
il modo migliore.
Parlando di studi clinici controllati, ci riferiamo effettivamente a
quella che è nota come la fase tre della sperimentazione clinica. Noi
ci intratterremo, soprattutto, sul problema dei farmaci.
Quando un farmaco esce dagli studi di laboratorio, ha avuto tutte le conferme necessarie a livello degli studi su animali. Si è stabilito
che esiste un rapporto favorevole fra gli effetti terapeutici desiderati
e gli effetti collaterali. Gli effetti collaterali accompagnano, inevitabilmente, l’azione di ogni farmaco.
Non esistono farmaci innocui.
C’è un momento in cui, si arriva ad impiegare per la prima volta
un farmaco nell’uomo. Siamo nella fase 1. Non ne parleremo, ma è
496
s. garattini - l. flor
utile sapere che è necessaria. È una fase in cui si determina quale sia
la dose massima che viene tollerata dall’uomo.
Abbiamo tante informazioni sugli animali, ma gli animali sono
soltanto dei modelli e, quindi, abbiamo bisogno di sapere che cosa
succeda esattamente nell’uomo. Stabilire la dose massima consentita,
di solito, lo si fa in soggetti volontari, sani, a meno che non si tratti di
farmaci che abbiano una loro intrinseca tossicità fin dalla partenza. È
il caso di farmaci antitumorali e farmaci antivirali. Questi, molto
spesso, vengono impiegati anche in fase uno nei soggetti che siano
ammalati. Abbiamo, perciò, la possibilità di stabilire quale sia la dose
massima tollerata.
Nella fase 2, avremo certezza che l’effetto che ci attendiamo è un
effetto probabile. Per esempio, se è un farmaco antipertensivo, nella
fase 2 stabiliremo se veramente diminuisca la pressione in pazienti
ipertesi. Quella è una specie di porta obbligata.
Se questa via non è praticabile, non ci può essere una fase 3. La
fase 3, si caratterizza per efficacia comparativa. Infatti, paragona la
dose massima tollerata con la dose efficace. Si va a stabilire su un
numero congruo di pazienti, come si possa collocare questo nuovo
medicamento nell’ambito dei farmaci che già esistono.
Oppure, nel caso in cui non esistano farmaci, per quella determinata indicazione, si verifica se la molecola in esame abbia diritto di
essere considerata attiva per la malattia da trattare.
È importante stabilire che in uno studio clinico controllato ci
debba essere un protocollo.
Il protocollo è il documento programmatico che indica come si
deve procedere. Rappresenta la guida che viene seguita durante tutta
la sperimentazione. Deve essere scritto con una grande dovizia di
dettagli perché oggi, anche nel nostro Paese, questo protocollo dovrà essere giudicato da parte di un Comitato Etico.
È un passaggio obbligatorio in Italia, come in tanti altri paesi,
per poter svolgere uno studio clinico controllato.
Il Comitato Etico deve esprimere un parere preciso.
Per ottenere questo, è necessario che abbia il maggior numero di
informazioni in modo che sia opportunamente documentato.
Il ruolo del Comitato Etico è, soprattutto, quello di stabilire che
il protocollo, indice dello studio in atto, sia dotato di un buon livello
di scientificità.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
497
Fondamentalmente, non è etico realizzare un protocollo che non
abbia una solida base scientifica, che non possa essere criticato e non
consenta di raggiungere degli obiettivi.
Il significato di condurre uno studio clinico controllato è quello
di metterci nella condizione di ottenere un risultato, che potrà essere
positivo o negativo.
Da un punto di vista generale, non è importante. Quello che
conta è che ci sia un risultato che non dovrebbe essere messo in discussione nell’ambito del protocollo contemplato. È chiaro che i Comitati Etici hanno una grande difficoltà, soprattutto, perché gli studi
clinici più importanti, sono in generale disegnati da industrie multinazionali.
Le industrie multinazionali hanno dei Comitati Scientifici costituiti dai migliori cervelli che esistano in circolazione. Questi ultimi,
certamente, non si metteranno nella condizione di sfavorire il nuovo
farmaco. Al contrario, cercheranno tutte le opportunità per favorirlo.
Quindi, le competenze all’interno del Comitato Etico devono essere elevate perché hanno a che fare, molto spesso, con dei protocolli che sono progettati con grande maestria. Richiedono, pertanto, altrettanta competenza per svelare quali siano, eventualmente, i punti
deboli del protocollo.
In Italia abbiamo trecento Comitati Etici. Ciascuno è formato da
circa dieci persone. Questo, implica che le tremila persone coinvolte
nel nostro Paese, non sono in grado di giudicare con competenza.
Questo è un pericolo.
L’eccessivo frazionamento dei Comitati Etici è un rischio perché
è difficile avere tutte le conoscenze necessarie.
Negli studi clinici controllati, è molto utile vedere quale sia il razionale e vedere quale sia la giustificazione clinica per far quello studio.
Il razionale, significa che devo avere una pertinente domanda clinica che mi pongo, che può essere di tipo diverso, ma è necessario
sia importante.
Se so che i pazienti assoggettati ad uno studio possono andare
incontro a delle complicanze, devono esserci delle ragioni valide.
Queste, saranno esplicitate chiaramente nella parte introduttiva del
dossier, che, di solito, costituisce il protocollo.
498
s. garattini - l. flor
Bisogna considerare quali siano le prove a livello di laboratorio,
ma anche a livello ipotetico, che garantiscano che quel determinato
disegno risponda veramente agli interessi del paziente.
Quindi, un primo punto da discutere è quello che è intriseco allo
studio clinico controllato randomizzato. Randomizzato perché, naturalmente, i pazienti devono essere distribuiti a caso nell’ambito dei
vari gruppi.
Controllato, anche perché devono esistere dei controlli. Uno studio di fase 3, non si concepisce senza la presenza dei controlli.
Questo perché, in Medicina, non abbiamo mai degli assoluti.
Nella nostra scienza, l’incertezza regna sovrana.
Se tutti i pazienti con un tumore guarissero con un farmaco, non
avremmo bisogno di studi clinici controllati. Siccome questi effetti
miracolosi è difficile che ci siano, è bene che ci mettiamo nella condizione di avere dei controlli.
In Medicina, ripeto, non ci sono assoluti, ma c’è in realtà la possibilità di stabilire se il trattamento considerato, sia migliore o peggiore di qualcosa che già esiste.
Meglio o peggio, lo devo stabilire nelle stesse condizioni sperimentali.
Per cui non possiamo, in generale, accettare controlli scontati. Il
medico, di fronte alla malattia, migliora le sue conoscenze ed assume
un atteggiamento che lo fa crescere.
Le malattie consentono al medico esperienza e conoscenza.
Spesso, si deve utilizzare il placebo, cioè si deve ricorrere come
controllo, ad un gruppo che, sostanzialmente, non riceve alcunché.
L’utilizzo del placebo è un aspetto etico molto importante.
La Dichiarazione di Helsinki è il punto di riferimento per l’etica
della sperimentazione.
Vengono puntualizzati i benefici ed i rischi dei nuovi metodi.
Tutto viene testato in rapporto a quanto di meglio si abbia a disposizione.
Secondo la Carta di Helsinki, il placebo dovrebbe essere utilizzato soltanto negli studi in cui non si abbia alcun riferimento.
Quindi, l’impiego del placebo è un’evenienza che va giustificata
molto dettagliatamente.
Il paziente deve avere le migliori cure disponibili.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
499
Il placebo, è un prodotto di riferimento privo di principio attivo.
Ad esso, si ricorre soltanto se ci sono delle ragioni ben precise.
Comunque, non sempre si ritiene opportuno impiegare farmaci
di riferimento, per cui di solito non succede che si ricorra al placebo.
Si adducono molti argomenti, che faticano ad avere una base razionale.
Per esempio, nel caso in cui il trattamento sia relativamente breve, perché non utilizzare il placebo visto che la sperimentazione si
protrae per poche settimane?
Non c’è una ragione per utilizzarlo se il paziente non ha la possibilità di avere un trattamento che gli sia utile.
Non si può ricorrere soltanto ad un farmaco di riferimento, perché in quella condizione, potrebbe essere inattivo.
Quindi, se si trova che un farmaco è uguale al farmaco di riferimento, in realtà si riscontra che entrambi i farmaci, sono inattivi.
A questo si può, naturalmente, sopperire attraverso l’impiego di
studi di dimensioni adeguate.
Gli studi clinici controllati, devono dimostrare che il farmaco sia
attivo.
Qualora dovessimo ricorrere al placebo e ritenessimo che non ci
fossero alternative, ci sarebbe una via molto semplice.
È quella di arruolare soggetti che non rispondono alle terapie
correnti, per cui, è assolutamente giustificato impiegare il placebo.
Molti sono i pazienti che non rispondono a farmaci riconosciuti
attivi.
Questi ultimi, considerati resistenti, vengono raggruppati.
Ad alcuni viene somministrato il nuovo farmaco, ad altri il placebo e si fa un confronto.
Ci sono le condizioni per poter applicare correttamente la Dichiarazione di Helsinki, come stabilisce il protocollo. Deve essere valutato anche dal Comitato Etico, che dà il parere su quel protocollo.
Se il placebo non è adeguato, abbiamo quello che chiamiamo un
farmaco di confronto attivo.
Nell’utilizzare il farmaco di confronto attivo, dovremmo utilizzare sempre il miglior farmaco che abbiamo a disposizione.
Lo dovremmo utilizzare nelle condizioni in cui, quel farmaco, ha
dato i migliori risultati e secondo un disegno che mi permetta di raccogliere informazioni significative.
500
s. garattini - l. flor
Per semplificare, possiamo dire che esistono, tre disegni con cui
si può realizzare uno studio clinico controllato con un nuovo farmaco, rispetto ad un farmaco di riferimento.
Si può fare uno studio per stabilire che il nuovo farmaco è superiore a quelli che già esistono.
Questa, naturalmente, è la condizione ottimale perché vuol dire
che si sta cercando nel farmaco in esame un valore aggiunto, rispetto
a quelli che già esistono.
Si può stabilire, che lo scopo dello studio sia quello di mostrare
una equivalenza rispetto a ciò che già c’è.
Oppure, che esista una non inferiorità.
I due concetti di equivalenza e di non inferiorità, non sono molto
diversi fra loro.
La trattazione esigerebbe di andare un po’ lontani, ma ci possiamo fermare a discutere il valore che hanno questi studi di equivalenza.
Lo vedremo poi, subito dopo.
Intanto, possiamo dire che lo studio dell’equivalenza, qualche
volta è condivisibile, per esempio, per valutare un profilo tossicologico differente.
Si può avere lo stesso effetto terapeutico, ma se esiste in un caso,
un quadro tossicologico che sia diverso da quello dell’altro farmaco,
questo, naturalmente, può rappresentare alla fine un vantaggio.
A seconda delle caratteristiche del paziente, si può impiegare l’uno o l’altro farmaco che abbiano una equivalenza di effetto.
Questo è più teorico che pratico. Cogliere un profilo tossicologico in uno studio di equivalenza che abbia un numero limite di pazienti, è sempre molto difficile, a meno che, non ci siano delle grandissime differenze.
Possiamo accettare uno studio di equivalenza, quando il paziente
abbia una migliore aderenza con la terapia.
È chiaro che sarà un vantaggio, anziché somministrare tre volte
al giorno un farmaco, avere a disposizione un medicamento che venga somministrato una sola volta al giorno.
Inoltre, non è indifferente se si tratta di un farmaco che deve essere assunto per os o per iniezione.
In quel caso, è giusto stabilire l’equivalenza. Può essere utile l’equivalenza quando ci sia un meccanismo d’azione differente.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
501
Questo, può permettere di pensare che ci siano effetti diversi
nella stessa popolazione di pazienti.
O, ancora, si può accettare proprio per il suo valore sociale, di
studiare l’equivalenza quando venga dichiarato che nel caso in cui
questa esista, il farmaco verrà venduto ad un prezzo inferiore di
quelli che già sono in commercio. Un’evenienza che non si verifica
mai, ma in ogni caso, sarebbe teoricamente possibile.
Equivalenza, è un termine ambiguo, non è un termine ben definibile.
È ambiguo perché non abbiamo la possibilità di dare un valore
quantitativo.
Equivalente, dipende dalla posizione considerata.
È equivalente qualcosa che è differente, non più del 10%, non
più del 5%, non più del 20%.
Dove si pone il limite? Normalmente il limite si pone attraverso
quelli che si chiamano i delta cioè dei paletti che mettiamo per dire:
‘‘Questo, farmaco è equivalente se sta entro due limiti stabiliti’’.
Se il risultato è questo, cioè se l’effetto del farmaco cade entro
limiti stabiliti, ad esempio la differenza non deve andare oltre il
5%, allora ho dimostrato l’equivalenza.
Se si esce da una o dall’altra parte delle due barriere, si dirà che il
farmaco non è equivalente.
Tuttavia, rimane molto difficile stabilire dove venga posto il limite per l’equivalenza.
Supponiamo di avere un farmaco che sia un farmaco cosiddetto
salvavita.
È un brutto termine, ma comunque lo possiamo usare per intenderci.
È un farmaco come, per esempio, un fibrinolitico che, in realtà,
diminuisce la mortalità quando viene iniettato in pazienti che abbiano un infarto del miocardio.
Si sarà soddisfatti, se si accetta che abbia una equivalenza solo se
si superi del 10% la barriera?
Questo significa che accetto che un farmaco mi protegga al
100% e mi protegga al 90%.
Vuol dire che si accetta che ci possano essere dieci morti in più,
nella peggiore delle ipotesi. Questo è molto discutibile quando parliamo di un farmaco che ha una grande importanza.
502
s. garattini - l. flor
Il problema, tuttavia, è ancora più complicato, perché l’equivalenza, spesso, è una equivalenza che è molto più larga di quello
che abbiamo detto finora.
Per esempio, si sono confrontati vari prodotti antidepressivi e si
è concluso che esiste una equivalenza.
Analizzando con attenzione, si coglie come in questi studi, i prodotti fossero equivalenti però l’equivalenza veniva allargata al 40%.
Talvolta non differivano più del 30%, talvolta più del 16%, ma
in altri casi, la differenza saliva al 63%. Quindi, che tipo di equivalenza è questa, se io posso vedere soltanto delle differenze cosı̀ importanti?
Chiaramente l’equivalenza diventa un termine ambiguo, che utilizzerò per ragioni che sono prevalentemente di natura commerciale,
ma, certamente, non sono adatte a farmi capire quale sia il valore di
quel determinato farmaco.
Infatti, se guardiamo nella Letteratura scientifica, vediamo che
su un’analisi fatta su oltre 380 studi clinici controllati, che riguardano due antidepressivi, il 64% poteva trovare una differenza solo se
era superiore al 50%. Quindi, in pratica, voleva dire che se era superiore al 50%, avevano stabilito dei margini cosı̀ ampi, che era difficile che tutto non fosse equivalente.
Nell’84%, un determinato farmaco era dichiarato non equivalente soltanto se la differenza era inferiore al 25%.
È chiaro che questo tipo di studi, non può essere accettabile dal
punto di vista etico, oltretutto, perché raramente diciamo al paziente
come stanno le cose.
In realtà, questi studi sono condotti per valutare l’equivalenza.
È come cercare di non vedere che c’è una differenza. Il che, la
dice lunga sul significato di questi studi, che hanno un puro interesse
commerciale.
Una volta che ci sia un’equivalenza, in base alle leggi che oggi
esistono, si ha il diritto ad entrare nel mercato.
Non esistono leggi che contemplino un valore aggiunto nei nuovi
farmaci. Questo giustifica perché la stragrande maggioranza degli
studi clinici, venga fatta con l’obiettivo dell’equivalenza.
Tutto ciò, non viene portato all’attenzione del paziente.
Se la proposta vuole essere onesta nei confronti degli ammalati, il
Comitato Etico, dovrebbe imporre che nel consenso informato ci
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
503
fosse scritto: ‘‘Questo studio è fatto per pure ragioni commerciali.
Facciamo uno studio per vedere se questo farmaco non sia differente
da altri che esistono già. Non si potrà dire se sarà meglio o peggio
perché stiamo guardando solo se è equivalente, né potremo dire se
è meglio o peggio dal punto di vista della sua tossicità’’.
Se queste frasi comparissero in modo chiaro, credo che ci sarebbero pochi studi clinici controllati sulla base dell’equivalenza, perché
ci sarebbero pochi pazienti che accetterebbero di essere arruolati in
uno studio con queste premesse.
Invece gli studi di equivalenza, oggi, rappresentano la grande
maggioranza degli studi che vengono realizzati. Gli studi di superiorità, sono veramente una piccola minoranza rispetto al totale.
Negli studi clinici controllati, bisogna introdurre i criteri di
esclusione.
Questo è un altro aspetto importante che, poi, ha grandi conseguenze nella utilizzazione del farmaco.
Si può avere un atteggiamento molto restrittivo e, quindi, includere soltanto pazienti che abbiano caratteristiche molto strette.
Oppure, si possono usare dei criteri molto più larghi, includendo
tutti i pazienti, per poi, successivamente, fare delle analisi.
A seconda di quello che si sceglie, naturalmente, si hanno delle
conseguenze molto importanti se è stato stabilito con grande rigore
quali siano i pazienti cooptati per lo studio. Bisogna, poi, che nella
pratica medica queste regole vengano rispettate.
La propaganda fatta dall’industria, invece, fa sı̀ che il prodotto
venga esteso il più possibile al di fuori di quelle che sono le regole
sulla base delle quali era stato costruito lo studio clinico controllato.
Dobbiamo stabilire il trattamento e la durata. Naturalmente, non
sono etici quegli studi di sei-otto settimane per la depressione, poiché la depressione è una malattia quasi sempre cronica.
Si vedono studi che si prolungano pochi mesi per farmaci antipsicotici, da usare nella schizofrenia, che è una malattia di lunga durata, e cosı̀ via.
Abbiamo, spesso, studi troppo brevi per valutare, farmaci antiipertensivi o ipocolesterolomizzanti o anti-diabetici. Sono condizioni
che richiedono trattamenti prolungati nel tempo, per validarne l’efficacia.
504
s. garattini - l. flor
Poi, c’è il problema della numerosità. La numerosità deve essere
costruita in anticipo. Il protocollo deve esplicitare perché si sia scelto
di utilizzare 50-100-1.000-5.000 pazienti.
Alla base, si impongono calcoli precisi. Bisogna indicare quale
sia il risultato atteso e quantificarne la percentuale.
Su tutto ciò, si deve decidere la numerosità del campione da impiegare nello studio clinico.
Molto spesso, i calcoli si fanno a posteriori, il che non è corretto.
Non di rado, si scelgono numeri inferiori a quelli necessari, per ragioni, fondamentalmente, di carattere economico.
Fare uno studio di superiorità, richiede molti più pazienti di
quanti se ne impieghino per uno studio di equivalenza.
Uno studio di non inferiorità, richiede meno pazienti che uno
studio di equivalenza.
Siccome i costi sono molto elevati, è chiaro che, molto spesso, la
scelta della numerosità rispecchia aspetti di carattere economico che,
poi, rischiano di invalidare il risultato finale.
Alla fine dello studio, è molto importante vedere che tipo di analisi facciamo.
Ce ne sono di due tipi. Uno si chiama ‘‘Intention to treat’’, in cui
vengono inseriti tutti i pazienti che per qualsiasi ragione siano entrati
nello studio.
L’altro, è in base al protocollo. Vengono inseriti, soltanto, i pazienti che sono entrati nel protocollo.
È chiaro che, il primo approccio, è quello che rispecchia molto
di più la situazione clinica corrente, rispetto a quello del secondo.
È importante, quando si legge un lavoro scientifico, e quando si
esprimono i risultati, stabilire con quale criterio vengano calcolati.
Per esempio, se l’end point, cioè il parametro che utilizzo per validare la mia ricerca, è la mortalità e supponiamo che nei controlli
abbia il 20% di mortalità e nei trattati il 15%, fa una grande differenza.
Se la differenza viene espressa come rischio relativo, per esempio, fra 15 e 20, c’è un 25% di differenza.
In realtà, in termini assoluti la differenza sui pazienti che vengono trattati, è solo del 5%.
A seconda di quello che viene proposto, evidentemente, si condiziona molto la valutazione che farà il medico.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
505
È chiaro che si tende ad utilizzare il valore relativo, perché di solito è molto più alto e, quindi, fa impressione.
Si deve vedere, anche, che cosa significhi quel valore relativo, rispetto al numero degli eventi, cioè al numero, in questo caso, dei
morti, se quello è il parametro che si utilizza.
Infatti, il 5%, se gli eventi sono 100, vuol dire che si salvano 5
pazienti.
Se gli eventi fossero 20, il 5%, significa che è stato salvato un paziente. Il che, non significa niente dal punto di vista pratico, perché è
al di fuori da ogni significatività statistica.
Il modo con cui si fanno i calcoli e si presentano i risultati, è molto importante per la ricaduta che avranno.
Una metodica utile per esprimere un giudizio, è quella di stabilire quanti pazienti si debbano trattare per evitare un evento negativo.
Questo è il numero che, in un certo senso, rende di più l’efficacia.
Un conto è sapere che, se tratterò 5 pazienti, ne avrò 1 che avrà
un vantaggio.
Un altro conto, è sapere che si devono trattare 100, in qualche
caso 900 pazienti, per avere un caso che ne trarrà utilità. L’atteggiamento sarà completamente differente.
Se per una malattia si devono trattare 900 pazienti per ottenere
un evento favorevole, è quasi impossibile che un medico possa cogliere quel successo nell’ambito della sua professione.
Vuol dire, che è un evento estremamente improbabile a realizzarsi.
La nostra ricerca sulla Medicina deve essere basata sulle prove.
I risultati degli studi clinici randomizzati e controllati, vanno
considerati al primo posto nella evidenza.
Tutte le altre prove, per quanto importanti siano, sono meno importanti e meno significative.
Abbiamo parlato, fino adesso, di quello che dovrebbe essere la
situazione e lo abbiamo fatto anche in termini un po’ generali.
Sono stati considerati i vantaggi, si è esaminato quello che ci dice
uno studio clinico, quando è fatto bene. Però, è molto importante
vedere quali siano i limiti, quelli che chiamiamo i bias, negli studi clinici controllati.
506
s. garattini - l. flor
Certamente, uno dei bias più importanti, è rappresentato dalle
pubblicazioni selettive.
Non tutti gli studi vengono pubblicati, ma c’è la tendenza a pubblicare soltanto, gli studi che sono di natura positiva.
Da un’analisi fatta su 130 studi eseguiti, è emerso che gli studi
clinici controllati, hanno la possibilità di essere pubblicati tre volte
di più se sono positivi, rispetto a quando sono negativi.
Questo, naturalmente, ci dà una percezione molto diversa di
quello che è il reale valore di un farmaco.
Sul British Medical Journal, lo scorso anno è apparso uno studio,
che ha esaminato in Scandinavia, quali fossero gli studi effettivamente compiuti su farmaci antidepressivi.
Sono stati presi in considerazione gli SSRI, cioè gli inibitori selettivi della captazione della serotonina.
In totale hanno trovato che c’erano 42 studi. Di questi 42 studi,
21 mostravano che uno dei farmaci, impiegati, era meglio del placebo.
Sono state desunte, quindi, 19 pubblicazioni, che chiamiamo primarie, più un’ottantina di altre pubblicazioni che sono di tipo secondario.
Cioè, derivavano da sub-analisi di studi positivi.
Su 42 studi, c’era l’altra metà, 21, che dava esito negativo.
Il farmaco, considerato in questo gruppo, non era differente dal
placebo.
Questi hanno dato luogo a 6 pubblicazioni primarie e a nessuna
pubblicazione aggiuntiva.
Quasi sempre non si sa come stiano le cose perché, la maggioranza delle persone interessate non ha la possibilità di conoscerlo.
Non si può sapere quanti studi negativi siano stati fatti.
L’idea che si ha di questi farmaci è, certamente, molto meglio di
quello che non sia la realtà.
Abbiamo quindi una magnificazione, una sovrastima di quello
che è l’effetto di un farmaco. Quello che vale per questo farmaco,
vale per tutti i farmaci. È sempre lo studio positivo che riceve il privilegio di una pubblicazione.
Nel tempo, spesso, le cose esplodono.
Anche recentemente, abbiamo avuto degli scandali sui problemi
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
507
sorti per non aver pubblicato dati che avrebbero dovuto essere resi
noti.
Questo avviene quando ormai il farmaco, dopo molti anni, ha
fatto la sua strada, cioè è stato ampiamente venduto.
Si è radicato nella opinione dei medici, per cui è molto difficile,
poi, ottenere un cambiamento di rotta.
È chiaro che in questa situazione, non abbiamo una medicina basata sull’evidenza, ma qualcos’altro.
Uno studio relativo all’uso degli antidepressivi, ha avuto molte
conseguenze.
È lo studio che riguarda l’impiego di questi farmaci, nei bambini
o negli adolescenti che abbiano sofferto di depressione.
L’impiego della paroxetina, è stato ampiamente pubblicizzato
sulla base di questo studio.
L’indagine aveva evidenziato che il trattamento con paroxetina
aveva dato risultato favorevole.
C’erano, come non remissioni, i pazienti che non avevano avuto
un vantaggio. Questi, erano molto meno frequenti nel trattamento
attivo rispetto al placebo.
Negli studi non pubblicati, però, le cose stavano in modo completamente diverso.
In questi, infatti, la differenza fra il composto attivo ed il placebo, non risultava altrettanto significativa.
Per quanto riguarda l’ipertensione arteriosa, è stato condotto
uno studio clinico non sponsorizzato, in cui sono emerse informazioni di estremo interesse. Lo sponsor è il National Health Institute. Si
tratta di un organismo di ricerca ‘‘terzo’’.
La conclusione dello studio rivoluziona quello che, tutti i giorni,
ci viene propugnato.
Lo studio dice che con gli alfa-bloccanti aumenta la mortalità,
ma soprattutto, dimostra che la protezione maggiore, si è riscontrata
usando i diuretici.
Esattamente, l’uso del clortalidone nel progetto sperimentale.
Prima di questo studio, chi prescriveva questo diuretico, si poteva sentire fuori dal tempo. Invece, prescrivendo il clortalidone, si è
all’avanguardia.
La terapia diuretica nella cura dell’ipertensione, oltretutto, ha un
508
s. garattini - l. flor
costo di gran lunga inferiore rispetto a tutti i farmaci antipertensivi
noti e che hanno ben diversa diffusione e fortuna.
Abbiamo speso nel 2002, 61 miliardi di lire per i diuretici, ma
abbiamo speso 1.136 miliardi per gli ace-inibitori, 815 per i sartani
e 713 per i calcio-antagonisti.
Questo perché, attualmente, si comincia con gli ace-inibitori e
poi si aggiunge il diuretico, se necessario.
Se cominciassimo, invece, con i diuretici e poi aggiungessimo l’ace-inibitore o i sartani, cambierebbe completamente la spesa farmaceutica per i farmaci antipertensivi.
Questo, sarebbe possibile se tutti i medici sapessero come stanno
effettivamente le cose.
Siccome non lo sanno perché non sono informati, continuiamo
purtroppo ad avere questa seconda situazione, che rispecchia una
spesa che non è assolutamente indispensabile.
Un altro bias che abbiamo spesso negli studi clinici controllati, è
quello di minimizzare le reazioni avverse, cioè gli effetti tossici.
Questo è dovuto al fatto che la nostra cultura, in generale, ci porta a valorizzare il beneficio e non ci fa considerare l’effetto tossico.
I giornali e le riviste enfatizzano, se un farmaco fa bene, mentre
prestano poca attenzione quando si afferma che un farmaco fa male.
Purtroppo, è vero, anche per quanto riguarda le riviste scientifiche internazionali. Vengono accettati, prevalentemente, gli studi che
indicano benefici, rispetto agli studi che indicano rischi.
C’è, indubbiamente, una minimizzazione. Anche qui, è opportuno un esempio che è rappresentato dai cosiddetti anti-psicotici atipici o quelli che si chiamano gli anti-psicotici di seconda generazione:
olanzapina, risperidone, quetiapina, per indenderci sui nomi generici
di questi farmaci.
Per questi anti-psicotici si è molto propagandato il fatto che riducono gli effetti extra-piramidali.
Tutti i farmaci anti-psicotici, quelli correnti, quelli classici, interferiscono sul sistema extra-piramidale, dando luogo ad effetti motori
involontari fastidiosi.
La pubblicità, perciò, ha esasperato questo sintomo, dimenticando, invece, due altri effetti collaterali importanti: l’aumento di peso,
che è determinato da questi prodotti e la propensità ad avere il diabete.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
509
Fontaine ha calcolato quale sarebbe la situazione se, come viene
suggerito normalmente, questi farmaci fossero farmaci di prima
linea.
Farmaci, cioè, che vengono usati, preferenzialmente, negli schizofrenici.
Negli Stati Uniti, ci sono 4.000.000 di schizofrenici.
Se questi, con il trattamento degli anti-psicotici atipici, guadagnassero in media quattro chili di peso corporeo, ma ne guadagnano
ben oltre, aumenterebbe la mortalità. È stato calcolato che l’aumento considerevole del peso corporeo ottenuto con questi farmaci, incidirebbe, negli Stati Uniti, con 24.000 morti in più, rispetto al trattamento con farmaci anti-psicotici classici.
Avremmo 97.000 casi di ridotta tolleranza al glucosio ed avremmo 120.000 casi di ipertensione.
Ciò non rappresenta un grande vantaggio per i pazienti.
Vi sono molti studi che testimoniano come l’uso di anti-psicotici
favorisca l’insorgenza del diabete.
Se, per esempio, si indica con la misura 1 il rischio di realizzare il
diabete in chi non riceve anti-psicotici, si è visto che questo rischio
sale a 1.4 se si assumono anti-psicotici convenzionali. Con l’olanzapina arriva a 5.8 e con il risperidone a 2.2. Nessuno rende noti questi
risultati.
La ridotta tolleranza ai carboidrati è, in parte, dovuta al fatto che
questi farmaci aumentano il peso corporeo. Non solo questo.
Recentemente, c’è stata una notevole discussione per il fatto che
questi farmaci erano ritenuti di cosı̀ buona tollerabilità che venivano
impiegati nel trattamento dell’Alzheimer. Il loro impiego trovava indicazione quando, in questa malattia, si manifestavano disturbi di
natura psicotica ed emotiva.
Gli studi clinici controllati che non sono ancora stati pubblicati,
hanno indicato, per esempio, che l’olanzapina non soltanto è inattiva, cioè non cambia la situazione , ma aumenta di due volte la mortalità ed aumenta di tre volte gli eventi cerebrovascolari.
Il che ha fatto sı̀ che, recentemente, sia stata inviata una lettera a
tutti i medici per metterli sull’avviso della possibilità che ci sia questo
effetto di natura tossica.
Ancora, in uno studio, che è stato recentemente pubblicato, vediamo che la percentuale di soggetti in trattamento con anti-psicoti-
510
s. garattini - l. flor
co atipico, dopo un anno, mostra un aumento del peso corporeo, è
del 24,7%.
L’aumento del peso corporeo in pazienti con anti-psicotico classico, cioè l’aloperidolo, è solo del 8.3%.
Per quanto riguarda gli effetti extrapiramidali, non ci sono differenze significative fra gli anti-psicotici convenzionali e gli anti-psicotici atipici.
Soltanto a dosi di aloperidolo superiori ai 12 mg., si notano differenze.
Se le dosi sono inferiori ai 12 mg., non si coglie alcuna diversità
fra nuovi e vecchi anti-psicotici, sul sintomo tremore.
Questo vi dice come ci sia una notevole disparità fra i due prodotti, cioè quelli di prima generazione e quelli di seconda generazione.
Sono equivalenti dal punto di vista dell’efficacia, ma hanno effetti collaterali che sono molto dissimili.
Per cui, ci si deve interrogare se sia preferibile avere meno effetti
extra-piramidali, più rischio di morire o di slatentizzare il diabete.
Pur riconoscendo un’equivalenza nell’efficacia, certamente, non
lo è nel prezzo.
Questo ha comportato un fortissimo incremento della spesa. Gli
anti-psicotici atipici costano molto più dei vecchi. Si parla di milioni
di euro.
Altri aspetti emersi dagli studi clinici controllati, vengono messi
in evidenza con ottiche, che non tengono conto di come stiano i fatti.
Spesso, invece, si tende a favorire l’industria farmaceutica.
Parliamo ancora di antidepressivi e parliamo della paroxetina. La
paroxetina è un farmaco cui, per molti anni, si è negata la possibilità
che desse dipendenza.
Recentemente, si è appurato che la dipendenza esiste.
Lo si è verificato e lo si è potuto conoscere dagli studi clinici che
non erano stati pubblicati. C’è una dipendenza dimostrata dal fatto
che i pazienti in cura da tempo con la paroxetina, hanno grandi difficoltà ad interrompere il trattamento.
La dipendenza da paroxetina non è paragonabile a quella che si
realizza con gli oppioidi.
È una dipendenza, che si rileva nel momento in cui si smette la
cura.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
511
Con la sospensione del farmaco, compaiono sintomi che sono
molto peggiori di quelli che hanno dato origine alla motivazione della terapia.
Si pensava che i disturbi che comparivano con la sospensione del
trattamento, fossero imputabili alla ricomparsa della malattia.
Invero, sono il frutto di un organismo divenuto dipendente a
questi farmaci.
Tutto ciò deve suggerire molta cautela nell’impiego degli antidepressivi.
La dipendenza si impone non tanto nella depressione vera e propria, ma negli stati depressivi che sono, invece, condizioni passeggere determinate da avvenimenti che possono accadere nella vita.
C’è un elenco di disturbi, che si possono verificare quando si
smette il trattamento con paroxetina.
Ricordiamo, in particolare, vertigini, disturbi della sensibilità, come le parestesie, disturbi del sonno, agitazione, ansietà, nausea, tremori, confusione, sudorazione, cefalea, diarrea, palpitazioni, instabilità emotiva, irritabilità, disturbi della vista.
Anche se utilizziamo il sistema di diminuire le dosi lentamente,
in alcuni pazienti, si continua ad avere questo tipo di sintomatologia.
Il problema del trattamento della depressione, nei bambini, negli
adolescenti, lo abbiamo già citato.
Questa, è un’altra brutta pagina giustificata dal fatto che studi
clinici controllati non sono stati pubblicati, per non destare cattiva
impressione.
Abbiamo parlato delle pubblicazioni selettive, del fatto che i farmaci di confronto spesso sono inadeguati, della minimizzazione degli
effetti avversi e, finalmente, dobbiamo dire due parole sul conflitto
di interessi.
Sempre di più è presente il conflitto di interessi fra chi esegue gli
studi e chi li promuove.
C’è molta Letteratura, ormai pubblicata, che attesta come le conclusioni di studi clinici randomizzzati siano molto più favorevoli se
gli Autori hanno conflitti di interessi.
I risultati degli studi sono diversi se ci sono rapporti finanziari
con le industrie, rispetto alla condizione in cui gli Autori siano indipendenti.
512
s. garattini - l. flor
Questo vi dà un’idea, sempre per gli studi sugli antidepressivi, di
alcuni risultati.
Gli studi relativi a questo argomento sono stati attribuiti in un
primo tempo al National Institute of Mental Health.
La F.D.A. ha puntualizzato che, in realtà, gli sponsor erano industrie farmaceutiche diverse.
In uno Studio di Emslie ed altri del 1997, l’F.D.A. ha dimostrato
che era sponsorizzato dalla Eli Lilly.
In uno Studio di Keller ed altri del 2001, due Autori sono impiegati della Glaxo.
In un altro Studio del 2002 di Emslie ed altri, tutti gli Autori erano impiegati della Eli Lilly. Infine, in uno Studio di Wagner ed altri
del 2003, tutti gli Autori erano retribuiti dalla Pfizer.
È implicita la dipendenza di giudizio in questo tipo di studi.
Il fatto che sia largamente diffuso questo conflitto d’interessi, è
ripreso anche in un editoriale comparso recentemente sul New England Journal of Medicine.
L’editore si scusa con noi lettori, per non poter pubblicare molti
articoli relativi ai farmaci, perché nel corso di due anni, ha trovato
soltanto una persona che fosse senza conflitto d’interessi.
Molti dei lavori non sono scritti dagli Autori, ma da quelli che si
chiamano ‘‘ghost writers’’, cioè da scrittori fantasmi, i quali scrivono
il lavoro per conto dell’industria.
Tredici fra le riviste più prestigiose, il New England Journal of
Medicine, The Lancet, BMJ, Blood, eccetera, hanno messo come regola per pubblicare uno studio clinico controllato, che gli Autori
certifichino di sapere quale sia il contenuto del lavoro e di come siano stati fatti i calcoli.
Questo è estremamente preoccupante perché chiedere agli
Autori di dichiarare che conoscono quale sia il contenuto, è perlomeno disdicevole.
Infine, il succo di tutto quello che vi ho detto, ci porta ad una
conclusione che ho cercato di ripetere più volte, ma che è il messaggio fondamentale che vorrei rimanesse.
Negli studi clinici controllati, che devono essere la massima
espressione della Medicina basata sull’evidenza, non dimentichiamoci che ci sono molti bias, cioè ci sono molti errori, molti punti oscuri.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
513
La tendenza che, abbiamo inevitabilmente tutti, è di sovrastimare l’effetto di un farmaco.
Quindi, se siamo critici, se crediamo poco a quello che leggiamo,
se pensiamo che dietro a quello che c’è scritto, c’è qualcosa che non
è mai stato appurato, non siamo molto lontani dalla verità.
Grazie’’.
L. Flor: ‘‘Nel nostro lavoro la critica ed il dubbio sono sovrani. Avevamo aperto chiedendo al professor Silvio Garattini di illustrarci il
suo punto di vista rispetto i vantaggi ed i limiti della sperimentazione
clinica.
Credo abbia dato ampia dimostrazione e documentazione di
quanto la ricerca e gli studi che lui, con il suo gruppo ed altri ricercatori italiani, stanno portando avanti.
Il loro lavoro mette a disposizione informazioni estremamente
utili per chi si impegna a fare ricerca e sperimentazione. Ci ha dato
una dimostrazione, nella prima parte del suo intervento, dei vantaggi
della sperimentazione clinica.
Conoscere la metodologia della ricerca e la metodologia della
sperimentazione clinica, è indispensabile nell’ottica di un lavoro
che vada nell’interesse del paziente.
A questo proposito, ricordo che la Dichiarazione di Helsinki, citata dal professor Garattini, recita come l’obiettivo primario della ricerca medica che si svolge su soggetti umani, sia quello di migliorare
le procedure terapeutiche, diagnostiche e profilattiche.
È del tutto pertinente che ci sia coerenza tra ricerca scientifica,
sperimentazione clinica e metodologia della ricerca.
Grazie, professore.
Se ci sono delle domande, il professore è ben lieto di poter dare
spiegazioni’’.
M. Grezzana: ‘‘I suoi interventi sono sempre estremamente interessanti e sono humus per il semenzaio del dubbio. Vorrei porle due
domande. Lo Studio Allhat, quello sui farmaci antipertensivi, ci è
sembrato molto saggio quando è stato pubblicato.
Ci è parso che dicesse tutte cose giuste che sono quelle che lei ci
ha ricordato questa sera. Poi, molto rapidamente, le società scienti-
514
s. garattini - l. flor
fiche, soprattutto europee, in particolare la Società Europea di Ipertensione, si sono affrettate a darci altre spiegazioni.
Ci hanno detto che, sicuramente, gli Americani sono diversi da
noi. Gli Americani guardano i costi. Per noi il costo è meno importante. Per loro è prioritario il risparmio, non il beneficio del paziente.
Per esempio, ci hanno detto che lo Studio Allhat aveva dei grossi
limiti.
Non veniva sottolineato che i pazienti in terapia con il diuretico,
potevano andare incontro a diabete mellito.
È stato ribadito che lo Studio Allhat era troppo breve. Si è detto
che non è stata considerata la peculiarità di altri farmaci, capaci di
modificare il rimodellamento del ventricolo di sinistra.
Anche queste, sono parse tutte osservazioni sagge.
A questo punto, è difficile capire a che cosa noi dobbiamo prestare più attenzione.
La seconda domanda è un mio vecchissimo dubbio. Lei ci ha
parlato degli studi clinici controllati e delle varie fasi che i farmaci
devono superare per poter entrare in commercio.
Continuo a non capire, come abbiano potuto superare tutte
quelle fasi, dei farmaci che fanno parte della Farmacopea ufficiale
e che sono palesemente inutili.
Sulla inutilità di questi farmaci, lei insiste da moltissimi anni.
Grazie’’.
S. Garattini: ‘‘Raccogliamo magari un po’ di domande, cosı̀ non parlo sempre io, poi rispondo’’.
G. Zavateri: ‘‘Innanzitutto, grazie per la sua presenza qui a Verona.
È una presenza che si ripete e questo tradisce stima ed affetto per
questa Scuola e per tutti noi.
I suoi suggerimenti ci aiutano nei dubbi quotidiani. La sua relazione ci fa pensare che, spesso, vengono sottovalutate, da noi medici,
le controindicazioni di tanti farmaci.
Il medico, nella pratica clinica, impara a riconoscere gli effetti avversi dei farmaci.
È un problema particolarmente sentito da chi si interessi di pazienti in età avanzata.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
515
I geriatri si trovano di fronte a degli studi che non contemplano
gli anziani.
Sappiamo quanto gli anziani possano presentare delle situazioni
di polifarmacoterapia.
Questa problematica non viene considerata nei lavori offerti dalla Letteratura.
Sappiamo come gli anziani, presentino una farmaco-cinetica, una
farmaco-dinamica, diversa da soggetto a soggetto.
Faccio un solo esempio.
In un paziente in terapia anticoagulante, un evento acuto come
lo scompenso di cuore, può modificare i valori dell’INR (International Normalized Ration).
Le individualità sono talmente tante e cosı̀ diverse, che ci si deve
render conto che ciascun paziente è un caso a sé.
Ecco, questo mi premeva sottolineare e volevo sentire il suo parere in merito.
Grazie, per la sua presenza’’.
E. Valvo: ‘‘Professor Garattini, volevo agganciarmi a quello che ha
detto Matteo Grezzana riguardo lo Studio Allhat.
Innanzitutto, non è vero che sia uno studio esclusivamente governativo. Lei sa, che ci sono stati dei contributi di diverse aziende
produttrici di farmaci. Poi, ci sono state delle grosse incongruenze.
Per esempio, relativamente al ramo della doxazosina, che è stato
concluso prematuramente, gran parte dei pazienti erano stati mal
diagnosticati. Non erano degli ipertesi, ma erano degli scompensati
cardiaci.
Il medico di famiglia che collaborava nello studio, aveva formulato la diagnosi supportato dalla clinica e da un elettrocardiogramma. Questi pazienti che, ripeto, non erano ipertesi, ma scompensati
cardiaci, sospesa la terapia diuretica, erano decisamente peggiorati.
Inoltre, il 35% dei pazienti di questo studio sono di razza nera. Applicare uno studio del genere in Europa, dove quasi nessun paese ha
una popolazione rappresentativa di neri cosı̀ elevata, mi sembra forse
non corretto.
La razza nera si sa, tra l’altro, che è più sensibile ai diuretici rispetto agli altri farmaci. Poi, non è vero che i valori della pressione
rilevati nei vari rami dello studio, fossero perfettamente sovrapponi-
516
s. garattini - l. flor
bili. Erano più bassi in quelli trattati con diuretici. Inoltre, c’era il
rischio di diabete, che era decisamente più elevato nei pazienti trattati con diuretici.
Bisognava, per lo meno, prolungare lo studio. Da qui ne deriva
che il rischio di diabete, che lei ha messo in evidenza in pazienti trattati con farmaci anti-psicotici, può occorrere anche con farmaci antiipertensivi.
Questo va considerato, anche, da un punto di vista economico.
È evidente che tutto eleverebbe la spesa economica a livelli non
prevedibili. E l’economia, non è tutto.
Grazie’’.
A. Zanatta: ‘‘Professore, per quanto riguarda gli studi osservazionali,
fase quarta, ritiene necessario che vengano promossi? Alcune volte
gli effetti collaterali dei farmaci, vengono rilevati dopo anni dalla loro distribuzione in circolo’’.
P. Rizzotti: ‘‘Professor Garattini, io sono un medico di Laboratorio.
Volevo fare prima un commento di ordine generale, poi una domanda.
Il grande movimento dell’Evidence Based Medicine, ha portato
miglioramenti indiscussi.
Qualche anno fa, è stata sollevata la questione dei tests inutili.
Lei è stato uno dei grandi propositori della C.U.D (Commissione
Unica Dispositivi medici). Il contesto della Medicina di Laboratorio,
ha prodotto due documenti sulla sequenza delle validazioni di un
test, che oggi sono patrimonio della professione. Alcune grandi riviste internazionali, seguono queste indicazioni. Da questo punto di
vista, c’è stato un miglioramento nella validazione dei tests di laboratorio, documentato in Letteratura scientifica.
Io credo che vada data forza anche a qualche elemento di positività, come questo.
La domanda è quella sul conflitto di interessi.
In questo momento se ne discute molto in Italia, nell’ambito della formazione continua.
A me è piaciuta molto la posizione che Pier Mannuccio Mannucci ha preso. Voi sapete che, oggi, per poter insegnare in un Corso
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
517
come questo, bisogna dimostrare di non aver alcun conflitto di interessi.
Bisogna dichiarare di non averlo. A volte, sarebbe molto più giusto dichiarare di averlo, nel senso di riconoscere se si è avuto in qualche modo relazione con un’industria bio-medica.
Non sempre questo è necessariamente negativo, ma se si è partecipato a studi in cui ciò sia avvenuto, l’importante è che venga
esplicitato.
Volevo conoscere la sua opinione’’.
S. Garattini: ‘‘Grazie per le domande, perché molto spesso nell’ambito di una presentazione generale di questo tipo, è difficile entrare
nei particolari. Si rischia anche di essere mal compresi. Grazie per la
possibilità di cercare di spiegare. Ci sono più domande che riguardano questo Studio Allhat, sul confronto dei farmaci antipertensivi. Bisogna capire quale sia il significato.
Ci sono stati degli sponsors che hanno messo a disposizione il
farmaco. Ciò non invalida il fatto che lo studio sia indipendente.
La indipendenza dello studio, non si deduce da chi paga, ma da
chi amministra i risultati, da chi ha il possesso dei risultati. Un conto
è se il possesso dei risultati sia delle industrie, altro è se sia dell’Ente
che promuove lo studio.
Questo è un particolare molto importante che dovrebbe sempre
essere appurato dai Comitati Etici.
Quindi è uno studio, direi, per definizione indipendente, malgrado abbia avuto contributi da parte delle industrie farmaceutiche, che
erano interessate. Le obiezioni si possono fare a qualsiasi studio clinico controllato. Non ci sono studi che sfuggano alle critiche. Il problema è anche quello di vedere quale sia la credibilità degli obiettori.
Per esempio, che le società scientifiche europee abbiano sollevato dei dubbi, è poco pertinente perché non hanno espresso giudizi
su tutti gli studi precedenti che pure erano oggetto possibile di puntualizzazioni.
Quindi, questo già è un problema. La Società Europea dell’Ipertensione ha sostenuto, presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ciò che conta è abbassare la pressione.
Questo non perché sia opinabile. Non è un’affermazione basata
518
s. garattini - l. flor
su dati oggettivi. È solo un punto di vista. Si dovrebbero considerare
anche gli effetti collaterali, nella scelta di un farmaco.
Non sono problemi accademici, piuttosto sono problemi che
hanno grandi riflessi di tipo economico.
Parliamo di migliaia di miliardi contro poche decine di miliardi a
seconda della strategia scelta.
Abbiamo a che fare con qualcosa che desta grandi interessi economici.
Ritengo che le obiezioni siano accettabili.
È vero che c’è una maggior tendenza al diabete se si impiegano
dei diuretici, però, dipende dall’età dei pazienti cui questi farmaci
vengono somministrati.
In ogni caso, non vedo perché si obietti all’impiego del diuretico,
quando è dato da solo e non si obietti al fatto che, per lo più, i pazienti ricevono un ace-inibitore insieme con un diuretico, in combinazione. Non capisco perché in un caso faccia male e nell’altro caso,
invece, vada bene.
Però quale è, secondo me, il punto di riferimento dello studio
Allhat?
Questo è uno studio che possiamo definire naturalistico, cioè è
uno studio che rispecchia la situazione con cui viene trattata la maggior parte dei pazienti.
Nella stragrande maggioranza dei pazienti, ci si comporta in un
modo schematico. Dinnanzi all’ipertensione, non si vanno a fare tantissimi ragionamenti prima di scegliere il farmaco.
Si sceglie uno dei farmaci a disposizione. Questo è quello che si è
cercato di realizzare nell’ambito di questo studio, che ha un valore
proprio, perché è la riproduzione della realtà.
Personalmente, ho mostrato i dati pubblicati dallo studio. Non
sono convinto che un farmaco sia meglio di un altro.
Il fatto stesso di non poter dire che il clortalidone sia peggio degli altri farmaci, è un’affermazione di grande importanza per la pratica clinica.
Permette, fra l’altro, di impiegare dei farmaci che sono conosciuti da tantissimo tempo, che tutti sanno più o meno come agiscono,
perché noti. Poi, hanno anche il grande vantaggio di permettere
dei risparmi, perché spendiamo migliaia di miliardi per farmaci
che non danno grandi vantaggi. La spesa va a scapito di tante altre
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
519
cose che si potrebbero fare con gli stessi soldi. Purtroppo, si spende
in direzione sbagliata o, comunque, non nel modo più opportuno.
Lo Studio Allhat può essere criticato come tutti gli studi.
Vorrei una critica puntuale anche sugli studi che dicono che gli
ace-inibitori e i beta-bloccanti sono meglio dei diuretici.
Vorrei vedere dove siano questi studi e quanti siano, con che criterio siano stati fatti e quali obiezioni possano essere sollevate.
Da questi studi, dobbiamo trarre la conclusione, che nel limite di
tempo preso in esame, non emergono differenze fra i farmaci considerati.
È molto strano, comunque, che si critichi il fatto che siano stati
impiegati soltanto cinque anni circa, per questo studio.
Ma quanti sono gli altri studi che hanno impiegato più di cinque
anni quando si è promosso l’ace-inibitore, il calcio-antagonista o
qualsiasi altro prodotto? Dove sono questi studi?
Sarebbe bene vederli per avere un’idea di che cosa dicano di preciso.
In realtà non esistono. Quindi, la critica è molto parziale e, purtroppo, è indicativa di una sudditanza ad interessi industriali piuttosto che ad altri tipi di interessi che dovrebbero, invece, essere sempre presenti.
È vero che se prendiamo i farmaci che ci sono in circolazione, lo
abbiamo detto tante volte, potremmo toglierne il 50%.
Probabilmente la salute migliorebbe perché c’è una pletora di
farmaci, che non ha alcun significato.
Basti pensare a tutti i ricostituenti, agli epato-protettori, alla
maggioranza dei vasodilatatori, ai farmaci per la memoria, agli immunomodulatori, agli integratori alimentari.
Inoltre, ci sono farmaci che hanno i nomi più complicati: anti-ossidanti, anti-radicali liberi eccetera.
C’è un grande gruppo di farmaci che non ha alcun significato.
Il fatto è che vi sono le leggi che dipendono, fondamentalmente,
dalle lobbies. Esse non sono favorevoli all’abolizione di questi farmaci, per un motivo molto semplice.
Un farmaco viene tolto dal commercio solo se dà gravi effetti tossici, mentre, non si permette di toglierlo se è inattivo.
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s. garattini - l. flor
Proprio perché inattivo, non avrà mai un effetto tossico e, pertanto, non potrà essere eliminato.
Noi, per esempio, a livello dell’EMEA (European Medicine Evaluation Agency) che è l’Organismo Europeo, abbiamo toccato con
mano questa difficoltà. È accaduto, per esempio, quando abbiamo
cercato di togliere dal mercato i farmaci contro l’obesità.
Cercavamo, appunto, di eliminare dal mercato, come farmaci
inattivi, tutti gli anoressici di tipo anfetaminico.
Siamo stati denunciati alla Corte di Giustizia Europea, perché è
impossibile dimostrarne l’effetto negativo.
Ci può essere sempre qualcuno che dice: ‘‘Io ho avuto beneficio, quindi, per me, la cosa va bene’’. Infatti, nel nostro Paese,
non siamo riusciti nemmeno a togliere l’utilizzazione della terapia
Di Bella. Questo a significare, quanto sia difficile cambiare la situazione.
Personalmente, ritengo che abbiano grande responsabilità le società scientifiche, le quali non fanno il loro mestiere come dovrebbero, proprio per rimuovere farmaci inutili dal mercato.
Anzi, in generale, tendono a mantenerli per quanto sia possibile.
Riguardo gli anziani, è un problema importantissimo.
Non ho avuto modo di parlarne, altrimenti, avrei dovuto fare un
seminario solo su quell’argomento.
In altre occasioni, ho messo in evidenza come nella maggior parte degli studi clinici controllati, si escludano i pazienti al di sopra dei
70 anni.
La maggior parte degli studi fatti con vari farmaci, non contempla informazioni positive né per gli anziani, né per i bambini.
L’impiego di molti farmaci, negli anziani e nei bambini, deve essere considerato off-label, cioè al di fuori delle indicazioni approvate.
Mancano studi specifici che ci dicano se questo farmaco, effettivamente, sia attivo in soggetti che hanno più di 70 anni o sia attivo
nei bambini. Il caso che ho mostrato della paroxetina, è un caso molto emblematico, da questo punto di vista.
Certamente, anziani e bambini hanno caratteristiche organiche e
metaboliche diverse, da quelle degli adulti.
È molto importante, pertanto, avere degli studi che siano mirati.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
521
Cosa che non si fa perché, per gli anziani come per i bambini, è relativamente difficile.
È molto più comodo estrapolare gli studi da quelli che riguardano gli adulti, piuttosto che farli espressamente per questi gruppi di
persone.
Degli studi osservazionali, non ne abbiamo parlato perché non è
il tema di quest’oggi. Gli studi osservazionali sono, naturalmente,
importanti. Devono sempre essere fatti come conseguenza di studi
di fase 3 sufficientemente ampi e sufficientemente validi.
Per definizione, gli studi osservazionali non permettono di stabilire l’efficacia perché manca un termine di confronto. Permettono,
invece, di evidenziare eventuali effetti tossici rari che si verificano
in percentuali molto basse.
L’approvazione di un farmaco, giunge dopo aver trattato con
studi pre-clinici, soltanto qualche migliaio di pazienti.
Per questo gli studi osservazionali, quando sono condotti in modo corretto, sono molto importanti. C’è da augurarsi che vengano
moltiplicati. Dovrebbero essere reali studi osservazionali e non degli
studi soltanto per far prescrivere il proprio farmaco e per raccogliere
dati che, poi, è difficile mettere insieme con gli altri.
Il collega di Laboratorio, mi ha un po’ rimproverato per la mia
posizione sulla Diagnostica. Malgrado tutto, sono convinto che anche la diagnostica abbia bisogno di un aggiustamento, in un certo
senso, perché non tutto quello che si fa in Diagnostica, in realtà,
ha un suo valore.
Si fa molta diagnostica inutile e questo non è colpa di quelli che
stanno in Laboratorio.
Si fa molta Diagnostica senza seguire precisi criteri che dovrebbero stare alla base di tutti gli esami clinici.
La C.U.D. non è nata non per la diagnostica, ma per i dispositivi
medici.
È un procedimento utile. Quando si sceglie un dispositivo medico si dovrebbe contare su studi clinici controllati. La scelta di un pace-maker di un tipo, piuttosto che di un altro tipo, dovrebbe essere
giustificabile.
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Ci sono differenze di decine di milioni di lire dal punto di vista
del costo fra un pace-maker e l’altro.
Ci sono tanti altri dispositivi medici che vengono utilizzati, senza
reali prove di efficacia.
Per quanto riguarda, invece, il problema del conflitto di interessi, diciamo che questa è la regola generale.
Quello che è necessario, è dichiarare se esiste il conflitto di interessi.
Devono esser chiari i rapporti fra medici ed industria, rispetto al
tema trattato.
Questo lo si fa un po’ in tutto il mondo ed è giusto che lo si faccia anche in Italia.
Naturalmente, bisogna che non sia un puro esercizio di presentazione.
Se venisse a mancare questa regola, tutti potrebbero parlare e
verrebbe meno quello spirito critico che, invece, è indispensabile
quando si parla di farmaci e non solo.
Perciò esplicitare i conflitti di interesse, è importante.
Chi legge un lavoro, chi ascolta una conferenza, è opportuno che
sappia in partenza come stanno le cose.
Però, poi, bisogna che si sviluppi un sufficiente spirito critico per
dare il giusto valore a ciò che si ascolta. Grazie’’.
L. Flor: ‘‘Grazie professor Garattini, per la chiarezza nelle risposte.
Il Direttore Generale, porta il suo saluto a questa assemblea’’.
V. Alberti: ‘‘Buon giorno a tutti. Il professor Garattini, come sempre, stimola la coscienza critica del medico e fa pensare.
Tra l’altro, tocca un tema che ci sta a cuore, in modo particolare,
in questo momento.
Stiamo per attivare un Centro per le ricerche clinico-farmacologiche, nella nostra Azienda.
Questo Centro per le ricerche, ha l’ambizione di diventare un
Polo Culturale e di ricerca.
Questo, per diversi motivi.
Innanzitutto, per promuovere la ricerca.
È già stato ricordato, come la ricerca costituisca per ogni opera-
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
523
tore sanitario, un livello essenziale di assistenza. Anche per questo,
va considerata prioritaria.
Non si può, oggi, operare nell’ambito della Sanità senza contemporaneamente porsi questo problema.
Si tratta di uno sviluppo culturale, che promuove la qualità dei
servizi.
Altro obiettivo ambizioso di questo Centro, è quello di favorire
l’informazione del personale sanitario. La conoscenza facilita le scelte giuste, cioè quelle basate sulle evidenze scientifiche.
Per ogni professionista si impone un notevole sforzo di aggiornamento.
Molte sono le informazioni che si ricevono e non sempre è facile
discernere fra queste.
Per tutto ciò, è molto importante poter contare su un riferimento
scientificamente robusto.
Un ulteriore end point, che ci aspettiamo da questo Centro per
le Ricerche, è quello di aumentare la nostra capacità critica in merito
agli studi sul farmaco.
La sperimentazione di farmaci stimola inevitabilmente la critica.
È indispensabile, che questo spirito accompagni il lavoro di chi, tutti
i giorni, si adopera per la salute della gente.
È un atteggiamento che dovrebbe guidare chiunque ed, in particolare, chi è impegnato nelle strutture pubbliche.
Ultima osservazione. È molto importante da parte delle Aziende,
sostenere la ricerca, anche quella ‘‘orfana’’.
Mi riferisco a quella ove non ci sia un interesse commerciale.
Quest’ultima, è certamente la più negletta.
L’idea, in sostanza, è che questo Centro possa spingere ad ampio
raggio, la ricerca.
Indipendentemente dal Centro per le ricerche cliniche, credo
che questo sia un problema che le Aziende tutte, debbano porsi.
Si deve sostenere la ricerca anche al di fuori di quelle che sono le
normali procedure delle Sperimentazioni che vediamo all’interno dei
Comitati Etici.
Il tema di questa giornata ci è particolarmente caro.
Spero che potremo collaborare con il professor Garattini per
questa iniziativa.
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Oggi, ringraziando il professor Garattini, devo chiudere ufficialmente il Corso.
Volevo ringraziare il direttore del Corso, dottor Luigi G. Grezzana, ma anche tutto il Comitato Scientifico e chi, comunque, abbia
operato per queste giornate che hanno certamente un bilancio positivo.
Un bilancio positivo che non solo è testimoniato dalla qualità dei
relatori, ma anche dalla elevata partecipazione di persone, che ha
contraddistinto ogni incontro.
Le letture, sono state molteplici ed hanno toccato campi diversi.
È uno strumento vitale per la nostra Azienda, come per tutte le
Aziende, e per i professionisti che vi operano.
La sete di conoscenza ci suggerisce di cercare, tutti i giorni, di
aumentare la nostra capacità formativa ed informativa.
Questo è il nostro impegno per il futuro. Nel nostro lavoro non
si conosce mai abbastanza e tutti i giorni cerchiamo di migliorare.
Ringrazio il dottor Grezzana e tutto il Comitato Scientifico della
Scuola Medica – Corso Superiore di Geriatria. Ringrazio tutti voi’’.
L. G. Grezzana: ‘‘Ho bisogno di dire anch’io due cose. Avevo molto
temuto questa giornata per un motivo molto semplice. Si era formato un imbuto fra due eventi importantissimi che mi avevano impegnato non poco: il Congresso Nazionale della Società Italiana dei
Geriatri Ospedalieri, che si è appena concluso e questa Scuola.
Certamente, non potevano essere evitati né l’uno né l’altra, ma
non c’è dubbio che, ogni mattina, io mi dicevo: ‘‘Beh, anche oggi
va bene. Anche oggi si vive senza farmaci. Si sta abbastanza bene,
speriamo di resistere’’.
Per fare tutto questo, io mi sento in dovere di porgere dei ringraziamenti. Innanzitutto all’Azienda Ospedaliera che sento certamente
amica nel nome del Direttore Generale, del Direttore Sanitario, del
Direttore Amministrativo e di altri. Ringrazio i colleghi primari, soprattutto di Geriatria, Corrado e Gaetano, che mi stanno vicini. Ringrazio i ragazzi, a me molto cari, nel nome di Matteo, Giorgia, Luca,
Racco, Decio, ma soprattutto provo riconoscenza verso il reparto
dove lavoro, per il clima che c’è. Quindi, tutti i medici e gli infermieri della III Geriatria e le segretarie.
la sperimentazione clinica: vantaggi e limiti
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Certamente, se non ci fosse questa armonia non si potrebbe realizzare tanta fatica.
Questo mi sento di sottolinearlo.
Un grazie particolare lo voglio dare anche ad Umberto Tellini
che ha supportato i ragazzi da un punto di vista scientifico in un modo valido. Infine, ringrazio Daniela Stella per quanto si adopera, insieme a me, per portare su carta tutti questi incontri e per ‘‘tradurre’’
in una lingua italiana scritta, una lingua italiana parlata, che certamente non sono la stessa cosa.
Per tutte queste cose io mi sento di ringraziarla pubblicamente.
Penso che non siano sufficientemente colti la fatica e l’impegno necessari nel tradurre ‘‘verba in scripta’’. È un lavoro paziente di sintassi,
di grammatica, di correzione. Si cerca di rimanere fedeli, il più possibile, anche se non di rado, ma è inevitabile, ci si mette del proprio.
Infine, vorrei farvi notare, fra gli sponsor, quanti ‘‘privati’’ ci siano.
Ci sono soltanto alcune case farmaceutiche che certamente ringrazio di
cuore, ma voglio sottolineare che ci sono anche molte realtà private.
Questo a significare della forza con cui vengono seguite queste
nostre attività culturali, anche dal mondo che ci circonda.
Per tutto questo, io ringrazio. Ringrazio ancora il professor Garattini che io sempre invito per la sua coscienza critica, per la sua
straordinaria lucidità e ti garantisco Silvio che non sarà l’ultima volta.
Grazie’’.
TRE ONDE PIÙ IN LÀ
L. G. Grezzana
Mi capita, sovente, di andare in moto sul delta del Po.
Amo particolarmente quel luogo, perché esprime la precarietà,
l’indefinito e la fatica dell’uomo.
Non è più fiume, ma non è ancora mare.
Distese infinite di acqua, paesaggi incontaminati. Silenzi assoluti
o quasi, interrotti solo dal canto e dal volo degli uccelli più svariati e
dal vento fra i canneti.
Soprattutto, però, mi sembra che il delta esprima la fatica della
gente che là vive e che, provata dalle innumerevoli alluvioni, ogni
volta è dovuta ripartire da capo ed inventarsi la vita.
Nel 1600, il governo di Venezia, stanco dei ripetuti pericoli cui
andava incontro la Serenissima, decise di dirottare, per lo meno in
parte, il corso del Po.
Per questo, venne scavato un nuovo alveo lungo ben sette chilometri, largo ottanta metri e profondo, quanto bastava, per accogliere
l’enorme massa d’acqua deviata.
Il nuovo canale iniziava da Porto Viro. Per l’argine di destra,
partiva dalla località, oggi denominata Ca’ Zen. Per l’argine di sinistra, dalla contrada indicata col nome di Volta Grimana. L’opera ciclopica proseguiva sino a Ca’ Cappellino, sviluppandosi per 7 chilometri. Defluiva nella Sacca di Goro e, quindi, verso Ferrara e Ravenna.
Poco importava, se quelle città si fossero trovate di fronte a problemi di esondazione.
Malgrado sia ovvio, è bene ricordare che nel 1600, i lavori si rea-
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l. g. grezzana
lizzavano solo con la fatica ed il sudore. Allora, non esistevano né le
macchine né la tecnologia. Solo braccia, vanga e piccone.
L’opera durò meno di sei anni. Cosı̀, nacque Taglio di Porto
Viro.
La deviazione di parte delle acque, non solo risultò quanto mai
utile a Venezia, ma consentı̀ anche il recupero di terre sino allora
sommerse.
I Veneziani, per definire il confine dei nuovi appezzamenti, trovarono una certa difficoltà nel valutare il limite della terra verso il
mare.
Le ‘‘giovani’’ terre erano venute alla luce, in seguito alla deviazione del Po e grazie all’accumulo dei numerosi detriti trascinati dal fiume lutulento e regale.
L’uomo, poi, ha fatto la sua parte nella bonifica, nel recupero e
nella coltivazione delle campagne emerse.
Alla fine, stabilirono che fosse cosa giusta identificare nelle ‘‘tre
onde più in là’’, un confine equo.
Il mare era di tutti e non poteva essere confuso con la proprietà
privata di quei terreni.
È evidente che questa definizione, da una parte opinabile e soggettiva, dall’altra, esprima opportunamente la filosofia di quei luoghi
e di quella gente.
Da sempre, è abituata a vivere senza confini in una geografia instabile e mutevole.
La Geriatria è uguale.
In quei luoghi e nel nostro lavoro, tutto è precario.
La specificità del geriatra, non è scontata.
La realtà che noi viviamo a Verona, é singolare. Mi sento di riconoscerlo e di ringraziare i numerosi colleghi per la fiducia che ripongono nel nostro operare.
In questa Azienda, non ci sentiamo ‘‘in più’’.
È un lavoro difficile, che si impara giorno per giorno. I vecchi si
conoscono visitandoli e non ‘‘leggendoli’’ sui libri.
Certamente, la Geriatria non è una scienza che si improvvisi.
Le cure di cui è capace il geriatra, non sono uguali a quelle di un
altro specialista.
Nella nostra Azienda l’indispensabilità di questa branca della
tre onde più in là
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Medicina, è riconosciuta ed è patrimonio che, in tutti i modi, si cerca
di tutelare.
Altrove non è cosı̀.
È vero che è una scienza giovane. In fondo, siamo dei pionieri e
dobbiamo diffondere questa cultura.
Non è semplice. I tempi sono difficili. Una Geriatria che nasca
povera e senza risorse, non si potrà mai esprimere al meglio. Rischia
di rimanere una scienza ancilla, con gravi ripercussioni sugli ammalati.
Piuttosto che poco e male, é meglio niente.
Il geriatra, mi sembra quanto mai attento alle ombre ed alle incertezze dell’uomo.
La cura degli anziani impone che ogni istante ci s’inventi una
strategia nuova, un approccio diverso.
Il geriatra imparando la fugacità e l’indefinito, ogni giorno cerca
di spostare ‘‘tre onde più in là’’, la vita dei suoi pazienti.
In pochi anni, la Geriatria ha fatto molto ed ha spostato sempre
più in là la vita media degli anziani.
E non ha ancora finito, anzi probabilmente, non finirà mai.
È una scienza tipicamente comunitaria, come comunitaria è stata
l’opera di recupero delle terre del delta.
Di certo, campagne enormi, sono state rubate al mare.
La Geriatria, grazie alla Medicina e non solo, ha fatto lo stesso.
In breve, ha quasi raddoppiato il tempo della vita.
Come, però, da quelle terre ogni anno vedono la luce frutti e colture preziose, cosı̀ i nostri anziani imparano a trarre dagli anni donati, opportunità e ricchezze sino a ieri impensabili e mai colte.
Ci sono, in Medicina, due tipi di ricerca.
C’è la ricerca ‘‘ricca’’ e certamente utile, delle case farmaceutiche, ma c’è anche la ricerca ‘‘povera’’.
È quella che individua soluzioni e percorsi sempre diversi, da paziente a paziente.
E non è meno importante.
È una ricerca che il geriatra rincorre tutti i giorni, per prolungare
la vita dei suoi ammalati.
Si impara a non trovare mai il limite, il confine, per i propri vecchi.
Esattamente come ha fatto Venezia.
NOTA BIOGRAFICA
Luigi G. Grezzana
Nato a Verona il 22 marzo 1942, si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Padova nel 1966.
È specialista in Gerontologia e Geriatria, Cardiologia e Dietologia.
È direttore da molti anni della Scuola Medica Ospedaliera – Corso
Superiore di Geriatria dell’Azienda Ospedaliera di Verona.
Redige la rivista scientifica ‘‘Il Fracastoro’’ degli Istituti Ospitalieri di
Verona.
Ha scritto, oltre a numerosi articoli scientifici, due libri: ‘‘Tramite insieme’’ nel 1992 ed Andare pensando’’ nel 2001.
Da 22 anni tiene frequentatissime lezioni all’Università della Terza
Età di Verona.
È stato primario geriatra dal 1989 al 1992 all’Ospedale di Este Montagnana (Padova).
Successivamente, per circa un anno, è stato primario geriatra all’Ospedale di Marzana-Verona e dal 1994 ricopre il ruolo di primario
geriatra nella III Divisione di Geriatria dell’Azienda Ospedaliera
di Verona.
Nel 2006 è stato nominato Presidente Nazionale della Società Italiana Geriatri Ospedalieri.
STAMPATO NEL MESE DI MARZO 2006
DALLE GRAFICHE FIORINI - VERONA
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