Le politiche sociali in Italia nello scenario europeo
Ancona, 6-8 Novembre 2008
DA ASSISTITI A RISORSE: I RIFUGIATI OLTRE LA MISERIA
Maria Ortensia Ferrara, Danilo Montefiori
Paper presentato alla prima conferenza annuale ESPAnet Italia 2008
Sessione: nr. 6 “Oltre la miseria urbana: nuovi spazi di azione per innovazione e politiche
sociali integrate”
(*) Dipartimento di Scienze Sociali
Via ABC, 23
00187 Roma
[email protected]
Con questo progetto, l’intenzione è stata mettere in luce il passo compiuto dalle istituzioni italiane
e dalla stessa società nei confronti di una particolare categoria di soggetti: i rifugiati. Spesso
confusi con altre tipologie dalle caratteristiche simili (clandestini, immigrati, sfollati) i rifugiati
hanno in comune con gli altri l’abbandono del proprio luogo di origine. Per il resto, il rifugiato è
costretto a fuggire dal proprio paese a causa di una guerra o perché vittima di persecuzione; sono
dunque persone che non hanno scelta: gente che prima di essere travolta da eventi drammatici
aveva una famiglia, una casa, un lavoro; professionisti, contadini, insegnanti, operai, che fuggendo
dal proprio paese hanno perso tutto e sono diventati rifugiati. Si tratta quindi di persone che, se
aiutate a integrarsi, possono apportare un notevole contributo sociale e culturale al paese d’asilo.
Oggi, tra l’altro la nozione di rifugiato, così come è stata ipotizzata dalla Convenzione di Ginevra
del 1951, appare decisamente stretta, tanto che in Italia si è ricorso a “permessi temporanei” per
venire incontro alle esigenze della fuga, ad esempio, di molti curdi e di altre popolazioni,
specialmente dalla ex Jugoslavia. Si tratta quindi di presenze che hanno inciso e incidono sul
tessuto sociale, inducendo trasformazioni che investono vari settori, dal mercato del lavoro alle
tematiche educative, dal campo religioso (si sono affacciati in Europa in genere e anche in Italia
immigrati cristiani, ma anche di fede islamica; si hanno molteplici forme di induismo e di
buddhismo, religioni tradizionali africane, altre religioni e credenze) a quello della vita quotidiana.
Inoltre, viene evidenziato il ruolo svolto dal CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati) che offre
assistenza a chi è costretto a fuggire dal proprio paese, attraverso attività di assistenza diretta alle
persone, ma anche attraverso azioni di sensibilizzazione e informazione tese a promuovere tra gli
italiani una migliore comprensione della condizione del rifugiato, dando vita ad iniziative sociali e
culturali a favore degli esuli giunti nel nostro paese.
Per concludere, viene elaborata un’analisi sulle soluzioni e le politiche di inserimento attuate dalle
amministrazioni pubbliche per l’inserimento nel mondo del lavoro dei rifugiati.
Si prende in esame, nello specifico, il progetto del 2006 attuato dal CIR con il contributo della
Compagnia di San Paolo: il progetto DAAR, cioè “Da Assistiti a Risorse: un modello di approccio al
lavoro sociale con i rifugiati”, che nel corso di due anni ha favorito l’inserimento di 90 rifugiati in
strutture italiane diverse che hanno aderito all’iniziativa, come il gruppo Sma, Adecco e Ipercoop
Tirreno.
È necessario accennare brevemente, in primo luogo, alla nozione di rifugiato, così come viene
inteso secondo la Convenzione di Ginevra del 1951. Il rifugiato è « colui che, (...) temendo a
ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un
determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è
cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo
Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza
abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra. » 1
Il rifugiato è una persona in pericolo, costretta a fuggire dal proprio Paese per un fondato timore
di persecuzione a causa della sua razza, religione, nazionalità, per il gruppo sociale al quale
appartiene, per le sue opinioni politiche.
1
Convenzione sullo status dei rifugiati, Ginevra, 28 luglio 1951
Il rifugiato non sceglie di spostarsi alla ricerca di migliori opportunità di vita, ma è costretto ad
abbandonare la sua casa e a trovare protezione fuori dal proprio Paese. La maggior parte dei diritti
chiave per la protezione dei rifugiati sono anche diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo del 1948:
-il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale
-il diritto a cercare e godere asilo
-la libertà dalla tortura o da forme di trattamento e punizione crudeli, disumane o
degradanti
-la libertà dalla schiavitù e dalla servitù
-il riconoscimento come persona di fronte alla legge
-la libertà di pensiero, coscienza e religione
-la libertà dall’arresto e dalla detenzione arbitrari
-la libertà da ogni interferenza arbitraria nella vita privata, nella casa, nella famiglia
-la libertà di opinione ed espressione
-il diritto all’istruzione
-il diritto a partecipare alla vita culturale di una comunità
Secondo la Costituzione italiana, invece, “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel
territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.”2
“Può fare domanda d’asilo in Italia, e ricevere su “raccomandazione” della Commissione Centrale
un permesso si soggiorno per motivi umanitari, chi fugge da situazioni di guerra, di violenza
generalizzata, di violazione dei diritti umani e chi rischia di essere sottoposto a tortura o a
trattamenti disumani o degradanti.”3
I rifugiati presenti in Italia appartengono a 40 nazionalità diverse e provengono per la maggior
parte dai Balcani (albanesi, kosovari), dal Medio Oriente (curdi provenienti da Iraq e Turchia) e dal
Corno
d’Africa.
4
Rispetto ai 17.093.361 rifugiati nel mondo , di cui 5.368.405 in Europa, l’Italia ospita 12.440
rifugiati.
In meno di vent’anni la situazione dell'asilo in Italia è cambiata drasticamente, riflettendo nuove
crisi, nuove realtà e nuovi rapporti internazionali e giuridici. Nel 1990, con la legge Martelli (l. n.
39/90), l'Italia ha abolito la riserva geografica alla Convenzione di Ginevra del 1951 - che limitava il
riconoscimento dello status ai rifugiati provenienti dall'Europa - e si è dotata di una legge che ha
regolato
in
parte
la
materia
d'asilo.
2
Art.10 Costituzione della Repubblica Italiana 1948
3
Art. 5 comma 6 T.U. 286/98
4
Fonte UNHCR, anno 2003
Nel 1998 la legge Martelli è stata poi sostituita dalla legge Turco-Napolitano sull'immigrazione (d.
lgs. n. 286/98), che comunque non ha apportato modifiche sostanziali in materia d'asilo. Nel mese
di settembre del 2002 è entrata in vigore la legge Bossi-Fini n.189 del 30 luglio 2002, di modifica
alla normativa in materia di immigrazione e di asilo. Le legge Bossi-Fini è stata pienamente attuata
solo nell’aprile del 2005, a seguito del Regolamento attuativo del dicembre 2004 (D.P.R.
303/2004). La legge 189/2002 ha influito notevolmente sulla materia dell'asilo, in particolare
attraverso l’introduzione del trattenimento facoltativo e obbligatorio per i richiedenti asilo e di una
procedura d’asilo semplificata che affianca la procedura ordinaria e l’istituzione di 7 Commissioni
Territoriali - incaricate di determinare lo status di rifugiato - e di una Commissione Nazionale. Con
la legge 189/2002, le Commissioni Territoriali hanno il compito di determinare lo status di rifugiato,
mentre la Commissione centrale - che la ‘legge Martelli’ del 1990 aveva designato come titolare di
tale compito - è ora diventata Commissione nazionale per il diritto d’asilo, con la funzione di
indirizzare e coordinare le neo-istituite Commissioni territoriali. Le Commissioni Territoriali hanno
sede a Milano, Gorizia, Roma, Foggia, Crotone, Siracusa e Trapani, Torino, Caserta e Bari.
Nel 2005, l’Italia ha anche recepito la Direttiva comunitaria 2003/9 recante norme minime relative
all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. Il decreto legislativo di attuazione della
direttiva – d.lgs. 140/2005 - ha lo scopo di stabilire le norme sull'accoglienza degli stranieri
richiedenti il riconoscimento dello status di rifugiato nel territorio nazionale, in linea con gli
standard europei e con il diritto internazionale dei rifugiati, in particolare la Convenzione di Ginevra
del
1951
sui
rifugiati.
Il 9 novembre 2007, invece, il governo italiano ha emanato i decreti legislativi di recepimento della
direttiva comunitaria 2004/83 recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o
apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale
(c.d. ‘direttiva qualifiche’), nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta e
della direttiva comunitaria 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati
membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (c.d. ‘direttiva procedure’).
I due decreti modificano in maniera sostanziale le normative sull’asilo, abolendo, ad esempio, il
trattenimento dei richiedenti asilo ed introducendo l’effetto sospensivo del ricorso contro il diniego
della domanda d’asilo e la possibilità, anche per coloro cui è stata concessa una protezione
umanitaria, di ottenere il ricongiungimento familiare.
Secondo la procedura amministrativa, lo straniero che vuole presentare domanda di asilo deve
farlo alla polizia di frontiera al momento dell’ingresso o successivamente presso gli uffici della
Questura dove ha il domicilio, entro otto giorni dal suo ingresso in Italia.
La Questura dopo aver verificato l’assenza di clausole negative, raccoglie le generalità del
richiedente.
Non è consentito l’ingresso nel territorio dello Stato quando, da riscontri da parte della polizia di
frontiera, risulti che il richiedente è già stato riconosciuto rifugiato in altro Stato, proviene da uno
Stato, diverso da quello di appartenenza, che abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, nel quale
abbia trascorso un periodo di soggiorno, non considerando tale il tempo necessario per il transito
dal fino alla frontiera italiana; sia stato condannato in Italia per uno dei delitti previsti dall’articolo
380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale o risulti appartenente ad associazioni di tipo
mafioso o dedite al traffico degli stupefacenti o ad organizzazioni terroristiche.
Si distinguono, a questo punto, due tipi di procedure sull’ottenimento dello status: la procedura
ordinaria e quella semplificata.
La prima viene applicata ai casi in cui i richiedenti si trattengono in maniera facoltativa e agli
stranieri regolarmente presenti sul territorio. La procedura semplificata viene invece applicata
esclusivamente agli stranieri sottoposti a fermo obbligatorio e quindi se la domanda è presentata
da uno straniero in posizione irregolare il trattenimento avviene nel CID (centro di identificazione);
entro due giorni dal ricevimento dell’istanza il questore trasmette la documentazione necessaria
alla Commissione territoriale, che entro 15 giorni dalla ricezione della documentazione provvede
all’audizione. Se la domanda è presentata da uno straniero già condannato all’espulsione, il blocco
avviene nel CPA(centri prima accoglienza) per un periodo massimo di 30 giorni prorogabile per
ulteriori 30 a seguito di richiesta del Questore al tribunale. Entro 2 giorni dal ricevimento
dell’istanza il questore trasmette la documentazione necessaria alla Commissione territoriale, che
entro 15 giorni dalla ricezione della documentazione deve provvedere all’audizione. La decisione è
adottata entro i successivi 3 giorni.
Allo scadere del periodo previsto per la procedura semplificata, anche se la stessa non si è ancora
conclusa con decisione della Commissione territoriale, il richiedente asilo ha diritto ad ottenere un
permesso di soggiorno temporaneo valido per 3 mesi e rinnovabile fino alla definizione della
procedura.
I richiedenti asilo, in accordo con il d.lgs 140/2005, hanno il diritto di accedere a corsi di
formazione professionale, specificatamente organizzati dall’ente locale, subito dopo la loro richiesta
d’asilo. Dopo sei mesi da questa richiesta lo stesso decreto istituisce il diritto a lavorare anche
durante la procedura d’asilo: di conseguenza a partire dal sesto mese viene anche garantito
l’accesso a tutti corsi di formazione professionali presenti sul territorio.
La legge italiana, però, non riconosce in automatico i titoli accademici ottenuti in altri paesi e non
autorizza i possessori di questi titoli né a proseguire gli studi né a svolgere professioni senza che
questi vengano autenticati.
Tale riconoscimento è un processo complesso: richiede il possesso degli originali del titolo di
studio, i quali devono ottenere una “dichiarazione di valore” dal Consolato Italiano competente nel
paese in cui il titolo è stato conseguito. Questo passaggio genera, chiaramente, nei rifugiati, paura
e sospetto e li allontana da tale pratica.
Inoltre è da specificare che a livello nazionale non c’è omogeneità nella corrispondenza dei titoli di
studio. Infatti la legge attribuisce alle Università la competenza a determinare la piena o parziale
corrispondenza dei titoli accademici. Le università hanno quindi il potere di decidere se riconoscere
il titolo come equivalente o se riconoscere solo parte degli esami, facendo se necessario iscrivere
l’interessato ad un corso universitario per integrare il suo curriculum studiorum.
È infine da sottolineare che lo svolgimento di molte professioni è condizionato dal rapporto di
reciprocità con il paese d’origine: se i rifugiati ne sono esentati, lo stesso non vale per le persone
in protezione umanitaria che invece ne sono soggette. I rifugiati e gli apolidi sono equiparati ai
cittadini italiani per quanto riguarda i servizi a favore degli studenti universitari, ma per potersi
iscrivere all’università devono superare un esame di lingua.
Recentemente, il Ministero del Lavoro e delle politiche Sociali ha elaborato un decreto5 che
definisce le procedure per l’avvio di un sistema nazionale di certificazione di competenze nella
formazione professionale. Tale sistema dovrebbe garantire la trasparenza dei percorsi formativi e
5
D.M. 174/2001
permettere la realizzazione dei ponti tra i diversi sistemi. Questa attività dovrebbe seguire la
cornice europea, ponendosi in continuità con gli obiettivi volti a promuovere una migliore
cooperazione europea nel campo dell’educazione e della formazione professionale.
È stato inoltre creato un “libretto informativo” che registra informazioni, dati e certificati
riguardanti le esperienze professionali ed educative. Il D.lgs 276/2003 definisce questo libretto
come uno strumento per registrare le competenze acquisite “durante la formazione in
apprendistato, la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione
continua svolta durante l’arco della vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle
regioni, nonché le competenze acquisite in modo non formale e informale secondo gli indirizzi
dell’unione Europea in materia di apprendimento permanente, purché riconosciute e certificate”.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha creato
l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Il compito dell’UNHCR è proteggere i rifugiati e adoperarsi a trovare soluzioni durevoli ai loro
problemi. La sua attività si basa su un insieme di norme e strumenti internazionali che
comprendono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e le quattro Convenzioni di
Ginevra (1949) sul diritto umanitario internazionale, così come una serie di trattati e dichiarazioni
internazionali e regionali, vincolanti e non, che vanno specificamente incontro alle necessità dei
rifugiati.
Il Consiglio Italiano per i Rifugiati Onlus (CIR) è un’organizzazione umanitaria indipendente,
costituitasi nel 1990 sotto il patrocinio dell’UNHCR. Il CIR è naturalmente iscritto al "Registro delle
associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni". Il CIR è un
ente morale e una Onlus. L’obiettivo del CIR è di difendere i diritti dei rifugiati e dei richiedenti
asilo in Italia, per l’affermarsi di un sistema integrato ed efficiente che si sviluppi nelle diverse fasi
dell’accoglienza, dell’integrazione e dell’eventuale ritorno assistito nel Paese di origine, in
attuazione dei principi stabiliti dal sistema internazionale dei diritti umani e dalla Convenzione di
Ginevra sui Rifugiati del 1951. In particolare offre orientamento legale, accoglienza alle frontiere,
accesso e assistenza durante la procedura di asilo oltre che interventi presso le autorità. Dal punto
di vista del supporto sociale garantisce accesso ai diritti, orientamento al territorio, percorsi di
integrazione e ricongiungimenti familiari. Svolge anche il delicatissimo compito di cura e
riabilitazione dei rifugiati sopravvissuti a tortura.
Soci fondatori e membri del Comitato direttivo del CIR sono i più importanti organismi di carattere
umanitario, istituti nazionali ed internazionali di ricerca, le Confederazioni sindacali italiane. Il CIR
fa parte dell'ECRE (European Council on Refugees and Exiles), una rete europea di oltre 60
organizzazioni attive nell'ambito della tutela del diritto d'asilo e della protezione dei rifugiati. Il CIR
è inoltre membro dell'Euro-Mediterranean Human Rights Network che comprende le organizzazioni
dei diritti dell'uomo del Mediterraneo; dal maggio 2006 il CIR fa parte anche del comitato
esecutivo. Il CIR fornisce protezione e assistenza legale e sociale ai rifugiati, richiedenti asilo e
profughi nella sede centrale a Roma nonché attraverso una rete di sportelli presenti su tutto il
territorio nazionale, in particolare nei punti nevralgici per l’ingresso nel nostro Paese, come
Malpensa (Varese) e Roma Fiumicino, Gorizia, Venezia, Bari, Trapani, Verona, Milano, Badolato e
altri. Inoltre, anche attraverso i progetti sostenuti dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, svolge
le sue attività anche in favore di quelle categorie più vulnerabili come le donne vittime di violenza, i
minori non accompagnati, le vittime di tortura.
Un’intensa attività di lobbying è svolta nei confronti del Parlamento e del Governo per
l’approvazione di una legge quadro in materia di diritto di asilo, ancora assente in Italia, in grave
ritardo rispetto agli altri paesi europei. Si occupa di interventi presso le istituzioni per una corretta
attuazione del diritto d'asilo e lo sviluppo e rispetto degli standard europei e internazionali
sull'asilo, l'immigrazione e i diritti umani.
Per perseguire i suoi obiettivi, il CIR è impegnato in attività di sensibilizzazione ed informazione
tese a promuovere tra gli italiani una migliore comprensione della condizione del rifugiato, dando
vita ad iniziative sociali e culturali a favore dei perseguitati giunti nel nostro paese, come una
stretta collaborazione con i media, la pubblicazione di una rivista mensile CIR Notizie con ulteriori
pubblicazioni di approfondimento, l’organizzazione di eventi culturali e convegni tematici, oltre a
curare un sito web e sito informativo sui paesi d'origine dei rifugiati.
Una costante attività di formazione attraverso corsi, seminari e moduli informativi sui diversi
aspetti del diritto d’asilo rivolti alle istituzioni, agli studenti, agli operatori, ai vari livelli della società
civile, consente un’ampia ed accurata diffusione di informazioni mirate ed aggiornate sul tema dei
rifugiati.
La principale fonte di finanziamento è destinata a progetti specifici, di durata limitata, promossi
dall’Unione Europea, spesso in co-finanziamento con vari Ministeri italiani (Ministero dell’Interno,
Ministero del Lavoro, Dipartimento Affari Sociali), o da enti locali, da fondazioni bancarie e da
privati. Nel corso di diciotto anni di impegno nella difesa del diritto alla protezione di chi è costretto
a fuggire dal proprio Paese, il CIR ha assistito oltre 55 mila persone tra rifugiati, profughi e
richiedenti asilo.
Il progetto ”Da Assistiti a Risorse: un modello di approccio al lavoro sociale con i rifugiati”
finanziato dalla Compagnia di San Paolo si è svolto dal settembre 2004 al maggio 2006. Il progetto
si è realizzato in otto città: Ancona, Badolato, Lecce, Roma, Torino, Udine, Varese e Verona.
L’obiettivo finale era favorire l’inserimento lavorativo di 90 rifugiati e persone in protezione
umanitaria (in realtà ne sono stati seguiti 112), l’impostazione generale ed il coordinamento sono
state eseguite dalla sede centrale di Roma, per elaborare e poter poi applicare un modello
condiviso su tutte le realtà territoriali coinvolte.
L’idea di partenza è stata quella di creare e consolidare rapporti di rete con il mondo degli enti
pubblici e del privato sociale che sono preposti all’orientamento, alla formazione, all’inserimento
lavorativo e al supporto tecnico per l’avviamento di attività lavorative autonome e subordinate.
A tal fine, per realizzare il progetto si sono stretti rapporti con le realtà che di solito si occupano di
sostegno all’inserimento lavorativo: Sviluppo Italia, Italia Lavoro (Agenzia Tecnica del Ministero del
Lavoro), BIC (Business innovation centre), Centri per l’Impiego, Centri di Orientamento al lavoro e
Fondazione Adecco per le Pari opportunità.
Per facilitare il lavoro di rete con i vari referenti istituzionali, a Roma è stato siglato un Protocollo
d’intesa con il Dipartimento XIV Politiche per lo Sviluppo Locale, Formazione e Lavoro,dipartimento
cui appartengono la rete dei Centri di Orientamento al Lavoro, lo Sportello Tirocini e i centri di
Formazione Professionale del Comune di Roma. All’interno di questo quadro di dialogo, il CIR si è
occupato anche di fornire una preparazione sui temi di protezione umanitaria e di rifugiato politico
Molto importante è stata la collaborazione con i Centri/Servizi per l’Impiego provinciali, che
costituiscono il riferimento pubblico per l’organizzazione del mercato del lavoro e per la
promozione dell’incontro tra domanda ed offerta.
È da sottolineare come tutte le iniziative di sostegno sono state parallele e convergenti ad una
specialistica attività di segretariato sociale. La cura di ogni utente, all’interno del progetto DAAR,
ha infatti previsto che tutti gli aspetti del processo di integrazione sociale fossero curati
parallelamente all’individuazione e attivazione del percorso di inserimento lavorativo. L’attività di
orientamento riguardo i loro diritti e la fruizione sono sempre stati paralleli alla tutela
dell’integrazione sociale. Questo passaggio è stato possibile grazie all’attività dei servizi istituzionali
preposti, ad esempio è stata importante la collaborazione iniziata con i Servizi Sociali dei Comuni,
che ha permesso in diversi casi di elaborare progetti congiunti.
Inoltre è stato fondamentale garantire consulenza legale, soprattutto in quei casi in cui la fruizione
dei diritti era ostacolata da problemi di carattere burocratico e legislativo (es. ritardi nei rinnovi dei
permessi di soggiorno, inappropriata richiesta della carta di soggiorno). Gli interventi che sono stati
approntati con il progetto DAAR sono stati centrati sui singoli contesti territoriali tenendo conto
delle specifiche risorse e problematiche sociali. Per questo motivo ogni città ha accolto un numero
diverso di utenti, per rispettare la proporzione con la città ospitante.
La composizione delle persone che hanno partecipato al progetto rispecchia per presenza di
genere e per fasce d’età la composizione dei rifugiati in Italia. La percentuale delle donne risulta
perciò inferiore a quella degli uomini, riflettendo un trend presente anche nelle cifre complessive
dei rifugiati in Italia. All’inizio del progetto sono stati accolti solamente rifugiati e persone in
protezione umanitaria, mentre dopo il 20 ottobre 2005 il ventaglio degli interessati si è allargato ai
richiedenti asilo autorizzati a svolgere attività lavorativa.
Per quanto riguarda invece le fasce d’età la presenza più consistente è quella tra i 30 ed i 39 anni,
è importante notare come l’età abbia una rilevanza particolare nei percorsi di integrazione
lavorativa. Per le persone oltre i 40 anni è stata riscontrata una forte difficoltà nell’inserimento e
reinserimento lavorativo. Le azioni sono state quindi calibrate anche rispetto all’età degli utenti:
per i beneficiari più “anziani” si è cercato di elaborare percorsi protetti di inserimento lavorativo.
La metodologia che ha sorretto il lavoro comune a tutte le realtà si è basata sulla scelta di
individuare sette modalità di intervento condivise:
- Progetti autonomi. In collaborazione con consulenti del lavoro esperti nell’elaborazione del
business plan e nella relativa valutazione gli utenti sono stati seguiti con attività di orientamento e
valutazione. A causa della difficoltà che si riscontra nello start up d’impresa e nelle caratteristiche
difficoltà che i rifugiati che vogliono intraprendere attività di lavoro autonomo si trovano a
fronteggiare non tutti i progetti, per cui era previsto questo tipo di attività, sono stati in seguito
realizzati.
- Tirocini. Lo strumento del tirocinio formativo per facilitare l’inserimento lavorativo di
richiedenti asilo e rifugiati è stato già ampiamente sperimentato in diversi progetti in Italia, ed in
particolare all’interno dell’iniziativa comunitaria Equal, e spesso da parte dei servizi sociali
comunali. Si può pensare che questo modello si sta sviluppando come una buona consuetudine
che segue tre linee guida: permette di dare impulso a esperienze di lavoro; migliora le competenze
lavorative e la comprensione del contesto sociale attraverso il training on the job; aiuta a ridurre il
pregiudizio dei datori di lavoro, dimostrando la loro effettiva capacità lavorativa e umana.
I tirocini promossi nelle varie realtà territoriali hanno seguito diversi modelli, ma sono sempre stati
il frutto di un lavoro di rete, non potendo essere il CIR Ente Promotore del tirocinio. A Roma,
grazie ad una intensa attività di animazione territoriale realizzata in collaborazione con la
Fondazione Adecco per le Pari opportunità si è convinta l’Ipercoop Tirreno ad accogliere 4 rifugiati,
elaborando un percorso in due tappe: formazione professionale (organizzata dalla Fondazione
Adecco) e tirocinio formativo (con borsa di lavoro erogata dal progetto DAAR). Diversa ma
ugualmente importante l’esperienza che ha portato all’attivazione di 4 tirocini formativi presso i
supermercati della catena SMA, in collaborazione con lo Sportello Tirocini del Comune di Roma. A
Badolato sono stai attivati tirocini in Collaborazione con la Regione Calabria e il Consorzio Promidea
di Catanzaro attivando piccole aziende alla base del tessuto produttivo locale. A Torino sono stati
attivati tirocini in collaborazione con la Provincia, ma particolarmente importante è stato, per il
CIR, il risultato ottenuto attraverso la sensibilizzazione della Divisione Lavoro del Comune, che di
solito si occupa di persone disabili o svantaggiate, che ha iniziato a contare i rifugiati in questa
categoria a causa dell’esperienza traumatica legata alla persecuzione e all’esilio.
- Formazione. La formazione riveste sempre un ruolo importante, in particolare all’interno di
questo progetto, in quanto uno degli obiettivi che si è sempre cercato di perseguire è stato quello
di migliorare le competenze linguistiche e professionali degli utenti, riqualificandone allo stesso
tempo le esperienze passate. Per quanto riguarda la formazione si sono seguite due strade
diverse: organizzazione diretta di corsi professionali, in collaborazione con Enti di Formazione e
erogazione di contributi ad hoc per facilitare l’accesso a corsi universitari o a corsi di formazione
professionale particolarmente qualificanti. Ad esempio, un corso di formazione per magazzinieri e
addetti alla vendita, della durata di tre mesi, è stato organizzato a Roma in collaborazione con il
progetto VI.TO. Assistenza e cura per le vittime di tortura.
Mentre per quel che riguarda la seconda strategia si può citare il caso di un beneficiario che aveva
già lavorato come ausiliario in strutture sanitarie, e che è stato assistito con una borsa lavoro
annuale per poter frequentare un corso come “operatore socio sanitario” organizzato dal Centro
per l’Impiego di Ancona.
- Orientamento. Come è logico che sia, ogni attività volta all’inserimento lavorativo è stata
preceduta da attività di orientamento. Partendo dall’orientamento al territorio, per facilitare e
permettere la fruizione dei diritti riconosciuti, e orientamento lavorativo come strumento per
capire con l’utente capacità e strumenti personali da sfruttare o migliorare. Per questa attività il
CIR si è avvalso della collaborazione dei servizi specialistici che si occupano di orientamento in
ambito locale.
Gli operatori impegnati nel progetto hanno perciò collaborato con i Centri di Orientamento al
Lavoro dei comuni (Roma), con i servizi di orientamento dei Centri per l’Impiego (Varese, Torino,
Lecce), con gli assistenti sociali (Ancona, Verona, Roma), nonché con le associazioni del privato
sociale (Badolato, Udine).
- Alloggio. L’inserimento alloggiativo, insieme a quello lavorativo, resta il cardine su cui
basare un qualsiasi percorso di integrazione. Per questo motivo attenzione particolare è stata data
ad azioni di supporto volte a favorirlo: sono stati previsti contributi per l’alloggio che, erogati per
periodi brevi, hanno permesso ai beneficiari di trovare un alloggio sul mercato abitativo i cui
prezzi,spesso, risultano troppo alti.
Gli interventi si sono svolti lungo due binari: per prima cosa, il pagamento delle spese iniziali
d’affitto per quelle persone già inserite nel mercato del lavoro e quindi in grado, in breve tempo, di
vivere in modo autonomo (Il contributo economico in questo caso ha avuto il senso di facilitare un
percorso di autonomia già in parte avviato). Inoltre , si è provveduto al pagamento di rate mensili
per inserire i rifugiati un strutture predestinate, nei casi in cui il cui progetto d’autonomia non era
ancora troppo evidente, naturalmente l’inserimento in questa tipologia di strutture è finalizzato a
creare una soluzione intermedia che permetta di incrementare gradualmente i l’integrazione.
- Strumenti specifici. In questo ambito gli strumenti specifici sono intesi come tutte quelle
azioni di supporto che permettono al rifugiato di acquisire competenze tecniche e strumentali utili
all’inserimento lavorativo come il conseguimento di patenti o l’utilizzo di strumenti e materiali per
attività pratiche.
- Azioni di tutela. Molto intenso è stato l’impegno avuto nel controllare la tutela dei diritti
lavorativi dei beneficiari del progetto. In questo senso importante è l’azione che si è svolta a Lecce
dove, grazie all’intervento dell’operatore CIR, si sono sensibilizzati molti datori di lavoro. Una
capillare informazione sulla normativa a favore dei rifugiati (es. esenzione dall’obbligo del contratto
di soggiorno) e sulla nuova contrattualistica introdotta dalla Legge Biagi, ha permesso di
legalizzare la posizione lavorativa di molti utenti.
L’impatto complessivo degli interventi attivati nel progetto DAAR deve essere considerato
nell’ambito dell’attuale mercato del lavoro. Il tasso elevato di disoccupazione tra la popolazione
immigrata ed il diffuso utilizzo dei nuovi rapporti di lavoro (caratterizzati da una elevata
flessibilità), sono due circostanze che hanno limitato la riuscita delle azioni. Una riflessione deve
essere obbligatoriamente affrontata circa l’impatto della riforma del mercato del lavoro su questa
categoria di persone. La flessibilità permessa alle nuove forme contrattuali (contratto di
somministrazione, prestazione occasionale e collaborazione a progetto) nella realtà si traduce in
una precarietà sia lavorativa che familiare, non permettendo a persone che non hanno una
struttura familiare o sociale di supporto di raggiungere l’autonomia economica necessaria.
Chiaramente, le conseguenze di tale condizione sono negative. In primis, gli utenti spesso non
riescono a concludere il processo di autonomia economica, che è uno dei passi fondamentali.
Anche le ripercussioni psicologiche possono essere molto forti: senso di impotenza, sfiducia nelle
strutture di supporto e bassa stima di sé possono apparire come normali condizioni esistenziali. Un
altro tassello importante è legato alle competenze degli utenti: il livello di formazione linguistica
spesso si è dimostrato inadeguato rispetto alle richieste del mercato.
Un forte ostacolo che si nota è la tensione tra esigenze di formazione e di sostentamento, che
spinge molti rifugiati ad abbandonare i corsi di formazione per qualsiasi attività lavorativa che
possa permettere loro di sostentarsi; una scelta che, oltre che pratica, diventa mentale: il
riconoscere la gusta importanza all’apprendimento linguistico è spesso vissuto dagli utenti come un
voler rimandare l’unico problema reale, il trovare lavoro, al quale sembra l’operatore non voglia
dare una risposta concreta. Da tali presupposti deriva una chiusura verso l’apprendimento
linguistico.
Inoltre, l’offerta formativa anche se ampia in ambito locale (basti pensare alla capillare presenza
dei Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione degli Adulti) si è rivelata inadeguata rispetto ai
tempi di raggiungimento di un livello di padronanza linguistica elevato. Le risposte date, sia a
livello istituzionale che del privato sociale, infatti, non tengono in considerazione un insegnamento
intensivo, l’unico che possa migliorare in tempi brevi il livello linguistico di partenza dei beneficiari.
Infine, molto spesso i corsi non si concentrano molto sulla differenza di abilità linguistiche e
culturali pregresse dei singoli studenti, e non forniscono un insegnamento che sia centrato sui
bisogni individuali. Gli utenti spesso hanno lamentato la genericità e la mancanza di qualità dei
corsi di lingua cui erano iscritti.
Un interessante approfondimento può essere fatto sui problemi relativi al titolo di studio e alla
lingua. Come già ricordato il riconoscimento del titolo di studio conseguito all’estero segue una
procedura anomala,in primo luogo si deve presentare il titolo in originale per essere autenticato,
inoltre non esiste una legislazione unitaria a livello nazionale.
Bisogna aggiungere che i rifugiati godono degli stessi diritti dei cittadini italiani per quanto riguarda
i servizi a favore degli studenti universitari, ma per potersi iscrivere all’università devono superare
un esame di lingua. Questa serie di ostacoli fa si che il rifugiato si allontani da queste procedure e,
come già emerso, cerchi un rapidissimo inserimento lavorativo.
Il CIR non si è posto come agenzia di lavoro o agenzia interinale, piuttosto hanno tentato di
favorire una intermediazione con il territorio, aiutare nella fruizione di quei diritti che già ci sono e
facilitare un possibile contatto lavorativo. Emerge tuttavia come l’obiettivo da raggiungere, che non
è quello della piena occupabilità, stride con il motivo per cui una persona cerca l’aiuto di una ONG
come il CIR, ovvero l’autosufficienza economica.
Questa è sicuramente la maggior difficoltà, il contrasto tra due diverse percezioni di realizzazione.
Una delle soluzioni individuate è stata di diventare intermediari con le agenzie che si occupano di
animazione territoriale ed inserimento lavorativo.
Si può far riferimento alla collaborazione con la fondazione Adecco, con la quale è stato messo a
punto l’inserimento lavorativo all’Ipercoop, che è ancora attivo; a due anni di distanza ancora si
riescono ad inserire persone, anche con contratti a tempo indeterminato. Per permettere questo
tipo di risultati si è consolidata una rete con i centri dell’impiego presenti sul territorio, siglando un
protocollo di intesa con il centro di orientamento al lavoro del comune di Roma e costruendo
rapporti con i centri per i servizi per gli immigrati. Fra gli altri interlocutori si sono avvalsi della
collaborazione dello sportello tirocini del comune di Roma, allo scopo di richiamare l’attenzione
sulle problematiche inerenti l’aiuto a categorie svantaggiate.
D’altra parte questa rete sociale è solo uno strumento in più nei progetti del CIR. Nella loro
esperienza c’è la consapevolezza che ogni soggetto è unico, perciò il tentativo è quello di creare, il
più possibile, progetti specifici per rispondere alle singole esigenze. Così come si è sviluppato il
progetto DAAR di integrazione lavorativa, allo stesso modo è nato il progetto Vi.To, per l’assistenza
e recupero delle vittime di tortura.
Altro dato interessante è il dato numerico delle rifugiate in generale, che si aggira intorno al 25%
di tutti i richiedenti asilo. Il progetto DAAR, nella sua scarsa rappresentanza femminile, risponde
all’andamento generale di donne che si rivolge in assoluto al CIR. Nel caso specifico si parla di un
campione di 112 persone entrate nel progetto , di cui solo 27 erano donne, per una percentuale,
molto vicina quella generale, del 24%.
Anche a livello nazionale i numeri delle statistiche sono più o meno gli stessi, seppure con qualche
variazione, le donne sono numericamente inferiori di molto rispetto agli uomini, riflettendo in ciò
una immagine speculare della popolazione femminile.
All’interno del progetto non erano state previste delle strategie particolari che riguardassero
l’universo femminile, anche a causa della esiguità del numero, bisogna però dire che tutto il
personale impiegato nel DAAR ha lavorato su progetti attivati per le donne vittime di violenza.
L’approccio di genere era quindi gia stabile, soprattutto per quei casi in cui si era già partecipato a
progetti per categorie fragili, come il progetto riguardante le vittime di tortura che ha, in se, un
approccio di genere.
Naturalmente, anche senza aver previsto iniziative specifiche, la presa in carico delle donne è
sempre stata assolutamente ritagliata su quelle che erano le esigenze singole. Molto spesso si sono
trovati delle utenti, single o madri di famiglia, per le quali si sono messe in atto delle politiche
specifiche, come il pagamento della retta dell’asilo per i figli, strumento attraverso il quale si
permetteva alla madre di lavorare. Su ogni singolo gap che non permetteva l’ingresso nel mondo
del lavoro si è fatta una valutazione, preso in carico e data una risposta indirizzata.
Dalle indagini è emerso come le persone che continuano a contattare il CIR ed a prenderlo come
punto di riferimento non danno una risposta unitaria. Si tratta in ogni caso di un progetto che è
stato centrato sull’inserimento lavorativo, ha perciò dotato l’utente o di strumenti formativi specifici
o di strumenti di approccio al lavoro particolari, dandogli delle chances di lavoro ed ha quindi
avuto un impatto sicuramente positivo. Le persone che hanno partecipato al progetto, in un modo
o nell’altro, stanno riuscendo comunque ad avere maggiori contatti rispetto a persone che non lo
hanno fatto. Si sta parlando di una indicazione molto generica, ma di certo quello che si può dire è
che non si può lavorare sull’integrazione lavorativa dei rifugiati in un ambito temporale breve,
senza poter poi proseguire le attività progettuali.
Alla fine del progetto DAAR, il CIR possedeva un patrimonio di contatti che, se si fosse potuto
coltivare in maniera costante e proseguire il progetto per altri diciotto mesi, avrebbe avuto un
impatto diverso.
Con la riforma del mercato del lavoro e le differenti tipologie contrattuali anche quelle persone
inserite nel progetto DAAR hanno vissuto un peggioramento delle loro prospettive di lavoro,
potendo lavorare per tre mesi ma non il successivo. Pertanto avere la possibilità di contattare altre
realtà poteva permettere una maggiore continuità lavorativa agli utenti. Un progetto di diciotto
mesi non inizia subito a funzionare a pieno regime, ma è necessaria una parte propedeutica alla
sperimentazione vera e propria del modello, che è quella del contatto e dell’animazione territoriale,
solo così e con la promessa che diventi un progetto che funziona in maniera continuativa è
possibile aumentare le chances di migliorare i risultati del progetto e sperare in un futuro migliore
per i rifugiati..
Il progetto DAAR in sé non ha avuto una continuazione; sono stati elaborati dei micro-progetti su
aspetti specifici del DAAR, come ad esempio l’introduzione a dei tirocini, seguite da esperienze di
lavoro autonomo. Si è potuto constatare come l’inserimento con tirocini brevi è assolutamente una
carta vincente. Pertanto sono stati presentati piccoli progetti, che per ridotti gruppi di persone già
identificate, potesse essere funzionale al loro inserimento.
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Da assistiti a risorse: i rifugiati oltre la miseria